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UN PIANETA SEMPRE PIÙ STRETTO

La crescita demografica è un tema ricorrente nei dibattito sociale e politico e


sin dal XIX secolo storici e scienziati si sono interessati a questa materia nel
tentativo di comprenderne le cause e le dinamiche. La notizia del
raggiungimento di quota 7 miliardi di abitanti sulla Terra, risalente al
novembre del 2011, ha riacceso la discussione sul cosiddetto problema della
"sovrappopolazione" del nostro pianeta.
La complessità e il peso della questione demografica a livello globale sono
affrontate nel libro "Il pianeta stretto", di Massimo Livi Bacci, professore di
Demografia all’Università di Firenze e socio dell’Accademia dei Lincei.
La tesi di fondo del volume è che il dibattito e le politiche perseguite a
livello internazionale sulla crescita demografica rischiano di passare da un
eccessivo allarmismo nel passato a una pericolosa sottovalutazione attuale.
La terra, si dice in apertura, è cresciuta in popolazione di ben mille volte da
quando, diecimila anni fa, era probabilmente abitata da circa dieci milioni di
esseri umani: studi recenti prevedono che entro il prossimo mezzo secolo si
raggiungeranno i dieci miliardi. Ciò significa che il “pezzetto” di pianeta che
ogni essere umano avrà a disposizione diminuirà di mille volte.
Diecimila anni fa un individuo della specie “homo sapiens” aveva a
disposizione teoricamente tredici chilometri quadrati, tra pochi anni dovrà
accontentarsi di un campo di calcio. Saremo dunque mille volte più
numerosi e mille volte più poveri di spazio. Ma una popolazione per vivere
necessita di spazio: per abitare, per coltivare terre, allevare animali, produrre
alimenti, estrarre combustibili, costruire strade, piazze, scuole, uffici, ecc.
Se una popolazione cresce, cresce la domanda di spazio. Le due variabili
procedono in parallelo. Cresce quella che i geografi chiamano
“antropizzazione” del territorio e diminuiscono gli ambienti naturali.
Con una densità abitativa pari a quella di Singapore (7.541 ab/Kmq) tutta
l’umanità potrebbe vivere concentrata in Francia e in Spagna e, mettendoci
anche l’Italia, astrattamente si potrebbero assorbire i tre miliardi in più che
stanno per nascere. Nella realtà però già più della metà del suolo è stato
“colonizzato” dall’attività umana: secondo un recente studio nel 2007 il 47%
della superficie terrestre utile agli insediamenti umani era impiegata per
coltivazioni agricole, forestali e pascoli, il 3% per le aree urbane, un altro 3%
per attività economiche di vario tipo e un 1% per infrastrutture (viarie,
portuali, ferroviarie) e attività minerarie.
La velocità di crescita della popolazione, a partire dalla rivoluzione
industriale ha reso percepibile, la finitezza di questo nostro pianeta, i suoi
limiti, i suoi vincoli chimico-fisici e biologici.
Per fare un solo esempio: il volume delle emissioni di gas serra tra il 1970 e
il 2010 è cresciuto dell’80%. Tutte le attività umane (produzione di energia,
attività industriali, agricole, residenziali e commerciali, trasporti) hanno
contribuito a questo incremento. La responsabilità maggiore è però da
attribuire alla crescita della popolazione che in 40 anni è passata da circa
quattro miliardi a sette, anche se va fatta una distinzione in base alle
condizioni economiche e alle abitudini di consumo delle diverse nazioni.
I paesi ad alto reddito infatti, pur avendo contribuito soltanto per il 7% alla
crescita della popolazione, sono i principali responsabili per l’incremento di
gas serra, mentre i paesi a basso reddito coinvolti nel “boom” demografico
ne sono rispondono per una minima parte.
Il fatto indubbio è ,comunque, che un aumento della popolazione esercita
pressione sui delicati equilibri del pianeta. Un pianeta, appunto, diventato
improvvisamente “stretto”.
Il rallentamento della crescita demografica continua a essere una priorità,
ma la demografia del XXI secolo pone alla comunità internazionale
un’ulteriore sfida: la conservazione di adeguati equilibri ambientali, e il loro
reintegro dove essi vengono compromessi. Questi equilibri sono minacciati
da una mal governata crescita delle attività umane di produzione e di
consumo. In uno spazio finito, ogni persona in più esige una quota
aggiuntiva, seppur piccolissima, dello spazio esistente. Man mano che la
popolazione cresce, occorre che l’utilizzo dello spazio risponda sempre più a
criteri di razionalità e di equità, con una riduzione degli sprechi. È questo
l’imperativo etico che deve guidarci per poter consegnare alle future
generazioni un pianeta vivo e vivibile.
