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Raniero Cantalamessa

La nostra fede
Il Credo meditato e
vissuto

1
Collana In cammino

© 2016 Àncora S.r.l.


Àncora Editrice
Via B. Crespi, 30 - 20159 Milano
editrice@ancoralibri.it
www.ancoralibri.it
ISBN 978-88-514-1716-1
Prima edizione digitale: febbraio 2016

2
INTRODUZIONE

Anticamente, quando il battesimo veniva


amministrato in età adulta, al catecumeno
veniva «consegnato» il simbolo di fede che
egli doveva in seguito proclamare a
memoria al momento del battesimo,
mostrando di averne compreso e assimilato
il significato. Il primo atto si chiamava la
consegna del simbolo (traditio symboli), il
secondo la proclamazione del simbolo
(redditio symboli). In occasione di
quest’ultima cerimonia, sant’Agostino
diceva:
«Il Simbolo del santo mistero che avete ricevuto
tutti insieme e che oggi avete reso uno per uno,
sono le parole su cui è costruita con saldezza la
fede della madre Chiesa sopra il fondamento
stabile che è Cristo Signore. Voi dunque lo avete
ricevuto e reso, ma nella mente e nel cuore lo
dovete tenere sempre presente, lo dovete ripetere
nei vostri letti, ripensarlo nelle piazze e non

3
scordarlo durante i pasti: e anche quando dormite
con il corpo, dovete vegliare in esso con il
cuore»1.
Idealmente noi vogliamo rivivere, come
in una specie di catecumenato concentrato,
questi momenti così belli e carichi di
significato della primitiva Chiesa, riviverli
però consapevolmente, liberamente, non più
come per interposta persona, o interposta
«istituzione». Tertulliano descrive il
momento in cui, dalle tenebre del
paganesimo, i convertiti arrivavano alla
fede, con l’immagine del bambino che,
uscendo dall’utero buio della madre,
«trasale, quasi spaventato, all’improvviso
apparire di tanta luce»2. Così vorremmo
che avvenisse, in qualche misura, anche per
noi alla fine del cammino che qui
intraprendiamo.
San Cirillo di Gerusalemme spiega come
e perché è nato, nella Chiesa, l’idea di un
«simbolo di fede»:
«Il simbolo della fede non fu composto secondo
opinioni umane, ma consiste nella raccolta dei
punti salienti, scelti da tutta la Scrittura, così da

4
dare una dottrina completa della fede. E come il
seme della senape racchiude in un granellino molti
rami, così questo compendio della fede racchiude
tutta la conoscenza della vera pietà contenuta
nell’Antico e nel Nuovo Testamento»3.
È utile premettere anche qualche notizia
storica circa l’origine del credo che
intendiamo commentare, cioè il credo
Niceno-Costantinopolitano. Secondo una
tradizione, che risale al concilio di
Calcedonia (451), il simbolo fu composto
dai 150 Padri riuniti in concilio a
Costantinopoli nel 381, i quali, tuttavia, non
avrebbero inteso far altro che riconfermare
il credo di Nicea, integrandolo con delle
aggiunte rese necessarie dalle successive
eresie4.
Le cose, secondo gli studi più recenti, si
sarebbero svolte più o meno così. A un
certo punto dei lavori, durante il concilio
del 381, su invito dell’imperatore Teodosio,
sarebbe stata approntata una formula di fede
destinata a rendere possibile un accordo, sul
problema dello Spirito Santo, tra il partito
ortodosso e quello dei macedoniani, contro

5
cui si era riunito il concilio. Nel mettere a
punto questo testo, i Padri a ciò deputati
avrebbero adottato il simbolo battesimale di
una Chiesa locale (probabilmente, quello di
Gerusalemme), aggiungendovi
semplicemente le note frasi relative allo
Spirito Santo5. Facendo ciò, i Padri
conciliari potevano benissimo avere la
persuasione di non proporre un nuovo
credo, ma di ratificare quello di Nicea. Per
tutto il IV secolo infatti l’espressione «fede
di Nicea», o «simbolo dei 318 Padri», non
indica soltanto il testo esatto e originale del
concilio di Nicea, ma anche ogni simbolo di
fede locale che, nel frattempo, era stato
corretto e integrato, in modo da contenere
gli elementi qualificanti della definizione di
quel concilio, soprattutto il termine
«consustanziale» (homoousion)6.
Il simbolo sarebbe dunque «Niceno», in
quanto l’impronta di fondo risale al concilio
del 325, e «Costantinopolitano», in quanto,
nella forma attuale, fu adottato e integrato
dal concilio del 381. Fallito, per il rifiuto

6
opposto dai macedoniani, lo scopo per il
quale il concilio aveva predisposto tale
formula di concordia, essa cadde nell’oblio,
finché il concilio di Calcedonia del 451 la
riportò alla luce, traendola forse dagli
archivi imperiali, e le conferì, con la sua
approvazione, un valore ecumenico. In tal
modo, il concilio di Costantinopoli
costituisce, nella storia della Chiesa, il caso
singolare di un concilio divenuto
ecumenico retroattivamente, in forza
dell’approvazione di un successivo concilio
ecumenico. Oggi questo valore
«ecumenico» del simbolo è accresciuto dal
fatto che esso è riconosciuto come la base
comune della fede nel dialogo tra le varie
denominazioni cristiane.
Nel nostro commento terremo conto di
alcune importanti acquisizioni della
teologia attuale della Chiesa. Il simbolo
Niceno-Costantinopolitano che recitiamo
nella Messa riflette la fede nella sua fase
finale, dopo tutte le chiarificazioni e le
definizioni conciliari. Riflette l’ordine

7
raggiunto alla fine del processo della
formazione del dogma, ma non riflette il
processo stesso. Non corrisponde, in altre
parole, al processo con cui di fatto la fede
della Chiesa si è formata e neppure al
processo con cui si giunge oggi alla fede nel
Dio di Gesù Cristo.
Nel credo attuale si parte da Dio Padre e
creatore, da lui si passa al Figlio e alla sua
opera redentrice e infine allo Spirito Santo
operante nella Chiesa. Nella realtà, la fede
seguì il cammino inverso. Fu l’esperienza
pentecostale dello Spirito che portò la
Chiesa a scoprire chi era Gesù e quale era
stato il suo insegnamento. Solo alla fine,
con Paolo e soprattutto con Giovanni, si
arriva a risalire da Gesù al Padre. È il
Paraclito che, secondo la promessa di Gesù
(Gv 16, 13), conduce i discepoli alla «piena
verità» su di lui e sul Padre. San Basilio ha
dato a questo dato storico una
giustificazione teologica profonda. Scrive:
«Il cammino della conoscenza di Dio procede
dall’unico Spirito, attraverso l’unico Figlio, fino
all’unico Padre; inversamente, la bontà naturale, la

8
santificazione secondo natura, la dignità regale, si
diffondono dal Padre, per mezzo dell’Unigenito,
fino allo Spirito»7.
In altre parole, sul piano dell’essere o
dell’uscita delle creature da Dio, tutto parte
dal Padre, passa per il Figlio e giunge a noi
nello Spirito; nell’ordine della conoscenza,
o del ritorno delle creature a Dio, tutto
comincia con lo Spirito Santo, passa per il
Figlio Gesù Cristo e ritorna al Padre.
Anziché commentare nell’ordine, articolo
per articolo, come si fa di solito, il credo
della Chiesa, noi ci proponiamo di
ripercorrere il cammino della fede nel suo
farsi, il cammino che san Basilio chiama
«della conoscenza di Dio». Tra i due modi
di utilizzare il credo – come prodotto bell’e
fatto oppure nel suo stesso farsi –, c’è la
stessa differenza che fare la scalata del
Monte Sinai, partendo dal monastero di
Santa Caterina, quando è ancora notte
fonda, e arrivare in cima in tempo per
ammirare da lassù il sorgere del sole,
oppure leggere il racconto di uno che ha
fatto la scalata prima di noi. Io ho fatto le

9
due cose. Avevo letto resoconti di questo
pellegrinaggio, ma il farlo personalmente,
nel corso di un pellegrinaggio in Terra
Santa, fu tutta un’altra cosa.
I sociologi da tempo hanno messo in luce
la forza dirompente e il carattere irripetibile
di un movimento o di una istituzione nel
suo statu nascenti, cioè al momento della
sua nascita. Noi ci proponiamo di cogliere
la fede nel suo stato nascente. Questo non
significa minimamente che il credo della
Chiesa non sia perfetto o che vada
riformato nel senso che ho detto. Esso non
può che essere così come è. È il modo di
leggerlo che una volta nella vita deve
cambiare per rifare il cammino con cui si è
formato.
Noi abbiamo un motivo in più per farlo ed
è che, sull’onda della «nuova Pentecoste»
avviata dal Concilio, milioni di credenti
hanno rivissuto questo cammino, hanno
sperimentato che è lo Spirito Santo che ci fa
conoscere il vero Gesù, il Gesù Signore
vivente, ed è in Gesù che si impara poi a
dire, con un sentimento nuovo: «Abbà,

10
Padre». Concretamente, questo significa
che leggeremo il credo alla rovescia,
partendo dal terzo articolo, quello sullo
Spirito Santo, passando poi al secondo su
Gesù e finendo con il primo sul Padre.
È un modo di trasportare nella vita quella
che viene ormai denominata «la teologia del
terzo articolo», s’intende del terzo articolo
del credo, quello sullo Spirito Santo. Con
essa si designa una visione della fede
cristiana in cui lo Spirito Santo non è alla
fine del processo, una specie di appendice
al mistero pasquale, ma è all’inizio della
salvezza; non è soltanto una «forza
supplementare data alla Chiesa per portare
la salvezza fino ai confini della terra», ma è
la salvezza stessa di Cristo nel suo concreto
attuarsi nella Chiesa e nella vita dei
credenti.
Per uno studioso di Storia delle origini
cristiane, come sono stato io per molti anni,
è stata una sorpresa e una conferma vedere
ripetersi sotto i miei occhi quello che con
tutta evidenza si nota all’inizio della
Chiesa. Un grande studioso del Nuovo

11
Testamento pensa che l’esperienza di Azusa
Street del 1906, con cui iniziò il movimento
pentecostale, fornisce il migliore esempio
che abbiamo per capire come, storicamente,
la comunità cristiana del Nuovo Testamento
iniziò a Pentecoste e cioè «come un’estasi
collettiva provocata dallo Spirito»8.
Nel nostro commento terremo conto di
una distinzione fondamentale. Nel credo si
parla di due cose diverse: di ciò che Dio
«è» – e cioè Padre, Figlio e Spirito Santo –
e di ciò che Dio «fa». In italiano la
distinzione è resa evidente dall’uso della
preposizione «in» nel primo caso (credo in
Dio Padre, in Gesù Cristo, nello Spirito
Santo) e dalla congiunzione «che» nel
secondo caso (credo che Dio è il creatore
del cielo e della terra, che si è incarnato nel
seno della Vergine, che è morto e risorto).
Non diciamo credo nella Chiesa, ma credo
la Chiesa, la comunione dei santi, la vita
eterna. Le persone divine sono il termine
della nostra fede, il resto è oggetto di fede.
È la stessa differenza che c’è tra credere in

12
qualcuno e credere qualcosa.
Questa distinzione è imposta dal fatto che
ogni persona divina è distinta dalle altre
due; le cose invece che esse operano ad
extra, nella storia, sono comuni a tutte e tre,
sono opere comuni della Trinità. La
creazione è opera della Trinità, come la
rivelazione, l’incarnazione, la Chiesa, la
vita eterna. Per rispettare questa distinzione,
mediteremo dapprima su ognuna delle tre
Persone divine e poi sulle opere della
Trinità; prima su chi è Dio, poi su cosa fa
Dio, secondo il credo della Chiesa.
È importante notare una cosa: il mio non
vuole essere principalmente un commento
dottrinale e catechetico al credo (per questo
esiste già l’autorevole commento del
Catechismo della Chiesa Cattolica, da
tenere sempre presente), quanto piuttosto
una meditazione su di esso, orientata
costantemente alla vita e alla pratica. Per
questo, in ogni capitolo, a una prima parte
storica e dottrinale, segue una applicazione
pratica alla vita e ai problemi di oggi.

13
Il credo è la mappa con la quale vogliamo
andare alla scoperta del territorio; cioè lo
strumento per accostarci alle grandi realtà
della fede, in primo luogo le tre Persone
divine. È una «via maestra» tracciata dalla
Chiesa e, come ogni via, essa non è
importante per se stessa, ma per la meta a
cui conduce. Va ricordato, soprattutto a
proposito del credo, il grande principio di
san Tommaso d’Aquino secondo cui «la
fede non termina agli enunciati, ma alla
realtà»9.
Sarà, spero, un’avventura! Ripeteremo,
con tappe accelerate, il cammino dei nostri
primi fratelli di fede. L’intento infatti non è
solo di conoscere la dinamica della fede
della Chiesa – come essa è nata – ma di
riviverla, di farne l’esperienza. È un
tentativo, per quanto modesto, di rompere la
secolare separazione tra teologia dogmatica
e teologia spirituale, tra il dogma e la vita,
esponendo ogni volta la verità di fede
contenuta nell’articolo per poi vederne
subito, non più in sede separata ma

14
nell’ambito della stessa meditazione, le
esigenze che da essa scaturiscono per la vita
cristiana.
Il libro, nato da una esperienza di
predicazione, si presta, credo, sia per la
meditazione personale che per corsi di
esercizi spirituali, scuole della fede,
missioni al popolo e come sussidio per la
nuova evangelizzazione. Il lettore non si
sorprenderà se a volte incontrerà, in esso,
pensieri e brani già presenti in precedenti
miei libri. Ciò è dovuto allo scopo pratico
di questo libro e al suo carattere di sintesi
della fede cristiana.

Note
1 Agostino, Discorsi, 215, 1 (PL 38, 1072).
2 Tertulliano, Apologeticum, 39, 9 (CCL 1, p. 151).
3 Cirillo di Gerusalemme, Catechesi, V, 12 (PG 33,
521-524).
4 Cf Conciliorum Oecumenicorum Decreta, EDB,
Bologna 1973, pp. 21-23.84.
5 Cf A.M. Ritter, Das Konzil von Konstantinopel
und sein Symbol, Vandenhoeck & Ruprecht,
Göttingen 1965, pp. 182-191.
6 Cf J. Lebon, Les anciens symboles dans la
définition de Chalcédoine, in «Revue d’Histoire

15
Ecclésiastique» 37 (1936), pp. 874 ss.; J.N.D. Kelly,
Early Christian Creeds, Longmans, London 1960,
pp. 322 ss.
7 Basilio, Sullo Spirito Santo, XVIII, 47 (PG 32,
153).
8 J.D.G. Dunn, Gli albori del cristianesimo, 2, «Gli
inizi a Gerusalemme», Paideia, Brescia 2012, p. 179.
9 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-IIae, q.
1, a. 2, ad 2.

16
I
CREDO NELLO SPIRITO
SANTO

La Pentecoste, icona russa contemporanea

17
1. Origine dell’articolo sullo Spirito
Santo
Secondo il programma che ci siamo
prefissi, iniziamo meditando sul terzo
articolo del credo, quello relativo allo
Spirito Santo:
«Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la
vita, e procede dal Padre e dal Figlio. Con il Padre
e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per
mezzo dei profeti».
Premetto alcuni cenni storici sull’origine
di questo articolo del credo, per poi passare
a commentarlo nei suoi diversi elementi.
Durante la Quaresima e il tempo
pasquale, nella Messa, si recita il credo
nella sua forma più antica e più breve, detta
«simbolo apostolico». Ricorderete che lì si
dice semplicemente: «Credo nello Spirito
Santo, la santa Chiesa cattolica…». Come e
perché si è passati, da questa forma breve, a
quella lunga del simbolo Niceno-
Costantinopolitano che abbiamo
richiamato?

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Per rispondere a questa domanda,
dobbiamo ricordare che il credo della
Chiesa non è nato, alla maniera della
Costituzione americana, da un gruppo di
uomini che si mettono insieme per redigere
un bel testo. È frutto di un lento farsi luce
della verità divina nella mente umana, il
risultato di una pedagogia divina che tiene
conto dei tempi di maturazione umana.
Chi aprì il dibattito esplicito sul posto
dello Spirito nella Trinità fu sant’Atanasio
nel secolo IV. Fino ad allora, la dottrina
intorno al Paraclito era rimasta nell’ombra,
e si capisce anche perché: non si poteva
definire la posizione dello Spirito Santo
nella divinità, prima che fosse definita
quella del Figlio, ciò che avvenne a Nicea
nel 325. Ci si limitava perciò a ripetere nel
simbolo di fede: «e credo nello Spirito
Santo», senza altre aggiunte.
La discussione si concluse con il concilio
ecumenico di Costantinopoli del 381, in cui
la scarna menzione dello Spirito Santo del
precedente simbolo apostolico fu ampliata
nel senso che conosciamo.

19
La formulazione adottata nel concilio non
piacque a tutti. Come sempre in questi casi,
ci fu chi rimproverò al concilio di aver detto
troppo (così gli «pneumatomachi», o nemici
dello Spirito) e chi gli rimproverò di aver
detto troppo poco, dal momento che lo
Spirito Santo non veniva apertamente
dichiarato «Dio» e consustanziale con il
Padre. Tra questi era san Gregorio
Nazianzeno che scrisse: «Lo Spirito Santo è
dunque Dio? Certamente! È consustanziale?
Sì, se è vero che è Dio»10. «Fino a quando
– aggiungeva altrove – terremo nascosta la
lampada sotto il moggio e non
proclameremo a voce alta la piena divinità
dello Spirito Santo?»11.
L’articolo sullo Spirito Santo condivise la
sorte del resto del simbolo che ho ricordato
nell’Introduzione. Esso cadde così
nell’oblio. Fu il successivo concilio
ecumenico di Calcedonia del 451 che lo
ripescò e lo adottò, facendo di esso il
simbolo Niceno-Costantinopolitano che
costituisce fino a oggi la base di fede

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comune a tutte le Chiese cristiane e che
recitiamo nella Messa nel corso dell’anno.
Le definizioni conciliari non sono un
riassunto della fede. Non intendono dire
tutto, ma solo tracciare un perimetro dentro
il quale ogni affermazione su una certa
verità deve collocarsi; servono a mettere al
sicuro la verità di fondo. Questo è
particolarmente evidente nell’articolo sullo
Spirito Santo. Basta confrontarlo con tutto
ciò che, di lui, dice il Nuovo Testamento, o
anche confrontarlo con la ricca e calda
pneumatologia del Veni creator o della
sequenza di Pentecoste Veni Sancte Spiritus,
per convincersene. L’articolo del credo non
chiude dunque la riflessione sullo Spirito
Santo, ma la stimola, la guida. Allo stesso
modo, nessuno pensa che si sia detto tutto
su Cristo dicendo, con la definizione di
Calcedonia, che è «una persona in due
nature».

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2. «Credo nello Spirito Santo, che è
Signore»
L’articolo del credo sullo Spirito Santo
comprende tre grandi affermazioni.
Iniziamo dalla prima: «Credo nello Spirito
Santo che è Signore e dà la vita». La prima
cosa da sottolineare è la preposizione
«nello». Una cosa, dicevo
nell’Introduzione, è credere qualcosa, altra
cosa credere in qualcuno. Credere «in» si
dice, nel credo, solo delle tre persone
divine: credo in Dio Padre… credo in Gesù
Cristo… credo nello Spirito Santo. Non
diciamo: credo nella santa Chiesa cattolica,
nella comunione dei santi; diciamo: credo
la santa Chiesa cattolica. «Credere in» è
molto di più che «credere che». Quando
Gesù dice: «Credete in Dio e credete anche
in me» (cf Gv 14, 1), non intendeva dire
solo: «Credete che Dio esiste, che io
esisto…», ma anche e soprattutto: «Abbiate
fiducia, credete alla sua parola e alla mia,
abbandonatevi a lui e a me, accogliete in

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voi il Padre e me».
«Che è Signore» (in greco to kyrion,
neutro). Attenti: non si dice che è «il»
Signore (poco sopra nel credo si proclama:
«e credo in un solo Signore Gesù Cristo»!),
ma si dice solo che è Signore. È un termine
che indica la natura, non la persona; dice
che cosa è, non chi è lo Spirito. «Signore»
vuole dire qui: «che appartiene al mondo
della signoria di Dio»; in altre parole, che è
Dio.
Non si poteva dire la stessa cosa in modo
più esplicito, definendo lo Spirito Santo
puramente e semplicemente Dio e
consustanziale con il Padre, come si era
fatto per il Figlio? Certamente, e fu proprio
questa, come abbiamo detto, la critica
mossa subito da alcuni vescovi alla
definizione. Per ragioni di opportunità e di
pace, si preferì dire la stessa cosa con
espressioni equivalenti, attribuendo allo
Spirito, oltre che il titolo Signore, anche la
isotimia, cioè l’uguaglianza con il Padre e il
Figlio nell’adorazione e nella glorificazione
della Chiesa.

23
Non dimentichiamo che il pensiero
cristiano si trovava davanti all’enorme
difficoltà di mantenere ferma la fede biblica
in un Dio unico, pur proclamando la Trinità.
Ancora non si era trovato un modo
accettabile da tutti per esprimere, in termini
concettuali, questa novità cristiana che pure
la Chiesa credeva e viveva da sempre, per
esempio nel conferire il battesimo «nel
nome del Padre e del Figlio e dello Spirito
Santo».
Nel pensiero dei Padri, il titolo «Signore»
è l’equivalente di «creatore» e viene
spiegato con esso. «Se è creato, scrive san
Basilio, lo Spirito Santo è chiaramente
servo; se invece è al di sopra della
creazione, allora è partecipe della
regalità»12. L’inno Veni creator Spiritus
raccoglie tutta questa tradizione. Fu il
concetto che portò alla certezza della piena
divinità dello Spirito Santo. O lo Spirito è
Signore, o è «servo»; o è creatore, o è
creatura, scriveva sant’Atanasio; non c’è
una terza entità di mezzo. Ma non può

24
essere creatura perché quando siamo toccati
da lui (nei sacramenti, nella Parola, nella
preghiera) facciamo l’esperienza di entrare
in contatto con Dio in persona. Se ci
divinizza, vuol dire che è lui stesso Dio13.
Definire lo Spirito creatore significa
estendere la sua sfera d’azione a tutta la
realtà creata, contro Origene che riservava
a lui la sfera dei santificati, al Figlio quella
delle creature dotate di ragione e al Padre
tutte quelle dotate dell’essere14; significa
anche estendere la sua azione a tutta la
storia, contro la tesi attribuita a Gioacchino
da Fiore, che vedeva nell’Antico
Testamento l’era del Padre, nel Nuovo
Testamento quella del Figlio e nell’era della
Chiesa quella dello Spirito Santo.
Come creatore, lo Spirito agisce anche
fuori della Chiesa e ciò dà un fondamento
teologico – non solo politico e contingente
– al dialogo interreligioso e al
riconoscimento di elementi positivi anche
fuori della religione biblica. «Ogni verità,
da chiunque sia scoperta, proviene dallo

25
Spirito Santo», ha scritto san Tommaso
d’Aquino15. Dà un fondamento teologico
anche all’ecologismo cristiano. Se il creato
è opera dello Spirito creatore, non si può
manomettere un’opera d’arte senza
offendere il suo autore. Paolo parla di una
misteriosa presenza dello Spirito nella
creazione che la spinge verso la piena
liberazione. La nostra sintonia con il creato
si basa sul fatto che abbiamo ricevuto
entrambi, in modo diverso, «le primizie
dello Spirito» che ci spinge verso la piena
liberazione (cf Rm 8, 19 ss.).

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3. «… e dà la vita»
L’espressione «e dà la vita» è desunta da
diversi passi del Nuovo Testamento: «È lo
Spirito che dà la vita» (Gv 6, 63); «La legge
dello Spirito dà la vita in Cristo Gesù» (Rm
8, 2); «L’ultimo Adamo divenne spirito
datore di vita» (1 Cor 15, 45); «La lettera
uccide, lo Spirito dà la vita» (2 Cor 3, 6). In
tutta la Scrittura ogni volta che c’è un salto
di qualità nella vita, è all’opera lo Spirito di
Dio. Nella creazione, Dio alita su Adamo
un soffio (pnoe!) di vita e questi diventa un
essere vivente (Gn 2, 7); nell’incarnazione,
lo Spirito Santo scende su Maria e in lei
prende vita il corpo umano di Cristo; nella
risurrezione, lo Spirito fa irruzione nel
sepolcro di Cristo ed egli risorge a nuova
vita; nell’Eucaristia, lo Spirito Santo viene
invocato sulle offerte e il pane diventa
corpo vivo di Cristo. Anche la nostra
risurrezione finale avverrà per opera dello
Spirito: «Se lo Spirito di Dio che ha
risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui

27
che ha risuscitato Cristo dai morti darà la
vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo
dello Spirito che abita in voi» (Rm 8, 11).
Ci poniamo tre domande. Primo, che vita
dà lo Spirito Santo? La vita divina, la vita
di Cristo. Una vita super-naturale, non una
super-vita naturale; crea l’uomo nuovo, non
il superuomo di Nietzsche. Secondo, dove
ci dà tale vita? Nel battesimo, che è
presentato infatti come un «rinascere dallo
Spirito» (Gv 3, 5), nei sacramenti, nella
parola di Dio che è ispirata dallo Spirito e
traspira lo Spirito, nella preghiera, nella
fede, nella sofferenza accettata in unione
con Cristo. Terzo, come ci dà la vita, lo
Spirito? La risposta è: facendo morire le
opere della carne! Ed è il tema sul quale ci
soffermeremo più a lungo in questa prima
meditazione.
Chi ha insistito di più su questo modo
dello Spirito di dare la vita è stato san
Basilio, colui che scrisse il primo trattato
sullo Spirito Santo e che ebbe il ruolo
principale nel formulare l’articolo sullo
Spirito Santo nel concilio di Costantinopoli

28
del 381. Da asceta e uomo spirituale, il suo
interesse maggiore è per l’agire dello
Spirito nella vita di ogni singolo battezzato.
Pur senza stabilire ancora la distinzione e
l’ordine delle tre vie che diventeranno
classiche in seguito, egli mette
meravigliosamente in luce l’azione dello
Spirito Santo nella purificazione dell’anima
dal peccato, nella sua illuminazione e nella
divinizzazione, che egli chiama anche
«intimità con Dio»16.
Ascoltiamo la pagina in cui, in continuo
riferimento alla Scrittura, Basilio descrive
questa azione e lasciamoci trasportare dal
suo entusiasmo:
«Il rapporto di familiarità dello Spirito con
l’anima, non è un avvicinamento nello spazio –
come ci si potrebbe infatti accostare all’incorporeo
corporalmente? – ma piuttosto consiste
nell’esclusione delle passioni, le quali, come
conseguenza della loro attrazione per la carne,
giungono all’anima e la separano dall’unione con
Dio. Purificati dalla lordura di cui ci si era
impastati attraverso il peccato e tornati alla
bellezza naturale, come avendo restituito a una
immagine regale l’antica forma mediante la

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purificazione, solo così è possibile accostarsi al
Paraclito. Egli, come un sole, riconoscendo
l’occhio purificato, ti mostrerà in se stesso
l’immagine dell’Invisibile. Nella beata
contemplazione dell’immagine, vedrai l’indicibile
bellezza dell’archetipo. Per mezzo di lui si elevano
i cuori, i deboli sono presi per mano, coloro che
progrediscono giungono alla perfezione. Egli,
illuminando coloro che si sono purificati da ogni
macchia, li rende spirituali per mezzo della
comunione con lui. E come i corpi limpidi e
trasparenti, quando un raggio li colpisce,
diventano essi stessi splendenti e riflettono un
altro raggio, così le anime portatrici dello Spirito
sono illuminate dallo Spirito; esse stesse
divengono pienamente spirituali e rinviano sugli
altri la grazia. Da qui la preconoscenza delle cose
future; la comprensione dei misteri; la percezione
delle cose nascoste; le distribuzioni di carismi, la
cittadinanza celeste; la danza con gli angeli; la
gioia senza fine; la permanenza in Dio; la
somiglianza con Dio; il compimento dei desideri:
divenire Dio»17.
Non è stato difficile per gli studiosi
scoprire dietro il testo di Basilio immagini e
concetti derivati dalle Enneadi del filosofo
neoplatonico Plotino e parlare, a questo
proposito, di una infiltrazione estranea nel
corpo del cristianesimo. In realtà, si tratta di

30
un tema squisitamente biblico e paolino che
si esprime, come era doveroso, in termini
familiari e significativi per la cultura del
tempo. Alla base di tutto, Basilio non pone
l’azione dell’uomo – la contemplazione –,
ma l’azione di Dio e l’imitazione di Cristo.
Siamo agli antipodi della visione di Plotino
e di ogni filosofia. Tutto, per lui, comincia
con il battesimo che è una nuova nascita.
L’atto decisivo non è alla fine, ma all’inizio
del cammino:
«Come nella corsa doppia degli stadi, una fermata
e un riposo separano i percorsi in senso opposto,
così anche nel cambiamento di vita appare
necessario che una morte si frapponga alle due
vite per mettere fine a ciò che precede e dare
inizio alle cose successive. Come riuscire a
discendere agli inferi? Imitando la sepoltura di
Cristo per mezzo del battesimo»18.
Il pensiero di fondo è lo stesso di Paolo.
Nel capitolo 6 della Lettera ai Romani
l’Apostolo parla della purificazione radicale
dal peccato che avviene nel battesimo e nel
capitolo 8 descrive la lotta che, sostenuto
dallo Spirito, il cristiano deve condurre, nel

31
resto della sua esistenza, contro i desideri
della carne, per avanzare nella vita nuova:
«Quelli che sono secondo la carne, pensano alle
cose della carne; invece quelli che sono secondo lo
Spirito, pensano alle cose dello Spirito. Ma ciò che
brama la carne è morte, mentre ciò che brama lo
Spirito è vita e pace; infatti ciò che brama la carne
è inimicizia contro Dio, perché non è sottomesso
alla legge di Dio e neppure può esserlo; e quelli
che sono nella carne non possono piacere a Dio
[…]. Così dunque, fratelli, non siamo debitori alla
carne per vivere secondo la carne; perché se vivete
secondo la carne voi morrete; ma se mediante lo
Spirito fate morire le opere del corpo, voi vivrete»
(Rm 8, 5-13).
Non c’è da stupirsi se per illustrare il
compito descritto da san Paolo, Basilio
abbia fatto uso di un’immagine di Plotino.
Essa è all’origine di una delle metafore più
universali della vita spirituale e parla a noi
oggi non meno che ai cristiani di allora:
«Orsù, ritorna a te stesso e guarda; e se non ancora
ti vedi bello, imita l’autore di una statua che deve
riuscire bella: quegli in parte scalpella, in parte
appiana; qui leviga, lì affina, sino a quando avrà
espresso un bel volto nella statua. Similmente
anche tu togli il superfluo, raddrizza ciò che è
storto e, a furia di purificare ciò che è oscuro, fa’

32
che diventi lucido e non cessare dal tormentare la
tua statua fino a quando il divino splendore della
virtù ti brilli dinanzi»19.
Se la scultura, come diceva Leonardo da
Vinci, è l’arte di levare, ha ragione il
filosofo a paragonare la purificazione e la
santità alla scultura. Per il cristiano non si
tratta però di raggiungere un’astratta
bellezza, di costruire una bella statua, ma di
riportare alla luce e rendere sempre più
splendente l’immagine di Dio che il peccato
tende continuamente a ricoprire.
Si racconta che un giorno Michelangelo,
passeggiando in un cortile di Firenze, vide
un blocco di marmo grezzo ricoperto di
polvere e fango che spuntava dal terreno. Si
fermò di scatto a guardarlo, poi, come
rischiarato da un improvviso lampo, disse ai
presenti: «In questo masso di pietra è
nascosto un angelo: voglio tirarlo fuori!». E
si mise a lavorare di scalpello per dare
forma all’angelo che aveva intravisto. Così
è anche di noi. Noi siamo ancora dei massi
di pietra grezza, con addosso tanta «terra» e
tanti pezzi inutili. Dio Padre ci guarda e

33
dice: «In questo pezzo di pietra è nascosta
l’immagine del mio Figlio; voglio tirarla
fuori, perché brilli in eterno accanto a me in
cielo!». E per fare questo usa lo scalpello
della croce, ci pota (cf Gv 15, 2).
I più generosi non solo sopportano i colpi
di scalpello che vengono dall’esterno, ma
collaborano anch’essi, per quanto è loro
concesso, imponendosi piccole, o grandi,
mortificazioni volontarie e spezzando la
loro volontà vecchia. Diceva un padre del
deserto:
«Se vogliamo essere completamente liberati,
impariamo a spezzare la nostra volontà, e così,
poco a poco, con l’aiuto di Dio, avanzeremo e
arriveremo alla piena liberazione dalle passioni. È
possibile spezzare dieci volte la propria volontà in
un tempo brevissimo e vi dico come. Uno sta
passeggiando e vede qualcosa; il suo pensiero gli
dice: “Guarda là!”, ma lui risponde al suo
pensiero: “No, non guardo!”, e spezza la sua
volontà»20.
Questo antico Padre porta altri esempi
tratti dalla vita monastica. Si sta parlando
male di qualcuno, forse del superiore; il tuo
uomo vecchio ti dice: «Partecipa anche tu;

34
di’ quello che sai». Ma tu rispondi: «No!».
E mortifichi l’uomo vecchio… Non è
difficile allungare la lista con altri atti di
rinuncia, propri dello stato in cui si vive e
dell’ufficio che si ricopre. C’è uno
spettacolo spinto alla televisione, un sito
internet che si sa bene cosa conterrà…
L’uomo vecchio ti sussurra: «Non sei più un
ragazzino; che male ti può fare?»… L’ira ti
suggerisce una risposta dura. Tu rispondi no
e hai spezzato la tua volontà. Dal momento
che stiamo facendo degli «esercizi
spirituali», ecco l’occasione per un primo
importante esercizio da fare: individuare
dov’è che dovremmo affondare il nostro
scalpello, qual è il «pezzo» che deve cadere
da noi per non rimanere allo stato grezzo;
qual è la cosa a cui dobbiamo dire il primo
«no».
San Paolo, abbiamo sentito, dice: «Se
mediante lo Spirito fate morire le opere del
corpo, voi vivrete». Lo Spirito non è
dunque solo il frutto della mortificazione,
ma anche ciò che la rende possibile; non è
solo al termine del cammino, ma anche

35
all’inizio. Gli apostoli non ricevettero lo
Spirito a Pentecoste perché erano diventati
fervorosi; diventarono fervorosi perché
avevano ricevuto lo Spirito. Anche la
mortificazione deve essere fatta «nello
Spirito».
Da ogni lato si vede come lo Spirito Santo
è la grande risorsa e il segreto della vita
cristiana. Non è come un velo di zucchero
che si sparge al di sopra della torta
(l’immagine con cui il teologo Yves Congar
descrive l’idea che si aveva dello Spirito
prima del Concilio), ma è il lievito che
trasforma e solleva il tutto. Molti cristiani si
lamentano che le esigenze del vangelo sono
troppo grandi per loro, che non ce la fanno;
si scusano di tutto dicendo che «la carne è
debole».
C’è una storia, non so se accaduta o solo
immaginata, che la dice lunga sulla vita
cristiana vissuta senza o con lo Spirito
Santo. Ci servirà da piccolo break prima di
passare al prossimo punto che è assai
impegnativo. All’inizio del Novecento una
famiglia del sud Italia emigra negli Stati

36
Uniti. Non avendo abbastanza denaro per
pagarsi i pasti al ristorante, portano con sé il
vitto per il viaggio, pane e formaggio. Col
passare dei giorni e delle settimane il pane
diventa raffermo e il formaggio ammuffito;
il figlio a un certo punto non ne può più, gli
è venuta la nausea e non fa che piangere. I
genitori tirano fuori allora i pochi spiccioli
rimasti e glieli danno perché si goda un bel
pasto al ristorante. Il figlio va, mangia e
torna dai genitori tutto in lacrime. «Come,
abbiamo speso tutto per pagarti un bel
pranzo e tu ancora piangi?». «Sì, piango
perché ho scoperto che un pranzo al giorno
al ristorante era compreso nel prezzo del
biglietto, e noi abbiamo mangiato tutto il
tempo pane e formaggio!». Molti cristiani
fanno la traversata della vita a pane e
formaggio, senza gioia, senza entusiasmo,
quando potrebbero, spiritualmente
parlando, godere ogni giorno di ogni ben di
Dio, tutto compreso nel prezzo di essere
cristiani e di avere ricevuto lo Spirito Santo.

37
4. «… e procede dal Padre (e dal Figlio) e
con il Padre e il Figlio è adorato e
glorificato»
Passiamo ora alla seconda grande
affermazione del credo sullo Spirito Santo.
Finora il simbolo di fede ci ha parlato della
natura dello Spirito, non ancora della
persona; ci ha detto che cos’è, non chi è lo
Spirito; ci ha parlato di ciò che accomuna lo
Spirito Santo al Padre e al Figlio – il fatto di
essere Dio e di dare la vita. Con la presente
affermazione si passa a ciò che distingue lo
Spirito Santo dal Padre e dal Figlio. Quello
che lo distingue dal Padre è che procede da
lui (altri è colui che procede, altri colui dal
quale procede!); quello che lo distingue dal
Figlio è che procede dal Padre non per
generazione, ma per spirazione; per
esprimerci in termini umani, non come il
concetto (logos) che procede dalla mente,
ma come il soffio che procede dalla bocca.
È l’elemento centrale dell’articolo del
credo, quello con cui si intendeva definire il

38
posto che il Paraclito occupa nella Trinità e
nella fede cristiana. Questa parte del
simbolo è nota soprattutto per il problema
del Filioque, che è stato per un millennio
l’oggetto principale di disaccordo e di
accuse reciproche tra l’Oriente e
l’Occidente. Lo riassumo brevemente. Il
simbolo approvato dai Padri nel concilio di
Costantinopoli diceva semplicemente che lo
Spirito Santo «procede dal Padre». I latini
(prima Ambrogio, poi Agostino), basandosi
sulle parole di Gesù: «egli prenderà del mio
e lo annunzierà», «tutto ciò che il Padre
possiede è mio», e anche su espressioni di
alcuni Padri greci secondo cui lo Spirito
«procede dal Padre attraverso il Figlio»,
pensarono di esplicitare il significato della
frase aggiungendo «e dal Figlio», frase che
in latino suona Filioque.
La cosa non creò problemi fino al secolo
IX. Nell’anno 809, Carlo Magno, per
accentuare il suo distacco e la sua
indipendenza politica dall’impero bizantino,
fece pressione sul papa Leone III perché
l’espressione Filioque fosse inserita nel

39
credo della Messa. Il papa si oppose, ma
alcune Chiese cominciarono a farlo e così
finì per diventare parte integrante del credo
latino. Quando nell’anno 1054 si consumò
definitivamente il grande scisma tra
l’Oriente e l’Occidente, tale questione
assunse una importanza sproporzionata,
divenendo il principale pomo della
discordia.
I latini hanno avuto torto nell’inserire
quella parola nel credo, cioè in una
definizione conciliare divenuta canonica,
ma avevano ragione di attribuire un ruolo al
Figlio nella processione dello Spirito Santo,
anche se diverso e dipendente, da quello del
Padre. Io non condivido quindi, con molti
altri, l’uso del termine nel credo, che tra
l’altro così com’è, senza aggiunte, non
esprime neppure l’autentica dottrina
agostiniana a cui si appella21. Condivido
invece la dottrina che tale termine intende
esprimere. Per due motivi che cerco di
spiegare.
Primo, perché essa mi sembra la più

40
coerente con la visione della Trinità come
comunione nell’amore, oggi sempre più
condivisa da tutti i teologi. L’applicazione
alla Trinità dell’immagine della luce (sole,
splendore, raggio) e dell’acqua (fonte,
fiume, ruscello) suggerisce un movimento
lineare, in avanti; non così l’amore che
indica circolarità, scambio, comunione. Ora
è in questo scorrere dell’amore dal Padre al
Figlio che si colloca lo Spirito Santo. Il
Padre genera il Figlio nello Spirito Santo,
cioè amandolo; il Padre e il Figlio spirano
lo Spirito Santo amandosi. Lo Spirito è
eterno movimento d’amore tra i due.
Secondo, perché questo modo di
intendere la processione dello Spirito Santo
ha il vantaggio di evitare alcune domande
imbarazzanti e di difficile risposta: che cosa
il Padre non aveva ancora espresso di se
stesso, generando il Figlio, che giustifica il
bisogno di una seconda realizzazione di sé
nello Spirito Santo? In che rapporto si
collocano tra loro la generazione del Figlio
e la processione dello Spirito Santo, se
ambedue procedono in modo univoco ed

41
esclusivo dal Padre? Sono esse indipendenti
e parallele, o, peggio ancora, sono
antecedenti trinitari di due economie
diverse: quella del Figlio e quella dello
Spirito Santo, creando una dicotomia
all’interno della Trinità e della storia della
salvezza?
Oggi, per fortuna, nel nuovo clima di
dialogo ecumenico, si stanno superando
queste contrapposizioni, grazie a un
ripensamento di tutta la dottrina trinitaria.
Lo Spirito Santo, hanno affermato noti
teologi sia latini che greci, non ha solo un
ruolo passivo nella Trinità (la cosa che più
inquietava, e giustamente, i fratelli
ortodossi). Se è vero infatti che lo Spirito
Santo procede dal Padre e dal Figlio, è vero
anche che il Figlio è generato dal Padre
nello Spirito Santo, come nel battesimo del
Giordano il Padre unge Gesù con lo Spirito
Santo22.
Che cosa possiamo ritenere di questa
parte del simbolo di fede, che cosa
arricchisce la nostra fede comune, al di là

42
delle dispute teologiche? Lo Spirito Santo
non è un parente povero nella Trinità. Non è
una energia o un fluido che pervade
l’universo come pensavano gli stoici; è una
relazione sussistente, dunque una persona.
Non la terza persona singolare, ma la prima
persona plurale. Il «Noi» del Padre e del
Figlio23. Quando, per esprimerci in modo
umano, il Padre e il Figlio parlano dello
Spirito Santo, non dicono «egli», ma dicono
«noi», perché egli è l’unità del Padre e del
Figlio. Qui si vede la fecondità straordinaria
dell’intuizione di sant’Agostino per il quale
il Padre è colui che ama, il Figlio l’amato e
lo Spirito l’amore che li unisce, il dono
scambievole.
Se vogliamo balbettare qualche altra
parola sul mistero ineffabile che lo Spirito
rappresenta nella Trinità, possiamo dire
così: lo Spirito è il peso eterno in forza del
quale il Padre non può fare a meno di
consegnarsi, di donarsi, di amare, prima di
tutto e sempre. Ed è anche il peso che,
posato sul Figlio a cui il Padre dà tutto se

43
stesso, induce il Figlio a non serbare nulla
per sé, ma a tutto ri-donare al Padre. Lo
Spirito è eternamente il dono personificato;
di qui i nomi di «dono» e di «comunione»
attribuiti in proprio al Paraclito nel Nuovo
Testamento24. Dall’eternità, il Padre suscita
un altro se stesso che, rivolto verso il suo
seno, gli ridona tutto ciò che eternamente da
lui riceve. E questo movimento dei due è lo
Spirito.
Lo Spirito Santo, nonostante tutto, resterà
sempre il Dio nascosto, anche per noi che
ne conosciamo gli effetti. Egli è come il
vento: non si sa da dove viene e dove va,
anche se si vedono gli effetti del suo
passaggio. È come la luce che illumina tutto
ciò che sta davanti, rimanendo essa stessa
invisibile. Per questo è la persona meno
amata dei Tre, nonostante sia la causa
dell’amore, sia di quello eterno che di
quello terreno. Ci è più facile pensare al
Padre e al Figlio come persone, ma ci è più
difficile per lo Spirito. Il termine stesso
«persona» è coniato per le categorie umane.

44
In senso stretto, solo il Figlio è realmente
persona in quanto si è incarnato, ha assunto
la natura umana e continua a essere Dio e
uomo! Se si definisce lo Spirito Santo come
la «terza persona» della Trinità, è perché si
comprenda che ha un ruolo tutto suo. Padre,
Figlio e Spirito Santo sono una cosa sola,
sono le funzioni che sono diverse e la prima
funzione dello Spirito è proprio quella di
essere l’amore che passa tra il Padre e il
Figlio.
Non ci sono categorie umane che possono
aiutarci a comprendere questo mistero. Tutti
gli accostamenti che si possono fare sono
carenti per qualche aspetto. Pensiamo, ad
esempio, a un bimbo che nasce: è il frutto
dell’amore del papà e della mamma, nel suo
cuore c’è la somma di questi due amori, lui
li unisce, li ricambia, circola l’amore fra
tutti e tre, ognuno nel suo ruolo di padre,
madre e figlio; ma il figlio ha una sua
esistenza propria al di fuori dei genitori, ciò
che non si applica allo Spirito Santo.
Comprenderemo pienamente chi è lo
Spirito Santo solo in paradiso. Anzi lo

45
vivremo in una vita che non avrà fine, in un
approfondimento che ci darà gioia
immensa. Sarà come un fuoco dolcissimo
che inonderà la nostra anima e la colmerà di
beatitudine, come quando l’amore investe il
cuore di una persona e questa si sente
felice.

46
5. «… e ha parlato per mezzo dei profeti»
Siamo alla terza e ultima grande
affermazione sullo Spirito Santo. Per capire
cosa essa aggiunge di nuovo, devo ricordare
una distinzione. Nella Bibbia si notano due
modi di agire diversi dello Spirito. C’è la
sua attività creatrice e vivificatrice che
consiste nel cambiare il cuore della persona
e renderla «gradita a Dio» (in teologia si
chiama gratia gratum faciens) e c’è la sua
attività carismatica che consiste nel
distribuire doni particolari, non
direttamente per la santificazione della
persona che li riceve, ma per l’edificazione
della comunità (in teologia si chiama gratia
gratis data). Basta leggere dapprima il
capitolo 12 della Prima Lettera ai Corinzi,
dove si elencano i carismi propri di
ciascuno, e poi passare al capitolo 13, dove
si parla di un dono unico, uguale e
necessario per tutti che è la carità.
Dopo aver professato la nostra fede
nell’azione vivificatrice e santificatrice

47
dello Spirito nella prima parte dell’articolo
(lo Spirito che è Signore e dà la vita), ora si
accenna anche alla sua azione carismatica.
Di essa si nomina un carisma per tutti,
quello che Paolo ritiene il primo per
importanza, la profezia (cf 1 Cor 14).
Anche del carisma profetico si menziona
solo un momento, lo Spirito che «ha parlato
per mezzo dei profeti». Questo è un limite
dovuto alla necessaria brevità del simbolo.
La Lettera agli Ebrei comincia dicendo che
«dopo aver parlato un tempo per mezzo dei
profeti, negli ultimi tempi Dio ha parlato a
noi nel Figlio» (cf Eb 1,1-2). Lo Spirito ha
parlato per mezzo di Gesù e parla per
mezzo della Chiesa. Un testo della liturgia
ortodossa ci mostra come questa lacuna
veniva con tutta naturalezza colmata in altri
momenti della vita della Chiesa, proprio
partendo dall’articolo del credo:
«Manda […] il tuo santissimo Spirito, Signore e
vivificatore, che siede con te, Dio e Padre, e con il
tuo Figlio unigenito; che regna, consustanziale e
coeterno. Egli ha parlato nella Legge, nei Profeti e
nel Nuovo Testamento; è disceso in forma di

48
colomba sul nostro Signore Gesù Cristo nel fiume
Giordano, riposando su di lui, ed è disceso sui
santi apostoli […] il giorno della santa
Pentecoste»25.
La verità da ricordare è che lo Spirito non
ha smesso di parlare per mezzo dei profeti;
lo fa anche oggi nella Chiesa, anche se non
si tratta più dello stesso tipo di profezia
canonica. Pietro vede realizzata a
Pentecoste la profezia di Gioele:
«Io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona;
i vostri figli e le vostre figlie profeteranno,
i vostri giovani avranno visioni
e i vostri anziani faranno dei sogni.
E anche sui miei servi e sulle mie serve
in quei giorni effonderò il mio Spirito
ed essi profeteranno» (At 2, 17-18).
Il concilio Vaticano II ha riaffermato la
vocazione profetica di tutto il popolo di
Dio: «Ciascun membro della Chiesa deve
rendere testimonianza a Gesù con spirito di
profezia»26. Anche in ciò sta la novità
creata dalla venuta di Cristo e l’effusione
del suo Spirito. Nell’Antico Testamento
solo alcuni, e solo in circostanze particolari,

49
erano profeti; ora tutti condividono tale
vocazione.
All’interno di questo popolo profetico, vi
sono alcuni che hanno un carisma
particolare di profezia e sono chiamati
semplicemente «i profeti» (cf 1 Cor 12, 9;
14, 1 ss.). Tutti i documenti recenti della
Chiesa relativi alla missione dei vescovi e
dei presbiteri affermano che il carisma di
profezia deve risplendere in maniera
speciale nella vita dei pastori. Mediante
l’ordinazione, essi partecipano, a un titolo
unico, della missione profetica, regale e
sacerdotale di Cristo. È soprattutto
nell’annuncio della parola di Dio, nella
predicazione, che deve risplendere in noi
questo carisma profetico.
Ci sono due modi di preparare una
predica o un qualsiasi annuncio di fede
orale o scritto. Io posso prima sedermi a
tavolino e scegliere io stesso la parola da
annunciare e il tema da sviluppare,
basandomi sulle mie conoscenze, le mie
preferenze, ecc., e poi, una volta preparato
il discorso, mettermi in ginocchio per

50
chiedere frettolosamente a Dio di benedire
quello che ho scritto e dare efficacia alle
mie parole. È già una cosa buona, ma non è
la via profetica. Bisogna piuttosto fare il
contrario. Prima mettersi in ginocchio e
chiedere a Dio qual è la parola che vuole
dire; dopo, sedersi a tavolino e utilizzare le
proprie conoscenze per dare corpo a quella
parola.
Bisogna partire dalla certezza di fede che,
in ogni circostanza, il Signore risorto ha nel
cuore una sua parola che desidera far
giungere al suo popolo. Il Risorto non ha
scritto solo sette lettere a sette Chiese
dell’Asia Minore (cf Ap 2-3). Continua a
scrivere lettere a ogni Chiesa, in prima
persona! È quella parola che cambia le cose
ed è quella che bisogna scoprire. Ed egli
non manca di rivelarla al suo ministro, se
umilmente e con insistenza gliela chiede.
All’inizio si tratta di un movimento
pressoché impercettibile del cuore: una
piccola luce che si accende nella mente, una
parola della Bibbia che comincia ad attirare
l’attenzione e che illumina una situazione.

51
Davvero «il più piccolo di tutti i semi», ma
in seguito ti accorgi che dentro c’era tutto;
c’era un tuono da schiantare i cedri del
Libano. Dopo ti metti a tavolino, apri i tuoi
libri, consulti i tuoi appunti, consulti i Padri
della Chiesa, i maestri, i poeti… Ma è
ormai tutta un’altra cosa. Non è più la
parola di Dio al servizio della tua cultura,
ma la tua cultura al servizio della parola di
Dio.
Di solito la risposta di Dio arriva sotto
forma di una parola della Scrittura che però
in quel momento rivela la sua straordinaria
pertinenza alla situazione e al problema che
si deve trattare, come fosse stata scritta
appositamente per essa. A volte non è
neppure necessario citare esplicitamente
tale parola biblica o commentarla. Basta
che essa sia ben presente nella mente di chi
parla e informi tutto il suo dire. Facendo
così, egli parla, di fatto, «come con parole
di Dio» (1 Pt 4, 11). Questo metodo vale
sempre: per i grandi documenti come per la
lezione che il maestro tiene ai suoi novizi,
per la dotta conferenza come per l’umile

52
omelia domenicale.
La realtà e l’esperienza umane non sono
dunque escluse dalla predicazione della
Chiesa, ma esse devono essere sottomesse
alla parola di Dio, a servizio di essa. Come,
nell’Eucaristia, è il corpo di Cristo che
assimila a sé chi lo mangia e non viceversa,
così, nell’annuncio, deve essere la parola di
Dio, che è il principio vitale più forte, a
soggiogare e assimilare a sé la parola
umana, e non il contrario.
Noi tutti abbiamo fatto l’esperienza di
quanto può fare una sola parola di Dio
profondamente creduta e vissuta da chi la
pronuncia. Spesso si deve constatare che,
tra tante altre parole, è stata quella che ha
toccato il cuore e ha condotto più d’un
ascoltatore al confessionale. Succede che,
mentre l’annunciatore sta parlando, a un
certo momento non deciso da lui, avverte
una interferenza, come se un’onda di
diversa frequenza si inserisse nella sua
voce. Egli se ne accorge per via di una
commozione che lo investe, una forza e una
convinzione che riconosce chiaramente

53
come non sue. La parola si fa più ferma,
incisiva. Sperimenta un riflesso di quella
«autorità» che tutti percepivano quando
ascoltavano parlare Gesù. L’apostolo Paolo
descrive benissimo questo fatto:
«La mia parola e il mio messaggio non si basarono
su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla
manifestazione dello Spirito e della sua potenza,
perché la vostra fede non fosse fondata sulla
sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (1 Cor
2, 4-5).
«Il nostro vangelo non si è diffuso tra voi soltanto
per mezzo della parola, ma anche con potenza e
con Spirito Santo e con profonda convinzione,
come ben sapete» (1 Ts 1, 5).
L’uomo e la sua voce, a questo punto,
scompaiono per far posto a un’altra voce. Si
costata la verità del detto di Filone
Alessandrino, un autore ebreo
contemporaneo degli apostoli: «Il vero
profeta, quando parla, tace»27. Tace perché,
in quel momento, non è più lui che parla,
ma un altro. Questo non avviene con la
stessa intensità nel corso di un intero
discorso o predica. Sono momenti; a Dio
basta una frase, una parola. Annunciatore e

54
ascoltatori hanno la sensazione come di
gocce di fuoco che, a un certo punto, si
mescolano alle parole del predicatore,
rendendole incandescenti.
Il fuoco è l’immagine che meno
imperfettamente esprime la natura di questa
azione dello Spirito. Per questo, a
Pentecoste, egli si manifestò sotto forma di
«lingue come di fuoco che si dividevano e
si posarono su ciascuno di loro» (At 2, 3).
Di Elia si legge che era «simile al fuoco e la
sua lingua bruciava come fiaccola» (Sir 48,
1) e in Geremia Dio stesso dichiara: «La
mia parola non è forse come il fuoco –
oracolo del Signore – e come un martello
che spacca la roccia?» (Ger 23, 29).
Il movimento pentecostale e carismatico
ha riportato alla luce, accanto ai molti
significati della parola «profezia», il
significato e le manifestazioni che essa
aveva nella primitiva comunità cristiana.
Basta rileggere un testo della Prima Lettera
ai Corinzi per renderci conto di quanto
simile alla loro è stata l’esperienza fatta nel
Rinnovamento, nei suoi momenti migliori:

55
«Aspirate pure anche ai doni dello Spirito,
soprattutto alla profezia […] Chi profetizza parla
agli uomini per loro edificazione, esortazione e
conforto […] Vorrei vedervi tutti parlare con il
dono delle lingue, ma preferisco che abbiate il
dono della profezia […] Se, per esempio, quando
si raduna tutta la comunità, tutti parlassero con il
dono delle lingue e sopraggiungessero dei non
iniziati o non credenti, non direbbero forse che
siete pazzi? Se invece tutti profetassero e
sopraggiungesse qualche non credente o un non
iniziato, verrebbe convinto del suo errore da tutti,
giudicato da tutti; sarebbero manifestati i segreti
del suo cuore, e così prostrandosi a terra
adorerebbe Dio, proclamando che veramente Dio
è fra voi!» (1 Cor 14, 1.3.5.23-25).
Quante volte questo che dice Paolo si è
ripetuto in incontri piccoli o grandi dove si
viveva nel clima della nuova Pentecoste!
Persone non credenti o scettiche, capitate
per caso a uno di questi incontri o perché
spinte da qualcuno, si sono ritrovate ad
esclamare tra sé: «Qui c’è Dio!».
Terminiamo con le parole ispirate che un
vescovo orientale pronunciò in una solenne
assise ecumenica:
«Senza lo Spirito Santo:
Dio è lontano,

56
il Cristo resta nel passato,
il vangelo è lettera morta,
la Chiesa una semplice organizzazione,
l’autorità una dominazione,
la missione una propaganda,
il culto una evocazione,
l’agire cristiano una morale da schiavi.
Ma, con lo Spirito Santo:
il cosmo è sollevato e geme nel parto del regno,
l’uomo lotta contro la carne,
il Cristo è presente,
il vangelo è potenza di vita,
la Chiesa segno di comunione trinitaria,
l’autorità servizio liberatore,
la missione una Pentecoste,
la liturgia memoriale e anticipazione,
l’agire umano è divinizzato»28.

Note
10 Gregorio Nazianzeno, Oratio 31, 5.10 (PG 36,
144).
11 Id., Oratio 6 (PG 35, 856).
12 Basilio, Sullo Spirito Santo, XX, 51 (PG 32, 161
C).
13 Cf Atanasio, Lettere a Serapione, I, 21 (PG 26,
580).
14 Origene, De principiis, I, 3, 5 (PG 11, 150).
15 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-IIae, q.
109, a. 1, ad 1; vedi già Ambrosiaster, Sulla Prima

57
Lettera ai Corinzi, 12, 3 (CSEL 81, p. 132).
16 Basilio, Sullo Spirito Santo, XIX, 49 (PG 32, 157
A).
17 Ibidem, IX, 23.
18 Ibidem, XV, 35.
19 Plotino, Enneadi I, 9 (tr. it. di V. Cilento, vol. I,
Laterza, Bari 1973, p. 108).
20 Doroteo di Gaza, Insegnamenti 1, 20 (SCh 92, p.
177).
21 Agostino, in De Trinitate, XV, 47, distingue il
ruolo del Padre da quello del Figlio nella spirazione
dello Spirito Santo: «Lo Spirito Santo primariamente
procede dal Padre (de Patre principaliter) e, per il
dono che il Padre ne fa al Figlio, senza alcun
intervallo di tempo, da entrambi allo stesso tempo».
22 Cf O. Clément, Alle fonti con i Padri, Città
Nuova, Roma 1987, p. 58 (ed. or. Les mystiques
chrétiens des origines, Stock, Paris 1982); R.
Cantalamessa, Il canto dello Spirito, Àncora, Milano
1997, pp. 411-414.
23 Cf H. Mühlen, Der Heilige Geist als Person. Ich
- Du - Wir, Aschendorff, Münster in W. 1963. Il
primo a definire lo Spirito Santo il «divino Noi» è
stato S. Kierkegaard, Diario II A 731 (23 aprile
1838).
24 Cf At 2, 38; 8, 20; 10, 45; 1 Gv 4, 13; 2 Cor 13,
13.
25 Anafora della Liturgia detta di san Giacomo, in
A. Hänggi - I. Pahl, Prex Eucharistica, Éditions
universitaires Fribourg, Fribourg 1968, p. 250.
26 Presbyterorum ordinis, 2.

58
27 Filone Alessandrino, Quis rerum, 266 (Les
Oeuvres de Philon d’Alexandrie, 15, Cerf, Paris
1966, p. 300).
28 Metropolita Ignazio di Latakia, Discorso alla III
Assemblea mondiale delle Chiese, luglio 1968, in
World Council of Churches, The Uppsala Report,
WCC, Geneva 1969, p. 298.

59
II
CREDO IN UN SOLO
SIGNORE, GESÙ CRISTO, DIO
VERO DA DIO VERO

Cristo Pantocratore (XII sec.)


Cattedrale di Cefalù

60
Nell’inno Veni creator, nell’ultima strofa,
si canta: «Per te sciamus da Patrem,
noscamus atque Filium». Si chiede allo
Spirito Santo di farci conoscere (nel senso
biblico di far esperienza viva) il Padre e il
Figlio. In questa e nella prossima
meditazione vedremo come lo Spirito ha
compiuto e continua a compiere questa sua
opera nella Chiesa e nelle anime.
Seguendo l’ordine inverso che abbiamo
scelto in partenza, cominciamo dalla
conoscenza che lo Spirito ci dà del Figlio
Gesù Cristo. Il secondo articolo del credo,
nella sua forma completa, suona così:
«Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito
figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli:
Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero,
generato, non creato, della stessa sostanza del
Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state
create».
Questo articolo centrale del credo riflette
due stadi diversi della fede. La frase «Credo
in un solo Signore Gesù Cristo» riflette la
primissima fede della Chiesa, subito dopo

61
la Pasqua; Pietro conclude il suo discorso di
Pentecoste con la solenne definizione:
«Sappia dunque con certezza tutta la casa
d’Israele che Dio ha costituito quel Gesù
che voi avete crocifisso Signore (Kyrios) e
Messia» (At 2, 36). Quello che segue
nell’articolo («unigenito Figlio di Dio…»)
riflette uno stadio posteriore, più evoluto,
successivo alla controversia ariana e al
concilio di Nicea.
Con l’aiuto dello Spirito che ha guidato la
Chiesa all’una e all’altra conquista,
cercheremo di ripercorrere i due cammini,
con la stessa emozione con cui a volte si
torna dopo anni a rifare una strada percorsa
da bambini. Questo ci permetterà di fare
una constatazione importante. Lo Spirito
Santo ha due modi di condurre la Chiesa
alla piena verità e alla piena unità. Il primo
è un modo carismatico per cui la verità o
l’unità è realizzata da lui, in modo
improvviso e soprannaturale. Tale fu la
verità della signoria di Cristo proclamata il
giorno di Pentecoste e tale è anche l’unità
realizzata in quel giorno tra tutte le razze e i

62
popoli presenti a Gerusalemme, e più tardi
l’unità tra giudei e gentili realizzata nella
casa di Cornelio. L’altro è il modo ordinario
che passa attraverso il dialogo, il confronto
(a volte lo scontro) e perfino il
compromesso tra le parti, e tale fu il
processo con cui lo Spirito condusse la
Chiesa alla solenne proclamazione della
piena divinità di Cristo a Nicea.

