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Il dialogo intorno alla nostra lingua di Niccolò Machiavelli

Profa. Dra. Maria Cecilia Casini


Universidade de São Paulo
casini@usp.br

Thaís Helena Cavalcanti


Mestranda - Universidade de São Paulo
thais.cavalcanti@usp.br

Recebido em: 14/02/2014


Aceito em: 31/05/2014

Sommario: Proponiamo in questo articolo un´analisi di uno dei testi fondamentali della Questione della
lingua, il Dialogo o Discorso intorno alla nostra lingua di Niccolò Machiavelli. Il testo poco conosciuto
al grande pubblico propone una dimostrazione dell’origine fiorentina della lingua letteraria italiana,
dovuta, secondo lui, alla superiorità della lingua di Firenze rispetto a quella della altre città italiane e
giustifica il fatto che la lingua comune d’Italia debba essere chiamata fiorentina e non italiana.

Parole chiave: Machiavelli. Questione della Lingua. Lingua italiana.

Dialogue or Speech about our language by Niccolò Machiavelli

Abstract: We propose in this article an analysis of one of the fundamental texts of Questione della
lingua, Niccolò Machiavelli's Dialogue or Speech about our language. The text, unknown to the
general public, demonstrates the Florentine origin of literary Italian language, which he maintains is
due to the superiority of the language of Florence over that of other Italian cities and in which he
proposes that the common language of Italy should be called Florentine rather than Italian.

Keywords: Machiavelli. Questione della lingua. Italian Language.

In-Traduções, ISSN 2176-7904, Florianópolis, v. 6, n. 10, p. 53-62, jan./jun. 2014.


Fuori dall’ambito degli specialisti sono pochi a sapere che Niccolò Machiavelli
(Firenze, 1469-1527), famoso internazionalmente per Il Principe (1513) e per altre
opere di storiografia politica, è autore anche di un testo sulla questione della lingua
nell’Italia dell’epoca, conosciuto come Dialogo o Discorso intorno alla nostra lingua.
Si tratta di un breve libro in cui l'autore, a partire dalla dimostrazione dell’origine
fiorentina della lingua letteraria italiana, dovuta, secondo lui, alla superiorità della
lingua di Firenze rispetto a quella della altre città italiane, giustifica il fatto che la
lingua comune d’Italia debba essere chiamata "fiorentina" e non "italiana". Il Dialogo,
i
esposto in una lingua “vivace e brillante” e con un’acutezza di ragionamento “non
ii
comune agli altri linguai”, è particolarmente interessante perché offre al lettore un
quadro chiaro delle principali tendenze artistiche e letterarie della Firenze dell’epoca,
offrendoci il destro di parlarne anche al pubblico non specializzato. Il punto di vista
dell’autore su alcuni aspetti di un dibattito tanto complesso è così lucido e preciso
che rivitalizza i termini della questione, permettendoci di contestualizzarla in modo
particolarmente chiaro.
L’opera rimase sconosciuta fino al 1730, quanto venne ritrovata, adespota e
probabilmente anepigrafa, in un apografo di Giuliano de’ Ricci conservato presso la
Biblioteca Barberiniana di Roma. Lo scopritore, l’erudito monsignore Giovanni
Bottari, la pubblicò in appendice a L’Ercolano di Benedetto Varchi, senza indicarne
l’autore; che tuttavia, fin dall’inizio, fu riconosciuto in Machiavelli, per la presenza nel
testo di alcuni tratti stilistici distintivi, come il ragionamento argomentativo improntato
al metodo dilemmatico, l’originalità e il vigore concettuale del ragionamento, la
comprovata presenza della terminologia, della sintassi e della fraseologia
machiavelliana, attinta, qui come in altre opere, alla lingua parlata nella Firenze
contemporanea.
Il testo sarebbe stato scritto fra il 1508-1509 (data della prima rappresentazione
a Ferrara della commedia di Ludovico Ariosto, I Suppositi, citata nel Dialogo) e il
1527, l’anno della morte di Machiavelli. Il periodo più probabile è quello compreso fra
il 1514 e il 1516, poiché proprio in questi anni si sarebbe stretto particolarmente il
legame “[...] tra quella scrittura e lo svolgimento del pensiero politico di Machiavelli,
iii
all’inizio di una nuova fase della sua attività di cittadino e di scrittore”.

