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Oggetto del diritto nobiliare lo studio delle fonti del diritto al titolo nobiliare ed in particolare dei provvedimenti normativi

i emanati nelle diverse epoche e nei diversi Stati in materia di titoli, qualifiche, trattamenti ed attributi nobiliari. Ci richiede ovviamente la conoscenza di una notevole molteplicit di nozioni prevalentemente di natura giuridica. Conseguentemente il diritto nobiliare da ritenersi di esclusiva competenza del giurista e non, come spesso accade, genericamente dello storico, dell'araldista o del genealogista. Invero, pur essendo la storia, l'araldica e la genealogia, materie certamente ausiliarie del diritto nobiliare, di tale settore del diritto pu occuparsi solo lo studioso che abbia una preparazione prettamente giuridica. Ci premesso da dire che -- come sostenuto dal Principe Carlo Mistruzzi di Frisinga, nel suo "Trattato di Diritto Nobiliare Italiano" (Milano, Giuffr 1961, Vol.III, p.91), l'opera pi completa in materia -- "la fonte principe del diritto nobiliare italiano data dall'art.79 dello Statuto fondamentale del Regno", per il quale: "i titoli di nobilt sono mantenuti per coloro che vi hanno diritto; il Re pu conferirne dei nuovi". Circa i motivi che portarono alla formulazione dell'art. 79, opportuno riportare quanto al riguardo ebbe a pronunciare la Suprema Corte nella sentenza 22 dicembre 1879 (in Foro It., 1880, I, 591). "Lo Statuto che nell'art.24 aveva proclamata l'eguaglianza dei cittadini innanzi alla legge ben doveva sin dalle prime provvedere a che questo altissimo principio di naturale ragione non fosse, con pubblico e privato danno, spinto ed esagerato sino a giustificare un'assurda parit di ricchezza e di beni ed una inutile abolizione della nobilt personale o della nobilt ereditaria. Fu cos che nello stesso Statuto inserivansi altre dichiarazioni, per le quali facevasi asserto che se i nuovi tempi non tolleravano n la casta dell'antichit n la schiavit del mondo pagano, e neppure il feudalismo dell'evo medio, l'eguaglianza civile non poteva esistere che proporzionale, e che sebbene la repugnasse a personali distinzioni, derivanti da privilegi ed esenzioni, pure essa non conduceva all'abolizione di quei titoli di quei gradi senza funzioni e senza prerogative, i quali in sostanza non racchiudessero che un valore come suol dirsi, di semplice opinione. E ben questo limite alla generalit del principio di civile uguaglianza, parere doveva ragionevole e prudente avvegnacch sia sommamente nobile ad un paese avere mezzi per fare segno di onore a chi lo abbia devotamente servito, e nulla impedisca che quel segno di onore per la sua trasmissibilit agli eredi sia maggiormente ambito e diventi stimolo pi efficace ai nobili fatti ed alle generose imprese". L'articolo 79 non faceva quindi torto al principio di uguaglianza, poich i titoli nobiliari "non fanno che leggermente accentuare le grandi disuguaglianze che la natura umana e la legge e le norme della civilt e delle societ hanno sparso dovunque nel mondo" (Mistruzzi di Frisinga, op. cit., p.95). Premessi questi brevi cenni, opportuno elencare brevemente i principali provvedimenti emanati nel Regno d'Italia, fino alla caduta della Monarchia, per disciplinare la materia nobiliare e araldica. In relazione al citato art. 79, era necessario, oltre che regolamentare la prerogativa regia di conferire nuovi titoli nobiliari, regolamentare la conservazione dei titoli che gi esistevano negli Stati sabaudi per opera degli antecedenti sovrani e dei titoli che esistevano negli Stati man mano unificati. Per evitare abusi ed usurpazioni, all'idea del mantenimento, si affianc quella della legittimit dei titoli e del diritto dei pretesi possessori, da dimostrarsi provando l'origine legittima del titolo e la sua legittima trasmissione. Per tale motivo, con R.D. 10 ottobre 1869, n. 5318, il Re Vittorio Emanuele II istitu la Consulta Araldica presso il Ministero dell'Interno "per dare parere al Governo in materia di titoli gentilizi, stemmi ed altre pubbliche onorificenze" (art.1). Con R.D. 8 maggio 1870, si approv il Regolamento per la Consulta Araldica, che suddivideva i provvedimenti nobiliari in due categorie: quelli reali e quelli ministeriali. Alla prima categoria appartenevano: 1) la concessione, con cui il Sovrano dava origine ad un titolo nuovo; 2) la conferma, con cui il Re autorizzava l'uso in Italia di un titolo concesso da una Potenza estera; 3) la rinnovazione, con cui un titolo gi esistito in una famiglia veniva fatto rivivere a favore di qualche persona della stessa famiglia; 4) il riconoscimento con cui il Re dichiarava legale un titolo

posseduto pacificamente per quattro generazioni consecutive senza che il richiedente potesse produrre il documento di concessione. Apparteneva alla seconda l'attestazione del Ministro dell'Interno che una determinata persona aveva diritto di portare un titolo per successione ed in forza di concessioni o investiture: chiamasi anche riconoscimento l'attestazione della Consulta, vista e spedita dal Ministero dell'Interno, che una persona ha diritto di portare un titolo d'onore per successione, ed in forza di concessioni od investiture (art.16). Inoltre, la Consulta Araldica fu incaricata di tenere un registro di titoli gentilizi (art. 7, R.D. 5318/1869) che costitu il nucleo originario del primo Elenco Ufficiale Nobiliare, la cui compilazione richiese poi ben cinquantadue anni. Parallelamente, si stabil il principio dell'obbligatoriet dell'iscrizione in detto registro affinch l'insignito potesse esigere di vedersi pubblicamente attribuito il titolo nobiliare a lui spettante. Infatti, nessun titolo nobiliare poteva essere attribuito nelle pubblicazioni ufficiali, nelle matricole dei pubblici funzionari, negli atti notarili ed in quelli di stato civile se non quando detto titolo risultasse iscritto nel registro in capo alla persona: nessun titolo gentilizio sar attribuito a chicchessia nelle pubblicazioni ufficiali e nelle matricole dei pubblici funzionari, se non quando risulter della sua iscrizione sul suddetto registro (art. 8). Un nuovo Ordinamento per la Consulta Araldica venne emanato dal Re Umberto I, con R.D. 11 dicembre 1887, n. 5138, seguito dal R.D. 5 gennaio 1888 con il quale si approv il relativo Regolamento. In base a questi nuovi provvedimenti, la Presidenza della Consulta Araldica veniva assunta dal Ministro dell'Interno e la Consulta doveva nominare, al suo interno, una Giunta permanente araldica con il compito di dare i pareri previsti dal precedente ordinamento. Con il R.D. 15 giugno 1889, vennero dettate le norme per dare attuazione all'art. 11 del R.D. 5138/1887 che prevedeva la formazione di appositi registri nei quali iscrivere le famiglie in legittimo possesso di titoli nobiliari. In preparazione dell'elenco generale, si decise di creare, oltre ad un elenco speciale delle famiglie che dopo l'Unit d'Italia avevano ottenuto decreti di concessione, rinnovazione, conferma o riconoscimento di titoli nobiliari, tanti elenchi quante erano le regioni storiche italiane: Piemonte, Liguria, Lombardia, Venezia, Parma, Modena, Toscana con Lucca e Massa, Province romane, Province napoletane, Sicilia, e Sardegna. La formazione di tali elenchi avvenne a cura di Commissioni locali che vi iscrissero le famiglie gi registrate come in legittimo possesso di titoli nobiliari negli analoghi elenchi o Libri d'Oro dei cessati governi italiani preunitari. I RR.DD. 2 luglio 1896, n. 313, e 5 luglio 1896, n. 314, contengono un nuovo Ordinamento per la Consulta Araldica ed il relativo Regolamento. Le innovazioni pi significative contenute in tali decreti sono la istituzione dei "Libri Araldici" e la previsione delle Lettere Patenti di Reale Assenso per i casi di successione femminile. I "Libri Araldici" furono istituiti in numero di quattro e cio: il Libro d'Oro della Nobilt Italiana, nel quale vennero iscritte le famiglie italiane che avevano ottenuto Decreti (Reali) di concessione, conferma o rinnovazione o Decreti (Reali o Ministeriali) riconoscimento di titoli nobiliari, con l'indicazione del paese di origine, della dimora abituale, dei titoli con la loro provenienza e trasmissibilit, dello stemma con i suoi ornamenti, delle determinazioni reali o governative circa l'avvenuta concessione, rinnovazione o riconoscimento, nonch della genealogia documentata; il Libro Araldico dei titolati stranieri, nel quale vennero iscritte le famiglie straniere in possesso di titoli italiani; il Libro Araldico della cittadinanza, nel quale vennero iscritte le famiglie che senza essere nobili avevano avuto riconosciuto uno stemma; il Libro Araldico degli enti morali, nel quale vennero iscritti gli enti (comuni, province, associazioni, ecc.) che avevano avuto il riconoscimento di stemmi, bandiere, titoli, sigilli o altre distinzioni. Il R.D. 3 luglio 1921, n. 972, approv il primo Elenco Ufficiale Nobiliare, denominato Elenco Ufficiale delle Famiglie Nobili e Titolate del Regno d'Italia. In tale Elenco figurarono tutte le famiglie iscritte nei precedenti elenchi regionali ma con un asterisco al fine di rimarcare la loro

posizione di assoluta regolarit -- furono contrassegnate le famiglie iscritte nel Libro d'Oro della Nobilt Italiana, cio le famiglie che avevano ottenuto un Decreto Reale di concessione, conferma o rinnovazione od un Decreto Reale o Ministeriale di riconoscimento. Ulteriori disposizioni per disciplinare l'uso di titoli e attributi nobiliari vennero emanate con il R.D. 20 marzo 1924, n. 442, e con il R.D. 28 dicembre 1924, n. 2337. Fondamentale l'art.1 del primo decreto con il quale si confermava che nessuno poteva fare uso di titoli nobiliari se era iscritto nei registri della Regia Consulta Araldica. Con i RR.DD. 16 agosto 1926, n. 1489, e 16 giugno 1927, n. 1091, si approv il nuovo Statuto delle successioni ai titoli e agli attributi nobiliari. Con il R.D. 21 gennaio 1929, n. 61, si introdusse nell'ordinamento giuridico italiano un istituto totalmente nuovo: l'Ordinamento dello stato nobiliare italiano. Questo si divide in tre parti: la prima contiene le norme generali di legislazione nobiliare, disciplina la potest regia al riguardo, distingue i vari provvedimenti nobiliari, pone le norme per la concessione, il riconoscimento, l'uso, la perdita, la successione dei titoli e distinzioni nobiliari; la seconda contempla l'ordinamento della Consulta e dell'ufficio araldico; la terza contiene norme procedurali circa le domande, i ricorsi, e gli atti di opposizione relativi a provvedimenti in materia nobiliare e circa la loro spedizione. Con il R.D. 7 settembre 1933, n. 1990, venne approvato un nuovo Elenco Ufficiale Nobiliare, ora denominato Elenco Ufficiale della Nobilt Italiana che, eccettuato il supplemento per gli anni 19341936 (approvato con R.D. 1 febbraio 1937, n. 173), fu il secondo ed ultimo Elenco Ufficiale approvato dal Regno. A questa seconda edizione fu annesso in appendice un dizionario ufficiale dei predicati. I RR.DD. 7 giugno 1943, n. 651 e 652, introdussero il nuovo Ordinamento dello stato nobiliare italiano ed il nuovo Regolamento per la Consulta Araldica del Regno. Tali decreti sono gli ultimi emanati prima della caduta della Monarchia ed in vigore a tale momento. La XIV disposizione transitoria della Costituzione repubblicana recita: i titoli nobiliari non sono riconosciuti; i predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922 valgono come parte del nome; (...) la legge regola la soppressione della Consulta Araldica. Tale norma, entrata in vigore il 1 gennaio 1948, non rappresenta una novit sul piano giuridico, il principio in essa espresso, infatti, si trova riconosciuto in altre Costituzioni moderne; in quella tedesca di Weimar: "i titoli nobiliari valgono solamente come parte del nome e non dovranno esserne conferiti di nuovi"; in quella irlandese del 1937 che impedisce la concessione di nuovi titoli nobiliari; in quella cecoslovacca: "i titoli non devono essere accordati che per designare l'impiego o la professione". Essa ha posto nella nostra legislazione due precetti innovativi: l'uno di portata negativa, e cio il disconoscimento dei titoli nobiliari; l'altro di portata positiva, e cio la "cognomizzazione" dei predicati gi connessi ai titoli nobiliari. Riguardo al primo aspetto (del secondo ci occuperemo nella sezione specificamente dedicata ai predicati nobiliari), la Costituzione della Repubblica non ha abolito o soppresso i titoli nobiliari ma li ha semplicemente disconosciuti. Come ha giustamente ritenuto la Corte di Cassazione con sentenza del 16 luglio 1951, ci significa che la Costituzione non pone alcun divieto all'uso pubblico o privato dei titoli nobiliari da parte di chi ne sia investito il non riconoscimento vale come divieto solo nei confronti dei pubblici ufficiali, i quali hanno il dovere di omettere ogni indicazione del titolo nobiliare negli atti da essi formati. In altre parole, la Costituzione ha posto "fuori" dall'ordinamento giuridico italiano i titoli nobiliari: il loro uso indifferente di fronte allo Stato, il quale, non riconoscendoli, non accorda ad essi la sua protezione. Sotto l'impero dell'attuale Costituzione, dunque, nessun organo statale, sia amministrativo sia

giudiziario, potr ulteriormente attribuire ufficialmente titoli nobiliari, n gli aventi diritto avranno la facolt di esperire un'azione giudiziaria diretta, in via principale, ad ottenere una sentenza "accertativa" della spettanza di un titolo nobiliare. Poich, dunque, l'ordinamento giuridico italiano disconosce i titoli nobiliari ed il loro uso indifferente per lo Stato italiano, l'uso di un titolo nobiliare di pura fantasia, cio mai concesso all'utilizzatore da parte di alcuna fons honorum, non potr essere sanzionato da alcun organo statale; d'altra parte nessuna norma vieta l'uso di tali titoli, non configurando tale comportamento alcun illecito, neanche di tipo penale. Simili conclusioni valgono anche per i titoli nobiliari di nuova concessione, cio quei titoli che derivano da quelle fons honorum che ancora oggi concedono titoli nobiliari con o senza predicato. Ma se nessun illecito configurabile a carico di chi conferisca od usi tali titoli, la questione dei titoli nobiliari di nuova concessione un po' pi complessa sotto il profilo del diritto nobiliare. Con riferimento alla prerogativa di conferire titoli nobiliari, necessario precisare che la sovranit comprende: lo jus imperii, cio il diritto al comando politico; lo jus gladii, cio il diritto al comando militare; lo jus majestatis, che il diritto al rispetto ed agli onori del rango e lo jus honorum che il diritto a premiare i sudditi con titoli nobiliari, decorazioni e privilegi. Per una certa dottrina (FURNO'; PENSAVALLE DE CRISTOFARO) il Sovrano perderebbe tutte queste prerogative allorquando subisca una capitolazione sotto forma di abdicazione, rinuncia, vassallaggio o acquiescenza al nuovo ordinamento politico (debellatio). Qualora viceversa il Sovrano venga estromesso dal dominio sul proprio territorio in assenza di un atto abdicativo o comunque di acquiescenza al nuovo ordinamento politico, egli subirebbe una perdita dello jus imperii e dello jus gladii ma manterrebbe del tutto intatti lo jus majestatis e lo jus honorum. Il Sovrano spodestato, non debellato, conserverebbe pertanto oltre al diritto di pretenzione al trono, quello di conferire titoli nobiliari, oltre che decorazioni e distinzioni cavalleresche. Viceversa, per altra illustre dottrina (MISTRUZZI DI FRISINGA, Trattato di Diritto Nobiliare Italiano, Milano, 1961, vol. III, pp. 313 e segg.), dal punto di vista del diritto nobiliare, la concessione di titoli nobiliari, pur essendo una prerogativa regia, si esplica sempre in funzione della sovranit della quale il Capo dello Stato costituzionalmente investito (...). Sembra, al riguardo, irrilevante il fatto che il Monarca abbia oppure no abdicato. I titoli nobiliari sono indicati allart. 3 del R.D. 7 giugno 1943, n. 651 (l'ultimo Ordinamento dello stato nobiliare) e sono in ordine decrescente: Principe, Duca, Marchese, Conte, Visconte, Barone, Nobile, nonch Signore, Cavaliere Ereditario, Patrizio e Nobile di determinate citt. Per il secondo comma del medesimo articolo, a partire dal 1943 tali ultimi titoli non potevano essere pi concessi ma soltanto riconosciuti agli aventi diritto se derivanti da antiche concessioni. In effetti i titoli di Visconte, Signore e Cavaliere Ereditario, non vennero mai conferiti dai Re d'Italia dopo l'unificazione. Gli Ordinamenti del 1929 e del 1943 accolsero e codificarono il principio dell'esclusione della successione per linea femminile, gi abolita per effetto del R.D. 16 agosto 1926, n. 1498. Senza entrare nel merito delle norme contenute nel R.D. 1498/26, da segnalare che lultima legge nobiliare del Regno dItalia ribad il principio, gi espresso in detto Decreto, della successione per linea maschile: le successioni dei titoli, predicati e attributi nobiliari hanno luogo a favore della agnazione maschile dellultimo investito (); i titoli, i predicati e gli attributi nobiliari non si trasmettono per linea femminile (art.40 R.D. 651/43). Tale principio valeva per tutti i titoli, anche per quelli concessi sia ai maschi sia alle femmine: i titoli, i predicati, le qualifiche o gli stemmi nobiliari concessi oltre che ai maschi anche alle femmine, spettano durante lo stato nubile alle medesime, qualunque sia la loro posizione in linea e non danno luogo a successione; (art. 43, primo comma) nello stato matrimoniale esse non possono farne uso se non applicando il titolo nobiliare al cognome di nascita preceduto dal qualificativo <nata>(art. 43, secondo comma). Per esempio, se il Conte Rossi avesse avuto due figli, un maschio ed una femmina, al maschio sarebbe spettato il titolo di Conte e questi lo avrebbe