Transizione demografica e capacità di scelta

Nel corso dei secoli e dei millenni la crescita demografica ha seguito una
tendenza costante ma con un ritmo fiacco, quasi impercettibile, segnato
anche da periodi di decrescita dovuti per esempio a guerre o epidemie,
come quella pestilenziale che colpì l’Europa medievale. Il salto più
impressionante si è verificato negli ultimi due secoli. Se all’inizio del XIX
secolo si calcolava un miliardo di persone in tutto il mondo, questa cifra era
raddoppiata nel 1927, era quadruplicata nel 1974 ed è cresciuta ancora fino
a sette miliardi e oltre nel primo quindicennio del nuovo millennio.
La crescita esponenziale e incontrollata è dovuta generalmente al fenomeno
chiamato “transizione demografica”: un graduale declino della mortalità
seguito, con ritardo variabile, da un graduale declino della natalità. Una
transizione quindi da una situazione di approssimativo equilibrio tra i due
tassi assestati su alti livelli ad un nuovo regime stabilizzato su bassi livelli.
Nella lunga fase che la natalità impiega per allinearsi alla mortalità si
determina un’accelerazione della crescita.
Questo processo tuttavia non è stato e non è nemmeno attualmente
omogeneo. La rivoluzione demografica ha investito prima il mondo più
sviluppato, in cui la maggiore ricchezza, le innovazioni scientifiche e medico-
sanitarie, la capacità di scelta sulla procreazione e sugli stili di vita hanno
influenzato i tassi di natalità e mortalità.
Il professor Bacci spiega: "l’inizio della transizione demografica (la cui fase
finale è stata arbitrariamente fissata quando viene raggiunto un numero
medio di figli di 2,5 per donna e una speranza di vita di 70 anni) può porsi
nella prima metà dell’800 in Europa e alla fine del ’900 in Africa; la fine della
transizione rispettivamente negli anni ’60 del ’900 nel mondo sviluppato e
(se le previsioni sono corrette) dopo la metà del 21° secolo in Africa."
Nei paesi della prima transizione il numero di figli per donna è ora inferiore
ai due che, con una speranza di vita di settant’anni, sono considerati
approssimativamente necessari per mantenere l’equilibrio demografico.
Questa tendenza è quella che negli ultimi decenni ha “rassicurato” la società
e i governi sui pericoli catastrofici dell’esplosione demografica tardiva, ma a
ritmi mai così veloci e amplificati, che sta caratterizzando i paesi più poveri
delle altre regioni del mondo.
Se, per esempio, la popolazione della Svezia nel primo periodo della
transizione dal boom al riequilibrio si era raddoppiata, quella più recente del
Messico si è quintuplicata.
L’enorme novità, rispetto al passato, è la dissociazione tra biologia e istinto
da un lato, e comportamenti individuali dall’altro, dovuta al rafforzamento
delle capacità di scelta. Per quanto riguarda la riproduttività, si può scegliere
il partner, quanti figli avere e quando averli, quale forma e durata dare a
un’unione o ad un nucleo familiare. Per quanto riguarda la sopravvivenza, si
possono scegliere gli stili alimentari e quelli di vita, si possono adottare le
cure mediche più appropriate, in alcuni ordinamenti si può addirittura
scegliere come mettere fine alla propria vita. Queste capacità di scelta non
sono assolute (sono condizionate, ad esempio, dalle disponibilità
economiche) e, seppure in minima parte, sono sempre state nella
disponibilità degli umani. Oggi si sono enormemente rafforzate, e
rappresentano le fondamenta del capitale umano. L’umanità oggi è quindi
assai più capace che in passato di “guidare” il proprio percorso.
Naturalmente, molta strada si deve ancora fare, se si pensa che il controllo
volontario delle nascite è ancora scarsamente diffuso in vaste parti del
mondo, nelle quali anche la sopravvivenza è tuttora precaria.