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Il testo, di carattere essenzialmente argomentativo, contiene una lunga parte in
forma di dialogo fra Machiavelli e niente meno che Dante Alighieri; essendo dunque
indifferentemente conosciuto col titolo di Dialogo o di Discorso, a seconda del genere
letterario al quale ogni studioso l’ha voluto associare. Personalmente preferiamo il
termine Dialogo, in diretto riferimento al modello privilegiato dagli umanisti per gli
scambi di opinioni e di esperienze reciproche, la conversazione fra pari, come
fondamento della vita civile nel Rinascimento. E anche per rendere giustizia alle
stesse parole dell’autore, che, nella meravigliosa lettera a Francesco Vettori del 10
dicembre 1513, dice di non provare alcuna vergogna, cambiate le vesti sporche di
fango usate per lavorare la terra con “panni reali e curiali”, di “[...] parlare con loro [i
iv
grandi uomini dell’antichità] e interpellarli sulla ragione delle loro azioni”.
E per quale motivo, dunque, Machiavelli non si sarebbe peritato di parlare
anche con Dante? Come risulta chiaro dalla lettura del testo, il Segretario fiorentino
non sembra minimamente intimidito nel discutere da pari a pari con il suo illustre
concittadino, impegnandolo in un dialogo lucido e veloce, pieno di effetti teatrali,
qualche volta francamente comico; né teme di metterlo alle corde, inchiodandolo con
la sua stringante argomentazione fino a fargli riconoscere di avere usato e come —
soprattutto nella Commedia— quella lingua fiorentina, così perentoriamente
v
condannata nel De Vulgari Eloquentia. Perché, come si vedrà più avanti, era
appunto l’opinione sfavorevole di Dante sul volgare di Firenze ad infiammare
particolarmente gli animi dei vari protagonisti della polemica linguistica dell’epoca.
All’inizio del XVI secolo tutta l’Italia era impegnata infatti in vivaci discussioni
linguistiche, strettamente connnesse al contesto contemporaneo e non prive di
vi
implicazioni politiche, tradizionalmente conosciute sotto il nome di Questione della
vii
lingua. Il dibattito verteva soprattutto sulla definizione del nome da attribuire alla
lingua comune d’Italia; il che rivela che in questione era il “[...] modo stesso di
viii
concepire la lingua, come bene comune o come patrimonio regionale”. Le teorie
principali erano due: la prima, che possiamo chiamare "fiorentinista", affermava la
ix x
superiorità del fiorentino per motivi "naturali" e socio-culturali, che sarebbero stati la
causa diretta della sua superiorità storica e letteraria (innanzitutto, per l’opera di
Dante, Petrarca e Boccaccio; ma anche per quella di tanti altri scrittori, come i