poi trasmesso ai suoi discendenti, mentre alla femmina sarebbe spettato il titolo di Contessa ma solo durante il nubilato; una volta sposata, essa avrebbe potuto farne uso solo specificando il cognome di nascita preceduto dal qualificativo nata e, comunque, il titolo non si sarebbe trasmesso ai suoi figli. I titoli concessi o riconosciuti come trasmissibili per primogenitura maschile si trasmettevano solo in favore del primogenito maschio:agli ultrogeniti di famiglie insignite di titoli primogeniali, attribuito, oltre alla semplice nobilt, il diritto di aggiungere al cognome lappellativo del titolo e predicato del primogenito, preceduto dal segnacaso <dei> (art. 43, terzo comma). Se per esempio il Conte Rossi (titolo primogeniale) avesse avuto tre figli, solo al primogenito maschio sarebbe spettato il titolo di Conte e questi lo avrebbe poi trasmesso al suo figlio maschio primogenito; agli altri due figli sarebbe spettato il titolo di Nobile dei Conti. Generalmente tale forma di trasmissione, era prevista per i titoli di origine feudale muniti di predicato. Nel qual caso, riprendendo in parte l'esempio precedente, solo al maschio primogenito del Conte Caio Rossi di Villaverde, sarebbe spettato il titolo di Conte di Villaverde e questi lo avrebbe poi trasmesso al suo figlio maschio primogenito; agli altri due figli sarebbe spettato il titolo di Nobile dei Conti di Villaverde. In relazione a tale forma di successione, al fine di risolvere ogni possibile dubbio interpretativo, l'art. 13 disponeva che: nel caso di parto plurimo si considera primogenito il primo venuto alla luce (art. 13). Altro principio generale del diritto nobiliare era che i titoli ed i trattamenti nobiliari si trasmettevano solo attraverso la filiazione legittima e naturale. Le disposizioni anteriori allunificazione che prevedevano, in via eccezionale, in mancanza di discendenti legittimi, la successione a favore dei figli naturali riconosciuti e dei figli adottivi, vennero abrogate dal R.D. 16 agosto 1926, n. 1489. Anche le investiture contenute nelle Lettere Patenti di concessione, fissavano generalmente la devoluzione dei titoli ai discendenti legittimi e naturali. In detta espressione, alla copulativa e, doveva essere dato un valore congiuntivo e non disgiuntivo, essendo chiamati a succedere solo i discendenti che fossero ad un tempo legittimi e naturali. Questo il principio che fu accolto nell'ultimo Ordinamento dello stato nobiliare. Pertanto, furono esclusi dalla successione nobiliare innanzitutto i figli adottivi che sono legittimi ma non naturali (art. 42, R.D. 651/43), salva ovviamente la possibilit di un provvedimento di grazia sovrana (rinnovazione, nuova concessione a loro favore, espressa previsione della loro successione nell'atto di concessione del titolo dato a favore dell'adottante). Tale regola si giustificava con il voler evitare il pericolo che tale forma di successione nei titoli fosse utilizzata per attuare un commercio simulato dei titoli stessi, rimanendo la collazione dei titoli nobiliari una prerogativa esclusiva della Corona, con esclusione di ogni successione sia per atto tra vivi (tra cui figurava l'adozione), sia per atto di ultima volont. Inoltre, furono esclusi gli spurii, che sono naturali ma non legittimi (art. 41, primo comma, R.D. 651/43). I figli naturali, ancorch riconosciuti, non succedevano nei titoli e predicati nobiliari a meno che non venissero legittimati per susseguente matrimonio o per Decreto Reale. La legittimazione per susseguente matrimonio, in ossequio al principio accolto dal diritto canonico e feudale, produceva effetto ex tunc cio dal giorno del concepimento. Vi era una fictio iuris per la quale l'effetto del matrimonio era riportato al giorno del concepimento, ponendo cos in un piano di parit i figli nati dopo il matrimonio con quelli nati prima di esso: i figli legittimati per susseguente matrimonio succedono nei titoli e predicati al pari dei figli legittimi (art. 41, secondo comma R.D. 651/43). La legittimazione per subsequens, dunque, metteva i figli nella medesima condizione in cui si sarebbero trovati se nati in costanza di matrimonio. Poteva accadere per che il riconoscimento non avvenisse all'atto stesso del matrimonio, ma in un momento successivo, dopo la sua celebrazione. Tale ipotesi era regolata dalla seconda parte del medesimo comma dell'art. 41 del per il quale: gli effetti della legittimazione, rispetto alla successione nei titoli, quando il riconoscimento posteriore al matrimonio, prendono data dal giorno del riconoscimento. L'applicazione di tale principio produceva particolari conseguenze allorquando si fosse trattato di un titolo trasmissibile per primogenitura. Qualora, infatti, il riconoscimento fosse stato posteriore al matrimonio, la legittimazione non avrebbe retrodatato la

nobilt del legittimato al giorno della nascita (come nel caso di riconoscimento contestuale e all'atto di matrimonio), ma le avrebbe dato principio solo dallatto della legittimazione stessa. E nel caso di concorrenza tra figli legittimi e figli legittimati, la preferenza nella successione al titolo sarebbe stata determinata dallanzianit nel possesso della condizione di legittimit e non dallanzianit di et. Come detto la XIV disp. trans. della Costituzione ha posti fuori dal mondo giuridico i titoli nobiliari ed ha implicitamente abrogato tutta la passata legislazione araldica. Ma se le norme contenute nell'ultimo Ordinamento dello stato nobiliare italiano non hanno pi alcun valore giuridico, ben possono anzi a mio avviso devono -- essere ritenute ancor oggi valide come consuetudine socialenobiliare. Esse sono il necessario punto di riferimento per porre ordine nella complessa materia della trasmissione dei titoli nobiliari. E applicando i principi espressi nell'Ordinamento del 1943 si possono notare le seguenti importanti conseguenze pratiche. I titoli nobiliari non possono formare oggetto di private disposizioni per atto tra vivi o di ultima volont. La successione nei titoli nobiliari non si attua in linea femminile: i titoli concessi ai maschi ed alle femmine spettano a queste ultime solo per il periodo del nubilato e non danno luogo a successione. Mentre oggi per il diritto civile i figli gli adottivi, i legittimati per susseguente matrimonio o per provvedimento del giudice ed i naturali riconosciuti anche giudizialmente, sono parificati anche ai fini successori ai figli legittimi, la trasmissione dei titoli nobiliari non si attua in favore dei figli adottivi e dei figli naturali anche se riconosciuti. Ai fini nobiliari, ai figli legittimi sono equiparati solo quelli legittimati per susseguente matrimonio. L'equiparazione relativa ai figli legittimati per Decreto del Capo dello Stato, previe Lettere Patenti di Regio Assenso al passaggio del titolo, evidentemente un ipotesi oggi non pi realizzabile nell'attuale carenza di un siffatto Potere Sovrano: il codice civile attuale prevede all'art. 284, la legittimazione per provvedimento del giudice, ma mancherebbe comunque la possibilit di ottenere un provvedimento di Assenso Sovrano. In riferimento ai rapporti tra coniugi, lart. 143 bis del Codice Civile stabilisce che: la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze. In tema di titoli nobiliari, in caso di matrimonio, la donna maritata non pu usare il titolo nobiliare della propria famiglia d'origine applicandolo al cognome del coniuge che ha assunto in seguito al matrimonio. Il titolo potr essere usato dalla donna maritata solo applicando il titolo stesso al cognome di nascita preceduto dal qualificativo nata: ad esempio: Caia Rossi, nata contessa Bianchi. Tuttavia la donna maritata pu assumere il titolo nobiliare del marito, eventualmente aggiungendolo al proprio; perde il titolo nobiliare maritale a seguito di annullamento del matrimonio, nonch a seguito di divorzio ma non a seguito di vedovanza: la moglie segue la condizione nobiliare del marito e la conserva anche durante lo stato vedovile (art. 12 R.D. 651/43). Contrariamente, non consentito al marito di donna titolata usare maritali nomine titoli della moglie vivente o defunta (art. 47 del R.D. 651/43); usanza un tempo diffusa soprattutto nello Stato pontificio e nel Regno delle Due Sicilie. Infine, in tema di cognome: lassunzione, luso e la trasmissione di un cognome, neppure in caso di adozione, implicano il conseguimento dei titoli e degli attributi nobiliari ad esso connessi (art. 50 del R.D. 651/43). Al fine di evitare anomale forme di successione di titoli nobiliari, anche tale disposizione deve ritenersi tutt'oggi valida con riferimento alle ipotesi di aggiunzione di cognome, come regolate dal D.P.R. 396/2000. Si evidenzia inoltre che, mentre i titoli si trasmettono secondo le norme illustrate in precedenza, il cognome o i cognomi si trasmettono viceversa secondo le regole proprie del nome, cio alla moglie ed a tutti i figli maschi, femmine, legittimi, legittimati,

naturali riconosciuti e adottivi. Ci vale anche per i predicati nobiliari cognomizzati ai sensi della XIV disposizione transitoria della Costituzione che appunto seguono le vicende ed i modi di successione del cognome. La XIV disposizione transitoria della Costituzione repubblicana recita: i titoli nobiliari non sono riconosciuti; i predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922 valgono come parte del nome; (...) la legge regola la soppressione della Consulta Araldica. Tale norma, entrata in vigore il 1 gennaio 1948, non rappresenta una novit sul piano giuridico, il principio in essa espresso, infatti, si trova riconosciuto in altre Costituzioni moderne; in quella tedesca di Weimar: "i titoli nobiliari valgono solamente come parte del nome e non dovranno esserne conferiti di nuovi"; in quella irlandese del 1937 che impedisce la concessione di nuovi titoli nobiliari; in quella cecoslovacca: "i titoli non devono essere accordati che per designare l'impiego o la professione". Essa ha posto nella nostra legislazione due precetti innovativi: l'uno di portata negativa, e cio il disconoscimento dei titoli nobiliari; l'altro di portata positiva, e cio la "cognomizzazione" dei predicati gi connessi ai titoli nobiliari. Riguardo al primo aspetto (del secondo ci occuperemo nella sezione specificamente dedicata ai predicati nobiliari), la Costituzione della Repubblica non ha abolito o soppresso i titoli nobiliari ma li ha semplicemente disconosciuti. Come ha giustamente ritenuto la Corte di Cassazione con sentenza del 16 luglio 1951, ci significa che la Costituzione non pone alcun divieto all'uso pubblico o privato dei titoli nobiliari da parte di chi ne sia investito il non riconoscimento vale come divieto solo nei confronti dei pubblici ufficiali, i quali hanno il dovere di omettere ogni indicazione del titolo nobiliare negli atti da essi formati. In altre parole, la Costituzione ha posto "fuori" dall'ordinamento giuridico italiano i titoli nobiliari: il loro uso indifferente di fronte allo Stato, il quale, non riconoscendoli, non accorda ad essi la sua protezione. Sotto l'impero dell'attuale Costituzione, dunque, nessun organo statale, sia amministrativo sia giudiziario, potr ulteriormente attribuire ufficialmente titoli nobiliari, n gli aventi diritto avranno la facolt di esperire un'azione giudiziaria diretta, in via principale, ad ottenere una sentenza "accertativa" della spettanza di un titolo nobiliare. Poich, dunque, l'ordinamento giuridico italiano disconosce i titoli nobiliari ed il loro uso indifferente per lo Stato italiano, l'uso di un titolo nobiliare di pura fantasia, cio mai concesso all'utilizzatore da parte di alcuna fons honorum, non potr essere sanzionato da alcun organo statale; d'altra parte nessuna norma vieta l'uso di tali titoli, non configurando tale comportamento alcun illecito, neanche di tipo penale. Simili conclusioni valgono anche per i titoli nobiliari di nuova concessione, cio quei titoli che derivano da quelle fons honorum che ancora oggi concedono titoli nobiliari con o senza predicato. Ma se nessun illecito configurabile a carico di chi conferisca od usi tali titoli, la questione dei titoli nobiliari di nuova concessione un po' pi complessa sotto il profilo del diritto nobiliare. Con riferimento alla prerogativa di conferire titoli nobiliari, necessario precisare che la sovranit comprende: lo jus imperii, cio il diritto al comando politico; lo jus gladii, cio il diritto al comando militare; lo jus majestatis, che il diritto al rispetto ed agli onori del rango e lo jus honorum che il diritto a premiare i sudditi con titoli nobiliari, decorazioni e privilegi. Per una certa dottrina (FURNO'; PENSAVALLE DE CRISTOFARO) il Sovrano perderebbe tutte queste prerogative allorquando subisca una capitolazione sotto forma di abdicazione, rinuncia, vassallaggio o acquiescenza al nuovo ordinamento politico (debellatio). Qualora viceversa il Sovrano venga estromesso dal dominio sul proprio territorio in assenza di un atto abdicativo o comunque di acquiescenza al nuovo ordinamento politico, egli subirebbe una perdita dello jus

imperii e dello jus gladii ma manterrebbe del tutto intatti lo jus majestatis e lo jus honorum. Il Sovrano spodestato, non debellato, conserverebbe pertanto oltre al diritto di pretenzione al trono, quello di conferire titoli nobiliari, oltre che decorazioni e distinzioni cavalleresche. Viceversa, per altra illustre dottrina (MISTRUZZI DI FRISINGA, Trattato di Diritto Nobiliare Italiano, Milano, 1961, vol. III, pp. 313 e segg.), dal punto di vista del diritto nobiliare, la concessione di titoli nobiliari, pur essendo una prerogativa regia, si esplica sempre in funzione della sovranit della quale il Capo dello Stato costituzionalmente investito (...). Sembra, al riguardo, irrilevante il fatto che il Monarca abbia oppure no abdicato. I titoli nobiliari sono indicati allart. 3 del R.D. 7 giugno 1943, n. 651 (l'ultimo Ordinamento dello stato nobiliare) e sono in ordine decrescente: Principe, Duca, Marchese, Conte, Visconte, Barone, Nobile, nonch Signore, Cavaliere Ereditario, Patrizio e Nobile di determinate citt. Per il secondo comma del medesimo articolo, a partire dal 1943 tali ultimi titoli non potevano essere pi concessi ma soltanto riconosciuti agli aventi diritto se derivanti da antiche concessioni. In effetti i titoli di Visconte, Signore e Cavaliere Ereditario, non vennero mai conferiti dai Re d'Italia dopo l'unificazione. Gli Ordinamenti del 1929 e del 1943 accolsero e codificarono il principio dell'esclusione della successione per linea femminile, gi abolita per effetto del R.D. 16 agosto 1926, n. 1498. Senza entrare nel merito delle norme contenute nel R.D. 1498/26, da segnalare che lultima legge nobiliare del Regno dItalia ribad il principio, gi espresso in detto Decreto, della successione per linea maschile: le successioni dei titoli, predicati e attributi nobiliari hanno luogo a favore della agnazione maschile dellultimo investito (); i titoli, i predicati e gli attributi nobiliari non si trasmettono per linea femminile (art.40 R.D. 651/43). Tale principio valeva per tutti i titoli, anche per quelli concessi sia ai maschi sia alle femmine: i titoli, i predicati, le qualifiche o gli stemmi nobiliari concessi oltre che ai maschi anche alle femmine, spettano durante lo stato nubile alle medesime, qualunque sia la loro posizione in linea e non danno luogo a successione; (art. 43, primo comma) nello stato matrimoniale esse non possono farne uso se non applicando il titolo nobiliare al cognome di nascita preceduto dal qualificativo <nata>(art. 43, secondo comma). Per esempio, se il Conte Rossi avesse avuto due figli, un maschio ed una femmina, al maschio sarebbe spettato il titolo di Conte e questi lo avrebbe poi trasmesso ai suoi discendenti, mentre alla femmina sarebbe spettato il titolo di Contessa ma solo durante il nubilato; una volta sposata, essa avrebbe potuto farne uso solo specificando il cognome di nascita preceduto dal qualificativo nata e, comunque, il titolo non si sarebbe trasmesso ai suoi figli. I titoli concessi o riconosciuti come trasmissibili per primogenitura maschile si trasmettevano solo in favore del primogenito maschio:agli ultrogeniti di famiglie insignite di titoli primogeniali, attribuito, oltre alla semplice nobilt, il diritto di aggiungere al cognome lappellativo del titolo e predicato del primogenito, preceduto dal segnacaso <dei> (art. 43, terzo comma). Se per esempio il Conte Rossi (titolo primogeniale) avesse avuto tre figli, solo al primogenito maschio sarebbe spettato il titolo di Conte e questi lo avrebbe poi trasmesso al suo figlio maschio primogenito; agli altri due figli sarebbe spettato il titolo di Nobile dei Conti. Generalmente tale forma di trasmissione, era prevista per i titoli di origine feudale muniti di predicato. Nel qual caso, riprendendo in parte l'esempio precedente, solo al maschio primogenito del Conte Caio Rossi di Villaverde, sarebbe spettato il titolo di Conte di Villaverde e questi lo avrebbe poi trasmesso al suo figlio maschio primogenito; agli altri due figli sarebbe spettato il titolo di Nobile dei Conti di Villaverde. In relazione a tale forma di successione, al fine di risolvere ogni possibile dubbio interpretativo, l'art. 13 disponeva che: nel caso di parto plurimo si considera primogenito il primo venuto alla luce (art. 13). Altro principio generale del diritto nobiliare era che i titoli ed i trattamenti nobiliari si trasmettevano solo attraverso la filiazione legittima e naturale. Le disposizioni anteriori allunificazione che prevedevano, in via eccezionale, in mancanza di discendenti legittimi, la successione a favore dei

