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La motivazione

Psicologia del lavoro e delle organizzazioni

LUMSA

Prof.ssa Paula Benevene


Teorie contemporanee della motivazione umana

 Etimologicamente il termine “motivazione” deriva da motus, che in latino indica il moto, il movimento che
compie un individuo verso qualcosa.

 La motivazione è dunque l’insieme dei motivi che spingono, sostengono e dirigono un individuo ad agire,
che sono in relazione a diversi obiettivi ed interesse e che sono guidati da processi cognitivi ed emotivi
(Pinder, 1998). La motivazione è una spinta verso il raggiungimento di un obiettivo e che agisce
influenzando ed orientando i comportamenti. Il processo relativo parte da uno stimolo, interno od esterno
alla persona, e produce, come risultato finale, un’azione nella realtà. La qualità della prestazione
lavorativa sarà maggiore quanto più alta sarà la motivazione al lavoro. L’intera organizzazione è più
efficace ed efficiente se al suo interno può contare su risorse umane altamente motivate.
Teorie contemporanee della motivazione umana

 La motivazione non fa parte della struttura di personalità. Non esistono persone di


per se stesse demotivate, giacché la motivazione deve essere sempre riferita ad un
contenuto, un ambiente ed un periodo specifici. Possiamo quindi dire, più
correttamente, che la persona è demotivata a fare quel tipo di lavoro in quella
situazione, relativamente al periodo in osservazione.

 Inizialmente, approcci e tecniche di intervento puntavano a rinforzare i


comportamenti lavorativi ritenuti positivi, premiando l’alta produttività con incentivi
economici; successivamente, sono emersi anche altri fattori importanti per la
motivazione, come la possibilità di uno sviluppo professionale, il riconoscimento e
l’apprezzamento del lavoro svolto; la valorizzazione delle proprie competenze e
capacità, solo per citarne alcune.
Approcci alle teorie sulla motivazione

A. Need theories e goal theories


 Nella forma classica, le need theories (teorie dei bisogni) assumono l’esistenza di
alcuni bisogni di tipo sia primario o fisiologico sia di tipo psicologico (come il bisogno
di conoscenza). Quando questi bisogni sono attivati le persone sono spinte a
ricercare le opportunità per soddisfarli; una volta che il bisogno è soddisfatto si
ristabilisce l’equilibrio interno.
 Le goal theories (teorie degli obiettivi) sostengono che la motivazione dipende dagli
obiettivi che il soggetto si propone di raggiungere; obiettivi chiari, specifici e sfidanti,
permetteranno di individuare e mettere in atto i comportamenti più idonei per
raggiungerli; pertanto, gli obiettivi indirizzano le azioni e gli sforzi di una persona in
una specifica direzione.
Approcci alle teorie sulla motivazione

B. Teorie del contenuto e teorie di processo.


 Le teorie di contenuto definiscono le cause che determinano scoraggiando o
promuovendo il comportamento di un individuo; studiano i bisogni che
agiscono dall’interno dell’individuo e gli incentivi che operano dall’esterno di
questo. Hanno un’impostazione di tipo statico, non spiegano in che modo una
persona raggiunge quello che per lei è importante né come il suo
comportamento si sviluppa nel tempo.
 Le teorie di processo, invece, si riferiscono al modo in cui il comportamento è
attivato, è scelto, mantenuto o cambiato ma non ne precisano le cause. Sono
orientate alla comprensione delle modalità con cui la persona interagisce con
il contesto, scegliendo e mantenendo una specifica strategia
comportamentale
Approcci alle teorie sulla motivazione

C. Kanfe suddivide tre diverse tipologie di approccio alla motivazione:

 Bisogni-motivi-valori. Comprende, tra le altre, la teoria della gerarchia dei


bisogni di Maslow, la teoria bifattoriale di Hertzberg e, più recente, la teoria
della motivazione al successo di McClelland. Ciò che accomuna queste teorie
è la centralità dei bisogni insoddisfatti nell’orientamento dei comportamenti. In
sintesi, quindi, la motivazione agisce grazie allo stimolo generato dal
desiderio di colmare i bisogni insoddisfatti.
Approcci alle teorie sulla motivazione

 Scelta cognitiva. A questo filone appartengono le teorie Aspettative x Valore, che fanno
riferimento, in particolare, agli studi di Vroom, Weiner , Raynor, Edwards, Lewin, Festinger
e Sears. Il costrutto di base asserisce che le persone scelgono tra diversi comportamenti
sulla base delle aspettative soggettive e della valutazione soggettiva delle conseguenze
attese associate a ciascuna alternativa d’azione.

 Autoregolazione. La teoria di riferimento è quella del goal setting, la quale asserisce che
la base della motivazione sta nella possibilità di definire obiettivi, di essere consapevoli di
questi obiettivi e di sapere come fare per raggiungerli. Infine, l’obiettivo deve essere
percepito come valido ed interessante. Bandura ha esteso questo modello, introducendo
la percezione di efficacia della propria azione, ovvero, tanto più alta è la percezione della
propria auto efficacia, tanto maggiore è la motivazione al conseguimento di un
determinato obiettivo.
Teorie Bisogni-motivi-valori
Maslow: la piramide dei bisogni
Herzberg: la teoria dei due fattori
McClelland: la motivazione al successo
Adams: la teoria dell’equità
Abraham Maslow e la piramide dei bisogni

Secondo Maslow la motivazione è funzione della soddisfazione di cinque categorie di


bisogni poste secondo un ordine gerarchico:
1) bisogni fisiologici (fame, sete),
2) di sicurezza (Protezione dai pericoli, dalle minacce e dalle privazioni;
appropriazione del territorio),
3) di affiliazione (socialità, affetto, accettazione, amore, gruppi sociali),
4) di stima (fiducia in se stessi, indipendenza, realizzazione. status, riconoscimento,
rispetto meritato dei colleghi),
5) di autorealizzazione (Senso della propria identità, sviluppo delle proprie
potenzialità; continuo sviluppo di se stessi).
Abraham Maslow e la piramide dei bisogni

 Vi sarebbe in base a tale teoria un ordine nella sequenza di tali bisogni, in


quanto la soddisfazione dei bisogni più primitivi è la condizione per l’emergere
dei bisogni più evoluti e complessi.
 Infatti i primi due ordini di bisogni sono definiti come “primari”, perché fanno
riferimento a bisogni di tipo biologico; sono soddisfatti in modo
sostanzialmente eguale da tutti gli uomini.
 Gli ultimi due ordini di bisogni sono definiti come “secondari”: sono afferenti
soprattutto alle interazioni tra gli uomini, pertanto sono condizionati da fattori
culturali, sociali e soggettivi.
Abraham Maslow e la piramide dei bisogni

Due principi fanno riferimento a questa scala gerarchica:


 Un bisogno soddisfatto cessa di essere motivante;
 Un bisogno non diventa motivante finché non è soddisfatto, almeno in
parte il bisogno di ordine inferiore.

