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Il Bilancio di Esercizio fornisce una rappresentazione dei risultati dell’impresa almeno sotto tre differenti
prospettive: (i) quella patrimoniale, nell’omonimo documento, che riporta la consistenza delle risorse di cui
dispone l’impresa e, come contropartita, la presenza di diritti su queste vantati dagli azioni o dai “terzi”; (ii)
quella economica, che riassume per competenza di esercizio il risultato “reale” dell’attività dell’impresa e
sulla base della quale si giunge alla determinazione dell’Utile Netto di Esercizio; (iii) ed infine quella
finanziaria, che invece rappresenta il bilancio dei flussi di liquidità in ingresso ed in uscita nel periodo.
Le tre prospettive sono fra di loro fortemente interrelate ma in realtà forniscono ciascuna solo una parte
dell’informazione e prese separatamente non sono in grado di offrire una visione d’assieme che sia in grado
di valutare la performance dell’impresa. Allo stesso modo, il loro livello di dettaglio è troppo elevato e
troppo disomogenea è la modalità di rappresentazione delle informazioni per poterle raffrontare
direttamente. Vi è in sostanza la necessità di disporre di uno strumento di analisi più “snello” che si sostanzi
come un vero e proprio “pannello di controllo” che riassuma le informazioni più rilevanti e metta in
relazione le voci del Bilancio di Esercizio più importanti. Questo strumento è rappresentato dagli indici di
bilancio, ovvero da un insieme di indicatori che misurano e monitorano le performance critiche
dell’impresa.
Prima di entrare nel dettaglio di come vengono definiti, calcolati e valutati i diversi indici è necessario fare
alcune doverose premesse.
La prima, e fondamentale, è che la valutazione ad indici è sempre una valutazione “relativa”: (i) perché è
innanzitutto “relativa” la misura, visto che per costruzione gli indicatori utilizzati per la analisi di bilancio
sono sempre il rapporto fra due grandezze, che mettono in relazione e mixano diverse voci di differenti
documenti di bilancio; (ii) perché è “relativa” la loro valutazione e interpretazione, in quanto la perfomance
dell’impresa non è mai valutata in assoluto ma sempre assumendo come termine di paragone le altre
imprese competitor (o meglio, nel gergo dell’analisi di bilancio, comparable) alle quali viene solitamente
associata (ad esempio per comunanza di settore industriale e/o di mercato di riferimento); (iii) perché
l’analisi è sempre “relativizzata”, ovvero messa in una prospettiva temporale nel tentativo di cogliere non
soltanto le performance di un unico anno (potenzialmente affette da contingenze – ad esempio una
modifica nei prezzi dei fattori produttivi o nell’andamento dei mercati finanziari – non controllabili
dall’impresa), bensì i trend più rilevanti e che – pur con tutte le cautele del caso – siano potenzialmente
indicativi dell’andamento futuro.
La seconda, connessa alle ultime due caratterizzazioni di “relatività” dell’analisi, è che la valutazione dei
diversi indici di bilancio richiede solitamente una conoscenza approfondita del settore industriale e/o del
mercato ove l’impresa opera, giacché a chi effettua l’analisi è richiesto di saper individuare sia i corretti
punti di riferimento, ovvero le imprese comparable contro le quali testare la performance dell’impresa, sia
di saper cogliere nei trend osservati dei razionali che vanno al di là della specifica impresa e possono essere
invece ricondotti a fenomeni (oltre a quelli già citati prima si pensi a modifiche del contesto normativo o
politico in talune aree geografiche del mondo) che hanno interessato o interessano nella sua globalità il
contesto in cui essa opera. Una analisi puramente “matematica” è assai poco interessante e rischia
paradossalmente di essere foriera di interpretazioni errate.
La terza, ancora connessa alla precedente, è che il calcolo degli indici è sempre “imperfetto” perché diverse
sono le variabili in gioco ed il loro impatto “numerico” sul calcolo degli indici. Imprese “identiche” nella
sostanza ma che abbiano adottato ad esempio politiche di ammortamento differenti, oppure modalità di
contabilizzazione diverse per le poste di bilancio (si pensi alla contrapposizione già vista fra modello del
costo e modello del fair value per gli immobili, impianti e macchinari) appariranno diversissime nella
rappresentazione degli indici di bilancio. Analogamente, imprese comparable che operino – ma con “pesi”
diversi – in un numero di mercati geografici, saranno soggette a oscillazioni valutarie o a fenomeni inflattivi
significativamente differenti ed ancora una volta questo andrà ad incidere sul calcolo degli indicatori e sui
trend che possono essere osservati. Addirittura, imprese appartenenti a Paesi diversi – si pensi ad una
comparazione come è naturale fare nei settori “globali” dell’energia o dell’ICT fra imprese americane,
asiatiche ed europee – possono essere soggette a standard contabili differenti, ovvero a diverse modalità di
iscrizione e contabilizzazione delle poste di bilancio. La “correzione” di queste distorsioni risulta
praticamente impossibile e, nella maggior parte dei casi, anche inutile.