figli naturali riconosciuti e dei figli adottivi, vennero abrogate dal R.D. 16 agosto 1926, n. 1489. Anche le investiture contenute nelle Lettere Patenti di concessione, fissavano generalmente la devoluzione dei titoli ai discendenti legittimi e naturali. In detta espressione, alla copulativa e, doveva essere dato un valore congiuntivo e non disgiuntivo, essendo chiamati a succedere solo i discendenti che fossero ad un tempo legittimi e naturali. Questo il principio che fu accolto nell'ultimo Ordinamento dello stato nobiliare. Pertanto, furono esclusi dalla successione nobiliare innanzitutto i figli adottivi che sono legittimi ma non naturali (art. 42, R.D. 651/43), salva ovviamente la possibilit di un provvedimento di grazia sovrana (rinnovazione, nuova concessione a loro favore, espressa previsione della loro successione nell'atto di concessione del titolo dato a favore dell'adottante). Tale regola si giustificava con il voler evitare il pericolo che tale forma di successione nei titoli fosse utilizzata per attuare un commercio simulato dei titoli stessi, rimanendo la collazione dei titoli nobiliari una prerogativa esclusiva della Corona, con esclusione di ogni successione sia per atto tra vivi (tra cui figurava l'adozione), sia per atto di ultima volont. Inoltre, furono esclusi gli spurii, che sono naturali ma non legittimi (art. 41, primo comma, R.D. 651/43). I figli naturali, ancorch riconosciuti, non succedevano nei titoli e predicati nobiliari a meno che non venissero legittimati per susseguente matrimonio o per Decreto Reale. La legittimazione per susseguente matrimonio, in ossequio al principio accolto dal diritto canonico e feudale, produceva effetto ex tunc cio dal giorno del concepimento. Vi era una fictio iuris per la quale l'effetto del matrimonio era riportato al giorno del concepimento, ponendo cos in un piano di parit i figli nati dopo il matrimonio con quelli nati prima di esso: i figli legittimati per susseguente matrimonio succedono nei titoli e predicati al pari dei figli legittimi (art. 41, secondo comma R.D. 651/43). La legittimazione per subsequens, dunque, metteva i figli nella medesima condizione in cui si sarebbero trovati se nati in costanza di matrimonio. Poteva accadere per che il riconoscimento non avvenisse all'atto stesso del matrimonio, ma in un momento successivo, dopo la sua celebrazione. Tale ipotesi era regolata dalla seconda parte del medesimo comma dell'art. 41 del per il quale: gli effetti della legittimazione, rispetto alla successione nei titoli, quando il riconoscimento posteriore al matrimonio, prendono data dal giorno del riconoscimento. L'applicazione di tale principio produceva particolari conseguenze allorquando si fosse trattato di un titolo trasmissibile per primogenitura. Qualora, infatti, il riconoscimento fosse stato posteriore al matrimonio, la legittimazione non avrebbe retrodatato la nobilt del legittimato al giorno della nascita (come nel caso di riconoscimento contestuale e all'atto di matrimonio), ma le avrebbe dato principio solo dallatto della legittimazione stessa. E nel caso di concorrenza tra figli legittimi e figli legittimati, la preferenza nella successione al titolo sarebbe stata determinata dallanzianit nel possesso della condizione di legittimit e non dallanzianit di et. Come detto la XIV disp. trans. della Costituzione ha posti fuori dal mondo giuridico i titoli nobiliari ed ha implicitamente abrogato tutta la passata legislazione araldica. Ma se le norme contenute nell'ultimo Ordinamento dello stato nobiliare italiano non hanno pi alcun valore giuridico, ben possono anzi a mio avviso devono -- essere ritenute ancor oggi valide come consuetudine socialenobiliare. Esse sono il necessario punto di riferimento per porre ordine nella complessa materia della trasmissione dei titoli nobiliari. E applicando i principi espressi nell'Ordinamento del 1943 si possono notare le seguenti importanti conseguenze pratiche. I titoli nobiliari non possono formare oggetto di private disposizioni per atto tra vivi o di ultima volont. La successione nei titoli nobiliari non si attua in linea femminile: i titoli concessi ai maschi ed alle femmine spettano a queste ultime solo per il periodo del nubilato e non danno luogo a successione.

Mentre oggi per il diritto civile i figli gli adottivi, i legittimati per susseguente matrimonio o per provvedimento del giudice ed i naturali riconosciuti anche giudizialmente, sono parificati anche ai fini successori ai figli legittimi, la trasmissione dei titoli nobiliari non si attua in favore dei figli adottivi e dei figli naturali anche se riconosciuti. Ai fini nobiliari, ai figli legittimi sono equiparati solo quelli legittimati per susseguente matrimonio. L'equiparazione relativa ai figli legittimati per Decreto del Capo dello Stato, previe Lettere Patenti di Regio Assenso al passaggio del titolo, evidentemente un ipotesi oggi non pi realizzabile nell'attuale carenza di un siffatto Potere Sovrano: il codice civile attuale prevede all'art. 284, la legittimazione per provvedimento del giudice, ma mancherebbe comunque la possibilit di ottenere un provvedimento di Assenso Sovrano. In riferimento ai rapporti tra coniugi, lart. 143 bis del Codice Civile stabilisce che: la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze. In tema di titoli nobiliari, in caso di matrimonio, la donna maritata non pu usare il titolo nobiliare della propria famiglia d'origine applicandolo al cognome del coniuge che ha assunto in seguito al matrimonio. Il titolo potr essere usato dalla donna maritata solo applicando il titolo stesso al cognome di nascita preceduto dal qualificativo nata: ad esempio: Caia Rossi, nata contessa Bianchi. Tuttavia la donna maritata pu assumere il titolo nobiliare del marito, eventualmente aggiungendolo al proprio; perde il titolo nobiliare maritale a seguito di annullamento del matrimonio, nonch a seguito di divorzio ma non a seguito di vedovanza: la moglie segue la condizione nobiliare del marito e la conserva anche durante lo stato vedovile (art. 12 R.D. 651/43). Contrariamente, non consentito al marito di donna titolata usare maritali nomine titoli della moglie vivente o defunta (art. 47 del R.D. 651/43); usanza un tempo diffusa soprattutto nello Stato pontificio e nel Regno delle Due Sicilie. Infine, in tema di cognome: lassunzione, luso e la trasmissione di un cognome, neppure in caso di adozione, implicano il conseguimento dei titoli e degli attributi nobiliari ad esso connessi (art. 50 del R.D. 651/43). Al fine di evitare anomale forme di successione di titoli nobiliari, anche tale disposizione deve ritenersi tutt'oggi valida con riferimento alle ipotesi di aggiunzione di cognome, come regolate dal D.P.R. 396/2000. Si evidenzia inoltre che, mentre i titoli si trasmettono secondo le norme illustrate in precedenza, il cognome o i cognomi si trasmettono viceversa secondo le regole proprie del nome, cio alla moglie ed a tutti i figli maschi, femmine, legittimi, legittimati, naturali riconosciuti e adottivi. Ci vale anche per i predicati nobiliari cognomizzati ai sensi della XIV disposizione transitoria della Costituzione che appunto seguono le vicende ed i modi di successione del cognome. Nell'ambito del Dirittto Nobiliare contemporaneo, il dato normativo di riferimento rappresentato dall'art. XIV delle disposizioni transitorie e finali della Costituzione della Repubblica Italiana, che testualmente recita: "i titoli nobiliari non sono riconosciuti; i predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922 valgono come parte del nome; (...) la legge regola la soppressione della Consulta Araldica". Riguardo le conseguenze dell'entrata in vigore di tale norma sulla disciplina dei titoli nobiliari, si veda la sezione specificamente dedicata appunto ai titoli nobiliari, per quanto concerne i predicati nobiliari, l'art. XIV citato, ha conferito, quale norma precettiva di immediata applicazione, un vero e proprio diritto soggettivo alla "cognomizzazione" del predicato in favore di coloro al quali spettava, anteriormente al 28 ottobre 1922, il titolo nobiliare connessovi. Innanzitutto opportuno chiarire un aspetto preliminare e cio la ratio della disposizione. Il Costituente, se da un lato non ha ritenuto compatibile con le esigenze democratiche la conservazione di distinzioni come i titoli nobiliari, idonei a rafforzare i privilegi derivanti dalla

nascita, da un altro lato, ha considerato meritevole di tutela l'aspetto relativo alla conservazione del patrimonio storico-familiare italiano. Il predicato nobiliare come segno distintivo della persona, utile alla sua esatta individuazione, vale come parte del nome e riceve dall'ordinamento una tutela giuridica analoga. Se il cittadino, per meglio specificare la propria condizione familiare, pu aggiungere al proprio, il cognome di un suo ascendente, pu altres chiedere l'enunciazione del predicato come completamente del nome. Invero, come precisato dalla Corte di Cassazione (sentenza del 27 luglio 1978 n. 3779) gli articoli 6, 7 e 8 Codice Civile tutelano il diritto al nome anche sotto il profilo dell'affermazione della propria identit storica familiare: "il cognome indica l'appartenenza di un individuo ad un determinato gruppo familiare; nel nostro ordinamento repubblicano non trova tutela alcuna l'interesse a vedersi riconosciuta lappartenenza attraverso la famiglia, ad una determinata classe o casta sociale, o un determinato attributo nobiliare, ma si giustifica invece la tutela del nome completo, servendo questo ad individuare uno specifico gruppo familiare che pu avere tradizioni storicamente e socialmente rilevanti". Gi nel 1915 (sentenza del 29 novembre 1915) la Suprema Corte scriveva: "Secondo il significato che gli storici attribuiscono alla parola cognome, deve intendersi per esso quel nome dopo il proprio che comune alla discendenza, ma, dove diversi siano i rami nei quali un'antica famiglia si sia frazionata, naturale che gli appartenenti ai medesimi sentano il bisogno di meglio distinguere le loro nuove rispettive formazioni con appellativi speciali; e come gi presso i romani, richiamando per esempio alla memoria i nomi del celebre Publio Cornelio Scipione, distruttore di Cartagine, si trova essere stato introdotto l'uso del prenome individuale, nella fattispecie, di Publio, si aggiungesse un nome indicante la gente e un cognome specificante la famiglia, cos molte famiglie nobili, in Italia e fuori, fin dai secoli IX e X, anzich del comune cognome avito, per meglio identificarsi, si servirono abitualmente di un altro, togliendolo dal feudi che ciascuna di esse aveva acquistato, venendo in tal modo a crearsi del nuovi casati, resi conosciuti dal predicato assai pi che non fossero dal cognome originario della gente da cui erano derivati. Per questo si trova nei migliori lessici italiani attribuito alla parola cognome anche il significato di titolo d'onore col quale altri sia cognominato. E, se cos - per cognome deve intendersi non la sola denominazione comune di varie famiglie discendenti da un medesimo stipite, ma l'indicazione specifica destinata a farle meglio distinguere l'una dall'altra non si potr sul serio contestare che anche il titolo nobiliare sia un elemento interessante l'efficienza del cognome. Che il predicato e il feudo servano ancora attualmente alla designazione di molte famiglie, astraendo persino dal loro vero cognome, preso questo nel senso stretto della parola, si hanno in Italia e negli altri paesi d'Europa molti casi dimostrativi. Ben pochi per esempio saprebbero identificare Il celebre Marchese di Mirabeau dal semplice suo cognome di Righetti. In Italia, e specialmente in Piemonte, vi sono molte famiglie nobili aventi lo stesso cognome; per esempio, i Ferrero, i Della Chiesa, che si distinguono solamente pel nome dei rispettivi loro feudi. Il vero cognome del Conte di Cavour era Benso, ma passato alla posterit sotto il nome del feudo da cui, secondo l'espressione di Dante: "lo titol del suo sangue f sua elma". Tralasciando di approfondire il significato politico del limite temporale contenuto nella citata norma costituzionale, opportuno chiarire cosa il costituente abbia voluto significare con la frase " esistenti prima del 28 ottobre 1922". A nostro avviso, secondo una interpretazione letterale del dato normativo, esso esige, ai fini della cognomizzazione dei predicati nobiliari, soltanto la preesistenza del titolo nobiliare alla data del 28 ottobre 1922. Pi precisamente, poich l'articolo summenzionato parla di esistente, si deve ritenere che il costituente si sia riferito solo al fatto storico della preesistenza, e non a quello giuridico del riconoscimento o della iscrizione nel registri nobiliari. Pertanto, pu essere aggiunto al nome di famiglia qualsiasi predicato, ancorch sprovvisto di riconoscimento ufficiale, purch storicamente esistente ed appartenente alla famiglia dell'interessato prima del 28 ottobre 1922. In tal senso si espressa anche la Suprema Corte di Cassazione (S.U. 20 maggio 1965 n.986 e 987, Cass. 18 dicembre 1963 n.3189) secondo la quale il diritto alla cognomizzazione del predicato di un titolo nobiliare, sancito dalla XIV disposizione transitoria della Costituzione, deve intendersi nel senso pi esteso: cio che comprenda anche il predicato di titoli che, esistenti prima del 28 ottobre 1922,

in quanto conferiti prima di tale data, non avessero formato oggetto di riconoscimento. Invero, il "riconoscimento", unico provvedimento di giustizia previsto dall'art.16 comma secondo del Regio Decreto 8 maggio 1870 (Regolamento per la Consulta Araldica), era un provvedimento esclusivamente ricognitivo e non creativo di un diritto, da adottarsi con Decreto Ministeriale proprio per la sua essenza di attestazione dell'esistenza del diritto al titolo che era ed , per sua natura, imprescrittibile. In altre parole l'essenza del suindicato "riconoscimento" , secondo l'opinione concorde della migliore dottrina, (Cansacchi-Buccino-Agr), l'accertamento dichiarativo della legale esistenza in una famiglia di un titolo e di un predicato nobiliare. Esso stato unanimemente configurato come un "nulla osta" all'esercizio di un diritto gi perfetto e preesistente. Il titolo nobiliare, o meglio il diritto al titolo nobiliare, , quindi, da ritenersi esistente o meno al 28 ottobre 1922 a prescindere dall'essere stato o meno oggetto di "riconoscimento", derivando la sua esistenza dall'atto giuridico creativo del diritto stesso che l'atto di concessione. D'altra parte, sotto diverso profilo, la concessione sovrana di un titolo nobiliare con predicato non comportava soltanto la concessione di un titolo onorifico, ma anche di un secondo cognome, In quanto il predicato diveniva il cognome d'uso della famiglia. Tale predicato, come secondo cognome trapassava dal concessionario del titolo a tutti i suoi discendenti, non soltanto in forza delle leggi araldiche, ma soprattutto in forza delle leggi sul nome; tant' che il predicato continuava a competere ai discendenti anche nel caso di perdita del feudo o di ritorno del titolo alla Corona. E', quindi, l'atto di concessione del titolo che fonda il legittimo uso del predicato nobiliare ancorch l'annesso titolo sia stato a suo tempo ufficialmente riconosciuto dalla Consulta Araldica del Regno d'Italia. Sul punto, tuttavia, intervenuta la Corte Costituzionale (sentenza n.101 dell'8 luglio 1967) che ha viceversa ritenuto non sufficiente la semplice esistenza del titolo nobiliare al 28 ottobre 1922. La Corte ha ritenuto che il reale significato della norma costituzionale in esame non possa essere accertato se non alla luce del principio espresso dal primo comma della disposizione, secondo il quale l'ordinamento repubblicano non riconosce i titoli nobiliari. Ed infatti l'incertezza intorno all'interpretazione della qualifica esistente riferita ai titoli anteriori al 28 ottobre 1922 non pu essere superata da considerazioni meramente letterali. Vero che nel passato ordinamento un titolo nobiliare era da considerare esistente indipendentemente dal riconoscimento amministrativo o giurisdizionale, che aveva solo una funzione di accertamento (peraltro necessario al legittimo uso ufficiale del titolo), ma da escludere che la lettera della norma costituzionale si riferisca all'esistenza del titolo in contrapposto al suo riconoscimento: la contrapposizione, invero, solo fra titoli anteriori e titoli posteriori al 28 ottobre 1922, e la proposizione normativa esprime in forma lessicalmente positiva la esclusione dei secondi dal c.d. diritto alla cognomizzazione. Sicch, equivalendo la frase "esistenti prima del 28 ottobre 1922" a quella "non conferiti dopo il 28 ottobre 1922", chiaro che l'interpretazione letterale non idonea alla risoluzione del diverso problema qui in esame, che va, perci raggiunta con l'impiego di altri canoni ermeneutici: ed anzitutto attraverso il coordinamento dei due primi commi della disposizione, nel senso che al secondo deve essere attribuito quel significato che maggiormente si concili col primo. E' questo, infatti, ad esprimere la scelta di fondo operata dal costituente, e con essa ogni altra norma relativa alla materia va di necessit coordinata. Ci posto, da mettere in rilievo che il divieto di riconoscimento dei titoli nobiliari per l'accertamento ed il conseguente legittimo uso di un titolo gi di per se esistente non attiene solo all'attivit giudiziaria o amministrativa necessaria, come accadeva nel precedente ordinamento, ma comporta che i titoli nobiliari non costituiscono contenuto di un diritto e, pi ampiamente, non conservano alcuna rilevanza: in una parola, essi restano "fuori del mondo giuridico". Da questa premessa che nessuno contesta, inevitabilmente discende che l'ordinamento non pu contenere norme che impongano ai pubblici poteri di dirimere controversie intorno a pretese alle quali la Costituzione disconosce ogni carattere di giuridicit. E perci, una volta attribuita al primo comma quel contenuto e queste conseguenze, certo da escludere che il secondo possa essere interpretato in un senso che con l'uno e con le altre sarebbe in contrasto. Ci accadrebbe ove si accogliesse la tesi che, al fine della cognomizzazione, il giudice debba accertare l'esistenza del titolo in capo a