Il limite della teoria Maslow è l’annullamento della realtà esterna a favore di


una ipotetica unidimensionalità interna nello sviluppo dell’individuo.
Abraham Maslow e la piramide dei bisogni
Abraham Maslow e la piramide dei bisogni

Questa teoria ha avuto molto seguito nell'ambito del management del secolo
scorso, ma presenta dei limiti evidenti:
 la piramide (o scala) dei bisogni di Maslow presuppone che tutti gli individui
condividano alla stessa maniera e con la stessa intensità i propri bisogni, a
prescindere a qualsiasi differenza relativa alla cultura o alla fase di vita in cui
l’individuo si trova;
 non viene in alcun modo considerata l’interazione tra l’individuo e l’ambiente
esterno;
 ha avuto poche verifiche empiriche.
Frederick Herzberg e la teoria dei due fattori

E’ una teoria di contenuto e di natura cognitiva, che mette in discussione l’assunto che la
motivazione si fondi su una gerarchia di bisogni.

L’autore distingue tra:


1. Fattori Igienici: fattori correlati alle caratteristiche dell’organizzazione, dunque correlati al
contesto e estrinseci; riguardano le condizioni esterne al lavoro, come l’ambiente fisico del
lavoro, la remunerazione, la condizione di sicurezza personale, la modalità di supervisione,
politiche e procedure d’impresa, relazioni interpersonali con i pari e i superiori.
2. Fattori Motivanti: sono correlati al contenuto del lavoro, e sono intrinseci; riguardano il
contenuto, la natura intrinseca del lavoro, la capacità di procurare una crescita di chi lavora; il
riconoscimento dei risultati raggiunti; i contenuti del lavoro; il livello di responsabilità; la
possibilità di promozione e avanzamento professionale. Permettono la soddisfazione dei
bisogni elevati di auto-realizzazione, che servono a motivare l’individuo e portano quindi alla
soddisfazione.
Frederick Herzberg e la teoria dei due fattori

Secondo Herzberg
“I fattori che determinano la soddisfazione nel lavoro sono separati e distinti dai
fattori che portano alla insoddisfazione nel lavoro. [...] Il contrario della
soddisfazione nel lavoro non è la insoddisfazione, ma l’assenza di
soddisfazione; e, in modo analogo, l’opposto della insoddisfazione non è la
soddisfazione bensì l’assenza di insoddisfazione nel lavoro”.
 Il modello di Herzberg non pone la soddisfazione e l’insoddisfazione ai due
poli opposti di uno stesso continuum, afferma piuttosto l’esistenza di due
continuum, uno presenta ai due poli l’insoddisfazione e assenza di
insoddisfazione; l’altro con ai due poli, rispettivamente l’assenza di
soddisfazione e la soddisfazione.
Frederick Herzberg e la teoria dei due fattori

La soddisfazione e insoddisfazione si muovono su due piani paralleli e non sono


l’una il contrario dell’altra.
Così i fattori igienici non possono creare soddisfazione lavorativa. Essi creano
insoddisfazione se sono assenti; se sono presenti, semplicemente riducono il
livello di insoddisfazione. Solo i fattori motivanti possono portare alla soddisfazione
Quindi, secondo la teoria dei fattori duali “igienici- motivanti”, fornire ai propri
dipendenti pulizia, fringe benefit e un programma di ferie ben organizzato serve a
ridurre il livello di insoddisfazione e a incoraggiare la permanenza all’interno
dell’organizzazione, ma non comporta un incremento nella motivazione o nella
prestazione.
I fattori motivanti sono invece correlati al livello di soddisfazione e di prestazione:
la loro presenza può incrementare sia l’una sia l’altra.
Frederick Herzberg e la teoria dei due fattori

Secondo Herzberg, non tutti gli uomini mirano alla propria autorealizzazione, ma si
accontentano di soddisfare bisogni più elementari. Esistono i ricercatori di motivazione e
quelli di igiene:
 I ricercatori di motivazione non cercano nel lavoro solo il benessere economico, la
sicurezza o la gradevolezza dei colleghi: essi cercano soprattutto una soddisfazione
intrinseca al lavoro, che soddisfi il loro bisogno di crescita psicologica.
 I ricercatori di igiene non si curano del piacere intrinseco dello svolgimento di un
lavoro ma sono reattivi piuttosto agli aspetti esterni all’esperienza lavorativa in sé,
come il salario percepito e le condizioni ambientali di lavoro;
Solo i ricercatori di motivazione possono provare una reale soddisfazione nel lavoro; i
ricercatori di igiene possono dichiararsi non insoddisfatti.
Anche questa teoria fu oggetto di molte critiche, perché formulata solo mediante analisi
di interviste condotte solo su due categorie di lavoratori: ingegneri e contabili.
David McClelland e la motivazione al successo

Per McClelland l’uomo avverte numerosi bisogni ma uno degli elementi critici nel
determinare i livelli individuali di prestazione è costituito dal bisogno di successo:
è il desiderio di fare le cose nel modo migliore, di ricercare e misurarsi con
situazioni di complessità crescente, di competere secondo uno standard di
eccellenza.
Successivamente, McClelland raffinò ulteriormente la sua teoria, distinguendo tre
tipi di bisogni (o motivazioni) fondamentali
1) Achievement (successo):
• Bisogno di realizzare e dimostrare competenza e padronanza.
• Responsabilità per la ricerca di soluzioni (attribuibilità dei risultati).
• Tendenza a fissare obiettivi impegnativi e ad assumere rischi calcolati.
• Desiderio di feedback chiari e diretti.
David McClelland e la motivazione al successo

La persona con alto bisogno di successo è desiderosa di svolgere bene il


proprio compito qualunque esso sia, è centrata sull’evoluzione personale, ama
una valutazione diretta e immediata delle sue prestazioni, spesso preferisce
lavorare da sola e il raggiungimento di una meta ha un valore intrinseco assai
più grande del guadagno economico.

Le persone con un basso bisogno di successo hanno poca fiducia nelle loro
capacità e diventano ansiose quando si imbattono in situazioni di possibile
insuccesso.
David McClelland e la motivazione al successo

2) Potere:
• E’ il Bisogno di controllare il proprio lavoro e quello degli altri; bisogno di avere
impatto, di essere influente.
• MacClelland intende bisogno di potere non come acquisizione di potere personale,
quando piuttosto come il desiderio di influenzare e controllare gli altri per far
sviluppate l’organizzazione nella quale si opera;
3) Affiliazione:
• E’ il bisogno di essere amati e accettati, di stabilire relazioni positive con le latre
persone.
• Le persone con alto bisogno di affiliazione preferiscono lavorare in gruppo, sono
più attente alla qualità delle relazioni sociali che non a vedersi riconosciuti meriti
professionali.
David McClelland e la motivazione al successo

 La teoria della motivazione di McClelland non prende in esame l’intera


gamma dei bisogni umani, ma considera rilevanti solo le motivazioni apprese
per
• il successo
• l’affiliazione
• il potere
 queste infatti vengono definite come i principali incentivi che regolano il
comportamento.
 Questi tre bisogni sono appresi e non innati; si combinano tra loro in modo
diverso da individuo a individuo, ma in modo che si verifichi una tendenziale
predominanza di uno di essi.
David McClelland e la motivazione al successo

 Le ricerche condotte con questo approccio indicano che i lavoratori con alto
bisogno di riuscita raggiungono più facilmente risultati di successo nel lavoro
e tendono ad inserirsi in contesti lavorativi che permettono loro di fare una
carriera brillante.

