Sei sulla pagina 1di 29

LA SELF-DISCLOSURE DEL TERAPEUTA CON UN PAZIENTE

OMOSESSUALE: EFFETTI SULL’ALLEANZA TERAPEUTICA

SECONDO LA PROSPETTIVA DELLA PSICOANALISI RELAZIONALE

Antonino Firetto, Psicoterapeuta


Via Poliziano 56 – Roma
INDICE

Premessa

1. Dalla neutralità alla “self-disclosure”

2. La relazione terapeutica con pazienti gay e lesbiche

3. Esempio clinico

3.1 Il timing della self-disclosure

3.2 Il momento della self-disclosure

3.3 Il sogno

3.4 Gli ultimi colloqui

4. Conclusioni

Riferimenti bibliografici

2
Premessa

Alla luce dei contributi e dei cambiamenti che la psicoanalisi ha subìto negli ultimi

decenni con l’introduzione della prospettiva relazionale (Michell 1988; Kohut, 1996) e

dell’Infant Research (Stern, 1985; Beebe e Lachman, 2002), questo lavoro ha lo scopo di

esaminare la self-disclosure dell’orientamento sessuale del terapeuta con un paziente

omosessuale e i suoi effetti sull’alleanza terapeutica.

In primo luogo traccerò un breve panorama storico sul tema della self-disclosure nella

terapia, mostrando come esso sia stato al centro del dibattito psicoanalitico sin dagli albori,

al pari di altre questioni come la sessualità, il transfert, le pulsioni.

Mi soffermerò poi sul contributo di alcuni autori relazionali, che hanno ripreso la “self-

disclosure” collocandola all’interno della nuova Teoria Relazionale.

Successivamente analizzerò il concetto di “alleanza terapeutica” e il suo ruolo nella self-

disclosure con pazienti gay e lesbiche.

Attraverso un esempio clinico metterò in evidenza il ruolo della self-disclosure nel

mantenimento del legame empatico con il paziente1.

In conclusione cercherò di mostrare come la rivelazione del proprio orientamento sessuale

rientri pienamente tra gli “strumenti” a disposizione dell'analista - insieme a sogni,

sintomi, libere associazioni - per realizzare l'esplorazione terapeutica.

1
La primaria preoccupazione del terapeuta con pazienti appartenenti a minoranze sessuali che hanno subìto un trauma è
infatti quella di mantenere l'alleanza terapeutica, perché questi pazienti corrono il rischio di rotture traumatiche senza un
adeguato “rispecchiamento empatico” (cfr. Kohut, 1996).

3
1. Dalla neutralità alla “self-disclosure”

La regola della neutralità è stata uno dei capisaldi della psicoanalisi e Freud (1912) l’ha

descritta come un modo per distinguere la psicoanalisi dalle terapie suggestive. Nella

psicologia del transfert Jung (1946) aveva messo in crisi tale concetto, sostenendo una

maggiore partecipazione dell’analista alle vicende del paziente. L’avvento delle teorie

relazionali (Mitchell, 1981) ha messo in evidenza i limiti dell’atteggiamento “neutrale”

secondo il modello psicoanalitico “classico”. Il terapeuta deve comprendere che sia lui sia

il paziente si trovano in un sistema interattivo, nell’ambito del quale ognuno si interroga

sulle mosse relazionali dell’altro.

Il tema della self-disclosure diretto ed espresso consapevolmente è certamente uno degli

argomenti più controversi nella psicoanalisi contemporanea. Per molto tempo gli analisti si

sono posti domande quali: che cosa è giusto dire o non dire ai propri pazienti e cosa

imparano i pazienti dagli analisti? Oppure, “la self-disclosure dell'analista può mai essere

un aspetto utile e costruttivo della tecnica psicoanalitica?” 2. E ancora: “Self-disclosure: is

it psychoanalytic?”3.

Secondo Freud (1912) “si dovrebbe pensare che sia senz'altro ammesso, anzi opportuno

per il superamento delle resistenze esistenti nel malato, che il medico gli offra la

possibilità, facendogli delle confidenze sulla propria vita, di gettare uno sguardo sui difetti

e sui conflitti psichici di cui egli pure soffre, ponendolo così in condizioni di parità. Una

fiducia infatti vale l'altra e chi esige intimità da qualcuno deve pure dimostrargliene a sua

volta. Nel rapporto psicoanalitico però parecchie cose si svolgono diversamente da come
2
Aron L. (1996), Menti che si incontrano, p. 261.
3
Greenberg J.R. (1995), “Self-disclosure is it psychoanalytic?”, p.193-205. (Trad. It. “La self-disclosure è psicoanalitica?”)

4
sarebbe lecito attendersi in base ai presupposti della psicologia della coscienza.

L'esperienza non depone a favore della validità di codesta tecnica affettiva. Né è difficile

riconoscere che con essa si abbandona il terreno psicoanalitico e ci si avvicina ai

trattamenti suggestivi”4.

Nello stesso saggio, Freud afferma anche che “il medico deve essere opaco per l'analizzato

e, come una lastra di specchio, mostrargli soltanto ciò che gli viene mostrato”5.

La conseguenza di questa “regola” fu che la comunità psicoanalitica per molto tempo

s’impedì di esplorare l'uso tecnico della self-disclosure. Nel Dopoguerra, sia in Inghilterra,

grazie ad alcuni spunti offerti da Winnicott, sia in America, grazie alla tradizione

interpersonale (Tauber, 1954; Singer, 1968, 1977; Searles, 1979), il dibattito su questo

tema venne ripreso con vigore. In tempi più recenti vari autori (Bollas, 1987, 1989; Gorkin

1987;, Ehrenberg, 1992, 1995; Maroda, 1991, 1995; Davies, 1994; Watzlawick, Bavelas,

Jackson, 1967) hanno fornito altri importanti contributi al suo sviluppo.

Per prima cosa sarà opportuno precisare il concetto di “self-disclosure”.

Nella teoria relazionale essa si definisce come la “rivelazione, da parte dell’analista al

paziente, di aspetti della sua vita personale in modo consapevole per favorire e mantenere

l’alleanza terapeutica” (cfr. Knox e al. 1997). Alcuni esempi sono rappresentati dalla scelta

di comunicare il proprio orientamento sessuale, o le proprie opinioni politiche o religiose.

Diversi Autori (Bollas 1987,1989; Gorkin, 1987; Ehrenberg, 1992,1995; Maroda, 1991,
1995; Davies, 1994; Mitchell, 1995; Renik 1995), hanno analizzato gli effetti della self-
disclosure, analizzando per esempio le reazioni di alcuni pazienti che riconoscevano nella
mancata accettazione del loro orientamento sessuale una causa di scarsa alleanza
terapeutica. Altri Autori, tra cui Hanson (2003), mostrano invece una certa cautela per la
4
Freud S. (1912), “Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico”, p. 538.
5
Ibidem, p. 539.