questo o a quel soggetto, valutarne le vicende alla stregua delle regole proprie del regime successorio nobiliare e dare piena applicazione alla legislazione araldica fino al punto - secondo la teoria che appare pi coerente con le premesse - da potersi pronunziare solo previo contraddittorio dell'interessato con l'ufficio araldico (legislativamente definito come rappresentante della regia prerogativa) e con provvedimento destinato ad essere iscritto negli appositi libri nobiliari. N importa che l'accertamento andrebbe compiuto non in funzione del legittimo uso del titolo, ma come strumentale rispetto al diverso diritto relativo all'aggiunta del predicato al nome: ed infatti, nonostante questa finalit, il titolo costituirebbe pur sempre oggetto di un diritto e di una vera e propria tutela giuridica, laddove l'uno e l'altra sono perentoriamente esclusi dal principio enunciato nel primo comma. Tale irrilevanza giuridica del titoli nobiliari impedisce, dunque, che essi possano essere giudizialmente accertati e perci il secondo comma della XIV disposizione va interpretato nel residuo senso che l'aggiunta al nome dei predicati anteriori al 28 ottobre 1922 non trova la sua fonte nel diritto al titolo, non pi sussistente, ma nel gi intervenuto riconoscimento che assume il ruolo di presupposto di fatto del diritto alla cognomizzazione. Siffatta conclusione, oltre a rispondere all'esigenza di una corretta interpretazione sistematica desunta dal necessario coordinamento dei due primi commi della XIV disposizione, trova pieno conforto nel lavori preparatori, dal quali si ricava che intento del Costituente fu quello di evitare che dal disconoscimento del titoli nobiliari potesse derivare una lesione del diritto al nome (il che, ovviamente, esclude la cognomizzazione attuale di predicati mai riconosciuto e perci mai legittimamente usati come elemento di individuazione del casato) ed nel contempo l'unica che appaia conciliabile con la "pari dignit sociale" garantita dal primo comma dell'art. 3 della Costituzione. Secondo la Corte Costituzionale, quindi, la cognomizzazione del predicati nobiliari pu essere ottenuta solo con riferimento ai predicati su cui poggiano quel titoli nobiliari esistenti prima del 28 ottobre 1922 e riconosciuti prima dell'entrata in vigore della Costituzione. Ma, come giustamente sottolineato dal Prof. Aldo Pezzana (La sentenza della Corte Costituzionale sui titoli nobiliari, in Rivista Araldica, 1967 pagg. 205 e segg.), "nel nostro ordinamento giuridico la Corte Costituzionale ha il potere di invalidare, con sentenze operanti erga omnes, le norme legislative contrastanti con la Costituzione, ma non d'interpretare in modo vincolante per gli altri giudici le norme della Costituzione indipendentemente da una questione di legittimit costituzionale (contrasto di una legge con la Costituzione); nell'interpretazione della Costituzione, come di ogni altra legge, ogni giudice sovrano nel limiti della propria competenza". In altri termini, il giudice competente a conoscere del diritto alla cognomizzazione del predicato nobiliare, "sar libero di interpretare il precetto costituzionale secondo il proprio autonomo convincimento"; per quanto concerne la questione sostanziale di quali predicati siano suscettibili di cognomizzazione, "la sentenza esprime soltanto una opinione sull'interpretazione della XIV dispos. trans., opinione che certamente autorevole per l'altissima Magistratura dalla quale promana, ma che nelle future possibili controversie non potr vincolare il giudice ed avr in buona sostanza il valore di un precedente giurisprudenziale". E' da precisare, inoltre, che la Corte Costituzionale con la suddetta pronuncia ha disatteso l'opinione seguita sino a quel punto pressoch unanimemente dalla giurisprudenza e dalla dottrina, secondo cui quello che importava ai fini della cognomizzazione del predicato era che l'atto costitutivo del titolo nobiliare fosse anteriore al 1922 mentre nulla rilevava la circostanza che fosse intervenuto o no un provvedimento di riconoscimento ministeriale. In conclusione la Corte, come conseguenza dell'interpretazione data della XIV dispos. trans., ha stabilito che le vicende del diritto alla cognomizzazione devono essere valutate alla stregua delle norme che disciplinano i modi di acquisto del nome e che la tutela di tale diritto deve seguire le regole che l'ordinamento detta per la tutela del diritto al nome. Ci importante al fine di chiarire, nel silenzio dell'art. XIV dispos. trans., quali siano gli strumenti

processuali da adottare per cognomizzare i predicati nobiliari. Anche su questo punto esistono varie interpretazioni. La giurisprudenza prevalente ritiene necessario, in ogni caso, il procedimento contenzioso ordinario, nei confronti dell'Ufficio Araldico presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, e degli eventuali controinteressati. La dottrina pi autorevole distingue tra i predicate annessi ai titoli riconosciuti ovvero non riconosciuti prima dell'entrata in vigore della Costituzione. Pi precisamente, si ritiene rispetto ai primi ammesso il procedimento di rettifica degli atti di Stato Civile, come regolato dagli artt. 165 e segg. R.D. 9 luglio 1939 n. 1238 (ora artt. 95 e segg. D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396); per i secondi si ritiene necessario il procedimento contenzioso ordinario nei confronti dell'Ufficio Araldico ovvero dell'Ufficiale di Stato Civile, trattandosi non di semplice rettifica, ma di controversia su uno status familiare. A nostro avviso, viceversa, poich riteniamo importante il fatto della concessione e non quello del riconoscimento, risulta corretto in entrambe le ipotesi il procedimento di rettifica. Questo perch con l'azione intrapresa ex art. 167 R.D. 1238 del 1939 (ora art. 95 D.P.R. 396/00), il ricorrente intende rettificare l'atto di nascita con l'inserimento del predicato che avrebbe dovuto essere enunciato, come necessario completamente del nome, nel momento in cui gli fu legittimamente concesso il titolo nobiliare appoggiato sul predicato. Ci considerando anche che l'art. 167 del Regio Decreto (nonch l'art. 95 D.P.R. 396/00) suindicato non contiene una elencazione tassativa dei casi in cui si pu chiedere una rettifica degli atti dello Stato Civile e in mancanza di un procedimento per questo scopo specificamente previsto dalla legge, il procedimento di rettificazione deve adottarsi tutte le volte che necessario, o correggere errori materiali, ovvero provvedere all'integrazione di un atto incompleto come nel caso in esame, chiedendo il ricorrente che gli sia restituito l'uso del cognome completo cui ha diritto per discendenza legittima dal concessionario del titolo nobiliare appoggiato sul predicato. Nell'ambito del Dirittto Nobiliare contemporaneo, il dato normativo di riferimento rappresentato dall'art. XIV delle disposizioni transitorie e finali della Costituzione della Repubblica Italiana, che testualmente recita: "i titoli nobiliari non sono riconosciuti; i predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922 valgono come parte del nome; (...) la legge regola la soppressione della Consulta Araldica". Riguardo le conseguenze dell'entrata in vigore di tale norma sulla disciplina dei titoli nobiliari, si veda la sezione specificamente dedicata appunto ai titoli nobiliari, per quanto concerne i predicati nobiliari, l'art. XIV citato, ha conferito, quale norma precettiva di immediata applicazione, un vero e proprio diritto soggettivo alla "cognomizzazione" del predicato in favore di coloro al quali spettava, anteriormente al 28 ottobre 1922, il titolo nobiliare connessovi. Innanzitutto opportuno chiarire un aspetto preliminare e cio la ratio della disposizione. Il Costituente, se da un lato non ha ritenuto compatibile con le esigenze democratiche la conservazione di distinzioni come i titoli nobiliari, idonei a rafforzare i privilegi derivanti dalla nascita, da un altro lato, ha considerato meritevole di tutela l'aspetto relativo alla conservazione del patrimonio storico-familiare italiano. Il predicato nobiliare come segno distintivo della persona, utile alla sua esatta individuazione, vale come parte del nome e riceve dall'ordinamento una tutela giuridica analoga. Se il cittadino, per meglio specificare la propria condizione familiare, pu aggiungere al proprio, il cognome di un suo ascendente, pu altres chiedere l'enunciazione del predicato come completamente del nome. Invero, come precisato dalla Corte di Cassazione (sentenza del 27 luglio 1978 n. 3779) gli articoli 6, 7 e 8 Codice Civile tutelano il diritto al nome anche sotto il profilo dell'affermazione della propria identit storica familiare: "il cognome indica l'appartenenza di un individuo ad un determinato gruppo familiare; nel nostro ordinamento repubblicano non trova tutela alcuna l'interesse a vedersi riconosciuta lappartenenza attraverso la famiglia, ad una determinata classe o casta sociale, o un determinato attributo nobiliare, ma si giustifica invece la tutela del nome completo, servendo questo ad individuare uno specifico gruppo

familiare che pu avere tradizioni storicamente e socialmente rilevanti". Gi nel 1915 (sentenza del 29 novembre 1915) la Suprema Corte scriveva: "Secondo il significato che gli storici attribuiscono alla parola cognome, deve intendersi per esso quel nome dopo il proprio che comune alla discendenza, ma, dove diversi siano i rami nei quali un'antica famiglia si sia frazionata, naturale che gli appartenenti ai medesimi sentano il bisogno di meglio distinguere le loro nuove rispettive formazioni con appellativi speciali; e come gi presso i romani, richiamando per esempio alla memoria i nomi del celebre Publio Cornelio Scipione, distruttore di Cartagine, si trova essere stato introdotto l'uso del prenome individuale, nella fattispecie, di Publio, si aggiungesse un nome indicante la gente e un cognome specificante la famiglia, cos molte famiglie nobili, in Italia e fuori, fin dai secoli IX e X, anzich del comune cognome avito, per meglio identificarsi, si servirono abitualmente di un altro, togliendolo dal feudi che ciascuna di esse aveva acquistato, venendo in tal modo a crearsi del nuovi casati, resi conosciuti dal predicato assai pi che non fossero dal cognome originario della gente da cui erano derivati. Per questo si trova nei migliori lessici italiani attribuito alla parola cognome anche il significato di titolo d'onore col quale altri sia cognominato. E, se cos - per cognome deve intendersi non la sola denominazione comune di varie famiglie discendenti da un medesimo stipite, ma l'indicazione specifica destinata a farle meglio distinguere l'una dall'altra non si potr sul serio contestare che anche il titolo nobiliare sia un elemento interessante l'efficienza del cognome. Che il predicato e il feudo servano ancora attualmente alla designazione di molte famiglie, astraendo persino dal loro vero cognome, preso questo nel senso stretto della parola, si hanno in Italia e negli altri paesi d'Europa molti casi dimostrativi. Ben pochi per esempio saprebbero identificare Il celebre Marchese di Mirabeau dal semplice suo cognome di Righetti. In Italia, e specialmente in Piemonte, vi sono molte famiglie nobili aventi lo stesso cognome; per esempio, i Ferrero, i Della Chiesa, che si distinguono solamente pel nome dei rispettivi loro feudi. Il vero cognome del Conte di Cavour era Benso, ma passato alla posterit sotto il nome del feudo da cui, secondo l'espressione di Dante: "lo titol del suo sangue f sua elma". Tralasciando di approfondire il significato politico del limite temporale contenuto nella citata norma costituzionale, opportuno chiarire cosa il costituente abbia voluto significare con la frase " esistenti prima del 28 ottobre 1922". A nostro avviso, secondo una interpretazione letterale del dato normativo, esso esige, ai fini della cognomizzazione dei predicati nobiliari, soltanto la preesistenza del titolo nobiliare alla data del 28 ottobre 1922. Pi precisamente, poich l'articolo summenzionato parla di esistente, si deve ritenere che il costituente si sia riferito solo al fatto storico della preesistenza, e non a quello giuridico del riconoscimento o della iscrizione nel registri nobiliari. Pertanto, pu essere aggiunto al nome di famiglia qualsiasi predicato, ancorch sprovvisto di riconoscimento ufficiale, purch storicamente esistente ed appartenente alla famiglia dell'interessato prima del 28 ottobre 1922. In tal senso si espressa anche la Suprema Corte di Cassazione (S.U. 20 maggio 1965 n.986 e 987, Cass. 18 dicembre 1963 n.3189) secondo la quale il diritto alla cognomizzazione del predicato di un titolo nobiliare, sancito dalla XIV disposizione transitoria della Costituzione, deve intendersi nel senso pi esteso: cio che comprenda anche il predicato di titoli che, esistenti prima del 28 ottobre 1922, in quanto conferiti prima di tale data, non avessero formato oggetto di riconoscimento. Invero, il "riconoscimento", unico provvedimento di giustizia previsto dall'art.16 comma secondo del Regio Decreto 8 maggio 1870 (Regolamento per la Consulta Araldica), era un provvedimento esclusivamente ricognitivo e non creativo di un diritto, da adottarsi con Decreto Ministeriale proprio per la sua essenza di attestazione dell'esistenza del diritto al titolo che era ed , per sua natura, imprescrittibile. In altre parole l'essenza del suindicato "riconoscimento" , secondo l'opinione concorde della migliore dottrina, (Cansacchi-Buccino-Agr), l'accertamento dichiarativo della legale esistenza in una famiglia di un titolo e di un predicato nobiliare. Esso stato unanimemente configurato come un "nulla osta" all'esercizio di un diritto gi perfetto e preesistente. Il titolo nobiliare, o meglio il diritto al titolo nobiliare, , quindi, da ritenersi esistente o meno al 28 ottobre 1922 a prescindere dall'essere stato o meno oggetto di "riconoscimento", derivando la sua esistenza dall'atto giuridico

creativo del diritto stesso che l'atto di concessione. D'altra parte, sotto diverso profilo, la concessione sovrana di un titolo nobiliare con predicato non comportava soltanto la concessione di un titolo onorifico, ma anche di un secondo cognome, In quanto il predicato diveniva il cognome d'uso della famiglia. Tale predicato, come secondo cognome trapassava dal concessionario del titolo a tutti i suoi discendenti, non soltanto in forza delle leggi araldiche, ma soprattutto in forza delle leggi sul nome; tant' che il predicato continuava a competere ai discendenti anche nel caso di perdita del feudo o di ritorno del titolo alla Corona. E', quindi, l'atto di concessione del titolo che fonda il legittimo uso del predicato nobiliare ancorch l'annesso titolo sia stato a suo tempo ufficialmente riconosciuto dalla Consulta Araldica del Regno d'Italia. Sul punto, tuttavia, intervenuta la Corte Costituzionale (sentenza n.101 dell'8 luglio 1967) che ha viceversa ritenuto non sufficiente la semplice esistenza del titolo nobiliare al 28 ottobre 1922. La Corte ha ritenuto che il reale significato della norma costituzionale in esame non possa essere accertato se non alla luce del principio espresso dal primo comma della disposizione, secondo il quale l'ordinamento repubblicano non riconosce i titoli nobiliari. Ed infatti l'incertezza intorno all'interpretazione della qualifica esistente riferita ai titoli anteriori al 28 ottobre 1922 non pu essere superata da considerazioni meramente letterali. Vero che nel passato ordinamento un titolo nobiliare era da considerare esistente indipendentemente dal riconoscimento amministrativo o giurisdizionale, che aveva solo una funzione di accertamento (peraltro necessario al legittimo uso ufficiale del titolo), ma da escludere che la lettera della norma costituzionale si riferisca all'esistenza del titolo in contrapposto al suo riconoscimento: la contrapposizione, invero, solo fra titoli anteriori e titoli posteriori al 28 ottobre 1922, e la proposizione normativa esprime in forma lessicalmente positiva la esclusione dei secondi dal c.d. diritto alla cognomizzazione. Sicch, equivalendo la frase "esistenti prima del 28 ottobre 1922" a quella "non conferiti dopo il 28 ottobre 1922", chiaro che l'interpretazione letterale non idonea alla risoluzione del diverso problema qui in esame, che va, perci raggiunta con l'impiego di altri canoni ermeneutici: ed anzitutto attraverso il coordinamento dei due primi commi della disposizione, nel senso che al secondo deve essere attribuito quel significato che maggiormente si concili col primo. E' questo, infatti, ad esprimere la scelta di fondo operata dal costituente, e con essa ogni altra norma relativa alla materia va di necessit coordinata. Ci posto, da mettere in rilievo che il divieto di riconoscimento dei titoli nobiliari per l'accertamento ed il conseguente legittimo uso di un titolo gi di per se esistente non attiene solo all'attivit giudiziaria o amministrativa necessaria, come accadeva nel precedente ordinamento, ma comporta che i titoli nobiliari non costituiscono contenuto di un diritto e, pi ampiamente, non conservano alcuna rilevanza: in una parola, essi restano "fuori del mondo giuridico". Da questa premessa che nessuno contesta, inevitabilmente discende che l'ordinamento non pu contenere norme che impongano ai pubblici poteri di dirimere controversie intorno a pretese alle quali la Costituzione disconosce ogni carattere di giuridicit. E perci, una volta attribuita al primo comma quel contenuto e queste conseguenze, certo da escludere che il secondo possa essere interpretato in un senso che con l'uno e con le altre sarebbe in contrasto. Ci accadrebbe ove si accogliesse la tesi che, al fine della cognomizzazione, il giudice debba accertare l'esistenza del titolo in capo a questo o a quel soggetto, valutarne le vicende alla stregua delle regole proprie del regime successorio nobiliare e dare piena applicazione alla legislazione araldica fino al punto - secondo la teoria che appare pi coerente con le premesse - da potersi pronunziare solo previo contraddittorio dell'interessato con l'ufficio araldico (legislativamente definito come rappresentante della regia prerogativa) e con provvedimento destinato ad essere iscritto negli appositi libri nobiliari. N importa che l'accertamento andrebbe compiuto non in funzione del legittimo uso del titolo, ma come strumentale rispetto al diverso diritto relativo all'aggiunta del predicato al nome: ed infatti, nonostante questa finalit, il titolo costituirebbe pur sempre oggetto di un diritto e di una vera e propria tutela giuridica, laddove l'uno e l'altra sono perentoriamente esclusi dal principio enunciato nel primo comma. Tale irrilevanza giuridica del titoli nobiliari impedisce, dunque, che essi possano essere giudizialmente accertati e perci il secondo comma della XIV disposizione va interpretato nel