 Sulla base di questo approccio teorico sono stati realizzati interventi per
potenziare la motivazione dei lavoratori in modo da porre in relazione i profili
individuali con quei lavori che più facilmente permettono alle persone di
realizzare i loro bisogni.
La teoria dell’equità di Adams
Nel 1963 Adams elaborò la teoria dell’equità percepita

La teoria dell’equità applicata all’economia e al lavoro


Gli assunti principali della teoria dell’equità applicata al mondo del lavoro possono essere
riassunte come segue:
 I dipendenti si aspettano di ricevere un reddito equo, ossia proporzionato al contributo
che il loro lavoro offre all’organizzazione (equity norm)
 I dipendenti stabiliscono l’equità del trattamento ricevuto in base al confronto effettuato
tra il proprio contributo e i risultati ottenuti da una parte e dall’altra il contributo e i
risultati ottenuti dai loro colleghi (confronto sociale )
 I dipendenti che si percepiscono come in una situazione ingiusta cercheranno di ridurre
l'iniquità modificando input e/o output nelle loro menti ("distorsione cognitiva"), oppure
modificando input e/o output nella realtà, oppure abbandonando l'organizzazione (Carrell
e Dittrich, 1978)
La teoria dell’equità di Adams

Gli individui che vivono situazioni inique sono profondamente insoddisfatti.


 Secondo la teoria dell’equità, si sentono in difficoltà sia le persone che
pensano di essere ripagate “troppo poco” per il lavoro svolto sia quelle che
pensano di essere state ripagate “troppo”. Le prime possono provare senso di
umiliazione, rabbia; le seconde possono provare senso di colpa o di
vergogna.
 Le persone che si accorgono di vivere in un rapporto iniquo tentano di
eliminare il loro disagio, tramite il ripristino di una situazione di equità.
 Quanto più è alta la percezione di iniquità, tanto più alta sarà il disagio vissuto
e tanto più forti saranno gli sforzi per ripristinare una situazione di equità
(Walster, Traupmann e Walster, 1978)
La teoria dell’equità di Adams

Il concetto di equità si basa sul confronto dinamico e relativo che il soggetto compie tra
il proprio contributo (input) fornito all’organizzazione e i risultati che ottiene da questi
(outcome).
Tale confronto è dinamico perché le condizioni dello scambio sociale possono mutare
nel tempo, ma è soprattutto relativo poiché la valutazione avviene comparando il
rapporto outcome/input individuale con quello di un referente.
Tuttavia, gli elementi essenziali di tale rapporto risultano definiti socialmente e
soggettivamente o difficilmente identificabili e misurabili.
Il referente esterno è scelto dal soggetto, attraverso un processo non sempre razionale
e consapevole, ed è quindi difficilmente definibile qualora lo scambio entro confini ampi.
La natura sintetica della valutazione di input e outcome nascondono al suo interno
notevole varietà in termini di elementi soggettivamente considerati a numeratore e a
denominatore, nonché differenziali di ponderazione notevole.
La teoria dell’equità di Adams

La non equità, o inequità, può essere una “sotto-equità” (il rapporto è percepito come
inferiore rispetto al termine di paragone) o “sopra-equità” (la percezione di beneficiare di
un rapporto migliore) e porta a conseguenze come:
 Modifica degli input o dei risultati che causano un abbassamento del livello di
qualità/quantità della prestazione (ad esempio variando l’impegno lavorativo sia in
termini di aumento che di diminuzione);
 Modifica delle percezioni di reciprocità che portano a riconsiderare il valore e l’intensità
di input/output lavorativi (ad esempio cercando di ottenere maggiori riconoscimenti);
 Modifica dei referenti del confronto sociale (ad esempio cercando di screditarlo o di
sabotare la sua attività);
 Cambiamenti reali o psicologici (ad esempio chiedendo il trasferimento ad un altro
settore dell’organizzazione, oppure cambiando l’oggetto del confronto).
La teoria dell’equità di Adams
Secondo la teoria dell’equità formulata da Adams, la constatazione di un’iniquità determina
delle azioni per ristabilire l’equità. Tali azioni possono far variare la ratio del dipendente o
di quello di riferimento, possono cioè agire sulle componenti della contribuzione o della
retribuzione.
Per garantire ad ogni dipendente un trattamento equo, vengono messe in evidenza
quattro regole fondamentali:
1) Garantire ad ognuno una valutazione affidabile della propria contribuzione. Il
lavoro, il modo cui lo porta avanti e i risultati ottenuti sono tre componenti essenziali
della contribuzione del dipendente. Occorre fare attenzione a che cosa il dipendente
considera fondamentale per la valutazione del suo lavoro. E’ necessario anche porre
molta attenzione al "come" il modo di lavorare e i risultati ottenuti sono misurati,
attraverso un affidabile sistema di valutazione. La credibilità del sistema di
aggiornamento periodico delle valutazioni è fondamentale. La fiducia nelle procedure e
nelle persone che le applicano garantisce che ci sia anche la fiducia nella valutazione.
La teoria dell’equità di Adams

2) Offrire ad ogni dipendente tutte le possibilità di aumentare il proprio contributo


misurabile. Il dipendente accetta la valutazione del suo contributo se è persuaso di aver
beneficiato di buone condizioni per aspirare al livello voluto. Il dipendente è attento agli
sforzi dell’azienda per sviluppare le sue competenze, attraverso la formazione, il
coaching, l’accessibilità e la chiarezza delle mansioni, le capacità “tutoriali” del proprio
manager. Avere a propria disposizione mezzi adatti e funzionali, beneficiare di
programmi tecnologici sono considerate utili opzioni disponibili.
3) Esplicitare chiaramente le regole relative a contribuzione e retribuzione. Le regole
di determinazione di ogni componente della retribuzione devono essere conosciute. In
particolare, le modalità di determinazione degli elementi personalizzati, fissi o variabili,
monetari o meno, immediati o differiti, devono essere comunicate. Ogni dipendente deve
conoscere il legame tra aumento del suo contributo e aumento della sua retribuzione.
4) Rispettare le regole annunciate e garantire le retribuzione meritate. Occorre evitare
che gli impegni presi non possano essere mantenuti per eventi congiunturali.
La teoria dell’equità di Adams

Alcune ricerche dimostrano che le persone che si sentono in “sopra-equità”


interna agiscono principalmente sulla contribuzione. Ci tengono a
giustificare in questo modo la propria retribuzione per conservare tale beneficio.

Gli economisti hanno anche studiato gli effetti della “sopra-equità” esterna.
 Secondo la teoria del salario di efficienza formulata da Robert Solow,
riconoscere un salario superiore rispetto a quello di mercato accresce
l’impegno e la produttività dei dipendenti.
 La “sopra-equità” esterna ha un forte potere incentivante e può essere
opposta a percezioni di “sotto-equità” interna. Il dipendente che avverte una
“sotto-equità” interna agisce principalmente riducendo il suo contributo.
La teoria dell’equità di Adams

 Per ridurre i rischi legati a queste riduzione, può mettere in atto azioni
discrete e poco visibili (ridurre la qualità e non quantità, agire su quanto non è
controllato...) o non sanzionabile (fare solo “quello per cui si è pagati”: che
significa anche nessuna cooperazione, mancanza di iniziativa..).
 Questi stessi comportamenti/reazioni possono essere osservati non soltanto
tra persone, ma anche tra funzioni, gruppi o categorie. La “sotto-equità”
percepita dalla fabbrica verso i commerciali può condurre a una non-
cooperazione a scapito della benessere organizzativo e della soddisfazione
del cliente.
La teoria dell’equità di Adams

La Teoria dell’Equità ha diverse implicazioni pratiche.