63
1. «Egli mi renderà testimonianza»
Vediamo anzitutto cosa ci dice il Nuovo
Testamento intorno allo Spirito principio
della conoscenza di Cristo. San Paolo
afferma che Gesù Cristo viene manifestato
«Figlio di Dio con potenza mediante lo
Spirito di santificazione» (Rm 1, 4), cioè ad
opera dello Spirito Santo. Nessuno può dire
che Gesù è il Signore, se non grazie a una
interiore illuminazione dello Spirito Santo
(cf 1 Cor 12, 3). Stando a ciò che si legge
nella Lettera agli Efesini, Paolo attribuisce
allo Spirito Santo «la comprensione del
mistero di Cristo» che è stata data a lui,
come a tutti i santi apostoli e profeti (cf Ef
3, 4-5). Solo se saranno «rafforzati dallo
Spirito», i credenti saranno in grado di
«comprendere l’ampiezza, la lunghezza,
l’altezza e la profondità e conoscere
l’amore di Cristo che sorpassa ogni
conoscenza» (Ef 3, 18-19).
Nel Vangelo di Giovanni, Gesù stesso
annuncia quest’opera del Paraclito nei suoi

64
confronti. Egli prenderà del suo e lo
annuncerà ai discepoli; ricorderà loro tutto
ciò che egli ha detto; li condurrà alla verità
tutt’intera sul suo rapporto con il Padre; gli
renderà testimonianza (cf Gv 16, 3-5.13).
Proprio questo anzi sarà, d’ora in poi, il
criterio per riconoscere se si tratta del vero
Spirito di Dio e non di un altro spirito: se
spinge a riconoscere Gesù venuto nella
carne (cf 1 Gv 4, 2-3).
Alcuni credono che l’enfasi attuale sullo
Spirito Santo possa mettere in ombra
l’opera di Cristo, come se essa fosse
incompleta o perfettibile. È una
incomprensione totale. Lo Spirito non dice
mai «io», non parla mai in prima persona,
fa sempre riferimento a Cristo, non
pretende di fondare una propria opera, si
riferisce e si affida sempre a lui. Lui è la
via, la verità, la vita; lo Spirito aiuta a far
comprendere tutto questo! La venuta dello
Spirito Santo a Pentecoste si traduce in una
improvvisa illuminazione di tutto l’operato
e la persona di Cristo, che viene proclamato
da Pietro, «con certezza», Signore e Cristo

65
(At 2, 36). A partire da quel giorno, la
comunità primitiva cominciò a rileggere la
vita di Gesù, la sua morte e la sua
risurrezione, in maniera diversa; tutto
sembrò chiaro, svelato, in una luce nuova.
Pur vivendo gomito a gomito con lui, senza
lo Spirito non avevano potuto penetrare nel
suo mistero.
Si delineano già, nell’ambito del Nuovo
Testamento, due tipi di conoscenza di
Cristo, o due ambiti in cui lo Spirito svolge
la sua azione. C’è una conoscenza oggettiva
di Cristo, del suo essere, del suo mistero e
della sua persona, e c’è una conoscenza più
soggettiva, funzionale, personale e interiore
che ha per oggetto quello che Gesù «fa per
me», più che quello che egli «è in sé». Le
due sfere sono inseparabili e spesso
compresenti, nondimeno la distinzione c’è.
In Paolo prevale ancora l’interesse per la
conoscenza di ciò che Cristo ha fatto per
noi, per l’operato di Cristo e in particolare il
suo mistero pasquale; in Giovanni prevale
ormai l’interesse per ciò che Cristo è: il
Logos eterno che era presso Dio ed è venuto

66
nella carne, che è «una cosa sola con il
Padre» (cf Gv 10, 30). Ma è solo dagli
sviluppi successivi che queste due tendenze
appariranno chiare. Le accenniamo il più
brevemente possibile perché questo ci
aiuterà a cogliere qual è il dono che lo
Spirito Santo fa oggi, in questo campo, alla
Chiesa.
Nell’epoca patristica, lo Spirito Santo
appare soprattutto come garante della
tradizione apostolica intorno a Gesù, contro
le innovazioni degli gnostici. Alla Chiesa –
afferma sant’Ireneo – è stato affidato il
Dono di Dio che è lo Spirito; di lui non
sono partecipi quanti si separano dalla
verità predicata dalla Chiesa con le loro
false dottrine29. Le Chiese apostoliche –
argomenta Tertulliano – non possono aver
errato nel predicare la verità. Pensare il
contrario, significherebbe che «lo Spirito
Santo, a questo scopo inviato da Cristo,
impetrato dal Padre quale maestro di verità,
lui che è il vicario di Cristo e il suo
amministratore, sarebbe venuto meno al

67
proprio ufficio»30.
All’epoca delle grandi controversie
dogmatiche, lo Spirito Santo è visto come il
custode dell’ortodossia cristologica. Nei
concili, la Chiesa ha la ferma certezza di
essere «ispirata» dallo Spirito nel formulare
la verità intorno alle due nature di Cristo,
all’unità della sua persona, alla completezza
della sua umanità. L’accento è dunque
chiaramente sulla conoscenza oggettiva,
dogmatica, ecclesiale di Cristo.
Questa tendenza resta predominante, in
teologia, fino alla Riforma. Con una
differenza però. I dogmi che al momento di
essere formulati erano questioni vitali,
frutto di viva partecipazione di tutta la
Chiesa, una volta sanciti e tramandati,
tendono a perdere mordente, a diventare
formali. «Due nature, una persona» diventa
una formula bell’e fatta, più che il punto di
arrivo di un lungo e sofferto processo. Non
sono certo mancate in tutto questo tempo
splendide esperienze di una conoscenza di
Cristo intima, personale, piene di calda

68
devozione a Cristo; ma non influivano
molto sulla teologia. Anche oggi di esse si
parla nella storia della spiritualità, non in
quella della teologia.
I riformatori protestanti rovesciano questa
situazione e dicono: «Conoscere Cristo
significa riconoscere i suoi benefici, non
indagare le sue nature e i modi
dell’incarnazione»31. Il Cristo «per me»
balza in primo piano. Alla conoscenza
oggettiva, dogmatica, si oppone una
conoscenza soggettiva, intima; alla
testimonianza esterna della Chiesa e delle
stesse Scritture su Gesù, si antepone la
«testimonianza interna» che lo Spirito
Santo rende a Gesù nel cuore di ogni
credente.
Quando questa novità teologica, più tardi,
tenderà a trasformarsi, essa stessa, nel
Protestantesimo ufficiale, in «morta
ortodossia», sorgeranno periodicamente
movimenti come il Pietismo e il Metodismo
a riportarla in vita. L’apice della conoscenza
di Cristo coincide, in questi ambienti, con il

69
momento in cui, mosso dallo Spirito Santo,
il credente prende coscienza che Gesù è
morto «per lui», proprio per lui, e lo
riconosce come suo Salvatore personale:
«Per la prima volta con tutto il cuore io credetti;
credetti di fede divina,
e nello Spirito Santo ottenni il potere
di chiamare mio il Salvatore.
Sentii il sangue d’espiazione del mio Signore
direttamente applicato all’anima mia»32.
Completiamo questo rapido sguardo alla
storia, accennando a una terza fase nel
modo di concepire il rapporto tra lo Spirito
Santo e la conoscenza di Cristo, quella che
ha caratterizzato i secoli dell’Illuminismo,
di cui noi siamo i diretti eredi. Ritorna in
auge una conoscenza oggettiva, distaccata;
non più però di tipo ontologico, come
nell’epoca antica, ma storico. In altre
parole, non interessa sapere chi è in sé Gesù
Cristo (la preesistenza, le nature, la
persona), ma chi è stato nella realtà della
storia. È l’epoca della ricerca intorno al
cosiddetto «Gesù storico».
In questa fase, che è quella del

70
razionalismo, lo Spirito Santo non svolge
più alcun ruolo nella conoscenza di Cristo;
vi è del tutto assente. La «testimonianza
interna» dello Spirito Santo viene
identificata ormai con la ragione e con lo
spirito umano. La «testimonianza esterna» è
l’unica importante, ma con essa non si
intende più la testimonianza apostolica
della Chiesa, ma unicamente quella della
storia, accertata con i diversi metodi critici.
Il presupposto comune di questo sforzo è
che per trovare il vero Cristo, bisogna
cercare fuori della Chiesa, sciogliere Cristo
«dalle bende del dogma ecclesiastico».
Sappiamo qual è stato l’esito di tutta
questa ricerca del Gesù storico: il
fallimento, anche se questo non significa
che essa non ha portato anche molti frutti
positivi. C’era, e persiste ancora, a questo
riguardo, un equivoco di fondo. Gesù Cristo
(e con lui, in grado minore, altri grandi
della storia, come san Francesco d’Assisi)
non è semplicemente vissuto nella storia,
ma ha creato una storia, e vive ora nella
storia che ha creato, come un suono

71
nell’onda che ha provocato.
Lo sforzo accanito degli storici
razionalisti sembra quello di separarlo dalla
storia che ha creato, per restituirlo a quella
comune e universale, come se si potesse
percepire meglio un suono nella sua
originalità, separandolo dall’onda che lo
trasporta. La storia che Gesù ha iniziato, o
l’onda che ha emesso, è la fede della
Chiesa, animata dallo Spirito Santo. Non è
esclusa con ciò la legittimità anche della
normale ricerca storica su di lui, ma questa
dovrebbe forse essere più consapevole del
suo limite e riconoscere che non esaurisce
tutto quello che si può sapere di Cristo.

72
2. La sublime conoscenza di Cristo
Al termine della sua opera classica sulla
storia della esegesi cristiana, Henri de
Lubac concludeva piuttosto mestamente,
dicendo che mancano a noi moderni le
condizioni per poter risuscitare una lettura
spirituale come quella dei Padri; ci manca
quella fede piena di slancio, quel senso
della pienezza e dell’unità delle Scritture
che avevano essi. Voler imitare oggi la loro
audacia sarebbe un esporsi quasi alla
profanazione, mancandoci lo spirito da cui
scaturivano quelle cose33. Tuttavia egli non
chiudeva del tutto la porta alla speranza e in
un’altra opera dice che «se si vuole
ritrovare qualcosa di quello che fu, nei
primi secoli della Chiesa, l’interpretazione
spirituale delle Scritture, bisogna riprodurre
anzitutto un movimento spirituale»34.
Quello che il de Lubac notava a proposito
della intelligenza spirituale delle Scritture,
si applica, a più forte ragione, alla
conoscenza spirituale di Cristo. Non basta

73
scrivere nuovi e più aggiornati trattati di
pneumatologia. Se manca il supporto di una
vissuta esperienza dello Spirito, analoga a
quella che accompagnò, nel IV secolo, la
prima elaborazione della teologia dello
Spirito, quello che si dice rimarrà sempre
all’esterno del vero problema. Ci mancano
le condizioni necessarie per elevarci al
piano in cui opera il Paraclito: lo slancio,
l’audacia e quella «sobria ebbrezza dello
Spirito», di cui parlano quasi tutti i grandi
autori di quel secolo. Non si può presentare
un Cristo nell’unzione dello Spirito, se non
si vive, in qualche modo, in quella stessa
unzione.
Ora proprio qui si è realizzata la grande
novità auspicata dal padre de Lubac. Nel
XX secolo è sorto ed è andato sempre più
allargandosi un «movimento spirituale» che
ha creato le basi per un rinnovamento della
pneumatologia a partire dall’esperienza
dello Spirito e dei suoi carismi. Il fenomeno
pentecostale e carismatico viene
riconosciuto oggi come il movimento
spirituale di più vaste proporzioni e di più

74
rapida crescita di tutta la storia della Chiesa.
In circa un secolo esso è passato da zero a
centinaia di milioni di persone.
Nei primi cinquant’anni, questo
movimento, nato in reazione alla tendenza
razionalistica descritta sopra, ha
volutamente ignorato la teologia ed è stato,
a sua volta, ignorato dalla teologia. Quando
però esso è penetrato nelle Chiese in
possesso di una vasta strumentazione
teologica e ha ricevuto una accoglienza di
fondo dalle rispettive gerarchie, la teologia
non ha più potuto ignorarlo. In un volume
del 1974 intitolato La riscoperta dello
Spirito. Esperienza e teologia dello Spirito
Santo, i più noti teologi del momento,
cattolici e protestanti, hanno preso in esame
il significato del fenomeno pentecostale e
carismatico per il rinnovamento della
dottrina dello Spirito Santo35. Yves Congar
ha dedicato ad esso un’intera sezione della
sua nota opera sullo Spirito Santo36. Lo
stesso hanno fatto, in misura diversa, quasi
tutti quelli che hanno scritto di

75
pneumatologia negli ultimi anni37, per non
parlare degli innumerevoli scritti usciti
dalle fila del movimento carismatico stesso.
Tutto questo ci interessa, in questo
momento, solo dal punto di vista della
conoscenza di Cristo. Quale conoscenza di
Cristo va emergendo in questa nuova
atmosfera spirituale e teologica? Il fatto più
significativo non è la scoperta di qualcosa
di nuovo – nuovi spunti nuove prospettive o
nuove metodologie –, ma è la riscoperta di
un dato biblico elementare: che Gesù Cristo
è il Signore!
San Paolo parla di una conoscenza di
Cristo di grado «superiore», o, addirittura,
«sublime», che consiste nel conoscerlo e
proclamarlo proprio «Signore» (cf Fil 3, 8).
È la proclamazione che, unita alla fede nella
risurrezione di Cristo, fa di una persona un
salvato (cf Rm 10, 9). E questa conoscenza
è resa possibile solo dallo Spirito Santo:
«Nessuno può dire: “Gesù è il Signore!”, se
non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1
Cor 12, 3). Ognuno può dire con le labbra

76
quelle parole, anche senza lo Spirito Santo,
ma non sarebbe allora la cosa grande che
abbiamo appena detto; non farebbe della
persona un salvato.
Che cosa c’è di speciale in questa
affermazione da renderla così
determinante? Si può spiegare la cosa da
diversi punti di vista, oggettivi o soggettivi.
La forza oggettiva della frase: «Gesù è il
Signore» sta nel fatto che essa rende
presente la storia di Gesù e in particolare il
mistero pasquale. È la conclusione che
scaturisce da due eventi: Cristo è morto per
i nostri peccati; è risorto per la nostra
giustificazione; perciò è il Signore. «Per
questo infatti Cristo è morto ed è ritornato
alla vita: per essere il Signore dei morti e
dei vivi» (Rm 14, 9). Gli eventi che l’hanno
preparata si sono come racchiusi in questa
conclusione e in essa si rendono presenti e
operanti. In questo caso la parola è davvero
«la casa dell’essere» (M. Heidegger).
«Gesù è il Signore» è il seme da cui si è
sviluppato tutto il kerigma e l’annuncio
cristiano successivo. Con questa

77
proclamazione Pietro conclude il suo
discorso il giorno di Pentecoste (cf At 2,
36).
Dal punto di vista soggettivo, cioè per
quello che dipende da noi, la forza di quella
proclamazione sta nel fatto che essa
suppone anche una decisione. Chi la
pronuncia decide del senso della sua vita. È
come se dicesse: «Tu sei il mio Signore; io
mi sottometto a te, io ti riconosco
liberamente come il mio salvatore, il mio
capo, il mio maestro, colui che ha tutti i
diritti su di me».
L’aspetto di decisione insito nella
proclamazione di Gesù come «Signore»
assume oggi una attualità particolare.
Alcuni credono che sia possibile, e anzi
necessario, rinunciare alla tesi della unicità
di Cristo, per favorire il dialogo tra le varie
religioni. Ora proclamare Gesù «Signore»
significa proprio proclamare la sua unicità.
Non per nulla l’articolo ci fa dire: «Credo in
un solo Signore Gesù Cristo». San Paolo
scrive:

78
«E in realtà, anche se vi sono cosiddetti dei, sia nel
cielo sia sulla terra, e difatti ci sono molti dei e
molti signori, per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal
quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo
Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono
tutte le cose e noi esistiamo per lui» (1 Cor 8, 5-6).
L’Apostolo scriveva queste parole nel
momento in cui la fede cristiana si
affacciava, piccola e appena nata, su un
mondo dominato da culti e religioni potenti
e prestigiose. Il coraggio che occorre oggi
per credere che Gesù è «l’unico Signore» è
nulla in confronto a quello che occorreva
allora. Ma il «potere dello Spirito» non è
concesso se non a chi proclama Gesù
«Signore», in questa accezione forte delle
origini. È un dato di esperienza. Solo dopo
che un teologo o un annunciatore ha deciso
di scommettere tutto, proprio tutto, anche a
livello intellettuale, su Gesù Cristo «unico
Signore», fa l’esperienza di una certezza
nuova nella sua vita.

79
3. «… perché io possa conoscere lui»
Questa riscoperta luminosa di Gesù come
Signore è, dicevo, la novità e la grazia che
Dio ha accordato, nei nostri tempi, alla sua
Chiesa. Quando si interroga la Tradizione
su quasi tutti i temi e le parole della
Scrittura, le testimonianze si affollano alla
mente; quando si prova a interrogarla su
questo punto, essa resta pressoché muta.
Già nel III secolo il titolo di Signore non è
più compreso nel suo significato
kerigmatico; è considerato il titolo proprio
di chi è ancora allo stadio del «servo» e del
timore, inferiore, perciò, a quello di
Maestro, che è proprio del «discepolo» e
dell’amico38.
Si continua certamente a parlare di Gesù
«Signore», ma esso è diventato un nome di
Cristo come gli altri, anzi più spesso uno
degli elementi del nome completo di Cristo:
«Nostro Signore Gesù Cristo». «Ogni
lingua proclami che il Signore Gesù Cristo
è nella gloria del Padre»: così veniva

80
tradotto nella Volgata la frase di Fil 2, 11.
Ma un conto è dire «il Signore Gesù Cristo»
e un altro dire: «Gesù Cristo è il Signore!».
Dove sta, in tutto ciò, il salto qualitativo
che lo Spirito Santo ci fa fare nella
conoscenza di Cristo? Sta nel fatto che la
proclamazione di Gesù Signore è la porta
che immette alla conoscenza del Cristo
risorto e vivo! Non più un Cristo
personaggio, ma persona; non più un
insieme di tesi, di dogmi (e di corrispettive
eresie), non più solo oggetto di culto e di
memoria, ma realtà vivente nello Spirito. Il
Cristo risorto «vive nello Spirito»; fuori
dello Spirito non si può perciò che attingere
un Cristo «morto». La ricerca del Cristo
storico, prescindendo deliberatamente da
ogni riferimento allo Spirito Santo, non
poteva raggiungere che un Gesù della storia
«morto», come di fatto è avvenuto.
Su questo punto, devo portare la mia
piccola testimonianza personale. Io
insegnavo Storia delle origini cristiane
all’Università Cattolica di Milano. La mia
tesi di laurea in teologia era stata sulla

81
cristologia di Tertulliano e lo studio delle
antiche dottrine cristologiche era rimasto
sempre il mio interesse principale di ricerca
e di insegnamento. Notavo però in me un
disagio. Quando parlavo di Gesù nell’aula
dell’università, egli diventava un oggetto di
ricerca; come in ogni ricerca storica, il
ricercatore deve «dominare» l’oggetto della
sua ricerca e rimanere neutrale di fronte ad
esso. Ma come «dominare» questo oggetto
e come rimanere neutrali di fronte ad esso?
Come conciliarlo con il Gesù invocato nella
preghiera e ricevuto, la mattina,
nell’Eucaristia?
La scoperta di Gesù «Signore», in
concomitanza con il battesimo dello Spirito,
realizzò un grande cambiamento che da
solo non sarei mai stato capace di
realizzare. Mi sembrava di intuire cosa
c’era dietro l’esperienza di Paolo che a un
tratto comincia a considerare tutti i
«guadagni» della sua vita una «perdita» e
una «spazzatura», al confronto della
sublime conoscenza di Cristo; percepivo la
sconfinata gratitudine, fierezza, gioia che si

82
nascondono dietro quell’espressione al
singolare: «Cristo Gesù mio Signore».
Io conoscevo tante cose su Gesù: dottrine,
eresie, spiegazioni antiche e moderne… Ma
quando leggevo l’esclamazione
dell’Apostolo in quel contesto: «perché io
possa conoscere lui» (Fil 3, 10), quel
semplice pronome personale «lui» mi
appariva contenere infinite più cose di tutti i
libri che avevo letto o scritto. «Lui»
significa infatti il Gesù vivo, «in carne e
ossa», il risorto che vive nello Spirito; non
teorie e dottrine su Gesù, ma Gesù vivo. Tra
questo Gesù vivo e quello dei libri e delle
discussioni dotte su di lui, corre la stessa
differenza che tra il cielo vero e un cielo
disegnato sulla carta.
Questa conoscenza spirituale ed
esistenziale di Gesù come Signore non
induce a trascurare la conoscenza oggettiva,
dogmatica ed ecclesiale di Cristo, ma la
rivitalizza. Lo Spirito Santo si rivela
davvero la «luce dei dogmi». Grazie allo
Spirito Santo, la verità rivelata, «come un
deposito prezioso contenuto in un vaso di

83
valore, ringiovanisce sempre e fa
ringiovanire anche il vaso che la
contiene»39. Io stesso, in seguito a
quell’esperienza, tornai a studiare i dogmi
cristologici antichi con occhi nuovi, in un
libro intitolato Gesù Cristo, il Santo di
Dio40. A uno di questi dogmi, quello che
costituisce la seconda parte del nostro
articolo del credo, dedichiamo ora il resto
della nostra meditazione.

84
4. Dio vero da Dio vero
Finché la fede cristiana rimase ristretta
all’ambito biblico e giudaico, la
proclamazione di Gesù come Signore
soddisfaceva tutte le esigenze della fede
cristiana e giustificava il culto di Gesù
«come Dio». Signore, Adonai, era per
Israele un titolo inequivocabile:
apparteneva solo a Dio. Chiamare Gesù
«Signore» equivale a proclamarlo Dio. Non
appena però il cristianesimo si affacciò sul
mondo greco-romano circostante, quel
titolo non bastava più. Il mondo pagano
conosceva molti e diversi «Signori», primo
fra tutti l’imperatore romano. Occorreva
trovare un altro modo per garantire la piena
fede in Cristo e il suo culto divino. La crisi
ariana ne offrì l’occasione.
Passiamo dunque alla seconda parte del
nostro articolo di fede, quella che fu
aggiunta al simbolo preesistente, elaborato
nel concilio di Nicea del 325: «nato dal
Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio,

85
Luce da Luce, Dio vero da Dio vero,
generato, non creato, della stessa sostanza
(homoousios) del Padre».
Il vescovo di Alessandria, Atanasio,
campione indiscusso della fede nicena, era
ben convinto di non essere lui, né la Chiesa
del suo tempo, a scoprire la divinità di
Cristo. Tutta la sua opera consisterà, al
contrario, nel mostrare che questa è stata
sempre la fede della Chiesa; che nuova non
è la verità, ma l’eresia contraria. Il suo
merito, in questo campo, è stato più che
altro quello di rimuovere gli ostacoli che
avevano impedito fino ad allora un
riconoscimento pieno e senza reticenze
della divinità di Cristo nel contesto
culturale greco.
Uno di tali ostacoli, forse il principale, era
l’abitudine greca di definire l’essenza
divina con il termine agennetos, ingenerato.
Come proclamare che il Verbo è vero Dio,
dal momento che esso è Figlio, cioè
generato dal Padre? Era facile per Ario
stabilire l’equivalenza: generato = fatto,
cioè passare da gennetos a genetos, e

86
concludere con la celebre frase che fece
esplodere il caso: «Ci fu un tempo in cui
non c’era!» (in greco, ancora più
lapidariamente: en ote ouk en: c’era quando
non c’era). Questo equivaleva a fare di
Cristo una creatura, anche se non «come le
altre creature». Atanasio difese a spada
tratta il genitus non factus di Nicea,
«generato, ma non fatto». Egli risolve la
controversia con la semplice osservazione:
«Il termine agennetos fu inventato dai Greci
i quali non conoscevano il Figlio»41.
Un altro ostacolo culturale al pieno
riconoscimento della divinità di Cristo,
meno avvertito al momento, ma non meno
operante, era la dottrina di una divinità
intermedia, il deuteros theos, legato alla
creazione del mondo materiale. Da Platone
in poi, essa era diventata un dato comune a
molti sistemi religiosi e filosofici
dell’antichità. La tentazione di assimilare il
Figlio, «per mezzo del quale erano state
create tutte le cose», a questa entità
intermedia era rimasta strisciante nella

87
speculazione cristiana, anche se estranea
alla vita interna della Chiesa. Ne risultava
uno schema tripartito dell’essere: al vertice,
il Padre ingenerato; dopo di lui, il Figlio (e
più tardi anche lo Spirito Santo); al terzo
posto, le creature.
La definizione dell’homoousios, del
«genitus non factus», rimuove per sempre il
principale ostacolo dell’ellenismo al
riconoscimento della piena divinità di
Cristo e opera la catarsi cristiana
dell’universo metafisico dei greci. Con tale
definizione, una sola linea di demarcazione
è tracciata sulla verticale dell’essere e
questa linea non divide il Figlio dal Padre,
ma il Figlio dalle creature. Volendo
racchiudere in una frase il significato
perenne della definizione di Nicea,
potremmo formularla così: in ogni epoca e
cultura, Cristo deve essere proclamato
«Dio», non in una qualche accezione
derivata o secondaria, ma nell’accezione
più forte che la parola «Dio» ha in tale
cultura.
Atanasio ha fatto, del mantenimento di

88
questa conquista, lo scopo della sua vita.
Quando tutti, imperatori, vescovi e teologi,
oscillavano tra un rifiuto e un tentativo di
accomodamento, egli è rimasto
irremovibile. Ci furono momenti in cui la
futura fede comune della Chiesa viveva nel
cuore di un solo uomo: il suo.
Dall’atteggiamento verso di lui si decideva
da che parte ognuno stava.
È importante sapere cosa lo motivava
nella battaglia, da dove gli veniva una
certezza così assoluta. Non dalla
speculazione, ma dalla vita; più
precisamente, dalla riflessione
sull’esperienza che la Chiesa fa della
salvezza in Cristo Gesù. L’argomento
soteriologico non nasce con la controversia
ariana; esso è presente in tutte le grandi
controversie cristologiche antiche, da quella
antignostica a quella antimonotelita. Nella
sua formulazione classica esso suona così:
«Ciò che non è assunto non è salvato»
(«Quod non est assumptum non est
sanatum»)42. Nell’uso che ne fa Atanasio,

89
esso può essere così formulato: «Ciò che
non è assunto da Dio non è salvato», dove
la forza è tutta in quella breve aggiunta «da
Dio». La salvezza esige che l’uomo non sia
assunto da un intermediario qualsiasi, ma
da Dio stesso: «Se il Figlio è una creatura –
scrive Atanasio – l’uomo rimarrebbe
mortale, non essendo unito a Dio», e
ancora: «L’uomo non sarebbe divinizzato,
se il Verbo che divenne carne non fosse
della stessa natura del Padre»43.
Occorre tuttavia fare una precisazione
importante. La divinità di Cristo non è un
«postulato» pratico, come è, per Kant,
l’esistenza stessa di Dio44. Non è un
postulato, ma la spiegazione di un «dato».
Sarebbe un postulato, e dunque una
deduzione umana teologica, se si partisse da
una certa idea di salvezza e se ne deducesse
la divinità di Cristo come l’unica capace di
operare tale salvezza; è invece la
spiegazione di un dato se si parte, come fa
Atanasio, da una esperienza di salvezza e si
dimostra come essa non potrebbe esistere se

90
Cristo non fosse Dio. Non è sulla salvezza
che si fonda la divinità di Cristo, ma è sulla
divinità di Cristo che si fonda la salvezza.

91
5. Corde creditur!
Ma è tempo di venire a noi e cercare di
vedere cosa possiamo imparare oggi
dall’epica battaglia sostenuta a suo tempo
da Atanasio. La divinità di Cristo è la pietra
angolare che sorregge i due misteri
principali della fede cristiana; la Trinità e
l’incarnazione. Essi sono come due porte
che si aprono e si chiudono insieme.
Scartata quella pietra, tutto l’edificio della
fede cristiana crolla su se stesso: se il Figlio
non è Dio, da chi è formata la Trinità? Lo
aveva già denunciato, con chiarezza,
Atanasio, scrivendo contro gli ariani:
«Se il Verbo non esiste insieme con il Padre da
tutta l’eternità, allora non esiste una Trinità eterna,
ma prima ci fu l’unità e poi, con il passare del
tempo, per aggiunta, ha cominciato a esserci la
Trinità»45.
Dobbiamo porci una domanda seria. Che
posto occupa Gesù Cristo nella nostra
società e nella nostra cultura? Penso si
possa parlare, a questo riguardo, di una

92
presenza-assenza di Cristo. A un certo
livello – quello dello spettacolo e dei mass
media in generale – Gesù Cristo è molto
presente. In una serie interminabile di
racconti, film e libri, gli scrittori
manipolano la figura di Cristo, a volte sotto
pretesto di fantomatici nuovi documenti
storici su di lui. Il Codice Da Vinci è stato
l’ultimo e più aggressivo episodio di questa
lunga serie. È diventato ormai una moda, un
genere letterario. Si specula sulla vasta
risonanza che ha il nome di Gesù e su
quello che egli rappresenta per larga parte
dell’umanità per assicurarsi larga pubblicità
a basso costo. E questo è parassitismo
letterario.
Da un certo punto di vista possiamo
dunque dire che Gesù Cristo è molto
presente nella nostra cultura. Ma se
guardiamo all’ambito della fede, al quale
egli in primo luogo appartiene, notiamo, al
contrario, una inquietante assenza, se non
addirittura un rifiuto della sua persona. In
cosa credono, in realtà, quelli che si
definiscono «credenti» in Europa e altrove?

93
Credono, il più delle volte, nell’esistenza di
un Essere supremo, di un Creatore; credono
che esiste un «aldilà». Questa però è una
fede deistica, non ancora una fede cristiana.
Diverse indagini sociologiche rilevano
questo dato di fatto anche in paesi e regioni
di antica tradizione cristiana. Gesù Cristo è
in pratica assente in questo tipo di
religiosità.
Anche il dialogo tra scienza e fede porta,
senza volerlo, a una messa tra parentesi di
Cristo. Esso ha infatti per oggetto Dio, il
Creatore. La persona storica di Gesù di
Nazaret non vi ha alcun posto. Succede lo
stesso anche nel dialogo con la filosofia,
che ama occuparsi di concetti metafisici e
non di realtà storiche, per non parlare del
dialogo interreligioso in cui si discute di
pace, ecologismo, ma certo non di Gesù.
Basta un semplice sguardo al Nuovo
Testamento per capire quanto siamo lontani,
in questo caso, dal significato originale
della parola «fede» nel Nuovo Testamento.
Per Paolo, la fede che giustifica i peccatori
e conferisce lo Spirito Santo (cf Gal 3, 2),

94
in altre parole, la fede che salva, è la fede in
Gesù Cristo, nel suo mistero pasquale di
morte e risurrezione. Anche per Giovanni la
fede «che vince il mondo» è la fede in Gesù
Cristo. Scrive: «Chi è che vince il mondo se
non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?»
(1 Gv 5, 4-5).
Già durante la vita terrena di Gesù, la
parola «fede» indica la fede in lui. Quando
Gesù dice: «La tua fede ti ha salvato»,
quando rimprovera gli apostoli chiamandoli
«uomini di poca fede», non si riferisce alla
fede generica in Dio che era scontata tra
ebrei; parla di fede in lui! Questo smentisce
da solo la tesi secondo cui la fede in Cristo
comincia solo con la Pasqua e prima c’è
solo il «Gesù della storia». Il Gesù della
storia è già uno che postula fede in lui e se i
discepoli l’hanno seguito è proprio perché
avevano una certa fede in lui, anche se
ancora tanto imperfetta.
Dobbiamo lasciarci investire in pieno viso
dunque da quella domanda così rispettosa,
ma così diretta di Gesù: «Ma voi, chi
credete che io sia?», e da quella ancora più

95
personale: «Credi tu?». Credi veramente?
Credi con tutto il cuore? San Paolo dice che
«con il cuore si crede per ottenere la
giustizia e con la bocca si fa la professione
di fede per avere la salvezza» (Rm 10, 10).
In passato, la professione della retta fede,
cioè il secondo momento di questo
processo, ha preso a volte tanto rilievo da
lasciare nell’ombra quel primo momento
che è il più importante e che si svolge nelle
profondità recondite del cuore. «È dalle
radici del cuore che sale la fede», esclama
sant’Agostino46.

96
6. Chi è che vince il mondo
Dobbiamo ricreare le condizioni per una
ripresa della fede nella divinità di Cristo.
Riprodurre lo slancio di fede da cui nacque
la formula di fede. Il corpo della Chiesa ha
prodotto una volta uno sforzo supremo, con
cui si è elevato, nella fede, al di sopra di
tutti i sistemi umani e di tutte le resistenze
della ragione. In seguito, è rimasto il frutto
di questo sforzo. La marea si è sollevata
una volta a un livello massimo e ne è
rimasto il segno sulla roccia. Questo segno
è la definizione di Nicea che proclamiamo
nel credo.
Bisogna però che si ripeta la sollevazione,
non basta il segno. Non basta ripetere il
credo di Nicea; occorre rinnovare lo slancio
di fede che si ebbe allora nella divinità di
Cristo e di cui non c’è stato più l’eguale nei
secoli. Di esso c’è nuovamente bisogno. Ci
fu un momento, l’ho già ricordato, in cui la
fede di Nicea resisteva, nella Chiesa, si può
dire, nel cuore di un solo uomo: Atanasio;

97
ma bastò perché sopravvivesse e
riprendesse vittoriosa il suo cammino.
Quello che si è detto è importante poi
soprattutto in vista di una nuova
evangelizzazione. Esistono edifici o
strutture metalliche così fatti che se si tocca
un certo punto, o si leva una certa pietra,
tutto crolla. Tale è l’edificio della fede
cristiana, e questa sua pietra angolare è la
divinità di Cristo. Tolta questa, tutto si
sfalda e prima di ogni altra cosa, si è visto,
la Trinità. Sant’Agostino diceva: « Non è
gran cosa credere che Gesù è morto; questo
lo credono anche i pagani, anche i giudei e i
reprobi; tutti lo credono. Ma è cosa
veramente grande credere che egli è risorto.
La fede dei cristiani è la risurrezione di
Cristo»47. La stessa cosa, oltre che della
morte e risurrezione, si deve dire
dell’umanità e divinità di Cristo, di cui
morte e risurrezione sono le rispettive
manifestazioni. Tutti credono che Gesù sia
uomo; ciò che fa la diversità fra credenti e
non credenti è credere che egli sia Dio. La

98
fede dei cristiani è la divinità di Cristo!

Note
29 Cf Ireneo, Adversus haereses, III, 24, 1-2.
30 Tertulliano, De praescriptione haereticorum, 28,
1 (CC 1 p. 209).
31 F. Melantone, Loci theologici, in Corpus
Reformatorum, Brunsvigae 1854, p. 85.
32 Ch. Wesley, Inno «Gloria a Dio, lode e amore»
(Glory to God and Praise and Love).
33 Cf H. de Lubac, Exégèse médiévale, II, 2, Aubier-
Montaigne, Paris 1964, p. 79.
34 Id., Storia e Spirito, Ed. Paoline, Roma 1971, p.
587.
35 Aa.Vv., Erfahrung und Theologie des Heiligen
Geistes, Kösel, München 1974 (tr. it. La riscoperta
dello Spirito, Jaca Book, Milano 1977).
36 Y. Congar, Credo nello Spirito Santo, 2,
Queriniana, Brescia 1982, pp. 157-224.
37 Cf J. Moltmann, Lo Spirito della vita, Queriniana,
Brescia 1994; M. Welker, Lo Spirito di Dio,
Queriniana, Brescia 1995, p. 17.
38 Cf Origene, Commento a Giovanni, I, 29 (SCh
120, p. 158).
39 Ireneo, Adversus haereses, III, 24, 1.
40 Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1990.
41 Atanasio, De decretis Nicenae synodi, 31 (PG 26,
473).
42 Gregorio Nazianzeno, Lettera a Cledonio (PG 37,
181).

99
43 Atanasio, Contra Arianos, II, 69 e II, 70 (PG 26,
294.296).
44 I. Kant, Critica della ragion pratica, capp. III e
VI.
45 Atanasio, Contra Arianos, I, 17-18 (PG 26, 48).
46 Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, 26,
2 (PL 35, 1607).
47 Agostino, Commento ai Salmi, 120, 6 (CCL 40,
p. 1791).

100
III
CREDO IN UN SOLO DIO
PADRE ONNIPOTENTE

101
Masaccio (1401-1428), La Trinità

102
1. Unità e Trinità di Dio
L’ordine della «uscita delle creature da
Dio», spiega san Basilio, è: dal Padre, per
mezzo del Figlio, nello Spirito Santo;
l’ordine del «ritorno delle creature a Dio» è
l’inverso: nello Spirito Santo, per mezzo del
Figlio, a Dio Padre. «Lo Spirito – scrive
sant’Ireneo – prepara l’uomo per il Figlio di
Dio, e il Figlio lo conduce poi al Padre»48.
Lo esprime alla perfezione la dossologia
che chiude il canone della Messa: «Per
Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio
Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito
Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli
dei secoli».
Seguendo questo secondo movimento, di
ritorno, siamo giunti, in questa meditazione,
alla fonte e origine di tutto, che è il Padre.
A mano a mano che veniva esplicitandosi la
dottrina della Trinità, i cristiani si videro
esposti alla stessa accusa che essi avevano
sempre rivolto ai pagani: quella di credere
in più divinità. Ecco perché il credo dei

103
cristiani che, in tutte le sue varie redazioni,
per tre secoli, era cominciato con le parole
«Credo in Dio» (Credo in Deum), a partire
dal IV secolo, registra una piccola, ma
significativa aggiunta che non sarà più
omessa in seguito: «Credo in un solo Dio
(Credo in unum Deum).
Non è necessario rifare qui il cammino
che portò a questo risultato; possiamo
partire senz’altro dalla conclusione di esso.
Verso la fine del IV secolo si concluse la
trasformazione del monoteismo dell’Antico
Testamento nel monoteismo trinitario dei
cristiani. I latini esprimevano i due aspetti
del mistero con la formula «una sostanza e
tre persone», i greci con la formula «tre
ipostasi, una sola ousia». Dopo un serrato
confronto, il processo si concluse
apparentemente con un accordo totale tra le
due teologie. «Si può concepire –
esclamava il Nazianzeno – un accordo più
pieno e dire più assolutamente di così la
stessa cosa, anche se con parole
diverse?»49. Una differenza in realtà

104
rimaneva tra i due modi di esprimere il
mistero; oggi si è soliti esprimerla così: i
greci e i latini, nella considerazione della
Trinità, muovono da versanti opposti; i
greci partono dalle persone divine, cioè
dalla pluralità, per giungere all’unità di
natura; i latini, viceversa, partono dall’unità
della natura divina, per giungere alle tre
persone.
Io credo che la differenza si possa
esprimere anche in altro modo. Entrambi,
latini e greci, partono dall’unità di Dio; sia
il simbolo greco che quello latino
cominciano dicendo: «Credo in un solo
Dio». Soltanto che quest’unità per i latini è
concepita ancora come impersonale o pre-
personale; è l’essenza di Dio che si
specifica poi in Padre, Figlio e Spirito
Santo, senza, naturalmente, essere pensata
come preesistente alle persone. Nella
teologia latina, il trattato «Sul Dio uno»
precede tradizionalmente il trattato «Sul
Dio trino».
Per i greci, invece, si tratta di un’unità già
personalizzata, perché per essi «l’unità è il

105
Padre, dal quale e verso il quale si contano
le altre persone»50. Il primo articolo del
credo dei greci suona anch’esso «Credo in
uno solo Dio Padre onnipotente», ma
«Padre onnipotente» qui non è staccato da
«un solo Dio», come nel credo latino, ma fa
un tutt’uno con esso. La virgola non è dopo
la parola «Dio», ma dopo la parola
«onnipotente». Il senso è: «Credo in un solo
Dio che è il Padre onnipotente». L’unità
delle tre divine persone è data, per loro, dal
fatto che il Figlio è perfettamente
(sostanzialmente) «unito» al Padre, come lo
è anche lo Spirito Santo attraverso il
Figlio51.
L’uno e l’altro modo di accostarsi al
mistero è legittimo, ma oggi si tende
sempre più a preferire il modello greco, in
cui l’unità di Dio non è separabile dalla
trinità di Dio, ma forma un unico mistero e
scaturisce da un unico atto. In povere parole
umane, possiamo dire quanto segue. Il
Padre è la fonte, l’origine assoluta del
movimento d’amore. Il Figlio non può

106
esistere come Figlio se, anzitutto, non
riceve dal Padre tutto ciò che egli è. Il Padre
è il solo, anche nell’ambito della Trinità,
assolutamente il solo, a non aver bisogno di
essere amato per poter amare. Egli non ha
bisogno di esistere per poter amare: ha
bisogno di amare per poter esistere.
Il Padre è relazione eterna d’amore e non
esiste al di fuori di questa relazione. Non si
può perciò concepire il Padre anzitutto
come l’essere supremo e successivamente
riconoscere in lui un’eterna relazione
d’amore. Si deve parlare del Padre come
eterno atto d’amore. Il Dio unico dei
cristiani è dunque il Padre; non però
concepito a sé stante (come può chiamarsi
«padre», se non perché ha un «figlio»?), ma
come il Padre sempre in atto di generare il
Figlio e donarsi a lui con un amore infinito
che li unisce entrambi e che è lo Spirito
Santo. Unità e trinità di Dio scaturiscono
eternamente da un unico atto e sono un
unico mistero.
Ho detto che oggi si tende a preferire il
modello greco (e io stesso sono tra questi);

107
dobbiamo però aggiungere subito che
nessuno dei due approcci può fare a meno
dell’altro. Se la teologia greca ha fornito,
per così dire, lo schema e l’approccio giusto
per parlare della Trinità, il pensiero latino
ha assicurato ad esso, con Agostino, il
contenuto di fondo e l’anima, che è
l’amore. Egli fonda il suo discorso della
Trinità sulla definizione «Dio è amore» (1
Gv 4, 16) e ne deduce che in Dio, come in
ogni amore, ci deve essere uno che ama,
uno che è amato e l’amore che li unisce52.
La sua non è, come talvolta si tende a
dire, una spiegazione soltanto
«psicologica», ma anche ontologica, di una
ontologia speciale, biblica, non filosofica,
come quella che si va affermando oggi
anche in campo ortodosso53. Per il Padre
amare non è accidentale ma essenziale; egli
esiste in quanto ama, come il Figlio esiste
in quanto è amato e lo Spirito Santo esiste
in quanto è amore. In questo senso san
Tommaso d’Aquino definisce le persone
divine «relazioni sussistenti»54.

108
Il primo a rendersi conto di questa
necessaria integrazione reciproca tra la
spiegazione latina e quella greca fu
Gregorio Palamas che, nel secolo XIV,
conobbe finalmente di persona (ma era
troppo tardi per evitare i malintesi), il
trattato sulla Trinità del dottore di Ippona.
Egli scrive:
«Lo Spirito dell’altissimo Verbo è come l’amore
ineffabile del Padre per il suo Verbo, generato in
modo ineffabile; amore che questo stesso Verbo e
Figlio diletto del Padre ha, a sua volta, per il
Padre, in quanto possiede lo Spirito che insieme
con lui proviene dal Padre e che riposa in lui, in
quanto a lui connaturale»55.
L’apertura di Palamas viene ripresa oggi,
in un altro contesto, da un noto teologo
ortodosso, quando scrive: «L’espressione
“Dio è amore” significa che Dio “esiste” in
quanto Trinità, come “persona” e non come
sostanza. L’amore non è una conseguenza o
una “proprietà” della sostanza divina […]
ma ciò che costituisce la sua sostanza»56.
Pur nel diverso e nuovo significato
ontologico dato ai termini, questo modo di

109
parlare della Trinità ricorda forse più da
vicino quello di Agostino che quello dei
Cappadoci.
La Chiesa deve trovare il modo di
annunciare il mistero di Dio uno e trino con
categorie appropriate e comprensibili agli
uomini del proprio tempo. Così fecero i
Padri della Chiesa e i concili antichi ed è in
questo, soprattutto, che consiste la fedeltà
ad essi. È difficile pensare di poter
presentare agli uomini d’oggi il mistero
trinitario nei loro stessi termini di sostanza,
ipostasi, proprietà e relazioni sussistenti,
anche se la Chiesa non potrà mai rinunciare
a usarli nell’ambito della sua teologia e nei
luoghi di approfondimento della fede. Se
c’è però qualcosa, nel linguaggio antico dei
Padri, che l’esperienza dell’annuncio
dimostra essere ancora capace di aiutare gli
uomini d’oggi, se non a spiegare, almeno a
farsi un’idea della Trinità, lo troviamo
proprio in Agostino, che fa perno
sull’amore.

110
2. Lo Spirito Santo ci fa conoscere Dio
come «Padre del Figlio suo Gesù Cristo»
Dopo questa premessa sull’Unità e Trinità
di Dio, passiamo al tema centrale di questa
meditazione che, seguendo il nostro criterio
iniziale, possiamo formulare così: «Lo
Spirito Santo ci fa conoscere Dio come
Padre del Figlio suo Gesù Cristo e come
padre nostro».
San Gregorio Nazianzeno, in un testo
famoso, sintetizza così il processo che ha
portato alla fede nella Trinità. L’Antico
Testamento proclama apertamente
l’esistenza del Padre e comincia ad
annunziare velatamente quella del Figlio; il
Nuovo Testamento proclama apertamente il
Figlio e comincia a rivelare la divinità dello
Spirito Santo; ora, nella Chiesa, lo Spirito ci
concede distintamente la sua
manifestazione e si confessa la gloria della
beata Trinità. Dio ha dosato la sua
manifestazione, adeguandola ai tempi e alla
capacità ricettiva degli uomini57.

111
Questo schema ha un grave difetto, di cui
mi sono reso conto proprio partendo dalla
necessità di leggere una volta il credo alla
rovescia, come esso si è formato, e non solo
come prodotto finale. Il difetto è che il
Padre che, secondo Gregorio, si è rivelato
nell’Antico Testamento, non è il Dio Padre
dei cristiani! È un’altra cosa. Non è il
«Padre del Signore nostro Gesù Cristo» (Ef
1, 3; 2 Cor 1, 3), cioè il padre vero di un
figlio vero, ma è il Padre d’Israele, o il
Padre del mondo, cioè padre in senso
metaforico. In questo senso anche i pagani
conoscevano un Dio padre. Il nome stesso
latino di Giove, Juppiter, è formato da due
parole, di cui la prima significa «dio»
(diaus, in sanscrito, deus in latino) e la
seconda «padre» (piter). La rivelazione di
Dio Padre è la novità assoluta recata da
Cristo e che lo Spirito Santo, dopo la
Pasqua, porta a conoscenza dei discepoli,
soprattutto attraverso il Vangelo di
Giovanni.
Il Nuovo Testamento distingue
chiaramente i due significati della parola

112
«padre» quando è applicata a Dio: il
significato di «Padre nostro» e quello di
«Padre del Signore nostro Gesù Cristo»;
«Padre mio e padre vostro», secondo il
modo di esprimersi di Gesù (Gv 20, 17).
Questi due significati sono tra loro
connessi, perché noi siamo figli nel Figlio;
non si possono separare, ma neppure
confondere. Riflettiamo perciò prima
sull’uno e poi sull’altro, cominciando
dall’accezione trinitaria.
La conoscenza del Padre è, nel Nuovo
Testamento, la prerogativa per eccellenza
del Figlio: «Io conosco il Padre», dice
ripetutamente Gesù (Gv 7, 29; 8, 55; 10,
15), e dice anche che «nessuno conosce il
Padre se non il Figlio e colui al quale il
Figlio lo voglia rivelare» (Mt 11, 27). Dal
Vangelo di Giovanni si vede chiaramente
che il rapporto con il Padre è il nucleo
incandescente della personalità di Gesù.
Tutto scaturisce da lì, anche la sua capacità
di affrontare l’atroce passione: «Perché il
mondo sappia che io amo il Padre, alzatevi,
andiamo» (cf Gv 14, 31). Quando parla del

113
Padre, Gesù diventa poeta: evoca i gigli del
campo, gli uccelli dell’aria. Tutte le sue
preghiere iniziano con il grido filiale
«Abbà».
Come mai, allora, con l’inno del Veni
creator, chiediamo allo Spirito Santo di
farci conoscere il Padre («Per te sciamus da
Patrem»), e non lo chiediamo invece
direttamente a Cristo, dal momento che
«nessuno conosce il Padre se non il
Figlio»? La risposta è che lo Spirito Santo
ci fa conoscere, precisamente, la rivelazione
del Figlio circa il Padre! Ci fa comprendere
quello che Gesù ha detto del Padre. Fa della
rivelazione «esteriore», fatta di parole, una
rivelazione «interiore», esperienziale.
Quando Gesù afferma che il Paraclito
insegnerà ai discepoli «ogni cosa», che
ricorderà loro «tutto ciò che egli ha detto»
(Gv 14, 26), dal contesto appare chiaro che
allude in primo luogo a ciò che egli ha detto
circa il Padre.
Una frase di Gesù appare particolarmente
significativa: «Verrà l’ora in cui
apertamente vi parlerò del Padre» (Gv 16,

114
25). Quando parlerà loro apertamente del
Padre, se queste sono tra le ultime parole
che egli rivolge agli apostoli sulla terra?
Parlerà loro «apertamente» del Padre,
attraverso il suo Spirito, dopo la Pasqua! Lo
afferma nello stesso contesto: «Molte cose
ho da dirvi, ma per il momento non siete
capaci di portarne il peso. Quando però
verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla
verità tutta intera» (Gv 16, 12-13). La
conoscenza che il Paraclito dà del Padre è
di una qualità tutta particolare; egli non solo
ci fa «conoscere» il Padre, ma ci fa
«essere» nel Padre: «Da questo si conosce
che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli
ci ha fatto dono del suo Spirito» (1 Gv 4,
13). Conoscere, in questo modo, il Padre è
la stessa «vita eterna» (cf Gv 17, 3).
Anche san Paolo parla di questo ruolo
dello Spirito nei confronti della conoscenza
di Dio, sebbene in altri termini. Scrive:
«Lo Spirito scruta ogni cosa, anche le profondità
di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo, se non lo
spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti
di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non

115
lo Spirito di Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo
spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per
conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato» (1 Cor
2, 10b-12).
Tra queste «profondità» e «segreti» di Dio
è difficile non vedere compreso il segreto
per eccellenza che è la stessa vita intima di
Dio, il segreto trinitario. C’è una zona
inviolabile del nostro essere, dice
l’Apostolo, nel quale nessuno può entrare,
con nessun mezzo, se non siamo noi, con la
nostra libertà, ad aprirgli dall’interno la
porta. È così anche per Dio: il suo segreto
intimo è conosciuto e rivelato solo dallo
Spirito che è in lui.

116
3. Lo Spirito Santo ci fa conoscere Dio
come «Padre nostro»
Passiamo ora all’altra paternità di Dio,
quella nei confronti degli uomini. Gesù ha
fatto della rivelazione del vero volto del
Padre la sua principale missione sulla terra:
«Ho fatto conoscere il tuo nome agli
uomini» (Gv 17, 6). A questo scopo serve la
parabola del padre misericordioso e del
figliol prodigo, il discorso sui gigli del
campo e gli uccelli dell’aria, e le sue
continue assicurazioni: «Il Padre vostro sa».
L’inizio del Padre nostro contiene
anch’esso questa nuova immagine di Dio:
«Padre nostro che sei nei cieli»: il grido
«Abbà» che servì per esprimere il
sentimento filiale di Gesù serve ora per
esprimere il sentimento filiale dei discepoli.
Dio è l’Eterno, colui di cui non si può
nemmeno pronunciare il nome, ed ecco che
ora siamo invitati a rivolgerci a lui
chiamandolo «papà», o «caro padre». Il Dio
«altissimo» diventa vicinissimo.

117
E tuttavia, niente di fiacco o di
sentimentale in questa immagine di Dio:
egli è «nei cieli». Questa espressione non
indica un luogo, ma uno stato, un modo di
essere; vuol dire che egli è l’Altissimo, il
totalmente Altro, il Santo; quanto dista il
cielo dalla terra, così i suoi pensieri e le sue
vie distano dai nostri (cf Is 55, 9). È la
stessa identica immagine del Padre presente
nella preghiera personale di Gesù: «Ti
benedico, Padre, Signore del cielo e della
terra» (Mt 11, 25). «Che sei nei cieli»
significa che il Padre è «Signore del cielo e
della terra»!
Qual è allora la novità portata da Gesù?
Non è, come si pensa talvolta, che al Dio
potente e tuonante dell’Antico Testamento
viene sostituito un Dio tutto amore e
tenerezza, un Dio papà buono. La novità è
che adesso quel Dio, rimanendo ciò che è,
cioè altissimo, santo e tremendo, è dato a
noi come padre! Tutta la sua forza si piega,
si mette a nostra disposizione,
accondiscende58. La Chiesa ha raccolto

118
questa idea di Dio e l’ha espressa
nell’articolo del credo che stiamo
commentando. «Credo in Dio Padre
onnipotente»: padre, ma onnipotente;
onnipotente, ma padre. È il genere di padre
che ogni figlio vorrebbe per sé: tenero,
comprensivo, ma anche forte e autorevole
per difenderlo e farlo sentire libero e sicuro
nella vita.
San Paolo, per così dire, «aggiorna»
l’immagine di Dio Padre, alla luce di quello
che è avvenuto grazie alla morte e alla
risurrezione di Cristo. Al centro, o al
vertice, di ogni descrizione della vita nuova
scaturita dalla Pasqua di Cristo, egli pone
l’opera che lo Spirito Santo compie nelle
profondità del cuore umano, quando gli fa
scoprire Dio come Padre e se stesso come
figlio di Dio: «E che voi siete figli ne è
prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri
cuori lo Spirito del suo Figlio che grida:
“Abbà, Padre!”» (Gal 4, 6; cf Rm 8, 15-16).
In questo lo Spirito Santo non fa che
continuare l’opera che egli aveva svolto, un
tempo, nei confronti di Gesù di Nazaret. Fu

119
nello Spirito Santo infatti che Gesù, come
uomo, venne scoprendo e sperimentando
sempre più luminosamente il suo rapporto
filiale con il Padre. Nel battesimo del
Giordano, la proclamazione di Gesù come
«Figlio prediletto» del Padre avviene in
concomitanza con la venuta su di lui dello
Spirito Santo sotto forma di colomba (cf Mt
3, 16-17). Era lo Spirito che ogni volta
suscitava dalle profondità del cuore umano
di Cristo il grido «Abbà», come ci assicura
una volta lo stesso Vangelo: «Gesù esultò di
gioia nello Spirito Santo e disse: “Ti
benedico, Padre, Signore del cielo e della
terra…”» (Lc 10, 21).
Lo Spirito Santo continua dunque a
svolgere nelle membra ciò che ha fatto nel
capo. Ma con una importante novità. Nei
credenti questa esperienza della paternità di
Dio non è parallela a quella di Cristo, ma
dipendente da essa, mediata da essa. In altre
parole, i cristiani sperimentano Dio come
loro Padre in quanto egli è il Padre di Gesù,
in quanto partecipano, nello Spirito, alla
figliolanza del Figlio. Chi agisce in loro non

120
è più semplicemente lo «Spirito di Dio», ma
è lo «Spirito del Figlio suo».

121
4. Dio Padre, un’immagine da restaurare
Questa è la visione meravigliosa ed
esaltante che il Nuovo Testamento ci dà del
nostro rapporto con Dio Padre. Se non che,
appena proviamo a confrontare questa
visione con l’immagine di Dio che la
maggioranza degli uomini, anche credenti,
porta nascosta nel proprio cuore, rimaniamo
sconcertati dal contrasto. Una delle cause,
forse la principale, dell’alienazione
dell’uomo moderno dalla religione e dalla
fede e dell’ateismo militante è che la gente
ha una immagine distorta di Dio. Gesù
dovrebbe ripetere oggi a più forte ragione la
constatazione: «Padre santo, il mondo non
ti ha conosciuto» (Gv 17, 25)
Qual è l’immagine «predefinita» di Dio –
nel linguaggio dei computer, che opera cioè
come default – nell’inconscio umano
collettivo? Basta, per scoprirlo, porsi questa
domanda e porla anche agli altri: quali idee,
quali parole, quali realtà sorgono
spontaneamente in te, prima di ogni

122
riflessione, quando dici: «Padre nostro che
sei nei cieli […] sia fatta la tua volontà»?
La risposta è spesso sorprendente! Ci si
rende conto che, molto spesso,
inconsciamente, si collega la volontà di Dio
a tutto ciò che è spiacevole, doloroso, e
tutto ciò che costituisce una prova,
un’esigenza di rinuncia, un sacrificio, a
tutto ciò che, in un modo o nell’altro, può
essere visto come mutilante la libertà e lo
sviluppo individuali. È un po’ come se Dio
fosse nemico di ogni festa, gioia, piacere.
Non si pensa che la volontà di Dio è
chiamata nel Nuovo Testamento eudokia
(Ef 1, 9; Lc 2, 14), cioè volontà buona,
benevolenza, per cui dire «sia fatta la tua
volontà» è come dire «si compia in me, o
Padre, il tuo disegno d’amore».
Dio è visto anzitutto come l’Essere
supremo, la Causa Prima, il supremo
Signore del cielo e della terra,
l’Onnipotente, il Signore del tempo e della
storia. Uno che ha pieni diritti sulle sue
creature e al quale le creature devono
obbedire. Dio è visto, perciò, come il Dio

123
della Legge. Come un’entità esterna che si
impone all’individuo dall’esterno, con una
enunciazione della Legge sempre più
precisa e dettagliata: nessun particolare
della vita umana gli sfugge.
La trasgressione della Legge, cioè la
disobbedienza alla sua volontà, introduce
inesorabilmente un disordine
nell’ordinamento voluto da lui da tutta
l’eternità. Di conseguenza, l’infinita sua
giustizia esige una riparazione: bisognerà
dare qualcosa a Dio, al fine di ristabilire,
nella creazione, l’ordine perturbato. Questa
riparazione sarà costituita da una
privazione, un sacrificio. Dal momento però
che Dio è l’essere trascendente,
infinitamente perfetto, non si potrà mai
avere la certezza che la «soddisfazione» sia
adeguata; di qui l’angoscia di trovarsi di
fronte alla morte e, soprattutto, di fronte al
giudizio. Dio è il Padrone che esige di
essere pagato fino in fondo!
Certo, la Chiesa non ha mai ignorato la
misericordia di Dio! Ma ad essa si è affidata
soltanto l’incombenza di moderare gli

124
irrinunciabili rigori della giustizia. Anzi,
nella pratica, si sono fatti dipendere l’amore
e il perdono che Dio largisce dall’amore e
dal perdono che si donano agli altri: se
perdoni chi ti reca l’offesa, Dio potrà a sua
volta perdonarti. E questa, in realtà, è la
strada della disperazione. È venuto fuori
con Dio un rapporto di mercanteggiamento.
Non si dice che bisogna accumulare meriti
per guadagnare il paradiso? E non si
attribuisce grande rilevanza agli sforzi da
fare, alle Messe da far celebrare, alle
candele da accendere, alle novene da fare?
Tutto questo, avendo permesso a tanta
gente in passato di dimostrare a Dio il
proprio amore, non può essere gettato alle
ortiche, eppure c’è il rischio di cadere in
una religione utilitaristica. Alla base di tutto
c’è il presupposto che il rapporto con Dio
dipenda dall’uomo. Egli non può
presentarsi davanti a Dio con le mani vuote,
deve avere qualcosa da donargli e Dio
diventa come un distributore automatico: si
mette un gettone e l’uomo ha diritto di
avere il contraccambio! Ovviamente, se non

125
ottiene nulla, se non riceve risposta, ecco la
delusione, il disappunto, addirittura la
ribellione.
Ci sono motivi diversi per cui si può
avere un cattivo rapporto con il Padre
celeste. Lasciamo da parte la spiegazione di
Freud sul complesso di Edipo, cioè
nell’innata rivalità che c’è tra padre e figlio,
a causa della madre che ognuno vorrebbe
solo per sé. È una teoria con cui Freud
spiega tutto, anche l’origine e il senso della
religione, ma che resta una pura teoria che
non spiega niente. Lasciamo da parte anche
i motivi contingenti e individuali dovuti a
un cattivo rapporto con il proprio padre
terreno, che pure incidono in alcuni casi sul
rapporto con Dio Padre. Il motivo
fondamentale che spiega quella terribile
immagine «predefinita» di Dio, da quanto si
è detto, è chiaro ed è la Legge, i
comandamenti.
Finché l’uomo vive nel regime di peccato,
sotto la Legge, Dio gli appare un padrone
severo, uno che si oppone al
soddisfacimento dei suoi desideri terreni

126
con quei perentori «tu devi… tu non devi»
che sono i comandamenti. In questo stato
l’uomo accumula nel fondo del cuore un
sordo rancore verso Dio, lo vede come un
avversario della sua felicità e, se dipendesse
da lui, sarebbe ben felice se non
esistesse59.
Vediamo come lo Spirito Santo, nella
misura in cui viene accolto, cambia questa
situazione. La prima cosa che egli fa,
venendo in noi, è quella di mostrarci un
diverso volto di Dio, il suo vero volto. Chi è
veramente il Padre, lo si scopre solo
attraverso Cristo. Egli ha detto: «Chi vede
me, vede il Padre» (Gv 14, 9). E cosa
vediamo in Cristo? Un Dio che si
inginocchia davanti all’uomo per lavargli i
piedi (cf Gv 13, 4 ss.)! Un Dio che non è il
padrone dell’uomo, ma il suo servitore!
Lo Spirito Santo ci fa scoprire il Padre
come alleato, amico, come colui che, per
noi, «non ha risparmiato il proprio Figlio»
(Rm 8, 32). Ci comunica, in una parola, il
sentimento che aveva Gesù del Padre suo.