Indagini empiriche mostrano che quando almeno tre quarti delle donne
utilizzano la contraccezione, il numero medio di figli si situa vicino al livello
di rimpiazzo (2,5), o addirittura al di sotto di esso. Lo scarso utilizzo di
metodi contraccettivi nei paesi africani e mediorientali, mostra la lentezza
dei cambiamenti in atto in molti dei paesi poveri. In India la percentuale di
donne feconde e sessualmente attive che vorrebbe non avere figli ma non
pratica contraccezione, circa il 20%, indica che oltre 100 milioni di donne
sono disponibili a cambiare il proprio comportamento. Ciò potrà avvenire
spontaneamente e con gradualità, ma l’attuazione di buone pratiche sociali
potrebbe accelerare il processo.

Crescita disomogenea e processi migratori


Le previsioni di ulteriori aumenti della popolazione mondiale diventano più
incerte mano a mano che lo sguardo si spinge più in là nel tempo. Sembra
comunque abbastanza realistico pensare, sulla scorta delle analisi
scientifiche correnti, che da qui al 2050, nei prossimi trentacinque anni, si
arrivi a 9,7 miliardi. Il problema di come garantire la sopravvivenza, e magari
una vita decente a più di due miliardi di persone “aggiuntive” è dunque di
enorme rilievo. Tanto più considerando che le tendenze sono
profondamente asimmetriche: si stima che praticamente tutto l’aumento
avverrà nei paesi poveri e in via di sviluppo, e di questo ben la metà sarà
concentrato nell’Africa subsahariana, mentre circa un terzo nel
subcontinente indiano.
Molto “scottante”, come scrive Bacci, è dunque la situazione africana: nei
paesi dell’area centro-settentrionale gli attuali abitanti sembrano destinati a
più che raddoppiarsi, superando così i due miliardi.
In questa zona del mondo è ancora innescata la cosiddetta “trappola
malthusiana”: lo sviluppo non decolla perché il ciclo tra povertà,
malnutrizione, sopravvivenza precaria da una parte, e alta fecondità dall’altra
si autoalimenta in modo negativo. Mentre la media globale di figli per
donna è oggi di 2,5, qui è ancora attestata a 5,1 e stenta a diminuire (si
prevede un calo al 3,1 nel 2050).
La conseguenza principale del sovrappopolamento in Africa è sicuramente
la recente accentuazione del processo migratorio: nonostante la presenza di
barriere agli spostamenti internazionali questo fenomeno diventa sempre
più intenso, con effetti rilevanti nelle società e nell’economia del mondo
ricco. Nell’ultimo mezzo secolo, il ricambio della popolazione nei paesi
sviluppati è stato affidato, in misura crescente alla componente migratoria,
mentre quella biologica è risultata insufficiente ad assicurare il necessario
metabolismo. Le migrazioni infatti rappresentano un’alternativa alla
riproduttività all’interno di una comunità: esse dipendono dall’entrata e
dall’uscita di stranieri dalle frontiere, anziché dalle nascite e dalle morti.
Per quanto limitata da fattori logistici, nel corso della storia la migrazione ha
permesso di alleggerire la pressione sulle risorse nei paesi di origine e di
popolare nuovi territori, sviluppando nuove risorse. La grande migrazione
transoceanica che ha percorso il XIX secolo e le prime due decadi del XX
rappresentano un esempio di “scambio” tra un mondo ricco di capitale
umano e povero di risorse (l’Europa) e un mondo ricco di spazi e di risorse
naturali (l’America). Questa migrazione può essere anche vista come una
reazione all’accelerazione della crescita demografica del continente europeo
durante il processo di transizione demografica di quell’epoca e spiega in
parte il simile fenomeno che oggigiorno coinvolge da un parte l’Africa e il
Medio Oriente e dall’altra l’Europa nei panni dell’America.
Proprio in Europa le immigrazioni hanno avuto un ruolo determinante nel
mantenere pressoché invariato il numero di abitanti del Vecchio mondo,
sostituendosi alla bassa natalità nel contrastare l’enorme incremento della
percentuale della popolazione anziana. Quest’ultimo è in sé un fatto positivo
legato all’aumento notevole delle speranze di vita, ma che produce i ben
noti problemi previdenziali e sanitari, con i riflessi per i costi aggiuntivi sui
bilanci statali e gli equilibri economici, e di creazione di nuovi modelli di vita
nel caso, assolutamente possibile, di compresenza di ben quattro
generazioni diverse all’interno della società in uno stesso momento storico.