a) I membri di un’organizzazione misurano in modo globale il loro contributo


all’organizzazione in relazione ai risultati ottenuti. Per questo motivo una
madre lavoratrice può accettare di ricevere un compenso inferiore monetario
in cambio di orari di lavoro più flessibili.

b) Ciascun membro di un’organizzazione adotta valori personali e differenti da


quelli adottati dagli altri membri, per valutare i propri input e output. Così, due
dipendenti di pari esperienza e qualifica, che svolgendo lo stesso lavoro per la
stessa paga possono avere percezioni tra loro molto diverse dell’equità di
questa condizione.
La teoria dell’equità di Adams

c) I dipendenti posso accettare differenze salariali, in base al confronto tra il potere


d'acquisto della loro retribuzione e le condizioni del mercato locale. Così un insegnante
di Bath può accettare un salario inferiore a quello di un suo collega di Londra se qui il
suo costo della vita è più alto.

d) Anche se può essere considerato accettabile che il personale con maggiore anzianità
o maggiore qualifica possa ricevere una retribuzione maggiore, la scala di valutazione
ha comunque dei limiti di applicazione; ad esempio i dipendenti possono valutare
come eccessivamente alta la retribuzione dei loro manager e sentirsi quindi demotivati.

e) Membri di un’organizzazione possono avere una percezione non completamente


corretta dei propri input e output. Queste valutazioni distorte devono essere affrontate
e gestite in modo efficace. Il lavoratore che ritiene di essere sovracompensato può
aumentare il suo impegno, ma può anche riadattare il valore che egli attribuisce al suo
input personale, interiorizzando un senso di superiorità e successivamente diminuire il
La teoria dell’equità di Adams
Dalla teoria dell’Equità si è sviluppata anche il costrutto della giustizia
organizzativa

Le tre componenti della giustizia organizzativa sono:


1. Giustizia Distributiva
La giustizia distributiva è concettualizzata come l'equità nella la distribuzione
delle risorse e nelle conseguenze delle decisioni organizzative. I risultati della
distribuzione delle risorse possono essere tangibili (come il salario) oppure
intangibili (come il riconoscimento della propria competenza professionale e
del lavoro svolto)
La teoria dell’equità di Adams
2. Giustizia procedurale
Si riferisce all'equità dei processi organizzativi. Consiste nella percezione di partecipare
nei processi organizzativi e che questi rispondano a criteri di coerenza, esattezza,
eticità, e l'assenza di pregiudizi (Leventhal, 1980).

3. Giustizia Interazionale
Si riferisce al trattamento che un individuo riceve sulle modalità con cui vengono prese
le decisioni; può essere promossa fornendo spiegazioni per le decisioni prese,
comunicandole con sensibilità e rispetto (Bies & Moag, 1986). Secondo Colquitt (2001)
la giustizia interazionale dovrebbe essere scomposta in due componenti: la giustizia
interpersonale e la giustizia informativa. La prima fa riferimento alle percezioni di
rispetto e di correttezza del proprio trattamento; la seconda fa riferimento all’
adeguatezza delle spiegazioni fornite in termini di tempestività, specificità e veridicità.
Teorie della scelta cognitiva
Rotter: il Locus of control

Heider: l’Attribuzione causale

Weiner: la Controllabilità delle cause

Vroom: la teoria dell’Aspettativa-Strumentalità-Valenza


Rotter e il locus of control

Rotter negli anni '50 ha messo a punto il costrutto del locus of control:

 una variabile psicologica, che fa riferimento a quanto l’individuo ritenga di


esercitare il controllo del proprio futuro e degli eventi.

 Secondo questa teoria il comportamento, in una determinata situazione,


dipende dall’aspettativa di raggiungere specifici risultati e al valore attribuito a
tali risultati.

 La dimensione Interno-Esterno è definita come una variabile di personalità


che viene misurata mediante una scala.
Rotter e il locus of control

 Un polo della dimensione è il locus interno: un soggetto con locus of


control "interno" è orientato a considerare il futuro come un effetto delle
proprie azioni e quindi una variabile su cui è possibile intervenire per
modificare il corso degli eventi. La persona considera se stessa come causa
del comportamento e sente di poterne controllare le circostanze.

 L’altro polo è formato dal locus esterno: il soggetto attribuisce


prevalentemente le cause di quanto accade al destino o agli altri o comunque
a forze esterne a sé.
Rotter e il locus of control
Effetti di un locus of control esterno
• Atteggiamento passivo di fronte agli eventi;
• percezione di imprevedibilità degli eventi;
• scarsa autonomia;
• dipendenza dagli altri o da forze esterne nella ricerca delle soluzioni ai problemi
incontrati;
• mancanza di una valutazione oggettiva delle possibilità di successo nella risoluzione
di un problema;
• percezione che le variabili esterne da controllare siano al di fuori delle proprie
capacità;
• sensazione di una forte o totale impotenza rispetto agli eventi;
• attribuzione dei propri esiti negativi al destino o agli altri;
• rapida perdita della motivazione.
Rotter e il locus of control
Effetti di un locus of control interno:
• proattività nella ricerca di soluzioni ai problemi;
• fiducia nella possibilità di affrontare e risolvere le difficoltà;
• sostanziale fiducia nella possibilità di raggiungere obiettivi impegnativi e ambiziosi;
• fiducia nelle proprie capacità e nella possibilità di accrescere le proprie competenze;
• costanza e tenacia nel perseguire i propri obiettivi;
• capacità di individuare strategicamente ulteriori possibili alternative nell’affrontare un
problema difficile.
Un locus of control interno, porta a conseguire sia migliori risultati oggettivi sia una
maggiore soddisfazione personale e professionale.
Le ricerche hanno evidenziato inoltre che un alto controllo interno comporta uno stile di
leadership più partecipativo e socio- emotivo, e di conseguenza, maggiore soddisfazione.
Heider e l’attribuzione causale

Secondo Heider (1958) le persone interpretano il comportamento proprio e


quello altrui stabilendo se la causa del comportamento risiede nella persona
che lo ha prodotto (cause interne) o nell’ambiente circostante (cause esterne)
o in ambedue.

L’attribuzione degli eventi a fonti causali è fondamentale per la nostra


comprensione dell’ambiente sociale, perché quando classifichiamo un
comportamento, lo facciamo in relazione alla causa che l’ha prodotto; di
conseguenza, descriviamo un comportamento di una persona in base a ciò
che inferiamo sui suoi desideri, motivazioni e intenzioni, sulla sua
consapevolezza riguardo a ciò che sta facendo, sulla sua abilità a farlo e sulle
costrizioni situazionali nelle quali sta agendo.
Heider e l’attribuzione causale

Le cause esterne sono: la fortuna e la difficoltà del compito;


Le cause interne sono: l’impegno e l’abilità.

L’attribuzione di causalità è strettamente collegata all’intenzionalità e alla


responsabilità: le persone, infatti, si sentono più responsabili quando sono in
grado di stabilire una relazione tra l’intenzione e un comportamento, così come
quando percepiscono di possedere le competenze per portare a termine
un’azione.