127
Sboccia allora il sentimento filiale che si
traduce spontaneamente nel grido: Abbà,
Padre! Come dire: «Io non ti conoscevo, o
ti conoscevo solo per sentito dire; ora ti
conosco, so chi sei, so che mi vuoi bene
davvero, che mi sei favorevole». Il figlio ha
preso il posto dello schiavo, l’amore quello
del timore. È così che avviene, sul piano
soggettivo ed esistenziale, la «rinascita
dallo Spirito».

128
5. La Trinità soffre una passione d’amore
Al motivo della Legge, in tempi recenti si
è aggiunto un altro motivo di risentimento
contro Dio Padre: la sofferenza umana,
soprattutto la sofferenza degli innocenti.
«La sofferenza degli innocenti – ha scritto
un non credente – è la roccia dell’ateismo».
Il dilemma suona così: «O Dio può vincere
il male ma non vuole, e allora non è un
padre; o vuole vincerlo ma non può, e allora
non è onnipotente». Questa obiezione è
anch’essa antica, ma è diventata assordante
in seguito alle vicende tragiche dell’ultima
guerra mondiale. «Non si può più credere in
un Dio che è padre, dopo Auschwitz», ha
scritto qualcuno.
Vediamo la risposta che lo Spirito Santo
ha dato alla Chiesa. Nella seconda parte del
secolo scorso, alcuni dei più noti teologi
hanno parlato della sofferenza di Dio.
Dietro il giapponese Kazoh Kitamori60, lo
hanno fatto, partendo da punti di vista
diversi, Karl Barth61, Jürgen Moltmann62 e

129
Hans Urs von Balthasar nella sua
Teodrammatica. La Commissione Teologica
Internazionale ha dato un giudizio
sostanzialmente positivo su queste
aperture63. Questa visione, con le dovute
precisazioni e cautele, è stata accolta da
Giovanni Paolo II che nell’enciclica sullo
Spirito Santo ha scritto:
«La concezione di Dio, come essere
necessariamente perfettissimo, esclude certamente
da Dio ogni dolore derivante da carenze o ferite;
ma nelle “profondità di Dio” c’è un amore di
Padre che, dinanzi al peccato dell’uomo, secondo
il linguaggio biblico, reagisce fino al punto di dire:
“Sono pentito di aver fatto l’uomo!” […]. Il Libro
sacro ci parla di un Padre, che prova compassione
per l’uomo, quasi condividendo il suo dolore. In
definitiva, questo imperscrutabile e indicibile
“dolore” di padre genererà soprattutto la mirabile
economia dell’amore redentivo in Gesù Cristo,
affinché, per mezzo del mistero della pietà, nella
storia dell’uomo l’amore possa rivelarsi più forte
del peccato […]. Nella umanità di Gesù Redentore
si invera la “sofferenza” di Dio»64.
Non si tratta di un’idea nuova, ma della
riscoperta del vero volto del Dio della
Bibbia, ricoperto per secoli dall’idea del

130
«dio dei filosofi», motore immobile, che
muove tutto senza essere mosso – e tanto
meno commosso – da nulla. Un noto
rabbino italiano era arrivato alla stessa
conclusione dei teologi cristiani, solo
studiando e commentando la Bibbia.
Scriveva molto prima degli autori citati: «
Iddio soffre? Il pensarci è per me un dovere
del cuore […]. Iddio resta sempre ferito,
Iddio sempre soffre, o nella giustizia, o
nella sua pietà [cioè sia quando punisce il
peccato, sia quando passa sopra al peccato
degli uomini]. Soffre a causa dell’uomo che
pecca e con l’uomo che pecca»65.
Origene, anche lui profondo conoscitore
della Scrittura, scriveva già nel II secolo
queste parole ardite: «Il Padre stesso, Dio
dell’universo, lui che è pieno di
longanimità, di misericordia e di pietà, non
soffre forse, in qualche modo? O forse tu
ignori che, quando si occupa delle cose
umane, egli soffre una passione umana?
Egli soffre una passione d’amore»66. Un
suo discepolo, san Gregorio Taumaturgo,

131
parla della «passione dell’impassibile». In
Dio, dunque, la passione ha, in certo senso,
preceduto l’incarnazione. Questa ne
costituisce anzi la manifestazione storica e
l’effetto.
È sorprendente come, su questo punto, gli
artisti abbiano precorso di secoli i teologi.
Nell’arte occidentale con il titolo La Trinità
si intende una rappresentazione in cui si
vede il Padre che, con le braccia distese e il
volto sofferente, regge la croce di Cristo,
mentre tra il volto del Padre e quello del
Figlio c’è la colomba dello Spirito Santo.
Innumerevoli sono le rappresentazioni di
questo tipo, sia nell’arte popolare che in
quella di grandi autori. L’esempio più noto
è la Trinità di Masaccio in Santa Maria
Novella a Firenze. La Trinità intera era sulla
croce.
Se c’è una precisazione o una correzione
da apportare alla tesi della sofferenza di Dio
(e a quello che io stesso ho scritto in
proposito in passato) è proprio quella messa
in luce dagli artisti. Quando si parla di
sofferenza di Dio, non si deve insistere

132
unilateralmente sulla sofferenza del Padre,
ma di tutte e tre le persone divine. Anche la
sofferenza in Dio è trinitaria! Lo stesso
Spirito Santo, essendo l’amore di Dio in
persona, è anche, di conseguenza, «il dolore
di Dio in persona»67.
Per comprendere qualcosa della
sofferenza di Dio, si deve tener conto della
distinzione tra natura e persona nella
Trinità. Come natura, Dio è onnipotente,
assolutamente perfetto, in lui non vi è né
può essere dolore derivante da una perdita
di vitalità, perché è il Vivente che dà la vita
a tutti e non subisce mai perdita di vita.
Quindi, quando si dice che in Dio non vi
può essere dolore, si parla della sua natura.
Il Padre è una Persona che possiede la
natura divina e, come tale, vive
concretamente la sua personalità in una
serie di rapporti interpersonali con il Figlio
e con lo Spirito e con gli uomini e gli angeli
da lui creati. Nella prima serie di rapporti,
quelli inerenti alla sua vita intima, con il
Figlio e lo Spirito, è assente ogni forma di

133
dolore; la loro unità perfetta d’amore e di
vita esclude ogni forma di dolore.
Ma il Padre non è solo padre del Figlio e
sorgente dello Spirito; è anche il creatore
dell’universo, a capo del quale ha messo
l’uomo. Con lui è entrato in un rapporto
libero di amore e di comunione, a immagine
del rapporto che ha con il Figlio. In questo
rapporto egli entra con tutta la sua gloria e
con tutto il suo amore. Il legame, quindi,
che il Padre ha con l’universo lo coinvolge
fin nell’intimo con tutta la sua personalità.
È in questo rapporto che s’inserisce il
dolore. Il disegno creativo del Padre, infatti,
non può realizzarsi senza la collaborazione
e la libera adesione dell’uomo. Nel
rispondere di no, l’uomo colpisce nel vivo
le tre divine Persone, la loro volontà di
comunione d’amore con l’uomo. Da qui il
dolore per il rifiuto dell’uomo a lasciarsi
coinvolgere dal loro amore e dalla loro
santità. Il dolore, come si vede, non è
diminuzione o perdita di vitalità in Dio, il
che sarebbe impossibile, ma è solo la
modalità con cui si esprime la sua pienezza

134
di vita e di amore di fronte al rifiuto
dell’uomo.
Ciò che avviene in Dio è paragonabile a
ciò che avviene in una donna che ha un
intenso desiderio di maternità, ma che, per
impedimenti fisici o per il rifiuto del
proprio marito, non può diventare madre.
Quale intimo tormento provoca questa
frustrazione del desiderio vivo della
maternità! Allo stesso modo, il rifiuto
all’obbedienza e all’amore da parte
dell’uomo provoca in Dio l’arresto del suo
intensissimo desiderio di fare dell’uomo il
partner della sua gloria.
Basta, come si vede, un rapido sguardo
all’insieme della Bibbia per scoprirvi il
volto di un Dio tutt’altro che «impassibile»
(apathes), come era quello dei filosofi
greci, «motore immobile», che muove tutto
senza essere, lui stesso, mosso (e
commosso!) da niente. Il Dio biblico è un
Dio «appassionato», pieno di pathos. «Dio
è amore» (1 Gv 4, 16), e l’amore è la cosa
più vulnerabile che esista al mondo. Se è
vero amore, esso deve infatti lasciare libero

135
l’amato di accoglierlo o rifiutarlo, e il
rifiuto dell’amore, specie da parte della
propria sposa o dei propri figli, come si sa,
è una delle sofferenze più acute dell’essere
umano. Di esso si lamenta Dio in Isaia: «Ho
allevato e fatto crescere figli, ma essi si
sono ribellati contro di me» (Is 1, 2). «Non
si vive in amore senza dolore», scrive
l’autore del libro L’Imitazione di Cristo (III,
5), e questa legge si attua prima di tutto in
Dio.
La stessa «collera di Dio», di cui si parla
spesso nella Scrittura, non è che una
manifestazione del suo pathos. Si tratta di
un antropomorfismo con il quale il Libro
sacro vuole sottolineare la passione di Dio
per l’uomo, la serietà del suo amore, il suo
coinvolgimento nel patto che lo lega
all’uomo e la sua vittoria contro ogni
ostacolo che si frapponga alla sua opera di
salvezza.
Quello che riconcilia il discorso sulla
sofferenza di Dio con la nostra
irrinunciabile fede nella sua infinita
perfezione e potenza è che alla fine l’amore

136
trionferà su ogni specie di dolore; non ci
sarà più «né lacrima, né lutto, né dolore, né
morte» (cf Ap 21, 4), né in noi né in Dio.
L’amore trionferà, ma a modo suo, cioè non
sbaragliando il male e ricacciandolo fuori
dai propri confini (non lo potrebbe fare
senza distruggere la libertà umana), ma
trasformando il male in bene, l’odio in
amore.
Io ho sperimentato di persona la forza
liberatoria che può avere questo annuncio
della sofferenza di Dio. Un anno, nella
predica in San Pietro del Venerdì Santo,
parlai della sofferenza del Padre che era con
Gesù quel giorno sul Calvario. Dalle
reazioni che ci furono ebbi l’impressione
che la gente aspettasse da sempre di sentire
una parola come quella. Esso riconcilia con
Dio Padre. Fa capire che egli non è lontano,
lassù nel cielo, a guardare l’uomo che soffre
sulla terra; è con lui. Piange con la madre
che piange la perdita del figlio, e con
chiunque è nel dolore.
Perché allora, ci si domanda, non
interviene, se anche lui soffre con l’uomo?

137
Perché la sofferenza? Evitiamo, noi ministri
della Parola, di dare l’impressione che per
noi il dolore umano non ha misteri; non
somigliamo agli amici di Giobbe. In
presenza di certe sofferenze, imitiamo Gesù
che davanti al dolore per la perdita di una
persona cara (il figlio della vedova di Nain,
Lazzaro) si commuoveva e piangeva. Dopo
potremo, come faceva lui, annunciare la
risurrezione e la vita. Potremo ripetere con
Paolo: «Io ritengo che le sofferenze del
tempo presente non siano paragonabili alla
gloria che deve essere manifestata a nostro
riguardo» (Rm 8, 18), o dire con Giovanni:
«Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi
e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né
grido, né dolore, perché le cose di prima
sono passate» (Ap 21, 4). Dio ha l’eternità
per farsi «perdonare», non lo
dimentichiamo mai68.
Terminiamo con la bellissima preghiera di
abbandono al Padre di Charles de Foucauld.
Essa ci fa capire meglio di ogni spiegazione
con che spirito si dovrebbe pronunciare, nel

138
Padre nostro, l’invocazione: «Sia fatta la
tua volontà».
«Padre mio, io mi abbandono a te:
fa’ di me ciò che ti piace!
Qualunque cosa tu faccia di me, ti ringrazio.
Sono pronto a tutto, accetto tutto,
purché la tua volontà si compia in me
e in tutte le tue creature.
Non desidero niente altro, mio Dio.
Rimetto la mia anima nelle tue mani, te la dono,
mio Dio,
con tutto l’amore del mio cuore, perché ti amo.
Ed è per me un’esigenza d’amore il donarmi,
il rimettermi nelle tue mani senza misura,
con una confidenza infinita, poiché tu sei il Padre
mio».

Note
48 Ireneo, Adversus haereses, IV, 20, 5.
49 Gregorio Nazianzeno, Oratio 42, 16 (PG 36,
477).
50 Id., Oratio 42, 15 (PG 36, 476).
51 Cf Gregorio Nisseno, Contra Eunomium 1, 42
(PG 45, 464).
52 Agostino, De Trinitate, VIII, 10, 14; XV, 17, 31.
53 Cf J.D. Zizioulas, Being as Communion. Studies
in Personhood and the Church, Darton, Longman
and Todd, London 1985.
54 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 29,

139
a. 4.
55 Gregorio Palamas, Capita physica, 36 (PG 150,
1144 s.).
56 J.D. Zizioulas, Du personnage à la personne, in
L’être ecclésial, Labor et Fides, Genève 1981, cit. da
Y. Spiteris, La teologia ortodossa neo-greca, EDB,
Bologna 1992, p. 385.
57 Cf Gregorio Nazianzeno, Oratio 31, 26 (PG 36,
162).
58 Cf R. Otto, Il sacro, Feltrinelli, Milano 1966, cap.
XIII, in particolare p. 90.
59 Cf M. Lutero, Sermone di Pentecoste (WA, 12,
pp. 568 s.).
60 Theology of the Pain of God, Knox, Richmond
1965 (tr. it. Teologia del dolore di Dio, Queriniana,
Brescia 1975).
61 Kirchliche Dogmatik, IV/1, EVZ, Zürich 1953,
pp. 303 s.
62 Der gekreuzigte Gott, München 1972, pp. 184-
267 (tr. it. Il Dio crocifisso, Queriniana, Brescia
1973).
63 Cf Teologia, cristologia, antropologia, in «La
Civiltà Cattolica» 134 (1983), pp. 50-65.
64 Dominum et vivificantem, 39.
65 E. Zolli, Prima dell’alba. Autobiografia, San
Paolo, Cinisello Balsamo 2004, pp. 73 s.
66 Origene, Omelie su Ezechiele, 6, 6 (GCS 1925, p.
384).
67 H. Mühlen, Das Herz Gottes. Neue Aspekte der
Trinitätslehre, in «Theologie und Glaube» 78

140
(1988), pp. 141-159.
68 Qualcuno ha posto la domanda come la tesi della
sofferenza di Dio si concilia con la condanna del
cosiddetto Patripassianesimo, cioè della tesi che, nei
primi secoli della Chiesa, attribuiva la passione al
Padre. Ma la riscoperta della sofferenza di Dio non
ha assolutamente nulla a che vedere con l’eresia del
Patripassianesimo. La più antica notizia su questa
eresia ci è data da Tertulliano. Egli attribuisce a un
certo Prassea dell’Asia Minore l’affermazione
secondo cui «è il Padre che è disceso nella Vergine,
lui che è nato da lei, lui che ha patito, insomma che è
lo stesso Gesù Cristo» (Adversus Praxean, 1, 1).
L’errore che Tertulliano rimprovera a Prassea non è,
come si vede, di attribuire la sofferenza a Dio Padre,
ma nell’identificare il Padre con il Figlio, cioè nel
negare la distinzione delle persone in Dio, in altre
parole, nel negare la Trinità. In un’altra sua opera, lo
stesso Tertulliano difende, contro l’eretico Marcione,
l’esistenza di passioni in Dio, insistendo però
giustamente sulla diversità che c’è tra le passioni
umane e quelle divine (Adversus Marcionem, II, 16,
3-4). In un documento della Chiesa greca del 345, si
legge: «Patripassiani, è il nome con cui i Romani
indicano quelli che noi chiamiamo Sabelliani»
(Simbolo di Antiochia del 345, in PG 26, 732 C). È
l’eresia nota anche con il nome di Modalismo, in
quanto considera il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo
come modi diversi di manifestarsi della stessa
persona divina.

141
IV
CREATORE DEL CIELO E
DELLA TERRA, DI TUTTE LE
COSE VISIBILI E INVISIBILI

142
Creazione delle luci nel cielo (XII sec.)
Duomo di Monreale

143
1. In principio era l’amore
Con questa meditazione entriamo nella
seconda parte del nostro commento al
credo. Dalle tre distinte persone in cui
crediamo (il Padre, il Figlio e lo Spirito
Santo) passiamo alle cose che crediamo,
cioè alle opere che la Trinità compie
congiuntamente, come unico principio,
fuori di sé, nella storia. La prima di queste
cosiddette opere ad extra è la creazione, e
di essa si occupa l’articolo in cui
proclamiamo Dio «creatore del cielo e della
terra, di tutte le cose visibili e invisibili».
Il popolo d’Israele si interessa al
problema della creazione a causa del
contatto con le mitologie conosciute
durante la sua esperienza di schiavitù,
prima in Egitto e poi lungo i fiumi di
Babilonia. Quando rientrano in patria, gli
ebrei cercano di organizzare la lettura di
tutte le vicende della loro storia e,
collegandola a quella dell’intera umanità,
partono dall’analisi della prima vicenda: la

144
creazione del cosmo.
Il primo libro della Bibbia narra l’origine
del mondo, creato simbolicamente nell’arco
di una settimana direttamente dalle mani di
Dio. La vita prorompe dal Creatore con
sapienza e amore e con parola potente, con
detti e azioni. «Dicesti una parola e tutte le
cose furono fatte, inviasti il tuo spirito e
furono formate» (Gdt 16,14). Lo scopo
ultimo non è fare della storia e, ancor meno,
della scienza, ma di elevare un inno alla
sapienza e alla potenza del Creatore, di
colui che Israele ha conosciuto come Dio
dell’alleanza.
Il pericolo nel recitare il credo è di vedere
l’albero e i frutti e non la radice nascosta,
cioè una serie di verità e di fatti, ma non
l’anima di tutto, la fonte da cui tutto
proviene. Questa, come si vede, è semplice
ed è che «Dio è amore!». San Giovanni ci
offre un suo «credo» sintetico e brevissimo
che coglie proprio questa fonte da cui tutto
scaturisce: «Noi abbiamo creduto all’amore
di Dio» (cf 1 Gv 4, 16).
È questa la risposta a tutti i perché della

145
fede, a cominciare da quello della Trinità.
Perché Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo?
La risposta è: perché il nostro Dio è amore
e l’amore non può esistere che tra due
persone, esso esige un soggetto che ama e
un oggetto che è amato. Non c’e amore che
non sia amore di qualcuno o di qualcosa,
come «non c’è conoscenza che non sia
conoscenza di qualcuno o di qualcosa» (E.
Husserl). Solo se Dio fosse soltanto legge
suprema o potere supremo, come in certe
religioni, potrebbe essere «solo e solitario»;
il nostro Dio, che è amore, è unico ma non
solitario.
Applicata alla creazione, questa verità ci
costringe a rivedere, o almeno a completare,
la risposta che si dà solitamente nei
catechismi. In essi, alla domanda: «Perché
Dio ci ha creati?», si risponde: «Per
conoscerlo, amarlo, servirlo in questa vita e
goderlo poi nell’altra in paradiso». Questa
risposta risponde alla domanda sulla causa
finale, sullo scopo per cui Dio ci ha creato;
non alla domanda sulla causa causante, su
che cosa lo ha spinto a crearci. A questa

146
domanda infatti non si deve rispondere:
«perché lo amassimo», ma «perché ci
amava».
L’amore è diffusivum sui, tende per sua
natura a comunicarsi, ed è questo il vero
motivo della creazione. San Giovanni non
si stanca di ripetercelo: «In questo sta
l’amore: non che noi abbiamo amato Dio,
ma che lui ha amato noi»; ancora: «Noi
amiamo perché egli ci ha amato per primo»
(1 Gv 4, 10.19). Nessuno saprebbe
convincerci del fatto che noi siamo stati
creati per amore, meglio di come lo fa santa
Caterina da Siena con questa sua infuocata
preghiera alla Trinità:
«Come creasti, dunque, o Padre eterno, questa tua
creatura? Io sono grandemente stupefatta di ciò;
vedo infatti, come tu mi mostri, che per nessuna
altra ragione la facesti, se non perché con il lume
tuo ti vedesti costringere dal fuoco della tua carità
a darci l’essere, nonostante le iniquità che
dovevamo commettere contro di te, o Padre
eterno. Il fuoco dunque ti costrinse. O amore
ineffabile, benché nel lume tuo tu vedessi tutte le
iniquità, che la tua creatura doveva commettere
contro la tua infinita bontà, tu facesti vista quasi di
non vedere, ma fermasti l’occhio nella bellezza

147
della tua creatura, della quale tu, come pazzo ed
ebbro d’amore, t’innamorasti e per amore la traesti
da te, dandole l’essere all’immagine e similitudine
tua. Tu, verità eterna, hai dichiarato a me la verità
tua, cioè che l’amore ti costrinse a crearla»69.
L’amore di Dio è senza limiti; non si
ferma all’uomo, sostiene l’universo intero.
È il legame sostanziale tra tutti gli esseri e
con il loro Creatore. Dante Alighieri ha
ragione quando, nell’ultimo verso della sua
Divina Commedia, definisce Dio «l’amor
che muove il sole e l’altre stelle». Bisogna
lasciarsi trasportare dalla immensa corrente
di questo amore, dallo slancio della natura
intera che attende, nei gemiti, di essere
liberata dalle conseguenze del peccato (cf
Rm 8, 19 ss.). Se gettiamo una pietra
nell’acqua, ci accorgiamo che provoca dei
cerchi concentrici che si allargano, così è
l’amore creatore; è un’emozione che si
propaga all’infinito e unisce
sostanzialmente tutto ciò che esiste.

148
2. La creazione opera della Trinità
Ricordiamo il principio formulato da san
Basilio: «Il cammino della conoscenza di
Dio procede dall’unico Spirito, attraverso
l’unico Figlio, fino all’unico Padre;
inversamente, la bontà naturale, la
santificazione secondo natura, la dignità
regale, si diffondono dal Padre, per mezzo
dell’Unigenito, fino allo Spirito»70.
Applicato alla creazione, questo principio
afferma che all’origine di tutto c’è il Padre,
il quale crea «per mezzo del Figlio» e porta
alla perfezione grazie allo Spirito Santo.
Poco oltre, nell’articolo relativo al Figlio,
il credo dice che «tutto fu fatto per mezzo
di lui» («per quem omnia facta sunt»).
Lasciamo da parte le questioni teologiche
sulla natura di questa mediazione (se il
Logos è causa esemplare, strumentale o di
altro genere) e limitiamoci alle affermazioni
bibliche. Giovanni proclama: «Tutto è stato
fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è
stato fatto di ciò che esiste» (Gv 1, 3) e

149
Paolo scrive: «Tutte le cose sono state
create per mezzo di lui e in vista di lui»
(Col 1, 16). La domanda cruciale è: saremo
capaci, noi che aspiriamo a rievangelizzare
il mondo, di dilatare la nostra fede a queste
dimensioni da capogiro? Crediamo noi
davvero, con tutto il cuore, che «tutto è
stato fatto per mezzo di Cristo e in vista di
Cristo»? Nel suo libro Introduzione al
cristianesimo l’allora professore Joseph
Ratzinger scriveva:
«Con il secondo articolo del “Credo” siamo
davanti all’autentico scandalo del cristianesimo.
Esso è costituito dalla confessione che l’uomo-
Gesù, un individuo giustiziato verso l’anno 30 in
Palestina, sia il “Cristo” (l’unto, l’eletto) di Dio,
anzi addirittura il Figlio stesso di Dio, quindi il
centro focale, il fulcro determinante dell’intera
storia umana […]. Ci è davvero lecito aggrapparci
al fragile stelo d’un singolo evento storico?
Possiamo correre il rischio di affidare l’intera
nostra esistenza, anzi, l’intera storia, a questo filo
di paglia d’un qualsiasi avvenimento, galleggiante
nello sconfinato oceano della vicenda
cosmica?» .71

Ci è lecito, soprattutto, pensare che


l’universo intero esiste grazie a quel singolo

150
uomo? L’iniziatore della ricerca su un
«Gesù storico», diverso dal «Cristo della
fede», ha scritto: «L’illusione che Gesù
possa essere stato uomo in senso pieno e
che tuttavia come singola persona sia
superiore all’umanità intera è la catena che
ancora chiude il porto della teologia
cristiana al mare aperto della scienza
razionale»72. Quello che il razionalista
rifiuta sdegnosamente, è ciò che noi
credenti siamo chiamati a professare
gioiosamente. Come è «l’Alfa e l’Omega»
della storia (Ap 1, 8), così il Figlio di Dio è
anche «il principio della creazione di Dio»
(Ap 3, 14).
Il racconto biblico della creazione assegna
un ruolo speciale in essa anche allo Spirito
di Dio: «In principio Dio creò il cielo e la
terra. La terra era informe e deserta e le
tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di
Dio aleggiava sulle acque» (Gn 1, 1-2). Lo
Spirito Santo non è all’origine, ma, per così
dire, al termine della creazione, come non è
all’origine, ma al termine del processo

151
trinitario. Nella creazione – scrive ancora
san Basilio – il Padre è la causa principale,
colui dal quale sono tutte le cose; il Figlio
la causa efficiente, colui per mezzo del
quale tutte le cose sono fatte; lo Spirito
Santo è la causa perfezionante. Non che la
forza operativa del Padre sia imperfetta, ma
il Padre vuole fare esistere per mezzo del
Figlio e vuole portare alla perfezione per
mezzo dello Spirito73.
Lo Spirito è all’origine dunque della
perfezione del creato; non è tanto colui che
fa passare il mondo dal nulla all’essere,
quanto colui che lo fa passare dall’essere
informe all’essere formato e perfetto. In
altre parole, lo Spirito Santo è colui che fa
passare il creato dal caos al cosmo, che fa di
esso qualcosa di bello, di ordinato, pulito:
un «mondo» appunto, secondo il significato
originario di questa parola. Scrive
sant’Ambrogio:
«Quando lo Spirito cominciò ad aleggiare su di
esso, il creato non aveva ancora alcuna bellezza.
Invece, quando la creazione ricevette l’operazione
dello Spirito, ottenne tutto questo splendore di

152
bellezza che la fece rifulgere come “mondo”»74.
Ora noi sappiamo che l’azione creatrice di
Dio non è limitata all’istante iniziale, come
si pensava nella visione deista o
meccanicista dell’universo. Dio non «è
stato» una volta, ma sempre «è» creatore.
Ciò significa che lo Spirito è sempre colui
che fa passare dal caos al cosmo, cioè: dal
disordine all’ordine, dalla confusione
all’armonia, dalla deformità alla bellezza,
dalla vetustà alla novità. Non, s’intende,
meccanicamente e di colpo, ma nel senso
che è al lavoro nel creato e guida a un fine
la sua stessa evoluzione come tra le doglie
del parto (cf Rm 8, 19-22). Egli è colui che
sempre «crea e rinnova la faccia della terra»
(cf Sal 104, 30). Questo a tutti i livelli: nel
macrocosmo come nel microcosmo che è
ogni singolo uomo.
«Le tenebre – si legge in Genesi –
ricoprivano l’abisso» (Gn 1, 2). Ma anche il
cuore dell’uomo, dice la Scrittura, è «un
baratro e un abisso» (cf Sal 64, 7). C’è un
caos esteriore e un caos interiore. Il nostro

153
caos è quello del buio che c’è in noi; dei
desideri, progetti, propositi, rimpianti
contrastanti e in lotta tra di loro. Noi
portiamo in noi stessi un vestigio del caos
primordiale: il nostro inconscio. Quello che
la psicanalisi moderna ha espresso come
passaggio dall’inconscio alla coscienza,
dall’«Es» al «Super Io», è un aspetto di
questa creazione che deve continuare a
compiersi in noi, del passaggio dall’informe
al formato. Lo Spirito Santo vuole aleggiare
anche sul caos del nostro inconscio, in cui
si agitano forze oscure, impulsi contrastanti,
in cui si annidano angosce e nevrosi, ma
anche possibilità inesplorate.

154
3. «A immagine di Dio li creò, maschio e
femmina li creò»
In una meditazione sulla creazione «delle
cose visibili e invisibili», non può mancare
una riflessione a parte sulla creazione
dell’uomo e della donna. Essi non sono una
delle tante cose create, ma il coronamento e
lo scopo dell’intera creazione. L’umanità è
creata «a immagine e similitudine di Dio»
(cf Gn 1, 26): è questo il dato centrale che li
rende partecipi della stessa vita divina,
contrariamente agli animali creati «secondo
la loro specie» (Gn 1, 24).
La creazione dell’uomo a immagine di
Dio ha delle implicazioni per certi versi
sconvolgenti sulla concezione dell’uomo.
Tutto si fonda sulla rivelazione della Trinità
recata da Cristo. L’uomo è creato a
immagine di Dio, il che vuol dire che egli
partecipa all’intima essenza di Dio, che è
relazione d’amore tra Padre, Figlio e Spirito
Santo. Solo l’uomo, in quanto persona
capace di relazioni, partecipa alla

155
dimensione personale e relazionale di Dio.
Questo significa che l’uomo, nella sua
essenza, anche se a un livello creaturale, è
ciò che, a livello increato, sono il Padre, il
Figlio e lo Spirito Santo, nella loro essenza.
La persona umana è «persona» proprio per
questo nucleo relazionale che la rende
capace di accogliere la relazione che Dio
vuole stabilire con essa e allo stesso tempo
diventa generatore delle relazioni verso gli
altri e verso il mondo. È evidente che c’è un
fossato ontologico tra il Creatore e la
creatura umana; tuttavia, per grazia (mai
dimenticare questa precisazione!), questo
fossato è colmato, così che esso è meno
profondo di quello esistente tra l’uomo e il
resto del creato. Un pensiero da vertigini,
ma vero.
È da qui che si deve partire per
comprendere anche il rapporto che la
Bibbia pone tra l’essere creati «a immagine
di Dio» e l’essere «maschio e femmina»:
«E Dio creò l’uomo a sua immagine;
a immagine di Dio lo creò:
maschio e femmina li creò» (Gn 1, 27).

156
È proprio nella differenza che si relaziona
che consiste l’essere a immagine e
somiglianza di Dio dell’uomo e della
donna. Il dato costitutivo dell’essere «a
immagine» – libertà, ragione, capacità di
conoscere e amare – comporta
l’impossibilità per l’essere umano di
esistere in solitudine. Il soggetto umano è
tale se è in relazione a un’altra persona. In
questo senso, l’uomo e la donna sono il
riflesso più elementare e più universale
della comunione delle persone in Dio. Per
analogia, la loro comune e reciproca
umanità è eco del mistero d’amore infinito
del Padre, del Figlio e dello Spirito. Il
riferimento a Dio nella creazione e nella
storia dell’uomo e della donna non è perciò
qualcosa di aggiunto alla loro natura
umana, ma fa parte, in una visione cristiana,
del loro stesso essere.
Padre, Figlio e Spirito Santo sono amore;
essere in comunione e in relazione tra loro
non è qualcosa di aggiunto alla loro
essenza, ma il loro stesso modo di essere,
soprattutto nella visione greca della Trinità

157
che su questo punto, abbiamo detto, è da
preferirsi a quella latina. Non possono
permettere quindi che l’uomo viva solo.
Non sarebbe più a sua immagine! Per
questa ragione gli assicurano una presenza
con la quale relazionarsi in profondità,
occhi negli occhi.
«Poi il Signore Dio disse: “Non è bene che l’uomo
sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia
simile”. […] Allora il Signore Dio fece scendere
un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse
una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto.
Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva
tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo.
Allora l’uomo disse: “Questa volta essa è osso
dalle mie ossa, carne della mia carne. La si
chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta”»
(Gn 2, 18.21-23).
Quando Adamo chiama la donna suo
«osso» e sua «carne», fa intendere che egli
può vivere una comunione intima con lei,
una comunicazione d’amore, di perfetta
uguaglianza, che è anteriore a qualsiasi
altro tipo di relazione. Nel testo citato la
relazione può sembrare gerarchica, ma si
tratta di una connotazione di tipo culturale,

158
propria della mentalità del tempo. Nel
pensiero di Dio, uomo e donna si
equivalgono in quanto a dignità e solitudine
e quindi hanno ugualmente bisogno di
relazionarsi reciprocamente.
L’uomo e la donna, senza l’altro o senza
l’altra, sarebbero entrambi perduti, anche se
comunemente nella Scrittura sembrerebbe
penalizzato piuttosto l’uomo. Si legge
infatti nel libro del Siracide: «Dove manca
la siepe la proprietà è saccheggiata, così
dove non c’è donna, l’uomo erra e geme»
(36, 27). La donna è stata data in dono
all’uomo, ma questi in cambio deve amarla,
vivere e lavorare per lei. Appaiono evidenti
la sapienza e l’armonia del Padre nel
progettare e creare la prima coppia umana;
bellezza e armonia derivano dal fatto che è
stato proprio lui, il Creatore, a pensarli così,
a sua immagine. L’uomo e la donna sono
come il vertice del creato e titolari di una
relazione particolarissima con Dio che li
innalza alla sfera del divino, proprio in
quanto relazionati tra loro e con lui.
Mentre nelle altre culture religiose,

159
connotate di timore, soggezione, distanza,
permane una marcata opposizione tra
divinità e umanità, nella Bibbia Dio entra in
rapporto di misericordia e di alleanza con
gli uomini, illuminandoli nelle loro
autenticità di creature fatte a sua immagine.
Il Padre, fin dalle origini, passeggia alla
brezza del giardino con l’uomo e la donna.
Egli li ha amati per primo, perché lo
amassero. Non che lui avesse bisogno del
loro amore, ma perché essi non potevamo
essere ciò per cui li aveva creati se non
amandolo. Scrive sant’Ireneo:
«All’inizio, Dio non creò Adamo perché avesse
bisogno dell’uomo, ma per avere uno sul quale
deporre i suoi benefici. Egli benefica quelli che lo
servono per il fatto stesso che lo servono e quelli
che lo seguono per il fatto stesso che lo seguono,
ma non riceve da loro alcun beneficio, perché è
perfetto e non ha bisogno di nulla […]. Egli
preparava i profeti per abituare l’uomo sulla terra
a portare il suo Spirito e a possedere la comunione
con Dio. Egli che non ha bisogno di nulla offriva
la sua comunione a quelli che avevano bisogno di
lui»75.
Di fronte all’insondabile mistero di questo

160
amore di Dio per l’uomo, si capisce lo
stupore del Salmista che si domanda: ma
cosa è mai l’uomo, o Dio, perché tu te ne
ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne
prendi tanta cura? (cf Sal 8, 5).

161
4. La sfida dello scientismo ateo
Oggi l’articolo del credo che parla della
creazione dal nulla di tutte le cose è il tema
di maggiore dialogo e scontro tra credenti e
non credenti. In altri tempi l’opposizione
maggiore alla fede veniva dalla filosofia
(illuminismo, materialismo di Feuerbach);
oggi viene dalla scienza. Si tratta di sapere
se il cosmo è stato pensato e voluto da
qualcuno, o se è frutto del caso e
dell’evoluzione; se il suo cammino mostra i
segni di un’intelligenza e avanza verso un
traguardo preciso, o se si evolve, per così
dire, alla cieca, obbedendo solo a leggi
proprie e a necessari meccanismi biologici.
È la sfida dello scientismo ateo che è tra gli
ostacoli maggiori alla evangelizzazione
dell’uomo moderno. San Giovanni Paolo II
dà di esso questa definizione:
«Questa concezione filosofica si rifiuta di
ammettere come valide forme di conoscenza
diverse da quelle che sono proprie delle scienze
positive, relegando nei confini della mera
immaginazione sia la conoscenza religiosa e

162
teologica, sia il sapere etico ed estetico. Nel
passato, la stessa idea si esprimeva nel positivismo
e nel neopositivismo, che ritenevano prive di
senso le affermazioni di carattere metafisico. […]
Gli innegabili successi della ricerca scientifica e
della tecnologia contemporanea hanno contribuito
a diffondere la mentalità scientista, che sembra
non avere più confini, visto come è penetrata nelle
diverse culture e quali cambiamenti radicali vi ha
apportato»76.
Possiamo riassumere così le tesi principali
di questa corrente di pensiero.
Prima tesi. La scienza – e in particolare
la cosmologia, la fisica e la biologia – è
l’unica forma oggettiva e seria di
conoscenza della realtà. «Le società
moderne – ha scritto il biologo e filosofo
Jacques Monod – sono costruite sulla
scienza. Le devono la loro ricchezza, la loro
potenza e la certezza che ricchezze e
potenze ancora maggiori saranno in un
domani accessibili all’uomo, se egli lo
vorrà […]. Provviste di ogni potere, dotate
di tutte le ricchezze che la scienza offre
loro, le nostre società tentano ancora di
vivere e di insegnare sistemi di valori, già

163
minati alla base da questa stessa
scienza»77.
Seconda tesi. Questa forma di conoscenza
è incompatibile con la fede, che si basa su
presupposti che non sono né dimostrabili né
falsificabili.
Terza tesi. La scienza ha dimostrato la
falsità, o almeno la non necessità,
dell’ipotesi di un Dio creatore. È
l’affermazione a cui diedero ampio risalto i
media di tutto il mondo in occasione
dell’uscita del libro Il grande disegno (The
Grand Design) del noto astrofisico inglese
Stephen Hawking. Contrariamente a quanto
aveva scritto in precedenza, nel suo nuovo
libro questo scienziato sostiene che le
conoscenze raggiunte dalla fisica rendono
ormai inutile credere in una divinità
creatrice dell’universo: «La creazione
spontanea è la ragione per cui esiste
qualcosa e non il nulla».
Un corollario di questo ateismo scientista
è la tesi della totale marginalità e
insignificanza dell’uomo nell’universo e

164
nello stesso grande mare della vita. Che
cos’è l’uomo e la terra stessa in confronto ai
miliardi di galassie, con miliardi di stelle
ognuna, distanti miliardi di anni luce l’una
dall’altra? Gli scienziati godono nel mettere
in evidenza questa sproporzione. «Ho
sempre pensato – afferma uno di essi – di
essere insignificante. Conoscendo le
dimensioni dell’Universo, non faccio che
rendermi conto di quanto lo sia davvero
[…]. Siamo solo un po’ di fango su un
pianeta che appartiene al sole»78.
Che impressione mettere a confronto
questa visione del mondo con quella di
alcuni mistici che videro l’universo con altri
«telescopi»! Un giorno la mistica inglese
Giuliana di Norwich ebbe una visione: vide
Dio che teneva in mano «una piccola cosa,
grande quanto una nocciola». Lei si
chiedeva che cosa potesse essere e le fu
risposto: «È tutto il creato!»79. La stessa
cosa fu rivelata da Dio a un mistico
dell’Oriente, san Simeone il Nuovo
Teologo: «Alla mia parola, il cielo come

165
nulla fu fatto, il sole, le stelle, la terra come
un piccolo sovrappiù»80. L’universo, che
all’uomo sembra qualcosa di immenso e
infinito, non è in realtà che una
«nocciolina» nelle mani di Dio, un
«sovrappiù» ai suoi occhi!
Le tesi dello scientismo ateo si rivelano
false, non solo in base a un ragionamento a
priori o ad argomenti teologici e di fede, ma
a partire dall’analisi stessa dei risultati della
scienza e delle opinioni di molti tra gli
scienziati più illustri del passato e del
presente. Uno scienziato del calibro di Max
Planck, il fondatore della teoria fisica dei
«quanti», dice che «la scienza conduce a un
punto oltre il quale non ci può più
guidare»81. In un museo della scienza e
della tecnica di Parigi campeggia una frase
molto significativa in quanto proviene
proprio dal mondo della scienza: «La
scienza ci porta a un maggior numero di
incertezze che di certezze». In un libro di
divulgazione scientifica ho letto questa
significativa ammissione. Se ripercorriamo

166
indietro la storia del mondo, come si sfoglia
un libro dall’ultima pagina in su, arrivati
alla fine, ci accorgiamo che è come se
mancasse la prima pagina, l’incipit.
Sappiamo tutto del mondo, eccetto perché e
come è cominciato82. Il credente è
convinto che la Bibbia ci fornisce proprio
questa pagina iniziale mancante; in essa,
come nel frontespizio di ogni libro, è
indicato il nome dell’autore e il titolo
dell’opera!
Non insisto nella confutazione delle tesi
enunciate, che è stata fatta da scienziati e
filosofi della scienza, con una competenza
che io non ho83. Mi limito a una
osservazione elementare e lo faccio con un
esempio. Ci sono uccelli notturni, come il
gufo e la civetta, il cui occhio è fatto per
vederci di notte al buio, non di giorno. La
luce del sole li accecherebbe. Questi uccelli
sanno tutto e si muovono a loro agio nel
mondo notturno, ma non sanno nulla del
mondo diurno. Adottiamo per un momento
il genere delle favole, dove gli animali

167
parlano tra di loro. Supponiamo che
un’aquila faccia amicizia con una famiglia
di civette e parli loro del sole: di come esso
illumina tutto, di come, senza di lui, tutto
piomberebbe nel buio e nel gelo, di come il
loro stesso mondo notturno non esisterebbe
senza il sole. Che cosa risponderebbe la
civetta, se non: «Tu racconti fandonie! Mai
visto il vostro sole. Noi ci muoviamo
benissimo e ci procuriamo il cibo senza di
esso; il vostro sole è un’ipotesi inutile e
dunque non esiste»? È esattamente quello
che fa lo scienziato ateo quando dice: «Dio
non esiste». Giudica un mondo che non
conosce, applica le sue leggi a un oggetto
che è fuori dalla sua portata. Per vedere Dio
occorre aprire un occhio diverso, occorre
avventurarsi fuori dalla notte. In questo
senso, è ancora valida l’antica affermazione
del salmista: «Lo stolto dice: “Dio non
esiste”» (Sal 14, 1).
È chiaro che le parti possono invertirsi e i
credenti diventare, loro stessi, gli uccelli
notturni, se pretendono giudicare i risultati
della scienza in base ai loro principi di fede,

168
come avvenne, per esempio, nel caso di
Galileo. Il rifiuto dello scientismo non ci
deve quindi indurre al rifiuto della scienza o
alla diffidenza nei confronti di essa. Fare
diversamente sarebbe un far torto alla fede,
prima ancora che alla scienza. La storia ci
ha dolorosamente insegnato dove porta un
simile atteggiamento. Di un atteggiamento
aperto e costruttivo verso la scienza ci ha
dato un esempio luminoso il beato John
Henry Newman. Nove anni dopo la
pubblicazione dell’opera di Darwin
sull’evoluzione delle specie, quando non
pochi spiriti intorno a lui si mostravano
turbati e perplessi, egli li rassicurava,
esprimendo un giudizio che anticipava di un
secolo e mezzo quello attuale della Chiesa
sulla non incompatibilità di tale teoria con
la fede biblica. Vale la pena riascoltare i
brani centrali della sua lettera al canonico
John Walker:
«Essa [la teoria di Darwin] non mi fa paura […].
Non mi sembra filare logicamente che venga
negata la creazione per il fatto che il Creatore,
milioni di anni fa, abbia imposto leggi alla materia

169
[…]. La teoria del signor Darwin non
necessariamente deve essere atea, che essa sia vera
o meno; può semplicemente star suggerendo
un’idea più allargata di Divina Prescienza e
Capacità […]. A prima vista non vedo come
“l’evoluzione casuale di esseri organici” sia
incoerente con il disegno divino – È casuale per
noi, non per Dio»84.
La sua grande fede permetteva a Newman
di guardare con serenità alle scoperte
scientifiche presenti o future. Una analogia
ci può aiutare a conciliare la nostra fede
nell’esistenza di un disegno intelligente di
Dio sul mondo con l’apparente casualità e
imprevedibilità messa in luce da Darwin e
dalla scienza attuale. Si tratta del rapporto
tra grazia e libertà. Come, nel campo dello
spirito, la grazia lascia spazio
all’imprevedibilità della libertà umana e
agisce anche attraverso di essa, così nel
campo fisico e biologico tutto è affidato al
gioco delle cause seconde (la lotta per la
sopravvivenza delle specie secondo
Darwin, il caso e la necessità secondo
Monod), anche se questo stesso gioco è
previsto e fatto proprio dalla provvidenza di

170
Dio. Dio ha dotato anche l’universo di una
certa «libertà», per quanto impersonale e
inconscia; non interviene continuamente a
correggere le sue «scelte», anche se fa
servire tutto per i suoi piani. Nell’uno e
nell’altro caso, Dio, come dice il proverbio,
«scrive diritto per linee storte».

171
5. Il grande peccato del mondo verso il
Creatore
Ma il più grande peccato, a proposito
della creazione, non è la negazione pura e
semplice dell’esistenza di un Creatore, da
parte dell’ateismo scientista, almeno
quando essa è in buona fede. È qualcosa di
ancora più grave. È la sua sostituzione con
qualcos’altro, con l’idolo! È il tentativo di
«rimpiazzare» Dio. Leggiamo il testo di
Paolo a questo riguardo:
«L’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni
empietà e ingiustizia degli uomini che soffocano
la verità con l’ingiustizia; poiché quel che si può
conoscere di Dio è manifesto in loro, avendolo
Dio manifestato loro; infatti le sue qualità
invisibili, la sua eterna potenza e divinità, si
vedono chiaramente fin dalla creazione del mondo
essendo percepite per mezzo delle opere sue;
perciò essi sono inescusabili, perché, pur avendo
conosciuto Dio, non l’hanno glorificato come Dio,
né l’hanno ringraziato; ma si sono dati a vani
ragionamenti e il loro cuore privo d’intelligenza si
è ottenebrato. Benché si dichiarino sapienti, sono
diventati stolti, e hanno mutato la gloria del Dio
incorruttibile in immagini simili a quelle

172
dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e
di rettili» (Rm 1, 18-23).
Il peccato fondamentale, l’oggetto
primario dell’ira divina, è individuato da
san Paolo nell’asebeia, cioè nell’empietà.
In che consiste esattamente tale empietà, lo
spiega subito, dicendo che essa consiste nel
rifiuto di glorificare e di ringraziare Dio,
«pur avendolo conosciuto». In altre parole,
consiste nel «conoscere» Dio, ma non
«riconoscerlo» come tale, cioè non
tributargli la considerazione che si deve a
Dio; sapere che esiste, ma fare come se non
esistesse. Ridotto al suo nucleo
germinativo, il peccato è il tentativo, da
parte della creatura, di cancellare, di propria
iniziativa, quasi di prepotenza, la differenza
infinita che c’è tra essa e Dio. Il peccato
attacca, in tal modo, la radice stessa delle
cose; è un «soffocare la verità», un tentativo
di trattenere la verità prigioniera
dell’ingiustizia. È qualcosa di molto più
fosco e terribile di quanto l’uomo possa
immaginare o dire.
Tale rifiuto ha preso corpo,

173
concretamente, nell’idolatria, per la quale si
adora la creatura al posto del Creatore (cf
Rm 1, 25). Nell’idolatria l’uomo non
«accetta» Dio, ma si fa un dio; è lui a
decidere di Dio, non viceversa. Le parti
vengono invertite: l’uomo diventa il vasaio
e Dio il vaso che egli modella a suo
piacimento (cf Rm 9, 20 ss.).
È nota l’affermazione di Feuerbach che è
all’origine di tanta parte dell’ateismo
moderno, compreso quello di Marx: Dio
non è che la proiezione che l’uomo fa di se
stesso; è l’uomo che crea Dio a sua
immagine, non il contrario come afferma la
Bibbia. Questa massima è verissima, solo
che essa non colpisce la fede biblica e della
Chiesa, ma l’idolatria. È nell’idolatria che
l’uomo proietta e divinizza la propria
immagine. Con una differenza però:
secondo Feuerbach l’uomo proietta in Dio
la sua «migliore essenza», i suoi attributi
più nobili; nell’idolatria avviene il
contrario: l’uomo proietta spesso in Dio le
sue tendenze peggiori. Fa della sua
sensualità e lussuria una dea, Venere; della

174
sua violenza un Dio, Marte; della sua
disonestà nel commercio un Dio, Ermes, il
Mercurio dei latini, dio dei ladri.
L’idolatria ha preso oggi altri nomi, e non
parlo solo degli idoli classici: denaro, sesso,
potere, prestigio… No, c’è un’idolatria in
atto specialmente a livello culturale, che è
una diretta concorrente del monoteismo;
un’idolatria, per così dire, monoteistica, non
politeistica, una monolatria. Consiste nel
tentativo di trasferire di peso tutte le
prerogative di Dio al caso e al suo
anagramma che in italiano è caos, facendo
della vita e dell’universo un prodotto cieco
ed esclusivo del caso e della necessità.
Ma se il più grande peccato nei confronti
del Creatore non è negarne l’esistenza, ma è
il tentativo di «rimpiazzarlo» con qualche
cosa d’altro, di colpo ci rendiamo conto che
esso non riguarda soltanto gli altri –
materialisti atei o gnostici –, ma riguarda
anche noi credenti. La denuncia di Paolo
del peccato contro il Creatore non si ferma
infatti ai pagani del suo tempo. Passando al
capitolo 2 della Lettera ai Romani,

175
l’Apostolo si rivolge ai giudei (e dietro di
essi ai cristiani giudaizzanti che volevano
tornare all’osservanza della legge mosaica)
e afferma che anch’essi sono «inescusabili»
al pari degli altri, perché fanno le stesse
cose che rimproverano ai pagani. Giudei e
cristiani giudaizzanti, scrive, rimproverano
ai pagani di rubare e rubano, di commettere
adulterio e lo commettono anche loro, e
così via. La loro inescusabilità consiste nel
giudicare gli altri e non se stessi, nel
ritenersi al sicuro solo perché conoscono la
Legge, non perché la osservano.
Nel seguito della Lettera, con più
coerenza e chiarezza, l’Apostolo afferma
che i credenti non condividono con i pagani
soltanto le conseguenze dell’empietà (furti,
adulteri e altri peccati), ma l’empietà stessa,
cioè il mettere la creatura al posto del
Creatore. Non hanno in comune solo i frutti
marci, ma anche l’albero e la radice da cui
provengono. «Ignorando – dice dei suoi
connazionali – la giustizia di Dio e
cercando di stabilire la propria, non si sono
sottomessi alla giustizia di Dio» (Rm 10, 3).

176
Se uno osserva la legge per stabilire la
propria giustizia, per «vantare» dei diritti
presso Dio (cf Rm 3, 27), fa la stessa cosa
fondamentale degli idolatri pagani: mette la
creatura – se stesso! – avanti al Creatore; fa
di sé un creditore e di Dio un debitore.
Nella Lettera ai Filippesi, egli illustra
questo fatto con quello che avvenne, nella
sua vita, nel passaggio da fariseo a credente
in Cristo (cf Fil 3, 5 ss.).
Il giudeo, più che il rappresentante di una
razza, designa qui un tipo di religiosità.
«Giudeo» è il non-greco, il non-pagano (cf
Rm 2, 9-10); è l’uomo pio e credente che,
forte dei suoi principi e in possesso di una
morale rivelata, giudica il resto del mondo
e, giudicando, si sente al sicuro. «Giudeo»
è, in questo senso, ognuno di noi. Origene
diceva addirittura che, nella Chiesa, a essere
presi di mira da queste parole dell’Apostolo
sono i vescovi, i presbiteri e i diaconi, cioè
le guide, i maestri85.
C’è un’idolatria larvata che è tuttora in
atto nel mondo. Se idolatria è «adorare

177
l’opera delle proprie mani» (cf Is 2, 8; Os
14, 4), se idolatria è «mettere la creatura al
posto del Creatore», io sono idolatra
quando metto la creatura – la mia creatura,
l’opera delle mie mani – al posto del
Creatore. La mia creatura può essere la casa
o la chiesa che costruisco, la famiglia che
creo, il figlio che ho messo al mondo
(quante mamme, anche cristiane, senza
rendersene conto, fanno del loro figlio,
specie se unico, il loro dio!); può essere il
lavoro che compio, la scuola che dirigo, il
libro che scrivo, la comunità che ho
fondato…
C’è poi l’idolo principe che è il mio
stesso «io». Al fondo di ogni idolatria c’è
infatti l’autolatria, il culto di sé, l’amor
proprio, il mettere se stesso al centro e al
primo posto nell’universo, sacrificando a
esso tutto il resto. La «sostanza» è sempre
l’empietà, il non glorificare Dio, ma sempre
e solo se stessi, il far servire anche il bene,
anche il servizio che prestiamo a Dio –
anche Dio! –, alla propria riuscita e alla
propria affermazione personale. Il peccato

178
che san Paolo denuncia nei «giudei» lungo
tutta la Lettera è proprio questo: di cercare
una propria giustizia, una propria gloria e di
cercarla anche dall’osservanza della legge
di Dio.
Si tratta di una specie di rivoluzione
copernicana da attuare nel piccolo mondo, o
microcosmo, che è l’uomo. Nel sistema
vecchio, tolemaico, si pensava che la terra
stesse immobile al centro dell’universo,
mentre il sole le girava intorno, come suo
vassallo e servitore, per illuminarla e
riscaldarla; ma la scienza, con Copernico,
ha rovesciato questa opinione, mostrando
che il sole è al centro (almeno del sistema
solare) e la terra gli gira intorno per ricevere
luce e calore.
Per attuare in noi questa rivoluzione
copernicana, è necessario passare
dell’uomo vecchio all’uomo nuovo. Nel
primo caso, è il mio «io» – la terra! – che
vuole stare al centro e dettare legge,
assegnando a ogni cosa il posto che
corrisponde ai propri gusti: il posto più
vicino alle cose che piacciono e alle

179
persone simpatiche, relegando alla periferia
del proprio sistema le cose e le persone che
non piacciono. Nel sistema nuovo, è Cristo
– il sole di giustizia! – che sta al centro e
regna, mentre il mio «io» si volge
umilmente verso di lui, per contemplarlo,
servirlo e ricevere da lui «lo Spirito di
vita». È Cristo, non il mio egoismo, che
detta le priorità.

180
6. Il contrario del peccato è la lode!
Se il peccato di fondo degli uomini, nei
confronti del creato, consiste, come ci ha
spiegato Paolo, nel non glorificare
(doxazein) e ringraziare (eucharistein) il
Creatore, ma sempre e solo se stessi, allora
il contrario vero del peccato non è la virtù,
ma la lode e il ringraziamento. Passiamo
così al ruolo positivo del creato che, da
occasione di inciampo e diaframma fra
l’uomo e Dio, diventa occasione di
dossologia.
C’è un salmo che comincia così: «I cieli
narrano la gloria di Dio e l’opera delle sue
mani annunzia il firmamento» (Sal 19, 2).
Dio ha scritto due libri: uno è la Scrittura,
l’altro è il creato. Uno è composto di lettere
e parole, l’altro di cose. Non tutti
conoscono e possono leggere il libro della
Scrittura, ma tutti, anche gli analfabeti,
possono leggere il libro che è il creato. Da
ogni punto della terra, di notte ancor meglio
che di giorno. «Per tutta la terra si diffonde

181
la loro voce e ai confini del mondo la loro
parola» (Sal 19, 5).
Ma questo è soltanto l’inizio di ciò che
dicono i cieli. È il messaggio destinato ai
principianti. I cieli non proclamano solo
l’esistenza di Dio (questa anzi la danno per
scontata); essi proclamano anche la sua
gloria. Cioè la sua magnificenza, il suo
splendore. Ad essi è affidata la rivelazione
di un aspetto ben preciso di Dio: la sua
infinità. Il corpo umano, i fiori, i colori, una
semplice foglia, tutte queste cose bastano,
da sole, a proclamare l’inesauribile
bellezza, ricchezza e fantasia di Dio. Ma chi
proclamerà anche la sua infinita grandezza?
Questo è il compito che assolvono, dal
punto di vista religioso, i cieli, cioè
l’universo con la sua immensità.
L’osservazione del firmamento ha il
potere di portare la nostra mente al suo
limite estremo, sulla soglia del naufragio e
della resa. Ci dà le vertigini. La sola Via
Lattea contiene non meno di cento miliardi
di stelle, e pensare che i nostri telescopi più
potenti possono osservare ben dieci miliardi

182
di galassie simili alla nostra! La stella più
remota che si conosca dista da noi
quattordici miliardi di anni luce; ora, per
farci un’idea di cosa questo significhi, basta
pensare che il sole – che è lontano dalla
terra quasi centocinquanta milioni di
chilometri – impiega poco più di otto
minuti per far giungere a noi la sua luce.
Non riusciamo a concepire con la nostra
immaginazione cosa vogliono dire
espressioni come «miliardi di anni luce».
Siamo ridotti all’impotenza e all’umiltà:
«Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissate, che
cos’è l’uomo perché te ne ricordi?» (Sal 8,
4-5). Nasce quel caratteristico sentimento di
stupore che quasi sempre prepara e
accompagna la fede.
Qual è allora il compito dell’uomo in tutto
ciò? «I cieli e la terra – è scritto – sono
pieni della sua gloria» (cf Sal 148, 13). Ne
sono, per così dire, gravidi. Ma non
possono, da soli, «sgravarsene». Come la
donna incinta, hanno bisogno anch’essi
delle abili mani di una levatrice per dare

183
alla luce ciò di cui sono «gravidi». E queste
«levatrici» della gloria di Dio dobbiamo
essere noi. Quanto ha dovuto attendere
l’universo, quale lunga rincorsa ha dovuto
prendere, per giungere a questo punto!
Milioni e miliardi di anni, durante i quali la
materia, attraverso la sua opacità, avanzava
faticosamente verso la luce della coscienza,
come la linfa che dal sottosuolo sale verso
la cima dell’albero per espandersi in fiore e
frutto. Questa coscienza fu finalmente
raggiunta, quando comparve nell’universo
«il fenomeno umano» (P. Teilhard de
Chardin). Ma ora che l’universo ha
raggiunto il suo traguardo, esige che l’uomo
compia il suo dovere, che assuma, per così
dire, la direzione del coro e intoni per tutti il
«Gloria a Dio nell’alto dei cieli!».
«Quando nel canto della Messa – diceva il beato
Enrico Susone ( † 1366) – giungo alle parole
Sursum corda, mi figuro di avere davanti a me
tutti gli esseri creati da Dio in cielo e in terra:
l’acqua, l’aria, il fuoco, la luce ed ogni elemento,
ciascuno con il proprio nome, così pure gli uccelli
dell’aria, i pesci del mare e i fiori del bosco, le
erbe e le piante tutte della campagna, le

184
innumerevoli arene del mare, i pulviscoli che si
vedono nei fasci di luce solare, le gocce di pioggia
cadute o che stanno per cadere, le stille di rugiada
che ingemmano il prato. Allora immagino di
essere in mezzo a queste creature come un maestro
di canto in mezzo a un coro sterminato»86.
Prendiamo in mano un fiore, una pietra e
consideriamoli non dal punto di vista
scientifico, ma dal punto di vista dell’amore
di Dio per l’uomo che si estende anche alle
cose. È possibile vedere la bellezza di
questo amore in un filo d’erba, in una
foglia, in un ramo, inserendo la nostra vita
nella vita dell’universo. La montagna, il
mare, i fiori, gli animali: in ognuna di
queste creature dobbiamo riconoscere una
intenzione del suo amore per noi. E
rendergli grazie a nome della natura che
non può parlare. Una pietà vasta come il
mondo, deve essere la risposta all’amore
«senza limiti» del Creatore.
Ma non possiamo terminare senza
ricordare il cantore per eccellenza del
creato, il santo che più di ogni altro e prima
di ogni altro nel cristianesimo, ha fatto di

185
esso il luogo della dossologia, Francesco
d’Assisi. Il suo atteggiamento di fronte al
creato apparve una cosa nuova che stupì i
suoi stessi contemporanei. Il primo
biografo, Tommaso da Celano, ne parla in
questi termini:
«Abbraccia tutti gli esseri creati con un amore e
una devozione quale non si è mai udita, parlando
loro del Signore ed esortandoli alla sua lode […].
Quando i frati tagliano legna, proibisce loro di
recidere del tutto l’albero, perché possa gettare
nuovi germogli. E ordina che l’ortolano lasci
incolti i confini attorno all’orto, affinché a suo
tempo il verde delle erbe e lo splendore dei fiori
cantino quanto è bello il Padre di tutto il creato.
Vuole pure che nell’orto un’aiuola sia riservata
alle erbe odorose e che producono fiori, perché
richiamino a chi li osserva il ricordo della soavità
eterna. Raccoglie perfino dalla strada i piccoli
vermi, perché non siano calpestati, e alle api vuole
che si somministri del miele e ottimo vino,
affinché non muoiano di inedia nel rigore
dell’inverno. Chiama col nome di fratello tutti gli
animali, quantunque in ogni specie prediliga quelli
mansueti»87.
Alcune sue raccomandazioni sembrano
scritte oggi, sotto la pressione degli
ambientalisti. Ma lo spirito è diverso.

