Sei sulla pagina 1di 646

:.IYSTERllJ,\I St\l.

UTIS

'
I

2
I
I

I
I
MYSTERIUM SALUTIS
Nuovo corso di dogmatica
come teologia della storia della salvezza

a cura di
]. FEINER e M. WHRER

edizione italiana a cura di


TOMMASO fEDEltICI

QUERINIANA -BRESCIA
I FONDAMENTI D'UNA DOGMATICA
DELLA STORIA DELLA SALVEZZA

con la collllborazion e di

HANS URS VON BALTHASAR- ADOLF DARLAP


JOHANNES FEINER - HEINRICH FRIES
HERBERT HAAG - ANDRÉ DE HALLEUX
GOTTHOLD HASENHUTTL - KARL LEHMANN
PETER LENGSFELD - MAGNUS LOHRER
JOSEF PFAMMATTER - KARL RAHNER
GOTTLIEB SOHNGEN • BASIL STUDER
ALOIS STENZEL - JOSEF TRUTSCH

parte 11

QUERINIANA - BRESCIA
Titolo originale dell'opera:
MYSTERIUM SALUTIS
Grundriss heilsgeschichtlicher Dogmatik

Bem:iger Verlag Einsiedeln I 96 5

4· edizione:, s~ttcmbrc 1977

© I965 by Benziger Ver!ag • Einsiedeln


© i968 by Editrice Queriniana · Brescia

Con approvaiione ei:clesiastica


SOMMARIO

7 Collaboratori e traduttori

9 L'attualizzazione della rivelazione mediante la Chiesa


Rivelazione e Chiesa· Chiesa e rivelazione (Johannes Feiner) - Portatori
della mediazione (Magnus Lohrcr - Basi! Studcr) - Modi attraverso i quali la
mediazione si realizza (Alois Stenzel - Karl Rahner - Hans Urs von Balthasar)
- Storicità della mediazione (Karl Rahner • Karl Lehmann).

369 La fede
L'uditore della parola di Dio (Josef Triitsch) - La fede secondo la sa.era Scrit·
tura (Josef Pfammatter) - Linee dello sviluppo del doema e della teologia -
Intelligenza teologica della fede (Josef Triitsch).

51 x La sapienza della teologia sulla via della scienza


La 'sapienza di Dio nel mistero' in Paolo come documento biblico e come
origine spirituale d'ogni teologia cristiana - 'Teologia, filosofia, scienza -
Kerygma, dogma, esegesi, storia: campi fondamentali d'un enunciato teologico
- Divisione della reologia - Forme fondamentali della teologia in quanto
scienza e sapienza; in particolare il concetto di toologia di s. Tommaso (Gottlieb
Sohngen) - Exc11rrns: La teologia ortodossa (André de Halleux).

609 Abbreviazioni

619 Indice onomastico (della I e II parte)

634 Indice analitico (della 1 e 11 parre)

657 Indice
COLLABORATORI

HANS URS VON BALTHASAR


Nato nel r905, dr. filos., dr. teol. honoris causa, scrittore e pubblicista.
AooLF DARLAP
Nato nel 1924, Assistente alla ricerca scientifica.
JoHANNEs FEINER
Nato nel r909, dr. teol., dr. filos., docente di dogmatica nel Seminario di
St. Luzi, Chur, consultore del Segretariato per l'Unità dei cristiani.
HEINRICH FRIES
Nato nel r9n, docente di teologia fondamentale e direttore dell'Isti-
tuto Ecumenico della Facoltà teologica deH'Università di Monaco.
HERBERT HAAG
Nato nel 191_s, dr. teol., docente di esegesi ddl'A.T. presso la Facoltà
teologica dell'Università di Tubinga.
ANDRÉ DE HALLEUX O.F.M.
Nato nel r929, dr. teoI., docente di tecilogia orientale presso la Facoltà
teologica deH'Università di Lovanio.
GOTTHOLD HAsENHiiTI'L
Nato nel 1933, dr. teol., assistente alla ricerca scientifica nell'Istituto di
Srudi Ecume~ici dell'Università di Tubinga.
KARL LEHMANN
Nato nel 1936, dr. teol., assistente ail'Istituto per la concezione cristiana
del mondo e per la filosofia della religione presso la Facoltà filosofica
dell'Università di Monaco.
PETER LENGSFELD
Nato nel 1930, docente di teologia dogmatica ed ecumenica presso fa.
Facoltà teologica dell'Università di Miì~ster i. W.
MAGNUS UiHRER O.S.B.
Dell'Abbazia di Einsiedeln (Svizzera), nato nd 1928, dr. teol., docen-
te di dogmatica presso la Facoltà teologica del Pontificio Ateneo di
Sant'Anselmo in Roma.
}OSEF PFAMMATTER
Nato nel 1926; dr. teol., docente di esegesi del N.T. nel Seminario dio-
cesano di St. Luzi, Chur.
KAIO.. RAHNER S.J.
Nato nel 1904, docente di Concezione cristiana del mondo e di Filoso-
fia della religione presso la Facoltà filosofica dell'Università di Monaco.
GoTTLIEB SoHNGEN
Nato nel r892, dr. teol., dr. fìlos., professore emerito di teologia fon-
damentale e di propedeutica teologica presso la Facoltà teologica del-
l'Università di Monaco ..
ALOIS STENZEL S.J.
Nato nel r917, dr. teol., docente di dogmatica e di liturgia al Sank1
Georgen, Scuola Superiore di fiilosofia e di teologia ddla Facoltà teolo-
gica S.J. di Francoforte sul Meno.
BASTL STUDER O.S.B.
Dell'Abbazia di Engelbcrg (Svizzm1), nato nel 1925, dr. teol., docen-
te di patrologia presso la Facoltà teologica dol Pontificio Ateneo di
Sant'Anselmo in Roma.
JosEF tRDTSCH
Nato nel r9r8, dr. teol., già docente di teologia dogmatica e di teologia
fondamentale al Seminario diocesano di St. Luzi, Chur, rettore del Col-
legio Maria HiH, Cant. di Schwyz.

TRADUTTORI

GwsÉPPE RUGGIEIU Ru.11E1n-u Snu - ANGELO TOSATO - G10VANl'lJ VIOLA


CAPITOLO QUARTO

L'ATTUALIZZAZIONE DELLA RIVELAZIONE


MEDIANTE LA CHIESA

SEZIONE PRIMA

RIVELAZIONE E CHIESA- CHIESA E RIVELAZIONE

Già nel capitolo n,* che trattava della rivelazione, ~ nel capitolo III,
in cui si è discussa la presenza oggettiva della rivelazione nella Scrit-
tura e nella tradizione, il discorso di necessità ricadeva continua-
mente sulla Chiesa. La Chiesa, in quanto comunità dei credenti nella
definitiva parola rivelatrice di Dio realizzatasi nel Cristo, non è infat-
ti un'entità 'al di fuori' dell'avvenimento della rivelazione e ad esso
aggiunta solo in secondo tempo; appartiene bensl al fatto della rive-
lazione come suo particolare momento. L'incarnazione non è conce-
pibile alla stregua d'un avvenimento puramente oggettivo, che tutti
conoscono e credono soltanto cosl come si presenta nella realtà. L'av-
venimento del Cristo non costituirebbe una rivelazione fatta al mon-
do, se non ci fosse una comunità di uomini che lo accolgono, nella
fede, come autorivelazione di Dio. In quanto la parola rivelante di
Dio, manifestatasi al mondo mediante tutto l'avvenimento del Cristo,
viene accolta dalla comunità di Gesù nella fede, essa diventa 'pre-
sente nel mondo e per il mondo; e poiché questa comunità di cre-
denti si prolunga nella storia, questa rivelazione, pur avvenuta una
volta per tutte, acquista una presenzialità permanente nel mondo e
per il mondo. La rivelazione è sostanzialmente il fatto, liberamente
posto da Dio, dell'incontro personale di Dio con l'uomo, e quindi,
per sua stessa natura, implica il socio umano, per quanto anche que-
sti, già come uomo, sia posto da Dio pur liberamente. Questo socio,

* Ricordiamo al lettore che l'edizione italiana divide in 2 parti ciascun volume


dell'edizione originale. La prima parte del volume I fondamenti d'una dogmatica dl.'l·
!c1 .lfori,1 della salvezza comprende i primi tre capitoli (già pubblicati).
IO ll!Vl!LAZ!ONE E CHll!SA DELLA 11.IVl!LAZIONI!

in cui Dio opera la venuta e l'accettazione della sua parola rivelante,


non è l'uomo isolato, l'uomo si:ngolo in quanto tale, bensl l'uomo
nella comunità. La parola di Dio, tanto nell'Antico quanto nel Nuo-
vo Testamento, si rivolge sempre alla comunità del popolo di Dio.
Il soggetto primario della definitiva rivelazione nel mondo è la Chie·
sa; il singolo diventa partecipe della parola rivelante di Dio mediante
la comunità ecclesiale.
Come dunque, da un lato, la rivelazione afferma la Chiesa apparsa
nella storia quale comunità escatologica che crede la deilnitiva parola
di Dio, così, dall'altro, la Chiesa, per sua stessa natura,4i.r_nplica la
rivelazione. Non si deve concepire la Chiesa come una ·corrilÌt'iità sus-
sistente di per se stessa, a cui in seguito sia stata affidata' la rivela-
zione: essa piuttosto, secondo la sua natura, costituisce la presenza
storica della rivelazione avvenuta nel Cristo per tutto il periodo che
intercorre tra la prima venuta di Cristo nel mondo e il suo compi-
mento nella parusia del Cristo. La Chiesa è il 'luogo' della avvenuta
rivelazione, che costantemente si rinnova fino al compimento della
storia della salvezza, ed è contemporaneamente l' 'organo' che rea·
lizza questa venuta nella storia.
L'eph'hapax dell'avvenimento storico della rivelazione di Gesù Cri-
sto esclude che, nella storia successiva, avvengano altre rivelazioni o
che la rivelazione continui. Ma 'la tensione del tempo intermedio' esi-
ge che. la. parola di Dio rivelante nella fede, parola in sé unica ed
irrepedbile, possa continuamente rivolgersi all'umanità. Ciò significa
che l'autorivelazione di Dio, avvenuta una volta per tutte in Gesù
Cristo, deve continuamente farsi presente nella storia al fine di poter
essere rivelazione anche per ogni successiva generazione chiamata alla
fede nel Cristo e, in essa, restare presente nel mondo.
Abbiamo cosi acquisito il concetto centrale sotto cui si raggrup.-
peranno i singoli temi che esamineremo in questo capitoio. Si tratta
della realiz.z.az.ione della presenza attuale della rivelazione, avvenuta
una volta per tutte nel Cristo, presenza realizzata nella Chiesa e dalla
Chiesa nel tempo intercorrente tra la venuta del Cristo e la fine della
storia. Compito di questo capitolo è di descrivere i singoli momenti
attraverso i quali procede questo 'farsi presente' che si attua nella
Chiesa e mediante la Chiesa. Da tale compito esula lo sviluppo d'una
ecclesiologia in tutte le sue dimensioni: questo sarà invece oggetto
ATl'UALIZZAZlONE DELLA RIVELAZlONE DEL CR1~·ro n

del IV volume. Qui si intende soltanto de!i(:rivere, da un detenni-


nato punto di vista, il processo atttav:eI'So èqj J.a Chiesa si autorea-
lizza, e precisamente nel far vedere éome proprio mediante l'autorea-
lizzazione della Chiesa la verità rivelat_a,. resasi già p~~sénte al mondo
nei primi fedeli, continui a rendersi presente nella storia, in modo
da poter efficacemente raggiungere tutti coldro cbe sono chiamati
alla comunione di fede nella Chiesa.
La r SEZIONE costituisce una specie d'introduzione al· resto del ca-
pitolo. Essa offre una visione d'insieme dei siii.goli temi che verran-
no esposti e discussi in seguito, e la connessione secondo la quale
si svilupperà il loro studio.

I. L'attualizzazione della rivelazione del Cristo

a. Rivelazione come verità di salvezza e come grazia di salvezza

In Cristo, Dio stesso si è rivelato quale salvezza dell'uomo renden-


dosi storicamente presente nel mondo. La rivelazione del Cristo è
l'escatologica, insuperabile, storica autorivelazione di Dio. Infatti, in
Gesù Cristo, Dio ha comunicato se stesso a questo mondo in modo
assoluto e definitivo. Come è già stato esposto nel capitolo 1 (v. parte
prima) il fatto che Dio si sia comunicato, rivelandosi, nell'avveni-
mento del Cristo, non significa una pura e semplice proclamazione
della volontà divina di salvezza e di grazia attraverso la parola e
l'azione di Dio in Gesù Cristo, bensl il rendersi presente nella storia
della stessa grazia di salvezza che, in definitiva, è Dio stesso. 1 Il Cri-
sto annuncia la salvezza dell'uomo; nel Cristo la salvezza annunciata
è presente nel mondo. Egli è dunque «pieno di grazia e di verità» (lo.
r, r 4 ), poiché in lui Dio è vitalmente presente come grazia che ha
vinto il peccato e come verità che ha debellato l'ignoranza e l'errore.
In lui, Verbo divin~ personale, non soltanto Dio esprime definitiva-
mente la sua volontà di grazia nei riguardi dell'umanità peccatrice,
ma tale volontà rende irrevocabilmente presente nella storia. Il Cri-
sto, viva e personale presenza di Dio nel mondo, costituisce la grazia

1 Vedi le considerazioni Ji A. DARLAP, in Myrterium Salutis, 1/!, pp. n2-I27.


12 .RIVELAZIONE E CHIESA DELLA IUVELAZIUNE

di salvezza comunicata all'umanità e la verità salvifica ad essa rive-


lata: verità e grazia in lui sono indissolubilmente unite.
Ora, se la missione della Chiesa consiste nel portare a conclusione
la rivelazione avvenuta nel Cristo rendendola continuamente presen-
te nella storia, ciò significa che essa, nella storia che si svolge dal-
l'ascensione del Cristo alla sua parusia, deve farsi mediatrice sia della
grazia di salvezza concessa nel Cristo, sia della verità di salvezza in lui
rivelata. Non possono essere dissociate l'una dall'altra la mediazione
della verità rivelata e la mediazione della grazia rivelata. Come infatti
l'autocomunicazione di Dio che si rivela nel Cristo è al tempo stesso
verità e grazia di salvezza, cosl anche la mediazione ecclesiale non
si limita ad annunciare la verità rivelata circa la grazia di Dio, ma
rende anche presente l'efficacia reale stessa di questa grazia. La Chie-
sa non soltanto annuncia 'come verità' la grazia a noi concessa nel
Cristo, ma ce la comunica, anzi ce la comunica proprio mediante
quella stessa parola con cui l'annuncia. Infatti la parola rivelante la
verità divina, di cui la parola umana è forma e supporto, è verbum
efficax che dona al fedele quella grazia che annuncia.
Per quanto dunque la verità della salvezza e la grazia della sal-
vezza costituiscano un'unità indissolubile, è bene distinguere, come
ci insegna lo stesso Nuovo Testamento, questi due aspetti dell'unica
rivelazione. Siamo quindi giustificati quando esaminiamo separata-
mente la rivelazione sotto l'aspetto di comunicazione della verità e
sotto l'aspetto di grazia di perdono e di rinnovamento. Naturalmen-
te in queste considerazioni non bisogna mai perdere di vista l'unità
della realtà studiata. Bisogna dunque fare attenzione che in questo
capitolo, il cui argomento è l'attualizzazione della rivelazione me-
diante la Chiesa, si esaminerà, d'accordo col contesto generale del r
volume, la rivelazione soltanto sotto uno dei due aspetti menzionati,
e, precisamente, sotto l'aspetto di comunicazione della verità, ossia
di tutto quanto si è realizzato e si realizza nel Cristo Gesù. Nel
rv volume, in cui si esporrà l'ecclesiologia, nello studio della parola
operatrice di grazia e del sacramento della Chiesa, questa stessa rive-
lazione comunicata dalla Chiesa verrà esaminata sotto l'aspetto di
comunicazione della grazia.
Il fatto di aver preso innanzitutto in esame l'aspetto 'verità'
'conoscenza' nella rivelazione, è conseguenza immediata della natura
ATTUALIZZAZIONE DELLA RIVELAZIONE DEL CRISTO

del problema. Si tratta qui di stabilire i fondamenti della storia par-


ticolare della salvezza. Esiste una storia speciale della salvezza, ed
una storia generale della salvezza che si realizza nell'umanità estra-
nea al Cristo. Il carattere distintivo della prima consiste precisa-
mente nel fatto che la gratuita comunicazione di se stesso fatta da
Dio agli uomini, il dono, che Dio fa di se stesso agli uomini nella
grazia della salvezza - dono che viene offerto a tutti gli uomini di
tutti i tempi - in essa e soltanto in essa perviene alla sua manifesta-
zione priva di ambiguità, alla sua interpretazione ed espressione dog-
maticamente riflessa e ufficialmente sanzionata.2 Per quanto anche al
di fuori della speciale storia della salvezza la grazia della salvezza
raggiunga efficacemente innumerevoli uomini, essa viene tuttavia ac-
colta in maniera irriflessa e non oggettiva, o in ogni modo, viene in-
terpretata non univocamente. Nella storia speciale della salvezza,
invece, a causa dell'avvenimento del Cristo annunciato e riconosciu-
to fra gli uomini, la grazia salvifica si esprime in modo riflesso ed
acquista consapevolezza obiettiva. In tale storia speciale la scienza
oggettiva dell'autocomunicazione gratuita di Dio diviene un elemen-
to nella storia di questa stessa autocomunicazione. Dovendo adunque
occuparci di teologia cristiana, occorrerà discorrere dell'azione rive-
latrice con cui Dio comunica se stesso innanzitutto proprio sotto il
suo aspetto di 'conoscenza' e di 'verità'.

b. La Chiesa come obiettivo della rivelazione

L'atto di fede, con cui l'uomo si apre alla rivelazione e partecipa alla
verità rivelata sotto l'influsso della grazia, è indubbiamente un atto
squisitamente personale. Sarebbe però un falsare il senso della rive-
lazione se questa venisse interpretata individualisticamente come un
fatto destinato a comunicare ad una moltepliciù·<li individui umani fa
conoscenza necessaria alla salvezza ed a rendere loro possibile una sal-
vezza meramente individuale. Per sua natura la rivelazione è desti-
nata ad una comunità: precisamente ed innanzitutto alla comunità
degli uomini con Dio; ma poi, tramite proprio questa comunità, an-
che alla comunità costituita tra gli uomini che sono stati chiamati

2 Vedi la dimostrazione di A. D11RLAP, in Mysterium Salutis, 1/x, pp. 9.5 ss.


RIVELAl':IONE E CHIESA DELLA Rl IELAZIONE

dalla stessa parola di Dio.3 Questa è una realtà chiaramente perce-


pibile già nella rivelazione veterotestamentaria, che di un popolo
naturalmente unito da vincoli di razza, forma la comunità e l'unità
del popolo di Dio: mediante la sua parola rivelante Dio si forma
il suo popolo e lo elegge a portatore della sua verità rivelata nella
storia.
Se già della parola di Dio preliminare e provvisoria si deve dire
che verbum creat populum, certo a maggior ragione ciò vale soprat-
tutto della definitiva autorivelazione di Dio, che si realizza nel suo
Verbo personale fatto carne. Il nuovo popolo di Dio fondato sugli
apostoli, i padri della nuova razza, che fin dall'inizio si proclama
ekklesia, è ben cosciente di essere nella sua unità e totalità il sog-
getto recettore e portatore della rivelazione del Cristo. La Chiesa,
che non si fonda più ora, come il vecchio popolo di Dio, su una uni-
tà di razza, in quanto destinataria e portatrice della rivelazione esca-
tologica è creatura Verbi in un senso incomparabile. Soltanto il po-
polo di Dio della nuova alleanza esiste come corpo di Cristo che si
edifica mediante la parola e il sacramento, e solo nell'unità di questo
corpo l'azione rivelante di Dio raggiunge la sua finalità storica e la
verità rivelata diventa permanentemente presente nel mondo.
La Chiesa, infatti, non è un'entità astratta esistente al di sopra dci
singoli credenti, ma esiste nei credenti, pur non riducendosi alla
pura somma di credenti che, raggiunti singolarmente dalla rivelazio-
ne, in un secondo tempo si uniscono nella Congregatio fidelium; essa
è una realtà superindividuale, che trascende la somma dei singoli, ed è
un'entità concessa da Dio ad ogni singola persona. Soltanto attraver-
so il concorde e comune dono della fede operato dallo Spirito nei
fedeli riuniti nel corpo del Cristo con le loro funzioni diverse e vicen-
devolmente coordinate l'avvenimento del Cristo acquista la sua pie-
nezza di significato storico in qualità di avvenimento· di. rivelazione
escatologica, e si evidenzia storicamente il fine ultimo della rivela-
zione avvenuta nel Cristo. Questo fine ultimo, posto al di là della
storia, non consiste infatti nella beatificazione di persone singole in

l cPlacuit tamen Deo homines nDn singulatim, quavis mutua connexione seclusa,
sanctificare et salvare, sed eos in populum conslil11ere, qui in veritate 1prnm llJl.110·
sceret Ipsiq11e sancte servirei»: cost. dogrn. De Ecclesia, n. 9.
ATTUALIZZAZIONE DELLA RIVELAZIONE DEL CltISTO

una visio beatifica concepita individualisticamente, bensl jn mta co-


munità umana che, grazie all'uomo-Dio, partecipa alla pienezza della
rivelazione della maestà divina. La fede non precede la visio beatifica
come qualcosa di interamente diverso, in senso puramente tèmpora-
le, tna ne è l'anticipazione terrena, nascosta per l'uomo peregrinante;
nello ste.sso modo la comunità di fede terrena della Chiesa peregri-
nante non precede solo temporalmente la celeste e definitiva comu-
nità, che è il fine ultimo della rivelazione storica del Cristo, ma ne è
l'anticipazione storica, ed il suo significato essenziale sta proprio nel
rendere visibile nella storia ciò che accadrà oltre la storia. Proprio
anche a motivo del fine ultrastorico della rivelazione storica del Cri-
sto diventa chiaro che il suo fine storico è la creazione e la conserva-
zione di una Comunità dal Cristo riunita nel Cristo e nello Spirito
santo, Comunità che sorge e si sviluppa nella confessione comunita-
ria e nella vita comunitaria di fede. Per quanto il singolo fedele pcissa
e debba essere chiamato con tutta verità creatura Verbi, si deve tut-
tavia dire: la realtà a cui mira la rivelazione non è, in senso prima-
rio, il fedele singolo, bens} il corpo del Cristo vitalmente congiunto
al Cristo e governato dallo Spirito santo; in senso primario, creatura
V erbi è la Chiesa, in cui la rivelazione si fa presente e resta tangibile
storicamente nel mondo.
Che tutto ciò sia di importanza decisiva per quanto riguarda il rap-
porto del singolo con la rivelazione, è senz'altro chiaro. Se la Chiesa
costituisce il soggetto autentico e permanente della rivelazione avve-
nuta e ricevuta nella storia, allora, per il singolo, pervenire alla fede,
significa: 'essere aggiunto' alla Chiesa (Act. 2,41), essere accolto nel-
la fede della Chiesa e in tal modo divenire partecipe della verità rive-
lata. Non nella sua singolarità, bensl nell'accesso alla fede comune il
singolo viene raggiunto dalla parola di Dio. Anzi la fede nella rive-
lazione del Cristo non è un dono fatto al singolo per la sua salvezza
personale e privata, ma mira a renderlo partecipe della funzione sto-
rico-salvifica della Chiesa nel mondo, funzione che nel Nuovo Testa-
mento viene caratterizzata dal concetto di testimonianza al cospetto
di tutto il mondo. La comunità di Gesù Cristo, e chiunque ad essa
è chiamato, è costituita «in lode della gloria della sua grazia» (Eph.
1,6; d. 1,12.14), è destinata ad «annunziare le virtù» di Dio (r Petr.
2,9) e render conto a tutti della sua speranza (r Petr. 3,15), affinché
r6 RlVELAZlONE E CHIESA DELLA RIVELAZIONI

a Dio «sia l'onore nella Chiesa per il Cristo Gesù attraverso tutte le
generazioni» (Eph. 3,21 ).
Questi accenni alla Chiesa come fine della rivelazione servono ad
indicare l'orizzonte entro cui si deve vedere tutto quanto s~ dirà nei
paragrafi seguenti sulle singole modalità in cui la Chiesa si realizza
e sui relativi mezzi. In tutto ciò si tratta ben più che di semplice sal-
vezza individuale dei singoli, che Dio può d'altronde realizzare anche
al di fuori della Chiesa intesa come società. Si tratta di questo: che
la Chiesa sta nel mondo .come fine della rivelazione e realizza in s~
il significato di permanente presenza nella storia della rivelazione
avvenuta nel Cristo. Magistero, liturgia, kerygma, dogma e arte cri-
stiana possono essere visti nella loro giusta luce solo dal punto di
vista della loro funzione ecclesiale-comunitaria: essi introducono il
singolo nell'unir;à della fede comunitaria della Chiesa, mediante la
quale soltanto è data la presenza permanente della rivelazione nella
storia.

c. L'autopresenza di Dio nella storia speciale della salvezza

Per evitare che quanto diremo in seguito sulla presenzialità della ri-
velazione per mezzo della Chiesa possa insinuare la falsa idea che la
Chiesa si arroghi l'arbitrio, mediante il suo agire umano, di disporre
della parola rivelante di Dio, si deve ricordare innanzitutto che è nel-
la Chiesa, come luogo in cui si svolge la storia speciale della salvezza,
che si realizza primariamente quel modo speciale con cui Dio si ren-
de presente, e che caratterizza propriamente la storia speciale della
salvezza e la differenzia da quella generale: Dio stesso realizza la sua
presenza nella storia, e questo lo fa nella storia speciale della sal-
vezza mediante la sua parola.
Ovunque l'uomo venga salvato, ciò avviene perché Dio gli comu-
nica se stesso, gli si fa presente per grazia e gli si dona come sua
salvezza. La 'onnipresenza' di Dio, ossia quella presenza generale di
Dio in tutte le cose in virtù dell'atto creativo, non è infatti ancora
la salvezza dell'uomo; altrimenti anche l'uomo che si rifiuta a Dio
sarebbe nella salvezza, e persino la dannazione all'inferno non sa-
rebbe più perdizione senza salvezza. La salvezza per l'uomo avviene
solo quando Dio, con un libero dono di sé, oltrepassa la creazione
ATTUALIZZAZIONE DELLA RIVELAZIONE DEL CRISTO 17

e si rende presente a lui, quando Dio supera il suo coesistere con le


creature in virtù della creàzione, mediante il suo speciale coesistere
con l'uomo in virtù della grazia.
Che Dio cerchi e realizzi questa speciale coesistenza, questa gra-
tuita presenza nelle sue creature elette, appartiene già al contenuto
essenziale della rivelazione veterotestamentaria. Israele si presenta
come il popolo che Jahvé ha scelto per realizzare la sua presenza
salvifica; l'arca dell'alleanza e il tempio ~ono i sir{lbeli di questa abi-
tazione divina in mezzo al suo popolo. 4 Al vertice della storia della
salvezza appare chiaro che Dio non limita la sua presenza di grazia
ad Israele, ma vuole estenderla a tutta l'umanità bisognosa di sal-
vezza. Gesù Cristo stesso è la parola per mezzo di cui Dio ha rive-
lato che egli cerca questa coesistenza salvifica con tutta l'umanità
unita a Gesù Cristo, e la ascensione di questi rende possibile la rea-
lizzazione della presenza salvifica di Dio nel Figlio per lo Spirito
santo in tutta l'umanità.
Ora, anche nella nuova alleanza esiste un popolo eletto a cui è
stata promessa la speciale presema salvi.fica di Dio. A questo riguar-
do noi dobbiamo richiamarci non soltanto alla parola di Gesù: «Sarò
con voi fino alla fine del mondo» (Mt. 28,20) o ad altre simili chiare
affermazioni del Nuovo Testamento; che Dio mediante l'Incarnazio-
ne del Verbo personale si sia fatto presente nel mondo per restare
presente in coloro che lo accolgono per féde, e che il Signore asceso
al cielo invii continuamente nella Chiesa e nel cuore dei credenti il
suo Spirito che tutto rinnova, al fine di prendere dimora in essi col
Padre nello Spirito santo (cf. Io. 14,23; Rom. 8,9 ss.): tutto questo
è precisamente il contenuto centrale dell'intero messaggio neotesta·
mentario e nel Nuovo Testamento viene affermato in molti modi.
In questa luce occorre fare un duplice espresso chiarimento: in-
nanzitutto che Dio, comunicando se stesso alla comunità dei credenti
e ad ogni singolo credente, per ciò stesso rende anche presente se
stesso. Quando dunque si parla della Chiesa attraverso cui si rende
presente la rivelazione del Cristo, grazie alla quale il Dio rivelato
diventa presente al credente, si sottintende sempre che Dio stesso

4 Vedi inoltre Y.M. · ]. CoNGAR, Il mistero dcl /empio, Torino 1963; J. DANIÉLOU,
Il segno del tempio, Brescia I9'3·

2 Mysrerium salutis / 2.
r8 RIVELAZIONE E ClllESA DELLA RIVELAZIONE

realizza la sua presenza salvifica nell'uomo. Non la Chiesa, con la


sua parola e azione umana, dispone della presenza di Dio, ma Dio si
serve della sua Chiesa onde liberamente attuare la sua presenza. Se
il Cristo, come dice Paolo, abita per la fede nei cuori dei credenti
(Eph. 3,1ì) e la fede è grazia, ossia opera di Dio, ciò significa egual-
mente che Dio attJ.Ia la sua stessa presenza nel Cristo. La parola di
Gesù, «lo sarò con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo» (Mt.
28,20), esprime altresì che i testimoni e gli annunciatori del messag-
gio del Cristo saranno in grado di adempiere il loro mandato solo se
preliminarmente il loro Signore sarà ad essi e con essi presente. Tut-
tavia la presenza del Cristo risorto secondo il Nuovo Testamento è
presenza nello Spirito santo; è il modo con cui il Risorto si rende
presente tra i suoi, ed è il modo caratteristico del tempo di pellegri-
naggio della Chiesa nella fede e nell'aspettazione della parusia.
In secondo luogo si deve sottolineare che Dio si rende presente
nella Chiesa attraverso la sua parola e nella sua parola!' È pur vero
che la parola di Dio non dev'essere semplicemente identificata con
Dio stesso, ma dev'essere distinta da Dio; tuttavia non deve essere
da Dio separata: ove essa è presente, là è pure presente il Dio che
parla per il giudizio e per la salvezza. La parola non è soltanto stru-
mento di conoscenza per l'uomo, informazione che gli viene fornita
su Dio. Certo essa gli fornisce anche delle conoscenze su Dio, ma,
in virtù di essa, si realizza assai più. Per la sua parola Dio diventa per-
sonalmente presente e dona se stesso all'uomo, ma realizza questo
dono proprio nella sua parola, in modo che l'uomo conosce nella fede
questo dono che Dio gli fa di sé stesso. Chi accoglie nella fede la
parola di Dio (che, anche là dove appare sotto la forma della parola
umana della predicazione, è parola personale di Dio, incarnatasi in
Gesù Cristo), non perviene dunque solo alla conoscenza di Dio, ben-
sl, conoscendo, accoglie Dio stesso (cf. lo. r,12). Grazie alla parol.1
della rivelazione concessa alla Chiesa, la comunicazione e l'attuale
presenza personale di Dio diventa presenza salvifica riconosciuta, e
questa quindi può anche essere testimoniata, predicata dalla Chiesa
e anche mediata nel servizio liturgico della parola.

5 Vedi O. SEMMELROTll, Teologia dclfo Poro/11, Roma ry6B.


UTUALIZZAZIONE DELLA RIVELAZIONE DEL CRISTO 19

Fin qui abbiamo però nominato solo ciò che cost1tu1sce il carat-
tere specifico della storia speciale della salvezza, della quale la Chiesa
è il luogo e l'organo. Tuttavia, fondandosi sul fatto che Dio vuole
salvare tutti gli uomini, e che questa volontà salvifica generale di Dio
non è affatto una generica velleità, bensi un'efficace volontà di gra-
zia, si è condotti a riconoscere una storia generale della salvezza. Non
possiamo quindi affermare che Dio si è talmente vincolato alla pa-
rola ed all'azione della Chiesa, da non poter realizzare la sua presen-
za operatrice di salvezza al di fuori della Chiesa come società; non
possiamo sostenere che egli non sia presente, come il Dio che perdo-
na e che salva, anche in quella grande parte dell'umanità che non
viene raggiunta dalla predicazione della Chiesa. Tuttavia ciò che pos-
siamo e dobbiamo dire della Chiesa come comunità di coloro che
ascoltano e credono la parola rivelante di Dio, è esattamente que-
sto: soltanto nella Chiesa si annuncia e si realizza la presenza sal-
vifica di Dio in virtù della parola di Dio rivelata nel Cristo e accolta
nella fede. La Chiesa è dunque Chiesa esattamente per il fatto che
essa, in rappresentanza di tutta l'umanità, riconosce ed afferma nella
fede portata alla parola divina rivelante la comunicazione che Dio
fa di se stesso, onde essere così assunta da Dio per servire da mezzo
che nella storia rende presente la parola salvifica.

d. La rivelazione resa presente mediante la Chiesa

La parola rivelante di Dio appare nella storia della salvezza sotto


forma umana e, nell'uomo e grazie all'uomo, per l'azione e la parola
di questi, diventa presente nella storia. Ciò vale già per la fase pre-
paratoria della divina rivelazione, ossia della rivelazione veterotesta-
mentaria, ma in modo specialissimo ciò è vero per la rivelazione che
Dio fa di se stesso in Gesù Cristo. La rivelazione di Dio definitiva
ed insuperabile si realizza mediante la sua parola personale nella
forma dell'uomo Gesù Cristo. L'umanità di Gesù - più precisamen-
te: la piena realizzazione della sua umana esistenza e tutto quanto
è avvenuto rn;lla -Sua umanità, innanzitutto la sua risurrezione dai
morti - .in virtù della unione ipostatica, diventa la parola con cui
Dio ha assicurato irrevocabilmente la salvezza all'umanità, e come
salvezza ha donato se stesso all'umanità. Affinché questo significato
20 RIVF.T.AZIONE E CHIESA IlELLA RlVliLAZlONl'

dell'avvenimento del Cristo fosse riconosciuto, era certo necessario


che la parola umana di Gesù lo annunciasse e Io spiegasse, ma la pa-
rola rivelante di Dio nella pienezza del suo significato è la totalità
dell'avvenimento del Cristo, col suo culmine nella morte e nella risur-
rezione di Gesù.
Questa parola che Dio ha pronunciato una volta per tutte, cui
più nulla ha da aggiungere, questa parola che egli non intende ripe-
tere ma che rende presente per sempre nella storia, realizza lo scopo
per cui fu pronunciata solo nel momento in cui dalla Chiesa - rappre-
sentata innanzitutto nei testimoni del Risorto -, viene accolta nella
fede. E questa permanente presenza nella storia si attua solo quandl'
la Chiesa confessa, testimonia, annuncia e vive questa fede. Iddio
stesso crea alla sua parola rivelante questa visibile presenza nel mon-
do, operando a sua venuta nella fede della Chiesa e dando a questa
fede la rappresentazione sensibile nella storia. Dio stesso plasma la
Chiesa come permanente presenza della rivelazione avvenuta nel
Cristo.
Con ciò tuttavia si è anche affermato che la Chiesa non è soltanto
il soggetto recettore della rivelazione, ma è anche parte attiva nel
processo in cui la rivelazione si rende presente. Infatti fede, confes-
sione, testimonianza, predicazione, insegnamento, sacramenti, vita cri-
stiana, sono pur sempre attività umane della Chiesa, anch~ se operate
e portate dalla grazia di Dio. Dio dunque rende presente nella storia
la sua unica parola rivelante pronunciata irrevocabilmente nel Cri-
sto, in modo da esigere, risvegliare e guidare l'attività umana della
Chiesa; egli non la rende presente operando a fianco della Chiesa, ma
nella Chiesa e pe1· la Chiesa. Con ciò non si vuol dire che Dio ceda
alla Chiesa la realizzazione dell'opera che rende presente la rivela-
zione nella storia, ma che egli la realizza mediante la Chiesa assunta
come suo strumento; egli assume la Chiesa al suo servizio onde uni-
versalizzare ne~lò spazio e nel tempo la parola rivelante apparsa nella
storia al momento dell'incontro tra il Risorto e i suoi testimoni. LJ
Chiesa non è in grndo di rendere attuale la rivelazione di sua propria
autorità e iniziativa; la sua azione non è un surrogato dell'azione di
Dio; la sua unica funzione è quella di stare al servizio della parob
di Dio che si fa presente di sua libera iniziativa; essa non è despota
della parola di Dio, bensì ne ~ !'ancella. La Chiesa, però, deriva la
ATTUALIZZAZIONE DELLA RIVELAZIONE DEL CRISTO 2I

possibilità di realizzare effettivamente questo servizio da quella mis-


sione e da quell'autorità di cui il Padre l'ha investita mediante il
Figlio e di cui il Nuovo Testamento testimonia ampiamente (cf. ad
esempio Io. 20,21; Rom. 10,14 con la ben nota successione: missio-
ne-predicazione-ascolto-fede-chiamata) e dalla forza dello Spirito san-
to che le è· stato promesso (cf. Le. 24,48 s.; Io. 14,15 ss.; 16,13 ss.:
20,23; Act. 1,5; z,1 ss.; Rom. 8,16; I Cor. 12,3 ss).
Dal momento che in questo modo la parola umana della Chiesa
diventa portatrice e presenza della parola di Dio, alla Chiesa è lecito
applicare alla sua predicazione la parola di Gesù: «Chi ascolta voi,
ascolta mel> (Le. 10,16, ove appare anche chiaramente che accogliere
la parola di Dio è identico all'accogliere la parola del Cristo). Soprat-
tutto le lettere di Paolo recano molteplici attestazioni del fatto che
nella parola e per la parola della predicazione ecclesiale si rende pre-
sente e viene accolta nella fede la stessa parola di Dio: «Nel riceve-
re la parola di Dio da noi predicata, l'accoglieste non come parola
umana ma, qual è in realtà, come parola di Dio, che esercita la su:i
potenza in voi credenti» (r Thess. z,13). «Dio ci ha costituiti depo-
sitari della parola di riconciliazione. Per incarico del Cristo, dunque,
.noi siamo ambasciatori, ed è come se Dio esortasse a mezzo nostro.
Vi supplichiamo in luogo del Cristo: riconciliatevi con Dio!» (2 Cor.
5 ,20 ). Attraverso la parola della Chiesa, la parola di Dio e, per essa,
la salvezza acquista di tempo in tempo il suo 'ecco' nella storia:
«Ecco, adesso è il tempo della grazia: ecco, adesso è il giorno della
salvezza»·( 2 Cor. 6,2).
Se interpretiamo questo render presente la rivelazione nel tempo
e nello spazio, operato dalla Chiesa, in funzione del concetto di attua-
lizzazione, con esso si vogliono significare più cose.
Anzitutto, attualizzare esprime il rapporto con un avvenimento
del passato, significa situare-nel-presente qualcosa che è avvenuto
sì nel passato, ma il cui destino è di essere presente in ogni istan-
te della storia. La Chiesa non ha dunque il compito di predica-
re una dottrina atempbrale, svincolabile dagli avvenimenti storici,
bensl la rivelazione unica e definitiva realizzata nel passato una vol-
ta per tutte nell'avvenimento del Cristo. Essa deve situare nel pre-
sente l'avvenimento del Cristo rivelante, affinché in ogni istante del-
la storia possa realizzarsi nei credenti la stessa realtà che si attuò nei
22 l\IVELAZIONF. F. CHil::SA DELLA lU VELAZIONE

testimoni del Risorto: il dono personale di se stessi al Dio che si


rivela nel Cristo. Col concetto di attualizzaziont; vengono dunque
valorizzati entrambi gli aspetti dell'eph'hapax: l'unicità e l'irrepeti-
bilità del fatto della rivelazione avvenuto nel Cnsto, e la sua finaliz-
zazione e validità per tutti i tempi. «La rivelazione non è qualcosa
che si sta svolgendo nel tempo»,6 ma è qualcosa che continuamente
si fa presente. Nel concetto di attualizzazione è perciò contenuta an-
che l'affermazione che la Chiesa non si aspetta alcuna nuova rivela-
zione che superi la rivelazione fatta nel Cristo; suo compito non può
dunque essere che quello di evidenziare l'unica parola di Dio, di farla
oggetto della sua meditazione e di esprimerla con sempre nuove mo-
dalità nel linguaggio umano.
Ma vi è di più. Quando noi, parlando dell'attualizzazione della ri-
velazione, affermiamo che non solo Dio, ma anche la Chiesa attua-
lizza la parola rivelante nella storia, con ciò stesso diciamo che la
Chiesa ha un compito attivo, partecipa, in virtù della sua peculiare
attività umana, a render presente la rivelazione. Già nell'atto stes-
so di ricevere la rivelazione mediante la fede, la Chiesa non si com-
porta come un soggetto puramente passivo, in quanto la fede è anche
un atto libero dell'uomo; tanto meno lo è allorché confessa e testi-
monia ciò in cui crede nella predicazione, nella liturgia e nella realiz-
zazione di una vita cristiana ispirata a questa fede. Quanto poi al
fatto che questa attività della Chiesa, proprio come attività umana,
attività d'una comunità di uomini peccatori, attività posta al servi-
zio della parola di Dio, costituisca sempre un'imperfetta attualizza-
zione della rivelazione, basta solo un accenno. Infatti, poiché 11on
solo la predicazione della parola (che già di- per se stessa è sempre
inadeguata al suo compito), ma tutta intera l'attività della Chiesa,
perfino la vita quotidiana dei suoi membri sono, ciascuna in modo
diverso, coinvolte in questo compito di situare-nel-presente la rive-
lazione, proprio per iutto ciò sotto molti aspetti, la Chiesa corri-
sponderà selnpre in modo imperfetto al suo compito, e riuscirà quin-
di più difficile all\1manità non-cristiana riconoscere nella Chiesa la
presenza della rivelazione del Cristo. Tuttavia dal momento che Dio
stesso mantiene presente nella Chiesa la sua parola di verità, la rive-

6 ].R. GE1SELMANN, Rivelazione, in Dil', 3 ( 1968) 163-173.


ATTUALIZZAZIONE DELLA lll\IELAZIONE DEL CRISTO 23

lazione fino alla fine dei tempi resterà storicamente percepibile nella
Chiesa e per mezzo della Chiesa, malgrado tutte le insufficienze di
questa.
Infine il concetto di attualizzazione mette in luce un aspetto es-
senziale per comprendere appieno la funzione della Chiesa: attualiz-
zare la rivelazione significa farla presente con la parola e con l'azione
in modo tale, che essa possa pervenire agli uomini di tutti i tempi
in quel preciso momento presente che essi vivono, e cosl possa da
loro essere accolta nella fede e realizzata nella vita. Attualizzare si-
gnifica dunque rendere presente la rivelazione conformemente alla
situazione storica della Chiesa. Ciò equivale pertanto non solo a
negare la ripetizione numerica, dato che il fatto della rivelazione
è irrepetibile, ma anche ad affermare che la Chiesa non può accon-
tentarsi di ripetere semplicemente l'azione con cui in precedenza ha
reso presente la verità rivelata. Ciò è vero anche, nonostante la lo-
ro irreformabilità, dei dogmi definiti dalla Chiesa, anzi perfino del-
la parola della Scrittura. È vero che, per il suo carattere originario e
ispirato, quest'ultima è in modo unico l'espressione della parola di
Dio e norma permanente e non normata della predicazione e della
vita della Chiesa; tuttavia anch'essa, per essere rettamente intesa,
esige una continua interpretazione, spiegazione, traduzione nel modo
di pensare e di esprimersi caratteristici della singola situazione sto-
rica. Al fine di attualizzare il messaggio del Nuovo Testamento, la
Chiesa deve continuamente rimeditare il fatto della rivelazione, testi-
moniato autoritativamente dalla Scrittura, alla luce della norma for-
nita dalla testimonianza e dall'interpretazione biblica.
Da tutto quanto s'è detto dovrebbe risultare chiaro che questa
attualizzazione della rivelazione operata attraverso la Chiesa, non è
una semplice operazione psicologica che riporta nel presente la me-
moria dell'avvenimento passato del Cristo, o una semplice comuni-
cazione d'una dottrina sul Cristo e d'una conoscenza della sua vita
e del suo insegnamento, oppure una semplice. predicazione di norme
etiche di vita già enunciate dal Gesù storico. Se tutto si riducesse
solo a questo, la fede cristiana non differirebbe sostanzialmente dal
ricordo d'un qualsiasi grande del passato e dalla fedeltà ai principi
filosofici od etici da lui enunciati. La fede cristiana è invece qualcosa
di profondamente diverso, essa è il dono personale al Signore, il
24 JIIVELAZIONE E CHIESA DELLA RIVELAZIONE

quale per noi è passato attraverso la morte ed ora è risorto e vive


come eterno Presente; essa è incontro e comunione, non solo inten-
zionale, ma reale, con Dio nel Cristo crocifisso e risorto e presente
nella sua comunità. Unicamente per questa fede la Chiesa non pre-
dica soltanto una dottrina sul Cristo riassunta in formule dogmatiche
ed istruisce sulla vita di Gesù. Indubbiamente anche questo è comp_i-
to della Chiesa, sempre però inteso come servizio per l'attualizzazio-
ne della rivelazione del Cristo. Ma ciò che si realizza nella parola e
nell'azione della Chiesa è qualcosa di incomparabilmente più gran-
de: la parola stessa di Dio rivelata nel Cristo diventa udibile e vi-
sibile, ed in essa e per essa Dio stesso si fa presente, Dio stesso si
dona agli uomini. La distanza temporale e spaziale dal fatto della
rivelazione, avvenuto nel passato, viene cosl superata, e la rivelazio-
ne avvenuta nel Cristo raggiunge tutti i credenti in ogni momento
della storia che si svolge fino alla parusia non solo come dono di
conoscenza di Di9, ma come reale comunicazione di Dio. La massi-
ma attualizzazione della rivelazione per opera della parola e dell'azio-
ne della Chiesa si verifica nell'eucaristia; ma anche qui si può ap-
prendere ciò che si realizza, in modo analogo, in ogni altra parola
ed azione della Chiesa. Non vi è qui, infatti, solo la parola di Gesù:
«Questa è la mia carne, questo è il mio sangue», ma anche l'altra
sua affermazione «Ove due o tre saranno raccolti nel mio nome, là
sarò anch'io presente» (Mt. 18,20).
Finora si è sempre parlato della parola e dell'azione della Chiesa,
la cui opera rende presente la rivelazione. In realtà, se si fosse solo
parlato della parola della Chiesa, si sarebbe potuto dimenticare che
in questa attualizzazione della rivelazione è coinvolta non solo la
parola della Chiesa nelle sue varie forme, ma tutta la sua attività in
quanto ispirata alla fede. La rivelazione esige l'adesione dell'uomo
in tutte le sue dimensioni, e quindi tutto l'uomo credente, nella
realizzazione della sua totale esistenza e non solo nella sua parola,
è impegnato a render attuale la verità rivelata. Certamente spet-
ta alla parola una funzione unica nel suo genere, in quanto ad
essa sola compete l'ufficio di dare alla verità ed al suo significato pra-
tico un'espressione chiara ed univoca. Ma la parola non può essere
separata dall'azione, come bene si manifesta nella liturgia. Ciò è ve-
ro per tutta la vita della comunità ecclesiale, e non solo perché una
ATTUALIZZAZIONE DELLA RIVELAZIONE DEL CRISTO 2.5

condotta di vita in contraddizione con la fede del credente mette in


pericolo la salvezza personale di questi e toglie credibilità alla pre-
dicazione della Chiesa, ma soprattutto perché la funzione della Chie-
sa in vista di far presente la fede nella storia investe tutta la sua con-
dotta esistenziale di vita. La rivelazione salvifica nel Cristo vuole non
solo essere udibile nel mondo, ma vuole anche essere visibile, sensi-
bile, percepibile, sperimentabile per tutti gli uomini. E soltanto l'in-
tera esistenza dell'uomo guidata dalla fede - la sua parola parlata,
la sua vita cristiana d'ogni giorno unitariamente espressa nella litur-
gia e nei sacramenti - costituisce la totalità della parola umano-eccle-
siale in cui la parola di Dio diventa presente nella storia. Il Cristo
non afferma solo: «lo sono la luce del mondo» (lo. 8,12), ma anche:
«Voi siete la luce del mondo... cosl brilli la vostra luce al cospetto
degli uomini, affinché essi vedano le vostre buone opere e lodino il
Padre che è nei cieli» (Mt. 5,14.16). E poiché la rivelazione che Dio
fa di se stesso in ultima analisi è la rivelazione del suo amore e del-
la sua volontà di comunione con gli uomini, consegue che è precisa-
mente quell'amore che ha fondato la comunità dei discepoli di Gesù
(che, d'altra parte, anch'essa non si realizza senza la parola) che in
modo unico rende visibile ciò che nel Cristo è accaduto, accade ed
accadrà: «Da ciò riconosceranno tutti che siete miei discepoli: se
avrete amore gli uni per gli altri» (Io. 14,35). Come l'autorivdazio-
ne di Dio s'è realizzata in un'unità d'azione e di parola, cosi pure
l'attualizzazione di questa stessa rivelazione per opera della Chiesa
si adempie in unità d'azione e di parola, quindi in modo storico.
Come l'uomo Gesù in virtù dell'unio hypostatica è divenuto l'espres-
sione vivente della parola rivelante di Dio, nello stesso modo tutto
l'uomo della Chiesa, in virtù dell'unio gratiae, diventa la rappresen-
tazione della rivelazione di Dio nella storia.
Sulla base di quanto si è detto si può anche affermare che la pre-
senza storica della rivelazione nella Chiesa e per opera della Chiesa
è una presenza corrispondente al tempo della fede, ossia presenza
nel segno che contemporaneamente svela e nasconde. La Chiesa non
è essà stessa la rivelazione, bensl è un segno rappresentativo di
essa. "Essa è il segno nel quale e per il quale la parola di Dio rive-
lata nel Cristo si pone e resta nel presente come potenza salvifi-
ca. La Chiesa è questo segno in tutta la sua strutturazione, in tutta
26 RIVELAZIONE E CHIESA DELLA RIVELAZIONE

la sua attività, in tutta la sua vita di fede, anche se lo è più espres-


samente nella sua attività di predicazione, d'insegnamento e d'am-
ministrazione dei sacramenti. La costituzione Lumen Gentium del
Vaticano II fin dall'inizio indica la Chiesa veluti sacramentum seu
signum et instrumentum intimae cum Deo unionis (n. 1 ). Questa
intimissima comunione tra Dio e uomo, e quindi la loro unità, costi-
tuisce quella realtà che si è realizzata e fu rivelata in virtù della
comunicazione che Dio fece di se stesso nel Cristo. La Chiesa non è
solo signum, puro simbolo, ma anche instrumentum, segno efficace,
in cui e per cui questa realtà diventa presente nella storia.

c. Carattere escatologico della mediazione della Chiesa

La natura e le caratteristiche della mediazione della Chiesa sono so-


stanzialmente condizioeate all'attuale fase della storia della salvezza
in cui la Chiesa si trova a vivere. In contrapposizione con la comu-
nità dell'alleanza veterotestamentaria, per la Chiesa l'avvenimento
storico definitivo e irrepetibile della rivelazione non è più un avve-
nimento futuro da attendere, ma un avvenimento passato in cui essa
si radica e di cui vive. Il suo futuro è la totale maQifestazione, al di
là della storia, di ciò che è stato rivelato nell'avvenimento passato
del Cristo sotto il segno dell'umanità di Gesù. La Chiesa è la comu·
nità escatologica della fede e la sua opera di mediazione della rive-
lazione ha carattere escatologico in quanto in essa e per essa la defi-
nitiva rivelazione avvenuta nel Cristo è sempre in fase di arrivo «:;
rimane presente fino al compimento della storia. La Chiesa non ha
più da attendere una nuova rivelazione o un'integrazione di questa,
ma il suo compito è di situare nel presente d'ogni istante proprio
del tempo che .in_tercorre tra la risurrezione del Signore e il suo ri-
torno, l'unica e sempre uguale rivelazione avvenuta nel Cristo; suo
compito è di rendere udibile nella sua parola umana l'unica ed iden-
tica parola dj. Dio pronunciata nel Cristo, di rappresentarla e di ren-
derla aflèrrabil~ attraverso tutta la sua strutturazione. Il tempo della
Chiesa è «il tempo dèl passato presente, della continua attualizza-
zione della morti= e della risurrezione del Cristo>~.1 cd è quindi il

1 M. ScHMAus, W't1brbeit .a/s Hei/sbegegn1mg, in TFH, 1I196~) 63 (Miinchenl.


ATTU/ILIZZAZIONE DELLA RlVÙAZIONE llEL CRIS'HJ

tempo in cui l'autorivelazione di Dio nella fede, realizzata una volta


per tutte nel fatto del Cristo, continuamente ed ancora per opera stes-
sa di Dio perviene all'uomo nel suo tempo. Nel momento in cui la
Chiesa con la sua parola ed azione rende presente questo fatto salvi-
fico, mediante la Chiesa Dio pone gli uomini di quel dato periodo
storico di fronte alla stessa decisione di fede di fronte a cui furono
posti gli apostoli al momento del loro incontro col Risorto e così,
sempre per la mediazione della Chiesa, si realizza il medesimo fatto
di fede nel Dio definitivamente rivelatosi nel Cristo Risorto, che si
verificò per i testimoni oculari della risurrezione.
Il carattere escatologico della rivelazione del Cristo e della sua
attualizzazione per opera della Chiesa, non significa però in alcun
modo che la parola rivelata di Dio non abbia più storia autentica,
o, che la sua storia consista unicamente nella pura ripetizione di
quanto la Chiesa ha sempre detto, o nella pu1"a assimilazione di
quanto già era noto da sempre. Ciò appare con chiarezza se conside-
riamo che la rivelazione non consiste in una somma di proposizioni
dottrinali emanate una volta per sempre, bensì nella totalità stessa
dell'avvenimento del Cristo - insieme alla preistoria di questi svol-
tasi nella storia dell'alleanza veterotestamentaria -; e inoltre se con-
sideriamo non solo il carattere definitivo di quella rivelazione, in
quanto cioè essa costituisce un avvenimento storico unico avvenuto
nel passato, ma anche l'apertura di nuovi orizzonti che essa ha do-
nato agli uomini credenti. La Chiesa in tutta la sua storia non esau-
rirà mai completamente l'ampiezza di questi nuovi orizzonti che per
essa si sono aperti; con la sua parola ed azione umane e storiche
essa non esprimerà e non renderà presente mai in modo esaustivo ed
adeguato, in tutte le sue dimensioni, aspetti e implicanze, questa au-
tocomunicazione di Dio realizzata nel Cristo. La 'realtà' testimoniata
dalla sacra Scrittura, la parola di Dio che essa rende presente, supe-
ra in ogni tempo la capacità della parola umana della Chiesa, e la
spinge a ricominciare da capo la sua riflessione su ciò che costitui-
sce la sua fede eterna ed a sforzarsi di dare a questo contenuto nuo-
ve spiegazioni e nuove espressioni in funzione dcl tempo in cui si
trova a vivere. Nella situazione storica che costantemente muta, la
Chiesa è sempre chiamata a dare una nuova risposta all'unica e iden-
tica parola di Dio, ad avere un nuovo atteggiamento dell'unica fed...:
KJVELAZIONE E CHIESA DELLA B.IVELAZIONE

nella stessa rivelazione di Dio. Non si esclude cosl il carattere defi-


nitivo della rivelazione; però si esige che la Chiesa, per esempio nei
concilii, dica qualcosa che non ha mai detto, ovvero che lo esprima
in un modo che finora non era mai stato usato - si pensi ad esempio
alle proposizioni del Vaticano II sulla natura e sulla missione della
Chiesa, sull'unione della cristianità separata, sul diritto d'ogni uomo
alla libertà religiosa.
Dal carattere escatologico della Chiesa e della sua opera di me-
diazione- della rivelazione, ricaviamo una considerazione di fonda-
mentale importanza per tutto ciò che dovremo .svolgere dettaglia-
tamente nei prossimi paragrafi sulla predicazione della rivelazione
da parte della Chiesa e soprattutto mediante la sua funzione magi-
steriale. Se la Chiesa nella sua completezza è voluta da Dio quale
mezzo per cui la rivelazione avvenuta nel Cristo rimane presente ed
efficace nella storia, con ciò le è anche concessa la garanzia divina
che essa semplicemente non devierà mai dalla verità della rivelazio-
ne. La verità rivelata non è infatti vitalmente presente nella storia
se si limita al modo d'essere obiettivo che ha nel libro della Scrittura;
essa lo diventa realmente solo quando la rivelazione testimoniata
nella Scrittura viene annunciata, accolta nella fede e viene vissu-
ta concretamente in una vita animata dalla fede. Certamente la sa-
cra Scrittura è in sé il mezzo disposto da Dio, al quale la Chiesa
in ogni tempo si richiama per la sua fede e per la sua predicazione.
Ma quando la verità rivelata si trasfonde nella fede della Chiesa e
nella testimonianza e presentazione di questa fede, allora, e solo al-
lora, questa rivelazione attestata nella Scrittura realizza la sua pre-
senza nella storia; solo se la fede della Chiesa e la presentazione che
essa ne offre nella parola e nell'azione sono vere, la comunicazione
che Dio fa di se stesso è realmente presente quale verità nella sto-
ria. In virtù della stessa natura e significato dell'avvenimento del
Cristo, è impensabile che la Chiesa non possa più annunciare la ve-
rità della rivelazione, e che quindi questa non possa più essere accol-
ta nella fede da alcun uomo. In tal caso non solo la Chiesa cessereb-
be d'essere Chiesa, anche se la sua 'organizzazione' sopravvivesse, ma
lo stesso avvenimento del Cristo cesserebbe d'essere avvenimento di
rivelazione per l'umanità. Se Dio si rivela non soltanto manifestan-
dosi alla fine della storia, bensì facendo irruzione con la sua parola
ATTUALIZZAZIONE DELLA RIVF.LAZION[ DEL CRISTO 29

nel corso stesso della storia, ciò significa soltanto che egli ha deciso
di restar presente nella storia come Dio rivelato agli uomini di tutti
i tempi, e da essi come tale riconosciuto. Il significato della rivela-
zione di Dio in Gesù Cristo è dunque l'affermazione d'una decisione
divina di stabilire una comunità nella quale e mediante la quale la
sua verità rivelata rimane storicamente presente, una comunità me-
diante la cui parola ed azione la sua parola di verità possa essere
raggiunta e udita in ogni tempo. La rivelazione può significare altre-
sl che la volontà divina ha deciso di preservare la Chiesa dalla de-
viazione dalla verità rivelata e dalla caduta nell'errore. Con ciò non
è ancora stabilito fino a qual punto nella Chiesa - in quanto società
di uomini e di uo..1ini peccatori - sia possibile che singoli aspet-
ti dell'unica verità rivelata restino in ombra o siano trascurati, e fino
a che punto siano possibili talune espressioni meno proprie nell'an-
nuncio e taluni fraintendimenti nella conoscenza dei dati rivelati. Si
può soltanto ricordare che, insieme alla definitiva autocomunicazione
di Dio nel Cristo, è stata anche concessa la presenza permanente e
sostanziale della verità rivelata nella fede e nella predicazione della
Chiesa.
Su questo sfondo deve anche essere rivista l'esistenza d'un magi-
stero ecclesiastico abilitato a pronunciare proposizioni dogmatiche in-
fallibili, anche se storicamente condizionate e mai completamente ade-
guate alla parola di Dio. Di tale magistero si parlerà diffusamente
nella II SEZIONE di questo capitolo. Il fatto che nella comunità di
fede dell'Antico Testamento non esistesse un magistero permanente
e ufficiale capace di decisioni dottrinali infallibili - tanto che l'au-
torità religiosa del popolo di Dio veterotestamentario a causa della
sua errata decisione nei riguardi del Cristo poté ufficialmente riget-
tare il compimento della rivelazione - può essere spiegato col carat-
tere solo provvisorio della comunità veterotestamentaria. Invece la
Chiesa neotestamentaria è stata provvista d'un magistero infallibile
proprio perché essa costituisce la comunità di fede definitiva, me-
diante la quale la divina parola rivelata escatologica realizza la sua
permanente presenza nella storia.1 Questa sicurezza di restare nella

3 Ciò non signifiça naturalmente che Dio non si serva anche del profetismo neote-
stamentario per chiamare· la Chiesa e in specie anche il magistero ad una sempre
RIVELAZIONE E CHIESA DELLA RIVELAZIONE
30

verità viene espressamente garantita alla nuova comunità dalla paro·


la del Signore nella promessa che le porte dell'inferno mai prevar-
ranno sulla sua Chiesa (Mt. 16,18), dalla promessa di Gesù di invia-
re lo Spirito di verità alla comunità dei suoi discepoli (lo. 16,7-15)
e di concedere la sua efficace presenza nei suoi rappresentanti auto-
rizzati fino al compimento dei tempi (Mt. 18,20).
Non è qui il luogo d'esporre nei particolari la giustificazione d'una
funzione magisteriale, pastorale e sacerdotale, fondata dal Cristo nel-
la sua Chiesa; ciò è compito dell'ecclesiologia teologico-fondamentalt
e dogmatica. Qui si doveva soltanto indicare in che rapporto si deve
considerare quanto si dovrà esporre nei prossimi paragrafi sull'atti-
vità della Chiesa mirante a mediare e ad attualizzare la verità rivelata.

f. I destinatari dell'attualizzazione della rivelazione


Attualizzare significa sempre 'far diventare qualcosa presente a delle
persone'. L'opera mediatrice della Chiesa è orientata verso dei de-
stinatari. Esamineremo qui brevemente il problema dei destinatari,
al fine di comprendere più chiaramente la natura e il significato della
funzione mediatrice della Chiesa.
L'espressione di Gesù riferita in Mt. 28,19 e Mc. 16,15 s., secon-
do cui gli apostoli debbono comunicare il messaggi.o di salvezza «a
tutti i popoli», cioè «ad ogni creatura», è anzitutto l'investitura d'una
missione; i destinatari di questo annuncio, esplicitamente enunciati,
sono coloro che non hanno ancora ascoltato il messaggio, coloro che
non appartengono ancora alla comunità di fede cristiana. Per questo
motivo, nella parola di Gesù, il comando di battezzare è unito all'in-
carico di predicare: coloro che accolgono il messaggio, in virtù del
sigillo sacramentale della loro fede devono essere accolti nella co-
munità dei credenti nel Cristo.
Il Nuovo Testamento però testimonia anche esplicitamente che
tutta la prassi della Chiesa primitiva non si limitava alla predicazio-
ne che conduceva ad accettare la fede, ed all'accoglimento nella co-

più profonda riflessione sulla rivelazione avvenuta. Resta naturalmente escluso che
i profeti ecclesiastici della comunità di fede neotestamentaria abbiano da comunicare
una nuova parola di Dio rivelata, compito invece che era connesso con la missione
dei profeti veterotestamentari.
ATTUALIZZAZIONE DEI.LA RlVELllZlONE DEL CRISTO )I

munità. Gli apostoli e i loro collaboratori seguono assiduamente le


comunità, continuano ad annunciare loro il Vangelo, ammoniscono,
mettono in guardia, incoraggiano, consolano. E tutto ciò essi non lo
fanno solo oralmente, ma anche per iscritto. Il Nuovo Testamento
non ci testimonia soltanto la predicazione missionaria, ma anche le
predicazioni nelle comunità, l'istruzione dei fedeli, i riti comunitari e
l'amministrazione dei sacramenti, riservata direttamente ai soli fedeli.
Ci troviamo allora di fronte a due gruppi fondamentali di desti·
natari dell'opera mediatrice della Chiesa: i non-cristiani e i cristiani."

aa. I non-cristiani come destinatari della mediazione ecclesiale del-


la rivelazione - Non diciamo a ragion veduta gli 'increduli' per il fat-
to che se, sulla base della volontà universale di salvezza da parte di
Dio, riconosciamo una storia generale della salvezza, non possia-
mo semplicisticamente identificare con gli increduli quegli uomini
che non sono ancora giunti alla fede cristiana. In effetti, dobbiamo
certamente riconoscere che tra i non-cristiani vi sono uomini che ri-
fiutano l'offerta della grazia che raggiunge ogni uomo, e che sono,
quindi, autentici increduli (come d'altronde è purtroppo possibile
che vi siano cristiani che non hanno fede). In ogni caso il primo
compito della Chiesa è quello di annunciare la verità rivelata a tutti
coloro che non sono ancora pervenuti alla conoscenza ed all'accet-
tazione del messaggio della rivelazione. Essa non deve soltanto inte-
ressarsi di vincere con la testimonianza della parola e dell'azione la
resistenza degli autentici increduli, ma anche di portare la fede pu-
rnmente 'germinale', non ancora cosciente dell'umanità non cristiana
alla coscienza mediante la parola rivelante di Dio, di guidarne la ret-
t:i evoluzione verso una piena maturità di riflessione e infine, me-
diante il sacramento della fede, d'incorporare alla sua comunità di
fede coloro che così hanno cominciato a credere cristianamente, e
renderli capaci di partecipare alla sua testimonianza alla rivelazione
di Dio nel Cristo.
La Chiesa non deve dunque affrontare l'umanità delle religioni

9 La costituzione De Ecc/esia del Vaticano 11 in diversi punti parla di questa dop


pia cerchia di destinatari della mediazione ecclesiastica del messaggio e\•angelico, CO$~
ad es. nn. 17, 2.~. 35.
RIVEl.AZTONE E CHIESA DELLA RIVELAZIONE

non-cristiane con la coscienza angustiata, quasi che si trattasse di


un'umanità abbandonata da Dio e perduta se non vi fosse la sua
opera mediatrice; in tal modo dimenticherebbe che essa stessa ha
solo una funzione strumentale e che, in quanto tale, è sì unita a Dio,
ma che Dio nella sua azione salvifica non dipende dal suo strumento.
Anche là dove Dio salva senza la cooperazione della Chiesa, si tratta
sempre d'una salvezza operata attraverso il Cristo ed orientata alla
Chiesa: le religioni non-cristiane in qualità di configurazioni sociali
deficienti della fede pre-cristiana sono prefigurazioni imperfette della
Chiesa. 10 Ma la Chiesa, mediante la parola della rivelazion~ di cui
essa è mediatrk:e, deve liberare la fede implicita dell'umanità non-
cristiana dalle sue false articolazioni e dalle sue interpretazioni erra-
te, e la deve condurre ad una esplicitazione ed univocità categoriali.
La predicazione missionaria e la testimonianza esistenziale sono i
mezzi con cui essa conduce l'umanità non-cristiana dall'ambito della
storia generale della salvezza in quello della storia speciale della sal-
vezza che si svolge in essa e per la sua mediazione. La Chiesa deve
occuparsi di realizzare questa testimonianza missionaria, quantunque
sia Dio con la sua azione nella storia a disporre il kair6s dei popoli
non-cristiani. Questa testimonianza può tramutarsi per tali popoli in
un incontro efficace e decisivo colla rivelazione del Cristo. La predi-
cazione missionaria ai non-cristiani, tuttavia, non deve aver luogo
soltanto in quei paesi che tradizionalmente sono indicati come terri-
tori di missione, bensì, oggi più che mai, anche nei paesi cosiddetti
cristiani. Se non può considerare semplicemente come increduli que-
sti non-cristiani (come anche i 'non-cristiani' battezzati), è chiaro che
la Chiesa deve sentirsi inviata anche per essi col compito di media-
trice del messaggio rivelato.

bb. I cristiani come destinatari della mediazione ecclesiale della


rivelazione - L'opera di mediazione della rivelazione da parte della
Chiesa non cessa al momento in cui il suo messaggio viene accolto
nella fede, cosl come non cessa mai la sua opera di mediazione della
grazia di salvezza. Come ogni membro della Chiesa deve essere sem-
pre un attivo cooperatore alla funzione mediatrice della Chiesa, così

to Cf. al riguardo le riflessioni di A. Dmrlap, in Mysleririm S11/utis I/I, pp. 204 ss.
ATTUAL!7.ZAZIONI!. DELLA RIVELAZIONE DEL CRISTO
33

pure ogni membro della Chiesa rimane sempre destinatario e recet-


tore della predicazione ecclesiale. La fede del cristiano resta peren-
nemente in pericolo e resta perciò costantemente affidata alla testi-
monianza della parola e dell'azione della Chiesa, non solo della Chie-
sa ufficiale, ma di tutta la comunità ecclesiale.
La conoscenza della fede per il cristiano non è mai al termine,
ma è sempre in via; il suo sviluppo è affidato all'ascolto costante
della predicazione ecclesiale nelle sue forme più diverse, e al dialogo
coi fratelli nella fede. La conoscenza della rivelazione è pur sempre
esposta alle:. incomprensioni ed all'errore; è quindi necessaria la
norma dell'interpretazione fornita dalla Chiesa nella sua integralità
al fine di proteggersi contro le interpretazioni errate. Così la Chiesa
in molti modi opera costantemente da mediatrice della verità rivelata
per la Chiesa stessa: essa non è dunque soltanto portatrice della me-
diazione della rivelazione, ma ne è çontemporaneamente la destina-
taria.
Come destinatari della predicazione ecclesiale, noi designiamo qui
tutti i cristiani, non solo i cattoÌici, anche se i cristiani non-cattolici
sono raggiunti dalla predicazione della Chiesa cattolica in modo di-
verso dai cattolici. Poiché le comunità cristiane non-cattoliche non
sono semplicemente 'non-Chiesa', ma l'unica Chiesa è presente an-
che in esse, 11 possiamo e dobbiamo dire che, da un lato, anche esse
partecipano alla funzione mediatrice della rivelazione ch'è propria
alla Chiesa del Cristo, e che, dall'altro, anch'esse appartengono alla
schiera dei des.tinatari dell'attività di predicazione e di insegnamento
della Chiesa cattolica. çome la loro testimonianza di fede può valo-
rizzare aspetti della verità rivelata che furono offuscati o trascurati
nella coscienza della comunità di fede cattolica, sl che ~on la loro
testimonianza esse possono giovare alla Chiesa cattolica spingendola
ad approfondire la riflessione su tali aspetti, altrettanto la Chiesa
cattolica deve testimoniare anche alle altre comunità cristiane la co-
noscenza che essa ha ricevuto della rivelazione, anzi, in virtù del cari-

11. L'esistenza di elementi ecclesiali costitutivi e quindi la presenza dell'unica Chie-


sa nelle comunità di fede non-cattolica, che, per tal motivo, vengono designate espres-
samente come 'Chiese e comunità ecclesiali', viene affermata sia dalla costituzione
De Ecclesia (n. I5) come pure • .dal decreto De Oecumenismo (n. 3, 14-23) del Vati-
cano 11.

3 Mystcrium salutis / 2.
RIVE I.AZIONE E CHIESA DELLA RIVELAZIONE
34

sma dell'infallibilità del suo magistero nelle sue proposizioni defini-


tivamente vincolanti, essa è in modo speciale abilitata e chiamata a
dare testimc.iriianza della verità a tutta la cristianità. Se gli altri cri-
stiani non credono di poter accettare tutto il contenuto della sua testi-
monianza di fede, ciò non dimostra affatto che la sua testimonianza
sia del tutto inefficace.
Lu mediazione della rivelazione ai cristiani e quella rivolta ui
non-cristiani non sono naturalmente due mediazioni indipendenti ed
autonome, ma stanno_ in un rapporto reciprnco molteplice. La Chie-
sa non è una comunità di fede chiusa in se stessa, bensì una comunità
aperta: essa tutt'intera sta al servizio di coloro che ancora non sono
stati raggiunti dal messaggio della rivelazione, e proprio per questo
motivo essa è anche tutt'intera dedicata al servizio dell'attualizza-
zione della rivelazione del Cristo nella storia e contemporaneamente
all'adorazione di Dio nel mondo per la mediazione del Cristo. La
predicazione della fede a coloro che già credono non avviene soltan-
to in vista della loro salvezza personale, ma affinché esista una comu-
nità di fede che, all'umanità che ancora non conosce il Cristo, comu-
nichi il messaggio della salvezza nel Cristo. D'altra parte proprio la
predicazione del Vangelo all'umanità ancora non-cristiana contribui-
sce alla testimonianza che Ja Chiesa deve dare ai suoi membri: essa
è la vivente rappresentazione della sua fede nella volontà di salvezza
di Dio rivelata e universale.

2. Immediatezza e mediazione della rivelazione

Al problema se la rivelazione raggiunga i credenti immediatamente


o mediatamente, sembra innanzitutto che non si possa porre che
questa alternativa: o si pone l'accento sulla funzione mediatrice della
Chiesa e specialmente del suo magistero e quindi si ammette che la
rivelazione è sostanzialmente mediata verso il credente (in questo
caso come si risponde alla obiezione così frequentemente sollevata
che, in base alla dottrina cattolica su questa funzione mediatrice del-
la Chiesa, la Chiesa e particolarmente l'ufficio ecclesiale si frappor-
rebbe con violenza tra il credente e il Dio rivelato, sostituendo così
con una realtà umana l'immediatezza del rapporto dell'uomo con
IMMEDIATEZZA E MEDIAZIONE DELLA RIVELAZIONE 35

Dio?); oppure, per salvare la immediatezza del rapporto personale


del credente col Dio della rivelazione, si accetterà che nel fatto della
fede l'autorivel~fune di Dio nei riguardi del singolo uomo si rinno-
vi costantemente. Ma, con una tale interpretazione attualistica della
rivelazione, com'è possibile salvare la storicità e l'eph'hapax della
rivelazione <lei Cristo, e come si può ancora sostenere un discorso
su una sua attualizzazione e mediazione per opera della Chiesa? Non
si dovrebbe piuttosto parlare della fondazione a posteriori d'una con·
gregatio di tutti coloro che sjpgolarmente e immediatamente softo già
stati raggiunti dalla parola di Dio?
Le questioni che nascqno dai due aspetti del problema senza dub-
bio vanno prese sul. serio. La risposta al problem(l che abbiamo posto
viene qui di seguito formulata per pro~sizioni. Naturalmente do-
vremo talvolta ripetere quanto già è stato detto al riguardo.

a. L'immediatezza nel fatto della rivdàz1one

Se, da un lato, il rifiuto dell'eph'ha.pax dell'azione rivclante di Dio


avvenuta storicamente nel Cristo vorrebbe significare che il fatto del-
la rivelazione nel singolo uomo viene considerato come un nuovo
atto di rivelazione sempre rinnovato da parte di Dio; dall'altro lato,
un misconoscimento naturalistico del fatto della fede significherebbe
che la venuta della rivelazione nella fede dell'uomo viene attribuita ad
u;,.',attività umana d'annuncio ad opera della Chiesa. Infatti lo stesso
Dio.'rivelanté'non soltanto assume al suo servizio la parola umana
della Chiesa e in essa e pèr essa situa continuamente nel presente
la sua parola divina, ma, comunicandosi all'uomo mediante il dono
della grazia, opera anche e conserva in lui la conoscenza e l'accogli-
mento della sua parola rivelante. Secondo il Nuovo Testamento, lo
Spirito santo apre il cuore dell'uomo mediante l'azione della grazia,
lo induce dunque a riconoscere la rivelazione stessa di Dio e con ciò
opera il confronto diretto col Dio della rivelazione. La verità della
rivelazione entrata nella storia nel Cristo Gesù e predicata dalla Chie-
sa, può essere accolta nella fede solo se Dio, che in definitiva è que-
sta medesima verità, opera nell'uomo questa accettazione con la sua
azione immediata, anzi attualmente immediata. Allorché mediante la
grazia del perdono e della santificazione, Dio comunica se stesso al-
RIVELAZIONE E CHIESA DELLA JllVELAZIONE

l'uomo, egli opera contemporaneamente nell'uomo l'accettazione libe-


ra e cosciente di questa grazi.a. Soltanto nel collegamento tra l'a~ione
'orizzontale' della mediazione ecclesiastica della parola coll'azione
'verticale' dell'intervento di Dio sempre rinnovato, la verità divina
rivelata nel Cristo e mediata dalla Chiesa diventa per il singolo uomo
un avvenimento di fede. Tuttavia questo avvenimento pone l'uomo
raggiunto dalla predicazione della Chiesa di fronte a Dio stesso e
non di fronte ad una realtà diversa da Dio. Per quanto l'enunciazione
verbale della verità divina rivelata nell'avvenimento del Cristo e
tutta la sua rappresentazione umana nella Chiesa raggiunga il sin-
golo solo mediante un'azione orizzontale nella storia, tuttavia nel
fatto di fede, volta per volta operato da Dio, lo stesso Dio rivelato
si pone immediatamente di fronte al singolo uomo, e l'uomo rispon-
de nella fede a questo medesimo Dio che si è rivelato definitivamen-
te nel Cristo. E proprio questo immediato confronto tra Dio che si
rivela e uomo che ascolta è il fine della funzione mediatrice della
Chiesa. Solo in questa immediatezza la fede diventa dono personale
dell'uomo al Dio personale; ma solo in virtù dell'attualizzazione del-
l'avvenimento del Cristo operata da Dio mediante la Chiesa la fede
diventa incontro con quel Dio che si è manifestato una volta per tut-
te in Gesù Cristo. Questa immediatezza del rapporto tra il fedele e
Dio, realizzata nell'atto di fede, è perciò mediata dalla Chiesa; ciò
non toglie che si tratti però di un'immediatezza.
Vedremo qui di seguito come la rivelazione sia anche realmente
mediata in più d'un senso. Da ciò tuttavia risalterà ancora più chiaro
che la mediazione della rivelazione, rettamente intesa, non è affatto
in contraddizione coll'immediatezza di cui si è parlato, ma piuttosto
dev'essere intesa al suo servizio.

b. L'origine storica della mediazione della rivelazione

La rivelazione raggiul)-ge per via mediata sia il popolo eletto vetero-


testamentario sia quello neotestamentario. Ciò risulta dal fatto che
Dio manifesta se stesso e la sua volontà di grazia giustificante e sal-
vifica attraverso l'avvenimento d'una storia umana, sia pure da lui
operata e guidata, ed attraverso la parola umana che tale storia in-
IMMEDIATEZZA E MEDIAZIONE DELLA RIVELAZIONE
37

terpreta e spiega ai portatori che da Dio sono incaricati e autorizzati


alla rivelazione. La storia dell'alleanza fµ il mezzo per cui, grazie,
all'autorevole interpretazione dei profeti, Israele riconobbe Jahvé
come suo Dio, quel Dio che, con libera elezione, lo scelse come suo
popolo, quel Dib che, per grazia, volle stabilire con il suo popolo
una comunione di vita e che restò fedele alle promesse d'alleanza.
La storia di Gesù Cristo, specialmente quella della sua morte e della
sua risurrezione, è stato il mezzo per cui, grazie all'interpretazione
data a questi avvenimenti della parola stessa di Gesù, la comunità
della nuova alleanza può riconoscere il Dio di Israele come colui che
nel suo Figlio per opera dello Spirito santd accoglie e giustifica per
grazia tutta l'umanità peccatrice. In tutta la storia della salvezza dun-
que, tutti gli avvenimenti operati da Dio nell'uomo - in Israele e
in Gesù Cristo - e le interpretazioni verbali di tali avvenimenti
date dai portatori della rivelazione, immediatamente chiamati e illu-
minati da Dio, costituiscono il medium attraverso cui Dio si rivela
alla comunità di fede da lui prescelta. II carattere mediato della rive-
lazione, realizzato dalla mediazione operata dai portatmfi umani,
viene espresso con la formula introduttiva della lettera agli Ebrei
che caratterizza in modo pregnante tutta la storia della salvezza:
«Dio, dopo aver per il passato a più riprese e in diversi modi parlato
ai Padri mediante (Èv) i Profeti, in questi giorni, gli ultimi, ci ha
parlato mediante (È\1) suo Figlio» (Hebr. 1,1).
La rivelazione definitiva che Dio fa di se stesso si distingue dalla
rivelazione prqiaratoria dell'Antico Testamento non in forza del
fatto che essa si sarebbe svolta senza mediazione e senza mediatore
umano, bensl perché il mediatore ora non è più semplicemente il
Servo di Dio ma suo Figlio (cf. Mt. 21,37), e perché il soggetto
della storia da interpretare si identifica con Io stesso interprete degli
avvenimenti. L'affexmazione fondamentale del Nuovo Testamento che
l'uomo-Cristo Gesù è il nostro unico mediatore (cf. I Tim. 2,5) vale
per l'avvenimento della salvezza anche proprio perché esso è avveni-
mento di rivelazione. Il Figlio di Dio in quanto uomo è semplice-
mente il mediatore della rivelazione. L'aspetto caratteristico di tutta
la storia della salvezza, che è quello d'una mediazione umana della
parola rivelante di Dio, in Gesù Cristo perviene al suo culmine in
RIVELAZIONE E CHIESA DELLA RIVELAZIONL

quanto egli è il L6gos divino fatto uomo. 12 Nel momento in cui la


parola sostanzialmente eguale al Padre, mediante l'unione ipostatica,
assume una reale natura umana creata, l'uma,nità di Gesù Cristo di-
ventò instrumentum coniunctum divinitatis, ossia l'organo, diverso
dalla divinità ma ad essa congiunto nell'unità della persona, di cui
Dio si servl per comunicare e rivelare se stesso. Questo instrumen-
tum è congiunto alla .divinità non solo in un rapporto proporzional-
mente più intimo di quello che collegava gli instrumenta separata, i
profeti dell'Antico Testamento, ma ne è sostanziàlmente diverso. Se
ci rendiamo conto che la 'natura umana del Cristo' non ha un puro
significato statico, ma è la concreta realizzazione dell'esistenza uma-
na che comprende tutta intera la vita di Gesù, la sua azione t soffe-
renza, la sua morte e risurrezione e soprattutto la sua predicazione, 13
allora è chiaro che in Gesù Cristo non solo l'autocomunicazione obiet-
tivamente ontologica di Dio all'umanità ha raggiunto il suo massi-
mo vertice assoluto, ma qui si è realizzata al massimo la sua comu-
nicazione riflessa e testimoniata personalmente, ossia l'autocomunica-
zione come autorivelazione. Il Cristo è questa autocomunicazione e
questa manifestazione fatta persona. L'umanità di Gesù - sempre in-
tesa nella sua concreta realizzazione storica - è il 'mezzo espressivo'

12 H.U. VON BALTHASAJI ravvisa nel doppio mistero della Trinità e dell'incarnazione
la radice del diKOrso umano (passato nella Scrittura) su Dio: «Perché Dio ha in s.:
stesso l'eterna Parola che lo esprime eternamente, è fondamentalmente esprimibile,
e per il fatto che questa stessa parola ha assunto forma umana ed ha espresso ciò
che essa è in Dio con azioni e parole umane, essa è divenuta comprensibile per gli
uomini. li primo fatto senza il secondo a nulla ci gioverebbe, mentre il secondo senza
il primo sarebbe impensabile. L'identità della persona di Cristo nelle sue due nature,
come Dio e come uomo, è la garanzia che la traduzione della divina Verità in fonne
terrestri è possibile, esalla, adeguata nel Cristo ... La verità di Dio tuttavia, nella su.l
esattezza, è personale (poiché la parola è la persona del Figlio), e quindi sovrana e
libera. Il Figlio non è una fotocopia meccanica del Padre, bensì è quella riprodu·
zione che soltanto l'amore perfetto in perfetta sovranità è in grado di generare. Quc·
sto è il motivo per cui anche la traduzione della parola divina in parola umana per
opera dcl Figlio resta sovrana e libera e verificabile soltanto e sempre nello stesso
Figlio~: \\7ort, Schri/t, Traditio11. in Verbum Caro. Ski?zen wr Theologie. 1, Ein-
siedeln 1960, p. 20.
Il «Tutto l'umano nel Cristo è rivelazione di Dio e parla di Dio. Nella sua vita,
azione, sofferenza e risurrezione non vi è nulla che non esprima, interpreti, rapprc·
senti Dio nella lingua della creatura». Allora si può anche affermare che «tutta intera
la natura umana del Cristo è un me:izo di espressione (principimn quo) della s1u
Persona divina (principium quod), che, a sua volta, è l'espressione del Padre»: H.U.
\ION BALTllASAR, op. cit., p. 1r.
IMMEDIATEZZA E MEDIAZIONE DELLA RIVELAZIONE
39

più perfetto di cui Dio s'è servito per rivelare se stesso, è semplice-
mente la 'manifestazione' perfetta di Dio nel mondo, il 'simbolo' più
perfetto in cui Dio si rende visibilmente presente: «Chi vede me,
vede il Padre» (Io. 14,9). 14
Con ciò però si viene anche ad ammettere che la stessa rivelazione
storica definitiva di Dio ci raggiunge mediante l'umanità di Dio ed è
perciò sostanzialmente rivelazione mediata. Nell'umanità di Gesù, in-
fatti, il Verbo personale di Dio è visibilmente presente nel mondo,
ma la sua presenza si realizza in modo tale, che possiamo riconoscer-
la soltanto attraverso e per mezzo della sua umanità a cui compete,
come elemento costituti~o, la parola umana. Non solo Gesù Cristo,
nella sua qualità di L6gos fatto carne, è la verità e la parola di Dio
nella sua concretezza storica, ma, in qualità d'uomo ch'è ripieno di
Pnéuma divino e che già nella sua esistenza terrena per grazia con-
templa la Divinità, egli è colui che in vii;tù della sua visione ci inter-
preta la presente parola di Dio per mezzo della sua parola umana,
cd è quindi per noi la via permanente d'accesso alla verità ed alla
parola di Dio: «Noi parliamo di ciò che sappiamo, e testimoniamo
di ciò che abbiamo visto» (Io. 3,11 ). «Nessuno ha mai visto Dio;
ma ora ecco, lo ha rivelato un Dio Unigenito, che riposa nel seno del
Padre» (lo. 1,18). Per la conoscenza di Dio, quale ci raggiunge nella
definitiva rivelazione della salvezza, dobbiamo dunque per sempre
rivolgerci all'umanità di Gesù, al Gesù storico che ne è il mediatore:
«Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio
voglia rivelarlo» (Mt. II,17).
La mediazione storica della rivelazione di Cristo che si realizza
per mezzo della Chiesa ha precisamente lo scopo di evidenziare il
fatto che Gesù Cristo non è per noi unicamente l'occasione d'una co-
noscenza di Dio che, in fondo, potremmo conseguire anche senza dì
lui o al massimo insieme a lui, ma che la sua umanità storica, la sua

14 «L'umanità dcl Cristo è della rivelazione di Dio il mezzo primario, accessibile,


che rivela nd nascondimento, che diventa trasparente nell'ascensione, comunque però
il mezzo non più revocabile per l'eternità, il mezzo che non potrà mai più scompa-
rire». Bisogna però subito soggiungere: cL'adeguazionc che nel Figlio si realizza
tra espressione e contenuto non CK]ude che il contenuto, il quale è divino. anzi è
Dio stesso, sia sempre più grande della sua forma espressiva creata»: H.U. \'ON Bn-
TllASAR, Verbum caro. Skiuen lUr Theologie, 1, Einsiedeln 1960, p. 2r.
RIVELAZIONE E CHIESA DELLA RIVELAZIONE

vita umana, il suo destino e la sua parola umana (per quanto a noi
l'esatta formulazione verbale delle sue parole non sia più accessibile
con sicurezza) costituiscono il mezzo nel quale e per il quale solo
l'automanifestazione definitiva di Dio è e resta a noi accessibile. In
questo senso la rivelazione di Dio al suo vertice stesso è rivelazione
mediata. Tale carattere mediato non è dunque soltanto determinato
dalla distanza temporale che ci separa da coloro che furono testimoni
personali dell'avvenimento del Cristo, ma è radicato nella natura
stessa della rivelazione storica quale si è realizzata nel Cristo. La me-
diazione in questo senso vale anche per gli apostoli e per tutti gli
altri testimoni oculari ed auricolari del Gesù storico. Per quanto essi
potessero contemplare ed ascoltare colui che è la parola personale
del Padre e quindi la rivelazione stessa di Dio, tuttavia ad essi ii
Dio della salvezza e la volontà salvifica di Dio non si resero noti im-
mediatamente. Essi compresero tutto ciò solo nell'umanità e per
l'umanità di Gesù, attraverso tutto quanto umanamente e storica-
mente in lui s'era realizzato fino alla risurrezione del Crocifisso e
grazie alla rivelazione del senso e dell'importanza di tutto ciò che essi
ricevettero negli incontri col Risorto. Persino nel Vangelo di Gio-
vanni, che sottolinea vigorosamente la presenza e la visibilità della
d6xa di Dio nel Cristo, la sovranità di Dio appare soltanto nella
trasparenza della 'natura' umana del L6gos incarnato.
Già per l'Antico Testamento si è visto il pericolo che questa tra-
ditio della parola rivelante di Dio a portatori umani, e la sua media-
zione attraverso la parola umana, possa pregiudicarla ed ostacolarne
l'affermazione come parola di Dio. Viene affermato perciò non solo
che Jahvé fa conoscere ai profeti la sua parola e la sua volontà e li
invia e li autorizza a comunicarla al popolo - «Poi stese Jahvé la
sua mano e toccò la mia bocca, dicendo: 'Ecco, io oggi ti pongo so-
pra i popoli e sopra i regni per sradicare e demolire, per annientare
ed abbattere, per edificare e piantare\\> (ler. l,9-10)-, bensì che Dio
conserva costantemente al suo servizio i mediatori umani della rive-
lazione allorché questi esercitano il loro ministero, li assiste con la
sua presenza efficace e cura personalmente che la sua parola rivelata,
anche nella sua umana traduzione, rimanga parola di Dio e come
tale pervenga al popolo di Dio (cf. ad esempio Ier. l,19; 15,20; 30,
r r.46.28). Questo problema del rapporto tra la parola mediatrice.:
IMMEDIATEZZA E MEDIAZIONE DELLA RIVELAZ!()NE

umana e la parola di Dio si presenta pure al vertice dell'autorivela-


zione di Dio; per quanto in Gesù Cristo si faccia presente nel mondo
il Verbo stesso personale di Dio, tuttavia anche in Gesù deve realiz-
zarsi la 'traduzione' della parola divina nel fatto e nella parola uma-
ni, al fine che quella parola diventi afferrabile e udibile dagli uomini.
Il problema viene risolto nel Nuovo Testamento in quanto Gesù
vi viene rappresentato come il portatore dello Spirito senza limità-
zioni (d. Le. 4,18 ss.), la sua missione dal Padre vi viene continua-
mente richiamata (Io. 7 ,2 7 e altrove), egli stesso afferma che parla
di ciò che personalmente ha udito e visto (lo. l,18; 5,19 ss.; 7,29;
8,26), che la sua parola umana non esprime una dottrina sua, ma la
dottrina del Padre (Io. 7,16 s.), che il Padre è presente ed opera in
lui, ed è garante e testimone della verità della sua parola (Io. 5,37;
8,14 ss.) e che il Padre stesso trae al Cristo coloro che egli ha eletto
(lo. 6,44). «Quando avrete levato in alto il Figlio dell'uomo, allor.i
conoscerete che io non sono, e che nulla faccio da me, ma dico ciò che
il Padre mi ha insegnato. E colui che mi ha mandato è con me: egli
non mi lascia mai solo, perché io faccio sempre ciò che a Jui piace»
(lo. 8,28 s.). La garanzia ultima che l'azione e la parola umana di
Gesù sono l'espressione e la rappresentazione umano-storica veri-
tiera de1la parola rivelatrice di Dio, per la dottrina ecclesiale sul-
l'unio hypostatica risiede nel fatto che in Gesù Cristo si è incarnato
Dio; non si deve tuttavia dimenticare che l'uomo Gesù - che proprio
in virtù della sua personale unione con Dio ne gode la visione bea-
tifica -, il suo agire umano e la sua parola umana, rappresentano il
mezzo attraverso cui la presenza della grazia di Dio nel mondo di-
venta visibile ed afferrabile, e che proprio il carattere assoluto delle
asserzioni di questo mezzo, attraverso cui Dio si è rivelato, dev'es-
sere garantito.

c. Il carattere mediato della rivelazione


nel!' attualizzazione ecclesiale

Nel contesto del presente capitolo è ora necessario rivolgere la no-


stra particolare attenzione alla mediazione della rivelazione per opera
della Chiesa nel tempo tra l'ascensione del Cristo e la sua parusia.
Questa mediazione non è necessaria per i testimoni oculari ed auri-
42 RIVELAZIONE E CHIESA OELLA l!IVEL/\ZIONE

colari del Risorto, per i quali la rivelazione di Dio fu mediata sol-


tanto dall'umanità di Gesù e chiarita dall'azione del suo Spirito
santo. Tutti gli altri invece, che sono chiamati alla stessa fede degli
apostoli, siano pur essi contemporanei del Gesù storico e degli apo-
stoli oppure cronologicamente da essi distanti, sono raggiunti dalla
rivelazione del Cristo solo in virtù della mediazione ecclesiale. Sotto
questo aspetto non dobbiamo dunque ancora distinguere tra il perio-
do apostolico e quello successivo. Dovremo invece distinguere tra il
periodo dei testimoni oculari autorizzati e il periodo postapostolico.
Ma questa distinzione è secondaria rispetto a quella che riguarda i
testin;i~ni oculari dell'avvenimento del Cristo, e specialmente del
Cristo risorto dai morti, scelti e investiti d'autorità. La mediazione
ecclesiale non incomiMia solo nel periodo postapostolico, ma con
coloro che furono i testimoni oculari dell'avvenimento della rivela-
zione ed insiém~ la prima comunità di fede di Gesù. Nei testimoni
oculari autorizzati dal Cristò inizia gi~, sotto l'azione dello Spirito, la
'traduzione' della parola di Dio, scambiata alla fine nel loro incon-
tro col Risorto, nella forma linguistica della Chiesa, come la possia-
mò osservare, nei suoi primi inizi, nel discorso della Pentecoste di
Pietro e nel battesimo dei nuovi 'aggiunti' (Aci. 2,41 ). Nella primu
Pentecoste,. la rivelazione definitiva accolta nella fede degli apostoli,
iniziò a produrre la forma espressiva umana della Chiesa. Per quan·
to la predicazione degli apostoli durante la vita terrena di Gesù pos-
sa essere considerata come una preparazione alla loro attività post-
pasquale, tuttavia la rivelazione definitiva inizia a tradursi solo col
fatto pentecostale, poiché solo con la morte e la Risurrezione di Gesù
si giunge al vertice della rivelazione, a quel punto cioè che dà signi-
ficato a tutto ciò che l'ha preceduto. In questo momento, dunque, la
pawla e l'azione della Chiesa diventano il mezzo umano senza il qua-
le e al di fuori del quale nessun uomo può incontrare la rivelazione
del Cristo. 15
Nei riguardi di questa necessaria mediazione ecclesiale-storica del-
la rivelazione, sorge ora nuovamente il problema se la rivelazione,

15 A questo riguardo· non si deve dimenticare che se il contenu10 della rivelazione,


che in ultima analisi è Dio stesso, supcira in quanto 'sempre più grande' lo stru-
mento 'umanità di Gesù', ciò vale a llla~ior ragione dello strumento 'Chiesa'
MEDIAZIONE APOSTOLICA E POSTAPOSTOLICA
43

a causa di questo suo entrare nella forqa della parola e dell'azione


ecclesiale-umana, possa effettivamente con~rvarsi parola di Dio. Per
quanto si possa e si debba sottolineare il fatto che la parola rivelata
di Dio era già penetrata nel Cristo in forma umana e .s.t<!rica, ~ co,n
ciò aveva reso possibile l'assunzione della forma umano-eccl~siale,
tuttavia non è lecito ignorare la difierenza tra l'incarnazione del Ver-
bo nel Figlio fatto uomo, e l' 'incarnazione' del Verbo fattosi car-
ne nei testimoni e in tutta la comunità di Gesù Cristo. Ne verre~­
be inevitabilmente falsificata e diminuita l'efficacia della pprqla ~i
Dio pronunciata nel Cristo, se si volesse intendere la sua tradw,iorie
e interpretazione ad opera degli apostoli e della Chiesa come u~(pro­
ccdimento puramente naturale e come attività autonoma della Chie-
sa. Il Nuovo Testamento tuttavia attribuisce espressamente questo
procedimento all'assistenza efficace del Signore perennemente presen-
te alla sua comunità (cf. Mt. 28,20), ed all'impulso della grazia ed
all'illuminazione dello Spirito santo che il Cristo ha promesso per
tutti i tempi ai suoi annunciatori, Spirito destinato a 'ricordare' loro
e ad 'introdurli' ad 'annunciare' ed a 'glorificare' per me~zo loro il
Cristo, ed a trasformarli in testimoni qualificati (cf. Io. 16';r Act. 1 ,;
ss. ). Quel che Paolo dice della confessione del messaggio ci-isti~no:
«Nessuno può dire 'Gesù è il Signore' se non nello Spiritò.J!into»
( 1 Cor. 12,3 }, si può dire con egual ragione di tutta la predi~azione
e mediazione del messaggio della salvezza fatta dalla Chiesa.
All'altra questione, che si pone rispetto al carattere mediato della
rivelazione per opera della Chiesa, se cioè l'immediatezza del rap-
porto tra il fedele e Dio non venga annullata da un'entità umana,
si è già data una risposta più sopra (cf. 2 a): la mediazione ecclesiale
è al servizio dell'immediatezza del rapporto del fedele con Dio che si
rivela nel Cristo.

3. Mediazione apostolica e postapostolica

Se in precedenza si è affermato che la mediazione ecclesiale della


rivelazione è iniziata con la prima predicazione degli apostoli, e da
quel momento la presenza della rivelazione nella storia è stata sem-
pre mediata per via ecclesiale, non si deve però perdere di vista che
RIVELAZIONE E CHIESA DELLA RJVELAZlONE
44
a questa fondamentale 'cesura' è subordinata la distinzione tra il pe-
riodo apostolico e quello postapostolico. Questa distinzione si espri-
me nella perenne convinzione che la Chiesa ha dell'unicità del col-
legio apostolico, e dell'irrepetibilità della sua funzione per il proces-
so di fondazione della Chiesa. Occorre però riflettere con precisione
m che cosa consista e in che cosa non consista questa distinzione.

a. La 'conclusione' dell'avvenimento della rivelazione

In generale si è soliti dire che la rivelazione si è conclusa con la fine


dell'età apostolica. 16 Questa affermazione ha come presupposto che
l'avvenimento della rivelazione non si sia concluso con la fine dellà
presenza visibile di Gesù sulla terra, ma che si sia prolungato du-
rante la vita degli apostoli: gli apostoli, dopo che Gesù ascese al
cielo, sarebbero stati fatti partecipi di altre, in un certo senso inte-
grative, rivelazioni non derivate dal Gesù terreno o dalle conversa-
zioni col Risorto, bensl dallo Spirito santo. 17 Nonostante questa dif-
fusa interpretazione, si pone ancora con diritto la questione se il pro-
cesso della rivelazione prosegua in senso proprio anche dopo che il
Cristo è asceso al cielo, e quindi non si concluda affatto col termine
della presenza visibile del Cristo sulla terra. A noi sembra megliri
fondato, e più conseguente, affermare che non si dovrebbe parlare
d'una rivelazione ulteriore in senso proprio, cioè come integrazione
del contenuto della rivelaziol).e comunicato dal Cristo visibile (prima
e dopo la Pasqua). Si dovrebbe dunque far coincidere la fine del-

16 Prescindendo dal problema dell'istante preciso in cui si vuol v"dere concluso


l'avvenimento della rivelazione, si può dire che la stessa espressione 'conclusione
della rivelazione' è ambigua. «Sarà però meglio evitare qui il termine 'conclusione',
in quanto non adeguato al cristianesimo. La pienezza raggiunta non è affatto una
conclusione bensi piuttosto un inizio. Si tratta dell'inizio di un'infinita azione di.
trasfusione della pienezza del Cristo nella pienezza della Chiesa, la crescita della Chie-
sa e del mondo verso la pienez.za del Cristo e di Dio, come viene descritta nella
lettera agli Efesini,. (H.U. voN BALrtlASAR, Wort, Schrift, Tradition, in Verbum Caro,
r, Einsiedeln 1960, p. 27). Col termine 'conclusione' si vuol naturalmente intendere
che l'avvenimento storico, che apre nuovi orizzonti, in se stesso è limitato nel tem·
po; contemporaneamente esso sottolinea la «consumata unicità per cutti i tempi» (lbid.,
p. 146) dell'avvenimento rivelante del Cristo.
17 Queste rivelazioni successive, opera dello Spirito santo, sarebbero state. almeno
per gli apostoli, rivelazioni immediate, ossia non mediate attraverso l'umanità storica
di Cristo.
MEDIAZIONE APOSTOLICA E POSTAl'OSTOLICA
45

l'autentico avvenimento della rivelazione con la fine del Cristo visi-


bile. Con ciò non si vuole in alcun modo sminui.re la particolarè
importanza dell'azione dello Spirito santo nell'età apostolica; si vuo-
le soltanto dire che in quest'attività non si deve vedere la produ-
zione di autentiche rivelazioni, ossia di verità nuove non ancora con-
nesse in alcun modo coll'avvenimento del Cristo. Ci sembra d'essere
meglio aderenti alle affermazioni stesse del Nuovo Testamento, se
intendiamo l'azione dello Spirito nel periodo apostolico come un'as-
sistenza divina concessa agli apostoli al fine di renderli capaci di
comprendere e di sviluppare in modo più esplicito e riflesso la pa-
rola rivelante di Dio pronunciata definitivamente con l'apparizione
del Risorto. Si avrebbe cosl una migliore aderenza alla missione affi-
data dal Cristo agli apostoli, di predicare soltanto ciò che il Cristo
stesso ha insegnato loro (Mt. 28,19), come pure alla promessa del
Paraclito, che non parla di altre nuove rivelazioni, ma di «ricordare»
la verità già comunicata dal Cristo e d'«introdurre» in quella ve-
rità che gli apostoli per il momento non sono in grado d'intendere
pienamente, ma che già possiédono in una comprensione di fede non
ancora del tutto sviluppata (cf. Io. 14,15 ss.; 16,7 ss). «L'annuncio
delle cose da venire» che Gesù attribuisce allo Spirito (Io. 16,13)
non può contraddire la sua affermazione d'aver egli già fatto cono-
scere tutto ai suoi apostoli (Io. l 5 ,15) e d'aver egli rivelato ai suoi
il nome del Padre (lo. 17 ,6 ).
La funzione dello Spirito santo - anche nell'età postapostolica -
dev'essere dunque intesa com.e un'azione d'apertura dei credenti alle
non mai pienamente esauribili dimensioni della rivelazione. L'ipotesi
di un'integrazione della rivelazione realizzata nell'avvenimento del
Cristo è anche difficilmente conciliabile con quella che è la concezio-
ne fondamentale del Nuovo Testamento, secondo cui nell'uomo-Dio
Gesù Cristo la verità stessa di Dio nella sua pienezza si è fatta pre-
sente nel mondo (cf. ad esempio Io. 1,9.17), tanto che il Cristo può
dire di sé: «lo sono la Verità» (Io. 14,6). La stessa ipotesi inoltr~
difficilmente s'accorda con la natura dell'incarnazione come avveni-
mento di rivelazione. Sarebbe infine piuttosto difficile far concorda-
re questa ipotesi con la funzione mediatrice dell'umanità del Cristo,
se si ammette che, dopo la rivelazione mediata dall'umanità di Gesù,
RIVELAZIONE F. CHIESA DELLA RIVELAZIONE

gli apostoli hanno ricevuto un'ulteriore rivelazione immediata ad ope-


ra dello Spirito santo.

Non si deve naturalmente ignorare il fatto che ;·gli apostoli - cosa che
appare chiaramente negli scritti neotestamentari - nel corso degli anni
pervennero ad espressioni tali che non erano loro possibili al tempo delb
presenzn visibile del Cristo, n~ nei primi tempi che seguono b sua dip~r
tita. Tuttavia queste conoscenze posti::riori e la loro formulazione sono
focilmcnte concepibili come sviluppo che flQrt:I a ulteriore chiarilic:1-
zione la verità già rivelata loro nell'avvenimento stesso Jd Cristo, e so-
pratutto nei loro incontri col Risorto. Quest<p sviluppo riflesso fu loro reso
possibile dall'azione dello Spirito santo, che li portò a riflettere in pro-
fondità sull'avvenimento del Cristo. Certamente questa riflessione si di-
stingue da quella dei successivi pensatori cristiani in quanto Dio stesso
si rende garante della sua verità e della sua oggettivazione negli scritti
neotestamentari. Così pure, non è necessario ipotizzare un'autentica rive-
lazione da parte dello Spirito santo per quelle disposizioni istituzionali de-
gli apostoli .che viucolano la Chiesa per sempre; si pensi agli esempi, spes-
so citati nella tradizione, del rito sacro dell'imposizione delle mani per
la comunicazione dello Spirito (confermazione), ed al battesimo dei ham-
bini. Tutto si può ben comprendere come una concretizzazione, guidata
dallo Spirito, di ciò che è già contenuto nella rivelazione del Cristo.
Il facto poi che nella tradizione ci si imbatta spesso in discorsi sulb
rivelazione dello Spirito santo dopo l'ascensione del Cristo al cielo, non
costituisce, a nostro parere, un'obiezione decisiva all'opinione da noi so-
stenuta. Infatti il termine 'rivelazione' in tutta la tradizione è spesso
inteso in un senso più ampio, come una guida che si attua sotto l'influsso
dello Spirito; e cosl anche il termine 'ispirazione' spesso non è usato in
senso stretto.
È ovvio citare in controistanza il decreto della 1v Sessione del concilio
Tridentino sulla Scrittura e la tradizione (ns I 501 ). Questo decreto, quan-
do menziona le tradizioni non scritte, distingue tra quelle che gli apostoli
ricevettero dalla bocca del Cristo (ab ipsius Christi ore acceptae e orete-
nus a Christo), e quelle che ricevettero dallo Spirito santo (Spiritu Sancto
dictante e a Spiritu Sancto dictatae). Si deve tuttavia osservare prima di
tutto che questa affermazione non si riferisce all'oggetto proprio della defi-
nizione tridentina, bensl fu formulaia solo in relazione alle definizioni sul
significato della Scrittura e della tradizione. Si deve inoltre osservare che
questa affermazione sull'azione ispirante dello Spirito santo è formulat;i
in modo talmente ristretto e generale, da essere suscettibile e da richie-
dere ulteriori interpretazioni teologiche, come del resto nessuno oggi pen-
sa di prendere alla lettera il dictatae della formulazione tridentina. La for-
mulazione conciliare autorizzerebbe l'ipotesi che si tratti di quell'ispirn-
MEDIAZIONE APOSTOLICA E POSTAPOSTOUCA
47
zione dello Spirito santo operata nel periodo apostolico per una compren-
sione più profonda e riflessa dell'avvenimento del Cristo sotto la sua par-
ticolare guida ed illuminazione, il che corrisponde all'azione d'approfondi-
mento della rivelazione svoltasi nella Chiesa primitiva normativa.
Ma anche se si volesse accogliere l'ipotesi d'una rivelazione autentica,
integrativa, concessa agli apostoli ad opera dello Spirito santo, non si po-
trebbe ignorare in primo luogo che secondo il Nuovo Testamento solo il
Cristo risorto invia ai suoi apostoli lo Spirito <li verità (Io. 16,7 ), e poi
che questa rivelazione ulteriore dello Spirito è subordinata alla sostanu
della rivelazione: fatta nell'avvenimento del Cristo, e che serve alla sua
comprensione ed al suo sviluppo. Questa rivelazione dello Spirito non
costituirebbe in ogni caso una rivelazione autonoma, una rivelazione 'nuo-
va' in senso assoluto accanto alla rivelazione avvenuta nel Cristo.
Anche intendendo l'avvenimento del Cristo in senso lato, ossia in modo
da includervi non solo l'esistenza visibile di Gesù presso i suoi discepoli,
ma anche la 'fondazione' della rivelazione nella Chiesa primitiva operata
dal Cristo Risorto mediante il suo Spirito, l'avvenimento visibile e docu-
mentabile svoltosi fino all'ascensione al cielo del Signore anche in questo
caso costituirebbe senza confronti l'avvenimento della rivelazione avvenuta
nella fede dei testimoni, e una rivelazione successiva ne sarebbe soltanto
una 'risonanza' e un' 'eco'.

b. Il depositum fidei

Quando il magistero e la teologia parlano della mediazione della rive-


~ azione ad opera della Chiesa postapostolica, ricorrono spesso al con-
cetto del depositum /idei o del depositum apostolico: è compito della
Chiesa conservare fedelmente e spiegare rettamente il patrimonio
di fede ad essa affidato dal Cristo per mezzo degli apostoli. La rifles-
sione su questo concetto derivato dal Nuovo Testamento (1tapaih;x11:
1 Tim. 6,20; 2 Tim. 1,12.14) è utile per rendere ancora più chiara,

sia la funzione unica degli apostoli come pure il compito permanente


affidato alla Chiesa postapostolica.
Il problema può essere cosl impostato: chi è il deponens? Chi è
il depositarius? Che cosa viene depositato, in che consiste cioè il
depositum? Come si realizza la depositio? Le risposte a queste do-
mande sembrano assai semplici a prima vista ma, a un esame più at-
tento, sorgono subito altri interrogativi.
Deponentes, si pensa, sono indubbiamente gli apostoli, in quanto
qui si tratta proprio del depositum apostolico (cf. 2 Tim. 1 ,12: "!tapa-
RIVELAZIONI! E CHIESA DELLA RIVELAZIONE

&Tjx'r} µou ); per essi ancora il depone11s è il Cristo stesso, ossia Dio
nel Cristo: - gli apostoli hanno depositato quanto essi stessi hanno
ricevuto dal Cristo, in modo tale che esso possa essere consegnato
alla Chiesa per tutti i tempi. Depositarius sono innanzitutto le co-
munità del tempo apostolico, in particolar modo i capi, i predicatori,
i maestri stabiliti in esse dagli apostoli, nelle cui mani fedeli essi
consegnarono la 'ltapa~-fixTJ, e poi la Chiesa, soprattutto sotto la guid:i
dei portato :i del ministero. Come depositum, ossia ciò che è stato
deposto, si è soliti indicare il patrimonio della fede, la verità cri-
stiana rivelata che la Chiesa deve custodire e mediare. La depositio
avvenne in due modi: prima mediante la predicazione orale e l'atti-
vità missionaria degli apostoli, per cui essi, in certo modo, deposi-
tarono la verità, da loro stessi accolta nella fede, nello spirito fe-
dele della loro comunità; in secondo luogo mediante gli scritti com-
pilati ~ loro stessi o dai loro collaboratori, scritti nei quali 1a testi-
moniank apostolica assunse forma di documento. In questo modo
il depositum ftdei assunse una doppia forma d'esistenza: una, sog-
gettiva, nella fede vivente della Chiesa; l'altra, oggettiva, nel libro
della Chiesa. Partendo da queste due forme, intimamente collegate
tra loro, d'esistenza del depasitum, la mediazione della verità rive-
lata presente nella Chiesa poté svilupparsi in questi due modi: con-
fessione e predicazione delle verità credute, trasmissione e spiega-
zione della sacra Scrittura.
Volendo esaminare con maggiore accuratezza il contenuto di ciò
che gli apostoli con la loro parola depositarono nella Chiesa per que-
sta duplice via, ossia ciò che già essi stessi dovevano conservare e ciò
che invece dovevano affidare alla Chiesa perché questa lo conservas-
se, siamo condotti a riconoscere che questo deposito, in definitiva,
non consisteva già nella loro predicazione e nel loro insegnamento -
dunque neanche nel Nuovo Testamento come fissazione scritta della
predicazione apostolica -, ma esattamente in ciò che gli apostoli ave-
vano il compito di predicare e chiarire col loro insegnamento; il che,
in fondo, si riduceva al solo avvenimento del Cristo, e precisamente
in quanto esso culmina nella risurrezione e glorificazione di Gesù e
solo in esse trova il suo pieno significato. La fede cristiana infatti,
in fondo non è diretta alla parola della predicazione ecclesiale, nep-
pure alla parola degli apostoli, bensl a Dio in quanto egli ha rivelato
MEDIAZIONE APOSTOLICA E POSTllPOSTOLICA
49

se stesso e la sua volontà di salvezza nell'avvenimento del Cristo.


Ma l'avvenimento del Cristo in sé e per sé non è raggiungibile dalla
Chiesa apostolica né da quella postapostolica; esso alla Chiesa viene
sempre incontro soltanto nella predicazione e nell'insegnamento de-
. '
gli apostoli, nella sua 'traduzione' nella testimonianza e nell'inter-
pretazione dei testimoni oculari. L~ Chiesa dunque può comprendere
l'autentico deposi:um soltanto sot~6 la forma con cui la predicazione
e l'insegnamento degli apostoli gliel'ha affidato. Dal momento poi
che questa attività apostolica per la Chiesa postapostolica è concre-
tamente percepibile solo negli scritti neotestamentari, a questi 1a
Chiesa deve continuamente rivolgersi per il suo incontro di fede col
Dio rivelatosi nel Cristo.
Quando, dunque, diciamo che la Chiesa deve custodire e mediare
il depositum apostolico o il depositum fidei, in definitiva intendiamo
dire che essa deve rendere presente lo stesso avvenimento del Cristo
e la rivelazione che si è operata attraverso ad esso. Il suo impegno
ultimo ed autentico non è dunque la parola degli apostoli, per quan-
to a questa, a motivo del suo carattere ispirato, completa una fun-
zione mediatrice unica nel suo genere, bensì piuttosto quel che la
parola apostolica intende e descrive, ossia la stessa parola di Dio
pronunciata nel Cristo. Tuttavia alla parola degli apostoli ed alla sua
custodia fedele spetta un significato unico e permanente, in quanto
la Chiesa non solo non può scorgere l'avvenimento della rivelazione
senza tener conto della parola apostolica ispirata, ma lo può contem-
plare soltanto grazie alla mediazione di questa.
Far consistere il depositum, che la Chiesa deve custodire, nello
stesso avvenimento rivelante della salvezza, implica un riconoscimen-
to fondamentale per l'attualizzazione chç la Chiesa opera della rive-
lazione. A questo riconoscimento si è· già accennato in precedenza,
ma noi vogliamo riprenderlo qui con 1k parole di H.R. ScHLETTE:
«Con questa tesi non solo si dice che le in;imagini ed i concetti di
cui disponiamo stanno in un rapporto 'analogico' con quanto essi
intendono esprimere, ma si afferma che, oltre a questa analogicità di
rappresentazione, ogni discorso, non solo a causa del suo carattere
analogico, ma precisamente a causa del carattere d'avvenimento pro-
prio del mistero originale, è necessariamentt: incapace di esprimere
compiutamente ciò di cui parla e che, dal rrlomento che non possia-

4 Mysterium salutis / 2.
.50 RIVELAZIONll E CHIESA DELT.A RIVllL,\7,lONE

mo rinunciare al linguaggio - particolarmente al linguaggio autori-


tativo -, ogni discorso proprio come discorso dogmatico deve in linea
di principio restare nel campo dell'incommensurabile. Ogni discorso
dogmatico n~lla storia della Chiesa è in grado di circoscrivere il de-
positum o (come ora si dice meglio) l'avvenimento della salvezza, di
difenderlo dalle eresie, di testimoniarlo, ma, anche sommando tutte
le possibili formulazioni storiche di quell'avvenimento, non si può
includerne il significato nella lingua, poiché, per far ciò, occorrerebbe
una capacità d'intuizione e di comprensione che supera ogni possi-
bilità umana: noi infatti siamo oggi nella condizione della fede, non
in quel!~ della visione. Tuttavia, per quanto le cose stiano così, dob-
biamo ugualmente confessare la nostra fede, ossia 'parlare' del fatt0
che Dio ci ha dischiuso il mistero del mondo, della storia e della sua
stessa esistenza in un modo che è assolutamente insuperabile e che
noi diciamo 'escatologico'»} 8 La custodia del depositum fidei dun-
que non consiste in definitiva nella conservazione di determinate
formulazioni ecclesiastiche della rivelazione, bensì nella custodia del
vero signincato specifico di quell'avvenimento principe, ossia nel-
la sua difesa contro non rette interpretazioni e errori, come pure -
in senso positivo -, presupponendo l'uso della lingua umano-storica,
nella ricerca d'una sua possibile esplicazione ottimale, e quindi an-
che nella predicazione ottimale <li questa permanente origine. 19

c. Mediazione ecclesiale apostolica e postapostolica

A partire dall'avvenimento fondamentale della rivelazione, che si con-


cluse con l'incontro dei testimoni oculari col Cristo risorto e con la
discesa pentecostale dello Spirito ordinata a quell'incontro, la rive-
lazione viene mediata per opera della comunità di fede di Gesù. Tut-
tavia esiste senza dubbio una differenza tra la mediazione ecclesiale
durante l'età apostolica e quella che si realizza nei tempi successivi
da essa sempre piì1 distanziantisi. Prima di chiarire in che cosa con-

H.R. SCHLETTE, Dogmengcschichtc und Geschicbtlichkeit des Dogmas, in V. BER·


18
NING •P. NEUENZEIT H.R. SCHLErTE, Geschichtlichkeit umi Olfenbartmgswabrheit,
Milnehen 1964, p. 8.J.
19 Ibid., p. 86.
MEDIAZIONE APOSTOLJ~A E POSTAPOSTOLICA .')I

sista questa differenza, vogliamo sottolineare ciò che è comune a


queste età.

aà. La mediazione ecclesiale della rivelazione non iritominciò solo


dm l'inizio del periodo postapostolico, ma nel momento stesso in cui
i testimoni oculari con la loro testimonianza e predicazione incomin-
ciarono a diffondere quanto avevano appreso attraverso le apparizio-
ni del RisortÒ :equanto av~vano. ric9nosciuto nella fede. Fin dalla
prima predicazione apostolica la rivélazione si è calata nella form.a
della parola comunitaria e da quel momento la paròla umana della
Chiesa 20 rimane la forma e la portatrice della parola di Dio. A tutto
il periodo di tempo -che intercorre t~a ,l'ascensione del ,Q:isto e là
sua parusia appartiene come caratteristica comune il fatto che la .pa-
rola divina rivelata, apparsa nell'avvenimento del ,Cristo, raggiunge
l'uomo attraverso la mediazione della comunità di fede, e che l'uo-
mo incontra il Cristo come rivelazione di Dio soltanto nella testi-
monianza della Chiesa. Perciò, dall'inizio alla fine della presenza del
Cristo nello Spirito santo, la fede è una fede mediata ecclesialment.e.
Nulla cambia di sostanziale in questa fondamentale realtà per il fatto
che i primi predicatori all'età apostolica furono i testimoni oculari
dell'avvenimento rivelatore della salvezza, e neppure per il fatto che
all'inizio la predicazione si sviluppò solo oralmente, e solo a poco
a poco anche per mezzo degli scritti neotestamentari ai quali, dopo
la definizione del Canone scritturistico, la Chiesa nella sua totalità è
vincolata. Infatti, tanto nella predicazione orale, quanto in quella
scritta, la parola di Dio si presenta sotto la forma della parola propria
alla testimonianza umana. E non è neppure vero che l'ulteriore svi-
luppo del kérygma primitivo, ossia delle prime affermazioni fonda-
mentali sulla rivelazione, si sia compiuto soltanto nella Chiesa post-
apostolica; infatti si può chiaramente riconoscere un tale sviluppo
già nell'età apostolica. Il processo di sviluppo conoscitivo e teorico
che nella Chiesa è operato dallo Spirito santo, appartiene alla natura
della vivente tradizione ecclesiale, ed è quindi carattere comune sia
della Chiesa apostolica che di quella successiva.

20 Anche se si deve dire che la Chiesa fu pienamente costnu11a solo alla fine
dell'età apostolica, tuttavia la nuova co1nunità di salvezza è già virtualmente ope-
rante negli apostoli in virtù della loro fede nel Risorto.
52 RIVELAZIONE E CHIESA DELLA RIVELAZIONE

bb. Il carattere particolare ed unico della mediazione esercitata


durante l'età apostolica deriva dal fatto che essa avviene per opera
e sotto il controllo di quegli stessi testimoni oculari dell'avvenimen-
to ultimo della rivelazione, che sono incaricati e autorizzati alla pre-
dicazione dallo stesso Risorto, e che dallo stesso Cristo sono posti
a fondamento della Chiesa; di quegli stessi insomma che hanno il
compito di adattare la rivelazione alla storia e quindi di costituire
la Chiesa primitiva ( Urkirche) come fondamento e norma della Chie-
sa di tutti i tempi. Gli undici e - a causa dell'apparizione sulla via
di Damasco - Paolo 21 stanno entro l'avvenimento della rivelazione,
o meglio, essi appartengono all'avvenimento storico della rivelazio-
ne, che in effetti non sarebbe veramente rivelazione storica senza uo-
mini che come tale lo hanno riconosciuto e accettato. Gli apostoli 22
costituiscono la prima comunità di fede scelta dal Cristo, ma anche:
l'an~llo di congiunzione essenziale, creato ed autorizzato dal Cristo
tra l'avvenimento della rivelazione e l'umanità per la quale esso è
stato voluto e dalla quale esso deve essere accolto. Questo anello è
unico ed irreperibile in virtù della natura del 'passaggio' dall'avve-
nimento storico del Cristo all'umanità credente. La permanente con-
vi-pzion~ della Chiesa sulla personale infallibilità degli apostoli espri-
me' anche il fatto che la rivelazione del Cristo non sarebbe pervenuta
all'umanità e quindi non avrebbe avuto senso, se alla funzione unica
degli apostoli non fosse stata collegata una garanzia divina, unica nel
suo genere, per assicurare il fondamentale insediamento della rivela-
zione nella comunità della Chiesa. Proprio perché il soggetto della
rivelazione permanente non avrebbe dovuto essere il singolo uomo
isolato, ma una comunità storica, il radicamento della rivelazione nel·
la storia non poté consistere nei singoli atti della predicazione apo-
stolica, ma dové abbracciare necessariamente l'intera attività degli
apostoli rivolta alla fondazione della Chiesa, e quindi l'intero perio-
do apostolico. Questo radicamento nella storia comprese non soltan-

21 Per Paolo si aggiunge inoltre il fatto che egli viene accolto nella comunità ecde-
siale già esistente e fondata dalla predicazione degli undici, e che egli accoglie in sé
una tradi:àone già esistente.
ll Non si può naturalmente trattare in questa sede d'una descrizione completa del-
la posizione, dell'ufficio e delle particolari prerogative degli apostoli. Cf. al riguardo
E.M. KREDEL ·A. KoLPING, Apostolo, in DzT, r (21967) r27·143 (con bibliografia); K.
H. SCHELKLE- H. BACHT, Apostel, in LTK2 , 1(1957)734-738 (con bibliografia).
MEDIAZIONE.APOSTOLICA E POSTAPOSTOL!CA
53

to la proclamazione dell'avvenimento della rivelazione di Gesù Cri-


sto, ma anche la sua ulteriore interpretazione a seguito dell'incessan-
te attività di mediazione e di riflessione su di esso; abbracciò la con-
creta attuazione della presenza permanente della rivelazione realizzata
attraverso la determinazione delle azioni sacramentali, dei ministeri
e degli ordini.
Vi è dunque un duplice carattere distintivo che caratterizza la
mediazione della rivelazione per opera degli apostoli e la rende uni-
ca: 1) negli apostoli, nella loro qualità di testimoni oculari del Risor-
to, per la prima volta l'avvenimento del Cristo appare nella storia
come definitiva rivelazione di Dio, e diventa in modo originario
l'avvenimento storico della rivelazione; 2) ad opera degli apostoli
la rivelazione, che era già pervenuta ad essi, viene costituita median-
te la parola interpretativa, testimoniante, orale e scritta, e mediante
l'attività autoritativa ecclesiale della comunità in cui la rivelazione
deve restare presente nella storia. Viene cosl costituita la Chiesa nel-
la sua struttura essenziale concreta, e - con un procedimento che
abbraccia tutto intero il periodo apostolico - la rivelazione assume
la sua fondamentale forma ecclesiale. Questa funzione unica degli
apostoli implica però che la forma ecclesiale dr.Ila rivelazione, assun-
ta durante il periodo apostolico, sia la norma permanente per la
Chiesa di tutti i tempi. La Chiesa primitiva non è dunque semplice-
mente il primo periodo storico della Chiesa, ma, proprio a causa
della .presenza testimoniante e dell'attività costitutiva della Chiesa
esercitata dai testimoni oculari apostolici, è una realtà unica e nor-
mativa per la Chiesa postapostolica.2.l
Il fatto che la testimonianza degli apostoli (e dei collaboratori che
stavano nella loro comunità), la loro interpretazione normativa del
patrimonio testimoniato, la loro attività costitutiva della Chiesa, e
che la struttura, la vita delle comunità primitive sotto la loro guida si
siano come depositate in una testimonianza concreta nelle scritture
ispirate del Nuovo Testamento, ha reso possibile, alla forma data
alla rivelazione dei testimoni oculari nella Chiesa primitiva, l'esten-

2.l Per quanto riguarda il carattere di fondamento permanente e di norma perma-


nente della Chiesa primitiva rispetto a tutti i tempi futuri, cf. K. RAHNEll, Su/l'ispi-
r1nione della sacra Scrittura, Coll. «Quaest. disp.», Brescia r967, pp. 46 ss.
RIVELAZIONE E CHIESA DELLA RIVELAZIONE

sione ddla sua azione e funzione normativa a tutti i tempi, diven-


tando cosl percepibile in tutti i tempi come norma della Chiesa post-
aposto]ica. La trasformazione per iscritto della predicazione apostoli-
ca appartiene, cosl, in modo essenziale al processo costitutivo della
primitiva Chiesa normativa.
La Chiesa postapostolica ha riconosciuto ufficialmente il suo lega-
me con la predicazione apostolica e con la forma assunta dalla rive-
lazione nella Chiesa primitiva, determinando il canone degli scritti
neotestamentari. I suoi maestri ufficiali hanno in verità assunto la
funzione permanente di mediare in modo autentico la rivelazione.
ma non sono testimoni oculari del fatto della rivelazione e non sono,
come gli apostoli, fondamenti della Chiesa. Per il singolo credente
la mediazione della Chiesa postapostolica è realmente norma per co-
noscere la rivelazione; tuttavia essa è in grado di fornire una norma
solo in quanto è essa stessa normata dalla predicazione e dall'azione
degli apostoli cosi come è testimoniata negli scritti neotestamentari.
A ragione la Chiesa non ha mai inteso questo suo legame con la te-
stimonianza apostolica nel senso d'una ripetizi~ne mecc.anica del ke-
rygma apostolico e d'una predicazione fedelmente ricalcata sulle
forme verbali tramandate dagli apostoli; essa intende piuttosto re-
stare fedele alla norma apostolica precisamente rendendo presente
in modi sempre nuovi, conformemente alla sua situazione storica,
la parola di Dio, interpretandola e sviluppando il particolare valore
che essa assume nelle varie circostanze storiche. La Chiesa postapo-
stolica, come già gli stessi apostoli, deve incessantemente rivolgere
il suo sguardo al fatto della rivelazione, cioè a quanto fu mediato
dalla predicazione degli apostoli ed a ciò che il loro insegnamento
intese spiegare; tuttavia essa contempla il fatto della rivelazione e
percepisce la parola che Dio per suo mezzo ha pronunciato soltanto
attraverso la parola predicata ed interpretata dagli apostoli. Pertan-
to, essa non può esercitare la sua funzione di mediatrice della rive-
lazione ignorando la testimonianza degli apostoli; la sua predicazione,
la sua interpretazione, il suo insegnamento sono sostanzialmente vin-
colati alla norma apostolica che, in virtù della testimonianza aposto-
lica della sacra Scrittura, resta invariata, presente, percepibile ed effi-
cace nella Chiesa. Ciò che la Chiesa postapostolica ha il compito di
mediare, in definitiva non è la testimonianza apostolica sulla rivela-
HllUTTURE DELLA MEDl/IZIONE DELLA lllVELAZIONE

zione, bensi la rivelazione stessa da questa testimoniata; tuttavia


Ja. sua opera di mediazione consiste nel rendere attualmente presente
la rivelazione subordinatamente alla testimonianza degli apostoli e
sotto la loro guida. Suo compito pertanto è di rendere presente la
rivelazione mediante l'incessante attualizzazione della testimonianza
seri tturistica su di essa.
La garanzia che la Chiesa postapostolica resta fedéI-e alla testimo-
nianza apostolica, ne è efficace interprete e mediatriée e non la de·
forma né la falsifica nel suo insegnamento - per lo meno helle sue
definizioni dogmatiche -, questa garanzia, in ultima analisi, non di-
pende dalle capacità umane del portatore della mediaaiçme ecclesiale
della rivelazione, bensì è data dallo Spirito santo, che opera nella
Chiesa e che ad essa fu promesso per tutta la durata della sua esi-
stenza terrena. Lo Spirito santo rende present~ la rivelazione avve-
nuta nel Cristo solo nel rapporto della Chiesa con la testimonianza
apostolica contenuta nella Scrittura e nelia sua conformità con essa;
questa fedeltà della Chiesa alla testimonianza degli apostoli nella to-
talità e nella sostanza della sua predicazicme ~ nelle sue espressioni
vincolanti sulla rivelazione, è anch'essa, in fondo, opera dello Spirito
santo. Proprio per questa fiducia nell'efficacia della guida dello Spi-
rito, la Chiesa postapostolica - malgrado la situazione differente in
cui si trova rispetto alla Chiesa apostolica, la quale occupa una situa-
zione privilegiata per la presenza dei testimoni oculari - è certa, in
ogni tempo, di non trovarsi mai, nella sua predicazione e nel suo in-
segnamento, in sostanziale disaccordo con la parola normativa degli
apostoli, anzi d'essere con essa in legame d'unità e continuità sostan-
ziale. Ciò non esclude che la fedeltà della Chiesa, a volte, non possa
andare soggetta ad oscillazioni, e che quindi essa non debba conti-
nuamente esaminarsi sulla fedeltà alla testimonianza apostolica e con-
tinuamente riorientarsi alla luce della permanente norma apostolica.

4. Strutture della mediaiione della 1·ivelazione

Finora, quando abbiamo parlato di mediazione ecclesiale della rive-


lazione, abbiamo sempre inteso la Chiesa in senso assolutamente ge-
nerale. Prima di passare alla dascdzione dettagliata di questa media-
lllVELAZIONE E. CHIESA. DELLA RIVELAZIONE

zione, vogliamo indicare sommariamente come si struttura tale fun-


zione mediatrice. Questa struttura è determinata dalla diversità dei
portatori della funzione mediatrice della Chiesa, dalla diversa speci-
ficità dei mezzi usati per realizzarla, dal genere e dalle modalità con
cui si esplica l'attività mediatrice e dai destinatari a cui si rivolge.
Già nella Chiesa apostolica è possibile riconoscere queste componenti
di struttura; nel periodo postapostolico poi esse assumono configu-
razioni sempre più nette sotto diversi aspetti, si adattano alle situa-
zioni storiche della Chiesa e vengono pure influenzate dalle situazioni
cultwali e sociali del tempo. Cosi, ad esempio la funzione del por-
tatore della mediazione magisteriale della rivelazione, sotto l'influen-
za di diversi fattori storici può assumere una valutazione cosl unila-
terale, da non permettere una sufficiente valorizzazione, nel pensiero
e nella vita della Chiesa, del portatore non ufficiale, ossia del laico
e delle personalità carismatiche e profetiche. Ovvero, può capitare
che la predicazione della parola venga parzialmente obliterata da un
sacramentalismo unilaterale.
Volendo fornire una visione sommaria, che necessariamente deve
presupporre i dati d'una ecclesiologia compiutamente sviluppata, qua-
le verrà esposta nel IV volume, possiamo distinguere i seguenti ele-
menti strutturali.

a. Portatori della mediazione

Data l'importanza assunta. dall'età apostolica in poi, dal magistero


e dal dogma, studiando il problema dei portatori della funzione me-
diatrice della Chiesa è facile cadere nefl'errore di pensare esclusiva-
mente o unilateralmente ai portatori della funzione magisteriale della
Chiesa. Si deve invece sottolineare che, fondamentalmente, tutti i
membri della Chiesa a loro modo partecipano attivamente della fun-
zione mediatrice della Chiesa (cf. SEZ. u, r. La funzione della Chie-
sa nel suo insieme). Poiché si può affermare la stessa cosa di tutti
gl~ aspetti e di tutte le realizzazioni fondamentali della Chiesa, i por-
t.atoi;i non possono raggrupparsi in corrispondenza con queste realiz-
zazioni. Cosl, ad esempio, non si può dire che i membri della gerar-
chia siano i soli portatori della funzione magisteriale della Chiesa, e
STRUTTI.IRE DELLA MEDIAZIONE DELLA RIVELAZIONE
57

che l'esercizio dell'arte cristiana sia d'esclusiva pertinenza dei laici. Si


potrebbero allora esail!inare le singole funzioni mediatrici (liturgia,
predicazione, insegnamento, arte cristiana), trattando volta per volta
dei rispettivi portatori e precisando cosi il modo con cui essi ne sono
partecipi. A causa, tuttavia, della sua particolare importanza, pre·
feriamo discutere separatamente ( SEZ. 11) il problema dei portatori
della funzione mediatrice della Chiesa. E chiaro che ciò non si può
fare senza contemporaneamente, a causa della natura del problema,
trattare anche delle funzioni dei portatori della mediazione, del ge-
nere della loro partecipazione a queste funzioni e del modo con cui
esse vengono espletate. Il fatto poi che in questo studio si venga a
discutere più estesamente della funzione magisteriale della Chiesa,
deriva dall'importanza fondamentale che ha il magistero per la rifles-
sione teologica che costituisce l'oggetto di quest'opera.

b. Mezzi della mediazione

Come già è stato detto ( r c) la Chiesa nell'insieme della sua autorea-


lizzazione è il segno in cui e con cui la parola di Dio resta presente,
il simbolo complessivo che Dio crea per rendere permanentemente
presente e sensibile la rivelazione avvenuta nel Cristo. 24 A questa fun-
zione espressiva di simbolo complessivo partecipano tutte le singole
funzioni vitali della Chiesa, anche se in diverse maniere. Il simbolo
complessivo si articola nei singoli momenti della vita ecclesiastica,
ma questi solo nella loro totalità, unità e reciproca interdipendenza
costituiscono la prima rappresentazione storica della verità rivelata.
Come possiamo indicare la Chiesa nella sua totalità come organo o
mezzo con cui Dio realizza la sua presenza personale nella storia,
cosl possiamo anche chiamare organi o mezzi con cui la Chiesa esple-
ta la sua funzione mediatrice i singoli elementi dell'autorealizzazione
della Chiesa. Possiamo ridurre tutti questi mezzi della mediazione
ecclesiale a tre forme principali: alla parola, all'azione, all'immagine.
Bisogna naturalmente osservare subito che queste forme principali
presentano profili estremamente diversi e quindi partecipano al·

24 :!;. chiaro che qui il termine 'simbolo' non esprime un segno indicativo vuoto di
contenuto, bensl il simbolo reale in cui e con cui il simbolizzato è realmente presente
e percepibile. K. RAHNER, Zur Theologie des Symbols, rr. in BCR, 6,, pp. 2n·311.
lllVELAZIONE E CHIESA DELLA KIVELAZION.E

l'attualizzazione della verità rivelata in modi assai diversi. Così pure


si deve fare attenzione che queste forme, nella loro concreta attua-
zione, sono intimamente collegate e che, se le consideriamo separa·
tamente dal loro portatore, le riduciamo ad una astrazione. In realtà
esse adempiono al loro compito solo in quanto sono realizzate da
persone della Chiesa, per quanto possano essere oggettivate nella pa-
rola o nell'immagine o in un'altra forma espressiva.
Da un altro punt(! di vista complessivo (cf. però la precisazione
nei riguardi del problema delle singole arti nella SEZ. m, 3 d) si può
ben dire che alla parola ed all'azione della Chiesa spetta una funzioni!
primaria nella mediazione della rivelazione. Come l'autorivelazione
di Dio avvenne per mezzo della sua parola e della sua azione inscin-
dibilment~ unite e correlate, così anche la mediazione della rivela-
zione per opera d'ella Chiesa avviene mediante la sua parola e la
sua azione. Grazie all'azione, la parola acquista carattere intuitivo e
diviene concretamente percepibile, mentre l'azione ha bisogno del-
l'interpretazione della parola (anche l'azione più fortemente impre-
gnata di significato, la testimonianza di sangue del martire, rivela
ciò che ha da 'dire', ossia la salvezza nel Cristo, soltanto in rapporto
con la confessione del Cristo per mezzo della parola). I due concetti
fondamentali di 'parola' e di 'azione' abbracciano tutti i mezzi attra·
verso i quali la Chiesa esprime la sua fede, esprimendo con ciò la
rivelazione che è presente in lei.
Potremmo perfino dire semplicemente che il mezzo per eccellenza
nel procedimento di mediazione della rivelazione è la parola. Infatti
non soltanto in questo procedimento spetta alla parola predicante e
docente della Chiesa - in un certo senso intesa scolasticamente come
forma - il compito di guida determinante, ma anche tutta l'azione
della Chiesa, in tutte le sue forme, ha carattere verbale. :t: così che
anche le azioni liturgico-sacramentali della Chiesa e l'intera vita cri·
stiana della comunità ecclesiale e dei singoli credenti, nella loro
qualità di testimonianza esistenziale, parlano una lingua persuasiva.
Anzi, persino il silenzio, sia nella liturgia, sia nella vita cristiana, può
essere 'più eloquente' della parola parÌata, per quanto ciò avvenga
soltanto nel contesto della parola. Tuttavia noi preferiamo chiamare
mezzi dell'attualizzazione della rivelazione sia la parola, sia l'azione.
Tacere esplicitamente dell'azione, implicherebbe il pericolo di trascu-
STRU'fTURB llELLA MBlllAZIUNE DELLA IUVELAZIONE
59

rare o di svalorizzare l'insostituibile funzione persuasiva dell'azione


ecclesiale.
Riferendoci a quanto verrà detto nella SEZIONE III, possiamo al-
lora esporre le seguenti riflessioni introduttive.

aa. La parola mediatrice della rivelazione assume nella Chiesa for-


me diverse. In primo luogo senza dubbio dobbiamo indicare la parola
della sacra Scrittura. La parola umana della predicazione apostolica,
che si è come depositata in modo permanente nella Scrittura per
la Chiesa di tutti i tempi, in virtù dell'ispirazione acquista un rap-
porto cosi stretto con la parola rivelatrice di Dio, che della Scrittura,
e solo di essa, dobbiamo non soltanto affermare che contiene la pa-
rola di Dio, ma che è la parola di Dio. La sacra Scrittura è quindi
in un modo assolutamente unico il mezzo per cui la Chiesa realizza
la sua funzione mediatrice della rivelazione. Essa costituisce, nella
sua forma concreta e permanente, il mezzo stabilito da Dio a cui h
Chiesa è perennemente rimandata a partire dal tempo apostolico.
La sacra Scrittura non è però un mezzo isolato dalla Chiesa e dalla
sua parola, né è posta semplicemente di fronte alla Chiesa; essa è
piuttosto ordinata alla parola della predicazione. Per espletare la sua
funzione di mediatrice della rivelazione verso gli uomini, 1nella loro
determinata situazione storica, la Chiesa non può limitarsi a dar loro
da leggere la sacra Scrittura, o a semplicemente leggerla al loro co-
spetto. È invece suo specifico compito la continua preoccupazione
d'interpretare la parola scritturale e di attualizzarla e renderla con-
cretamente aderente alla situazione storica, affinché la parola di Dio
data nella parola scritta pervenga agli uomini d'un determinato tem-
po. La Chiesa dunque, proprio a causa della mediazione del mes·
saggio biblico, non può prescindere dal mezzo della sua propria
parola umana, parola che essa non trova già bell'e fatta, ma che
deve continuamente cercare e forgiare. Nei precedenti capitoli si è
discusso a fondo della parola scritturale; neIIe due sezioni successive
di questo capitolo di tratterà pertanto specificamente della parola
della predicazione, e in modo particolare si esaminerà il concetto di
kérygma, che si distingue dal concetto di dogma.
Indissolubilmente congiunta con la parola della predicazione è la
parola della confessione. Mediante la confessione, la Chiesa, lodando
60 RIVELAZIONE E CHIESA; DELLA RIVELAZIONE

e ringraziando Dio, si pone pubblicamente al cospetto del mondo e


di se stessa esprimendo ciò che crede, delimita la sua fede nei con-
fronti delle interpretazioni erronee ed assicura cosl l'unità della co-
munità di fede. 25
Fin dal tempo apostolico, com'è noto, nella mediazione ecclesiale
della rivelazione, una forma verbale assunse una crescente importan-
za; tale forma, che non può identificarsi col kerygma per quanto lo
presupponga e ne sia inseparabile, è la parola dell'insegnamento. In
essa trovano configurazione concreta la riflessione posteriore sul con-
tenuto della predicazione kerygmatica, la sua interpretazione, il suo
sviluppo, e soprattutto la delimitazione del messaggio biblico nei
confronti delle interpretazioni erronee. La dottrina formulata nel
corso della storia della Chiesa assunse un'importanza tanto forte,
da apparire alla coscienza ecclesiale l'unico mezzo a disposizione
della Chiesa per mediare la verità della rivelazione. Per .:.quanto non
contestiamo quest'accentuazione e questo isolamento unilaterale del-
l'insegnamento dottrinale, intendendo con ciò rivalutare anche le
altre forme della parola ecclesiale, non vogliamo però deprezzare mi-
nimamente l'eminente importanza che per la mediazione ecclesiale
ha la parola magisteriale della Chiesa e quindi l'importanza del dog-
ma. Nella nostra esposizione parleremo perciò diffusamente del pro-
blema della parola magisteriale e soprattutto del dogma: nella SE-
ZIONE n, quando si discuterà sui portatori della mediazione della ri-
velazione; nella m SEZIONE, nel corso della trattazione dei modi nei
quali si esplica la mediazione ecclesiale.
La riflessione scientifica sulla rivelazione trova la sua espressione
nella parola della teologia. A causa della sua importanza per la pre-
dicazione, per l'insegnamento e per tutta la vita della Chiesa, a que-
5la parola verrà dedicato un intero capitolo di questo volume ( cap. VI).
La predicazione e il magistero della Chiesa d'una determinata
epoca storica stanno in continuità con la predicazione e il magistero
del passato, i quali, a loro volta restano percepibili non soltanto
nelle dichiarazioni del magistero, ma anche e soprattutto negli scritti
dei padri della Chiesa e dei teologi. La Chiesa deve perciò continua-
mente rifarsi ai documenti che ci trasmettono la parola dei padri nel·

n H. ZELLER R. SCl!!';ACKENBt:RG, Beke1111tnis, in LTK 1, 2 (1958) 1.p-146.


STRUTTURE DELLA MEDIAZIONE DELLA RIVELAZIONE

la fede, parola che confessa, testimonia, predica, insegna, anche se


non possiede la stessa importanza normativa della sacra Scrittura.
Nella sezione successiva dunque discuteremo anche del modo con
cui oggi, nel procedimento di mediazione della rivelazione, si deve
ascoltare la voce dei Padri e dei teologi.

bb. Come già si è detto, anche l'azione della Chiesa non può essere
separata dalla sua parola interpretativa, pur lasciando che questo pun-
to di vista sia differenziato e perciò lasciato un po' sullo sfondo delle
nostre considerazioni.
In considerazione di quanto si intende descrivere in questo para-
grafo, dobbiamo qui menzionare soprattutto l'azione cultuale nella
liturgia della Chiesa. I primi elementi della liturgia, derivati dalla
comunità veterotestamentaria e usati per esprimere la pienezza della
salvezza raggiunta nel Cristo, si possono rintracciare già nella primi-
tiva comunità apostolica. Il carattere kerygmatico dell'azione centra-
le del culto, la celebrazione della Cena, viene sottolineato espressa-
mente da Paolo ( 1 Cor. 11 ,26). Se la Chiesa nel corso dei secoli ha
perfezionato e sviluppato i semplici riti primitivi con l'introduzione
di altre azioni e cose simboliche fino all'artistica pienezza e ricchezza
di forme delle sue liturgie, ciò è dovuto alla profonda convinzione
che lo splendore della rivelazione di Dio vuol manifestarsi all'uomo
anche attraverso la contemplazione sensibile. La tendenza attuale alla
semplificazione della liturgia deriva dall'intenzione di restituire alle
azioni simboliche ed ai riti liturgici la loro autentica forza espressiva.
Non è questa la sede per enumerare le varie azioni cultuali della Chie-
sa e descrivere la loro funzione kerygmatica. Si dovrà piuttosto sot-
tolineare il fatto che, in senso del tutto generale, ogni azione litur-
gica in unione con la parola contribuisce a rappresentare il mistero
della salvezza nel Cristo secondo i suoi vari aspetti, per cui tutta la
liturgia è da considerarsi in modo eminente tra i mezzi dell'azione
con cui la Chiesa rende presente, attualizza la rivelazi~ne . .Da questo
punto di vista, quindi, nella III SEZIONE si parlerà della litùrgia come
predicazione, annuncio. Gli altri aspetti teologici della liturgia do-
vranno essere sviluppati nell'ecclesiologia (Iv volume) in quanto essi
costituiscono l'oggetto di studio d'una dogmatica storico-salvifica.
Come azione ecclesiale, che contribuisce alla mediazione della ri-
RIVELAZIONE E CHIESA DELT.A RIVELAZIONE

velazione, grazie alla sua capacità espressiva, dobbiamo però anche


prendere in considerazione l'azione esistenziale sia della comunità
ecclesiastica nel suo complesso, sia dei singoli membri. Nel momen-
to stesso in cui la Chiesa appare come comunità di fede, di speranza
e d'amore, essa rende manifesto ciò che annuncia mediante la pa-
rola. La sua vita visibile, che s'alimenta nel mysterium Christi, ha
non soltanto il compito di convalidare il suo messaggio di fronte al
mondo, ma è anche rappresentazione storica di ciò che è avvenuto
nel Cristo, dell'irruzione cioè dell'amore di Dio nel mondo per fon-
darvi una comunità d'amore, ed è prefigurazione storica di ciò che
nella mediazione del Cristo accadrà alla fine della storia: la defini-
tiva comunità d'amore dell'umanità in Dio. Anche la fede del sin-
golo cristiano non è un affare di pura interiorità, né una questione
semplicemente privata, ma s'incarna nell'intera vita e nell'intero com-
portamento del credente, estendendo cosl la sua azione alla dimen-
sione sociale dell'uomo. In questo modo l'esistenza cristiana d'ogni
membro della Chiesa diventa testimonianza della rivelazione accettata
nella fede e con le altre espressioni della Chiesa costituisce la rappre-
sentazione storica della rivelazione nel mondo. Quindi nella II SEZIO-
NE di questo capitolo, che tratta dei portatori della mediazione della
rivelazione, si dovrà richiamare l'attenzione anche sulla testimonian·
za esistenziale dei credenti, per quanto tale questione possa venir.!
propriamente affrontata in modo tematico solo nel IV e v volume.

cc. Mentre la sacra Scrittura, la predicazione, il magistero, l'azione


cultuale ed esistenziale son mezzi attraverso i quali si esercita la fun-
zione che la Chiesa ha di rendere presente la rivelazione, e a tali
mezzi la Chiesa espressamente viene rimandata dalle espressioni bi-
bliche, la stessa cosa non si può senz'altro dire in egual misura del-
l'arte (pensiamo soprattutto alle arti figurative). Se ciò nonostante
la Chiesa cominciò fin dai primi secoli a dare alla sua fede espres-
sioni pittoriche e scultorie (e in realtà servendosi all'inizio di forme
nrtistiche non cristiane, dal momento che non esisteva ancora un'arte
cristiana), essa dové sentirsi autorizzata a ciò dalla realtà fondamen-
tale dell'incarnazione dell'eterno Figlio del Padre, che così divenne
l'immagine che ci rivela Dio e in cui possiamo contemplarlo. Il me-
desimo, che Giovanni chiama la parola, il Verbo, perché Dio si
STRUTTURE DEI.LA MEDIAZIONE DELLA RIVELA7.l0NE

cspl'ime in· lui, viene da Paolo chiamato «l'immagine, il quadro (la


'icona') dcl Dio invisibile» o ~0-w.1 dx17N 't'Oi:i ikoù -roù à:opa'tov, Col.
i, 15; d. 2 Cor. 4.,4), perché il Padre ci rappresenta in modo visibile
il suo più intimo mistero grazie all'esistenza umana del suo Figlio:
nel Cristo, il Verbo e l'immagine di Dio sono una cosa sola. Quando,
dunque, la Chiesa nell'attualizzazione della rivelazione unisce alla pa-
rola l'immagine, essa può sentirsi in armonia con l'azione rivelatrice
di Dio.
Le opere dell'arte cristiana, usate nello spazio della Chiesa e
nell'ambito della liturgia - ossia le opere d'arte ecclesiale - sono
al servizio dell'attualizzazione del messaggio della rivelazione cristia-
na ed hanno quindi carattere kerygmatico: ciò risulta chiaramente
dalla storia della Chiesa. Ma anche l'arte cristiana in senso generale,
la quale comprende anche opere di contenuto profano, partecipa al
compito d'attualizzazione proprio della Chiesa. Nella misura in cui
tale arte è informata dall'immagine cristiana dell'uomo ed è caratte-
rizzata dall'esperienza vitale spirituale cristiana, essa, a modo suo,
è <wivente manifestazione simbolica della fede cristiana»,26 e quin-
di, come l'esistenza cristiana, diviene testimonianza della realtà cri-
stiana nel mondo. Questi cenni dovrebbero già indicare che la ri-
flessione teologica deve occuparsi anche dell'arte cristiana ed eccle-
siale dal punto di vista della funzione kerygmatica, non appena si
voglia occupare di descrivere la mediazione ecclesiale della rivela-
zione (III SEZIONE, 3). Per quanto le nostre riflessioni mirino innan-
zitutto alle arti figurative, considerando l'immagine come forma fon-
damentale della mediazione della rivelazione, ciò in fondo - come
lo indica il rapporto tra parola e immagine, e come esporremo nelle
prossime considerazioni - vuol conferire a tutte le arti particolari, e
dunque alla poesia ed alla musica, una ben determinata funzione
nella mediazione della rivelazione.

I moderni mezzi tecnici di comunicazione, ossia i mass media, in questa


sede possono essere soltanto menzionati per l'importanza da essi assunta
nella mediazione della rivelazione. È compito della teologia pastorale ap-
prezzare la loro importanza in maniera più adeguata. Infatti, come sono
forma d'arte - soprattutto il cinema - anche di essi si può dire - in

2• A. WEJs, Cbristiicbe Kunst, in LTK2, 2 ( 19,8) 1140.


RIVELAZIONE E CHIESA QELLA RIVELAZIONE

corrispondenza della specificità delle singole forme - ciò che in questa


sede viene esposto ( m SEZIONE) nei riguardi dell'arte cristiana. Al ri·
guardo si confrontino le direttive del Vaticano II nel decreto De instru-
mentis communicationìs socialis.

c. Realizzazione della mediazione

Risulta chiaramente, da quanto s'è venuto dicendo sui mezzi di cui


la Chiesa si serve per rendere presente la rivelazione, che no~ è pos-
sibile separare i 'mezzi' dalla 'realizzazione' (come d'altronde en·
trambi non sussistono isola.tamente dai portatori della mediazione).
La parola esiste nell'atto del parlare, le azioni - sia cultuali come
ogni altra azione ecclesiale - esistono soltanto nella loro concreta
esecuzione. Può essere considerata come mezzo 'preesistente' soltan-
to la parola in quanto oggettivata, cioè come parola scritta (nella
Bibbia, nei documenti dcl magistero, nei testi della tradizione, e così
via). Anche gli oggetti simbolici utilizzati nella liturgia e le opere
d'arte cristiana sono oggettivamente sussistenti. Tuttavia anche essi
si trovano al servizio della mediazione della rivelazione soio in quan-
to vengono realizzati o sono ordinati ad una realizzazione (ad esem·
pio, in colui <::he contempla un'opera d'arte).
I modi con cui la mediazione ecclesiale della rivelazione si rea-
lizza, e che nel contesto del nostro lavoro richiedono una riflessione
teologica approfondita, sono la liturgia, la predicazione e l'insegna-
mento. Ad essi è dedicata la maggior parte della III SEZIONE. Come
già s'è detto, la liturgia viene considerata qui solo sotto l'aspetto
della mediazione della rivelazione. A completamento del nostro esa-
me di questi modi di realizzazione, nella stessa III SEZIONE si parlerà
anche dell'arte cristiana, su cui, nonostante la sua grande imporranz;i
per la vita della Chiesa, in generale nella teologia dogmatica si trova
ben poco. Nella IV SEZIONE si esaminerà infine il problema della sto-
ricità della mediazione, soprattutto dal punto di vista. dello sviluppo
del dogma.
JOHANNES FEINER
BIBLIOGRAFIA 65

BIBLIOGRAFIA

Trattati
K. BARTH, Die kirchliche Dogmatik, 1/1, Ziirich 81964.
J. BRINKTRINE, Offenbarung und Kirche. Fundamental-Theologie, 2 voli.,
Paderborn 21949.
O.A. DrLLENSCHNEIDER, Gegenwart Christi (Christus praesens). Grtmdriss
einer Dogmatik der Offenbarung, 2 voli., Gutersloh 1948.
A. LANG, Compendio di apologPtica, Torino 21964, pp. 245-422.
M.J. SCHEEBEN, Handbuch der katholischen Dogmatik. J. Theologische
Erkenntnislehre, r.-.5· Haupstuck, in J. HoFER (a cura): Gesammelte
Schriften, Band m, Freiburg 1948.
M. ScttMAUS, Katholische Dogmaiik, m/1, Die Lehre van der Kirche, §
l76b, Die heilhaften Funktionen der Kirche in ei!lt.elnen, Milnchen
Sl9,58, pp. 740-798.
P. WEBER, Grundlagen der Dogmatik, 1. Bd., 3. Abschn., I. Kap., S r, 2,
Neukirchen 31964.

Monografie, collezioni
D. BARSOTTI, Il Mistero cristiano e la Parola di Dio, Firenze 19'4·
K. BARTH, La proclamation de /'Évangile, Neuchite! 196r.
W. BARTZ, Die lehrende Kirche. Ein Beitrag zur Ekklesiologie M.].
Scheebens, in TTS, 6 (19,59).
V. BERNING - P. NEUNZEIT - H.R. SCHLETTE, Geschichtlichkeit und Olfen-
barungswahrheit, Coll. «Bucherei der Salzburger Hochschulwochen»,
Miinchen 1964.
E. BISER, Erkenne dich in mir. Von der Kirche als dem Leib der Wahr-
heit, in Christ beute, 4. R., 1. Bd., Einsiedeln 195.5·
L. BoUYER, Parole, Église et Sacrements dans le Protestantisme et le Ca-
tholicisme, Bruges 19.59·
O. CULLMANN, Die Tradition als exegetisches, hlstorisches und theologi-
sches Problem, Ziirich 1954; Urchristentum und Gottesdie11st, in
ATANT, 3 ( 1962).
H. DE LUBAC, Catholicisme, Paris 1937.
G. EBELING,, Wort Gottes und Tradition. Studien zu einer Hermeneutik
der Konfessionen, in Kirche und Konfession, 7 ( 1964) 9-27: Kirchenge·
schichte als Geschichte der Auslegung der Heiligen Schrift; 155-174:
W ort Gottes und kirchliche Lehre.
H. FRIES, Die Kirche als Trager und Vermittler der OBenbarimg, in F.
HOLBOCK - TH. SARTORY (a cura), Mysterium der Kirche in der Sicht
der theol. Diu.iplinen, 1, Salzburg 1962, 1·36 (con bibliografia).

Mys1~rium salutis J 2.
66 BIBLIOGRATIA

J.R. GEISELMANN, Jesus der Christus. Die Urform des apostolischen Ke-
rygmas als Norm unserer Verkiindigung und Theologie von Jerns
Christus, Stuttgart 195 I; Die lebendige Oberlie/errmg als Norm des
christlichen Glaubens, Freiburg 1959; Lebendiger Glaube aus geheilig·
ter Oberlie/erung. Pie G11undgedanken der Theologie ].A. Mohlers und
der katholischen T ubinger Schule, Mainz I 942.
W. HrLLMANN, Das Wort, die Kirche und der Mensch. Vier Kapitel wr
urkirchlichen Verkiindigung, in Christ beute, 5. R., 5 Bd., Einsiedeln
1964.
CH. }OURNET, Le message révélé, sa transmission, son développement, ses
dépendences, Coli. «Textes et Érudes théolpgiques», Bnige.s 1964;
L'Église du Verbe Incarné, 2 voli., Paris 1941-1951; Théologie de l'Égli·
se, Paris 1957 (trad. it. Torino).
R. LATOURELLE, Teologia della rivelazione, Assisi 1967.
J.M. Nu:.LEN, Zur Theologie des W ortes: Leben aus dem W ort, Di.issel-
dorf 1963, pp. 7-22.
W. PANNENBERG R. RENDTORFF T. RENDTORFF · U. WILKENS, Olfen-
barung als Geschichte, in Kerygma und Dogma, Fase. 1 ,.Gottingen 196I.
AA. Vv., La Parole de Dieu en Jésus-Christ, in Cahiers de l'actualité reli-
gieuse, n. 15, Tournai 196r.
Parole de Dieu et Liturgie, Paris 21965.
K. RAHNER, Ekklesiologische GrundJegung (der Pastoraltheologie) - Die
Triiger des Selbstvollzugs der Kirche - Die Grundfunktionen der Kir-
che, in HPT, I ( I964) 117-129; Sull'ispirazione della Scrittura, Coli.
«Quaest. disp.», Brescia 1967.
K. RAHNER • J. RATZINGER, Ofjenbarung 1md Oberlieferung, Col\. «Quaest.
disp.», 25, Freiburg i. Br. 1965.
H. ScHLlER, Die Verkiindigung im Gottesdienst der Kirche, Koln 1953;
LA parola di Dio, Roma 1963.
M. SCHMAUS, Wahrheit als Heilsbegegnung, in Theologische· Fragen he11·
te, 1, Mi.inchen 1964.
O. SEMMELROTH, Teologia della Parola, Roma 1968.
A. TttoME, Unser Heil itr Gottes Wort. Zur Theologie der Bibelkateche-
se, in Katechetische Studien, Diisseldorf 1964.
H. VoLK, Zur Theologie des \\7 ortes Gottes, Miinster 1962.
H,U. VON BALTHASAR, Verbum Caro. Skizun wr Theologie, 1, Einsiedeln
1960.

Articoli e saggi speciali


G. EBELING, Leitsiitze zur Ekklesiologie, in Theologie und Verkundigu11g,
Ti.ibingen 1962·, pp. 93-103; Wort Gotte!' und Hermeneutik, j& Wort
und Glrn1be, Tilbingen 21962, pp. 319-348.
ll!BLIOGRAFIA

J. FEINER, Kirche und Heilsgeschichte, tr. in BCR, 52, pp. 36,-407.


I. HERMANN -TH. FILTHAUT, Annuncio, in Dt.T, l (21967) u5-126.
H. KaINGS - H. ScHLIER - H. VOLK, Parola, in DzT, 2 ( 1967) 494-544 (con
bibliografia).
R. LATOURELLE, La révélation comme parole, témoignage et rencontre,
in Gr, 43 (1962) 39-54; Eglise et Parole, in Sciences Ecclésiastiques, 14
(1962) 195-211.
F. MALMBERG, Die mittelbar-unmittelbare Verbindung mit Gott ùn Dog-
menglauben, tr. in BCR, 52, Roma 1967, pp. 81-96.
A. PETERS, Gegenwart Gottes - \fort Gottes, in Zur Auferbauung des
Leibes Christi. Festgabe Jur Prof. Dr. Peter Brunner zum 65. Gebt1rts-
tag, a cura di E. ScHLINK e A. PETERS, Kassel 1965, pp. 201-222.
K. RAHNER, Zur Theologie des Symbols, tr. in BCR, 65, pp. 5r-ro7; \Vort
und Eucharistie, ibid., pp. 109-172.
V. ScHURR, Die Gemeindepredigt, in HPT, r (1964) 230-265.
A. VoGTLE, Der Einzelne und die Gemeinschaft in der Stufenfolge der
Christusofjenbarung, tr. in J. DANIÉLOU - H. VoRGRIMLER (a cura), Sen-
tire Ecclesiam, Roma 1964, pp. 81-150.
H. SCHLIER, Il tempo della Chiesa. Saggi esegetici, Bologna 1965.
G. SoHNGEN, Die Einheit der Theologie. Gesammelte Adhandlungen, Auf-
satze, Vortrage, Mtinchen 19,;2, pp. 30,;-323: Oberlie/erung und apo-
stolische Verkundigung; 324-341: Christi Gegenwart in uns durch den
Glauben; 342-369: Das Mysterium des lebendigen Christus und der
lebendige Glaube.
SEZIONE SECONDA

PORTATORI DELLA MEDIAZIONE

La mediazione della rivelazione si realizza attraverso la Chiesa. Pri-


ma di passare ad esaminare il compito dei singoli portatori con le
loro speci1iche funzioni, è bene considerare innanzitutto quale sia, nel
processo della mediazione, la funzione della Chiesa, presa nella sua
totalità.

I. La funzione della Chiesa nel suo insieme

La Chiesa agisce da mediatrice della rivelazione non solo formulan-


do, mediante il suo magistero, singole proposizioni sulla rivelazione
di Dio. Come si vedrà meglio nell'ecclesiologia, in un senso assai
più fondamentale, la Chiesa è il sacramento dell'intera realtà salvifi-
ca del Cristo, cosi come il Cristo è il sacramento di Dio. 1 Essa è se-
gno efficace della presenza della grazia e della verità del Cristo nel
mondo e per il mondo. In questo modo, la rivelazione viene mediata
attraverso la forma c9rporea (intesa in senso sociale). della Chiesa,
come precedentemente fu mediata dalla forma carnale della parola
divina.
Per quanto ci riguarda, cominceremo col riflettere più a fondo sulla
Chiesa intesa come resenza della verità del Cristo. Come Chiesa del-
la nuova ed eterna alleanza, essa è «pilastro e fon amento ella ve-
rità» (r Tim. 3,15). Come tale, non può cadere fuori della vc:rità del
Cristo, perché altrimenti cesserebbe d'essere Chiesa del Cristo e al-
lora con ciò si porrebbe in discussione la definitività ~scatologica del-

1 «Non est enim aliud Dei mysterium, nisi Christus" (AGOSTINO, Ep. r87. 34, PL 38,
845). Cf. H. DE LUBAC, Méditations sur l'Sglise, Coli. «Théologie,., n. 27, Paris
21958, pp. 175-203 (tr. it. Roma 41965); K:RAHNEll, Zur Theologie des Symbols, in
tr. in BCR, 65, pp. 5r-107; O. SEMMELROTH, Die Kirche als Ur.Sakrament, Frankfun
a. M. 1953, pp. 33-43; E.H. ScHILLEBEECKX, Christus Sakrament der Gottbegegnung,
Maini 196o, pp. 23-49 {trad. it. Roma 31965); ID., I sacr11me11ti punti d'incontro con
Dio, Coli. «Giornale di teologia.., ), Brescia 31967.
70 PORTATORI DELLA MEDIAZIONE

l'incarnazione e della stessa nuova alleanza. Certamente, questa af-


fermazione della fondamentale indefettibilità della Chiesa non elimi-
na quel singolare intreccio che v'è tra il 'non-poter-deviare' dalla
verità del Cristo da una parte, e l'umana limitazione e la peccabi-
lità dei membri della Chiesa peregrinante dall'altra. Mentre il primo
poggia sull'infallibile assistenza dello Spirito santo, la seconda si ma-
nifesta continuamente come opera umana nella Chiesa del Cristo,
anche nei riguardi della verità del Cristo, nell'errore e nell'incertez-
za. L'interazione di questi due aspetti spiega tutta la tensione che
regna....._,,nella storia della Chiesa. La
.
diversa interpretazione di questa
interazione, soprattutto la ove concretamente s1 tratta dell'UHlc10 ma-
gisteriale della Chiesa, dà origine ad una sostanziale differenza tra il
I
pensiero cattolico e, soprattutto, quello protestante. Il pensiero cat-
tolico, proprio in una teolo ia della storia della salvezza, in consi-
derazione e a situazione neotestamentaria, sottolineerà la necessità
d'una inter retazione univoca e definitivamente vincolante, interpre-
tazione che si realizza nel magistero e a tesa me 'ante un organo
percepibile istit.uzionalmente. Si avrebbe però una visione ristretta
della questione, se si facesse consistere la mediazione ecclesiale del-
la verità soltanto nella formulazione di proposizioni dogmatiche. Pri-
ma del dogma vi è il kerygma, la vivente predicazione, in cui, per fa
Chiesa e nella Chiesa, la verità di Cristo si fa presente sempre più
efficacemente a conforto ed esortazione dei singoli. Anche il dogma,
in definiti~a. ha il compito di servire a questa attualizzazione, fo guan-
to preserva il kerygma dalla dissoluzione e rende possibile una fede
incondizionata alla parola di Dio. L'incondizionata unanimità di fe-
de presuppone l'infallibilità della Chiesa ogni qual volta essa intende
dare una interpretazione definitivamente vincolante della parola di
Dio.
Sul piano della . visibilità storica, questa mediazione della rivela-
zione era della Chiesa ha tre aspetti fondamentali. È anzitutto
una mediazione nella qua e tutta a 1esa ·è partecipe in vincoli di
servizi.a... reciproco tra i suoi membri, i suoi capi e le sue funzioni.
Qualunque cosa si aebba dire della speciale funzione dell'ufficio ma-
gistj:riale (in sensu stricto ),2 non sarà mai lecito considerare la ~edia-

1 Questa realtà è piu1tosto difficile da esprimere dal punto di vista terminologiço.


FUNZIONE DELLA CHIESA NEL SUO INSIEME 71

zione della rivelazione come compito esclusivamente suo. Tutti i mem-


bri hanno il loro particolare incarico da assolvere, legato alla con-
fessione ed alla tesumoruanza, a cui tutti sono stati drlarnat1. In que-
sto senso, la Chiesa è perennemente mediatrice della rivelazione
anche a se stessa, nella vivente reci rocità dei suoi membri. Si tratta
inoltre d'una me iazione che si svolge nella continuità della Chiesa,
grazie alla durata della sua storia, in cui l'unica fede si riveTa quale
principio tanto di permanenza, guanto di sviluppo.3 Cosi la media-
zione della rivelazione che si realizza nella Chiesa del xx secolo, non
avviene sgnplicemente dopo la mediazione della Chiesa dei sc:çoli
precedenti, ma si svolge in perenne rapporto con questa e con la sua
storia, in cui la Chiesa, nonostante tutte le variazioni, rimane fedele
a se stessa. Richiamarsi ai padri della Chiesa non significa dun-
que, in questo senso, soltanto affermare ciò che fu detto una volta,
ma piuttosto che la Chiesa d'oggi, in vivente rapporto con essi, mira
alla sostanza della rivelazione, che cosl viene mediata in una conti-
nuità storica. Infine si tratta d'una mediazione a vantaggio di tutto
il mondo. Se la Chiesa mediasse la rivelazione soltanto a se stessa,
sarebbe in un certo senso scopo a se stessa, e si fonderebbe perciù
su se stessa. Ma ciò sarebbe in profonda contraddizione col compito
assegnatole, d'essere sacramentum mundi. La mediazione della Chie-
sa, quindi, si realizza sempre anche in modo da essere rivolta al mon-
do, e questo non avviene soltanto, anzi neppure in prima linea tra-
mite il magistero ufficiale, bensl soprattutto mediante la testimonian-
za vissuta di tutti i suoi membri.
Come i singoli membri e stati (l'espressione qui è presa in senso
generale) partecipino a questa funzione della Chiesa intesa nella sua

Se si pensa che tutti i cristiani per il battesimo e per la oonfo:mazione sono rive-
stiti degli uffici del Cristo, si può dire con ragione che tutti, a loro modo, eserci-
tano il magistero. Cf. in questo senso specialmente L. KuM, Vber das Bischofsamt.
Das Amt der Einheil, Stuttgart 1964, pp. 192-241, che sostiene questo punto di vista
e sottolinea la reciproca compenetrazione degli uffici, senza contestare la funzione spe·
cifica d'un ufficio magisteriale come servizio reso alla Chiesa (e non soltanto nella
Chiesa). Dal punto di vista terminologico però è forse raccomandabile per intanto
parlare d'un incarico di magistero e conservare l'uso del termine 'ufficio magisteriale'
al magistero ufficiale in senso stretto (conformemente alla distinzione tra ufficio e
comunità), purché si dica espressamente che anche l'incarico di magistero è una reale
partecipazione all'ufficio magisteriale del Cristo.
3 M. SECKLER, Glaubenssinn, in LTK2, 4 ( 1960) 947.
72 PORTATORI DELLA MEDIAZIONE

totalità, si vedrà meglio in seguito. I diversi portatori della mediazio-


ne della rivdazione verranno presentati in modo tale da includervi le
più importanti funzioni mediatrici della Chiesa e da spiegarle teolo-
gicamente. Con ciò non si esclude un'ulteriore specificazione, per
esempio, di ciò che qui è sommariamente compreso nel concetto di
popolo cristiano.

2. Il popolo cristiano e la mediazione della rivelazione

La mediazione della rivelazione non si realizza soltanto, sotto un cer-


to aspetto anzi neppure in primo luogo, tramite i portatori dell'uffi-
cio ecclesiale, bensl ed in egual misura anche tramite il popolo
cristiano nella sua totalità. Il significato di questa affermazione esige
un'ulteriore chiarificazione. Non è cosa del tutto nuova questo richia-
marJi al popolo cristiano come portatore della mediazione della rive-
lazione. Già nell'antichità, in svariate occasioni, i padri si richiamano
alla testimonianza del popolo cristiano di fronte alle affermazioni
dei maestri di teologia, per ri5tabilire la retta fede e per difenderla
dagli eretici.4 MELCHIOR CANO menziona tra i loci theologici ai quali
il teologo deve attingere, anche la auctoritas Ecclesiae catholicae (1
1v), ove per lui si tratta del problema «an ex fidelium communi sen-
su firma duci argumenta possint ad dogmata Theologiae compro-
banda» (1. iv c. 1).
In qualità d'appartenente alla nuova teologia citiamo M. ScHEE·
BE!t che nella sua teoria della conoscenza teologica giunge a pren-
dere in considerazione il sensus fidelium. 5 Presentemente il problema
è ridivenuto attuale soprattutto in relazione alla questione dello svi-
luppo del dogma, nella quale bisogna riesaminare più a fondo il mo-
mento del senso della fede. 6 Al riguardo è necessario anche un ap-

4 Cf. per es. GuoLAMO, Adversus Vigilantium 5, in PL, 23, 3'8 (culto della reli-
gione), ovvero la seguente espressione di AGOSTINO: cNon tibi, sicut calum11iaris.
'solum popuJi murmur opponìmus': quanquam et ipse populus adversus vos propte·
rea murmuret, quia non est talis quaestio, quae possit etiam cognitir:mem fugare P<>-
puJarem. Divites et pauperes, excelsi atque infimi, docti et indocti, mares et feminae
noverunt quid cuique aetati in Baptismate remittatur»: Contra ]ulianum, i, 7, 31, in
PL,44,662.
5 M. ScHEEBl'.N, Theologische Erkenntnislehre, in WW, m, 160 s.
6 La questione fu sollevata soprattutto in relazione ai dOl!mi mariani. Cf. J. Bt:U·
IL POPOLO Cll!STIANO E LA MEDIAZIONE DELLA RIVELAZIONI'. 73

profondi.mento dell'ecclesiologia (teologia dello stato laicale). Qui


noi affronteremo questo problema dal punto di vista della mediazio-
ne della rivelazione: il che implica che tutti i presupposti di natura
teologica ed ecclesiologica siano richiamati solo in quanto, volta per
volta, l'esposizione lo richieda. Lo sviluppo di tali presupposti e la
loro giustificazione troveranno invece posto nella spiegazione teo-
logica della fede e nell'ecclesiologia.

a. Sul concetto di 'popolo cristiano'

Occorre innanzitutto chiarire ciò che si intende per 'popolo msua-


no'. Si ricava dalla classificazione precedente, in cui si è distinto tra
funziQ!le della Chiesa nel suo insieme e funzioni del popolo cristiano,
del magistero, e cosl via, che il concetto di 'popolo cristiano', nel
sensQ.in cui lo abbiamo usato (che è poi in pratica qudlo Che è stato
adottato nella teologia), non si può identificare semplicemente con
quello di Chiesa totale, in quanto esprime una ben determinata dif.
ferenziazione.
Questa determinazione terminologica però racchiude in sé una cer-
ta ru:oblematica di contenuto. Per 'popolo cristiano' si deve forse
intendere qualcosa di analo.&Q, a comunità, in contrapposizione ad
ufficio pastorale? I laici sono quindi pensati distinti dal clero e,
alf"occorrenza, anche dai teologi di professione? In questa domanda
si può già rilevare la problematica che si nasconde nel nostro con-
cetto di 'popolo cristiano' Non è tuttavia lecito esagerare questa
distinzione tra laici e clero, come risulta subito dall'affermazione che
il sensus ftdelium è patrimonio di tutti i membri della Clltesa. In altri
termini: anche il chierico, in una certa dimensione, si trova allinea-
to nella comunità, senz'altro non formalmente in quanto chierico,
ma .,çome semplice credente. Ancor più problematica è la distin-
zione della categoria dei teologi di professione, che, intesa come sta-
to, non indica affatto una contrapposizione alla comunità. L'aspetto
problematico del concetto di 'popolo cristiano' però, si rivela altresl
se si considera il problema da un altro lato, ossia non appena s 1mzi

MER, Gl1111benssinn der Kirche als Quelle ei>ter Defi11itio11: ThGI, 4' (19'5) 250-260;
C. BALIC, Il senso cristiano e il progresso del dogma, in Gr, 32 (1952) I06·134.
PORTA TOltl DELLA MEDIAZIONE
74
a riflettere sul popolo medio della Chiesa, ove si deve poter riscon-
trare l'esistenza del popolo cristiano come entità teologicamente qua-
lificata. È sufficiente richiamarsi al battesimo ed alla confermazione
per spiegare la costi~ne di questo popolo, ovvero si deve ammet-
tere l'esistenza di qualcos'altro che fornisca con'Sistenza storica a
questo popolo cristiano nella dimensione della scelta e della confes-
sione di fede? Ci si potrebbe chiedere spassionatamente, ad esempio,
dove, nella moderna metropoli di Roma, in cui statisticamente la
stragrande maggioranza degli abitanti si professa cattolica battez-
zata, sia reperibile quel popolo cristiano, da noi poc'anzi richiamato
come entità teologicamente qualificata, del cui consenso il teolog•J
dovrebbe tener conto!
Queste riflessioni consigliano di procedere con grande cautela nel-
la delimitazione del concetto di 'popolo cristiano'. Tenuto conto del
problema di cui si tratta, questo concetto può essere cosl circoscritto:
con il termine 'popolo cristiano' si intende indicare sostanzialmente
la comunità di coloro che in virtù del battesimo e della cresima so-
no divenuti partecipi degli uffici del Cristo. Questa comunità viene
presa in considerazione in tanto in quanto come tale si manifesta e
in qualche modo professa e testimonia la sua fede. Una tale manife-
stazione può naturalmente assumere le più svariate dimensioni e
variazioni (il che costituisce un motivo per cui il popolo cristiano
è un locus theologicus non facilmente percepibile); è tuttavia d'im-
portanza decisiva che tale manifestazione si realizzi in modo che
in qualche modo sia storicamente percepibile, in quanto altrimenti
non si potrebbe neppure parlare d'una mediazione della rivelazione.
In questa definizione di 'popolo cristiano' non rientrano formalmen-
te i chierici come tali, in quanto cioè sono contrapposti alla comu-
nità ed esercitano un ufficio masisteriale non solo nella Chiesa, ma
anche a servizio della Chiesa (L. KLEIN). Anche i teologi di p;ofes-
sione in senso stretto non v1 sono mclusi, in quanto anch'essi (ancora
formalmente come tali) esercitano una funzione relativamente auto-
noma nel processo della mediazione della riyelazi12.ne. Di questo po-
polo cristiano cosl definito, ci si chiede fino a che punto esso sia
pQttatore della funzione mediatrice della rivelazi~ne. 7

7 La costituzione De Ecclesia, nel 11 capitolo (De populo Dei), ricapitola ciò che
IL POPOLO CRISTIANO E LA MEUIAZIONE DliLLA RIVELAZIONE
75

Se noi consideriamo innanzitutto la funzione del popolo msuano nella


mediazio · elazione, col tacito intendimento di parlare dei mem-
bri della Chiesa cattolica romana, ciò è dovuto a a pos1z1one centra e che
compet ro rio a uesto o ol om ito della mediazione della rive-
lazione. La teologia moderna però dovrebbe frattanto cercare I rispon-
élere anche al seguente problema: fino a cbe punto si realizza la media-
zione della rivelazione anche per opera del popolo cristiano al di fuori
della Chiesa cattolica romana? Se si pensa che tutti i battezzati parteci-
pano realmente agli uffici del Cristo e che una testimonianza vivente del
Cristo è possibile anche in altre comunità ecclesiali, non sarà difficile ri-
spondere a questo interrogativo in modo assai positivo. Si dovrebbe però
anche chiedere se ed in che senso si possa parlare d'una mediazione della
rivel · ana anc e m am 1ent1 non-cnsuani. n ogni caso qui
si dovrebbe anche riflettere al fatto c e e verità cristiane possono soprav-
vivere....in forma secolarizzata anche in ambienti non-cristiani. Non si avreb-
be così un'ulteriore, reale, sia -Pl!! deficiente, forma di mediazione?

b. Mediazione della rivelazione ad opera del popolo cristiano

Del popolo cristiano si afferma in senso limitato l'opera di media-


zione della rivelazione nel tempo della Chiesa, opera che si realizza
in un modo ad esso caratteristico. Questa affermazione· non può es-
sere intesa solo come constatazione d'un fatto incontrovertibile. Essa
si richiama piuttosto ad un incarico che si fonda sacramentalmente
nel battesimo e nella cresima e che costituisce un aspetto essenziale
dell'essere-cristiano. In r Petr. 2,9 si richiama l'attenzione s-g que-
st'incarico· «Voi però siete una stirpe eletta, un sacerdozio regale,
una stirpe santa, un popolo d'acquisizione, affinthé annunziate le
virtù di Colui che ci ha chiamato alla sua luce mirabile». In questo
annunciare le virtù {"tàc; <l.prnic; il;a.yyElÀ.TJ"tE) è incluso tuttb l'inca-
rico della mediazione della rivelazione, e precisato il suo aut~ntico

1utti gli stati di vita nella Chiesa hanno· di comune, e meite in· rilievo quanto si deve
dire riguardo allo stato laicale con le seguenti parole, che iniziano il VI capitolo (De
Laicis ): «Quodsi omnia quae de Populo Dei dieta sunt, ad laicos religiosos et cleri-
cos aequaliter diriguntur, laicis /amen ... quaedam particulariter pertinent, quorum fun·
damenta ob specialia rerum adiuncta nostri temporis magis expendenda sunt» (n. 30).
Questa disiinzione tra Populus Dei e laici non deve essere in alcun. modo dime,n.ti-
cata; tuttavia da prevalenti morivllZioni di carattere metodologico ci sembra giusti·
ficalo delimitare e descrivere in conformità il ruolo particolare dell'ufficio magistc-
riale e dei teologi rispetto a quello del popolo cristiano, a cui anche i membri Jdhl
gerarchia e i leologi appartengono in quali1à di cre<lemi.
PORTATORI DELLA MEDIAZIONE

nucleo: l'annuncio delle virtù di Dio, i magnaJia Dei nella storia


della salvezza, soprattutto nell'avvenimento del Cristo, non è solo
trasmissione mediante la dottrina, ma è soprattutto trasmissione nel-
la confessione e nella testimonianza personale.1
La mediazione della rivelazione si realizza così attraverso tutte le
forme klla confessione, della testimonianza, della dottrina in cui la
fede si manifesta, attraverso la parola parlata come llttraverso l'azio-
ne (ad esempio, la preghiera in comune in famiglia) e le diverse og-
gettivazioni d'un comportamento di fede cristiano (ad esempio,
un'opera d'arte). E importante a questo punto richiamarsi alla litur-
gia in uanto essa esprime anche la fede del popolo cristiano, sia
pur non isolatamente ma 1 ronte alla gerarc ia e come nspost!l
alla lieta novella comunicata nel kerygma. Proprio l'esempio della
liturgia ci fa vedere come il po.eolo cristiano nolL.e,Ossa essere artifi-
ciosa ente isolato dalla predicazione e dall'insegnamento esercitato
dal particolare magistero e a iosa. a tra parte, per compren
dere le caratteristiche della mediazione della rivelazione esercitata dal
popolo cristiano, è importante tener conto della confessione e della
testimonianza attuate dal cristiano al di fuori della liturgia, nelle
svariate situazioni del vivere quotidiano.
Le forme e le possibilità in "?ui si esprime, nella vita quotidiana
del cristiano, questa mediazione della rivelazione sono molteplic1
quanto le situazioni in cui egli viene a trovarsi. Si pensi, ad esempio,
ai compiti che spettano ai genitori cristiani, attraverso i quali nor-
malmente la rivelazione viene trasmessa ai singoli individui. s~ si
volessero studiare le leggi dello sviluppo religioso umano in genera-
le, difficilmente si potrebbe sottovalutare l'importanza di ciò che il
fanciullo ha ricevuto nei suoi primi anni di vita da una madre cri·
stiana. Oppure, per accennare ad alcuni aspetti della questione, si
pensi alla funzione degli insegnanti degli scrittori e degli artisti
in quest'opera di mediazione della rivelazione. IJ peso, poi, che que-
sti ultimi hanno assunto in tale funzione balza subito agli occhi se si
pensa all'influsso dei moderni mass-media. Uno spettacolo televisivo,
oppure un romanzo in cui venga in qualche modo posta la questione

3 Cf. la co~1i1uzionc Dc Ecclesi~. n. io.


IL POPOLO CRISTIANO E LA MEDIAZIONE DELLA RIVELAZIONE
77

della responsabilità e della grazia da un punto di vis*a di fede, può


mediare la rivelazione (anche se a ciò non si è mirato in modo diret-
to) in vasti ambienti, che sono del tutto indiffc.tenti o contrari al
magistero ufficiale della Chiesa e alle sue espressioni. L'autonomia
relativa e la profanità di queste forme non deve in alcun modo in-
durre a sottovalutare la loro importanza per la mediazione della ri-
velazione. Proprio a questo riguardo si vede anche chiaramente come
questi _grvizi vadano ben oltre i limiti confessionali. Una Passione
di Bach è in grado di mediare la rivelazione non meno efficacemente
della serie dei Miserere di Georges Rouault! Al vertice dell'opera di
mediazione si può considerare la confessione di fede nell'atto del
martirio, in cui la parola della croce viene presentata al mondo in
modo insuperabile.
La costituzione De Ecclesia del Vaticano n sottolinea con energia
il ruolo insostituibile dei laici in questa mediazione dell~azio­
ne. È loro compito particolare render presente la Chiesa là ove essa
può esserlo solo tramite loro (n. 33). In virtù della loro partecipa-
zione all'ufficio profetico del Cristo, essi. sono particolarmente chia-
mati alla testimonianza nella vita d'ogni gi~rno, nella famiglia, nella
vita sociale (n. 35 ). In particolare il concilio sottolinea il compito
della famiglia cristiana: «lbi coniuges propriam habent vocationem,
ut sibi invicem et filiis sint testes fidei et amoris Christi. Familia
christian; tum praesentes virtutes Regni Dei tum spem vitae beatae
alta voce proclamai. Ita exemplo et testimonio suo arguit mundum
de peccato et eos, qui veritatem quaerunt, illuminai» (n. 3.5; cf. an-
che il n. II).

c. Senso della fede e consenso di fede

Nelle varie forme della mediazione della rivelazione affidate al popo-


lo cristiano, si· esprime il sensus fideljum Perciò, ai 6ui di ima retta
comprensione, è indispensabile esaminare più a fondo il senso della
fede. Il suo significato è espressamente rilevato dalla costituzione
De Ecclesia del Vaticano n, in quanto l'infallibilità nella fede, ch'è
propria alla totalità dei credenti, si esprime in esso e si manifesta
in un universale consenso di fede ( n. r 2 ).
PORTATORI DELLA MEDIAZIONE

Come giustamente dice MAX SECKLER,9 si deve distinguere tra sen-


so ella fede e consenso di fede. Il senso della fede è dato assieme
alla fede, in quanto a causa el lume della fede iJ credente si sente
in intima.J;oncordanza con l'oggetto della fede, ciò che gli permette
di emettere per connaturalitatem un giudizio che è più «risultato
d'una e~rienza concreta che d'un lavoro concettuale». 10 Lo studio
teologico dell'atto di fede avrà il compito d'analizz;re e spiegare più
a fondo il tipo di conoscenza caratteristico del senso della fede. Per
il problema che qui ci interessa, si dovrà soprattutto ricordare che
il senso della fede in linea di principio è dato ad ogni credente, che
la sua intensità dipende dalla realizzazione esistenziale della fede, che
si può parlare anèhe, in un senso traslato, d'un senso della fede della
Chiesa totale, nella mis~ra in cui la Chiesa si deve concepire come
un soggetto (collettivo). Nessun dubbio sussiste su quest'ultimo aspet-
to del senso della fede, su cui hanno già richiamato l'attenzione teo-
logi come MottLER e ScttEEBEN, anche se il suo sviluppo teologico
è connesso con le questioni più spinose dell'ecclesidogia. Dal senso
della fede si deve distinguere il consenso di fede che è sua espres-
sione. In se stesso, il senso della fede non è immediatamente acces-
sibile. Accessibili sono invece le diverse forme della professione .di
fede e della testimonianza in cui si esprime il senso delJa fede. Al
riguardo si deve naturalmente porre attenzione al fatto che queste
oggettivazioni non rappresent,ano o non debbono rappresentare in
alcun modo una forma adeguata e univoca d'espressione del senso
della fede. D'un consenso di fede del popolo cristiano si può parlare
solo là, ove le diverse e svariate forme d'espressione lasciano traspa-
rire una concordanza morale su un asserto di fede. La problematica
del popolo cristiano come locus theologicus dipende sostanzialmente
dal problema che pongono l'inadeguatezza propria delle oggettivazio-
ni del ~nso della fede e l'esistenza d'un consenso percepibile di fede.

9 M. SECKLER, Glaubensinn, in LTK 2, 4 ( 1960) 945-948. L'articolo, ·in forma concisa,


dice l'essenziale su questo argomento. Un'esposizione eccellente del senso della fede,
fatta alla luce della teologia cauolica moderna, può essere letta in H. HAMMANS, Die
neueren k.itho'ischen Erlkiirungen der Dogmenenlwicklung, Coli. «Beitriige zur ne-
ueren Geschichte der katholischen Theologie», 7, Essen r965, pp. 242-262. In connes·
sione con il progresso dogmatico del mistero mariano, d. CL. DILLENSCHNEIDER, L~
sens de la foi etc., Roma 1954.
IO M. SECKLER, /oc. cit., p. 94.5·
IL POPOLO CRISTIANO E LA MEDIAZIONE DELLA RIVELAZIONE
79

Senso della fede e consenso di fede devono essere visti nella loro
comun~azione in seno alla Chiesa. La fede del singolo è' una
fede che esiste nella comumtà ecclesiale con tutte le connessioni e
riferimenti che ne derivano, soprattutto col suo riferimento agli as-
serti magisteriali del dogma, i quali, è vero, non sono affatto l'og-
getto a cui mira l'atto di fede orientato direttamente verso Dio, ma
costituiscono i mezzi per raggiungerlo con sicurezza di formule. Il
consenso di fede si manifesta concretamente sempre in accordo con
la predicazione del magistero ufficiale. Questo aspetto del prohièma
è di grande importanza per capire bene il significato di 'popolo cri-
stiano' come locus theologicus, in quanto esclude un modo di giudi-
care isolato. Il consenso di fede del popolo cristiano riflette sempre
anche la tradizione e la predicazione e l'insegnamento attuale della
Chiesa totale, ed ha bisogno dell'interpretazione critica del magiste-
ro ufficiale. D'altro lato il magistero ufficiale deve continuamente
rifarsi al senso della fede di tutta la Chiesa ed alle sue espressioni
visibili, in quanto in esso si realizza una crescita ed una maturazione
della fede, cosi che esso diviene un elemento importante nello svi-
luppo del dogma. Questa interazione reciproca di sensus fidelium e
di magistero della Chiesa è percepibile soprattutto nella liturgia. In
quanto organo del magistero ordinario, la liturgia contribuisce alla
formazione del senso della fede e soprattutto alla strutturazione del
consenso di fede mediante espressioni oggettivamente concrete; con-
temporaneamente essa fa crescere e maturare la fede ({tdes qua credi-
tur) mediante la relazione storico-salvifica che si instaura con le
sue azioni. A tale re · aturazione della fede il magistero deve,
a sua volta.._rifarsi per una formulazione più concettuale della fi es
quae creditur.
In base a quanto s'è detto, come è possibile e come può aver
senso il richiamarsi al popolo cristiano come locus theologicus 1 da
parte del magistero o della teologia? Data per acquisita la distin-
zione tra senso della fede e consenso di fede, si deve dire che il sen-
so della fede in sé, inteso in senso stretto, è infallibile, poiché la fe-
de divina non può riferirsi a qualcosa di falso. Tuttavia s1 e g1a detto
che il senso della fede non è immediatamente accessibile, ma ad esso
si può pervenire solo attraverso la sua oggettivazione (inadeguata).
Così pure, si dovrà parlare d'un consenso di fede infallibile, ove esso
So PORTATORI DELLA MEDIAZIONE

si manifesti in un'unanimità universale, morale. Quest'ultimo tutta-


via, è praticamente impensabile senza il rapporto col magistero infa}.
libile della Chiesa, poiché questo magistero contribuisce sostanziai·
mente alla realizzazione del consenso di fede del popolo cristiano, e
senza appoggiarsi al magistero è assai difficile identificare questo con-
senso.
La vera difficoltà del problema si presenta guando non esiste un
consenso generale del popolo cristiano, né un insegnamento univoco
e vincolante del magistero. Che cosa si può allora dedurre dalla testi-
monianza del popolo c7istiano? I teologi propendono in generale per
una sospensione del giudizio, soprattutto per le questioni controverse.
:E: cosl che MELCHIOR CANO distingue tra questioni che sono dibat-
tute e accessibili a tutti, e questioni «quas cognoscere non rudium
et imperitorum in Ecclesia, sed maiorum et sapientium interest». 11
Nella stessa maniera si esprime anche I.M. ScHEEBEN. 12 Per guanto
oggi si possa constatare con. gioia che la competenza teologica non è
più in alcun modo un campo riservato al clero, non sarà tuttavia
possibile ignorare la tipica problematica dei teologi, specialmente per
quanto riguarda la questione, già esposta, della qualificazione teolo-
gica del popolo cristiano, tenendo conto della inadeguatezza di pa-
recchie manifestazioni del senso della fede, delle interpretazioni uni-
laterali e delle deformazioni sempre possibili nella prassi religiosa,
e cosl via. Perciò il sensus fideljum non è 1m'entità a rnj ci si gossa
appellai:.~.. acriticamente anche nelle questioni mariologiche in vista
di nuovi sviluppi del dogma. Proprio in questi casi è indispen~abile
un'interpretazione critica e soprattutto è indispensabile riferirsi con-
tinuamente alla Scrittura in quanto essa è norma non normata.
Se si tien conto spassionatamente di queste limitazioni, si p.otrà
concedere spazio ad una valutazione positiva del ricorso al senrns

11 M. CANO, De /ocis 1heologicis, 1. IV, c. 6


ad 14.
12 « ... che questa forma in cui si presentala Tradizipne, come già osserva s. Ago·
stino, r) vale soltamo per quelle verità, «quae cognilionem non fugiunt popularem»,
e 2) anche per queste, 1: valida più per quanto riguarda la sostanza che per quan-
to si riferisce ad un'imerpretazione più esatta e ad uno sviluppo più approfondito,
che rimangono sempre di competenza dei dixli e dei doctores; meno ancora poi si
può sostenere che il popolo, nella decisione d'una controversia, avanzi pretesa che
sia esaminato il suo parere o addirittura che la decisione sia sottoposta al suo rie·
same»: M. ScllF:F.BEN, Theo/ogische Erkenntnislehre, in WW, m, 161.
IL POPOLO CRISTIANO E LA MEDIAZIONE DELLA RIVELAZIONE 81

fidelium ed alle sue varie manifestazioni. È già stato osservato che


il senso della fede proprio del popolo cristiano è un elemento del-
l'evoluzione del dogma, e che il richiamarsi ad esso è conseguente-
mente indispensabile o comunque prezioso sia per il magistero, sia
per il teologo. Con ciò, tuttavia, non si è ancora scoperto il pieno
significato di questo appello al popolo cristiano. Se, a questo riguar-
do, non si parte da un'impostazione troppo angusta (ossia arguen-
do come si possa derivare dalla testimonianza del popolo cristiano
ciò che si deve credere fide divina et catholica), si scopre che il po-
polo cristiano possiede un'autentica ed autonoma funzione nella me-
diazione della rivelazione, ed a tale funzione si richiamano tanto il
magistero quanto la teologia. Si sottolinea qui il ruolo dell'espe-
rienza acquisita dai laici nel loro stato nel mondo e l'importanza di
tale esperienza in tutto il processo di mediazione ecclesiale della
rivelazione. Questa mediazione non si esaurisce infatti soltanto nel
dire agli uomini delle verità, ma piuttosto consiste nell'affermare
una verità che risponda alle esigenze della situazione, in modo da
raggiungere efficacemente gli uomini d'un determinato tempo, e da
incarnarsi e concretizzarsi in determinati imperativi. Nessuno però,
meglio dei laici, è più qualificato a comprendere la situazione e gli
imperativi che ad un certo momento si impongono nelle varie atti-
vità umane. Essi infatti, e talvolta solo essi, sono in grado di com-
prendere rettamente ed obiettivamente le esigenze della situazione,
soprattutto in quel vasto settore in cui la Chiesa confina col mondo,
e quindi anche di scoprire gli imperativi corrispondenti. L'interpre-
tazione di questa situazione e delle esperienze fatte in essa con uno
sguardo di fede e il suo superamento in un atteggiamento di fede
sono elementi della mediazione della rivelazione in cui si manifesta
particolarmente il compito del popolo cristiano. A questo apporto
del popolo cristiano non possono rinunciare né i portatori del ma-
gistero né i teologi, se vogliono rinnpvare la loro mediazione ai con-
temporanei.13 Anche da un altro punto di vista si deduce un analogo
richiamo al popolo cristiano, appena si pensi al significato ed all'im-
portanza dell'esperienza dei santi. La santità infatti n51n è vincolata
in particolare ad alcuno stato ecclesiastico e si trova perciò sostan-

13 Cf. in questo senso la costituz.ione De Ecclesia, n. 37.

6 - Mysterium salutis / 2.
PORTATORI DELLA MEDIAZIONE

zialmente anche in quella realtà che noi chiamiamo popolo cristiano.


L'appello all'esperienza <lei santi ha tuttavia nn alto valore, in quan-
to essi hanno particolare confidenza con le cose di Dio e in quanto
spesso precisamente in essi si può leggere quale debba essere la ri-
sposta cristiana appropriata ad una determinata situazione. Essi
esprimono al massimo grado il senso della fede, e la loro testimo-
nianza vissuta esprime un'esperienza che vuole e deve riuscire utile
all'intera Chiesa.
Tutto questo ordine di riflessioni getta luce sul ruolo affidato
al popolo cristiano nel processo di mediazione della rivelazione. Da
esse si ricava che non si tratta qui, per così dire, del caso nor-
male della mediazione ecclesiale nella vita cristiana quotidiana, ma
si può anche riconoscere l'autentico significato della funzione media-
trice del popolo cristiano, in virtù della quale l'appello al popolo
cristiano in quanto questo è locus theologicus è indispensabile tanto
per il magistero quanto per la teologia. Cosl, per il processo di me-
diazione della rivelazione, si può anche affermare quanto Paolo in
senso generale scriveva dei carismi: che esistono cioè attribuzioni
distinte dei doni dello Spirito: «A ciascuno poi è data la manifesta·
zione dello Spirito per il bene comune» (1 Cor. 12,7).

3. Il magistero speciale della Chiesa

L'affermazione che la mediazione della rivelazione avvieoe tramite


tutta la Chiesa non esclude, bensl include che essa si realizzi tramite
le strutture interne della Chiesa. Per quanto ogni membro della
Chiesa partecipi al magistero del Cristo, e debba quindi adempiere
ad una missione docente nella Chiesa, e per quanto possano anche
esistere speciali carismi di predicazione magisteriale nella Chiesa non
esclusivamente riservati al magistero ufficiale, è però altrettanto cer-
to che la missione d'insegnare e la promessa dell'assistenza divina
nell'adempimento di questa missione sono particolarmente legate al-
l'ufficio ecclesiastico. 14 Prendiamo ora in considerazione questa fun-

14 Sul concetto e sui diversi aspetti di un magistero autentico si confronti soprat-


tutto M.J. ScHEEBEN, Theologische Erkenntnirle/Jre, in WW, m, 17-19; 77·7~· La Theo-
logìsche Erkenntnislehre dello Scm:F.BEN precisamente riguardo al problema del ma-
IL MAGISTERO SPECIALE DELLA CHIESA

zione del magistero speciale. Per la stessa natura dell'ufficio eccle-


siastico si deduce che questa funzione può essere intesa solo come
servizio: servizio della parola di Dio, di cui il magistero deve dare
l'interpretazione. 15 Essa è anche servizio per tutta la Chiesa, la cui
unità nella verità dovrà essere preferibilmente mediata sul piano
storico dal magistero ecclesiastico. 16

In particolare, la distinzione tra Chiesa 'docente' e Chiesa 'discente' è


giustificata dall'incarico magisteriale dell'ufficio ecclesiastico, incarico che
vincola la Chiesa nella sua totalità, e che è fondato su una speciale assi-
stenza dello Spirito. Questa distinzione non può tuttavia esser intesa in
alcun modo come adeguata. Anche il magistero ecclesiastico è discente
rispetto alla predicazione normativa della Chiesa apostolica; è discente
ancora se si tiene conto che st r1chtama alla trad1Z1one eccles1ale nel suo
complesso - tradizione che, d'altro canto, deve interpretare criticamen-
te -; è discente per la sua disponibilità agli impulsi dello Spirito, ovun-
que essi si manifestino (dunque ariche nello stesso popolo cristiano). Del
resto si è già detto che anche i portatori dell'ufficio ecclesiastico, in quan·
to sono anch'essi dei fedeli, appartengono alla Chiesa discente, come, d'al-
tro canto, s'è detto che anche i laici hanno da assolvere nella Chiesa un
ufficio magisteriale, sia pure a loro modo.

In quanto si verrà esponendo sulla funzione del magistero ecclesia-


stico non si mirerà ad una dimostrazione apologetica della sua esi-
-------
stenza. Piuttosto ci si chiederà, alla luce della dottrina cattolica -
sull'ufficio ecclesiastico, in qual modo esso partecipi alla mediazione
della rivelazione. Poiché una risposta teologica più precisa a questo
quesito dipende dall'appropriato studio degli organi del magistero
svolto in ecclesiologia, richiameremo qui i presupposti ecclesiologici
nella misura necessaria per poter comprendere le questioni che dob-

gistero, ma anche per altri problemi, conriene molte idee ancora oggi di notevole
valore. Avendo dovuto nel presente volume elaborare molti problemi ed aspetti
nuovi, di conseguenza, numerosi problemi classici sono stati trattati in maniera più
concisa che nell'opera dello Scheeben. Ad essa soprattutto rimandiamo per tali pro-
blemi.
15 Nello schema della costiruzione dogmarica De divina revelatiane del Vaticano 11.
si dice (n. 9): « ... quod quidem Magisterium non supra verbum Dei est, ;ed eidem
ministrai, quatenus illud, ex divino mandato et Spiritu Sane/o assistente, tuetur et
authentice interpretatur ... ».
16 Cl. os, 307r: «Ut ... Ecclesia tota una co11servare/1ir».
PORTATORI DELLA MEDIAZIONE

ii~amo trattare. È chiaro che uno studio ed una giustificazione com-


!i'~eta di tali problemi potrà aver luogo solo in ecclesiologia.
~11111'
,.,, a. Riflessioni preliminari e proposizioni generali
ill!:
!litna di passare all'esame dei diversi organi del magistero (infal-
Ì(ibile), è necessario accennare ad alcuni aspetti che, in parte, si rife-
''" no al magistero in quanto tale e, in parte, costituiscono le pre-
se di un'interpretazione teologica dei suoi singoli organi.

~· Per comprendere esattamente che cosa sia il magistero, è fon-


··· ntale l'esame del rapporto esistente tra ufficio magisteriale ed
' ·, partorale della Chiesa. La problematica della trilogia degli
·(magisteriale, pastorale, sacerdotale), che dal secolo XIX, grazie
uenza di autori protestanti, è stata accettata nella teologia
. ·ca, non ha bisogno d'approfondita discussione in questa sede. 17
) quanto riguarda la distinzione tra ufficio magisteriale e ufficio
' :~:forale, si deve ammettere che essa ha un significato in tanto in
• '.nto permette di porre in più chiara evidenza due aspetti dell'uffi-
1

:e<:clesiale: men tre l'ufficio pastorale (in senso stretto) si collega


.. ilretto ordine della Chiesa, l'ufficio magisteriale, in quanto tale,
OCtupa della presentazione delle verità rivelate e di quelle verità
" 4irettamente o indirettamente, sono in relazione con la rivela-
,; In questo senso perciò, in un concilio, ha senso parlare di
· ti disciplinari o di decreti dottrinali. Questa distinzione, che
in teologia, non deve farci tuttavia dimenticare la profon-
'tà dei due uffici. Essi non sono posti semplicemente uno ac-
all'altro, collegati cioè tra loro da quella stessa relazione che
te tra tutti gli uffici della Chiesa. Il magistero infatti è inserito
'. :ell'ufficio pastorale, che ha un'ampiezza maggiore, in quanto l'in-
.~amento dottrinale veritiero è un elemento essenziale nella cura
:i)astorale della Chiesa. L'accentuata attenzione rivolta a questi rap-
porti s1 impone non soltanto a causa degli obiettivi pastorali del
Vaticano 11, ma anche per l'importanza che assume nell'interpreta-

17 Cf. O. SEMMELROTH, ii.mter der Kirche, in LTK2, I (1957) 4.59 s. (con bibli().
grafia); L. KLEIN, V ber das Bischofsamt. Das Amt der Einbeit, Stuttgart r964, pp.
191-24r.
IL MAGISTERO SPECIALE DELLA CHIESA

zione dei documenti magisteriali, che debbono essere compresi so-


prattutto alla luce del compito pastorale della Chiesa. 18

bb. Il significato dell'interna struttura degli organi del magistero


ecclesiale dipende in modo sostanziale dalla concezione ecclesiologi-
ca del coordinamento tra episcopato e primato. L'argomento sarà
quindi svolto in profondità in ecclesiologia. Qui richiamiamo sol-
tanto i dati fondamentali che costituiscono le premesse dell'analisi
teologica dei vari organi magisteriali: il primato papale iuris divini
e l'infallibilità del papa cosl come furono enunciati nel Vaticano I;
l'esistenza di diritto divino dell'episcopato, cui si richiama espres-
samente, tra gli altri documenti, la dichiarazione collettiva dei vesco-
vi tedeschi, approvata da Pio rx, sulla 'circolare di Bismarck'; 19 la
proposizione concernente la collegialità episcopale approvata, almeno
nella sua formulazione generale, dal Vaticano n. 20 In un'approfon-
dita interpretazione teologica il primato papale appare come primato
all'interno del collegio dei Vescovi, pur non derivando da questo. 21
La massima autorità della Chiesa si ritrova quindi nel collegio epi-
scopale che ha il suo vertice personalizzato nel papa (iuris divini).
Da tale impostazione si deduce ad esempio non soltanto che al papa
compete una giurisdizione ordinaria ed immediata su tutta la Chiesa,
ma che anche all'episcopato nel suo insieme è affidata una respon-
sabilità nei riguardi della Chiesa come tale. 22 Sarà compito dell'espo-
sizione sui singoli organi del magistero ecclesiale far vedere meglio
come interagiscano, nel magistero,' episcopato e primato papale.

18 Per l'aspetto ecumenico di questa interpretazione, v. H. OTr, Die Lehre des I.


Vatikanischen Konzils, Coll. «Begegnung», 4, Base! 1963, pp. 160-172. Per quanto ri-
guarda l'inserimento degli uffici nel complessivo ufficio pastorale, cf. la costituzione
De Ecclesia, n. 20.
l9 NR, 388 a; DS, 3rr2-3u6.
20 Cf. il m cap. della costituzione De Ecclesia, specialmente il n. 22: «Sicut, sia·
tuente Domino, sanctus Petrus et celeri Apostoli unum Collegium aposto/icum consti·
tuunt, pari ratione Romanus Ponti/ex, successor Petri, et Episcopi, successores Apo-
stolorum, inter se coniunguntur». Per l'interpretazione della collegialità cf. la Nota
explicativa, in base ali.a quale il testo fu presentato alla votazione.
21 Per la giustificazione teologica di queste considerazioni, v. specialmente: K. RAH·
NER.]. RATZINGER, Episcopato e primato, Brescia 1966; K. RAHNER, Papst, in LTK2,
8 ( 1963) 44-48 (con bibliografia).
22 «Sed qua membra collt-gii episcopalis et legilimi Apostolorum successores si11-
guli (episcopi) ea sollicitudine pro universa Ecclesia ex Christi institutio11e et prae-
cepto tenentur... » (cost. De Ecclesia, n. 23).
86 POM.TATORI DELLA MEDIAZIONE

cc. Oggi sussiste ancora una profonda divergenza tra il pensiero


dei cattolici-romani e quello dei protestanti sulla valutazione del
compito da assegnare al magistero nella mediazione della rivelazio-
ne .:u Il problema della giustificazione e della necessità d'un magi-
stero, in verità, oggi si pone e si discute nuovamente in campo
protestante, principalmente in relazione al problema del valore degli
scritti evangelici confessionali, e in considerazione del problema as-
sai reale posto dal 'caos dottrinale' che regna nelle Chiese evangeli·
che.2' Le svariate concezioni del problema ermeneutico, esistenti nella
moderna teologia evangelica, complicano necessariamente la posi-
zione dei vari autori. Per quanto la vasta assenza o la pratica ineffi-
cacia d'un magistero (non certo inteso in senso cattolico) sia sen-
tita da parecchi cristiani e teologi evangelici come un'autentica man-
canza, tuttavia continuano a sussistere in campo evangelico gravi
sostanziali difficoltà contro un magistero in senso cattolico, pur pre-
scindendo totalmente dal problema del primato del vescovo di Ro-
ma. Volendo formulare queste difficoltà sotto forma di interrogativi,
ci si può esprimere cosi: un magistero infallibile, quale viene sup-
posto dalla Chiesa cattolica, non significa forse una diminuzione
della sovranità e della libertà della parola di Dio, quasi che questa
possibilità di decisione del magistero implicasse un diritto di dispo-
sizione sulla parola di Dio? Non si inserisce cosl un'istanza inter-
media tra il singolo fedele e Dio, eliminando l'immediatezza del
rapporto coscienziale con Dio e con la sua parola? Questi e altri in-
terrogativi rendono poi il problema ancor più drammatico quando
si affronta la concezione concreta, storica del magistero, soprattutto
di fronte al magistero infallibile del papa, cui spetta la 'competenza
della competenza' e che, nell'esercizio del suo magistero, sembra sot-
trarsi ad ogni controllo della Chiesa.is La diversità della concezione

21 La divergenza del pensiero protestante in rapporto a tale questione è natural-


mente assai maggiore che quella dal pensiero ortodosso. Sulla concez-ione ortodossa
dei dogmi e del magistero, cf. J. KARMIRIS, Abriss der dogmatischen Lehre der ortho·
doxen Kirche, in P. BRATSIOTIS, Die orthodoxe Kirche in griechischen Sicht, in Die
Kirchen der Welt, I/I, Stutcgart 19,9, pp. r,--27.
24 Oltre si vari trattati di dogmatica, cf. K.G. STl!CK, Kirche des Wortes oder Kir·
che des Lehramtes?, in Theol. Stud., 66, Ziirich 1962.
is Per la questione riguardante un certo controllo sul papa da parte del condii
d. H. KONG, Strutture della ChieJa, Torino i965, pp. 215·316.
IL MAGISTERO SJ.>ECIALE DllLLA CHIESA

evangelica risalta soprattutto nel problema dell'infallibilità del magi-


stero ecclesiastico. Alla Chiesa in quanto tale, come sottolinea ad
esempio KARL BARTH, volentieri essa attribuisce una definitiva in-
defettibilità.26 Tuttavia quest'attributo non è affatto legato ad un
magistero infallibile. PAUL ALTHAUS puntualizza esattamente il pen-
siero evangelico quando scrive: «La promessa dello Spirito alla Chie-
sa significa invece: Dio non lascerà mai morire totalmente la Chiesa
in se stessa, nei suoi peccati e nella sua impotenza, ma in qualche
punto della Chiesa lo Spirito di Dio fa sempre irrompere nuove la
verità e la vita per tutta quanta la Chiesa; in qualche punto suscita
sempre profeti e riformatori. Questo è il modo degli evangelici di
concepire la guida dello Spirito e l'infallibilità della Chiesa».27 L'in-
distruttibilità della Chiesa non dipende quindi dall'infallibilità d'un
determinato istituto ecclesiastico, bensl dal fatto che la parola di
Dio può sempre di nuovo affermarsi in modi che essa stessa deter-
mina.
La teologia cattolica invece sottolinea la necessità d'un magistero
infallibile della Chiesa: là dove la Chiesa del Nuovo Testamento nel
suo magistero ufficiale parla con l'intenzione di vincolare, non può
cadere in errore senza rinnegarsi come Chiesa cli Cristo, e questo non
in virtù d'una qualche autonoma autorità, bensl unicamente in forza
dell'assistenza dello Spirito santo ed al servizio della fede di tutta
la Chiesa. «L'infallibilità della Chiesa e del suo magistero non può
dunque essere concepita come l'attività miracolosa d'una particolare
perspicacia data a qualcuno da Dio, e che Dio potrebbe dare a pia-
cere a una qualsiasi persona solo che lo volesse. Essa è invece colle-
gata col carattere definitivo escatologico della situazione salvifica rea-
lizzata nel Cristo: in quanto l'azione salvifica di Dio nel Cristo è
l'azione definitiva e vittoriosa, ed in quanto alla sua intima costitu-
zione appartengono sia la fede-verità, sia la struttura ecclesiastico-
sociale, un errore, concepito come una deiìnitiva auto-comprensione
di questa realtà salvifica, distruggerebbe questa stessa realtà».221 Ciò
non esclude certamente che da parte cattolica non debbano venire

1b K. B11RTH, Kirchliche Dogmatik, IV /1, 770-772.


'li P. ALTHAUS, Die christliche Wahrheit 4, Giltersloh 19,8, p. _526.
28 K. RAHNER-H. VoRGRIMLEJt, Kleines Theologùches \Vorterbuch, Freiburg i. Br.
1961.
88 PORT ATOiii DELLA MEDIAZIONE

ascoltate le autentiche esigenze e le difficoltà della teologia evange-


lica. Cosi non solo si debbono far risaltare con tutta chiarezza i limiti
interni dell'infallibilità del magistero, ma si dovrebbe anche pren-
dere in considerazione con maggior lucidità di prima la fallibilità del
magistero nel campo in cui esso non è infallibile. Soprattutto, me-
diante un'ermeneutica approfondita delle proposizioni magisteriali, bi-
sognerebbe mostrare come non solo la Scrittura debba essere letta e
interpretata alla luce di queste, ma come, reciprocamente, anche que-
ste debbano essere lette e interpretate alla luce della Scrittura. Né è
lecito dare l'impressione che l'incarico magisteriale della Chiesa sia
stato affidato soltanto all'ufficio, e che il momento profetico nella
Chiesa non abbia alcun significato più profondo per la sempre rin-
novata attualizzazione della parola di Dio e della sua sovranità sulla
Chiesa. Le successive riflessioni intendono precisamente chiarire in
che modo queste esigenze evangeliche debbano essere accolte da par-
te cattolica.

dd. Nel discorso sul magistero è necessario soprattutto definire in


modo più esatto il concetto d'infallibilità. Il Vaticano I fornisce una
formulazione tecnica delle condizioni e dei momenti di una defini-
zione infallibile in rapporto con la definizione dell'infallibilità pa-
pale (cf. 3 d). Ciò che dobbiamo dire a questo proposito, si deve tra-
sferire analogamente anche alle decisioni infallibili del concilio. Il
concetto stesso d'infallibilità non è del tutto privo d'ambiguità. In-
nanzitutto esso afferma qualcosa di negativo, ossia la man~anza di
errore in ciò che viene insegnato o definito formalmente come vin-
colante. Questa definizione si realizza in generale come delimita-
zione della vera dottrina nei rispetti della eresia e dell'errore.~ E
chiaro che in tutto ciò esiste anche un'esigenza positiva, in quanto
la proposizione rivelata deve essere assicurata di fronte alle di-
sgregazioni ed alle interpretazioni errate. Così, ad esempio, le
formule cristologiche di Calcedonia, per quanto non siano espresse
in linguaggio biblico, in definitiva servono a salvaguardare le af-

l!J Ci esprimiamo con prudenza, in quanto, nei riguardi dei due ultimi dogmi ma-
riani, si dovrebbe chiedere se essi non intendano servire innanzi tutto la contempla·
zione di fede della Chiesa. La questione dell'opportunità di queste definizioni oggi
non dovrebbe certamente prescindere dalla situazione ecumenica.
IL MAGISTERO SPECIALE DHLA CHIJ::SA

fermazioni biblico-storico-salvifiche sul Cristo.30


Premessa tacita del concetto di magistero infallibile è l'importan-
za che riveste per la salvezza la verità e l'errore in campo religioso.
Dalla natura dell'argomento in questione si desume che si può parla-
re di decisione infallibile solo quando il magistero ufficiale della
Chiesa si esprime in quanto tale con l'intenzione di vincolare le CO·
scienze. Tuttavia, anche in questo caso, una proposizione magiste·
riale non deve essere ingenuamente intesa come totale ed esauriente
spiegazione di un qualche contenuto oggettivo; ogni determinazione,
infatti, solleva nuove questioni e ogni definizione si inserisce in un
contesto più vasto, ed esige d'essere interpretata nell'ambito di es-
so. A ciò si aggiunga che, in molti casi, il confine tra ciò che è de-
finito e ciò che non è definito, tra proposizione dottrinale in sé
stessa e la sua rappresentazione e spiegazione teologica, non è netta-
mente definito.J 1 Per questo motivo è illecito l'uso ingenuo, irrifles-
so delle decisioni magisteriali infallibili, soprattutto nelle questioni
nuove e teologicamente controverse. È certamente falso anche dar
peso alle proposizioni magisteriali solo quando si tratti di dichiara·
zioni definitivamente vincolanti. Si deve aderire con religoso rispet·
to al magistero anche quando le sue proposizioni non esigano l'ade·
sione di 'fede richiesta dall'infallibilità.JZ È chiaro che questa adesione
deve essere graduata corrispondentemente al peso d'una proposizione
magisteriale (per esprimerci in linguaggio scolastico: ad una pro-
posizione non infallibile non può corrispondere un assensus {idei
divinac et catholicae ), e anzi essa può mettersi in questione, in deter-
minate circostanze. Non voler vedere questo significa misconoscere
la situazione itinerante della Chiesa, che determina interiormente,
nella Chiesa, sia l'insegnamento, sia l'adesione.