Si rende comunque necessario trovare una soluzione che permetta di
gestire gli attuali flussi migratori prima che questi portino a un eccessivo
scompigliamento demografico e all’intensificarsi di tendenze razziste e
intolleranti. A tal proposito Bacci propone la costruzione graduale di
un’istituzione sovranazionale, che svolga varie funzioni: dalle più semplici
(raccolta di informazioni e dati, analisi delle tendenze, anagrafe generale
della popolazione, ecc.) alle più complesse, quali il coordinamento e la
cooperazione fra gli Stati, il rispetto dei diritti degli immigrati, ecc. Ma
nell’attuale dibattito internazionale tali proposte sono tutt’altro che
popolari: nessun Paese è disponibile a cedere anche frazioni minime di
sovranità.

Sviluppo sostenibile
Uno dei concetti su cui si sofferma il professor Bacci è quello di “sviluppo
sostenibile”. Nella definizione consacrata dal Rapporto Brundtland del 1987,
questo termine indica uno sviluppo in grado di assicurare “il
soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza
compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”.
La questione demografica e le molteplici relazioni tra la rapida crescita della
popolazione mondiale e lo sviluppo, è stata al centro del dibattito
internazionale dal secondo dopoguerra in poi. Si venne diffondendo una
viva preoccupazione per le conseguenze, ambientali e sociali, di una crescita
che non trovava eguali nella storia dell’umanità. Si rinnovavano così le
ipotesi neomalthusiane di un graduale e non lontano esaurimento delle
risorse non rinnovabili. Thomas Malthus alla fine del XVIII secolo fu infatti il
primo a lanciare l’allarme sui limiti ambientali che l’uomo avrebbe dovuto
fronteggiare a causa della sovrappopolazione.
Il dibattito internazionale produsse l’idea diffusa che l’unica soluzione fosse
quella di ridurre il tasso d’incremento della popolazione, ma le dichiarazioni
e le raccomandazioni inerenti le politiche sociali diramate dalle Nazioni
Unite apparivano come una predica paternalistica dei paesi ricchi nei
confronti di quelli poveri, o addirittura un arrogante atteggiamento
imperialista suggerito dal timore dell’eccessiva crescita del Terzo mondo.
Attraverso le Conferenze sulla Popolazione promosse dall’ONU le potenze
mondiali approvarono un Programma d’azione, il quale rappresentava la
posizione ufficiale della comunità internazionale sulle relazioni tra
popolazione e sviluppo, sulle politiche da intraprendersi, del finanziamento
delle stesse da parte dei governi. Queste stesse conclusioni ispirarono la
Dichiarazione del millennio dei capi di Stato del 2000, e diversi obiettivi di
natura demografica furono inclusi tra gli otto “Obiettivi del millennio”, da
raggiungersi entro il 2015.
La popolazione sembra però uscita dal novero delle questioni da affrontare
come se la sua futura crescita, distribuzione, struttura fossero poco rilevanti
per il tema della sostenibilità. Probabilmente si è convinti che i
comportamenti demografici (riproduzione, sopravvivenza, mobilità,
migrazioni) convergano verso modelli uniformi con popolazioni stazionarie
come se le macroscopiche differenze fra aree geografiche, gruppi etnici,
sociali o religiosi siano destinate a ridursi e ad annullarsi.
È però altamente improbabile che la geodemografia tenda ad assumere una
struttura fissa: “In Germania, la popolazione sotto i sessant’anni
declinerebbe di un terzo, quella oltre gli ottanta avrebbe un abbondante
raddoppio; gli ultra-ottantenni, nel 2050, sarebbero più numerosi dei minori
di vent’anni. In Nigeria la popolazione triplicherebbe in tutte le classi di età:
la popolazione della Nigeria, più che doppia di quella della Germania nel
2015, nel 2050 sarebbe di otto volte più numerosa. A quest’ultima data, l’età
media dei tedeschi sarebbe di 54 anni, quella dei nigeriani di 17. Qualsiasi
modello di sviluppo si applicasse a questi due casi darebbe risultati
deprimenti: un deperimento strutturale della Germania, pesantissimi oneri
del welfare, produttività in declino. Un impoverimento generalizzato per la
Nigeria e un pesantissimo aggravamento degli equilibri ambientali del
paese”. (“Il pianeta stretto”, pag. 77-78).