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cronisti e i mercanti del XIII e del XIV secolo, i poeti dello Stil Novo, gli autori del XV
secolo, sia i classicisti —Alberti, Landino, Poliziano, Lorenzo il Magnifico—, sia i più
popolari Burchiello e Pulci, ecc.) e che avrebbero determinato la precoce
"fiorentinizzazione" di tutta la lingua italiana. La seconda teoria, detta "eclettica" o
"cortigiana", considerava la lingua esistente nell’Italia del XVI secolo non (più)
particolarmente fiorentina, dato che nella sua pratica letteraria e nell’uso sociale che
se ne faceva, soprattutto nelle corti, si sarebbe arricchita di forme più nobili ed
eleganti dovute al contributo dei vari volgari d’Italia, depurati delle tracce idiomatiche
xi
più crude. Partendo da premesse tanto diverse, le due correnti proponevano due
denominazioni diverse per la lingua di tutta la penisola: la prima, "fiorentino", o
xii
"toscano"; la seconda, "italiano", o "lingua comune", o "lingua cortigiana". Senza
che, apparentemente, le differenze apparissero in qualche modo conciliabili.
Nel 1525, con la pubblicazione delle Prose della volgar lingua, il cardinale
veneziano Pietro Bembo propone una composizione del dissidio, di tipo
fondamentalmente estetico-stilistico. Prendendo come punto di partenza la tradizione
letteraria toscana del XIV secolo, e seguendo l’esempio del latino di epoca classica,
che indicava come autori di riferimento Virgilio e Cicerone, Bembo assume come
canonici due autori: Petrarca (quello del Canzoniere), per la poesia; Boccaccio
(quello della cornice del Decamerone), per la prosa (Dante viene scartato per aver
usato una lingua considerata troppo "barbara"). In poche parole, Bembo propone che
la lingua italiana si normativizzi, e giunga dunque a una sostanziale unità, a partire
da quella di questi due scrittori; solo così sarebbe stato possibile, secondo l’opinione
di Carlo Bembo, portavoce del fratello nelle Prose, raggiungere un’effettiva
omogeneizzazione e stabilizzazione della lingua italiana. Alla fine, la proposta
bembiana prevale sulle altre soprattutto per motivi di ordine pratico (l’indiscutibile
superiorità dei modelli prescelti su qualsiasi altro scrittore dell’epoca; la facilità della
divulgazione via stampa del canone prescelto, data la grande notorietà e diffusione in
tutt’Italia delle opere dei classici toscani) e politico (la fine della libertà italiana e il
clima di "normalizzazione" politica e culturale già dominante).
A prima vista, la proposta bembiana può sembrare in sintonia con la tesi
fiorentinista, e, dunque, con quella di Machiavelli. In realtà, nonostante il conclamato
riconoscimento della superiorità della lingua di Firenze, che accomuna le due teorie,

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esse sono separate da profonde e irriducibili differenze: soprattutto perché per
Bembo, diversamente da Machiavelli, il criterio decisivo per l'assunzione di un
modello linguistico valido per tutta l'Italia è quello della "letterarietà" (cioè, dell'"arte"),
xiii
e non quello del "naturalismo". La proposta fiorentino-arcaica di Bembo privilegiava
sì la lingua fiorentina, ma quella letteraria di due secoli prima, che non aveva più un
riscontro concreto, né parlato né scritto, nella vita della cinquecentesca Firenze;
dunque tale proposta era totalmente contraria alla tesi fiorentinista di Machiavelli,
che, sulla scia del progetto di egemonia politica fiorentina messo in atto nel XV
secolo da Lorenzo il Magnifico, aspirava all’espansione del fiorentino
"contemporaneo" a lingua comune italiana. Al di là di tutte le comprensibili polemiche,
il fatto che adesso, più di mezzo secolo dopo, in uno scenario politico completamente
mutato, prennunciante la fine della libertà italiana (il Sacco di Roma è del 1527;
l’assedio di Firenze del 1530), gli italiani accettino, di fatto, la tesi bembiana,
rinunciando alla possibilità di adottare una lingua viva, concreta e strettamente
connessa alla propria contemporaneità, come ancora provava a essere la lingua
fiorentina dell’inizio del XVI secolo, sembra simboleggiare anche la rinuncia alla
rivendicazione della propria autodeterminazione politica e culturale.
Ma verso i primi quindici o venti anni del XVI secolo, le contese sono ancora
ben vive e feroci. E Machiavelli, in particolare, scrive il Dialogo quasi in forma di
manifesto, o di pamphlet, per ribattere le ragioni della fazione linguistica opposta,
rafforzata all’epoca dalla circolazione negli ambienti intellettuali del dantesco De
Vulgari Eloquentia.
Il trattato, scritto in latino, era stato scoperto dall’umanista veneto Gian Giorgio
Trissino, che l’aveva tradotto in italiano appunto per consolidare la tesi
xiv
antifiorentinista. Nonostante fosse infatti opera di un autore fiorentino —anzi, dal
più grande autore fiorentino—, il De Vulgari apparentemente si prestava ad essere
usato come arma contro la testi fiorentinista; ma un’arma fragile, in verità, poiché
Trissino si era sbagliato nel considerarlo chiave di lettura della Commedia (e ciò non
sfugge a Machiavelli, che nel Dialogo dimostra aver Dante scritto il suo capolavoro in
lingua fiorentina).
Dante, nel De Vulgari Eloquentia, aveva realizzato una classifica dei vari volgari
d’Italia, con l’intento di verificare quale di essi offrisse le migliori condizioni per