La quarta premessa – che risponde al dubbio sollevato dalla precedente – è che l’analisi ad indici va
correttamente interpretata come uno strumento che più che fornire delle risposte indica – e da qui
l’immagine di “pannello di controllo” utilizzata all’inizio – quali sono le performance dove l’impresa è
superiore ai suoi comparable e quelle ove la sua posizione è a rischio. In altre parole, quali sono le aree
dove intervenire e approfondire l’analisi, questa volta usando gli strumenti tipici dell’organizzazione e
gestione d’impresa.
Va infine sottolineato che, sebbene vi siano indicatori ormai divenuti di uso corrente ed estremamente
diffusi, non esiste uno schema standard di analisi universalmente riconosciuto (nemmeno a livello europeo)
ed anche gli acronimi e le definizioni utilizzate possono a volte differire. E’ buona norma quindi per il lettore
prestare particolare attenzione qualora si prenda a riferimento una analisi svolta da altri.
L’analisi ad indici – che come visto deve essere inter-periodale (ovvero coprire un orizzonte temporale che
solitamente comprende 3 o 5 esercizi contabili) e inter-aziendale (ovvero prendere a riferimento un certo
numero di imprese, almeno 5, comparable) – riprende poi la triplice prospettiva vista all’inizio. Si parla
infatti di:
analisi reddituale, per identificare quel sotto insieme di indicatori che valuta la performance
dell’impresa sotto il profilo della capacità di generare utile;
analisi di liquidità, per quegli indicatori che valutano la capacità dell’impresa di “generare” liquidità
in misura sufficiente a sostenere la sua crescita e a far fronte agli obblighi che si è assunta nei
confronti dei Terzi;
analisi patrimoniale, con l’obiettivo di verificare le caratteristiche – di solidità ma anche di
flessibilità – del capitale del quale l’impresa può disporre per sostenere la sua attività.
Analisi reddituale
L’indicatore principe dell’analisi reddituale è il ROE (Return on Equity) che misura la remunerazione
percentuale del capitale messo in gioco dagli azionisti garantita dal risultato dell’esercizio, secondo la
formula:
Utile netto
𝑅𝑂𝐸 =
Patrimonio netto
Il ROE offre una prima ed immediata indicazione della performance dell’impresa per i suoi azionisti ed in
quanto tale permette un rapido confronto con i comparable (è importante rammentare qui che la
redditività per gli azionisti è uno, anche se non il solo, dei parametri sulla base del quale si formano le
aspettative e quindi ad esempio il prezzo di mercato di una azione di una impresa quotata). Nonostante
questo, esso non è sufficiente da solo a qualificare la capacità reddituale dell’impresa. E’ necessario infatti
porsi la domanda di quali “macro-componenti” fra quelle che compongono la struttura del Conto
Economico, ovvero: (i) la componente operativa, ovvero quella che ha come risultato finale l’Utile
Operativo e che rappresenta la sintesi dell’attività core dell’impresa di vendita di prodotti/servizi e dei
relativi costi di realizzazione; (ii) la componente finanziaria – immediatamente successiva nel Conto
Economico – e che tiene conto dei ricavi e dei costi associati alle fonti di finanziamento, da un lato, e di
investimento in attività finanziarie, dall’altro, dell’impresa e giunge sino all’Utile lordo da attività in
funzionamento; (iii) la componente fiscale e “discontinua”, che comprende da ultima gli effetti dovuti
all’imposizione fiscale e all’eventuale presenza di discontinued operations e arriva sino all’Utile Netto di
esercizio.
Ognuna di queste tre componenti ha un indicatore dedicato.
Il ROI (Return on Investment) misura la capacità dell’impresa di generare profitto operativo con le risorse di
cui dispone ed è la migliore proxy a disposizione nell’analisi del Bilancio dell’efficienza complessiva
dell’attività core dell’impresa. Nella sua formulazione, infatti, riportata di seguito, il ROI rapporta l’Utile
Operativo alla somma fra il Patrimonio Netto ed i Mezzi di Terzi, ossia il capitale complessivamente
“investito” nell’impresa. Per l’eguaglianza ben nota fra le due opposte colonne dello Stato Patrimoniale
questo equivale a rapportare il profitto operativo al totale delle Attività dell’impresa.