L’agenda degli obiettivi e dei programmi governativi post-2015 dovrebbe
pertanto affrontare due linee di riflessione e di azione. La prima è quella
tradizionale, contenuta e ribadita nei tanti documenti e nelle tante
dichiarazioni delle Nazioni Unite, che riguarda le direttive per incentivare il
controllo dei processi riproduttivi, sostenendo così il declino della natalità
dove questa è molto alta. La seconda linea riguarda una questione che fino
a oggi non era prioritaria, ed è di segno opposto: in che modo si possa
evitare un’ulteriore caduta della natalità nelle regioni dove questa è già
molto bassa, come evitare che questi processi si estendano ad altri paesi e,
infine, quali siano le azioni per rendere possibile una ripresa.
La transizione dall’alta alla moderata fecondità sembra un’operazione più
facile poiché essa è legata a fattori abbastanza ben conosciuti e controllabili.
Più complicato sembra invece operare per fare aumentare le nascite: nei
paesi caratterizzati da una scarsa natalità lo Stato agisce trasferendo risorse
e finanziamenti alle coppie e alle famiglie, inducendole così ad avere più
figli. È necessario infatti risolvere il conflitto tra le esternalità negative,
prodotte dalla bassa fecondità, e i benefici economici che si creano per i
genitori nell’avere un figlio anziché due o due figli invece di tre. I
trasferimenti pubblici alle famiglie potrebbero, sì, riequilibrare la bilancia
costi-benefici, ma con ingenti uscite per le finanze statali, difficili da
sostenersi in un’epoca di contenimento della spesa pubblica.

Conclusioni
L’approccio di Livi Bacci è improntato a un ragionevole ottimismo.
L’umanità, sostiene lo studioso, possiede regolare e adattare i propri
comportamenti al mutare delle circostanze.
La questione dell’affollamento del pianeta può però essere valutata da due
filosofie opposte. La prima ritiene la crescita demografica un fattore
importante ma poco influente sullo sviluppo sociale, politico ed economico.
La seconda, al contrario, la identifica come un processo pericoloso che
alimenta il permanente conflitto tra popolazione e risorse.
Coloro che sminuiscono la portata del fenomeno demografico sostengono
che il mondo si avvii alla fine “della demografia”, cioè a un equilibrio
stazionario che si diffonderà completamente attraverso la globalizzazione,
vista come livellatrice dei comportamenti sociali e demografici.
Questa ipotesi appare però poco realistica dato che la globalizzazione ha
portato fino ad oggi ad un aumento delle disuguaglianze tra i Paesi.
La geodemografia ha subito e continuerà a subire profondi mutamenti
decisivi per l’ordine mondiale: dal “rimpicciolirsi” dell’Europa, al
“giganteggiare” dell’Africa, fino al all’indebolimento demografico della Cina.
La geopolitica dipende dalla demografia e allo stesso modo la “potenza” di
una nazione è misurata dal numero dei suoi abitanti, oltre che dalla forza
economica e militare.
Lo sviluppo che le società occidentali hanno vissuto e stanno tuttora
vivendo secondo Bacci “ha moltiplicato per dieci le disponibilità economiche
pro capite della popolazione mondiale, per sette la popolazione, e per due o
tre il numero dei disgraziati”.
In questo scenario si collocano questioni e problemi di natura demografica
che pregiudicano quindi lo sviluppo e la sua sostenibilità, l’ordine politico, i
rapporti tra paesi. Problemi che possono essere attenuati, se non risolti, da
adeguate politiche sociali messe in atto dai governi, e sostenute dalla
comunità internazionale.
Tra questi troviamo la scarsa fecondità, incentivabile attraverso riforme a
favore delle famiglie più numerose, e la eccessiva riproduttività, controllabile
tramite programmi di pianificazione non coercitivi e la diffusione dei mezzi
contraccettivi; la cosiddetta “trappola malthusiana” che impedisce lo
sviluppo alle popolazioni travagliate da fame, povertà e patologie infettive
risolvibile con l’aiuto esterno dei Paesi più ricchi attraverso il trasferimento
di nuove tecnologie; l’eccessiva antropizzazione degli spazi liberi,
l’urbanizzazione senza regole e le migrazioni incontrollate, domabile solo
con l’istituzione di un ente sovranazionale.
In alcuni casi le ricette sono ben sperimentate, mancano semmai la volontà
e la capacità politica, o le risorse, per attuarle.

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