5
self-disclosure, da attuare solo se il paziente lo chiede - esplicitamente o implicitamente - e
ovviamente sempre nell’interesse del mantenimento dell’alleanza terapeutica.
Inoltre Aron, nell’articolo dal titolo “Sul conoscere e sull'essere conosciuti” 6 (1996)
afferma che prima della self-disclosure - intesa come comunicazione mirata a uno scopo -
un analista dovrebbe porsi alcune domande: “per quali pazienti è utile la self-disclosure?
A che punto dell'analisi? Per quale scopo? E a proposito di quali argomenti? [...] Come si
deve preparare il paziente alla self-disclosure dell'analista? [...] Che spunti ci dà il
paziente sul fatto che la self-disclosure sia stato appropriato? Quanto dovrebbe essere
spontaneo l'analista nella self-disclosure? Ci sono forse alcuni autosvelamenti che
bisognerebbe tentare solo dopo un'attenta riflessione? E se ci sono, in che modo dar
spazio alla spontaneità e all'immediatezza affettiva? Quale affetto l'analista può
esprimere appropriatamente in modo diretto? Ci sono certi argomenti - come per esempio
i desideri sessuali o gli impulsi omicidi verso un paziente - che non dovrebbero mai essere
svelati? Quali precauzioni vanno prese in considerazione per proteggere il paziente
dall'intrusione della self-disclosure dell'analista? [...] E l’analista come può trattare
l'ansia che nasce in lui dopo aver fatto una self-disclosure? Quali sono le considerazioni
etiche che vanno prese in considerazione riguardo alla self-disclosure?”7.
Le conseguenze di questa posizione portano l’Autore ad affermare che per gli

psicoterapeuti sia necessario avere le due opzioni: quella di svelarsi e quella di non

svelarsi, poiché ciascuna permette all’analista la libertà di perseguire la comprensione

cognitiva, interpretativa, il coinvolgimento interpersonale e affettivo.

Aron sostiene inoltre quanto sia difficile fare delle generalizzazioni sulla self-disclosure

perché il termine si riferisce a una molteplicità di attività, come ad esempio:

comunicazioni personali inerenti un'immagine onirica portata dal paziente; risposte

affettive immediate in presenza del paziente (per esempio mostrarsi tristi o seccati per

qualche avvenimento nel setting); condividere con il paziente conflitti sul modo di

6
Ibidem, pag. 261.
7
Ibidem pp. 263-264.

6
affrontare un tema particolare in analisi; pensieri dell'analista sul paziente che emergono

fuori dal setting del trattamento; rispondere a informazioni sulla vita privata dell’analista

(es. l'età, se è sposato, se ha figli, che tipo di macchina guida, ecc.);

Un ulteriore esempio di self-disclosure può essere quello di condividere alcuni pensieri e

riflessioni del paziente sul modo in cui l’analista conduce l’interazione, come quando lo

rimprovera per alcuni comportamenti di distacco. In questo caso l'analista può svelare al

paziente quello che sente a livello conscio cercando di comprendere quello che è accaduto

nell'interazione della seduta precedente.

Una distinzione che trascende tutte le altre, secondo Aron, è la differenza tra il condividere

pensieri, sentimenti o esperienze cui il terapeuta ha già pensato, o che ha già elaborato, in

contrapposizione alla condivisione di una qualsiasi di queste cose, fatta però in modo più

spontaneo prima che l'analista abbia avuto l'opportunità di elaborarle. Ancora, è molto

importante comprendere se il terapeuta faccia una self-disclosure, volontariamente, oppure

riveli qualcosa solo dopo che il paziente ha portato un certo argomento e ha chiesto

direttamente all'analista una certa informazione oppure una sua opinione. Secondo Karen

Maroda (1991)8 i terapeuti in un primo momento devono soltanto condividere le proprie

esperienze affettive immediate e solo in una fase successiva della terapia possono rivelare

l'origine di questi sentimenti nella loro vita personale. L'autrice sostiene in primo luogo lo

svelamento del controtransfert dell'analista; in secondo luogo l'analisi dell'impatto di

questo svelamento sulla matrice trasfert-controtransfert. Infine, nella fase terminale della

terapia, l'analista dovrebbe analizzare il proprio controtransfert in termini genetici e

“caratterologici”. La linea guida di questa analista è che il terapeuta dovrebbe svelare il

8
Cit. in Aron L., ibidem, pag. 284-287.

7
controtransfert sono quando lo richiede il paziente e dopo essersi consultati attentamente

con esso e aver ricevuto la sua approvazione.

Un altro autore che ha trattato il tema in oggetto è Bromberg, il quale in un saggio da poco

tradotto in italiano dal titolo “La self-disclosure dell’analista non è solo lecita, ma

necessaria”9 analizza il concetto in accordo alla teoria relazionale. Egli sostiene che la self-

disclosure rientri pienamente nella pratica analitica. Il contributo originale che Bromberg

introduce è un interessante concetto collegato alla self-disclosure ovvero l’“onestà

affettiva”, definita come il tentativo tra paziente e analista di co-costruire un clima

affettivo franco attraverso la capacita di sintonizzarsi reciprocamente per promuovere

l’esplorazione terapeutica. Egli sostiene che l’elaborazione ottimale in terapia include

l’esperienza privata dell’analista (self-disclosure), la quale allarga i confini relazionali

nella diade quando l’analista può offrire al paziente la sua esperienza non al fine di

indottrinarlo in maniera autoritaria, ma come disponibilità a condividere la complessità

dell’esperienza della propria soggettività.

Bromberg è d’accordo con Holly Levenkron (2006), la quale afferma che “l’abilità

dell’analista a svelarsi dev’essere guadagnata combattendo contro i propri limiti”. Ciò va

inteso nel senso di avere rispetto del punto di vista del paziente, confrontandosi con

l’esperienza che ogni paziente fa dell’analista. Bromberg osserva inoltre che non si può

generalizzare sui criteri della self-disclosure, in quanto ogni coppia analitica deve trovare

un giusto equilibrio tra self-disclosure, sicurezza del rapporto e dell’attaccamento.

9
In Bromberg P. (2006), Destare il sognatore, p.135

8
A conclusione del lavoro di commento su un articolo di Levenkron, Bromberg ribadisce

che la self-disclosure non è un questione di tecnica ma di relazione, in quanto facilita lo

sviluppo di una nuova rappresentazione mentale attraverso un processo di co-costruzione.

Quindi oltre alla rilevanza del concetto di “relazione”, negli ultimi anni assume altresì

importanza il “timing” della disclosure (Hanson, 2003). Infatti, l’analista deve tenere in

considerazione lo stato del paziente e la sua capacità di elaborazione della comunicazione,

che va usata come uno degli elementi chiave della costruzione dell’alleanza di lavoro.

2. La relazione terapeutica con pazienti gay e lesbiche

Oggi nel concetto di orientamento sessuale si tende a includere: il comportamento

sessuale, l’attaccamento, l’autoidentificazione, il comportamento erotico-affettivo, lo

status della relazione corrente, utilizzando un modello di lettura multidimensionale come

quello biopsicosociale (Engel, 1977; Bertini, 1977). Ciò significa che si devono tenere in

considerazione numerose variabili per comprendere l'evoluzione psicosessuale e

l’acquisizione dell’orientamento, quali lo sviluppo psicologico fin dalla nascita, il

temperamento, l’influenza della cultura, l’attaccamento, l’ambiente con le sue attese

(Lingiardi, 2001).

