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1
BENEDICTOS XIV, De servorum Dei beatificatione et Beatorum Canonizatione, 1 voll., Prati,
in typograpbia Aldina, 1839-1842. — Notíamo tuttavia che almeno uno dei predecessori del
Lambertini nel trattare delle cause dei santi, U vescovo Cario Felice de Matta, inizia la sua opera
con un capitolo intitolato De sanctitate, in cui esamina, in modo — a dke il vero — piuttosto
sommario, le etimologie tradizionali della parola, poi la definizione data da Dionigi, poi quella di
S. Tommaso, prima di passare, attraverso turto un gioco di distinzioni e suddistinzioni all'esarae
della santítá canonizzata e canonizzabile (ved. Caroli Felicis DE MATTA, Novissimus de Sanctorum
Canonizatione tractatus [.. J, Romae, Typis & Sumptibus Nicolai Angelí Tinasij, M.DC.LXXVin,
Pars I, cap. 1 [pp. 2b-5b]).
sviluppata a questo proposito non riempie nemmeno una pagina (1. 1, c. 37, n. 7)
e si tratta di una parentesi esplicativa. Potrebbe esser interessante chiedersi perché
Benedetto XIV non ha provato il bisogno di definiré la santitá prima che di
parlare della beatifícazione e della canonizzazione, ma questo ci porterebbe troppo
all'inruori del nostro tema. Per tornare a noi, diciamo semplicemente che mi
sembra utile (per non diré indispensabile) far precederé le lezioni piü precisamen-
te consacrate alia santitá canonizzata (o sarebbe meglio diré canonizzabüe) da
considerazioni piú globali e piú fondamentali sulla santitá stessa. Perció, la
demanda fundaméntale che ci guiderá in queste lezioni sará: che cos'é la santitá?
Dovremo anche chiederci quale ruólo hanno in rapporto alia vita dei viatori coloro
che sonó giá nella patria celeste. Dopo di che, potremo brevemente approdare ad
una considerazione teológica della canonizzazione (e della beatificazione),
chiedendoci perché la Chiesa canonizza e, infine, che valore hanno le canonizza-
zioni dal punto di vista dell'assenso di fede.
2
Sulla materia trattata qui di seguito nelle sezioni I, II e ni, cf. Hippolyte DELEHAYE,
SANCTVS. Essai sur le cuite des saints dans l'antiquité, Bruxelles, Société des Bollandistes
("Subsidia hagiographica, 17"), 1927, in cui si trovera, in particolare, un gran numero di
testimonianze epigrafiche.
3
Tale convincimento é vecchio quanto 1'umanitá, a quanto sembra, e ne troviamo le traccie
sia nella Bibbia, sia nella letteratura pagana. Piü tardi, S. Isidoro di Siviglia non esitera a scrivere:
dum videris unde ortum est nomen, citius vim ejus intelligis (Etymologiarum libri, 1. 1, c. 29
[PL 82, 105 Bj). — Su questo tema, si leggera con interesse Yexcursus XV, intitolato
« L'etimologia come forma di pensiero », dell'opera classica di Ernst Robert Curüus, La üttérature
européenne et le moyen age latín (trad. fr., París, Presses Pocket ["Agora, 15"], 1991, pp. 781-
792).
4
Cfr., p. es., Ferdinand DE SAUSSURE, Cours de linguistique genérale, París, Payot, 19313,
p. 117. — C'e da precisare tuttavia, e questo Saussure non lo fa abbastanza, che U signifícate
attuale di una parola puó dipendere dalla percezione da parte del locutore dell' etimologia (vera o
supposta) di questa parola.
l'illusione etimológica fa ancora molti danni, dalla veritá (áArjfleía) come
« svelamento » di Heidegger fino alia dissennata traduzione tráncese della Bibbia
ad opera di Chouraqui5. Quale interesse allora puó avere 1'etimología? non quello
di svelarci il senso delle parole che usiamo, ma, spesso, quello di farci capire
1'origine e l'evoluzione dei concetti che queste parole esprimono, permettendoci
anche di misurare che cosa é rimasta, e in quale misura, nel concertó espresso da
una determinata parola, dal concetto originario e dalle sue implicanze.
