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Raniero Cantalamessa

Obbedienza

1
Collana Frammenti
Immagine di copertina: Caravaggio (attr.),
Il sacrificio di Isacco (1603ca)

© 2008 Àncora S.r.l.


Àncora Editrice
Via G.B. Niccolini, 8 - 20154 Milano
editrice@ancoralibri.it
www.ancoralibri.it
ISBN 978-88-514-1440-5
Prima edizione digitale: giugno 2014

2
I
Un rinnovamento
dell’obbedienza «nello Spirito»

Il capitolo 13 dell’epistola ai Romani si


apre con un celebre testo sull’obbedienza:
«Ciascuno – dice – stia sottomesso alle
autorità costituite, poiché non c’è autorità
se non da Dio e quelle che esistono sono
stabilite da Dio. Quindi chi si oppone
all’autorità, si oppone all’ordinamento
voluto da Dio» (Rm 13, 1 s). Il seguito del
brano, in cui si parla della spada e dei
tributi, come pure il confronto con altri testi
del Nuovo Testamento (cf Tt 3, 1; 1 Pt 2,
13-15), indicano con tutta chiarezza che
l’Apostolo non parla qui dell’autorità in
genere, o di ogni autorità, ma
esclusivamente dell’autorità civile e statale.
Intende dare ai cristiani delle direttive circa

3
il loro corretto inserimento nel mondo
esterno, in cui sono chiamati a vivere la
loro vocazione. Ci sono traduzioni moderne
molto autorevoli della Bibbia (come quella
recente tedesca, fatta congiuntamente dalle
Chiese cattolica e luterana), che precisano
opportunamente questo senso del testo,
traducendo: «Ognuno presti la debita
obbedienza ai rappresentanti dell’autorità
statale, poiché non c’è autorità statale che
non venga da Dio». Del resto, così era
inteso, questo testo, all’inizio, dai Padri
della Chiesa, quando era ancora in atto
l’autorità politica alla quale san Paolo si
riferiva1, anche se poi lo si è volentieri
esteso, di fatto e in pratica, a ogni autorità,
fino a farne, in molti manuali, il
fondamento stesso e, per così dire, la
«magna charta» dell’obbedienza cristiana.
Anche, però, limitato all’autorità statale,
il testo paolino non ha mai cessato di
inquietare profondamente tutti quelli che
hanno cercato di prenderlo sul serio e di
trarne le debite conseguenze, soprattutto
dopo che Lutero fondò su di esso la teoria

4
dei «due regni» che mette, in pratica, il
potere civile sullo stesso piano della Chiesa,
come uno dei due modi – diversi, ma di pari
dignità – con cui Dio governa e regge
direttamente le cose del mondo. Così inteso,
infatti, il testo di Romani 13 crea quello che
è stato chiamato il «fatale punto di
compromesso della fede con questo
mondo»2 e apre la strada a quella sorta di
metafisica dello stato che ha portato,
spesso, in epoca moderna, a idealizzare e
assolutizzare, con conseguenze nefaste,
l’autorità statale. Come si può affermare
che «ogni autorità» statale è istituita da Dio,
che opporsi ad essa è opporsi a Dio, senza,
con ciò, arrestare di colpo, o rendere
incomprensibile, tutto il corso della storia e
l’agire stesso dei cristiani fino ai nostri
giorni? E poi come conciliare questa
visione con quella, altrettanto autorevole, di
Apocalisse 13, dove, della stessa realtà
statale «di fatto esistente» (che è l’impero
di Roma), si dice, con chiarezza, che deriva
il suo potere da Satana? Non si conferisce,
in tal modo, all’autorità secolare – anche

5
quando si concepisce, essa stessa, senza
Dio, o contro Dio – una pericolosa base
religiosa, che vincola le coscienze e di cui
essa può fare un uso assai pericoloso? È
divenuta ormai notizia di ogni giorno quella
di funzionari di regimi politici che, una
volta condotti in giudizio, giustificano
omicidi, torture e vessazioni di ogni genere
con il fatto di avere obbedito alle «autorità
superiori».
In realtà, sono convinto che non si viene
assolutamente a capo di questa difficoltà, se
non si considera il brano di Paolo alla luce
di ciò che egli ha detto, dell’obbedienza, in
precedenza e se si fa di esso il fondamento
dell’obbedienza, anziché – come è in realtà
– un caso particolare nell’ambito di un’altra
obbedienza ben più essenziale che è
«l’obbedienza al Vangelo». Dobbiamo
perciò comprendere l’obbedienza cristiana a
partire da altre premesse che sono quelle
che – vedremo – permettono poi di
comprendere anche questo famoso testo.
C’è infatti un’obbedienza che riguarda
tutti – superiori e sudditi, religiosi e laici –

6
che è la più importante di tutte, che regge e
vivifica tutte le altre, e questa obbedienza
non è l’obbedienza «dell’uomo all’uomo»,
ma l’obbedienza dell’uomo a Dio. Ed è
questa obbedienza che vogliamo scoprire, o
riscoprire, alla scuola di san Paolo e di tutta
la Bibbia. L’obbedienza a Dio è come «il
filo dall’alto» che regge la splendida tela
del ragno appesa a una siepe. Scendendo
giù per quel filo, che egli stesso produce, la
bestiola ha costruito tutta la sua tela, che
ora è perfetta e tesa a ogni angolo. Tuttavia
quel filo dall’alto che è servito a costruire la
tela non viene troncato una volta terminata
l’opera, ma resta. Anzi, è esso che, dal
centro, sorregge tutto l’intreccio; senza di
esso tutto si affloscia. Il ragno si dà da fare
per riparare velocemente la sua tela, se
toccata in uno qualsiasi dei suoi punti
laterali, ma appena viene tagliato quel filo
dall’alto si allontana, come se non ci fosse
ormai più nulla da fare. Avviene qualcosa di
simile a proposito della trama delle autorità
e delle obbedienze in una società, in un
ordine religioso, nella Chiesa. L’obbedienza

7
a Dio è il filo dall’alto: tutto si è costruito a
partire da essa; ma essa non può essere
dimenticata neppure dopo che è finita la
costruzione. In caso contrario, tutto si
ripiega su se stesso e si slega.
Occorre fare, a proposito dell’obbedienza,
una ricapitolazione, cioè – secondo il senso
classico dato a questa parola da sant’Ireneo
– «riprendere le cose alla loro origine e
ricondurle all’unità». Sant’Ireneo ci è di
grande aiuto in questo tentativo. Egli
dimostra una particolare sensibilità per il
tema dell’obbedienza e ha, nello stesso
tempo, il vantaggio di collocarsi di fronte
alla Scrittura con occhi, per così dire,
vergini, senza il filtro di quelle
interpretazioni e deduzioni particolari
sull’obbedienza che verranno in seguito.
Egli rappresenta lo stadio più antico della
Tradizione sull’obbedienza, quello più
vicino alla sorgente. Sono infinite, infatti, le
forme e le caratterizzazioni che
l’obbedienza ha assunto, in seguito, nella
vita della Chiesa. C’è stata un’obbedienza
ecclesiastica e un’obbedienza monastica;

8
all’interno di quest’ultima, c’è stata
un’obbedienza di stampo basiliano, una di
stampo pacomiano, benedettino... Nel
medioevo, si distinguono un’obbedienza
francescana, connessa con la povertà, che
insiste sull’aspetto di rinnegamento della
propria volontà, e un’obbedienza
domenicana, più aperta all’apostolato, che
fa leva maggiormente sul «bene comune»
che si raggiunge con l’unione delle volontà.
Con sant’Ignazio di Loyola, si è accentuato,
in epoca moderna, il radicalismo
dell’obbedienza («cieca, come cadavere»).
Attualmente, dopo il Concilio, si parla
volentieri di obbedienza responsabile,
dialogata, o caritativa. Sono state, nel loro
ambiente e nel loro tempo, tutte espressioni
autentiche della vitalità della Chiesa e
hanno prodotto una fioritura meravigliosa
di opere e di santità. Ma come in febbraio-
marzo l’albero da frutto viene potato dei
rami della precedente stagione, anche se
buona, e ridotto al solo tronco o poco più,
perché la linfa si raccolga e l’albero sia
pronto a una nuova fioritura in primavera,

9
così, a ogni svolta nella vita della Chiesa,
bisogna rimettere a nudo la parola di Dio,
per rendere possibile una nuova primavera e
una nuova stagione di frutti.
Le immagini della potatura e della nuova
primavera («novum ver») non sono mie; le
ha usate, per primo, papa Paolo VI, nel
discorso di apertura del secondo periodo
conciliare3. Ma una primavera spirituale
non può avvenire che per opera dello
Spirito Santo e infatti l’immagine della
«nuova primavera» non fa che riprendere
l’idea cara a papa Giovanni XXIII di una
«novella Pentecoste» per la Chiesa. È lo
Spirito Santo che «rinnova la faccia della
terra». «Come per il soffiare del tiepido
vento Favonio – diceva un Padre della
Chiesa –, a primavera, i prati germogliano
ovunque, olezzando di fiori..., così per
l’operazione miracolosa dello Spirito Santo,
nascono i bellissimi fiori della Chiesa»4.
Nella ricorrenza del XVI centenario del
concilio ecumenico Costantinopolitano I –
il concilio che definì la divinità dello
Spirito Santo –, il papa Giovanni Paolo II

10
ha scritto, con profonda verità, che «tutta
l’opera di rinnovamento della Chiesa, che
il concilio Vaticano II ha così
provvidenzialmente proposto e iniziato...
non può realizzarsi se non nello Spirito
Santo, cioè con l’aiuto della sua luce e della
sua forza»5.
Questo principio vale anche per il
rinnovamento dell’obbedienza. È stato
scritto che, «se c’è un problema
dell’obbedienza oggi, esso non è quello
della docilità diretta allo Spirito Santo – alla
quale, anzi, ognuno mostra di appellarsi
volentieri –, ma è piuttosto quello della
sottomissione a una gerarchia, a una legge e
a un’autorità umanamente espresse»6. Sono
convinto anch’io che sia così. Ma è proprio
per rendere possibile e fiorente di nuovo
questa obbedienza concreta alla legge e
all’autorità visibile che dobbiamo ripartire
dall’obbedienza a Dio e al suo Spirito.
S’intende, da una vera obbedienza allo
Spirito, non da una solamente presunta tale,
che lascerebbe, effettivamente, le cose
come prima. Non si rinnova infatti

11
l’obbedienza con la legge, ma con la grazia;
non con la lettera, ma con lo Spirito.
Venendo nel mondo, Gesù non rinnovò
l’obbedienza umana rinforzando o
perfezionando le leggi già esistenti – pur
facendo anche questo –, ma donando, a
Pentecoste, una legge nuova e interiore,
realizzando la profezia che dice: «Porrò il
mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere
secondo i miei statuti e vi farò osservare e
mettere in pratica le mie leggi» (Ez 36, 27).
È lo Spirito dunque – cioè la grazia – che
solo può dare all’uomo, insieme con il
comando, anche la capacità di obbedire
«agli statuti e alle leggi». È allo Spirito,
perciò, che ci affidiamo, perché ci conduca
per mano nel cammino che stiamo per
intraprendere, per riscoprire il grande
segreto dell’obbedienza.

Note
1 Cf Ireneo, Contro le eresie, V, 24, 1-4; Origene,
Commento alla Lettera ai Romani (PG 14, 1226).
2 M. Dibelius, Obrigkeit? Eine Frage [Autorità? Una
domanda], Berlino, 1959.

12
3 AAS 55 (1963) 850 ss.
4 Cf Zeno di Verona, Trattati, I, 33 (CCL 22, p. 84).
5 Giovanni Paolo II, Lettera apostolica “A concilio
Costantinopolitano I”, in AAS 73 (1981) 521.
6 M.-J. Nicolas, in «Seminarium» 19 (1967) 489.

13
II
L’obbedienza di Cristo

È relativamente semplice scoprire la


natura e l’origine dell’obbedienza cristiana:
basta vedere in base a quale concezione
dell’obbedienza Gesù è definito, dalla
Scrittura, «l’obbediente». Scopriamo subito,
in questo modo, che il vero fondamento
dell’obbedienza cristiana non è un’idea di
obbedienza, ma è un atto di obbedienza;
non è un principio («l’inferiore deve
sottostare al superiore»), ma un evento; non
è fondato su un «ordine naturale costituito»,
ma fonda e costituisce, esso stesso, un
nuovo ordine; non si trova nella ragione (la
«recta ratio»), ma nel kerigma, e tale
fondamento è che Cristo si «è fatto
obbediente fino alla morte» (Fil 2, 8); che
Cristo «imparò l’obbedienza dalle cose che

14
patì e, reso perfetto, divenne causa di
salvezza per tutti coloro che gli
obbediscono» (Eb 5, 8-9). Il centro
luminoso, da cui prende luce tutto il
discorso sull’obbedienza nell’epistola ai
Romani, è Rm 5, 19: «Per l’obbedienza di
uno solo tutti saranno costituiti giusti».
L’obbedienza di Cristo è la fonte immediata
e storica della giustificazione; le due cose
sono strettamente connesse. Chi conosce il
posto che occupa, nell’epistola ai Romani,
la giustificazione, può conoscere, da questo
testo, il posto che vi occupa l’obbedienza!
Per il Nuovo Testamento, l’obbedienza di
Cristo non è solo il più sublime esempio di
obbedienza, ma è il suo fondamento. Essa è
la «costituzione» del regno di Dio!
Cerchiamo di conoscere la natura di
quell’«atto» di obbedienza su cui è fondato
il nuovo ordine; cerchiamo di conoscere, in
altre parole, in che è consistita l’obbedienza
di Cristo. Gesù, da bambino, obbedì ai
genitori; poi, da grande, si sottomise alla
legge mosaica, al Sinedrio, a Pilato... Ma
san Paolo non pensa a nessuna di queste