Il compito del terapeuta consiste nel mantenere l’alleanza di lavoro aiutando il paziente a

esplorare quelle dimensioni della sua personalità dalle quali nasce la sofferenza e

prestando al contempo attenzione all’ambiente culturale in cui egli è inserito. “Non si sa

come le forze biologiche, le identificazioni, i fattori cognitivi, l’uso che il bambino fa della

sessualità per risolvere i conflitti dello sviluppo, le pressioni culturali alla conformità e il
9
bisogno di adattamento, contribuiscono alla formazione del soggetto e alla costruzione

della sua sessualità” (Lingiardi, Luci, 2006, p. 14) 10. Gli autori osservano che sarebbe

opportuno avere una prospettiva plurale delle sessualità (omosessuale, eterosessuale,

bisessuale), che permetta agli psicoanalisti sia di cogliere le differenze di genere, le

differenze costituzionali nello sviluppo psicologico e nelle scelte oggettuali 11, sia di essere

in contatto con il soggetto nella terapia, rispettando la sua individualità.

Analogamente, l'analista a conoscenza delle teorizzazioni che gettano luce sulla

costruzione dell'identità sessuale, del ruolo sessuale, del genere, dovrebbe avere ben chiara

la relatività delle teorie che usa (per comprendere meglio concetti come narcisismo,

bisessualità, maschile/femminile), essendo esse costruzioni culturalmente determinate che

possono facilitare o impedire il contatto con il paziente, specialmente quando sono usate

come verità oggettive.

Uno dei fattori che stabilizza la relazione terapeutica è la fiducia del paziente verso

l’analista. Il livello di fiducia si mantiene quando il paziente si sente compreso (e

comprende) l’analista. Goldstein (1994) e Chrzanowski (1980) sostengono che uno dei

fattori importanti per il miglioramento della condizione del paziente sia l’accettazione da

parte del terapeuta di tutte le dimensioni del soggetto sofferente, attraverso un processo di

reciproca conoscenza e di autosvelamenti. Svelare il controtransfert con prudenza secondo

Ehrengerg (1995) può incoraggiare il paziente a una collaborazione più piena

nell’esplorazione psicoanalitica. Nei pazienti gay e lesbiche la self-disclosure

dell’orientamento sessuale del terapeuta può contribuire dunque a creare un clima emotivo

favorevole all’esplorazione della personalità dei pazienti. La self-disclosure evita quindi


10
Lingiardi V., Luci M., (2006), “L’Omosessualità in Psicoanalisi, p. 14.
11
Ibidem, p. 26.

10
che il paziente, per paura di essere rifiutato dall’analista, nasconda il suo orientamento

sessuale e permette così di affrontare i conflitti connessi alla costruzione dell’identità di

gay e lesbiche.

La conoscenza dell’orientamento sessuale del terapeuta in questi casi si rivela cruciale per

il mantenimento dell’alleanza. Tra i vantaggi di questo svelamento si ha la possibilità che i

pazienti vedano nell’analista un modello sicuro di identificazione.

Tuttavia nella self-disclosure il rischio potrebbe essere rappresentato dalla credenza da

parte del paziente di condividere esperienze con il terapeuta solo sulla base del comune

orientamento sessuale. L’alleanza di lavoro, che si basi sul comune orientamento, potrebbe

rallentare l’esplorazione dei conflitti. In alcune circostanze, per cercare di essere

rassicurati e contemporaneamente colludere con il terapeuta, alcuni pazienti potranno

chiedere notizie sulla sua vita privata, le sue opinioni politiche, religiose o sul suo

orientamento sessuale, come tentativo strumentale di spostare il focus dell’esplorazione

psicoanalitica dai propri conflitti alla vita del terapeuta.

Tali questioni dimostrano che la self-disclosure è una dimensione normale della relazione

terapeutica, la quale acquista sia il carattere di autenticità, sia di complessità, obbligando il

terapeuta a stare più attento alla comunicazione conscia ed inconscia del paziente. Se non

operata con prudenza, in talune situazioni la self-disclosure dell’orientamento sessuale può

quindi comportare l’insorgere di resistenze all’esplorazione psicoanalitica.

Infatti, secondo Lingiardi e Luci (2006), nel lavoro con pazienti omosessuali o bisessuali il

“timing” dell’autorivelazione può giocare un ruolo importante nell’inibire o nel facilitare il

lavoro terapeutico. Essi riconoscono che la possibilità di lavorare con un terapeuta

apertamente gay o lesbica può essere d’aiuto, ma segnalano anche come l’orientamento
11
sessuale del terapeuta non debba essere visto come condizione sufficiente e necessaria per

la psicoterapia di un paziente gay o lesbica.

3. Esempio clinico

Vorrei adesso parlare, attraverso un esempio clinico, degli effetti del timing della self-

disclosure sul processo terapeutico.

Il paziente, Sebastiano, ha trentadue anni è sacerdote e omosessuale. Mi è stato inviato da

una collega che, dopo un primo colloquio di orientamento, ha ritenuto opportuna la

consultazione di un terapeuta gay. Prima di tale consultazione, al paziente era stato

proposto, dal suo consigliere spirituale, un terapeuta cattolico. Tale indicazione era stata

data al paziente in risposta a una crisi di tipo vocazionale, che generava un conflitto con il

suo ruolo di sacerdote e che la terapia avrebbe aiutato a sciogliere. Il paziente rifiutò tale

proposta in quanto sentiva il bisogno di essere compreso come individuo sofferente e in

maniera obiettiva. Egli aveva paura che il terapeuta “connotato in senso religioso”, non

fosse in grado di capirlo pienamente, ma che analizzasse il suo problema allo scopo

esclusivo di risolvere la “crisi religiosa” che stava vivendo.

Sebastiano proviene da una famiglia meridionale della piccola borghesia rurale. È il

secondo di quattro figli, ha un fratello più piccolo e due sorelle, un maggiore e una minore.

Racconta che la nonna materna è morta mentre sua madre era incinta di lui al quarto mese

e dice di avere “assorbito tutta questa atmosfera depressiva” già durante la gravidanza

della madre. Il nonno materno alla sua nascita era in prigione, condannato all'ergastolo per
12
omicidio. La madre, donna estremamente autoritaria e manipolatoria, intuendo

l’omosessualità del figlio lo spinge a intraprendere una strada che possa salvaguardare la

reputazione della famiglia rispetto ai parenti e al contesto sociale. Così, quando al termine

dell’adolescenza Sebastiano decide di entrare in seminario, lei non manifesta alcuna

contrarietà. Un modo, questo, per tenerlo sempre accanto senza la vergogna sociale di

avere un figlio “diverso”.