Heider applica la sua teoria nei contesti di giudizio legati alle prestazioni
scolastiche, ma successivamente la sua teoria verrà ripresa da Weiner e
applicata anche in altri contesti organizzativi.
Weiner e la controllabilità delle cause

Weiner (1985) considera l’attribuzione di causalità rispetto ad eventi positivi e


negativi determinante per le motivazioni.
Rispetto ad Heider, alla dimensione interna e quella esterna ne aggiunge una
terza: quella della controllabilità della causa.
Secondo Weiner l’esito di un comportamento, proprio o altrui, può essere
cognitivamente attribuito a quattro categorie causali:
• l’impegno,
Impegno e abilità sono spiegazioni interne e
• l’abilità, controllabili, mentre difficoltà del compito e
• la difficoltà del compito fortuna sono spiegazioni esterne e
• la fortuna. non controllabili
.
Weiner e la controllabilità delle cause
Ad esempio, il risultato ottenuto da un determinato studente può essere
determinato da:
• Una particolare attitudine (causa stabile e incontrollabile);
• Lo sforzo attuato (causa controllabile, può essere sia stabile sia instabile;
• La difficoltà del compito (stabile e incontrollabile);
• La fortuna (sia instabile sia incontrollabile).

Questo significa che le esperienze precedenti possono determinare le


aspettative relative ai risultati del comportamento futuro solo quando le cause di
tali esperienze sono attribuite a variabili stabili, interne e controllabili (ad
esempio, avrò risultati migliori se riterrò che la causa del mio successo è da
attribuire al mio impegno e non alla fortuna).
Weiner e la controllabilità delle cause

Inoltre, le dimensioni previste da Weiner consentono di prevedere anche le reazioni emotive


collegate ad un’attribuzione. Infatti, le reazioni emotive agli eventi sono precedute da una
valutazione cognitiva di quanto è accaduto o del risultato.
Ad esempio, se una persona ha raggiunto un risultato positivo e la causa (locus della causalità)
è interna, la reazione emotiva è l’orgoglio, mentre se il risultato negativo e la causa è esterna,
insorge la rabbia.

Il modello di Weiner è dinamico, ossia si focalizza sui cambiamenti attraverso il tempo: infatti, è
possibile analizzare come le attribuzioni causali influenzino le aspettative per il futuro e le
prestazioni del soggetto.
Ad esempio, la stabilità dell’attribuzione causale determina le aspettative verso il futuro.

Il limite delle teorie attribuzionali consiste nel trascurare le aspettative sul futuro come
determinanti della motivazione presente.
Vroom e la teoria dell’
“Aspettativa-Strumentalità-Valenza”
La teoria dell’“Aspettativa-Strumentalità-Valenza” (VIE: Valence-Instrumentality-
Expectancy) di Victor Vroom, ha un approccio fondato sulla dimensione della scelta
cognitiva.
Parte dal presupposto che l’uomo prende le decisioni in base a criteri razionali e con estrema
consapevolezza. Gli individui quindi sanno cosa desiderano dal lavoro e l’impegno che mettono
sul lavoro sarà determinante per il conseguimento degli esiti desiderati.
C’è una relazione stretta quindi tra l’impegno sviluppato e livello di performance.
L’attenzione è puntata sui meccanismi di elaborazione della condotta lavorativa, in funzione di
alcuni quesiti:
 Quanto è desiderabile un certo risultato e come posso ottenerlo?
 Cosa devo fare per ottenere un certo risultato in funzione di quali e quanti investimenti
personali?
 Che probabilità ho di ottenere determinati risultati che mi aspetto a fronte di un determinato
impegno?
Vroom e la teoria dell’
“Aspettativa-Strumentalità-Valenza”

Il modello di Vroom, che vuole spiegare il processo con il quale l’individuo


adotta una particolare strategia di azione fra le molte possibili, ritiene che la
motivazione a tenere un certo comportamento lavorativo dipende da:
 Risultati del lavoro (A): sono i risultati connessi con l’esperienza lavorativa,
come: un aumento di retribuzione, vedere riconosciuto e valorizzato il proprio
apporto, una promozione, un trasferimento, ecc.;
 La valenza (V): il valore che il singolo associa ad ognuno dei risultati
lavorativi. É definita come attrattiva o soddisfazione anticipata;
Vroom e la teoria dell’
“Aspettativa-Strumentalità-Valenza”
 La strumentalità (S): è la probabilità percepita che una prestazione tenuta porterà ad
un risultato atteso. Ad esempio: se il soggetto ritiene che un certo tipo di gratificazione
(es: aumento retributivo) è correlato ad un certo livello di prestazione, la strumentalità
associata al risultato atteso (retribuzione) sarà molto elevata; viceversa se il soggetto
notasse che un premio lavorativo non corrisponde un impegno maggiore, la
strumentalità associata sarà bassa. La strumentalità viene misurata come probabilità
percepita che quel determinato atto porti ad un certo risultato;
 L’aspettativa (A): è la credenza soggettiva che l’applicazione di un certo livello di
impegno porterà alla riuscita della prestazione. É la relazione tra impegno e
prestazione.
 La forza (F): misura il livello di motivazione ed è il prodotto della valenza, delle
strumentalità, e dell’aspettativa (F = A x S x V); questo rapporto è talmente stretto
da rendere nullo il livello di forza se si rivela nulla una delle tre variabili.
Vroom e la teoria dell’
“Aspettativa-Strumentalità-Valenza”
La teoria dell’aspettativa segue un percorso ben preciso:
il primo passo che porta alla motivazione è che alcuni risultati devono essere desiderati e attesi,
così da avere per l’individuo un certo grado di valenza.
L’altro passo è che la persona deve credere che esista qualche relazione tra prestazione
lavorativa e risultati attesi, cioè la strumentalità deve risultare elevata.
Se i risultati attesi non sono percepiti come connessi alla prestazione del lavoro ma ad altri
fattori, l’individuo sarà meno motivato ad impegnarsi professionalmente e, presumibilmente,
investirà la sue energie in maniera conseguente.
L’individuo, infine, dovrà percepire una relazione (aspettativa) tra il livello del suo impegno e il
miglioramento della prestazione.

Le critiche al modello di Vroom riguardano il mancato riconoscimento del ruolo svolto da


colleghi e superiori nella generare motivazione; inoltre, per alcuni soggetti il rapporto tra
valenza, aspettativa e strumentalità non è di tipo moltiplicatorio, ma di tipo sommativo
Teoria socio cognitiva
Bandura: la teoria dell’auto-efficacia
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia
(rielaborato, da Nota e Soresi, 2000)

Le teorie dell’apprendimento sociale


 integrano in modo interattivo gli effetti dei dati ambientali, delle emozioni e dei
processi cognitivi sul comportamento.
 Sottolineano il ruolo dei processi cognitivi nella capacità delle persone di
costruire la realtà, e di conseguenza di autoregolarsi, apprendendo e
mettendo in atto comportamenti adatti alle situazioni che si devono
fronteggiare.
 I comportamenti possono dunque essere acquisiti e cambiati in assenza di
un’esperienza diretta, come conseguenza della mediazione cognitiva.
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia
(rielaborato, da Nota e Soresi, 2000)

Importante è il concetto di autoregolazione, che comprende tre componenti


principali:
 l’auto-osservazione, cioè l’attenzione selettiva prestata dall’individuo a
specifici aspetti del proprio comportamento;
 l’autovalutazione, mediante la quale le persone confrontano il loro standard di
obiettivo desiderato con la prestazione svolta;
 le reazioni del sé, cioè le risposte interne che vengono poste in essere come
conseguenza dell’autovalutazione; sono risposte emotive tanto più intense e
rilevanti sul comportamento quanto più ampia è la discrepanza percepita tra
obiettivi e prestazione.
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia
(rielaborato, da Nota e Soresi, 2000)