L’indice r (Costo Medio Netto del Capitale di Terzi) misura, invece, l’impatto della struttura di
finanziamento dell’impresa al “netto” dei proventi finanziari che questa è in grado di generare con la
propria attività, secondo la formula:
Bisogna tuttavia prestare attenzione all’interpretazione che si fornisce di questo indice. Un valore di r
comparabilmente minore per l’impresa rispetto ai suoi comparable può essere infatti spiegata – a parità di
Mezzi di Terzi – con una maggiore capacità della stessa di negoziare condizioni “favorevoli” per il denaro
preso a prestito e/o di proporre al mercato tassi di ritorno inferiori alla media per l’emissioni di
© 2015 MIP - Politecnico di Milano | Davide Chiaroni 3
[AMMINISTRAZIONE E BILANCIO] Manuale Operativo
obbligazioni, ossia di agire sulla componente “oneri finanziari”, o alternativamente una più significativa
attività finanziaria con una maggiore componente del profitto complessivo dovuta ai proventi finanziari.
Entrambe le strade sono ovviamente percorribili, ma giova sottolineare come la seconda implichi
generalmente una maggiore rischiosità dell’impresa, dovuta alla sua esposizione alla volatilità dei mercati e
degli strumenti finanziari.
Da ultimo, l’indice s – che a differenza dei precedenti è usualmente calcolato come valore assoluto e non
percentuale – rapporta l’Utile Netto all’Utile Lordo da Attività in Funzionamento e dà evidenza dell’effetto
delle imposte e, qualora ve ne siano, dell’eventuale effetto “distorcente” sul profitto dell’impresa dovuto
ad operazioni di cessioni straordinarie di asset.
Utile netto
𝑠=
Utile lordo da Attività in Funzionamento
ROI, r e s permettono quindi di investigare – ricordando sempre che l’analisi inter-periodale e inter-
aziendale coglie gli andamenti differenziali fra imprese comparable – il “peso” delle differenti componenti
del profitto per gli azionisti. Poiché però il calcolo del ROE è chiaramente affetto anche dal denominatore
che compare nella formula, ossia il Patrimonio Netto, è opportuno anche investigare quanto quest’ultimo
“pesi” sul capitale complessivamente a disposizione dell’impresa. A questo scopo, si è soliti calcolare il
cosiddetto rapporto di leva (o leverage nella terminologia anglosassone), con la seguente formula:
𝑀𝑇 Mezzi di Terzi
𝑜 𝐷/𝐸 =
𝐸 Patrimonio netto
E’ infatti evidente che gli azionisti si appropriano non soltanto della quota di utile generato sul capitale di
loro pertinenza, ma anche sull’extra valore (ossia la differenza fra il rendimento ottenuto attraverso
l’investimento nell’impresa ed il costo della sua disponibilità) che sono in grado di creare con il capitale
preso a prestito o comunque messo a disposizione dai Terzi. Questo fenomeno è noto sotto il nome di leva
finanziaria ed è rappresentato dalla formula seguente:
MT
𝑅𝑂𝐸 = [ROI + × (ROI − r)] × s
E
Come si vede, maggiore è l’indebitamento dell’impresa (ovvero il rapporto MT/E) e maggiore è l’effetto di
“amplificazione” che si osserva sul ROE rispetto al ROI, giacché sul capitale preso dai Terzi gli azionisti sono
in grado di “ritenere” la differenza fra ROI e r. Ancora una volta, tuttavia, l’interpretazione “matematica”
può essere fuorviante. Le diverse grandezze sono fra di loro fortemente interrelate: (i) un incremento del
livello di indebitamento porta con sé inevitabilmente un aumento della rischiosità percepita dai finanziatori
nei riguardi dell’impresa; (ii) questa maggiore rischiosità di traduce in una crescita del tasso di
remunerazione del capitale di debito richiesto appunto all’impresa, con un inevitabile impatto in un
peggioramento (ovvero in una risalita) dell’indice r; (iii) nel caso in cui la crescita di r sia tale da più che
eguagliare il ROI, l’effetto complessivo che si ottiene è una riduzione, anziché un aumento del ROE (giacché
gli azionisti sarebbero chiamati a retrocedere ai fornitori di Mezzi di Terzi un rendimento superiore a quello
che l’impresa è in grado di generare internamente). Va poi ricordato che maggiore è il livello di
indebitamento – come si vedrà meglio anche più avanti – minore è la “flessibilità” che l’impresa ha
nell’effettuare nuovi investimenti ed anche questo, per lo meno nel medio termine, può impattare
negativamente sulla sua efficienza (e quindi sul ROI).