186
Francesco ha scoperto un modo differente
di godere delle cose, che è quello di
contemplarle, anziché possederle. Egli può
gioire di tutte le cose, perché ha rinunciato
a possederne alcuna; anzi, quando scrive il
Cantico delle creature (o Cantico di frate
Sole), può contemplare ormai le creature
solo con l’anima, perché i suoi occhi sono
quasi spenti e la luce stessa di «frate Sole»
gli procura un dolore lancinante.
Il possesso esclude, la contemplazione
include; il possesso divide, la
contemplazione moltiplica. Uno solo può
possedere un lago, un parco, e così tutti gli
altri ne sono esclusi; migliaia possono
contemplare quello stesso lago o parco, e
tutti ne godono senza sottrarlo ad alcuno.
La dottrina cristiana della creazione e
l’esempio di Francesco ci spingono a
riscoprire la dimensione contemplativa
della vita. Non solo come esperienza di
fruizione estetica, ma come unica garanzia
di salvaguardia del creato, come
compimento della nostra vocazione
primaria che è di essere «lode della gloria di

187
Dio», come via del nostro ritorno a Dio.
Terminiamo unendoci a Francesco nel
lodare il Creatore con il noto canto che
riassume il suo Cantico di frate Sole:
Laudato sii, o mi Signore,
laudato sii, o mi Signore,
laudato sii, o mi Signore,
laudato sii, o mi Signore.
E per tutte le sue creature
per il sole e per la luna
per le stelle e per il vento
e per l’acqua e per il fuoco.
Per sorella madre terra
ci alimenta e ci sostiene
per i frutti, i fiori e l’erba
per i monti e per il mare.
Perché il senso della vita
è cantare e lodarti
e perché la nostra vita
sia sempre una canzone.

Note
69 Orazione V (Roma, 18 febbraio 1379).
70 Basilio, Sullo Spirito Santo, XVIII, 47 (PG 32,
153).
71 J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo,
Queriniana, Brescia 1969, p. 149.
72 D.F. Strauss, Der Christus des Glaubens und der

188
Jesus der Geschichte, 1865.
73 Basilio, Sullo Spirito Santo, XVI, 38 (PG 32,
136).
74 Ambrogio, Sullo Spirito Santo, II, 32.
75 Ireneo, Adversus haereses, IV, 13, 4 - 14, 2.
76 Giovanni Paolo II, Fides et ratio, 88.
77 J. Monod, Il caso e la necessità, Mondadori,
Milano 1970, pp. 136 s.
78 P. Atkins, citato da R.G. Timossi, L’illusione
dell’ateismo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009, p.
482.
79 Giuliana di Norwich, Libro delle rivelazioni, cap.
5, Àncora, Milano 1984, pp. 109 s.
80 Simeone il Nuovo Teologo, Inni e preghiere,
Città Nuova, Roma 1996, p. 89 (SCh 174, p. 170).
81 M. Planck, La conoscenza del mondo fisico,
Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 155.
82 P. Angela, Viaggio nella scienza, Garzanti,
Milano 1997.
83 Cf, per esempio, la puntuale critica di R.G.
Timossi, L’illusione dell’ateismo, cit., p. 160.
84 J.H. Newman, «Lettera al canonico John Walker
(1868)», in The Letters and Diaries, XXIV,
Clarendon Press, Oxford 1973, pp. 77 s.
85 Cf Origene, Commento alla Lettera ai Romani,
II, 2 (PG 14, 873).
86 Enrico Susone, Vita, XI (Oeuvres, a cura di M.E.
Cartier, Parigi 1852, p. 25).
87 Tommaso da Celano, Vita Seconda, 165 (FF 750).

189
V
PER OPERA DELLO SPIRITO
SANTO
SI È INCARNATO NEL SENO
DELLA VERGINE MARIA

190
La Madre di Dio del segno, icona russa del
XII sec.

191
1. Perché Dio si è fatto uomo
Meditiamo sulla seconda grande opera ad
extra della Trinità, l’incarnazione del
Verbo. Nella sua forma completa l’articolo
del credo dice:
«Per noi uomini e per la nostra salvezza discese
dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è
incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto
uomo».
Questa frase non si trova nel credo di
Nicea (il quale porta la parola «incarnatus»,
sarkothenta, ma non la specificazione: «de
Spiritu Sancto ex Maria Virgine»); si trova,
invece, nel simbolo di Costantinopoli. Le
possibili spiegazioni di questo fatto sono
due: o essa fu aggiunta dai Padri del 381,
insieme con le espressioni sullo Spirito
Santo, oppure si trovava già nel simbolo
locale che quei Padri adottarono come
testo-base nel comporre la loro formula di
concordia. La seconda ipotesi sembra
senz’altro da preferire; l’articolo in
questione si legge, infatti, nel simbolo

192
riportato da Epifanio, la cui composizione è
anteriore al 381.
In ogni caso – sia che i Padri la trovassero
nel credo che avevano dinanzi, sia che
l’aggiungessero essi stessi –, la frase non fu
creata ex novo in quell’occasione, ma
deriva da un simbolo precedente. Questo
significa che il nostro articolo ha dal
concilio di Costantinopoli il suo valore
dogmatico ed ecumenico, ma non ha in esso
la sua origine storica ultima. Questa risale
più addietro. Se passiamo all’area
occidentale notiamo che l’articolo relativo
alla nascita di Gesù dallo Spirito Santo e
dalla Vergine Maria è attestato, fin
dall’inizio del III secolo, nel cosiddetto
«simbolo apostolico». In esso la frase suona
così: «Qui natus est de Spiritu Sancto et
(ex) Maria Virgine»: nato per opera dello
Spirito Santo da Maria Vergine88.
Il presente articolo del credo ha svolto
successivamente diverse funzioni. Nella
fase più antica, si insisteva soprattutto
sull’espressione «nato dalla Vergine», cioè

193
sul parto verginale e soprannaturale di
Gesù, perché allora il problema era quello
di dimostrare contro i pagani il carattere
soprannaturale della nascita di Cristo e
contro i giudei il compimento della profezia
di Isaia 7 («Ecco la vergine concepirà…»).
In un secondo momento, si insiste sul nome
di «Maria» per affermare, contro i docetisti,
che la carne di Cristo è vera carne umana,
anche se nata da una vergine. Quando
sorgono all’interno della Chiesa le
controversie sulle due nature di Cristo, la
menzione congiunta di Maria e dello Spirito
Santo serve a dimostrare che Gesù è vero
uomo e vero Dio, «nato da Dio e da Maria»,
come diceva Ignazio d’Antiochia89.
Come per la creazione, anche per
l’incarnazione la prima domanda che ci
poniamo è: perché Dio si è fatto uomo? Cur
Deus homo?
A questa domanda sono state date, lungo i
secoli cristiani, due risposte fondamentali:
una che mette in primo piano la salvezza
dell’uomo e un’altra che mette in primo

194
piano la gloria di Dio. La prima a essere
formulata fu la risposta che accentua la
salvezza: «Per noi uomini e per la nostra
salvezza – dice il simbolo di fede – discese
dal cielo, si è incarnato per opera dello
Spirito Santo da Maria Vergine e si è fatto
uomo». Ma a un certo punto dello sviluppo
della fede, nel Medioevo, si fa strada
un’altra risposta al «Cur Deus homo?», che
sposta l’accento, dall’uomo e dal suo
peccato, a Dio e alla sua gloria. Si tratta di
un approfondimento, in sé quanto mai
legittimo e sano, della fede, di un caso di
sviluppo coerente del dogma. Può, ci si
domanda, la venuta di Cristo, che è
chiamato «Primogenito di tutta la
creazione» (Col 1, 15), dipendere
totalmente dal peccato dell’uomo,
intervenuto in seguito alla creazione? Cristo
si sarebbe incarnato anche se Adamo non
avesse peccato, perché egli è l’Alfa e
l’Omega, il principio e il fine della
creazione, l’opera suprema di Dio (cf Ap
22, 13).
Il beato Duns Scoto (1265-1308) fa il

195
passo decisivo, sciogliendo l’incarnazione
dal suo legame essenziale con il peccato
dell’uomo e assegnandole, come motivo
primario, l’amore di Dio. Il fine primario
dell’incarnazione non è la redenzione dal
peccato, ma la ricapitolazione di tutto in
Cristo, «in vista del quale tutto è stato
creato» (Col 1, 15 ss.). Il motivo
dell’incarnazione sta nel fatto che Dio vuole
avere, fuori di sé, qualcuno che lo ami in
modo sommo e degno di sé: «In primo
luogo – scrive Scoto – Dio ama se stesso; in
secondo luogo si ama attraverso altri diversi
da sé e si tratta di un amore puro; in terzo
luogo vuole essere amato da un altro che lo
possa amare in modo sommo, parlando di
amore di qualcuno fuori di lui»90.
Ma se partiamo dalla grande affermazione
di Giovanni: «In questo sta l’amore: non
siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che
ha amato noi […]. Noi amiamo perché egli
ci ha amati per primo» (1 Gv 4, 10.19),
dobbiamo correggere o completare anche la
risposta di Scoto, come abbiamo fatto a

196
proposito della risposta del catechismo al
perché della creazione. Dio è anzitutto
agape, amore di donazione prima che di
ricerca; non agisce perciò primariamente
per essere amato, quanto per amare.
Desidera, certo, di essere riamato (questo è
l’aspetto di eros presente nell’amore di
Dio), ma solo in risposta al suo amore, non
come sua causa.
Questo significa che Dio ha voluto
l’incarnazione del Figlio non tanto per
avere qualcuno fuori di sé che lo amasse in
modo degno di sé, quanto piuttosto per aver
qualcuno da amare fuori di sé, in modo
degno di sé, cioè senza misura; qualcuno
che fosse capace di accogliere la misura del
suo amore che è di amare senza misura!
Ecco il perché ultimo dell’incarnazione.
Grazie all’incarnazione, Dio Padre ha
qualcuno da amare fuori della Trinità in
modo sommo e infinito, perché Gesù è
uomo e Dio insieme, l’unico essere capace
di accogliere l’amore di Dio in tutta la sua
pienezza. Il piano per cui Dio ha creato il
mondo si realizza nel momento in cui Dio

197
Padre può dire del suo Figlio fatto uomo:
«Questi è il Figlio mio, l’amato; in lui ho
posto il mio compiacimento» (Mt 3, 17). In
lui, anche noi siamo oggetto della
compiacenza e dell’amore del Padre. Siamo
diletti nel Diletto, figli nel Figlio: «In lui ci
ha scelti […] secondo il beneplacito
(eudokia) della sua volontà» (Ef 1, 4).
Il motivo ultimo dell’incarnazione è
dunque lo stesso che quello della creazione,
con la differenza che ora, per poter
«effondere il suo amore sulle sue creature»,
è necessario abbattere il muro del peccato
che impediva tale effusione, ed è quello che
avviene con la redenzione operata da
Cristo. È il motivo che Gesù stesso assegna
alla sua venuta nel mondo: «Così Dio ha
tanto amato il mondo da dare per esso il suo
Figlio unigenito» (Gv 3, 16).
L’incarnazione non è stata una maschera
passeggera, ma qualcosa di definitivo. Il
Verbo di Dio si è fatto uomo per sempre. La
sua umanità non è stata abbandonata con
l’ascensione, come un vestito ormai inutile,
ma esiste per sempre in Dio. Già

198
sant’Ignazio di Antiochia diceva: «Sono
convinto e credo che dopo la risurrezione
egli era nella carne»91. È vero, tra l’uomo e
Dio c’è una infinita distanza, ma Dio ci ha
teso la sua mano in Cristo e se ora l’uomo
l’afferra la distanza viene annullata. Dio
aveva creato l’uomo bello e buono, un
essere perfetto. Quando, utilizzando male la
sua libertà, si guastò, divenne come un
giocattolo rotto. Da qui gli errori, i
problemi, i peccati, le malattie. In Cristo,
Verbo fatto carne, l’uomo si ricostruisce; lui
stesso si fa modello dell’uomo nuovo,
rigenerato, rinnovato in ogni aspetto umano
per elevarsi alla dimensione divina. Egli è
Dio, ma è l’uomo più umano che ci sia sulla
terra!
È questo il contenuto grandioso del
mistero dell’incarnazione che professiamo
con le parole del credo: «Per noi uomini e
per la nostra salvezza è disceso dal cielo e
si è incarnato per opera dello Spirito Santo
dalla Vergine Maria».

199
2. Nel seno della Vergine Maria
Il nostro articolo contiene, come si vede,
diverse affermazioni: si parla del motivo
dell’incarnazione, della perfetta e reale
umanità di Cristo, del ruolo in essa dello
Spirito Santo e di quello di Maria. Noi ci
soffermiamo sull’ultimo di questi elementi.
Mediteremo sulla maternità divina di Maria,
anche perché non può mancare, in un
itinerario di fede come il nostro, uno
sguardo rivolto alla Madre di Dio che è
stata la prima credente, modello di ogni
anima credente e primizia della Chiesa
stessa.
Madre di Dio: un titolo che esprime uno
dei misteri e, per la ragione, uno dei
paradossi più alti del cristianesimo. Un
titolo che ha riempito di stupore la liturgia
della Chiesa. Questa, facendo sua la
meraviglia dell’antico popolo dell’alleanza
nel momento in cui la gloria di Dio venne,
in una nube, a dimorare nel tempio (cf 1 Re
8, 27), esclama: « Quello che i cieli non

200
possono contenere, si è racchiuso nelle tue
viscere, fatto uomo!». Madre di Dio è il più
antico e importante titolo dogmatico della
Madonna, essendo stato definito dalla
Chiesa nel concilio di Efeso nel 431, come
verità di fede da credersi da tutti i cristiani.
È il fondamento di tutta la grandezza di
Maria. È il principio stesso della
mariologia; per esso, Maria non è, nel
cristianesimo, solo oggetto di devozione,
ma anche di teologia; entra cioè nel
discorso stesso su Dio, perché Dio è
direttamente implicato nella maternità
divina di Maria. Si può omettere, nel credo,
il nome di Ponzio Pilato senza che nulla
cambi, ma non si può omettere il nome di
Maria Vergine. È anche il titolo più
ecumenico che esista, non solo perché
definito in un concilio ecumenico, ma
anche perché è l’unico a essere condiviso e
accolto indistintamente, almeno in linea di
principio, da tutte le confessioni cristiane.
Nel Nuovo Testamento non troviamo
esplicitamente il titolo «Madre di Dio» dato
a Maria. Vi troviamo però delle

201
affermazioni che, all’attenta riflessione
della Chiesa, sotto la guida dello Spirito
Santo, mostreranno, in seguito, di contenere
già, come in nuce, tale verità. Di Maria si
dice che ha concepito e generato un figlio,
il quale è Figlio dell’Altissimo, santo e
Figlio di Dio (cf Lc 1, 31-32.35). Dai
Vangeli risulta, dunque, che Maria è la
madre di un figlio, di cui si sa che è il Figlio
di Dio. Ella è chiamata correntemente nei
Vangeli: la madre di Gesù, la madre del
Signore (cf Lc 1, 43), o semplicemente «la
madre» e «sua madre» (cf Gv 2, 1-3).
Bisognerà che la Chiesa, nello sviluppo
della sua fede, chiarisca a se stessa chi è
Gesù, prima di sapere di chi è madre Maria.
Maria non comincia certo a essere Madre di
Dio nel concilio di Efeso del 431, come
Gesù non comincia a essere Dio nel
concilio di Nicea del 325, che lo definì tale.
Lo era anche prima. Quello è piuttosto il
momento in cui la Chiesa, nello svilupparsi
ed esplicitarsi della sua fede, sotto la spinta
dell’eresia, prende piena coscienza di
questa verità e prende posizione a suo

202
riguardo. Avviene come nella scoperta di
una nuova stella: essa non nasce nel
momento in cui la sua luce giunge sulla
terra ed è vista dall’osservatore, ma esisteva
già da prima, forse da migliaia e migliaia di
anni. La definizione conciliare è il
momento in cui la lucerna viene messa sul
candelabro che è il credo della Chiesa.
In questo processo che porta alla
proclamazione solenne di Maria Madre di
Dio, possiamo distinguere tre grandi fasi
che ora riassumerò per sommi capi.

a. La maternità «fisica» di Maria


All’inizio e per tutto il periodo dominato
dalla lotta contro l’eresia gnostica e
docetista, la maternità di Maria viene vista
quasi solo come maternità fisica. Questi
eretici negavano che Cristo avesse un vero
corpo umano, o, se l’aveva, che questo
corpo umano fosse nato da una donna, o, se
era nato da una donna, che fosse tratto
veramente dalla carne e dal sangue di lei.
Contro di essi bisognava dunque affermare

203
con forza che Gesù era figlio di Maria e
«frutto del suo grembo» (Lc 1, 42), e che
Maria era vera e naturale madre di Gesù.
Alcuni di questi eretici infatti
ammettevano che Gesù fosse nato da Maria,
ma non che fosse stato concepito in Maria,
cioè dalla sua stessa carne. Secondo
costoro, Cristo era nato attraverso la
Vergine, non dalla Vergine, poiché,
«immesso dal cielo nella Vergine ne venne
fuori più a modo di passaggio che di vera
generazione; attraverso di essa, non da essa,
avendo nella Vergine non una madre, ma
una via»92. Maria «non avrebbe portato in
grembo Gesù come suo Figlio, ma come
suo ospite»93.
La maternità di Maria, in questa fase più
antica, serve, più che altro, a dimostrare la
vera umanità di Gesù. Fu in questo periodo
e in questo clima che si formò l’articolo del
credo: «Nato (o incarnato) dallo Spirito
Santo e da Maria Vergine». Esso,
all’origine, voleva dire semplicemente che
Gesù è Dio e uomo: Dio, in quanto generato

204
secondo lo Spirito, cioè da Dio, e uomo in
quanto generato secondo la carne, cioè da
Maria.

b. La maternità «metafisica» di Maria


Nella fase più antica, in cui si afferma la
maternità reale o naturale di Maria contro
gli gnostici e i docetisti, fa la sua comparsa,
per la prima volta, il titolo di Theotokos,
Genitrice di Dio. D’ora in poi, sarà proprio
l’uso di questo titolo a condurre la Chiesa
alla scoperta di una maternità divina più
profonda, che potremmo chiamare
maternità metafisica. Avvenne durante
l’epoca delle grandi controversie
cristologiche del V secolo, quando il
problema centrale, intorno a Gesù Cristo,
non è più quello della sua vera umanità, ma
quello dell’unità della sua persona. La
maternità di Maria non viene più vista solo
in riferimento alla natura umana di Cristo,
ma, com’è più giusto, in riferimento
all’unica persona del Verbo fatto uomo. E
siccome quest’unica persona che Maria

205
genera secondo la carne non è altro che la
persona divina del Figlio, di conseguenza,
ella appare vera «Madre di Dio».
Si addusse, a questo riguardo, l’esempio
di ciò che avviene in ogni maternità umana.
Ogni madre dà al proprio figlio il corpo,
non l’anima che è infusa direttamente da
Dio. Eppure io non chiamo mia madre la
«madre del mio corpo», ma semplicemente
mia madre, madre di tutto me stesso, perché
in me corpo e anima formano un’unica
natura o realtà. Così, analogamente, Maria
deve essere detta Madre di Dio, anche se ha
dato a Gesù solo l’umanità e non la divinità,
perché in lui umanità e divinità formano
una sola persona (anche se non «una sola
natura», come invece fanno l’anima e il
corpo nell’uomo).
Tra Maria e Cristo non c’è più solo una
relazione di ordine fisico, ma anche di
ordine metafisico, e questo la colloca a una
altezza vertiginosa, creando un rapporto
singolare anche tra lei e il Padre. Con il
concilio di Efeso, questa cosa diventa per
sempre una conquista della Chiesa: «Se

206
qualcuno – si legge in un testo da esso
approvato – non confessa che Dio è
veramente l’Emmanuele e che perciò la
Santa Vergine, avendo generato secondo la
carne il Verbo di Dio fatto carne, è la
Theotokos, sia anatema»94. Fu un momento
di grande giubilo per tutto il popolo di
Efeso, che aspettò i Padri fuori dell’aula
conciliare e li accompagnò, con fiaccole e
canti, alle loro dimore. Tale proclamazione
determinò una esplosione di venerazione
verso la Madre di Dio che non venne meno
mai più, né in Oriente né in Occidente, e
che si tradusse in feste liturgiche, icone,
inni e nella costruzione di innumerevoli
chiese a lei dedicate.

c. La maternità «spirituale» di Maria


Ma anche questo traguardo non era
definitivo. C’era un altro livello da scoprire
nella maternità divina di Maria, dopo quello
fisico e quello metafisico. Nelle
controversie cristologiche, il titolo di
Theotokos era valorizzato più in funzione

207
della persona di Cristo che di quella di
Maria, pur essendo un titolo mariano. Da
tale titolo non si tiravano ancora le
conseguenze logiche riguardanti la persona
di Maria e, in particolare, la sua santità
unica. Theotokos rischiava di divenire
un’arma di battaglia tra opposte correnti
teologiche, anziché l’espressione della fede
e della pietà della Chiesa verso Maria.
Fu questo il grande apporto degli autori
latini e in particolare di sant’Agostino. La
maternità di Maria è vista come una
maternità nella fede, come maternità anche
spirituale. Siamo all’epopea della fede di
Maria. A proposito della domanda di Gesù:
«Chi è mia madre?» (cf Mc 3, 33),
Agostino risponde attribuendo a Maria, in
grado sommo, quella maternità spirituale
che viene dal fare la volontà del Padre:
«Forse che non fece la volontà del Padre la
Vergine Maria, che per fede credette, per fede
concepì, che fu scelta perché da lei nascesse per
gli uomini la salvezza, che fu creata da Cristo,
prima che in essa venisse creato Cristo? Certo che
fece la volontà del Padre santa Maria e perciò è
cosa più grande per Maria essere stata discepola di

208
Cristo, che essere stata Madre di Cristo»95.
La maternità fisica di Maria e quella
metafisica vengono ora coronate dal
riconoscimento di una maternità spirituale,
o di fede, che fa di Maria la prima e la più
santa figlia di Dio, la prima e più docile
discepola di Cristo, la creatura della quale –
scrive ancora sant’Agostino – «per l’onore
dovuto al Signore, non si deve neppure far
menzione quando si parla del peccato»96.
La maternità fisica o reale di Maria, con
l’eccezionale e unico rapporto che crea tra
lei e Gesù e tra lei e la Trinità tutta intera, è
e resta, da un punto di vista oggettivo, la
cosa più grande e un privilegio
ineguagliabile, ma essa è tale proprio
perché trova un riscontro soggettivo
nell’umile fede di Maria. Per Eva costituiva
certo un privilegio unico essere la «madre
di tutti i viventi» (Gn 3, 20); ma poiché non
ebbe fede, a nulla le giovò e anziché beata,
divenne sventurata.

209
3. La fede di Maria
Raccogliendo l’eredità di Agostino, la cui
mariologia è alla base della trattazione su
Maria del concilio Vaticano II97,
meditiamo sulla fede di Maria. Quando
Maria giunse da Elisabetta, questa l’accolse
con grande gioia e, «piena di Spirito
Santo», esclamò: «Beata colei che ha
creduto nell’adempimento delle parole del
Signore» (Lc 1, 45). San Luca si serve
dell’episodio della visitazione come di un
mezzo per portare alla luce ciò che si era
compiuto nel segreto di Nazaret e che solo
nel dialogo con un’interlocutrice poteva
essere manifestato e assumere un carattere
oggettivo e pubblico.
La cosa grande che è avvenuta a Nazaret,
dopo il saluto dell’angelo, è che Maria «ha
creduto» ed è diventata così «Madre del
Signore». Non c’è dubbio che questo aver
creduto si riferisce alla risposta di Maria
all’angelo: «Eccomi, sono la serva del
Signore, avvenga di me quello che hai

210
detto» (Lc 1, 38). Con queste poche e
semplici parole si è consumato il più grande
e decisivo atto di fede nella storia del
mondo.
Questa parola di Maria rappresenta «il
vertice di ogni comportamento religioso
davanti a Dio, poiché essa esprime, nella
maniera più elevata, la passiva disponibilità
unita all’attiva prontezza, il vuoto più
profondo che si accompagna alla più grande
pienezza»98. Con questa sua risposta –
scrive Origene – è come se Maria dicesse a
Dio: «Eccomi, sono una tavoletta da
scrivere: lo Scrittore scriva ciò che vuole,
faccia di me ciò che vuole il Signore di
tutto»99. Egli paragona Maria alla tavoletta
cerata che si usava, al suo tempo, per
scrivere. Maria, diremmo noi oggi, si offre
a Dio come una pagina bianca, sulla quale
egli può scrivere tutto ciò che vuole.
Dalle parole di Elisabetta: «Beata colei
che ha creduto», si vede come già nel
Vangelo la maternità divina di Maria non è
intesa soltanto come maternità fisica, ma

211
molto più come maternità spirituale,
fondata sulla fede. Su ciò si basa
sant’Agostino quando scrive: «La Vergine
Maria partorì credendo, quel che aveva
concepito credendo […]. Dopo che l’angelo
ebbe parlato, ella, piena di fede (fide plena),
concependo Cristo prima nel cuore che nel
grembo, rispose: “Eccomi, sono la serva del
Signore, avvenga di me secondo la tua
parola”»100. Alla pienezza di grazia da
parte di Dio, corrisponde la pienezza della
fede da parte di Maria; al «gratia plena», il
«fide plena».
A prima vista, quello di Maria fu un atto
di fede facile e perfino scontato. Diventare
madre di un re che avrebbe regnato in
eterno sulla casa di Giacobbe, diventare
madre del Messia! Non era quello che ogni
fanciulla ebrea sognava di essere? Ma
questo è un modo di ragionare assai umano
e carnale. La vera fede non è mai un
privilegio o un onore, ma è sempre un po’
un morire, e così fu soprattutto la fede di
Maria in questo momento. Anzitutto, Dio

212
non inganna mai, non strappa mai alle
creature dei consensi surrettiziamente,
nascondendo loro le conseguenze, ciò cui
andranno incontro.
Lo vediamo in tutte le grandi chiamate di
Dio. A Geremia preannuncia: «Ti
muoveranno guerra» (Ger 1, 19) e di Saulo,
dice ad Anania: «Io gli mostrerò quanto
dovrà soffrire per il mio nome» (At 9, 16).
Solo con Maria, per una missione come la
sua, avrebbe agito diversamente? Nella luce
dello Spirito Santo, che accompagna la
chiamata di Dio, ella ha certamente
intravisto che anche il suo cammino non
sarebbe stato diverso da quello di tutti gli
altri chiamati. Del resto, Simeone, ben
presto, darà espressione a questo
presentimento, quando le dirà che una
spada le avrebbe trapassato l’anima (cf Lc
2, 35).
Ma già sul piano semplicemente umano,
Maria viene a trovarsi in una totale
solitudine. A chi può spiegare ciò che è
avvenuto in lei? Chi le crederà quando dirà
che il bimbo che porta nel grembo è «opera

213
dello Spirito Santo»? Questa cosa non è
avvenuta mai prima di lei e non avverrà mai
dopo di lei. Maria conosceva certamente ciò
che era scritto nel libro della Legge e cioè
che se la fanciulla, al momento delle nozze,
non fosse stata trovata in stato di verginità,
doveva essere fatta uscire all’ingresso della
casa del padre e lapidata dalla gente del
villaggio (cf Dt 22, 20 s.). Noi parliamo
volentieri oggigiorno del rischio della fede,
intendendo, in genere, con ciò, il rischio
intellettuale; ma per Maria si trattò di un
rischio reale!
Carlo Carretto, nel suo libretto sulla
Madonna, narra come giunse a scoprire la
fede di Maria. Quando viveva nel deserto,
aveva saputo da alcuni suoi amici Tuareg
che una ragazza dell’accampamento era
stata promessa sposa a un uomo, ma che
non era andata ad abitare con lui, essendo
troppo giovane. Aveva collegato questo
fatto con quello che Luca dice di Maria.
Perciò ripassando, dopo due anni, in quello
stesso accampamento, chiese notizie della
ragazza. Notò un certo imbarazzo tra i suoi

214
interlocutori e più tardi uno di loro,
avvicinandosi con grande segretezza, fece
un segno: passò una mano sulla gola con il
gesto caratteristico degli arabi quando
vogliono dire: «E stata sgozzata». Si era
scoperta incinta prima del matrimonio e
l’onore della famiglia esigeva quella fine.
Allora ripensò a Maria, agli sguardi
impietosi della gente di Nazaret, agli
ammiccamenti, capì la solitudine di Maria,
e quella notte stessa la scelse come
compagna di viaggio e maestra della sua
fede101.
Maria, d’altra parte, ha creduto subito,
all’istante; non ha esitato, non ha sospeso il
giudizio. Al contrario, ha impegnato subito
tutta se stessa. Ha creduto che avrebbe
concepito un figlio per opera dello Spirito
Santo. Non ha detto tra sé: «Bene, ora
stiamo a vedere cosa succederà; il tempo
dirà se questa strana promessa è vera e se
viene da Dio»; non ha detto tra sé: «Se son
rose fioriranno…». Questo è ciò che ogni
persona avrebbe detto, se avesse dato

215
ascolto al buon senso e alla ragione. Maria
no; Maria credette. Ché se non avesse
creduto, il Verbo non si sarebbe fatto carne
in lei ed ella, di lì a poco, non sarebbe stata
al terzo mese, né Elisabetta avrebbe salutato
in lei «la madre del Signore».
Di Abramo, in una situazione simile,
quando anche a lui fu promesso un figlio
benché in tarda età, la Scrittura dice, quasi
con aria di trionfo e di stupore: «Abramo
ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato
come giustizia» (Gn 15, 6). Oh, quanto ciò
ora si dice più trionfalmente, presso di noi,
di Maria! Maria ebbe fede in Dio e ciò le fu
accreditato come giustizia. Il più grande
atto di giustizia mai compiuto sulla terra da
un essere umano, dopo quello di Gesù, che
però è anche Dio.
San Paolo dice che Dio ama chi dona con
gioia (2 Cor 9, 7) e Maria ha detto a Dio il
suo «sì» con gioia. Il verbo con cui Maria
esprime il suo consenso, e che è tradotto
con «fiat» o con «si faccia», nell’originale
greco è all’ottativo (genoito); esso non
esprime una semplice rassegnata

216
accettazione, ma vivo desiderio. Come se
dicesse: «Desidero anch’io, con tutto il mio
essere, quello che Dio desidera; si compia
presto ciò che egli vuole». Davvero, come
diceva sant’Agostino, prima ancora che nel
suo corpo ella concepì Cristo nel suo cuore.
Ma Maria non disse «fiat», che è parola
latina; non disse neppure «genoito», che è
parola greca. Che cosa disse allora? Qual è
la parola che, nella lingua parlata da Maria,
corrisponde più da vicino a questa
espressione? Cosa diceva un ebreo quando
voleva dire «così sia»? Diceva «amen!» Se
è lecito cercare di risalire, con pia
riflessione, alla ipsissima vox, alla parola
esatta uscita dalla bocca di Maria – o
almeno alla parola che c’era, a questo
punto, nella fonte giudaica usata da Luca –,
questa deve essere stata proprio la parola
«amen». «Amen» – parola ebraica, la cui
radice significa solidità, certezza – era usata
nella liturgia come risposta di fede alla
parola di Dio. Ogni volta che, al termine di
certi Salmi, nella Volgata si legge «fiat,
fiat» (nella versione dei Settanta: genoito,

217
genoito), l’originale ebraico, conosciuto da
Maria, porta: Amen, amen!
Con l’«amen» si riconosce quel che è
stato detto come parola ferma, stabile,
valida e vincolante. La sua traduzione
esatta, quando è risposta alla parola di Dio,
è questa: «Così è e così sia». Indica fede e
obbedienza insieme; riconosce che quel che
Dio dice è vero e vi si sottomette. È dire
«sì» a Dio. In questo senso lo troviamo
sulla bocca stessa di Gesù: «Sì, amen,
Padre, perché così è piaciuto a te…» (cf Mt
11, 26). Egli anzi è l’Amen personificato:
«Così parla l’Amen» (Ap 3, 14) ed è per
mezzo di lui che ogni altro «amen»
pronunciato sulla terra sale ormai a Dio (cf
2 Cor 1, 20). Come il «fiat» di Maria
precorre quello di Gesù nel Getsemani, così
il suo «amen» precorre quello del Figlio.
Anche Maria è un «amen» personificato a
Dio.
Non dovremmo però concludere il nostro
sguardo alla fede di Maria con
l’impressione che Maria abbia creduto una
volta e poi basta nella sua vita; che ci sia

218
stato un solo grande atto di fede nella vita
della Madonna. Il concilio Vaticano II ci ha
fatto un grande dono, affermando che anche
Maria ha camminato nella fede, anzi che ha
«progredito» nella fede102, cioè è cresciuta
e si è perfezionata in essa, fino all’atto
supremo di fede che fece sotto la croce.
Proseguendo il confronto paolino tra
Adamo e Cristo, i Padri della Chiesa,
cominciando da sant’Ireneo, hanno fondato
la loro mariologia sul confronto tra Eva e
Maria. C’è un aspetto di questo tema che
non è stato mai sviluppato, ma che è di
grande importanza per noi. Eva e Maria
hanno avuto entrambe una «immacolata
concezione», sono, all’origine, due
«Immacolate». Anche Eva infatti era stata
concepita senza peccato, in stato di grazia.
Dov’è allora la grande differenza tra lei e
Maria, per cui da una viene la morte,
dall’altra la vita? Entrambe hanno
conservato la loro libertà, anche se prive del
peccato originale; solo che Eva l’ha usata
per ribellarsi a Dio, non ha creduto; ha dato

219
ascolto al serpente anziché al Creatore;
Maria ha usato la sua libertà per dire un sì
libero e gioioso a Dio. Maria ha creduto ed
è diventata «madre di tutti i credenti».

220
4. Madri di Cristo mediante la fede
Dalla contemplazione di Maria come
Madre di Dio, passiamo alla sua imitazione.
È possibile imitare Maria in quanto Madre
di Dio? Non solo ciò è possibile, ma ci sono
stati uomini, come Origene, sant’Agostino,
san Bernardo, i quali sono arrivati a dire:
«Che giova a me che Cristo sia nato una
volta da Maria a Betlemme, se non nasce
anche per fede nella mia anima?»103.
Dobbiamo richiamare alla mente che la
maternità divina di Maria si realizza su due
piani: su un piano fisico e su un piano
spirituale. Maria è Madre di Dio non solo
perché l’ha portato fisicamente nel grembo,
ma anche perché l’ha concepito prima nel
cuore con la fede. Noi non possiamo,
naturalmente, imitare Maria nel primo
senso, generando di nuovo Cristo, ma
possiamo imitarla nel secondo senso, che è
quello della fede. Gesù stesso iniziò questa
applicazione alla Chiesa del titolo di
«Madre di Cristo», quando dichiarò: «Mia

221
madre e miei fratelli sono coloro che
ascoltano la parola di Dio e la mettono in
pratica» (Lc 8, 21; cf Mc 3, 31 s.; Mt 12,
49).
Sant’Ambrogio scrive: «Ogni anima che
crede, concepisce e genera il Verbo di Dio
[…]. Se secondo la carne una sola è la
Madre di Cristo, secondo la fede, tutte le
anime generano Cristo quando accolgono la
parola di Dio»104. Un altro Padre fa eco
dall’Oriente: «Il Cristo nasce sempre
misticamente nell’anima, prendendo carne
da coloro che sono salvati e facendo
dell’anima che lo genera una madre
vergine»105.
Proviamo a vedere come si diventa, in
concreto, madre di Gesù. Gesù dice che lo
si diventa attraverso due operazioni:
ascoltando la Parola e mettendola in pratica.
San Francesco d’Assisi commenta così la
parola di Gesù: «Siamo madri di Cristo –
dice – quando lo portiamo nel cuore e nel
corpo nostro per mezzo del divino amore e
della pura e sincera coscienza; lo generiamo

222
attraverso le opere sante, che devono
risplendere agli altri in esempio. […] Oh,
come è santo e come è caro, piacevole,
umile, pacifico, dolce, amabile e
desiderabile sopra ogni cosa, avere un tale
fratello e un tale figlio, il Signore Nostro
Gesù Cristo!»106. Noi – viene a dire il
Santo – concepiamo Cristo quando lo
amiamo in sincerità di cuore e con
rettitudine di coscienza, e lo diamo alla luce
quando compiamo opere sante che lo
manifestano al mondo.
San Bonaventura, discepolo e figlio del
Poverello, ha sviluppato questo pensiero in
un opuscolo intitolato Le cinque feste di
Gesù Bambino. Nell’introduzione al libro,
egli racconta come un giorno, mentre era
sul monte della Verna in ritiro, gli tornò in
mente ciò che dicono i santi Padri e cioè
che l’anima di Dio devota, per grazia dello
Spirito Santo e la potenza dell’Altissimo,
può spiritualmente concepire il benedetto
Verbo e Figlio Unigenito del Padre,
partorirlo, dargli il nome, cercarlo e

223
adorarlo con i Magi e infine presentarlo
felicemente a Dio Padre nel suo tempio107.
Di questi cinque momenti o feste di Gesù
Bambino che l’anima deve rivivere, ci
interessano soprattutto le prime due: il
concepimento e la nascita. Per san
Bonaventura, l’anima concepisce Gesù
quando, scontenta della vita che conduce,
stimolata da sante ispirazioni e
accendendosi di santo ardore, infine
staccandosi risolutamente dalle sue vecchie
abitudini e difetti, è come fecondata
spiritualmente dalla grazia dello Spirito
Santo e concepisce il proposito di una vita
nuova. È avvenuta la concezione di Cristo!
Una volta concepito, il benedetto Figlio di
Dio nasce nel cuore, allorché, dopo aver
fatto un sano discernimento, chiesto
opportuno consiglio, invocato l’aiuto di
Dio, l’anima mette immediatamente in
opera il suo santo proposito, cominciando a
realizzare quello che da tempo andava
maturando, ma che aveva sempre rimandato
per paura di non esserne capace.

224
Ma è necessario insistere su una cosa:
questo proposito di vita nuova deve
tradursi, senza indugio, in qualcosa di
concreto, in un cambiamento, possibilmente
anche esterno e visibile, nella nostra vita e
nelle nostre abitudini. Se il proposito non è
messo in atto, Gesù è concepito, ma non è
partorito. E uno dei tanti aborti spirituali.
Non si celebrerà mai «la seconda festa» di
Gesù Bambino che è il Natale! È uno dei
tanti rinvii, di cui è forse stata punteggiata
la nostra vita e che sono una delle ragioni
principali per cui così pochi si fanno santi.
Se decidi di cambiare stile di vita, dovrai
affrontare due tipi di tentazione. Ti si
presenteranno dapprima – dice san
Bonaventura – gli uomini carnali del tuo
ambiente a dirti: «È troppo arduo ciò che
intraprendi; non ce la farai mai, ti
mancheranno le forze, ne andrà di mezzo la
tua salute; queste cose non si addicono al
tuo stato, comprometti il tuo buon nome e
la dignità della tua carica…». Superato
questo ostacolo, si presenteranno altri che
hanno fama di essere – e, forse, sono anche

225
di fatto – persone pie, religiose, ma che non
credono veramente nella potenza di Dio e
del suo Spirito. Queste ti diranno che, se
cominci a vivere in questo modo – dando
tanto spazio alla preghiera, evitando le
chiacchiere inutili, facendo opere di carità
–, sarai ritenuto presto un santo, un uomo
devoto, spirituale, e poiché tu sai benissimo
di non esserlo ancora, finirai per ingannare
la gente ed essere un ipocrita, attirando su
di te l’ira di Dio che scruta i cuori. A tutte
queste tentazioni, bisogna rispondere con
fede: «Non è divenuta troppo corta la mano
del Signore da non poter salvare!» (Is 59, 1)
e, quasi adirandoci con noi stessi,
esclamare, come Agostino alla vigilia della
sua conversione: «Se questi e queste ce la
fanno, perché non anch’io?»108.
Ricordiamo infine un’altra parola di
questo stesso Santo, che ha parlato come
nessun altro della fede di Maria: «La Madre
lo portò nel grembo, noi portiamolo nel
cuore; la Vergine divenne gravida per
l’incarnazione di Cristo, divenga gravido il

226
nostro cuore per la fede in Cristo; ella
partorì il Salvatore, partorisca la nostra
anima la salvezza e la lode. Non siano
sterili le nostre anime, ma siano feconde per
Dio»109.
Terminiamo recitando (o cantando) una
delle preghiere più antiche alla Madonna
(fu trovata in un papiro del III secolo), la
prima in cui viene invocata con il titolo di
Theotokos, Madre di Dio:
Sub tuum Sotto la tua protezione
praesidium
confugimus, cerchiamo rifugio,
Sancta Dei Santa Madre di Dio:
Genetrix.
Nostras non disprezzare
deprecationes
ne despicias le suppliche
in di noi che siamo nella
necessitatibus, prova,

227
sed a periculis ma da tutti i pericoli
cunctis
libera nos liberaci sempre,
semper,
Virgo gloriosa o Vergine gloriosa
et benedicta. e benedetta.

Note
88 Cf le diverse recensioni di questo simbolo in H.
Denzinger - A. Schoenmetzer, Enchiridion
Symbolorum (= DS), ed. 1976, nn. 10 ss.
89 Ignazio d’Antiochia, Agli Efesini, 7, 2.
90 Duns Scoto, Reportationes Parisienses, III, d. 7,
q. 4, § 5 (ed. Wadding, vol. XI, p. 451).
91 Ignazio d’Antiochia, Agli Smirnesi, 3, 1.
92 Tertulliano, Contro i Valentiniani, 27, 1 (CCL 2,
p. 772).
93 Id., Sulla carne di Cristo, 21, 4 (CCL 2, p. 911).
94 Cirillo di Alessandria, Anatematismo I contro
Nestorio (DS 252).
95 Agostino, Discorsi, 72 A (Miscellanea
Agostiniana, I, p. 162).
96 Id., Natura e grazia, 36, 42 (CSEL 60, pp. 263
s.).
97 Lumen gentium, cap. VIII.
98 H. Schürmann, Il Vangelo di Luca, Paideia,

228
Brescia 1983, p. 154.
99 Origene, Commento al Vangelo di Luca,
frammento 18 (GCS 49, p. 227).
100 Agostino, Discorsi 215, 4 (PL 38, 1074).
101 Cf C. Carretto, Beata te che hai creduto, Ed.
Paoline, Cinisello Balsamo 1986, pp. 9 ss.
102 Cf Lumen gentium, 58.
103 Cf per es. Origene, Commento al Vangelo di
Luca 22, 3 (SCh 87, p. 302).
104 Ambrogio, Esposizione del Vangelo di Luca II,
26 (CSEL 32, 4, p. 55).
105 Massimo il Confessore, Commento al Padre
nostro (PG 90, 889).
106 Francesco d’Assisi, Lettera a tutti i fedeli, 1 (FF
178).
107 Bonaventura, Le cinque feste di Gesù Bambino,
prologo (ed. Quaracchi, 1949, pp. 207 ss.).
108 Agostino, Confessioni, VIII, 8 («Si isti et istae,
cur non ego?»).
109 Agostino, Discorsi, 189, 3 (PL 38, 1006).

229
VI
FU CROCIFISSO PER NOI
SOTTO PONZIO PILATO,
MORÌ E FU SEPOLTO

Crocifissione, icona russa del XVI sec.

230
1. Il mistero pasquale nel credo
Il testo completo dell’articolo sul quale
intendiamo meditare dice:
«Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e
fu sepolto. Il terzo giorno è risuscitato, secondo le
Scritture, è salito al cielo, siede alla destra del
Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare
i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine».
Si tratta del kerygma, cioè del primitivo
nucleo da cui si è sviluppato tutto il credo
della Chiesa. Esso riguardava l’opera di Dio
in Cristo Gesù, il mistero pasquale di morte
e risurrezione. Consisteva in formule brevi
di fede, come quella che si deduce dal
discorso di Pietro il giorno di Pentecoste:
«Voi l’avete crocifisso, Dio l’ha risuscitato
e lo ha costituito Signore» (cf At 2, 23-36),
oppure da un passo della Lettera ai Romani:
«[Gesù Cristo] è stato messo a morte per i
nostri peccati ed è risorto per la nostra
giustificazione» (Rm 4, 25).
La formulazione più nota del kerygma è
però quella che leggiamo nella Prima
Lettera ai Corinzi, che risale a non più di

231
cinque o sei anni dopo la morte di Cristo,
giacché san Paolo la «trasmette» nella
forma in cui lui stesso l’ha appresa
oralmente poco dopo la sua conversione:
«Vi ho trasmesso quello che anch’io ho
ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri
peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è
risuscitato il terzo giorno secondo le
Scritture» (1 Cor 15, 3-4).
La struttura di questo credo pasquale
primitivo è quanto mai interessante: vi si
distinguono nettamente due piani: a) il
piano della storia, o dei semplici fatti:
«morì», «è risuscitato»; b) il piano della
fede, o del significato dei fatti: «per i nostri
peccati», «per la nostra giustificazione».
Potremmo dire: il piano dell’«in sé» e il
piano del «per noi». Per l’Apostolo, l’uno e
l’altro di questi due piani è indispensabile
per la salvezza; non solo quello della fede
(il «per me»), ma anche quello della storia.
Dice infatti che se Cristo non fosse
realmente risuscitato, la nostra fede sarebbe
«vana», cioè vuota (cf 1 Cor 15, 14),
proprio perché è fede in un evento storico, o

232
in un intervento di Dio nella storia, e,
quindi, l’evento storico ne è il contenuto.
Dedichiamo la presente meditazione alla
prima parte del mistero pasquale, la
passione e morte di Cristo, e la prossima
alla seconda parte, la risurrezione. Faremo
una specie di via crucis attraverso i racconti
della Passione, soffermandoci sui momenti
più salienti di essa. Sarà uno «vegliare
un’ora con lui», come chiese ai suoi
apostoli nel Getsemani, facendo
semplicemente memoria meditativa degli
eventi, lasciando che siano essi a parlarci e
a suggerirci eventuali propositi.

233
2. Nel Getsemani
Terminata la cena Gesù si reca nell’Orto
degli Ulivi, portando con sé Pietro,
Giacomo e Giovanni, gli stessi che erano
stati con lui sul Tabor. Conosciamo la
confidenza che fa ad essi: «La mia anima è
oppressa dalla tristezza fino a morirne» (Mc
14, 34). Mai ha fatto una confidenza così
struggente sulla condizione della sua anima.
Da dove gli viene tutta questa
oppressione? Certo, vi è anche il peso della
sua vita apostolica che ha sopportato con
gioia, senza misurare gli sforzi, senza
controllare la sua generosità. Ora,
l’ipertensione causata dalle predicazioni
prolungate di fronte alle folle, dalle
controversie incessanti con i farisei,
l’estenuazione per le lunghe ore di
preghiere notturne e il dispendio di forze
provocato dalle lunghe camminate sulle
strade di Galilea e Giudea sembrano
ricadere tutto a un tratto su di lui. L’intensa
emozione del momento dell’istituzione

234
dell’Eucaristia ha contribuito ad
accasciarlo, si sente sfinito.
Tuttavia la fatica non è ancora tristezza.
Perché in quel momento il fardello è più
pesante e suscita in lui tanto dolore? Vi è
qui un mistero che mette in gioco la sua
stessa intimità: sensibilmente, come uomo,
non sente la presenza del Padre suo, perciò
la gioia ha ceduto il posto a un grande
vuoto. La presenza paterna rimane
incrollabile nel suo animo, ma non riesce a
percepirla come uomo. Anche i mistici, a
volte, hanno attraversato questo momento,
ma nessuno ha mai assaporato una
desolazione così assoluta come il Maestro
divino.
La sua anima è colpita nella sua intimità
con il Padre perché deve portare il peso dei
peccati del mondo e il peccato separa
l’uomo da Dio. La sua tristezza è un riflesso
dei peccati del mondo, ma è pura e casta, e
proprio per questo ancora più dolorosa.
Gesù è triste per tutti noi peccatori che
dovremmo rattristarci delle nostre colpe e
non lo facciamo abbastanza. Egli non

235
poteva conoscere il pentimento, ma ha
voluto assaggiare, in virtù del suo amore
perfetto, il gusto amaro di essere privato di
una presenza.
L’angoscia lo assale: è il moto spontaneo
dell’essere umano, desideroso di sfuggire al
supplizio. È la rivolta dell’anima e del
corpo alla prospettiva di sofferenze terribili
e di una morte vergognosa. Suda sangue
perché il suo corpo partecipa all’angoscia.
La sua angoscia si trasforma in preghiera.
Chiede al Padre di allontanare il calice
amaro, ma gli proclama la sua disponibilità!
Questa preghiera riflette esattamente la lotta
che si svolge nella sua anima: la confida al
Padre e rimette nelle sue mani la soluzione.
Smarrito, disorientato, oppresso, Gesù
lancia con la tenerezza più smarrita il grido
del suo amore più profondo. Le due sillabe
«abbà» risuonano nella notte del Getsemani
come un grido di aiuto. Contengono il
segreto della vita terrena di Gesù, l’origine
e lo scopo della sua passione, la speranza
del suo trionfo. Da solo, questo suo appello
basterebbe a dimostrare che nel momento in

236
cui, sensibilmente, non sente la presenza del
Padre, più si avvicina a lui. Gesù ha sempre
vissuto in unione con il Padre e rafforza
ancora tale unione quando, nell’angoscia e
nella paura, gli rivolge il grido più
appassionato del suo cuore di Figlio.
Noi tutti, con gioia, ci rivolgiamo a Dio
chiamandolo «Padre», ma possiamo farlo
solo perché lui ce lo ha meritato. Perché
quel nome noi potessimo pronunziarlo con
entusiasmo, egli ha dovuto dirlo in un
momento di terribile angoscia!
Gesù non esita a domandare che il calice
di dolore gli sia risparmiato.
Nell’istituzione dell’Eucaristia ha già
donato ai discepoli il calice che conteneva il
sangue del suo sacrificio, ora, invece,
supplica il Padre di togliere dalla sua strada
quella suprema sofferenza, con cui deve
portare a termine la sua missione. Ci
insegna così che possiamo sempre
supplicarlo di risparmiarci una prova,
qualunque essa sia. Possiamo pure
chiedergli che allontani da noi una
sofferenza chiaramente destinata al bene

237
nostro e degli altri. Egli può disporre gli
avvenimenti in modo diverso; ma possiamo
rivolgergli tali suppliche solo se,
aggiungiamo, sul suo esempio, la nostra
perfetta sottomissione alla sua volontà!
La preghiera di Gesù potrebbe essere
esaudita. Tuttavia, Gesù non otterrà ciò che
domanda e dovrà bere il calice fino in
fondo. Pensiamo che la sua preghiera non
abbia proprio avuto alcun effetto? Sarebbe
strano e incredibile, poiché lui stesso, nel
momento della risurrezione di Lazzaro,
aveva detto che il Padre lo esaudiva sempre.
Se è sempre esaudito, come potrebbe non
esserlo nella preghiera culminante
dell’agonia, molto più importante della
preghiera pronunciata in vista della
risurrezione del suo amico?
Egli è stato esaudito, non con l’essere
preservato dalla morte fisica, ma in modo
superiore. Mentre sembra fallire nel suo
scopo preciso, la sua preghiera riesce a
ottenere uno scopo più elevato; invece della
conservazione fisica e mortale, ottiene la
vita gloriosa e immortale! Dimostra così

238
che ogni preghiera a cui non corrisponde il
favore espressamente chiesto si vede
ricompensata con un altro dono più
importante e più aderente alle aspirazioni
profonde di colui che prega.

239
3. Davanti al Sinedrio
Dal Getsemani portiamoci, per la seconda
tappa della nostra via crucis, al processo e
alla condanna di Gesù, seguendo il racconto
sia dei Sinottici che di Giovanni che do per
conosciuti e che ognuno farebbe bene, in
ogni caso, a rileggere con calma.
Il processo davanti al sinedrio inizia con
gli oltraggi. La debolezza e la disgrazia di
un uomo possono suscitare compassione,
ma possono anche stimolare l’istinto di
crudeltà e le guardie tormentano Gesù con
percosse e scherni. Questa è per loro
l’occasione di vendicarsi del suo
comportamento durante l’interrogatorio.
Esse si erano infuriate per il suo silenzio e
lo schiaffo che gli dà un servo testimonia la
loro indignazione! Inoltre, la risposta a chi
l’aveva colpito aveva accresciuto
l’irritazione degli altri, poiché dimostrava
che lui era nella ragione e loro nel torto.
«Indovina!». Ai suoi schernitori sembra
evidente di avere davanti un profeta da

240
farsa, incapace di penetrare con lo sguardo
attraverso il velo che gli hanno messo sugli
occhi!
Alla risposta affermativa alla domanda se
era lui «il Cristo, il Figlio di Dio» (Mt 26,
63 ss.), il sommo sacerdote si straccia le
vesti. Quando si udiva una bestemmia,
questo gesto voleva esprimere dolore,
Caifa, però, non prova dolore, ma esulta: ha
ottenuto finalmente quello che cercava. Il
gesto teatrale di stracciarsi le vesti fa parte
della messa in scena del processo.
L’esclamazione: «Che bisogno abbiamo
ancora di testimoni?» risuona come un
grido di trionfo. Caifa aveva incontrato
tante difficoltà nel reclutare i testimoni che
non avevano saputo recitare la loro parte, ed
ecco che ora Gesù stesso gli fornisce ciò
che inutili manovre non avevano ottenuto.
Da quel momento diventa una pura
formalità domandare il parere dei membri
dell’assemblea; tutti si compiacciono di
essere stati tolti dall’imbarazzo da una
affermazione blasfema che sembra cadere
dal cielo e salvare il processo all’ultimo

241
momento. «Tutti sentenziarono che era reo
di morte» (Mc 14, 64). Non si deve
concludere che tutti i membri del Sinedrio
abbiano espresso lo stesso parere;
sappiamo, per esempio, che Giuseppe
d’Arimatea non prese parte alla condanna
(cf Lc 23, 51).
La condanna di Gesù spiega il significato
profondo del peccato. La frase «tutti lo
condannarono» evoca tutti gli uomini che,
con il peccato, sono propensi a condannare
Dio e il Cristo. È vero che Dio condanna il
peccato, ma prima egli è condannato da
esso. Il peccatore si pone in stato di ostilità
verso Dio, vorrebbe sopprimere la sua
presenza fastidiosa, quel suo potere che lo
turba e l’atterrisce. Così tutti i peccatori
sono responsabili della condanna inflitta a
Gesù, perché in tutte le epoche si trovano
uomini che vogliono sopprimerlo,
scacciarlo dalla loro vita!

242
4. Davanti a Pilato
Del processo davanti a Pilato, meditiamo
solo sulla sua conclusione, saltando le
schermaglie tra lui e i capi giudei, che,
ipocritamente, si appellano alla fedeltà a
Cesare. Pilato vorrebbe salvare Gesù, ma
non sa più come sbarazzarsi degli
accusatori. Improvvisamente, di fuori, la
folla si accalca davanti al pretorio e reclama
la liberazione di un condannato, come ha
l’abitudine di fare per la vigilia di Pasqua.
Pilato intravede la possibilità che gli viene
offerta di sistemare la questione senza
dovere condannare Gesù e senza violare le
esigenze della giustizia e della sua
coscienza.
Così Pilato si affretta a cogliere
l’occasione: «Volete che rilasci il re dei
Giudei?». Ma subito i principi dei sacerdoti,
gli anziani, gli scribi, per sventare quella
manovra, gridano un altro nome: Barabba.
Ecco l’eroe popolare che bisogna liberare:
infatti egli si è reso colpevole di un delitto

243
proprio in una sedizione. Forse è un
brigante o un assassino, ma è un
rivoluzionario, che ha voluto rovesciare
l’autorità della potenza occupante. Questa
scelta, proveniente dai capi ebrei, è audace
e indica ancora la loro doppiezza. Essi
accusano Gesù di sobillare il popolo contro
i romani, poi sollecitano la grazia per un
promotore di sedizioni.
Pilato insiste, ma la risposta sale unanime:
«Barabba!». Chiede cosa deve fare di Gesù
e sente dire: « Crocifiggilo». Invece di
avere successo, la scappatoia tentata da
Pilato ha accresciuto il tumulto. Pilato si è
appellato al popolo, e il popolo unisce le
sue grida alle accuse dei capi. Il sotterfugio
di mandarlo a Erode è fallito ed è pure
fallito quello della grazia a un prigioniero.
Aumenta l’imbarazzo di Pilato mentre i
capi, di fronte agli indugi del governatore,
diventano sempre più propensi a strappargli
la condanna, sicuri di avere successo.
La folla distoglie il suo favore da Gesù, o
piuttosto è indotta a fare ciò dai sacerdoti e
dagli anziani. La sua preferenza per

244
Barabba preannuncia tutte le scelte che, nel
futuro, saranno fatte contro Gesù. Egli
conosce bene il popolo. Gli ha dimostrato
tanto amore con la sua instancabile
predicazione, con i suoi miracoli! Ora,
invece, quella folla, a sua volta, si separa da
lui, lo abbandona, e gli si ribella contro,
reclamando la sua morte! Gesù ha
conosciuto la sofferenza penosa della
sconfitta; ha assaporato dolorosamente la
prova subita da chi si prodiga fino allo
stremo e non ottiene il risultato sperato.
Conclude la sua vita con una disfatta.
Tuttavia salva l’umanità proprio con il suo
fallimento!
Pilato non abbandona la partita e cerca di
salvare Gesù in extremis. Si è convinto che
il suo atteggiamento è giusto perché anche
la moglie lo spinge a questo. Il consiglio
che lei gli ha dato suona misterioso e lo ha
impressionato; quel messaggio d’altra parte
non faceva che esprimere ciò che la sua
coscienza gli dettava. Ma come uscirne? Gli
viene un’idea: ordinare di flagellarlo! Così
avrebbe fatto una concessione alla folla e

245
avrebbe placato le sue rivendicazioni, poi
avrebbe tentato di impietosirla, mostrando il
condannato coperto di sangue.
Quest’ultimo espediente sarebbe costato
molto caro a Gesù. La flagellazione era
considerata dai romani un supplizio
infamante, riservato agli schiavi e agli
stranieri. Paolo vi si sottrarrà, facendo
valere il suo privilegio di cittadino romano.
Gesù non possiede questo privilegio e deve
conoscere il culmine del dolore sia fisico
che morale.
La flagellazione era così crudele che
talvolta portava alla morte. La condizione
pietosa di Gesù dopo la flagellazione
suscita una maggiore crudeltà e il disprezzo
da parte dei soldati. È quello che attesta
l’episodio di Gesù nel cortile del pretorio
(cf Mc 15, 16 ss.). Pensiamo agli orrori
delle camere di tortura e dei campi di
concentramento, alle persone ammanettate
e in balia di aguzzini rozzi e spietati: il
Figlio di Dio ha conosciuto fino a che punto
può giungere la crudeltà dell’uomo!
Il mucchio di arbusti spinosi che si

246
trovava nel cortile, preparato per accendere
il fuoco, ha fornito ai soldati un
divertimento, la corona di spine. Anche la
canna che gli mettono in mano serve a
picchiarlo sulla testa. Le spine che si
conficcano nella carne costituiscono la sua
corona regale…
Vedendo in quale stato si trova, Pilato
vuole mostrare Gesù sperando di suscitare
pietà nella folla. Lo spettacolo non è
abbastanza straziante e pietoso agli occhi di
una folla emotiva? Non è abbastanza
ridicolo agli occhi dei capi che hanno
desiderato combattere l’influenza di Gesù
sul popolo? Non c’è quanto basta per
disarmare l’odio? Invece, ancora una volta,
Pilato fallisce nel suo intento e i presenti
chiedono per Gesù la morte!
Stretto tra la paura del cielo e la paura di
Cesare, Pilato ascolta solo quest’ultima. Gli
scrupoli di coscienza svaniscono davanti al
suo interesse, davanti al desiderio di
conservare a ogni costo il posto di
governatore. Il suo lavarsi le mani è segno
della viltà, lui proclama la mia innocenza

247
mentre mi condanna!