Dal punto di vista del diverso peso da attribuire in particolare alle proposi-
zioni magisteriali o in generale teologiche, sin dal Medio Evo, ma soprat-
tutto dopo l'avvento della teologia positivo-scolastica post-tridentina si

lO V. al riguardo J. DANJÉLOU, Christologie und Geschichle. Vom Geheimnis der


Geschichle, Stuttgart 1955, pp. 213-236.
li Sulla problematica dcl 'definito per inclusione' cf. le riflessioni fondamentali di
K. RAHNER, Theolo11.isches zum Monogenismus, tr. in BCR, 64, pp. 168-279: partico·
larmente pp. i87 ss.
32 Costituzione De Ecclesia, n.2,.
<)O l'ORTATORI DELLA MEDIAZIONE

pone la questione della qualifica teologica di queste proposizioni e della


censura delle proposizioni eretiche o difficilmente conciliabili con la fede.
Dapprima, a comindare dalla metà del xrv secolo, soprattutto per opera
delle facoltà teologiche, venne elaborata la dottrina circa la natura della
censura. In seguito, la teologia sviluppò sia rispetto alla qualifica che alla
censura un'intera gamma di distinzioni e precisò una tecnica appropriata
del loro uso. Cf. al riguardo J. CAHILL, The Developement of the Theo-
logical Censures after the Council of Trent, Fribourg 1955, e C. KosER,
De notis theologicis, Petropolis z 963, e soprattutto la magnifica sintesi
storica e sistematica di A. KoLPING, Qualifikationen theol., in LTK2, 8
(1963) 914, 919 (con bibliografia). Qualifiche positive sono, ad esempio,
de fide (sia che si tratti semplicemente de fide divina, se non esiste ancora
una precisa presa di posizione del magistero, oppure de fide divina et
catholica nel caso che esista la corrispondente proposizione magisteriale),
/idei proximum, sententia theologice certa, sententia communis, e così
via; dal punto di vista negativo: sententia haeretica (negazione d'una ve-
rità presentata come di fide divina et catholica), sententia haeresim sa-
piens, sententia erronea {errore teologico contrapposto alla :sententia theo-
logice certa), sententia scandalosa (rispetto alle conseguenze) ed altre. Tra
i vari autori esistono notevoli divergenze per quanto riguarda la termino-
logia, come pure per la determinazione sostanziale e l'applicazione delle
qualifìche e delle censure. Per quanto esista anche una giustificata neces-
sità di elaborare con esattezza la dottrina ecclesiastica definita, è tuttaviJ
necessario -che la teologia moderna usi con moderazione di questo appa-
rato delle qualifiche e delle censure. E questo non solo a causa dell'obiet-
tivo eccessivamente apologetico per cui la tecnica delle censure venne
specificamente elaborata, ma anche per una maggiore avvedutezza erme-
neutica, che impedisce di sistemare, con eccessiva facilità, singole pro-
posizioni isolate entro un quadro prestabilito di definizioni, eh!! spesso più
che chiarire e precisare un contenuto pregnante di sostanza lo nasconde.

ee. Un particolare aspetto del problema dell'infallibilità del ma-


gistero è quello dell'oggetto delle proposizioni magisteriali infallibili.
Il Vaticano I dà le seguenti indicazioni per la soluzione di questo
problema. Nella definizione dell'infallibilità pontificia (ns 3074; NR
388) si stabilisce che l'infallibilità pontificia ha la stessa estensione
dell'infallibilità della Chiesa. La stessa cosa si può affermare senza
dubbio anche per gli altri organi del magistero infallibile. Nella co-
stituzione De fide catholica l'estensione dell'oggetto che deve essere
creduto fide divina et catholica viene definita nel seguente modo:
«Si deve dunque credere con fede divina e cattolica tutto quanto è
IL MAGISTERO SPECIALE DELLA CH!J;;SA 91

contenuto nella parola di Dio scritta o tramandata, e tutto ciò che


la Chiesa con decisione solenne o nel suo magistero ordinario e uni-
versale presenta da credere come rivelato da Dio» (NR 38, os 3011 ).
In quanto la fides divina et catholica comprende l'esplicita proposi-
zione, da parte del magistero, d'un enunciato come enunciato di fe-
de, anche l'infallibilità del magistero ha come oggetto centrale la ri-
velazione contenuta «nella parola di Dio scritta o tramandata», che
può essere interpretata e proposta in modo infallibile dallo stesso
magistero. Grazie a questa determinazione dell'oggetto centrale del·
l'infallibilità magisteriale, questa viene connotata fin dall'inizio come
servizio alla rivelazione ed alla parola di Dio.
:E chiaro che con ciò l'oggetto dell'infallibilità magisteriale non è
ancora stato precisato in maniera esauriente. Nella proposizione che
qui citiamo dalla costituzione De Ecclesia, il Vaticano n sembra pro-
seguire ed approfondire il discorso: «Haec autem infallibilitas ... tan-
tum patet quantum divinae Revelationis patet depositum, sancte
custodiendum et fideliter exponendum» (n. 25). Anche in questa for-
mula l'infallibilità del magistero si orienta secondo l'estensione del
depositum della rivelazione. L'espressione «Sancte custodiendum et
fideliter exponendum>~ significa però contemporaneamente che l'am-
bito dell'infallibilità ecclesiale e magisteriale si estende fondamen-
talmente a tutto ciò che è necessario per confermare ed interpretare
il depositum della rivelazione. Viene così indicato anche un ambito
secondario attinto dalle proposizioni magisteriali infallibili, ma non
ne viene data ulteriore precisazione.
In questo campo secondario cui si estendono le proposizioni ma-
gisteriali infallibili, si trovano innanzitutto le verità naturali, nella
misura in cui la loro affermazione si trova in un rapporto essenziale
con la rivelazione cristiana, così che contestarle significa anche mi-
nacciare o svuotare di valore oggettivo la rivelazione soprannaturale.
E. chiaro che qui sorge immediatamente il problema se e in quale
misura tali verità non siano già implicitamente contenute nella ti·
velazione. Analogamente appartengono a questo campo i cosiddetti
fatti dogmatici, quei fatti, cioè, che come tali non sono rivelati né
esplicitamente né implicitamente, ma la cui validità deve essere pre-
supposta perché il magistero possa presentare la rivelazione in modo
efficace. Tra questi fatti dogmatici si trovano, accanto ad altri, la
92 PORTATORI DELLA MEDIAZIONE

legittimità d'un determinato papa, che è implicata da una decisione


infallibile del magistero (ad esempio la definizione dell'immacolata
concezione di Maria implica, come fatto dogmatico, la legittimità
del pontificato di Pio Ix); l'ecumenicità d'un certo concilio (per esem-
pio del Vaticano 1, in cui fu definita l'infallibilità del papa); la con-
danna delle proposizioni erronee d'un certo autore, delle quali even-
tualmente si può dire che, cosi come si presentano (de facto), sono
inconciliabili con la verità rivelata. La caratteristica dei fatti dog-
matici viene determinata per due vie: negativamente, stabilendo che
essi in quanto tali non sono deducibili dalla rivelazione contenuta
nella Scrittura e nella tradizione; positivamente, grazie al loro rap-
porto essenziale con un'efficace presentazione della rivelazione ad
opera della Chiesa. A causa di questo aspetto positivo, questi fatti
dogmatici, secondo l'opinione generale dei teologi, sono fondamen-
talmente oggetto (secondario) di proposizioni magisteriali infallibili,
anche se la cosa non è stata finora definita dal magistero ufficiale.

~ chiaro che queste fondamentali determinazioni non forniscono. ancora


nulla di decisivo sull'ulteriore spiegazione teologica dell'infallibilità del ma-
gistero specialmente per ciò che riguarda i fatti dogmatici. Fino ad oggi,
soprattutto si discute se le proposizioni dottrinali concernenti questo cam-
po secondario richiedano un'accettazione fide divina et catholica (in mo-
do che chiunque le neghi debba essere designato come eretico formale),
ovvero se esse (in quanto non sono contenute nel depositum fiJei e quin-
di non vengono riferite all'auctoritas Dei revelantis) debbano essere ac-
cettate con 'fede ecclesiale' Per quanto rigarda gli aspetti storici, siste-
matici e terminologici del problema, cf. le esposizioni generali di H. BACHT,
Dogmatische Tatsachen, in LTK2, 3 ( 1959} 456 s.; J. BEUMER, Katholische
Wahrheiten, in LTK1, 6 (1961} 88; P. FRANSEN, Kirchlicher Glaube, in
LTK 2, 6 ( 1961) 301 s., con gli ulteriori dati bibliografici. Si potrebbe tro-
vare una via d'uscita a questa controversia, adottando il concetto di cer-
titudo ecclesiastica proposto da P. FRANSEN, nel senso che, in rapporto
essenziale con la fides divina et catholica riferita alla parola di Dio, si ac-
cetta con certezza (infallibile) ecclesiale quanto viene proposto o presup-
posto infallibilmente dal magistero come fatto dogmatico. Quanto sopra
potrebbe essere formulato scolasticamente così: io credo che Pio IX è
papa legittimo, nell'atto stesso con cui accetto l'immacolata concezione
in sensu composito con fede divina e cattolica, poiché questo fatto dog-
matico è implicitamente contenuto come elemento integrante nell'afferma-
zione di questa proposizione di fede. Se ora io (facendo un 'astrazione)
IL MAGISTEKO SPECIALE DELLA CHIESA
93

considero la stessa realtà in sensu diviso, l'affermo con una certitudo ec-
clesiastica, formalmente garantita non dalla parola di Dio, bensl dall'au-
torità della Chiesa, che è in grado di garantire infallibilmente un conte-
nuto oggettivo con l'assistenza (per sé negativa) dello Spirito, qualora ciò
venga richiesto dal servizio che essa deve prestare alla rivelazione. Per
quanto riguarda l'intera problematica, cf. le riflessioni di J. TRiiTSCH nel
CAP. V, SEZ. IV, 3 d.

ff. Durante l'elaborazione della dottrina teologica sugli organi di


magistero intesi come loci theologici diversi (soprattutto a partire da
MELCHIOR CANO), si formularono diversi princìpi d'interpretazione
delle espressioni magisteriali. Alle regole classiche appartengono so-
prattutto le due seguenti.
Le espressioni magisteriali devono essere interpretate in senso stret-
to. Questo principio deve essere applicato specialmente nell'inter-
pretare le definizioni. Il CJC c. 1323 § 3 afferma: «Dee/arata seu de-
finita dogmatice res nulla intelligitur, nisi id manifeste constiterit».
Non è lecito quindi ampliare il punto definito, e bisogna inoltre di-
stinguerlo con precisione dalle eventuali concezioni ed opinioni teo-
logiche che lo accompagnano nel testo. Può cosl verificarsi benissimo
il caso in cui tutti i padri d'un concilio sostengano una determinata
concezione teologica o cosmologica che appare nella formulazione
d'una definizione, senza che con ciò essa venga definita. In generale
vale pure il principio che la giustificazione teologica d'una proposi-
zione definita, ad esempio il richiamo ad un passo scritturistico o
ad un precedente documento magisteriale, non è oggetto di defini-
zione. Si ha autentica interpretazione d'un testo di questo genere
quando e solo quando si vuol sapere se in una definizione (infalli-
bile) del magistero si intende definire non solo un determinato con-
tenuto oggettivo, ma anche la sua giustificazione sulla base di un
documento precedente, soprattutto di un passo della Scrittura. Cosl,
ad esempio, il Tridentino non definisce solo l'esistenza del sacra-
mento della penitenza, ma interpreta anche, applicandoli in maniera
autentica a tale sacramento, i testi scritturistici di Io. 20,22 s. I casi
di interpretazioni autentiche di questo tipo sono però estremamente
rari. Essi quindi non si devono presumere, ma dimostrare rifacen-
dosi alle fonti.
Come seconda regola classica si può indicare il principio dell'inter-
l'ORTATORI DELLA MEDIAZIONE
94

pretazione delle proposizioni magisteriali in base al contesto storico.


I documenti magisteriali infatti sono stati prodotti in una determinata
situazione storica. Talvolta sono stati formulati per combattere errori
dottrinali esattamene circoscritti; usano una determinata terminolo-
gia condizionata dai tempi; sono il risultato positivo o negativo di
precedenti discussioni, e così via. È chiaro che l'interpretazione d'un
tal documento, dal punto di vista storico deve essere desunta dalle
sue fonti col metodo storico-critico. Se ad esempio il concilio di
Trento parla di «traditiones... ad mores pertinentes» (ns r 501 ), men-
tre nel concilio Vaticano 1 si dice che il papa è infallibile anche nel
campo dei mores (os 3079), non si deve senz'altro supporre che il
concetto mores sia stato inteso in modo esattamente eguale da en-
trambi i concilii. Il significato preciso di questo ~ermine può essere
desunto unicamente dagli atti con .metodo storico-filolog:ico.33 La por-
tata di questa interpretazione si rivela, ad esempio, attraverso le
discussioni moderne sul significato esatto del decreto tridentino nel
problema delle tradizioni apostoliche e del loro rapporto con la
sacra Scrittura (ns 1501 ).34 L'uso del metodo storico-critico nell'inter-
pretazione testuale delle formulazioni dottrinali è inevitabile in teo-
logia, per quanto non costituisca né l'unico momento, né l'ultima
istanza d'una interpretazione adeguata.
Tutta la questione dell'interpretazione delle proposizioni magiste-
riali oggi esige una nuova sistemazione alla luce degli approfondi-
menti stabiliti nella problematica ermeneutica, che avanza le sue
istanze sia nell'in;erpretazione dei documenti magisteriali, sia nell'in-
terp~tazione scritturistica. 35 Innanzitutto, sul piano dell'interpreta-
zione storica, bisognerebb; porre una più precisa attenzione ai 'ge-
neri letterari' dei documenti magisteriali. Per quanto non si debba
attribuire a questo aspetto la stessa importanza che esso assume nel-
l'esegesi scritturistica, esso tuttavia non dovrebbe essere trascurati_?.
:E: certo che nei testi magisteriali si possono distinguere alcuni generi
fondamentali. Così, ad esempio, l'antico Credo apostolico (os 1 I),

JJ Per il problema citato, cf. J. BEUMER, Die mundlicho Oberlieferung als Glau-
bensquelle, in Handbuch der Dogmengeschichte, 1/4, Freiburg i. Br. :r962, pp. 84-86.
:;4 Cf. la dis~ussione di P. LENGSFELD, in: Mysterium SalutiJ, I/i,pp. 609-648.
35 Su tale questione, vedi M. LoHRER, Oberlegungen wr Interpretation lehramtli-
cber Aussagen als Frage des okumeni1chen Gespriich1, tr. in BCR, p, pp. 613-647.
IL MAGISTERO SPECIALE DELLA QllES/\
95

con la sua impronta storico-salvifica e la sua forma dossologico-


liturgica, contiene delle formulazioni che dal punto di vista tecnico
sono assai poco definite ed hanno un gran margine d'incertezza e
richiedono senz'altro di essere interpretate. Al contrario, un testo
quale quello della definizione di Calcedonia sulle due nature nel Cri-
sto (ns 301 s.), ove si è introdotta consapevolmente una concettua-
lizzazione tecnica per esprimere il contenuto oggettivo, richiede un
diverso comportamento. A sua volta una esposizione magisteriale-
teolog!ça in linguaggio scolastico, come ad esempio i decreti del Con-
cilio fiorentino (os 1300 ss.), dove non è affatto facile èlistinguere
tra ciò che fu effettivamente definito e le concomitanti ed ingegnose
concezioni teologiche (cf. specialmente ns 1305: De Novissimis),
possiede un carattere suo proprio. Ancora diversamente sono conce-
piti i decreti del Tridentino e del Vaticano 1, ai quali sono alleasti
canoni concisi miranti alla condanna diretta di determinati errori, in
modo che il testo del decreto stesso viene stabilito in modo più pre-
ciso. Il Vaticano II rinuncia a formulare canoni di questo tipo. Per
quanto, in sé e per sé, questo comportamento, dovuto a motivi pa-
storali ed ecumenici, sia gradito, tuttavia può presentare un certo
svanta gio in quanto non rimane chiaramente determinato se e ciò
che il conci ·o vuol insegnare in modo vincolante. Sarebbe possibile
eliminare questa difficoltà qualora in un concilio si distinguesse in
maniera precisa tra una definizione irreformabile e un decreto dot-
trinale a carattere generale e pastorale. Allora il concilio intende-
rebbe esprimersi e si esprimerebbe in maniera assolutamente vin-
colante solo nel primo caso.
Con tutto ciò, tuttavia, non si è ancora impostato correttamente
il problema d'una interpretazione dei documenti magisteriali che
non sia sempli~C:J:ll~ntc; __~.~~i_ç~,--m{l_ ç!i_e ne elabori e n_~ampl1ul con-
t~uto. Questa interpretazione emerge invece là dove, procedendo da
un'ampliata problematica dell'atto dell'intendere, si svela anche una
più ampia p~~sJ~!!!~l§int~pretazione. Praticamente questo tipo di
interp~~t~~ione fu ~p~~ ~.@~~filQd~C:!'~.!!~ dall<?_~~..!.'!1~~tero
ufficiale (se ne trovano molti esempi, tra cui restano classici quello
della question.e....d~LlimbQ.~--qii~llo_d~ll~- storia dell'ass.ioma: «extra
Ecclesiam nulla salun>: per quest'ultimo si confronti os 1351 con
ns 3866), ma solo oggi è possibile una sua intelligenza ed un suo
PORTATORI DELLA MEDIAZIONE

uso più riflesso, alla luce di quella più precisa impostazione del pro-
blema ermeneutico dovuta, in campo filosofico soprattutto a M. HEI-
DEGGER e H.G. GADAMER, e, in campo teologico, a BuLTMANN ed
a coloro che con lui discussero e polemizzarono: G. EBELING, H.
0TT, E. FucHS, H. D1EM, L. STEIGER ed altri. La teologia cattolica
in questo problema dovrà sottolineare il fatto che il magistero uffi-
cW~_jn2~ ..stesso (senza pregiudizio d'una relativa autonomia della
teologia) è un ~l~.~~?_to ~~senzl11_!~ 9i ~est!. interpretazione. Dovrà
inoltre rifiutare ogni relativismo mo~ernist\~~ e dimostrare che una
corretta interpretazione cfelle proposizioni m~gfst~~i~li ~is~lterà sol-
tan!Q_s_e__ s_i__Qrendono le mosse dal loro contenuto oggettivo, conte-
nuto che neu;;-·{~;;;-;cl~oni dei" magistero (infallibile) è esposto sì
esatralil_çnte,.~_!~t_t_av~a .!!lai in.mo.d.o._esauriente. Ciò significa però
che le singole proposizioni magisteriali debbono essere lette inseren-
dole n~IJ.~~r~~o.~--!.9-~?Je .. .Qell~__ ti_y~l~J.Q.I!e quale ci è dischiuso nella
sacra Scrittura, ed alla luce di questa debbono essere intese. Questo
metodo d'interpretazione ha l'aw~.ten,?:~_d'un_ circolo ermeneutico
vizioso, in quanto_jl_1.n~ero-.Lun. .. .e.lem~ll 'interpretazione
scritturistica, mentre la Scrittura è un eleme~to nell'interpretazione
dell~oposizioni magisteriali. h chiaro che qui non è possibile ve-
dere nella Scrittura soltanto una somma di proposizioni disparate,
ma tutte queste proposizioni convergono verso un centro che, in
ultima analisi, è la parola di Dio incarnata nella uale Dio si ·~
espresso in mo o esauriente e alla quale si riferiscono, in fondo,
tutte _k parole della Scrittura. Non si possono interpretare rettamen-
te in questo modo le varie proposizioni magisteriali, se non inten-
dendole in un senso 'relativo' del tutto positivo (quindi non moder-
nista!): esse vengono liberate dall'isolamento in cui altrimenti si
troverebbero, e vengono riferite a quella totalità centrale da cui
ricevono la loro piena oggettiva comprensibilità. In una sifatta in-
térpretazione si riconoscerebbe più chiaramente non solo il valore
sil!S..olo delle diverse proposizioni, ma risalterebbe con maggior pre-
cision.t.i!_J?_~-~-°-!:'dizionamento storico, e cosl si potrebbe vedere
meglio ciò che in una determinata proposizione non è stato detto
esaurientemente e che, da questo punto di vista, andrebbe integrato
sia -;tt;~~~soaltre- proposizioni magisteriali, sia evidenziando aspetti
biblici non ancora sufficientemente presi in considerazione. Potreb-
IL MAGISTERO SPECIALE DELLA CHIESA 97

be cosl, ad esempio, capitare che due proposizioni che a prima vista


sembrano in contraddizione, si dimostrino reciprocamente comple-
mentari, se sono riferite a questo punto di convergenza più pro-
fondo. La particolare situazionc.J.n cui si trovano sia il teologo che
il portatore dcill'uflj~io_magisteriale in tanto è un momento di questa
interpretazione in Quanto diventa fermento di ricerca teologica e
perciò anche di interpretazione sia della Scrittura che delle proposi-
zioni magisteriali. Naturalmente ciò non significa prendere una deci-
sione ~ovvisoria sul comportamento della parola di Dio nei riguàrdi
delle tendenze fondamentali di un determinato tempo. Non si tratta
quindi di dedurre dalla situazione presente un metro ad essa imma-
nente di interpretazione della Scrittura o delle espressioni magi-
steriali. h certo tuttavia che la teologia si ,gova al servizio di una
predicazi_Q!Je di fede _diretta all'uomo del tempo p;sente e perciò
non pu~e che teologia vivente, ossia teologia che si sviluppa
entro quell'orizzonte spirituale a cui appartiene il particolare pre-
sente del teologo.

Giustamente HEINRICH Orr (Glaube und Bekennen, Coll. «Begegnung»,


2, Basel I 96 3, p. 14) mette in evidenza il siiw.ili_cato ecumenico di questa
in · · a · arti · iaio---o--si--sTOrianoar1eg-
gere e d'interpretare le proposizioni della loro confessione a a uce ella
totale timonianza della Scrittura e del suo centro cristologico, e se inol-
tre, ~~mpre in questa uce, s1 s orzano - 1 compren ere ciò che l'altro
intemk_ ~sprjmere con le proposizioni della sua confessloiie,-non- può non
verificarsi un'avvicinamento delle strade separàte.lJuesto non significa
tuttavia un compromesso riprovevole, in quanto le proprie proposizioni
non vengono assoggettate ad un'istanza illegittu;;--·(come éaplfain ogni
modernismo erelativìsmo dogmatico che la Chiesa ben a ragione ri-
prova), bensì vengono inte retate e aperte ver~-q_~el_ centro alla cui
luce dovrebbero essere lette. ar a ora poss1 1 e un acco o tra
propos~nl-apparentemente contrastanti, in quanto proprio quell'ultimo
punto di convergenza lo esige e lo permette. Si ~nno apportare corre-
zioni alle precedenti posizioni in tanto in guanto ciò si S!II.à rivelato neces-
sario alla llce-·a;---q;:;--e-rcentro. E chiaro che, ~ parte cauolica;ifCOncetto
di 'correzione', non può essere applicato illimitatamente; ciò dipende ne-
cessariamente daf concetto-- e Cfàllarealtà delle decJS1om infallibili del ma-
gistero. Da quanto si è detto, come già si è visto in base allo studio delle
relazioni tra Scrittura e tradizione, ancora una volta risalta che una riela-

Mystcrium sJlutis / z.
PORTATORI DELLA Ml!DIAZIONF.

borazione ermeneutica da parte della teologia cattolica è inevitabile ed è


fondamentale per la risoluzione di molti problemi.

gg. Alla domanda di come si manifesti esteriormente e concreta-


mente il magistero ecclesiale, non si può rispondere che prendendo
in esame i suoi singoli organi. In questo modo si impongono imme-
diatamente alcune d1stmziorii che portano a riconoscere la forma e
l'intima struttura di questi organi. La distinzione fondamentale è
quella esistente tra magistero ordinario e magistero straordinario. Il
magistero ordinario costituisce, in certo qual modo, il caso normale
dell'insegnamento ecclesiale. In esso trova fondamento e sicurezza
soprattutto la continuità di tale insegnamento nella storia, mentre
il magistero straordinario appare più specificamente solo in parti-
colari circostanze.
Il magistero ordinario si estrinseca soprattutto nel magistero or-
dinar.io del singolo vescovo. I vescovi, in qualità di testimoni quali-
ficati della fede, lo esercitano con la predicazione orale nelle loro
chiese.J6 È chiaro che questo esercizio magisteriale non costituisce
una forma di magistero infallibile. Esso ha però il compito impor-
tante di tradurre continuamente la parola nella vita e di porgerla
in modo concreto all'uomo.J 7 Anche i sacerdoti ed i diaconi incari-
cati della predicazione partecipano a questo compito in unione col
vescovo. La loro funzione insostituibile non si esercita propriamente
in formulazioni dottrinali, bensl nell'atto veramente centrale del-
l'annuncio della divina parola, la quale può raggiungere i singoli
fedeli e le singole comunità soltanto per il tramite di numerosi pre-
dicatori.38 - Anche al papa spetta l'esercizio del magistero ordinario.
Ed anche per lui questo esercizio significa l'attività normale del suo
magistero. Esso tuttavia si differenzia dal magistero ordinario del
singolo vescovo, in quanto si rivolge direttamente a tutta la Chiesa

lii .Episcopi enim sunt /idei praecones, qui novos discipuios ad Christum addu·
cunt, et doctores authenlici seu auctorilate Christi praediti, qui papula sibi commisso
fidem credendam et moribus appticandam praedic1111t, et sub lumine Spiritus Sane/:
i//ustrant... Episcopi in communione cum Romano Ponti/ice docentes ab omnibus
tanquam divinae et catbolicae veritatis testes venerandi sunt; fide/es autem in sui
Episcopi sententiam de fide et moribus nomine Cbristi prolatam concurrl!f'e, eiq11e
religioso animo obsequio adhaerere debent» (cosi. De Ecclesia, n. 25).
ll J. RATZINGER, Zur Theologie des Kon:i.ils, in Catholica, 15 (1961) 299.
3ll Cf. la costituzione De Ecclesia, n. 28 s.
Il MAGISTERO SPECIALE DELLA CHIESA
99

in ogni caso in cui il papa parli in qualità. di sommo pontefìce.39 - Il


magistero universale ed ordinario (magisterium ordinarium et uni-
versale) della Chiesa deve a sua volta essere distinto dalle due for-
me di magistero esaminate sopra. Quest'ultimo magistero è eserci-
tato dalla totalità dell'episcopato in unione col papa e, in quanto
tale, costituisce un organo del magistero infallibile.
Tra gli organi del magistero straordinario invece vanno annove-
rati i sinodi dei vescovi (concili provinciali, conferenze episcopali
nazionali, e così via), che si radunano in particolari circostanze per
esprimersi su problemi di dottrina. Questa forma di magistero straor-
dinario ebbe importanza non solo in passato, quando nei sinodi si
trattavano e Si decidevano molte importanti questioni dottrmah,' ma
anche oggi può acquistare viva attualità nel quadro d'una rivaluta-
zione delle conferenze episcopali. Certo sarà piuttosto difficile che
riacquisti l'importanza dei sinodi antichi, in quanto la funzione di
queste conferenze è spostata piuttosto sul campo dell'ordinamento
ecclesiastico che su quello della formulazione dottrinale. Inoltre oggi
si è capita, in modo più profondo e preciso, la funzione di due altre
forme del magistero straordinario che possono pronunciarsi infalli-
bilmente in materia di dottrina, ossia il concilio ecumenico e il ma-
gistero del papa quando parla ex cathedra.
A motivo della loro importanza, esamineremo ora successivamente
i tre organi del magistero (infallibile): il magistero universale ed
ordinario, il concilio ecumenico, il magistero infallibile del papa
(con un accenno al suo magistero ordinario). Anche in questo studio
ci si servirà dell'ecclesiologia solo nella misura necessaria alla esatta
comprensione teologica delle questioni trattate.

b. Il magistero universale ed ordinario della Chiesa

Il magistero universale ed ordinario della Chiesa è quello esercitato


dall'episcopato in unione col papa. È detto universale in quanto
esso è espressione dell'intero episcopato e, attraverso questo, dell'in-
roo POltTATOllI DELLA Ml!DIAZIONE

tera Chiesa. Si dice anche ordinario per distinguerlo dal concilio,


perché l'episcopato in unione col papa esercita una funzione magiste-
riale fondamentale per la Chiesa anche fuori del concilio. Bisognerà
esaminare con attenzione questo organo del magistero, in quanto
esso presuppone in modo vincolante la rivelazione e in quanto la
sua comprensione include una problematica teologica particolare.

aa. Solo in tempi abbastanza recenti, distinguendolo dagli altri


organi magisteriali, si è compreso con chiarezza questo magisterium
ordinarium et universale. In una lettera indirizzata .all'arcivescovo
di Monaco-Frisinga ( 186 3 ), Pio IX si pronunciò contro la tendenza
di alcuni teologi tedeschi a limitare il magistero infallibile della Chie-
sa alle solenni decisioni conciliari, ed afiermÒ ID modo cfoaro l'esi-
stenza e il carattere vincolante del magistero universale ed ordina-
rl2: Pochi anni dopo, il concilio Vaticano I formulò la seguente
definizione che si riallaccia alla formulazione di Pio 1x: «Si deve
dunque credere di fede divina e cattolica tutto ciò che è contenuto
nella parola di Dio sia scritta sia tramandata, e che nella Chiesa
viene proposto da credere come divinament'-!ivelato, sia con deci-
sione solenne, sia nel magistero ordinario ed universale» (NR 91). 41
Tale testo, soprattutto per desiderio del vescovo Senestreys di Re-
gens Ratisbona), fu inserito nella costituzione De fide catholica.
Con questa form azione 1 magtstertum or martum viene nettamen-
te distinto dal magistero straordinario (ossia il concilio, quanto' m
in quel momento, non s1 era ancora posta in discussione la questione
dell'infallibilità del papa). Che qui si tratti d'un organo del magi-
stero infallibile risulta dal riferimento alla «fede divina e cattolica»
che è dovuta anche alle espressioni dottrinali del magistero ordina-
rio e universale. Il magìsterium ordinarium et universale appare

40 «Nam4ue etiamsi ageretur de i/la subiectione, quae fidei divinae aclu est praes·
tanda, limitanda tamen non essei ad ea, quae expressis oecumenico,.um Conciliorum
aut Romanorum Ponti/i.cum huiusque Sedis decretis definita sunt; sed ad ea quoque
extendenda, quae ordinario totius Ecclesiae per orbem dispersae magislerio tanquam
divinitus revelata traduntur ideoque universali et constanti consensu a catholicis theo-
/ogis ad fidem pertinere retinentur ... » ~R, 353; DS, 2879.
41 «Porro fide divina et catholica ea omnia credenda sunl, quae in verbo Dei
scripta ve/ tradito continentiir et ab Ecclesia sive solemni iudicio $Ìve ordinario et
universali magisterio tamquam divinilu' •Pvelata credenda proponuntur» (Ds, 3011 ).
IL MAGISTERO SPECIALE DELLA CHIESA IOI

quindi affiancato al concilio (ed al magistero solenne del papa) come


regola prossima ed immediata di fede (regula proxima et immediata
fidei, secondo il linguaggio scolastico). È chiaro che tale magistero
è sempre riferito a «ciò che è contenuto nella parola di Dio sia scrit-
ta sia tramandata».42
La realtà del magistero universale ed ordinario, che il concilio
Vaticano 1 mise chiaramente in evidenza, è naturalmente assai più
antica della sua comprensione ben distinta e della sua interpreta-
zione. In fondo la sua antichità coincide con quella della tradizione
dottrinale vivente della Chiesa. Si può dire con M.J. ScHEEBEN:
«Quando dunque l'intero corpo insegnante della Chiesa definisce
realmente e universalmente una dottrina e questa viene insegnata
come parola di Dio, viene anche promulgato universalmente il do-
vere di crederla». 41 In questo senso, ad esempio, già nei primi secoli
della Chiesa, lo gnosticismo e il montanismo furono definitivamente
condaQ.nati, senza l'intervento esplicito di un concilio ecumenico.
Una reazione di questo tipo poté certamente manifestarsi anche
attraverso singoli sinodi, ma in definitiva si tratta pur sempre d'una
manifestazione della Chiesa totale che non può essere considerata
separata dalla realtà del corpus episcoporum. 44 Tra le espressioni di
questo magistero si deve annoverare soprattutto il più antico Sim-
bolo apostolico, con cui viene esplicitata la fondamentale regula fidei.
Questa potrà poi essere interpretata, differenziata, precisata median-
te successive decisioni conciliari, mai però potrà essere considerata
propriamente superata.

In una trattazione storica di questo argomento non si dovrà dimenticare


che, nei riguardi d'una certa definizione dottrinale, si può verificare, e si
veribca di fatto, un'evoluzione ed una maturazione della convinzione del

•i La costituzione De Ecclesia riprende espressamente questa dottrina del Vatica-


no 1: «Licet singuli praesules infallibilitatù praerogativa non polleant, quando tamen,
etiam per orbem dispersi, sed communionis nexum inler se et cum Successore Petri
servantes, authentice res /idei et morum dacentes in unam sententiam tanquam defi-
nitive tenendam conveniunt, dactrinam Christi in/allibtliter enuntiant» (n. 2,).
4l M.J. ScHEEBEN, Theologische Erleenntnis/ehre, in WW, III, 190.
44 Cf. la seguente definizione di papa Simplicio (468-483): «Indissolubile esse non
dubium est vel quod ante decreverint in unum convenientes tot Domini sacerdotes,
ve/ quod singuli per suas Ecclesias constituti, eadem nibilominus sentientes, diversis
quidem vocibus, sed una mente dixerunt» (Epistula 7, in PL, ,a, 44).
102 PORTATORI DELLA MEDIAZIONE

magisterium ordinarium. :i:: cosl possibile, ad esempio, che quanto viene


insegnato da un sinodo o dal papa nel suo magistero ordinario (non in-
fallibile), nel corso del tempo venga poi accettato dal magistero univer-
sale ed ordinario, in modo tale che anche prima d'una decisione conci-
liare esso acquista valore di dottrina infallibile della Chiesa. Si pensi alla
condanna del pelagianesimo, sicuramente accertata già prima del concilio
di Trento. Ciò nonostante, come si farà vedere in seguito (cf. cc.), quest3
supposizione, specialmente nelle questioni controverse, va usata con estre-
ma cautela.

Caratteristica fondamentale dell'insegnamento ordinario dell'episco-


pato è la sua universalità nello spazio e nel tempo. Cosl, proprio in
questo insegnamento, si rivela la vera cattolicità della Chiesa, con la
sua unione alla predicazione normativa apostolica per il tramite del-
la tradizione magisteriale vivente.

bb. Una particolare questione teologica nasce nei confronti del


soggetto del ma istero ordinario ed universale della Chiesa. Da quan-
to s'è detto, risulta già che questo soggetto è costituito alla tota-
lità_Qei vescovi in comunione col eaea. Questa proposizione generica
può essere resa più rigorosa dicendo che il soggetto autentico del
magisterium ordinarium et universale è costituito dal collegio episco-
pale con a capo il papa. 45 Il collegio episcopale è una realtà che non
viene osta in atto dal concilio, ma che precede il concilio ed esiste
anche al di fuori del conci io. conci o in se e per se non aggiunge
null; ai poteri dei vescovi che si radunano in un determ\nato luogo,
in quanto costituisce soltanto un'attualizzazione particolarmente effi-
cace d'una realtà che già esiste di per sé. Questa realtà è precisa-
mentt il collegio dei vescovi. In guanto costituisce una realtà che
supera la semplice somma numerka dei singoli vescovi, il collegio
può servire ad illuminare meglio l'infallibilità del magistero univer-
sal~ e ordinario. Senza il presupposto di questa collegialità, ci si
dovrebbe infatti chiedere come mai la totalità dei vescovi, ognuno
fallibile, come singolo, potrebbe costituire un organo del magistero

45 Per questa questione cf. H. PtSSAREK. HuoELtST, Das ardentliche Lehram/ als
kollegialer Akt des Bischofskollegiums, tr. in BCR, 52, pp. 185-214. Sembra che que-
sta concezione si~ anche condivisa dal Vaticano ll, in cui il magistero infallibile dei
vescovi è collegato al corpus episcoporum. Cf. la costituzione De Ecclesia,' n. 25.
IL MAGISTERO SPECIALE DELLA CHIESA 103

infalJibile. Naturalmente si può ricorrere alla particolare assistenza


ddlo Spirito santo, il quale preserva l'episcopato nel suo insieme
da ogni deviazione dalla vera fede. Ma anche questo ricorso acqui-
sta più significato se si presuppone la collegialità, in quanto è mag-
giormente evidente che il collegio dei vescovi gode di per sé di
un'assistenza dello Spirito che non può essere postulata per il sin-
golo vescovo. Alla luce del concetto di collegialità appare anche più
chiaro il ruolo essenziale del papa per la formazione dd magisterium
ordinarium et universale, poiché uesto concetto rettamente inteso,
include sempre anche il capo del collegio, cosl che, senza i papa,
non può esistere un magistero universale e ordinario in qualità d'or-
gano magisteriale infallibile.

Volendo approfondire l'argomento, chiedendoci quanti vescovi debbano


mettersi d'accordo affinché si ossa accertare con sicurezza una dottrina
vincolante e magisterium ordinarium et universale, si deve rispondere
che si richiede un accordo tale da poter arlare con certezza d'un consenso
del co eg10. ta uopo è necessaria e su ciente un'unanimità morale. In
sua assenza non si può parlare d'un effettivo consenso del collegio. Invece
un'unanimità assoluta, per la natura stessa delle cose, non può essere postu-
lata in quanto non potrebbe mai essere accertata.

cc. Notevoli difficoltà si riscontrano invece allorché si affronta il


proble~el modo secondo cui è possibile accertare il consenso del
magister.a.. ordinario e universale. In linea di prrnC1p10 bisogna dire
che questo consenso sorge sia direttamente dietro la notificazione
dei singoli vescovi e del papa, sia indirettamente attraverso le sva-
riate testimonianze della liturgia, dei teologi, e cosl via. Ma non ap·
pena ci si metta ad approfondire concretamente l'argomento, si sco-
pre subito una problematica più profonda dal punto di vista gnoseo-
logico-metodolc>gico.
Una prima difficoltà nasce dal problema di come sia possibile ac-
certare con sicurezza il magistero ordinario ed universale sulla base
di tutto il complesso delle testimonianze e dei documenti disponi-
bili. Non esistono roblemi di sorta, è chiaro, quando si tratta di
quelle verità la cui appartenenza al patrimonio e a ede catto ca
è fuori discussione. Così è chiaro che non vi saranno dubbi quando
il rnagisterium ordinarium et universale insegna in modo vincolante
PORTATORI DELLA MEDIAZIONE

la risurrezione dei morti. Come si presenta però la situazione quan-


do si tratta di questioni controverse? È chiaro che il problema non
potrà essere risolto solo appellandosi allo stesso organo magisteriale.
Si dovranno piuttosto attingere anche ad altre fonti quegli elementi
necessari per poter dare delle proposizioni relative una qualifica più
esatta.
La seconda difficoltà è determinata dal fatto che, anche quando
in una uestione si sia accertata l'unanimità morale d~copato,
si può e si deve spesso chiedersi ancora qu e sia con precisione
l'enunciato che in verità sarà impegnativo per la fede. La presen-
tazione delle verità di fede è infatti molto spesso collegata con di-
versi theologumena che non sempre ne sono differenziati m modo
esatto e riflesso. Ciò succede dì per sé anche per gli altri documenti
magisteriali, ma è particolarmente constatabile per il magisterium
ordinarium et universale, perché in questo, generalmente, lo stato
della questione è meno meditato, ha meno possibilità d'essere chia-
rito in discussioni e dibattiti, di quante ve n,e siano, ad esempio, in
un concilio. Cosl i catechismi possono contenere degli elementi che
appartengono al genere delle spiegazioni teologiche piuttosto che al
patrimoni~ della fede. Si potrebbe anche far vedere che cento anni
fa più o meno la totalità dell'episcopato sosteneva la tesi che l'uomo
fosse stato creato direttamente dalla- materia inorganica, pur non
essendo chiaro se questa concezione - che oggi sicuramente non è
considerata come parte del patrimonio di fede - fosse un theologu-
menon o un'autentica proposizione di fede. Esempi apalogb'jJiotreb-
bero citarsi per la dottrina del peccato originale, per l'escatologia~
e cosl via. Lo stesso potrebbe sostenersi altresì per la teoria d'una
'doppia fonte' della rivelazione. Anche se si accertasse che questa
teoria, dopo il Tridentino, è entrata a far parte della maggioranza
dei catechismi,46 non sarebbe certo che si tratti d'una dottrina di fede
vincolante.
Le precedenti considerazioni ci permettono di concludere che pri-
ma di parlare, caso per caso, d'un impegno di fede a norma del ma-

46 V. al riguardo H. SCHAUF, Die Lehre der Kirche iiber Schrift und Tradition in
den Katechismen, Essen 1963, e lo studio critico di J. RATZINGER, in ThR, 60 (1964)
2I]·221.
IL MAGISTERO SPECIALE DELLA CHI.ESA I05

gistero universale e ordinario, bisogna esaminare la questione con


estrema cautela. La vera importanza di questo organo del magistero
ecclesiale non sembra consistere nella sua funzione criteriologica,
quanto piuttosto nel fatto che esso costituisce la via ordinaria con
cui viene proposta la fede cattolica. Questa importanza risulta chia-
ramente soprattutto dalla liturgia, la quale, a ragione, è indicata
come l'organo più importante del magistero ordinario. 41 La liturgia
infatti è l'organo rimario di uesto magistero non perché in essa
siano formiilate singole proposizioni della fides quae ere itur, ma
piuttosto perché in essa sono rappresentati, e quindi anche mediati,
quei misteri centrali della salvezza, che costituiscono sempre la ma-
trice_ di più ampi sviluppi dottrinali e di formulazioni tecniche. Sotto
questo punto di vista al magisterium ordinarium et universale spetta
un'importanza, quale non può essere attribuita a nessun altro orga-
no del magistero ecclesiale.

c. Il concilio ecumenico

Il collegio episcopale in unione col papa che ne è il capo, non si


esprime soltanto nel ma istero universale e ordinario; esso si mani-
festa in maniera privilegiata nel concilio ecumenico. Quest' timo si
distingue dai sinodi particolari proprio per il fatto di essere un'espres-
sione del collegio episcopale in quanto tale. Secondo il CJC, al conci-
lio spetta la suprema potestà nella Chiesa: «Concilium oecumenicum
suprema pollet in universam Ecclesiam potestate» (c. 228 § 1). Que-
sta suprema potestas si esercita tanto sulla disciplina ecclesiastica,
quanto sull'insegnamento dottrinale. In questa sede noi dobbiamo
esaminare la funzione del concilio soprattutto dal secondo punto di
vista, ossia la sua funzione nel mediare la rivelazione. Giustamente,
a questo HNER osserva che la ro osizione citata del
CJC deve essere di diritto divino e non soltanto di diritto ecc esia-
stico.411 Infatti, se essa dovesse comprendersi solo nel senso d'un
diÌ1tt()'ecclesiastico, si avrebbe un'inammissibile limitazione giuridi-
ca del primato papale da parte d'uno ius humanum. La problematica

41 Cf. l'articolo, successivo a queslo capitolo, sulla Liturgia, pp. 145 55_
411 K. RAHNER - J. RATZINGER, Episcopato e prima/o, Brescia 1966, pp. 92 s.
106 POllTATORI DELLA MEDIAZIONE

connessa con episcopato e primato, che si riflette in questa proposi-


zione e che costituisce una delle questioni di fondo della costituzione
De Ecclesia del Vaticano n, dovrà essere esaminata a fondo in eccle-
siologia.

aa. Per l'esatta comprensione della funzione magisteriale del con-


cilio ecumenico, è inevitabile innanzitutto chiarire meglio il concetto
di ç;g_ncilio ecumenico. Fondamentale a tal fine è la distinzione tra
il concetto canonico e il concetto teologico di concilio ecumenko. 4g
Il concetto canonico abbraccia tutto ciò che, a norma dell'attuale
diritto, appartiene al concilio (cf. CJC cc. 222-229 ). Le precisazioni
del codice mettono soprattutto in rilievo con estrema precisione i
diritti papali nei riguardi dei concili. E compito del papa convocare
un concilio, presiederlo (di persona o mediante legati da lui pre-
scelti), trasferirlo in altro luogo, scioglierlo, ma soprattutto confer-
mare i suoi decreti. Il concetto teologico di concilio deve invece
includere quelle note caratteristiche che ad esso competono in modo
essenziale. La stessa storia ecclesiastica mette in evidenza nei suoi
fatti una tale distinzione. Molti articoli del codice attuale non riflet-
tono per nulla la prassi dei precedenti concili. E questo anche per
ciò che riguarda la funzione del papa. Cosl, ad esempio, i primi con-
cili non furono convocati dal papa, bensì dall'imperatore. Non è
neppure certo che tutti i concili siano stati formalmente approvati
di!l.J2apa. E difficile studiare i primi concili dal punto di vista mo-
derno, in quanto la nostrit._mentalità possiede ormai una concezione
più meditata, più riflessa del concilio, del primato papale, e cosl ";,ia,
di quanto fosse quella dominante al tempo dei primi concili, anzi
fino al xv secolo (si pensi alla problematica del concilio di Costan-
za ).'0 Esiste anche una relativa incertezza sul numero complessivo dei
concili ecumenici. Tuttavia è certo quanto segue: quando un concilio
fu riconosciuto come ecumenico già al tempo in cui fu tenuto - e
per questo occorre almeno il consenso tacito del papa -, ad esso in

49 Il primo a richiamare la nostra attenzione sull'imporianza di questa distin-


zione fu C. VAGAGGINI. Per quanto riguarda la definizione di concilio, cf. le osserva-
zioni storiche e sistematiche di C. VAGAGGINI, Osservaxioni intorno al conceuo di con-
cilio ecumenico, in Divùtitas, 2 ( 196t) 4II·430.
5U Cf. H. KilNG, Slrullure della Cbiesa, Torino r965, pp. 254·271.
IL MAGISTERO SPECIALE DELLA Cl!IESA IO?

quanto tale compete l'infallibilità nella definizione degli argomenti


di fede. È però anche concepibile che la Chiesa d'un certo tempo
trovi che la sua comprensione della fede sia espressa cosl bene in
un sinodo precedente, che questo sinodo venga equiparato de facto
ad un concilio ecumenico.51

La teologia ortodossa incontra una seria fondamentale difficoltà quando


esplicita il concetto di concilio ecumenico nei confronti della negazione
dell'infallibilità papa{e. In definitiva, dov'è poss1bile trovare un'ultima
istanza che nei casi dubbi decida sull'ecumenicità di un concilio se si nega
il vertice ( iuris divini) del collegio dei vescovi? I vescovi senza il papa
infatti non possono costituire quest'ultima istanz!!, in quanto il dubbio
sull'ec;imenicità è proprjo condizionato dalla mancanza del consenso dei
vescovi. Non è neppure sufficiente richiamarsi al consenso del popolo cri-
stiano, in quanto nei casi dubbi bisogna ancora esaminare ove si trovi,
e quale sia il popolo cristiano che ha da prendere questa decisione in qua-
lità di entità normativa. Il limitarsi ai primi sette concilii ecumenici ap-
pare problematico, in quanto la Chiesa deve potersi esprimere in ogni tem-
po in maniera vincolante per mezzo del suo massimo organo magiste-
riale.

Il concetto teologico di concilio deve includere sicuramente i se-


guenti aspetti: il concilio deve costituire una rappresentanza della
Chiesa intera, e questa rappresentanza deve essere strutturata in
modo da corrispondere alla struttura essenziale della Chiesa. Se man-
ca la rappresentanza della Chiesa universale non si può parlare di un
concilio ecumenico, bensì al massimo d'un sinodo locale, nazionale,
continentale, e così via. Questa rappresentanza dev'essere accertabi-
le, almeno in linea di principio, per quanto poi nella fattispecie sto-
rica essa possa apparire più o meno percepibile (il che però non
significa che sia indifferente il modo in cui essa si rende percepibile;
da questo punto di vista, la notevole assenza di partecipazione del-
la Chiesa orientale in parecchi concilii, costituisce un fatto storico
che non può essere accettato come del tutto indifferente). Così pure
la rappresentanza deve strutturarsi in conformità alla struttura es-
senziale della Chiesa, poiché la Chiesa non è una società amorfa, ma
una società ordinata. Nel concilio deve apparire anche questo ordine.

' 1 In questo senso cf. K. R·\Il»EI\ · H.VoRGRlMl.E~, Kfrines Tbeologirches Wliirln-


buch, Frciburg i.Br. 1961,pp.212s.
108 PORTATORI llELLA MEDIAZIONE

Naturalmente questa prima proposizione generale sul concilio non ha af-


fatto esaurito il concetto teologico di concilio. La convocazione del con·
ci]io Vaticano II ha avviato delle discussioni sulla natura del concilio anche
in seno alla Chiesa cattolica. Secondo H. KONG (Strutture della Chiesa,
Coli. «-Le idee e la vita», 24, Torino 1965), la Chiesa stessa costituì·
sceJ!. grande concilio per convocazione divina. Il concilio ecumenico per
convocazione umana è una rappresentazione del primo, cioè la Chiesa.
In quanto tale esso deve rappresentare la Chiesa apostolica, una, santa,
cattolica. Questa rappresentanza deve effettuarsi conformemente alle strut·
ture essenziali della Chiesa, che comprende in sé sia l'uffido sia la comu-
nità. Per questo motivo, H. KONG postula con energia la partecipazione
attiva dei laici al concilio. J. RATZINGER, Zur Theologie des Konzils, in
Catholica 15 (1961) 292-304, gli oppone invece la tesi che il concilio
abbia nella Chiesa una ben determinata funzione di guida e d'ordine, fun-
i
zione c1'ìe è legata all'ufficia ecclesiastico. Il concilio deve perciò essere
sostanzialmente interpretato come funzione dell'ufficio ecclesiastico. Nel
presupposto del compito particolare che compete all'ufficio nella predica-
zione .Qonrjnale e nella guida della Chiesa, e tenendo presente anche la
progressiva chiarificazione del concetto di concilio verificatasi nella sto-
ria della Chiesa (nella quale certamente si presentano numerosi problemi:
infatti anche H. KiiNG si richiama alla storia), ci sembra più giusto, a una
prima valutazione, intendere il concilio come espressione dell'ufficio ma-
gisteriale e pastorale, in uanto uest · r · ua-
lità di capo de a iesa, e quindi esso agisce nella Chiesa con autorità.
Si può sostenere che analogamente in un senso particolare valga, per l'uffi-
cio pastorale e magisteriale, quanto la Mediator Dei dice dell'ufficio sacerdo-
tale (e Ia costituzione De Ecclesia, n. 28, su questo ---si-uniforma
al encic ica : «Aposto is so ummo o iisque einceps, qui rite ab eis eQTum-
que successoribus manuum impositionem susccperunt, sacerdotalis tribui-
tur potestas, qua ut coram sibi eredita plebe lesu Christi personam susti-
nent, ita coram Deo ipsius popult personam gerunt ... Antequam populi
nomine apud Deum agat, sacrorum administer divini Redemptoris legatus
exsistit; atque idcirco quod Iesus Christus illius Corpom Caput est, cu-
ius christiani sunt membra, ipse Dei vices apud demandatam sibi gentem
gerit». Questa concezione del concilio non escluderebbe: r. la possibilità
di considerare il concilio anche come rappresentazione di tutta intera la
Chiesa, in quanto i portatori dell'ufficio nella loro .gyalità di credenti
appartengono anch'essi alla Chiesa discente e quindi si trovano in comu-
nione con tutti gli altri credenti (cf. K. RAHNER, Zur theologie des Kon-
zils, tr. in BCR, 66, pp. 293-336 ); z. la possibilità di far partecipare ai
lavori del concilio i laici in misura assai maggiore di quanto si sia fatto
finora, poiché come è già stato detto parlando del senrns popult chrlstiani,
l1uffic10 in molte questioni deve appellarsi alle loro esperienze che pos-
lL MAGISTERO SPECIALE DELLA CHll!SA

sono essere decisive, e anche perché il suo magistero non può svilupparsi
senza un dialogo precedente e senza un continuo e intenso colloquio con
essi. Questo convocare i laici al concilio ·corrisponderebbe d'altronde a
quanto si fece nel concilio-tipo degli apostoli a Gerusalemme cui arte-
cip,Q_ anc e a comumt . a tra parte anc e attua e prassi conciliare am-
mette una certa sfumatura d'inter retazione al riguardo, in quanto al
concilio partecipano attivamente anche g i a atl e 1 superiori eg 1 ori:lini
religiosi, i quali tutti non a arten ono al colle io e isco ale. Quali sa-
ranno le so uzioni che si adotteranno in futuro, dipende certo da una
preliminare discussione teologica.

Quanto s'è detto fin qui può essere condensato nella seguente de-
finizione: Il concilio ecumenico è un'assemblea composta soprattut-
to da vescovi, che rappresentano legittimamente il colle io episco-
pale con a capo I papa ex zure wmo), al fine d'esercitare la su-
prema potestà nella Chiesa. Ci pare che questa definizione teologica
esprima chiaramente gli aspetti essenziali del concilio ecumenico: la
riunione locale (a differenza del magisterium ordinarium et univer-
sale); la funzione essenziale del collegio episcopale, che comprende
necessariamente il papa, funzione che può manifestarsi concreta-
mente in molti modi, come si constata anche nella storia; la possi-
bilità di partecipazione di membri non vescovi, com'è dato anche
secondo il diritto attuale; la rappresentanza del collegio episcopale
il cui accertamento è essenziale, perché di qualche concilio ecume-
nico (per es., qualche sessione del Tridentino) non si può dire se
vi fosse veramente radunato il collegio episcopale, mentre è essen-
ziale precisamente la rappresentanza di questo collegio; 52 la compe-
tenza giuridica ed il compito del concilio, che consiste nell'esercizio
del potere magisteriale e giurisdizionale. In questa definizione è im-
plicita l'assistenza dello Spirito santo, che è presente nell'esercizio
del massimo potere nella Chiesa e soprattutto nell'esercizio della

52 Questo problema è assai unportante anche in vista di un futuro concilio.


Un'assemblea di vescovi ancor più numerosa di quella del Vaticano II presenterebbe
considerevoli svantaggi e difficoltà. Se un futuro concilio dovesse consistere d'una
rappresentanza del collegio episcopale, questa dovrebbe evidentemente avere carat-
teristiche tali da realizzare al massimo la cattolicità della Chiesa. A questo riguardo
si osservi che il concetto di rappresentanza, in connessione con il nostro problema,
esige un ulteriore approfondimento.
!IO POB.TATORI DELLA MEDIAZIONE

prerogativa dell'infallibilità del concilio quando questo propone in


modo vincolante delle verità di fede.

bb. Altro problema teologico che riguarda il concilio nella sua


funzione magisteriale, è quello relativo al soggetto dell'infallibilità
nella Chiesa. Questo problema potrebbe essere sollevato anche nei
riguardi del soggetto del magfrterium ordinarium et universale, però
assume ..carattere particolarmente acuto nel caso del concilio. La sua
importanza concreta risiede soprattutto nel fatto che in esso può
porsi meglio in luce il rapporto che collega episcopato e primato.
Alla luce di questa interazione tra episcopato e primato, si deve
parlare d'un soggetto unico, o d'un doppio soggetto dell'infallibi
U1à1 È certo che occorre escludere a priori la tesi che sostiene l'esi-
stenza~ di due soggetti dell'infallibilità adeguatamente distinti, in
quanto essa è inconciliabile coi dati della fede. In questo caso,
infatti, l'infallibilità diventerebbe prerogativa tanto del papa quando
parla ex cathedra, quanto del concilio senza il papa. Ma questa se-
conda alternativa è inammissibile, perché anche il papa appartiene
al concilio in qualità di capo del collegio episcopale.53
Il problema si riduce dunque soltanto ad esaminare se dell'infal-
libilità esista un soggetto unico ovvero due soggetti inadeguatamen-
te distinti (il soggetto dell'infallibilità si dice inadeguatamente di-
stinto, quando questa prerogativa compete sia al papa da solo, sia
anche al concilio in unione col papa). Gli argomenti portati da
alcuni teolo i in favore della tesi d'un soggetto unico, sono general-
mwte i seguenti: 54 a C iesa essen o una società non può avere due
!lY_torità supreme. Non vi è dunque che un'unica autorità suprema
che, di per sé, risiede nel papa, ed a cui i vescovi partecipano nel
concilio (e nel magìsterium ordinarium et universale). L'infallibilità
del collegio episcopale dovrebbe essere dunque interprerata alla luce
della R!!_tecipazione all'infallibilità del papa. - Altri teologi invece
sostengono che in base alle testimonianze "'"01!1 Nuovo Testamento,
l'infallibilità del collegio episcopale non dev'essere interpretata come

5l «lnfallitii/.itas Ecclesiae promùsa in corpore Episcoporum quoq11e inesl, quando


supremum magisterium cum Petri successore exercet» (oost. De Ecclesia, n. i5l.
14 J. SALAVERRI, S11crae Theologiae Summa I, Madrid, 41958, p. 713.
IL M.O.GISTERO SPECI.O.LE DELLA CHIESA II 1

partecipazione all'infallibilità del papa, dato che il collegio aposto-


lico, di cui il collegio e isco ale è il successore, avrebbe ricevuto,
insi~me a Pietro, i suoi poteri direttamente a Cristo. l ovre be
dunque parlare piuttosto, dicono questi ultimi, di due soggetti del-
l'infallibilità inadeguatamente distinti; altrimenti si oscurerebbe la
realtà dell'episcopato di diritto divino.
Come giustamente osserva K. RAHNER, 55 nessuna delle due tesi,
cosl com'è formulata, è soddisfa'Z,!lte. La prima sostiene giustamen-
te che...una società deve avere un'unica autorità ~rema. Tuttavia
interpreta malamente la concezione biblica dei rapporti tra episco-
pato (collegio apostolico) e primato. La seconda tesi possiede pregi
e difetti opposti. Essa si accorda meglio coi dati biblici, tuttavia, dal
punto di vista filosofico, è viziata da un'antinomia speculativa. La
seguente interpretazione, fornita da K. RAHNER, avrebbe il merito
di ov.uia!;e a entrambe queste difficoltà: nella Chiesa esiste un unico
soggetto-dell'infallibilità, ossia il collegio episcopale con a capo il
papa ex iure divino. Quest'unico soggetto però può esqinsecarsi in
modi diversi (attraverso 'organi' diversi): nel concilio, ovvero nel
magisterium ordinarium et universale, ovvero nelle definizioni ex
cathedra del sommo pontefice. In quest'ultimo caso si può senz'al-
tro ammettere che il papa agisce precisamente come rapo del co~­
gio epismpale, e non semplicemente svincolato da esso. Ciò non
esclude che le sue definizioni siano infallibili «ex sese», come inse-
gna il Vaticano I (os 3074). Infatti, dal punto di vista puramente
giuridico, l'attQ...del capo d'un collegio può essere considerato in due
modi diversi· come un atto che richiede un'approvazione a poste-
riori del collegio; o come un atto che acquista valore giuridico senza
tal.e approvazione. E quest'ultimo è proprio il caso delle decisioni
pagali ex catbedra, come appare dalla dottrina del primato e dell'in-
fallibilità papali. Di conseguenza si deve anche dire che nel concilio
il collegio episcopale decide in unione col papa, e può perciò creare
diriito in senso pro..E!io. Il Vaticano II con la formula: «Et nos (Pau-
lus vr) ... una cum sacri Conci/ii Patribus, in Spiritu Sane/o approba-
mus, decernimus, ac statuimus», introdotta nelle sue costituzioni e
nei suoi decreti, tiene conto assai meglio di questa realtà di quanto

s.; K. RAllNER • ]. RATZ!NGER, Episcopato e primato, pp. roo-107.


I I:Z POllT ATOKI DELLA MEDIAZIONE

ne avesse tenuto conto il Vaticano I, che invece nella definizione del-


l'infallibilità pontificia usò la formula: «Nos... sacro approbante
Concilio docemus et... definimus» (ns 3073). L'importanza ecclesio-
logica ed ecumenica di questa soluzione del problema è evidente di
per sé stessa.

In relazione col problema dell'infallibilità del concilio, come giustamente


sostiene Y.M.-J. CoNGAR, Konzil als Versammlung und grundsatzliche Kon-
ziliaritat der Kirche, tr. in BCR, .P. pp. 145-184, si dovrebbe anche ap-
profondire con maggior vigore la realtà ddla presenza dello Spirito santo
nel oncilio, cosl fortemente an~orata nella tradizione. cf. la numerosa
documentnione nportata CoNGAR: da lui questa presenza viene carat-
terizzata in modo profondo come presenza d'alle@llza. Il suo frutto è il
consenso conciliare, su cui si fondano le decisioni conciliari.

cc. Alcune difficoltà sorgono ancora quando si tratta di tracciare


il confine tra concilio e magisterium ordinarium et universale, in
quanto si riscontrano alcune differenze nel modo di funzionamento
dei due organi, ad esempio per quanto riguarda la maggioranza ri-
chiesta, la partecipazione di coloro che non appartengono al colle-
gio e isco ale, e cosl avanti. Da quanto s'è detto fin qui, si deve
innanzitutto osservare che tanto per i concilio, quanto per il magi-
stero ordinario ed universale, l'elemento di gran lunga più impor-
tante e fondamentale è il collegio episcopale con a capo il papa.
Quindi si tratta di due forme diverse di manifestarsi dello stesso
soggetto, a cui occorre aggiungere le decisioni ex cathedra del papa.
Le differenze tra i modi d'estrinsecarsi devono essere desunte e spie-
gate.. dalla diversità dei dati di fatto e delle situazioni nelle quali
il concilio, il magisterium ordinarium et universale e il papa, pos-
sono e debbono manifestarsi. Se ad esempio durante una riunio-
ne locale una decisione viene ipprovata dalla maggioranza e in ciò
si può identificare il consenso conciliare (resta tuttavia aperta la que-
stione delle soluzioni pratiche più o meno felici: durante il Triden-
tino, a volte, certe decisioni furono approvate a maggioranza sem-
plice, mentre nel Vaticano II era prescritta la maggioranza dei due
terzi), nel magistero ordinario ed universale, in cui non si può fare
una discussione vera e propria e non si può accertare una decisione,
11. MAGISTERO SPECIALE DELLA CHIESA II3

per la natura stessa delle cose si richiede un consensus moraJiter


unanimis.
Assai più importante invece dell'approfondimento di queste più
o meno grandi differenze, è la comprensione dell'importanza che assu-
me il concilio in quanto tale nella mediazione della rivelazione. Que-
st'importanza consiste soprattutto nel fatto che, grazie alla riunione
dei vescovi in uno stesso luogo, viene offerta la possibilità d'un dia-
logo, che altrimenti non si potrebbe realizzare almeno in quella mi-
sura e con quel peso. Il concilio attualizza perciò una circostanza
fondamentale della Chiesa: in uesto reci roco interagire delle sin-
gole Chie · ole membra la Chiesa attua izza a sua umtà
e cattolicità, e nel dialogo che si svolge nell'ordine e a tesa si
può formulare rettamente la dottrina. La presenza dello Spirito san-
to nel concilio, non rende superfluo questo dialogo che può anche
trasformarsi in una vivace djsçnssion·e con punte polemiche; ma,
grazie aJla sua assistenza, questo dialogo si svolge in mod; tale che
la verità non viene travisata e, anzi, viene sempre più approfondita
dalla Chiesa. Cosl si avvera precisamente nel concilio la parola del
Signore: «Dove due o tre di voi si raduneranno nel mio nome, là.
io sarò presente in mezzo ad essi» (Mt. 18,20 ). Al concilio spetta
quindi un'enorme importanza nell'attualizzazione della cattolicità e
dell'unità della Chiesa, e nella maturazione dell'autocomprensione
della Chiesa. I concili sono dunque occasioni particolarmente adatte
per discutere in un dialogo fraterno le questioni pendenti nella Chie-
sa - almeno quelle che debbono essere decise dal magistero -, e,
attraverso una comprensione più riflessa della rivelazione, effettuata
alla luce di una determinata situazione storica, per dare una risposta
ai problemi che vengono posti alla Chiesa. Certamente i concili non
possono s.ottrarre la Chiesa alla sya condjzjooe di pellegrina nel
mondo I a 'OA,meAza della srm:ie èslla Chiesa, a questo riguardo,
conduce ad una coscienza assai più obiettiva di questa realtà. Non
tutti i concili hanno la stessa importanza e lo stesso peso. Non tutti,
senza pregiudizio della loro infallibilità per quanto riguarda l'inse-
gnamento della fede, sono riusciti felicemente. La riuscita d'un con-
cilio si trova sempre anche nell'ambito della responsabilità umana
davanti al Signore della Chiesa. Così, dal punto di vista storico, t:
ancora aperta la questione dell'ampiezza e della profondità cl'effica-

8 Mysterium s9lutis / 2.
II4 PORTATORI DELLA MEDIAZIONE

eia che eserciterà il Vaticano II. Che questa efficacia non sarà trascu-
rabile, lo si può sperare dall'orientamento pastorale impresso al con-
cilio soprattutto da papa Giovanni - a differenza dei precedenti
concili che avevano per lo più carattere difensivo - e dal diakigo
che in esso si è seriamente avviato sia all'interno sia all'esterno della
Chiesa cattolica romana.

d. II magistero del papa

Nella trattazione precedente sugli organi del magistero speciale· del-


la Chiesa, si è già sottolineato il ruolo essenziale che sia nel magi-
stero ordinario ed universale, sia nel concilio, compete al papa nella
sua qualità di capo del collegio episcopale. Ci resta da esaminare
più dettagliatamente il magistero che egli esercita personalmente.
Anche in questo problema occorre presupporre la coordinazione tra
e~opato e primato. Allorché il papa esercita la sua funzione anche
all'interno del coilegio episcopale in qualità di suo capo, non si può
pensare che derivi i suoi poteri da questo collegio, ma immediata-
mente dal Cristo stesso. Da questo punto di vista, a lui compete un
magistero proprio che si trova sotto una particolare promessa del
Cristo. Nel presente contesto non si tratta di produrre, secondo i
metodi della teologia fondamentale, una dimostrazione del primato
del papa e del suo magistero (una considerazione d'insieme teologico-
biblica e sistematica dell'ufficio papale verrà sviluppata in ecclesio-
logia); cercheremo piuttosto d'esporre in maniera più dettagliata b
struttura del magistero papale, in rapporto alla funzione fondamen-
tale che ad esso compete nella mediazione della rivelazione.

aa. Il magistero infallibile del papa. L'esistenza, il significato e


l'ampiezza del magistero infallibile del papa sono es licitati ed esat-
tamen e niti nella costituzione Pastor Aeternus del Vaticano 1.
La realtà di questo magistero perCio puo essere escritta nei suoi
aspetti essenziali sulla scorta di quel testo conciliare (os 3065-307 5 ),
tanto più che la costituzione De Ecclesia del Vaticano 11 ( n. 2 5) non
ha aggiunto al riguardo nulla di sostanzialmente nuovo.
La prima parre della costituzione citata (os 306 5· 307 5) product:
diversi argomenti in f:;>ore dell'infallibilità papale. L'introduzione
IL MAGISTt;RO SPECIALE DELLA CHIESA

sottolinea il rapporto esistente tra primato e infallibilità papale: «ln


quello stesso primato apostolico, che il romano pontefice possiede,
in qualità di successore di Pietro, principe degli apostoli, è compresa
pur~-s~j?otestà magisteriale» (NR 383). Questa opinione fu
propugll!_ta dal vescovo Gasser, portavoce della deputazione per la
fede, contro le obiezioni sollevate da una minoranza: J2!.imato e in-
fallibilità non___ d.~ono essere semplicemente identificati, tuttavia' il
massimo potere di giurisdizloìlecomprenoelii-Séifsupremo potere
di m!gi~te~o, il_gl,lal~ a__~µ_!__v_g_l_t~-1. ration!._ finis, __ci_~ __i_~'!.l~!a della
conservazione dell 'unit.à_ della Chi~~,_Ìll1Qlica l'i~~~_!libilità. 56 Contem-
poraneamente vengono pure citati in forma succinta i singoli argo-
menti a s~s_t~_gn_?___~~U.'!!!falli~_rn!_à___~ale: la testimonianza dei pre-
cedenti concili (NR 384), l'esercizio del magistero papale nella sto-
ria (NR 385), l'accettazione di questo magistero da parte della Chie-
sa (NR 38 5 ). Assume particolare importanza l'esatta determinazione
del rapporto esis!_c;:.!!~~- .1!.~.!!!.~~~!~~-p-~~~. inf~llibile ~-.E_~velazione:
«Non è stato infatti promesso lo Spirito santo ai successori di Pietro
affinché, con la sua assistenza, rivelassero una nuova dottrina, ma
affinché, co.t_da__ su;!__~_ssist~~~,_..Qill.Q_dj_ssero_~_t.3.'Eente ed espones-
sero fed~lmente la rivelazione tramand!!!i d~__gli__ l,ll:>?~ToICossia il de-
posj~o ~elJ.3...fege» (NR 385). Il carisma dell'infallibilità dunque non
significa in alcun modo un_ a nuova rivelazione; esso piuttosto-·si-·rITe-
risce esclusi~~ --~-n~~---;.ì; fedele-conservazione ed interpretazione
dell'un_!c_11Ji~~azione.. scopo de a partico are assistenza e o Spi-
rito al magistero dottrinale infallibile del papa è espresso con queste
parole: «Hoc igilur veritatis et fidei nwiquam deficientis charisma
Petro eiusque in hac cathedra successoribus divinitus ~ollatt1m est,
ut exce!JO suo munere in omnium salutem fungerentur, ut ::iìver-
sus Christi grex per eos ab errorum venenosa esca aversus, coelestis
doctrinae pabulo nutriretur, ut, sub/a/a schismatis occasione, Eccle-
sia tota una conservare/ur, atque suo fundamento innixa, firma ad-
versus inferi portas consisterei» (NR 388).
La costituzione si chiude con la definizione dell'infallibilità papale.
Essa ha il seguente tenore: «Quando il romano pontefice, nell'eser-

56 U. BETTI, La coslilu-z:ione dommatìca 'Pastor Aeternus' del Concilio Vaticano I,


Roma 1961, p. 333.
tr6 POllTATORI DELLA MEDIAZIONE

cmo della sua massima autorità magisteriale (ex cathedra ), parl::i,


ossia quando, esercitando il suo ufficio di pastore e maestro di tutti
i c~ani, in forza della sua suprema anrorjtà apostolicadecide che
una dottrina sulla fede o sui costumi debba essere accettata da tut-
ta intera la Chiesa, allora, a cousa dell'assistenza divina promessa n
lui nel beato Pietro, gode di quella infallibilità di cui il divino Re-
dentore volle fosse dotata la sua Chiesa guando definisce delle dot-
trine sulla fede o sui costumi. Per questo motivo le definizioni dello
stesso romano pontefice sono irreformabili di per se stesse (ex se se)
e non per il consenso della Chiesa» (NR 388 ). 51 Il testo della defini-
zione sottolinea esattamente le condizioni ed i limiti d'una defini-
zione infallibile, esplicitando il termine te_c~icq_ ~?:".c.at.h.edra..già usato
da M!"..~~~r~~-_ç-~_~q._1e conÈ_i~!?~:.:_ç~e -~evono .~sli~t~..Jealizzate af-
finché si possa _earlare d'una decisione ex cathedra sono queste: I. TI
papa deve voler esercitare il suo supremo potere magisteriale e deve
dichi:uare che vuole defin.ire una dottrina; 2. la sua intenzione
dev'essere quella di voler vincolare la fede di tutta intera la Chiesa;
1;3'" la sua infallibilità si riferisce alle cose di fede o di costumi. Con-

1~guentemente sono anche nettamente stabiht1 1 hmm delle decisioni


!~nfallibili, in ogni caso più nettamente di quanto intendessero alcuni
:jpocbi sostenitori dell'infallibilità pontificia prima del concilio. Nel-
l\llt definizione viene anche chiaramente data la motivazione profon-
!i~ dell'.infallibilitìL.pontificia+--oott- pug mancare l'assistenza dello
;j$pìrlt<> santo là dove il papa esercita il suo su remo ma istero
i~eQwg'4.-~~!()JJ&.t1.~_r oiar ano g1ustamente di un'assistenza dello
~r,!!.o santo «per se -;;;ere -~;g;;tiva». i~-- questo m~do non vieni'
JiGise inteso in modo adeguato 1! compito dello Spirito santo nello
l•vi1unno
,,: ~----
della dottrina, ~·••Mperò
•-•••_, , - . -
viene sottolineato chiaramente l'ele-
-··--·~-·---~·-·· ·~----·~ ~---w•·-----·-------
••••••• •·•-•••• ••• · - ...

• formale dell'infallibilità papale, la quale non deve essere ri-


a in un'illuminazione miracolosa o in qualcosa di simile, bensì
tinto nel fatto che il papa in una definizione è preservato dall'er-

~\!·'" ~Romanum Pontificem, cum tx catbedra loquitur, id est, cum omnium Chri-
\;~fi11,,omm p1utoris et doctoris m1mere fmigens pro suprema sua Apostolica auc/ori·
:~ile doctrillam de fide vel moribus ab imiversa Ecclesia tenendam definii, per as-
:•tistenti111n divinam ipsi in beatrJ Petro promissam, ea btfallibilitate pollere, qua divi-
: nus Redemplor Ecclesiam suam in definienda doclrina de fide ve/ mnrihui instructam
llf!SI! 11aluit; ideoqtre eiirsmodì Romani Pontificis definitiones ex sesr, non a11tem
.:!lit tot1srris11 Ecclesiae, irreformabilem esse» (os 307 4)
IL MAGISTERO SPECIALE DELLA Cf!IESA 117

rore vero e proprio. Questa assistenza può anche essere intesa alla
luce dell'efficacia della provvidenza generale che non permette che
il papa cada in una decisione i:x cathedra erronea. Secondo il testo
conciliare l'infallibilità del papa ha la stessa estensione dell 'infalli-
bilità__~~lla t:Tiresa--:-Anch~--prè~ciòd~~a~·-da-- ~~;ti~;p~ttlparticòlari
di questa formula, 51 essa possiede la sua importanza, in quanto mette
in luce;. ~~~ -~.. dato f5Jndamentale è !'infallibili~ della Chiesa, dal cui
punto di vista deve_~~.~~s_e_jnt~_!D~allibilità papale. n_~~~!tat~ del-
la definizione è una_4ecisione che «di per sé e no~p~r-ff consenso del-
la Ch_ie~~ è irreformabii~;~-C-~~-·qu~~Ui-proposizlone si vuofdft; che
una definizione:~~!~-~~!!._h~_bisogno di un'approvazion~oste­
riQ!.i_ della Chiesa. La formulazione di questa definizione è chiara-
ment~-diretta >0nU.Q_çe.rk..t~9denze gallicane e conciliariste. Ciò ri-
sulta anche dalle dichiarazioni del vescovo Gasser 59 che, tra l'altro,
spiega in qual semo si possa parlare di un'infallibilità 'personale' e
'separata' ('distinta'} del papa: è personale in quanto costituisce una
prerogativa di ogni papa nell'esercizio del suo ufficio e non, generi-
camente, -della ~iedè--d!Pìetro;""come-sostenevà"li"tesf galiicana, quasi
che il singolo pontefice potesse anche errate in una sua definizione,
ma questo errore potesse poi essere presto corretto. Infallibilità
separata, o per meglio dire distinta, è una prerogativa di cui gode il
papa in forza di una speciale promessa di Gesù, quella stessa fatta
in maniera speciale a Pietro. Questa affermazione coincide nel suo
contenuto con quanto viene indicato coll'espressione «ex sere». Gas-
ser tuttavia non intende affatto affermare con questa espressione che
il papa, in una definizione, agisca separato dalla Chiesa.

Naturalmente questa definizione n_m:i. __blocca i tentativi di comprendere


più in profondità l'oggetto <lell'infallibiiTtàpapaTe;-éome-oggi si potrebbe
fare a·na:--·11ice·-a·-u-riiìpmampiaprOblèfiiifiCa~-COsl, ad esempio, la spie-
gazione eh~_è stata avanzata più sopra (cf. 3, c., bb.) del soggetto del-
l'infallibilità, ·~c;ì~-·è--afìai:io-esCTU.5·a-·cra-1aie--fCsta.·-Parliiidò1n-senso gene-
rale, oggi sijJ-~;òdire-Cl1e-liprobTeinacnTasi pone è quello d'interprc-

5~ L'opinione comune sull'oggetto dell'infallibilità lascia coscientemente aperta, in


seno alla Chiesa cattolica, la possibilità di continuare a discutere sul grado di ccr·
tczza d'una definizione di 11eritates cum Revelatione comzexae (soprattutto facta du;1.-
matica). Cf. le dichiarazioni di Gasser, in U. BETTI, /oc. cii., pp. 422 s.
S9 U. BETTI, loc. cit., pp. }73-376.
u8 POR'l'A'rDRl llELLA MtlllAZtol'i~

tare le espressioni del Vaticano I alla luce di un'approfondita teologia dei


rapporti tra episcopato e primato (cf. al ri,;ardo l'ecclesiologia). Questo
stesso orientamento che il Vaticano II ha atto decisamente suo, appare
già nella .tisposta .che_i.__Y~g_qyLJ_~Q~chi diederl_? alla Letterp circolare di
Bismarck ( 1875 ): per quanto riguarda l'infallibilità pontificia, vi si affer-
ma infatti: «Finalmente l'opinione chej_l Papa 'in forza della sua infallibi-
lità sareb_b~_JJ.!L$.QY.(jllQ perfeJ!!!!!~!.~ssolut9~,_Jl.Qggi!.JP._\.!f.L cof!çetto del
tutto errato <kl d9.gffiLdell 'infall!l?.!!i!.~-..12'?ntificia. Come molto chiaramen-
te e distintamente ha affermato il concilio Vaticano e come si ricava dalla
natura stessa della cosa, l'infallibilità si riferisce unicamente ad una pre-
rogatjya deLsup.remo magistero pap.ale: guesto poss1edeJ!. stessa esten-
sione dcl 1Jl.a_gistero infallibile della Chiesa ed è legato al contenuto della
sacra Scrittura .. e- 'delta. tra~dìzìoòe-- comè"-ute ··atte ctedsìonr-d i già
emanate a magistero ecclesiastico» (NR 388 a). Con K. RAHNER oggi,
relativamente alle circostanze in cui viene esercitato il potere papale infal-
libile, si dov,n:hbe distinguere tra norme gjuridiche e morali più ri&oro-
samente <;!Lq\.!~!ltO sia stato fatto nelle spiegazioni fornite da Gasser. Cf.
u. BETTI, La co;iitui.lèine aoiiimaiii:ii' 'Paùor"ifoternuTdeltoncilio Va-
ticano I, Roma 1961, p. 375. Quando, ad esempio, Gasser opina che il
pap@._J?EJ:°.~arebbe tenu~~_c!__i_t?-ter~are l'episcopato prima d'una defini-
zione, può anche-aver--ragione su un terreno meramente giuridico. Tutta-
~i potrebbe anche sostenere che esista per una tale interrogazione una
specie q_LQ.o~~~ morale, che si J'.llò pensare realizzabile 10 earecchi modi.
Del resto è ciò aculcT"sleàttenuti nelle due ultime definizioni mariane.
D'altra parte solo in un pensiero puramente astratto si può prescmdere da
quella ins~~i~e nel contesto della Chiesa u;;~-~~saie:-mcui ognTClefini-
zione trova ne;e~sarfa~e"iitelasu_a_m_iùiTtestazlobe. Se si pensa a quale
grande ostacolo, per il superamento delle divisioni tra i cristiani, costitui-
SQ! obiettivamente la definizione dell'infallibilità papale (questo fatto vie-
ne qui presentato a sofò""iliò100'Una--serenaronStatazione, e non già di
critica) non si J.?::.Ò _t~cciar~~ <l.i ~z!os~ _o___pers~~.?- ~i_ irr~vere_i:.t!, riflessioni
come_9.1:1~g~ __f~!~__Cla_ H:-XuNG, Strutture ae1la Chiesa, PP- 215-316, sulla
possihllità d'un conflitto tra papa e concilio, sulla possibilità d'un papa ere-
tico o scismatico, e cosl via (caso, quest'ultimo, studiato riallaciandosi
alla canonistica ed agli antichi teologi quali SUAREZ, BELLARMINO, e
altri).

bb. Il magistero ordinario del papa. La particolare cura con cui si


è trattato il magistero infallibile del papa non deve far dimenticare
che l'esercizio di questo magistero costituisce il caso limite superio-
re e, in quanto tale, costituisce l'eccezione (estremamente rara), men-
tre il magistero ordinario è il modo normale secondo cui i! papa
IL MAGISTl::RU SPJ:CIALE !.>ELLA CHIESA

esercita il suo ufficio magisteriale. A tale magistero spetta una par-


ticolare importanza per la mediazione della rivelazione e quindi ver-
rà studiato con particolare attenzione.
Il magistero papale ordinario può essere esercitato in modi diver-
si. Previamente biso na distin uere tra atti che promanano diret-
tamente dal papa e atti delle congregazioni romane. uesta istin-
zione è innanzitutto di natura giuridica poiché, da un punto di vista
concreto, si può pensare che anche nelle notifiche papali si possa
riscontrare un diverso impegno personale. Nella sfera del puro diritto
tali sfumature sono evidentemente impercettibili. I documenti che,
in questo senso, promanano dal papa sono soprattutto le encicliche,
le costituzioni apostoliche, i motu proprio, e i discorsi. Le encicli-
che oggi, specialmente dopo Leone XIII, hanno acquistato una parti-
colare importanza dottrinale. Tra gli atti delle congregazioni roma-
ne, soprattutto i decreti della Congregazione per la dottrina della
fede (Sant'Uffiiìo) e della Comm1ss1one biblica concernono partico-
larmente la teologia. Occasionalmente, possono acquistare un valore
teologico anche altri documenti di altre congregazioni.

Il canone 7 del CJC stabilisce genericamente: «Nomine Sedis Apostolicae


vel Sanctae Sedis in hoc codice veniunt non solum Romanus Ponti/ex, sed
etiam, niri ex rei natura ve! sermonis contextu aliud appareat, Congre-
gationes, Tribunalia, Officia, per quae idem Romanus Ponti/ex negotia
Ecclesiae universalis expedire solet». Come è risultato dalle discussioni
avvenute durante il Vaticano 11, questa formulazione nasconde una dete:-
minata problematica nei riguardi dei rapporti tra episcopato e curia ro·
mana. Per quanto sia vero che il papa nell'esercizio delle sue funzioni
debba ricorrere allo strumento della curia romana, a cui spetta quindi
una particolare autorità, si deve tuttavia affermare chiaram€nte che il su-
premo potere nella Chiesa si trova nel collegio episcopale con a capo il
papa (ex iure divino). A questa suprema autorità è sottoposta anche la
curia romana. La riforma della curia che Paolo vr sta attuando deve mo·
strare se e come questa affermazione fondamentale sarà realizzata nella
prassi ecclesiastica.

Gli atti delle congregazioni romane vengono approvati dal papa in


due forme diverse: in forma communi, il che viene indicato ad esem-

/,() Cf. Y. CoNGAR, La fai et la lhéologie, Tournai 1962, pp. i59·162 (1rad. it. Ro·
ma 1967).
120 PORTATORI DELL ... MEDIAZIONI!

pio mediante la formula de mandato Swmni Polllificis. Un documen-


to the è stato approvato così resta un documento della congrega-
zione romana che l'ha emanato. Le cose stanno diversamente quan-
do l'approvazione viene data in forma specifica, il che viene espres-
so mediante le formule de motu proprio, certa scientia, de aposto-
lica auctoritatis plenitudine. Tali atti giuridicamente hanno valore
come atti del papa.
Come in generale .non sarebbe giusto badare soltanto alle espres-
sioni del magistero straordinario, cosl pure non sarebbe giusto fer-
marsi al magistero infallibile del papa trascurando il suo magistero
ordinario. Il magistero ordinario del papa è perciò degno di tutta la
considerazione da parte dei teologi, soprattutto perché costituisce
un importante strumento della formazione del magisterium ordina-
rium et universale. Ciò vale specialmente pel' le encicliche, e soprat-
tutto per quelle che trattano espressamente questioni di dottrina.
L'enciclica Humani generis ha fortemente sottolineato il legame esi-
stente tra la teologia ed il magistero ordinario del papa (os 3885;
NR 398h), e la costituzione De Ecclesia ne ha ricalcato gli insegna-
menti (n. 25).
Recentemente alcuni teologi, 61 hanno tentato di estendere il ma-
gistero infallibile del apa anche alle encicliche. Questa opinione è
inso tenibile, come hanno imostrato giustamente X. STIRNIMANN,•i
J. BEUMER, e a ri. 1 eve ammettere natura mente c e i papa
in un'enciclica può insegnare molte cose di cui, da altre fonti del
magistero (infallibile), si sa con certezza l'appartenenza al patrimo-
nio della fede. Cosi pure si è già detto che le encicliche hanno una
grande importanza er la formazione del magisterium ordinarium et
universale. Ciò, però, non sigm ca c e e encicliche in quanto tali
si~ possano diventare documenti del magistero lnnllibile. Dal
punto di vista teorico sare65e concepibile che il papa in occasione
della pubblicazione di un'enciclica emetta una decisione ex cathedra;
ciò, però, non potrebbe mai essere presunto, ma dovrebbe essere

ni Cf. specialmcnic ]. SALAVERRI, Va/or dc las Enciclic"s a la luz de la 'Huma11i


generis', in Misceleinea Comi/la, 17 (1952) 135-171.
fl2 H. STIRNIMANN, «Magislerio ordinario haec doce111ur». Z11 à11er Konlroverstdfr
der En1sklika 'Humani generis', in l'lPT, r (1954) 17·47.
63 J. BEUMER, Sind piips1liche Enzyk/iken un/eh/bar?, in ThG/, 42 (1952) 262-269.
IL MAGISTERO SPECIALE DELLA CHIESA I21

rigorosamente dimostrato sulla scorta delle condizkllli fissate dal


Vaticano 1. In questo caso, la definizione non sarebbe infallibile in
forza ell'encidica, ma in qualità d'espressione del magistero straor-
dinario, solenne del papa, magistero e e occasiona mente si è estrin-
secato in un'enciclica.
Anche le decisioni dominali dcl magistero ordinario papale in sé
e per sé esigono da parte dei fedeli un'interiore adesione. Quest'ade-
sione tuttavia non può essere di er sé un'adesione di fede divina,
come è que a c e deve essere prestata a e propos1z10ni e magi-
stero infallibile, ma, in assenza di un giudizio interiore, solo un'ade·
sione di fede umana che, in questo caso, acquista una qualifica parti-
colarmente elevata in virtù dell'autorità del magistero papale. Con
ciò però si afferma altresl che un'adesione di questo tipo può ma·
nifestars1 con gradì d1vers1, anzi che il teologo in certe circostanze
può essere impegnato non ad un silentium obsequiosum, ma a con-
tinuare le sue ricerche malgrado le difficoltà che per un determinato
documento del magistero ecclesiastico gli si possono presentare. Il
giudizio definitivo sul suo lavoro spetta evidentemente ancora e sem-
pre al magistero, a cui egli deve pur sempre obbedienza e riverenza,
insieme a sincerità ed a cristiana lealtà. Cosl il teologo porgerà at-
tenzione accurata a tutte le notifiche del magistero, senza per questo
mettersra-Iire" detta 'teologia a base di encicliche' che trascun la
continua e rinnovata meditazione della Scrittura, norma non norma-
ta, e trascuri la riflessione personale (sia pure orientata alla luce
del magistero). Da parte del magistero invece è auspicabile che esso
non si accontenti di realizzare il proprio ufficio di custode, ma che
conceda ai teologi quella ampiezza di libertà di ricerca di cui essi
hanno bisogno al fine di poter rendere buoni servizi allo stesso
magistero. Le censure premature, in definitiva, non sono dannose
soltanto per i teologi, ma anche per il magistero. Quando sia forte-
mente radicata la convinzione che magistero e teologia, nel retto
ordine della Chiesa, debbano essere al servizio della stessa realtà,
anche le più violente tensioni possono essere sopportate ne!I'umiltà,
e possono essere superate nello spirito di fede.
MAGNUS LOHRER
122 BIBL!()(;RAl'JA

BIBLIOGRAFIA

W. BARTZ, Die lehrende Kirchc. Ein Beitrag wr Ekklesiologie M.] Schee


bens, in TTS, 9 ( 1959).
U. BETTI, La costituzione dommatica 'Pastor Aeternus' del Concilio Va-
ticano I, Roma 1961.
].BEUMER, Glaubenssinn der Kirche?, in TTZ, 61(1952)129-142.
C. COLOMBO, Episcopato e primato pontificio nella vita della Chiesa, rn
ScC, 88(1960)401-434.
J. CoLSON, L'Épiscopat catholique · Collégialité et primauté dans les pre-
miers trois siècles de l'E.glise, Coll. «Unam Sanctam», 43, Paris 1q6_).
Y.-M. CoNGAR, Der Laie, Stuttgart 31964; cf. anche: DzT 2 (I967) 122-143
[laico]; ID., Kon:r.il als Versammlung tmd grundsam.liche Kon:r.iliaritiit
der Kirche, tr. in BCR, 52, pp. 145-184.
Y.-M. CoNGAR - B.D. DuPUY, L'episcopato e la Chiesa universale, Roma
1965.
E. F1NCKE (a cura), Das Amt der Einheìt, Stuttgart 1964.
H. Ki.lNG, Strutture della Chiesa, Torino 1965; Teologo e Chiesa, Coll.
«Meditazioni teologiche», 3, Brescia 1966.
J. LÉCUYER, Études sur la collégialité épiscopale, Le Puys 1964.
M. L6HRER, Zur Interpretation lehramtlicher Aussagen als Frage des oku-
menischen Gesprachs, tr. in BCR, 52, pp. 613-647.
A. MiiLLER, Das Problem von Befehl und Gehorsam in Leben der Kirche,
Einsiedeln I964.
H. P1sSAREK - HuDELIST, Das ordentliche Lehramt als kollegialer Akt des
Bischofskollegiums, tr. in BCR, 52, pp. 185-214.
K. RAHNER, Grundlegung der Pastoraltheologie als praktische Theologie,
r. Ekklesiologische Grundlegung, 2. Die Trager des SelbstvOllzugs der
Kirche, in Handb11ch der Pastoralthelogie, r, Freiburg 1964, pp. lI7·
215; ID., Zur Theologie des Konzils, tr. in BCR, 66,pp. 293-336.
K. RAHNER J. RATZINGER, Episcopato e primato, Col!. «Quaestiones,
disp.», Brescia 1966.
J. RATZINGER, Zur Theo/ogie des Kom:ils, in Catholica, I 5 ( 1961) 292-
304.
M. SECKLER, Giaubenssinn, in LTK2, 4 ( 1960) 945-948 (con bibliografia).
L. SERENTHÀ, Rassegna bibliografica sull'episcopato, in ScC ( Suppl.), 91
(1963) 243*-271*
C. V AGAGGINI, Osservazioni intorno al concetto di concilio ecumenico, m
Divinìtas, 2 ( 1961) 411-430.
I PADRI DELLA CHIESA 123

4. I Padri della Chiesa

Nella mediazione della parola di Dio fatta dalla Chiesa, ai 'padri


della Chiesa' è stata sempre attribuita un'importante funzione. In
generale, sembra pure che, almeno tra gli autori cattolici, sussista
una certa unanimità su ciò che si deve intendere p~r 'padri della
Chiesa' e sul come si deve delimitare la loro posizione nella storia
della tradizione. Ad un esame più approfondito, però, si deve rico-
noscere che tutto non è cosl ovvio come potrebbe apparire a prima
vista.64 Una breve esposizione del sorgere e dell'evolversi degli studi
patristici ci introdurrà nella loro attuale problematica e ci orienterà
ulteriormente sul come comprender~ il compito storico-salvifico dei
padri deUa Chiesa, e sul modo con cui possiamo accedere alla loro
comprensione .65

a. Sulla storia degli studi patristici

Fin dai primi tempi della cristianità, il vescovo veniva chiamato col
nome di 'padre' .66 Non è ancora tuttavia accertato se, con tale appel-
lativo, si intendesse accentuare maggiormente il suo carattere di mae-
stro, ovvero quello di guida della comunità. In ogni caso, nel IV
secolo si cominciò a riferirsi ai padri, quando si intendeva conforta·
re il proprio parere appoggiandosi ai primi vescovi della cristianità
in qualità di testimoni della vera dottrina. A quell'epoca si chiama-
vano 'padri della Chiesa' soprattutto i partecipanti al primo concilio
di Nicea. Essi, come già gli 'anziani' del giudaismo, incarnavano il
principio della tradizione. Al tempo del concilio di Efeso (a. 4 3 r )
non soltanto giunse a piena maturazione il procedimento dimostra-

f"4 Cf. ST. Ono, Patristica, in DzT, z ( 1967) 569-578: «I progressi della patnst1ca
tuttavia esigono un moderno ripensamento dei prindpi e dei metodi di questa conce-
zione» (quel!a riscontrata in ALTANER, ad esempio).
65 Nelle seguenti considerazioni ci siamo lasciati guidare da: A. BENOiT, L'aclualité
des Pères de l'ÉgJise, Coll. «Cahiers Théologiques», 47, Neuchiìtel 1961; ST. OTTO,
Palristica, in DzT, 2 (x967) 569-578. Si dimostrarono inoltre utili opere meno recenti,
quali: O. BARDENHEWER, Geschichte der altkir1;b/ichen Ute'ratur, I, Freiburg 1902,
pp. r-62: Einleitung; e ].M. SCHEEBEN, Handhuch dcr katholischen Dogmatik, 1, Frei.
burg 31959, passim.
66 Cf. A. STUIBER, Kircbenvater, in LTK 2 , 6 (1961) 272-274.
POB.TATOlll DELLA MEDIAZJON!

tivo fondato sull'autorità dei padri, ma apparve persino un primo


teorico dell'autorità dottrinale dei padri della Chiesa.67 VINCENZO DI
LÉRINS, d'accordo con Agostino, sviluppò allora i crite1·i in base ai
quali ci si può richiamare e fondare le proprie argomentazioni non
soltanto sui vescovi morti, ma anche su tutti gli scrittori ecclesia-
stici.68 Secondo le sue tesi, deve essere considerato 'padre della Chie-
sa' colui che ammaestra nell'unità della comunità ecclesiale e della
fede. 69 Il Decretum Gelasianum de libris recipiendis et non recipien-
dis (inizio del IV sec.) trae da queste tesi delle conseguenze, e di·
stingue tra quegli autori cristiani che hanno diritto all'appellativo
di 'padri' e coloro che devono essere considerati semplici scrittori di
cose ecclesiastiche, o addirittura eretid.71l

Questo concetto primitivo di 'padre della Chiesa' sta alla 1base di quello
elaborato a partire da MELCHIOR CANO, secondo il quale il titolo di 'padre
della Chiesa' è riconosciuto in base ai seguenti quattro caratteri distintivi:
x. perseveranza nella comunità dottrinale ortodossa; 2. santità della vita;
3. riconoscimento almeno indiretto da parte della Chiesa; 4. appartenen-
za alla Chiesa più antica. Di conseguenza quegli autori dell'antico cristia-
nesimo che difettano di uno dei primi tre caratteri sono chiamati sempli·
cemente antichi scrittori cristiani. Aggiungiamo ancora che fin dall'inizio
dcl Medio Evo entra nell'uso linguistico della Chiesa il titolo di 'dottore
della Chiesa'. Questo titolo viene attribuito a quei teologi che, senza
necessariamente appartenere all'antica cristianità, si distinguono non sol-
tanto per santità e per approvazione della Chiesa, ma soprattutto per la
loro particolare, eccezionale sapienza. Tra di essi si annoverano soprat-
tutto i quattro grandi padri dell'Occidente: Ambrogio, Girolamo, Ago-
stino e Gregorio Magno, insieme con i dottori ecumenici dell'Oriente:

67 Cf. R.M. GRANT, The Appeal lo the Early Fathers, in JTS, NS, n { 1960) 1 p4;
H. DU MANOIR, L'argumentation patristique dans la controverse nestorienne, in RSR, 25
(1935) 531-559.
68 Cf. J. MADOZ, El concepto de la Tradici6n en S. Vicente de Lerins, in A11Gr 5,
Roma 1933.
Commonitorium 3, in PL, ;o, 641: «Ttmc operam dabit
6IJ VINCENZO DI LÉRINS,
lii col/atas inter se ma;orum consulat interrogetque se11tcntias, eorum dumlaxal qui
diversis licl!t temporibus et locis, in unius tamen Ecclesiae Catholicae commu11ioite
cl fide permanentes, magistri probabiles extiterun/; et quidquid nrm u11us aut duu
tantum, sed omnes pariter uno eodemque consensu aperte, freque11ter, perseveranlcr
tenuisu, scripsisse, docuisse cognoverit, id sibi quoque intelligat absque ul/a dubita-
tione credendum». Cf. Commonit. 28, in R 2175.
70 Eo. DoBSCHiiTz, in TU, 38, Lcipzig 1912. Cf. G. B11RDY, Gélase (Décre/ de). in
DBS, 3 (1938) 579·590.
I PADRI DELLA CHIESA 125

Basilio, Gregorio Nazianzeno e Giovanni Crisostomo. Cf. al riguardo H.


RAHNER, in LTK 2 , 6 ( 1961) 229 ss.

La Chiesa antica, tuttavia, non pose soltanto le basi d'una giusti-


fii:azione dottrinale che si appella ai padri della Chiesa. Ad essa sia-
mo altresì debitori d'un avviamento ad uno studio più letterario e
storico degli antichi autori cristiani. Alla fine del IV secolo, infatti,
appoggiandosi ai precedenti lavori di Eusebio da Cesarea, GEROLA-
MO redasse la prima 'patrologia', ossia il primo lavoro di indole sto-
rico-critica sulla vita e le opere dei primi scrittori cristiani.71 Nel
v secolo GE~NADIO, nel VII secolo IsrnoRo ed ILDEFONSO, conti-
nuarono il suo lavoro. Inoltre la sua opera fu ben presto tradotta
in greco.
La Chiesa del Medio Evo non apportò alcun sostanziale rinnova-
mento agli studi patristici. Nella prima teologia scolastica lo studio
dei padri costituiva il fondamento più importante. Tuttavia nel xm
secolo, fatta eccezione per BONAVENTURA, TOMMASO n'AQUINO e po-
chi altri teologi, l'interesse per i padri della Chiesa decadde for-
temente. 72 A cominciare dal xiv secolo si ricominciò a interessarsi
di essi in misura sempre maggiore, ma ci si servì per il loro studio
di antologie compilate secondo particolari criteri metodologici. D'al-
tra parte nel Medio Evo si compilarono anche dei cataloghi dei pa-
dri e dei loro scritti. Per quanto riguarda l'antichità, tuttavia, ]e
opere di un ONORIO n'AuTuN (xm secolo), di un TRITEMIO (xv se-
colo) e di altri, sono debitrici pressoché esclusivamente di GIROLA-
MO e di GENNADIO.

L'aumentato interesse per i padri ebbe come conseguenza che negli scrip-
toria, particolarmente prima del xm secolo, ci si dedicasse a copiarli dili-
gentemente. È però sorprendente che non esista un'edizione integrale di
tutti i padri. Per questo motivo le informazioni si limitarono ad un
numero relativamente piccolo di autori. Infine, e soprattutto, l'intere.;;sc
relativo ai padri della Chiesa ebbe sempre uno scarso carattere storico.

11 Per quanto riguarda i problemi presentati da que.,to lavoro, cf. A. FEDEll, St11-
die11 :r.um Schri/tstdlerkatalog des hei/igen Hieronymus, Freiburg 1927.
72 Per ciò che riguarda Tommaso d'A., cf. Y.-M. CoNGAR, 'Traditio' rmd 'Sacra Doc·
/fina' bei Thomas von Aquin, in Kirche tmd Vberliefertmg (Festschrift Geiselma1111),
Freiburg 1960, pp. 170-210 (con bibliografia).
I26 PORTATORI DELLA MEDIAZIONE

Le loro sentenze venivano citate come t111ctoritates, ed utilizzate a soste·


gno delle proprie tesi secondo il meto<lo dialettico. Per questo motivo
le loro sentenze, già a partire dal XII secolo, furono distinte come dieta
(IU/helllica dalle sentenze dei teologi che erano dette dieta magistralio. Su
questo problema cf. M. GRABMANN, Geschicbtc der Kholas:ischen Me-
thode, II, Freiburg i. Br. 1911, pp. 83-86; J. DE GHELLINCK, Patristiquc
et Moyen Age, 11, Bruges 1947, pp. 3-13; A. LANOGRAF, Einfuhrung in
die Geschichte der theol. Literatur der Fri.ihscholastik, Regensburg 1948,
pp. 29-3 r: M.-D. CHENU, La théologie a11 XII' siècle, Paris 19.57, special-
mente, pp. 351-365; ID., Introduetion à l'hude de S. Thomas d'Aq11i11,
Paris 1954, pp. 106-131 (tr. it. Firenze).

Analogo quadro degli studi patristici s1 riscontra anche nella teolo-


gia medioevale della Chiesa d'Oriente.1J Anche in Oriente ci si at-
tenne generalmente a compilazioni di florilegi e di catene e non si
rivelò un grande interesse storico all'argomento. D'altra parte, anche
in Oriente si incontra la tendenza a collezionare le cose più impor-
tanti sui padri e sulla loro opera. Sotto questo aspetto sono partico-
larmente importanti le opere di Foz10 ( t verso l '890 ), di SumA {ver-
so i! 1000) e di EBEDJESU ('Abdiso' Bar-Berika, metropolita, ulcimo
scrittore siriaco: t I 3 r 8 ).74
Un'importante svolta negli studi patristici avvenne al tempo del-
l'Umanesimo e della Riforma. Nel loro sforzo di portare alla luce i
v~lori dell'antichità, gli umanisti rivolsero la loro attenzione anche
all'antica letteratura cristiana. Essi non si preoccuparono soltanto di
raccogliere tutto quello che era accessibile e di farne delle edizioni
in grande stile, ma, sotto la spinta del nascente senso della storia, si
dedicarono ad un esame critico del materiale raccolto. I riformatori,
a loro volta, estesero enormeme'nte questa critica. Il loro principio
scritturistico li spinse a valutare gli insegnamenti dei padri col me·
tro della loro fedeltà alla Bibbia. Per quanto LUTERO in questo esa-
me fosse giunto a delle conclusioni poco favorevoli, tuttavia MELAN-
TONE, CALVINO ed altri non si sentirono vincolati ad assumere nei

i.• Cf. H.G. BECK, Kirche und theologische Literalur im lry•z;antinischen Reich, Miin·
chen 1959, passim.
14 PHOTIUS, Bibliotheca (ed. R. HENRY, con muluz. francese), 1-111, Paris r959-
1962; SU!DAS, Lexikon, ed. ADLF.R; EBf.DJESU, Schriftrtellerkatalog, ed. AssEMANl,
m/1, 325-;6r.
I PADRI DELLA CHIESA 127

riguardi dei padri della Chiesa una posizione di chiusura. Per loro i
padri rappresentavano la Chiesa primitiva non ancora corrotta.
Il potente impulso dovuto all'umanesimo e ]a reazione al movi-
mento della Riforma, spinsero a loro volta i teologi cattolici, massi-
mamente dopo il concilio di Trento, a dedicarsi con rinnovato zelo
agli studi patristici. Nacque così la teologia cosiddetta positiva, nella
quale ai padri fu riservato un posto assai eminente. MELCHIOR CA-
NO (t 1560) ne pose le basi, mentre il PETAVIO (t 16~p) la sviluppò
in modo ammirevole. Anzi, questa rinnovata concezione del1a teo-
logia produsse una vera fioritura di studi patristici. Si pervenne,
soprattutto in Francia coi Maurini, ad un lavoro editoriale assai
esteso. Inoltre apparvero degli studi' specializzati di notevole valore.
Contemporaneamente, nello studio dei Padri del primo secolo, non
ci si accontentò più di Girolamo, ma si pubblicarono. delle ricerche
rivoluzionarie sulla storia degli autori ecclesiastici (LE NAIN DE TrL-
LEMONT; CEILLIER).

In questa fioritura si crearono anche i termini 'patrologia' e 'patristica'


Il primo risale a J. GERHARD (2653). Anche per il secondo si hanno testi-
monianze risalenti al XVII secolo. Se le due espressioni non sono accet-
tate come sinonimi, 'patrologia' indica quella disciplina teologica che espo-
ne la vita e le opere dei padri, mentre 'patristica' la disciplina che si in-
teressa ad un'esposizione sistematica della teologia dei padri.

Per quanto in questo periodo di fioritura degli studi si fosse svilup-


pato un notevole lavoro storico e critico, tuttavia l'attività di ricerca
restava orientata alla teologia. Diverso fu invece il lavoro nel xrx seco-
lo. L'illuminismo, fondamentalmente ostile alla rivelazione, e le scien-
ze moderne, influenzate dalla mentalità evoluzionistica, fecero sor-
gere, specialmente nei circoli protestanti tedeschi, una ricerca patri-
stica completamente orientata alla storia dei dogmi. La storia del
cristianesimo, in tale contesto, viene studiata da un punto di vista
puramente immaneraistico. La Chiesa viene presentata come il risul-
tato di un'evoluzione meramente naturale, e gli antichi scritti cri-
stiani vengono studiati unicamente come testimonianze storiche. La
nascente scienza del linguaggio, inoltre, indusse a porre gli scrittori
dell'antichità cristiana nel contesto della storia della letteratura. Di
fronte a questo gigantesco sviluppo della ricerca patristica in campo
128 PORTATORI DELLA Ml!JIIAZIONE

protestante, la teologia cattolica, per lungo tempo, rimase ferma sulle


vecchie posizioni. Solo il xx secolo vide il pensiero cattolico accet-
tare e sviluppare ampiamente la mentalità storica. Studiosi cattolici
produssero dei lavori eccellenti, non soltanto nell'ambito della sto-
ria dei dogmi. Ancora autori cattolici - come, all'inizio del secolo,
O. BARDENHEWER e, in tempi più recenti, B. ALTANER e J. QuA-
STEN - pubblicarono i manuali di patrologia più universalmente ap-
prezzati.'5 Per quanto essi avessero effettivamente iniziato il metodo
storico-filologico, si sforzarono tuttavia ancora di restare sul terreno
della teologia ecclesiale.

b. Sulla moderna problematica degli studi patristici

Per quanto negli studi patristici gli interessi storico-letterari e quelli


dogmatici non siano più in così stridente opposizione come era acca-
duto dalht fine del XVIII secolo fino al nostro, tuttavia ancor oggi non
mancano delle zone di tensione. Persino negli ambienti favorevoli,
come atteggiamento mentale, alla teologia ecclesiale, spesso si fanno
delle riserve sul tipo e sulle modalità con cui la patristica viene affron-
tata dai teologi. Grava sempre su questi il sospetto spesso, a dire il
vero, giustificato, che la loro mentalità dogmatica non sia in grado
di rendere piena giustizia alla storia. Questo stato di cose non può
meravigliare. Infatti, il doppio orientamento che, ora più ora meno,
è emerso nell'evoluzione degli studi patristici, genera necessariamen-
te delle tensioni. Lo storico ed il letterato spesso mancano di senso
teologico, ed il teologo, a sua volta, corre sempre il pericolo di tra-
scurare eccessivamente le caratteristiche delle forme letterarie e delle
realtà storiche.
Lo studio che A. BENOIT ha recentemente pubblicato 76 costituisce
una precisa puntualizzazione di queste tensioni ancor oggi esistenti.
Il titolare della cattedra di patrologia della facoltà protestante di
Strasburgo polemizza contro la concezione unilateralmente letteraria
della patristicl, sostenuta in modo estremamente spiccato da F. ÙVER-

1s O. BARDJ:NrlEWF.R, Geschichte der altkirch!ichen Literat11r, l·V, Freiburg 1902·


1932; R. ALTANER, Patrologie, Freiburg 6 r960; J. QuASTEN, Patro/ogy, Utrecht-Bruxel-
b 1950, 1953, 1960 {edizi11ne itali~n~: voi. I, Torino 1968).
16 Cf. nota 65.
! PADRI DELLA CHIESA 129

BECK 77 alla 6ne dell'ultimo secolo. Egli sostiene giustamente che non
esiste un modo puramente oggettivo di scrivere la storia e che per-
ciò ogni storico deve scegliere il suo personale punto di vista, fos-
s 'anche un punto di vista teologico. A questo momento si potrebbe
aggiungere che gli studi patristici esigono di per sé un punto di vista
teologico. Poiché i documenti patristici intendono essere testimonian-
ze della fede cristiana, essi possono pienamente comprendersi soltan-
to da colui che li giudica in quanto tali, anzi da colui che li legge con
la stessa fede.
D'altra parte, A. BENOÌT rimprovera al concetto dogmatico di
'padre della Chiesa', formulato dalla teologia cattolica, di costituire
un anacronismo storico. I due segni distintivi, ortodossia ed appro-
vazione della Chiesa, sarebbero applicati in senso retrospettivo. Così
si verrebbe a negare, ad esempio, il titolo di 'padre della Chiesa' ad
Origene ed a Tertulliano, per quanto essi, al loro tempo, non fossero
stati considerati, o almeno non sempre, come eretici. A. BENOIT, da
parte sua, intende come padri deJla Chiesa quegli scrittori che si
sforzarono di spiegare la sacra Scrittura.78 Con ciò egli pone l'accento
in modo appropriato sulla necessità d'un punto di vista teologico
nello studio dell'antica letteratura cristiana. Si deve tuttavia notare
che, anche così, resta da giudicare se e quanto uno scrittore ecclesia-
stico concordi con la Bibbia, e che questo giudizio non può essere
emesso unicamente sulla base della Scrittura né della dottrina della
Chiesa contemporanea allo scrittore, ma deve essere tratto anche da
ciò che la Chiesa ha insegnato in seguito ed oggi. D'altra parte è
sicuro che non si deve subito parlare d'eresia. Se un autore come
Origene, al tempo in cui visse, restò nella comunità ecclesiale, deve
essere considerato ortodosso, anche se l'una o l'altra delle sue opi-
nioni, alla luce dell'insegnamento dottrinale successivo, debbono es-
sere considerate non conformi coi dati scritturistici. Di questo fatto
hanno del resto tenuto conto quei teologi cattolici che definirono

n F. OvERBECK, Uber die Anfiinge der patristi.scben Literatur, Base! 19'8 (?), ri-
stampa dalla Hist. Ztscbr., 48 ( 1882) 417-472.
78 Quest'opinione corri6ponde all'incirca a quella di GrKOLAMO.· Cf. De viris i/lustri-
bus, Pro!. (edit. da A .. R!CHARDSON 1,' s.): « ... omnes, qui de Scripturis Sanctis rne-
moriat' aliquid prodiderul'lt, libi breviler exponam».

9 Mysterium salutis / 2.
130 PORTATORI DELLA Ml!DIAZIONE

l'ortodossia, nel senso attribuitole da Vincenzo di Lérins, come co-


munità di fede con la Chiesa contemporanea.79

A questo riguardo si deve ancora aggiungere che, secondo M.]. ScH.EEBEN


ed altri, i quattro segni distintivi non possono essere attribuiti a tutti i
padri della Chiesa nella stessa misura. Cf. M.J. ScHEEBEN, Handbuch der
kath. Dogmatik, 1, n. 374 Freiburg 19,9, p. 178; B. ALTANER, Patrologie,
Freiburg 1960, p.' (tr. it. Torino). Per questo motivo non è affatto erro-
neo considerare, in senso esteso, tutti gli antichi scrittori cristiani come
padri della Chiesa, purché siano stati, e finché lo furono in comunione
con la Chiesa ortodossa. Essi hanno tutti trattato la parola di Dio e per-
ciò son stati i nostri padri nella fede. Questo modo di considerare le cose
è tanto più esatto in quanto, a differenza degli antichi, noi non facciamo
confronti tra proposizione e proposizione, bensì raffrontiamo le istanze
dei singoli padri con la parola di Dio vivente nella Chiesa. Al riguardo,
cf. A. GRILLMEIER, Das Scandalum oecumenicum des Nestorius in kir-
chlich-dogmatischer und theologiegeschictlicher Sicht, in Scholastik, 36
(1961) 321-3,6.
Quanto si è detto vale perfino, almeno entro certi limiti, per quegli scrit·
tori che furono esclusi dalle Chiese del loro tempo. Anche essi hanno
contribuito a trarre dal tesoro della rivelazione qualche pietra preziosa,
di cui dobbiamo tenere conto seriamente se intendiamo restare aperti
alla pienezza della sua ricchezza.

Nel suo studio A. BENoiT solleva ancora una questione: egli dichiara
di non essere d'accordo con coloro che pongono il termine dell'età
patristica - ed è questa l'opinione comune - nel VII secolo (con Gre-
gorio Magno ed Isidoro) o nell'vm secolo (con Giovanni Damasce-
no ). Egli è piuttosto del parere di posporre questo termine all'anno
1054, in cui scoppiò lo scisma tra Oriente ed Occidente. Se tuttavia
si riflette che quella definitiva separazione non fu che la conclusione
d'un processo di divisione iniziato già molto tempo prima, ci si può
chiedere se questa opinione abbia una giustificazione fondata. Sem-
bra piuttosto meglio fondata la tesi che pone la fine dell'età patri-
stica assai prima, e precisamente al tempo successivo al concilio di
Calcedonia (a. 451). 80

79 Cf. ad es., B. STEIDLE, Patralogia, Freìburg 1937, p. 9.


80 Cf. anche H. LtETZMANN (K. AtAND), Altchristliche Kirche, in RGG3, r (1958)
230-234, il quale considera concluso il primo periodo della cristianità nel \'Il secolo:
l PADRI DELI.A CHIP.SA

Dopo l'ultimo dei quattro grandi sinodi ecumenici, non avvenne solo h
separazione d'una considerevole quantità di comunità dell'Oriente cristia-
no dalle comunità latine e bizantine. Le differenze e le tensioni tra i
patriarcati assunsero in quel periodo caratteri drammatici. Inoltre, sotto
la spinta delle popolazioni che emigravano, le due parti in cui si era spez-
zato l'impero romano ebbero differenti sviluppi politici e culturali. Cf.
H.I. MARROU, Geschichte der Kirche, I, Einsiedeln 1963, pp. 332-337 (ed.
originale in francese. ti in preparazione la traduzione in italiano). So-
prattutto si erano prese delle importanti decisioni in campo teologi-
co. Le grar.di controversie dogmatiche erano sostanzialmente concluse.
I primi quattro sinodi ecumenici, durante i quali soprattutto questo era
avvenuto, saranno anche in seguito considerati semplicemente come i con-
cili. Cf. Y.-M. CoNGAR, La primauté des quatre premiers conciles oecu-
méniques, in Le concile et les conci/es, Paris 1960, pp. 7,5-io9. Al posto
della teologia della Scrittura subentrò ampiamente la teologia patristica.
I monaci, che si assunsero il compito di guide nel lavoro teologico, co-
minciarono a compendiare gli scritti degli antichi vescovi. In Occidente
dominò quasi esclusivamente la teologia agostinana. Cf. M. GRABMANN,
Die Geschichte der kath. Theologie, Freiburg 1938, pp. 17-22. La teolo-
gia bizantina invece si pose sotto le insegne della cristologia di Cirillo
d'Alessandria. Cf. le recenti ricerche eseguite sul cosiddetto Neo-calcedo-
nianesimo, specialmente CH. MoELLER, Le Chalcédonisme et le Néo-Chalcé-
donisme en Orient de 451 à la fin du 6' Siècle, in Chalkedon, I, 637-670.
Infine, verso la conclusione del v secolo, si cominciò a utilizzare in teo-
logia in modo più cosciente la logica neoplatonica-aristotelica. Cf. H.I.
MARROU, Das kirchliche Leben im ostrom. Reich, in Geschichte der Kir-
che, I, 381 s. Come per tutte le classificazioni delle epoche storiche, anche
questa transizione dall'età patristica alla successiva avvenne lentamente.
Tuttavia le trasformazioni avvenute nella seconda metà del v secolo sug-
geriscono di porre proprio in quel periodo di tempo la conclusione del-
l'età patristica. Cf. CH. MoELLER, art. cit., pp. 637 s.; H.I. MARROU, Ge-
schichte der Kirche, r, 41,5-444, ove, d'altronde, in questa età viene an-
cora incluso il vr secolo.

c. La mediazione della rivelazione di Dio per opera dei padri

Alla luce della storia degli studi patristici e della loro attuale proble-
matica ci è più facile comprendere e delimitare il modo con cui, in
seno alla Chiesa dei primi secoli, i padri tramandarono la tradizione

in Occidente, con la fine delle emigrazioni, in Oriente coi grandi sconvolgimenti


interni e con l'esplosione dell'Islam.
PORTATORI DELLA MEDIAZIONE

apostolica. Senza voler smembrare la loro opera, ci è possibile, da un


punto dt vista moderno, distinguere in questa opera quattro forme. 61
Negli scritti patristici noi riscontriamo innanzitutto dei testi che
contengono Simboli di fede, formule e riti liturgici, che citano deci-
sioni conciliari o che riferiscono semplicemente ciò che a quel tempo
i vescovi annunciavano ed i fedeli credevano con pietà. In questi
casi abbiamo a che fare con testimonianze storiche. L'autorità di cui
godono in questo caso i padri della Chiesa dipende direttamente
dalla fedeltà storica secondo la quale essi riferiscono i documenti
della fede del loro tempo. Su questo piano anche un solo padre può
diventare garante autentico della testimonianza di fede della sua
Chiesa.
Fino a quando i padri furono a capo delle loro comunità in qua-
lità cli pastori supremi, debbono essere considerati testimoni e giu-
dici ufficiali della fede ecclesiale. In tale qualità, ossia in forza del
loro ufficio, essi annunciarono il Vangelo del Cristo e decisero l'am-
piezza della convergenza nella fede e nella vita della loro comunità
con tutte le altre Chiese. Precisamente in considerazione di questo
fatto, a partire dal IV secolo si cominciò ad appellarsi alla loro au-
torità. Oggi, dal momento che noi non identifichiamo più cosl sem-
plicemente i padri coi portatori della tradizione, ma possediamo una
concezione più differenziata della mediazione della rivelazione divi-
na, non dovremmo più parlare, in questi casi, di padri della Chiesa:
siamo infatti di fronte all'autorità che compete ai portatori del ma-
gistero ordinario o anche, eventualmente, del magistero straordina-
rio ('padri conciliari').
Assai sovente i padri della Chiesa presero posizione sui problemi
religiosi discussi al loro tempo, senza però l'intenzione di com-
portarsi da autentici portatori dell'ufficio. Essi cosi si comportarono
come portatori profetici della tradizione apostolica, senza tuttavia
assumere posizione contrastante con l'ufficio ecclesiale. Questo è,
almeno, quanto si deve ammettere per quegli scrittori ecclesiastici
che non furono vescovi. In questi casi essi espressero la loro personale
convinzione di fede, resero noto quanto a loro parere era l'unic.i

il Cf. J.M. ScHEEBEN, Handbuch der kath. Dogmatik, l n. ~76, Freìburg 11959,
pp. 178 s.
I PADRI DELLA OllESA 133

vera dottrina della Chiesa. Cosl si presentarono come testimoni della


fede del loro tempo. Quando si accerta ·che essi nella loro totalità
concordano in questa testimonianza (consensus moraliter unanimis),
è chiaro che debbono essere considerati come testimoni autentici del-
la fede. La loro autorità si appoggia allora sull'infallibilità della Chie-
sa ed ha la stessa estensione di questa. In quanto essi esprimono il
consensus fidei operato dallo Spirito santo, ci impegnano a ricono-
scere nelle loro espressioni fondamentali, non però nelle ulteriori
giustificazioni da loro addotte, un'autentica comprensione della pa-
rola di Dio.
Finalmente, i padri della Chiesa si assunsero anche l'incarico di
spezzare il pane della parola ai loro contemporanei. In forza della
loro conoscenza delle sacre Scritture, della loro sapienza profana e
delle loro esperienze umane, essi, guidati dallo Spirito santo, intro-
dussero i fedeli nel significato che a quel tempo assumeva la divina
rivelazione. Vivevano come occhi della Chiesa, ascoltavano il polso
del Corpo del Cristo, e così adempivano il compito di maestri dei
credenti. Per questa loro posizione, essi talvolta contribuirono in
maniera decisiva allo sviluppo della dottrina della Chiesa. Essi solle-
varono nuovi problemi; ne prepararono le soluzioni cercandone le
giustificazioni, elaborando le formulazioni necessarie, correggendo le
risposte insufficienti e spingendo le autorità ecclesiastiche a prendere
una decisione. Soprattutto, essi furono i veggenti del loro tempo,
coloro che continuamente ponevano la Chiesa di fronte alla parola
di Dio, coloro che ad essa facevano riconoscere il compito dell'ora
presente e che perciò ad essa indicavano anche il cammino verso il
futuro. Nei nostri riguardi, poi, in quanto maestri della Chiesa an-
tica essi non costituiscono più delle autorità vincolanti, ma restano
sempre autorità che indicano la via. Le loro concezioni e special-
mente il loro comportamento nelle diverse situazioni del loro tempo
portano, è vero, il sigillo della loro personalità e non sono quindi
ancora equivalenti ad una testimonianza vincolante di fede. Tutta-
via essi esigono che noi li esaminiamo con attenzione, se veramente
vogliamo che di una completa comprensione della divina rivelazione
nulla vada perduto.

Il concilio di Trento, e dopo di esso il Vaticano 1, hanno definito come


PORTATORI DELLA MEDIAZIONE
134

normativo nella interpretazione della Scrittura il consensus unanimis pa-


trum: DS 1507; NR 86; DS 3007; NR 89. È tuttavia chiaro che questa de-
cisione del concilio può essere considerata valida solo nella misura in cui
i padri della Chiesa sono testimoni della fede. Nella misura invece in cui
essi interpretano la Scrittura come maestri, ma in modo personale, la loro
interpretazione non è vincolante, per quanto rimanga sempre degna di
attenzione. Cf. anche la dichiarazione limitatrice di Pio XII nella Divino
afflante Spiritu: «... atque inter multa quae in SS. Libris... proponuntur,
pauca tantum esse quorum sensus ab Ecclesiae auctoritate declaratus sit,
neque plura ea esse de q11ibus unanimis SS. Patrum sit sententia» (DS
3831 ).

d. Sull'interpretazione dei documenti patristici

Come è stato esposto nella precedente sintesi storica sugli studi pa-
tristici e sulla loro problematica moderna, gli scritti dei padri della
Chiesa possono essere affrontati da un duplice punto cli vista. Si può
studiarli inseriti nel contesto della storia della letteratura, ovvero
si può mirare ad ascoltare in essi la voce della tradizione ecclesiale.
In fondo, però, questi due modi di considerare le opere dei padri
non devono essere separati l'uno dall'altro. Pur essendo monumenti
letterari, i documenti patristici non cessano, per questo, di essere an-
che testimonianze di fede. In quanto cristallizzazione della vita di
fede ecclesiale, essi portano sempre anche l'impronta più o meno
profonda della sensibilità letteraria della loro epoca. Per quanto sia
praticamente difficile tener conto in modo completo e totale delle
esigenze storico-filologiche e dei metodi teologici, tuttavia questo
deve restare l'ideale a cui tende ogni ricerca patristica.
Nei riguardi della teologia, l'accento fondamentale viene posto
sull'orientamento dogmatico. Il che significa: colui che, in qualità
di teologo, si occupa dello scritto d'un autore della Chiesa antica,
deve innanzitutto rendersi conto dell'autorità con cui questo autore
si presenta. Egli deve poi chiedersi in che modo le opinioni dottri-
nali che lo interessano si inseriscano nella storia della tradizione
ecclesiale, ossia, se seguono o precedono una decisione conciliare.
Soprattutto deve tentare di giudicare quanto ampiamente le convin·
zioni od opinioni da studiare concordino con la Parola di Dio nella
sua totalità.
I PADlll DELLA CHIESA 135

Questa critica teologica presuppone necessariamente che i testi in


questione siano essi stessi rettamente intesi. A tal :fine è necessario
che si sappia con certezza la loro origine (autenticità) e si possegga
la maggiore sicurezza possibile sulla loro composizione.

La maggior parte dei testi è accessibile in edizioni moderne (PG, PL,


CChr, GCS, CSEL, CSCO, ed altri). Per quanto riguarda i problemi con-
cernenti la autenticità e la tradizione testuale, bisogna consultare le patro-
logie (ALT.ANER, QuASTEN) ed eventualmente anche i più recenti reper-
tori bibliografici (Bibliographia Patristica, RHE, BT AM, Année Philolo-
gique). Per i testi latini, particolarmente, occorre rivolgersi a CIP (21962),
e anche a B. F1sCHER, Verzeichnis der Sigel fiir Kirchenschriftsteller, Frei-
burg 21962.

Se si ha a che fare con una traduzione, bisogna sempre rende~si


conto della fedeltà della stessa e, se è possibile, quale sia il testo
originale su cui è stata efEettuata. 42 Generalmente, per poterli pe-
netrare meglio, è consigliabile tradurre i testi nella propria lingua.
È naturale che, facendo questa traduzione, occorre tener presente:,
come d'altronde si fa per ogni lettura, le caratteristiche peculiari del-
le lingue della Chiesa.

Tra i testi più importanti che possono soccorrere in questi studi citiamo:
A. BLAISE, Dictionnaire Lati~-Français des auteurs chrétìens, Turnhout,
21963; G.W.H. LAMPE, A Patristic Greek Lexicon, Oxford 1961 ss., in-

sieme con le più recenti traduzioni (BKV, Testimonia, Neue Kircheviiter-


ausgabe, di KosEL, Sources Chr., ACW, ed altri). Si può trovare una buo·
na introduzione ai relativi problemi linguistici negli studi di Ctt. MoHR·
MANN, Études sur le Latin des chrétiens, Roma r961. Cf. H.·]. ScHULZ,
Kirchensprachen, in LTK 2 , 6 (1961) 257-260.

]\{on meno importante d'una buona conoscenza delle lingue della


Chiesa, per comprendere i documenti dell'antichità cristiana, è neces-
sario tener conto in maniera sufficiente delle loro caratteristiche let-
terarie. Non è una questione indifferente il fatto che questi docu-

12 Ireneo ne è un buon esempio. Per i testi che ci sono giunti solo nella versione
latina, si può tuttavia in molti casi, mediante il confronto coi frammenti greci, risa-
lire ai termini greci tradotti. Un buon setvizio in questo lavoro è stato reso da B.
REYNDERS, Lexique comparé du texte grec et des versiom /aJine, arménienne et sy-
riaque de l'Adv. Haereses de s. lrénée, in CSCO, 141 s., Subsidia, 5 s., Louvain r954.
PORTATORI DELLA MEDlhZlONE

menti si trovino sotto forma di prediche, di commentari della Scrit-


tura, di apologie o .di scritti polemici. È perciò inevitabile che si va-
lutino le circostanze storiche nelle quali è nato un certo scritto. So-
prattutto negli scritti polemici, l'ambiente storico è estremamente
istruttivo.

Testi ausiliari: le patrologìe ed i manuali di storia della Chiesa. Tra que·


sti uhimi in particolare la Histoire de l'Église, I, edito da J. DANIÉLOU e
H.I. MARROU, Einsiedeln i963.

Infine si ricordi che non si potranno mai comprendere i testi patri-


stici se non si capiscono chiaramente le particolari forme mentali
degli antichi scrittori ecclesiastici. È necessario riferirsi continuamen-
te all'immagine del mondo degli antichi, alle antiche concezioni del
diritto e dello stato, alle filosofie allora imperanti (stoicismo, medio-
platonismo, neoplatonismo, e cosl via), come pure al modo secondo
il quale l'antichità cristiana interpretava la sacra Scrittura (tipologia,
allegoria). Aggiungasi che sarà utile sempre effettuare dei confronti
non soltanto con gli autori non cristiani, profani e religiosi, ma an-
che con altri monumenti contemporanei dei padri {iconografia, epi-
grafia, numismatica).

Sotto questo aspetto si potranno consultare con profitto i diversi dizionari


specializzati, particolarmente RAC e Pauly-W issowa-Kroll. Inoltre anche
in questo campo sono d'utile consultazione le già menzionate patrologie
e le bibliografie per la letteratura relativa all'argomento.

e. Sull'attualità dei padri della Chiesa

Quando ci si chiede ciò che i padri della Chiesa hanno oggi da dirci,
non ci si riferisce in prima linea alla loro testimonianza di fede. Na-
turalmente questa testimonianza conserva per ogni tempo la sua
importanza eccezionale. Chi volesse dimostrare che una dottrina, non
derivabile con sicurezza dalla Scrittura, risale alla tradizione aposto-
lica, dovrà sempre rifarsi innanzitutto alla testimonianza dei padri
della Chiesa. Tuttavia, pur pre~cindendo dal fatto che queste dot-
trine si ritrovano testimoniate e proclamate anche in altri documenti,
I PADRI DELLA CHIESA 137

gli scrittori della Chiesa antica in quanto maestri dei pr1m1 secoli
hanno oggi per noi, sotto altri aspetti, un'importanza assai maggiore.
Essi ci aprono delle prospettive sulla rivelazione divina, che vanno
ben al di là di quelle offerte dai dogmi definiti. Inoltre ci mettono
a disposizione i primi tentativi d'una penetrazione sistematica nel
patrimonio della fede.u Soprattutto però, malgrado la diversità delle
epoche storiche, essi ci sono maestri di vita in forza del loro com-
portamento che reca impressa l'impronta immediata ricevuta dalla
testimonianza apostolica.
In generale, poi, si deve affermare che, soprattutto nell'insegna-
mento, si deve sempre iniziare coi padri della Chiesa, quando si deb-
ba sviluppare nella teologia il significato storico-salvifico della rive-
lazione. Infatti, al centro di tutta la loro speculazione teologica, si
trova il Mysterium saluti:;, I' Oikonomia. Basti pensare alla recapitu-
latio d'IRENEO, alla concezione ascetica d'ORIGENE, alla divinizza-
zione d'ATANASIO ed alla teologia della storia d'AGOSTINO.
In particolare i padri, specialmente quelli del periodo che prece-
dette l'eresia ariana, possono fornirci un contributo essenziale per il
significato trinitario della storia della salvezza. 54 La loro mentalità
metaforica può indicarci nuove strade nell'antropologia e nella dot-
trina sacramentaria.85 Alla loro scuola possiamo imparare molte cose
sull'intima relazione esistente tra i misteri della salvezza - argomento
oggi spesso cosl scottante -; sull'unità tra cristologia e soteriologia;
sul rapporto tra Maria e la Chiesa.86 Dallo studio dei padri della
Chiesa si può trarre anche un rinnovamento della teologia morale,
quando si pensi che essi assicurano inequivocabilmente il primato
alla carità e non separano mai l'adempimento dei comandamenti dal-
la perfetta sequela del Cristo.87 Per quanto riguarda l'escatologia,

83 Cf. A. GR1LLMEIER, Vom Symbolum zur Summa, in J. BETz - H. FR1Es (edit.),


Kirche und Oberlieferung, Freiburll i. Br. I960, pp. 119-169.
84 Su questo argomento d. gli studi di W. Mucus, Der Subordinatianismus, Miin·
chen 1963. .
as a. il compendio di TH. CAMELOT, La théologie de l'image de Dieu, in RSPT,
40(19,6)44)-471, e Sr.Orro, Immagine, in DiT, 2(1~7)57-6,.
116 Cf. A. GaILLMEIER, Christologie, in LTK.2, 2 ( 1958) II17-u66; A. MOLLER, Ma
ria, in LTKl, 7 (x962) 28-32 (con bibliografia).
rT Cf. G. G1LLEMAN, Le prima/ de la charité en théologie morale, Louvain 1952
ltr. it. Brescia); R. HoFFMANN, Nachfolge Christi, in LTK 2, 7 (1962) 759-762.
PORTATORI DELLA MEDIAZIONE

invece, sarà più difficile seguire i padri; infatti, proprio in questo


campo, il loro pensiero è più subordinato che in altri settori alla
mentalità contemporanea. Anche qui, però, essi sanno orientarci al
Cristo, inizio e fine di tutti. i tempi, e ci insegnano ad includere negli
eschata il compimento della Chiesa e dell'intero cosmo.88
Proprio questi inesauribili impulsi che ci possiamo attendere dagli
studi patristici sono anche in grado di avvicinarci maggiormente ai
nostri fratelli cristiani d'Oriente. Questi, infatti, vivono certo più di
noi dello spirito dei padri della Chiesa. Se noi perciò conf:ediamo
alle istanze dei maestri dell'antica cristianità uno spazio maggiore,
potremo certamente comprendere meglio la teologia e la spiritualità
orientali. Uguali speranze possiamo anche nutrire per quanto riguar-
da i nostri rapporti coi cristiani evangelici. Se ci metteremo alla scuo-
la dei padri della Chiesa, la cui mentalità era integralmente orientata
alla luce della storia della salvezza e che avevano al centro delle
loro preoccupazioni teologiche la Bibbia, troveremo più agevole acco·
starci a coloro che si sentono più legati alla Chiesa amica che alla
Chiesa cattolica del Medioevo e dei tempi moderni. 89

5. I teologi

Il compito assegnato ai padri della Chiesa nella mediazione della


rivelazione divina, come è chiaro, non rimase limitato ai primi secoli
di vita della cristianità. La loro eredità passò a coloro che vengono
designati col nome di teologi. È cerco che si cominciò assai presto a
riflettere sul compito loro e solo in tempi più recenti lo si delimitò
chiaramente. Una breve panoràmica storica ci permetterà di vedere
come si pervenne a questo, e contemporaneamente ci fornirà anche
gli elementi necessari per rispondere alla domanda relativa alla posi-
zione dei teologi nella tradizione dottrinale della Chiesa. 90

aa Cf. H.U. vo=-i BALTHASAR, Eschatologie, in FTH, 403-421; ID., I novissimi nella
teologia contemporanea, Coli. «Giornale di ceologia», 13, Brescia 1967.
89 Cl. A. BENOiT, op. cii., pp. 8I-84.
90 Sono stati di guida nella compilazione dì questo arcicolo, le seguenti opere:
A. LANG, Die loci theologici des Me/cbior Cano und die Methode des dogmatischen
Beweises, Miinchen 1925 (con bibliografia); d. A. LANG, Loci lbeologici,, in LTKl. 6
(I96r) IIIo-1112; J.M. ScHEEBEN, Handbuch der katholischen Dogmatik, I, (31959)
I TEOLOGI 139

a. Su1la storia del concetto di 'teologi'

Le polemiche con l'umanesimo e con i riformatori indussero MEL-


CHIOR CANO (t 1560), il più grande allievo di FRANCISCO DE VITO-
RIA, ad elaborare il trattato De locis theologicis. 91 In quest'opera,
assai arginale e rimasta fondamentale per secoli, l'autore non si li-
mitò solo a distinguere i santi padri dai teologi scolastici. Malgrado
tutte le sue riserve nei confronti delle esagerazioni della teologia me-
dievale, egli si fece premura di difendere la teologia scolastica di
fronte ai suoi contemporanei. Certamente egli non attribuì ai teologi
scolastici la stessa autorità dei padri_ Per lui era infatti chiaro che
sia per la antiquitas, sia per la sanctitas, quelli non erano all'altezza
di questi. 92 Tuttavia egli stabill. ugualmente, anche per i teologi, la
norma che è eretico o si avvicina all'eresia colui che si scosta dall'in-
segnamento comune dei teologi nelle cose di fede e di costume. 13
Per quanto non sia mai stata approfondita e sviluppata con suffi-
ciente chiarezza, questa dottrina fornì tuttavia importanti spunti nel
corso dei secoli. Già la distinzione tra padri della Chiesa e scrittori ec-
clesiastici operata nell'antichità in relazione alle rispettive concezioni
di GIROLAMO e d'AGOSTINO, preannunciava quella tra i padri ed i teo-
logi. Questa distinzione si realizzò poi nel xu secolo.94 Quando in
quel periodo si cominciò a sviluppare il metodo scolastico delle quae-
stiones, ci si trovò ben presto di fronte alla necessità di ricorrere
anche all'autorità dei magistri. Ma l'autorità dei soli padri non era
più sufficiente a risolvere questi problemi sempre più profondi e
complessi. Col passare del tempo acquistava progressivamente valore
il concetto della opinio communis. Evidentemente i dieta magistralia
non furono mai equiparati all'auctoritas o ai dieta authentica della

182-187; sull'argomento d. W. BARTZ, Der Theologe in der dogmatischen Sicht von


M.]. Scheeben, in TTZ, 73 (1964) 6,5-St.
" Cf. A. LANG, op. cit., Il testo è facilmente accessibile in ].P . .M1GNE, Theolog,iae
cursus completus, 1, Paris 1837, pp. 79-908.
9l M. CANO, De locis theologicis, VIII, 4.3; M!GNE, cit., _513: «Nec vero ... iuniores
theologos priscis illis mox aequamus (scimus enim quantum antiquitati deferendum
est, qua11/um etiam sanctitati), sed firmum etiam bune locum esse ... co11tendimus».
93 Op. cii., Vili, 4.3; MIGNE, cii., 510.
94 Cf. M.-D. UtENt.:, La théotogie au xn· siècle, Paris 1957, pp. 351-365, ovvero
DT(P), 28 (19i5) 2n-i85.
PORTATOllI DELLA MEDIAZIONE

Scrittura e dei padri.95 Finalmente nel xv secolo, quando si trattò di


difendere l'autorità del magistero ecclesiastico, J. DE TORQUEMADA
aveva già affermato che la clarissimorum doctorum sententia costi-
tuiva una particolare forma di dimostrazione nella teologia. 96
Le teorie di MELCHIOR CANO, d'importanza storica, nei secoli suc-
cessivi furono generalmente accettate. Esse furono inoltre confer-
mate dal fatto che la Chiesa nel suo magistero, come del resto aveva
già fatto precedentemente, si pose al seguito dei teologi, e nelle sue
decisioni si appoggiò sempre più al loro lavoro. 97 D'altro canto non
poteva mancare un'ulteriore elaborazione della prima metodologia
teologica. E così fu chiarita meglio la portata dell'autorità dei teo-
logi e la sua giustificazione.

Innanzitutto nel corso dei secoli xvn e xvm fu espressa in maniera p1u
precisa la distinzione tra i padri, maestri della Chiesa antica, ed i teologi,
maestri della Chiesa nei secoli successivi. Inoltre ai soli padri venne attri·
buito quale segno distintivo essenziale la santità della vita. Alla luce di
questa duplice distinzione, ancora oggi il concetto di teologi viene con-
cepito nel modo seguente: i teologi sono quei rappresentanti della teolo·
gia ecclesiale che non si distinguono né per l'antiquitas né per la sanctitas,
ma per l'ortodossia riconosciuta e per l'importanza dei loro lavori teolo-
gici. Cf. H. BACHT, Consensus, III, in LTK 2, 3 ( 1959) 45 s. Da parecchi
poi, col termine 'teologi' si intende indicare in prima linea le scuole teo·
logiche. In questo modo si intese anche riferirsi in modo speciale ai teo-
logi del xm secolo, come anche a quelli del XVI e xvn secolo, e si richiese
anche uno spazio di tempo maggiore per la determinazione del consenso
dei teologi. Finalmente si osservi che in parecchi casi si concepi I' autorità
dei teologi in senso più restrittivo di quanto l'avesse intesa M. CANO.
Nel loro consenso non si vide u.na garanzia d'infailibilità, bensì soltanto
un cri~erium ccrtttm. Cf. I. SALAVERRI, De Ecclesia Christi, nn. 845-870:

9_; TOMMASO D'AQUINO e BONAVENTURA nelle loro trattazioni non prendono espres·
samcnte in considerazione questa distinzione: TOMMASO o' AQUINO, S. th., 1, 1, 8, 2;
cf. inoltre A. GARDEIL, La notion de Lieu Théologique, in RSPT, 2 ( 1908) 51-73; 246·
276; 484-805; BoNAVENTURA, ·In Hexaiimeron, Coli. 9, 19-23, in Opertr omnia, v, 375 s.
96 J. DE TORQUEMADA, Summa de Ecclesia, Il!, 93.
'11 Su questo tema il documento di gran lunga più importante è la lettera di Pio IX
Tual Libenter all'arcivescovo di Monaco-Frisinga (1863): DS 2879 e NR 353. A que·
sto riguardo cf. anche H. LENNEKZ, Das Kon~il von Trient und die theologischen
Schulmeinunge,,, in Scholastik, 4 (1929) 38·53. Altri documenti si possono trovare in
I. SALAVEllRI, De Ecc!esia Christi, n. 861: PSJ, I, 780; ovvero in H. BACHI, Comc11-
sus, in LTK1, 3 (1959) 45.
I TEOLOGI

PSJ, 1, Madrid 1962, pp. 775-784. Tuttavia, malgrado questa limitazione,


oggi sembra che si affermi sempre più la tendenza ad attribuire al con-
sensus theologomm un carattere normativo per la fede nello stesso senso in
cui viene attribuito al consensus Patrum. Cf. K. RAHNER - H. VoRGRIMLER,
Kleines theologisches Worterbuch, Freiburg 1961, pp. 351 s.; H. BACHT,
loc. cit.

b. Compito dei teologi nella mediazione della rivelazione divina

Da questa breve panoramica storica dovrebbe risultare chiaramente


che ai teologi fu affidato in passato ed ancora oggi viene affidato
sostanzialmente lo stesso compito che spettò ai padri nella media-
zione della parola di Dio. Come questi, i teologi - in forza dello
stretto legame che li vincola al magistero ecclesiale - testimoniano
in modo eccellente la fede sempre viva della Chiesa del Cristo. Co-
me i padri della Chiesa, anch'essi sono chiamati ad essere gli occhi
della Chiesa, destinati, grazie alla vigilante attenzione che presen-
tano alla parola di Dio, ad introdurre sempre più profondamente
l'intera comunità di fede ecclesiale nei misteri del Cristo. In altri
termini: non meno dei padri, essi sono posti al servizio della Chiesa
e quindi tutto i! loro lavoro di elaborazione teologica dovrebbe esse-
re orientato a confermare ed approfondire la fede. 91
Naturalmente non si deve neppure dimenticare che esistono delle
differenze tra i teologi ed i padri della Chiesa. Il lavoro dei padri
nei primi tempi della Chiesa costituì il fondamento per quello dei
teologi di tutti i tempi successivi. Anche le condizioni esteriori di
lavoro sono cambiate. Particolarmente dopo la nascita delle univer-
sità degli studi, l'attività teologica è in gran parte vincolata ad un
esercizio d'insegnamento scolastico, ed in misura sempre maggiore
che nel passato. Ne deriva altresì che spesso i teologi hanno influen-
zato la vita della Chiesa in maniera assai meno diretta di quanto lo
abbiano fatto i padri della Chiesa. D'altra parte, il progressivo svi-
luppo delle scienze umane ha messo a loro disposizione una sempre
maggior abbondanza di mezzi. Per quanto quindi essi siano stati
meno in grado di interpretare profeticamente i segni dei tempi,

98 Cf. K. BARTH, Ei11/iihrung in die evangelische Theologie, ZUrich r962, e, da par-


te cattolica: H. KiiNG, Teologo e Chiesa, Brescia 1966.
PORTATORI DEL.I.A MEDIAZIONE

ebbero tuttavia maggiori possibilità di esprimere in modo più rifles-


so il senso della fede della Chiesa.
Malgrado tutte queste differenze, non si nega affatto che anche
il consenso generale dei teologi nelle cose di fede e di costume sia
vincolante. Così pure, con quanto si è detto, non si intende esclu-
dere che le opinioni comunemente accettate dai teologi, per quanto
non ancora consacrate dal crisma della definitività, non restino mo-
delli degni d'attenzione per la loro capacità di indicare la via verso
le soluzioni definitive. Anzi, anche la voce d'un solo teologo, che
goda di particolare prestigio nella Chiesa, non deve mai restare ina-
scoltata. Quanto s'è detto vale in modo speciale per s. Tommaso
d'Aquino. Dal giorno della sua canonizzazione, e soprattutto nell'era
moderna, egli ha ricevuto dalla Chiesa tali attestati di riconoscimen-
to, che la sua dottrina deve essere considerata come sicura e il suo
metodo, come teologo, deve essere considerato esemplare. 99
Aggiungiamo ancora che i teologi in parecchie cose sono supe-
riori ai padri della Chiesa. Innanzitutto si deve a loro una com-
prensione più profonda degli aspetti metafisici della rivelazione di-
vina, insieme ad una visione generale dei misteri della fede. Soprat-
tutto le grandi scuole teologiche hanno avuto grandi meriti in que-
sta opera. Inoltre i teologi sono più vicini al nostro tempo - anche
quelli del Medio Evo - di quanto lo siano i padri della Chiesa, e
sono quindi in grado di porgerci un aiuto più sostanziale in nume-
rose questioni attuali al fine d'ottenere una soluzione adeguata al
nostro tempo.

c. Sull'interpretazione degli scritti dei teologi

Come per gli scritti dei padri, anche per quelli dei teologi esiste una
duplice interpretazione .100 Innanzitutto si deve stabilire con quale
autorità dogmatica essi si esprimano. Per i teologi più recenti, que-

99 Cf. I. SALAVERRI, op. cit., nn. 87r-883: PSJ, , 784-790, come pure ].B. MgTZ,
Christliche Anthropo:untrik, Miinchcn r962, col saggio in1rodu11ivo di K. RAHNER (pp.
9-20), ove sono elencati anche i più recenti documenti magisteriali. Alla bibliografia
dovrebbe aggiungersi: H. RoNDET, S. Thamas a-t-il une philosophie de l'histoire, in
RSR, 51(1963)177-195.
100 Cf. anche le norme generali di M. LòHRER, supra, pp. 93-98.
I TEOLOGI
143

sto accertamento è reso più agevole dalle cosiddette qualifiche teo-


logiche che vengono attribuite alle loro opinioni. 101 In altri termini,
si tratta innanzitutto di delimitare con chiarezza la rilevanza teologi-
ca d'una dottrina, dedotta dalla convergenza dei teologi su questa
dottrina. Si comprende che, sotto questo aspetto, si deve concedere
un ruolo primario alle scuole teologiche. Esse infatti con le loro di-
vergenze mostrano sl quanto sia difficile· esprimere con formule ade-
gua te la parola di Dio, e come perciò tutte le forme d'espressione
debbano essere sempre considerate più o meno superabili; ma non
si limitano a tanto; ove infatti esse siano unanimi, appare con mag-
gior charezza il consenso generale dei teologi.
Questa valutazione dogmatica a sua volta presuppone un'inter-
pretazione su base storico-filologica. Anche per i teologi, la prima
cosa da accertare è la sicurezza del testo a disposizione.

Per una grande quantità di autori scolastici abbiamo a disposizione delle


eccellenti edizioni critiche: ad esempio per ANSELMO DI CANTORBERY,
ALESSANDRO DI HALES, BONAVENTURA, TOMMASO (parzialmente), RUG·
GERO BACONE, DuNS ScoTo. Per molti invece bisogna ricorrere ai mano-
scritti. Su questo argomento cf. M. GRABMANN, Die Geschichte der kath.
Theologie seit dem Ausgang der Viiterzeit, Freiburg 1933; M. MANITIUS,
Geschichte der latein. Literatur des MA, Munchen 1911-1931; F. STEG-
MULLER, Repertorium biblicum medii aevi, Madrid 1940-54; lo., Reper-
torium commentariorum in sententias Petri Lombardi, Wiirzburg 1947;
P. GLORIEUX, Répertoire des maitres en théologie de Paris au XIII• siè·
cle, Paris i933. Cf. inoltre RHE; BTAM, Bulletin Thomiste; R;épertoire
bibliographique de la philosophie (Louvain); Bulletin de la société inter-
nationale pour l'étude de la philosophie médiévale (Louvain). Si trarrà
anche giovamento dall'uso del Tusculum-Lexicon griechischer und lateini-
scber Autoren des Altertums und des Mittelalters, Heimeran Verlag, Mun-
chen r963.

Anche l'interpretazione corretta degli scritti dei teologi, specialmen-


te dei teologi moderni, esige una sufficiente conoscenza della loro
lingua e della loro forma mentis, che è sempre vincolata alla menta-
lità generale del tempo in cui vivono. Essi pure devono essere inse-
riti nella storia delle idee e dell'evoluzione della dottrina della Chiesa.

101 Cf. A. KoLPING, Qualificationen, in LTKl, 8 (1963) 914-919.


144 BIBLIOG'ltAfI1\

Si potranno trarre utili informazioni su questo argomento, anche dall'ope-


ra citata di M. GRABMANN. Cf. inoltre A. LANDGRAF, Einfuhrung in die
Geschichte der theologischen Literatur der Friihscholastik, Regensburg
1948; J. DE GHELLINCK, Le mouvement théologique du XII• siècle, Bru-
ges 21948; M. GRABMANN, Thomas von Aquin. Eine Einfi.ihrung, Miin-
chen 71946 (ricca bibliografia specializzata); M.-D. CHENU, Introduction à
l'étude de S. Thomas, Paris 1950 (ediz. it. Firenze). Per l'evo moderno,
d. E. HocEDEZ, Histoire de la théologie au XIX' siècle, Paris 1947-1952;
K. BARTH, Die protestantische Theologie im r9. Jahrhundert. Ihre Vor-
geschichte und ihre Geschichte, Zollikon-Ziirich 2 1952. Per la teologia bi-
zantina del Medio Evo, cf. H.G. BECK, Kirche und theologi:sche Literatur
im Literatur im byzantinischen Reich, Miinchen 1959. Altra bibliografia in
Y.-M. CoNGAR, Théologie, in DTC, 15/I (1946) 341-502; A. KoLPING,
Einfuhrung in die katholische Theologie, Miinster 1960, pp. 173 s.

BASIL STUDER

BIBLIOGRAFIA

B. ALTANER, Patrologie, Freiburg 6 1960; ediz. francese ampliata a cura


di H. CHIRAT, Mukhouse 1961 (tr. it. Torino).
K. BARTH, Die protestantische Theologie im r9. Jahrhtmdert. I hre Vor-
geschichte und ihre Geschichte, Zollikon-Ziirich 21952.
H.G. BECK, Kirche und theologische Literatur im byzantinischen Reich,
Miìnchen I 9 5 9.
A. BENOiT, L'actualité des Pères de l'Eglise, Coli. «Cahiers théologiques»,
47, Neuchatel 1961.
M.-D. CHENU, Scolastica, in Di.T, 3 (1968) 273-290.
J. DANIÉLOU H.I. MARROU, Geschichte der Kirche, I, Von der Grundung
de1 Kirche bis i.u Gregor dem Grossen, Einsiedeln 1963 (edizione ori·
ginale in francese: Histoire de l'Église, Paris 1963 ss.; in preparazione
la traduzione italiana).
J. DE GttELLINCK, Patristique et Moyen Age, Paris 1947-48.
E. HocEDEZ, Histoire de la théologie au XIX' siècle, Paris 1947·52.
A. LANDGRAF, Einfuhrung in die Geschichte der theologischen Lite1att1r
der Friihscholastik, Regensburg 1948.
S. OTTO, Patristica, in DzT, 2 ( 196z) ,569-578 (con bibliografia).
J. QuASTEN, Patrology Utrecht-Bruxelles 1950-1953-1960 (traduzione ita-
liana: voi. r, Torino 1968 ).
I. SALAVERRI, De Ecclesia Christi, in PSJ, I, Madrid 1962.
M.J. ScHEEBEN, Handbuch der katholischen Dogmatik, 1, Freiburg 31959.
SEZIONE TERZA

MODI ATTRAVERSO I QUALI


LA MEDIAZIONE SI REALIZZA

Nella terza sezione Ji questo capitolo sulla mediazione della rivela-


zione ad opera della Chiesa si tratta dei modi con cui questa mediazio-
ne viene realizzata. Verranno quindi esposti nei particolari i tre tipi
fondamentali di tale realizzazione, ossia la liturgia, il kerygma e il
dogma, l'arte cristiana. Dal momento che nella prima sezione ch'è
introduttiva, si è già esaminato a fondo il significato del presente
articolo e poiché, in particolare, l'esame approfondito del kerygma e
del dogma ci farà comprendere i motivi per cui abbiamo menzionato
per prima la liturgia, sarà sufficiente esaminare successivamente que-
sti tre tipi di realizzazione nell'ordine menzionato.

I. La liturgia come luogo teologico

Il concilio Vaticano n nella sua Costituzione sulla s. Liturgia non


soltanto ha fissato le linee fondamentali del rinnovamento liturgico,
ma ha anche formulato delle proposizioni di importanza essenziale
sul suo significato teologico (soprattutto nel n. 2, 5-13 ), ed ha for-
mulato delle norme per la formazione liturgica scientifica sia dei do-
centi (n. 15), sia del clero (n. 16). 11. liturgia, conformemente alla
sua natura, viene così definita: «Giustamente perciò la liturgia è
ritenuta come l'esercizio del sacerdozio di Gesù Cristo; in essa, per
mezzo di segni sensibili, viene significata e, in modo ad essi proprio,
realizzata la santificazione dell'uomo e viene esercitato dal Corpo Mi-
stico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra, il culto pub-
blico integrale» (n. 7 ). 1 Per quanto riguarda la formazione teologica,

1 «Merito igilur Lturgia habetur veluti Jesu Christi s11cerdotulis muneris exercita·
tio in qua per sign11 sensibilia significatur et modo singulis proprio etficitur sanctifica.
tio homini1, et a mystico Jesu Christi Corpore, Capite nempe eiusque membris,
integer wltus p11blicus exercetur» ( n. 7 ).

10 Mystcrium salutis / z,
MODI DELLA M!DIAZIONE

però, si formula la seguente esigenza: «Inoltre i professori delle al-


tre materie, soprattutto della teologia dogmatica, della sacra Scrit-
tura, della teologia spirituale e pastorale, abbiano cura di mettere in
rilievo, secondo le esigenze intrinseche d'ogni disciplina, il mistero
del Cristo e la storia della salvezza, in modo che risulti chiara la loro
connessione con la liturgia e l'unità della formazione sacerdotale»
(n. 16).2 Alla luce di questa approfondita visione teologica della li-
turgia, occorre ripensare tutto il problema della liturgia come locus
theologicus, inserendolo in una dogmatica storico-salvifica, il che
presuppone naturalmente una concezione oggettiva della problema-
tica della liturgia intesa come locus theologicus.

a. Problematica della liturgia come locus theologicus

Viviamo in un'area linguistica in cui da almeno una generazione si è


verificato un movimento liturgico la cui ampiezza non si può effetti-
vamente più ignorare. Innanzitutto abbiamo imparato a riconoscère
come ritorno alle origini alcune teorie innovatrici coraggiose. Abbia-
mo visto che i quasi inevitabili tentativi di nuove esperienze, talvol-
ta a prima vista inquietanti, si sono chiarificati attraverso un ben
orientato lavoro di ricerca. Abbiamo visto che la promessa d'un rin-
novamento, già preannunciata al tempo di Pio XII, è stata più
che ampiamente mantenuta dalla Costituzione sulla s. Liturgia
del Vaticano II. Quale meraviglia, dunque, che espressioni quali 'pa·
starale dall'altare', 'liturgia strumento della pastorale' ed altre ana-
loghe, ci siano oggi divenute così abituali che, attraverso un processo
quasi fatale, sono divenute degli slogans? Si accetta come scontato
ed ovvio il principio fissato dal concilio che, nella formazione dei
sacerdoti, la parte liturgica debba costituire una 'specializzazione'
Non si tratta infatti soltanto d'un addestramento alla prassi della
Chiesa - anche per quanto riguarda l'importanza che tutto ciò assu-
me per la coscienza riflessa e per la dottrina, con questi rilievi ab-
biamo solo riassunto alcuni aspetti, che a lungo restano in abbozzo.

2 oCurent insuper aliarum disciplinarum magistri, imprimis theologiae dogmaticae,


sacrae Scripturae, teologiae spiritualis et pastoralis ita, ex intrinsecis exigentiis proprii
uniuscuiusque obiecti, mysterium Christi et historiam salutis exco/ere, ut exinde
earum connexio cum Liturgia et unitas s11Cerdotalis instìtutionis aperte clarescant».
LA LITUllGI.'. COMI! LUOGO TEOLOGICO 147

Alcuni decenni sono trascorsi da quando Pio XI, nel 1925, in un:i
udienza concessa all'abate. B. Capelle che ebbe grandi meriti nel-
l'opera di rinnovamento liturgico, ha parlato della «liturgia come
didascalia della Chiesa ... come l'organo più importante del magistero
ordinario». Fu questo un incoraggiamento ad un grande fecondo
lavoro - eco a sua volta di una rottura di cui si è debitori al suo
santo predecessore, Pio x. E se si risale indietro nel tempo, si trova
sempre la convinzione che la liturgia è il mezzo, la misura, la fonte
risanatrice della vita della Chiesa; convinzione, è vero, non sempre
coscientemente accettata, non sempre chiara ed ininterrotta, tuttavia
sempre praticamente vissuta, per quanto occasionalmente travagliata
dalle debolezze dell'epoca storica particolare (il che è perfettamente
comprensibile: la voce 'illuminismo' dovrebbe essere sufficiente a
dimostrarlo}.
Ora, per quanto riguarda il tema di questa sezione, si deve dire
quanto segue: almeno dopo il faticoso, appassionato lavoro dei gran-
di classificatori e ordinatori dei secoli xvn e XVIII - dei GoAR, MAR-
TÈNE, MABILLON, RENAUDOT, AssEMANI, ZACCARIA 3 , tanto per fare
qualche nome - si può affermare che l'omissione fatta da M. CANO
nella sua opera De locis theologicis è stata definitivamente corretta:
la liturgia è un luogo teologico! Infatti, chiunque da quell'epoca in
poi dovette occuparsi scientificamente di questo problema, non potè
fare a meno di questa affermazione. Ora, in nessuna epoca sono mai
mancate delle formulazioni esagerate; che oggi esse abbondino a
buon mercato, mentre le istanze del rinnovamento liturgico godono
del riconoscimento e dell'accettazione da parte della gerarchia, non
deve apparire strano. Ma se si interrogano i teologi di quest'ultimo
mezzo secolo, si deve riconoscere che esistono tra di essi delle forti
differenze: come si è già detto, si passa da coloro che elogiano eneo·
miasticamente il focus theologicus praestans, praestantissimus, fino a
coloro che concordano moderatamente in un'esercitazione teologica
inevitabile... Analoga dispersione si riscontra nella pratica. Si passa
cosl dalla posizione di G. FERRONE (le sue Praelectiones theologicae

l Quest'ultimo merita una speciale segnalazione in relazione col terna che stiamo
trattando; nell'introduzione alla sila Bibliotheca ritualis, Romae 1767, egli tenta in-
fat1i di esporre delle norme per la dimostrazione teologica fondata sulla liturgia.
MODI DELLA MEDIA7.!0NE

s1 ritrovano nell'albero genealogico di parecchi recenti manuali!), il


quale concede ampio spazio alle testimonianze tratte dalla liturgia,
fino a coloro che, occasionalmente e con un certo senso di pena,
tentano di ornare le loro tesi preordinate con poveri fiorellini da
tappezzeria tratti dal giardino della tradizione liturgica. Certo, nel
quadro dell'elaborazione storica, divenuta ir;idispensabile, dei trattati
teologici, queste fonti rivelarono tutta la loro ricchezza, specialmente
nel campo della teologia dei sacramenti.' Le più recenti definizioni
hanno dimostrato che senza di esse per non poche questioni mario-
logiche difficilmente si sarebbe potuto concludere. Ma tutto ciò non
deve indurci in inganno sul fatto che, nell'insieme, non è affatto ne-
cessario ricorrere a mezzi eccelsi per determinare il valore e la posi-
zione della liturgia nella moderna teologia. Il riconoscere questo e
proclamare in tutti i toni la rivalutazione della liturgia è una cosa
(e lo più semplice!); altra cosa, però, è sapere come realizzare quest:t
consapevolezza! Una maggiore considerazione materiale della liturgia
non costituisce problema. Non solo, ma un accumulo suppletivo di
materiale, tratto dalla liturgia per convalidare delle tesi teologiche,
rende questa teologia per nulla 'più liturgica'. Forse si potrebbe
tentare di consolarsi con questa riflessione: dal momento che non si
può dubitare della preparazione dei teologi, basterà concedere alla
buona causa della liturgia il tempo conveniente - una dogmatica che
porterà sul suo frontone l'antico motto: Lex orandi, tex credendi 5 ,
sarà l'immancabile ricompensa di questa attesa. Realmente? Una ri-
sposta teologica soddisfacente sarà data solo quando verrà determi-
nato con maggior precisione il modo con cui la liturgia può e deve
portare il suo contributo ad una dogmatica storico-salvifica.

4 Per qu3nto riguarda i trattati e le monografie relarive al nostro ar11omento citia-


mo - a titolo di esempio tra i tanti possibili - solo alcuni nomi: B.n1FFOL, LF.BRF.·
TON, D'ALÈS, GALTIER, 0E LA TAILLE.
' Volutamente abbiamo inteso riportare l'espressione nella sua forma abbreviata e
grezza, forma che si presta facilmente a trarre delle conclusioni esatte come delle
conclusioni contestabili. Si osservi inoltre che questa è la formulazione adonaia
ancora da Pio IX, bolla lneffabilis Dem (Pii IX Poni. Max. Acta, p. 1, '98 s.) e,
occasionalmente, anche da Pio Xli: in una lettera della Commissione Biblica all'epi-
scopato italiano e da lui ratificata (Ds 3792) e poi - in una formulazione leggermente
variata: «lex precandi - lex credendi» - nell'enciclica Divino tJ[J/ante Spiritu, DS 382!!.
LA LITURGIA COME LUOGO TEOLOGICO
149

b. La liturgia utilizzata come fonte deila tradizione

01iunque si accosta alla liturgia si trova di fronte, piena di esigenze


ma ricca di suggestioni, l'antica e solenne espressione: Lcx orandi,
lex credendi. Quale ne è il significato e la portata? Apre essa forse
l'accesso e delimita lo spazio entro cui la liturgia assume un'insosti-
tuibile importanza teologica (e non resta solo una fonte di testimo-
nianze tra le altre)? - Il richiamo alla formulazione fondamentale,
divenuta classica per l'argomentazione liturgica, è inevitabile.6 Assai
spesso il magistero ne ha fatto uso in maniera esplicita e, attraverso ~
secoli, ha dato la prova della sua applicazione pratica con la cura dimo-
strata nel mantenere la purezza del culto. 7 Fin dalla antichità il culto
ha sempre rivestito, un'importanza dogmatica: le dossologie, ad esem-
pio, ed i Simboli (i quali certamente non devono essere accettati som-
mariamente come puri riassunti dottrinali, poiché per la loro stessa
natura - confessio/ confiteri - sono assai vicini alle espressioni di
lode!), sono sempre stati luoghi privilegiati nei quali la concreta si-
tuazione di fede si è venuta configurando sia come affermazione
contro gli attacchi condotti contro la fede, sia come registrazione di
progressi realizzati. Non si può però trascurare l'apporto di Pio XII
ad una bene ordinata interpretazione della liturgia: «Liturgia ... fidem
absolute suaque vi non designat neque constituit», « ... non gignit, sed
potius consequitur» (Mediator Dei, in AAS, 39 [ 1947] 540 s.; Mu-
nificentissimus Deus, in AAS, 42 ( 1950] 760). Se poi questa inter·
pretazione viene condensata nella formula (che è anche di Giovanni
xxrn, v. nota 7}: Lex credendi legem statuat supplicaftdi (Mediator
Dei, loc. cit.), allora, con questo scambio di soggetto e di oggetto, la

6 Ci si riferisce qui alla formulazione completa che risale a TIRONE PaosrERO n'AQUI·
TANIA: legem credendi lex statuat rnpplicandi; v. os 246 NR 693.
7 Per quanto riguarda Je posizioni magisteriali recenti: H. SCllMIDT, 'Lex ora11d1,
!ex crcdendi' i11 recentioribus docume111is po11tificiis, in Periodica de re mor, ca11.
lit., 40(1951) 5-28; Io., liltroductio in Liturgiam occide11talem, Romac 1960, pp. 131-
139. Quale conferma derivata dalla prassi ricorderemo soltanto un documento ass•i
antico cd uno assai recente: «Non oportet ab idiotis psalmos compusitos cl •·ulgarcJ
in ecclesiis dici»: concilio di Laodicea (seconda metà dcl 1v secolo) c. 59, MANSI 11,
'90; «Enimvero, si summopcre oportet, Ecclesiae lil11rgica actio cum catbolicae fidei
professione piane concordet, cum 'lex credendi legem statuat supplicartdi', ac nullae
inducantur pietatis formae quae 11 verae fidci illimibus fonlibus 11011 emane:tt ... »:
GIOVANNI XXIII, Inde a primis, in AAS, 52 ( 1960) 546.
IJO MODI DE!;LA MEDIAZIONE

formulazione che ne risulta rimane così profondamente modificata,


che il problema viene decisamente trasformato in quello dell'indagi-
ne sul significato originale dell'espressione. Per quanto questa messa
a punto abbia trovato nella contingenza storica delle motivazioni
attuali, rimane pur sempre vero che, al di là di ogni particolare mo-
tivazione, si deve affermare quanto segue: non si può concedere alla
liturgia la qualità e la funzione di norma di fede; il servizio che essa
presta alla fede e da cui trae primariamente la sua norma, è quello
della testimonianza e dell'interpretazione. Su ciò dunque non vi è
nulla da sottilizzare e ci si deve chiedere coerentemente: la formula
classica ha forse voluto negare questi limiti? La formula classica
appare per la prima volta nello scritto Indiculus de gratia Dei. La
ricerca più recente ha indicato quale probabile autore di questo
scritto, diretto contro il semipelagianesimo, il discepolo di Agosti-
no, TIRONE PROSPERO o'AQUITANIA. 1 Per lungo tempo tale opuscolo
corse sotto lo pseudonimo di Capitula Caelestini, ed il prestigio sot-
tinteso in questo titolo ha certamente contribuito all'alta considera-
zione di cui esso godette (cf. la Lettera VIII, 7 del diacono Pietro, in
PL, 45, 1775; GENNADIO, De eccles. dogm. 30, in PL, 58, 987). K.
FEDERER ha dimostrato 9 la portata ristretta che deve essere attribui-
ta all'espressione Legem credendi lex statua! supplicandi. La lex
supplicandi normativa è infatti costituita dalle intercessioni pubbli-
che che, in obbedienza all'esortazione apostolica contenuta in r Tim.
2,1-4, vengono innalzate «su tutta la terra», «in tutta la Chiesa cat-
tolica». In questo modo nella celebrazione liturgica si rende una pub-
blica confessione di fede alla grazia necessaria per la conversione,
per la perseveranza e soprattutto per ogni azione salvifica, grazia che
deve e può essere impetrata. Esattamente tale concreta lex credendi
delimita ed esaurisce la portata di questa solenne espressione. Ciò è
nella sostanza e nel procedimento dimostrativi di buona marca ago-
stiniana (cf. De dono persever. 23, 63 s.). Si può dire ancora di più:
quando, nei tempi successivi, si generalizza e si considera la liturgia
in tutte le sue espressioni come lex supplicandi da cui si può far de-

g Così secondo M. CAPPUYNS, L'origine dcs Capitula ps_.Célesli iens con/re le


sémipélagianisme, in RBén, •P (1929) 156-170.
9 Litmgic und G/aube, Frciburg 1950.
LA LITURGIA COME LUOCO TEOLOCICO

rivare un'assai ampia lex credendi, ci si può richiamare soltanto ad


ampliamenti di postulati agostiniani. '0 Il soggetto concreto di questa
azione cultico-liturgica si enuclea nei suoi predicati: la Chiesa santa,
cattolica ed apostolica non può testimoniare infallibilmente la sua
struttura fondamentale in modo diverso da questa autorealizzazione.
Il che non significa altro che: per mezzo della liturgia si può con-
durre una dimostrazione fondata sulla tradizione. Si ha qui anzitutto
un'affermazione positiva. Ma non siamo forse anche di fronte ad
un'affermazione che può provocare un segreto senso di disagio? Se
è così, la liturgia può classificarsi fra la sene di \'Ì<' che con.
ducono a riconoscere il patrimonio della tradizione apostolica: ma in
questo modo non si sottovaluta un po' troppo la liturgia? La do-
manda non è affatto retorica: sembra che ad essa si sia già risposto
a sufficienza. La scolastica .in effetti non ha abusato dell' 'auto-
rità' liturgica, e i secoli successivi se la sono cavata anche ab-
bastanza bene senza fare eccessivo ricorso alla liturgia come loro 'luo-
go teologico'
Una prima risposta alla difficoltà presentata, si trova facilmente.
La liturgia non deve essere livellata in modo cosl semplicistico. Essa
si distingue per antichità, per dignità, per universalità. La dignità,
certo, è una pura esigenza formale. Ma l'universalità, oltre che un'esi-
genza formale, è una qualità sostanziale, non sempre riscontrabile
cos} apertamente ed immediatamente nelle altre testimonianze tradi-
zionali; si pensi alla ricchezza contenuta nella testimonianza unanime
in oriente ed in occidente e che, al di fuori della liturgia sarebbe
difficilmente recuperabile. Per quanto si riferisce poi al contrassegno
dell'antichità si può dire: la priorità dell'azione cultuale insepara-
bile dal patrimonio della Chiesa e precedente ad ogni riflessione
aiuta a colmare dei vuoti che altrimenti rimarrebbero aperti. I pri-
mi concili seppero utilizzare questo fatto, ad esempio nella dimostra-
zione della divinità dello Spirito santo dedotta dal Simbolo usato
nel servizio divino (concilio Costantinopolitano I, cf. os 150, NR
8 31 ), e in occasione della recente definizione si riconosce con grati-
tudine che proprio nella liturgia si è trovato un ponte di testimo-
nianze verso la fede degli inizi, di cui, in altre maniere, non si sa-

10 K. FEOERER, loc. cit., pp. 19·41.


MODI DELLA MEDIAZIONE

rebbe potuto trovare una sostituzione.li Non occasionalmente, è an-


che avvenuto che il periodo d'oro degli studi liturgici sia dovuto in
non piccola parte al pathos contro la Riforma. Si utilizzò un nugolo
addirittura opprimente di testimonianze liturgiche - ad esempio sul
sacerdozio ufficiale, sul carattere sacrificale della messa, e così via -,
per giustificare la condanna della Riforma. In effetti non è difficile
l'esaltazione della liturgia come 'luogo teologico' Essa possiede un
Sitz-im-Leben (una situazione esistenziale) di incomparabile attua-
lità, il che fece sì che, specialmente nella Chiesa antica, dignità litur-
gica e importanza dogmatica si trovassero in perfetta corrisponden-
za. Certamente il termine 'dottrina' non è la categoria fondamentale
mediante la quale si possa concepire in un unico quadro il culto
come autorealizzazione ecclesiale. Ma per quanto nei Simboli già
codificati, ad es., sia sempre il valore salvifico della confessione a
poter avere il primato, tuttavia questi Simboli restano inevitabil-
mente il luogo ove si realizza una permanente penetrazione progres-
siva del patrimonio della fede e dove si pongono i confini difensivi
della stessa fede. In questo modo la liturgia acquisisce inevitabil-
mente un'importanza cosl grande per l'istruzione e l'educazione dei
fedeli, che lo sforzo d'inserire centralmente in essa importanti posi-
zioni dottrinali diventa una semplice conseguenza naturale; 'in que-
sto la grande Chiesa non si distingue dalle sue avversarie che in
ogni tempo si sono comportate conformemente a questi princìpi. E
ciò fin dagli inizi: EUSEBIO riferisce (Historia ecclesiastica, VII, 30,
ro ss., in GCS, VI, 710) che PAOLO DI SAMOSATA compose degli. in·
ni in cui il termine 'angelo' doveva velare ch'egli negava nel Cristo
la vera unità della persona. Uguale procedimento si ;bbe anche nei
grandi scismi dell'era moderna: si pensi qui solo al Common Prayer
Book.
In pratica, il carattere d'apostolicità, che è essenziale per l'esigen-

11 «Universali autem ac splendidiore modo haec sacrorum Pastorum ac christifide-


lium fides tum mani/eslatur, cum indc ab antiquis temporibus in Orientis et Occi-
denlis regionibus liturgica sollemnia hac de cauxa celebrantur»: Pio xn. Munif Deux,
in AAS, 42 (1950) ]58. Bisogna sottolineare in maniera speciale come la celebrazione
di una festa possa offrire informazioni insostituibili sul conten1110 della festa stessa:
difficilmente si potrebbe ottenere una adeguata comprensione teologica della Pasqua,
dell'Ascensione, della Pentecoste senza far riferimento alle loro celebrazioni litur-
giche.
LA LITURGIA COME LUOGO TEOLOGICO

za del!a fede, è raro che sia così facilmente e rapidamente riscontra-


bile nelle altre testimonianze di fede. Chiunque intraprenda un'opera
di solidificazione attorno alla tradizione di altre fonti oltre alla Scrit-
tura, non può assolutamente prescindere dalle 'tradizioni' (1tcxpo:ooo-E~i;.
al plurale, come spesso i padri indicano gli usi liturgici). Addirittura
classico, sotto questo punto di vista, è il caso dei Dittici nella que-
stione del canone} 2 Ma anche prescindendo da questo caso, che è
certamente sui generis, si può affermare che nessuno mai contesterà
i preziosi ammaestramenti che si possono trarre dalla prassi litur-
gica! Si pensi al battesimo dei bambini e degli eretici, al culto delle
immagini ed alla concreta amministrazione dei sacramenti. Un solo
esempio tra i tanti: le norme disciplinari del sacramento della peni-
tenza contengono una gran quantità di informazioni sulla teologia
di questo sacramento e difficilmente ad essi si potrà negare la qua-
lifica di 'quasi insostituibili' Non meno ricca di suggestioni si è di-
mostrata la prassi liturgica per un lavoro di ripensamento sul nume-
ro dei sacramenti - sulla concreta estensione di materia e di forma -,
sul modo d'amministrare i sacramenti e sui poteri della Chiesa, e
così via.
Accanto a questi apporti positivi, esistono tuttavia anche dei
linziti e delle debolezze nella liturgia considerata come fonte di tra-
dizione.

aa. Dipendenza dalla teologia contemporanea. La valutazione po~


sitiva della liturgia come luogo teologico non sarebbe onesta se non
si prendessero in attento esame critico anche le sue elevate pretese.
Perché, in definitiva, non è affatto ovvio che il contenuto della litur-
gia coincida esattamente con la sostanza del dogma. D'altra parte,
una liturgia che non fosse incarnazione del dogma, si ridurrebbe tut-
t'al più alle categorie della psicologia e dell'estetica. Se si vuole attri-
buire alla liturgia una più o meno grande superiorità in qualità di
luogo teologico, si deve porsi obiettivamente il problema: la liturgia,
in questa sua proprietà, possiede un valore autonomo? Se l'universo
delle verità centrali, della fede fosse solo 'anche' dimostrabile me-

12 «rpocqiat qKpoµEvocL È'I TCci:rmç !xxÀ.l]aioc14» cosi li chiama 0RIGENE, Iii la. comm.
1,2,14, in GCS, xv, 6.
MODI DELLA MEDIAZIONF.

diante la liturgia, o se questa permettesse soltanto di dare un nuovo


lustro a verità già dimostrate e accantonate (a questo punto si po-
trebbero citare tante collette del messale, così permeate dalla teolo-
gia della grazia di marca agostiniana-antipelagiana ed alla dottrina
eucaristica di s. Tommaso attraverso i suoi versi sul Corpus Domini),
difficilmente si porrebbe giustificare una risposta positiva alla nostra
domanda.
Se ora, senza lasciarsi influenzare da considerazione di pietà, si
limitano le pretese, non si può assolutamente ignorare che esistono
delle gravi deficienze. L'esemplificazione di questa nostra affermazio-
ne sarà fatta in un settore in cui la liturgia può essere considerata,
nel pieno senso del termine, 'a casa sua', ossia ci serviremo delle
feste e della loro forza di testimonianza. E restringeremo ulterior-
mente la nostra esemplificazione a quelle feste, le mariane, che mag·
giormente sono in grado di lumeggiare la funzione propria della
liturgia di cui dobbiamo discutere. Esiste in questo campo delle fe-
ste mariane un'estrema diversità di densità di contenutCl: da dogmi
di importanza essenziale quali quello dell'Immacolata Concezione e
dell'Assunzione, si passa a feste del genere 'Traslazione della Casa
della Beata Vergine' È chiaro che non si può negare che .~n questo
caso soltanto una conoscenza, precedentemente consolidata per altre
vie, può attribuire la dovuta importanza e stabilire delle unità di
misura. Prenderemo in esame una festa particolare. La festa dell'lm·
macolata ( = Conceptio Beatae Mariae Virginis), le cui origini risal-
gono in Oriente fino al sec. VIII, costituisce certamente ~na preziosa
testimonianza. Ma non ci si potrà accostare al suo contenuto se non
consultando i teologi contemporanei. TOMMASO, ad esempio, è an-
cora dell'opinione che tale festa coincida del tutto con quella 'santi-
ficazione' ( = sanctificatio) che presuppone, a sua volta, che la Madre
di Dio sia caduta nel peccato originale (opinione che continuava ad
essere sostenuta sia pure in maniere un po' più attenuate); questa
santificazione dungue costituisce, per s. Tommaso, l'oggetto della
festa in esame. 13
Il S. th. 3,27,2,3. Analoghe riserve possono essere avanzate anche contro l'Assun·
zionc di Maria: il fatto che la denominazione primitiva della fes[a de-I 15 agosto 'i"
dormi/ione', sia cambiata in quella di 'in anumplione' sotto papa Sergio, non dispen-
s~ da ulteriori accertamenti per scoprire se con ciò veramente si debba intendere
I'as,unzione corporea.
LA LITURGIA COME LUOGO TEOLOGICO 155

Si possono facilmente accumulare documenti non molto favorevoli


ad un'esaltazione ingenuamente entusiasta. della liturgia intesa come
testimonianza di fede. Le citazioni sono numerose. Così parecchie
formule della liturgia mozarabica hanno un leggero sentore di ado-
zianismo.14 Fino al sec. XII inoltrato si incontrano ancora delle ru-
briche che difficilmente possono essere interpretate se non accettan-
do l'idea che la consacrazione del vino (specialmente nel caso della
comunione dei malati e al Venerdl santo) avvenga per contatto con
l'ostia. 15 Se si ricorda che venivano celebrate delle messe per l'«alle-
viamento delle pene dell'infernm>, 16 si faticherà assai a rintracciare
sotto le parole dell'offertorio dell'odierna messa quotidiana per i de-
funti l'affermazione, oggi ormai chiaramente acquisita, secondo cui
con la morte viene posto fine ad ogni efficace possibilità di purifica-
zione, e quindi il premio o la pena sono fissati definitivamente.

bb. Ricorso ad alt!e fonti d'interpretazione. Collezionare esempi è


tanto poco l'intenzione di queste considerazioni, quanto lo è quella
di confutare pedissequamente quegli studiosi che con molta eru-
dizione si sforzano d'infirmare la validità degli esempi addotti. Per
quanto dunque si possa anche prendere le difese della liturgia mo-
zarabica o sostenere l'ipotesi che nella 'consacrazione per contatto'
il concetto non è usato in senso eucaristico stretto,17 non si potrà fa-
cilmente sostenere che queste notazioni siano, per dirla con un eufe.
mismo, dei 'difetti di bellezza'. Tanto meno quando il valore della li-
turgia come fonte di fede non ne viene intaccato. Le norme, in b.i.se al.
le quali si deve valutare il peso delle espressioni liturgiche, sono prati-
camente identiche a quelle che in modo assolutamente generale sono
indispensabili alla retta valutazione d'ogni argomento tratto dalla
t~adizione. E proprio qui, si osservi, sono straordinariamente nume-
rose le fonti -sussidiarie e di controllo che ci permettono di conclu-

14 DE BRUYNE, De l'origine de quelques lextes liturgiques moztJrabes, in RBén, 30


( 1913) 421-426.
15 M. ANDRIEU, lmmixtio et consecratio, Paris 192+, passim.
16 Le prove di questo (anche oltre lo stretto settore liturgico) si potranno trovare
in A. FKANZ, Die Messe im deutschen Mittelalter, Freiburg 1902, pp. 224 ss.
17 Opinioni riportate da M. FtROTIN, benemerito per l'edizione di questo testo, e
(per l'altro esempio) da J. Ba1NKTRINE, Die beiligc Messe, Paderborn 21934, pp. 242 s.
MODI DELLA MEDIAZIONI'.

dere! Enumereremo qui solo alcune considerazioni al riguardo. Innan-


zitutto occorre valutare con precisione il peso dell'autorità che fa daga-
rante: comunità locale - una qualche diocesi - città di Roma - Chie-
sa romana. Si deve anche tener conto che queste diverse autorità
possono impegnare la loro volontà vincolante in modi assai diversi
e quindi occorre sempre determinare precisamente la profondità di
questo impegno volta per volta (e chi può sottrarsi, a questo punto,
alla problematica critica: quanta 'pre-conoscenza' di ciò che è lecita-
mente il contenuto dell'espressione è già penetrata nel retto uso di
questi criteri-sonda?!). Si dovrà inoltre sottostare, com'è naturale,
alle esigenze della critica storica e non si dovrà eliminare dalla litur-
gia ciò che è caratteristico sia della predicazione, sia della teologia:
il suo vincolo vivente col mondo contemporaneo che non solo può,
ma deve essere necessariamente mantenuto. La filologia 18 e la storia,
ma specialmente la storia della teologia e l'evoluzione del dogma,
devono dunque sempre dire la loro insostituibile parola.
Al servizio di un'argomentazione desunta dalla tradizione, la li-
turgia è dunque solo una delle varie fonti disponibili tra le altre a
cui si attinge (e l'ampiezza di quest'espressione 'tra le altre' si riduce
tanto più, quanto più delimitati e precisi sono i dogmi e le tesi teo-
logiche a cui ci si 'riferisce'). La liturgia, in qualità di fonte teologica,
gode di vantaggi peculiari in quanto il soggetto responsabile delle sue
espressioni è sempre una comunità, una Chiesa (almeno parziale).
Tuttavia presenta anche i suoi svantaggi: la collezione di canoni, ad
esempio, d'un concilio è incomparabilmente più chiara e più maneg·
gevole.

11 I lavori sulla lingua dd culto hanno il privilegio, magnifico e penoso insieme,


di Ct.!Stituire, nel pieno senso della parola, lavori da iirecursori: essi procedono in
tutte le direzioni in un territorio inesplorato! - Occorre poi ancora esaminare volt3
per volta la forza espressiva del genere letterario usato. Non si dovrebbe pcns"rc
d'aver fatto a sufficienza in questo ~enso, quando, ad esempio, si stabilisce che ad
un ceno inno non bisogna porre delle eccessive pretese di precisione teologica; poi·
cbé persino quel brano di prosa, all'apparenza cosl poco problematico, la 'lettura
può presentare a questo riguardo notevoli difficoltà: essa viene profondamente modi-
ficata quando è anamnesi, avente la funzione di rendere presente il mistero in seno
alla comunità riunita, davanti a cui a tale scopo vien~ ancora cantata - nella sua
forma completa! - Su questo argomento si tornerà più avanti.
LA LITURGIA COME LUOGO TEOLOGICO
157

c. L'apporto specifico della liturgia


aa. Nei rig11ardi del patrimonio della fede. Dopo qu~mto s'è fin
qui esposto, i! inevitabile la seguente conclusione: nd e:tmpo delb
testimonianza della tradizione regna un tale livellamento, che ben
poco spazio resta .ancora disponibile per espressioni superlative in
favore della liturgia. Si può accettare questa conclusione indubbia·
mente senza eccessivo rammarico. Ma nessuno sarà così stolto da
abbandonare o lasciar cadere la qualità specifica della liturgia in qu:m-
to luogo teologico. Non ci è neppure concesso un rifiuto semplici-
stico di tale qualità. Infatti, proprio su questo, esiste un'espressio-
ne che qualifica la liturgia e che non può essere cancellata alla legge-
ra, con la scusa che sa:rebbe puramente retorica o anche piuttosto
sventata: si tratta della parola di Pio xr che qualifica la liturgia
come l'organo del magistero ordinario, come la didascalia della
Chiesa!_
A tutto quello che s'è esposto nelle pagine precedenti anche una
parola del papa non può apportare modifiche, tuttavia ci può forni-
re luce per meglio chiarire il contesto. Il più importante organo del
magistero 'ordinario': vale la pena di approfondirlo.
Chiunque non sia stato accecato dall'erudizione scolastica al punto
da dimenticare le fonti profonde, non penserà certamente che que-
sta nota distintiva lo indirizzi innanzitutto ed esaurientemente sui
binari della teologia fondamentale. In teologia fondamentale si pub
ben lasciare che il 'magistero ordinario' costituisca in sé ed in astrat-
to una realtà grandiosa, e vedere nella formulazione del papa una
amplificazione oratoria di quella, ad esempio, già usata dal vescovo
s. Martino: «la Chiesa è quasi la rivelazione divina concreta»
(MANSI, .51, 314 B). Se però non ci si difende coscientemente
dall'attrazione d'una concezione unilaterale della teologia-'scienza',
difficilmente si potrà evitare la svalutazione tacita della liturgia,
come naturale conseguenza del fascino esercitato dal magistero
straordinario e dalle sue espressioni, così facilmente esprimibili,
maneggevoli e soprattutto incomparabilmente più precise.
Bisogna tuttavia pensare che proprio queste verità 'partorite' - per
esprimerci in termini biologici - (e perciò stesso anche 'limitate'), ri-
mandino con vigore a quella matrice di fondo di verità di cui la litur-
gia è l'organo! Quando essa predica con «grandiosa monotonia» l'uni-
MODI DELLA MEDfAZIONE

tà del piano della salvezza nei due Testamenti (e, a tal fine, fa parlare
con sovranità assoluta la Scrittura, con la tipologia e l'accomodazio-
ne, con l'allego resi e col senso spirituale ... ) - quando essa in tal mo-
do istruisce sulla vera storia della salvezza nella sua tensione orien-
tata tra promessa iniziale e adempimento finale - quando essa realizza
la Chiesa come Popolo di Dio e corpo del suo Capo, ~ome un regno
di re e di sacerdoti, come Comunità di santi, nessuno potrà negare
che la sua funzione nei riguardi di queste ed altre verità sia quella
d'un magistero di carattere assai speciale e prezioso.
Vediamo di approfondire la nostra conoscenza del contributo in-
sostituibile della liturgia. Partiamo dai due ultimi dogmi mariani (la
letteratura relativa al dogma dell'Assunta ci è ancora relativamente
presente e rappresenta la conclusione molto naturale di quella rela-
tiva al dogma dell'Immacolata Concezione). In correlazione con que-
ste definizioni è stata approfondita con la dovuta ampiezza una real-
tà che normalmente opera dietro le quinte (e perciò, nella maggior
parte dei casi, resta confinata dietro di esse): pensiamo al senso del-
la fede pre-ufficiale della Chiesa (discente), ossia al sensus fidelium.
La tradizione (che in qualità di realtà teologica ha portata assai
maggiore dell'operazione protocollare che tramanda una 'dottrina')
può esistere solo se è inserita nella vita, se è legata alle persone. Il
soggetto ultimo e profondo che le corrisponde deve essere chiamato
precisamente 'Chiesa'. Chiesa intesa nel senso di soggetto di fede:
non certo nel senso d'una realtà astratta sospesa al di sopra della co-
scienza individuale dei credenti - ma molto reale: come in quanto
corpo possiede lo spirito prima delle singole membra, così essa opera
dando la risposta della fede (e qui si presenta indubbiamente il caso
così altamente valutato da TOMMASO « ... e ciò che più conta, per for-
za d'un interiore impulso proveniente dall'invito di Dio!», v. S. th.
2-2, 2, 9, 3). In essa è innestata, con la luce della grazia della fede,
la 'congenialità' che la fa pervenire alla cognitio per connaturalita-
tem, al contatto pneumatico-simpatico. M. CANO, il teologo classico
della dimostrazione fondata sulla tradizione, purtroppo non ha anno-
verato la liturgia tra i loci theologici, però conosce la giustificazione
fondata su questo argomento,' 9 e attribuisce grande importanza alla

19 Responsabile del patrimonio di fede, sarebbe determinante non solo il pensiero


LA LITURGIA COME LUOGO TEOLOGICO

liturgia per la conservazione, la maturazione, la presa di coscienza


del senso della fede: la continua ripetizione delle cerimonie cultuali
testimonia la sempre maggiore con-sonanza col mistero celebrato. Dal
ripetersi del ciclo liturgico si sviluppa un'esperienza di tale profon-
dità, che non potrà mai essere vissuta adeguatamente attraverso una
formulazione concettuale. Nella stessa maniera, essa costituisce un
fecondo terreno, vergine ed inesausto, d'ogni fides quaerens intellec-
tum. Proprio questa 'soggettività' così imprecisa è l'organo ideale
d'una fede la cui virtualità rimane perennemente al di sopra di qual-
siasi formulazione tecnica per quanto profonda essa sia (cf. Pio· xn,
enciclica Humani generis: [una fede] ... inesauribile! DS 3886 ).

bb. «Dalla fede alla fede» (Rom. 1 ,17 ). Ancora una volta si è con-
fermato che il rapporto tra liturgia e teologia-'scien~a' in fondo è
solo mediato. Ma questa è una costatazione in grado di non procu-
rare preoccupazioni di sorta! Se la parola della liturgia non è diretta-
mente subordinata ad una 'dottrina', lo deve alla sua completezza:
lo deve cioè al suo essere parola attiva e potente - comunicazione
non di verità verbali, ma di realtà. 20
Qui dobbiamo fermarci: sembra che si sia detto più del dovuto.
Non dovrebbe infatti essere caratteristica peculiare, esclusiva della
Scrittura la potenza creatrice, ossia la qualità di non essere soltanto
'parola su' un dato di fatto, ma parola che questo fatto porta alla lu-
ce? 21 Ciò avviene nel kerygma, dove il messaggio si rende p:esente
riBesso o il suo contenuto non ancor del tutto sviluppato, ma anche I' 'animus con-
suetudine imb11tus'; cf. J. RANFT, Der Ursprung des katholischen Traditiomprim:ips,
Paderborn 1931, pp. 24 s..
.20 Solo akune documentazioni al riguardo. Didaché 4,r: «Dove viene annunciata la
sua gloria, là è presente il Signore». 0RIGENE, In Num. hom. 16,9, in GCS, vu, 152:
«Beviamo il sangue del Cristo anche quando 'sermones ei11s recipimus, in quibus vita
consisti/'.,,. Sostanzialmente anche AMBROGIO, In Ps. r, in CSEl, 64,29, afferma lo
stesso pensiero. AGOSTINO, Traci. in Io. 30,1, in CC, 36,289: ascoltare il Vangelo 'qua·
si praesentem Domùium', ecc;. Forse non sarà superfluo dare un accenno ulteriore di
conferma: si accede al libro dei Vangeli con un ritualismo imbevuto di elementi
teofanici; processione, incensazione, luci, il bacio .. ., •Evangelica lectio sii nobis salus
et prolectiD», «Per evangelica dieta deleantur nostra delicla», ecc.
21 Si potrebbe qui erroneamente supporre che ci si voglia riferire ad espressioni
del tutto particolari, mentre si traila proprio di un'autocomprensione centrale della
Scrittura! Tuttavia questo dubbio può essere facilmente eliminato ricorrendo a sva-
riate fonti, e qui si indica Is. 55,u; Mt. u,4 s.; Le. 7,22 s.; 1 Cor. 1,18 ss.; 2,4 s.;
2 Cor. 6,2; 2 Tim. 1,10 s.; Hebr 4,12.
160 MODI DELLA MEDIAZIONI!

e con e5SO si manifesta - attraverso il messaggero autorizzato - il do-


natore stesso del messaggio. Ed avviene in modo tale che l'annuncio
profetico, portato dallo Spirito, realizza l'evento contenuto nella pa-
rola, ed in modo tale che, scoprendo e confessando il contenuto del
messaggio, coloro che da esso furono interpellati sono posti davanti
all'opzione di salvezza e, rispondendo affermativamente, manifestano
1a loro chiamata alla Chiesa.
Bisognerebbe certo fraintendere grossolanamente parole come quel-
le di 1 Cor. r r ,26.29 ed altre, se si volesse negare al servizio divino
la qualità di luogo vero e proprio in cui si edifica la comunità. Ma
allora, dal fatto che nella celebrazione dei sacri misteri la grazia di
Dio crea i 'santi', che dalla comunione delle cose sante nasce la comu-
nione dei santi, come non si potrebbe giungere al convincimento dell.t
potente efficacia della parola liturgica? Ciò è tanto vero che senza di
essa non sarebbe 'presente' la realtà della salvezza, che è realtà sii-
cramentale. In quanto tale, cioè in quanto realtà composta di segni,
essa è terrena. Tuttavia il segno, muto in sé, come indicazione possi-
bile di qualcosa d'altro, non può portare oltre questo mondo. Sol-
tanto nella parola significante di fede avviene il superamento decisi-
vo, solo allora i veli che nascondono il simbolo diventano trasparenti,
trasformandolo in una indicazione che porta all'al di là.
Quando Leone Magno dice giustamente: «ciò che è visibile nel
Cristo, è passato nei misteri» (Senno 74, 2, in PL, 54, 398), non
intende soltanto parlare dei misteri 'della Chiesa': questa sua affer-
mazione va ben oltre questi misteri, costituendo soprattutto un'af-
fermazione sul protosacramento che è la Chiesa stessa! Per tale mo-
tivo la sua parola originaria consacratoria non è soltanto un segno
efficace, ossia parola con la quale è lecito alla Chiesa celebrare se
stessa nell'Eucaristia - anche tutte le altre parole che sono irraggia-
mento ed eco di questa autorealizzazione hanno eguale potenza evo-
catrice: e tutto ciò avviene in quell'atto e in quella prassi della Chiesa
che è la sacra liturgia! In essa questo 'segnalare verso', questo 'rivol-
gersi a' è sempre anche un fatto ed una realizzazione. «La parola si
fonda sull'elemento materiale e diventa sacramento». 22 . Lì troviamo

l2 AGOSTINO, In Eu_ Io. ITact. So, 3, in CC, 36, ,:129: cacudit verbum ad elemtn-
LA LITURGIA COME LUOGO TEOLOGlCO

l'efficacia sacramentale «non perché (la parola) viene pronunciata,


ma perché viene creduta»; 22 ossia «solo nella Chiesa di Dio la parola
di fede acquista cosi grande potenza». 22
È proprio della dignità della parola scritta nella fase costitutiva
della Chiesa, 23 quello d'invitare a sé con invito particolare la costi-
tuenda comunità - e di additare in modo impegnativo e normativo
alla comunità costituita ciò che essa deve essere e ciò che deve fare.
Così con tale insegna distintiva, la Chiesa è «segno elevato sopra le
nazioni» (Vat. I: DS 3014, NR 3:;6). La parola della liturgia, sotto
questo aspetto, rappresenta la perdurante corrispondenza con la pa-
rola scritta, durante il 'tempo della Chiesa' (inteso come distinto dal-
la sua prima fase). Essa contribuisce alla 'perseveranza' della comu-
nità costituita (che fu la grande preoccupazione del Signore nel suo
discorso di addio!) e, nella testimonianza, contribuisce pure alla sua
crescente autocomprensione. Nella forza dello Spirito effuso, che ad
essa ricorderà tutto (Io. r4,26), la Chiesa sa che la sua parola litur-
gica è munita di tutto ciò che anticamente il Jahvista e il teologo
del Codice sacerdotale possedevano, per trasmettere ai loro contem-
poranei, nella visione del passato, la conoscenza illuminatrice e ap-
pronfondita della legge, dopo l'apparizione del popolo eletto di Dio.
In questo modo la parola inesauribile non ha mai cessato, né ces-
serà mai, di determinare la sua sostanziale attualità nella vita: attra-
verso un'incessante ripetizione di 'ora' e di 'oggi', il kair6s viene
reso perennemente attuale. A titolo d'esempio, ecco come canta la
Chiesa: <(Ora è il tempo opportuno», «Oggi saprete». Ciò che avvie-
ne nel nostro servizio divino non è da meno per pienezza ed efficacia
di quanto avvenne nella sinagoga di Nazaret (Le. 4,2 r ): «Oggi que-
sta Scrittura s'è adempiuta nelle vostre orecchie».
Non è possibile che in un 'azione cultuale pervasa dallo Spirito esi-
sta una sola parola liturgica che non sia in funzione di questo 'elemen-

lum et fit sacramenlum»; « ... non quia dteitur, sed q11ia creditllr•; «Hoc verbum /idei
tantum valei in ecclesia Dei*.
Z3 La Chiesa (neotestamentaria) non è l'unica realtà posta in correlazione con la
'Scrittura:. Qui si è voluto citare la realtà del popolo di Dio, la realtà escatologica
dal punto di vista delle storia delle salvezza, al fine di poter fare un 'affermazione
valida senza limitazioni di sorta. Così quanto s'è detto vale anche nella Chiesa, in
cui - diversamente da quanto avveniva nella Sinagoga - non può più esserci cadu-
to né rifiuto.

My" tC'rium sAlutis / i.


MODI Dl!L!.A Ml!DIAZlONI!

to' di autoespressione della comunità, e che di esso non viva, in modo


che Chiesa diventa 'sacramento' - presenza del mistero!.2-4 Ciò inizia
al momento stesso in cui la comunità si raduna, già in se stessa se-
gno, ed in senso eminente 'dottrina in attuazione' È ciò che ci rive-
lano Act. 2,42-47 e le stesse parole 'scomunica', communicatìo in
sacris, e simili, che hanno la loro radice appunto nel campo cultuale.
Ciò vale anche per la predicazione rettamente intesa. Nella situazione
di crisi finale vi è sempr_e questa esig~nza inesorabile, che è pure
consolante incoraggiamento: ogni qual volta l'ultimo essere cristiano
si pone in una situazione di attualità piena e questa - sotto l'azione
della parola - diventa espressiva, il mistero sempre latente, si ma-
nifesta in un'azione efficace.
Quando la comunità riunita in incessante anamnesi (è ovvio che si
intende parlare, in base a quanto si è detto, di avvenimenti pneuma-
tici, per i quali le categorie psicologiche hanno un valore seconda-
rio!) esclama: «Oggi saprete ... », 25 in quel momento essa si riconosce,
con beata certezza, come presenza escatologica che riscatta senza che
nulla si perda tutto ciò che esisteva sin dagli inizi. Quando essa, atten-
tamente e sempre con maggior esperienza, legge le parabole del regno
di Dio, chiarisce pure in misura crescente il signifìcaro dell'attesa pros·
sima che pervadeva i primi tempi. Quando essa riunendosi, può rap-
presentarsi come la 'comunità degli eletti' da Dio, abbraccerà con rico-
noscenza la certezza che il Signore del culto si degnerà posarsi là
dove è riunita la comunità rituale. Ma l'elezione 'dall'alto' richia-
merà non meno energicamente la sua attenzione sul fatto che la
volontà di Dio di unirsi in comunità col suo popolo dovrebbe essere
espressa più ampiamente e con maggiore evidenza con ]'espressione:
«dove c'è Dio in Cristo, là c'è la Chiesa!». E, da questo punto di
vista, si può certamente nutrire una 'mentalità ecumenica' e, nei cuo-

l~ Cf. nota 22.


25 Accomodazione, tipologia, allegoria, ecc.: sono questi gli strumemi usati con
sovrana libertà dalla sposa, la Chiesa, la quale sa che «anch'essa possiede lo Spirito
di Dio~ ( 1 Cor 7 ,40) in maniera definitiva, senza più possibilità di perderlo. Per quan·
to riguarda l'espressione uHodie sc1etis~. BERNARDO, In vig. Nat. Dom. sermo 3, in
PL, i83, 94 s., ha un passo estremamente espressivo: «Cum ergo ipsa (scii. Ecclesia)
in Scripturis divinis verba vel alterai vel alternai; fortior est illa compositio quam
positio prima verborum: et fortassis tanto fortior, quantum disrat inter figuram et
verilatem, inler lucem et umbram, inter dominam et ancillam».
LA LITURGIA COME LUOGO TEOLOGICO

ri predisposti, le intenzioni ecumeniche si avvieranno necessariamen-


te verso la loro realizzazione! Ripetiamo ancora una volta che dalla
Chiesa, sacramento primordiale, si passa all'eucaristia, sacramento del-
l'amo_re: quando la Chiesa, intimamente riunita nella dinamica e nella
.finalità d'una celebrazione liturgica, deve spezzare il pane della pa-
rola e il pane del corpo del Signore per diventare essa stessa 'corpo
del Cristo', pone entrambi questi pani sotto una finalità unitaria:
«pro mundi vita: per la vita del mondo» (come già Io. 6, usando
numerose immagini, dimostra, fondendo il piano della fede con quel-
lo del sacramento) e non può non porsi, grazie a questo rito centrale,
il problema: dove si trova la Chiesa e fin dove essa si estende?!
Quando la Chiesa recita il Ps. 21, lo 'penetra' nella sua profondità
messianica, conoscendo - grazie alla sua situazione più avanzata nella
storia della salvezza - più di quanto conoscesse l'anonimo della schie-
ra dei 'poveri di Jahveh' che per primo vi infuse il suo tormento e
la sua fiducia. Quando la Chiesa rimaneggia senza preoccupazioni, il
Ps. 86: «Cose gloriose si dicono di te, Maria!» (invece di: «Città di
Dio»), in ciò si può vedere l'abbozzo d'una teologia ecclesiale e ma-
riana i cui sviluppi sono difficili da prevedere. La Chiesa orante tra-
sformò i II Notturni, così spesso rimessi in questione, in icone mani-
festanti la sua concezione dell'uomo (e non si dovrebbe, oggi, sia pure
in ritardo, sperare in una maggior comprensione da parte di diversi pu-
risti?), e corresse, sorridendo, la traduzione certamente 'falsa' del Ps.
138, r7: «Mihi autem nimis honorati sunt amici tui, Deus», con la
più profonda verità della sua vita, «edificata sulle fondamenta degli
apostoli» (Eph. 2,20).
Non è questo il luogo d'accumulare esemplificazioni. Era però ne-
cessario riportarne alcune prendendole sia al centro sia ai margini
della liturgia. Esse fanno da contorno a quanto si è detto, ed inten-
dono eliminare il sospetto, forse ancora troppo corrente, d'aver vo-
luto esaltare la liturgia con entusiasmo superficiale o addirittura con
irresponsabile retorica.
Si è così sufficientemente convalidata la seguente conclusione: la
liturgia non è in rapporto primario né diretto con la teologia, con
la sua corrispondente scientificità. Può essere possibile che essa, in
misura limitata, fornisca dieta probantia e, occasionalmente, le sue
testimonianze possono anche essere insostituibili e preziose. Questi
BIBLIOGRAFIA

meriti però possono essere messi in evidenza senza restrizioni colle-


gandoli con la seguente constatazione: la liturgia è di per sé subor-
dinata a quel rapporto integrale con Dio che è la fede! In fin dei
conti possiamo dunque ancora una volta essere riconoscenti all'an-
tica formulazione che suggerisce di dire: Legem credendi lex statuat
supplicandi. Rapporto integrale con Dio - in questo modo viene un
po' sottovalutato il contenuto delia fede ('fides quae' creditur); vie-
ne invece anteposto, nelle considerazioni relative, l'aspetto attivo-
soggettivo della fede ('fides qua' creditur). Questa 'fides qua creditur'
esprime l'incontro personale con Dio che si realizza nel punto foo-
tale in cui la comunità si riunisce per celebrare il suo culto. Qui ha
luogo il grande annuncio (I Cor. I I ,16 ), di cui l'espressione «fino
a quando egli ritornerà ... » non è soltanto un'indicazione cronologica,
ma esprime anche la forza impetuosa con cui questo ritorno penetra
efficacemente in ogni nuova celebrazione del culto. Procedono da
questa realtà liturgica, cosi profonda e pregnante, e le appartengono
quegli atti che in modo certo diverso e graduato partecipano alla
sua potenza fondamentale.
In questa (e solo in questa) realizzazione, la liturgia diventa pie-
namente fonte. In questo modo la maturazione nella conoscenza del-
la fede diventa crescente autocomprensione di se stessi: nella stessa
maniera la Chiesa, il grande mistero della fede, prende coscienza di
se stessa: ciò avviene proprio in questa realtà della fede di quelli
che celebrano, qui e ora. Quasi impercettibilmente ed irresistibil-
mente essa entra in possesso dell'unica, autentica fede.

AI.OIS STENZEI.

BIBLIOGRAFIA

F.CABROL, Liturgie, in: DThC, 1x(1926)787-845.