15
obbedienze; pensa invece all’obbedienza di
Cristo al Padre. L’obbedienza di Cristo,
infatti, è considerata l’esatta antitesi della
disobbedienza di Adamo: «Come per la
disobbedienza di uno solo tutti sono stati
costituiti peccatori, così anche per
l’obbedienza di uno solo tutti saranno
costituiti giusti» (Rm 5, 19; cf 1 Cor 15,
22). Anche nell’inno dell’epistola ai
Filippesi l’obbedienza di Cristo «fino alla
morte e alla morte di croce» è contrapposta
tacitamente alla disobbedienza di Adamo
che volle farsi «eguale a Dio» (cf Fil 2, 6
ss). Ma a chi disobbedì Adamo? Non certo
ai genitori, all’autorità, alle leggi...
Disobbedì a Dio. All’origine di tutte le
disobbedienze c’è una disobbedienza a Dio
e all’origine di tutte le obbedienze c’è
l’obbedienza a Dio. San Francesco dice che
la disobbedienza di Adamo è consistita
nell’appropriarsi della sua volontà:
«Mangia dell’albero della scienza del bene
e del male chi si appropria della sua
volontà»7. Si capisce, per contrasto, in che
cosa è consistita l’obbedienza del nuovo

16
Adamo. Egli si è espropriato della sua
volontà, si è svuotato (ekénosen): «Non sia
fatta la mia, ma la tua volontà», ha detto al
Padre (Lc 22, 42); e ancora: «Non sono
venuto per fare la mia volontà, ma la
volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 6,
38).
Sant’Ireneo interpreta l’obbedienza di
Gesù, alla luce dei carmi del Servo, come
una interiore, assoluta sottomissione a Dio,
realizzata in una situazione di estrema
difficoltà: «Quel peccato – scrive –, che era
sorto per opera del legno, venne abolito per
opera dell’obbedienza del legno, poiché,
obbedendo a Dio, il Figlio dell’uomo fu
inchiodato sul legno, distruggendo la
scienza del male e introducendo e facendo
penetrare dentro il mondo la scienza del
bene. Il male è disobbedire a Dio, come
l’obbedire a Dio è il bene. Perciò dice il
Verbo, per opera di Isaia profeta: “Io non
mi ribello e non contraddico. Ho offerto il
mio dorso per le percosse e le mie guance
per gli schiaffi e non ho scansato il mio
volto dall’obbrobrio degli sputi” (Is 50, 5-

17
6). Dunque, per virtù di quell’obbedienza
che prestò sino alla morte, pendente dal
legno, dissolse quell’antica disobbedienza
avvenuta nel legno»8. L’opposizione
«disobbedienza, obbedienza» è, per il Santo
– come si vede – così radicale e universale,
da equivalere all’opposizione stessa tra
bene e male: il male – dice – è disobbedire
a Dio e l’obbedire a Dio è il bene.
L’obbedienza ricopre tutta la vita di Gesù.
Se san Paolo e l’epistola agli Ebrei mettono
in luce il posto dell’obbedienza nella morte
di Gesù (cf Fil 2, 8; Eb 5, 8), san Giovanni
e i Sinottici completano il quadro, mettendo
in luce il posto che l’obbedienza ebbe nella
vita di Gesù, nel suo quotidiano. «Mio cibo
– dice Gesù nel Vangelo di Giovanni – è
fare la volontà del Padre», e: «Io faccio
sempre le cose che gli sono gradite» (Gv 4,
34; 8, 29).
L’obbedienza di Gesù Cristo al Padre si
esercita soprattutto attraverso l’obbedienza
alle parole scritte. Nell’episodio delle
tentazioni del deserto, l’obbedienza di Gesù
consiste nel richiamare le parole di Dio e

18
attenersi a esse: «Sta scritto!». Le parole di
Dio, sotto l’azione attuale dello Spirito,
diventano veicoli della vivente volontà di
Dio e rivelano il loro carattere «vincolante»
di ordini di Dio. Ecco dove risiede la
famosa obbedienza del nuovo Adamo nel
deserto. Dopo l’ultimo «Sta scritto» di
Gesù, Luca prosegue il racconto dicendo
che «il diavolo si allontanò» (Lc 4, 12) e
che Gesù tornò in Galilea «con la potenza
dello Spirito Santo» (Lc 4, 14). Lo Spirito
Santo è dato a coloro che «si sottomettono a
Dio» (cf At 5, 32). San Giacomo dice:
«Sottomettetevi a Dio, resistete al diavolo,
ed egli fuggirà da voi» (Gc 4, 7); così è
avvenuto nelle tentazioni di Gesù.
L’obbedienza di Gesù si esercita, in modo
particolare, sulle parole che sono scritte di
lui e per lui «nella legge, nei profeti e nei
salmi» e che egli, come uomo, scopre a
mano a mano che avanza nella
comprensione e nel compimento della sua
missione. La concordanza perfetta tra le
profezie dell’Antico Testamento e gli atti di
Gesù, che si nota nella lettura del Nuovo

19
Testamento, non si spiega dicendo che le
profezie dipendono dagli atti (cioè che esse
sono applicazioni fatte dopo, in seguito ai
fatti compiuti da Gesù), ma dicendo che gli
atti dipendono dalle profezie. Gesù ha
«attuato», in obbedienza perfetta, le cose
scritte di lui dal Padre. Quando vogliono
opporsi alla sua cattura, Gesù dice: «Ma
come allora si compirebbero le Scritture,
secondo le quali così deve avveni-re?» (Mt
26, 54). La vita di Gesù è come guidata da
una scia luminosa, che gli altri non vedono
e che è formata dalle parole scritte per lui;
egli desume dalle Scritture il «si deve» (dei)
che regge tutta la sua vita.
La grandezza dell’obbedienza di Gesù,
oggettivamente si misura «dalle cose che
patì» e soggettivamente dall’amore e dalla
libertà con cui obbedì. San Basilio distingue
tre disposizioni con cui si può obbedire:
primo, per paura del castigo, ed è la
disposizione degli schiavi; secondo, per
desiderio del premio, ed è la disposizione
dei mercenari; terzo, per amore, ed è la
disposizione dei figli9. In Gesù rifulge in

20
grado sommo e infinito l’obbedienza filiale.
Anche nei momenti più estremi, come
quando il Padre gli porge il calice della
passione da bere, sulle sue labbra non si
spegne mai il grido filiale: Abba! «Dio mio,
Dio mio, perché mi hai abbandonato?»,
esclamò sulla croce (Mt 27, 46); ma
aggiunse subito, secondo Luca: «Padre,
nelle tue mani affido il mio Spirito» (Lc 23,
46). Sulla croce, Gesù «si abbandonò al Dio
che lo abbandonava»! Questa è
l’obbedienza fino alla morte; questa è «la
roccia della nostra salvezza».
Nell’obbedienza di Gesù, come ce la
presenta il Nuovo Testamento, è dato
cogliere il significato più pieno e profondo
di questa virtù. Essa non è una virtù solo
morale, ma anche teologale. Nella visione
scolastica – che si basava su schemi di virtù
desunti da Aristotele e dallo stoicismo –,
l’obbedienza è connessa con la giustizia;
come tale, è posta tra le virtù morali che
hanno per oggetto i mezzi, non il fine, ed è
distinta nettamente dalle virtù teologali –
fede, speranza, carità –, con le quali si

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aderisce invece a Dio in se stesso. Ma per la
Bibbia, e il Nuovo Testamento in
particolare, l’obbedienza, in quanto è
principalmente obbedienza a Dio, è
connessa soprattutto con la fede, fino a
confondersi spesso con essa. Riguarda,
perciò, non solo i mezzi, ma anche il fine;
fa aderire a Dio stesso, non solo a dei beni
intermedi, fosse pure «il bene comune».
«Per fede – è scritto – Abramo, chiamato da
Dio, obbedì» (Eb 11, 8). L’obbedienza è il
tipo di fede necessario quando la parola
rivelata non contiene tanto una verità di Dio
da credere, quanto una volontà di Dio da
compiere. La fede, in un altro senso, è
obbedienza anche quando ci si presenta
come verità da credere, perché la ragione
non l’accetta per la sua evidenza, ma per la
sua autorità. L’espressione «obbedienza
alla fede», che ricorre spesso in san Paolo,
non significa solo obbedire alle cose
credute, ma anche obbedire credendo, con il
fatto stesso di crederle. Sant’Ireneo esprime
concisamente tutto ciò, dicendo che
«credere è fare la sua volontà»10. I termini

22
stessi con cui si esprime l’obbedienza sono
strettamente imparentati con quelli usati per
esprimere la fede: uno infatti (hypakoúo,
ob-audire) significa prestare ascolto e un
altro (peíthomai, della stessa radice di
pístis!) significa lasciarsi persuadere, fidarsi
o affidarsi.
Dalla parola di Dio, inoltre, scopriamo
che l’obbedienza è più una virtù positiva
che negativa. Anche qui, con l’andare del
tempo e con il prevalere degli interessi
ascetici su quelli misterici e kerigmatici,
l’obbedienza ha finito per essere vista
soprattutto come virtù negativa o
rinnegativa. La sua eccellenza tra le virtù è
fatta derivare dall’eccellenza del bene al
quale con essa si rinuncia, che è il bene
della propria volontà: bene, questo, più
grande delle cose esteriori, alle quali si
rinuncia con la povertà, e del proprio corpo,
al quale si «rinuncia» con la castità. Ma
nella visuale biblica, l’elemento positivo –
fare la volontà di Dio – è più importante
che quello negativo – non fare la propria
volontà. Gesù dice: «Non la mia, ma la tua

23
volontà sia fatta» (dove l’accento è tutto
sulla seconda parte); «Mio cibo è fare la
volontà del Padre!»; «Ecco io vengo – dice
ancora – a fare, o Dio, la tua volontà» (Eb
10, 9). La salvezza, infatti, viene dal fare la
volontà di Dio, non dal non fare la propria
volontà. Nel «Padre nostro» noi chiediamo
che «sia fatta la sua volontà»; chiediamo la
cosa positiva, non quella negativa. Nella
Scrittura, leggiamo che Dio vuole
l’obbedienza, non il sacrificio (cf 1 Sam 15,
22; Eb 10, 5-7). Sappiamo, tuttavia, che nel
caso di Cristo egli volle anche il sacrificio e
che lo vuole anche da noi... La spiegazione
è che delle due cose, una è il mezzo, l’altra
è il fine; una – l’obbedienza – Dio la vuole
per se stessa; l’altra – il sacrificio – la vuole
solo indirettamente, in vista della prima. Il
significato della frase è dunque questo: ciò
che Dio cerca, nel sacrificio, è
l’obbedienza. Il sacrificio della propria
volontà è il mezzo per arrivare alla
conformità con la volontà divina. A chi si
scandalizzava come il Padre potesse trovare
compiacimento nel sacrificio del suo figlio

24
Gesù, san Bernardo rispondeva
giustamente: «Non fu la morte che gli
piacque, ma la volontà di colui che
spontaneamente moriva»11. Non è dunque
tanto la morte di Cristo che ci ha salvato,
quanto la sua obbedienza fino alla morte.
È vero che le due cose – il «non fare la
propria volontà» e «il fare la volontà di
Dio» – sono strettamente interdipendenti;
esse non sono però identiche e coestensive.
Il non fare la propria volontà non è, per se
stesso e sempre, un fatto salvifico, come lo
è il fare la volontà di Dio. Il motivo positivo
dell’obbedienza si estende molto più in là di
quello negativo. Dio può chiedere cose che
non hanno per scopo quello di far rinnegare
la propria volontà, ma quello di provare e
aumentare la fede e la carità. La Bibbia
chiama «obbedienza» quella di Abramo che
porta a immolare il figlio (cf Gn 22, 18),
anche se non si trattava di far rinnegare ad
Abramo la sua volontà, ma di mettere alla
prova la sua fedeltà. Lo scopo di tutto
infatti è riportare la libertà umana ad aderire
liberamente a Dio, cosicché un solo volere

25
torni a regnare nell’universo, come prima
del peccato, quello di Dio. Nell’obbedienza
avviene già, in qualche modo, il «ritorno
delle creature a Dio». In cima a tutte le
motivazioni bibliche dell’obbedienza, più in
alto della fede stessa, c’è la carità.
L’obbedienza è il «sì» nuziale della creatura
al suo Creatore, nel quale si opera fin d’ora,
sebbene in maniera imperfetta, l’unione
finale delle volontà che costituisce
l’essenza della beatitudine eterna.
«Nell’obbedienza – diceva un Padre del
deserto – si attua la somiglianza con Dio e
non solo l’essere a immagine di Dio»12. Per
il fatto che esistiamo, noi siamo a immagine
di Dio, ma per il fatto che obbediamo,
siamo anche a sua somiglianza, nel senso
che, obbedendo, ci conformiamo alla sua
volontà e diventiamo, per libera scelta,
quello che egli è per natura. Somigliamo a
Dio perché vogliamo le stesse cose che
vuole Dio.

Note

26
7 Francesco d’Assisi, Ammonizioni, II (Fonti Francescane
[FF], Assisi 1978, n. 146 s).
8 Ireneo, Dimostrazione della predicazione apostolica, 34.
9 Basilio Magno, Regole ampie, Proemio (PG 31, 896).
10 Ireneo, Contro le eresie, IV, 6, 5.
11 Bernardo di Chiaravalle, L’errore di Abelardo, 8, 21
(PL 182, 1070).
12 Diadoco di Fotica, Cento capitoli, 4 (SCh 5, p. 86).