Dai ricordi della sua infanzia emerge che il padre, viste le difficoltà economiche, lasciò la

famiglia per andare in Germania a trovare lavoro per mantenerla. Sebastiano ne parla con

rabbia, dicendo che “per vari motivi lui si è fatta un’altra famiglia all’estero, avendo anche

una figlia” (pur non essendone certo). Rammenta che, di rientro dall'estero, quando lui

aveva circa otto anni, il padre spesso si ubriacava e aveva scoppi di violenza nei suoi

confronti con percosse senza motivo. Sebastiano racconta che il padre non ha mai avuto

nei suoi confronti un gesto di tenerezza, o di affetto, o d’incoraggiamento. Il ricordo del

padre è quindi pieno di rabbia e disprezzo oppure di difensiva finta indifferenza.

Sebastiano andava molto bene a scuola e sfortunatamente questo aspetto, invece di essere

utilizzato come una qualità, era spesso fonte di conflitti con i suoi coetanei. Lo

schernivano, dandogli del ‘secchione’ e del ‘finocchio’ e lo disprezzavano per la sua

diversità.

Fin dai primi incontri, Sebastiano mi riferisce che il suo disagio deriva dal non sapersi

relazionare con gli altri. Ritiene che tutta la sua vita sia stata un fallimento e crede che i

suoi problemi scaturiscano non solo dalla sua omosessualità, ma soprattutto dalla sua

infanzia. In questa prima affermazione vi è l’implicito riconoscimento che il suo problema

13
riguarda la sfera dell’identità e non solo quello dell’accettazione dell’orientamento

sessuale.

All’inizio della terapia ha un progetto, quello di laurearsi in Economia, facoltà cui si è

iscritto quasi per sfida, perché difficile, ma senza vera passione per gli studi economici. In

effetti dopo dieci anni non ha completato gli esami.

Nel primo periodo di lavoro terapeutico, il paziente manifesta una grave sofferenza

psichica con aggressioni sia verso il sé, sia verso il terapeuta. Talvolta afferma: “non sono

capace di nulla, la mia vita è un disastro, in realtà io mi sento superiore a tutti gli altri che

non hanno cultura e li disprezzo”. Cerca di stabilire delle relazioni interpersonali che si

risolvono con sistematici conflitti, fraintendimenti e successive rotture traumatiche, che

generano in lui intense emozioni di rabbia e disprezzo verso se stesso e verso il mondo.

Sin dall'inizio, mi sembra di trovarmi davanti a una persona con una difficoltà nella

regolazione delle emozioni (Solano, 2001): frequentemente durante il colloquio si

alternano, in maniera inconsapevole per il paziente, emozioni depressive e maniacali.

Sebastiano mi rivela che talvolta, quando si sente solo e avvilito, pensa al suicidio, quasi

come sfida verso il mondo che non è stato in grado di accoglierlo.

Nei primi colloqui di accoglienza lo lascio libero di aderire alla terapia, manifesto un

prudente interesse nei suoi confronti dicendogli che al termine dei colloqui esplorativi

avremmo valutato insieme la possibilità di iniziare la psicoterapia.

Nei primi otto mesi di sedute, Sebastiano mi parla della sua esperienza di religioso e dei

conflitti che ha con i suoi superiori. Il circolo comunicativo si ripete a ogni incontro. Si

sente poco considerato, poco amato e si dà un gran da fare in comunità per farsi stimare

per il lavoro svolto. Mi racconta che se qualcuno si avvicina a lui per esprimergli dei
14
complimenti, la reazione è di gelo e rabbia, si sente deriso e risponde con sarcasmo,

lasciando gli interlocutori sorpresi e irritati. Le sedute sono un racconto giornalistico tra il

disperato e il sarcastico, in attesa di conoscere il mio parere, per poi sistematicamente

demolirlo. Spesso viene in seduta dopo aver conosciuto un partner, facendomi un

resoconto della situazione e osservando che è solo interessato al sesso perché

affettivamente non prova nulla. Dice che non sono in grado di capire le sfumature della

sua sofferenza perché il suo è un mondo molto “diverso dal normale”.

I suoi sogni sono pieni di rabbia inespressa e spesso confusi, non li ricorda se non per

frammenti.

Dopo diversi mesi, nonostante il mio tentativo di stargli vicino emotivamente e di parare i

suoi attacchi, mi rendo conto che con Sebastiano la situazione terapeutica non procede.

Apparentemente sembra tutto in ordine, il paziente si presenta regolarmente e con

puntualità una volta la settimana, parliamo della sua vita presente e passata. Tuttavia, dopo

ogni colloquio, Sebastiano va via con un senso di scetticismo e di svalutazione, sia per le

interpretazioni date, sia perché non gli sono simpatico. Anzi mi comunica che gli sono

stato antipatico fin dal nostro primo incontro.

A ripensarci, forse Sebastiano aveva ragione. In maniera presuntuosa, avevo pensato di

comprenderlo in virtù del mio conoscere il mio orientamento sessuale e la mia identità sul

tema “omosessualità”, senza che mi esponessi affatto nei suoi confronti. Talvolta riuscivo

a essere empatico e vicino al suo vissuto di sofferenza inespressa che generava pensieri

autodistruttivi. Talaltra lo sentivo noioso ed estraneo, quasi inaccessibile.

3.1 Il timing della self-disclosure


15
Dopo le vacanze e con qualche difficoltà Sebastiano ha ripreso la terapia, manifestando

perplessità perché non ha soldi e deve trovare un lavoro per continuare a pagare le sedute.

Tutte le opportunità di lavoro che gli si offrono vengono da lui regolarmente sabotate,

perché vive i contesti lavorativi con molta ambivalenza e non riesce a instaurare una

relazionalità positiva con i datori di lavoro. Negli ultimi incontri manifesta la possibilità di

lasciarsi andare alle sue tendenze distruttive e passive, rifiutando i lavori che gli capitano,

o non cercandone alcuno.

Durante gli incontri chiede spesso, in maniera ossessiva e provocatoria, le mie opinioni su

temi inerenti la sessualità, l’orientamento sessuale degli analisti nonché le mie capacità di

comprendere pazienti gay. A seguito del mio tentativo di rimanere in una posizione di

neutralità nei confronti di queste domande, il paziente manifesta talvolta l'intenzione di

lasciare la terapia, esprimendo scetticismo sulla capacità del terapeuta di accoglierlo nella

sua condizione di “diversità”. Il paziente quindi, in questa fase della terapia, interpreta tale

neutralità come un ennesimo rifiuto della sua condizione di “diverso”. Probabilmente

Sebastiano avverte un conflitto tra la sua vera identità e il suo ruolo di prete, si sente pieno

d’odio per il mondo e percepisce il suo vero sé come condizione di sofferenza (Winnicott,

1963).

L’esplorazione nella terapia è sentita dal paziente come una vera e propria via crucis che lo

tormenta e non gli dà pace, si chiede spesso “Che senso ha tutto questo? Perché chiedo

aiuto? Riuscirò a trovare una mia strada? ”. Dubbi di fronte ai quali non mi sento di voler

rispondere con una rassicurazione, in quanto avverto i pericoli delle condizioni di gravità

di Sebastiano e temo il mio non essere in grado di comprenderlo veramente.

E’ questo il momento più difficile per l’alleanza terapeutica.


16
3.2 Il momento della self- disclosure

Dopo qualche seduta in cui lo avevo incoraggiato a laurearsi, un giorno ricevo un

messaggio sul telefono in cui Sebastiano mi annuncia che intende lasciare la terapia.