5
Ved. Jean-Luc VESCO, in Revue thomiste 74 (1974), pp. 474-476 & 659-662 (spec. p. 661).
6
Heilig si riallaccia evidentemente a heil « indenne, sano e salvo », donde das Heil «la
prosperitá, la salvezza ». Heilig vuol diré originariamente Heil bringend « che procura la
salvezza » e é stato usato per tradurre sanctus, ma si vede fácilmente quanto lo sviluppo
etimológico della parola non ha niente a che vedere con quello di sanctus o con quello di óryíog
(V. Ernst WASSERZffiHER u. Weraer BETZ, Woher? Ableitendes Worterbuch der deutschen
Sprache, Bonn, Ferd. Dümmler's Verlag, 197418, pp. 227-228).
7
1 dizionari, da Forcellini in giú, citano, come esempio di uso classico di sonatas, Lucr. 1,
587 che, di fatti, viene cosí stampato nelle edizioni:
Quid porro nequeant, sancitum quandoquidem extat.
Basta pero darsi la pena di scandire il verso per rendersi contó che é necessario leggere sanctum
e non sancitunú
8
Per quanto segué, v. A. ERNOUT & A. MEILLET, Dictionnaire étymologique de la langue
latine, París, Klincksieck, 19513.
proprie dicimus sancta quae ñeque sacra ñeque profana sunt, sed sanctíone
quadam confirmata, ut leges sanctae sunt, quia sanctíone quadam sunt subnrxae.
Quod enim sanctione quadam subnixum est, id sanctum est, etsi deo non sit
consecratum.
9
Si legge, in uno scolio di Servio sull'Eneide:
Sancire autem proprie est sanctum aliquid, id est consecratum, faceré tuso
sanguine hostiae, et dicitur sanctum quasi sanguine consecratum (In Aen., 12,
200; cit. da DELEHAYE, SANCTVS, cit., p. 4)
10
« sanctum est, quod ab iniuria hominum defensum atque munirum est [...] In municipiis
quoque muros esse sanctos [...] » (Dig., 1, 8, 8 [KR 1, 40a]).
11
Per quanto segué, vedi H. LECLERCQ, art. « Saint », in Dictiormaire d'Archéologie
chrétienne et de Liturgie.
12
« tribuni [se. plebis] [...] sanctíque sunto » (M. TVLLFVS CICERO, De Legibus, 3, 3, 9).
13
Come ne testimonia, ad es., questa curiosa etimología di Marciano:
Sanctum autem dictum est a sagminibus; sunt autem sagmina quaedam herbae,
quas legati populi Romani ferré solent, ne quis eos violaret, sicut legati
Graecorum ferunt ea quae vocantur cerycia. (Dig. 1, 8, 8 [KR 1, 40a] — É assai
piú probabüe il contrario e, cioé, che sagmen, vocabolo riservato all'uso
religioso, derivi da sondo).
14
Cosi, p. es., Cicerone dice di P. Rutilius Rufus:
illo nemo ñeque integrior esset in ciuitate ñeque sanctior (M. TVLLIVS CICERO,
De Oratore, 1. 1, c. 53, n. 221);
e presenta Yerres (nel Pro Cluentiol):
C. Yerres, praetor urbanus, homo sanctus et diligens (ID., Pro A. Cluentio,
c. 33, n. 91);
tutti ricorderanno anche come, una cinquantina d'anni piü tardi, Livio descrive i vizi di Annibale:
inhumana crudelitas, perfidia plus quam Púnica, nihil ueri, nihil sancti, nullus
deum metus, nullum ius iurandum, nulla religio (T. Lrvrvs, Ab Vrbe condita
1. 21, c. 4, n. 9).