27
III
L’obbedienza come grazia: il
battesimo

Nel capitolo quinto dell’epistola ai


Romani, san Paolo presenta Cristo come il
capostipite degli obbedienti, in opposizione
ad Adamo che fu il capostipite dei
disobbedienti. La sua obbedienza, in vita e
in morte, costituisce – abbiamo detto – il
nuovo fondamento e il criterio della virtù
dell’obbedienza. Nel capitolo successivo, il
sesto, l’Apostolo rivela in che modo noi
entriamo nella sfera di questo avvenimento
e cioè attraverso il battesimo. Come
sempre, attraverso il sacramento, noi
entriamo in contatto con l’evento. Possiamo
paragonare l’obbedienza di Cristo a una
potente cascata d’acqua che ha azionato
un’immensa centrale elettrica; da essa è

28
partita una linea carica di energia che
attraversa, nella Chiesa, la storia. Ma non
basta che una linea elettrica le passi
accanto, perché una casa riceva energia e
luce; occorre collegarsi con essa attraverso
un filo. Questo avviene, sul piano spirituale,
con il battesimo. Il battesimo è il momento
in cui ogni singolo uomo entra in contatto
con la corrente di grazia che viene dal
mistero pasquale di Cristo e dentro di lui si
«accende» la nuova vita.
Il battesimo ha, per l’obbedienza
cristiana, un significato eccezionale, che è
andato quasi del tutto smarrito nella
catechesi. San Paolo pone anzitutto un
principio: se tu ti poni liberamente sotto la
giurisdizione di qualcuno, sei tenuto poi a
servirlo e a obbedirgli: «Non sapete voi che,
se vi mettete sotto l’obbedienza di qualcuno
per servirlo, siete servi di colui sotto la cui
obbedienza vi siete messi: sia del peccato
per la morte, sia dell’Obbedienza per la
giustizia?» (Rm 6, 16). (Nell’ultimo caso,
ho scritto obbedienza con la lettera
maiuscola, perché non si tratta più

29
dell’obbedienza in astratto, ma
dell’obbedienza di Cristo o, addirittura, di
Cristo l’obbediente). Ora, stabilito il
principio, san Paolo ricorda il fatto: i
cristiani, si sono, in realtà, liberamente
messi sotto la giurisdizione di Cristo, il
giorno che, nel battesimo, lo hanno
accettato come loro Signore: «Voi eravate
schiavi del peccato, ma avete obbedito di
cuore all’insegnamento nella forma in cui vi
è stato trasmesso, e così, liberati dal
peccato, siete diventati servi della giustizia»
(Rm 6, 17). Nel battesimo è avvenuto un
cambiamento di padrone, un passaggio di
campo: dal peccato alla giustizia, dalla
disobbedienza all’obbedienza, da Adamo a
Cristo. La liturgia ha espresso tutto ciò,
attraverso l’opposizione: «Rinuncio –
Credo». Nell’antichità, esistevano, in alcuni
rituali battesimali, dei gesti drammatici che
visualizzavano, per così dire, questo
avvenimento interiore. Il battezzando si
voltava prima verso occidente, considerato
simbolo delle tenebre, e faceva segno di
ripudio e di allontanamento verso Satana e

30
le sue opere; quindi si voltava verso oriente,
simbolo della luce, e, inchinandosi
profondamente, salutava Cristo come suo
nuovo Signore. Avveniva come quando, in
una guerra tra due regni, un soldato
abbandona l’esercito del tiranno per unirsi a
quello del liberatore.
L’obbedienza è dunque, per la vita
cristiana, qualcosa di costitutivo; è il
risvolto pratico e necessario
dell’accettazione della signoria di Cristo.
Non c’è signoria in atto, se non c’è, da parte
dell’uomo, obbedienza. Nel battesimo noi
abbiamo accettato un Signore, un Kyrios,
ma un Signore «obbediente», uno che è
diventato Signore proprio a causa della sua
obbedienza (cf Fil 2, 8-11), uno la cui
signoria è, per così dire, sostanziata di
obbedienza. L’obbedienza, in questa
visuale, non è tanto sudditanza, quanto
piuttosto somiglianza; obbedire a un tale
Signore è somigliargli, perché anche lui ha
obbedito. Troviamo una splendida conferma
del pensiero paolino, su questo punto, nella
prima lettera di Pietro. I fedeli – si legge

31
all’inizio della lettera – sono stati «eletti
secondo la prescienza di Dio Padre,
mediante la santificazione dello Spirito, per
obbedire a Gesù Cristo» (1 Pt 1, 2). I
cristiani sono stati eletti e santificati «per
obbedire»; la vocazione cristiana è una
vocazione all’obbedienza! Poco più avanti,
nello stesso scritto, i fedeli sono definiti,
con una formula assai suggestiva, «figli
dell’obbedienza»: «Come figli
dell’obbedienza (tékna hypakoês), non
conformatevi ai desideri di un tempo» (1 Pt
1, 14). Non è sufficiente tradurre
l’espressione con «figli obbedienti» (come
se si trattasse di un semplice ebraismo),
perché qui si fa riferimento al battesimo,
come mostra chiaramente il contesto. «Figli
dell’obbedienza» è l’equivalente di
«santificati dall’obbedienza» che si legge
immediatamente dopo (cf 1 Pt 1, 22). Il
contesto non è dunque ascetico, ma
misterico; l’apostolo sta parlando della
«rigenerazione mediante la parola di Dio»
(cf 1 Pt 1, 23). I cristiani sono figli
dell’obbedienza, perché nati

32
dall’obbedienza di Cristo e dalla propria
decisione di obbedire a Cristo. Come i
pesciolini, nati nell’acqua, non possono
sopravvivere se non nell’acqua, così i
cristiani, nati dall’obbedienza, non possono
vivere spiritualmente, se non rimanendo
nell’obbedienza, cioè in uno stato di
costante e amorosa sottomissione a Dio, in
contatto con il mistero pasquale di Cristo. Il
contatto sacramentale con l’obbedienza di
Cristo non si esaurisce, infatti, con il
battesimo, ma si rinnova quotidianamente
nell’Eucaristia. Celebrando la S. Messa, noi
facciamo memoria – e più che memoria –
dell’obbedienza di Cristo fino alla morte; ci
«rivestiamo» della sua obbedienza come di
un manto di giustizia e con essa ci
presentiamo al Padre come «figli
dell’obbedienza». Ricevendo il corpo e il
sangue di Cristo, ci nutriamo della sua
obbedienza.
Scopriamo, da ciò, che l’obbedienza,
prima che virtù, è dono, prima che legge, è
grazia. La differenza tra le due cose è che la
legge dice di fare, mentre la grazia dona di

33
fare. L’obbedienza è anzitutto opera di Dio
in Cristo, che poi viene additata al credente
perché, a sua volta, la esprima nella vita con
una fedele imitazione. Noi non abbiamo, in
altre parole, solo il dovere di obbedire, ma
abbiamo ormai anche la grazia di obbedire!
L’obbedienza cristiana si radica, dunque,
nel battesimo; per il battesimo tutti i
cristiani sono «votati» all’obbedienza, ne
hanno fatto, in certo senso, «voto». Quando
si dice oggi che la professione religiosa si
fonda sul battesimo, che essa è una
esplicitazione del battesimo e un prendere
particolarmente a cuore le sue
13
implicazioni , si dice una cosa verissima.
Per molti secoli, prima che si affermasse
l’idea di «voto» religioso e di «stato»
religioso (cosa, questa, che avvenne a
medioevo inoltrato), l’intento con cui si
entrava nella vita consacrata era solo quello
di osservare meglio e più radicalmente le
esigenze della vita cristiana. San Basilio
chiamava i monaci semplicemente i
«cristiani». Al suo tempo (come sta
tornando a essere nel nostro tempo!), la

34
separazione veramente rilevante non era
quella tra i monaci e il resto della comunità
ecclesiale, ma era la separazione tra questa
comunità, presa nel suo insieme, e il mondo
esterno che non viveva secondo il
Vangelo14. La parola di Dio ci spinge a
riscoprire oggi questo fondamento comune
a tutti i cristiani; ci spinge a «ricercare ciò
che unisce, più che ciò che divide» e questo
non solo nei rapporti tra le varie Chiese, ma
anche tra categoria e categoria all’interno
della Chiesa. Ciò che ci unisce tutti, infatti,
è l’essenza, mentre ciò che ci distingue è
solo il modo di viverla.
Questa riscoperta dell’obbedienza
fondamentale aiuta enormemente gli stessi
religiosi. Essi prendono, infatti, sempre più
coscienza oggi che il rinnovamento
dell’obbedienza non viene dal perfezionare
all’infinito le proprie leggi e costituzioni e
neppure viene da un semplice ritorno alle
proprie fonti – se si intendono queste come
le fonti del proprio particolare ordine
religioso –, ma viene solo dallo Spirito che
opera nella Parola e nei sacramenti; viene

35
dal ritornare alla «fonte delle fonti», cioè a
Cristo. «La legge – dice san Giovanni – fu
data per mezzo di Mosè, ma la grazia e la
verità vennero per mezzo di Gesù Cristo»
(Gv 1, 17): questa parola è ancora vera e
vuol dire che la legge, o la regola, di
obbedire fu data a noi per mezzo di Basilio,
o di Benedetto, o di Francesco, o di Ignazio,
o di Teresa...; ma che la grazia di obbedire
viene a noi – come venne a loro – solo da
Gesù Cristo. San Paolo dice che non è
l’essere circoncisi o incirconcisi che conta,
ma l’essere «nuova creatura» (cf Gal 6, 15);
allo stesso modo, non è l’essere laico o
chierico, l’essere di un ordine religioso
piuttosto che di un altro, che conta, ma
l’essere nuova creatura. Tutto il resto conta
– e moltissimo –, se c’è questo; se no, non
conta nulla. I colori esistono e sono
meravigliosi, ma solo se c’è la luce che li
produce e li anima...
La riscoperta di questo dato comune a
tutti, fondato sul battesimo, viene incontro,
ancor più, a un bisogno vitale dei laici nella
Chiesa. Il concilio Vaticano II ha enunciato

36
il principio della «universale chiamata alla
santità» del popolo di Dio15 e, siccome non
si dà santità senza obbedienza, dire che tutti
i battezzati sono chiamati alla santità è
come dire che tutti sono chiamati
all’obbedienza, che c’è anche una
universale chiamata all’obbedienza...
Bisogna però che ora venga presentata ai
battezzati una santità – e un’obbedienza –
fatta anche per loro, non segnata da caratteri
troppo particolari, né legata a condizioni,
stati e tradizioni troppo lontani dalla loro
vita. E questa santità, nel suo elemento
oggettivo, non può essere che quella
essenziale tracciata dalla parola di Dio e
fondata sul battesimo. San Paolo, nella sua
parenesi, delinea una vita di perfezione
altissima, fatta di carità, umiltà, servizio,
purezza, sacrificio, obbedienza, ma che è
desunta da niente altro che dal battesimo.

Note
13 Lumen gentium, n. 44.
14 Cf Basilio Magno, Opere ascetiche, a cura di U. Neri,
UTET, Torino 1980, p. 45.

37
15 Lumen gentium, n. 40.

38
IV
L’obbedienza come «dovere»:
il senso di Romani 13, 1-7

Nella prima parte dell’epistola ai Romani,


san Paolo ci presenta Gesù Cristo come
«dono» da accogliere con la fede, mentre
nella seconda parte – quella parenetica – ci
presenta Cristo come «modello» da imitare
con la vita. Questi due aspetti della
salvezza, sono presenti anche all’interno
delle singole virtù o frutti dello Spirito. In
ogni virtù cristiana, c’è un elemento
misterico e un elemento ascetico, una parte
affidata alla grazia e una parte affidata alla
libertà. C’è un’obbedienza «impressa» in
noi e un’obbedienza «espressa» da noi. Ora
è venuto il momento di considerare questo
secondo aspetto, cioè la nostra fattiva
imitazione dell’obbedienza di Cristo.

39
L’obbedienza come dovere. Grazie alla
venuta di Cristo, la legge è diventata
«grazia»; ma in seguito, grazie alla venuta
dello Spirito Santo, la grazia è divenuta
«legge», la «legge dello Spirito».
Appena si prova a ricercare, attraverso il
Nuovo Testamento, in che cosa consiste il
dovere dell’obbedienza, si fa una scoperta
sorprendente e cioè che l’obbedienza è vista
quasi sempre come obbedienza a Dio. Si
parla, certamente, anche di tutte le altre
forme di obbedienza: ai genitori, ai padroni,
ai superiori, alle autorità civili, «a ogni
umana istituzione» (1 Pt 2, 13), ma assai
meno spesso e in maniera molto meno
solenne. Il sostantivo stesso «obbedienza»
(hypakoè) – che è il termine più forte – è
usato sempre e solo per indicare
l’obbedienza a Dio o, comunque, a istanze
che sono dalla parte di Dio, eccetto in un
solo passo dell’epistola a Filemone dove
esso indica l’obbedienza all’Apostolo. San
Paolo parla di obbedienza alla fede (Rm 1,
5; 16, 26), di obbedienza all’insegnamento
(Rm 6, 17), di obbedienza al Vangelo (Rm

40
10, 16; 2 Ts 1, 8), di obbedienza alla verità
(Gal 5, 7), di obbedienza a Cristo (2 Cor 10,
5). Troviamo lo stesso linguaggio anche
altrove: gli Atti degli apostoli parlano di
obbedienza alla fede (At 6, 7), la prima
lettera di Pietro parla di obbedienza a Cristo
(1 Pt 1, 2) e di obbedienza alla verità (1 Pt
1, 22).
Cosa vogliono dire tutte queste
espressioni, lo si capisce facilmente se
partiamo dal testo di Galati. «Correvate così
bene, chi vi ha tagliato la strada che non
obbedite più alla verità?» (Gal 5, 7).
L’Apostolo si rivolge qui ai giudaizzanti,
cioè a coloro che facevano dell’obbedienza
alla legge e alle sue prescrizioni il loro
ideale irrinunciabile. Cosa vuol dire dunque
che i Galati «non obbediscono alla verità»?
Vuol dire che obbediscono alla legge,
anziché al Vangelo. La verità, la fede, il
Vangelo, Cristo sono tutte espressioni che
indicano una stessa realtà. La loro
caratteristica comune è di essere delle
istanze divine, non umane. In Cristo si è
manifestata una nuova volontà di Dio, che è