Aggiunge che io c'entravo poco e che tale decisione dipendeva dalla gravità della sua

sofferenza, non curabile dalla terapia. Nel messaggio mi comunica di non preoccuparmi

per l’onorario perché sarebbe venuto di persona a pagare.

A quel punto mi resi conto che la mia distanza affettiva verso Sebastiano era grande e che

fosse necessario un gesto di autenticità. L’incontro fu molto intenso, io ero emozionato

perché era la prima volta che sentivo che per mantenere il legame terapeutico con il

paziente era necessaria una mia self-disclosure. Inoltre mi domandavo “come avrebbe

reagito?”, “la terapia sarebbe continuata?”, “come avrebbe cambiato il nostro legame

terapeutico?”

Sebastiano mi comunicò per l’ennesima volta che il motivo principale per cui aveva deciso

di lasciare la terapia era perché non si sentiva pienamente compreso nella sofferenza

dovuta alla sua “diversità”. A questo punto, dopo essermi assicurato che il paziente era

pronto a sentire il motivo per cui ero in grado di capire la sua sofferenza, decisi di dirgli

che potevo comprenderlo per due motivi: sia perché anch’io vivevo la sua stessa

condizione di “diversità”, sia perché ritenevo l’omosessualità il livello più superficiale

della sua sofferenza, che aveva radici ben più profonde su cui potevamo lavorare.

Sicuramente, dissi, “la sua infanzia ci potrà dire qualcosa in più”.

La reazione di Sebastiano fu di stupore e di curiosità, disse che un po’ lo intuiva e un po’

lo desiderava, nel senso che a suo modo di vedere forse con un terapeuta gay si poteva
17
cercare di dare un senso alla sua sofferenza e soprattutto si sarebbe sentito più libero di

parlare di certi contenuti delle sue esperienze. Dopo affermò: “non si faccia illusioni, sono

un paziente davvero difficile e forse il mio problema non è solamente la mia

omosessualità”. Ci congedammo e io espressi l’auspicio di proseguire il lavoro,

lasciandolo libero di decidere il suo eventuale ritorno. A distanza di un mese e mezzo

ricevetti un suo nuovo messaggio sul cellulare, in cui mi annunciava che dopo averci

pensato aveva deciso di riprendere la terapia.

Dal ritorno di Sebastiano in terapia, il rapporto tra noi è diventato più diretto e

coinvolgente. Mi racconta anche aspetti intimi delle sue avventure sessuali, non temendo

più che io lo giudichi negativamente o che lo disprezzi. Dopo i racconti tuttavia rimane

pensieroso, come ad aspettarsi che dietro l’avventura si celi un qualche senso che sfugge a

entrambi, ma che desideriamo scoprire.

Nel corso delle sedute successive, abbiamo avuto modo di ritornare a discutere sulla self-

disclosure.Sebastiano mi ha confermato che la ripresa della terapia è stata facilitata dal

fatto di aver esperito che con un analista gay le difficoltà ad aprirsi e a parlare di

“contenuti” pieni di vergogna sono minori rispetto a quelle cui sarebbe andato incontro in

un lavoro con un terapeuta non gay. Ma ha anche aggiunto di non farmi illusioni perché lui

è un caso grave sin dalla nascita. “Mi sento sbagliato dentro”, dice.

Nell’ultimo periodo ha ripreso a studiare, sia pur con molta fatica, perché è deciso a voler

lasciare la vita religiosa e a lavorare. Contemporaneamente, esprime il desiderio di rivelare

la sua omosessualità alla famiglia d’origine, quasi per sfidarli e per vendicarsi dei rifiuti

subiti.

Un suo recente sogno sembra raccontare la difficoltà del procedere del lavoro terapeutico.
18
3.3 Il sogno

Sebastiano sogna di venire in seduta e di trovare al mio posto un altro analista, grasso e

prete, che fa la seduta con dei suoi amici, una coppia sposata, che ascoltano i commenti.

Nel sogno si arrabbia, si alza e va via ritenendo ingiusto fare terapia con un altro e per

giunta prete.

Dopo un momento di silenzio, carico di tensione, la mia reazione al racconto del sogno è

di estrema cautela. Infatti nelle sedute precedenti a ogni mio tentativo di interpretazione

seguiva sempre una reazione di rifiuto o un commento sprezzante e sarcastico tipo: “È lei

il terapeuta che sa tutto, io non ci capisco nulla, per me questo sogno non significa niente”.

Così dopo gli attacchi verbali subìti prima di interpretare un sogno o un avvenimento

lascio a lui l’iniziativa.

Gli chiedo di esprimere dei commenti o di dare una spiegazione. Al termine dei suoi

commenti ed emozioni al riguardo, che sono di paura di essere abbandonato dal terapeuta

e la richiesta di aiuto a comprendere il sogno, gli propongo un’ipotesi interpretativa: il

sogno esprimerebbe una sua diffidenza verso il processo terapeutico.

“Lei teme di non ritrovare il suo terapeuta e al suo posto arriva un altro di cui non ha

fiducia. Soprattutto in questa fase del lavoro di maggiore coinvolgimento e di positività,

lei vive il legame con ambivalenza, sperimentando la paura connessa alla dipendenza, non

avendo vissuto nell’infanzia un attaccamento sicuro con i suoi genitori.” Inoltre penso che

la paura di essere lasciato dal terapeuta rievoca l’esperienza traumatica dell’abbandono

paterno durante l’infanzia, ripetendo nel transfert negativo gli attaccamenti sofferenti

instaurati con genitori non responsivi.


19
Dopo questo commento Sebastiano rimane in silenzio, ma sento che in qualche modo devo

averlo compreso.

Nelle sedute successive la diffidenza che Sebastiano esprime sulle mie capacità

terapeutiche diminuisce gradualmente di intensità grazie alla continua negoziazione

rispetto alle interpretazioni dei sogni. Proprio questa co-costruzione aumenta le capacità

autoriflessive del paziente.

3.4 Gli ultimi colloqui

Sebastiano è riuscito a conseguire la laurea, ha presentato al Vescovo la domanda di

lasciare il sacerdozio e da quel momento è alla ricerca di un lavoro che gli consenta di

affrancarsi definitivamente dall‘appartenenza alla comunità religiosa. In questo periodo di

oggettiva difficoltà le angosce di non essere capace di conseguire il suo intento si

intensificano e il legame terapeutico subisce nuovamente il pericolo di una rottura, perché

si ripropone il circolo vizioso di fallimento e auto-aggressione. Talvolta percepisco che

Sebastiano porta un vissuto di vergogna, dissimulato da una apparente arroganza, che lo

paralizza rendendolo passivo e incapace di reagire. La mia sensazione è che vi sia in atto

una difesa di tipo “dissociativo” che lo protegge dal rischio di un nuovo trauma, come ad

esempio il fallimento nel lavoro o nella ricerca di un partner.