B. CAPELLE, L'autorité de la liturgie chez les Pères, in: RThAM, 21 ( 1954)
5-22.
l.H. DALMAIS, La liturgie et le dépot de la foi, in: A.G. MORTIMORT (a
cura), La Chiesa in preghiera. Introduz.ione alla liturgia, Roma 21967.
K. FEDERER, Liturgie und Glaube. Eine theologiegeschichtliche Unter-
suchung, Coll. «Paradosis», 4, Freiburg/Schw. 1950.
BIBLIOGl\AFIA

G. HARBSMEIER, Theologie und Liturgie, in ThR, 20 (1952) 271-293.


M. L<:iHRER,Die Feier des Mysteriums der Kirche: Kulttheologie rmd
Liturgie der Kirche, in: Handbuch der Pastoraltheologie, 1, Freiburg
1964, pp. 287-322.
J. PASCHER, Theologische Erkenntnis aus der Liturgie, in: ]. RATZINGER -
H. FRIES (a cura), Einsicht und Glaube. Festschrift G. Sohngen. Frei-
burg 1962, pp. 243-258.
P. RENAUDIN, De auctoritate sacrae Liturgiae itt rebus fidei, in: DTh, 13
(1935) 41-54.
H. ScHLIER, Die Verkundigung im Gottesdienst der Kirche, Koln 1953·
H.A.P. SCHMIDT, Introductio in liturgiam occidentalem, Romae 1960, pp.
131-139; Lex orandi, lex credendi in recentioribus documentis ponti-
ficiis, in: Periodica de re mor. can. lit., 40 ( 1951) 5-28.
G. ScHiiCKLER, Legem credendi lex statuat supplicandi. Ursprung und
Sinn des Liturgiebeweises, in: Cath, ro ( 1955) 26-41.
C. VAGAGGINI, Senso teologico della liturgia, Roma •1965, pp. 477 55.
MODI DELLA M~!AZIONE
i66

2. Kerygma e dogma

Il cap. 1v, che ha per tema generale l'attualizzazione della rivelazio-


ne da parte della Chiesa, nella sua SEZ. III si occupa delle forme di
trasmissione. Abbiamo esaminato nel primo paragrafo la liturgia.
Dobbiamo ora esaminare i diversi tipi di 'annuncio' e. in modo par-
ticolare, il rapporto tra kerygma e dogma.
L'enunciato dsi_g~atico sarà posto a confronto non soltanto con il
kerygma, cioè con l'anouric.~Q_ e la predicazione (nel senso più stret-
~ente teologico), bensì anch~ ~;;·T::_~(;~~ciato profano (anche quan-
do questo concerne cose religiose, posto ch~~~-~~nciato del genere
vi sia e vi possa essere), in modo che, accanto alle differenze, risul-
ti anche ciò che vi è dj__(QJ:nl!f1C:__ J!!.1 kC:!Y&..l'Qa. __~ogma, compreso
l'enunciato teologico.
Distinguendo l'enu~iat9__ gQg_ip.atico dall'enunciato kerygmatico in
s~~_()___gretto, si ottiene anche una sua prima sufficiente differenzia-
zione da quell.'.enunciato__dJe...si Jron..n.ella _Scrittura. J?. bene comun-
que non dimenticare che nella stessa Scrittura non trova espressione
so~_..rlyel~io~e più originale, quasi che qui scaturi~~-;-~~~even-
to. All'interno della Scrittura e~te ;~~to~n genere letterario,. quello
d'una riflessione teologica, che nQQ_~ imm~c1!ii!li!iefi~~-lc~gma, ben-
sl - cosl potremmo chiamarlo - un primo esempio di riflessione teo-
logica. La diversità di tali forme s'inquadra perfettamente nelle
concezio1;1.L cattoliche: Ac:!fi~pi_i:_~~l._~l].~--~~!!_tturistica. L'ispirazione, in-
fatti, non impedisce che, nell'ambito dell'unica parola di Dio 1 vi siano
generi Jm~rari tra l()t()_ t!~.s~ri;>,_~~J~~ri~- diversi.
Il fatto che la liturgia sia stata qui presentata quale prima form.t
di trasmissione della rivelazione può, su11e prime, lasciar perplessi.
Un simile ordine sembra implicare una previa decisione sul concetto
d0erygma', che troppo si scosta, e tra l'altro s~;-d.-;~;fagione,
dal ~~;·cett"o oggi adoperato e, quel che è più, dall'uso linguistico del
Nuovo Testamento.

a. L'uso linguistico moderno del termine 'kerygma'

La gglogia pastorale, con la sua strutturazione kerygmatica program-


matica -~oprattutto sugli anni trenta del sec. xx, e R. BuLTMANN, con
KBAYGMA E DOGMA

il suo tentativo di un' 'interpretazione esistenziale' del Nuovo Testa-


mento, hanno tratto, ciascuno a suo modo, ..dal tesoro linguistico
del Nuovo Testamento il termine 'kerygma'. Il lo;;- concetto di
'kerygma'T"_P~rÒassai diverso da quello antico. Attingendo infatti
al gruppo-d"i°termini neote~tari (XTJPVO"cmv, xT}puyµa:, xfjpu~), non
ne hanno assunto con sufficiente cura il significato corrispondente.
Dalla crescente confusione di questo uso linguistico si comprende
perché non p~hL!~2!9..Bi__c!LfJ_ìcilmente evitino l'ambiguità pressoché
impenetrabile di questa parola-chiave, con le sue nascoste implica-
zioni. Persino il Nuovo Testam~mQ__.e.JaJette!!tura cristiana dei
primi seccli. adoperano raramente il termine 'kerygma' ! Epp~~
guardar bene, questo termine, nella più recente lingua teologica, può
segnare un autentico passo in avanti. Per quanto senza dubbio plu-
ristratificato, esso dice anzitutto, nell'ambito delle odierne discipline
teologiche, lo sforzo di co~-~'!.l!.~~~~~!P-...P.!e di nuovo la propria rne-
tQ!fu}Qgia e l'approfondimento incondizionatamente ne-cessario del
'c2™uto' all'originaJ!!.à.. d~Q~un~f9_~;)'~'òlico, e di lasciare che
da esso, preso a modello, ne provenga una viva efficacia. Scopo, od
esempio, d'una 'errn~~~!!~-~--ke~~~-~~ica:_~_L di _Eorre gi~nte
l'insegnamento catechetico al servizio dell_'_:mm.mci.Q___Qelll!_ Buona No-
vella.3 Solo un accurato ritorno al senso del kerygma neotestamen-
tario può poi preservarci da restrizioni. Più ancora, esso può positi-
vamente mostrare che qui appare di fatto un che di specifico della
predi_gi_zjQI).e,~na; e ciò viene piuttosto nascosto che chiarito dai
ricorrenti, sbiaditi tentativi di traduzione, nelle varie lingue moder-
ne, di 'annuncio', 'predica', 'messaggio di salvezza', e così via. La
ragione di ciò sta soprattutto nel fatto che la stessa lingua neote-
stamentaria r~~hfude una"'non anc~~~ 'suffi'Clentemente'esplorataric-
chezza di termini, che si diversificano nettamente a seconda delle
diverse forme delI' 'annuncio' cristiano. 4

1 In questo senso cf. K. GOLDAMMER, Der Kerygma-Begri/J itz der iiltesten chrislli-
chen Literatur, in ZTNW, 48 ( 1957) 77-101.
2 Su ciò cf. TH. KAMPMANN, Das Geheimnis des Aiten Testamenls, Miinchen 1962,
pp.13ss.
3 Come esempio, J GoLDBRUNNER, Katechetische Methode im Dieml des Kerygma,
in Katechetik heute, a cura di J. HoF!NGER, Freiburg 1961, pp. 122-133.
~ Cf. su ciò la breve panoramica di G. FRIEDRICH, xlipul; ecc .. in TW.'NT, 3 ( 1938)
682-717, specialmente p. 702; H. ScHLIER, 'Wort Gol/es'. Eine ne11tes/ame111liche Be-
168 MODI DELLA MEDIAZIONE

Nel greco classico xiipv~ significa l'araldo che ha d'ufficio il potere di por-
tare una notilJi_dL<;!rat~~ pubblico e generalmente vincolante. L'araldo
annuncia la notizia non di StULiniziativa, ma in ossCMiìza all 'incilrico rice-
vuto. Perciò è ]e~i~:i~~~~;;~_JJmto la notizia in sè (ad es. in un detto sa·
pienziale), quanto piuttosto la proclamazione che avviene pubblicamente,
con_g_~~L<:.~~~!~!;__p9_li!Jço, secondo il senso ori8.!!!_~_k_ci_el_~rmine. La ver·
sione dei Settanta non fa grande uso del gruppo di termini incentrato su
'kerygma'. Il sostantivo si trova relativamente pocQ___{!l)._çpJ;.._nel Nuovo Te-
S!!!!!_<:__nto (Mt. 12,41 e par.; I Cor. 2,4; 1,21; 15,4; Rom. 16,25; Tit. 1 ,J;
2 Tim. 4,17 ), mentre il v.edN_~'j11_QJD.t.ra..p.iù di 60 volte, e designa l'attivi·
tà_dell' ~· (xi'jpv~ appare solo tre voltei 'Kerygma' nel Nuovo Te-
stamento significa anrum_gQ_ç!~_~c:u~çi_p,___pieni pote_rb._Q!tola _l!_1:!.toriz~della
_predic32ione. Il verbo significa ad esempio il legi~!2-..!m?.ello di Gio·
vann_i a ricevere il battesimo di penitenza, e il grido d'araldo del Precur-
sore i!l...ld5.~-È!. re messianico. Gesù riprende questo annuncio e proclama
la vicinanza del RegnocrtTiio. Diversamente però da ogni altro annuncio
profetico, il Figlio mandato dal Padre (d. Le. 4,18.43) propone valida e
definitiva la salvezza preannunciata per grazia: 'oggi' (Le. 4,21) si compie
la liber32ione dei prigionieri, la guarigione dei ciechi, viene bandito «l'an-
no di grazia del Signore» (cf. Is. 61,1). Gesù invia i suoi discepoli con
lo stesso incarico: provvisoriamente prima della Pasqua (Mt. 10,7 par.),
definit~mentè.Clòpo·1a··p3-Squa(lc. 24,47 ss.):-c:rt'àMarco adopera il ver·
bo xripuO'O'ELV per indicare lo scopo della missione dei disc~poli (cf. Mc. 3,
14; 6,12, ecc.). 11 verbo ha com5_Qgg~t!:.Q.~q__ki più la predicazione del
Regno .ài..Dio,__d~LY~ggel91Atl_ ChrisJ..6s e della -Tuòlar:-sr-·fOriiia però
chiaramente, già in un primissimo tempo, l'uso assoluto del verbo (cf.
Mc. 3,q; Act. 10,42 ecc.). Il kerygma paolino si stacca da quello dei pri-
mi apostoli in quanto esso non è solo 'annuncio' in base ad una rivelazio·
ne ìiiiinèdìàfiçmaàficne-giìiKery:gma in base ad una paradosis ricevuta
(1 Cor. 15,1 s.). Sul tema-a:·-iT"ScHi.JRMANN, Kerygma 1, in LTK2, 6
(1961) 122 s. (bibliografia); H. ScHLIER, Il tempo della Chiesa, Bologna
1965, pp. 342 ss.; J. R. GEISELMANN, ]esus der Ch1istus, Stuttgart 1951,
pp. 59 s.; P. LENGSFELD, Oberlieferung, Paderborn 1960; H. ScHtiRMANN,
Ibid., col. 123, richiama la nostra attenzione su una distinzione molto
essenziale già nell'interno del Nuovo Testamento: «Evidentemente in
r Tim. 3.16 si guarda al ~-~-r.r_~r._n~-~-E_~~~olic_?~.!-~akhe cosa di con·
cl~_ e perfetto; nel più tardivo xnpuO'O'EL\I della Chiesa (2 Tim. 4,2) v'è in
modo--pìU'-ffiiircato la form'l ddla OLOaxi], e sembra staccarsi da quel
factum 'fondam"entalerqu-àFframandafavy~Ci'lvo•Jua liLliacrxalta ». Soprat·
tutto, il kerygma non si lascia facilmente comprendere come un concetto

sin11ung, Wiirzburg 1958, pp. 23 s., 35 ss., (tr. it. Roma 1963); dello stesso autore v. il
contriburo: Parola nella Bibbia, in D:i:T, 2 ( 1967) ,07-533.
KERYGMA E DOGMA

univoco. La forte preponderanza dell'uso verbale non deve indurre a ve-


dere nell'annuncio soltanto l'aspetto attivo ciTavyenunente; kerygma si-
gnifica senia-dubf:ifo. incfie' ìrc-OnterÌUtO··aJ!nes~iO di salvezza (cf. I
Cor. 15,14; Rom. 16,25; Mc. 16,20, ecc.), occasionalmeJ.Ue però atto e
co_mc;_i:i_l.!~O (ad esempio r Cor. 1,21 ). Infine, all'orizzonte della rivelazione
neotestamentaria, fa la sua apparizione anche kerygma come ufficio, in·
carico dell'annuncio (2 Tim. 4,17. Cf. su ciò G. FRIEDRICH, in TWNT, 3,
714 s.). Proprio perché ciò che viene annunciato med.ifillle_. l'atto della
proclamazieoo-si i::ealiJ:aa, occorre badare pure .al. 'contenuto' di ciò che
viene annunciato. Contenuto del kerygma è la vicinanza del Regno di
Dio, e..iLrichiamo minaccioso a far penitenza. V'è qui incluso, almeno
indirettamente, anche uri enunciato cristologico. Nel kerygma apostolico,
il Cristo diviene esplicitamente il punto centrale (cf. Act. 8,5; 2 Cor. II,
4; Phil. 1,15). Ma poiché all'autorivelazione di Gesù non appartengono
solo la sua parola e la sua predicazione, bensl anche il suo agire, la sua
vita e la sua morte, è del tutto logico che il kerygma, in modo ben sta-
bilito (cf. I Cor. 15), annunci gli eventi salvllici stessi: croce e risurre-
zione di Gesù Cristo, e il suo insediamento a giudice universale (Act.
10,42).
La tendenza moderna non sarebbe nel giusto nei riguardi del keryg-
ma neotestamentario, se per s~pE_~~-~ura di ~~~s historica,
volessé banail'e·ctaUa-vifii-:~U'.~!!_sfU!:!.t.!Lgli ...~".'-~~nimenti messi in rilievo
neJ loro storico accadimento. Tutto ciò che il kerygni·a·Oìée~-nguarda quel-
l'uomo -defpoPò10cMsraele, che, (jnato da donna» (Gal. 4,4), visse in
Palestina nei primi trent'anni della nostra era: per cui in esso non s'in-
, contra SL~I!JLQesù storico. È vero che i!_!t_e.ry~~-~~~~~l~~te deve//
l
i/v~!:l!E !~EE1~· per non ..div~.r.i.!~EC....!!._P-r_(l~_l~i;n.~~~~.!.1~.!_~-~~~-ea o d'un
1 dQ.~!!!ento_ggrk.o. È anche fuori discussione che quanto i Vangeli neo-
testamentari, e più ancora le epistole, ci offrono .5!.!LGesù ~Q.tim.....LJor­
prendentemen_tç_JJna...cosa minima. Va però altrettanto ben sottolineato
che J'iilfoì-m~zione che se n~~~c.e~e. <?!t_~e.pas~.~--!!__solo fatto de.J 'suo esser
~l!~_o'. Gli inconfondibili tratti della singolarità di Gesù, che il kerygma
pur offre oltre al puro e semplice 'suo esser venuto', rimandano alla
vita terrena realm~!!_te__y}s_s~_t_!!._~-- alla__ §_~()ria _uni~_Ai questo Gesù di Na-
zaret, anche se tale ·storia concreta ci si presenta in un'estrema concen-
trazion~_ql!~!;Ì_rj<J~~hLID!IUi salienti, e chiusa in un riflesso indi-
menticabile che avvolge, maschera e quasi nasconde, almeno agli occhi
d'uno 'storico' moderno, la vita di Gesù. Tuttavia questo fatto in nessun
modQ_s~!l.!lJ.t.l! e ~innega il significato di questa st_prìa (Geschichte). Non si
tratta CO!!_l_ll:Ilque__ 4L~S.t.Qri!l~JHi~_toir~Lll..~~~ l'intende la cr!tica moderna,
e certo per diverse ragioni. Tanto poco è appariscente il modo secondo
cui il primitivo messaggio cristiano custodisce la concreta figura e i singoli
luoghi cii:Jla __v~c_e~~a-~torica del Gesù terreno, tanto cFifo.ramente c'è· in es-
MOlll DELLA MEll!AllONE

so un criterio veramente decisivo per la fede. L'aggancio al Gesù pellegri-


nante ~-!!;!.rn.J~_.§.LçMJ.lLru!LJ?.tç,gm_f!.__gel Cristo predicatolion cada
in un'identità falsamente mistica, non divenga disponibile per adat-
tazioni soggettive da parte dei credenti, per quanto 'pie' possano sembrare.
Forse la ~~elta relati~amente tardiva della forma dei Vangeli dev'essere
spieg~t@, nQ!l_~_ll _u_!_ti_~.c:i~-~~LP~~~li, che ben presto sorsero, di questi
frainten_dim_enti doy_l!!!_ all'entusiasmo. &r è m questaprospet!iV:1-Clie an-
drebbe posta in maniera corretta la questione di Luca come storico. Poiché
storicQ.....Qtl sens9 di H. U>NZELMANN, egli non lo è: come se, cioè, doves-
se raccontare la storia di Gesù per dei dubbiosi che domandano solo prove
storiche. 'Keryg_ma' e 'racconto (storicizzante)' - se cosl possiamo chia-
mari~--per-una v~ru;----=-Si""~rebber~ -~o~prendentemente introdotti, indi-
pendentemente l'.J.IDQ, dall'altro. Il racconto si sarebbe aggiunto al keryg-
ma~-!!_l~Ji_~--~llE~---~1.1 fond~me"!to storico. Sarebbe ~n-secon<Ioeleinento,
e con~~ò_yn_ qualch_c: _~o~ll-~!..P~~~-~oc.h_('.i_ll~!P~!!..d.~~~-c;: ,__c~~~t4J per sé so-
lo esige fede. Tutta la confusione sulla realtà, sulla fenomenità, sullJ
necessità e sul significato di questo elemento originariamente 'storico' nel
ker}!gma e nel termine kerygma viene ancora accresciuta, quando il tutto,
estre~~meilte. Jfffièlle-cra-meùei-ein -i~~~~-~ien~-·<lT~vo offuscato <la
cate_ggr_i~ fQ!J!ç__ '.~g~~~ne ·~_'_".'_~ler_È.i!!!?~!!~~- s_tQ,t:\!:~~-~nt e', e co~l via;
più che chiarezza esse creano discredito. Cf. H. CoNZELMANN, Die Mille
d~r ieit, Ttiblngen- 3i.96o,-alé5: 1>:·- 3; inoltre, a prima vista, più storico,
H. ScHORMANN. Evangelienschrift und kirchliche Untmvei.mng, in Mi-
scellanea Erfordiana, Erfurter theologische Studien 12, Leipzig 1962, pp.
48-73. Un tale fraintendimento è solo possibile, quando con una perrcolo-
sa restrizione si sia preventivamente ridotto il concetto di 'kervgma' aI.,
modo.. cl'ésp;lmersi"aituaTmeiiie-fri"-uso: Gli episodi della vita di Gesti nl-
lora sono ancora significativi, in fondo, solo perché costituiscono «l' 'extra
IJOS' della salvezza, quale preliminare dato di sostegno della fede».
LimitandosL~lf_a_§p~J!9 form~_.. .d~ne d'allocuzione, viene ~e!
resto trascurato anche un ulteriore problema, essenziale pei: comprendere
il kerygma neotestamentario: donde, cioè, questo messaggio tragga h1
sua ìntii;na_ ~iusti~C.~~-i-~r.i~-' auto}:i~?~Lo~~-~!_!.i.!!!_azione. Gli avvenimen-
ti salvifici nel Nuovo Testamento vengono in definitiva alla luce nella
loro proçlamata presenza, anzitutto perché essi sono come tali testimo-
.J1iati- Anche solo una-àccuraùi- aniiTisTcff-iTor: 15---mostià-gJiquanfo la
predicazione neotestamentaria e questa testimonianza apostolica formino
un_g1tt'uno .. Che poi si_ ve.~a, __n.e.l_ççmçi;:_gQ di mart{;rion un tratto essen-
ziale del kerygma, o Ìnsieme un «paritetico star l'uno accanto all'altro e
un complementare star l'uno dentro l'altro» (W TRILLll>'G), è un'ulterio-
re questione che non va qui decisa. Cf. \V/. TRILLING, ]esusiiberlieferu11g
tmd Apostolisch~ Vollmacht, in Miscellanea Erfordiana, Erfurter Theolo!!,
KERYGMA E DOGMA 171

Studien 12, Leipzig 1962. pp. 74-89, soprattutto 77 ss. Ci si dovrebbe ora
chiedere, se per noi in genere esista un accesso a Gesù ed alla sua stgria
al dLJ1J_ciri dei VangeTì~siorkfTè-ClegT! aftri testi) clie accettiamo""con la
fede. Dov-·è··prò-~orin-;!tivamente esposta e dov'è in genere racchiusa la
vita di Gesù? H. SCHLIER da anni ha posto in luce chiaramente, in base
a r Cor., n~l noto suo saggio Kerygma e Sophia, che il kerygma nella sua
essenza--::.~p.Qar~_~oE!~:P.m::Mmis apostolica normativa. Cf. Il tempOl!ella
Chiesa, Bologna 196 5, pp. 346. L'interpretazione di H. SCHLIER può an-
che presentare qua e là alcune formulazioni un po' troppo sottili; rimane
pur sempre il fatto che egli, all'interno della comprensione neotestamen-
taria del kerygma, ha ric~mato la nostra attenzione su uno stato di
cose che assolutamente non p~·-venir sopp~_qalla mod;-rna-interpre-
taziom. di..~~ termine. -·--··--· ···---
Inoltre non si può sottovalutare il tono' di sfida, presente nel concetto
dL'.~!:'".'Y..&.~a~,_J<;~ill!!la non è solo un qualsiasi messaggio di salyezza
sull'azione decisiva di-010.-Cesilv.lene-'preruèatò' .. assai ma.rcatamente
coWl!.. fGt:ia.t (2 Cor. 4,5 }, viene 'J;!IQ_<;la..roJ~!..Q'S.Qffi..':_'Fig!\Q__ci!_Qio'. Quindi,
già lo stesso messaggio esige (cf. Rom. l0,8 s.), quale risposta adeguata,
la Pi:.<lk.s_sione di fede sulla natura e l'origine di_g~~Cristo. Di qui ad
una 'dottrina' nd senso di 2 Tim. 4,2 il passo è breve. Proprio nella com-
penetrazione di 'resoconto' e 'messaggio-confessione di fede', il kerygma
raggiunge il suo carattere allocutivo ed esigitivo (cf. H. ScHURMANN, in
LTK, 4, 124): l'irruzia.tt.~. d~J ~~g!J~ALDio chiallla alla C:2!1.~~r_sione; la
potenza efficace della parola di invito risveglia la fede ed effettua la sal-
vezzà;_qµ~G9!!!P.fai1ento-aell'a. e!iolà:-crea-trlc:e. 1i1 q_u.·ani:oTlin messaggio
siffatto, il kerygm~_JEi~_che .?._~~~- chi~ll!~.-!li'!amis di Dio. Nell~_predi- I
fcazione si com~-~-~vvic:~:___ciò ch~~en pro~lamato. Noll.J.!~~?nt~~!o'
che viene predi.cato_.è..~ace Ji{["igire: Di~~~~--~!_f~_in _c;.s~ pres~te
Kerygma non è dunque una comunicazione di fatti, per via d'insegna-
mento storico su parole ed azioni di Gesù. Tutti i racconti su Gesù sono
in fondo vecchie storie accadute una volta, più o meno insignificanti per
gli uomini di ~gg·i:~~~~~--~eng~~o intese a partire dalla fede nel messia
risorto (cf. r Cor. 15,14). Di qui la parola del messaggio acquista una for-
za che .r.~_ta_va negata all'annun~ofetico veterotestamentario. Paolo
può dire che questo messaggio è «inarrestabile» ( 2 Tim. 2 ,9} nella sua
«corsa vittoriosa attraverso il mondo» (2 Thess. 3,r ). G. FRIEDRICH in-
tende perfino che la parola della salvezza acquista qui una specie di «indi-
pendenza dal predicatore» (TìVNT, 3,709).
Tuttavia il kerygma deve venir detto sempre di nuovo, affinché si verifi-
chi l~ presenza di Dio'. Da__gl!~SlQ....P.Y!IJ.9 di vista è sbagliato anche restrin-
gere ii .significito ..origino.le di kerygma ~proCiaffiaZTòile-· defVangelo
a1 non:~ristiani;;· neT~e·n.;;-c, Cioè. d'una-piima-prcaicauo.ii.e- mis-sii:inaria. A
MODI DELLA MEDIAZIONE

ragione di ciò la natura del kerygm~yj_~~_p-~i~'?.i!.L~r_temente separat.1


dalla catechesi e dalla dottrina' che ne risultano tre momenti, i quali o di-
vengono aci'd"irittùritr-:-éruversi gradi di presentazione di ciò ch'è cristiano,
o sono per lo meno cosl distinti l'uno dall'altro, che la loro interna unità
sparisce. In questo senso-.cet~aoo .di iotender.e_.'.k~ry__g~!( __~~E~attutto A.
RÉTIF, Qu'est-ce que le Kérygme?, in NRT, 71 ( 1949) 910-922; C.H.
Dono, The Apostolic Preaching and its Developcments, London 10 1963,
ed altri. Soprattutto al di fuori dei paesi di lingua tedesca _j invalso l'uso
di int!;mJ..e.re_p.e_c'..k~r_~_..solo_la_'.p!~Qi~ di con".'_ersione'__n_~~nso più
.stte_uo. Cf. D. GRASSO, Was ist der eigentliche Kern unserer missio11ari-
schen Glaubenwerkundigung?, in Katechetik Heute, a cura di ]. HoFIN-
GER, Freiburg 1961, pp. 67 s. I. HERMANN, invece, ha ora mostrato chia-
ramente che S.l!.~!~~_!estri!J.Q-11~--all_;i. .!\J;lrima esposizione fatta ai non-cristia-
ni~ .-è._ ingjµ5_tifi!;_~J~___Jçç_c;m.i:i_Q_j!__!':.j_y_9y_Q__ I_w.a_m~to, Una v o!ta l'evento
dell'annuncio era sempre di -DUO.V.a. attualizzato nel!~. Comunità dei già
<;f!É.!_f!.ti. Il kerygma 'fondamentale' (cf. H. ScH0RMANN~K 2 , 6, 123)
dispiegava 'per _c_la_~c_un uomo che crede' la sua potenza salvifica, sempre
n;ÌnterpretàZTone-·rèsfriti:Tvi," nel
secondo-1a__~!~l!!..3. ... 9ei ~ ~r~9en_!_e:·-(i senso
d'una 'predica di missione' ai 'non cristiani', fa perdere al kerygma pro-
priojl__~_i:!!!!Q__p!~j~2rtante della sua natura e il_ criterio più profondo
d'obbligatorietà: quello di fare appello, quale spiritualizzata presenza dcl
Signore risorto in mezzo alla Chiesa, sempre rinnovantesi mediante l'at-
tualizzaziollè-del.. VifrigCloCfi Dio', alla conversione ed all'obbedienza. Cf.
I. HERMANN, Kerygma und Kirche, in Neutestamentliche Aufsiitu Fests-
chrift fur]. Schmid, Regensburg 1963,pp.110-114.
Una non meno problematica deviazione del concetto di kerygma è co·
stituita dal tentn.j~~L<:.~~!~ una sfe~a a-kerigmatica per il 'Gesp sto-
J.!f2', da una parte riservando il concetto di 'Vangelo' al messaggio del
~~ù _t_~r.~o o al resoconto cosiddetto pl.ltiID__~!.~~-8-~Fi~~-_4~angeli
su di lui, e dall'altra invece considerando il kerygma essenzialmente come
ann_l!filjQ_della comunità primitiva, e cosi prevalentemente come predica
~onaria (in parte tendenze p-res;o J. }EREMIAS). La didaché, in quanto
insegnamento della comunità ecclesiale, si aggiungerebbe come elemento
J.Ù!~I.!.2_re. Così il kerygma, qu~~nnuncio della comu~~_erimitiva, non·
ché ~le predica missionaria, e la didac}Jl_~~rebbero J~ vera continua-
zione della tradlzIOneSi'l Gesù. Ma queste distinzioni, con le loro ben
eseguite delimitazioni, non ~i,&2!!Q__)'assai più complesso statq___ili. cose
cosl CO!!!f.__!>_L_p_!e_Sel!t! __11~U.Q__g_~~J,9_ Nuovo Testamento ( cf. solo il concetto
di 'Vangelo'). Il Gesù storico certo non porta in nessun modo tutte le
particolarità ~mssiva predicazione; peròle sue parole, le sue azio-
ni e la sua passione costituiscono punti di rlferimento imprescindibili per
quals!@ successivo discorso 'kerigmatico' La storia di Gesù nella sua pie-
nezza e nella sua densità, la si concepisca pure 'storicamente', è già essen-
KERYGMA E DOGMA
173

zialmente il kerygma, cosicché questo Gesù terreno della storia, pur nella
sua distanza, che non gli viene tolta neppure dalla forma kerigmatica dei
resoconti evangelici, può tuttavia divenire la misura alla quale deve sot·
tostare ogni kerygma succcessivo (d. I Cor. 15,1 ss.) Di fronte e nella
più stretta connessione di predica e presenza di questo Gesù Cristo,
la storia raccontata nei Vangeli lascia tuttavia vedere questo Gesù come
un altro, sempre sconosciuto.
Questo de~ivo fondarsi del kery8!!Ja nella storia stessa di Gesù per-
mette all'annuncio di conservare la sua ricca gamma di forme e varianti.
Dobbiamo accennare ad u.n'ultima caratteristica, essenziale o, comunque,
possibile,_nel _conc~_fio--Clrkerygma=La presenza -del.CristOSOfrò forma di
parola__non appare Soiélnella prima predicazione (ad esempio, Paolo al-
l'areopago) o nella comunità numta in assemblea (d. Act. r;), bensl, in
una maniera asw.....ekmentare, anche nel culto._:Awuncio', preghiera e
celebrazione della cena del Signore, in una inscindibile omogeneità e uni-
tà testimoniano la molteplice esperienza della presenza del Signore anche
nel culto dei primi cristiani. La presenza di Dio avviene qui in un'in-
tensità che difficilmente trova confronti. Lo stessocompimento CUituale
della cena del Signore non è senza un esplicito senso 'kerygmatico' «Poi-
ché tutte le volte che voi mangiate di questo pane e bevete di questo
calice 'annunciate' la morte del Signore :finché egli viene» (I Cor. u,26).
Anche il compimento della cena del Signore si può ricondurre al concetto
di 'annuncio' L'intera celebrazione può anche racchiudere in sé molti
elementi disparati, resta tuttavia in essa come elemento costitutivo e cen·
trale che la comunità 'proclami' la morte del Cristo, in una maniera cosl
solenne e pubblica «che egli mediante ciò, nel suo diritto e nella sua
validità, divenga per la comunità evento presente e - nel segno - ma-
nifesto». (H. ScHLIER, Il tempo della Chiesa, Bologna I 965, p. 400, so-
prattutto pp. 404 s.). Il carill~lcrnffi!!ico'.._ di questa ripresentazione
della morte (e della risurrezio..!!tl.jel Signore, diviene particolarmente
chiaro .. neTI'unTtàiiiscind-ibile di cena sacrificale e parola. Questa, nella
sua potenza costitutiva, rende presente il Signore efficace e salvifico nelb
sua morte. Cena, benedizione e frazione del pane da parte loro sono in
maniera decisiva accompagnati e come avvolti da preghiera e parola. Ol-
tre a H. ScHLIER, d. anche R. AsTING, Die Verkiindigung des Wortes im
Urchristentum, Stuttgart I 939, pp. 738 s.; R. ScHNACKENBURG, La Chie·
sa nel Nuovo Testamento, Coll. «Quaest. disp.», Brescia 1966, pp. 40
ss.; J.M. N1ELSEN, Gebet und Gottesdienst im Neuen Testament, Frei-
burg 1937; O. CuLLMANN, Urchristentum und Gottesdiensl, in AT ANT,
3 (Zilrich 41962) 28 ss.; I. HERMANN, Annuncio, in DzT, I (21967) n5-
120.

Il kerygma nel senso neotestamentario, secondo la sua natura, è la


r74 MODI DELLA MEDIAZIONE

proclamazione del messaggio di salvezza, la venuta del regno di Dio


(Mt. 4,23; Le. 9,2), l'annuncio del Christos (cf. Act. 8,5; 9,20). Co-
me tale, il messaggio notifica salvezza (Act. I 3,26 ), grazia (Act. 20,
32), riconciliazione (2 Cor. 5,19) e verità (Eph. l,IJ). E poiché esso
giunge, ma tratta della stessa parola di Dio, una tale proclamazione
d'un nuovo presente-Ch'è produtti;Ò-di salvezza è possibile soltanto
e
se 1'annunciatore parl-;-dk_fr:~_!!")C1!_!j~E.. co~~Ìitorltf-fofàT;:rAnnun-
cio' e 'missione' secondo il Nuovo Testamento formano un tutto in-
S.Cindibile (Rom. 10,15; .Mc. 3,14; Le. 4,18.43 s.). L'apostolo è invia-
to al posto del Cristo ( cf. 2 Cor. 5, r 9 ). Per il tramite dello Spirito
di Dio che opera nell'annunciatore ( r Thess. r ,5) parla il Cristo stes-
so. Il Cristo non ha parlato soltanto 'una volta', ma parla presen-
temente nel suo messaggero. L'annuncio dell' 'Evangelo' 5 non ri-
port~ .un resoèonto stori;;-~ d'u;-a:~~~~im~~t~-p-~-;cedente, ben.fil_ è
Iess~_s_~~-s-~°. avvenimento che efficacemente disch.!'l.l.~~--~!_messaggio di
~a. «L'a~fone saTvl.ìica·arQj_o.. divien.e presente nella parola
dc;ll.~annuncio. Questa~~ola pone que(nuovo inizio--che, in quanto
è creativo, fonda un nuo~~-f~·t-;:;rc,· e·;per colui che vi risponde con
la fede, mette in moto la dinamica escatologica dell'azione salvifica
divina». I. HERMANN, Annuncio, in DzT, r (21967) I r8. Se questo
annuncio è_fl)Z~~I1~ di Dio stesso, allora si realizza in esso il Regno
.9.LQio. In una manie.ra-·fo·éompa:rabìTè"'(!'"corìèfciisaù,
"l'agire dello
stesso Gesù mostra questa potenza del messaggio nel miracolo e nei
segni. Alla luce del mattino della Pasqua, quella proclamazione dello

; Su questo cf. F. MusSNEM, 'Eva11geli11m' tmd 'Mille des: Evan.~eliwns:', tr. in BCR,
5 t. pp. 475-509 (ricca bibliografia). Inoltre: ] .M. DE ]ONG, Kerygma. Een onderzoek
11aar de voroo11der5tellingen van de Theologie i·a11 Rudolf Bultma1111, in Van Gorcum's:
1heologische Biblìotheek 31, Assen 19,s (riassunto tedesco alle pp. J.1.9·353); F.\'.:'
GROSHEIDE, The Pauline Epistles as Kerygma, in Studia Paulma i11 honorem Johan·
11is de Zwaan uptuagenarii, Harlem 19n. pp. 139-145; K. GoLDAM:-.IER. Der Kerygma·
Begriff in der iiltesten chrisllichen Literalur Zur Frage neurer lheolog;scher Begri/f·
5bildungen, in ZNTW, 48 ( 1957) 77-rn1; C.F. EVANS, The Kerygma. in JTS, NS, 7
(1956) 25-41; W. BAIRD. What is the Kerygma? A Study o/ 1 Cor. 15,3·8 and Gal.
1,17, in JRL. 76(1957) 181-191; E.L ALLEI", The Los/ Kerygma, in NTS, 3 (1956-57)
349·H3: K. Sn~mAHL, Kerygma und lurygmatisch. Von zweideu/u11gen Ausdrucken
der Predigt der Urkirche · u11d unserer, in TLZ, 77 (1952) 715-720; H.G. Wooo, Dida
che, Kerygma and Evangelion. in {liew Teslamenls Erray5. Studies in memory o/ Thn.
mas 1Va//er Ma,,son. 1893-1958, Manchester 1959, pp. 306-314; U. WtLCKF.NS, Kery?_
ma und Evange/111m bei Lukas (Beobachlungen ;iu Apg. 10,34-43), in ZNTW, 49
(19,8) 223-237; C. LucK. Kerygma. Tradìtio11 und Geschìchle beì Luka:r, in ZTK, 37
(1960)5I SS.
KEllYGMA E DOGMA
175

stupefacente messaggio, raggiunge il suo culmine in relazione ad


una possibile partecipazione ad una nuova vita. Ciò avviene nel-
!'istituzione dei sacramenti, che dinamicamente proseguono l'efficace
'annuncio' nel 'tempo della Chiesa'.
Il termine 'kerygma' corrisponde anzitutto al fondamentale richia-
mo di Gesù stesso alla ~?Ever~_isi~ ~~4 _una _"'._ita di fede. Do.,EO aver
dato pro~visoname~te già prima della Pasqua incarico agli apostoli
ed anche ad altri di predicare (soprattutto Luca vi dà peso: 9,60.62;
10,9.II), dopo la sua risurrezione Gesù manda in tutto il mondo
anzitutto i dodici. La decisiva e fondamentale 'proclamazione' è fatta
nella predicazione e nella vita di Gesù. Già Paolo riceve Ìl kerygma
per mezzo di paradosis, ~!.-S!lanto essa divenga pietra miliare d'una
predicazione-;-èhe è ;~tta dall'immediata rivelazione e missione del
Kyrios. La necessità di tale riferimento alla testimonianza dei primi
apostoli mostra come sia fondamentale per il cristianesimo il keryg-
ma proclamato direttamente da Gesù stesso in parola ed azione, con
la croce e con la risurrezione.

Questo prova altresì come deve riuscire fatale una limitazione del con-
cetto di kerygma al puro carattere di 'allocuzione'. L'uso moderno e ormai
convenzionale del concetto di 'kerygma' è assai equivoco e problematico.
Indubbiamente esso torna a far capire elementi originari del messaggio
neotestamentario; ma, accanto a questo elemento positivo, esso mette pu-
re tra parentesi, o tralascia, non pochi elementi che integrano il concetto
neotestamentario di 'kerygma' (ad esempio: missione, potere, paradosis,
il significato degli avvenimenti portatori di salvezza, l'interpretazione di
questi avvenimenti in chiave di storia della salvezza, alla luce della pro-
messa veterotestamentaria), oppure li minimizza (restringendo tutto a!
carattere puramente attuale d'accadimento, accantonando la struttura di
professione di fede del kerygma, limitandosi alle parole di Gesù, ]e quali
poi vengono interpretate in modo proprio, e cosi via). Questa riduzione
si può avvertire solo tenendo presente la situazione concreta della scienza
neotestamentaria. La Formgeschichte aveva scoperto che i racconti del
Vangelo sono sempre già concepiti teologicamente, e scritti in vista del-
l'annuncio di Gesti Cristo quale Signore. Questa scoperta portava talmente
in primo piano il kerygma apostolico sul Cristo (in opposizione al Gesù sto·
rìco), che l'immagine del Cristo sembrava ormai essere solo la figura del•
Cristo predicato (sul tema, cf. già M. KAHLER, Der sogenannte historische
]ems und der geschichtliche, biblische Christus, ( 1892), a cura di ERNST
Wo1.r (Mi.ìnchen 1953. 21956). R. BuLTMANN ha fatto di questa necessità
r;-6 MODI DELLA MEDIAZIONE

virtù, affermando che sul puro fatto della storia di Gesù non si deve con·
eludere assolutamente niente. L'avvenimento storico può essere presente
solo come avvenimento predicato, e quindi e~c.1tologico, e in esso sono
presenti il Cristo e la sua promessa. «La parola dell'annuncio cristiano e
la storia che esso trasmette coincidono, sono una cosa sola. La storia del
Cristo ... si compie nella parola predicata» ( cf. R. Bu1 TMANN, Glauben und
Verstehen I, Tiibingen 21954, p. 292). Contemporaneamente - ed è que-
sto un ulteriore motivo per cui il kerygma viene riconosciuto come sem-
plice 'allocuzione' - il notevole accoglimento di categorie esistenzialisti-
che (e dell'apriori, che ad esse si ricollega, della filosofia moderna, non
esclusi latenti elementi 'idealistici'), pone molto chiaramente l'accento,
quando si determina la natura del 'kerygma', sul suo carattere d'interpel-
lanza. Se la fede è la decisione personale esistenziale dell'uomo davanti a
Dio, l'interpretazione oggettiva dei testi neotestamentari deve portare alla
luce il kerygma, in essi variamente contenuto, in maniera tale che espres-
sioni diventate incomprensibili, 'mitologiche' esistenzialmente non più ese-
guibili, non diano più falso scandalo. Occorre invece che esse possano
venire intese come una possibilità d'autocomprensione per l'uomo. Deb-
bono divenire per l'uditore un appello alla decisione e, con ciò, per la
'parola di Dio' Tutti i passi del Nuovo Testamento che non si lasciano
comprendere in questo senso kerygmatico mediante l'interpretazione esi-
stenziale, non possono essere appunto parola di Dio che interpella l'uo-
mo. In questo senso, il modo in cui R. BuLTMANN intende il termine
'kerygma', in ultima analisi, è tutto un programma teologico. Esso man-
tiene (almeno finora) la sua fondamentale validità anche nelle più recen-
ti questioni, riaccesesi sul 'Gesù storico' (H. CONZELMANN, E. FucHs, G.
BORNKAMM, G. EBELING).
Se in queste determinazioni e ricerche si trovano molti elementi sin-
goli estremamente positivi, va tuttavia detto che essi non abbracciano la
complessità difficilmente circoscrivibile del concetto neotestamentario di
'kerygma'. 'Kerygma' non viene usato nel Nuovo Testamento in questo
senso ristretto. Va detto però espressamente che la ''teologia kerigmatica',
così delineata, pensa d'essere l'unico adempimento oggi realmente signi-
ficativo delle intenzioni di M. Lutero su un terreno storicamente mutato.
La critica perciò - al di là del campo filosofico ed esegetico-teologico-bi-
blico - dovrebbe raggiungere anche questa dimensione di controversia
teologica. Per una ulteriore introduzione, cf. H. OTT, Kerygma, in RGGl,
3 (1959) 1251-1254.

Il caso di R. BuLTMANN mostra che dal modo di intendere il termine


neotestamentario di 'kerygma' può dipendere l'intera sistematica del
lavoro teologico e, in genere, la natura della teologia.
KERYGMA E DOGMA
177

Tanto più essenziale diventa allora, nell'uso di tali termm1 fon-


damentali per il lavoro teologico, riferirsi costantemente ed in modo
preciso al tempo apostolico, appunto per restare aderenti alla realtà
secondo tutta la sua estensione, o per tornare ad essa in modo più
originario. Solo ad un primo e superficiale sguardo può sembrare che
il vivo messaggio di salvezza, come è custodito nel depositum apo-
stolico (cf. 2. Tim. 1,12s.) specialmente nella sua versione scritta,
debba perdere o abbia perso il suo significato di immediato risve-
glio e, in questo senso, genuinamente 'kerygmatico', a favore d'un
addomesticamento ecclesiastico (si comprenda per lo più del 'pri-
mitivo cattolicesimo'). Già Paolo con tutta chiarezza, mostra che
non dev'essere cosl. Egli parla della sana dottrina e nello stesso
tempo dà direttive a Timoteo, perché la tradizione ben custodita
degli apostoli venga efficacemente resa presente nella stessa concreta
predicazione (d. ad esempio, 2 Tim. 4,2 ss). Ma non c'è nemmeno
bisogno di richiamarci qui a Paolo. L'attualizzazione del kerygma si
può fissare ancor prima di lui. Proprio la storia delle forme (Formge-
schichte ), recentemente arricchita dalle ricerche sulla storia della re-
dazione e della tradizione dei Vangeli 6 mostra infatti chiaramente
che gli evangelisti sin dall'inizio accentuano il messaggio di Gesù
Cristo in maniera diversa, anche teologicamente (non solo quindi
nell'esterna assunzione e strutturazione del materiale tramandato).
Essi occupano un diverso posto storico all'interno della primissima
storia della Chiesa (cf., ad esempio, Luca). Se così oggi si parla di
«opera teologica»; di Marco - finora egli passava quasi soltanto co-
me un insignificante raccoglitore e ripetitore -, ciò significa altresì
che il kerygma viene inteso da ogni singolo evangelista a modo suo,
senza che con ciò si debba negare un'unità - che resta come sempre
da determinare. 8
In questo verificarsi dell'annuncio, il Kyrios è presente attraverso

6 V. i lavori, naturalmente discutibili nei dettagli, di W. MARXSEN, ].M. RoBINSON e


E. SCHWEIZER su Marco; di K. STENDAHL, G. BoRNKAMM (con discepoli BARTH e Huo),
W. TRILLING, G. STit.ECKER e R. HuMMEL su Matteo; di PH. V1ELHAUER, E. LoHSE,
U. LucK, H. CoNZELMANN, E. HAENCHEN e U. WILCKENS su Luca.
1 Cl. E. ScHWEIZER, Die Theologiscbe Leistung des Mar!eus, in EvTh, 24 (1964)
337·355.
i a. su ciò lo studio di F. MuSSNER già citato alla nota 5, e soprattutto le SUC·
cessive trattazioni (v. più avanti alle lettere: d., dd.).

12 Mysterium salutis / 2.
MODI DELJ.A ME.DIAZ!O

lo Spiritq nella stessa misura in cui egli resta presente nella sua
Chiesa. «Perciò, ragion d'essere e qualifica della predicazione alla
comunità del tempo postapostolico sono identiche a quelle del tem-
po degli apostoli. Va dunque ritenuto per certo che il kerygma, qua-
le evento prodotto dallo Spirito (cf. I Tim. 4,14; 2 Tim. 1,14), sorge
nella Chiesa ed è allo stesso tempo indirizzato alla Chiesa ( 2 Tim. 2,
2), non solo ai pagani ... La Chiesa non porta solo il kerygma apo-
stolico alll'averso i tempi per darlo 'agli altri', ai non-credenti, css.i
lo rende attuale anche, anzi soprattutto, nel proprio ambito, on<le
il rinnovamento in comprensione ed obbedienza, per virtù dello Spi-
rito santo, sia reso possibile anche e anzitutto in essa». 9
La predicazione apostolica, quella che gli stessi apostoli fanno
alla comunità, non si esaurisce dunque nella 'ripetizione' d'un keryg-
ma fisso, rigidamente prestabilito, da usarsi soltanto nell'insegnamen-
to dottrinale e nell'ammonizione pastorale. Il kerygma, che in quan-
to apostolico certo rappresenta un qualche cosa di perfetto e di
concluso e, in quanto 'fondamentale', costituisce il centro normativo
di ogni ulteriore kerygma, è un fotto ed un evento che continua ad
essere efficace ed a rendersi attuale. 10 H. ScHURMANN fa notare che
«anche l'annuncio postapostolico della Chiesa può far proprio il ter-
mine 'kerygma'» 11 (2 Tim. 4,2). La parola per così dire semplice-
mente scritta, in quanto puramente esistente, di per sé sola non co-
munica ancora la rivelazione, poiché appunto la sola Scrittura, nel
senso ora accennato, non è ancora la piena misura della rivelazione,
quantunque ne dia notizia. Ora, nella vera e propria storia della
Chiesa, questo kerygma, che corrisponde alla fondamentale procla-
mazione del regno di Dio avvenuta in Gesù stesso e che sempre da
essa resta normato, può rendere attuale questo primordiale annun-
cio, inserendolo concretamente, di volta in volta, nel mondo con-
temporaneo. La rivelazione si fa presente dunque solo attraverso
l'annuncio. Per il fatto che la 'tradizione' compie l'esposizione di
quell'evento che è il Cristo, nella spirituale pienezza di poteri che le
viene da colui che è il Signore, e in quanto la compie come un set-

9 I. lIERMAN~·, Kerygma uf1ll Kirche, p. 1 q.


'° Cf. H. Sc11iiRMANN,Kerygma, in LTKZ, 6. 12~.
l\ lbid.
KERYGMA E. DOGMA 179

vizio alla Scrittura e in continuo contatto con essa, possiamo dire


che l'elemento 'tradizione' esiste già nel kerygma, se rettamente in-
teso. Cosicché solo nell'inseparabile azione di entrambi si manifesta,
cioè si può annunciare la realtà di ciò che nella Scrittura è soltanto
scritto. Nel kerygma 'fondamentale' è la testimonianza oculare che
rappresenta l'elemento della 'tradizione', elemento già esistente in
esso come kerygma. Altra forma della paradosis è la testimonianza-
professione (ad esempio Paolo in I Cor. 15 ). A questo punto però
sorge la questione sull'origine e sulla legittimità di questo annuncia-
re e credere. Naturalmente non si può qui mostrare che una simile
predicazione, realmente autorizzata, è possibile solo in bocca alla
Chiesa. Kerygma e Chiesa vanno insieme per tanti aspetti. È proprio
il dilemma in cui si dibatte la recente teologia kerigmatica protestan-
te: da una parte essa vuole che non ci si interroghi più sull'origine
e sulla legittimtià del kerygma (è questa una sua caratteristica essen-
ziale che non possiamo qui approfondire), dall'altra però non vuole
né può opporsi più oltre alla 'richiesta' e all' 'invito' alla fede (o
almeno alla richiesta di disponibilità alla fede) che sono contenuti
nello stesso kerygma. Resta problematico, se ci si possa accontentare
d'una ricerca per così dire privata, sulla 'contemporaneità' con il
Gesù storico o con un kerygma sul Cristo, comunque ben astratto,
non solo rifiutando ogni accompagnamento ed ogni 'tradizione' nel-
l'atto di fede, ma anche saltando, coscientemente negando o negati-
vamente distruggendo la storia del cristianesimo ed ogni storica di-
stanza. Il problema della 'trasmissione' non viene risolto, ed a stento
può essere ancora posto in maniera sufficiente. Questa problematica,
tutt'ora aperta, si farebbe ancor più acutamente sentire, se la seguis-
simo nel campo di quella predicazione kerygmatica, che noi chiamia-
mo 'sacramenti' (vedi supra): poteri e trasmissione aprono la que-
stione sull'ufficio nella Chiesa.
Risulta così chiarito perché il termine kerygma può giustamente
venir usato anche per significare atto e contenuto dell'annuncio ec-
clesiale in genere, mentre non si può erigere a norma una sua qual-
siasi descrizione minimalista, tratta da una definizione relativamente
casuale. Nei recenti tentativi di teologia pastorale, orientata in senso
kerigmatico, 'kerygma' venne e viene usato con un significato più
ampio, comprendente, almeno parzialmente, tutta la realtà dell'an-
180 MODI DELLA MEDIAZIONE

nuncio cristiano. Va però subito mossa una critica. Il carattere pura·


mente materiale viene posto talmente in primo piano, che tutto sem-
bra ridursi a 'contenuto' di 'doctrina'. 12 E possibile così che si perda
precisamente la caratteristica essenziale. Infatti la caratteristica di
esposizione che rende attuale, di proclamazione che inaugura, di al-
locutio (specialmente nel suo significato ecclesiologico) viene presen-
tata in maniera molto sommaria e con cenni inadeguati.
Ora, il kerygma, che trasmette nel campo della Chiesa storica la
rivelazione nell'ampiezza universale del suo significato, ha la sua pro-
pria storia. Questa non si identifica semplicemente con la storia del
dogma, della spiritualità, e cosi via, J.A. }UNGMANN 11 e F.X. AR-
NOLD,14 unitamente ai loro discepoli, ci hanno già mostrato tale sen-
tiero dell'annuncio ecclesiale. Per citare solo un paio di esempi, ri-
cordiamo le trasformazioni della 'predica di Pasqua', 15 del posto del
Cristo nella preghiera e nella catechesi, 16 del concetto di Chiesa o di
comunione dei santi,1 7 della predicazione escatologica/ 8 e così via.
Ma proprio qui resta molto lavoro da fare per «illuminare il cam-
mino storico della predicazione, per riconoscere e correggere le de-
formazioni, per risuscitare felici soluzioni dei primi tempi e renderle
fruttuose per il presente». 19
Kerygma dunque nel suo senso pieno è l'annuncio attuale e stori-
camente determinato della parola di Dio, fatto nella Chiesa dal pre-
dicatore che ne è autorizzato da Dio, e che ne dà testimonianza.

•l Cf. ad es. ).A. JUNGMANN, 1<.atechetik, Freiburg r953, Anhang Il: Das Kerygma
in der Geschichte der kirchlichen Seelsorge, pp. 290-299; F.X. ARNOLD, Kerygma und
Theologie, in Katechetzsches Worterbuch, Freiburg 1961, pp. 392-_w6. In entrambi i
lavori viene assunta l'opinione, inaccettabile, che il kerygma sarebbe anzitutto la pre·
senta.zione per non-cristiani.
tl Cf. il breve esame sul Kerygma in der Geschichte der kirchlichen Seelsorge, in
Katechetik, Freiburg 1961, pp. 290 ss.
1• Cf. il quadro sul rapporto tra teologia e kerygma nella nota 12 dell'articolo cita·
to di F.X. ARNOLD. Cf. U11tersuchungen z.ur Theologie der Seelsorge, voi. r, 11, x, Frei-
burg 1948 ss., ecc.
15 BRUNO DREHER, Die Osterpredigt von der Reformation bis iur Gegenwart, Frei-
burg 1951.
1• ].A. ]UNGMANN, Die Stellung Chrirti in liturgischen Gebet, Miinster 1925; le.,
Die Abwehr des germaniscben Arianismus und der Vmbruch der re/igiosen Kultur im
/ruhen Mittelal/er, in ZKT, 69 ( 1947} 36-99.
17 Cf. J.A. JuNGMANN, Katbechelik, Freiburg 1961, pp. 91, 287.
1s GEORG MosER, Die Botscbaft von der Vollendung, Diisseldorf 1963.
19 F.X. ARNOLD, Kerygma und Theologfr, p. 396.
KEllYGMA E DOGMA 181

Questa parola detta dal predicatore nella forza dello Spirito, in fede
speranza e amore, rende presente l'oggetto stesso dell'annuncio (in
cui Dio stesso si offre all'uomo), quale messaggio evangelico di sal-
vezza e quale potere vincolante e giudicante. Di volta in volta, a
suo modo, essa rende presente 'adesso' la storia della salvezza in
Gesù Cristo. Cosl divenuta evento per lo stesso fatto di essere detta
e ascoltata, questa parola può venire ricevuta dall'ascoltatore con
fede e amore.
Con questa descrizione riassuntiva dell'essenza del kerygma 20 si
conclude la parte piuttosto teologico-biblica del nostro studio. Pas-
siamo ora a delineare meglio, con una riflessione più sistematica, la
sua struttura interna.

b. Senso oggettivo e forme d'attuazione del 'kerygma'

Dopo questa discussione teologico-biblica e storico-concettuale, dob-


biamo riprendere la questione del motivo per cui la parola liturgica
occupi un posto di priorità in una trattazione delle forme in cui vie-
ne trasmessa la rivelazione. La risposta è ora più facile: tale priorità
è giustificata dal fatto che è nella liturgia, come suo momento essen-
ziale di parola di Dio proclamata, che la parola di Dio si trova in
tutta la pienezza della sua essenza. Poiché la liturgia, in primo luogo
nella celebrazione della cena del Signore e nei sacramenti, è sorretta
dalla parola efficace ex opere operato: essa vien proclamata come
'parola di Dio' e in sé racchiude la realtà che esprime, la rende vera-
mente presente, e l'inserisce nella vita della c0munità e nelle deci·
sive situazioni dei singoli.
Questa reale efficacia di dichiarazione e di assenso proviene so-
lamente dalla trascendenza di Dio, ma è contemporanemente anche
un assenso all'evento storico-salvifico: è l'anamnesis. Così essa è la
tradizione dell'evento storico di salvezza, che nel kerygma viene
espresso e contemporaneamente reso presente. Con ciò è anche det-
to che generali ed astratte verità entitative vengono espresse nel
kerygma, in quanto - e solo in quanto - esse necessariamente ap-
partengono alla costituzione dell'avvenimento di salvezza, o inevi-

zo Cf. K. RAHNER, Kerygma (sy>temalfrch), in LTK2, 6 (1961) 125 s.


MODI DELLA M1::1'1AZIO:<E

tabilrnente sono connesse con la sua espressione. Questo avveni-


mento di salvezza, proclamato nel kerygma, è sempre lo stesso avve-
nimento ancora in fieri. Il solo kerygma, quindi, per via di questa
proclamazione, costituisce anche una 'venuta del Signore' ed insieme
la promessa che quanto viene in esso enunciato e fatto presente sarà
un giorno definitivamente rivelato. Ogni kerygma (anche se natural-
mente in misura diversa nei suoi elementi), come i sacramenti, ha
essenzialmente un carattere 'prognostico' L'attualizzazione dell'even-
to salvifico nel kerygma avviene quindi sempre con una confluenza
di passato e futuro. Insieme essi formano nel kerygma il suo presen-
te. E questo presente è sempre unitamente anamnesi e profezia, e
appunto perciò è precisamente kerygma. Il fatto che il kerygma ren-
da presente l'avvenimento di salvezza (a differenza d'una semplice
comunicazione d'una verità passata o d'una verità generale sempre
e dovunque accessibile), esige che il kerigmatico, cioè colui che può
dire questa parola, sia a ciò autorizzato. Egli deve provenire stori-
camente dal Cristo, quale autentico avvenimento di salvezza che da
sé si dà testimonianza, e averne l'autorità. Proprio in forza di questa
autorizzazione egli deve poter agire e parlare in nome della comu-
nità di salvezza. Il suo kerygma deve essere sorretto in lui dalla real-
tà stessa della salvezza, sia che egli in quanto giustificato la possieda
come santità sua propria, sia che egli almeno parli in comunione con
la Chiesa (la quale anche in senso soggettivo è sempre la Chiesa
santa) e dia testimonianza al suo kerygma.
Mediante questi dementi, la parola che viene detta nelle princi-
pali azioni liturgiche è semplicemente la parola di Dio, nella sua
pienezza, nella sua forza efficace, e rappresenta perciò nel suo senso
più pieno ciò che intendiamo per 'kerygma'
A quanto sopra accennato, per maggior completezza, dobbiamo
aggiungere che l'autocomunicazionc del Dio trino mediante la grazia
si verifica ed è efficace fondamentalmente anche nell'uditore di que-
sta parola (sia essa soltanto detta, o sia anche ricevuta). Cosicché
l'ascolto del kerygma viene reso possibile dalla stessa realtà che nel
kerygma viene proclamata come presente cd efficace. Solo così il
kerygma della Chiesa raggiunge la sua piena presenza e realtà, divie-
ne realmente evento di salvezza, divenendo, quale parola adempiuu
dalla realtà annunciata, la salvezza dell'uditore.
KERYGMA E DOGMA

Dobbiamo inoltre porre l'attenzione su di un aspetto, che, a diffe-


renza di epoche precedenti, oggi si manifesta assai più chiaramente:
l'ascolto di fede avviene nella Chiesa. Entra qui in primo piano, an-
cora una volta, un fattore che è condizionato dall'elemento eccle-
siologico pr9prio alla costituzione del kerygma. A differenza di pre-
cedenti epoche della storia della salvezza, si tratta per prima cosa
di tutta la comunità di salvezza. Questa fonda anche la celebra-
zione della comunità singola, e in essa appare. Ora, poiché per il
carattere escatologico dell'economia di salvezza neotestamentaria
l'ascolto di fede è sempre dato in questa Chiesa, e in quanto dato
si testimonia storicaf!lente e socialmente, il kerygma non solo ha il
carattere della parola di Dio agli uomini, ma necessariamente ha an-
che il carattere di testimonianza di fede, quindi di parola dell'uomo
a Dio. Questa testimonianza non può esser vista solo nel senso di
una confessione ecclesialmente vincolante, bensì anzitutto come inno
di lode a Dio stesso. Nella forma dell'adorazione si celebra e si te-
stimonia la salvezza quale evento della libera grazia e fedeltà di
Dio. Il kerygma necessariamente ha carattere dossologico, è parnla
da Dio ed a Dio. 21
Con il fatto che la parola kerigmatica della liturgia raggiunge la
sua più perfetta espressione nella celebrazione della cena del Signore,
e si attua quindi nella mediazione della comunità, in essa e per essa
(il che a sua volta si fonda sul carattere di alleanza della salvezza del
Cristo nella sua Chiesa, la quale nell'eucaristia viene proclamata co-
me nuova ed eterna alleanza) è anche dato l'elemento della 'pubbli-
cità' nell'essenza del kerygma. Già da ciò appare chiaro che la gene-
rale obbligatorietà del kerygma della Chiesa e del suo dogma, che
dal kerygma deriva, non si fonda semplicemente e solamente sulla
verità obiettiva dell'enunciato a modo d'una proposizione metafisica,
bensì fin da principio ha un'universalità dinamica che lavora all'edifi-
cazione della comunità di salvezza. Non si tratta proprio d'una verità
manifesta fin da principio, bensì della verità del Dio che con amore
personale si rende accessibile, uscendo dalla sua assoluta irreperibi-
lità. Dunque, d'una verità che è là per tutti, solo perché Dio nel suo

11 Su ciò d. anche E. SCHLINK, Die Struklur der dogmaliscbe11 Aussagc als ijkumc·
11isches Problem, in KuD, 3 (1957) 251-306, specialmente 253 ss.
MODI DELLA MEDIAZIONE

libero amore vuole aprirsi a tutti. Ora, però, questa personale auto-
apertura di Dio, che fa nostra la sua verità esistente in sé solo per
lui, non si verifica soltanto nella privata interiorità del singolo, in
quella dimensione in cui ciascuno è unico e insostituibile. Al con-
trario, essa ha anche una manifestazione storica, si realizza in vera e
propria storia di salvezza, ed ha perciò un reale carattere di 'pubbli-
cità'. Per cui il kerygma ha fondamentalmente e fin da principio un
carattere sociale; è l'enunciato della verità della comunità in quanto
tale. Esso ha per mèta, naturalmente, in quanto evento di salvezza,
quel centro più intimo dell'uomo, in cui egli nella sua insostituibile
libertà, si apre, in forza della grazia, al Dio della grazia. Ma il carat-
tere di sociale 'pubblicità' del kerygma porta con sé appunto anche
la possibilità di manifestarsi in una forma equivoca e deformata. In-
comprensioni, interpretazioni sbagliate e superstizioni hanno qui la
radice della loro possibilità e potenza. La fede appare come oscuran-
tismo, il prodigio della fede come un 'miracolo' messo in mostra,
e così via. La fede in quanto fede sta in questa doppia luce, finché
essa vien considerata nel suo aspetto pubblico-sociale. Un'analisi della
predicazione di Gesù nel racconto dei sinottici ed anche del Vange-
lo di Giovanni, mostra solo più marcatamente questo fatto; Ù keryg-
ma, per dirla una volta in modo assai semplice, implica la possibilità
di venir rettamente predicato e tuttavia di essere falsamente o mala-
mente creduto.
La generale differenza e tensione tra 'pubblicità' e genuina e per-
sonale decisione del cuore da parte del singolo (senza con 'ciò voler
cedere ad una falsa interiorità), si fa sentire anche nel kerygma. La
teologia sacramentaria distingue tra sacramento 'valido' e sacramento
'fruttuoso'. La salvezza realizzata del singolo, difatti, non è imme-
diatamente percepibile nella sfera della storia e socialità della Chie-
sa; questa non anticipa il giudizio di Dio. Corrispondentemente,
anche quanto al kerygma debbono essere distinti il kerygma valido ed
il kerygma che, nel caso singolo, si fa davvero efficace. Ma anche
restando solo valido, il kerygma per sua natura è l'appello ad una
decisione, che porta salvezza o rovina. L'annuncio del lieto messag·.
gio, ricco di dinamica interna, possiede un grado di efficacia, che non
viene del tutto annientato neppure dalla più strenua resisten,za del-
l'ascoltatore. Esso dischiude una realtà. La descrizione neotestamen·
KERYGMA E DOGMA

taria dell' 'annuncio', di cui s'è trattato sopra, anche secondo esegeti
protestanti mostra una certa quale sua 'indipendenza', che gli viene
proprio dalla forza della sua presenza. Ma proprio perché è in tal
modo valido, il kerygma non vuole soltanto esser valido; per sua
natura esso vuole provocare la reale decisione dell'uomo verso la sal-
vezza che affluisce nell'annuncio, e così vuole divenir fruttuoso. Sem-
pre e dovunque perciò, anche nelle sue manifestazioni deformi (can-
zonatura, battuta di spirito, disprezzo ma anche falso trionfalismo,
culto magico, e così via) al kerygma appartiene il carattere di appello
alla decisione. Ora però, in quanto parola di carattere sociale e pub-
blico, che si rivolge a molti e che in definitiva è sempre portata
dall'intera comunità di salvezza, la parola di Dio pilò assumere di-
verse forme; può cioè essere variabile corrispondentemente ai singoli
elementi che costituiscono la natura del kerygma.
Come già è stato detto, il kerygma trova la sua più piena espre~­
sione nella celebrazione della cena. Qui, infatti, tutti i suoi elementi
sono presenti nella forma più originale e più alta. È e~idente che
questo kerygma eucaristico non può essere ridotto a ciò che in teo-
logia sacramentaria viene detto parola-forma del sacramento, a ciò
che è assolutamente necessario per rendere presenti il corpo ed il
sangue del Signore. L'eucaristia è la celebrazione della comunità: il
sacramento deve essere compiuto non solo validamente, ma deve
essere anche ricevuto con la fede che giustifica. Tutti questi elementi
della parola propri a questa celebrazione, che a seconda delle circo-
stanze sono necessari per garantire che la celebrazione della cena
abbia uno svolgimento di fede, partecipano in modo essenziale al
kerygma: e così questo non solo si attua in occasione dell'eucaristia,
ma è questa celebrazione. Come poi avvenga in particolare, dipende
dal tempo e dalle circostanze. Può essere lettura sacra, preghiera della
comunità, omelia, parenesi, e così via. Tutte queste forme sono pos-
sibili come figure dello stesso kerygma, che si attua in questa cele-
brazione. Queste forme e .figure, nonostanw la loro essenziale ap-
partenenza ad una concreta celebrazione di fede della cena, vanno
distinte dalla parola sacramentale (nel senso tecnico oggi usuale in
teologia); ciò è giustificato dal fatto della loro variabilità, ch'è mag-
giore rispetto alla forma del sacramento. Esse allora, pur con tutte le
MODI D.ELLA MEDIAZIONE

differenze esistenti tra loro, possono venir concepite e viste come


'mistagogia' Con questo termine viene intesa sia l'introduzione ~
partecipare nella fede alla celebrazione eucaristica, sia l'attuazione
di tale partecipazione del singolo alla celebrazione. Se l'uso d'un tale
termine è permesso e, a causa dell'unità fra le accennate forme e
figure, anche adatto, si può dire che nella celebrazione della cena,
dopo la parola sacramentale nel senso più stretto, la mistagogia è :1
tipo più originale e più pieno del kerygma. Questa mistagogìa è pre-
sente anche, ma non soltanto, in quella che comunemente chiamiamo
predicazione mistagogica.
Attorno a questa mistagogia quale figura più alta cd intcma dcl
kerygma, quindi attorno al kerygma cultuale, stanno come suoi deri-
vati quelli che usiamo chiamare 'predica' e 'catechesi' Sono, queste,
forme derivate del kerygma. Infatti non raggiungono la piena natu-
ra del kerygma: sia per quel che riguarda il grado d'autorizzazione,
intento e possibilità di rendere attuale l'avvenimento di salvezza, nel
suo segno 'sacramentale' e nel suo accoglimento di fede; sia per quel
che riguarda l'appello della comunità come tale; sia per quel che
riguarda il carattere di appello alla decisione. E però esse preparano
il kerygma e lo portano a sviluppo. Anzi, data la natura dell'uomo,
col pluralismo delle sue dimensioni di vita e del suo autoperfezio-
namento, queste figure derivate del kerygma sono inevitabilmente
necessarie. In quanto tali, sono anche legittime, e attestate fin dal-
l'inizio della Chiesa. Si presuppone solo che l'oggetto dei loro enun-
ciati si limiti di fatto a ciò che viene proclamato e reso presente nel
vero e proprio kerygma. Poiché il kerygma ha un carattere ecclesiale,
predicabile, e cioè l'evento storico-salvifico in Gesù Cristo, la sua
morte, la sua risurrezione, e tutto ciò che vi si riconnette, questo
rnntenuto può venir espresso anche là dove l'enunciato non costi-
tuisce kerygma e mistagogia in senso pieno, né vuole esserlo. Lo
mostra già il fatto che la Scrittura, anche là dove non viene resa
attuale per una determinata comunità mediante la parola autoriz-
zata del kerygma, né viene accolta con fede dall'ascoltatore, è con-
siderata dalla Chiesa come parola di Dio, per quanto essa, a questo
livello, non possa essere altro che 'Scrittura di tipo dottrinale' Tut-
te queste forme derivate del kerygma però, hanno senso e r;igion
KEB.YGMA E DOGMA

d'essere evidentemente solo se non dimenticano la loro provenienza


dall'autentico kerygma; solo se ad esso rimandano sempre. 22
A partire dalla natura del kerygma vanno intesi concetto, cliffo.
renziazione e necessità di ciò che si suole chiamare dottrina dogma-
tica della Chiesa o 'dogma'.

c. Storia del termine 'dogma' e suo cambiamento di significato

Volendo distinguere tra di loro 'kerygma' e 'dogma' e mettere in una


certa evidenza la loro relazione reciproca, una volta chiarita la natura
del kerygma, occorre mettere in luce il concetto di 'dogma'; tant.J
più che questo oggi è così screditato. Con il termine 'dogma' si
associano infatti le immagini di rigido sistema dottrinale, di costri-
zione morale, di formule senz'altro serie e fatte di venerande parole,
ma talmente distanti dall'annuncio originario, che sembrano piutto-
sto oscurare la fede che illuminarla. Il riferimento ai dogmi per mol·
ti è nient'altro che l'evocazione di formule sacrosante, le cui infinite
definizioni costituiscono un ostacolo per la stessa fede. Si fa ,anche
presente che ogni autorità formale ed ogni obbediente sottomissione,
prescritta già in anticipo, a delle formule tramandate, non è più
pensabile, poiché appartiene alla dignità dell'uomo moderno, 'illu-
minato', di piegarsi solo a ciò che la propria ragione ha criticamente
provato, e che in conseguenza egli può sperimentare e conoscere
come ragionevole e 'conveniente'.
Si capisce che non ci si può introdurre in tutta la problematica
inerente al concetto di 'dogma'; ciò significherebbe dover rifare tut-
to il percorso del pensiero moderno con particolare riguardo al con-
cetto di 'autonomia', di 'ragione', e così via, fino alle più recenti
questioni di un'ermeneutica universale, che - non senza connessione
con l'andamento della storia dello spirito nell'età moderna - si occu-
pa di nuovo più volentieri e più positivamente di quello che potrem-
mo chiamare il diritto d'esistere che ha la forma dogmatica del pen-
siero.n Qui può essere solo questione del senso preciso del concetto

22 Su questo concetto di 'mistagogia' cf. anche K. RAH~ER, in Hondbuch der Pa·


storaltheologie, n, Freiburs i Br. r966, cap. VII, par. 4-5.
23 Cf. ad es., alcuni spunti nel breve saggio di E. RornACKER, Die dogmolisch
Denkform i11 den Geis1eswisse11schaflen imd das Problem dcs Historismus, in A11M
t88 MOOl DELLA MEDIAZIONE

tramandato di 'dogma'. Naturalmente esso viene liberato dalle più


grossolane semplificazioni e difeso dalle più evidenti restrizioni. Ap-
parirà, così, più differenziato. Certo, con ciò non si è ancora fatto
nulla, perché una ricerca più approfondita dovrebbe chiarire anzi-
tutto la struttura della verità che una comunità profesi;a, con tutte
quelle questioni, ad essa collegate, del trovare, custodire e traman-
dare quella verità, e così via. Però un simile lavoro ampio e faticoso,
che prenda in considerazione gli accennati desiderata e lo faccia se-
riamente, è ancora da fare. Dobbiamo qui anzitutto stabilire fino a
che punto una ricerca sulla storia del concetto può essere utile per
determinare che cosa s'intende per 'dogma'.

aa) Storia antica e patristica dcl concetto - Il significato base di 'dog-


ma' nell'uso linguistico greco non-cristiano si riferisce anzitutto ad una
convinzione, presa per opinione accettabile, su una data cosa; questa
perciò sembra essere giusta e, all'occorrenza, viene stabilita come giusta.
Rafforzandosi il momento dell'obiettiva stabilizzazione (rispetto alla più
'soggettiva' convinzione), 'dogma' può allora significare qualche cosa co-
me 'stabilizzazione', 'istituzione', 'risoluzione' e 'decreto' (d. ad esempio,
Platone). In un senso più scientifico-filosofico 'dogrna' viene usato per
'dottrina', 'principio', 'teoria' d'una scuola e d'un singolo filosofo. Stori·
camente, il termine 'dogma' sembra sia stato coniato soprattutto dagli
stoici, che in esso vedono specialmente i principi etici della condotta
morale. Come tali, i 'dogmata' stanno tra la convinzione 'puramente' sog-
gettiva della 'doxa' e l'infruttuosa 'skepsis'. Oltre a questo uso, natural-
mente, 'dogma' viene pur sempre adoperato nel senso generale di 'dottri-
na' (vera o falsa), 'legge', 'assioma', e cos1 via. L'uso stoico di 'dogmata'
quali princlpi pratici dell'agire, distingue dogmi giusti ed errati. Di con-
seguenza si misura il valore dell'uomo secondo i 'dogmata', che, proprio
nella loro (buona o cattiva) forza di convinzione, hanno un potere enor·
me; sono perfino «invincibili,. (EPrTTETo). 'Dogma' viene anche usato
nel senso d'una '(determinazione di) legge'. In questo caso riceve un peso
maggiore quell'elemento sociale normativo che indica l'approvazione ri-
chiesta in una comunità e la forza vincolante che ne promana.
Nell'Antico Testamento greco il termine appare per la prima volta in
Daniele (cf. Dan. 2,13; 6,10; Est. 3,9), dove viene usato nel senso di 'co-
mando', 'ordinanza' In quanto ordinanze reali, tali 'dogmata' non pos-
sono venire cambiati: sono dati 'dall'alto' FLAVIO GrusEPPE e FILONE

(19,4); H.G. GADAMER, Wahreit u11d Me1hode, Tiibingen 1960, pp. 256 s.; 26is.; 31os.
e passim. (
KEllYGMA E DOGMA

chiamarono 'dogmata' anche le leggi d'Israele: però a differenza dei 'dog·


mi' umani dei filosofi, le leggi del popolo eletto vengono da Dio.
Il Nuovo Testamento visibilmente si appoggia ancora all'uso linguisti·
co dei Settanta. In Le. 2,1 e Aci. 17,4 con il termine 'dogma' viene in-
teso qualche cosa come 'editto imperiale'; le decisioni del concilio degli
apostoli sono chiamate 'dogmata' (Act. 16,4, cf. Act. 15,28; cf. Ebr. r r,
23). Eph. 2,15 (cf. Col. 2,14) è un testo che prova l'uso di 'dogma' nel
senso d'una prescrizione obbligatoria Ji tipo giuridico e: cioè in connes-
sione con la Legge giudaica.
li Nuovo Testamento dunque assolutamente non conosce il senso più
tardivo di 'dogma'. Quando si accenna a 'dogmata' in relazione alle deci-
sioni o 'risoluzioni' del concilio degli apostoli, vengono intesi piuttosto
fatti disciplinari e morali, sicché traduciamo preferibilmente 'prescrizioni
disciplinari', 'editti' (edicta). Senza dubbio Luca sa dell'accentuato carat-
tere d'obbligatorietà di tali risoluzioni, se egli le pone nel rango degli
'editti imperiali' (Cf. E. HAENCHEN, Apostelgeschichte-Kommentar, Got·
tingen IJ196r, p. 420 nota). Egli però attribuisce così ad esse un certo va-
lore universale, che forse s'inserisce bene anche nel quadro generale della
teologia lucana, e cioè quello di far posto nella storia all'espansione della
Chiesa. Cf. M. ELZE, Der Begrilf des Dogmas in der Alten Kirche, in ZKT,
61(1964)421-438, specialmente pag. 423. Anche se con questa premes-
sa, va tenuto certo presente che si tratta in fondo di questioni decisive
per la fede: precisamente sulla possibilità d'ingresso dei non-giudei nella
Chiesa nascente e sul valore della Legge cerimoniale giudaica. Non si può
tuttavia dire con J.R. GEISELMANN che ci si trova qui davanti al «tipo
originario del dogma». È questa un'interpretazione ·esagerata, che sorvola
troppo le differenze storiche. Cf. J.R. GErSELMANN, Dogma, in DzT, 1
(11967) JO s. Certo è bene sia sempre sottolineato, contro ogni tendenza
ad attenuare simile verità, che queste decisioni essenziali, prese in base
all'autorità degli apostoli e presbiteri, con approvazione della comunità
e sotto l'influsso dello Spirito santo, sembrano pienamente valide ed ob-
bligatorie.
I padri apostolici (inclusi gli apologeti) accanto al significato tradizio-
nale di 'dogma' come 'disposizione', adoperano poi anche questo termine
per la dottrina rivelata del Vangelo (Didaché I I ,3; PSEUDO-BARNABA r,
6; 10,9; IGNAZIO, Ad Magnesios 13,1; 16,4; TAZIANO, Oratio 42,12;
I Clementis 20,4; 27,5; Lettera a Diogneto 5,3); e qui certo il concetto è
ancora molto aperto e oscillante. Il termine, com 'è comprensibile, trova
uso più frequente presso gli apologeti. 'Dogma' è anzitutto una singola
opinione filosofica di scuola, che può però facilmente assumere il ~arat­
tere di adesione confessionale (cf. Atti di s. Giustino e soci ·martiri 2,3 s., e
l'interpretazione di M. ELZE, op. cit., pp. 426 s.). TAZIANO usa certo per
primo il termine nel senso dei nostri 'dogmata' (Oratio 12,5). Viene sot-
MODI DELLA MEDIAZlll

tolineato sopi-attutto da IGNAZIO, Ad Magnesios 13, cf. Ad Trallenses, 7,


r, l'essenziale connessione tra i dogmata del Kyrios e degli apostoli e l'uf-
ficio del vescovo, dei presbiteri e dei diaconi. I 'dogmata' vengono mol-
to rigorosamente distinti dall'umana saggezza neJla Lettera a Diogneto:
essi sono la forza di Dio, da Dio insegnati (cf. anche ATENAGORA, Suppli·
catio pro christianis 1 r ,r ). Dogma designa anche il grado di obbligatorie-
tà del comando del Signore e anche delle parole di Gesù. Così per escm·
pio la parola di Gesl.1: «Amate i vostri nemici!», t: trn 'dojl;ma'. G1usT1:-10
propone un 'dogma' di Dio, che si fonda nell'ordine della creazione:: il
libero arbitrio dell'uomo ( r Apologia 44,11 ). Se e.li fatto nd 11 secolo 'dog-
ma' può indicare l'insieme della dottrina cristiana, non si deve tuttavi:i
sopravvalutare questo uso linguistico. Non è ancora affatto una 'termino-
logia'. 'Dogma' viene usato sempre anche dai padri nel senso d'una dottri·
na falsa: vi sono 'dogmata' che sono contro Dio, falsi, eretici, atei, perni-
ciosi, funesti, vuoti, presuntuosi, inauditi, disgustosi e detestabili. I padri
parlano dei dogmi dei Valentiniani, di Ario, degli Ebioniti, degli Gnosti-
ci, e così via. TERTULLIANO adopera 'dogma' ancora nel senso d'un inter-
ventum o placitum philosophicum. AGOSTINO, AMBROGIO, LEONE MAGNO
e GREGORIO MAGNO parlano anzi di 'dogmata' quasi esclusivamente quan-
do indicano le eresie, mai però viene designata con questo termine la dot·
trina cattolica. Quest'uso linguistico più tardi si è mantenuto persino nei
documenti ecclesiastici (d. D 161; os 520). Il concilio di Nicea parla di
'<logmata' (d. ns r27) e intende con ciò le leggi ecclesiastiche. Ma il mon·
do latino indugia ad introdurre il termine, 'dogma', di provenienza stra-
niera, e per lo più parla di placita, scita, decreta; nell'uso, il termine µuò
significare le tendenze filosofiche eretiche, e, anche se più raramente, la dot-
trina della 'Chiesa universale'. Che cosa significhi però dogma nostrum
ca1holicum, non viene mai ben definito. Nel diritto, 'dogma' s'impone
prima, come si può notare ad esempio nella Novella 131 dell'imperatore
Giustiniano (cf. M. ELZE, op_ cii., pp. 433 s.). Anche in Oriente il concetto
di 'dogma' trova solo poco alla volta una maggiore accoglienza, e tuttavia
ancora a lungo incerta, nel sen·so di 'dottrina ecclesiastica' Questo atteg-
giamento esitante è da attribuire, prima d'ogni altra cosa, all'elemento 'sog-
gettivo' che vi risuona (d. su ciò MARCELLO ANCYRANO, Framm. 86). In
Oriente è certo decisivo per l'assunzione del concetto il comportamento
d'ORIGENE. Egli ne delimita in certo modo l'uso alla dottrina della fede e
dei costumi; 'dogma' però è ancora equivalente a 'kerygma' ed a 'van-
gelo' Dio è l'autore dei 'dogmi' L'accentuazione di questa autorità dice
solo una delimitazione nei confronti delle opinioni umane. 'Dogma' da ORI·
GENE, viene anche usato al singolare per indicare l'insieme della dottrina
(d. Contra Celsum 3a9). Una chiara distinzione della dottrina della fede
dalla dottrina morale, e il collegamento della domina della fede con 'dog-
ma', si trova poi in CIRILLO DI GERUSALEMMn, Catechesi 4,2, cd ir1 GRE-
KEltYGMA E DOGMA

GORIO NISSENO, Epistola 24. BASILIO MAGNO, De Spiritu Sancto 27, fa una
notevole distinzione tra 'kerygmata' e 'dogmata': i 'kerygmata' sono fa
dottrina della Chiesa ufficialmente definita e come tale resa pubblica, men-
tre 'dogmata' per lui sono le tradizioni e gli insegnamenti non fissati per
iscritto, ed anche i riti liturgici. Essi appartengono ad una tradizione
quasi segreta, riservata, e contengono in prevalenza quello che noi oggi
comprendiamo sotto i fatti 'dogmatici': la 'monarchia' di Dio, lo Spirito
s.11110 come terza p.:rsona divina, e così via. EUSEBIO rappresenta un µun-
to ben determinato d'evoluzione, poiché parla di 'dogmi eccbiasrici' Egli
con questo intende delle vere e proprie proposizioni di fede (la resurre-
zione dei morti e l'immortalità dell'anima), però conosce ancora l'uso più
amico del termine nel senso di 'decreto' ad esempio la determinazioni!
fissata dalla Chiesa, che il giorno di Pasqua cada di domenica.
In fondo dunque una ricerca storica sul concetto di 'dogma' rimane
relativamente infruttuosa se dalla teologia dei padri volgiamo lo sguardo
al concetto moderno di 'dogma' Tuttavia a questa panoramica sulla sto-
rìa del termine si toglierebbe il suo rappresentante più importante se non
prendessimo in considerazione VINCENZO DI LÉRINS. Anch'egli preferisce
il singolare di questo termine. Il suo profondo concetto di 'dogma' pren-
de su di sé anche le funzioni che finora erano legate piuttosto ai concetti
di regula fidei e canon veritatis, cioè dogma diviene in certo modo anche
norma d'interpretazione della Scrittura. «Il concetto di dog~a· dunque
con Vincenzo raggiunge esplicitamente e conseguentemente il significato
di verità rivelata, che, per sua natura, è divina, e, sotto forma di depo-
situm /idei, è affidata alla Chiesa» (M. ELZE, op. cii., p. 4,6). L'influs-
so del suo Commonitorium è però - presumibilmente a causa della su.i
polemica semipelagiana contro Agostino - relativamente scarso, finché
questo scritto non fu enormemente divulgato al tempo della Riforma, ed
usare come testimone di una presa di posizione inequivocabile contro gli
'innovatori'. Cf. M. ELZE, op. cit., pp. 435-438; H. KREMSER, Die Bedeu-
tung des Vinzenz V. Lerinum fi.ir die rom-kath. Deutung der Tradition
(diss. teol.), Hamburg 1959. La regola della retta fede, rivelata una volta
per tutte e ricevuta ab antiquo, è un coeleste dogma, un universale dogma,
un catholicum dogma. Conviene custodire il 'deposito' (depositum) divino
contro ogni innovazione ed umana 'correzione'. «Il depositum non è un
ritrovato degli uomini, ma qualche cosa che essi hanno ricevuto (da Dio);
non una loro invenzione (inventum), ma qualche cosa che è stato loro
affidato (da Dio); non quindi un prodotto dell'umano ingegno, bensì dot-
trina (ricevuta); non d'uso privato ed arbitrario ( privatae usurpationis),
ma una tradizione pubblica (cioè vincolante per tutti: publicae traditio-
nis); non una cosa che da te proviene, ma una cosa che a te perviene
(rem non a te prolatam, sed ad te perductam ), di cui non sei autore, ma
custode (non auctor, scd wstos), non maestro ma discepolo (non instilu-
MODI DELLA MEDIAZIONE

tor, sed sectator), non guida, ma seguace (non ducms, sed sequens). È
necessario conservare inviolato ed incontaminato il talento (Mt. 25 ,15)
della fede cattolica che ti è stato affidato» (Commonitorium 22,23,28,29
nella versione riassuntiva di J.R. GEISELMANN, Dogma, in DzT, 1 (21967)
pp. ,03-,04. Un progresso viene ammesso, purché non muti però ciò che
è originario: «Cresca/ igitur ... et multum vehementerque pro/iciat tam
singulorum quam omnium, tam unius hominis quam tolius Ecclesiae, aela-
tum ac saeculorum gradibus, intelligentia, scientia, sapientia: Jed in suo
dumtaxat genere, in eodem scilicet dogma/e, eodem sensu eademq11e se11-
lentia» (os 3020, che cita Commonilorium 23).

bb. Il concetto di dogma nella teologia medievale - Per quante


siano le distinzioni che si fanno nell'uso del termine 'dogma' nel IV
e v secolo, non si può tuttavia affermare - come spesso accade -
che in questo tempo si formi definitivamente il concetto di 'dogma'
e che esso in tempo posteriore venga generalmente usato in questo
senso mantenutosi sempre uguale (cf. DTC, 4/l, 1,74 s.). Per lo
più 'dogma' viene usato nei secoli successivi come concetto-genere.
Dogmata Patrum, sono semplicemente dei passi p. es. tratti da Ago-
stino ed Ambrogio; dogma/a /idei, dogmata Christi, vengono con-
trapposti ai pestifera et mortifera dogma/a (cf. TOMMASO o'AQUINO,
S. th. 2-2,2,2, sed contra). I teologi medievali dell'alta scolastica,
comunque, non usano spesso il termine 'dogma'; neppure Tomma-
so. Perciò qui la semplice storia del termine non serve più oltre.
Proprio la teologia medievale ad esempio usa in senso molto più
fondamentale il concetto di articulus, quand'essa intende ciò che noi
oggi siamo soliti chiamare 'dogma'

La dottrina sull'articulus fidei dell'alta e della bassa scolastica è tutt'oggi


chiarita solo in minima parte. Cf. J.M. PARENT, La notion de dog,me au
XIII• siècle, in Études d'histoire litt. et doctr du XIII• siècle (Pubbli·
cations de l'Institut d'études médiévales d'Ottawa), 1, Paris 1932, pp.
14 I·I63; L. HonL, Articulus /idei. Eine begrifjsgeschichtliche Arbeit, in
J. RATZINGER H. FR.IES (a cura), Einsicht und Glaube. Festschrift G.
Sohngen, Freiburg i. Br. I962, pp. 358-376; A. LANG, Die Gliederung und
die Reichweite des Glaubens nach Thomas von Aquin und den Thomisten.
Ein Beitrag zur Kliirung der scolastischen Begrifje: fides, haeresis und
conclusio theologica, in DTh, 20 ( I942) 207-236, 235-346; 21 ( 1943) 79·
97; Io., Compendio di apologetica, Torino 2 1964, pp. 490-496. Per la com·
prensione del concetto di 'dogma', è onche importante rilevare che i pri-
KERYGMA E DOGMA
193

mi tentativi di determinare il senso di 'articolo di fede' si riferiscono a


pii1 elementi. PIETRO LOMBARDO ( 3,2', 1) nell'articolo di fede vede «quae-
dam /idei mensura sine qua nunquam potuit esse solus»; è pure nella
sua natura di appartenere, in quanto verità significativa della fede, ad un
Symbolum. Da questo legame di connessione con il Symbolum, il concetto
di 'articolo di fede' fu sciolto un po' alla volta fin dall'inizio del xm se-
colo. Sull'inizio del secolo, le decisioni ecclesiastiche (cf. anche il Lateru-
nense 1v) contro le eresie pericolose, mostrarono che nella discussione cor.
gli avversari, i simboli tradizionali, ed i 'dogmi' in essi contenuti non
erano sufficienti; che richiedevano un completamento, nonché formulazio-
ni più incisive. I tentativi di determinazione concettuale (cf. L. HòoL,
op. cit., pp. 367 ss.) portavano anzitutto a evidenziare due elementi costi-
tutivi: una verità su Dio situata supra rationem, non evidente né frazio-
nabile, la quale, proprio per questo suo carattere e natura di rivelazione,
deve immediatamente suscitare rispetto. In quanto 'dottrina' ('insegnamen-
to') dell'amore, che si manifesta nell'articolo, 'costringe' all'obbedienza di
fede, fa 'tendere a Dio' Il carattere d'insegnamento nella verità di Dio e
l'elemento dell'appello all'obbedienza di fede presente nell'autoaprirsi di
Dio, fanno tutt'uno. Secondo A. LANG, il concetto (tomista) di 'articolo
di fede' contiene tre elementi, più esplicirnmente cosl formulati: r. solo
verità rivelate (immediatamente formalmente rivelate da Dio) apparten-
gono agli articoli di fede. Non tutte le verità rivelate sono tuttavia arti-
culi fidei; 2. solo verità che hanno significato fondamentale per la fe-
de e la vita della fede sono articolo di fede. Punto di partenza a questo
riguardo è l'ultima speranza e la prima mèta della fede cristiana, quella
che si manifesterà nella visio beata: tutto ciò che conduce alla vita eter-
nn e viene conservato in quella visione beatifica di Dio, appartiene al con-
tenuto essenziale della nostra fede terrena, umana (cf. 5. th. 2-2, 1; 6; 8 ).
Che un artict1lt1s fidei faccia appello all'obbedienza di fede, ·~iò dipendt'
dal suo carattere di rivelazione, in virtù del quale il mistero di Dio s'avvi-
cina all'uomo. La misura e la necessità della rivelazione diviene evidente
soprattutto con il fatto che la fede conosce diversi arliculi fidei, e non
soltanto uno, al quale si possa ricondurre tutto. «Ogni nuovo mistero è
per noi una nuova insuperabile barriera, cho può venir sollevata solo me-
diante una verità di rivelazione completamente nuova quanto al conte-
nuto» (A. LANG, op. cit., p. 222), «suppositio non dependet ab alio sup-
posi/o» (III Sent., 2,,1,1,1; 25,r,2 ad 6). Questa irriducibile natura del-
l'articolo di fede fa si che esso abbia anche tutte le qualità per essere
'principio' teologico e con ciò divenire punto di partenza e fondamento
della teologia; 3. un ulteriore elemento costitutivo d'una verità di fede,
in quanto essa è arlirnlus fidei, TOMMASO lo vede nell'appartenenza ad
un Symboltim. Questo legame non deve venir inteso in senso stretto. La
Chiesa infatti può proporre un nuovo Simbolo, allargato, che non deve

13 My<1crium s:ilutis / 2.
MODI DELLA MEDIAZIONE
194

contenere semplicemente un determinato numero di 12 o 14 'proposi:i:io-


ni', e che nella formulazione neppure deve attenersi troppo strettamente
soltanto al linguaggio tradizionale. L'appartenenza al Simbolo indica per
TOMMASO anzitutto la decisione solenne, sacra e ben precisa, del magi-
stero ecclesiastico (cf. A. LANG, op. cit., pp. 223 s.), che riunisce tutti co-
loro che esplicitamente credono a questa professione di fede. La questione
sul significato dell' 'indirecte credendum' dei 'credibilia secundaria', non
è necessario venga qui ulteriormente esaminata (cf_ A. LANG, op. cit., pp.
224 ss).

Considerando il concetto medievale di 'dogma' a partire dal nostro


uso linguistico (e ancor più dalle tendenze correnti e svalutanti) si
resta colpiti anzitutto da una differenza di prospettiva. Il dogma
non è per prima cosa una formula di tipo vincolante ricevuta dal di
fuori, da. un'autorità, e imposta alla cosdenza dell'uomo come 'da
credere'. II concetto non ha primariamente una colorazione giuridica,
cioè l'appello ad un'autorità formale ed all'obbedienza da essa impo-
sta. Per TOMMASO il dogma non è determinato dai confini 'obiet-
tivi' d'una ftdes divina pura, né è qualificato dalla questione sul gra-
do di certezza teologico: piuttosto, fin dalla sua origine, appartiene
al carattere dottrinale del dogma la corrispondenza alla fede. Essert!
significativo per i credenti stessi è un elemento intrinseco al dogma;
e questa concezione del dogma come ordinato alla vita eterna e come
iniziale possibilità della stessa beatitudine eterna, chiarisce a tal pun-
to l'interna credenza piena d'originaria forza vi tale e ad essa di nuovo
tendente, che molte obiezioni, ricorrenti contro contenuti concet-
tuali come quello di 'dogma', cadono da sole.
In questo senso un'ulteriore indagine proverebbe, presumibilmen-
te, che il mutamento di significato che si riscontra nella storia del
concetto di 'dogma' e dei suoi equivalenti, corre press'a poco paralle-
lo all'uso che viene fatto dei concetti di fides e haeresis, concetti che
sono stati oggetto di studio da parte di A. LANG. L'alta scolastica vera
e propria non mostra ancora nessun esplicito interesse teorico per la
certezza di fede solo obiettive, nella cui prospettiva poi, più tardi,
fides divina e veritates mediate revelatae vengono separate l'una dal-
l'altra. L'alta scolastica distingue articuli fidei e proposizioni deri-
vate, a seconda del significato del loro contenuto, non a seconda del
grado dogmatico di certezza. Fides e haeresis sono usati in un senso
KEllYGMA E DOGMA 195

p1u ampio, in cui viene anche compreso quello che noi chiamiamo
solo fides indirecta o credibilia secundaria. La qualità di veritas fidei
oggi, invece, noi l'attribuiamo solo a quelle verità che sono garan-
tite nella stessa rivelazione divina. Il criterio è l'appartenenza alla
rivelazione formale, che è il campo obiettivo della fides divina. La
teologia medievale, almeno fino al concilio di Trento, ha misurato il
campo della fede secondo l'obbligo interno che nasce da un legame
generale con quanto è morale e conforme alla fede. «Non si voleva
stabilire ciò che secondo la teoria della conoscenza dogmatica, può
reclamare la certezza della fides divina, ·bensl ciò che del compor-
tamento pratico religioso dev'essere sottoposto alla responsabili-
tà della fede cristiana ed alla competenza della disciplina eccle-
siastica della fede». 24 Una credenza viva, non falsata, non si può li-
mitare alle verità immediatamente rivelate, bensi s'estende a tutto
ciò che, in qualsiasi maniera, si riconnette a queste verità, sia come
fondamento e presupposto, sia come conseguenza o corollario. Deci-
siva per la fede è la condotta morale e religiosa dell'obbedienza di
fede; mentre per il concetto di eresia, il fattore principale è rappre-
sentato chiarissimamente dall'ostinazione pienamente responsabile,
dall'errore formale, cosciente, liberamente voluto. Più tardi l'accento,
per quel che riguarda il concetto di fede, si sposta piuttosto sul fon-
damento obiettivo di certezza, mentre la determinazione di eresia
è guidata in sostanza dalle circostanze puramente logiche, in sé certe,
di un'antitesi oggettiva ad una verità di fede (errore materiale), pre-
scindendo dunque dalla concezione soggettiva e da ogni relazione
storica e di fatto. 25

Anche se evidentemente questo cambiamento si realizza pienamente solo


con la fine del XVI sec., tuttavia gli inizi si hanno già nei primi decenni
del sec. XIV. In questo tempo nel concetto di 'veritas catholica' si prean-
nunciano nuove questioni e delimitazioni, e perfino un mutamento di

24 A. LANG, Der Bedeutungswandel der Begrif!e 'fides' umi 'haeresis' und die dogma·
tùche W ertung der Konzilsentscheìdungen von Vienne und Trient: MTZ, 4 ( 1953)
133-146, qui citato p. 134. Sul concetto di articulus fidei vedi anche A. FRTES, Zum
theolog. Beweis der Hochscholastìk: Schrifl und T raditìon, in Mariologische Studien,
1, Essen 1962, pp. 107-190, specialmente pp. 109 ss.
25 A. LANG ha mostrato che in MELCHIOll CANO si trovano ancora, nel senso accen-
nato, diversi signifìa1ti di fides e haeresir; cf. Die Gliederung und die Reichweite des
Glaubens, cit. 90 e ss.
MODI DELLA MEDIAZIONE

prospettiva (cf. ad esempio OCCAM). Non a caso si sviluppa in questo


stesso tempo tutta una serie di note teologiche o censure, che considera-
no le verità di fede secondo il grado e la qualità della loro certezza. Cf.
ad esempio J. KocK, Philosophische und theologische lrrtumslisten von
I270-I329. Ein Beitrag zur Entwicklung der theologischen Zensuren, in
Mélanges Mandonnet, II, Paris r930, pp. 305-329. Cf. anche, insieme alle
sue opere già citate, A. LANG, Die conclusio theologica in der Problemstel-
lung der Spiitscholastik, in DTh, 22 (1944) 259-290. Questo iniziale cam·
biamento, in un'epoca che nella storia della filosofia e della teologia, se-
condo le ultime indagini di ÉT. GrLSON, F. VAN STEENBERGHEN, M.-D. CHE-
NU, e altri, segna senz'altro un regresso o una rottura, fu senza dubbio fa-
vorito dal modo d! pensare nominalistico. Infine nella nuova problematica,
e ancora di più nella successiva caratterizzazione teorico-conoscitiva del gra-
do di certezza delle verità di fede, debbono scorgersi le prime mani-
festazioni di un modo di vedere e di pensare scettico-critico, contro il
quale la teologia dogmatica deve continuamente difendersi rimandando
a Dio come al soprannaturale garante della certezza che compete alla
verità dogmatica. Ciò facendo comunque, in questa risposta in sé certo
giusta, it punto di vista unilaterale d'un certo tipo di 'certezza' passa
fortemente in primo piano e lascia da parte altri elementi. Nel suo
successivo articolo sul mutamento di significato dei concetti di fides e
baeresis (1953), A. LANG ha potuto rimandare ad alcuni ulteriori lavori
di P.V. 'HEYNCK, M. ScHENK, H. FLATTEN (cf. op. cit., pp. 13'.')-138),
che potevano confermare il cambiamento radicale verificatosi nella pro-
blematica.
Cosi non è da meravigliarsi se i concetti di fìdes, haeresis e dogma non
hanno ancora, neppure al Tridentino, un significato determinato. 'Dog-
ma' è anzitutto una regola fissa, una verità sicura o una realtà certa.
Questo termine viene usato persino per le tradizioni della Chiesa,
per la disciplina ecclesiastica. La sua 'sicurezza' consiste anzitutto
nel fatto che esso non porta ad alcunché che sia contro la fede ed il
buon costume. Il dogma si determina dunque essenzialmente a par-
tire dalla fiducia meritata da una ferma coscienza di fede. Dogma fi-
dei fu chiamato per esempio un canone, anche se l'oggetto di questo
canone non apparteneva al depositu.m fidei nel nostro senso, o almeno
non veniva considerato come appartenente al depositum; anche se le
decisioni dogmaticamente erano fondate pure sul criterio della gene-
rale infallibilità della Chiesa universale, il che non significa ancora
che con ciò venisse stabilita sempre direttamente una verità rivelata.
«A Trento la caratteristica principale d'un dogma fidei o d'un canone
KEB.YGMA E DOGMA 197

con anathema, era proprio l'universalità con la quale una verità della
Chiesa veniva annunciata». 26 Non va trascurato il fatto che all'inizio
della riflessione teologica su dogma, fede e infallibilità, questi con-
cetti erano usati molto più liberamente e in senso più generale. In
tale senso, queste parole-chiave erano inoltre molto più flessibili,
cosicché esse furono introdotte assai concretamente nella situazione
storico-ecclesiastica e storico-dogmatica di allora, e da essa furono
qualificate: al Tridentino 'dogma' era ad un di presso come pertine-
re ad fidem, e ciò significava allora: esse contra positiones Luthera-
norum.21 Ulteriori particolari e conseguenze derivanti da questo sta-
to di cose per il concreto lavoro dogmatico, sono facilmente accessi-
bili da altre parti, o evidenti.28

cc. Storia moderna del pensiero e destino del concetto cattolico


di 'dogma' - Il cambiamento di accentuazioni e di prospettive nel-
l'uso dei concetti di fides, dogma, eccetera, è reso necessario a causa
della sfida lanciata dai riformatori. In un primo momento, la teo-
logia della Riforma non contesta il fatto che nella Chiesa si venga a
dichiarazioni vincolanti, che la verità della Bibbia possa venir ma-
nifestata solo dopo faticosa lotta con errori e confusioni. Per quanto
Lutero si appelli immediatamente alla sacra Scrittura nelle decisive
controversie teologiche (d., ad esempio, la d:>~trina sulla giustifica-
zione), egli accetta_ però come vincolante il dogma trinitario e cristo-
logico della Chiesa antica.

«Lutero riconosce che le formule della Chiesa antica esprimono esatcamen-


te ciò di cui trattano i Vangeli, e, di conseguenza, le usa come sussidio
esegetico. Rifiutando però l'interpretazione che ne fece la scolastica, le
riconduce nei loro dovuti confini» (G. EBELING, Evangelische Evangelien-
auslegung. Bine Untersuchung zur Luthers Ermeneutik Darmastadt 21962,
p. 249, particolari alle pp. 239-249). Più esaurientemente }. KooPMANS,

21> P. FRANSl!N, in Schol, 27 (19,2) 556.


21 Cosl P. F1.ANSEN, in ETL, 29(19,3)661,nota 7.
28 Cf. le ricerche di P. fa.ANSEN sul posto dei canones nella 24• sessione del con·
dlio di Trento: Sebo/, 25 (19,0) 491-,17; 26 (1951) 191-221; 27 (19,2) 526-.n6; 29
(1954) ,37-560; 30 (19n) 22-49; ETL, 29 (19n) 6n-672. Inoltre, H. LENNERZ, No-
tulae Tridentinoe: Gr, 27 (1946) 136-142; V. HEYNCK, Die Beurteilung der conclusio
rbeologico bei den Franzis!eaner-Theologen des Trienter-Kon~ils: F Stud., H (1952)
146-205.
MODI Dl!.LLA MEDIAZIONE

Das altkirchliche Dogma in der Re/ormation, in Beitrage zur evang. Theo-


logie, 22 (Miinchen 1955 ). V. anche K.G. STECK, Umgang mit der Dog-
me11geschichte der alten Kirche, in Ev.Th, 16 (1956) 492-504.

Tuttavia nel fondo del pensiero riformatore s'impone già un'altra


valutazione. Basta considerare il posto occupato ·dalla Scrittura.
Questa non è solamente fonte e norma di ogni discorso, dottrina
e predicazione cristiani, ma è assolutamente anche l'ultima istanza.
Su di essa vanno misurate tutte le confessioni e tutti i dogmi. In
questo senso tutte le proposizioni dogmatiche, per una teologia evan-
gelica, sono, per così dire, vincolanti solo in seconda istanza; lo
sono, cioè, quando si sia provato se e in quale misura i dogmi per-
mettano di accedere all'immediato insegnamento biblico. Viene qui
presupposto che la Scrittura, per la sua trasparenza, s'interpreta da
sé. L' 'ortodossia' prende come contenuto base della sua dogmatica
la Scrittura, posta - in funzione della teoria veteroprotestante del-
l'ispirazione verbale - come immediatamente ed esclusivamente iden-
tica con la parola di Dio. Poiché l'ortodossia veteroprotestante n -
almeno secondo il giudizio d'una gran parte della teologia evangelica
attuale - non mantenne tra i suoi princìpi quella rottura con I~ strut-
ture 'metafisiche' del dogma che Lutero aveva operato, ma elaborò
quindi dogmaticamente addirittura quasi un tipo di scolastica prote-
stante, essa, nel corso dell'ulteriore sviluppo della originaria teologia
protestante, doveva scomparire.

Questa teologia di scuola fu dissolta anche dalla recezione di elementi


filosofici razionalistici. Però diedero il colpo mortale al sistema vetero-
ortodosso, la scossa pietistica e la critica radicale delle chiese (p. es. di
GoTTFRIED ARNOLD). Rispetto alla teologia storica che si rende autono-
ma (J.L. MosHEIM, SEMLER), la dogmatica tradizionale sembra essere
soltanto un residuo, non ancora dd tutto messo da parte, di quell'arbi-
trario maneggio del dogma operato dal papa. 'Dogma' appare qui già
come prodotto illegittimo d'un connubio tra fìlosofìa pagana e dottrina
del Vangelo. Ciò conduce all'assurdità di costruzioni ortodosse ed anche
eretiche, che tralasciano il 'puro' Vangelo (d., ad esempio, B.G. ARNOLD

29 Sull'uso linguistico dei teologi evangelici del xv1-xv11 secolo riguardo al dogma,
cf. la breve panoramica di G. EBEL!NG, Wort Goues und Traditio11, Coli. «Kirche
un<l Konfcssion», 7, Gottingcn 1964, 168 s.
KEIYGMA E DOGMA 199

e T. ToLAND). Cresce l'importanza della crmca storica, che si libera da


ogni relazione con il vincolo dogmatico della Chiesa. Né Lutero, né i
padri, né il cristianesimo primitivo e neppure la Bibbia hanno alcun di-
ritto al rispetto. La 'variazione' di concezioni dogmatiche diviene quasi
l'unico interesse d'una ricerca storica, la cui autonomia è una minaccia
per l'insieme della teologia. Sembra che essa non solo non abbia trovato
(in modo positivo) il suo posto e il suo significato accanto alla dogma-
tica, ma che possa insorgere con .ttritica puramente negativa e distrut-
trice, contro tutto ciò che finora pretendeva avere validità 'dogmatica'. La
filosofia dell'illuminismo - in conseguenza del concetto di tolleranza e
di 'religione naturale' - aggiunse la sua parte ad una rottura con il dog-
ma. Cf. ad esempio, sul dogma del peccato originale, l'esposizione di E.
CASSIRER, Dle Philosophie der Aufkliirung, Tiibingen 1932, pp. 182-214.
I. KANT, ben preparato da questo sviluppo, tira solo le conclusioni, quan-
do identifica la dottrina cristiana della rivelazione con la fede in pure e:
semplici frasi, che in fondo sono una 'idolatria' e 'feticismo'. «La fe-
de in frasi, delle quali l'incolto non può accertarsi né con la ragione né
con la Scrittura (in quanto essa dovrebbe venire anzitutto enunciata), fu
elevata ad obbligo assoluto (fides imperata). Cosl, unitamente ad altre
osservanze collegate con essa, è elevata al rango d'una fede che conduce
alla beatitudine, come un lavoro servile, indipendentemente cioè dai mo-
tivi morali che determinano la decisione delle azioni» (Die Religion in-
nerhalb der Grenzen der blossen V ernunft, IV Stiick, r. Teil, 2. Abschnitt;
ed. K. Vorliinder, Leipzig 4 1919, pp. 192 s.). Resta ora solo il compito
di chiarire come si poté mai giungere ad un mondo tanto tenebroso e
superstizioso, come si poté «dedurre quella dogmatica ora rigettata, come
si poté mostrare la sua naturalezza e necessità» (J.G.W. HEGEL, Theolo-
gische Jugendschriften, ed. Nohl, Tiibingen 1907, p. 143). Ciò che finora
aveva la sua validità come dogma, ormai appare solo come 'insostenibile
rimasuglio di secoli oscuri', come 'positività' che di per sé, in quanto
dovuta al caso, mai può spiegare che debba poi risultarne qualcosa di
eterno (d. Ibid., p. 145, specialmente pp. 233 ss.). Dopo la dissoluzione
del dogma veteroprotestante come l'abbiamo delineata, ScHLEIERMACHER
e la teologia sperimentale del sec. XIX cercarono un nuovo fondamento
d'una, come si suol dire, 'dottrina della fede': l'obbligatorietà riguardo
alle affermazioni dottrinali vien derivata dall'esperienza soggettiva di fede.
«Le proposizioni cristiane di fede sono concezioni del pio stato d'animo
cristiano espresse nel discorso», dichiara Schleiermacher al § 15 di Der
christliche Glaube, r, ed. M. Redeker, Berlin 71960, p. 105. Ancora una
volta HEGEL distrugge questo concetto di 'dogma'. «In quest'ultimo tem-
po la rel!gione ha sempre più ristretto l'estesa cultura del suo conte·
nuto e si è ritirata nell'intensivo della devozione o anche del sentimento,
e spesso d'un sentimento che manifesta un contenuto meschino e banale.
200 MODI DELLA MEDIAZIONE

Fino ,.\I che essa mantiene un credo, una dottrina, una dogmatica,
essa ha qu~lcosa di cui la filosofia deve occuparsi, ed in cui questa come
tale si può unire con la religione» (Introduzione alla 2• ed. dell'Enzyklo-
piidie der philosophischen Wissenschaften, ed. J. Hoflmeister, Leipzig
51949, p. 14). Il vuoto intellettuale dell'illuminismo formale ha svuotato

la religione d'ogni suo contenuto. Con tutto il suo parlare di libertà di co-
scienza, di libertà di pensiero, di libertà d'insegnamento, la teologia illu-
ministica non si è curata delle realtà, della conoscenza e del contenuto.
«Mentre si danno molto da fare per una massa di cose indifferenti, che
non hanno niente a che vedere con la fede, quando poi si trovano davanti
al valore ed al contenuto della fede, si fermano, e ancor più aridi diven-
gono davanti al nome del Cristo Signore. Disdegnando deliberatamente,
con disprez'lO, lo sviluppo della dottrina, che è il fondamento della
fede cristiana, poiché l'espansione spirituale, pensante e scientifica, distur-
berebbe, impedirebbe perlino ed annienterebbe la presunzione propria di
coloro che insistono nell'assicurare - assicurazione assurda, incapace di
buoni frutti, ricca solo di frutti cattivi - che essi ed essi· soltanto si tro-
vano in possesso della realtà cristiana» (Prefaz. alla 3• ed., op. cit., p. 24).
Ma anche questo è il canto del cigno per la forma 'dogmatica' del pen-
siero; ogni concezione intelligente deve procedere oltre queste forme di
rappresentazione, fino a determinare la sostanza in quanto soggetto e in
quanto spirito. Gli eredi di HEGEL, della destra e della sinistra, svilup-
parono le sue teorie. La critica della religione e la critica marxista del~
l'ideologia,_ fanno saltare le nebulose rappresentazioni dei dogmi; la libe-
rale 'storia dei dogmi' di F. CttR. BAUER mette in ordine storico quanto
lo spirito ha elaborato, e che già costituisce il passato. La storia dei dog-
mi è diventata 'signore e giudice' della dogmatica. A. VON lliRNACK di·
mostra infine esplicitamente una possibile conseguenza di questo svilup-
po: «La Riforma è la fine del dogma in un senso analogo a quello per
cui si dice che il Vangelo è la fine della legge» (Lehrbuch der Dogmen-
geschichte, m, Ti.ibingen 41910, p. 689). La Riforma, rimuovendo il vec-
chio dogma cattolico, o meglio, le sue premesse, fa saltare ogni autorità
della Chiesa e nega con ciò l'infallibilità alle sue formulazioni simboliche
(cf. ibid., pp. 689-691). «Naturalmente nel Luteranesimo si cerca insisten-
temente qualtosa che stia tra riformab.ile ed infallibile; ma, per quanto
mi risulta, non si è ancora riusciti a trovare niente» (lbid., p. 692 ). Non
si può qui ricercare oltre, storicamente e obiettivamente, ln che misura
il protestantesimo sia «la fine del dogma» (Ibid. ); sulla riassunzione di
questo concetto di 'dogma' nella teologia protestante del sec. xx, si
parlerà più avanti trattando del rapporto tra kerygma e dogma.

Questo scorcio suUa moderna spiegazione filosofica e teologica del


termine 'dogma' non comprende - è chiaro - tutti i movimenti, tutte
Kl!B.YGMt. E DOGMA 201

le correnti. E.m> rimane volutamente unilaterale. Vuole delineare


la dissoluzione d'una forma di pensiero che, per quasi un millennio
e mezzo, ebbe la sua evidente validità, ma che ora, in appena 150
anni, è ridotto ad assurdità, contraddizioni e stravaganze. Tutti i di-
versi momenti nella storia della Chiesa e dello spirito, dal XIV fino
al xix secolo, dovrebbero essere presenti, almeno in questa forma
frammentaria, se si vuole comptendere perché il concetto cattolico
di 'dogma' ebbe in questo periodo di tempo un altro mutamento di
significato. Questo dipende dall'estrema resistenza opposta a quella
dissoluzione, e dal tentativo di stabilire più chiaramente l'obbligato-
rietà e la struttura propria del dogma. Ciò aveva come premessa un
certo cambiamento di prospettiva, poiché la Chiesa antica, e soprat-
tutto quella medievale, viveva nel seno della tradizione; ciò forse
non lo evolveva esplicitamente, ma in compenso v'è una coscienza
non meno efficace di omogeneità con i padri della fede, tanto che
la tradizione viene messa veramente in questione non una sola volta.
Abbiamo terto semplificato e un po' esagerato; la disputa intorno al
Filioque e, ad esempio, i modi d'interpretare le auctoritates in TOM-
MASO D'AQUINO potrebbero dimostrare il contrario. Tuttavia vien det-
to qualcosa di valido per il complesso di quest'epoca di storia eccle-
siastica, se si afferma che essa, fondamentalmente, viveva d'un accor-
do quasi ovvio con la tradizione; sostanzialmente si voleva ciò che
volevano i padri. È da questo stato di cose che va visto tutto quello
che più aopra abbiamo detto del concetto di 'dogma', ad esempio in
s. TOMMASO. L'uso non sp6Cifico e non ancora stabilizzato di 'dog-
ma' e dei concetti equivalenti è solo un'espressione di questa situa-
zione. Ciò deve cambiare, nel momento in cui questa fede viene at-
taccata fondamentalmente, nella sua nascosta solidità, sicurezza e
forza irriflessa, quando le nuove pericolose eresie dell'inizio del xm
secolo, quando la messa in questione operata dal nominalismo e
ancor più dalla Riforma e dai suoi precursori fanno la loro appari-
zione nella storia. Deve ormai cominciare l'autoaccertamento della
fede, se questa fede vuole affermarsi. Si pongono così le questioni
sui confini obiettivi della fides divina, sul grado teologico di certezza
degli indirecte credenda, sul senso delle conclusioni teologiche, e co-
sl via. Però, in certo modo, si tratta ancora d'una prima parte teo-
logico-scientifica, piuttosto interna, di questa disputa con la nuova
202 MODI DELLA MEDIAZIONI>

comprensione della fede. La Riforma e le correnti di pensiero dei


tempi moderni che, a ragione o a torto, ad essa si richiamano, costrin-
gono la teologia della Chiesa cattolica a questioni esplicite sull'esi-
stenza del magistero nella comunità di fede, sul valore delle afferma-
zioni concettuali contenute nel dogma, e cosl. avanti.
Sarebbe un lavoro non indifferente tracciare il cammino che la teo-
logia cattolica nell'epoca moderna ha compiuto su questo sfondo.
Potrebbero rivelarsi nella loro storica legittimazione e necessità tan-
ti aspetti della tarda scolastica e della 'teologia di scuola' dei secoli
passati, che ci sono divenuti estranei e incomprensibili. Solo nel sec.
xvm, dopo che si fu sviluppata nel sec. XVI una teologia del magi-
stero, si forma un uso fisso di 'dogma'.
All'interno della Chiesa importante è lo sviluppo dalla fine del
sec. xvn in poi: gli attacchi di giansenisti, gallicani, regalisti, febro·
niani e razionalisti, cercavano di rimpicciolire il valore delle deci-
sioni conciliari e l'infallibilità del papa, e di considerare quelle an-
zitutto come puri provvedimenti disciplinari. Perciò diviene evi-
dente che si è costretti ad un chiarimento concettuale, a spiegare
cioè che cosa s'intenda per 'dogma'; chiarimento che, data la situa-
zione, certo può avvenire, anzi forse deve avvenire, in modo del
tutto unilaterale. Il cammino concreto che conduce fino ad esso resta
ancora molt9 oscuro per la storia della teologia. Il processo di que-
sta chiarificazione concettuale può qui solo venir colto per cosi dire
nei momenti in cui compare ufficialmente, cioè nel concetto di 'dog-
ma' del Vaticano I.

dcl. Il concetto di 'dogma' nel Vaticano I - In una nuova situa-


zione spirituale, la Chiesa ripete ciò che VINCENZO DI LÉRINS aveva
già detto: la rivelazione non è invenzione umana, ma deposito di-
vino, che il Signore ha affidato alla sua sposa, perché essa lo custo-
disca fedelmente e senza errore. Mentre egli però vede nel concetto
di 'dogma' anzitutto la dottrina di fede (depositum divinitm) affidato
alla Chiesa, il Vaticano 1 distingue più chiaramente tra deposiJum
e dogma. «Il depositum è la sostanza della rivelazione affidata alla
Chiesa, i dogmi sono invece l'annuncio autentico, autoritativo ed in-
fallibile della parola di Dio da parte della Chiesa, o la determina-
zione del senso d'una determinata verità rivelata, e precisamente
KEKYGMA E DOGMA 203

sollemni iudicio» (GEISELMANN). Il cambiamento concettuale è con-


ciò formulato; per comprenderlo basta aver presenti i condiziona-
menti dovuti alla storia del pensiero e le contro-misure prese dalla
Chiesa. La necessità d'una più chiara distinzione tra depositum e
dogma già si faceva sentire dal momento che gli enunciati della Scrit-
tura, dei Simboli della tradizione e della dottrina in essi contenuta,
'non bastavano più per la discussione e per la controversia teologica ed
ecclesiastica. È quanto appare chiaramente, come in una fase preli-
minare, nell'uso medievale del concetto di articulus fidei: specialmen-
te a partire dal Lateranense IV, esso non si limitava troppo rigidamen-
te alle singole proposizioni del Symbolum, ma annoverava tempora-
neamente tra gli articoli ad esempio anche la transsubstantiatio, assi-
curando cosi a questa dottrina un'obbligatorietà della più grande
portata.
Già la storia di questo termine mostra che la dottrina di fede dei
cattolici non può, né ad essa occorre, rendersi schiava della sola pa-
rola 'dogma'. D'altro canto neppure ci si sbarazzerà d'un termine
ch'è talmente accolto nella coscienza di fede sviluppatasi storica-
mente. Anche se la maggior parte dei testi di dogmatica offrono una
esposizione unilaterale del concetto di 'dogma', ciò non significa an-
cora che l'unico elemento essenziale consista nella presentazione del
magistero ecclesiastico ~ nella definizione autoritativa che le è propria.
G. EBELING afferma che la parola 'dogma' è «perfettamente appro-
priata» come contrassegno di quello che intendono i cattolici.30 Ri·
suita chiaramente dalle precedenti spiegazioni che tale affermazione
è piuttosto arrischiata. «Stabilire una spiccata attitudine di un
termine tecnico per designare la dottrina ecclesiastica fissa, secondo
la comprensione che ne hanno i cattolici» è possibile solo sulla base
della premessa che l'elemento veramente decisivo, costitutivo, per
il concetto di 'dogma', è l'istanza autoritativa, cioè il suo autorita-
tivo proponere dei credenda tamquam divinitus revelata, astrazione
fatta da molti altri e non meno costitutivi elementi. Inoltre viene
presupposta una ben distinta dualità di istanze al più giustapposte:
l'autorità della parola di Dio e l'autorità del magistero, che sorregge
e verifica quella prima autorità. Solo un'esposizione più completa

JO Cf. G. EBELING, Wort Gottes 1ind T radition (cf. suprti, nota 29 ).


204 MOllI llELLA M!lllAZIONE

e più approfondita del reale concetto cattolico di 'dogma', 'magiste-


r~', 'autorità', e cosi via, potrebbe essere in grado di rispondere, in
modo del tutto convincente, alle obiezioni di G. EBELING. Così, ad
esempio, nel concetto d'infallibilità, si dovrebbe non solamente ve-
dere l'aspetto giuridico, bensi anche il fondamento carismatico, l'in-
terna connessione di questa infallibilità con la vita di fede della Chie-
sa, con l'infallibilità dell'intera Chiesa e dell'intero episcopato in
credendo, e cosl avanti. Tuttavia le trattazioni storiche sul significato
del termine 'dogma' hanno già dimostrato che epoche precedenti di
teologia dogmatica non pensavano affatto secondo l'unilateralità de-
scritta da G. EBELING. Se si volesse vedere nelle decisioni necessa-
rie del Vaticano I null'altro che una conseguente restrizione, sarebbe
un grosso errore.
La parola di Dio è divina, assoluta, inesauribile; il dogma in que-
sto nuovo senso è un enunciato umano, finito, che la Chiesa emette
riguardo al depositum fidei. Questo enunciato è infallibile, autori-
tativo e autentico, soprattutto quando viene espresso dal magiste-
rium extraordinarium in un sollemne iudicium (nelle forme dell'an-
nuncio attraverso un concilio universale, o mediante la decisione
magisteriale del papa). In questo caso si parla d'una 'definizione' in
senso vero e proprio.

'Definizione' è la solenne decisione magisteriale, attraverso la quale viene


stabilito in modo autentico, definitivo ed infallibile, che una verità è
stata rivelata da Dio e che essa come tale deve essere acceuata con fede
divina e cattolica. Una tale definizione si realizza tutte le volte che il
magistero ecclesiastico, con il peso della sua autorità, richiede un assenso
totale ed irrevocabile ad una verità che da esso viene insegnata (cf. os
3074; CJC c. 1223, § 3). In questo caso si può presumere l'intenzione
d'una 'definizione', anche se la parola 'definire' non viene usata. Al con-
trario il solo uso della parola 'definire' (cf. os 1000; 1300; 691, e cosl
via) non è ancora chiaro segno di definizione. Il termine 'definire' non è
univoco in sé, ed anche formalmente non è necessario nelle decisioni che
hanno il carattere d'una 'definizione' Cf. anche le precisazioni di GASSER
al Vaticano 1 sul concetto di 'definire', MANSI 52, 1316.

Il dogma dunque in senso stretto implica una decisione definitiva,


fatta mediante una solenne 'definizione', che allo stesso tempo si-
gnifica una disposizione ecclesiastica e giuridico-ecclesiastica. Una ne-
KERYGMA E DOGMA 205

gazione viene respinta dalla Chiesa come 'eresia' e bollata con l'ana-
tema (CJC cc. 1325 § 2; 2314 § r). Di solito il concetto di 'dogma'
viene esageratamente considerato sotto il punto di vista del cosid-
detto magistero straordinario, cosl come viene esercitato nei concili
universali e nelle decisioni ex cathedra del papa. Ma anche il magi-
stero ordinario e universale della Chiesa ( «magisterium totius Eccle-
siae per orbem dispersae») costituisce 'dogma' quando, in una pro-
fessione unanime di fede della Chiesa, una realtà di fede divina e
cattolica viene insegnata come rivelata da Dio. Anche qui si esige
un assenso assoluto di fede.

J.S. DREY distingue qui tra un dogma tacitum (unanime professione di


fede della Chiesa) e un dogma declaratum (solenne giudizio della Chiesa).
Si potrebbero anche chiamare 'formali' i dogmi dd magistero straordina-
rio, distinguendoli dai dogmi 'materiali'. La forma dell'enunciato riguar-
do ai dogmi materiali è ancora relativamente libera ed aperta, purché ren·
da in maniera corretta il contenuto. Resta senz'altro questione aperta in
teologia come si possa distinguere con precisione il dogma insegnato dal
magistero ordinario dall'altra dottrina, che non viene ancora proposta
espressamente come rivelata da Dio. Si deve qui notare quel che dice il
CJC c. z323, § 3: «Declarata seu defi.nita dogmatice res nulla intelligitur,
nisi id manifeste constiterit». Comunque la concreta ratifica della fede
cristiana non può mai limitarsi solo ai dogmi formali. Questi medesimi
dogmi sono personalmente compresi e ecdesialmente colti o vissuti nella
realtà solo quando si prendono nella loro omogeneità con conoscenze, ade-
sioni e modi di condotta simili. Un'esatta demarcazione non è dunque
molto significativa e forse soprattutto neanche possibile (cf. su ciò os
2880; 2322; 3407 s.; 3503; 3884).

I due elementi essenziali per il concetto di 'dogma' sono dunque:


I. l'esplicita e definitiva presentazione, da parte della Chiesa, d'un
enunciato quale verità rivelata; il che non esige già necessariamente
una 'definizione' esplicita; 2. l'appartenenza di questa asserita verità
alla rivelazione cristiana, cioè alla rivelazione divina, ufficiale e pub-
blica (ad essa è confrapposta, ad esempio, la cosiddetta rivela-
zione privata), e perciò il suo esser contenuta nella parola di Dio,
quale ci giunge nella Scrittura, oppure (ed anche) nella tradizione.
Con la dichiarazione del Vaticano r sull'oggetto della fides divina
et cathoiica, la definizione di 'dogma' viene data e assunta in modo
univoco: «Porro fide divina et catholica ea omnia credendo sunt
:?06 MODI DELLA Ml!DIA7.ION!

quae in verbo Dei scripto vel tradito continentur et ab Ecclesia sive


sollemni iudicio sive ordinario et universali magisterio tamquam di-
vinitus revelata credt?nda proponuntur» (os 301 r ). In forma più o
meno ampliata questa determinazione del concetto di 'dogma' si
trova oggi nella maggior parte dei manuali cattolici di dogmatica e di
teologia.
Senza dubbio questa determinazione corrisponde ad un tratto de-
cisivo, fondamentale, del dogma in genere. Essa, però, ha fatto pen-
sare fino ad oggi quasi esclusivamente alla 'definizione' Il fatto invece
che nella determinazione accennata anche la presentazione fatta dal
magistero ordinario e universale rkeva il nome di 'dogma' è sl e no
risaputo in modo chiaro, e anche presso i teologi è poco sviluppato
sul piano concettuale ed obiettivo. Naturalmente, i dogmi defini-
ti hanno un grado di certezza più alto e per così dire assolutamen-
te compiuto nel loro carattere forma!~. che poi produce anche i suoi
effetti sui restanti elementi del dogma (come: origine divina, verità,
obbligo di credere, immutabilità, e cosl via). Eppure sarebbe un
impoverimento considerare come essenza totale del dogma solo questo
elemento formale. Nella espressione sopra citata del Vaticano r, la
Chiesa non ha descritto esaurientemente la natura del dogma, in
tutti i suoi fattori costitutivi e così non ha definito (in senso filoso-
fico} questo concetto. Le decisioni dogmatiche del magistero straor-
dinario hanno egualmente in prevalenza l'aspetto alquant-0 giuridico
('dogma' in senso greco) d'un obbligo imposto di fronte ad un errore
esistente. Esse presentano, cioè, una certa forma polemica (così FRAN·
ZELIN al Vaticano I, cf. MANSI 50, 339 B). Proprio a causa di questa
limitazione, le verità definite dovrebbero venir riportate al sicuro nel-
la totalità della fede, dovrebbero venir orientate a quel centro del mi-
stero cristiano che la Chiesa annuncia e al quale anche il dogma, nel
senso più stretto della parola, serve. A questo punto, non va sotto-
valutata l'infallibilità che anche il magistero ordinario possiede nel-
l'annuncio, nella liturgia e nelle altre testimonianze della tradizione
viva. Quel che poi chiamiamo 'dogma' - intendendo quasi esclusi-
vamente le decisioni definite -, senza questa appartenenza al tutto
rischia d'apparire soltanto come una formula rigida e autoritativa.
Questa apparenza viene ancor più marcata da un uso superficiale di
nudi passi del DENZINGER (per quanto poi sia in sé utilizzabile una
KERYGMA E DOGMA 207

raccolta di questo genere! ), per cui non c1 s1 cura più del contesto
storico, né della provenienza spirituale e religiosa, né del rispettivo
etbo.r, nel quale una tale decisione resta collocata. Il ritorno alle
fonti concrete in tutta la loro ampiezza offre spesso d'un dogma un
quadro assai più complesso e vivente.
Ciò doveva esser detto per attirare l'attenzione anche sui limiti,
comparsi col mutamento di significato del termine 'dogma' che ab-
biamo tracciato. Ricordiamoci la determinazione di 'dogma' fatta da
TOMMASO o'AQUINO: l'accentuazione dell'insegnamento oggettivo,
che introduce nella verità e nella realtà di Dio altrimenti scono-
sciute; dell'appello all'obbedienza di fede, realizzato nell'autoaper-
tura di Dio; la prospettiva di vitale energia religiosa che il dogma
possiede; la derivazione ultima della sua entità e necessità dalla
speranza nella vita eterna, ecc. Questi tratti essenziali vanno alquan-
to perduti nell'uso del termine 'dogma' nel linguaggio ufficiale e non
ufficiale; tale termine, infatti, si polarizza troppo attorno al fattore
puramente formale dell'autorità. Su ciò si fonda anche il fatto che
i dogmi sono stati considerati prevalentemente solo nel loro carat-
tere di 'proposizioni'. I. KANT presuppone unilateralmente questa
concezione, quando definisce la fede come <(accettazione di proposi-
zioni». Veramente, per eliminare queste restrizioni, si dovrebbe ela-
borare tutta una filosofia della proposizione e dell'applicazione qua·
lificata che di essa si fa in una 'proposizione dogmatica'. Per ora
basti citare TOMMASO n' AQUINO e la tradizione in lui condensata:
«Actus credentis non terminatur ad enuntiabile, sed ad rem» (Quaest.
disp. de ver. r 4,8,5; cf. anche S. th. I ,r 4,14 e; 2-2,1 ,2,2 ). L'atto di
fede trova la sua mèta ed il suo fine non in una formula, ma nella
realtà di cui si tratta. Una parte considerevole delle comuni obie-
zioni contro il dogma in genere, è stata possibile solo perché i difen-
sori dei dogmi non esponevano l'intera e più complessa struttura
d'un enunciato dogmatico.
La distinzione più chiara tra depositt1m /idei e dogma, che emerge
come implicita al testo stesso ufficiale del Vaticano 1, portava con sé
alcune difficoltà. Poiché i dogmi sono enunciati umani sulla parola
di Dio, risulta più chiaramente il loro carattere e la loro immanente
tensione. Se i dogmi hanno anche un carattere 'intellettuale', in quan-
to sono conoscenze umane, essi rimangono tuttavia inaccessibili al-
208 MODI DELLA MEDIAZIONE

l'intelligenza in modo adeguato, ed evidente, perché nel loro aspetto


contenutistico essi significano qualcosa che è di provenienza storica
e prima di tutto soprannaturale-misteriosa.

ee. Origine e senso del concetto di 'dogma' nel modernismo - Que-


sta caratteristica fondamentale può inoltre facilmente indurre a pensa-
re che i dogmi siano soltanto delimitazioni 'negative', cioè che essi
propriamente dicano solo ciò che una cosa non è, senza potere e vole-
re fare un'osservazione positiva di contenuto. Una simile interpreta-
zione s'appella anzitutto alla struttura analogica della conoscenza
dogmatica, e specialmente alle dimensioni della teologia negativa.
Queste tesi costituiscono almeno una premessa per la comprensione
dei dogmi come 'simboli'. ~ quanto si manifesta anzitutto nel mo-
dernismo.

Quel che realmente, fondamentalmente, il modernismo si proponeva, è


estremamente difficile a capirsi. Un influsso confuso di filosofia post·
kantiana, d'un concetto problematico di Simbolo (ScHLEIERMACHER, SPEN-
CER), d'un pensiero pragmatico anti-intellettua!ista, e l'assioma fondamen-
tale, anch'esso a sua volta non privo di tradizione, della moderna cri-
tica storica del XIX secolo, assieme a tutt'altri motivi e retroscena storico-
(ecclesiastici), rendono confuse la storia e hl. natura di ciò che in-
tendiamo col termine globale di 'modernismo'. In esso confluiscono
confusamente richieste perfettamente legittime, accanto a tendenze smi-
suratamente esagerate e sempliciste; molto di frequente esso ha piuttosto
il carattere di suggerimenti, menzionati come per caso, che di tesi com-
piute. Ciò che poi il magistero e<:desiastico nelle decisioni del decreto
Lamentabili dell'anno 1907 (os JIOI-3466) e dell'enciclica immediata-
mente successiva, Pascendi dominici gregis, di Pio x (os 3475-3500) rag-
gruppò in un 'sistema' del modernismo, puntando all'accusa di agnostici-
smo e di immanentismo, non lo si può sempre provare in maniera univoca
nei singoli rappresentanti del movimento. Tuttavia, redatto com'è su un
piano di riflessione e di concettualizzazione sistematico-teologica, esso
manifesta una serie di errori che almeno in maniera latente servivano da
fondamento a quelle generali aspirazioni e movimenti di riforma. Anche
se allo stesso tempo si deve sottolineare che molti problemi toccati dal
modernismo (rapporto che intercorre nel dogma tra il carattere sopran-
naturale e il suo genotipo storico; rapporto tra dogma valido per via
d'autorità ecclesiastica ed esegesi storico-critica; posto della tradizione, e
cosl via) non hanno ancor oggi trovato una soluzione che possa affrontare,
criticamente, ma anche con tutta franchezza, le molteplici questioni e sfì-
KERYGMA E DOGMA 209

de del pensiero modérno. La mancanza di buone trattazioni monografiche


sul modernismo in genere ci costringe inoltre a tentare un excursus, anche
se solo sommario, sul concetto di 'dogma' in A. LmsY. Su ciò cf. anche
E. PoULAT, Storia, dogma e critica nella crisi modernista, Brescia 1968.
R. ScHERER, Modernismus, in LTK2, 7 (1962) 513-516; R. AuBERT, Mo-
dernismus, in Staatslexicon 6, 3 {1960) 794-801 {con bibliografia).

Il fronte di battaglia del modernismo è volto anzitutto contro l'affer-


mazione di A. VON HARNACK e di P. SABATIER, secondo cui l'autorità
ecclesiastico-dogmatica è definitivamente caduta: con M. LUTERO da
un punto di vista religioso, con G. GALILEI nel campo scientifico, e
in generale con il 'metodo storico'. A. Lo1sY, ad esempio, combatte
aspramente l'idea che il dogma sia solo una formula pietrificata; che
esso, quale espressione più adeguata e assolutamente più perfetta
della realtà soprannaturale, conduca a un'esistenza celeste, completa-
mente indipendente da ogni umano pensiero. Fedeltà nei confronti
della tradizione non significa fissismo immobile nella medesima. Cu-
stodire la fede non è sinonimo di puro possesso di formule. Il dogma
e la rivelazione sono caratterizzati, sin nell'intimo, dal dualismo tra
verità trascendente e dottrina che compare concretamente nella sto-
ria. L'irraggiungibile trascendenza di questa verità già di per sé pro-
duce una certa misura di relatività nella conoscenza umana. Il fatto
dello sviluppo della dottrina in una comunità religiosa è la causa
della relatività di questa verità, che nelle parole umane è espressa
solo in modo assai inadeguato. Questa 'relatività storica' testimonia
l'incessante lavorio che lo spirito credente conduce per appropriarsi
di queste rappresentazioni della realtà soprannaturale - che restano,
è chiaro, necessariamente difettose, in ragione della nostra cono-
scenza umana - e per adattarle alla situazione sempre nuova del pen-
siero umano. Il divino resta impenetrabile ed indefinibile. Lo stesso
dogma è solo simbolo d'una realtà. La verità del dogma per la sud
origine e nella sua sostanza è divina e immutabile; ma noi nel no-
stro spirito possediamo solo l'immagine di questa verità. In questo
senso il dogma non ha per noi alcun 'valore oggettivo'. Il dogma si
determina completamente in base ad una funzione: esso deve rag-
giungere l'armonia tra la fede religiosa e lo sviluppo scientifico. La
stessa fede viva esige questo sforzo continuo d'assimilazione, che si
compie ad opera di singoli uomini e d'una collettività nel seno d'una

14 Mystc:rium salutis / 2.
2IO MODI DELLA MEDIAZIONE

tradizione, la cui continuità viene garantita mediante la comunità


stessa. In questo senso l'infallibilità della Chiesa, quale concreta fi-
gura sociologica di questa comunità religiosa, è assolutamente neces-
saria, poiché solo essa ha la possibilità di tener insieme entrambe
le realtà, spesso apparentemente contraddittorie: da una parte, quel-
la d'una fede religiosa assoluta, dall'altra, quella d'~na inevitabile
relatività dei Simboli. Questa armonia non è da garantire attraverso
decreti di un'autorità, bensì attraverso la buona volontà e la dispo-
nibilità precisamente di coloro che si occupano di scienza, e che
insieme manifestano una situazione generale del pensiero cattolico,
indicabile come l'atteggiamento della Chiesa verso la scienza. La ge-
nesi del dogma prende l'avvio da un'intuizione soprannaturale e da
un'esperienza religiosa, che in nessun caso può essere espressa ade-
guatamente una volta per sempre. Questa esperienza religiosa è l'uni-
ca via per giungere al contenuto della fede stessa. Lo sviluppo del-
l'enunciato dogmatico prende già le mosse nella fidente recezione di
questa esperienza. La fede è la percezione del Dio che agisce nella
coscienza umana. Questa coscienza fa sorgere il dogma secondo il
modello d'un processo puramente nat!Jrale. Sempre secondo le ne-
cessità, dapprima, in un'esposizione piuttosto didattica, viene cercato
l'accordo con la scienza del tempo; poi però, con formule dogma-
tiche e anche con articoli di fede, si cerca di fissare la fede nelle
grandi e significative posizioni che di volta in volta contrassegnano il
suo sviluppo. Lo stesso dogma è dunque variabile. Esso non segue
la ·legge d'una verità cristallizzata in formule morte, segue invece il
movimento della vita storica e concreta, molteplice, sempre di nuo-
vo messa in moto dal 'senso religioso' e dalla 'necessità', sempre di
nuovo assimilata dall'uomo, in corrispondenza con le situazioni eter-
namente mutevoli della sua ragione. A. Lorsy vedeva inoltre dei mu-
tamenti tanto grandi tra l'originale contenuto del Vangelo e le succes-
sive formulazioni del dogma cattolico, che giudicò questo sviluppo
prevalentemente come 'surrogato': il senso originale vien trovato
mediante una 'critica' dei documenti della Scrittura; diverse da que-
sto sono .da considerarsi le altre 'estese interpretazioni', prodotte da
parte della Chiesa storicamente vivente.
Su questa linea era in fondo anche un articolo di En. LE RoY, dal
titolo 'Che cos'è un Dogma?', nella rivista «La Quinzaine» ( r905).
KEllYGMA E DOGMA 2II

L'intelligenza del dogma deve essere liberata da un intellettualismo


superato e soltanto nocivo per la Chiesa. Anzitutto, il dogma ha un
senso solo negativo. 'Dio è persona' significa solo che non si può
dire che Dio sia impersonale. In senso positivo, invece, la natura
del dogma si trova decisamente nel campo dell'azione e designa più
un'indicazione per il retto comportamento religioso e una guida ad
agire con fede, che un'illuminazione intellettuale dello spirito. Cosic-
ché, in ultima analisi, la prospettiva puramente pragmatista pone il
momento morale-pratico della rivelazione al di sopra del significato
intellettuale-concettuale.
In queste tesi, formulate sotto influssi molteplici, la Chiesa vide
una minaccia per il vero concetto di rivelazione, di immutabilità e
soprannaturalità della fede o dei dogmi. Di fatto, però, i teologi d'al-
lora non erano sufficientemente preparati ad una discussione radi-
cale con il pensiero moderno. Essi erano in difetto nella scelta di
adeguati strumenti logici e di categorie concettuali, nella conoscenza
approfondita della stessa problematica del mondo concettuale della
filosofia moderna, e fors'anche nella necessaria familiarità con i reali
e obiettivamente indispensabili enunciati base d'una tradizione cat-
tolica in sé ricca e non sempre facilmente penetrabile. Forse questo
fatto si riflette anche nella sicurezza, talvolta pressoché sconcertan-
te, con cui sono ideati quegli sforzi e abbozzi sul senso del dogma
cattolico: essi non rivelano molta coscienza dell'enorme difficoltà di
quel compito. Tuttavia il modernismo ha il merito d'aver segnalato
l'urgenza di questa discussione. E la decisione concreta nella crisi
modernista, per quanto in proposito fosse necessaria una reazione
del magistero ecclesiastico, all'interno della Chiesa è stata una vera
tragedia. Nonostante questi interventi d'autorità, permangono an-
cora ragioni sufficienti per rinnovate messe in guardia nell'enciclica
Humani generis di Pio XII {ns 3881 ss.). Comunque, per la teolo-
gia di questo tempo, anche per via di questi interventi disciplinari,
ne risulta una notevole timidezza di fronte alle questioni poste sul
tappeto, ed una riservatezza alquanto sterile, considerato il lavoro
non ancora .svolto. Forse, si può dire che proprio la teologia degli
ultimi anni sembra impegnarsi in questi problemi con più coraggio.
212 MODI DELLA MEDIAZIONE

ff. Breve1excursus sulla distinzione del concetto di 'dogma' - Sulla sud-


divisione dei dogmi dobbiamo dire ancora qualcosa, dal momento che tale
differenziazione non si opera immediatamente quando si studia la teori.i
della conoscenza teologica e delle qualifiche teologiche. Le differenze si
traggono da diversi criteri. In corrispondenza alla p~esentazione eccle-
siastica, noi abbiamo distinto dogmi formali e (semplicemente) materiali,
da J.S. DREY chiamati anche dogma declaratum e dogma tacitum. Secon-
do il contenuto e la portata si possono distinguere: verità generali e fon-
damentali della fede cristiana (articoli di fed.e, articoli fondamentali, regu-
la fidei), e dogmi speciali. Per quanto contro il coslddetto Fondamentali-
smo si debba riaffermare la formale identità di valore di tutti i dogmi,
poiché appunto sono garantiti da Dio e definitivamente proposti dalla
Chiesa, tuttavia la distinzione data ha pure il suo significato. I dogmi,
infatti, in corrispondenza con le verità di Dio in essi indicate, anche og-
gettivamente hanno un significato di salve~za positivamente diverso. Se-
condo il diritto ecclesiastico ciò è evidente per il fatto che non tutte le
negazioni eretiche d'un dogma vengono qualificate già come 'apostasia'
da tutto il cristianesimo (cf. CJC, can. 1325 § 2). Viene fatta poi un'ulte-
riore distinzione secondo il contenuto, per cui, ancor più in particolare,
gli stessi dogmi fondamentali si distinguono in dogmi necessari per la
salvezza e dogmi non necessari: i primi sarebbero quelli che debbono
esser creduti esplicitamente (per necessità di mezzo o di precetto: neces-
sitas medii, necessitas praecepti) per condurre alla salvezza; i secondi,
quelli per i quali basterebbe la cosiddetta fides implicita.
Ulteriori distinzioni si incontrano considerando il rapporto dei dogmi
con la ragione: dogmi puri son quelli che sono conoscibili solo attraver-
so la rivelazione; si tratta quindi dei misteri nel senso più stretto; dogmi
misti, quelli i contenuti dei quali, naturalmente in grado diverso, pos-
sono esser conosciuti anche dalla ragione umana. Supponendo che ve-
rità di ragione veramente pure, riconosciute con evidenza, possano tut-
tavia venire anche credute dallo stesso soggetto, i cosiddetti dogmi misti
si distinguono anche dalle verità di ragione, che sono 'eguali' nel conte-
nuto: in quanto dogmi, essi vengono colti nel tutto della rivelazione e
della fede salvifica, e compresi nella fede. Presentano cioè la loro verità
nell'orizzonte dei misteri soprannaturali (il che certo andrebbe spiegato
più dettagliatamente), stanno in un proprio rapporto con i dogmi puri e
li riflettono, e così via. Sarebbe da chiedersi espressamente quanto, e
anzitutto in qual senso, qui sussiste ancora un' 'eguaglianza' di tipo mate·
riale. Non si può negare la necessità di tali dogmi, anche se internamente
non di rado ci si ribella a dover ospitare delle verità di ragione nel campo
immediato del 'dogma'. Tali dogmi sono cioè un indice, che la rivela-
zione di Dio realmente r' accosta all'uomo, che essa realmente interpella
e può anche investire la sfera della sua vita. Con ciò è detto altresl che
KERYGMA E DOGMA 213

il dogma non è semplicemente una 'verità' astratta, garantita in sé nella


sua riflessione teoretica, come certezza di fede, ma che il vero dogma si
traduce di per se stesso nel vasto campo della vita della fede. Gli enun-
ciati di fede - contro ogni tendenza fideistica, soprannaturalistica e pie-
tistica - non sono fin da principio proposizioni ordinate ad una qualsiasi
particolare, speciale funzione dell'uomo, e solo in essa efficaci, ma, pro-
prio in quanto proposizioni di fede, intendono la realtà tutta della vita
umana.
La questione se 'dogma' e 'proposizione definita' siano o no la stessa
identica cosa; se si possano dare, oltre al dogma, altre verità, garantite
con autorità assoluta dalla Chiesa e definite e, a questo riguardo, di quali
verità si possa trattare (i cosiddetti 'fatti dogmatici'; la semplice 'fede
ecclesiastica') tutto ciò viene studiato in altra parte.

Il lungo e complicato itinerario attraverso la storia del termine era


necessario per non cadere in semplificazioni, e per mostrare la fon-
damentale apertura di questo concetto centrale. Dobbiamo ora met-
tere in luce, con un ulteriore sviluppo, la necessità oggettiva della
formazione del concetto di 'dogma', anzitutto in quanto 'dogma'
rimanda a 'kerygma'.

d. La necessità oggettiva del passaggio dal kerygma al dogma

Alla questione posta dai fondamenti scritturistici del concetto di


'dogma', si può rispondere in vario modo. Si dovrà comunque evita-
re un'argomentazione fatta solo di pochi passi, che avrebbe il senso
di giustificare a posteriori lo sviluppo storico-dogmatico ed çcclesia-
stico di determinati enunciati teologici. Non basta addurre ad esem-
pio il detto: «Chi ascolta voi, ascolta me!», per dimostrare senz'al-
tro, con simili espressioni della Scrittura, l'obbedienza di fede do-
vuta a definizioni specificamente dogmatiche.

aa. Tensione tra teologia biblica e teologia dogmatica - Argomen-


tazioni del genere misconoscono prima di tutto la tensione, di tipo
oggettivo e storico, tra il linguaggio e la mentalità kerygmatici della
Scrittura e il modo di vedere, formatosi in parte secondo una deter-
minata concettualità ontologica, dei contenuti dogmatico-speculativi.
Ciò che noi oggi intendiamo con il concetto formale di 'teologia bi-
MODI DELLA MEDIAZIONE
214

blica',31 dal punto di vista della storia delle fdee, ebbe la sua origine
nell'opposizione, aperta o latente, a tutto ciò che è 'dogmatica'. Fin
d'allora è inerente alla teologia biblica il pathos di ricondurre, con-
tro ogni speculazione estraneante, alle fonti più originali di una co-
noscenza teologica pura. Questo distanziarsi dalla dogmatica ha una
delle sue decisive origini anche nella Riforma; e la storia del prote-
stantesimo di questi ultimi tempi insegna che le parole d'ordine
'teologia biblica' o 'kerygma' hanno contribuito· a soppiantare com-
pletamente il pensiero dogmatico. 32 Oggi certo non può più venir
sostenuta - come affermano ad esempio A. VON HARNACK e la sua
scuola, M. WERNER ed altri -, con rozza e solo antitetica asprezza,
l'opposizione ormai ricorrente tra l'originale purezza del Vangelo
e il linguaggio secondario, ontologico, della teologia dogmatica, cre-
sciuto su terreno ellenistico.n La differenza però, considerato anche
il frequente cattivo uso del modo di pensare dogmatico, è indiscu-
tibile. Ne deriva il compito, cui non ci si può sottrarre, d'esporre,
fondandolo oggettivamente, il passaggio dal kerygma al dogma.

bb. Elementi d'un rapporto interno tra kerygma e dogm_a nella


Scrittura - Possiamo avviare il discorso sul rapporto interno· tra ke-
rygma e dogma, accennando, secondo la testimonianza della Scrittu-
ra, alla presenza di professioni di fede già fissate nello stesso Nuovo
Testamento (cf. ad esempio, 1 Cor. 15,3-5; Rom. I.J s.; I Thess. z,
9-10; e cosl via). Naturalmente, nel loto carattere solenne-liturgico-
innico o in un tono dottrinale più prosaico-catechetico, esse 'manife-
stano una varietà d'espressione (d. 'acclamazione' e 'confessione' in
Phil. 2,5-II). Certo, possiamo anche scorgere in queste tradizioni
di professioni di fede qualcosa di più che semplici 'sommari keryg-
matici' o 'aridi schemi' (nel migliore dei casi, essi offrirebbero solo

JI Su questo concetto e la sua storia cf. G. EBELING, Wort unà Gnade, Tiibingen
21960, pp. 71 ss.; H. SCHLIER, Besinnu11g auf des Neue Testamenl, Freiburg 1964, pp.
7·24; 2,-34; 60 s.
l2 Cf. il divenire storko di queste tensi i di cui parliamo infra, riguardo alla
storia dei dogmi' (d. 4 B 1) e supra, cc.
ll Cf. nei particolari A. GRrLLMÉlER, Hellenisierung · Judaisierung des Christentums
als Deuterprinzipien der Geschichte des kirchlichen Dogmas, in Scholastik, 33 (I9,8)
p1-355; 528-n8; P. HENRY, Hdlenismus und .Christentum, in LTK2,' (1960) 2r,.
222 (con bibliosrafia).
KBJtYGMA E DOGMA

il punto di partenza per un esplicito sviluppo teologico). Possiamo


dunque considerarle qualcosa di più che punti base d'una tradizione
catechetico-parenetlca, con valore esclusivamente pratico.14 Tuttavia
un riferimento unilaterale a queste formule di fede, a guardar le
cose più da vicino,35 resta assai problematico, perché esse non mo-
strano affatto una concettualità omogenea già di carattere teologico,
e neppure offrono enunciati materialmente uguali, nel quadro d'una
stessa prospettiva teologica; né rinnegano la loro origine da tradi-
zioni locali assai diverse e da un «Sitz im Leben» altrettanto diver-
so. Il significato di queste tradizioni di professioni di fede in rap-
porto alla teologia dogmatica deve essere piuttosto cercato nel fatto
che il primitivo pensiero teologico cristiano, ivi contenuto,36 si fonda
già su formule di fede generali. E già al tempo della formazione pre-
letteraria dei Vangeli queste formule costituivano dei punti diret-
tivi di tipo vincolante precisamente per la stesura del Vangelo, e
dirigevano e coloravano, consapevolmente o inconsapevolmente, la
predicazione (cf. ad esempio, la funzione di I Cor. 15,3 ss. secondo
Paolo). In seguito si dovrà accennare ancora una volta al significato
della trasmissione delle professioni di fede.
Una norma simile, nella formazione dei Vangeli, è costituita anche
dalla 'tradizione' in genere, senza che questa debba possedere già il
carattere vincolante delle formule di fede. Nei Sinottici questo le·
game, in grado diverso, è più chiaramente visibile. Tuttavia proprio
l'indagine recente ha mostrato anche per Paolo 11 e per Giovanni, la

14 Sul retto criterio per valutare le formule di fede e la paradosis in genere, cf. so-
prattutto il già citato lavoro di H. ScHLIEB.; P. BENO!T, Le origini del Simbolo degli
apostoli nel Nuovo Testamento, in Esegesi e teologia, Roma 1964, pp. 461-487.
lS Esempi e prove, spedalmente su 1 Cor. 15, 1 ss., in K. LEHMANN, Auferweckl
am dritten Tage gemiiss den Schriften, Freiburg 1966, ov'è raccolta anche la restante
bibliografia sul problema della tradizione delle confessioni di fede. Cf. H. CoNZEL-
MANN, Zur Analyse der Bekenntnisformel r Cor. I5,3-~, in EvTh, 25(I965)M1 (con
bibliografia). Sul diverso sfondo teologico delle tradizioni di confessioni di fede, d.
soprattutto W. KRAMER, Christos - Kyrios - Gottessohn, Ziìrich.Sruttgart 196 3; F. HAHN,
Christologische Hoheitstitel, Gottingen 21964, e la relativa disamina in K. LEHMANN
(1,3).
36 Sulla riflessione di fede all'interno del Nuovo Testamento, cf. K. RAHNER, Theo-
logie in Neuen Testament, tr. in BCR, 62, pp .. 167-204, e lo studio di K. RAHNER·
J. RATZINGER, Of!enharung und Oberlieferung, Freiburg 1965, pp. u-24.
37 Cf. i lavori, naturalmente contrapposti, sulla tradizione in Paolo in O. CULLMANN,
E. BAMMEL, L. CERFAUX, E. LICHI'ENSTEIN, B. VAN IERSEL, KL. WEGENAST, ed altri .
.l8 Cf. H. CONZELMANN, «Was von Anfang war», in Ntl. Studien f. R. Buitmann, in
216 MODI DELLA MEDIAZIONE

che il materiale fornito dalla tradizione esercita una funzione deci-


siva ed essenziale.
Un'altra possibilità di comprendere all'interno del Nuovo Testa-
mento la presenza del pensiero dogmatico nel suo senso più lato, si
ha nell'interpretazione dell'Antico Testamento condotta dalla comu-
nità primitiva. L'interpretazione della Scrittura prende il suo avvio
da un avvenimento della storia neotestamentaria della rivelazione, e
dagli enunciati di fede appartenenti ad esso. 'L'Antico Testamento
giunge al suo vero significato profondo solo mediante l'evento del
Cristo.39 Non possiamo qui discutere i presupposti ermeneutici d'una
simile interpretazione, né il concetto esatto di 'prova scritturistica'
usato nel Nuovo Testamento, o il senso diverso dato al termine
'Scrittura' dal Nuovo e dall'Antico Testamento. È però già sufficien-
te notare il fatto della possibilità di questa interpretazione, nella
quale con ogni sicurezza si trovano tracce 'dogmatiche'.
Esempio significativo d'interpretazione dogmatica della Scrittura
nello stesso Nuovo Testamento si ha anche nel fatto che certi enun-
ciati di Gesù (vedi ad esempio, le profezie della passione; i detti
con «il Figlio dell'uomo», ed altri) sono interpretati alla luce della
fede nel messia acquisita dopo la risurrezione. A dire il vero, l'an-
nuncio di Gesù e del Cristo fatto dai Vangeli (e particolarmente dal
IV Vangelo) e caratterizzato da una situazione postpasquale, ha rice-
vuto la qualifica di 'verniciatura dogmatica' in senso assai diverso.
Però oggi, proprio nei circoli 'critici' dell'esegesi, è chiaro che qui
la sola indagine critico-storica non basta più a far comprendere il
Gesù 'storico', che finalmente avrebbe un diritto esclusivo di vali-
dità - e tuttavia, così, sarebbe certo divenuto una figura piuttosto
sfocata. Cosl, ad esempio E. KXSEMANN nel suo linguaggio volen-
tieri paradossale, dice contro J. }EREMIAS, che costui, col fuoco
d'una prodiga erudizione scioglie via dalla primitiva immagine anche
la verniciatura dogmatica, «per affermare alla fine che essa è a prova

BZNW, 21 (Berlin l9H) 194-201; e F. MuSSNI!R, Die ;ohanneische Sehweise und die
Frage nach dem historiscben ]esus, Coli. •Quaest. disp.», 28 Freiburg 196;i (con bi-
bliografia).
J9 Cf. J. RATZINGER, nel volume sopra citato, io collabor112ione c;on K. RAHNI!R, Of-
fenbarung und Uberlieferung, pp. 34·40; ID., Tradition, in LTK1, 10 (196;i): con bi·
bliogra6a.
KERYGMA E DOGMA 217

di fuoco». 40 La radicalità d'una simile impresa ed anche dei tenta·


tivi ad essa contrapposti prova solo, chiaramente, che questo tipo
di tracce 'dogmatiche' non si può eliminare dal Nuovo Testamento,
senza che l'immagine di Gesù Cristo divenga completamente sfocata
e sotto ogni aspetto insignificante.41 Qui non si tratta ancora di
·trarre, da quanto è stato effettivamente accertato, delle conseguenze
positive per una possibile comprensione del dato dogmatico nel Nuo-
vo Testamento (vedi infra); si tratta solo di provare che nella Scrit-
tura neotestamentaria e nella sua stessa essenza vi sono fenomeni
rimarchevoli che non permettono, quasi fosse errato a priori, di li-
quidare ogni cauto discorso che presenti il dato dogmatico come una
realtà all'interno del Nuovo Testamento.
Dal punto di vista del metodo, si potrebbe chiedere, in modo del
tutto legittimo, perché questa interpretazione della Scrittura frammi-
sta di motivi dogf!latici, che troviamo nel Nuovo Testamento, sia
ancora oggi giustificata. La risposta dovrebbe essere data facendo
vedere, a partire dall'attuale coscienza di fede e dall'attuale annuncio
della Chiesa, la necessità d'una traduzione 'attualizzante' del mes-
saggio cristiano (necessità che la stessa Scrittura neotestamentaria
appunto dimostra), e, che, con l'indicazione dei pericoli (di influen-
zare e di falsare il dato rivelato) sempre inerenti ad una simile
traduzione, si perviene ai retti criteri di giudizio riguardo a tali
tentativi; criteri che si possono derivare solo dalla connessione della
attuale coscienza di fede con la fede e la dottrina di tutti i tempi e
di tutte le generazioni della Chiesa, e con le esperienze in esse fatte
esponendo il Vangelo. Tradizione apostolica e magistero della Chie-
sa sono poi solo degli elementi di questa comprensione ecclesiale
della primordiale 'parola'. Un simile procedimento contiene i singo-

40 E. KAsEMANN, Exegetische Versuche und Besinnungen, II, Gottingen r964, p. 41


(cf. l'importante contesto bultmanniano). .
41 Sullo stato della ricerca informa ottimamente A. VtiGTLE, Formazione e struttura
dei vangeli, in L. KLEIN (a cura), Discussione sulla Bibbia, Coll. «Giornale di Teolo.
gia» r, Brescia 11967; Io., Die histor. und theol. Tragweite der heut. Eva11gelienfor·
schung, in ZKT, 86 (1964) 385-417; Io, LitmzriJche Gattungen und Formen, in An·
uiger fur die Kathol. Geistlù:hkeit, 73 (1964); 74(1965) (Serie); R. ScHNACKENBURG,
Neutestamentliche Theologie. Der Stand der Forschung, Coli. «Bibl. Handbibliothek»,
1, Miinchen 1963, capp. 1; 3; 4. Cornggiosi chiarimenti sul fronte più anvanzato dà E.
KAsEMANN, Sackgassen im Streit um den historischen Jesus, in Exegetische Versuche
und Besinnungen, 11, (cf. nota precedente) pp. 31-68.
218 MO!>! DELLA MEDIAZIONE

li elementi essenziali, che ogni discussione sul dititto del lavoro dog-
matico deve premettere all'interno della teologia cattolica.42 Volendo
però fondare le cose in modo più esauriente non ci si può sottrar-
re alle più recenti obiezioni, che toccano in primo luogo proprio
la sostanza fondamentale del fatto dogmatico e i. suoi presupposti.
Gli obiettori ritengono oggi, data l'ampiezza delle variazioni del ke-
rygma neotestamentario, di non incontrare alcuna reale unità della
Scrittura (e con ciò anche della Chiesa). L'espressione di E. KXsE·
MANN è divenuta famosa: «Il Canone neotestamentario, come tale,
non fonda l'unità della Chiesa. Al contrario esso, come tale, cioè cosl
com'è accessibile allo storico, fonda la molteplicità delle confessio-
ni».43 Con questa affermazione della fondamentale indimostrabilità di
up'unità della Chiesa, e con la negazione del diritto d'una pretesa
confessionale di assolutezza, di sicuro cade completamente anche il
diritto, anzi persino la possibilità, di decisioni dogmatiche vincolanti.
La penetrante, unilaterale formulazione di questa espressione non ci
deve distogliere dalla genuina questione, che anche per un teologo
cattolico può esservi racchiusa. Il concetto di ciò che è dogmatico e
il passaggio dal kerygma al dogma, se si passa attraverso la proble-
matica connessa con la cosiddetta 'varietà del kerygma neot'estamen-
tario', possono meglio precisarsi.

cc. L'ampiezza di variazioni del kerygma neotestamentario e della


prima 'teologia' cristiana - La varietà appare già sul piano del les-
sico, ad esempio quando, nella dottrina neotestamentaria della reden·
zione, si ha una molteplicità di concetti che da un punto di vista molto
diverso descrivono elementi singoli: 'perdono', 'guarigione', 'appo-
sizione del sigillo', 'giustificazione', 'santificazione', 'purificazione',
'elezione', 'redenzione', 'trasformazione', 'rinascita', 'superamento',
'vita', e così avanti. Nel Nuovo Testamento non esiste un solo concet-

42 Una buona esposizione di questo tipo offre L. SCHEFFCZ,'K, D~e Auslegung der
Hl. Schrift als dogmatische Ausgabe, in MTZ, 15 (1964) 190·204.
4J Il Canone neotestamentario fonda l'unità della Chiesa?: Exegetirche Versuche
und Besinnungen, I, Gottingen 31964, p. 221. Similmente anche W. Ml\RXSEN, Einheit
der Kirche?, in Ringvorlesung der Evangelisch-Theologiscben Fakultiit der West/ali·
schen Wilhelms-Universitiit Miinsler, a cura di W MARXSEN, Witten 1964: Dar Ncuc
Testament zmd die Einheit der Kircbe, pp. 9-30. '
KERYGMA E DOGMA 219

to formale o materiale, che sovrasti e componga ad unità tutti questi


concetti e motivi soteriologici.44 Una quantità di aspetti diversi nel
Nuovo Testamento serve a determinare la natura dell'azione salvifica
di Dio verso il suo popolo. Venisse elevato a concetto dominante
un singolo aspetto, le conseguenze si farebbero subito evidenti: in-
terpretazioni forzate, coartazioni oggettive, isolamento di temi di per
sé intrecciati in altri, schemi confusi, e cosi via. L'ampiezza di varia-
zioni impedisce di per sé restrizioni, troncature, schematizzazioni
superficiali e contraddizioni. La pluralità di forme, in cui si confi-
gura il primo kerygma cristiano, certamente non ha sole dei van-
taggi. Anche in questioni centrali, esso porta con sé molte antitesi
ed oscurità; alcune formule di Paolo e di Giacomo (d. ad esempio,
Rom. 3,28 e Iac. 2,24) si trovano apparentemente in contraddizio-
ne (cf. ad esempio anche Gal. 3,12; Rom. 7,12; Mt. 5,17 s.; Rom.
I0,4). Le espressioni escatologiche dei Sinottici, di Paolo e di Gio-
vanni sembrano, a prima vista, inconciliabili. Più note sono le que-
stioni sull'ora della parusia; il problema della aspettativa di un av-
venimento imminente; gli enunciati circa i ministeri; le profonde
differenze nei racconti della cena, nella cristologia. Volendo, sarebbe
facile estendere l'elenco di queste difficoltà.45 Tutto il problema del
cosiddetto 'Friihkatholizismus' ( Cattolice~imo primitivo) sta nella
prosecuzione di questa linea. .
Stabilite talr 'contraddizioni', non significa che ci si debba chiede-
re subito necessariamente della loro reale giustificazione. La questio-
ne, per il momento, è solo fino a che punto questa pluralità di fi-
gure del primo annuncio cri5tiano può essere norma della Chiesa.
W. MARXSEN risponde: «Se uno non vuole armonizzare con for-
zature; se, interpretando, non distorce gli enunciati fino a far sì
che abbiano un suono diverso da quello delle loro formulazioni,
ma è invece pronto a comprendere sotto ciò che è detto anche ciò
che è inteso, costui deve venire a questa conclusione: il Nuovo
Testamento, la prima tradizione, per ragioni di contenuto non si

44 Cf. ad es., E. Ki\SEMANN, Erwiigengen wm Stichworr 'Versobnungslehre in Neuen


Te•tament', in Zeit und Geschichte. Festschri.ft R. Bultma1m i;11m Bo. Geburtstag, a
cura di E. DINKLl!R, Tiibingen 1964, pp. 47-59.
•S Cf. E. Ki\st:MANN, Exeget. Verwche und nesintlllllfl.e'1, I, pp. 214-223; W. MAR·
XSEN, Eitlheit der Kircbe? specialmente p]>. 13 ss.; Ii·24.
220 MODI DELLA MEDIAZIONE

adatta ad essere norma della dottrina della Chiesa; perché norma


può essere solo un enunciato in se stesso unitario».'411
Per il teologo cattolico, l'unità delJa Scrittura (e della Chiesa) è
in una certa misura assodata, già in quanto essa è parola di Dio ispi-
rata ed autentica, che ha trovato la sua stesura nel canone neotesta-
mentario. Egli può tuttavia riconoscere la teologia che di fatto si
ha negli scritti neotestamentari, e senz'altro riconoscerla proprio nel-
la sua caratteristica struttura limitata e frammentaria. Risuonano
enunciati teologici, vengono proposti motivi diversi e improvvisa-
mente regna di nuovo un profondo silenzio. Grandi differenze sussi-
stono riguardo a lingua, forma, provenienza e radicamento nella vita
vissuta della comunità. Le più recenti ricerche sulla storia delle re-
dazioni e delle tradizioni dei Vangeli hanno stabilito chiaramente
anche la diversità dei presupposti teologici e dei punti di vista, che
sono determinanti per la scelta, l'ampliamento e l'ordinamento del
materiale fornito dalla tradizione. Così, ad esempio, è per la teolo-
gia delle diverse epoche della storia della salvezza in Luca, per la
teologia dell'epifania in Marco, e così via. Ma tutti questi enunciati
particolari, a loro volta, sono solo dei frammenti d'una 'teologia',
che manifesta con tutta chiarezza come questi 'scritti d'occasione
siano legati alla situazione. Raramente un pensiero elevato viene
seguito fino alle sue concrete ramificazioni, non sempre sono chiare
le connessioni interne, tanto più che questi frammenti, spesso ben
diversi per contenuto e forma, si differenziano anche considerevol-
~ente nel grado e nella profondità della riflessione teologica. «Un'uni-
ca teologia biblica, che, cresciuta da un'unica radice, si mantiene con
ininterrotta continuità, è un sogno e un fantasma». 47 Chi non vuole
immediatamente sottoscrivere questa tesi nella sua drasticità, dovrà
comunque ammettere che, ad esempio, teologia giudeo-cristiana e
teologia ellenistica si differenziano radicalmente. Resta solo da chie-
dersi se, nel senso di E. Ki\sEMANN, sia lecito liberarsi. senz'altro
del pensiero, e dell'esigenza in esso contenuta, d'una teologia unita-
ria, facilmente accessibile, evidente e anzi disponibile all'interno del

46 Einheit der Kirche?, p. J5.


47 E. KAsEMANN, Exegetische Versuche und Besinnungen, n, p. 27; vedi gli esempi
che l'autore adduce, senza che si debba sempre essere d'accoido con le singole moti·
vazioni e l'inquadramento storico-religioso.
KERYGMA E DOGMA 221

Nuovo Testamento. Vogliamo dire che, una volta stabilito il fatto


di una tale teologia pluralistica e frammentaria, non si è ancor com-
binato molto, perché questo fatto esige subito una interpretazione,
o già la porta con sé. Il dato di fatto, considerato in sé solo, è sku-
ramente ambiguo.
La problematica, che soggiace nascosta a questp stato di cose, con-
tiene un principio base della rivelazione come evento che ha vastis-
sima portata: la differenza tra 'Scrittura' e 'Vangelo', nel sènso che
la Scrittura non può venire equiparata semplicemente, senza ulterio-
ri distinzioni, all'evento deJla rivelazione. Anzitutto il pluralismo e
varietà di forme del primo kerygma cristiano mostrano che l'intima
ricchezza della rivelazione si difende già da se stessa contro ogni ten-
tativo troppo arbitrario di unificazione da parte della speculazione
o della cristallizzazione dogmatica. La somma dei singoli passi scrit-
turistid e delle singole testimonianze non è 'il Vangelo'. La storicità
della rivelazione si dimostra proprio in questa inalienabile differenza
tra 'Scrittura' e 'Vangelo'. Vari sono gli elementi che questa tensio-
ne porta alla luce nel quadro del tentativo di una giustificazione del
dato dogmatico nel Nuovo Testamento, e fin d'ora, ad esempio, ap-
pare in modo abbastanza chiaro come essa costringa ad una ricerca
prudente; anzi, mai potrà permettere che il Nuovo Testamento ven-
ga inteso semplicemente come la prima dogmatica cristiana; cosa che
invece fa una 'dogmatica' di pessimo stampo, arbitraria ed alienante
l'essenza della stessa Scrittura, come del resto anche un biblicismo.
E evidente che la Scrittl.\fa non può essere una specie di trampolino
di lancio per qualsiasi lavoro teologico, in modo che offra nel mi-
gliore dei casi, solo il 'materiale'. La questione decisiva sta appunto
in questo: come può venir stabilito ciò che il 'Vangelo dietro ai Van-
geli' dice e vuole. Le molte variazioni non riflettono forse una real-
tà? ma come diviene accessibile questa 'realtà'?
Prima di rispondere a : tale questione dobbiamo però chiederci
ancora criticamente fino a. che punto ci sono note le differenze di
fatto esistenti nella cristianità primitiva e nella sua teologia. Que-
sta situazione l'abbiamo penetrata così poco, e le ipotesi sollevate
sono per forza di cose tanto vaghe e incerte (vedi, ad esempio, la
distinzione di E. LoHMEYER tra una tradizione di Gerusalemme ed
una tradizione stazionante in Galilea; il postulato d'un cristianesimo
222 MODI DELLA MEDIAZIONE

ellenistico di fattura specificamente giudaica, che supera la stretta del


rigido schema: comunità palestinese e cristianesimo ellenistico; le di-
verse determinazioni di tipo temporale e spaziale per il giudeo-cri-
stianesimo - fino agli Ebioniti), che ad ogni modo non se ne trae
alcuna conclusione vincolante. Non si può ad esempio concludere
che il primo cristianesimo sia stato un cumulo di 'confessioni' tra
loro discordanti: in questo caso si farebbe uso - come non di rado
succede - di moderni, anacronistici modelli d'interpretazione, che
possono solo nascondere la relativa estraneità di questo tempo. Né
si può voler trovare la ricercata unità di fondo della Scrittura solo
in formulazioni stereotipe e, in genere, in determinati enunciati. I
criteri per poter assicurare ad esempio una 'concordanza non contrad-
dittoria' di tutte le asserzioni, a loro volta devono avere un campione
di misura, in base al quale si sottopongono ad esame.

dd. Il problema dell'unità teologica della Scrittura - Volendo pre-


sentare sinteticamente, nella loro problematica, i tentativi di raggiun-
gere una norma per l'unità della Scrittura, potremmo dire che essi,
nella convinzione dell'insufficienza del concreto canone neotestamen-
tario,'3 lo interpretano secondo un determinato canone reale, oppure
stabiliscono un altro principio formale d'unità. Per l'introduzione
d'un simile canone reale, si possono già addurre citazioni di LUTE-
RO: «Scriptura est non contra, sed pro Christo intelligenda, ideo vel
ad eum referendo, vel pro vera scriptura non habenda»; 49 «Si adv~­
sarii scripturam urserint contra Christum, urgemus ChrisJum contra
scripturam»;~ «Si utrum sit amittendum, Christus vel lex, lex est
ami/tenda, non Christus». 51 Secondo il giudizio della moderna teolo-
gia protestante, Lutero non aveva anc~~~lto _nrlk__gi_e_yaste___E?n-
segueme metodolOgìélle ques-io sorpre;_dente principio per l'inrerpre-
ta;i_one dell~ ~_crittur~. Solo ora si pone il problema di un'aperta,
reales_ritica alla __~~~?~.J~.'.'!_<:!a della Scrittura. Cosl, ad esempio, per
---··-··

48 Cf. al riguardo i lavori particolarmente penetranti di E. KiiSEMANN. Sul proble-


ma del canone prende una posizione caratteristica G. EeELlll:G, d. Dar Wesen des
cbrist/ichen Glaubens, Tiibingen 3 1963, pp. ir-47, specialmente 40 s.
49 WA, 39 s.; 47,3 s.
50 WA, 39,1; 47,r9 s.
li WA,39,r;47,23s. (Disputationsthcsen De fide, dell'n.9.1535); cf G.EBELill:G.
Worr und Gnade, Ti.ibingen 21962, pp. 72 ss.
KERYGMA E DOGMA 223

E. KA.sEMANN la giustifiS!_z~.~~~. ~ .se(q.fi.dLl,ilv.i.~nc.;._!!or~e_?lo~a


di qu~.!!_critica. «Bisogna lasciar dire al singolo passo scritturistico
qu~ilo che esso dice, m~-<2.~_:ii v_~r:i..&a-~~acc~.~-rLo._~~~~~!~~er pa-
rola_.dLDio! Perché è parola di Dio solo ciò che annuncia e comuni-
ca il ~o!er~ .di.Dio.. manifesto, nel Cristo croci.fisso». 52 Messa a raffron-
to con un simile principio critico-selettivo, la concezione ~tolica
del canone e della tradizione viene designata ~_'..giuridico-indif­
f~~.~,m:~!_a_' .53 Sarebbe solo da chiedersi, allora come di fatto viene
alla luce_l' 'oggetto', di cui si tratta nella Scrittura. Per sfuggire
all'aiuto ermeneutico della tradizione, G. EBELING interpreta il sola
Scriplura dei riformatori, dicendo che «le loro dichiarazioni sulla
chiare~lla Scrittur~ non intendono la chiarezza di tutti i testi,
e perciò neppure la mancanza di contraddizioni del dato letterale;
bensLla. chiarem_ill;ll' 'oggetto' della Scrittura, del Vangelo». 54 Il
problema con ciò è solo spostato, poiché la «chiarezza dell'oggetto
dell.L~tittura» - a prescindere dalla mediazTone..verf:iafe-=riòn è
più ~vidente della chiarezza del testo. La storia più recente della
teologia protestante (ivi compresa la discussione sulla demitizzazio-
ne, ed il volgersi ad una ermeneutica radicale) dimostra appunto che
il 'conffuto'...~ull' ~Qg~~o' della Scrittura non mette assolutamente
in 4i.C:.f!___C]!l_~11~. chiarezza, anzi essa deve sentirsi rivolgere il rimpro-
vero di abbandonare essenziali elementi ed aspetti di questo 'ogget-
j,Q,~ _di ~i9:~rli .!_<;!!sorie formali (per esempio;-ia··aecisione, il solo
'fatto' come elemento essenziale di questo messaggio, e cosl via) le
quali, mediante un'interpretazione del mitologico e delle oggettiva-
zioni in genere, verrebbero ad asserire o annunciare ciò che l'uo-
mo d'oggi deve intendere esattamente.
G. EBELING è certamente nel giusto, quando sostiene, contro E.
KA.sEMANN, c~iJ.9iscorso sulle 'contraddizioni' nel canone è un po'
~,ffrettato; 55 che non~Tp~Òda~é- un giudizio globale ~~pe~~er
notato nel primo annuncio cristiano vere e proprie singolarità non-

s2 G. EBELING, Das Wesen des christ/ichen Glaubens, p. 45.


Sl G. EBELING, Wort Gottes und Tradition, Coli. «Kirche und Konfession•, 7, Géit·
tingen 1964, 151 s.
54 lbid., p. 152.
ss Su ciè, cf. Ibidem, pp. 144-1;14, con molte importanti e arute osservazioni. Cf
infine N. APPEL, Kanon und Kirche, Paderborn 1964.
224 MODI DELLA MEDIAZIONE

ché una molteplicità di figure. Ancora più importante è l'indicazione,


che I:i differenza delle confessioni di fede, e con ciò la questione sul-
l'uniti...!klla Scrittura, non va considerata semplicemente a partire
dalla dive;;-i~t~rp.tetazione di determinati singoli testi. In realtà
costituiscono la dive~~ ~it~tto-kfondaliientali differenze erme-
neutiche dei presupposti (lingua, comprensione della verità e realtà,
appartenenza storica, e altro), e queste riguardano fondamentalmen·
te tutti i testi. 56 Il punto di conflitto, non è solo il richiamo a testi
diversi l'uno dall'altro ('contraddittori'), ma, in modo assai più deci-
sivo, è l'interpretazione degli stessi testi.
La teologia biblica, rettamente intesa, ha appunto questo compito
di consider~ç_jLç9menu~9 stesso della rivelazicme, o anzi di espri-
merlo-fo.:.·.µ.!!.l!. _ll!~E:ier~~pria (vedi i concetti come 'escatologia',
'storia della salvezza', 'sacramento', e cosl via): infatti non può sem-
plicementS!_ipt:~~re le parole e gli oggetti' de~~-~~~~~~~~estare al
linguaggio teQ!Qif<:~-::J?~oprìO·aeT sfngOli-scrittori, 57 ma deve invece
offrire una spiegazione adegli~tade11a-·tè0logia neotestamentaria, fino
alle SJ~-~~.I'! ..i.nteJl_;i~!!L!~ologiche. Deve far trasparire il contenuto
reale della rivelazione e le sue interne connessioni, cosl come essi
vengono colti dall'intelligenza di fede dello stesso Nuovo Testamen-
to. Il problema controverso è ora se, con una ricerca ed un chiari-
mento di questo genex~J _iL.Erocesso interpretativo è già alla fine, o
se ess.Q.. ..troy.11__~ continuazi~;;e:lJna....teOTogia-hffilréa povera~conce-
-------.
pi~a a modo di dizionario, naturalmente è già in partenza incapace
anck.salo d.Jj1_I1battersi n~lle difficoltà inerenti alla rappresentazione
della realtà teol~gi~;,-q-~-;l~--~i-.p~~nta-allostes~O" pe~féro di fede
del Nuovo Testamento.

Per trovare il 'centro' reale della stessa Scrittura vengono proposti anche
~eri; si tratt;'.j)e-rò· al-piiiiff-dlvista -pàfiìèolarré hrn1taTi:-Feresem-
pio la Scrittura viene considerata come j,i_r1ità_.~f!!!l.!ll:illcio' (vedi il lavoro
1eologico di H. DIEM), come unità...fil..Q.rico-salvifica. Ora se 'unità d'annun-
cio' si oppone a_'._tlnit~.QLA2!.Wna ', tutte le differenze si chiariscono be-

56 Cf. G. EBELING, op. cit., p. 148.


57 Più dettagliatamente in H. SCHLIER, Ober Sinn und Aufgabe einer Theologie des
Neuen Testaments, Biblische und dogmatische Theologie, Was heissl Auslegung der
Heiligen Schrift?, in Besinnung auf das Neue Testament, Freiburg x964, pp. 7-24; 25·
34; 3,-62.
KERYGMA E DOGMA 225

nissimo in base alla situazione in cui ha. luogo di volta in volta l'annun-
cio. Solo che la situazione dive!!~.!!....ID!L troppo facilmente il criterio dello
stessQ .m~s~~o; mentre,liel migliore dei casi, essa dà al Vangelo mo-
tivo e spun_~QL!_ll:~.. -~~nza prestar&Ii il suo propi-io carattere a tal punto, che
il messaggio si scomponga nelle stesse mutevoli situazioni. 'Storia della
salvezza.'....a..~~ol~~-~ un concetto ambiguo: è una specie di teologia
della storia, .a_un_..lllCllilClltQ._~.i!i.f..Q_JtllJnterno della teol0glapaolrna? 51
Se poi si individua il 'canone nel canone' in un 'kerygma primitivo' o in
una 'prima testimonianza', 59 ci si immerge in discussioni senza fine. Pro-
prio di_ rc:cc:Q.t_e,_!nfai_tj, __~!. sono fatte storicamente problematichc;_k. co-
struzioni e le ricostruzioni arcaizzanti ael cos.id_d~U.e>_3.~!"Y_gl'!1!LQILmitivo'
Si deve inoltre, verosimilmente, fare i conti, proprio nei primi leiìipi,
con un.!I m<>Jt~licità reJativamente grande (si raffrontino ad esempio i
discorsi degli AÙTdegif apostoli secondo le indagini di U. WILCKENS, E.
HAENCHEN ed altri, con una più precisa analisi di r Cor. 15,3 ss.). Il 'pro-
to-kerygma normativo' resta una questione assai complicata, se per giunta
si bada meno alla realtà cosl com'è espressa verbalmente, che ad una data
concettualità, aprioristicamente stabilita, che si vuol scoprire.

Filologia e storia dei concetti non bastano da sole alla soluzione del-
le questio~i_J.qrr~-~~iitafCl~-~assà·di-~at~~we-da rieìa~~are scien-
tificamente, già enorme, è in continuo aumento. 60 Si pensi che la
traduzione di conceùil:i.il)llcTTc>nC!amén:t'aii,-acrèsempio djnamis come
'potenza' o come 'forza/possibilità', 61 non è senza presupposti. Non
a caso oggi l'esegesi talvolta si rasse8J!?. davanti alle questioni di teo-
logia _4i ~~~troversia, 62 e in fondo riconosce ~olentie~i che--sono pre-
cisamente le . grandi basilari differenze ermeneutiche a decidere le
diverse comp~efi~i~~-C'I~ q~~ii-~~~-;o~~--Jeft"uuoindipendenti e se-
parabili cfalp~ocesso inteTretativo. Cosi viene abbandonato un sem-
plicistico sola s~·;j-p/-;;,..a. 61 c:-;;~1-;iesso si scoprono elementi teologici

51 a.
H. ScHLIER, Besinnung auf das N.T., p. 28.
Cosl W. MARXSEN, Kontingenz der O/Jenbarung oder (und?) Kontingenz des Ka-
59
nons?, in NZST, 2(196o)3nss., specialmente p.363.
60 Cf. la 1eslimonianza di E. KAsEMANN, al quale, Ira gli esegeti, non si può cer-
tamente negare il senso del compilo dello s1orico: «La piccola guerra degli specialis1i,
in cui si è molto più sparato e fallo confusione che colpito e deciso, diviene sempre
più impenetrabile• (Exegetische Versuche und Besinnungen, 11, 241).
61 Cf. la controversia E. KASEMANN - R. BULTMANN, in Exegetische Versuche und
Besinnungen, II, t86 nota.
62 Cf. E. KASEMANN, Exegetische Versuche und Besinnungen, 1, 221 ss.; n, 135; os-
servazioni critiche in G. EBELING, Wort Gol/es und Trlldition, 147 ss.
63 «Con un sola Scriplura ingcnuamen1c vincolanle, nel senso d'un canone u11ual-

15 Mys1erium salmis / 2.
226 MODI DELLA MBDIAZIONE

anche in s. Paolo: finora si riconoscevano solo negli strati più tardivi


del canone del Nuovo Testamento, e li si riguardava come tipica-
mente 'cattolici'.64 «Anche la critica biblica basata sulla iJ:oria ha
subito_nell'epoca moderna l'influenza dell'aspettativa un po' scontata
che il lavoro critico-storico sulla sacra Scrittura fosse ..pemicioso al
cattolicuif!lo e favorevole invece al protestantesimo. Di f~tto però
il lavoro esegetico e storico deiie sciem~ -bibliche, spinto dall'oggetto
del suo studio, ha preso negli ultimi decenni una piega sorprendente,
venend<WP... ~q~~~gpQ,. s.Qt.Jo.. rn.fl~L r.i.&~~~~i1_1!~~.E.~~-~i?.l!.~-~gg_lica ». r.s
L'introduzione d'un 'canone reale', cui commisurare le singole as-
serzioni dei diversi testimoni, diviene oggi problematica anche per
il fatto-che tale canon_r; _v~~IJ~-~tabilito prendendo una posizione di
critica contro i~- a;~~~zioni della Scrittura div-;;t-;-U:;Toro (in opposi-
zione con la regula fidei della Chiesa primitiva e in opposizione con
l'analogia /idei). Anche nella Scrittura lo spirito va provato: 66 la dif-
ferenza fra spirito e lettera diventa il criterio dell'esatta compren-
sio~- _dc:;Ua ~~~_it_t~ra. Dovunqu~-}~omo, arrogan.doslun diritto e
magari dichiarandolo d'origine divina, abusa di Dio e s'illude d'aver-
lo prigioniero, lo 'spirito' vien perduto, ed eccoci di fronte alla 'let-
tera'. Anche se lo 'spirito non viene adoperat() contr~ .. lit _'parola', e
si è consci ~he, a sua volta, anche lo 'spirito' deve venir~- interpre-
tato; anche se lo spirito non è ..!~!~anto_ il .l!.C'.!Jli~o di sempre d'ogni
tw:lizjQ!l~.67 tuttavia qui si mostra l'aporia fondamentale di tutta la
questione sul centro reale della Scrittura criticamente accertato: l'uni-
tà della Scrittura si fonda su un principio ermeneutico, del quale si
deve dire che sta ih armonia con la reale situazione spirituale e teo-
logica del testimone (d., ad esempio, il ruolo di Paolo e di Giovanni
nella demitizzazione bultmanniana, e nella fede della giustifìcazion~

meme vincolante in tu!te le sue parti, la teologia evangelica non la spuma più con-
tro il cattolicesimo»: G. EsEllNG, Wort Gottes und Tradition, p. 149; sulla questio.
ne, IbUi., pp. 9I-I43.
04 Cf. G. EBELING, loc. cii., p. 149; E. KASEMANN, Exege1irche Verrnche rwd Be-
.rinnungen, 11, 239-2,2, ecc.
t.s G. EBELING, Worl Golles und Tradi1ion, p. 149.
66 E. IV.SEMANN, Exegel. Versuche und Besinmmgen, 1, 221 s.; criticameme G. EBF.-
LING, Wort Golles und Tradition, pp. IP·IH.
67 «Spirito e tradizione non è che debbano essere identici, ma neppure si esclu-
dono necessariamente» (E. KASEMANN, E.-ugelische Versuche und Besinnungen, u. 26~).
ltERYGMA E DOGMA 227

come norma interpretativa in E. KXsEMANN ed altri). Ne consegue


che l'unità della Scrittura, in definitiva, sii' può realizzare soltanto
nell'in~_etto e nello spirito ~e.ll.'.~t~!P-~~~ç,_SL_p_erde_..d@gue l'unità
a sé stante, 'oggeifrva'.61
Gli altri tentativi di presentare un'unità,69 peccano già in partenza
di particolarismo, poiché si pongono in d1~sa comrQ..l!:!~ri. enunciati
base o altri prindpi esplicativi, i quali, anch'essi, possono sollevare
almeno la· pretesa CICrappr~sentare un elemento essenziale della Scrit·
tura. Cosl h~limiti il. ~~!1_cetto di dossol~ia: 70 esso (come ad
esempio voleva E. ScHLINK) non può costituire l'unico elemento di
struttur..3-JMla S~!1Jess~n~..f~istologica . .E chiaro che il problema non
si risolve nem->1.1:!':. e_~~frr~~QQ altelem~!!to dogmatico gli enunciati in
cui s'~sprime la confessione (come oggi spesso accade nella teologia
evangelica).71 . ~tert~appartiene all'essenza della confessione valida,
che questa ve!!Sa assunta con responsabilità propria. Ciò significa
che il richiamar~-· alii_.çgiif~~~L<i_~e--d~lli,.~:!iformB," come ad una testi-
monianza normativa per la dottrina ecclesiastica, obbliga ad una ela-
boraziQP.~ teologica personale, 'sia per quello che riguarda la sua giu-
stificazione,- ·sia pe°tquello che riguarda l'attualizzazione a1 presente
e, quindi, la concrc;~_.i<!e:'!~ifi~~ione della dottrina tradizionale della
Chiesu.72 Poiché la 'confessione'-~è"1ègata&lla-genesrspedlica delle
dichiarazioni dottrinali della Chiesa {«alla --;i1~~~i~ne ··~ccezionale di
decisio;~-·1~-~i di nuovo si ;entire a voce alta quel che fa sl che
fa
la Chiesa sia la Chiesa, separando e allo stesso tempo lasciando ap-
parire la concreta comunità ecclesiale»), essa non conosce una pro-
gressiva fis~jone e una sempre più crescente differenziazione della
dottrin~ eccle~i;J~.···c;~ E~·EiING;·iOquesta -essenz18fe._differenzafra
dogma e confessione, vede anche il motivo legittimo per cui, ad
esempio, non si son dati nella storia del protestantesimo moderno

68 Su ciò vedi anche W. PANNE.NBEllG, W'as ist eine dogmatische Aussage?, in Pro
veritate Festgabe fuf Erzbischof Lorenz Jaeger und Bischof Wilhelm Stiihlin, a cura
dì E. SCHLINK und H. VoLK, Miinster 1963, pp. 33<)-361; 348 s.
69 Cf. ad es. W. PANNENBEllG loc. cit., specialmente pp. 249-2jI (con altre indica-
zioni), da cui si può attendere con ragione ulteriori schiarimenti.
70 Cf. la critica di E. KAsEMANN, Erwiigungen zum Stichwort 'Versohnungslehre im
N.T.', p. :57·
71 a. ad es. G. EeELING, \Vort Gotus und Tradition, pp. 166-170.
72 1bid., p. []O.
228 MODI DELLA MEDIAZIONE

né la formazione di confessioni, né fissazioni dottrinali che siano ri-


levanti ed inequivocabilmente rintracciabili nei testi; 73 cosicché que-
sto fatto non sarebbe solo un segno d'indebolito e ridotto senso
ecclesiale, quasi fosse un sintomo di decadenza. Anche là dove non
si ~~~gr,i_ç>_,,_ _!:1,ç_ _si __Y.?.8liono condividere tali chiari inasprimenti,
affrontando tali questioni ci si imbatte in '(Hfficoltfpressoché in-
sormontabili: finché il concetto di 'dogma' viene mantenuto,74 e fin-
ché esso funge da concetto relativo (alla predicazione, alla rivelazio-
ne, al Dio che si manifesta e si offre, e così via), rimangono poco
chiare la possibilità appunto e l'evidenza d'una tale 'concordanza'.
di crollo del concetto base nella teologia attuale dipende dal fatto
che.._ __s_e,m.py_e più ristretto alla sfera intellettuale, ess~ noQ__~_più_~~n­
tita come un fenomeno ecdesiale:·ma perlo più solo come un feno-
meno teologico, come materiale per l'elaborazione scientifica. In qua-
si tutti i tentativi dogmatici, la relazione alla predicazione copre
l'insicurezza propria alla formazione del concetto di dogma». 75
Non basta dunque dire che l'unità della Scrittura è I' 'oggetto'
deJla rivelazione, e che esso è .fissato nel dogma; anche tutte le varia-
zioni del primo kerygma cristiano servono in fondo solo all'unico
oggetto. «Ciò che esso ritiene necessario, non è che appaia e venga
custodita la sua terminologia, ma il suo oggetto. L'ampiezza di va-
riazioni impedisce abbreviazioni, restrizioni, smussamenti ed incom-
prensioni. Le variazioni non cessano di rispecchiare, in tutte le ri-
frazioni, l'unico oggetto; e vengono colte dagli apostoli solo nella
misura in cui ne sono capaci».76 Anche W. MARXSEN rileva che nelle
diverse interpretazioni, ad esempio dei diversi racconti della cena,

7l Cf. G. EBELING, loc. cit., pp. 167 s. Inoltre: Die leirchenlrennende Bedeutung vo•1
Lehrdifferen2en, in Wort u11d Glaube, Tiibingen 21962, pp. 161-191.
74 Cf., ad es. K. BARTI!: di dogma è la concordanza dell'annuncio ecclesiale con
la riv~Qn~ testimoniata nella sacra Scriuura• (KD';-i/x,---zUriffi" *1964, p. 28o); la
dogmati;; ha-ifcompTto----;Ql"-àlé«CreTn-questione l'uguaglianza tra la Parola di Dio
e la parola umana nella sua forma di annuncio ecclesiale, per averne una conferma»
(1 bid. ). Vedi più avanti, ibid., pp. 283 s.; 289; 290. Altre testimonianze al ri~ardo
in W. ELERT, Der christliche Glaube, Hamburg 319,6, pp. 43 ss.; P. ALTHAU~, Die
christ/iche Wahrheit, Giitersloh 519,9, S 24; O. WEBEI!, Grundlagen der Dogmatile,
1, Neuk.irchen l1964, pp. 43-49. P. TILLJCH considera oggi impossibile l'uso dei termi-
ni 'dogma' e 'dogmatica': vedi la sua Systematiscbe Theologie, 1, Scuugart l19,6, pp.
41 ss.
1s G. GLOEGE, Dogma, in RGGl, z (1958) 223.
76 E. Kii.SEMANN, Erwiigungen 2um Stichwort 'Versohnungslehre im N.T.', p. 58.
ICERYGMA H DOGMA 229

si tratta pur sempre d'un unico oggetto. 77 Che cosa vuole dunque
l'indagine critica, quand'essa porta scompiglio nella tradizionale com-
prensione di questo oggetto dogmatico del Nuovo Testamento? «Vien
criticato quell'uso, che fa del Nuovo Testamento qualcosa come un
libro di ricette, con il cui aiuto si possono risolvere immediatamente
questioni dogmatiche. Viene criticato quell'uso, che pensa di poter
intendere gli scritti neotestamentari come dei discorsi rivolti im-
mediatamente al tempo presente. Ma con ciò allora viene criticato
proprio quel metodo cli servirsi della Bibbia, con il quale ogni Con-
fessione pensa di poter provare la propria concezione a partire dal
Nuovo Testamento ... Non i testi stessi dunque sono l'oggetto. Essi
invece sono dell'oggetto la testimonianza condizionata dal tempo e
dalla situazione». 78 Se poi, come il mistero più intimo della confes-
sione cristiana di fede, viene suggerita la proposizione «io credo in
Gesù Cristo», nessuno davvero tra quanti ambiscono al nome di
cristiani negherà questa proposizione. Ci saranno però subito mille
possibilità d'intenderla, e tutte le diatribe cristologiche del primo
millennio si presentano con la questione, sempre dibattuta, chi mai
sia questo Gesù.
La storia della fede cristiana dimostra appunto che non basta fer-
marsi alle parole della Bibbia. Qualora il teologo sistematico, in una
considerazione puramente 'storica', si fermi alla parola della Scrit-
tura, egli priva la Scrittura medesima della sua vicinanza al presente
e della sua efficacia. Nella scienza teologica e anche nella semplice
vita di fede non vi è alcuna relazione immediata e senza presupposti
con la Scrittura, se si trascura la storia dell'appropriazione del Van-
gelo da parte della Chiesa. 79 Chi agisce come se non avesse alcuna
tradizione, e volesse attaccarsi unicamente ad un'ostinata sola Scrip-
tura, sarebbe solo più profondamente irretito dalla sua propria pro-
venienza, divenutagli ormai completamente ignota.ro È indiscutibile
il fatto che il linguaggio del Nuovo Testamento non offre alcuna

n Cf. W. MARXSEN, Einh~it der Kirche?, pp. 23 s.


1aw. MARXSEN, op. cii., pp. 27-28.
79 Testimonianze della teologia evangelica per questa concezione, in P. ALTHAUS,
Die christliche Wahrheit, p. 2r3; E. KJNDER, Schrift und Tradition, in Begegmmg
der Cbristen. Festschrifl fur O. Karrer, a cura di M. RoESLE - O. CULLMANN, Frankfurt
am Main 1959, p. 127.
80 Cf. H. ROcKERT, Schrift - Tradition - Kirche, Leineburg r951, pp. 23 s.
230 MODI DELLA MEDIAZIONI::

univoca possibilità di orientarsi su ortodossia ed eresia, e che la


scrupolosità storica proprio sul piano filologico ha messo in chiaro
le variazioni come proprietà del primo annuncio cristiano.11 Si può
anzi provare che l'annuncio cristiano e la prima teologia, che già
emerge nella stessa Scrittura, non consistono nel recepire, senza aver-
li esaminati, contenuti ed enunciati religiosi ben fissi (li si voglia
di provenienza giudaica o ellenistica, gnostica o altro), bensì in una
reinterpretazione delle articolazioni verbali assunte dalla tradizione,
attuata mediante il confronto con la rivelazione storica in Gesù Cri-
sto.82 La formulazione verbale, di volta in volta tramandata, non può
divenire norma della retta fede. L'arrestarsi a modi tradizionali di
esprimersi, spesso conduce piuttosto all'eresia che all'ortodossia (co-
sl, ad esempio, il monofisismo ed il monotelismo, secondo i recenti
studi di J. LEBON ed altri, sono 'eresie' proprio perché si rifiutano
di seguire anch'essi una distinzione verbale-concettuale, in un tempo
in cui le formule tradizionali erano divenute di fatto equivoche).
Ciò che più tardi 'divenne' eresia può esser stato a suo tempo forma
e manifestazione di retta fede (cf., ad esempio, la teologia cosiddetta
'subordinaziano-storicosalvifica' del II e del III secolo, ed il signi-
ficato di Nicea!). La fuga nella tradizione ed in un dato linguaggio
di valore assoluto può significare la possibilità d'una nuova eresia. Lo
sviluppo del pensiero cristologico della Chiesa primitiva è una prov>t
dell'esattezza d'una simile affermazione.SJ Questa situazione non cam-
bia neppure con l'approvazione dei dogmi: anch'essi prendono parte -
forse in misura ancora maggiore - alla necessità d'attualizzazione
inerente al messaggi9 cristiano (proprio per questa traduzione, di
volta in volta nuova, in ambienti linguisticamente diversi, si ha ap-
punto il dogma!). Perciò non è che la teologia cattolica affermi che
proprio la Scrittura è oscura, o lo sia l'oggetto della Scrittura nella

81 Su ciò - anche da un pumo di vista filologico - vedi soprattutto gli studi di


Il. KoESTERS, Haretiker im Urchristentum als thwlogisches Problem, in Zeit und
Geschichte. Festgabe fur R. Bultmann wm 80 Gehurtsta~. a cura di E. Dl)IKLER.
Tubingen 1964, pp. 61-76.
si Esempi in H. KoF.STERS, cii. pp. 69 ss. (l'interpretazi isolata è cmo mo!·
co discutibile).
81 Sulle molteplici incomprensioni, ad es. del subordinazianismo, nella ricerca della
scoria dei dogmi, veùi W MARCLIS, Der mbordìr1atùmismus als historiologischcs Phii-
110111e11, J'vlilnchcn 1963. Cf. A. WEBER, Archè (Et•sebius), Roma 1965.
KERl'GMA E DOGMA 231

sua formulazione linguistica, mentre chiara, sola e per sempre, è l'in-


terpretazione dogmatica di questa Scrittura. L'interpretazione dello
stesso dogma non è possibile senza riferirsi all'origine stessa, da dove
il dogma, nonostante tutte le inadeguatezze di traduzione e di di-
stinzione, ritorna di nuovo all'oggetto, e, lasciando tutte le polemi-
che costruzioni, si raccoglie in esso, onde acquisire i criteri per una
distinzione.84
Ci resta quindi, da ultimo, il compito di dimostrare che il dogma
è lo sviluppo dell'oggetto della Scrittura rettamente inteso. Molte
obiezioni contro la tesi d'una ampiezza di variazioni, rit~nuta esa-
gerata, del primo annuncio cristiano e contro il fatto che la Chiesa
cattolica intende il canone in modo giuridico-indifierenziato, vengono
superate facilmente, richiedendo al più un singolo rimando ai rispet-
tivi fatti. Così, ad esempio, sarebbe da mostrare che la teologia cat-
tolica, nella validità d'un canone senza tagli, non è costretta a ve-
dere una giustapposizione livellatrice degli scritti canonici, nel senso
d'una raccolta senza vita. Sarebbe inoltre da dimostrare che il con-
cilio di Trento parla di diverse gradazioni dei libri biblici.15 Non è
lecito, poi, ridurre fittiziamente il messaggio neotestamentario ad un
unico elemento, né trascurare la successione storica (vedi ad esem-
pio, la situazione della lettera di Giacomo rispetto alle lettere di
Paolo).86

ee. La fondamentale apertura della Scrittura come possibile riman-


do al dogma - Ricapitolando, si può con O. Kuss 17 definire senz'al-

84 Un po' esageratamente, ma non senza verità, H. KoESTERS dice sull'ortodossia


codificata nella tradizione e sulla necessità dell'interpretazione di queste voci di anti-
che controversie, divenute storia: «Queste risposte hanno già perso la loro attualità
storica e la loro forza, dal momento in cui sono state accettate come tradizione valida;
sl, la tradizione come tale si muta in eresia, non appena si cerca di ripristinarla»
(H. KoESTEllS, op. cii., p. 76).
85 Cf. H. JEDIN, Sloria del concilio di Trento, 11, Brescia I962, pp. 71 ss.
16 Riguardo al carattere di 'storia della tradizione' nell'essenza del primo cristia-
nesimo, il gruppo dei più giovani teologi evangelici, che si raccoglie attorno a W
PANNENBERG, ha certamente sott'occhio una componente essen~iale d'una storia dcl·
l'originario annuncio crisùano, componente che viene misconosciuta da un'unilaterale
teologia della parola. Cf. Of!enbarung als Geschichte, a cura di W. PANNENBERG, Got·
tingcn 21963; T. RENDTORFF, Uberlieferungsgeschichle a!s Problem syslemar Tbeo·
logie, TLZ, 90 (196') 81-98.
87 Auslegung und Verkundigung, Regensburg 1963, p. 11, nota 5;
MODI l>ELLA MEDIAZIONE

tro la situazione del Nuovo Testamento, in relazione al problema


dell'.unità della Scrittura e della Chiesa, nel modo seguente: «L'uni-
tà teologica del Nuovo Testamento non è un fatto né un problema
del Nuovo Testamento ... L'unità del Nuovo Testamento non s'im-
pone neppure come risultato evidente d'una ricerc-a teologica o sto-
rico-critica. Essa invece, almeno per il modo di riconoscerla, è anzi-
tutto un riflesso dell'unità della Chiesa gerarchica del u secolo, la
quale - in conflitti a volte difficili, i quali sporadicamente si trasci-
narono fino al IV secolo - riconosce i singoli scritti con le loro teo-
logie di qiverso tipo come appartenenti alla 'Scrittura'». L'unità è
anche oggettiva, cioè basata sulla non-contraddittorietà dei diversi
principi e motivi teologici. Sicuramente questa è già una premessa
per la dottrina sull'ispirazione e sulla canonicità della sacra Scrit-
tura. Tale questione teologica viene affrontata in altra parte (parte
r, cap. III). Ora invece, tenendoci su un piano esegetico, possiamo
mostrare che quest'unità, per quanto possa essere nascosta in vasta
e completa universalità, tuttavia è un'unità reale. È da dire anzitutto
che nei singoli scritti del Nuovo Testamento si manifesta una chiara
tendenza all'unità ecclesiale; risulta poi inequivocabilmente che essi
hanno previsto la possibilità ed il fatto d'una falsa dottrina; ciò
significa altresl che il Nuovo Testamento sta per divenire unii dot-
trina; se no sarebbe pure inconcepibile come e perché il cristianesimo
primitivo si basi su comuni formule di fede. 118 Vanno citati in fine gli
studi di H. ScHLIER, il quale esamina sotto un profilo diverso «L'uni-
tà della Chiesa secondo il Nuovo Testamento». 89 Premesso tutto ciò,
qui tuttavia dobbiamo anzitutto cercare di tracciare più chiaramente
alcune linee, che furono già prese brevemente in considerazione nel-
la precedente esposizione.
Gli stessi testi scritturistici sollecitarono il giudizio d'approva-
zione della Chiesa, anche se si tratta di una storia assai complessa,
e storicamente non facile da scrutare nei particolari_ i?. ~tata qui esa-
minata la crescente offerta di tradizioni scritte: «In essa all'esperien-
za della Chiesa si sovrappose la tradizione fondamentale e norma-

83 Cosi O. Kuss, op. cii., p. 1 i.


•9 Besinnung auf das Neue Tes/ameul, pp. r78-1))2.
KERYGMA E DOGMA 233

tiva del fatto della rivelazione». 90 Questa decisione deve venir qui
presupposta anche nel suo significato. Essa viene riconosciuta anche
da una gran parte della teologia evangelica come regola permanente
di vita della Chiesa.91
Infine, la più recente esegesi ci informa che il Nuovo Testamento
presenta ormai in una riflessione di fede la testimonianza della rive-
lazione in Gesù Cristo; ancor più ci informa che il fatto della rivela-
zione non venne mai formulato in parole e concetti senza che «esso,
insieme alla fede, accendesse il pensiero di fede e provocasse la rifles-
sione di fede». 92 Non c'è 'parola di Dio' che non si presenti già come
parola udita nella fede e in essa anche pensata. 93 Cosicché, in que-
sto senso, la stessa 'rivelazione', fin dalle fondamenta e nella sua
essenza, cioè in quanto viva autoapertura di Dio, esige l'uomo che
ascolta e pensa come luogo della sua realtà, senza il quale essa non
può essere. 94 Ma questo già significa che lo stesso Nuovo Testamento
contiene indicazioni per la riflessione di fede e per una possibile
ulteriore problematica sul prolungamento delle sue visuali.
Inoltre, il pensiero che oltrep11~sa la Scrittura non può ancora
esser accusato di abbandonarla. L'osservazione sarebbe valida solo
se le formulazioni, le parole (meglio: i vocaboli) e i concetti della
Scrittura venissero presi per se stessi, senza l'oggetto da essi inteso.
Sarebbe ora da mostrare, in base alle teorie della moderna proble-
matica fenomenologica ed ermeneutica (HussERL, M. HEIDEGGER, H.
LIPPS, GADAMER, ed altri) che, in quanto tale, nella sua profondd
incoscienza ed astrattezza (per dir così) la parola porta con sé ed in
sé nasconde una dimensione interna di pluralità di significato e di
fondamentale apertura. Così, proprio nella accidentale incompiutezza

90 H. ScHUER, Biblische und dogmatirche Theo/ogie: Besìnnung auf das Neue T~­
stame.zt, 2,·34; la citazione è a p. 26. La seguente trattazione si attiene molto alle
esposizioni di H. ScHLIER. Dello stesso v. Teologia biblica e· Teologia dogmatica, in
L. KLEJN (a cura), Discussione sulla Bibbia, Coli. «Giornale di teologia» r, Brescia
l1967, pp. 125·r44.
91 Cf. <oprattutto E. KINDER, Urverkiindigung der Offenbarung Goltes. Zur Lehre
von den 'HeiJigen Schri/ten', in Zur Auferbauung des Leibes Cbristi. Festgabe P
Brunner, KaS11el 1965, pp. u-27.
92 H. ScHLIER, Besinnung auf das Neue T estamenl, p. 26.
93 Cf. K. RAHNER, Wor/ Gol/es (systernatisch), in LTK2, ro (1965).
94 Cf. anche J. RATZINGER, O!Jenbarung u. 'Oberlieferung (in collaborazione K. RAH·
NER), p. J,.
Ml'Ul DE.LU MEDIAZlONJ::
234

del nostro dire, scaturisce una forza linguistica che mette in gioco un
tutto, più ricco di senso, di relazioni a domande e risposte: il sin-
golo soggetto, al momento, non può dire tutto esplicitamente e nel-
la sua· interezza. Se dunque lascia apparire in sé anche quello che
non viene detto, ogni parola racchiude un'eccedenza di senso non
sempre attualmente riconoscibile, che si manifesta solo in una sto-
ria dell'esperienza ermeneutica, e che viene detta in questo discorso
che è la storia. Questa idea moderna in fondo è un'idea antica. Ad
esempio, già all'inizio dell'opuscolo De natura v.erbi intellectus ( pre-
5umibilmente di TOMMASO n'AQUINO, ma che comunque si trova fra
le sue opel'e) si legge: «quod verbum cum re dieta per verbum con-
venientiam habet maiorem in natura sua quam cum dicente, licei in
dicente sit ut in subiecto». Ora, nell'ambito di un retto concetto di
ispirazione, sarebbe da mostrare che questa proprietà della parola
umana riesce fruttuosa solo nella 'parola di Dio sulla bocca umana','IS
dove un'infinità di significato da interpretare viene deposta nel
finito in un modo eminente.
Perciò non v'è alcuna contraddizione se gli scritti del Nuovo Te-
stamento, nati in una determinata occasione e diretti a concreti de-
stinatari, rivendichino una ulteriore e più vasta portata. Forse non
si sa bene, ad esempio, per chi sia stato scritto il Vangelo di- Gio-
vanni. Comunque si può e si deve senz'altro vedere nella lettera
ai Colossesi una lettera ai cristiani di Laodicea. Nelle lettere pa-
storali il vangelo paolino appare esplicitamente come 'eredità', che
Dio custodirà fino agli ultimi giorni, e che Timoteo deve custodire
come 'mode~!n delle sane parole'. In queste lettere diviene anche
chiaro dove fondi la possibilità di trascendere, senza sacrificarla,
l'originaria determinazione, e come avvenga questo superamento.
La parola, in cui si è deposto l'avvenimento salvifico e in cui esso
verrà conservato in forza dello Spirito, è, se si può dire così, una
'proto-parola' (parola primordiale). Essa è detta per una situazione
concreta; tuttavia fa scaturire da sé, di volta in volta, la parola che
illumina ogni situazione. Ciò accade però nell'interpretazione che
la richiama. Essa è una fedele, viva ripetizione del suo enunciato
per il rispettivo presente. Ciò non vale solo per la parola aposto-
9s Gli autori si riservano. all'occasione, di fondare meglio queste idee qui solamen-
te accennate, e di esporle nel loro profondo significato filosofico e teologico.
KEltYGMA E DOGMA 2 3.5

lica, ma già precedentemente per la parola del Signore. Ne danno


già testimonianza i quattro Vangeli. In essi infatti le parole di
Gesù (e naturalmente anche le sue azioni) si presentano nell'inter-
pretazione, spesso per giunta assai diversa, dei vari evangelisti.
Eppure, in ognuna di queste spiegazioni, secondo la convinzione
degli evangelisti e della Chiesa, è presente la parola primordiale.
Questa apertura della parola della Scrittura non solo fonda ogget-
tivamente necessità e diritto della predicazione sulla Scrittura, ma
altresl legittima una teologia del Nuovo Testamento.96 Essa oltrè alla
'teologia biblica', che sopra abbiamo caratterizzato, condividendo le
idee dì H. ScHLIER, esige un approfondimento 'dogmatico'.
Questo approfondimento 'dogmatico' non ripensa più i contenuti
di fede nella maniera in cui questi si presentano nella Scrittura e nel
pensiero di fede della sacra Scrittura. «Esso invece, nel campo da
questa inaugurato e fondamentalmente circoscritto, tenendosi in con-
tinuo contatto con le conoscenze, le esperienze e le decisioni che la
Chiesa vi ha acquisito e che la tradizione custodisce, cerca di an-
dare col pensiero alla realtà stessa».97 Ciò avviene, ad esempio, nei
concetti di 'giustizia di Dio', 'giustificazione', 'sacramento', 'transu-
stanziazione', e cosl via. Ora, non può più essere motivo di obiezioni
radicali il fatto che tale conoscenza usi concetti e parole che sono
estranei alla Bibbia. «Scavalcando i termini per andare con il pen-
siero alla realtà stessa, la riflessione di fede della Chiesa non si allon-
tana dal contenuto oggettivo della rivelazione, al contrario, vi si
avvicina. Ciò che fu pensato nel pensiero di fede della Bibbia fu
poi ripensato dalla teologia biblica anteriormente alla teologia dog-
matica, affinché questa lo rielabori ora con la riflessione, e possi-
bilmente lo approfondisca fino in fondo. Questa 'compiutezza' del
pensiero, quale ha luogo nel consenso di fede della Chiesa, per
quanto lo esiga e lo permetta la situazione spirituale, considerata
nel suo insieme e a un dato momento, può condurre alla fissazio-
ne nel dogma ... Il dogma non significa la fine del ripensamento,
bensl l'elevazione del pensato a qualcosa che è indiscutibilmente e
per sempre acquisito». 98
96 H. ScHLIEll, op. cli., p. 27.
97 H. ScHLIER, op. cii., p. 3r.
98 H. ScHLIER, op. cii., pp. 31-32.
MODI DELLA MEDIAZIONE

Il concetto di dogma ha un effetto fino ad oggi cosl disastroso sul


piano psicologico anzitutto per il fatto che vien pensato quasi esclu-
sivamente come decreto, più o meno arbitrario, da parte di un'istan-
za autoritativa. Reminiscenze storiche come 'inquisizione', 'persecu-
zione', 'morte sul rogo', e parole suggestive come 'sentenza', 'con-
danna', e cosl avanti, creano un'atmosfera, che di fatto, in queste
condizioni, rende il termine dogma insopportabile. Quei fenomeni,
per quanto vadano considerati alla luce della mentalità e del lin-
guaggio del tempo, non si possono negare. Essi però non sono in
definitiva decisivi per il significato reale e vincolante del dogma in
genere. Le precedenti esposizioni sulla storia del concetto di 'dogma'
non hanno solo dimostrato che questo termine nel linguaggio teolo-
gico ed ecclesiale fu assunto relativamente tardi, che esso fu ed è
sostituibile (cf. le trattazioni precedenti sull'articulus fidei: 2 c, bb;
sul concetto di 'dogma' nel concilio di Trento: 2 c, bb); esse hanno
anche dimostrato che attribuire un simile significato vuol dire tra-
scurare storicamente e sistematicamente tutto lo stato di cose, anche
se la teologia tradizionale non è senza colpa.

ff. La parola viva del Vangelo come modo primario di presenza


della tradizione, e la relazione col dogma della Chiesa - Di fronte a
tale confusione, per rendere possibile una chiarificazione anche del-
l'elemento autoritativo, cercheremo ora di mostrare come l'unità in-
terna, nascosta, della Scrittura, che dinamicamente rimanda al di là
di sé, venga custodita in concreto e resa presente proprio quando vie-
ne interpretata la storia della rivelazione, di cui tratta la Scrittura.
Il punto di parténza d'una simile riflessione deve consistere nello
smascherare la falsa apparenza d'una Scrittura rigidamente fissata. La
'Scrittura' dava comunemente questa impressione, e forse le tratta-
zioni avutesi finora la confermavano. Occorre dunque anzitutto far
riprendere più chiaramente coscienza che essa ha il carattere d'uno
scritto d'occasione. I Vangeli non potranno mai negare la loro prove-
nienza dal seno della Chiesa viva, come lo mostra la più recente in-
dagine sulla storia della loro formazione, redazione e tradizione. A
stento ci si può immaginare quanta reale importanza abbia la cono-
scenza nella fede del Gesù pre-pasquale, approfondita attraverso gli
eventi rivelatori del venerdì santo, di pasqua e di pentecoste. La sto-
KEJtYGMA E DOGMA 237

ria anteriore di Gesù riceve così nuovo significato e nuova attualità,


per fondare la fede nel messia ed anche p~r il concreto ordinamento
di vita dei fedeli cristiani. «Di conseguenza, riandare alla vita ter-
rena di Gesù, significava pure attualizzare ed utilizzare la sua storia
e la sua predicazione prejpasquale, appunto in considerazione della
diversa situazione della Chle~a, nata dopo la Pasqua e la Pentecoste.
Perciò la storia post-pasquale di Gesù, dall'inizio fino alla fissazione
in scritto nei Vangeli più antichi, era una tradizione viva, che si era
formata a partire dalla visione approfondita della rivelazione del
Cristo, acquisita mediante le esperienze del venerdl santo e della
Pasqua, ma pure dalle questioni e dalle esigenze di vita della Chiesa
primitiva. Ciò significa che già nel suo stadio preletterario la tra-
smissione sui contenuti della storia di Gesù era una tradizione orien-
tata verso il presente». 99
Ma con questo fatto è anche affermato che il modo primario di
presenza della parola del Vangelo è la presenza personale nella fi.
gura del testimone e del predicatore. Al testimone è permesso un
vero e proprio pensiero di fede; è vietato, tuttavia, ogni arbitrio. In
quanto testimone autentico, egli può rispondere della purezza della
parola: essa non è solo relativamente autonoma, e di per sé efficace
(cf. supra 2 a, ecc.), ma dispone anche degli apostoli (v. soprattutto
i11 Paolo, nella seconda lettera ai Corinzi). Ciò non significa però che
la parola risulti isolata nella sua autonomia, e si trasformi in una
hyp6stasis o in. una dimensione quasi-ipostatica. Nel suo senso ori-
ginale, il Vangelo primariamente è ciò ch'è udito, ciò che vien tra-
smesso per l'ascolto, e si trasforma cosl in obbedienza. La presenza
della parola si ha decisamente nel modus dell'ascolto; questa rela-
zione fondamentale crea quella tensione irrevocabile e irremovibile
tra funzione di conservazione e funzione di attualizzazione: nessun
elemento del tutto estraneo può più essere aggiunto e, ciò nonostan-
te, il messaggio deve essere annunciato e spiegato, portato a com-
prensione in tutti i tempi. In tutta la varietà della predicazione, i
diversi predicatori si sentono tuttavia vincolati 'ad una confessione
comune (cf. solo Eph. 4,5.6). Difficilmente può venir subito perce-

99 A. VOOTLE, Werden und Weun der Evangelien, tr. in «Giornale di teologia» 1,


Brescia l1967, pp. 125-144 (il corsivo è nostro).
MODI DELLA MEDIAZIONE

pita una unitarietà materiale; è giusto anzi dire che nel Nuovo Te-
stamento, se ci sono asserzioni formali, non esiste però una formula
determinata, usata alla lettera da tutti i primi testimoni cristiani,
per annunciare la rivelazione in Gesù Cristo. E anche indiscutibile,
tuttavia, che la 'parola' di morte e risurrezione del Signore, già pri-
ma degli scritti neotestamentari, si condensa in asserzioni formali,
e, nella forma d'una reale tradizione di confessione del cristianesimc
primitivo, s'impone variamente agli scritti che vanno costituendosi
(come patrimonio liturgico-innico, o catechetico-parenetico, oppure
caratterizzato ancora in altro senso). In queste diverse tradizioni si
possono riconoscere alcune poche forme originarie, nelle quali ven-
gono espresse idee teologiche essenziali. «In realtà la storia della
tradizione neotestamentaria ha sempre più chiaramente mostrato che
gli scritti del Nuovo Testamento racchiudono in sé una serie di tra-
dizioni di fede fisse, e soprattutto anche formule di fede che, volerlo
o no, caratterizzano se stesse e il loro annuncio. Una paradosis or-
mai fissa ha per esempio normativamente determinato la struttu·
razione del racconto della passione, ed ha dietro anche la sua teolo·
gia. Schemi di originaria predicazione di fede e formule di fede
emergono ripetutamente e in passi decisivi negli Atti degli apostoli
e nelle lettere del Nuovo Testamento, e si dimostrano norma di fede,
sviluppata poi nei testi ... nondimeno si può accertare la presenza
di alcuni princìpi teologici, costituenti la base della teologia degli
scritti neotestamentari, che la condizionano e insieme trovano in
essa sviluppo. Con ciò diviene chiaro che la teologia che si esprime
negli scritti neotestamentari implica ormai, come fonte prossima di
fede, l'esposizione della concreta parathéke apostolica». 100

Forse il significato di queste tradizioni di fede è posto in una prospettiva


falsa. Esse. non sboccano direttamente nelle ormai svilup_pate con-
fessioni di fede della Chiesa antica, come se queste fossero immediata-
mente il risultato definitivo della teologia neotestamentaria e il documen-
to definitivamente fissato dell'unità ecclesiale. «Per quanto pregevoli siano

100 H. ScHLIER, Besinnung auf das Neue Testament, pp. r,·r6. Cf. anche lbid., no-
ta 20, con il rimando ai lavori di R. BULTMANN, M. DIBELIUS, W. HILLMANN, K.H.
ScHl!LKLE, J.R. GEISELMANN (come completamento, v. la bibl. accennata nelle noie
34, 3,). lnohre G. ScHILLE, Das Leiden des Herrn, in ZTK, ,2(I9'3l I61-205.
KERYGMA E DOGMA

le trattazioni di STAUFFER e di MEINERTZ sulle formule di fede, pure è


da tener presente che già prima del Nuovo .Testamento si hanno formule
di fede della. Chiesa primitiva, mentre le formule di fede della Chiesa
antica non furono assorbite solo dal Nuovo Testamento. Il processo sto-
rico invece è questo: nei Symbola si condensò e si fissò la tradizione scritta
e orale, e il deposito apostolico venne collocandosi nella Scrittura e nei Sim-
boli, con svolgimenti autonomi e reciprocamente influenti l'un sull'al.
tro». 101 La tradizione e la formazione dei Vangeli in genere dunque, già
nello stadio preletterario, era cresciuta attorno alle essenziali fondamen-
tali asserzioni sulla morte e risurrezione del Signore. Contemporaneamen-
te esse s'erano raccolte, come in un centro di cristallizzazione, nelle tradi·
zioni delle confessioni di fede, e a queste si unl la restante tradizione.
«Una tradizione che non abbia avuto da sempre la sua sede nella vita
della comunità credente, non è mai esistita». 102 Un simile pensiero non
può non portare a conseguenze teologiche più profonde. Esso spezza an-
zitutto la rappresentazione superficiale, secondo cui la Scrittura sarebbe
un qualcosa di chiaro e d'indiscutibile, di fisso e d'univoco, senza che
occorra interrogarsi sui momenti costitutivi della sua preistoria, e senza
che essa venga presa in considerazione nel suo significato reale. È vero che
tutti conoscono quasi come verità lapalissiane questi risultati della Formge-
schichte; tuttavia l'indagine teologica, specialmente per quanto riguarda
la fondazione di qualcosa come il 'dogma', non sa troppo apprezzare ed
usare il valore teologico di queste vedute. Questa tradizione orale era par-
ticolarmente esposta ai disordini della propria storia: poteva venir di-
;torta in tutti i modi, essere dimenticata in punti essenziali ed espan-
ìersi non oggettivamente, collegarsi a pericolosi miti gnostici, o ad altri
miti ellenistici, o venir ridotta ad un estratto del tipo d'un codice morale.
«Ma questo fatto è sintomatico: contro questo pericolo legato al carattere
storico della tradizione, l'appello che scaturisce dal fatto della rivelazione,
salvato nonostante mille pericoli, si conserva vivo nel suo linguaggio e
nella sua spiegazione - che erano il linguaggio e la spiegazione della
Chiesa primitiva - in virtù dello Spirito, attraverso la Scrittura e per
essa. Poiché la Scrittura è la salvezza, la conservazione ed il compimento
della tradizione, richiesti dalla sua stessa natura. Essa rappresenta pure
l'assunzione critica della tradizione nella Chiesa. La parola in cui s'espri-
me il fatto della rivelazione, s'inaugura pienamente nel tempo, e per il
tempo soltanto nella Scrittura: in questa, la parola s'iscrive nella storia e
per la storia; in essa raggiunge nel provvisorio la sua forma definitiva, e
cosl anche il suo scopo. Poiché l'evento della rivelazione vuole essere pre-
sente in tutti i luoghi ed in tutti i tempi. Si è trattato d'un evento appun-

1oa H. ScttLIElt, op. cii., p. 20, n. 25.