41
il compimento di tutte le precedenti;
continuare a obbedire al vecchio ordine è
ormai disobbedire. Attenersi alla vecchia
obbedienza sarebbe fare come il suddito
che, ricevuto all’inizio del suo noviziato un
ordine dal suo superiore, pretendesse di
continuare a eseguirlo per tutto il resto della
vita, nonostante che il superiore stesso gli
chieda ora di cambiare e di fare un’altra
cosa. L’obbedienza alla verità è
l’obbedienza alla novità, l’obbedienza al
«Nuovo» Testamento!
In questo quadro di pensiero, trova la sua
spiegazione anche il controverso testo di
Romani 13, 1-7, sull’obbedienza alle
autorità civili, che è venuto ora il momento
di riprendere in esame, anche se questo
interromperà, per un momento, il tono
spirituale delle nostre considerazioni. San
Paolo, come gli altri apostoli, proviene dal
mondo giudaico e porta con sé i problemi e
la mentalità di quel mondo, come dimostra
il suo continuo rifarsi alla situazione di
Israele, nel corso della lettera ai Romani. I
giudei sono i suoi consanguinei secondo la

42
carne. Egli vede il mondo con occhi di
giudeo, anche se con occhi illuminati ora da
Cristo. È semplicemente impensabile che
egli, intorno al 58 d.C., potesse parlare
dell’autorità politica esistente (perché è di
essa che parla!), prescindendo dalla
situazione incandescente che esisteva, in
quel momento, nel mondo giudaico. Era il
momento in cui stava maturando la rivolta
aperta contro Roma, capeggiata dagli zeloti,
che doveva portare alla distruzione di
Gerusalemme. L’ipotesi che l’Apostolo, con
le sue parole sullo stato, intenda
semplicemente porre un freno ai cristiani
«entusiasti» che si credevano dispensati da
ogni dipendenza (l’ipotesi, cioè, che Paolo
intenda combattere solo una falsa idea della
libertà cristiana) non è sufficiente a spiegare
tutto, dal momento che ritroviamo, in
sostanza, le stesse idee in altri testi del
Nuovo Testamento, dove lo sfondo non è
certamente quello di una Chiesa
«entusiasta», ma quello di una Chiesa
perseguitata. Le parole dell’Apostolo –
come quelle, del tutto analoghe, della prima

43
lettera di Pietro (2, 13) – sono dettate,
dunque, anzitutto da una preoccupazione
pastorale. Si trattava di collocare la
nascente comunità cristiana al di fuori di un
conflitto che ne avrebbe compromesso
irrimediabilmente la tranquillità e il
carattere universale. L’Apostolo invita a
pregare per il re e per quelli che stanno al
potere, «perché – dice – possiamo
trascorrere una vita calma e tranquilla» (1
Tm 2, 2).
L’obbedienza allo stato, inculcata da
Paolo, è dello stesso ordine e si spiega con
gli stessi presupposti dell’obbedienza ai
padroni, raccomandata agli schiavi:
«Schiavi, obbedite in tutto ai vostri padroni
secondo la carne» (Col 3, 22). Nella prima
lettera di Pietro le due obbedienze sono
menzionate una di seguito all’altra, come
facenti parte di uno stesso fondamentale
dovere: «State sottomessi a ogni istituzione
umana per amore del Signore, sia al re
come sovrano, sia ai governatori… Servi,
state sottomessi con profondo rispetto ai
vostri padroni» (1 Pt 2, 13-18). Anche di

44
questa seconda obbedienza si dice che è
«volontà di Dio» e che deve essere fatta «di
cuore», non per forza (cf Ef 6, 5-6). La
schiavitù è accettata come un dato di fatto
in questo mondo che passa (cf 1 Cor 7, 20-
24.31), come qualcosa che la Chiesa ha
trovato nel suo venire all’esistenza – allo
stesso modo che ha trovato lo stato romano
– e che non si sente chiamata, almeno per il
momento, date le sue possibilità concrete e
la priorità del suo compito spirituale, a
mettere in discussione e a mutare. Ma essa
non ha più lo stesso senso di prima, perché
nell’ordine nuovo, instaurato da Cristo, c’è
un nuovo tipo di libertà e un nuovo tipo di
schiavitù o di obbedienza, rispetto ai quali
padroni e schiavi sono sullo stesso piano e
ricevono entrambi la stessa eredità (cf 1 Cor
12, 13; Gal 3, 28; Ef 6, 5-9; Col 3, 11. 24).
Non è detto, con ciò, che Paolo metta lo
stato sullo stesso piano della schiavitù;
vuole dire soltanto che l’Apostolo considera
lo stato dallo stesso punto di vista da cui
considera la schiavitù, cioè dalla situazione
nuova creata dall’avvento della signoria di

45
Cristo, senza entrare nel merito specifico
della loro natura o legittimità. Quello che a
Paolo preme mettere in chiaro è che si può
appartenere alla comunità della salvezza
anche nella sottomissione ai padroni e alle
autorità; anzi che questo è richiesto
nell’interesse stesso della comunità.
La cosa che mi sembra più importante
mettere in luce è che, nell’assumere questa
posizione di obbedienza a un potere politico
straniero, l’Apostolo si inserisce in una
tradizione profetica ben precisa, che
riguarda l’atteggiamento verso il potere di
Babilonia al tempo dell’esilio. Se è vero
perciò, come è stato notato, che nel nostro
testo Paolo si esprime, nei riguardi dello
stato, con un linguaggio profano ellenistico-
romano, si deve precisare che «profano» ed
«ellenistico-romano» è solo il linguaggio,
perché l’idea di fondo è invece
squisitamente biblica. È impossibile non
vedere un rapporto tra le parole di Paolo in
Romani 13, 1-7 e queste parole rivolte da
Dio al popolo, per bocca di Geremia,
nell’imminenza dell’esilio: «Io ho fatto la

46
terra, l’uomo e gli animali che sono sulla
terra, con grande potenza e con braccio
potente e li do a chi mi piace. Ora ho
consegnato tutte quelle regioni in potere di
Nabucodonosor re di Babilonia, mio servo;
a lui ho consegnato perfino le bestie
selvatiche perché lo servano. Tutte le
nazioni saranno soggette a lui, a suo figlio e
al nipote, finché anche per il suo paese non
verrà il momento. Allora molte nazioni e re
potenti lo assoggetteranno. La nazione o il
regno che non si assoggetterà a lui,
Nabucodonosor, re di Babilonia, e che non
sottoporrà il collo al giogo del re di
Babilonia, io li punirò con la spada, la
fame, la peste – dice il Signore – finché non
li avrò consegnati in suo potere. Voi non
date retta ai vostri profeti né ai vostri
stregoni, che vi dicono: Non sarete soggetti
al re di Babilonia! Costoro vi predicono
menzogne per allontanarvi dal vostro paese
e perché io vi disperda e così andiate in
rovina. Invece io lascerò stare tranquilla sul
proprio suolo – dice il Signore – la nazione
che sottoporrà il collo al giogo del re di

47
Babilonia e gli sarà soggetta, essa lo
coltiverà e lo abiterà» (Ger 27, 5-11). La
pertinenza di questo rimando è confermata
anche dalla prima lettera di Pietro, dove si
parla di Roma come della nuova Babilonia
(cf 1 Pt 5, 13) e dove, ciononostante, si
prescrive di obbedire al potere del suo
sovrano e dei suoi governatori (cf 1 Pt 2,
13-14).
L’atteggiamento del nuovo e definitivo
resto di Israele, che è la Chiesa, è modellato
dunque su quello del «resto», che, al tempo
dell’esilio, obbedisce a Dio e al profeta.
Obbedire al re di Babilonia è la condizione
per rimanere «tranquilli» nel proprio suolo;
opporsi, in questo momento, al re di
Babilonia è opporsi a Dio ed esporsi alla
«spada». Anche il tema paolino della
preghiera «per il re e per quelli che stanno
al potere» (1 Tm 2, 1-2) si ritrova in questa
tradizione profetica. Nella lettera che
Geremia scrive agli esiliati, Dio ordina di
costruire case e abitarle, di prendere moglie,
di mettere al mondo figli, di cercare il
benessere del paese in cui sono stati

48
deportati e di «pregare il Signore per esso»,
perché dal suo benessere dipende anche il
loro benessere (cf Ger 29, 4-7). Tutto
questo finché non saranno passati i giorni di
Babilonia. Babilonia è un inconsapevole e
occasionale strumento della disposizione di
Dio a favore del suo popolo, per purificarlo.
Quello che si dice non serve a dare un
fondamento divino all’autorità di Babilonia,
che resta quello che è, cioè un potere
succeduto a un altro, nel vario intrecciarsi
delle forze umane buone e cattive, e al
quale, a sua volta, ne succederà un altro. Un
profeta posteriore a Geremia, il
Deuteroisaia, rimanendo nella stessa visuale
biblica, di lì a poco, dirà che Dio ora ha
assoggettato i re al distruttore di Babilonia,
a Ciro, e che è lui, ora, lo strumento dei
suoi piani, al quale si deve obbedire (cf Is
41, 1 ss; 45, 1 ss). Questo spiega
l’alternarsi, nello stesso profeta, di inviti a
obbedire a Babilonia e di invettive contro
Babilonia, unite a previsioni della sua
inevitabile caduta. Un tale atteggiamento
ambivalente si riscontra anche negli autori

49
del Nuovo Testamento, nei confronti della
nuova Babilonia che è Roma. Ma
l’importante è che tutti gli autori del Nuovo
Testamento sono concordi nello stabilire
quello che spetta ai cristiani in questa
situazione, cioè sottomettersi, se è
necessario, fino al martirio, come aveva
fatto Gesù. L’idea di dare un fondamento
divino all’autorità politica «di fatto
esistente» era estranea alla mente di Paolo,
come lo era per Geremia quella di dare un
fondamento divino al potere di Babilonia.
L’Apostolo, sulla linea dei profeti, dà un
fondamento divino all’obbedienza dei
cristiani allo stato, più che all’autorità dello
stato; fonda il dovere di obbedire allo stato,
più che il diritto dello stato a essere
obbedito. Quest’ultima cosa è lasciata da
decidere in base ad altri criteri e
valutazioni, che oggi potremmo chiamare
«laici».
Ma nel testo di Romani 13 non è riflessa
solo una tradizione profetica vetero-
testamentaria; c’è riflessa anche una
tradizione evangelica, precisamente il detto

50
di Gesù sul tributo: «Rendete a Cesare ciò
che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio»
(Mc 12, 17). Questo detto è sottinteso nel
nostro testo, dove Paolo dice di rendere a
ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il
tributo, il tributo (Rm 13, 7). Qui si opera
un salto rispetto agli stessi profeti
dell’Antico Testamento e l’obbedienza
all’autorità politica appare come un caso
particolare di quella che l’Apostolo chiama
l’obbedienza al Vangelo. Con Gesù, è
venuto il regno di Dio ed è venuto in un
modo diverso da come i contemporanei si
aspettavano. È un regno che non si
identifica con il regno politico, ma è di
natura diversa, poiché non è «di questo
mondo». Ne deriva che l’appartenenza a
questo Regno non è incompatibile con
l’appartenenza e l’obbedienza a un regno
terreno, come l’appartenenza e
l’obbedienza a un regno terreno non sono
incompatibili con l’adesione a questo nuovo
Regno. In un certo senso, si può dire che
l’intenzione principale dell’Apostolo, in
Romani 13, non è quella di inculcare ai

51
cristiani che devono obbedire allo stato,
quanto di inculcare che possono obbedire
allo stato.
Il Vangelo ha creato una situazione tutta
nuova, che esige, da parte del popolo eletto,
una conversione profonda per essere
accettata. Cade una convinzione che è
radicata nel cuore di ogni ebreo del tempo e
cioè che il potere straniero usurpa i diritti di
Dio su Israele ed è quindi contro Dio. San
Paolo proveniva dal gruppo di quegli stessi
farisei che, nel Vangelo, pongono a Gesù la
domanda sulla liceità del tributo a Cesare,
sperando di ottenere da lui una risposta
negativa (cf Mt 22, 15). Dice, anzi, lui
stesso che «superava nel giudaismo la
maggior parte dei suoi coetanei e
connazionali, accanito com’era nel
sostenere le tradizioni dei padri» (cf Gal 1,
13-14). Egli, che ha vissuto in prima
persona la conversione dalla legge alla
grazia (cf Fil 3, 7 ss), ha dunque vissuto in
prima persona anche quest’altra
conversione, connessa con la prima, che è
la conversione psicologica dall’ostilità

52
all’obbedienza verso la dominazione
politica straniera su Israele. La
sottomissione e il lealismo verso lo stato
sono una conseguenza, secondaria ma
coerente, del passaggio dalla legge alla
grazia, dalla circoncisione alla non-
circoncisione; in breve, dall’«Israele
secondo la carne» all’«Israele di Dio». Non
serve appellarsi al fatto che Paolo era
cittadino romano e che questo poteva
favorire il suo atteggiamento positivo,
perché si è visto che la stessa posizione si
trova anche nella prima lettera di Pietro e in
scritti posteriori dello stesso Paolo, quando
la Chiesa ha cominciato a fare la propria
esperienza negativa del potere politico.
Letto nel suo vero contesto storico, il
testo paolino sull’obbedienza all’autorità
dello stato rivela il suo carattere
profondamente innovatore: si tratta
dell’obbedienza alla novità e al
cambiamento che è la più difficile di tutte.
È un passaggio lacerante a un altro genere
di umanità.
«Non tutti hanno obbedito al Vangelo», si

53
lamenta l’Apostolo (cf Rm 10, 16; 1 Ts 1,
8), intendendo per «obbedienza al Vangelo»
non solo e non tanto l’obbedienza al
contenuto del Vangelo, ma anche e
soprattutto l’obbedienza al fatto del
Vangelo, cioè alla situazione nuova da esso
creata, con la sua semplice comparsa.
L’obbedienza all’autorità, come è
formulata da Paolo in Romani 13, 1-7, lungi
dunque dal favorire il mantenimento dello
«status quo», è, al contrario, l’obbedienza
richiesta nei momenti in cui avvengono dei
mutamenti profondi nell’assetto delle cose.
È l’obbedienza che tende non tanto a
mantenere un vecchio regime, quanto a
riconoscere l’esistenza di uno nuovo e
sottomettervisi. Così suonavano le parole di
Paolo, ascoltate allora dai cristiani. Questa
obbedienza non si fonda tanto sull’idea di
un «ordine costituito», naturale o divino che
sia, quanto piuttosto sulla percezione
dell’attuale e vivente volontà di Dio, alla
luce del Vangelo.
In questa lettura profetica ed evangelica,
lo stato rientra perfettamente nella categoria

54
di quelle realtà terrene, di cui la
costituzione Gaudium et spes del concilio
Vaticano II afferma l’autonomia e la laicità,
dicendo che esse «ricavano dalla propria
condizione di creature la loro consistenza,
verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro
ordine», pur ribadendo che esse restano
sempre dipendenti da Dio e sottoposte al
suo giudizio16.
Parlavo di una conversione e obbedienza
alla novità. I cristiani si troveranno, essi
stessi, davanti alla necessità di una tale
obbedienza e conversione, quando, con le
invasioni barbariche e il sacco di Roma, si
trovarono a dover passare da un assetto
all’altro del mondo, lasciandosi alle spalle
l’impero di Roma, nel quale si erano ormai
integrati. Si ripeterono, allora, il dramma e
lo sconcerto vissuto all’origine, nel
passaggio dal mondo giudaico a quello
romano; si pensò di nuovo alla fine del
mondo e ci volle un altro uomo della statura
di san Paolo – sant’Agostino – per
rasserenare le coscienze e spingere avanti
nel cammino, ricordando, nel mutato

55
contesto storico, che il regno di Dio non è il
regno di Cesare, che la «città di Dio» non si
identifica con quella dell’uomo e può
sopravvivere, perciò, a tutte le vicissitudini
di quest’ultima. Un tipo di obbedienza e di
conversione alla novità, simile a questo, si
pone probabilmente anche oggi, di fronte ad
alcune grosse novità della storia, causate
dalla fine del regime di «cristianità», e ad
alcuni mutamenti profondi introdotti dal
Concilio, e chissà se Dio ci trova più pronti
a obbedire dei cristiani del V secolo...