248
5. Al Calvario
Come la flagellazione che ne era il
preludio, il supplizio della croce aveva un
carattere infamante. Veniva inflitto più
specificamente agli schiavi, un cittadino
romano non avrebbe potuto subirlo. D’altra
parte offriva uno spettacolo
compassionevole, poiché il condannato
moriva in mezzo a dolori atroci, torturato
dalla sete, e il suo corpo restava appeso al
patibolo in balia dei cani e degli avvoltoi.
Secondo il progetto del Padre, era
necessario che il Figlio, per salvare
l’umanità dal peccato, toccasse il fondo
dell’angoscia e delle abiezioni umane, e che
apparisse, al termine della sua vita terrena,
l’ultimo degli uomini, il più disprezzabile. I
due malfattori, crocifissi con lui, dovevano
completare il quadro della vergogna. Tutto
cospirava a porlo al livello dei malfattori!
Questa morte non ha neppure la maestà di
una certa solitudine, anzi deve essere
inquadrata in quella di due briganti. Come il

249
Verbo ha unito la sua vita a quella degli
uomini, così unisce anche la sua morte a
quella degli uomini. La unisce in modo
speciale ai peccatori; resta amico dei
peccatori fino alla fine, al punto di morire
come loro e con loro.
Secondo le usanze, Gesù deve portare la
croce fino al luogo del supplizio. Una
grande folla lo accompagna, non solo i
curiosi e gli avversari, coloro che hanno
richiesto la sua condanna e vogliono
godersi il loro trionfo, ma anche quelli che
provano simpatia per lui. In quella folla
c’erano anche delle donne che piangevano
per la sua sorte. Per la prima volta
dall’inizio del processo si assiste a un gesto
favorevole da parte del popolo, ed esso
proviene proprio da queste donne. Il solo
intervento per salvarlo dalla morte era stato
fatto pure da una donna, la sposa di Pilato.
D’altra parte la compassione dimostrata
dalle donne non è un semplice atto di pietà
verso un condannato a morte: queste donne
riconoscono ciò che vi è in Gesù di unico
ed eccezionale. Il loro pentimento è

250
accompagnato da una compassione molto
viva. Precedono così la schiera di tutti
quelli che, nella storia umana, si lasciano
commuovere dallo spettacolo della Passione
e vogliono prendere parte al dolore del
cammino della croce! La compassione delle
donne non è rimasta senza risposta. Gesù
parla ad esse. Le sue parole manifestano
bene il suo amore. Nella terribile sofferenza
in cui si trova, egli non pensa alla propria
persona, pensa alla disgrazia degli altri. La
grande disgrazia è quella di diventare un
legno secco e di giungere alla morte
definitiva, la sofferenza mette solo alla
prova il legno verde.
La strada che conduce dal pretorio al
Calvario non è lunga, ma è troppo lunga per
Gesù che, sfinito a causa della flagellazione
e dei maltrattamenti, cede sotto il peso della
croce. I soldati romani vedono arrivare un
uomo dalla campagna e lo requisiscono:
così Simone di Cirene viene costretto a
portare la croce, dietro Gesù. Qui egli rivela
in modo più completo la sua umiltà: ha
bisogno di altri per portare la croce fino al

251
luogo del supplizio. Il cammino del
Calvario non è stato per Cristo un saggio di
bravura. Egli non si vergogna di mostrare la
sua debolezza fisica: fin dalla partenza,
vacilla sotto il peso posto sulle spalle,
mentre i suoi due compagni di supplizio
portano con maggiore fermezza la croce.
Il Padre avrebbe potuto dargli la forza
sufficiente per portare da solo la croce fino
al Calvario, ma ha disposto
intenzionalmente gli avvenimenti in modo
tale che egli cadesse lungo la strada: voleva
porre dietro di lui, sotto la croce, un altro
uomo, un uomo qualunque, incontrato per
caso, per significare che qualsiasi uomo è
destinato a dividere la croce con Gesù, che
ogni croce è la stessa sua croce e che viene
portata in sua compagnia. Il particolare
espresso con la parola «requisire» è
suggestivo: sottintende che Simone di
Cirene non ha reso questo servizio
volentieri, anzi ha opposto resistenza. È
comprensibile che fosse seccato di dover
portare quello strumento di supplizio e di
sentirne la vergogna su di sé, perciò non c’è

252
da meravigliarsi che egli abbia preso la
croce di cattivo umore. Soltanto in seguito
apprezzerà l’onore che gli è stato fatto. Lo
sappiamo dal fatto che i suoi figli sono
conosciuti nella primitiva comunità (cf Mc
15, 21).
Tre croci saranno innalzate sul Golgota, a
poca distanza dalle mura. Prima del
supplizio viene offerto a Gesù del vino
aromatizzato con la mirra. È un’usanza il
cui significato è espresso nel libro dei
Proverbi (31, 6-7). La mescolanza di vino e
mirra era considerata un ristoro
particolarmente inebriante. Non furono i
soldati a offrirgli la bevanda, fu
probabilmente una delle donne che lo
seguivano, desiderosa di lenire le sue
sofferenze. Per dimostrare che apprezza
quel gesto, Gesù inumidisce le labbra nella
coppa che gli viene offerta, ma non beve.
Ciò che vuole bere è il calice offertogli dal
Padre; non ne vuole un altro. Non accetta
alcun lenimento e non vuole attenuare,
neppure con un po’ di ebbrezza, la lucidità
durante il sacrificio. Vuole guardare in

253
faccia il dolore terribile che si avvicina,
accoglierlo e soffrirlo in pieno possesso
delle sue facoltà, offrirlo con chiara
intelligenza, con sensibilità non affievolita,
con volontà padrona di sé.
I soldati cominciano a lavorare. Lo
distendono e lo inchiodano in croce. Egli
lascia fare e rimane in silenzio. Soffre
atrocemente per le mani e i piedi trafitti, ma
non si lamenta affatto. Coloro che non
prestano attenzione al suo viso credono che
sia indifferente e incallito; chi lo conosce
ritrova in lui la dolcezza caratteristica del
suo comportamento, una dolcezza di cui fa
parte l’eroismo. Dona l’esempio di una
pazienza senza limite, che la peggiore
sofferenza non riesce a soverchiare. Persino
al culmine di un dolore che scuote tutto il
suo essere, accetta e offre.
È l’ora che ha preannunciato, in cui viene
«elevato» da terra e «attrae tutti a sé» (cf
Gv 12, 32). Sulla croce il suo sguardo può
abbracciare, da una posizione elevata, la
folla che lo circonda, simbolo dell’immensa
moltitudine degli uomini. Vuole soffrire e

254
morire guardando il mondo intero. Sa che il
suo sacrificio effettuerà la trasformazione
più radicale dell’umanità. I suoi occhi
cercano, vicino e lontano, la massa umana
per la quale il suo dolore meriterà salvezza
e felicità.
Pilato stesso ha redatto una scritta con il
motivo della condanna: «Gesù Nazareno re
dei Giudei». È la sua ultima vendetta sugli
ebrei, per l’imbarazzo causatogli da quella
faccenda, e per l’umiliazione subita
cedendo alla loro minaccia di fare appello a
Cesare. I farisei leggono la scritta e
capiscono l’affronto. Protestano con il
governatore, ma Pilato non ha più nulla da
temere e respinge le loro proteste. Egli
assapora questo piccolo trionfo e coglie
l’occasione per confermare la sua autorità,
in cambio delle concessioni che ha dovuto
fare.
Il Padre si serve della vendetta di Pilato
perché sia posta in evidenza, nel suo
supplizio, la regalità del Figlio. Ormai la
scritta resterà appesa alla croce e sarà per
sempre un emblema di sovranità regale. È

255
vero che si tratta semplicemente di un re dei
giudei, ma la scritta è redatta in tre lingue,
non soltanto in ebraico, ma in greco e in
latino, lingue universali. Questo è segno che
la sua regalità è destinata a estendersi
nell’universo e superare le divisioni create
dagli uomini dalla differenza di linguaggio.
Gesù muore per unificare l’umanità nel suo
amore!
Non appena è issato sulla croce, Gesù
incomincia a pregare il Padre, a chiedere il
perdono per i suoi nemici. Non soltanto
perdona personalmente i suoi nemici, ma
con tutta la forza del suo animo implora per
essi il perdono: «Padre, perdona loro,
perché non sanno quello che fanno». Del
titolo di Figlio di Dio, che i suoi avversari
hanno sdegnosamente respinto, lui si serve
per ottenere il perdono della loro colpa.
Gesù li scusa, non sanno quel che fanno. La
grandezza del suo perdono consiste
precisamente nel fatto che lo chiede anche
per i suoi peggiori nemici: Caifa e il
Sinedrio. Anche per essi, non soltanto per i
soldati romani ignari, egli invoca

256
l’attenuante dell’ignoranza: anche se essi
hanno agito con astuzia e cattiveria, in
realtà non sapevano ciò che facevano; non
pensavano di mettere in croce uno che era
realmente Messia e Figlio di Dio! La loro
responsabilità, perciò, risulta attenuata.
I due ladroni crocifissi con lui, uno a
destra e uno a sinistra, rappresentano
l’umanità, quell’umanità che un giorno si
ritroverà tutta intera divisa in due parti, una
alla sua destra e una alla sua sinistra. La
scelta compiuta di fronte a lui in croce, di
fronte alla sua sovranità, distingue le due
parti. Uno dei due ladroni respinge quella
sovranità e se ne ride, l’altro ci crede. La
scelta consiste nell’accettazione o nel
rifiuto della condizione di peccatore, e della
croce stessa.
Il primo ladrone vorrebbe essere liberato
dalla croce e non potrebbe riconoscere in
Gesù il Cristo che a questa condizione:
«Salva te stesso e anche noi». Egli non
accetta il castigo, non vuole piegarsi
davanti a Dio e non ammette la sua
colpevolezza, né la giustizia del verdetto. Il

257
suo compagno, invece, accetta il supplizio
meritato dai suoi atti: si confessa peccatore.
Non pretende di sottrarsi alla croce, ma
pone la sua speranza in Gesù. In questi due
opposti atteggiamenti, si vede che la fede in
Cristo deve essere unita alla confessione del
peccato e all’accettazione della croce.
La promessa di risurrezione rivolta da
Gesù al ladrone riveste una forma e una
subitaneità impressionanti. La semplicità
della conversione la rende più straordinaria.
Si sarebbe potuto pensare che quel ladrone
fosse incorreggibile, incapace di mutare
disposizione d’animo; inoltre, se non si
conoscesse la risposta di Gesù, sarebbe
stato possibile dubitare della sincerità del
cambiamento e porre in discussione la
serietà del buon proposito, si sarebbe potuto
osservare che una vita passata in mezzo a
ogni genere di misfatti, furti e omicidi,
aveva dimostrato abbastanza il valore
dell’uomo e indicava le sue più profonde
disposizioni con maggior verità di una
conversione in extremis. La risposta di Gesù
rivela, invece, che la vita di questo uomo

258
viene decisa proprio all’ultimo momento, e
che il suo comportamento sulla croce ha
cancellato completamente la macchia di un
passato peccaminoso. Nella conversione,
l’amore personale del ladrone per Gesù si
rivela in maniera tutta speciale. Egli
comprende il dramma della sua innocenza e
lo difende. Il ladrone mostra il suo affetto
chiamando Gesù per nome: «Gesù, ricordati
di me quando sarai nel tuo regno!».

259
6. Presso la croce di Gesù stava Maria
sua madre
Se i malfattori rappresentano sul Calvario
l’umanità peccatrice invitata alla
conversione, Maria e Giovanni
rappresentano un’altra umanità, quella della
purezza e dell’amore. La frase che Gesù
pronuncia: «Donna, ecco tuo figlio!» (Gv
19, 26), segna il punto culminante della sua
spogliazione. Dopo aver abbandonato tutto
ciò che possedeva, dona il bene più
prezioso al mondo, sua madre. Vuole che
ella divenga la madre degli uomini e riversi
sui suoi discepoli l’affetto prima dedicato a
lui.
La maternità spirituale della sua Mamma
è il dono più grande del suo cuore
crocifisso, dopo quello dello Spirito. Chi
non ammette questa maternità non
comprende la testimonianza più
commovente del suo amore per l’umanità.
Gesù fa partecipare la sua Mamma al suo
destino terreno in modo completo. La invita

260
a offrire interamente il suo sacrificio
materno, le fa capire che il suo Figlio unico
sta per esserle tolto e che ormai ella deve
assumersene un altro. Maria deve accettare
la morte del Figlio, prima che essa abbia
luogo.
La chiama «donna» per dimostrarle che la
distanza tra di loro sta per aumentare:
chiamata a collaborare con lui all’opera
redentrice, è la nuova Eva assunta al fianco
del nuovo Adamo, che deve accettare il
sacrificio della sua maternità in vista di una
maternità universale. Gesù non esita a far sì
che sua Madre, la persona da lui più amata
al mondo, partecipi completamente al suo
sacrificio e condivida l’immensità del suo
dolore. L’ultima parola che le rivolge ha per
scopo di farle offrire la pienezza della sua
sofferenza e di aprirle una meravigliosa
prospettiva sulla nuova maternità che le
viene data dopo la sua offerta.
In questo dono eccezionale fatto alla sua
Madre si rivela una verità generale: più un
essere umano è amato da Cristo, introdotto
alla sua intimità, più è chiamato a

261
condividere la sua croce. E vi è chiamato in
vista di una fecondità maggiore. Maria
aveva ben compreso il desiderio del Figlio e
spontaneamente voleva vivere al suo fianco
la Passione e l’agonia del Calvario.
Riteneva che fosse una debolezza e una
mancanza d’amore il sottrarsi allo
spettacolo del supplizio del Figlio.
Desiderava partecipare il più intimamente
possibile alla sua sorte dolorosa, unirsi alla
sua offerta per la salvezza del mondo. Non
a caso, si trovava ai piedi della sua croce.
Maria stava in piedi e questo indica la
fermezza del suo comportamento. Invece di
essere travolta dall’evento che agli occhi di
tutti sembra una catastrofe, conserva il suo
coraggio. La spada che le trapassa il cuore
non la fa vacillare. La stessa forza
incrollabile unisce il Figlio e la Madre!
Restando in piedi, Maria domina il dolore;
trangugia le lacrime pronte a sgorgare,
perché non vuole causare una pena
supplementare al Figlio, manifestando il
suo dolore. Capisce di dover sostenere nello
stesso modo, con il suo coraggio, le donne

262
che la circondano, come pure i discepoli
presenti a una certa distanza. La sua figura
diritta è un simbolo e uno sprone. Come
Gesù, lei non è vinta, ma resiste
vittoriosamente all’assalto del dolore.
In lei la fede, la speranza e l’amore
resistono. Ella continua a credere nel Figlio:
quando i suoi avversari si prendono gioco
di lui che ha preteso di essere il Cristo, il
Figlio di Dio, ella si consolida
maggiormente nella sua fede. Non ha
affatto perduto la speranza: conta sempre
sul trionfo del Figlio che, secondo la
profezia, deve verificarsi attraverso la
morte, in una misteriosa risurrezione. Così
in lei si personificano la fede, la speranza e
la carità con cui la Chiesa aderirà a Cristo e
approfondirà la sua adesione nel
condividere la sua croce.
Il dolore di Maria è simile a quello del
parto. Come madre, ella deve contribuire a
generare i figli di Dio, così come aveva
collaborato con lo Spirito nel concepire
Cristo. Questa sofferenza è proiettata verso
l’avvenire, verso la formazione di una

263
nuova umanità. Invece di essere smentita
dal dramma della croce, Maria ne esce con
una personalità più grande, che si accorda
meglio alle dimensioni di un mondo nuovo.
L’amore suo, che si era espanso nell’affetto
materno per Gesù, si dilaterà senza limiti
nell’amore universale per tutti gli uomini.
Questo ampliamento è meritato dal
sacrificio: lei ha pagato molto caro il suo
titolo di Madre degli uomini. È il
fondamento della devozione alla Madre di
Cristo.
Nel raccomandare Maria a Giovanni,
Gesù non è ispirato solo dalla pietà verso la
Madre, che la sua morte sta per lasciare in
una dolorosa solitudine: mira molto più in
alto. Questo coinvolgimento della Madre
nell’atto supremo della redenzione fa
intendere che, ancora una volta, come nel
suo nascere, il Figlio non può fare a meno
di lei come donna e come madre. Dopo aver
fatto tutto per mostrare il suo amore
all’umanità lasciandosi inchiodare sulla
croce, egli non può manifestarle fino in
fondo la sua tenerezza se non attraverso la

264
femminilità materna della sua Mamma. È
qui, nella Donna ai piedi della Croce, che
Dio assume il volto di madre.
La funzione materna e mariana nella
salvezza, la si può capire unicamente alla
luce e nell’ambito di quella redenzione che
è opera soltanto di Cristo. Nondimeno, in
tale economia della salvezza, la Madre
detiene una funzione salvifica universale e
in-surrogabile, in virtù della sua concezione
materna, spirituale e corporea. Dio vuole
che questo aspetto materno sia presente
come elemento insostituibile nell’economia
della grazia. Col fatto di essere Madre di
Gesù e degli uomini, ella manifesta, della
stessa redenzione, qualcosa che nell’atto
redentore compiuto da Cristo non appare né
in quanto tale può apparire: la tenerezza
materna… Egli, essendo un uomo, non può
in quanto tale «manifestare» la generosità,
la dolcezza, l’ineffabilità che sono proprie
di una madre. Questa manifestazione è
possibile soltanto a una donna e la Trinità
ha scelto per questo Maria!
Maria si trova così sulla strada della

265
grazia che va da Cristo agli uomini; d’ora in
avanti ella trasmetterà la grazia attraverso le
sue mani materne, e offrirà l’amore divino
attraverso il suo amore materno. Perciò
merita l’affetto e la stima dovuti ad una
madre che dona ai figli quanto ha di più
prezioso. Il discepolo prediletto ha dato
l’esempio di questa accoglienza; ha preso
Maria in casa sua, ha vissuto in sua
compagnia. Questo è il simbolo
dell’intimità che deve esistere fra il
cristiano e la Madre di Gesù.

266
7. Cosa avvenne dopo…
Per descrivere la morte di Cristo,
Giovanni si limita a dire: «Chinato il capo,
spirò» (19, 30), ma gli altri evangelisti
hanno sottolineato meglio la risonanza
grandiosa della sua morte. Con parecchie
immagini, si suggerisce la ripercussione
dell’avvenimento sull’umanità. L’oscurità
che avvolge la terra esprime la
partecipazione dell’intero universo al
dramma della redenzione, il suo cordoglio
per la morte del Salvatore; il tremito della
terra simbolizza lo sconvolgimento radicale
suscitato dalla morte; il velo del tempio che
si squarcia da cima a fondo indica il crollo
del culto ebraico.
Molte tombe si sono aperte, i morti sono
risuscitati, sono entrati nella città santa e
sono apparsi a molte persone: è l’immagine
della grande liberazione concessa nell’aldilà
alle anime dei defunti. Fino alla morte di
Cristo queste anime restavano prigioniere
della morte, nel senso che non potevano

267
penetrare nel cielo. Nel momento in cui
Gesù entra nella morte, discende agli inferi,
cioè prende possesso del regno della morte,
libera le anime di coloro che hanno vissuto
bene sulla terra e le porta con sé nella
felicità eterna. Perciò l’ora della sua morte
ha segnato una nuova era per tutta
l’umanità che aveva preceduto la sua
venuta.
Un episodio attesta tale efficacia della
morte di Cristo: l’esclamazione del
centurione: «Veramente quest’uomo era
figlio di Dio!» (Mc 15, 39). La morte di
Gesù fa impressione su di un uomo che non
aveva avuto occasione di conoscerlo
quando era vivo. Come capo del drappello
dei soldati romani addetti all’esecuzione,
aveva ascoltato i capi ebrei prendersi gioco
di lui che si diceva Figlio di Dio. Come
ultima rivincita su tutte quelle beffe, egli
rende testimonianza che merita di portare il
titolo per il quale è stato condannato a
morte! Così, il centurione che aveva la
responsabilità dell’esecuzione è la prima
conquista della sua morte; con il suo atto di

268
fede inaugura le innumerevoli conversioni
che seguiranno: simbolizza l’adesione delle
nazioni diverse da quella ebrea al
messaggio del vangelo.
Anche sul popolo ebreo la morte di Gesù
produce un effetto sorprendente: la folla
cambia atteggiamento. Dopo aver richiesto
con violenza la sua morte, una volta passata
la fittizia eccitazione del suo
comportamento di fronte a Pilato, la folla
aveva cominciato a rendersi conto della
tragica conseguenza del grido
«crocifiggilo». Vedendolo morire, capiva
meglio che era innocente e si rammaricava
delle proprie azioni. L’ostilità lascia il posto
al pentimento. Nel cuore di quella folla da
lui tanto amata, Gesù comincia a penetrare,
grazie alla sua morte.
Vi è un contrasto tra la folla che se ne va e
gli amici che restano sul posto. Essi hanno
ripreso coraggio, il loro comportamento è
diventato più fermo. Fermandosi accanto
alla croce dopo la sua morte, invece di
andarsene come se il dramma fosse finito,
essi lasciano apparire la costanza del loro

269
affetto per Cristo! Pensiamo a Giuseppe di
Arimatea. Come membro del sinedrio, non
aveva osato esprimere la simpatia che
provava per Gesù, né intervenire
pubblicamente in suo favore nel corso del
processo; dopo la sua morte, trova l’audacia
che gli era mancata in precedenza e va da
Pilato per chiedergli il corpo di Gesù. Così
facendo prende apertamente posizione in
favore di Cristo, si compromette. Il disastro
della croce suscita un nuovo coraggio,
diffonde già, in maniera discreta, l’energia
che galvanizzerà i discepoli nel momento
della risurrezione.
Gli ebrei domandarono a Pilato di
spezzare le gambe ai condannati per
accelerarne la morte. Quest’azione è di
nuovo comandata da una preoccupazione
legale: il rispetto del sabato, che quella
volta coincideva con la festa di Pasqua. Il
loro scrupolo appare molto meschino,
tuttavia il Padre celeste si servirà di
quest’azione per compiere l’ultimo atto
carico di significato. A Gesù, morto per
primo in seguito a un supplizio più

270
doloroso, viene riservato un gesto inatteso.
Invece d’una orribile mutilazione, la rottura
delle gambe, un colpo di lancia gli trafigge
il costato, per iniziativa di un soldato che
vuole verificare la sua morte, ma più ancora
per un’ispirazione del Padre, che vuole dare
al mondo un crocifisso con il petto aperto.
Il colpo di lancia non è più una sofferenza
per Gesù, e questo mette maggiormente in
risalto il suo valore simbolico. Esso rivela
l’intero dramma della Passione.
Quell’amore che Cristo aveva continuato a
dare agli uomini nel corso della sua vita e
ancora di più nella sua morte, ora è inciso e
fissato per sempre nel costato trafitto come
nella immagine più vera e più commovente.
Nel sangue e nell’acqua che colano dalla
ferita, c’è la fecondità di quell’amore che
non ha voluto tenere per sé. È il suo Spirito
che sgorga dal suo cuore! In quell’acqua e
in quel sangue c’è il trionfo dell’amore!
Scendiamo in silenzio dal Calvario
portando nel cuore, come rivolta a ognuno
di noi personalmente, questa parola che
Gesù un giorno rivolse a sant’Angela da

271
Foligno: «Non ti ho amato per scherzo!».

272
VII
IL TERZO GIORNO È
RISUSCITATO,
SECONDO LE SCRITTURE, È
SALITO AL CIELO, SIEDE
ALLA DESTRA DEL PADRE

273
Discesa agli inferi, icona russa
contemporanea

274
1. «È risorto, è asceso al cielo!»
Occorre una grazia speciale per poter
parlare della risurrezione. Nessuno può
dire: «Gesù è il Signore», oppure: «Gesù è
risorto» (che è la stessa cosa), se non «nello
Spirito Santo» (cf 1 Cor 12, 3). Davanti alla
risurrezione viene meno ogni parola. Colui
che dall’annuncio della croce passa a quello
della risurrezione di Cristo, somiglia a uno
che dalla terraferma arriva, correndo, sulla
spiaggia del mare. Lì deve arrestarsi di
colpo. I suoi piedi non sono più buoni per
proseguire e camminare sulle acque. Deve
accontentarsi di spingere oltre solo lo
sguardo, rimanendo, con il corpo, sulla riva.
Dalla fede nella risurrezione dipende la
salvezza. Lo afferma solennemente
l’Apostolo: «Se con la bocca tu professi che
Gesù è il Signore e nel cuore credi che Dio
lo ha risuscitato dai morti, sei salvo» (Rm
10, 9). Sant’Agostino commenta:
«Attraverso la passione, il Signore è passato dalla
morte alla vita, aprendo la strada a noi, che
crediamo nella sua risurrezione, per passare anche

275
noi dalla morte alla vita […]. Non è gran cosa
credere che Gesù è morto; questo lo credono
anche i pagani, anche i giudei e i reprobi; tutti lo
credono. Ma la cosa veramente grande è credere
che egli è risorto. La fede dei cristiani è la
risurrezione di Cristo»110.
La morte di Cristo, per sé, non è una
testimonianza sufficiente della verità della
sua causa, ma solo del fatto che egli
credeva nella verità di essa. Ci sono stati
uomini che sono morti per una causa
sbagliata o addirittura iniqua, ritenendo a
torto, ma in buona fede, che fosse buona.
La morte di Cristo è la testimonianza
suprema della sua carità, questo sì (dal
momento che «non c’è amore più grande di
questo: dare la vita per la persona amata»,
cf Gv 15, 13), ma non della sua verità.
Questa è testimoniata adeguatamente solo
dalla risurrezione. Ecco perché, davanti
all’Areopago, Paolo dice che Dio ha dato a
tutti gli uomini «una prova sicura» su Gesù,
risuscitandolo da morte (At 17, 31); alla
lettera: Dio «fa fede» per Gesù, si fa
garante su di lui. La risurrezione è come un

276
sigillo divino che il Padre mette sulla vita e
la morte, le parole e i fatti di Gesù. È il suo
«amen», il suo «sì». Morendo, Gesù ha
detto «sì» al Padre obbedendo fino alla
morte; risuscitandolo, il Padre ha detto «sì»
al Figlio costituendolo Signore.
L’articolo del credo si conclude con
l’accenno all’ascensione: «È salito al cielo,
siede alla destra del Padre». Bisogna
comprendere bene la differenza radicale che
c’è fra una scomparsa e una partenza. Una
partenza causa un’assenza; una scomparsa
inaugura una presenza nascosta. Con
l’ascensione Gesù «scompare dalla vista»
(cf Lc 24, 31), «una nube lo sottrasse ai loro
occhi» (At 1, 9); ma non si assenta, tanto è
vero che dice ai discepoli: «Ecco io sono
con voi tutti i giorni fino alla fine del
mondo» (Mt 28, 20).
Egli non è partito, non ci ha lasciato
orfani, si è stabilito per sempre in ciascuno
dei credenti. Lui stesso ci ha detto dove egli
ha preso ormai la sua dimora: «Se qualcuno
mi ama, osserverà la mia parola e il Padre
mio lo amerà e noi verremo a lui e faremo

277
dimora presso di lui» (Gv 14, 23). Noi
siamo diventati la sua casa! Se l’ascensione
fosse la sua partenza, dovremmo
rattristarcene più che rallegrarcene. Il suo
entrare in cielo sarebbe per noi come una
specie di tumulazione, ma egli rimane con
noi tutti i giorni fino alla consumazione dei
secoli. Con l’ascensione, Gesù entra a far
parte dell’onnipotenza del Padre, è
pienamente glorificato, esaltato,
spiritualizzato nella sua umanità.
Dicendo: «è salito al cielo, siede alla
destra del Padre», non si deve immaginare
un trasferimento locale; è solo un’immagine
che esprime il suo accrescimento di potere e
di onore. Con la sua ascensione, Gesù ha
raggiunto quella efficacia infinita che gli
permette di riempire tutto della sua
presenza. La sua è un’ascensione in
potenza, in efficacia: è dunque
un’intensificazione della sua presenza, non
un’ascensione locale che lo allontanerebbe
da noi. Come il Verbo non ha lasciato il
Padre venendo a noi nell’incarnazione, così
non si è separato da noi ritornando al Padre.

278
Non ha ristabilito la distanza, ha soltanto, al
contrario, ristabilito e assicurato la
comunicazione.
Questa è la nostra gioia: Gesù è qui con
me e non mi lascerà mai più, perché la sua
presenza spiritualizzata ha raggiunto
l’intensità e l’estensione che la sua presenza
carnale non aveva potuto ottenere. Succede
come al momento della comunione nella
Messa: dapprima contempliamo l’Ostia
consacrata, la vediamo con i nostri occhi, la
adoriamo; poi, una volta ricevuta, scompare
dalla vista, ma per essere ancora più
intimamente con noi.

279
2. La risurrezione di Cristo, approccio
storico
Possiamo, o no, definire la risurrezione un
evento storico, nel senso più comune del
termine, cioè di «realmente accaduto», nel
senso, cioè, per cui storico si oppone a non
storico, a mitico, o a leggendario? Per
esprimerci nei termini del dibattito recente:
Gesù è risorto solo nel kerigma e nella
liturgia della Chiesa, o invece è risuscitato
anche nella realtà e nella storia? È risorto
perché la Chiesa lo crede e lo proclama tale,
o è risorto e per questo la Chiesa lo
proclama tale? Ancora: è risorto lui, la
persona di Gesù, o è risorta solo la sua
causa, nel senso puramente metaforico, in
cui risorgere significa il sopravvivere, o il
riemergere vittorioso di un’idea, dopo la
morte di chi l’ha proposta?
La risposta più autorevole è già contenuta
nel Vangelo, messa lì in anticipo dallo
Spirito Santo: «È risorto in verità», dicono
gli Apostoli, accogliendo i due discepoli di

280
Emmaus, prima ancora che questi possano
raccontare la loro esperienza (cf Lc 24, 34).
È risorto dunque «nella realtà», «davvero»
(ontos). I cristiani orientali hanno fatto di
questa frase il saluto pasquale: «Il Signore è
risorto», a cui il salutato risponde: «È
risorto in verità!». Vediamo dunque in che
senso si dà un approccio anche storico alla
risurrezione di Cristo, «perché possiamo
renderci conto della solidità degli
insegnamenti che abbiamo ricevuto» (cf Lc
1, 4). Con la passione e la morte di Gesù,
quella luce che si era andata accendendo
nell’anima dei discepoli non regge alla
prova della sua tragica fine. Il buio più
totale ricopre tutto. Si era andati vicini a
riconoscerlo per l’inviato di Dio, per uno
che era da più di tutti i profeti. Adesso non
si sa più che cosa pensare. Lo stato d’animo
dei discepoli ci è descritto da Luca
nell’episodio dei due discepoli di Emmaus:
«Noi speravamo che fosse lui […] ma
ormai sono passati tre giorni» (Lc 24, 21).
Siamo a un punto morto della fede. Il caso
Gesù è considerato chiuso.

281
Adesso – sempre in veste di storici –
portiamoci a qualche anno dopo. Che
incontriamo? Un gruppo di uomini, lo
stesso che era stato accanto a Gesù, il quale
va ripetendo, a voce e per iscritto, che Gesù
di Nazaret è il Messia, il Signore, il Figlio
di Dio; che egli è vivo e che verrà a
giudicare il mondo. Il caso di Gesù non solo
è riaperto, ma è portato in breve tempo a
una dimensione incredibilmente profonda e
universale. Quell’uomo interessa non solo il
popolo ebraico, ma tutti gli uomini di tutti i
tempi. «La pietra scartata dai costruttori –
dice san Pietro – è diventata testata
d’angolo» (1 Pt 2, 4), cioè principio di una
nuova umanità. D’ora in poi, non c’è alcun
altro nome dato agli uomini sotto il cielo,
nel quale è possibile essere salvati, se non
quello di Gesù di Nazaret (cf At 4, 12).
Che cosa è avvenuto? Che cosa ha
determinato un cambiamento tale per cui gli
stessi uomini che prima avevano rinnegato
Gesù, o erano fuggiti, adesso dicono in
pubblico queste cose, fondano Chiese in
nome di Gesù e si lasciano tranquillamente

282
imprigionare, flagellare, uccidere per lui?
Essi ci danno, in coro, questa risposta: «È
risorto!». L’ultimo atto che può compiere lo
storico, prima di cedere la parola alla fede,
è verificare quella risposta: andare anche
lui, come le pie donne, al sepolcro, per
vedere come stanno le cose.
La risurrezione è un evento storico in un
senso particolarissimo. Essa è al limite della
storia, come quel filo che divide il mare
dalla terra ferma. Vi è dentro e fuori nello
stesso tempo. Con essa, la storia si apre a
ciò che è al di là della storia,
all’escatologia. È quindi, in certo senso, la
rottura della storia e il suo superamento,
così come la creazione ne è l’inizio. Questo
fa sì che la risurrezione sia un evento in se
stesso non testimoniabile e non attingibile
con le nostre categorie mentali, che sono
tutte legate all’esperienza del tempo e dello
spazio. E difatti nessuno assiste all’istante
in cui Gesù risorge. Nessuno può dire di
aver visto Gesù risorgere, ma solo di averlo
visto risorto.
La risurrezione dunque si conosce a

283
posteriori, in seguito. Esattamente come
l’incarnazione nel seno di Maria. È la
presenza fisica del Verbo in Maria che
dimostra il fatto che si è incarnato; così è la
presenza spirituale di Cristo nella comunità,
resa visibile dalle apparizioni, a dimostrare
che è risorto. Questo spiega il fatto che
nessuno storico profano fa parola della
risurrezione. Tacito, che pure ricorda la
morte di un certo Cristo al tempo di Ponzio
Pilato111, tace della risurrezione.
Quell’evento non aveva rilevanza e senso se
non per chi ne sperimentava le
conseguenze, in seno alla comunità.
In che senso allora parliamo di un
approccio storico alla risurrezione? Quello
che si offre alla considerazione dello storico
e gli permette di parlare della risurrezione,
sono due fatti: primo, l’improvvisa e
inspiegabile fede dei discepoli, una fede
così tenace da resistere perfino alla prova
del martirio; secondo, la spiegazione che di
tale fede gli interessati, cioè i discepoli, ci
hanno lasciato. Nel momento decisivo,

284
quando Gesù fu catturato e giustiziato, i
discepoli non nutrivano alcuna attesa di una
risurrezione. Essi fuggirono e dettero per
finito il caso di Gesù. Dovette quindi
intervenire qualcosa che in poco tempo non
solo provocò il cambiamento radicale del
loro stato d’animo, ma li portò anche a
un’attività del tutto nuova e alla fondazione
della Chiesa. Questo «qualcosa» è il nucleo
storico della fede di Pasqua.
Se si nega il carattere storico, cioè
oggettivo e non solo soggettivo, della
risurrezione, la nascita della Chiesa e della
fede diventa un mistero più inspiegabile
della risurrezione stessa. È stato
giustamente notato: «L’idea che
l’imponente edificio della storia del
cristianesimo sia come un’enorme piramide
posta in bilico su un fatto insignificante è
certamente meno credibile
dell’affermazione che l’intero evento – e
cioè il dato di fatto più il significato a esso
inerente – abbia realmente occupato un
posto nella storia paragonabile a quello che

285
gli attribuisce il Nuovo Testamento»112.
Qual è allora il punto di approdo della
ricerca storica a proposito della
risurrezione? Possiamo coglierlo nelle
parole dei discepoli di Emmaus: alcuni
discepoli il mattino di Pasqua sono andati al
sepolcro di Gesù e hanno trovato che le
cose stavano come avevano riferito le
donne, andate prima di loro, «ma lui non
l’hanno visto» (cf Lc 24, 24). Anche la
storia si reca al sepolcro di Gesù e deve
constatare che le cose stanno così come i
testimoni hanno detto. Ma lui, il Risorto,
non lo vede. Non basta constatare
storicamente, bisogna vedere il Risorto, e
questo non lo può dare la storia, ma solo la
fede.

286
3. La risurrezione, approccio spirituale
Siamo così giunti alla riva del mare, al
punto oltre il quale si può procedere solo
con lo «sguardo» e non con i piedi, con la
fede e la pia meditazione delle Scritture,
non con la dimostrazione storica. Ed è
quello che ci proponiamo di fare.
Riflettiamo anzitutto su due caratteristiche
della risurrezione di Cristo: la sua umiltà e
il suo messaggio circa la gioia.
Anzitutto l’umiltà. La vittoria della
risurrezione avviene nel mistero, senza
testimoni, mentre la morte era stata vista da
una grande folla: da risorto appare soltanto
a pochi fedeli, a gruppi privilegiati. Il
carattere misterioso della risurrezione
indica che non bisogna aspettarsi un trionfo
esteriore, visibile come una gloria terrena,
dopo aver sofferto: il trionfo è dato da Dio
nell’invisibile ed è di ordine superiore!
La risurrezione è vittoria dell’amore,
perciò deve essere particolarmente discreta.
Essa si rivela attraverso le apparizioni, in

287
modo sufficiente da fornire un fondamento
solido alla fede. Ma non è una rivincita che
umilia gli avversari, Gesù non appare in
mezzo a loro per dimostrare che hanno
sbagliato, e per prendersi gioco della loro
ira impotente. Ogni vendetta sarebbe
incompatibile con l’amore che egli ha
voluto testimoniare agli uomini con la sua
passione.
Gesù si comporta umilmente nella gloria
della risurrezione come nell’annientamento
del Calvario. Questa è la natura del trionfo
suscitato dalla sofferenza: trionfo
soprannaturale in quanto trionfo di un Dio
e, di conseguenza, trionfo che può restare
nascosto sulla terra; trionfo nella dolcezza e
nell’umiltà perché trionfo di amore!
Poi, la gioia. Gesù aveva annunciato
francamente ai suoi discepoli la prova che li
attendeva, partecipando alla sua passione,
ma aveva anche sottolineato il contrasto fra
un dolore passeggero e una gioia destinata a
durare. La risurrezione di Cristo si
manifesta come il necessario risultato della
sofferenza accettata e offerta: questa

288
sofferenza diventa trionfo glorioso. Tale
trionfo non può essere impedito né
compromesso dagli avversari. I capi del
popolo sono riusciti a farlo soffrire e
morire, ma il loro potere finisce lì; essi non
possono impedire la sua vittoria. Le loro
precauzioni si riveleranno ridicole di fronte
alla forza sua sovrana, anzi dimostreranno
la sua irresistibile potenza. Il trionfo di
Gesù è inevitabile perché è voluto dal
Padre! La sua passione era in vista della
risurrezione. Anche la sofferenza degli
uomini è in vista di un trionfo più grande!
La volontà divina non impone mai a una
esistenza umana il dolore per se stesso: la
sofferenza non può essere il fine, nel piano
di Dio è solo un passaggio. Essa umilia e
impicciolisce l’essere umano soltanto per
esaltarlo e ingrandirlo…
Il trionfo della risurrezione è ineluttabile
perché è il primo scopo della volontà del
Padre e anche perché è implicito nella
passione del Figlio. In essa abbiamo visto le
manifestazioni della sovranità di Gesù
durante il processo e il supplizio; la

289
dimostrazione della sua regalità è legata alla
croce poiché deriva in modo particolare
dalla sua sofferenza. Lì è stato esposto agli
occhi di tutti con il titolo di re! L’immagine
del Crocifisso sollevata dal suolo sulla
collina del Calvario simbolizza
un’esaltazione in gloria. Il dolore, ricevuto
con amore, apre l’anima all’energia divina e
contribuisce a riempirla di forza celeste.
La risurrezione porta ai discepoli la gioia
definitiva che nessuno potrà togliere loro.
«I discepoli gioirono al vedere il Signore»
(Gv 20, 20). Quando Gesù appare, quella
stessa sera, in mezzo ai suoi discepoli, la
gioia è così grande che alcuni rifiutano di
credervi. Il Risorto porta una gioia così
stupefacente che non tutti riescono ad
accoglierla immediatamente. Nel racconto
delle apparizioni si deve cogliere
l’intenzione di Gesù di andare a trasformare
in gioia il dolore di coloro che ne stanno
ancora piangendo la morte. La sua presenza
opera questa trasformazione tanto nel cuore
di Maria Maddalena e delle altre donne che
in quello dei discepoli. Nelle intenzioni di

290
Gesù, le apparizioni non hanno tanto uno
scopo apologetico (dimostrare la verità
della sua risurrezione), quanto quello,
dettato dall’amore, di far partecipi i
discepoli della sua gioia.
Nella misura in cui ciascuno gli è stato
fedele durante la Passione, egli testimonia
la sua più viva sollecitudine nel donare la
sua gioia di risuscitato. Così, le donne
hanno il privilegio di ricevere per prime la
notizia della sua risurrezione, di rivederlo e
di entrare nella gioia del suo trionfo, perché
hanno manifestato più coraggiosamente dei
discepoli il loro affetto per lui. La gioia è il
risultato della generosità nella sofferenza!
È il messaggio più consolante che viene
dalla risurrezione di Cristo. In questa vita
piacere e dolore si seguono l’un l’altro con
la stessa regolarità con cui, al sollevarsi di
un’onda, nel mare segue un avvallamento e
un vuoto che risucchia indietro il naufrago
che tenta di raggiungere la riva. Piacere e
dolore sono contenuti l’uno nell’altro,
inestricabilmente. L’uomo cerca
disperatamente di staccare questi due

291
fratelli siamesi, di isolare il piacere dal
dolore. A volte si illude di esserci riuscito e
nell’ebbrezza del godimento dimentica tutto
e celebra la sua vittoria. Ma per poco
tempo. Il dolore è lì. Non un dolore diverso,
indipendente, o dipendente da altra causa,
ma proprio il dolore derivante dal piacere.
È lo stesso piacere disordinato che si
trasforma in sofferenza. E questo, o
improvvisamente, tragicamente, o un po’
alla volta, a causa della sua incapacità di
durare e della morte. È un fatto che l’uomo
ha constatato per conto suo e rappresentato
in mille modi nella sua arte e nella sua
letteratura. «Un non so che d’amaro sorge
dall’intimo stesso d’ogni piacere e ci
angoscia anche in mezzo alle delizie»113. I
«fiori del male» – ci assicura il loro stesso
cantore, il poeta Baudelaire – non hanno
finito di spuntare che già mandano odore di
decomposizione e di morte. L’esempio più
lampante è oggi la droga. Essa dà un breve
istante di benessere e di esaltazione, ma
lascia poi depressi e finisce per distruggere

292
la persona. Lo stesso l’abuso del sesso.
Il mistero pasquale di Cristo, con la sua
successione di morte e risurrezione, ha
finalmente spezzato questa catena. «La
morte del Signore – ha scritto san Massimo
il Confessore –, a differenza di quella degli
altri uomini, non era un debito pagato per il
piacere, ma piuttosto qualcosa che era
gettato contro il piacere stesso. E così,
attraverso questa morte, cambiò il destino
meritato dall’uomo»114. Al posto di un
piacere che porta al dolore, egli propone un
dolore che porta alla gioia, ogni gioia. Non
solo il piacere puramente spirituale, ma
ogni piacere onesto, anche quello che
l’uomo e la donna sperimentano nel dono
reciproco, nel generare la vita e nel vedere
crescere i propri figli, il piacere dell’arte e
della creatività, della bellezza,
dell’amicizia, del lavoro felicemente
portato a termine. E non si tratta di una
semplice inversione delle parti. La gioia,
non il dolore, ha in tal modo l’ultima parola
ed è una gioia che durerà eternamente e

293
comincia già da questa vita. Chi è più felice
dei santi in questo mondo?
Risorgendo da morte, Gesù ha inaugurato
dunque un nuovo genere di gioia, una
nuova qualità di piacere: quello che non
precede il dolore, come sua causa, ma lo
segue come suo frutto; quello che trova
nella croce la sua sorgente e la speranza di
non finire neppure con la morte, di essere
eterno. Quando si parla di sofferenza che
porta alla gioia, non si deve pensare a
chissà quali sacrifici da imporsi. Ad alcune
anime Dio può chiedere anche questi (e
allora dà non solo la grazia, ma anche la
gioia di viverli con lui), ma normalmente la
rinuncia è quella richiesta per rispettare il
senso delle cose (per esempio della
sessualità), per essere fedeli al proprio stato,
per rispettare la libertà altrui.
Anche il modo di calcolare il tempo
riflette questa rivoluzione circa la gioia.
L’unità di tempo, il giorno, nel modo
umano di calcolare, è formato da un giorno
e una notte; nel modo biblico esso è
formato da una notte e da un giorno. La

294
successione in un caso è giorno-notte,
nell’altro è notte-giorno. «E fu sera e fu
mattino: primo giorno», così recita il
racconto della creazione (Gn 1, 5). Cosa
significa questo? Che una vita senza Dio e
senza la fede è un giorno che finisce in una
notte, che può essere anche una notte
eterna; una vita con la fede è una notte (e
per certi santi una notte oscura), ma finisce
in un giorno e in un giorno senza tramonto.

295
4. La risurrezione, mistero «per noi»
Sant’Agostino ha scritto:
«Tutto quello che è accaduto nella croce di Cristo,
nella sepoltura, nella risurrezione al terzo giorno,
nell’ascensione al cielo, nella sessione alla destra
del Padre, è accaduto in modo tale che in queste
cose venisse raffigurata misticamente, non solo
con le parole ma anche con i fatti, la vita cristiana
che si svolge quaggiù»115.
Il Santo distingue due modi di celebrare
un avvenimento della storia della salvezza:
a modo di mistero e a modo di semplice
anniversario. Nella celebrazione a modo di
anniversario, non si richiede altro – dice –
se non di «indicare con una solennità
religiosa il giorno dell’anno in cui ricorre il
ricordo dell’avvenimento stesso»; nella
celebrazione a modo di mistero («in
sacramento»), «non solo si commemora un
avvenimento, ma lo si fa pure in modo che
si capisca il suo significato e lo si accolga
santamente»116. Applicando questo
principio alla risurrezione di Cristo,
vediamo ora cosa essa significa «per noi».

296
Non più solo come modello di umiltà e
come via alla gioia, ma in rapporto al nostro
stesso destino.
Il significato «misterico» della
risurrezione è espresso da san Paolo così:
«Se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato
Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha
risuscitato Cristo dai morti darà la vita
anche ai vostri corpi mortali per mezzo del
suo Spirito che abita in voi» (Rm 8, 11); e
in un altro passo: «Colui che ha risuscitato
il Signore Gesù risusciterà anche noi e ci
porrà accanto a lui» (2 Cor 4, 14). In altre
parole: se Cristo è risorto anche noi
risorgeremo.
Se questo annuncio non ci fa gridare e
saltare di gioia è perché noi pensiamo alla
nostra risurrezione finale alla fine dei
tempi: una cosa lontana, che non ci tocca da
vicino. Bisogna allora sapere che ci sono
due risurrezioni. C’è una risurrezione del
corpo che avverrà nell’ultimo giorno e c’è
una risurrezione del cuore che deve
avvenire ogni giorno. «Appaiano anche ora
nella città santa i segni della futura

297
risurrezione – scrive san Leone Magno – e
ciò che deve compiersi nei corpi, si compia
ora nei cuori»117.
Si può essere infatti morti anche nel
cuore. Anzitutto, se in esso regna il peccato.
Ma, in un senso diverso, si può essere morti
e chiusi come in un sepolcro anche quando
nel cuore regna lo sconforto, la tristezza, il
rancore. Soprattutto se in esso muore la
speranza. È a dei viventi e a dei credenti
che è rivolto quel grido della Lettera agli
Efesini: «Svègliati, o tu che dormi, destati
dai morti e Cristo ti illuminerà» (Ef 5, 14).
Il discepolo di Gesù non è invitato
soltanto a risorgere lui personalmente ogni
giorno da morte; Cristo gli chiede
addirittura di risuscitare i morti: «Guarite
gli infermi, risuscitate i morti», dice Gesù
inviando per il mondo i suoi discepoli (Mt
10, 8). Se si trattasse i risuscitare solo i
morti del corpo, questo invito sarebbe
rivolto a ben pochi, ma esso si riferisce
anche ai morti nel cuore, ai morti
nell’anima. Da questa morte si risorge, e si

298
fa risorgere, soprattutto con la speranza. È
significativo che la Prima Lettera di Pietro
metta in rapporto la risurrezione di Cristo
proprio con questa virtù: «Dio Padre ci ha
rigenerati mediante la risurrezione di Gesù
Cristo dai morti, per una speranza viva» (1
Pt 1, 3).
È stato notato che la parola «speranza» è
assente dalla predicazione di Gesù. I
Vangeli riferiscono molti detti di lui sulla
fede e sulla carità, ma nessuno sulla
speranza. In compenso, dopo la Pasqua,
vediamo letteralmente esplodere, nella
predicazione degli apostoli, l’idea e il
sentimento della speranza che prende posto,
accanto alla fede e alla carità, come una
delle tre componenti costitutive della nuova
esistenza cristiana (cf 1 Cor 13, 13). Dio
stesso è definito «il Dio della speranza»
(Rm 15, 13). Si capisce anche il perché di
questo fatto: Cristo doveva prima morire e
risorgere per dissigillare la fonte stessa
della speranza, creando l’oggetto della
speranza teologale che è una vita con Dio
anche oltre la morte.

299
Dobbiamo aprire il cuore alla speranza
viva che viene dalla risurrezione di Cristo e
lasciarcene investire come da un soffio
rinnovatore. Come abbiamo visto, la Prima
Lettera di Pietro parla, a questo proposito,
di una rigenerazione, di un sentirsi
«rinascere». Così avvenne, di fatto, per gli
apostoli. Essi sperimentarono la forza e la
dolcezza della speranza. Fu la speranza allo
stato nascente che li fece tornare insieme e
gridare di gioia l’uno all’altro: «È risorto, è
vivo, è apparso, lo abbiamo riconosciuto!».
Fu la speranza che fece invertire il
cammino ai discepoli di Emmaus sconsolati
e li riportò a Gerusalemme.
La Chiesa nasce da un moto di speranza e
questo moto è necessario ridestare oggi, se
vogliamo imprimere alla fede un nuovo
slancio e renderla capace di conquistare di
nuovo il mondo. Nulla si fa senza la
speranza. Un poeta credente ha scritto un
poema sulla speranza teologale. Dice che le
tre virtù teologali sono come tre sorelle: due
di esse sono grandi e una è, invece, una
piccola bambina. Avanzano insieme

300
tenendosi per mano, con la bambina
speranza al centro. A vederle, sembra che
siano le grandi a trascinare la bambina,
invece è tutto il contrario: è la bambina che
trascina le due grandi. È la speranza che
trascina la fede e la carità. Senza la
speranza tutto si fermerebbe118.
Lo vediamo anche nella vita di ogni
giorno. Quando una persona arriva al punto
di non sperare veramente più nulla, di
alzarsi al mattino e non attendersi
assolutamente niente, è come morta. Spesso
si dà, davvero, la morte, o si lascia morire
lentamente. Come a chi sta per svenire si dà
in fretta qualcosa di forte da respirare
perché si riprenda, così a chi è sul punto di
lasciarsi andare e abbandonare la lotta,
bisogna offrire un motivo per sperare,
mostrargli che c’è per lui una possibilità, e
allora egli si rianima e riprende lena.
Ogni volta che rinasce un germoglio di
speranza nel cuore di un essere umano, è
come un miracolo: tutto diventa diverso,
anche se nulla è cambiato. Anche una

301
comunità, una parrocchia, un ordine
religioso si riprendono e tornano ad attirare
nuove vocazioni se rifiorisce in essi la
speranza. Non c’è propaganda che possa
fare quello che riesce a fare la speranza. È
la speranza che muove i giovani. Anche in
seno alla famiglia avviene così: vi si sta, o
vi si rientra, volentieri, se in essa si trova la
speranza.
Donare speranza è la cosa più bella che si
possa fare. Come i fedeli, uscendo di
Chiesa, si passavano, una volta, di mano in
mano, l’acqua santa, così i cristiani devono
passarsi di mano in mano, di padre in figlio,
la divina speranza. Come, nella notte di
Pasqua, i fedeli accendono l’uno dall’altro
la propria candela, a partire dal sacerdote
che l’accende dal cero pasquale, così
dobbiamo passarci l’un l’altro la speranza
teologale perché non venga mai meno nel
cuore del popolo cristiano.
Un esempio di risurrezione mediante la
speranza è la visione di Ezechiele delle ossa
inaridite (cf Ez 37, 1 ss.). Lì non si tratta di
morti del corpo, ma di morti dell’anima;

302
sono il popolo d’Israele in esilio che ha
perduto la speranza: «Figlio dell’uomo,
queste ossa sono tutta la casa d’Israele.
Ecco essi vanno dicendo: “Le nostra ossa
sono inaridite, la nostra speranza è
svanita”» (Ez 37, 11). È a dei vivi dunque,
non a dei morti, che è rivolta la parola di
Dio che segue:
«Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire
dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco
nella terra d’Israele. Riconoscerete che io sono il
Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò
uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò
entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò
riposare nella vostra terra. Saprete che io sono il
Signore. L’ho detto e lo farò» (Ez 37, 12-14).
Dopo che Cristo è risorto dal sepolcro
come «primizia dei risorti», questa non è
più soltanto la promessa di un ritorno
materiale, rivolto a un popolo singolo, ma
una possibilità reale offerta a tutti. Dopo
che il profeta Ezechiele ebbe profetato, si
legge che «lo Spirito entrò in essi e
ritornarono in vita e si alzarono in piedi;
erano un esercito grande, sterminato» (Ez
37, 10). Questo si dovrebbe poter dire

303
anche del popolo cristiano e io credo che
qualcosa, in questo senso, sta avvenendo
anche ai nostri giorni.
Gli uomini hanno bisogno di speranza per
vivere, come dell’ossigeno per respirare. Si
dice che finché c’è vita c’è speranza; ma è
vero anche il contrario: che finché c’è
speranza c’è vita. La speranza contiene un
profondo mistero. Lo si scopre
confrontandola con la fede. La fede
riguarda Dio e le cose operate da Dio, le
quali sono indipendenti da noi. Che Dio
esiste, è oggetto di fede; che Gesù Cristo è
risorto da morte, è oggetto di fede; che ci
sia una vita eterna, è oggetto di fede. Lo
crediamo o meno, tutto ciò non cessa di
essere vero e di esistere. Dio esiste anche se
io non credo che egli esista. La fede crede
dunque quello che è già. Ma l’oggetto della
speranza non esiste, se io non lo spero.
Sono io che lo faccio esistere sperando. La
speranza riguarda infatti cose che Dio non
farà senza la nostra libertà. La speranza è
costitutiva della nostra salvezza. La frase di
san Paolo: «In speranza noi siamo salvati»

304
(Rm 8, 24), ha un senso ancora più
profondo di quanto appaia a prima vista.
Ma bisogna fare attenzione a una cosa. La
speranza non è solo una bella e poetica
disposizione interiore, difficile quanto si
vuole, ma che lascia, per il resto, inoperosi
e senza compiti concreti, ed è perciò, alla
fine, sterile. Al contrario, sperare significa
proprio scoprire che c’è ancora qualcosa
che si può fare, un compito da assolvere e
che non si è, perciò, lasciati in balìa del
vuoto e di una paralizzante inattività.
Sperare in Dio nelle difficoltà significa
riconoscere che se la prova, nonostante
tutto, continua, la ragione non è in Dio –
che è amore infinito, sempre –, ma in noi; e
se la ragione è in noi, vuol dire che
possiamo fare ancora qualcosa per
cambiare, che c’è un compito da svolgere
ancora, altrimenti sì che si dovrebbe
disperare. Scrive Kierkegaard:
«Fin quando c’è il compito, fin quando c’è
qualche proposta, l’uomo non è abbandonato
senza speranza […]. Perciò, anche se mi capitasse
la sorte più dura che sia mai capitata a un uomo e

305
se non ci fosse assolutamente nulla da fare, c’è
però la gioia che c’è un compito: il compito di
sopportare con pazienza. E se fosse necessaria la
pazienza oltre ogni limite come mai è stato prima
richiesto a nessun uomo, c’è però la gioia che c’è
un compito; il compito di non perdere la pazienza,
neppure quando si è agli estremi»119.
Quand’anche non ci fosse, dunque, nulla
più da fare da parte nostra, per cambiare
una certa situazione difficile, resterebbe pur
sempre un grande compito da assolvere,
tale da tenerci abbastanza impegnati e
tenere lontana la disperazione: quello di
sopportare con pazienza fino alla fine.
Nella Bibbia assistiamo a dei veri e propri
moti o sussulti di speranza. Uno di essi si
trova nella terza Lamentazione, che è il
canto dell’anima nella prova più desolante:
«Io – dice – sono la persona che ha provato
la miseria e la pena. Dio mi ha fatto
camminare nelle tenebre, non nella luce
[…]. Ho detto: “È sparita la mia gloria, la
speranza che mi veniva dal Signore”». Ma
ecco il sussulto di speranza che capovolge
tutto. A un certo punto, l’orante dice a se

306
stesso: «Ma le misericordie del Signore non
sono finite; dunque in lui voglio sperare! Il
Signore non rigetta mai, ma se affligge avrà
anche pietà. Forse c’è ancora speranza» (cf
Lam 3, 1-29). Dal momento in cui dice a se
stesso questo, la Lamentazione cambia tono
e diventa una serena attesa della
restaurazione di Gerusalemme.
La Lettera agli Ebrei paragona la speranza
a un’àncora: «In essa – dice – abbiamo
come un’àncora della nostra vita sicura e
salda» (Eb 6, 18-19). Sicura e salda perché
gettata non in terra ma in cielo, non nel
tempo ma nell’eternità, «oltre il velo del
santuario». Questa immagine della speranza
è divenuta classica. Ma abbiamo anche
un’altra immagine della speranza in certo
senso opposta: la vela. Se l’àncora è ciò che
dà alla barca la sicurezza e la tiene ferma
tra l’ondeggiare del mare, la vela è invece
ciò che la fa camminare, e avanzare nel
mare.
Entrambe queste cose fa la speranza con
la barchetta della nostra anima e con quella
grande della Chiesa. Essa è davvero come

307
una vela che raccoglie il vento dello Spirito
e senza rumore lo trasforma in forza
motrice che porta la barca, a seconda dei
casi, al largo o a riva. Come la vela nelle
mani di un buon marinaio riesce a utilizzare
ogni vento, da qualsiasi direzione tiri,
favorevole o meno favorevole, per far
avanzare la barca nella direzione voluta,
così fa la speranza.

308
5. Maria nella risurrezione, icona della
speranza
Della «bambina Speranza» abbiamo una
icona vivente nella Pasqua di Cristo ed è la
Madre di Gesù. Come all’annunciazione
Maria aveva rappresentato da sé sola tutta
la Chiesa per ricevere Cristo nella fede,
così, alla sua morte, rappresentò da sola
tutta la Chiesa, per accoglierlo nella fede.
Solo la lampada della sua fede non si
spense un istante. Durante la passione e
morte del Figlio, lei ha sofferto, ma
conservando intatta la sua fede, la sua
speranza, la sua fiducia totale nel Padre,
nella misteriosa efficacia di quanto stava
accadendo.
Ai piedi della croce, nel dolore immenso
che tutta la penetrava, era animata da una
fede e da una speranza intense e capì nel
profondo del suo essere che nulla era
veramente cambiato. Conservava, meditava,
confrontava avvenimenti e profezie e vi
attingeva incessantemente nuova luce e

309
nuova forza. Più ancora di Abramo, ella «ha
creduto sperando contro ogni speranza»
(Rm 4, 18). Ha creduto che Dio ha sempre
una possibilità in più, anche oltre la morte.
Gesù risorge il terzo giorno dalla tomba,
non per consolare la Madre (non ce n’era
bisogno perché essa era già tutta gioia e
fierezza), ma per incamminare gli altri là
dove sua Madre li attendeva in silenzio.
Quando coloro ai quali Gesù appare sono
accorsi da lei per annunciarle questa buona
novella, hanno capito subito che essa già la
sapeva. Ognuno di loro capì che cosa fosse
stata la propria fede paragonandola alla sua.
A partire da questo momento, si è
cominciato a capire il posto di Maria nella
Chiesa. Tutti, a poco a poco, sono venuti a
stringersi intorno a lei; si sono ritrovati in
lei; si sentivano capiti. Durante i dieci
giorni fra l’Ascensione e la Pentecoste non
si sono più allontanati da lei, tanto che la
ritroviamo insieme con loro nel cenacolo
nell’attesa dello Spirito Santo.
È vero che il Vangelo non parla di
apparizioni alla Madre, ma forse il motivo è

310
che lei non ne aveva bisogno. Non aveva
bisogno di rafforzare la sua fede e
nemmeno aveva il compito di testimoniarla
ad altri. Le apparizioni del Risorto agli
apostoli appaiono motivate dal fatto che
essi dovevano essere testimoni della sua
risurrezione reale e corporea nelle rispettive
comunità. Sono a volte anche una
concessione fatta alla incapacità delle
persone di rapportarsi subito a lui nel suo
nuovo stato di vivente «nello Spirito».
Questo, forse, è il senso del «non mi
toccare» (cf Gv 20, 17) detto alla
Maddalena: «Ora non è più necessario
toccarmi fisicamente per entrare in contatto
con me. Devi abituarti a essere con me nel
mio nuovo modo di essere, cioè con la fede
e l’amore».
In questo senso, Gesù non aveva bisogno
di «apparire» alla Madre per poi subito
scomparire, come fa con gli altri. Egli era
sempre con lei, in una comunione che non
trova paragoni umani. Come erano stati
uniti sotto la croce nel dolore, così lo sono
ora nella gioia della risurrezione. Se ci fu

311
un luogo al mondo in cui l’anima di Gesù
poté riposare prima di risalire al Padre fu
certo la comunione con la sua Mamma.
La Chiesa, a Pasqua, ama identificarsi con
una delle donne che, trafelate, recarono a
Maria il lieto annuncio della risurrezione
del Figlio, perciò prega ingenuamente
(come se lei non lo sapesse già!) così:
Regina caeli, Regina del cielo,
laetare, rallegrati,
alleluia alleluia
quia quem Cristo, che hai portato
meruisti portare, nel grembo,
alleluia alleluia
resurrexit, sicut è risorto, come aveva
dixit, promesso,
alleluia alleluia
Ora pro nobis Prega il Signore per
Deum, noi,
alleluia. alleluia.