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candidarsi ad essere il "volgare illustre" italiano: cioè una lingua volgare di valore
unitario per tutta l’Italia, originata dall’uso naturale che ne faceva il popolo, ma
raffinata dall’uso letterario. A tale proposito aveva aspramente criticato il fiorentino,
chiamandolo “turpiloquio” per la sua grossolanità, estromettendolo dalla disputa e
preferendogli altri volgari. Grazie dunque al De Vulgari Eloquentia, gli avversari di
Firenze potevano affermare che Dante in persona, fiorentino, si era dichiarato
contrario alla tesi della superiorità della sua stessa lingua, sostenendo anzi che la
lingua comune italiana doveva essere “curiale”, ossia legata a una corte ("curia")
linguisticamente rappresentativa di tutta l’Italia. Trissino aveva presentato il libro alle
riunioni degli Orti Oricellari (i giardini della famiglia fiorentina Rucellai), durante le
quali giovani aristocratici di idee antimedicee si incontravano per dibattere questioni
legate alla storia della Roma repubblicana e in generale di storiografia latina.
Machiavelli frequentava assiduamente tali riunioni, essendovi anzi riconosciuto, in
quanto ex-Segretario della Seconda Cancelleria della Repubblica Fiorentina (1498-
1512), come una specie di eminenza grigia dai giovani ribelli.
In tale contesto, il Dialogo deve essere quindi visto come una ferma presa di
posizione, un atto dichiarato di impegno a favore e in difesa di Firenze da parte di
Machiavelli, che lo usa per rispondere polemicamente a Trissino (citato in modo
allusivo alla fine dell’opera) e agli altri sostenitori della teoria cortigiana (Pierio
Valeriano, Mario Equicola, il Calmeta, Baldassare Castiglione, ecc). Così si spiegano
l’energia dello stile del testo e la passione dell’autore nel portare avanti il suo
ragionamento, profondamente interconnesse fra di loro. Col Dialogo, Machiavelli dà il
suo contributo diretto al dibattito sulla questione della lingua in Italia, esponendosi in
prima persona, col prestigio di cui godeva, per portare avanti la tesi fiorentinista.
Tuttavia il testo non ebbe sulla questione un’influenza storica all’altezza del suo
autore, visto che prima della sua pubblicazione, nel 1730, circolò negli ambienti
letterari solo in forma clandestina. È possibile che, nonostante la sua lucida difesa
della lingua fiorentina, a cui più tardi si richiamarono vari autori della tesi fiorentinista
(Martelli, Tolomei, Gelli, Lenzoni, Varchi, Salviati) per suffragare le proprie
argomentazioni linguistiche, il Dialogo non abbia goduto di eccessive simpatie negli
ambienti fiorentini in generale, a causa del duro attacco a Dante. Nel XIX secolo
viene ignorato da Leopardi e da Foscolo nei loro scritti sulla lingua, ma viene citato

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da Manzoni per la decisa opposizione espressa contro i pregiudizi elitisti della cultura
accademica, per il favore accordato alla lingua viva e parlata, per le critiche
all’Ariosto commediografo.
Nel corso del XIX secolo, molti studiosi hanno dimostrato di apprezzare
xv
vivamente l’analisi linguistica condotta da Machiavelli nel Dialogo, e il testo è citato
xvi
anche negli scritti sulla questione della lingua di autori stranieri, secondo i quali, a
partire da un concetto di unità linguistica specifica —la sua stessa, la fiorentina—,
Machiavelli rientrerebbe con quest’opera in quella linea di ragionamento a favore
xvii
della regolarità della lingua, che dall’autore delle Regole Vaticane, passando per
Leonardo, Pulci, Fortunio, Bembo, Liburnio, arriva a Manzoni. Sarebbe nel Dialogo, e
non nelle Regole di Giovanni Francesco Fortunio, scritte nel 1516, che si sarebbe
realizzato per la prima volta un abbozzo di studio grammaticale della lingua italiana.
E Macchiaveli è considerato un precursore appunto di Manzoni, per la sua difesa
della lingua viva e contemporanea, contro la preferenza bembesca per il fiorentino
arcaico.
Ma quali sono i principali punti linguistici discussi nel Dialogo? Possiamo
xviii
riconoscere in particolare i seguenti:

 la nozione della distinzione fra lingua parlata e lingua letteraria, con


preferenza per il naturalismo linguistico (e, dunque, in favore della superiorità
del fiorentino, lingua "naturale", creazione comune e spontanea del popolo di
Firenze e della Toscana, contro l’artificialità e l’elitismo della lingua cortigiana);
 l’affermazione secondo cui, grazie alla prassi delle fiorentine tre corone
(Dante, Petrarca, Boccaccio), la lingua sarebbe passata al resto dell’Italia,
"educando" linguisticamente e raffinando gli scrittori non fiorentini;
 la critica all’eccesso di astrazione della lingua cortigiana e alla eterogeneità
linguistica della corte romana;
 il principio dell’espandibilità del tosco-fiorentino a tutta l’Italia (in linea con il
progetto mediceo del XV secolo, di imporre l’egemonia di Firenze a partire dalla
lingua e dalla cultura);
 osservazioni interessanti sulla capacità assimilatrice delle lingue (come

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l’affermazione secondo la quale l’introduzione in una determinata lingua di
vocaboli stranieri, anche molti, non ne danneggia il carattere più proprio e
"autentico"; la lingua, anzi, ha la forza di integrare stabilmente nel proprio
patrimonio quegli stessi vocaboli);
 il riconoscimento del carattere strutturante e identitario, per una lingua, della
sintassi;
 l’importanza attribuita alla fonetica, con particolare attenzione per la
pronuncia e gli accenti;
 il fermo rifiuto all’anti-fiorentinismo linguistico di Dante (come autore del De
Vulgari Eloquentia);
 la censura a certi termi utilizzati da Dante;
 la dimostrazione della fondamentale fiorentinità linguistica della Divina
Commedia, nonostante l’ostilità del suo autore per Firenze.

Speriamo, con questo breve scritto, di aver offerto il nostro contributo personale
ad una diffusione migliore e più ampia, in Brasile, della complessa e affascinante
storia della lingua italiana.

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Referências

BARON, Hans. Machiavelli in the eve of the Discourses: The date and place of his
Dialogo intorno alla nostra lingua. Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance,
Travaux et Documents, XXIII, 1961, [s.p.].

JEANROY, Thérèse Labande. La Question dela langue en Italie. Publications de la


Faculté des Lettres de l’Université de Strasbourg: Strasbourg, 1925.

MARAZZINI, Claudio. Le teorie. In: Luca Serianni e Pietro Trifone (Org.). Storia della
lingua italiana. Volume primo. I luoghi della codificazione. Torino: Einaudi, 1993,
[s.p.].

MARAZZINI, Claudio. Da Dante alla lingua selvaggia. Roma: Carocci, 1999

MACHIAVELLI, Niccolò. Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua. A cura di


Bortolo Tommaso Sozzi. Torino: Einaudi, 1976.

RIDOLFI, Roberto. Note sull’attribuzione del Dialogo intorno alla nostra lingua. La
Bibliofilia, LXXIII, dicembre 1971, dispensa 3, [s.p.].

SERIANNI, Luca; Trifone, Pietro (Org.). Storia della lingua italiana. Volume primo. I
luoghi della codificazione. Torino: Einaudi, 1993

VITALE, Maurizio. La Questione della lingua. Palermo: Palumbo, 1960.

i
Claudio Marazzini, Le teorie; in Storia della lingua italiana. Volume primo. I luoghi della codificazione
(org. di Luca Serianni e Pietro Trifone), Torino, Einaudi, 1993, p. 256.
ii
Roberto Ridolfi, Note sull’attribuzione del Dialogo intorno alla nostra lingua. La Bibliofilia, LXXIII,
dicembre 1971, dispensa 3, p. 261.
iii
Hans Baron, Machiavelli in the eve of the Discourses: The date and place of his Dialogo intorno alla
nostra lingua. Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance, Travaux et Documents. XXIII, 1961, pp.
449-476.
iv
Riportiamo il brano integralmente: “Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in
sull'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e
rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto
amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno
parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono;
e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non
mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.” Si tratta della lettera nella quale Machiavelli,
esiliato nella casa di campagna dell'Albergaccio e lontano dall’esercizio attivo della politica, dopo il
ritorno al potere dei Medici (1512), annuncia all'amico Vettori la composizione de Il Principe.