Nonostante tutto, Sebastiano non si perde d’animo e valuta diverse opportunità di crescita

professionale, persino distanti da Roma. Nella terapia, giunta ora alla fine del terzo anno,

si incomincia così a parlare anche di questo aspetto, senza il senso di disperazione che lo

assaliva dinnanzi alla rottura di un legame. Si affrontano temi prima impensabili, quali i

20
progetti di vita, di affetto e anche di separazione e di perdita: entrambi esprimiamo

reciprocamente i sentimenti ivi connessi.

Nell’ultimo incontro precedente a una mia breve vacanza annunciatagli da un mese, gli

manifesto il mio dispiacere per la separazione, dicendogli che la sua libertà di vivere per

mezzo di se stesso è un progresso importante e che la terapia potrà continuare, se lo vorrà,

anche nella città dove eventualmente troverà una nuova sistemazione.

Al rientro dalla vacanza, Sebastiano parla della necessità di continuare l’esperienza

terapeutica per un altro mese al massimo, riservandosi di decidere se continuarla in un

secondo momento.

Nelle ultime sedute racconta un episodio che ritiene importante: durante un occasionale

rapporto sessuale con un partner ha avuto una penetrazione in modo passivo, senza

spaventarsi. Dice che mai prima di quel momento si era potuto lasciare andare nella

sessualità perché si sentiva costretto in un ruolo definito. Il suo essere “attivo” faceva sì

che egli controllasse con la fantasia i suoi amanti senza mai concedersi emotivamente.

Oggi sente che può vivere la sessualità con meno sensi di colpa (per lui la penetrazione era

vissuta come un “farsi scopare come una prostituta: una vera e propria violenza senza

sentimento”).

Fino ad allora e in virtù dei suoi valori, si era sempre ripromesso di voler perdere la sua

“verginità” solo allorquando avesse incontrato l’amore. Rimango in silenzio. Sebastiano

continua riferendomi che all’inizio della terapia percepiva i miei commenti come una

penetrazione simbolica e fisica e spesso era costretto a chiudersi per proteggersi in

maniera tale che, non “sentendomi”, non potessi controllarlo. Afferma che tale

meccanismo di chiusura veniva da lui messo in atto con tutti, sia con gli amici, sia con i
21
datori di lavoro con il risultato di patire l’isolamento. Adesso sente meno paura

nell’esprimere le emozioni spiacevoli e i suoi conflitti.

Mentre parla, sento che la comunicazione è diventata più distesa e fluente, avverto la

sensazione di pienezza per le tante emozioni che ho provato durante questa seduta, gli

dico: “nel lavoro si ha il desiderio di essere conosciuti e di nascondersi, di essere penetrati

e di penetrare (mi viene in mente una citazione di Aron sull’essere conosciuti e il

conoscere) e tutto questo è sempre in gioco nell’interazione terapeutica.” E nel dirgli

questo, mi sento come in un gioco delle parti in cui al suo desiderio di fuga dal rapporto, io

rispondo accettandone il rischio e questo apre delle nuove possibilità di interazione e di

esplorazione.

Nel penultimo incontro, prima delle vacanze estive, Sebastiano racconta un episodio

avuto con la madre. Lui le manifesta il desiderio, di trascorrere qualche giorno di vacanza

nella città natale. Di contro lei gli chiede di fermarsi giusto il tempo strettamente

necessario per salutare i nipoti, onde evitare che la sua rinuncia al sacerdozio si sappia in

paese e che diventi un’occasione di pettegolezzo contro la famiglia, già duramente provata

dagli avvenimenti del passato (es. nonno ergastolano, due suicidi: il cugino della madre e

lo zio). Sebastiano mi dice che comprende e giustifica le ragioni della madre, la sua

cultura e la protezione della famiglia d’origine rispetto al suo fallimento degli obiettivi di

vita da lei desiderati (es. il sacerdozio). Al mio chiedere quali emozioni ha provato durante

la telefonata, afferma di essersi sentito “libero” dall’obbligo di rivedere una famiglia in cui

lui, non potendo esprimere la sua vera identità di gay e non potendo condividere i motivi

dell’abbandono del sacerdozio, si sente un “fantasma”. Prova anche rabbia nei confronti

della madre per l’ennesimo rifiuto delle sue scelte e di tutto quello che lui fa, ma è
22
determinato ad andare avanti nella sua strada. Riporta queste affermazioni della madre:

“con te non capisco più nulla, ogni tuo impegno non riesci a portarlo a compimento e le

cose che dici la sera, la mattina cambiano… mi manderai al manicomio!”.

Rimango in silenzio e gli chiedo cosa ne pensa dell’accusa di incoerenza della madre.

Sebastiano riconosce che la madre ha una qualche ragione, che lui è incoerente e non

riesce mai a portare a compimento le mete che lei gli ha predeterminato. Ora, egli avverte

chiaramente un conflitto tra i desideri della madre e il suo attuale cammino. Sebastiano

manifesta in maniera ambivalente da un lato il desiderio di terminare la terapia vissuta

come un processo di cambiamento positivo per portare a compimento il desiderio di

vivere una vita integrata, ma nello stesso tempo esprime la paura, in accordo alla

svalutazione materna, dell’autonomia. Dice: “Forse non avrò mai la possibilità di

cambiare, talvolta mi sento che devo andare fin giù nella sofferenza e nel dolore; e questo

mette in dubbio i progressi che ho realizzato. In certi momenti non credo più a nulla,

neanche alla terapia e vorrei lasciarmi andare… male che vada posso sempre andarmene

(leggi suicidio), tanto in casa ho già due illustri esempi”. Taccio, colpito dalla violenza di

questa autoaggressione e provocazione, e penso che il paziente stia vivendo una

identificazione completa con il mondo materno che lo ha sempre rifiutato. Avverto che vi è

un collegamento tra il rifiuto materno e il senso di solitudine cosmica che talvolta lo

assale. Egli vive con angoscia l’approssimarsi delle vacanze, ma non fa alcun cenno alla

sofferenza connessa al separarsi dal terapeuta.

Con voce calda mi accosto verso di lui esprimendo solidarietà per il terribile momento che

sta attraversando, dichiaro la mia disapprovazione rispetto alle affermazioni della madre

manifestando il mio profondo dispiacere per frasi che lui rivolge contro se stesso, che a
23
mio parere sono collegate a questa esperienza di rifiuto traumatico che patisce per causa

della madre. L’esperienza traumatica di sentirsi scartato produce delle reazioni di rabbia,

sensi di colpa e disprezzo contro se stesso. Dopo queste riflessioni dico ad Sebastiano:

“adesso lei può lavorare sia su queste emozioni negative, regolandole in senso positivo

avendole sperimentate senza andare nel caos, sia sul conflitto, reso cosciente, tra il

desiderio di vivere secondo le sue possibilità e la paura di essere solo senza la protezione

materna.” Sebastiano mi guarda con attenzione, in questo preciso momento sento che si è

realizzato un contatto emotivo. Io verbalizzo che tale vicinanza è stata possibile anche per

mezzo della self-disclosure che ha rafforzato il legame, nel momento in cui aveva

manifestato l’intenzione di lasciare la terapia, e ha aumentato la fiducia per l’esplorazione

dei suoi conflitti più profondi. Sebastiano è attento alle mie parole, si sente sollevato e

sorride, l’ora è già finita, si alza e mi dice “allora ci vediamo lunedì prossimo”.