312
Note
110 Agostino, Commento ai Salmi, 120, 6 (CCL 40,
p. 1791).
111 Tacito, Annales, 25.
112 C.H. Dodd, Storia ed Evangelo, Paideia, Brescia
1976, p. 87.
113 Lucrezio, De rerum natura, IV, 1129 s.
114 Massimo il Confessore, Capitoli vari, IV cent.
39 (in Filocalia, II, Gribaudi, Torino 1983, p. 249).
115 Agostino, Enchiridion, 53 (PL 40, 257).
116 Agostino, Epistula 55, 1, 2 (CSEL 34, 1, p.
170).
117 Leone Magno, Sermo 66, 3 (PL 54, 366).
118 Cf Ch. Péguy, Il portico del mistero della
seconda virtù, Gallimard, Paris 1975, pp. 538 ss. (tr.
it. Mondadori, Milano 1993).
119 S. Kierkegaard, Il vangelo delle sofferenze, IV
(tr. it. in Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze
1972, pp. 863-866).

313
VIII
E DI NUOVO VERRÀ NELLA
GLORIA
PER GIUDICARE I VIVI E I
MORTI
E IL SUO REGNO NON AVRÀ
FINE

314
Giotto (1267-1337), Cristo giudice

315
L’articolo che proclama il ritorno di
Cristo conclude il nucleo centrale del credo
che ha per oggetto il mistero di Cristo. Esso
è in continuità con l’articolo sulla morte e la
risurrezione, come proclama la liturgia in
una delle acclamazioni che si cantano dopo
la consacrazione: «Annunciamo la tua
morte, Signore, proclamiamo la tua
risurrezione, nell’attesa della tua venuta».
La prima parte del nostro articolo è
presente nel credo fin dalle formulazioni
più antiche, compreso il cosiddetto simbolo
apostolico, sia nelle recensioni latine che in
quelle greche. La frase «e il suo regno non
avrà fine», tratta da Luca 1, 33, compare,
invece, solo nel IV secolo e fu aggiunta per
combattere la tesi giudicata eretica del
vescovo Marcello d’Ancira (morto dopo il
374). Secondo costui, alla fine del mondo il
Figlio viene come riassorbito nella sostanza
del Padre, dal quale era emerso per
dilatazione, come realtà distinta, in vista
della creazione e della redenzione del
mondo; alla consumazione dei secoli, egli

316
cessa di essere persona distinta e con lui il
suo regno. Questa tesi fu vista come una
negazione del dogma della Trinità delle
persone divine e come tale rigettata, specie
in Oriente.
Il corpo principale dell’articolo ci
presenta due eventi da credere, distinti,
anche se simultanei: il ritorno di Cristo,
cioè la parusia, e il giudizio universale.
Meditiamo successivamente sull’uno e
l’altro evento, per poi trarre da queste verità
future qualche spunto meditativo per la vita
presente.

317
1. Il ritorno di Cristo
Anzitutto la terminologia relativa al
ritorno di Cristo. Il termine usato
comunemente nel Nuovo Testamento è
«parousia», eccetto in Luca che, con il
linguaggio dell’Antico Testamento («Il
giorno del Signore»), parla piuttosto del
«giorno del Figlio dell’uomo», o del «suo
giorno» (Lc 17, 24.26). Per sé il termine
parousia significa semplicemente
«presenza», ma aveva acquistato da tempo
il senso specifico di una presenza, o una
visita, speciale e importante, per esempio
quella dell’imperatore. Nel Nuovo
Testamento esso indica la manifestazione, o
il ritorno, in gloria di Cristo, in contrasto
con la sua prima venuta nell’umiltà della
carne. Matteo è colui che ci dà la
descrizione più dettagliata della parusia del
Signore. Vale la pena soffermarci un poco
su questo famoso discorso escatologico o
apocalittico di Gesù per dissipare subito
qualche equivoco:

318
«Subito dopo la tribolazione di quei giorni, il sole
si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le
stelle cadranno dal cielo e le potenze dei cieli
saranno sconvolte. Allora comparirà in cielo il
segno del Figlio dell’uomo. […] Si batteranno il
petto tutte le tribù della terra, e vedranno il Figlio
dell’uomo venire sulle nubi del cielo con grande
potenza e gloria» (Mt 24, 29-30).
In ogni epoca c’è stato qualcuno che si è
incaricato di sventolare minacciosamente
questa pagina di Vangelo davanti ai suoi
contemporanei, alimentando psicosi e
angoscia. Il fenomeno si intensifica
puntualmente in certe epoche come quella
del passaggio da un millennio all’altro o in
altre scadenze vere o immaginarie. Il mio
consiglio è di stare tranquilli e non lasciarsi
minimamente turbare da queste previsioni
catastrofiche.
Basta leggere la frase finale dello stesso
brano evangelico: «Quanto poi a quel
giorno o a quell’ora, nessuno li conosce,
neanche gli angeli nel cielo, e neppure il
Figlio, ma solo il Padre» (Mt 24, 36). Se
neppure gli angeli e il Figlio (s’intende, in
quanto uomo, non in quanto Dio)

319
conoscono il giorno e l’ora della fine,
possibile che lo conosca e sia autorizzato ad
annunciarlo l’ultimo adepto di una setta o
qualche fanatico religioso? Nel Vangelo
Gesù ci assicura sul fatto che egli tornerà un
giorno e riunirà i suoi eletti dai quattro
venti; il quando e il come verrà (sulle nubi
del cielo, tra l’oscurarsi del sole e il cadere
degli astri) fa parte del linguaggio figurato
proprio del genere letterario di questi
discorsi.
Un’altra osservazione può aiutare a
spiegare questa e altre pagine simili del
Vangelo. Quando noi parliamo della fine
del mondo, in base all’idea che abbiamo
oggi del tempo, pensiamo subito alla fine
del mondo in assoluto, dopo la quale non
può esserci che l’eternità (o il nulla,
secondo la credenza di ciascuno). Ma la
Bibbia ragiona con categorie relative e
storiche, più che assolute e metafisiche.
Quando perciò parla della fine del mondo,
intende molto spesso il mondo concreto,
quello di fatto esistente e conosciuto da un
certo gruppo di uomini: il loro mondo. Si

320
tratta, insomma, più della fine di un mondo
che della fine del mondo, anche se le due
prospettive a volte si intrecciano e la prima
viene vista come immagine di ciò che
avverrà nella seconda.
Gesù dice: «Non passerà questa
generazione prima che tutte queste cose
siano avvenute» (Mt 24, 34). Si è sbagliato?
No, non passò infatti quella generazione
che il mondo conosciuto dai suoi
ascoltatori, il mondo giudaico, passò
tragicamente con la distruzione di
Gerusalemme del 70 dopo Cristo. Quando,
nel 410, ci fu il sacco di Roma ad opera dei
Vandali, molti grandi spiriti del tempo
pensarono che fosse la fine del mondo. Non
si sbagliavano di molto; finiva un mondo,
quello creato da Roma con il suo impero.
Le prime generazioni cristiane non erano
in grado di fare questa distinzione ed è certo
che molti di essi, compreso Paolo,
attendevano il ritorno glorioso di Cristo
come imminente, durante la loro stessa vita,
tanto che la Seconda Lettera di Pietro deve
tranquillizzare su questo punto la seconda

321
generazione cristiana, dicendo che il ritardo
è dovuto al fatto che Dio vuole che tutti
abbiano modo di pentirsi (cf 2 Pt 3, 4-10).
Alcuni studiosi hanno attribuito a Gesù
stesso questo errore di prospettiva e l’attesa
imminente dell’instaurazione finale del
regno di Dio. È la tesi sostenuta da Albert
Schweitzer120 e da altri dopo di lui, ma è
smentita da tanti dati evangelici. Gesù
aveva scelto i Dodici per continuare la sua
opera nel mondo; aveva dato loro il
comando di andare «in tutto il mondo e
predicare il vangelo ad ogni creatura»;
aveva detto loro che, prima della fine, il
vangelo doveva giungere «fino ai confini
della terra» e che la sua morte inaugurava
«la nuova ed eterna alleanza». Come si
spiegherebbe tutto ciò se si attribuisse a lui,
o – ciò che non cambierebbe nulla in questo
caso – agli evangelisti che riferiscono tali
parole, la convinzione che tutto sarebbe
terminato di lì a pochi anni? Per il credente
in Cristo il problema neppure si pone. Il
Figlio sarebbe venuto sulla terra per salvare

322
il mondo quando il mondo stava per finire?
Paolo stesso deve avere cambiato idea su
questo punto, rispetto ai primi tempi
quando scriveva ai Tessalonicesi. Nella
Lettera ai Romani esprime infatti la
convinzione che gli ebrei entreranno
anch’essi a far parte della salvezza di
Cristo, ma solo dopo che tutti i pagani vi
avranno aderito (cf Rm 11, 11-25): cosa che
certamente suppone un non breve lasso di
tempo.

323
2. Dall’attesa della parusia alla speranza
dei beni celesti
Con il passare del tempo si nota
un’evoluzione nel sentimento generale che i
cristiani hanno circa la loro posizione nel
mondo e nella storia. Dalla «seconda
venuta», o dal ritorno di Cristo, lo sguardo
viene ora concentrandosi piuttosto sulla
prima venuta dell’incarnazione. Il motivo è
il sorgere di eresie come lo gnosticismo e il
docetismo, che negavano la realtà della
carne di Cristo e delle opere che egli aveva
compiuto nella carne: passione, morte,
risurrezione. In questo clima si tende a
valorizzare di più l’escatologia del «già
realizzato» di Giovanni. Questa non pone il
punto decisivo della storia in avanti, nel
compimento finale, ma nel passato,
nell’evento fondamentale dell’incarnazione
e della morte redentrice di Cristo; accentua
il «già» più che il «non ancora». Con Cristo
l’era finale è iniziata e ai credenti è già
consentito di sperimentare la vita eterna. La

324
venuta dello Spirito Paraclito realizza ogni
volta una parusia di Cristo.
Non si trattò di un ripiego, ma di una
maturazione nella fede. Tutto questo
processo di trasformazione dell’escatologia
non ebbe come movente la delusione per il
ritardo della parusia, ma piuttosto
l’entusiasmo per il suo compimento.
«L’eschaton che doveva venire fu
trasformato in una presenza di eternità,
della quale si faceva l’esperienza nel culto e
in spirito». A determinare il cambiamento
non furono «le speranze deluse, ma
piuttosto l’avvenuto adempimento di tutte
le speranze»121.
In questa nuova fase della fede non si
dimentica il ritorno finale del Signore, ma
all’attesa trepidante si sostituisce la serena
speranza; dall’escatologia come attesa
imminente del ritorno di Cristo e della fine
del mondo si sostituisce l’orientamento ai
beni del cielo, quello che una preghiera
liturgica definisce un «valutare con
sapienza i beni della terra, nella continua

325
ricerca dei beni del cielo»122.
Dall’escatologia si passa all’anagogia, cioè
al «tendere alle cose di lassù». In certo
senso, il movimento s’inverte: all’idea della
venuta del Signore verso di noi, si
sostituisce, a poco a poco, l’idea della
nostra andata verso di lui; al suo ritorno in
terra, la nostra ascesa in cielo.
Parallelamente, sull’escatologia generale,
o della «Chiesa», prende il sopravvento
quella individuale, o dell’«anima». Cade a
poco a poco la prospettiva del «quando»
avverrà il ritorno del Signore e resta invece
la prospettiva essenziale «che» ci sarà
questo ritorno. Ciò che tiene desto nei
cristiani quel caratteristico senso di urgenza
e di imminenza e, per conseguenza, di
vigilanza, non è più ormai l’attesa della
parusia, ma quelli che più tardi saranno
chiamati i Novissimi.
Oggi viviamo in una situazione diversa da
quella che portò a questa evoluzione del
sentimento escatologico. Il bisogno
maggiore non è più di smorzare i toni

326
dell’attesa del ritorno del Signore, ma di
ridestarli. La secolarizzazione, da pellegrini
e viatori ci ha trasformati tutti in sedentari e
insediati nel mondo. La vita dei cristiani è
definita dalla Bibbia come una vita da
«pellegrini e forestieri», perché essi sono
nel mondo, ma non sono del mondo (cf Gv
17, 11.16), perché la loro patria vera è nei
cieli, da dove aspettano che venga come
Salvatore il Signore Gesù (cf Fil 3, 20). È la
riserva escatologica che san Paolo esprime
con la formula «come se non»:
«Il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che
hanno moglie, vivano come se non l’avessero;
quelli che piangono, come se non piangessero;
quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli
che comprano, come se non possedessero; quelli
che usano i beni del mondo, come se non li
usassero pienamente: passa infatti la figura di
questo mondo!» (1 Cor 7, 29-31).
Il cristiano sulla terra deve comportarsi
come il girasole. Questo fiore durante il
giorno, quando il sole è presente nel cielo,
sta rivolto verso il sole, si converte
continuamente verso di lui; quando il sole
tramonta e scompare, si volge nella

327
direzione da dove il sole deve rispuntare e
sta tutta la notte così, come in attesa. Gesù
vuole che i suoi discepoli, dopo che sarà
scomparso da loro, si comportino allo
stesso modo: rivolti con il cuore e il
desiderio là da dove egli alla fine riapparirà.
«Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato
assunto in cielo, verrà allo stesso modo in
cui l’avete visto andare in cielo» (At 1, 11).
L’attesa della venuta di Cristo non ha un
movente negativo, di disgusto del mondo e
della vita, ma ha un movente sommamente
positivo, che è il desiderio della vera vita.
Nel salterio ebraico c’è un gruppo di salmi,
detti «delle ascensioni», o «cantici di Sion».
Erano i salmi che cantavano i pellegrini
israeliti quando «salivano» in
pellegrinaggio verso la città santa,
Gerusalemme. Uno di essi comincia così:
«Quale gioia quando mi dissero: “Andremo
alla casa del Signore”» (Sal 122, 1). Questi
salmi delle ascensioni sono diventati ormai
i salmi di coloro che, nella Chiesa, sono in
cammino verso la Gerusalemme celeste.
Dobbiamo cambiare completamente

328
perciò lo stato d’animo con cui ascoltiamo i
discorsi evangelici che parlano della fine
del mondo e del ritorno di Cristo. Cristo
paragona il suo ritorno alla venuta dello
sposo che viene a cercare la sua sposa per la
festa di nozze (cf Mt 25, 6). Si è finito,
stranamente, per considerare un castigo e
una minaccia quella che la Scrittura chiama
«la beata speranza» dei cristiani, e cioè la
venuta del Signore nostro Gesù Cristo (cf
Tt 2, 13). «Ma che razza di amore è il
nostro per Cristo – esclama sant’Agostino –
se temiamo che egli venga? E non ce ne
vergogniamo, fratelli? Noi l’amiamo e
abbiamo paura che venga? Ma l’amiamo
davvero? O non amiamo, per caso, i nostri
peccati, più di Cristo?»123.
Ai discorsi minacciosi sulla fine del
mondo, bisogna sostituire un discorso sul
fine del mondo, sul traguardo finale a cui
esso tende, che non è la scomparsa nel
nulla, il gelo cosmico, ma l’incontro
(parousia!) con una persona che ci aspetta
con le stesse braccia aperte con cui morì

329
sulla croce per salvarci.

330
3. Per giudicare i vivi e i morti
Strettamente legato all’annuncio del
ritorno di Cristo, sia nella predicazione di
Gesù che in quella degli apostoli, è
l’annuncio del giudizio finale. Il testo più
esplicito al riguardo è Matteo 25, 31-33:
«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria,
e tutti gli angeli con lui, sederà sul trono della sua
gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i
popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il
pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le
pecore alla sua destra e le capre alla sinistra».
Qualcuno vorrebbe attribuire alla Chiesa
post-pasquale una fede così esplicita in
Gesù giudice universale. Io non riesco a
immaginare che qualcuno avrebbe potuto
concepire un pensiero come questo (un
uomo che decide della sorte finale di tutta
l’umanità, del cosmo e della storia!) se non
basandosi su una affermazione uguale o
equivalente da parte del Gesù storico. Molte
parabole e pagine del Vangelo contengono
una rivendicazione analoga da parte di
Gesù. La tesi contraria è frutto della netta

331
separazione – oggi superata dagli stessi
studiosi più critici del Nuovo Testamento –
del Gesù della storia dal Cristo della fede.
Accanto alla prospettiva di un giudizio
finale, si fa strada ben presto anche quella
di un giudizio che si realizza al presente:
«Chi crede in lui non è condannato; ma chi non
crede è già stato condannato, perché non ha
creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il
giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma
gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce,
perché le loro opere erano malvagie» (Gv 3, 18-
19).
Anche Paolo parla di un giudizio pro o
contro l’uomo che si decide al presente in
base alla fede, o la non fede, in Cristo (cf
Rm 3, 21 ss.). La dimensione futura non è
mai dimenticata, ma essa viene attualizzata.
In altre parole, già ora si decide quale posto
uno occuperà nel giudizio finale, in base
alla posizione che prende di fronte alla
parola di Cristo.
La pagina di Matteo 25 sembra fornire in
anticipo i criteri del giudizio finale: tutto si
deciderà in base a quello che uno avrà fatto,

332
o omesso di fare, verso il fratello affamato,
nudo o carcerato. Ma questo è una specie di
«esame generale», cioè valido per tutti,
abbiano o no conosciuto Gesù e il suo
vangelo. Gesù stesso menziona altri punti
sui quali si svolgerà il giudizio: per
esempio, se uno lo avrà, o meno,
riconosciuto davanti agli uomini (cf Mt 10,
32); o se avrà, o meno, fatto fruttificare i
talenti ricevuti (cf Mt 25, 30). In breve,
materia del giudizio saranno il bene e il
male, presi nella loro totalità.
«Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere: la
vita eterna a coloro che, perseverando nelle opere
di bene, cercano gloria, onore, incorruttibilità; ira
e sdegno contro coloro che, per ribellione,
disobbediscono alla verità e obbediscono
all’ingiustizia. Tribolazione e angoscia su ogni
uomo che opera il male, sul Giudeo, prima, come
sul Greco; gloria invece, onore e pace per chi
opera il bene, per il Giudeo, prima, come per il
Greco: Dio infatti non fa preferenza di persone»
(Rm 2, 6-11).
Come si svolgerà il giudizio stesso? La
celebre sequenza del Dies irae parla di un
«libro scritto» che verrà aperto e in cui

333
«tutto è contenuto» e in base al quale «il
mondo sarà giudicato». È un parlare poetico
e drammatico che ha avuto una enorme
influenza nel determinare il sentimento
cristiano di fronte alla morte e al giudizio.
Ma in realtà il libro che si aprirà sarà quello
della propria coscienza. Non sarà un
giudizio analitico, ma sintetico e istantaneo;
in un attimo ognuno vedrà se stesso e si
giudicherà da se stesso, o meglio la propria
coscienza lo giudicherà.
Questa visione più spirituale era già
quella dei Padri. San Cirillo di
Gerusalemme, richiamandosi a Romani 2,
15-16, spiega l’accusa dell’uomo come
autoaccusa che nasce dal rimorso: «Sarà
alla luce della vostra coscienza che sarete
giudicati»124. Per san Basilio sarà il volto
stesso del Giudice divino a costituire
l’illuminazione nella quale ognuno vedrà il
proprio stato125. «Nel giorno del giudizio –
scrive san Gregorio Nazianzeno – saremo
accusati dai nostri stessi pensieri ed opere e
saremo trascinati via per una condanna che

334
proviene da noi stessi»126.
Il giudizio finale non risponde soltanto a
una esigenza e a un diritto di Dio; risponde
anche a una esigenza dell’uomo. Nel
mondo tutto ci appare confuso, assurdo,
frutto più di un capriccio del caso che di
una provvidenza divina. Lo notava già il
saggio dell’Antico Testamento: «Tutto –
diceva – succede del pari al giusto e
all’empio […]. Ho notato che, sotto il sole,
al posto del diritto c’è l’iniquità e al posto
della giustizia c’è l’empietà» (Qo 9, 2; 3,
16). E infatti in tutti i tempi si è vista
l’iniquità trionfante e l’innocenza umiliata.
Ma perché non si creda che al mondo c’è
qualcosa di fisso e di sicuro, ecco che
talvolta si vede il contrario e cioè
l’innocenza sul trono e l’iniquità sul
patibolo. Ma cosa concludeva quel saggio
dell’Antico Testamento da tutto ciò?
«Allora ho pensato: “Dio giudicherà il
giusto e l’empio, perché c’è un tempo per
ogni cosa”» (Qo 3, 17). Ecco il punto di
osservazione giusto dal quale si devono

335
giudicare e dal quale prendono valore tutte
le vicende umane.
In tanti millenni di vita sulla terra, l’uomo
si è assuefatto a tutto; si è adattato a ogni
clima, immunizzato da ogni malattia. A una
cosa non si è assuefatto mai: all’ingiustizia.
Continua a sentirla come intollerabile.
Come abbiamo bisogno di misericordia,
così abbiamo bisogno di giustizia. Ed è a
questa sete di giustizia che risponderà il
giudizio. Esso non sarà voluto solo da Dio,
ma, paradossalmente, anche dagli uomini,
anche dagli empi. «Nel giorno del giudizio
universale – scrive Paul Claudel – non è
solo il Giudice che scenderà dal cielo, ma
sarà tutta la terra a precipitarglisi
incontro»127.
I Padri della Chiesa hanno però
giustamente insistito anche su un altro
punto: il giudizio universale non sarà che la
somma e la conferma solenne e pubblica
dei giudizi particolari che aspettano le
creature umane al termine della loro vita.
Anche se non subito e non senza fatica,

336
infatti, il pensiero cristiano si è liberato da
soluzioni fantasiose sulla sorte delle anime
nell’intervallo tra la morte e il giudizio
finale, come quella di un lungo sonno delle
anime o dei mille anni di vita felice sulla
terra (millenarismo). Diventa così comune
la credenza in un giudizio particolare che ha
luogo al momento stesso della morte. La
parabola di Lazzaro e del ricco epulone
parla di un giudizio che avviene al
momento della morte di ognuno dei due (Lc
16, 22-23) e san Paolo è convinto che alla
sua morte egli andrà subito a «stare con
Cristo» (Fil 1, 23). Tuttavia il giudizio
finale conserva, anche in questa prospettiva,
il suo alto significato di compimento finale
di tutte le cose, di trasfigurazione finale del
cosmo e di inaugurazione di «cieli nuovi e
terra nuova» (Ap 21, 1; 2 Pt 3, 13).

337
4. Inferno, purgatorio, limbo
Circa la durata del premio e della pena, la
fede generale della Chiesa, sia in Oriente
che in Occidente, è che essa è eterna. San
Gregorio Nazianzeno sembra domandarsi se
la punizione eterna può considerarsi degna
di Dio128; ma solo Origene129 e, dietro di
lui, san Gregorio di Nissa hanno osato
proporre l’idea di una purificazione finale
anche dei malvagi, la loro conversione, la
scomparsa del male e la restaurazione finale
(apokatastasis) di tutte le cose, incluso il
demonio130.
La Chiesa d’Oriente condannò questa
dottrina nel sinodo di Costantinopoli del
543131. Il motivo della condanna di questa
tesi fu la convinzione che essa implicava
una limitazione radicale della libertà
umana, che non finisce neppure con la
morte del corpo. L’uomo, dicevano, non
può essere costretto, contro la sua volontà,
all’unione con Dio, neppure in nome della

338
bontà di Dio. Nell’ultimo giorno, di fronte
al Giudice supremo, l’uomo avrà ancora la
libertà di rifiutarlo e, se lo fa, di
condannarsi da se stesso all’inferno. Mi
sembra saggia la conclusione che un autore
moderno tira su tutto questo problema:
«La vita eterna è strettamente legata alla vittoria
riportata da Cristo sul peccato e la morte: essa è
promessa di beatitudine eterna. Non si vede bene
cosa potrebbe rappresentare, in questa luce,
un’eternità di condanna […]. Conviene dunque
mantenere la riserva che si impone a proposito
delle “cose ultime”, rispettando in ogni caso la
dissimmetria [tra il concetto di vita eterna e quello
di morte eterna]. A causa della grazia
misericordiosa di Dio manifestata in Cristo, la
Chiesa non cessa di affermare la vita eterna per i
giusti morti in Cristo, ma, circa la perdizione
eterna di un certo numero di peccatori, essa non si
sente in diritto di pronunciare una parola
altrettanto certa»132.
Qualunque sia la natura dell’inferno, una
cosa è certa: esso è infinitamente più serio e
più terribile di quanto, stando ancora in
questa vita, riusciremo mai a immaginare.
Ci manca la misura. Gesù dice che «lì sarà
pianto e stridore di denti» (Mt 13, 42).

339
Notiamo, per finire, che con
sant’Agostino si fa strada, tra i latini, la
credenza in un «fuoco di purgazione»,
grazie al quale alcuni peccati potranno
purificarsi ed essere perdonati nel mondo
avvenire133, da cui si svilupperà la dottrina
cattolica del purgatorio134. Questa
credenza si fonda sulla pratica di pregare
per i defunti attestata verso la fine
dell’Antico Testamento (cf 2 Mac 12, 32
ss.) ed è ampiamente in atto nei primi secoli
del cristianesimo. Essa non si spiega infatti
se non con la fede nella possibilità di una
purificazione anche dopo la morte.
«Il purgatorio non è un luogo e tanto meno un
campo di concentramento nell’aldilà, per
l’espiazione delle pene; esso è in fondo lo stato
dell’incontro con il Dio santo e con il fuoco del
suo amore purificante, che noi possiamo solo
sopportare passivamente e attraverso il quale
veniamo completamente preparati alla piena
comunione con Dio»135.
Una domanda che ci si pone circa l’aldilà
è quella della sorte dei bambini morti senza
battesimo. A questo proposito credo che sia

340
da dimenticare l’idea del limbo, come il
mondo dell’irrealizzato per sempre, senza
gioia e senza pena, dove finirebbero i
bambini non battezzati. Questa dottrina, che
pure è stata comune per secoli e che Dante
Alighieri ha contribuito a rendere popolare
con la sua Divina Commedia, non è stata
mai ufficializzata e definita dalla Chiesa.
Era un’ipotesi teologica, dipendente dalla
dottrina di sant’Agostino sul modo di
trasmissione del peccato originale, che ora è
abbandonata sempre più apertamente dai
teologi. Il seguente testo del Catechismo
della Chiesa Cattolica va chiaramente in
questa direzione:
«Quanto ai bambini morti senza Battesimo, la
Chiesa non può che affidarli alla misericordia di
Dio, come appunto fa nel rito dei funerali per loro.
Infatti, la grande misericordia di Dio che vuole
salvi tutti gli uomini (cf 1 Tm 2, 4) e la tenerezza
di Gesù verso i bambini, che gli ha fatto dire:
“Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo
impedite” (Mc 10,14), ci consentono di sperare
che vi sia una via di salvezza per i bambini morti
senza Battesimo. Tanto più pressante è perciò
l’invito della Chiesa a non impedire che i bambini
vengano a Cristo mediante il dono del santo

341
Battesimo» (n. 1261).
Cerco di spiegare i motivi teologici che
inducono ad abbandonare l’idea del limbo.
Gesù ha istituito i sacramenti come mezzi
ordinari per la salvezza e le persone che
possono riceverli e li rifiutano devono
rispondere di ciò a Dio. Ma Dio non si è
legato a questi mezzi ordinari. Anche
dell’Eucaristia Gesù dice: «Se non
mangiate la carne del Figlio dell’uomo non
avrete la vita» (Gv 6, 53), ma questo non
significa che chi non ha mai ricevuto la
comunione non si salva.
La dottrina tradizionale del battesimo di
desiderio e la festa dei Santi Innocenti ne
sono una conferma. Uno potrebbe obiettare
che Gesù è coinvolto nella morte dei Santi
Innocenti che morirono a causa di lui, ciò
che non è sempre il caso dei bambini morti
senza battesimo. È vero, ma anche di ciò
che viene fatto all’ultimo dei suoi piccoli
Gesù ha detto: «L’avete fatto a me» (cf Mt
25, 40).
Dobbiamo solo prendere sul serio la

342
verità dell’universale volontà divina di
salvezza, cioè che « Dio vuole che tutti
siano salvi» (1 Tm 2, 4) e soprattutto della
verità che Gesù è morto per tutti (2 Cor 5,
15). Se diciamo che i bambini morti senza
battesimo non possono essere salvati,
dobbiamo concludere che tutti gli aderenti
ad altre religioni e gli uomini «di buona
volontà» sono destinati alla dannazione,
anche se vivono secondo la propria
religione e coscienza, dal momento che
anch’essi non hanno ricevuto il battesimo.
Ma questo contrasta con il recente
magistero della Chiesa e specialmente con
ciò che si dice nel documento conciliare
Gaudium et spes, cioè che «in un modo
noto solo a Dio lo Spirito Santo dà ad ogni
persona la possibilità di essere associato al
mistero pasquale di Cristo» (GS 22).
Non credo che affermare che i bambini
morti senza battesimo si salvano possa
incoraggiare la pratica dell’aborto. Le
persone che ignorano la dottrina della
Chiesa circa l’aborto difficilmente terranno
conto di altre dottrine della stessa Chiesa e,

343
anche se ci fosse questo pericolo, l’abuso di
una dottrina non dovrebbe mai indurci ad
abbandonarla. Al contrario, l’idea del limbo
può accrescere la sofferenza delle madri che
per qualsiasi motivo hanno perduto un
bambino e pensano che esso non potrà mai
godere della visione di Dio. Persone che
lavorano per il consiglio e la guarigione in
questo ambito conoscono bene quanto è
forte questa sofferenza nelle persone
credenti.
Io devo confessare che l’idea di un Dio
che priva della sua visione una creatura
innocente, solo perché un’altra persona ha
peccato, o a causa di un aborto spontaneo,
mi fa inorridire. Se l’inferno consiste
essenzialmente nell’essere privati di Dio, il
limbo è inferno, e infatti in esso li colloca
sant’Agostino sebbene con pene «più
leggere di tutte»136. Solo nel medioevo,
con san Tommaso d’Aquino, il limbo sarà
separato dall’inferno, come luogo di una
beatitudine puramente naturale137.
Il bambino non nato e non battezzato si

344
salva dunque e va a unirsi subito alla
schiera dei beati in paradiso. Ci possiamo
domandare piuttosto se questi esseri
giungeranno mai a quella maturità e
pienezza che la natura o il rifiuto degli
uomini ha loro negato, o se resteranno
invece, anche in cielo, degli esserini
«incompiuti». Anche a questa domanda
dobbiamo rispondere affermativamente.
«Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi,
perché tutti vivono per lui» (Lc 20, 38).
«Vivono» nel senso pieno della parola.
Salvarsi significa attingere anche quella
pienezza umana che normalmente le
persone raggiungono attraverso una lunga
serie di esperienze. Tutti siamo destinati a
raggiungere «lo stato di uomo perfetto,
nella misura che conviene alla piena
maturità di Cristo» (Ef 4, 13).
Ma questo vale per tutti, non solo per i
bambini non nati. «Tutti saremo
trasformati» (1 Cor 15, 51). Chi di noi
lascia questa vita pienamente compiuto?
Quanti limiti fisici, morali, intellettuali, già
sul piano umano, hanno, al momento di

345
morire, anche i più grandi geni, per non
parlare delle imperfezioni spirituali! Guai
se l’aldilà consistesse in un essere fissati
per sempre nello stato in cui siamo trovati
in punto di morte. A questo risponde la
dottrina cattolica del purgatorio, spogliata
di certi suoi rivestimenti immaginifici, che
ne fanno un luogo materiale, anziché uno
stato dell’anima.

346
5. Vegliate!
Cerchiamo ora, come dicevo, di trarre
dalle realtà future che abbiamo contemplato
qualche conclusione per la nostra vita
presente. La conseguenza pratica che Gesù
indica ogni volta che parla del suo ritorno e
del giudizio è racchiusa nell’imperativo
«Vegliate!»: «Vegliate perché non sapete
quando il Figlio dell’uomo verrà» (Mt 24,
42); «Quello che dico a voi, lo dico a tutti:
Vegliate!» (Mc 13, 37).
Il tema della veglia e della vigilanza
suppone tutta una visione del mondo e un
giudizio su di esso. Questo nostro tempo è
una notte. La vita è un lungo sonno,
l’attività che in essa svolgiamo, al di fuori
della fede, è un sognare. Da sempre e in
tutte le culture si è soliti associare l’idea del
sonno a quella della morte, ma nella Bibbia
essa è associata più spesso ancora con la
vita, con questa vita che viviamo nella
carne. La vita è davvero un sogno!
Del sogno la nostra vita riflette alcune

347
caratteristiche. La prima è la brevità. Il
sogno avviene fuori del tempo. Situazioni
che richiederebbero giorni e settimane di
tempo avvengono nel sogno in pochi
minuti. L’altra caratteristica è l’irrealtà.
«Avverrà – si legge in Isaia – come quando
un affamato sogna di mangiare, come
quando un assetato sogna di bere, ma si
sveglia stanco, con la gola riarsa» (Is 29, 8).
Cosa sono ricchezze, salute, gloria, se non
un sogno? Ecco che un povero, una notte,
sogna di essere ricco. Sussulta nel sonno, si
pavoneggia, disprezza perfino il proprio
padre e fa finta di non riconoscerlo. Ma poi
si sveglia e ritrova intatta la sua povertà,
mentre della ricchezza del sogno nulla: era
tutta irrealtà. Quando il ricco di questo
mondo muore, è come il povero che si
sveglia dopo aver sognato di essere ricco.
La vita non condivide però con il sogno
l’altra caratteristica che è l’irrilevanza. Tu
puoi avere ucciso, rubato, nel sogno: non
resta traccia, non incide sul resto della tua
vita; non devi pagare. Non così con la vita,
non così. «Dio renderà a ciascuno secondo

348
le sue opere: la vita eterna a coloro che
perseverano nel bene, sdegno, ira contro
coloro che resistono alla verità» (cf Rm 2,5-
10).
Non è solo la venuta finale che motiva la
vigilanza del discepolo. Gesù stesso, in
diversi modi, ha fatto capire che c’è una
venuta, un suo ritorno particolare e
personale che ha luogo al momento della
morte. Il mondo passa per me nel momento
in cui io passo dal mondo. Più «fine del
mondo» di questa! «Stolto! – si sente dire
da Dio il ricco della parabola – Questa notte
stessa ti verrà chiesto conto della tua vita»
(Lc 12, 20). Morì il povero Lazzaro e fu
portato nel seno di Abramo. Morì il ricco e
fu sepolto e, stando nell’inferno, tra i
tormenti, gridò (cf Lc 16, 22-23). Tutto è
già deciso per costoro; non c’è da aspettare
nulla di nuovo. Per essi il Figlio dell’uomo
è già venuto. Quanto è sciocco il mondo
quando si consola pensando che, tanto,
nessuno sa quando sarà la fine! Ci sono
tante fini del mondo quante sono le persone
che muoiono. Oggi stesso è la fine del

349
mondo per centinaia di migliaia di persone.
L’imperativo: «Vigilate!» non è un vuoto
grido di allerta per quanto accorato. Gesù
dice anche cosa significa vigilare, quali ne
sono i contenuti concreti. Quasi sempre
«vigilate» è accoppiato con un altro verbo
che ne specifica il senso: «Vigilate e state
attenti». Vigilanza è attenzione, cioè
concentrazione della mente e di tutta
l’anima su una cosa, che fa passare tutto il
resto in secondo piano, come chi concentra
la vista su un punto, lasciando nell’ombra il
resto. Ciò che si esclude è la distrazione, la
dissipazione, la spensieratezza. Viviamo in
un mondo distratto, malato di chiasso. Gesù
porta l’esempio di ciò che avveniva al
tempo di Noè e al tempo di Lot. La gente
era indaffaratissima: mangiavano,
bevevano, prendevano moglie e marito, ma
non si accorgevano che cosa stava
addensandosi sulle loro teste (cf Lc 17, 22
ss.; Mt 24, 37 ss.).
Una seconda associazione di verbi è:
«Vigilate e state pronti» (cf Mt 24, 44; Lc
12, 40). Il tema della prontezza, Gesù lo

350
illustra con l’immagine del portiere e del
maggiordomo che, vegliando, sono pronti
ad aprire quando il padrone torna (cf Mc
13, 34; Mt 24, 45 ss.). È un tema pasquale e
richiama il modo in cui gli Ebrei in partenza
dall’Egitto dovevano mangiare l’agnello. I
discepoli, infatti, devono essere sempre
«con i fianchi cinti» (cf Lc 12, 35; Es 12,
11): la loro tenuta deve somigliare a quella
di chi ha tutto pronto per partire e aspetta
solo un cenno. Aspetta che il suo Signore
gli dica: «Vieni!». Ed egli va.
Una terza associazione che spiega il
significato della vigilanza è: «Vegliate e
pregate» (Mt 26, 41; Mc 14, 38; Lc 21, 36).
È il contenuto principale della vigilanza.
L’attività più caratteristica della veglia è la
preghiera. Pregare è essere presenti al
presente; è stare alla presenza di Dio, che è
la forma più alta di vigilanza. Tra il chiasso
delle voci che ci assalgono da tutte le parti e
ci distraggono, vigilare significa imporre
silenzio a tutti e a tutto, come chi,
circondato da una folla che lo preme da
tutte le parti, si mette di colpo il dito sulle

351
labbra e intima silenzio, perché ha udito il
richiamo di una voce che non vuole
perdere.

352
6. «È ora di svegliarsi dal sonno»
A un certo punto della predicazione
apostolica, dopo la Pasqua, vediamo il tema
della vigilanza assumere un aspetto nuovo e
drammatico e da designazione di uno stato,
o atteggiamento abituale, diventare
designazione di un atto. All’imperativo:
«Vegliate!», si affianca un altro imperativo:
«Svegliatevi!». «Svégliati, o tu che dormi,
déstati dai morti e Cristo ti illuminerà» (Ef
5, 14). La caratteristica di questi gridi di
risveglio è che essi non sono rivolti a
persone fuori della Chiesa, ma a cristiani
che vivono da tempo in comunità, a dei
veterani della fede. Questo ce li fa sentire
ancora più direttamente rivolti a noi. Non
sono un invito alla prima conversione, ma a
una seconda conversione.
Svegliarsi significa passare da uno stato
all’altro. È un atto che crea una differenza,
indica cambiamento, crisi; con una parola
più tradizionale: conversione. Basta pensare
alla differenza che c’è tra un attimo prima e

353
un attimo dopo che uno si è svegliato da un
sonno profondo, per rendersi conto di ciò
che questa parola significa sul piano
spirituale. Soffermiamoci su uno di questi
gridi di risveglio.
«Questo voi farete, consapevoli del momento. È
ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché ora la
nostra salvezza è più vicina di quando
diventammo credenti. La notte è avanzata, il
giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle
tenebre e indossiamo le armi della luce.
Comportiamoci onestamente come in pieno
giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze,
non fra impurità e licenze, non in contese e
gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo
e non seguite la carne nei suoi desideri» (Rm 13,
11-14).
Questo energico e brusco richiamo lascia
intravedere una triste realtà di fatto. La vita
dei cristiani è esposta costantemente al
risucchio del mondo e del modo di vivere
pagano. In natura esiste un insetto, la mosca
tze-tze, nota per il suo terribile potere di far
precipitare il disgraziato che ha punto in un
sonno mortale. Sul piano spirituale, un
potere altrettanto nefasto di far cadere nel

354
sonno lo possiede il mondo con le sue
concupiscenze.
«Questo voi farete – diceva l’Apostolo –
consapevoli del momento». Ciò che
determina la necessità e l’urgenza del
risveglio è, ancora una volta, quello che
l’Apostolo chiama il kairos, il momento
particolare in cui i cristiani si trovano a
vivere. È l’ora stessa che esige che ci si
svegli. Perché questo? Che ora è
nell’orologio della storia? È l’ora
escatologica! Quella che i profeti
chiamavano «quel giorno», o «gli ultimi
giorni». L’ora che ha visto compiersi il
tempo (cf Mc 1, 15) e la venuta del Regno;
l’ora che esige la decisione, il salto.
Non si tratta di un’ora ferma, ma in
movimento, un’ora che si protende verso un
compimento che è il giorno del Signore, o
del suo ritorno. Per questo l’Apostolo può
dire: «La nostra salvezza è più vicina ora di
quando diventammo credenti. […]. Il
giorno si avvicina». Ogni giorno che passa,
ogni minuto, ci avvicina a quella
conclusione, come momento per momento

355
l’acqua di un fiume si avvicina al mare.
Non c’è arresto possibile. L’unico arresto è
quello che consiste nel non pensarvi,
appunto, nel dormire. Dormendo non ci si
accorge del tempo che passa, e del pericolo
che incombe, ma non per questo il tempo
cessa di passare e il pericolo di incombere.
La notte che affondò, in pieno oceano, il
famoso transatlantico Titanic, avvenne una
cosa del genere. C’erano stati, come oggi si
sa, messaggi via radio da parte di altre navi
che segnalavano un iceberg sulla rotta. Ma
sulla nave era in atto una festa danzante;
non si volle turbare i passeggeri. Non si
prese nessun provvedimento, rimandando la
cosa al mattino dopo. Ma intanto nave e
iceberg stavano marciando a grande
velocità l’una verso l’altro, finché ci fu un
boato che scaraventò tutto in aria e
cominciò il grande naufragio. È
un’immagine di ciò cui sta andando
incontro chi dorme nel peccato, dimentico
dell’ora che si avvicina. È un’immagine che
richiama quello che Gesù diceva del tempo
di Noè: mangiavano, bevevano, danzavano,

356
cantavano, finché arrivò il diluvio e li
inghiottì tutti (cf Mt 24, 37-39).

357
7. «Se questi e queste, perché non io?»
Sant’Agostino ci aiuta a capire cosa
significa concretamente per noi svegliarci
dal sonno. Come possiamo accogliere il
grido di risveglio? Egli descrive lo stato che
precedette la sua definitiva e totale resa a
Dio, servendosi proprio dell’immagine del
sonno. Dice:
«Come chi è oppresso dal sonno, così ero io
oppresso dal peso soave del mondo; e i pensieri
che rivolgevo a te erano simili ai conati di coloro
che vogliono destarsi e tuttavia, vinti, ricadono nel
sonno profondo. E come non vi è nessuno che
desideri di dormire sempre, anzi ogni uomo di
sano giudizio preferisce essere sveglio, e non di
meno, di solito, si rimanda il momento di scuotere
via il sonno, quando grava pesante sulle membra,
anzi lo si gusta maggiormente nel momento stesso
in cui comincia a rincrescere, sebbene sia ora di
levarsi, così accadeva di me. Ero ben sicuro essere
meglio consacrarsi al tuo amore, che cedere alla
mia passione: il primo partito mi piaceva e
vinceva; il secondo mi allettava e avvinceva. Nulla
sapevo io rispondere alle tue parole: “Svégliati, tu
che dormi, sorgi dai morti e Cristo ti illuminerà”.
Convinto della verità, nulla sapevo io rispondere a
te, che da ogni parte mi dimostravi essere vero

358
quello che tu dici; nulla, all’infuori di queste
parole infingarde e sonnolenti: “Ora, ecco, ora,
attendi ancora un poco”. Ma questo “ora e ora”
non trovava mai un’ora, e l’“attendi ancora un
poco” andava per le lunghe»138.
Si tratta di vedere se questa situazione di
Agostino non è, in qualche modo, anche la
nostra. Non ha importanza se a trattenerci
non è lo stesso legame suo, ma altri tipi di
legami: con le nostre comodità, con la
nostra gloria, con i nostri risentimenti, con
la nostra carriera, con le nostre abitudini.
Non c’è uno stato nella vita spirituale in cui
non ci sia più posto per una conversione e
per un balzo in avanti. Nell’Apocalisse si
ode questo invito: «Il giusto divenga più
giusto e chi è santo si santifichi ancora di
più» (Ap 22, 11). Nessuno dunque
dovrebbe ritenersi esentato e dire che, per
grazia di Dio, questo bisogno di risveglio
non fa per lui.
Esistono vari gradi o livelli di sonno,
tanto sul piano naturale che su quello
spirituale. C’è, più profondo di tutti, il
letargo, e quanti cristiani vivono in esso!

359
Sono quelli che passano mesi, anni, forse
tutta una vita immersi nel sonno del mondo
e nell’oblio più totale di Dio e del proprio
battesimo. C’è poi il sonno ordinario, che è
un’interruzione totale della coscienza, ma
breve. E c’è infine il dormiveglia, o lo stato
di sonnolenza, descritto così bene sopra da
sant’Agostino, ed è di questo che ora
vogliamo parlare.
Il dormiveglia è lo stato di chi è
abbastanza desto da vedere e capire quello
che dovrebbe fare, ma non tanto da
decidersi a farlo. Come, appunto, chi al
mattino ha udito il segnale della sveglia; sa
che è ora, se lo ripete, ma indugia e ricade
nel sonno. È lo stato di chi tira avanti tra un
debole proposito e l’altro, tra un «suvvia!»
e l’altro ripetuto a se stesso, ma non fa il
gesto risoluto di balzare in piedi. La vita
scorre tra una confessione e l’altra in cui ci
si ritrova sempre allo stesso punto.
Caratteristica di questo stato, sul piano
spirituale, è l’insoddisfazione e la tristezza.
Non si gode del mondo perché non si è così

360
spregiudicati da abbandonarsi del tutto alle
sue lusinghe, ma non si gode neppure di
Dio.
Nella storia della santità l’esempio più
famoso della prima conversione, quella dal
peccato alla grazia, è sant’Agostino;
l’esempio più istruttivo della seconda
conversione, quella dalla tiepidezza al
fervore, è santa Teresa d’Avila. Può darsi
che quello che ella dice di sé nella Vita sia
esagerato e dettato dalla delicatezza della
sua coscienza, ma può servire a noi per un
utile esame di coscienza.
«Di passatempo in passatempo, di vanità in vanità,
di occasione in occasione, cominciai a mettere di
nuovo in pericolo la mia anima […]. Le cose di
Dio mi davano piacere e non sapevo svincolarmi
da quelle del mondo. Volevo conciliare questi due
nemici tra loro tanto contrari: la vita dello spirito
con i gusti e i passatempi dei sensi. […] Passai
quasi vent’anni in questo mare procelloso. Cadevo
e mi rialzavo, e mi rialzavo così male che
ritornavo a cadere. Ero così in basso in fatto di
perfezione che non facevo quasi più conto dei
peccati veniali, e non temevo i mortali come avrei
dovuto, perché non ne fuggivo i pericoli. Posso
dire che la mia vita era delle più penose che si

361
possano immaginare, perché non godevo di Dio,
né mi sentivo contenta del mondo. Quando ero nei
passatempi mondani, il pensiero di quello che
dovevo a Dio me li faceva trascorrere con pena; e
quando ero con Dio, mi venivano a disturbare gli
affetti del mondo»139.
Quello che Dio aspetta da noi è che gli
diamo il permesso, o il consenso, per agire.
Che gli diamo, per così dire, carta bianca,
togliendo tutti i «ma», i «purché», che sono
solo mancanze di fiducia in Dio. Non
possiamo pretendere di farci santi a patto
che nulla cambi nella nostra vita e nelle
nostre abitudini. Anche sant’Agostino
sperimentò la paura e le esitazioni a fare il
passo decisivo. Le antiche abitudini, dice,
da dietro lo tiravano come per il lembo
della veste, sussurrandogli: «Attento, potrai
fare a meno, d’ora in poi, di questo e di
questo, e per sempre?». Ma un’altra voce,
mostrandogli Dio, gli diceva forte: «Géttati
fra le sue braccia, non avere paura, Egli non
si tirerà indietro, sicché tu cada nel vuoto…
Géttati ed egli ti accoglierà»140. Sappiamo
come la grazia gli venne in soccorso. Fu

362
attraverso la parola di Dio. Sentì una voce
che ripeteva in canto: «Tolle, lege! Prendi,
leggi!». La prese come un invito del cielo e,
avendo a portata di mano il libro delle
Lettere di san Paolo, lo aprì deciso a
prendere come risposta di Dio il primo testo
che gli fosse capitato sotto gli occhi. Lo
aprì e cosa trovò? Trovò proprio il versetto
che conclude il grido di risveglio di Romani
13: «Non nelle gozzoviglie e nelle
ebbrezze, non nelle mollezze e nelle
impurità, non nella discordia e nell’invidia,
ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo,
senza accontentare la carne nei suoi
desideri». Una luce di serenità improvvisa
gli inondò il cuore e da quel momento
seppe che, con l’aiuto di Dio, avrebbe
potuto vivere in castità. Era un uomo
nuovo. Rievocando questo momento egli lo
descrive come un risveglio dal sonno: «Tu
hai gridato e hai squarciato la mia sordità.
Hai balenato, hai brillato e hai fugato la mia
cecità. Mi hai toccato e ardo dal desiderio
della tua pace»141. La grazia l’aveva

363
soccorso perché lui l’aveva invocata con
tutte le forze, con preghiere e lacrime.
Domandiamoci dunque con onestà: sono
pronto io a che qualcosa cambi nella mia
vita? Per esempio, il tempo che dedico alla
preghiera? Sono pronto a troncare la tale
abitudine? A rinunciare a quel margine di
libertà? Bisogna insistere su un punto:
questa è una decisione che va subito messa
in atto, altrimenti si perde. Bisogna fare
subito un atto contrario, affrettandosi a dire
il primo «no» alla passione o all’abitudine
peccaminosa, altrimenti essa riprende
immediatamente tutto il suo potere.
Il nostro «basta!», per essere sincero,
deve riguardare non solo il peccato, ma
anche l’occasione del peccato. Bisogna
fuggire – come raccomandava la morale
tradizionale – l’occasione prossima di
peccato, perché mantenerla sarebbe come
mantenere il peccato stesso. L’occasione fa
come certe bestie feroci che incantano e
ipnotizzano la preda, per poterla poi
divorare, senza che essa possa più muoversi
di un centimetro. L’occasione fa scattare

364
nell’uomo strani meccanismi psicologici;
riesce a «incantare» la volontà con questo
semplice pensiero: «Se non cogli
l’occasione non la ritroverai mai più; è da
stolto non approfittare dell’occasione…».
L’occasione fa cadere in peccato chi non la
evita, come la vertigine fa cadere nel
precipizio chi lo costeggia.
Concludiamo in preghiera con alcuni
versi del Dies irae, nei quali il tono cupo e
minaccioso delle prime strofe cede il posto
a una calma e accorata supplica:
Rex tremendae O Re di tremenda
maiestatis, maestà,
qui salvandos che salvi per grazia
salvas gratis, quelli che si salvano,
salva me, fons salva me, fonte della
pietatis. pietà.
Recordare, Ricordati, o buon Gesù,
Jesu pie,
quod sum che per me sei venuto
causa tuae sulla terra.

365
viae,
ne me perdas Non condannarmi in
illa die. quel giorno.
Quaerens me Per me, un giorno, ti
sedisti lassus, sedesti stanco,
redemisti mi hai redento salendo
crucem passus, sulla croce:
tantus labor tanto dolore non sia
non sit cassus. invano.
Salva tutti noi, quando verrai di nuovo
nella gloria, per giudicare i vivi e i morti.

Note
120 A. Schweitzer, Von Reimarus zu Wrede (1906),
seconda edizione riveduta col titolo Geschichte der
Leben-Jesu-Forschung (1913).
121 J. Moltmann, Teologia della speranza,
Queriniana, Brescia 1970, p. 162.
122 Orazione dopo la comunione, Martedì della II
settimana di Avvento.
123 Agostino, Commento ai Salmi, 95, 4.
124 Cirillo di Gerusalemme, Catechesi, XV, 25 (PG
33, 905).
125 Basilio, Omelia sul Salmo 33, 4 (PG 29, 339).

366
126 Gregorio Nazianzeno, Oratio 16, 8 (PG 35, 945
s.).
127 Paul Claudel interroge l’Apocalypse, Gallimard,
Paris 1952, p. 180.
128 Gregorio Nazianzeno, Oratio 40, 36 (PG 36,
412).
129 Origene, De principiis, I, 6.
130 Gregorio Nisseno, Oratio catechetica, 26 (ed.
J.H. Strawley, Cambridge 1903, pp. 99-100); In
Christi resurrectionem oratio (PG 46, 609 s.).
131 DS 403.
132 C. Geffré, Vie éternelle, in Dictionnaire critique
de théologie, PUF, Paris 1998, p. 1224.
133 Agostino, De civitate Dei, XXI, 26, 2;
Enchiridion, 69; Gregorio Magno, Dialoghi, 4, 39.
134 Sul purgatorio, si veda il Catechismo della
Chiesa Cattolica, nn. 1030-1032.
135 W. Kasper, Misericordia, Queriniana, Brescia
2015, p. 170.
136 Agostino, Enchiridion, 93, 111.113; De civitate
Dei, XXI, 16.
137 Tommaso d’Aquino, Quaest. disp. de malo, 5.
138 Agostino, Confessioni, X, 3, 4.
139 Teresa d’Avila, Vita, cc. VII-VIII.
140 Agostino, Confessioni, VIII, 8, 19.
141 Ibidem, X, 27, 38.

367
IX
CREDO LA CHIESA,
UNA, SANTA, CATTOLICA E
APOSTOLICA

Maestro del Dossale di Cesi (XIV sec.),


Gesù abbraccia Maria-la Chiesa

368
Stiamo commentando la parte del credo
che tratta delle cose «che» crediamo, dopo
aver commentato quella sulle Persone «in
cui» crediamo: il Padre, il Figlio suo Gesù
Cristo e lo Spirito Santo. Tra le realtà e le
verità che crediamo sulla parola di Cristo,
occupa il primo posto la Chiesa: «Credo la
Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica».
Giustamente il credo presenta la Chiesa alla
fine e non al principio, dopo aver parlato
della persona di Cristo. Non si accetta
infatti Cristo per amore della Chiesa, ma si
accetta la Chiesa per amore di Cristo.

369
1. Che cos’è la Chiesa?
Che cos’è la Chiesa? È stata questa la
domanda fondamentale che si sono posti i
Padri del concilio Vaticano II. La risposta
che hanno dato è contenuta nella
costituzione Lumen gentium, soprattutto nel
capitolo primo intitolato «Il mistero della
Chiesa». In esso, la Chiesa viene definita
come «un sacramento o segno e strumento
dell’intima unione con Dio e dell’unità di
tutto il genere umano» (LG I, 1). Sulla scia
di Efesini 1, il Concilio descrive quindi il
divenire della Chiesa, come opera della
Trinità, partendo dal «disegno salvifico
universale del Padre», attraverso la
«missione e opera del Figlio» e «l’opera
santificatrice dello Spirito». Alla fine del
capitolo c’è una sintesi di ciò che la Chiesa
pensa di se stessa, che bisogna
assolutamente tener presente in ogni
discorso sulla Chiesa:
«Cristo, unico mediatore, ha costituito sulla terra e
incessantemente sostenta la sua Chiesa santa,
comunità di fede, di speranza e di carità, quale

370
organismo visibile, attraverso il quale diffonde per
tutti la verità e la grazia. Ma la società costituita di
organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo,
l’assemblea visibile e la comunità spirituale, la
Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni
celesti, non si devono considerare come due cose
diverse; esse formano piuttosto una sola
complessa realtà risultante di un duplice elemento,
umano e divino. […] Questa è l’unica Chiesa di
Cristo, che nel Simbolo professiamo una, santa,
cattolica e apostolica e che il Salvatore nostro,
dopo la sua risurrezione, diede da pascere a Pietro
(cf Gv 21, 17), affidandone a lui e agli altri
apostoli la diffusione e la guida (cf Mt 28, 18 ss.),
e costituì per sempre colonna e sostegno della
verità (cf 1 Tm 3, 15)» (LG I, 8).
Ci domandiamo che cosa significa dire
«credo» la Chiesa; che cosa in essa è
oggetto di fede e che cosa di semplice
conoscenza e esperienza? La risposta è
contenuta nella definizione iniziale della
Chiesa come «mistero e sacramento di
salvezza». Credere la Chiesa significa
credere che la Chiesa non è solo quello che
appare all’occhio dell’uomo e al giudizio
del mondo. C’è in essa una dimensione
trascendente dovuta al fatto che è opera
della Trinità, che c’è un disegno divino e

371
una volontà di Cristo alla sua origine, che
essa è, come la Scrittura e come la persona
stessa di Cristo, sebbene in modo diverso,
una realtà «teandrica», cioè divina e umana
insieme. Noi conosciamo ciò che, della
Chiesa, è visibile, ma crediamo ciò che di
essa è invisibile.