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v
Anche se Machiavelli sbaglia nell’attribuire le critiche di Dante al fiorentino unicamente a motivi
psicologici e personali (la vendetta contro Firenze, che l'aveva esiliato), trascurando di riconoscere
l’originalità della lucida analisi teorico-linguistica del poeta.
vi
Per l’intreccio fra situazione storica e questione linguistica nell'Italia dell’epoca, per il contrasto fra
una società aristocratica e conservatrice e una società popolare e aperta alle novità, si vedano in
particolare gli studi di Eugenio Garin.
vii
Il testo sintesi dell'insieme delle teorie e delle polemiche linguistiche italiane dalle origini al XIX
secolo è considerato La Questione della lingua, di Maurizio Vitale, Palermo: Palumbo, 1960.
viii
Claudio Marazzini, Da Dante alla lingua selvaggia. Roma: Carocci, 1999, p.54.
ix
Non è nostra intenzione discutere qui le ragioni, storiche, linguistiche o culturali, sulle quali si
basava tale pretesa superiorità genetica del fiorentino. Limitiamoci a dire che alcuni studiosi
pensavano che la Toscana, essendo stata la regione d'Italia più precocemente occupata dai Romani,
avrebbe ricevuto prima e più profondamente l'influsso normativizzante della lingua latina.
x
Secondo la Nuova Cronica di Giovanni Villani (Firenze, 1276-1348), già nel XIV secolo il Comune di
Firenze promuoveva politiche educative e di diffusione culturale molto avanzate, aprendo scuole di
abaco e di algarismo nelle quali, per la prima volta in Europa, si insegnava a leggere e a scrivere
direttamente in volgare, senza la mediazione del latino; il che avrebbe portato all'alfabetizzazione di
intere classi sociali della città, anche di quelle popolari, raffinando la lingua e favorendo il sorgere di
una precoce pratica letteraria.
xi
La teoria cortigiana raccoglieva diverse varianti, che non è possibile illustrare qui, il cui
denominatore comune era l'opposizione al fiorentinismo e al toscanismo.
xii
Esistono, nel dibattito linguistico rinascimentale, alcune differenze fra i fautori del fiorentino e quelli
del toscano. Machiavelli, quando parla di lingua toscana, si riferisce fondamentalmente al fiorentino.
xiii
L'opposizione arte/natura, con la dichiarata supremazia della natura, è ricorrente negli scritti di
Machiavelli.
xiv
Anche se alcuni studiosi misero in dubbio la paternità dantesta del trattato, visto che Trissino non
divulgò il testo originale ma solo la versione in volgare tradotta da lui. Machiavelli, comunque, non
dimostra dubbi nel ritenere Dante l’autore del De Vulgari Eloquentia.
xv
In particolare, Pasquale Villari considera Machiavelli un predecessore di Friedrich Schlegel,
fondatore della filologia comparata. Fra gli studiosi che hanno apprezzato le qualità stilistiche e di
ragionamento linguistico del Machiavelli autore del Dialogo, segnaliamo, fra gli altri, Francesco De
Sanctis, Ruggero Bonghi, Pio Rajna, Luigi Morandi, Ciro Trabalza, Vincenzo Vivaldi, Roberto Ridolfi,
Hans Baron, Guido Mazzoni, Bortolo Tommaso Sozzi.
xvi
Si veda il testo di Thérèse Labande Jeanroy, La Question de la langue en Italie, Publications de la
Faculté des Lettres de l’Université de Strasbourg, Strasbourg, 1925.
xvii
Scritte attorno al 1450, vengono attribuite all'umanista Leon Battista Alberti (1404-1472).
xviii
Per un'analisi più dettagliata in proposito, rimandiamo all'Introduzione dell'edizione critica del
Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua di Bortolo Tommaso Sozzi, Torino, Einaudi, 1976,
particolarmente alle pagine XXXIX e XL, alla quale ci siamo riferite per altro in tutto il testo.

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