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Sulla "autorevolezza"
dell'analista
Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Riporterò alcuni appunti sulla autorevolezza dell'analista che scrissi tempo fa,
quando due colleghe di
Roma (Marisa Malagoli Togliatti e Anna Cotugno) mi chiesero di
collaborare a un libro sulla esperienza
analitica vista "dall'altra parte",
cioè dai pazienti [Scrittori e psicoterapia. La creatività della relazione
terapeutica. Roma: Moltemi, 1998]. In particolare, mi veniva chiesto di commentare alcuni versi di
Raymond Queneau (tratti dal suo romanzo in versi del 1937 intitolato Quercia e
cane [Genova: Il
Melangolo, 1995]) in cui parla della sua esperienza analitica
prendendosela polemicamente col supposto
sapere dell'analista. Sono partito da questo
punto per fare alcune riflessioni sulla asimmetria della
relazione analitica (per poi
toccare vari altri temi), chiedendomi se si potesse parlare invece di simmetria
tra
paziente e analista. Infatti, se è ovvio che l'analisi è asimmetrica per il fatto che è
il paziente a
rivolgersi all'analista e quindi lo ritiene una figura autorevole, mi
sembrava che la questione non andasse
liquidata così facilmente, per cui ho provato a
vedere, in un certo senso provocatoriamente, se reggeva un
discorso in favore di una
posizione "simmetrica". Ecco dunque le mie riflessioni esposte qui in modo
discorsivo (nel novembre 1996 ho discusso queste idee anche nel mio gruppo di studio di
Bologna, e
ringrazio in particolare Wilfredo Galliano, Daniela Iotti e Angela Peduto per i
loro commenti critici).
L'analista è simmetrico rispetto al paziente nel senso che non sa necessariamente più
cose di quante ne
sappia il paziente: dice solo la sua, così come il paziente dice la
sua. Se un analista, in un modo o
nell'altro, trasmette che si sente in diritto di sapere
più del paziente per il solo fatto di essere l'analista,
commette un errore teorico,
oltre che un possibile e inconsapevole errore controtransferale (paura di non
sapere
proprio niente, di non essere bravo, atteggiamento di superiorità dovuto a insicurezza,
ecc.): questo
atteggiamento di supposta superiorità dell'analista (forse razionalizzata
come maggiore obiettività,
esperienza, o qualifica professionale), nel momento in cui
viene utilizzato nella relazione ha effetti
manipolatori e quindi antipsicoanalitici,
facendo scivolare la psicoanalisi sul versante delle psicoterapie
suggestive.
L'atteggiamento di superiorità presuppone che il paziente non debba apprezzare i commenti
dell'analista per la loro intrinseca logica o "verità", ma solo in quanto
autorevoli (ovviamente l'analista
non conosce in senso filosofico la verità, ma formula -
al pari del paziente - delle ipotesi che possono
toccare un aspetto della realtà psichica
del paziente, provocando così delle reazioni in linea di principio
distinguibili da
quelle provocate solo dalla sua "autorevolezza").
Quando un paziente (nel caso, Queneau) se la prende col proprio analista contestandogli
il suo supposto
sapere, non è detto che si tratti di "transfert", ma di una
naturale reazione all'atteggiamento di un analista
che si crede depositario della verità.
Certi analisti lacaniani, ad esempio, possono stimolare questa
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29/11/22, 16:20 © PSYCHOMEDIA - Paolo Migone, "Sulla 'autorevolezza' dell'analista'"
Dicevo che le prospettive del paziente e dell'analista sono uguali perché entrambi
hanno una visione
plausibile della realtà, dal loro punto di vista e secondo il loro
transfert, o - per usare un termine tratto
dalla tradizione cognitivista - secondo il loro
schema cognitivo che sempre distorce la realtà alla luce del
passato. Ma, a voler essere
precisi, il termine "distorsione" non è corretto, in quanto presuppone che da
qualche parte possa esistere una "non distorsione" della realtà. Non occorre
aver letto Kant, e neanche
Piaget, per sapere che la realtà è sempre "creata",
cioè filtrata dagli schemi correggibili interni, i quali,
tramite accomodamento o
assimilazione, producono "la realtà", l'unica che possiamo conoscere, la nostra
(che ci può sembrare uguale o diversa da quella percepita dagli altri, coi quali ci
possiamo accordare
chiamando "oggettiva" o "scientifica" la realtà
condivisa da più persone o da un determinato
establishment scientifico).
parte di entrambi i
partners. Non
voglio qui soffermarmi sulla tematica della termination (per alcune
riflessioni
teoriche ed esempi clinici, vedi pp. 58-62 del mio libro citato prima, e anche
la mia rubrica del
n. 68/1995 del Ruolo
Terapeutico), né sul tema del
paziente come "terapeuta", "supervisore" o "interprete"
del
proprio analista, perché esiste una abbondante letteratura al riguardo [H.F.