372
2. Le «note» della Chiesa
Il concilio, nello stesso contesto, passa in
rassegna le immagini bibliche della Chiesa:
ovile, campo di Dio, popolo di Dio, sposa
di Cristo. Tra queste immagini, la più
importante e la più profonda è quella di
«corpo di Cristo», a cui viene dedicata una
trattazione a parte (LG I, 7).
Seguendo il credo, più che sulle
immagini, noi vogliamo concentrarci sulle
«note» della Chiesa, elencate nel simbolo:
una, santa, cattolica e apostolica.

a. La Chiesa è una
A proposito dell’unità della Chiesa,
sant’Agostino ha operato una distinzione
che è rimasta alla base di ogni discorso
sull’argomento. Egli distingue nella Chiesa
due livelli di unità: quello della comunione
dei sacramenti (communio sacramentorum)
e quello della società dei santi (societas
sanctorum). La prima unisce tra loro
visibilmente tutti quelli che partecipano

373
degli stessi segni esterni: i sacramenti, le
Scritture, l’autorità; la seconda unisce tra
loro tutti e solo quelli che, oltre i segni,
hanno in comune anche la realtà nascosta
nei segni (la res sacramentorum) e cioè lo
Spirito Santo, la grazia, la carità.
La novità sta nel fatto che mentre, prima
di lui – per esempio, in san Cipriano –, si
faceva consistere l’unità della Chiesa in
qualcosa di esteriore e visibile – la
concordia di tutti vescovi tra di loro –
Agostino la fa consistere in qualcosa di
interiore: lo Spirito Santo. L’unità della
Chiesa è operata così dallo stesso Spirito
che opera l’unità nella Trinità. «Il Padre e il
Figlio hanno voluto che noi fossimo uniti
tra noi e con loro, per mezzo di quello
stesso vincolo che unisce loro, e cioè
l’amore che è lo Spirito Santo»142. Egli
svolge nella Chiesa la stessa funzione che
esercita l’anima nel nostro corpo naturale:
ne è cioè il principio animatore e
unificatore. «Ciò che l’anima è per il corpo
umano, lo Spirito Santo lo è per il corpo di

374
Cristo che è la Chiesa»143.
L’appartenenza piena alla Chiesa esige le
due cose insieme, e la comunione visibile
dei segni sacramentali e la comunione
invisibile della grazia. Essa però ammette
dei gradi, per cui non è detto che si debba
essere per forza o dentro o fuori. Si può
essere in parte dentro e in parte fuori. C’è
una appartenenza esteriore, o dei segni
sacramentali, nella quale si situano gli
scismatici donatisti e gli stessi cattivi
cattolici, e una comunione piena e totale. La
prima consiste nell’avere il segno esteriore
della grazia (sacramentum), senza però
ricevere la realtà interiore prodotta dai
sacramenti (res sacramenti), o nel riceverla,
ma per la propria condanna, non per la
propria salvezza, come nel caso del
battesimo amministrato dagli scismatici o
dell’Eucaristia ricevuta indegnamente dai
cattolici. La distinzione di sant’Agostino
dei due livelli di realizzazione della vera
Chiesa si rivela particolarmente utile e
attuale nel dialogo ecumenico. I due aspetti

375
della Chiesa – quello visibile e istituzionale
e quello invisibile e spirituale – non
possono essere separati. Questo è vero e lo
ha ribadito Pio XII nella Mystici corporis e
il Vaticano II nella Lumen gentium, ma
finché essi, a causa di separazioni storiche e
del peccato degli uomini, purtroppo non
coincidono, non si può dare maggiore
importanza alla comunione istituzionale che
a quella spirituale.
Questo pone un interrogativo. Posso io,
come cattolico, sentirmi più in comunione
con la moltitudine di coloro che, battezzati
nella mia stessa Chiesa, si disinteressano
tuttavia completamente di Cristo e della
Chiesa, o se ne interessano solo per dirne
male, di quanto mi senta in comunione con
la schiera di coloro che, pur appartenendo
ad altre confessioni cristiane, credono nelle
stesse verità fondamentali in cui credo io,
amano Gesù Cristo fino a dare la vita per
lui, ne diffondono il vangelo, si danno da
fare per alleviare la povertà del mondo e
sono in possesso degli stessi doni dello
Spirito Santo che abbiamo noi? Le

376
persecuzioni, così frequenti oggi in certe
parti del mondo, non fanno distinzione: non
bruciano chiese e uccidono persone perché
cattolici o perché protestanti, ma perché
cristiani. Per essi siamo già «una cosa
sola»!
Questa naturalmente è una domanda che
dovrebbero porsi anche i cristiani di altre
Chiese nei confronti dei cattolici, e, grazie a
Dio, è proprio ciò che sta avvenendo in
misura nascosta ma superiore a quanto le
notizie correnti lasciano indovinare. Un
giorno, sono convinto, ci si stupirà, o altri si
stupiranno, di non esserci accorti prima di
quello che lo Spirito Santo stava operando
tra i cristiani nel nostro tempo al riparo
dall’ufficialità. È in atto un movimento
tettonico nella storia, contrario a quello che
portò i continenti ad allontanarsi l’uno
dall’altro. I «continenti» cristiani stanno
riavvicinandosi.
L’intuizione più nuova e più feconda di
Agostino circa la Chiesa, abbiamo visto, è
stata di individuare il principio essenziale
della sua unità nello Spirito, anziché nella

377
comunione orizzontale dei vescovi tra di
loro e dei vescovi con il papa di Roma.
Come l’unità del corpo umano è data
dall’anima che vivifica e muove tutte le
membra, così è l’unità del corpo di Cristo.
Essa è un fatto mistico, prima ancora che
una realtà che si esprime socialmente e
visibilmente all’esterno. È il riflesso
dell’unità perfetta che c’è tra il Padre e il
Figlio per opera dello Spirito. È Gesù che
ha fissato una volta per sempre questo
fondamento mistico dell’unità quando ha
detto: «Che siano una cosa sola come noi
siamo una cosa sola» (Gv 17, 22). L’unità
essenziale nella dottrina e nella disciplina
sarà il frutto di questa unità mistica e
spirituale, non potrà mai esserne la causa.
I passi più concreti verso l’unità non sono
perciò quelli che si fanno intorno a un
tavolo o nelle dichiarazioni congiunte (per
quanto tutto questo sia importante); sono
quelli che si fanno quando credenti di
diverse confessioni si trovano a proclamare
insieme, in fraterno accordo, Gesù Signore,
condividendo ognuno il proprio carisma e

378
riconoscendosi fratelli in Cristo. È quello di
cui papa Francesco sta dando a tutta la
cristianità, non solo alla Chiesa cattolica, un
esempio coraggioso e contagioso.

b. La Chiesa è santa
Una Chiesa senza peccato è una pia
illusione. Nella Chiesa hanno avuto da
sempre dimora la santità e il peccato, spesso
nella stessa persona. La professione della
santità della Chiesa vuol dire che in essa si
trovano i mezzi di grazia che alimentano la
vita: dalla tradizione viva del vangelo ai
sacramenti, dai ministeri alla testimonianza
dei santi. L’immagine della Chiesa come la
«casta prostituta» (cf Gs 2, 1-21), come
pure l’espressione tradizionale «sancta et
semper reformanda», santa e sempre da
riformare, esprime questa coabitazione di
peccato e di santità nella Chiesa.
La Chiesa stessa riconosce questa verità
quando, come nel lunedì della terza
settimana di Quaresima, prega così: «La tua
misericordia, Signore, continui a purificare

379
e a rafforzare la tua Chiesa e, giacché essa
non potrebbe restare integra senza di te,
governala sempre con la tua grazia». In
questo modo la Chiesa riconosce che la
propria consistenza dipende tutta dal dono
di Dio. Se non si parte dal riconoscimento
del bisogno del continuo perdono, di cui
vive la Chiesa, non si è in grado di
riconoscerne la santità e il peccato.
Fuori di questo orizzonte autenticamente
teologico, la riflessione sul peccato della
Chiesa decade ad analisi psicologica e
sociologica delle sue responsabilità. Sono
analisi senz’altro utili, ma rischiano di
diventare fuorvianti, se si affida ad esse la
ricerca della causa del male. La Chiesa e i
credenti non riconoscono le proprie colpe
dopo essersi distesi sul lettino dello
psicanalista. Con il salmo debbono invece
confessare anzitutto a Dio la propria colpa:
«Contro di te, contro te solo ho peccato…»
(Sal 51, 6).
Quel «contro te solo» non sta a significare
che il peccato non sia anche contro i fratelli.
Sta a significare che tu riconosci il tuo

380
peccato e la sua natura solo dopo aver
riconosciuto e gustato la misericordia dolce
e terribile di Dio, quella misericordia che
dura in eterno come la sua fedeltà. E si
comprende l’abisso del peccato della
Chiesa e proprio, solo dopo aver
contemplato il Crocifisso, perdono senza
limiti, infinita tenerezza della grazia
disarmata del Padre.
Nell’esperienza della Chiesa è emersa
fondamentale anche un’altra convinzione.
Fin dalle origini i cristiani hanno
sperimentato che non bastava ri-nascere una
volta per non ricadere nella logica del
peccato. Chi attenta al vangelo della grazia
non sono i non credenti, che non l’hanno
accolto e, al massimo, possono ignorarlo,
ma proprio i cristiani. I cristiani dovevano
quindi comporre l’esperienza della
giustificazione ricevuta nella fede e nel
battesimo con l’esperienza del peccato del
quale restavano succubi. Cosa fare? La
soluzione che si affermò fu quella della
necessaria penitenza «seconda», per rispetto
alla prima penitenza, quella battesimale.

381
Questa penitenza continua viene, lungo la
storia della Chiesa, praticata per i singoli e
non per la Chiesa in quanto tale. Ora, ci si
chiede se è la Chiesa stessa, nella sua
dimensione istituzionale, storico-strutturale,
che debba «far penitenza», misurarsi cioè
con il dono di Dio, chiedere perdono e
ravvedersi. Per rispondere a questa
domanda è necessario abbandonare la
categoria dell’abuso, perché essa riporta
solo alla dimensione individuale del
peccato, impedisce di vedere se nella
struttura stessa ci sia qualcosa che rende
possibile l’abuso. Cogliere il peccato della
Chiesa non è pretendere di tagliarlo
definitivamente per contemplare già adesso
la sposa bella e senza macchia. Piuttosto si
tratta di collocare la Chiesa tutta, dalle sue
istituzioni alla esistenza dei singoli credenti,
nello stato di penitenza.
L’istituzione è un’esigenza dell’evento del
vangelo. Nessun gruppo, per quanto
originariamente anti-istituzionale, sorto per
combattere la prevaricazione della
istituzione, sfugge a questa logica e

382
inevitabilmente produce quindi delle regole
perché sia garantito l’evento iniziale che
l’ha visto nascere. L’istituzione ecclesiale,
la forma Ecclesiae, trova qui la sua
necessità. Lo jus, in quanto necessità di
garanzie, appartiene già fin dall’inizio alla
storia del vangelo, anche in Paolo che come
nessun altro ha lottato per la sua
trascendenza.
È certo che la dimensione «collettiva» del
peccato cresce con il peccato dei singoli.
Ma, oltre a questo, esiste una «potenza» del
peccato che, indipendentemente dal peccato
personale, penetra la condizione umana
oggettiva, anche all’interno della Chiesa.
Questa «potenza» non è ancora pienamente
sconfitta. E le istituzioni ecclesiali, anche
quando possono vantare una loro
«istituzione» divina, non cessano di essere
istituzioni umane. Non c’è istituzione più
santa e divina delle Scritture, ma in quanto
mediazione umana esse non sono sottratte
all’ambiguità fondamentale di ogni
condizione umana. Solo nel legame
percepito e messo in atto con lo Spirito, la

383
«lettera» diventa «scrittura» di Dio nei
cuori. Esiste sempre una necessità della
legge, in cui si esprime la volontà divina,
ma non per ciò la legge, che è santa, cessa
di condurre al peccato. Cristo ci ha liberati
dalla legge perché egli, dono del Padre,
nella legge e sotto la legge, ha posto fine
alla legge.
Si comprende da questo come non si può
pretendere di separare la santità «formale»
della Chiesa dalla Chiesa considerata
«materialmente», nella quale la santità è
macchiata. Questa separazione è
impossibile. La Chiesa, proprio nella sua
dimensione istituzionale, è chiamata quindi
a vivere la sua necessità in umiltà e
tremore. Essa sa di essere una creazione
dello Spirito, non solo perché esso è stato
effuso nel cuore dei credenti, ma perché
dallo Spirito vengono le Scritture, dallo
Spirito le vengono dati i «segni efficaci»
della grazia di cui vive, lo Spirito la rende
indefettibile, lo Spirito la rende santa.
Ma lo Spirito, che dà la vita, assume una
lettera che da sola uccide. E se è vero che lo

384
Spirito spira dove vuole, è altrettanto vero
che separare lo Spirito dalla lettera, cercare
di cogliere il vangelo fuori dalla memoria di
Cristo, rischia di separare il Verbo dalla
carne. La kenosi della Parola continua
invece nelle parole degli uomini, ma con
una differenza: l’umanità di Cristo, nella
quale la sua divinità si umiliò, non conobbe
peccato, anche se fu fatta peccato.
L’umanità della Chiesa, nella quale egli
continua a umiliarsi, conosce il peccato.
Fuori quindi dalla confessione che solo lo
Spirito rende possibile, la Chiesa tende
all’auto-giustificazione. Se la Chiesa non
vive sempre del per-dono, della confessione
della grazia che la giustifica e la santifica,
tenderà inevitabilmente a legittimare se
stessa, a cadere nella logica predatoria, sia
pure in nome della fede. Allora la Chiesa,
nella sua dimensione istituzionale ha
bisogno di convertirsi a Cristo
continuamente, mettendosi in
contemplazione della sua misericordia.
Il rischio è quello della secolarizzazione
della penitenza. L’autocritica è divenuta

385
così, anche nei movimenti «laici«, «atei»,
elemento necessario della loro pratica
collettiva. Confessare in pubblico i propri
peccati, quando si seguono alcune astuzie
precise, è diventato quasi un mezzo
obbligato per la ricerca del consenso.
Anche la confessione del peccato della
Chiesa potrebbe quindi diventare mezzo per
la ricerca del consenso sociale,
dimostrazione di democrazia e di
modernità, atto di onestà intellettuale,
atteggiamento coerente con la cultura della
perfettibilità continua, del progresso che fa
tesoro degli errori passati.
Confessare il proprio peccato significa
misurarsi con il dono di Dio, con il dono
che è l’incarnazione, con il dono che è lo
Spirito che dà la capacità di scoprire la
tenerezza; ma tutto questo avviene
realmente solo se si entra nello stato di
penitente. A questo scopo è necessario ri-
comprendere il significato delle virtù,
superando la fase della loro restrizione
individuale. Le virtù non sono i singoli atti,
ma atteggiamenti, «abiti». Lo stato di

386
penitenza non è costituito da uno sguardo
gettato allo specchio, per ravviarsi i capelli
prima di presentarsi agli altri. Lo stato di
penitenza è costituito dalla pratica delle
virtù, cioè degli abiti contrari a quelli che
hanno generato il singolo peccato. Umiltà,
povertà, obbedienza, castità (spesso violata
con il connubio con il potere e il consenso
mondano), rispetto, restituzione di quanto si
è defraudato, non sono quindi gesti singoli,
estemporanei. E non sono nemmeno virtù e
atteggiamenti penitenziali solo del singolo,
ma debbono segnare in primo luogo i tratti
del volto di una Chiesa penitente, che
invoca e riceve il perdono, che amministra
stabilmente, quale tesoro delicatissimo, la
misericordia continua di cui lei gode per
prima. Di nuovo, un atteggiamento di cui
papa Francesco ha dato tante dimostrazioni.

c. La Chiesa è cattolica
Quando sentiamo parlare di Chiesa
«cattolica» pensiamo, di solito, a quella
parte della cristianità che riconosce nel papa

387
il proprio pastore supremo, cioè alla Chiesa
Cattolica Romana, in opposizione alla
Chiesa Ortodossa e a quelle della Riforma.
Questo è un significato vero, ma secondario
e derivato. L’aggettivo «cattolica»
apparteneva alla Chiesa ben prima di queste
divisioni e indica una realtà assai più
profonda di quanto siamo soliti pensare.
Il primo a usare questo termine per la
Chiesa fu sant’Ignazio d’Antiochia che
scrive: «Dove è il vescovo, ivi è la
comunità, come dove è Gesù Cristo ivi è la
Chiesa Cattolica»144. L’aggettivo
«catholicos» deriva dall’avverbio
«catholou» che significa: «nell’insieme, in
generale, dappertutto, universalmente».
Nelle Catechesi dette di san Cirillo di
Gerusalemme, troviamo la migliore
descrizione del contenuto di quell’aggettivo
applicato alla Chiesa:
«La Chiesa è detta “cattolica” perché si trova in
tutto il mondo, da un confine all’altro
dell’universo; perché insegna tutti i dogmi, perché
ha come sudditi tutti gli uomini […]. Perché
guarisce dappertutto tutte le specie di peccati

388
commessi con l’anima e con il corpo. Perché
possiede in sé medesima ogni specie di ciò che si
chiama virtù, in parole, in opere e in ogni sorta di
carismi spirituali»145.
L’aggettivo «cattolica» implica dunque
una duplice universalità: a) una universalità
esterna, o geografica, per cui abbraccia tutti
gli uomini, di tutta la terra; b) una
universalità interiore, o di contenuto, per
cui possiede tutti i dogmi, cioè tutta la
verità, e racchiude in sé tutti i carismi. La
Chiesa, in altre parole, è cattolica perché è
il «pleroma», «la pienezza di colui che si
realizza interamente in tutte le cose» (cf Ef
1, 23). Essa è l’intero, non la parte; il corpo
vivente, non un membro, o un insieme di
membra.
Appare subito evidente perché non ci può
essere che una sola Chiesa «Cattolica»:
perché non ci possono essere due «interi»,
due corpi di Cristo distinti tra di loro.
Appare anche evidente perché bisogna
essere inseriti in questa Chiesa Cattolica per
avere la vita: perché in essa soltanto si
attinge la verità di Dio e in essa soltanto i

389
carismi sono mantenuti uniti tra di loro e in
vitale contatto con la loro fonte, che è lo
Spirito di Gesù risorto.
Su questo punto, sant’Ireneo di Lione ha
detto delle cose che si rivelano di una
estrema attualità. Egli scriveva contro gli
eretici:
«Alla Chiesa, infatti, è stato affidato il Dono di
Dio, come il soffio alla creatura plasmata, affinché
tutte le membra, partecipandone, siano vivificate;
e in lei è stata deposta la comunione con Cristo,
cioè lo Spirito Santo, caparra di incorruttibilità,
conferma della nostra fede e scala della nostra
salita a Dio. Infatti “nella Chiesa – dice san Paolo
– Dio pose apostoli, profeti e dottori” e tutta la
rimanente operazione dello Spirito. Di lui non
sono partecipi tutti quelli che non corrono alla
Chiesa, ma si privano della vita a causa delle loro
false dottrine ed azioni perverse. Perché dove è la
Chiesa, là è anche lo Spirito di Dio; e dove è lo
Spirito di Dio, là è la Chiesa e ogni grazia. Ora, lo
Spirito è Verità. Perciò quelli che non partecipano
di lui, non si nutrono alle mammelle della Madre
per la vita, né attingono alla purissima sorgente
che sgorga dal corpo di Cristo, ma “si scavano
cisterne screpolate” fatte da fosse di terra, e
bevono l’acqua fetida di un pantano»146.
Dalle parole accorate di sant’Ireneo

390
appare chiaro che la Chiesa è il «luogo» di
coloro che cercano lo Spirito e coltivano i
carismi. Tutto questo significa qualcosa di
più che rimanere fedeli sudditi della Chiesa
Cattolica Romana; significa avere il senso
dell’universalità, della totalità; significa non
ripiegarsi sul particolare, sul privato,
perdendo di vista il tutto; significa battere
all’unisono con il cuore di Dio e di Cristo
che abbraccia tutto e tutti. Bisogna «sentire
cum Ecclesia», cioè avere il senso della
Chiesa, come nel corpo umano ogni
membro ha la vitale percezione di tutto il
corpo in cui si muove e con cui si nutre.
Bisogna attingere sempre il frammento (il
proprio gruppo, la propria esperienza) nel
tutto e il tutto nel frammento.

d. La Chiesa è apostolica
Il senso dell’ultima nota della Chiesa,
«apostolica», è espresso nella Lettera agli
Efesini in questi termini:
«Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti,
ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio,
edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei

391
profeti, avendo come pietra d’angolo lo stesso
Cristo Gesù. In lui tutta la costruzione cresce ben
ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui
anche voi venite edificati insieme per diventare
abitazione di Dio per mezzo dello Spirito» (Ef 2,
19-21).
Dire che la Chiesa è apostolica significa
che è unita a Gesù Cristo, la pietra angolare,
tramite gli apostoli che ne sono le
fondamenta. In questo testo c’è una
differenza tra la pietra angolare e il
fondamento; altrove Gesù è definito lui
stesso il fondamento: «Infatti nessuno può
porre un fondamento diverso da quello che
già vi si trova, che è Gesù Cristo» (1 Cor 3,
11). Ma non c’è contraddizione: Cristo è il
fondamento in senso attivo, gli apostoli in
senso passivo; in altre parole, Gesù è colui
che fonda, gli apostoli coloro che sono
fondati; Gesù è il fondamento non fondato,
gli apostoli sono fondamento in quanto essi
stessi fondati.
L’apostolicità della Chiesa inizia con
l’elezione dei Dodici. Alcuni studiosi in
passato hanno messo in dubbio che Gesù

392
intendesse fondare qualcosa. «Cristo
annunciò il regno di Dio e quello che seguì
fu la Chiesa», ha detto qualcuno
ironicamente. Ma ciò è smentito dal fatto
che Gesù, durante la sua vita, elesse i dodici
apostoli perché questo mostra con chiarezza
che egli intendeva che la sua opera e la sua
missione continuassero dopo la sua morte.
Molte parabole evangeliche (la crescita del
seme fino a diventare un albero grande, il
grano e la zizzania che crescono insieme
fino alla fine del mondo) risulterebbero
incomprensibili senza una comunità che
vive e cresce nella storia.
Il secondo momento costitutivo della
apostolicità è dato dall’invio degli apostoli:
«A me è stato dato ogni potere in cielo e
sulla terra. Andate dunque e fate discepoli
tutti i popoli, battezzandoli nel nome del
Padre e del Figlio e dello Spirito Santo,
insegnando loro a osservare tutto ciò che vi
ho comandato. Ed ecco, io sono con voi
tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt
28, 18-20). Nel Vangelo di Giovanni l’invio
degli apostoli è messo in relazione con

393
l’invio del Figlio nel mondo da parte del
Padre: «Come il Padre ha mandato me, io
mando voi» (Gv 20, 21). La Chiesa
primitiva ha compreso l’importanza di
questo rapporto e lo ha esteso
coerentemente al passaggio dagli apostoli ai
loro successori. Nella Lettera ai Corinzi,
scritta prima della fine del I secolo, san
Clemente papa scrive:
«Cristo fu inviato da Dio, e gli apostoli da Cristo
[…]. Essi predicarono dappertutto nelle campagne
e nelle città ed elessero i loro primi successori,
dopo averli provati nello Spirito, perché fossero
vescovi e diaconi»147.
Cristo è mandato dal Padre, gli apostoli
da Cristo, i vescovi dagli apostoli: è la
prima, chiara enunciazione del principio
della «successione apostolica» che Ireneo,
Tertulliano e gli altri scrittori ecclesiastici
fanno valere contro gli gnostici. Solo le
Chiese fondate da un apostolo o da un loro
successore hanno il diritto, dicevano, di
usare le Scritture e insegnare la retta
dottrina.
Nella interpretazione della Chiesa

394
cattolica la successione apostolica include
la trasmissione del ruolo del capo degli
apostoli. Se Pietro è il fondamento e la
roccia su cui Gesù intende costruire la sua
Chiesa (cf Mt 16, 18 ss.), vuol dire che essa
può continuare ad esistere solo se il suo
fondamento continua a esistere. È
impensabile che prerogative così solenni,
come quella di tenere le chiavi del Regno,
si riferiscano soltanto ai primi venti o
trent’anni di vita della Chiesa, ma che erano
destinate a cessare con la sua morte.
Il ruolo di Pietro continua nei suoi
successori. Pensare, ha detto qualcuno, che
avere la Bibbia e lo Spirito Santo per
interpretarla è tutto ciò di cui la Chiesa ha
bisogno per vivere e diffondere il vangelo,
sarebbe come dire che sarebbe stato
sufficiente per i fondatori degli Stati Uniti
scrivere la Costituzione e indicare lo spirito
con cui essa andava interpretata, senza
bisogno di dotare lo Stato di alcun governo
e di un presidente. È difficile pensare che
esisterebbero ancora gli Stati Uniti.
Dovremmo però evitare il pericolo di

395
ridurre la successione apostolica a qualcosa
di puramente giuridico, cioè al fatto di
essere ordinati da uno che ha il potere
canonico di farlo. C’è in essa un elemento
spirituale che consiste nell’unzione dello
Spirito per la quale l’eletto partecipa
all’unzione profetica, regale e sacerdotale di
Gesù. L’elezione canonica, da sola, assicura
la successione apostolica, ma non il
successo apostolico! È l’unzione dello
Spirito Santo ciò che assicura il vero
successo apostolico.
Non si può concludere, perciò, il discorso
sulla apostolicità della Chiesa, senza
accennare a quest’ultimo aspetto di essa. Il
termine «apostolica» può avere un
significato passivo e uno attivo. Nel senso
passivo, dire che la Chiesa è apostolica
significa dire che è fondata sugli apostoli;
nel suo significato attivo significa dire che è
missionaria, che è anch’essa «inviata»; in
altre parole, la Chiesa è apostolica se
continua a fare quello che facevano gli
apostoli. È l’aspetto della apostolicità che è
più urgente mettere in luce ai nostri giorni.

396
La nostra situazione infatti è tornata ad
essere molto vicina a quella degli apostoli:
essi dovevano annunciare il vangelo a un
mondo pre-cristiano, noi dobbiamo
annunciarlo a un mondo post-cristiano!

397
3. Amare la Chiesa
Abbiamo riflettuto sulla natura della
Chiesa e sulle note o caratteristiche che la
contraddistinguono: unità, santità,
cattolicità e apostolicità. Quale sarà la
nostra risposta? L’articolo del credo ci fa
dire: «Credo la Chiesa»; a questa
professione di fede dobbiamo far seguire
una professione di amore: «Amo la
Chiesa!». Nella Lettera agli Efesini
leggiamo:
«Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per
lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del
lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al
fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta
gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di
simile, ma santa e immacolata» (Ef 5, 25-27).
L’affermazione «Cristo ha amato la
Chiesa» contiene implicita una domanda:
«E tu? Ami tu la Chiesa?». «Nessuno –
prosegue il testo di Efesini – infatti ha mai
preso in odio la propria carne; al contrario
la nutre e la cura, come fa Cristo con la
Chiesa, poiché siamo membra del suo

398
corpo» (vv. 29-30). Come si può continuare
allora a dire: «Cristo sì, la Chiesa no!»?
Perché siamo così spesso tentati, anche noi
credenti, di puntare il dito accusatore
dicendo: «La Chiesa sbaglia in questo,
sbaglia in quello; la Chiesa dovrebbe dire,
la Chiesa dovrebbe fare…».
Anche la Chiesa, a somiglianza di Gesù, è
«la pietra che i costruttori hanno scartato», i
costruttori della moderna città secolarizzata.
È la sposa ripudiata, ma ripudiata dagli
uomini, non da Dio. In inglese è stato
coniato un termine specifico per designare
questa categoria di persone: unchurched
Christians, cristiani senza Chiesa. Non ci si
rende conto che in questo modo – a meno
che non si sia scusati da ignoranza o da
buona fede – non ci si priva soltanto della
Chiesa, ma anche di Cristo. Quello che
Gesù dice di ogni matrimonio si applica
infatti a maggior ragione al suo matrimonio
con la Chiesa: «Ciò che Dio ha congiunto,
l’uomo non lo separi» (Mt 19, 6). San
Cipriano diceva: «Non può avere Dio per

399
Padre chi non ha la Chiesa per madre»148.
Avere la Chiesa per madre non significa
solo essere stati battezzati nella Chiesa,
significa anche stimarla, rispettarla come
madre, sentirsi solidali con essa, nella
buona e nella cattiva sorte.
Succede con la Chiesa come con la
vetrata di una cattedrale gotica. Io l’ho
notato la prima volta visitando la cattedrale
di Chartres. Se si guarda dall’esterno, dalla
pubblica via, la vetrata non è che un
insieme di pezzi di vetro scuri, legati tra
loro da strisce di piombo altrettanto scure.
Ma se si entra dentro la cattedrale e si
guarda la stessa vetrata controluce,
dall’interno, che spettacolo di colori, di
figure, di senso! Avviene, dicevo, lo stesso
con la Chiesa. Chi la guarda dall’esterno,
con gli occhi del mondo e dei mass media,
non vede che il suo lato oscuro, pieno di
miserie; ma vista dal di dentro con gli occhi
della fede e con il sentimento di appartenere
ad essa, vi vede ciò che vi vede Paolo nella
Lettera agli Efesini: un meraviglioso

400
edificio, in cui ogni giuntura è compaginata
con l’altra, una sposa senza macchia, «un
grande mistero».
Conosciamo bene l’obiezione: «E
l’incoerenza della Chiesa? E gli scandali
della Chiesa?». Questo è dovuto in buona
parte al fatto che non riusciamo ad accettare
che Dio abbia deciso di manifestare la sua
gloria e onnipotenza attraverso la terribile
debolezza e imperfezione degli uomini,
compresi «gli uomini di Chiesa». Uno
scrittore scozzese del dopoguerra, Bruce
Marshall, in un suo romanzo intitolato Il
mondo, la carne e Padre Smith, fa questa
osservazione acuta: «Il Figlio di Dio venne
in questo mondo e, da buon falegname
quale era diventato alla scuola di Giuseppe,
ha raccolto i pezzi di legno più miserabili e
bitorzoluti che ha trovato e con essi ha
fabbricato una barca che dopo duemila anni
tiene ancora magnificamente il mare».
I peccati della Chiesa! Crediamo che
Gesù non li conoscesse meglio di noi? Non
sapeva forse per chi moriva e dove era la
maggioranza degli apostoli in quel

401
momento? Ma egli ha amato la Chiesa
reale, non una ideale e immaginaria. Morì
per rendere la sua sposa «pura e
immacolata», non perché era già pura e
immacolata. Cristo ha amato la Chiesa «in
speranza», non per quello che è, ma per
quello che sarà, la nuova Gerusalemme,
preparata «come sposa adorna per il suo
sposo» (Ap 21, 2).
Ma perché, poi, questa nostra Chiesa è
così povera e lenta? Ce lo siamo mai
domandato? Don Primo Mazzolari, che non
era certo un uomo abituato a lusingare la
Chiesa istituzionale, ha scritto:
«Signore, sono la tua carne inferma; ti peso come
croce che pesa, come spalla che non regge. Per
non lasciarmi a terra, ti carichi anche del mio
fardello e cammini come puoi. E tra coloro che tu
porti c’è qualcuno che ti fa colpa di non
camminare secondo le regole e accusa di lentezza
anche la tua Chiesa, dimenticando che, carica
com’è di scorie umane che non può né vuole
buttare a mare (sono i suoi figlioli!), il portare vale
più dell’arrivare».
La Chiesa va lenta, certo. Va lenta
nell’evangelizzazione, nel rispondere ai

402
segni dei tempi, nella difesa dei poveri e in
tante altre cose, ma va lenta perché porta
sulle spalle noi che siamo ancora pieni di
zavorra di peccato. I figli accusano la madre
di essere piena di rughe e queste rughe,
come avviene anche sul piano naturale,
sono proprio essi che gliele hanno
procurate.
Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se
stesso per lei perché fosse «senza macchia»,
e la Chiesa sarebbe senza macchia, se non
avesse noi! La Chiesa avrebbe una ruga in
meno, se io avessi commesso un peccato in
meno. A uno dei Riformatori che lo
rimproverava di rimanere nella Chiesa
cattolica, nonostante la sua «corruzione»,
Erasmo da Rotterdam rispose un giorno:
«Sopporto questa Chiesa, in attesa che
divenga migliore, dal momento che
anch’essa è costretta a sopportare me, in
attesa che io divenga migliore»149.
Dobbiamo chiedere perdono tutti a Cristo
di tanti giudizi sconsiderati e di tante offese
arrecate alla sua sposa e, per conseguenza, a

403
lui stesso. Provate a dire a un uomo
veramente innamorato che la sua sposa è
brutta, o che è una «poco di buono», e
vedrete se potete fargli offesa più grande e
se potete sostenere la sua collera. Antoine
de Saint-Exupéry, scriveva queste parole in
un momento buio della storia della sua
patria, durante l’occupazione nazista della
Francia e il compromesso del governo di
Vichy:
«Poiché io sono uno di essi io non rinnegherò i
miei, qualunque cosa facciano. Non predicherò
contro di essi davanti ad estranei. Se è possibile
prendere la loro difesa, li difenderò. Se mi
coprono di vergogna, nasconderò questa vergogna
nel mio cuore e tacerò. Qualunque cosa io pensi di
essi allora, non servirò mai di testimone a carico.
Un marito non va di casa in casa a informare, lui
stesso, i vicini che sua moglie è una sgualdrina:
non salverebbe in tal modo il suo onore. Poiché la
sua sposa è della sua casa, non può farsi bello
contro di essa. Piuttosto, una volta rientrato in casa
sua, egli darà sfogo alla sua collera»150.
In anni non lontani è avvenuto proprio
questo nei confronti della Chiesa. Avendo
rotto la comunione con essa, alcuni

404
andavano di università in università, di
rivista in rivista, di congresso in congresso,
ripetendo le proprie amare accuse contro la
Chiesa «istituzionale», come se essa fosse
tutt’altra cosa rispetto all’ideale di Chiesa
coltivato nella propria mente. Spesso non si
fa che nascondere, dietro un polverone di
accuse contro la Chiesa e i superiori, il
proprio naufragio nella fede.
Si dovrà dunque tacere, tutti e sempre,
nella Chiesa? No, una volta «rientrato in
casa», una volta che hai pianto con la
Chiesa, che ti sei umiliato sotto i suoi piedi,
Dio ti può comandare, come ha fatto con
altri nel passato, di alzare la voce contro «le
piaghe della Chiesa». Ma non prima di
allora, e non senza che tu, in qualche modo,
muoia in questa pericolosa missione.
Accogliamo, come rivolto a noi l’invito del
profeta, intendendo per Gerusalemme la
Chiesa:
«Rallegratevi con Gerusalemme,
esultate per essa tutti voi che l’amate.
Sfavillate con essa di gioia
tutti voi che per essa eravate in lutto.

405
Così sarete allattati e vi sazierete
al seno delle sue consolazioni;
succhierete e vi delizierete
al petto della sua gloria»
(Is 66, 10-11).

406
Note
142 Agostino, Discorsi, 71, 12, 18 (PL 38, 454).
143 Ibidem, 267, 4 (PL 38, 1231).
144 Ignazio d’Antiochia, Agli Smirnesi, 8, 2.
145 Cirillo di Gerusalemme, Catechesi, XVIII, 23
(PG 33, 1044).
146 Ireneo, Adversus haereses, III, 24, 1-2.
147 1 Clementis, 42, 1-2.
148 Cipriano, L’unità della Chiesa, 6 (PL 4, 503).
149 Erasmo da Rotterdam, Hyperaspistae Diatribes,
I, 1 (Opera omnia, X, Leida 1706, col. 1258): «Fero
igitur hanc Ecclesiam, donec videro meliorem: et
eadem me ferre cogitur, donec ipse fiam melior».
150 A. de Saint-Exupéry, Pilota di guerra,
Bompiani, Milano 2008, p. 24.

407
X
PROFESSO UN SOLO
BATTESIMO
PER LA REMISSIONE DEI
PECCATI

Masolino da Panicale (1383-1447),


Battesimo di Cristo

408
Siamo giunti alla penultima tappa del
nostro itinerario di fede. Anche questo
articolo, come tutto il resto del credo, non
va letto alla stregua di un articolo o di un
comma di una costituzione redatta a
tavolino. È una perla che la Chiesa ha
trovato nelle Scritture e messo nel suo
scrigno, che è il simbolo di fede.
L’espressione «un solo battesimo» è tratta
dalla Lettera agli Efesini, come molte altre
espressioni del credo che accentuano
l’unità: «Un solo Signore, una sola fede, un
solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti»
(Ef 4, 5-6). La specificazione «per la
remissione dei peccati» si ispira invece, con
tutta probabilità, a una parola di Pietro nel
discorso di Pentecoste. Alla domanda della
folla compunta: «Che dobbiamo fare,
fratelli?», Pietro risponde infatti: «Pentitevi,
fatevi battezzare nel nome di Gesù Cristo
per la remissione dei vostri peccati» (At 2,
37-38).
Così come suona, l’articolo – assente
ancora nel simbolo di Nicea del 325 – era

409
presente nei simboli orientali del IV secolo,
uno dei quali servì da modello al nostro
credo attuale. Fatto curioso: in Occidente,
dove più accesa fu la disputa se ripetere o
meno il battesimo amministrato dagli
eretici, il nostro articolo, fino a tutto il IV
secolo, suona semplicemente «(credo) la
remissione dei peccati».
Sia Agostino che un suo avversario
donatista scrivono un trattato Sull’unico
battesimo: l’autore donatista per dimostrare
che il battesimo valido è solo quello
amministrato da ministri santi nella sua
Chiesa; Agostino per dimostrare che il
battesimo, quando è celebrato nel modo
corretto, è unico ed è valido anche se
amministrato da ministri indegni o
eretici151. Entrambi citano Efesini 4, 5:
«un solo battesimo», ma nessuno dei due
sembra conoscere e appoggiarsi
sull’affermazione del nostro credo,
evidentemente perché, come abbiamo
spiegato all’inizio, esso rimase sconosciuto
fino al concilio di Calcedonia del 451.

410
1. Il battesimo nel Nuovo Testamento
Fin dall’inizio della Chiesa, il battesimo è
visto come l’atto costitutivo del credente,
quello che lo fa «discepolo» di Cristo e
membro del popolo di Dio, analogamente a
quello che rappresentava la circoncisione
per gli ebrei. La pratica, secondo Matteo,
deriva direttamente da un ordine del Risorto
che, prima di salire al cielo, dice agli
apostoli: «Andate dunque e fate discepoli
tutti i popoli, battezzandoli nel nome del
Padre e del Figlio e dello Spirito Santo»
(Mt 28, 19).
È possibile che, così come suona, con la
sua esplicita professione di fede trinitaria, la
formula risenta della pratica liturgica della
Chiesa dopo la Pasqua. Nel testo citato del
capitolo 2 degli Atti, si parla di un
battesimo «nel nome di Gesù Cristo», per
distinguerlo, evidentemente, dal battesimo
di Giovanni. Nel Vangelo di Marco lo
stesso mandato di Cristo suona più
semplicemente: «Andate in tutto il mondo e

411
proclamate il vangelo a ogni creatura. Chi
crederà e sarà battezzato, sarà salvato, chi
non crederà sarà condannato» (Mc 16, 15-
16). La fede è legata in radice al battesimo e
il battesimo alla fede.
La dottrina più ricca sul significato del
battesimo nel Nuovo Testamento è quella di
san Paolo e degli scritti a lui attribuiti, come
la Lettera agli Ebrei. Il battesimo fa della
persona che lo riceve uno che è «morto al
peccato» (Rm 6, 11), «una nuova creatura»
(2 Cor 5, 17), «un uomo nuovo» (Ef 2, 15),
membro del corpo di Cristo animato dallo
Spirito Santo (Ef 4, 4). Il rito è anche
presentato nel Nuovo Testamento come un
«lavacro di purificazione» (Ef 5, 26; Eb 10,
22; Tt 3, 5) e come una illuminazione (Eb
6, 4; 10, 32); per Giovanni esso è una
«nuova nascita» (Gv 3, 5). La Prima Lettera
di Pietro usa l’immagine suggestiva del
diluvio:
«Nello spirito [Cristo] andò a portare l’annuncio
anche alle anime prigioniere che un tempo
avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua
magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre

412
si fabbricava l’arca, nella quale poche persone,
otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua.
Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora
salva anche voi» (1 Pt 3, 19-21).
Nel Nuovo Testamento, oltre il battesimo
d’acqua, si trova menzionato un altro rito,
quello dell’imposizione delle mani, che ha
lo scopo di comunicare visibilmente e in
modo carismatico lo Spirito Santo, con
effetti analoghi a quelli prodotti sugli
apostoli a Pentecoste. Il testo più esplicito
in tal senso si trova negli Atti degli apostoli:
«Frattanto gli apostoli, a Gerusalemme, seppero
che la Samaria aveva accolto la parola di Dio e
inviarono a loro Pietro e Giovanni. Essi scesero e
pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito
Santo; non era infatti ancora disceso sopra
nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati
nel nome del Signore Gesù. Allora imponevano
loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo»
(At 8, 14-17).
A ciò si aggiunge quello che san Paolo
scrive nella Seconda Lettera ai Corinzi: «È
Dio stesso che ci conferma, insieme a voi,
in Cristo e ci ha conferito l’unzione, ci ha
impresso il sigillo e ci ha dato la caparra

413
dello Spirito nei nostri cuori» (2 Cor 1, 21-
22).
Rimane aperta la domanda se questi testi
che parlano dell’unzione e del sigillo
riflettono una prassi liturgica già instaurata
nella Chiesa, nell’ambito dei riti
dell’iniziazione, o sono invece, proprio essi,
a determinare, in seguito, tale prassi. È
certo, in ogni caso, che ben presto, già nel II
secolo, nel contesto dell’iniziazione
cristiana appare un rito dell’unzione che in
genere segue il battesimo, ma a volte, come
in Siria, lo precede.
Da questo rito dell’unzione (chrio) si fa
derivare il nome stesso di cristiani
(christianoi), come da esso era derivato
quello di Cristo152. Il tema poi dello
Spirito Santo come «sigillo regale», con cui
Cristo contrassegna le sue pecorelle al
momento del battesimo, ricorre
continuamente nelle fonti antiche153, fino a
evolversi nella dottrina del «carattere
indelebile» conferito dalla cresima.
Il rito dell’unzione assume particolare

414
rilievo nell’ambito della catechesi
mistagogica, dove comincia a configurarsi
già come un rito a sé stante, nel contesto
dell’iniziazione, collocato tra il battesimo e
il ricevimento dell’Eucaristia.
«Divenuti partecipi di Cristo, giustamente voi
siete chiamati “cristi”, perché avete ricevuto il
sigillo dello Spirito Santo […]. Dopo che Gesù fu
battezzato nel Giordano e comunicò alle acque il
profumo della sua divinità, ne risalì e lo Spirito
Santo discese personalmente su di lui. Anche a
voi, quando siete risaliti dalla piscina delle sacre
fonti, fu conferito il crisma, che è figura di quello
che unse Cristo, cioè dello Spirito Santo»154.
In tutto il periodo patristico, si nota una
incertezza e una oscillazione circa il
significato da dare a questi riti
dell’imposizione delle mani e dell’unzione,
rispetto al battesimo vero e proprio.
Qualcuno avanza la tesi, rimasta però
isolata, secondo cui con il battesimo di
acqua si riceve la remissione dei peccati, e
con l’unzione il dono vero e proprio dello
Spirito. Più tardi questo rito dell’unzione si
configurò come sacramento a parte,
l’attuale cresima, o confermazione,

415
assumendo forme e contenuti diversi nelle
varie epoche e nelle varie Chiese. Non è qui
il luogo di rifare questa storia complessa e
mai del tutto chiarita. Ci limitiamo a
ricordare quello che la catechesi attuale
della Chiesa cattolica insegna a suo
riguardo.
«La confermazione è per ogni fedele ciò che per
tutta la Chiesa è stata la Pentecoste, ciò che per
Gesù è stata la discesa dello Spirito all’uscita dal
Giordano. Essa rafforza l’incorporazione
battesimale a Cristo e alla Chiesa e la
consacrazione alla missione profetica, regale e
sacerdotale. Comunica l’abbondanza dei doni
dello Spirito, i “sette doni” che consentono di
giungere alla perfezione della carità. Se dunque il
battesimo è il sacramento della nascita, la cresima
è il sacramento della crescita. Per ciò stesso è
anche il sacramento della testimonianza perché
questa è strettamente legata alla maturità
dell’esistenza cristiana»155.

416
2. Una catechesi mistagogica sul
battesimo
Concentriamoci ora sul nostro articolo del
credo, dove viene menzionato il battesimo
come comprensivo di tutto. Nell’antichità
cristiana esisteva una catechesi speciale,
chiamata, appunto, catechesi mistagogica.
Era riservata, all’inizio, soltanto al vescovo
e veniva impartita non prima, ma dopo il
battesimo, in genere nella settimana
successiva alla Pasqua. Essa aveva lo scopo
di introdurre i neofiti al significato
profondo dei misteri che avevano ricevuto
(da cui il nome di myst- = mistero e ago =
introduco). Il battesimo era naturalmente il
primo di tali misteri. Tale catechesi
consisteva nel passare in rassegna i vari riti
che accompagnano il sacramento,
esplicitandone il significato simbolico e
misterico, come pure il compimento in essi
delle figure presenti nell’Antico
Testamento. Celebri sono rimaste la
catechesi mistagogica attribuita a san

417
Cirillo di Gerusalemme (IV sec.) e quella di
Nicola Cabasilas (XIII sec.); tra i latini,
quelle di sant’Ambrogio Sui misteri e Sui
sacramenti.
Nello stile di queste antiche catechesi,
passiamo anche noi in rassegna i riti del
battesimo per raccoglierne il significato,
tenendo conto della comprensione che la
Chiesa ha raggiunto di essi, come pure dei
problemi e delle domande nuove dell’uomo
d’oggi.
Come ogni sacramento, il battesimo è
fatto di due cose: di gesti e di parole. Vista
e udito sono entrambi chiamati in causa.
Somiglia a una rappresentazione, a un
dramma. La differenza è che nel dramma
l’avvenimento è rappresentato, nel
sacramento esso è rinnovato. Il sacramento,
si dice in teologia, «causa quello che
significa» (significando causat).
Ripercorriamo i momenti principali del
rito del battesimo amministrato ai bambini.
Si comincia con l’imposizione del nome:
«Che nome date al vostro bambino?». In
questo momento, viene pronunciato per la

418
prima volta in pubblico quello che sarà il
nostro nome per l’eternità. La Bibbia ci
assicura che anche Dio ci conosce e ci
chiama per nome (cf Is 43, 1). Proprio
perché il nome è destinato ad accompagnare
il bambino per tutta la vita, i genitori, nel
deciderlo, dovrebbero evitare di scegliere
nomi troppo singolari che un giorno
potrebbero imbarazzare i loro figli.
Segue, a questo punto, la rinuncia a
Satana e la professione di fede. Ma
portiamoci subito al momento del battesimo
vero e proprio. La liturgia dedica particolare
attenzione all’elemento di cui Gesù ha
voluto servirsi, l’acqua. Essa ricorda
l’acqua del diluvio, l’acqua del Mar Rosso,
l’acqua del Giordano, l’acqua che sgorgò
dal costato di Cristo. A causa del battesimo,
l’acqua divenne una creatura cara ai primi
cristiani. Tertulliano la chiama
affettuosamente «la nostra acqua» e
aggiunge: come i pesciolini nascono e
vivono nell’acqua, mentre boccheggiano e
muoiono se se ne allontanano, così noi
cristiani, se ci distacchiamo dal nostro

419
battesimo156.
Il celebrante fa dunque avvicinare al fonte
i genitori, prende tra le braccia il bambino o
la bambina e, chiamandolo per nome, per
tre volte lo immerge nell’acqua,
pronunciando le semplici e solenni parole
indicate da Gesù stesso nel Vangelo: «Io ti
battezzo nel nome del Padre e del Figlio e
dello Spirito Santo».
Qui si vede come è importante, nei
sacramenti, vedere e udire. Abbiamo visto
compiere un gesto e abbiamo udito
pronunciare alcune parole. In ciò sta la
chiave per capire il significato profondo del
battesimo. Anzitutto, il gesto. Per tre volte
la persona viene immersa, interamente o
con il capo, nell’acqua, e per tre volte ne è
riemersa. Questo sta a simboleggiare Gesù
Cristo che per tre giorni fu sepolto sotto
terra e al terzo giorno risuscitò. San Paolo
infatti spiega così il battesimo:
«O non sapete che quanti siamo stati battezzati in
Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua
morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque
stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come

420
Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della
gloria del Padre, così anche noi possiamo
camminare in una vita nuova» (Rm 6, 3-4).
D’altra parte, le parole «nel nome del
Padre e del Figlio e dello Spirito Santo»,
evocano, o meglio rendono presente, la
Trinità. Così, nel battesimo, noi
professiamo i due più grandi misteri della
nostra fede; con i gesti, evochiamo
l’incarnazione, morte e risurrezione di
Cristo; con le parole l’unità e Trinità di Dio.
Nell’agire di Dio si nota sempre una
sproporzione tra i mezzi impiegati e i
risultati ottenuti. I mezzi sono semplicissimi
(nel battesimo, un poco d’acqua con
qualche parola), i risultati grandiosi. Il
battezzato è una creatura nuova, è rinato
dall’acqua e dallo Spirito; è diventato figlio
di Dio, membro del corpo di Cristo che è la
Chiesa, e tempio vivo dello Spirito Santo. Il
Padre celeste pronuncia, su ogni bambino o
adulto che esce dal fonte battesimale, le
parole che disse su Gesù, quando uscì dalle
acque del Giordano: «Tu sei il mio figlio,
prediletto (o la mia figlia prediletta): in te

421
mi sono compiaciuto».
Tutto, nel battesimo, avviene in simbolo,
in immagine, cioè attraverso dei segni;
tuttavia quello che, attraverso di essi, si
consegue non è un simbolo, ma è realtà. La
persona non è scesa davvero nella morte,
ma Gesù le ha concesso ugualmente il
frutto della sua morte e della sua
risurrezione157.
Completano il battesimo alcuni riti
minori, ma assai suggestivi. Uno è quello
della veste bianca che viene consegnata al
neobattezzato, segno dell’innocenza
ridonatagli da Cristo che i genitori e i
padrini dovranno aiutarlo a conservare per
tutta la vita. Un altro è il rito della luce: il
sacerdote accende una candela dal cero
principale, come simbolo della fede che
genitori, padrino e madrina dovranno
trasmettere al bambino. Un terzo rito è
quello dell’Effatà. Il ministro tocca le
orecchie e le labbra del battezzando e
pronuncia la parola aramaica con cui un
giorno Gesù ridiede l’udito e la favella a un

422
sordomuto (cf Mc 7, 34), come segno della
parola di Dio che il cristiano deve ascoltare
e proclamare.
Una domanda che spesso la gente si pone
circa il battesimo è questa: perché
battezzare i bambini da piccoli e non
aspettare invece che siano grandi e
decidano loro stessi liberamente? È una
domanda seria, ma può nascondere un
inganno. Quando due genitori decidono di
avere un figlio, forse chiedono prima il suo
permesso? No, ma, sapendo che la vita è un
dono immenso, hanno giustamente
supposto che il bambino un giorno sarebbe
stato loro grato per esso. Si chiede forse il
permesso a una persona prima di fargli un
dono? Ora, il battesimo è la vita divina che
viene gratuitamente «donata» a noi. In esso
l’aspetto della grazia prevale perfino su
quello della fede che in certi casi può
seguire, anziché precedere il sacramento. È
la ragione per cui la maggioranza delle
Chiese cristiane hanno sempre difeso la
legittimità del battesimo dei bambini.
Non è violare la libertà dei figli far sì che

423
possano ricevere questo dono all’alba stessa
della vita. Non è la stessa cosa vivere
l’infanzia e la giovinezza con la grazia
santificante, o senza di essa! Certo, tutto
questo suppone che i genitori siano essi
stessi credenti e intendano aiutare il
bambino a sviluppare il dono della fede. La
Chiesa riconosce ad essi una competenza
decisiva in questo campo. Per questo non
vuole che un bambino sia battezzato contro
la volontà dei genitori. A volte, ci sono
delle buone nonne credenti che soffrono
perché un loro nipotino o nipotina non sono
stati battezzati e vorrebbero farlo loro di
nascosto. Ma, eccetto casi particolarissimi,
questo non è permesso dalla Chiesa.
Ci sono persone, ai giorni nostri, che
positivamente rifiutano il battesimo, o, se
l’hanno ricevuto, chiedono di essere
«sbattezzati», cioè cancellati dal registro del
battesimo. Alcune volte, il motivo è molto
contingente: non pagare la tassa, prevista
dalla legge, per la propria Chiesa; altre
volte però il motivo è più serio. Si
considera il battesimo come l’atto per cui si

424
è inseriti nella Chiesa istituzionale, quasi
alla stregua del tesseramento a un partito.
Rifiutando perciò la Chiesa così concepita,
si rifiuta anche il battesimo. Ma il
battesimo, Paolo ci ha spiegato, non è
essere inseriti in una struttura umana; è un
essere incorporati al corpo di Cristo, è
entrare nella corrente di vita dello Spirito
Santo. Noi non veniamo battezzati «nel
nome del papa, dei vescovi e dei preti», ma
«nel nome del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo». La posta in gioco è ben più
seria.

425
3. Il battesimo, sacramento «legato»
Abbiamo cercato fin qui di riflettere sul
significato del battesimo e risposto a
qualche domanda attuale su di esso. Ma che
senso ha tutto questo per la maggioranza
dei cristiani che, almeno nel nostro Paese,
sono stati battezzati nell’infanzia? È un
semplice far memoria di qualcosa che è
avvenuto nel passato o una istruzione in
vista del compito di preparare altri al
battesimo? No, si tratta di attivare in noi
stessi tutto quello che abbiamo ricevuto nel
battesimo e di ratificare, con decisione
libera e personale, tutto quello che, per
bocca di altri, in quell’occasione, abbiamo
promesso.
Per capire come un sacramento ricevuto
tanti anni prima, addirittura agli inizi della
vita, possa improvvisamente tornare a
rivivere e a sprigionare energia spirituale,
bisogna tener presenti alcuni elementi di
teologia sacramentaria. La teologia cattolica
conosce l’idea di sacramento valido e

426
lecito, ma «legato». Un sacramento si dice
«legato» se il suo frutto rimane vincolato,
non usufruito, per mancanza di certe
condizioni che ne impediscono l’efficacia.
Un esempio estremo è il sacramento del
matrimonio o dell’ordine sacro ricevuto in
stato di peccato mortale. In queste
condizioni, tali sacramenti non possono
conferire nessuna grazia alle persone;
rimosso però l’ostacolo del peccato, con
una buona confessione, si dice che il
sacramento rivive (reviviscit) grazie alla
fedeltà e alla irrevocabilità del dono di Dio,
senza bisogno di ripetere il rito
sacramentale158.
Quello del matrimonio o dell’ordine sacro
ricevuti in stato di peccato è, dicevo, un
caso estremo, ma sono possibili altri casi in
cui il sacramento, pur non essendo del tutto
legato, non è però neppure del tutto sciolto,
cioè libero di operare i suoi effetti. Nel caso
del battesimo, che cos’è che fa sì che il
frutto del sacramento resti legato? Bisogna
richiamare qui la dottrina classica dei

427
sacramenti. I sacramenti non sono riti
magici che agiscono meccanicamente,
all’insaputa dell’uomo, o prescindendo da
ogni sua collaborazione. La loro efficacia è
frutto di una sinergia, o collaborazione, tra
l’onnipotenza divina (in concreto: la grazia
di Cristo o lo Spirito Santo) e la libertà
umana.
Tutto ciò che nel sacramento dipende
dalla grazia divina e dalla volontà di Cristo
si chiama «l’opera operata» (opus
operatum)», cioè opera già realizzata, frutto
oggettivo e immancabile del sacramento,
quando è amministrato validamente; tutto
ciò, invece, che dipende dalla libertà e dalle
disposizioni del soggetto si chiama «l’opera
da operare» (opus operantis), cioè opera da
realizzare, apporto dell’uomo.
«L’opera realizzata» del battesimo, cioè la
parte di Dio o la grazia, è molteplice e
ricchissima: remissione dei peccati, dono
delle virtù teologali della fede, speranza e
carità (queste solo in germe), figliolanza
divina; il tutto operato mediante l’efficace
azione dello Spirito Santo. Il battesimo è

428
davvero un ricchissimo pacco-dono che
abbiamo ricevuto al momento della nostra
nascita in Dio. Ma in che consiste, nel
battesimo, l’apporto dell’uomo? Consiste
essenzialmente nella fede! «Chi crederà e
sarà battezzato sarà salvo» (Mc 16, 16).
Si capisce allora perché nei primi tempi
della Chiesa il battesimo fosse un evento
così ricco di grazia. Il battesimo veniva
amministrato ad adulti che si convertivano
dal paganesimo e che, convenientemente
istruiti, erano in grado di fare, in occasione
del battesimo, un atto di fede e una scelta
esistenziale libera e matura. L’opera di Dio
e l’opera dell’uomo si incontravano
contemporaneamente, c’era un sincronismo
perfetto tra grazia e libertà; avveniva come
quando i due poli, positivo e negativo, si
toccano e fanno così sprigionare la luce.
Nel battesimo ricevuto da bambini (ma
anche in quello ricevuto da adulti, se non è
stato accompagnato da intima convinzione
e partecipazione), questo sincronismo viene
a mancare. Non si tratta di condannare la
pratica del battesimo dei bambini che la

429
Chiesa, dicevo, ha sempre giustamente
praticato e difeso, ma di prendere atto di ciò
che essa comporta nella nuova situazione
storica in cui viviamo. Una volta, quando
tutto l’ambiente che circondava il bambino
era cristiano e impregnato di fede, questa
fede poteva sbocciare, anche se
gradualmente. L’atto di fede libero e
personale veniva «supplito dalla Chiesa» ed
espresso, come per interposta persona, dai
genitori e dai padrini. Ora non è più così;
l’ambiente in cui il bambino cresce non è
tale da aiutarlo a far sbocciare in lui la fede:
non lo è spesso la famiglia, non lo è ancora
più spesso la scuola e non lo è, meno che
meno, la società e la cultura. Ecco perché
parlavo del battesimo come di un
sacramento «legato». Esso è come un
ricchissimo pacco-dono, che resta però
sigillato, come certi regali natalizi
dimenticati da qualche parte, prima ancora
di essere stati aperti. Chi lo possiede ha i
«titoli» per compiere tutti gli atti necessari
alla vita cristiana e trarne magari anche del
frutto sebbene parziale, ma non possiede la

430
pienezza della realtà. Nel linguaggio di
sant’Agostino, possiede il sacramento
(sacramentum), ma non la realtà di esso (la
res sacramenti).

431
4. Il battesimo nello Spirito Santo
Per aiutare i cristiani di oggi ad «aprire» il
loro pacco-dono, bisogna ricreare le
condizioni che facevano del battesimo agli
inizi della Chiesa un evento che cambiava
la vita. La risposta a questa esigenza è
venuta da Dio più che dall’iniziativa
umana. E sono gli innumerevoli movimenti
ecclesiali, aggregazioni laicali e comunità
parrocchiali rinnovate, apparse dopo il
concilio Vaticano II. Il contributo comune
di tutte queste realtà, pur nella grandissima
varietà di stile e di consistenza numerica, è
che esse sono il contesto e lo strumento che
permette a tante persone adulte di fare una
scelta personale per Cristo, di prendere sul
serio il proprio battesimo e di diventare
soggetti attivi della Chiesa.
San Giovanni Paolo II vedeva in questi
movimenti e comunità parrocchiali vive «i
segni di una nuova primavera della
Chiesa». Nella Novo millennio ineunte
scriveva:

432
«Grande importanza per la comunione riveste il
dovere di promuovere le varie realtà aggregative,
che sia nelle forme più tradizionali, sia in quelle
più nuove dei movimenti ecclesiali, continuano a
dare alla Chiesa una vivacità che è dono di Dio e
costituisce un’autentica “primavera dello
Spirito”»159.
Nello stesso senso si è espresso, in
diverse occasioni, Benedetto XVI.
Nell’omelia della Messa crismale del
Giovedì Santo del 2012 ha detto:
«Chi guarda alla storia dell’epoca post-conciliare
può riconoscere la dinamica del vero
rinnovamento, che ha spesso assunto forme
inattese in movimenti pieni di vita e che rende
quasi tangibili l’inesauribile vivacità della santa
Chiesa, la presenza e l’azione efficace dello
Spirito Santo».
Il Rinnovamento nello Spirito, o
Rinnovamento carismatico, è una di queste
nuove realtà. Più che un vero e proprio
movimento, esso è una corrente di grazia,
destinata a tutta la Chiesa, che ha già
raggiunto centinaia di milioni di cristiani
nelle varie Chiese e decine di milioni nella
sola Chiesa cattolica. La sua forza è legata a

433
quello che viene chiamato il «battesimo
dello Spirito». Si tratta di un rito fatto di
gesti di grande semplicità, accompagnati da
atteggiamenti di umiltà, di pentimento, di
disponibilità a diventare bambini, per
entrare nel Regno.
È un rinnovamento e un’attualizzazione di
tutta l’iniziazione cristiana, non solo del
battesimo, ma anche della cresima, della
grazia del matrimonio per gli sposati, della
professione religiosa per i consacrati,
dell’ordinazione sacerdotale per i sacerdoti.
L’interessato vi si prepara, oltre che
attraverso una buona confessione,
partecipando a incontri di catechesi, nei
quali è rimesso in un contatto vivo e gioioso
con le principali verità e realtà della fede:
l’amore di Dio, il peccato, la salvezza, la
vita nuova, la trasformazione in Cristo, i
carismi, i frutti dello Spirito. Il tutto, in un
clima caratterizzato da profonda comunione
fraterna.
L’effetto più comune di questa grazia è
che lo Spirito Santo, da oggetto di fede
intellettuale, più o meno astratto, diventa

434
(come dovrebbe essere per sua natura), un
fatto di esperienza. Karl Rahner ha scritto:
«Non possiamo contestare che l’uomo possa fare
quaggiù delle esperienze di grazia, le quali gli
danno un senso di liberazione, gli aprono orizzonti
del tutto nuovi, si imprimono profondamente in
lui, lo trasformano, plasmando, anche per lungo
tempo, il suo atteggiamento cristiano più intimo.
Nulla vieta di chiamare tali esperienze battesimo
dello Spirito»160.
Attraverso quello che viene chiamato,
appunto, «battesimo dello Spirito», si fa
esperienza dello Spirito Santo, della sua
unzione nella preghiera, del suo potere nel
ministero apostolico, della sua consolazione
nella prova, della sua luce nelle scelte.
Prima ancora che nella manifestazione dei
carismi, è così che lo si percepisce: come
Spirito che trasforma interiormente, dona il
gusto della lode di Dio, fa scoprire una
gioia nuova, apre la mente alla
comprensione delle Scritture e soprattutto
insegna a proclamare Gesù «Signore».
Oppure dà il coraggio di assumersi compiti
nuovi e difficili, a servizio di Dio e del

435
prossimo.
Ecco come descriveva gli effetti del
battesimo dello Spirito, su di sé e sul
gruppo, una delle persone che erano
presenti al ritiro del 1967, dal quale ebbe
inizio il Rinnovamento carismatico nella
Chiesa cattolica:
«La nostra fede è diventata viva; il nostro credere
è diventato una sorta di conoscere.
Improvvisamente, il soprannaturale è diventato più
reale del naturale. In breve, Gesù è una persona
viva per noi. Prova ad aprire il Nuovo Testamento
e a leggerlo come se fosse letteralmente vero ora,
ogni parola, ogni riga. La preghiera e i sacramenti
sono diventati veramente il nostro pane
quotidiano, e non delle generiche “pie pratiche”.
Un amore per le Scritture che io non avrei mai
creduto possibile, una trasformazione delle nostre
relazioni con gli altri, un bisogno e una forza di
testimoniare al di là di ogni aspettativa: tutto ciò è
diventato parte della nostra vita. L’esperienza
iniziale del battesimo dello Spirito non ci ha dato
particolare emozione esteriore, ma la vita è
diventata soffusa di calma, di fiducia, gioia e pace.
[…] Abbiamo cantato il Veni creator Spiritus
prima di ogni incontro, prendendo sul serio quello
che dicevamo e non siamo stati delusi. […] Siamo
anche stati inondati di carismi e tutto ciò ci mette
in una perfetta atmosfera ecumenica»161.