residuo senso che l'aggiunta al nome dei predicati anteriori al 28 ottobre 1922 non trova la sua fonte nel diritto al titolo, non pi sussistente, ma nel gi intervenuto riconoscimento che assume il ruolo di presupposto di fatto del diritto alla cognomizzazione. Siffatta conclusione, oltre a rispondere all'esigenza di una corretta interpretazione sistematica desunta dal necessario coordinamento dei due primi commi della XIV disposizione, trova pieno conforto nel lavori preparatori, dal quali si ricava che intento del Costituente fu quello di evitare che dal disconoscimento del titoli nobiliari potesse derivare una lesione del diritto al nome (il che, ovviamente, esclude la cognomizzazione attuale di predicati mai riconosciuto e perci mai legittimamente usati come elemento di individuazione del casato) ed nel contempo l'unica che appaia conciliabile con la "pari dignit sociale" garantita dal primo comma dell'art. 3 della Costituzione. Secondo la Corte Costituzionale, quindi, la cognomizzazione del predicati nobiliari pu essere ottenuta solo con riferimento ai predicati su cui poggiano quel titoli nobiliari esistenti prima del 28 ottobre 1922 e riconosciuti prima dell'entrata in vigore della Costituzione. Ma, come giustamente sottolineato dal Prof. Aldo Pezzana (La sentenza della Corte Costituzionale sui titoli nobiliari, in Rivista Araldica, 1967 pagg. 205 e segg.), "nel nostro ordinamento giuridico la Corte Costituzionale ha il potere di invalidare, con sentenze operanti erga omnes, le norme legislative contrastanti con la Costituzione, ma non d'interpretare in modo vincolante per gli altri giudici le norme della Costituzione indipendentemente da una questione di legittimit costituzionale (contrasto di una legge con la Costituzione); nell'interpretazione della Costituzione, come di ogni altra legge, ogni giudice sovrano nel limiti della propria competenza". In altri termini, il giudice competente a conoscere del diritto alla cognomizzazione del predicato nobiliare, "sar libero di interpretare il precetto costituzionale secondo il proprio autonomo convincimento"; per quanto concerne la questione sostanziale di quali predicati siano suscettibili di cognomizzazione, "la sentenza esprime soltanto una opinione sull'interpretazione della XIV dispos. trans., opinione che certamente autorevole per l'altissima Magistratura dalla quale promana, ma che nelle future possibili controversie non potr vincolare il giudice ed avr in buona sostanza il valore di un precedente giurisprudenziale". E' da precisare, inoltre, che la Corte Costituzionale con la suddetta pronuncia ha disatteso l'opinione seguita sino a quel punto pressoch unanimemente dalla giurisprudenza e dalla dottrina, secondo cui quello che importava ai fini della cognomizzazione del predicato era che l'atto costitutivo del titolo nobiliare fosse anteriore al 1922 mentre nulla rilevava la circostanza che fosse intervenuto o no un provvedimento di riconoscimento ministeriale. In conclusione la Corte, come conseguenza dell'interpretazione data della XIV dispos. trans., ha stabilito che le vicende del diritto alla cognomizzazione devono essere valutate alla stregua delle norme che disciplinano i modi di acquisto del nome e che la tutela di tale diritto deve seguire le regole che l'ordinamento detta per la tutela del diritto al nome. Ci importante al fine di chiarire, nel silenzio dell'art. XIV dispos. trans., quali siano gli strumenti processuali da adottare per cognomizzare i predicati nobiliari. Anche su questo punto esistono varie interpretazioni. La giurisprudenza prevalente ritiene necessario, in ogni caso, il procedimento contenzioso ordinario, nei confronti dell'Ufficio Araldico presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, e degli eventuali controinteressati. La dottrina pi autorevole distingue tra i predicate annessi ai titoli riconosciuti ovvero non riconosciuti prima dell'entrata in vigore della Costituzione. Pi precisamente, si ritiene rispetto ai primi ammesso il procedimento di rettifica degli atti di Stato Civile, come regolato dagli artt. 165 e segg. R.D. 9 luglio 1939 n. 1238 (ora artt. 95 e segg. D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396); per i secondi si ritiene necessario il procedimento contenzioso ordinario nei confronti dell'Ufficio Araldico ovvero dell'Ufficiale di Stato Civile, trattandosi non di semplice rettifica, ma di controversia su uno status familiare. A nostro avviso, viceversa, poich riteniamo importante il fatto della concessione e non quello del

riconoscimento, risulta corretto in entrambe le ipotesi il procedimento di rettifica. Questo perch con l'azione intrapresa ex art. 167 R.D. 1238 del 1939 (ora art. 95 D.P.R. 396/00), il ricorrente intende rettificare l'atto di nascita con l'inserimento del predicato che avrebbe dovuto essere enunciato, come necessario completamente del nome, nel momento in cui gli fu legittimamente concesso il titolo nobiliare appoggiato sul predicato. Ci considerando anche che l'art. 167 del Regio Decreto (nonch l'art. 95 D.P.R. 396/00) suindicato non contiene una elencazione tassativa dei casi in cui si pu chiedere una rettifica degli atti dello Stato Civile e in mancanza di un procedimento per questo scopo specificamente previsto dalla legge, il procedimento di rettificazione deve adottarsi tutte le volte che necessario, o correggere errori materiali, ovvero provvedere all'integrazione di un atto incompleto come nel caso in esame, chiedendo il ricorrente che gli sia restituito l'uso del cognome completo cui ha diritto per discendenza legittima dal concessionario del titolo nobiliare appoggiato sul predicato. Tralasciando di affrontare la complessa questione relativa alla portata abrogatrice sulla legislazione araldica della XIV disp. trans. della Costituzione e della sentenza n. 101 del 1967 della Corte Costituzionale, ci si chiede se ed attraverso quali strumenti l'attuale ordinamento repubblicano tuteli lo stemma araldico. Sul punto possiamo osservare che esso, usato anche da famiglie non nobili (le famiglie di cittadinanza o di civilt distinta) costituiva un abituale mezzo di identificazione. Proprio in riferimento a questa sua precisa funzione lo stemma deve essere ancora oggi considerato come bene meritevole di tutela; bene di carattere immateriale che non va confuso con il corrispondente diritto sulla cosa materiale su cui pu essere eventualmente riprodotto. Lo stemma, anche nell'epoca attuale pu essere considerato come il principale segno figurativo della persona ed diretto ad individuare la persona medesima fornendo di essa un emblema visivo: un emblema che fornisce un elemento idoneo a costituire un abituale mezzo di riferimento e richiamo della persona stessa (De Cupis, I diritti della personalit, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1961, p. 169) . La funzione dello stemma era ed proprio quella di identificare l'individuo come appartenente ad una determinata stirpe. Lo stemma, infatti, si affianca al cognome nella funzione identificativa della persona e nel caso di omonimia contribuisce a precisare l'appartenenza di quella medesima persona ad una determinata famiglia. Lo stemma, l'emblema, come individua una nazione, una regione, un comune, un gruppo politico, individua la persona. La sua tutela rientra pertanto nella tutela dei segni distintivi della persona, come il nome o lo pseudonimo. Questi segni distintivi servono a distinguere le persone nell'ambito sociale, ad agevolarne la loro identificazione, a facilitare quella proiezione sociale dell'individuo che l'ordinamento giuridico vuole proteggere con gli artt. 6-9 Codice Civile. Il diritto all'identit personale un diritto della personalit, innato ed essenziale. Tale diritto, di portata generale, si specifica e si concretizza nel diritto ai segni distintivi personali. La possibilit di identificazione del soggetto pu attuarsi con l'indicazione non solo del nome o dello pseudonimo, ma anche con l'indicazione di elementi diversi, attinenti alla sua individualit come la paternit, la maternit, i caratteri fisici o morali, luogo e data di nascita, professione, residenza. Tra tali segni distintivi secondari rientra anche lo stemma, come segno visivo di immediata identificazione. Ad ogni persona, infatti, come unit della vita sociale e giuridica, deve essere riconosciuto l'interesse ad affermarsi non soltanto e semplicemente come persona, ma come quella persona che realmente, come discendente da determinate persone, come membro di una determinata famiglia. Lo stemma, quindi, deve essere tutelato dall'ordinamento alla stregua del nome e, se l'individuo ha il potere esclusivo di usare il proprio nome, ha conseguentemente il potere esclusivo di usare il

proprio stemma di famiglia. A tale potere corrisponde nei terzi un obbligo di rispetto: i terzi devono astenersi dal contrastarlo negandolo e, soprattutto, devono astenersi dall'usarlo indebitamente come proprio. In riferimento a tale ultimo aspetto, secondo illustre dottrina (De Cupis, Pezzana, Mistruzzi di Frisinga), il titolare dello stemma pu esigere anche giudizialmente che gli altri soggetti si astengano dall'usare il suo stemma per designare individui diversi da lui stesso o da gli altri suoi familiari legittimi titolari dello stemma medesimo: il diritto allo stemma, essendo analogo a quello che si ha sul proprio cognome, deve ritenersi soggetto alla tutelabilit giudiziale con l'esperimento delle azioni di reclamo e di usurpazione. L'esclusivit dell'uso deve essere garantita poich altrimenti, con le confusioni che si produrrebbero, lo stemma stesso non assolverebbe pi la sua funzione identificativa. Quando un altro soggetto, non legittimo titolare dello stemma, lo utilizza per designare s stesso, si verifica una confusione personale. Certamente lo stemma non elemento sufficiente all'identificazione della persona, ma, come segno indicativo della sua posizione familiare, concorre alla sua precisa identificazione. Si verifica, quindi, nel caso di usurpazione, una confusione familiare, ed a questa, per s stessa corrisponde un pregiudizio. Riprendendo quanto scritto da De Cupis (op. cit., p. 43) in materia di segni distintivi personali, costituisce un pregiudizio, per chi appartiene ad una determinata famiglia, che per effetto dell'usurpazione dello stemma si crei nella societ una falsa opinione sull'appartenenza, alla stessa famiglia, di un soggetto del tutto estraneo ad essa; contro tale usurpazione pu farsi valere il proprio potere d'uso esclusivo. Ogni membro di una determinata famiglia, partecipe dell'importanza e della tradizione propria di questa, sensibile agli intimi, peculiari valori morali che la medesima racchiude, giustamente geloso di una distinzione che riguarda solamente lui e gli altri veri membri della stessa famiglia: ed in conseguenza ha un interesse, giuridicamente tutelato, a che nessun soggetto estraneo, mediante l'usurpazione dello stemma, sembri appartenere alla sua famiglia. L'estraneo, infatti, attraverso tale usurpazione, si appropria indebitamente di quel patrimonio di tradizioni e di valori che corrisponde ed appartiene alla famiglia legittima titolare dello stemma, e, per l'ingenerarsi di una falsa opinione sulla comune discendenza e di presumibile somiglianza di temperamento, costumi ed attitudini, si giova di una sorta di fallace riflesso delle qualit e delle azioni della famiglia legittima titolare dello stemma medesimo. Che lo stemma racchiuda in s questo patrimonio di tradizioni e di valori socialmente apprezzabili dimostrato dal fatto stesso dell'eventuale usurpazione. In sede giudiziaria la vittima dell'usurpazione, provato il diritto alla titolarit ed all'uso esclusivo dello stemma, potr domandare oltre alla tutela inibitoria - cessazione del fatto lesivo - il risarcimento del danno e la pubblicazione della sentenza su uno o pi giornali quale forma di restitutio in integrum. Questo in analogia a quanto previsto dal Codice Civile in tema di tutela del nome. La garanzia offerta dall'ordinamento giuridico deve intendersi sotto il duplice aspetto della tutela inibitoria e del risarcimento del danno, ci appunto in applicazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di tutela del nome. Considerando questi ultimi, possiamo ritenere che mentre per l'inibitoria sufficiente che l'attore dimostri, oltre all'uso illegittimo del proprio stemma, la possibilit che da ci gli derivi un pregiudizio economico o soltanto morale, ai fini dell'azione risarcitoria devono sussistere i requisiti soggettivi ed oggettivi dell'illecito aquiliano, cio necessario che sussista il dolo o la colpa di chi usurpa lo stemma altrui, in applicazione del principio generale desumibile dall'art. 2043 c.c.: sicch non solo necessaria l'esistenza di un pregiudizio effettivo, ma questo, se non ha carattere patrimoniale (danno solamente morale), risarcibile, ai sensi dell'art. 2059 c.c., soltanto ove nella condotta dell'indebito utilizzatore sia configurabile un illecito penalmente sanzionato. La giurisprudenza, nell'unica pronuncia per quanto ci consta, emessa dalla Corte di Cassazione (Cass. Civ., sez. I, 13 luglio 1971, n. 2242) in tema di tutela dello stemma, ha confermato che: si pu consentire alla tesi della configurazione dello stemma come un segno distintivo della

personalit, tuttavia si deve precisare che trattasi di un segno secondario, il quale non riceve una tutela in norme che ad esso appositamente si riferiscano, ma pu solo ritenersi garantito in modo generico, limitatamente alle ipotesi in cui il suo uso abusivo possa cagionare un danno, perch idoneo a realizzare un reato, come per esempio nel caso di diffamazione, od un illecito civile, come per esempio nei casi di cui agli artt. 2043 e seguenti Codice Civile. Dunque, lo stemma da ritenersi tutelato dall'ordinamento qualora dall'altrui indebito uso possa derivare un danno in capo al legittimo titolare, come conseguenza di un illecito di natura penale o di natura civile. Inoltre, allo stemma come proiezione sociale dell'individuo, possono essere applicati i principi espressi dalla Corte di Cassazione in una interessante sentenza (Cass. Civ., sez. I, 22 giugno 1985, n. 3769) di cui riportiamo la massima: "l'interesse della persona, fisica o giuridica, a preservare la propria identit personale, nel senso di immagine sociale, cio di coacervo di valori (intellettuali, politici, religiosi, professionali, ecc.) rilevanti nella rappresentazione che di essa viene data nella vita di relazione, nonch, correlativamente, ad insorgere contro comportamenti altrui che menomino tale immagine, pur senza offendere l'onore o la reputazione, ovvero ledere il nome o l'immagine fisica, deve ritenersi qualificabile come posizione di diritto soggettivo, alla stregua dei principi fissati dall'art. 2 della Costituzione in tema di difesa della personalit nella complessit ed unitariet di tutte le sue componenti, ed inoltre tutelabili in applicazione analogica della disciplina dettata dall'art. 7 c.c. con riguardo al diritto al nome, con la conseguente esperibilit, contro i suddetti comportamenti, di azione inibitoria e di risarcimento del danno, nonch possibilit di ottenere, ai sensi del secondo comma del citato art. 7, la pubblicazione della sentenza che accolga la domanda. Appare opportuno trattare questo argomento nell'ambito del Diritto Nobiliare perch spesso, nella storia, importanti famiglie nobili si sono estinte in altre famiglie. Molte volte, ricostruendo l'albero genealogico di una Casata, si ha la prova di tali legami nobiliari. Per non disperdere tale patrimonio storico, l'ordinamento giuridico offre la possibilit di aggiungere al proprio uno o pi cognomi dei propri ascendenti. Le norme contenute nel R.D. 9 luglio 1939 n. 1238, come sostituite dal D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, ed infine dal D.P.R. 13 marzo 2012, n. 54, consentono, infatti, a chiunque voglia aggiungere al proprio un altro cognome, di farne domanda al Prefetto della Provincia del luogo di residenza o di quello nella cui circoscrizione situato l'Ufficio dello Stato Civile dove si trova l'atto di nascita al quale la richiesta si riferisce, esponendo le ragioni a fondamento della richiesta. Il Prefetto, assunte informazioni sulla domanda, se ritiene che essa sia meritevole di essere presa in considerazione, autorizza con proprio decreto il richiedente a fare affiggere all'Albo pretorio del Comune di nascita e di attuale residenza dello stesso richiedente un avviso contenente il sunto della domanda; l'affissione deve avere la durata di giorni trenta consecutivi e deve risultare dalla relazione fatta dal responsabile in calce all'avviso. Il decreto che autorizza le pubblicazioni pu stabilire che il richiedente notifichi a determinate persone il sunto della domanda. Chiunque ne abbia interesse pu fare opposizione alla domanda entro il termine di trenta giorni dalla data dell'ultima affissione ovvero dalla data dell'ultima notificazione. L'opposizione si propone con atto notificato al Prefetto. Trascorso il termine suddetto, il Prefetto, accertata la regolarit delle affissioni e delle notificazioni e vagliate le eventuali opposizioni, provvede sulla domanda con decreto. I decreti che autorizzano il cambiamento o la modificazione del nome o del cognome devono essere annotati, su richiesta degli interessati, nell'atto di nascita del richiedente, nell'atto di matrimonio del medesimo e negli atti di nascita di coloro che ne hanno derivato il cognome, cio i figli. Come si pu notare da questa breve analisi delle norme contenute nel D.P.R. 396 del 2000, il procedimento per aggiunta di cognome ispirato alla maggiore pubblicit possibile della relativa domanda. In riferimento a tale elemento opportuno domandarsi alla tutela di quali interessi esso sia posto e quando il Prefetto possa non autorizzare l'aggiunzione richiesta.