Un esempio di analisi, sulla base dei dati riportati nella tabella seguente, può chiarire
numericamente questi aspetti.
Impresa A Impresa B
ROE 8% 8%
ROI 6% 3%
r 4,4% 1,3%
MT/E 1,25 2
s 1 1,25
Come si vede a parità di ROE, l’impresa A e l’impresa B hanno una diversa composizione degli
indicatori di redditività. In particolare, la prima impresa ha una efficienza complessiva “doppia”
nell’attività core rispetto alla seconda, che invece è molto più indebitata (e perciò più rischiosa) ed
ha beneficiato in misura maggiore di componenti straordinarie di reddito. La differenza relativa
all’indice r andrebbe approfondita andando ad analizzare le singole voci di bilancio per comprendere
se essa deve essere imputata ad esempio ad una maggiore capacità del’impresa B di negoziare
condizioni favorevoli per i propri debiti finanziari oppure ad un suo maggior ricorso ad investimenti
di natura finanziaria.
Il ROS (Return on Sales) misura più specificatamente la marginalità percentuale sul fatturato. Letto “al
contrario” è un indicatore della efficienza produttiva in senso lato dell’impresa, giacché minori sono i costi
operativi in percentuale sul fatturato, maggiore è il valore di questo indice. Qualora la delicatezza
dell’analisi lo richieda è possibile spingersi ancora oltre nell’analizzare – con quella che va sotto il nome di
analisi verticale – il “peso” relativo delle diverse componenti di costo. Preso a 100 l’ammontare
complessivo dei costi operativi è possibile ad esempio evidenziare, come nella tabella seguente, il peso
relativo di componenti quali: (i) il costo del lavoro; (ii) gli ammortamenti; (iii) gli acquisti di materie prime e
servizi. In tal modo è possibile valutare, da un lato, la rigidità della struttura di costo (si pensi ad esempio
alla componente ammortamenti o al costo del lavoro in una realtà caratterizzata da personale per la
maggior parte assunto con contratti a tempo indeterminato) e, dall’altro lato, l’esposizione del profitto
operativo dell’impresa a dinamiche esogene (si pensi per esempio ad una impresa che abbia oltre il 50% dei
suoi costi legati all’acquisto di materie prime estremamente “volatili” come ad esempio il petrolio).
Il ROT (o indice di rotazione) misura invece la capacità dell’impresa di generare ricavi (con una espressione
comune “volume d’affari”) comparabilmente alla sua “scala” di risorse, identificata appunto dal Totale
Attività. Per talune imprese può essere interessante verificare la rotazione di alcune poste particolari
dell’Attivo di Stato Patrimoniale, quali ad esempio:
Ricavi
𝑅𝑜𝑡. 𝑆𝑐𝑜𝑟𝑡𝑒 =
Rimanenze
- i crediti commerciali, misurando – con un piccolo artificio matematico – il tempo medio in cui i clienti
dell’impresa saldano i prodotti/servizi che hanno acquistato;
Crediti commerciali
𝑇𝑒𝑚𝑝𝑜 𝑚𝑒𝑑𝑖𝑜 𝑐𝑟𝑒𝑑𝑖𝑡𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑚𝑒𝑟𝑐𝑖𝑎𝑙𝑖 = × 365
Ricavi
- gli immobili, impianti e macchinari, considerando quindi il rapporto “stretto” fra la generazione di ricavi e
la disponibilità reale di infrastrutture produttive.
Ricavi
𝑅𝑜𝑡. 𝐴𝑡𝑡𝑖𝑣𝑖𝑡à 𝑚𝑎𝑡𝑒𝑟𝑖𝑎𝑙𝑖 =
Immobili, impianti e macchinari
Analisi di liquidità
Obiettivo dell’analisi di liquidità è quello di verificare la capacità dell’impresa di far fronte agli impegni
assunti nei confronti dei Terzi (ad esempio l pagamento dei fornitori e/o dei debiti verso le banche in
scadenza) con la liquidità di cui già dispone come risultato della sua “storia” (riportata fra le Attività
Correnti dello Stato Patrimoniale) e/o di quella che è in grado di generare annualmente (che invece si trova
nel Rendiconto Finanziario).