436
Come spiegare la straordinaria efficacia di
questo gesto così semplice, nel dischiudere
le energie latenti del battesimo e
sperimentare una nuova Pentecoste? Una
spiegazione è quella che si fonda sulla
affermazione di san Tommaso d’Aquino,
secondo cui c’è una nuova missione dello
Spirito Santo, e quindi una nuova sua
venuta, ogni volta che, nella vita spirituale
o nel proprio ministero, ci si trova davanti a
un nuovo bisogno o compito da esercitare,
che richiedono un nuovo livello di
grazia162. Questa «accelerazione» nel
cammino di grazia è legata di solito alla
ricezione di un sacramento, ma, come fa
capire san Tommaso stesso, non
esclusivamente.
Anche sant’Ambrogio, parlando nel suo
stile più poetico che concettuale, esprime la
stessa convinzione. Dice che accanto
all’Eucaristia (il «calice della salvezza») e
alle Scritture, cioè ai segni sacramentali, c’è
un’altra via per cui si realizza la «sobria
ebbrezza dello Spirito», una via

437
pentecostale, cioè libera, imprevedibile, non
legata a segni istituiti, dipendente soltanto
dalla sovrana e libera iniziativa di Dio:
«Buona cosa è l’ebbrezza del calice della salvezza.
C’è però un’altra ebbrezza che proviene dalla
sovrabbondanza delle Scritture e c’è anche una
terza ebbrezza che si opera tramite la penetrante
pioggia dello Spirito Santo. Fu per essa che,
secondo gli Atti degli apostoli, quelli che
parlavano lingue diverse apparvero agli ascoltatori
come degli ubriachi»163.
La Pentecoste fu il primo «battesimo
dello Spirito». Annunciando la Pentecoste,
Gesù disse: «Giovanni ha battezzato con
acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito
Santo fra non molti giorni» (At 1, 5). Gesù
stesso fu presentato al mondo dal Padre
celeste come «colui che battezza in Spirito
Santo» (Gv 1, 33). In tutta la sua opera, non
soltanto attraverso il sacramento del
battesimo da lui istituito, Gesù «battezza in
Spirito Santo». La sua opera messianica
intera consiste nell’effondere lo Spirito
sulla terra.
Il battesimo dello Spirito, di cui si è

438
tornato a parlare nella Chiesa, è uno dei
modi con cui Gesù risorto continua questa
sua opera essenziale, che è di battezzare
l’umanità «nello Spirito». Esso va spiegato
come un rinnovamento dell’evento di
Pentecoste, non meno che del sacramento
del battesimo e dell’iniziazione cristiana in
genere, anche se le due cose, nella realtà,
coincidono e non andrebbero perciò mai
separate e contrapposte. Sarà il frutto più
importante del dialogo tra Chiese
tradizionali e Chiese pentecostali arrivare a
riconoscere questo: che né la Pentecoste
può fare a meno dei sacramenti (in
particolare del battesimo di acqua), né i
sacramenti della Pentecoste.
Che cosa si richiede perché possiamo fare
anche noi una tale esperienza pentecostale?
Primo, chiedere con insistenza lo Spirito
Santo al Padre, nel nome di Gesù, e
aspettarsi che il Padre risponda! Occorre
una fede che sia piena di aspettativa. Su chi
viene lo Spirito Santo?, si domandava san
Bonaventura, e rispondeva con la sua solita
concisione: «Viene dove è amato, dove è

439
invitato, dove è atteso»164. Ci sono regioni
dove è costume invitare a entrare, e a
condividere quello che uno sta mangiando,
qualsiasi persona che capita in casa all’ora
di pranzo. Ma si sa che la persona invitata,
altrettanto educatamente, si scuserà e
rifiuterà. Si rimarrebbe anzi stupiti e, forse,
segretamente contrariati se invece dovesse
rispondere subito: «Sì, vengo con piacere!».
I nostri inviti allo Spirito Santo: «Vieni,
visita, riempi!» somigliano talvolta, senza
che ce ne rendiamo conto, a questi inviti.
Sono inviti convenzionali, non reali.
Dobbiamo invece ripetere quei tre inviti
come chi è sicuro che saranno presi molto
sul serio e accolti.
Dobbiamo essere pronti a che qualcosa
cambi nella nostra vita. Non si può invitare
lo Spirito Santo a venire, a riempirci, a
patto però che lasci tutto come prima. «Ciò
che lo Spirito tocca, lo Spirito cambia»,
dicevano i Padri165. Chi grida, con le
parole del Veni creator: «Vieni, visita,
riempi!», per ciò stesso si consegna allo

440
Spirito, gli dà le redini della propria vita, o
le chiavi della propria casa. Consegnarsi al
Padre, perché il Padre ci consegni il suo
Spirito! È la condizione. Non possiamo
ripetere: «Vieni! Riempi!», lasciando che
una vocina segreta, quella della carne,
aggiunga sottovoce: «Ma, mi raccomando,
niente stranezze, niente eccessi!». Come
possiamo continuare a dire queste parole, se
appena lo Spirito Santo comincia a fare sul
serio quello che gli chiediamo, gridiamo
spaventati: «Non così, non così!», e di
coloro che mostrano gli effetti della sua
venuta diciamo: «Si sono ubriacati di
mosto»? Gli apostoli non ebbero paura di
essere scambiati per ubriachi.
Non c’è da stupirsi se, in certi casi, nel
crollare, i «muri di Gerico» fanno un po’ di
fracasso, o sollevano fumo e polvere.
Intendo dire: se provocano riso, pianto, o
reazioni «scomposte» di altro tipo nel
corpo. Non è lo Spirito, certo, che provoca
direttamente queste manifestazioni; è la
carne che, a volte, non è pronta all’impatto
con lo Spirito e reagisce come farebbe

441
l’acqua fredda al contatto con un ferro
rovente. Ma non è neppure qualcosa di cui
bisogna avere paura e vergognarsi. Nella
Messa del giorno di Pentecoste la Chiesa fa
questa preghiera: «Rinnova, o Dio, ai nostri
giorni, nella comunità dei credenti, i prodigi
che hai operato agli inizi della predicazione
del vangelo».
Nella preghiera si deve essere «unanimi e
perseveranti», come erano gli apostoli con
Maria nel cenacolo, unendosi, laddove è
possibile, ad altre persone che hanno già
fatto l’esperienza di una nuova Pentecoste e
che ci possono aiutare a predisporci e a
vincere ogni timore.
Qui tocchiamo un punto nevralgico. A
volte, una nuova irruzione dello Spirito
Santo nell’anima si realizza
spontaneamente e in privato, senza che il
soggetto abbia fatto nulla per ottenerla, se
non forse averla ardentemente desiderata.
Un uomo ha reso questa testimonianza:
«Ero sull’aereo e stavo leggendo l’ultimo capitolo
di un libro sullo Spirito Santo. A un certo punto,
fu come se lo Spirito Santo uscisse dalle pagine

442
del libro ed entrasse nel mio corpo. Lacrime
presero a scendere dai miei occhi a ruscelli.
Cominciai a pregare. Ero sopraffatto da una forza
molto al di sopra di me»166.
Ma è l’eccezione. Come il sacramento del
battesimo, anche questo suo rinnovamento
avviene di solito in un contesto
comunitario, con segni che parlano alla
nostra anima, attraverso il nostro corpo. Dio
rispetta sempre il nostro essere fatti di carne
e di spirito. I gesti esterni, in questo caso,
non sono delle semplici «esteriorità».
L’esperienza di milioni di persone dimostra
l’importanza di unirsi ad altri fratelli che
hanno fatto l’esperienza del battesimo dello
Spirito, di accettare che altri, anche laici,
preghino e stendano le mani su di te, in
segno di implorazione e di comunione
fraterna.
Molto importante è che la persona, in
questa circostanza, rinnovi pubblicamente
le promesse battesimali ed esprima, a voce
alta, di scegliere Gesù come Signore e
Salvatore della propria vita. Non insieme,
con formule fatte, come avviene nelle

443
funzioni pubbliche, ma uno alla volta, come
persone singole che prendono la propria
decisione di fronte a Dio e ai fratelli.
Non si contano le persone che, da un
secolo a questa parte, hanno sentito nella
loro anima il fremito dello Spirito, mentre,
insieme con altri, invocavano la sua venuta
con le parole del canto «pentecostale»:
«Spirito del Dio vivente, scendi di nuovo in
me: fondimi, plasmami, riempimi, usami!
Spirito del Dio vivente, scendi su di
me»167. Uniamo la nostra voce e la nostra
attesa alla loro.

Note
151 Cf Agostino, De unico baptismo contra
Petilianum (PL 43, 595 ss.).
152 Cf Teofilo di Antiochia, Ad Autolico, I, 12 (PG
6, 1041 C).
153 Cf testi in G.W.H. Lampe, Patristic Greek
Lexicon, Oxford University Press, Oxford 1969, pp.
1355 s. (voce sphragis).
154 Cirillo di Gerusalemme, Catechesi, III, 1 (PG
33, 1088).
155 La verità vi farà liberi. Catechismo degli adulti,
Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1995,

444
p. 324.
156 Tertulliano, De baptismo, 1, 1 (CC 1, p. 277).
157 Cf Cirillo di Gerusalemme, Catechesi, II, 7 (PG
33, 1084).
158 Cf A. Michel, Reviviscence des sacrements, in
Dictionnaire de théologie catholique, XIII, 2,
Letouzey et Ane, Paris 1937, coll. 2618-2628.
159 Novo millennio ineunte, 46.
160 K. Rahner, Erfahrung des Geistes. Meditation
auf Pfingsten, Herder, Freiburg i. Br. 1977.
161 Testimonianza riportata in P. Gallagher
Mansfield, As by a New Pentecost, Steubenville
University Press, Steubenville 1992, pp. 25 s. (tr. it.
Come da una nuova Pentecoste, Àncora, Milano
1993).
162 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 43,
a. 6, ad 2.; cf F. Sullivan, Pentecôtisme, in
Dictionnaire de Spiritualité, 12, Beauchesne, Paris
1984, col. 1045.
163 Ambrogio, Commento al Salmo 35, 19 (CSEL
64, pp. 63 s.).
164 Bonaventura, Sermone per la IV Domenica dopo
Pasqua, 2 (ed. Quaracchi, IX, p. 311).
165 Cirillo di Gerusalemme, Catechesi, V, 7 (PG 33,
1116).
166 In «New Covenant» (Ann Arbor, Michigan),
giugno 1984, p. 12.
167 Nel testo originale: «Spirit of the living God,
fall afresh on me: melt me, mould me, fill me, use
me. Spirit of the living God, fall afresh on me».

445
XI
ASPETTO LA RISURREZIONE
DEI MORTI
E LA VITA DEL MONDO CHE
VERRÀ

446
Beato Angelico (1395-1455), Giudizio
universale

447
1. Alle prese con il pensiero della morte
Il credo della Chiesa si conclude con le
parole: «Aspetto la risurrezione dei morti e
la vita del mondo che verrà». Il verbo
«credo» è sostituito qui da «aspetto», la
fede sfocia ormai nella speranza.
Il credo non menziona quello che
precederà la risurrezione e la vita eterna, e
cioè la morte. Giustamente, perché essa non
è oggetto di fede, ma di esperienza. La
morte però ci riguarda troppo da vicino per
passarla sotto silenzio. È «il ponte dei
sospiri» che dobbiamo attraversare per
giungere all’altra riva. È Gesù che ha fatto
di essa un ponte e non più un muro contro
cui tutto si infrange e un abisso in cui tutto
precipita. E vogliamo cercare di capire
come e quando è avvenuto questo
cambiamento irreversibile nel destino
dell’umanità.
Per poter valutare il cambiamento operato
da Cristo nei confronti della morte,
vediamo quali furono i vani rimedi tentati

448
contro di essa dagli uomini, anche perché
essi sono quelli con cui ancora oggi l’uomo
cerca di «consolarsi». La morte è il
problema umano numero uno. Secondo
autorevoli psicologi, la molla di fondo
dell’agire umano non è l’istinto sessuale,
come pensava Freud, ma «il rifiuto della
morte»168 a cui lo stesso istinto sessuale è
orientato. C’è una disciplina che comincia a
essere insegnata nelle università e che si
chiama Tanatologia. Essa studia i modi di
porsi davanti alla morte nelle varie culture e
religioni.
Sant’Agostino anticipa la riflessione
filosofica moderna sulla morte.
«Quando nasce un uomo – nota – si fanno tante
ipotesi: forse sarà bello, forse sarà brutto; forse
sarà ricco, forse sarà povero; forse vivrà a lungo,
forse no… Ma di nessuno si dice: forse morirà o
forse non morirà. Questa è l’unica cosa
assolutamente certa della vita. Quando sappiamo
che uno è malato di idropisia [allora era questa la
malattia incurabile, oggi sono altre] diciamo:
“Poveretto, deve morire; è condannato, non c’è
rimedio”. Ma non dovremmo dire lo stesso di uno
che nasce? “Poveretto, deve morire, non c’è

449
rimedio, è condannato!”. Che differenza fa se in
un tempo un po’ più lungo, o un po’ più breve? La
morte è la malattia mortale che si contrae
nascendo»169.
Forse più che una vita mortale, la nostra è
da considerarsi una «morte vitale», un
vivere morendo170. Questo pensiero di
Agostino è stato ripreso in chiave
secolarizzata da Martin Heidegger, che ha
fatto entrare la morte a pieno diritto
nell’oggetto della filosofia. Definendo la
vita e l’uomo «un-essere-per-la-morte», egli
fa della morte non un incidente che pone
fine alla vita, ma la sostanza stessa della
vita, ciò di cui è fatta. Vivere è morire.
L’uomo non può vivere senza bruciare e
accorciare la vita, senza morire a ogni
istante171. (Viene in mente un verso che si
leggeva spesso inciso sopra gli orologi dei
chiostri e che, riferendosi alle ore che
passano, diceva: «Vulnerant omnes, ultima
necat»: tutte feriscono, l’ultima uccide).
Vivere per la morte significa che la morte
non è solo la fine, ma anche il fine della

450
vita. Si nasce per morire, non per altro.
È il più radicale rovesciamento della
visione cristiana, secondo cui l’uomo è un
essere per l’eternità. Nella visione cristiana
la morte è il negativo tra due positivi; si può
rappresentare con un segno «meno» tra due
segni «più» (+ - +). Qui, al contrario, la vita
è un positivo tra due negativi (- + -).
Veniamo dal nulla e torniamo nel nulla.
Non la vita, ma la morte è l’ultima parola. Il
nulla è l’unica possibilità dell’uomo.
Tuttavia, quell’affermazione cui è
approdata la filosofia dopo la sua lunga
riflessione sull’uomo non è né scandalosa
né assurda. Semplicemente, la filosofia fa il
suo mestiere. Mostra quale sarebbe il
destino umano lasciato a se stesso.
Ma forse sono ancora i poeti a dire le
parole di sapienza più semplici e più vere
sulla morte. Uno di essi, Giuseppe
Ungaretti, parlando dello stato d’animo dei
soldati in trincea nella Grande Guerra, ha
descritto la situazione di ogni uomo di
fronte al mistero della morte: «Si sta / come
d’autunno / sugli alberi / le foglie».

451
Lo stesso Antico Testamento non ha una
risposta chiara sulla morte. Di essa si parla
nei libri sapienziali, ma sempre in chiave di
domanda, più che di risposta. Giobbe, i
Salmi, il Qoelet, il Siracide, la Sapienza:
tutti questi libri dedicano un’attenzione
notevole al tema della morte. «Insegnaci a
contare i nostri giorni – dice un salmo – e
giungeremo alla sapienza del cuore» (Sal
90, 12).
Il Qoelet apre il suo capitolo sulla morte
con le parole: «C’è un tempo per nascere e
un tempo per morire» (Qo 3, 2), e lo chiude
con la sentenza: «Tutto è venuto dalla
polvere e tutto ritorna in polvere» (Qo 3,
20). «Vanità di vanità e tutto è vanità», è la
sua ultima parola (Qo 12, 8). La vecchiaia è
evocata attraverso i suoi effetti: l’attutirsi
dei rumori, l’affievolirsi delle luci, la paura
delle alture, l’insicurezza nella strada…
L’uomo che muore è paragonato a una
lucerna che s’infrange e si spegne, a
un’anfora che si rompe alla fonte, a una
carrucola che si spezza, lasciando cadere il
secchio nel pozzo (cf Qo 12, 1-8). Perché si

452
nasce? Perché si muore? Dove si va dopo
morti? Sono tutte domande che per il saggio
dell’Antico Testamento restano senza altra
risposta che questa: Dio vuole così; su tutto
ci sarà un giudizio.
Il Siracide inizia la sua trattazione sulla
morte con queste parole: «O morte, com’è
amaro il tuo pensiero!». Si cerca di
consolarsi della morte dicendo che è un
destino comune, che è il decreto del
Signore, che vivere dieci, oppure cento,
mille anni, non fa molta differenza, dal
momento che alla fine bisogna morire (cf
Sir 41, 1 ss.).
La Bibbia ci riferisce le opinioni ancora
più inquietanti degli increduli del tempo:
«La nostra vita è breve e triste; non c’è
rimedio quando l’uomo muore, e non si
conosce nessuno che liberi dagli inferi. Non
c’è ritorno dalla morte […]. Siamo nati per
caso e dopo saremo come se non fossimo
stati» (Sap 2, 1 ss.). Soltanto in questo libro
della Sapienza, che è il più recente dei libri
sapienziali, la morte comincia a essere
rischiarata dall’idea di una retribuzione

453
ultraterrena. Le anime dei giusti sono, si
pensa, nelle mani di Dio (cf Sap 3, 1),
anche se non si sa cosa questo vuole dire
precisamente. È vero che in un salmo si
legge: «Preziosa è al cospetto del Signore la
morte dei suoi fedeli» (Sal 116, 15). Ma
non possiamo appoggiarci troppo su questo
versetto tanto sfruttato, perché il significato
della frase sembra essere un altro: Dio fa
pagare cara la morte dei suoi fedeli; cioè ne
è il vindice, ne chiede conto.
Come ha reagito l’uomo a questa dura
necessità? Un modo sbrigativo è stato
quello di non pensarci, di distrarsi. Per
Epicuro, per esempio, la morte è un falso
problema: «Quando ci sono io – diceva –
non c’è ancora la morte; quando c’è la
morte non ci sono più io». Essa dunque non
ci riguarda. A questa logica di esorcizzare
la morte rispondono anche le leggi
napoleoniche che spostavano i cimiteri
fuori dell’abitato.
Ci si è appigliati anche a rimedi positivi.
Il più universale si chiama la prole:
sopravvivere nei figli. Un altro,

454
sopravvivere nella fama: «Non morirò del
tutto (non omnis moriar) – diceva il poeta
latino –, perché resteranno di me i miei
scritti, la mia fama». «Ho eretto un
monumento più duraturo del bronzo»172.
Per il marxismo l’uomo sopravvive nella
società del futuro, non come individuo, ma
come specie.
Ai nostri giorni, si va diffondendo la
credenza in un nuovo rimedio palliativo: la
reincarnazione. Ma è una stoltezza. Coloro
che professano questa dottrina come parte
integrante della loro cultura e religione,
cioè coloro che sanno veramente che cos’è
la reincarnazione, sanno anche che essa non
è un rimedio e una consolazione, ma una
punizione. Non è una proroga concessa al
godimento, ma alla purificazione. L’anima
si reincarna perché ha ancora qualcosa da
espiare, e se deve espiare, dovrà soffrire. La
parola di Dio tronca tutte queste vie di fuga
illusorie: «È stabilito che gli uomini
muoiano una sola volta, dopo di che viene il
giudizio» (Eb 9, 27). Una sola volta! La

455
dottrina della reincarnazione è
incompatibile con la fede dei cristiani.

456
2. La morte è stata inghiottita dalla
vittoria
Esiste un solo, vero rimedio alla morte:
Gesù Cristo, e guai a noi cristiani se non lo
proclamiamo al mondo! Sentiamo come san
Paolo annuncia al mondo questo
cambiamento:
«Perciò, come per mezzo di un solo uomo il
peccato è entrato nel mondo, e per mezzo del
peccato la morte, e così la morte è passata su tutti
gli uomini, perché tutti hanno peccato […]. Però,
la grazia non è come la trasgressione. Perché, se
per la trasgressione di uno solo, molti sono morti,
a maggior ragione la grazia di Dio e il dono della
grazia proveniente da un solo uomo, Gesù Cristo,
sono stati riversati abbondantemente su molti. […]
Infatti, se per la trasgressione di uno solo la morte
ha regnato a causa di quell’uno, tanto più quelli
che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono
della giustizia regneranno nella vita per mezzo di
quell’uno che è Gesù Cristo» (Rm 5, 12-17).
Con maggiore lirismo, il trionfo di Cristo
sulla morte è descritto anche nella Prima
Lettera ai Corinzi:
«“La morte è stata sommersa nella vittoria. O
morte, dov’è la tua vittoria? O morte, dov’è il tuo

457
dardo?”. Ora il dardo della morte è il peccato, e la
forza del peccato è la legge; ma ringraziato sia
Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del nostro
Signore Gesù Cristo» (1 Cor 15, 54-57).
Il fattore decisivo è collocato al momento
della morte di Cristo: «Egli è morto per
tutti» (2 Cor 5, 15). Ma cosa è avvenuto di
tanto decisivo in quel momento da cambiare
il volto stesso della morte? Possiamo
rappresentarcelo visivamente così. Il Figlio
di Dio è sceso nella tomba, come in una
prigione oscura, ma ne è uscito dalla parete
opposta. Non è tornato indietro per dove era
entrato, come Lazzaro che deve poi tornare
a morire. No, egli ha aperto una breccia
verso la vita, per la quale tutti quelli che
credono in lui possono seguirlo.
Scrive un antico Padre: «Egli prese su di
sé le sofferenze dell’uomo sofferente
mediante il suo corpo capace di soffrire, ma
con lo Spirito che non poteva morire, Cristo
ha ucciso la morte che uccideva
l’uomo»173. E sant’Agostino: «Attraverso
la passione Cristo passa dalla morte alla
vita e apre così la via a noi che crediamo

458
nella sua risurrezione, per passare anche noi
dalla morte alla vita»174. La morte è
diventata un passaggio e un passaggio a ciò
che non passa! Dice bene il Crisostomo:
«È vero, noi moriamo ancora come prima ma non
rimaniamo nella morte: e questo non è morire. Il
potere e la forza reale della morte è soltanto
questo: che un morto non ha alcuna possibilità di
ritornare alla vita. Ma se dopo la morte egli riceve
di nuovo la vita e, anzi, gli è data una vita
migliore, allora questa non è più morte, ma un
sonno»175.
Tutti questi modi di spiegare il senso della
morte di Cristo sono veri, ma non ci danno
la spiegazione ultima. Questa va cercata in
quello che, con la sua morte, Gesù è venuto
a mettere nella condizione umana, più che
in ciò che è venuto a levare; va cercata
nell’amore di Dio, non nel peccato
dell’uomo. Gli uomini si sono messi in una
situazione nella quale l’amore non può più
abitare in loro e fare di loro altrettante
immagini di Dio. Si sono annientati con le
loro stesse mani, si sono fatti schiavi di loro
stessi e schiavi fra loro e si umiliano gli uni

459
gli altri perfino nella morte. Dove può
allora collocare la sua dimora Dio, la cui
volontà di amare non viene meno?
Esattamente al centro di questa condizione!
Ed è per questo che il Verbo si è fatto uomo
ed è sceso a deporre il suo amore nella
profonda voragine del loro annientamento.
Se Gesù soffre e muore di una morte
violenta inflittagli per odio – è questa la
croce! –, non lo fa per pagare al posto degli
uomini il loro insolvibile debito (il debito di
diecimila talenti, nella parabola, viene
condonato dal re!); muore crocifisso
unicamente perché la sofferenza e la morte
degli esseri umani siano abitate dall’amore!
L’uomo si era condannato da solo a una
morte assurda, senza senso, ermeticamente
chiusa su se stessa. Ed ecco che, entrando in
questa morte, l’uomo scopre ormai che essa
è permeata dell’amore di Dio, che lo ha
raggiunto fino a quel punto estremo di
allontanamento dal suo amore. In un certo
senso, è il capovolgimento totale dell’idea
che generalmente si ha del mistero della
Redenzione. Il Figlio di Dio non è venuto

460
tanto per espiare, quanto per depositare nel
duro nocciolo della morte il seme del suo
amore.
La morte diventa luogo nel quale Dio
viene ad abitare, ad incarnare l’amore. Sì,
realmente, egli si incarna fino a questo
punto, perché niente dell’essere umano
sfugga alla presenza dell’amore. Si capisce
fin dove arriva il significato pieno del
termine «Emmanuele», «Dio-con-noi».
Fino alla venuta di Cristo, la morte, con
tutto il suo codazzo di sofferenza, aveva
l’ultima parola nella storia di ogni uomo e
di tutti gli uomini. Aveva abolito ogni
speranza. Ora, invece, la morte è
letteralmente «abitata» dall’amore.
L’amore non ha potuto fare a meno della
morte, a causa della libertà dell’essere
umano: l’amore di Dio non può eliminare
con un colpo di bacchetta magica la tragica
realtà del male e della morte. Il suo amore è
costretto a lasciare che la sofferenza e la
morte dicano la loro parola. Ma poiché
l’amore è penetrato nella morte e l’ha
riempita della divina Presenza, è l’amore

461
ormai a dire l’ultima parola. E quest’ultima
parola è la vittoria del suo amore, la vittoria
della vita, la vittoria del Padre. È la
risurrezione di Cristo. Che cosa dunque è
cambiato con Gesù riguardo alla morte?
Nulla e tutto! Nulla per la ragione, tutto per
la fede. Non è cambiata la necessità di
entrare nella tomba, ma viene data la
possibilità di uscirne. È quello che illustra
con potenza l’icona ortodossa della
risurrezione, dove si vede il Risorto che
scende negli inferi e trascina fuori con sé
Adamo ed Eva e dietro di loro tutti quelli
che si aggrappano a lui.
Questo spiega l’atteggiamento
paradossale del credente di fronte alla
morte, così simile a quello di tutti gli altri e
così diverso. Un atteggiamento fatto di
tristezza, paura, orrore, perché sa di dovere
calarsi in quell’abisso oscuro; ma anche di
speranza perché sa di poterne uscire, che la
morte non avrà l’ultima parola ma solo la
penultima. «Se ci rattrista la certezza di
dover morire – dice un prefazio dei defunti
–, ci consola la speranza dell’immortalità

462
futura».
Ai fedeli di Tessalonica, afflitti dalla
morte di alcuni di loro, san Paolo scriveva:
«Fratelli, non vogliamo che siate nell’ignoranza
riguardo a quelli che dormono, affinché non siate
tristi come gli altri che non hanno speranza.
Infatti, se crediamo che Gesù morì e risuscitò,
crediamo pure che Dio, per mezzo di Gesù,
ricondurrà con lui quelli che si sono
addormentati» (1 Ts 4, 13-14).
Non chiede loro di non essere afflitti per
la morte, ma di non esserlo «come gli altri»,
come i non credenti. Il credente sa cosa
l’aspetta all’altra sponda: Dio «asciugherà
ogni lacrima dai loro occhi, e non vi sarà
più la morte, né lutto né lamento né affanno
perché le cose di prima sono passate» (Ap
21, 4).
L’esempio più celebre del diverso
atteggiamento verso la morte è quello
lasciatoci da Francesco d’Assisi. Nel
Cantico di frate Sole egli loda il Signore
«per sorella nostra morte corporale» e,
vedendola approssimarsi, la saluta
chiamandola di nuovo «sorella» e dandole il

463
benvenuto176. Nessuno lo aveva fatto
prima di lui.
Ma anche oggi ci sono casi in cui la fede
si mostra più forte della paura della morte.
È stata trovata una preghiera nel taschino
della giubba di un soldato russo, Aleksandr
Zacepa, che l’aveva composta
immediatamente prima della battaglia dove
avrebbe trovato la morte, nella seconda
guerra mondiale. Apparve per la prima
volta su una rivista clandestina nell’ottobre
del 1972. È intitolata Soltanto ora.
Ascoltiamola; ci servirà per fare uno stacco
prima di passare dalla considerazione della
morte a quella dell’eternità in cui con essa
si entra.
«Ascolta, o Dio! Non una volta nella mia vita ho
parlato con te, ma oggi mi vien voglia di farti
festa. Sai, fin da piccolo mi hanno sempre detto
che non esisti… io stupido ci ho creduto. Non ho
mai contemplato le tue opere, ma questa notte ho
guardato dal cratere di una granata al cielo di
stelle sopra di me e affascinato dal loro scintillare,
a un tratto ho capito come possa esser terribile
l’inganno…
Non so, o Dio, se mi darai la tua mano, ma io ti

464
dico e tu mi capirai… Non è strano che in mezzo a
uno spaventoso inferno mi sia apparsa la luce e io
abbia scorto te? Oltre a questo non ho nulla da
dirti. Sono felice solo perché ti ho conosciuto. A
mezzanotte dobbiamo attaccare, ma non ho paura,
tu guardi a noi.
È il segnale! Me ne devo andare. Si stava bene con
te. Voglio ancora dirti, e tu lo sai, che la battaglia
sarà dura: può darsi che questa notte stessa venga
a bussare da te. E anche se finora non sono stato
tuo amico, quando verrò, mi permetterai di
entrare?
Ma che succede, piango? Dio mio, tu vedi quello
che mi è capitato, soltanto ora ho incominciato a
veder chiaro… Salve, mio Dio, vado…
difficilmente tornerò. Che strano, ora la morte non
mi fa paura»177.
La morte non è per il credente la fine
della vita, ma l’inizio di quella vera; non è
un salto nel vuoto, ma un salto nell’eternità.
Essa è una nascita ed è un battesimo.
È una nascita, perché solo allora comincia
la vita vera, quella che non va verso la
morte, ma dura per sempre. La Chiesa non
celebra la festa dei santi nel giorno della
loro nascita terrena ma in quello della loro
nascita al cielo, che chiama il loro dies
natalis. Tra la vita di fede nel tempo e la

465
vita eterna c’è un rapporto analogo a quello
che esiste tra la vita dell’embrione nel seno
materno e quella del bambino, una volta
venuto alla luce.
«Questo mondo porta in gestazione l’uomo
interiore, nuovo, creato secondo Dio, finché egli,
qui plasmato, modellato e divenuto perfetto, non
sia generato a quel mondo perfetto che non
invecchia. Al modo dell’embrione che, mentre è
nell’esistenza tenebrosa e fluida, la natura prepara
alla vita nella luce, così è dei santi»178.
È anche un battesimo. Così designa Gesù
stesso la sua morte (Lc 12, 50) e Paolo parla
del battesimo come di un essere «battezzati
nella morte di Cristo» (Rm 6, 3).
Anticamente, al momento del battesimo la
persona veniva calata interamente
nell’acqua; tutti i peccati e tutto l’uomo
vecchio restavano sepolti nell’acqua e ne
usciva una creatura nuova, simboleggiata
dalla tunica bianca di cui veniva rivestito.
Così succede nella morte: muore il bruco,
nasce la farfalla. Dio «asciugherà ogni
lacrima dai loro occhi, e non vi sarà più la
morte, né lutto né lamento né affanno

466
perché le cose di prima sono passate» (Ap
21, 4). Tutto sepolto per sempre.

467
3. La risurrezione dei morti…
Con questo siamo ormai passati dal
campo dell’esperienza – la morte – a quello
della fede: la risurrezione dei morti. La fede
nella risurrezione dei morti appare, in
maniera chiara ed esplicita, solo verso la
fine dell’Antico Testamento. Il Secondo
libro dei Maccabei ne costituisce la
testimonianza più avanzata: «Dopo che
saremo morti – esclama uno dei sette
fratelli ucciso sotto Antioco – [Dio] ci
risusciterà a vita nuova ed eterna» (cf 2
Mac 7, 1-14). Ma questa fede non nasce
improvvisamente, dal nulla; si radica
vitalmente in tutta la precedente rivelazione
biblica, di cui rappresenta la conclusione
attesa e, per così dire, il frutto più maturo.
Soprattutto due certezze spinsero a questa
conclusione: la certezza dell’onnipotenza di
Dio e quella della insufficienza e
dell’ingiustizia della retribuzione terrena.
Appariva sempre più evidente – specie
dopo la riflessione del libro di Giobbe – che

468
la sorte dei buoni in questo mondo è tale
che, senza la speranza di una retribuzione
diversa dopo la morte, sarebbe impossibile
non cadere nella disperazione: in questa
vita, tutto capita allo stesso modo al giusto
e all’empio, sia la felicità che la sventura.
Il pensiero di Gesù sull’argomento è
espresso nella discussione con i sadducei
sul caso della donna che aveva avuto sette
mariti (Lc 20, 27-38). Attenendosi, per
principio, alla rivelazione biblica più antica,
quella mosaica, essi non avevano accettato
la dottrina della risurrezione dei morti, che
consideravano una novità. Rifacendosi alla
legge mosaica sul levirato (Dt 25), secondo
cui la donna rimasta vedova, senza figli
maschi, viene sposata dal cognato, essi
ipotizzano il caso limite di una donna che è
passata, in questo modo, attraverso sette
mariti, per poi domandare in tono di trionfo,
sicuri di aver dimostrato l’assurdità della
risurrezione: «Questa donna, nella
risurrezione, di chi sarà moglie?». La
risposta di Gesù è un capolavoro; senza
discostarsi dal terreno scelto dagli avversari

469
che era la legge mosaica, con poche parole,
egli dapprima svela dov’è l’errore dei
sadducei e lo corregge, poi dà alla fede
nella risurrezione la sua fondazione più
profonda e più convincente. Si capisce
l’esclamazione di ammirazione che esce di
bocca ad alcuni presenti: «Maestro, hai
parlato bene!».
Gesù si pronuncia su due cose: sul modo e
sul fatto della risurrezione. Quanto al fatto
che ci sarà una risurrezione dei morti, Gesù
si appella anche lui a Mosè; ricorda
l’episodio del roveto ardente dove Dio si
proclama «Dio di Abramo, Dio di Isacco e
Dio di Giacobbe». Se Dio si proclama Dio
di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, in un
momento in cui Abramo, Isacco e Giacobbe
sono morti da generazioni, e se «Dio è Dio
dei vivi e non dei morti», allora vuol dire
che Abramo, Isacco e Giacobbe sono vivi!
La fede cristiana nella risurrezione dei
morti non si fonda su una teoria filosofica
(l’immortalità dell’anima), ma sulla potenza
e la bontà di Dio, che non ci ha creati per la
morte, ma per la vita.

470
Circa il modo, Gesù afferma con grande
vigore la condizione spirituale dei risorti:
«Quelli che sono giudicati degni dell’altro
mondo e della risurrezione dai morti, non
prendono moglie né marito; e nemmeno
possono più morire, perché sono uguali agli
angeli e, essendo figli della risurrezione,
sono figli di Dio». Il matrimonio è legato
alla presente condizione di mortalità
dell’uomo; dove non c’è più morte, non c’è
più bisogno di nascita e dunque di sposarsi.
Non è che scompaia il legame che ha unito
tra loro due persone nella vita in un vincolo
santo; tutto ciò che vi è di positivo nel
mondo, nella risurrezione non viene
distrutto, ma sublimato e spiritualizzato.
Cosa si intende per corpo spirituale, si è
tentato di illustrarlo con esempi tratti dalla
natura (il seme e l’albero, l’inverno e la
primavera) e soprattutto con la condizione
di Cristo dopo la risurrezione. La verità è
che tutto ciò resta per noi un mistero finché
siamo costretti a pensare ogni cosa dentro le
categorie del tempo e dello spazio. Paolo si
limita a dire: «Viene seminato nella

471
corruzione, risorge nell’incorruttibilità; è
seminato nella miseria, risorge nella gloria;
è seminato nella debolezza, risorge nella
potenza; è seminato corpo animale, risorge
corpo spirituale» (1 Cor 15, 42-44).
Più ancora che sull’insegnamento di
Gesù, la fede della Chiesa si fonda però sul
fatto della sua risurrezione da morte.
Ricordo gli anni nei quali si cominciò a
parlare del progetto di andare sulla luna;
sembrava impossibile, nessuno ci credeva;
quando però si vide il primo uomo mettere
piede sul satellite, tutti gli argomenti
contrari cessarono. Così dovrebbe essere
per la fede nella risurrezione dei morti. «Se
si predica che Cristo è risuscitato dai morti
– esclama Paolo – come possono dire alcuni
tra voi che non esiste risurrezione dei
morti? Se non esiste risurrezione dei morti,
neanche Cristo è risuscitato!» (1 Cor 15,
12-13). Per il Nuovo Testamento, la
risurrezione di Gesù non è un evento
isolato, ma rappresenta l’inizio e
l’anticipazione della generale risurrezione
dei morti; Gesù è il primo dei risorti; è la

472
primizia (cf 1 Cor 15, 20), ma non si dà
primizia se non in riferimento a un intero
raccolto.
La fede nella risurrezione del corpo
risponde al desiderio più istintivo del cuore
umano. Noi – dice Paolo – non vogliamo
essere spogliati del nostro corpo, ma
sopravvestiti, cioè non vogliamo
sopravvivere con una parte sola del nostro
essere – l’anima –, ma con tutto il nostro io,
anima e corpo; perciò, non desideriamo che
il nostro corpo mortale venga distrutto, ma
che «venga assorbito dalla vita» e si vesta,
esso stesso, di immortalità (cf 2 Cor 5, 1-5;
1 Cor 15, 51-53). Vogliamo essere felici con
il nostro corpo, non a dispetto di esso. Il
cristianesimo non predica una salvezza dal
corpo, come il platonismo e tutte le correnti
gnostiche che si ispiravano ad esso, ma una
salvezza del corpo. Tutto l’uomo creato da
Dio è destinato a vivere nella comunione
con Dio!
«Così il corpo e l’anima sono come due mani
giunte.
E l’uno e l’altra insieme entreranno insieme nella

473
vita eterna.
E saranno due mani giunte […].
O tutti e due insieme ricadranno come due polsi
legati.
Per una cattività eterna»179.

474
4. … e la vita del mondo che verrà
Ci affacciamo così sull’orizzonte ultimo,
che è la vita eterna. La fede nella vita eterna
costituisce una delle condizioni di
possibilità dell’evangelizzazione. «Se
avessimo speranza in Cristo soltanto in
questa vita – esclama san Paolo –, saremmo
i più miserabili di tutti gli uomini» (1 Cor
15, 19). La caduta dell’orizzonte
dell’eternità ha sulla la fede cristiana
l’effetto che ha la sabbia gettata su una
fiamma: la soffoca, la spegne.
Ma che è successo all’idea cristiana di
una vita eterna per l’anima e per il corpo,
dopo che aveva trionfato sull’idea pagana
del «buio oltre la morte»? A differenza del
momento attuale, in cui l’ateismo si
esprime soprattutto nella negazione
dell’esistenza di un Creatore, nel XIX
secolo esso si è espresso di preferenza nella
negazione di un aldilà. Raccogliendo
l’affermazione di Hegel, secondo cui «i
cristiani sprecano in cielo le energie

475
destinate alla terra», Feuerbach e soprattutto
Marx hanno combattuto la credenza in una
vita dopo la morte, sotto il pretesto che essa
alieni dall’impegno terreno. All’idea di una
sopravvivenza personale in Dio si
sostituisce l’idea di una sopravvivenza nella
specie e nella società del futuro. A poco a
poco, con il sospetto, sono caduti sulla
parola «eternità» l’oblio e il silenzio. Il
materialismo e il consumismo hanno fatto il
resto nelle società opulente, facendo perfino
apparire sconveniente che si parli ancora di
eternità fra persone colte e al passo con i
tempi.
Tutto questo ha avuto un chiaro
contraccolpo sulla fede dei credenti, che si è
fatta, su questo punto, timida e reticente.
Quando abbiamo sentito l’ultima predica
sulla vita eterna? Continuiamo a recitare nel
credo: «Aspetto la risurrezione dei morti e
la vita del mondo che verrà», ma senza dare
troppo peso a queste parole. Aveva ragione
Kierkegaard: «L’aldilà è diventato uno
scherzo, un’esigenza così incerta che non
solo nessuno più la rispetta, ma anzi

476
neppure più la prospetta, al punto che ci si
diverte perfino al pensiero che c’era un
tempo in cui quest’idea trasformava l’intera
esistenza»180.
Qual è la conseguenza pratica di questa
eclisse dell’idea di eternità? San Paolo
riferisce il proposito di coloro che non
credono nella risurrezione da morte:
«Mangiamo, beviamo, domani moriremo»
(1 Cor 15, 32). Il desiderio naturale di
vivere sempre, distorto, diventa desiderio, o
frenesia, di vivere bene, cioè
piacevolmente, anche a spese degli altri, se
necessario. La terra intera diventa quello
che Dante diceva dell’Italia del suo tempo:
«l’aiuola che ci fa tanto feroci»181. Caduto
l’orizzonte dell’eternità, la sofferenza
umana appare doppiamente e
irrimediabilmente assurda.
Dobbiamo far leva sulla corrispondenza
di tale verità con il desiderio più profondo,
anche se represso, del cuore umano. A un
amico che gli rimproverava, quasi fosse una
forma di orgoglio e di presunzione, il suo

477
anelito all’eternità, Miguel de Unamuno,
che non era certo un apologeta della fede,
rispose in una lettera:
«Non dico che meritiamo un aldilà, né che la
logica ce lo dimostri; dico che ne abbiamo
bisogno, lo meritiamo o no, e basta. Dico che ciò
che passa non mi soddisfa, che ho sete d’eternità,
e che senza questa tutto mi è indifferente. Ne ho
bisogno, ne ho bisogno! Senza di essa non c’è più
gioia di vivere e la gioia di vivere non ha più nulla
da dirmi. È troppo facile affermare: “Bisogna
vivere, bisogna accontentarsi della vita”. E quelli
che non se ne accontentano?»182.
Non è chi desidera l’eternità – aggiungeva
nella stessa occasione – che mostra di
disprezzare il mondo e la vita di quaggiù,
ma al contrario chi non la desidera: «Amo
tanto la vita che perderla mi sembra il
peggiore dei mali. Non amano veramente la
vita coloro i quali se la godono, giorno per
giorno, senza curarsi di sapere se dovranno
perderla del tutto o no». Sant’Agostino
diceva la stessa cosa: «A che giova vivere
bene, se non è dato vivere sempre?»183.
La fede nell’eternità non nasce dal

478
disgusto per la vita, ma dalla passione per la
vita: «Tu sei degno di continuare a vivere. È
così dolce vivere e la luce è tanto bella»;
così dicevano i carnefici a un martire del III
secolo, di nome Pionio; ma egli rispondeva:
«Sì, lo so che è dolce vivere, ma noi siamo alla
ricerca di una vita migliore. La luce è bella, ma
noi desideriamo la vera luce; io so che la terra è
bella, è opera di Dio. Se noi vi rinunciamo non è
per disgusto, né per disprezzo, ma perché
conosciamo beni migliori»184.

479
5. Eternità: una speranza e una presenza
Per il credente, l’eternità non è solo una
speranza, è anche una presenza. Ne
facciamo l’esperienza ogni volta che
facciamo un vero atto di fede in Cristo,
perché chi crede in lui possiede già la vita
eterna (cf 1 Gv 5, 13); ogni volta che
riceviamo la comunione, perché in essa «ci
viene dato il pegno della gloria futura»;
ogni volta che ascoltiamo le parole del
Vangelo, che sono «parole di vita eterna»
(cf Gv 6, 68). Anche san Tommaso
d’Aquino dice che «la grazia è già l’inizio
della gloria»185.
Questa presenza dell’eternità nel tempo si
chiama lo Spirito Santo. Egli è definito «la
caparra della nostra eredità» (Ef 1, 14; 2
Cor 5, 5), e ci è stato donato perché, avendo
ricevuto le primizie, noi aneliamo alla
pienezza. «Cristo – scrive sant’Agostino –
ci ha dato la caparra dello Spirito Santo con
la quale lui, che comunque non ci potrebbe
ingannare, ha voluto renderci sicuri del

480
compimento della sua promessa. Che cosa
ha promesso? Ha promesso la vita eterna, di
cui è caparra lo Spirito che ci ha dato»186.
Ci sono domande che gli uomini non
cessano di porsi da che mondo è mondo, e
gli uomini di oggi non fanno eccezione:
«Chi siamo? Da dove veniamo? Dove
andiamo?». Nella sua Storia ecclesiastica
del popolo inglese, Beda il Venerabile
racconta come la fede cristiana fece il suo
ingresso nel nord dell’Inghilterra. Quando i
missionari venuti da Roma arrivarono nel
Northumberland, il re Edwino convocò un
consiglio dei dignitari per decidere se
permettere loro, o meno, di diffondere il
nuovo messaggio. Si alzò uno di loro e
disse:
«Immagina, o re, questa scena. Tu siedi a cena con
i tuoi ministri e condottieri: è inverno, il fuoco
arde nel mezzo e riscalda la stanza, mentre fuori
mugghia la tempesta e cade la neve. Un uccellino
entra da una apertura della parete e subito esce
dall’altra. Mentre è dentro, è al riparo dalla
tempesta invernale; ma dopo aver goduto del
breve tepore, subito scompare dalla vista,
perdendosi nel buio inverno da cui è venuto. Tale

481
ci appare la vita degli uomini sulla terra: noi
ignoriamo del tutto ciò che la segue e ciò che la
precede. Se questa nuova dottrina ci reca qualcosa
di più sicuro su ciò, dico che la si deve
accogliere»187.
Chissà che la fede cristiana non possa
ritornare in Inghilterra e nel continente
europeo per la stessa ragione per cui vi fece
il suo ingresso: come l’unica che ha una
risposta sicura da dare ai grandi
interrogativi della vita terrena.

482
6. «Occhio non vide, orecchio non udì»
Una rinnovata fede nell’eternità non ci
serve solo per l’evangelizzazione, cioè per
l’annuncio da fare agli altri; ci serve, prima
ancora, per imprimere un nuovo slancio al
nostro cammino verso la santità.
L’affievolirsi dell’idea di eternità agisce
anche sui credenti, diminuendo in essi la
capacità di affrontare con coraggio la
sofferenza e le prove della vita. Abbiamo
perso l’abitudine, che era di san Bernardo e
di sant’Ignazio di Loyola, di chiederci
davanti a ogni situazione: «Quid hoc ad
aeternitatem?», che è questo in confronto
all’eternità, o che giova questo all’eternità?
Pensiamo a un uomo con una bilancia in
mano: una di quelle bilance che si reggono
con una sola mano e hanno da un lato il
piatto su cui mettere le cose da pesare e
dall’altro una barra graduata che regge il
peso o la misura. Se cade a terra, o si
smarrisce la misura, tutto quello che si
mette sul piatto fa sollevare in alto la barra

483
e fa inclinare a terra la bilancia. Tutto ha il
sopravvento, anche un pugno di piume…
Così siamo noi quando smarriamo la
misura di tutto che è l’eternità: le cose e le
sofferenze terrene gettano facilmente la
nostra anima a terra. Tutto ci sembra troppo
pesante, eccessivo. Gesù diceva: «Se la tua
mano ti è di ostacolo, tagliala; se il tuo
occhio ti è di ostacolo, cavalo; è meglio
entrare nella vita con una mano sola o con
un occhio solo, anziché con tutti e due
essere gettato nel fuoco eterno» (cf Mt 18,
8-9). Ma noi, avendo perso di vista
l’eternità, troviamo già eccessivo che ci si
chieda di chiudere gli occhi davanti a uno
spettacolo immorale.
San Paolo osa scrivere: «Il momentaneo,
leggero peso della nostra sofferenza ci
procura una quantità smisurata ed eterna di
gloria, giacché noi non fissiamo lo sguardo
sulle cose visibili, ma su quelle invisibili.
Le cose visibili sono d’un momento, quelle
invisibili eterne» (2 Cor 4, 17-18). Il peso
della tribolazione è «leggero» proprio
perché momentaneo, quello della gloria è

484
smisurato proprio perché eterno. Per questo
lo stesso Apostolo può dire: «Penso che le
sofferenze del tempo presente non hanno un
valore proporzionato alla gloria che si
manifesterà in noi» (Rm 8, 18).
San Francesco d’Assisi, nel celebre
«capitolo delle stuoie», fece ai suoi frati un
memorabile discorso su questo tema:
«Figlioli miei, grandi cose abbiamo promesso a
Dio, ma molto più grandi sono le cose che Dio ha
promesso a noi. Osserviamo quelle che noi
abbiamo promesso a lui e aspettiamo con
sicurezza quelle che lui ha promesso a noi. Breve
è il piacere del mondo, ma eterna è la pena che ne
consegue. Piccola è la pena di questa vita, ma la
gloria dell’altra vita è infinita»188.
Di fronte a ogni difficoltà e problema,
possiamo ripetere con il poeta: «Tutto,
tranne l’eterno, al mondo è vano»189.
Molti si chiedono: che faremo a partire
dal momento in cui entriamo nell’eternità?
Non ci annoieremo a passare tutta l’eternità
con le stesse tre persone, anche se divine?
Possiamo rispondere con un’altra domanda:
ci si annoia forse a stare bene? L’uomo si

485
annoia di tutto, eccetto che a «stare bene», e
lì sarà uno stare «infinitamente bene».
Chiediamo a degli innamorati se si
annoiano a stare insieme. Quando ci capita
di vivere un momento di intensissima e
pura gioia, non nasce forse in noi il
desiderio che ciò duri per sempre, che non
finisca mai? Quaggiù questi stati non
durano per sempre, perché non c’è un
oggetto che possa appagare
indefinitamente. Con Dio è diverso. La
nostra mente troverà in lui la Verità e la
Bellezza che non finirà mai di contemplare
e il nostro cuore il Bene di cui non si
stancherà mai di godere.
Sant’Agostino ha detto tutto quella che la
teologia può dire riguardo all’essenza della
beatitudine eterna. Dio è il sommo Bene; la
nostra felicità finale consisterà nel
conoscere e amare la Trinità. «Dio sarà la
fine dei nostri desideri, colui che sarà
contemplato senza sosta, amato senza
saturazione, lodato senza stanchezza»190.
Vi saranno gradi diversi di gloria, fondati

486
sul merito, ma non vi sarà gelosia. I santi
continueranno a far uso del libero arbitrio;
questo sarà anzi solo allora veramente
libero perché esente dal piacere del
peccare191.
Meglio però dei teologi, i mistici ci
aiutano ad avere un vago «sentore» di
quello che sarà la vita eterna con Dio. Essi
sono, per il resto dell’umanità, come gli
esploratori che entrarono per primi, di
nascosto, nella Terra Promessa e poi
tornarono indietro per riferire ciò che
avevano veduto – «una terra dove scorre
latte e miele» –, esortando tutto il popolo ad
attraversare il Giordano (cf Nm 14, 6-9).
Per mezzo di essi giungono a noi, in questa
vita, i primi bagliori della vita eterna. Ecco
come si esprime uno di essi, che vuole
rimanere anonimo:
«Mi sento in un soggiorno di meraviglie
sconosciute, infinite, là nel centro del cuore dei
Tre! Che purezza! Che amore! Le immagini, le
raffigurazioni della fantasia, quelle che
rappresentano il Padre e tutta la Trinità si sono
dileguate per me. Non è niente, assolutamente

487
niente, di quello che io potevo supporre con la mia
intelligenza umana. Riconosco che Gesù, nel quale
sono annientato, mi concede una grazia di
predilezione svelandomi un po’ la verità del cielo,
ma non riesco a comunicare quello che
comprendo. Io mi sento nella Verità: non ho
dubbi! Là non c’è più niente della sostanza
materiale che affascinava i miei occhi di fango, la
terra mi sembra lontana, oscura, quasi un
piccolissimo punto nero. E poi, che meraviglia!
Dal cuore della Trinità, attraverso la ferita aperta e
gloriosa del cuore di Gesù, discendono sulla terra
le grazie divine come impetuosi e innumerevoli
oceani. Dico oceani, per usare una parola umana,
fra quello che un tempo supponevo e quello che
capisco oggi del cielo, c’è la stessa differenza che
passa fra la notte profonda e il giorno. Però, io non
vedo la luce, vi sono immerso, la chiarezza che mi
illumina appartiene alla fornace divina nella quale
sono inabissato. Sono sempre annientato
nell’adorabile Trinità. Tre persone sì! Tre
nell’Unità! Per una grazia ineffabile, comprendo
un po’ la realtà. Capisco con chiarezza, ho la
certezza che è proprio la verità: ma sì, tre! È certo.
Un solo Dio, necessariamente! Che mistero
infinito! La nostra intelligenza umana senza un
barlume della Luce eterna, non potrebbe mai
concepirlo. Che grandezza, ma che semplicità! In
quello che comprendo con tanta chiarezza, i sensi
sono completamente esclusi: niente raffigurazioni,
niente sostanza materiale. Qualcosa di

488
sconosciuto, di impercettibile, di trasparente…».
Al servo fedele, Gesù dirà nell’ultimo
giorno: «Bene, servo buono e fedele: entra a
far parte della gioia del tuo Signore» (Mt
25, 21). Ecco in che consisterà la felicità del
paradiso: nell’essere completamente
immersi nell’oceano di gioia infinita che è
la Trinità.
Una simpatica storia narrata da uno
scrittore tedesco moderno ci aiuta a capire
che anche così non abbiamo ancora detto
quasi nulla della realtà del cielo. La storia
narra che in un monastero medievale
vivevano due monaci legati tra loro da
profonda amicizia. Uno si chiamava Rufus
e l’altro Rufinus. In tutte le ore libere non
facevano che cercare di immaginare e
descrivere come sarebbe stata la vita eterna
nella Gerusalemme celeste. Rufus, che era
un capomastro, se l’immaginava come una
città con porte d’oro, tempestata di pietre
preziose; Rufinus, che era organista, come
tutta risonante di celesti melodie.
Alla fine fecero un patto: quello di loro

489
che sarebbe morto per primo sarebbe
tornato la notte successiva, per assicurare
l’amico che le cose stavano proprio come le
avevano immaginate. Sarebbe bastata una
parola. Se era come avevano pensato,
avrebbe detto semplicemente: «Taliter!»,
cioè proprio così; se (ma la cosa era del
tutto impossibile) fosse stato diversamente,
avrebbe detto: «Aliter!», diverso!
Una sera, mentre era all’organo, il cuore
di Rufino si fermò. L’amico vegliò
trepidante tutta la notte, ma niente; attese in
veglie e digiuni per settimane e mesi, e
niente. Finalmente, nell’anniversario della
morte, ecco che di notte, in un alone di luce,
entra nella sua cella l’amico. Vedendo che
tace, è lui a chiedergli, sicuro della risposta
affermativa: «Taliter?» È così, vero? Ma
l’amico scuote il capo in segno negativo.
Disperato, grida allora: «Aliter?». È
diverso? Di nuovo un segno negativo del
capo.
E finalmente dalle labbra chiuse
dell’amico escono, come in un soffio, due
parole: «Totaliter aliter»: è tutta un’altra

490
cosa! Rufus capisce in un lampo che il cielo
è infinitamente di più di quello che avevano
immaginato, che non si può descrivere, e di
lì a poco muore anche lui, per il desiderio di
raggiungerlo192.
Si tratta di una leggenda, ma il suo
contenuto è quanto mai biblico. «Occhio
non vide, né orecchio udì, né mai è entrato
in cuore di uomo ciò che Dio ha preparato
per coloro che lo amano» (cf 1 Cor 2, 9).
Quando si vuole attraversare un braccio di
mare, diceva il nostro Agostino193, la cosa
più importante non è starsene sulla riva e
aguzzare la vista per vedere cosa c’è sulla
sponda opposta, ma è salire sulla barca che
porta a quella riva. La barca per noi è la
fede della Chiesa sulla quale siamo saliti al
momento del battesimo e che in queste
pagine abbiamo, spero, imparato a
conoscere meglio.

Note
168 E. Becker, The Denial of Death, The Free Press,
New York 1973 (tr. it. Il rifiuto della morte, Ed.

491
Paoline, Roma 1982).
169 Cf Agostino, Sermo Guelf. 12, 3 (Miscellanea
Agostiniana, I, p. 482 s.).
170 Agostino, Confessioni, I, 6, 7.
171 Cf M. Heidegger, Essere e Tempo, § 51,
Longanesi, Milano 1976, pp. 308 s.
172 Orazio, Odi, III, 30, 1.6.
173 Melitone di Sardi, Sulla Pasqua, 66 (SCh 123,
p. 96).
174 Agostino, Commento ai Salmi, 120, 6 (CCL 40,
p. 1791).
175 Giovanni Crisostomo, In Haebreos homiliae, 17,
2 (PG 63, 129).
176 Tommaso da Celano, Vita Seconda, 217 (FF
809).
177 Pubblicata da V. Cattana, Le preghiere più belle
del mondo, Oscar Mondadori, Milano 2000, p. 188.
178 N. Cabasilas, Vita in Cristo, I, 1-2 (PG 150,
496).
179 Ch. Péguy, Il portico del mistero della seconda
virtù, cit., pp. 580 s.
180 S. Kierkegaard, Postilla conclusiva, 4 (in Opere,
a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1972, p. 458).
181 Paradiso, XXII, 151.
182 Miguel de Unamuno, Cartas inéditas de Miguel
de Unamuno y Pedro Jiménez Ilundain, a cura di H.
Benítez, in «Revista de la Universidad de Buenos
Aires» 3 (9/1949), pp. 135.150.
183 Agostino, Trattati sul Vangelo di Giovanni, 45,
2 (PL 35, 1720).

492
184 Acta primorum martyrum, Pionius, 5 (ed. T.
Ruinart, rist. Regensburg 1859, p. 117).
185 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-IIae,
q. 24, a. 3, ad 2.
186 Agostino, Discorsi, 378, 1 (PL 39, 1673).
187 Beda il Venerabile, Historia ecclesiastica gentis
Anglorum, II, 13 (PL 95, 104).
188 Fioretti, XVIII (FF 1848).
189 A. Fogazzaro, «A Sera», in Le poesie,
Mondadori, Milano 1935, pp. 194-197.
190 Agostino, De civitate Dei, XXII, 30, 1.
191 Ibidem, XXII, 30, 2.
192 Cf H. Franck, Der Regenbogen.
Siebenmalsieben Geschichten, Haessel, Leipzig
1927.
193 Agostino, De Trinitate, IV, 15, 30; Confessioni,
VII, 21.

493
L'AUTORE

Padre Raniero Cantalamessa, francescano


cappuccino, è originario della provincia di
Ascoli Piceno. Laureato in Teologia e in
Lettere classiche, già professore ordinario
di Storia delle origini cristiane presso
l’Università Cattolica di Milano, membro
della Commissione Teologica
Internazionale fino al 1981, nel 1979 ha
lasciato l’insegnamento accademico per
dedicarsi interamente alla predicazione in
varie nazioni del mondo, con spiccata
sensibilità ecumenica. Dal 1980 è
Predicatore della Casa Pontificia. Con

494
Àncora ha pubblicato molti libri di
successo, tradotti in tutto il mondo.

495
Indice
Introduzione
I. Credo nello Spirito Santo
II. Credo in un solo Signore, Gesù Cristo,
Dio vero da Dio vero
III. Credo in un solo Dio Padre onnipotente
IV. Creatore del cielo e della terra, di tutte
le cose visibili e invisibili
V. Per opera dello Spirito Santo si è
incarnato nel seno della vergine Maria
VI. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio
Pilato, morì e fu sepolto
VII. Il terzo giorno è risuscitato, secondo le
Scritture, è salito al Cielo, siede alla destra
del Padre
VIII. E di nuovo verrà nella gloria per
giudicare i vivi e i morti e il suo regno non
avrà fine
IX. Credo la Chiesa, una, santa, cattolica e
apostolica
X. Professo un solo battesimo per la
remissione dei peccati

496
XI. Aspetto la risurrezione dei morti e la
vita del mondo che verrà
L'Autore

497
Indice
Introduzione 3
Indice 496
I. Credo nello Spirito Santo 17
II. Credo in un solo Signore,
Gesù Cristo, Dio vero da Dio 60
vero
III. Credo in un solo Dio Padre
101
onnipotente
IV. Creatore del cielo e della
terra, di tutte le cose visibili e 142
invisibili
V. Per opera dello Spirito Santo
si è incarnato nel seno della 190
vergine Maria
VI. Fu crocifisso per noi sotto
230
Ponzio Pilato, morì e fu sepolto
VII. Il terzo giorno è 273
risuscitato, secondo le

498
Scritture, è salito al Cielo, siede
alla destra del Padre
VIII. E di nuovo verrà nella
gloria per giudicare i vivi e i
314
morti e il suo regno non avrà
fine
IX. Credo la Chiesa, una, santa,
368
cattolica e apostolica
X. Professo un solo battesimo
408
per la remissione dei peccati
XI. Aspetto la risurrezione dei
morti e la vita del mondo che 446
verrà
L'Autore 494

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