Nell’ultima seduta Sebastiano racconta un sogno: sogna di fare l’amore con una sua amica

conoscente della palestra, di nome Simona, con la quale ha un rapporto sessuale

coinvolgente che si conclude con l’orgasmo di entrambi. Subito dopo il racconto

commenta: “O dio che schifo magari mi sveglio etero!” con un sorriso di complicità e di

provocazione, e aggiunge: “questo sogno per me non ha molto significato forse per lei che

sta dall’altra parte del tavolo avrà un senso ma per me è difficile da capire”. Il tono è

amichevole, essendo l’ultima seduta il paziente non si sofferma sul sogno. Alla mia

richiesta di parlarne risponde in maniera evasiva, tentando di sviare il discorso su

argomenti inerenti le sue relazioni e le sue conquiste sessuali. Al mio insistere risponde

con tono ironico anticipando, a suo parere, una mia eventuale interpretazione: “Ora lei mi

dirà che il sogno rappresenta il mio desiderio eterosessuale e che incosciamente io


24
desidero andare con una donna” e sorridendo mi guarda. Io rimango in silenzio per un po’

e poi dico: “a me sembra che il sogno rappresenti una soluzione ad un suo dramma

interiore: lei descrive la protagonista come una donna semplice che fa la commessa ma che

affronta la vita con un piglio di sicurezza senza mai mollare. Mi pare che data la situazione

della seduta precedente in cui aveva fantasticato di suicidarsi per uscire dalla sofferenza, il

sogno indichi una prospettiva di sviluppo. Lei fa l’amore con un femminile forte ed allegro

che affronta la vita senza ritirarsi e senza disperazione. Vi è un congiungimento simbolico

rappresentato dal suo fare l’amore con una donna forte. Il sogno potrebbe esprimere più

profondamente il suo desiderio di vitalità e di combattere senza arrendersi alla sofferenza e

al suo star male. Mi sembra un buon segnale alla vigilia della nostra separazione prima

delle vacanze. Lei come la sente questa mia interpretazione?” Sebastiano mi guarda con

grande attenzione quasi sorpreso della mia prospettiva per capire il sogno ed esclama: “Si,

in effetti, mi pare che non sia un sogno sessuale ma sono d’accordo con quanto lei ha

detto, non mi voglio arrendere voglio combattere sapendo che ci saranno giornate positive

e negative.”

Il clima della seduta si distende, avverto che Sebastiano è fortemente interessato a stare

meglio e aggiungo dei commenti che rafforzano il nostro lavoro clinico e di ricerca.

Sebastiano racconta di un incontro con un partner che gli pone due domande: “Sei mai

stato innamorato? e qualcuno si è mai innamorato di te?” Egli sente queste due domande

come quelle di maggiore significato, che gli hanno arrecato maggiore sofferenza e che

l’hanno spinto a venire in terapia, visto che ad entrambe aveva risposto negativamente.

Cosi finisce la seduta, come sempre tra un suo desiderio di porsi delle domande ed il mio

essere presente ad accoglierle.


25
4. Conclusioni

La ripresa della terapia ha permesso di continuare a elaborare e chiarire le implicazioni

cliniche e personali della mia self-disclosure, le reazioni del paziente, il suo transfert e

naturalmente il mio controtransfert.

È stato importante, in questa fase del lavoro, utilizzare il modello della regolazione delle

emozioni, rivelatosi il più adatto dal momento che il paziente viveva con difficoltà le

relazioni con il mondo esterno12. Ho chiarito ad Sebastiano che ritenevo giusto rispondere

12
Vedi Fonagy, P., Gergely, G., Juris, E., Target, M., “Regolazione affettiva, mentalizzazione e sviluppo del sè”, trad. it.
Raffaello Cortina, Milano 2003.
In una sua recente conferenza Lichtenberg (cfr. “Il trauma e la mancata regolazione affettiva, cognitiva, comportamentale”,
Giornata di studio presso l’ISIPSE, Istituto e Scuola di Specializzazione in Psicologia del SÉ e psicoanalisi relazionale, Roma,
27 settembre 2008) ipotizza che la regolazione affettiva sia una della capacità che permette un adattamento del paziente alla
realtà: “La regolazione degli affetti è inscritta nella regolazione simultanea della motivazione, cognizione e comportamento”.
L’autore descrive due tipi di trauma: quello acuto, che porta alla paralisi e alla disorganizzazione della capacità di essere autori
delle proprie azioni e a stati affettivi problematici o dissociativi ed è collegato al concetto di P.T.S.D. (Patologie da Stress Post-
Traumatico); quello da stress, nel quale il soggetto fa esperienza di situazioni ripetitive che rappresentano per lui un fallimento
empatico, ovvero la mancanza di simpatia intersoggettiva, cioè esperienze che non rispondono al soddisfacimento di importanti
bisogni o desideri. Secondo l’autore le conseguenze dei traumi sono differenti a seconda della capacità reattiva del paziente.
Per la discussione del nostro caso si ipotizza che Sebastiano sia stato sin dalla nascita soggetto a un trauma da stress. Infatti,
durante la gravidanza, la madre dovette subire sia l’arresto del marito, padre di Sebastiano, accusato di omicidio, sia la morte
della propria madre, cadendo così in uno stato profondamente depressivo compromettendo la capacità di occuparsi della sua
gravidanza e della crescita dei fratelli di Sebastiano. Egli afferma di esser nato “sotto una cattiva stella”, metafora letteraria per
descrivere una situazione traumatica da stress ripetuto. Per descrivere meglio tale situazione citerò le parole di Lichtenberg,
tratte da un suo recente libro (“Mestiere e Ispirazione”, trad. it. Raffaello Cortina, Milano 2008): “Quando le esperienze di
attaccamento nella prima infanzia hanno instaurato schemi di legame insicuri, o quando gli eventi traumatici in un qualsiasi
momento della vita hanno influenzato l’autoregolazione in modo negativo, si istituiscono aspettative che distorcono la
tendenza percettiva del paziente verso esperienze fallimentari di rapporto fra sé e gli altri. Ci sono maggiori probabilità che una
relazione o un evento vengano sentiti con paura invece che con sicurezza, con invidia e vergogna invece che con orgoglio, con
ira invece che con accettazione e calma”. La vicenda di Sebastiano mostra con decisione che in presenza di un sé capace di
mentalizzare, sia pure parzialmente, l'evoluzione della terapia diventa più favorevole. Al contrario, occorre un lungo lavoro
analitico per sviluppare nel paziente la funzione riflessiva in grado di fornirgli gli strumenti cognitivi, affettivi e
comportamentali per aiutarlo a orientarsi nella realtà sociale e intersoggettiva. Una volta acquisita una seppur parziale funzione
riflessiva, il lavoro può diventare più facile. In questo caso la mente dell'analista si presta a essere un “io ausiliario” (come
diceva Hartman, H., “Saggi sulla psicologia dell’io”, trad. it. Boringhieri, Torino 1976), in grado di orientare il paziente nelle
situazioni di relazione con se stesso e con gli altri. Nel caso in questione il deficit di capacità di mentalizzazione era parziale,
con un disturbo dell'attaccamento in senso evitante. Seguendo il modello di Fonagy, si può affermare che la funzione riflessiva
non è stata del tutto inibita. Tale fenomeno si può forse spiegare con la capacità intellettuale del paziente, che ha infatti
completato gli studi universitari in Teologia e si è laureato recentemente in Economia. Probabilmente anche un modello
operativo interno evitante non inibisce totalmente lo sviluppo cognitivo. In conclusione il tema della self-disclosure in sé non
presenta una teoria di riferimento, ma si può comprendere per adesso all'interno di modelli teorici già elaborati, come quello di
Kohut per quanto concerne il narcisismo e di Fonagy per la funzione riflessiva, o di Lichtenberg per gli aspetti di
autoregolazione della relazione diadica in terapia.