Bandura ha esteso tale modello fino ad includervi un ulteriore meccanismo di


autoregolazione, la self-efficacy, che si riferisce all’aspettativa della persona di
riuscire con successo in una particolare attività.
La self-efficacy include la valutazione da parte della persona delle proprie abilità
e conoscenze nonché della propria adattabilità.
Più è forte la self-efficacy, maggiore è l’aspettativa che il comportamento sarà di
successo e più alto sarà il livello di performance: la persona che si aspetta di
realizzare un risultato desiderato farà uno sforzo maggiore e lotterà con
successo. Pertanto, i punteggi di self- efficacy sembrano essere buoni predittori
della performance.
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia
(rielaborato, da Nota e Soresi, 2000)

Le aspettative sull’efficacia riguardano le credenze sulle capacità dell’individuo


di organizzare e mettere in atto i comportamenti necessari per raggiungere un
determinato risultato.
L’auto-efficacia è la convinzione delle propria capacità di raggiungere un certo
livello di prestazione.
Deriva dalle convinzioni che la persona possiede a proposito delle proprie
capacità di produrre le azioni necessarie per gestire adeguatamente le
situazioni, in modo da raggiungere risultati prefissati e desiderabili.
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia
(rielaborato, da Nota e Soresi, 2000)

L’autoeficacia è stata definita come:


 “Credenze nutrite dalla persona a proposito delle proprie capacità di attuare i
comportamenti necessari per raggiungere i determinati risultati e obiettivi”
(Bandura, 1977);
 “Credenze delle persone a proposito delle proprie capacità di esercitare un
controllo sugli eventi che riguardano la vita” (Bandura, 1989);
 “Credenze nei confronti delle proprie capacità di aumentare i livelli di
motivazione, di attivare risorse cognitive e di eseguire le azioni necessarie
per esercitare un controllo sulle risorse di un compito” (Bandura, 1990)
 L’auto-efficacia non è una caratteristica stabile e generale della personalità,
ma è un forte predittore del comportamento e della performance.
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia
(rielaborato, da Nota e Soresi, 2000)

Le aspettative di auto-efficacia fanno riferimento al compito e si distingue dai


costrutti di autostima e dalle credenze relative a se stessi, che sono invece
valutazioni globali che il soggetto formula su di sé.
Infatti, ognuno di noi ha una rete molto articolata di convinzioni che vengono
regolate continuamente tenendo conto della qualità e del livello delle prestazioni
proprie e altrui.
L’autoefficacia si riferisce ai giudizi in merito alle capacità di eseguire
determinate attività, più che a qualità personali quali le caratteristiche fisiche
o i tratti psicologici;
Le convinzioni di autoefficacia sono multidimensionali (si riferiscono a ambiti
di funzionamento diversi)
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia
(rielaborato, da Nota e Soresi, 2000)

Le misure dell’autoefficacia
o sono contesto-dipendenti (contesto competitivo vs cooperativo,
o dipendono da un criterio di prestazione basato sul successo nel risolvere
un problema piuttosto che da criteri normativi.

 L’autoefficacia non è un predittore inerte delle prestazioni future; essa si


ripercuote sui processi di pensiero, sul livello e la persistenza della
motivazione e sugli stati affettivi, che contribuiscono in modo rilevante alle
prestazioni realizzate: le persone non provano neppure, se ritengono di non
essere capaci, ma quando sono convinte di esserlo il loro impegno e i loro
successi superano spesso ogni previsione
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia
(rielaborato, da Nota e Soresi, 2000)

 L’autoefficacia non riguarda il numero di abilità possedute, ma ciò che si


crede di poter fare con i mezzi a propria disposizione: le abilità possono
facilmente essere vanificate dai dubbi su di sé; persone piene di talento
fanno un uso inadeguato delle loro capacità quando le circostanze
indeboliscono la loro fiducia in se stesse

 L’autoefficacia non è una percezione generalizzata, ma varia da situazione


a situazione: la stessa persona può avere convinzioni di efficacia molto forti
rispetto ad alcuni domini e molto deboli rispetto ad altri. L’autoefficacia si
riferisce ai giudizi in merito alle capacità di eseguire determinate attività,
più che a qualità personali quali le caratteristiche fisiche o i tratti psicologici;
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia
(rielaborato, da Nota e Soresi, 2000)

Bandura, nel definire il concetto di auto-efficacia, individua tre dimensioni:


 Ampiezza: intesa come numero di compiti che una persona ritiene di poter
affrontare per gestire le situazioni problematiche;
 Generalità: ovvero il grado di estendibilità delle aspettative ad altri contesti;
fa riferimento a quanto l’ autovalutazione di efficacia rispetto a prestazioni
specifiche sono in grado di influenzare le credenze di autoefficacia in altri
compiti, azioni e situazioni, simili ai precedenti.
 Forza: ossia il livello di fiducia nelle propria capacitò di raggiungere con
successi un determinato obiettivo, nonostante le difficoltà. Aspettative forti
sopravvivranno più a lungo a feed-back negativi e aspettative deboli
porteranno l’individuo a desistere in un compito o in un’attività.
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia
(rielaborato, da Nota e Soresi, 2000)

L’auto-efficacia, così come viene percepita dal soggetto, influenza:


1. la scelta delle situazioni e degli obiettivi, perché il soggetto che si
percepisce capace investe maggiore energia nel loro raggiungimento. Le
persone intraprendono delle attività quando, in base ad una propria
autovalutazione, si giudicano capaci di poter fronteggiare una situazione; in
caso contrario si sentono intimorite e tendono ad abbandonare la situazione
ritenuta eccessivamente sfidante. Il soggetto che si valuta incapace di
raggiungere determinati obiettivi, tenderà ad evitarli, per prevenire il
fallimento e la conseguente percezione negativa di sé.
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia
(rielaborato, da Nota e Soresi, 2000)

L’auto-efficacia influenza:
2. il livello di motivazione con cui si affrontano compiti e obiettivi.
3. l’ampiezza degli sforzi che verranno impiegati nella messa in atto di
comportamenti appropriati al conseguimento di un risultato. Inoltre, influenza
la durata del tempo per cui tali sforzi verranno mantenuti, a dispetto degli
ostacoli e delle esperienze negative che si presentano.
4. L’autoefficacia attiva anche un potente meccanismo di autoregolazione:
l’insieme delle azioni di automonitoraggio che valutano la congruenza tra il
comportamento effettivo e quello atteso o previsto. Quando le attese sono
confermate dai fatti, il soggetto prova un senso di soddisfazione; quando, in
altre situazioni, gli esiti non sono positivi, il senso di autoefficacia sostiene la
persona nella ricerca di nuovi obiettivi perseguibili e di interesse per lui.
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia
(rielaborato, da Nota e Soresi, 2000)

5. L’autoefficacia influenza anche le aspettative del risultato, ossia la relazione tra il


comportamento e il risultato: i risultati attesi guidano le credenze personali di efficacia e
efficienza orientano le scelte individuali che, a loro volta, determinano i risultati.
Il fattore principale della formazione dell’auto-efficacia è costituito dal conseguimento di un esito
positivo nell’attività intrapresa. Per Bandura si può realizzare solo nel caso in cui il soggetto è
convinto che le sue abilità non sono degli attributi fissi ma delle capacità organizzate in vista
delle specifiche finalità.
Più in generale, i fattori che generano autoefficacia sono:
a. esperienze dirette dell’individuo;
b. esperienze indirette;
c. a seguito di input verbali;
d. stati di tensione emotiva.
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia
(rielaborato, da Nota e Soresi, 2000)