Searles, The
patient as
therapist to his analyst. In: P.L. Giovacchini, editor, Tactics and
techniques in psychoanalytic therapy. Vol.
II: Countertransference. New York:
Aronson,
1975; R. Langs, A model of supervision: the patient as
unconscious supervisor. In: Technique
in Transition. New York. Aronson, 1978, pp. 587-625; I.Z.
Hoffman, Il paziente come
interprete dell'esperienza dell'analista (1983). Psicoterapia
e Scienze Umane,
1995, 1: 5-39; ecc.]
Quello che voglio sottolineare è che l'affermazione secondo la quale i due partners
analitici sono uguali
non presenta alcun problema teorico o pratico, anzi aiuta a non
scivolare nella suggestione. Certamente,
paziente ed analista possono essere molto
diversi: uno dei due può sentirsi superiore o inferiore all'altro
(ottima occasione di
analisi!), o, se è per questo, uno può avere gli occhi azzurri e l'altro può averli
castani, uno può essere alto 1,75 cm. e l'altro 1,55 cm., e così via, e questi attributi
possono essere vissuti
in svariati modi da entrambi. In determinati aspetti della
relazione un paziente può dipendere dall'analista
ritenendo (difensivamente?) che solo
lui può aiutarlo, mentre in altri contesti storico-sociali o psicologici
può essere
l'analista che dipende dal paziente: i motivi possono essere la penuria di pazienti (che
può
indurre alcuni analisti a farsi pubblicità), l'insicurezza professionale (magari
fomentata da una
identificazione proiettiva del paziente), il piacere di fare questo
mestiere o di seguire un determinato caso
clinico, oppure la particolare intelligenza o
sofisticazione di un paziente - poco "nevrotico", appunto - che
non ha problemi
nel cambiare analista o nell'interrompere la terapia se non si ritiene soddisfatto.
Possiamo
etichettare certi comportamenti come forme di transfert, e anche di
"transfert positivo irreprensibile" [S.
Freud (1912), Dinamica della
traslazione. Opere, 6, p. 529] e di "transfert negativo irreprensibile"
[N.
Guidi (1993), Psicoterapia
e Scienze Umane, 4/1994] - o, se è per questo, di
controtransfert positivo o
negativo irreprensibili [M.M. Gill (1984),
Psicoanalisi e psicoterapia: una revisione, al sito Internet:
http://www.publinet.it/pol/ital/10a-Gill.htm
(dibattito: http://www.psychomedia.it/pm-lists/debates/gill-
dib-1.htm;
M.M. Gill (1994), Psicoanalisi in
transizione. Milano: Cortina, 1995, p. 37]. Quello che è
importante è non concepire
l'analisi come una relazione asimmetrica nella quale l'analista necessariamente
ha una
autorevolezza che gli deriva dal suo ruolo e che il paziente non può che subire: vedere
le cose in
questo modo statico può impedirci di capire quanto dietro a ciò possa
nascondersi un sintomo da
analizzare (ad esempio il transfert di un paziente umiliato dal
padre, o un "attaccamento insicuro"), e può
indurci a considerare
"nevrotico" (o affetto da un certo tipo di transfert) un paziente che, invece di
mostrare dipendenza dal suo analista, mostra - volendo usare i termini usati da certi
cognitivisti
contemporanei - una sana attivazione del sistema motivazionale della
"cooperazione paritetica per uno
scopo condiviso" [G. Liotti, La dimensione
interpersonale della coscienza. Roma: NIS, 1994]. Non solo,
ma la concezione
dell'analisi come relazione inevitabilmente asimmetrica (nel senso che, ad esempio, la
"dipendenza" debba provarla il paziente verso l'analista e mai viceversa) porta
a un blocco del processo
analitico, cioè alla attribuzione di significati a priori, dati
per scontati, senza chiedersi se potrebbe non
essere così (cosa questa appunto non
"dialettica", per usare le parole di alcuni recenti lavori di Hoffman).
Rischiamo di giudicare "strano" o "nevrotico" un paziente che non
rientra nelle nostre aspettative;
viceversa, se un paziente si sente asimmetrico
(rientrando così nelle nostre aspettative), rischiamo di non
chiederci perché è così
(prendendolo per "vero" e non per "falso", usando le categorie di E.
Codignola [Il
vero e il falso. Torino: Boringhieri, 1977]). Questo materiale sfugge
all'analisi, come una sorta di
"sequestro analitico" [fu Eissler
(1953), in un altro
contesto, ad usare questo termine: vedi Psicoterapia
e
Scienze Umane, 1981/2, p.
65].
Si potrebbe sostenere, per evidenziare meglio quello che voglio dire, che andare
dall'analista è come
andare dall'avvocato, dal pollivendolo, ecc. Quando vado da questi
professionisti io non mi sento
"dipendente" se non per il consiglio che uno mi
può dare o il pollo che voglio che l'altro mi venda (così
come il professionista non è
dipendente dal cliente se non per i soldi che vuole ricevere per il servizio
dato).