102 G. Bo1tNKAMM, Geschichle und G/aube i11 NT, in EvTh., 22 (1962) r3.
MODI DELLA MEDIAZIONE

to nel senso che esso, puntando di per sé al campo d'aùone più vicino,
tende ad un orizzonte d'esperienza sconfinato. Ma nella Scrittura esso si
mantiene in contatto col mondo». 103 La conclusiva costituzione d'un can0-
ne può comunque venir compresa solo come un atto di confessione ecclesiale.
Oggettivamente esso significa però: prima che esistesse un 'canone', e
con ciò anche in senso pieno ciò che noi chiamiamo 'Scrittura', la Chiesa
aveva già formato un'altra norma. A. VON HARNACK formula drasticamen-
te il fatto di questa precedenza d'una originaria re.gula {idei: «Originaria-
mente canone era la regola di fede; la Scrittura in verità vi si è interpo-
sta».'°' Questa viva regola di fede (cf. 1 Clem. 7,2: canone della para-
dosis) non viene dopo la fissazione della Scrittura. «L'esistenza di scritti
neotestamentari riconosciuti come apostolici non significa ancora l'esisten-
za d'un 'Nuovo Testamento' come 'Scrittura' - dagli scritti alla Scrit-
tura c'è un passo ulteriore. ~ noto, e non va trascurato, che il Nuovo
Testamento in nessun passo intende se stesso come 'Scrittura'. 'Scrittura'
per esso è solo l'Antico Testamento, mentre il messaggio del Cristo è 'Spi-
rito', che insegna a capire la Scrittura. L'idea d'un 'Nuovo Testamento'
come 'Scrittura' è qui ancora completamente impensabile - anche là
dove 'l'ufficio', quale forma della paradosis, acquista già figura chiara.
Questa situazione aperta, in cui esistono e sono riconosciuti degli scritti
neotestamencari senza che esistano il principio di Scrittura neotestamen-
taria ed un chiaro concetto di canone, arriva lino in pieno n secolo -
precisamente fino al tempo della controversia con la gnosis». 105 J. RATZIN-
GER a proposito della frase di AGOSTINO, che la regula /idei è «de scriptu-
rarum planioribus locis et ecclesiae auctoritate» (De doctr. christ. 3, 2, 2 ),
ha richiamato l'attenzione sul fatto che qui, in un certo senso, viene sen·
z'altro affermata la 'Scriptura sui ipsius interpres', in quanto la Tl'Jl,Ula
che per prima ci apre la Scrittura è presa dalla medesima Scrittura; ma
la Scrittura è al tempo stesso superata, perché l'autorità della Chiesa sta-
bilisce come espres;ione della sua fede il 'canone' La regula /idei, chia-
mata anche fides fino al tardo Medioevo (cf. supra, 2 c, bb), e sinonimo
del più tardivo 'dogma', in effetti non è primariamente una somma di
proposlZloni, bensì 'regola' nel senso d'un primo 'principio' costitutivo
della fede, e precisamente della fede viva della medesima Chiesa, attra-

IOl H. ScHLIER, op. cii., pp. 46-47. Che la fissazione del canone non sia cosa sfortu·
nata, vien proprio anche da G. EBELING, Das W eten des christ/ichen Glaubens, p. 41:
« ... del resto la delimitazione del canone da parte della Chiesa antica, considerata nel
suo insieme, è da definirsi sorp~ndentemente centrata..
104 Dogmengeschichle, n, Tiibingen 4 1910, p. 87, nota 3.
IOS J. RATZINGER - K. RAHNER, Episcopato e primato, Coli. «Quaestiones disp.», Bre·
scia r966, p. 56.
Kl!llYGMA E DOGMA

verso il quale questa si ricollega alla rivelazione divina. La regula fidei


cosl concepita non è solamente fides quae, bensl anche fides qua. 106

A simile concezione non si può obbiettate che fa della Chiesa la pa-


drona della Scrittura. I rapporti sono assai più complessi. Successione
apostolica e accentuazione della 'parola' del 'vangelo' non sono due
opposti. 100 Successione è come esser presi al servizio della parola;
significa testimonianza a favore del messaggio affidato. «L'ufficio, la
successione degli apostoli, si fonda sulla parola ... 'Successione' è man-
tenimento della parola apostolica, come 'tradizione' significa prose-
guimento di testimonianza autorizzata». 108 La teologia evangelica può
veder molto più volentieri nella parola un correttivo a sé stante del
proprio arbitrio. «La parola di Dio fa saltare, secondo la sua opi-
nione, un simile vincolo»: il 'vincolo' della parola di Dio con una
successione episcopale.'"" Questa questione non può venir ulterior-
mente esaminata; no in connessione con quanto vien qui trattato, dob-
biamo però dire che l'idea della successione apostolica non è scaturita
dal principio di legittimazione (inteso in modo puramente esteriore)
della trasmissione dell'annuncio. Esso è scaturito invece dall'unità
variamente composta di parola, sacramento, missione e servizio. 111 E
anche la parola non è senza l'ufficio, per quanto il testimone sia le-
gato alla parola e rimanga subordinato alle sue esigenze. In effetti
egli è testimone solo per i:! fatto di sapersi legato alla parola. Con-
tro certe tendenze all'interno della teologia cattolica e contro certa
prassi, sono da salvaguardare anche la dignità e l'istanza della pa-
rola.112 L'ufficio non si fonda neppure, assolutamente, sul comporta--

106 III (Systematisch} in LTK2, 10 ( 1965).


Cosi anzitutlo }. RATZ!NGF.R, Tradition,
100Per un'argomentazione più in par1icolarc, v. soprauuuo J. RATZINGEll, Das geist/.
Ami u11d die Einheil der Kirche, in Cath., 17 (1963) 165-179.
IO! J. RATZ!NGEll, Episcopato e primato, Coli. «Quacstiones disp.», Brescia 1966,
p. 56.
IO'I Cf. K.E. SKYDSG.V.llD, Kirche, 1v, in LTK2 , (1961) 185.
110 Anzitutto, oltre J. RATZINGER e la bibliografia da lui data (JoEST, ScHLINK), d.
anche: H. Ki.iNG, Struleturen der Kirche, Coli. «Quaesr. disp.11>, 17 Frciburg 21963, pp.
161-169: sull' 'ufficio', pp. 165 ss. (tr. it. Torino 1965). Di nuovo è molto importante:
L. GoPPELT, Das Kirchliche Ami nach den lutherischen Bekenntniuchriften und nach
dem Nerun Testament, in Zur Auferbauung dés Leibes Christi. Festgabe P. Brunner,
Kassel 1965, pp.'97·11,, specialrncnte pp. 111 ss.
111 Cf. J. RATZINGl!R, Das geistl. Amt, pp. 17z.x77.
112 Cf. la formulazione di J. RArzINGER: la parola e il sacramento fondano l'unità
della Chiesa, l'ufficio però la prova: Das geistl. Amt, pp. 177 ss.

t 6 - Mysterium salutis / 2.
242 MODI DELLA MEDIAZIONE

mento di colui che lo occupa. Come ora l'ufficio, rettamente inteso


quale servizio della riconciliazione e della parola, si connetta con
l'unità della Chiesa, è un problema che non può venir qui trattato.
Importante era solo rilevare il carattere reciproco del vincolo che
lega il testimone alla parola, e la parola al testimone; doveva infatti
risultare chiaramente come sia possibile e necessaria questa recipro-
ca incidenza di Scrittura e tradizione, come il carattere di scrittura
della 'Scrittura' sia dato attraverso la fede della Chiesa; 113 e come
il genuino star di fronte di Chiesa e Scrittura produca, sul terreno
della più intima omogeneità, un reciproco influsso, che tuttavia non
riduce al silenzio ma garantisce i sacrosanti diritti della Scrittura nei
riguardi della Chiesa. 114

Con queste elucidazioni deve anzitutto divenir chiaro che l' 'og-
getto' del 'Vangelo' e la richiesta che è implicita nella parola e che
si manifesta nella dottrina e nell'autorità della Chiesa, non sono due
dimensioni poste l'una accanto all'altra, e poi collegate in un secondo
momento e per un di più. Naturalmente ci sarebbe moltissimo e di
essenziale importa02a da aggiungere: la presenza dello Pneuma nella
Chiesa; 115 l'esatto concetto d' 'infallibilità', 116 che, accanto agli aspet-
ti giuridici, dà il suo giusto peso all'infallibilità in credendo della
Chiesa universale e che rende chiari i cosl spesso ignorati fondamenti
dell'infallibilità (in confronto con gli aspetti giuridici); la retta fun-
zione del magistero come norma di fede (che proprio in questa ca-
ratteristica è qualcosa di diverso dalla Scrittura quale norma di fede);
la retta intelligenza della 'tradizione' in genere, e mo1te incompren-
sioni psicologiche, nonché i loro motivi: tutti questi sono temi che
andrebbero illustrati in modo particolareggiato.
Da un punto cosl decisivo del lavoro di controversia teolo-
gica non si può uscire solo con argomenti. Il dato 'dogmatico'

11l Cf. J. RATZINGER, Episcopalo e primato. Coli. «Quaes1iones disp.•, Brescia 1966,
pp. 4,.,9. Tradi1ion, in LTJ(l, 10 ( 1965).
114 Cf. le invettive di K. BARTH in questa direzione (per esempio KD, 1/2, pp. ,98);
d. inoltre H. KONG, Strukturen der Kirche, pp. 326 ss. (ed. il. Torino 196' ).
115 Questa parte non fu mai del tutto dimenticala neppure: nelle: decisioni del ma·
gistero: cf. J. RATZINGER, Oflenbarung und Oberlieferung, pp. ,o ss.
116 Cf. inoltre H. KiiNG, Stru!tluren der Kirche, pp. 309-u' (rr. i1. Torino r965) e
A. LANG, Unfehlbarluit, in LTK2, 10(196,).
KERYGMA E DOGMA
243

non si lascia separare dalla concezione che si ha dell'obbedienza e


dell'ascolto all'interno della rivelazione. La fede cristiana, nonostan-
te tutti gli sforzi del 'pensiero' dogmatico, anzi proprio perché essa
resta pensiero dogmatico cristiano, anche in questo punto rimane
'follia della croce': essa cioè è consapevole di non poter mostrare
e manifestare tutto, poiché l'homo viator, pellegrino nella Chiesa,
non vede la verità, bensì la crede. Così una più profonda introspe-
zione del dato dogmatico, anche in una serrata analisi della 'fede'
cristiana, segnerebbe il passo davanti alla soprannaturalità della fede,
alla libertà della fede, alla oscurità della fede, agli «occhi della fede»,
ecc. Lo scandalo si condensa nel concetto di 'infallibilità' del magi-
stero ecclesiale. Qui, nella presente situazione del dialogo ecumeni-
co, non giova alcun ammorbidimento di tipo irenico. I fronti sono
rigidi, almeno si hanno netti contorni. In questo senso va citato
A. voN HARNACK; «Insieme al vecchio concetto di 'Chiesa', esi-
ste anche il vecchio concetto di 'dogma', e con ciò il 'dogma' sempli-
cemente, perché un dogma senza infallibilità non significa niente. Già
attraverso l'atteggiamento tenuto da Lutero alla disputa di Lipsia, il
dogma era condannato, anche se Lutero mai riconobbe pienamente
la portata delle sue asserzioni, e mai si rese ben conto dell'insuffi-
cienza della sua sostituzione, assai contraddittoria, operata con un
semi-biblicismo. Non manca di grandezza quando s'incentra sulla
sua fede viva; ma il vuoto oggettivo che ne risulta resta scoperto,
né può essere coperto da alcunché. Perciò già nella prima edizione
della mia Storia dei dogmi, io ho costatato la 'fine' del dogma nel
xvi secolo» .111
La scabrosità d'una simile posizione non deve ingannare sull'im-
portanza della 'questione' ch'essa suscita. «Di che cosa si tratta, quan-
do si parla di ciò che è veramente costitutivo per la fede cristiana e
di ciò che è veramente da ritrasmettere, della traditio tradenda, se
questa da una parte è annuncio, parola, vangelo, dall'altra è Spirito
santo e non lettera - anche se in nessun modo Spirito santo senza
lettera? Che cos'è quell'uno che s'incontra come variabile? Di che
lll Briefwechrel mit Adol/ von Harnack und ein Epilog, in E. PETERSON, Theolo-
gische Traktate, Miinchen 19,1, pp. 293-321; la citazione si trova a p. 303 (lettera del
7/7/1928).
MODI DELLA MEDIAZIONE

cosa si tratta quando si parla del cosiddetto kerygma, se esso giunse


non solo a illegittime, ma anche a legittime variazioni?». 118
In conclusione, per rendere ancor più chiaramente visibile la na-
tura del dogma nel suo contenuto oggettivo e nei suoi confini, in un
ultimo paragrafo si cercherà di delineare brevemente i tratti essen·
ziali d'un enunciato dogmatico. 119

e. Elementi base d'un enunciato dogmatico

Le caratteristiche d'un enunciato dogmatico possono venire esposte


nei punti seguenti, senza da parte nostra pretendere di dare una com·
pleta enumerazione di tutti gli elementi costitutivi.

aa. Un enunciato dogmatico solleva anzitutto la pretesa d'essere


vero anche in quel senso formale che ci è n.oto dalla lingua parlat.1
normalmente ogni giorno. L'enunciato dogmatico rispetta tutte le
strutture interne e le leggi, che riguardano e possono riguardare un
enunciato profano: relazione con colui che enuncia, storicità dell'ele-
mento concettuale, inserzione in un contesto storico e sociale, strut-
tura logica, diversità di generi e forme letterarie, inconsapevoli e
non riflesse comunanze e affinità tra chi ascolta e chi parla, senza le
quali non vi ·sarebbe una reale possibilità d'intendersi e d'accordarsi.
Queste e simili strutture d'un enunciato naturale devono trovarsi
anche nell'enunciato dogmatico. Compito della dogmatica in quanto
scienza è di rintracciare questi presupposti ermeneutici come tali e
illustrarli nel contesto della loro omogeneità oggettiva e storica. Una
logirn esauriente dell'enunciato dogmatico, naturalmente, resta anco-
ra oggi per lo più un desiderio, poiché tale studio deve essere fecon-
dato anzitutto da un lavoro filosofico, che pure non si profila chiaro,
(vedi, ad esempio, senso e struttura della parola, d'un enunciato,
d'una proposizione; lingua come medium ermeneutico; relazione del-

111 G. EBELINC, Worl Gol/es und Tradition, pp. IB·IH.


11• Qui ora è ripreso, in parte testualmente, qu3nto K. RAHNER ho pubblicato sotto
il titolo War irt eine dogmatische Aussage? (tr. in BCR, 62, pp 113-16~). Abbiamo
!ano l:ugo uso di questa precedente conferenza, completandola con esempi e rive-
dendola stilisticamente.
KEIYGMA E bOGMA

la lingua parlata d'ogni giorno con la 'terminologia'; necessità e leg-


gi d'una storia del concetto, e cosl via).
Possiamo ancora brevemente notare un isolato, ma non inessen-
ziale aspetto d'un enunciato dogmatico, in quanto enunciato vero:
esso è vero, perché un enunciato umano porta in sé questo senso e
questa pretesa. Esso mira ad esprimere un determinato stato di cose,
che nella sua realtà sta di fronte a colui che parla (che non si iden-
tifica affatto con lui). Non è puramente un'espressione articolata
della condizione soggettiva di colui che parla. In ultima analisi, esso
non mira ad oggettivare la soggettività di colui che parla, ma vuole
accostare a colui che ascolta la realtà che gli ~ppare e, con ciò, la
realtà com'è da lui intesa. Che tale enunciato per giunta porti in sé
elementi soggettivi, in un senso ancora indeterminato, ciò appartiene
certo al dato di fatto di tale enunciato. Ma non si può determinare il
rango d'una proposizione dogmatica solo a partire da questi elementi.
Sottolineare questo significato primariamente oggettivo, non è del
tutto superfluo, poiché in seguito a tendenze fondamentali di livello
primitivo della filosofia moderna, il senso e il valore d'un dogma
sono colti solo in quanto esso sia espressione immediata di un'espe-
rienza viva, ancora attualmente presente o chiaramente risonante.
Anche se tale aspetto non sia assente dal concetto rettamente
inteso di dogma, tuttavia la definizione fondamentale non si può
ricavare esclusivamente secondo l'eflicada del dogma a questo ri-
guardo. Con ciò naturalmente non neghiamo che l'enunciato dog-
matico appaia alle volte in concettualità e orizzonti di spiegazione
che non traducono adeguatamente, sotto ogni rispetto, il fenomeno
che originariamente si ha in vista. Senza dubbio vengono operate
delle trasformazioni. Queste ripropongono i fenomeni originari in
una concettualità, in forme di pensiero e secondo orizzonti d'inten-
dimento che forse non lasciano venir alla luce la più profonda sin-
golarità delle cose; anzi, con l.'assumere determinate premesse, ce
la rendono estranea (vedi, ad esempio, l'assunzione d'una determi-
nata ontologia; dell~ comprensione del mondo che ad essa è propria;
d'una lingua caratterizzata da un'altra comprensione del mondo, im-
plicitamente e nascostamente ancora efficace, ecc.). Elevando però
a principio assoluto questa possibilità che, tenuto conto della fi-
nitezza umana, è sempre in parte realizzata, si dovrebbe vedere in
MODI DKLLA MIUIIAZIDNE

ogni lingua ed in ogni enunciato, 'estranei' a noi d'oggi, un frainten-


dimento ed una fissazione non ogget~iva, che nasconde la verità piut-
tosto che scoprirla. In questo senso, ad esempio, oggi sono tenute in
sospetto la cristologia e la dottrina trinitaria della Chiesa antica,
senza che ci si sforzi di strappare a concetti e modi di pensare indub-
biamente a noi estranei la prospettiva dalla quale ancor oggi essi
contribuiscono realmente, con qualcosa di essenziale, alla compren-
sione dell'oggetto; anche se l'evidenza cosl offerta per noi, oggi, si
dimostra, come un aspetto tra i molti, e di conseguenza come stori-
camente limitato. Non si comP'rendono i fenomeni storici, ad
esempio, se dal punto di vista di un'ontologia esistenziale, a sua vol-
ta superficiale e poco· fondata, 120 si considerano i principi ontologici
dei grandi enunciati dogmatici della Chiesa antica come una povera
speculazione, che si costituisce solo commisurandosi su una realtà
fatta di cose e sulla corrispondente ontologia del 'qui presente'. H.
]ONAS 121 offre un esempio eccellente d'incomprensione e di giudizio
unilaterale, quando dice che il dogma rappresenta una proposizione-
oggetto non dialettica, interpretandola nel modo seguente: «Gli 'og-
getti', le grandezze e gli avvenimenti visibili, ordinati·~ in un oriz-
zonte di realtà unitariamente oggettivo, hanno un carattere di siln-
bolo. Rappresentano gli originari fenomeni intraesistenziali, e cosl
questi a modo di fatti e di procedimenti analoghi a cose divengono
obbligatori». L'atto fondamentale, che rende possibile tale oggetti-
vazione nel senso moderno, è in definitiva una 'fondamentale au-
tooggettivazione' ed è la trasformazione ontologica dei dati esisten-
ziali originari in Jjna cosiddetta 'concettualizzazione del mondo' Di
conseguenza H. JoNAS può anche dire: «In fondo dunque i dogmi
sono autooggettivazioni ». 112 L'interpretazione di questi dogmi ha dun-
que senso solo se, con metodo specificamente 'dialettico', essa spezza

120 Ciò vale, perché un'ontologia esistenziale, renamente autocosciente, deve risol-
vere il problema, se al di fuori d'essa esistano altre ontologie (ad es., della natura,
del mondo matematico), e in quale relazione queste stanno con essa; in altre parole,
deve risolvere il problema d'una 'ontologia fondamentale'. Tale questione non viene
più neppure posta.
121 Augustin und das Paulinische Freiheitsproblem, Gottingen 1930; Anhang 1:
Ober die hermeneutiscbe Stmktur tles Dogmes, pp. 66-76, specialmente pp. 67 ss. (Cf.
anche la 2' edirione riveduta, 1965).
tu lbid, p. 68.
KERYGMA E DOGMA 247

ed annulla la fissazione apofantica-oggettiva. 111 Una simile interpre-


tazione resta fondamentalmente nel giusto, quando vede in questa teo-
logia classica l'influsso preponderante di un'ontologia, che primaria-
mente s'orienta verso la ~matura», ma una tale tesi diviene falsa se
passa ad una generalizzazione: quando cioè, nella ristretta prospettiva
d'una determinata concezione desunta dalla filosofia moderna, ricon-
duce la teologia classica ad una visione del mondo, che solo si com-
misura ai semplici 'oggetti', e si raffigura questo «orizzonte di realtà
unitariamente oggettivo» come una 'oggettività' formalizzata, ridotta
a puri e semplici posti vuoti in un campo omogeneo, e costituita
dallo spirito umano. Questa 'oggettività' non ha quasi più niente a
che fare col concetto assai più ricco di 'natura' e di 'cosa', qual è
dato di trovare in una mentalità influenzata dal pensiero greco e
medievale.·
All'incomprensione accennata se ne riconnette· strettamente un'al-
tra: nel modo di vedere che abbiamo delineato, il dogma ha solo
'carattere rappresentativo di simbolo'; quindi propriamente neppure
afferma l'oggetto inteso, quando questo non riguardi solo fenomeni
intraesistenziali: perciò il vero enunci~to dogmatico sa che non si
riferisce ad oggetti d'esperienza sensibile immediata, sa che non offre
semplicemente l'esperienza spirituale individuale, sa che le proprie
asserzioni possono essere solo analogiche: esse indicano la realtà inte-
sa con l'aiuto di affermazioni positive e del loro possibile supera-
mento mediante trascendenza e neg_atività, con la consapevolezza
però che questo superamento trascendentale dei dati originari non
conduce semplicemente all'assolutamente oscuro e ignoto. Poiché un
enunciato dogmatico vuol essere in questo senso una questione di ve-
rità, tutti gli enUQciati dogmatici non possono essere egualmente veri
o falsi. Lo sforzo moderno di considerare decisivo, per la verità di
un tale enunciato, ch'esso sia riuscito a presentare felicemente, vale
a dire produttivamente per l'interno e l'esterno, l'esperienza religio-
sa soggettivo-esistenziale, sempre unica, trova i ~uoi limiti nel fatto
che lo stesso enunciato esige che sia valido quanto esso intende e
dice. Certo, con questo non s.i vuol negare che vi sia una differenza
tra la verità, che si fa acces~ibile per mezzo d'una conoscenza pre-

m Cf. l'esempio del peccato originale, H. ]ONAS, op. cit., pp. 71 ss.
MODI Dlo:LLA MEDIAZIONE

concettuale e preverbale e di un atto immediatamente personale e


quella verità (o quell'errore) data (dati) nell'enunciato oggettivo-con·
cettuale di quella verità non oggettivata, preconcettuale e che giace in
una quantità di implicazioni. Questa conoscenza preconcettuale può
essere vera, anche se l'espressione concettuale è falsa (come anche il
contrario). Questa conoscenza prevcrbale però è in tutti i casi una
conoscenza del contenuto in questione, che viene alla luce in
se stesso, ed è distinto dall'atto della conoscenza stessa, anche se
non è accessibile senza di questa.

bb. Se l'enunciato dogmatico ha le proprietà di un comune enun-


ciato 'naturale', la caratteristica di 'naturale' non sta però a signifi-
care che questo enunciato si attui in seno ad una astratta 'natura pu-
ra'. Già nell'enunciato in genere esiste tensione fra ciò che è inteso
e ciò che è espresso. Ma questa possibile differenza si mostra soltan-
to nell'enunciato teologico: così, ad esempio, uno può veramente
credere nel Cristo, mentre - a giudicare solo dal senso oggettivo di
un enunciato oggettivato - egli sembra testimoniare solo incredulità;
oppure, nessuno può sapere, di sé o d'un altro, in modo riflesso e con
assoluta certezza, se egli veramente creda, anche se sembra aderire
fermissimamente, con testimonianza pubblica e anche con la testimo-
nianza pur così profonda della propria riflessione, alle asserzioni di
fede dichiarate assolutamente vere. Queste relazioni di fatto non
sono comprensibili, se non ci si rende conto che un asserto dogma·
tico viene formulato e costituito da uomini, i quali, in quanto dotati
di natura concreta, si trovano nell'ordine infralapsario. L'ottenebra-
mento dello spirito umano, seguito al peccato originale, la necessità
morale della rivelazione, dipendente almeno in parte da ciò, per una
chiara e sicura conoscenza di quelle verità, che in sé sono accessibili
alla conoscenza naturale dell'uomo nel campo religioso e morale:
queste determinazioni dovute alla peccaminosità dell'uomo non pos-
sono venir riferite solo al campo morale o in genere venir prese solo
per contrassegno della conoscenza dell'uomo al di fuori c;lella rivela-
zione. Almeno con grande approssimazione si può dire che anche la
conoscenza e gli enunciati dell'uomo nella sfera della rivelazione e
della fede ecclesiale portano in sé le ombre e le tracce di quella ferita.
Secondo la dottrina cattolica, anche l'uomo giustificato resta t;ffetti·
KERYGMA E DOGMA 249

vamente condizionato per il fatto di provenire da una situazione di


peccato.' 24 Premesso che non si ritiene né si pensa che il non plus
ultra della saggezza sia la distinzione formale di enunciati in veri e
falsi, che un enunciato nel suo valore astratto sia pure liberato ogni
momento dalla sfera della colpa e della carne, pure si deve ammet-
tere che l'enunciato dogmatico e gli sforzi in esso confluenti porta-
•no anche il marchio della colpa e del peccato. Ci si deve comunque
chiedere se un enunciato, da qualificarsi in sé come vero, non possa
essere prematuro, presuntuoso e dannoso; se in questa sua partico-
larità, esso non possa tradire anche la cattiva inclinazione dell'uomo
peccatore a 'dogmatizzare' (almeno nel tono spesso di degnazione,
nella formulazione scostante). Una verità non può forse anche
essere pericolosa, equivoca, tentatrice; non può forse esser det-
ta in modo impertinente e saccente, cosl da spingere l'altro in una
situazione di decisione, che in un certo modo non gli è proporzio-
nata? Non può accadere che una prospettiva storicamente condizio-
nata, ·si presenti vanitosamente come quintessenza d'ogni verità,
con una tale alterigia che i possessori di questa verità indiscutibile
offrano ai loro interlocutori lo scandalo dei beati possidentes, e pro-
vocandoli con questo al rifiuto? Anche se da questo punto di vista
non è possibile dare alcuna risposta definitiva e inequivocabilmen-
te chiara, pure queste domande devono essere poste poiché non so-
no in contrasto coi dati fondamentali della teologia cattolica.

cc. Anche se si distingue l'enunciato dogmatico da quello kerigma-


tico, esso tuttavia nella sua essenza resta un enunciato di fede. Lo è
non semplicemente in quanto parla di una una realtà teologica, ma
anche nella sua attuazione, quindi anche in quanto fides qua creditur.
La teologia tradizionale ha conservato questa verità poiché rappre-
sentava l'atto teologico come un habitus scientiae compenetrato e
accompagnato dall'habitus /idei (cf. anche la ratio fide illustrata: DS
3016). Poiché l'interiore travaglio, che si verifica tra-chi ascolta e quel
che gli vien detto, è un insostituibile elemento interno all'ascolto
stesso, un certo grado di teologia appartiene essenzialmente all'asco!-

1?4 Per una esposizione più particolare, cf. K. RAHNER, Gerecbt unJ Sunder ZU·
gleicb, 1r. in BCR, 68, pp. 36n84.
MODI DELLA MEDIAZIONE

to stesso. L'ascolto puramente credente è gta un'attività che coin-


volge le forme individuali del pensiero, dell'esperienza e del parlare.
Una ·iniziale riflessione-base 'teologica' avviene dunque già all'inter-
no dell'ascolto semplicemente obbediente della parola di Dio. Ma
ciò significa che la riflessione dogmatica e il suo enunciato non han-
no mai la possibilità e il potere di staccarsi completamente dalla pro-
pria origine, dalla stessa fede, non solo nel loro oggetto ma anche
nel loro carattere d'esecuzione.

Bisogna ammettere che questa concezione non è molto ovvia a gran parte
della teologia scolastica posttridentina. Se in quanto strettamente sopran-
naturale, si considera la grazia un assoluto al di là della coscienza, e si
nega quindi che gh atti soprannaturali di salvezza abbiano un oggetto
formale, non percepibile da un atto naturale, allora l'oggetto della teolo·
gia e degli enunciati dogmatici è comprensibile anche dalla semplice ragio-
ne naturale, e, fondamentalmente, proprio allo stesso modo della ragione
credente. L'incredulo comprende allora proprio come il credente. Si può
però essere contrari ad una simile impostazione, che dà alla gratuità--della
fede una dimensione puramente oggettivistica e locale, esteriore all'at-
tività spirituale in quanto tale. Con buone ragioni e con un numero
crescente di teologi (particolarmente del nostro secolo), ci si può attenere
alla dottrina tomista, che vuole un oggetto formale- proprio dell'atto gra-
tuitamente elevato, e ci si può attenere quindi all'incommensurabilità
della fede con un atto profano (anche se questo si riferisce alla realtà
religiosa). All'interno di tale concezione si può dire (più che mai del
puro ascolto), che con l'enunciato dogmatico e con la riflessione che ad
esso si ricollega, si ha un atto di fede.

Lo studioso profano che si occupa di religioni, non è che veda


senz'altro l'enunciato dogmatico alla stessa maniera del teologo. La
conoscenza data con l'enunciato dogmatico non si decide infatti con
l'enunciato, articolato in proposizione e riflesso, ma già prima con l'at-
to stesso della persona che accetta o rinuncia alla grazia. L'incredulo
non è necessariamente privo di grazia. In situazione d'autochiusura,
egli si trova sotto la grazia, anche se non vuol vedere ciò che vede, an
che se 'reprime' la verità. Qui pure, certo, nessuno può dire chi, dico-
loro che parlano, concretamente e assolutamente appartenga all'una
o all'altra categoria. Quindi si comprende anche perché l'enunciato
dogmatico rientri tra gli enunciati che confessano e lodano il mes-
KERYGMA E DOGMA

saggio di Gesù Cristo udito e obbedientemente assunto (di qui vedi la


reale importanza dell'elemento dossologico nel dogma). L'enunciato
dogmatico perciò, anche nonostante ogni riflessione, giunge all'evento
storico della salvezza, e lo mette in luce. Non solamente parla «di»
questo avvenimento; ancor meno va solamente ad una 'proposizio-
ne'. Esso procede ex fide ad fidem. La descrizione teologica dell'atto
di fede dovrà liberarsi molto più intensamente ancora dal suo legame
con una concezione falsa dell'enunciato dogmatico, per poter vera-
mente mostrare come la fede 'pensi' in quanto è fede.

dcl. L'enunciato dogmatico in misura particolare è un enunciato


ecclesiale. L'abbiamo già illustrato precedentemente da diversi punti
di vista. Possiamo ora soltanto chiarire meglio un aspetto rimasto
fin qui in ombra. Esiste teologia perché si deve credere nella Chiesa,
partendo dalla Chiesa e venendo ad essa. Certo, c'è anche teologia
di un 'singolo'. Ma nella comunitaria, afferrabile concretezza di qual-
cosa come la Chiesa, il carattere specificamente dogmatico dell'enun-
ciato teologico viene in luce più chiaramente. Teologia è il perdura-
re storico - che avviene in un incontro sempre nuovo, e che si tra-
sforma ad ogni esperienza vitale dell'uomo - d'una rivelazione, che,
nel tempo, ha una sua localizzazione spazio-temporale. Se non ci fos-
se l'eph'hapax dell'evento storico-salvifico, ci sarebbe una continua
rivelazione, e mai una teologia ordinata ad un avvenimento salvifico
determinato nello spazio e nel tempo, e non identificabile con essa.
Ma se non vi fosse una teologia, allora la storia unica della salvezza
non sarebbe in grado di raggiungere realmente con effetti salutari
l'uomo dei tempi successivi nel suo mondo. Per lo meno costui non
sarebbe colto in tutta l'ampiezza della sua esistenza. Egli dovrebbe
spogliarsi della sua singolarità storica come d'un involucro, e, in
quanto astratto uomo in sé, cercare una relazione con questo ele-
mento salvifico del passato. Perciò è comprensibile che la teologia
porti in sé l'obbligatorietà della fede, se essa deve essere il confronto
assolutamente obbediente della propria esistenza con il kerygma del-
la salvezza, incentrato in Gesù Cristo. E poiché bisogna che nella
Chiesa si creda comunitariamente, comunitariamente si conosca, e
Dio venga lodato per la sua grazia in una lingua accessibile a tutti,
MODI DEl..LA MEDIAZIONE

la teologia riceve un senso particolarmente ecclesiale. 125 In corrispon·


denza ad una situazione spirituale comune, che in quanto comune
deve venire essa stessa colta e compresa sempre di nuovo in comune,
il messaggio tramandato deve essere sempre di nuovo colto in questa
comunità. Deve dunque esserci teologia nella Chiesa, ed essere con-
dotta dalla Chiesa stessa, anche se in buona parte vive dell'iniziativa
dei singoli. E pur sempre alla Chiesa si rivolge il singolo, per chie-
dere se essa può far sua una determinata asserzione, o almeno, se
può considerarla possibile nella Chiesa. Accanto e al di sopra di que-
sta teologia sempre ecclesiale del singolo, esiste la teologia della
Chiesa in quanto ente comunitario. Essa la fa nel suo magistero
scritto, mediante i suoi responsabili. La Cliiesa riflette, cioè in funzio-
ne della rispettiva situazione storica, sulla propria coscienza di fede e
sulla sua fonte, che è il messaggio di Gesù Cristo e su Gesù Cristo
trasmesso nella fede della prima comunità; poi annuncia questa sua
fede, che resta una e immutabile, nella forma di questa nuova rifles-
sione teologica. Tutto ciò viene operato dalla Chiesa in modo che la
fede mantenga e acquisti sempre di nuovo un'attualità, dalla quale
possibilmente non possa prescindere, nella sua decisione, colui che
ascolta il suo messaggio. Questa teologia è anche autentica predica-
zione di fede, che richiede obbedienza. La Chiesa nel suo magistero
solleva infatti, e può sollevare, la pretesa che il messaggio, da essa
presentato in questa nuova veste, cioè messaggio fattosi teologia, sia
la forma hic et nunc valida della parola, nella quale Dio ci ha par-
lato - e non una semplice riflessione su di essa -. Cos} è fondamen-
talmente circoscri;to il luogo teologico da cui deve prendere il suo
avvio una determinazione essenziale dell'enunciato dogmatico.

ee. Poiché l'enunciato dogmatico ha questo senso ecclesiale, esso


comporta sempre inevitabilmente anche una regolamentazione comu-
nitaria della terminologia. Questa, da una parte può essere vincolan-
te, dall'altra deve esser tenuta presente nella spiegazione delle dichia-
razioni ecclesiastiche: non è permesso scambiarla con la realtà stess3

121 Di qui debbono anche venir più profondamente fissati sul piano teoloi!ico la
necessità e il significato dell'ufficio ecclesiastico e specialmente dcll"infallibilità'. Cf.
alcuni spunti in K. RAHNER, Kircbe und Paru1ie Chrisli, in Catb, 17 (1963) 113-128,
sopranutto 122 ss.
KEKYGMA E DOGMA

o con un enunciato che si spiega soltanto a partire da essa. La realtà


intesa nell'enunciato teologico è d'una ricchezza incalcolabile e d'una
pienezza inesauribile. Il patrimonio terminologico disponibile per de-
signare questa realtà è molto limitato. E resta anche limitato, pur
crescendo, con la storia, i concetti e i termini. Inoltre, poiché
l'enunciato teologico dev'essere commisurato alla coscienza di fede
di un gruppo sociologicamente più grande, i limiti del patrimonio
terminologico vengono ancor più ristretti; e quindi è infinitamente
difficile il compito di tenere aperto, con simile patrimonio concet-
tuale, lo sguardo sulla pienezza, in sé riccamente sfumata e vasta,
di ciò che è inteso dalla fede. Ques.ta concettualità così limitata non
può mai essere adeguata alla realtà intesa. Un termine mette sempre
in rilievo solo ed inevitabilmente certe caratteristiche della realtà in-
tesa, mentre forzatamente ne lascia altre sullo sfondo, quando non
le fa addirittura cadere nell'ombra; e inoltre non mette in evidenza
altre connessioni con altre verità essenziali della fede. Inoltre è fon-
damentalmente impossibile dare sempre una definizione assolutamen-
te univoca, riflessamente esplicitata, dei concetti connessi.
Ne deriva, ora, che le dichiarazioni dottrinali della Chiesa e gli
enunciati teologici sono implicitamente contrassegnati anche da un:i
determinazione dovuta alla terminologia di cui fanno uso e di fronte
alla quale ci si può chiedere non già se sia vera, quanto piuttosto se
sia indovinata. Questa determinazione in coloro che insegnano e de-
finiscono non è necessariamente condizionata, anzi, forse è per lo piì1
incondizionata, né essi possono rendersene conto adeguatamente con
la riflessione. Ai margini della storia dei dogmi, tali considerazioni
emergono anche in dichiarazioni ufficiali. Ad esempio, quando deve
venir designato l'evento dell'ultima cena, e ci vien detto che la Chiesa
aptissime (cf. ns 1652 e 1642) Io chiama «transustanziazione». Così
anche quando Pio xn con l'enciclica Humani generis difende la pro-
prietà di molti concetti che permangono nella tradizione scolastica.
Di essi dice che è inammissibile pensare che la Chiesa li abbandone-
rà, per quanto si sappia della loro formazione storica (cf. ns 3881-
3883).
Questo problema però è molto più chiaramente afferrabile nella
prassi della dottrina della Chiesa. Ad esempio, quando viene inse-
gnato che da Adamo l'uomo è peccatore, il termine 'peccatore' viene
MODI DELLA MEDIAZIONE

usato qui solo in senso assai· analogico (cf. i peccati che dipendono
da vera e propria decisione personale). Anzi alcuni esempi mostrano
non solo come la Chiesa qua e là abbia lentamente sfumato la termino-
logia ma addirittura mutato i concetti (senza mutare ciò che era inteso
obiettivamente). La terminologia di AGOSTINO, ad esempio, riguardo
alla peccaminosità di ogni atto dell'uomo dopo il peccato originale,
era un tempo terminologia della Chiesa: essa venne implicitamente
abbandonata con le dichiarazioni di Pio v. Agostino poteva e doveva
dire, e la Chiesa del suo tempo la fece anche dottrina sua, che ogni
uomo non giustificato pecca in ogni suo atto. Nel linguaggio della
Chiesa postridentina non ci si può più esprimere cosi, anche se si
può mostrare che queste formulazioni apparentemente contradditto-
rie non si contraddicono poi nella realtà da esse intesa. Ciò che nella
dottrina cristologica e trinitaria, è espresso con il termine 'persona',
in realtà ha poco a che vedere con quanto siamo abituati a pensare
sentendo questo concetto. Ma anche qui, all'interno della dottrina
della Chiesa, non ci si può permettere d'esprimere la realtà che si ha
di mira, eludendo completamente questo concetto e questo termine.
Altro esempio, più noto, è la questione sui membri della Chiesa,
òve si tratta, in gran parte, di regolamentazione terminologica. Qui
il cambiamento si manifesta, ad esempio, nelle diversità concettua-
li, riscontrabili confrontando l'enciclica Mystici Corporis ed i re-
centi decreti e costituzioni del concilio Vaticano rr. Tenuto conto del
breve tempo in cui esse si sono verificate, il cambiamento è davvero
sorprendente. Da ciò si può forse trarre la conclusione che in queste
dichiarazioni ufficiali della Chiesa il problema non è ormai visto
esplicitamente come terminologico. Si insegna con l'impressione e
la premessa che si parli soltanto della realtà stessa. Questa occulta
priorità della lingua 'naturale', che prevale su ogni terminologia,
è un vero e proprio fenomeno. Anch'esso andrebbe messo più chia-
ramente in luce nel suo significato, utilizzando le nuove ricerche fìlo-
so6co-linguistiche ed ermeneutiche per giungere ad una valutazione
più completa dell'enunciato dogmatico. Accenneremo solo ad un pun-
to centrale: questa priorità della lingua 'naturale' implica una posi-
tiva indeterminatezza (cf ., ad esempio il termine sub stantia in 'tran-
sustanziazione': nella definizione tridentina non è inteso secondo
la terminologia scolastica tecnica; cf. ugualmente il significato del
KBltYGMA E DOGMA 25.:s

termine forma usato per la concezione del .composto unitario anima-


corpo dell'uomo: non lo si deve spiegare in senso strettamente ile-
morfico; e cosl avanti). Questa indeterminatezza tiene libero il posto
per altri, diversi significati. Già costituisce un limite il fatto che tali
formulazioni si dirigano contro determinate opinioni eterodosse. Sol-
tanto a partire di qui, esse ricevono precisamente la loro concreta
determinazione ed anche potere vincolante (cf. ad esempio il fatto
che le definizioni di tutta la teologia sacramentaria, emesse dal con-
cilio Tridentino, in fondo, anche come definizioni, si rivolgono sol-
tanto contro la teologia dei riformatori. Lo hanno riscoperto di re-
cente gli studi di H. LENNERZ e di P. FRANSEN, riavvicinando così
questo fatto alla coscienza teologica). Ciò diviene particolarmente
evidente, persino esemplare, in decisioni come ad esempio quella di
Calcedonia, dove con l'inconfuse et indivise in modo del tutto co-
sciente vengono tracciati dei confini entro i quali la realtà di cui si
tratta non è ancora per nulla chiara. Esiste anzi un reciproco ricono-
scimento di formulazioni dogmatiche diverse. Lo dimostra, ad esem-
pio, tutto il conflitto sul Filioque, dove vengono reciprocamente rico-
nosciute ed accettate, in base alle rispettive premesse, tradizioni ed
espressioni diverse, storicamente affermatesi.
Si deve dunque tenere presente che questa terminologia è inevi-
tabilmente esposta ad un continuo processo storico di trasformazione.
Questo certo viene influenzato dal magistero autoritativo della Chie-
sa,, all'occorrenza guidato, trattenuto, in parte dirottato - e lo può
essere - su altri binari. Non può però venire adeguatamente con-
dotto dal magistero, neppure nel settore ecclesiale. Questo processo
storico della terminologia si compie dunque, almeno in parte, indi-
pendentemente dalla Chiesa ufficiale e dalla sua consapevole dire-
zione. Tale realtà di fatto implica di nuovo il diritto, e forse anche,
in singole situazioni, il dovere della Chiesa di tener conto di questo
autonomo processo terminologico.
Chi non è immediatamente di casa in questa teologia ecclesiale,
o chi senza troppi problemi s'ingolfa nelle sue formulazioni senza
essere sensibile alla loro qualificazione storica, non coglie quante e
quali siano le decisioni dottrinali veramente vincolanti in senso stret-
to. Il metodo, la suddivisione e il modo di argomentare, tradizionali
della dogmatica non sono certo esenti da colpa, al riguardo. Non ogni
MODI DELLA MEDIAZIONE

consenso di fede ben provato della Chiesa universale deve ricevere


una conclusione dogmaticamente fissata, o essere 'definito'. Il dogma
scaturisce molto più in profondità dalla libertà e dalla necessità della
situazione; una profondità non sempre tanto sondabile e solo diffi-
cilmente penetrabile fino in fondo. G. EBELING è senz'altro in erro-
re, quando nel suo saggio Zur Frage nach dem Sinn des mariologi-
schen Dogmas, 126 vede nella definizione dell'assumpta I~ dogmatizza-
zione della struttura fondamentale del cattolicesimo. :Bisognerebbe
nuovamente mostrare attraverso una vasta indagine che la situazione
è essenzialmente più aperta. Il concilio Vaticano n tuttavia ha già
mostrato - con tutte le limitazioni che sono imposte a tali decisioni -
un'apertura ed una possibilità di sviluppo anche del magistero eccle-
siastico, che fanno saltare simili schemi un po' troppo semplicistici.
Un teologo cattolico può dunque attenersi ad un apparato con-
cettuale ufficialmente adottato, anche se non può nascondersi, né
c'è bisogno che si nasconda, la problematica della 'terminologia', che
a quello si ricollega: la sua equivocità, la sua eventuale mancanza
di prospettive, dalle quali tuttavia si dipende anche essenzialmente,
e altri limiti di questo genere, comuni ad ogni terminologia. Con ciò
non è affatto detto che il teologo se ne stia pass1vo di fronte a questa
regolamentazione teologico-terminologica del linguaggio della Chiesa.
Tutte le volte che fa della teologia viva, guardando alla realtà delle
cose, egli conùibuisce anche attivamente - forse quasi inavvertitu-
mente - a quella continua trasformazione storica della terrninclogiJ
della Chiesa. E viceversa, inserendosi con il suo enunciato nella rego-
lamentazione del linguaggio fatta dalla Chiesa, egli si adatta ad un
condizionamento comunitario e storico della coscienza di fede di
volta in volta attuale. Se accettato e mantenuto, questo condiziona-
mento tiene aperta la visuale dell'individuo sulla coscienza di fede
della Chiesa. E questa, dal canto suo, chiede al singolo quella rinun-
cia, senza la quale nel nostro eone non vi può essere l'unilà di ve-
rità e d'amore.

li& Ora riprodotto in: Worl Go11es und Tradition, Goningen 1964, pp. in-182.
specialmente 181-182. Gli argomenti, fin qui abbondantemente ci1a1i, di G. EBEL!Nr;
soprattutto risvegliano una fine e precisa introspezione per la comprensione del dog-
ma cauolico. Nel d~re però il significalo del dogma viene forzata troppo unil.t~ul­
mente la presentazione autoritativa da parte di un'istanza ecclesiale.
KERYGMA I! DOGMA

ff. L'enunciato teologico è un enunciato che si addentra nel mi-


stero. In quanto enunciato rimanda colui che ascolta al di là di sé, e
lo spinge nel mistero stesso di Dio.
Questo vale per l'enunciato dogmatico, perché esso - come già
abbiamo mostrato - non può mai svincolarsi completamente dal pri-
mordiale enunciato kerygmatico di fede. Certo, nell'enunciato dog-
matico si ha una riflessione accresciuta, e un più accentuato ritorno
su se stesso. Facendo però ciò correttamente, si comprende sempre
questa verità: che la realtà da esso intesa viene espressa rettamente
solo se è già colta (nonostante tutto il lavoro cui viene assogget-
tata da parte della mente umana, nel suo farsi accessibile) come data da
Dio già da prima. L'enunciato dogmatico ha in sé per principio, co-
me l'enunciato kerygmatico, un elemento che non si identifica -
come succede invece negli enunciati categoriali profani - col conte-
nuto concettuale esposto. Non vogliamo ridurne l'importanza, però
il contenuto concettuale qui è sempre soltanto il mezzo che fa spe-
rimentare un rimando a ciò che è al di sopra di sé e che non è no-
minabile. Questo rimando non è solo vuota, evanescente trascenden-
za, né puro orizzonte in cui possa operare la concettualità oggettiva.
È invece la via per la quale l'uomo si muove realmente incontro
alla gratuita autocomunicazione di Dio, fatta a partire da se stesso.
Con questo non intendiamo riferirci al concetto di trascendenza e al
concetto di grazia, bensl alla loro realtà. Naturalmente queste realtà
non si lasciano presentare cpsi in se stesse, oggettivate, nell'esposi-
zione dogmatica; non si può constatare, se esse si siano attuate
contemporaneamente alla stessa enunciazione. Si può soltanto e
sempre dì nuovo ripetere al teologo, che quello che entra nelle
sue frasi, in quanto fatte di concetti, non è l'unica cosa che dev'es-
serci. Certo vi sono indizi che permettono supposizioni per di-
scernere degli spiriti (almeno dall'insieme del discorso e dopo lun-
go esame): se uno, ad esempio, dice solo a parole d'aver a che fare
con il mistero, mentre di fatto poi manipola concetti e proposizioni
come se fossero la realtà stessa, come se fossero quasi monadi autar-
chicamente chiuse in se stesse e venissero da lui manovrate a piaci-
mento, e non fossero invece semplicemente dei segni che parlano in
maniera più chiara e più comprensibile, quando, silenziosamente ri-
mandano il credente a qualcosa che li supera, e gli indicano la via

17 Mysterium selutis / 2.
MODI DELLA MEDIAZIONE

all'inaccessibile luce di Dio. Sarebbe tutto un tema a parte, quello


di dimostrare, in questo senso, che l'analogia rettamente intesa è
una struttura fondamentale della teologia cattolica e con ciò anche
dell'enunciato dogmatico. 127 Quel che qui ci interessa è anzitutto di
capire che il discorso teologico non si limita a parlare del mistero.
Ne parla rettamente solo se esso è anche qualcosa che spinge al mi-
stero stesso. Sarebbe comunque un errore credere .di 'possedere'
già la realtà, possedendo il termine concettuale che la esprime.
Questo termine ha anche un genuino senso mistagogico: esso evoca
la gratuita esperienza dello stesso mistero assoluto.

gg. L'enunciato dogmatico è un fenomeno escatologico. Lo è an-


zitutto per il fatto che, in senso specifico, è orientato alla .fine, la
quale già ha fatto irruzione con la rivelazione in Gesù Cristo. Ma
niente altro esso annuncia, se non il significato di questo nuovo ed
ultimo eone. Sotto tale aspetto è contemporaneamente anticipa-
zione dell'escatologia, e ha perciò anche un carattere profetico. 128
Ma questo significa altresì che l'enunciato dogmatico parla costante-
mente di qualcosa che solo in un futuro non concretamente immagi-
nabile per noi si manifesterà in tutta la sua grandezza e il suo splen-
dore. L'enunciato dogmatico può dunque presentare la realtà defi-
nitiva solo provvisoriamente. Appartiene alla sobrietà del discorso
dogmatico restare criticamente coscienti, nell'enunciato dogmatico,
di questo duplice significato escatologico: così non viene svuotato
della necessaria serietà in fatto di salvezza, e in questa prospettiva
può rimanere ahche più criticamente presente la provvisorietà di
tutte le formulazioni teologiche.

hh. L'enunciato dogmatico non sì identifica con la parola primor-

121 A questo riguardo ci si dovrebbe propriamente chiedere, perché la teologia cat·


tolica non si potrebbe davvero ral!egrare con le categorie della moderna teologia pro-
testante (che in parte si rifà a S. KIRKEGAARD): ad esempio, col discorso sui para-
dossi, con gli schemi d'una dialettica esistenziale, rol discorso indi retto, e cosl via.
Presumibilmente questa estraneità si riconnette anche con l'accennata struttura fon·
damentale dell'analogia. Tutto il conflitto con K. BARTH dovrebbe venir ripensato sot-
to questo angolo visuale.
12s Su ciò vedi W. PANNENBERG, Was ist eine dogmatische Aussagei', in Pro Veri.
tate. Festgabe fiir Erzbischof L. Jaeger und Bischof W Stiihlin, Mi.inster 1963, pp.
339-361, specialmente 356 ss.; 360 ss. {soprattutto la discussione con K. BARTH).
KERYGNIA E DOGMA 2,59

diate della rivelazione. Già ripetutamente abbiamo accennato alla


differenza tra il primordiale annuncio della rivelazione ed il primor-
diale enunciato di fede, e l'enunciato dogmatico di derivazione ri-
flessa. Il prototipo del primo modo di enunciare si ha nella Scrittura.
Forse però è bene far notare qui ancora una volta la differenza che
passa tra l'evento della rivelazione e la sua immediata testimonianza
da una parte, e dall'altra la riflessione, presente nella Scrittura, su
quell'evento.
Se l'enunciato dogmatico deve esser distinto dall'enunciato scrit-
turistico, le loro reciproche differenze vanno però esaminate. A que-
sto proposito bisogna tener presente quella proprietà degli enunciati
dogmatici, che abbiamo precedentemente illustrato. Essi cercano di
prender coscienza della fede della Chiesa, e in ciò si sanno dipen-
denti dal magistero ecclesiastico anche se non sempre ed in ogni caso
si tratta di dichiarazioni vincolanti. Ma ciò significa altresl che non
esiste rivelazione annunciata, se non nella forma di rivelazione cre-
duta. In ogni rivelazione creduta ::>erò è insito - come già abbiamo
detto - un elemento di riflessione da parte di colui che ascolta, e
con ciò una quasi inscindibile, reciproca appartenenza e sintesi tra la
parola di Dio e la parola dell'uomo in questione; parola che proprio
l'uomo, nella sua situazione storica ed a partire dalla sua posizione,
può e deve pronunciare. La differenza tra kerygma primordiale ed
enunciato dogmatico non consiste dunque nel fatto che là, per cosl
dire, v'è solo parola di Dio a sé stante, e qui solo riflessione umana.
Se cosi fosse, su questa parola di Dio sarebbero solo possibili discor-
si teologici non vincolanti, ma non enunciati di fede diversi dalla
primordiale parola di Dio, e tuttavia assolutamente vincolanti, me-
diante i quali la parola di Dio - cosi come originariamente era quan-
do fu pronunciata - conserva la sua attualità realmente vincolante
nel corso della storia. Sarebbe solo possibile una storia della teologia,
mai una storia dei dogmi.
E decisamente importante constatare che già i più semplici enun-
ciati kerygmatici nascondono in sé un elemento di riflessione. Un
enunciato scritturistico può dunque essere secondario rispetto ad un
altro, può essere derivato da quest'altro. Non si possono mettere
tutti i passi scritturistici sull'identico piano quanto a significato, co-
me fossero dei dati del tutto originari, scaturiti dalla più immediata
MODI DELL,t, MEnI,t,ZtONE

rivelazione di Dio, e indeducibili (cf. i risultati nell'esegesi, dove non


solo il genus litterarium del midraf mostra un simile procedimento,
ma l' 'antologische Methode', la 'relecture biblique' e la 'Motivtrans-
posi ti on' ne contrassegnano anche 1' ampiezza).
La "differenza essenziale tra l'enunciato teologico (anche nella su3
forma viucolante di vera testimonianza di fede) e la primordiale te-
stimonianza di fede (alla quale appartiene, quoad nos però, la Scrit-
tura come un tutt'uno) consiste nella posizione peculiare, unica, del-
la sacra Scrittura. La rivelazione ha una storia. Vi sono dunque degli
avvenimenti ben determinati, fissati nello spazio e nel tempo, nei
quali si verifica questa rivelazione, destinata a tutte le epoche suc-
cessive. Ne consegue che queste epoche ne rimangono stabilmente
vincolate. La costante,.inderogabile norma normans, non normata per
tutti i successivi enunciati dogmatici sta in questi eventi e detti ad
essi relativi, che rientrano tra gli elementi costitutivi degli avveni-
menti stessi. Si tratta degli enunciati primordiali, che in un senso
del tutto particolare sono più che teologia; più anche di una teolo-
gia assolutamente vincolante. Essi sono il fondamento stabile d'ogni
altro enunciato, anche futuro. Sono il traditum, semplicerneote, non
la traditio come sviluppo del traditum. Non c'è più bisogno qui di
parlare della forma, in cui questo primordiale enunciato di fede, in
quanto norma normans, non normata, ci è dato (nella forma del-
l'odierno enunciato di fede: sia di quello che esige la fede, sia di
quello non vincolante). Prescindendo dalle controversie sulla posizio-
ne della tradizione (cf. parte I, cap. 3, SEZ. III) si può tuttavia dire
che la norma accennata ci è data nella sacra Scrittura. Anche volendo
porre a fianco della Scrittura, come fonte - e quindi ad attestarci
altre materie di fede - la tradizione, resterebbe pur sempre il fatto
che in essa non troviamo la sola testimonianza, garantita da Dio co-
me purn, d'una tradizione apostolica del tutto conforme alla rivela-
zione e non frammischiata con tradizione umana.
Più difficile è la questione, di come la Chiesa possa operare la
necessaria distinzione tra elemento umano ed elemento divino nella
tradizione. Di questa distinzione v'è continuo bisogno, dal momento
che la Chiesa deve riconoscere sempre di nuovo le verità della rive-
lazione e tuttavia sapersi legata alla rivelazione primordiale. Su un
punto comunque i cristiani sono d'accordo: che nella sacra Scrittura
Kl!RYGMA I! DOGMA

è data alla Chiesa la pura, anche se del tutto storica, oggettivazione


scritta del kerygma apostolico (sia pure lo si debba determinare più
concretamente). In quanto dunque norma oggettiva, la Scrittura,
come parola primordiale di rivelazione e di fede nella Chiesa e della
Chiesa, resta essenzialmente distinta da ogni successivo enunciato
teologico della Chiesa e nella Chiesa, anche se l'enunciato teologico
è una testimonianza di fede kerigmatica e una richiesta .di fede, e non
solo una riflessione teologica. Si potrebbe dunque dire: la parola teo·
logica è parola soltanto teologica, nella misura in. cui essa non è pa-
rola scritturistica.
Andrebbe qui rifatta tutta la scala - scala dove sono facili i pas-
s<1ggi - di questi enunciati teologici in senso stretto, dalle dichiara-
zioni dottrinali ordinarie e straordinarie, fino agli enunciati privati
del singolo teologo. Si può dubitare inoltre che esista una vera e
propria teologia deduttiva, che acquisisce conoscenze nuove, dichia-
randole poi come non pertinenti al deposito di fede e non vincolanti.
Certo la funzione teologicamente decisiva degli enunciati dogmatiçi
teologicamente liberi è comunque di far meglio vedere, compren-
dere, e professare ciò che realmente è creduto.
Fin qui abbiamo riflettuto piuttosto sulla differenza tra un enun-
ciato di fede primordiale, e un enunciato teologico-dogmatico' che
da quello dipende e su quello si fonda. Certo, all'interno di questo
stesso enunciato teologico-dogmatico derivato, vi è anche la distin·
zione tra l'enunciato che confessa, che si rifcrisc~ alla realtà, che si
affida a colui che là s'incontra e che loda, e l'enunciato in cui il pri-
mo raggio di pensiero ritorna sulla propria conoscenza. Questa di-
stinzione ha il suo ultimo fondamento ontologico nell'cssernrn delln
stessa conoscenza umana, in quanto questa è sempre immediata e
riflessa, presente a sé e alla cosa conosciuta. Per principio questo
dualismo non può venir adeguatamente superato. Perciò vi è un
enunciato dogmatico, che nella sua prima intentio mira all'autopos-
sesso riflesso della conoscenza di una realtà, ed un enunciato dogma-
tico che direttamente mira alla realtà stessa. Questi due tipi di enun-
ciati, nonostante la loro diversità e nella loro diversità, non si lascia·
no'tuttavia separare mai del tutro l'uno dall'altro.
MODI DELLA MEDIAZIONE

ii. Nella nostra precedente trattazione sulla storia del concetto di


'dogma' e di altri concetti simili, si è potuto stabilire che nei primi
tempi, all'uscita dall'epoca dei padri (cf. VINCENZO DI LÉRINS, supra,
2 c), 'dogma' era quasi sinonimo di ciò che noi oggi chiamiamo depo-
situm fidei. Nel corso della storia dei dogmi questa comprensione
del concetto non si è mantenuta. Così ora dobbiamo ancora una vol-
ta riflettere, più che altro da un punto di vista sistematico, sui cam-
biamenti di significato che ha subito questo con~etto.
Una prima ragione di tale mutamento sta precisamente nel fatto
che il depositum /idei, in quanto essenza fondamentale della rivela-
zione, non è assolutamente identificabile con formule fisse ed enun-
ciati oggettivati. Non si tratta d'un complesso stabile di frasi intoc-
cabili, sempre a disposizione in tutta la sua estensione, e con una
sostanza facilmente traducibile in qualsiasi lingua, qualora un'altra
esposizione appaia necessaria. Il depositun1, per dirla con un esem-
pio un po' materiale, non è qualcosa come un 'sacco pieno di verità'
in possesso della Chiesa. Ciò non significa però dissolvere l'essenza
di questo deposito della fede in una somma di esperienze intraduci-
bili o di sentimenti ineffabili di tipo religioso. Non si può assoluta-
mente estrarre un depositum {idei puro. Esso si presenta sempre in
termini e concetti che sono condizionati da una determinata prelimi-
nare comprensione della lingua, della cultura e della filosofia. Tutto
ciò che in questo modo si è depositato negli enunciati, sia sotto for-
ma di termini che di concetti, non si può isolarlo o sopprimerlo
metodicamente o metterlo tra parentesi. Abbiamo visto che un 'van-
gelo', nella sua essenza pura, come evento primario della rivelazione,
non si trova immediatamente neppure nella 'Scrittura' Anche qui la
realtà ultima, lo stesso mistero onnicomprensivo, non è semplicemen-
te entrato nelle parole o nella redazione scritta che noi abbiamo dei
Vangeli, epistole e cosl via. 129 Chiaramente però anche il depositum
fidei porta le tracce e le particolarità di quel 'vangelo dietro i Van-
geli', di cui abbiamo parlato in precedenza. Ma come si deve pen-

\2<J Su questo e sui seguenti capoversi, vedi H.R. ScHLETTE, Dogmengeschichte und
Geschichtlichkeit des Dogmas, in V. BERNING - P. NEUEf'ZEIT - H.R. ScHLETTE, Ge-
schichrlichkeil und Ofjenbarungswahrheit, Miìnchen 1964, pp. 67-9-0, specialmente pp.
81 ss.
KERYGMA E DOGMA

sare un simile depositum ed il modo della sua presenza, se esso non


coincide con l'annuncio primordiale della rivelazione neotestamenta·
ria? Questo depositum non rimanda alla realtà di cui parla il Nuovo
Testamento, o è piuttosto quella realtà? 130 Se il Nuovo Testamento
fosse semplicemente il 'deposito', allora il depositum {idei sarebbe
solo un doppione della Scrittura in una edizione 'più autentica' (se
così si può dire). L'identificazione col Nuovo Testamento, però, cer-
tamente è troppo poco. Il depositum /idei non è neppure una pri-
mordiale formula kerygmatico-teologica, che rappresenterebbe l'inizio
della rivelazione. Da un punto di vista esegetico, questo 'inizio' sem-
bra differenziarsi molto già agli occhi degli scrittori del Nuovo Te-
stamento.rn Il depositum /idei non può dunque essere primariamente
solo una 'trasmissione' di fatti, che sarebbero chiariti una volta per
tutte. H.R. ScHLETTE ha pienamente ragione, quando sottolinea il
carattere d'avvenimento del depositum fidei. Ma questo termine 'av-
venimento' nella filosofia e nella teologia attuali ha un senso così
vario, oppure suscita una serie di immagini simili e tuttavia prove-
nienti da una comprensione cosl diversa, che esso va precisato,
(cf., ad esempio, 'avvenimento' in K. BARTH, H. HEIDEGGER, E.
FucHs, G. EBELING, e nelle rispettive scuole). Il carattere stesso
d'avvenimento non può sorgere semplicemente con !'«avvenimento
della lingua» (E. FucHs), o con !'«avvenimento della parola» {G.
EBELING), poiché l'avvenimento della salvezza rimanda inderogabil-
mente a dei fatti storici. Questi certo ci sono accessibili nella parola,
ma i momenti della testimonianza, della testimonianza data con pie-
nezza di poteri, del sacramentale e cosl via, non possono mancare. E
neppure può essere accantonato il problema della trasmissione di
quell'evento primordiale. Succede altrimenti che !'«avvenimento del-
la lingua» resta astratto e isolato per se stesso: e viene cosl aggirata
la questione di S. KIERKEGAARD sulla 'contemporaneità' con Gesù
Cristo, oppure si presuppone un'immediatezza (che mai si può negare

130 Cf. H.R. ScHLETTE, op. cii., e la mouvazione che vi si trova, specialmente pp.
82 ss.
!li Purtroppo manca una trattazione complessiva sul fa1to che gli evangelisti comin-
ci•no la loro opera da punti rispettivamente diversi, e quindi postulano anche un
'inizio' diverso l'uno dall'altro (vedi solo Mc., Mt. e Le.).
MODI DELLA MEDIAZIONE

dcl lui/o) che si fa beffe di quella comprensione storica. O succede


invece che non si vede più il legame reale di questo avvenimento
della lingua con Gesù Cristo (si confronti, ad esempio r Io. 1,1 ss.):
e allora esso richiama meravigliosamente alla mente 'idee' gnostiche
e solo-speculative, anche se si crede di aver lasciata lontana ogni
metafisica. L'avvenimento dunque è un accadimento, che è passato
e che è sperimentabile solo nel modus della fede garantita da Dio;
il che però significa anche: nella Chiesa. Poiché si tratta sempre di
mantenere il senso esatto di quell'iniziale, fondamentale evento e di
spiegarlo nel miglior modo possibile con l'annuncio e il comune in-
segnamento nel corso di una lunga storia, il de positum fidei, nel suo
carattere di avvenimento, non potrà dunque mai venir separato dalla
rispettiva lingua. E questa non ha paura di assumere in sé anche con-
cetti filosofici di un tempo passato, purché possano servire allo scopo
ultimo, che è d'introdurre nel discorso della storia, manifestandola,
l'essenza della costante origine della fede. Forse si può reagire allo
scandalo della preminenza di 'formule', 'tesi', anathemata e simili,
solo riconducendo tutte queste cose alla loro più primitiva natura
di parola, che certo può e deve essere detta diversamente nelle di-
verse situazioni storiche. Di qui sarebbe da elaborare, ad esempio,
una tipologia dei diversi modi di enunciare all'interno della realtà
'dogmatica' in genere (si confronti, ad esempio, una professione di
fede con anatemi e canoni, con il gcnus degli enunciati rimesso di
nuovo a punto in modo singolarissimo nel concilio Vaticano II).
Il condizionamento degli enunciati dogmatici da parte del linguag-
gio umano e la interpretazione del mondo di cui esso è portato-
re, rende più acuta la questione su ciò che è stabile del dogma in
genere. Questi problemi verranno espressamente sollevati quando si
tratterà dello 'sviluppo del dogma' e della 'storia dei dogmi' La va-
rietà delle forme degli t:nunciati della Chiesa non può tuttavia venir
limitata al solo campo dogmatico. La molteplice configurazione dcl
kerygma nel Nuovo Testamento dimostra già le molte vie per le
quali il messaggio di Dio è giunto e ancor oggi può giungere agli
uomini. La fede 'pensa' in maniere diverse, anche in poesia, in arte,
in musica, negli usi e costumi della Chiesa. La liturgia ed il culto
sono già stati esaminati. Questi modi di trasmissione del primordiale
annuncio possono anche aiutare a combattere il disordine di un'atti-
B!BLIOGllAPIA

vità 'dogmatizzatrice' unilaterale, e fornire nuovi elementi per un'ap-


profondita comprensione di ciò che di fatto viene inteso con il con-
cetto, divenuto cosl equivoco, di 'dogma'.

K. RAHNER - K. LEHMANN

BIBLIOGRAFIA

Articoli
«Dogma» nelle seguenti endclopedie (con bibliografia aggiornata)
Catholicisme, m, Paris 1952, pp. 951-962 (P.A. LIÉGÉ)
DAFC, I (19II) 1121-IJ84 (H. PINARD)
DTC, 4 ( 191 l) 1574-1650 (E. DuBLANCHY)
D:cT, I (21967) 501-519 (J.R. GEISELMANN)
LTK2, 3 ( 1959) 438-446 (H. VORGRIMLER - K. RAHNER- w. LoHFF)
RAC, 3 (1955) 1257-1260 (J. RANFT)
RAC, 4 (19n) 1-24 (E. FAscHER)
RGG3, 2 ( 1958) 220-225 (G. MENSCHING - G. GLOEGE)
TWNT, 2 (19n) 233-235 (G. KrTTEL)

«Kerygma» nelle seguenti enciclopedie (con bibliografia aggiornata)


LTK2, 6 ( 1961 l r 22-126 (H. ScHiiRMANN - K. RAHNER)
RGG\ 3 (1959) 1250-1254 (H. 0rT)
TWNT, 3 (1938) 687-717 (G. FRIEDRICH)

«Dogma» e «Kerygma»
Lexicon Patristicum, ed. G.W.H. LAMPE, Oxford 1961-1964, fase. I, pp.
377·378; fase. 3, PP· 751-752.

Trattati
PS], r, Madrid 1962, pp. 654-805 (con bibliografia)
~: ScHMAUS, Katholische Dogmatik, I, Miinehen 61960, S 6 ss. (con bi-
bliografia).

Saggi speciali
E.L. ALLEN, The Lost Kerygma, in NTS, 3 (1956-57) 349-353.
R. AsTING, Die Verkundigung des Wortes im Urchristenlum, Stuugart
1939.
266 lBLIOGJ.AFIA

W. BAIRD, What is the Kerygma?, in JBL, 76 (1957) 18x-191.


K. BARTH, Kirchliche Dagmatik, 1/11 , Ziirich 1964.
P. BENOIT, Le origini del Simbolo degli apostoli, nel Nuovo Testamento,
in Esegesi e teologia, Roma 1964, pp. 461-487.
J. BEUMER, Wert und Grenze der theologischen Begritfsspracbe, in TTZ,
66 (1957) 129·137·
R.•BuLTMANN, Allgemeine Wahrheiten und cbristliche Verkundigung, in
Glauben und Versteben, m, Tiibingen 21962, pp. 166-177.
F. BuR~ Dogmatik als Selbstverstiindnis des christlichen Glaubens, l, Bern
1957!
Y.-M. CoNGAR, La fede e la teologia, Roma 1967 (con bibliografia).
H. CoNz,i:.LMANN, Zur Analyse der Bekenntnis formel I Kor. r5,3-5, in
EvTh;, 25 (1965) MI (con bibliografia).
J.M. DE JoNG, Kerygma. Een onderzoek naar de vooronàerstellingen van
de theologie van Rudolf Bultmann, in Van Gorcum's tbeologìsche Bi-
bliothek xxxr, Assen 1958 (riassunto ted. pp. 349-353).
H. DE LUBAC, Catholicisme, Paris 1938.
A. DENEFFE, Dogma. Wort und Be grifi, in Scholastik, 6 ( 1931) 381-400;
505-538.
H. DIEM, Dogmatik, I-II, Mlinchen 1955-57.
G. EBELING, Das W esen des christlichen Glaubens, Tiibingen 3 1963; W ort
und Glaube, Tiibingen 21960; Wort Gottes und Tradition, Coli. «Kir-
che und Konfession», 7, Gottigen 1964; Evangelische Evangelienausle-
gung. Eine Untersuchung zu Luthers Hermeneutik, Darmstadt 2 1962;
Theologie und Verkundigung, in Hermeneutische Untersuchungen zur
Theologie, 1, Ti.ibingen 21963 (con bibliografia).
M. ELZE, Der Begriff des Dogmas in der Alten Kirche, in ZKT, 61 ( 1964)
431-438 (con bibliografia).
C.F. EvANS, The Kerygma, in JTS,NS, 7 (1956) 25-41.
F. FLiiCKIGER, Der Ursprung des christlichen Dogmas, Ziirich 1955.
P. FRANSEN, ()ber die Stellung der Canones der 24. Sitzung des Konzils
von Trient, in Schol, 25 (1950) 497-517; 26 (1951) 191-221; 27 (i:952)
526-556; 29 (1954) 537-560; 30 (i:955) 33-49; ETL, 29 (1953) 657-
672.
A. FRIES, Zum theologischen Beweis der Hochscholastik: Schrift und Tra-
dition, Coli. «Mariolog. Studien», 1, Essen 1962 1 pp. 107-190 (con bi-
bliografia).
G. GLOEGE, Offenbarung und Oberlieferung, in TLZ, 79 (1954) 213-236.
K. GoLOAMMER, Der Kerygma-Begrifl in der altesten christlichen Litera-
tur, in ZNTW, 48 (1957) 77-101 (con bibliografia).
L. GOPPELT, Das kirchliche Amt nach den lutherischen Bekenntnisschrif-
ten und nach dem NT, in Zur Auferbauung des Leibes Christi. Festga-
be Peter Brunner, Kassel i:965 1 pp. 97-u5 (con bibliografia).
BIBLIOGRAFIA

F.W. GaoSHEIDE, The Pauline Epistles as Kerygma, in Studia Paulina in


honorem Johannis de Zwaan septuagenarii, Haarlem 1953, pp. 139-145.
A. VON HARNACK ·E. PETERSON, Briefwechsel, in E. PETERSON, Theologi-
sche Traktate, Miinchen 1951, pp. 293-321.
I. HERMANN, Predicazione, in DzT, I (21967) 115-120 (con bibliografia\
Kerygma und Kirche, in Neutestamentliche Aujsatze. Festschrift fiÙ
]. Schmid, Regensburg 1963, pp. uo-u4.
V. HEYNCK, Die Beurteilung der co.nclusio theologica bei den Franziska-
ner-Theologen des Trienter-Konzils, in FStud, 34 (1952) 146-205.
L. HòDL, Articulus fidei, in Einsicht und Glaube. Festschrifl fiir G. Sohn-
gen, Freiburg 1962, pp. 358-376.
A.M. HUNTER, Die Einheit des NT, Miinchen 1952.
H. JoNAS, Augustin und das paulinische Freiheitsproblem, GOttingen
21965, Anhang I, Ober die hermeneutische Struktur des Dogmas.

E. KXSEMANN, Exegetische Versuche und Besinnunge:n, r,n 1 • Gottingen


1964; Erwagungen zum Stichwort 'Versohnungslehre·im Neuen Testa-
ment', in Zeit und Geschichte. Festschrift R. Bultmann z. 80. Geburts-
tag, a cura di E. DrNKLER, Tiibingen 1964, pp. 47-59.
W. KAsPER, Il dogma sotto la parola di Dio, Coli. <iGiornale di teologia»
19, Brescia 1968.
E. KINDER, Urverkiindigung der Offenbarung Gottes. Zur Lehrc von den
den 'Heiligen Schriften', in Zur Aufbauung des Lcibes Christi. Festga-
be P. Brunner, Kassel r965,pp. II-27.
H. KoESTER, Hiieretiker im Urchristentum als theologisches Problem, in
Zeit und Geschichte. Festgabe R. Bultmann z. 80. Geburtstag, a cura
di E. DINKLER, Tiibingen r964, pp. 61-76.
]. KooPMANS, Das altchristlichc Dogma in der Reformation, in BEvTh, 22
Miinchen l 96 5.
H. Ki.iNG, Strukturen der Kirche, Coll. «Quaest. disp.», 17, Freiburg
2 1963, pp. 161-195; spec. pp. r65 ss. (con bibliografia); 326 ss. (con bi-

bliografia) tr. it. Torino 1965.


Q, Kuss, Auslegung und Verkundigung, 1, Regensburg 1963.
A. LANG,Der Bedeuntungswechsel der Begrilfe 'fides' und 'haeresis' u1td
dic dogmatische Wertung der Konzilssentscheidungen von Vienne und
Trient, in MTZ, 4 (1953) i33-146.
U. LucK, Kerygma, Tradition umi Geschichte bei Lukas, in ZTK, 37
( 1960) 5 l SS.
F. MALMBERG, De afsluiting van bet depositum fidei, in Bijdragen, 13
(1952) 31-43.
M.G. McGRATH, The Vatican Council's Teaching on the Evolution o/
Dogma, Santiago (Cile) 1959.
W. MARXSEN, Einheit der Kirche?, in Ringvorleszmg der Evangelisch-
Theol. Fak11ltiit der Westjiilischen \Vilhclms-Universital Munster, a cu-
BIBLIOGRAl'IA

ra di W MARXSEN, Wittcn 1964, pp. 9·30: Das Neue Testament und


die Einheit der Kirche.
F. MussNER, Die johanneische Sehweise, Coli. «Quaest. disp.», 28, Frci-
burg 1965 (con bibliografia); 'Evangelium' und 'Mitte des Eva11gelium5,
tr. in BCR, 51,pp. 475-509 (con bibliografia).
W. PANNENBERG, Was ist eine dogmatische Aussage?, in Pro veritate.
Festgabe f ur L. ]aeger und W Stahlin, a cura di E. ScttLINK H. VoLK,
Miinster 1963, pp. 339-361.
J.M. PARENT, La notion de dogme au XIII• siècle, in Études d'Histoirr:
iitt. et doctr. Ju XIII' siècle, Paris 1932, pp. 141-163.
E. Pouu,T, Storia, dogma e critica nella crisi modernista, Brescia 1968.
K. RAHNER, Was ist eine dogmatische Aussage?, tr. in BCR, 62, pp. 113-
165; Theologie im Neuen Testament, ibid., pp. 167-204.
K. RAHNER • J. RATZINGER, Olfenbarung und ùberlieferung, Coli. «Quaest.
disp.», 25, Freiburg 1965; Episcopato e primato, Coli. «Quaest. disp.»,
Brescia 1966.
J. RATZINGER, Das geistliche Amt und die Einheit der Kirche, in Catholica,
17 (1963) 165-179.
T. RENDTORFF, Uberlieferungsgeschichte als Problem systematischer Thco-
logie, in TLZ, 90 ( 1965) 81-98.
O. RrTSCllEL, Das Wort 'dogmaticus' in der Geschichte des Sprachgc-
hrauchs bis i;um Aufkommen des Ausdrucks 'theologia dogmatica', in
Festgabe fur ]. Kaftan, Tiibingen 1926, pp. 260-272.
H. ROcKl::RT, Schrift · Tradition - Kirche, Liineburg r95r.
L. ScHEFFCZYK, Die Auslegung der Hl. Schrift als dogmatische At1fgabe.
in MTZ, 15 (1964) 190-204.
F. ScHLC.IERMACHER, Der christliche Glaube, Hl, a cura di M. REDEKER,
Berlin 1 1960.
H.-R. ScHLETTE, Dogmengeschichte und Geschichtlichkeit des Dogmas, in
P. NEUENZEIT - H.-R. ScHLETTE, Geschichtlichkr?it und Of-
V. BERNING •
fenbarungswahrheit, Miinchen l 964, pp. 67-90.
H. ScHLJER, Ober Sinn und Aufgabe einer Theo/ogie des Nr?11en Testa-
ments; Biblische und dogmatische T heologie; W as heisst Auslegung
der Hl. Schrift?, in Besinnung auf das Neue Testament, Freiburg 196.L
rispettivamente pp. 7-24; 25-34; 35-62; Il tempo della Chiesa, Bologna
1965, pp. 392-525; La parola di Dio, Roma 1963.
E. SCHLINK, Die Struktur der dogmatischr? Aussage als okumt!nÌSl'hes Pm-
blem, in KuD (1957) 251-306, specialmente 253 ss.
R. ScHNACKENBURG, Neutestamentliche Theologie. Der Stand der Fors·
chung, Coll. «Bibl. Handbibliothek», I, Miinchen 1963, capp. 1, 111,
IV (con bibliografia).
V SCHURR, Kerygma und Dogma, in Concilium, 1(1965)2-13-246 (con
bibliografia).
BIBLIOGRAFIA

K.G. STF.CK, Lehre und Kirche bei L11ther, Mi.inchen 1965 (con bihlio-
gralia).
K. STENDHAL, Kerygma und kerygmatfrch. Von zweideutigen Ausdriicken
der Predigt dt•r Urkirche und unserer, in TLZ, 77 ( 1952) 715-720.
P. TILLICH, Systematische Theologie, 1\ Stuttgart 1956.
A. VoGTLE, Die historische und theolog,ische Tragweite der heutigen Eva11-
gclienforsch1111g, in ZKT, 86 (I 964) 38 5·417 (con bibliografia); Liter.1-
rische Gattungen und Formen, in Anzeiger f iir d. katholische Geistlich-
keit, 73 (1964); 74 (1965); Werden und Wesen der Evangelien, tr. in
«Giornale di teologia» r, Brescia 3 1967, pp. 125--144.
H. VoRc;RI!\-iLER (a cura), Eugesi e dogmatica, Roma 1967 (con biblio-
grafia).
CL. WESTI:RMANN, Was ist eine exegetische Aussage?, in ZTK, .59 ( 1962)
I·I 6.

O. WEBER, Grrmdlagen der Dogmatik, l, Neukirchen 31964, pp. 43-49.


V WARNACH, Was ist eine exegetische Aussage, in Catholica, 16(1962)
103-130.
U. WILCKENS, Kerygma rmd Evangelium bei L11kas (Beohachtungen w
Apg rn,34-43), in ZNT\V, 49(1958) 223-237.
H.G. Wooo, Didache, Kerygma and Evangelion, in New Tes/ame111 Es-
says. Studies in me111ory o/ ThomaI Walter Manson i893-1958, Jvbn-
chester 1959. pp. 306-314.
MODI DELLA MEDIAZIONE

3. Arte cristiana e annuncio del vangelo

La rivelazione viene resa attuale e trasmessa non solo attraverso la


liturgia, il kerygma ed il dogma, ma, a suo modo, anche attraverso
l'arte cristiana. Per vedere l'esatta connessione di arte ed annuncio,
è necessario riflettere anzitutto sul rapporto che l'arte in genere ha
con la rivelazione.

a. Il carattere di 'forma' della rivelazione

aa. In quanto manifesta la gloria dell'amore di Dio - Il succedersi


degli avvenimenti veterotestamentari della rivelazione tocca in Gesù
Cristo un vertice insuperabile, e quindi anche un centro, che dà sen-
so, che tutto ricapitola (Eph. 1,10); e un termine (télos: Io. 13,1),
ciò che è una volta per sempre, ciò che è definitivo (Hebr. 7,27; 9,
12; 10,xo ). Solo questo orientamento alla figura terminale dà alla
rivelazione biblica un'unità d'ordine, e con ciò (senza voler intaccare
il carattere di mistero) una 'forma' comprensibile, che nella sua unit~
e determinatezza deve divenire la forma che plasma l'uomo credente
(Gal. 4,19), la Chiesa e, escatologicamente, anche il mondo. L'infini-
ta, libera, sovrana gloria di Dio appare già nell'Antico Testamento
in atti-avvenimenti sempre nuovi, che sfuggono alla presa dell'uomo,
che giudicano e salvano. Le impensabili scelte di Dio, però, costitui-
scono sempre anche un suo autovincolarsi nella finitezza di ciò che è
scelto, come divina fedeltà (all'alleanza), alla quale deve rispondere
ia fedeltà di fede da parte del popolo e del singolo. La più alta de-
terminatezza della figura storica della rivelazione (il popolo, la sua
storia, la legge, il culto, l'interpretazione profetica di certe situazio-
ni e ammaestramenti di fede) manifesta la più alta determinatezza
della libertà divina. Questa correlazione giunge a termine nella figura
esistenziale di Gesù Cristo. La 'figura di Dio' si annienta qui a tal
punto nella 'figura di servo' (Phil. 2,6), che la seconda costituisce
l'adeguata e non solo approssimativa risposta, 1 e con ciò stesso rive-
lazione, del Dio-salvatore ai peccatori. Il momento dell'adeguatezza
è assicurato dal fatto che l'intera esistenza di Gesù può venir spie-
gata solo credendo all'orizzonte ultimo d'amore ( Act. 10,36 ). Con
esso viene alla luce non solo la realtà ultima ed insuperabile dell'uo-
ARTE CRISTIANA E ANNUNCIO DEL VANGELO

mo (lo. 15,13), ma anche la realtà ultima e insuperabile dello stesso


Dio: la sua determinatezza quale amore (trinitario) (1 Io. 4,16), die-
tro cui non si può nascondere alcun altro mistero di Dio, fondamen-
talmente inesplorato (1 Cor. 2,10-13). Poiché nella forma finita della
vita di Cristo, e proprio nel suo nascondimento nella passione e mor-
te, si scopre e si rende visibile in modo definitivamente efficace la
realtà infinita dell'amore di Dio, Giovanni può già esporre e lodare
il nascondimento della passione come la manifestazione della gloria
dell'amore divino (86ça:, Soça.r,nv) (Io. 1,14; 2,u; 12,16 s.; 13,31-
32; 17,5.22.24). L'impossibilità di chiudere Dio in un concetto si
manifesta, nella figura finale della rivelazione, non più tanto attra-
verso la libertà dei suoi singoli atti sovrani, quanto piuttosto attra-
verso l'impossibilità di assegnare il 'perché' e la 'misura' del suo
amore, che, proprio nella sua apparizione nel Cristo, supera assolu-
tamente ogni misura umana e creata dell'amore, e si dimostra in ciò
quale pura gloria di Dio (kabod).
La rivelazione, sebbene si rivolga a tutto l'uomo, e perciò sia in-
separabilmente spirituale-sensibile, e cada in ugual misura sotto i
sensi principali («ciò che abbiamo udito, ciò che abbiamo visto coi
nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato e che le nostre mani han-
no toccato», r Io. 1 ,1 ), in quanto manifesta il libero, sovrano cuore
divino, è primariamente una rivelazione mediante la parola. Ciò che
si può vedere e toccare coi sensi, e cosl via, ha, esso stesso, carattere
di parola, è cioè funzione della libera espressione di Dio, come tutto
ciò che della rivelazione è di ordine spirituale-intelligibile ha carat-
tere di parola; deve venir riferito cioè, al di sopra del comune signi-
ficato creato (filosofico), alla singolare autoespressione dell'unico Dio
vivente. Se già il concetto creato di figura non è riferibile unicamen-
te a ciò che è visibile (poiché sia la parola poetica che la frase mu-
sicale hanno anch'esse una loro figura; del resto anche un cieco può
percepire figure col tatto), anche nella rivelazione teologica la pa-
rola, pur primeggiando, si oppone ancor meno all'uso del concetto
di 'figura'. Tale primato non significa altro che questo: attraverso

1 Nel linguaggio di N1cc0Lò CusANO, anche in riferimento a Cristo si può parlare


di praecisia (precisione), che alrrimemi è usata solo per Dio, mentre ogni essere e
pensiero mondano è solo caniectura (congetrura).
MODI DELLA MEDIAZIONE

tutte le forme sensibili e spirituali capaci di esprimere, non si manife-


sta solo un' 'essenza', bensì una Persona infinitamente-realmente-esi-
stente.

bb. In quanto inserisce nuova forma nel caos del peccato - Poiché
il mondo, nell'uomo, è chiamato ad un fine ultimo soprannaturale e, in
conseguenza di ciò, riceve anche la grazia, le forme e le forze d'ordine
che agiscono nella creazione come tale non sono sufficienti a raggiun-
gere la figura definitiva. Questa può essere solo partecipazione 'gra-
tuita' alla 'figura di Dio' (Phil. 2,6; cf. Io. 5,38 = Num. 12,8; contro
Dt. 4,12); tanto più che uomo e mondo, petcando, hanno perso la
figura-risposta, conferita loro dal Verbo divino con la grazia, e stan-
no di fronte alla divina chiamata come un caos amorfo. La discesa
del L6gos nella «figura di servo», quando egli «Si abbassò (É:tct1tEl-
vwaEv), facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce», è
genuino ingresso nella 'scandalosa mancanza di figura', che vien da
tutti «disprezzata» (Is. 53,2-3). Ma questo «divenire peccato» (2 Cor.
5 ,2 1 ) e assumere la «figura simile alla carne del peccato» (Rom. 8,
3), è già un 'portare alla luce' l'informe oscurità, perché manifesta-
zione dell'«opera fatta in Dio>? (Io. 3,21 ). Se la materia di quest'ope-
ra è peccato, la sua forma è amore di Dio operante nel Cristo, che,
illuminandola, dà forma all'oscurità caotica: «poiché tutto ciò che
vien illuminato è luce» (Eph. 5 ,r 3 ). La forza che non giudica da
fuori e dall'alto ciò che è peccaminoso, ma che lo trasforma, è la pas-
sione del Dio.uomo. Essa s'appropria, globalmente e singolarmente,
tutti gli imprevedibili aspetti della colpa del mondo, soffrendoli fino
in fondo; impara a conoscerli sperimentalmente nel loro temibile op-
porsi a Dio. Diviei;e così possibile la misericordiosa compassione
(Hebr. 2,14; 4,15; j,8-9), senza che questa «debolezza» (5,2) e ten-
tabilità (Mt. 4,1 s. e par.) divenga mai peccato (Hebr. 4,15). L'interio-
re trasfigurazione avviene attraverso la forza modellatrice della singo-
lare, inconfondibile, personale realtà di Gesù Cristo. Egli è la valida
«immagine-espressione» (dKÙ.l'v )2 del Dio invisibile (Col. r, 1 5 ), e pre-
cisamente per la realtà della creazione (v. 16), come per la realtà
della redenzione (13,14), nella sua figura presente come nella sua

2 G. KtTTEL, Elxwv, in T\VNT, 2, 386;393 s.


Alt'tE CltlSTtANA E ANNUNCIO DEL VANGELO
273

figura escatologica (v. 18 ): come sacramento, nel quale la pienezza


di Dio abita vitalmente (v. 19; 2,9), sempre in modo tale, che l'ar-
monizzazione del tutto si verifica nel suo sangue (v. 20; Eph. 1,7; 2,
13 s.).
La piena adeguatezza tra Dio e mondo (OLxa.oO"vv'I'l quale giustizia,
rettitudine davanti a Dio/ mediante Dio) è offerta, aperta ed accessi-
bile, nella forma del Cristo, ad ognuno che, credendo, ad essa si ri-
mette, per venire da essa afferrato e trasformato (1tlai:14 'l'I'lO'~: 'fe.
de all'interno della realtà di Gesù'); 4 tant'è vero che l'uomo, 1lell'am-
bito di questa immagine, diviene «immacolato e irreprensibile» (Col.
1,22; Eph. 1'4; Rom. 8,1 ). Ciò vale anzitutto per la Chiesa quale
sposa di Cristo (Eph. 5,27) e quale fondamento di realtà per ogni
santità individuale nascente dalla fede. Soprattutto Maria è il para-
digma della rettitudine perfetta (Le. 1,28.38) della Chiesa, ricevuta
in dono nella fede mediante la grazia della redenzione. In questa
rettitudine si compie perciò, senza riduzione e senza giudizio, la pa-
rola di fede della figlia di Sion (Magnificat, Le. 1 ,46 ss. ). Per il sin-
golo individuo la 'conversione al Signore' è 'visione delJa gloria del
Signore senza velo sul volto', e quindi «trasformazione in quella me-
desima immagine di gloria in gloria» (2 Cor. 3,16-18), ove 'gloria',
però, non è nient'altro che la «trasformazione nella forma del Cristo»
(Gal. 4,19), il «portare la passione e la morte di Gesù nel nostro
corpo, perché anche la vita di Gesù sia manifestata nel nostro corpo»
(2 Cor. 4,rn): incoativamente già in questo tempo, e definitivamente
nella risurrezione dalla morte.

cc.Nell'analogia della bellezza - Se l'essere (tra le realtà create,


come pure tra Dio e la realtà creata) «viene detto analogicamente»,
lo saranno anche le sue trascendentali, costitutive proprietà (uno, ve-
ro, buono, bello). Il bello, secondo TOMMASO (che segue in questo
DIONIGI), si ricollega strettamente con il 'bene': 5 quale perfezione

l Nella teologia latina (AGOSTINO, ANSELMO), con i termini reclum (cor) e rectitu-
do vengono espressi - della OLX(ltOO'VllTJ biblica - sia il lato etico, sia quello este-
tico. I francesi giocano tra due termini: ;ustice e iustesse (B. PASCAL, Cli. PÉGUY).
• Cf. il mio articolo Fides Chri<ti in Sponsa Verbi, Einsiedeln 1960, pp. _58 s. (con
bibliografia).
~ Bonum laudatur ut pulchrum: Div. Nom. c. 4; inoltre il commento dell'AQUI·
NATE in c. 4 lect. 5 e 6.

1s - Mysterium sllluw /i.


MODI DELLA MEDIAZIONI!.
274

(perfectio) che abita nell'essere in quanto tale, e sua preziosità. D'al-


tra parte esso si ricollega strettamente anche con il 'vero', poiché è
ciò che illumina e piace, dalla simmetria nella realtà alla simmetria
tra realtà e conoscente (senso o spirito). 6 La profondità dell'essere,
però, donde scaturisce il retto ordine delle parti ( ordo, propor/io)
come illuminata chiarezza (claritas), è quell'unità che permette ad
ogni ente - oltre al suo far parte del mondo - di partecipare alla
singolarità dell'assolutamente uno, e gli presta perciò una scintilla
dell'assoluta fascinosa preziosità di Dio, e con ciò un diritto, in Dio,
ad assoluto amore. 7
La rivelazione di Dio non solo non s'oppone alla dottrina formale dei
trascendentali, ma anzi, come rivelazione che prorompe dalle profon-
dità di Dio nella parola trinitaria, la esalta infinitamente. Se già nel
più alto sensb creato la bellezza scaturisce sempre dalle misteriose
pronfodità dell'essere, dai primi principi vicino a Dio (&.pxal, ik~ov ),
e (nella religione mistica e filosofica) cosl è stata vissuta - da dove
si è formata, e di continuo si è nutrita ogni originaria e normativa
arte dei popoli, che è sempre religiosa -, allora, in entusiasmante
analogia a ciò, la biblica 'gloria' del Dio vivo-personale dovrà appa-
rire per l'uomo, armonizzato a quella mediante la grazia e la fede,
quale affascinante (super) bellezza, anche e proprio là dove essa sce-
glie, come sua adeguata manifestazione, la figura del nascondimen-
to - fino all'assoluta mancanza di figura del Crocifisso.
Fondandosi la bellezza creata nel mito (cioè nella parola santa e
nel resoconto delle origini) la rivelazione negherà questa parola miti-
ca e la su~ figura, solo nel caso in cui quella si ponga in modo assolu-
to e non lasci spazio per la libera rivelazione della parola; la compirà
inve<:e e la colmerà in sé, nei caso in cui-i frammenti di parola, non
chiari, opachi, contraddittorii, tratti dalla profondità del mondo (M-
yo~ CT7tEpµa:t~xol) s'inseriscano e si aprano alla parola del Padre, chiara,
limpida, priva di contraddizioni. Assumendo la figura del mondo e
dell'uomo, essa legittima nel contempo il discorso per immagini, il
concetto rivestito d'un involucro più o meno spesso, prodotto dai

6 S. th., I,5,4,r; r·2,27,r,3.


7 Sulla dottrina delh bellezza in s. ToMM,,so: F.J. Kov~rn. Dir .iislhetrk des Thn-
mas von Aquin. Berlin r96r (con bibliografia).
Al\TE CRISTIANA E ANNUNCIO DEL VANGELO

sensi e dalla fantasia: le parabole, l'allegoria e il simbolo, il sacra-


mento 'significante'. Corrispondentemente l'oggettivazione della rive-
lazione nella sacra Scrittura è piena di tali forme di rivestimento, le
quali, proprio cosi come sono, posseggono la loro massima forza
d'espressione; per cui l'astrazione va a scapito soprattutto del loro
contenuto teologico, che nella religione dell'incar~azione di Dio e
della resurrezione della carne non può venir 'chiarito' ma solo 'tra-
sfigurato' Naturalmente tutte queste forme, in diverso grado 'poeti-
che' vanno al di là del rapporto con l'elemento creato-mitico, si rife-
riscono al libero e sovrano Io del Dio vivo. Perciò, per quel che con-
cerne la loro adeguatezza, sono sottratte al comune-neutrale giudizio
'estetico' dell'uomo. La visione della rettitudine, e con ciò della
(super)bellezza, l'uomo la riceve a misura che egli, credendo, rinun-
cia ai suoi propri criteri, e si rimette al Dio che si esprime; solo
'guardando' a partire da Dio, gli si possono aprire «gli occhi della
fede». 3 La figura visibile della rivelazione, che acquista la sua ~om­
prensibilità dall'unità e determinatezza dell'amore, superiore ad ogni
concetto, di Dio nel Cristo, non si può considerare in alcun momento
a meno che non sia partecipata. Ogni 'contemplazione' cristiana resta
un ascolto della parola, che risuona nel presente sempre, e ·sempre
esige la conversione del peccatore; resta inoltre dipendente dall'an-
nuncio apostolico ed ecclesiale e dall'interpretazione (legata alla tra-
dizione). Solo cosl, nella fede, riceve la sua propria evidenza-espe-
rienza,9 che la stacca da tutte le altre concorrenti figure religiose.
Solo in questa figura infatti si presenta la realtà completamente di-
versa del Dio vivo, quale amore che da lui prorompe, e..oehe' si fa
credibile come tale mediante la figura- varlamente articolata :ciella rive-
lazione.10 Per adoperare un paragone, essa si erge sulle -altre figure,
come il corpo dell'uomo su quello delle bestie: qui si manifesta con
evidenza l'inderivabile novità dello spirito, là, tra la molteplicità dei
miti e delle filosofie, quella dell'unica rivelazione.

dcl. Conseguenze per la relazione tra rivelazione e tirte - Nella

8 P. RousSELOT, Die Augen des Glaubens, trad. ted. di J. TRiiSCH, Einsiedeln 1963.
Per la critica cf. J. ALFARO, Fides Spes Caritas 2, Roma 1963, pp. 4r6 s.
• Cf. la mia estetica teologica in Herrlichkeit, I, Einsiedeln 1961, pp. 211-410.
10 Cf. il mio Glaubhaft ist nur Liebe. '
MODI DELLA MEDIAZIONE

sacra Scrittura per esprimere la parola di Dio sono state usate diverse
dottrine di saggezza umana ('filosofie'). Così pure nell'Antico Testa-
·•
mento sono state usate diverse arti umane: arte poetica d'ogni tipo
(dalla prosa solenne, legislativa e dal raccontQ storico ufficiale si
passa al proverbio, e da questo al semplice canto fino all'inno mae-
stoso), arte musicale, arte architettonica e plastica. Il divieto delle
immagini si colloca in un kairos storico - singolare e irrepetibile:
radicale rigetto degli 'altri' dèi, la cui rappresentazione stava in una
connessione magica con il dio, e permetteva la coartazione teurgica:
manomissione della sovrana libertà di Dio, che non parla né agisce
legato ad una immagine. 11 «Dalla proibizione delle immagini dell'An-
tico Testamento non si può perciò dedurre nessuna affermazione
circa la natura di Dio speculativamente troppo sicura di aver colto
nel segno». 11 Inoltre c'è la descrizione esatta (addirittura platonica)
del modello originario del tempio, visto da Mosè sul Sinai, e del
suo completo arredamento, opera di artisti espressamente a ciò do-
tati e chiamati da Dio, i quali devono eseguire con minuziosa pre-
cisione la tenda, l'arca per le tavole della legge, gli altari coi loro
arredi, il bacino col suo piedistallo, gli indumenti intessuti per le
funzioni sacre, e così via. «Esattamente come io te l'ho ordinato,
essi debbono farlo» (Ex. 25-31; 33-40 ). In questa presentazione,
che appartiene allo Scritto sacerdotale, l'artista dunque è certo
chiamato da Dio, ma è sottoposto alla casta dei sacerdoti, che sola
riceve dirette ispirazioni artistiche da Dio. Ciò sostanzittlmente non
muta nella costruzione del tempio di Salomone, poiché questa volta
soltanto il 're' (David) elabora i piani e i modelli fìn nei minimi
particolari, in conformità con le indicazioni di Dio stesso (I Chron.
2 8,11-19). Per l'esecuzione, Salomone ingaggia «manovali da tutto

Israele» (I Reg . .5 ,2 7 ), ma anche Hiram di Tiro, «che possedeva


grande ingegno e abilità per l'esecuzione di lavori in metallo» (7,
14). Dio abita visibilmente, anche se non in figura, nella tenda e nel
tempio, e sancisce non solo l'alleanza, ma anche, come giusta ed ade-
guata, la funzione teologica dell'arte. Anche il tempio post-esilico
viene costruito ·sotto precisa direzione e sotto continuo controllo

11 G. VON RAD, Das Bi/dverbot im AT, in TWNT, 2, 378-380.


12 H.E. BA!-IR, Poiesis, Theologische Untemichung der Ktmsl, Stultgart 196r, p. 309.
ARTE CRISTIANA E ANNUNCIO DEL VANGELO 277

(Esr. 3,8-9); l'incarico inoltre proviene dal 're' Ciro, che ha ricevuto
l'ordine immediatamente da Dio (Esr. r,2 ), e dà precise prescrizioni
(6,2-5), mentre i profeti Aggeo e Zaccaria incitano alla costruzione
( 5,I-2 ).ll
Tutta questa sfera dell'arte sacra è certamente prefigurazione e
preparazione al Cristo, il cui corpo, quale unico vero tempio che re-
sta (lo. 2 ,21 ), rappresenta l'incorporazione totale di Dio (Col. 2 ,9 ):
aggregato ad essa, il corpo del credente diviene tempio dello Spirito
santo ( r Cor. 6,19 ). Ora però, ciò costituisce un aspetto essenziale
della liberazione del cristiano da ogni 'sfera sacra' circoscrìtta nella
'profanità', come sottolinea la teologia protestante, a ragione anche
se unilateralmente. 14 Poiché là dove colui che ha patito ed è risorto
diviene il punto centrale (eucaristico) del mondo, non c'è neppure
più - da un punto di vista cristiano - sfera profana: la libertà cri-
stiana è comunque liberazione, che ci mette in un genuino 'di fronte'
a Dio, però solo nella misura in cui ciò è espressione dell'infinita-
mente più intimo esser figli in Dio. Perciò, qui come dovunque, l'an
tica alleanza non è abolita, bensl, nel suo dinamico precorrere, è
messa al sicuro nel Cristo e nella Chiesa, ed è sempre di nuovo da
percorrere come via autentica (che porta oltre se stessa). Solo cosl
l'evento cristologico - il salto dalla sacralità singola alla sacralità
generale - può anche in questa sfera, rimanere evento.
Ciò vale tanto più, per il fatto che la Scrittura dell'Antico e del
Nuovo Testamento resta l'inscindibile, oggettiva figura di testimo-
nianza della rivelazione davanti alla Chiesa e nella Chiesa, senza
portar scapito al fatto che le 'tavole di pietra' sono sostituite da «ta-
vole che sono cuori di carne» ( 2 Cor. 3 ,3 ). Questa misteri(!)sa opera
d'arte letteraria dello Spirito divino, che 'ispira' anche gli autori se-
condari umani secondo le leggi della sua propria ispirazione, prende
al servizio di Dio l'arte umana, in un' 'analogia dell'ispirazione', che
non dice frattura, bensl continuità assicurata dall'alto (cf. a cc.).

Il J. DAN1tLou, Il segno del tempio, BreKia 1953; Y.-M. CoNGAR, li 1111.<tero Jd


tempio, Torino 1963.
14 K. MAKTI, Christus, die Befrciung der bilde11der. Kunstc zur Profanitiit, in EvTh,
18 (1958) 371-375; W. KAMLAH, Chrisun111m und Gescbichtlichkeit, Stuttgart 195r.
Sostengono la tesi: K. LEDERGERBER, Ku11rt u11d Re/1gio11 in dcr Verwandlung, Koln
1961, e R. HERNEGGER, Macht ohne Auftrag, Oltc:n 1963.
MODt DELLA MEDIAZIONE

In quest' 'analogia', all'autore umano è lasciato lo spazio di liber


tà per cercare, vagliare, scegliere ed efficacemente proporre, sotto
l'impulso dello Spirito santo, le forme adatte ad esprimere i fatti
della rivelazione. Le plastiche immagini, nelle quali il primo racconto
della creazione raccoglie gli ineffabili avvenimenti dell'origine, sono
l'opera d'un grande poeta. I libri dei Re competono per arte con
l'epopea classica degli eroi. Le forme letterarie possono essere dispo-
nibili come strutture più o meno vuote o già riempite, e - come stili
dati in anticipo - attendono di venire usati. Se all'arte dell'Anticci
Testamento, nel suo costituirsi, vien rié:hiesto un massimo di obbe-
dienza al volere del Rivelatore, trasmesso dai secerdoti, l'analogia
trova nell'opera d'arte letteraria la sua più grande elasticità. Già
qui - non solo col Nuovo Testamento - Dio attribuisce grande im-
portanza alla libera risposta del cuore credente. Gli vien lasciato
spazio, nei Salmi e negli inni di lode, di scegliere egli stesso la forma,
la quale è giusta risposta alla libera e amorosa parola della rivela-
zione divina. E poiché questa parola (ad es. nelle pretese dei profeti)
è sempre mediata dall'uomo e perciò prende anche forma, e d'altra
parte la parola di risposta dell'uomo stesso - in quanto sacra Scrit-
tura ispirata - viene assunta nella parola primaria della rivelazione
divina, l'analogia appare ancora un volta nuova: si ha infatti una
compenetrazione inconcepibilmente intima della libera opera model-
latrice di Dio, che a tutto conferisce figura, e la libertà dell'uomo,
che già. ca-opera, con tutta la sua capacità estetica di conferire figura,
nell'atto primario della rivelazione. Se quanto abbiamo detto in an-
tecedenza sulla figura di parola (e immagine) della rivelazione viene
riconoseiuto come fondamentalmente legittimo e (posto che realmen-
te debba aver luogo l'incarnazione della parola di Dio) assolutamen-
te necessario, non c'è bisogno di fare eccezione per il caso singolo
dei Vangeli. La scelta e l'esposizione dei fatti della vita di Gesù, in
cui si compie la storia di salvezza, e i singoli detti, o gruppi di detti,
da conservare in tutti i tempi, sottostanno ad una ragione critica
degli agiografi, che non va qualificata solo come 'pratica', ma anche,
senz'altro, come 'estetica'. E come non è il caso di decomporre a mo-
tivo della critica una grande opera d'arte profana, per avvicinarsi con
simile operazione al senso del tutto - ma questo senso si offre assai
di più alla comprensione ndla forma che l'artista le ha dato, e sol-
ARTE ClUSTIANA E ANNUNCIO DEL VANGELO

tanto in essa - cosi, fondamentalmente, stanno le cose nell'intera


Scrittura, formata nell'analogia divino-umana dell'ispirazione, e nei
Vangeli in particolare. La critica letteraria può aiutare a capire una
poesia o un brano musicale ma, quando ci si trova di fronte ad una
vera opera d'arte, il suo aiuto si limita ad una comprensione più
adeguata della forma artistica.
E come un artista religioso non-cristiano, obbedendo alla sua mi-
gliore ispirazione, crea la dovuta forma nel contempo e indivisibil-
mente per Dio e per gli uomini: a gloria di Dio (o dell' 'essere',
della 'realtà') e per comunicare agli uomini qualcosa della gloria del-
l'Assoluto, e l'una e l'altra cosa fanno un tutt'uno nell'atto creativo
e non si contraddicono; cosl si deve anche aver fiducia che gli Agio-
grafi, ispirati dallo Spirito, per presentare nella Bibbia la realtà della
salvezza, abbiano cercato, scelto e elaborato, in obbedienza al loro
incarico, le 'immagini dell'annuncio del Vangelo' adatte agli uomini;
immagini che del resto, come s'addice all'arte autentica, portano in
se stesse l'evidenza della loro autenticità. L'opera degli agiografi, pur
restando canonica per la Chiesa di tutti i tempi, mostra anche la
crescita e la legittimità d'una successiva arte cristiana ed ecclesiale.

b. Il cristiano come artista

aa. L'artista davanti alla rivelazione - Come ogni uomo, l'artista


viene raggiunto dalla parola globale della rivelazione di Cristo, ed è
chiamato a rispondervi mediante conversione, fede e amore; a diffe-
renza però degli altri, egli è anche chiamato a rispondervi mediante
la creazione artistica. E poiché questa, nel suo processo - dalla pri-
ma ispirazione a tutte le fasi dell'interiore concepimento, fino alla
nascita dell'opera -, appartiene a ciò che esiste di più personale e di
assolutamente non regolabile, l'incontro dell'artista con la rivelazio-
ne dev'essere esemplarmente personale. Infatti, quanto più esisten-
zialmente egli sperimenta questo incontro e _vi risponde con la pre-
ghiera e con la vita, tanto più immediatamente possono fondersi in-
sieme ispirazione naturale e ispirazione soprannaturale, carisma na-
turale e carisma soprannaturale. Il naturale non può venir sostituito
da alcuna grazia soprannaturale (come in altri carismi ecclesiali), e
neppure da essa accresciuto. Il passaggio obbligato della grazia della
280 MODI DELLA MEDIAZIONE

fede attraverso l'insostituibile ispirazione personale dà all'artista


un'eccellente libertà anche nell'ambito della Chiesa. Questa libertà,
rettamente ed umil~ente usata, può fare di lui un testimone qualifi-
cato per il Cristo; egli può divenire anche un antidoto salutare contro
gli abusi (inevitabili tra peccatori) del clericalismo, e svolgere un ruo-
lo importante nello sforzo ecumenico. 15 Queste tre funzioni stanno
una nell'altra, e vicendevolmente si sollecitano. Tuttavia questa accre-
sciuta responsabilità mette in luce anche la difficoltà e il paradosso
di operare nell'arte: rappresentare. e testimoniare col mezzo dell'arte
(e non solo dell'esistenza cristiana) l'incarnazione di Dio, perfetta-
mente adeguata nel Cristo, in una nuova incarnazione - necessaria-
mente inadeguata.
La grande arte cdstiana dimostra pure che questa difficoltà non
è insuperabile: che la più alta serietà e valore dell'ispirazione e della
realizzazione artistica sono compatibili con la coscienza di sostanziale
irrilevanza, rispetto all'azione di grazia che Dio ha operato nel Cristo.
Si ha la soluzione là dove l'artista comprende la sua opera come
pura lode, senza secondi fini, di una realtà tanto s~blime, da essere
già di per se stessa insuperabilmente glorificata e lodata. Perciò è
verosimile, e da prendersi non troppo pateticamente, il fatto che
grandi artisti abbiano potuto demolire la loro opera, come, in fondo,
non importante - o spesso siano stati nella tentazione di farlo, per

15 «Se proprio gli scrittori cattolici più importanti sviluppano arustrcamente, nelle
loro opere, questo primordiale articolo dì fede della Confessione evangelica (la iusti-
/icatio impii), ciò getta una luce sulla situazione di fapo della cristianità oggi: le
linee ufficiali, 'stratosferiche', del fronte tra cristiani evangelici e cattolici non corri-
spondono più per nulla alla situazione interna dei credenti; le vere e proprie antitesi
tra le due Confessioni procedono traversalmente: 'se oggi un cattolico volesse venire
a sapere che cosa ha davvero importanza esistenziale nella cristologia di Martin Lute-
ro, gli si può solo raccomandare di leggere, possibilmente, molti romanzi e drammi
di moderni autori cattolici' (Heinz Beckmann). E viceversa: se un cristiano evange-
lico, che pretende d'essere artista. vuol conoscere la fede cattolica, allora non gli
giova rivolgersi alle rivcndica;doni autoritarie della Curia, e neppure alle posizioni
~pavcntosamente periferiche della teologia cattolica. Egli può invece trovare un esem·
pio di ciò che cerca nell'audacia, nell'incondizionatezza e nella forza espressiva dei poe-
ti cattolici. Poiché non chierici o teologi, bensl artisti. da Léon Bloy, a Charles Péguy,
a Mauriac ed a Bernanos, hanno contribuito a mantener vivo e attuale il cauolicc·
simo mediante la loro protesta all'interno della Chiesa e mediante la loro ·teologia
spesso profetica. Qui poi sia solo accennato che, dal punto di vista di questa pro-
blematica, anche le conversioni di artisti al cattolicesimo entrano in una nuova luce»:
H.E. BAJIR, op. cit., pp. 2~1-2.
ARTE CRISTIANA E ANNUNCIO DEL VANGELO 281

lodare e servire ancora soltanto con l'esistenza (vi sono dei paralleli
anche fuori del cristianesimo: Virgilio).
D'altra parte anche dei carismi rilevanti sono sempre ecclesiali. E,
pure se l'artista non lavora necessariamente per la Chiesa in senso
stretto, cioè come comunità (liturgicamente raccolta), ma per tutti
gli uomini del suo tempo, egli tuttavia, né più né meno d'ogni altro
cristiano, non può incontrare la rivelazione al di fuori della Chiesa,
dello 'Spirito ecclesiale', in un privato téte à téte. La forma della
ecclesialità, come appartiene alla rivelazione nel suo manifestarsi
obiettivo (anche la Bibbia è un libro della fede ecclesiale), così essa
è richiesta dal soggetto per ricevere in sé, conforme alla realtà, l'im-
pronta della rivelazione. Anche l'artista, che nel suo esprimersi non
ha tematicamente sott'occhio la Chiesa (quale istituzione), non può
fare a meno del suo spirito, se vuole agire in modo cristiano ade-
guato, da uomo quale egli è (cioè per Dio nd Cristo, nella Chiesa:
l'unico angolo visuale obiettivo).
Questa tensione tra il 'personale' e l' 'ecclesiale' non va attenuata;
ad essa non ci si può né ci si deve sottrarre. Anche e proprio là dove
l'artista entra nel più stretto servizio della Chiesa, e precisamente
nella libertà della nuova alleanza e non più nella clericale, servile
sudditanza come al Sinai e in Gerusalemme. Costruzione di Chiese,
decorazione di chiese, arredi liturgici e paramenti, pittura, scultura,
musica, forse anche arte innica e drammatica nel servizio della co-
munità: dovunque, senza ostacolarsi reciprocamente, debbono con-
correre sia la personale forza creativa, assolutamente non regolamen-
tabile, sia la docilità del membro allo Spirito (autentico!) della co-
munità e ai suoi bisogni. I rischi di questa tensione vanno affrontati:
un artista può sviare lo spirito della comunità, ma può anche venir
troncato nella sua forza espressiva di testimonianza da pregiudizi
ecclesiastico-clericali (ideologicamente fissati).
Del resto, dei paragoni con l'arte non-cristiana mostrano che la
tensione fra ispirazione religiosa puramente personale e ispirazione
legata alla comunità, e addirittura ad una comunità dogmaticamente
determinata, non è stata sentita come un impedimento, ma spesso,
anzi, unicamente come stimolo. Condizione di ciò è che il dogma e
la fede della comunità si possano capire e si facciano credere come
una esplicitazione dei princlpi originali e universali dell'essere. Cosi,
MODI DELLA MEDIAZIONE

per addurre un solo esempio, avviene nella pittura cinese, che ruota
attorno al Tao. 16 La trasparenza del positivo-dogmatico nel campo del
metafisico, nel cristianesimo, è possibile raggiungerla ancora molto
più in profondità (con l'intellectus fidei); cosl il fatto di glorificare,
foggiandola, anche e proprio la figura biblica della rivelazione, e di
stare a disposizione dello Spirito di Dio nella Chiesa e nella comunità
parrocchiale, in nessun modo assume per l'artista, che non rifugge lo
sforzo d'un simile approfondimento e trova inoltre la necessaria umil-
tà, il significato di una limitazione della ispÌrazione personale.

bb. L'artista davanti a peccato e redenzione - Per l'artista cristia-


no la bellezza non può essere in antinomia con la verità (come se
fosse trasfigurazione della realtà il nascondimento dei suoi abissi),
poiché il Cristo ha portato la rettitudine divina negli stessi abissi
della tenebrosa opposizione a Dio, e laggiù morendo l'ha imposta.
Questo solo è il canone supremo per l'artista cristiano (che a questo
riguardo sta in una posizione analoga a quella del confessorè): inse-
rire l'ordine del Cristo nelle profondità dell'abisso del peccato che
si va aprendo alla luce. Se egli ha abbastanza purezza ed umiltà (nel-
l'investigare, superando la sua propria avida concupiscenza e la sua
curiosità, «le profondità di Satana», Apoc. 2,24), di impegnarsi com-
pletamente nel suo ufficio carismatico, allora egli può portare negli
abissi la luce (divenuta forse invisibile) del Cristo, conformemente
al discernimento degli spiriti, come Paolo 1o intende: «Distinguete
ciò che è gradito al Signore, e non partecipate alle opere infruttuose
delle tenebre, ma piuttosto sconfessatele. Ciò che essi' compiono 41.i
nascosto è vergognoso anche solo a dirsi; venga però sconfessato (co-
me vergognoso), e allora lo si vede venire alla luce, e quel che appa-
re, è sempre luce» (Eph. 5,10-14). Certo, dove la luce del Cristo si
introduce nelle tenebre, là apparentemente si spegne, là la figura
della grazia perde la sua figura, là Dio stesso è abbandonato da Dio.
E questa legge fondamentale della redenzione sta anche nel 'canone
estetico' del Vangelo. Tuttavia appartiene all'umiltà della Chiesa
(simboleggiata da Maria, da Giovanni e dalle pie donne sotto la

1' M~1 - MAt SzE, The Tao of Painting, A St11dy o/ Ritual Di.~position o/ Chinese
Pai11ti11g. in Bol/i11gcn Scrfrs 49, Pa111haJ11, 2 voll., New York 1956.
ARTE CRISTIANA E ANNUNCIO DEL VANGELO

croce, come testimoni che guardano, come chi medita dove Gesù è
morto) di lasciare il pieno sfacelo della figura solo a Gesù; e - a
partire dal suo stato puro e semplice di testimone, che in certo modo
la esclude dal vero e proprio dramma e la rende perciò umile -,
di testimoniare che quanto Gesù sperimenta come tenebre pure, è
la luce dell'amore; quanto egli sperimenta come caos, è l'ordine della
grazia; quanto egli sperimenta come abbandono di Dio, è il modo
che Dio ha di essere col peccatore. Qui è il problema più grosso del-
l'arte cristiana: poiché la passione di Gesù è supplenza, a nessun
uomo, neppure all'artista, è richiesto di ripetere esistenzialmente la
verità che Gesù ha vissuto (e in altro modo non si può rappresen-
tarla); egli perciò nella kénosis deve vedere la gloria dell'amore (la
56~a giovannea), senza perciò nascondere che precisamente la kéno-
sis è questa gloria.17

c. Arte ed annuncio del Vangelo

aa. Rimando all'origine ed alla fine - Come ogni umano interro-


garsi sui trascendentali dell'essere (unità e verità = metafisica; bon-
tà = etica), l'estetica e l'arte (nel bello) hanno un inclinazione al-
l'autoglorificazione: tali assolutismi vengono tutti spezzati dalla rive-
lazione. Figura e fulgore della bellezza creata - nonostante la loro
fragilità - si presentano tuttavia a tal punto come vertice ultimo e
mèta pienamente appagante, che la bellezza, più degli altri trascen-
dentali, invoglia a trattenersi in essa definitivamente. Ogni grande
arte umana, però, per restare aderente alla verità, vede il bello unito
a tragicità e a declino (Omero, i tragici), perciò come grazia imme-
ritata (charis in Pindaro), portatrice d'una promessa di felicità so-
vrumana (le figure degli dèi greci). Da un punto di vista biblico, essa
rimanda ad una protologia supra-lapsaria, paradisiaca, e ad un'esca-
tologia della risurrezione della carne post-storica e supra-storica. Ma
la linea diretta, intemporale, di collegamento tra origine e fine corre

11 Le 'immagini dell'annientamento' (GRiiNEWALD e simili) rischiano di confondersi


in indiscrete, forzate soggettività, memre le immagini della gloria (dai Pantokratores
bizantini fino al barocco) coprono la kénusis. Il motivo del trono di grazia potrebbe
essere un optimum di oggettivazione, poiché mostra trinitariamente la discesa, e lasda
•pparirc il gesto d'amore dcl Padre dietro al Figlio nella figura di vittima.
MODI DELLA Ml!DIAZ!ONE

attraverso la storia: al suo culmine v'è il Restauratore d'ogni ordine


di salvezza, del creatore e datore di grazie: Gesù Cristo; vi è anche,
attraverso la grazia della redenzione, la 'supra-lapsaria' Immacolata
Concezione. E questi due, quali nuovo Adamo e nuova Eva, sono
l'éschaton realmente posto, anche se storicamente presente in figura
occulta, di uomo, Chiesa e mondo. La loro reciprocità compie la
reciprocità nuziale di Jahvé e di Sion, e precorre le nozze escatolo·
giche dell'Agnello. L'agàpe cristiana eleva l'eros (la grande forza
motrice d'ogni arte, in quanto trasfigura la natura) soltanto assu-
mendolo: Cristo-Chiesa è anche µn mistero (eucaristico) di corpo e
di dedizione (2 Cor. 11,1-2; ò xup~oç 't~ O'wµa-n: I Cor. 6,13; Eph. 5,
21-33). L'agàpe cristiana (in Cristo e Maria) è reale presenza, anche
se ancora nascosta nella fede, della realtà prima e ultima. Essa si
mostra e si dimostra come reale nella «speranza che non delude»
(Rom. 5,5) e nell'«attestazione dello Spirito santo» (Rom. 8,16; r Io.
5 ,9 s.). Considerandola dalla parte di Dio, la 'riconciliazione' in
Cristo, che ristabilisce l'ordine divino, è già identica con la libera-
zione (escatologica) e con il recupero del primordiale valde bonum
della creazione. L'arte non ha bisogno di voler eternare l'attimo in
peccaminosa hjbris. Cristianamente redenta, essa può far vedere, in
immagine e simboli, l'eternità che già realmente abita, in fede amore
e speranza, anche nell'attimo fuggente, e che ancora soggiace al giu-
dizio di morte. Essa allora, portata dalla condotta cristiana virtuosa,
e nella consapevolezza della permanente peccaminosità e del richia-
mo per i cristiani alla penitenza, è genuino annuncio del Vangelo.
Da un punto di vista cristiano, l'arte che manifesta anche il suo
carattere di indicazione dell'éschaton, dice di più e più profondamen-
te di quell'arte che simula la piena presenza della trasfigurazione nel
momento presente. Una bellezza obiettiva troppo accecante, una tec-
nica artistica troppo perfetta (e che si compiace quindi di sé), pos·
sono essere d'ostacolo al carattere di 'segno'. Già nel periodo pre-
cristiano, l'arte arcaica (cui sono più aperte le profondità religiose)
µaria con più forza di quella tardo-classica. Nelle più alte espressioni
dell'arte umana, la forma resta servitrice e indicatrice del mistero
dell'essere e della esistenza, e non vuole assolutamente essere goduta
in se stessa. Già nell'immanenza, l'apice (pieno di rinuncia) della
'dignità', deve venir raggiunto sempre oltre l' 'amabilità' (Anmut:
Ali.TE CRISTIANA E ANNUNCIO DEL VANGELO

SCHILLER), se si vuole un'espressione definitivamente valida. In cam·


po cristiano, tecniche ancora inesperte, che trovano espressione solo
ora per la prima volta, possono dire di più che opere tecnicamente
perfette, trascurate però nella loro potenzialità. 13 Periodi di ripiega-
mento in un ideale immanente di bellezza, fanno nascere gli icono·
clasmi, quale naturale e necessaria reazione; la cristiana virtù della
sobrietà ristabilisce la sua soprannaturale salute mediante riequili-
brante digiuno. In senso teologico, l'arte astratta non è solo arte
non-figurativa, bensl è già arte staccata dal suo religioso rapporto col
solo concreto finis supernaturalis, arte caduta nell'immanenza dimen-
tica di Dio, la cui interna 'punizione' consiste da ultimo nella perdita
anche delle figure profane. La forma storica della teologia anti-icono-
clasta (specialmente in GIOVANNI DAMASCENO, il quale rielabora ar-
gomenti presi da TEODORO STuDITA e da NrcEFORO), è transeunte
ed insufficiente: l'unione 'ipostatica' o quasi-sacramentale tra il pro-
totipo e la riproduzione, pensata a quanto pare cristologicamente,
resta legata alla comprensione platonica dell'immagine; l'argomento
tratto dai miracoli operati dalle immagini, nel caso fosse teologica-
mente valido, resta vincolato ad una comprensione mitico-magica, o,
nel migliore dei casi, vetero-testamentaria, del sacrale; l'argomento
della genuina incarnazione di Dio tiene meglio; giusto è anche l'ac-
cenno al carattere transeunte dell'arte della Chiesa (htl 'tÒv 7tpw'to'tv-
7to-.i OLa.~a.l\IEL); ma, nel complesso, invece che su rigorose dedu-

zioni teologiche, bisognerebbe porre più fortemente l'accento sull'au-


tonomia della capacità artistica umana, che, come ogni altra capacità,
viene presa a servizio.'"

bb. Glorificazione e annuncio del Vangelo - Abbiamo già detto


sopra (a. dd.) che l'Agiografo, nell'analogia dell'ispirazione, con li-
bera obbedienza crea la sua opera nei riguardi di Dio come glorifica-
zione, e nei riguardi degli uomini come annuncio del Vangelo; e ab-
biamo aggiunto che qui per l'artista cristiano ed ecclesiale diviene
visibile il punto cui egli s'inserisce nella sua missione.

11 Cf. le aspre osservazioni di GIOVANNI DELLA CROCE, egli ste~so artista, sull'ane
della Chies?, in Subida del Monle Carmelo, Libro 3, capp. 36·42.
1• Bibliografia sull'adorazione delle immagini e sul conflitto ri~uardo alle immagini:
LTK 2, 2 (19,8) 467; RGGl, (19'7) 1270-1275.
286 MODI DELLA l;IEDIAZIONE

Nell'antica alleanza è stata preponderante la glorificazione, anche


nella poesia e nella musica, perché Israele non è un popolo missio-
nario. Il credente loda Dio con quanto di più bello può disporre,
per gratitudine. La priorità di questa funzione di glorificazione su
ogni fine apostolico corrisponde al senso del bello, come l'ha espres-
so profondamente e veracemente il Vaticano u: «Fra le più nobili
attività dell'ingegno umano a pieno diritto sono annoverate le arti
liberali, soprattutto l'arte religiosa e il suo vertice, l'arte sacra. Esse,
per loro natura, hanno relazione con l'infinita bellezza divina, che
deve essere in qualche modo espressa dalle opere dell'uomo, e sono
tanto più orientate a Dio e all'incremento della sua lode e della sua
gloria, in quanto nessun altro fine è stato loro assegnato, se non
quello di contribuire il più efficacemente possibile, con le loro opere,
ad indirizzare religiosamente a Dio le menti degli uomini». 20 Ciò
significa che il fine 'apostolico' nell'arte non resta fuori del fine prin-
cipale, e perciò non pregiudica il 'disinteresse' della glorificazione:
come la natura loda Dio, e, ciò facendo, volge a Dio le menti degli
uomini, cosi anche l'arte: la sua efficacia fa tutt'uno con la sua inte-
riore forza irradiante. Il che non impedisce che l'artista (come pre-
cedentemente l'agiografo) prenda esplicitamente in considerazione il
servizio che la sua azione rende al mondo e agli uomini. Già nell'an-
tica alleanza, rientra nella lode di ringraziamento l' 'annunciare', ad
esempio davanti ad una 'grande assemblea' (Ps. 22,23; 35,18; 40,10-
r 1; 149,1; eccetera). Nella nuova alleanza - secondo l'analogia fidei
(ecclesiasticae) (Rom. 12,6) - lo Spirito (della Chiesa), santo e ispi-
ratore, deve, anche secondo natura, produrre di nuovo il suo effetto
sullo spirito ecclesiale, e attraverso la Chiesa, nel mondo, come espri-
me altresì il concilio: «Tutti gli artisti, poi, che guidati dal loro in-
gegno intendono glorificare Dio nella santa Chiesa, ricordino sempre
che la loro attività è in certo modo una sacra imitazione di Dio crea·
tore, e che le loro opere sono destinate al culto cattolico, all'edifica-
zione, alla pietà ed all'istruzione religiosa dei fedeli». 21
Vengono qui nominate anche l'edificazione e l'istruzione, e biso-
gna di continuo tener presenti i pensieri sviluppati precedentemente,

20 Consti!. Dc Sacra Liturgia, n. 122.


21 Ibidem, n. r27.
ARTE CRISTIANA E ANNUNCIO DEL VANGELO

per non vedere in ciò alcuna deviazione dal giusto fine, e quindi an-
che un'alienazione. Tuttavia la storia nella sua integralità testimonia
a favore dell'arte cristiana contro questo rimprovero astratto; il qua-
le per lo più ha radici in un pregiudizio tipico dell'interpretazione
classicistica dell'antichità, e del quale non può dirsi del tutto esente
neppure un F. HEGEL. Egli infatti dice:

Se diamo all'arte una posizione assoluta, noi scartiamo esplicitamente


l'idea ... di un'arte utilizzabile per qualsiasi contenuto e per altri i1Heressi
ad essa estranei. Al contrario la religione si serve abbastanza spesso del-
l'arte per portare le verità religiose più vicine al sentimento, e, trasfor-
mate in immagini, per renderle più adatte alla fantasia: e allora l'arte
sta comunque al servizio di un settore che non è il suo. Dove invece l'arte
è presente nella sua più alta perfezione, là proprio, nella sua veste di
immagini, essa detiene la forma più adeguata al contenuto della verità ed
il tipo più essenziale della esposizione. Cosl ad esempio, presso i greci
l'arte era la forma più alta, nella quale il popolo si raffigurava gli dèi e
si dava una coscienza della verità. Perciò i poeti e gli artisti sono divenuti
per i greci i creatori dei loro dèi ... II che non va concepito come s{ queste
rappresentazioni e ammaestramenti fossero già esistenti prima della poe-
sia, in una forma astratta della coscienza, quali proposizioni e determina-
zioni religiose del pensiero, e che poi siano stati solo rivestiti dagli artisti. ..
La loro produzione artistica va invece concepita così: quegli artisti riu-
scirono ad elaborare ciò che in questa determinata forma d'arte e di
poesia in essi fermentava soltanto ... Per noi invece l'arte non è più la for
ma più alta nella quale la verità si procura esistenza».22

Queste importanti affermazioni, che pretendono fissare in modo defi-


nitivo nel passato l'epoca d'oro dell'arte, si fondano su un duplice
pregiudizio: 1. che il sapere assoluto stia più in alto della visione
dell'Eterno attraverso figure sensibili, e perciò 2. che l'incarnazione
di Dio nel Cristo, per quel che concerne il suo lato sensibile, incar-
nato, è qualcosa di transeunte (al quale il cattolicesimo resta bensì
ancorato), che deve venir superato mediante lo Spirito santo e l'in·
teriorità (protestantica). Se si lasciano cadere tali pregiudizi, l'espres-
sione artistica anche nel cristianesimo, in relazione sia alla lode di
Dio che all'annuncio, conserva una posizione primaria, solo che si

" F HEGEL, Vorlemn~e11 iiher Asthetik, in \Verke, x/r (1815), 133-134.


288 MODI DELLA MEDIAZIONE

intenda la sfera estetica come una sfera genuinamente trascenden-


tale, in una totale compenetrazione con le sfere del verum e del bo-
num (cioè con la sfera dell'esistenza-testimonianza cristiana). Fintan-
to che l'incarnazione di Dio nel Cristo vien compresa in senso pie-
namente-umano, in lui è annuncio del Vangelo non la sola parola
detta, ma anche la figura, tutto il comportamento: qui precisamente
le arti debbono ricollegarsi, per dare gloria alla completa incarna-
zione di Dio nel Cristo, e per mostrare questa gloria al mondo. Però
l'esatta 'lettura' estetica della figura della rivelazione (quale presup-
posto per la sua riproduzione secondo il modello) può riuscire solo
nell'obbedienza all'interpretazione ecclesiale; sicché qui, rispetto alla
creazione artistica, esiste una priorità della predicazione e della cate-
chesi del magistero ecclesiastico, ma anche dello studio della Scrit-
tura condotto nello Spirito. Il rapporto è quello d'un ufficio eccle-
siale con un superiore carisma umano e cristiano. 23
Il concilio è ben conscio di questa relazione assai delicata, flut-
tuante, quando per esempio prescrive: «I vescovi direttamente o per
mezzo di sacerdoti idonei, che conoscono e amano l'arte, si pren-
dano cura degli artisti, allo scopo di formarli allo spirito dell'arte
sacra e della sacra liturgia», essi debbono fare in modo che i chieri-
ci, nel tempo della loro preparazione «siano istruiti anche sulla storia
e sullo s'tliluppo dell'arte sacra», nella cura dell'arte ecclesiale, deb-
bono «ricercare piuttosto una nobile bellezza che una mera sontuo-
sità», . .debbono
. far sì che «anche l'arte del nostro tempo e di tutti i
popoli e paesi abbia ... libertà d'espressione», con esclusione certo di
quelle opere moderne che «sono contrarie alla pietà cristiana» e che
«Offendono il genuino senso religioso».24
Ciò riconduce alla situazione di g~ande tensione dell'artista di
fronte alla rivelazione, che né gli toglie, nel suo imitare il Cristo, la
fiducia del creare, né gli risparmia l'umiliazione di piegarsi sotto lo

n Se si rillene alle conseguenze dell'incarnazione, non si potrà trovare una diffe-


renza essenziale tra arte ecclesiale ed arte cris1iana, fatta esclusione P<'f un senso mar-
ginale, secondo cui arte ecclesiale sarebbe l'arte immediatamente determinata in vista
dell'ambiente comunitario. G Rouault ha dipinto per tutta la sua vita 'arte cri-
stiana', e solo all'ultimo è giunto ad un incarico da parte della Chiesa. La Hohe
Mene di 1.S. BACll è ceno ane ecclesiale. anche se le sue proporzioni rendono quasi
impossibil~ l'uso immediato nella funzione sacra.
J; Costi!. D~ Sacra Luurgiu, nn. 122·127
ARTE çRISTIANA E ANNUNCIO DEL VANGELO

Spirito divino-ecclesiale. Quanto più profondamente e personalmen-


te egli compie la sintesi, tanto più profondamente egli può parteci-
pare all'ufficio ecclesiale di annunciare il Vangelo. Tale ufficio egli
non lo ha solo occupato in maniera estesa ed efficace ai tempi del-
l'analfabetismo, ma anche oggi lo conserva pienamente. La forza del
suo ingegno estetico, legata alla forza d'una fede realizzata, preserve-
ranno l'artista dal rinunciare al 'disinteresse' dell'arte per un attivi-
smo pseudo-apostolico, che solo l'abbassa, senza aiutare a rialzare gli
altri. L'arte genuina proviene sempre da una contemplazione genui-
na, che dal canto suo diviene efficace solo irradiando, e dall'azione
non può venir adottata per sfruttamento.
L'arte che loda ed annuncia può sottoporsi in prevalenza ai biso-
gni della comunità, o in prevalenza essere estrinsecazione personale.
Le due forme s'incontrano fruttuosamente, se un importante rappre-
sentante della Chiesa o dell'idea cristiana conferisce ad un artista di
fama un incarico personale e soprapersonale insieme: a questo in-
contro debbono la loro esistenza le maggiori costruzioni della cri-
stianità (con le loro sculture e pitture), anche le sue opere musicali
e spesso anche i poemi: non li si può unilateralmente ascrivere alla
sete di gloria di papi, imperatori, re e vescovi, bensì di un'idea che
insieme ispira il committente e l'artista; anche se qui, certo, è com-
prensibile che si scenda ad un'arte di glorificazione mondana di corte.
Ma la serie degli esempi più rilevanti mostra quanto acquisti colui
che crea sempre da solo se ha l'appoggio d'una posizione sociale, men-
tre un'arte puramente individualistica si contraddice fino all'autodi-
struzione.

d. Singole arti

Non è possibile che una singola arte, o un gruppo di arti, possa


avere con la rivelazione cristiana maggiore affinità di altre. Tra la
natura come tale e la grazia non esiste distanza graduata, misurabile.
Perciò non regge la tesi protestante, secondo la quale le arti dell'udi-
to sono di più alta dignità teologica delle arti della vista. Infatti,
posto anche che la rivelaiione all'immagine preferisca la parola, è da
tener presente che si tratta della parola stessa di Dio, mentre ogni
arte dell'uomo si limita a dare forma alla parola. Abbiamo anche

19 • Mysterium 1aluti1 / 1.
MODC DELLA MEDIAZIONI::

mostrato che la categoria 'parola' rimanda all'autoespressione di Dio.


Ed essa può aver luogo non solo nella locuzione che si ascolta con
l'udito, ma anche - tanto più se il Verbo si è fatto carne - in tutti
i modi in cui s'esprime l'uomo. Con la parola poi l'uomo può men-
tire, mentre con i gesti può 'parlare' in modo perfettamente univoco.
Il re David, a lode di Dio, non solo ha poetato e musicato, ma ha
anche danzato, ha progettato un tempio. La preferenza di Lutero per
la musica, quale arte auditiva, 2s poggia su una falsa generalizzazione;
essere 'uditori della parola' significa qualcosa di completamente di-
verso dell'essere uditori di suoni: questi, direttamente, danno solo
armonie e disarmonie create.
Certo la parola di Dio (anche nella nuova alleanza) e il suo corre-
lativo, la fede che ascolta ed ubbidisce, conservano 1a preminenza,
in questo tempo del mondo, rispetro alla visione (escatologica) ( 2 Cor
5,7). Ma anche l' 'immagine' può essere teologicamente la figura ci-
frata della realtà stessa («adesso vediamo come in uno specchio, in
enigma»: 1 Cor. 13,12). E vale la beatitudine degli occhi, che «Ve-
dono ciò che molti profeti e giusti hanno bramato vedere e non vide-
ro» (Mt. 13,16-17); ciò che essi a tentoni indagarono, ma essi «erano
ministri per voi», che vedete; cose nelle quali gli angeli stessi deside-
ravano fissare lo sguardo (rPctr. 1,10-12), ma che solo noi, <<t'esti-
moni oculari della sua gloria» vedemmo (i Petr. r, l 6 ). E anche se,
secondo l'apostolo (lo. 20,29), coloro che non vedono sono detti
beati, è pur vero però che gli archetipi della testimonianza oculare
e dell'esperienza sensibile sono entrati nella tradizione ecclesiale. 26
Tutte le arti sono in egual misura lasciate libere, a disposizioni"
dell'uomo sovrano, e con esse questi può esprimere a Dio una parte
della sua gratitudine per la grazia. Il modo secondo cui la singola arte
entra al servizio della Chiesa visibile e della comunità radunata
nella sua celebrazione liturgica, è storicamente variabile. Così, per
esempio, la liturgia medievale ha potuto produrre il dramma (drammi
della Passione e della Pasqua), quale prolungamento stretto della
messa-dramma; ha potuto addirittura incorporarsela in senso teolo-

2S H. PREUSS, Martin Luther als Kiimtler, Giirersloh 1931; C11. Wn;.:n, Die theo-
logische Bedeutung der Musik im Leben und Denken ,>o,farlin Luthers, Miinster 1954:
CH. MA.HRE:O-'HOLZ, Ltllher und die Kirchenmusik, Kassel r937.
26 Herrlichkeit, I, Einsiedeln r961, pp. :290-393.
ARTE CRISTIANA E ANNUNCIO DEL VANGELO 291

gicamente profondo (ad esempio nel Redentiner Osterpiel). Non


si deve descrivere come impossibile apriori che dei popoli inse-
riscono nelle loro forme cristiane di preghiera una funzione che si ar-
ticola in gesti assai più espressivi, compresa la danza.27 L'intera opera
d'arte della cattedrale, con architettura scultura e pittura, rappre-
senta una grande concretizzazione dell'opera creativa e di quella sal-
vifica, quale esaltante' lode di Dio e parimenti ambiente della celebra-
zione comunitaria. 23 Niente impedisce che il contenuto simbolico,
naturale o storicamente costituito, di cose e forme venga largàmente
usato in una simile sfera. 29 Mediante la tradizione storica il simbolo
naturale nel campo extra-cristiano come in quello cristiano può rice-
vere una connotazione sacrale; ma questa per lo più rimane variabile,
dipendente dal modo di sentire di un'epoca, e revisionabile. Ciò eh~
all'orecchio d'un Platone o d'un medievale suonò pericoloso e lasci-
vo, potrebbe suonare a noi nobile e pio, così come le tonalità allora
tanto apprezzate. Non v'è alcuno stile che sia sacro in sé; ancor me-
no, uno che sia più vicino d'un altro alla rivelazione. L'enorme diffe.
renza che passa tra la cattedrale e la casa del cittadino, cerro, esprime
profondamente e fortemente qualcosa dell'esperienza che il cristiano
ha di Dio durante un'epoca; ma è ben lungi dall'esprimere l'intero
contenuto del dogma. Non esprime ad esempio la kénosis, e nep-
pure la volontà del Cristo d'incontrare il credente primariamente
nella figura del prossimo. Molto parla a favore della decorazione
delle Chiese, a favore della raffigurazione di Maria e di altri, che per
la loro vita sono stati canonizzati come esemplari; c'è però qualcosa,
che parla forse altrettanto contro ciò. Molto parla per gli antichi
corali, che a noi oggi suonano severi ed ascetici; altro invece, per
la lieta festosità e l'esultante lode di Dio d'una messa di Haydn o
di Mozart; altro ancora, per i semplici canti popolari; e altro ancora
perché la comunità durante lunghi momenti adori raccolta nel si-
lenzio. Il gigantesco duomo esprime l'infinita superiorità dell'ordine
obiettivo di salvezza, all'interno del quale pregano il singolo e la

27TH. OHM, Die Gebetsgcbiirden der V olker und das Chrisfenium, Leiden 1948.
28H. SEDLMAYR, Die En!slebung der Kathedra/e, Z(ìrich 1950.
29A. STA!l;GE, Das fruhchri.rtliche Kirchengebiiude als Bild des Himme!s, Miinchcn-
Bedin 19,0; Iv., Die \(leJt als Gesta//, Miinchen-Betlin. r95i; F. POR TAL, I.es coulc1m
symboliques dans I'rmtiquité, le Moyen-Jgc et les temps modernes (1837), Paris 21957.
BIBLIOGllAFI ~

casuale comunità del momento; il piccolo oratorio, poco appariscen-


te, esprime la mancanza di pretese della Chiesa nei riguardi del mon-
do. Il cristianesimo è 'pienezza di grazia e di verità', perciò esso non
è riducibile ad un simbolo mondano, né ad un gusto del singolo
individuo, né ad uno stile normativo. Proprio l'espressione sempre
nuova e sorprendentemente riuscita, permette al cristiano di speri-
mentare sempre di nuovo, nello Spirito santo, la sua superiore li-
bertà. Senza dar segni di stanchezza lungo i tempi del mondo, lo Spi-
rito espone sempre nuovamente e diversamente e sorprendentemente
l'inesauribile verità del Dio fattosi uomo e mondo; e fa brillare
sempre nuovi raggi della bellezza assoluta attraverso le variopinte
vetrate del mondo.
HANS URS VON BALTHASAR

BIBLIOGRAFIA

R. BACHEM, Dichtung als verborgene Theologie. Ein dichtungstheoretischer


Topos vam Barock bis zur Goethe:r.eit und seine Vorbilder, Bonn 1955.
H.E. BAHR, Poiesis, Stuttgart 1961 (con bibliografia).
TH. BoGLER (a cura), Christliche Kunst als Verkiindigung, in Liturgie tmd
Monchtum, 13, Maria Laach 1953.
H. BREMOND, Mystik tmd Poesie, Regensburg 1929.
G. GoLLWITZER, Die Ktmst als Zeichen, Ragensburg 1958.
R. GUARDINI, Die Sinne und religiose Erkenntnis, Wiirzburg 1950; O ber
das Wesen des /(µnstwerks, Tiibingen 1959.
TH. HAECKER, Schonheit. Ein Versuch, Miinchen 1936.
E. HEDERER, Der christliche Dichter, Einsie!;leln 1956.
H.W. HEGEMANN, Vom bergenden Raum. Die Zeitformen kirchlicher Ba11·
kunst, Fr:mkfurt a. M. 1953.
R. lNGARDEN, Vntersuchungen zur Ontologie der Kunst, Tiibingen 1962.
F. KAUFMANN, Das Reich des Schonen. Bausteine zu einer Philosophie der
Kunst, Stuttgart l 960.
H. KuHN, Wesen und Wirken des Kunstwerks, Miinchen 1960.
H. LOTZELER, Die christliche Kunst des Abe11dlandes, Bonn 6 1950.
J. MARITAIN, Arte e intuizione creativa, Brescia 1957.
K. MARTI - K. LOTHY - K. VON F1scHER, Moderne Literatur, Malerei und
Musi/.:.. Drei Antworlen w einer Bcgcgnung zwischen G/aube und Kumt,
Zurich 1963.
BIBLIOGRAFIA 293

R. MiiLLER - ERB, Die Verkiù:digung des Christlichen m dcr Ku11sl der


Gegenwart, Stuttgart 1949.
G. NEBEL, Das Ereignis des SchOnen, Stuttgart 1953.
H. NoHL, Vom Sinn der Kunst, Gottingen r96i.
K. RAHNER, Priester und Dichter, in Schriften, 111, Einsicdcln r 956. pp.
349-375.
P. REGAMEY, L'art sacré au xx· siècle, Paris 1953·
H. SCHNELL, Zur Situation der christlichen Kunst, Mi.inchen 196z.
L. ScHREYER, Christliche Kunst des XX. Jahrbunderts in der katholùchen
und protestantische11 Welt, Hamburg r 959.
R. ScHWARZ, Vom Bau der Kirche, Heidelberg 2 1947.
R. SEEWALD, Ober die Moglichkeit einer christlichen Malerei in unseren
Tagen, in Hochland, 42 ( 1948) 42-52.
G. SIEWERTH, Philosophie der Sprache, Einsiedeln 1962.
G. SoHNGEN, Vom Heiligen in der Kunst. Zum gleichnamigen Buch von
G. v. d. Leeuw, in Kunst und Kirche, 22 (195-9) 63-69.
G. VAN DER LEEUW, Vom Heiligen in der Kunst, Giitersloh 1957.
H.U. VON BALTHASAR, Herrlichkeit, 1, 11, m/I, Einsiedeln 1961-62-65;
Offenbarung und Schonheit, in Verbum Caro, Einsiedeln 1960.
SEZIONE QUARTA

STORICITÀ DELLA MEDIAZIONE

La diversità delle accennate forme d'attuazione, nelle quali la rivela-


zione viene mediata e si realizza nell'annuncio della Chiesa, è già un
indizio che questa comunicazione ha una struttura storicamente dif-
ferenziata. Temi centrali accentuati in modo particolare, mentalità e
linguaggio del discorso teologico diversi a seconda delle epoche, e
mutamenti indiscutibili nella coscienza di fede della Chiesa, sono solo
segni superficiali di quanto questa mediazione della rivelazione sia
caratterizzata fin nell'intimo dalla storicità dell'annuncio e della tra-
smissione di questo messaggio: la conoscenza storica limitata della
sua verità sembra frazionarsi in espressioni innumerevoli e in con-
tenuti singoli, tanto che, a grande distanza di tempo, ciò che colpisce
è quasi soltanto la diversità tra la rivelazione, quale è mediata dalla
Chiesa, e la rivelazione originaria. Se poi la questione dell'intima omo-
geneità tra rivelazione originaria e il successivo pensiero di fede del-
la Chiesa si complica, ad esempio, accennando al nu!Jlero sorpren-
dente di variazioni del kerygma neotestamentario e alla problematica
circa l'unità teologica della Scrittura, diventa allora ancor più difficile
il compito di trovare una ragionevole connessione tra le due dimen-
sioni.

A. IL PROBLEMA DELLO SVILUPPO DEL DOGMA

r. Il fatto dello sviluppo del dogma e la sua reale aporia

Un progresso nella mediazione della rivelazione è possibile in più


modi. Viene 'definito' come rivelato da Dio (nella solenne dichiara·
zione d'un concilio ecumenico o del papa; oppure nella presentazio-
ne fatta dal magistero ordinario ed universale della Chiesa) una pro-
posizione ch~s.i !E~va~~P.E~~a.i!!.L~~--quale nelle fonti della riveÌazion-Z-
Si passa cosi da un dogma materiale ad un dogma propriamente for-
SIORJC!T À DELLA !'.IEIJIAZIONE

male; oppure viene esp~ess~_c;.QJJJ1.~l!:fJermini, salvaguardata da frain-


tendimenti delimitandola con formule pi~ rTgorosc·è-plucomprensibi-
li, una ve.i:i.tà. di.le._qe già nota nel suo significato. La mediazione si fa
problema più acuto quand~~~~~~r-p~esen-tate sono delle pr.9posizio-
nLprima del tutto ignote; proposizioni che nel primordiale annuncio
ufficiai~ -de"il~ -rivelazione e nella predicazione dei primi tempi erano
s} contenute_, m.<J, !i9l() p~r modo d'inclusione, per giunta tutt'altro che
evidente. Oggi senza esita~ione si può designare quest'ultimo caso con
il termine .complesso di 'sviluppo del dogma' 1 anche se dobbiamo
mutuarlo dagli scritti liberali sulla storia dei dogmi e dal modernismo.
Qui la difficoltà consiste in questo: la Chiesa definisce come rivelate
da Di.o delle proposizioni, senza che si possano dimostrare immedia-
tamente percepibili nella tradizione delle proposizioni equivalenti
ed esplicite, risalenti fino agli apostoli, addirittura senza che si possa
presupRorre, con probabilità storica, che fossero anteriormente date.
Sarebbe troppo ~l!!!?P.!ice dirsi con-tenti della spiegazione che se ne
dava una volta, quando sì diceva che un nuovo dogma esprime solo
con _parole diverse esattamente la ste.sia cosa; che il contenuto comu-
nicato è pienamente e assolutamente immutato e identico rispetto al
vecchio contenuto, e appunto perciò è 'parola di Dio' Basta citare
alcuni dogmi per mosrrare che questa non è _lll13..risp~_~ta adeguata:
nella dottrina che fissa a sette il numero dei sacramenti, che ~-fferma
la s~cramenta!ità c:Ìel matrin;onio e iÌ modo d'essere puramente rela-
tivo delle persone divine, vengono enunciati come dogmi delle cono-
scenze, che, come tali, in un tempo anteriore semplicemente non
'c'erano' Queste conoscenze sono sopravvenute, eppure non sonCl _,
state date in una nuova rivelazione. Un altro aspetto d~llo stè~so_p.ro::'
blema si presenta, quando si cerca di seguire esplicitamente determi-
nate dottrine risalendo fino alla predicazione apostolica. La virginitas
in partu è al riguardo un esempio tipico facilmente osservabile e
comprensiblle.2 La definiz~one CleWassunzione corporea dT Mari~ in

1 Vedi le apprensioni, giustificate nel loro contc>to st0rico, di A. RAOEM,\Cl!ER. Der


Ei11wick/ungsgedanke in Religio11 und Dogma, Koln 1914. Tra i teologi recenti, rifiu-
tano l'uso di questo term:ne: P.A. L!ÉGÉ. Dogl'la, in Cutbolicisme, m, Paris 19p,
pp. 9:;1-962, soprattutto 958; A.F. Un, Glaube alr Tugend, Coll. «Deutsche Thoma-
sausgabe», 15, Heidelberg 1950 soprattutto pp. 444-447
2 Cf. su ciò K. RAHNER, Virginitas in parlu, tr. in BCR, 63, pp. 361-.p 1.
SVILUPPO DEL DOGMA E SUA APORfA
297

cielo, e la discussione teologica che ne seguì, hanno messo in luce


l'insufficienza delle spiegazioni finora correnti della storia dei dogmi
e dello sviluppo del dogma.
Il problema dello sviluppo dcl dogma sta in fon~ nel dimostrare
come fondamentalmente possibil_e l'identità della successiva, 'svilup·
pata' presentazione della fede, con la presentazione della rivelazione
proclamata dagli apostoli nel Cristo, e come realmente essa sia iden·
tica nei singoli casi. La particolare. croce d'un simile compito sta in
questo; ~ccondo la dottrina ecclesiale la rivelazione, affidata -alla
Chiesa e al suo magistero ('pubblica'), e includente un obbligo di
fede per l'uomo, è chiusa con la morte di tutti gli apostoli (cf. ns
r501; 3020; 3043; 3070). Cioè: la Chiesa puS solò- continuare a
testimoniare, ciò che sul Cristo ha udito dalla generazione apostolica,
e che quella riconosceva come appartenente al patrimonio della fede.
La Chiesa e il magistero sanno dì non essere dei trasmettitori d'una
rivelazione di Dio che viene proc~amata ora per la prima volta, san-
no di non essere dei profeti, ma di essere quell'ufficio che deve cu-
stodire, -~Tt;~-~~~ette;e, e spiegare la rivelazione di Dio, avvenuta in
Gesù Crist~;-in--iin determìnat~ ~~ment~ ~torico antecedente. Nono·
stante questa differenza qualitativa rispetto alla rivelazione primor·
diale, dobbiamo tuttavia concepire questa sua funzione anche così:
attraverso l'annuncio della Chiesa, la rivelazione primordiale non
viene solamente t,jf~rita come detta 'un tempo'; essa ba invece luogo
come_ detta 'ora', e in maniera viva per 'questo' tempo; e attualmente
avvi~~e e va fatta propria nell'ascolto di fede. Di conseguenza la
Chiesa trae la sua funzione dalla prosecuzione della stessa rivelazio-
ne. Una supplementare, succ~;~IV·a tlvelazione ecdeslale non è possi-
bile, né nel senso del montanismo, né alla maniera dei Fraticelli {cf.
DS 9 I 5 ). La rivelazione cristiana non può nepp~i~-~enire allargata
nel senso dell'idealismo (cf. DS 2777; 2829; 2856; 3~-;-~).T;~-t-;asfor.
mazionc nel senso di un trasformismo epigenetico, sul tipo del mo-
dernismo, è stata espressamente respinta-·dalla Chiesa (cf. os 3420;
3421; 3422; 3423 ss.; 3454; 34-sj'ss.; 3493; 3884-3886). Queste
decisioni sono oggi da accentuare già per il fatto che la situazione
teologicamente controversa, sotto certi aspetti, denota un cambia-
mento. La teologia lil:ierale, particolarmente del XIX secolo, rimpro-
verava alla Chiesa cattolica anzitutto di restare ciecamente attaccata
STOlllCITÀ DELUr MEDIAZIONE

a dogmi vecchi, senza futuro e pietrificati. L'accusa principale, che


rivolge invece la teologia protestante di oggi, è che qui (soprattutto
nel dogma dell'assunzione corporea di Maria in cielo) vien 'prodotta',
in un'arbitraria mania di innovazioni, una dotrr:ina apostolica, che
non ha assolutamente alcun fondamento nella Scrittura. Di qui, la
tesi sull' 'immutabilità' del dogma si dimostra inaccettabile,3 l'unicità
dell'apostolo vien misconosciuta in favore della Chiesa, che appare
come «rivelazione in permal)enza»; 4 in fondo regna nella Chiesa cat·
tolica, accanto al conservatorismo, un evoluzionismo radicale) pro-
gressista;5 il dogma del 1950 sembra portare la prova che i principi
della concezione modernista del dogma di punto in bianco sono stati
adotta.ti dall'apologetica romano-cattolica. e anzi sono stati superati. 6
La reazione e lo scandalo vengono formulati drasricamente da G. EBE·
LING: 7

«Il richiamo all'antico, a ciò che esiste e vige dall'inizio, a ciò che resta
sempre identico a sé, divenne l'arma più forte contro tutte le eresie, alle
quali veniva sempre rivolto il rimprovero dCessere delle ·innovazioni. Que·
sto punto di vista divenne però in pari tempo il più gran.de pericolo per
il proprio sviluppo, che di fatto era una via da innovazione a innovazio-
si
ne. Ci rfohiamava alla tradizione, e tuttavia non si voleva venire da essa
impediti nel proprio progresso. La storia del dogma e del diritto eccle-
siastico mostra come la Chiesa romana dovette sempre di nuovo rimuo·
vere la__ trap·pola che essa stessa si era posta mediante la propria tradizione,
senza tuttavia privarsi dlquelfa die «:ostlni!va
la sua- arma
più-potente,
precisamente il richiamo alla tradizione ...
«La linea iniziata col Tridentino trova nel Vaticano 1 la sua conseguente

3 Vedi G. GLOEGE, O/jenbamng und Vberlie/erung, in TLZ, 79 (r954) 213·236.


4 G. EBELING, Wort Gottes und Tradition, Coll. «Kirche und Konfession», 7, Got·
tingen r964, 181.
J G. EBELING, Die Geschichtlichkeit der Kirche und ihrer Verkiindigung als theo-
logisches Problem, Coli. «Sammlung gemeinverstiindlicher Voruiige und Schriften aus
dem Gebiet dtr Thcologie und Religionsgeschichte», 207/208 (Tiibingen 1954) 44 ss.
6 F. HEILER, Katholischer Neomodernismus, in Das neue Marùmdogma im Lichte
der Geschichte und im Urteil der Okumene II, in Okumenische Einheit, II, 3, Miin·
chen 1951, pp. 229-238, soprattutto p. 233.
7 Die Geschichtlichkeit der Kirche und ihrer Verkiindigung als theologisches Pro-
blem, 45, 46, 47, 48. Nonostante reali diflerenziazioni, in corrispondenza alla discus·
sione attuale sul concetto di tradizione, G. EBELING resta ancor oggi in una posizione
simile; cf. Wort Gottes und Tradition, pp. 127, 133, ecc.
SVILUPPO DEL OOGMA E SUA APORIA

prosecuzione, e va poi considerata la _relazione in cui reciprocamente stan-


no le due costituzioni dogmatiche del Vaticano, cioè il D'e fide e . il__ De
Ecclesia. Da una parte si stava in difesa contro un'attenuazione moderni-
sta del concetto ecclesiastico della rivelazione, dovuta a moderne teorie
evoluzionistiche; dall'altra si perseguivllo la tendenza a far saltare le ultime
catene, dovute al principio della tradizio_l}~, che impedivano l'estrema cre-
scita dell'autorità dell'attuale magistero papale. Mentre da un lato si eri-
geva una salda diga contro gli innovatori, dall'altro si procedeva all'in-
novazione più ardita. La teoria evoluzionista dei modernisti, riguardante
la storia generale, venne schiacciata dalla teoria ~voluzionista rigùardarite
la storia particolare della Chiesa. Essendosi accoppiata questa teoria evo-
luzionista riguardante Ia stoi:ia della Chiesa con la dichiarazione dell'infaJ.
libilità del papa, il problema dei rapporti tra rivelazione e storia trovò
una soluzione grandiosa. Il concetto di tradizione venne completamente
superato dal concetto di çhi~~a . J2aa.alh.ta~,_jl__!1Qtere norm_~~iY.Q._~~!!lto
daL Pil.li~~t.Q ai 11.~~~~te ... Da questo nuovo e mutate concetto di tradizione
si è verificata la principale emancipazione della storia, in quanto nel con-
cetto di 'storia' si pone l'accento sul legame a ciò che è storico. Si potreb-
be però anche dire: l'assoluta storicizzazione della Chiesa, in quanto si
pone l'accento_§ul _momento del divenire, .della variabilità dell'essere sto-
rico. La parola di Pio 1x, probabilmente apocrifa, 'la tradizionesonolo',
coglie in maniera spleridi4a l'efif-ùfVi'~STtù3iiOffe>;-.-··· . · --·-~- . . ___,..

Di fronte a queste obiezioni non si dovrebbe semplificare la realtà,


pluristratificata e assai complessa, dello sviluppo del dogma; cosa
che invece si fa. Si scorge, per esempio, nella storia del dogma solo
il succedersi cielle formulazioni cliY~~!=.d'.y_1_1_a__~C!Xi~~. che esisterebbe,
per cosi dire, ~~d7'ei-~;fip~~d~~te dalla sua forma verbale, e verreb-
be poi presentata in diverso, rri~te~ol~-~bit~-Ù~guisti~o, fatto dovu-
to solo a imperscrutabili circostanze storiche, al capriccio, o a circo-
stanze esteriori alla storia dello spirito. Vi sono qui diverse 'scap-
patoie' che permettono di passare a lato del problema reale: si sposta
tutto dalla parte della Chiesa, che assume ed espone la rivelazione;
si guarda il p.l'oblema esclusivamente come processo soggettivo della
coscien_z~_,_<pme ~!:QP_Il_a~i()r,ie_ d'un. _cQntenut.Q .che ·raç!Iç_a_lgie_nte re-
sta tuttavia sempre lo stesso; oppure si designa uno sviluppo nel
campo dello spii:ito __çpJJl.(; ç~Qilii:imento d'espressione, senza il minimo
cambiamento di senso: questo ~-~s·t~~ebhe sempre identico nelle di-
verse formulazioni.
Al contrario si deve semplicemente constatare: l'immutabilità del
STOIUCITÀ Dl'!Ì.Lf. MEDIAZIONE

dogma della Chiesa non esclude, bensì implica l'esistenza d'una storia
[
, dei dogmi. Questo ~on vale solo nel senso che si richiede molto
tempo e lavoro di chiarificazione teol()gica, perché la CCJscienza di
fede della Chiesa giunga a rendersi conto che questa o quella dottri-
na _clelll! qu~~!I' veramente contenuta nella . ri.vel~Ioiie divina, è
espressione genuina di. c:iò che già da sempre è globalmente creduto,
o misura di difesa vincolante contro nuovi fraintendimenti eretici
della fede tramandata. Legittima storia dei dogmi vi è anche là dove
un dog!lla è .gi~ 1.1.riiyoc!l.~ent~ dato ed enunci!l!O. Esso può ulterior-
i mente venire ripensato nel suo significato, più profondamente chia-
l rito, purificato da involontari possibili fraintendimenti, del tutto
sconosciuti in tempi anteriori; può esser messo più chi.a111mente in
rapporto co~ .. l!lt,re__y~.!"i!!.. di fede, per cui senso e limiti, portata e
significato divengono più ~hiari; può venire enunciato con nuove
form_yle, suggerite dal~.P.irito di tempi nuovi, e mediante le quaJi
esso entra in tutt'altre prospettive, che lo rendono spiritualmente
comprensibile all'uomo di un tempo nuovo. Da questo e da altri pun-
ti di vista (ad esempio, quello del dialogo ecumenico), anche l'im-
mutal;>ile.~a della Chiesa può ancora avere una storia, può an-
cora mutare nell'ambito della sua immutabilità; può cioè non mutare
ris-pe~o al suo passato, non venire abrogato (come~ legge posi-
tiva della Chies~), ma mut~_ti_wru..q_aLfutu[.Q_._procedendo verso
la propria pienezza di significato, nonché verso l'unità con l'uno ed
il tutto dellafed~:-~ verso i suoi ultimi fondamenti. Esso rimane
poi fedele alÌ~-;~;~--;t~~~d al ~~siinmcatopropcio, riguadagnando
sempre più la sua origine, esprimendo sempre più la sua natura sta-
bile; cosl si trasforma, e proprio facendo ciò, rimane il medesimo.
Un simile mù,tamefi'to nell'ambito della validità--d~d-;;gma giunto
fino a 11Qi.~ essere enorme; può mostrare l' 'antico' dogma da tut-
t'altro. 13tQ,. PY.Q_~cambiargli radicalmente l'aspetto sotto cui corren-
temente si mostra--~el -p~ero e anzfrutto nella vita-della Chiesa (cf.
ad esempio il dogma del peccato originale in AGOSTINO, e le sue pre-
cise interpretazioni teologiche; il dogma dell'infallibilità del papa e
la 'collegialità' dei vescovi). Tutto ciò significa che non solo la teo-
lo~ bensì anche là rivelazione (continuando essa ad esistere ne/t'an-
nunci~ll';ccettaziòne"di fede), oopo il Cristo hanno una storia,
uno 'svilupp_q'_ e un 'progresso', anche se qUèstasio.ffac-éSkriZial-
------,~-~·~--·--· . ·-·----
SVILUPPO DEL DOGMA E SUA APORIA 301

mente diversa dalla storia della rivelazione prima del Cristo. C'è vera
stor~della fede, c~~- resta sempre, che ·non sperimenta più dal di
fuori alcun vero e proprio aumento; e tuttavia avviene in questa
storia qualche cosa, che finora 'così' non c'era stato. La soluzione
del problema, per dirlo in maniera molto formale e molto generale,
deve venire cercata nel fatto che un dogma nuovo è contenuto 'im-
plicitamente' in un dogma antico-; nel tutto Cli ciò che si è creduto
in precedenza. La nuova verità d'una proposizione rivelata, legitti·
mandosi come verità antic;_Qpl ritorno all'antica verità di fede, già
da sempre colta e conosciuta, dice appun~;~·-~ooscaturiscc
da una num!a rivelazione di Dio, a sé stante, ma che, al contrario,
la sua ora di nascita, il mome~to -della sua rivelazl<ììie;Che è quello
dell'altra verità, si ha già con fa primordiale rivelazione di Dio, quel-
la che non poggia su alcun altro processo rivelati~o; o, per dirlo
ancora una vol~_:__!l~!~ suu~.9.Y~a essa trae origine dalla pri-
mordiale rivelazione di Dio. La storia di questa fede non è giunta
a termine ~~·-il fatto che la rivelazione, escatologicamente avvenuta
nel Crifil.Q.,,_~_ ormai chiusa. Perché questa chiusura - se rettamente
intesa - è l'~-;;_y;; ch~-~vviene_ espressamente nella parola dei
profeti ~g~gJLl!P.9Jil9-li di Cristo, della assoluta autocomunicazione
<li Dio. La fede, dal tempo di Gesù Cristo, non è semplicemente
J'uguale accetta~jQl'.lt\ j!}.(Q!mi;,_~d astorica, del messaggio escatologica-
mente infinito da parte di molte e sempre nuove persone. Non è
neppure semplicemente accompagnata da un'esteriore riflessione sul-
la fede, ~.hi!!!!l_l!!Q.--5IQ.till_!i~l~...te.Ql,Qgi.a. Assai più; essa stessa ha una
storia, poiché l'a!:!!f!.comunicazione assoluta di Dio, in quanto espres-
samente diretta a qualcuno, necessariamente dischiude in sommo
grado la possibilità di venire in varia maniera appropriata c!al sog-
getto f~1;ell'ascolto storicamente mutevole (da Dio causato--;-gui-
<lato nello stesso suo appello). Poiché, però, in questo stesso ascolto
del messaggio agisce la ~ra grazia di Dio, che si fa presente ad ogni
singolo uomo e quindi anche ad ogni singola epoca, e di volta in
volta in una maniera appropriata, la storia del cristianesimo in tutta
b già data pienezza dei tempi, è la 'gratuita' singolarità d'un unico
avvenimeQJ.Q__çb.Lg_~ossiede già ~mpre, perché permarieTO.sksso,
e che sempre ancora si cerca, perché deve dire in maniera nuova la
sua antica natura, e con ciò realizzarsi. La fede costante trova nei
302 STORICITÀ DELLA MEDIAZIONE

singoli uomini e nelle singole epoche forme sempre nuove, per rima-
nere l'a.Q!!91__~__.2_~!"~!. veramente costante. Tutte le teorie dello
sviluppo del dogma e deIG:"Siòria·d~f-d"~gmi non sono altro che il
tentativo d'una precisa risposta alla questione: come realmente la
nuova veri!!_può essere l'antica? La verità, una volta comunicata,
ha anch'essa una storia, che non la porta necessariamente fuori del
campo della rivelazione divina, ma ne è la prosecuzione.
Il problema viene posto in modo esatto ed esplicito solo col xix
secolo. Solo all'inizio della coscienza storica moderna e _<f.l!tJempo
dello storicismo noi vedfamo .con--~~ra·· ~ilTarezza-Ta- differenza e la
distanza !!~ le forme della storia dello spirito in generale e della sto-
ria degli enunciati religiosi in particolare. L'epoca post-tridentina (ad
esempio co~Cpi;~vio)h~-nzihillOraccolto dai tempi anteriori le
proy_e per la dottrina del ~sente: queste prove praticamente le si
giudicava diverse solo nella forma esteriore. Certi problemi che noi
oggi consideri~~ ~~~t~~J.C~ò~e quello dello sviluppo del dogma,
furono risolti con dei theologumena oggi divenuti impossibili.
--··~-----~---·---·-··-··---·----···· ... -

A questo riguardo, esponiamo più in particolare un esempio. Dai padri


alla teologia moderna vengono presi come esempi di tradizioni apostoliche
non -~~ri~te: la discesa del Cristo agli inferi; la santificazione e l'istituzio-
ne d~_!;,fomeriica; la virginitas Mariae post part-um; il battesimo dei bam·
bini; l'aggiunta dell'acqua nel vino della messa; il digiuno quaresimale;
l'invocazione dei santi; l'indissolubilità del matrimonio; il purgatorio; il
carattere meritorio delle opere; (per PEDRO SoTO: ) i sacramenti della cre-
sima, ordinazione sacerdotale, matrimonio, unzione degli infermi; e così
via. Certo una simileo elencazione va intesa tenendo conto della polemica
contro i protestanti del sec. XVI. «Gli apologeti cattolici cercano di attri-
buire afd~sito apostolico tutto 'ciò che i p{otestanti attaccano, tutto ciò
che la C...biesi_!_i~i::i-~__p~_~n~o - santo~"C:lieITnsuo po~esso da tempi
immemorabili. La sua comprensione della storia non è ancora pienamente
svilqp.E!ta; dello sviluppo del dogma si-haancora-UìiiiC'Oncezione eccessi-
vamente .J~!~~'-- ma poco storico-critica. Perciò consid~.rn_no come tradi-
zione a.po.stcl.ikL2I.~k tutto ciò aCUila Chiesa del loro tempo, cioè la
Chiesa t.Q!!lana, unanimemente, da secoli, tiene» Cf. Y.-M. CoNGAR, La
tradizione ~-imilTiJonC1;1roma 2 19b'4~-p:·:1_w:- Naturalmente non si deve
diminuire qui il significato di queste traditiones caerimoniales e pure delle
tradizioni che maggi~-mentè-·i'iguardll:rro-fa·fede ::::..::· srmma di quell'indi-
scutibile 'di più' della Chiesa viva rispetto alla parola scritta presa per sé
sola - , resta perQ_p!obl~~~~~--!'!~~!- ..~~i:_n_a_!~~-~e, .!.~adi~~ esoterica.
SVILUPPO DEL DOGMA E SUA APORIA

Sul piano storico è solo difficilmente immaginabile. «Una buona teoria sul-
lo sviluppo del dogma ci esime dal rifugiarci in metodi troppo scadenti»
(Y.-M. CoNGAR, op. cit., p. 126). Sulla questione, cf. anche Y.-M. CoNGAR,
Traditions apostoliques non écrites et suffisance de rEcriture, in Istina, 6
(1959) 219-306; ID., Traditio und Sacra doctrina bei Thomas von Aquin,
in Kirche und Oberlieferung. Festgabe fiir ]. R. Geiselmann, a cura di
BETz - H. FRIES, Freiburg 1961, pp. 170-210; sulla questione del rappor-
to tra la tradizione e il dogma della Chiesa al Concilio di Trento, v. anzi-
tutto J. RATZINGER, nello studio composto con K. RAHNER, Offenborung
und Oberlù:ferung, Freiburg 1965,pp. 63 ss.; Io., Tradition, in T.TK 2 , 10
( r965).

Quanto tale questione sia difficile, e co~~nc~.!~-~~~--s}~S.~.E.~!ata,


lo stanno ad indicare re-·eresie del prÒtestantesimo liberale con la
nascente 'storia dei dogmi', e del modernismo: i quali, richiamandosi
ai risuit;J-delle ricerche storico-spirituali, negano che i dogmi della
Chiesa siano identici in tutti i tempi. Sta anche ~lT~di~arlo l'insuffi-
cienza delJ~.. Y.ari;-;;pologetka~fatta a sostegno di questa identità:
essa ammette ·;~1;-~;--~ambia~~~tO,"i~~··1~ndo-lrdlevante;- "i1èìia for-
mulazione verbale. La Humani generis mette in guardia, con una
certa !..~8~!.1~?. -~~.!!..~ .E~l~!i~~~~~~?~-~--~torica del A.t:>g!!l~-~~-1!~ Chiesa,
ma non offre da parte sua una dottrina tale, da far progredire su
queste pressanti questioni. 8
Bisognerà ora, per prima cosa, tentare di ricondurre al suo vero
posto lo status quaestionis, dato finora per scontato: ma la discus-
sione dclpi:obleò:la ··51-svofge-còn~oTtCpresupposti, non inoppugna-
bili. Così, ad esempio, ci si orienta anzitutto al carattere di 'propo-
sizio~·-c~-~--~a il dogma; ci si affida con troppa sicurezza alla dedu-
zione sillogis.tica_e ..ad.~h#_ ~().4~Ili. __~rativi della logica. Cose che
non hanno assolutamente questa evide~te - preminenza, se si tratta
di chiarire la schietta originalità di fatti ermeneutici di base nella

S Per chiarire più facilmente i fatti dello sviluppo del dogma, alcuni ricercano i
dogm!._l'iù tardivi della Chiesa nella tradizione orale, e non nella Sqittura. Il motivo
per cui questCl tentativo fallisce, viene esposto da K. RAHNER, Sull'tJpira:àone della sa-
cra Scrittura, Brescia 1967, pp. 80 ss. Vedi inoltre l'us2...S,q!1.c.teJ_o,A.Ls~-~~.teoric~tro
tesi cor1illi.?.~denti di H. LENNERZ, in K. RAHNER, Virginitas in partu, tr. in BCR, 63,
pp. 361-41 r. Sulle connessmni tra nouvelle théologie e tesi di storia dei dogmi, cf.
anzitutto G.E. MEULEMAN, De ontwikkeling von het dogma en de Rooms katholiekc
theologie, Kampen 1951, pp. 111 ss.; cf. anche G. THILS, in ETL, 28 (r952) 679-682.
STORlClTÀ DELLA MEDIAZIONE

loro complicata struttura, e di portarla· ad uno stadio concettuale;


si restringe la molteplice possibilità dei modi di implicazione; e so-
prattutto si coglie spesso il problema piuttosto come una questione
sulla definibilità d'una nuova proposizione da parte della Chiesa, che
come una questione sulla rivelabilità da parte di Dio, e sulla sua
conoscibilità. Così le seguenti esposizioni devono limi tarsi a tirare
anzitutto fuori dai binari ristretti la ricca complessità dello status
quaestionis. Poiché però una .Ei~Ll2t.QfpndL~!~one çqngyç~_Jlelle
più d~stioni metafisiche ed ermeneutiche della gmQlCenza
della verità, della storicità e dell'interpretazione in genere, non è
possibile, allo stato attuale della questione,9 dare una sintesi siste·
matico-obiettiva dei risultati acquisiti. Le esposizioni che seguono
deVOlliUmzLfQ.scie~temente la~rar~~~ti e schemi che ri-
sultano inadeguati in una visione approfondita, e forse addirittura
bloccano la via ad un reale progresso in questa questione (confronta
il discorso su 'contenuto' 'contenere', a p;escindere completamente
dalla terminologia 'implicito-esplicito', 'virtuale', 'formale', eccetera).
Nella teol~i_?_!~~gelic~.il.J?.E.<.?Èl~~ si pon<:.È.~~~~~1 poiché
là non esiste un enunciato di fede della Chiesa, tale da poter essere
norma assolutamente vincolante per la comprensione individuale della
Scrittura: quindi, propriamente, può darsi solo storia della teologia,
non 'storia dei dogmi' e storia della fede dopo la Scrittura, almeno
nel senso specifico della problematica in questione. 10

9 Su «le più recenti spiegazioni cattoliche -ilello sviluppo del dogma» inforina on
eccellentemente il lavoro di ugual titolo di H. HAMMANS, inserito nella Col!. «Bcitrige
zur neuercn geschichte der katholischen Theologie», 7, Essen 1965 (originariamente
dissertazione teologica all'università di lnnsbruck [ r961] ).
10 Alcuni indizi d'una possibile comprensione protestante sullo sviluppo del dogma
presenta W. JOEST, Endgiiltigkeil und Abgeschlossenhdt des Dogmas, in TLZ, 79
(19,4)435-440; M. THURIA:-.1, D~veloppement du dogme et tradition se/on le catholi-
cirme moyen et la théo/ogie re/ormée, in Verbum Caro, 1(1947)145-167; sul tema
cf. anche J. LEUBA, L'Instilution et l'Evénement, Neuchi.tel 1950; ID., Der Z11sam·
menhang z.wischen Geist und Tradition nach dem NT, in KuD, 4 (r958) 234-250. La
posizione della teologia evangelica appare in modo assai chiaro in W. PANNENBUG,
Zum Prohlem der dogmatiscben Aussage, in Pro Veritate. Festgabe fiir L. ]aeger e
W. Stiihlin, a cura di E. Sc1-1LINK ·UH. VoLI:, Miinster 1963, pp. 339-361, specialmen·
te pp. 358 ss. «Sostenere la verità del traditum significa anche verificarlo con l'espe·
rienza della realtà del rispettivo presente. In questo modo attraverso la dottrina dog-
m~tica'"si vieilead uno sviluppo semprenuovo del significalo universale degli cvenri
1umandati... La forma, in cui vien cosl portata ad espressione l'universale veritii
dell'evento-Cris10 ca_i:_i~~a-~-~.-~~!..~.!l.-1!!.~~--~!riruale generale fino al
SVILUPPO DEL DOGMA E SUA /IPOl.IA

E tuttavia noJ;! si può affermare che la questione qui indicata nop


trovi pro.t>Eo ness11n fondamento nel Nuovo Testamento. La que-
stione di come siano compatibili da un lato la genuina identità e
dall'altro il vero e proprio sviluppo e la storia, non viene natural-
mente posta, ma i dati di base sono chiari anche nella Scrittura. Essi
si mostrano - per dirlo con semplicità - nei testi che esprimono
la coscienza della compiutezza della rivelazione, e nelle affermazioni
che parlano della necessaria presenza dello Spirito, per mantenere
«l'antico nella costante novità del venir detto nel presente».11

Per la tesi sulla definitività della rivelazione alla morte degli a os101i, si
trova abbondante materiale (c e, certo, eve prima essere accuratamente
provato) in R. SPIAZZI, Rivelazione compiuta con la morte degli Apostoli,
in Gr, 33 (1952) 24-57; d. anche in. questo volume pp. 297 s. Per il si-
gnilìcatç profondo v. K. RAHNER, Sull'ispirazione della sacra Scrittura,
Brescia 1967, pp. 4 3-96; inoltre sinteticamente anche W. BREUNING,
Urchristentum, in LTKi, 10 (1965). Per meglio illustrare questo punto,
sia qui fatto accenno ad un passo, che è yenuto in luc~-~~.-~~~-~~ato
soltanto mediante l'indagine sulla storia della u:~dizione dei _.Yangeli.
Quando, in Mt. 28,zoa, Gesù dice ai discepoli: « ... insegnate loro a
osservare ciò che vi ho comandato», questo esclusivo richiamo alla
dottcina del Gesù terreno nella forma verbale al tempo passalo, significa:
«Colui che è risorto ed è innalzato al cielo rende obbligatoria, per la Chie·
sa che si trova in terra, per tutti i tempi fino alla fine del mondo, la parola

punto che quel che ieri era adeguato ai tempi, può risultar contraddittorio, quanto
alla forma, con quel che oggi è necessario. In ciò potrebbe ben convenire anche fa
teologia cattolica nel senso di JoH. Ev. KUHN. Ora però il mutamento di forma della
tradizione si compie anche come critica contrapposizione rispetto alle proprie prece-
denti formulazioni». Al quesito se con una simile accentuazione della contrapposizione
critica, non venga perduta la continuità della tradizione (continuità cui W. PANNEN-
BEllG teologicamente tiene molto, op. cit., p. 359), egli risponde: «Ora però, unir~
della tradizione non si nifica irreformabilità d'un concetto dottrinale messo 11 suo
tempo in evi enza - cos come 'unita e a iesa non si deve di per sé realizzare
nel suo ris ettivo resente mediante l'assunzione d'una medesima formula; essa 'pu11
anche consistere nel comune, reciproco riconoscimento di ormu azioni dogmatiche
diverse' (SCHLINK). Egualmente può esservi unità della tradizione, nonostante le di-
verse formulazioni dogmatiche e malgrado la notevole critica delle formulazioni dog-
matiche del passato. L'unità della tradizione sussiste nel riferimento, comune alle
diverse teologie delle diverse epoche, alla norma del medesimo evento, che è il Cristo.
La storia di Gesù, nella sua unità col futuro escatologico, forma l'unità della tr•di-
zione, cosi come già fonda l'unità della Scrittura. al di là delle differenze dei singoli
testimoni» (pp. 339·60). ·---
11 R. BULTMANN, Das Evangelium des ]ohanner, Go1tingcn U1964, p. 444.

20 My~tcrium salutis / 2.
STORICITÀ DELLA MEDIAZIONE

del Gesù terreno». Cf. G. BORNKAMM, Der Auferstandene und der Irdi-
sche. Mt. 28,16-20, in Zeit und Geschichte. Dankesgabe an Rudolf Bult-
man z.um Bo. Geburtstag, a cura di E. DINKLER, Tubingen 1964, pp. 171-
191, qui p. 187. Questa frase si rivolge dunque - in conformità al signi-
ficato ~ecifìcamente matteano della parola 'insegnare' (d. G. BoRNKAMM,
op. cit., pp. 182 ss., con cenni bibliogrìiiìc1) - proprio contro un libero
do~ (forse di provenienza ellenistica), che non può
più pre~~!.rs_ a_~filsta.tlU.Jeriamente il Kirios come unico maestro. La ten-
sione del nostro problema diviene immediatamente manifesta nel contesto
della teologia matteana, se insieme si considera che, per Matteo, chiamata
dei disce li e loro missione fanno parte direttamente e intimamente del-
l'opera messianica del Cristo. e. RNKAMM, op. cit., 18), nota 58.
Cf. Mt. 4,12-17; 18-22. Sull'importante esegesi della locuzione, propria a
Matteo, «opera Christi» in applicazione ai discepoli (d. ad esempio, II,
2 ), vedi p~incipalmente A.J. HELD, Matthaus als Interpret der W underge-
schichten, in G. BoRNKAMM - G. BARTH'- H.J_ HELD, Oberlieferung und
Auslegung im Matthtiusevangelium, in Wissenschaftliche Monographien
zum Alten und Neuen Testament, I, Neukirchen 31963, pp. 237-240. Sul-
la posizione di Pietro in Matteo, che è una questione connessa, d. R.
HuMMEL, Die Auseinandersetz.ung zwischen Kirche unJ ]udentum im
Matthausevangelium, Col!. «Beitrlige zur evangelischen Theologie», 33,
Miinchen 1963, pp. 59 ss.
L'accento p:micolare in questa fr!se di Matteo, si fa ancora più chiaro
se si tiene conto che d'altra pane missione e dispos1Z1one d1 spmto del
messaggero si dimostrano nell'annuncio della parola attuale del ,. zato
al..riçlo, d. Act. 13,2; Apoc. 2,7.11.17; e para e sull'efficacia del Paradito
sono del tutto chiare solo nel Vangelo di Giovanni. Cf. Io. 14,26; 16,12 ss.,
eccetera. Quando si parla dello Spirito che «fa ricordare» tutto ciò che
Gesù_ha detto, secondo l'opinione oggi quasi unanime degli interpreti, que-
Nsto ·~_9rdare'...E.~!!~ifica rinfrescare alcuni fatti ~-e~ pas~~-ma at-
1tualizzare. spiegare e far sperimentare. «Questo ricorilare giovanneo è
senz'altro una nuova e yera conoscenza», O. MICHEL, in TWNT, 4, 68r.
In quest'opera dello Spirito, l'opera di Gesù viene addirittura continuata
quale. 'rivelazione' (cosi R. BuLTMANN, D"as Evangelium des ]ohannes,
18 1964, p. 484, cf. anche la nota 8 con citazione di r Io. 2,2T « ... Io Spirito

non aria in nuove rivelazioni, sciolte dalla storia, bensi nella continuità
dell'ufficio de 'annuncio»). La futura parola dello Spirito, dopo la dipar-
tita di Gesù dalla terra, è certo una parola diversa da quella del Gesù
terreno (cf. Io. 14,25 s.; 16,12 ss.), ma anche se il Paraclito conduce per
primo ~ità piena, pure egli prende ciò <<non da se stesso». Le con-
nessioni profonde non possono venire qui discusse: oltre alla bibliografi.1
citata, cf. H. ScHLIER, Zum Begriff des Geistes nacb dem Johan11eseva11-
gelium, in Besinnung auf das Neue Testament, Freiburg 1964, pp. 266-27r,
SVILUPPO DEL DOGMA E SUA APORIA

specialmente p. 266 (con bibliografia); cf. però soprattutto F. MussNER,


Die ;ohanneischen Parakletspruche und die apostolische Tradition, in BZ,
.5(1961) .56-70 (con bibliografia); J.BLANK, Krisis, Freiburg 1964, pp.
268; 316; 320; 325; 330 s. (con bibliografia).

I padri hano preso molto seriamente le promesse che Gesù fece nel
suo discorso d'addio (cf. Io. 14,26; 16,12 s.). Non c'è perciò da stu-
pirsi del fatto che i padri ed il medio evo ascrivano ogni sforzo, che
nella vita della Chiesa è diretto alla verità ed alla santità, ad una
revela!io, inspiratio o suggestio dello Spirito santo. Tenuto conto
dell'unicità e del condizionamento storico della rivelazione, proprie-
tà queste che certo non sfuggivano alla tradizione patristica e medie-
vale, questo linguaggio a tutta prima è sorprendente, e anzi forse
stupefacente; esso tuttavia, con l'accenno aila rivelazione dello Spi-
rito nella vit~_Q~ll_a_çì:ij~~JIJ..-fQ.~~!~ un tratto biblico..!.-chLa..ndò
pressoché perduto nella teologia succe~i-;;,-~·;-;;-;ff-fondamentale
importanza in rapporto al problema dello sviluppo del dogma.

Una particolare esposizione della «continuazione della revelatio e dell'inspi-


ratio nella Chiesa» secondo la testimonianza dei adri e del medio evo,
è data da Y.-M. CoNGAR, in La tradizione e le tr izioni, I Roma 1964, pp.
203-247, dove valorizza ciò che è stato pubblicato finora sull'argomento.
A quanto sembra, con revelare, revelatio, inspirare, TOMMASO indica con
sempre maggior decisione solo la rivelazione e l'ispirazione biblica (Ibid.,
pp. 177 s.; ). Il card. CERVINI, al concilio di Trento, è un altro grande rap·
presentante d~ tradizione dei padri. Sulla sua concezione pneumatolo-
gica della tradizione e sul significato dell'accentuato carattere dinamico
della realtà del Cristo presente nella Chiesa, cf. J. RATZINGER - K. RAHNER,
OfJenbarung und Oberlieferung, 50 ss.; .57 s.; 60 s., n. 15; 63 ss.; cf. inol-
tre J. RATZINGER, OfJenbarung-Schrift-Oberlieferung, in TTZ, 67 (1958)
13-27.

Con questa concezione della rivelazione, materialmente molto meno


ristretta rispetto. al linguaggio dei nuovi tempi, ·non solo si ha una
maggiore omogeneità tra rivelazione e tradizione (alla quale sempre
di nuovo richiama J. RATZINGER, op. cit., p. 67 e passim), ma anche
una sostanziale possibilità di capire l'indiscutibile azione rivelante
_
dello Spirito -;;~t~E~Ii! _çhiesa. La tesi sullaComprUteiia-dellitive-
lazione. alla morte dell'ultimo apostolo con ciò non viene messa in
STOltICITÀ DELLA MEDIAZIONE

discussione, si introduce però qualche distinzione, dovendosi dirt"


che la rivelazione ha anche il suo oggi vivente; che essa non si rife-
risce solo al passato, ma anche ad un'effettiva realtà presente e fu.
tura. 12 Se rcnt:mdo oggi di spiegare più esaurientement~ lo sviluppo
del dogma, si assume in modo sufficientemente originario questa pit1
ricca struttura basilare, che la teologia anteriore ha costruito su al-
tro terreno, diviene realmente possibile liberare dagli accennati frain-
tendimenti lo status quaestionis che abbiamo tratteggiato, e di chia-
rirlo nel suo fondamentale significato; al tempo stesso risulta evidente
che le difficoltà poste dai fatti dello sviluppo del dogma furono 'su-
perate' dalla teologia anteriore in maniera del tutto diversa da quella
della teologia scolastica post-tridentina. L'odierna coscienza storica,
e i risultati della storia dei dogmi costringono però ad un esame
ancora più radicale sulla possibilità di un tale 'sviluppo'.

2. 'Sviluppo del dogma' all'interno della sacra Scrilfura

Per fondare oggi le possibilità di una storia e di uno sviluppo del dog·
ma, è della più grande importanza che i tratti caratteristici di un tale
sviluppo possano venir o~;~r~;ti già all'interno del Nuovo Tes"tamen-
t<;>. Ma anche l'Antico Testamento offre già molti punti d'appoggio.

Le opere di salvezza di Dio non vengono esaurientemente esposte in una


realizzazione singola, ma compaiono in un emozionante movimento verso
una realizzazione di volta in volta sempre più nuova e più intesisiva. Un
esempio efficace d'un simile sviluppo è l'escatologia vetero-testamentaria.
Cf. H. GROSS, Die Entwicklung der alttestamentlichen H.eilshoffnung, in
TTZ, 70 (r96r) 15-28; cf. anche LTKz, 3 (1959) 1084-1088, particolar-
mente Geschichtliche Entwicklimg, 1085-1087. Ma il fenomeno di testi,
che hanno un'ulteriore crescita in situazioni nuove, o quello d'un progresso,
nella rivelazione mediante spiegazione nuova dell'antico, costituisce un
elemento interno di struttura nel divenire dello stesso Antico Testamento.

11 Cosl anzitutto J. RAT7.INCER · (K. RAHNE!t), Ofjenbarung und Oberlieferung, p. 67.


Qu:m1i altri ampliame:11 i del conceuo tradi>.ionalc di rivelazione siano possibili, lo
mostra K. RAllNF.R nello s1esso volume, pp. II-24. Altra equilibrala visione sulla lesi
della completezza della Rivelazione è quella di J. FEINER, cf. supra, pp. 44 ss. Anche
a questo riguardo Y.·M. CoNCAR, Le St-Esprit et le corps apostoliqlle rh1/isateurs de
/'oe11v,. du Christ, in RSPT, 36 (1952) 613-62.:;; 37 (1953) 24-48.
SVILUPPO DEL DOGMA ALL '!NTElll'O DELLA S. SCRITTUIA
309

Gli stessi modi d'enunciare vengono utilizzati a diversi stadi della rivela-
zione, ma l'intelligenza si schiude non allo stesso piano; motivi vengono
trasposti, ritoccati, approfonditi nel contenuto. Da determinati passi bi-
blici si prendonv motivi, eventualmente li si estende nello spazio e nel
tempo, e li si apre per un contenuto di rivelazione ulteriormente accre-
sciuto. Esempi concreti (il peregrinare, il motivo-Sian, il concetto di pace,
l'idea di alleanza e il culmine di queste immagini e motivi negli enunciati
escatologici) in H. GRoss, Motivtransposition als Form- und Tradition-
prinzip im Alten Testame11t, in H. VoRGRIMLER (a cura), Esegesi e dogma-
tica, Roma 1967, pp. 231-262. Le designazioni (comuni soprattutto tra i
francesi) di relecture biblique (E. PoDECHARD, A. GELIN, H. CAZELLES, A.
FEUILLET, ed altri) e 'Metodo antologico' (A. RoBERT; in Germania,
A. DEISSLER, Ps. u9) esprimono l'identico movimento. Basta del resto
ricordare il gen~re veteroebraico del midrai. Più in particolare, sull'intrec-
cio di vecchio e nuovo nell'Antico Testamento v. anche G. VON RAD, Theo-
logie des Alten Testaments, II Miinchen 1960, pp. 332-339; 396 ss.

Un modo unilaterale di considerare la Scrittura, quello, cioè, di ve-


dervi solo dei dieta probantia, è divenuto oggi assai problematico,
dal momento che si dis.<;Ute sull'unità teologica d~!.l.!~crittura e sulla
varietà del primo kerygma cristiano. In precedenza abbiamo cercato,
(pp. 214 ss.), di utilizzare questo nuovo modo di vedere, applicandolo
allo studio del reciproco rapporto tra kerygma e dogma. Si tratta ora,
sia pur in rapfda--Sfnt-;;si, di applicare la stessa prospettiva al problema
della storia dei dogmi e dello sviluppo del dogma. Avendo preceden-
temente addottCl_! sufficienza__ !!B.<;>~en~c:.~egetici, possiamo qui ri·
nunciare ad una documentazione completa ed a moltiplicare le prove.
Ciò che .sta nella Scrittura è per noi 'dogma', e non semplicemente
discutibile teologia, ma è anche vero che molto, in questo dogma
della Scrittura, che per noi h~J~~Età dell'enunciato inerrante del-
la ri\rlaiione, è pure teologia derivata, in rapporto ad un.enunciato
più originario della rivelazione. Non ogni frase della Scrittura è, in
questo...senso. rivelazione primordiale; qualche -frase, invece, è già teo-
logia, tratta dalla rivelazione primordiale e garantita esente da errore
da parte della Chiesa del tempo apostolico e dell'ispir~zio~-;;-5critturi­
stica. Non si può adeguatamente ricondurre la differenza tra la teo-
logia dei Sinottici o degli Atti degli apostoli e quella di un Paolo solo
all'intervento d'una nuova, iQderivabile rivelazione di Dio. Gli uo-
mini del Nuovo Testamento riflettono sui dati della fede, che già
310 STORICITÀ DELLA MEDIAZIONE

conoscono; essi hanno udito obiezioni, hanno in vista certi rapporti


e problemi di determinate comunità, hanno una diversa provenienza
intellettu;fe ed una diversa matrice teologica; e ciò si riscontra nella
loro tematica, nella loro lingua e nelle particolari accentuazioni. La
risposta degli scrittori del Nuovo Testamento alle divers~estioni
proposte dalla comunità è in un certo modo il risultato della loro
teologia, delle lorc_>_~prie riflessioni !~.J:>ase ~ti ultimi della
rivelazione, in base alle primissime conoscenze di fede. Questa rifles-
sione..ha.Xm~~~~..:.Spirit~to, nel suo risultato obiettivo
e nel suo metodo è legittimata dall'ispirazione. Il risultar~ rimane
vera ~ropria 'parola di Dio'. Nel Nuovo Testamento dunque vi so-
no enunciati vincolanti della rivelazione in quanto parola di Dio, i
quali tuttavia non procedono per via di primordiale rivelazione. La
dottrina di Paolo, ad esempio, sul carattere sacrificale della croce del
Cristo, sul Cristo ,9.1.!ale secondo Adamo, sul peccato otiginale, e gran
parte della teologia giovannea, sono chiaramente lo 'sviluppo teolo-
gico' di due asserzioni di Gesù assai semplici, riguardanti il mistero
della sua persona, e l'esperienza della sua resurrezione. Già l'in-
tendere che la rivelazione del Cristo, legata alla persona di Gesù,
ebbe l:u.ogo nel susse~d'un fatto storicamente_2,rogressivo, 13 e
che la resurrezione, successiva alla morte di Gesù, e l'invio dello
Spirito santo hanno veramente senso rivelantei non meno che l'agire
o il parlare del Gesù terreno, già l'intendere questo è indice che lo
sviluppo del dogma è presente all'interno del Nuovo Testamento.
Nel nascere degli scritti neotestamentari abbiamo procedimenti di
sviluppo df storia dei dogmi. Questo sviluppo del dogma all'interno
della Scrittura è perciò il modello garantito dello sviluppo del dogma
in genere.
In fondo è sorprendente che la teologia cattolica non abbia già da
tempo _!ira~o queste facili conclusioni dai risulta.t.~ d~ .studi della
Formgeschichte sul Nuovo Testamento. Con gli studi poi della-storia
delle tradizion~ e delle red~I;;Qi sui Vangeli sinottici, esse s'impon-
gonQ__Qggi an~~ra più chiaramente. La teologia e la tematica parti·

ll Su ciò vedi soprattutto A. VoGTLE, Der Einzelne und die Gemeinscha/t in den
Stu/enfolge der Christusoffenbarung, tr. in J. DAl>IELOU ·H. VoRGRIMLER (a cura).
Sentire Ecclesiam, I, Roma 1964, pp. 81-1,0.
TEORIE DELLO SVILUPPO DEL DOGMA JII

colari dei Sinottici penetrano nella sostanza più profondamente di


quanto normalmente si supponesse. Anche quando le loro tradizioni
sono per lungo tratt-;-Ie medesime, il loro messagg!~ da ~unto
di vista teol2g!_co si diversifica sorprendentemente. Il processo svi-ai
luppo, riconoscibile nella redazione e nella configurazione, dimostra
che gli autori dei tte prill!.LYangeli !lOD sono dei trasmettitori e rac-
coglitori, ma degli interpreti della rivelazione relativamente autono-
mi. Se dunque lo sguardo esegetico non va più soltanto alla. tradi-
zione singola, ma alla composizione complessiva di questi vangeli,
viene alla luce la loro ben articolata caratteristica teologica.
E con ciò lo scopo di questa rapida sintesi è raggiunto. L'ordine
di riflessioni che dovrebbe accompagnarla è già stato esposto altrove,
ad esempio in rapporto alla conseguenza che, anche al di fuori del
Nuovo Testamento, in un tempo successivo della Chiesa, possono
esservi d~da creders~iché manifestamente v1 sono già al-
l'interno del Nuovo Testame~to. Nattiralmente il Nuovo ~Tustamen­
to come tempo, e anche come Scrittura, costituisce una dimensione
normativa per tutti i tempi successivi, in quanto in esso è dato quel-
l'inizio che, appunto perché rappresenta non una somma qualsiasi di
verità particolari, ma un evento..,filQ.~i~g__gL§!JY.~Zl!i__è la norma co-
stante ed il fondamento basilare di tutta la Chiesa posteriore, di
ogni fede e teologia successiva. Ma ciò non esclude che nella suc-
cessiva storia della fede, da questo terreno del Nuovo Testamento
possano originarsi nuovi dogmi. 14

3. Sulle teorie e sui tentativi di spiegazione


dello sviluppo del dogma

f: ovvio che è del tutto impossibile esporre qui, in poche pagine, b.


storia dei diversi tentativi di spiegazione dello sviluppo del dogma;
presupposti e le implicazioni di questo problema sono non solo

14 Una trattazione più in particolare di tale questione - naturalmente con più


connessioni - tenta K. RAHNER, Theologie in Neuen Testament, tr. in BCR, 62, pp.
r67-204. Ancora più che per il Nuovo Testamento, sarebbe urgente porre la questio·
ne per l'Antico Testamento: cf. anche H. Gaoss, Zur Offenbarungsentwicklung im
r1.T tr. in BCR, 51, pp. 379-403.
312 STOIICITÀ DELLA MBDIAZlONB

straordinariamente complessi, ma per gran parte della storia della


teologia bisogna seguire tale questione nella sua connessione con tut-
t'altri problemi. Anche quando si possa disporre di studi vasti su
teorie singole, resta sempre estremamente problematico l'esito di un
tentativo che miri a tracciarne una rapida sintesi (d. ad esempio in
J.H. NEWMAN). A simile deficienza si può però facilmente ovviare in
quanto disponiamo, con le monografie molto diligenti e accurate di
H. HAMMANS, Die neueren katholischen Erkliirungen der Dogmenent-
wicklung, Essen 1965, di un'eccellente informazione, alla quale per-
ciò ci si deve richiamare con particolare insistenza.
I padri sottolineano a ragione anzitutto l'identità dell'annuncio
della Chiesa del loro tempo con la rivelazione divina.

Quando si ammette un progresso ndla conoscenza del messaggio di Gesù


Cristo, lo si intende anzitutto come approfondimento nella comprensione
dell'indagine teologica, meno invece nella comprensione e nell'annuncio
della stessa rivelazione. Si sa che molte verità della fede debbono venire
considera~on maggior insistenza. più profondamente comprese_,_e con
più insistenza annunciate, per poter combattere efficacemente contro gli
avversari. Nella maggior parte dei casi, però, la teologia dei padri non va
oltre questa esigenza di più precisa concettualizzazione e di più chiara
enunciazione. Lo stesso VINCENZO DI LÉRINS, che passa per il classico del·
lo sviluppo dei dogmi, conosce solo un progresso dottrinale assai· limitato,
tanto più che continuamente ne riafferma l'immutabilità. Per una più pro-
fonda concettualizzazione ed una pjù precisa formulaziMe egli usa l'im·
magine della crescita spontanea della pianta e del corpo umano, dallo
stato germinale a quello di compiutezza: «Ut in semetipsa unaquaeque
res amplificelur» (Commonitorium 23,4-12; 22,7; 23,2). Questa soluzione
non è assolutamente adeguata alle questiopi reali; si deve tuttavia tener
sempre presente che non erano ancora state elaborate le nostre distinzioni
riguardo ai termini dogma, depositum fidei e così via. Anche per questo,
lo status quaestionis non poteva essere posto come lo facciamo ora.

In generale, si può_Ait~ __che.J)de!!_ d'u~rogresso nella stessa fede


(non nella conoscenza teologica) non è familiare al pensiero dei pa-
dri; forse, anzi, ne rimane estraneo. 15
La teologia della_QE_ima scol_as~~9!__all'i_niz.!9_l..1:!191to debitrice alla

15 Cf. D. VAN DEN EYNDE, Les normes de l'enseignemenl chrétien dans la littératurc
patristiqucs de trois premiers si~cles, Gembloux 19}3, pp. 321 ss.
TEORIE DELLO SVILUPPO DEL DCIGMA

teologia dei padri, sicché non sono da aspettarsi teorie fondamentali


che in tale questione oltrepassino le soluzioni fino allora raggiunte.
Il problema dello sviluppo del dogma viene in parte trattato in
coincidenza con la questione sulla diversità dell'ordine della salvezza
veterotestamentario eneotestameìit'iiIO-;-sulla differenza nella fede
dei simplices e dei maiores, e cosl via}6 UGO DA s. VITTORE e Prn-
TRO LoMBAJWO sottolineano che la fede è sempre la medesima, solo
i tempi sarebbero cambiati. 11 Una· cresCitaCfeilaTede viene .ascritta
alla conoscenza ed all'amore. 18 ROBERTO DA MELUN e GUGLIELMO DA
ST. THIERRY sanno che un dogma può venire maggiormente chiarito
attraverso il conflitto con opinioni eretiche. Assume qui un poste
particolarmente interessante la discussione con la Chiesa Orientale
e l'aggiunta del Filioque. Ciò appare molto chiaramente in ANSELMO
DA HAVELBERG.

Gli avversari nella discu~~--~P.pellano all'autorità del concilio di Ni-


cea, che appunto non conosce l'aggiunta del Filiog.ue. Per quanto ricono-
sca senz'altro l'autorità del concilio, ANSELMO DA HAVELBERG si pone in
pari tempo a~~~iunte al Simbolo, purché__no~-~~~.~.~-ntraddit­
torie con l'orjginar~~!_Ilonio di fede: «nec enim-3.!!!.er, sed aliud do-
ceri_permittitur». Egli biasima un rigido principio scritturistico, che guar-
di solo alla lettera e non invece alla res, che è da essa intesa, e che va in-
dagat;:=Egli chiede perché i suoi avversari accettano il concilio di Nicea,
ma p~i rifiutano ogni ulteriore progresso. Per ANSELMO vi sono delle
realtà che· nella Scrittura non si trovano abbastanza chiaramente, «distin-
cte», «manifeste», «patenter et ita simpliciter verbis». Richiamandosi a
lo. 16,12, egli insiste molto sull'azione dello Spirito santo nella Chiesa
(«Spiritus veritatis ... et fidem secundum tempus suffecientem apostolis in-
stituit») Ciò che ha fondato nella Scrittura ( «breviter condiderel» ), lo Spi-
rito santo lo espone con chiarezza nei concili ( «explanavit et pleniter do-
cuit» ). Per ANSELMO l'azione dello Spirito santo è la forza più possente
e più segreta per uno sviluppo del dogma nella Chiesa. Egli parla addi-
rittura di un'attività suppletiva dello Spirito ( «supplevit», «suppletum
est»). «"'Peccato che TNS°ELMO DA HAVELBERG giunga soltanto fin qui con
la sua concezio~ dcl progresso dogmatico, almeno per quel che si può
accertare dai testi finora pubblicati» (). HEUMER, op. cit., p. 21;). Per
-------···" ··--~ -·-·--·--

16 Su ciò, vedi ]. BEUMER, D~r theoretiscbe Beitrtlg der frubscboltJslik zu dem


Problem des Dogmenfortschrilies, in ZKT, 74 (1952) 205-226, soprattutlo pp. 210 s.
17 lbid.
!8 Ibid., p. zn.
STOUCITÀ DELLA MEDIAZIONE

riferimenti completi ed interpretazioni, vedi J. BEUMER, op. cit., pp. 214-


21,; 218; 221-222; ma soprattutto }OHN J. HENEGHAN, The Progress of
Dogma according to Anselm of Havelberg, Rome 1943, ~ul Filioque so-
prattutto pp. 2, ss.; sul ruolo dello Spirito santo, pp. 42 ss.; ]. VAN LEE,
Les idée.s d'Amelm de Havelberg sur le développement des dogmes, Ton-
gerloo 1938. Sulla particolare importanza di Guglielmo da St. Thierry,
vedi soprattutto ]. BEUMER, op. cit., pp. 222-22,.

Tuttavia in questo quadro disuguale del primo periodo della scola-


stica, si nasconde in definitiva anche un ricco patrimonio di pensiero,
non facile da cogliere nel. suo significato c:ncreto in rapporto al pro-
blema in esame. 19 «D'altro canto è fuori discussione che qui manca
una più definita impostazione del problema, una più precisa formula-
zione terminologica».:zg
Forse la situazione diviene più chiara, se si considera una caratteri-
stica fondamentale della storia dello spirito medievale, che resta si-
gnificativa anche per lo sviluppo della questione nell'alta scolastica.
«Riguard~ ciò che noi chiamiamo sviluppo del doiJlla, Tommaso
ed i teologi medievali si pronunciano costantemente in due modi,
in -R!!,te contraddittori. Si tradisce il sentimento di non possedere
più alcuna forza creativa, o di non voler pol'fffe alrnnché di nuovo,
e, tuttavia, di aggiungere quakhe cosa agli enunciati degli antichi e
di vedere più chiaro di essi». 21
---=-·· ·---

IY Cf. per es., la questione sulla crescita degli arliculi /idei; GUGLIELMO DI AuxER-
Rf. li considera, in quanto reallà divina, non SQggetti al tempo: come misteri di sal-
vezza, hanno infatti radi,e nei decreti divini; in quanto invece dati nella s1oria della
salvezza, cioè in quanto manifesti come articuli fidei, essi sono soggetti al tempo
(«formaliler-essentialiter» ). «La realtà della salvezza è immutabile, il suo essere dara
e proposta è mutevole. Il tempo è una variante integrante di questo essere data e
con ciò anche un momento integrante della nostra fede»: cosi L. HòDL, Articu/us
/idei. Eine begriffsgeschicbtliche Arbeit. in Eins1cbt und Glaube. FeslJChrift fur G.
Sohngen, a cura di J. RATZINGER - H. fRIES, Freiburg 1962, pp. 358-376, particolarmen-
te pp. 364 ss., citazioni p. 36,.
20 J. BEUMER, op. cit., p. 225. Sul 1ema vedi anche A.M. LANDGRAF, Sporadiscbe
Bemerkungen im Scbrifllum der Fruhscholastik uber Dogme11en1111ifelung und piiprtli-
che Unfehlbarkeil, in Dogmengeschichte der Fruhscholastik, 1/t, Regensburg 1952,
pp. 30-;6.
21 Y.-M. CoNGAR, 'Traditio' und 'Sacra doctrina' bei Thomas von Aquin, in Kirche
und Oberlieferung. Femchrift fur J.R. Geiselmann, a cura di ] . BETZ - H. FRIES, Frei.
burg 1960, pp. 170-210, qui pp. 201 s. Come analoga alla questione dello 'sviluppo
ilei dogma', il p. Cungar menziona la tesi di TOMMASO: da un lato la fede alla sua
origine, cioè al Iempa di Gesù, era più ricca e più profonda; dall'altro essa, nel corso
TEORIE DELLO SVILUPPO DEL DOGMA

Sembra dunque, secondo l'opinione concorde di più studiosi, che


TOMMASO e gli altri grandi dell'alta scolastica, non possiedano al-
cuna dottrina compiuta sullo sviluppo del dogma, e che comunque,
a questo ~ardo, non vadano essenzialmente al df là dellà prima
scolastica.22
È stato già ampiamente esposto quale mutamento nella concezione
del dogma abbia inizio nel tardo Medioevo e prorompa dopo il Tri-
dentino: l'acce9to si sposta dall'importanza del contenuto e dalla
convinzione personale d.i fede, al grado obiettivo di certezza della
rivelazione (più ampiamente cf. supra, pp. 194 ss.). Nella tarda scola-
stica poi, la distinzione tra principi teologici e le conclusiones coin-
cide con la distinzione tra verità formalmente rivelata e verità vir-
tualmente contenuta nella rivelazione. 23 La scuola di Salamanca (anzi-
tutto P. SoTo e M. CANO) perfeziona questa distinzione 24 e in segui-
to le nozioni diventano sempre più rigide. 25

dei tempi e anzitutto attraverso le eresie, si è molto sviluppata per quel che riguarda
la chwificazione e l'esplicita formulazione del suo contenuto (lbid., nota io2). Su
ciò che è b~ilare vedi: ). SPORL, Vas Alte und das Neue im MA. Studien zum Pro·
blem des mitlelalterlichen Fort1chri1tbewusstseins, in Histor. Jabrb.,
3--11; M.·D. CHENU, La théo!ogie au XII' siècle, Paris 1957, pp. 386 s.
,o (
1930) 297·

22 Così H. Ht.MMANS, op. cii., p. 16; su ciò vedi HD. S1MONIN, La théologie tbo.
1J;is1e de la /01 et le développemenl du dogme, in RTb, 40 (1935) n7·5,6; elementi
su uno viluppo del "èlogma in TOMMASO vengono addotti so rattutto da M ..D. CHE·
NU, La' raison psyc o og1que u ~ve oppement u ogme 'après sainl Thomas, in
RSPT, 13 (1924)44·51, ora in LA parole de Dieu, 1, La foi dans l'inte/ligence, Paris
1963, pp. 51·58. Cf. anche p. 314, nota 21 il lavoro già citato di Y.·M. CoNGAR (con
bibliografia). Su DuNs Scoto, d. anzitutto J. F1NKf.NZELLER, Ofjenborung und Tbeolo.
gie 11ach der Lehre des Johannes Duns Scolus, in BGPMA, 38/5 (Miinster 1961)
51 ss.; 137 ss. (con ulteriore bibliografia).
2J Cf. le ricerche di A. LANG, citate a p. 192; specialmente Die condusio tbeolog1ca
in der Problemstelltmg der Spiitschnlastik, in DJ"h, 22 ( 1944) 256-290.
24 Per sommi capi riferisce H. HAMMANS, op. cit., p. 18; motivazioni nei lavori or
ora citati di A. LANG. Di recente la questione è stata ripresa con una monografia da
ANNUNZIO S. AQUILINA, De progressu dogmatis secundum Melchioris Cani doctri11arn,
Ncapoli 1963, specialmente pp. 29 ss., con discussione delle interpretazioni di CANO
(con bibliografia). .
!I Per chiarezza riportiamo la nota tavola.prospetto delle distinzi i di H. K!LBER,
De fide, p. 1c.1 a. 2: «formaliter revelatum: quod ipsa /ocutione significal/lr; forma·
!iter explicitc revelatum: quod ipsi locutionis termini e/are e/ signanter exprimu11t;
formaliter implicite revelatum: quod formaliter continetur seu /orma/iter idem est
cum explicite re11elato (cf. de/initio in definito, conclusio in praemissis). Dicuntur au·
1em haec implicite revelata, ttJmen proposi/a reveloti011e non .1/atim apparenl, sed per
<1!iam prupusilionem debet explicari senrns re11elationis et revelatio ad illis assentieir-
clum applicari ... Virtualiter revelari in a/io: ta11/11m rea/iter idem est cum altero for·
STOR.ICITA DELLA MEDIAZIONI!

La distinzione tra rivelazione immediata, formale, e rivelazione mediata,


virtuale viene mantenuta, e cosl pure la distinzione di M. CANO tra rive-
lazione osc.Y!a.J..~licita) e rivelazione chiara (esplicita) o immediata (for-
male). L'influsso di F. SUAREZ impone questa termi~logia. «I tipi prin-
cipalL di distinzione sono quello del Suarez, che distingue !LJ.onnalmente
dal vi.r.tualmente ~to, e di nuovo il formalmente rivelato in cxplicitc
o implicite rivelato; quello dei tomisti, anzitutto a partire da Giovanni
di s. Tommaso, il quale distingue il formalmente ed il virtualmente ri-
velato, e nell'ambito del virtualmente rivelato distingue nuovamente tra il
virtualmente implicite rivelato, che viene conosciuto mediante un sillo-
gismo improprio, e il virtualmente illative rivelato, che viene dedotto me-
diante un sillogismo proprio. Altri ancora distinguono explicite ed impli-
cite rivelato; )'implicite rivelato viene poi suddiviso in formalmente im-
plicite e in virtualmente implicite rivelato». Cosl H. HAMMANS, op. cit.,
pp. 19 s., dopo R.M. ScHULTES, Fides implicita, p. I 14. Si innesta qui il
problema circa la dcfinibilità delle conclusioni teologiche: per tutti il for-
malmente rivelato va tenuto con fede divina; anche il formalmente co11fuse
(secondo la terminologia di F. SUAREZ) o il virtualmente implicite (cosl
per lo più i tomisti) o !'implicite formalmente (altra terminologia) rivela-
to, vi appartiene; il sillogismo espone solo ciò che nelle premesse è formal-
mente contenuto (quindi sillogismo improprio). Le differenze sorgono quan-
do ci si chiede fino a che punto possa essere oggetto di fede divina il solo
virtualmente rivelato (secondo un'altra terminologia: virtualiter illative, o
implicite virtualiter), il quale esprime una verità nuova mediante un sil-
logismo proprio. Il VASQUEZ ed il VEGA: la conclusione teologica, per
colui che la riconosce, è oggetto di fede divina. D. MouNA invece: una
verità virtualmente rivelata non può mai venir elevata, mediante defini-
zione da parte della Chiesa, a verità di fede. Solo l'autorità della Chiesa
sostiene questa verità ( =fidcs ecclesiastica). SUAREZ insegna, contro il VAS·
QUEZ, che la vera e propria conclusione teologica non è di per sé oggetto
di fede divina, dal momento che essa non è attestata da Dio; contro D.
MoLINA, insegna che la conclusione teologica, prima contenuta solo virtute
nella rivelazione, dopo la definizione della Chiesa è formalmente e vera-
mente de fide non solo mediate bensì immediate, poiché la Chiesa defi-
nisce questa verità in sé e formalmente. Per un'esposizione più in parti·
colare, vedi H. HAMMANS, op. cii., pp. 20 s. «l teologi hanno unanimemen·
te respinto questa concezione del Suarez, perché essi non vedevano possi-

maliler re1Jelato, cuiusmodi sunl proprictales etiam metaphysicac rcspcctu cssentitJe».


La re1Jelatio 11irtualis è mediata ex parte obiecti: «continetur in 11/io tamquam in cau-
sa et radice aut cum eo sic connectitur, ut per legitimam consequentiam ex eo neces·
sario deducaturn. Citazione libera secondo R.M. ScHULTES, Fides implicilt.l, 1, Re:;cns·
burg 1920, pp. 109 s., cf. H. liAMMANs, op. cii., p. 19.
TEORIF. DP.LLO SVILUPPO DEL DOGMA

bilità alcuna di spiegare come possa essere possibile la definizione di ciò


che è solo virtualmente rivelato, senza che sia avvenuta una nuova rivela-
zione. Il LuGo vide la difficoltà, e spiegò la definizione d'una conclusione
teologica vera e propria nella maniera seguente: Dio, rivelando che lo Spi-
rito santo assiste la Chiesa nelle sue decisioni, ha anche rivelato che egli
l'assiste nelle sue singole decisioni: in un enunciato universale infatti vie·
ne affermato formalmente implicite l'enunciato particolare in esso com-
, preso. Perciò la verità di questa de.li.nizione della Chiesa consegue dalla
rivelazione dell'assistenza di Dio» (H. HAMMANS, op. cit., p. 21 ). Queste
diverse sentenze vengono ancora oggi discusse nella teologia scolastica. Cf.
E. Pozo, Contribuci6n a la hist6ria de las soluciones al problema del pro-
greso dogmatico, Granada 1957; La teoria del progreso dogmatico en
Domingo de Soto, in RET, 17(1957) p5-356; La teoria del progreso
dogmatico en los te6/ogos de la escuela de Salamanca, coli. «Bibl. Theo-
logica Hispana», I/r, Madrid 1959; La teoria del progreso dogmatico en
Luis de Molina s. ;., in Archivo Teologico Granadino, 24 (1961) 5-32; J.
ALFARO, El progreso dogrnatico en Suarez, in Problemi di teologia con-
temporanea, Coli. «Analecta Gregoriana», 68, Roma 1954, 95-122. Ulte·
riore materinle offre O. CHADWICK, From Bossuet to Newman. The idea
of Joctrinal Jevelopment, Cambridge 1957. Una panoramica sulla proble-
matica, in collegamento con H. HAMMANS, viene data da F. LAKNER, Zur
Frug~ der Definibilitiit einer geoffenharten \Vahrheit, in ZKT, 85 (1963)
322-338. Sulla attuale discussione di questa questione, da un punto di
vista speculativo, J. ALFARO, Fìdes · Spes · Caritas. Adnotationes in Trac-
tatum de Virtutihus theologicis (ad usum privatum auditorum Pontif.
Univ. Greg.), Romac 1963, Thesis xv, pp. 4z6 ss.

Nel secolo xrx queste distinzioni trovano esplicita applicazione al pro-


blema dello sviluppo del dogma. <~Quando nel secolo XIX la teologia
comincia ad applicare queste tesi alla questione riguardante lo svi-
luppo del dogma, si ha ... l'applicazione di esistenti teorie sul valore
dogmatico delle conclusioni teologiche, ad ~n problema nuovo, che
non era ancora stato visto nella problematica antica».21o La disputa
con la teoria evoluzionistica dell'indagine sulla storia dei dogmi, i la-
vori di J.A. M.fuiLEs....Jllli.N~.WM.Ni e 'ia .discussione col GON-
THER, ma anche la definizione dell'immacolata concezione di Maria
nell'anno 1854, costringevano la teologia scolastica a studiare il pro-
blema dello sviluppo del dogma,11 anche se alla fine l'intera proble-

211 H. HAMMANS, op. c:it., p. 59 (con rimando a E. SCHILLEBEECKX).


27 lbid., pp. 61 s.; 65 s. (GONTHU).
STORICITÀ DELLA MEDIAZIONE

matica sarà tutt'altro che dominata. Si hanno degli spunti in GIO-


VANNI PERRONE. In connessione coi lavori sulla defìnibilità dell'im-
maéolata concezione di Maria, egli non si richiama tanto a connes-
sioni metafisico-logiche con le verità della rivelazione, quanto al fat-
to della fede della Chiesa, come punto di partenza deil'ulteriore pro-
va dogmatica dalla Scrittura e dalla tradizione. Viene prima di tutto
presupposta la Chiesa. Es:;a rappresenta un'unità di v~ta, che si esten-
de al di sopra di tutte le epoche e che, in vit~lc possesso delle verità
di fede, le può organicamente sviluppare. 28 Ancora più in profondità
penetrano alcuni spunti, purtroppo non ancora sviluppati, dci teologi
romani C. PASSAGLIA e CL. ScHRADER. 29

Entrambi distinguono più nettamente la tradizione dalla dottrina della


Chiesa, ossia non lasciano che la multiforme tradizione si dissolva nella dot-
trina della Chiesa. Metodicamente ciò avviene anzitutto per il fatto che,
dietro al concetto di sviluppo, sta una nuova comprensione della fede
(maggiormente orientata verso i padri e nella direzione agostiniano::plato-
nica). «Lo sviluppo ckl dogma per Passaglia-Schrader è, in conseguenza
di ciò, non un p~o..Jo.g~,nico di un'esplicitazione concettuale.
La fede non possiede la verità solo in concetti, che essa può sviluppare,
ma possiede la verità stessa per iorjma partecipazione. In rapporto con la
i·es da essa intesa, la fede viene.J.mro tta sem re più rofo~damentc
in questa verità ... Lo sviluppo del dogma procede non tanto a proposi-
zioni_..~Jici~_che ~~gflno ulteriormente esplicitate, quanto piuttosto
dalla real!.L.d.Lfrs!~-~~mpre implicitamente già colta in questi enunciaci,
realtà che viene di continuo esplicitamente ripetuta in maniera nuova.
Nello sviluppo del dogma dunque viene esplicitato non tanto un qualche
cosa filo.sis:a.flle!!!_e implicito in una pro.12osizione - il che n~turalmentc
non significa che venga escluso - quanto piuttosto un realmente implicito
nella stessa realtà di fede (Liégé). In definitiva si tratta sempre d'una
realtà, della presenza cioè del Cristo per lo Spirito santo in noi, la verilas
hypost~ç_~2~mQre di nuovo viene enunciata»: W. K>.SPER, op. cit.,
p. 307. Questi motivi, sia pur non ulteriormente sviluppati, vengono ac-
colti da J. FRANZELTN (W. KASPER, op. cit. p. 308 compresa la nota ro5 ).