L’analisi di liquidità si divide solitamente in due parti. La prima, che assume un orizzonte di breve periodo, e
in una sorta di stress test verifica che le Attività Correnti – ossia quelle liquide o comunque, come nel caso
delle Rimanenze, trasformabili rapidamente in liquidità – possano far fronte alle Passività Correnti, ossia
alle “promesse di pagamento” in scadenza nel corso dell’esercizio successivo a quello di cui si sta facendo
l’analisi.
Attività Correnti
𝑅𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝐶𝑜𝑟𝑟𝑒𝑛𝑡𝑒 (𝑅𝐶) =
Passività Correnti
Un Rapporto Corrente superiore all’unità indica che l’impresa – anche nella remota eventualità di non
avere ulteriori flussi di cassa dalla sua attività nel corso dell’esercizio successivo – sarà comunque in grado
di onorare gli impegni già comunque assunto nei confronti dei creditori. Situazioni in cui il Rapporto
Corrente sia significativamente inferiore all’unità sono invece da considerarsi come “critiche” giacché
possono indicare una necessità per l’impresa di indebitarsi ulteriormente nel breve periodo per superare
una crisi di liquidità.
Nel lungo periodo, invece, si misura solitamente l’indice di equilibrio finanziario come rapporto fra la
Flusso di Cassa della Gestione Operativa con e l’indebitamento “non corrente” dell’impresa secondo la
formula:
Letta all’inverso, la formula dell’equilibrio finanziario è indice di quanti “anni-cassa” sarebbero necessari –
nell’ipotesi che la capacità dell’impresa di generare liquidità con la sua attività core rimanga costante nel
tempo – per ripagare i debiti contratti dall’impresa. In questo caso il termine di paragone adeguato per la
verifica dell’esistenza di problemi di liquidità è, da un lato, il confronto con i comparable e, dall’altro lato,
l’analisi – possibile attraverso le Note al Bilancio d’Esercizio – della durata media dei debiti di lungo periodo
accesi dall’impresa.
Analisi patrimoniale
Gli indici di solidità patrimoniale hanno l’obiettivo di verificare il “peso” delle diverse componenti del
patrimonio dell’impresa con particolare attenzione a due aspetti:
- l’autonomia finanziaria ossia il rapporto – solitamente misurato in termini assoluti – fra il Patrimonio
Netto e il Totale Passività, come indicato nella formula
Patrimonio Netto
𝐴𝑢𝑡𝑜𝑛𝑜𝑚𝑖𝑎 𝐹𝑖𝑛𝑎𝑛𝑧𝑖𝑎𝑟𝑖𝑎 (𝐴𝑓 ) =
Totale Passività
Per certi versi molto simile al già citato rapporto di leva l’indice di autonomia finanziaria rappresenta la
quota parte del capitale investito che è finanziati dagli azionisti. Come tale, quindi, questa può essere
utilizzata dall’impresa liberamente (ossia in maniera “autonoma”), giacché non vi è la necessità di
prevedere una remunerazione esplicita di questo capitale e tantomeno vi sono termini di restituzione
predefiniti, come invece generalmente accade per i Mezzi di Terzi.
- l’elasticità ai finanziamenti, che invece misura la quota parte del capitale investito che, in quanto
costituito da Passività Correnti può essere rinegoziata dall’impresa (in termini di ammontare complessivo
e/o condizioni di remunerazione) nel breve periodo, contrapponendola quindi agli obblighi che l’impresa si
è assunta nel medio e lungo periodo. La formula dell’indice di elasticità ai finanziamenti è riportata di
seguito:
Passività Correnti
𝐸𝑙𝑎𝑠𝑡𝑖𝑐𝑖𝑡à 𝑎𝑖 𝑓𝑖𝑛𝑎𝑛𝑧𝑖𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 (𝐸𝑓 ) =
Totale Passività
La tabella seguente riporta un esempio di analisi di liquidità e patrimoniale per una impresa lungo
tre anni.
L'impresa si trova ad avere un forte eccesso di liquidità nel breve periodo ed una situazione che non
desta però particolari preoccupazioni nel medio-lungo periodo.
Resta da approfondire se la carenza di investimenti (ovvero la sproporzione fra attività e passività
correnti) è da imputarsi ad una fase di rifocalizzazione delle continuing operations (cessione di asset
e "accumulo" di risorse per effettuare futuri investimenti), oppure ad una fase "di stallo"
dell'impresa, che si trova nella incapacità di elaborare piani di lungo termine.