Note
16 Cf Gaudium et spes, nn. 35-36.

56
V
L’obbedienza a Dio nella vita
cristiana

Dopo questa specie di parentesi


sull’obbedienza ai poteri civili, resa
necessaria dall’autorità del testo di Romani
13, 1-7 e dal fraintendimento al quale esso è
esposto, ritorniamo ora a ciò che ci
interessa più da vicino, cioè come imitare
l’obbedienza di Cristo. A prima vista, sorge
un’obiezione: quale rapporto, infatti, può
esistere tra l’obbedienza di Gesù e la nostra,
se, apparentemente, cambia il termine
ultimo dell’obbedienza? L’obbedienza di
Gesù consisteva nel fare la volontà del
Padre, mentre l’obbedienza raccomandata a
noi credenti consiste – abbiamo visto –
nell’obbedire al Vangelo, cioè a Cristo. La
risposta è evidente; proprio questa è ora la

57
volontà del Padre: che si obbedisca al suo
Figlio! Avendo compiuto perfettamente la
volontà del Padre, Cristo è, ormai, anche
come uomo, la personificazione stessa della
volontà di Dio. La sua vita e la sua parola è
la forma concreta che ha assunto per noi la
vivente volontà di Dio. Gesù – dice
l’epistola agli Ebrei – «pur essendo Figlio,
imparò l’obbedienza dalle cose che patì e,
reso perfetto, divenne causa di salvezza per
tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5, 8-
9). Obbedendo al Padre, Cristo è divenuto
causa di salvezza per quelli che ora
obbediscono a lui! La volontà di Gesù è la
volontà stessa del Padre! Obbedire a Cristo
non è obbedire a un intermediario, ma a Dio
stesso. L’obbedienza al Vangelo è la nuova
forma che ha assunto l’obbedienza a Dio,
con l’avvento della nuova Alleanza.
Ma è possibile e ha senso parlare oggi di
obbedienza a Dio, dopo che la nuova e
vivente volontà di Dio, manifestata in
Cristo, si è compiutamente espressa e
oggettivata in tutta una serie di leggi e di
gerarchie? È lecito pensare che esistano

58
ancora, dopo tutto ciò, delle «libere»
volontà di Dio da raccogliere e da
compiere? Se così non fosse, non sarebbe
sorto nulla di nuovo nella Chiesa in questi
venti secoli, mentre vediamo che essi sono,
al contrario, pieni di novità: nuove
istituzioni, nuove vocazioni, nuove forme di
vita... Il monachesimo, per esempio, nacque
da un’obbedienza al Vangelo. Un giorno il
giovane Antonio entrò in una chiesa di
Alessandria d’Egitto e sentì proclamare:
«Va’ e vendi tutto quello che hai, donalo ai
poveri, poi vieni e seguimi!»17; egli prese
questa parola del Vangelo come un ordine
rivolto personalmente a lui, da Dio, in quel
momento, e si fece monaco. Anche l’ordine
francescano nacque da un’analoga
obbedienza al Vangelo. Un giorno, agli inizi
della sua conversione, Francesco d’Assisi,
entrando in una chiesa, sentì proclamare,
dal sacerdote, il Vangelo che dice: «Non
prendete nulla per il viaggio, né bastone, né
bisaccia, né pane, né denaro, né due
tuniche...» (Lc 9, 3). Lo sentì, anche lui,
come un comando rivolto a lui

59
personalmente da Dio in quel momento, ed
esclamò: «Questo voglio, questo chiedo,
questo bramo di fare con tutto il cuore!», e
così prese avvio la sua nuova forma di
vita18. Lo stesso santo, nel suo Testamento,
fa risalire a questo momento l’inizio del suo
ordine: «Dopo che il Signore – scrive – mi
donò dei frati, nessuno mi mostrava che
cosa dovessi fare; ma lo stesso Altissimo mi
rivelò che dovevo vivere secondo la forma
del santo Vangelo»19.
Se la vivente volontà di Dio si potesse
racchiudere e oggettivare esaurientemente e
definitivamente in una serie di leggi, norme
e istituzioni, in un «ordine» istituito e
definito una volta per sempre, la Chiesa
finirebbe per pietrificarsi. La riscoperta
dell’importanza dell’obbedienza a Dio è
una conseguenza naturale della riscoperta,
avviata dal concilio Vaticano II, della
dimensione pneumatica – accanto a quella
gerarchica – della Chiesa (cf Lumen
gentium) e del primato, in essa, della parola
di Dio (cf Dei Verbum). L’obbedienza a
Dio, in altre parole, è concepibile solo

60
quando si afferma chiaramente – come fa
appunto la Lumen gentium – che lo Spirito
Santo «guida la Chiesa alla verità tutta
intera, la unifica nella comunione e nel
ministero, la istruisce e dirige con diversi
doni gerarchici e carismatici, la abbellisce
dei suoi frutti, con la forza del Vangelo fa
ringiovanire la Chiesa, continuamente la
rinnova e la conduce alla perfetta unione
con il suo Sposo»20. Solo se si crede in una
«signoria» attuale e puntuale del Risorto
sulla Chiesa, solo se si è convinti
nell’intimo che anche oggi – come dice un
salmo – «parla il Signore, Dio degli dèi, e
non sta in silenzio» (Sal 50), solo allora si è
in grado di comprendere la necessità e
l’importanza dell’obbedienza a Dio. Essa è
un prestare ascolto al Dio che parla, nella
Chiesa, attraverso il suo Spirito, il quale
illumina le parole di Gesù e di tutta la
Bibbia e conferisce a esse autorità,
facendone canali della vivente e attuale
volontà di Dio per noi. L’obbedienza a Dio
e al Vangelo era necessariamente messa un
po’ nell’ombra, almeno a livello di

61
coscienza riflessa, nel tempo in cui si
pensava alla Chiesa soprattutto in termini di
istituzione, come a una «società perfetta»,
dotata, fin dall’inizio, di tutti i mezzi, i
poteri e le strutture per portare gli uomini
alla salvezza, senza bisogno di ulteriori
interventi puntuali di Dio. Nel momento in
cui la Chiesa viene, di nuovo e chiaramente,
concepita come «mistero e istituzione»
insieme, l’obbedienza torna
automaticamente a configurarsi come
obbedienza, non solo all’istituzione, ma
anche allo Spirito, non solo agli uomini, ma
anche e prima di tutto a Dio, come era per
Paolo.
Ma come nella Chiesa istituzione e
mistero non sono contrapposti ma uniti,
così ora dobbiamo mostrare che
l’obbedienza spirituale a Dio non distoglie
dall’obbedienza all’autorità visibile e
istituzionale, ma, al contrario, la rinnova, la
rafforza e la vivifica, al punto che
l’obbedienza agli uomini diventa il criterio
per giudicare se c’è o meno, e se è
autentica, l’obbedienza a Dio.

62
Un’obbedienza a Dio, infatti, avviene, in
genere, così. Dio ti fa balenare in cuore una
sua volontà su di te; è una «ispirazione» che
di solito nasce da una parola di Dio
ascoltata o letta in preghiera. Non sai da
dove viene e come è stato generato in te un
certo pensiero, ma te lo trovi lì come un
germoglio ancora fragile che si può
soffocare come niente. Tu ti senti
«interpellato» da quella parola o da quella
ispirazione; senti che essa ti «chiede»
qualcosa di nuovo e tu dici «sì». È un «sì»
ancora vago e oscuro quanto alla cosa da
fare e al modo di farla, ma chiarissimo e
fermo nella sostanza. È come se ricevessi
una lettera chiusa che accogli con tutto il
suo contenuto, facendo qui il tuo atto di
fede. In seguito, la chiarezza interiore
percepita sul momento scompare; le
motivazioni, prima così evidenti, si
offuscano. Resta solo una cosa di cui non
puoi, anche volendo, dubitare: che un
giorno hai ricevuto un ordine da Dio e che
hai risposto «sì». Che fare in queste
circostanze? Non serve a nulla moltiplicare

63
le rievocazioni e gli autodiscernimenti.
Quella cosa non è nata dalla «carne», cioè
dalla tua intelligenza, e non la puoi, perciò,
ritrovare attraverso la tua intelligenza; è
nata «dallo Spirito» e si può ritrovare solo
nello Spirito. Ora, però, lo Spirito non ti
parla più, come la prima volta, direttamente
e nell’intimo, ma tace e ti rimanda alla
Chiesa e ai suoi canali istituiti. Tu devi
depositare la tua chiamata nelle mani dei
superiori o di coloro che hanno, in qualche
modo, un’autorità spirituale su di te;
credere che, se è da Dio, egli la farà
riconoscere come tale dai suoi
rappresentanti. Mi viene in mente, a questo
proposito, l’esperienza dei Magi. Essi
videro una stella e nel loro cuore ci fu una
chiamata. Si misero in viaggio, ma intanto
la stella era sparita. Dovettero recarsi a
Gerusalemme, interrogare i sacerdoti; da
questi appresero la destinazione precisa.
Betlemme! Dopo questa umile ricerca, la
stella ricomparve. Essi dovevano essere, in
tal modo, un segno anche per i sacerdoti di
Gerusalemme...

64
Da ciò si vede come sia possibile
disobbedire, anche «obbedendo». Ciò
avviene quando ci si rifugia
nell’obbedienza all’uomo per sfuggire
all’obbedienza a Dio. Uno sente su di sé
una volontà di Dio, una chiamata che esige
un qualche cambiamento e una rottura con
il passato, con il proprio lavoro, ufficio...
Ma non è pronto; ha paura di dire di «sì»,
perché non sa dove si andrà a finire. Allora
si rimette alle decisioni dei suoi superiori, i
quali, ignari di quella volontà di Dio, lo
destineranno a una delle mansioni e dei
luoghi soliti tra religiosi. Egli avrebbe
dovuto, certo, rimettersi all’obbedienza ai
superiori, ma dopo aver manifestato a essi
la volontà di Dio che sente su di sé. Quanti
santi non sarebbero tali, se non avessero
fatto così! Quanto più povera sarebbe ora la
Chiesa, se tutti, in passato, si fossero
limitati a obbedire sempre e solo a ciò che
chiedevano i superiori!
Ma che fare quando si profila un conflitto
tra le due obbedienze e il superiore umano
chiede di fare una cosa diversa o opposta a

65
quella che credi esserti comandata da Dio?
Basta chiedersi: che cosa fece, in questo
caso, Gesù? Egli accettò l’obbedienza
esterna e si sottomise agli uomini, ma così
facendo non rinnegò, ma compì
l’obbedienza al Padre. Proprio questo,
infatti, il Padre voleva. Senza saperlo e
senza volerlo, a volte in buona fede, altre
volte no, gli uomini – come avvenne allora
per Caifa, Pilato e le folle – divengono
strumenti perché si compia la volontà di
Dio, non la loro. Tuttavia, anche questa
regola non è assoluta: la volontà di Dio e la
sua libertà possono esigere dall’uomo –
come avvenne per Pietro di fronte
all’ingiunzione del Sinedrio – che egli
obbedisca a Dio, piuttosto che agli uomini
(cf At 4, 19-20).
Questa obbedienza a Dio – obietterà
qualcuno – è facile: Dio non si vede, non si
ode; gli si può far dire ciò che si vuole... È
vero; ma se uno è capace di farsi comandare
da Dio ciò che vuole, costui sarà ancora più
capace di farsi comandare dagli uomini,
cioè dai superiori, ciò che vuole! La

66
Scrittura ci offre il criterio per discernere la
vera dalla falsa obbedienza a Dio. Parlando
di Gesù, dice che «imparò l’obbedienza
dalle cose che patì» (Eb 5, 8). La misura e il
criterio dell’obbedienza a Dio è la
sofferenza. Quando tutto dentro di te grida:
«Dio non può volere da me questo!» e
invece ti accorgi che vuole proprio
«quello»... e tu sei davanti alla sua volontà
come a una croce sulla quale devi stenderti,
allora scopri come è seria, concreta,
quotidiana questa obbedienza e come si
estende ben più in là di ogni regola
monastica. Il motivo per cui l’obbedienza
«si impara» – cioè si sperimenta –
attraverso la sofferenza, è scritto in Isaia ed
è che i pensieri di Dio non sono i nostri
pensieri, le sue vie non sono le nostre vie;
esse distano tra loro quanto il cielo dalla
terra (cf Is 55, 8-9). Per obbedire a Dio,
facendo nostri i suoi pensieri e le sue
volontà, bisogna, ogni volta, morire un
poco. Infatti, non qualche volta, come per
caso, ma sempre, per definizione, i nostri
pensieri iniziali sono diversi da quelli di