Accanto al sorgere di tutte le nuove impostazioni, la spiegazione del-

28 Cf. anzituno W. KASPER, Die Lehre von J,.,.Tradition in der romischen Schu!e,
Coli. ~Die Oberliderung in der neueren Thcologie», v, Freiburg 1962, pp. 2<p8r,
specialmente II9 ss'; 397 ss.; H. HAMMANS, op. cii., p' 62.
29 Cf. W KASPER, op. cii. pp. 302·308, eccetera; H. HAMMANS, op. cii.,· pp. 62 s.
T!ORIE DELLO SVILUPPO DEL DOGMA

lo sviluppo del dogma elaborata dalla scuola del Collegio Romano


resta, nei suoi strumenti linguistici e teorici, all'interno d'una spie-
gazione del fenomeno dello sviluppo del dogma per lo più soltanto
logica.'J(J La scuola di Tubinga, di cui dobbiamo ora parlare, segna
la rottura con questa unilateralità.
Già in J.S. DREY ,11 la teoria dello sviluppo sta in stretta connes-
sione con la ~stione sulla tradizione della rivelazione.

J.S. DREY prende a prestito dal romanticismo il concetto di organismo


storico vivente che si può sviluppare soltanto restando sem re -identico
a se stesso. Contro ogni eismo, eg i insiste molto sull'iniziativa principale
di Dio che è quella di creare ma soprattutto su quella da Dio esercitata
in questo sviluppo. Ogni elemento singolo e multiforme è un membro
vivo dell'unico"'"Spirito, che dinamicamente, in mezzo ai movimenti incro-
ciantisi e nel conflitto delle opinioni, porta l'invisibile spirito del cristia-
nesimo a sviluppare iempre pjù perfettamente la rivelaziofie. Poiché il
cristianesimo è un sistema organico vivente, non vi è nessun cambiamento
del~ Libertà e capriccio dell'indagine umana restano; anche la pos-
sibilità di errori non viene negata: tutto viene tenuto insieme dai prindpi
nascosti della mente divina. Le contrapposizioni eretiche assumono l'im-
portan~ ruolo di stimolare lo sviluppo dello Spirito. La dialettica acqui-
sta cosi un ruolo fondamentale per lo sviluppo del traditum. La tradizio-
ne nel suo movimento autonomo produce ciò che nella Scrittura è dato
senza essere sviluppato.

Contraddistinguono la scuola di Tubinga dalla teologia scolastica so-


9i__
prattutto l'ac~entuazi.~11_e__ ,ciò che è dinamico e storico nel (atto
della rivelazione e nel processo di fede, e il metodo dello sviluppo
di~lettico. Anche secondo_J,b.._M?>~~!__lo ..~J~po dei dogmi non è
causato semplicemente da operazioni logiche, bensì da opposizioni
s~riche reaJi.l2 ----··

'J(JRiassunto critico in H. HAMMANS, op. cii., p. 75.


lt Su ciò, vedi H. HAMMANS, op. cit., pp. 25-29; ora però soprattuno, in sintesi,
J.R. GEISELMANN, Die ka1bo/1sche Tubinger Schule, Freiburg 1964, pp. 65-73 (ulterio-
re bibliografia). Nell'esposizione della scuola cattolica di Tiibinga, seguiamo J.R. GEI·
SELMANN. Vedi anche la raccolta di testi in J.R. GE!SELMANN, Geist des Christentums
und des Katholi4ismus. Ausgewahlte Scbriften katholischer Theologie in Zeilalter des
deulschen ldealismus und der Romantik, Coli. «Deutsche Klassiker der katholischen
Theologie aus neuerer Zcit», v, Mainz 1940, a cura di H. GETZENY.
Jl Cf. Su J.A. MOHLER, vedi H. llAMMANS, op. cii., pp. 29-33; anzitutto però J.R.
GEISELMANN, Die katholische Tiibmger Schule, pp. 74-91 (con ulleriorc bibliografia);
320 STQRICtTÀ DELLA MEDIAZIONE

Nel primo J.A. MOHLER questa forma della Realdialektik era determinata
in modo straordinariam~m~ forte dallo Spirito santo, che anima la tota·
lità dei fedeli, che si sottrae però allo sguardo, in quanto forza mistica di
vita nella Chiesa. Nel MòHLER successivo passano più accentuatamente in
primo RiJno i fattori nmai:ii della tradizione: fede non è pjù wla iJJlme·
diata comunicazione di vita della Chiesa, bensl è costruzione, operata dal-
la predicazione e dallo sviluppo dialettico di concetti. La parola divina
assume forme umane d'esistenza. Tradizione diviene ora la dimensione, in
cui la parola eterna di Dio si fa uomo e si introduce nel destino della
vita umana. Il concetto puramente romantico di sviluppo diviene cosl più
utilizzabile e più adeguato, ma non significa più uno scontato prodotto,
secondo il modello della vita organica; significa invece una. tradizione pro-
mossa dal lavoro umano e dalla combattiva riflessione sviluppantesi per
antitesi: su ciò soprattutto J.R. GEISELMANN, Die kath_ Tub;nger Sch11le,
pp. 81 ss.

La dottrina sullo sviluppo di J. Ev. KuttN, purtroppo trascurata, e


riscoperta solo da J.R. GEISELMANN,33 segna un passo ulteriore.nella
scuola di Tubinga. J. Ev. KuHN ritiene non solo possibile, ma anche
necessario uno .s.viluppo nella forma e nell'espressione. «Nel fatto
che la rivelazione di Dio è destinata a tutti gli uomini, d'ogni grado
di cultura e di tutti i tempi, dobbiamo vedere la ragione del1'infinita
possibilità di sviluepo nella forma)>. 34 La rivelazione si sviluppa
infatti solo in qu..!!fil.Q_ç_~.sa è__oggetto dell!_k9e da parte dell'uog10,
la quale ha la sua fonte nella parola annunciata in forma viva. Que-
sto progresso è una via realmente storica verso un'approfondita com-
prensione della rivelazione, così come si viene determinan-do nei
diversi tempi e gradi di cultura. Lo Spirito santo conduce questo
movimento nella Chiesa e rende viva la tradizione della rivelazione.
«Questo 'viva' significa però secondo J. Ev. KuHN non l'essere colpiti,

St. Uisrn, ].A. Miihler und die Lehre von der Enlwicklung des Dogmas, in ThQ,
99 (1917-18) 28-)9; 129·152. Cf. anche le edizioni di J.R. GErSELMANN della Einbeil,
Koln 1917 e della Symbolilt, Koln 19,8-61, con l"Saurienti introduzioni e commenti.
JJ Vedi J.R. GmsELMANN, Die /ebendige Uber/ieferu11g a/s Norm des chrisllichen
Gla11bens dargestellt im Geiste der Traditionslehre Joh1mnes Ev. Kuhm, Coli ... Die
llherlieferung in der neueren Theologie», lii, Freiburg 1959; ultima esauriente espo-
sizione della dottrina sullo sviluppo di ]. Ev. KunN, in J.R. GE!SELMANN, Die ltatho-
li.<cbe Tiibinger Schule, pp. 92-128. Cf. 11nche H. HAMMANS, op. lit., pp. 34·40. Una
breve ~•posizione della tl"Si sulla storia dci dogmi è tracciata da J.R. GErSELMANN,
Dogma, in DiT, 1 ( 21967) ,01-519.
J.t J.R. Gr.rSELMANN, Die katholi.<cbe Tiibinger Schufr, p. 62.
TEORIE DELLO SVILUPPO DEL DOGMA 321

cuore e anima, dalla parola di Dio, come l'ha inteso J.M. SAILER, il
teologQ.._ dell'Erweckungsbewegung (movimento di risveglio); e nep-
pure silenziosa crescita organica, come se la sono rappresentata i
romantici GOGLER, GbRRES, e J.S. DREY; bensì chiara vigilanza del-
lo spirito . ."!l. lo spirito che nell'uomo porta avanti lo sviluppo». 3~ Lo
svilU'Ppo del dogma avviene però nella forma della· dialettica ogget-
tiva: non sono le leggi delle conclusioni logiche, che facendola pro-
gredire trasmettono la rivelazione in concetti e rappresentazioni sem·
pre identici. Le verità della rivelazione, che dal tempo degli apostoli
compaiono in diverse rappresentazioni, vengono accomodate e ricon-
ciliate t~;- loro "Cfal movimentodìarètiko dei progiesS!storici.36 In
base alla sua filosofia dello spirito però, J. Ev. KuHN fa del corpo
totale della Chiesa, cioè dell'istituzione oggettiva, e questa nella for-
ma del magistero, l'unico portatore della parola apostolica. Così fa.
cendo egli limita troppo questo portatore.
Queste indicazioni sulla scuola cattolica di Tiibinga devono ba-
stare. Dobbiamo qui tralasciare anchè una ricerca critica, quella cioè:
di chiederci in qual misura si mostrino qui ancora tracce illumini-
stiche, rappresentazioni romantiche e presupposti filosofici non indi-
scutibili.
Accanto ai teologi di Tubinga, deve essere anzitutto nominato J.
H. NEWMAN, la cui do~si:iffosVIluppo, non"Taeilffiente compren-
sibile - ragione non ultima la sua forma saggistica - è particolar-
mente difficile da esporre. 17

J~ J.R. GEISELMANN, Dic kalbolischer Schule, p. 62 .


.ii. J. Ev. KuHN, d. soprattutto J.R. GEISELMANN, Die lebendige
Sulla dialettica in
Cber/ieferung als Norm des christlichen Glaubem, pp. 2u-267; Die 'albolische Tiibin·
ger Scbuir, pp. 374-425; sulla dialettica di DREY, d. ibid., pp. 370 55.
J7 Sul NEWMAN, d. H. HAMMANS, op. cii., pp. 41·58. Vedi anzitutto la nota espo-
sizione di JH. WAJ.GRAVE, Newman. Le développemenl du dogme, Tournai-Paris 1957~
G. BrnMF.R, Oberlie/eru11g rmd O/Jenbarung. Die Lehre 11011 der Trad11io11 nach John
Henry Newman, Coli. «Die Oberlieferung in der neucren Theologie», 1v, Frciburg
1961; H. F1t1Es, }.H. Newmans Bei/rag ium Versliindnis der '/'radition, in Die miin·
dliche Obalic/erung. Be11riige ium Begriff der Tradition, a cura di M. ScHMAL'S,
Miinchen 1957, pp. 63-122; A.A. STEPHENSON, The Deve/opment and Immu1abili1y o/
Chrislian Doctrine, in TS, 19 ( 1958) 481-532 (sul Chadwick); H.M. DE ACHAVAL, An
unpubluhed Paper b)' Cardinal Netuman on Jbe Development o/ Doctrine, in Greg,,
~9 ( 1958) 58)-596. Ulteriore bibliografia in BIF.MER, pp. 239-249. Del NEWMAN oltre
•I volume A11 Ena)' o" 1he Developmenl o/ Chriilian Doctrine (1845), vedi special·
meni~ An F.ssay i11 Aid o/ a Grammar o/ Asse/I/ ( 1870). Sull'accennata problemarica,

}I ~lysterium s.Iutis / 2.
322 STORICITÀ DELLA MEDIAZIONE

Per J.H. NEWMAN, l'idea del rnsuanesimo diviene familiare allo spirito
solo~iantLJ.;t varietà dei suoi aspetti, e precisamente nell'incontro con
nuovi afil2._etti essa conosce unOSviliippo vitale. Il pensi~~to ..f_oglie
se~~qlo aspetti. Dal punto.di vista dello svolgimento psicologico, vi
è u~rn..sp.ant:anoo..._yivo, non ind~ndente dalle premesse morali e
spjrituali del soggetto. Il singolare intreccio di questo concret~··ereale
percepire con le esperienze, con Iii condotta morale del..~Qgge.U.O, dà alla
maniera di conoscere una caratteristica t~tta-s~à·;·-·ri"cll'lllative Sense, in
quanto atÙ~itf~~~os~itiv;-pienamente sviluppata, esercitata proprio per-
sonalmente in sill.lazioni concrete, si compie non solo la conoscenza del
concreto, ma anche in pari tempo il vitale riconosciment~d~osciuto,
e questa adesione dal canto suo, come prova di probabilità, porta in sé una
propria misura di certezza, tratta dalle conoscenze accumulate. Non si
può esaurire la pienezza di questo pensiero vivoe reale con la 'logica',
poiché q~g_u.Q!LQ!!Q_comunicare lo sguardo d'insieme vivo e Wsonale.
Solo l'Jllative Sense ha il potere, dalla sintesi delle convergenti probabi-
lità, nçrum_alizzabile fino in ...fundo.,_di...J:Qgliere la realtà concreta. II pen-
siero nozionale, che è nel suo carattere logico-chiaro-conscio un risultato del-
l'atto di volontà, porta chiarezza ordine e forma nel pensiero spontaneo,
che da parte sua, nel suo carattere libero e perciò qualche volta arbitra-
rio, proc9~_filtiene a.. ~1 lavoro di combinaz~one logica l'originaria
relazione con la stessa realtà. Da queste connessioni solo accennate, divie-
ne chiaro che non possono introdursi verità religiose senza una forma
concreta. Esse, al di là della redazione scritta, richiedono tradizione vi-
vente e testimonianza vivificatrice sotto l'azione di c9scienziosa e credente
ragione. Le realtà della fede sono anzitutto un'idea della quale non neces-
sariamente siamo coscienti in modo esplicito. In una lenta evoluzione,
questi ~tti dell'idea non erce ibili nella loro totalità con un solo
atto, si sviluppano mediante la collaborazione di tutte le orze della vita
individwtk__~_§9SJ~~~....!:1.~_E~senza nascosta e ignota fino ad una cono-
scenza esplicita completa. L'identità di tutti gli sviluppi con l'idea origi-
naria si fonda anzitutto nel fatto che l'idea stessa guida tutto il processo;
ogni crescita ed ogni migliore comprensione viene messa in moto solo dal-
la pienezza di quest'idea. La crescita dello spirito giungerebbe a conclu-
sione allorché venisse raggiunta la somma di tutti gli aspetti, il che, però,
è assolutamente impossibile per l'idea sovrumana e indistruttibile del cri-
stian~~o--:-Tfconflittoefa·~·i~ondlia;~~e dei diversi aspetti, che si rea·

vedi ]. ARTz, Glaubensbegriindung aus dem Personlichen,Freiburg 1958; Io., Die Ei-
gemtiindigkeit der Erkennlnislheorie John Henry Newmans, in TQ, 139 (r959) 194-
222; H. FRIES, Die Religionsphilosophie Newmans, Stuttgart 1948; A. BRUNNER, Idee
r.nd Entwicklung bei Hegel und Newma11, in Scholastik, 32 (1957) 1-26; M. NÉDON·
CELLE, Newma11 et le développemenl dogmalique, in RSR, 32 ( 1958)!97-213.
TEORIE DELLO SVILUPPO DEL DOGMA

lizza mediante tesi ed antitesi, purifica e chiarisce la stessa res. Le defini-


zioni dogmatiche sono il frutto della meditazione della Chiesa sull'idea
divina. Questa idea sovrasterà sempre di nuovo gli uomini, e li condurrà
a nuova comprensione. La limitatezza dell'intelletto linito, che considera
solo con.J,lRa prospettiva limitata, è la ragione della molteplicità delle Dropo-
sizioni dogmatiche. La vertta parziale mostra che la rivelazione divina~
sempre identica a se stessa. Tutte le conclusioni tratte dall'idea della rive-
lazione non jìMQ mere deduzioni logiche, ma si identificano - poiché
strappate alla rivelazione a partire dalla vita e introdotte da essa nella vi-
ta - con la stessa idea divina. L'antinomia tra rivelazione, una volta per
tutte compiuta, e definizioni dogmatiche in continua crescita, viene fon-
damentalmente mantenuta e non eliminata. Non si può circoscrivere il
processo dello s~ifUPpoaa-un determinato periodo, ad esempio ai primi
seco~ oppure ad altri. Su ciò vedi anche H. FRIES, Die Dogmenge-
schichte des 5. ]ahrhunderls im theologischen Werdegang von fohn Hen-
ry Newman, in Chalkedon, III, 421-454. In ogni mutamento però devono
essere conservati due elementi: la retta «doctrina» ed il principio insito
in questa do!llina.. fondato sulla forza normativa del primo inizio. J.H.
NEWMAN propone gli elementi che - tra loro connessi - guidano il cor-
retto sviluppo dell'idea: in tutti i cambiam~m.Ll'._'.immagine', il 'tipo', nel
quale si riconosce la vera Chiesa nel corso dei secoli, resta identico sotto
forma di mantenimento di somiglianza esteriore e di espressiva presen-
tazione della medesima idea; il 'principio', che contrassegna la continuità
della..med~!!_ma dottr~~i_è la legge e la forma d~Ile dottrine; l'unità del
principio e la sua forza concentrante sono il presupposto per l'identità
d'ogni sviluim.Q.;.._1'.ig~iu,;rj_i;tiana h.l!_i.!ui. la forza d'assumere, a contatto
con i condizionamenti ambientali, elementi estranei (vedi la crescit:i), di
subordinare a se stessa gli elementi appropriati e di rielaborarli con la
forza unificante della sua capacità assimilatrice, senza perdere ciò che è
originariamente proprio; la costruzione logica e la caratteristic:i logica
dello sviluppo sono una garanzia della sua legittimità: 'logica' viene assun-
ta qui in un senso molto ampio, come esperienza della concordanza, della
redproca appartenenza e della 'naturalezza' di idee e giudizi, senza che ciò
sia dovuto avvenire in sillogismi; le dimostrazioni logiche del pensiero
esplicito sono anzitutto utili per l'estensione ed il consolidamento; 'irrego-
larità' nello sviluppo di un'!dèa possono darsi perché nel processo vitale in
condizioni favorevoli, già~.Jl~Q-~.t!_qto. ant.~~~<?!.~t.~.L~~'!I15?~2~.!.t! dtill'idea,
che richiedono ancora tempo fino alla loro piena maturazione; essi dimo-
strano però, proprio a uno sguardo retrospettivo, d'essere delle anticipa-
zioni d'uno sviluppo originario; ma un vero sviluppo deve anche custodire
le fasi e i passi precedenti, né può mai perdere ciò che un tempo ha real-
mente posseduto; la contaminazione conduce al dissolvimento; la corruzio-
ne dell'idea nella fossilizzazione e nella stagnazione; la durata nel tempo
324 STORICITÀ DELLA MEDIAZIONE

è invece il banco di prova per lo sviluppo fedele e per la genuina forza di


vita, il cui segno è la fecondità. J.H. NEWMAN ha quindi sufficiente spazio
ed orizzonte perché possano valorizzarsi le capacità e )'impiego di singole
personalità nel corso dello sviluppo del dogma. Il consenso dei fedeli
assume un ruolo importante, lu funzione <lei magistero non viene ~minuitn.
Per maggiori dettagli vedi G. BIEMER, op. cit. pp. 107; 176 ss.; 183.;
201 ss., ecc.; H. HAMMANS, op. cit. pp. 50 s.; 58.

L'importanza di queste idee di J.H. NEWMAN, e l'affinità con•analo·


ghe idee della scuola di Ti.ibinga, divengono chiare se si tien conto
della disputa assai scadente con il modernismo, almeno quella con-
dot.ta dtl~eolog~a di scuola. Richiamandosi a VINCENZO -nr.Lti'ms,
per spiegare il dogma viene spesso addotta l'immagiruu:lella crescita
fisica. Il paragone non deve soltanto stabilire l'unità e l'omogeneità
ddiOsviluppo, ma anche, e soprattutto, manifestare il processo vi·
tale ch-;-nonsC coiiipTe--fn-mereaedu'zloni logiche. In quest0-con·
front0-'l'immagfne dà, è vero, l'accordo interiore di elementi che
appaiono dapprima contraddittori: stabilità della natura nel muta-
mento delle apparenze, intatta interiorità dell'organismo in relazio-
ne ai condizionamenti dell'ambiente esterno e della vita, e così via;
altre immagini poi, come quella del granello di senape e del lievito,
devono rendere comprensibili le medesime relazioni. Ma la riflessio-
ne teorica-...llQlLEenetrerà queste immagini fino a toccare il problema
r~!!~i.t.C?_ I~.~~~!;.,_--·- ...... ------·····-··-----·~---····--·-··- . -_. . . ___ . ____

Tuttavia nelle ricerche di M. PRUNIER, B. ALLO, CttR. PESCH., R. GARRI·


GOU. LAGRANGE, A. o'Ads, L. DE GRANDMAISON e di altri, si fanno luce
ùelle @rie che indicano la strada d'una spiegazione approfondita dello
svi]uHQ__q~l .dogma / La spiegazione dello sviluppo avviene ad esempio
in M. PRUNIER, come conoscenza chiaramente consapevole di ciò che da
se~ saputo 'intuitivamente'; vien fatto notare il lavoro lento, che
impercettibilmente conduce ad un progresso, del 'senso della fede' (.ren.r)
nella Chiesa; R. GARRIGOU - LAGRANGE nel suo significativo lavoro, Le sens
commun, la philo.rophie de l'étre et les formules dogmatiques, Paris 1909,
accenna soprattutto al faUQ che le formule dogmatiche non hanno altro
significatn se ruinguello che può ·dar loro il sens commun. E vero: il
dogma viene formulato mediante concetti filosofici cher quanto a preci-
sione tecnica, superano questo sens commun; tuttavia esso non viene as-
~ervito a nes!!un sistema filosofico ~a cui mutua delle nozioni; né al suo
modo proprio di vedere. Pur superando il sens commtm in precisione
TEORIE DELLO SVILUPPO DEL DOGMA

tecnica, il dogma resta però sempre nel ptolungamento del sens commun.
Vedi la relazione di H. HAMMANS, op. cit., pp. 83-84, sul modernismo,
soputtutto pp. 76-102; su L. DE GRANDMAISON, vedi Ibid., pp. 93-95;
su A. GARDEIL, vedi pp. 96 ss., eccetera.

Un passo importante nella disputa con il modernismo - purtroppo


fino ad oggi preso troppo poco in esame - si verifica con l'apporto
che M.~LONDEL dà alla discussione. 38 Questi nella tradizione, quale
mediazione tra dogma e storia, vede anzitutto non tanto una ripeti-
zione esterna di frasi, quanto piuttosto la trasmissione d'una realtà
viva.

In cale prospettiva, la tradizione acquista un carattere singolare, poiché


essa non è solo una custodia del passato, volta all'indietro, ma è insita
nella sua natura anche una tendenza conquistatrice: «poiché essa scopre
e formul!_ verità delle guaii il passato è vissuto, senza poterle esplicita-
mente esprimere o definire». «Essa presuppone senz'altro i testi, ma an-
che, ed in primo luogo, qual~tro, cioè un'esperienza sempre in
atto (en acte), che in certo modo le permette di restare padrona dei testi,
anzfcbe essere a loro sottomessa in senso stretto. In una parola: in ogni
momento in cui ci si deve appellare alla testimonianza della tradizione
per superare le cmi di "crescenza, delle quaITSOffieTavllii-spìrttuale della
cristianità, la tradizione rende chiaramente presenti alla coscienza degli
elementi, che fino allora giacevano nella profondità della fede e della vita,
e tuttavia quasi non erano stati espressi, trasmessi e scoperti. Perciò que-
sta forma conservatrice e protettiva è allo stesso tempo istruttiva e crea·
tiva. AmÒrosamente rivoltaaf""passato, che è un po' la sua tesorerl&,pro-
cede verso il futuro, che significa per essa luce e vittoria. Anche quando
scopre qualche cosa, essa ha l'umile sentimento di averlo solo fedelmente
riscoperto. Essa non ha bisogno d'innovare in nulla, perché possiede il
suo Dio ed il suo tutto; però ha da insegnarci sempre qualche cosa di
nuovo, perché passa dall'implicitamente vissuto all'esplicitamente cono·
sciuto». Histoire et dogme, pp. 69 s. Vive qualcosa nella Chiesa, che sfug-
ge al ontrollo scienti.fico (lbid., p. 71 ). Tuttavia ciò non vuol dire che essa
trascuri o disprezzi i risul~~~ella_eseges· e a stona i ., pp. 71 ss.;
75 ss.). Comunque, essa non si richiama primariamente alla scienza, quan-
do intende chiarire ulteriormente la sua fede. Anche qui vale la legge
dell' 'acti~n': «Ciò che l'uomo non può pienamente cogliere, può però

lB Cf. soprattutto Histoire el Dogme, in Les premiers écrits de Al. Bionde/, Puis
1956, pp. 14!)-228.
Sl'URIClTÀ IJ<:LLA MEDIA:ZIONE

pienamente fare; e facendolo, acquisisce in sé, vitalmente, la coscienza di


questa .realtà, che per lui giace ancora nella penombra. 'Custodire' la pa-
rola di Dio significa anzitUUQ.. metterla in i!_t.!Qj_e_ il depositum della tra-
dizione, che, qualora ci fosse lasciato in una forma puramente intellettua-
le, necessariamente verrebbe travisato dall'infedeltà della memoria e dalle
limitazioni dell'intelletto, può venire tramandato intatto; di più: può
venire applicato e sviluppato, solo se viene affidato alla fattiva obbedienza
dell'amore» (Ibid., p. 79, vedi anche l'uso di Le. 3,50; Io. 15,26; 16,12,
Ibid., pp. 77-79). I dogmi cosl sono meno il risultato d'una ritlessione
dialettica .sui.J.l:s.ti, _che...t.espt~.!!§içme di una realtà stabile e provata nella
vita. Ma poiché si è persa la sensibilità per questa-·imità.dl vitae pen-
siero - «sempre in movimento, pur restando in maniera soprannaturale
identica a se medesima» - , l'apologetica non riesce a «collegare tra loro
teoricamente dogmi e fede, se essa pretende di limitarsi ad elementi di
per sé-iriwfficienti a venir collegati nella prassi» (I bid., p. 88 ). La fede
tradizionale considera idee e fatti, pensiero umano e leggi della vita spiri-
tuale; «in ugual misura - però - considera la prassi provata, le abitu-
dini consolidate mediante i frutti della santità, cosi come le illuminazioni
conquistate mediante la pietà, la preghiera e la mortificazione» (lbid.,
p. So). 1 modi della scoperta si verificano lilla luce della fede ed hanno
leggi proprie, che non sono semplicemente quelle della scienza umana.
«Le orecchie dello spirito richiedono più tempo per aprirsi, che le. orec-
chie della carne» (Ibid., p. 78).

Queste idee conduttrici rimasero normative per il futuro, anche se i


suggerimenti_di.~J.ONDJ::J.._.O.Q!Lltovarono la dovuta risonanza nel-
l'ambito della teologia scolastica contemporanea e posteriore: 39 le
teorie diJJ:LNEw~~dclla...s.QJ.QJa di Tiibiç.~J_;-~2.tlg_an'o_!!,l'in­
tento di M. BLONDEL, almeno nel comune sforzo di svincolare la spie-
gazione dello sviluppo dei dogmi dalla restrizione intellettualistica.
Poiché successivi tentativi di spiegazione dello sviluppo del dogma si
orientano precisamente in questa linea, era necessario esporle più det-
tagliatamente delle teorie di A. GARDEIL, M. TUYAERTS 40 e di altri,
teorie in sé non prive d'importanza per il loro tempo, ma che tutta-

39 Su ciò vedi H. HAMMANS, op. cii., pp. 90 ss., per quanto questi dia un giudizio
anche troppo ottimistico; quando dice che l'influsso di M. BLONDEL sulla teologia
francese recente sia 'appena pcrccpibik' (lbid., p. 86)_ Cf. anche L. DA VEIGA Cou-
l'l~IIO, Traditio11 et hisloirc dans la co111rover:;c moderniste (189~·1910]. in A11Gr i3·
Rame 1954, soprattutto pp. 143-152; 162 ss.; 187 s.
40 Vedi l L HA:;1MANS, Of'. cii., pp. 95 s.; 119 >.; 129 s.
TEORIE DELLO SVILIJPl'O DEL DOGMA

via sono rivolte piuttosto al passato. Certi teologi cercano di spiegare


lo sviluppo di fatto dei dogmi mediante la prova storica, cioè possi-
bilmente spostando indietro, in tempi anteriori, la conoscenza espli-
cita della verità di fede. Per dimostrarlo si imbattono però in difficol-
tà sempre crescenti. 41 La problematica sorta in occasione del dogma
dell'Assunzione corporea di Maria in cielo, e la discussione che ne è
seguita, hanno indotto su questo punto ad una cautela ancora mag-
giore;42 è ormai del tutto fuor di luogo motivare con lacune nella te-
stimonianza, o richiamare testimonianze storiche non più accessibili,
come pure appellarsi alla disciplina dell'arcano. 43
Dobbiamo ancora accennare, da ultimo, alle grandi opere storico-
sistematiche di spiegazione cattolica dello sviluppo del dogma, come
anzitutto quelle di R.M. ScHULTES 44 e F. MARIN - SoLA. 45 Secondo
il primo, è ~efinibile come dogma solo il formalmente implicite ri-

-
velato.

Il formalmente implicite rivelato viene conosciuto determinando un signi-


ficato d'egual grado e d'egual valore. Al riguardo, R.M. ScHULTES non
nega che questo significato spesso può venir co.no~~~lo mediante un
si,llggismo: il sillogismo improprio, esplicativo, che esprime la stessa verità
obiettiva con concetti formalmente diversi (conclusio theologica quoad
nos tantum), in un dato senso .è certq_J!!l!! 'di:!°!Y_azione', ma la~in
esso conquistata è un formalmente rivelato. Il virtualmente rivelato viene
detto 'rivelato' solo per analogia: per via del suo principio, che con quel-
lo è connesso (non è cioè soltanto fede sulla base dell'autorità divina,
bensl anche sulla base d'una nostra conoscenza). La conclusio quoad nos
tantum giace invece obiettivamente all'interno del formalmente rivelato
da Dio. Soltanto il formalmente detto è attestato da colui che parla. Molti
teologi seguirono lo ScHUL TES (l'elenco si trova in H. HAMMANS, op.
cit., pp. 124 s.). Le obiezioni contro R.M. ScHULTES si centrarono sul
fatto che~ non si rende ben conto dello sviluppo quale di fatto è; che
deve am.Piiare troppo il concetto del formalmente detto; che il concetto

.i,
41 Vedi H. HAMMANS, op. cii., pp. l05·II7; vedi inoltre supra, p. 296, nota 2, il ri-
ferimento al saggio di K. RAHNER, V irginltas in partu.
42 H. HAMMANS, op. cii., pp. n4-u6 (con bibliografia)
4J Ibid., pp. III s. (con bibliografia).
44 Vedi specialmente Introductio in bistoriam dogmatum, Paris 1922.
•5 Vedi soprattutto La evo/uci611 homogénea del dogma cat6/ico, Valencia l19n,
Madrid 1952, Col!. «B.A.C.», 81, con ampie aggiunte e l'introduzoone i,.; premessa
J,, E. S.\URl\S,
STOIUCITÀ DELLA l\!EDIAZIONE

del formalmente implicile rivelato, dove aboondano gli clementi contrad-


dittori, viene sovraccaricato; che, oltre a ciò, il formalmente implicite
rivelato è solo difficilmente distinguibile dal virtualmente rivelato. Mag-
giori particolari su R.M. ScHULTES in H. HAMMANS, op. cit., pp. 121-
128 (con bibliografia).

M. TuYAERTS e specialmente r. MAJUN - SOLA ritengono che il vir-


tualmente rivelato sia da considerarsi testimoniato da Dio e perciò de-
finibile come do~a.

Per F. MARIN - SOLA è essenziale anzitutto il concetto di uno sviluppo


umogeneo: si ha questo sviluppo 'omogeneo' se cambiano le parole senza
chuambi il significato. Il significato però non cambia, se il senso della
formula derivata era già implicitamente contenuto nelle formule prece-
denti. Su ciò segue una più dettagliata spiegazione, con un sistema di di-
stinzioni concettuali estremamente sottile. Secondo il MARJN. - SoLA, ai tre
diversi tipi di distinzione e di conclusione corrispondono tre tipi di vir·
tualità e di progresso. Abbiamo anzitutto la virtualità nominale: il con-
cetto resta identico mentre cambiano i termini che Io esprimono (qui il
virtuale è chiamato 'formale implicito' e viene dedotto con sillogismo
improprio). Abbiamo poi la virtualità concettuale: identica è la realt;ì,
mentr.e_ diversi sono i concetti ad essa relativi (qui il virtuale è chiamato
'virtuale_jlJlplicito' o ancora 'virtuale identico-reale' e viene dedotto con
sillogismo proprio). Nel caso della virtualità nominale la distinzione è
esclushlamerue dovuta al soggetto; in quello della virtualità concettuale
la distinzione è sl formalmente soggettiva, ma con un fondamento ncl-
l'~o. Da ultimo abbiamo la virtualità reale; è fa realtà stessa che è
tliversa e non solo i concetti {qui il virtuale viene chiamato 'virtuale non-
implicito' o 'puramente virtuale'). Siamo in presenza di un rivelato vir-
tuale._quando conosciamo una cosa per via di conclusione intesa in senso
proprio, quando cioè introduciamo un concetto nuovo, distinto. Il vir-
tuale inclusivo o implicito è realmente identico con la res, dalla cui cono-
scenza lo deduciamo. Se la vera conclusione teologica è legata con necessità
metafisica alla verità rivelata che funge da premessa, essa è oggettivamen-
te inclusa in essa. In queste conoscenze consiste IO sviluppo del dogma,
che non si esplica sul piano puramente nominale, ma si ve<rifica invece come
un fatto soggettivo di conoscenza con fondamento oggettivo. Allora esi-
stono due vie: la via della speculazione (anche inconscia, senza forma par-
ticolare, anche in concetti del 'lells commun', anche espressa in istituzioni
e così via), o la via dell'esperienza e della mistica (via affectiva); su ciò ve-
di soprattutto H. HAMMANS, op. cit., pp. 143 ss. Nell'applicazione concreta
di questi princìpi allo sviluppo dt:l dogm;i, è riconosciuta alla Chiesa una
TEORIE DELLO SVILUPPO DEL DOGJ\.IA
329

posizione eminente: essa di un quuad se immediate revelalum fa un quoad


11os immediate revclatum; la Chic~a complct~ la rivelazione relativamente
alla spiegazione dcl dcpositum /idei. Sul ruolo della Chiesa nello sviluppo
Jei dogmi secondo F. MARIN - Sou., vedi H. HAMMANS, op. cit., pp. r.p
s.; 155 s.; 157 s. La teoria del MAJ<JN - SOLA è legata a molte osserva-
zioni storie~ parcicolari e ad interpret<1zioni, le guaii in verità, per la
maggior parte sono state assai contestate. Vedi H. HAMMANS, op. cit.,
pp. r 38 s.; per una crmca generale, con ampie indicazioni bibliogralìcl:ic,
vedi H. HAMMANS, op. cit., pp. 147-163.

Mentre per F. MAIUN - SoLA il fondamento reale J'una ~picgazionc


coerente può essere costitujto soltanto da una stringe1~·gomen­
tazione metafisica, moltissimi teologi 46 considerano su§.cienti anche
delle considerazioni di probabilità.
Una più ampia esposi%ione non potrebbe fare altro che seguire i
princìpi accennati fino alle loro ultime distinzioni. R.M. ScHUL1·i::s e
F. MARIN - SoLA sono però d'accordo con i loro sottili critici nel so-
stenere che lo sviluppo del dogma si svolge in un processo esplica-
tivo puramente logico, secondo le regole della sillogistica, e concor-
dano quindi in u~nto essenziale, che da lungo tempo_ __~!!. viene
accettato senza discussioni dai teologi, come ha già dimostrato l'espo-
sizione dei tentativi fatti dalla scuola cattolica di Tiibinga e da J.H.
NEWMAN. In luogo d'una più ampia esposizione di queste teorie
'logicistiche::1 ora, dando ;il~;g-u-ardo panoramico piliCO'~ ai
lavori di autori contemporanei, dobbiamo fare un altro.. passo-;;e!Tcn-
tativo di dare una stlegazione dello sviluppo del dogma. Questo la-
voro non si ~D;pi~ tanto in esposizioni diffuse di teorie compiute,
quanto piuttosto in raffronti critici con i princìpi fondamentali delle
spiegazioni tentate lino ad oggi, e mettendo in luce punti particolari.

"" Per un'elcncnionc di questi teologi, cf. E. DHANJS, Rt!vélation implicite et cxp/1-
cìtc, in Lo .<viluppo del dogma Jccon_do la dottrina calfolica, Roma 1953, pp. 207 ss.,
d. Gr H ( 1~53) 226 ss.; vi si trova anche un'esposizione oggettivamente più precis;·
delle 'infércnccs pcrsuarivcs', v. pp. 207·217 e 227-237.
47 Vedi inoltre i lavori di F.G. MART1~·Ez, le cui diverse pubblicazioni sono ram
sotto il titolo Esttidios teol6gicos en torno al obielo de la fc y la evol11cion del
ma, 1-11, Ona 1953-r958; hreve ragguaglio in H. HAMMAfl;S, op. c1l., pp. 15~
M. FERNhNDEZ·JIMENEZ, Un poso mas hacia la solucidn del problema de la evr
del dogma, in RET, 16 (1956) 289-339; Naturale:r:a del conocimenlo de lor a
accrca del deposito, de la revelacion, in RET, 18 (19,8) 3·33.
330 S'fUR!CITÀ DELLA MEI>IAZIONI:;

4. Presupposti d'una soluzione adeguata del problema


dello sviluppo del dogma

All'impostazione tradizionale delle teorie esplicative storico-dogma-


tiche si obietta anzitutto che la realtà della rivelazione viene di:ni-
nuita, che le operazioni di logica formale vengono limitate e ricon-
dotte alla conclusio theologica, e che vengono omessi fattori teologici
essenziali. L'obiezione più importante, però, è che queste teorie di
pura logica formale in fondo si occupano poco di ciò che è realmen-
te avvenuto e che va precisato da un punto di vista storico; così non
raggiungono immediatamente lo scopo prefisso, quello cioè di giusti-
ficare lo sviluppo del dogma di fatto avvenuto, quale storia legittima
d'una fede, che resta uguale a se stessa.
Un primo punto al quale si rivolge la critica è il concetto di rive-
lazione. Una gran parte delle teorie cui abbiamo accennato presup-
pone che la verità della rivelazione venga sempre cd anzitutto espres-
sa in vere e proprie proposizioni. Il punto di partenza dello sviluppo
del dogma appare come una somma di proposizioni, come un cate-
chismo con paragrafi ben definiti, il quale - rimanendo identica-
mente fisso - viene sempre e solo ripetuto, spiegato e chiarito. Il
modo in cui Dio parla viene poco considerato. La parte concettuale
del patrimonio della rivelazione tiene un posto di preminenza rispet-
to al fatto reale della rivelazione. Il rivelato tuttavia è prima di tutto
una realtà data, un dialogo storico tra Dio e l'uomo, in cui qualcosa
avviene e la cui comunicazione si riferisce al fatto, all'agire di Dio.
La rivelazione non è un sistema di enunciati ma una realtà di salvez-
za e perciò una comunicazione di 'verità' L'impostazione tradizio-
nale si dimostra insufficiente anche per un altro aspetto: la Chiesa
non ha a disposizione solo la parola e i concetti, in quanto la sua
riflessione non è necessariamente un lavoro logico, che cerca di spre-
mere poco a poco, come da un insieme di enunciati tutte le virtua-
lità e le conclusioni logiche della parola udita. La riflessione dell~
Chiesa sulle affermazioni udite si compie come un contatto vitale
con la res della fede. La spiegazione della verità concerne insepara-
bilmente la parola e la realtà stessa. La luce dello Spirito e della fede
i:1Jh:i~cono anche sul 'risultato' d'una tale riflessione.
PRllSUPPOSTl DI UNA SOLUZIONE DllL PROBLllMA .BI

L'insistenza sull'aspetto di realtà della rivelazione condusse, certo, alcuni


teologi a sottolineare troppo l'importanza del suo immediato, attuale ve-
rificarsi in avvenimenti concreti, mentre l'elemento conoscitivo passò in-
debitamente in second'ordine. Inoltre fu posto spesso in questione il
valore della conoscenza concettuale; furono disprezzate positive possibi-
lità di dimostrazione (ad esempio, che una verità più tardi definita è stata
dedotta dalle fonti della rivelazione - concepita, questa, solo come comu-
nicazione); fu attribuita quindi al magistero ecclesiastico una fonte di
conoscenza non meglio identificabile, pressoché 'positivistica', di tipo sin-
golare, mediante la quale esso decide sull'utilizzabilità di concetti umani
in campo dogmatico. Vedi alcune caratteristiche di questa errata com-
prensione in L. CHARLIER, Essai sur le problème théologique, Thuilles
1938, messo all'indice nell'anno 1942, cf. AAS, 34 (1942) 37.
Simili conclusioni sono contenute anche nelle tesi di F. TAYMANS, Le
pragrès du dagme, in NRT, 71 (1949) 687-700. Egli scorge nella coscien-
za della Chiesa, e in una singolare comprensione della sopravvivenza del
Cristo nel corpo mistico deI!a Chiesa, una grandezza pressoché indipen-
dente dall'originaria parola della rivelazione ('monofisismo ecdesiologico'),
la quale grandezza, a partire da questa sua natura, persino assicura l'iden-
tità con la verità rivelata, e considera quasi super.Bue le operazioni logiche
in ordine a questa dimostrazione. Vedi maggiori particolari e critica in
H. HAMMANS, op. cit., pp. 185 s.

Altri teologi non vorrebbero limitare il concetto di rivelazione solo


ad un discorso di Dio all'uomo. Il Cristo parla anche coi fatti, con
la sua condotta, e con la sua azione nella Chiesa. La rivelazione vie-
ne intesa così in maniera diversa, come una rivelazione attraverso
fatti. 48 H. RoNDET ad esempio spiega l'assunzione di Maria in cielo
in base a queste preliminari riflessioni: nel Cristo noi troviamo tutti
i misteri della nostra fede; cosicché egli, dal modo con cui si è com-
portato verso di lei, ci ha rivelato anche il posto di Maria nella sto-
ria della salvezza. Questo fatto appartiene alla rivelazione e più tardi
venne compreso con una coscienza che è andata sempre più crescen-
do.0 Lo svolgimento globale della vita e dell'insegnamento di Gesù
è rivelazione.

48 N. SANDERS, O penbaring, Traditie, Dogma-ontwikkeling, in Studia Catholica, r 5


(1939) 1-12; 11I-I29; diversamente H. RoNDET, La définibilité de l'Arsomption, in
Bulleti11 de la Société Française d'F.tudes Maria/es, 6 (1948) 57-95; più in particolare,
vedi H. HAMMANS, op. cii., pp. 189-192.
49 Vedi H. Ror<DET, ari. cii., soprattutto pp. 77 s.
332. STORICITÀ DELLA Ml!lllAZIONE

Una spiegazione equilibrata dovrà tenere una via media tra una
concezione, secondo la quale la rivelazione si esplica solo in proposi-
zioni formulate con concetti, ed un'opinione che trascura il legame
della rivelazione con la parola. Una rivelazione di Dio che non fosse
comunicazione della realtà rivelata allo spirito dell'uomo non po-
trebbe essere chiamata autocomunicazione di Dio, né venir conside-
rata come compiuta. Il punto di partenza della teoria tradizionale,
per cui il dogma si esplica sempre e solo in vere e proprie proposi-
zioni, rimane discutibile, anche se non si vuol negare con ciò la sttut·
tura fatta di proposizioni, ed il carattere razionale dello sviluppo del
dogma.

E lecito supporre per gli apostoli un'esperienza globale all'interno ciel


fatto della rivelazione, che soggiace alle proposizioni e rappresenta una
fonte inesauribile per l'articolazione e l'esplicitazione della fede. Il Cristo,
quale centro vitale che essi hanno visto e toccato con le loro mani (d.
i Io. 1,1 s.), resta il centro di un'esperienza che è più semplice, pili uni·
taria e tuttavia più ricca delle singole proposizioni, con le quali si può
sempre più sfruttare quell'esperienza fondamentale. Quest'esperienza con-
creta, anzi, è una premessa essenziale della comprensione esatta, sempre
più approfondita della parola detta ~ udita. Le parole da sole non si spie-
gano sufficientemente, ma parlano nel modo originario solo a partire dal
tutto nel quale le singole affermazioni si radicano e - precisamente se
vogliono custodire la loro forza iniziale - restano nascoste. Da parte sua
l'esperienz'a si chiarisce sempre di più nell'esplicazione del contenuto
della parola. Questa globale cognizione di base, (in sé) ancora inespressa
ed irrifle~sa, non corrisponde ad alcuna aprioristica conoscenza religiosa
o ad altre sottostrutture psicologiche, bensì viene assunta quale genuina
cognizione della rivelazione storica di Dio nel Cristo, nell'ambito della
fede soprannaturale. Tale esperienza non può venir separata del tutto dal·
la rispettiva riflessione, per il fatto che questa è ordinata a dire a se stessa
ciò che sa della sua propria esperienza. Il grado iniziale dell'autoriflessione
può essere minimo, non può però mancare completamente. Ogni riuscita
esplicitazione in proposizioni consolida e mantiene la rivelazione origina-
ria. Considerando più da vicino, questa relazione dialettica di interdipen-
denza fra esperienza e concetto dimostra che in uno svolgimento corretto
questi divengono un elemento essenziale l'un per l'altro: necessaria l'una,
perché il concetto, .in un falso fissismo, non divenga infruttuoso e scialbo;
necessario l'altro perché l'esperienza conservi la spirituale luminosità di si-
gnificato, e si manifesti la forza illuminante in essa nascosta. Vedi un'esposi-
zione più precisa in K. RAHNER, Zur Frage der Dogmenentwicklung, tr.
PRESUPPOSTI DI UNA SOLUZIONE DEL PROBLEMA
333

in BCR, 62, pp. 26r-325, Oberlegungen xur Dogmenentwicklung, tr. in


BCR, 62, pp. 32n89; Dogmenentwicklung, in LTK2 , 3 ( 1959) 457-463.

A questo punto se ne riconnette molto strettamente un secondo, il


quale - almeno formalmente - costituisce l'obiezione forse più im-
portante contro la teoria cosiddetta 'intellettualistica': la supremazia
quasi indiscussa della logica formale e dei suoi modelli, quali prin-
cìpi esplicativi dello sviluppo del dogma. Concretamente queste obie-
zioni prendono di mira i seguenti punti d<:boli: anche il pensiero
naturale non procede sempre esplicitamente in modo sillogistico; an-
che là dove si ha una connessione formulata sillogisticamente, la
stessa vi:\ alla scoperta della verità non è stata compiuta esclusiva-
mente con questo procedimento mentale; la deduzione, per sua na-
tura, considera troppo poco le cause di un'esplicitazione; essa del
resto è piuttosto un effetto che uno strumento immediato dello svi-
luppo del dogma; ricondurre l'attuale problematica alla questione
sulle conclusioni teologiche significa fare una restrizione; i dati di
partenza della Scrittura, nelle teorie di logica formale, spesso contro
la loro appartenenza al contesto biblico, contro la loro proprietà let-
teraria e contro la loro forma particolare, semitica, di pensiero e di
lingua, diventano 'enunciati' filosofici e teologici, chiaramente circo-
scritti, di tipo speculativo ('premesse'), che, a loro volta, non trova-
no più sufficiente considerazione nel quadro d'una 'teologia di con-
clusioni'; l'affidamento ad un'argomentazione sillogistica, logicamente
stringente, dà l'impressione che lo sviluppo del dogma sia solo un
problema di logica puramente umana; la scoperta della verità quoti-
diana si verifica in gran parte mediante esperienza irriflessa, globale,
che qui non trova assolutamente posto; inoltre non basta affermnre
l'implicazione oggettiva delle conclusioni nei rispettivi princìpi, poi-
ché è necessaria anche un'implicazione soggettiva, se il dogma, suc-
cessivamente derivato, deve essere già da sempr'e creduto dalla Chie-
sa; il carattere soprannaturale dello sviluppo del dogma viene trascu-
rato, se il modello, indistintamente usato, d'una proposizione di
logica formale, che geneticamente si orienta soprattutto a contenuti
fissi propri dei rapporti matematici o puramente logici, viene appli-
cato tale e quale agli enunciati di fede. Già M. BLONDEL aveva ener-
STORICITÀ DELLA MEDIAZIONE
334

gicamente protestato contro l' 'illusione' che la sillogistica sia «la


prima e l'ultima parola della ragione umana». 50

Si può certo scorgere in queste obiezioni una vena di tendenze irrazionaliste


equivoche ed esagerate; appare tuttavia evidente l'insufficienza di un'ope-
razione puramente sillogistica per spiegare lo sviluppo del dogma. Oltre
a ciò risulta proprio dalla indagine più avanzata sulla storia della filosofia
{E. KAPP, G. PATZIG, W. WIELAND, ed altri), che la 'logica formale', na-
scente in PLATONE ed in ARISTOTELE (soprattutto naturalmente la sillogi-
stica), sul p;ano metodologico e di fatto non pretende per nulla d'essere
auto-intelligibile e priva di presupposti; ciò che invece le accorda senza di-
scussione l'uso ordinario. Soprattutto dopo le recenti indagini filosofico-
sistematiche sul.la genesi della logica formale e della logica in genere (E.
HusSERL, H. L1PPS, M. lIEIDEGGER, W. BROCKER, H.-G. GADAMER, cd
altri), diffidl'mcnte può contestarsi che si tratti di un modo di pensare
derivato. Ciò non toglie nulla alla sua utilizzabilità e necessità; )imita,
però, la pretesa della sua validità assoluta, perché in un senso più origi-
nario non si può equiparare troppo in fretta e troppo unilateralmente
la ragione nella sua capacità di 'conclusione' e la logica sillogistic:i, for-
nrnle e scolastica.
Una tale limitazione avviene già mediante una semplificata riflessione
riguardo al fondamento della logica in una metafisica generale: il dato
inoggettivabile ed irraggiungibile d'ogni conoscenza, che in sé è fonda-
mento di tutto ciò che noi ci rappresentiamo dell'oggetto enunciato, è
evidentemente anche la prima condizione della possibilità d'una 'conclu-
sione' in generale. Allora ne conseg~e altresl che lo spirito finito, nello
stadio del divenire e dell'incompiuto peregrinare, porta in sé e riceve,
quale fondamento 'logico' delle sue 'scoperte', dei suoi giudizi e dei motivi
del suo agire, qualcosa di più che soli_ princìpi e contenuti d'una coscienza
riflessa, formale.

Esistono 'conclusioni', che - già da un punto di vista puramente


logico - possono essere necessarie. Ma non necessariamente è così
in ogni caso. Può anche trattarsi soltanto di connessioni tra afferma-
zioni, e di conclusioni tratte da esse, che - sempre da un punto di
vista puramente logico - possono essere 'ovvie', 'probabili', 'com-
prensibili', e cosl via, senza per sé produrre alcun argomento, che,
secondo la logica, vada considerato assolutamente necessitante. La
_conoscenza sicura, quale conoscenza di fede della Chiesa come tale,

so Gerchicht~ und DogmQ, Mainz 1963, p. 83, nota 12.


PRES\IPPOSTI DI UNA SOLUZIONE DEL PROBLEMA
335

viene acquisita non solo mediante l'esplicazione puramente logica


di frasi come tali, ma anche mediante la illuminatrice forza dello spi-
rito in contatto con la stessa res: medi~nte una forza, cioè, che si
serve della logica, senza però esaurirsi nella logica, poiché essa pos-
siede la res, di cui si tratta, proprio come principio attuale della
conoscenza della res, e non dispone solo di affermazioni su una
res lontana, data l'impossibilità, senza un minimo di questa res, di
avere quelle affermazioni. Già nella logica concreta della scoperta
della verità quotidiana, molto spesso la 'conclusione', I' 'esito' deb-
bono venire illuminati e còlti in un modo completamente diverso
dalla deduzione logica. Di qui si possono poi ricercare le possibili
premesse logiche o i concetti più generali, nei quali può esser conte-
nuto un 'giudizio conclusivo'. La logica concreta, ad esempio, di do-
manda e risposta, di associazione di probabilità, e così via, ha le sue
proprie leggi. Nell'uso quotidiano vi è anche 'un'esperienza concre-
ta', una conoscenza che procede per integrazione di innumerevoli
ossen,azioni solo 'intuitive' (o 'istintive'), che solo assai difficilmente
si lascia imbrigliare in una serie di formule sillogistiche. Ora, questa
conoscenza molto 'razionale', anche se di tipo irriflesso, è più ricca
della sua successiva articolazione riflessa (anche se in certa misura
necessaria) e della sua esposizione logica. La fecondità dei fenomeni
negativi (scetticismo, dubbio, 'errore', senso di 'inutilità', ed altro)
non può venir celata e liquidata immediatamente come pura 'ne-
gatività'.
Ora, anche nel campo naturale esiste un sapere che in se stesso
non è articolato in 'proposizioni', e che tuttavia può essere base d'uno
sviluppo di pensiero, che solo successivamente può fissarsi in pro-
posizioni.51 Un'esperienza, ad esempio quella dell'amore, è conosciuta
dall'uomo, gli è presente come immediata e vitale in tutta la pie·
nezza e la profondità proprie di un'esperienza tanto grande. Tale
uomo 'sa' della sua esperienza molto più di quanto possa 'dirne'.
Col progressivo sforzo di spiegazione, tale esperienza viene cono-
sciuta sempre più profondamente nella sua realtà, essa va, con più
chiara coscienza, come ad una mèta, verso ciò che essa è già da sem-

51 Su ciò vedi K. RAll~tH, Zur Frtge der Dogmcnenlwicklung, tr. in OCR, 62, so-
prattutto pp. 303 ss.
~TORIC!TÀ DELU MEDIAZIONE

pre. L'esatta autoritlessione in proposizioni è quindi parte della pro-


gressiva realizzazione della natura di ciò che si è colto con l'espe-
rienza. Tale 'esperienza' non la si ha una volta per sempre, in ogni
momento essa vive della sua origine e dell'esame riflesso di se me-
desima. Avere coscienza d'una realtà in modo originario, inespresso,
irriflesso, ed avere, di tale esperienza, una conoscenza articolata in
proposizioni, non sono antitesi contrastanti, bensì momenti recipro-
camente condizionati di un'unica esperienza più grande, che di ne-
cessità ha la sua storia. La conoscenza riflessa ha sempre le sue ra-
dici in una precedente presa di possesso della res stessa, anche se la
conoscenza successiva vien posseduta diversamente.
La medesima struttura si ripete anche in rapporto alla conoscenza
sicurn. Non si può parlare di sicurezza razionale solo là dove si tratta
della rigorosità di un sillogismo. lo so, e con sicurezza, che mio fra-
tello non mi ucciderà, fintanto che sarà mentalmente sano. Questa è
una sicurezza interamente 'razionale' Questa sicurezza razionale glo-
bale, può venire sviluppata molto sottilmente e in vario modo per
via di ril1essione, ma non viene assolutamente raggiunta e 'superata'
anzitutto nella sua fidatezza e stabilità immediatamente vitali.
T;ile sicurezza, soprattutto tale conoscenza'' originaria non ancora
chiaramente ::irticolata in proposizioni, viene chiamata a buon diritto
'razionale', proprio nella comune e legittimata terminologia del ma-
gistero ecclesiastico. Una volta cbe il magistero ecclesiastico per ra-
gioni molto essenziali respinga la concezione d'una fondamentale
pluralità di capacità conoscitive, e designi ogni corretto conoscere
spirituale dell'uomo come procedimento della sua ratio, risulta altresì
rhe ratio non ì: limitata alla deduzione sillogistira. Questa conosrenza
resta 'razionale', anche quando la sua 'consequenzialità' e sicurezza
non sono chiare per tutti; del resto l'uso linguistico della Chiesa chia-
ma razionalmente intelligibile ciò che molti non comprendono e che
non riconoscono come sicuro (vedi, ad esempio, le prove sull'esi-

' 1 s~rehbe prezioso allargare:- il conce.110 di 'spirituole' in genere, così come si <·
formain nella piì1 moderna filosofia. ,. onziruuo ariprufon<lire le questioni attuali me·
dianie l\1so dell'odierno concel!n di 'cc>mprendere'. NJturalmemc non I<> possiamo
torc qu:. Dobbiamo rierò fame pòlrola. per Jelimit:1re gius1amenrc quanto da noi viene
"'POS!ll. Vedi alcuni 3ççenni nell'.m icol<> I' <'rrle//e11. T r~m::.endentril philornphie, in
L'J'K 1 , IO (1965)
PRESUPPOSTI DI UNA SOLt:ZIONE DEL PllOBLEMA
33i'

stenza di Dio). Così resta straordinariamente indeterminato il numero


dei 'fattori razionali' che concorrono al tutto d'uno sviluppo del dog-
ma; né si sa con quale diritto debba esigersi per tutti i procedimenti
la 'sicurezza' nella forma più perfetta.
Il concetto di 'razionale' <leve essere mantenuto anche per la
res: una connessione di contenuto tra il clepositt1m fi.dei e un
dogma definito deve non solo esistere, ma anche essere dimostra-
bile. La necessità d'una simile possibilità di sviluppo razionale non
può in alcun modo venire messa in ombra. Altrimenti si postulereb-
bero nuove rivelazioni ufficiali nella Chiesa al di fuori dell'eredità
apostolica, anche se questi termini si evitassero nel modo più scru-
poloso. Le conseguenze sarebbero chiare: si ascriverebbe, ad esem-
pio, lo sviluppo dei dogmi, pseudomisticamente, ad un 'senso', non
meglio identificabile; in questa crescita disordinata delle opinioni più
disparate, persino una decisione ragionevole non sarebbe più razio-
nalmente fondabile; si potrebbe cosl falsamente legare la realtà della
rivelazione alla Chiesa e a una 'tradizione' dilatata, da far scompa-
rire la sempre necessaria distanza dell'obbedienza alla parola detta
da Dio da parte di tutti coloro che ricevono la rivelazione; infine, in
un'interpretazione autoritaria, si farebbe del magistero l'unico ade-
guato portatore d'ogni sviluppo, e con ciò si dichiarerebbe superflua
ogni ulteriore sPiegazione. La rassegna dei tentativi di soluzione so-
pra esposta ha mostrato come ogni riduzione di tipo unilaterale del-
l'elemento razionale porta a queste conclusioni. Invece una forma
esplicativa, che sia davvero 'razionale', proprio per l'ampiezza del-
l'orizzonte ch'essa dischiude, è fondamentalmente cosl aperta, da po-
ter riunire in sé tutti i momenti essenziali dello sviluppo del dogma.
Almeno per la coscienza globale di fede della Chiesa, una nuova pro·
posizione dogmatica deve avere una connessione accertabile con le
proposizioni concettualmente formulate nei tempi anteriori; inoltre
non basta una conformità o una compatibilità; la proposizione an-
tica (nel tutto della rivelazione), o la serie delle proposizioni, che
precedono il multiforme sviluppo, portano necessariamente in sé il
contenut~ e l'incentivo allo sviluppo di nuove proposizioni. Il ma·
gistcro ecclesiastico garantisce per il singolo fedele l'obiettiva con-
nessione tra proposizioni antiche e nuove, almeno ne attesta l'esi-
stem:.a. Rientra però nel carattere ministeriale del magistero eccle·

22 M)"Sterium salutis / 2.
STORICITÀ DELLA MEDIAZIONE
338

siastico, di non costituire esso stesso una tale connessione, né, ancor
meno, di surrogarla, tanto più che i titolari dell'autorità dottrinale
della Chiesa, per quel che riguarda il modo con cui noi conosciamo
queste connessioni, non hanno alcuna prerogativa essenziale nei con-
fronti degli altri fedeli (anche se ne hanno una per quel che riguarda
la sicurezza). Da ciò si capisce pure che lo sviluppo effettivo del dog-
ma poggia concretamente anche sul lavoro dei teologi. Richiamarsi
quindi unicamente all'efficacia dell'istinto di fede, o del senso di fede,
o ad una particolare capacità del magistero di far procedere l'evolu-
zione, non corrisponde più ai fatti della connessione della storia dei
dogmi.
Non si deve poi dimenticare che si discute non tanto della con-
nessione reale, quanto della connessione conoscitiva. E al riguardo
è lecito dubitare che possa venire spiegato lo sviluppo del dogma
come di fatto verificatosi, per via di esplicitazione del 'formalmente
implicito' da una proposizione, a prescindere completamente dalla
difficoltà di distinguere tra un formalmente e un virtualmente impli-
cito.53 Si deve tuttavia ben chiarire che là dove la pura analisi del
significato d'una proposizione, fatta solo secondo le regole della lin-
gua e della grammatica, non dà la nuova proposizione, non si può
più parlare di un formalmente implicito. Le dottrine dogmatiche sul-
la transustanziazione, sul carattere sacramentale e sulla validità del
battesimo degli eretici, che non sono sempre esistite esplicitamente,;.i
e che tuttavia appartengono al patrimonio di fede della Chiesa di
oggi, non possono venir chiarite secondo questo schema senza com-
mettere arbitrio. Si deve dunque almeno (se vogliamo restare sul
terreno dell'esplicitazione logica delle proposizioni) dare un 'esplici-
tazione del virtualmente implicito, il cui risultato tuttavia va consi-
derato ancora come rivelazione di Dio stesso. Per rendere compren-
sibile ciò, è necessaria una doppia riflessione.
Quando parla, l'uomo non si rende mai pienamente conto delle
conseguenze oggettive che necessariamente promanano dalle sue af-

;3 Partim!ari pi11 precisi in K. RAHNER, 7.ur Frage der Dogmmentwick/ung,


BCR, 62, pp. 293 ss.
-"' Indiscutibilmente, vi sono anche esempi d'un parziale oscuramento nell'insegna-
mento della Chiesa: su ciò più esaurientemente vedi Y.-M. CololG~R.. La fede e la teo-
logia, Roma 1967, p. r22.
PRESUPPOSTI DI UNA SOLUZIONE DEL PROBLEMA
339

formazioni. La dinamica ch'è insita in ogni parola e affermazione


umana e che tende al campo dell'infinitamente aperto della verità,
sfugge al sapere ed alla supervisione dell'uomo che parla, e perciò
cessa di essere interamente espressione della sua soggettività. Tutto
ciò che noi diciamo 'veramente', non è espressione di ciò che noi stessi
vogliamo dire. Quando invece parla Dio, la cosa è diversa: la vita-
'lità e la dinamica oggettiva di quanto egli comunica immediatamen-
te gli sono necessariamente presenti, e sono da lui conosciute in tutte
le loro virtualità e conseguenze. E altresi, sin da principio, egli ha
l'intenzione e la volontà di provocare e di guidare nella sua mente
questo sviluppo. Dunque egli stesso dice anche ciò che si scopre come
detto solo nella viva storia di ciò che fu. espresso immediatamente.
E per ciò anche quanto è detto in modo solo virtuale è parola sua.
Segue allora un punto essenziale. Ciò che l'ingegno umano alla
luce della fede 'deduce', Dio senz'altro non lo ha detto 'formalmen-
te' nelle proposizioni dalle quali procede la nostra deduzione; cioè
non lo ha espresso nel senso immediato di quelle proposizioni, ma
lo ha comunicato (mit-geteilt: con-partecipato) sicché esso può veni-
re interamente creduto come conosciuto da lui. 55 Se si ripensa ora la
struttura d'una proposizione umana normale (a differenza delle pro-
posizioni poste in una forma), queste connessioni si capiscono an-
cor meglio. Tale proposizione ha un senso normale e determinato,
che può venir compreso e distinto con chiarezza da una proposizione
contraria; eppure il suo contenuto non si lascia dire adeguatamente
da una interpretazione riflessa. Molte virtualità ed orizzonti vicini,
contenuti per via d'inclusione o almeno accennati, risuonano e sono
'là' per colui che parla e per colui che ascolta - naturalmente per
ciascuno a suo modo. Entrambi, in una simile proposizione, non odo-
no solo il minimo di contenuto, accertabile per via di definizioni, ma
odono anche, come conosciuto da chi parla, tutto il resto, irriflesso e
non oggettivato in proposizioni, che è noto a co_lui che parla.56 Il
discorso ed il relativo 'corteggio' fanno tutt'uno. Ciò posto, si capisce

S5 Per un maggior approfondimento vedi K. RAHNER, Zur Frage der Dogmenent-


wicklung, rr. in OCR, 62, pp. l98 ss.
s. Un esempio concreto, con analisi, d. in K. RAllNER, Zur Frage der Dogmenentwi-
cklung, tr. in BCR, 62, pp. 31' ss.
STORICITÀ DELLA MEDIAZIONI'

che l'ascoltatore può senz'altro udire anche questo sapere circa la


rcs, non oggettivato in proposizioni e ottenuto insieme alla res. quale
sapere comunicato da colui che parla, e (viceversa) colui che parla
può trasmettere mediante proposizioni anche questo sapere. Succe-
derà dunque spesso questo: ciò che - dal punto di vista della pura
logica - appare solo come virtualmente implicito, <li fatto è un for-
malmente comunicato. Cioè, esso non soltanto è deducibile com~
conoscenza nuova (inespressa), da un'altra (espressa), ma esso stesso
è visto, comunicato e così compreso, come pensato ed insieme non
articolato in proposizioni anche se viene oggettivato in proposizioni
soltanto dall'ascoltatore e se questa operazione viene esposta (non
propriamente effettuata) nella forma d'una deduzione. Di qui si po-
trebbe forse chiarire il conflitto sulla terminologia del 'formalmente
implicito': un formalmente detto, in fondo, non può essere impli-
cito; può però ben essere implicito un formalmente comunicato. La
deduzione fa forse d'un formalmente comunicato solo un formal-
mente detto. 51
Con ciò si è solo cercato di rimettere in moto una problematica
alquanto stagnante; va inoltre ammesso che restiamo anzitutto, in
senso stretto, sul terreno della tradizionale esplicazione Ioii:ica della
proposizione. Bisognerebbe ora porsi le questioni sulla fede degli
apostoli, 58 sullo sviluppo oltre gli aposto!i,59 e così via.
Ulteriori obiezioni contro I'impostazione tradizionale delle teo-
rie circa la spiegazione dello sviluppo Jei dogmi, possono venite
raggruppate in un terzo punto: esse corrispondono a pr~hlematichc
specificamente teologiche, e mostrano che l'impostazione stessa non
permette di accogliere esigenze, bisogni e motivi teologici assai im-
portanti, o impedisce loro di agire. La suddetta operazione logi-
cistica dà l'impressione, ad esempio, che il lavoro dcl magistero
ecclesiastico sia primariamente di fare della 'teologia'; risulta poco

57 A suo modo fa questa distinzione anche f.n. DllA.'iIS; Révéiation explic1/e t'/ im·
plicite, in Lo wiluppo del dogm.i cmolico, Roma 1953, pp. 199 s.; in Gr., 34 ( 1953)
zr9; 222 ss.; vedi anche K. RA11~ER op. cii. (e note); H. IIAMMAl'>S, op. cii., pp. 211-
219; 234ss.; 240 "·; 281 s. (con bibliugrafìai.
'i8 Vedi K. RllHNER·. lur Frage der Dogmencntwicklung, 1r. in BCR, 62, pp. )06 ss.
59 K. RAllNER, Zur Frage der Dogmo1cntwteklung, tr. in OCR, 62, pp. po ss.; H.
H.\MMANS, op. cii. pp. 180 s.; 202 ss.
PRESUPPOSTI DI UNA SOLUZIONE Dl!L PROBLEMA
341

chiaro che la Chiesa si richiama meno alle deduzioni che alla sua
autorità (che naturalmente a sua volta non decreta in maniera cie-
ca); la caratteristica della conoscenza di fede, che è di essere un
fatto personale ed una conoscenza esercitata dalla Chiesa, viene
appena accennata; si parla poco d'una reale partecipazione e d'un
esame accurato della res della fede, e al contrario si parla molto d'au-
torità formale, e cosi via; la funzione dell'intelletto umano appare
troppo irnmancntisticamente chiusa, cosicché a mala pena è visibile
il punto di partenza soprannaturale del movimento; il ruolo della
luce della fede, e della grazia della fede, viene quasi completamente
misconosciuto; la rivelazione, nella sua presenza sempre nuovamen-
te attuale nell'annuncio della Chiesa, passa completamente in secon-
do ordine; la rivelazione appare anzitutto come una 'storia' ben lon-
tana e passata, o come una somma di prindpi atemporali, sui quali
la Chiesa ora, a distanza storica o nelle sue conseguenze specula-
tive, «ri-pensa»; l'accertamento della continuità e della ipseitas della
fede non è possibile al pensiero soltanto naturale; all'azione dello
Spirito santo è assegnato un ruolo sorprendentemente piccolo; il tem-
po, quale mèdium della storia dei dogmi, non riceve un senso posi-
tivo; la necessità d'una 'storia dei dogmi', per motivi teologici non
viene in alcun modo chiarita, gli indizi al riguardo vengono anzi
piuttosto elusi.60
Si capisce bene che qui non possono prendersi in considerazione
tutti i punti di vista che sono stati or ora accennati; alcuni aspetti
particolarmente essenziali verranno ripresi più avanti. La panora-
mica mostra solo il gran numero dei fattori, che sono da tener pre-
senti. A causa di questa pluralità e delle difficoltà ad essa connesse,
al momento attuale non c'è un'ampia esposizione d'una compiuta
'teoria' cattolica sullo sviluppo del dogma; cosicché questa non si
può offrire neppure qui. Il paragrafo seguente cerca solo d'enumerare
gli clementi costitutivi più essenziali, senza poterli di volta in volta
caratterizzare in modo esauriente.

60 Su qmste riflessioni 'teologiche' vedi soprattutto II. !IAM!l.-IAN~, op.


i/;, eççetera.
STORICITÀ DELLA MEDIAZIONE
342

5. Gli elementi portanti della dinamica


dello sviluppo del dogma

Nel considerare i fattori decisivi dello sviluppo del dogma, va tenuto


presente fin dall'inizio che si tratta d'un processo non adeguatamen-
te riconducibile a leggi formali. La legge perfetta dello sviluppo del
dogma potrebbe essere stabilita solo se l'intero processo fosse giunto
a termine. Questo processo è autentica storia - al tempo stesso sotto-
posta all'influsso dello Spirito di Dio -, quindi non è mai semplice
applicazione d'una formula fissa e d'una legge verificabile in ogni
suo punto. Solo la storia stessa dello sviluppo del dogma rivela pro-
gressivamente il suo mistero. La realtà viva della coscienza di fede
della Chiesa va progressivamente crescendo nel fatto stesso, non in
una precedente riflessione. Ciò non implica assolutamente che siano
aperte porte e finestre alla selvaggia crescita d'un pensiero pseudo-
teologico e di un cieco entusiasmo. Esistono anzitutto, all'interno
dello sviluppo del dogma, delle 'strutture' formali costanti, anche
se sono adoperate solo nella Chiesa e, in definitiva, perfino solo
dalla Chiesa. Non è poi da dimenticare che ogni progresso raggiunto
nel campo del finito è inevitabilmente anche una limitazione delle
possibilità per il futuro. Quanto più la verità si fa piena e chiara,
tanto più essa diviene rigorosa, tanto più essa esclude la possibilità
d'un errore futuro. In certo senso, il progresso della storia dei dog-
mi da questo punto di vista tende piuttosto a rallentare, ciò che
non significa fermarsi. Infine, il pericolo di travisamenti e di oscura·
menti da parte• dell'uomo, non è mai assolutamente da escludere.
Che però questo pericolo sempre possibile non divenga finalmente
realtà, se ne preoccupa la promessa dello Spirito, ed essa soltanto. Si
toglierebbe allo sviluppo del dogma proprio la sua più intima vita-
Htà e la sua originalità, se lo si volesse sottoporre a leggi chiare e
preventivab:li. La storia dei dogmi sorprende sempre di nuovo, nes-
sun caso è uguale all'altro, ogni fase, e Io stesso sviluppo dei diversi
dogmi procedono in maniera diversa. Cosicché, ad esempio, non si
può contestare la legittimità d'uno sviluppo appellandosi alle carat-
teristiche diverse possedute da un altro. Ciò non risulta solo- daila
natura storica della conoscenza della verità in genere, ma anche dalla
natura della rivelazione e della sua storia, quale storia che si svolge
FATTORI.I>ELLO SVILUPPO DEL DOGMA
343

una volta sola, tra il Cristo ed il termine escatologico. L'unicità e


l'imprevedibilità d'ogni storia ha valore anche nella storia dei dog-
mi, perché la rivelazione ha una storia non solo per il fatto che colui
che parla (Dio) può nella sua libertà agire storicamente, ma anche
per il fatto che colui al quale s'indirizza questo discorso (l'uomo), è
una natura storica.
La compiutezza della rivelazione quale legge fondamentale, forma-
le e aprioristica d'ogni sviluppo dei dogmi in genere, non ha più
bisogno di venir esposta qui nel suo significato. La retta compren-
sione di questa compiutezza 61 mostra appunto che s'inaugura un'aper-
tura dell'uomo all'autocomunicazione reale, non solo concettuale, di
Dio, la quale in se stessa comporta una dinamica di sviluppo interno.
Questo sviluppo dd dogma possiede come elemento costitutivo la
parola umana e il concetto finito, e deve inoltre tener conto dei con-
cetti umani precedenti: come sviluppo che fa progredire il 'dogma'
originario, non li può trascurare. In questo senso la parola umana
ed il concetto finito appartengono allo sviluppo del dogma, per il
fatto che questi appartengono alla rivelazione compiuta, la quale, nel
tempo dell'umano pellegrinare, continua a vivere anzitutto e soprat-
tutto nella parola.
Ancora un'altra proprietà fondamentale dello sviluppo del dog-
ma si manifesta nel fatto che esso coinvolge, in un'unità inscin-
dibile, tutti gli elementi costitutivi della rivelazione e del dogma in
genere. Se si sviluppa cioè un dogma, si sviluppano necessariamente
tutti gli elementi contenuti in quel dogma. Questo però è possibile
soltanto se ognuno di questi elementi costitutivi ha in sé una ten-
denza dinamica allo sviluppo. La tendenza di ciascun elemento sin-
golo resta di certo in dipendenza dallo sviluppo del tutto e si muove
soltanto nel tutto. Perciò ogni tentativo di riduzione ad un elemento
soltanto già a priori è sbagliato e vano, così come l'opinione di poter
spiegare uno sviluppo avvenuto di fatto senza rifarsi a tutti questi
elementi. Nei diversi casi certo, quoad nos, la dinamica di sviluppo
di questo o di quell'elemento può avere maggiore risalto e può ve-

bi Oltre alle osservazioni faue qui sopra, vedi le brevi indicazioni di K. RAHNEN.
Gberlegunge:1 wr Doi!,me11entwick!ung, cr. in BCR, 62, p. 338. Tbeologic im NT, lr.
in BCR, 62, pp. r68 ss.
~TURIClTÀ DELLA ME!llAZlllNE
H4

nire colta in modo più riflesso; nessuno di questi elementi può però
mancare. È già quindi possibile escludere la supposizione che nei sin-
goli casi siano diversi gli elementi che portano avanti lo sviluppo
del dogma, poiché in tal modo si pretenderebbe di poter descrivere
e giustificare più facilmente i diversi esempi storici.
Se adesso delineeremo brevemente gli elementi costitutivi dello
sviluppo dei dogmi, si tratterà solo di un primo abbozzo, che si
limita alla struttura, che caratterizza questi elementi solo nel loro
aspetto dinamico (dunque non un'esposizione completa sul ruolo del
magistero, dcl senso di fede, e così via, nello sviluppo del dogma);
non ci prefiggiamo quindi assolutamente di proporre una teoria sul-
la storia dei dogmi, compiuta anche solo sotto un certo aspetto. Nep-
pure si afferma che i relativi elementi siano esposti abbastanza chia-
ramente per quel che riguarda il loro ruolo dinamico; ci si sforzerà
anzitutto di rintracciare il loro ruolo all'interno dello sviluppo del
dogma, di uscire dalle interpretazioni limitatrici, e poi soprattutto
di scoprire strutture genuinamente teologiche.

a. Lo Spirito e la grazia

L'automanifestazione di Dio nella parola umana della rivelazione si


annullerebbe, se non fosse unita alla luce interna della grazia e della
fede strettamente soprannaturale. Dio è colui che non viene 'ma-
nifestato' dalla creazione, distinta da Lui, colui che resta nasco-
sto. Se dunque egli parlasse di sé in parole umane, senza l'ele.
vazione soprannaturale dell'uomo che ascolta, questo suo discorso
cadrebbe sotto l'apriori soggettivo dello spirito llnito, in quan-
to tale: anche senza venir semplicemente annullato, esso cosi
verrebbe necessariamente depotenziato, e ridotto ad elemento del-
l'autocomprensione e dell'autocomprensibilità della semplice creatu-
ra; ricevuta senza la grazia, questa autocomunicazione di Dio ver·
rebbc concepita come un elemento dell'autocompimento immanente
dell'uomo (anche se come elemento infinitamente aperto). Solo là
dove l'attuazione dell'ascolto è, per grazia, un vero e proprio atto
simultaneo di Dio, in partecipazione strettamente soprannaturale a
Dio stesso, e non solo ad una qualità da Lui creata, la locutio Dei
può essere strettamente soprannaturale, quindi in se stessa, e non
FATTORI DELLO SVILUPPO llJ::L DllCMA

solo in rapporto al modo della trasmissione, qualitativamente diver-


sa da ogni comunicazione fatta attraverso la sola creazione della di-
versa locutio Dei. Un discorso reduplicativo divino ha senso solo
se diretto ad un uditore divino. Agli enunciati della rivelazione divi-
. na partecipa dunque lo Spirito santo, come autocòmunicazione di
Dio strettamente soprannaturale, non solo come garante dell'esattez-
za, ma anche come oggetto enunciato. Con ciò è di per sé data quella
infinita apertura nella rivelazione compiuta e la dinamica dell'autd-
sviluppo, che termina solo con la visione beatifica. Se questa autoco-
municazione di Dio realmente avviene nella parola umana, e se Spi-
rito e parola possono essere posseduti solo nella loro indissolubile
unità, indivisi ed inconfusi, allora in questa parola ed attraverso que-
sta parola da lui stesso assunta, lo Spirito divino è dato nella sua
propria infinità e realtà vivente. Nella parola della rivelazione, che
giunge per grazia, è dato un modo di conoscenza che supera in un
punto centrale gli altri modi di conoscenza (che sono: vera e propria
esperienza della realtà in sé o nei suoi effetti; o conoscenza che si
rifà all'enunciato d'un altro, senza poter entrare in contatto diretto
con la cosa stessa, e cosl senza potersi rendere indipendente dagli
enunciati avuti per comunicazione: la testimonianza), perché nella pa-
rola stessa vien data la realtà. Nel concetto umano, al di là della te-
stimonianza di Dio, noi non possiamo risalire ad un'esperienza, che
non si articola in parole, della realtà divina intesa nella fede (ciò
accade solo quando il Verbo si esprimerà nella immediatezza del
compimento finale), tuttavia possediamo non solo il discorso su qual-
che cosa, ma la cosa stessa: l'autocomunicazione di Dio allo spirito
nella realtà sua propria, che è già l'inizio omogeneo della visio
stessa."

b. L'operazione dello Spirito santo

Si è così anche localizzata l'appropriata posizione, da cui si scopre


il soffio dello Spirito nell'ambito dello sviluppo della storia dei dog-

•2 Queste affermazioni presuppongono naturalmcnt<' che lo 'f'Ìtito rhe ascolta I.i


parola di Dio, nella fede, ahhia un suo proprio oggetto formale; come già fu breve-
mente detto supr,1, p. 150_
STORICITÀ DELLA MEDIAZIONE

mi. Lo Spirito opera non solo come guida trascendente di un lon-


tano sviluppo dei dogmi, ma va piuttosto pensato come elemento che
abita in esso tramite la coscienza di fede della Chiesa, portatrice ·di
questo sviluppo. Lo sviluppo del dogma avviene;-- in questo senso
pregnante, 'nello Spirito santo'. Basti questo accenno. Il modo mi-
gliore, forse, per misurarne l'importanza è di fare, ad esempio, un
confronto con la tesi di TUYAERTS, secondo cui l'agire di Dio a tal
punto si adatta alle leggi del nostro spirito, che esso niente produce
che non sia contemporaneamente effetto del depositum e dello spi-
rito umano. Lo Spirito in queste teorie ha solo la funzione di pre-
servare dagli errori. 6J

c. Il magistero della Chiesa

Poiché non si può concepire il dogma senza un titolare autorizzato


della dottrina e della tradizione, l'ascolto della parola di un tale
maestro che insegna autoritativamente rientra anch'esso tra gli ele-
menti costitutivi dello sviluppo del dogma, che mai prescinde dal
magistero: né dipende dal magistero solo in facto esse, cioè in quan-
to dogma annunciato in senso stretto, ma ne dipende anche in fieri.
Lo sviluppo stesso avviene in un continuo dialogo con il magistero.
Il carisma, il lavoro dei teologi e gli altri elementi estrinseci al magi-
stero ecclesiastico forse anticipano sul pensiero della Chiesa univer-
sale, ma nel proporre il loro lavoro essi devono anche aver riguardo
ad essa. Sarebbe anche da ricordare che riallacciare, con riconoscen-
za e amore, la propria conoscenza di fede alla fede della Chiesa,
quale elemento di una critica trascendenza di sé, è un elemento ne-
cessario di ogni fede. Senza di esso la fede non può assolutamente
avere fiduciosa consapevolezza della sua riuscita, poiché solo in que-
sta autorinuncia che porta ad aprirsi si critica realmente la parzialità
e l'insufficienza soggettive di ogni conoscenza. E questa critica -
almeno in quanto implicitamente è inclusa e data nello stesso atteg-
giamento - fa sl che ogni conoscenza sia totalmente vera, solo se

6l Sull'azione dello Spirito santo vedi soprattutto le esaurienti esposizioni di H.


HAMMANS, op. cit., pp. 273-287. Anche Y.-M. CoNGAR nei suoi lavori presenta co-
sran1emen1e raie aspetro.
l'AUOllI DELLO SVILUPPO DEL DOGMA
347

questa si immerge nella verità più grande e nella realtà pm vasta


di Dio. Nella sua funzione essenzialmente conservatrice e discerni-
trice, il magistero non è di per sé l'unico adeguato promotore dello
sviluppo del dogma. Si sa per esperienza che esso porta avanti lo
sviluppo, solo nel caso che si sia già messo in moto da qualche altra
parte; esso avrà sempre bisogno dei movimenti carismatici nella
Chiesa e della riflessione della teologia. Ogni concezione troppo de-
cretistica del magistero è resa impossibile proprio dai fatti dello svi-
luppo dei dogmi.64 Non si può attribuire al magistero un ruolo che
non gli può spettare, al quale esso non aspira; si verrebbe ad ato-
mizzare la fede in una somma di singole proposizioni, connesse solo
nell'autorità formale del magistero: queste proposizioni diverrebbe-
ro sempre più senza volto ed incomprensibili, sempre meno assumi-
bili della fede viva, poiché esse possono avere il loro senso reale solo
nel tutto della fede e della realtà creduta; la fede sarebb,. ridotta a
pura obbedienza formale.

d. Il ruolo della tradizione

Simile concezione del magistero porta a sottovalutare la continuità


storicamente percepibile della tradizione, che è anche una continuità
del contenuto, e come tale fu sempre intesa. La tradizione, quale an-
nuncio che storicamente si richiama al passato e che tuttavia avviene
sempre di nuovo, precisamente nella sua struttura dinamica ha una
grande importanza ermeneutica. Se la rivelazione è qualcosa di più
che una somma di proposizioni; se la tradizione non è solo un certo
numero di idee e di enunciati, bensì principio che, nella continua
attualità della realtà cristiana, mantiene e crea la vita stessa di questa
realtà, allora questa più ricca 'tradizione' (è anche il 'senso' cristiano,
che vive nell'intera comunità dei fedeli), proprio nella sua funzione
ermeneutico-esplicativa (non tanto quindi costitutiva), è più signifi-
cativa d'una tradizione resa autonoma, fonte secondaria e indipen-
dente dalla Scrittura, la quale ha solo un senso statico e contiene un

.., Maggiori particolari in K. RAtlr>ER. Oberlegun~e11 ;:ur Du~me11e11/wirk/1111g, tr.


BCR, 62, pp. 367 ss.
IClTÀ Dl'Ll.A MEDIAZIONE

deposito fisso di verità morte. 65 «La Chiesa stessa, che insegna, che
crede e che prega, presa come un tutto, è l'ultima istanza per quello
che è la sua 'tradizione' (ma non la lettera, fissatasi lungo la storia,
qualora, sganciata dalla Chiesa, venisse contrapposta alla sua viva
coscienza di fede, quale istanza giudicatrice)». 66 Ogni i<lentifìcazione
della tradizione con il magistero semplifica troppo problemi storici
e sistematici della più grande portata. Il magistero non vuole vedere
in vece nostra ciò che noi non vediamo; non tira fuori dal depositum
fidei ciò che noi non possiamo tirar fuori in alcun modo insieme ad
esso; piuttosto noi vediamo con esso e sviluppiamo con esso; il ma-
gistero si richiama sempre alla teologia, alla Chiesa dei credenti e al
loro senso di fede, come la teologia a sua volta si richiama al magi-
stero; in nessuna parte l'una sostituisce l'altro, in nessuna parte si
accresce il significato dell'uno diminuendo il significato dell'altro.

e. Concetto e parola

Tra gli clementi costitutivi dcl dogma vi è anche quello di venir


espresso in parole e concetti umani. Questa parola, che già in sé ne-
cessariamente si riferisce e s'apre alla realtà misteriosa di Dio, viene
detta dal magistero della Chiesa, quindi possiede sempre, e proprio
per questa sua origine, una validità maggiore della sua interiore intel-
ligibilità di parola singola, presa solo in se stessa ed anche se è minore
di quell'autorità e di quella validità che tutto comprende perché è
aperta sull'Infinito. In quanto tale, essa rimanda alia comprensione
complessiva della Chiesa, ed anche in ciò essa ha una dignità ed una
validità che superano la luce interiore della singola parola, in sé e nel-
la comprensione puramente umana del singolo uditore. Ma questa pa-
rola è inconfondibilmente vera parola umana, e solo fintanto che essa
resta raie, con tutti gli elementi e le conseguenze d'una spiritualità
genuinamente umana, essa è in grado di renderci presente, compren-
sibile e umana, la parola di Dio. Lo sviluppo del dogma Jvviene per-
cib essenzialmente anche nella dimensione del concetto e della parola

•S Sul ruolo della tradizione, ""di specialmente lr teurie di M. BLONOEL (rnpra. pp.
)2) s.) J.H. NF.Wl\IAN (pp. 321 ss ), e la swoln di Tiibinga (pp. 319 ss.): soprat1ut10
11. HA~1!1-1ANS, o 1~. rii., pp. 260 ss. (con bibliografia).
11. RA!l~lR, ;\'uch ein neues Dogma.' in Orien/1criwg, 13 (1949) 15.
rATTORI DELLO SVILl!PPO Df.I. DOGMA
349

umana. A cièi s'aggiungooo i motivi, che già sopra facemmo valere,


per l'irrinunciabile struttura 'razionale' dello sviluppo dei dogmi. Una
simile connessione razionalmente dimostrabile non è l'unico fattore,
non deve quindi spiegare e giustificare tutto quanto nello sviluppo del
dogma, né si deve esigere troppa sicurezza da un simile procedimen-
to: di questa razionalità è proprio piuttosto far sì che l'uomo porti
nd imparziale e intensivo compimento questa conoscenza originaria,
irriflessa, globale ma sicura, nel rendergli pii1 facile questa conoscen-
za, e quindi, nell'infondergli coraggio. Inibizioni e scrupolosità ra-
zionalistiche tolgono l'ardire di raggiungere una genuina sicurezza ed
un'intelligenza razionale, proprio come dcl resto fa l'entusiasmo
irrazionale. In questa luce andrebbe anche ripensato ìl significato
dell'argomento di convenienza.01

f. Analogia /idei

Se ci si chiede come lo Spirito, la grazia e la luce di fede svolgano


il loro ruolo di elementi essenziali del dogma e dcl suo sviluppo, si
deve dire che la luce di fede, portata dallo Spirito, anzi, in fondo,
identica ad esso, è l'orizzonte entro il quale vengono comprese le
singole realtà della rivelazione. Qui scaturisce un doppio movi-
mento. L'infinita ampiezza ed intensità di questo apriori sopranna-
turale deve necessariamente condurre a uno sviluppo sempre più ar-
ticolato delle realtà sperimentabili sotto il suo orizzonte; nell'incon·
.ro e nella reciproca solidarietà di apriori formale e di realtà di fede
sperimentabile, questa realtà viene necessariamente sempre più li-
berata dalle sue potenzialità. La realtà singola infatti viene concepita
quale elemento dcl movimento dello spirito, che va verso l'autoco-
municazione di Dio, la quale nell'atto di fede viene intesa non solo
come proposizione su una realtà futura, ma come in esso realmente
verificantesi. La singola proposizione di fede può però fungere da
siffatto momento, in questo movimento verso l'autocomunicazione
di Dio, assolutamente unica e totalmente intensiva, soltanto se essa
è aperta a più di quanto il contenuto superficiale e minimalista della
proposizione lasci a prima vista supporre. Ma in questa apertura al

Su ciò, K. RmNfR, Zur Frage der Dogmenenlwick/ung, tr. in BCR, 62, p. 364.
350 STOKICITÀ DELLA MEDIAZIONE

tutto essa può dire qualche cosa di nuovo, solo se si sviluppa in


una maggiore pienezza degli enunciati, mediante la quale essa viene
sempre più riferita al tutto della riv:elazione. L'analogia fidei non è
dunque solo il risultato d',un acume formale, logico, essa piuttosto
viene legittimata dalla connessione esistente tra la comprensione
d'una singola proposizione di fede e quella del vasto apri ori della
grazia della fede. Questo apriori divino della fede è l'impulso che
fa svilupeare il depositum fidei, traendolo dalle sue virtualità. La di-
namica dello sviluppo del dogma va dunque verso una pienezza sem-
pre più esplicita della realtà singola, essa è una dinamica estensiva.
Però, in senso inverso, si verifica anche una progressiva concentra-
zione della molteplicità di ciò che è comunicato nella rivelazione,
verso quest'unità aprioristica. Lo sviluppo dei dogmi deve necessa-
riamente possedere una dinamica verso l'intensivo, verso il semplice;
non può andare solo in direzione d'un null}ero sempre maggiore di
proposizioni singole. Ricondurre la molteplicità degli enunciati di
fede alle loro ultime strutture: ecco il compito precipuo della teo-
logia (in contrapposizione ad esempio alla devozione popolare che
spinge verso una grande molteplicità): il mistero di Dio, che tutro
abbraccia e tutto sovrasta, potrebbe essere per noi oggi più possente
nella comprensione di fede di quelle ultime strutture, che là dove
lo Spirito si dissolve solo nella molteplicità delle singole proposi-
zioni e della loro sempre ulteriore distinzione. Tutte le tendenze delta
demitizzazione e dell'ermeneutica nella teologia attuale vivono in de·
finitiva questo processo, spesso non più ben consapevole di sé, verso
ciò che è semplice della fede, e per metterlo in rilievo si richiede da
parte- del teologo non minore acume e travaglio intellettuale di quan-
to non richieda l'approfondimento in ulteriori particolari.68

g. Il senso della fede

Già J.H. NEWMAN ha attribuito grande importanza alla testimonian-


za dei laici in questioni di fede. La coscienza di fede della Chiesa
universale, nel senso di CQE_sensus fideli_tft!J..i__ deve venir distinta da

61! Vedi K. RAH:-lER, Zur Frage der Dogmenentwicklung, tr. in BCR, 62, pp. 369 ss.
FATTORI DELLO SVILUPPO DEL DOGMA

ciò che noi qui chiamiamo 'senso della fede'. 69 Il senso della fede
non è neppure (come l'istinto di fede) appello e invito alla fede; esso
è invece quel sc:g_so che permette un tipo di 'giudizio-scoperta' spon-
taneo riguardo alla realtà di fede, attraverso esperienza concreta. La
luce di fede crea una congenialità misteriosa con la stessa realtà
della fede, e sono quindi possibili per i credenti conoscenze che ven-
gono da una certa affinità di natura, che non sono acquisite secondo
le leggi della sillogistica, né secondo una specie di 'intuizione'. In-
vece anche qui è piuttosto all'opera una conoscenza razionale di tipo
irriflesso, molto simile alla luce di fede ed all'azione dello Spirito.
Un maggiore approfondimento sul 'senso della fede' .si trova anzi-
tutto in M.D. KosTER 70 e CH. DILLENSCHNEIDER. 71 L'opera di que-
st'ultimo elabora particolarmente bene il fattore positivo 'senso della
fede' per lo sviluppo del dogma, senza però tralasciare l'accenno alle
sue debolezze (debolezze della fede di gran parte del popolo, dubbie
unilateralità, forme erronee di devozione, incapacità per questioni
sottili, ecc.). Il fondamento concettuale e filosofico di questo 'senso
della fede' inoltre oscilla ancora considerevolmente: per chiarirlo si
ricorre alla dottrina sull'habitus, il cui nuovo 'senso' facilita il giu-
dizio; ai giudizi di simpatia, alla capacità di percezione del concreto
da parte dello spirito, oppure solo alla capacità conoscitiva spontanea.
Tutti insistono sulla connessione con i doni dello Spirito santo e con
la virtù della fede e rispettivamente della carità.72

h. La concezione del rivelato in quanto dogma

Lo sviluppo del dogma consiste precisamente in questo: che una


verità di fede raggiunge lo stadio ritl.esso. Questo stadio riflesso non
era però sempre presente. La Chiesa non ha avuto sempre la consa-
pevolezza riflessa di possedere nella sua coscienza di fede un qualcosa

lll Vedi M. SECKLER, Glaubenssìnn, in LTK2, 4 (1960) 945-948; contro, ]. BEUMER:


TTZ, 61(r952)129·142, d. H. HAMMANS, op. cit., pp. 242.262 (con ampia bibliogra-
fia); M. SECKLER, Instinkt 1md Glaubenswille, Mainz 1961, pp. 166-170.
70 Volle Gottes im Wachstum des Glaubens, Heidelberg 1950; d. il resoconto i;ri·
!ico in H. HAMMANS, op. cii., pp. 245-250 (con bibliografia).
71 Le sens de la /oì et le progrès dogmatique du mystère marial, Rome 1954; d
resoconto e critica in H. HAMMANS, op. cit., pp. 253 ss.
12 Per maggiori particolari, vedi H. HAMMANS, op. cit., pp. 259 s. e passim.
352 STORICITÀ DELLA MEDIAZIONE

come verità di Dio, pur possedendola di fatto da sempre. È gui il


punto problematico dello sviluppo del dogma in genere, poiché si
pone allora la domanda: come si compie questo passaggio allo stadio
riflesso? In qual modo la Chiesa s'accorge improvvisamente (si po-
trebbe clire) che la proposizione che essa portava forse già da seco-
li nella sua coscienza, viene da t>ssa tenuta per certa con l'assolutezza
della sua fede? Il richiamo all'autorità del papa e del concilio, na-
turalmente, sposta soltanto la questione. 71 Se ci si volesse acconten-
tare di fare appello al ragionamento di tipo deduttivo per evidenziare
la concordanza di proposizioni vecchie e nuove, e vedervi una rispo-
sta, si dovrebbe riconoscere che la sicurezza del risultato di questa
argomentazione razionale dipende dalla sicurezza dell'argomentazione
stessa, e quindi non può mai condurre ad una vera e propria sicurezza
di fede. Con quale diritto, e come avviene il passaggio dallo stadio in
cui una. proposizione non viene ancora tenuta come sicuramente rive-
lata da Dio, allo stadio in cui la proposizione viene accettata come
sicuramente rivelata da Dio? Il teologo conosce uno status quaestio-
nis simile, quello del passaggio dal gradino qualitativamente più basso
dei praeambula fidei, al gradino qualitativamente più alto d'una vera
e propria 'conoscenza' di fede (conoscenza ·di ciò che è degno di fe-
de). Ora, il salto dalle premesse necessarie della fede alla fede stessa
è ptessoché identico a quello che si ha nel nostro problema (qui certo
si tratta della conoscenza di fede della Chiesa universale). Possiamo
cercare di avvicinarci ad una risposta considerando la libera decisio-
ne e la conoscenza che ad essa è inerente. La decisione è preceduta
da intelligenza e verifica, però, in quanto decisione presa e compiu-
ta, ha altresl un'evidenza sua propria. La decisione non è mai sol-
tanto esecuzione dell'intelligenza, è anche sempre irradiazione di
luce, e questa sola la giustifica, cosl come essa vuole e deve essere
giustificata davanti a se stessa. Vi è un'interiore chiarezza di senso,
che non precede la libera decisione ma può aversi solo in essa.
Lo status quaestionis viene ancora arricchito dalla seguente rifles-
sione: di fatto la Chiesa nulla ha definito che già da prima non te-
nesse come oggetto di fede. Dunque, almeno in molti casi (vedi il
dogma dell'assunzione), la coscienza di fede della Chiesa circa una

7l K. RAHNF.R, Zur Frtigen der Dogmenmtwicklurrg, tr. in BCR, 62, pp. 374 ss.
FATTORI.DELLO SVILUPPO DEL DOGMA

verità rivelata in quanto tale, precede l'atto del magistero straordi-


nario, dunque - in connessione con il magistero ordinario - s'intro-
duce nel processo d'una crescita, d'una maturazione e d'un venire a
sé quasi impercettibile di questa coscienza di fede qualificata. La
Chiesa come un tutto riflette su un pensiero che in essa cresce dal-
l'insieme del suo contenuto di fede; quel pensiero matura, cresce
sempre più insieme al tutto, ed essa lo vive, lo perfeziona, e cosl
la Chiesa un giorno si troverà semplicemente a credere in questo modo
qualificato. Inoltre una simile tranquilla transizione si fa accettare nel
modo più facile e migliore dalla Chiesa universale, ch'è il soggetto
d'un simile passaggio. Finalmente, la fede della Chiesa universale,
già data prima della definizione, non significa assolutamente che
ciascuno, come singolo, creda la proposizione in questione già espli-
citamente come rivelata da Dio, ma significa solo che questa fede si
trova già nella Chiesa, che essa è da considerare come la fede di
questo soggetto morale universale. Stabilire però questo e insieme
comunicare questa coscienza di fede della Chiesa universale a coloro
che nella Chiesa ancora non credono: ecco la funzione della deci-
sione dottrinale del papa e dei concili. Infine, nel nostro caso non
si tratta det passaggio dal non-credere al credere, bensl del venire
alla sicurezza della rivelabilità propria ad una determinata proposi-
zione della rivelazione creduta. Anche questo può attenuare !!}quan-
to l'aporia, anche se non proprio risolverla.74
11 carattere metodologico di queste riflessioni permette un ultimo
accenno alle possibilità di ulteriori riflessioni. Istituendo il parallelo,
almeno in parte possibile, tra la conoscenza che precede l'atto di fede
del singolo, e la riflessione che precede una decisione delladJesa,
si risale coscientemente a delle idee dell'analysis ftdei. Con il loro
aiuto la questione dello sviluppo del dogma potrebbe chiarirsi an-
cora, e la stessa analisi della fede se ne avvantaggerebbe, poiché, a
vantaggio di entrambi, cesserebbe d'essere limitata all'atto di fede
deWindividuo (e al singolo atto in specie ). 75 In maniera analoga an-

74 Sul tema vedi K. RAHNER, Zur Frage der Dogmene11twicltlu11g, tr. in BCR, 62, pp.
382 ss.; H. HAMMANS, op. cit., pp. 273-276.
75 Con alcuni saggi, tentarono il superamento della mentalità legata all'analysis
/idei classica RoussELOT, NEwMAN, RoNDET, DHANIS, ScHILLEBEECKX e soprattutto
K. RAHNER (vedi bibliografia).

23 Mysterium salutis / 2.
STORICITÀ DELLA MEDIAZIONE
U4

drebbe anche affrontata la questione sulla certezza che i 'nuovi' dog-


mi isono contenuti nella rivelazione.'le
Con questa caratterizzazione dobbiamo chiudere il nostro saggio
sullo sviluppo del dogma. Il lavoro su questo difficile problema non
è certo finito. Ci sarebbe, tra l'altro, da riflettere sul modo in cui al-
l'interno dello sviluppo dei dogmi nuovi possibili avvenimenti e mo-
vimenti della storia profana, che provengono dal contesto della
storia universale di un'epoca, influiscono sulla vita della Chiesa (con-
fronta per esempio la formazione del primato romano in connessione
con la storia romana profana, e cosl via).
La storia dei dogmi quale storia dello sviluppo della rivelazione,
ha infine la sua grande importanza per la teologia e per l'autocom-
prensione della scienza teologica. Perciò ~i deve parlare di essa in
un breve paragrafo conclusivo.

B. IL SIGNIFICATO DELLA STORIA DEI DOGMI

I. L'indagine sulla storia dei dogmi e la storia della fede

Valutare e giudicare la storia dei dogmi è precisamente una questio-


ne teologico-dogmatica e non semplici;:cpente no problema di critica
Ji sci~lologiche. Poniamo che vi sia reale storia dei dogmi solo
a partire dall'Illuminismo; 77 appare allora chiaramente che la storia
della storia dei dogmi composta finora è ben lontana, come invece
pretenderebbe, dal realizzare quell'assenza di presupposti, tipica del
lavoro scientifico neutrale - ammesso che tale assenza di presupposti
esista, cosa che ·non possiamo qui indagare. La concezione del dogma
o dei dogmi determina di volta in v-olta anche la concezione della
storia dei dogmi. 7s Certo, il concetto di dogma fissato all'inizio spesso

76 Vedi indicazioni su ciò in H. HAMMANS, op. cii., pp. 233-24r (con bibliografia).
71 Sulla storia della storia dei dogmi vedi, in breve, J. AUER: LTK 2, 3 (1959)467·
470 (con bibliografia); K. ALAND: RGG 3, 2 ( 1958) 230·234; sulla storia protestante
riferisce mollo esaurientemente, con ricche citazioni, F.W. KAUTZENBACH, Evangelium
und Dogma. Die Bewiiltigung des tbeo/ogischen Problems der Dogmengeschichte im
Protestantismus, Stuttgart 1959; E. WoLF, Kerygma und Dogma, in Antwort. Fests-
chri/t fur K. Barth, Zollikon 1966, pp. 780-807 (con molte indic112ioni bibliografiche).
78 Su ciò vedi B. LoHsE, W as verstehen wir unter Dogmengeschichte innerhalb der
evangelischen Theologie, in Kerygma und Dogma, 8 ( 1962) 27-45."
!NOAG!NE SULLA STORIA DEI DOGMI E DELLA FEDE
355

viene lasciato cadere o almeno viene esteso quando si descrive la


storia dei dogmi. Così, ad esempio, A. VON HARNACK usa due diversi
conceµ.i di dogma: alle volte con guesta parola sono intesi i fatti
storie~. che fondano la religione cristiana, e, eventualmente, anche le
confessioni di fede della Chiesa; altre volte il termine designa piut-
tosto una species determinata di questi dogmi, quelli cioè che si son
formati nel mondo aptjco e che - pur modificati - ancora sono in
vigore. 79 Un dogma, nel senso vero e proprio della parola, si è avuto
solo al tempo della Chiesa antica, pensa A. VON HARNACK. E la Ri-
forma per prima ha condotto veramente fuori dall'epoca dei dogmi.
Quando R. SEEBERG gli obiettò che la Riforma non aveva tolto il
dogma come tale, ma solo la sua infallibilità, A. VON HARNACK rispo-
se non senza ragmne che appunto mediante ciò, era stato reciso il
nerv_Q vitale del dogma. Cosi dunque, ad esempio per R. SEEBERG,
l'infallibilità non appartiene necessariamente alla natura del dogma.
In seno al protestantesimo, i dogmi devono sempre, innanzi tutto,
dimostrarsi come veri. Essi sono comunque un principio attivo della
storia. Una tale caratteristica in definitiva - a giudizio di costoro -
riguarda nei dogmi soltanto un interesse d'antiquariato, essi sono
un qualcosa di molto remoto, che in fondo non ha più niente da
dire al teologo d'oggi. Per A. VON HARNACK e R. SEEBERG, la storia
dei dog.mi comincia dal concilio Niceno: una proposizione di fede,
formulata concettualmente e coniata con gli strumenti della scienza,
viene innalzata a dottrina centrale della Chiesa. Per R. SEEBERG
tale storia fuisce con la Formula di concordia del I 580, o con il Si-
nodo di Dordrecht dell'anno 1619. Là dove vien data preferenza
ad una _diversa concezione dt:l dogma, rilevantemente diversi si
fanno anche significato e concezione della storia dei dogmi. Avviene
così che la storlad~Td~mi diventa la storia delle opinioni teologi-
che, la storia della coscienza cristiana che giunge alla propria autoco-
noscenza (W. KoHLER), o niente altro che la s.toria della teologia cri-
stiana (G. KROGER), la storia delle visioni religiose dei teologi cristia-
ni di tutte le tendenze e di tutti i tempi (0. R1TSCHL), oppure, ad
esempio per W. ELER T, la «storia dello sviluppo del concetto cristia-
no di dottrina». W. KoHLER - ad imitazione di A. VON HARNACK e

79 Su ciò, B. l.oHSE, op. cii., pp. 28 ss., con la nota 2.


STORICITÀ DELLA MEDIAZIONE

F. ScHLEIERMACHER - adopera già il termine nel senso specifico della


fenomenologia delle religioni,ao riducendo quindi la fede cristiana ad
una fra le tante religiosità. Ne consegue che la storia dei dogmi, come
fa F. CHR. BAUER,81 non viene più scritta da un punto di vista trascen-
dente, proprio della filosofia ·hegheliana della storia; non è più la sto-
ria d'un pensiero dello spirito, che va necessariamente sviluppandosi
sempre più, ma è la storia dell'autocoscienza cristiana. In F. CHR.
BAuErt, la storia dei dogmi diviene di volta in volta padrona e giudi-
ce d'ogni dogmatica; d'ora in avanti, storia dei dogmi significa conse-
guentemente critica al dogma.12
La .storia dei dogmi produce la distruzione radicale, critica, di
dò che nel corso dei secoli si è interposto tra l'uomo in cerca di
salvezza ed il Cristo; è una norma ermeneutica, che permette di rico-
noscere ciò che vi è di estraneo nella realtà cristiana e di estromet-
terlo. La storia dei dogmi cosi viene posta di .soppiatto persino al
di sopra del Vangelo, pur avendo, in questa sua funzione critica,
solo il compito di custodire il Vangelo contro ogni ·tendenza che
attenta alla sua purezza. Nel frattempo, a questo riguardo, i giudizi
sono divenuti più cauti: la storia dei dogmi viene ragionevolmente
subordinata al Vangelo, essa non appare più né come un processo
d'apostasia, né come un crescente progresso, ma piuttosto come una
storia delle decisioni, che la Chiesa di volta in volta ha preso in rela-
zione alla parola di Dio.113 È indicativo inoltre che i nuovi tentativi
di considerare più positivamente la storia dei dogmi oscillano molto,
già nelle determinazioni fondamentali, tra la concezione tradizionale
di A. VON HARNACK e le più recenti tendenze teologiche. 84 Cosl, ad
esempio, oltre W.SCHNEEMELCHER e B. LoHSE, soprattutto E.WOLF

1!0 Su ciò vedi specialmente E. WoLF, Kerygmq und Dogma?, p. 795.


Bl Sulle importanti teorie del Bt.UER vedi specialmente E. WoLF, op. àt., pp. 786 ss.;
attualmente però soprattutto W. GEIGER, Spekulation und Kritik. Aus der Geschichts-
theologie F. Chr. Bauers, Mìinchen 1964 (con bibliografia).
8? Su ciò vedi l'opera citata Ev12ngelium und Dogma di F.W. KANTZENBACH; E.
WoLF, op. cii., p. 78r, nota 2, ecc.; G. EBELING, Wort Gottes und Tradition, Qnin-
gcn r964, pp. 9-27.
113 Vedi W. SoiNEEMELCHER, Das Problem der Dogmengeschichte. Zum 100. Ge-
burtsstag Adolf von Harnacks, in ZTK, 48 (1951) 61-89.
84 Vedi la critica di W. SCHNEEMELCHER, presso K. ALAND, in RGGJ, 2, 233; Ke·
r.1•gma und Dogma, 8 (r962) 38 s.
INDAGINE SULLA S'l'ORU. DEI DOGMI E DELLA FEDI! 357

cerca una comprensione nuova della storia dei dogmi.85 Essa non è il
continuo processo di sviluppo della 'dottrina pura', non è neppure
una storia dello spirito del cristianesimo, ma è «la storia dello spi-
rito in contatto col Vangelo, nel quadro storico dell'annuncio della
Chiesa»: 86 la storia dello spirito viene essa stessa trasformata dal
Vangelo ('in contatto col Vangelo'), senza potersi mai identificare
con esso. «La storia dei dogmi s'occupa dunque dell'attuazione e
della convenienza del discorso cristiano su Dio, e della sua confor.
rnità al discorso fatto in passato, lungo la storia della Chiesa».87 La
problematica della storia dei dogmi protestante 81 si mostra soprat-
tutto in relazione al problema sulla continuità della storia,19 e certo
qui si riconnette nel modo più stretto alla funzione che il concetto
di dogma può avere all'interno della teologia protestante di oggi. La
valutazione di certe epoche della storia dei dogmi sembra però mu-
tare, anzitutto in alcuni lavori concreti di ricerca, nei quali ad esem-
pio ci si discosta considerevolmente dalle visuali di A. VON HARNACK
o di M. WERNERS. 90 Non ci si può aspettare grandi frutti da posi-
zioni troppo rigide e chiuse nella loro forma polemica,91 per contro
le più recenti indicazioni dei cosi detti 'teologi progressisti' offrono
spunti maggiori per un dialogo ecumenico. 92

as E. WoLF, Kerygma und Dogma?, pp. 805-807; inoltre B. LoHSE, op. cii., pp. 39-
41; K. ALAND, in. RGG3, 2, 233.
86 E. WoLF, op. cit., p. 805.
87 Ibid., p. 806.
111 Vedi anche B. LoHSE, Epochen der Dogmengeschichte, Stuttgart 1963, special-
mente pp. 9-29.
119 Vedi B.LoHSE in Kerygma und Dogma, 8(1962)42-44.
90 Vedi ad esempio A. G1LG, Weg und Bedeutung der altchristlichen Christolo-
g1e, Coli. «Theol. Bucherei,., 4, Miinchen 1955; W. ScHNEEMELCHER, Chalkedon 451-
1951, in EvTh, II (19,r-,2), 242 ss.; W. PANNENBERG, Die Aufnahme des philo.ro-
phischen Gotlesbegri/jes als dogmatiscbes Problem Jer fruhchristlichen Theologie,
in ZKG, 70(1959) I·4'i A. ScmNDLER, Wort und Analogie in Augustins Triniliils·
lehre, Coli. «Hermeneutische Untersuchungen zur Theologie», 4, Tiibingen 1965;
U. DuCHaow, Sprachverstiindnis und biblisches Horen bei Auguslin, Coll. «Herme-
neutische Untersuchungen zur Theologie», 5, Tiibingen 1965. Vedi anche A. G1LG,
Van der dogmengeschicbtlichen Forschung in der erslen Hiilfle des 20. Jahrhunderts,
in TZ, 10 (1954) II3·133; K.G. STECK, Umgang mii der Dogmengeschichle der Al-
ten Kirche, in EvTh, 1(1956)492-504.
91 Vedi ad esempio W. ELERT, Die Kirche und ihre Dogmcngeschichte, Miìnchen
1950; ora: Der Ausgang der altleirchlichen Christologie, Miinchen 1957, pp. 313 ss.
92 Un esempio più recente è dato da H. On, Der okumenische Dialog zwiscben
Dogmatismus und Freiheit zur Geschichte, in Radius 1965 (Mlirz-Sonderdruck).
STORiçlTÀ DELLA MEDIAZIONE

Da parte cattolica, tenuto conto soprattutto che queste lunghe e


piuttosto distruttive tendenze lo esigevano, dapprima ci si è rivolti
lentamente alla storia dei dogmi. Anche secondo l'interpretazione cat-
"
tolica, nel quadro della storia dei dogmi il concetto di dogma viene
usato in senso lato. «In questa esposizione dello svilupp<l del dogma ...
la parola dogma non viene intesa in senso stretto, cioè nel senso di
dottrina della rivelazione formulata dalla Chiesa, ma in un senso più
ampio ... Secondo questo senso più ampio essa designa la predicazione
universale cristiana o cattolica della dottrina, sia quella, ben determi-
nata in formulazioni delle decisioni conciliari e delle decisioni dottri-
nali papali, sia quella dell'annuncio di fede di tutti i giorni».93 La sto-
ria dei dogmi poi viene intesa in senso autentico (vedi sopra A. n. 1
sullo sviluppo del dogma) quale 'storia della fede'. «Storia dei dogmi è
dunque storia del mutamento - condizionato dal mutamento dei
bisogni e degli interessi, delle premesse e dei metodi, dal mutamento
dello spirito del tempo ... - della 'comprensione di fede' d'una verità
rivelata». 94 Dovremmo qui esporre di nuovo tutto ciò che sopra ab-
biamo detto sui diversi fattori dello sviluppo del dogma, nel senso
di giungere ad un'ermeneutica cattolica di tale sviluppo. Dovremmo
inoltre parlare espressamente dello speciale pericolo insito in una in-
dagine della storia dei dogmi condotta esclusivamente alla luce di
progressi dottrinali ufficiali della Chiesa, sopprimendo, come sempli-
cemente i~significanti, teologumena tramontati e rimasti inoperosi,
sospetti e in sé forse non sufficientemente chiari. 95 Dovremmo anche
accennare al significato della storia dei dogmi per lo studio della
dogmatica in genere. Dovremmo infine chiederci, se la storia dei dog-
mi, da un punto di vista teoretico-scientifico, sia una 'disciplina au-
siliare', una 'disciplina ausiliare autonoma', o cose del genere.
Al posto di ciò, per concludere, accenniamo ad un elemento im-
portante della ricerca della storia dei dogmi, che è bene venga trat-
tato anche in un'esposizione cattolica.

91 Cl. HanJbuch der Dog_mengeschichte, a rura di M. SçHAMAUS - J.R. GE!SELMANN


. H. RAHNER, 1v/3, Freiburg 1951, p. rx.
94 J. AuER, Zum Begriff der Dogmengeschichte, in MTZ, 15 (1964) 146-149, la cita·
zione è p. 147.
91 A questo pericolo non è del tutto sfuggita la vasta, pregevole opera di A.M.
LANDCRAF, Dogmengeschichte der Friihscholaslik, Regensburg 19p-:;6, 8 volumi.
HUR! ~ DEI DOGMI E COMPRENSIONE DELL '~SS!iRI::
359

2. Storia dei dogmi


in base alla storia della comprensione dell'essere

Dobbiamo qui presupporre tutto ciò che finora è stato detto sulla
rivelazione, sul rapporto tra rivelazione e Chiesa, sulla parola di
Dio e sullo sviluppo del dogma. La storia della fede si svolge lungo
i secoli nella Chiesa credente, mentre viene intesa la testimonianza
molteplice, e tuttavia -una, della rivei~ro-ne i~ GesùCristo. La sto-
ria dei do~ deve dunque portare a comprend~-~:~_}l dato rivelato
nel proprio momento storico e nel proprio linguaggio. Poiché la com-
prensione della fede avviene mediante il pensiero, ed ogni pensiero
si attua nel campo della comprensione dell'essere, la storia dei dog-
mi deve considerare anche le ,R_roprietà d_e_lla comprensione umana,
implicite in questa comprensione dell'essere. Qui dobbiamo solo
esporre l'elemento della storicità, «La comprensione umana dell'es-
sere, sempre e tutta, è caratterizzata dalla storicità, ess;-;ftrova in
continu~-~spansione,chetrasforma e plasma sempre in modo parti-
colare la comprensione dell'essere nella sua totalità». 96 Di epoca in
epoca, nella storia dei dogmi si verifica uno spostamento della com-
prensione di fede,-dovuto alla storicità della comprensione dell'es-
sere. Di volta in volta entra nell'unico orizzonte un modo fondamen-
talmente diy_erso di comprendere, di porsi i problemleClipensare. A
questo punto il concetto di 'sviluppo' si rivela inadeguato. Pertanto è
forse _più~_EEropriato parlare di 'procedimenti di traduzione' ,fi ;at-
traverso ai quali, di volta in volta, tutto il patrimonio di fede traman-
dato viene trasferito sul campo d'una nuova comprension~ll'essere,
sorta nella storia, come su un nuovo continente, dove subito s'orga-
nizza secondo le leggi del nuovo modo di comprendere, s'articola, per
poi cominciare sin dall'inizio a sviluppare una nuova immagine della
·fede. All'interno di questo nuovo campo di comprensione, l'immagi-
ne della fede viene ulteriormente plasmata, essa lascia la sua posizio-
ne precedente che, ormai, appartiene alla storia; progredisce attraver-

'"' Vedi B. WELTE, Credo ut intdligam als theologisches Programm be11le, in Winen-
schaft 11nd Veranwortung, Col!. «Univcrsi1ii1stagc», 1962. Bcrlin 1963, pp. 16-30,
citazione p. 19.
97 Ibid.,p.25.
STOllICITÀ DELLA MEDIAZIONE

so un processo soprattutto esplicativo. E però decisivo che la nuova


impostazione, e con ciò l'intera struttura della comprensione della fe-
de di quell'epoca, non siano più ormai comprese come soltanto
esplicative».98 Gli stili, il Jinguaggio tipico propri di ogni epoca devo-
no risultare dall'indagine sulla storia dei dogmi. Allora il compito di
una dogmatica, che si senta veramente vincolata alla storia dal rispet-
tivo presente, è di prendere in esame le teologie storicamente diverse
in quel .che concerne il loro nucleo comune, di considerarle come
comprensioni dell'unica origine vincolante, e di là accettare nuove
indicazioni per una visione approfondita di una medesima verità.
Questo accenno deve bastare.99 Il dato originale, unico e visto
sempre in maniera nuova, resta senz'altro il solo compito d'ogni svi-
luJ?l?O della teologia e dei dogmi. Questo sviluppo non si compie sol-
tanto nel senso di sempre maggiori sottigliezze e particolarità, ma è
anche un processo verso ciò che è semplice. Tale _semplicità della
fede è poi un imperativo del momento. 100 La differenziazione dei pre-
supposti filosofici e.~C?!!_C:ettu# relativi ad enunciati teologici aymen-
ta~pre più. mentre la comprensione generale di tali presupposti è
sempre più scarsa; con una terminologia cosl determinata, il.migolo
credente è sempre più difficilmente raggiungibile; al tempo stesso la
problematica si complica sempre più, tanto che la Chiesa riesce sem-
pre più a stento a renderla con una sentenza ufficiale semplice e del
tutto comprensibile. Per questo le più recenti dichiarazioni-;;; co-
s\....'.e~·iche' e 'prudenti'. Potrebbe dunque essere che il 'progres-
so' della storia dei dogmi nel futuro vada piuttosto verso una con-
cezio~~~'.espos@_one più vitale e più originaria dei dogm! ul-
timi. fondamentali. 101 Le tesi, .spesso discusse, secondo le quali il

98 B. WELTE, Credo ut intelligam, ecc., p. 25.


99 Su ciò rimandiamo ai lavori di B. WBLTE, che offrono molte indicazioni ed esem-
pi concreti in quei;ta direzione: Die Philosophie in der Theologie, in Die Albert-
Ludwigs-Universital Freiburg 1457-1957. Die FeslfOrlriige bei der ]ubiliiums/eier,
Freiburg 1957, pp. 27·41; Sul metodo della teologia, in AA. Vv., L'.,omo davanti a
Dio, Roma 1966, pp ..... ; Ein Vorschlag xur Methode der Theologie beute, tr. in
BCR, 51, pp. 187-2n; Die Wesenstruktur der Theologie a!s Wissenschaft, Coli. «Frei-
burger Universitatsreden», NF, 19, Freiburg 1955. Vedi anche le Gesammelten Auf-
salie di B. WELTE, sotto il titolo Auf der Spur des Ewigen, Freiburg i965'
100 Su ciò, esaurientemente K. RAHNER, Il sacerdote e la fede oggi, Coli. «Medita-
zioni teologiche», Brescia 1967, pp. 35-46.
101 Su ciò vedi K. RAHNER, Kirche im Wandel: StdZ, 175 (1965) 437·454, special-
mente p. 450; il medesimo articolo è pubblicato in Schrifte11, v1, Einsiedeln 1965.
BlBLIOGKAFIA

cattolicesimo con le definizioni del 1854, del 1870 e del 1950 si


sarebbe dato una forma compiutamente sistematizzata, e si sàrebbe
cosl a~tato, trovere~ perciò una smentita. I documenti del con-
cilio Vaticano II e i concetti in esso usati meriterebbero un esame
particolare sotto il profilo d'una tale !emplificazione in senso stretto.
Ancora una volta la storia dei dogmi mostra qui una proprietà fon-
damentale: dove l'umana saccenteria fiuta la conclusione o anzi la
contraddizione, resta sempre campo e libertà d'azione per una storia
reale; laddove si crede di individua~ tendenze contrarie alla storia,
vive, fuori dalla ·nostra curiosità talvolta indiscreta, una vera storia
della fede.
KARL RAHNER - KARL LEHMANN

BIBLIOGRAFIA

I. SVILUPPO DEL DOGMA

]. ALFARO, El progreso dogmatico en Suarez, in Problemi di teologia con-


temporanea, Coll. «Analecta Gregoriana»,. 68, Roma 19'4, pp. 95-122.
Z. ALsZEGHY - M. FLIK, Lo sviluppo del dogma, Coli. «Giornale di teolo-
gia», rn, Brescia 1967 (con bibliografia recente).
A.S. AQUILINO, De progressu dogmatis secundum Melchioris Cani doctri-
nam, Neapoli 1963 (con bibliografia).
C. BAuc, V oraussetzungen /ur die Dogmatisierung einer Glaubenswah-
rheit, in Theologie in Geschichte und Gegenwart. Festschrift fur M.
Schmaus, Miinchen 1957, pp. 1-20.
}. BEUMER, Der theoretische Beitrag der Fruhscholastik zu dem Problent
des Dogmenfortschritts, in ZKT, 74 ( 1952) 205-226 (con bibliografia);
Glaubenssinn der Kirche, in ITZ, 61(19,p)129-142.
G. BIEMER, Oberlieferung tmd Offenbartmg. Die Lehre von der Tradition
nach fohn Henry Newman, Coli. «Die Dberlieferung in der neueren
Theologie», IV, Freiburg I 96 I.
M. BLONDEL, Histoire et dogme: Les premiers: écrits de M. Blondel, Paris
1956, pp. 149-228.
D. BoNIFAZI, Immutabilità e relati11ità del dogma secondo la teologia con-
temporanea, Roma i959.
Ctt. BoYER, Lo sviluppo del dogma, in Problemi e orientamenti di teologia
dommatica, Milano 1957, pp. 359-386 (a pp. 381-386 bibliografia a cu-
ra di C. Colombo).
F. CAVALLERA, Le document Ncwman-Pcrrone et le développement dn
dogme, in B11ll. Litt. Eccl., 47(r946) 132-r42; 208-225.
O. CHADWICK, From Bossuet to Newman. An Idea o/ Doctrinal Develop-
mcnt, Cambridge 1957.
L. CHARLIER, Essai sur le problème théologique, Thuillìes I 93 8 (vedi AAS,
34 [1942) 37).
M.-D. CHENU, La raison psychologique du développement du dogme d'à-
près Saint-Thomas, in RSPT, 13 ( 1924) 44-5 r; ora in: La parole de Dieu,
1, Paris 1963, pp. 51-58.
Y.-M. CONGAR, La foi et la théologic, «Le mystère chrétien», Paris 196::1.
(tr. it. Roma 1967); Traditio und Sacra Doctrina bei Thomas von Aquin,
in J. BETz - H. FRIES (a cura), Kirche und Oberlieferung, Freiburg 1961,
pp. 170-210; La tradizione e le tradizioni, I, Roma, 2 1964.
H.M. DE ActtAVAL, An unpublished Paper by Cardinal Newman on the
Developme11t o/ Doctrine, in Gr, 39 ( 1958) 585-596.
H. DE LUBAC, Le problème du développement du dogme, in RSR, 35
( 1948) 130-160.
E. DHANIS, Révélation implicite et explicite, in Lo sviluppo del dogma
secondo la dottrina cattolica, Roma 1953, pp. 207 ss., e in Gr, 34 ( 1953)
226 ss. (con bibliograna).
CH. DILLENSCHNEIDER, Le sens de la foi et le progrès dogmatique du my-
stère marial, Rome 1954 (con bibliografia).
G. EBELING, Die Geschichtlichkeit der Kirche und ihrer Verkiindigung als
theologisches Problem, Coll. «Sammlung gemeinverstiindlicher Vortriige
und Schriften aus dem Gebiet der Theologie und Religionsgeschichte»,
w7/208, Tilbingen 1954.
M. FERNANDEZ - J!MENEZ, Un paso mas bacia la solucion del problema de
la evoluci6n del dogma, in REI, 16 ( 1956) 289-339; Naturaleza del
conocimiento de los ap6stolos acerca del deposito de la revelaci6n, in
RET, 19 (1958) 3"33·
J. FINKENZELLER, O/}enbarung und Theologie nach der Lehre des Joha11-
nes Duns Scotus, in BGPMA, 38/5, Milnster 1961 (con bibliografia).
M. FucK, Il problema dello sviluppo del dogma nella teologia contempo-
ranea, in Lo sviluppo del dogma "secondo la dottrina cattolica, Roma
1953, pp. 5-23 (con bibliografia); Lo sviluppo del dogma, Coli. «Gior-
nale di teologia», 18, 1967 (in collaborazione con Z. ALSZEGHY).
J.B. FRANZELIN, Tractatus de divina traditio11e et Scriptura, Romae '1896.
H. FRIES, /.H. Newmans Beitrag 1.Um Verstiindnis der Tradition, in M.
ScHMAUS (a cura), Die miind/iche Uberlieferung. Beitriige wm Begriff
der Tradition, Milnchen 1957, pp. 63-122.
R. GARRIGOU - LAGRANGE, Le sens commtm, la philosophie de l'étre et lci-
formult:s dogmatiques, Paris 1909.
BIBLIOGllAFIA

J.R. GEISELMANN, Die lebendige Oberlieferung als Norm des christlichen


Glaubens, dargestellt im Geiste der Traditionslehre von ]oh. Ev. Kuhn,
Coli. «Die Dberlieferung in der neueren Theologie», m, Freiburg 1959;
Die katholische Tiibinger Schule, Freiburg 1964 (con bibliografia).
G. GLOEGE, Offenbarung und Oherlieferung, in TLZ, 79~1954) 213-236.
H. HAMMANS, Die neueren katholischen Erkliirungen der Dogmenentwic-
klung, Coll. «Beitr. z. neueren Geschichte d. katholischen Theologie»,
7, Essen r965 (con bibliografia); Lo sviluppo del dogma nella teologia
cattolica contemporanea, in Concilium, m (1967) 123-162.
J. HEMLEIN, Dogmenentwicklung und christliche Verkundigu11g, in TTZ,
63 (1953) 227-232.
].]. HENEGHAN,The Progresso/ Dogma according lo Anselm of Havelberg,
Roma 1943.
W. ]OEST, Endgiìltigkeit und Abgeschlossenheit des Dogmas, in TLZ, 79
(1954) 435-440.
CH. JouRNET, faquisse du développement du dogme marial, Paris 1954;
Il dogma cammino della fede, Roma 1964; Le message révélé, Paris
1964.
W. KASPER, Die Lehre von der Tradition in der Romischen Schule, Coli.
«Die 'Oberlieferung in der neueren Theologie», v, Freiburg 1962 (con
hibliografia); Il dogma sotto la parola di Dio, Coll. «Giornale di teolo-
gia», 19, Brescia 1968.
M.D. KosTER, Volk Gottes im Wachstum des Glaubens, Heidelberg 1950.
F. LAKNER, Zur Frage der De/inibilitiit einer geolfenbarten W ahrheit, in
ZKT, 85 (1963) 322-338 (con bibliografia).
A.M. LANDGRAF,. SpO'radische Bemerkungen im Schrifttum der Fruhscho-
lastik uber Dogmenentwicklung und papstliche Unfehlbarkeit, in Dog·
mengeschichte der FruhschO'lastik, x/r, Regensburg x952, pp. 30-36.
F. MARIN - SOLA, La evoluci6n homogénea del dogma cat6lico, Valencia
31952.
F.G. MARTINEZ, Estudios teol6gicos en torno al ohieto de la fe y la evo-
luci6n del dogma, I-II, Ona 1953-1958.
G.E. MEULEMAN, De ontwikkeling van het dogma en de Rooms katholie-
ke theologie, Kampen 1951 (con bibliografia); su quest'opera, vedi G.
THILS, in ETL, 28 (1952) 679-682.
A. M1cHEL, Explicite - Implicite, in DTC, 5 ( 1913) 1868-1871.
M. NtDONCELLE, ·Newman et le développement dogmatique, in RSR, 32
(1958) 197-213 (con bibliografia).
G. PALMIERI, Tractatus de Romano Pontifice, Roma 3 1902.
E. Pozo, Contribuci6n a la hist6ria de las soluciones al problema del pro-
greso dogmàtico, Granada 1957; La teoria del progreso dogmatico en
los te6logos de la escuela de Salamanca, Coli. «Bibliotheca Theologica
BIBLIOGRAFIA

Hispana», 1/I, Madrid 1959; La teoria del progreso dogmatico en Luis


de Molina S.J., in Archivo Teologico Gronadino, 24 (1961) 5-32.
A. RADEMACHER, Der Entwicklungsgedanke in Religion und Dogma, Koln
1914.
K. RAHNER, Zur Frage der Dogmenentwicklung, tr. in BCR, 62, pp. 261-325
{con bibliografia); Oberlegungen zur Dogmenentwicklung, tr. in BCR,
62, pp. 327-389; Dogmenentwicklung, in LTK2, 3 (1959) 457-463 (con
bibliografia); Theologie im Neuen Testament, tr. in BCR, 62, pp. 167-
204; Virginitas in partu. Ein Beitrag zum Problem der Dogmenentwi-
cklung und Vberlieferung, tr. in BCR, 63, pp. 361-41 r (con bibliogra-
fia); Sulla ispirazione della sacra Scrittura, Coli. «Quaest. disp.», Brescia
1967; Il sf/Cerdote e la fede, oggi, Coli. «Meditazioni teologiche», Bre-
scia 1967.
K. RAHNER - J. RATZINGER, Ofjenbarung und Oberlieferung, Coll. <(Quaest.
disp.», 25, Freiburg 1965.
H. RoNDET, Andern sich die Dogmen?, Coll. «Der Christ in der Welt»
v/12, Aschaffenburg 1965.
P. RoussELOT, Notes sur le développement du dogme, in RSR, 37 (1950)
113-120.
N. SANDERS, Openbaring, Traditie, Dogma-ontwikkeling, in Studia catho-
lica, I5 (1939) 1-12; lIX-129.
M.J. ScHEEBEN, Handbuch der katholischen Dogmatik, 1, Theologische
Erkenntnislehre, in Gesammelte Schriften, m, Freiburg 1948.
H. ScHILLEBEECKx, Exegese, Dogmatik und Dogmenentwicklung, tr. in H.
VoRGRIMLER (a cura), Esegesi e dogmatica, Roma 1967, pp. 159-195.
H. ScHILLEBEECKX - ]. REMMENS, Dogma-ontwikkeling, in Theologisch
Woordenboek, I, Roermond en Mbseik 1952, 1087-noS (con biblio-
grafia).
R.M. ScHULTES, Introductio in historiam dogmatum, Paris 1922; Fides
implicita, I, Regensburg 1920.
W. ScHWEITZER, Schrift und Dogma in der Okumene, Giitersloh 1953.
E. SEITERICH, Das kirchliche Verstandnis der Dogmenentwicklung, in
Oberrheinisches Pastaralblatt, 53 (1952) 225-231; 255-263 (con biblio-
grafia).
H.D. SrMONIN, La théologie thomiste de. la fai et le développement du
dogme, in RTh, 40 (1935) 537-556; 'Implicite' et 'explicite' dans ledé-
veloppement du dogme, in Ang, 14 (1937) 126-145.
A.A. STEPHENSON, The Developmeizt and Immutability o/ Christian Doc-
trine, in ThSt (B), 19 { 1958) 481-532.
F. TAYMANS, Le progrès du dogme, in NRT, 71 (1949) 687-700.
M. THURIAN, Développement du dogme et tradition selon le catholicisme
moyen et la théologie reformée, in Verbum Caro, l (1947) 145-167.
BIBLIOGRAFIA

D. VAN DEN EYNDE, Les normes de l'enseignement chrétien dans la littéra-


ture patristique des trois premiers siècles, Gembloux 1933·
J. VAN LEe, Les idées d'Anselme de Havelberg sur le développement des
dogmes, Tongerloo 1938.
L. VEIGA CouTINHO, Tradition et histoire dans la controverse moderniste
(1898-1910), Coli. «Analecta Gregoriana», 73, Roma 1954, special-
mente, pp. 143-152; 162 ss.; 187 ss.
J.H. WALGRAVE, Newman. Le développement du dogme, Tournai 1957.

li. STORIA DF.1 DOGMI

Tra/tali di storia dei dogmi

Si consultino i seguenti ben noti manuali e trattati:


A. VON HARNACK, Lehrbuch der Dogmengeschichte, 3 voli., 41909-1910,
con numerose ristampe; Grundriss der Dogmengeschichte, 61922.
W. KoHLER, Dogmengeschichte als Geschichte des christlichen Selbbe-
wusstseins, 31951.
B. LoHSE, Epochen der Dogmengeschichte, 1963.
F. LooFs, Leitfaden zum Studium der Dogmengeschichte, 4 1906; 5 1950 ss.,
a cura di K. ALAND.
O. RITSCHL, Dogmengeschichte des Protestantismus, 1, 1908.
R. SEEBERG, Lehrbuch der Dogmengeschichte, I, 31922; 11, 31923; m,
4 1930; rv/1, 41933; rv/2, 31920.

J. TIJ(ERONT, Histoire des dogmes, 1905, 11 1930.


J. TuRMEL, Histoire des dogmes, 6 voll., 1931-1936.
M. WERNER, Die Entstehung des christlichen Dogmas, 2 1954.
M. SCHMAUS - J.R. GEISELMANN - A. GRCLLMEIER - (H. RAHNER), Hand-
buch der Dogmengeschichte, 195 I ss.

Studi sul problema dello sviluppo del dogma


K. ALAND, Dogmengeschichte, in RGG3, 2 (1958) 230-234 (con biblio-
grafia).
J. AuER, DogmengeschiEhte, in LTK 2, 3 (1959) 463-470 (con bibliografia);
Zum Begriff der Dogmengeschichte, in MTZ, 15 (1964) 146-149.
G. AULEN, Die Dogmengeschichte im Lichte der Lutherforschung, in Stu-
dien der Lutherakademie, x, Giitersloh 1933·
R. DRAGUET, L'évolution des dogmes, Paris 21948.
W. ELERT, Die Kirche und ihre Dogmengeschichte, Miinchen 1950, ora:
Der Ausgang der altchristliche,; Christologie, Berlin 1957, pp. 313 ss.
BIBLIOGRAFIA

A. G1LG, Von der dogmengeschichtlichen Forschung in der ersten Hiilf te


des 20. Jahrhunderts, in rz, I0(1954) 113-133.
W. GEIGER, Spekulation und Kritik. Au.s der Geschichtstbeologie F. Chr.
Baucrs, Miinchen 1964 (con bibliografia).
F.W. KANTZENBACH, Evangelium und Dogma. Dic Bewiiltigung des theo-
logischen Problems der Dogmengeschichte im Protestantismus, Stutt-
gart 195 9 (con bibliografia).
B. LoHSE, W as verstehen wir unter Dogmengeschichtc in11erhalb der cva11-
gelischen Theologie, in K11D, 8 ( 1962) 27-45 (con bibliografia).
P. MEINllOLD, Geschichtskritik tmd Kirchenernez1erung, in Saeculum, 9
( 1958) 1-:z l; Zur Grundlegung der Dogmengeschichte, in Saeculum, ro
(1959) I-20.
H. OrT, Der okumenische Dialog xwischen Dogmatismus und Freiheit zur
Geschichte, in Radius (Marz 1965 - Sonderdruck).
W. ScttNEEMELCHER, Das Problem der Dogmengeschichte. Zum lOO. Ge-
burtstag Adolf von Harnacks, in ZTK, 48 ( 1951) 63-89 (con bibliogra-
fia); Chalkedon 45 c-1951, in EvTh, II ( 19.:; l-5 2) 241 ss.
K.G. STECK, Umgang mit der Dogmengeschichte der Alten Kirchè, in Ev-
Th, 16 (r956) 492-504; Dogma und Dogmengeschichte in der Theolo·
gie des 19. Jahrhunderts, in W. ScHNEEMELCHER (a cura), Das Erbe
des 19. ]ahrhunderts. Referate vom Deutschen Evangelischen Theolo-
gentag 7.-11. ]uni in Berlin, Berlin 1961, pp. 21 ss. (con bibliografia).
CHR. WALTHER, Zur Struktur der Dogmenkritik in der neueren pro/estan-
tischen Dogmengeschichtsschreibung, ihrer inneren Begrundung und Ab-
sicht, in ZKG, 70 (1959) 89 ss. (con bibliografia).
B. WELTE, Credo ut intelligam als theologisches Problem beute, in Wis-
senschaft und Verantwortung. Universitiitstage 1962, Bcrlin i963, pp.
16-30 (con bibliografia); Ein Vor.rchlag zur Methode der Theologie beu-
te, tr. in BCR, 51, pp. 189-2II; Gesammelte Au/siitze 'Attf der Spur
dees Ewigen', Freiburg 196.5, pp. 410-426.
E. WoLF, 'Kerygma und Dogma?', in Antwort. Festschri/t /iir Karl Barth,
Zollikon 1956, pp. 780-807 (con bibliografia).
LA RISPOSTA DELL'UOMO ALL'AZIONE
ED ALLA PAROLA DI DIO RIVELATORE
CAPITOLO QUINTO

LA FEDE

INTRODUZIONE

La conoscenza umana naturale è, in un senso autentico, una conoscen-


za antropocentrica. Essa infatti parte dal creato e, giunta all'estre-
mità dell'orizzonte dell'essere creato, si incontra in una certa misu-
ra con Dio, il creatore. Il Vaticano 1 insegna che Dio può essere co-
nosciuto come «principio e fine di tutte le cose» 1 con certezza, me-
diante il lume naturale della ragione umana ed a partire dalle cose
create. La conoscenza teologica invece può procedere a partire da
Dio il quale si è comunicato con la sua rivelazione all'uomo, atti-
randolo cosl a sé per immergerlo nella sorgente stessa della sua vita
intima. Perciò abbiamo trattato fino a questo punto del1' 'azione e
del1a parola di Dio nella storia della salvezza'. Argomento delle pagi-
ne che seguono sarà invece 'la risposta dell'uomo all'azione ed alla
parola di Dio rivelatore'. Tuttavia non abbiamo potuto parlare in
precedenza deU'azione e della parola di Dio senza includervi l'uomo
cui è rivolta la salvezza operata da Dio e che è il destinatario della
chiamata di Dio; ma anche ora non potremo parlare iq maniera esat-
ta della risposta dell'uomo senza rivolgere continuamente il nostro
sguardo a colui che chiede questa risposta e la rende possibile. La
stessa, correlativa realtà della salvezza viene ogni volta considerata
dall'altra faccia. Ma nell'azione e nella parola di Dio era implicata la
risposta dell'uomo, pur senza identificarsi ad essa, come nella rispo-
sta dell'uomo è inclusa la chiamata di Dio, giacché la risposta uma-
na non può essere spiegata ed analizzata senza tener presente l'in-
vito di Dio, dal quale tuttavia rimane distinta. Immanenza nella tra-
scendenza e trascendenza nell'immanenza, in egual misura equidistanti
sia dall'identificazione panteistico-monistica, sia dalla netta sepa-
razione deistica. Non deve costituire oggetto di meraviglia o di noia

• DS 3004; NR 31: «Deum, rerum omnium principium el /intm, naturali humanae


ralionis lumine e rebus creatis certo cognosci pone».

24 - My!terium salutis / 2.
INTllODUZIONI!

se qui saranno ripetute cose già dette. L'opera di Dio infatti è e


rimane sempre la medesima, sotto qualsiasi aspetto la si voglia con-
siderare. Essa però è anche cosl ricca, da svelare aspetti nuovi a
seconda delle diverse prospettive dalle quali è considerata.
Prima di trattare della fede nella Scrittura (SEZIONE SECONDA),
nella tradizione (SEZIONE TERZA) e nella riflessione teologica ( SEZIO-
NE QUARTA), dobbiamo premettere una breve trattazione su colui
che, come 'uditore della parola', è chiamato alla risposta della fede.
SEZIONE PRIMA

L'UDITORE DELLA PAROLA DI DIO

Pretendere di esaurire l'argomento equivarrebbe a fare un'antropo-


logia teologica. Tuttavia, se ciò è impossibile, occorre nondimeno
schizzare alcune strutture essenziali onde non correre il rischio, pog-
giandoci su di un'immagine dell'uomo sfigurata, d'intendere soltan-
to in maniera distorta ·1e affermazioni della rivelazione sulla fede.
È necessario invece che noi restiamo aperti all'ampiezza ed alla pro-
fondità della comprensione biblica, ecclesiale e teologica della fede.

a. La questione può essere trattata dal punto di vista della filosofia


della religione, così come fa K. RAHNER in Horer des Wortes. 2 Ciò
è giustmcato anche teologicamente per due motivi:
1. in quanto l'oggetto della trattazione è costituito dall'uomo ap-
partenente a una natura concreta, fattualmente esistente, e non dal-
l'uomo appartenente a un'ipotetica 'natura pura', che, come tale,
non è mai esistita;
2. poiché in questa maniera si lascia la porta aperta ad un'integra-
zione teologica, cioè all'affermazione - che deve essere poi comple·
tata con apporti teologici -, secondo la quale l'uditore della parola
può pervenire alla piena autocomprensione solo mediante l'ascolto
della parola.
Per il resto non bisogna prendere nessun abbaglio circa il carat-
tere di 'filosofia' proprio di questo tipo di riflessione. La considera-
zione filosofico-religiosa dell'uditore della parola è certo una .filosofia,
ma essa viene qui intesa esclusivamente nell'accezione di 'filosofia
cristiana' Nel porre le questioni, nell'orientare le sue indagini, essa
viene guidata dalla rivelazione cristiana; e ciò anche se si tratta d'eia-

2 Miinchen 1941. J.B. METZ ha ripreso con l'autore l'opera per la 2' ed. tedesca.
L'ed. it. (Torino I967) è condotta su quest'ultima.
L'UDITORE DELLA PAROLA DI DIO

borare dei dati filosofici in funzione di un metodo genuinamente filo-


sofico.
In qual misura una filosofia cristiana della religione così intesa
possa farci comprendere che cosa significa 'ascoltare la parola', sarà
tracciato qui brevemente, collegandoci alle posizioni di K. RAHNER
e di H. FRIES. 3
L'uomo si pone la domanda sull'essere. Poter porre la domanda
presuppone che l'uomo da una parte sia apertq all'essere e ad ogni
ente, e dall'altra che ogni ente sia fondamentalmente aperto alla do-
manda dell'uomo. Omne ens est verum, ogni ente, cioè, può essere
rischiarato dalla conoscenza umana, ogni ente è intelligibile. Non
c'è essere che sia fondamentalmente chiuso all'uomo. E - visto a sua
volta dall'altro 'termine', dall'uomo - lo spirito dell'uomo ha un
orizzonte del tutto illimitato. In breve; l'uomo può sondare tutto,
e tutto per lui ·può essere sottoposto a domanda. Ma bisogna anche
dire che tutto può essere raggiunto solo nella domanda, che quindi
non solo può ma deve essere messo in questione. Se deve chiedère,
significa che l'uomo ancora non possiede: essere e conoscere non
sono nell'uomo assolutamente identici; lo sono soltanto nello spirito
assoluto. L'uomo è spirito finito, 'spirito nel mondo'. Di fo:mte a
lui sta lo Spirito divino nella sua piena, libera indipendenza, che ri-
mane inviolata di fronte a quella della sua creatura: «liberrimo con-
silio» (ns 3002) Dio l'ha creata ... E cosl egli rimane «sconosciuto e
libero» di fronte all'uomo, il quale è confinato nel mondo creato che
afferra con i suoi sensi e di fronte al quale è preso dalla dom1mda sul-
l'essere. Le possibilità di Dio non sono esaurite dal fatto che egli ha
posto una volta in essere l'ente contingente. Cosl l'uomo rimane es-
senzialmente aperto ad una possibile rivelazione di Dio, anzi, sia che
si tratti del Dio che parla, sia che si tratti del Dio che tace, egli ascol-
ta sempre ed essenzialmente una rivelazione di Dio. Con ciò non ab-
biamo affermato la necessità della parola di Dio ed ancor meno la
necessità del contenuto della parola di Dio, ma soltanto la sua liber-
tà di rivelarsi e quindi la potentia oboedientialis nell'uomo di ascol-
tare il parlare di Dio o di sottomettersi al suo silenzio.

3 Vom Ho,er des Wortes Gottes, in J. RATZINGER -H. Fa1Es (a cura), Einsicht
tmd Glaube, Freiburg 1962, pp. 15-27.
L'UDITORE DELLA PAROLA Dl DlO
373

Il luogo d'una tale possibile rivelazione può essere solo la storia,


e non già la 'natura' in quanto questa è il luogo dove si realizza il
flusso della necessità e della conformità alla legge. Poiché il parlare
(eventuale) di Dio avviene in libertà e amore, esso deve farsi incon-
tro all'uomo nella libertà e originalità della storia, nella sua assoluta
irrepetibilità, la quale esclude qualsiasi mitico ritorno; e per di più
'deve farsi incontro proprio a quell'uomo così come esiste nei suoi
legami verticali (con il passato e con il futuro) ed orizzontali (nella
compagine delle strutture sociali).
E questa rivelazione all'interno della storia (pur non essendo mai
un suo contenuto od un suo momento controllabile - xa~p6ç) av-
viene nella parola, nella parola umana la quale è in grado di og-
gettivizzare tutto ed altresi, a partire dai fenomeni intramondani,
di determinare in forma negativa l'extramondano ed il divino. La pa-
rola rappresenta, significandolo, ciò che non si mostra nel suo 'in
sé'. Se Dio si mostrasse nel suo 'in sé', l'uomo sarebbe sottratto alla
sua storicità, o, detto in altre parole, una visione sarebbe possibile
per l'uomo solo qualora egli passasse dalla storicità della sua spiri-
tualità spaziale-temporale all'eternità stessa. Se quindi Dio, libera-
mente ed in maniera soprannaturale (in una maniera, cioè, che non
può costituire un diritto della 'natura') si vuole rivelare all'uomo
dove adesso questi si trova, nel suo mondo e nel suo tempo, questa
rivelazione (alla quale l'uomo è già aperto oboedientiaJiter in forza
della sua natura stessa) deve necessariamente avvenire nella storia
e nella parola umana.
Così, in forza della sua stessa natura, l'uomo è un uditore della
parola; egli deve quindi essere disposto ad accettare una possibile
rivelazione che si attui in parole umane e nella sua storia. L'ascol-
to della parola di Dio nella rivelazione deve essere eristenziale
ed esistentivo. Esistenziale: nell'intelligenza di se stesso, nell'in-
telligenza della propria origine e del proprio fine, intelligenza at-
tinta dalla saggezza divina. «Se ... Dio parla, in questa parola viene
riformulata a nuovo tutta la realtà che ha un qualche rapporto con
noi. La parola di Dio non parla isolatamente di lui. Si tratta infatti
d'una luce la quale non si irraggia, per cosi dire, su Dio, ma la quale
L'UDITORE DELLA PAROLA DI DIO
374

irraggia da Dio ed illumina lo spazio della nostra esistenza». 4 Esisten-


tivo: io sono l'interessato da questa parola, il messo in discussione
da ess'a, l'impegnato. Si tratta di me stesso, e di nessun altro che di
me stesso, del senso e della salvezza della mia esistenza. Adagiarsi in
una conoscenza neutrale non è l'atteggiamento adatto. Io devo di-
ventare «facitore della parola» (Iac. 1,22), volgermi a Dio nella me-
tanoia.
E poiché questo deve avvenire nella libertà umana e defettibile,
sono possibili un venir meno nell'ascoltare, un «ascoltare ed un non
ascoltare nello stesso tempo», «un ascoltare ed un non intendere»,
perfino un non voler ascoltare per principio, in quanto l'uomo non si
vuol lasciar chiamare e si chiude in se stesso in una superba autosuf-
ficienza. Questa tentazione non è mai stata estranea all'uomo: «voi
diventerete come Dio, con la conoscenza del bene e del m~!e)> (Gen.
3,5 ); fin dal principio il tentatore ha saputo adescare l'uomo in que-
sto modo.
Ma con ciò noi siamo arrivati ai confini del dominio della filoso-
fia della religione. O forse dobbiamo affermare di averli già superati?

b. Teologia dell'uditore della parola - Essa, su questo punto, cono-


sce qualcosa di peggiore, qualcosa che la filosofia della religione 'coi
suoi mezzi non è in grado di affermare, e cioè il mysterium iniquita-
tis. L'uomo non solo può venir meno di fronte all'invito di Dio, ma
egli si è di fatto tirato indietro, egli è peccatore: «Tutti hanno pec-
cato e tutti sono privi della gloria di Dio» (Rom. 3,23), così insegna
Paolo rifacendosi alla storia della salvezza veterotestamentaria· e ri-
capitolando la solidarietà di tutti gli uomini nel peccato. Si tratta
d'una peccaminosità la quale non è situata in un punto delimitat~
della storia dell'umanità, ma ha accompagnato il genere umano nella
sua totalità lungo tutto l'arco della sua storia, e cosl deve essere ri-
condotta alla sua origo, alla caduta originaria che tutti abbraccia e
può essere quindi chiamata peccatum originale - qualunque sia poi
il modo in cui si voglia formulare più esattamente l'interpretazione
teologica di questa solidarietà nel peccato.
Il Dio, quindi, che parla nella storia attraverso parole di uomini,
non soltanto potrà farvibrare questi uomini nella loro disponibilità
• G. EBELING, Das Wesen des christlichen Glaubens, Tiibingen I95S» p. 2n ..
L'UDITORE DELLA PAllOLA DI DIO
375

ed apertura creaturale al mistero di Dio, ma potrà anche farli rie-


mergere dalle profondità della loro caduta. L'invito alla fede è nello
stesso tempo un invito alla conversione: «Convertitevi, cambiate i
vostri pensieri (µE't'll\IOE~'t'E) e credete al vangelo» (Mt. 1,15). Dove
la parola di Dio viene accettata in tutta la sua pregnanza, nel Cristo,
essa diviene giustificazione del peccatore, giustificazione nella fede.
La teologia svela quindi la miseria umana più profondamente di
quanto non lo possa fare la filosofia della religione, ma nello stesso
tempo svela in maniera maggiore le meraviglie della grandezza' umana
grazie a questa autocomunicazione di Dio.
Si dà quindi una partecipazione di Dio nella parola e nella storia
cosl come la speculazione filosofica poteva affermare; e per ciò stesso
si dà anche una accettazione di fede ex auditu, nell'ascolto, e non
già nella visione. Ma colui che è la Parola (e non soltanto la pronun-
cia), si fa vedere. «Chi vede me, vede il Padre» (Io. 14,9). Tuttavia
ciò che si vede in lui non è il Padre e non è la sua parola, la sua
espressione eguale, ma un viso umano: « claritas (86~11) Dei in facie
Christi ]esu» (2 Cor. 4,6). Il Cristo è la Parola in persona; la sua
rivelazione è azione di Dio, intervento salvifico del Dio-amore nel
dono di suo . Figlio, ma non così da poter essere riconosciuto senza
la parola umana interpretativa, senza la 'testimoiiianza' dell'uomo
che la possiede perché gli è stata donata. Cosl l'uditore della parola
è chiamato ad una 'fede ex auditu', alla fede che ha per oggetto ciò
che non è stato ancora visto, ad una fede che nello stesso tempo è
però una praelibatio visionis, in ragione di quel dinamismo che la
fa tendere al compimento escatologico al di là della storia.
Abbiamo anticipato qui, in abbozzo, alcuni cenni preliminari sul-
l'ascolto della parola, ricorrendo agli apporti della filosofia e alle
aperture offerte dalla teologia. Lo sviluppo più dettagliato di questa
dottrina potrà essere descritto da una parte solo nell'antropologia
teologica, e dall'altra nella cristologia teologica.
JOSEF TRUTSCI-1
SEZIONE SECONDA

LA FEDE SECONDO LA SACRA SCRITTURA


(Fondamenti di teologia biblica)

Ai fini d'una spiegazione del fenomeno 'fede', la Bibbia è fondamen-


tale da diversi punti di vista. Da una parte, i testi biblici mostrano
tutti senza eccezione (tuttavia con una diversa evidenza secondo le
varie parti) di presupporre precisamente una determinata fede reli-
giosa. D'altra parte (anche qui con immediatezza maggiore o minore
in corrispondenza con l'intenzione dell'autore) essi tendono a susci-
tare una fede religiosa, oppure a confermarla e ad approfondirla. Nel-
la concezione della Bibbia, la fede soltanto è in grado di cogliere
l'intima connessione dei suoi due temi principali: Dio e l'uomo. Ciò
ha come sua conseguenza che il Dio della Bibbia è un Dio «verso
l'uomo» e l'uomo è un uomo «da Dio e verso Dio». Nella fede que-
sto rapporto vicendevole non solo v1ene riconosciuto, ma viene an-
che affermato e voluto. Credere significa per l'uomo sicurezza nel
rispondere alle sue domande ultime, ma al tempo stesso significa
obbligazione ad un determinato modo di comportamento. Vivere se-
condo la fede fa d'un uomo un 'fedele', un 'credente' che come tale
può essere riconosciuto.

A. ANTICO TESTAMENTO

r. Terminologia. He'emin (Hif'il di di 'aman = essere saldo, fidato, sicu-


ro) reso dai Settanta con mo"tEVE~\I signi.fi.ca: sentirsi sicuro, aver fede
(ls. 7,9; 28,16), confidare (Ex. 4,x.5); «dire amen a qualcosa o a Dio; pren·
dere sul serio e totalmente Dio come Dio» (A. WEISER). Oltre questo ter-
mine vengono usate altre radici come ba~al:i (Settanta 1tE'lto•1'Éva.•, 0 ..'ltl-
~Ew ): sentirsi in uno stato di sicurezza, sentirsi sicuri, ~iisah (Settanta,
ÈÀ:r;l~Ew , 'ltE'lt0~1'Eva.• , EÙÀ.a.(3Ei:o-i)a.• ) cercar scampo, nascondersi, es-
sere riparato; qavah: attendere, essere ansioso; ;ahal: aspettare (con dolo-
re); f.Jakah: aggrapparsi a se stesso, indugiare, aver pazienza.
LA FEDE SECONDO LA S. SC.IUTIURA

2. Un'esposizione della fede nell'Antico Testamento non dovrebbe


iniziare soltanto con Abramo. Hebr. rr con ragione si rifà, al di là
di Noè ed Henoch, fino a Caino ed Abele, anzi nel v . .3 fino all'even-
to della creazione. Tuttavia l'Antico Testamento comincia esplicita-
mente a parlare di fede con Abramo: «Abramo credette al Signore,
ed il Signore glielo ascrisse a giustizia» (Gen. 1 5 ,6). Il Nuovo Te-
stamento, che da parte sua fa dipendere l'accesso alla salvezza, cioè
alla vita, dalla fede (vedi infra, B. Nuovo Testamento), si serve della
storia di Abramo come d'un paradigma. Hebr. 11,9 commenta così
Gen. 22: «Egli (Abramo) pensava che Dio fosse cosl potente da far
ritornare dal regno dei morti»: cioè di rendere possibile ciò che è
impossibile. È precisamente una tale fede che Dio esige da Abramo in
Gen. 18,14: «C'è forse qualcosa d'impossibile per il Signore?» (l'e-
spressione simile di Le. 1 ,37 potrebbe avere un riferimento inten-
zionale a Gen. 18). Contro ogni umana speranza, credere nella spe-
ranza cf. Rom. 4,18), ascrivere a Dio ed aspettare da lui ciò che è
impossibile all'uomo: per Abramo credere significa questo. Soprat-
tutto le parti narrative dell'Antico Testamento sono ricche di simili
esempi di atteggiamento di fede o di incredulità da parte dell'uo-
mo. Su questo punto sono particolarmente notevoli singoli episodi
della storia d'Israele, ad esempio quando Davide è pienamente con-
vinto deHa sua vittoria su Golia perché gli. si fa contro «nel nome del
Signore degli eserciti, del Dio delle schiere d'Israele» (I Sam. 17,
45 ). Oppure quando Gedeone con il suo 'esercito' (ridotto a 300
uomini su comando di Dio) tiene testa ai Madianiti ed agli Amale-
citi e «a tutti i figli dell'Oriente, numerosi come cavallette», e rima-
ne vincitore (!ud. 7 ). In tutte le stratificazioni dell'Antico Testamen-
to si riscontra questa fede in Dio il quale cammina con il suo popolo
e non lo abbandona (cf. Dt. 31,6.8; Ios. 1,5.9; Ps. 18,30; ludt.; re
2 Macch. passim). Tanto più grave appare quindi la scossa per la fede
in Jahvé nell'esperienza della catastrofe e dell'esilio, che in un primo
tempo si mostrò senza speranza. Qui si inserisce con particolare for-
za la predicazione dei profeti. Il profeta, da parte sua, è un inviato
nell'ambito della fede, la quale gli è stata partecipata con la visione
della vocazione; una persona legittimata a parlare parole divine (cf.
Ier. 1,7 s.; Ez. 2,4; 3,_11.27). Nella fede il suo andare è un andare con
Dio ed il suo operare è uno stare al servizio del Signore {cf. I Reg.
ANTICO TESTAMENTO
379

17,1 ). Fede ed incredulità decidono della stessa durata delle nazioni:


«Se non avete fede non sussisterete» (Is. 7,9). Qui come in Is. 28,
1 6 («chi crede non vacillerà») la fede appare come sicurezza in Dio
il quale è Fedele (cf. Dt. 7,9; Is. 49,7) e della cui fedeltà l'uomo può
essere sicuro - nella fede! Le conseguenze di questa coscienza della
fede sono tratte in tutto l'Antico Testamento e soprattutto nel Deu-
tere>lsaia: la fede libera da ogni timore (Is. 43,1; 44,2), dà nuova
forza agli stanchi ed agli spossati (40,29-31 ), sicurezza profonda agli
sconsolati (49,14-16), a tutto il popolo il giubilo della liberazione
( 44,2 3; 51 ,3 ). Ai profeti è dato non solo d'influire nel corso della
storia, ma d'interpretare volta per volta la storia a partire da Dio
ed in direzione di Dio. La riflessione sugli avvenimenti della storia,
unita alla parola che procede da Dio, approfondisce e chiarisce l'im-
magine di Dio, chiarendo per ciò stesso anche la fede in Dio. E vice-
versa, la fede in Dio, soprattutto queµa dei re e dei profeti, è deter-
minante per il corso della storia nella misura in cui questa è condi-
zionata dal comportamento di Israele. Corrispondentemente, nel li-
bro dei Salmi non mancano inni che inneggiano al dominio di Dio
nella storia (cf. Ps. 78; 105; 106; 136) o costituiscono una testimo-
nianza dell'esperienza 'di Dio nella bellezza delle sue opere ( Ps. 8 ;
104) o nell'accettazione dei suoi benefici (Ps. 103; 107).
Nei libri sapienziali, della fede si parla in termini poco espliciti.
Tuttavia viene descritta la realtà stessa della fede e soprattutto il ca-
rattere gratuito dell'atteggiamento di fede: Dio comunica la sua sa-
pienza (Sir. 1,9 s.; cf. 1,26 [comunicazione a colui che osserva i co-
mandamenti]; 6,37; cf. Sap. 8,21). L'uomo diventa però sapiente
solo nell'esercizio della vita fondata sulla sapienza divina (comuni-
catagli) (Sir. 1,16: «lnitium [&;pxiJJ sapientiae timor Domini»; cf.
19,20-30 ). In tutti questi testi è significativo il ruolo che svolge la
Legge. Essa precisamente offre il contenuto al quale sono indirizzati
gli atti del credente (obbedienza, fedeltà, confidenza, speranza). La
fede è sempre una «reactio dell'uomo all'actio primaria di Dio» (A.
WEISER). La concezione che l'Antico Testamento ha dipende quin-
di strettamente dalla modalità dell'azione rivelante di Dio, dal modo
della sua autocomunicazione. Uno schema comparativo può forse
aiutare a comprendere la portata della fede veterotestamentaria:
LA FEDE SECONDO LA S. SCR!l"TURA

ACTIO rivelatrice di Dio: REACTIO credente dell'uomo:

Dio si rivela come L'uomo risponde con


il Santo timor di Dio, riveren1.11, ct1llo,
Colui che esige (la Legge.') obbedienza
Colui che ama, il Fedele (l'alleanza!) amore, confidenza, fedeltà
Colui che promette speranza, a/lesa, pazienza
il Veridico adesione di fede, riconosc1men/u_

Da questo schema - solo sommario - si deduce che, secondo la con-


cezione che l'Antico Testamento ha della fede, l'uomo 'crede', è
'credente', nella misura in cui, da parte sua, si apre nella totalità
della sua persona al Dio che si rivela, che si comunica cioè personal-
mente; l'uomo, così, cede a Dio il proprio centro personale e si «as-
sicura in Dio» (M. BusER) nel timore pieno di riverenza, nella con-
fidenza senza limiti e nell'obbedienza per amore.

B. NUOVO TESTAMENTO

I. Cambiamento nella situazione della storia della salvezza

Nel passaggio dall'Antico al Nuovo Testamento la fede non riceve


un contenuto nuovo. Sia nell'Antico, sia nel Nuovo Testamento il
credente volge il suo sguardo a Dio che si avvicina all'uomo per
aiutarlo, che si comunica a lui nella parola e nell'azione. Nella fede
«il pio dell'Antico Testamento attende l'intervento futuro di Dio
sulla base di un intervento di Dio già sperimentato». 1 La sua sottomis·
sione di fede al Signore è perciò confidenza, speranza, attesa paziente
(vedi supra, pp. 377 ss.). Anche il credente del Nuovo Testamento
guarda, nella fede, al passato, si svolge cioè all'intervento di Dio già
avvenuto nella storia; il suo sguardo, però, si posa quasi esclusivamen-
te su un unico intervento del passato, l'evento del Cristo. «In nessun
altro c'è salvezza» (Act. 4,13) se non in Gesù Cristo, l'uomo di Na-
zareth (Act. 4,10). Anche se in questo sguardo verso il passato è

I TWNT, 6, 218, 9 s. (R_ BULTMolNN)_


NUOVO TESTAMENTO

implicito uno sguardo verso il futuro {e quindi l'elemento della spe-


ranzjl. confidente è legato alla fede neotestamentaria), questo non si-
gnifica che si aspetti da parte di Dio un intervento fondamentale nuo-
vo. Ciò che ancora deve avvenire è 'soltanto' la manifestazione nella
par-ousia, alla fine di questo eone (Mt. 24,3; 2 Thess. 2,8; 2 Petr. 3,
4), della salvezza per gli uomini già fondamentalmente operata, av-
venuta nella persona del Cristo. Nel futuro c'è quindi solo la tÌ1tox1H.u-
~i.ç del salvatore Gesù Cristo nascosto ancora ai nostri sguardi ( r Petr.
r,7.13; d. I Cor. r,7; 2 Thess. r,7) e rispettivamente della sua glo-
riosa È1tLcpavm.t (2 Thess. 2,8; r Tim. 6,14 ed altrove nelle lettere pa-
storali). «Il Cristo è ultimo intervento di Dio che abbraccia anche il
futuro». 2 Che però sia cosl, «che la 'stoltezza' della croce» sia «'sa-
pienza' di Dio, che il crocifisso è il risorto, l'esaltato, il Signore, che
quindi ciò che è avvenuto con lui è intervento salvifico di Dio, tutto
ciò non è manifesto, ma lo è soltanto nella parola della predicazio-
ne».3 La posizione del credente neotestamentario non si distanzia so-
lo nel tempo da quella del credente dell'Antico Testamento. La situa-
zione della fede del Nuovo Testamento è anche diversa nella misura
in cui la 'storia•l• in quanto tale non apparteneva ai credenda, men-
tre nel Nuovo Testamento il Cristo deve essere creduto come inter-
vento (escatologico) di Dio e proprio come tale e non soltanto come
parola di Dio (lo. r,14).• E poiché adesso il kerygma cristiano ha
come oggetto che «il Cristo è morto per i nostri peccati secondo le
Scritture, e che fu sepolto e risuscitò al terzo giorno secondo le Scrit-
ture e che è apparso a Cefa ... » ( 1 Cor. r 5 .3 s. ), allora la fede cristia-
na può essere per ora brevemente definita come «accettazione del ke-
rygma del Cristo». 5

l TWNT, 6, 218, 12~ (R. BuLTMhNN).


1 I bid., 216, 24-28.
l• Nel termine 'storia', secondo l'originale tedesco Geschichle, è implicito il si-
gnificato di ciò che 'è accaduto', was geschehen iJt_ Nel vocabolo italiano ciò non è
traducibile. (N.d.T.).
4 lbid., 216, 22 s.
j lbid., 209, 12.
LA FEDE Sll.CONDO LA S. SCRITTURA

2. Analisi statistica

Con le 484 volte del suo uso (verbo 241 volte; sostantivo 243 volte) 'fede'
viene solo superato (prescindendo dalle preposizioni, dai pronomi e dalle
particelle varie) da XpLO''t'oç (529 ), ri.vi}pw7toç ( 548 ), TCOLE~v (565 ), EPXE-
u»ocL (631), ylvEiri)a.L (667), EXEtv (705), xvpLoç (?I8), 'I11uoiiç (905),
Elmi:v {925), Ì>EOç (1314), À.ÉyELV (1318). Se poi si aggiunge a questo il
fatto che la fede ha origine dall' 'ascoltare' (Rom. 10,17), allora assumono
particolare peso in rapporto al nostro contesto i verbi EL1tEÌ:v e Hyew con
le loro 925 e rispettivamente 1318 volte. Nel singoli scritti m<T"':Euetv si
trova in Giovanni 107 volte !Vang. 98, lett. 9), seguito da Paolo (54, di
cui 21 in Rom.) e dagli Atti (37). Con 1tla·nç conduce invece Paolo con
142 (di cui 40 in Rom., 22 in Gal.), seguito da Ebrei ( 32) Giacomo ( 16) ( ! )
e dagli Atti ( 15 ). :F. qui inoltre utile ricordare l'uso dei Sinottici:
'lt'LO''t'EVELV / TClcr't'L<; in Mt. r r e 8 volte; Mc. 14 e 5; Le. 9 e 1 r .6

3. Gesù di Nazaret. I Vangeli sinottici

a. Può considerarsi esatto dire che, agli inizi della sua predicazione,
Gesù «non ha preteso, né ha accettato la fede in lui come portatore
della salvezza».7 Questo dipende dal carattere particolare dell'attesa
messianica che Gesù trovò e che gli impose un grande riserbo. 8

Un'analisi comparata del materiale sinottico porta a conclusioni simili.


Nel passo sullo scandalo, i piccoli, secondo Mc. 9,42, sono semplicemente i
«credenti», secondo Mt. 18,6 sono invece i «credenti - Etç ȵ~ - in me».
Cosi dicasi delle parole di irrisione dei grandi sacerdoti e dei lorò complici
sotto la croce; Mc. 15,32 ha più semplicemente: «Scenda giLt ... e noi ere·
deremo», Mt. 27 ,42 ha invece « ... e noi crederemo - E1t'a.1h6v - in lui».
Luca invece introduce ripetutamente T:~CJ't'EVELv in contesti che ne sono
privi nei paralleli. Così, ad esempio Le. 8,12 s nella parabola sul semina-
tore e sulle differenti qualità di terreno; l'unione di 'lt'LO''t'EVELV e di CJW~eailocL
(8,12) ricorda fortemente la formulazione simile della finale non autentica
di Mc. 16,16, di Aci. 16,31, e di Rom. ro,9 s. Tale collegamento è stato
manifestamente esplicitato alla luce dell'avvenimento pasquale in seno alla

6 Dati desunti da R.. MoRr.ENTHALER, Statistik des neutestamentlichen W Mtsch111-


us, Ziirkh 1958.
1 H. BRAUN, G/aube, III. Jn;' NT, in RGGl, 2 (1958) 1952.
8 Vedi i comandi di far silenL!o (Mc. r,25; 1,34; I,44; 3,12; _5,43; 7,~6; 8,30);
diversamente alla fine della sua attività pubblica (Mc. II,I·IO; 14,61 s.).
NUOVO TESTAMENTO

comunità primitiva. Questa conclusione viene rafforzata da Mc. 16,13 s. e


Le. 24,25 (ambedue i passi appartengono alle narrazioni della Pasqua: come
in ]o. 20,29 vengono detti beati coloro che non vedono ma credono, cioè
i 'cristiani' di tutti i tempi, così nei discepoli, rispettivamente negli apo-
stoli, secondo i due passi, vengono biasimati gli increduli di tutte le età).

Queste considerazioni, in aggiunta alle deduzioni che si possono trarre


dall'analisi statistica dell'uso dei vocaboli, non debbono però farci
perdere di vista come l'attività e l'insegnamento di Gesù, che mira-
vano principalmente all'avvento del regno di Dio, contemporanea-
mente suscitassero in maniera sempre più accentuata la questione sulla
sua stessa persona (cf. Mc. 4,4 r dopo la tempesta sedata). «Necessa-
riamente, dalla predicazione e dall'intervento di Dio da essa enunciato
nei segni ... lo sguardo si volge alla persona di colui dal quale proven-
gono predicazione e segni ... ».9 Solo all'inizio della sua attività Gesù
nelle sue parole e soprattutto mediante i suoi prodigi, si è limitato a
suscitare la fede nella venuta immediata del Regno di Dio. Ma pro-
prio i prodigi spingevano a porre «con forza la questione sul Messia». 10
La predicazione di Gesù, secondo la concorde testimonianza dei Si-
nottici, COJ!linciò ad esigere la fede nel Messia verso la fine dell'atti-
vità pubblica (Mc. 8,27-30 par. L'episodio in cui Gesù viene inter-
rogato sul Battista, con la risposta a partire da Is. 29,18 s.; 35,5 s.;
61,1, è nettamente in questa linea, cf. Mt. 11,2-6; Le. 7,18-23).

b. In questo processo il vangelo di Marco segna un primo stadio


importante. In quanto è il più andco dei quattro vangeli, esso ci
testimonia uno stadio primitivo della fede e mostra poca riflessione
teologica insieme a molta immediatezza nella rappresentazione. Sotto
questo punto di vista gli altri due sinottici e Giovanni rappresentano
senza dubbio un progresso. E visibile una tendenza sempre crescente
alla spiegazione ed alla presa di coscienza del contenuto deJla fede,
soprattutto dei fatti di Gesù. Ma il vangelo più antico contiene già
in nucleo ciò che Giovanni porterà al suo pieno sviluppo. Il vangelo

9 H. KAHLEFELD, Der G/aube im Evangelium, Coli. «Christliche Besinnung», 4,


Wiirzburg s. d.
10 R. SCHNACKENBURG, Die sillliche Bolschaf1 des Neuen Teslumenls, Miinchen
r954, p. r7.
LA FEDE SECONDO LA S. SClllTTURA

di Marco descrive già la figura di Cristo nel suo rapporto vitale con
gli ascoltatori, rispettivamente lettori, e diventa così una testimo-
nianza che esige la fede, anche se il concetto stesso (1tLa"tLc;, 1tLC"t'Eurn1)
non è usato così frequentemente come in Giovanni. Mentre Io. 20,3 r
dice positivamente (al presente) che il suo vangelo è stato scritto
«perché voi crediate ... e credendo abbiate la vita», la finale di Marco
dice la stessa cosa in modo positivo e negativo, ma al futuro: «Chi
crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarii con-
dannato» (r6,16).

Per comprendere questo Mytov giova ricordare che l'invito alla conversione
(metanoia) nel vangelo più antico viene identificato con l'invito a credere
'al vangelo' (Mc. 1,15; similmente Mt. r1,2oss. =Le. 10,13-15: lamento
sulle città che non si. sono convertite nonostante i prodigi). La 'conversio-
ne' avviene quindi in un credere attivo, che non ~i limita semplicemente ad
ascoltare il vangelo e a ritenerlo vero, ma trasforma la vita corrisponden-
temente alle sue esigenze.

Uno sguardo agli usi di '!tlO""t!.<; e di '!ttO"-tEUELV permette una certa clas-
sificazione dei passi. Si può parlare d'una fede nei prodigi e nelle gua-
rigioni e stabilire come questa fede in una intera sequela di passi sia
richiesta quale condizione per la guarigione invocata, attesa o rispetti-
vamente come motivo di una guarigione avvenuta, e come essa sia
lodata da Gesù. 11 Contrapposta a questa linea ne appare un'altra che,
partendo dal miracolo, conduce alla fede. I miracoli in questo caso
sono segni, che non ottengono necessariamente la fede, bensì la sol-
lecitano e la rendono possibile. 12 Di fronte ad essi l'uomo si trova
nella libertà di decidersi pro o contro il taumaturgo. Proprio in ciò
consiste il peccato di coloro che hanno visto e udito, nel fatto, cioè,
che essi si decidono all'incredulità contro Gesù (Mt. 8,ro=Lc. 7,9;
Mt. 23,37=Lc. 13,34). II giudizio fondamentalmente (anche secondo
la concezione sinottica) avviene in questa decisione per colui che è

11 Vedi particolarmente Mc. 2,5 («quando egli vide la loro fede ... »); Mc. j,34 par.:
10,52 par.; Mc. ì,29; Mc. 9,14-29 par.; Mt. 8,10; Le. 7,50; 17,19. La formula: «la
tua fede ti ha salvato» (7 nei Sinottici) viene già svih;ppaia dalla Chiesa primitiva nel-
la dottrina della fede che salva (cf. Rom. ro,9 s.).
12 Ciò non avviene per la prlina volta in Giovanni, anche se è vero che l'cvan·
gclista insiste fortemente su tale aspcuo.
NU0\10 TEST AMENTO

chiamato ad essa: ai discepoli è stato dato di comprendere ( = cre-


dere) i segreti del regno di Dio; ma a coloro i quali stanno 'fuori'
tutto viene comunicato in parabole: in essi s'avvera la parola del
profeta Isaia (6,9 s) del «vedere e tuttavia non vedere», dell' «ascol-
tare e tuttavia non intendere» affinché essi non si convertano e non
trovino misericordia (Mc. 4,11 s). Giovanni esprime la stessa realtà
cosl: «Chi non crede è già giudicato» (3,18). Esiste quindi il dovere
di confessare Gesù che presuppone a sua volta la fede in lui (Mt.
ro,32=Lc. 12,8; Mc. 8,38=Lc. 9,26). Ne deciva per il credente
un 'essere con' Gesù, una profonda vicinanza a lui, la quale oltre-
passa chiaramente la semplice adesione ad una verità. Quando si
parla di fede nella preghiera non si vuole intendere fondamentalmente
nient'altro che quell'atteggiamento di fiducia che abbiamo sopra ricor-
dato come fede nei prodigi e nelle guarigioni. La fede «che tra-
sporta le montagne», che viene ricordata nel Nuovo Testamento in
varianti che non sono perfettamente armonizzabili, 11 ottiene ciò che
è apparentemente impossibile, e lo ottiene non con le proprie forze,
ma «pone, per cosl dire, in movimento l'onnipotente bontà divina». 14
Essa costituisce la forma suprema della speranza fiduciosa.
A tutti i passi ricordati è comune che 'credere' implica sempre una
fiducia ed una confidenza verso la predicazione (il vangelo: Mc. 1,15).
E poiché questa ha come contenuto che la basiléia è venuta in Gesù,
la fede costituisce sempre l'uomo in una nuova vicinanza a Dio. In
Gesù di Nazaret questa vicinanza è stata donata agli uomini come non
mai. Ne consegue per gli uomini la necessità, e per di più in misura
sempre crescente, della decisione pro o contro colui che è l'autore
di questo annuncio: fede è decisione e quindi giudizio (vedi supra).
A questa fede è quindi «tutto possibile», tuttavia 'solo' in ordine
ad salutem; questo è l'insegnamento contenuto nelle espressioni con-
cernenti la tede che trasporta le montagl'le e la preghiera che viene
sicuramente esaudita.

Il Mc. 11,22s.; Mt. 17,20; Mt. 21,21; Le. 17,6; 1Cor.13,2.


14 J. ScttMIO, Das Evangelium nach Markus, in RNT, nl, Regensburg 1954, a
proposito di Mc. n,24. Cf. P. BENOIT: «La fede come la preghiera è un ricorso alla
forza di Dio. Nell'una come nell'altra l'uomo cessa di appoggiarsi su se stesso per
non contare che su Dio. E questo il motivo per cui l'una non può essere separata
dall'altra .. : LA /oi selon /es (évangiles) synoptiques, tr. in BCR, 74, p. 16o.

25 Mysterium salutis / 2.
LI. FEDE SECONDO LA S. SCRITTURA

c. L'analisi dei vari passi che riportano itla"nç e T:tcr"tEUEtv non basta
però per ottenere un quadro esatto di ciò che i Sinottici intendono
per fede. Occorre anche considerare le situazioni di fatto. Diamo solo
alcuni accenni.

aa. Come la 'vista' dei 'segni' così anche I' 'ascolto' delle 'parole"
può suscitare reazioni diverse. 15 Gli ascoltatori vengono pressantemen-
te invitati ad 'ascoltare', cioè all'assimilazione interiore, all'ascolto ve-
ro (in opposizione a quello puramente .fisico): «Chi ha orecchie da in-
tendere intenda», 16 «prestate attenzione a quel che ascoltate» (Mc.
4,24). Con queste espressioni non si vuole intendere un puro ricor-
darsi, un non dimenticare. «L'ascolto nel Nuovo Testamento, in
quanto percezione della volontà divina, raggiunge la sua essenza sem-
pre e solo ... quando l'uomo afferma questa volontà 4i salvezza e di
penitenza in una fede attiva». L'ascolto (O:xouEw) viene allora coro-
nato dall'vm1xouEL'V, Paolo escogita l'espressione u'!tcx.Ko-fì TCla"tEwç pre-
cisamente per la fede che è obbedienza, e per l'obbedienza che è
fede. 17 Un ascolto siffatto porta a comprendere (cruvtÉvcu, crwlT)µ~).
«Prestatemi tutti ascolto e comprendete» (Mc. 7 ,14). Che ciò sia
difficile anche per la ristretta cerchia dei discepoli appare da Mc. 8,
17-2x e par. («Non avete ancora riflettuto né capito?», 8,17.21),
ed ancora più fortemente dopo la confessione di Pietro (cf. Mc. 8,
27-30 par. con Mc. 8,32 s. par.), e similmente dopo la seconda pre-
dizione della passione, Mc. 9,30 s. Gesù «esige che l'uomo abbandoni
tutti i propri pensieri e si apra interamente al nuovo modo di pen-
sare ... la sua persona è la chiave per tutti gli altri segreti di Dio;
solo a colui che comprende Gesù si rivela anche il mistero del
regno di Dio». 1'1

15 Corrispondentemente al car:mere di annuncio della predicazione cristiana, ci:xovEw


è una parola chiave nel Nuovo Testamento (427 volte, cf. a tal proposito supra, 2,
Anali1i statistica).
\6 M" 4,9 par.; 4,23; 7,r6; Mt. 11,r5; I3.43; d. Mc. 8,18.
17 Rom. q; 16,26; cf. I},r8 e Act. 6,7. Sul tutto, cf. TWNT, r, 221, 4-9 (G. KIT·
TEL). Similmente dicasi di 'vedere': «Se Gesù rimprovera le città che non vogliono
far penitenza, questo non avviene solo perché esse non ascoltano le sue parole,
ma perché non hannO-.é safo nel suo agire ciò che bisognava vedere. Mt. 11,20 ss.»
(lbid., 22r, 32·3,). .;· per Jr
ia W. TRILLING, eme,:usg~heimnis·Glaubensgeheimnis, Mainz 1957, p. 50.
NUOVO TESTAMENTO

bb. Sono inoltre significative in questo contesto le espressioni


concernenti la sequela, relativamente numerose sia nei Sinottici, sia
in Giovanni (vedi infra, 4.e).

Col termine 'seguire' in primo luogo si intende direttamente l' 'andare'


dietro Gesù; secondo il significato ben conosciuto anche nel rabbinismo,
conformemente al rapporto esistente tra maestri e scolari, i 'discepoli'
(µcd~ri-ro:l) 'seguono' Gesù come scolari docili, cioè ascoltatori delle sue
parole. In corrispondenza col carattere particolare di questo maestro, essi
sperimentano subito che nella 'sequela' di Gesù viene chiesto loro più
che la disponibilità intellettuale ad 'apprendere': solo chi abbandona tutto
(Mc. rn,28 s. par.) e ama Gesù più dei suoi parenti intimi, anzi della sua
stessa vita (Le. 14,26; Mt. rn,37 s), è 'discepolo' in senso profondo. La
parola sulla sequela della croce collegata a questi due passi (Le. 14,27;
Mt. ro,38; inoltre Mc. 8,34 par.) è ancora più significativa per le nostre
considerazioni: la 'dottrina' di Gesù può essere compresa solo nella radi-
calità della 'sequela', la quale diventa comunità di vita e di destino con
lui. Ciò solo nella fede! 19 Solo il (la disponibilità al) dono della vita (Mc.
8,35 par.) conduce alla vita autentica; Giovanni esprimerà tutto questo in
maniera molto semplice: «Chi crede ha la vita eterna» (Io. 3,36).

La questione dell'ingresso nella l;.wTi atwv~o<;, che appare anche


nei Sinottici, viene significativamente risolta con l'esonazione, in-
sieme all'osservanza dei comandamenti, di «vendere tutto e darlo ai
poveri» per poi seguire Gesù (èt.xoÀ.ovìMv, Mc. 10,21 par.). L'eredità
della ~w'Ì) ixtwv~or; secondo i Sinottici consiste nella rinuncia totale
ad ogni sicurezza materiale e nella dipendenza assoluta dal maestro
che solo adesso il discepolo 'segue'; per Giovanni, invece, nella 'fede'
(3,36). Il rapporto balza subito agli occhi e getta luce sulla concezione
dell' 'atto' di fede secondo il Gesù dei Sinottici. E se a questo si
aggiunge il complesso delle espressioni di Gesù sulla necessità del-
1' 'operare' la volontà di Dio,20 dal paragone con Giovanni appare
chiaro come la riduzione, ivi operata, dell'agire morale alla fede e
all'amore in realtà non rappresenti una restrizione ma una sublime

19 Questo ultimo passo, sebbene appaia più chiaramente solo in Giovanni (cf. lo. 12,
25 s.), è presente tuttavia nell'atmosfera dei Sinottici. Per la questione dei destina-
tari degli inviti alla sequela, cf. R. ScHNACKENBURG, op. cii., pp. 25 s.
20 Cf. ad esempio Mc. 6,21 («non colui che dice Signore, Signore ... »); Le. 6,46;
Mt 7,2p7; Le. 6,47-49; Mc. 3,34 par. (i veri parenti di Gesù).
LA FEDE SECONDO I.A S. SCJtITTUJtA

concentrazione. Questa considerazione riveste una grande importanza


per la esatta comprensione della fede nel Nuovo Testamento.

cc. Così però è stata sollevata la questione come sia possibile in


ultima analisi questa fede come 'esistere escatologico . La risposta del
Gesù dei Sinottici suona: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre,
e nessuno conosce (È1t~YWWO"XEL) il Padre se non il Figlio e colui al
quale il Figlio lo vuole rivelare (Mt. II,27; Le. rn,22). Anche Mt.
16,17 sottolinea come l'iniziativa nell'atto di fede appartenga al Pa-
dre, il quale manda nel mondo suo Figlio come rivelatore e come
rivelazione: l'esatta valutazione, cioè il riconoscimento dell'uomo Ge-
sù di Nazaret come il messia mandato dal Padre, è stato reso pos-
sibile a Pietro dal Padre, non dalla carne e dal sangue (cioè dal-
l'uomo). Ed infine Gesù prega il Padre perché la fede di Pietro non
abbia a venir meno - da essa dipende anche la fede dei fratelli! (Le.
22,32 ). E se è vero che nella preghiera del Signore il TCELpa.aµéo; (Mt.
6,13; Le. u,4) indica la caduta della fede 21 , aJlora appare evidente -
per via negativa - come nel coro della Chiesa che prega secondo l'esor-
tazione di Gesù, Dio non sia solo l'autore, ma anche l'unico custo-
de e garante sicuro della fede. La fede tuttavia non è solo risultato
del movimento che ha portato Dio all'uomo nella persona di Gesù di
Nazaret, e rispettivamente in Gesù Cristo in quanto esaltato nel suo
Pneuma. L'esortazione ad 'operare' (vedi supra, bb.) non lascia nessun
dubbio sul fatto che l'uomo deve decidersi ad un rinnovato movimento
di risposta verso Dio. Fin quando non si verifica questo movimento
di risposta, all'uomo si applica il biasimo quasi irritato: « Non avete
ancora fede?» (Mc. 4,40), «Siete anche voi senza intelletto?» (Mc. 7,
18; si aggiunga inoltre tutto il discorso di rimprovero di Mc. 8,17-21,
e il particolarmente impressionante «generazione incredula ... fino a
quando devo ancora sopportarvi?» di Mc. 9,19 par.).

dcl. Ricapitolando, possiamo affermare: i Sinottici descrivono come


correlativo all'attività di Gesù il sorgere d'una fede nuova rispetto
all'Antico Testamento. «Questa fede è contrassegnata da una deci-

11 H. ScHORMANN, Das Gebet de$ Herrn, Freiburg in Br. 1957, pp. 95 s.


NUOVO TESTAMENTO

sione radicale per la persona del Cristo nel quale Dio vuole operare
la salvezza. Presupposto di tale fede è l'ascolto attento ed aperto cui
segue l'intendere. La fede viene realizzata nelle sue ultime profon-
dità solo nel dono totale al Cristo, nel legare la propria vita alla sua
mediante l'ingresso nella sua 'sequela'». 22

4. Dal Gesù che predica al Cristo predicato

a. Al di fuori dei Vangeli si ha un effettivo cambiamento di termino-


logia condizionato dalla realtà stessa. Se nei Vangeli Gesù era il
xT)pvcrcrwv oppure (secondo Luca) lo ev«yye).~~6µevoç, e se la basiléia,
oppure il 'vangelo del regno' rappresentano il contenuto della predi-
cazione, negli Atti e nelle Epistole, invece, Gesù Cristo (oltre 'l'Evan-
gelo') è il contenuto della predicazione. Questo fatto ha alcune con-
seguenze di rilievo sul piano teologico, per la concezione neotesta-
mentaria della fede. I primi messaggeri cristiani considerano loro mis-
sione testimoniare al mondo ciò che essi hanno «visto eà udito>)
(Act. 4,20); l'apostolo doveva soprattutto essere «testimone della re-
surrezione» (Act. 1,22). «Di questo noi siamo testimoni» (Act. 3,15}.
Credere significa ormai accettare la testimonianza su Gesù, il croci-
fisso ed il risorto, e questa accettazione include il sì ai fatti predicati
e nello stesso tempo anche - e questo è essenziale - il sì a questi fatti
come avvenimenti di salvezza.

Significativo è il frequente ricorrere negli Atti dell'aoristo ingressivo con


mCT'tEVEL'J. Si ascolta la predicazione dei testimoni e si 'viene alla fede'
mediante essi. La formula 'ascoltarono e credettero' (Act. 15,7; 18,8) è
parallela alla famosa espressione della fides ex auditu (Rom. 10,17) e serve
ad illustrarla. Il venire alla fede, la conquista della fede si presentano come
una libera adesione alla predicazione ascoltata e ritenuta degna di fiducia.
Ma che questo assensus non sia semplicemente un fatto intellettuale è
mostrato dall'espressione v'lti)xovov "tii '!tlCT'tEL ( Act. 6 ,7) e corrispondente-
mente la contrapposizione '!tLO''tEVEW - a'ltELDE~'ll come· rifiuto non soltanto
intellettuale all'appello incluso nel messaggio cristiano, per una dedizione
obbedienziale dell'uomo (Act. r4,2; cf. v. 1; 19,9; al contrario: «gli
uni obbedirono, gli altri non credettero»; (Act. 28,24; anzi è senz'altro

22 W. TRJLLING, op. cit, p. 54.


LA FEDE SECONDO LA S. SCRITTURA

degna d'essere sottolineata la singolarità degli Atti che, a differenza di tut-


ti gli altri scritti del Nuovo Testamento, usano frequentissimamente
7tElitEuit11L = lasciarsi convincere e persuadere, credere, obbedire).

b. Se nei Sinottici 7tLa..tEuEw con il dativo, con termine Gesù, oppure,


E{ç (lv-rov ('Iriuoiiv) ricorre solo di rado, la situazione è diversa negli
Atti. Si crede al (dc;, bel, Év) Kyrios, a Gesù, al Cristo Gesù, al suo
Nome. Ciò che si intende con queste espressioni, negli Atti appare
solo in abbozzi non ben definiti. Può essere compreso solo dalle de-
scrizioni distribuite in tutto il libro, anche se relativamente insuffi-
cienti, sulla vita della comunità. È importante il fatto che gli Atti
considerino l'adesione di fede al messaggio cristiano nel senso sopra
descritto (assentire e obbedire), come il segno distintivo della comu-
nità che si andava formando: i termini mCT"tEUCT(lV'tEc; e nEmCT-rtuxo-rEc;
rappresentano la forma normale con cui vengono contrassegnati i
componenti di questa comunità, i quali vengono anche chiamati, solo
approssimativamente e quasi per prova, 'cristiani' (cf. Act. n,26), in-
dicando cosl la loro intima appartenenza (mediante la fede!) al Cristo.
È significativo ancora il fatto che se non si crede più ormai al Cristo
che predica, ma al Cristo predicato, tuttavia vengono posti ess~nzial­
mente gli stessi atti e le stesse decisioni: conversione, obbedienza,
autodonazione, confidenza, amore sotto l'invocazione del Mroi; >t'l'}pux-
3E~ e sotto quella del À.éyoi; uà.pç rtv6µEvo~. E questo non già perché
quelli 'venuti alla fede', i 'credenti', vengano nuovamente messi sul
piano dell'uomo veterotestamentario quando nella fedeltà e .nell'ob-
bedienza si sottomettono all'agire di Dio nella storia del popolo, fon-
dandosi proprio sulle manifestaziòni di questo agire. Bisogna invece
dire che il Mroc; {-rou 9Eoù, -roù xuplo~) è più che un nudo racconto su
un fatto storico, ne è nello stesso tempo la significazione storico-sal-
vifica per la mia esistenza concreta e storica la quale viene quindi ad
esserne ri-costituita mediante l'accettazione della fede (oÉxeuit(l~ -ròv
Mrov Act. 8,14, eccetera} e mediante il battesimo congiunto a questa.
La predicazione dei testimoni non è mai «una semplice comunicazione
orientativa, la quale sarebbe superflua una volta che se ne è acquisita
conoscenza; essa piuttosto rimane sempre il fondamento della fede ...
Per questo, fede nel kerygma e fede nella persona che lo comunica
N.UOVO TESTAMENTO 391

rimangono sempre inseparabili e la fede rimane sempre in questo


senso un 'rischio' in quanto essa si affida al kerygma». 23
:E: ora legittimo cercare un' 'assicurazione' contro questo rischio?
La 'parola' è esposta a) pericolo d'essere distorta (2 Petr. 3,r6). Per
questo la fede deve trovare la sua sicurezza - -r;Ì)v ci.o'qiaÀmtv, Le. 1 .4 -
soprattutto nella « fedeltà del riferire e del tramandare ... la 'parola'
suscitata da Dio e pronunciata nell'avvenimento».ZA Che essa però non
possa mai essere raggiunta solo attraverso tentativi umani, appare dal
frequente ricorrere di 'ltVEvµa. assieme a 1tl1nL<;. Il testimone della
parola deve essere un uomo «pieno di fede e di Spirito» (Act. 6,5,
eccetera), così come il possesso dello Spirito appartiene al patrimonio
necessario dei battezzati e di coloro che sono divenuti credenti (Act.
8,15.17; 19,2.6; I0,44: qui, senza battesimo!). Così Dio «manda la
parola» (Act. 13,26) e nella forza dello 1Mvµa. 't'fjç ri).TJ~Ela.ç (Io. 14,
I 7) innalza l' tiKOUEL'J fino al 'ltLO''t'EVEW.

c. Il 'corpus' paolino (incluse le lettere agli Efesini, ai Colossesi e


le pastorali) - Una descrizione, che voglia dare uno sguardo d'insieme
alla teologia della fed<t nelle lettere paoline, deve tener conto in primo
luogo del fatto che la letteratura delle lettere (con forte differenza dai
vangeli e dagli atti) è in sé riflessiva: questo fatto ci aiuta nel com-
pito della determinazione della dottrina. Bisogna poi notare, soprat-
tutto in Romani ed in Calati, la prospettiva finale delle affermazioni
paoline. Per tutta una serie di passi questa prospettiva è determinata
dalla preoccupazione di rettificare false concezioni sulla via cristiana
alla salvezza. Per questo motivo la dottrina della salvezza attraverso
la fede (contrapposta ad una valutazione esagerata delle opere della
Legge) riceve un peso che nella controversia all'interno del crist:anesi-
mo spesso è stato gettato sul piatto della bilancia in maniera sbagliata.

aa. In realtà Paolo parla espressamente d'una fede per essere salvi.
Con ciò egli non sta per nulla a sé nel Nuovo Testamento. Ciò che
però lo distingue dagli altri autori neotestamentari è il rifiuto netto
delle 'opere', delle Epya v6µov, nelle quali si deve ravvisare una via

n TWN'J', 6, 212, 26-32 (R. BuLTMANN).


24 fbid., IV, I2I,I5-17 (G. K!TTEL).
392 LA FEDE SECONDO LA S. SCRITIUH

umana di giustificazione di fronte a Dio. Questo rifiuto così netto


vuole andare fino all'intimo della realtà: nella condanna delle Epya.
voµou si deve ravvisare una condanna a morte per ogni forma d'auto-
sufficienza. La vecchia via alla salvezza, nella misura in cui è stata
vittima d'una degenerazione, viene quindi ripudiata come superata
e non più utilizzabile. Al suo posto ne viene indicata una nuova e
definitiva. Questa viene percorsa da colui che nella fede si apre
all'azione salvifica di Dio in Gesù Cristo. Questa fede, per quanto
riguarda il contenuto, non differisce per nulla dalla fede altrimenti
descritta negli altri libri del Nuovo Testamento. L'attività umana in
questa nuova via per la salvezza non viene per cosl dire soffocata e
sostituita dalla 'nuda' fede. Paolo stesso dice altrove che questa atti-
vità è legittima, anzi che essa è necessaria, perché senza di essa la
fede non è più vera fede (Gal. 5,6; 1 Cor. 13). Se allora si parla d'una
giustificazione attraverso la fede e non attraverso le opere, Paolo si
riferisce «non alla problematica relativa al comportamento di colui che
è arrivato alla fede, ma ... egli si riferisce al contrasto tra un giudaismo
soddisfatto - secondo la sua interpretazione - delle sue opere
ed ottimista sul potere salvifico dello sforzo umano da una parte, e
la fede nel Cristo Gesù crocifisso e risorto dall'altra». 25 :E evidente
quindi che la problematica di Lutero non è quella di Paolo. 211 Il possi-
bile equivoco all'interno del cristianesimo su Rom. 3,28 par., anche
in seno alla Chiesa primitiva viene quindi avvertito e corretto; cf.
Jac. 2,14-26; Mt. 7,21.

bb. Fede 'oggettiva' e 'soggettiva' - Se i Vangeli (compreso Gio-


vanni) nella presentazione del Gesù che predica, nella descrizio-
ne della reazione di fede o di incredulità degli ascoltatoti, si rife-
riscono, per cosl dire, quasi esclusivamente alla fede 'soggettiva', alla
fides qua, la prospettiva è cambiata negli Atti e nelle Epistole del
Nuovo Testamento. Quando gli Atti parlano (6,7) del!' v1taxovEw 'tfl
1tla''tE~. si riferiscono alla fede oggettiva, alla fides quae. Quando Paolo
parla (Gal. 1,23) d'un E~i:tyyEÀlsEa-Dci~ "ti'jv 11:la''tW, oppure quando (se-

ti O. Kuss, Der Romerbrief Lfg I, Regensburg l9~7. p. 149·


16 /11id .• p. 134: vedi anche F. MuSSNER, Der ]akobusbrief, Freiburg 1;.>64. pp.
I 27·1 ~7.
NUOVO TESTAMENTO
393

condo Gal. 3 ,2 3 .2 5) la 'ltLO"nc; viene e sostituisce il v6µoc;, si tratta


ancora di fides quae. L'espressione &.vaJ..oyla. 'tijc; itlO''tEwc; presuppone
la stessa concezione (Rom. I 2 ,6 ). Non deve quindi meravigliare se,
conformemente al tenore generale delle lettere pastorali che insistono
di più su questa concezione, itl1nt.c; diviene sinonimo di St.oo:no:À.lo:.
IIla·rn; in questi passi si avvicina a ò&6c; usato soprattutto negli Atti
nel senso di 'dottrina', 'visione'. Sorge qui la questione sugli elementi
costitutivi di questo 'edificio dottrinale'; tuttavia, almeno provviso-
riamente, possiamo metterla da parte.
Ora però come si attua la fede soggettiva, la fides qua, nella quale
(non solo secondo Paolo!) avviene la nostra ordinazione decisiva alla
salvezza? La linea dell'iniziativa divina, che si profila visibile lungo
tutto il Nuovo Testamento, viene descritta da Paolo soprattutto in
Rom. 8,28-30 e 10,14-17. La triade vocazione-giustificazione-glorifica-
zione (8 ,30) accentua cosi fortemente questa iniziativa da sembrare
che non ci sia più posto per un intervento dell'uomo. Invece l'inter-
vento umano si inserisce nel momento in cui l'uomo accetta nell'amo-
re questa azione con cui Dio ci salva donandoci suo Figlio «come
primogenito tra molti fratelli» (v. 29).11 E questo dir di sì è ormai
azione dell'uomo (secondo una variante di importanti antichi codici
Dio si associa all'azione umana degli &.ya.itwv't'Ec;: ittiv't'a. auvtpytt.
[ci 0Eoc;] Etc; ti?al)6v!). Dio mette in azione questo dinamismo del
1tln't'EVEw, Dio manda i XT)pvuao'\luc; e rende possibile la fede mediante
la loro testimonianza (cf. Rom. xo,15), e ad ognuno «dispensa la sua
misura di fede» ( 12,3 ). E soltanto nello Spirito santo è possibile con-
fessare che «Gesù è Kyrios». 28 Questa confessione è tuttavia un
fatto complesso. Che non si tratti di una semplice confessione a fior
di labbra, lo mostra già il progresso da Rom. 10,ro («con la bocca
si fa la confessione· alla salvezza») a ro, I 3, dove, per il consegui-
mento della salvezza, è inoltre necessaria «l'invocazione del Nome
del Signore». Perciò credere nel senso della fides qua significa accet-
tare il messaggio (ritenerlo vero!); e poiché il messaggio ha come

'El :S significativo che in tutto il cap. VII I manchi sia niai:~ç. sia 'lttO"mlav: i
7tt!Ti:tuovi:Eç in questo capitolo, tutto proteso alla lode della grazia di Dio, sono
scmpliccmentc i XctPt!T&É•1'\'Eç (v. 32), gli o:yio\ (v. 27), gli aycn::i;:,v-.;~ç (v_ 28)_
28 I Cor. n,3; su questo però vedi O. Kuss, op. cil., p. 140.
LA FEDE SECONDO LA S. SCRITTURA
394

suo contenuto l'azione salvifica di Dio in Gesù Cristo, credere significa


rifiutare ogni forma d'autoglorificazione (xo:vxl}µa, eccetera) e quindi
ogni forma di giustificazione dovuta al puro sforzo umano. La fede
allora è conoscenza raggiunta (mediante l'ascolto del messaggio) della
salvezza 'già' operata in Gesù Cristo e della sua 'futura' manifesta-
zione e compimento. In questo modo il movimento della fede con-
tiene ia speranza e la confidenza. Più esattamente: Paolo, se da una
parte nomina con chiara evidenza la fede e la speranza (e la carità)
l'una accanto all'altra come atteggiamenti distinti, dall'altra, con
altrettanta chiarezza, lascia intravedere che esse sono intimamente
congiunte dal fine al quale sono dirette: Dio. La confidenza in modo
particolare è congiunta con la fede e con la speranza. Ad illustrare
questo aspetto può specialmente servire l'esempio d'Abramo allegato
in Rom. 4,r-25 e Gal. 3,6-18. «La fede nella misura in cui essa si
rivolge al futuro è identica alla speranza; il credente è essenzialmente
colui che spera». 29 Quando inoltre il movimento della fede viene con-
cepito come un v'lto:xo~Ew che segue ali' tixovEw, si trova qui forse
l'elemento intimo unificatore di tutte le affermazioni b!bliche. Ma
con questo è già detto che la fede biblica (e non solo paolina!) è
qualcosa di più che una fides historica, qualcosa di più ancora che
una semplice 'visione del mondo' raggiunta attraverso uno sforzo in-
tellettuale, che poi non obblighi a nulla. Il messaggio della morte e
della resurrezione dell'uno per tutti (2 Cor. 5,15) penetra la vita del
credente fino alle midolla: questi deve vivere ormai non più per se
stesso ma per colui che è morto e risorto per lui (I bid. ).

cc. Che una tale fede non sia semplicemente donata nella sua
pienezza, né che sia disponibile in questa sua pienezza, è evidente.
Si può legittimamente parlare di gradi e di possibilità individuali della
'ltLO"'t'Lç, in riferimento agli VC1't'Epfiµa:to: 't'iji; 'ltLO"tEWt; ( 1 T hes. 3, 1o), del
µi't'pov 1tLC1't'E~t; (Rom. 12 ,3 ), dello Ò:C1i}EvE~v 't'TI 'ltLCT't'EL (Rom. 14,1 ); la
fede ha la possibilità di crescere (2 Cor. 10,15) fino alla p!enezza della
fede (r Thes. 1,5). La questione del 'perché' di tali differenze non
viene risolta dalla Scrittura pii:1 di quella della cooperazione della
xtipLc; divina con la libera volontà dell'uomo. Così per Paolo la fede

2~ O. Kuss, op. cii. p. 142.


NUOVO Tt;S'J'AMENTO

è «la maniera di vivere di colui il quale 'è stato crocifisso col Cristo',
che non vive più come un io, ma che vive nel Cristo (Gal. 2,19 s.)». 30
E tale fede è concepibile solo in quanto òr.' à.yci7t11c; ÈvEpyouµiv11!
(Gal. 5,6 b). E se per Paolo v'è lo 'stato della fede', i 1tl.(l''tEUO\l'tEc;
non fanno la parte delle comparse! Piuttosto: «Noi distruggiamo
ogni forma di sofisticheria e di orgoglio che si leva contro la cono-
scenza di Dio e pieghiamo ogni pensiero per ridurlo all'obbedienza
del Cristo» (2 Cor. 10,5).

dd. Quali sono i rapporti della concezione paolina della fede con
quella dei Sinottici? La fede per Paolo è in rapporto altrettanto forte
e stretto con la 'salvezza' quanto per qualsiasi altro autore neotesta-
mentario. E sul contenuto di questa aw'f1lpla. Paolo parla altrettanto
chiaramente quanto Giovanni ed i Sinottici. Nella maniera più espli-
cita quando si parla della comunione con Dio mediante il Cristo nella
/ede: «giustificati adesso ( tx 1tla·uwc;), abbiamo la pace con Dio me-
diante il nostro Signore Gesù Cristo e mediante lui anche l'accesso
(nella fede) alla grazia nella quale stiamo» (Rom. 5 ,I s., cf. Eph. 3 ,12 ).
Secondo Eph. 1,15; Col. z,4, la fede è una 1tW't~c; tv 't~ xvpl41 'I11aoii,
rispettivamente E\I Xp~a'ti;i 'I11aoii; «è Gesù Cristo lo spazio, il campo
d'azione nel quale solo la fede può operare».31 Una siffatta interpre-
tazione 'spaziale' di lv Xp~a'tlf) nei passi citati prende sul serio il
fatto che il credere incorpora al Cristo; viceversa Eph. 3 ,17 può dire
che il Cristo deve abitare nei cuori dei destinatari 5~à 'tiic; 7tla'ttwc;.
La 11:la'tr.ç ttu'toii, Xp~a'toii 'I11aoii, e così via, che per lo più deve essere
intesa conformemente al genitivo oggettivo come fede al (non: del)
Cristo, corrisponde al volgersi ed al donarsi confidente al Salvatore,
atteggiamento che caratterizzava già la fede degli uomini nei Sinot-
tici: direttamente come una fede nella guarigione, ma indirettamen-
te e propriamente come una fede nella salvezza.

d. La lettera agli Ebrei che qualifica se stessa come Mroc; m:i.po:ùii-


a'l:wc; ad una comunità vacillante nel suo zelo primitivo (cf. H ebr. 1 3,
22; 12,12) pone la stragrande maggioranza dei 32 passi ove si

JU 'J'WN'J'. 6, n1, 1,·17 (R. BuLTMANN).


11 O. Kuss, op. cit., p. 1'1.
LA ft:DE SECONDO LA S. SCRITTURA

nomina '1tla-t~ç e dei 2 ove si nomina ma-ttutw al servizio della pare-


nesi corrispondente; la sua concezione della fede deve essere vista
compICtamente in tale contesto. Se nella teologia, a ragione, non si
considera Hebr. 11 ,1 come definizione' della nltr-t~c;. il motivo deve
essere ricercato in questa particolare situazione: nel. complesso del-
l'atteggiamento e del movimento della fede vengono particolarmente
colti due aspetti parziali che rivestono una primaria importanza per
la specifica situazione storica dei destinatari non.facilmente identifica-
bili: l'atteggiamento confidente e speranzoso rivolto ai beni futuri del
compimento (v1t6cr-.ttcr~ç H.mt,;oµtvwv) e la convinzione dell'esistenza
di realtà invisibili (H.tyxoc; QV a>..t'ltoµÉvwv). In conseguenza Hebr. l I
sceglie gli esempi adatti dall'Antico Testamento, e sottolinea la cor-
rispondente realizzazione dei due elementi essenziali accennati in
Hebr. 1 r,I nelle rispettive figure dell'Antico Testamento. Con par-
ticolare forza viene quindi ricordato Abramo (v. 8-10): nella fede egli
obbedisce all'invito a partire ed a recarsi lontano senza sapere dQve.
L'oggetto della sua speranza è anzi la «città stabilita con solide fon-
damenta da Dio». L'obbedienza al comando di sacrificare Isacco può
verificarsi solo mediante la fede cieca nella potenza di Dio, la quale
è in grado di risuscitare i morti (vv. 17-19). Tutti guardano a questa
potenza di Dio nel futuro: Abramo, Isacco, Giacobbe, David; tutti
la scorgono anche nell'Invisibile dal quale a loro viene l'aiuto: Mosè
("tov ylip a6pr:t-tov wç Òpwv: V. 27), iJ popolo dell'Esodo e gli uomini
i quali hanno rischiato la loro vita nella fede ( vv. 3 3-40 ). La forte e
matura consistenza della fede propria agli uomini dell'Antico Testa-
mento deve infondere ai credenti del Nuovo Testamento, divenuti
fiacchi, un entusiasmo illuminato e un coraggio nuovo per il rischio
della fede. Qu'.ndi vengono singolarmente citati gli oggetti della
1tltr't~ - H.m~6µtva., où ~Àt'ltoµtvtt -: 11 ,6 parla dell'esistenza e della
provvidenza di Dio, della sua giustizia; I 1 ,3 de!la creazione degli
eoni; 11,19.35 della resurrezione dei morti. Anche Paolo e Giovanni
hanno tutta un 'elencazione di credenda. Ma ciò che differenzia la
lettera agli Ebrei da Paolo è soprattutto il punto di vista: per Paolo
la fede poggia suWannuncio dei testimoni, la 1tLC"'tLc; è tale che si
:iferisce all'Eva.1·y0.L~v. al x~pvyµa., alla 1tttp!i:Socnç. Nella lettera agli
%rei invece il correlativo di nl~"tLç sono le É1ta.y-yEÀ.la.L; la .fede è
NUOVO TESTAMENTO
397

« accettazione dell'invito di Dio alla felicità futura». 12 Propriamente


nella lettera agli Ebrei l'iniziativa divina nei confronti della fede
si ritira a favore dell'opera umana. Bisogna credere perché si è con-
vinti che l'invisibile è la vera realtà; bisogna sforzarsi per una mi-
gliore conoscenza del Cristo (come unico mediatore sacerdotale). Per
far questo occorre meditare attentamente il Cristo. «Il progresso
nella fede è progresso nella conoscenza del Cristo ... e quindi nella
comprensione spirituale». 33
L'atto di fede avviene però all'interno del grande disegno del
«popolo di Dio in cammino» (E. KASEMANN); soltanto nella fede si
rimane nella colonna in marcia e si cammina sempre valorosamente a
grandi passi al seguito del Cristo, apxTJrbç 'ti]<; 7tlO''tEwç ( 12 1 2). A
partire da questa immagine, la costanza 6no in fondo diventa un'esor-
tazione pressantissima ('Ynoµovi'jç yàp ~XE'tE XPEletv: 10,36). E final-
mente: nella colonna in marcia si può stare solo in quanto credenti;
senza fede si provano gli affanni del pellegrinaggio. Hebr. 10,38 (in-
sieme a Rom. 1,17 e Gal. 3,11) è la terza (ed ultima) citazione di
Hab. 2,4: «il mio giusto vivrà della fede». La stanchezza e l'infiac-
chimento nella fede che minacciano i destinatari della lettera signi-
ficherebbero la perdita della vita: di qui la pressante parenesi.

e. Gli scritti giovannei. Se già per le epistole del Nuovo Testamento


era valida l'osservazione che in esse abbiamo a che fare con una mag-
giore profondità di riflessione da parte dell'autore rispetto, ad esem-
pio al vangelo di Marco, tale constatazione si adatta in senso eminente
agli scritti giovannei. Noi troviamo in questi scritti la riflessione più
completa e profonda sulla fede di tutto il Nuovo Testamento. Il
vangelo di Giovanni si presenta proprio come un vangelo scritto per
suscitare la fede ( 20,3 1 ).

La statistica dei termini conferma alla sua maniera questo fatto: delle
241 presenze di 7tLl7'tEVELV nel Nuovo Testamento, se ne riscontrano 98
nel vangelo di Giovanni e 9 nelle sue lettere. Il sostantivo nlCT'tLt; si trova
solo in 1 Io. 5.4· Inoltre bisogna aggiungere tutta una serie di concetti,
i quali per quanto riguanla il contenuto sono identici a mO''tEÙEw e lo spie-

ll C. SP!CQ, L'E.pilre aux Hebreux, II, Coli. •&tudes Bibliques», Paris 1953, p. 379.
33 I bid., p. 379.
LA FEDE SECONDO LA S. SCRITTURA

gano nel suo divenire, nella sua attuazione e nel suo fruttificare: àxovnv,
gpxeal)a~ 'ltp6ç, À.ap.(3iivELV, òp&v, i)Ewp:::i:v, i)eci:O'i)aL, LSEi:v, axoÀ.oui)Ei:v,
n)pEi:v, cpvÀ.a""t""tSLV; negativamente: li'ltELÌ)Ei:"ll, à:i}e""tEL"\I.