Dal punto di vista della solidità patrimoniale si può osservare come l'autonomia finanziaria
dell'impresa aumenti nel corso del periodo considerato, probabilmente a causa di un aumento di
capitale che le ha permesso di ripagare debiti contratti nel passato e di sostituire con mezzi propri (e
quindi più flessibili) i mezzi di terzi. Tale riduzione dell'indebitamento è anche la possibile causa della
riduzione dell'elasticità ai finanziamenti. L'impresa ha poca possibilità "negoziale" in merito alle
passività correnti, ma è altrettanto vero che il suo capitale è costituito per la maggior parte da
Patrimonio Netto (che non prevede condizioni esplicite di remunerazione, in termini di tempi e di
ammontare) e che quindi tale "negoziabilità" non ha grande pregio nell'attuale condizione.
Nei paragrafi precedenti si sono discussi i principali indici – selezionati fra i numerosi disponibili in
letteratura – correntemente utilizzati nella analisi del Bilancio di Esercizio delle imprese. Ciascun indice
misura una componente della performance complessiva dell’imprese e permette – attraverso i meccanismi
di comparazione più volte citati – di verificarne i principali trend. Oltre ai limiti citati nelle premesse con cui
si è aperto il paragrafo precedente, tuttavia, è necessario qui richiamare il fatto che non esiste un indice
“sintetico” che possa riassumere complessivamente l’analisi ed è quindi sempre lasciato all’interpretazione
di chi la conduce il fornire una “visione d’assieme” della performance dell’impresa, con i “pesi” dei diversi
indici che cambiano anche significativamente in funzione del settore industriale di appartenenza e del
contesto. Nonostante questo, l’analisi ad indici è uno strumento di indagine estremamente interessante: (i)
per gli analisti finanziari e d’impresa che, per suo tramite, possono avere un quadro “sfaccettato” ma
“sintetico” di quelli che vengono correntemente chiamati i fondamentali, ossia le determinanti di base della
performance dell’impresa; (ii) per i manager, che possono trarvi una ulteriore indicazione,anche se a livello
molto “aggregato”, di quali sono i punti di forza e debolezza rispetto ai comparable sui quali lavorare per
rafforzare il posizionamento competitivo dell’impresa.
Si riporta di seguito una tabella tipo per la raccolta dati e successiva elaborazione per l’analisi ad indici.
Analisi reddituale
Utile netto
𝑅𝑂𝐸 =
Patrimonio netto
𝑀𝑇 Mezzi di Terzi
𝑜 𝐷/𝐸 =
𝐸 Patrimonio netto
Analisi di liquidità
Attività Correnti
𝑅𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝐶𝑜𝑟𝑟𝑒𝑛𝑡𝑒 (𝑅𝐶) =
Passività Correnti
Patrimonio Netto
𝐴𝑢𝑡𝑜𝑛𝑜𝑚𝑖𝑎 𝐹𝑖𝑛𝑎𝑛𝑧𝑖𝑎𝑟𝑖𝑎 (𝐴𝑓 ) =
Totale Passività
Passività Correnti
𝐸𝑙𝑎𝑠𝑡𝑖𝑐𝑖𝑡à 𝑎𝑖 𝑓𝑖𝑛𝑎𝑛𝑧𝑖𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 (𝐸𝑓 ) =
Totale Passività
ROE
70%
GDF
60% EDF
50% E.On
40% Enel
30% Iberdrola
RWE
20%
National Grid
10%
Fortum
0%
AVERAGE
2007 2008 2009 2010
ROI
12%
10% GDF
EDF
8% E.On
Enel
6%
Iberdrola
RWE
4%
National Grid
2% Fortum
AVERAGE
0%
2007 2008 2009 2010
Rapporto Corrente
2,00
1,80 GDF
1,60 EDF
1,40 E.On
1,20 Enel
1,00
Iberdrola
0,80
RWE
0,60
0,40 National Grid
0,20 Fortum
- AVERAGE
2007 2008 2009 2010
Solidità patrimoniale
120%
100%
80%
Passività
Current correnti
liabilities
60%
Passività
Non currentnon correnti
liabilities
40%
Patrimonio netto
Equity
20%
0%
GDF EDF E.On Enel Iberdrola RWE National Fortum
Grid
𝐶𝑎𝑝𝑖𝑡𝑎𝑙𝑒 𝑐𝑖𝑟𝑐𝑜𝑙𝑎𝑛𝑡𝑒
= 𝑅𝑖𝑚𝑎𝑛𝑒𝑛𝑧𝑒 + 𝐿𝑎𝑣𝑜𝑟𝑖 𝑖𝑛 𝑐𝑜𝑟𝑠𝑜 𝑠𝑢 𝑜𝑟𝑑𝑖𝑛𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 + 𝐶𝑟𝑒𝑑𝑖𝑡𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑚𝑒𝑟𝑐𝑖𝑎𝑙𝑖
− 𝐷𝑒𝑏𝑖𝑡𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑚𝑒𝑟𝑐𝑖𝑎𝑙𝑖
Le prime tre voci, infatti, rappresentano (con qualche eccezione legata alle già discusse convenzioni
contabili circa il trattamento dell’ammortamento) l’ammontare di risorse liquide “in uscita”
dall’impresa per mantenere il proprio magazzino e per sostenere la propria attività, mentre i “debiti
commerciali” (che rappresentano appunto la quota di materie prime e servizi acquisti ma non
ancora pagati) sono una sorta di “prestito” che l’impresa riceve dai propri fornitori.