Secondo una impostazione restrittiva che ha prevalso fino a qualche tempo fa, venivano accolte solo quelle domande nelle quali il cognome da aggiungere fosse estinto almeno nella linea maschile. Negli ultimi anni, viceversa, si affermata una impostazione pi ampia soprattutto in virt di alcune interessanti sentenze del Consiglio di Stato, organo presso il quale si pu impugnare il diniego del Prefetto, confermato dal T.A.R. competente per territorio. Per esempio, in un caso in cui era stata negata l'aggiunta di un cognome perch la sopravvivenza di quest'ultimo cognome era assicurata dall'esistenza di un discendente, il Consiglio di Stato in una sentenza del 1997 ha accolto la domanda del richiedente rilevando che non si deve tener conto solo dell'interesse pubblico che consiste nel far s che i cognomi siano tendenzialmente stabili nel tempo, s da poter assolvere alla loro funzione di identificazione della persona, ma anche le ragioni del privato devono essere opportunamente considerate; e possono essere ragioni basate sulle esigenze pi svariate: morali, economiche, familiari, affettive. Questo anche perch "l'aggiunta di ulteriori cognomi non incide negativamente sulla identificazione della persona nel contesto sociale e non ingenera pericolo di confusione, mantenendo comunque il soggetto anche l'originario cognome". Il Consiglio di Stato gi in un parere del 1984 aveva precisato che il Regio Decreto del 1939 "non subordina l'accoglimento delle domande di aggiunta alla circostanza che i cognomi che si chiede di inserire siano in via di estinzione"; quindi perfettamente legittimo chiedere di aggiungere anche un cognome la cui sopravvivenza venga assicurata in ogni caso da un altro discendente, a meno che quest'ultimo non si opponga con specifico atto notificato al Prefetto nell'ambito della procedura sopra descritta. Tale opposizione potr essere presentata nelle ipotesi in cui l'aggiunzione possa produrre una possibile confusione tra i soggetti ovvero comunque un nocumento all'opponente. Considerando l'attuale giurisprudenza, rimane impossibile, tuttavia, l'anteposizione del nuovo cognome, che si chiede di aggiungere, all'originario: esclusione che si giustifica con l'esigenza di stabilit dei cognomi al fine di una agevole e certa identificazione della persona. In riferimento all'interesse del singolo ad aggiungere uno o pi cognomi, stato rilevato (DE CUPIS, I diritti della personalit, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu e Messineo, Milano, Giuffr, 1982, pp. 399 e segg.) che nell'ambito della tutela del nome, come principale segno distintivo della persona, un elemento importante, assai utile per l'identificazione personale, determinato dalla discendenza naturale del soggetto, dalla sua generazione ad opera di determinati individui, genitori, nonni, avi: relazione che si concreta nell'essere figlio di costoro. Il soggetto stesso identificato con il richiamo della sua situazione di figlio di determinati individui; tale richiamo costituisce la precisazione di una fondamentale relazione naturale, vale a circoscrivere la posizione sociale del soggetto, e contribuisce, cos, alla sua identificazione. E' indubitabile che la persona, come unit della vita sociale e giuridica, abbia bisogno di affermare la propria individualit, distinguendosi nei rapporti sociali dagli altri soggetti e risultando per chi realmente: l'uomo annette grande valore all'affermarsi non soltanto come persona, ma anche come una certa persona, e precisamente come discendente di determinate altre persone. L'individuo, mentre distinto per mezzo del prenome dagli altri componenti il suo gruppo familiare, aventi lo stesso cognome, distinto per mezzo del cognome dai soggetti che appartengono ad altri gruppi familiari e che possono avere il suo stesso prenome. Il cognome costituisce, quindi, quella parte del nome che richiama la situazione familiare della persona, la sua appartenenza ad una famiglia. In altre parole, secondo il significato che gli storici attribuiscono alla parola cognome, deve intendersi per esso quel nome dopo il proprio che comune alla discendenza; ma, dove diversi siano i rami nei quali una famiglia si sia frazionata, naturale che gli appartenenti ai rami medesimi sentano il bisogno di distinguere le loro rispettive formazioni aggiungendo i diversi cognomi. Per cognome, dunque, deve intendersi non la sola denominazione comune di varie famiglie discendenti da un medesimo stipite, ma l'indicazione specifica destinata a farle meglio distinguere l'una dall'altra. Invero, nel quadro cos delineato, deve essere riconosciuto al singolo l'interesse ad aggiungere, dopo il cognome paterno, anche uno o pi cognomi di famiglie che nel proprio albero genealogico si trovino legate

con l'ascendenza paterna, servendo, questo o questi ulteriori cognomi, ad una maggiore specificazione della propria situazione familiare. Tale interesse, che pu avere natura morale, affettiva o familiare, deve essere riconosciuto dall'ordinamento giuridico all'individuo, come proiezione sociale della sua identit personale, e pu precisamente denominarsi interesse all'identit personale. GLI ORDINI CAVALLERESCHI Appare opportuno affrontare tale argomento nell'ambito del diritto nobiliare, tenuto conto che molti appassionati della materia nobiliare si interessano anche di Ordini Cavallereschi e considerato che la scarsa informazione intorno ad essi favorisce, purtroppo, il proliferare di sempre nuovi falsi Ordini. Questi, spesso riallacciandosi nel nome ad antichi illustri Ordini ormai estinti, prosperano facendo la fortuna dei loro gran maestri ma con conseguenze anche di rilievo penale per i malcapitati cavalieri. La legge 3 marzo 1951, n. 178 (pubblicata nella Gazz.Uff. 30 marzo 1951, n.73) oltre ad istituire l'Ordine "Al Merito della Repubblica", regola la complessa materia del conferimento e dell'uso delle onorificenze cavalleresche. Tale legge, inoltre, contiene disposizioni relative sia agli Ordini Cavallereschi del Regno d'Italia, sia a quelli della Santa Sede e sia al Sovrano Militare Ordine di Malta. Per tale motivo, prima di affrontare l'esegesi degli articoli pi significativi di tale legge, pare opportuno offrire al lettore un quadro molto schematico, pi di carattere giuridico che storico, dei numerosi Ordini Cavallereschi di "area" italiana. I) Ordini cavallereschi della Repubblica Italiana. 1. Ordine al Merito della Repubblica Italiana: istituito e regolato dalla legge 3 marzo 1951, n.178 e dal D.P.R. n. 458/1952. 2. Ordine Militare d'Italia: istituito da Vittorio Emanuele I, il 14 agosto 1815 con il nome di "Ordine Militare di Savoia", modificati gli statuti da Vittorio Emanuele II con R.D. 28 settembre 1855, stato trasformato nell'Ordine Militare d'Italia con decreto del Capo Provvisorio dello Stato in data 2 gennaio 1947; l'attuale ordinamento dell'Ordine contenuto nella legge 9 gennaio 1956, n.25. 3. Ordine della Stella della Solidariet Italiana: istituito con dd.ll. 27 gennaio 1947, n.703, e 9 marzo 1948, n.812, per coloro che, italiani all'estero o cittadini stranieri, abbiano specialmente contribuito alla ricostruzione dell'Italia. 4. Ordine al Merito del Lavoro: istituito da Vittorio Emanuele II con R.D. del 9 maggio 1901, avocato con modificazioni dalla Repubblica con la legge del 27 marzo 1952, n.199 e successivamente modificato con le leggi nn.1793/1952 e 108/1964. 5. Ordine di Vittorio Veneto: istituito con la legge 18 marzo 1968, n.263, per onorare quei militari che abbiano prestato servizio militare per almeno sei mesi nella guerra 14-18 o nelle guerre precedenti. II) Ordini cavallereschi del Regno d'Italia. 1. Ordine Supremo della SS.Annunziata: il Conte di Savoia Amedeo VI, fond nel 1350 l'Ordine del Cigno Nero che impegnava solennemente i suoi membri a non muoversi reciproca guerra. Nel 1362 tale Ordine fu trasformato nell'Ordine del Collare, che pi che un Ordine vero e proprio era una riunione di Cavalieri (fratelli o compagni) in numero massimo di quindici. Carlo III il Buono, nel 1518 introdusse, tra i nodi del collare che distingueva i Cavalieri, l'immagine dell'Annunziata e volle che si chiamasse Ordine dell'Annunziata, elevando il numero dei Cavalieri a venti ed elevando l'Ordine a Supremo. Gli Statuti furono modificati da Emanuele Filiberto nel 1570 e nel 1577 e,

successivamente, da Vittorio Emanuele II nel 1869 che mantenne, tuttavia, il numero di venti Cavalieri. Questi godevano del trattamento di "cugini del Re", con dignit di Grandi Ufficiali dello Stato, e del titolo di Eccellenza. Tale Ordine, tra quelli pi nobili e reputati al mondo soprattutto per la sua antichit, essendo stato fondato pochi anni dopo l'Ordine della Giarrettiera e un secolo prima del Toson d'Oro, riordinato con R.D. del 14 marzo 1924, n.300, stato soppresso con le relative onorificenze dalla legge 178/51. 2. Ordine dei SS.Maurizio e Lazzaro: nato dalla fusione di quello di San Maurizio, istituito nel 1434 dal Duca di Savoia Amedeo VIII, con quello antichissimo gerosolimitano di San Lazzaro, ad opera di Emanuele Filiberto e con l'autorizzazione di Papa Gregorio XIII, contenuta nella Bolla del 15 gennaio 1573. Riformato da Vittorio Emanuele II il 20 febbraio 1868 e, successivamente, con RR.DD. 30 dicembre 1929, n. 2245 e 13 gennaio 1930, nn.25 e 36. Esso non stato soppresso dalla legge 178 del 1951 che, tuttavia, ha stabilito la cessazione del conferimento delle relative onorificenze. In attuazione della XIV disp. trans. della Costituzione, stato conservato dalla Repubblica come ente ospedaliero e con la legge 5 novembre 1962, n. 1596, stato emanato il nuovo ordinamento dell'Ordine al quale sono stati affidati compiti in materia di beneficenza, di istituzione e di culto: esso persona giuridica di diritto pubblico, posta sotto lalto Patronato del Presidente della Repubblica e sotto la vigilanza del Ministero degli Interni, con sede ancora a Torino. 3. Ordine della Corona d'Italia: istituito da Vittorio Emanuele II con Decreto del 20 febbraio 1868, n.425, modificato con R.D. 30 dicembre 1929, n.2246, si ricollega alle vicende della Corona Ferrea; soppresso dalla legge 178/51. 4. Ordine Civile di Savoia: istituito da Carlo Alberto con Regie Patenti del 31 ottobre 1831, non avocato n soppresso dalla Repubblica Italiana, rimasto, quindi, di pertinenza di Casa Savoia. 5. Ordine Militare di Savoia: istituito con Regie Patenti del 14 agosto 1815 da Vittorio Emanuele I, avocato dalla Repubblica e trasformato in "Ordine Militare d'Italia" con decreto del Capo Provvisorio dello Stato del 2 gennaio 1947. 6. Ordine al Merito del Lavoro: in origine fondato da Umberto I nel 1898 con il nome di "Ordine Cavalleresco al Merito Agrario, Industriale e Commerciale", fu istituito nel 1901 da Vittorio Emanuele II; modificato con R.D.22 febbraio 1930, n.136, stato avocato e conservato dalla Repubblica. 7. Ordine Coloniale della Stella d'Italia: istituito da Vittorio Emanuele III nel 1914 dopo la conquista della Libia, per premiare le pubbliche benemerenze dei sudditi indigeni ed, eccezionalmente, quelle dei cittadini italiani residenti nelle colonie che non fossero, per quelle benemerenze, insigniti di altre onorificenze di maggior importanza, fu modificato da ultimo con R.D.21 gennaio 1931, n.107; implicitamente soppresso con la perdita delle colonie. 8. Ordine dell'Aquila Romana: istituito nel 1942 da Vittorio Emanuele III durante la seconda guerra mondiale per ricompensare i cittadini stranieri benemeriti della nazione italiana; Ordine non pi conferito dopo il 1943 e soppresso con D.L. del 5 ottobre 1944, n.370. III) Ordini della Santa Sede. In virt del terzo comma dell'art. 7 della legge 178/51, tali Ordini continuano ad essere regolati dalle disposizioni vigenti, cio dal R.D. 10 luglio 1930, n. 974. L'art.41 del Concordato Lateranense prevede l'obbligo per lo stato italiano di autorizzarne l'uso mediante la semplice registrazione dell'atto di nomina, da farsi su presentazione dell'atto stesso e domanda dell'interessato; l'autorizzazione all'uso deve quindi essere obbligatoriamente accordata, salvo il controllo, da parte delle autorit italiane, della mera regolarit formale dell'atto di concessione, con esclusione di qualsiasi indagine sulla persona dell'insignito e sui motivi del conferimento (art.2, R.D. 974/1930). Gli Ordini della Santa Sede si dividono in Ordini di Collazione, cio concessi direttamente dalla Santa Sede, e di Subcollazione, cio concessi per delegazione apostolica.

1. Ordine Supremo del Cristo o della Milizia di N.S.G.C. : istituito da Dionigi I, Re del Portogallo nel 1318 e approvato da Papa Giovanni XXII nel 1319; da tale data i Pontefici hanno insignito i Cavalieri dell'Ordine, indipendentemente dai Re portoghesi. Con Breve di riforma del 1905, l'Ordine assunse il carattere di Supremo. E' il pi importante degli Ordini Equestri Pontifici e viene conferito a Capi di Stato e Sovrani. Le onorificenze sono concesse con Motu Proprio del Santo Padre. 2. Ordine dello Speron d'Oro o della Milizia Aurata: l'Ordine della Milizia Aurata fu istituito con Rescritto Pontificio del 16 febbraio 1803 e trasformato da Papa Gregorio XVI con Lettere Apostoliche del 31 ottobre 1841, il quale lo dedic a San Silvestro chiamandolo "Ordine di San Silvestro o della Milizia Aurata". Gli insigniti di tale Ordine avevano diritto, tra l'altro, al titolo non trasmissibile di "Conte Palatino". Papa S. Pio X, con Lettere Apostoliche del 7 febbraio 1905, scisse l'Ordine in due: quello dello Speron d'Oro e quello di S.Silvestro. L' Ordine dello Speron d'Oro riservato a persone di altissimo rango, pur non essendo cos importante come l'Ordine Supremo del Cristo. Le onorificenze sono concesse con Motu Proprio del Santo Padre. 3. Ordine Piano: istituito con Lettere Apostoliche del 17 giugno 1847 da Papa Pio IX che rinnovando la denominazione dei Cavalieri istituiti da Papa Pio IV nel 1559, chiamati dal suo nome Pii ed ornati di titoli di nobilt, volle denominarlo Piano. Fino al 1939, data in cui fu abolito con Breve di Papa Pio XII dell'11 novembre, era lunico Ordine pontificio che concedeva la nobilt agli insigniti: nobilt ereditaria ai Cavalieri di Gran Croce e personale ai Commendatori con Placca e Commendatori. Le onorificenze sono concesse con Breve. 4. Ordine di San Gregorio Magno: istituito da Gregorio XVI con Lettere Apostoliche del primo settembre 1831 per premiare i benemeriti verso lo Stato Pontificio; pu essere di categoria civile o militare. Le onorificenze sono concesse con Breve. 5. Ordine di San Silvestro Papa: istituito da Papa Gregorio XVI insieme all'Ordine della Milizia Aurata, divenne un Ordine a se stante con Breve del 1905. Le onorificenze sono concesse con Breve. 6. Ordine del Santo Sepolcro di Gerusalemme: Ordine di Subcollazione parificato (ex art.3 R.D.974/1930) ristabilito da Papa Alessandro VI nel 1496, il quale offr al Guardiano del S. Monte di Sion e Commissario Apostolico di Terra Santa la facolt di nominare i Cavalieri di questo Ordine durante l'assenza del Patriarca di Gerusalemme stabil che quando quest'ultimo fosse rimesso nella sua sede a lui nuovamente appartenesse la istituzione e creazione dei nuovi Cavalieri. I Francescani ressero l'Ordine fino al 1847, quando, per concordato stipulato tra Santa Sede e Turchia, Papa Pio IX restitu alla sua Chiesa il Patriarca di Gerusalemme e stabil che ad esso appartenesse per il futuro la creazione dei Cavalieri. Con Breve del 24 gennaio 1863, lo stesso Pio IX riform gli statuti e, nel 1907, Pio X riserv al Sommo Pontefice il Gran Magistero, fino ad allora tenuto dal Patriarca di Gerusalemme. Dopo alterne vicende, Pio XII con Breve del 14 settembre 1949 approv i nuovi statuti dell'Ordine con i quali all'art.4 si stabil che il Pontefice avesse diritto di nominare il Gran Maestro nella persona di un Cardinale di S.R.C.. Lo Statuto definitivo del 19 luglio 1977, con il quale venne istituita anche la Croce di Benemerenza o Al Merito, al fine di premiare singolari benemerenze verso l'Ordine anche di coloro che non hanno i requisiti per appartenere all'Ordine. 7. Ordine dei Cavalieri Teutonici di Santa Maria di Gerusalemme: Ordine di Subcollazione, fondato intorno al 1190, a San Giovanni d'Acri nel corso della terza Crociata da alcuni crociati di Brema e Lubecca e accettato da Papa Innocenzo III nel 1199 dopo che aveva gi avuto la protezione di Papa Clemente III. Fu in origine un Ordine non internazionale ma destinato ad accogliere Cavalieri di lingua tedesca. In declino dopo essere stati sconfitti dai polacchi a Tennenberg nel 1410, l'Ordine evit la soppressione definitiva da parte di Napoleone grazie alla protezione degli Asburgo e fu riorganizzato nel 1834 dall'Imperatore d'Austria, Francesco I, e nel 1840 da Ferdinando I. L'Arciduca Eugenio d'Asburgo conserv la carica di Gran Maestro fino al 1923, anno in cui vi rinunci e fu eletto in sua vece il Vescovo Norberto Giovanni Klein. L'Ordine sopravvisse alla abolizione, da parte della Repubblica Austriaca, degli Ordini Equestri statuali dell'Impero AustroUngarico. L'Ordine che sotto la protezione e vigilanza della Santa Sede, stato recentemente riformato, conformemente al Codice di Diritto Canonico, con Regole approvate e promulgate con