26
a una sua richiesta implicita quando chiedeva il mio punto di vista su temi come quello

dell’orientamento omosessuale e dell’orientamento sessuale del terapeuta.

Era infatti necessario un gesto di autenticità in quanto Sebastiano aveva manifestato la

paura di trovarsi davanti a un terapeuta pregiudizialmente orientato, che non fosse in grado

di comprenderlo né di rispettare la sua identità (come quello consigliato dal suo tutore

spirituale, che a suo dire voleva che lui reprimesse la sessualità in funzione dell'ordine di

appartenenza).

Ritengo che la mia self-disclosure sia stato un tentativo spontaneo di empatizzare con il

dolore, la vergogna e la confusione di Sebastiano che anch’io ‘com-pativo’ allorquando lui

mi raccontava della sua adolescenza, delle derisioni subite e della vergogna di essere

considerato il diverso nella sua famiglia d'origine. Alla luce di tutto ciò, l’incontro con

Sebastiano (nel senso di un “now moment” di Stern) ha messo entrambi in condizione di

ristabilire un campo intersoggettivo nuovo, in cui un’esperienza di paura o di vergogna

poteva essere vissuta senza rifiuto da parte mia. Parimenti, la self-disclosure ha costituito

per Sebastiano la possibilità di riscontrare in me che essere gay non significa

necessariamente precipitare nel caos. La mia presenza come modello di identificazione ha

costituito una base sicura sia per un rispecchiamento positivo del sé, sia per il

proseguimento del dialogo terapeutico verso altre esplorazioni.

27
Riferimenti Bibliografici

ARON, L. (1996), Menti che si incontrano, Trad. it. Raffaello Cortina, Milano 2004.

BEEBE, B., LAHCMANN, F.M. (2002), Infant Research e trattamento degli adulti, Trad. it. Raffaello
Cortina, Milano 2003.

BOLLAS, C. (1987), L’ombra dell’oggetto. Trad.it. Borla, Roma1989

BOLLAS, C. (1989), Le forze del destino. Trad.it. Borla, Roma 1991

BROMBERG, P. M. (2006), Destare il sognatore. Trad. it. Raffaello Cortina, Milano 2009.

BUCCI, W. (1997), Psicoanalisi e Scienza Cognitiva, Trad. it. G. Fioriti, Roma 1999.

CHRZANOWSKI, G. (1980), “Collaborative inquiry, affirmation and neutralità in the psychoanalytic


situation”. In Contemp. Psychoanal.,16pp.346-366

DAVIES J.M. (1994) “Love in the afternoon: A relational reconsideration of desire and dread an the
countertransference” In Psychoanal. Dial. 3,pp.535-578

EHRENBERG, D, (1992), The intimate Edge:Extending the Reach of Psychoanalytic Interaction. Norton,
New York.

EHRENBERG, D, (1995), “Self-disclosure: Terapeutic tool or indulgence?” In Contemp. Psychoanal. 31,


pp. 213-228.

FREUD, S. (1912), “Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico” In Opere, vol. 6, pp. 532-541,
Boringhieri, Torino 1970.

GOFFMANN, E. (1963), Stigma, L’identità negate, Giuffrè, Milano.

GOLDESTEIN,E.G. (1994), “Self-Disclosure in treatment: What therapist do and don’t talk about” . In
Clinical Soc. WorkJ., 22: pp.417-433

GONSIOREK, J.C. (1988), “Mental health issues of gay and lesbian adolescent”, In Journal of
Adolescent Health Care, n°9 pp.114-122.

GREENBERG, J.R.. (1995), “Self-disclosure: is it psychoanalytic?”, In Contemp. Psychoanal., 31, pp.


193-205.

GORKIN, M. (1987), The Uuses of Countertransference. Aronson, Norhvale, NJ.

HANSON, J., (2003), Coming Out: Therapist Self-disclosure as a Therapeutic Technique, with Specific
Application to Sexual Minority Populations
www.oise.utoronto.ca/depts/aecdcp/CMPConf/papers/Hanson.html

JUNG, C.G. (1946), La psicologia del transfert, Trad. it. Il Saggiatore, Milano 1965.

28
LEVENKRON, H. (2006), “Love (and hate) with the proper stramger: Affective honesty and enactment”.
In Psychoanalytic Inquiry, 26 (2), pp. 157-181.

MARODA, K. (1991), The Power of Countertransference. Wiley, Chichester,NY.

MARODA, K. (1995), “Show some emotions: Completing the cicle of affective communication” In
Presented at the meeting of the division of Psychoanalysis (39) American Psychological Association,
Santa Monica, ca.

KNOX, S., HESS, S.A., PETERSEN, D.A., HILL, C.E. (1997), “A qualitative analysis of client
perceptions of the effects of helpful therapist self-disclosure in long term therapy”, In Journal of
Counselling Psychology, n° 44, pp. 274-283.

KOHUT, H., (1996), Lezioni di tecnica psicoanalitica, Trad. it. Astrolabio, Roma 1997.

LINGIARDI V., LUCI M., (2006), “L’Omosessualità in Psicoanalisi”, In Gay e lesbiche in psicoterapia,
Rigliano, P., Graglia M. (a cura di), Raffaello Cortina, Milano.

MITCHELL, S., (1988), Gli orientamenti relazionali in psicoanalisi per un modello integrato, Trad. it.
Bollati Boringhieri, Torino1993.

MONEY J., TURCKER P., (1975), Essere uomo essere donna, Universale Economica Feltrinelli, Milano
1980.

SOLANO, L., (2001), Tra mente e corpo: come si costruisce la salute. Raffaello Cortina, Milano 2001.

STERN, D., (2004), Il momento presente, Trad. it. Raffaello Cortina, Milano 2005.

STERN, D., (1985), Il mondo interpersonale del bambino, Trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 1987.

WATZLAWICK,P., BAVELAS,J.B., JACKSON,D.D. (1967), Pragmatics of Human Communication.


Norton New York

WINNICOTT, D.W. (1963), “Communicating and not communicating leading to a study of certain
opposites”, in The maturational Process and the Facilitating Environment, International University Press,
New York 1965, pp. 179-192.

29

Potrebbero piacerti anche