Una impresa che ha in corso la realizzazione di una infrastruttura per conto di un cliente per la quale
ha sostenuto costi (al netto degli anticipi ricevuti) per 500.000 € e che abbia rimanenze di magazzino
relative a consumable per 40.000 € e debiti commerciali di 100.000 €, avrà un capitale circolante pari
a 500.000 € + 40.000 € - 100.000 € = 440.000 €
In altre parole per continuare a funzionare l’impresa deve mettere a disposizione liquidità per
440.000 €, in assenza della quale la sua attività non può ovviamente avere luogo.
Il capitale circolante netto è spesso “normalizzato” per renderlo comparabile fra imprese diverse
prevenendo come termine di paragone i “ricavi” che costituiscono quindi il riferimento per
l’indicatore
𝐶𝑎𝑝𝑖𝑡𝑎𝑙𝑒 𝑐𝑖𝑟𝑐𝑜𝑙𝑎𝑛𝑡𝑒
𝐶𝑎𝑝𝑖𝑡𝑎𝑙𝑒 𝑐𝑖𝑟𝑐𝑜𝑙𝑎𝑛𝑡𝑒 "𝑛𝑜𝑟𝑚𝑎𝑙𝑖𝑧𝑧𝑎𝑡𝑜" =
𝑅𝑖𝑐𝑎𝑣𝑖
(dall’articolo “L'ottimizzazione del Capitale Circolante” a cura di Roland Berger – agosto 2009)
Far ruotare più rapidamente il magazzino, ridurre i tempi di riscossione dei crediti, tenere sotto
controllo i pagamenti. In una parola ottimizzare il Capitale Circolante Netto (CCN). Esigenza spesso
trascurata dalle aziende. Un lusso che in tempi di crisi non è più lecito concedersi. Anche perché il
CCN rappresenta in media il 30% degli asset aziendali.
Che si tratti di una leva poco utilizzata dalle imprese, di qualunque dimensione, e proprio per questo
di fondamentale rilievo, è dimostrato dai risultati, per molti versi sorprendenti, di un approfondito
studio internazionale condotto da Roland Berger Strategy Consultants sulle performances finanziarie
di un campione di 400 grandi aziende e 400 piccole e medie imprese.
Uno dei comuni denominatori delle aziende più performanti, circa il 25% del totale, è rappresentato
proprio da un’efficienza per ciascuna delle tre componenti del Capitale Circolante Netto (frutto della
differenza tra riserve di magazzino, crediti e debiti commerciali) di almeno il 20% superiore rispetto
alla media delle aziende del campione. Una media che vede 48 giorni per la rotazione del magazzino,
57 giorni per l’incasso dei crediti commerciali e 40 giorni per i pagamenti.
Valori che nel caso delle aziende più attente all’ottimizzazione del Capitale Circolante si riducono a
35 giorni per la rotazione del magazzino, a 44 per la riscossione dei crediti e si dilatano a 48 giorni
per i pagamenti.
Un vantaggio competitivo fondamentale in una fase di crisi economica che annovera, tra le
principali conseguenze per le aziende, proprio l’aumento delle riserve di magazzino e delle
insolvenze sui crediti commerciali.
Una gestione ottimale del CCN consente all’azienda di mettersi meglio al riparo dalla congiuntura
negativa e di assicurarsi riserve di liquidità per puntare ad una crescita profittevole e ad un
incremento della propria flessibilità. La trasformazione del capitale vincolato in disponibilità liquide
e la maggiore produttività del capitale investito peraltro incidono positivamente sulle
performance e sui covenant valutati dalle banche per la concessione del credito. […] Dedicare
correttamente attenzione dunque all’ottimizzazione del Capitale Circolante Netto significa innescare
un circolo virtuoso per le aziende: che si traduce da una parte generando risorse liquide e dall'altra
in un miglioramento del livello di servizio offerto.
dall’altro lato la posizione finanziaria netta, che invece indica la reale esposizione
all’indebitamento ed è calcolata come
In altre parole la PFN misura l’ammontare di denaro per cui l’impresa è realmente esposta nei
confronti delle banche e dei finanziatori “onerosi” e quindi è un indicatore molto importante del
“rischio” ad essa associato. Più è elevata la PFN più l’impresa dovrà fare attenzione a mantenere un
sufficiente livello di liquidità e sarà quindi potenzialmente più colpita in periodi di crisi; viceversa,
minore è la PFN (o addirittura se assume valori negativi) maggiore sarà la flessibilità dell’impresa
nell’accedere a nuova liquidità o nell’effettuare investimenti.