decreto della Santa Congregazione dei Religiosi del 27 novembre 1929, accentuandosi il carattere regolare, cio monastico dell'Ordine e abolendosi l'obbligo delle prove nobiliari. La Santa Sede, il 22 settembre 1965, ha approvato lo Statuto dei Cavalieri d'Onore e dei "Familiari" o Cavalieri Mariani dell'Ordine Teutonico, cio dei membri "di Merito". IV) Ordini della Repubblica di San Marino. 1. Ordine di San Marino: istituito il 13 agosto 1815 dal Consiglio Principe della Serenissima Repubblica, lo Statuto venne approvato dallo stesso Consiglio in data 22 marzo 1860. L'onorificenza viene conferita dal Consiglio Sovrano su proposta dei Capitani Reggenti, i quali hanno facolt di fregiarsi della Gran Croce durante il tempo della loro carica. 2. Ordine di S.Agata: istituito il 5 giugno 1923 dal Consiglio Grande e Generale della Repubblica per ricompensare quei cittadini stranieri che con l'industria, il lavoro e la beneficenza verso le Opere Pie Sammarinesi si sono resi benemeriti della Repubblica. V) Sovrano Militare Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, detto di Rodi, detto di Malta. Merita una menzione a s stante tale antichissimo Ordine Magistrale, dato che l'unico Ordine cavalleresco riconosciuto come soggetto di diritto internazionale Esso l'Ordine pi glorioso della cristianit; fu creato da fr Gerardo di Sasso intorno al 1100, come Ordine Ospitaliero di San Giovanni di Gerusalemme divenne in seguito anche Militare; detto di Malta da quando Carlo V il 24 luglio 1530, consegn detta isola ai Cavalieri come nuova sede dell'Ordine, una volta perduta l'isola di Rodi per mano del Solimano nel 1522. Attualmente l'Ordine si regge sulla Carta Costituzionale approvata con Breve Pontificio del 24 giugno 1961. L'Ordine per premiare i meriti nei propri confronti, ha una speciale onorificenza detta "Decorazione al Merito Militense", concedibile indipendentemente dalla nascita e dalla religione professata. Tale Ordine l'unico riconosciuto come soggetto di Diritto Internazionale e la legge 178/51, nulla ha innovato alle norme in vigore per l'uso di onorificenze, decorazioni e distinzioni dell'Ordine che rimane, quindi, regolato da specifici Trattati di Diritto Internazionale che non prevedono l'obbligo di alcuna autorizzazione all'uso di dette onorificenze. VI) Altri Ordini cavallereschi non statuali. Oltre alle onorificenze degli Ordini cavallereschi sopra indicati, risultano conferite in passato ed ancora attualmente in Italia, onorificenze da parte di Ordini che non promanano da Stati sovrani dei quali appare utile offrire un elenco generale. Esclusi alcuni Ordini dinastici noti ed illustri, per la maggior parte degli Ordini sotto elencati estremamente difficile individuarne l'esatta posizione e forma giuridica: infatti, alcuni di tali Ordini vivono come associazioni storiche-culturali, altri si riallacciano nel nome ad antichi Ordini senz'altro soppressi od estinti, altri ancora sono Ordini dinastici propri di famiglie ormai verosimilmente estinte, con conseguente sforzo da parte dei loro Gran Maestri di provare genealogicamente la loro discendenza da tali dinastie ex Sovrane; infine di alcuni si sa veramente ben poco, saltando fuori solo nella carta intestata di qualche sedicente loro cavaliere. Queste difficolt sono le stesse che, come vedremo, portano lo Stato italiano a non autorizzare l'uso delle onorificenze conferite dalla maggior parte di tali Ordini. Ordine Costantiniano di San Giorgio; Ordine di Santo Stefano Papa e Martire;

Ordine del Merito sotto il Titolo di San Giuseppe; Ordine del Toson d'Oro; Real Ordine al Merito sotto il Titolo di San Lodovico; Decorazione di San Giorgio per il Merito Militare di Lucca; Ordine dell'Aquila Estense; Insigne Reale Ordine di San Gennaro; Ordine di San Ferdinando; Real Ordine di Francesco I delle Due Sicilie; Real Ordine Militare di San Giorgio della Riunione; Ordine Supremo Militare del Tempio Gerosolimitano; Ordine di San Giorgio in Carinzia; Corporazione Internazionale della Stella Croce d'Argento e i Cavalieri del Bene; Ordine Militare del SS.Salvatore e di Santa Brigida di Svezia; Ordine dei Templari; Ordine di San Giorgio di Antiochia della Corona Normanna d'Altavilla; Ordine di Nostra Signora o S. Maria di Betlemme; Sovrano Ordine Militare Dinastico dei Cavalieri della Croce di Costantinopoli; Sacro Imperiale Angelico Ordine della Croce di Costantino il Grande; Ordine Militare e Ospedaliero di San Giovanni d'Acri e San Tommaso; Celeste reale Militare Ordine di Nostra Signora della Mercede; Ordine degli Argonauti di San Niccol; Ordine di San Biagio; Ordine del Baccello della Ginestra; Ordine del Bracciale; Ordine della Concezione; Ordine di San Carlo; Ordine di Calatrava; Ordine di San Giorgio di Ravenna; Ordine di San Gedeone; Ordine di San Gereone; Ordine di San Giorgio di Borgogna Ordine di San Lazzaro di Gerusalemme; Sovrano Imperiale Ordine Militare della Corona di Ferro del Regno d'Italia; Serenissimo Ordine Militare di Santa Maria Gloriosa. LA LEGGE 3 MARZO 1951, N. 178. Gli artt. 7 e 8 della legge 178/51 dispongono quanto segue. Articolo 7: I cittadini italiani non possono usare nel territorio della Repubblica onorificenze o distinzioni cavalleresche loro conferite in Ordini non nazionali o da Stati esteri, se non sono autorizzati con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro per gli affari esteri. I contravventori sono puniti con la sanzione amministrativa sino ad 1.291,14. L'uso delle onorificenze, decorazioni e distinzioni cavalleresche della Santa Sede e dell'Ordine Equestre del Santo Sepolcro continua ad essere regolato dalle disposizioni vigenti. Nulla parimenti innovato alle norme in vigore per l'uso delle onorificenze, decorazioni e distinzioni cavalleresche del Sovrano Militare Ordine di Malta. Articolo 8:

Salvo quanto disposto dall'art. 7, vietato il conferimento di onorificenze, decorazioni e distinzioni cavalleresche, con qualsiasi forma e denominazione, da parte di enti, associazioni o privati. I trasgressori sono puniti con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da 645,57 a 1.291,14. Chiunque fa uso, in qualsiasi forma e modalit, di onorificenze, decorazioni o distinzioni di cui al precedente comma, anche se conferite prima dell'entrata in vigore della presente legge, punito con la sanzione amministrativa da 129,11 a 903,80. La condanna per i reati previsti nei commi precedenti importa la pubblicazione della sentenza ai sensi dellart. 36 c.p., ultimo comma. Le disposizioni del secondo e terzo comma si applicano anche quando il conferimento delle onorificenze, decorazioni o distinzioni sia avvenuto allestero. Mentre il conferimento delle onorificenze nazionali regolato dalle leggi istitutive dei vari Ordini cavallereschi della Repubblica e per il loro uso non necessaria alcuna autorizzazione, bastando il fatto del conferimento, il conferimento e l'uso delle onorificenze cavalleresche diverse da quelle nazionali regolato dalla la legge 3 marzo 1951, n. 178. Detta legge, oltre ad istituire l'Ordine al Merito della Repubblica Italiana, all'art. 7 vieta ai cittadini italiani di usare nel territorio nazionale onorificenze o distinzioni cavalleresche conferite da Ordini di Stati esteri o da Ordini non nazionali, se non autorizzati con decreto del Ministro degli Esteri; all'art. 8 vieta il conferimento di onorificenze da parte di enti, associazioni o privati e l'uso, in qualsiasi forma e modalit, di tali onorificenze. Ai fini dell'applicazione della legge 178 del 1951, occorre dunque stabilire in primo luogo quali siano gli Ordini definibili come Ordini di Stati esteri e quali quelli definibili come non nazionali. Se nessun dubbio sorge intorno alla definizione degli Ordini appartenenti a Stati esteri come Ordini che sono emanazione diretta della personalit di diritto pubblico di Stati stranieri, nel silenzio della legge, non viceversa altrettanto agevole definire la categoria degli Ordini non nazionali. La giurisprudenza ha avuto occasione di pronunciarsi sul punto, elaborando alcuni criteri identificativi degli Ordini non nazionali: il Tribunale di Roma (sent. del 26.2.1962, IX sez. pen.) ha ritenuto, per esempio, che per Ordini non nazionali si devono intendere quegli Ordini che "ricevono origine non dagli ordinamenti giuridici statuali esistenti, bens da patrimoni araldici appartenenti a cittadini stranieri o aventi una propria personalit giuridica internazionale" e la non nazionalit "deve desumersi dalla nazionalit dei suoi esponenti, dal luogo in cui si trova la sede e dall'eventuale riconoscimento da parte di Stati esteri". Come precisato dal Marchese Prof. Aldo Pezzana (Conferimento di onorificenze da parte dei c.d. Ordini cavallereschi indipendenti, in Riv. Ar. 1962, pp.155 e segg.) ci che decisivo per qualificare un Ordine come non nazionale, che esso sia riconosciuto come Ordine Cavalleresco da un ordinamento giuridico diverso da quello dello Stato italiano, e cio o dall'ordinamento di uno Stato estero o da quello della Chiesa cattolica o dal diritto internazionale. (...) Se l'Ordine appartiene al patrimonio araldico di una famiglia straniera non sovrana (od ex sovrana), esso dovr essere consideratonon nazionale, se riconosciuto dalla legislazione dello Stato, del quale il Gran Maestro cittadino. Se l'Ordine appartiene per diritto ereditario ad una famiglia italiana non ex sovrana o ad una famiglia straniera, che si trovi in analoga situazione ed i cui diritti sull'Ordine non siano riconosciuti dal suo Paese, il conferimento delle onorificenze ricadr sotto le sanzioni di cui all'art.8. Se infine si tratta di un Ordine dinastico di una famiglia ex sovrana (e questa l'ipotesi che d luogo a maggiori dubbi) riteniamo che l'Ordine possa considerarsi non nazionale solo se all'ex Casa regnante sia riconosciuto dal diritto internazionale e dagli Stati stranieri un particolare status giuridico, una qualche rilevanza alla posizione di famiglia ex regnante ed alle sue pretese di restaurazione". In riferimento agli Ordini di quest'ultimo tipo, la Corte di Cassazione (sez.III, 4.2.1963 e sez.III, 6.10.1965) ha precisato che "la fons honoris pu rientrare in ogni caso solo come uno degli elementi

costitutivi della non nazionalit di un Ordine Cavalleresco, ma non pu da sola esprimere il carattere della non nazionalit dell'Ordine stesso; accanto al carattere ereditario sono richiesti il carattere e la organizzazione intesa, anche se non identificabile, in una vera e propria soggettivit giuridica internazionale, lo scopo e l'attualit dell'Ordine in rapporto alla sua storia e alla sua tradizione". Per gli Ordini a carattere associativo, secondo il medesimo Pezzana (op.cit., pag.161), "debbono considerarsi non nazionali solo quelli che abbiano ottenuto da uno Stato straniero un non equivoco riconoscimento giuridico (s'intende non semplicemente come associazioni private ma come enti con facolt di concedere onorificenze)"; (in tal senso, anche Amedeo Franco, voce Onorificenze in Enc. Dir.,Giuffr, Milano, 1981). Se in base ai criteri sopra indicati un Ordine pu essere definito come Ordine non nazionale, esso rientrer nell'ambito della disciplina di cui allart. 7; se invece non pu essere definito come Ordine non nazionale, esso sar da considerarsi come un ente od unassociazione privata, ricadente nell'ambito di applicazione dellart. 8. Dunque, la categoria degli Ordini non nazionali di cui all'art. 7, si pone in netta contrapposizione con quella costituita dagli enti, associazioni o privati di cui all'art. 8. Infatti, mentre gli Ordini cavallereschi definibili come non nazionali (come gli Ordini appartenenti a Stati esteri), possono legittimamente conferire onorificenze che possono essere portate nel territorio della Repubblica da cittadini italiani, previa autorizzazione all'uso loro rilasciata dal Ministro degli Esteri, gli Ordini cavallereschi non definibili come non nazionali non possono conferire onorificenze e quelle eventualmente conferite non sono portabili in nessun caso da parte di cittadini italiani nel territorio della Repubblica. Tuttavia, ai fini dell'applicazione della legge 178 del 1951, non basta che una onorificenza promani da un Ordine che potremo definire legittimo -- cio da un Ordine statuale estero, ovvero da un Ordine definibile come non nazionale -- affinch il suo uso possa essere autorizzato dallo Stato italiano. Se come detto gli Ordini non nazionali -- ed a maggior ragione gli Ordini statuali esteri -- sono istituzioni legittime che posso liberamente conferire onorificenze cavalleresche, all'ordinamento italiano in ogni caso riservata la disciplina relativa all'uso delle relative onorificenze, in base al principio per il quale lo Stato ha l'insindacabile diritto di stabilire quali siano le onorificenze che possono essere portate dai propri cittadini nel territorio della Repubblica. Se tutti gli Ordini legittimi sono in teoria autorizzabili, solo alcuni di essi sono di fatto autorizzati dall'ordinamento italiano. E' infatti rimesso al prudente apprezzamento della Pubblica Amministrazione valutare, caso per caso, se un Ordine sia degno di ottenere che le sue onorificenze siano autorizzate all'uso in Italia Sull'argomento, il Ministero degli Affari Esteri intervenuto da ultimo con la Circolare n. 022/80926 del 6 marzo 2009. Ivi si legge che vengono attualmente considerati autorizzabili alluso nel territorio nazionale il Sacro Angelico Imperiale Ordine Costantiniano di S. Giorgio ed il Real Ordine al Merito sotto il Titolo di S. Lodovico (Borbone Parma), lInsigne Real Ordine di S. Gennaro ed il Sacro Militare Ordine Costantiniano di S. Giorgio (Borbone Due Sicilie, entrambi i rami), lOrdine di S. Stefano Papa e Martire e lOrdine del merito sotto il Titolo di S. Giuseppe (Asburgo Lorena Toscana), le cui autorizzazioni sono curate dal MAE (il Ministero degli Affari Esteri, N.d.A.). Non autorizzabili per contro, in virt dei principi espressi dalla legge 178/51, sono considerati gli ordini appartenuti al Regno dItalia ed al patrimonio dinastico dei Savoia (Ordine Supremo della SS. Annunziata, Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro e Ordine della Corona dItalia, ivi inclusi, per analogia di origini, anche lOrdine Civile di Savoia ed il pi recente Ordine al Merito Civile di Savoia) (...). Non si ritiene opportuno allargare lautorizzabilit al fregio nel territorio italiano a quelle istituzioni cavalleresche non nazionali che, pur risultando legittimate da un punto di vista dinastico-

cavalleresco nei rispettivi Paesi di origine, non presentino per alcuna radice o collegamento storico con lItalia (come ad esempio lOrdine di N.S. di Villaviciosa del Portogallo, lOrdine di Danilo I del Montenegro, lOrdine del Dragone di Annam del Vietnam, lOrdine Vitezi Rend dellUngheria, ed altri). Non sono poi considerati autorizzabili all'uso le distinzioni assegnate da enti non governativi ed organizzazioni private di tipo assistenziale o umanitario e da associazioni private di insigniti di ordini cavallereschi (...); parimenti non si considerano autorizzabili all'uso gli ordini e le distinzioni ecclesiastiche conferite da patriarcati e confraternite religiose di ogni culto o confessione, la cui validit rimane strettamente circoscritta all'Autorit religiosa che le concede (con esclusione ovviamente degli Ordini Equestri della Santa Sede espressamente disciplinati dal comma terzo dell'art. 7, legge 178/51, N.d.A.) (...). Merita infine essere ricordato in tale contesto, che non sono considerati in alcun modo autorizzabili al pubblico fregio tutti gli ordini e le distinzioni di origine privata -- di ispirazione equestre e non -- conferiti da istituzioni, associazioni ed organizzazioni di tipo storico-cavalleresco o dinastico-nobiliare che non godano di un riconoscimento a livello internazionale (indipendentemente dal fatto che tali organizzazioni operino in Italia o allestero) (...). Tali orientamenti, derivati dalla continua evoluzione della prassi degli ultimi decenni e dal costante perseguimento interpretativo della normativa vigente, possono comunque essere suscettibili -anche grazie ai contributi e alle valutazioni delle altre Amministrazioni interessate -- di integrazioni, modifiche e miglioramenti. In base a quanto detto, sintetizzando, dunque possibile individuare le seguenti categorie di onorificenze. I) Onorificenze illegittime (o non autorizzabili, o irriconoscibili), cio quelle conferite da quegli Ordini che non appartengono a Stati esteri e che neppure sono definibili come non nazionali; trattandosi di onorificenze conferite in definitiva da soggetti privati, l'uso di esse non pu essere autorizzato in nessun caso. II) Onorificenze legittime (o autorizzabili, o riconoscibili), cio quelle conferite da quegli Ordini che appartengono a Stati esteri o che sono definibili come non nazionali. L'uso di tali onorificenze in astratto autorizzabile, ma in concreto l'uso solo di alcune di esse autorizzato dall'ordinamento italiano. Dunque le onorificenze legittime possono essere distinte in: a) onorificenze autorizzate (o riconosciute), cio quelle per le quali il Ministero ritiene concedibile l'autorizzazione all'uso (dipendendo poi l'effettivo rilascio dell'autorizzazione all'insignito da valutazioni riguardanti anche le sue qualit personali); b) onorificenze non autorizzate (o non riconosciute), cio quelle per le quali il Ministero ritiene non concedibile l'autorizzazione all'uso in base a considerazioni di carattere discrezionale legate a motivi di opportunit politico-diplomatica, nonch quelle per le quali l'autorizzazione all'uso non pu essere concessa per espressa previsione di legge. Dunque, i cittadini italiani possono liberamente accettare onorificenze cavalleresche, ma se intendono farne uso devono chiedere lautorizzazione alluso con domanda rivolta al Ministero degli Affari Esteri. Il rilascio dell'autorizzazione un atto assolutamente discrezionale dell'Amministrazione; esso dipende dalla verifica della sussistenza di presupposti sia di carattere oggettivo, legati alla qualit dell'Ordine, sia di carattere soggettivo, legati alla qualit dell'insignito. Pur sussistendo in astratto i presupposti oggettivi per la concessione dell'autorizzazione all'uso, trattandosi di una onorificenza che in concreto pu essere autorizzata -- derivando da un Ordine estero o che pu essere definito come non nazionale -- nell'emanazione del provvedimento l'Amministrazione deve valutare anche la presenza dei presupposti soggettivi per il suo rilascio, riguardanti la persona dell'insignito. Dovr essere preventivamente accertata la moralit della persona, come richiesto per le onorificenze della Repubblica, e bisogner valutare se l'onorificenza sia adeguata allo status del soggetto e tenere presente anche quali altre onorificenze