67
Dio. Veramente, obbedire è morire. Qui si
scopre anche il valore ascetico, o
«negativo», che l’obbedienza a Dio riveste;
si scopre come il «fare» la volontà di Dio
aiuta, a sua volta, a «non fare» la propria
volontà. Nulla uccide infatti la volontà
umana quanto il venire a contatto e a
confronto diretto con la volontà di Dio,
perché la volontà divina «è viva ed efficace,
più tagliente di ogni spada a doppio taglio;
essa penetra fino al punto di divisione
dell’anima e dello spirito» (cf Eb 4, 12).
Dalla volontà di Dio non c’è scappatoia
possibile; essa ti «cade» sopra, come fa il
sole con un viandante nel deserto, dove non
c’è ombra sotto cui ripararsi. Per quanto
«cieca» voglia essere l’obbedienza
all’uomo, essa consente sempre una riserva
mentale, perché si sa che la volontà umana
non è l’ultima istanza, dalla quale non c’è
appello; c’è sempre una possibilità, per
quanto lasciata nell’ombra, di «ricorrere»
almeno a Dio e di lamentarsi con lui. Ma
quando si tratta di Dio, a chi ti appelli? Qui
non c’è scampo: la volontà umana deve

68
morire; non si può tergiversare. Guardiamo
Gesù. Guardiamolo nel Getsemani, mentre
si trova a dover dire il suo «sì» alla volontà
del Padre: lì fu l’«agonia», non davanti a
Pilato o al Sinedrio. L’accettazione della
volontà degli uomini, fu, in confronto,
molto più tranquilla.
L’obbedienza a Dio richiede, ogni volta,
una vera e propria conversione. C’è una
pagina della Bibbia che è come un poema
su «obbedienza e conversione» e che vale la
pena riascoltare, almeno in parte, perché,
essendo parola di Dio, vale più che tutte le
considerazioni umane. È Mosè che parla al
popolo e dice: «Se ti convertirai al Signore
e obbedirai alla sua voce con tutto il cuore
e con tutta l’anima, allora il Signore avrà
pietà di te... Tu ti convertirai, obbedirai alla
voce del Signore e metterai in pratica tutti
questi comandi... Il Signore gioirà per te
facendoti felice..., quando obbedirai alla
voce del Signore tuo Dio, osservando i suoi
comandi..., quando ti sarai convertito al
Signore tuo Dio con tutto il cuore e con
tutta l’anima» (Dt 30, 2-3; 8-10).

69
All’obbedienza viene applicata – come si
vede – la stessa formula dell’amore di Dio;
essa deve essere fatta «con tutto il cuore e
con tutta l’anima».
Dobbiamo dunque dire piuttosto il
contrario, cioè che è relativamente facile
obbedire agli uomini e che è molto più
difficile obbedire a Dio. Gli uomini,
essendo uomini, non chiedono se non cose
umane, alla portata dell’uomo e della sua
ragione. Dio può chiedere cose sovrumane
che comportano la morte della ragione.
Nessun superiore umano avrebbe potuto
chiedere ad Abramo di uscire dalla sua terra
e mettersi in cammino verso un paese «non
conosciuto», ma Dio sì; nessun uomo
avrebbe potuto chiedergli di immolare il
figlio, ma Dio sì. Nessun uomo avrebbe
potuto chiedere a Maria quello che le chiese
Dio... Ma facciamo anche qualche esempio
più vicino alla nostra mediocrità. Oggi hai
dovuto eseguire un comando del tuo
superiore che ti sembrava irragionevole,
dettato solo dal capriccio e dal suo
temperamento imprevedibile e cocciuto.

70
Senti parlare dell’obbedienza a Dio e ti
viene da esclamare: «Obbedire a Dio è
mille volte più facile che obbedire agli
uomini!». Ma è poi sicuro questo? Dio,
questa sera, ti comanda di «amare» il tuo
superiore e tu cominci ad avere paura,
perché capisci che dovrai andare a
chiedergli perdono, o, almeno, a confessarti.
Ecco un altro piccolo esempio che vale sia
nella vita di comunità, sia in quella di
famiglia. Qualcuno ha preso per sé, o
scambiato, o manomesso, un oggetto che ti
apparteneva: un capo di vestiario, o
qualcos’altro che era in tuo uso. Tu sei
fermamente deciso a far notare la cosa e a
richiedere il tuo. Nessun superiore
interviene a vietartelo. Ma ecco che, senza
averla cercata, ti viene incontro con forza la
parola di Gesù, o te la trovi addirittura
davanti per caso aprendo la Bibbia: «Dà a
chiunque ti chiede, e a chi prende del tuo
non richiederlo» (Lc 6, 30). Capisci con
chiarezza che quella parola non varrà
sempre e per tutti, ma che essa vale
certamente per te in quella precisa

71
circostanza; ti trovi davanti a
un’obbedienza bell’e buona da fare e, se
non la fai, senti che hai mancato
un’occasione di obbedire a Dio.
L’obbedienza a Dio è l’obbedienza che
possiamo fare sempre. Di obbedienze a
ordini e autorità visibili, capita di farne solo
ogni tanto, tre o quattro volte in tutto nella
vita – parlo, s’intende, di quelle di una certa
serietà –; ma di obbedienze a Dio ce ne
sono tante. Più si obbedisce, più si
moltiplicano gli ordini di Dio, perché egli
sa che questo è il dono più bello che può
fare, quello che fece al suo diletto Figlio
Gesù. Quando Dio trova un’anima decisa a
obbedire, allora egli prende in mano la sua
vita, come si prende il timone di una barca,
o come si prendono in mano le redini di un
carro. Egli diventa sul serio, e non solo in
teoria, «Signore» – cioè colui che «regge»,
che «governa» –, determinando, si può dire,
momento per momento, i gesti, le parole di
quella persona, il suo modo di impiegare il
tempo, tutto. Essa finisce per comportarsi
come si comportava un buon religioso

72
suddito di altri tempi, il quale per ogni cosa,
anche minima, chiedeva il permesso al suo
superiore, o, come si diceva una volta,
l’«obbedienza».
Questa via non ha nulla, per sé, di mistico
e di straordinario, ma è aperta a tutti i
battezzati. Essa consiste nel «presentare le
questioni a Dio» (cf Es 18, 19). Io posso
decidere da solo di fare o non fare un
viaggio, un lavoro, una visita, una spesa e
poi, una volta deciso, pregare Dio per la
buona riuscita della cosa. Ma se nasce in
me l’amore dell’obbedienza a Dio, allora
farò diversamente: chiederò prima a Dio –
con il mezzo semplicissimo che tutti
abbiamo a disposizione e che è la preghiera
– se è sua volontà che io faccia quel
viaggio, quel lavoro, quella visita, quella
spesa, e poi farò, o non farò, la cosa, ma
essa sarà ormai, in ogni caso, un atto di
obbedienza a Dio, e non più una mia libera
iniziativa. Normalmente, è chiaro che non
udrò, nella mia breve preghiera, nessuna
voce e non avrò nessuna risposta esplicita
sul da farsi, o almeno non è necessario che

73
l’abbia perché ciò che faccio sia
obbedienza. Così facendo, infatti, ho
sottoposto la questione a Dio, mi sono
spogliato della mia volontà, ho rinunciato a
decidere da solo e ho dato a Dio una
possibilità per intervenire, se vuole, nella
mia vita. Qualunque cosa ora deciderò di
fare, regolandomi con i criteri ordinari di
discernimento, sarà obbedienza a Dio.
Come il servitore fedele non prende mai
un’iniziativa o un ordine da estranei, senza
dire: «Devo sentire prima il mio padrone»,
così il vero servo di Dio non intraprende
nulla, senza dire a se stesso: «Devo pregare
un po’, per sapere cosa vuole che faccia il
mio Signore!». Così si cedono le redini
della propria vita a Dio! La volontà di Dio
penetra, in questo modo, sempre più
capillarmente nel tessuto di una esistenza,
impreziosendola e facendo di essa un
«sacrificio vivente, santo e a Dio gradito»
(Rm 12, 1).
Se questa regola del «presentare le
questioni a Dio» vale per le piccole cose di
ogni giorno, tanto più vale per le grandi

74
cose, com’è, per esempio, la scelta della
propria vocazione: se sposarsi o non
sposarsi, se servire Dio nel matrimonio o
servirlo nella vita consacrata. La parola
stessa «vocazione» – che, vista dalla parte
di Dio, significa chiamata –, vista dalla
parte dell’uomo, in senso passivo, significa
risposta, cioè obbedienza. In questo senso,
la vocazione è, anzi, la fondamentale
obbedienza della vita, quella che,
specificando il battesimo, crea, nel
credente, uno stato permanente di
obbedienza. Anche chi si sposa, deve farlo
«nel Signore» (1 Cor 7, 39), cioè per
obbedienza. Il matrimonio diventa così
un’obbedienza a Dio, ma in un senso
liberante, non costringente, come avviene
quando ci si sposa per obbedire ai genitori,
o a qualche necessità. Esso non è più una
scelta esclusivamente propria, che, in un
secondo momento, viene presentata a Dio,
solo perché egli l’approvi e la benedica; ma
è una scelta fatta con lui, in adesione filiale
alla sua volontà che è certamente una
volontà d’amore. La differenza non è

75
piccola; è diverso poter dire, nelle
situazioni difficili derivanti dalla propria
scelta, che si è lì per volere di Dio, che non
si è voluto ciò da soli e che perciò Dio non
farà mancare il suo aiuto e la sua grazia.
Questo spirito di obbedienza aiuta a
superare le situazioni difficili che si
incontrano in ogni vocazione, o a viverle
bene, come parte anch’esse della volontà
salvifica di Dio. Dio – diceva san Gregorio
Magno – «a volte ci ammonisce con le
parole, a volte, invece, con i fatti», cioè con
gli avvenimenti e le situazioni21. C’è
un’obbedienza a Dio – e spesso tra le più
esigenti – che consiste semplicemente
nell’obbedire alle situazioni. Quando si è
visto che, nonostante tutti gli sforzi e le
preghiere, ci sono, nella nostra vita,
situazioni difficili, talvolta addirittura
assurde e – a nostro parere – spiritualmente
controproducenti, che non cambiano,
bisogna smettere di «recalcitrare contro il
pungolo» e cominciare a vedere in esse
delle silenziose, ma risolute volontà di Dio
su di noi. L’esperienza dimostra che,

76
soltanto dopo aver detto un «sì» totale e dal
profondo del cuore alla volontà di Dio, tali
situazioni di sofferenza perdono il potere
angosciante che hanno su di noi.
Bisogna, inoltre, essere pronti a
sospendere tutto, per fare la volontà di Dio:
lavoro, progetti, relazioni... Gesù sospese il
suo insegnamento, troncò ogni attività, non
si lasciò trattenere dal pensiero di cosa
sarebbe successo ai suoi apostoli, dello
scandalo che stava per prodursi a causa sua;
non si preoccupò di che cosa ne sarebbe
stato della sua parola, affidata, com’era,
unicamente alla povera memoria di alcuni
pescatori. Non si lasciò trattenere neppure
dal pensiero della Madre che lasciava sola.
La sua fu davvero un’obbedienza «cieca,
muta e sorda»: «Io – dice egli nel salmo –
come un sordo non ascolto e come un muto
non apro la bocca, sono come un uomo che
non sente e non risponde» (Sal 38, 14 s).
Nella vita di Gesù brilla, in modo
meraviglioso e insuperabile, quella che san
Basilio Magno amava chiamare «la
irremovibile e rapida obbedienza dovuta a

77
Dio», o ancora l’obbedienza «senza scuse,
rapidissima e irremovibile»22.
La conclusione più bella di una vita di
obbedienza sarebbe «morire per
obbedienza», cioè morire perché Dio dice al
suo servo: «Vieni!» ed egli viene. Così morì
Mosè: «Mosè, servo del Signore, morì in
quel luogo, nel paese di Moab, secondo
l’ordine del Signore» (Dt 34, 5). Fu
un’obbedienza grande quella di Abramo di
rinunciare, per comando di Dio, al «figlio
della promessa»; ma fu un’obbedienza
grande anche quella di Mosè di rinunciare,
per comando di Dio, alla «terra della
promessa»: «Questo è il paese che io darò
alla tua discendenza – disse Dio a Mosè sul
monte Nebo –: te l’ho fatto vedere con i
tuoi occhi, ma tu non vi entrerai!» (cf Dt
34, 4). L’obbedienza di Mosè è meno
remota dalla nostra esperienza di quanto
possa sembrare a prima vista. È, infatti, lo
stesso tipo di obbedienza che si profila
all’orizzonte quando Dio chiede a qualcuno
di lasciare che sia un altro a concludere
l’opera per cui ha lavorato tutta la vita e a

78
coglierne i frutti, quando Dio chiama
qualcuno a cambiare luogo, o addirittura lo
chiama a sé, nel bel mezzo della sua
attività... È un’obbedienza che si pone
spesso, in modo ancora più drammatico, a
un papà o a una mamma, quando uno di essi
si vede richiamato a Dio da una malattia
grave, prima di aver potuto vedere sistemati
nella vita i figli, ancora piccoli e bisognosi
di lui. Compiuta in spirito di fede da un
genitore cristiano, questa obbedienza si
trasforma in una fonte di grandi benedizioni
per gli stessi figli e in un’eredità più
preziosa e feconda della stessa vita.
L’obbedienza a Dio, anche nella sua
forma concreta, non è, come si vede,
appannaggio dei soli religiosi nella Chiesa,
ma è aperta a tutti i battezzati. I laici non
hanno, nella Chiesa, un superiore cui
obbedire – almeno non nel senso con cui ce
l’hanno i religiosi e i chierici –; hanno però,
in compenso, un «Signore» cui obbedire!
Hanno la sua Parola! Fin nelle sue più
remote radici ebraiche, la parola «obbedire»
denota l’ascolto ed è riferito alla parola di