Una impresa che ha debiti finanziari per 1.000.000 €, disponibilità liquide pari a 120.000 € e
investimenti finanziari di breve termine per altri 200.000 €, avrà una PFN pari a 1.000.000 € -
120.000 € - 200.000 € = 680.000 €
In altre parole la parte di indebitamento che non ha una copertura immediatamente disponibile
nella liquidità dell’impresa è pari a 680.000 €.
A questo proposito spesso anche la posizione finanziaria netta viene “normalizzata” con il totale
delle attività (per dare una misura del “peso” del debito “reale” rispetto al totale delle risorse
dell’impresa)
𝑃𝐹𝑁
𝑃𝐹𝑁 "𝑛𝑜𝑟𝑚𝑎𝑙𝑖𝑧𝑧𝑎𝑡𝑎" =
𝑇𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒 𝑎𝑡𝑡𝑖𝑣𝑖𝑡à
Il Nuovo Accordo sui requisiti minimi di capitale, meglio noto come Basilea 2, è stato firmato nel
2004 dal Comitato di Basilea – organizzazione internazionale istituita dai governatori delle Banche
Centrali dei dieci paesi più industrializzati alla fine del 1974 – ed è entrato in vigore nel 2007 (e
successivamente parzialmente modificato nel 2008 e nel 2009) in sostituzione del precedente
accordo del 1988. Basilea II è uno strumento di vigilanza prudenziale, riguardante le quote di
capitale (riserve patrimoniali) che le banche devono accantonare per sostenere la loro attività e
che devono essere proporzionate al rischio assunto. Il 12 settembre 2010, anche a seguito della
crisi economica, è stata approvata una nuova versione dell’accordo – Basilea 3 – che contiene
condizioni ancora più restrittive e di rafforzamento dei patrimoni delle banche e che tuttavia non
entreranno in vigore prima del 2013.
La Posizione Finanziaria Netta rientra fra i parametri con cui le banche sono chiamate a valutare il
rating dei clienti.
In realtà, al pari di altre azioni di monitoraggio e analisi, il controllo del capitale circolante e della posizione
finanziaria netta meritano un'attenzione particolare per l'influenza che hanno sulla dinamica finanziaria.
Le variabili più importanti che li influenzano sono:
la stagionalità, ci sono aziende che convivono con situazioni che vedono una distribuzione
omogenea degli acquisti durante l'anno e, di contro, una concentrazione delle vendite solo in alcuni
periodi dell'anno, oppure è anche vero il contrario cioè una distribuzione omogenea delle vendite
durante l'anno ed una concentrazione degli acquisti in alcuni momenti dell'anno;
il costo del capitale, con la scelta a fare o non fare investimenti in capitale circolante che dipende
anche in maniera significativa dal costo medio del capitale a prestito reperito sul mercato. Un basso
costo del capitale induce ad incrementare il circolante, un alto costo del capitale contrae
l'investimento in circolante. In maniera circolare, come visto, l’entità del capitale circolante e della
posizione finanziaria netta diventano indicatori del “merito di credito” usati dalle banche per
valutare la solvibilità dell’impresa e quindi per definire le condizioni a cui eventualmente prestarle
del denaro ;
l'andamento del fatturato, che è quasi sempre correlato a quello del capitale circolante. Del resto è
alquanto intuitivo pensare a situazioni nelle quali un incremento del fatturato spinga l'azienda ad
avere una maggiore necessità di fabbisogno sia per venire incontro a necessità produttive, ma
anche per sostenere l'azione commerciale in espansione. Una situazione opposta a quella
dell'aumento del fatturato si configura con la diminuzione delle vendite. Anche in quest'ultimo caso
a risentirne è sicuramente il capitale circolante. La contrazione del fatturato può essere causata da
molti fattori come un prodotto che non incontra più i gusti dei clienti, un periodo di crisi
congiunturale, un aumento di competitività della concorrenza.