egli abbia ricevuto. In altre parole, il Ministro assolutamente libero nel valutare se concedere o negare l'autorizzazione, tenendo conto di varie circostanze riguardanti non solo la qualit dell'Ordine ed i rapporti politici e diplomatici tra lo Stato italiano e l'Ordine o lo Stato estero che ha concesso l'onorificenza, ma riguardanti anche la persona dell'insignito: e cio le sue qualit morali, le sue benemerenze sociali, la sua posizione sociale. La domanda dovr essere corredata: dal diploma originale di concessione o copia autentica dello stesso, dalla copia autentica di iscrizione allOrdine e dalla ricevuta comprovante il pagamento della tassa di concessione governativa prescritta per ciascun grado. I membri del Governo potranno inviare la loro domanda direttamente al Ministero, mentre i funzionari dello Stato ed i militari la trasmetteranno per il tramite dellAmministrazione alla quale appartengono, con dispensa dal presentare la ricevuta di pagamento della tassa di concessione governativa. Il Servizio del Cerimoniale istruir la domanda e, se listruttoria dar esito positivo, con riferimento all'esame dei presupposti sia oggettivi che soggettivi, promuover la concessione dell'autorizzazione. Detta autorizzazione che per effetto dell'art. 2, legge 12 gennaio 1991, n. 13, non ha pi la forma del decreto Presidente della Repubblica, ma quella del decreto del Ministro degli Esteri -- ha la funzione di parificare le onorificenze non nazionali ed estere a quelle italiane, permettendo all'insignito un uso pieno delle medesime. Disposizioni particolari sono dettate per quanto riguarda l'autorizzazione all'uso delle onorificenze, decorazioni e distinzioni cavalleresche della Santa Sede, dell'Ordine Equestre del Santo Sepolcro e del Sovrano Militare Ordine di Malta. Per il terzo comma dell'art. 7, legge 178 del 1951, l'uso delle onorificenze, decorazioni e distinzioni cavalleresche della Santa Sede e dell'Ordine Equestre del Santo Sepolcro continua ad essere regolato dalle disposizioni vigenti, cio dall'art. 41 del Concordato e dall'art. 2 del R.D. 10 luglio 1930, n. 974. La prima norma prevede l'obbligo per lo stato italiano di autorizzarne l'uso mediante la semplice registrazione dell'atto di nomina, da farsi su presentazione dell'atto stesso e domanda dell'interessato; per la seconda, l'autorizzazione all'uso deve essere obbligatoriamente accordata, salvo il controllo, da parte delle autorit italiane, della mera regolarit formale dell'atto di concessione, con esclusione di qualsiasi indagine sulla persona dell'insignito e sui motivi del conferimento. Per tali Ordini l'autorizzazione dovr essere promossa dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Per il quarto comma del medesimo art. 7, nulla parimenti innovato alle norme in vigore per l'uso delle onorificenze, decorazioni e distinzioni cavalleresche del Sovrano Militare Ordine di Malta. Tale Ordine l'unico riconosciuto come soggetto di diritto internazionale; l'uso delle relative onorificenze, decorazioni e distinzioni rimane regolato dalle norme in vigore, cio da specifici Trattati di diritto internazionale che non prevedono l'obbligo di alcuna autorizzazione all'uso. Per quanto riguarda poi gli appartenenti alle Forze Armate, ai Corpi Armati dello Stato e per gli assimilati al personale militare, necessario fare riferimento al Regolamento per la Disciplina delle Uniformi, edito dallo Stato Maggiore della Difesa nel 2002. Tale Regolamento, dopo aver precisato all'art. 51 cosa siano le decorazioni e cosa i distintivi, allart. 57 indica gli adempimenti che il militare, insignito di decorazioni cavalleresche non nazionali, deve compiere per ottenere l'autorizzazione all'uso: la richiesta di autorizzazione, ex art. 7, legge 178 del 1951, va inoltrata per via gerarchica al gabinetto del Ministro da cui il militare dipende che la trasmetter al Ministero degli Affari Esteri. Lautorizzazione, se concessa, verr registrata dallo stesso Ministero e, a richiesta dellinteressato, la decorazione potr quindi essere trascritta a matricola. Una volta trascritta a matricola, l'uso della decorazione cavalleresca non nazionale e dei relativi nastrini, sar obbligatorio in ogni circostanza. In base all'art. 58, le decorazioni rilasciate dallo S.M.O.M. non necessitano di autorizzazione; per quelle della Santa Sede e dell'Ordine del Santo Sepolcro, l'autorizzazione deve essere richiesta ai sensi del R.D. 974 del 1930. Dunque, l'uso di onorificenze cavalleresche nel territorio dello Stato -- ad eccezione di quelle conferite dalla Repubblica italiana o dal Sovrano Militare Ordine di Malta, per le quali non

necessaria alcuna autorizzazione -- subordinato al rilascio da parte dello Stato di un'apposita autorizzazione; in caso di uso senza detta autorizzazione, la condotta sar punibile ai sensi degli artt. 7 e 8 della legge 178 del 1951. In conclusione necessario quindi illustrare gli illeciti in materia di onorificenze, come emergono dal combinato disposto degli artt. 7 e 8, legge 178/51, e dell'art. 498 c.p.. A) Conferimento di onorificenze illegittime. Ipotesi prevista dall'art. 8, comma primo, legge 178 del 1951. Tale norma punisce, con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da 645,57 a 1.291,14 e con la sanzione accessoria prevista dal comma terzo della pubblicazione della sentenza di condanna, chiunque, come privato, ovvero nell'ambito di enti o associazioni, conferisca onorificenze, decorazioni o distinzioni cavalleresche, sotto qualsiasi forma o denominazione. Per la sussistenza del delitto necessario che il conferimento avvenga da parte di soggetti che non possono essere definiti come Ordini di Stati esteri o come Ordini non nazionali e che quindi devono ritenersi a tutti gli effetti Ordini illegittimi. Preliminarmente si deve dunque accertare la qualit dell'ente che ha conferito l'onorificenza. E' necessario poi che il conferimento sia avvenuto nel territorio dello Stato. Questo perch, non specificando l'art. 8, primo comma, il luogo del conferimento, deve applicarsi il principio della territorialit della legge penale (art. 3 c.p.). Come rilevato dalla Corte di Cassazione nel 1999, lo Stato italiano ha inteso riservare a s il potere di conferimento, vietandolo ad ogni ente, associazione o privato, salvi gli ordini cavallereschi previsti dall'art. 7 e le onorificenze di Stati esteri e degli ordini non nazionali, subordinate queste ultime ad autorizzazione, sicch detto monopolio ed il conseguente divieto di conferimento, penalmente sanzionato, hanno un senso se la punibilit circoscritta al solo territorio italiano; tuttavia la punibilit comprende non solo l'atto unilaterale di conferimento, costituente l'inizio della condotta punibile e denominabile come assegnazione del titolo, ma anche di tutte quelle manifestazioni collegate quali l'investitura, solenne o meno, la consegna di segni o medaglie o distinzioni o decorazioni, ed eventuali ulteriori modalit o cerimonie, costituenti un tutto unitario ed inscindibile; pertanto, l'illecito conferimento deve comprendere in una considerazione unitaria ed inscindibile, tutte le varie fasi per evitare sistemi di facile elusione della normativa e consentire un'uniforme repressione. Questa valutazione unitaria ulteriormente confortata dalla locuzione in qualsiasi forma e denominazione contenuta nel precetto in esame, contemplato dall'art. 8, ove si nota l'indifferenza per le varie modalit e l'ampia accezione utilizzata dal legislatore per ricomprendervi ogni momento in cui pu essere suddistinto il conferimento delle onorificenze. Dunque, il conferimento non consentito di onorificenze, decorazioni e distinzioni cavalleresche include non solo l'atto unilaterale di assegnazione del titolo cartaceo, ma anche la cerimonia di investitura in quanto modalit nella quale il predetto conferimento si attua. Conseguentemente il reato si configura anche nell'ipotesi in cui il conferimento cartaceodel titolo sia avvenuto all'estero, ma la cerimonia di investitura in Italia. Infine vi da dire che la condotta punita quella del semplice conferimento, quindi, per la perfezione del delitto si prescinde dal fatto della accettazione o non accettazione della onorificenza da parte dell'insignito. B) Uso di onorificenze illegittime. L'art. 8, comma secondo, legge 178 del 1951, punisce con la sanzione amministrativa da 129,11 a 903,80, chiunque faccia uso, in qualsiasi forma e modalit, di onorificenze, decorazioni o distinzioni cavalleresche conferite (anche prima dell'entrata in vigore della legge del 1951) da enti, associazioni o privati Per la sussistenza dell'illecito necessario che l'uso abbia per oggetto onorificenze conferite da soggetti che non possono essere definiti come Ordini di Stati esteri o come Ordini non nazionali e che quindi devono ritenersi Ordini illegittimi. Posto che l'ordinamento non punisce la semplice accettazione, l'illecito pu essere commesso sia dal cittadino italiano sia dallo straniero ma, trattandosi di illecito amministrativo, deve essere

commesso nel territorio dello Stato anche se il suo presupposto, cio il conferimento della onorificenza, sia avvenuto all'estero. C) Uso non autorizzato di onorificenze legittime. Ipotesi prevista dall'art. 7, legge 178 del 1951, che punisce con la sanzione amministrativa sino ad 1.291,14, chi fa uso di onorificenze o distinzioni cavalleresche conferite da Ordini di Stati esteri o da Ordini non nazionali senza aver ottenuto la preventiva autorizzazione da parte del Ministro degli Esteri. E' necessario che l'uso avvenga senza la preventiva autorizzazione del Ministro degli Esteri e che l'uso abbia per oggetto onorificenze legittime: qualora si trattasse di onorificenze illegittime, ricorrerebbe la fattispecie precedente. Come non punita la semplice accettazione di onorificenze illegittime, non punita la semplice accettazione di onorificenze legittime. Per espressa previsione legislativa, il fatto punibile solo se commesso da cittadini italiani nel territorio dello Stato. D) Arrogazione di onorificenze. Ipotesi prevista come illecito amministrativo dal comma secondo dell'art. 498 c.p. che punisce il fatto di chi si arroghi titoli, decorazioni o altre pubbliche insegne onorifiche, con la sanzione amministrativa pecuniaria da 154,94 a 929,62 e con la sanzione accessoria della pubblicazione del provvedimento che accerta la violazione in uno o pi giornali designati dal giudice. Presupposto di tale illecito la mancanza di un qualsiasi atto di conferimento od il venir meno delloriginario atto di conferimento, come nel caso di sospensione o revoca dell'atto o come nel caso di condanna dell'insignito alla pena accessoria dellinterdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici. L'espressione arrogazione implica, oltre al concetto di autoattribuzione, quello di far mostra pubblicamente o con estranei, pertanto non punibile la vanteria che avvenga in privato. E) Il reato previsto e punito dall'art. 275 c.p., di accettazione di onorificenza conferita da uno Stato nemico in guerra con lo Stato italiano, stato abrogato dalla legge 25 giugno 1999, n. 205. La genealogia la disciplina che ha come oggetto lo studio dell'origine e della discendenza delle famiglie. Essa aveva grande valore gi al tempo dei Romani ma crebbe di importanza pratica soprattutto nel medioevo, dato che la qualit della nascita e l'appartenenza ad una data famiglia erano elementi decisivi per rivestire certe cariche o per entrare in una corporazione od in un capitolo cavalleresco. In occidente le prime registrazioni anagrafiche si devono a Marco Aurelio. Fu questi infatti -- dopo essere stato in Egitto dove gi vigeva l'obbligo per i funzionari dello Stato di registrare le nascite -ad introdurre nell'Impero romano l'obbligo a carico di ogni cittadino di registrare entro trenta giorni la nascita di un figlio: ci per poter determinare con certezza l'et, la razza e soprattutto appunto la condizione e l'origine di ciascun abitante dell'Impero. L'istituto della registrazione anagrafica delle nascite rimase in vigore sino alla caduta dell'Impero avvenuta nel 476, per poi essere nuovamente reintrodotto nel 1563 in seguito al Concilio di Trento. Ci avvenne ad opera della Chiesa mediante la tenuta di propri registri certificanti, oltre ai battesimi, le cresime, i matrimoni, le morti e lo stato delle anime. Con l'Unit d'Italia (1861) si ebbe l'istituzione dell'Anagrafe dello Stato Civile che prosegu l'opera di registrazione della nascita, cittadinanza, matrimonio, morte e composizione del nucleo familiare di ogni soggetto dimorante nel territorio italiano, a prescindere dal suo credo religioso. Ma solo quando si estese l'uso e cominci il tramandarsi del cognome, le genealogie acquistarono una certa precisione. Se sino alla fine del XII secolo il cognome era privilegio esclusivo delle classi pi alte, a partire dalla fine del XVI secolo -- grazie appunto alle disposizioni del Concilio di Trento sulla tenuta dei libri baptizatorum affidati ai Parroci -- l'uso del cognome cominci a diffondersi anche nelle classi pi umili e ad assumere una certa stabilit. Tuttavia, sino alla definitiva creazione

dello Stato Civile da parte dello Stato italiano, ogni individuo poteva assumere un cognome diverso da quello del proprio padre e mutarlo nel corso della vita. Invero, anteriormente al 1861, risalendo le generazioni maschili ascendenti degli individui, si possono riscontrare diversit nei cognomi usati, nella loro esatta grafia, nelle trasformazioni, nelle aggiunte. Non essendovi atti autoritativi che concedessero ad ogni famiglia un determinato cognome o riconoscessero quello che era usato per un pi o meno lungo periodo dai suoi membri, ne conseguiva che soltanto il possesso pacifico e pubblico di un dato, stabile cognome, nel succedersi delle generazioni maschili, era considerato titolo idoneo ad attribuire il diritto al cognome cos appalesato. Mentre nell'epoca attuale un cognome non potrebbe acquisirsi con il suo uso reiterato in contrasto con quello segnato sugli atti di stato civile, tale evenienza poteva accadere nei secoli anteriori alla istituzione del servizio di Stato Civile (CANSACCHI, Il diritto soggettivo allaggiunta di un secondo cognome, in Riv. Ar., 1967, p. 43). *** Nell'ambito della genealogia possiamo quindi individuare la genealogia successoria, quale particolare settore di ricerca nel quale rientrano tutte quelle attivit dirette a risolvere -- oltre alle successioni ereditarie incerte che abbiano per oggetto beni mobili od immobili -- le successioni incerte riguardanti la legittima spettanza di stemmi, titoli e predicati nobiliari. ***

La genealogia successoria specificamente diretta alla: ricerca di eredi di titoli e predicati nobiliari; accertamento della legittima spettanza di titoli e predicati nobiliari; accertamento della successione nel titolo dei discendenti dell'insignito di un titolo nobiliare; tutela legale nella rivendica di un titolo o predicato nobiliare; tutela legale nella difesa dell'uso esclusivo dello stemma familiare; accertamento del cognome nella sua esatta forma originaria; ricerca finalizzata ad aggiunzioni o cambiamenti di cognome; ricerca finalizzata alla cognomizzazione di predicati nobiliari. Ed inoltre alla: ricerca di eredi consanguinei di beni mobili od immobili; ricerca di beneficiari di disposizioni testamentarie; tutela legale degli eredi rintracciati nelle operazioni di divisione; rivendica di beni in nome dei familiari che ne siano stati spogliati; ricerca di documentazione a sostegno dei diritti dei beneficiari di immobili, polizze assicurative sulla vita, quote societarie, diritti d'autore, ecc.. *** Si possono avvalere dei servizi relativi alla genealogia successoria: coloro i quali ritengano di discendere da una persona insignita di un titolo nobiliare (con o senza predicato);

coloro i quali intendano rivendicare la spettanza di un titolo nobiliare (con o senza predicato); coloro i quali intendano rivendicare l'uso esclusivo di uno stemma nobiliare o di cittadinanza; coloro i quali intendano rettificare il proprio cognome; coloro i quali intendano aggiungere al proprio uno o pi cognomi di propri ascendenti; coloro i quali intendano cognomizzare il predicato nobiliare spettante alla propria famiglia; Ed inoltre: coloro i quali intendano provare la propria qualit di erede o di beneficiario di una disposizione testamentaria; coloro i quali abbiano necessit di identificare gli eredi di una persona deceduta al fine della divisione del patrimonio e della determinazione delle quote spettanti a ciascuno dei successibili; coloro i quali abbiano necessit di identificare gli eredi di una persona deceduta al fine di recuperare il proprio credito; coloro i quali abbiano necessit provare di essere discendenti di italiani ai fini dell'acquisto della cittadinanza. Le principali fonti della genealogia successoria sono: gli Archivi Ecclesiastici (Parrocchiali e Diocesani), istituiti nel 1563 in seguito al Concilio di Trento certificanti i battesimi, le cresime, i matrimoni, i defunti e lo stato delle anime; l'Anagrafe dello Stato Civile istituita nel 1861 con l'Unit d'Italia, certificanti le nascite, i matrimoni, le morti e la composizione del nucleo familiare; gli Archivi di Stato che trattengono documenti relativi a Censimenti (anche fiscali), Catasti (denuncie di beni), Atti Notarili, Atti Giudiziari, Liste di Leva e Ruoli Matricolari; il Catasto dei beni immobili; le Camere di Commercio per le societ e le attivit commerciali; il P.R.A. Pubblico Registro Automobilistico per gli autoveicoli; il R.I.D. Registro Imbarcazioni da Diporto per i natanti; le Liste Elettorali.

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