Dall'analista la cosa è più complicata - si potrebbe obiettare - perché sono i
significati del nostro Sé
che sono in ballo. Ma è appunto per questo che potrebbe essere
più corretta una posizione simmetrica: io
mi pongo come se i problemi del paziente
fossero "solo dei polli", operando quindi subito una salutare
separazione tra il
Sé e il sintomo, tra l'autostima e la nevrosi, come dovrebbe essere sempre (non
solo
come frutto del nostro lavoro). Di fatto, vi sono dei pazienti che vanno
dall'analista come se il loro
sintomo fosse un pollo (e mi ha sempre incuriosito
constatare che spesso questi pazienti sono o molto
nevrotici o molto poco nevrotici).
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29/11/22, 16:20 © PSYCHOMEDIA - Paolo Migone, "Sulla 'autorevolezza' dell'analista'"
Vorrei precisare che io non dico che un paziente obbligatoriamente deve essere visto
come simmetrico
rispetto a noi, dico solo che non deve essere obbligatoriamente visto come
asimmetrico. E' liberissimo di
porsi in modo asimmetrico, e non solo come forma di
transfert, di nevrosi, di "complesso di inferiorità",
ecc., ma anche perché
supportato da tutta una cultura stereotipata - sia psicoanalitica che dei mass media
(quel tipo di cultura per esempio che fa credere che sempre il paziente "debba
innamorarsi dell'analista",
oppure che "in analisi si soffre", "si
regredisce", ecc.). Io mi limiterò a chiedermi (e a chiedergli) perché
preferisce
vivermi così. Analiticamente parlando, non è quello che fa che mi interessa, ma i motivi
per cui
lo fa. In altre parole (e in modo volutamente provocatorio, ma con una astrazione
concettuale), non è certo
un problema che un paziente abbia i capelli biondi. Il problema
sorge invece quando il terapeuta ritiene
che tutti i pazienti debbano avere i capelli
neri. All'analista non interessa sapere chi "abbia ragione" (uno
può avere
determinati motivi per sentirsi asimmetrico, un altro per sentirsi simmetrico), interessa
che la
cosa possa essere discussa, non data per scontata.
Alcuni potrebbero argomentare che la simmetria certo non può darsi all'inizio
dell'analisi, ma
eventualmente dopo, durante il successivo processo analitico che ne pone
le basi. Ma perché non potrebbe
essere presente anche prima? Di nuovo, in questo modo si
esclude pregiudizialmente la possibilità che
non sia così. E' scontato che è il
paziente che chiede aiuto e che quindi si pone in modo asimmetrico, ma
il pericolo è
quello di dare un significato univoco alla asimmetria legata alla sua richiesta. Si fa la
operazione arbitraria di assumere che chiedere aiuto (come un qualunque altro
comportamento) voglia
sempre dire la stessa cosa per tutti, mentre invece, come dicevo
prima, un paziente può voler confrontarsi
su qualcosa, un altro magari provare il gusto
di "lavorare pariteticamente per uno scopo condiviso" (come
si esprimono certi
cognitivisti a cui ho accennato prima), un altro prova sì dipendenza, ma in modo
diverso
- o di più o di meno - di un altro ancora, e così via. Non solo, ma si scorda che anche
l'analista
può dipendere dal paziente (nei tanti modi a cui ho accennato prima). Se
dunque si ritiene che la
simmetria non possa darsi all'inizio ma eventualmente durante il
successivo processo analitico,
aprioristicamente si esclude la possibilità che il
paziente possa essere, con noi e come noi, "analizzante"
fin dall'inizio; un
paziente invece (con una autoriflessione o una autoanalisi) può risolvere da solo la sua
asimmetria (o dipendenza) e poi può aver bisogno di lavorare ugualmente con l'analista
per questioni che
non hanno a che fare con essa. E' vero, rimane asimmetrico relativamente
al fatto che ritiene di aver
bisogno di fare una analisi; ma - e questo sembra un
paradosso - l'analisi ha inizio solo se essa si pone
nella prospettiva di interrogarsi
anche su questa dipendenza, e non di escluderla dall'analisi come
"legittima".
In altre parole, l'analisi ha inizio solo se pone le premesse della sua fine, lo
psicoanalista è
tale solo se si chiede perché lo è; oppure, usando una espressione più
forte, siamo veramente psicoanalisti
solo se... non sappiamo chi siamo (se invece aderiamo
alla concezione asimmetrica non ci poniamo mai
questo problema e non lo analizziamo).
Hoffman, ad esempio, in un articolo recente (non ancora
pubblicato) dice che non possiamo
escludere che gli psicoanalisti siano solo una classe privilegiata che
vive sfruttando le
emozioni dei pazienti e convincendoli a porsi in modo asimmetrico per sottrarre loro
denaro: fare analisi vuole dire anche non escludere a priori questa possibilità.
Paolo
Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43100 Parma, tel./fax 0521-960595,
E-Mail <migone@unipr.it>
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