Se si colloca questo fatto sullo sfondo di tutto il vangelo di


Giovanni e della prima lettera, emerge una concezione della fede for-
temente dinamica. Per Giovanni la fede in prat'.ca è sempre un av-
venimento (fides qua) e mai dottrina, visione, e cosl via. La fede
avviene, accade. In questo avvenimento è impegnato l'uomo con tutte
le sue capacità. Perciò la fede giovannea è qualcosa di vitale, di sa-
liente, vorremmo quasi dire di ribollente. Giovanni praticamente rap-
porta al Cristo qualsiasi possibile manifestazione vitale dell'uomo. Le
attività sopra nominate (àxoÙELv, e così via) costituiscono un prendere
conoscenza, un essere impressionati, un costituire a nuovo la pro-
pria vita - tutto ciò sulla base dell'incontro con il Salvatore che è
«luce» (q>Glr;) e «vita» (~wl}). Questo incontro ebbe luogo per i con-
temporanei di Gesù di Nazaret durante il tempo della sua vita terre-
stre. Perché essi potessero riconoscerlo come il Salvatore inviato da
Dio, egli dovette prestar loro aiuto mediante i segni (0'1lµEi:o.), ma
anche sempre e ripetutamente mediante la sua parola. La parola, gli
[pyo. ed i 0'1\µEi:CI testimoniano per Gesù, come anche testimoniano
per lui il Padre, il Paradito e le Scritture. I credenti in questo ve-
dranno aprirsi a poco a poco i loro occhi: «Se qualcuno farà la sua
(del Padre} volontà, conoscerà ... » (Io. 7,17). Il fare la sua volontà
dispone qJindi alla conoscenza, secondo I Io. 4,7 s. poi dispone alla
conoscenza l' lLyci.1tTJ. E l'amore rende in qualche maniera connaturali
a Dio (Ex 't'ou ìkoù yEyÉwrrtaL: I Io. 4,7) coloro che lo amano (l'amore
dei quali si esprime nel fare là volontà di Dio), in quanto Dio è ayti1t1')
(1 Io. 4,8.16).
Le descrizioni del 'ltl.a't'€VEL\I in Giovanni mostrano inoltre il rife-
rimento personale della fede non già ad una dottrina, ma a Dio, a
Gesù Cristo. La 'ltlcr·nr; in Giovanni conduce chiaramente la lotta
con la gnosi. Il rapporto con Dio non consiste in una conoscenza
esangue ed intellettualistica, bensl nel lasciarsi incantare e legare
e quindi nell'essere incantati e legati in tutto l'uomo attraverso la
figura luminosa ( 86!;.a:) del rivelatore Gesù ed attraverso l'amo-
re (àyti1tl]) di colui che lo ha mandato.
NUOVO TESTAMENTO
399

Nell' àya1tliv, nel òO.E~v 't'Ò i}Eì..TJµt:t O:V't'OV 1toi.e~v ( r Io. 4,7 s; Io.
7,17} colui che vuole credere si apre al rivelatore: le sue orecchie si
aprono all'ascolto ed alla comprensione delle parole di Gesù ed i suoi
occhi alla meditazione degli tpya di Gesù, che per lui sono segni e
quindi, come tali, rimandano al di là di se stessi':' Nella fede l'uomo
si apre per andare (Ep)(EuÌl"aL) a Gesù, per lasciarsi accogliere da lui e
per non farsi rigettare da lui (lo 6,37). La fede si presenta allora
come comunità di vita e di destino con colui che ha accolto il credente
e che a sua volta viene accolto (À.o:µ~avELv) nella fede. Ormai lo si
segue (&.xo).ovÒE~v), e come servitori (obbedienti!) si sarà dove è lui
(lo. 12,25 s; cf. I0,4 s.27; 21,19 b-24) fino al dono della vita. L'ob-
bedire non è quindi perdita, ma segno insostituibile dell'amore auten-
tico: «Chi mi ama, osserva i miei comandamenti!» (lo. 14,15; cf. 14,
2 r.2 3 ). Nell'tixovm1 giovanneo è spesso implicito l'ù1to:xouELV (ana-
logamente all'ebraico sama'), anche se il termine manca del tutto in
Giovanni e viene sostituito da 'tTJPE~v ('t'Ò'V Myo'll, -tà4 tv"toÀ.li.c;, e così
via). All'obbedire cosl concepito viene promesso anche il possesso del-
la vita (Io. 5,24; 8,51), in maniera eguale che alla fede (Io. 5,24) o al-
l'amore (r Io. 3,14) - un indizio questo che mostra l'intreccio intimo
e la connessione mutua degli atteggiamenti suddetti Il mo..tEUELV gio-
vanneo è sempre in via verso l'incontro personale con Dio; la forza
intima di questo movimento della fede è l' &.ycbtTl, la quale sorge nel-
l'uomo dal conoscere che Dio ha amato per primo e che ci ha dimo-
strato questo amore nel dono del Figlio (Io. 3,r6; r Io. 4,9 s.; qui
Giovanni si avvicina fortemente a Paolo, cf. 2 Cor. 5,r4 s).
La fede già prima (Antico Testamento, Paolo) era apparsa come
dono, come un consegnarsi dell'uomo a Dio, e così Giovanni, da par-
te sua, continua ad accentuare questo aspetto, ma elimina in questo
ogni parvenza di negatività: il dono a Dio non si ha per costrizione
o nel timore servile, bensì nell'amore.; esso si oppone radicalmente al
qi6~oc; (r Io. 4,18). Per Giovanni la rivelazione è l'offerta dell'amore
di Dio; allora la fede come «SÌ» alla rivelazione è essenzialmente un
«SÌ» all'amore di Dio nella corrispondenza più completa (una fides
informis negli scritti giovannei costituisce per lo meno una fede molto
problematica!).
La fede giovannea è infine conoscenza: mi:r't'EVEW e r~vwcrxELV (dove
400 LA FEDE SECONDO LA S. SCRITTURA

questo non ha per soggetto il Cristo) sono intercambiabili (cf. così


I o. l 7,21 con l 7 ,2 3 ! ). Giovanni contrappone ad una IJiEvowvuµo~
yvwcnc; il ywwc;xEw cristiano. Una tale yvwc;Lc; - credente - non consi-
ste in un poter 'disporre' dell'oggetto conosciuto. Essa è piuttosto un
«essere determinati ed un lasciarsi determinare da ciò che si conosce»
(H. ScttLIER). IlLO""'tEVELV costituisce in Giovanni un avvenimento che
si manifesta sempre nuovamente, che non si attua semplicemente nel·
l'intelletto dell'uomo, ma che determina il credente nell'interezza della
sua realtà umana, nel pensiero, nella volontà e nel comportamento,
e lo indirizza al Dio che è àyami.
Se adesso, dopo aver determinato il significato fondamentale della
'!tlO'"'tL<;, volgiamo la nostra attenzione all'initium fidei, riscontriamo
come Giovanni dia una risposta anche a questo problema. Dio ha ama-
to per primo (I Io. 4,10: cf. 3,1; Io. 3,16). In questi termini Giovan-
ni presenta l'iniziativa del Padre nell'evento della salvezza testimonia-
ta da tutto il Nuovo Testamento. Il Padre 'trae', e solo cosl diventa
possibile «Venire al Figlio», cioè credere (Io. 6,44; cf. 6,65 ). Per poter
intendere rettamente bisogna essere «da Dio» ( 8,47) «dalla verità»
(18,37), bisogna appartenere alle sue pecore (10,27). Dio opera lana-
scita «dall'alto» (3,2) e consegna gli uomini al Figlio perché nessuno li
strappi a lui (6,26 s.; 43-45.64 s.; l0,29; 17,2.6.9) L'uomo in questo
rimane libero di itfl..Ew "'tÒ i)fì.n1.ia au"'toii 'ltOLdv ( 7, r 7) cioè di 1tLO'"'tEUELV
o di ti'ltEdM:v (Io. 3,36). E cosi Giovanni afferma che solo l'uomo è
responsabile del rifiuto della fede (15,22.24; 16,9). Operare (Èpyli-
~EO'OaL) per il cibo che rimane per la vita eterna e che ci sarà dato dal
Figlio (6,27) è un'esortazione alla cooperazione con il Padre neces-
saria alla vita eterna. E l'opera del Padre è che gli uomini credano in
colui che egli ha mandato (6,29). (Per cibo nei senso di 'elemento di
vita' cf. Io. 4,34: per Gesù stesso è cibo fare la volontà del Padre
ed il compiere la sua 'opera').

f. La realtà nuova del credente - Chi si apre nella fede al rivelatore.


chi «viene a lui», è passato dalla morte alla vita ( 5 ,24 ). Egli è nella
sfera del rivelatore, nella luce (3,21; 8,12; cf. 1 Io. 1,7), e (con)di-
pende dal suo sforzo morale rimanere nella comunione con Dio ( 1 5,
4 s.) e portar frutto nell'unione vitale con il Cristo ( l 5 ,5 ). Il credente
NUOVO TESTAMENTO 401

trova in questa comunione con Dio la sua nuova posmone, il suo


'posto fisso' nel quale non subisce più il giudizio (3,18; 5,24) e nel
quale ha vinto il mondo sul fondamento della sua unione con il vin-
citore Cristo (cf. 16,33 con 1 lo. 5,4). Infine il possesso della vita
(eterna) non è più per il credente oggetto di speranza, ma realtà
presente .'!A Poiché Gesù stesso è la vita (II ,2 5; 14,6 ), «possedere la
vita» ed «avere il Figlio» sono espressioni equivalenti (cf. I Io.5,12 ).~5
Per comprendere l'essenziale della concezione biblica della fede, bi-
sogna porre ben attenzione alla formula giovannea ~XEW ~w'i)v come
situazione nuova del credente. La vita di cui parla Gesù è qualcosa
di differente dalla vita naturale (~loi;): essa non è nient'altro che
lo stato di salvezza, i beni della salvezza. Lo stato di salvezza da parte
sua non è separabile dalla persona del Salvatore: «Chi ha il Figlio ha
la vita» (1 Io. 5,12). Appare qui evidente come la cristologia del Lo-
gos sia strettamente connessa con gli usi significativamente numero-
si di mu-rEvEw e con i concetti affini. Nel cammino di Dio verso l'uo-
mo, nella rivelazione in Cristo, non si tratta (soltanto) d'una comu-
nicazione di prindpi, di verità, di credenda. Nella sua azione e nel
suo parlare il rivelatore comunica se stesso, e colui che ascolta e
crede non accetta (solo) parole del rivelatore, ma n~lla parola riceve
questo rivelatore stesso come nuovo principio vitale (À.a.µ~ci.vtw, 6.xov-
Ew)! Questo fatto spiega, tra gli altri, l'interesse del qaarto Evange-
lista a chiamare Gesù la Parola.:!6 La fede per il vangelo di Giovanni
è un dire sì alla parola detta. Ma - e qui Giovanni non fa che usare lo
stesso metodo che usa altrove, cioè il ricorso alla polivalenza dei con-
cetti - il dire sì alle parole è nella sua radice più profonda un dire
sì alla Parola che è Gesù, e per ciò stesso è il dono confidente ed
amoroso di chi ascolta e crede a colui che parla e si comunica e che, da
parte sua, si dona agli uomini. Diventa quindi anche chiaro perché,

'!A 3,1,.36; ,,24; 5,40; 6,4740; 6,5os.54.57.58; 10,10; 10,28; 17,3; 20,31; I Io. 5,
rr; le formule al futuro 5,25; 6,51.57 s.; 11,25; 14,19; I Io. 4,9 non si riferiscono
al futuro, ma sottolineano la condizione della decisione della fede per il possesso
della vita.
Jl Se il possesso della vita viene ascritto anche all'eucaristia (lo. 6,54.,8) ed al-
l'amore per il prossimo (I Io. 3,14), non è perché eucaristia ed amore del prossimo
siano vie accanto alla fede, ma perché sono atti i quali possono essere compiuti nel
loro senso pieno solo nella fede .
.16 Per la cristologia del Logos, cf. il vol. lii di quest'opero.

26 Mvsterinm ,alutis / 2.
402 LA FEDE SECONDO LA S. SCRITTU.RA

negli scritti giovannei, l'agape rivesta un ruolo tanto jmportante.


L'autocomunicazione di Dio (rivelazione) avviene grazie all'amore
( 1 5, r 5: essa è segno dell'amore d'amicizia che Gesù ha per i suoi;
3,16 e altrove la considerano come un motivo per il dono del Figlio);
essa può quindi essere compresa nella sua essenza propria solo da colui
che da parte s~a comincia ad amare (I Io. 4,7 s.: chi ama, 'conosce'
Dio; chi non ama, non lo ha compreso; cf. Io. 16,27). Solo dove coin-
cide con l'amore e supera quindi la semplice adesione a dei principi, il
m.CT'tEVELV giov:J.nneo raggiunge nell'uomo la sua completa dimensione.

La parola di Gesù che sveglia la fede, quando viene omesso il membro


intermedio 'vita', secondo il IV Vangelo opera nel credente (indicando
i 'beni' che formano il possesso della vita nei credenti durante lo
stato di pellegr'.naggio) la gioia piena (15,11; 17,13; cf. 16,24), la
dp-fivTJ (pace nel senso di salvezza finale - cf. il vocabolo fondamentale
ebraico salom -; 16,33; d. 14,27); la remissione dei peccati (15,3:
i discepoli diventano 'puri' in forza della parola detta ad essi e da loro
accettata; d. 17,19; r Io. r,7; 4,ro). 'Vita', per il credente, significa
soprattutto intima comunione col Cristo e con Dio;" ricezione del
Pneuma (7,39; 14,15-17); comunione tra i credenti in una pienezza
che riflette l'unione tra il Padre ed il Figlio (Io. 17,21-23; cf. I Io.
1,3-7); la conoscenza e l'amore del Padre (14,21; 16,27) e l'amicizia
col Cristo ( 15 ,14): e, in intima connessione con questo, la sicurezza
dell'esaudimento della preghiera (16,26 s; d. 15,7.16). Infine però -
e qui sembra che il vangelo di Giovanni voglia precisare il concetto
di ~w1) atwv~oç - la vica è «che essi riconoscano il solo vero Dio e.
colui che tu hai mandaco, Gesù Cristo» ( 17 ,3 ). Ma conoscere significa
«primariamente l'aéceccazione cosciente dell'amore, l'accettazione del-
l'azione d'amore che Dio opera in Gesù ~··· l'obbedienza ai suoi co-
mandi».3~

Conoscenza c visione di Dio sono diventate per l'uomo più vicine


che mai attraverso l'incarnazione e la morte del Verbo. Questa cono-
scenza, che nello sce~so tempo è visione, è comunicata da Gesù agli
uomini nel ~cnso di r 4,9 («chi ha visto me, ha visto il Padre») e

l7 Cf. soprattutlo le cosiddelte formule d'immanenza. Su queste vedi l'exrnrrns di


R. SCHNACKE)IBURG. Die Jobannesbrfrfe. Freihurg i. Br. 2196J, pp. 105-110.
1~ T\V\'T, 1,711s. (R.BuLTMA~"N).
NUOVO TESTAMENTO

12,45 («chi vede me, vede colui che mi ha mandato»). La concezione


giovannea della 'conoscenza', che ha un carattere specifito, riceve
la sua dimensidne caratteristica dal fatto che questa partecipazione
non avviene in astrazione, ma è concretizzata in una p~sona umana
(C. H. Donn). Secondo 14,20 noi conosceremo che il Cristo è nel
Padre, noi nel Cristo ed il Cristo in noi. Per i profeti dell'Antico Te-
stamento, l'acme della conoscenza era dato dalla visione anticipatrice
dell'assoluta sublimità di Dio. Per Giovanni questa esperienza è resa
possibile nel riconoscimento di Cristo come rivelazione del Padre e
come inseparabilmente uno con il Padre; il suo compimento si trova
nell'esperienza della nostra unione col Cristo in Dio. Tuttavia, no-
nostante la sua realized eschatology, Giovanni sa che la vita fin da
adesso a noi partecipata arriverà alla sua pienezza solo nel futuro.
Giovanni non corregge dunque il paolino «adesso come in uno spec-
chio, in modo enigmatico - allora faccia a faccia» (r Cor. 13,12), ma
prende l' <~adesso» in maniera radicale e seria, e si trova quindi nella
condizione di presentare 1' «allora» nella sua rappresentazione vera-
mente gloriosa.i'
JOSEF PFAMMATTER

19 Alla pienezza finale si riferiscono il testo di Io. 14, 2 s.; 17,24; 1 Io. 3,2; anche
10,29 riceverà la sua assoluta cenezza solo 'allora'
SEZIONE TERZA

LINEE DELLO SVILUPPO DEL DOGMA


E DELLA TEOLOGIA

La dottrina scrittunsuca sulla fede è rimasta sempre virtualmente


presente nei dottori della Chiesa, nella predicazione della Chiesa e
nel suo magistero. In prima linea la tradizione ha parlato della fede
precisamente quando ha ricevuto, interpretato e spiegato ai fedeli la
dottrina della Scrittura. Determinati tratti della dottrina biblica sulla
fede sono però entrati a far parte in maniera più chiara della coscienza
riflessa della Chiesa in diversi periodi dello sviluppo dottrinale. Se
tentiamo qui di tracciare le linee di questo sviluppo, sia pure in mo-
do sommario, non vogliamo per questo ingenerare l'impressione, er-
rata, che un periodo determinato della storia della Chiesa abbia di-
menticato del tutto alcuni aspetti della predicazione biblica della
fede, oppure non li lasci apparire con chiarezza. Occorre quindi che
teniamo conto della necessaria incompletezza del nostro tentativo. 1

1. Una prima riflessione sulla natura della fede cristiana ebbe luo-
go nella contrapposizione con lo gnosticismo. 2 Per la gnosi, il feno·
meno religioso è primariamente dono naturale o condizione mistica;
la teologia della Chiesa accentua invece il carattere della fede come
azione libera e morale dell'uomo e come libero dono gratuito di
Dio. Mentre lo gnostico disprezza la fede riducendola ad opm1onc
personale non fondata (&6~!'l ), la teologia cristiana invece accentua

1 Sul tutto d. R. AUBEllT, Le problème de l'acle de foj., Louvain 31958 (la citazione
di quest'opera viene abbreviata nel modo seguenle: AvsERT) pp. 13-222 {pauis1ica:
13-42; ToMMASO: pp. 43-71; magistero della Chiesa da Trento al Vaticano 1: pp. 72-
131; Vaticano 1: pp. 132-222; già queste proporzioni mostrano come solo in lempo
recente si sia prestata maggiore attenzione ai problemi connessi con la fede). Un bre-
ve ma eccellente schizzo dello sviluppo dogmatico della domina della fede si 1rova
in J. Au1rn, Was beim glauben?, in MTZ, 13 (1962) 235-255.
2 Cf. K. RAHNEll, Gnosis, in LTK2, 4 (1960) 1019-1021; H. R.111NEll, G110stizis11111 1 •
1v. Christlicher Gnoslizfrmus, Ibid., io28-1030.
LINEE DELLO SVILUPl'O J)J;L DOGMA E J)t:LLA TEOLOGIA

il carattere di certezza della fede che viene caratterizzata come hn-


a"t'i}µT}. L'atto libero ed umano della fede si commisura non già alla
mutevolezza ed alla fragilità dell'uomo, ma alla veracità ed alla fe-
deltà di Dio al quale l'uomo si apre nell'ascolto docile della fede.
Quindi la fede dei semplici costituisce già qualcos!I' di definitivo, ol-
tre la quale non si può andare, ma nulla impedisce che, come sot-
tolineano soprattutto gli A!lessandrini, essa guadagni in valore
quando assurge ad una vera gnosis. Essa infute arriva alla sua pie-
nezza quando arriva ad essere amore ed osservanza dei comanda·
menti. «Un primo cambiamento salvifico mi sembra essere quello
dal paganesimo alla fede; un secondo quello dalla fede alla gnosi;
quello definitivo consiste nel passaggio all'amore e stabilisce quindi
il conoscente ed il conosciuto in una relazione intima d'amicizia». 3
La dottrina della Chiesa quindi considera la fedc come azione mo-
rale libera, come risposta all'invito di Dio che ne garantisce il carat-
tere di fermezza e di certezza. Viene riconosciuto altresl il carattere
di gratuità nella quale la fede può svilupparsi in vera gnosi e diven-
tare operante nell'amore.
Con una novità rispetto alla Scrittura, tuttavia, va guadagnando
importanza l'esatto contenuto della fede, la sua ordinazione a delle
'verità', a dei dogmi. La 'regola di fede' della Chiesa sta al di sopra
della conoscenza della Scrittura, di cui gli gnostici avevano abusato
con deformazioni arbitrarie. Come metro decisivo viene stabilita la
tradizione apostolica nelle Chiese apostoliche, particolarmente nella
Chiesa romana (IRENEO). Grazie a questa evoluzione, la fede viene
considerata in primo luogo come adesione alle verità di fede garan-
tite dalla Chiesa, e allora la fides quae creditur prende il sopravvento
sulla fides qua creditur. La fede viene cosl fortemente accostata alle
convinzioni metafisiche, e ciò che secondo la Scrittura in essa v'è di
slancio religioso trova ormai il suo posto in una vita conforme alle
verità di fede nel culto e nelle osservanze morali.
Questa tendenza si conferma e si rafforza nei secoli successivi a
causa delle dispute trinitarie e cristologiche. L'interesse principale
consiste nel rifìutq delle concezioni eretiche.

} CLEMENTE AL~SSANDRINO, Stroma/a, 7, IO, n-57 (57, 3 ss.), in GCS, Clemcns lii
(STAllLIN) 40.
LINEE DELLO SVILUPPO DEL DDGMlt. E DELLA. TEOLOGIA 4o7

2. AGOSTINO ha una duplice importanza per la teologia della fede


nei secoli che lo seguiranno. Da una parte egli rivolge la sua atten-
zione all'aspetto psicologico. Si rivelano qui l'esperienza della sua
conversioi;i.e ed il suo genio introspettivo. Ma poi egli elabora soprat-
tutto il carattere gratuito della fede contro il naturalismo pelagiano.
Per quanto riguarda il primo aspetto, la fede si differenzia dalla
visione o dalla conoscenza in quanto poggia sull'autorità e sulla te-
stimonianza. La fede è cosi presupposto e condizione dell'intendere:
crede ut intelligas. D'altra parte il principio è anche valido inver-
samente: intellige, ut credas.4 In primo luogo per poter credere bi-
sogna infatti comprendere il senso di ciò che deve essere creduto:
«credere est cum assensione cogitare»; 5 in secondo luogo però biso-
gna rendersi conto che è ragionevole e saggio affidarsi all'autorità:
«nullus quippe credit nisi prius cogitaverit esse credendum».6 Come
per la tradizione precedente, cosl anche per AGOSTINO assume molto
peso il fatto che la fede ha un carattere morale e quindi libero ed
impegna cosl la volontà e l'amore; in tale contesto egli considera
degna di nota solo la fede viva, mentre la fede morta, la fede dei
cattivi cristiani, viene equiparata alla fede dei demòni.
Agostino dovette lottare inoltre còntro i pelagiani ed i semipela-
giani per difendere la gratuità della fede. Soprattutto nella discussio-
ne con questi ultimi viene chiarito come tutto nella fede, il suo stes-
so inizio (initium fidei), ed anche la conoscenza in cui sfocia, derivi
dalla grazia di Dio. Infatti i semipelagiani volevano riservare al po-
tere dell'uomo almeno questo primo punto d'aggancio, l'initium fi·
dei, per poter salvare, come essi pensavano, da un certo quietismo
l'impegno morale dell'uomo. Ma anche questo scopo buono non riu-
scl a giustificare il mezzo poco adatto di ricorrere ad una diminu-
zione del ruolo della grazia.
Il II concilio di Oranges (a ..529) valse a difendere questa dottrina
del «Doctor gratiae» dagli attacchi dei Massilienses (scuole teologi-

• Epist., 120, 1, 3, in PL, 33, 453.


s De praedestinatione sanctorum, 2, 5, in PL, 44, 963. Su ciò cf. ]. PIEPER, Ober dei
Glauben, Miìnster 1962, pp. 61-68; M.·D. LlfENU: Studes d'hi!loire littéraire et doctri-
nale du XIII• siècle, 2' séric, Paris r932, pp. r88-189; M. LoHRER, Glaube und Heils-
geschichte in De Trini/a/e Auguslins, in FZPT, 9 (1957) 399-403.
6 De praed. sancr., 2, 5, in PL, 44• 962 s.
LINEE DELLO SVILUPPO DEL DOGMA E DELLA IEOLOGIA
-408

che della Francia meridionale raccolte attorno a GIOVANNI CASSIA·


NO), dei monaci di Marsiglia e di Lérins, e soprattutto di FAUSTO DI
RIEz: anche il c~edulitatis affectus - secondo i semipelagiani della
Francia meridionale si tratta della mano che tende al Salvatore colui
che sta per annegare prima ancora di ricevere la grazia - è effetto
della grazia preveniente.7

3. Nell'atmosfera raccolta e credente del Medioevo a poco a poco


va acutizzandosi un'altra questione, quella sui rapporti tra fede e
conoscenza. Questo presuppone che la fede venga sempre ed inequi-
vocabilmente vista come funzione conoscitiva; a ciò aveva preparato
del resto la lotta contro lo gnosticismo e le eresie trinitarie. Nella
società cristiana, la conoscenza della fede ha inglobato in sé anche
la scienza prof~na per una visione generale della storia e del mondo
elaborata dall'uomo secondo l'ottica della fede: cosi la storia pro-
fana viene completamente racchiusa entro la storia della salvezza e
un'autonomia della conoscenza profana della storia perde ogni
interesse. La teologia della storia che Agostino traccia nel De
civitate Dei assurge a interpretazione per antonomasia della storia
universale. La primitiva scolastica è in un primo tempo espressione
fedele di questo atteggiamento: la conoscenza comincia con un atto
di fede, in secondo tempo però viene messa in atto la speculazione
filosofica per chiarire i contenuti accettati nella fede.
Ma nell'x1 secolo, abbandonandosi all'euforia incontrollata della
scoperta, la dialettica 8 cominciò a fare un uso esagerato della ratio
e. infeudò nel dominio delle sue sottigliezze il contenuto della fede
con tanto maggior~ facilità, quanto più completa e senza disconti-
nuità era stata l'integrazione della scienz~ e della fede in una eredità
spirituale, senza che ci si preoccupasse al tempo stesso di operare
almeno una distinzione di ordine metodologico. Allora degli antidia-
lettici come PIETRO DAMIANI (t 1072) seguirono un sano istinto cri-
stiano esortando a guardarsi dalla dialettica sostitutrice della fede
come da una peste. Cosl tuttavia si veniva a negare alla conoscenza

7 DS 371-39,, spedalm. 37), 377; N11218 s., 696-700, specialm. 698. Cf. AuBER'f, pp.
30-42.
a Cf. GJLSON-BOHNEH, Die Geschichte der christlichen Philowphic, Padcrbom 1937
l'I'· 268-27 I.
LINEE DELLO SVILUPPO DEL DOGMA E DELLA TEOLOGIA

naturale l'autonomia propria voluta da Dio, e si rendeva impossi-


bile il suo naturale servizio per la penetrazione e la spiegazione della
rivelazione. ABELARDO (t I 142)9 inserl la sua dialettica per sé entro
i confini prestabiliti della teologia, ma, nell'arditezza della sua scelta
delle auctoritates con l'aiuto del metodo sic et non, venne conside-
rato come un innovatore rivoluzionario, e il suo tentativo fu visto
come oltragg~osa profanazione della scienza sacra. ABELARDO eccelle
sui suoi predecessori anche per aver voluto fondare razionalmente
la fede contro i Giudei e i pagani, e per essersi rifatto, nella con-
futazione degli eretici, ad una presentazione razionale del contenuto
della fede.

4. Nell'alta scolastica il problema della fede viene posto in manie-


ra profondamente nuova. Ormai non i'ARISTOTELE della sola logica,
ma l'Aristotele della visione sistematica del mondo - con la sua forte
coerenza interna dimostrata nell'interpretazione della natura e dell'uo-
mo - affascinava gli uomini protetti dalla società cristiana dell'Oc-
cidente. Questa visione del mondo era venuta a formarsi 'laicamente'
senza riferimento alla rivelazione nel Cristo, e non si lasciava ricon-
durre semplfcemente al programma del «credo ut intelligam». Essa
costituiva infatti un intelligere tratto da una sorgente diversa rispet·
to alla fede nella rivelazione cristiana. Si pervenne così alla grande
crisi dello spirito occidentale. Le proibizioni di Aristotele ne sono
l'espressione. Il contributo che s. TOMMASO portò ad una soluzione
equilibrata costituisce un'opera di validità secolare, capace di creare
un'epoca, in quanto la crisi fu superata e questo superamento si tra-
dusse in fecondità per la teologia.
TOMMASO descrive il concetto della fede servendosi del concetto
aristotelico di scienza. Certo egli non fa derivare direttamente il con-
cetto di fede dalle categorie aristoteliche ma teologiche; TOMMASO
quindi presenta la fede così come viene intesa dalla rivelazione, ma
in una prospettiva diversa da quella della Scrittura e dei padri. La
fede è un modo di conoscere nel quale l'oggetto non viene visto im-
mediatamente, ma solo poggiandosi sulla testimonianza d'un 'altro',
con gli occhi di quest'altro e attraverso la sua mediazione. Quest' 'al-

9 G11suN - BOllNJ::M, up. àt., pp. JlZ·HJ.


410 LINEE DELLO SVILUPPO Ol!L DOGMA. E DELLA TEOLOGIA

tro' è certamente Dio stesso (e da ciò provengono alla fede la sua


ineguagliabile dignità e fermezza); ma egli è un 'altro' e perciò la
conoscenza cosl mediata è 'soltanto' indiretta. Il 'sl' all'invito perso-
nale di Dio (cosl soprattutto la Scrittura vede la fede) viene qui vi-
sto troppo facilmente in funzione della conoscenza oggettiva mediata
proprio da questo assenso.
TOMMASO non ignora tuttavia che il movimento principale della
fede termina in Dio stesso, e che il resto è secondario.m Ma l'aspetto
di conoscenza qui descritto è solo un lato della teologia della fede
in TOMMASO. Egli della fede sottolinea altresl il carattere sopranna-
turale, di 'virtù', la sua dimensione escatologica. Proprio per que-
sto s. TOMMASO definisce la fede come «habitus mentis quo inchoa-
tur vita aeterna in nobis, faciens intellectum assentire non apparen-
tibus».11 La fede viene concepita a partire dalla determinazione so-
prannaturale dell'uomo; l'ordinazione al soprannaturale, che deve
essere 'infusa' da Dio, sul piano de1l'essere viene integrata nella strut-
tura psicologica dell'uomo come un habitus, 12 sul piano del conoscere
viene integrata come quel modo di procedere per 'composizione e divi-
sione' che caratterizzano lo status viatorum e quindi si esprime in
giudizi che non verranno comunicati all'uomo nella visione, ma piut-
tosto dati nella predicazione: fides ex auditu, adesione che viene pre-
stata nella libertà «ex amore boni repromissi». 13 La teologia della
fede in questa maniera è intimamente ben calibrata (presentarla nella
sua completezza significherebbe anticipare la spiegazione teologica
che costituirà l'oggetto della SEZIONE QUARTA) e determinata nella
sua prospettiva attraverso la propria situazione storica.

5. La visione dell'alta scolastica pur nelle sue tensioni riusciva a


formare una profonda unità. Questa viene spezzata sempre più a
partire dal 1300 con la tarda scolastica e con il nominalismo. La vi-
sione razionale-aristotelica della fede si isola maggiormente e viene

10 Vedi S. tb., 2.·2, 1, 2, 2: «Actus ... credentis non terminatur ad enuntiabile, sed
ad rem».
li S. tb., 2·2, 4, I.
12 Vedi M. SECKLER, Instinkt und G/aubemwille nacb Thomas van Aquin, Mainz
1961, spedalm. pp. 159-268.
Il Sulla reologia della fede cf. il voi. xv della DJ"bA: Glaube als T ugend (S. tb.,
!Hl 1·16)( 19,0).
LINEE DELLO SVILUPl'O DEL DOGMA E DELLA TEOLOGIA

creato uno iatus tra fede, giustificazione e vita soprannaturale. L'ari-


stotelismo, che in s. Tommaso è integrato coerentemente, ora si eman-
cipa, mentre questioni come quelle sulla salvezza e sulla giustificazio-
ne vengono trattate meno in connessione con la fede, e quindi più con
la carità come forma virtutum e con i sacramenti: una visione questa
che, nata da un rinnovato incontro con la Scrittura, venne con-
siderata come un tradimento del messaggio primitivo e suscitò quin-
di una reazione corrispondente.

6. Questa situazione spiega la svolta della teologia della fede cosl


come fu attuata da M. LUTERO. «Giustificazione mediante la fede e
mediante la sola fede», è l'esigenza nuova. Perciò una fede concepita
intellettualisticamente non può bastare. Punto di partenza della teo-
logia diventa la questione: «Come farò a trovare un Dio benevolo?»,
posta sulla base dell'esperienza angosciosa dell'esistenza personale.
La risposta venne letta in Paolo: «Nella fede verso Dio che mi giu-
stifica». Una fede siffatta è molto lontana da una pura accettazione
di più verità, essa include anche la speranza, la confidenza nel Dio be-
nevolo verso di me; tuttavia essa diventa troppo unilateralmente una
«fede fìduciale». Le verità della fede alle quali aderire intellettual-
mente, così come erano state elaborate nella lunga tradizione della
Chiesa, non hanno diritto di intervenire; esse vengono limitate al
momento dell'illuminazione dello Spirito, che il singolo riporta nella
lettura della Scrittura.
Il concilio di Trento presenta la dottrina della fede non in se stes-
sa, ma in connessione con la dottrina sulla giustificazione, esposta du-
rante la VI Sessione ( 1 3 gennaio x54 7) nel Decretum de justi/icatione
(ns 1520-1583; NR 709-770). Al cap. VI, nella descrizione del 'mo-
dus praeparationis', tra le disposizioni alla giustificazione viene no-
minata in primo luogo la fede: «svegliati ed aiutati dalla grazia di-
vina, accolgono la fede ex auditu e si muovono liberamente verso
Dio, credendo vero ciò che Dio ha rivelato e promesso, soprattutto
che il peccatore viene giustificato da Dio mediante la grazia ... ». 14 L'uo-

14 NR 715; vs 1526: « ...excitati divina gratia et adiuti, fidem 'ex auditu' (cf. Rom.
10,17) concipientes, libere moventur in Deum credentes, vera esse, quae divinitus re·
velata et promissa sunl, atque illud i11 primi;, u Dco iusti/icari impium per gratia111
ClU5 ... >>.
LINLJ; UliLLU ~VILUPPU Dl'L DOOM,\ I! U~Ll.A TEOLOGlh
412

mo riceve però la fede come abito permanente (questa espressione


viene intenzionalmente evitata, ma la cosa in sé è implicita) insieme
alla giustificazione stessa, con la remissione dei peccati insieme alla
speranza ed alla carità. «Infatti la fede se non è accompagnata dalla
speranza e dalla carità, non unisce pienamente ·a Cristo, né rende
memhra vive del suo corpo ... ». 15 È chiaro che la fede che giustifica
dei riformatori non esclude la speranza e la carità, ma (in maniera
chiara almeno per la speranza) in quanto 'fede .fiduciale' le include
in sé. E i riformatori si possono richiamare al fatto che la Scrittura
parla in maniera piena della fede che giustifica, molto più di quanto
non lo faccia il concilio di Trento. Perciò non trova una sufficiente
considerazione presso i riformatori quanto nella fede c'è di cono·
scenza formulabile in maniera vincolante. Se quindi. nel concilio al
cap. VIII così viene spiegato lo iustificari per fidem: «quia fides est
humanae salutis initium, fundamentum et radix omnis iustificationis,
sine qua impossibile est placere Deo (Hebr. I I ,6) et ad filiorum
eius consortium pervenire»,16 questo è senz'altro un elemento impor-
tante della funzione giustificante della fede, ma non esaurisce tutto
il contenuto di ciò che Paolo intende con questa formula, ,in quanto
egli intende la fede in un significato più pieno di quanto non fosse
possibile con il concetto di fede ereditato dalla tradizione medievalt>,
rigidamente distinto dalla speranza e dall'amore. Al cap. IX il conci-
lio si distanzia espressamente dalla «inane fiducia degli eretici» (Ds
1533 s.; NR 723). Da una parte viene insegnato che, presumendo
della propria fiducia e certezza, non è giusto considerarsi giustificati,
in quanto a nessuno viene dato alcun segno sicuro della reale giusti-
ficazione; e dall'altra parte viene detto che non è richiesta la fede
fiduciale nella giustificazione personale perché uno sia realmente giu·
stilìcato, che anzi nessuno può «con certezza di fede, alla quale non
possa soggiacere alcun errore, sapere di aver conseguito la grazia di
Dio» (DS 1534; NR 723, cf. anche ns 1740). La (zrmissima spes (ns
1541), e non la fede, gioca qui il suo ruolo, che è contemporanea-
mente di confortare (a causa dell'aiuto di Dio nel quale ci si abban-
dona), e di rndi~are nell'umiltà (a causa della propria fragilità).

Il Cap. 7: us 1530; NR 72i.


lo DS 1532; NR 722.
LINEE DELLO SVILUP!'O DEL DOGMA E DELLA TEOLOGIA

Nel cap. x viene anche assegnato alla fede ed alle buone opere un
influsso nella crescita della giustificazione.
Al cap. xv viene affermato che la grazia e con essa la carità ven-
gono perdute con ogni peccato grave (e non solo mediante l'incre-
dulità), ma non in maniera tale che, tranne che non si tratti d'un
peccato contro la fede, venga a perdersi la fede stessa; nel peccatore
può quindi continuare a sussistere la fides mortua, che esercita cosl
una funzione in rapporto alla salvezza (os 1544).

7. La teologia post-tridentina rimane legata all'interesse scolastico


sulla funzione conoscitiva della fede e consacra la sua attenzione so-
prattutto al problema dell'analysis fidei, cioè alla questione sui rap-
porti della conoscenza razionale della credibilità con i motivi sopra-
razionali della fede. La trattazione di tale questione ci occuperà espres-
samente nella SEZIONE QUARTA.

8. Il secolo XIX ebbe a far fronte alle grandi correnti del tempo,
che dopo l'incubazione dei due secoli precedenti irruppero nell'am·
biente ecclesiale dall'esterno: la filosofia illuminista di marca ra-
zionalista ed ostile alla fede, e le nuove scienze matematico-naturali,
ricche di successo ma falsamente interpretate in chiave materialista,
atea e panteista. Il tradizionalismo, sviluppantesi nell'area cattolica,
costituiva una ·specie di fuga disperata dalla conoscenza naturale ap-
parentemente fallita su tutta la linea nella sua visione del mondo,
per rifugiarsi nella falsa sicurezza d'una fede di marca fideista. D'al-
tra parte nell'ambiente della teologia cattolica sorse un semiraziona-
lismo (GiiNTHER, HERMES, FROHSCHAMMER) influenzato dalle con-
quiste scientifiche del tempo il quale accettò fiduciosamente l'aiuto
delle scienze moderne, ma che indebolì troppo, riducendoli alla mi·
sura della scienza umana, i contenuti soprarazionali della fede.
In questa situazione, per la prima volta nella sua storia il magiste-
ro cattolico ha fatto tema proprio la dottrina teologica sulla fede nel
Vaticano I. Anche qui la prospettiva è determinata dal tempo e dal-
la storia, ma il contenuto - anche se in maniera non esaustiva - è
fedele espressione dell'immutata coscienza della Chiesa. La fede, «che
è l'inizio dell'umana salvezza» viene vista come «virtù soprannaturale
mediante la quale, con l'impulso ed il sostegno della grazia di Dio,
LINEE DELW SVILUPPO DEL DOGMA E DELLA TEOLOGIA

crediamo come vero ciò che ci è stato rivelato da Dio. non perché
si percepisca con il lume naturale della ragione la verità intrinseca
delle cose, ma per l'autorità di Dio stesso che riv~a, il quale non
può ingannarsi né ingannare ... » (os 3008; NR 35). 11 In questa defini-
zione si trova contenuto tutto ciò che sarà sviluppato in seguito, come
'la fondazione razionale della fede' sui 'segni' dati da Dio, soprattutto
i miracoli e le profezie (Ds 3009; NR 36 ); la gratuità e quindi il carat-
tere ralvifico e la libertà della fede vista in se stessa, anche quando es-
sa non sfocia nella carità (DS 3010, NR 37); il suo oggetto, i credenda
(ossia ciò che è stato rivelato da Dio, come è contenuto nella parola
scritta e tramandata: DS 3011; NR 38 ); la sua necessità per la salvez-
za (os 3012, NR 39 ); la possibilità della conoscenza della credibilità
mediante l'esistenza e la vita della Chiesa in se stessa e nelle sue
note esterne quale «rignum levatum in nationes»- (os 3014; NR
3 55 s.), e perciò la necessità e la grazia della perseveranza di coloro
i quali «mediante il dono celeste della fede già aderirono alla verità
cattolica» (ns 3014; NR 40 s.).
Un capitolo specifico, il quarto, si occupa in maniera più determi-
nata delle relazioni intercorrenti tra fede e ragione, della distinzione
dei due ordini di conoscenza, ognuno con i propri princìpi (ragione
naturale-fede divina) e con il proprio oggetto (verità naturali-misteri).
I due ordini non stanno in opposizione tra loro, in quanto ambedue
hanno la loro origine vera nello stesso Dio (Ds 3017; NR 44 s.), anzi
possono e devono essersi di reciproco aiuto (os 3016; 3019; NR 43;
46 s.). Ambedue gli ordini devono crescere e svilupparsi, ma questo
sviluppo sarà tale che il contenuto stesso della dottrina, il suo senso,
rimarranno invariati (os 3020; NR 48).

9. La Chiesa nel Vaticano I si è quindi pronunciata in maniera este-


sa ed efficace sulla propria concezione della fede; tuttavia ciò che la
Chiesa ha affermato in quella occasione non può costituire l'ultima
parola in materia, come se non avessero diritto alcuno le prospettive
diverse dei tempi nuovi, anzi come se ]a concezione della fede depo-

17 «Rane vero fidcm ... virt11tem esse supernaturalem, qua, Dei aspirante et adi11van-
le grafia, ah eo revelata vera esse credimus, non propler i11trimecam rerum verita/em
naturali ralionìs lumine perspectam, sed propter aucloritarem ipsius Dei revelanlis,
qui nec falli 11ec /al/ere po/est ... ».
UNEE DELLO SVILUPPO DEL DOGMA E DELLA TEOLOGIA

sitata nelle Scritture e la sua migliore comprensione non potessero


spingere verso nuove accentuazioni.
L'unilateralità - certo inevitabile - del Vaticano I può essere rav-
visata nel fatto che esso ha fermato in modo troppo esclusivo la sua
attenzione ai credenda, al contenuto formulato delle espressioni della
rivelazione e, pur senza averlo dimenticato, ha lasciato troppo da
parte l'incontro personale tra Dio che chiama e l'uomo (e peccatore)
chiamato. Intanto il tempo, l'evoluzione storica dello spirito nel
campo delle scienze ecclesiali (e quindi più dall'esterno), ed il pro-
gresso nella comprensione stessa delle fonti della fede e soprattutto
della teologia biblica (e quindi dall'interno) ha condotto a problema-
tiche diverse, intorno alle quali oggi si muove la teologia della fede.
Restano ancora da elaborare:

a. Il contributo portato dalla discussione sul retto metodo apologe-


tico. Si parla - semplificando - di un"apologetica dell'immanenza' che
può essere caratterizzata da nomi come NEWMAN, BLONDEL, LABER·
THONNIÈRE, LE RoY, 18 una questione alla quale già prima ma anche
durante il Vaticano 1 ha dato un importante contributo il card. DE-
CHAMPS.

b. La crisi modernista sorta per il fatto che dei teologi, attraverso


uno psicologismo ed uno storicismo relativistico distruttori della fe.
de, vollero risolvere affrettatamente le non ancora mature questioni
sulla storicità e sul personalismo. 19 Il rifiuto di queste false soluzioni
tuttavia non potè impedire che tali questioni venissero differite e
richiedessero una nuova soluzione; a questo fine ci si è adoperati
positivamente nel Vaticano II, nel quale può essere ora fatto conflui-
re l'oscuro lavoro dei teologi che hanno investigato in questo campo.

c. Un aiuto positivo e fecondo di nuovi risultati potè essere dato


dal tomismo rinnovato di un P. RoussELOT da una parte, e dall'altra

1s Cf. AUBERT, pp. 265-392; J. TRiiTSCH, ImmanenZ1Jpologetik, in LTK2, '(r960)


631-633.
19 Cf. AUBERT, pp. 368-386. Nel 'giuramento antimodernista' cf. il punto primo al
I paragrafo (conoscenza naturale di Dio), il punto secondo (efficacia dei segni di cre-
dibilità), il punto quarto (evoluzione dogmatica), il punto quinto (fede come ano
intellettuale e non come sentimento cieco): DS 3538 s.; 3541 s.; NR 65; 66; 68; 69.
.p6 LlNEE DELLO SVILUPPO DEL DOGMA E DELLA TEOLOGIA

dal pensiero personalista che deve molto agli sforzi di MAX ScHE-
LER ed alle concezioni della filosofia esistenzialista, sorte dalla feno-
menologia io e per la cui assimilazione si è dimostrato ancora di aiuto
il card. NEWMAN. 21 P. RoussELOT nei suoi «Occhi della fede» 22 ha
potuto nuovamente avviare ai fini d'una penetrazione speculativa
della fede la trattazione della funzione dell'illuminazione sopranna-
turale e la funzione della volontà nella sua causalità reciproca con
l'intelletto.
Le esigenze del pensiero esistenzialista e personalista furono ac-
cettate soprattutto da A. BRUNNER 21 e J. MouRoux.'" Non bisogn:i
inoltre tralasciare l'apporto d'un nuovo significato della fede per la
comunità, per il sopraindividuale.i,,

l!l Cf. L. VERGA, Il problema della fede nell'esistenzialismo, in Problemi e orienta·


menti, I, Milano 1957, pp. 759-825.
21 Cf. AUBERT, pp. 452-644. J.M. REUSS (a cura), Glauben beute. Oberlegungen fùr
den Dienst am Glauben (contributi di R. ScHNACKENBURG, A. GORRl'S, H. FLECKF.NS-
TE!N, E. TEwEs, V ScHURR, J.M. Rwss), Mainz 1962.
22 P. RoussELOT, Les yeux de la foi, in RSR, l (1910) 241-259; 444-475.
21 A. BRUNNER, Glaube und Erkenntnis, Miinchen 1951.
24 J. Mouaoux, Je croir en loi, Paris 1948 (trad. it., Brescia).
~ Per una presa di contatto sulle questioni sorte recentemente, cf. J. TRfiTSOI,
Cl,,11be 11nd Erkenntnir, in FTH, 45·68.
SEZIONE QUARTA

INTELLIGENZA TEOLOGICA DELLA FEDE

«La ricerca più profonda della nuova teologia, nella misura nella
quale essa si considera qualcosa di più che pura storia o tecnica pa-
storale, è volta a rispondere alla domanda del catechismo: «che cosa
è la fede in senso cristiano?». Il modo in cui un teologo tenta d'inter-
pretare l'essenza della fede divina, lascia trasparire nel modo più
chiaro l'indirizzo particolare ed il condizionamento storico della sua
teologia». 1
Si va quindi alla ricerca di una definizione della fede; una defini-
zione che deve salvare tutta la ricchezza del concetto biblico di fede
e che tuttavia non riuscirà mai ad accoglierne in modo adeguato tutti
gli elementi. L'uditore attento del messaggio biblico sulla fede riesce
a percepire molti più suoni di quanti non ne riesca a contenere una
definizione scolastica.
Certo, a noi è sbarrata la via verso una definizione intesa in senso
cartesiano, una definizione cioè che, sviluppandosi more geometrico,
sia in grado di darci tutta la dottrina sistematica sulla fede. Il qua-
dro che della fede ci danno la Scrittura e la tradizione non è tale in
sé, da permettere una definizione incisiva. Ciò che Scrittura e tra-
dizione intendono con l'espressione 'fede', costituisce qualcosa di
unitario, nonostante tutta la molteplicità di particolari che essa na-
sconde in sé e che non potrebbero mai venir dedotti da una rigida
definizione concettuale. La pregnante densità dei particolari si è
palesata tuttavia anche come molteplicità riconducibile ad unità. Nel
sistema infatti si corre il rischio d'assorbire la varietà degli elementi;
e tuttavia, senza il sistema, noi non potremmo· intendere la pienezza
cosl come essa è, come unità nella molteplicità, ma solo come un fa-
scio di elementi slegati - ciò che essa non è . .E quindi giustificato e
doveroso il tentativo d'uno svolgimento teologico-sistematico della
dottrina sulla fede.

1 K. Esc11WEILER, Die zwei Wege der neueren Theo/ogie, Augsburg 1926, p. 27.

27 Mysrerium saluris / 2.
INTELLIGENZA TEOLOGICA DELLA FEDE

In questa trattazione noi dobbiamo partire dalla coscienza che di


se stessa ha la fede cristiana e cattolica, e, in questa coscienza, dalla
sua figura totale compiuta e non già da uno scheletro di fede quale,
ad esempio, potrebbe essere costruito a partire da un metodo pura-
mente apologetico. 2 Come situazione normale della fede non può es-
sere presupposta quella della 'fede morta', intorno alla quale poi co-
me ornamento ulteriore sia possibile costruire una sovrastruttura
mediante la carità; la situazione normale è invece quella del pieno e
totale amen salutis quale unità vivente che non è suscettibile di vivi-
sezione. In caso contrario, noi tenteremmo inutilmente in un secon-
do tempo di infondere vita nelle membra disperse.
I frequenti tentativi in questo senso sono dovuti al disagio che
il credente sperimenta nella sua fede quando si trova alle prese con
simili teorie. 3 In simili construzioni infatti egli non ritrova la fede
della sua esperienza quotidiana. Una definizione della fede deve com-
prendere la.fede totale e vissuta, così come la presentano i documenti
della rivelazione e non già un aspetto isolato, come potrebbe essere
la fede come conoscenza o addirittura una mera fides scientifica, figlia
legittima d'una dimostrazione scientifico-apologetica. La problematica
dell 'analysis fidei e della dimostrazione razionale hanno operato un
isolamento ingiusto ed una sensibilizzazione eccessiva verso questi
aspetti, cosicché il teologo, a causa di questa maniera unilaterale di
considerare la fede, deve stare attento a non perdere di vista la
totalità - perdita non rimediabile con precisazioni d'appendice.
Un passo della Scrittura più degli altri potrebbe essere preso come
'definizione' della fede: Hebr. rr,r: «La fede è la convinzione delle
cose che non si vedono e il tener fermo alle cose sperate» ( trad. KAR-
RER).4 TOMMASO o' AQUINO considera questo passo come una «com-
pletissima eius [ = fidei] definitio». 5 «Rettamente considerata, la de-
scrizione suddetta [cioè Hebr. 1r,1] contiene tutti gli elementi con
i quali la fede può essere definita, sebbene le parole non siano dispo-
ste in forma di definizione concettuale».6

2 Vedi anche FJH, 46-:;1.


J Cf. F. TAYMA:<S, Les énigmes de l'acJe de foi, in NRTh, 76 {r954) u3-133.
4 «Esl autem /ides sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium:
"Ec"n" U. 7tUr-rL; H.7t•i;oµÉvw'J u7tca.:aat<; 7tpa.y116."r•.iv, \'À.Eyxec; ...,,:. ~lEr.01.tivwv,,
5 De veritate, r4, 2 c.
6 5. th., 2·2, 4, I C.
INTELLIGENZA TEOLOGICA DELLA FEDE

Elaborata in forma tecnica la definizione essenziale della fede, se-


condo S. TOMMASO, suona così: «Fides est habitus mentis, quo in-
choatur vita aeterna in nobis, faciens intellectum assentire non appa-
rentibus».7 Con questa definizione viene chiaramente detto che la
fede è formalmente un atto dell'intelletto - a mezza strada tra !'«opi-
nione e il dubbio» da una parte, .e tra la «visione e la scienza» dall'al-
tra, contrassegnato dall'assenso «faciens intellectum assentire [quin-
di non solo opinare o dubitare] non apparentibus [quindi non in-
nalzando l'oscurità ad una scienza o a una visione]». Tutto ciò però
non deve essere separato dalla tensione dinamica verso la vita aeter-
na; la fede giace lungo la linea della salvezza e deve essere compresa
quindi non già a partire dal basso, dalla definizione aristotelica, an-
che se la salvezza, in quanto salvezza dell'uomo, si attua nello stesso
uomo inteso aristotelicamente e penetra quindi il suo spirito senza
collocarsi in qualche maniera 'accanto' ad esso. Una teologia scola-
stica - cosi come viene intesa da TOMMASO - prenderà le sue mosse
da qui. Una teologia della storia della salvezza tenterà altre vie, non
già negando la visione tomista e neppure ponendosi come mero svi-
luppo di essa, ma piuttosto integrandosela. Essa parlerà, più chiara-
mente e con maggiore risalto di quanto non lo faccia TOMMASO,
dell'evento della salvezza nel Cristo, senza pensare però che TOM-
MASO abbia tralasciato questo aspetto. TOMMASO infatti non era un
teorico razionalista della fede, come alcuni manuali tomisti potreb-
bero dare l'impressione.
E se R. BuLTMANN descrive l'uso specificamente cristiano di 'fede'
(che noi metteremo a fondamento della nostra trattazione) come «l'ac-
cettazione del kerygma cristiano e quindi come la fede nella salvezza
che fa propria, riconoscendola, l'opera salvifica di Dio operata nel
Cristo»,8 noi non esitiamo ad accettare questo come una buona de-
finizione, che in maniera pregnante include tutto ciò che deve essere
poi sviluppato in maniera sistematica. Tuttavia, nell'uno come nel-
l'altro caso, lo sviluppo non deve avvenire in modo intellettualista

7 S. !h., 2-2, 4, r c.: «La fede è un abito dello spirito mediante il quale s'inizia i
noi la vita eterna ed il quale porta l'intelletto ad ussentire a ciò che non vede».
~ T\'(INT, 6, 209.
4:rn INTELLIGENZA T EOLOGJCA DELLA FEDE

attraverso l'analisi concettuale, ma solo in un continuo contatto con


il dato positivo.
Una cosa deve però per noi rimanere chiara attraverso tutte .que-
ste 'definizioni': la fede deve essere concepita solo come qualcosa
che è correlativo all'offerta salvifica di Dio, alla sua rivelazione negli
eventi e nella parola (al 'kerygma cristiano' secondo R. BuLTMANN,
ai non apparentia, al compimento eterno ed al suo inizio embrionale
in noi, cioè alla salvezza offerta e rivelata, secondo TOMMASO). Ri-
torna qui un'altra volta l'aporia fondamentale della rivelazione di-
vina in coloro che l'accettano, un'aporia che H. VoLK descrive cosl:
«Nella rivelazione della parola Dio parla in maniera infinita e noi
comprendiamo in maniera infinita - ma allora comprendiamo vera-
mente noi? -, oppure Dio parla in maniera infinita e noi compren-
diamo in maniera finita - ma allora noi comprendiamo veramente?
Oppure bisogna dire che Dio parla in modo finito, e noi compren-
diamo in modo finito, ma allora Dio parla realmente di sé, Dio ma-
nifesta se stesso, o manifesta solo qualcosa che allora non è iden-
tico con Dio?». 9 Nella fede dunque ci si fa incontro nuovamente
il mistero dell'incarnazione del Dio infinito in una creatura fini-
ta. Se la rivelazione di Dio non può essere altro che una rive-
lazione soprannaturale, anche la fede suscitata da questa rivelazio-
ne, la fede salvifica (e non già una fede filosofica o escogitata dal-
l'uomo), può vivere solo nell'atmosfera dello scambio vitale divino
solo nella grazia divina, solo sotto lo spirare dello Spirito santo ( 1°).
Questo è lo Spirito di Gesù Cristo, cuius caro salutis est cardo, uno
Spirito che non soppianta l'azione umana, che non conduce ad un
assorbimento in Dio che annienti la personalità, bensl alla confessio-
ne «che il Cristo è venuto nella carne» (2°), che quindi la nostra ri-
sposta è appropriata al suo invito personale (a), una risposta che ci
conduce alla comunità dell'ek-klésia (b), che anzi può essere data solo
nella comunità della Chiesa, nella comunità di coloro «che amano
la venuta del Signore» (2 Tim. 4,8), e la quale come sposa attende
il compimento escatologico (c)·. La fede ci pone quindi davanti al Pa-
dre ( 3°), «che è tutto in tutte le cose», la cui immediatezza ci è stata
schiusa dal Mediatore - mediator ad immediationem Dei -, un'im-

1 H. VotK, Glaube als Gliiubigkeit, Mainz 1963, p. 48.


IN SPIRITU 421

mediatezza con Dio raggiunta dall'uomo mediante la fede come 'virtù


teologica' Sarà quindi compito della teologia mettere in evidenza
questa struttura trinitaria e d'incarnazione della fede. Da questi due
misteri - o se si vuole da uno solo, dall'Incarnazione vista in tutte
le sue implicazioni - dipendono non solo 'Legge e Profeti', ma tutta
la teologia. La fede, la fede salvifica, può quindi essere cosl esposta
secondo la sua struttura trinitaria:
x. In Spiritu: la fede come opera dello Spirito santo nell'uomo.
2. Cum Christo: la fede come azione dell'uomo chiamato dal
Cristo:
a. dal Christus solus: struttura personale della fede.
b. dal Christus totus: dimensione socio-ecclesiale della fede.
c. dal Christus venturus: attuazione escatologica della fede.
3. Ad Patrem: immediatezza con Dio della fede (come virtù teo-
logale.

r. In Spiritu. La fede come opera dello Spirito santo nell'uomo

Non è questo il luogo per descrivere la vocazione dell'uomo alla di-


vinizzazione (iMwcnç), alla «partecipazione della natura divina», 10
ali' «assunzione del posto di figlio»,u al possesso «dello Spirito della
filiazione· donato dalla grazia (vlo1'E11la. )12 mediante la quale noi real-
mente, in quanto generati da Dio (-eixva), diventiamo assieme al Cri-
sto eredi di D:o» 13 e siamo quindi «nati da Dio>), come dice Giovanni,"
anche se adesso non è stato ancora rivelato ciò che noi saremo. 15 Su ciò
si parlerà dettagliatamente nel voi. II e rv. Ma non possiamo qui non ac-
cennare al fatto che la fede dell'uomo giace sulla linea di questa ele-
vazione 'soprannaturale' nella quale l'iniziativa appartiene a Dio e
verso la quale l'uomo in forza della sua natura creata non può pre·
sentare alcuna pretesa. Non lo potrebbe l'uomo naturalmente buono

ID &Elrx<; xo•\1~1110( cp\HTEW<; ( 2 Pt_ 14).


Il Gal. 44-7 (uto&Eala.'),
12 Rom. 8,15-16.
13 Rom. 8,17.
1• Io. I,13. Cf. Io. 3,3·8.
15 I [o_ 3,2.
422 'NZA T EU LUUl CA DELLA F

(ipotetico), ed a maggior ragione non lo può il peccatore, quale di


fatto l'uomo è. Il peccato, accentuato ancora e portato alla piena
coscienza dalla legge, la quale «è venuta perché abbondasse il pecca-
to» (Rom. 5,20), ha reso ancora più chiaro che «Dio ci ha amato
per primo» (I Io. 4,10), che il suo amore si 'raccomanda' proprio
per il fatto che «quando noi eravamo ancora pecc.atori, Cristo è mor-
to per noi» (Rom. 5 ,8 ). La fede si trova quindi nell'uomo lungo il
cammino che porta dalla lontananza da Dio, dovuta al peccato, dall'i-
nimicizia con Dio (cf. Rom. 5,10), alla riconciliazione, alla giustizia ed
all'amicizia con Dio nella filiazione divina e nella comunione di vita
con lui. E la fede rimane anche l'atteggiamento che serve a contras-
segnare costantemente il riconciliato, il figlio di Dio. Il 'venire alla
fede' è quindi accompagnato sempre dalla 'conversione' (µE"tavoLa),
cosicché Marco in maniera concisa e pregnante può riassumere la pre-
dicazione di Gesù nelle parole: «Il tempo è compiuto, il regno di
Dio è venuto vicino; convertitevi (µEi:avofrtE) e credete alla buona
novella» (Mc. r,15).
Solo in questa prospettiva, in questa integrazione della fede nella
pienezza della vita cristiana e della salvezza, viene sottratto il fon-
damento ad ogni sospetto di una pretesa arbitraria nei confronti di
Dio, e viene evitata l'impressione che nella fede si possa trattare solo
d'un assenso esteriore a delle proposizioni che non si comprendono.
La fede è un atto salvifico, essa giace quindi nella linea della risposfa
a Dio che ci chiama ad essere suoi figli, essa rimane sempre imma-
nente (in quanto fondante: fundamentalìter) a questa filiazione e,
come questa, porta in sé il fermento del compimento escatologico,
dinamicamente tesa a ciò che non si è ancora rivelato, a ciò che noi
vedremo quando vedremo Dio come è. Non è questo il luogo per
approfondire tutti questi aspetti; tuttavia ciò deve essere ugualmen-
te presupposto quando noi esponiamo la seguente tesi:
La fede è in noi opera della grazia, meglio: dello Spirito santo;
meglio ancora: del Padre in quanto manda il suo Spirito ch'è lo
Spirito del suo Figlio nei nostri cuori.
La fede avviene «Èv 1tUEUllCl"t~». 16

16 Cf J. i\u ,',Rfl, Fìder, rpcr, carilas. AtlnoltJtio11cs i11 trac/atum dc virt11tib11r


1/i,·ol Rom~ I!J63: Th. 9: Homo rzon poteri credere D,·o 11iri per gratiam Dci
IN SPllllTU

Non è nostro compito mostrare qui che il fine ultimo dell'uomo,


che consiste nella visione immediata di Dio, supera talmente tutte
le possibilità umane, che può essere donato solo dalla libera autoco-
municazione di Dio, mediante l'assunzione dell'uomo nell'intimità
originaria ed assoluta del Dio trino, e che esso quindi è sopranna-
turale nel senso più stretto della parola. 17 Può essere parimenti pre-
supposto che la «caparra dello Spirito», quale già fin d'ora è donata
all'uomo e grazie alla quale egli già da ora viene chiamato ed è real-
mente «figlio di Dio», 18 è dello stesso ordine, non solo nel senso che
il Cristo già è venuto ed ha già compiuto la sua opera, ma anche nel
senso che l'uomo nel suo intimo è aperto 'in maniera non oggettiva'
a quest'ordine soprannaturale, in quella che i teologi chiamano 'gra-
zia interna'. Tuttavia qui è importante sapere che tutto ciò avviene
sempre e soltanto 'a partire dalla fede', che la fede - per non dire
di più - è almeno la condizione necessaria ed assoluta della salvezza:
«Senza fede è impossibile piacere a Dio ... ». 19
Qui inoltre deve essere sottolineato che una fede siffatta - e noi
diremo che una fede diversa non esiste, se vogliamo restar fedeli al
nostro concetto di fede, alla fede cristiana-, come anche ciò che essa
condiziona ed a cui conduce, la salvezza, non può essere senza influs-
so interno dello Spirito di Dio, senza grazia. Tutto ciò che conduce
positivamente alla salvezza, ogni dispositio ad iustificationem, che è
qualcosa di più che una pura negatività, può verificarsi infatti solo
per intervento della grazia. 20 E la fede deve essere almeno conside-
rata come una disposizione positiva alla giustificazione, come ad
esempio fa espressamente il concilio di Trento. 11
Sarebbe tuttavia sbagliato voler concepire la fede nella sua forma
minimale. 22 La fede nella sua forma normale è quella dei figli di Dio,
fede abituale e vivente «che opera mediante la carità». In questa

(pp. 212-233); G. DE BROGLiE, Pour u11e théorie rationnelle de l'acte de foi. 11, Paris
1954, pp. 61-76 (LA rurnaturalité de la foi).
17 Cf. voi. V, cap. 9, SEZIONE SECONDA.
l8 Cf. I Io., 3,r.
19 Hebr. II,6; ns 1n2; NR 722.
10 Cf. voi. 1v, cap. 9.
21 Cf. DS 1526; r532; 1553; NR 715 s.; 722; 740.
~ Cf. supra p. 417.
INTELLIGENZA TEOLOGICA DELLA FEDE

fede ci si avv1cma al concetto 'pregnante' di fede 21 ' come si trova


nella Bibbia, un concetto che è idoneo a contrassegnare tutta la vit.t
del cristiano e tutto il suo atteggiamento di fronte a Dio che lo sal-
va. In essa la Ù1t11xoi} 7tla-,uwc;, l'obbed:enza della fede,:. trova real-
mente la sua piena realizzazione, come 'ascolto' di Dio adempiuto,
che non si ferma a mezza strada. Sorge quindi motivata l'esigenza di
prestare particolare attenzione, all'interno di questo atteggiamento
totale, al carattere decisivo, rispetto alla speranza ed alla carità, della
fede che è nominata per prima ed è fondamento tra 'queste tre'. 25 Ma
ciò deve essere fatto senza dimenticare che essa trova vita solo al-
l'interno dall'atteggiamento totale del cristiano contrassegnato dalla
fede, dalla speranza e dalla carità, o che essa viene data solo in
ordine a questo atteggiamento.
Questa affermazione deve essere approfondita in tre direzioni:
a. Nessuna fede senza grazia interna.
b. Niente nella fede senza grazia interna.
c. La grazia però non soppianta o sostituisce nulla: né la natura, né
la 'grazia esterna', cioè la rivelazione esterna nelle opere e nelle
parole.

a. Nessuna fede senza grazia interna

Soprattutto la 'fede normale', la fede di colui che come giustificato


conduce la vita del figlio di Dio, non si dà senza grazia. In questo
caso lo «Spirito di Dio inabitante», l'amore di Dio effuso mediante
lo Spirito santo r{ei nostri cuori (cf. Rom. 5 ,5), fonda non solo atti
di fede ma anche un costante atteggiamento di fede. Ma anche la
fede i11 fieri, la fede come preparazione ·e disposizione alla giustifica-
zione, non è senza la grazia, foss'anche la fede che sopravvive, dopo
la perdita della vita divina nell'anima a causa di un'offesa contro la
carità, e per di più come habitus e non solo come atto. 20 In modo
del tutto generale vale il principio che «fides ipsa in se, etiamsi per

Il Sul 'co11ceplus pr11eg111111J vocum credl!ndi' vedi G. DE BROGLIE, Trac/atus de vir-


lule fidei (ad usum auditorum), Paris, Inst. Cath. s. d., pp. q s.
" Cf. Rom. 1,5; 16.26.
ll Cf. 1 Cor. I 3,1 3.
lo DS 3010; J0.\5; ~~ 37; 57
IN SPIRITU

caritatem non operetur (cf. Gal. 5,6), donum Dei est et actus eius
opus ad salutem pertinens».21
Che questa grazia sia una 'grazia interna', non riducibile quindi
alla testimonianza esterna mediante le parole e le opere - anche se
destinata a noi con bontà gratuita - viene espressa nel Nuovo Te-
stamento in vari modi. Basti qui rimandare brevemente a quella lode
che Gesù, secondo Mt. 16,17, fa alla fede di Pietro: «non te lo han·
no rivelato la carne ed il sangue ma il Padre mio che sta nei cieli»;
questo Padre che ha «rivelato ai piccoli» mentre ha nascosto' ai sag-
gi ed ai sapienti (Mt. 11,2_:;) quella conoscenza del Padre che pos-
siede solo il Figlio e «colui al quale il Figlio Io vuole rivelare» (Mt.
II ,2 7 ). Qui si deve senz'altro trattare di qualcosa di diverso da una
presentazione esteriore della dottrina e d'un influsso del segno visi·
bile che vengono ascoltati e visti anche da coloro i quali non danno
realmente la risposta di fede. Si tratta quindi d'una rivelazione inter-
na, di ciò che Paolo chiama una rivelazione dello Spirito («Dio ce lo
ha rivelato mediante il suo Spirito», iCor. 2,10). «Noi... non abbiamo
ricevuto Io spirito di questo mondo, ma lo Spirito che è da Dio per·
ché noi riconosciamo ciò che Dio ci ha donato» (1 Cor. 2,1.2). Si trat·
ta di un'illuminazione interiore dello Spirito, infu~a nei nostri cuori
mediante la comunicazione dello Spirito santo. «Dio, alla parola del
quale brillò la luce dalle tenebre, ha fatto brillare la luce nei nostri
cuori perché risplenda in essi la conoscenza della gloria di Dio sul
volto di Cristo Gesù» (2 Cor. 4,6). Per Giovanni, il vero maestro è
lo Spirito santo presente nel nostro cuore: «Il consolatore, lo Spi-
rito santo che il Padre vi manderà nel mio nome, egli vi insegnerà
ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (lo. 14,26);
«Egli è l' 'unzione' in voi che vi insegnerà tutto» (cf. I Io. 2,27). An·
zi viene affermato in maniera nettissima: «Chi crede nel Figlio di Dio
ha la testimonianza di Dio in lui» ( 1 Io. 5 ,10 ). La fede ci può essere
soltanto dove il Padre «trae» (cf. Io. 6,44), dove qualcuno <~ha udito
ed è stato istruito dal Padre» (Io. 6,45), dove «è stato dato dal Pa-
dre» (lo. 6,65 ).
Il magistero ecclesiastico contro i pelagiani - e ancora più preci-

D os 3010; NR 37: «Anche se non opera attraverso la carità, tu!lavia la fede in s.O
~ un dono di Dio e l'atto di fede è un'opcro< ordinata alla salvezza».
!Nl'ELL!GENZA TEOLOGICA DELLA FIODL

samente contro i semipelagiani - si vide costretto a includere in


questa affermazione, e proprio in forza della gravità di essa, anche
il primo movimento della fede, l'initium /idei. Pertanto viene attri-
buito al gratiae donum: «per gratiae donum, i.e. per inspirationem
Spiritus Sancii corrigentem voluntatem nostram ab infidelitate ad
fidem», anche I' «initium fidei ipsumque credulitatis affectum».']j,
Certo, si tratta sempre del «credere sicut oportet», di quella fede
cioè alla quale si rivolge l'offerta della rivelazione cristiana. Ma non
è nostra intenzione parlare d'una fede diversa da questa. Determi-
nati problemi hanno condotto nell'epoca moderna a teorizzare una
fede che, come pensano alcuni teologi, sarebbe possibile anche senza
la grazia: una fede scientifica (fides scientifica), risultato di un'analisi
razionale della credibilità della rivelazione. Noi qui ci possiamo limi-
tare alla costatazione che una fede siffatta, anche se è realmente pos-
sibile e non si riduce invece ad una pura costruzione irreale, in ogni
caso non è la fede salvifica della quale unicamente trattiamo. Su que-
sto argomento ritorneremo (vedi infra pp. 466 ss., 480 ss.).
Ogni momento della fede è grazia, avviene 'nello Spirito', che il
Padre ci manda e che costituisce anzi l'origine ultima della Trinità
immanente ed 'economica'. E diciamo ogni momento della fede cri-
stiana, non escluso neppure il suo primo inizio.
Ora possiamo procedere oltre ed affermare:

b. Niente nella fede è senza grazia

Questa affermazione non è più soltanto estensiva, ma intensiva: nien-


te di ciò che forma, costituisce o edifica la fede è sottratto alla po-
tenza dello Spirito: né ]'apporto dell'inrelletto, né quello della vo-
lontà, né l'accettazione dell'oggetto di fede, né ]'accettazione della
credibi1ità. Di più: anche l'unità originaria dell'intelligenza e della
volontà, l'esistenza personale, viene operata dall'azione dello Spirito.
L'iniziativa ultima, il fondamento più profondo della possibilità non

i& Cf. il concilio di Orange, us 375; l\R 698: anche l'inizio della fede, anzi la
stessa pia disposizione a credere ... è in noi in fona d'un dono della grazia, cioè del-
l'ispirazione dello Spiri10 santo il quale porta la nostra volontà dall'incredulità alla
fede. Cf. J. CubiÉ, Quc rignifiaienl 'inilium /idei' et 'alfectur credulilalir' pour le.r
5,:mipi!!ag1e11s, in RSR, 35 (1948) 566-588.
IN Sl'lRIIU
·P7

sta mai nel creaturale, nel 'naturale' Sempre e sotto ogni riguardo
il Dio che dona la grazia rende possibile la fede e ciò in libera auto-
comunicazione, proprio come 'grazia elevante'. Noi non vogliamo
affatto mitigare la dottrina antipelagiana sulla grazia: tutto è grazia. 29
Sarebbe inoltre falso intendere l'elevazione soprannaturale in sen-
so solo entitativo-giuridico. Essa abbraccia la realtà della fede in noi
in quel che essa veramente è: realtà intenzionale, atto intellettivo-
volitivo.~
La grazia è quindi in primo luogo liberazione dell'uomo dalla schia-
vitù per la libertà con la quale ci ha liberato il Cristo (Gal. 5,1 ),
liberazione per la risposta obbediente all'invito del Signore, alla ùmt-
xo1), all'ascolto volonteroso e libero da quei molteplici legami che
rendono l'uomo peccatore schiavo 'degli elementi del mondo' (Gal. 4,
3} - in quanto grazia sanante -, ed ancora più è liberazione per
quella libertà che è un sì all'elevazione nell'infinità divina, come
viene espresso nella risposta filiale: «Abba, padre». La volontà di
credere è «animazione dello Spirito» (Rom. 8,r4). E questo intende
anche il II concilio di Orange, quando ascrive al dono della grazia
il pius credulitatis afjectus; 31 questo in1;ende il Tridentino secondo il
quale gli uomini «excitati divina gratia et adù1ti .. libere moventur in
Deum,32 e la stessa cosa viene ancora sottolineata dal Vaticano I con
riferimento al 11 concilio di Orange, quando viene affermato che
nessuno può aderire alla predicazione del vangelo «absque illumina-
tione et inspiratione Spiritus Sancti, quì dat omnibus suavitatem in
consentiendo et credendo veritati».13
In questo 'sì' dell'uomo liberato si schiude una conoscenza nuova,
un vedere nuovo, con gli occhi di Dio. Perciò questa grazia è anche
'luce' - lumen /idei :i.-. Essa ci dà degli 'occhi nuovi', gli occhi della

29 Cf. il contributo di O. SEMMELRO'rfl, Vo11 der Gnade deJ G/a11be11s, in GuL, 36


(1963) 179-191.
lO Cf. J. ALFARO, op. cit., pp. 227-333. Questa posizione può essere considerata og-
e, come sembra a noi, certa. Cf. ID.,· Supernaturalitas /idei juxta
gi va/de commu11ior
S. Thomam, in Gr, 44 (1963) 50I·J42; 731-787.
31 DS 375.
32 DS 1526.
JJ DS 3010 NR 37.
31 S. lb., 2-2, 1, 5, 1. Cf. M. SECKLER, lmtinkt u11d Glaubenswillc, Mainz 1961, pp.
156-161.
INTELLIGENZA TEOLOGICA DELLA l'EDE

fede. 15 La stessa grazia della fede libera la volontà ed illumina la co-


noscenza nello stesso tempo e non una dopo l'altra, come del resto
nella fede volontà ed intelligenza sono anche reciprocamente imma-
nenti e si condizionano reciprocamente in una causalitas reciproca. ' 6
La grazia della fede si inserisce più profondamente, proprio là dove
conoscenza e volontà si compenetrano vicendevolmente nella loro
comune origine, nell'esistenza personale dell'uomo. Su questo aspet-
to ritorneremo.
Una cosa è stata affermata chiaramente dàl Vaticano r contro i
tentativi razionalisti o semirazionalisti: non solo l'operari per cari-
tatem della fede è dono della grazia, ma la «fides ipsa in se, etiamsi
per caritatem non operetun> è frutto di grazia, e «actus eius est opus
ad salutem pertinens». 31

Ascoltiamo O. SEMMELROTll: «La grazia della fede non soltanto fa sì che


una decisione umana pro o contro Dio, per sé possibile anche senza gra-
zia, venga ad essere elevata ad azione soprannaturale. Essa consiste_ piut-
tosto in quell'iniziativa divina che sola apre alla decisione !o spazio per
esercitarsi liberamente, e che non sta ali 'inizio della fede umana solo per-
ché Dio ha fatto una rivelazione su di sé e sulla sua opera salvifica al suo
popolo nell'Antico Testamento ed alla sua Chiesa nel Cristo. Ciò deve
essere accaduto già prima che questa rivelazione possa essere acéettata. E
la decisione di fede dell'uomo per Dio che si comunica deve sempre
nuovamente ancorarsi a questa parola divina, storicamente comunicata,
sulla grazia fondamentale fattasi carne nel Cristo. Ma .anche qui è sempre
e nuovamente Dio che prende l'iniziativa. Egli si comunica ogni volta nuo-
vamente a ciascun uomo credente non mediante nuovi contenuti oggettivi
dichiarativi, ma nell'efficace autocomunicazione del lume della fede, che
noi chiamiamo grazia. La riflessione razionale sui cosiddetti motivi cli
credibilità deve essere tenuta in gran conto. Tuttavia questi motivi di-
ventano efficaci per l'atto èsisteniiale della fede solo quando arrivano al-
l'intimo dell'uomo nella luce e sotto l'influsso di questa gratuita autoco-
municazione divina» ..!8

Qui viene toccato un elemento, che molti teologi moderni rifiutano

JS P. RoussELOT, Les yeux de la foi, in RSR, 1{1910)241-2:;9; 444-47_5; cf. Eph


1,17-19; 2 Cor. 4-6.
J6 Cf. P RoussELOT, ibidem.
Jl DS 3010; cf. il can . .:;. DS 3035; NR 37; p.
!i O. Si;MMELRDTll, Von der Gnadc dcs G/a11bc11s, in G11L, JG ( 1963) 187 s.
1111 Sl'IRITU

di porre sotto la luce e sotto l'influsso della grazia. Intendiamo par-


lare del giudizio di credibilità, la rationabilis credibilitas fidei. Que-
sti teologi, per salvare la ragionevolezza della fede e poter escludere
quindi ogni arbitrio cieco, ritengono di dover riservare una sfera
che fondamentalmente almeno, 'in sé e per sé', non debba essere
illuminata dalla luce della grazia di Dio. Per tale motivo, quindi, mol-
ti collocano il giudizio di credibilità prima della fede e non lasciano
a questo giudizio nessuna possibilità di collocazione all'interno di es-
sa; oppure fanno spazio ad un giudizio di credibilità che si colloca
all'interno della fede e che da essa nasce, ma dopo il giudizio di cre-
dibilità naturale emesso prima dell'atto di fede. Noi invece non ab-
biamo timore di porre interamente sotto la luce della grazia della
fede il giudizio di credibilità conforme alla fede cristiana, che cioè
prende il messaggio cristiano come esso stesso vuole essere preso.
Questa grazia dispensa però dal vedere, non 'supplisce' il vedere, ma
piuttosto essa sola - in quanto è veramente un 'vedere' - lo rende
possibile.39
Riassumendo: la grazia nella fede si riferisce sia al volere sia al
conoscere, perché conoscere e volere si ritrovano nella fede. Intel-
letto e volontà apportano il loro contributo sotto la luce e sotto
l'impulso dello Spirito e questo in quanto nella fede viene detto un
'sì' al Dio della rivelazione salvifica, alla sua autorità (motivo), ed
a ciò che con questa sua autorità egli ci annuncia (oggetto).

Cosl diventa anche comprensibile perché i credenda, gli oggetti da crede·


re, non siano semplicemente della realtà qualsiasi, che Dio abbia arbi-
trariamente determinato di proporre alla nostra adesione servile. An-
che essi sono finalizzati dalla volontà salvifica, dal dono della salvezza
divina: essi costituiscono i promissa., la salvezza promessa in Dio, il cui
compimento è ancora atteso nella speranza; essi sono le «sperandae ...
res»; la fede è «sperandarum substantia rerum» (Hebr rr). Ciò che ci è
stato rivelato ed è stato affidato alla nostra fede è l'autocomunicazione di
Dio, già da ora realizzata alla maniera cli una 'caparra' ma ancora in attesa
del suo compimento eterno, è il nostro inserimento nel mistero intimo
e trinitario di Dio attraverso la nostra incorporatio nel Figlio incarnato.

J9 Cf. M.-L. GUÉRARD DES LAURIERS, Dimensions df la fai, Paris 19p: I, pp. 232·
238; 11, p. 105 (nota 287).
INTELLIGENZA TEOLOGICA DELLA FEDE
430

In ogni caso ogni 'vanto' è escluso proprio dalla radicale gratuità del-
la fede. «Dov'è dunque il tuo vanto? - Esso è escluso. Da quale
legge? Quella delle opere? No, dalla legge della fede» (Rom. 3,27).
Proprio perché, secondo Paolo, la giustificazione si radica nella fede,
essa nella sua totalità ha origine dall'iniziativa divina, e quindi il
vanto è riservato a Dio. 40
Occorre tuttavia evitare un equivoco: tutto è grazia, tuttavia In
grazia non soppianta l'umano, non lo opprime, non lo rende super-
fluo, ma al contrario lo presuppone: non destruit, sed perficit et
elevai.

c. L'azione dell'uomo non è soppiantata dalla grazia

Negativamente possiamo dire che della trascendenza di Dio esiste


una falsa concezione che ritiene che questa opprima e svigorizzi l' 'io'
dell'uomo. Perciò accanto alla sola gratia Dei bisognerebbe porre ne-
cessariamente il servum arbitrium hominis. Il sola gratia Dei ha di-
ritto d'esistenza nella dottrina della fede: noi lo abbiamo sottolineato
con tutta la chiarezza possibile; ma il Dio della grazia, lo Spirito di
santificazione, non è diverso dal Dio creatore che sostiene la sua
opera. L'azione divina con la quale l'uomo viene gratificato lo attin-
ge nella sua creaturalità, rende possibile e causa (e non già soppia·n·
ta) un'autentica decisione personale. La sua luce lascia che l'uomo
dotato di ragione 'veda', il suo 'impulso' fa dell'uomo libero (senza
menomazione od eclissamento della sua libertà) un fedele assenzien-
te. La fede è 'soprarazionale' e non già 'irrazionale' .41
Sarebbe un errore se per voler innalzare il soprannaturale, lo si
ponesse al di fuori della legge e della psicologia della nostra natura.
Infatti il soprannaturale vuole precisamente incarnarsi in essa. Nella
fede, la grazia non entra in concorrenza con le forze umane ma le
rende libere per la loro vocazione più alta; essa non degrada l'uomo

40 ~ chiaro d'altra parte che da questo non soffre danno alcuno l'universalità della
volontà salvifica: cf. G. ScuiiCKLER, Die christologische Verfasstheit, in Cath, n
(1956) p-64: «Tutti gli uomini senza eccezione sono venuti in relazione con la grn·
zia del Cristo ed ogni uomo ha da fare con questa grazi in maniera misteriosa»
(p.54).
41 AUBERT, p. 738.
CUM CHRISTO 431

gratificato ad un 'robot', non distrugge la sua responsabilità perso-


nale ed interiore, ma piuttosto solo essa la rende veramente libera. 42
E ciò che ancora importa notare qui è che l' 'illuminazione', o
l' 'occhio', non si pone come oggetto: essa non è ciò che viene visto,
ma ciò che fa vedere. Io non vedo il mio occhio, anche se senza oc-
chio non sono in grado di vedere niente. Così anche gli 'occhi della
fede' non sono essi stessi oggetti,4J ma trovano il loro oggetto, cioè
il mysterium Christi, il mistero del Figlio di Dio manifestatosi nel
Cristo, nel cui volto risplende per noi la gloria di Dio. Affermare
perciò la necessità dell'illuminazione soprannaturale per poter perce-
pire la realtà della rivelazione del Cristo, non significa affatto con-
testare l'oggettività di questa rivelazione o anche solo diminuirla.
L'illuminazione soprannaturale non sostituisce la rivelazione 'ester-
na'; tuttavia il concetto pieno di rivelazione non può includere sol-
tanto la rivelazione esterna, ma include in sé anche l'illuminazione
interiore. 44 La fede non è un incontro con lo Spirito santo, ma lo Spi-
rito santo ci conduce all'incontro col Cristo «nel quale inabita cor-
poralmente la pienezza della divinità» (Col. 2,9).
In questo paragrafo si è trattato quindi solo di porre un avverti-
mento che presiede a tutto ciò che diremo in seguito: se noi ci in-
contriamo nel Cristo a 'tu per tu', ciò è avvenuto nello Spirito - e non
potrebbe essere diversamente -. Lo Spirito non soppianta il Cristo,
ma ci apre a colui il quale è la parola stessa del Padre, la rivelaziont'
di Dio a noi uomini. La fede è quindi un 'sì' al Cristo.

2. Cum Christo. La fede come azione dell'uomo chiamato dal Cristo

La fede ha origine dallo 'Spirito', è opera dello Spirito di Dio: ogni


fede che si presenti come cristiana, e tutto in essa, sono portati dalla
grazia. Così noi abbiamo affermato: sola gratia, ma anche: numquam

• 2 Cf. M.·D. CuE:<lJ, La foi dans /"inic•lligcnce, Paris 1964, p. r8; N. Dv11;As, Con-
naissa11ce de la foi, Paris 1963, pp. 17 s.
' 1 Cf. M. SECKLER, op. cii., p. 160.
44 La stessa cosa vien detta dal punto di vista opposto, cioè a partire dall'azione
<li Dio anziché dalla risposta dell'uomo (come facciamo noi adesso per la dottrina del.
la fede) da R. LATOURELLE, Teologia della rivelazione, Assisi 1967, pp. 435-446.
!NTF.LLIGF.NZA TF.Ol.OGICA !JELl.A Ff.DE
432

sola: essa non soppianta niente. Così del resto possiamo affermare
di Dio: solus creator-numquam solus. 4s Occorre quindi che ora esa-
miniamo la 'componente' umana della fede. Solo che essa è 'compo-
nente' accanto ad una 'componente' divina, nella .misura in cui Dio
e creatura possono dirsi componenti di un tutto che li superi. Sotto-
lineare ciò non significa apportare pregiudizio né alla realtà di Dio,
né alla realtà della creatura, né alla reale differenza tra i due. Che
un tale rapporto rimanga misterioso e non sia mai pienamente spie-
gabile attraverso 'i no;;tri concetti, non costituisce teologicamente
un motivo per essere negato.
E l'uomo a credere, e non già Dio in vece sua! Ed eccoci al mo-
mento di parlare di ciò che nella fede appartiene alle forze umane.
Che la fede non sia solo una disposizione di Dio che esautori la
realtà creata dell'uomo, la 'lasci fuori', appare già evidente dal fatto
che essa si realizza nella confessione e nella testimonianza. «Ognuno
che mi confesserà davanti agli uomini, anche il Figlio dell'uomo lo
confesserà davanti agli angeli di Dio. Ma chi mi rinnegherà davanti
agli uomini, anche lui sarà rinnegato davanti agli angeli di Dio» (Le.
12,8 s.). Certo anche questa confessione viene posta sotto ·l'influsso
della grazia: «Nessuno può dire: 'Gesù (è) Signore' se non nello Spi-
rito santo» (I Cor. 12,3), ma essa è anche azione dell'uomo, per il
fatto stesso che deve essere tradotta nelle opere: «Non chi mi dice:
Signore, Signore!, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà
del Padre mio che è nei cieli» (Mt. 7 ,21 ). La confessione ·anzi è una
testimonianza, µa.p-rupLov, che dimostra tutta la sua serietà proprio
nel martirio, nella testimonianza di sangue. La confessione è azione
dell'uomo, ma è anche espressione d'una convinzione che uno ha
personalmente. Questa convinzione è qualcosa di più che una mera
conoscenza che registra dei fatti, essa è uno 'star di fronte' alla realtà
affermata._ La convinzione include certamente la conoscenza, essa è
qualcosa di più che una semplice adesione a dei princìpi e tutta-
via si manifesta in princìpi, in affermazioni, in 'verità di fede' i::
quindi perfettamente giustificato porre attenzione al lato 'psicolo-

•s Cf. R. GRoSCHE, Sola grati, in Carh, II (1956) 64-68; J. RATZINGER, Gratia prac-
supponit naturam. Erwagimgen iiber Sinn und Greme11 eines scholaslischen Axioms.
in J. RATZ!NGER-H. FRIES (a cura), Einsichl 11nJ Glauhe. Freiburg r962, pp. 135-149;
J. ALrARn: L1'K 2, 4 ( r960) I 169-II71.
CUMCHRISTO
433

gico' (nel senso della psicologia ontologica scolastica) della fede, cosl
come lo hanno fatto di preferenza gli scolastici e s. TOMMASO; fede
come atto che si forma nella psiche umana e ne impegna le forze:
intelligenza e volontà, e che è sempre unità fonda1Qentale di ambe-
due nell'adesione personale. 46
Il pericolo d'una falsa prospettiva non sarà sempre evitato sufficien-
temente se si cercherà di comprendere la fede partendo dagli oggetti
della confessione, dagli articuli fidei, e se si confronteranno con i
princìpi del sapere umano, ad esempio con le verità della geometria.
In questa maniera si coglierà la differenza nel fatto che queste ulti-
me possono essere conosciute grazie all'evidenza della cosa in sé, ed
i primi invece non già grazie a questa evidenza, ma solo grazie alla
testimonianza d'un altro che, in questo caso, è Dio stesso. Così la
testimonianza di Dio apparirà come la comunicazione d'una cono-
scenza purtroppo non evidente per altra via. L'errore di prospettiva
di questa concezione consiste nel fatto che ciò che nella fede è vera-
mente essenziale, e cioè il sì all'invito divino, viene colto solo in di-
pendenza dalla conoscenza delle preposizioni di fede. La prospettiva
viene quindi spostata. La fede appare come una conoscenza di secon-
do piano, la conoscenza d'un oggetto che ha bisogno della mediazione
del testimonio in quanto l'oggetto, la verità formulata, non potrebbe
essere in grado di determinare l'intelletto umano all'assenso. Ora, tut-
to ciò non è ·che sia falso, ma le proporzioni appaiono fortemente
deformate: la grandezza della fede consiste precisamente nel fatto
che essa può essere una risposta al Dio che invita personalmente,
un 'sl' alla salvezza, giacché il Dio che invita è il Deus salutaris
noste._r, il Dio che si preoccupa della salvezza dell'uomo, che comu-
nica il suo amore.' 7 Ed a partire da questo punto centrale può essere
considerato nella giusta prospettiva anche il resto, la confessione per
formule, il sì al Simbolo che deve pur occupare il suo posto insosti-

46 DTA. voi. 15, Gla11bt: als Tugend, Heidelberg 1950. Si tratta delle questioni di
rui alla S. 1h., 2-2, 1-16. Commento: Der silllicbe Kriiftekosmos des Christen, pp. 3.B-
339.
•1 «Ogni credente assente all'affermazione di qualcuno. Perciò bisogna considerare
come principale e come fine in ogni alto di fede colui alle cui parole si assente. f:
invece da considerarsi quasi secondario ciò che qualcuno afferma grazie alla sua volon-
tà di assentire a qualruno»: 5. tb., 2-2, 11, 1 c.

28 Mvsrerium salutis J 2.
INTELLIGENZA TEOLOGICA DELLA FEDE
434

tuibile in questa prospettiva. Infatti la fede come mçra credibilità


senza alcun oggetto, la fede senza confessione, non sarebbe più ciò
che essa in primo luogo vuole essere: un sì al Dio, che crea tutto
l'uomo e che aspetta una risposta di quest'uomo secondo tutte le di-
mensioni della sua situazione di uomo.~a Tre sono le dimensioni di
questa situazione che ora dobbiamo spiegare:
a. personale; b. sociale; c. escatologica.
Credere comporta per l'uomo un impegno di tutta la sua persona;
un impegno nel quale non può farsi sostituire da nessuno, che nulla
può rimpiazzare. Ma questa decisione personale egli può svilupparla
all'interno di un contesto sociale: egli crede e confessa in quanto
membro della Chiesa, del popolo di Dio eletto (bt-xctXEi:v, txxÀ:l')afa),
del popolo che Dio si è acquistato ( «populus acquisitionis» ). Cosl pe-
rò egli si trova inserito, come singolo e come membro di una società
(Chiesa), in un dinamismo che tende verso il definitivo; è ancora
'in cammino', e, anche se della venuta, della r:etp-ovo-let, egli ha una
certa anticipazione solo nella speranza e nell'anelito, propriamente è
ancora in movimento verso gli [uxa:""t"et, dai quali il suo cammino pre-
sente riceve significato e direzione.

a. Struttura personale della fede ~9

Certo, noi ci siamo proposti in maniera decisa ed inequivocabile di


parlare della fede come essa stessa si comprende e non già a partire
da un concetto 'umano' e sistematico nel quale sia possibile assor-
bire la fede cristiana. Ma anche qui noi soggiaciamo alla legge del-
1'analogia. E poiché, come noi siamo convinti, ogni uomo è posto di
fronte alla chiamata della fede, allora possiamo presupporre che an-
che nelle risposte incomplete a questa chiamata, in coloro che riman-
gono nell'anticamera del cristianesimo, si trovano strutture della fede
piena, somiglianze che possono considerarsi solo utili ad una chiari-

•B Che recentemente la fides quae credltur stia trovando nuovamente una valoriz-
zazione è mostrato da E. BrsER, Gla1Jbe im bitaller der Technik, in Worl und Wabr-
beit, 19 (1964) 89-102 (soprattutto 92 ss.)_ La fides qua non viene più intesa .come
rischio, bensl come appropriazione.
49 Cf. C. CIRNE ·LIMA, Der personale Glaube, Innsbruck 1959; cf. inoltre L. Bo·
ROS, in Orientierrmg, 25 ( 1961) 56-60.
CUMCHRISTO
435

fìcazione del concetto cristiano di fede. È tale anche la 'fede filosCl-


fica' di K. ]ASPERS? K. ]ASPERS stesso non vuole saperne di inten-
derla cosl.50 Egli fondatnentalmente considera la fede, come l'intendono
la religione rivelata e la Chiesa, come un «tradimento dell'uomo». 51
Non è qui il luogo di prender posizione di fronte alla critica che K.
]ASPERS fa alla rivelazione ed alla fede. È di interesse però per
noi che K. JASPERS - e con lui una larga corrente della filosofia esi-
stenzialista - sostituisca alla vecchia opposizione tra conoscenza ra-
zionale (nella quale venivano incluse 'scienza' e filosofia) da una
parte, e conoscenza di fede dall'altra (nella quale si muove la teo-
logia) la tripartizione moderna: scienza, filosofia, teologia. 52 In altri
termini: viene riconosciuto il carattere proprio della filosofia, il ca-
rattere specifico della conoscenza filosofica di fronte alla 'scienza'.
La filosofia non si basa su un sapere autonomo, ma su una 'fede', cioè
sulla fede filosofica: essa corrisponde ali' 'esistenza', alla decisione
per il proprio autoessere. L'uomo non ha l'esistenza se non nello
stare di fronte alla trascendenza. La fede filosofica si differenzia dal
'sapere' della scienza per il fatto che essa è 'sovraconcettuale', che
essa si verifica in direzione di 'ciò che tutto abbraccia': «La fede
autentica ... è l'atto dell'esistenza nella quale la trascendenza diventa
cosciente nella sua realtà». 53 Siccome essa da una parte è 'sovracon-
cettuale' e, dall'altra, deve essere espressa mediante concetti, questi
concetti non possono giocare lo stesso ruolo che nella scienza; essi
servono da semplici cifrari.
Noi consideriamo come un'acquisizione il riconoscimento che an-
che la filosofia non può essere considerata frutto d'un atteggiamento
uguale a quello della 'scienza', che essa non può essere un sapere
che registra puramente e ordina i fenomeni, ma piuttosto che essa
debba esigere un impegno personale. «La verità della quale io vivo
è tale solo perché io m'identifico con essa. Essa è storica nella
sua manifestazione, nella sua enunciazione oggettiva non è univer-

50 Cf. K. }ASPERS, Der philosophische Glaube angesichts der O/fenbarung, Miln·


chen 1962.
51 Cf. H. FRIES, Ist der Glaube ein Verrai am Menschen? Eine Begegnung mii Karl
Jaspers, Speyer 19,0.
si K. ]ASPERS, op. cit., pp. 9.:J·IIO.
53 K. }ASPERS, Der philosophiscbe Gla11be, Zilrich 1948, p. 20.
INTELLIGENZA TEOLOGICA DELLA FEDE

salmente valida, ma è assoluta».54 Cosl bisogna piuttosto tener conto


del fatto che a partire dalla filosofia, 111 fede cristiana non viene as-
sunta nel quadro proprio del 'sapere', dal quale dovrebbe quindi es-
sere esclusa la possibilità di comprendere ciò che è caratteristico nel.
la fede. Che la disposizione naturale alla fede formi il sostrato psico-
logico della fede soprannaturale, era sostenuto da quella teologia che
al volgere del secolo si volle servire d'una «filosofia della disposizione
a credere» (PAYOT, DENIS, PÉCHEGUT, e cosl via). 55 Péchegut soste-
neva precisamente che « .. .la fede teologica non è altro che l'attua-
zione mediante la grazia della nostra facoltà naturale di credere,
applicata alla rivelazione giudeo-cristiana».56

K. Jaspers non ha voluto senz'altro concepire cosl la sua fede filosofica.


Egli eleva pesanti rimproveri alla fede teologica come distruttrice della
comunicazione e della trascendenza e quindi dell'esistenza; ma in ciò non
si ribella egli aUa propria origine ... a S. KIERKEGAARD? Si può riuscire a
secolarizzare un concetto fuori della sua origine teologica senza tradirlo?
La personalità dell'esistenza viene privata del suo correlato vero e perso-
nale e viene ad essere relegata quindi in una zona senza risposta; essa non
è cosi costretta a tacere e ricadere quindi o nell'a-personale o nell'assenza
di comunicazione, o in ambedue? Oppure possono ambedue, il persona-
le-esistenziale e la comunicazione, essere salvati solo perché la fede filo-
sofica si autointerpreta falsamente come filosofica, cioè come fede non-
tcologica, mentre in realtà vive del «sale della fede teologica?».

In una teologia della fede cristiana è chiaro in ogni caso che il ca-
rattere personale di tale fede lo dobbiamo capire anzitutto a par-
tire dalla perso~a da incontrare, Gesù Cristo. Intendiamo dire la per-
sona del Gesù storico di Nazaret, del figlio di Maria, dell'uomo di
Galilea. Anche se K. }ASPERS chiama ciò una «storia coagulata», la
fede cristiana non può, senza rinnegare se stessa, sottrarsi a questo
'scandalo' La fede s1 verifica nell'incontro col Cristo; il paradigma

Sol K. }ASPERS, op. cii., p. 10. Su ]ASl'ERS, cf. X. T1LLIETTÉ, Karl Jaspers. Théorie
de la vl:rité. Mélapliysique des chiffres. Poi pbilosopbique, Paris 1960; T. BARTH, Phi-
/osapbie, Wissenscbaft und Religion. Ein Gespriicb mii K. Jasperr, in WiWei, 21
{ 1958) r8·29, e panicolarmente B. WELTE, Der philosopbiscbe Glaube bei K. Jaspers,
in Symposion, 11, Freiburg 1949, pp. r-190.
55 Cf. AusERT, pp. 356-362.
56 Cf. AuBERT, p. 358. B. WELTE alla fine pone la «questione suJ\a possibilità d'una
outentica fede cristiana all'interno di un'autentica fede filosofica».
CUMCHRISTO
437

luminoso di questa fede viene indicato dal vangelo di Giovanni nel-


la confessione di Tommaso, portato di violenza alla fede: «mio Si-
gnore e mio Dio!» (Io. 20,28 ). La forma abbreviata della confessio-
ne di fede che può darsi solo 'nello Spirito santo' suona cosl: «Si-
gnore (kyrios) (è) Gesù» (1 Cor. 12,3). La fede è «fede di Gesù»
{Act. 14,12), fede nel «suo nome» (Act. 3,16); la fede che giustifica
è <da fede in Gesù» (Rom. 3,25). 57 Paolo lo sa: «lo vivo nella fede
del Figlio di Dio il quale mi ha amato e si è dato per me» (Gal. 2,
20 ); la promessa è stata data ai credenti «sul fondamento della fede
di Gesù Cristo» (Gal. 3,22). Al di fuori di Gesù non si dà fede e
non si dà salvezza: «A chi dobbiamo .andare? Tu hai parole di vita
eterna. Noi crediamo e sappiamo che tu sei il Santo di Dio» (varian-
te: «che tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente») (lo. 6,69). Cosl
noi «abbiamo creduto all'amore» ( 1 Io. 4,16 ), all'amore di Dio «il
quale ci ha amato per primo ed ha dato suo Figlio come propiziazio-
ne (tÀ.Ciaµév) per i nostri peccati» (r Io. 4,10), all'amore anticipato
che si è mostrato (raccomandato) per il fatto «che il Cristo è morto
per noi allorché noi eravamo ancora peccatori» (Rom. 5,8). Così an-
che il battesimo come sigillo di questa fede è un «battesimo nel nome
di Gesù» (Act. 2,38; 10,48): «Tutti noi che siamo stati battezzati
nel Cristo Gesù, siamo battezzati nella sua morte» {Rom. 6,3 ).

'Fede di Gesù Cristo': senza dubbio abbiamo qui (anche!) a che fare con
un genitivo oggettivo. Può avere però senso parlare d'una fede del Cristo
come genitivo soggettivo? t un 'credente' anche il Cristo? H.U. VON BAL·
THASAR lo afferma: Egli (Gesù) vive, opera e soffre «nella certezza di
essere sempre esaudito» (lo. r r ,41 ); in virtù di questa forza e di questo
dono, che non è la forza ed il dono della sua soggettività, della sua 'fer-
mezza di fede', ma la forza ed il dono di Dio in lui, egli fonda la fede
nei suoi discepoli. La fede di questi non è qualcosa di debole, paragona-
bile solo da lontano alla sua fede, ma è vera partecipazione a ciò che egli
possiede come archetipo. Solo se si afferma questo senso positivo della fede,
la fede cristiana diviene realmente cristiana. Per essere tale non basta infat-
ti che il Cristo sia il suo oggetto e tutt'al più causa meritoria di essa,

57 Cf. P. VALLOTON, Le Christ et la foi, Gcnèvc 1960, deuxième partie: Exégese.


L'expression 'foi de fésus Christ' et son impor/ance pour une définition exhaustive
de la fai se/on Paul, pp. 39-106; inoltre i21-128; q5·r59.
INTELLIGENZA TEOLOGICA DELLA FEDE

egli deve essere anche in ogni caso il soggetto eminente, partecipando al


quale l'uomo crede per fede: «Aiuta la mia incredulità». 51 Cosi riceve
piena luce la grandiosa espressione della lettera agli Ebrei, che il Cristo
l'à.pxrryòc; xcd TEÀELWTiic; Ti'jc; 'JtlCTTEwc;. 59 In ogni caso se si concepisce la fede
negativamente, come esclusione dalla visione, e la si vede unicamente co-
me adesione fondata sulla testimonianza d'un altro, bisogna escludere che
il Cristo possa essere stato soggetto della fede, così come hanno fatto già
gli scolastici, e soprattutto con fermezza decisa AcosnNo. 00

Noi teniamo qui per fermo che la fede è personale nella misura in
cui essa è un incontro con la persona di Gesù Cristo, dal cui amore
personalissimo io sono chiamato, «il quale mi ha amato e si è dato
per me» (Gal. 2,20). Dobbiamo ora sottoporre ad un'analisi più ac-
curata le forze impegnate nella fede.
La fede ha origine dalla chiamata del Cristo e quindi sorge dal-
l'ascolto: «fides ex auditu». Essa però è un ascolto qualificato, un
ascolto corrispondente alla chiamata: unaxo'l'J, la forma più intensi-
va dell'ascolto, che possiamo tradurre con la parola 'obbedienza'.61
L'uomo non ascolta come un apparecchio acustico, registrando solo
passivamente; l'uomo non ascolta il suono, ma la parola. È impossi-
bile disgiungere ciò che fa il senso, l'udito, da ciò che appartiene
allo spirito: intendere (ragione) e quindi comprendere (intelletto!).
E quando si tratta della predicazione del Cristo, che contiene sem-
pre - esplicitamente o implicitamente - l'invito: « IJ.E't(l'\IOE~TE, cam-
biate il vostro pensiero, convertitevi», non c'è mai un, intendere
neutrale, una ricezione d'una nuova verità che non sia nello stesso
tempo una decisione nella libertà. La «uTCtxxo1] r.la'ttWc;» (Rom. 1,5;
16,26), il «plenum ... intellectus et voluntatis obsequium», come Ji
esprime il Vaticano I (os 3008; NR 35) include l'asscoltare, il com-

58 H.U. voN BALTHASAR, Fides Christi, in Sponsa Verbi, Einsìedeln 1961, pp. 45-79
(56).
59 I bid., p. 56.
60 Ibid., pp. 65 ss. Cf. anche come egli contro G. EBEL!NG rifiuti il concetto d'unA
fede del Cristo: HASENHUTTL, op. cit., r24, Anm. 74. Più avanti parleremo del senso
nel quale il Cristo può essere concepito soggetto della fede.
61 ~ impossibile rendere il significato di ascolro, implicito nel termine tedesco che
corrisponde ad obbedienza: Ge-hor-sam: tutravia vedi il latino '' ob-audire e l'italiano
obbedire (N.d.T.}.
CUMCHRISTO
439

prendere, l'accettare nella libertà. 62 Ciò deve essere spiegato ancora


con maggior preçisione.

aa. Fede come obbedienza e decisione. Noi teniamo. per fermo che
l'iniziativa della fede è di Dio: egli dà l' 'istinto' interiore ed il 'lume
della fede'. Che sia lume non significa, come abbiamo già visto in TOM-
MASO, che faccia vedere, che cioè dia l'evidenza. È lume nel senso che
fa «videre esse credenda» come «luce che produce una tendenza»,6J
dove la fede non viene resa possibile dall'intelletto stesso, ma dalla
volontà. Anche qui parleremo quindi in primo luogo della volontà
di credere, della fede come decisione libera. Non quasi che la vo-
lontà (naturalmente sotto la grazia) faccia tutto da sola, non quasi
che ad essa spetti la priorità sotto ogni punto di vista: l'esistenza
della fede in ogni caso dipende completamente da essa, un'esistenza
però che non è 'vuota', ma piena di contenuti - ottenuti non già dalla
volontà, bensl dall'intelligenza, che a sua volta sta sotto la 'luce'
che viene dall'alto, mentre la volontà agisce sotto un 'impulso' supe-
riore, una motio, un instinctus. Si tratta tuttavia della stessa grazia
di Dio che comprende l'illuminazione e l'impulso. È giustificato però
tentare di chiarire alquanto la ricchezza unica dell'iniziativa di Dio
sull'uomo.
La fede avv~ne quindi nella libertà, nella libera decisione del·
l'uomo, in un autoresponsabile 'sì' all'invito di Dio. La personalità
infatti implica in primo luogo questo: autodeterminazione, autodo-
minio, posti nella volontà la quale da parte sua è caratterizzata dal
fatto che è circondata dalla conoscenza intellettuale grazie alla quale
l'uomo è semplicemente aperto all'essere, e grazie alla quale quindi
egli ha un orizzonte illimitato. Ciò non nel senso che l'uomo porta
questa libertà alla fede 'a partire dal basso', dalla consistenza della
sua natura creaturale; egli è reso libero per la sua decisione qall'al
to, ma la sua volontà, la sua facoltà di decidere viene resa libera
per l'atto di fede.
È un dato dommatico inconcusso che la fede è un atto libero. 64 Il

62 Cf. J.M. REuss, Der Glaube als komplexer Akl, in Glauben hellle, Mainz 1962,
pp. r56·167.
63 Cf. M. SECKLER, op. cit., p. r59.
64 Per quel che segue, cf. J. ALFARO, Fides, Spes... 1963, pp. 163 ss.
INTELLIGENZA TEOLOGICA DELLA l'EDE

concilio di Trento insegna questo a proposito della fede che dispone


alla giustificazione e forma il fondamento stabile della vita sop(an-
naturale: «eccitati e sostenuti dalla grazia divina (i peccatori) rice-
vono la fede dall'ascolto e si muovono liberamente verso Dio cre-
dendo per vero ciò che Dio ha rivelato e promesSò ... ».65 Precedente-
mente il concilio ha già sottolineato la libertà dell'adesione alla gra-
zia e della cooperazione con essa (NR. 714). L'uomo non rimane così
inattivo «perché egli riceve un'ispirazione che potrebbe anche rifiu-
tare».66 Perciò credere o non credere dipende dalla libera responsa-
bilità dell'uomo.
Nel Vaticano I la libertas fidei è un tema esplicito, ed essa viene
definita, soprattutto a proposito della concezione semirazionalista di
GEORG HER.MES. Secondo questi, la fede, nella misura in cui è una
adesione intellettuale, non è libera in sé e per sé (lo è solo se esiste
in maniera non perfetta, quando la buona volontà deve colmare le
lacune dell'intelligenza); è libera la vitalità della fede, il per carita-
tem operari. Contro questa dottrina il concilio definisce che « .. .la
stessa fede in sé, anche se non opera mediante la carità, è un dono
di Dio e l'atto di fede è un'opera ordinata alla salvezza; mediante esso
l'uomo offre a Dio un'obbedienza libera aderendo e cooperando
alla sua grazja alla quale potrebbe anche resistere». 67
Nella dottrina della Chiesa sulla 'libertà' della fede, noi ritroviamo
ciò che avevamo letto nella Scrittura sull' 'obbedienza' (Ù1ta.xo1}) deJ.
la fede come rifiuto ad ogni autoglorificazione e ad ogni 'vanto'
(Xt'J.UX'l']µt'J.) (SEZIONE SECONDA, supra, p. 392). La feqe è quindi am-
bedue le cose: adempimento della brama più profonda, ed offerta
della propria autonomia. Non si dà fede senza abbassamento. Non
si dà fede senza la «stoltezza della croce» ( r Cor. r-3 ), senza ciò che
in maniera paradossale TERTULLIANO chiama «l'assurdo della fede».
Anche la fede 'morta', nella misura in cui è fede salvifica, è libera,
e non solo la fede viva, la fede che opera mediante la carità. Ma an-

65 «Excitati divina gratia ... {idem ex auditu concipientes libere moventur in De11m,
credentes vera esse quae divinitus revelata et promissa sunt»: DS 1p6; NR 7r,.
66 DS I)2j e 1n4; NR 714; 741.
67 « ... fides ipsa in se, etiamsi per caritalem 11011 operetur (d. Gal. 5,6) donum Dei
est et actus eius est opus ad salutem pertinens, quo homo liberam praestat ipsi Deo
oboedientiam, gratiae eius, cui resistere posset, consentiendo et cooperando»: DS 3010:
NR 37,
CUM CHRISTO 441

che questa fede morta non è senza influsso della carità. Vive infatti
in essa un tendere alla luce, alla vita, fuori dal deserto della morte,
una disponibilità all'accettazione della salvezza. «La fede e la spe-
ranza si radicano infatti nel sacro fondamento della carità, il quale
ha penetrato la loro natura atemporale e nel deserto della morte non
vuole intorpidirsi nell'oscurità della malinconia o della freddezza del
cuore, ma è pronto ad intendere la chiamata divina alla salvezza». 68
Pur affermando la libertà e l'apertura alla carità della fede morta,
dobbiamo però evitare l'errore di vedere in essa la forma normale
della fede. La forma normale è costituita dalla fede che opera nella
carità (Gal. 5,6), in quanto la carità costituisce la forma perfetta del-
la volontà di credere, se questa sola è sufficiente a dare alla fede più
che un'esistenza precaria ed abbozzata.

bb. La certezza resa possibile attraverso la libertà. La fede è ob-


bedienza e decisione; essa è però una decisione per la verità, una
decisione che lascia libero il campo alla verità, alla verità divina di
quel Dio che è amore ( r Io. 4,16) e che quindi può essere compreso
connaturalmente solo attraverso l'amore, e tuttavia solo nella cono-
scenza, nella certezza della conoscenza della verità.
Certezza significa saldezza, significa 'immobilità', 'quiete' nel pos-
sesso della verità. Questa, nel dominio umano, appare assicurata nella
maniera migliore precisamente quando è sottratta alla libera e perciò
defettibile decisione dell'uomo, quando essa è certezza necessitata
dall'evidenza della cosa, da un'evidenza che non lascia posto alla
libertà: dove esiste certezza evidente esiste adesione necessaria
A molti sembra quindi necessario delimitare accuratamente nella
fede il campo della libertà e quello della certezza. E se ammettono
una certezza della fede (perché il contrario sarebbe incompatibil~
con la rivelazione), questa certezza si dà nonostante la libertà (come
d'altra parte si dà la libertà nonostante la certezza). Questo conduce
a riconoscere alla fede un modo difettivo di certezza ed un modo
difettivo di libertà, e tale risultato non ci può lasciar soddisfatti. Noi
dobbiamo invece scorgere nella fede una certezza che viene resa

08 G. S1EWERTll, D1e frcihcit 1111d dns Cute, Freiburg 1959, p. 50.


INTELLIGENZA TEULOGICA llt::LLA FEDE
442

possibile solo mediante la libertà e la decisione: certo perché libero,


libero perché certo.
Evidentemente per poter chiarire tale questione bisogna andare
alle radici della libertà e della certezza. Infatti i concetti precedenti
di libertà e di certezza conducono ad un vicolo cieco. Se la certezza
può esistere solo a spese della libertà e la libertà solo a spese della
certezza, non si può trattare della libertà e della certezza che svol-
gono una funzione nella fede.
Il modello fondamentale è la conoscenza matematico-scientifica o
la conoscenza personale? In quella matematico-scientifica bisogna am-
mettere che libertà e certezza si escludono vicendevolmente; qualcosa
è certo nella misura in cui esclude la libertà; un'affermazione è vice-
versa libera nella misura in cui esclude una certezza. Ma può la scien-
za matematica offrire il modello per una interpretazione della cono-
scenza specifica della fede? Occorre che noi riflettiamo sull'essenza
dell'uomo per dedurre già da essa l'ideale della conoscenza umana,
ed assegnare quindi alla coscienza il suo posto antropologico e con-
seguentemente metafisico.
Se noi vogliamo assumere come modello la conoscenza matemati-
co-scientifica, prendiamo come ideale ciò che fondamentalmente l'uo-
mo può affidare ad un 'robot' o ad un cervello elettronico, i quali
possono çventualmente svolgere questi compiti molto meglio e più
velocemente di qualsiasi uomo. Qui infatti domina la necessità asso-
luta del risultato con esclusione d'ogni libertà, cioè proprio di ciò
che costituisce la dignità dell'uomo. Si tratta d'una conoscenza senza
amore e senza odio. La conoscenza però non è fondamentalmente un
assumere nel soggetto, un 'far-propria-qualcosa'? Ora, ciò non si ve-
rifica in una conoscenza che sia pura registrazione, per quanto que-
sta possa essere fidata, esatta e libera da errore.69 Nella sua forma
piena, la conoscenza importa un evento inter-personale, una cono-
scenza che non è mai senza amore (o senza odio), che non si blocca
in una fredda neutralità, ma piuttosto implica un deciso aprirsi nella
rivelazione da una parte, ed un deciso aprirsi nella 'fede', dall'altra.
La persona infatti non è mai semplice 'oggetto', talmente decaduto

"" Sul pericolo di un'applicazione unilaterale della conoscenza marematica al giu·


dizio di credibilità cf. AuBERT, p. 749, nota 28.
CUM CHRISTO
443

nell'esteriorità che chiunque passa possa farne oggetto di conoscenza.


Certo la persona umana si oggettiva anche nell'agire e nell'essere sen-
sibili. Ma se mi limito a questa oggettivazione come tale, e
non la prendo come ciò che essa in realtà è nell'unità dell'unica
natura corporeo-spirituale: segno, espressione della persona, allora
ne tradisco la vera essenza. Forse la tratterò matematicamente, scien-
tificamente; le conclusioni così ottenute potranno essere del tutto
corrette ed esatte nel loro ordine; esse tuttavia non possano costi·
tuire delle affermazioni sulla realtà presa nel suo contesto completo
e cioè personale; esse sono quindi sproporzionate. E non ritroveran-
no la loro proporzione mediante la somma quantitativa: l'insieme di
tutti i dati matematici relativi ai lineamenti del volto, non darà mai
un viso sorridente o in lacrime; tutte le variazioni di tono messe
assieme non daranno mai il giubilo della gioia o il lamento del do-
lore: potranno esserlo solo mediante la 'loro anima', nella totalità
della persona. 10
Un intendere cosl la persona nel suo essere personale deve, in sen-
so proprio, essere da noi considerato 'immediato'. Un bambino in-
tende immediatamente il sorriso della madre, non già mediante l'ad-
dizione delle linee geometriche del volto e nemmeno mediante un
preliminare confronto con la propria immagine sorridente nello spec-
chio. Il primato appartiene quindi alla conoscenza personale ante·
riormente ad Qgni analisi e riduzione posteriore in stati oggettivi che
possono essere conosciuti anche matematicamente (e quindi più esat-
tamente). Se noi perciò vogliamo chiamare 'fede' in senso lato (e
quindi non nel senso specifico nel quale lo intendiamo nella nostra
tr'attazione) questa conoscenza immediata della persona, la 'fede' è
l'unico modo proporzionato per conoscere una persona; la fede è
qualcosa di più che un sapere, anzi che 'il sapere'; ciò significa che la
conoscenza indipendente dalla persona e unicamente fondata sull'evi-
denza della cosa deve essere considerata come un elemento integrato

70 «Una teoria della conoscenza che prenda risolutamente come punto di partenza
per la com;>scenza il caso veramente indicativo dell'incon1ro personale, si risparmia una
folla di falsi problemi che invece sorgono necessariamente quando si considera a par-
tire dal basso ciò che sta sopra, quando quindi la persona da incontrare viene confi-
gurata tra i 'puri oggetti' o le 'cose' e non può quindi mai apparire per se s1essa».
H.U. voN BALT!IASAR, Die Galles/rage des heutigen Menschen, Wien 1956, p. 54_
INTELLIGENZA TEOLOGICA DJ:LLA FEDE
444

nella fede e da porsi quindi al margine di essa, in secondo piano.


Certo la conoscenza matematica, ad esempio il teorema di Pitagora, o
il 2 X 2 = 4 o ancora la legge di gravità, costituiscono una conoscenza
più esatta, più 'oggettiva' che non la percezione d'un sorriso amico
e dello stato d'animo personale che in esso si man,ifesta. La prima è
empiricamente esatta, la seconda - nel senso lato sopra accennato -
è fede. Sia l'una che l'altra sono due conoscenze di cui ci si può fi-
dare. Ma «tale fidatezza di una fede cosl fondata è minore o mag-
giore della fidatezza dell'esattezza empirica o matematica? L'esat-
ta risposta a questa domanda dovrebbe apparire evidente. La fida-
tezza della fede cosi fondata non è minore né maggiore (in senso
quantitativo); è diversa (in senso qualitativo). Questi o altri para-
goni non giacciono su una scala a suddivisione quantitativa e che per-
metta quindi dei confronti quantitativi. Cosl la domanda sul più o
sul meno ha poco senso quanto poco ne ha ad esempio la domanda
che vuol sapere se sia più dolce un biscotto o la musica d'un vi.olino.
Non vi si deve quindi scorgere alcuna differenza quantitativa di gra-
do, bensl una differenza di condizione»." Tra le due certezze, quella
con la quale sono certo del mio amico e quella del teorema di Pita-
gora, non è possibile istituire un rapporto di 'più certo' ·o 'meno
certo' di ordine quantitativo, bensl un rapporto di diversità di ordi-
ne qualitativo. La prima è senza dubbio più significativa e più impor-
tante sul piano qualitativo.
Con la certezza che si dà nell'incontro personale umano noi ab-
biamo fornito un modello proporzionato alla spiegazione della cer-
tezza che sorge da una libera decisione, quale la troviamo nella 'fede
salvifica'; 72 modello più adatto del 'sapere oggettivo' e che - in
quanto non è evidente - è possibile solo mediante l'accettazione di
un testimonio estraneo all'oggetto. In questa prospettiva, infatti, la
fede diventa qualcosa di secondario, di indiretto, di zoppicante. Tut-
tavia, chiarito che questa prospettiva, che vuole considerare la fede
confrontandola col sapere oggettivo, distorce le proporzioni giuste
e che, al contrario, la fede personale costituisce la conoscenza quali·

71 B. WELTE, Vom historirchen Zeugnis zum christlichen G/duben, in Lebendiges


leugnis, 3/4(1963) 15-27 (21); TQ, 134(19,4)1-18.
n T. ARTZ, Der Ansatz der Newmanschen Gla11bensbegrundung, in Newman-S1u-
d1e11.· I\', ( 1960) 249·268 ( 2,9 s.: Das l1nalogìepri11zip als Vora11ssc-tzung). '
CUM CHllJSTO
445

tativamente più alta e quella perfettamente umana, allora l'afferma-


zione secondo cui nella fede salvifica abbiamo a che fare con una
certezza libera non ci porterà necessariamente a compromessi timidi,
nei quali libertà e certezza vengano fortemente indebolite per per-
mettere uno spazio prop!io sia all'una sia all'altra. 73 Bisogna quindi
affermare che nella fede è primaria l'adesione percettiva alla persona
che parla; ma poiché questa adesione alla persona non può darsi
senza l'adesione a ciò che la persona mi dice, la sua affermazione e
ciò che in essa viene inteso sono co-affermati nella fede, e- poiché il
contenuto dell'affermazione fondamentalmente non è diverso dal ri-
velatore che si comunica nell'amore, almeno nella fede divina, ciò
che è secondario è materialmente identico a ciò che è primario.
Così possiamo comprendere perché il magistero accanto alla liber-
tà della fede insegni cosl decisamente la certezza della fede stessa:
una certezza che da una parte consiste nella fermezza dell'adesione
(firmitas ), che esclude quindi il dubbio e l'opinio passibile di re-
visione, e dall'altra coglie la verità oggettivamente in maniera sicura,
che esclude quindi ogni errore (in/allibilitas ). La fermezza nella fe-
de si radica nella volontà d'adesione, della quale sappiamo però che
essa è libera e defettibile fin quando l'uomo s.i trova 'in stato di via',
«pellegrino lontano dal Signore» (2 Cor. 5,6). Con ciò è implicita
anche la possibilità d'una perdita della fede e quindi del dubbio
(dubbio potenziale). Ma fin quando l'uomo dà la sua adesione di fede
nella libertà, in questo atteggiamento non ci può essere il dubbio,
la pura opinione (esclusione del dubbio attuale).
Che questa fermezza sia propria della fede, lo mostrano già i Sim-
boli: «Firmiter credo ... », eccetera. 74 Queste espressioni si riferisco-
no ad affermazioni dottrinali e indicano che l'adesione stessa della
conoscenza possiede questa fermezza. Lo stesso insegnano i catechi-
smi, lo stesso si deduce dall'uso della Chiesa di prescrivere ai fedeli
di tenere come 'del tutto false' le dottrine contrarie alla fede e con-
dannl!,te.75 Questa· fermezza viene presupposta nell'insegnamento del

n In tale questione porta un contributo moho illuminante A. BRUNNER, Glaube


und Erkem1tnis, Miinchcr 19p.
14 Cf. DS 76; 680; 800; 870; 900: 1330-1351; 1550; 1862; r985; 2525; l537·
1 ~ Cf. DS '41; 1332; 1336; 1339-1346; 1441; 3000.
INTELLIGENZA TEOLOGICA DELLA FEDE

Vaticano I al dovere della costanza nella fede e alla colpevolezza d'una


caduta dalla fede; 76 su questo punto torneremo in seguito (Appen-
dice 3).
Anche l'infallibilità della fede non è stata mai definita esplicita-
menie nemmeno in DS 1534, dove si dice che non si può conoscere
il proprio stato di grazia con «la certezza della fede a cui non può
soggiacere il_ falso» (NR 723). Qui non viene .definita né insegnat.i
la certezza della fede in tutta la sua estensione, perché il Concilio
ha come tema della propria affermazione un altro oggetto. Tuttavia
la certezza della fede implicante l' 'infallibilità' è senz'altro insegna-
ta - anche se non come definizione - nel Vaticano 1, quando viene
definito che l'adesione della fede si basa sull'autorità di Dio rive-
lante, il quale «non può ingannarsi né può ingannare»; «la verità
(della fede) non può stare in contraddizione con la verità (della ra-
gione)».77
Per la Scrittura basti accennare all'equivalenza giovannea tra m-
O''t'EUEW e ')'L\IW~w. opa:v, DEwpE~v. ~EtiuDa.L, ma anche agli altri passi
i quali sottolineano il carattere irrevocabile e definitivo della rive-
lazione avvenuta nel Cristo e della buona novella.
Questa certezza (nella fermezza dell'adesione e nella sicurezza
della verità) non viene raggiunta grazie al fatto che p contenuto si
mostri senza veli, ma attraverso la libera adesione all'invito del Cri-
sto, nell'apertura della persona di fronte al Cristo maestro. Chi in-
vece si chiude in sé non potrà raggiungere una tale certezza, una
tale adesione fer~a alla verità. ·E la certezza raggiunta nell'adesione
libera è e rimane una certezza della fede e non già della visione. Gli
'occhi della fede' fanno sì vedere, ma can gli occhi di colui al quale
abbiamo aderito credendo. L'oggetto, nella sua struttura intelligibile,
rimane 'oscuro' anche per il credente.

cc. Oscurità della fede. «Noi ora vediamo come in uno specchio,
per enigmi, dopo però faccia a faccia» (r Cor. 13,12); « ... noi infatti
camminiamo nella fede, non nella visione» (2 Cor. 5,7). La fede è

76os 3014; 3036; NR 40 s.; 58. Cf. anche PIO xx, encicl. Qui pluribus. DS 2778; 2780;
NR 9 S.
n DS 3008; NR 35; DS 3017; NR 44. Cf. DS 3537 SS.; NR. 64 SS.
CUM CHRlSTO
447

«convinzione di realtà invisibili» (Hebr. 11, I) ordinata però ad una


visione che noi in questo mondo speriamo soltanto ('sperandarum'
substantia rerum: Hebr. 11,r) e che solo dopo sarà 'faccia a faccia'
L'oscurità della fede in ogni caso è data dal fatto che essa implica
un'adesione a dei misteri. Insegna il Vaticano 1: (< ..':Credenda nobis
proponuntur mysteria in Deo abscondita, quae, nisi revelata divini-
tus, innotescere non possunt».18 Nel paragrafo seguente la natura di
questi misteri - nel loro aspetto negativo (tuttavia c'è un aspetto posi-
tivo che deve essere considerato in primo luogo) - viene determinata
più da vicino: «numquam tamen (ratio) idonea redditur ad ea perspi-
cienda instar veritatum, quae proprium ipsius obiectum constituunt ... ;
etiam revelatione tradita et fide suscepta ipsius tamen fidei velami-
ne contecta et quadam quasi caligine obvoluta mane(a)nt ... ».79
Così l'oscurità della fede costituisce una dottrina universalissima,
anzi definita, della Chiesa. Noi qui vogliamo solo ricordare che l'oscu-
rità non dipende da una mancanza di luce, ma piuttosto dal fatto
che il nostro occhio rimane abbagliato dalla luce divina. Abbiamo
cosi tracciato i confini generali: la fede è una conoscenza, contenuta
nel 'sl' libero alla persona del Cristo che mi chiama, mediante un'a-
desione ferma, la quale rimane però nella sfera dell'uomo defettibile
e quindi non è esente dalla caduta; con una certezza la quale non
elimina l'oscurità essenziale dell'oggetto. La fede è un sì alla testi-
monianza divina.

dcl. Conoscenza della credibilità. Dobbiamo ora riflettere anche


sull'altro aspetto: anche se la fede è possibile solo in forza d'una
libera decisione di fronte alla persona che mi chiama, tuttavia essa
è un'adesione alla verità, a ciò che è. La libera volontà come tale
non è però la facoltà del vero, bensl del bene. E anche se in Dio
il vero e il bene sono assolutamente identici, tuttavia nell'uomo si
danno due facoltà realmente distinte, delle quali una è ordinata al

71 ns 3015; NR 42: «ci vengono proposti a credere dei misteri nascosti in Dio che
non possono essere da noi conosciuti senza una rivelazione divina».
79 DS 3or6; NR 43: «la nostra ragione non è mai in grado di conoscere le verità
della fede alla maniera delle verità che costituiscono il suo oggetto proprio ... ; anche
dopo la rivelazione e la sua accettazione mediante la fede esse rimangono sempre
nascoste dal velo stesso della fede e come circondate da caligine ... ».
INTELLIGENZA TEOLOGIC~ DELLA FEllE

vero e l'altra al bene. Ora, anche se dobbiamo affermare che queste


due facoltà hanno un'origine comune, una comune radice che è co-
stituita dalla stessa natura personale, non possiamo tuttavia con-
fondere gli oggetti formali della facoltà intellettiva e della facoltà
volitiva. La decisione della volontà trova la sua norma nella perce-
zione della verità da parte dell'intelletto, anche se questa conoscen-
za della verità, da parte sua, quando si tratta di una conoscenza li-
bera e personale, deve la sua esistenza alla decisione libera della vo-
lontà. Quanto più la volontà si tiene aperta alla realtà piena, tanto
più essa è libera e sciolta dai condizionamenti sproporzionati; la vo-
lontà non dimostra la sua libertà per il fatto di tenere prigioniero
l'intelletto e d'uscire quindi dai propri confini, ma proprio per il
fatto di consegnarlo liberamente alla sua propria essenza. La volon-
tà è veramente libera quando dà il suo assenso alla realtà piena,
totale e quindi divina; l'intelletto è veramente liberato solo quando
ha ritrovato il suo quodammodo omnia, la sua apertura all'universa-
le e quindi al divino. Perciò anche qui l'uomo diventa quel che vera-
mente è nel suo profondo, quando non rimane incatenato agli scogli
che lo trattengono dal basso.
Se quindi da una parte la libera volontà di credere è insostituibile,
d'altra parte essa non soppianta la facoltà conoscitiva dell'uomo e
non si pone al suo posto, né esercita la propria funzione scavalcando
l'intelletto. Ciò rimane valido anche per la fede divina. Di quel che
non può sostenersi di fronte alla ragione, di quel che 'truffa' la ra-
gione, l'uomo non può assumersi la responsabilità in quanto costi-
tuirebbe un peccato contro la funzione donataci da Dio, contro la
ragione. Certo qui si tratta d'una ragione 'illuminata', elevata (e non
abolita) dalla grazia, dal lumen fidei; e se questa luce supera le pos-
sibilità della ragione lasciata a se stessa, tuttavia proprio questa
ragione viene elevata al di sopra di sé - all'interno della propria
funzione -, è resa libera cioè da parte di Dio verso le più alte possi-
bilità.80 Si tratta cioè veramente d'una 'luce' e non già d'un surroga-
to per la luce o d'un offuscamento per far compiere un atto che sia

80 Cf. F. MALMBERG, G/aubemlicht, in I.TKl, 4 (1960) 9~2; «La grazia dello fcJc.
nella misura in cui perfeliona la nos1ra facoltà conoscitiva raòlionale, viene chiam:u:i
tradizionalmeme luce ... {lumen prophelicum lumen gloriae /r;men fidei)».
CUM CHRISTO
449

cieco 'arbitrio': d'una luce che non 'dispensa dal vedere', ma 'che
fa vedere'. 51
La fede non può intralciare la via alla ragione, essa deve essere
rationabilis. Che questa ragionevolezza non possa consistere nell'evi-
denza delle verità affermate, lo abbiamo già mostrato descrivendo
l' 'oscurità' essenziale alla fede. Si tratta cioè d'una ragionevolezza
della fede e non già della visione, d'una rationabilis credibilitas. L'in-
vito a creder 'ciecamente' senza che questa fede appaia giusta, 'cre-
dibile', anzi 'da credere' (credenda), costituirebbe un'offesa alla di-
gnità ricevuta dall'uomo nella creazione («mirabiliter creasti»), la
quale è stata innalzata all'imprevedibile mediante il «mirabilius re-
formasti», e non è stata distrutta da questa elevazione. Non si dà
fede quindi senza che vi sia il videre esse credenda. 12
Dobbiamo allora noi porre un limite all'influsso d'ogni grazia del-
lo Spirito dall'alto, sotto la quale abbiamo messo ogni forma di fede
salvifica e tutto ciò che la costituisce? Non bisogna sottrarre all'in-
flusso della grazia almeno il giudizio di credibilità, che deve essere
realizzato solo da forze naturali, solo rationis lumine? Noi sostenia-
mo che non si deve fare questo, anzi che non si può fare, nella mi-
sura in rui la conoscenza della credibilità, di cui qui si tratta, è ne-
cessari~ alla fede salvifica, è una conoscenza cioè che si colloca necessa-
riamente all'interno stesso della fede salvifica. Si speculi pure su una
conoscenza della credibilità anteriore ed indipendente dalla fede sal-
vifica; tuttavia la conoscenza della credibilità necessariamente ine-
rente alla fede salvifica è resa possibile solo dalla grazia.&! Perché un
gran numero di teologi rifiuta di sottoscrivere questa posizione? Per-
ché in essi - in maniera piuttosto inconscia anziché conscia - eser-
cita il suo influsso il pregiudizio infondato secondo cui una cono-
scenza della credibilità frutto della grazia non sarebbe più una vera
conoscenza razionale e umana e invece la conoscenza deve essere
tale! Ma in una simile concezione il lume della fede avrebbe preci-
samente la funzione di impedire il vedere, invece di liberarlo verso

5I Cf. AUBERT, p. 431, che cita Huav. Cf. ibid., pp. 463 s., nota 24 (P. RoussELoT).
82 S. th., 2-2, I' 4, 2.
83 LAURIERS, Dimensions de la foi, I, 232-238 e particolarm.
Cf. M.-L. GuÉRARD DES
li, p. 105, nota 87: «Cert /aule la démarche efficace de la crédibilité, y compris son
aspect ralionnel, qui es/ assurée par la grace». Cf. ibid., Exrnrsus, VII, 271-275.

29 Mystcrium soluris / 2.
INTELLIGENZA TEOLOGICA DELLA FEDE
450

le sue più alte possibilità. Noi abbiamo già preso posizione contro
la incongruenza d'una tale concezione ed abbiamo sottolineato come
la grazia non soppianti né sostituisca nulla: l'uomo stesso responsa-
bilmente, liberamente e ragionevolmente crede sotto l'impulso e la
luce della grazia e proprio in questa sua fede percepisce la credibi-
lità del messaggio. Come la grazia non elimina la libertà della fede,
altrettanto non elimina la sua ragionevolezza (meglio: la sua ragio-
nevole credibilità).
E come noi abbiamo dovuto affermare con forza che la grazia non
si pone accanto alle forze umane, ma che eleva queste alle loro
più alte possibilità, cosl rimane ancora da mostr~re che la ragione
illuminata dalla grazia non esercita la sua attività passando a lato
degli oggetti che costituiscono i segni esterni di credibilità, come se
non già i segni ma essa stessa, insieme alla luce ricevuta dall'alto,
fosse l'oggetto. Come la ragione non è una faculté perceptible ma
percevante, cosi anche la grazia elevante, la luce dall'alto non è una
grace perceptible, bensl una grace percevante,&4 completamente aper-
ta :all'oggetto che le sta davanti - nel nostro caso, oggetto donato da
Dio nella sua 'rivelazione esterna' - e completamente ordinata ad
esso; altrimenti essa rimarrebbe 'forma vuota', puro 'apriori' senza
contenuto.
Quali sono dunque gli oggetti nei quali viene percepita la credibi-
lità? (Poiché si tratta della credibilità d'una rivelazione che esige
l'ascolto obbediente, essa, di fatto, è una 'credendità': credenditas;
questa non richiede pertanto di essere ulteriormente trattata a pat-
te!). Da che cosa può riconoscere l'uomo, che il messaggio del Cristo
a lui pervenuto merita veramente la sua adesione di fede? Quali
sono i 'motivi di credibilità' della fede cristiana? Così in apologetica
il teologo fondamentale formula l'interrogativo qui emerso.
Per poter rispondere a questa domanda è bene che ci volgiamo
ancora una volta al modello della conoscenza di fiducia interperso-
nale come si dà ad esempio tra amici e tra persone che si amano.
Come divento personalmente certo del mio amico? Non mi sarà
difficile enumerare tutta una serie di indizi: il suo sguardo non sfug-
gente e aperto, quel gesto nel quale egli pur di favorirmi non badò

a. Cf. F. MALMllERG, Glaubemlicbt, in LTK2, 4 {1960) 942.


CUMCHRISTO

al proprio interesse, la fidatezza sempre sperimentata della sua pa-


rola. Ma cominciamo ad isolare un indizio dall'altro e chiediamoci:
è questo sguardo aperto sufficientemente convincente? Non poteva
essere una farsa ben recitata? E quel gesto, non poteva contenere un
nascosto motivo di egoismo, che sarà forse svelato molto più tardi
o che non lo sarà affatto? L'indizio singolo, preso in sé, isolato dalla
realtà piena e vitale della persona, diventa molto problematico. Ed
ancora: chi si è incontrato con la realtà vivente del suo amico, ne
sa più di quanto non abbia potuto apprendere da un indizio singolo,
perché vede questo indizio nella sua connessione con il tutto. La
conoscenza del tutto non è stata ottenuta senza la conoscenza di
indizi singoli; ma essa è qualcosa di più che la somma di indizi sin-
goli, qualcosa di più che una mera congeries probabilitatum,15 essa è
una conoscenza globale e sovraconcettuale della persona che non può
mai essere imbrigliata in un sistema di concetti che integri i singoli
indizi presenti in questa conoscenza globale. Solo attraverso la cono-
scenza immediata della persona e mediante la loro integrazione nel-
l'insieme questi indizi acquistano forza di convinzione. Ma quando
questa è ottenuta, anche se il singolo segno può sembrare insufficien-
te all'estraneo, banale ed inefficace per colui che non è personalmen-
te interessato, per colui ch'è personalmente implicato esso è invece
pienamente sufficiente e convincente: quando uno ama, riconos.ce
la sposa «da una sola perla della sua collana» (Cant. 4,9). 86
Siamo perfettamente coscienti dei limiti di questo 'modello': in es-
so si tratta dell'incontro personale tra due persone le quali si posso-
no anche ingannare. Nella fede cristiana v'è qualcosa di più: da par-
te dell'uomo non è in giuoco solo l'acutezza naturale della mente,
ma anche il lume divino della fede, mentre dall'altra parte sta la per-
sona del Cristo che chiede la nostra fede. Egli fa le sue «opere»

85 Cf. M. WILLAM, Kard. ].H. Newman und die kirchliche Lehrtradilion, in Orien-
tierung, 22 (1958), 61-66. ID, Die Vorgeschichte des Begriffes 'konvergierende Probt1bi-
li1iiten', in Newmt1n Studien, IV (1960) I38·143. Cf. anche i testi scelti da J. Aarz, ].H.
Newman. Glaubenshegrundung t1us dem Personlichen, Freiburg r958. Inoltre: J. ARTz,
Der Ansalz der Newmt1nschen Glaubensbegrundung, in Newman-Studien, rv ( 1960) 249-
268. Egli cosl scrive a p. 2H: «Newman conduce là da dove parte Brunner», vedi
A. BRUNNER, Glaube und Erkennlnis, Miinchen 1952. Cf. ancora G. THILS, Le décret
'Lamentt1bili Stlne exitu' et lt1 convergence des probt1bili1h, in ETL, 32 (1956) 65-72.
86 P. RoussELOT, Die Augen des Glaubens, Einsiedeln 1963, p. 39.
4.52 INTELL!GENZ/l TEOl.OGICA DELLA FEDE

(Epya.), i suo! «segni» (crTJµE~cx ), i suoi prodigi (•ÉPa•o., ilauµacr-c!i, Da.u-


IJ.<icr~a)
«perché, anche se non volete credere a me, almeno cre-
diate alle mie opere» (lo, 10,38). Egli rimprovera coloro che falsano
le sue opere e - contro la coscienza retta - le attribuiscono a Beel-
zebub, e cosl rifiutano la fede che egli esige.57 Egli rimanda al «segno
di Giona», alla propria risurrezione 33 e chiama beatì «coloro i quali
crederanno senza aver visto».19 Certo una tale lode non può valere
per una fede cieca cd irrazionale, ma per lo_ sguardo luminoso di
quell'amore. che non è più indirizzato a segni massicci, poiché, come
una madre il proprio bambino, esso è in grado di riconoscere nel
segno più piccolo ed insignificante la persona che chiama.
In questa struttura unitaria si possono sempre distinguere - senza
mai separarli -: criteri interni ed esterni della rivelazione, ed inoltre
motivi di credibilità soggettivi e oggettivi.
Criteri interni sono quelli dati con l'avvenimento stesso della rive-
lazione: elevatezza della dottrina, sapienza sovrumana del messagge-
ro divino, forza intrinseca del messaggio, un po' nel senso di còloro
i quali «stupivano della dottrina di Gesù», «poiché egli insegnava
come uno che ha autorità e non come gli scribi» (Mt. 7,29). I fatti
operati miracolosamente per rendere accettabile la predicazione del-
la rivelazione vengono invece detti criteri esterni; tra essi si devono
anzitutto nominare i miracoli fisici e l'adempimento delle profezie. 90
Differente da questa è l'altra distinzione tra criteri soggettivi e
oggettivi. Soggettivi sono quei criteri che si trovano nello stesso sog-
getto che crede: l'esperienza di gioia congiunta alla fede, il. progresso
morale nutrito dalla fede, la disposizione al sacrificio, e così via. Og-
gettivi sono invece quelli che non si trovano nel soggetto, ma che il
soggetto trova al di fuori di sé, sia che si tratti di criteri esterni al
fatto della rivelazione come i miracoli, sia che si tratti di criteri in-
terni ad esso come la elevatezza della dottrina. Ora sia il Vaticano I,
sia il documento contro il modernismo accentuano solo i criteri og-

87 Cf. Mt. 12,25-32 par.


aa Mt. 12;38-40 (par. Le. u,29-31), Mt.16,1-4 (par. Mc. 9,1I-12).
119 lo. 20,29.
90 Cf. Vat. 1: os 3009; 3033 s.; inoltre il 'giuramento antimodernista': DS 3n9:
« ... extema ... revelationis suae argumenta, /acta scilicet divina, atque imprimis mirarri/11
et proph<'lias ...... , os 3009.
CUM Cl!JllSTO
453

gettivi ed esterni e fanno poco conto dei criteri soggettivi ed interni.


Questo è dovuto al rifiuto d'un certo soggettivismo protestante e
della «sola interna cuiusque experientia aut inspiratio... privata».
( DS 30 33; NR 5 5 ), cosl da eliminare in ogni caso un esclusivismo che
si limitasse ai criteri puramente soggettivi. Bisogna però tener pre·
sente che nemmeno il Vaticano I dimentica del tutto i criteri interni,
anzi, accettando i suggerimenti del card. DECHAMPS, ha dichiarato
che «la Chiesa già per se stessa, cioè per la sua meravigliosa diffu-
sione, per la santità esimia e la inesaurabile fecondità in ogni bene,
per la sua unità cattolica e per la sua invincibile stabilità, costituisce
un grande e perpetuo motivo di credibilità ed una testimonianza
irrefragabile della sua missione divina ... ».91 Ivi ci si appella ad un
criterio interno all'avvenimento della rivelazione.
Noi ci possiamo porre la domanda se possa esserci un segno della
rivelazione puramente esterno. I miracoli fisici, che spesso vengono
nominati in prima linea in questa categoria, non sono mai esclusiva-
mente dei prodigi arbitrari, ma contengono in sé il proprio significa-
to. Essi parlano la loro lingua, sono segni, CTT]µEi:et, e sono quindi
ordinati, nella loro intima natura, alla rivelazione della parola e non
solo come indicazioni dall'esterno: guarigioni di infermi, risurrezio·
ne dei morti, cacciata dei demoni, in tutto ciò si tratta sempre della
stessa lotta del Redentore contro il male in tutte le sue molteplici
manifestazioni, anche biologiche, lotta per il ristabilimento della si-
gnoria di Dio, il quale ha creato la natura e le sue forze ed al quale
queste rimangono soggette, come si manifesta ad esempio nel mira-
colo della tempesta sedata. Quando il Signore, a dimostrazione del
suo potere di rimettere i peccati, r.isana il paralitico (Mt. 9,6 ), non
si tratta d'una dimostrazione di potenza del tutto estranea al potere
di rimettere i peccati; la guarigione, nel suo significato oggettivo,
co'me ci è manifestato dalla rivelazione, è intimamente connessa con
la remissione dei peccati. Malattia e peccato sono radicalmente uniti,
e lo sono perciò anche la liberazione dal peccato e la liberazione dal-
la malattia. Ancora più chiaramente si manifesta il carattere interno,
cioè l'immanenza della rivelazione, nell'altro motivo 'esterno' di cre-
dibilità, le profezie. Il loro significato è sempre quello di porre gli

'!I DS 3013 S.; r>R 356.


454 INTELLIGENZA TEOLOGICA CELLA FEDE

avvenimenti nella prospettiva del piano salvifico di Dio e non già


quello d'anticipare sbalorditive notizie sui secoli per poi poter dimo-
strare - indipendentemente dal loro contenuto - una prescienza so-
vrumana e divina.
Anzi è senz'altro più esatto intendere la rivelazione non già come
mera dottrina, come parola, ma come parola ed opera nello stesso
tempo, come una parola nella potenza e come un'opera di potenza
che contiene in sé il significato della parola, come un'opera che cer-
tamente ha bisogno della spiegazione della parola perché l'uomo si
apra a ciò che Dio gli ha rivolto per la salvezza, ma anche come una
parola che non è mero suono e la quale non si limita a contenere sol-
tanto un significato, ma piuttosto una parola la quale crea ciò che
esprime.92
Così la rivelazione ha raggiunto il suo vertice in Gesù, «qui coe-
pit facere et docere» (Act. 1,1). Ancora di più: Gesù Cristo è la
rivelazione di Dio; la fede avviene nell'incontro personale con lui;
in lui si trova il rivelatore ed il rivelato, nella sua persona stessa è il
motivum credibilitatis. Non già come se i miracoli e le profezie, i
segni della sua missione, il 'dito di Dio', fossero superflui. Questi
sono necessari, giacché attraverso ad essi la persona esprime ciò che
essa è; tuttavia essi diventano realmente 'segni', supporti di prove
di credibilità, solo nell'incontro vitale con la persona. Sarebbe quin-
di un falso ideale apologetico basare la credibilità su un fatto quanto
più possibile isolato (per essere più facilmente esaminato e quindi
dominato), ad esempio su un miracolo fisico. Il fatto che - in appa-
renza - esso sia facilmente visibile con lo sguardo, può costitui-
re una tentazione per l'esprit de géométrie. La questione dei mi-
racoli non può essere mai astratta dal contesto della conoscenza per-
sonale, anzi se viene posta su un piano puramente scientifico essa
è irrimediabilmente compromessa.93

92 Cf. R. LATOURELLE, Teologia della rivelin:ione, Assisi 1967, pp. 414-n~; 44i·486.
9! L. MoNDEN, Theologie des Wunders, Frciburg i961, partic. 1: cap. 5 Wu11der und
christliche Existen:t:, pp. 78-101; G. SéiHNGEN, Wunderzeichen und Glaube (Biblische
Grundlegung der Apologetik), in Die Einheit in der Theologie, pp. 26p85; H. LAIS,
Das Wunder im Spannu11gsfeld der lheo/ogischen und profanen Wissenschaft, in MTZ,
u ( 1961) 294-300; K. RAHNER, Heilrmacht und Heilungskraft der G!aubens, tr. in
BCR. 67, pp. 497·.5!5 (p. 512) «Perciò non è bene che noi fin da principio se·
pari;1mo dall'insieme d'una storia umana queste sanazioni operate dalla lcJc, per
CUMCHRISTO

D'altra parte nella conversione «una sola perla della collana»


darà spesso il tocco per la convinzione di fede, forse l'impressione di
un uomo santo, forse un'esperienza rara di preghiera, ma non già
perché questi elementi soli in se stessi, separati dalla realtà totale,
possano significare qualcosa, ma perché in essi può farsi presente il
contatto personale nella sua totalità. Essi non costituiscono quindi
una raison solitaire, bensl solidaire con le altre verità che forse ri-
mangono nel sottofondo e non emergono mai per via riflessa all'oriz-
zonte della coscienza. Quella perla cioè non è sola, essa appartiene
a tutta una collana, che non è visibile e tuttavia viene afferrata nel-
l'unica perla. Ma può accadere che sia difficile ed a volte impossibile
rendere scientificamente coscienti, in forma universale, queste im-
plicazioni di ciò che è invisibilmente esplicito. Cosl si parlerà facil-
mente di motivi di credibilità 'per sé insufficienti', ma che possono
essere validi 'soggettivamente' (ad esempio il canto del Magnificat
in Notte-Dame per Paul Claudel). Se per soggettivo si intende 'arbi-
trario', 'ingiustificato', questo è un errato giudizio di valutazione. Se
invece lo chiamiamo soggettivo perché esso diventa percepibile nella
sua forza di convinzione solo a questo soggetto, con le sue determi-.
nate esperienze che porta in sé in maniera irriflessa, allora non si
tratta d'un motivo non valido, in quanto un soggetto può afferrare
in questi indizi frammentari una realtà che per gli altri rimane inaffer-
rabile, e questo non già perché essa non sia presente negli indizi,
ma perché gli altri rton hanno la capacità sufficiente ad afferrarla.
Quando un contadino in base ad una lunga esperienza delle condi-
zioni meteorologiche della sua contrada giudica che con questo accu-
mularsi di nuvole domani pioverà, gli si potrà spiegare a lungo che
tutti i motivi che egli enumera non sono sufficienti, e tuttavia egli
non sarà scosso nella sua sicurezza poiché inconsciamente sa di più
di quanto non riesca a motivare espressamente, un 'più' che rimane
però chiuso a colui che ha una minore esperienza di questi segni,
benché li veda esattamente come l'altro. Una fede quindi può appa-
rire pienamente ragionevole anche se si sottraé ad ogni verifica

isolarle mediante il metodo di analisi selettiva della fisica scientifica o della medicina,
e poi in questo isolamento artificiale chiediamo se in esse le leggi della nnturn siano
>tate 'abrogate' o noi..
INTELLIGENZA TEOLOGICA llELLA FEDE

razionale. Anche i semplici e gli ignoranti possono quindi credere


in base a motivi sufficienti e plausibili e, quando i dotti in un se-
condò tempo dimostreranno ad essi che questi motivi sono buoni,
essi non aggiungeranno nulla di essenziale al motivo che fonda la
loro fede. 94 La grazia non ha bisogno perciò di supplire (come GAR-
DEIL troppo frettolosamente afferma) nei motivi oggettivi dei sem-
plici - in opposizione ai dotti - ciò che manca in forza di convin-
zione, anche se la fede è necessaria perché pqssa essere colta tutta
Ja forza oggettiva di convinzione dei segni. Ma la grazia non è meno
necessaria ai dotti per i loro motivi di credibilità meglio analizzati,
se questi motivi devono adempiere alla loro funzione all'interno del-
la fede divina.
Al seguito del cartesianesimo, dell'idolo dell'idée claire et distincte,
proprio all'interno della teologia cattolica venne assegnato il prima-
to al ragionamento esplicito in quanto ci si fidava solo della forza
di convinzione che promanava da esso, mentre tutto ciò che non
rientrava in questa forma veniva considerato insufficiente, arbit~ario
e puramente 'soggettivo' AuBERT afferma che è stato merito di E.
PRzywARA aver rotto con questo primato (op. cit., p. 573). Ma da
questo pregiudizio è stato originato un gran numero degli pseudopro-
blemi che confluiscono nella cosiddetta analysis fidei. Noi dobbia-
mo rimandare in seguito la trattazione di questi problemi, che «per
essere ben risolti, presuppongono la conoscenza di tutto il resto»
(HARENT). 95 Allora sarà anche nostro compito di delimitare il posto
ed il compito di un'apologetica scientifica ed universalmente valida.

Finora noi abbiamo evitato di proposito il concetto corrente di 'certezza


morale', che viene inteso in maniera molto diversa. J. LEBACQZ distingue
di questo termine una dozzina di usi diversi e con significati del tutto dif-
ferenti, tra i quali va enumerato anche !'illative sense di J.H. NEWMAN. 9"
Di particolare aiuto nella questione della conoscenza della credibilità

94 a. AUBERT, pp. nr ss. Qui si inserisce !'illative sense di J.H. NEWMAN. Cf. }.·
W. WALGRAVE, Newman. Le développement du dogme, Tournai '9l7. pp. 113: «En·
fin, le raisonnement impliciU est personnel, c'est à dire qu'i/ est porté et orienté par
tout l'état moral et intellectuel du su;et ... ».
9; DTC, 6, 470.
% ]. LEBACQZ, Certitude et volonté, Coli. «Museum Lessianum ... Sect. phil., 9, Bru·
gc' 1961, pp. 169-170: Les différenls sens du terme: 'ccrtitude mora/e' Essai dc clas-
sificatio11.
CUM CIUUSTO
457

viene oggi riconosciuto il concetto tomista di cognitio per connaturalita-


tem. TOMMASO lo usa spesso, soprattutto quando parla delle virtù in gc·
nerale ed in m;iniera particolare quando tratta della fede. 91 A differenza
della conoscenza 'razionale' o 'scientifica' le disposizioni abituali del sog-
getto svolgono in essa il ruolo principale; grazie a queste disposizioni una
persona è in qualche maniera aperta ad un oggetto, cosicché essa reagisce
e comprende spontaneamente ciò che corrisponde alla sua natura (oppure
per quanto riguarda il soprannaturale il bene della salvezza percepibile
nella fede: la sua 'soprannatura'). Cosl, per cominciare dal basso. l'alta·
mato di fronte alla necessità dcl cibo, oppure, per portare un esempio più
alto, colui che è abitualmente giusto di fronte alla misura di giustizia da
osservare hic et nunc, sono talmente 'connaturali', in una specie di cono·
scenza per simpatia, per modum inclinationis, da giudicare istintivamen-
te bene, senza bisogno d'analisi faticosa dei motivi per via di conoscenza
riflessa. Nell'accettazione dell'invito alla fede si tratta d'una conoscenza
connaturale della credibilità della fede stessa, che corrisponde alla 'natura
elevata' ed alla cui 'preparazione' hanno contribuito le doti naturali, l'edu-
cazione, l'influsso dell'ambiente da una parte, l'impulso e la luce della
grazia soprannaturale dall'altra, ed infine ciò che l'uomo stesso fa di tutto
ciò nella sua sintesi e nella sua adesione personale e libera. G. DE BRo-
GLIE, considera questa conoscenza come la forma perfetta della conoscenza
umana dei valori (p. 177). Certo anche questa conoscenza può essere ana-
lizzata, generalizzata (l'apologetica si sforza di far questo per quanto ri-
guarda la credibilità), ma le parti 'vivisezionate', prive del loro atto vitale,
né avranno vita, né potranno dare vita.

b. Dimensione sociale-ecclesiale della fede

La fede è un incontro personale della persona umana con la persona


di Gesù Cristo. La nostra trattazione sarebbe però incompleta se
tralasciassimo di considerare una dimensione dell'uomo che incontra
ed una dimensione del Cristo che chiama: la dimensione sociale, il
fatto cioè che l'uomo nella rivelazione viene chiamato in una situa-
zione sociale ed 'e-letto' a partire da una situazione sociale. L'uomo
diventa nella fede membro della Chiesa, anzi egli riceve la fede nel-
la Chiesa; e d'altra parte il Cristo continua a vivere la sua indivi-

97 S. th. 2-2, 4,, 2; 111 Sent. 23, 3, 3, 2, 2; S. th. 2-2, 1, 4, 3; 2-2, >. 3. 2. Cf. P Rous-
SELOT, L'intellectualisme de St. Thomas, Paris 31936, pp. 70-72; In., Les yeux de la
/oi, p. 418; G. DE BROGLIE, Pour une théorie rationnelle de l'acte de ./01. Paris 19q,
1' partie, 176-18,; C. N1NK, Sein, Leben und Erkennen, in Sebo!, 9 ( lyj4) 210-234:
AUBERT, pp. 462 ss.
INTELLIGENZA TEOLOGICA DELLA FEDE

dualità nella dimensione sociale-mistica: il Christus solus continua


a vi"".ere nel Christus totus, nel suo corpo che è la Chiesa.93 Come
la Chiesa è il 'prolungamento' del Cristo rivelatore, il suo corpo
mistico, il Christus lotus, così essa è anche la congregatio fidelium,
la Sponsa Verbi che pronuncia il suo 'sì' nuziale ..Ambedue le im-
magini devono essere prese sul serio e nessuna deve soppiantare
l'altra; a loro modo, esse esprimono un differente aspetto della real-
tà completa del Cristo. Dobbiamo ora chiarire-il significato che que-
sta struttura sociale della rivelazione riveste per la risposta dell'uo-
mo chiamato a credere.

aa. Il 'noi' della fede. M.-D. CHENU scrive che la sociologia costi-
tuisce anche «un mezzo per poter meglio comprendere la fede dal
punto di vista del suo soggetto umano, che non è solo individuale
ma anche collettivo».99 Sebbene la fede non sia riducibile a leggi
sociologiche - essa infatti sorge dalla libera iniziativa dell'azione
salvifica di Dio -, tuttavia sorge e si esplica in una comunità, non
già soppiantando le leggi dei rapporti sociali, ma adempiendole. La
Chiesa costituisce questo «ambiente sociale della fede cristiana».'00
Anche l'apologetica non dovrebbe tralasciare questa considerazio-
ne. Indurre delle conclusioni a partire dai segni non è affidato ad un
individuo isolato, ma viene effettuato attraverso il controllo e la
critica della comunità. Sono segni, infatti, che vengono sperimentati
nella comunità ecclesiale. 101 Il card. DECHAMPS lo aveva già visto; il
Vaticano r ne ha fatto proprio il punto di vista e per la credibilità
della rivelazione cristiana non si è rifatto a· documeI?-ti, secondo il
metodo classico della scolastica, ma alla realtà viva della Chiesa, al-
l'esperienza vivente della vita ecclesiale: «La Chiesa stessa è in sé
un grande e perpetuo motivo di credibilità ... ». 102 Questo è il 'metodo

98 Cf. anche H. FRIES, Kirche als Gemeinschaft der Glaubenden, in Waru111 glau-
ben?, Wìiuburg 196r, pp. 29.5·JOJ.
99 M.-D. CHENU, Tradition und Soziologie des Glaubens, in J. BETz - H. FRIES, Kir-
che und Oberlieferung, Freiburg 1~0, pp. 266-277 (267).
100 P.A. L1ÉGÉ, L'ÉgJ,ise, milieu de la foi chrétienne, in Lumière et Vie, 23 (1955)
45-68.
101 AUBERT, p. 49r. Cf. E. MASURE, Le Signe, Paris 1953·
IOlos 3013; r<R n6. Sul DECHAMPS, d. M. BECQUÉ, Le Cardinal Dechqmps, 1·11,
Luuvain 1956; Io., L'apologétique du Cardinal Dechamps, Brugcs 1949.
CUMCHRJSTO

della provvidenza'. Secondo AuBERT, è stato merito della teologia


tedesca aver posto in luce recentemente il carattere comunitario della
fede. Egli fa i nomi di R. GUARDINI, K. ADAM, J.R. GEISELMANN,
J. ENGERT, J. TERNUS. 10l R. GUARDINI scrive: «Noi abbiamo visto co-
me la fede del singolo sia legata a quella degli altri; come il suo con-
tenuto provenga sempre dagli altri, e come sia suscitata dal contatto
con gli altri la propria tensione vitale. Non già che la fede abbia ori-
gine dagli uomini; Dio ne dispone, la opera, ma la opera nella natura
umana e cosi l'uomo è per l'uomo la via a Dio».
Anzi abbiamo visto come la fede del singolo sia inserita nella fede
della comunità. È la Chiesa stessa che cr/de, ed il singolo in essa.
«Il singolo crede e la Chiesa crede mediante lui. La Chiesa non sta
solo davanti a lui, sta anche in lui; essa vive nella radice della vita
donatagli da Dio, dove l'io ed il noi, il singolo ed il tutto esistono
nell'identica sostanza vivente dell'uomo». 104
Il credente non è mai solo: egli è membro d'una comunità viven-
te, la quale perciò non può essere mai senza un'espressione comuni-
taria della fede. Una tale espressione è il Symbolum attraverso il
quale - specialmente nella forma plurale: «credimus et confztemur» -
viene espressa la comunanza della fede ortodossa. C'è una predica-
zione dottrinale della Chiesa, attraverso norme, principi ed anatemi,
nella quale i fedeli sono uniti nel noi della fede. 105 Ciò si esprime
anche nella testimonianza verso l'esterno, proprio attraverso la testi-
monianza per!ionale della risposta di fede dell'unica Chiesa attraver-
so i singoli~ il punto più alto di questa testimonianza è dato dal
martirio in senso pieno (anche e soprattutto dove esso si verifica
nella forma di scomparsa segreta ed anonima ad opera delle moderne
persecuzioni). La testimonianza della fede si dà ugualmente nella
fedeltà paziente al dovere quotidiano: nell'educazione cristiana in

103 AuBERT, 626-630, specialmente nota 18; R. GuAl!DINI, Vom Leben des Glau-
bens, Mainz 4 1957; lo., Glaubenserkenntnis, Wiirzburg 1949 u. Frciburg 1963; K.
AnAM, Und Glaubenswissenchaft im Katholizismus, in TQ, 101 (1920) 13M55, cd. an-
cora più diffusamente sotto lo stesso titolo, Rottenburg 1923; J.R. GEISELMANN, Le-
bendinger Glaube aus geheiligter Vberlieferung. Der Grundgedanke der Theologie J
A. Mohlers und der leath. Tubingerschule, Mainz 1942; J. TEllNUS, Vom Gemeinschafts-
glauben der Kirche, in Schol, 10 (1935) 1·30; A. BRUNNER, G/aube und Gemeinschafl.
in StdZ, 163 (1959) 439-4,.r.
104 R. GUARDINI, Vom Leben des Gla11be11s, p. I-f9·
105 Cf. J. TERNUS, op. cit., pp. i3·27.
INTELLIGENZA TEOLOGICA llELLA FEDE

seno alla famiglia, nella propagazione delle tradizioni religiose, e


così via. Certo un uomo può, come Abramo, essere segregato dal suo
paese e dalla sua parentela, e tuttavia egli porterà con sé il profumo
della sua terra, non si recherà in una massa amorfa, porterà con sé
le disposizioni più varie, anche quelle d'ordine politico. Anche dove
la fede cristiana segna cristianamente una zona, il carattere sociale
della fede ha il suo influsso, soprattutto dove la comunità, anche se
sotto segni e veli, può essere più chiaramente se stessa, nell'azione
liturgica della comunità con il Signore davanti al Padre. Resta ora
da dire qualcosa su fede e sacramento.
In questa fede comunitaria il singolo è sempre destinatario e di-
spensatore. In dipendenza nuziale dallo Sposo, da lui, 'autore della
grazia', egli riceve la sua fede e la riceve nel legame fraterno con
gli altri, con la comunità eletta; come membro unito al capo, egli
prende però anche parte alla sua opera di testimonianza e di gene-
razione alla fede. Perciò non si dà una Chiesa solo 'docente'. Certo
in questa Chiesa c'è anche il compito particolare dell'insegnamento,
la funzione gerarchica e quindi il diritto ad essere ascoltati dagli altri
come Cristo stesso («Chi ascolta voi ascolta me» (Le. ro,r6)), ma i
soggetti di questa funzione non sono i signori della fede, bensì
ascoltatori obbedienti della parola che anch'essi hanno ricevuto nel-
la comunità della Chiesa. D'altra parte non si dà una Chiesa solo
'discente'. Dove si dà infatti ascolto generoso del Signore, ivi si dà
apertura alla testimonianza: «Chi mi confessa davanti agli uomini,
costui (solo costui) io confesserò davanti al Padre mio» (Mt. 10,32 ).
In ogni caso la nostra fede deve essere quella 'fede fraterna' consi-
derata da K. RAHNER come il primo segno della forma contempora-
nea della fede. 106
Tuttavia qui deve porsi una questione alla luce d'una riflessione
sobria e critica: come deve essere inteso il 'noi' della fede, il sog-
getto collettivo della fede?
In primo luogo, certamente non solo nel senso che la fede di tutti i
singoli coedifica la comunità di fede, dove i singoli, presi individual-
mente dallo Spirito e dal Cristo che si fa incontro, contribuirebbero

Hl<> K. RAHNt:R, Il sacerdote e la fede, oggi, Coli. «Meditazioni teologiche», Brescia


1967.
CUM CHRISTO

con la loro fede all'edificazione della congrega/io fidelium, ma anche


nel senso che la fede dei singoli ha come suo necessario presupposto la
comunità di fede (e per di più - come qui viene sempre inteso - della
fede in senso soggettivo, della fides qua creditur).rn1 La Chiesa in quan-
to credente è prima (non in ordine di tempo) dei suoi membri, giac-
ché il singolo può vivere solo per la fede della comunità. Perciò il
. battezzando alla domanda: «Cosa chiedi alla Chiesa di Dio?», rispon-
de: <~La fede». Questa totalità (della Chiesa) non è solo un universale
logico, ma una realtà vera. Tuttavia di quale tipo? Certo nel descri-
verla bi.sogna guardarsi dall'accentuare talmente i motivi organici e
fisiologici, legati alla rappresentazione del Corpus mysticum, da non
tener più conto della dignità e della responsabilità dei membri. Ma
un'unità reale dell'unico, collettivo soggetto della fede deve essere
data fondamentalmente in quanto la rivelazione pubblica è definiti-
vamente chiusa, e quindi è stato consegnato un depositum fzdei che
può avere la sua consistenza solo in una vera unità del soggetto che
conserva il deposito. Si dà quindi un'unità del soggetto di fede della
Chiesa docente. Ma si dà anche un'unità soprannaturale di vita (la
quale è inconcepibile senza l'unità di fede, in quanto è la fede il fon-
damento della vita soprannaturale) della Chiesa discente, cosi come i
tralci appartengono all'unica vite (Io. 15 ).
Quest'unità deve essere spiegata dall'unità del Cristo, del quale
vivono i membri della Chiesa, con il quale sono uniti proprio me-
diante la fede: «Il Cristo abita mediante la fede nei vostri cuori»
(Eph. 3,17). 1118 Egli è infatti «autore e perfezionatore della fede»
(Hebr. 12,2). Il Cristo inoltre è anche conforme al suo corpo (o me-
glio: il corpo è conforme al Cristo), poiché a lui come a noi appar-
tengono fede e speranza, se nella fede e nella speranza noi conside-
riamo ciò che esiste di positivo e di perfezione, poiché «quantum
ad id quod imperfectionis est» fede e speranza devono essere negate
nel Cristo. 10<! «Il Cristo ha una conoscenza perfetta di ciò che gli altri
credono e così, rispetto alla conoscenza, egli è conforme agli altri
come la perfezione lo è all'imperfezione. Così viene intesa la con-

1!77 J. TERNUS, op.


cii., p. 4.
108 Cf. G. S()HNGEN,Cbrisli Gegenwart in uns durcb den Gla11ben (Epb. 3,17), in
Die Einbeil in der Tbeologie, Miinchen 1952, pp. 324-34r.
109 De veri/ate, 29, 4, l 5.
INTF.l.llGENZA TllOLOGICA DELLA FEDE

formità tra il capo e le membra». 110 «Come del Cristo 'sociale' della
Chiesa può essere detto che soffre nelle sue membra, cosl può anche
essere detto che nei fedeli circola un'unica vita di fede». 111 Questo
è uno dei modi della presenza - reale! - del Cristo, grazie alla quale
i molti «sono un solo corpo nel Cristo» (Rom. q,5 ); l'altra consi-
ste nel fatto che egli solo conosce Dio e comunica a noi questa cono-
scenza; così egli rimane presente come Chiesa docente, rende la Chie-
sa 'conforme' a sé, «sposa senza macchia e senza ruga» (Eph. 5,27),
«la colonna ed il fondamento della verità» (1 Tim. 3,1.5).
«L' 'unio fidei' è un fenomeno assolutamente sociale. Essa non
è nient'altro che il Cristo della fede nel quale tutti i fedeli hanno
comunione. In questa comunione di fede è garantita l'unità, l'inte-
rezza, la verità ed il centro della fede. Solo in forza dell'intenzione
ch'è medesima nella disposizione a credere del centro e della tota-
lità, la fede è veramente una fede 'giusta' e 'salvifica' La comunità
dei credenti in quanto credente non costituisce quindi un'unità pu-
ramente logica, non è un aggregato o una pura collettività esteriore
di persone ... ». 112

hb. Dalla storia, verso la storia. Accanto alla comunità ori~ontale


svolge una funzione decisiva anche la comunità verticale dei creden-
ti: la Chiesa è una C_hiesa della tradizione. Il cristianesimo è una re-
ligione storica, si riferisce ai fatti della salvezza, a ciò che è accaduto
'una volta per tutte' e che come tale è decisivo per la salvezza. Non
è possibile interrompere la linea e nemmeno è possibile rompere la
solidarietà con tutto il passato cristiano. E ciò per fedeltà verso il
futuro. In definitiva infatti nella Chiesa 'progressismo' e 'tradiziona-
lismo' non possono stare in opposizione, se ambedue comprendono
fino in fondo la loro funzione da svolgere nella Chiesa: il tradizio-
nalismo ha come sua eredità viva, per consegnarlo al futuro e per
conservarlo come qualcosa da rinnovare sempre, ciò che è accaduto

110 Ibid., 29, 4, 8: «Chrislus habet cognitionem perJectam eorum, de quibus alii {i-
dem habenl, et ila in quantum ad cognitionem aliis conformatur sicut perfect111n im·
perfecto. Talis aulem èonformitas inter caput et membrum allenditur».
l11 J. TERNUS, op. cit., p. 19.
112 J. TERNUS, op. cit., pp. 22 s. Nelle pagine precedenti ci siamo spesso rifatti a
yuesto lavoro eccellente, anche quando non l'abbiamo cìtato espressamente.'
CUM CHRISTO

wia volta per tutte, che nella storia ha preso ogni volta sempre nuo-
ve forme. Il progressismo ha il compito di ricercare coraggiosamente
questa forma nuova, adatta ai tempi, e questo non già per puro adat-
tamento alla moda, ma per fedeltà al compito perpetuo della Chiesa.
Determinare dei condizionamenti storici e non reputarli normativi
per il futuro, non significa criticarli perché appartenenti al passato.
Un relativismo autentico, del genere cui accenniamo, può conservare
un'assoluta comprensione per le molte necessità e per le diverse rea-
lizzazioni del passato, senza per questo considerarle in tutt<:> e per
tutto determinanti per il futuro. La fede cristiana «si radica in un
presente storico che è originato da un passato e contiene in sé que-
sto passato. Questo presente è la Chiesa stessa come continuazione
del Cristo. Essa è tradizione vivente, che si diffonde dalle origini at-
traverso tutta la storia, come lo può soltanto ciò che è spirituale.
La presenza del corporale .è rigidamente
. delimitata nel tempo e nel-
lo spazio. La presenza dello spirituale invece si espande al di là del
tempo e dello spazio e per di più in misura tanto maggiore quanto
più forte è la potenza spirituale dell'origine. Se essa ha origine da
Dio stesso, che come uomo-Dio è entrato nella storia, non si dà li-
mite alcuno· al suo regno». 113
La storicità della fede ci vedrà ancora occupati quando parleremo
della 'formula ed oggetto della fede'. Per il resto è stata già portata
sufficiente attenzione a questo aspetto della fede quando, parlando
dell'azione e della parola di Dio, si è considerata la storicità della
rivelazione. 114

cc. Fede e sacramento. La Chiesa è il sacramento primordiale, l'u-


nico, grande, 'efficace segno' di Dio in questo mondo, che trascende
gli spazi e i tempi, la volontà dell'alleanza diventata visibile, 'defini-
tivamente segnata' dall'unico Mediatore. La presenza del Cristo nel-
la storia è la Chiesa. È una p1esenza quindi che fonda una comunità,
un tessuto sociale e l'attualizza in vista dell'azione salvifica. È una
presenza d'una parola e al tempo stesso di un'azione salvifica. La

l1l A. BxuNNER, Glaube u11d Geschichte, in StdZ, 163 (1958/,9) lOC>-II5. Questo
articolo espone molto profondamente una filosofia della storia, come è 8iusto che ci
sia alla base di un'esplicazione teologica della storicità della fede.
114 Cf. soprattutto il capitolo I e Il (v. parie prima).
INTELLIGENZA TEOLOGICA D'ELL" FEDE

Chiesa come proto-sacramento si estrinseca nella molteplicità dei


segni efficaci della salvezza, nei sette sacramenti. 115 «L'attuale realiz-
zarsi della Chiesa come segno dell'evento individuale di salvezza» 116
avviene nel sacramento. Nei sacramenti ci si fa incontro la salvezza
e la salvezza ci si fa incontro nella fede. Allora è già chiaro che fede
e ·sacramento non stanno l'una accanto all'altro senza alcun rap-
porto.117
Come nel sacramento si esprime l'unità di parola e d'azione sal-
vifica di Dio verso l'uomo, così si esprime in esso anche l'unità e la
struttura della risposta umana, una risposta la quale è strutturata
come unità corporeo-spirituale. «Con il cuore si crede per la giu-
stizia e con la bocca avviene la confessione per la salvezza» (Rom.
10,10) - e non solo con la parola della bocca, ma anche con l'atto
visibile dei segni efficaci che il fedele ottiene pregando e che lascia
accadere in sé. «Chi crede e si fa battezzare sarà salvo, ma chi non
crede sarà condannato» (Mc. 16,16). La fede quindi insieme al bat-
tesimo è decisiva per la salvezza: dove la fede può trovarsi al posto
dei S!lcramenti, nei quali lo stato dei battezzati o viene approfondito
in vista di una determinata funzione, oppure si attualizza sempre
nuovamente, come nel caso del più grande dei sacramenti , l'euca-
ristia.
Ora si potrebbe tentare di separare fede e sacramenti: presentare
i sacramenti senza la fede, accanto alla fede, come decisivi, per con-
to loro, per la salvezza. Così per lo più i cristiani riformati inten-
dono l'opus operatum dei cattolici, come un'opera senza parola, come
un atto magico.

Ciò non corrisponde senz'altro al dogma cattoliço che attribuisce ai sacra-

111 Sul tema della Chiesa come sacramenio primordiale, cf. O. SEMMHROTH, Di.•
Kirche als Ursakramenl, Frankfurt a. M. 19'3; H. SCHILLEBEF.CKX, Cristo, sacramen·
lo de/l'i11con1ro con Dio, Roma l196s; Io., I sacramenti p1111/i d'inconlro con Dio.
Coli. «Giornale di teologia», 3, l1967; K. RAHNEK, Kirche und Sakranm1h', Coll.
~Quaest. disp.•, 10, Freiburg 1960~ H.R. Sct1LETTE, Komm1111ika1ion und Sakrammt,
Coll. «Quaest. disp.», 8 Freiburg I9S9·
110 K. R"HN'ER, op. cii., p. 19.
111 Un lavoro poderoso sul tema 'fede e sacramento', serino ai fini d'un dialogo
fra le Chiese, è costituito dal 1 volume (il li non è ancora uscito) di L V1nETTE,
Fo1 el Sacrement. Du Nouveau Testament à St. Augustin, Paris 1959_ Un picrnln
lavoro di pregio è quello di P. FRANSEN, Failb and 1be Sacraments, London 19s8.
CUMCHllISTO

menti un'efficacia ex opere operato; con questa formula viene assicurata


l'immediatezza divina di ciò che accade nei sacramenti, cioè il fatto che
l'intenzione di Dio non può essere frustrata dall'umano venir meno del
ministro, che Dio non pone come strumento nel sacramento la santità
personale dcl ministro o di colui che riceve, ma pone da solo l'opus ope-
ratum, sul quale quindi il signore non è l'uomo, ma solo Dio.

Contro questa concezione (falsa!) dell'opus operatum i riformatori


insegnano la giustificazione 'per la sola fede', senza sacramento. I sa-
cramenti, il battesimo, l'eucaristia, possono e devono essere ammini-
strati, ma la giustificazione, l'azione salvifica di Dio non passa attra-
verso di essi: essa viene annunciata, viene confessata nei sacramenti,
ma il sacramento nell'unità essenziale dell'unità corporeo-spirituale
della risposta umana non penetra fino alla parola ed all'azione sal-
vifica di Dio.
Dire che i sacramenti sono efficaci solo mediante la fede è, se-
condo il dogma cattolico, 118 una spiritualizzazione ed uno swotamen-
to della realtà sacramentale in contraddizione con il realismo del-
l'incarnazione. Tuttavia il dogma cattolico tiene per fermo (ed i
contatti ecumenici con i cristiani evangelici rendono più coscienti su
questo puntò') che nel sacramento penetrano da parte di Dio la paro-
la e da parte dell'uomo la fede ed il sacramento riceve la sua anima
dalla parola e dalla fede. Il sacramento non produce la grazia se
non viene ricevuto 'nella fede'. 119 I sacramenti sono vivi e comuni-
cano la vita in quanto «concretizzazione della fede». 120
I sacramenti del battesimo e dell'eucaristia mostrano in modo
particolare il loro legame con la fede.
Il battesimo, nella visuale dei Sinottici, è il 'sigillo della fede' in
quanto esso, considerato oggettivamente, corona la predicazione del-
la fede e l'annuncio della salvezza; considerato soggettivamente, con·
sacra liturgicamente la fede del neoconvertito. Secondo Paolo, fede
e battesimo sono i due mezzi inseparabili della giustificazione. Essi

lii Cf. i canoni del Tridentino: os 1604·16o8; NK 416-420. Pio Xli, enc. Medi11tor
Dei (20 nov. 1947), in AAS, 39 (1947) '32, '37; DS 3844; 3846.
119 Cf. anche K. RAHNER, Personale und sakrament11le Frommigkeit, in Schriften, Il,
pp. II'·I4I.
120 Sul terna della fede e dei sacramenti, vedi la teologia dei sacramenti; sul tema
dc!la fede e della giustificazione, cf. vol. IV, capitolo 9.

30 Mvsterium salutis / 2.
INTELLIGENZA TEOLOGICA DELLA FEDE

si completano a vicenda sia come offerta salvifica da parte di Dio, sia


come accettazione della salvezza da parte dell'uomo. 121
L'eucaristia: Giovanni la vede in modo particolare in strettissima
connessione con la fede, essa è il mysterium fidei; cosl in Io. 6, nel
cosiddetto «discorso di promessa dell'eucaristia», si compenetrano
vicendevolmente fede da una parte e mangiare la carne e bere il
sangue del Cristo dall'altra.
Il tempo dell'eucaristia coincide con quello della fede: «donec ve-
niat: finché verrà». Ambedue sono tese a questo termine: proeliba-
tio coenae aeternae è l'eucaristia, inchoatio vìsionis è la fede. Ritor-
neremo su questa dinamica della fede (infra, c.) La dimensione esca-
tologica caratterizza la Chiesa nella sua totalità ed in tutte le sue
funzioni; essa caratterizza in maniera particolare la fede.

dd. Extra Ecclesiam nulla fides? Prima però di passare a trattare


della dimensione escatologica della fede, dopo che abbiamo cosl for-
temente accentuato la ecclesialità ed il riferimento essenziale a Cri-
sto della fede, sorge la domanda: se fuori del Cristo non si dà via
verso il Padre, se lo Spirito del Cristo opera solo nel corpo del Cri-
sto, nella Chiesa e per la Chiesa, se quindi «extra Ecclesiam nulla
salus et nulla fides», che ne è allora di coloro ai quali il Cristo non
è stato predicato, i quali vivono e muoiono al di fuori della Chiesa
senza venire in contatto con essa? È esclusa per essi ogni possibilità
di salvezza in quanto «è impossibile piacere a Dio senza fede» (Hebr.
11,6)? Questi uomini non costituiscono un'eccezione, in quanto essi
sono la maggioranza più cospicua dell'umanità. Richiamarsi ad una
Chiesa invisibile non ha senso, in quanto non esiste che l'unica Chie-
sa socialmente strutturata, in continuità storica, attraverso gli apo-
stoli, con Cristo. E tuttavia «Dio vuole che tutti gli uomini siano
salvi e pervengano alla conoscenza della verità» (I Tim. 2,4), ed il
dogma della Chiesa ci espone questo quale vera, attiva volontà sal-
vifica di Dio, dalla quale nessun individuo è escluso.

121 Cf. L. VILLETTE, op. cii., pp. 99-ror: Conclusions de l'enquéte scripluraire ... ;
J. DUPLACY, Le salut par la foi et le bapleme d'après le Nouveau Te.stament, in Lumiè·
re e/ Vie, 27 (1956) 3-52; J. HAMER, in Irénikon, 23 (1950) 387-406; J. SrnMITT, Bapté-
me et Communauté d'après la primitive pensée apostolique, in La Maison-Dieu, 32
( 1952) 53·73.
C:UMCHRISTO

Questa domanda sulla salvezza dei non evangelizzati e quindi dei


non battezzati, sulla salvezza di coloro i quali stanno apertamente
fuori della comunione con la Chiesa visibile, opprime l'uomo mo-
derno forse più di quanto non opprimesse l'uolllQ medievale, in
quanto oggi si è in grado di percepire chiaramente la smisurata spro-
porzione tra ciò che viene a contatto con la Chiesa e ·ciò che Ia
Chiesa non riesce a prendere in cura. A noi basta qui trattare la
questione della via alla salvezza solo nella misura in cui questa passa
per la fede, la fede nel Cristo e la fede dentro la Chiesa.1Z2
La questione può essere propriamente trattata solo in quanto al
di fuori del recinto della Chiesa visibile, istituzionalmente costituita,
si danno dei vestigia Ecclesiae che sono parimenti visibili. In quale
misura quindi nelle istituzioni religiose del suo popolo (le quali non
devono essere apprezzate solo negativamente), nel rappresentare una
tradizione religiosa che non ha rapporti storicamente visibili con il
Cristo, un uomo può essere tuttavia toccato dal L6gos il quale si ef-
fonde nei l6goi spermatik6i? Se l'uomo è sempre 'costituito cristo-
logicamente',123 creato 6n dall'inizio per il Cristo, mai chiuso nella
sua 'natura pura', altrettanto si deve dire delle religioni non cristia-
ne. Esse non sono semplicemente forme della 'religione naturale' ma
- con tutte le deficienze della loro realizzazione storica - 'cristianesi-
mo in nuce', 'cristianesimo anonimo'. 114 È compito della Chiesa costi-
tuita istituzionalmente aiutare questi elementi 'anonimi' sparsi nella
'diaspora' delle diverse religioni e tradizioni a ritrova~e il loro vero
nome, l'unico «Nome che è stato dato sotto il cielo agli uomini, nel
quale dobbiamo essere salvati» (Act. 4,12 ), il «Nome di Gesù Cri-
sto nazareno che ... Dio ha risuscitato dai morti» (Act. 4, 10 ). Anche
nello spazio al di fuori della Chiesa può darsi quindi un votum Eccle-
siae e si può dare quindi nello spazio al di fuori del cristianesimo
un votum Christi. Bisogna solo stare attenti a non ridurre questo

122 In un contesto più vasto la questione viene trattata da ] . FEINER, Kirche 1md
Heilsgescbichte, tr. in BCR, ,-2, pp. 365-407. Cf. anche le riflessioni di A. DARLAPP
nel 1 capitolo (v. parte prima).
123 Cf. G. ScHi.JCKLER, Die chrùto/ogische Verfasstheit der natura umana, in Cath,
I I (1956) 51-64.
124 A. RoPER, Cristiani anonimi, Coli. «Giornale di teologia», 6, Brescia 1967. Con-
tro questa interpretazione di sapore rahneriano solleva però - pur riconoscendone 1
meriti - dei seri interrogativi H. VORCRIMLER, in Hochland, 56 (1964) 363 s.
ll'ITELLIGENZA TEOLOGICA DELLA FEDE

votum a qualcosa di puramente interno, in quanto esso - anche se


a tentoni, anche se mai riflessamente cosciente - ha la sua espressio-
ne. «L' 'altro' è sempre presente nella fede d'ogni credente, nella
fede d'ogni comunità cristiana, e l'altro, alla fin fine, è sempre Chie-
sa» .125
Extra Ecclesiam nulla fides, poiché tutto ciò che c'è di fede al di
fuori della Chiesa istituzionale è tuttavia una partecipazione proprio
a questa Chiesa, non già in pura interiorità, ma anche in una visibi-
lità che ha diversi gradi. Per i cristiani non cattolici si tratta d'un
legame ad una comunità che per lo meno conserva 'qualcosa della
Chiesa' e per di più in continuità storica: sia la Scrittura cresciuta
nella Chiesa, sia il battesimo, sia i sacramenti nel loro numero set-
tenario, sia infine - noi possiamo considerare questo come il caso
limite 'più denso' - la piena unione con la Chiesa gerarchicamente
costituita, unita attorno a Pietro. Questa è il «signum levatum in na-
tiones» (ls. 11 ,12) non già per ricacciare le altre comunità nell'oscu-
rità di ciò che è non-Chiesa, per degradarle nel contrasto, ma per
renderle più trasparenti alla loro vera luminosità. Poter credere in
questa Chiesa cattolica spazialmente circoscritta è la grazia 'straordi-
naria' della visibilità piena, mentre 'in via ordinaria' (questa è la
conclusione che emerge dopo aver consultato le proporzioni nume-
riche) adesso qua&_giù l'invito di Dio e la risposta dell'uomo non so-
no pienamente visibili. Le proporzioni numeriche cambieranno forse
sostanzialmente fino alla parusia? Non lo sappiamo! Certo, la divisio-
ne netta nella piena visibilità sarà perfetta solo quando il Signore
verrà per la messe. Nel frattempo non dobbiamo mai desistere dalla
pazienza come il Signore la esige da noi: «Lasciate crescere l'uno e
l'altra fino al giorno della messe» (Mt. 13 ,30 ). Questa dimensione
della fede, la sua relazione agli éschata ha ora bisogno d'una tratta-
zione propria.

c. La dimensione escatologica

aa. La Chiesa è una comunità escatologica. Al suo nascere essa vi-

m P.A. LIÉGÉ, L'Sglise milieu de la /oi chrétienne, in Lumière et vie, 23 (1955)


45-68 (46).
CVM CHIUSTO

veva dell'attesa escatologica immediata. Infatti il 'senso vitale' della


primitiva comunità, come trova espressione negli scritti cristiani pri-
mitivi, sentiva la parusia immediatamente vicina. Che alcuni cristiani
muoiano già prima della parusia è il problema che angoscia la fede
e che ha bisogno di una soluzione (cf. le epistole ai Tessalonicesi).
Quelli che muoiono prima della parusia sono considerati delle ecce-
zioni e non la regola. Perciò Paolo sente il bisogno di assicurare che
per essi il fatto di essere morti prima, non costituisce svantaggio al-
cuno rispetto a «noi, i viventi, che restiamo fino alla venuta del Si-
gnore» (I Thess. 4,1 .5 ). Lo sguardo della Chiesa è decisamente volto
al futuro, avvertito come immediato, della 'rivelazione', dell'ti1toxcf>..v-
lji~c;. La serietà quindi dell'obbedienza alla parola del Cristo si espri-
meva, in maniera adatta al tempo, nel precetto: «vegliate». 126 «Il
Signore non indugia con la sua promessa» ( 2 Petr. 3 ,9 ). Questa era
per la Chiesa primitiva l'unica forma psicologicamente possibile di
prendere sul serio il comando chiaro ed inequivocabile del Cristo, di
attendere decisamente il suo ritorno. Condizionata dal tempo era la
forma, non il contenuto della fede stessa, giacché i cristiani di allora
avevano ascoltato anche l'altra parola, quella sull'insicurezza dell'ora:
«Nessuno- sa il giorno né l'ora, né gli angeli del cielo, né il Figlio,
ma solo il Padre» (Mc. 13,32 ), e tuttavia essi non l'avevano 'realiz-
zata' Per la realizzazione di questa parola del Signore occorre l'espe-
rienza della distanza temporale. Questa esperienza non ha cambiato
la fede, ma l'ha situata nel contesto d'un diverso senso della Chiesa,
la qual cosa non è avvenuta senza crisi e scosse. Da ciò provenne
però una maggiore presa di coscienza delle 'realtà terrene', un radi-
carsi più deciso nelle strutture visibili, un occuparsi più fattivo del-
l'edificio organizzativo, una strutturazione gerarchica più accurata.
Anche questo venne operato nell'obbedienza all'insegnamento del
Cristo, ma come imperativo concreto fu percepito solo dopo l'espe-
rienza maturata nello scorrere della storia.
Tuttavia il pungolo dell'escatologia rimane, il metter radici non
può avvenire se non nella maniera confacente ad una comunità che
ha 'lassù' la sua vera Patria, che rimane una comunità in attesa del
Signore che deve tornare, e questo, anche se tarda a lungo a venire
INTELLIGENZi\ TEOLOGICi\ DELLA FEDE
470

(cf. Le. 12,45), deve essere tuttavia atteso sempre «con i fianchi
cinti e con le lampade accese» (Le. r2a5). 127 Essa è una Chiesa che
celebra quel banchetto che troverà il suo compimento solo lassù nel
'regno' pienamente visibile (Le. 22,16). L'attesa della parusia della
Chies?- primitiva rimane quindi un modello che deve segnare la
Chiesa di tutti i tempi. «Ciò che io dico a voi lo dico a tutti: ve-
gliate!» (Mc. 13,37).

bb. Ora la Chiesa è una comunità escatologica proprio in quanto


'congregatio fidelium' La fede come atteggiamento fondamentale che
edifica la Chiesa è permeata da questa attesa escatologica. Essa è in-
fatti l'amen salutis, l'accettazione nella riconoscente adesione alla
'salvezza', alla o-w-.tpla. Sarebbe certamente falso porre la salvezza
solo nel futuro; essa non è assente dal presente: «Noi siamo chia-
mati e siamo anche in realtà (già adesso) figli di Dio; ... ma non è
stato ancora reso manifesto ciò che noi saremo» (cf. I Io. 3,1 s.). Giu-
stificati per mezzo della fede, diventati santi (Paolo), viventi per
mezzo della fede, possedenti la 'vita eterna' (Giovanni), abbiamo ri-
cevuto una salvezza che è caratterizzata dallo stato della speranza:
«perché noi siamo stati salvati per mezzo della speranza - una spe-
ranza che già vedesse, non sarebbe però una speranza. Noi speriamo
quindi una realtà che ancora non vediamo, e cosl attendiamo nella
pazienza» (Rom. 8,24 s.). «Perché sul fondamento della fede noi
mediante lo Spirito attendiamo il bene sperato della giustizia» (Gal.
5 ,5 ). La vita 'eterna', che il credente secondo Giovanni ha già, poi-
ché egli ha ormai il giudizio alle sue spalle in quanto è passato dalla
morte alla vita (cf. Io. ,.,24; 3,18: «Chi crede non sarà giudicato»),
è tuttavia una vita che ha ancora davan'ti a sé la risurrezione nel-
l'ultimo giorno»: «Questa è la volontà del Padre mio che mi ha
mandato, che ognuno il quale vede il Figlio e crede in Lui, abbia la
vita eterna ed io lo risusciterò nell'ultimo giorno» (Io. 6,40 ). Cosl in
Giovanni in maniera abbastanza clamorosa appare la dialettica del
'già adesso' e del 'non ancora'. Nella riflessione teologica di questo

121 R. ScHNi\CKENBURG, rifacendosi ad un 'espressione di H. SCHURMANN, parla di


«attesa continua»: Die Kircbe in Neuen Testame11/, in Coli. «Quaest. disp.», 14, Frei-
burg 1961, p. 1 IO (lr. it., Brescia 1966).
CUM CHRISTO 471

evangelista hanno più peso i molti decenni di attesa cristiana della


parusia di quanto invece non si verifichi nel kerygma anteriore dei
Sinottici, per i quali, nella determinazione dell'attesa escatologica
immediata, il «tempo limitato» ( r Cor. 7 ,29) non può esigere molto
interesse. Giovanni deve invece preocè:uparsi di sottolineare che ades-
so, già adesso è concreta realtà in noi ciò che attendiamo {realized
eschatology!), ma noi attendiamo ~cora qualcosa: «adesso siamo
figli di Dio. Non si è ancora manifestato ciò che noi saremo; ma
noi sappiamo· che quando egli apparirà, allora diventeremo simili a
lui e lo vedremo come egli è» ( r Io. 3 ,2 ).
La fede ci pone in un «paradossale essere escatologico all'inter-
no dell'esistenza storica». 123 Paolo è in grado di dirci nella ma-
niera più viva quel che significa questo: « ...non già perché io ab-
bia ricevuto la mia giustizia dalla legge, ma mediante la fede nel
Cristo: la giustizia che viene da Dio sul fondamento della fede ...
conformato alla sua morte io posso sperare d'arrivare alla risurre-
zione dai morti. Non già che io abbia già 'afferrato' o che l'abbia
portato a compimento, ma continuo a correre per conquistarlo,
perché anch'io sono stato conquistato da Gesù Cristo... corro ver-
so la meta, verso il premio della vocazione celeste nel Cristo Ge-
sù» (Phil. 3 ,9- I4 ). 129
La 'realtà terrestre', in questa tensione escatologica del 'giusti-
fìcato'-credente, di colui che vive nella fede, in un primo tempo,
nello slancio ingenuo e confuso, viene semplicemente tralasciata; do-
po però, poiché essa acquista una consistenza sempre maggiore nel-
la coscienza (per l'indugio del Signore), viene trattata nella regola
empirica con un 'come se': «quelli che hanno moglie come se non
l'avessero ... quelli che paingono come se non piangessero ... quelli che
sono contenti come se non lo fossero, quelli che comprano come se
non possedessero, quelli che usano di questo mondo come se non ne
godessero» (I Cor. 7 ,30 s.); infine oggi, dopo che la prassi già da lun-
go tempo si è affermata, le 'realtà terrestri', che in una prospettiva

123 R. BuLTMANN, in TWNT, 6, 223.


129 Cf. G. HASENHiiTIL, Der Glaubensvollzug, Essen 1963, pp. 2'5-260: Der Glau·
be als Hoffnung. «La speranza quindi insieme alla fede costituisce l'essere cristiano»
( 260), «cosl l'atto di fede è qualificato dalla conoscenza, la speranza invece dall'al-
ce.a confidente e costante del futuro» (l bid. ).
472 INTELLIGENZA l"WLOGICA DELLA FEDE

escatologica diventano talmente provvisorie, diventano oggetto d'una


teologia che d'altra parte resta ancora da costruire. 1.JO E giusto dire
quindi che l'escatologia non deve il suo peso ad un deprezzare e ad
uno sminuire le realtà terrestri e provvisorie (come la lode del Creato-
re non si affermerà attraverso la diffamazione della creatura!), ma con
il peso proprio che secondo il merito viene attribuito alla realtà pree-
scatologica, anche il compimento escatologico diventa più intelligi-
bile nel suo 'più', nella sua 'trascendenza'. La_ maturazione che ha
portato dall'ingenuo entusiasmo escatologico dei tempi primitivi, nel
quale il 'terrestre' venne tralasciato, al realismo di fronte alla realtà
terrestre al quale Dio ha· educato ed educa la sua Chiesa attraverso
la storia, non comporta una paralisi dello slancio escatologico, ma
può apportare una messe più ricca nella glorificazione finale. Essa
però - e il pericolo d'un siffatto errore di prospettiva può persiste-
re - può anche respingere il compimento escatologico verso i mar-
gini della coscienza.
Per· il credente che «è pellegrino nel corpo, ancora lontano dal
Signore» (2 Cor. 5,6), nel tabernacolo terrestre che sarà distrutto
(2 Cor. 5,1; 4), non è ancora risolvibile facilmente e con accuratezza
il paradosso tra il 'non ancora' ed il 'già adesso'. Egli non ha ancora
il 'premio' e tuttavia ha la 'caparra' (fipprx.~wv) e questa non è se non
lo 'stesso Spirito' ( 2 Cor. 5 ,j ); egli è «erede - secondo la speranza -
della vita eterna» (Tit. 3,7 ), d'una vita che egli ha già... e che può
nuovamente perdere. Egli è quindi pieno nello stesso tempo di ti-
more (cp6j3oc;) e di fiducia ('ltiJ.PP'l"lCTl<I, '1tE'1tollh1crLc;), un timore già in
qualche maniera superato poiché egli «ha ricevuto lo Spirito di filia-
zione» e «non lo Spirito di .servitù perché egli debba nuovamente
aver paura (m•Eiiµcx. oovÀ.El<Ic; 'ltclÀ.Lv dc; cp6j3ov)» (cf. Rom. 8,15) e
che tuttavia lo accompagna costantemente perché egli deve «operare
nel timore e nel tremore» la sua salvezza (Phil. 2,12 ). Per lui vale
l'avvertimento: «tu hai saldezza solo nella fede, non t'abbandonare
all'orgoglio ma temi!» (Rom. 11,20). «Egli (il credente) non può
sottrarsi all'imperativo di Dio; ed il q>of}oc:; a lui proporzionato non
è altro che la coscienza che egli non si fonda su se stesso, non è

m Cf. ]. DAVID, Theologie der irdischen Wircklichkeiten, in FTH, (J1960), pp. 549·
568(con bibliografia).
CUM CHRISTO
473

altro che la ·preoccupazione di non prec1p1tare dalla xcipLc; sia per


leggerezza sia per l'orgoglio della sicurezza presuntuosa». 131

Cosl la certezza della salvezza personale, per l'uomo di questo tempo in-
termedio teso agli éschata, è presunzione sacrilega. D'altra parte la cer-
tezza della non salvezza è disperazione autodistruttrice. Ambedue gli at-
teggiamenti distruggono l'atteggiamento della speranza connaturale alla
fede. Per il resto parleremo della certezza della salvezza a proposito della
dottrina della predestinazione.

cc. Dalla fede viene la 'vita eterna' (e questo già quaggiù), dalla fe-
de la giustificazione e questo in anticipazione d'una piena visione che
si avrà solo 'lassù'. L'immanenza del 'lassù' nel 'quaggiù' viene vista
soprattutto - ne fa fede una lunga tradizione - nel dominio della
conoscenza, mentre la 'tensione' radicantesi nella conoscenza viene
rapportata all'altra virtù teologica che accompagna la fede, alla spe-
ranza. Forma piena della conoscenza è la visio; questa precisamente
caratterizza e differenzia il 'lassù' dal 'quaggiù'. Là noi vediamo «fac-
cia a faccia», qui «come in uno specchio e per enigmi», e tuttavia
in ambedue i casi si tratta di un 'vedere' ( «videmus nunc ... tunc au-
tem ... »: I Cor. 13,12). Qui domina l'analogia che riceve dal 'lassù'
la sua misura, ma che può realmente applicarla al 'quaggiù': median-
te la fede ci è stata infatti data una praelibatio di quella conoscenza
che ci renderà beati nel futuro, un'inchoatio visionis beatificae. In
questa prospettiva TOMMASO pone la soprannaturalità della fede.m
Anche la visione di fede non è senza un suo adempimento, senza una
«suavitas in assentiendo et credendo veritati» (os 377 ), non è senza
'esperienza di fede'. Questa tuttavia nelle sistematizzazioni teologi-
che viene attribuita più che altro ai 'doni dello Spirito santo' (soprat·
tutto ai doni della scienza e della sapienza). Non è nostro compito
qui occuparci della questione se si dia o meno una distinzione reale
tra i doni dello Spirito santo e le virtù teologali: in ogni caso è neces-
sario accentuare la dinamica intima in tutta la· vita soprannaturale

Ili R. BuLTMANN, in TWNT, 6, 223.


ll2 Su questo, J. ALPARO, Supernaturalitas {idei juxta S. Thomam: in Gr, 44 ( 1963)
501·502; 776-779 (vedi ibid., 501 nota 1, i passi dì TOMMASO che affermano un'ordi·
nazione della fede alla visio). Vedi AuBERT, pp. 47, nota 8.
INTELLIGENZA TEOLOGICA DELLA FEDE
474

che si fonda sulla fede, e perciò la sua unità intrinseca, e non offu-
scarne quindi la visione con artificiosi tagli concettuali. m
Questa esperienza di fede non può eliminare il fatto che si crede
'per l'autorità' e non già ~<propter intrinsecam rerum veritatem natu-
rali rationis lumine perspcctam» (os 3008; NR 35). Ma una certa espe-
rienza dell'oggetto di fede non può mancare del tutto a colui che si
abbandona all'invito che Dio gli rivolge perché creda. Una tratta-
zione più particolare di questi argomenti dev~ essere rimandata a
quando si tratterà dello sviluppo normale e mistico della vita sopran-
naturale.

dd. In questo contesto noi dobbiamo riferirci, ancora più chiara-


mente di quanto per lo più non avvenga, ad un altro aspetto parti-
colare (ci troviamo sempre di nuovo a trattare della fede come in-
contro col Cristo). Il Dio che verrà contemplato nella visione beata
e che qui viene 'pregustato', non lo sarà al di fuori del Cristo e della
sua Umanità. La fede trova il suo compimento nella visione del Chri-
stus venturus. L'escatologia cristologica è l'escatologia del Christus
glorificatus che parteciperà visibilmente alla nostra comunione. In
lui noi troveremo la nostra dimora di fronte al Dio trino. A .questo
Cristo (Christo), 'nel capo e nel corpo' abbiamo noi offerto la nostra
fede; questo Cristo (Christum) crediamo noi come 'il Figlio di Dio' -
e cosl con lui il Padre dal quale egli viene e lo Spirito che egli
manda; in questo Cristo (in Christum) crediamo come nel «perfe.
zionatore della fede» (Hebr. 12,2), mediante una fede quindi che è
caratterizzata essenzialmente dal fatto che deve svilupparsi nella spe-
ranza del ritorno del Cristo. Nella partecipazione alla conoscen;z:a che
egli ha di Dio, noi vedremo «Dio cosl come è» ( 1 I o. 3 ,2 ). Ma già
adesso Dio ci ha vivificato assieme al Cristo, ci ha fatto risorgere
con lui e ci ha posto sullo stesso trono nel regno celeste (cf. Eph.
2,5 s.).

ee. I credenti sono uomini dell'al dì là, la cui «patria è nel cielo,
dal quale aspettiamo anche come Salvatore il Signore Gesù» (Phil.
3,20 ), uomini che cercano ciò che sta sopra, dove il Cristo regna alla

Il.\ Cl. AUBl::RT, pp. 71, s.


CUM CHIUSTO
475

destra di Dio; che aspirano a ciò che sta su e non a ciò che si trova
sulla terra (cf. Col. 3,1 s.). La fede ci rende quindi estranei a questo
mondo, «pellegrini e stranieri» (1 Petr. 2,rr). Quindi, coloro i quali
mediante la fede non sono «più né estranei, né ospiti, ma concitta-
dini dei santi e membri della famiglia di Dio» (Eph. 2,19), devono
rinunciare al diritto di cittadinanza in questo mondo e cosl farsi ad
esso stranieri? In realtà il credente non si può immergere nel mondo
senza nessun distacco da esso, «come coloro i quali non hanno spe-
ranza» (I Thess. 4,12); egli non potrà mai prendere come assoluta
la «figura di questo mondo, destinato a passare» (I Cor. 7.31 ). Ma
non sarà attraverso il disprezzo, il non dare importanza, il conside-
rare pura apparenza l'essere di questo mondo, che si darà importanza
all'eternità; al contrario, proprio perché non viene distrutta anzi
viene approfondita la consistenza del terrestre, può veramente esse-
re compreso quanto sia più grande l'eterno. La trascendenza non vive
sulle ceneri dell'immanenza.
Tuttavia ciò che differenzia il cristiano, ciò che egli deve testimo-
niare nel mondo, non è il valoie del terrestre e del finito, ma l'im-
mediatezza dell'infinito, il rapporto con Dio, che non coglie più Dio
come creatore attraverso la creatura, ma che è un immergersi di-
retto in ciò che Dio ha di più proprio. Possiamo parlare della vergi-
nità della fede. Paolo scrive ai Corinzi: ~<lo son geloso di voi della
gelosia stessa di Dio; io infatti vi ho fidanzati ad un solo sposo, per
condurvi al Cristo come vergine pura» ( 2 Cor. rr ,2 ). Noi dalle let-
tere paoline conosciamo abbastanza i cristiani di Corinto per sapere
che Paolo non li chiama vergini nel senso fisico ed immediato della
parola. Si tratta d'una verginità in senso spirituale, d'un esclusivi-
smo nel rapporto con Dio, il quale non sopporta concorrenze. In
questo senso anche l'unione matrimoniale tra i cristiani può e deve
essere 'verginale', sacramentalmente assunta nel mistero del Cristo e
non parallela ad esso, non limitante la fedeltà al Cristo mediante
un'altra, diversa, esteriore fedeltà ad un uomo secondo gli ordini
di questo mondo.
In questa prospettiva anche la verginità fisica acquista il suo ca-
rattere di segno, al quale la Chiesa nella sua totalità non potrà rinun-
ciare. La verginità spirituale della fede diventerà visibile anche nella
sua espressione fisica come incarnazione della fede stessa, in coloro
INTELLIGENZA TEOLOGICA DELLA FEDE

«ai quali è stato dato» (Mt. 19,u). Così il Cristo stesso è vergine
in questa pienezza visibile, cosi lo è sua Madre, che proprio per que-
sto è tipo della Chiesa, della congregatio fidelium,1 34 così nella Chiesa
ci saranno sempre vergini nel senso visibile. Con molta circospezione
Paolo consiglia questo 'meglio' nel cap. 7 della I Lettera ai Corinzi,
e questo consiglio è motivato perché <~tempus breve est ... », meglio
è quindi non lasciarsi imprigionare da questa provvisorietà, per la-
sciare apparire in maniera più chiara ed inequivocabile l'immedia-
tezza con Dio. Da qui acquista il suo significato la verginità cristia-
na, non come pura negatività di rinuncia, ma come positività di quel-
l'accresciuta apertura a Dio che è la fede.
Qualcosa di simile può essere detto della povertà della fede: la
Ecclesia virgo è anche la Ecclesia pauperum, la Chiesa dell'indifferen·
za ad ogni possesso terreno. Tuttavia questa povertà, dalla quale nes-
sun membro fedele della Chiesa può dispensarsi, deve anche e sem-
pre divenire a sua volta segno visibile in alcuni membri della Chiesa
ai «quali è stato dato». 1i 5

Ricapitoliamo quanto detto in questo paragrafo: la fede è un'azione del-


l'uomo e si inserisce quindi nel mondo dell'uomo, secondo le sue di·
mensioni: personale, sociale, escatologica. Ogni volta si manifesta
una tensione paradossale tra trascendenza ed immanenza, non nel senso
che l'una stia accanto all'altra, ma nel senso d'una mutua compenetrazio·
ne. La fede costituisce la realizzazione più alta della personalità e quindi
della vera autonomia dell'uomo, ma questo proprio mediante l'apertura
dell'uomo, nella fede, all' 'Altro', a colui che lo invita, e nella piena co·
scienza del valore, di questo invho. La fede porta alla sua più alta realiz-
zazione la struttura sociale della personalità, alla sua 'cattolicità' più uni·
versale, e questo proprio mediante la sua 'e-lezione' dalla patria e dalla
parentela nella 'Ec-desia', la comunità degli eletti, senza che questa però.
in maniera separatista e settaria, si sottragga alla sua missione ed alla sua
responsabilità per gli altri. La fede rende gli uomini uomini dell'al di là,
la cui patria è lassù, ma in maniera tale che gli éschata si realizzano già
nell'hic et nunc, senza che venga eliminata la tensione tra )''adesso' e
I' 'allora'.

134 Cf. M. THURIAN, Marie, Mère du Seig11eur, figure de l'Eglise, Taizé 21962, pp.
39-61 (Vierge pouvre ).
135 Cf. M.-L. GuÉRARD DES LAt.:R!ERS, Dimenrions de la foi, r, pp. 568·580 (Foi et
\'ir.~inité).
AD PATlll!M
477

3. Ad Patrem. Immediatezza divina della fede


La fede come virtù teologale

La fede, abbiamo visto, è incontro personale con il Cristo, il Cristo


'totus' e 'iterum venturus', quindi con una persona all'interno dello
spazio e del tempo, come lo vuole la nostra persona che è contrad·
distinta dalla 'storicità'. Cristo è il Verbum, ma incarnatum, e pro-
prio cosl egli rende possibile ed impegna la nostra fede, le nostre ca-
pacità umane, nelle quali si esprime a sua volta la struttura corpo-
reo-spirituale dell'uomo, che diventa così struttura 'sacramentale' del-
la fede. Abbiamo anche visto come questo incontro personale av-
venga 'nello Spirito' «qui dat omnibus suavitatem in consentiendo
et credendo veritati» (os 377 ).
Quando abbiamo parlato di ciò non abbiamo potuto tacere del
Padre: conoscere il Figlio come Figlio, significa anche conoscere il
Padre. <(Chi vede me, vede il Padre». {Io. 14,9 ). Filiazione e pater-
nità sono anzi correlative e vengono conosciute contemporaneamen-
te. E lo Spirito, luce e 'attrazione' (tractio: Io. 6,44) nel nostro cuo-
re, che dall'interno ci apre all'incontro, è l' 'inviato da Dio (dal Pa-
dre)': «Dio ha inviato lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori ...
(Gal. 4,6). Nella sua origine ultima, intradivina, tutto è dal Padre,
dalla deitas fontalis. A lui tutto ritorna, come da lui tutto ha avu·
to origine. Egli ha assoggettato tutto al Figlio e questo assoggetta·
mento sarà completo quando anche l'<mltimo nemico, la morte, sarà
annientato» ( r Cor. 15 ,26 ). Allora sarà completamente manifesto che
il Padre ha assoggettato tutto al Figlio; «allora anche il Figlio si as-
soggetterà a Colui il quale gli ha assoggettato tutto, perché Dio (il
Padre!) sia tutto in tutte le cose» (r Cor. 15,28).
Il Cristo è 'Mediatore all'immediatezza con Dio'; egli 'risparmia'
a noi la via a Dio stesso, come se, in questo senso, egli facesse il
cammino per noi, per spianarlo a noi mediante la sua 'sostituzione';
egli ci prende con sé in questo cammino, ci conduce davanti 'al vol-
to di Dio', alla visione diretta. A partire da questa, dalla visio, si
caratterizza tutto l'ordine soprannaturale, il cui fondamento sempre
presente è la fede. Mediatore a Dio è il Cristo in quanto uomo, che
ha il suo centro personale nel L6gos, il quale nello stesso tempo sta
di fronte al Padre come 'altro', che ha tutto dal Padre e quindi è
INTELLIGENZA Tl:OLOGICA DELLA ff.DE

anche «minor Patre» (lo. 14,28 ); ma poiché egli è tutto, cioè riceve
dal Padre la totalità illimitata, egli è «.aequalis Patri», anzi «unum
cum Patre» (Io. 10,30).

a. Oggetto formale e oggetto materiale

Ed eccoci finalmente a spiegare ciò che la teologia abitualmente pone


all'inizio con la definizione della fede, l'immediatezza divina della
fede secondo il suo oggetto formale e materiale - per adoperare le
formule abituali che non sono affatto adatte in proposito. Si tratta
della determinazione della fede come 'virtù teologale', e corrispon-
dentemente come atto d'una virtù teologale. Questo 'carattere teo-
lo$ale' oltre che alla fede è comune alla speranza ed alla carità. Ciò
però che lo differenzia dal carattere teologale delle altre virtù è la
sua 'capacità conoscitiva'. Con questo non dimentichiamo che sareb-
be unilaterale confinare in qualche maniera la fede nel settore della
'conoscenza' ed isolarla dalla totalità della risposta personale a Dio
che ci chiama nel Cristo. Tuttavia dobbiamo prestare particolare at-
tenzione all'elemento conoscitivo della fede, al 'riconoscere per vero'
La fede, vista cosl, è una virtù teologale perché essa termina di-
rettamente a Dio e non ad una creatura. Questo carattere teologale
ad essa è conferito in primo luogo dall'oggetto formale o motivo
della fede: fondamento dell'adesione di fede (si parla del motivo
oggettivo e non del motivo soggettivo o 'occhi della fede': di que-
sto motivo soggettivo abbiamo parlato nel r par.: In Spiritu) è la
testimonianza divina: io credo una verità, perché Dio l'ha rivelata.
Questa testimonianza divina implica la veracità e la scienza di Dio
(«qui nec falli nec fallere potesi»: os 3008; NR 35), ed il fatto del
suo parlare, la revelatio activa. Questa testimonianza può quindi es-
sere chiamata auctoritas Dei revelantis. La revelatio activa appartie
ne al motivo della fede (sebbene alcuni teologi si esprimano diver-
samente) perché un Dio che non parlasse non sarebbe nemmeno un
motivum fidei. Con ciò non viene inserito un motivo creato nel mo-
tivo della fede, giacché la revelatio activa si identifica realmente con
Dio stesso. Si deve però notare che la revelatio activa non si dà sen-
za il terminus creatus, senza la revelatzo passiva. Ora, il termine
creato non costituisce il motivo della fede, altrimenti la fede non
ADP.\Tll.EM
479

sarebbe una virtù teologale. Ma la revelatio activa non arriva all'uo-


mo accanto alla revelatio passiva, a lato del termine creato, bensl
'incarnata' in esso. Il terminus creatus della locutio increata di Dio
è costituito dalle parole e dalle azioni del 7tPCHllii'tTJ<;, di colui che
parla in luogo di Dio. Parola e azione v1 appartengono nella stessa
maniera: parola efficace e azione significante si compenetrano vicen-
devolmente. Anche la parola è piena dell'efficace azione divina: «in-
segna come uno che ha potenza» (Mt. 7 ,29 ), ed anche l'azione divina
del miracolo ha un significato, è ITl]µE~ov: «etiam factum Verbi ver-
bum nobis est». 1 ~
Come 'oggetto materiale' il Vaticano I nomina: «ab eo revelata»
(ns 3008; NR 35): ciò che è stato rivelato da Dio, tutto ciò su cui
pesa l'autorità di Dio rivelatore. Non basta però fondare l'unità
dell'oggetto materiale, della verità creduta, solo su un motivo o og-
getto formale ad essa esterno: ciò costituirebbe un positivismo teo-
logico superficiale. 'Ciò che è creduto', i credenda, hanno la loro
unità anche a motivo del contenuto. La moltitudine delle verità, dei
'dogmi rivelati' non ci deve trarre in inganno: Dio rivela a noi la
sua volontà salvifica, se stesso come nostra salvezza (Deus salutaris
noster), e questa salvezza è caratterizzata dal fatto che essa si com-
pirà nella visione di Dio. Dio dona a noi se stesso nel suo mistero
più intimo, Deus qua Deus, Deus sub ratione Deitatis come suonano
le astratte formule scolastiche; oppure, in maniera più vicina al lin-
guaggio della Scrittura: Dio manifestatosi nel Cristo, il Dio che ci
porta alla salvezza nel Cristo, Dio come socio dell'alleanza compiuta
nel Cristo. In modo sintetico: la verità della rivelazione si concentra
nel mistero dell'Incarnazione e della Trinità, anzi basterebbe dire
semplicemente dell'Incarnazione, perché questa implica la Trinità.
La fede tende a questa realtà radicata nella vita divina, nella quale
noi siamo stati inseriti dalla grazia della riconciliazione: «actus cre-
dentis non terminatur ad enuntiabile, sed ad rem». 137 Noi non cre-
diamo gli enunciati, ma la realtà intesa in essi. Questa però non ac-
canto agli enunciati, alle 'espressioni', ma mediante esse.
Gli enunciati costituiscono quindi - sia per l'oggetto formale, sia

•~ AGOSTINO, In Joannem tractatus 24, 6, in PL, 35, 1593.


ll7 5. th. 2-2, 1, 2, 2.
INTELLIGENZA TEOLOGICA DELLA FEDE

per quello materiale - non già l'id ex quo (medium ex quo) attingitur
Deus auctoritative loquens, resp. Deus salutaris noster, ma il medium
in quo: le realtà create non si frappongono fra il credente e Dio
come ciò che deve essere immediatamente conosciuto in sé, nella
sua realtà creata, a partire dal quale poi, in un secondo tempo, possa
essere raggiunto mediatamente Dio stesso. È superfluo ripetere qui
che questa conoscenza del termine creato come termine della rivela-
zione attiva ed increata di Dio, è possibile solo 'nella luce della fe-
de'. Ma è altrettanto superfluo notare ancora una volta come questa
luce de~la fede non 'sostituisca' né 'supplisca' ciò che deve accadere
nel campo dell'articolazione umana: Dio fa valere la sua autorità
increata non già accanto ~i 'segni e miracoli', ma attraverso ad essi
(senza che ciò implichi un medium ex quo), e Dio si manifesta come
la salvezza non già accanto agli enunciati della Scrittura ed ai modi
della predicazione della Chiesa, ma precisamente attraverso ad essi
ed in modo da essere effettivamente colto 'in essi' (medium in quo).
B stato necessario esporre questa concezione globale della fede e
del fatto della rivelazione nella sua immediatezza divina, per poter
dire una parola sul problema, tanto dibattuto fra i teologi moderni,
dell'analysis fidei, la quale, come afferma J. KLEUTGEN, costituisce
«la croce o la tortura dei teologi».m

b. Analysis fidei 139

aa. Come si pone il problema? Sappiamo dall'autocoscienza teologi-


ca che la fede ha di se stessa, che, come virtù teologale, si fonda
immediatamente su' un motivo increato la verità di Dio nel cono-
scere e nel parlare. Io credo perché Dio l'ha detto. Ora un tale atto di
fede presuppone necessariamente che io sappia che Dio l'ha detto, pre-
suppone cioè il factum revelationis, il fatto che realmente Dio abbia
parlato mediante Gesù Cristo. Questo fatto, a sua volta, non posso
conoscerlo fondandomi sulla testimonianza dell'autori~à divina, per-

BB Theol. der Voruit, 3. Beil. 136 (secondo MALMBERG, in LTK2, 1 [1957] 478).
139 Su questo punto d. soprattutto F. MALMBERG, A,,a/ysis fidei, in LTl(l, 1 ( 1957)
477·483, e la bibliografia ivi ciia1a. Inoltre ]. ALFARO, C. CrRNE - LIMA, G. DE BRO·
GLIE ... ; soprattutto deve essere ricordato H. Bou1LLARD, Logique de la foi, Paris 1964,
pp. 15-37; Le sens de l'Apologétique.
AD PATllEM

ché allora io dovrei nuovamente esser certo del fatto che Dio ha
testimoniato il factum revelationis ... , ciò che costituirebbe un pro-
cessus in infinitum. Quindi - cosl almeno sembra - io devo conosce-
re il fatto della rivelazione prima e al di fuori della fede, perché poi
sull'autorità della testimonianza divina io possa accettare il conte-
nuto della rivelazione. Sembra quindi che il motivo increato presup-
ponga a sua volta un motivo creato - la conoscenza della credibilità
o il fatto della rivelazione divina - perché l'enunciato della fede pos-
sa essere realmente motivato. Il motivo increato non sarebbe più
quindi il motivo ultimo. La fede perderebbe il suo carattere d'imme-
diatezza divina, non sarebbe più realmente una 'virtù teologale'.
Ma con ciò la sua certezza e la sua fermezza dipenderebbero in
ultima analisi dalla certezza e dalla fermeµa della conoscenza della
credibilità richiesta prima della fede, dalla conoscenza del fatto che
Dio ha parlato. Di questa conoscenza si occupa scientificamente la
teologia fondamentale apologetica, la quale nelle sue argomentazioni
non può né vuole fondarsi sulla fede, ma esamina ed apprezza i dati
e i segni naturali rationis lumine: essa analizza quindi i documenti
ispirati (conosciuti come tali dalla fede) basandosi solo sulla loro
credibilità umana e metodologicamente non tiene conto della fidatez-
za che essi meritano in quanto ispirati, ma astrae completamente da
essa. Tuttavia questa dimostrazione apologetica non raggiunge quel
grado di certezza e di fermezza che devono essere attribuite alla fede
stessa: assensus super omnia firmus et infallibiliter certus. Anche se
nel sillogismo apologetico:

(maggiore): Ciò che Dio ha rivelato è infallibilmente vero;


(minore): ora, Dio ha rivelato in Gesù Cristo che Egli è trino:
(conclusione): quindi è infallibilmente vero che Dio è trino,

la maggiore è 'metafisicamente certa', non lo può essere la conclu-


sione, in quanto la minore, nella misura in cui può essere dimostrata
apologeticamente, può raggiungere solo una certezza morale quale è
ammessa dagli argomenti storici. E poiché la conclusione segue sem-
pre la premessa 'meno certa', non può essere evidentemente più
certa di quest'ultima.
Se tuttavia in quanto teologo io tengo per ferma la certezza e la

31 Mystcrium salutis / 2.
1:-lTELLIGENZA TEOLOGICA DELLA HDE

fermezza massima della fede (una certezza che supera anche quella
naturale e metafisica), allora mi vedo costretto al segw:n te dilemma:
o rendere l'adesione della fede indipendente dalla conoscenza del-
la credibilità e porre quindi la conoscenza della.,, credibilità prima
della fede, cosicché questa non abbia influsso determinante sulla
risposta di fede; ma allora la fede appare cieca e non giustificabile
razionalmente, in quanto io do la mia adesione a quella verità fon-
dandomi sull'autorità di Dio, senza sapere tuttavia se l'autorità di
Dio entri veramente in campo, senza sapere se Dio abbia effettiva-
mente parlato mediante Gesù Cristo. Oppure lascio dipendere l'ade-
sione di fede dall'evidenza della conoscenza della credibilità; ma
allora io riduco la fede alla misura di questa credibilità e la fede
non potrà essere quindi un assensus super omnia firmus et in/allibi-
/iter certus.
I teologi, negli ultimi secoli, hanno tentato quasi disperatamente
di salvare ambedue le cose: ragionevolezza e certezza incondizionata
della fede. Ma come può accadere ciò senza far spazio ad una, a
spese dell'altra? La questione si presenta effettivamente come la
croce dell'attuale teologia. Ma prima di tentare una risposta è bene
cercare di comprendere come si sia arrivati a questa problematica.

bb. Gli antecedenti della discussione. Non a caso in preçedenza


noi abbiamo ~sposto con una certa ampiezza come l'immediatezza
divina della fede si pone nella coscienza che la fede ha di se stessa:
nella fede l'uomo dà a Dio stesso rivelatore la sua adesione con una
certezza che non ammette dubbi, con verità infallibile; ma ciò signifi-
ca che il credente pone l'atto di fede con cosciente responsabilità, non
ciecamente, non nella rinuncia alla sua ragione, ma con l'evidenza del-
la credibilità e della credendità del messaggio, con l'evidenza che è
perciò veramente Dio che lo impegna. Quindi è giusto in assoluto che
una scienza teologica cerchi di sviluppare in maniera riflessa questa
convinzione c.ontenuta nella fede; questa scienza è la teologia fonda-
mentale apologetica. Tuttavia qui sviluppare significa articolare in pro-
posizioni la verità colta in modo non articolato, ed articolare in propo-
sizioni che si lascino comprendere anche dall'esterno, anche nel conte-
sto d'una scienza 'profana': ad esempio nella dottrina metafisica sul-
l'evidenza della veracità di Dio nelle sue parole (ammesso che queste
AD PATREM

si diano, deve aggiungere il metafisico); oppure nella scienza storica


sulla conoscenza circa la storicità della testimonianza e dei miracoli
del Cristo. Ciò che la scienza fa è necessariamente 'enunciabile' e
perciò 'concettuale', e non riesce quindi ad assumere la pienezza del
reale, giacché i concetti riescono a cogliere solo inadeguatamente la
realtà. Ciò non impedisce che le affermazioni concettuali siano vere,
colgano cioè la realtà. Tuttavia esse non riusciranno mai ad esaurire
la ricchezza del reale.
Il problema dell'analisi della fede è sorto a causa di un modo uni-
laterale di considerare la fede, per aver cioè tralasciato di conside-
rare che la dimostrazione apologetica va integrata in un movimento
'soprannaturale' verso il pieno consenso della fede. Poiché si è tra-
lasciata questa considerazione:, si fu necessariamente costretti ad
un'edificazione atomistica della fede: all'inizio, anteriormente alla
fede, si pose la certezza sulla credibilità o sul fatto della rivelazione
ottenuta solo con l'aiuto della ragione naturale; da qui si dedusse
una fides scientifica nei contenuti della rivelazione cosl conosciuta (se
io so razionalmente che Dio è verace e che questo Dio verace ha
detto d'essere trino, allora io ne deduco che Dio è realmente trino,
conosco qi°iindi un oggetto di fede fide scientifica). 11,(J
Tutto ciò non ha ancora nulla a che fare con la 'fede teologale'.
Anzi in primo luogo appare che una fede 'teologale', immediata-
mente cioè ordinata a Dio, non è possibile se in essa non trova il suo
posto la convinzione della credibilità o del fatto della rivelazione
(concepita proprio come risultato d'una dimostrazione apologetica).
Ma allora il consenso a Dio, l'adesione al 'motivo increato' si pog·
gerebbe a sua volta su un 'motivo creato', cioè sulla credibilità razio-
nalmente conosciuta. Perciò - ecco la motivazione della prima posi-
zione - la conoscenza della credibilità non trova più posto all'inter-
no della fede, ma viene collocata prima della fede teologale.