79
Dio. ll termine greco usato nel Nuovo
Testamento per designare l’obbedienza
(hypakoúein), tradotto letteralmente,
significa «ascoltare attentamente», o «dare
ascolto» e anche la parola latina
«oboedientia» (da ob-audire) significa la
stessa cosa. Ascolto e obbedienza si
intrecciano in questo accorato lamento di
Dio che si legge nella Scrittura:
«Ascolta, popolo mio...
Israele, se tu mi ascoltassi...!
Ma il mio popolo
non ha ascoltato la mia voce,
Israele non mi ha obbedito.
Se il mio popolo mi ascoltasse,
se Israele camminasse per le mie vie!
Subito piegherei i suoi nemici...
I nemici del Signore
gli sarebbero sottomessi» (Sal 81).
Nel suo significato più originario,
obbedire vuol dunque dire sottomettersi alla
Parola, riconoscere a essa un reale potere su
di te. Da qui si capisce come, alla riscoperta
della parola di Dio nella Chiesa di oggi,

80
deve tener dietro una riscoperta
dell’obbedienza. Non si può coltivare la
parola di Dio, senza coltivare anche
l’obbedienza.
Diversamente, si diventa ipso facto
disobbedienti. «Disobbedire» (parakoúein)
significa ascoltare male, distrattamente.
Potremmo dire che significa ascoltare con
distacco, in modo neutrale, senza sentirsi
vincolati da quello che si ascolta,
conservando il proprio potere decisionale di
fronte alla Parola. I disobbedienti sono
coloro che ascoltano la Parola, ma – come
dice Gesù – non la mettono in pratica (cf
Mt 7, 26). Non tanto però nel senso che
restano indietro con la pratica, quanto nel
senso che non si pongono nemmeno il
problema della pratica. Studiano la Parola,
ma senza l’idea che vi si devono
sottomettere; dominano la Parola, nel senso
che ne padroneggiano gli strumenti di
analisi, ma non ne vogliono essere
dominati; vogliono conservare la neutralità,
che si addice a ogni studioso, nei confronti
dell’oggetto del proprio studio. Al

81
contrario, la via dell’obbedienza si apre
davanti a colui che ha deciso di vivere «per
il Signore»; essa è un’esigenza che scatta
con la vera conversione. Come al religioso
che ha appena fatto la sua professione
religiosa, viene consegnata la Regola da
osservare, così al cristiano che si è
nuovamente convertito al Vangelo, nello
Spirito Santo, viene consegnata questa
semplice regola contenuta in una sola frase:
«Sii obbediente! Obbedisci alla Parola!».

Note
17 Atanasio, Vita di Antonio, 2 (PG 26, 841 C).
18 Tommaso da Celano, Vita prima, 22 (FF 356).
19 Francesco d’Assisi, Testamento, 14 (FF 116).
20 Lumen gentium, n. 4.
21 Gregorio Magno, Omelie sui Vangeli, 17, 1 (PL 76,
1139).
22 Basilio Magno, Sul battesimo, 1 (PG 31, 1524 C; 1529
C).

82
VI
Obbedienza e autorità

Dicevo che l’obbedienza a Dio è


l’obbedienza che possiamo fare «sempre»,
in ogni istante. Essa, però è anche
l’obbedienza che possiamo fare «tutti», sia i
sudditi che i superiori. Si dice, di solito, che
bisogna imparare a obbedire per imparare a
comandare. Non è solo un principio di buon
senso, ma qualcosa di molto più profondo.
Significa che la vera fonte dell’autorità
spirituale cristiana è l’obbedienza, più che
la carica. Il centurione del Vangelo dice a
Gesù: «Io sono un uomo sottoposto a una
autorità, e ho sotto di me dei soldati, e dico
all’uno: Va’ ed egli va, e a un altro: Vieni!
ed egli viene, e al mio servo: Fa’ questo ed
egli lo fa» (Lc 7, 8). Il senso di queste
parole è il seguente: per il fatto di essere

83
sottoposto, cioè obbediente, ai suoi
superiori e, in definitiva, all’imperatore,
egli può emettere ordini che hanno dietro di
sé l’autorità dell’imperatore in persona; egli
viene obbedito dai suoi soldati, perché, a
sua volta, obbedisce ed è sottoposto al suo
superiore. Così – pensa il centuriore –
avviene anche con Gesù, nei confronti di
Dio: dal momento che lui è in comunione
con Dio e obbedisce a Dio, ha dietro di sé
l’autorità stessa di Dio e perciò può
comandare al suo servo di guarire ed egli
guarirà, può comandare alla malattia di
lasciarlo ed essa lo lascerà. È la forza e la
semplicità di questo argomento che strappa
l’ammirazione di Gesù e gli fa dire di non
avere mai trovato tanta fede in Israele. Egli
ha capito che l’autorità di Gesù e i suoi
miracoli derivano dalla sua perfetta
obbedienza al Padre23. Il centurione non fa
dipendere tanto la sua autorità sui soldati
dal fatto di essere stato «nominato»
centurione dall’imperatore – cioè, non la fa
dipendere tanto dall’istituzione o dal titolo
–, quanto dal fatto di essere a lui

84
attualmente e concretamente sottoposto;
non la fa dipendere tanto dalla carica in sé,
quanto dal modo e dallo spirito con il quale
la esercita. Egli potrebbe essere uno dei
tanti centurioni in stato di ribellione o di
ammutinamento, e allora come potrebbe
chiedere ai sudditi di obbedirgli? Così
sappiamo che faceva anche Gesù; egli non
faceva dipendere tanto la sua autorità e il
fatto che tutto gli obbediva dalla dignità e
dal titolo di Figlio di Dio che egli
possedeva, quanto piuttosto dal fatto che
egli faceva, momento per momento, la
volontà del Padre: «Colui che mi ha
mandato – dice – è con me e non mi ha
lasciato solo, perché io faccio sempre le
cose che gli sono gradite» (Gv 8, 29).
Concepire l’autorità come obbedienza
significa non contentarsi della sola autorità,
ma cercare anche l’autorevolezza che può
venire solo dal fatto che Dio è dietro di te e
appoggia la tua decisione. Significa
avvicinarsi a quel tipo di autorità che
irradiava dall’agire di Cristo e faceva dire
alla gente: «Che autorità è mai questa? Egli

85
parla con autorità!» (cf Mc 1, 22.27; 11, 28;
Mt 7, 29). La gente conosceva bene, a quel
tempo, l’autorità; il giudaismo era pieno di
«autorità»; eppure, davanti a Gesù, si
percepisce l’autorità come una cosa nuova,
mai vista prima. Si tratta, infatti, di
un’autorità diversa, di un «potere» reale ed
efficace, non solo nominale o «ufficiale»; di
un potere intrinseco, non estrinseco. Anche
oggi, il mondo è pieno di autorità di ogni
genere, ma sono così poche le persone che,
oltre all’autorità, hanno anche
autorevolezza! Le comunità, le famiglie,
hanno vitale bisogno di questo tipo di
autorità spirituale. Quando un ordine è dato
da un superiore o da un genitore che cerca
di vivere abitualmente nella volontà di Dio,
che ha pregato e che non ha nulla di proprio
da difendere, ma solo il bene del suddito o
del figlio, allora l’autorità stessa di Dio si
pone come contrafforte di quell’ordine e di
quella decisione; se ci sarà contestazione,
Dio dice allora al suo rappresentante ciò
che disse a Geremia: «Ecco, io faccio di te
come una fortezza, come un muro di

86
bronzo… Ti muoveranno guerra, ma non ti
vinceranno, perché io sono con te» (Ger 1,
18-19). Forse se c’è crisi di obbedienza nel
nostro mondo, è perché, prima ancora, c’è
crisi di autorità, di questa autorità.
Di nuovo, questo non significa attenuare
l’importanza dell’istituzione e della carica,
o far dipendere l’obbedienza del suddito
solo dal grado di autorità spirituale e di
autorevolezza del superiore, ciò che
sarebbe, manifestamente, la fine di ogni
obbedienza. Significa solo che chi esercita
l’autorità, lui, deve fondarsi il meno
possibile, o solo in ultima istanza, sul titolo
o sulla carica che ricopre e il più possibile,
invece, sull’unione della sua volontà con
quella di Dio, cioè sulla sua obbedienza;
mentre il suddito non deve interrogarsi o
pretendere di sapere se la decisione del
superiore sia o no conforme alla volontà di
Dio, egli deve presumere che lo sia. Per lui
deve bastare il titolo e la carica. Istituendo
quell’ufficio e ponendo quella persona a
ricoprirlo, Dio ha già espresso, per lui, la
sua volontà. Da ogni lato, come si vede, si

87
impone la stessa osservazione: l’obbedienza
a Dio, o al Vangelo, è di buona lega ed è
frutto dello Spirito, se mette in cuore il
desiderio di obbedire anche ai
rappresentanti di Dio: all’autorità, alla
regola, ai superiori; è sospetta, invece, in
caso contrario. L’obbedienza ai superiori è
il riscontro e, per così dire, la cartina di
tornasole; esattamente come è l’amore del
prossimo nell’ambito della virtù della
carità. Il primo comandamento resta il
«primo» comandamento, perché la sorgente
e il movente di tutto è l’amore di Dio; ma il
criterio per giudicare è il secondo
comandamento: «Chi non ama il proprio
fratello che vede, come può amare Dio che
non vede?» (1 Gv 4, 20). Se non obbedisci
all’autorità istituita da Dio – cioè a coloro
che il Signore risorto ha posto a capo della
Chiesa –, come puoi dire di obbedire al
Risorto? E tuttavia era necessario, anche
nell’ambito dell’obbedienza, come in quello
della carità, mettere in luce il «primo»
comandamento, per preservare il
«secondo». Esiste, infatti, per l’obbedienza,

88
un pericolo di secolarizzazione analogo a
quello che esiste per la carità. Il primo
comandamento è «Amerai il Signore Dio
tuo»; il secondo comandamento è «e il
prossimo tuo come te stesso». Se uno ama il
prossimo, ma senza passare per il primo
comandamento, cioè senza riferimento
alcuno a Dio, si ha quella che è stata
definita la «religione del secondo
comandamento», la religiosità orizzontale,
che può essere puro filantropismo. Così, ci
può essere un fenomeno analogo per
l’obbedienza, anche se, in questo caso, più
che di secolarizzazione si dovrebbe parlare
di istituzionalizzazione. Anziché alla
vivente volontà di Dio si obbedisce, allora,
a delle immagini distaccate di essa, magari
per spirito di disciplina, ma più spesso per
semplice abitudine. Si obbedisce non nella
novità dello Spirito, ma nella vetustà della
lettera.

Note
23 Cf C.H. Dodd, Il fondatore del cristianesimo, Elle Di
Ci, Leumann 1975, p. 59 s.

89
VII
Maria, l’obbediente

Abbiamo la gioia, ora, prima di terminare


le nostre considerazioni sull’obbedienza, di
contemplare l’icona vivente
dell’obbedienza, colei che non solo ha
imitato l’obbedienza del Servo, ma l’ha
vissuta con lui. Sant’Ireneo scrive:
«Parallelamente (s’intende, parallelamente
a Cristo, nuovo Adamo), si trova che anche
la vergine Maria è obbediente, quando dice:
«Ecco la tua serva, avvenga di me quello
che tu hai detto» (Lc 1, 38). Come Eva,
disobbedendo, divenne causa di morte per
sé e per tutto il genere umano, così Maria,
obbedendo, divenne causa di salvezza per
sé e per tutto il genere umano»24. Volendo
trovare un perno sul quale basare da una
parte il parallelismo Gesù-Maria, dall’altra

90
l’antitesi Eva-Maria, sant’Ireneo lo trova
nell’obbedienza. È sul terreno
dell’obbedienza che Maria si affianca a
Gesù e si contrappone a Eva, in tutti e tre i
testi in cui compare questo tema25. Il santo
ha afferrato con chiarezza il nucleo di
dottrina di san Paolo, espresso in Romani 5,
19, e lo ha esteso coerentemente a Maria e,
in lei, alla Chiesa. Ha fatto, così, la prima
applicazione della dottrina dell’obbedienza
alla Chiesa. Maria, in fatto di obbedienza,
fa da cerniera tra Cristo e la Chiesa. La sua
è stata un’imitazione esemplare o
prototipica che, a sua volta, serve da
modello a tutta la Chiesa. Si sa infatti che
per Ireneo, come per il resto della
Tradizione dopo di lui, l’espressione
«nuova Eva» designa a un tempo Maria e la
Chiesa – l’una in senso personale o tipico,
l’altra in senso generale –, al punto che
spesso è difficile perfino distinguere, nei
casi concreti, di quale delle due realtà si stia
parlando. Maria si affaccia dunque alla
riflessione teologica della Chiesa (siamo,
infatti, in presenza del primo abbozzo di

91
Mariologia) come l’obbediente. Questa è la
sua prerogativa personale, la parte dovuta a
lei, che più l’affianca a Cristo. Il concilio
Vaticano II ha riproposto questa visione di
sant’Ireneo, citandone le principali
affermazioni; dice, tra l’altro, che, con la
sua obbedienza, Maria «cooperò alla
salvezza dell’uomo», che sotto la croce essa
divenne, per la sua obbedienza e la sua
fede, «madre nell’ordine della grazia» e
modello della Chiesa26.
Dicevo all’inizio che è relativamente
facile scoprire la natura dell’obbedienza
cristiana: basta vedere in base a quale idea
di obbedienza Cristo è definito, dalla
Scrittura, l’obbediente. Qui aggiungo: basta
vedere in base a quale idea di obbedienza
Maria è definita, dalla Tradizione,
l’obbediente. Maria – abbiamo ascoltato da
sant’Ireneo – si mostra obbediente quando
dice: «Eccomi, sono la serva del Signore,
avvenga di me quello che hai detto».
«Come per opera della vergine
disobbediente – scrive ancora Ireneo –
l’uomo fu colpito e, precipitato, morì, così