Vi é puré un caso particularmente interessante che ritengo necessario esaminare
brevemente (tenuto contó, anche, che epistula non erubesciñ), perché vi vediamo comparire
l'espressione sanctus + nome proprio, che sará cosí caratteristica dell'uso cristiano (anche se
s'incontrano esempi pagani, particularmente epigrafici, di tale nesso, in cui generalmente il nome
nei riguardi degli déi, l'uomo santo sará anche un uorao pió15 e Cicerone
arriverá a daré questa definizione della santitá: sanctitas [...] est scientia
colendorum deorum (De natura deorum, 1, 41).
Poi, sanctus ha ricevuto il senso di «710?, il quale, presso i giudei e i
cristiani, aveva ricevuto il senso di qádós.
16
Per quanto segué, vedi Fierre CHANTRAINE, Dictionnaire étymologique de la langue
grecque, París, Klincksieck, 1968-1980.
17
Bisognerebbe anche aggiungere rb ctyoq che significa « il sacrilegio » e anche « l'espiazio-
ne », ma che pare aver avuto primitivamente il senso di « timore religioso degli déi », senso
attestato, sembra, nell'inno omerico a Demetra (v. 479). Si trova anche, in Ipponace (fine VI sec.
a. C.), <ryijg (Bergk, fg. 4) che viene tradotto con « maledetto ».
18
Ma si deve anche forse tener presente 1'osservazione di Lidell-Scott (s. u.), secondo la quale
l'uso di eúff6|3^c e raro neU'antica lingua.
fundaméntale di ciascuna delle due civiltá: da un lato, l'attenzione scrupolosa al
rito, dall'altro la coscienza trágica dell'uomo schiacciato dalle forze divine19.
Debbo pero aggiungere che, in queste brevi note etimologiche, h'o lasciato
da parte ció che é uso chiamare le « etimologie popolari » (anche se spesso non
hanno niente di popolare). Gli é che, come indicavo sopra, il mió intento era
soprattutto di far vedere come si era evoluto il concertó designato dalle parole
sanctus e ájioq, ma, per approfondire il senso che si dava a queste parole in una
determinata época o in un determínalo ambiente, sarebbe anche utile, in una
trattazione piú ampia che non la nostra, prender in contó il modo in cui a
quell'epoca o in quelFambiente ne erano spiegate le etimologie20.
19
Questo, evidentemente, richiederebbe precisazioni e srumature. Rimane tuttavia che esprime
bene le note dominanti dell'attítudine del Romano e dell'attitudine del Greco di fronte al divino.
Per U primo, si tratta soprattutto di esser in regola con gli déi, di non offenderli con riti compiuti
male, ecc.; il Greco, lui, sa che non si puó mai esser in regola con gli déi, perché gli déi non sonó
« affidabili », posseggono un formidabile potere che usano arbitrariamente nei riguardi déi mortali,
l'unica cosa che si possa fare é cercare di ingraziarseli mediante sacrifici e offerte. — Da questo
punto di vista, é interessante l'osservazione fatta da Ernout e Meillet (s. u. sondó):
II est curieux qu'aucun mot pour la notion de « sacre » ne soit attesté pour
l'indo-européen commun: le vocabulaire proprement religieux varié beaucoup
d'une langue indo-européenne á l'autre.
20
Scriveva giustamente il P. Hubert:
[...] l'étymologie populaire est un fait de reflexión sur la parole et le fruit d'un
effort pour trouver l'intelligibüité des mots de forme obscure par des comparai-
sons synchroniques. Elle n'a done rien á voir avec les mauvaises étymologies
diachroniques élaborées par des grammairiens amateurs ou les spécialistes
aventureux. Les étymologies populaires sont une donnée socio-ünguistique réelle,
dont, á ce niveau, on est en droit de tirer des legons (Martin HUBERT, « Notes
de lexicographie thomiste. V. Présentation, ponctuatíon et mots-outils»,
ArchivumLatinitatisMediiAevi (Bulletindu Cange) 36 [1967-1968], pp. 59-108
[p. 82] — Cf. anche il notevole artícelo del card. Yves Congar, « Cephas -
Céphalé - Caput », Revue du mayen age latín 8 [1952], pp. 5-42).