Secondo la concezione rappresentativa del card. L. BILLOT, il problema


dell'analisi della fede deve essere risolto nella maniera che segue. L'aucto-
ritas Dei revelantù deve essere conosciuta prima della fede, ma nella fede
stessa la verità rivelata viene affermata sulla base dell'autorità di Dio, do-

140 Cf. G. DE BROGLIE, Possibilité et impossibilité de la 'foi nature/le', in RSR, .52


{1964)NI.
INTELLIGENZA TEOLOGICA DELl.A FEDE

ve è indifferente sapere con quale certezza questa viene conosciuta in


quanto si tratta d'una certezza autentica. La certezza dell'adesione di fede,
non si misura dalla certezza dell'evidenza di credibilità ottenuta prima del-
la fede, non dalla conoscenza dell'autorità di Dio, ma dall'autorità stessa
di Dio conosciuta, come essa è in sé. La fede teologale si distingue dalla
'fede scientifica' ottenuta attraverso la via naturale e sillogistica, per il
fatto che non aderisce alla verità della rivelazione perché con evidenza
ne ha percepito la credibilità, ma perché Dio parla, perché io voglio ado-
rare questo Dio, sottomettermi a lui mediante l'adesione al suo giudizio,
mediante la sottomissione della mia intelligenza alla sua. Essa è cosl fides
obsequiosa, e quindi essa è possibile solo sotto l'influsso della volontà, la
quale si decide liberamente a questa adorazione di Dio. In questa teoria,
viene salvata quindi, con l'immediatezza divina della fede, anche la sua
libertà, la sua indipendenza da un processo logico-deduttivo. 141 Questa
posizione ha suscitato una larga eco; ad essa è molto simile la posizione
di CH. PESCH, anche se non è talmente sviluppata in una fides obsequio-
sa ...2
Bisogna che ci si chieda però se il motivo di un'adesione della cono-
scenza non debba essere conosciuto per poter diventare realmente motivo.
Può esso essere motivo diversamente dalla misura nella quale è conosciuto?
Certo il motivo non è la mia conoscenza dell'autorità di Dio, ma l'autorità
stessa conosciuta; ma questa distinzione - in una metafisica realista della
conoscenza! - può permetterci di opporre in tale maniera conoscenza della
cosa e cosa conosciuta? Il motivo, come esso è in sé, può motivare la co-
noscenza solo nella misura in cui esso è conosciuto; conoscere significa
però cogliere una cosa come essa è in sé! Gli esempi da L. BILLOT portati
a sostegno della sua teoria, non reggono (ad es., il vapore d'una locomo-
tiva, una volta entrato nel cilindro muove il pistone con la stessa forza
d'espansione, indipendente dal modp con il quale è arrivato al cilindro). 10
Nell'esempio si tratta d'un fatto meccanico, nella fede si tratta invece d'un
fatto di conoscenza, nella quale l'adesione si può richiamare al motivo solo
nella misura in cui questo è conosciuto ed esercita quindi sulla conoscenza
stessa - e non solo nei suoi presupposti ~ateriali, ad es. una presenza
fisica mediante la vista o l'ascolto - la sua funzione.

Hl L. B1LLOT ha esposto la sua posizione i De Ecclesia, I, Romae 1898, pp. 29-62;


·De virtutibus infusis, Romae 190I. Su di lui e sull'altra bibliografia, cf_ AusERr, pp.
241-2n; MALMBERG, in LTK2, 1, 478; C. CtRNE ·LIMA, Der personale Glaube, 138·
143.
142CH. PESCH, Die Lehre des hl. Tbomas iiber den Glaubensakt, in ZKT, 8 (1884)
50-70;ID., Ober freies und 1111/reies Fiibrwahrha/ten mii Beru/ au/ den Glaube11sak1,
in ZKT, 10 (1886) 36·66; le., Praelectiones dogmaticae, vm, Freiburg 31910,pp. 129
ss.; 32,.
143 L. BtLLOT, De virtutibus in/usis, I, Romae 31921, pp. 207 s.
ADPATREM

L. BILLOT con i suoi presupposti deve d'altra parte aderire a questa


conclusione se vuole salvare il carattere teologale stesso della fede (e que-
sta è evidentemente la sua intenzione), in quanto non è più possibile com-
prendere la fede come terminante direttamente a Dio, se non si riconosce
un modo di conoscere specificamente soprannaturale, distinto da quello
naturale anche sul piano psicologico e dal punto di vista dell'oggetto for-
male. Poiché noi però siamo dell'opinione fondata che la grazia genera
una conoscenza soprannaturale anche secondo il suo oggetto formale e dal
punto di vista psicologico, una conoscenza di Dio secondo la sua natura
intima, allora noi possiamo e dobbiamo affermare all'interno della fede
teologale una conoscenza soprannaturale della credibilità, che non pone
in alcuna maniera un medium ex quo creato tra il Dio rivelatore e l'uomo
che risponde nella fede.
Questa conoscenza soprannaturale del motivo della fede è certamente
espressa nella dimostrazione apologetica in modo solo inadeguato. È com-
prensibile come una tale esplicazione, separata dal suo contesto umano
e soprannaturale, non sia adatta a servire da pietra di costruzione della
fede, senza rendere impossibile il carattere teologale stesso della fede.
Hanno quindi ragione L. BILLOT e CH. PESCH se rendono il motivo delle
fede indipendente dalla conoscenza della credibilità cosl ottenuta. Ma è
falso il presupposto stesso, che cioè la conoscenza della credibilità così avu-
ta sia qualcosa di più d'una concettualizzazione isolata dal suo pieno con-
testo vitale, e di un'astrazione inadeguata.
Delle altre soluzioni, precedenti nel tempo quella di BILLOT · PESCI!,
basti ricordare solo SUAREZ e DE Luco.
Secondo SUAREZ, nella fede viene affermato il motivo razionale della
fede, cioè proprio l' auctoritas Dei revelantis, o più esattamente, viene
esso stesso creduto: Dio non testimonia soltanto che è trino ... ma anche
che egli testimonia. lo credo per lui quindi sia l'uno che l'altro: io credo
per lui che egli testimonia e credo per lui che egli è trino} 44
Contro questa concezione si leva il rimprovero d'un circulus vztwsus.
Infatti non si arriva cosl ad un processus in infinitum? Io credo nella Tri-
nità perché Dio l'attesta; io credo che l'attesta perché egli dice di atte-
starla; quest'ultimo 'dice di attestarla', devo a sua volta crederlo fondan-
domi sulla sua autorità e fondarlo quindi a sua volta su un altro 'dice di
attestarla' e cosl all'infinito. SUAREZ vede questa difficoltà: «Come può es-
sere creduta e nello stesso tempo essere motivo di questo cr!"dere la stes-
sa affermazione ('Dio ha detto questo') senza anda.re all'infìnito?». 145 SUA-
REZ ricorda che la fede è un gran mistero e tenta quindi una spiegazione
quasi disperata con la riflessione sulla natura dell'atto della rivelazione, in

144 F. SUAREZ, De fide, disp. 3 sect. 6 e r2.


Il\ SUAREZ, sect. 12 e 11 (cf. MALMBERG, in LTK 2, 1 [1957] 478 s.\.
INTELLJGENZA TEOLOGICA DELLA FEDE

quanto Dio quando dice qualcosa, nello stesso tempo, actu exercito, dice
di dirla. 146 In ogni caso questa risposta è senza via d'uscita sul piano scel-
to da .SUAREZ per l'analisi della fede. Mostreremo però come su un altro
piano possa parlarsi del!' 'essere creduto' del motivo stesso della fede.
Secondo DE LuGo il motivo della fede è affermato nell'atto di fede, ma
non creduto, bensl immediatamente conosciuto, anche .se non evidente-
mente, bensl oscuramente e tuttavia con assoluta certezza.' 47 Questa cono-
scenza è soprannaturale in quanto essa è stata infusa mediante l'habitus
fidei, dove per DE Luoo soprannaturale significa sqlo 'ontologicamente' e
non già anche intenzionalmente. DE Luoo evita il circolo di SUAREZ, ma ha
difficoltà a mostrare come questa conoscenza di credibilità, ottenuta dai
segni, sia tuttavia immediata e non minacci quindi il carattere teologale
della fede. La posizione del FRANZELIN si mantiene sulla scia di quella
del DE Luoo. 143

Senza star a rifarci ad altri tentativi di soluzione, che più o meno si


fondano su una concezione inadeguata ed atomistica, tenteremo qui
la soluzione positiva della questione nello spirito dì s. TOMMASO,
una soluzione che deve soprattutto rendere coscienti del carattere
sproporzionato assunto dalla discussione, per rendere quindi più vi-
sibili i vari elementi a partire da una visione d'insieme della fede.
La fede nella sua totalità è sostenuta dalla grazia. Niente' nella
fede è sottratto al lume ed all'impulso della grazia. Cosi noi abbiamo
affermato in precedenza nel paragrafo r. La grazia apre l'uomo all'im-
mediatezza con Dio, a quell'immediatezza, fondamentalmente la stessa,
che splende - apparet - nella beatiti+dine celeste in forma propria,
e quaggiù, in forma estranea, non splende - non apparet - (De veri·
tate r 4,3 ), tuttavia è in realtà presente non già semplicemente come
dimensione statica ed ontica, ma vitale e psicologica. Questa unione
immediata con Dio, veritas prima, si 'mediatizza' quaggiù in diffe-
renti aspetti, si traspone nelle realtà infraterrene, si esprime e si
incarna in queste, le quali perciò possono chiamarsi in senso proprio
media in quibus. L'uomo toccato dalla grazia della fede attinge quin-
di direttamente la veritas prima in dicendo, la revelatio activa nella
revelatio passiva, nella parola e nell'azione, nell'evento del Cristo

146 SUAREZ, cii., n. Il.


in Di:: LuGo, De virlute /idei divinae, dìsp. r (~cct. 6 e 7).
I~ J.B. fRA~ZHIN, De divina Traditione(r8ìD) ,72.
ADP~TREM

che continua la sua presenza universale nella Chiesa. L'uomo aperto


in tal modo dalla grazia di Dio, non si ferma allora alla figura ester-
na, al lato 'razionalmente' superabile del fatto della rivelazione, in
maniera tale che in un secondo tempo, procedendo dalla convinzione
di credibilità naturalmente ottenuta, e lasciando questa alle sue spal-
le, possa venire a contatto immediato con I'auctoritas Dei in seipsa
come unico motivo increato del suo assenso. L'immediatezza della
testimonianza divina, per colui che è sotto l'influsso della grazia del-
la fede, è 'incarnata' già nella parola ed azione 'creata', nei 'segni'
Egli non afferra questi segni solo alla maniera secondo la quale pos-
sono essere articolati nella teologia fondamentale apologetica, ma «la
parola... che voi avete ricevuto da noi [apostoli]» viene ricevuta
«non come parola umana, ma come ciò che essa realmente è, come pa-
rola di Dio, il quale opera anche in voi che credete» ( 1 Thess. 2,13 ).
E questa parola non viene mai all'uomo solo come parola umana,
mai solo come quella che la teologia fondamentale apologetica si sfor-
za di comprendere. Sarebbe assurdo pensare che Dio si rivolga dal-
l'esterno all'uomo nella sua rivelazione esterna, senza che faccia ac-
compagnare questa dalla sua grazia interna. Cosl anche la fede non
deve essere edificata atomisticamente, prima su una conoscenza della
credibilità puramente naturale (come viene articolata dall'apologeti-
ca) e in un secondo tempo su un'adesione soprannaturale all'aucto-
ritas Dei loquentis. Ciò che può essere esplicato naturalmente, apo-
logeticamente, vive sempre in uno spazio soprannaturale.
Si impone quindi un ritorno alla cosiddetta 'teoria mistica della
fede' di s. TOMMASO, e cioè la certezza di fede in ultima analisi deve
essere ricondotta al lume di fede interiore: «Per lumen fidei vident
esse credenda» (S. th. 2-2, I, 5, 1). Oggi, ancora meno che ToMMA·
so, non possiamo tralasciare di considerare i media ad immediatio·
nem. Non ha tralasciato di considerarli s. TOMMASO, ma noi li pos-
siamo determinare ancor più chiaramente dopo la lunga discussione
degli ultimi secoli sull'analisi della fede. Questa mediatezza la quale
non pregiudica affatto l'immediatezza teologale della fede, può esse-
re caratterizzata con F. MALMBERG sotto due differenti aspetti:

1. Il credente - illuminato dalla grazia - afferra la testimonianza


di Dio come motivo razionale direttamente per il mezzo della sua
INTELUGl!NZA TEOLOGICA DELLA FEDE

obbligazione morale, cioè lo afferra in una percezione pratica, acon-


cettuale, dell'obbligazione soprannaturale di porre quest'atto d'accet-
tazione ragionevole, oppure, ciò che si riduce a dire la stessa cosa,
egli riconosce la credibilità soprannaturale ( = la possibilità ed il do-
vere di credere) della verità rivelata. 149 In altre parole: il credente,
mediante una certezza implicita ma infallibile, sa: devo dire il mio
sl, sono incondizionatamente invitato, mi dannerei se rifiutassi. Vide-
re esse credenda; il lume della fede, soggettivamente rende possi-
bile ciò; per questo esso dà 'gli occhi', per questo eleva la capacità
conoscitiva naturale dell'uomo. In questo infine il lume della fede
spinge 'alla libertà', impegna l'adesione libera, origina in questo
senso una conoscenza 'pratica'.

2. L'altro aspetto della mediatezza consiste nel fatto che questa


esigenza di fede oggettivamente, cioè come oggetto, si fa incontro
ai fedeli o ai chiamati alla fede non a lato della parola percepibile
esteriormente e del segno visibile esteriormente, ma .nella parola
apostolica, nei documenti della Chiesa, nella potenza sia del mira-
colo, sia dell'esistenza viva della Chiesa. Noi possiamo qui solo ac-
cennare alle molteplici possibilità di una concretizzazione di questa
mediazione. «Non enim crederei, nisi (per lumen fidei) videret esse
credenda vel propter evidentiam signorum, vel propter aliquid hu-
iusmodi» (5. th. 2-2, r, 4, 2). «Il lume della fede rende l'uomo ca-
pace di vedere immediatamente la testimonianza di Dio stesso, in e
per mezzo dei segni esterni dci testimoni della fede inviati da Dio
e confermati con segni esterni di credibilità». 1sc
Noi ci incontriamo quindi nuovamente nella struttura d'incarna-
zione della grazia, nel «mistero dell'uomo-Dio, nel quale l'umano co-
munica Dio in maniera tale che questi si dà direttamente così co-
m'è».'51

3. Un terzo aspetto infine deve essere sottolineato: ciò che viene


visto è la 'testimonianza', non già la realtà invisibile di Dio, la quale
rimane riservata alla visione della glor.a. Non viene afferrato il Dio

149 Cf. F. MALMBEllG, in LTK2, 1(1957)480.


150 I bid., 481.
151 Ibidem.
AD PATREM

manifestantesi direttamente nella sua gloria, ma il Dio che esige la


fede. Questo 'vedere' non eccede cioè i confini della· fede. Si tratta
d'una comprensione 'credente' del Dio che parla, che ci viene donata.
Così non solo si può dire che la testimonianza divina, iJ motivum f or-
ma/e /idei viene colto nella fede (in fide), ma anche che esso viene col-
to credendo (fide). Il motivo che impedisce a numerosi teologi di con-
dividere quest'affermazione, è dovuto al fatto che, con un metodo
vivisezionatore, viene considerato come oggetto della fede solo ciò
che è attestato, il 'contenuto' della rivelazione, accanto al quale -
prima della fede, esteriormente alla fede cosi concepita - deve pre-
cedere una conoscenza del motivo d'una tale adesione. In realtà
nella fede e per mezzo della fede viene conosciuto Dio che attesta
e la verità attestata. La distinzione concettuale dei due oggetti della
fede è giustificata, ma è solo posteriore. Quella vivisezione teologica
ha portato, se non a negare il carattere dell'incontro personale con
Dio ;che attesta, almeno a porlo esclusivamente al servizio delle 've-
rità rivelate', dei credenda. In realtà l'incontro personale è la prima
cosa e la più importante, certamente però in maniera tale che esso,
altrettanto necessariamente, si deve articolare nell'affermazione di
verità, nella confessione degli articuli /idei, dove la misura di que-
sta articolazione può avere diversi gradi; essa però non può mai man-
care del tutto, se la fede deve rimanere una realtà storica ed umana.
Non è perciò ingiustificato parlare di un' 'autofondazione della fe-
de': in realtà la fede si pone come la conoscenza più alta (essa infatti
è anche questo, anche se non si esaurisce in una semplice conoscen-
za), e non già sotto un giudizio estraneo: «L'uomo posseduto dallo
spirito ... non viene giudicato da nessuno», ma pone tutto sotto il pro-
prio giudizio (cf. I Cor. 2,15). Questa sovranità viene conferita aJl'uo-
mo spirituale, al 1tVEuµa:nx6c; in opposizione allo \jJux~xòc; ètvi)pw1toc;
(r Cor. 2,r4), fondamentalmente dalla sua fede, operata in lui pro-
prio dallo 1tVEùµo: -roù &Eoù. La fede non dipende quindi e non pren·
de il suo metro· da una teologia fondamentale critico-razionale: qut!-
sta può, anzi deve essere condotta con metodo critico-razionale e
niente può esimerla da ciò; essa deve rifiutare degli argomenti che
non tengano conto di questa esigenza. Tuttavia essa deve solo man-
tenere nei confini della loro zona di diritto delle argomentazioni 'va-
lide per tutti' Ma proprio queste argomentazioni universali, proprio
490 INTELLIGENZA TEOLOGICA Df.LLA FEDE

nella misura in cui conservano il carattere dell'universalità, non so-


no delle argomentazioni esistenziali, ma al massimo e nel caso ideale
costituiscono delle accurate trasposizioni concettuali di argomenta-
zioni esistenziali. L'apologetica però, dove per essa non è possibile
trasporre in una dimostrazione concettuale, inattaccabile ed univer-
sale, una convinzione esistenziale sorta sulla base d'una manifesta-
zione vitale della Chiesa, come ad esempio la santità d'un testimone
della fede, un'esperienza di preghiera personale, o una percezione
intuitiva della elevatezza della dottrina, non deve parlare di 'surro-
gati soggettivi' (suppléances sub;ectives), di un'insufficienza ogget-
tiva. Se lo Spirito di Dio è I' 'anima' della Chiesa come realtà stori-
ca, come corpo mistico, allora egli è «tutto nel tutto e tutto in ogni
singola parte», allora anche qualcosa di accessorio e di fugace nella
figura empirica della Chiesa, non perfettamente concettualizzabile o
che abbia l'aspetto d'una trascurabile banalità, può costituire un mo-
tivo oggettivo di credibilità realmente valido, fatto percepire dalla
grazia per ciò che esso realmente è, cioè come manifestazione della
vita indivisa del Christus totus. La grazia non dispensa quindi dal
vedere, la grazia non lascia nemmeno vedere ciò che oggettivamente
non esiste, ma dà occhi, occhi sufficientemente acuti per percepire
la realtà, come un amante è in grado di riconoscere 'l'amata da una
sfumatura della voce, da un ricciolo dei capelli, dove chi non ama
e, si deve solÒ' attenere al concettualizzabile ed unive~sale, rimane
pienamente cieco.
Allora, ricapitolando, possiamo formulare cosl: Credo Deum
(obiectum materiale: Deum salutarem ... Christum incarnatum ex Pa-
tre natum), quia credo Deo (obiectum formale seu motivum: Deo
auctoritative loquenti in Christo ... ) et credo Deo, quia credo in Deum
(come mio ultimo fine al quale agogno). Oppure, invertendo l'ordi-
ne: mediante una decisione libera (prevenuta e sostenuta dalla gra-
zia) io afferro percependo (a'nche questa conoscenza è resa possibile
dalla luce della grazia divina) il Dio che mi si apre nel Cristo nel-
l'amore, e quindi la sua gloria intima, il suo mistero, la sua azione
salvifica verso di me nel Cristo.
Io percepisco ciò mentre rimango nella storia di questo mondo,
mentre integro l'oggetto della mia fede nella scienza e nelle relazioni
a me possibili dal basso, mentre lo inserisco nel mondo del compo-
ADPATREM
49I

nendo et dividendo, in affermazioni, formule, princìpi i quali non


sono essi stessi oggetto (l'oggetto è Dio nella sua reale autenticità),
ma nei quali l' 'oggetto' deve dispiegarsi e dunque articolarsi, anche
se incompletamente, tuttavia fedelmente.

c. Formulazione ed oggetto della fede

Abbiamo sottolineato il realismo della fede, il suo 'carattere teolo-


gale', la sua immediatezza divina. Non porta questo ad un deprezza-
mento anzi, ad un'eliminazione delle formule dogmatiche? Queste
appartengono al mondo del creaturale e del finito, ed esigono tutta-
via un'adesione incondizionata, che può essere donata da Dio solo
nella fede? Certo, il modernismo ha già combattuto le 'rigide for-
mule dogmatiche', almeno dove esse vogliono essere comprese sem-
pre nello stesso senso, dove quindi escludono un'evoluzione domma-
tica secondo la quale gli stessi dogmi nel corso della storia possono
avere un senso sempre nuovo, diverso da quello sempre sostenuto dal-
la Chiesa. 152 Il modernismo però non ha rifiutato i dogmi (nel senso
sopra indicato) perché li ha considerati in contrasto con l'immediatez-
za divina della fede, bens} perché li ha visti in contraddizione con
una concezione storico-relativistica d'ogni forma umana di conoscen-
za, nella quale si voleva far entrare anche la fede. L'ostilità del mo-
dernismo contro i dogmi è originata quindi essenzialmente da un
atteggiamento del tutto 'naturalistico', mentre i dubbi qui accennati
sono originati da una concezione decisamente soprannaturale della
fede. 153 Se quindi si analizza il significato e la portata delle formule
dogmatiche, ciò non avviene in colleganza con il relativismo mo-
dernista.
Anche qui bisogna partire dall'affermazione secondo cui l'eleva-
zione soprannaturale non elimina la natura e quindi la struttura na-
turale dell'uomo, ma la presuppone e la integra. «L.'ascolto di ciò che

m Cf. os 3'41; NR 68.


m R. G>.RR!GOU - LAGRANGE, nel suo articolo: Natura e valore delle Jormule dogma-
tiche, in Problemi e orientamenti, I, 387-41 3, vede solo questo punto di visra moder·
nista, mentre rimangono fuori dal!e sue considerazioni i problemi suscitati da un
personalismo e realismo soprannaturali. Egli vede perciò anche solo sollo h1 stess~
prospettiva la problematica della cosiddetta 'nouvelle théologie'.
492 INTELLIGENZA TEOLOGICA DELLA FEDE

viene detto è la maniera con la quale ci si fa incontro a colui che ha


detto questo e che si vuole comunicare in esso». 154 Dio si vuole co-
municare alla conoscenza umana e per ciò stesso questa comunica-
zione sarà segnata dalla maniera di conoscere propria all'uomo, al
credente. «Il conosciuto è presente nel conoscente alla maniera del
conoscente. Ora è proprio dell'intelletto umano conoscere la verità
componendo e separando (componendo et dividendo )... E così l'in-
telletto umano conosce ciò che per sé è semplice, solo secondo una
certa composizione ... Così quindi l'oggetto di fede può essere consi-
derato in un duplice modo. Nel primo, a partire dall'oggetto stesso
che si crede, ed allora l'oggetto di fede è qualcosa di non complesso,
cioè il contenuto stesso (res!) al quale si crede. Nel secondo, a par-
tire dal credente, ed allora l'oggetto di fede è qualcosa di complesso,
secondo il modo d'un enunciato». 1 ~ 5 Tuttavia questo enunciato, quin-
di la formula dogmatica, non è il termine ultimo della fede, che in-
vece è la realtà intesa dall'enunciato, la res; noi infatti formiamo
degli enunciati solo per arrivare alla conoscenza della 'cosa', ~ que
sto sia nella conoscenza, sia nella fede. 156
Se la fede, come virtù divina, è anche 'soprannaturale', essa sareb-
be precisamente in contraddizione con questo suo carattere divino
se diventasse un fatto 'inumano', se essa quindi dovesse essere 'fede
vuota', cioè senza dogmi, un atteggiamento senza enunciati di fron-
te alla 'trascendenza', e tenesse perciò lontano da sé ogni sapere con
h motivazione che un tal sapere potrebbe essere solo sapere che
'dispone' del suo oggetto, cd in contraddizione quindi con la fede
stessa nella quale è Dio che dispone dell'uomo. Certo, il sapere scien-
tifico 'dispone' veramente del suo oggetto, ma si dà una conoscenza
del 'personale' e dello spirituale non oggettiva, che anche sul piano
puramente naturale non dispone quindi dell'altro e che è più 'auten-
tica', più compiutamente umana, rispetto alla semplice conoscenza
che dispone del suo oggetto; una tale conoscenza si esprime anche in
formule, senza però potersi esaurire completamente in esse. Questo

154 O. SEMMELl\OTff, Von der Gnade des Gldubens, in GuL, 36(1963)179·191 (189).
l\~ S. tb. 2·2, I' 2,
1"6 I bid., ad 2; ... aclus credentis non lerminalur ad enu11tiab1le sed ad rem».
AD PATREM
493

modo umano di conoscere si ritrova anche nella fede: la quale perciò


non può restare 'atteggiamento vuoto', ser;iza alcun enunciato. 157
Due cose però occorre qui notare: primo, che la comunicazione
oggettiva mediante enunciati fissi, come deve esistere all'interno del-
la fede, sta al servizio dell'incontro personale, e non, viceversa, que-
sto al servizio di quella. Dio, con il quale mi incontro nella fede, non
è un 'esperto' di cose celesti, di affermazioni alle quali la mia espe-
rienza non può arrivare e che ora devo appropriarmi. «Si t~atta di
Dio e non delle sue affermazioni». 158 Cosl queste affermazioni non
devono essere sottratte al loro servizio per l'incontro con Dio, per
servire invece all'arricchimento o alla critica della conoscenza natu-
rale dell'uomo: in questo modo non sono più al loro giusto posto e
nel proprio contesto. Conferita alle affermazioni di fede siffatta 'au-
tonomia' ne sono risultati molti contrasti tra fede e scienza, nei quali
spesso non già gli scienziati, ma i teologi hanno oltrepassato i pro-
pri confini.
Bisogna tuttavia riflettere al fatto che l'incontro col Cristo avuto
nella fede è sempre più ricco che la sua espressione in proposizioni
dogmatiche, per quanto corrette ed ortodosse queste siano, ed anche
se vengono prese nel loro insieme. Io nella fede m'affido non già
ai dogmi, ma al Dio che si rivela, nella coscienza perciò che al Dio
rivelatore riesce di esprimersi fedelmente nel dogma, anche se a
sprazzi interrotti. Deus semper maior, Dio rimane sempre più gran-
de della sua creatura, del suo libro; la PAROLA (L6gos) più grande
delle sue parole (l6goi) le quali possono raggiungere le nostre orec-
chie solo all'esterno, le quali sono però ricevute in noi e con noi dal-
lo SPIRITO che egli ha mandato nei nostri cuori ed «il quale dà testi-
monianza al nostro spirito» (Rom. 8,16), al nostro spirito aperto alla
parola degli uomini, perché possa cogliere la PAROLA, che sola non
viene mai superata dalla pienezza della realtà divina e la quale sola
è immutabile, e lascia conoscere quindi il VERO (i:òv 6J..T]l>w61,1: I Io.

157 A. BRUNNEI., Entleerter Glaube, in StdZ, 164 (19,8-59) 18I-I93, ìl quale si con-
trappone a F. BURI, Dogmatik als Selbstverstiindnis des Glaubens, 1 parte, Vernunft
und Of]enbarung, Bern 1956, il quale a sua volta si trova sotto l'influsso della filosofia
di K. JASPERS.
•58 O. SEMMELROTH, Von der Gnade des Glaubem, in GuL, 36 (1963) r79-19r (189).
INTELLIGENZA TEOLOGICA DELLA FEDE
494

5 ,20 ), l'unico vero Dio (Io. I 7 ,3 ). I dogmi sono immutabili nella


misura in cui essi aprono lo sguardo sempre sulla stessa VERITÀ.
La forma del dogma come enunciato prende la sua misura dall'uo-
mo e dalla sua struttura, ciò che in esso viene inteso supera però
ogni misura creata. Questa tensione tra forma e contenuto non può
essere eliminata a vantaggio dell'uno o dell'altra, né riducendo il
contenuto alla relatività della forma e nemmeno innalzando la forma
all'assolutezza del contenuto. In realtà, 'realismo' dell'immediatezza
divina e .'formalismo' degli enunciati dogmatici non sono di vicen-
devole inciampo, ma la serietà del realismo della fede esige ed im-
plica proprio la sua 'incarnazione' nella parola formulata umanamen-
te; anzi è proprio nell'interesse di questo realismo, che esso sia la
nostra fede e che si realizzi quindi umanamente .159
Sarebbe falso voler edificare la fede sulle formule dogmatiche, me·
diante un'enumerazione dei credenda, ed intenderla fondamental-
mente come un consenso a dei contenuti rivelati in affermazioni. I1
pericolo per noi consiste in primo luogo nel dare un forte peso alla
maniera moralista di considerare la fede, mediante la quale si cerca
di presentare la fede quanto più esattamente possibile come un'ac-
cettazione doverosa di dogmi, mediante l'enumerazione di ciò che
l'uomo deve anzitutto credere esplicitamente fide divina et catholica,
oppure almeno implicitamente mediante la sua adesione globale ;1
tutto ciò <(che la Chiesa ci propone da credere». Considerata su que·
sto piano, una tale fides implicita in quanto 'credere in blocco' offre
il fianco a parecchie obiezioni. Mediante essa infatti in qualche ma-
niera ci si potrebbe sottrarre all'abbandono personale alla verità ed
alla chiamata di Dio mediante una procura in bianco, facendosi così
sostituire da un magistero ecclesiastico o dai teologi, con conseguen-
ze altrettanto riprovevoli come il qorbim dei farisei (cf. Mc. 7,II).
Se infatti la fede viene concepita solo come adesione più o meno espli-
cita a delle formulazioni della verità e non si vede la sua dimensione

159 Cf. M.-D. CHESU, La foi darr.< l'm:elligrnce, in Li Parole de Dieu, 1, Paris 1964,
pp. I 3-19; F. MALMBEnG, Die millelbar-urrmitlelbare Verbindurrg mii Goti in Do.~mcn·
glauben, tr. in BCR, 52, pp. 81-96~ H. BouILLARD, L'inte11t1on fo1Jdame111a/e dc AL
Bionde/ et la théo/ogie, in RSR. 36(1949) 321-402(364): I due elementi della cono-
scenza di fede, quello noetico del dogma e quello pneumatico della vicendevole dona-
zione personale~ G. THILS, Oricntalions de la 1héofog1e, Louvain 1958. pp. 66-65 IPa-
rag. 3 Le relati/ et l'absolu ).
495

'trascendente', la sua relazione intima alla realtà increata del Dio


che salva, allora il passaggio dell'impliciium all'explicitum si svolge
su un piano dal quale rimane escluso il realismo della fede.
Certo si dà, all'interno del concetto autentico di fede, una fides
è
implicita, si dà uno sviluppo dogmatico; tutto ciò infatti connesso
alla necessità d'esprimere la fede mediante degli enunciati. Come
appare anche dalle considerazioni del capitolo precedente, è neces-
sario che da parte cattolica sL tenti una spiegazione più profonda, di
quanto non si faccia abitualmente, dello sviluppo dogmatico. Non si
tratta solo dell'esplicitazione d'un enunciato; un siffatto procedimen-
to, con la povertà delle affermazioni enunciabili, povertà ad esse ine-
rente a causa della inadeguatezza costante dei concetti, si arenerebbe
presto e mostrerebbe la sua infecondità. Non sono le 'idee' la fonte
originaria del progresso dogmatico, ma la realtà, la vita, la quale è
sempre più ricca della sua espressione concettuale. Il progresso dog-
matico quindi è soprattutto un andare ad attingere sempre nuova-
mente all'implicitamente vissuto per renderlo esplicitamente cono-
sciuto (de ['implicite vécu à l'explicite connu).'tJJ
Poiché nel capitolo precedente si è trattato diffusamente della evo-
luzione del dogma, qui basta aver mostrato la sua connessione ccn il
realismo e con l'immediatezza divina della fede.
A partire da qui potrebbe essere tentata una elaborazione del
problema, Lll'ltQ dibattuto nell'epoca moderna, della 'fides ecclesia-
stica'

d. Fides ecclesiastica

Che cosa ha condotto a porre accanto alla fides divina (la quale, nel-
la misura in cui ad essa corrisponde una formulazione nei documenti
del magistero, potrebbe anche essere denominata fides catholica 161 )
una fules ecclesiastica da essa diversa, che abbraccerebbe le cosid
dette 'verità cattoliche'? 162

100 BourLLARD, op. cii .. p. 437.


161 AUBERT, pp. 189 s. ha alcuni accenni sulìa swria di questo termi che rimane
ancora tutta da scrivere.
161 Si osservi che, per quanto concerne l'uso dei termini, le veri/a/es calholicae
si riferiscono alla fides ecc!esiaslica e non già alla fides catholica. Per la terminologia
vedi J. TRUTSCH, G/aube, 111 Systematisch. A. 1, in LTK2, 4(1960)9ws.; J. BEtlMFR,
l.LlGENZA TEOLOGICA J.L,, n:nE

Poiché possono essere tenute fide divina solo quelle verità nelle
quali l'adesione è motivata unicamente dall'autorità d~ Dio rivelan-
te, le verità che interessano tale fede sono solo quelle rivelate for-
malmente da Dio, implicite o explicite. Ora la Chi~a esige un assen-
so definitivo ad affermazioni come la santità di determinate persone
da essa 'canonizzate', la legittimità d'un concilio o d'un papa, e cosl
via. Siffatte affermazioni non possono essere evidentemente contenute
nella rivelazione divina chiusasi con il periodo apostolico_ Esse quin-
di non possono essere oggetto della fides divina. Molti teologi am-
mettono allora per queste verità una fides ecclesiastica, fo quale, sup-
positis supponendis, può anche essere infallibile e tuttavia ha il suo
motivo formale non già nella - in ogni caso mai immediata - auto-
rità increata di Dio, ma nell'autorità della Chiesa. Questa però da
parte sua si riconduce all'autorità di Dio.
Non è qui il luogo di trattare diffusamente una tale questione. A
partire solo dal realismo della fede, per il quale l'oggetto della fede
non è già l'affermazione stessa, ma la realtà vivente la quale rimane
sempre presente in realtà al credente, si può però costatare che la que-
stione sulla fides ecclesiastica non è stata posta convenientemente,
in quanto il carattere definitivo della rivelazione nel periodo aposto-
lico viene riferito ad 'enunciati' che avrebbero dovuto essere formula-
ti esplicitamente o implicitamente nel periodo apostolico, in maniera
tale che la pie~zza della realtà sempre presente al credente non pos-
sa essere vista sempre nuovamente sotto un nuovo punto di vista, re-
so possibile dalla provvidenza divina nel corso della storia della Chie-
sa e quindi riformulata nuovamente. Non è la medesima fede quella
che accetta il messaggio della santità cristiana e che tenta di coglierla
in concreto (e non solo in abstracto) nei santi? Oppure si vuole dire
che la fede cristiana deve rimanere limitata ad affermazioni astratte
ed universali e restare quindi di fatto nell'irreale? Basti qui, a par-
tire dalla dottrina della fede, inserire questo punto di vista, che poi
dovrebbe essere elaborato a fondo in un altro contesto. Certo è che
la mentalità concettualista ha portato molta confusione in questa di-
scussione.163

Katholische Wahrheiten, in LTK2, 6 ( 1961) 88; H. B.1.c11T, Dogmatische Tatsachen,


LTK 2, 3 (1959) 456 s.
16J In questa direzione, su una concezione della fede nel conle1itO delle formule,
AD PATREM
497

Con ciò abbiamo finito di abbozzare una VISlone teologica della


fede come risposta all'azione ed alla parola di Dio rivelante. Se la
fede è ciò che noi abbiamo tentato di spiegare e cioè la risposta del-
l'uomo chiamato da Dio alla salvezza, se essa contiene questa straor-
dinaria ricchezza che caratterizza l'atteggiamento fondamentale di co-
lui che ha bisogno di salvezza e che l'ha ricevuta già come una capar-
ra, allora non farà meraviglia se in seguito difficilmente ci sarà un
capitolo che, da punti di vista ogni volta differenti, non torni a par-
lare della fede. Particolarmente dove si tratterà dell' 'azione salvifica
di Dio nei riguardi del singolo uomo' (cf. voi. IV, capp. 8-13), e del
'cammino dell'uomo redento nel periodo intermedio ... ' (cf. voi. v,
capp. 1 -5 ), sorgeranno le questioni sulla fede e la salvezza come
«giustificazione mediante la fede» (voi. IV, cap. 9, par. 4) e su 'la
fede e le opere' (voi. IV cap. I 2 ). La giustificazione avviene sola fide:
decisiva è unicamente l'apertura del credente all'azione salvifica di
Dio. E proprio perché è tale, la fede non può mai rimanere chiusa
in se stessa, ma assumerà nel suo dinamismo tutto l'agire umano,
«operando mediante la carità» (Gal. :;,6), né mai rimanere «fede
morta se9za opere» (lac. 2,17). Solo ·tale fede infatti distrugge la
schiavitù della legge per portarci alla libertà dei figli di Dio. 164 Que-
sti accenni devono qui bastare per mostrare l'articolazione del no-
stro trattato sulla fede con le ulteriori trattazioni sull'evento della
salvezza.
Per essere completi vogliamo aggiungere un'appendice sulle defor-
mazioni della fede, su quegli atteggiamenti cioè che possono falsare
o deformare o addirittura estinguere in modo totale la fede.

può costituire un ulteriore contributo: H.U. VON BALTHASAR, Herrlich/eeil, Eine theo-
logische ii.sthetik, 1, Schau der Gestllll, Einsiedeln 1961; sulla questione cf. anche il
cap. IV, par. 2, 3 a, ee.
164 P. ALTHAUS, Sola fide nu11quam sola . Glaube und Werk im ihrer Bedeulu11g fiir
das Heil bei M. Lutber, in Vnll Sancta, 16 (1961) n7-23~.

H Mys1erit1m sahiris / 2.
APPENDICE

OPPOSIZIONI ALLA FEDE


DEFORMAZIONI DELLA FEDE

Nella fede l'uomo si lega direttamente a Dio che si rivela e che ci


conduce alla salvezza nel Cristo. Ma l'immediatezza pura ha una
struttura d'incarnazione, si esprime e si sviluppa in enunciazioni di
verità e questo nella comunità della Chiesa che è una comunità di
confessione. I Simboli di fede non si frappongono tra il credente e
Dio colto immediatamente nella sua realtà salvifica, ma l'adesione ai
dogmi, la comune professione di quanto la Chiesa confessa sono
espressione concreta dell'abbandono a Dio nel Cristo: senza divisio-
ne e senza confusione. Così la contraddizione nei riguardi della fede
diviene necessariamente percepibile attraverso l'espressione esterna
della fede, cioè attraverso il fatto che uno, o non accetta gli enun-
ciati autentici della fede (incredulità positiva o negativa), o ne ac-
cetta alcuni e ne rifiuta altri (eresia); incredulità ed eresia, quando
sono state precedute dalla fede, rispettivamente dall'ortodossia ven-
gono chiamate 'apostasia' dalla fede. 165

r. Manca11za di fede ed incredulità

È meglio chiamare la semplice incredulità negativa, mancanza di fede.


Colui al quale manca la fede non è stato mai confrontato con il mes-
saggio~cristiano, almeno nella sua espressione cosciente. La fede in
questo non c'è o non c'è ancora, semplicemente perché l'uomo in
questione non ha mai avuto l'occasione di decidersi per essa o con-
tro di essa. Evidentemente non si può trattare allora d'un abbandono
colpevole della fede. La Scrittura ed il magistero conoscono questa
forma d'incredulità e non la condannano, come invece, fanno per
l'incredulità (Rom. I0.13-Ii; I Tim. 2,3 s.; DS 1968; NR n9; 351)_
MA:-!CANZA DI FEDE ED Jl'CRF.DULITÀ
499

Noi parleremo d'incredulità negativa però anche dove la fede, real-


mente presente, non conosce se stessa, e rimane quindi 'anonima'.
cioè senza un legame espresso con la comunione visibile dei credenti,
senza 'confessione', ma si esprime nelle forme della propria tradi-
zione religiosa, il cui legame con la tradizione che si radica nella rive-
lazione giudeo-cristiana non ha bisogno di essere esplicito. 166 Que-
st'ultima affermazione deve essere intesa nel senso al quale abbiamo
accennato quando prima abbiamo parlato dell'extra Ecclesiam nu!ln
fides.
L'incredulità positiva implica invece un rifiuto d'aderire al mes-
saggio della fede cristiana, e può essere materiale o formale . .:È ma-
teriale quando l'obbligo di credere con il suo carattere incondizio-
nato rimane nascosto senza colpa. Anche se noi non siamo in grado
di dimostrare positivamente dalle fonti della fede una tale possibi-
lità, non possiamo tuttavia escluderla. Anzi, in pratica, dobbiamo
presumerla fino a quando non sia dimostrato il contrario. L'incre-
dulità positiva e formale viene presupposta come fatto reale dalla
Scrittura e condannata duramente: «Chi non crede (alla predicazio-
ne del vangelo) sarà condannato» (Mc. r6,r6; Mt. 10,14 s.; Le. ro,
ro,16; Io. 15,22-24; Act. 2r,8). Essa non si verifica soltanto quando
l'obbligo di credere (credenditas) appare chiaramente, ma anche quan-
do la conoscenza di quest'obbligo, che è una conoscenza 'libera',
non si verifica per colpa dell'uomo. Quest'ultimo caso sembra molto
più reale del primo.

2. Eresia 1' 1

In senso canonico non si può parlare di eresia nei non battezzati, ma


solo se uno ha sigillato la sua fede cristiana mediante il battesimo.
Quando costui, anche volendo rimanere cristiano, nega ostinatamen-
te una verità che deve essere creduta di fede divina e cattolica o la
mette in dubbio (can. 1325) par. 2), allora incorre nell'eresia. In que-

166 Cf. K. RAHNER, Weltgeschichte und Heilsgeschichte, tr. in BCR, 64, pp. 49ì·H2;
d. J.B.Muz, Unglaube II, in LTK 2, 10(1965)496-9.
167 Cf. O. K>.RRER, Eresia, in DxT, 1 (2I967) '46-555 con bibliografia; J. BaoscH,
Hiiresie, in LTK 2, '(1960) 6-8; K. R>.HNER, Haresienge1chicb1e, ibid., 8-n; J. BRosrn,
Da.r W esen der Hiiresie, Bonn 1956.
500 LA FEDE: OPPOSIZIONI E DEl'ORMAZIONJ

sto senso è dunque eretico colui che coscientemente nega delle verità
contenute nella formulazione della fede di quella comunità che è la
Chiesa del Cristo nel senso pieno della parola (come noi definiamo la
communio ecclesiale adunata intorno al successore di Pietro). Se que-
sto atteggiamento eretico è formale, cioè in contraddizione con la co-
scienza e quindi unito ad una colpa personale, allora la fede stessa vie-
ne a mancare. Infatti, in qm:sto caso, l'eretico non si è più aperto alla
verità di Dio che rivda, ma si è chiuso nel proprio io umano. La
colpa consiste nel fatto che pur riconoscendo Pobbligatorietà incon-
dizionata della formulazione del magistero, l'eretico la rifiuta libera-
mente. Questa malizia della volontà non deve essere presunta in via
normale in quelli che sono cresciuti in una comunità separata, sia
per nascita (e battesimo nell'infanzia), sia per conversione dal paga-
nesimo alla comunità separata dove si sono aperti alla parola di Dio.
Fino a prova contraria, in ogni caso costoro devono essere conside-
rati eretici materiali; sarebbe addirittura meglio evitare questa
espressione odiosa e dura, in quanto si tratta di cristiani realme"ntc
credenti, aperti al Dio della salvezza direttamente, nella fede teolo-
gale, anche se l'articolazione del loro atteggiamento di fede presenta
non solo inadeguatamente (come è sempre il caso, anche per. i cri-
stiani che sono nella retta fede), ma in alcuni punti anche falsa-
mente la verità oggettiva della salvezza.
L'errore di fede (error in fide) deve essere distinto dall'eresia sia
materiale, sia formale. Esso si verifica quando un cristiano accetta
:on volontà incondizionata tutto ciò che la Chiesa insegna, ma si in-
ganna sull'appartenenza o meno d'una verità al deposito della fede.
Forse anche sotto quest'errore può nascondersi qualche colpa, ad
esempio la negligenza colpevole dell'istruzione religiosa. Tuttavia in
esso la fede non viene a mancare come atteggiamento. Ma anche l'er-
rore di fede può essere pienamente libero da colpa.

3. Apostasia 168

Un problema particolare sorge quando uno da credente diventa o

163 Cf. J. TttiiTsCH, Glaubcnsabfall, in LTK1, 4 (1960) 931-934; M. CoRVEZ, La per·


te de la foi, in Lumière et Vie, 23 (19n) 69·80.
APOSTASIA 501

incredulo o da ortodosso diventa eretico. Questa perdita della fede


cristiana viene chiamata apostasia. 169 La possibilità dell'apostasia è
data dalla libertà e dalla defettibilità della fede, mentre con la cer-
tezza e la fermezza della fede è dato ai cristiani l'obbligo oggettivo
di perseverare nella fede e nella sua pienezza. L'apostasia è quindi
senz'altro oggettivamente colpevole. Implica però essa, in ogni caso,
una colpa soggettiva? Infatti qualcosa che è oggettivamente colpevole
può costituire soggettivamente o una colpa lieve, o nessuna colpa o
addirittura qualcosa di buono e di meritorio. Il fondamento per que-
sta differenza tra ordine oggettivo ed incolpabilità soggettiva, può ri-
siedere o nell'intelletto o nella volontà. Se si tratta di impedimenti al-
la libertà della volontà, il problema coincide con quello della responsa-
bilità degli altri atti naturali (e soprannaturali). Nella misura invece
in cui è interessata la conoscenza, sorge un particolare problema sul
quale si è anche pronunciato il Vaticano 1: «Gli uomini che median-
te il dono celeste della fede hanno aderito alla verità cattolica, non
si trovano nella stessa condizione di coloro che, guidati da opinioni
umane, seguono una falsa religione. Infatti coloro che hanno già una
volta accettato la fede sotto il magistero della Chiesa, non possono
mai avere un giusto motivo di mutare o di mettere in dubbio que-
sta fede ... ». 110 Il corrispondente canone 6, 171 rende la cosa ancora più
chiara, in quar.to qui viene preso di mira l'hermesianesimo, 172 il quale,
nell'interesse d'una convinzione di fede scientificamente ottenuta, rac-
comanda di sospendere l'adesione di fede ricevuta prescientificamen-
te dalla Chiesa, fin quando non sia ultimata la dimostrazione scien-
tifica della credibilità e della verità della fede. Il concilio dice quindi
che i cattolici non potranno mai avere un 'giusto motivo' per com·
portarsi come raccomanda HERMES.
Nell'interpretazione di questa dottrina conciliare, sorge la questio-
ne se per i cattolici sia escluso un 'giusto motivo' solo oggettivo, o
anche soggettivo. La prima interpretazione è sostenuta (a partire dal
1890) dai cosiddetti 'oggettivisti' guidati dallo storico del concilio,

169 CIC can. IF' par. 2.


110 DS 3012; NR 4 I.
171 DS 3036; NR ,s.
m Su HERMES e sulla sua scuola, cf. AUBERT, pp. 103·rr 2: rn-179; R. Sc11tUND
E. HEGEL, Hermcs, in LTK 2, ' ( r960) 2.:;8·26r.
502 LA fl::lJE: OPl'OSIZIONI E DE!'ORMAZ!ONI

GRANDERATH; la seconda è sostenuta invece dai cosiddetti 'soggetti-


visti'. Noi pensiamo di poter dire così: un'interpretazione puramente
oggettivista renderebbe l'affermazione del Vaticano una tautologia
banale, che non viene in questione. In qualche modo deve essere
escluso anche un giusto motivo soggettivo d'apostasia. L'impar con-
ditio dei cattolici e dei non cattolici deve avere le sue conseguenze,
per sapere se un motivo (obiettivamente non giustificato) d'aposta-
sia possa nel caso essere soggettivamente giusto ed escludere quindi
una colpa soggettiva. Prescindendo pure dalla fedeltà di Dio nella
comunicazione della sua grazia (la quale esclude ogni forma d'incre-
dulità .e d'eresia formali, in quanto 'sufficiente', anche se, per colpa
dell'uomo, a volte 'non efficace'), per il cattolico la forza di convin-
zione della realtà della sua Chiesa alla quale appartiene vitalmente è
sempre così grande, come motivo di credibilità, più grande che pres-
so i cristiani non cattolici, che non può essere ammesso come caso
normale (come insinua HERMES) il fatto di mettere in discussione la
propria fede senza alcuna colpa soggettiva. Che si tratti però solo
del caso normale e non d'ogni possibilità pensabile, viene dimostrato
dalla adnotatio 20, la quale esclude espressamente il caso dei rudes,
senza impegnarsi però in un'ulteriore ed accurata enumerazione dei
casi. 173

4. Dubbio di fede 174

Che questo sia possibile lo abbiamo già visto nella trattazione delle
proprietà della fede: la fede (con tutta la sua razionalità e la sua
fermezza) è oscura e defettibiie. Tuttavia il dubbio costituisce ogget-
tivamente un venir meno còlpevole alla fede. La fede ammette il
dubbio opin~bile ed è quindi soggetta a tentazione; essa può tut-
tavia esistere solo come atto d'adesione incondizionata, in quanto
.essa si affida all'autorità infallibile di Dio. In questo senso il dubbio
deve essere giudicato alla stessa stregua dell'incredulità e dell'eresia.
Il dubbio può però anche darsi solo come tentazione (involontaria),
la quale se non v'è il consenso libero resta senza colpa. Un tale 'club-

111 Per una motivazione più accurata, cf. l'articolo citato del LTK.
174 Cf. H. BACl:iT, Glaubenszweifel, in LTK 2, 4 (1960) 949-951.
SUPEl!STIZIONE

bio' può alimentarsi a fonti diverse: deficienze psichiche (neurosi,


eccetera), questioni oggettivamente non risolte, che sono ongmate
dal mondo della fede, eccetera. Anche quando uno avverte chiara-
mente la propria incapacità a conciliare affermazioni della fede appa-
rentemente in contraddizione fra di sé o con l'evidenza naturale,
non si tratta necessariamente di dubbio. Rimane invece una difficoltà
della fede la cui problematica può benissimo c;oesistere nello stesso
soggetto con una fede ferma ed indubitata.
Il dubbio hermesiano di cui parlavamo prima, è un dubbio reale,
anche se sul piano metodologico sia provvisorio, presumibilmente
postulato in ossequio ad una certezza di fede illuminista. Il Vatica-
no 1 l'ha rifiutato perché esso, in modo del tutto irreale, grazie ad
una unilaterale superstizione scientifica, non dà valore al significato
ed ·alla validità della certezza prescientifica e irriflessa, e rende quindi
provvisoria e surrogabile la fede da Dio donata a tutti, anche agli
incolti, e per di più valida davanti all'esigenze della ragione.
Poiché la fede si radica nella totalità unitaria dell'uomo, trova il
suo posto anche la questione che si pone sulla psicologia dell'evolu-
zione della fede stessa. 115 Qui ha il suo luogo teologico un ampio
campo della psicologia pastorale pratica. 176 Le difficoltà della fede, e
quindi il pericolo di un'apostasia o d'un dubbio di fede, hanno nelle
diverse età del singolo, nei diversi periodi storici e nei diversi am-
bienti sociali, un volto nuovo caso per caso, che deve costituire og-
getto di studio e di considerazione da parte della pastorale della
fede.

5. Superstizione

E difficile descrivere tutto ciò che viene inteso con il termine 'su-
perstizione'. m Con HA RING, con il nome di 'superstizione', in sen-
so lato si può intendere: culto falso e sconveniente del vero Dio. Nel
senso più stretto la superstizione implica un volgersi quasi religioso

11s Cf. J. THOMAS, Lebensstufen-Glaubensstufen, Graz x963; H. STENGER, Glaube


in der Entscheidung, Coli, «Kl. Schriften zur Seelsorge», 1, Freiburg 196i.
176 Cf. H. BACHT, art. di., p, 9}0.
m Cf. MoH!I.. HiiRING-SCHAUERTE, Aberglaube, in LTK 2, 1 (1~n7) 37-4r.
LA FEDE: OPPOSIZIONI E DEFOl.MAZIONI

a potenze e forze impersonali, in qualche maniera 'numinose', sotto la


forma della divinazione, della fede vana e della magia.
Ciò che della superstizione come atteggiamento magico fa qual-
cosa in contraddizione con la vera fede, è proprio la direzione con-
traria che la religiosità assume nella superstizione: la fede, come
forma altissima di religiosità resa possibile da Dio nella grazia implica
un abbandono confidente, una sottomissione ed una consegna totale,
una rinuncia a disporre di sé per lasciar a Dio disporre di se stessi. Le
pratiche superstiziose usano azioni, oggetti, parole - che dovrebbero
essere espressione di questo abbandono credente a Dio - precisa-
mente per costringere Dio in modo misterioso ad obbedire alla vo-
lontà umana, o per mettersi in guardia da lui. Dei segni sacri ven-
gono privati del loro carattere di segno dell'adorazione di Dio e de-
gradati a pratiche attraverso le quali l'iniziato può eseguire manipo-
lazioni per raggiungere, in maniera straordinaria, cose più o meno
buone corrispondenti al suo capriccio; insomma una 'preghiera' nella
quale non c'è più nessun posto per il «Si faccia la tua volontà». Il
superstizioso vorrà quindi trasformare in modo pseudo-religioso il
dominio umano e delle cose umane in dominio del misterioso. Da
questo abuso non sono immuni le più sante parole, gesti e cose: pa-
role della Scrittura, preghiere, sacramenti, anzi persino il corpo sa-
cramentale del Signore. Tutto ciò può essere impiegato magicamente.
Questo accade quando la fede non è più l'anima del sacramento,
quando i segni e i gesti sono stati privati dell'atmosfera della fede.
Chi concepisce così l'ex opere operato, cioè come emancipazione del
sacramento dalla fede, deve poi per la teologia sacramentaria esclu-
derlo del tutto, in quanto 'magico' Ma è stato già mostrato da noi
che esso non deve essere inteso in questa maniera (vedi supra, pp.
464 s.).
Anche cosi appare come la fede sia ciò che c'è di più fondamentale
e decisivo nell'esistenza cristiana: tutto si corrompe, dove essa vien
meno; tutto può mutarsi in salvezza dove essa si trova alla base. «Il
mio giusto vivrà della fede» (Hebr. ro,38; d. Rom. 1,17; Gal. 3,II;
Hab. 2,4).
La salvezza avviene quindi sola fide; fides vero numquam sola.1

JOSEF TRUTSCH
BIBLIOGRAFIA

BIBLIOGRAFIA

1. GENERALE
Lessici
DTC, 3 (1911) 2364-2396: S. HARENT, Croyance.
DTC, 6 ( 1920) 55-514: S. HARENT, Foi.
DzT 1 (21967) 643-667: M. SECKLER, Fede.
LTKz, 4 (1960) 913-931: R. ScHNACKENBURG - ]. TROTscu W. PANNEN·
BERG . H. SCHUSTER . KRAUTWIG.
RGGJ, 2 (1958) 1588-1611: F. BAUMGARTEL H. BRAUN VAN RuLER
GRASS.
Theol. Wordenboek, Roermond 1955, i370-1404: E.H. ScHJLLEBEEGKX.

Monografie
]. ALFARO, Fides, spes, caritas. Adnotationes i11 1,-actatum de virtutibus
theo/ogicis (ad usum auditorum), Romae 21963.
R. AuBERT, Le problème de l'acte de foi, Louvain 31958 (citato: Au-
BERT).
G. DE BROGLIE, Pour une théorie rationnelle de l'acte de /oi, lnstitut Ca-
tholique (ad usum auditorum), Paris 19551 Tractatus de virtute fidei,
Paris s. d.
M.-L. GuÉRARD DES LAUR!ERS, Dimensio11s de la foi, 2 voli., Paris 1952.
A. L1ÉGÉ, Der Glaube, in Die Kath. Glaubenswelt, li, Freiburg 1960, pp.
396-445.
H. VIGNON, De virtutibus et donis vitae supernaturalis, Romae 21953.
DTA Bd. 15., Glaube als Tugend (5. Th. Il-II, 1-16), Heidelberg 1950,
annotazioni e commento <li F. UTz.
AA. Vv., Qu'est-ce que la foi? Lumière et Vie, 22(19n), 1, Données b1-
bliqucs; 23 ( r 955 ), 11, Ré/lexions théologiques.
Lebendiges Zeugnis, 3/4 (1963): Vom Weg zum Glauhe11, con contributi
di A. BoRcoLTE, B. WELTE, H. ScHLIER, J. GN1LKA, P. KossLER, F.
RoTTER, W. HEINEN, W. ScHOLLGEN.
]. AuER, Was heisst glauben?, in MTZ, 13 (1964) 235-255.
W. BARTZ, Das Prohlem des Glaubens, Trier r950.
A. BENGSCH, Heilsgeschichte und Heilswissen, in Er/urter Theol. Studien
3, Leipzig 1957.
H. Bou1LLARD, Logique de la foi. Esquisses, dialogues auec la pensée pro·
testante, approches philosophiques, Paris 1964.
M.-D. CuENU, La foi dans l'inte/ligence, in La parole de Dieu, r, Pal'is
1964.
N. Dur-;As, Co1111aissance de la foi, Paris 1963 (tr. it. Torino i967).
506 BIBLIOGRAFIA

R. GUARDINI, Vom Leben des Glaubem, Mainz 4 1957; Glaubenserken11-


t11is, Herder-Taschenbuch, Wiirzburg 1949 u. Freiburg 1963.
J. HERRIG, Der Geist gibt Zeugnis. Der dimk/e Gla11be ist Licht, Pader-
born 1959·
J. PIEPER, Ober dr:n Glauben, Miinchen r962.
F. TAYMANS, Les é11igme.r de l'acte de foi, in N/ff, 76 (1954) 113·133.
H. VoLK, Glaube a/s Glaiibigkcit, Mainz 1963.

2. SULL' 'uorroRE Dl::LLA PAROLA'

H. FRIES, Vom Horer des Wortes Gottes, in J. RAT:llNGER - H. FR1i::s (a


cura), Einsicht und Glaube, Freiburg 1962, pp. 15-27.
K. RAHNER, Uditori della parola. Rielaborazione di J.B. METz, Torino
1967.

3· FEDE SECONDO LA !iCRITTURA

Vedi le varie opere sulla teologia dell'Antico e dcl Nuovo Testamento, dci
vari autori.

Inoltre:
]. ALFARO, Fides in terminologia biblica, in Gr, 42 (1961) 463-505.
P. ANTOINE, Foi (dans l'J:.criture), in DBS, 3 (1938) 276-310.
].B. BAUER - H. ZIMMERMANN, Glaube, in BTWB 2 , I (1962) 514-536.
P. BENOIT, La fede, in Esegesi e teologia, Roma 1964, pp. 141-162.
F.M. BRAUN, L'accueil de la foi selon St. ]ean, in Verbum Salutis, 92 (1955)
344-363.
CH. BUTLER, The ob;cct of the Faitb according to St Paul's Epistles, in
Stud. Paulinor. Congr. Intem. Cath. 1961, Coli. «Anal. Bibl» 17-18,
1, Romae r963, pp. 15-30.
O. CuLLMANN, EtéiEv xcxt È7tl'J"'tEVO"E'V. La vie de Jéms, objet de la 'vue'
et de la 'foi', d'après le quatrième Evangile, in Aux sources de la tradi-
tion chrétienne. Mélanges M. Goguel, Coli. «Bibliothèque Théologique»,
Neuchatel 1950, pp. 52-6 r.
A. DECOURTRAY, La conception ;ohannique de la foi, in NRT, 91 ( 1959)
561-576.
C.H. Dooo, The lnterpretation of the Fourth Gospel, 5. Faith, Cambridge
6 1963, pp. 179-186.

J. DuPLACY, D'où vie111 l'importancl' centrale de la foi dans le NT ?, in


Sacra Pagina, Il, Paris 1959, pp. 430-439.
I- lfrav, De la connaissance de la foi dans St. }ean, in RSR, 21 ( 19 l t)
)85-421.
BIBLIOGRAFIA

O. Kuss, Der Glaube nach den paulinischen Hauptbriefen, in Auslegung


und Verkiindikung, 1, Regensburg 1963, pp. 187-212 (con bibliografia).
P. M1cHALON, I.A foi, rencontre de Dieu et engagement envers Dieu selon
l'Ancien Testament, in NRT, 85 (1953) 587-600.
E. PFEIFFER, Glaube im Alten Testament, in ZAT\'V,71(1959)151-164.
A. ScHLATTER, Der Glaube im Neuen Testament, Stuttgart 4 1927.
H. SCHLIER, Glauben, Erkennen, Lieben nach dem ]ohannesevangelium,
in J. RATZINGER ·H. FRIES (a cura), Einsicht und G!aube, Freiburg i.
Br. 1962, pp. 98-1u (con bibliografia).
R. ScHNACKENBURG, Die sittliche Botschaft des Neuen T estamen, ih Hand-
buch der Moraltheologie, 6, Miinchen 11962, pp. 18-26; 2n-260.
A. VANHOYE, Notre /oi, oeuvre divine, d'après le quatrième Evangile, in
NRT, 96 ( 1964) 337-354.
A. WEISER, Glaube und Geschichte im Alten Testament, in BWANT F.
H., 4 (1931) 2·IOO.
A. WEISER - R. BuLTMANN, art. mo"tEUW, in TWNT, 6, t74-230 (con bi-
bliografia).

4. STORlA DEI DOGMl

J. ALFARO, Supernaturalitas {idei iuxta S. Thomam, in Gr, 44 ( 1963) 501-


542; 731-787.
J. ARTZ, Der Ansatz der Newmanschen Glaubensbegriindung, in Newman-
Studien, IV, Niirnberg 1960, 249-268.
R. AuBERT: vedi supra, MONOGRAFIE.
H. BourLLARD....._B/ondel und das Christentum, Mainz 1963; L'intention
fondamenttile de M. Blondel et la théologie, in RSR, 36 (1949) 321-
402; ed. ted. in Symposion, m, Freiburg 1952, pp. 403-469.
E. BouLARAND, I.A venue de l'homme à la fai d'après St. ]ean Chrysosto-
me, Roma 1939.
B. DuRoux, I.A psychologie de la foi chez St. Thomas d'Aquin, Tournai
1963.
G. ENGELHARDT, Die Entwicklung der dogmatischen Glaubenspsychologie
in der mittelalterl. Scholastik, Miinster 1933.
K. EsCHWEILER, Die zwei Wege der neueren Theologie, Augsburg 1926.
J. H11SENFUSS, H. Schells Synthese von scholastischem und modernem
Denken und Glauben im Sin11e ei11es christlichen PersonaliHnus, in J.
RATZINGER - H. FRIES (a cura), Einsicht und Glaube, Freiburg 1962,
pp. 377-398.
A. LANG, Die Entfaltung des apologetischen Problem in der Scholastik des
Mittelalters, Freiburg 1962.
M. L6HRER, Der Glaubensbegriff des hl .. Augustinus in seinen ersten
Schriften bis zu den Confessiones, Einsiedeln 1955.
BIDLI OGRAF!A

E. MoRI, Il motivo della fede da Gaetano a Suarez, Roma 1953.


J.H. NEWMAN, Zur Philosophie und Theologie des Glaubens, Mainz 1940;
=
Entwurf einer Zustimmungslehre, Mainz 1961 ( Gramniar of Assent).
J. PRITZ, Glauben und Wissen bei Anton Gunther, Wien 1963.
K. PRUMM, Glaubenserkenntnis im .2. Buch der Stroma/a des Klemens von
Atexandrien, in Scholastik, 12 (1937) 17-57.
J. Russ1ER, La foi selon Pascal, Paris 219'3·
M. SECKLER, Instinkt und Glaubenswille nach Thomas von Aquin, Mainz
1961.
A. STOLZ, Glaubensgnade und Glaubenslicht nach Thomas von Aquin, Rom
1933.
P. WACKER, Glaube und Wissen bei Hermann ScheU, Paderborn 196r.
J.-H. WALGRAWE, Newman et le développemenl du dogme, Toulouse 1957.
F.M. W1LLAM, Aristotelische Erkenntnislehre bei Whately und Newman,
Freiburg 1960.

5. QUESTIONI PARTICOLARI SISTEMATICHE


(non citate sub '4. Storia dei dogmi')

a. Soprannaturalità
F. MALMBERG, Glaubenslicht, in LTK1, 4 ( 1960) 942 s.
P. RoussELOT, Les yeux de la foi, in RSR, l (1910) 241-259; 444-475.
O. SEMMELROTH, Die gottmenschliche Wirklichkeit des Glaubens, in TTZ,
69 (1960) 338-354; Von der Gnade des Glaubens, in GuL, 36 ( 1963)
179-191.

b. Personalismo (e libertà nella fede)


A. BRUNNER, Glaube und Erkenntnis, Mi.inchen 1951.
C. CIRNE ·LIMA, Der personale Glaube, lnnsbruck 1959.
J. LEBACQZ, Certitude et volonté, Bruges 1962.
J. MouRoux, Je crois en Toi, Paris 1948 (tr. it. Brescia); L'expériencc
chrétienne, Paris 1952 (tr. it. Brescia).
O. SEMMELROTH, Der Verlust des Personalen in der Theologie und d1e
Bedeutung seiner Widergewinnung, tr. in BCR, 5, pp. 255-283.

c. Comunità e storicità
A. BRUNNER, Glaube und Gemeinschaft, in StdZ, 163 (1959) 439-451;
Glaube und Geschichte, in StdZ, 84 (1958-59) 100-u5; inoltre: Vom
christlichen Leben. Gesammelte Aufsiit:r.e, Wiirzburg 1 962, pp. 5 3-7 I;
in tale volume si trovano 8 proposizioni sulla fede, pp. 11-124.
BIBLIOGRAFIA

G. MusCHALEK - A. GAMPER, Offenbarung in Geschichte, in ZKT, 86


(1964) 180-196: Obersicht uber moderne Glaubenstheologie.
]. TERNUS, Vom Gemeinschaftsglauben der Kirche, in Scholastik. 10
( 1935) 1-30.

d. Fede e sacramento
.L. BuuYER, Wort, Kirche, Sakrament in evg. und kath. Sicht, Mainz 1961.
J. DuPLACY, Le salut par la /oi e/ le hapteme d'après lt' Nouveau Testa-
111e111 in Lumière et Vie, 27 ( 1956) 3-52.
P. FRANSEN, Faith and the Sacraments, London 1958.
J. HAMER, Le bapleme e/ la foi, in Irénikon, 23 ( 1950) 387-406.
L. VILLETTE, Foi et sacremenl, Paris 1959.

e. Fede e conosccnz.a. Problemi dell'apologetica ed analisi della fede


J. BEUMER, Auf dem Wege zum Glauben, Frankfurt 1956.
W. BuLST, Vernunftiger Glaube, Berlin 1957.
G. DE BROGLIE, Possibilité et impossibilité de la fai naturelle, in RSR, 5 2
( 1964) 5-41.
H. FRIES, Glauben und Wissen, Berlin 1960.
W. KERN F.J. ScHIERSE ·B. STACHEL (a cura), Warum glaz1hen?, Wi.irz-
burg 1961.
F. MALMBERG, Analysis /idei, in LTK 2, r (19:n) 477-483.
F. SCHLAGENHAUFEN, Die Glaubensgewissheit und ihre Begrundunf!. in der
Neuscholastik, in ZKT, 56 (1932} 313-374; 539-595.
E. SEITERICH, Die Glaubwurdigkeitserkenntnis, Heidelberg 1948.
]. TRiiTSCH, Immanenzapologetik, in LTK 2, 5 (1961)631 ss.

f. Fede e giustifica7.ione
H. KONG, Recht/ertigung, Einsiedeln 1957 (è in corso di stampa la tra-
duzione italiana presso l'editrice Queriniana, Brescia}.
M. SECKLER, Das Heil der Nichtevangelisierten, in TQ, 140 (1960) 38-69.
E. STAKEMEIER, Glaube und Rechtfertigung, Freiburg 1937·

6. INTELLIGENZA PROTESTANTE DELLA FEDE

R. BuLTMANN, Glauben und Verstehen, voll. 1-111, Tiibingen 1958-1960.


G. EBELING, Das Wesen des christlichen Glaubens, Tiibingen 1959.
G. HASENHUTTL, Der Glaubensvollzug. Eine Begegnung mit R. Bultmann
aus kath. Glaubensverstandnis, Essen 1963.
H.J. lWAND, Nachgelassene Werke (a cura di H. GoLLWlTZER e. a.), 1,
Glauben und Wissen, Miinchen 196I.
BIBLIOGRAFIA
5IO

H. OTT, Glaube und Bekennen, Cofl. «Begegnung» 2, Base! 1963 (con bi-
bliografia).
P.J. TILL!Cf!, Wissen u11d Wandcl des Gla11bens, Frankfurt 1961.
P. VALLOTTON, Le Christ el la fai, Genève x960.

7. 'FEDE FILOSOFICA'

K. }ASPERS, Philosophischer Glaube, Ziirich 1948; Der philosophi.1chr


Glaube angesichts der Offenbarung, Munchen 1962.
B. WF.LTE, Der philo.rnphische Cltiuhe liei K. Jasper.f, in Symposirm, r1,
Preiburg 1949, pp. t-190.

8. CONCETTO EBRAICO DI FEDE

M. BuBER, Der Glaube der Propheten, Zurich 1950; Zwei G/aubenswei-


sen, Ziirich 1950.

9. LA SITUAZIONE ODIERNA, PEDAGOGIA DELLA FEDE

H. BARS, Croire ou l'Amen du salut, Paris 1956.


E. BISER, Glaube im Zeitalter der Technik, in Wort und Wahrheit, 19
( 1964) 89-102.
A. BRIEN, Le cheminement de la foi, Paris 1964.
G. GARRONE, Lezioni sulla fede, Brescia 1965.
J. Gu1TTON, Dilficultés de ero ire, Paris r 948.
J. LECLERCQ, Le problème de la foi dans les milieux inteliecl11els d11 XX'
siècle, Tournai 21950.
J.M. REUss (a cura), Glauben beute, Mainz 1962.
F.M. SCHAFER, Es ist Licht genug. Gesprach uber den Glauhen und seine
vergessene Tiefe, Innsbruck 1959·
H. STENGER, Der Glaube in der Entscheidung. Versuch einer Antwort auf
die Glaubenskrise der heutigen Jugend, Freiburg 1961.
]. THOMAS, Lebensstufen · Glaubensstufen. Wachstum und Krisen des
Glaubens, Graz 1963.
CAPITOLO SESTO

LA SAPIENZA DELLA TEOLOGIA


SULLA VIA DELLA SCIENZA

INTRODUZIONE

L'APORIA FONDAMENTALE DELLA TEOLOGIA


'SAPIENZA NEL MISTERO' E CONOSCENZA
MEDIANTE LA RAGIONE

Teologia significa in breve ed alla lettera 'dottrina di Dio'.

Il termine 'teologia' viene dal greco 1'co-Àoyla. attraverso il latino theolo-


gia. La traduzione latina è sermo de Deo. Acconciamente l'antico vocabolo
tedesco 'erudizione circa Dio' (erudito circa Dio = teologo) esprime nello
stesso tempo che qui non s'intende una semplice conoscenza di fede, ma
una conoscenza dotta di Dio. La storia del concetto di teologia è tracciata
brevemente nella SEZIONE SECONDA, che tratta di 'teologia, filosofia e
scienza', nonché nella SEZIONE QUARTA dedicata alle 'forme fondamentali
della teologia in quanto scienza e sapienza'. Ci si può rifare e ci rifa-
remo poi al campo dei concetti paolini in materia di 'teologia', soprat-
tutto nella SEZIONE PRIMA, 2: b) Gnosi nella pistis; e) La sapienza di
Dio in s. Paolo è 'teologia'? Per ora invece dobbiamo soprattutto evi-
tare ogni anticipazione. In Paolo e nel Nuovo Testamento non troviamo
il termine 1'coÀ.oyla. (i)coÀ6y0<;); vogliamo quindi rimanere coscienti che
il termine 'teologia', e non soltanto il termine ma anche il concetto
reale, sono introdotti in Paolo e nel Nuovo Testamento dall'esterno; il
che tuttavia non significa affatto che in questi noi non dobbiamo ricercare
ciò che corrisponde al termine ed alla sostanza della teologia. Del resto
un primo prospetto schematico sul termine e sul concetto di teologia, se
si riuniscono le principali coppie antitetiche, offre questo risultato ( facen-
do una selezione): secondo il linguaggio dei padri greci, teologia in quan·
to dottrina del Dio trino, della santa Trinità si distingue dalla dottrina
dell'economia divina (olxovoµla.) del disegno salvifico e dell'opera sal-
vifica nel Figlio di Dio incarnato; secondo la teoria scientifica d'ARISTO·
TELE e degli aristotelici scolastici, teologia in quanto dottrina delle cause
prime dell'essere - che si colloca al di sopra delle altre due scienze teo-
512 INTRODUZIONE

retiche costituite dalla fisica e dalla matematica - e teologia dei filo-


sofi (scientia divina scientifico-razionale) si distinguono dalla conoscenza
di fede di quella theologia quae in sacra Scriptura traditur; secondo il
neoplatonico PsEuoo-DroNIGI AREOPAGITA ed i pensatori che si muovono
nella sua orbita, la teologia elaborata dagli studiosi della Bibbia in quanto
~EoÀ.6yo~ e è distinta dalla doctrina christiana nei due stadi della theologia
symbolica maggiormente affermativa, che considera Dio dall'analogia del-
le cose del mondo, e della theologia mystica superiore, negativa, del Dio
misterioso. Tuttavia, come s'è detto, dobbiamo rimandare a più tardi
questi concetti, per non precluderci la visione della cosa stessa, quale si
presenta nell'apostolo Paolo nella sua 'sapienza di Dio'

La dottrina di Dio, intesa in un 'compendio di teologia storico-sal-


vifica', quale viene presentata in quest'opera, si basa su due pilastri.
Uno, il primo, è mysterium salutis; cosl l'apostolo Paolo parla
della 'sapienza di Dio nel mistero' (3Eo;_j aocpia. tv µua'tT)plc,.i, r Cor.
2,7 ), ed in questo passo sentiamo la definizione fondamentale pao-
lina di ciò che in seguito fino ad oggi viene compreso con teologia, e
che con la riserva già espressa noi designiamo come teologia nel
senso di un parlare di Dio: 'teologia' è sapienza di Dio nel mistero, sa-
pienza di Dio nel mistero salvifico, Dei sapientia in mysterio salutis.
Se qui traduciamo il termine greco mysterion con 'mistero', cogliamo
l'idea dell'apostolo: mistero significa la volontà salvifica nascosta
nelle profondità di Dio, che da sé nessun uomo conosce e può cono-
scere, ma che Dio stesso ci ha rivelato mediante il suo Spirito ( r Cor.
2,7-10 ).
Ma l'altro e secondo pilastro, è precisamente conoscenza razio-
nale; è ciò che' l'uomo mediante la sua ragione, mediante il suo
spirito, può conoscere e conosce, anch~ su Dio - o più esattamente:
sul divino, sulla divinità e gli dèi. Si tratta allora d'una sapienza di
Dio - è una pretesa -, una conoscenza di Dio nel mito e nel logos,
cioè nella poesia e nel pensiero dell'uomo, nel parlare mitico e logico
dell'uomo. E: questa la sapienza, che, come dice l'apostolo, i Greci
ricercano (1 Cor. 1,22).
Precisamente questa sapienza del mondo e questa sapienza del-
l'uomo, l'apostolo non vuole esporre e non vuole sia esposta nella
comunità cristiana; infatti, di fronte alla nuova sapienza di Dio nel
mistero, che sola è veramente sapienza perché è la sola sapienza che
INTRODUZIONE

proviene da Dio, egli ritiene quell'altra come stoltezza, come sapien-


za senza forza, cioè senza forza divina e forza salvifica, come sapienza
di vuote parole, come chiacchiere (1 Cor. 1,18 - 2,6). La conoscenza
di Dio nella sapienza del mondo non viene quindi considerata dal-
!' apostolo come un pilastro della sua 'teologia'; per lui non è tema,
ma anatema, non è un locus theologicus, un t6pos ('luogo comune'),
per usare un concetto metodologico derivante da ARISTOTELE e
dalla sua topica.
Questa posizione paolina della sapienza di Dio nel mistero chia-
ramente contraria alla sapienza umana di questo mondo, ci pone
davanti alla fondamentale problematicità d'una teologia in quanto sa-
pienza di Dio sulla via della scienza. Poiché, come dice opportuna-
mente BONAVENTURA, la teologia scientifica avviene per additionem,
mediante un'aggiunta, mediante l'aggiunta della nostra ragione scien-
tifica alla verità divina della fede infusa ed all'autorità divina della sa-
cra Scrittura (In I Sent., Proem. I, ad 5.6; Quaracchi, 1, 8). Ci trovia-
mo quindi davanti alla duplice questione: com'è ancora possibile
teologia, scienza teologica in quanto sapienza di Dio di fronte alle
pretese così diverse, originariamente non scientifiche della sapienza
di Dio nel mistero; e come è ancora possibile teologia in quanto
scienza di fronte alle pretese così diverse, propriamente scientifiche,
d'un pensiero e d'un discorso scientifici, se essi devono venire appli-
cati alla sapienza misteriosa di Dio? Teologia in quanto sapienza di
Dio nel mistero e sulla via della scienza è quindi una sintesi di due
opposti; ed una simile sintesi si può considerare seria solo se cia-
scuna delle due antitesi viene afferrata e mantenuta nel suo conte·
nuto particolare. Ma chi volesse giudicare in partenza una simile
sintesi di antitesi come gioco dialettico, dovrebbe riflettere che espel-
le dalla storia dello spirito non soltanto la teologia, ma anche la
filosofia, poiché lo sviluppo dello spirito umano e delle sue scoperte
si svolge in modo decisivo anche come storia di grandi antitesi e di
grandi sintesi.
Ora il nostro compito immediato è di spiegare in tutta la sua
importanza per il concetto di teologia, l'antitesi apostolica della sa-
pienza dello Spirito di Dio contro la sapienza e scienza dello spirito
dell'uomo.

B My>lf"rium s.lmis / 2.
SEZIONE PRIMA

LA 'SAPIENZA DI DIO NEL MISTERO' IN PAOLO


COME DOCUMENTO BIBLICO E COME
ORIGINE SPIRITUALE D'OGNI TEOLOGIA CRISTIANA

Significherebbe pensare in modo non biblico se ci ponessimo alla ri-


cerca d'un concetto di teologia nella Bibbia. La Bibbia non ne pre-
senta; poiché essa non è, né in singoli scritti né nel suo insieme, un
libro teologico, qualora per teologia si debba intendere ciò che viene
insegnato nelle facoltà teologiche e nelle università e scuole supe-
riori. Tuttavia ogni teologia che pretende d'essere teologia cristiana,
deve presentare nella Bibbia il suo documento, ed in questo docu-
mento biblico deve far riconoscere la sua origine spirituale. Una
delle due fonti della teologia cristiana, di cui abbiamo parlato nel-
hntroduzione, non è di natura scientifico-razionale, ma spirituale-
misteriosa; e questa fonte della teologia nel mistero e nello Spirito
di Dio ha il suo posto naturale nella sacra Scrittura. Alla nostra ri-
cerca d'un documento biblico e dell'origine spirituale d'una teologia
cristiana, risponde l'apostolo Paolo con la sua espressione: «sapien-
za di Dio nel mistero» (1 Cor. 2,7; in connessione con I,18 - 2,16).

I. Contenuto e forma della nuova sapienza; storicità del mistero

La locuzione 'sapienza di Dio nel mistero' esprime un rapporto, cioè


il rapporto tra sophia e mysterion. E questo rapporto fondamentale
tra sapienza e mistero implica ancora altri rapporti fondamentali,
come il rapporto (sintetico) di mysterion e di sophia con pnéuma e
con dynamis, cioè con spirito e forza salvifica, e quindi di gramma
con pnéuma, cioè della lettera della Scrittura con lo spirito e con l'in-
telligenza spirituale, ed il rapporto di mysterion e di sophia o di gno-
sis con pistis e con agape, di 'conoscenza' con la fede e con l'amore,
ed il rapporto antitetico di sophia e di mysterion con la sapienza dcl
mondo e con la ragione umana.
'SAPIENZA lll DIO NEL MISTERO' IN PAOLO

L'apostolo determina il concetto della nuova 'sapienza di Dio nel


mistero' attraverso il concetto di mistero. Gli enunciati paolini sul
mysterium o mistero sono quindi anche enunciati sulla sophia o sa-
pienza - ed aggiungiamo: sono anche enunciati sulla nostra teologia,
qualora essa, in quanto teologia cristiana ed erudizione circa Dio,
sia determinata dal mysterium. Varrà quindi la pena di afferrare dalla
fonte biblica il concetto di mistero e quindi di sapienza di Dio nel
mistero. Mettiamo in rilievo e spieghiamo brevem<:ntc quattro enun-
riati, naturalmente nei limiti della nostra tematica.

a. Il mysterium è mistero di Dio; e la sophia è quindi sapienza di


Dio nel mistero: manifestazione di Dio ed occultezza di Dio.
Mistero divino e sapienza divina, o meglio, sapienza di Dio, co-
me è stato già detto, si devono intendere in senso stretto ed esclu-
sivo. Il mistero è in Dio, da Dio e per Dio: esso è nascosto nelle
profondità di Dio ed è rivelato a noi da Dio mediante il suo Spirito
ed è destinato alla glorificazione di Dio ed alla nostra glorificazione
con Dio e con la gloria del suo Cristo - glorificazione di Dio e glo-
rificazione nostra coincidono. Del resto, usando 'sapienza di Dio'
invece che 'sapienza-divina', si mette in più chiaro rilievo che non
s'intende tanto una sapienza su Dio, quanto una sapienza che pro.
viene da Dio, nella sua opposizione (esterna) con una sapienza su
Dio che proviene dallo spirito dell'uomo.
Ma mistero strettamente in Dio e sapienza strettamente da Dio
non significano soltanto questa opposizione esterna, di cui già si è
parlato e si dovrà ancora parlare in seguito; ma significano anche e
per se stessi un'opposizione intrinseca all'interno della sapienza di
Dio nel mistero. È, per così dire, un'opposizione nella rivelazione
stessa di Dio, o meglio nell'azione di Dio in cui si esprime la sua
essenza. Sapienza di Dio nel mistero è cioè sapienza di contrasti,
ed è in un simile rapporto antitetico intrinseco che è intesa da Pao-
lo: essa cioè è rivelazione di Dio nella occultezza, sapienza rivelata
da Dio nonostante l'occultezza di Dio. Il Dio che si rivela sco-
pre, è vero, il mistero ed i misteri di Dio, manifesta e realizza il
suo mistero salvifico con gli uomini; ma Dio si rivela e si scopre a
noi senza eliminare la sua occultezza, e precisamente la sua ~ccul-
CONTi,:NUTO E FORMA DELLA NUOVA SAPIENZA

tezza al centro della sua rivelazione: il Dio che si rivela nella sua di-
vinità (Rom. r,20) è nello stesso tempo il Dio che si nasconde nella
sua divinità (ls. 45,15; I Cor. 1,20 richiama Is. 45,15). Veramente
Dio si nasconde ai credenti in modo diverso che agli increduli. Agli
increduli Dio ed il suo mistero rimangono nascosti, senza che Dio
diventi loro manifesto quale unica forza salvatrice. I credenti invece
sperimentano ciò che il profeta dice in modo paradossale o contrad-
dittorio: «Veramente tu sei un Dio nascosto, Dio d'Israele, un Sal-
vatore» (ls. 45,r5), fuori del quale non c'è Dio giusto e salvatore
(45,21); non invano la discendenza d'Israele lo deve ricercare, poi-
ché il Signore non parla in segreto, ma parla rettamente e s'e-
sprime esattamente (45,19-21). Si noti con quanta acutezza il pro-
feta elimina l'opposizione del Dio che si nasconde e nello stesso tem-
po parla e salva, per cosl dire nel duplice movimento dell'inspira-
zione ed espirazione! Per conseguenza una teologia cristiana in quanto
'sapienza di Dio nel mistero', dev'essere un parlare della rivelazione
di Dio e nello stesso tempo dell'occultezza di Dio. Infatti, come
l'occultezza di Dio senza la manifestazione di Dio è il giudizio di-
vino di condanna sugli increduli, così la manifestazione di Dio senza
l'occultezza di Dio è la sapienza apparente di uomini presuntuosi. Il
Dio non nascosto è anche il Dio non manifesto; ed il Dio veramente
manifesto è il rivelatore che si nasconde.
Infatti l'apostolo non intende 'occultezza' e 'mistero' secondo un
concetto universale, secondo cui anche i sapienti di questo .-.1onè..'.J
sanno pensare e poetare della profondità nascosta dell'essere primo
misterioso. 'Sapienza di Dio nel mistero' significa piuttosto in modo
del tutto unico e determinato: «Il Cristo Gesù, per opera di Dio,
divenne per noi sapienza» (I Cor. 1 ,30 ), cioè il Cristo risorto e cro-
cifisso, quindi il Signore manifesto nella sua risurrezione come il Si-
gnore della gloria ed il Signore nascosto nella sua croce come il Si-
gnore della gloria ( 1 Cor. 2,7 ). E per noi quaggiù la gloria del Signo-
re rimane sempre anche gloria nascosta del Signore; nascosta preci-
samente nella sua Chiesa, e proprio quando la Chiesa appare vera-
mente come Chiesa del Cristo ed il Cristo appare realmente come il
Signore della Chiesa, allora nella Chiesa sta la gloria del Signore, ma
non altrimenti se non attraverso il cammino della croce nella Chiesa
della croce. Infatti, la forza e gloria di Dio e del suo Cristo e del
'SAPIENZA I)! DIO NEL MlSl'ERO' IN PAOLO

suo Spirito si mostra appieno nella debolezza (2 Cor. 12,9), nella


debolezza quale - sotto l'aspetto terreno - risalta sulla croce e nella
croce e nella passione.
L'occultezza di Dio - nel senso profetico-apostolico - è un punto
di teologia biblica che alla teologia cattolica non è mai stato
molto familiare, quantunque nell'epoca moderna esistano cosi gran-
di annunciatori della occultezza di Dio, come un PASCAL ed un
NEWMAN, e, nel passaggio all'epoca moderna, un NICOLA CusANO,
col suo Dialogus de Deo abscondito. Con ciò non vogliamo dire che
pensatori cattolici non abbiano saputo entrare nell'intima essenza mi-
steriosa del Dio trino, come ha fatto specialmente MATTHIAS Jo-
SEPH SCHEEBEN nella sua opera giovanile, Die Mysterien des Chri-
stentums, (Freiburg zx95r, a cura di JosEF HOFER). Ma ponendo il
problema in tal modo, tocchiamo quel confine in cui si muovono sem-
pre gli enunciati cattolici sul Dio nascosto. Nella"'teologia cattolica, a
differenza da quella protestante, lo sguardo in prevalenza è rivolto in
direzione ontologica verso l'essere di Dio. Tuttavia Paolo ed Isaia
nell'occultezza di Dio non guardano, o non in primo luogo, ai miste-
ri de!l' 'essenza' divina, bensl all'occultezza delle 'vie' di Dio, dell'a-
zione divina nella storia salvifica, ed in genere nella storia del mon-
do, come J.H. NEWMAN parlando della 'sua' (del Creatore) assenza
dal 'suo proprio mondo', scriveva: «È un silenzio che parla; è come
se altri avessero preso possesso della sua opera». :E tempo di fare un
posto conveniente anche nella teologia cattolica e nel concetto cat-
tolico di teologia, ,.all'occultezza storico-salvifica di Dio, senza che per
questo si riduca l'approfondimento ontologico dell'intima essenza di-
vina. Una buona teologia ·cristiana - lo .enunciamo fin d'ora in que-
sto contesto come un punto metodologico scientifico fondamentale -
si muove nel dualismo e nell'opposizione di enunciati storico-salvi-
fici ed ontologici, in breve, di enunciati storici e di enunciati sull'es-
senza (rnme la fisica moderna non può fare a meno di onde e di
atomi, ed in genere del dualismo dei modelli). Anche cos} conside-
rata, la teologia. si fa per additionem; agli enunciati storico-salvifici
della Bibbia essa aggiunge gli enunciati ontologico-essenziali della
filosofia. Ed è sempre necessario ricordare ciò che qui, in un giudizio
teologico, è e rimane l'elemento originario, e ciò che è aggiunta po-
steriore. Come secondo la dottrina di Paolo sulla Legge, «la Legge
CONTENUTO E FORMA DELLA NUOVA SAPIENZA
519

è sopravvenuta» (Rom. 5,20), così anche la teologia - che in que-


sto fa parte della Legge - sopravviene, sia pure necessariamente, per
necessità storica ed oggettiva - e su questa necessità si dovrà ancora
ritornare. Diciamo fin d'ora molto in breve: l'aggiunta avviene dal-
l'esterno come aggiunta di filosofia e di scienza; ma l'aggiunta avvie-
~e anche al tempo stesso ed in modo determinante dall'interno, per
le corrispondenze intrinseche dei due modi di conoscere, la cono-
scenza della salvezza e la conoscenza del mondo - una corrispon-
denza simile ed elementare è la forma di pensiero e di linguaggio
dell'enunciato {vedere in proposito, SEZIONE TERZA, I).

Tornando all'occultezza di Dio, yorremmo dare un saggio di genuina


teologia ecumenica in quanto, di fronte alla dottrina di M. LUTERO sul
Dio nascosto, si mette ora in rilievo anche il discorso sul Dio nascosto
quale si trova in forma indipendente in pensatori cattolici, e che è stato
elaborato, pure da essi, nella prospettiva storico-salvifica. In primo luogo,
a mio giudizio, son da portare per cosl dire nel dialogo ecumenico BONA-
VENTURA, quindi un teologo di molto anteriore a M. LUTERO, e M. Lt:TE-
RO stesso: BONAVENTURA con !'a sua teologia francescana della croce (nel-
l'ltinerarium, e più ancora nell'Hexaemeron), che può mantenere un po-
sto di primo piano accanto alla teologia della croce di M. LUTERO (nelle
lezioni sui Salmi del r5r3/15, e nella disputa di Heidelberg del 1518). Bo-
NAVENTURA nel1' I tinerarium mentis in Deum, dice all'inizio ( prolog., n. 3 e
4): «Ad Deum nemo intrat recte nisi per Crucifixum». E nella Collatio I
ad Hexaemeron, ai n. 28 e 30, in una logica simbolica in ordine al Cri-
sto, egli così caratterizza la forma fondamentale teologica del sillogismo:
«Maior propositio (aeterna genera/io Verbi) fuit ab aeterno; sed asmm-
ptio [corrispondente qui alla µE'iaÀ.111jJ~ç anzitutto nel suo significato ari-
stotelico-logico di ricorso al concetto intermedio ed alla proposizione in-
termedia o minore che partecipa del concetto del soggetto e dcl predicato
della conclusione, e quindi ha funzione mediatrice - propo.dtio minor è
per i fratres minores la croce!] in cruce; conclusio vero in resurrectione .
... Haec est logica nostra, haec est ratiocinatio nostra, quae habenda est
contra diabolum, qui continuo contra nos disputai. Sed in assumptionc
minoris est tota vis facienda, quia nofomus patì, nolumus cruci/i.gi. Tamen
ad hoc est Iota ratiocinalio nostra, ut simus similes Deo». Colui che scris-
se queste cose, aveva compreso la paolina 'sapienza di Dio nel mistero'
in quel carattere decisivo di teologia della croce: e quindi anche l'occul-
tezza di Dio e del suo Cristo in croce e nella passione quasi come l'altro
lato della rivelazione della gloria di Dio e del suo Cristo. Incomr~ndo tale
testo, senza sapere in chi ricorre, si è tentati d'atrribuirlo a M. LUTERO
.PO 'SAPIENZA DI DIO NEL MISTERO' IN PAOLO

giovane. Ma questo allora può anche essere uno dei motivi per cui un si-
mile modo di pensare e di parlare, che rammenta il linguaggio di M. Lu-
TERO, rimase ignorato da una teologia cattolica, che nei confronti del pr0-
prio grande passato cattolico originario, riducendosi sempre di più, assu-
meva un atteggiamento antiprotestante. Questo testo di genuina teologia
ecumenica dev'essere considerato ed interpretato nello stesso tempo come
un testo di genuina teologia dialettica: poiché v'è occultezza e manife-
stazione di Dio, sitenzio ed eloquio di Dio, messi in contrapposizione
nello stesso momento.
b. Il mysterium è mistero salvifico; e la sophia è quindi conoscenza
della salvezza, e precisamente nella prova di spirito e di forza.
Sappiamo già che Dio ha predestinato la sua sapienza nascosta nel
mistero alla nostra glorificazione, cioè alla nostra salvezza. Mistero
salvifico e conoscenza salvifica a loro volta son da intendere nel par-
ticolare senso paolino, e precisamente sotto un duplice aspetto.
Anzitutto si deve nuovamente notare che contenuto od oggetto del
mistero di Dio e della sapienza di Dio, almeno non sotto un aspetto
primo e proprio, non è l'essere di Dio, ma la volontà salvifiea di
Dio, l'organizzazione temporale del disegno salvifico eterno nella
storia della salvezza. Nei suoi enunciati su mysterion e sophia noi
non dobbiamo intendere l'apostolo in senso greco, filosofico, ontolo-
gico; ciò significherebbe non interpretare, ma fraintendere questi
concetti.
Poi è da notare: come il mistero salvifico divino non è familiare
nel campo teoretico, così neppure lo è la conoscenza salvifica divina;
questa si distingue da una conoscenza salvifica umana proprio in
quanto è potenza salvifica divina, annunzio salvifico e insiéme forza
salvifica. La salvezza non è quindi un semplice oggetto di questa
conoscenza, come abbiamo già detto precedentemente di passaggio,
ma è una realtà e una forza inerente a questa conoscenza. Se i Giu-
dei reclamano dal loro Dio i segni della sua potenza, e se i Greèi
vanno in cerca di sapienza e si compiacciono di discorsi sapienti ed
alti, l'apostolo annunzia ai Corinti le due cose assieme, sapienza di
Dio e forza di Dio in una forma, nell'unica forma e realtà di Gesù
Cristo, nell'unica parola efficace della croce del Cristo, che mediante
la fede diviene per noi l'unica forza salvifica (r Cor. 1,17 2,5). Per
l'apostolo (come in seguito per AGOSTINO ad imitazione di Paolo)
nella nuova sophia tutto l'accento poggia sulla sua dy11amis, ~u quel·
c;uNnNUIU ~ fUllMA DELLA NUOVI\ SAPIENZA ,2r

la dynamis pneumatica o forza spirituale, che diviene efficace sol-


tanto in base alla croce e soltanto mediante la fede; naturalmente
mediante quella fede, che non solo crede nel Cristo come oggetto dico-
noscenza divina, ma si lascia afferrare dal Cristo, dalla realtà del
Cristo, di modo che il Cristo mediante la fede abita nei nostri cuori,
come Eph. 3,17 dice, un testo che dev'essere interpretato, per così
dire, in modo realistico. Quando il mistero salvifico di Dio, e cioè
Gesù Cristo crocifisso, viene annunziato ( 1Cor. 1 ,2 3; 2 ,2 ), un tale
parlare e predicare avviene nella prova di spirito e di forza, di pnéu-
ma e di djnamis, di Spirito di Dio e di forza di Dio (1 Cor 2,1-5).

Dci ieologi scolastici hanno posto e pongono la questione se la teologia


sia una conoscenza principalmente teoretica oppure principalmente prati-
ca, e vi danno risposte diverse. Tale questione scolastica fu posta e viene
posta in base al concetto aristotelico di scienza; ARISTOTELE distingue
infatti un triplice modo di sapere: in primo luogo il sapere teoretico, puro
sapere unicamente per amore del sapere e della prova (É1t1.CT't'l}µ.T), scien-
tìa in senso stretto); in secondo luogo il sapere pratico, che rende pru-
denti e giudiziosi per l'azione etica e politica ( <ppOVTJCT14, prudentia); in ter-
zo luogo il sapere artigianale od artistico ( 't'ÉXVTJ, ars ), che si dimostra
creativo nelle arti od abilità (artes ), come medicina, architettura, agricol-
tura, strategia, scultura, pittura e poesia (poesia da 1tOU:~v, creare o pro-
durre nell'unità di elemento artigianale ed 'artistico'!). È chiaro che que-
sta triade aristotelica del sapere e la questione scolastica, posta in base
ad essa, sulla natura teorica o pratica del sapere teologico, non devono
essere trasposte semplicemente nella conoscenza salvifica secondo il con-
cetto biblico, quale abbiamo cercato e cerchiamo di mettere qui in evi-
denza nella sua natura propria specialmente in Paolo. La conoscenza cri-
stiana della salvezza non è né principalmente teoria, né principalmente
prassi (etica), né principalmente abilità (ad esempio come ars della cura
animarum); essa è essenzialmente qualcosa di più e di diverso da tutto
questo, e con quei concetti scolastici non può essere afferrata nella sua
intima essenza. C.Ome già è stato detto, la conoscenza cristiana della sal-
vezza non è soprattutto un sapere semplicemente oggettivo, che conosce
le sue verità e realtà soltanto come oggetti nei confronti del conoscere;
non è semplice coscienza d'una realtà, ma è presenza reale della realtà
del Cristo per mezzo dello Spirito ·del Cristo che attraverso la fede abita
nei nostri cuori (Eph. 3,17 ).

Ma, nominando il Cristo, abbiamo messo m evidenza una rerza ca·


522 'SAPIENZA DI DIO NEL MISTERO' IN PAOLO

ratteristica del mystérion paolino: la concretizzazione storica del 'mi-


stero salvifico'

c. Il mysterium è mistero del Cristo, e la sophia è il Cristo in


quanto nostra sapienza e forza salvifica da Dio.
Questa caratterizzazione del mysterium come «mistero del Cristo»
(Eph. 3,4; Col. r,27; 2,2; 4,3) e della sophia come «sapienza del Cri-
sto» (r Cor. l,24; i,30; Col. 2,3) costituisce il centro portante della
sapienza di Dio nel mistero. Mistero e sapienz~, lo diciamo ancora
una volta, secondo l'apostolo non significano una semplice dottrina
astratta, ma sono divenuti forma concreta e sono apparsi in forma
personale, sono entrati nella storicità, cioè si sono verificati come
storia salvifica di Dio in Gesù Cristo, che era in forma di Dio ed ha
assunto forma di servo e d'uomo, eh~ si è umiliato ed è divenuto
obbediente sino alla morte, anzi sino alla morte di croce, e perciò da
Dio è stato esaltato a Signore (Phil. 2,6-11 ). «Per scelta di Dio voi
siete nel Cristo Gesù, colui che, per opera di Dio, divenne per noi
sapienza e insieme giustizia e santificazione e redenzione» ( 1 Cor.
r,30). 'Dottrina cristiana' è sul giusto piano solo se il Cristo stesso
mediante il suo Spirito è presente ed è all'opera in forma propria.
Il mistero tra i pagani nella sua ricchezza di gloria e di sapienza è,
come si esprime Paolo direttamente in una formula, «il Cristo in voi,
la speranza della gloria» (Col. l,27).
In base al Nuovo Testamento non esiste (almeno esplicitamente)
la questione dell'essenza del cristianesimo; ma in base al Nuoyo Te-
stamento e specialmente in base a Paolo c'è la giusta risposta a quel-
la questione molto posteriore (che inoltre si presentò alla cristianità
piuttosto dall'esterno): l'essenza del cristianesimo è la presenza e la
venuta del Cristo stesso, certamente anche la presenza della sua dot-
trina e della retta dottrina su di lui, ma in primo ed ultimo luogo
la sua presenza mediante lo Spirito del Signore nella sua Chiesa, suo
corpo.
Per conseguenza la sapienza di Dio nel mistero annunziato <la
Paolo, in quanto sapienza <lei Cristo nel mistero del Cristo, non è
una filosofia (nel suo senso corrente), non è una dottrina sul mondo,
né un'ideologia; ma non è ncpp~re una teologia (soprannaturale) nel
senso già <la lungo tempo tradizionale. :È piuttosto qualche cosa. che
COr<fEl\UT<l E FORMA DELLA NUOVA SAPIENZA
523

è più grande di tutta la nostra teologia e sta prima e al di sopra di


ogni teologia; in termini scientifici fonda.mentali è il campo supe-
riore metalogico, ed appunto per questo è nello stesso tempo il cam-
po fondamentale protologico d'ogni scienza teologica che pretende il
nome di cristiana.

La metaregione non è soltanto un campo superiore, ma anche un campo


anteriore; è il campo fondamentale che tutto comprende e supera tutto.
Quindi il campo metadogmatico, lo stesso kerygma biblico, ed il campo
metacanonistico, la stessa giustizia della salvezza e della grazia, sono, nel-
lo stesso tempo, superiori, e anteriori ad ogni dogma della Chiesa e ad
ogni realtà del diritto canonico. Il campo fondamentale, che tutto fonda,
fonda dall'alto verso a basso e nello stesso tempo dal basso verso l'alto,
quindi in questa duplice direzione del movimento. La fondazione dal-
l'alto verso il basso non ha effetto se nel movimento e nella confonda-
zione dal basso verso l'alto non inverte la direzione per costruire. Que-
sto modo di pensare o dall'alto verso il basso od anche dal basso verso
l'alto, nel campo ecclesiale è di capitale importanza, lo citiamo almeno in
un punto, che è stato e sta al centro nelle discussioni dell'ultimo con-
cilio: il Vaticano r ebbe come conseguenz.a che non pochi teologi, per
quel che riguarda l'edificazione della Chiesa e l'ordine dei suoi uffici,
considerarono esclusivamente una delle direzioni del movimento, la fon-
dazione dall'alto verso il basso, di modo che teologi protestanti ed
anche ortodossi sentirono quell'ecclesiologia come una piramide ecclesiale
posta sul capo (del papa); ora cerchiamo con fatica e lentamente di
considerare la cosa diversamente e, tornando al passato, di pensare
non solo dal papa ai vescovi, ma anche dai vescovi al papa, in ge-
nere non solo dall'alto verso il basso, ma anche nello stesso tem-
po dai fedeli ai sacerdoti ed ai vescovi ed al papa, perché il popolo
di Dio si fonda e si ~difìca dall'alto verso il basso ma anche dal bas-
so verso l'alto. L'unità dell'episcopato si fonda sull'unità in base al pri-
mato, ma il primato del papa si fonda nello stesso tempo sull'unità del-
l'episcopato, perché i due uffici e le due unità provengono direttamente
da Gesù Cristo e stanno su questo fondamento d'ogni fondazione. In que-
sta materia soprattutto la dogmatica ed il diritto canonico hanno un com-
pito altrettanto bello che difficile, cioè nel senso di un'equilibrata valoriz-
zazione delle due direzioni del movimento, anche e proprio per un dia-
logo ecumenico con la teologia della Chiesa orientale. Al modo esclusivo
di pensare dall'alto verso il basso corrisponde un modo di pensare altret-
tanto esclusivo dall'esterno all'interno, dal visibile all'invisibile, men-
tre ambedue le direzioni del movimento devono eq11ilibrnrsi, cioè la
fondazione dall'esterno deve tornare verso l'interno e dall'interno verso
'SAPIJ::NU DI DIO NEL MISTERO' IN PAOLU

l'esterno, dalle strutture ed istituzioni visibili al mistero invisibile: ma


certamente, e non meno, anche viceversa.

d. Il mysterium è mistero della Scrittura, e la sophia è intelligenza


pneumatica della Scrittura, in cui il Signore mediante il suo Spirito
si svela come il senso segreto--della Scrittura.
Se il mysterium, secondo la caratteristica precedente, è mistero
del Cristo, è anche mistero della Scrittura. Infatti il Cristo è anche
il Signore, lo 'spirito' della Scrittura: la Scrittura va verso il Cristo
al pari di tutta l'Antica Alleanza con le sue promesse e con la sua
Legge, e quindi la Scrittura dev'essere letta riferita al Cristo. Sotto
la lettera della Scrittura e della Legge è nascosto il Cristo. «Fino ad
oggi quel medesimo velo (come sul volto di Mosè) durante la let-
tura dell'Antico Testamento permane non rimosso, perché solo nel
Cristo si scioglie. Anzi, fino ad oggi, ogni volta che si legge Mosè,
un velo si stende sul loro cuore, ma, quando Israele si volgerà al
Signore, il velo verrà tolto via. Ora, il Signore è lo Spirito, e dove
sta lo Spirito là sta la libertà» (dalla lettera e dalla legge) ( 2 C or. 3,
I 4-r 7 ). Versetti di libertà originaria e insuperabile dello spirito; co-
me questo spirito di libertà riempie tutto il terzo capitolo! Questi
versetti sono il documento apostolico dell'esegesi pneumatica, alle-
gorica. Esempi paolini si trovano in r Cor. 1 o, I ·I 1 (nube e mare
interpretati in ordine al battesimo, manna e roccia dell'acqua in or-
dine al Cristo quale cibo spirituale, bevanda spirituale e roccia spiri-
tuale); in Gal. 4,22-3 r (le due mogli d'Abramo interpretate in ordine
ai due Testamenti); e più importanti, e per noi anche più difficili, Gal.
3,6-18 e Rom. 4,1:25 (fede e seme d'Abramo interpretati in ordine
alla giustizia della fede ed alla promessa del Cristo). Questi sono sin-
goli passi della Scrittura e singole persone e storie bibliche; ma que-
ste allegoresi riguardano nei particolari l'insieme dell'Antico Testa·
mento, lo 'spirito' dell'insieme è orientato 'in modo tipico' verso
il Cristo.
Qui non si possono esaminare ora tutte le grandi e profonde que-
stioni dell'esegesi allegorica e pneumatica; fissiamo tuttavia due pun-
ti essenziali, sia pure in breve. Anzitutto: l'allegoria paolina non
significa negazione della storicità delle persone e delle storie che
vengono intese nel loro senso misterioso; una persona come il pu-
CONTENUTO E i'ORMA DELLA NUOVA SAPIENZA

triarca Abramo e la storia d'Abramo, come anche in particolare la


generazione del figlio Isacco, in tarda età, sono considerate dall'apo-
stolo come fatti storici. Cioè: l'allegoresi come tale non sta al servi-
zio d'una demitizzazione; la storia d'Abramo per l'apostolo non è
un mito, che sia da scoprire come tale e quindi nella sua non stori-
cità (non realtà). E cosa significa questo per un'esegesi storica o me-
glio storico-critica? Per quanto un'allegoresi sia ardita e per noi
moderni strana, come le citate tipologie paoline, la nostra difficolcà
esegetica non viene tanto da un'allegoresi, quanto piuttosto dalla si-
curezza del suo fondo storico, come nel caso dell'interpretazione
e.l'Abramo, che ci pone la questione del suo accordo con la storia
d'Abramo. Un sensus allegoricus, ed anche il sensus plenior oggi
particolarmente in voga, stanno e cadono con il sensus historicus
quale condizione necessaria, quantunque non sufficiente, d'un signi-
ficato pieno.
La seconda questione in materia d'allegoresi parte da un fatto na-
turale: in Paolo la sua allegoresi si riferisce alla Scrittura ed alla
storia dell'Antico Testamento e ad esse sole, e non anche alla Scrit-
tura ed alla storia del Nuovo Testamento, all'avvenimento del Cristo
ed al Vangelo. Ciò è naturale, perché l'apostolo non aveva ancora
a disposizione scritti neotestamentari. E l'apostolo considera l'avveni-
mento del Cristo come la mèta finale d'ogni allegoresi nel complesso
e nei particolari, e questo avvenimento del Cristo ed avvenimento fi_
nale in quanto senso spirituale di tutta la Scrittura e di tutta la storia,
non possono e non debbono ricevere a loro volta una nuova interpre-
tazione, almeno per quanto costituisce il centro dell'annunzio neo-
testamentario. Questa regola d'interpretazione valeva e vale per ogni
allegoresi e tipologia, così hanno ritenuto alessandrini come 0RIGE-
NE nella loro esegesi pneumatica ed uno scolastico come BONAVEN-
TURA nella sua teologia simbolica. E quella regola d'interpretazione
dovrebbe anche valere nella cosiddetta interpretazione esistenziale -
poiché essa è una variante moderna dell'allegoresi, in quanto ciò che
nella Scrittura e nella predicazione è enunciato in .modo mitologico,
nell'immagine mitica del mondo e della storia, si dovrebbe interpre-
tare secondo il suo senso proprio, esistenziale, per una nuova auto-
concezione esistenziale dell'uomo con coscienza non mitologica del
mondo e del tempo. «Dio in Gesù Cristo, il Signore crocifisso ed
p6 'S,\PJENZA DT DIO NEL MISTERO' IN PAOLO

esaltato» è la realtà stessa che costituisce la chiave ermeneutica


anche per l'interpretazione antropologica ed escatologica, per la con-
cezione dell'uomo come uomo nuovo sulla via d'un nuovo futmo in
base a Dio ed al suo Cristo. La realtà stessa non è quindi l'autocon-
cezione dell'uomo, di cui oggi si parla tanto, anche se i risultati
sono buon! e 'cristiani', bcnsl è la rnnosi.:cnza di Dio e dcl suo
Cristo: e soltanto e sempre soltanto in base a questa conoscenza, è
l'autoconcezione dell'uomo, che in primo luogo e sempre in prim(1
luogo ricerca come e se l'uomo è stato cd è conosciuto da Dio ( 1 Col'
13,r2). «Questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio,
e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Io. 17,3). Il centro del keryg-
ma è di natura teologica, non antropologica, anche e proprio nel co-
siddetto vangelo pneumarico. Di fatto il vangelo di Giovanni è il
grande documento biblico di un'esegesi pneumatica; poiché è inter-
pretazione pneumatica dell'avvenimento dcl Cristo, e precisamente
pneumatica nel senso dell'ardita proposizione paolina, con la quale
abbiamo incominciato le nostre riflessioni sul mysterium come mi-
stero della Scrittura: «Ii Signore è lo Spirito, e dove è lo Spirito là
c'è libertà» (2 Cor. 3,17). Il Kfrios è lo pnémna; ma dov'è lo pnéu-
ma del Kjrios, ivi è libertà, anche libertà per un vangelo -pneuma-
tico in quanto vangelo spirituale dello Spirito che rivela e del Verbo
inrnrnato. Dove sono il Signore e lo Spirito vivificante, ivi è libertà
dalla lettera e dalla legge che uccidono: ivi Mosè ed i profeti vengo.
no letti come promessa in ordine al Cristo; ma ivi anche la grazia e
la verità che ci son venute da Gesù Cristo non sono nuovamente in-
tese come legge e lettera - anche se il vangelo non è senza la lettera
della Scrittura e senza la legge, tuttavia lo 'spirito' ed il centro del
vangelo non sono legge e lettera

Il centro del kerygma è di natura teologica. Questo teocentrismç della


teologia è stato da noi affermato contro un antropocentrismo della teo-
logia. Ma il teocentrismo della teologia viene da noi affermato anche
contro un cristocentrismo della teologia, o meglio, contro un cristocentri·
smo che venga contrapposto al teocentrismo della teologia, di modo che
Dio quale centro e Cristo quale centro del kcrygma e della teologia siano
concepiti senza differenziazione del rispettivo 'centro'. Deliberatamente
abbiamo ridotto la chiave ermeneutica del kerygma alla breve formula:
'Dio in Gesù Cristo', e non semplicemente, come per Io pitr Avviene
CONTENUTO E FORMA DELLA NUOVA SAPIENZA 527

'Gesrì il Cristo' Infatti il soggetto della teologia cnsuana è e deve


rimanere Dio, e precisamente come soggetto nel concetto logico, cioè
come soggetto del quale sono enunciati i predicati, sono fatte le predica-
zioni o gli enunciati. Ma 'Gesù il Cristo' in ciò che -è, vive dice ed opera,
è la grande e definitiva predicazione od enunciato, che Dio stesso ha fatto
di sé. Considerato in base ad una teoria teologica del giudizio, il Cristo
e tutta la cristologia stanno dalla parte del predicato e dei predicati, men-
tre Dio in primo ed in ultimo luogo sta dalla parte del soggetto degli
enunciati. Infatti il mediatore Cristo è il 'centro', il medium anche in
quel concetto logico che, quale concetto intermedio e proposizione inter-
media in ogni conclusione e dimostrazone teologica, esercita l'ufficio del
mediatore, della comunicazione attiva e passiva. Ora certamente anche il
Cristo diviene il soggetto di enunciati, degli autoenunciati di Gesù e degli
enunciati apostolici, ecclesiastici, teologici su Gesù il Cristo. Ma il Cristo,
in quanto soggetto degli eunciati, lo è nella funzione assolutamente me-
diatrice o addirittura di concetto intermedio da Dio e verso Dio, come
anche nel sillogismo il concetto intermedio appare come soggetto in una
delle due premesse (se B in quanto predicato può essere enunciato d'ogni
A e C d'ogni B, allora C è anche necessariamente enunciato d'ogni A).
conseguentemente il senso originario della conclusione e dimostrazione
teologica appare così: Dio è il soggetto portante della premessa maggiore
e della conclusione, Cristo è il predicato della premessa maggiore ed il
soggetto della premessa minore e della proposizione intermedia, e la con-
seguenza è la conclusione o deduzione da Dio per mezzo di Cristo ed in
Cristo per l'uomo e per la sua salvezza; la maggiore è di natura teologica,
la minore o proposizione intermedia di natura cristologica e la conclu-
sione di natura antropologica - naturalmente antropologica nel senso
che viene da Dio e per Dio passando per l'Uomo-Dio Gesù Cristo, per
conseguenza non antropocentrica. Se si fa questione del carattere teocen-
trico o cristocentrico della teologia cristiana, si deve rispondere distin-
guendo il concetto di centrum: Dio è centrum di tutti gli enunciati teo-
logici come -loro primo ed ultimo subiectum, è il terminus a quo ed il
termi11us ad quem; Cristo è centrum in quanto prar:dicatum meditlmque,
è medialor anche in qL1esto concetto logico e tea-logico; e poiché il Si-
gnore è lo Spirito ed in quanto Spirito abita in noi, il cristocentrismo
deve essere inteso in senso pneumatologico, in base allo Spirito di Dio
ed in ordine allo spirito dell'uomo.
Ma la distinzione tra Dio quale subiectum ed il Cristo quale praedica-
tum mediumque di enunciati teologici ci indica pure la via per compren-
dere più a fondo un'altra distinzione fondamentale, quella cioè tra teolo-
gia naturale e soprannaturale; si tratta allora d'interpretare questa distin-
zione scolastica non tanto in senso dogmatico quanto in primo luogo in
senso logico ed ontologico. Ma chi ha una familiarità solo superficiale
con i concetti scolastici trova difficoltà in un testo di s. To~·lMASO come
'SAPIENZA DI DIO NEL MISTERO' IN PAOLO

questo (In Boethium de Trinitate 5, 4 resp.): «La teologia o scienza divi-


na è duplice: una, in cui le cose divine non vengono considerate come
soggetto della scienza, ma come principi del soggetto, e tale è la teologia
che perseguono i filosofi e che con altro nome è chiamata metafisica; l'al-
tra invece è quella che considera le cose divine per se stesse come sog-
getto della scienza, e questa è la teologia che è tramandata nella sacrn
Scrittura' Se paragoniamo questo testo con 5.c.g. 2, 4 («Quod a/iter con-
siderai de creaturis philosophus et theologtm> ), possiamo c:osl interpre-
tare: nella teologia naturale o teologia dei filosofi, Dio non occupa l:t
posizione del soggetto di enunciati nel senso ontologico, anzi qui si trova
addirittura dalla parte del predicato e delle predicazioni, cioè come il
principio primo e supremo dell'essere d'ogni ente enunciato dall'essere
del mondo come soggetto ontologico; la direzione filosofico-teologica del
pensiero va quindi dal mondo e dal suo essere a Dio, di conseguenza a
lui visto in base al mondo e quindi addirittura ad un Dio del mondo, an-
che se gli compete una certa supramondanità. Nella direzione specifica-
mente teologica del pensiero, Dio invece pretende la posizione del sog-
getto degli enunciati, in base al quale e per il quale vengono fatti tutti
gli enunciati teologici come del Dio nella sua divinità, come del Dio miste-
riosamente divino, e anche tutti gli enunciati teologici sull'essere del mon-
do e dell'uomo. Veramente, molto più dei teologi cattolici, quelli protestan-
ti hanno manifestato una vigile sensibilità per ciò che è in gioco per la
nostra conoscenza di Dio, se Dio viene ad essere dalla parte del soggetto
o dalla parte del predicato, e per quel che significa che ora - in Gesù
Cristo - esiste il· predicato che è nello stesso tempo soggetto e predicato
di Dio; non è un enunciato da parte dell'uomo e su se stesso in ordine
a Dio, ben~ da parte di Dio su se stesso in ordine all'uomo ed a Dio.
Nella teologia naturale, l'uomo parla della creazione di Dio, cerca di deci-
frare il libro della natura in ordine a Dio; nella teologia soprannaturale
Dio stesso parla di sé e della sua creazione e neocreazione nel Libro della
Parola e della Scrjttura. Ma si.i questa distinzione tra rivelazione con l'o-
pera e rivelazione con la parolii, torneremo ancora (SEZIONE TERZA, r, b),
quando tratteremo dell' 'opera di Dio, espressa nella parola di Dio'

2. Sapienza di Dio nel mistero: conoscenza dalla sola fede

Dobbiamo riprendere ancora una volta una questione già incontrata


e considerarla ora più da vicino in base alla conoscenza frattanto
acquisita della 'sapienza di Dio nel mistero'; è la questione del rap-
porto di questa sapienza con la fede e con la scienza. Che cosa vi
si può rispondere secondo Paolo?
SAPIENZA DI DIO NEL MISTERO
.529

a. 'Soltanto per mezzo della fede': ciò può e deve valere anche
qui della nuova sapienza di Dio di cui parla Paolo. Se in questa sa-
pienza, per opera di Dio, Gesù Cristo divenne per noi sapienza, giu-
stizia, santificazione e redenzione (r Cor. 1,30) - 'giustizia' ciò in
bocca a Paolo può soltanto significare: «giustizia df Dio per mezzo
della fede in Gesù Cristo per tutti i credenti» (Rom. 3,22 ).
Sapienza di Dio nel mistero è sapienza e conoscenza mediante la
fede e soltanto mediante la fede, cioè non anche mediante una cono-
scenza da visione umana. Nel mistero, quindi per mezzo della fede!
E. dottrina del concilio Vaticano I, che per questo si appella esplici-
tamente al testo paolino della sapienza di Dio nel mistero e per mez-
zo di Gesù Cristo: i misteri salvifici nascosti in Dio, i cosiddetti
mysteria stricte dieta, diventano e sono e rimangono a noi noti sol-
tanto da rivelazione divina e mediante la grazia e la verità della fe.
de (os 301.:i).

DS 3or5 (Vaticano I, Comlilulio dogmatica de fide catholica, cap. 4, De


fide et ratione 1) dice: «Anche questo la Chiesa cattolica ha ritenuto e
ritiene saldamente in costante accordo (della sua dottrina) (Hoc quoque
perpeluus Ecclesiae catholicae consensus tenuit et tenet}, che esistono
due ordini di conoscenza, diversi non solo per il principio, ma anche per
l'oggetto: e precisamente per il principio (causa, fonte di conoscenza),
perché in un ordine conosciamo mediante la ragione naturale, nell'altro
mediante la fede divina; per l'oggetto (di conoscenza), perché, oltre a ciò
cui può giungere la ragione naturale, ci vengono proposti da credere mi-
steri nascosti in Dio ( mysteria in Deo abscandita), che non potrebbero
divenir (ci) noti se non (ci) fossero stati rivelati da Dio. Perciò l'Apostolo
attesta, (è vero), che dai popoli pagani Dio è stato conosciuto per mezz.o
di ciò che è creato (Rom. 1,20); tuttavia l'apostolo, quando parla della
grazia e verità che sono venute per mezzo di Gesù Cristo (cf. lo. 1,17 ),
proclama: esponiamo una sapienza di" Dio velata dal mistero, sapienza
rimasta occulta, che Dio, prima dell'origine dei tempi, preparò per la no-
stra gloria; sapienza che nessuno dei principi di questo mondo conosce ...
Dio lo rivelè appunto a noi per opera del suo Spirito. Lo Spirito infatti
sonda ogni cosa, persino le profondità di Dio (r Cor. 2,7.8.10). E lo stes-
so Unigenito glorifica il Padre (confìtetur Patri), perché ha nascosto que-
ste cose ai sapienti e agli scaltri e le ha rivelate ai semplici (cf. Mt. 11,
25)». Si deve certamente dire che un testo siffatto è un grande, classico
linguaggio conciliare.

34 Mystc-rium salutis / i.
'SAPIENZA 01 DIO NEL MISTERO' IN PAOLO
53°

b. La sapienza nel mistero è la retta gnosi, quindi gnosi in base a


Dio per mezzo di Gesù Cristo e per mezzo della fede, e precisamen-
te per mezzo della fede in modo che quaggiù la fede non può mai
essere superata dalla gnosi: la pistis è inizio della gnosi e rimane
inizio della gnosi, la gnosi non trascende mai l'inizio nella fede.
Quaggiù la gnosi non è una visione nella pienezza, ma inizio, con-
tinuo dono iniziale dello spirito nel procedere per mezzo della fede
(1 Cor. 13,10-13; .2 Cor. 5,5-7). Non ci sono nella Chiesa, come in-
vece per la scuola alessandrina di CLEMENTE e d'ORIGENE, due stati,
lo stato dei pistici o semplici fedeli e lo stato degli gnostici o 'cono-
scitori'. Quantunque Paolo dica che la sapienza viene esposta ai per-
fetti e pneumatici ed a coloro che hanno sentimenti spirituali, non
ai cristiani immaturi e deboli, che sono in grado di tollerare soltanto
il latte e non un cibo solido, tuttavia il credente precisamente attra-
verso la sua fede non è senza lo spirito e senza doni spirituali, ed
anche colui che pure è abbondantemente dotato di spirito, è un per-
fetto appunto nell'amore, e quindi anche nella fede, perché amore
e fede sono inseparabili: l'amore è amore che crede, e la fede è fede
che ama (1 Cor. r3,2.7.13; 8,r-3; 2,9.10). Ciò che questo rapporto
tra pistis e gn6sis tra gn6sis e agape, tra agape e pistis significa per
una teologia mistica e per una teologia della mistica, è incluso in
quanto è stato detto adesso.

Quaggiù mistérion e pistis non sono mai superabili da una gnosis e l'intel-
ligenza delle verità di fede che il teologo cerca di acquistare dai dati della
fede nelle verità di fede (fides quaerens intellectum: fede alla ricerca d'in-
telligenza), non riduce mai, nel senso hegeliano, questi dati e verità divi-
ne della fede a visuali razionali umane; ciò è stato dichiarato nuovamente
dal Vaticano 1 in un testo (os 3016), che assieme al testo (DS 3015) ci-
tato (sezione 1, 2") dev'essere chiamato pure un grande, classico linguag-
gio conciliare. I due testi che si seguono costituiscono il grande, classico
enunciato del concilio Vaticano r sulla conoscenza teologica e sulla sua
natura. «Ora, se la ragione illuminata dalla fede (ratio fide illustrata) ri-
cerca (quaerit) con diligenza, con pietà e con giudizio, essa, per dono di
Dio, consegue una qualche intelligenza dei misteri (mysteriorum intelli-
gentiam) e precisamente un'intelligenza oltremodo fruttuosa, in parte
per la corrispondenza (analog)a) con le sue cono5cenze naturali, in parte
per il nesso dei n1isteri stessi tra loro (e mysteriorum ipsorum ncxu
inter se) e con il fUlc \Ùtin1.0 d.ell'uon'lo~ ma con questo non diverrà n")·.\i.
SAPIENZA DI DIO NEL MISTERO

capace di scrutare i misteri a modo deUe verità che costituiscono il suo


oggetto proprio. Infatti i misteri divini per loFo natura trascendono l'in-
telletto creato a tal punto che, anche dopo la loro trasmissione per
mezzo della rivdazione e dopo la loro accettazione per mezzo della fede,
rimangono ricoperti dal velo della fede e come avvolti d'oscurità, finché
in questa vita mortale siamo esuli, lontani dal Sig.nore: 'camminiamo
infatti al lume della fede e no_n della visione' (2 Cor. 5,6.7)».
Della via dell'analogia o, meglio, della duplice corrispondenza esterna
ed interna, dell'analogia e naturali cognitione (analogia entis) e dell'ana-
logia e mysteriorum nexu inter se (analogia /idei) tratteremo ancora ·espres-
samente ed ampiamente (d. SEZIONE PRIMA, 3, specialmente e: 'Metafora
ed analogia come forme linguistiche della parola di Dio').

c. Possiamo designare come teologia la sapienza di Dio nel mistero


di cui parla Paolo? Sl, se intendiamo la teologia in un senso gene-
ralissimo, per così dire in un concetto universale come parola di Dio,
come conoscenza di Dio. No, se intendiamo la teologia nel concetto
particolare, specifico di teologia scientifica o, più esattamente an-
cora, di scienza teologica, di scienza della rivelazione e dell'annun-
zio, come la teologia che, secondo una calzante espressione di Bo-
NAVENTURA, che abbiamo riportato già nell'introduzione, avviene
per additionem, mediante un'aggiunta cioè della nostra conoscenza
razionale o, più esattamente ancora, della nostra ragione scientifica
a ciò che conosciamo dalla rivelazione di Dio e mediante la fede
divina.
Poco fa alla voce 'gnosi' siamo venuti a parlare della scuola cate-
chetica alessandrina ed ora continuiamo: ciò che questi gnostici
sanno in più dei semplici pistici, lo sanno anche e proprio con l'aiu-
to della filosofia greca; questi teologi - e sono teologi in un concetto
specifico - nella parola e nel l6gos della sapienza del Cristo inseri-
scono la parola ed il l6gos d'una sapienza filosofica, di modo che la
loro teologia diventa una filosofia divina, l'avventura più ardita d'una
teologia cristiana.
Ma ritorniamo a Paolo: nell'apostolo non si può parlare d'una
simile aggiunta dall'esterno e d'un interno inserimento od assunzio-
ne di sapienza e scienza profane: poiché la nuova sapienza da parte
di Dio nel Cristo, quale è annunciata dall'apostolo, è in antitesi ra-
dicale, in cont.raddl.zione con ogni sapienza e scienza. di quest<.' n'on-
532 'SAPIENZA DI DIO NEL MISTERO' IN PAOLO

do e con le sue pretese. E se, guardando indietro, ci richiamiamo


alla memoria come ci si è presentata la sapienza di Dio secondo
Paolo, avvertiremo come tutto vi è detto in modo non filosofico,
almeno per chi ritiene ancora un concetto vincolante di filosofia e
lascia che la filosofia sia filosofia. Ed oltre la filosofia non si dimen-
tichi la storia: come tutto v'è detto in modo non storico, se lo con-
frontiamo con ciò che in base alla scienza storica ci siamo abituati
ad ammettere come storicità e storiografia. E per prevenire una pos-
sibile falsa interpretazione dell'enunciato fatto or ora, vorremmo ca-
ratterizzare la cosa anche nel modo seguente: come ciò che è sto-
ria salvifica, è detto in modo non istoriale, o meglio non storico,
lontano dalla scienza storica, non solo in Paolo, ma anche negli evan-
gelisti, ed in tutti e quattro gli evangelisti, non soltanto nel vangelo
pneumatico.

d. Ma allora, dopo tutto ciò che è stato detto, non è posta in di-
scussione la teologia in quanto scienza teologica, e non solo dall'ester-
no, da parte della scienza, della filosofia e della storia, ma dall'interno,
da parte della stessa rivelazione e della fede, del kerygma biblico ed
esplicitamente da quello paolino?
Oltre l'imbarazzo che viene alla teologia dagli oppositori esterni,
non cristiani, abitualmente dimentichiamo e trascuriamo la difficoltà
ancora più seria che viene alla teologia dal suo più grande ed interno
oppositore, il kerygma biblico. Di fatto la teologia nel concetto spe-
cifico è sempre un'impresa assolutamente problematica, un'avventu-
ra sempre nuova. dello spirito, non solo dello Spirito santo, ma del-
lo spirito umano.
Tuttavia la teologia è un rischio inevitabile, se non si vuol giun-
gere ad una scissione cosciente tra lo Spirito di Dio e lo spirito del-
l'uomo. Per la cristianità ormai le cose non sono andate e non vanno
come si è continuamente aspettato, che cioè il ritorno imminente del
Signore avrebbe reso superfluo l'incontro e la spiegazione con il
mondo e con la sua scienza, perché in un futuro più o meno pros-
simo il mondo e la scienza sarebbero giunti a termine. Viviamo nel-
l'epoca finale non nel senso che il 'mondo che invecchia' sia prossimo
alla fine o addirittura in attesa della fine; viviamo in un periodo di
mezzo, nell'ormai lungo periodo intermedio tra il Cristo centro ed
SAPIENZA DI DIO NEL MISTERO
.533

il Cristo fine del mondo. Quanto maggiore è la serietà con cui pren-
diamo il kerygma, tanto più seriamente in questo periodo intermedio
l'incontro e la spiegazione della sapienza della fede con la conoscen-
za della nostra ragione, con la nostra immagine attuale del mondo
e della storia, assillano la nostra mente. C'è un detto di W. GOETHE
nel suo Aus Wilhelm Meisters W ander;ahren (I 829 ), che veramente
i teologi, sia cattolici sia protestanti, non hanno preso in considera-
zione, quantunque ponga loro un serio interrogativo: «Non varrebbe
la pena arrivare a settant'anni, se tutta la sapienza del mondo fosse
stoltezza dinnanzi a Dio». Non varrebbe la pena che il mondo dopo
il Cristo e Paolo sia invecchiato di diciannove secoli, se tutta la sa-
pienza di questo mondo non fosse altro che stoltezza dinnanzi a Dio!
Ed in questa sapienza del mondo dev'essere annoverata anche la sa-
pienza delle religioni non cristiane, che pure non è semplicemente
stoltezza dinnanzi a Dio ed alla sua Chiesa!
Ma all'inizio primo della teologia sta, storicamente ed oggettiva-
mente, ciò che preesiste ad ogni retta teologia e 'sana dottrina', e cioè
il kerygma degli apostoli, e non una teologia degli apostoli. La teo-
logia non si fonda su se stessa, bensì sul kerygma, che non è teolo-
gia, ma l'inizio primo fondante e il senso primo orientativo di
ogni teologia, l'iìpxii ed il 'tEÀ.oc;, l' ÈvtpyE~tL e l' Év'tEÀ.ÉXE~11, la real-
tà prima ed il modello primo che sono in azione in ogni opera teo-
logica. È perciò un discorso di moda nell'epoca nostra parlare d' 'au-
tocomprensione' della teologia, come se qui l'importante non fosse
che la teologia (nel concetto specifico) deve concepirsi e fondarsi in
un'origine che non è ancora teologia ed è più che teologia. A questo
proposito bisogna ripetere ciò che è già stato detto precedentemente
sotto 'Mysterium come mistero di Cristo' (SEZIONE PRIMA, 1, e): la
sapienza di Dio nel mistero, di cui parla s. Paolo, questa sophia ke-
rygmatica non è né filosofia ed ideologia né teologia e scienza delisi
fede, ma è piuttosto ciò che è più grande di tutta la nostra teologia
ed è anteriore e superiore ad ogni teologia: è, in termini scientifici
fondamentali, il campo superiore metalogico ed' appunto per questo
è nello stesso tempo il campo fondamentale protologico d'ogni scien-
za teologica che rivendica il nome di cristiana.
Puramente in base al kerygma ed in ordine al kerygma l'apostolo
Paolo - in questo totalmente un apostolo, l'Apostolo - ha delineato
'SAPIEN'.tA DI DIO NEL M!STERO' IN PAOLO
534

il suo concetto della nuova sapienza di Dio e del Cristo: ha cosl pre-
sentato il fondamento kerygmatico della successiva teologia e scien-
za teologica. Ha fatto risaltare la sapienza insita nel kerygma, di-
stinguendola chiaramente dalla sapienza e dalla scienza profane. Non
ha avuto affatto di mira una sintesi tra sapienza di Dio e sapienza
dell'uomo - poiché con ciò sarebbe venuto meno in questa materia
al suo ufficio di apostolo! Ma nel suo periodo subapostolico la Chie-
sa non può sottrarsi allo sforzo d'una sintesi; nei confronti del ke-
rygma ed in base al kerygma e per il suo annumzio essa ha un ufficio
specificamente teologico - «teologia» è un fenomeno ed un compito
subapostolico, anche se anticipatamente in azione già negli scritti
apostolici. Tuttavia in ogni sintesi non deve mai scomparire l'antitesi
dell'apostolo: una sintesi si può ottenere bene solo se si procede
continuamente ed onestamente attraverso l'antitesi, o meglio, attra-
verso la duplice antitesi, attraverso la protesta da parte del kerygma
contro la teologia ed attraverso la protesta da parte della scienza,
della filosofia e della storia contro la teologia. Della protesta scien-
tifica ed anche della sua grande serietà si parlerà ancora.

3. Il linguaggio del mistero: un mistero del linguaggio.


Il linguaggio dell'analogia

Il mistero e la sapienza di Dio vengono annunziati in linguaggio


umano; la parola di Dio si esprime nella parola dell'uomo. Qui si
rivela un grande mistero: parola di Dio nella parola dell'uGmo! Ciò
rientra pure nel mistero della sapienza di Dio nel mistero; è il mi-
stero del linguaggio. Senza questo mistero del linguaggio, non si
esprime il mistero della nostra salvezza. Infatti l'apostolo dice espii·
citamente: <~Noi esponiamo la sapienza di Dio nel mistero» ( 1 Cor.
2,6.7).

a. Parola e sapienza di Dio in parola umana


è un mistero del linguaggio, ma non un linguaggio misterioso

Il mistero, quale viene esposto ed ascoltato nel kerygma e nella so-


pbir1, ha un suo proprio linguaggio? Certamente non nel senso che il
IL LJJ'IGVAGGIO DEL MISTERO
535

linguaggio del mistero sia un linguaggio misterioso. Questa afferma-


zione è importante dal punto di vista kerygmatico, esegetico, dog-
matico-teologico; importante, come s'è detto, per l'annunzio e per
l'interpretazione e per la dottrina della fede e per l'intelligenza del-
la fede. No, il linguaggio del mistero non è misterioso - ed il mistero
di questo linguaggio è appunto di non parlare del mistero in modo
misterioso in una lingua misteriosa, ma di esprimere in modo com-
prensibile, comprensibile a tutti, per cosi dire umanizzato, ciò che
supera ogni nostro comprendere e conoscere (Phil. 4,7; Eph. 3,19).
Veramente l'apostolo ha sentito che soprattutto nella vivace comu-
nità di Corinto si diffondono anche quei 'discorsi di mistero' che
avvengono nel linguaggio misterioso della glossolalia, del parlare in
lingue, 'non per uomini, ma per Dio', o meglio per sé 'per l'autoedi-
:ficazione' (r Cor. 14,2-4). Ma di sé egli d'altronde confessa: «Nel-
l'adunanza dei fedeli preferisco dire piuttosto cinque parole con la
mia intelligenza per istruire anche gli altri, che diecimila in virtù
del dono delle lingue (rapito in estasi)» (14,r9). Però l'apostolo co-
nosce anche un uomo nel Cristo, che rapito in paradiso, ascoltò pa-
role indicibili, che non è permesso a uomo di ripetere (2 Cor. 12,4);
ma di tali grazie straordinarie l'apostolo scrive come di qualcosa che
egli reputa e menziona per così dire ai margini della sua esistenza
apostolica. La parola profetica ( 14,3-5) e quella apostolica trasfor-
mano invece la parola di Dio in discorso intelligente ed in linguag-
gio comprensibile. Infatti, secondo la semplice opinione dell'aposto-
lo, per quanto molteplici e diverse, le lingue esistono per essere capi·
te ( 14,10 ). Il discorso spirituale non deve costituire una nobile ec-
cezione. Il pregare ed il parlare nello Spirito (di Dio) è e sia nello
stesso tempo un pregare ed un parlare con la intelligenza, con la no-
stra intelligenza umana (14,15).
Sarebbe perciò un pregiudizio superficiale considerare la 'sapien-
za di Dio nel mistero' alla stregua d'una scienza misteriosa. La nuova
sapienza di Dio e del Cristo è sapienza nel mistero, ma non una
scienza misteriosa in un linguaggio misterioso. Certamente c'è qui un
mistero del linguaggio, ma appunto non il mistero d'una lingua mi-
steriosa, bensl il mistero che la parola ed il mistero di Dio si espri-
mano realmente, e proprio per questo non in un linguaggio miste-
rioso. Il linguaggio dell'annunzio può suonare molto diversamente·
'SAPIF.N2:A DI DIO NEL MISTERO' IN PAOLO

dal linguaggio del mondo e della scienza, può diventare per l'uomo
che è nel mondo ed anche per la comunità cristiana una lingua stra-
niera come il linguaggio dei glossolali nella comunità di Corinto ( 14,
11 ), ma rimane sempre vero che nel punto cosl importante del lin·
guaggio s'incontrano la parola di Dio e la parola dell'uomo, la parola
della fede e la parola della nostra conoscenza, per quanto i due lin-
guaggi possano suonare diversamente in ciò che è detto e nel modo
in cui è detto. Nella parola si separano e s'intendono gli spiriti; e la
parola d'una vera separazione è anche parola dell'intendersi, e la pa-
rola d'un vero intendersi è anche parola di separazione.
Incontro e spiegazione della parola della fede con il linguaggio
della nostra conoscenza non è ancora una teologia nel concetto spe-
cifico d'una scienza teologica, ma è il suo fondamento in quanto sin-
tesi del linguaggio della fede con il linguaggio d'una conoscenza non
solo semplice, ma sviluppata in scienza.
Ci siamo continuamente richiamati a I Cor. 14; difatti questo ca-
pitolo merita d'essere spiegato anche nei suoi enunciati sul linguag-
gio, insieme a 2,1-5 sulla testimonianza, la predicazione e l'eloquen-
za, e a 15,35-41 sulle analogie della risurrezione, di cui si parlerà
subito dopo (SEZIONE PRIMA, 3, e).

b. La parola di Dio diviene linguaggio;


si verifica cosl il miracolo e la forza del discorso che si trascende

Nel libro VI della Politica di PLATONE, di fronte al bene superessen-


ziale, Glaucone esclama: «Apollo, quale miracolo divino della tra-
scendenza!» (VI 20, 509 c). Ciò è detto d'un essere che trascende
tutti gli esseri. Ma tale trascendenza non avviene senza un concetto
d'un simile essere superiore, e quindi non avviene neppure senza
linguaggio. Nel parlare d'un essere che è e si rivela nella trascen-
denza, anche il nostro parlare trascende se stesso. Soprattutto nel
dialogo filosofico noi sperimentiamo che i nostri concetti ed il no-
stro linguaggio si trascendono: i nostri concetti e le nostre parole
intendono qualcosa di più, qualcosa di più alto e di più profondo di
quanto possiamo esprimere a parole; essi indicano realtà al di là di
sé, al di là del loro senso percettibile ed esprimibile. L'uomo cerca
continuamente di dire l'indicibile. E che sarebbe un dire poetico,
IL LINGUAGGIO DEL MISTERO
537

anche già solo nella semplice canzone, senza il dire l'indicibile, senza
la trascendenza del dire nell'indicibile? Non è un gioco di parole
parlare del dire l'indicibile. In fondo il nostro dire è un· dire l'indi-
cibile. Già solo questo: quante cose in ogni dire sono sempre anche
non dette e tuttavia sono sottintese, o meglio, non"-sono semplice-
mente sottintese, ma sono propriamente intese, e precisamente di
nuovo e proprio nel semplice dire!
Nella parola di Dio e per mezzo della parola di Dio la nostra pa-
rola ed il nostro linguaggio indicano realtà al di là del nostro par-
lare e dire. Si noti bene: per mezzo della parola di Dio, e non sol-
tanto nella parola di Dio: poiché qui non l'uomo ascoltando e par-
lando trascende i suoi concetti e le sue parole; ma Dio stesso fa sì
che l'uomo che ascolta e parla per mezzo della parola della fede, tra-
scenda i suoi concetti e le sue parole. Rivelazione e parola di Dio
diventano linguaggio; linguaggio e parola dell'uomo non diventano
rivelazione. Quando I Io. 4,8 pone di Dio il grande enunciato: «Dio
è amore», la nostra parola 'amore' da ciò che in questo mondo è
chiamato amore tra uomini, viene trasposta a Dio ed all'amore che è
in Dio e da Dio, e che è divenuto manifesto a noi nel suo Figlio in-
viato nel mondo (I Io. 4,7-10); ma questo è l'amore del Cristo, di
cui in Eph. 3,19 si dice che supera ogni nostra conoscenza. Del no-
stro termine 'amore' si fa quindi un uso trascendente, superconcet-
tuale; esso esprime di più e molto di più di quanto per sé dicano il
concetto e la parola. Ma anche qui mettiamo ancora una volta in
rilievo - e non sarà mai ripetuto a sufficienza -: in quale modo sem-
plice, ragionevole e comprensibile e per nulla esaltato si parla di quel-
la cosa grandissima che è l'amore in Giovanni ed in Paolo (I Cor. 13,
r 3 ), con quanta ragionevolezza e comprensibilità l'amore di Dio per
noi e l'amore dei cristiani per il prossimo si riflettono l'uno nell'al-
tro, con quanta semplice ragionevolezza e semplice comprensibilità
e perciò €on quanta forza, e come ci sentiamo inevitabilmente col-
piti e regolati! ( 1 Io. 4,7-21; 1 Cor. r 3,4-7 in quanto parte centrale
dell'inno al nuovo amore). La nostra parola si trascende in ordine a
Dio, ma in quanto prima la parola di Dio discende a noi e discende
in modo da avvicinarsi per così dire al nostro corpo e da afferrarci
cuore e reni. Con la sua parola Dio tende la mano verso di noi e
'SAPIENZA DI DIO NEL MISTERO' IN PAOU/
.n8

verso la nostra parola; e cosl noi e la nostra parola tendiamo la


mano verso Dio e verso la sua parola.

c. Il linguaggio della parola di Dio


si muove nel linguaggio della metafora e dell'analogia

Le parole che devono e possono essere usate in un significato tra-


scendente vengono designate in filosofia ed in teologia come espres-
sioni analogiche. Ma questa proposizione non deve essere ancora
considerata come definizione del concetto d'analogia, più esattamen-
te dell'analogia nominum, perché tale definizione sarebbe troppo in-
determinata.
Infatti anche il modo d'esprimersi metaforico o figurato è una lo-
cuzione traslata, come indica il nome greco 'metafora'; ma secondo
ARISTOTELE non ogni metafora è un'analogia, quantunque secondo
il medesimo ARISTOTELE l'analogia rientri come spede, e la più
importante, nella metafora (Poetica 1457 b r-1458 b 14). E quindi
aggiungiamo - sempre nel senso d'ARISTOTELE - che, quantunque
ogni denominazione analogica sia una metafora od un modo tra·
slato d'esprimersi, tuttavia non ogni denominazione sulla base del-
l'analogia è una semplice metafora od una locuzione figurata o sem-
plicemente figurata e quindi impropria. Analogia e metafora sono
connesse, ma non devono semplicemente identificarsi. E si compren-
de come i teologi insieme ai filosofi insistano sul fatto che analogia
e metafora non vengano identificate, anche se i teologi, al di là di
questa preoccupazione, lasciano in margine la connessione d'analogia
e di metafora, che pure nella Bibbia non appare in margine.
Quando Paolo parla di <(giustizia di Dio» e Giovanni dice che
«Dio è amore», essi non intendono questi nomi di Dio, «giustizia»
ed «amore», come figura o come semplice similitudine, bensì in un
senso proprio, anzi sommamente proprio, quantunque in una deno·
minazione assolutamente relazionale, cioè nel rapporto, appunto in
ana-logia o con-rispondenza, con ciò che tra noi uomini è chiamato
giustizia e amore: questo però di Dio deve essere enunciato in un
significato supereminente a motivo dell'infinita differenza di natura
tra creatura e Creatore e tra proprietà divine ed umane. Quando
Paolo in .1 Cor 12,12 conia l'immagine della Chiesa quale corpo del
IL LlNGU AGGIO DU. MIS'rERO
539

Cristo, 'corpo' è bensì una metafora o denominazione figurata: la


Chiesa è come un corpo; e per esteso l'analogia od eguaglianza di
rapporto suona: come il corpo è uno solo eppure ha molte membra,
ma tutte le membra del corpo, pur essendo molte, costituiscono un
solo corpo, così anche nella comunità di Dio vi sono molte membra
e tuttavia sono un solo corpo. Ma nello stesso versetto e in quello
che subito segue, Paolo indica chiaramente la realtà e la proprietà
'da cui l'immagine è sostenuta, in quanto parla dell'unico corpo nel-
l'unico spirito o pnéuma del Signore ( 12,13), per mezzo del quale il
corpo della Chiesa è corpo del Cristo (12,13.27), a tal punto che
l'apostolo chiama semplicemente il Cristo il secondo membro della
eguaglianza di rapporto (sopra sviluppata): come le molte membra
e l'unico corpo, «Cosl pure il Cristo» (I 2, I 2 ). Appunto l'immagine
della Chiesa quale corpo del Cristo rende chiara l'intima connessione
d'analogia e di metafora, che è propria del linguaggio della rivela-
zione e dell'annunzio, e che deve restare normativa per il linguaggio
della teologia. Se le immagini delle metafore bibliche scoloriscono,
scolorisce; anche la realtà; ed il linguaggio teologcico dell'analogia
non assurge alla proprietà dell'eloquio, ma scivola in una concettua-
lità che si estrania dal linguaggio del mistero e dalle sue immagini
e dalla sua realtà figurata, e porta all'inefficacia linguistica ed 'ogget-
ti va dell'annunzio.
Con quanto s'è detto, il concetto d'analogia che abbiamo tratteg-
giato è ben lungi dall'essere pienamente determinato, tuttavia è più
determinato nei confronti del nostro punto di partenza in materia;
ed abbiamo visto all'opera il linguaggio dell'analogia in fondamen-
tali esempi biblici. Ciò che è stato detto deve e può bastare; del resto
questo nodo di questioni è un campo vasto. Tocchiamo tuttavia, al-
meno quanto al nome ed al suo significato, due modi dell'analogia
che oggi sono entrati particolarmente nel dialogo metafisico e teo-
logico.
Nella cosmologia del suo Timeo, PLATONE parla dell'analogia co-
me del più bello di tutti i legami ( 31 c ), e I. KANT nelle sue lezioni
di filosofia della religione parla della magnifica via dell'analogia. Evi-
dentemente PLATONE intende l'analogia entis, oggi molto in auge,
cioè le corrispondenze nell'ente stesso, le eguaglianze di rapporto
negli ordini e nelle strutture dcl mondo dell 'esscre: dal punto Ji
'SAPIENZA DI DIO N !;L MISTERO' IN PAOLO

vista teologico, in primo luogo la corrispondenza deU'essere e dell'es-


sere spirituale divino e creaturale. I. KANT, il grande critico, tratta
dell'analogia - in modo sorprendentemente ampio e significativo -
dal punto di vista della critica della conoscenza; in termini scolastici,
egli considera l'analogia nominum, cioè la denominazione in base ad
un rapporto, ad una corrispondenza di rapporti. Va da sé che le due
analogie non solo coesistono l'una accanto all'altra, ma esistono l'una
nell'altra. Ma l'analogia della denominazione, come anche in s. ToM-
MASO nella sua quaestio sui nomi divini (5. th: 1, 13 ), dovrebbe ave-
re e conservare il primato, proprio anche in una considerazione teo-
logica della parola di Dio e del linguaggio dell'annuncio. E già dal
punto di vista filosofico, analogia entis oggettivamente è resa in mo-
do insufficiente con 'analogia dell'essere'; è più esatto dire: analogia
del nome e dei nomi dell'essere.
Resta ancora da menzionare un modo specificamente teologico
dell'analogia, cioè l'analogia fidei o corrispondenza sulla base della
fede, sulla base del nostro conoscere e denominare a partire dalla pa·
rola di Dio e della fede. Analogia /idei cioè, secondo il concetto cat-
tolico, significa l'analogia della denominazione e dell'essere, o me-
glio del nome dell'essere quale analogia nel campo dei misteri ed in
applicazione ai misteri di fede sotto la regola o secondo la norma
della fede e della confessione della Chiesa. In Rom. 12,6 l'apostolo
parla di 'ltpOq!TJ'tEl<l X'1:<t& 'tTJV à.vtt)..oylttv 'ti)<; 'ltLCT'tEW<; e la Vulgata tra-
duce a senso prophetia secundum rationem fidei.
KARL BARTH ha inteso i due modi dell'analogia dell'essere e del-
l'analogia della fede, come una distinzione confessionale o, meglio,
come la fondamentale antitesi confessionale: egli ha fatto valere
l'analogia fidei quale forma protestante dell'analogia dalla sola fede,
e quindi dal conferimento del nome ad opera della parola di Dio,
nella protesta contro l'analogia entis quale forma cattolico-romana
dell'analogia anche dalla conoscenza naturale dell'essere e dell'uomo.
Tuttavia K. BARTH non ha potuto mantenere questa iniziale contrap·
posizione radicale; ma in seguito, all'analogia della fede ha aggiun-
to un 'motivo esterno' in una analogia dell'essere o, meglio, della
creazione, che però non vuole sia intesa in senso cattolico, ma anche
ed egualmente nel senso protestante d'analogia relationfr od analogia
operationis, cioè come analogia attuale dall'evento di un'azjone di-
IL LINGUAGGIO DEL MISTERO

vina nella creazione e nell'alleanza. Come già questi tentativi di defi-


nizione lasciano trasparire, le situazioni nei particolari sono cosl
complicate e difficili, che l'entrare più ~ fondo in essa porterebbe
ad una vera trattazione, mentre qui si parla in primo luogo d'una
conoscenza della cosa stessa, del principio dell'analogia nelle sue linee
fondamentali.

Appunto per un'intelligenza più esatta d'una realtà cosl imporrante, deli-
neeremo chiaramente i principali campi concettuali del principio dell'ana-
logia, in testi fondamentali ed in tesi. Diciamo ancora una verta e pre-
mettiamo ora con insistenza che si deve incominciare con l'analogia nomi-
num od analo ia della denominazione e di qui si deve J!assare alìe
alue specie dell'analogia; poiché un ana o ia ella
dc,nQminazione e deve essere resa precisamente come analogia del nome
o dei nomi dell'essere (unum, verum, bonum, pulchrum), e poiché l'ana-
logia dei in uanto anale ia della arala di Di e della fede nella parola
umana,. è anc e ed appunto analogia della denominazione, corrispon enza
dei nomi divini tra loro e con i nostri termini astratti, e precisamente
corrispondenza a partire da denominazione e da rivelazione divine. Ini-
zia · · 'analo ia nominum e cerchiamo di resentare un con·-
cctto chjaro; o, meglio, ci atteniamo al concetto esatto di ò:vtl. oyov, che
ARISTOTELE offre nella sua Poetica e nella sua Metafisica. lncommc1amo
con il testo della Poetica, che parla esplicitamente dell'analogia dei nomi,
mentre il resto della Metafisica tratta più dell'analogia dell'essc:Ie. In di-
pendenza dal primo testo citato, poniamo e spieghiamo quattro tesi, quin-
di completiamo con il testo della Metafisica.
Testo: ARISTOTELE, Poetica 21 (14.:s7 b I f 6-9.16-33): «Ogni nome
è o termine proprio o peregrino o figurato (metafora) o ornamentale o
poetico ... Termine figurato (µE't"!Zq>optl.) è trasposizione (È1tLq>opci) di altro
nome o dal genere alla specie, o dalla specie al genere, o dalla specie alla
specie, o secondo il corrispondente (xa't"à 'tÒ &. vcD..oyo\I )...
[Si noti questa antitesi importante dal punto di vista logico ed ontolo-
gico in un ARISTOTELE: da una parte un parlare secondo genere e specie,
dall'altra un parlare secondo un rapporto, una corrispondenza - i nomi
analogici in quanto analogici non sono nomi di genere e di specie, ma no-
mi di relazione, il che dal punto di vista teologico è importante nel nostro
parlare di Dio, nella trasposizione a Dio delle nostre denominazioni!].
Parlo del corrispondente quando il secondo sta al primo come il quarto
al terzo; allora al posto del secondo si dice il quarto o al posto del quarto
il secondo. E talora si aggiunge per che cosa esso è posto, ed a che cosa
si riferisce.
"SAPIENZA DI DIO NF.1. MISTERO' IN PAOLO

[Si noti questa locuzione matematica d'ARISTOTELE, che deriva dal


fatto che il modello formale per la denominazione analogica è stato la pro-
porzione o proporzionalità matematica, geometrica; la matematica della
proporzione è stata una delle grandi e genuine imprese greche! Ma ora
q1testa origine matematica del principio dell'analogia può comportare la
tentazione di un'ontologia more geometrico demonstrata, contro cui è in·
sorto esplicitamente anche I. KANT nella sua Critica della ragion pura,
B. 222. ARISTOTELE continua: ]
Dico dunque: la coppa ( 2) sta a Dioniso (I) come lo scudo ( 4) ad
Ares ( 3); di conseguenza la coppa ( 2) si chiamerà scudo ( 4) di Dioniso e
lo scudo (4) coppa (2) di Ares. Oppure (un altro esempio); come la vec-
chiaia sta alla vita, cosl la sera al giorno; di conseguenza la sera si chia-
merà vecchiaia del giorno, e la vecchiaia sera della vita o, come dice EM-
PEDOCLE, tramonto della vita ... Questo modo della metafora può essere
usato anche diversamente, citando cioè l'espressione estranea e negandole
qualcosa che le è proprio, ad esempio chiamando lo scudo non coppa di
Ares, bensl coppa senza vino (ma piena di sangue)».
(Del resto un simile testo d'ARISTOTELE, come anche il seguente, pre-
sta ancora un bel sussidio accessorio di fronte al fatto che il parlare d'ana-
logia non di rado si diffonde come una parola di moda: il testo citato,
già a motivo della sua locuzione logica e matematica, quantunque sempli-
ce, può essere compreso solo da coloro che sono inclini allo sforzo del
concetto].
Cerchiamo ora, anzitutto in dipendenza da questo testo, di definire in
forma di tesi il concetto della analogia di denominazione!
Tesi prima: «Analogia nominum» od analogia della tlenominazione secon-
do ARISTOTELE è una specie di metafora (µnaq>op!t) o di locuzione tra-
slata (bwpopci).
Questa tesi, che cpnviene alla poetica, ha tuttavia una grande impor-
tanza teologica: infatti il linguaggio della Bibbia è in ampia e profonda
misura linguaggio attraverso metafore; e quindi il metodo teologico della
formazione analogica del concetto deve prendere il suo avvio sempre at-
traverso le metafore bibliche. li che sarà dimostrato ancora più esattamen-
te nella quarta tesi.
Tesi seconda: come ogni metafora o modo d'esprimersi figurato, l'ana-
logia ha quattro elementi essenziali, che sono: notio o concetto, pensiero
(detto anche metà oggettiva); imago o immagine, raffigurazione (detta an-
che metà figurata); tertium comparationis o termine di confronto (fonda-
mento della relazione come fondamento del rapporto della rappresenta-
zione figurata col concetto), che si può esprimere in un'eguaglianza di rap-
porti (come a sta a b, cosl c sta a d); comparatio, translatio o congiun-
zione, trasposizione della rappresentazione figurata al concetto.
IL LINGUAG<:TO DEL MISTERO 543

Per queste quattro caratteristiche d'una metafora ed analogia possiamo


rifarci all'esempio già addotto (in questa medesima SEZIONE PRIMA, 3 c)
della Chiesa come corpo del Cristo. Qui l'uguaglianza di rapporti suona:
com'è del nostro corpo in quanto composto di molte membra (b) e non·
dimeno uno (a), cosi è anche della Chiesa quale corp~ del Cristo nella
molteplicità dei doni, degli uffici e dei ministeri (d) e nondimeno quale
unico corpo del Cristo nell'unico Spirito del Cristo (e).
Tesi terza: il nome analogico non esprime una somiglianza d'esscnz:i.
una, come dice chiaramente s. TOMMASO, similttudo per participatio-
11em eiusdem qualitatis, bensl una similitudo proportionalitatis quae est
similitudo proportionatorum (In IV Sent. 1, 1, 1; 1, 5, 3 ), un'eguaglianza
cioè di rapporti in una diversità di essenza, e persino in una diversità
infinita come nel rapporto tra Dio e creatura, tra essere increato e creato.
Ogni vera analogia ha quindi carattere relazionale su tutta la linea; si·
gnifica un rapporto di due rapporti, di due rapporti qualitativamente di-
versi. Una denominazione secondo l'analogia, ad esempio Dio come padre
e l'uomo come figlio di Dio, «non significa, come comunemente viene in·
tesa la parola, una somiglianza imperfetta di due cose, bensl una somi-
glianza perfetta di due rapporti tra cose del tutto dissimili», come dice
anche I. KANT (Prolegomena S 58), che in questo sta assolutamente nel-
l'alveo della tradizione.
Tesi quarta: quantunque ogni denominazione secondo l'analogia sin
una metafora, ed ogni metafora sia un modo figurato e semplicemente
come tale un modo improprio d'esprimersi, tuttavia non ogni analogia è
una denominaziooe puramente metaforica e quindi impropria, o, in ter-
mini di scuola, un'analogia proportionalitatis impropriae. Appunto la me-
tafora che dev'essere caratterizzata come analogia, soprattutto nel linguag-
gio filosofico e teologico ha nello stesso tempo contenuto d'immagine e
contenuto di concetto; il contenuto d'immagine è portatore d'un contenu-
to di concetto. Per dirla con J.H. NEWMAN, l'immagine ha funzione od
intenzione 'nozionale' per il concetto, ed il concetto in unione con l'im-
magine acquista funzione od intenzione 'realizzatrice'.
Soprattutto un pensiero ed un linguaggio filosofico e teologico si vedono
quindi posti di fronte al compito d'estrarre e di determinare dalle deno·
minazioni' figurate, che anche qui stanno all'origine (come dimostrano ERA-
CLITO, PARMENIDE, PLATONE ed i profeti, i Vangeli, gli apostoli), il con-
tenuto concettuale, ma non in una pura astrazione che, per così dire, con
un ìconoclasmo scolastico elimini il r.iù possibile l'immag~ne e ne oP.eri
quindi uno svuotamento. Nel mistero cultuale si è parlato di reahà simbo-
lica di fronte all'intreccio misterioso che qui avviene di immagini aventi
carattere di segno e di realtà operata ed operante; nel pensiero e nel di-
scorso teologico si deve parlare di concetti figurati e di conccttualità figu-
'SAPIENZA DI DIO NEL MISTERO' IN PAOLO
544

rata, od anche convenientemente di quel «pensare in immagini», che se-


condo MANFRED BERNARD, caratterizza le metafore di PINDARO. Un
vero pensiero e discorso filosofico è caratterizzato dalla visione dell 'ele-
mento metafisico nel metaforico e dell'elemento metaforico nel metafisico.
Parlando d'una denominazione secondo l'analogia metafisico-concettuale
sia avente valore proprio nei confronti d'una denominazione secondo l'ana-
logia metaforico-figurata, sia avente valore improprio, siamo giunti all'ana-
logia entis o, meglio, all'analogia del nome ;; dei nomi dell'esrere. Così,
l'uno è un nome dell'ente: omne ens est unum. E dell'uno in quanto no-
me dell'ente e ciel quadruplice significato di t11tum tratta un breve testo
nella Metafisica aristotelica. Lo riportiamo qui nuovamente nella parafrasi
che ne fa s. TOMMASO nel suo Commento alla metafisica aristotelica; e
poiché dopo riassumeremo brevemente questo testo in tesi, lo presentia-
mo prima nella sua lingua latina.
Testo: ARISTOTELE, Metafisica v (A) 6; xo16 b 31-1017 a 3; s. TOM-
MASO, Expositio in textum Aristotelis, Marietti 876-880.
«Poni/ aliam divisionem unius, quae est magis logica, dicens, quod quae-
dam sunt unum numero, quaedam specie, quaedam genere, quaedam ana-
logia. Numero quidem sunt unum, quorum materia est una. Materia enim,
secund11m quod stat sub dimensionibus signatis, est principium individua-
tionis formae. Et propter hoc ex maLeria habet singulare quod sìt unum
numero ab aliis divisum. - Specie autem dicuntur unum, quorum una
est ratio id est de/initio. Nam nihil proprie defmitur nisi species, cum
omnis definitio ex genere et dilferentia constet. Et si aliquod genus defi-
nitur, hoc est in quantum est species. - Unum vero genere sunt, quae
conveniunt in figura praedicationis id est quae habent unr1m modum praedi-
candi. Alius est enim modus quo praedicatur substantia, et quo praedicatur
4ualitas vel actio; sed omnes substantiae habent unum modum praedicandi,
inquantum praedicantur non ut in subiecto existentes. - Propor/ione vero
vel analogia sunt unum, quaecumque in hoc conveniunt, quod hoc se ha-
bet ad illud sicut aliud ad aliud. Et hoc quidem potesi accipi duobus mo·
dis, vel in eo quod aliqua duo habent diversas habitudines ad unum; si-
cut sanativum de urina dictum habitudinem significat signi sanitatis,- de
medicina vero, quia significai habitudinem causae respectu eiusdem. V el
in eo quod est eadem proportio duorum ad diversa, sicut tranquillitatis ad
mare et serenitatis ad aerem. Tranquillitas enim est quies maris, et sereni-
tas aeris. - In istis autem modis unius, semper posterìus sequitur ad
praecedens et non convertitur. Quaecumque enim sunt unum numero,
sunt specie unum et non convertitur. Ed idem patet in aliis».
Tesi prima: l'analogia del nome dell'essere è un modo dell'unità dell'es-
sere (unum secundum analogiam), in cui la nostra ragione giudicante enun-
cia una siffatta unità mediante affermazione o negazione, mediante 1' 'è'
IL LINGUAGGIO DEL MISTERO
545

od il 'non ~· della copula; e precisamente l'unità dell'essere secondo l'ana-


logia è il modo più alto.
Tesi seconda:· ci sono infatti quattro tipi. d'unità: nel gradino inferiore,
l'unità di numero o l'essere singolo (cosi Socrate e Platone sono ciascuno
un individuo); poi l'unità di specie (cosl Socrate e Platone sono uno per
l'essere umano quale loro specie comune, a cui entrambi appartengono);
inoltre l'unità secondo il genere supremo o la ntegoria od il modo d'enun·
ciazione (essere sostanza od essere accidente, essere qualità, ad esempio
essere buono e bello, o relazione, ad esempio rapporto tra insegnante e
scolaro, maestro e discepolo); nel gradino supremo l'unità secondo l'ana-
logia o corrispondenza (che quindi trascende gli altri modi d'unità, e· so-
prattutto non significa un'uguaglianza di specie o d'essenza, una ugua-
glianza qualitativa delle proprietà dell'essenza, ed una unità categoriale -
così l'essere di Dio e l'essere della creatura non stanno in una categoria
comune).
Tesi terza: ci sono due modi d'analogia e d'unità analogica, cioè la sem·
plice analogia di proporzione detta anche analogia d'attribuzione, e la cosl
detta duplice analogia di proporzione, chiamata analogia di proporziona-
lità, perché è una proporzione di due proporzioni.
Che cosa s'intenda con analogia di proporzione o d'attribuzione, è chia·
rito dall'esempio classico riportato dal nostro testo di ARISTOTELE e di
TOMMASO: la denominazione 'sano' è attribuita all'orina ed alla medi-
cina, e precisamente all'orina 'sana' come a segno ed alla medicina 'sana'
come a sostanza efficace per la sanità degli organi, cui compete ed è attri-
buita in prima linea la salute, ma all'orina ed alla medicina solo nel rap-
porto all'organismo ed alla sua selute. Questo è l'aspetto logico dell'ana-
logia d'attribuzione; circa la sua importanza metafisica vedi la tesi seguen-
te, la quarta. L'esempio per un'analogia di proporzionalità, per una eadem
proportio duorum ad diversa (non ad unum) nel testo di ARISTOTELE -
TOMMASO è il seguente: come la tranquillità sta al mare, cosi la serenità
sta all'aria. A proposito di questo esempio, che non dice addirittura nulla,
occorre notare che «talvolta anche Omero sonnecchia». Abbiamo già visto
importanti esempi (così: Dio-padre e gli uomini-figli; la Chiesa come
corpo del Cristo), e la spiegazione del primo testo ci ha già messo in
rapporto continuo con l'analogia di proporzionalità.
Tesi qùarla: l'analogia d'attribuzione e l'analogia di proporzionalità
non stanno l'una accanto all'altra soltanto esternamente, ma sono intima-
mente riferite l'una all'altra e si completano in un dualismo anche qui V3·
lido tra l'idea d'analogia e l'idea di modeJlo. C'è un'attribuzione analogica
che ha importanza metafisica e tale importanza sta nel 'rapporto' come
nesso causale; anche nell'esempio classico dell'orina e della medicina, se-
gno e sostanza efficace significano ciascuno un nesso causale.

3) Mysrerinm <alnti< / 2.
'SAPIENZA DI DIO NEL MISTERO' IN P/\OLO

Il fondamentale esempio teologico è adesso il rapporto dell'essere crea-


turale con l'essere divino, il nesso causale delle creature con il Creatore.
Questo nesso causale, questa attribuzione interna costituisce la ragion
d'essere d'ogni uguaglianza di rapporto o proporzionalità tra essere crea-
turale ed essere divino. Senza attribuzione interna, la proporzionalità man-
ca d'esistenza; e senza proporzionalità interna, l'attribuzione si fermerebbe
ad una proporzionalità puramente esterna - i nomi divini manchereb-
bero di quell'essenzialità con cui le denominazioni, nonostante la loro pro-
porzionalit~, riguardano nondimeno l'essenza di Dio e l'essenza dell'uomo.
Proprio con le ultime cose dette abbiamo preparato e fondato la nostra
presa di posizione nei confronti d'uno dei punti più decisivi del dialogo
ecumenico per così dire tra analogia cattolica dell'essere ed analogia pro-
testante della creazione, nel rapporto di entrambe con l'analogia della fede.
Se KARL BARTH nel suo ultimo periodo, come s'è già ricordato (nella
SEZIONE PRIMA, 3 c), conosce un'analogia della creazione, ma vuole che
non sia intesa e chiamata come analogia entis, bensì come analogia rela·
tionis, ciò andrebbe benissimo, se egli volesse far risaltare questo nome
contro una analogia qualitatis - poiché l'analogia dell'essere od analogia
del nome dell'essere, giustamente non è intesa in senso qualitativo, bensl
in senso relazionale, come in TOMMASO, il che abbiamo documentato con
un passo subito all'inizio della terza tesi sull'analogia di denominazione. In
K. BARTH l'antitesi, parlando esattamente in astratto, non dovrebbe essere
analogia relationis, non entis, bensì analogia relationis o meglio, in ter-
mini scolastici, analogia attributionis, non proportionalitatis - attribu-
zione intesa come assegnazione esterna d'un nome, ad esempio della filia-
zione divina, della giustizia agli uomini. Tuttavia nel teologo K. BARTH
questa attribuzione viene da Dio, con il che tocchiamo il centro
della dottrina protestante della giustificazione. L'analogia d'attribuzione
non è estranea neppure alla teologia cattolica, che vede questa attribu-
zione come avente origine in Dio e quindi dall'esterno, ma in modo che
non rimanga esterna alla creatura, bensi divenga interna; in tal modo
attraverso questa attribuzione che agisce dall'esterno all'interno, si co·
struisce una vera analogia di proporzionalità, ed in questa si presenta
il senso pieno ~i analogia.

Breve appendice: analogia e modello.


Il dogmatico di Bonn, ]OHANN AUER, ha proposto di arricchire ed ap-
profondire il principio antico dell'analogia attraverso l'idea moderna di
modello. In genere si può dire a questo riguardo; se gli antichi hanno
saputo trasporre con frutto la proporzione matematica a 'rapporti' onto-
logici e teologici, non si deve respingere il tentativo di sperimentare se
anche l'idea di modello fisico possa essere usata per la formazione del con-
fL LINGUAGGIO DEL MISTERO
547

cetto teologico. Però io ritengo che anche l'idea di modello della fisica
(una scienza matematica!) non può fare a meno dell'idea d'analogia (anche
e proprio in senso matematico); il principio dell'analogia è il principio
più ampio in cui si fondano e si muovono tutte le idee di modello, so-
prattutto le idee teologiche di modello. Ciò che in particolare potrebbe
servire di guida nel modello fisico anche per la formazione del concetto
teologico, sarebbe il dualismo delle idee di modello (ad esempio: onda-
particella; nella teologia ad esempio: modo di considerare storico-salvifi-
co ed ontologico). Nel senso di ciò che è stato detto, stabilisco anche qui
delle tesi; due possono bastare.
Te si prima: la formazione del concetto teologico parte dalle chiare
idee di modello desunte dalla Bibbia; esse hanno valore di fondamento
sperimentale preconcettuale ( prepredicativo) di enunciati specificamente
analogico<oncettuali.
Tesi seconda: la teologia speculativa eJabora dagli enunciati storico-
sal vifici della Bibbia gli stati essenziali che vi sono implicati; ma questi
enunciati essenziali ontologici si devono sempre e nello stesso tempo fon.
dare ed interpretare in ordine alla realtà e storicità dei fatti salvifici.

Ma, a conclusione di tutto ciò che qui è stato detto circa il linguag-
gio dell'analogia, ritorniamo a Paolo ed alla sua prima lettera ai
Corinzi. Nella stessa lettera in cui l'apostolo attraverso due capitoli
iniziali annunzia la nuova sapienza di Dio e del Cristo nel mistero,
nel penultimo capitolo (I Cor. 15) sviluppa in modo esemplare la
sapienza del mistero ed il suo linguaggio metaforico-analogico nel mi-
stero dei misteri, nel mistero della risurrezione del Cristo e della
nostra speranza di risurrezione.

d. La parola di Dio rivela la storicità del mistero

r. Cor. 15, il capitolo della risurrezione, deve essere considerato co-


me modeilo d'una prova dei misteri. Non è una dimostrazione spe-
cificamente teologica, ma è quella dimostrazione kerygmatica, che de-
ve formare lo spirito d'un metodo teologico scientifico. L'apostolo
come conduce la prova per il mistero della risurrezione? Tracciamo
qui le linee fondamentali.
Paolo distingue la questione del 'fatto' (o·n, quia) e del 'modo'
{m~c; quomodo) del mistero (1 Cor. 15,3 e 1_5,35). La storicità e realtà
del mistero viene stabilita mediante la testimonianza e viene presen-
'SAPIENZA DI DIO NEL MISTERO' lN PAOLO

tata mediante il nesso interno esistente nell'avvenimento salvifico e


nel campo dei misteri, attraverso il collegamento dei misteri tra loro;
il modo del mistero è spiegato mediante l'analogia (e metafora).
L'apostolo parte da ciò che è tramandato ed è pervenuto anche a
lui e che le Scritture ed i testimoni, «i testimoni prescelti da Dio»
(Act. lo,41) attestano (1 Cor. 15,1-II ). È una cosiddetta testimo-
nianza 'dei fatti attraverso enunciati, o meglio, attraverso predizio-
ni nelle Scritture e attraverso apparizioni del Risorto, e anche at-
traverso la sua manifestazione, che Paolo ha visto. Certamente que-
sta testimonianza dei fatti (secondo ARISTOTELE: µo:p'tvplo: 'tov npliy-
µ.o:'toc;) non è senza una contemporanea testimonianza della fede
(secondo ARISTOTELE: µap-tuplo: 'ltEpt 'tov fiitovc;, cioè testimonian-
za dei sentimenti circa la sorpresa interna ricevuta dalla cosa at-
testata); ma la testimonianza della fede non è neppure senza testi-
monianza dei fatii, la interna testimonianza e l'auto-attestazione del
risorto mediante lo Spirito del Signore non è senza la testimonianza
esterna dei testimoni oculari ed auricolari. Rivela la storicità del mi-
stero della risurrezione il fatto che il Risorto è apparso ed è stato
visto (grammaticalmente non è a posto il presente, bensì il perfetto,
il perfectum historicum ). Nel mistero e nel suo kerygma rientra an-
che la storia, la sua trasmissione e la sua fissazione per iscritto, e ciò
in modo essenziale, non soltanto marginalmente e semplicemente di
passaggio. Aggiungiamo in breve e con forza: di certo il fatto che
viene annunziato, ciò che è avvenuto ed avviene, si compie sempre
soio con e nel compiersi dell'annuncio stesso; ma parimenti non c'è
annuncio senza la cosa annunziata - diversamente sarebbe un annun-
cio dell'annuncio che annuncia se stesso, un annuncio 'esistenziale',
la cui esistenza sarebbe riferita a se stessa, all'esistenza del predica-
tore e dell'uditore, e non in primo luogo all'esistenza del Cristo, del
fatto salvifico. Veramente non è possibile, senza avere riflessioni ed
enunciarle, estrarre dall'annuncio la cosa annunciata, dal fatto sa!-
vifico una dottrina salvifica e travasarla in un concetto dottrinale e
scolastico astorico - poiché abbiamo notato, spiegando il mysterium
del mistero salvifico, la non esistenza in Paolo di dottrina salvifica
e di fatto salvifico e, in questo senso biblico, di dogma e di kerygma,
di cosa annunciata e d'annuncio (SEZIONE PRIMA, r b ). Il mistero
è un perfectum historicum actualiter praesens in kerygmate. Una
IL LINGUAGGIO DEL MlSTEJ.0
549

teologia nel concetto specifìcamenet teologico incontrerà sempre dif-


ficoltà su questo punto e sarà sempre inferiore al kqygma come
evento, e quindi, se è intelligente, sperimenterà i suoi limiti essen-
ziali. Ma non dobbiamo dimenticare in proposito che dobbiamo, e
dobbiamo anche in modo decisivo, alla teologia se nel punto citato
noi possiamo vedere in genere il problema ed i. limiti. Forse che
senza teologia, senza la sua scienza e critica, oggi ne avremmo an-
cora conoscenza?
Nel passaggio dalla questione del 'fatto' alla questione del 'modo',
la prova del mistero si muove come presentazione del nesso intrin-
seco nell'avvenimento salvifico e del collegamento dei misteri tra lo-
ro (15,12-28); qui viene posta in luce anche l'impÒrtanza esisten-
ziale del mistero per la nostra salvezza, la nostra vita e la nostra
morte ( 15 ,29-34). Questa può essere chiamata la corrispondenza in-
terna dei misteri nel campo dei misteri. L'attenzione dell'apostolo è
rivolta specialmente alla corrispondenza tra la risurrezione del Cri-
sto e la nostra risurrezione, ed all'importanza della risurrezione dai
morti per la distruzione della morte e per la piena e definitiva in-
iitaurazione del regno di Dio: per opera dell'unico uomo Adamo
la morte, e per opera dell'unico uomo Cristo la risurrezione dei mor-
ti; il Cristo primizia dei dormienti; come ultimo nemico (di Dio e
degli uomini) viene distrutta la morte; allora Dio sarà tutto in tutti.
Il Vaticano I parla della «alìqua mysteriorum intelligentia» o della
comprensione dei misteri, che la ragione illuminata dalla fede può
acquistare in parte «e mysteriorum ipsorum nexu i11ter se et cum
fine hominis ultimo», dal nesso dei misteri stessi tra loro e con il
fine ultimo dell'uomo (os 3016; d. supra, SEZIONE PRIMA, 2 b).
Prima però il concilio dice che la comprensione dei misteri si ac-
quista dall'altra parte «ex eorum, quae naturaliter cognoscit, ana-
logia», dalla corrispondenza con le nostre conoscenze naturali (Ds
3016). P~r le due corrispondenze, la corrispondenza dei misteri tra
loro e con le nostre conoscenze naturali, il Vaticano I avrebbe po-
tuto richiamarsi all'apostolo Paolo. Per aiutare a comprendere il
modo del mistero («Ma qualcuno dirà: come risorgono ·i morti? e
con quale corpo ritornano?», I Cor. r5,35), Paolo si serve di simili-
tudini tratte dal nostro mondo naturale (come seme, carne, i corpi
e le stelle, 15 ,36-42 ). Metafora ed analogia sono un principio essen-
'sAPll::NZA OJ 010 NEL M!Sn:1w' J'>; l'.\ULU
550

ziale interno alla rivelazione ed all'annunzio (TOMMASO, S. th. 1, 1,


9: «Poeta utitur metaphoris propter repraesentationem,- repraesenta-
tio - la rappresentazione chiara, bella - enim naturaliter delectabilis
est. Sed sacra doctrina utitur metaphoris propter 'necessitatem et uti-
litatem» ). Le metafore e le analogie, che sole rendono possibile la
comprensione del fatto salvifico e dei misteri annunciati, sono an-
ch'esse rivelate; ciò vale certamente delle metafore e delle analogie
di prim'ordine. Ed il teologo manipola a suo modo il metodo del-
l'analogia, perché rivelazione ed annuncio parlano il linguaggio del-
l'analogia. Ed il teologo per il suo metodo della analogia concettuale
deve prendere sempre come norma le metafore e le analogie chiare
della Bibbia e del suo linguaggio.

Siamo al termine dell'esposizione circa la sapienza di Dio nel mi-


stero di cui parla s. Paolo. Come pensiero fondamentale è risultato
questo: la teologia in quanto scienza non nasce soltanto dall'annuncio;
anzi, il kerygma è in tensione con la teologia quale scienza teologicll,
e viceversa. Vorrei concludere con un paragone. :È stato detto che
non può esistere un vero giurista in buona coscienza: non deve an~
che dirsi che non può esistere un vero teologo cristiano in buon~
coscienza, bensi soltanto con una coscienza combattuta, combattuta
non tanto dalla scien~a quanto piuttosto dall'annuncio stesso, che
deve esprimersi nella sua scienza, ma che non può esprimersi in
modo integrale! Tuttavia: scansare una siffatta esistenza teologica in
quanto combattuta, sarebbe una cattiva coscienza integrale davanti
a Dio ed agli uomini, ai quali per la volontà salvifica di Dio il ke-
rygma deve essere indirizzato in ogni tempo e presso ogni popolo,
il che non può avvenire senza inverosimiglianza rinunziando al lin-
guaggio della scienza. La giurisprudenza ha la sua difficoltà con il
diritto e con la giustizia, e la giustizia ha la sua difficoltà con il di-
ritto e 'con la giurisprudenza; così anche la teologia ha la sua difficol-
tà con l'annuncio, e l'annuncio ha la sua difficoltà con la teologia e
con la scienza. Ma come non per questo un filosofo del diritto sop-
primerà la giurisprudenza, così anche nessuna persona intelligente
sopprimerà la scienza della teologia.
SEZIONE SECONDA

TEOLOGIA, FILOSOFIA., SCIENZA


I PRESUPPOSTI DOGMATICI DELLA TEOLOGIA
IN QUANTO SCIENZA DELLA FEDE
ED I PRESUPPOSTI NON DOGMATICI DELLA FILOSOFIA
E DELLA SCIENZA

Abbiamo detto che la teologia (nel concetto specifico d'una scienza


della fede) è posta in discussione da due lati: da un lato dall'interno
o dal kerygma, e dall'altro dall'esterno o d1tlla filosofia e dalla scien-
za. Abbiamo cercato di rendere chiara la protesta che è possibile e
di fatto è avvenuta da parte del kerygma (specialmente in Paolo,
I Cor. 1 -2) contro la teologia (in quanto sintesi di sapienza divina

e di scienza umana). Si tratta ora d'esporre anche l'antitesi della filo-


sQfill ~--dello scienza ~cmtro _1::1,Da teo!ogia c_he pretend~ ~~--~-~~t:!"~~cien­
za, certo in modo diverso dalle scienze puramente profane e nondi-
~
meno in corrispondenza con esse, anzi come pienezza di scienza e
di sapienza umane. La pr.Q.testa dei fi.lose>.fi fQ!}tro la_~~~ia e le
sue eretese scientifiche, ha la stessa grande _,serietà della protesta
k~yamatica contro una teologia critica e le sue pretese kerygmati-
che di essere annunzio ed interpretazione della sapienza e della pa-
rola di Dio.
Se iniziamo ormai a discutere il rapporto tra filosofia e teologia,
lo facciamo in partenza in modo così fondamentale da riguardare
nella stessa misura la teologia sistematica e quella storica e esegetica,
in quanto la teologia storica ed esegetica non dev'essere soltanto at·
tuazione d'un metodo storico e filosofico, ma la sua attuazione al
servizio e nel complesso della teologia.
Entrambe le scienze, teologia e filosofia, considerate sotto l'aspetto
logico_,_ _si J~~~sen_taoo _ç_9me_ l..l.Ila.._çOmp~nziaÙ. E la dìffe-
renza delle due scienze consiste logicamente nella diversa natura dei
ris~ttivi enunciati. E la natura diversa degli enunciati teologici e
filosofici si fonda negli enunciati primi o nella diversa natura di ciò
che nell'una e nell'altra scienza è chiamato presupposto e lo è. Dob-
TEOLOGIA, FILOSOFIA, SClENU

biamo quindi chiederci: che cosa è un enunciato teologico in distin-


zione dall'enunciato filosofico? Oppure possiamo anche invertire la
domanda; e così facciamo qui, perché ci interessa l'essenza dell'enun-
ciato scientifico - anche nella scienza teologica -: che cos'è un enun-
ciato _filosofico in distinzione dall'enunciato dogmatico-teologico, e
che cos'è un presupposto filosofico nei confronti di un presupposto
dogmatico-teologico?
Ponendo la domanda in tal modo possiamo dare una risposta in-
cisiva, che nello spirito d'una dialettica platonica prima distingue per
poi unire le cose distinte.

I. Essenza non dogmatica degli enunciati filosofici


e di tutti i presupposti scientifici

Sotto l'aspetto scientifico fondamentale, un enunciato filosofico è un


enunciato non d2imatiç_o1 _che si fonda su presupposti non dogmatici.
Ma in tal modo un enunciato ed un presupposto filosofici s~no l'esat-
to contrario d'un enunciato e d'un presupposto dogmatico-teologici.•
Ci sforzeremo ancora espressamente di rispondere alla domanda:
che cos'è un enunc!ato ~~atic_o nei confronti del discorso filosofi-
co Li!L~!~.c:> kerygmatico? Hic et nunc ha importanza decisiva
intendere per presupposto non dogmatico un enunciato che rimane
)sempre ape~~~---a..~!__!!_l!!_n_!:lova proposta della ..91!.estione. Pertanto i
presupposti filosofici della scienza e delle scienze (comprese quindi
la storia e la filolpgia) si possono caratterizzare come presupposti
senza presupposti.
Ma gli enunciati primi ed i presuppos.ti della teologia, e precisa-
mente di tutta la teoloaia (incluse quindi la teologia storica e quella
esegetica) sono di natura dogmatica. I presupposti della teologia
~no J_~~i; ed i dogmi sono p~esupposti che non possono essere
Q_osti in discussione, anche se all'indagine teologica presentano que-
stioni-~~- questioni, ma solo questioni dalle quali i dogmi stessi non
sono posti in discussione - sono questioni sui dogmi riposanti sulla
salda base di questi dogmi.
Ciò che RuoOLF BuLTMANN dice sull'erudizione scritturistica nel
suo libro Das Urchristentum in Rahmen der antiken Religionen,
J::SSf.NZ/\ NON llOGM/\TIC/\ DEGLI ENUNCIATI l'ILUSOFICI

Rowohlt 1962, p. 59, coglie esattamente ciò che anche noi intendia-
mo; egli afferma: «La scief1?:~_ degli scribi, come s'è detto, è inter-
pretazione del1°Antico Testament~. Ma n~ri è-;ci~~·;;-n-~I senso della
scienza greca, il cui lavoro si compie da una parte nello sviluppo e
nell'elaborazione della c~osce!lza H~~_ p_ri_~.L~_ne_!!a l~r~pplica­
zione al _c9s.mo, e dall'altra in un C"same sempre ripetuto dei principi
ed in una rinnovazione del fondamento. Infatti per gli scribi il fon-
damento stL._saldo una volta per sempre: la sacra Scrittura».
Questa affermazione di R. BuLTMANN sull'erudizione scrinuristi-
ca indica nello stesso tempo che quanto abbiamo detto sui due pre-
supposti, cioè quello non dogmatico-scientifico e quello dogmatico-
teologico, riguarda sia la teologia cattolica, sia quella protestante,
in quanto nella teologia protestante la Scrittura è considèrata come
nor11J1LJWJ'./l14t1S dosIDatica, cioè come la norma -p~ogni ~a
ecclesiastico__che è norma normata. Per la teologia cattolica il magi-
----
stero ecclesiastico non è norma normans come la sacra Scrittura e la
----~·-
tradizione divina, bensl norma normata, cioè legislazione in materia
di fede (inclusa la legge marà.le) che prende la sua norma dalla rive-
lazione e dalla sua espressione nella Scrittura e nella tradiZIOri.C.
In base alla nostra distinzione dei due presupposti, f!On ha quindi
e
importanza che non esista una__§fienza p_r~_a ~i. pres~osti, che di
conseguenza la scienza teologica su questo punto no9 sia meno scien-
tifica di alt~~-spse__che~~~_a_!!!pansi_la _F_!etesa a scienza; ma ha impor-
tanza decisiva il fatto che nella scienza, nella scienza pura e stretta,
i presupposti vengono intesi come presup~Q~!iJ.L natura non dog-
~~entre nella scien;;-·teologica çj sj fonda piuttosto sul carat-
tere_a~~~lutameme dogmatico dei suoi pr~supposti e dei suoi enun-
ciati, e p~~1samente senza ecC:ezionein-ùittaTaspecialità teologiche,
per quanto queste si distinguano nei loro metodi scientifici, come ad
esempio la teologia storica e sistematica, quella esegetica e dogma-
tica, quella teorica e pratica. Il programma d'una scienza senza pre-

lsu~gi__~L ~ _pr~$mtato ~-~L,E.t_t:~~!!.~u_alinen_te èome una chjac-


\ chiera_ senza djscernjmento; ma giustificare !a teologia come scienza
a partire dalla mancanza d'impresupponibilità in ogni scienza, è pur-
troppo anche un parlare senza discernimento; la scienza come tale
non conosce dogma nel senso in cui la teologia parla e deve parlare
di dogma.
TEOLOGIA, F!LOSllFiA, SC!Er>.ZA
.5.54

2. La pretesa critica del filosofo


alla totalità della conoscenza e dell'ente

Sebbene un enunciato filosofico (in quanto non dogmatico), rappre-


senti l'opposto d'un enunciato dogmatico-teologico, tuttavia in quan-
to,.ta1e non è già un enundato non teologico.
Infatti la legittima pretesa del filosofo (da giustificare filt>sofica-
mente) è rivolta alla totalità del çonoscere e dell'essere, all'ente in
quanto tale e quindi anche alle cose divine, all'esistenza ed essenza
di Dio, alla nostra conoscenza e alla nostra fede da Dio.
Ovviamente questa pretesa del filosofo alla totalità dell'essere e
del conoscere, perché sia in regola appunto sul piano :fisolo6co, deve
( atte~~.~lti del pensiero filosofico e,.,gajpgi non atteggiarsi a
dogmatica. Ma parimenti per la filosofia si deve pretendere che qui
critica (distinzione) o, determinazione dei confini sia e rjmaoga com-
pito proprio della filosofia, e non sia semplicemente accettazione d'una
definizione di confini dall'esterno (o dall'alto), ad esempio la ripar-
tizione, in base alla teologia dogmatica, in teologia soprannaturale e
naturale, dove la naturale è valutata come teologia propriamente
filosofica. Anche e proprio in questo, in ogni divisione di tutto l'es-
sere, ogni enunciato filosofico dovrà essere in assoluto di natura ~on
d~atica, il che non esclud~-aff;~~o che ~~he- dal pu~to di vista
filosofico ed appunto non dogmatico si distinguano infine quei due
campi dell'essere e del conoscere.
Tale distinzione non potrà poi essere assicurata criticamente, sia
nell~sofia, sia nella teologia "dogmatica, senza importanti riserve,
non senza riserve filosofiche in base alla pretesa totali tari a della filo-
sofia, come anche non senza riserve specJfìcamente teologiche in base
alla pretesa totalitaria della rivelazione divina e della fede divina.
La distinzione della teologia in conoscenza naturale e conoscenza' so-
prallllJlturale di Dio, in un campo naturale ed in uno sopran;;;;turale
della conoscenza e dell'essere, non si risolve né teologicamente né
filosoficamente senza antinomie, senz~ - ~ont~aslT.insolubili.
-· ------~--··- -----·-------

La distinzione tra teologia naturale e soprannaturale si resenta in s. TOM-


MASO comc:_detcrf!!in~de rapporto tra fine e via. La duplice equa-
zione dice: se il fine è naturale, lo è anche la via; se il fine è sopranna-
t~rale, come la visione beatifica di Dio, lo è anche la via (il mezzo). Ma
LA IWLUGJA llEI l'ILOSUFI J.:. LA fll.U~UFIA l>J.:.I n:oLUc.;J
555

soltanto la seconda equazione, per così dire soprannaturale, ha valore


assoluto: la conosc:nza soprannaturale di Dio per sua natura ha biso&no
della ~r~nnat~-~~ della rivelazione divina ad opera della parola di
D~~!_~~ella grazia, cioè del lume della fede sulla tem, del
lume della gloria in cielo. Ma le cose stanno diversamente con l'altra equa-
zioQe. per così dire naturale: la reciproca implicazione di fine naturale e
di via naturale vale, è vero, in generale nell'ordine teorico ed astratto-
metafisico; ma nc:ll'ordine pratico e morale-concreto l'uomo, a motivo dcl
peccato originale e.deffa--s-ua-peccariunosità e fragilità, anche per una cono-
sce~ naturale di Dio, perché sia assicurat"a la realizzazione di questa pos-
sibilità persé·u~mana~ha bisogno che, sja indicata la via dalla rivelazione
soprannaturale e ci sia l'aiuto della grazia illuminante, purificante e certi-
ficante. L'ordine e la conoscenza di Dio soprannaturali non sono guindi
fuorL~-~-<!i-~ra dell'ordine e della conoscenza di Dio naturali, ma li
abbraa:iano e permeano internamente. In Taleconsiderazione storico-sal-
vifica dell'uomo e delle sue possibilitli religiose naturali, il Vaticano 1 ha
seguito !'AQUINATE fino nei suoi concetti (os 3004 e 3005; TOMMASO,
S. th., 1,1, r; 2-2,2,4).

3. La teologia dei filosofi e la filosofia dei teologi:


triplex usus philosophiae

Ci f~_c'è ql!i!!di una teologia dei filosofi, esattamente una filosofia


non dogmatica (che non vuole e non deve essere dogmatica) dei fi-
losofici, o la teologia filosofica dei filosofi non dogmatici.
La teologia dei filosofi si è realizzata in grandezza unica nel popolo
degli antichi Greci, sintomaticamente prima che la fede cristiana ve-
nisse nel mondo ed i dogmi della Chiesa diventassero una forza d'in-
fluenza mondiale sugli spiriti orientale ed occidentale. (Per conseguen-
za qui la situazione fu diversa che nell'altra grande forma d'una teolo-
gia dei filosofi, cioè nel secolo filosofico, in cui i filosofi si trovano di
fro~ __aj!~QQI.ex:ii-J.c_a_ con l~~~~ dogmatica e con la sua metafi-
sica dogmatiica - i pensatori greci nel mito non avevano a che fare
con un dogma). Ciò che si verificò dai presocratici agli stoici ed ai neo-
platonici, da ERACLITO ed ANASSAGORA e presso PLATONE ed ARI-
STOTELE fino a PosmoNro e PLOTINO e PROCLO, fu la scoperta e la
conquistL~flli:t.~_.nuo~.a. p_~.s~bilit~ inte_llettuale dello sE_irito umano,
cioè della teologia nel concet!o filosofico, greco-filosofico. E la teolo-
gia Jei filosofi greci è divenuta modello indicativo, scientifico per
TJ;ULUlil.\, HLUSUFIA, SClliNZA

la teologia dei teologi cristiani. Senza la teologia dei filosofi ci sareb-


b~ scienza cristiana della rivelazione come qualcosa che in un con-
ce~--~llfY-~e potrebbe essere chiamato teologia e scienza; ma non
ci sarebbe~..Q~i!_cri~tiana nel concetto specifico d'una scienza teo-
logica. Il tratto fondamentale della teologia dei .filosofi greci fu <!
riffiiiSè teologia lungo il CafJlmino e la scienza dell'ontologia (spiega-
zione ontologica del mito e del cosmo mediante il l6gos dell'essere),
ed infatti la visi911e dell'essere di tutte le cos~. di quelle terrene-
umane e di quelle celesti-divine, costituì la dote peculiare e propria-
ment~~!ì_~~-~Le_opolo filosofico dei Greci. E quale importanza
abbia acquistato la 'teologia lungo il cammino e la scienza dell 'onto-
logia' come modello scientifico per la teologia cristiana e special-
mente per la scienza scolastica della fede, è testimoniato da nomi
come ANSELMO DI CANTERBURY ed UGO DA SAN VITTORE, ToMMA-
so o'AQUINO e DuNs ScoTO. Con questi teologi siamo così giu~ti
nello stesso tempo alla _§:1~~°.~~--~~.!_~~ologi ~!l~ loro teologia. _
Accanto e successiva ali~ teologia mfosofi, e'~ anche una filo-
~fi...!_~l teol~ Ma questa non è vera filosofia, bensì è e rimane vera
teologia., __ ~eol~ia non nel concetto specific~mente fil?.soi!_co d'una
scienza l!!Zionale, ma,..teologia nel concetto specificamente teologico
d'una scienza della fede. Per parlar~· con esattezza, si deve parlare
d'un uso della filosofia, d'UA uso del filosofare al servizio della teo-
Io~_!!l~~nto scienza della fede. Ben presto nell'antichità cristiana
i grandi Alessandrini come CLEMENTE ed 0RIGENE, poi AGOSTINO,
il più grande platonico cristiano, con le sue profonde visioni psico-
logiche ed i suoi grandi abbozzi di filosofia della storia o meglio di
teologia della storia, nel pieno. Medioevo le grandi figure di pensa-
tori tra i filosofi scolastici, un ANSELMO con la prova ontologica di
Dio, TOMMASO o' AQUINO come commentatore d'ARISTOTELE, il Cu-
SANO nella sua speculazione sull'infinito che inizia la filosofia mo-
derna: tutti costoro, nonostante la loro vasta e profonda forza e sfor-
zo intellettuale, da cui c'era e c'è tanto da imparare anche sul piano
puramente filosofico. sono e rimans_ono teologi, la cui filosofia non si
può ne ure accostar~=:=-penetrare. senza la loro stessa teologi~-­
e già qui non si dimenuc 1 e e a . oso a l questi teo ogi non creb-
be soltanto dall'esterno con un'aggiunta esterna, ma fu imposta anche
all'interno dal kerygma e dal dogma (di questo tratteremo in seguito).
LA TEOLOGIA DEI FILOSOFI EU FILOSOFIA DEI TEOLOGI
557

Per completare il nostro discorso sull'usus philosophiae, distin-


guiamo e raggruppiamo un triplice uso della filosofia: l'usus philo-
f.Q~ o il filosofare per amore della filosofia; l'usus theologicus,
o il filosofare aLserygig __ 9ella teologia in quanto s~eIIa fede;
ed infine l'usus cosmicus, o (per dirla con I. KANT) filosofia non nel
con~colastico (scientifico), ma !n un concetto profano (sapien-
ziale) (metafisica in quanto disposizione naturale dell'uomo come cit-
tadino del mondo). Va da sé che i' uso della filosofia al fine di co-
struire una scienza della fede, filosoficamente dev'essere considerato
cllrrle usus secundarius. E per l'usus cosmicus o concetto e senso
ideologico della filosofia (amore della sapienza), si deve prendere
in considerazione uno dei detti più noti di I. KANT nella Critica, e
precisamente nella architettonica della ragion pura: la filosofia rife-
risc~_ alla sapienza, ma per la via della scienza (B 878).

Nel parlare del triplex usus philosophiae ho preso come modello dalla teo-
logia i;>rotestante il triplex usus legis, che però in quella teologia non è
affatto un discorso generale, e che soprattutto è assolutamente problema·
tico - specialmente per quel che riguarda il te,rzo uso della leg~: la dot·
trina d'un t · lice uso della le e conosce l' so bor hese dei dieci coman-
damenti 'nel palazzo municipale' e nella 'comunità civi e' (usus po 1t1cus
seu civilis), poi sul pulpito l'ufficio della legge che convince l'uomo, anche
il cristiano, della sua peccaminosità e...d.eL§.1:12. bj~og_no di salvezza (ums
theologicus seu elencticus), ed in terzo luogo l'istrùZ!Oil'e dei comanda-
mepti nel Vangelo e sotto il Vangelo (usus tertius seu paraenetic11s). È
certamente istruttivo confrontare tra loro le due trla<II:-I>ertrteologo b
filosofia non è forse anche una parte della 'legge'?

Ci chiediamo ancora brevemente se all'usus theologicus della filoso-


fia, all'uso cioè della filosofia ai fini della speculazione teologica, non
si debba associare ancora CQ_Qle quarto un usus p_hilo!EEÉ!.~~___i,ella
teologia, un uso cioè della teologia ai fini della speculazione filoso-
~ -·-----.--~-------
ik_~. In ogni caso per un uso filosofico della teologia si deve fare di
questa nella filosofia un uso filosofico, quindi non dogmatico. Ma
nella maggioranza dei casi un filosofo che ·Ta-<Iélla teologTapresen-
terà que!lo sgradevole fenom;;;--1~---cui nat-ura-non nè--;.;é genuina-
mente filosofica, né genuinamente teologica e che rivela una perdita
di disciplina mentale; se un semifìlosofo non giunge alla purezza d'una
stretta disciplina filosofica, il fare teologia non potrà nasconJere que-
TEOLOGIA, FILOSOFIA, SCIENZA

sta mancanza di forza intellettuale. Ci atteniamo perciò al trip!ex


usus philosophiae e diciamo ancora qualcosa sull'usus cosmicus, per-
ché_ questa è una c-;,sa àa prendersi sul serio.
Filosofia in quanto ideologia (in un senso prescientifico e super-
scientifìco) ci fa tornare ancora una volta al concetto di presupposti,
per apportare ad esso ancora un'importante chiarificazione, precisa-
mente di 'fronte alla questione che dobbiamo porre e risolvere a
conclusione delle nostre considerazioni sulla scienza e sui suoi pre-
supposti; la questione, cioè, della posizione che la teologia (in quan-
to scienza della fede) ha tra le scienze universitarie.

4. Scienza ed ideologia:
posizione della teologia nell'università e nella scienza universitaria

Se si è parlato e si parla di presup!iQ.~_!i_~c:_~~i~nze, lo si fa operan-


do un..Lci!~-~ir:iz.io_n_~_E0_!15e~tuale. Per presupposti delle scienze inten-
diamo in prima linea presupposti scientifici o intrasdentifici, cioè
quei presupposti che nel campo degli oggetti d'una scienza preesi-
stono realmente come fondamenti ed abbozzo secondo i quali una
scienza può essere costruita. Per dirla con I. KANT e con la Scola-
stica, sono i 12!incì~~~~i.!_~tJ~L.~hc present~no una priorità sui _prin-
cìpi_ regolativi o regulae directivae. Nei suoi princìpi regolativi I.
KAN~-p~~;;~;-à- C?ncetti .i.~e2l.og~c!__o ad immagini direttive; oggi
nelle. scienze naturali e storiche parliamo di punti di vista ideologici,
ma gnza mai distinguere nettamente questa specie di presupposti
dai fondamenti intrascientifìci che d~terminano il campo degli og-
getti d'una scienza. Ciò che oggi chiamiamo e pratichiamo nuovamen-
te ~ol.~11.t_i~~i. co.lll~_i!!~~g!_ne dei fondamenti, non significa, almeno
fondamentalmente, punti di vista ideologici, prese di posizione, im·
pulsi e prospettive prescientifiche e superscientifiche, ma presuppo-
StU!J:E_tt_~Il1~!!~~.()~ttivi, intrascientifici, quindi non tanto idee me-
tafìsich~ bensì princìpi logici ed ontologici e - in questo concetto
ontologie~-.:::- metafisici. Ifper il rapporto tra scienza ed ideologia è
da ricordare la frase già citata di I. KANT: la filosofia (nel concetto
profano) riferisl;C..l!,illo alla sapienza (ideologia), ma per la via della
sc:ienza (e dei suoi princìpi ontologici). Infatti le prese di posizione
SCIENZA E IDECLOGIA
559

che 1 provengono da comprensioni mtultlve del. reale non possono,


per 1o scienziato, pretendere alla verità allo stesso titolo che i princì-
pi interni d'ima scienza.
Quali presupposti sono ora i .@g_f!!_t_~ella Chiesa in quanto pre-
supp~~lla scienza_ teologica: sono presupposti nel concetto spe-
cificam~ntifico di principi costitutivi, oppure sono punti di
vista ideologici ed immagini direttive? Con tutto ciò che abbiamo
detto finora sulla scienza e sui suoi presupposti in genere e sulla
teologia ed i suoi presupposti_ dogmatici in particolare, abbiamo già
predelineata la risposta: i dogmi della Chiesa sono i presupposti
dogmatici pro.e.ri della teologia quale scienza della fede in quanto
principi costitut~ dai quali si possono costtuir~i campiili oggetto
della teologia e nei quali gli enunciati teologici trovano le ragioni pri-
me ed ultime del loro avveramento. Significherebbe compromettersi
dal punto di vista teorico-scientifico, se nei presupposti dogmatici
della teologia si veck_~e solo qualcosa come punti di vista ideologici
ed ..iJn!!!!gini direttive; -~-osl-~"n-fif~;~{;··-~clì-ç~bit~ ·"cf~ff;"-$~-; filoso-
fia e dei suoi confini può considerare i dogmi ecclesiastici e parlare
d'ideologia cristiana - e così nella facoltà filosofica può benissimo
trovar posto una cattedra d'ideologia cristiana (cattolica o protestan-
te). Ma un dogma nel concetto specifico-teologico (come dovrebbe
ancora risultare nella questione dell'essenza d'un enunciato dogma-
tico) è essenzialmente qualcosa di diverso e di più rispetto ad un
concetto ideologico; e la teologia in quanto scienza della fede non
ha la sua natura teologica propria nell'offrire una specie di dottrina
ideologica tra tutte le ideologie e teorie ideologiche; ed una cattedra
teologica (soprattutto per una facoltà classica) in quanto tale, non
dev~~!<:_~~~par_a_t~ ad una ca_ttedra d'ideologia cristiana, per quan-
to importante dal punto di vista oggettivo e personale, sia una cat-
tedra di ideologia cristiana nell'università rispetto alla filosofia ed
anche rispetto alla teologia, ed in genere entro uno studium univer-
sale.
E dove stanno infine teologia e facoltà teologica nel complesso
dell~1:1niv~~~jtà, .1J.dl'u_njl!§r_siJEL lit terarum, nell' a!:_l_~i~~--~~ll~Jacol tà e
dcl.!Lscien.zeL In tale questione sulla 'teologia e scienza universita-
ria', è decisivo tener presente, e su questo non abbiamo mancato di
chiarezza, che la scienza teologica per il carattere dogmatico dei suoi
TEOLOGIA, FILOSOFIA, SCIENZA

presupposti e dei suoi enunciati si distingue da tutte Ie altre scienze


universitarie, i cui enunciati ed i cui presupposti per principio devo-
no essere di natura non dogmatica. La scienza teologica e la facoltà
teologica hanno quindi una posizione particolare nell'università e
nelle sue facoltà e nelle sue scienze. Non per questo si parlerà ancora
della teologia e della facoltà teologica come d'un corpo estraneo nel-
l'università e nella scienza universitaria - e neppure lo si fa in quan-
to si ha e si conserva uno sguardo critico per i grandi e non sem-
plici nessi tra scienza e fede e tra società e religione, tra Stato e
Chiesa. Anche dal punto di vista della scienza universitaria, un'uni-
versità.......n..QQ.~a~~~à__E_~lla· neppure in carattere scientifico, nel
non avere una facoltà teologica; a siffatta umversità manca anzi un
me~o ner-suo-organiSmo; e questo membro, per quanto proble-
matica sia la pretesa scientifica di questa scienza, è posto come
segno _~~~I!~U~-~is~'!_e_~tu~_!o l'uomo la scienza non costituisce la
totalità e l'ultima realtà dell'uomo, neppure nell'università e nelle sue
scienze, per quanto alta sia la considerazione in cui devono essere
tenute università e scienza in quanto creazione dello spirito umano.
Ma la teologia, come avveniva dal Medioevo, non dovrà più tenere
un ,Primato _sulle altre facoltà; oggi questo non può più essere consi-
derato, per così dire, un primato di diritto, ma ormai solo come pri-
mato ·<Fonore·;--i·n base·-;n~ sviluppo storico della quaterna classica
delle facoltà. Infatti la teologia non è la prima scienza nel senso del-
la scienza fondamentale che fonda ogni scienza; questa scienza fon-
dam";~iàie·~~~~epita in mOdo non dogmatico ma critico, era, è e deve
rimanere la.Jì!?~ofìa, che è la regina delle scienze: il regno della teo-
logia non sta nel campo della scienza, ma in quello della fede.
I~ ;teologia e scienza' e quindi anche in 'teologia elilosofia' ab-
biamo a che fare con uno dei grandi dùalismi che incontriamo dovun-
«;l!Je nelle scienze. E nella dialettica diaire~, nella di-
sputa, che separa e congiunge, della filosofia con la teologia e della
teologia con la filosofia, entrambe, teologia e filosofia, possono tro-
vare ciascuna piena realizzazione, la teologia dei teologi e la filosofia
dei filosofi e quindi anche la teologia dei filosofi e la filosofia dei teo-
logi. Come diceva l'antico ERACLITO (B 8): Dalle cose separate e poi
riunite risulta l'accordo più bello.
SEZIONE TERZA

KERYGMA, DOGMA, ESEGESI, STORIA


CAMPI FONDAMENTALI D'UN ENUNCIATO TEOLOGICO
DIVISIONE DELLA TEOLOGIA

Abbiamo contrapposto l'enunciato teologico e quello filosofico nel


confronto distintivo. Va da sé che in un simile modo antitetico di
considerare non si fa vedere la totalità d'un enunciato dogmatico-
teologico e neppure la totalità d'un enunciato filosofico. Possiamo
lasciare ormai da parte le questioni dell'enunciato filosofico, perché
qui si tratta in primo ed in ultimo luogo dell'essenza d'un enunciato
teologico. Ma oltre la sua antitesi con la filosofia, dobbiamo ancora
chiarire l'enunciato dogmatico-teologico nei suoi rapporti per così
dire intrateologici con le strutture ed i campi fondamentali dell'og-
.getto della teologia in quanto scienza della rivelazione e della fede.
Qui al centro sta il rapporto di ogni enunciato dogmatico con il keryg-
ma in quanto messaggio della rivelazione e della fe~e. Parti essen-
ziali di questo kerygma sono dal canto loro la storicità delle verità
salvifiche in quanto fatti salvifici ed il carattere linguistico della dot-
trina salvifica in quanto farsi parola del Dio che attraverso la sua
parola agisce con noi. Ci appaiono cosl quattro strutture fondamen-
tali dell'oggetto della teologia e quindi anche quattro campi fonda-
mentali dell'enunciato teologico, cioè dal basso verso l'alto: storia,
esegesi, dogma, kerygma.
Sul filo conduttore di questi campi d'oggetto e di queste strutture
d'enunciato, si può risolvere la questione cosl importante della divi-
sione della teologia, d'una divisione non come semplice ripartizione
di lavoro e di specializzazione, ma come divisione interna, logica ed
ontologica dalle oggettive strutture e regioni di enunciati specifica-
mente teologici.
Ma prima si deve premettere qualcosa - sia pure brevissimamen-
te - sulla struttura generalissima e formale che sta alla base delle
cosiddette quattro strutture materiali, cioè la struttura logico-formale
dell'enunciato. Tutti e quattro i modi di enunciato sono appunto,

36 Mysterium salut is / i.
KERYCMA, DOGMA, ESF..GESI, STORIA

ciascuno a modo suo, enunciati. Ciò può apparire una tautologia, ep-
pure esprime una cosa importante.

r. Natura logica ed essenzialità teologica dell'enunciato

'Enunciiuo' è divenuto ai nosti giorni un roboante termine di moda.