Persone con basso senso di efficacia:


1) Sono intimidite da attività “difficili” e se ne allontanano sentendosi
minacciate;
2) Hanno basse aspirazioni e scarso impegno nel raggiungere gli obiettivi
scelti;
3) Di fronte agli ostacoli riducono il proprio impegno e rinunciano facilmente;
4) Attribuiscono le prestazioni scadenti alla propria incapacità e dopo pochi
insuccessi perdono fiducia;
5) Sono facili preda dello stress e della depressione.
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia
(rielaborato, da Nota e Soresi, 2000)
Persone con alto senso di efficacia:
1) Affrontano compiti difficili come sfide, sono motivate e partecipi di ciò che fanno;
2) Nelle difficoltà intensificano il loro impegno appoggiandosi alle difficoltà
positivamente superate in passato;
3) Recuperano velocemente la propria auto-efficacia dopo gli insuccessi;
4) Attribuiscono l’insuccesso all’impegno insufficiente o alla mancanza di
conoscenze;
5) Hanno maggiori successi personali che riducono lo stress e la vulnerabilità.

Le aspettative di efficacia personale non solo permettono di predire il


comportamento dell’individuo - ma hanno anche un effettivo ruolo causale nel
determinare il comportamento dell’individuo.
Bandura e la teoria dell’auto-efficacia
(rielaborato, da Nota e Soresi, 2000)

Autostima bassa Aspettative negative

Circolo vizioso Scarso impegno

Senso di colpa

Ansia elevata
Fallimento
Il modello del Goal Setting e
Il management by objectives (MBO)
Locke e Latham: il modello del goal setting
Locke e Latham: il modello del goal setting

Per Locke gli obiettivi possono essere considerati le più forti determinanti
dell’azione in quanto attivano e sostengono il meccanismo mediante il quale gli
stati motivazionali sono tradotti in azione; gli obiettivi sono, pertanto, i precursori
dell’azione.

L’obiettivo è uno dei costrutti principali degli approcci di autoregolazione in


quanto corrisponde ad una precisa determinante dell’azione; gli obiettivi in
qualsiasi modo siano scelti, rappresentano i fattori di attivazione e di sostegno
degli stati motivazionali e della loro traduzione in sequenze di azione finalizzata.
Locke e Latham: il modello del goal setting
A Locke si deve l’elaborazione del modello del goal setting che si è
rapidamente diffuso negli ultimi anni e che ha generato numerose ed
interessanti applicazioni nei diversi contesti lavorativi.
 Il termine goal setting si può tradurre come definizione degli obiettivi e
indica una teoria motivazionale che consente una combinazione tra l’analisi e
la diagnosi della realtà, tipiche della riflessione teorica e dell’applicazione
pratica attraverso concrete modalità di intervento nei contesti lavorativi.
 E’ contemporaneamente una teoria ed una tecnica motivazionale; costituisce
una teoria cognitiva della motivazione fondata sulla premessa che le persone
hanno bisogni che possono essere pensati come risultati o obiettivi specifici
che le persone sperano di ottenere.
Locke e Latham: il modello del goal setting
 Da ciò deriva l’ipotesi che il comportamento umano sia intenzionale e che gli
obiettivi dirigano e sostengano le energie degli individui verso la
realizzazione di una particolare azione.
 Il goal setting è, inoltre, ritenuto fondamentale per molti piani di valutazione
della prestazione in quanto rappresenta un metodo per dirigere gli sforzi
individuali nel lavoro e per fornire uno standard rispetto al quale valutare
la prestazione stessa.
 E’ frequentemente legato ai sistemi di ricompensa usati nelle aziende ed è
applicato in molti programmi di formazione e sviluppo.
 Per avere un forte impatto motivazionale gli obiettivi non devono essere né
troppo facili, né difficili, ma chiari e sfidanti.
Il management by objectives (MBO)

 Il MBO, ossia la gestione per obiettivi, è stato delineato nel 1954 da Peter
Drucker nel suo libro “The Practice of Management” e sviluppato negli Stati
Uniti sul finire degli anni cinquanta in ambito strettamente aziendale, dove è
ancora largamente utilizzato (General Motors, Du Pont, General Electric).
 Nato inizialmente come metodo innovativo per valutare le prestazioni
manageriali, è diventato un vero e proprio sistema di management.
 L’MBO prevede che le prestazioni individuali e di gruppo parte siano misurate e
valutate rispetto al raggiungimento di obiettivi precedentemente stabiliti in forma
partecipativa e condivisa tra i soggetti che partecipano alla valutazione stessa.
 Questo meccanismo mira a promuovere l’assunzione di responsabilità nella
definizione e nel raggiungimento degli obiettivi stessi.
Il management by objectives (MBO)
L’MBO è:
 un approccio sistemico alla gestione dell’organizzazione;
 un sistema direzionale che prevede il coinvolgimento dell’intero staff direttivo
nell’individuazione (e nella definizione dettagliata) di una precisa gerarchia di
obiettivi organizzativi e nella formalizzazione dei piani e dei programmi
necessari al loro conseguimento;
 un processo secondo il quale in un determinato contesto organizzativo (sia
pubblico che privato), i manager di ciascun livello collaborano
all’identificazione e definizione degli obiettivi comuni e delle principali aree di
responsabilità di ciascun individuo in termini di risultati desiderati e utilizzano
queste misure come guida per la gestione dell’organizzazione e per la
valutazione del contributo dei suoi singoli membri.
Il management by objectives (MBO)

In sintesi l’MBO è un sistema che mira


• a far funzionare la struttura (gerarchica) organizzativa e
• a stimolare una maggiore partecipazione, un maggiore coinvolgimento
personale in chi fa parte di tale organizzazione,
attraverso una metodologia che presuppone che il processo decisionale
dell’organizzazione sia articolato in diversi livelli, corrispondenti ai livelli
secondo cui la stessa organizzazione è strutturata ed a ciascun livello esistano
dei decisori in grado di determinare le soluzioni migliori (al proprio livello) con
determinati gradi di autonomia.
Il management by objectives (MBO)

Un altro modello processuale è la teoria del goal setting (conseguimento degli


obiettivi), vera e propria tecnica motivazionale all’interno del Management by
Objectives MBO.
Ideata da Edwin Locke, questa teoria si basa sul costrutto di obiettivo (goal).
Locke spiega il comportamento in funzione delle capacità di autoregolazione
della mente umana, che fissa i propri scopi e ne sostiene il raggiungimento
grazie a processi di attivazione delle energie necessarie.
Gli obiettivi dunque sono precursori dell’azione, perché innescano un
meccanismo che trasforma gli stati motivazionali in azione.
Il management by objectives (MBO)
Gli obiettivi sono fattori cognitivi che hanno la capacità di influenzare in modo
potente il comportamento lavorativo perché:
• Orientano l‘azione e aiutano a mantenere alto il livello di attenzione alle
prestazioni;
• canalizzano le risorse personali;
• facilitano la modulazione delle energie impiegate nello svolgimento del
compito;
• aumentano la persistenza dell’impegno;
• promuovono l’individuazione delle strategie più idonee a raggiungere i
risultati attesi.
Il management by objectives (MBO)
Le caratteristiche fondamentali che deve possedere l’obiettivo per motivare
all’azione efficace sono due:

1. deve essere impegnativo. Gli obiettivi difficili sono stimolanti conducono a


prestazioni più elevate rispetto a quelli facili. Le persone normalmente
adattano il proprio sforzo alle difficoltà del compito e perseverano
maggiormente nei compiti difficili;
2. deve essere specifico. Gli obiettivi specifici portano a prestazioni più
elevate rispetto a obiettivi vaghi del tipo “devi fare del tuo meglio” o “ devi
impegnarti al massimo” o alla mancanza di obiettivi.
Il management by objectives (MBO)
Nella relazione tra obiettivo e prestazione di successo entrano in gioco diversi fattori:
1. l’impegno del soggetto verso il raggiungimento dell’obiettivo (dipende da quanto
l’obiettivo è ritenuto desiderabile e accessibile; la desiderabilità è influenzata dall’autorità
del capo, dal gruppo dei pari, dall’intensità dell’obiettivo; l’accessibilità è influenzata
dalla difficoltà del compito in sé, dall’auto-efficacia e dall’intensità dell’obiettivo);
2. l’abilità o le abilità del soggetto (valutazione oggettiva di capacità elevate realmente
possedute dal soggetto);
3. il feedback ricevuto (le informazioni di ritorno sulle proprie azioni e strategie aiutano a
valutare se si è raggiunto lo standard atteso o se bisogna riaggiustare il tiro);
4. la cultura organizzativa e i vincoli situazionali (cultura del compito vs cultura
dell’obiettivo);
5. l’auto-efficacia personale percepita (convinzione di riuscire ad utilizzare con successo le
proprie abilità e di mettere in atto strategie adeguate agli obiettivi).
Il management by objectives (MBO)

Perché gli obiettivi influenzino le performance, è necessario che gli individui ne


siano consapevoli e sappiano cosa fare per raggiungerli e che il goal venga
accettato come qualcosa per cui valga la pena impegnarsi.
Se sprovvisti di queste caratteristiche gli obiettivi possono non essere fatti
propri, perché considerati troppo difficili o, viceversa, troppo facili; o ancora,
perché non si è riusciti a stabilire la strategia migliore per raggiungerli.
La motivazione è massima quando gli obiettivi sono raggiungibili e di
conseguenza, prestazione e attivazione crescono.
Al variare della difficoltà degli obiettivi (troppo facili o troppo difficili) tutte le
variabili diminuiscono.
Il management by objectives (MBO)

Un valore che influenza la prestazione lavorativa è quanto l’individuo si senta


legato e coinvolto all’obbiettivo, cioè quanto lo sente suo.
Il termine goal commitment sta ad indicare questo tipo di legame, cioè la
propensione dell’individuo a impegnarsi per raggiungere un obbiettivo, e la non
volontà di attenuare lo sforzo o abbandonare l’azione. Questo impegno risulta
maggiore quando le persone hanno grandi aspettative sull’efficacia del proprio
agire e quando la persona che pone l’obiettivo è vista positivamente.
Se una persona si percepisce come incapace di dare sostegno, il goal
commitment risulterà molto inferiore. La partecipazione ad obiettivi resi pubblici,
esplicitati, genera, invece, un coinvolgimento maggiore.
Organizational Commitment
Organizational Commitment

Con questo termine si intendono quei comportamenti individuali o di gruppo che


identificano un impegno, un senso di responsabilità e di dovere verso
l’organizzazione.
Bisogna distinguere tra organizational commitment e job involvement.
• Il job envolvement è l’attaccamento al proprio lavoro
• l’organizational commitement è l’attaccamento tra lavoratore e azienda.

Per descrivere il concetto di commitment si può fare ricorso all’idea di fedeltà:


la forza del lavoratore di identificarsi e di farsi coinvolgere dalla propria
organizzazione.
Organizational Commitment

È ormai uso comune, per medie e grandi imprese soprattutto, organizzare delle
vere e proprie vacanze “premio” per i propri dipendenti migliori, o meeting
aggregativi per stimolare la fidelizzazione, facendo in modo di non legare
l’immagine dell’organizzazione solo ad aspetti lavorativi ma anche a riposo e
merito, così da far sentire i lavoratori parte di un organismo “familiare”,
permettendo ai dipendenti di lavorare più serenamente e all’azienda di avere
maggiori introiti.
Così facendo il lavoratore sviluppa attrattiva e credenza nei valori della propria
organizzazione.
Organizational Commitment
I fondamenti del commitment sono tre:
1) Senso di appartenenza all’organizzazione;
2) Senso di piacere nel lavoro;
3) Fiducia nel management.
In questo modo il coinvolgimento è direttamente collegato al concetto che la
persona ha di se stessa e con il grado con cui essa ritiene importante il proprio
ruolo di lavoratore in rapporto agli altri ruoli che egli occupa nella vita.
Il coinvolgimento nel lavoro è un concetto multidimensionale e può essere
definito come il grado secondo il quale l’individuo si ritrova nel compito
assegnatogli, intende essere attivo e considera le sue attività professionali
come importanti per lui.
Organizational Commitment
 Analizzando vari approcci, Mowday, Porter e Steers hanno elaborato una classificazione
proponendo una distinzione fra due tipi di commitment: il behavioral commitment e
l’attitudinal commitment. Questi Autori hanno formulato una tra le definizioni più
accreditate relative all’attitudinal commitment: “uno stato di identificazione e di
coinvolgimento di un individuo con una determinata organizzazione e con i suoi obiettivi,
nonché il desiderio di continuare ad appartenere ad essa al fine di facilitarne il
raggiungimento degli obiettivi stessi”
 Altri studi hanno messo in evidenza diverse elaborazioni di organizational commitment,
ognuna delle quali riconducibile ad uno dei seguenti temi generali:
 affective commitment: attaccamento affettivo o emozionale all’organizzazione di
appartenenza, identificazione con essa, condivisione dei suoi valori e regole;
 continuance commitment: percezione della convenienza (in termini di valutazione costi-
benefici) a restare nell’organizzazione;
 normative commitment: obbligo morale verso l’organizzazione.
Organizational Commitment

L’approccio del commitment come attaccamento affettivo è quello prevalente


nella letteratura sull’organizational commitment.
Da quanto detto finora l’organizational commitment sembra avere solo aspetti
positivi sia per l’azienda che per il lavoratore, ma per Avallone
“[è] una delle principali conseguenze dell’insoddisfazione lavorativa. Non tutte le
persone trasformano in comportamenti manifesti il proprio stato d’animo: molti
per serietà professionale, per assenza di alternative reali, perché non sempre è
facile riprogettarsi, vivono in silenzio l’insoddisfazione sul lavoro ma amplificano
la separazione tra se stessi e l’organizzazione.[...]
Organizational Commitment

Una forte identificazione con l’organizzazione può generare, paradossalmente,


forti sentimenti di insoddisfazione, [...], con insopportabili vissuti di perdita e di
distruzione da parte degli interessati [...]. Molte persone sperimentano questi
ultimi sentimenti di distacco [...], specialmente coloro che avevano trovato nella
realtà organizzativa il motivo principale di riconoscimento sociale o l’area
privilegiata o addirittura esclusiva di appartenenza e di realizzazione”
(Avallone).

Quindi l’attaccamento all’organizzazione è utile solo se questa è capace di non


tradire la fiducia che il dipendente ha riposto in lei, al contrario il dolore del
distacco o del cambiamento può essere insopportabile da sostenere.

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