92
per opera della Vergine obbediente alla
parola di Dio, egli ricevette nuovamente la
vita»27. Anche Maria obbedì sicuramente ai
genitori, alla legge, a Giuseppe. Non è,
però, a queste obbedienze che pensa
sant’Ireneo, ma alla sua obbedienza alla
parola di Dio. La sua obbedienza è l’esatta
antitesi della disobbedienza di Eva. Ma –
ancora una volta – a chi disobbedì Eva per
essere chiamata la disobbediente? Non
certo ai genitori, che non aveva, e neppure
al marito o a qualche legge scritta.
Disobbedì alla parola di Dio! Come il
«Fiat» di Maria si affianca, nel Vangelo di
Luca, al «Fiat» di Gesù nel Getsemani (cf
Lc 22, 42), così, per sant’Ireneo,
l’obbedienza della nuova Eva si affianca
all’obbedienza del nuovo Adamo.
Riflettiamo un poco su questa obbedienza
di Maria alla parola di Dio. «Con le parole:
Ecce ancilla Domini... – scrive Origene – è
come se Maria dicesse: Sono una tavoletta
da scrivere: lo Scrittore scriva ciò che
vuole, faccia di me ciò che vuole il Signore
di tutto»28. Egli paragona Maria alla

93
tavoletta cerata che si usava a suo tempo
per scrivere, per indicare la docilità assoluta
di Maria. Maria offre se stessa a Dio come
una pagina bianca sulla quale si può
scrivere ancora tutto; restituisce a Dio
quella libertà assoluta che aveva su di lei,
fino a un attimo prima di crearla, quando
non era ancora che «un pensiero del suo
cuore» ed egli poteva fare di lei, senza il
suo consenso, qualsiasi cosa. «La parola di
Maria – scrive un esegeta moderno – ha
avuto sempre un’importanza fondamentale
per la pia riflessione; essa l’ha intesa come
il vertice di ogni comportamento religioso
davanti a Dio, poiché esprime nella maniera
più elevata la passiva disponibilità unita
all’attiva prontezza»29.
L’obbedienza di Maria non finisce con
l’Annunciazione; quello fu, in un certo
senso, solo l’inizio. Nella Presentazione al
tempio è avvenuto, per Maria, qualcosa che
ricorda ciò che avvenne, per Gesù, nel
battesimo del Giordano. In quell’occasione,
per le parole del Padre, la vocazione di
Messia si precisò alla coscienza di Gesù –

94
in quanto questa era una coscienza anche
umana – come vocazione a essere un
Messia sofferente, a essere il Servo di Jahvè
rifiutato, e Gesù rispose con l’obbedienza,
rinnovando il suo «Eccomi!». Nella
Presentazione, la vocazione di Maria, per le
parole di Simeone («E anche a te una spada
trafiggerà l’anima»), le si precisò come
vocazione a essere madre di un Messia
contraddetto e rifiutato, cioè come
vocazione ardua e dolorosa. Anche Maria
rispose con l’obbedienza silenziosa. Ella
venne allargando, via via, il suo «sì», fino
ad abbracciare in esso tutto, anche la croce.
Anche di Maria si può dire ciò che
l’epistola agli Ebrei dice di Gesù e cioè che
«imparò l’obbedienza dalle cose che patì»
(Eb 5, 8). Lo stesso sant’Ireneo applica,
implicitamente, questa parola a Maria,
quando dice che anche lei, resa perfetta,
«divenne causa di salvezza» per il genere
umano30. Una tale affermazione – che
Maria, cioè, con la sua obbedienza, divenne
«causa di salvezza per sé e per il genere
umano» – non deve sembrare eccessiva e

95
fuori luogo. Sul Calvario, infatti, ci fu
un’unica obbedienza, un unico «Sì» del
Figlio e della Madre. Il «Fiat» di Maria si
univa a quello del Figlio, come le gocce
d’acqua che vengono versate nel vino del
calice e diventano un solo sangue e
un’unica «bevanda di salvezza».
L’obbedienza di Maria, a partire dal
«Fiat» della sua Annunciazione, è
facilmente esposta al pericolo di essere
banalizzata e divenire un luogo comune,
qualcosa di solamente devozionale. Per
comprenderne tutta la tremenda serietà,
bisogna applicare a Maria la categoria della
«contemporaneità», illustrata da
Kierkegaard, nell’opera Esercizio del
cristianesimo. Maria è stata l’unica, vera
«contemporanea» di Cristo, in un senso
ancora più profondo e radicale di quanto
abbia immaginato questo filosofo. Noi
crediamo alle cose che sono accadute, ma
Maria credeva alle cose che accadevano,
mentre accadevano. Maria ha obbedito «in
situazione di contemporaneità», non come
noi che vediamo i fatti a duemila anni di

96
distanza, dopo tante verifiche, riprove,
chiarificazioni e spiegazioni. Noi sappiamo
cosa è successo dopo; per Maria, era la
prima volta nella storia ed era così fuori
della norma, così pericoloso! Si trattava di
diventare madre, prima di essere sposata.
Maria conosceva certamente ciò che era
scritto nella legge: «Se la giovane non è
stata trovata (dal marito) in stato di
verginità, allora la faranno uscire
all’ingresso della casa del padre e la gente
della sua città la lapiderà» (Dt 22, 20-21).
Per Maria non c’era nessun appiglio umano,
nessun punto di riferimento, all’infuori di
Dio e della sua Parola; non c’era, per lei,
nessuna spiegazione. Bisogna mettersi nei
panni di Maria, per valutare la portata della
sua obbedienza, e nessuno potrà mai fare
veramente questo, perché non si può
ripetere ciò che è avvenuto una volta sola
nella storia.
Quante cose dobbiamo imparare
dall’obbedienza della Madre di Dio! Noi
chiediamo, il più delle volte, a Maria,
l’aiuto, non per fare la volontà di Dio, ma

97
per cambiarla. Ella avrà certamente recitato
o ascoltato, durante la sua vita terrena, il
versetto del Salmo in cui si dice a Dio:
«Insegnami a compiere il tuo volere» (Sal
142, 10). Dovremmo imparare a dirlo anche
noi come lo diceva lei.

Note
24 Ireneo, Contro le eresie, III, 22, 4.
25 Cf ibid., V, 19, 1.
26 Lumen gentium, nn. 56.61.63.
27 Ireneo, Dimostrazione, 33.
28 Origene, Commento al Vangelo di Luca, frammento 18
(GCS 49, p. 227).
29 H. Schürmann, Il Vangelo di Luca, Paideia, Brescia
1983, p. 154.
30 Cf Ireneo, Contro le eresie, III, 22, 4.

98
VIII
«Ecco, io vengo, o Dio...»

Sono convinto che, per superare la crisi


attuale di obbedienza nella Chiesa, occorre
innamorarsi dell’obbedienza, poiché chi si
innamora dell’obbedienza, troverà poi bene
il modo di esercitarla. Ho cercato di mettere
in luce alcuni motivi che aiutano in questo
compito: l’esempio di Gesù, quello di
Maria, il nostro battesimo... Ma ce n’è uno
che è capace di parlare più di tutti al nostro
cuore ed è la compiacenza di Dio Padre.
L’obbedienza è la chiave che apre il cuore
di Dio Padre. Ad Abramo, tornato dal
monte Moria, Dio disse: «Io ti benedirò con
ogni benedizione... Saranno benedette nella
tua discendenza tutte le nazioni della terra,
poiché tu hai obbedito alla mia voce!» (Gn
22, 17-18). Il tono di queste parole fa

99
pensare a uno che si è dovuto trattenere a
lungo e a fatica, ma che ora può finalmente
dare libero sfogo a ciò che ha nel cuore. È
come quando si aprono le saracinesche e
l’acqua di una diga si riversa a valle. In
tutte le generazioni, fino alla nostra, si sono
propagate l’onda dell’obbedienza di
Abramo e l’onda della benedizione di Dio.
La stessa cosa si ripete, a un livello
infinitamente più alto, con Gesù: poiché
Cristo si è fatto obbediente fino alla morte,
il Padre lo ha esaltato e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni altro nome (cf Fil
2, 8-11). La compiacenza di Dio Padre non
è un modo di dire metaforico, privo di
realtà; è lo Spirito Santo! Dio – dice Pietro,
negli Atti degli Apostoli – dà lo Spirito
Santo a coloro che si sottomettono a lui (cf
At 5, 32). Nel battesimo del Giordano,
riconoscendo nel suo Figlio Gesù il Servo
obbediente, il Padre proclama la sua
«compiacenza» e «pone» su di lui il suo
Spirito (cf Mt 3, 17; 12, 18; Is 42, 1).
Se vogliamo entrare in questa
compiacenza di Dio, dobbiamo imparare a

100
dire anche noi «Eccomi!». Attraverso tutta
la Bibbia risuona questa parolina, tra le più
semplici e brevi del linguaggio umano, ma
tra le più care a Dio. Essa esprime il mistero
dell’obbedienza a Dio: Abramo disse:
«Eccomi!», in ebraico Hineni (Gn 22, 1);
Mosè disse: «Eccomi!» (Es 3, 4); Samuele
disse: «Eccomi!» (1 Sam 3, 1 ss); Isaia
disse: «Eccomi!» (Is 6, 8); Maria disse:
«Eccomi!» (Lc 1, 38); Gesù disse:
«Eccomi!» (Eb 10, 9). Sembra di assistere a
una specie di appello, nel quale i chiamati
rispondono, uno alla volta: «Presente!».
Questi uomini hanno risposto davvero
all’«appello» di Dio! La Bibbia predilige
tanto questa parolina che la mette in bocca
anche alle creature inanimate: «Egli le
chiama (le stelle) e rispondono “Eccomi” e
brillano di gioia per colui che le ha create»
(Bar 3, 35; cf Gb 38, 35). Tra i tanti
«Eccomi!» della Bibbia, ne manca uno, e
questa mancanza ha segnato il destino
dell’uomo per sempre. Quando Dio chiamò
Adamo, dopo il peccato, forse per
perdonarlo, Adamo, anziché rispondere

101
«Eccomi!», andò a nascondersi (cf Gn 3,
10).

Il Salmo 40 ci descrive un’esperienza


spirituale che ci aiuta a formulare il
«proposito», alla fine di questa
meditazione. Un giorno in cui era pieno di
gioia e di riconoscenza per i benefici del
suo Dio («Ho sperato, ho sperato nel
Signore ed egli su di me si è chinato...; mi
ha tratto dalla fossa della morte...»), in un
vero stato di grazia, il salmista si domanda
cosa può fare per rispondere a tanta bontà di
Dio: offrire olocausti, vittime? Capisce
subito che non è questo che Dio vuole da
lui; è troppo poco per esprimere quello che
ha nel cuore. Allora ecco l’intuizione e la
rivelazione: quello che Dio desidera da lui è
una decisione generosa e solenne, di
compiere, d’ora in poi, tutto quello che Dio
vuole da lui, di obbedirgli in tutto. Allora
egli dice:
«Ecco, io vengo.
Sul rotolo del libro di me è scritto,

102
che io faccia il tuo volere.
Mio Dio, questo io desidero, la tua legge
è nel profondo del mio cuore».
Sappiamo chi ha fatto sue prima di noi
queste parole. Ora tocca a noi. Tutta la vita,
giorno per giorno, può essere vissuta
all’insegna della parola: «Ecco, io vengo, o
Dio, a fare la tua volontà!». Al mattino,
nell’iniziare una nuova giornata, poi nel
recarsi a un appuntamento, a un incontro,
nell’iniziare un nuovo lavoro: «Ecco, io
vengo, o Dio, a fare la tua volontà!». Noi
non sappiamo cosa, quel giorno,
quell’incontro, quel lavoro ci riserverà;
sappiamo una cosa sola con certezza: che
vogliamo fare, in essi, la volontà di Dio.
Noi non sappiamo cosa riserva a ciascuno
di noi il nostro avvenire; ma è bello
incamminarci verso di esso con questa
parola sulle labbra: «Ecco, io vengo, o Dio,
a fare la tua volontà!».

103
L'AUTORE

Padre Raniero Cantalamessa, francescano


cappuccino, è originario della provincia di
Ascoli Piceno. Laureato in Teologia e in
Lettere classiche, già professore ordinario
di Storia delle origini cristiane presso
l’Università Cattolica di Milano, membro
della Commissione Teologica
Internazionale fino al 1981, nel 1979 ha
lasciato l’insegnamento accademico per
dedicarsi interamente alla predicazione in
varie nazioni del mondo, con spiccata

104
sensibilità ecumenica. Dal 1980 è
Predicatore della Casa Pontificia. Ha
condotto per 14 anni, su RAI 1, il
programma di cultura religiosa ‘Le ragioni
della speranza’. Con Àncora ha pubblicato
molti libri di successo, tradotti in tutto il
mondo.

105
Indice
I. Un rinnovamento dell’obbedienza «nello
Spirito»
II. L’obbedienza di Cristo
III. L’obbedienza come grazia: il battesimo
IV. L’obbedienza come «dovere»: il senso
di Romani 13, 1-7
V. L’obbedienza a Dio nella vita cristiana
VI. Obbedienza e autorità
VII. Maria, l’obbediente
VIII. «Ecco, io vengo, o Dio...»
Autore

106
Indice
I. Un rinnovamento
3
dell’obbedienza «nello Spirito»
Indice 106
II. L’obbedienza di Cristo 14
III. L’obbedienza come grazia:
28
il battesimo
IV. L’obbedienza come
«dovere»: il senso di Romani 39
13, 1-7
V. L’obbedienza a Dio nella
57
vita cristiana
VI. Obbedienza e autorità 83
VII. Maria, l’obbediente 90
VIII. «Ecco, io vengo, o Dio...» 99
Autore 104

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