Ma non ci piace collocarci dinanzi alla passerella d'un discorso di
moda. Preferiamo andare con gli scolastici alla scuola d'ARISTOTE-
LE e ripetere ciò che egli ha saputo dire in modo semplice e calzante
sull'enunciato, e questo nella misura in cui entra in particolare rap-
porto con la peculiarità d'un enunciato teologico.

a. Enunciato e giudizio come sede della verità, del 'sì' o del 'no'

Si deve partire dal fatto .che enunciare _n~ è un semplice dire, un


semplice dire o nominare qualcosa, non è semplicemente il dire un
nome od una parola, ma è dire- ualcosa-di-qualcosa o ure dir.e-o-
nominare-qualcosa-in-quanto-qualcosa. Pren iamo un esempio che ha
importanza teologica:
O sacrum convivium,
in quo Christus sumitur,
recolitur memoria passionis eius,
mens impletur gratia
et futurae gloriae nobis pignus datur.
Qui si fanno quattro enunciati in quanto predicazioni dello stesso
ed identico soggetto, cioè del banchetto sacro: manducazione del
Cristo, ricordo della passione, pienezza della grazia, pegno della glo-
ria. Né il soggetto, né i predicati sono detti o nominati semplice-
mente per sé; ma il soggetto viene detto come ciò di cui sono
enuw;iati i predicati, ed i predicati sono detti come ciò che vie-
ne enpocjato del soggettO. Ciò che corrisponde oggettivamente ad
un enunciato, in tedesco viene designato con felice espressio~e
lSachverhalt stato delle cose; di modo che possiamo anche dare que-
sta definizione: una proposizione enunciativa esprime uno stato di
cose, enuncia come ~ta (o non sta) la cosa, e, per scegliere ancora un
cscmpi•1 avente importanza teologica, enuncia che noi siamo (nemici
NATU]l.\ LOGICA ED ESSENZIALITÀ Tl!OLOG!CA DELL'ENUNCIATO

di Dio o) figli di Dio, come è detto in 1 Io. 3,.1: «Guardate quale


immenso amore ci ha donato il Padre, cosl che siamo chiamati figli
di Dio e tali realmente siamo». Non è necessario per i nostri scopi
dis~jnguere espressamente enunciato e giudizio, ma rimane vero che
il g\wiizio è l'enunciato d'uno stato di cose, e nella proposizione
enunciativa si esprime un giudizio su uno stato di cose (la sua affer-
mazione o negazione), ed in quel passo di Giovanni, con il giudizio
c.lello scrittore della lettera, si enuncia persino un giudizio di Dio
sull'uomo, una denominazione dell'uomo da parte di Dio, un confe-
rimento divino di nome.
Nel giudicare e nell'enunciare, come è detto nel linguaggio scola-
stico, si manifesta l'intelletto che separa e congiunge (intellectus di-
videns et componens) dopo l'intelletto che semplicemente conosce
(inte-Uvtu r rimpliciter ap prebende ns), dopo la conoscenza prepredi-
catWa__di gualcosa in base ad un semplice dato d'esperienza, qcindi
anche in ·base ad un semplice dato ed esperienza nella fede. Nei no-
mi. giudizi ed enunciati hanno luogo le due cose: divisione, cioè
ripartizione d'un tutto in soggetto ed oggetto d'uno stato di cose,
e poi attribuzione dell'oggetto al soggetto per mezzo della copula
quale affermazione dell'essere - per prendere l'esempio già citato:
filiazione divina enunciata come nome ed essere dell'uomo. Anche
in un filmile giudizio affermativo, e non soltanto nel giudizio nega-
tivo, ci sono le due cose: divisione e quindi attribuzione. Nel giudi-
care e nell'enunciare quindi ha luogo una duplice divisione: divisione
in soggetto e in oggetto e divisione della copula in affermativa o
negativa; e la decisione per il 'sl' o per il 'no' avviene proprio me-
diante la separazione di soggetto ed oggetto.

b. Enunciato in quanto proprietà dell'uomo

Giudizio ed enunciato sono quindi di grande importanza: v'è separa-


zione delle essenze, nella quale le cose nel nostro pensiero vengono
'giudicate' e collocate al loro posto ed anche nel loro tempo; v'è
separazione delle essenze per amore della decisione, della decisione
tra il s'f'edilìlo; v'e l'o - o, l'o - o tra verità e fa1sità, tra verità e fal-
sità dell'enunciato; v'è la questione dell'essere o del non essere. Nel
giudicare e nell'enunciare si esprime la natura propria dell'uomo e
KF.RYGMA, DOGMA, ESEGi.SI, STORIA

del suo spmto. L'intelletto divino (intellectus divinus) non è uno


spirito_che giudica ed enuncia nel nostro senso proprio. bensì è uno
spirito che semplicemente vede e semplicemente dice: Dio -;;on dice
che si faccia la luce (questa è una traduzione in locuzione umana),
ma dice semplicemente 'luce', e la luce è. Con la sua facoltà d'enun-
ciare, l'uomo sta tra Dio e l'animale. Quando il cane guaisce, mani-
festa il suo dolore, ma non lo enuncia (anche questa sarebbe un:i
trasposizione in locuzione umana).

c. L'opera di Dio enunciata in parola di Dio

E se l'uso del termine 'enunciato' non dev'essere una semplice me-


tafora, anche il mondo e le sue cose non debbono essere chiamate
propriamente enunciati su Dio, poiché solo l'uomo enuncia il rap-
porto del mondo e delle cose con Dio; e neppure Dio stesso si enun-
cia nel suo mondo e nelle sue cose, di modo che mondo e cose
debbano chiamarsi autoenunciati di Dio, invece che semplicemente:
manifestazioni o segni che debbono essere interpretati e vengono cosi
~ssi. La rivelazione di Dio nelle opere della sua creazione (Rom.
I 1 20) acquista il suo carattere d'enuncifilo nell'enunciato dell'intellet-
to umano sul mondo e su Dio. Per contro, la rivelazione di Dio nella
sua parola (Hebr. 1,1) dev'essere caratterizzata come autoenunciato di
Dio, che però avviene per mezzo del linguaggio umano e dei suoi mo-
di d'enunciato, come quando Dio ed il suo Spirito hanno parlato ai
padri per mezzo dei profeti. Se quindi consideriamo il rapporto tra
rivelazione attraverso le opere e rivelazione attraverso le parole in ba-
se al carattere d'enunciato, appare che la rivelazione attraverso le ope-
re acquista il suo pieno carattere d'enunciato soltanto nell'abbina-
mento c~ la rivelazione attraverso le parqle; nell'unione con la ri-
velazione attraverso parole, anche la rivelazione attraverso le opere
si esprime come enunciato di Dio su se stesso e sul suo mondo e sul
suo regno e sulla sua giustizia e sul suo amore. Che cosa sarebbero,
per fare un paragone, anche le opere dell'uomo e gli atti della storia,
senza la forza enunciatrice dell'uomo, che sola dà significato vivi-
ficante ad ogni opera e ad ogni atto?

Notiamo espressamente che nelle cose or ora esposte è stato toccaw bn:-
NAl'URA LOGIC:A t:D ESSENZIALITÀ l'EOUJGICA DELL'ENUNCIATO

vissimamente un tema fondamentale del dialogo ecumenico. La teologia


cattolica trova certamente ascolto in teolo i rotestanti uando an he i
teologi cattolici avvertono la mancanza e a nzione enunciatrice da par-
te Ila rivelazione attraverso le o ere come una mancanza fondamentale
di @attere di rivelazione, cosicché deve intervenire la rive azione attra-
verso le parole, affinèhé si giunga a chiari enunciati sulla creazione e sul
Creatore. Non ultima cosa, di fronte alla rivelazione naturale, nella crea-
zione di Dio, nella sua bellezza e nella sua gloria, l'uomo corre il rischio
di perdersi dietro l'opera d'arte di Dio e d'intendere la ualità di rive-
lazione che a a rive azione attraverso le opere, principe mente come qua-
lità estetica e quindi di fallire il giusto ordine delle qualità (religioso,
etico, estetico). Per il cristiano il carattere di opera della creazione divina
e la sorni 'anza dell'uomo con Dio diventa enunciato sul Libro della Crea-
zione, per il qua e il cristiano a a chiave in mano con il Libro della
Parola di Dio e della rivelazione attraverso la parola.

d. Carattere dogmatico del kerygma in quanto enunciato;


gradi dell'enunciato

Il carattere d'enunciato proprio ad un discorso teologico non è quin-


di semplicemente qualcosa di logico-formale alla sua suErficie, ma
si fonda sul carattere d'enunciato della rivelazione divina e sulla
sua ..essenza propria, e dev'essere accostato e posto in risalto in base
a questa profondità. In tale carattere d'enunciato della rivelazione
e del suo messa2gio è insito il carattere dogmatico della predicazio-

--
ne. Non è necessario che ci avventuriamo ora in una definizione di
ciò che si chiama 'dogma' e 'dogmatico'. Qui ci basti questo: dogma
nel senso generalissimo è campo d'opinione e d'enunciato, in cui
c'è separazione e decisione: o - o, sì o no, verità o falsità (nel sì
c'è il no, e nel no il sì; una teologia che si diffonda in negazioni
o condanne, è unilaterale, ma lo è anche una teologia che parli
esclusivamente per affermazioni). E dogma nel senso tutto partico-
lare nella predicazione e nella teologia cristiane, è quel campo di
salda opinione e di deciso enunciato, che non prese!J.ta soltanto opi-
nioni ed enunciati su verità e fatti di fede e su modi di fede - questo
fa andie la scienza della religione -, ma sa, credendo, d'essere posto
nella fede stessa, nell'assenso della fede alla sua verità e nella nega-
zione all'incredulità ed all'errore. Qui il carattere dogmatico d'enun-
ciato d'un discorso teologico non si esprimerà per lo più in modo
566 KERYGMA, DOGMA, ESEGESI, STORIA

autocosciente e formale, come avviene invece al vertice nel dogma


definito. Ci sono gradi d'enunciato. gradi della concettualll_à, ci sono
enunciati ancora vicini ad un parlare semplicemente kerygmatico,
come avviene ad esempio nel pregare e nel parlare d'una semplice
fede nel Signore presente nel sacramento; e ci sono enunciati che
dallo sforzo del concetto ritornano ad un'imm . icata
quale ~a io piu to e 'a errare nell'essere afferrati dal mistero,
come nelle proposizioni di TOMMASO D'AQUINO nella sequenza del
Corpus Domini, i cui enunciati sono caratterizzati esplicitamente co-
me dogmi: «dogma datur Christianis, / quod in carnem transit pa-
nis / et vinum in sanguinem».
Che cosa risulta da questo per determinare il rapporto tra keryg-
ma e dogma? Anche il kerygma, cioè l'annuncio vivo, che ayviene
hic et nunc, deJl'annuncio fatto mediante i profeti e gli apostoli nel·
l'avvenimento salvifico passato-presente-futuro, questo kerygma dal
punto di vista della logica del linguaggio ha .carattere d'enunciato,
e quindi dal punto di vista teologico ha carattere dogmatico. Ha la
forma logica, 'nozionale' (come si esorime J.H. NEWMAN) del giu-

-
dizio. E come in tal modo il kerygma non è e non viene detto senza
forma dogmatica, anche se in gradi diversi d'enunciato, così ogni
dogma, al di là di sé, indica il kerygma, è riferito in modo metalo-
gicQ. al kerygma, in cui è 'realizzato' e diventa 'realizzabilèi' (J.H.
NEWMAN). Il kerygma è quindi la causa prima e finak metadogma·
ti~ dogma e del diritto ecclesiastico divino, dogmatico; esso è
la trascendenza dell'elemento dogmatico. L'AQUINATE, là dove affer-
ma il carattere d'enunciato della nostra .fede (S. tb. 2-2, 1, 2 ), dice
tuttavia: l'ateo di fede non è diretto all'enunciabile ( enuntiabile)
come a fine bensì alta cosa (stessa). Ma oltre a ciò non si trascuri
l'altro Sed contra, e cioè che noi incontriamo il kerygma e la sua
immecliarezza nel mezzo (per la mediazione) dell'enunciato, e preci·
sarnente dell'enunciato dogmatico-teologico. Il kerygma come tale
non ..è_ ancora teologia nel senso d'una concettualità scientifica; ma
dal kerygma non si potrebbe sviluppare teol9Jia, se questa non fos-
se contenuta in esso almeno implicitamente, di modo che vale la_pro-
~zione: kerygma est initiu';;, fundamentum et radix omnis theo-
logiae.
TEOLCIGJA NELLA Vll'A DI FEDE E NELLA VITA DELLA CHIESA

Le proposizioni di fede della dottrina divina, al pari delle propos1Z1oni


giuridiche del diritto ecclesiastico divino, sono ' ro osizioni' nel senso
marcato di canone e egge. eramente ciò comporta a tentaz10ne non
piccola di dare carattere legale e giuridico al Vangelo, alla fede ed alla
Chiesa. Si resiste a questa tentazione, se s1 prendono m cons1derz1one aue
realtà: primo: che dogma e diritto ecclesiastico hanno entrambi al tempo
stesso un contenuto superlegale e supergiuridico o meglio metagiuridico,
cioè il kerygma stesso; secondo, che diritto e legge non si devono sem-
plicemente equiparare. Il diritto divino fa intrinsecamente parte del keryg-
ma: l'avvenimento salvifico è anche avvenimento giuridico; la grazia è
anche evento giuridico, il che si esprime hngu1st1camente nélle similitu-
dini giuridiche bibliche, ed oggettivamente nella posizione centrale della
giustificazione. Ma questo diritto di Dio è diritto superlegale, e la giusti-
zia della grazia di Dio è diritto supergiuridico: come è vero che il diritto
della grazia (nel campo della fede e del diritto ecclesiastico) è diritto, cosi
la giustizia della grazia è nello stesso tempo un campo supergiuridico; in
altre parole: v'è qui un concetto particolare di diritto in quanto diritto
divino nella distinzione soprannaturale dal diritto umano. Dogma e dirit-
to ecclesiastico dogmatico, divino, sono verità di fede in quanto proposi-
zione e legge, in quanto proposizione di fede e legge di fede; e la realtà
stessa della fede non è senza proposizione e legge, senza la confessione
delle proposizioni di fede, tuttavia nel suo avvenimento salvifico e giuri-
dico è la giustificazione non in base alla legge ed alle opere della legge,
od in base ad una confessione intesa in primo luogo in senso dottrinale-
legale.

2. Sede della teologia nella vita di fede


e nella vita della Chiesa

Enunciato teologico, come abbiamo messo in rilievo, è enunciato di


fed5 e completiamo: enunciato teologico è enunciato di fede e (quin-
di anche) enunciato della Chiesa. Ciò significa semplicemente che
enunciato teologico non è soltanto enunciato su ciò che noi cre~ia­
mo e sul modo in cui lo crediamo, ma è enunciato operato dalla
ragione di coloro che stanno nella vita di fede del cristiano e nel-
la comunità di fede della Chiesa e che ascoltano obbedienti la pa-
rola e la salvezza di Dio in essa annunciata. Questa fede ed eccle-
sialità non valgono soltanto per l'enunciato dogmatico in senso stret-
co, cioè per un dogma, ma anche per tutti gli enunciati teologici, anche
P.er quelli esegetici in quanto teologico-biblici, e per quelli di storia
ltEllYGMA, DOGMA, ESEGESI, ~TOlllA

della Chiesa. Con un termine divenuto di moda al pari d' 'enun-


ciato', possiamo di nuovo parlare anche del Sitz des Lebens, della
«sede vitale», della sede d'un enunciato teologico nella vita di fede
e dcllà Chiesa, della sede della conoscenza di fede nella vita di fede
dei cristiani e nella comunità di fede della Chiesa. Comprendiamo
meglio questa sede della conoscenza di fede nella vita di fede, se la
riconosciamo come sede nell'intelletto, però come sede nell'intellet-
to di fede, nell'intellectus fidei (ANSELMO DI CANTORBÉRY), nella
ratio fide illustrata (Vaticano I, DS 3016).

a. Sede della conoscenza di fede nella vita di fede

La dotta conoscenza della fede ha la sua ragione di vita nell'annun-


cio vissuto della fede. Come dimostra la storia della teologia, i mo-
vimenti di rinnovamento teologico fioriscono insieme ai movimenti
di rinnovamento religioso. Cosl i movimenti teologici dell'alto Me-
dioevo non furono prodotti soltanto dall'afilusso di nuovo materiale
di conoscenza, soprattutto dalla divulgazione dell'intero corpus 'ari-
stotelicum, ma lo furono altrettanto dai movimenti di rinnovamento
religioso dei nuovi ordini religiosi con i loro teologi, i frati predica-
tori come ALBERTO MAGNO e TOMMASO D'AQUINO, ed i frati ,minori
come BONAVENTURA e DUNs ScoTo. Ed infatti nel sec. xr ANSELMO
DI CANTORBÉRY, padre della Scolastica, si muove anche nel campo
d'azione spirituale ed ecclesiale della riforma cluniacense. E nel se-
colo seguente, la riforma cistercense attraverso la spiritualità misti-
ca di BERNARDO 01 CHIARAVALLE fa sentire il suo influsso nella teo-
logia dell'epoca, nonché specialmente in UGO e RrccARDO di S. Vit-
tore.
Accontentiamoci di questi esempi del Medioevo e guardiamo al
nostro presente. Ai giorni nostri soprattutto il rinnovamento litur-
gico ha indicato la via per la forma religiosa ed ecclesiale della scien-
za teologica, quale apparve chiaramente nelle sessioni del concilio
Vaticano u. La lex orandi, la legge della preghiera e della liturgia,
questo opus Dei dell'annuncio mediante la parola ed il sacramento,
si è rivelato nuovamente anche quale legge di vita nei riguardi del-
l'opera dei teologi.· AI rinnovamento liturgico si è abbinato, nel reci-
proco dare 1e ricevere, il movimento biblico quale incontro sentito in
TEULOGIA NELLA VII A lii FEDI:: E NELLA VITA DELLA CHll::~A

modo nuovo con la parola di Dio nella Bibbia e nel linguaggio della
liturgia. Bibbia e lettura della Bibbia hanno riacquistato sempre più
nella Chiesa e nella comunità e nei fedeli la loro posizione storica·
mente ed oggettivamente originaria. La parola della Bibbia è stata
di nuovo sentita nel suo valore proprio prima d'ogni carattere uti-
litario, dopo che addirittura un manto aveva ricoperto la parola
della Bibbia e la lettura della Bibbia. Elevatasi la posizione della
·parola della Bibbia nella predicazione della Chiesa, si è elevata anche
la posizione della scienza biblica tra le discipline teologiche; dopo
una posizione piuttosto propedeutica, la scienza biblica ha riconqui-
stato la sua grandezza teologica propria (su questo si dovrà parlare
ancora in seguito nella divisione della teologia). Ma anche qui avrà
luogo il reciproco influsso, per cui le due posizioni, la posizione ec-
clesiale della parola della Bib,bia e la posizione teologica della scienza
biblica, si innalzano l'un l'altra.

b. Servi.zio della scienza della fede


alla comunità di fede della Chiesa

Alla nuova concezione del culto e della Bibbia si è accompagnata


una rinnovata esperienza ecclesiale. Questa coscienza ecclesiale risa-
liva alle metafore bibliche, alle due designazioni bibliche fondamen-
tali per la Chiesa: Chiesa come corpo (mistico) del Cristo e come
popolo (assemblea cultuale) di Dio; le due metafore e designazioni
si possono cosl compendiare: la Chiesa quale nuovo popolo di Dio
neJla nuova forma del corpo del Cristo. Nella teologia, in naturale
unione con la dottrina dei sacramenti, l'ecclesiologia ha ricevuto
un'ampia e profonda spinta, che solo gli sforzi per l'immagine cri-
stiana dell'uomo e della società hanno eguagliato in ampiezza ed
in vigore, sforzi che si sono accompagnati al parallelo ravvivamento
dell'antropologia e della sociologia nella filosofia.
La nuova visione della Chiesa quale comunità del Cristo e cultua-
le, acquisita dall'interno, ha ora imposto un freno a quel processo,
l'ecdesiasticizzazione della teologia, che nei decenni precedenti e
seguenti il Vaticano r assunse proporzioni rimaste estranee anche al
Medioevo. Sono due cose assolutamente diverse: una teologia eccle-
siastica che è semplicemente tale, cd invece una teologia ecclesiasti-
KERYGMA, DOGM~, l::SEGES!, STORIA
570

cizzata, in cui 'il Cristo e la cristianità sembrano esistere per la Chie-


sa, ed in tal modo e allora soltanto la Chiesa sembra esistere per il
Cristo ed i cristiani. Un enunciato teologico dev'essere un enunciato
ecclesiale, ma semplicemente ecclesiale; esso non ha bisogno e non
deve - come neppure lo deve il dogma - essere un enunciato eccle-
siastidzzato.
La teologia cristiana ha il suo posto nella Chiesa ed ha il suo ser-
vizio per la Chiesa e per il suo annunzio; e nella sua attività ed opi-
nione dottrinale il teologo cattolico è soggetto al magistero gerarchi-
co ed al verdetto dottrinale del papa e dei· vescovi. Se la teologia
è realmente per la Chiesa, tuttavia la Chiesa è non meno per la
teologia, e davvero la sapienza, la sapienza di Dio nel mistero ( r Cor
2 ,7 ), costituisce uno scopo supremo di quélla cristiani Là ed umanità
c:he è destinata e chiamata alla visione di Dio. Se è vero che fides
est inchoatio visionis, è anche e particolarmente vero che intellectus
fidei per scientiam fidei est inchoatio visionis. Anche la teologia ed
i teologi, i santi Padri ed_ i Dottori della Chiesa appartengono in pri-
mo luogo alla gloria della casa di Dio ch'è la Chiesa.
C'è un noto detto del PESTALOZZI: «Il nostro scopo dev'essere
di umanizzare lo Stato, non di statalizzare l'umanità». Come una
statalizzazione della scienza e dei suoi posti ed istituti ha ! suoi li-
miti e pericoli - contemporaneamente, per la scienza e per lo Sta-
to -, cosl anche per la scienza teologica e per la teologia della Chie-
sa sarebbero un danno l'ecdesiasticizzazione e la clericalizzazione, che
non diventassero e rimanessero coscienti dei loro limiti interni ed
esterni.
Non esiste scienza senza critica; e quindi anche la scienza teologica
ha una funzione critica, non solo all'esterno, nei confronti del mondo
e della sua scienza e sapienza, ma anche all'interno di fronte a se stes-
sa ed alla Chiesa, tuttavia non contro la Chiesa ed il magistero eccle-
siastico. Il discernimento degli spiriti non è soltanto dono e compito
di quest'ultimo, ma anche dono e compito della teologia e dei teo-
logi. Il discernimento degli spiriti da parte del magistero non si
realizza senza discernimento degli spiriti da parte dei teologi, e
quindi non senza la corresponsabilità delle generazioni dei teologi.
La funzione critica della scienza teologica non si esaurisce quindi in
un metodo critico o, ancor più strettamente, in un metodo storico-
TUJLOGIA NELLA Vl'f1\ DI FEDE I! Nl!LLA Vll"A DELLA CHIESA
571

critico, ma in un 'Servizio critico alla Chiesa si preoccupa anche del


retto spirito di fede, anzi anche del buon gusto nella pietà e nel
suo linguaggio.

c. Spirito ecumenico della teologia controversistica

Il movimento liturgico e biblico ha avuto ed ha anche una parte


essenziale nell'aprire un'ampiezza ecumenica alla teologia controver-
sistica, alla disputa tra le confessioni, specialmente tra la teologia
cattolica e quella protestante, e nel trarle fuori dalle strette d'una
polemica .confessionale. Non nel senso che 'ecumenico' significhi ap-
pianamento delle differenze o distinzioni dottrinali. 'Teologia ecu-
menica' non significa una specie di superteologia al di sopra di op-
poste confesisoni, una Superchiesa al di sopra delle Chiese. Dal pun-
to di vista cattolico esisteva, esiste e rimane soltanto l'unica confes-
sione cattolica che è vera nel suo insieme, e l'unica Chiesa catto-
lica che, nel suo complesso ed indivisa, in tutte le parti essenziali
rappresenta l'unica vera Chiesa, anche se continuamente bisognosa
di reformatio in capite et membris, affinché la forza divina della sua
essenza indefettibile continui sempre a realizzarsi nella debolezza
umana dei suoi membri e dei suoi capi.
Perciò la teologia ecumenica, il colloquio ecumenico, il dialogo
ecumenico non sono neppure la fine della teologia controversistica,
neanche della polemica, se questa non viene condotta per smania di
discussione, ma per necessità oggettiva d'una controversia oggettiva.
Non esiste scienza senza controversia o disputa, neppure scienza teo-
logica. Parlando di dialogo nel campo delle scienze, non si dimenti-
chi che, secondo SOCRATE e PLATONE, 'dialogo' significò certamente
un colloquio, una disputa, ma in quanto disputa su quel piano supe-
riore dove la disputa non decade a conflitto. La giusta via al collo-
quio o al dialogo veramente ecumenico passa attraverso la teologia
controversistica e porta cosl, e soltanto cosl, al di là di essa.
C'è ancora qualcosa su cui occorre insistere molto: la controversia
con la teologia di un'altra confessione, la controversia interconfes-
sionale all'esterno suppone libertà e forza di controversia all'inter-
no della Chiesa; così, senza una viva controversia interna nella Chie-
sa (come ad esempio al tempo nostro sulla 'dottrina dci misteri' e
sulla 'presenza dei misteri' o su 'Scrittura e tradizione'), una contro-
572 KERYGMA, DOGMA, ESEGESI, :.TORIA

versia cattolica con la teologia protestante ed anche ortodossa è in-


trinsecamente inefficace. Chi esamina come forme di passaggio le
importanti differenze nella storia e nello stato della teologia cattolica
propria e le tratta come semplici dispute scolastiche per l'esercizio
dell'arte del disputare, non può percepire che le differenze confes-
sionali e teologiche tra noi e gli altri sono rilevabili solo ad uno sguar-
do che non si fermi alla lotta in superficie.
Cosl era ed è infatti nei gruppi ecumenici di studio tra teologi
cattolici e protestanti: le differenze dottrinali, ad esempio sul sa-
cramento, sul sacrificio della messa, sulla Chiesa e sull'ufficio, non
sono state attenuate; anzi hanno mostrato un'immagine più essen-
ziale, più essenziale in ciò che separa e più essenziale in ciò che
unisce.
Quasi contemporaneamente al ravvivamento cattolico dell'antico
pensiero cristiano, s'è verificato anche nella teologia protestante un
rinnovamento d'importanza secolare, la nuova riflessione sulla teo-
logia dei riformatori a partire dalla parola di Dio, non più dall'espe-
rienza religiosa. E con questo mutamento, specialmente per KARL
BARTH, è mutata anche l'immagine dell' Antichiesa. Le differenze es-
senziali rimasero intatte, ma in una situazione diversa e non così
semplice come quella che s'era creata prima nei due avversari. Si ag-
giunga ancora, ma ciò purtroppo è caduto quasi in dimenticanza,
che la resistenza ecclesiale comune contro la persecuzione nazista
della Chiesa, e contro il suo regime di terrore, ha reso manifesto
quanta genuina sostanza cristiana, ortodossa, esisteva anche dall'al-
tra parte ed esercitava un'influsso impressionante, e pronto alla sof-
ferenza. Purtroppo nel frattempo e troppo presto dall'una e dall'al-
tra parte ci si è allontanati dall'iniziale carità nella comprensione.
Tuttavia il recente inasprimento combattivo di fronti non concerni!
tanto i teologi ed i fedeli, quanto gli uomini di Chiesa. Ed all'origi-
nalità e serenità d'una calma e semplice ecclesialità nel dialogo ecu-
menico è seguita sempre più ed in modo irresistibile un'ecclesiasti-
cizzazione addirittura grandiosa del movimento ecumenico, sia da
parte cattolica sia da parre protestante, quanrunque, si capisce,
in modo diverso in ciascuna delle due parti. Possano gli amanti
della pace che militano nei due campi, salvari; il loro carattere
calmo, originario, sereno, non programm.atico del dia\ogo ecume-
TEOLOGIA NELLA VITA DI FEDE E NELLA VITA DELLA CHIESA
573

nico! Lo spirito ecumenico è un carisma; e. l'elemento carismatico


deve mantenersi vivo in ogni processo verso istituzioni ed istituti
ecumenici.
La grande figura ecumenica, che attinge alla fonte. di un'ispira-
zione carismatica, nella Chiesa cattolica dei nostri giorni è stata pa-
pa Giovanni. E mediante il concilio da lui convocato e il Segreta-
riato per l'unità dei cristiani da lui istituito, anche la Chiesa catto-
lica, sia pure nel modo irriducibile della sua autoconcezione di Chie-
sa unica, adesso è divenuta la controparte cattolica, mondiale del dia-
logo ecumenico mondiale ai giorni nostri, quale già da quattro de-
cenni si era instaurato nel protestantesimo mondiale e nel Consiglio
Mondiale delle Chiese. Nel dialogo ecumenico di teologi cattolici
con un'altra teologia, anche l'incontro con la. mentalità della Chiesa
orientale dovrà acquistare adesso un'importanza molto maggiore di
quanto si sia fatto finora, sempre nello spirito di papa Giovanni,
ma anche d'un Pio xr, senza dimenticare un dom LAMBERT BEAU-
DUIN ( 1874-1960).
A conclusione della 'teologia ecumenica' e del 'dialogo ecumeni-
co', noi poniamo con forza tre cose. La più importante, ora anche
secondo il Decreto sull'ecumenismo del Vaticano n, apparso nel frat-
tempo, concerne ciò che vorrei chiamare la differenza ecumenica
originaria; e con ciò intendo la differenza nel concetto stesso di ecu-
menico e quindi la differenza delle differenze.
Nel dialogo ecumenico non si deve cioè perdere di vista neppure
per un momento dall'una e dall'altra parte che, 'ecumene' secondo
l'autoconcezione della Chiesa cattolica ed 'ecumene' nell'orizzonte
del Consiglio Mondiale delle Chiese, sono due mondi ecclesiali es-
senzialmente diversi. Si deve ammettere che il dialogo ecumenico è
giunto alla Chiesa ed alla teologia cattolica dall'esterno, per dirlo
apertamente, come qualcosa che non è cresciuto e neppure poteva
crescere nel 'loro campo. Ma una simile riflessione critica - del resto,
come s'è detto, condotta dalle due parti - non esclude un dialogo
ecumenico della teologia cattolica con i teologi delle comunità ecde·
siali non cattoliche, ma solo lo rende possibile nel retto spirito cri-
stiano della verità e dell'ecdesialità. Se ammettiamo che il dialogo
ecumenico riguardi soltanto Li/e and W ork, e non anche Faith and
Order, veramente non si può più parlare rellamente di teologia ecu-
KERYGMI>, DOGMA, ESEGESI, STORIA
574

menica; questa deve appunto essere rivolta anche a 'Fede ed Ordi-


ne', anche se in ciò non si attende una vera 'unificazione', ma sol-
tanto un 'avvicinamento' o più esattamente una migliore, più radi-
cale comprensione reciproca della confessione e delta costituzione del-
l'altra Chiesa, con il che poi si possono curare anche i comuni fat-
tori pubblici d'una vita e di un'azione cristiana in base al centro
cristiano del popolo di Dio e del popolo di fede - Li/e and W ork
e Faith and Order non devono infatti essere tenuti separati.
La seconda e terza cosa che sono ancora da dire, stanno in stretta
connessione con la prima.
Il dialogo ecumenico quanto più procede in modo non program-
matico, tanto meglio va.
Infine: la teologia ecumenica non è una disciplina teologica, un
particolare metodo teologico, ma è uno spirito cristiano che deve
pervadere tutte le discipline e tutti i metodi. Ed il retto spirito ecu-
menico è in primo ed ultimo luogo uno spirito di veracità; dove esi-
~te veracità, ivi esiste anche, e ivi soltanto, carità fraterna.

d. Ampiezza missionaria attraverso l'autolimitazione


della forma occidentale della teologia

La nuova visione, ampliata ed approfondita, dell'ecumene cristiana


nel nostro mondo profondamente trasformato, s'accompagna e deve
accompagnarsi ad una nuova visione, ampliata ed approfondita, del-
la missione cristiana e della teologia missionaria.
La teologia orientale ha in comune con quella occidentale il mo-
dello scientifico del pensiero greco. La teologia occidentale ed occi-
dentale-orientale può essere considerata soltanto come una delle
forme di teologia cristiana tra altre forme possibili. Certamente essa
è divenuta una forma d'importanza mondiale durevole, al pari della
filosofia e-scienza greca. Ma ciò non deve indurre all'opinione ristret-
ta che altri mo.ndi spirituali come la mentalità dell'Asia orientale e
dell'Africa non siano chiamati a nuove forme d'una scienza della fede
attraverso altre forme di pensiero, e ciò affinché la missione non
rimanga spiritualmente estranea a questi popoli, non pochi dei quali
hanno prodotto civiltà superiori indipendenti. Per la prima missione
cristiana fu una fortuna provvidenziale che gli apostoli non avesse-
DIVISIONE DELLA TEOLOGIA
'i75

ro da portare ai Greci ed ai Romani una cultura ebraica, perché que-


sta non esisteva in forma competitiva. Vi fo e rimase l'onere molto
infelice per i missionari dell'epoca moderna di portare nel ]oro ba-
gaglio, insieme al loro messaggio di fede cristiana, la civiltà e le
pretese coloniali dell'Europa.
La missione e Ia scienza missionaria, dagli eventi del nostro rem-
po in Africa ed in Asia orientale son poste di fronte ad un mut<l·
mento di pensiero, che dovrebbe porre in un nuovo movimento :in·
che la teologia occidentale in se stessa; questa può affermarsi anche
dinanzi a se stessa solo se pensa al di là di se stessa, del suo oriz-
zonte occidentale e non arretra dinanzi ad una rivoluzione cosmica
della mentalità occidentale. :F. ormai tempo che la scienza missionaria
assuma una posizione guida nella teologia, come è già riuscito in
misura considerevole alla sociologia cristiana.

3. Divisione della teologia in base ai suoi strati,·


posizione centrale della esegesi

Come campi fondamentali o strati degli oggetti e degli enunciati teo-


logici abbiamo posto, dal basso in alto: storia, esegesi, dogma, keryg-
ma. Per tutte queste specie d'enunciato teologico, abbiamo affermato
che esse hanno la loro sede nella vita di fede e nella vita della Chie-
sa; possiamo anche parlare dello spirito di fede e dello spirito eccle-
siale d'ogni enunciato teologico. In questo contesto abbiamo parlato
ancora in modo particolare dello spirito ecumenico e missionario
della teologia. La stratificazione del mondo degli oggetti teologici
in base a campi fondamentali od a ragioni ontologiche, offre adesso
il presupposto per occuparsi della questione, cosl importante e diffi-
cile, della divisione (ontologicamente intesa) della teologia.

a. Bipartizione della teologia in storica e sistematica

Se lasciamo da parte la teologia pratica - non quasi che essa non


abbia il suo posto importante nell'ambito delle scienze teologiche -,
incontriamo sempre la divisione fondamentale oggettiva e metodica
Jella teologia in storica e sistematica. La bipartizione si raccomandn
Kf.R\'GMll, DOGMI\, ESEGESI, STORIA

precisamente anche sotto l'aspetto metodologico. Proprio in questo


senso metodologico !GNAZ DoLLINGER (1799-1890) ha coniato l'e-
spressione calzante dei «due occhi della teologia»; egli intendeva i
due occhi scientifici (metodici) del teologo, e lo intendeva contro la
preponderanza della teologia sistematica, dogmatica e speculativa
nella scienza ecclesiastica e nei corsi accademici del suo secolo. La
posizione dominante della teologia dogmatico-sistematica e la posi-
zione ancillare della teologia storica ed esegetica trovarono fin entro
il nostro secolo la loro espressione sintomatica nel fatto che a tutta
la storia ed a tutta l'esegesi veniva assegnata una marcata posizione
propedeutica nell'ambito delle specialità teologiche; storia ed esegesi
erano considerate come propedeutica teologica, di modo che per esse
non si .può parlare propriamente di teologia storica e meno ancora di
teologia biblica, ed infatti anche l'esegesi cattolica solo tardi, molto
tardi ha avuto l'ardire di elaborarsi in una teologia biblica indipenden-
te - la teologia biblica era poco di casa nell'esegesi, e piuttosto si
esprimeva nella dogmatica, e qui veramente in forma storico:esege-
tica insufficiente. Ma la teologia biblica ha il suo posto nell'esegesi,
in un'esegesi che non vuole afferrare soltanto frammenti, ma tota-
lità. Certamente la teologia storica ed esegetica e quella dogmatica so-
no destinate ad un servizio reciproco e quindi al servizio di tutto il
cosmo teologico; ma esse possono svolgere questo molteplice servizio
in modo tanto più completo, in quanto si affermino e si sviluppino
nel loro significato proprio. Poiché anche i corrispondenti campi d'in-
teresse hanno ciascuno la loro importanza propria: la parola biblica,
l'evento rivelazione e l'evento Chiesa, lo sforzo dogmatico-specula-
tivo del concetto, l'immediatezza kerygmatica, questa soprattutto in
quanto immediatezza comunicata dallo sforzo del concetto.

b. Triplice aspetto della verità teologica e del metodo teologico

Precisamente a motivo dell'importanza peculiare dei campi d'inte-


resse e dei metodi di enunciato teologici, si raccomanda d'ampliare
la bipartizione della teologia (senza inclusione della teologia pratica)
nei due gruppi speciali, storico e sistematico, nella tripartizione del-
la teologia in storica, esegetica e dogmatica, sistematica.
In che modo si debba intendere la triade 'storico, esegetico, dog-
DIVISIONE DELLA TEOLOGIA
577

matico' non solo sul piano teologico, m@ anche su quello filosofico e


filologico, apparirà chiaro in un modello di dialogo filosofico, cioè
nel dialogo platonico: e prendiamo precisamente come esempio il
Pedone. t il dialogo di Socrate con i suoi discepoli ed amici, nel
giorno della sua morte e di fronte alla morte, sull'immortalità del-
l'anima e sulla sua sorte e sulla vita dopo la morte. Troviamo qui la
triade: storico, esegetico, dogmatico (dogma vale qui opinione, con-
vinzione, insegnamento o doctrina). Infatti quel dialogo ebbe luogo
in una determinata situazione storica, che, in breve, è la morte di
Socrate. Quella morte di Socrate fu indubbiamente un factum histo-
ricum, un fatto storico, al pari della morte di Gesù - se nel confronto
con i discorsi d'addio di Socrate passiamo a pensare teologicamente
ai discorsi d'addio del Cristo giovanneo ai suoi discepoli la vigilia
della sua passione e morte. E quindi si pone la questione del tutto
storica: come avvenne effettivamente la morte di Socrate? La situa-
zione fu effettivamente quale viene descritta dalla mano maestra di
PLATONE? Le cose sono accadute come è detto all'inizio del dialogo,
che narra come fu prorogata l'esecuzione della sentenza in seguito
ad un 'caso', d'u.r:ia tjche, cioè della coincidenza del tempo dell'ese-
cuzione con la legazione sacra degli ateniesi sulla nave ufficiale a De-
lo? Ed al momento della morte di Socrate i fatti si svolsero come è
esposto nella conclusione del dialogo - come in una tragedia? Come
in una tragedia, poiché Socrate va alla morte dicendo: «Ma ora già
mi chiama», c'bsl direbbe l'eroe nella tragedia (l'ciVl'Jp -tpa.yLx6c;),
«l'ora fissata dal Destino» (la etµa.pµÉ\ITJ). Ma non dobbiamo per-
dere di vista con questa 'morte di Socrate' e con questi 'discorsi d'ad-
dio di Socrate', che nel Pedone, noi abbiamo a che fare con una poe-
sia, con una delle poesie della morte più artistiche di tutta la lette-
ratura mondiale. Certamente il Pedone, questa poesia di pensieri,
per dirla con W. GoETHE, è poesia e verità - o meglio nel caso pla-
tonico verità e poesia, in quest'ordine e successione, prima verità
e solo dopo poesia. Poiché per SOCRATE e PLATONE in definitiva si
tratta di verità, di verità filosofica, logica o meglio ontologica, e non
in primo ed ultimo luogo d'un enunciato poetico, mitico e mitolo-
gico - per usare le parole del Fedro: al bel gioco coi miti o discorsi
figurati viene contrapposta la grande serietà del l6gos dialettico, dei
discorsi dimostrativi. Nel Pedone, come anche nell'altro dialogo plato·

~7 • Mysterium salutis / 2.
KERYGMA, DOGMA, l!Sl!GESI, STORIA

nico, si trovano l6gos e mito; nel Pedone si trovano i tre l6goi o paro-
le dimostrative per l'immortalità dell'anima spirituale, e si trovano
anche, non soltanto nella conclusione, discorsi mitici d'ogni genere,
e poi nella conclusione il grande mito del mondo e del giudizio. Ed
ora non possiamo separare semplicemente l'una da]'altra la locu-
zione mitica e quella logica, come se si sorbisse il cioccolato da un
gelato misto. Ma non dobbiamo neppure far confluire semplicemente
l'una nell'altra la locuzione mitica e quella logica. Il rapporto di
logos e di mito, di locuzione logica e mitica, rientra piuttosto nei
problemi centrali, che riguardano lo stile di lingua e di pensiero
d'un dialogo platonico - con ciò siamo nel bel mezzo dello sforzo
propriamente esegetico, filologico. Questa sfera del linguaggio, della
forma linguistica d'un dialogo platonico come il Pedone, sta nel mez-
zo della situazione storica e del contenuto filosofico di pensieri. Que-
sto contenuto di pensieri in quanto contenuto oggettivo d'un dialo-
go, viene rilevato espressamente da SOCRATE - PLATONE, e precisa-
mente anche nel Pedone: come dice esplicitamente SocRATE - PLA-
TONE, non si tratta dell'amicizia con Socrate, ma dell'amicizia con
la verità stessa. Non si tratta quindi soltanto dell'interpretazione del
testo esatta sul piano filologico, ma si tratta in più della questione
sulla verità della stessa cosa, sul contenuto oggettivo avente valore
universale nella sua forma linguistica. Troviamo cosl un triplice sen-
so della verità e della questione della verità: verità in quanto que-
stione sulla reah:à storica (verità in quanto storicità); verità come que-
stione sull'esattezza esegetica, sul testo esatto e sulla sua esatta inter-
pretazione; e verità come questione sulla verità della dottrina (in
definitiva verità come intelligibilità, comprensibilità, razionalità).
Applicato alla scienza teologica questo modello significa che la bi-
partizione usuale della teologia teoretica, non pratica, in teologia
storica e sistematica, deve essere ampliata, come è stato detto, nella
tripartizione di teologia storica, esegetica e dogmatica, ed in questa
precisa sucèessione, con l'esegesi al centro. Tale tripartizione rende
giustizia soprattutto all'importanza propria ed alla posizione centrale
dell'elemento linguistico per una teologia, che è dottrina di Dio in
quanto dottrina della parola di Dio: la quale fa s1 che la storia sal-
vifica dell'antico e del nuovo popolo di Dio da parola divenga fatto
ed annunzi la verità divina ed indichi la via. La parola di Dio ed il
DIVISIONE DELLA TEOLOGIA

suo linguaggio è e rimane la prima legge stilistica d'ogni linguaggio


teologico nella sua precedenza sulla seconda aggiuntiva legge stili-
stica d'una concettualità scientifica, sia essa storica o sistematica.
La struttura dell'oggetto della teologia presenta tre strati: factum
historicum, verbum Scripturae, sacra doctrina. E tutti e tre - stori-
cità, carattere linguistico, contenuto dottrinale -, al di là di loro me-
desimi, sono riferiti al kerygma stesso quale annuncio vivo d'una vo-
lontà divina salvifica e d'un messaggio divino salvifico attraverso la
parola ed il sacramento; e così anche il kerygma stesso non appare
senza carattere di storicità, di Scrittura e di dottrinalità.
Concludendo, mettiamo ancora una volta in particolare rilievo il
carattere d'enunciato che ha ogni predicazione; e solo a motivo del
suo carattere d'enunciato, ogni kerygma ha già carattere dogmatico.
Le strutture dell'oggetto della teologia - l'elemento storico, esege-
tico, dogmatico e kerygmatico - si compenetrano a vicenda nelle
branche teologiche fondamentali, che devono muoversi ciascuna a
modo suo in tutti e tre o quattro gli strati, come appare o dovreb-
be apparire chiarissimamente nella dogmatica: quindi non c'è dog-
matica senza storia dei dogmi e senza esegesi storico-filologica, come
parimenti non c'è esegesi, che pretenda d'essere teologia biblica,
senza il fondamento di enunciati e presupposti dogmatici.
Nella teologia un dogmatismo atemporale ed astorico è di danno
al pari del positivismo, ad esso affine, d'uno storicismo e d'un bibli-
cismo che fanno dissolvere la storicità in effettività e la svuotano
della sua essenzialità ed intima verità.

Oltre la speculazione teologica attraverso lo sforzo della scienza


e del concetto, esiste ancora una teologia mistica in quanto medita-
zione e contemplazione dalla pienezza dello Spirito santo e dei suoi
doni. Come ogni scienza, anche la teologia indica al .di là ciò ch'è
più d'una pura scienza, ciò ch'è sapienza in quanto ispirazione. Così
l'inizio e la fine di tutte le vie della teologia è la· sapienza di Dio
sperimentata e vissuta nella fede. La teologia nel concetto specifico
d'una scienza della fede si è sviluppata per noi come
sapienza rivelata di Dio
per la via della ragione credente dell'uomo.
SEZIONE QUARTA

FORME FONDAMENTALI DELLA TEOLOGIA


IN QUANTO SCIENZA E SAPIENZA;
IN PARTICOLARE
IL CONCETTO DI TEOLOGIA DI S. TOMMASO
(SCELTA E SCHIZZI)

1. Il patrimonio di pensiero trovato da s. Tommaso

a. La base biblica del concetto cristiano di teologia è costituita dagli


enunciati dell'apostolo Paolo su una nuova 'sapienza di Dio nel mi-
stero' (r Cor. 2,7). Nel contesto tematico di questa SEZIONE QUARTA
sulle forme fondamentali della teologia in quanto scienza e sapienza,
compendiamo molto in breve ciò che abbiamo esposto e discusso
ampiamente nella SEZIONE PRIMA sulla sapienza di Dio nel mistero
di cui parla s. Paolo.
La 'sapienza di Dio nel mistero' è pienezza dello Spirito santo nel
credente per la conoscenza spirituale dei mistt:ri divini. Nella nuova
sophia cristiana il pnéuma donato con la pistis si esplica quindi nel-
la gnosis (e nell'agapé) (la genuinità della gnosi si rivela nell'agape).
Oggetto della gnosi sono i misteri. In sintesi essi sono la volontà
salvifica di Dio rivelata nel Cristo; il mistero di Dio e della salvezza
è quindi mistero del Cristo (Eph. 1,3-14; 3,r-12). Nel Cristo viene
anche svelato il senso spirituale della Scrittura: il Cristo è il senso
vivo della Scrittura (2 Cor. 3,14-18). Qui ha la sua origine biblici!
l'esegesi cosiddetta pneumatica (esempi paolini: Gal. 4,22-31; I Cor.
10,1-n). Per l'intelligenza spirituale d'un mistero Paolo si serve del-
l'analogia, sia dell'analogia fidei, sia anche dell'analogia entis; cosl
egli illumina un mistero sia mediante il suo nesso interno con un
altro mistero (r Cor. 15,12-34: analogia {i.dei), sia anche per mezzo
di similitudini tratte dal campo della nostr~ conoscenza naturale
(1 Cor. 15,35-42: analogia entìs).

b. La 'sapienza di Dio nel mistero' di cui parla Paolo, viene ulte-


FORME liONllAMENTJ\LI DELLA TEOLOGIA COME SCIENZA E SAPIENZA

riormente sviluppata soprattutto negli alessandrini CLEMENTE ed


0RIGENE attraverso il loro concetto d'una gnosi cristiana. Ciò che
di nuovo si aggiunge è l'adozione della filosofia greca (non soltanto
della sapienza scientifica di scuola, ma anche della sapienza religiosa
del culto o dei misteri); e precisamente la filosofia, specialmente
quella platonica, viene considerata ed impiegata come scuola prepara-
toria (propaideia) alla vera dottrina. CLEMENTE ALESSANDRINO è il
primo platonico cristiano. Anche qui l'amore è I.a pietra di paragone
della conoscenza: come la pistis si completa nella gnosi, cosl la gnosi
si completa nell'agape.

c. Anche AGOSTINO, che porta a conclusione il pensiero dei padri


sulla scienza sacra, vede in questa più sapienza che scienza. Egli si
collega al concetto neoplatonico di conoscenza, che è determinato in
modo del tutto mistico, cioè: i gradi della conoscenza sono nello
stesso tempo gradi ascetico-mistici del distacco da ciò che è caduco-
terreno e dell'unione con ciò che è eterno-spirituale. Anche la 'scien-
za' in quanto conoscenza di ciò che è caduco-terreno è quindi un
grado ascetico preparatorio al grado propriamente mistico della 'sa-
pienza' in quanto questa è comprensione di ciò che è eterno-spfritua-
le. L'elemento scientifico è semplice passaggio. Il padre della Chiesa
unisce questi gradi neoplatonici della conoscenza con i doni dello Spi-
rito della sapienza e scienza e li applica al Logos incarnato: il Cristo
in quanto Uomo è la nostra via e la nostra scienza, in quanto Logos
eterno è la nostra verità e sapienza. In questo senso cris.tologico,
egli conia la formula: tendimus per scientiam ad sapientiam, cioè: la
conoscenza per fede (scientia) del fatto salvifico dell'incarnazione di
Dio è la nostra via a quella sapienza (sapientia), in cui già quaggili
ci viene partecipata un'intelligenza (intellectus) mistica della verit~
misteriosa che è Dio stesso. La teologia agostiniana è quindi intel-
lectus fidei, cioè intelligenza della verità di fede, e precisamente per
la via della fede, in termini agostiniani per la via del conoscere per
fede la salvezzza. Il concetto agostiniano di teologia compare special-
mente nella lettera I20, Ad Consentium, e nel De Trinitate 12-13.

J. Se l'intellectus /idei in Agostino pende dalla parte d'una visione


mistica, nella teologia scolastica si rafforza sempre più il lato razio-
Il. PATRIMONIO DI PENSIERO TROVATO DA S. TOMMASO

nale, propriamente scientifico, dell'intellectus fidei. Il grande pionie-


re è ANSELMO, il padre della scolastica. Al pari della teologia agosti-
niana, anche quella anseimiana è intellectus /idei e fides quaerens
intellectum (sottotitolo del Proslogion), e precisamente nel duplice
senso d'una visione della verità di ciò ch'è creduto e di una visione
in base alla fede, che quindi deve sempre precedere. Ma l'intelli-
genza della fede acquista qui un'impronta nuova, strettamente scien-
tifica, del tutto razionale. L'intellettus /idei significa qui visione dei
motivi razionàli necessari (rationes necessariae) di ciò che in prece-
denza crediamo, e visione puramente per mezzo della ragione (sola
ratione). Veramente questo impiego radicale della nostra ratio è reso
soprattutto possibile dalla fede (valutata come pedagogo della sal-
vezza), che purifica il nostro occhio spirituale e lo libera dall'incer-
tezza e dall'offuscamento: credo ut intelligarn, Sintomaticamente
l'opera dogmatica principale d'ANsELMO s'intitola: Cur Deus homo?
La parola d'ordine nello stesso tempo antica e nuova del 'Padre
della scolastica' per l' 'indagine' teologica, espressa nelle tre formu-
le Credo ut intelligam, Fides quaerens intellectum, Meditatio de ra-
tione /idei, fu trasmessa al periodo seguente, non senza però che mu-
tassero i concetti delle formule. Questo sviluppo del concetto appare
chiaro con ToMMAsp n'AQUINO in due punti decisivi: dall'intellec-
tus fidei e dal Credo ut intelligam egli esclude le prove (o cinque 'vie')
dell'esistenza di Dio, mentre ANSELMO attuò (nel Proslogion) la sua
prova di Dio, che in seguito fu chiamata la prova di Dio ontologica,
èsplicitamente come Fides quaerens intellectum sotto il Credo ut in-
tellìgam; e nelle rationes, che la ragione di fede indaga, il principe
degli scolastici scorge semplici convenientiae, non rationes necessa-
riae. Il Vaticano r ha espresso il senso fondamentale della 'fede che
ricerca l'intelligenza' delle verità di fede in un modo che trascende
le opinioni scolastiche ed ha· valore universale, ma ha fatto presente
soprattutto il pericolo del razionalismo teologico che minaccia la
nostra ragione, e in corrispondenza lo stretto carattere di mistero
delle verità di fede soprarazionali (o s 3o I 6 ).
FORME FONDAMENTALI DELLA TEOLOGIA COME SCIENZA E SAPIENZA

2. La teologia in quanto teologia deduttiva


secondo il concetto di s. Tommaso
e l'abbozzo dell'epistemologia aristotelica

a. La situazione generale del sapere nel sec. XIII

Il sec. XIII apportò all'Occidente una marea di nuove conoscenze,


parte in seguito alle crociate, parte e molto di più dal regno moresco
ispanico e dalla Sicilia. Il grande evento scientifico del secolo fu la
divulgazione d'ARISTOTELE, cioè, per parlare con esattezza, di tutta
la sua produzione dottrinale. Mentre la Logica aristotelica, ed essa
sola, era già nota !in dal primo medioevo, ora come un sole dalle
nubi ap~~A9no in piena luce la Fisica e la Storia naturnk..__h_Metafi-
sica e l'Etic~-aristoteliche; 7~sì A;isTOTELE era in procinto d'assu-
mereTasuccesstonéli"""PLATONE e di diventare ormai semplicemente
il Filosofo, oppur;,-·cr;~~-dT~~--D~~E, «il ~~~~tt~-dl color che san-
-;;, Vediamo che il nuovo materiale scientifico no~_c;_ra di natura
~te teologica, ma era di per sé di natura puramente filosofi-
ca. E ciò che contava ancor di più: mentre PLATONE ricevette per
cQSl...dire la venia legendi o l'autorizzazione ad insegnare nelle scuole
medievali su raccòmandazione dei padri della Chiesa, ARISTOTELE,
non ancora confermato come maestro d'un nuovo ordine cristiano,
fu ricevuto nonélamiiiicrrstrane;-riiasoprattutto attraverso a filo-
sofi arabi, specialmente AvERROÉ (o Ibn er-Roshd).
Ness~;·meravigITa-;~ gli aristotelici latip_Lnella facoltà parigina
~'artisti' (cioè frequentatori del corso delle artes), si presen-
tarono nello stes_sc:>...!~!1?.l?.~.. ~()_ll.l:~-~-':'~~!~~tj_Jatini, cos} S1GIERI DI
BRABANTE e BOEZIO DI DACIA, per citare i due 'artisti' più im-
portanti. !Ma un principio scolastico dice: Quidquid recipitur, se-
cundum modum recipientis recipitur: quello che viene ricevuto,
viene ricevuto secondo il modo del recipiente. Trasposto allo stato
di ~se ora in discussione, ciò significa che la filosofia aristotelica
.
fu i.u!iiP:~i~!~ A~&li.-~~bi secondo_la lor9~a~ra, -quindTTn base
all'immagine islamica dell'uom~ e del mondo, anche se inoltre ripen·
sata a sua volta in modo filosofico. Il fatto che gli 'artisti' o filosofi
parigini insieme alla filosofia aristotelica, come s'è detto, abbiano
assunto anche la sua interpretazione averroistica, provocò ciò che
LA TEOLOGIA COME TEOLOGIA DEDUTTIVA

I. KANT chiamò poi la disputa della facoltà. Tra i filosofi averroisti ed


i teologi cristiani s'era aperto un contrasto, la cui colpa sembrava ai
teologi che risalisse al pagano ARISTOTELE. Il contrasto si fece sen-
tire in modo tanto più considerevole a motivo del duplice carattere
della facoltà accademica degli 'artisti'. Da una parte essa si configura-
va allora come una facoltà indipendente, perché un numero sempre
maggiore di studenti si dedicava completamente alle artes od alle libe-
re arti o alle scienze. Dall'altra parte la facoltà degli 'artisti' aveva un
carattere propedeutico o preparatorio, in quanto tutti gli scolari do-
vevano iniziare lo studio nella facoltà degli 'artisti' e soltanto dopo
accedevano ad una delle facoltà chiamate allora superiori - teologia,
giurisprudenza, medicina. "Anche i futuri teologi erano quindi in un
primo tempo uditori nella facoltà degli artisti, e per ciò stesso arti-
sti. Anche per questo motivo i maestri di filosofia non avevano in-
teresse ad accentuare espressamente quel contrasto con la teologia
in cui erano caduti; anzi cercavano di mascherarlo e ricorrevano non
esplicitamente, ma di fatto, alla dottrina d'una duplice verità: la
filosofia ha la sua verità come la teologia ha la sua; perché le due
verità non potrebbero coesistere? Questa veramente era la debolezza
intrinseca nella posizione degli artisti.
Ma anche la posizione dei teologi mostrava difese antiquate. 11
rapporto prima esistente della teologia con la filosofia era superato
dai nuovi tempi; l'indipendenza della filosofia non si poteva più fer-
mare. Per quanto il pensiero filosofico finora fosse impiegato anche
nella ricerca teologica - lo abbiamo visto in ANSELMO -, ciò avve-
niva per amore della teologia; ed in definitiva il risultato era teologia
od una filosofia al servizio della teologia. Veramente in A.NsELMO,
in UGO DA SAN VITTORE ed in ALESSANDRO DI HALES non possiamo
più ben dire che la filosofia fosse usata e ritenuta quale semplice an-
cella della teologia; presso di loro la filosofia nell'economia della teo-
logia occupava piuttosto la posizione in cui appariva una volta nel
foglio anagrafico una figlia nubile vivente con la famiglia. Del
resto non soltanto la teologia era responsabile di questa posizione
di costante dipendenza della filosofia, ma quasi altrettanto lo era la
stessa filosofia finora dominante, cioè quella platonica o, meglio,
neo-platonica. Per brevità, ora non posso illustrare a fondo quest'ul-
tima situazione, ma basti un fatto storico. NrcoLA CusANO, figlio in
FORME FONDAMENTALI DELLA TEOLOGIA COME SCIENZA E SAPIENZA

questo del Rinascimento, si rifà di nuovo a PLATONE (attraverso il


neoplatonico PROCLo); ed ecco filosofia e teologia concrescono nuo-
vamente in una oggi cosiddetta 'filosofia cristiana', cioè in una filo-
sofia che non solo non è in conflitto con la fede cristiana, ma prende
i suoi spunti nella fede cristiana e nei suoi misteri. Infatti N. CusA-
NO sviluppa il pensiero più ardito ed anticipatore dell!I sua filosofia,
la coincidenza degli opposti nell'infinito, da una speculazione sulla
Trinità. Uno spunto di pensiero filosofico impossibile per ALBERTO
MAGNO e per TOMMASO! E perché? Perché nel loro concetto di filo-
sofia o di conoscenza scientifica, essi non aderiscono a PLATONE o a
PLOTINO, ma ad ARISTOTELE. (Anche ai nostri giorni i rappresen-
tanti d'una 'filosofia cristiana' nel particolare senso citato, optano
per PLATONE e non per ARISTOTELE, o molto meno).
Il rapporto della teologia con la filosofia nel sec. xm dovette quin-
di avere una nuova sistemazione, perché la teologia potesse conti-
nuare a mantenere la sua posizione scientifica nell'università. Questa
rivoluzione della mentalità teologica - e come rivoluzione è stata
sentita subito dai contemporanei - fu soprattutto l'opera grandiosa
di ALBERTO MAGNO e del suo principale discepolo TOMMASO o'AQUI·
NO. Entrambi polemizzano con gli 'artisti' sul loro stesso terreno e
con le loro stesse armi. Come primo problema, oltremodo complesso,
si presentava l'interpretazione d'ARISTOTELE. L'immagine della filo-
sofia aristotelica doveva essere liberata dalla ridipintura averroista,
per acquistare cos~ un terreno neutrale, su cui filosofia e teologia po-
tessero nuovamente ritrovarsi e collaborare. Ma con ciò nello stesso
tempo fu posta in circolazione la filosofia aristotelica, e quindi anche
l'indipendenza della scienza filosofica in ben definita direzione anche
nella teologia e presso i teologi. Secondo TOMMASO, teologia e filo-
sofia sono due scienze in sé indipendenti con propri campi d'inte-
resse e proprie basi di conoscenza o di prindpi. Se tra filosofia e
teologia sembra aprirsi una contraddizione, con ciò viene posto alla
teologia il compito d'esaminare e di superare quella contraddizione
con mezzi puramente filosofici; questa è quindi l'ora della nascita
dell'apologetica scientifica in quanto trattazione soprattutto delle que-
stioni di confine tra teologia e filosofia. La logica è unica ed identica
per la teologia e per la filosofia; e poiché ARISTOTELE ha dato alla
logica del nostro pensiero quella forma compatta e perfetta su cui
LA TEOLOGIA COME TEOLOGIA D.EDUTl'IVA

TOMMASO dà lo stesso giudizio di I. KANT, il concetto aristotelico


della conoscenza scientifica dev'essere realizzato convenientemente
anche dentro la teologia, affinché essa possa presentarsi come scienza,
e precisamente come scienza universitaria, come facoltà tra le altre
facoltà. Ma le leggi e le forme generali del pensiero sono le stesse
per la teologia e per la filosofia, perché non esiste una duplice ve-
rità, ma una sola. L'unità superiore delle scienze in sé indipendenti
si fonda sull'unità della verità; e l'unità della verità si fonda profon-
damente sull'unica fonte d'ogni verità, sull'unico vero Dio: un solo
Dio, una sola verità, una sola legge del pensiero! Ma anche questo
presupposto ultimo, trascendente, d'ogni scienza, l'unità della verità
nell'unico vero Dio, non si deve credere ciecamente, ma si deve chia-
rire razionalmente. (Per fare un confronto storico diciamo: I. KANT
svilupperà in seguito lo sfondo ideologico della sua epistemologia
in senso inverso: una sola legge del pensiero· valida pet tutti gli uo-
mini; una sola verità per la sfera teoretica e quella pratica, un solo
Dio come garante della ragione autonoma del cittadino del mondo.
Il ·pensiero di I. KANT andrà quindi dalla legge autonoma, avente
valore universale, dello spirito dell'uomo allo spirito divino, mentre
quello di TOMMASO va dalla legge divina della verità all'uomo. Cosi
anche in questo I. KANT effettua la rivoluzion'e moderna della men-
talità, la svolta dal dato oggettivo della verità al' soggetto ed alla sua
funzione legislatrice).

b. Concetti fondamentali dell'epistemologia aristotelica

aa. II sapere è una conoscenza caratterizzata dalla certezza (certitu-


do ). E la certezza del sapere (in opposizione alla certezza di fede) si
fonda precisamente sull~ visione (evidentia, apparentia) dello stato
delle cose; e nel sapere questa visione è trasmessa dall'argomenta-
zione (conclusio ). Secondo ARISTOTELE, il sapere è la visione d'uno
stato di cose comunicata dall'argomentazione.

bb. Esistono argomentazioni pratiche e teoretiche, e quindi esiste


il sapere pratico e quello teoretico. Vargomentazione teoretica è
chiamata prova (demonstratio ); ed il sapere teoretico è considerato
come scienza in senso stretto (scientia). Infatti il sapere teoretico è
FORME FONDAMENTALI DELLA TEOLOGlA COME SCIENZA E SAPIENZA

sapere per amore di sé e quindi conoscenza dell'universale e del ne-


cessario, mentre il sapere pratico è diretto ad un atto e quindi al
caso singolo od alla maggioranza dei casi. Secondo ARISTOTELE la
scienza è quindi conoscenza dell'universale e del necessario median-
te prova, in breve conoscenza dimostrata. La prova è un'argomenta-
zione esatta da proposizioni vere e prime, di modo che ha luogo
una conoscenza più sicura d'uno stato di cose mediante la sua causa
reale.

cc. Ciò che viene dedotto mediante prova si chiama oggetto della
prova (conclusio ); ma ciò da cui si deduce si chiama ragione della
prova (principium ). Il principio non può essere anche oggetto della
prova, altrimenti questa cade in una petitio principii. Perciò i prin-
cipi d'una scienza non sono dimostrati dalla scienza di cui sono prin-
cipi, ma sono supposti da una scienza superiore (supponuntur, non
probantur). E le ragioni superiori di prova (principia prima) in gene-
re non sono a loro volta dimostrabili e quindi non sono oggetto d'una
scienza in quanto tale, bensl dell'intelletto (intellectus), che li àfferra
immediatamente, fondandosi sull'induzione (nel senso aristotelico del-
la parola).

dd. La scienza più alta è quella che non desume le sue ragioni da
una scienza superiore. Questa scienza fondamentale (prima philoso-
phia) è chiamata da ARISTOTELE sapienza (sapientia). Poiché offre
alle altre scienze che le sono subordinate le ragioni di prova supe-
riori, non dimostrabili, essa non solo è scienza, cioè scie11tia conclu-
sionum, ma anche intelletto, cioè intellectus principìorum. In quan-
to intellectus principiorum essa chiarisce e difende (non prova) le
certezze prime d'ogni scienza (concetto metodologico di sapienza), ed
in quanto scientia conclusionum indaga e prova le c.ause prime d'ogni
ente (concetto ontologico-teologico di sapienza).
LA TEOLOGIA COME TEOLOGIA DEDUTTIVA

c. L'aporia risultante dal concetto aristotelico di scienza


per la teologia in quanto scienza della fede; sua soluzione a partire
dallo stesso concetto aristotelico di scienza

aa. L'aporia è questa: nella scienza rientra la visione dello stato di


cose: ma la teologia si occupa dei mysteria stricte dieta, cioè di que-
gli stati di cose strettamente misteriosi, che quaggiù crediamo sulla
parola di Dio, ma che non possiamo vedere nella loro ragione ogget-
tiva (S. th. 1, 1, 1}; per conseguenza, sembra che la teologia come
scienza sia impossibile. Il concetto d'una scienza della fede sembra
significare una contraddizione in sé. Ed in base al suo concetto ari-
stotelico di scienza, TOMMASO contro la teologia del passato sostiene
questa proposizione: la stessa ed identica cosa non può essere nello
stesso tempo oggetto della fede che ritiene per vera e della conoscen-
za evidente. Ma allora come è ancora possibile una teologia in quan-
to scienza della fede (scientia fidei) oppure in quanto visione della
fede (intellectus fidei}?

bb. L'aporia della scienza teologica risultava dal concetto aristo-


telico di scienza (ma anche dal concetto di fede, che tuttavia TOM-
MASO non determina senza l'aiuto dd concetto aristotelico di scien-
za). Se questo concetto di scienza è giusto - e TOMMASO lo ritiene
giusto ed esatto -, quell'aporia della conoscenza di fede può essere
veramente risolta solo in modo che anche la soluzione risulti dallo
stesso concetto di scienza.

cc. I misteri della fede o, per dirlo con TOMMASO, gli articoli di
fede (articuli fidei) non possono costituire l'oggetto -(proprio) della
teologia, in quanto questa deve presentarsi come scienza, cioè come
una conoscenza evidente mediante prova; infatti essi non sono né
immediatamente evidenti né dimostrabili - altrimenti scomparirebbe
il loro carattere di mistero e di fede, e la teologia .non sarebbe scien-
za di fede, bensì scienza razionale. Ma gli articoli di fede possono
essere usati nella scienza della fede come ragioni o principi d'una
conoscenza evidente mediante prova; infatti le ragioni di prova non
sono dimostrate dalla scienza di cui sono princìpi, ma sono presup-
poste o credute, cioè sono desunte da una scienza superiore. Quindi
FORME FONDAMENTALI DELLA TEOLOGIA COME SCIENZA E SAPIENZA
590

la sorte della teologia in quanto scienza dipende dalla questione: esi-


ste anche qui la scienza superiore cui sono evidenti quei princìpi dai
quali il teologo procede concludendo e dimostrando? TOMMASO ri-
sponde affermativamente, mentre per questo caso ARISTOTELE avreb-
be i:isposto negativamente,. perché nel pensiero aristotelico la scien-
za superiore dev'essere compito di una visione umana e non d'una
fede umana in una visione divina. Quella scienza superiore è la
scientia Dei et beatorum, cioè la conoscenza propria di Dio e dei
beat!; infatti essi vedono ciò che noi crediamo. Per conseguenza la
teologia in quanto scienza è possibile, ma come scienza subordinata
(scientia suhalternata). Vedi S. th. 1, 1, 2.

dd. Poiché gli articoli di fede possono essere considerati come ra-
gioni di conoscenza, da essi si può dedurre una nuova conoscenza.
E se alla teologia ~·quanto scienza subordinata manca l'intellectus
principiorum, non manca tuttavia l'apparentia conclusionum, cioè
l'evidenza delle proposizioni che possono essere dedotte dagli arti-
coli di fede in quanto principi. Queste deduzioni teologiche o con-
clusione s theologicae costituiscono quindi l'oggetto della conoscenza
evidente mediante prova, e quindi anche l'oggetto formale della
scienza della fede. Vedi 5. th. 1, r, 8.

d. Definizione della teologia in quanto scienza della fede;


rappresentazione artistica di questo concetto di teologia

Riassumendo: il concetto di teologia di s. TOMMASO si può così de-


finire: la teolo~a è scienza g~lla fede, cioè scienza tdailal feçle; è cioè
una c90oscenza evidente ottenuta per deduzione dagli articoli di fe~e
in quanto questi sono 2rincìpi rivelati e supposti per. fede. Secondo
il concetto di TOMMASO, la teologia è teologia deduttiva.
Esiste una rappresentazione artistica di questo concetto di teolo-
gia, la cosiddetta Disputa di Raffaello, contrapposta alla filosofia del-
la 'Scuola d'Atene' L'affresco si divide nei due mondi sopra e sotto
le nubi, nel mondo della teologia superiore, che vede, della scienza
di Dio e dei beati (angeli e uomini), e nel mondo della teologia in-
feriore, che crede, i cui grandi rappresentanti sono schierati attorno
al Cristo nascosto nel Sacramento ed ai quali il Cristo glorifieato in
PROBLEM'A Dl!LL'OGGETTO DELLA 'SCIENZA DELLA FEDE'
59 1

cielo è nascosto dalle nubi (del mistero). In alto la pace della visione
beatifica, in basso il movimento del pensiero della fede e della cono-
scenza di fede.

3. Il problema dell'oggetto della 'scienza della fede'

Il problema dell'oggetto della teologia in quanto scienza della tede


secondo il concetto di TOMMASO concerne storicamente ed oggetti-
vamente il rapporjQ del.la conclusio theologica con l'intellectus fiq,ei.
L'aporia è questa: ogsetto (formale) della teolo6ia (secondo il con-
cetto di TOMMASO) non sono le stesse verità di fFde, ma le verità
cosjdpette teologiche, dedotte da guelle; ma lo scopo della teologia
(secondo la tradizione sacra) è la_gnosi cristiana o l'intellectus 6dei,
cioè una più profonda conoscenza delle stesse misteriose verità di fe-
fki.. la teologia deduttiva non presta quindi ciò che è lo scopo d'una
teologia cristiana, e costituisce una frattura con la scienza sacra del
2assa!O - e non diviene allora come UQ!l «teologia d'Esaù», che sper-
pera l'oggetto maggiore, le verità divine di fede, per il piatto di len-
ticchie aristotelico costituito dalle conclusioni teologiche e dal suo
ogsetto dedotto, minore? Infatti i problemi nel concetto della con-
clusione teolosica hanno portato anche a controversie.

a. Come è contenuta la conclusione teologica nella propos1z1one


rivelata di fede? Solo virtualmente, nella forza e consequenzialità
dalla rivelazione (tomisti), od anche implicitamente, in quanto conte-
nuta, sia pure non espressa, nella stessa rivelazione (TOMMASO)? LJ
risposta, e quindi il giusto concetto della revelatio virtualis (in di-
stinzione dalla revelatio explicita ed implicita), dipende dalla que-
stione: le conclusioni teologiche aggiungono qualcosa d'oggettiv~en­
te oppure soltanto di concettualmente nuovo al patrimonio di fede
Wu:lato? Tesi: le conclusioni teologiche sviluppano in concetti scien-
tifu:i ed in linguaggio adatto ai tempi, la pienezza di verità realmente
data ed inclusa ri_el patrimonio di fed~ rivelato.

b. Ne consegue che, quantunque le conclusi.Q!!i_!_f'._t_:>~ogiche costi-


tuiscaqgJ' 'oggetto' della teologia, tuttavia lo 'scopo' di questa teo-
FORME FONDAMENTALI DELLA TEOLOGIA COME SCIENZA E SAPIENZA

logia deduttiva è l'intellectus fidei. La ratio theologica si fonda sul-


l'intellectus fidei come sul principio e sul termine del discorso o dcl
movime.n_to del pensiero, il che corrisponde esattamente al concetto
aristotelico di scienza.

c. Se la ratio theologica in quanto tale è una funzione del pensiero


pul}mente razionale {cosl anche ANSELMO), l'intellectus fidei è la ra-
gione illuminata dalla fede. Con la fede ci sono dati Io Spirito ed i
su.o.i doni. C'è un'intelligenza della fede infusa dallo Spirito santo,
la theo/ogia per dona infusa; e questa teologia infusa dai doni dello
Spirito, specialmente dell'intelletto e della sapienza, è la forza mo-
trice vivificante della theologia per studium acquisita, cioè della co-
noscenza della fede acquistata mediante lo sforzo razionale. La teo-
logia riferisce tutto alla sapienza (nel concetto pneumatico), ma per
la via della scienza (nel concetto razionale). Cosl inteso, TOMMASO
con il suo nuovo concetto della scienza della fede si inserisce nel con-
cetto della sapienza di fede ereditato da Paolo e da AGOSTINO, unen-
do il nuovo all'antico. Vedi S. th. 1, 1, 6.

d. Poiché le conclusioni teologiche sono opera del nostro pensiero


scientifico, conviene loro in quanto tali la certezza della nostra cono
scenza, cioè la certezza razionale naturale (evidente) e non la certez-
za soprannaturale (non evidente) di fede. Ma poiché la teologia ha
senso. soltanto come servizio alla fede e quindi anche all'annuncio
ecclesiastico della fede, alla teologia tocca il compito di preparare le
definizioni del magistero ecclesiastico, soprattutto in quanto, per mez-
zo delle conclusioni teologiche, vengono elaborate ed~rontate
espressioni nettamente delineate (ad esempio, consubstantialis, trans-
substantiatio ), ed in quanto - per usare una distinzione di KARL RAH-
NER - dai princìpi generali vengono dedotti imperativi concreti. Sot-
to questo secondo aspetto lo Schema 1 3 del concili<? su 'Chiesa e
mondo' mostra l'importanza d'una t•ologia deduttiva conforme ai
tempi, anche per la nostra epoca e per i suoi problemi di teologia
morale e sociale.
PROBLEMA DEL 'METODO SCIENTIFICO DI FEDE'
593

4. Il problema del 'metodo scientifico di fede'

Il problema del metodo teologico in quanto metodo scientifico di


fede secondo il concetto di TOMMASO non riguarda (in prima linea)
la conclusione:-ma l'argomentazione e la formazione del concetto teo-
logico che si attua in essa.

a. Punto di partenza dell'argomentazione teologica sono g1i artico-


li di fede ed una loro preintelligenza di fede. Il concetto di articolo
di fede ha la sua storia, che per una parte essenziale è stata esposta
da LunwIG HonL; in modo sistematico hanno trattato di questo con-
cetto DoMINIKUS KosTER e da parte protestante EDMUND ScHLINK
(per tutti e tre gli autori vedi la bibliografia, soprattutto sotto H.
fRIES).

b. Ma sorge la questione: in quale forma espressiva o modello l'ar-


ticolo di fede dev'essere impiegato scientificamente? Risposta: l'in-
tera forma espressiva o modello della verità di fede nella rivelazione
e nell'annuncio dottrinale fatto finora dalla Chiesa - che appartiene
anch'essa al mistero - fa parte anche del mistero di fede ed offre al
teologo una conoscenza di storia della rivelazione e dei dogmi, che
rientra fondamentalmente 11ella formazione del concetto teologko e
rende possibili premesse esatte per l'argomentazione teologico-spe-
culativa. Il riporto (reductjo) storico o. meglio. di storia della fede,
del presente modello ecclesiale fino alla sua forma espressiva origi-
naria nella stessa rivelazione, è già un procedimento teologico, per-
ché qui lo sviluppa storico viene fatto in base a princìpi superstori
ci, soprannaturali, quali sono rivelazione e Chiesa.

c. La forma espressiva originaria d'una dottrina di fede nella rive-


lazione stessa, è comunemente la metafora (S. th. 1, 1, 9) od il con-
cett~ analogico (ma nel senso prescientifico). Spetta ora al teologo ela-
borare le metafore kerygmatiche in analoga strettamente scientifici,
per acquisire in tal modo concetti intermedi probativi (e quindi anche
proposizioni intermedie) per l'argomentazione teologica. Ma nel suo
metodo dell'analogia il teologo deve restare cosciente della base evi-
dente dei suoi analoga teologici nelle metafore kerygmatiche. La for-

3H Mvs1erinm salu1is / 2.
FORME FONDAMENTALI DELLA TEOLOGIA COME SCIENZA E SAPIENZA
594

mazione del concetto teologico ed il linguaggio teologico della scien-


za della fede hanno la loro regola nei concetti e nel linguaggio origi-
nari dell'annuncio. In opposizione alla formazione astratta-metafisica
del concetto (ad esempio d'ARISTOTELE), la Bibbia presenta un pen-
siero ed un linguaggio concreto-storico-salvifico; e da questa opposi-
zione risultano particolari compiti e difficoltà al linguaggio astratto
speculativo-teologtco.
Perciò l'analogia nella teologia non significa neppure un'analogia
puramente filosofica, ma teologica, cioè un'analogia che non ha ra·
dici soltanto nella analogia entis. ma soprattutto nell'analogia #dei
o, meglio, nell'up.ità d'analogia fidei e d'analogia entis.

d. Alla teologia in .qnanto scienza subordinata, diversamente che


alla scienza fondamentale filosofica, è ~ato l'intellectus principio-
rum; tuttavia essa - in una qualche somiglianza con la filosofia - può
difu'ndere i suoi princìpi supposti per fede contro i loro ne_gatori,
facendo vedere sqprattutto la credibilità esterna della rivelazione.
Nd concetto di teologia di. s. TOMMASO si trova quindi insita l'idea
d'una motivazione scientifica della fede o della teologia fondamen-
tale; il suo concetto fondamentale metodologico è evidens credibili-
tas extu-na (in opposizione sia alla verità interna dello stato di cose,
proprio alla visio beatifica, sia anche alla credibilità interna, non evi-
dente, in base alla parola di Dio, che è insita nella stessa fede divina).
Il concetto di teologia di s. TOMMASO comporta una nuova siste-
mazione del rapporto tra teologia e filosofia. L'una e l'altra, ciascuna
a modo -suo, sono le scienze più alte dell'uomo, e sono diverse ed
indipendenti per principio e per metodo. Ma la conoscenza per fede,
perché partecipaz10ne alla verlta mfalhbile di Dio stesso, nei confron-
ti della nostra conoscenza razionale costituisce il 'giudizio' della su-
prema regula veritatis, cui la nostra conoscenza razionale non deve
\
contraddire. In questo senso di un principio puramente regolativo e
non costitutivo, la teologia nei confronti della filosofia è la sapienza
più alta.
LA TEOLOGIA NI:LLA FORMA DI TEOLOGIA DELLA STORIA
595

5. La teologia nella forma di teologia della storia

Ai nostri giorni teologi come HENRI DE LUBAC, }EAN DANIÉLOU,


HANS URs VON BALTHASAR e KARL RAHNER si occupano in forme
nuove di quella forma antica della teologia, che con un espediente
concettuale si può designare come forma di teologia della storia del
p~o teologico. Qui la forma antica, presente sohanto in pocfii
ma grandi abbozzi, è stata addirittura riscoperta, ad opera soprat-
tutto di OSEF RATZINGER nel suo Die Geschichtstheologie des heili-
gen Bonaventura, Miinchen - Zilrich 1959, e del filosofo TIENNE
GIL~N nel suo Les métamorphoses de la Cité de Dieu, Louvain
1952; anche la scuola cattolica di Tubinga fu ed è antesignana, e
sulla sua peculiarità teologica e sui suoi capiscuola J.S. DREY, J 'A.
M5HLER, J. KUHN, abbiamo ora l'opera d . . GEISELMANN.
Per afferrare in qualche modo in che co ' consista questa antica
e nuova forma della teologia, dobbiamo ricordare il dualismo del-
l'oggetto teologico e quindi anche del metodo teologico, la sua forma
di pensiero ed oggettività ontologico-speculativa e storica, e precisa-
mente di storia universale. Qui storia in genere e soprattutto in quan-
to storia universale, significa qualcosa di più d'una semplice effetti-
vità o verità dei fatti (vérité de fait in distinzione da vérité de rai-
son ); o meglio I' 'importanza' della storia e delle. storie riguarda l'in-
tima verità, appunto I' 'importanza' ed 'essenzialità' storico-salvifica
e quindi universale degli avvenimenti, del corso dei fatti nella storia
della rivelazione e della Chiesa. Alla verità ed essenzialità nel con-
cetto ontologico, alla verità delle essenze e degli stati essenziali si
deve ~ssociare una verità ed essenzialità nel concetto storico, di sto·
ria universale. Questa essenzialità di storia salvifica, di storia univer-
sale, aspetta d'essere più ampiamente e più profondamente chiarita
nella teologia attraverso il pieno sforzo del concetto; soprattutto de-
v'essere scoperto e spiegato il legame intrinseco, l'intreccio d'essen-
zialità ontologica e storica e quh:idi il dualismo oggettivo e metodo-
logico che qui regna. È questo un compito presente e futuro d'un
lavoro teologico che non segna il passo, ma che si spinge in terre
nuove e riscopre isole perdute.
Neppure ora saprei dire meglio e più brevemente di quanto ho
BIBLIOGRAFIA

già compendiato nello Staatslexikon nell'articolo Theologie. Vorrei


quindi concludere con una autocitazione:
«Nel corso storico dei fatti si realizza l'avvenimento salvifico di-
vino. che significa l'essenzialità di questa storicità e che r~a una
'teologia della storia', una storia però che ora non è trattata come
un campo papicolare di problemi o addirittura come appendice del-
la teologia, ma come centro, come principio centrale d'ogni teologia
spm1latjya e storica, sia pure con metodo diverso nelle due teologie.
Senza teolo~ della storia, al complesso ed alle singole parti di Mna
teologia cristiana manca l'unità più interna ed una forza storica d'aper-
tura mondiale. Rientra nei segni più consolanti della teologia del
nostro tempo il fatto che questa visione di teologia della storia sia
diyenuta un grande postulato di non pochi teologi, corrispondente-
mente agli sforzi filosofici per la categoria della storicità. Nella sto-
ria della teologia occidentale la teologia della storia procede in ge-
nere accanto alla grande strada della teologia; e grandi opere del-
la teologia della storia, come il De Civitate di AGOSTINO e l'In
Hexaemeron di BONAVENTURA, si son fatte sentire nei teologi non
tanto nel loro contenuto specifico di teologia della storia, quanto
piuttosto nel loro contenuto generico di teologia. La fute del predo-
minio occidentale e lo spuntare d'una nuova umanità e cristianità
mondiale pone in non ultimo luogo alla nostra teologia, soprattutto
anche alla teologia fondamentale ed all'apologetica, esigenze e ricer-
che di teologia della storia, affinché rivelazione e scienza della rive-
lazione risplendano nella loro pienezza e profondità speculativa e
storica».
GOTTLIEB SOHNGEN

BIBLIOGRAFIA

K. BARTH, Fides quaerens intellectum - Anselms Beweis der Existen:i; Got-


tes im Zusammenhang seines theologischen Programms, Zollikon 1958;
Introduzione alla teologia evangelica, Milano 1968.
A. BEA, L'unione dei cristiani, Roma 1962.
M. BERNARD, Pindars Denken in Bildern - Vom W esen der Metapher,
Pfullingen 1963.
J. BEUMER, Theologie als Glaubensverstandnis, Wiirzburg 1953.
BIBLIOGRAFIA
597

A. BRANDENBURG, Gericht und Evangelium, Paderborn 1960. Vi si parla


per antitesi della dottrina di M. LUTERO sull'occultezza di Dio.
R. BuLTMANN, Das Urchristentum im Rahmen der antiken Religionen, Zii-
rich 1949·
M.-D. CHENU, Introduzione allo studio di s. Tommaso, Firenze 1950; La
foi dans l'intelligence, in La parole de Dieu, 1, Paris 1964.
Y.-M. CONGAR, Théologie, in DTC, 15/1 (1946) 391-502; La fede e la teo-
logia, R-;>ma 1967.
KL. D1cK, Das Analogieprinz.ip bei ]. H. Newman und seine Quelle in
]. Butlers 'Analogy', Niirnberg 1962.
H. DOMBOIS, Das Recht der Gnade, Witten 1961.
G. EBELING, Theologie und Verkiindigung, Tiibigen 1962.
H. FRIES · J. RATZINGER (a cura), Einsicht und Glaube. Festschrift fur G.
Sohngen, Freiburg 21963. Studi su: la parola della Sci;ittura e la teo-
logia; rivelazione e ragione; la via della teologia in quanto scienza. Tra
l'altro: Theologie in N.T. (K. RAHNER}; Die grossen Taten Gottes und
die historisch-kritische Vernunft (P. BRUNNER); Das Spezifikum der ke·
rygmatischen Hermeneutik (TH. KAMPMANN); Model!- und Analogie-
denken (J. AUER); Von der Findung der theologischen Grundsatz.e (M.
D. KosTl!R); Articulus fidei (L. HoDL); Der theologische Syllogismus
(E. SCHLINK); Christliche Theologie und antike Rhetorik (W. ZIEGLER);
Anselms Beweisverfahren (W. l<EILBACH, V. WARNACH).
H. FRIE.S, Teologia, in Dz.T, 3 (1968) 471-485.
H.-G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Tiibingen 1960.
J.R. GEISELMANN, Die katholische Tubinger Schule · Ihre theologische Ei-
genart, Freiburg 1964.
B. GEYER, Facultas theologica - Eine bedeutungsgeschichtliche Untersu-
chung, in ZKG, 75 ( 1964) 133-145.
É. GILSON, Dante et la philosophie, Paris 1939; Les métamorphoses de la
Cité de Dieu, Louvain l9'2i J. Duns Scotus, Paris 219,7.
R. GoGLER, Zur Theologie des biblischen Wortes bei Origenes, Diissel-
dorf 1963.
E. GbsSMANN, Metaphysik und Heilsgeschichte ·Bine theologische Unter·
suchung der Summa Halensis, Miinchen 1964.
M. GRABMANN, Die Geschichte der scholastischen Methode, I-II, Freiburg
1909-II; Die Geschichte der katholischen Theologie seit dem Ausgang
der Viiterz.eit, Freiburg 1933; Die theologische Erkenntnis- und Einlei-
tungslehre des hl. Thomas von Aquin auf Grund seiner Schrift 'In Boe-
thium de Trinitate', Freibourg 1948.
R. GROSCHE, Et intra et extra, Diisseldorf 1958.
M. HEINRICHS, Katholische Theologie und asiatisches Denken, Mainz
1963.
JllBLIOGRA~l.\

W. }AEGER, Das friihe Christentum und die grieschische Bildung, Berlin


1963; Die Theologie der friihen grieschischen Denker, Stuttgart 1953.
E. JiiNGEL, Die Moglichkeit theologischer Anthropologie auf dem Grunde
der Analogie - Eine Untersuchung zum Analogieverstiindnis Karl Barths,
in EvTh, r962, 535-557; Zum Ursprung der Analogie bei Parmenides
und Heraklit, Berlin 1964. .
W. KEILBACH, Einiibung ins philosophische Denken, Miinchen 1960.
A. KoLPING, Einfiihrung in die Theologie, Miinster 1960; Theologie ge-
stern und beute. Thematik und Entfaltung deutscher katholischer Theo-
logie vom I. Vaticanum bis zur Gegenwart, Bremen 1964.
H. KosTER, Vom Wesen und Aufbau katholischer Theologie; und Wismi-
schaftstheoretisches zur sogennanten Missionswissenschaft, Kaldenkir-
chen 1954.
H. KRINGS, Wie ist Analogie moglich?, in GoJt in Welt, I, r964, 97-uo.
A. LANG, Die loci theologici des Melchior Cano und die Methode des
dogmatischen Beweises - Ein Beitrag zur theologischen Methodologie
und ihrer Geschichte, Mi.inchen 1925.
P. MAZARELLA, Il pensiero. speculativo di s. Anselmo d'Aosta, Padova
1962.
E.W. PLATZECK, Utrum philosophia ut scientia adhuc hodie possibilis sit,
in Antonianum, 39 ( 1964) 1-r7.
H. SCHLIER, Kerygma e Sophia - Il fondamento neotestamentario del dog-
ma, in Il tempo della Chiesa, Bologna 1965, pp. 330-372.
E. ScHLINK, Weisheit und Torheit, in Kerygma und Dogma r, 1955, pp.
1-22; Die Aufgaben einer oekumenischen Dogmatik, in Zur Aufer-
bauung des Leibes Chrisl. Festgabe fiir P. Brunner, a cura di E. ScHLINK
u. A. PETERS, Kassel 1965, 84-93.
E. SCHLINK - H. VoLK (a cura) Pro veritate - ein theologischer Dialog.
Festsgabe fur L. ]aeger u. W Stiihlin, Miinster 1963.
F.S. ScHMITT, Die wissenschaftliche Methode in Anselms 'Cur Deus ho-
mo', in Spicilegium Beccense, 1, Le Bec-Hellouin 195 9, pp. 349-370;
S. Anselmo d'Aosta Il Proslogion, le Orazioni e le Meditazioni, Pa-
dova 1959 (con importanti introduzioni, specialmente anche nello stile
linguistico d'Anselmo).
W. ScHNEEMELCHER (a cura), Das Problem der Sprache in Theologie
tmd Kirche Referate vom Deutschen Evangelischen Theologentag
i958 in Be,.[in, Berlin 1959·
G. SéiHNGEN, Theologie, in Staatslexikon, 7 ( 1962) 965-971; articoli nel
LTK, a cura di J. HoFER e K. RAHNER, Freiburg 2 1957 ss.: Credo ut
intelligam, 3, 89•91; Denkform, 3, 230-232; Fides quaerens intellec·
111111, 4, u9-120; Fu11damentaltheologie, 4, 452.459; Kant, 5, 1304-
1309; Kunklusionstheologic, 6, 453 s.; Natiirliche Theologic1 7, 811·
BlBLlOGl.AFIA
599

815; Neuscholastik, 7, 923-926; Positivismus, 8, 637-639; Postulats-


theologie, 8, 544 s. Inoltre: Die Theologie als Wissenschaft, in Der
grosse Herder, Erganzungsbd. II, Freiburg 1962, 1055-1062; Analo-
gia, in DzT, r (21967) 77-92; Filosofia e teologia, in DzT, 1 (21967)
662-675; Die Einheit in der Theologie, in Ges. Abh., Aufs., Vortr.,
Miinchen 1953. Tra l'altro vedi anche: Die Theologie im 'Streit der Fa-
kultaten', pp. 2-21; Die Einheìt der Theologie in Anselms Proslogion, pp.
24-62; Wissenschaft und Weisheit im augustinischen Gedankengefuge
(eine BegriDstafel), pp. 101-106; Naturliche Theologie und Heilsge·
schichte (Antwort an Emil Brunner), pp. 248-264; Vom We.ren des
Christentums, pp. 288-304; Der Geist des Glaubens und der Geist der
Wissenschaft (eine Universitiitspredigt), pp..393-404; Der Weg der
abendliindischen Theologie Grundgedanken zu einer Theologie des
Weges, Miinchen 1959; Philosophischen Einubung in die Theologie,
Freiburg 21964; Sein und Gegenstand Das scholastische Axiom Ens
et verum convertuntur als Fundament metaphysischer und theologischer
Spekulation, Miinster i.W. 1930; Symbol und Wirklichkeit im Kult-
mysterium, Bonn 2 1940; Der Wesensaufbau des Mysteriums, Bonn
1938; Gesetz und Evangelium - ihre analoge Einheit theologisch, phi·
losophisch, staatsburgerlich, Miinchen 1957; Grundfragen einer Rechts-
theologie, Miinchen 1962; Analogie und Metapher - Kleine Philosophie
und Theologie der Sprache, Freiburg 1962.
G. THILS, La théologie oecuménique, Louvain 1960.
H.U. VON BALTHASAR, Karl Barth - Darstellung und Deutung seiner Theo-
logie, Koln 21962; Theologie der Geschichte, Einsiedeln 1951; Herrli·
chkeit - Eine theologische Asthetik, I, Schau der Gestalt; I, Facher der
Stile, m/1, Im Raum der Metaphysik, Einsiedeln 1961-65.
EXCURSUS

La teologia ortodossa

Osservazione preliminare. La teologia che viene esposta in quest'opera


nasce dalla tradizione della Chiesa occidentale. Autori e curatori sono
consapevoli che questo non è l'unico modo possibil~ d'un pensiero teolo-
gico, ma che anzi esiste anche la teologia che nasce dalla tradizione della
Chiesa orientale, della cui marcata peculiarità ed indipendenza e del cui
alto livello i rappresentanti della teologia occidentale hanno preso più
chiara coscienza attraverso lo sviluppo storico della Chiesa degli ultimi
decenni. Naturalmente qui non può trattarsi di esporre con la stessa am-
piezza e di mettere a confronto nei particolari le due specie di teologia,
e ancor meno di fare un amalgama di entrambe. Per contro, attraverso una
concisa ed essenziale caratterizzazione della teologia della Chiesa orien-
tale, non si deve rinunziare a mettere in evidenza la sua peculiarità, ed a
richiamare l'attenzione sul fatto che un incontro con essa può divenire
fruttuoso per la teologia occidentale. Poiché nell'Ortodossia la teologia
della Chiesa orientale ha trovato e conserva la sua forma più chiara ed
ha anche raggiunto la sua massima estensione ed importanza, nelle pagine
che seguono verrà caratterizzata la teologia ortodossa quale raw>resentan-
te della teologia della ChiCsil orientale.
J. FEI.NER - M. LOHRER

Il carattere specifico della teologia ortodossa si formò sempre più


chiaramente dopo che il pensiero religioso della Chiesa orientale
ebbe acquistato sufficiente sald~zza ed originalità per distinguersi
attraverso i suoi presupposti, i suoi metodi ed i suoi risultati dalle
altre teologie cristiane. Questa diversità ha un duplice aspetto: in
quanto teologia orientale, la teologia greca e slava ha le sue radici
nello spirito delle nazioni greche e slave e si nutre di un'eredità cul-
turale molto diversa da quella che ha formato il pensiero latino e
germanico. In quanto ortodossa, nel campo propriamente dogmatico
essa si mantiene in opposizione alle teologie del cattolicesimo ro-
mano e della riforma. Qui la contraddizione si rivela come ostacolo
alla comunione di fede e mantiene lo scisma tra i cristiani. Per con-
tro nella diversità della mentalità teologica si rivela soltanto un'al-
tra faccia della Chiesa universale, che consid!!ra l'unico mysterium
che le è stato affidato.
EXCURSUS: U TEOLOGIA ORTODOSSA 6or

In Occidente la riflessione sulla fede giunge alla maturità della


scolastica dal momento in cui si attua l'indagine e l'interpretazione
sistematiche della tradizione mediante la logica e la filosofia aristoteli-
ca. L'Oriente non ha mai sentito il bisogno di compiere questo pas-
so, indubbiamente perché il pensiero dei padri è già sostenuto da
una profonda unità d'ispirazione che gli conferisce la compattezza
d'una sintesi reale, anche se più vitale che razionale. Per quanto le
differenze che separano i padri d'Alessandria e d'Antiochia, .di Cap-
padocia e di Costantinopoli siano importanti, questi nondimeno si
muovono tutti nella stessa atmosfera d'ellenismo cristiano, che na-
scostamente dà l'impronta alla loro teologia. Ufficialmente Ja filoso-
fia profana è condannata a Bisanzio, dove i circoli umanisti sono espo-
sti ai continui attacchi di certi circoli monastici. Tuttavia il pensiero
platonico è penetrato universalmente nel profondo dell'inconscio,
donde rende sensibili gli spiriti per determinate dimensioni e pro-
spettive del messaggio rivelato, le quali si rivelano spontaneamente
come l'espressione più caratteristica dell'Ortodossia.
Con la diffusione dell'islam in Siria ed in Egitto, in seguito con
il dominio dei turchi in Asia Minore e nei Balcani, il cristianesimo
orientale si vide all'improvviso ostacolato nella sua crescita. Poiché
da questo momento il pensiero non poteva né muoversi liberamente
sulla linea della cultura tradizionale, né accogliere l'ideologia totali-
taria dei vincitori, esso restò limitato alle sue ultime basi vitali, e
la teologia sopravvisse essenzialmente nella liturgia delle Chiese e
nei manoscritti dei monasteri. Pur umanamente indebolita, la fede or-
todossa poté nondimeno restare fedele a se stessa, quando venne
nuovamente messa a confronto con il cristianesimo occidentale, eh<:
intanto a partire dal Medioevo aveva acquistato un tesoro teologico
incomparabilmente più ricco. Alla polemica antilatina ed antiroma-
na, usuale in Oriente a partire da Fazio e Michele. Cerulario, nel
sec. XVI si aggiunge necessariamente una presa di posizione nei con-
fronti della riforma di M. Lutero e di Calvino. La reazione ortodos-
sa è sana, ma tradisce senza volerlo quel sentimento d'inferiorità spi-
rituale, di cui per amore o per forza allora soffre l'Oriente; il suo
metodo dimostrativo migliore consiste spesso nell'usare alternativa-
mente la polemica dei teologi protestanti contro la dottrina catto-
602 EXCURSUS: LA TEOLOGIA ORTODOSSA

lica, e poi a sua volta l'arsenale dei manuali postridentini contro le


tesi protestanti.
Nel sec. XIX la teologia ortodossa acquista infine piena coscienza
di sé e perviene all'espressione positiva della- sua indipendenza e
della sua vocazione particolare. Il seme d'una tradizione maturata
nella sofferenza e nella preghiera produce ora i suoi frutti nei gio-
vani popoli balcanici, liberati dal giogo ottomano, ma soprattutto
nell' «intellighenzia» russa, dove si avverte chiaramente il fondo spi-
rituale della civiltà occidentale uscita dalla cristianità latina e ger-
manica. Dall'inizio di questo secolo il rinnovamento della teologia
ortodossa si è contemporaneamente rafforzato ed esteso ai centri
principali dell'emigrazione slava e greca in Europa e nell'America
del Nord; ma incomincia a mostrarsi anche negli stati musulmani del
Meclio Oriente, nel momento in cui questi sembrano intenzionati a
prendere nelle proprie mani il loro destino.
Del resto la situazione spirituale del mondo odierno indirizza il
pensiero ortodosso verso vie non ancora percorse e gli impone un
nuovo stile. Orientato tradizionalmente in senso contemplativo e
mistico, questo pensiero, che .lino a poco tempo fa stava in disparte
dalla storia e guardava con diffidenza ai valori terreni, si vede all'im-
provviso posto di fronte a problemi urgenti, che esigono una deter-
minata presa di posizione, perché si tratta del futuro d'un Oriente,
che in un ambiente indifferente o ateo si trova in un processo di ra-
pida industrializzazione e socializzazione. Le Chiese ortodosse, che
corrispondentemente alla loro .tradizione sono interessate alla liber-
tà, autonomia e• indipendenza riguardo aila loro comune apparte-
nenza, avvertono oggi la necessità d'una maggiore unità nel pensiero
e nell'azione, per trasmettere in tal modo alle altre Chiese e comu-
nità del movimento ecumenico una testimonianza più genuina del-
l'Ortodossia.
I secoli non hanno potuto far danno alla freschezza giovanile del-
la teologia ortodossa, perché essa, meglio di altre, ha saputo unire
la vita con la tradizione, senza irrigidirsi nell'immobilità o seguire
modernismi passeggeri. Questo tratto caratteristico non è casuale; è
piuttosto connesso con l'essenza dell'Ortodossia, che si definisce vo·
lentieri quale pleroma vivente d'una fedeltà incessantemente ricrea-
ta: «la pienezza della tradizione dei concilii e dei padri».
EXCURSUS: LA TEOLOGIA ORTODOSSA

Le Chiese ortodosse ritengono come ecumemc1 e normativi per


la loro tradizione i primi sette concilii tra quelli che la Chiesa catto-
lica considera come tali. Dopo di essi il ciclo delle definizioni trini-
tarie e cristologiche è completato, gli errori relativi alla 'teologia'
ed all' 'economia' sono proscritti e la verità ha ricevµto la sua for-
mulazione definitiva. L'Ortodossia non nega affatto l'incontestabile
evoluzione ulteriore della dottrina e neppure quella delle istituzioni
ecclesiastiche, ma ad essa non attribuisce la stessa importanza costi-
tutiva e fondamentale che attribuisce ai sette primi concilii, bensl
la considera piuttosto come opinione o come diritto vigente, che per
principio è superabile, anche se nessuno pensa a metterlo in discus-
sione. Del resto, essa considera l'evoluzione dottrinale non come svi-
luppo e prolungamento del mistero rivelato fin nelle ultime implica-
zioni logiche, ma vede in essa piuttosto un approfondimento della
fede evangelica, che è sempre totalmente presente alla coscienza del-
la Chiesa, ma può essere sempre meglio penetrata e vissuta.
Nelle definizioni dei concilii ha trovato fissazione la tradizione dei
padri della Chiesa. La venerazione che il teologo ortodosso ha per i
padri è nello stesso tempo più ampia e più ristretta di quella del
teologo cattolico. Essa va allo stesso modo a scrittori puramente spi-
rituali, ascetici e mistici, come ai grandi difensori del dogma, perché
l'Ortodossia non ha mai separato la verità cristiana dalla vita nel
Cristo. D'altra parte il teologo ortodosso, se anche annovera i padri
latini prima della separazion~ tra i suoi santi, in genere ha solo una
conoscenza molto superficiale del loro pensiero, che del resto tal-
volta mal si confà alle sue proprie categorie religiose. Tuttavia non
si può affermare che ali 'Ortodossia sia del tutto estraneo lo sforzo
d'universalità. Nei circoli teologici dell'emigrazione e della missione
taluni giungono persino a porre la questione dell'opportunità di crea-
re una 'ortodossia occidentale', che sia staccata non solo da ogni 'file-
tismo' e 'bizantinismo' (nel senso negativo di questi concetti), ma
anche dall'ellenismo cristiano che costituisce pur sempre il cuore e
la nervatura vitale del pensiero ortodosso. In ogni caso nessun teo-
logo spinge la sua stima dei padri occidentali fino a riconoscere loro
un'autorità dottrinale infallibile, tuttavia si sforzerà di metterne in
rilievo la vera cattolicità ortodossa.
Si è forse notato che la definizione del 'pleroma' dell'Ortodossia
EXCURSUS: LA TIOULOGJA ORTODOSSA

non menziona la sacra Scrittura. La ragione sta in questo, che la pa-


rola di Dio, fonte di tutta la rivelazione, non viene mai considerata
indipendente dalla tradizione viva, che riceve ed annunzia questa pa-
rola sotto l'assistenza dello stesso Spidto che l'ha ispirata. L'Or-
todossia non conosce una scienza esegetica indipendente e critica,
che sia paragonabile a quel1a dell'Occidente, perché secondo la sua
convinzione il fedele od il teologo non riceve i Libri sacri della Chie-
sa in quanto persona privata. L'Ortodossia annette poca importan-
za al senso letterale ed al senso storico della ·scrittura in confronto
alle sue ricchezze mistiche. Ma queste si rivelano a colui che ascolta
la Scrittura secondo lo spirito, come viene annunziata dalla liturgia,
interpretata dagli scritti patristici e vissuta dai santi.
Tutto ciò dimostra chiaramente che la tradizione della Chiesa co-
stituisce la norma immediata della fede ortodossa. Ma la tradizione
è evidente per se stessa? E se non lo è, quale criterio ha allora il
fedele per giudicarne la g~nuinità e separarla così da tradizioni ete-
rodosse? Queste due domande condizionano una fondamentale -deci-
sione ecclesiologica.
La cosiddetta «teologia della Sobornost'» concepisce la Chiesa, in
base al modello 'sinfonico' delle persone trinitarie, come unione vi-
va, organica dei cuori, che sono uniti dalla grazia e dall'amore reci-
proco. A questo amore dei cristiani, e soltanto ad esso, è affidata e
si manifesta la rivelazione dello Spirito santo. Essa non viene impo-
sta loro dall'esterno e non è neppure accessibile all'individuo nel suo
isolamento. Ma coloro che mediante la libera unione d'amore parte·
cipano concordi alla vita ecclesiale e per i quali la Chiesa costituisce
il soggetto della loro coscienza mediante l'unità compatta delle con-
vinzioni spirituali, afferrano la verità con evidenza intrinseca a modo
di un'autorivelazione spontanea. La natura di quest'esperienza di fe-
de della Chiesa nel reciproco amore sarebbe tale, da escludere per-
sino la possibilità d'una garanzia esterna. In tal modo non soltanto
non c'è posto per il magistero personale infallibile del papa (un pri-
vilegio che l'Ortodossia rigetta come arroganza intollerabile), ma è
anche escluso il magistero del collegio dei vescovi raccolti in conci-
lio. Non ci sarebbe quindi né Chiesa docente, né Chiesa discente.
Sarebbe piuttosto. compito del popolo cristiano, supremo custode
della fede, giudicare, anche solo mediante tacita accettazione, se un'as-
EXCURSUS; LA TEOLOGIA ORTODOSSA

semblea conciliare rappresenti l'espressione autentica ed ecumenica


della tradizione.
La maggior parte dei teologi ortodossi ha espresso nel modo più
deciso le sue riserve di fronte al velato idealismo di quest'ecclesiolo-
gia. Al posto del principio d'interpretazione trinitario e pneuma-
tologico, che sottolinea in modo unilaterale il lato interno della Chie-
sa, essi preferiscono il principio cristologico dell'incarnazione, che in-
clude nel mistero del corpo del Cristo l'amore reciproco dei cristiani e
la funzione gnoseologica dello Spirito. In questa visione, che corri-
sponde meglio alla tradizione genuina dell'Ortodossia, la vita e la
coscienza non possono accampare &a pretesa di sostinùrsi all'autori-
tà dottrinale dei vescovi. Sulla base del diritto divino, il magistero
dei vescovi non costituisce soltanto una testimonianza, sia pure pri-
vilegiata, della fede della Chiesa, ma rappresenta nella sua struttura
l'organo essenziale della manifestazione e dell'espressione di questa
fede.
Il magistero viene esercitato in modo collegiale da vescovi che
giuridicamente rivestono lo stesso grado, per cui la posizione d'onore
dei patriarchi e dei metropoliti, stabilita dai canoni e dal diritto con-
suetudinario delle Chiese orientali, non muta nulla. Taluni teologi
ortodossi ammettono che questa gerarchia d'onore idealmente, con
esclusione d'ogni'autorità di potere, dovrebbe essere corona~ come
prima della separazione dalla 'presidenza nell'amore' della Chiesa di
Roma. Tuttavia ciò presupporrebbe, secondo la loro idea, l'elimina-
zione preliminare delle divergenze dogmatiche, che con il cattolice-
simo romano consistono ancor sempre in punti importanti. Del resto
nell'Ortodossia la natura della collegialità episcopale non è ancora
chiaramente stabilita. Secondo taluni teologi l'autorità del concilio
non dev'essere considerata come l'autorità d'una 'Chiesa universale',
la cui cattolicità risulterebbe dalla somma delle Chiese locali. Piut-
tosto ciascuna di queste Chiese locali, attraverso la celebrazione eu-
caristica cui presiede il suo vescovo, costituirebbe lo stesso ed indi-
visibile corpo del Cristo, di modo che l'ecumenicità del concilio con-
sisterebbe soltanto nel reciproco riconoscimento dell'autenticità della
testimonianza che ogni Chiesa rende per sé.
L'autorità dottrinale dei vescovi non ha mai portato nell'Ortodos-
sia agli eccessi d'un clericalismo che praticamente esclude i laici dalla
606 EXCURSUS: LII TEOLOGIA 0RTODOSSA
0

partecipazione alla conoscenza teologica. Del resto liturgia e rnona.


chesimo, i due 'luoghi' privilegiati in cui viene maniféstata e vissuta
la pienezza della tradizione ortodossa, si rivolgono sia a tutto il po-
polo, sia - nel secondo caso - al laicato carismatièo.
Nella Divina Liturgia ortodossa, la teologia viene nello stesso tem-
po presentata, realizzata e vissuta. In un'epifania di bellezza, il cielo
discende sulla terra. Sulle icone del Cristo, della Madre di Dio e
dei santi risplende la luce della gloria, mentre Io sfarzoso simbolismo
dell'azione liturgica e la parola annunziata attualizza!'lo il mistero
pasquale, che si svolge spiritualmente alla presenza delfa--Cbiesa invi-
sibile. Sacramenti ed immagini spirano quella forza di energie divine,
che trasformano il fedele in un uomo nuovo. Ripieno della coscienza
della sua indegnità di creatura peccatrice, ma anche profondamente
animato da lieta gratitudine per l'amore verso gli uomini dell'uomo-
Dio redentore, egli esprime la sua lode ed il suo ringraziamento nel
linguaggio d'una magnifica poesia liturgica.
La fede ortodossa quindi è unita in modo inseparabile al rito, in
cui essa si esprime in unt1 'teologia dossologica'; tuttavia il suo pie-
no sviluppo è riservato alla mistica. Per sua natura il monachesimo
orientale non è fatto per compiti attivi e terreni, mira piuttosto al-
l'anticipazione della vita angelica della risurrezione attraverso la di-
scesa nel pi~ -Wtimo del regno escatologico. Al termine della lotta
ascetica contro le passioni e della 'prassi' dell'amore del prossimo,
che si debbono esercitare nella comunità monastica, l'immagine di
Dio, che è stata meravigliosamente ristabilita nel battesimo, è im-
pressa nel monaco nella maggiore somiglianza possibile in terra. Al-
lora nel silenzio della solitudine e nella calma della pura preghiera
lo Spirito, al cuore chiaro come uno specchio, rivela il riflesso dei
misteri divini e della stessa Trinità nella fuggevole luce d'una cono-
scenza che brucia e trasforma, in cui l'inconoscibile si manifesta nella
chiara oscurit~ della sua ineffabilità. Secondo l'Ortodossia, è vera e
perfetta quella teologia in cui la creazione divinizzata conosce se
stessa com'essa è conosciuta da Dio. Nella sua essenza, si tratta più
d'una teologia mistica della realtà sperimentata della fede, che d'un:1
teologia distaccata e che rifletta criticamente. Ed ancora, non si trat-
ta tanto di un'elaborazione sistematica dei dati della rivelazione,
EXCURSUS: LA TEOLOGIA ORTODOSSA

quanto piuttosto di lasciarsi afferrare e trasformare dal mistero vivo


e trascendente.
Nella conoscenza di na~ura razionale e logica, che sta alla base
della filosofia, della scienza e della cultura dell'Occidente laicizzato,
il teologo ortodosso nel migliore dei casi vede una fQ_rma esterna,
una legge astratta, incapace di penetrare fino al centro della verità
viva della realtà. Nella ragione caduta, abbandonata a se stessa, non
c'è un'inclinazione a trasformarsi in uno strumento di potenza sfre·
nata che, dopo aver distrutto ciò che è cristiano, distrugge anche ciò
che è umano? Quindi all'Ortodossia ripugna di scendere sullo stesso
piano del razionalismo per spiegarsi con esso mediante un'apologe·
tica scientifica. Essa preferisce rimanere nella verità più completa e
più alta, rendendo dinanzi al mondo la testimonianza della sua fede
viva. Anche nell'ambito della fede essa non permette la 'teologizzazio-
ne' nel senso scolastico di questo concetto, cioè non desidera un'appli-
cazione sistematica di categorie filosofiche razionali all'analisi, all'in-
terpretazione, all'elaborazione o sintesi della tradizione che ad essa
è affidata, perché teme d'avvilire il mistero dello Spirito divino in
una costruzione troppo fragile della ragione umana, e di svuotarlo
della sua ricchezza.
Taluni riterranno queste osservazioni come esagerate e quindi met-
teranno in rilievo la funzione essenziale che un certo ellenismo ha
svolto fino ad oggi nella visione teologica dell'Ortodossia, e pari-
menti desidereran;w che l'Ortodossia si sforzi maggiormente di adat-
tarsi a nuove categorie di pensiero, per poter in tal modo rispon-
dere meglio alle legittime esigenze spirituali del presente. Tuttavia
rimane vero che nell'Ortodossia la ripugnanza innata di fronte ad
ogni decurtazione della sua teologia in complesso ha avuto fino ad
oggi effetti vantaggiosi, anche già per il solo fatto che ad essa sono
state risparimate le molte dolorose crisi del pensiero religioso eu-
ropeo a partire dall'epoca moderna. Più d'un sistema teologico di ieri
appare oggr in Occidente come notevolmente antiquato, se non del
tutto superato, mentre la sintesi religiosa dell'Ortodossia conserva
un soffio di permanente freschezza. Senza dubbio essa deve la sua vi-
vezza giovanile alla sua sorprendente fedeltà verso le fonti vive della
tradizione, ma anche, e forse soprattutto, alla pienezza esistenziale
con cui riceve il mistero.
608 BIBLIUGRAFIA

Sarebbe quindi un tradire il suo spirito e un disconoscere ciò che


ad essa è proprio, se si volesse costringere la sua teologia nella co-
moda cornice d'un sistema astratto. Troppo a lungo i polemisti cat-
tolici si sono accontentati d'afferrare l'Ortodossia-..dal loro punto di
vista e con i loro criteri, cioè dall'esterno. Tuttavia la seria esigenza
di un dialogo irenico, che oggi fortunatamente inizia tra le Chiese,
non sta appunto nel fatto che ognuno penetra nella conoscenza del-
!'altro fino ad afferrarlo nella sua essenza originaria? È facile indo-
vinare la difficoltà d'una simile impresa. Ma se si giunge a questa
profondità, forse il riconoscimento reciproco aiuterà a superare la
dialettica mortale dei contrasti e della lotta, in una migliore com-
prensione dell'unica verità di Dio che è amore.

ANDRÉ DE HALLEUX o.f .m.

BIBLIOGRAFIA

N. AFANASSIEFF E ALTRI, La primauté de Pierre dans l'Église orthodoxe,


tr. in CULMANN E ALTRI, Il primato di Pietro, Bologna I 96 5, pp. 487-
655.
S. BouLGAKOV, L'Orthodoxie, Paris x932.
P. BRATSIOTIS E ALTRI, Die orthodoxe Kirche in griechischer Sicht, in Die
Kirchen dèrWelt, 2 voi., Stuttgart 1959/60.
O. CLÉMENT, L'Église orthodoxe, Paris 1961.
P. EvooKIMOV, L'ortodossia, Bologna, 21966.
G. FLOROVSKY, Le corps du Christ vivant, une interprétation orthodoxe
de l'Église dans la Sainte Église universelle, Neuchatel 1948.
V. LossKY, La teologia mistica della Chiesa d'Oriente, Bologna 1967.
). MEYENDORFF, Die orthodoxe Kirche gestern und beute, Salzburg 1963.
Procès-verbaux du Premier Congrès de Théologie Orthodoxe, Athènes
1939.
A. SANl'OS HERNANDEZ. Iglésias de Oriente, 11, Repertorio bibliogr:ifico,
Santander ,1963.
ABBREVIAZIONI
di lesti, coUt:Uo11i, studi t rivùtt citm

A.AS Acta Apostolicae Sedis, Romae 1909 ss. (già ASS, v.)
ACO Acta Conciliorum Occumenicorum, ed. E. Scbwartz, Berolini 1914 H
ACW Ancient CJuistian Writcrs, ed. J. Quuten &: J. C. Plumpe, London
1946 5$,
AdPh Arcltives dc Philosophie, Paris 1923 ss.
AER American Ecclesiutical Revicw, Washington.
ALW Archiv fiir Llturgicwissenschaft, Regensburg 19,0 11. (già JLW, v.).
AnGr Analecta Gregoriana cura Poniliìciae Universitatis Grqorian1e edita,
Romae 1930 ~.
Anlov Analecta Lovaniensia Biblica et Oricncalia, Lovanii 1947 ss.
ASNU Acta Seminarii Neotestamentid Upsalienais, Uppsala 1936 ss.
ASS Acta Sanctae Sedis Romae l86,-151o8.
ATA Alttestamcntliche Abhandlungen, bcgoonen von ]. Nikcl, hrsg. von
A. Schulz, Miinster 1~o8 ss.
ATD
ATh
2,
Das Alte Testament Dcutsch, hrsg. von V. Hemtrich u. A. Weiser,
Bde, Gi:ittiogen 19,1 ss.
L'Année !Mologique, Paris 1940 ss.
ATANT Abh1111dlWJ1en zur Theologie des Alten und Neuen Testaments, Ba·
sd-Ziirich I 942 ss.
BarthKD K. BAllTH, Kirchliche Dogmatik, I-IV, 3, Zollikon-Ziirich 1932 55.
BASOR Bulletin of the American Schools of Orientai Raearch, New Haven
1920 ss.
BBB Bonner Biblische Beitriige, Bonn 19,0 sa.
BCR Biblioteca di cultun religiOl8, Edizioni Paoline, Roma (v. alla abbre·
viazione: Rahner Schtiften).
BET Beitriige zur Evangelilchen Theologie, Miincllen 12)5 ss.
BGE Bcitriigc zur Geschichte dcr neutcstamentlichen Excgese, Tiibingen
r9n ss.
BGPhMA Beirriige zur Geschichte der Philosophie (dal n. 27 [1928·30]: und
Theologie) des Miuelalters, hrsg. von M. Grabmann, Miinster 1891 ss.
BHK Biblia hcbraica,7 ed. R. Kiucl, Stuttsart 19,1.
BHT Beitriige zur historischen Theologie, Tiibinp 1919 ss.
BiAr Thc Biblica! Archeologist, New Haven 1938 ss.
Bib!Thom Biblio1hèque thomiste, Le S1ulchoir 19u sa.
Bijdragen Bijdras.en, Tijdschrift voor Filosofie cn Theologie, Nijmcgen 1938 ss.
Billerbeck H. L. SruCK u. P. BtLLEDECK, Kommentar zum Neucn Teswnenr
aus Talmud und Midrasch, I-IV, Miinchen 192N928 (ristampa
19,6); V, Rabbinischer Index hrsg. van J. Jcremias u. K. Adolph,
Miiochen 19,6.
BK Biblischer Kommenrar. Altes Tcstunent, hng. von M. Noth, Neu·
kirchen [ 9" ss.
BKV Bibliothek dcr Kirchcnviiter, hrsg. von F. X. Reithmayr, fonges. von
V. Thalhofcr, 79 Bde, Kemptcn I869·1888.
BKVl Bibliothek der Kirchenviter, hrsg. von O. Bardenhc-wcr, Th. Scher·
mano (dal voi. 3', da J. Zcllinger u. C. Mcyman) 83 Bde, Kempten
i911 ss.2.
BLE Bullctin de Littérature Ecclésiastique, Toulouse 1899 ss.
BM Bencdektinische Monatsschrift, Beuron 1919 ss.
BSLK Die Bekenntnisschriften der evangelisch-lutherischen Kirche J, hng.
von Dcutschen Evangelischen Kirchenausschluss, Qiuingen r9,6.
6ro IJIBREVIAZIONJ

BSRK Die Bekenntnisschriften der n:formicrten Kirche, hrsg. von E.F.K.


Milller, Leipzig 1903·
BSt Biblische Studien, begr. (u. bis 1916 hrsg.) van O. Bardenhewcr,
fortgef. von J. Goettsberger u. ]. Sickenbcrger, Freiburg i. Br. i 896 ss.
BTAM Bulletin de Théologie Ancienne et Médiéviile, Louvain 1929 ss.
BWANT Beitriige zur Wissenschaft vom Alten und Neucn Testament, Stutt·
gatt l926ss. lgià BWAT, v.).
BWAT Beitriige zur Wissenschaft vom Alten Testament, Leipzig 1908 ss.
BZ Biblische Zeitschrift, Freiburg i. B. 1903-1929; Padcrborn l93I-I939·
19.57 ss.
BZAW Beihefte zur Zeitschrift fiir dic alttcstamentliche Wissenschaft, Gics-
sen-Bcrlin 1896 ss.
BZfr Biblische Zeitftagen, hrsg. von P. Heinisch u. F. W. Maier, Miinster
1908 ss.

Cath Catholica. Jahrbuch (Vierteljah.resschrift) rur Kontroverstheologie, (Pa·

CathEnc
dcrborn) Miinstcr 193;1 ss.
Tue Catholic Encyclopcdia, cd. by Ch. Hcrbermann & Oth.,
New York 1907-r?u; Index (1914) e Supplements (1922}.
i'vo!L,

CBQ Tue Catholic Biblica! Quarterly, Washington 1939 ss.


CCath Corpus Catholicorum, begr. von J. Grcving, Miinster _I,919 ss.
CChr Corpus Christianorum seu nova Pattum Collectio, Turnhout-Paris
19,3 ss.
Chalkedon Das Konzil von Chalkedon, Geschichtc und Gcgenwart, hrsg. von
A. Grillmcicr u. H. Bacht, I-III, WUt2burg 19,1-19,4.
CivCatt La Civiltà cattolica, Roma l s,o ss.
CIP Clavis Patrum Latioorum, ed. E. Dekkers, Stccnbrugge 195r.
ColLac Collectio Lacensis. Asta et Decreta sacrorum Conciliorum recentio·
rum, a cura dei gesuiti di Maria Laacb, 7 voll., Frciburg i. Br. 1870
18,90.
Col!Brug Collatiooes Brugenses, Bruges 1896 ss.
CoJJBrugGand Co\lationes Brugcnses et Gandavenses.
ColiGand ColJationes Gaodavenses, Gand.
Concilium Concilium, B:lizione itiiliana, Brescia x965.
CR Corpus Reformatorum, Bcrlin x834 ss. - Leipzig i906 ss.
esco Corpus Scriptorum christianorum Orientalium, Parisii 1903 ss.
CSEL Corpus Scriptorum ecclesiasticorum Latinorum, Wien r866 ss.
css Cursus Scriptutae Sacrae, Parisii 1884 ss.
CT Concilium Tridentinum. Diariorum, Actorum, Episruluum, Tracta·
tuum nova Colkctio, edidit Societas Goerresiana promovendis intcr
Catholicos Germaniae Litterarum Studiis, voll. 1-13, Freiburg i. Br.
1901 ss.

DAB Dictionnaire d'Archéologie bibliquc, éd. W. CoJoswant, Neuchàtcl


Paris 19,6.
DACL Dktionoaire d'archéologie chrétienne et de lirurgie, éd. F. Cabro) et
H. Leclcrcq, Paria r924 ss.
DAFI' Dictionnaire apologétique de la foi catholique ~. éd. A. d'Alès, Paris
1909-193r.
DB Dictionnaire de la Bible, 6d. F. Vigouroux, voll.1-5, 1895-1912.
DBS Dictionnairc de la Bible, Supplément commencé par A. P1aoT, et A.
RoBERT, sous la direction de H. Cazelles et A. Feuillet, Paris 1928 ss.
DR Downside Review Stratton on tbc Fosse (Bath), 1880 ss.
DS DENZINGER - ScHONMETZER, Enchiridion symbolorum, definitionum et
declarationum de rebus fidei et morum, JJ F reiburg I 965.
DSAM Dictionnaire de Spiritualité ascétique et mystique. Doctrinc et Hi-
stoire, éd. M. Viller, Paris 193;1 ss.
DTh Divus Thomas (fino al 1914: Jahrbuch rur Philosophie und speku-
lative Theologie; dii.I 1954: Freiburger Zeitschrift fiir Theologie und
Philosophie), Fribourg.
AlllllEVlAZIONJ 6u

DThA Die deutsche Thomasausgabe, Salzburg 19)9 ss.


DTC Dictionnaire de théologie catholique, éd. A. Vacant et E. Mangenot,
continué par E. Amann, Paris 1930 ss.
DTh(P) Divus Thomas (Piacenza) 1880 ss.
DTM Dizionario di Teologia Morale, dir. da F. Roberti, Roma 191'·
DzT Dizionario Teologico (v. alla abbreviazione HTG), Brescia 1966-68.

EB Echter-Bibd, hrsg. v. F. Néitscher u. K. Staab, Wiirzburg 1947 ff.


EBB Encyclopedia biblica, thesaurus rerum biblicarum ordine alphabetico
digestus. Ediderunt Institutum Bialik Procurationi Iudaicae pro Pa·
laestina (Jewish Agency) et Museum Antiquiiatum Judaicarum ad
Universitatem Hebraicam Hierosolymitanam pertinens, Jerusalem
19,oss.
ECatt Enciclopedia Cattolica, Roma l 949 ss.
EE EstUdios eoclesi&sticos, Madrid 1922-1936, 1942 ss.
EKL Evangdisches Kirclienlexikon. Kirchlich • theologisches Handworter·
buch, hrsg. v. H. Brunotte u. O. Webcr, Gottingen 19" ff.
ELit Ephemerides Liturgicae, Romae 1887 ss.
EnchB Enchiridion biblicum. Documenta ecclesiastica Sacram Scxi.pturam
spectantia l, Romae 19.56.
EstB EstUdios Biblicos, Madrid 1941 ss.
EtB 2tudes Bibliques, Paris 1907 ss.
ETL Ephemerides Theologicae Lovanienses, Bruges 1924 ss.
EvT Evangelische Theologie, Miinchen l 9 34 ff.

Fischer ].A. FISCHE!t, Die Apostolischen Viiter, Miinchen 19,6.


FKDG Forschungen zur Kirchen- und Dogmengeschichte, Gottingen I9J3 ff.
FlorPatr Florilegium Patristicum, hrsg. v. ]. Zellinger u. B. Geyer, Bonn
1904 ss.
FrcibThSt F1eiburger Theologische Studien, Frciburg, i. Br. 1910 li.
FS1R Forschungen zur systematischen Theologie und Religionsphilosophie,
Géittingen 1955 ff.
FStud Franziskanische Studien (Miinster), Werl l914ff.
FI'H Fragen der Theologie beute, hrsg, v. Joh. Feiner, Josef Triitsch,
Franz BOckle 1, Einsiedeln 1960.
FZTP Freibutger Zeitschrift fiir Theologie und Philosophie (fino al 19!4:
Jahrbuch fiir Philosophic und spekulative Thcologie; 1914-_H: DTh,
Fribourg).

Die griechischen christlichen Schriftsteller der ersten drei Jahrhun·


derte, LeijlZig 1897 if.
Gott in Welt Gott in Welt. Festgabe fiir Karl Rahner. Hrsg. v. J. B. Metz, H.
Vorgrimler, A. Darlap und W. Kem, 2 voli., Freiburg 1964 (tta-
dotto in parte nella BCR, nn. 51-52).
Gr Gregorianum, Romae 1920 ss.
GuL Geist und Leben. Zeitschrift fiir Aszcsc und Mystik (fino al 1947:
ZAM), Wiirzburg 1947 ff.
HaagBL Bibcl-Lexikon, hrsg. v. H. Haag, Einsicdelo 1951 ff.
HarnackDG A. VON HARNACK, Lehrbuch der Dogmengeschichte, 3 Bdc, Tiibingen
1909 f. (ristampa fotomeccanica, Tiibingen 1931 s.5).
HarnackLit A. VON HARNACK, Gcschichte der altchristlichen Literstur, 3 Bde, Leip-
zig 189 J· l 904.
HAT Handbuch zum Alten Testament, hrsg. voD O. Eissfcldt, Tiibingen
1934 ff.
HDG Handbuch der Dogmengeschichte, hrsg. von M. Schmaus, J. Geisel·
mann, A. Grillmeier, Freiburg i. Br. 19.51 ff.
HNT Handbuch zum Neuen Testament, begr. von H. Lictzmano (jetzt hrsg.
von G. Bomkamm), 23 Abteilungen, Tiibingen I!)o6 ff.
6u ABUAVIAZlONl

HPI' Handbu.ch der Pasroraltheo!Ofli~- Prakcischc Theologic der Kirdie in


ihrcr ~wart. Hrq. von F. X. Arnold, K. Rahner, V. Schurr, L. M.
Weber, Bei. I, Preiburg 1964.
HTG Haodbuch Theologiacher Grundbqriffc. Hng. vou Hcinrich Frics.
Traduzione italiana a cura di G . .ltiva rol titolo DilioDlrio Teologia>
[DzT): I (21967): aa:omodazione-giustizia, II (21968): gloria-propric-
tl; III (21969): profcta-vcrginitl.

HTK Hcrdet lbeologischer Kommeotar zum Neuen TestUllCllt, hng. von


A. Wikcnhauser, Freiburg i. Br. I9H f.
HThR Thc Harvard Theological Rcvicw, Cambridge (Mass.) 1908 ss.

IThQ Ianel Exploration Journal, Jenw.lcm 19,0 a.


IEJ Thc Iriah Thcological Quartcrly, Dublin 1864 ss.
JEOL Ex Oriente Lux. Jaarbericht van het voonziatiscb-egyptiscb Geooot-
schap, Lcidc.D 1:m 11.
JLW Jahrbuch fiir Liturgiewisscnschaft, Miinster 1921-1941 (giì: ALW).
Joumal of Ncar Eastem Studics, Oùago 1942 ss.
J:5
JTS
Joumal of Semitic Studics, 1·7, Manchester 19,6-1962.
Thc Joumal of Thcological Studies, London 1899 SI.
K C. lCIKCH • L. UEDING, Enchiridion fontium historiae antiquac, Frci·
burs_ i. Br. 19,6.
Kal1 E. KALT, Biblischcs Rcallcxikon,Z 2 Bdc, Paderbom 1938-1939.
KuMyth Kcrygtna und Mythos, Hamburg 19'2 f.
KNT Ko111II1Cntar zum Ncucn Testament, hrsg. von Th. Zahn, 18 Bdc,
Lcipzig I 903 ff ·
KuD Kcrygrna und Dogma, Giittinsen I9H ff.
Landgraf D A.M. LANDGllAF, Dogmcngcschichtc der Friihscholutik, I-IV, 2, Re-
gcnsburg 1952-1956.
Lei1urgia Lciturgia. Handbuch des evangelischcn Gottesdienstcs, Kusel 19'2 ff.
LF Li turgicgcschichtliche Fol'IChungcn, Miinster l 9 18 ff.
LJ Liturgischcs Jahtbuch, Miinster 19'1 ff.
LM Lcxikon dcr Marienkunde, hrsg. von K. Algcrmissen, L. B0cr, C.
Feckes, J. Tyciak, Regcnsburg 19'7 ff.
LMD La Maison-Dicu, Paris 19·4' ss.
Liturgiegcschichtlichc Qucllen, Miinster 1918 ff.
t8F Liturgiegcschichtliche Qucllen und Forschungen, Miinstcr 1909 bis
1940, 19,7 ff.
LSB La Sainte Bihlc, traduite cn français sous la dircction de l'l!co~ Bi·
bliquc dc Jérusaletn, Paris 1948 ss.
LTK Lcxikon fiir 1beolcigie und Kirchc 1. Hrsg. von J. HOfcr und K. Rah-
ncr Bd I-X, Frciburg 19,7-1962.
LuM Liturgie und Monchtum. Laachcr Hcfte (Frciburg i. Br.) Maria Laach
1948 ff.
Lum Vitae Lumen Vitae, éd. par le Centrc intcmational d'Etudcs de la forma·
tion rcligieusc, Bruxelles 1946 ss.
LVTL L. Kol!HLER • W .BAUMGARTNEll, Lcxicon in Vcteris Testamenti Ubros,
Lcidcn 1948·r9,3.

Mansi J.D. MANs1, S1crorum conciliotum nova et amplissima collectio, 31


voli. Florentia-Venctiis 17J7·J798; ristampa e continuazione di L. Pe-
tit et J. B. Martin inw voli., Parilii 1899-1927.
MBTh Miinsterische Bciuiige zur Theologie, Miinster 1923 ff.
MthSt(H) Miinchencr theologische Studicn, hng. von F. X. Scppclt, ]. Paschcr
u. K. Morsdorf, Historiscbe Abteilung, Miinchen 19,0 ff.
MthSt(Sl Miinchcner theoloaischc Studien, hng. von F. X. Seppelt, J. Paschet
u. K. Mondorf, System1tische Abteilung, Miinchen 1950 f!.
UBUVlAZIONI

MTZ Miinchencr Thcologischc Zeitsclu:ift, Miinchcn 19,0 ft.


NovT Novum Testamentum, Lcidcn 19'6 ff.
NR J. NEUNE.R u. H. Roos, Ocr Glaube der Kirche in den Urkundcn der
Lehrverkiindigung 5, Rcgensburg 19,8.
NRT Nouvelle Revue Théologiquc, Taurnai·Louvain-Paris 1879 ss.
NTA Neutestamcntlichc Abhand.lungen, hrsg. von M. Meincrtz, Milnster
1909 li.
NTD Das Neuc Tcstamcnt Deutsch, hrsg. v. P. Althaus u. J. Bchm (Ncues
GOttingcr Bibelwcrk), GOttingcn 19 }2 ff.
NTS New Testamcnt Studies, Cambridge-Washington r9'4 ss.
OrChrP Orientalia Christiarur periodica, Romae 193' ss.
OstKSt Ostkircliliche Studien, Wiirzburs 19,1 ft.
OTS Oudtestamentische Studien, Lciden 1942 sa.
PG Patrologia Graeca, ed.. da J. P. Migne, 161 voli., Parisii 18,7-1866.
PhJ Philosophisches Jahrbuch dcr GOrres-Gcscllschaft, Fulda 1888 fi.
PL Patrologia Latina, cd. da J. P. Mignc, u7 voli., e 4 di indici, Pari·
sii 1878-1890.
PI.Suppi Supplemcntum al Migne, a cura di A. Hamman.
POr Patrologia orientalis, cd. da R. Graffin e F. Nau, Paris z~ ss.
PriimmCliG K. P10MM, Der cbristliche Glaube und die altheidnisc:he Welt, 1-11,
Leipzig 193'·
PriimmRH K. PxOMM, Religionsgeschichtliches Handbuch fiir den Raum dcr a!t-
christlichcn Umwclt. Hcllenistisch-romische Geistesstréimungen und
Kulte mit Bcachtung dcs Eigenlebena der Provinzen, Frciburg i. Br.
1943; ristampa, Roma, 19,4.
PS Patrologia Syriaai, cd. R. Graffin, 3 voli., Paris 1894-19:z6.
QLP Questions lirurgiques et paroissialcs, Louvain 1921 ss.
R M.J. RolJET DE ]OlJllNBL, F.nchiridiou Patristicum 19, Freiburg i. Br
r9,6.
Rahner, Schriften K. RAHNEll, Schriften zur Thco&ogie, I-VI, Einsicdcln 19'4·196'
(tradotti iD italimo a cura di A. Mananzi.n.i per la BCR: nn. 6o, 6:z,
63, 64, 6,, 67) Roma.
RAC Reallexikon fiir Antike und Christentum, hrsg. v. Th. Klauser, Stuu-
gart l94r [ 1910] ff.
RAM Revue d'ascétique et dc mystique, Toulousc 1920 ss.
RB Revue bibliquc, Paris r892 ss.
R&!n Revue bénédictine, Marcdsous 1884 ss.
RE Realencyklopiidie fiir protestantischc Theologie und Kii:chc J, begr. v
].]. Herzog, hrsg. von A. Hauck, 2.4 Bdc, Leip?ig 1896-1913.
RET Revista Espaiiola de teologia, Madrid l 94 I ss.
RSR Revue des Sciences Religicuses, Strasbourg r921 ss.
RGG Dic Rcligion in Geschichte und Gegenwart, Tiibingcn r909 ss.
RHE Rcvuc d'histoire ecdésiastique, Louvain 1900 ss.
RHPR Rcvue d'histoire et de pbilosophic religiewes, Sttasbourg 1921 ss.
RHR Rcvue de l'histoire des religions, Paris r88o ss.
RivAC Riviste di archeologia cristiana, Roma r924 ss.
RNPh Revue n~colastiquc dc philosophic, Louvain 1894 ss.
RNT Regensburgcr Neucs Tcstament, hrsg. v. A. Wikenhauscr u. O. Kuss
10 Bde, Regensburg 1938 li. (Il, 19,61!.).
Roberti Dizionario di Teologia Morale, dir. da F. Robcrti, Roma '9'4·
RPhL Rcvue philosopbiquc dc Louvain, Louvain 1945 ss.
RSPT Rcvue des scienccs philosophiqucs et thrologiques, Paris r907 ss.
RSR Recherchcs dc scicncc religieusc, Paris r 91 o ss.
RTAM Rccherchcs de Thrologic ancicnnc et m~iévalc, Louvain 1929 ss.
RThom Revue Thomiste, Paris 1893 ss.
RTP Rcvue de Thrologic et de Philosophie, 1' Série, Lausanne 1868-1911,
2' Série, Lausanne 1913-1950~ ~· Série, Lausanne 1951 ss.
ABBUVIAZIONl

SA Studia Anselmiana, Romae 1933 ss.


SA.B Sitzungsbcrichte der Deutschco (fino al 1944: Prcussischen) Akade
mie der Wissenschaften zu Berlin. Phil.-hist. Klasse, Berlin 1882 ff.
SAH Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissellllchaften.
Phil.-hist. Klasse, Heidelberg 1910 fi.
SAM Sitzungsberichte der Bayerischen Akademle der Wisserulchaften. Phil.·
hist., Miincben 1871 ff.
SANT Studien zum Alten und Neuen Testament, Miinchen lilOO ss.
SAT Die Schriften des Aften Testamentes in Auswahl 2, ubers u. erkL von
H. Gunkel u.a., Gottingen 192°'192,,
se La Scuola Cattolica, Milano 1873 ss.
SE. Sacris Eruditi. Jaarboek voor Godsdienstwetenachapen, Brilgge 1948 fl.
Seeberg R. SatBERG, Lehrbuch der Dogmengeschicbte, Leipzig I-II (19n f.l).
III (1930 4), IV, 1 (r933 4), IV, 2 (1933 4 ), IV, 2 (1920 3 ), I-IV ri·
'tampa, Base! i:953-I9J"l·
Sourcesthr Soutces chrétiennes, Colleaion dirigée par H. de Lubac et J. Danié-
lou, Paris 1941 ss.
SSL Spicilegium sacrum Lovaniense, Lovanii 1922 ss.
SdZ Stimmen der Zeit (fino al 1914: Stimmcn aus Maria-Laach), Freiburg
i. Br. 1871 fl.
SteT Studi e Testi, Roma 1900 ss.
StL5 Staatslexikon ~. hrsg. von H. SACHER, Freiburg Br. 1926-1932
(Stl 6 : ebd. 19'7 fi.).
SKZ Schweizerischcs Kirchen-Zeitung, Luzern.

TD Textus et Documenta, Series theologica, Romae 1932-193,.


1hEx Theologische Existenz.heute, Miinchen 1933 fE.
ThGI Tbeologie und Glaube, Padcrborn 1909 ff.
THK Theologischer Handkommentar zum Neuen Testament, Leipzlll
1928 ff.
ThRv Theologische Revue, Miinstcr 1902 ff.
TSt(B) Theologische Studien, hrsg. v. K. BARTH, Zolli.kon 1944 ff.
Tixeront L.J. TIXERONT, Histoire des dogmes dans l'antiquité chr4!tienne 11, 3
voll., Paris 1930.
TLB Theologisches Literaturblatt, LeiJ:YZig 1880 ff.
TLZ Theologische Literaturzeitung, Leipzig 1878 ff.
TPQ Theologisch-praktische Quartalschrift, Linz a.d.D. i:848 11.
TQ Theologische Quartalschrift, Tiibingen 18I911; Stuttgart 1946 ff.
TR Theologische Rundschau, Tiibingen 1897 fl.
TS Theolollical Studies, Baltimore, i940 ss.
TTZ Trierer Theologische Zeitschrift (fino al 19'1-4: Pastor Bonus), Trier
r888 ff. ,
TU Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Litera-
tur. Archiv fiir die griechisch<hristlichen Schrift:steller der ersten
drei Jahrhunderte, Leipzig-Berlin 1882 ff.
TWNT Theologisches Worterbuch zum Neuen Testament, hrsg. von G. Kit-
tel, fortges. v. G. Friedrich, Stuttgart 1933 ff. (ed. it. Paideia, Bre-
scia, r965 ss.).
Tl Theologische Zeitschrift, Base! I 94' ff.

Utz-Groncr Utz-GRONER, Soziale Summe Pius' Xli., Freiburg I95'·

VD Verbwn Donùni, Romae 1921 ss.


Vi~hr Vigiliae christianae, Amsterdam 1947 ss.
Viller-Rahncr, M. VILLER u. K. RAHNER, Aszese und Mystik in der Viiterzeit, Frei-
burg i. Br. 1939.
VL Verus Latina. Die Reste der altlateinischen Bibel. Nach P. SABA'f!E!
neu gesammelr u. herausgcgeben von der Erzabtei Beuron, 1949 ll
VieSp La Vie Spirituelle, Paris 1869 ss.
VT Vetus Testamcntum, Leiden 1951.
AJIBllBVIAZIDNI

WA M. LumEll, Werke, Kritische Gesamtausgabe ('Weimarer Auspbe'),


1883 ff.
Wetzer-Weltc WETZER u. WELTES Kirchenlexikon 2, u Bde u.. r Regiarer-Bd, Frei-
burg i. Br. 1882-1903.
WiWei Wissensdiaft wid Weishe.it, Diisseldori 1934 lf.
WUNT Wissenschaftliche Untersuchungen zum Neuen Testament, hrsg. v.
J. JCI'elllW u. O. Miche:l, TiibWgl:i;i 19,0 Il.
ZAM Zej.tschrift fiir Aszese und Mystik (dal 1947: GuL), Wiinburg
1926 ff.
ZXSA 1.citsduift fiir iigypti&che Sprache und Altenumskunde, Berlin.
ZATW Zeitschrift fiir die alttcstammtlk:he Wissenschaft, Berlin 1881 lf.
ZEvE 7.eitschrift rur Evangelische E!hik, Giitersldi 1957 ff.
ZKG ,Zei1schrift fiir Kircheugeschichte, Gotha.Stuttgart 1877 ff.
ZKT Zei~t fi.ir Katholische Theologie, Wien r877 li.
ZMR Zeì.ucluiir fiir Missionswissenschaft und Religionswisseoschaft,
Mii!wter 1950 ff .
ZNTW Zei.tschrift fiir die neutestamentliche Wissenschaft und die KUDde
der iiLr.eren Kirche, Giessen 1900 ff., Berlin i934 ff.
~ F. Zolll!LL et L. SEMKOWSD, Lexicon fiebraicwu et ara.maicum Vete-
ris Teswnenti, Ramae r~ss.
ZST Zeitschrift fiir systematische Theologie, Berlin 1923 Il,
ZTK Zeitschrift fìir TheoWgie und IGrche, Tiibin8en 1891 ff.
INDICI
INDICE ONOMASTICO

A B

Abelardo, 409. Bach J.S., 77, 288.


Adam K., 459. Bachen R., 292.
Afanassieff N., 6o8. Bacht H., 52, 92, 140, 141, 496, 502,
Agostino s., 72, So, 124, 137, I 39, 503.
IJO, 159, 16o, 190, 1911 192, :;:40, Bacone R., 143.
254, 273, 407, 479, 520, 556, 581, Bahr H.E., 276, 28o, 292.
596. Baird W., 174·
Aland K., lJO, 354, 356, 357, 365. Balie C., 73, 361.
Alberto Magno s., 568, 586. Baltzer K., 89, 347, 394·
Alessandro di Hales, 143, 314, 585. Bammel E., 215.
Alfaro J., 275, 317, 361, 422, 427, Bardenhewer O., 123, 128.
432, 439, 473, 480, 505, 506, 507. Bardy G., 124.
Allen E.L., 174, 265. Bars H., 510.
Allo B., 324. Barsotti D., 65.
Altaner B., 123, 128, 130, 135, 144. Barrh G., 306.
Althaus P., 87, 228, 229, 497. Barth K., 65, 87, 141, 1441 177, 228,
Alszeghy Z., 361. 242, 258, 263, 266, 540, 546, 572,
Ambrogio s., i24, z59, i90, i92. 596.
An assagora, 5'5. Barth T., 436.
Andrieu M., 155. Bartz W., 65, u2, 139, 505.
Anselmo di Cantorbery s., x43, 173, Basilio Magno s., 125, 191.
556, 568, 583, 585, 592. Batiffol P ., 148.
Anselmo da Havelberg, 313. Baucr F. Chr., .200, 3j6.
Antoine P., 506. Bauer J.B., 506.
Appel N., 223. Bcauduin L., 573.
Aquilino A.S., 315, 36r.
Beck H.G., 126, 144.
Beckmann H., 280.
Ario, 190.
Becqué M., 458.
Aristotele, 334, 409, .513, 521, .:n8, Bellarmino R. s., u8.
541, 542, 544, 545, 548, 55}, 556, Benolt A., 123, u8, u9, i 30, 138,
584, 585, 586, 587, 588, 590, 594· 144, 215.
Amold B.G., 198. Benoit P., 266.
Amold F.X., 180. Bcmanos G., 28o.
Artz J., 322, 444, 451, 507. Bernard M., 544, 596.
Assemani G.S., 126, 147. Bernardo di Chiaravalle s., 162, 568,
Asting R., 173, 265. Beming V., 50, 65, 262, 268, 318.
Atanasio s., 137. Betti U., IlJ, II7, 118, 122.
Atenagora, 190. Betz }., 137, 303, 314, 361, 458.
Aubert R., 209, 405, 408, 415, 416, Beumer J., 72, 92, 94, 120, 122, 266,
430, 436, 442, 449, 456, 457, 458, 313, 314, 351, 361, 495, 509, 596.
459, 474, 484, 495, 501, 505, 507. Biemcr G., 321, 314, 361.
Aulen G., 365. Biser E., 65, 434, 510.
Averroè, 584. Bismarck O., 85.
INDICE ONOMASTICO

Blaisc A., 13,. Cazelles H., 309.


Blank J., 307. Caillicr, 127.
Blondel M., 32,, 326, 333, 348, 361, CettaUJ: L., 215.
415. Cervini card., 307.
Bloy L., 280. Chadwick O., 317, 362.
Boezio di Dacia, 584. Charlier L., 331, 362.
Bogler Th., 292. Chéné J., 426.
Bonaventura s., 125, 140, 143, ,13, Chenu M. D., 126, 139, 144, 196,
519, ,2,, j68, J96. 315, 362, 407, 431, 458, 494, .:SO$,
Bonifui D., 361. 597.
Borgolte A., J05. Chirat H., 144.
Bomkamm G., 176, 177, 239, 306. Cirillo d'Alessandria s., 131.
Boros L., 434. Cirillo di Gerusalemme s., 190.
Boularand E., 507. Cirne-Lima C., 434, 480, 484, ,o8.
Bouillard H., 480, 494, 495, ,o,, 507. C!émcnt O., 6o8.
Boulgakov S., 608. Clemente Alessandrino, 406, 530, 556,
Bouycr L., 65, ,09. 582.
Boyer Ch., 361. C.Olombo C., uz.
Brandenburg A., '97. C.Olson J., 122.
Bratsiotis P., 86, 6o8. C.Ongar Y.J.-M., r.7, 112, 119, 122,
Braun F.-M., 5o6. 125, 131, 144, 266, 277, 302, 303,
Braun H., 382, ,o,. 307, 3o8, 314, 315, 338, 346, 362,
Bremond H., 292. 597·
Breuning W., 30.:s. C.Onzclmann H., ·qo, 176, 177, 21;,
Brien A., 'Io. 266.
Brinktrine ]., 6,,l'''
Brockelmann C., 419.
318. Coutinho da Vciga L., 326, 365.
Cullmann O., 65, 173, :21.:s, 229, 5o6,
Brockcr W., 334. 6o8.
Brosch ].. 499. Cusano N., 271, ,,6, 585, 586.
Brunner A., 322, 416, 44,, 451, 4,9,
463, 493, 508. D
Brunner P., 597, 649.
Buber M., 380. Dalmais IR., .164.
Bulst W., 509. Dani8.ou J., 17, 67, 89, 136, 144,
Bulunann R., 96, 166, 175, r,6, 225, 277, 310, J9J·
238, 266, 30.:s, 3o6, 380, 391, 39.:S. Dante, ,s4.
402, 419, 420, 471, 473, .:so7, 509, Darlap A., 11, I>, 32, 467.
n1. 5.:13, 597. David ]., 472.
Buri F., 266, 493. Dc Broglie G., 423, 424, 457, 480,
Butlcr Ch., .:so6. 483, 505, 509·
De Bruync E., 155.
e De Acluival H.M., 321, 362.
Dechamps card., 415, 453, 4,s.
Cabro! F., 164. Decouttray A., 5o6.
Cahill J.. 90. De Ghellinck J.. 126, 144.
Calvino ].. 126. De Grandmaison L., 324, 325.
Camelot Th., 137. De Halleux A., 6o8.
C'.ano M., 315, 316. Deissler A., 309.
Capelle B., 147, 164. Dc Jong J.M., 174, 266.
Cappuyns M., 1,0. De La Taille M., 148.
Cassiano G., 4o8. De Lubac H., 65, 69, 266, 362, '95.
Cassirer E., 199. Dc Lugo J., 317, 48,, 486.
Cavaliera F., 362. Dencffc A., 266.
INDICE ONOMASTICO 621

Denis Ch., •06.


De Torquemada J.. 140.
F~rotin M., 1,,.
Feuillet A., 309.
De Vitoria F., 139. Filone d'Alessandxia, 188.
Dhanis E., 329, 340, 3'31 362. Filthaut Th., 67.
Dibelius M., 238. Fincke E., 122.
Dick Kl., '97. Finkenzcller J., 31,, 362.
Diem H., 96, 224, 266. Fischcr B., 13,.
Dillenschneider O.A., 6j, 78. Fianco H., 196.
Dillenschneider Ch., 3'1, 362. Flcckenstein H., 416.
Dinkler E., 119, 230, 267, 3o6. Flick M., 361, 362.
Dobschiitz E., 114. Florovsky G., 6o8.
Dodd C.H., 172, 403, Jo6. Fluckigi:r F., 266.
Dtillingcr I., '76. Fozio, 126.
Dombois H., J97· Franscn P., 92, 1971 2,,, 266, 464,
Draguct R., 36J. J09·
Drcher B., 18o. Franz A., 1 ,,.
Drey J.S., 20,, 212, 319, 311, ,9,. Franzelin ).B., 206, 318, 362, 486.
Dublanchy E., 26J. Friedrich G., 167, 169, 171, 265.
Duchrow U., 3j7. Fries A., 266.
Du Manoir H., 114. Frics H., 6,, 137, 165, 192, 19,, 303,
Dunas N., 4u, 50,. 314, 321, 322, 323, 362, 372, 432,
Duns Scoto J., 143, 31j, ,,6, j68. 43,, 458, ,506, J07, 509, 593, 597.
Duplacy ].. 466, 506, J09. Frohschammcr, 4 l 3.
Dupuy B.D., 122. Fuchs E., 96, 176, 163.
Duroux B., ,07.
G
E
Gadamer H.G., 96, 233, 334, 597·
Ebedjesu, 126. Galileo, 209.
Ebc!.iOj! G., 6,, 66, 96, 176, 197, 198, Galtier P., 148.
203, 104, 214, 222, 223, 21,, 226, Gamper A., ,09.
227, 228, 240, 144, 2,6, 263, 266, Gardcil A., 140, 32,, 326.
298, 3,6, 362, 374, 438, 509, ,97. Garrigou-Lagrangc R., 324, 362, 49r.
Elen W .. 128, Jn, 3,7, 36J. Garrone G., 510.
Elze M., 189, 190, 191, 266. Gasser vcsc., n5, rr7, n8, 204.
Engelhardt P., jo7. Geiger W., 3,6, 366.
Engcrt J.. 459. Gcisclmann JR., 22, 66, 168, 189,
Epitteto, 188. 192, 203, 238, 265, 303, 219, 320,
Eracliro, '43. '"' ,60. 321, 3,8, 363, 365, 459, .595. 597.
Erman A., 410. Gclin A., 309.
Eschwcilcr K., 417, jo7. Gennadio, 125, 150.
Eusebio di Cesarea, u,, 1,52, 191. Gerhard J.. 127.
Evans C.F., 174, 166. Getzeny H., 319.
Evdolcimov P., 6o8. Geycr B., 597·
Gilg A., 3n, 366.
F Gilleman G., 137.
Gilson !::t., r96, 408, 595, '97.
Fascher E., 26J. Giovanni Crisostomo s., 125.
Fausto di Riez, 408. Giovanni Damasceno s., 130, 285.
Feder A., 12,5. Giovanni della Croce s., 285.
Federer K., 150, 1,1, 164. Giovanni di S. Tommaso, 316.
Fciner J.. 67, 308, 467, 600. Giovanni xxm, II4, 149, 573.
Fcrnandez-Jimenez M., 329, 362. Girolamo s., 72, 124, 12,, 127, 129,
622 INDICE ONOMASTICO

J:3!>- Haring B., 503.


Giuseppe Flavio, 188. Hasenfuss J., 507.
Giustiniano, 190. Hasenhiittl G., 438, 471, _;09.
Giustino s., 190. Hederer E., 292.
Gloege G., 228, 265, 266, 298, 363. Hegel E., 5or.
Glorieux P., 143· Hegel G.W.F., 199, 200.
Goar, 147. Hegemann H.W., 292.
Goethe J.W., 533, 577· Heidegger M., 96, 233, 263, 334·
GOgler R., 597· Heiler F., 298.
Goldammer K., 167, 174, 266. Heinen W., 505.
Goldbrunner J.. 167. Heinricbs M., 597.
Gollwitzer G., 292. Held H.J., 177, 306.
Gollwitzer H., 509. Hemlein J., 363.
Goppelt L., 241, 266. Heneghan J.J., 314, 363.
Gi:irres J.J., 321. Henry P., 214.
GOrret A., 416. Henry R., 126.
Gossmann E., 597- Herrnann I., 67, 172, 173, 174, 178,
Grabman M., 126, 131, 143, :i:44, 597· 267.
Granderath T., 502. Hermes G., 413, ,or, 502.
Grant R.M., 124. Hernegger R., 277.
Grass H., 505. Herrig J.. ,-06.
Grasso D., 172. Heynck P.V., 196, 197, 267.
Gregorio Magno s., u4, 130, 190. Hillmann W., 66, 238.
Gregorio Nazianzeno s., 125. Hocedez E.. 144.
Gregorio Nisseno s., 190. HOO! L.. 192, 193, 267, 314, 593, .:197.
Gressmann H., 146. Hofer J., 518, ,-98.
Greven H., 494. Hoffmann R., 137.
Grillmeier A., r30, :i:37, 214, 365. Hofinger J., 167, r72.
Grosche R., 432, 597. Holb&k F., 65.
Grosheide F.W., 174, 267. Huby J.. 449, 5o6.
Gross H., 308, 309, 3n, Hudelist, 102, 122.
Griinewald M., 283. Hiigel F., 287.
Guardini R., 4,9, 506. Hummel R., 177, 306.
Guérard des Lauriers M.-L., 429, 449, Hunter A.M., 267.
476, 50~. Husserl E., 233, 334.
Guitton J., 510.
Giigler A., 321.
Guglidmo di Auxerre, 3r4. I
Guglielmo da St. Thierry, 313.
Giinther, 317, 413. Ignazio d'Antiochia s., 189, 190.
Ildefonso s., l2:J.
H lngarden R., 292.
Ireneo s., 135, 137, 4o6.
Haecker Th., 292. Isidoro s., u,, 130.
Haenchen E., 177, 189, 225. Iwand H.J., .509·
Hahn F., 2r5.
Hammans H., 78, 304, 3r2, 315, 316,
317, 318, 319, 320, 321, 324, 325, J
326, 327, 3:i8, 329, 33r, 340, 341,
346, 348, 351, 353, 354, 363. Jaeger W., 598.
Hamer J., 466, 509. Jaspers K., 435, 436, -1-93, 510.
Harbsmeier G., 165. Jedin H., 231.
Harent S., 456, 505. Jeremias J., 172, 216.
INDICf. ONOMASTICO

Jocst W., 2.p, 304, 363. Kuss O., 231, 232, 267, 392, 393, 394,
Jonas H., 246, 267. 395, 507.
Joumet Ch., 66, 363.
Jiingel E., 598. L
Jungmann J.A., I8o.
Labcrthonnière L., 415.
K Lais H., 4,4.
Lakncr F., 317, 363.
Lampe G.W.H., 135, 265.
Kahlcfeld H., 383. Landgraf A.M., u6, I# 314, :us,
Kahler M., 175. 363. •
Kamlah W., 277. Lang A., 65, 138, 139, 192, 193, 194,
Kampmlllln Th., 167, 597. 195, 196, 242, 267, 315, 507, 598.
Kant I., 199, 207, 139, 540, '42, 543, Latourclle R., 66," 67, 431, 4'4·
557, ,,8, 585, 587. Lebaçqz J., 456, 508.
Kilntz.enbach F.W., 354, 356, 366. Lebon J., 230.
Kapp E., 334· Lcbreton J., 148.
Karmiris J., 86. Leclercq J., 510.
Karrer O., 418, 499· Lécuyer J., 122.
Kiisemann E., 216, 217, 218, 219, 220, Ledergerber K., 277.
222, 223, 225, 226, 227, 228, 267, Lehmartn K., 215, 361.
397· Le Nain de Tillemont, 127.
Kasper W., 267, 3r8, 363. Lengsfeld P., 94, 168.
Kaufmann F., 292. Lennerz H., 140, 197, z,,, 303.
Kem W., .509. ~ne Magno s., 16o, 190.
Kierkegaatd S., 258, 263, 436. Leone XIII, n9.
Kilber H., 31,. Le Roy E., ZIO, 415.
Kinder E., u9, 2n, 267. Leub:i J., 304.
Kittd G., 265, 272, 386, 392. Lichtenstcin E., 215.
Klein L., 74, 84, 217, 233. Liégé P.A., 265, 296, 4,8, 468, 505.
Kleutgcn J., 480. Lietzmann H., 130.
Klim L., 71. Lipps H., 233, 334.
Kock J., 196. Lob! W., 265.
Koester H., 2~7. Lohmeyer E., 221.
Koester H., 230, 231. LOhrer M., 94, 122, 142, 165, 407,
Kohler W., 355, 365. 507, 600.
Kolping A., 52, 90, 143, 144, 598. Lohse B., 3'4· .356, 357, 365, 366.
Koopmans J.J., r97, 267. Lohse E., 177.
Koser C., 90. Loisy A., 209, :no.
K0ssler P., 505. Lofs F., 365.
Koster D., 593. LOsch St., 320.
K0ster H., 598. Lossky V., 6o8.
Kostcr M.D., 351, 363, 597· Luck U., 174, r77, 267.
Kovach F.J., 274. Lutero M., 126, 176, 197, 198, 199,
Kramcr W., 215. 209, 222, 243, 411, 519, 520.
Kredd EM., 52. l..Uthy K., 292.
Kreimcr H., 191. Liitzelcr H., 292.
Krings H., 67, 598.
Kriigcr G., 355.
Kuhn H., 292. M
Kuhn J.E., 305, 320, 321, 595·
Kiing H., 86, 1o6, 108, n8, 122, 141, Mabillon J.. 147·
241, 242, 267, 509· Madoz ]., 124.
INDICE ONOMASTICO

Mahn:nholz Cli., 290. Neuenzeit P., ;so, 6;s, .z6:z, 268.


Mai-Mai Sze, 282. Newmann JH., 312, 317, 3u, 322,
Malmberg F., 67, 267, +48, 4,0, 480, 323, 324, 326, 329, 348, J:JO, 353,
484, 485, 487, 488, 494, ;so8, :S09· 41;s, 416, 456, ;so8, 518, ;s43, 566.
Manitius M., 143. Niceforo, 285.
Mansi, 149, 157, 204, 2o6. Niclen JM., 66, 173.
Marcello d'Ancyra, 190. Nink C., 457.
Mattus W., 137, 230. Nohl H., 293.
Marin-Sola F., 327, 328, 329, 363.
Maritain ]., 292.
Marrou H.J., 131, 136, 144.
o
Martbie, 147. Occam, 196.
Marci K., 277, 292. Ohm Th., 291.
Martinez F.G., 329, 363. Onorio d'Autu.n, 125.
MaIXKII W., 17], 218, 2191 225, 228, Origene, 129, 137, 153, 159, 190, :s2:s,
229, 267. 530, .s;s6.
Masure E., 458. Ott H., 85, 96, 97, 176, 265, 357, 366,
Mauriac F., 28o. 510.
Mazarella P., 598. Otto S., 123, 137, 144.
McGrath M.G., 267. Overbeck F., 128, 129.
Meinertz J., 2 39.
Meinhold P., 366. p
Melantone, 126.
Mensching G., 26,.
Metz ].B., 142, 371, '06. Palmieri G., 363.
Pannenberg W., 66, 227, 231, 2;s8, 268,
Meuleman G.E., 303, 363.
Meyendorff ]., 608. 304, 305, 357, 505.
Michalon P., 507. Paolo di Samosata, 152.
Paolo VI, I II, n9.
Miche! A~ 363.
Miche! O., 306. Parent J.M., 192, 268.
Mignc J.P., rJ9. Panuenide, 543.
Moeller Ch., I 31. Pascal B., 273.
Mohler J.A., 78, 317, 319, 320, :S95· Pascher ]., 165.
Passaglia C., 318.
Mohr R., 501.
Patzig G., 334.
Mohrmann Cli., ,135.
Molina D., 316. Payot J., 436.
Monden L., 4'4· Péchegut, 436.
Morgenthaler R., 382. Péguy Cli., 273, 280.
Mori E., 508. Perrone G., 147, 318.
Monimort A.G., 164. Pesch Ch., 324, 484, 485.
Moser G., r8o. Pestalozzi JR., 570.
Mosheim J.L., 198. Petavio, 127.
Mouroux ]., 416, 508. Peters A., 67, 598.
Miiller A., 122, 137. Peterson E., 243, 267.
Milller R.. 293. Pfammatter J., 403.
Muschalek G., :so9. Pfeiffer E., 507.
Mussncr F., 174, 177, 216, 268, 307, Pieper J., 407, 5o6.
Pietro Damia.ni s., 408.
392.
Pietro Diacono, 150.
Pietro Lombardo, 193, 313.
N Pinard H., 26;s.
Pindaro, 544.
Nebel G., 293. Pio v, 254.
Nédoncellc M., 322, 363. Pio IX, 85, 92, roo, 140, 148, 446.
INDICE ONOMASTICO

Pio x, 147, 208. Rcuss J.M., 416, 439, '10.


Pio Xl, 147, xn. ,73. Reynders B., 135.
Pio XII, 134, 146 148, 149, 1,2, 1,9, Richardson, 129.
211, 253, 465. Riccardo da S. Vittore, 568.
Pissarek H., 102, 122. Ritschcll o., 268.
Platone, 188, 334, 536, '39. '43, " ' ' Ritschl o.. ,,,, 36,.
,71, 577, ,78, 584, 586. Roben A., 309.
Platzeck E.W ., 598. Roberto da Melun, 313.
Plotino, 555, ,86. Robinson J.M., 177.
Podechard E., 309. Rocslc M., 229.
Portai F., 291. Rondct H., 142, 33r, 353, 364.
Posidonio, 5'5· R<>per A., 467.
Poulat E., 209, 268. Rothackcr E., 187.
Pozo E., 317, 363. Rottcr F., 505.
Preuss H., 290. Rouault G., 77.
Pritz J., 508. Roussclot P., 271, 353, 364, 41,, 416,
Prode, '55. 586. 428, 449, 451, 4'7. ,08.
Prospero d'Aquitania s., 149, 150. Riickcrt H., 229, 268.
Priimm K., 508. Russier J., 5o8.
Prunicr M., 324.
Pseudo-Barnaba, 189. s
Pseudo-Dionigi Areopagita, 512. Sabaticr P., 209.
Przywara E., 4.56. Sai!cr J.M., 321.
Q Salavcrri J., no, 120, 140, 142, 144.
Sanders N., 3JI, 364.
Quasten ]., u8, 135, 144. Santos Herné.ndcz A., 6o8.
Sarthory Th., 65.
h. Sauras E., 327.
Rademacher A., 296, 364. Schafcr F.M., 510.
Rahner H., 348, 3,8, 36,, 405. Schaucrte H., 503.
Rahner K., _n, .57. 66, 67, 85, 87, 89, Schauf H., 104.
105, 107, 1o8, III, n8, 122, 12,, Schecben M.J., 65, 72, 78, Bo, 82, 83,
141, 1..p, 181, 187, 215, 216, 233, IOI, 123, 130, 132, 138, 144, 364,
240, 244, 249, 2.52, 265, 268, 293, 518.
296, 303, 30,, 307, 3o8, 311, 327, Schcflczyk. L., 218, 268
332, 335, 338, 339, 340, 343, 347, Schelkle KH., 52, 238.
349, 350, 352, 353, 360, 361, 364, Schclcr M., 416.
371, 372, 40,, 454, 46o, 464, 465, Schercr R., 209.
499, 5o6, 592, 595, 597, 598. Schcnk M., 106.
Ranft J., 159, 265. Schicrse F ,J., 509.
Ratzingcr J., 66, 85, 98, 99, 104, 10,, Schille G., 238.
108, III, 122, 165, 192, :U.5, 216, Schillcbceclcc E.H., 69, 317, 353, 364,
233, 240, 241, 242, 268, 303, 307, 464. 505.
3o8, 314, 364, 372, 432, .506, 507, Schiller F., 285.
595, 597. Schindlct A., 357.
Redekcr M., 268. Schlagcnhaufen F., ,09.
Regamey P., 293. Schlatter A.. 507.
Remmens J., 364. Schleiermachcr F., 199, 2o8, 268, 356.
Rcnaudin P. 165. Schiette H.R., 49, 50, 65, 262, 263,
Renaudot E., 147. 268, 464.
Rendtorff R., 66, :::.68, 320. Schlicr H., 66, 67, 165, 167, 168, 171,
Rcndtorff T., 66, 231. 173, 214, 2r5, 2.14, 22,, 232, 2:n.
Rétif A., 172. 235, 238, 239, 240, 268, 3o6, 400, 505.

40 · Mystcrium salutis a
626 INDICE ONOMASnco

j07, ,98. Stakemeier E., ,09.


Schlink E., 67, 183, 227, :141, :168, Stange A., 291.
304, ,93, ,97, j98. Stauffer E., 239.
Schlund R., jOI. Steck K.G., 86, 198, :169, 357, 366.
Schmaus M., 26, 65, 66, 26j, 321, Jj8, Stegmiiller F., 143.
36:1, 36,. Steidle B., 130.
Schmid J., 38,. Steiger L., 96.
Schmidt H.A.P., 149, 16,. Stendhal K., 174, 177, :169.
Schmitt J.. 466. Stenger H., ,03, ,10.
Schmitt F.S., ,98. Stephenson A.A., 321, 364.
Schnackenburg R., 60, 173, :117, 268, Stimimann X., uo.
383, 387, 402, 416, 470, ,o,, ,07. Stolz A., ,08.
Schnecmelcher W., 3,6, 3'7. 366, j98. Strecker G., 177.

Schollgcn W., ,o,.


Schnell H., 293.
Schrader a., 318.
Stuibcr A., IZJ.
Suarez F., n8, 316, 43,, 486.
Suidas, u6.
Schreyer L., 293.
Schiickler G., 16,, 430, 467.
Schultes R.M., 311), 327, µ8, 329, 364. T
Schulz H.-J., 13,.
Schiirman.n H., 168, 170, 171, 17:1, 178, Taymans F., 331 .. 364, 418, ,06.
265, 388, 470. Taziano, 189.
Schurr V., 67, 268, 416. Teodoro Studita, 285.
Schuster·Krautwig H., '05. Temus J., 4.59• 461, 462, .509·
Schwarz R., 293. Tertulliano, u9, 190, 440.
Schwcit2Cf W., 364. Tewes E., 416.
Schweizer E., 177. Thils G., 303, 363, 4J1, 494, .599·
Seckelr M., 71, 78, u2, 3,1, 410, 4:17, Thomas J., ,503, ,10.
431, 439, 498, ,05, .508, ,09. Thome A., 66.
Sedlmayr H., 291. Thurian M., 476, 304, 364.
Secbcrg R., 3.5.51 365. Tillich P., 228, 269, ,10.
Seewald R., 293. Tilliette X., 436.
Seitcrich E., 364, ,09. Tixeront J., 36,5.
Scmler J.S., 198. Toland T., 199· ·
Semmclroth O., 18, 66, 69, 84, 427, Tommaso d'Aquino s., U,5, 140,
142,
464, 492, 493, .508. 143, 1.54, l.58, 192, 193, 194,
201,
Screnthà L., 122. 207, 234, 307, 405, 409, 410,
411,
Sergio papa, 1 .54· 418, 419, 420, 433, 437, 439,
473,
Siewerth G., 293, 441. 486, 487, ,527, ,40, ,43, ,.......
.54.5.
Sigieri di Brabante, ,584. ,s
,,o, ,,,, ,-,-6, ,66, ,68, 3• ,86,
Simonin H.D., 31,, 364. 587, ,s9, ,90, ,91, ,92, '93, '94.
Simplicio papa, 101. Trilling W., 170, 177, 386, 389.
Skydsgaard DX.E., 241. Tritcmio, 12,.
Socrate, .57I, 577, '78. Triitsch J.,
93, 2n, 375, 41,, 416, 49.5.
SOhngen G., 67, 293, 4.54. 461, 596, ,04, :;05, 509.
598. Tunnel J., 365.
Soto P., 315. Tuyaerts M., 326, 32~, 346.
Spencer, 208.
Spiazzi R., 30,.
Spicq C., 397. u
Sp0rl J., Jl,5.
Stachel B., .509. Ugo di S. Vittore, 3I 3, ,,6, 568, ,8,-.
Stihlin G., 406. Utz A.F., 296, ,o,.
INDICI! ONOMASTICO

V w
Vagaggini C., 1o6, 122, 165. Wacker P., 5o8.
Vallotton P., 437, ,-10. Walgravc J.H., 321, 36,, ,08.
Van Den Eynde D., 312, 36,. Waltbe.r Chr., 366.
Van Der Leeuw G., 293. Wamach V., 269, 597.
Vanhoye A., ,07. Weber A., 230.
Van Iersel B., 215. Webcr O., 228, 269.
Van Lee J., 314, 365. Wcbcr P., 65.
Van Ruler, ,o,. Wegcaa&t K., 215.
Van Stccnberghcn F., 196. Weis A., 63.
Vasquez A., 316. Wciscr A., 377, 379, 507.
Vega A., 316. Wcltc B., 3,9, 360, 366, 436, 444, ,05,
Verga L., 416. 'IO.
Vielhaucr Ph., 177. Wemer M., 214, 3'7, 36,.
Vignon H., 'o'. Westcrmann C., 269.
Villette L., 464, #. ,09. We12cl Oi.., 290.
Vinccn210 di Lérins, 124, 130, 191, 202, Wicla.nd W., 334.
262, 312, 324. Wilckcns U., 66, 74, 177, 225, 269.
Véigtle A., 67, 217, 237, 269, 310. Willam M., 451, 5o8.
Volk H., 66, 67, 227, 268, 304, 420, Wolf E., 17', 3'4• 3,6, 3'7• 366.
,06, ,98. Wood H.G., 174, 269.
Von Balthasar H.U., 38, 3!» 44, 66,
138, 292, 293, +37· 438, 443, 497,
-'95. 599. z
Von Harnack A., 200, 209, 214, 240,
243, 267, 3,,, 356, 3-'7· 36,. Zaccuia F.A., 147.
Von Rad G., 276, 309. 7.eller H., 6o.
Vorgrimler H., 67, 87, 107, 141, 265, Zicgler W., '97.
269, 309, 310, 364, 467. Zimmermann H., ,506.
INDICE ANALITICO

A Apologetica
apologetica dell'immanenza, 4I.'J.
Abelardo, 409. metodo apologetico, 4i:,.
Allegoria, ,2,, ,40, '43· Apostasia, 212, ,oo.
Amore Apostoli, 47 s.; .'J2 ss.
come fondamento dell'autocomuniCllZio-
nc di Dio, 401. Ario, 190.
Analogia
analogia attributioni1,
analogia entir, '39 s.
'4'· Aristotele, 334, 409, .'JI3, .'J2I, .'J38, .'J41,
,42, :s44. :s45, :s4B, '''' ,,6, '84,
analogill fidei, 226, J3Jil s
,s,, ,s6, ,s7, ,ss, ,90, ,94.
analogia e metafora, .n8, :s43, .'J.'JO, Arte, 270, 273, 27.'J s., 278, 279 s., 281,
.'J93· 282, 283, 284, 28,, 89 .
analogia e modello, J46.
analogia del nome dell'essere, .'J44 s. Auctoritas Dei revelantis, 407, 409 s.,
analogia nominum, .'J40. 414, 429, 478 s., '4-8.'J, 496.
principio d'analogia, '4' s.
Autocomunicazione di Dio
aNJ/ofja proporlionalilatfr, .'J43, '4.'J.
la suprema realizzazione dcli'autocomu
analogia relationi1, '39 s., '46. nicazionc di Dio mediante l'unione
significato cattolico d'analogia entis e
ipostatica, I I s.
significato protestante d'analogia del-
recezione dell' autocomunicazione di Dio
la creazione, '46. attraverso la grazia nell'uditore, 18i.
unità d'analogia /idei e: d'analogia en-
carattere di pubblicità dell'autocomu-
tis, '94. nicazione di Dio, 183 s.
Analysis /idei, 413· (vedi anche: Grazia)
status quae1tionis, 480-483. Articulus fidei, r92, 193, 203.
teoria di L. BILLOT, 483.
teoria di DE LuGO, 486. Ascensione di Gesù Cristo, 26, 37, 42.
teoria di SUAREZ, 48,.
soluzione positiva, 485. Averroè, 584.
autogiustilicazione della fede, 489. Azione
comprensione del motivum Jormole /i- e parola, 398 s.
dei, 489.
duplice mediazione della fede, 487.
Anamnesi, r55, r81. B

Anassagora, ,,,. Bacone R., 143.


Antico Testamento Battesimo, 73, n.
cd Arte, 27.'J s. sigillo della fede, 465.
Antropologi.a Bdlarrnino R., n8.
potentia oboedientialis, 372.
(vedi anche: Uomo). Bibbia
INDICE ANALinco 629

allegoria, '2 5. Categorie


apertura della Bibbia come rinvio al diverse categorie delle proposizioni teo-
dogma, 23J, 23,.
esegesi pneumatica, '24.
logiche, 2 '7.
forma kerygmatica del pensiero bibli-
co, .z13.
interpretazione esistenziale della Bif>. 'Centro della sacra Scrittura', 224.
bia, 526.
come opera d'arte della parola, 27J s. Certezza della fede, 4o6, 441-446, 48I,
posto unico della Bibbia in quanto 487 s.
norma normans non normata, 84, 26o.
distinzione tra Bibbia e teologia primi- Chiesa
tiva, 261. come protosacramento, 160.
Sola Scriptura, 225, 229. come elemento nell'evento ddla rive-
unità della Bibbia, 210, .z22, 227. lazione, 9, 20.
differenza tra Bibbia ed Evangelo, rome presenza della verità di Gesù
220. Cristo, 69, 87.
differenze della teologia protocri- sottoposta alla parola di Dio, 20.
stiana, 22I. funzione della Chiesa CQJDe insieme
unità dell'Antico Testamento, 'I2. nella mediazione della rivelazione, 69.
(vedi anche: Canone; Sensi biblici;
come rappresentanza significativa della
Teologia biblica).
rivelazione, 26.
come realtà supraterrestte, I 4.
docente e discente, 83, 460.
vestigia EccleJiae, 467 ss.
e Chiesa primitiva
e Bibbia, H ss.
Calvino J., 126.
Circolo enneneutico, 96 s.
Cano M., 72, 80, 93, II6, 124, 127, 139,
140, 147, 1.:;8, 195, 31.:;, 316. Collegialità episcopale, 85, 101,
109.
10, s.,
Canone e Concilio ecumeniro, ro6.
chiusura dcl canone come atto di pro-
fessione di fede ecclesiale, 240. Concilio ecumenico, IOJ.
del Nuovo Testamento: concetto, 10,.
importanza dell'uso liturgiro della e collegialità episcopale, 106.
Bibbia per la formazione del cano- e Dlll8istero universale cd ordinario,
ne, .:;o6. II3.
gerarchia dei libri biblici, 231. e mediazione della rivelazione, n2.
postulato d'un canone di fatto, 221,
22j. Confermazione, 46, 74 1.
il problema del 'centro della sacra
Scrittura', 224. Confessione di fede, 424-425.
ed unità della Bibbia, 218. (vedi anche: Fede).

Carisma Consensus Patrum, 134,


carisma e predicazione dottrinale della
O:iiesa, 33, 81, 87. Credibilìa secundaria, 193, 201.
fondamenti carismatici ddl'infallibilitl,
242. Credibilità
carisma artistiro, 281, 288. e grazia, 429, 449, 455, 490·
INDICE ANALITICO

e minicolo, 4H s. guaggio ecclesiastico, 256.


motivi, 413 s. dilfcrema tra enunciato dogmatico
Cresima: vedi: Confermazione. e terminologia or~ della rive-
lazione, 258 s.
Cristo: vedi: Gesù Cristo. il dogma in quanto implia le strut-
tuxe d'un enunciato naturale, 244.
Cusano N., ,,6, ,s6. enunciato dogmatico come fenomeno
escatologico, 258.
D enunciato dogmatico come enuncia-
to di fede, 249.
enunciato dogmatico oome enunciato
Dante, ,s4. della Chiesa, 251.
Definizione magisteriale enunciato dogmatico come richiamo
concetto, 204. al mistero, 257.
problematica metodologica, 76. enunciato dogmatico ed oscuramen-
concettualità delle definizioni dogmati- to ca\15ato dal peccato originale, 249.
che, 2,3. enunciato dogmatico e suo caratte-
(vedi anche: Dogma) re dossologico, 249.
enunciato dogmatico e formulazione
Dt!positum fidt!i
terminologica comunitaria, :152.
suo carattere d'evento, 50, 26:1.
distinzione ua dogma e depositu111
l'evento Gesù Cristo come depositum
fidei, 201, 262.
fidei, 48.
precedenza della lingua naturale rl·
e kérygm11, 177 s.
spetto alla terminologia, 2,3-2.,-6.
distinzione tta depositum fidei e dog-
ma, 200, 26:1. verità e falsità, :147•
secondo VINCENZO DI LtaJNS, 191. formule dogmatiche e fede, 492.
formule dogmatiche in funzione dcl-
Dio l 'inconuo personale dell'uomo con
sua immediatezza, 477, 486.
Dio, 207 s., 493.
suo mistero, 116.
grado di certe:aa, 194, 19,.
nascosto, ,16-,21. incontro dell'uomo con Dio in quanto
e monoteismo, 230.
è più ricco della proposizione dog-
sua presenza nella Chiesa quale me-
matica, 493.
diatrice della rivelazione, 17. intcllige117.a dcl dogma a partire dalla
visione di Dio, 421 s., 438, 473.
fede, 243.
Dogma ed interpretazione della Bibbia, 95 s.
carattere decisionale del dogma, 565. interpretazione dogmatica della Bibbia
clasaifioizione del dogma, 211. nel Nuovo Testamento, 216.
concetto di dogma, 205. mutamento di significato del concetto
concetto di dogma secondo il modcr- cattolico di dogma, r96 s., 200 s.
niSino, 2o8-212. ooncetto di dogma nel concilio di
concetto di dogma secondo VINCENZO Trento, 196 s.
DI LÉaINS, 191. concetto di dogma nel concilio V•
cri tica del concetto di dogma secondo ticano I, 202.
I. K.mr e G.W.F. lù.GEL, 199· concetto di dogma nel Medio evo,
diversità essenziale del dogma dalla 192 s.
professione di fede, 227. mutamento di significato del concetto
dogmi fottIIali e dogmi materiali, 20,, di dogma nell'età moderna, 197 s.
212. sua dissoluzione ad opera della cri-
elemento fondamentale dell'enunciato tica storica e della filosofia dell'illu-
dogmatico, 244. minismo, 19.
contributo della teologia al muta- nell'ortodossia protestante, 198.
mento della terminologia del lin- presso i Riformatori, 197 s.
INDICE ANALITICO

storia del concetto di dogma nell 'an- Epitteto, 188.


tichità cristiana e nella patristica,
188-192. Eraclito, '43, 555, 560.
ti pologia dei modi dell'enunciato dog-
matico, 94, 263 s. Eresia, 194, 195, 202, 499·
(vedi anche: Evoluzione del dogma;
Dogmi: Scoria deì Ermeneutica
ermeneu ci ca e concetto di dogma,
Dogmi, storia dei 187.
differenza ermeneutica fondamentale,
importanza della storia dei dogmi,
224, 225.
357 s. circolo ermeneutico, 96 s.
progresso oome vero cammino della
interpretazione esistenziale, 176.
storia, 320. ermeneutica kerygmatica, 167.
stimolo di H. BLONDEL, 325. enneneutica delle proposizioni magi-
relazione reciproca ool modernismo,
steriali, 94.
32,. ritorno all'ermeneutica, 86 s.,
idenrità tra annuncio della Chiesa
234.
e divina rivelazione secondo i pa-
dri, 312. Escatologia
!'illative sense di J.H. NEWMAN, sua attesa immediata, 468.
322.
mutamento nella comprensione del Eucaristia
ooncetco di dogma nel tardo Me- e fede, 466.
dio evo, 31,. e kerygma, 185 s.
rilievo del dinamismo e della storici- e ripresentazione del1a rivelazione, 24.
tà dell'evento della rivelazione, 319.
storia dei dogmi e storia della com- Eusebio di Cesarea, 125, r,2, x91.
prensione dell'essere, ;,9. Evoluzione del dogma
storia della fede, 301, 361. suo problema, 297, 330-341.
storia dci dogmi come 'storia del- entro la Bibbia, 30.5 s.
la fc:cle', 358. fondamenti nella Bibbia, 304.
introduzione a concreti lavori di il fatto concreto dell'evoluzione dei
ricerca, 358. dogmi e la .sua aporia, 29.5·
assenza di presupposti d'un lavo- tentativo di chiarificazione del1'cvolu-
ro di scienza dello spirito in quan- zione del dogma, 3n.
to sia neutrale, 354. definibilità d'una nuova proposizione
da parte della Chiesa, 303 s.
clemen ti della dinamica dcli' evoluzio-
E ne del dogma, 342.
assolutezza della rivelazione, 343.
Dottori della Ollesa, 124. l'opera dei teologi, 346 s.
storia dell'evoluzione dci dogmi, 342.
Dubbio di fede, 502. coscienza di fede dell'intera Chiesa,
350, 352 s.
Encicliche papali
ascolto nella fc:cle come aurocompi-
e magistero, I 19. mento immanente dell'uomo, 344.
parola umana e concetto finale, 343,
Episcopato 348.
collegialità episcopale, 85, 101, 105 s., full2ione dell'analogia [idei, 349.
109. funzione dello Spirito santo, 345.
ooordinamento tra episcopato e pri- funzione del magistero ecclesiastico,
mato, 85, no s. 346'.
(vedi anche: Magistero; Ufficio) funzione della tradizione, 347.
INDICE ANALITICO

indissolubilit1 e unità di tutte le 447, 483 s. (vedi anche: Miracolo).


precedenti funzioni, 343. cosci~ di fede, 3,1, 352 s.
definizione della fede, 417 s.
delimitazione rispetto alla speranza . e
F alla carità, 423 s., 427.
dimensione sociale della fede, 457.
vincolo con la tradizione, 462.
Fatti dogmatid, 91.
fede come fede ftaterna, 460.
Febronianismo, 202. la Chiesa come soggetto della fede,
459.
Fede coscienza di fede della Ollesa, 295.
il Simbolo come espressione comu-
anonima, 240, 498.
nitaria della fede, 459.
nell'Antico Testamento, 377 ss.
fede dei dembni, 407.
apostasia dalla fede, 500.
dubbio di fede, 50:.1.
attuazione escatologica della fede,
errore nella fede, 500.
410, 423, 468-473, 474. esperienza di fede, 473.
certezza della fede, 406, 441 -446, 48 l,
fede fiduciale, 4:u s.
487 s. fides divina et catholica, 90, 512, 195,
denaro la Ollesa, 466.
201, 205, 4514 s.
cognitio per connaturalitatem, 78, 158,
fides ecclesiastica, 92, 4515 s.
4,6 s.
fides hinorica, I651.
e confessione, 8.H·
fides implicita, 495·
e COl106cenz&, 4o6, 408, 434, 528, fides quae credilrlT, 392, 3518, 4o6.
doppio ordine della conoscema, 413. fides scientiftca, 418, 426, 483.
problematica della determinazione fede filosofica, 435.
della fede a partile dalla conoscen- fondamenti nizionali della fede, 408,
za, 434· 412, 4851.
con05ccnza della ~dibilità della fe- di Gesù Cristo, 436, 461.
de, 447. e giustificazione, 4n, 4u, 430, 440,
e cognitio per connaturalilatem, 461.
456. e grazia, 340 s., 407, 4q, 422-426,
e grazia, 429, 449· 439 s., 48, s., 4851.
e motivi di credibilità, 450. infallibilità della fede, 446.
criteri interni ed esterni della rive- infedeltà, .+98.
lazione, 452. e intenzione morale, 406, 4I9.
Gesù Cristo come motivum credibì- libertà della fede, 439-441.
litatis, 4'4· fede morta, 408, 413, 418, 445.
motivi di credibilità soggettivi ed formule di fede dcl Nuovo Testa-
oggettivi, 452. mento, 238 s.
conoscenza personale e moti vi di cre- fede nel Nuovo Testamento, 380.
dibilità, 450 s., 4'4· come recezione del Kerygma da
incontro personale ed analytis {i- Gesù Cristo, }80, 389.
dei, 489. come assenso dell'atto salvifico, 388.
fede come incontro con Gesù Cri- come decisione, 384.
sto, 436 s., 474· come esiste!WI escatologica, 388.
conoscenza personale come modulo come nuova realtà dell'uomo, 400.
fondamentale, 442-445. 400.
struttura personale della fede, 24, come riferimento personale, 399.
434. come fiducia, 38 ,5, 394·
conoscere e volere nell'atto di fede, nel Kjrios, 390.
427, 429, 439 s., 448. e confessione, 385, 392 s.
conoscenza della credibilità, 414, 426, e conoscenza, 398, 402.
INDICE ANAUTICO

e speranza, 394, 396. incontro personale ed analysis /idei,


e amore, 400. 489.
e successione, )87, 399· struttura sacramentale della fede, 477.
e opere, 391 s. cçme virtù, 410.
obbediell28 di fede. 39 5. e visione, 438, 473·
fede salvifica nel Nuovo Testamen- (vedi anche: Analysis fidei).
to, 391, 395·
nelle guarigioni, 384, 39,. Fider: vedi Fede.
fede messianica, 383. Filone, 188.
distinzione della situazione di fede
dell'Antico Testamento, 381, 388. Filosofia
obbedienza di fede, 196, 39,, 424, l'indipendenza della filosofia, 434.
426, 440. (vedi a~che: Teologia e filosofia)
obbligo della fede, :r94, 451 s. Formgeschichte, i76, 236, 238.
oggetto formale e materiale della fe-
de, 478. Fozio, 126.
unità della verità creduta, 478.
fede e fondamento dell'auctoritas G
Dei rt11el1n1tis, 407, 409 s., 4:r4,
429, 47g s., 485, 496.
proposizioni di fede, 479 s., 493 s. Galileo, .209.
revelatio activa in quanto appartie·
ne al motivo di fede, 478. Gallicanismo,
carattere teologico della fede, 478,
Gennadio, 125, 1,0.
483.
mediazione dell'immediatezza di Gesù Cristo
Dio, 477, 486.
centro della rivelazione, 270.
come opera dello Spirito santo, 421, sacramento di Dio, 38.
424. suo evento, 14, 20, 26 s., 46.
e opere, 412 s. come culmine escatologico dclla sto-
oscurità della fede, 446, 449 a. ria della salvezza, 12, 19.
pensiero di fede ·della Oriesa, 295 s. sua leén6sir come rivelazione della
perdita della fede, 413. magnificenza dell'amore, 271, 282.
povertà della fede, 476. Mediatore dcli 'immediatezza di Dio,
professioni di fede della Chiesa an- 38, 477.
tica, 238 s.
razionalità della fede, 457 (vedi an- Giansenismo, 202.
che: Fede: conoscenza della creài- Giuseppe Flavio, 188.
bilità).
relazione di verità della fede, 4o6. Gnosi
e sacramenti, 463. vera e falsa, 405.
eucaristia come mysterium /idei,
466. Grazia
battesimo come sigillo della fede, Dio e sua volontà generale di gra-
465. zia, 18.
e salvezza, 418, 422. oggetto proprio degli arti sopranna-
struttura personale della feàe, 24, turali, z50.
434· e credibilità, 429, 449, 45', 490.
conoscenza personale come modulo interna, 424.
fondamentale, 442-44,. come liberazione, 42 7 s.
fede come incontro con Gesù Cri- (vedi anche: Autocomunicazione di
sto, 463 s., 474· Dio)
INDICE ANALITICO

I sis, 167, 168, 174.


non solo predicazione per la con-
Illuminismo, 147, 199. versione, 172.
e culto, 173.
Inaedulità, 498 s. e potestà, 167, l 70, 174, 180, 182.
Chiesa e kerygma, 177, 179, 182,
Infallibilità 183.
concetto di, 88 s. predic12ione e catechesi come for-
ambito oggettivo dell'enunciato infal- me derivate del kerygma, 185.
libile, 90 s. proclam12ione dell'evento della sal-
soggetto dell'infallibilità, no. vr:zz~ nel kerygma, 182.
vincolo con la vita di fede della imelligenza del kerygma secondo
Oùesa, 20 3 ss. R. BULTMANN, 176.
della Otiesa intera in credendo, 242.
concetto protestante dell'infallibilità
della Chiesa, 86 s.
(vedi anche: Magistero) L
Infedeltà
e fede, 498. Laici, 74 s., 76 s., 8o s., ro8 s.
Initium Fidei, 400, 407, 426. (vedi anche: Popolo cristiano)

Istinto di fede, 439· Liberazione in quanto grazia, 247 s.


Lex orandi lex credendi, 149·

K Liturgia
problematica della liturgia come lo-
cus theologicus, 146, 153.
Kén6sis di Gesù Cristo, .27r, 282. /ex orandi lex credendi, 149.
primato della liturgia nella mediazio-
Kerygma
ne della rivelazione, r 8 r.
nel greco classico, 168. massima attuazione della parola del
delimitazione dell'essenza. del kerygma, kerygma nella cena, 18 3.
181 rinvio della tradizione alla liturgia,
ampiezza di variazione dcl kerygma r50
del Nuovo Testamento, .2r8 s., .227. relazione della liturgia con la fede,
carattere anamnetico e prognostico del 162 s.
kerygma, I 81 s. come organo del magistero ordinario,
carattere dossologico, 183. 103, 157 s.
semplicemente definitivo ed efficace, visione teologica della liturgia secon·
185. do il Vaticano II, 145.
rapporto tra kerygma e storia, 179.
nel Nuovo Testamento. Luce della fede, 78, J.40, 427, 431, 438,
funzione interpellativa, 170, 174, 450 s., 488.
180.
rapporto con la storia, I 69. Lutero M., 126, 176, 197, 198, 199,
il Cristo del kerygma ed il Cristo 209, 222, 243, 411. 519, 520.
storico, 175, 179·
fondamento del kerygma nella sto-
ria di Gesù, 172. M
come atto e contenuto, 168.
come proclamazione dell'evangelo di
salvezza, 174, 182. Magistero
Kerygma sulla base della parado- nell'Antico Testamento, 29.
INDICE ANALITICO

problematica ermeneutica, 94-98. Mistagogia, 186


testimo.aillll2a nella Chiesa antica, lOl. predicazione rnistagogica, 186.
definizione della sua esistenza, 99 s.
problematica metodologica, 103. Mistero, 515 s.
il soggetto dcl magistero universale determinazione del mistero a partire
ed ordinario, 102. dalla ragione, 244.
magistero autentico, 8 3. della Bibbia, 524.
organi del magistero, 98 s. di Dio, 516.
magistero ordinario, 98. di Gesù Cristo, 522.
organi del magistero ~:raordinario, 98. della salvezza, 520.
oggetto delle proposizioni magisteri&· carattere di mistero proprio dell'e-
li infallibili, 90. nunciato dogmatico, 258.
princl pi d'interpretazione delle pro- e oscurità della fede, 446.
posizioni magisteriali, 2 04. Modernismo, 97, 208-212, 325, 415, 491.
universale ed ordinario, 99.
il concilio ecumenico, 105. Monofisismo, 2 30.
distinzione dal magistero ordinario ed
universale, n 3. Monoteismo, 230.

importanza del concilio per la me- Monotelismo, 230.


diazione della rivelazione, u2.
concetto di 'concilio ecumeriico', 105. Motivi di credibilità, 450, 4'3 s.
o:oncilio ecumenico come espressione Gesù Cristo come motivo di credi-
del collegio episcopale con alla te- bilità, 454.
sta il papa, 106. sojle:ettivi ed oggettivi, 4.12·
soggetto dell'infallibilit~,
del papa, n4. Myste,ia stricte dieta, 529.
problematica odierna, n7.
encicliche, n9.
magistero ordinario del papa, tt 8.
magismo pontificio infallibile se· o
condo il Vaticano r, u4.
come servizio sotto la parola di Dio,
83. .
Obbedienza di fede, I96, 424, 426, 440.
teologia magisteriale, 252.
come ufficio dottrinale e come inca- Obbligo della fede, 194, 45r s.
rico dottrinale, 70, 82. Occam, 196.
posto differente del magistero nel
pensiero cattolico ed in quello pro- Opus operotum, 465.
testante, 70, 86.
{vedi anche: Episcopato; Infallibili- Origene, 129, 137, 153, 159, 190, 525,
tà; Ufficio). no, ,,6.
Ortodossia: vedi: Teologia ortodossa
Melantone, 126.
Oscurità della fede, 446.
Metafora, .n8, .543, .no, 593. e mistero, 449 s.
Miracolo
come segno, 384, 398.
e profezie, 4.51 s. p
carattere ecclesiale dei segni, 4 .57 ss.
signifu:ato teologico del miracolo,
413s. Padri
come motivo di credibilità, 453 s. fine dell'epoca patristica, r3r.
INDICE ANALITICO

interpretazione dei documenti patri- .cnso della fede della Chiesa inte-
stici, J34. grale, 78.
senso della fede e consenso di fede,
Padri della Chiesa 78.
concetto, 124, u8.
problematica moderna degli studi pa. Predicazione miscagogica, 186.
tristici, u8.
considerazione storico.letteraria degli Professione di fede; vedi: Fede.
autori dell'antichità cristiana, 125. Profezia e miracolo, 45 I s.
mediazione della rivelazione attraver-
so i padri della Oiiesa, 131 s. Protestantc:Simo, 303.
consemus patrum, J 34.
attualità, J 36. Protosacramento o Chiesa. r6o.

Papa
funzione del papa per la formazione Q
del magistero ordinario cd universale,
103. Qualificazione teologica, 90, J9.1 s.
e concilio ecumenico, lo;.
(vedi anche: Magistero)
R
Paradosis, 167, 168, 174·
(vedi anche: Tradizione). Razionalismo, 202.

Parola Realtà terrestri, 472.


e azione come tcstimonian?.a, 398 s.
di Dio e liturgia, 160 s., J8o s. Redaktionsgeschichte: v. Formgeschichte.
eccedenza di significato della parola,
Regula /idei, 101, 191, 240.
2J}S.
(vedi anche: Confessione di fede).
gradualità della parola di Dio, 185.
necessità della traduzione della paro- Religioni
la di Dio nella parola umana, 4 I s. religioni non cristiane come prcrafli-
presenza della parola dell 'Evangelo in gurazioni imperfette dclla CJiicsa,
forma di testimonianza, 2 37. 31 s.
presenza della parola nel modus di cnsnanesimo anonimo, 467.
chi ascolta, 2 37 a. (vedi anche: Rivelazione).
presenza della parola di Dio nella
parola della Chiesa, 21 s. Revelatio activa
rivelazione della parola, 373. e fede, 478.
di Dio sta sopra la Chiesa, 20.
e uflicio, 241 s. Rivelazione
Gesù di Nazareth tome realizzatore
Pentecoste della rivch1zione 1 19.
l'evento, 42, ·50. carattere formale della rivelazione,
270.
Pensiero carattere personale della rivelazione,
forme di pensiero degli antichi scrit· 247.
tori ecclesiastici, 136 s. la Chiesa come oggetto primario del-
forme di pensiero ed enunciati dog- la rivelazione ddinitiva, 10, 13, 22.
matici, 244. compimento della rivelazione, 44 ss.,
Popolo cristiano 307.
detennin12ione temporale entro la for-
concetto di popolo cnsttano, 73 s. mazione della rivelazione, 286.
coine focur theo/og,icur, 79 s.
sensus fide/ium, 72, 77 s., no s. Rivcl112ione, mediazione della
INDICE ANALITICO

attraverso la Oiiesa come un tutto, medi.azione apostolica. e post "postoll-


,6, 69. ca, 50.
attraverso i padri della Chiesa, I 31 s. la Chiesa post-apostolica si vincola
carattere escatologico della mediazione alla norma apostolica, '4·
ecclesiale della rivelazione, 26. unicità dell" mediazione della tÌ\"C·
permanente presenza della verità ]azione ad opera degli apostoli, ,2.
della rivelazione nella Chiesa, 28. il problema della mediazior:.: dell.i
unicità dell'evento della rivelazione, rivelazione, 295.
22.
autoprcscntazione di Dio nella Chie-
sa, 17. s
rivelazjone originaria e mediazione
ecclesiale della rivelazione, 19.
attualizzazione mediante la parola Sacramenti
e l'azione, 24. efficacia ex o~~e operato, 46,.
compito dci laici nella mediazione e fede, 463.
della rivelazione, 75 ss. fede ed eucaristia, 466.
compito dei teologi nella mediazione validi e fruttuosi, 184.
della rivelazione, 141. Sapere teorico e pratico, ,21, ,s7.
concetto di attualizzazione della rive-
lazione ad opera della Oi.iesa, 2 i . Santità
attualizzazione accondo la situazione esperienza della santità come elemen-
storica della Chiesa, 22 s. to della mediazione della rivelazio-
ne, 81.
forme nelle quali si esprime ill me-
diazione della rivelazione, 76. Semirazionalismo, 413, 428.
fuori della OUesa cattolica, 75.
attraverso la parola, il CCl'lportamcn- Sensi biblici
to e l'immagine, '7·
comportamento esistenziale, 62.
sensus plenior, ,2,.
comportamento cultuale, 61. Sensus fidelium, 72, 77 s., 79 s., 3,0 s.
la parola della professione di fede, Simbolo
,9. simbolo di fede ed articolo di fede,
la parola della Bibbia, ,9. 192 s.
la parola della dottrina, 6o. (vedi anche: Confess Jc di fede,
la parola della teologia, 6o. R~gula /idei).
la parola della predicazione, 59.
i destinatari dell'attualiz:mzione della SobornoJI, 604.
mediazione della rivelazione, 30.
Sola Scriptura, 22,, 229.
i cristiani, 32.
i non cristiani, H· Spirito santo, 42, ,o, 421, 424.
della grazia salvifica e della verità invio dello Spirito santo e rivcluione,
salvifica mediante la Chiesa, II. 42, .,.
attualizzazione attraverso la parola, e presenza del Risorto, 17.
18. Spirito santo e concilio, r 11 s.
Spirito santo e tradizione, ,,.
immediatezza e mediatezza nell'even- (vedi anche: Carisma; OUcsa; Fede;
to della rivelazione, 34-44. Gesù Cristo; Rivelazione).
mediatezza della ri velazìone nella
origine storica, 36. Stabilità nella fede: vedi: Fede, certez·
ia della.
mediatczza della rivelazione nell'at-
tualizzazione ecclesiale, 41. Storia
immediatez7.a dei fedeli al Dio che come luogo di possibile rivelazi
si rivela, 3'· 373-
INDICE ANALITICO

come storia esposta nella Bibbia, '93. forma di teologia della storia
come propria della teologia, 595.
'Storia delle forme': vedi: Formgeschi-
la gnosi secondo CLEMENTE ed 0-
chte.
lUGENI!., ,82.
Storia della salvezza l'intellectus fidei secondo Aoosrmo.
distinzione tra storia della salvezza ed ANsE.LMo, ,8.2.
universale e particolare, u s. la paolina sapienlia Dei in myste-
rio, ,:i:,-535, 582.
Su bordinazianismo, 2 32. teologia e filosofia nel Medio evo,
585 s.
Supersti ione, 184, 503. Gesù Cristo come praedicatum me-
diumque delle proposizioni teologi·
che, 527.
T teologia come gnosi, 530.
teologia infusa ed acquisita, .592.
kerygma e teologia., 534, 550, -:;67
Teologi, I 38. {vedi anche: Kerygmo).
linguaggio della teologia, 534-537.
storia del concetto di teologi, r39. teologia missionaria, 574.
prindpi d'interpretazione, 143. teologia mistica, 530, 579.
compito dei teologi nella mcdiazione teologia naturale e soprannaturale,
della rivelazione, 141. 528, '54·
scuole di teologia, 143. n~us mysteriorum, ,30, ,,o (vedi
anche: Mistero).
Teologia oggetto della teologia, 59x.
teologia della Oiiesa come un tutto, teologia degli ortodossi, 6oo-6o8.
2p. il culto, 606.
classificazione della teologia, 57'· la Bibbia, 6o4.
teologia biblica, ,76 (vedi anche: i padri della Oiiesa, 603.
Teologia biblica). i concili ecumenici, 106 s., 6o3.
triplicità del metodo teologico, '76. il magistero, 605.
teologia storica e sistematica, 577. il monachesimo, 6o6.
concetto di teologia, 5II. le categorie 61osofìche, 607.
conoscenza analogica, 549 (vedi an- la Sohornost', 604.
che: Analogia). la tradizione, 6o4.
controversia intraecclesiale, '7I. i presupposti dogmatici della teolo-
dimostrazione del mistero, 547. gia, ,,2, '-'9·
ecclesialità della teologia, '68-570. teologia e processo conclusivo, 592.
teologia ed 'economia', ,u. teologia come fapientia Dei, 5u,
teologia ecwnenia, 571-574. 513 ss.
teologia come fides quaerens intellec- teologia come scic112.1.
tum, ,30. aporia della scienza teologica, _,89,
teologia e filosofia, 55 I. concetto aristotelico di scienza, 587.
pretesa del filosofo sulla totalità pi:oblcmatica a panire dal kerygma,
dell'essere, -'.54· 532.
filosofia cristiana, 586.
filosofia dei teologi, :s :s :s.
t,iplex usus philosophiae, ''7· fia,,,1.
problematica a partire dalla filoso-

princlpi della scienza, 587.


punti fenni della concezione del teologia come sapientia, ,588.
mondo, ,,s. teologia come fcientia subalterna-
natura dell'enunciato filosofico, 552. ta, :S90·
teologia fondamentale, 460, 489, 593 s. procedimento per additionem, nr.
forme fondamentali della teologia, 595. conclusioni teologiche, 590.
INDICE ANALITICO

teologia e scienza universitaria, 559. importanza della tradizione per la


soggetto della teologia, 526. formazione dei Vangeli, 2 I 5.
spazio fondamentale degli enunciati paradosif e Mryg111a, 178.
teologici, 56r. la rivcl12ione in quanto trascende la
enunciato della rivelazione median- tradizione storica, 342.
te fatti nella parola, 564.
carattere d'enunciato proprio del Tradizione e Bibbia
kerygma, 566, 579· la tradizione reale supera la tradizio-
carattere di proposizione dogmati· ne verbale scritta ed orale, 27.
ca proprio della proposizione teo-
logica, 566 s. Tubinga, &cuoia di, 319 s.
proposizioni storico-salvifiche ed on·
tologiche, 518.
essenza logica ed enunciato, 562. u
spazio fondamentale protologico della
teologia, 522, 533.
teologia e teocentrismo, 526. Ufficio
e parola, 241 s.
Teologia biblica connessione tra magistero e pastora·
compito della teologia biblica, 224. le, 82 s.
insufficienza della sola filologia, 22 5. (vedi anche: Episcopato; Magistero;
metodo linguistico, 22 5. Papa).
rapporto tra teologia biblica e teolo-
gia dogmatica, 2 r 3, 229. Uomo
riflessione teologica in seno alla stessa come 'uditore della parola', 372, 374.
Bibbia, 166, 233.
Testimonianza V
e parola, 398 s.
Tommaso d'Aquino s., Verginità, 475.
come autorità, l 42. verginità della fede, 475.
Tradizionalismo, 413. Veritas catholica, 195 s.
Tradizione
Vestigia Ecclesiae, 467 ss.
tradizione di confessione di fede pri-
ma della tradizione scritta, 237. Visione di Dio, 422 s., 438, 473.
INDICE

CAP. IV - L'attualizzazione della rivelazione mediante la Chiesa

SEZIONE PRIMA: Rivelazione e Chiesa - Chiesa e rivelazione

1. L' attm1lizzazione della rivelazione del Cristo . . . . . . . . . . . . . . . . 11


a. Rivelazione come verità di salvezza e come grazia di salvezza I I
b. La Oiiesa come obiettivo della rivelazione . . . . . . . . . . • . . . . . . . . . . . 13
c. L'autoprcse112a di Dio nella storia speciale della salvezza 16
d. La rivelazione resa presente mediante la Chiesa 19
e. Carattere escatologico della mediazione della Chiesa 26
f. I destinatari dell'attualizzazione della rivel112ione 30

2. Immediatezza e mediazione della rivelazione 34


a. L'immediatezza nel fatto della rivelazione . . . . . . . . • . . . . . . . . . . • . . 34
b. L'origine storica della mediazione della rivelazione . . . . . . . . . . . . . . 36
c. Il carattere mediato della rivelazione nell'attualizzazione ecclesiale 41

3. Mediazione ·apostolica e postapostolica 43


a. La 'conclusione' dell'avvenimento della rivelazione 44
b. Il depositum fidei . - . . . . . . . . • . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . • . . . . . . 47
c. Mediazione ecclesiale apostolica e postapostolica 50

4. Strutture della mediazione della rivelazione '5


a. Portatori della mediarione 56
b. Mezzi della mediazione . . . '7
c. Realizzazione della mediazione 64

Bibliografia 65

SEZIONE SECONDA: Portatori della mediazione


La funzione della Chiesa nel suo insieme 69

2. Il popolo cristi~n.o e la n:ie?ia~ione della rivelazione 72


a. Sul concetto d1 popolo cr1suano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . • 73
b. Mediazione della rivelazione ad opera del popolo cristiano n
c. Senso della fede e consenso di fede 77

3. Il magistero speciale della Chiesa . . 82


a. RiAessioni preliminari e proposizioni generali 84
b. Il magistero universale e ordinario della Chiesa 99
c. Il concilio ecumenico 105
d. Il magistero del papa II4
Bibliografia 122

4. I padri della Oiiesa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 123


a. Sulla storia degli stuili patristici . . . . . . . . . . . • • . . • . . . . . . . . . • . . . . . . 123
b. Sulla moderna problematica degli studi patristici . . . . . . . . . . . . . . . • • . 128
c. La mediazione della rivelazione di Dio per opera dei padri 13I
d. Sull'interpretazione dei documenti patristici 134
e. Sull'attualità dei padri della Oùesa :136

5. I teologi ............................................ 138


a. Sulla storia del concetto di 'teologi' . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 139
b. C.ompito dei teologi nella mediazione della rivelazione divina 141
c. Sull'interpretazione degli scritti dei teologi 142

Bibliografia 144

SEZIONE TERZA: Modi attravetso i quali la mediazione si realizza


1. La liturgia come luogo teologico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 145
a. Problematica della liturgia come locus teologicus 146
b. La liturgia utilizzata come fonte ddla tradizione 149
c. L'apporto specifico della liturgia 1,7

Bibliografia 164

2. Kery.gma . e ~~gma ........... : .. ; ..... ; . . 166


a. L uso lingu1st1co IIIOdemo del temune kerygma . . . . . . . . . . . . . . . . . . I 66
b. Senso oggettivo e forme d'attuazione del 'kerygma' . . . r8r
c. Storia del termine 'dogma' e suo cambiamento di significato 187
d. La necessità oggettiva del passaggio dal kerygma al dogma 213
e. Elementi base d'un enunciato dogmatico 244

3. Arte cristiana e annuncio del vangelo :.70


a. Il carattere di 'forma' ddla rivelazione 2 70
b. Il cnsuano come artista . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 279
c. Arte ed 11rumncio del vangelo 283
d. Singole arti 289

Bibliografia 292

SEZIONE QUARTA: Storicità della mediazione

A. Il problema dello sviluppo dd dogma 295


1. Il fatto dello sviluppo del dogma e la sua reale aporia 295
2. 'Sviluppo del dogma' all'interno della sacra Scrittura . . . . . . . . . . . 308
3. Sulle teorie e sui tentativi di spiegazione dello sviluppo del dogma . . 3n
4. Presupposti d·una soluzione adeguata del problema dello sviluppo dcl
dogma 330

41 - Mysterium salutis 2
INDICE

,. Gli elementi porranti della dinamica dello sviluppo dcl dogma 342
11. Lo Spirito e la grazia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 344
b. L'operazione dello Spirito santo 34'
c. Il magistero della Chiesa 346
d. Il ruolo della tradizione 347
e. Concetto e parola 348
f. Analogia ................................... · ..•... · · · · . · . . 349
g. Il senso della fede . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3,o
h. La concezione dd rivelato in quanto dogma 3'I

B. Il significato della storia dei dogmi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 354


I. L'indagine sulla storia dei dogmi e la storia della fede . . . . . . . . . . 3'4
2. Storia dci dogmi in base alla storia della oomprem;ione dell'essere 3'9

Bibliografia

LA RISPOSTA DELL'UOMO
ALL'AZIONE ED ALLA PAROLA DI DIO RIVELATORE

CAP. v La fede

Introduzione

SEZIONE PRIMA: L'uditore della parola di Dio 371

S.EZIONE SECONDA: La fede secondo la s. Scrittura

A. Antico Testamento 377

B. Nuovo Testamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 380


I. Cambiamento nella situo.zione della storia della salvezza 380
2. Analisi statistica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . •. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . • 382
3. Gesù di Nazaret. I vangeli sinottici 382
4. Dal Gesù che predica al Gesù predicato 389

SEZIONE TERZA: Linee dello sviluppo del dogma e della teologia

I. Contrapposizione con lo gnosticismo 405


2. Intelligenza della fede in s. Agostino 407
3. Fede e conoscenza nel medioevo . . . . . 408
4. Il concetto di fede di Tommaso d'Aquino 409
5. La tarda scolastica . . . . . . . . 410
6. Lutero e il concilio di Trento 41 I
7. L'analysis fidei della teologia post-tridentina 413
8. La problematica della fede del sec. XIX e il concilio Vaticano r 413
9. Proposte per una nuova comprensione della fede 414
INDICE,

SEZIONE QUARTA: Intelligenza teologica della fede

I. In Spiritu. La fede come opera dello Spirito santo 421


a. Nessuna fede senza grazia interna 424
b. Niente nella fede è senza grazia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 426
c. L'azione dell'uomo non è soppiantata dalla grazia 430

2. Cum Christo. La fede come azione dell'uomo chiamato da Cristo 431


a. Struttura personale della fede .. .. .. .. .. .. .. . .. • .. . .. . 4 34
b. Dimensione sociale·ecclesiale della fede 457
c. La dimensione escatologica 486

3. AJ Patrem. Immediatezza divina della fede 477


11. Oggetto formale e oggetto materiale 4 78
b. Analysis /idei .. . . . .. .. .. .. . . .. .. . . .. . .. .. .. . . .. .. . .. .. .. . .. . . 480
c. Formulazione ed oggetto della fede 49I
d. Fides ecdesÌllslica 49 5

Appendice: Opposizioni alla fede e deformazioni della fede


I. Mancanza di fede ed incredulità 498
2. E.raia ......................................... · · · · · 499
3. Apostasia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . jOO
4. Dubbio di fede j02
5. Supentizione 503

Bibliografia ,50.5

CAP. VI - La sapienza della teologia sulla via della scienza


Introduzione: L'aporia fondamentale della teologia: 'sapienza nel
mistero' e conoscenza mediante la ragione .5 11

SEZIONE PRIMA: La 'sapienza di Dio nel mistero' in Paolo come do-


cumento biblico e come origine spirituale d'ogni teologia cristiana
1. C.Ontenuto e forma della nuova sapienza; storicità del mistero 5 r5
a. Mistero di Dio: occultezza e manifestazione di Dio . . . . . . . . . . . . . . jI6
b. Mistero salvifico: conoscenza della salvezza nella prova di spirito e di
forza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . po
c. Mistero di Cristo: Cristo in quanto nostra sapienze e fol".Zll da Dio . . 522
d. Mistero della Scrittura: intelligenza pneumatica della Scrittura; allegoresi J24

2. Sapienza di Dio nel mistero: conoscenza dalla sola fede ,528


a. La nuova giustizia e sapienza amaveno la fede in Gesù Cristo 529
b. Gnosis nella Pistis . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . j30
c. La •sapienza di Dio nel mistero' in Paolo è teologia? . . . . . . . . . . . . j 31
d. Duplice messa in discussione della teologia da parte del kerygma, della
filOIOfia e della scienza nz

3. Il linguaggio del mistero: un mistero del linguaggio. Il linguag-


INDICE

gio dell'analogia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . '34


a. Parola e sapiema di Dio in parola umana ~ un mistero del linguqgio,
ma non un linguaggio misterioso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . • . '34
b. La parola di Dio diviene linguaggio; si verifica cosl il miracolo e la
forza del discorso che si trascende .. . .. .. .. . .. .. .. • .. • .. .. . . .. .. ,36
Il linguaggio della parola di Dio si muo:le nel linguaggio della meta-
fora e della analogia '38
d. La prova dei misteri '47

SEZIONE SECONDA: Teologia, filosofia, scienza: presupposti dogmatici


della teologia in quanto scienza della fede ed i presupposti non
dogmatici della filosofia e della scienza
1. Essenza non dogmatica degli enuncia ti filosofici e cli tutti i pre-
supposti scientifici "2
2. La pretesa critica del filosofo alla totalità della conoscenza e
dell'ente 554
3. La teologia dei dìlosofì e la filosofia dci teologi: triplex usus
philosophiae .55'
4. Scienza e ideologia: posizione della teologia nell'università e
nella scienza universitaria ,,s
SEZIONE TERZA: Kerygma, dogma, esegesi, storia: campi fondamen-
tali d'un enunciato teologico. Divisione della teologia

1. Natura logica ed essenzialità teologica dell'enunciato 562


a. Enunciato e giudizio come sede della verità, del 'sl' o del 'no' ,62
b. Enunciato in quanto proprietà dell'uomo '63
c. L'opera di Dio enunciata in parola di Dio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ,64
d. Carattere dogmatico del kerygma in quanto enunciato; gradi dell'enun-
ciato '6'
2. Sede della teologia nella vita di fede e nella vita della Chiesa 567
a. Sede della conoscenza di fede nella vita di fede . . . . . . . . . . . . . . . . '68
b. Servizio della scienza della fede alla comunità di fede della Cltlesa '69
c. Spirito ecumenico della teologia con1rovcnistica . . . . . . . . . . . . . . . . ,71
d. Ampiezza. missionaria auraverso l'autolimitazione della forma occiden-
tale della teologia '74
3. Divisione della teologia in base ai suoi strati; posizione centrale
della esegesi . . . . . . . . . . . . . . . . .
a. Ripartizione della teologia in storica e sistematica . . . . . . . . . . . . . . . .
'7'
'7'
b. Triade della verità teologica e del metodo teologico '76

SEZIONE QUARTA: forme fondamentali della teologia in quanto scien-


za e sapienza; in particolare, il concetto di teologia di s. Tom-
maso (scelta e schizzi)
I. Il patrimonio di pensiero trovato da s. Tommaso ,s1
a. La base biblica ,s1
b. Adozione della filosofia greca .581
c. S. Agostino ,s2
d. S. .Anselmo ,s2
2. La teologia in quanto deduttiva secondo il concetto di s. Tom-
maso e l'abbozzo dell'epistemologia aristotelica 584
a. La situazione generale dcl sapere nel sec. xm . . . . . . . . . . . . .584
b. C.Oncetti fondamentali dell'epistemologia aristotelica . . . . . . .587
c. L'aporia risultante dal concetto aristotelico ·di scienza per la teologia
in quanto scienza ddla fede; sua soluzione a partire dallo stesso con-
cetto aristotelico di scienza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .589
d. Definizione della teologia in quanto scienza della fede; rappresentazio-
ne artistica di questo concetto di teologia .590

3. Il problema dell'oggetto della 'scienza della fede' 59 I


4. Il problema del metodo 'scientifico di fede' 593
5. La teologia nclla forma di teologia della storia '9.5
Bibliografia .596
Excursus: La teologia ortodossa 600

Bibliografia 608

Potrebbero piacerti anche