Ecco come S. Tommaso raccoglie le considerazioni etimologiche correnti alia sua época
a proposito della santitá e le inserisce nella sua riflessione:
Dicendum quod nomen sanctitatís dúo videtur importare. Uno quidem modo
munditiam; et huic significationi competít nomen graecum, dicitur enim agios,
id est sine térra [da á- (senza) e yíj (térra); cf. ORIGENEM, In Lev., hom. 11
(PG 12, 530)]. Alio modo importat firmitatem; unde apud antiquos sancta
dicebantur quae legibus erant munita ut violan non deberent; unde et dicitur
aliquid esse sancitum quia est lege firmatum. Potest etíam secundum Latinos hoc
nomen sanctus ad munditiam pertinere ut intelligatur sanctus quasi sanguine
tinctus, eo quod antiquitus illi qui purifican volebant sanguine hostiae tingeban-
tur, ut Isidorus dicit in libro Etymol. [1. 10, ad litt. S (PL 82, 393)].
Et utraque significatio competit, ut sanctitas attribuatur his quae divino
cultui applicantur; ita quod non solum homines sed etiam templum et vasa et alia
huiusmodi sanctificari dicantur ex hoc quod cultui divino applicantur. Munditia
enim necessaria est ad hoc quod mens Deo applicetur. Quia mens humana
inquinatur ex hoc quod inferioribus rebus coniungitur [Piona : immergitur
Leonina], sicut quaelibet res immixtione peioris sordescit, ut argentum ex
immixione plumbi. Oponet autem quod mens ab inferioribus rebus abstrahatur,
ad hoc quod supremae rei possit coniungi. Et ideo mens sine munditia Deo
u. La santitá nella Sacra Scrittura .
A. L'Antico Testamento.
In ebraico, la santitá é espressa mediante la radice qds (U7 1p). Sembra che
il signifícate originario sia quello di separazione, separazione dal profano; qds
« esprime la caratteristica fondamentale di tutto ció che ha attinenza al culto »
(Kittel, i. 1.). AH'origine, qui come in latino o in greco, non c'é nessuna valenza
morale del concertó; la nozione che fa coppia con la « santitá » é quella di
« purezza rituale ». Anche se la nozione di santitá si é forse per primo applicata
a dei luoghi di culto (Es 3,5, p. es.), poiché, evidentemente, il culto é culto di
IHWH, sará IHWH per primo ad essere caratterizzato con la santitá (qódds). Giá
Amos, il piü antico dei profeti, ci presenta IHWH che giura per la sua santitá
(4,2) « ossia — commenta Procksch — per la sua essenza piü intima, che é
opposta a tutto ció che é creato e a maggior ragione a tutto ció che é impuro e
peccaminoso »: assistiamo a uno slittamento del concetto da una prospettiva
puramente rituale a una prospettiva morale. E, attraverso gli usi dei Salmi, in
particolare, si vede che il concetto di santitá viene quasi ad identificarsi con
quello di divinitá: « la santitá di Dio diventa [...] espressione della sua perfezione
essenziale e soprannaturale ».
Pero, al Sinai, Dio si costituisce un popólo. Israele diventa popólo di Dio,
unito a Dio mediante l'alleanza (Es 24,4-8). Se Israele appartiene a Dio, se Dio
é continuamente presente in mezzo al suo popólo, Israele diventa il popólo tolto
dal mezzo delle nazioni, sepárate per Dio e, per conseguenza, diventa un popólo
santo ('can qádos) « e non deve aver contatti di sorta con i culti e i riti di altri
popoli, ma adorare Jahvé, il Dio único (Deut. 6,4) ». Questa santitá del popólo
di Dio é, per cosí diré, sviscerata nel « códice di santitá » del Levitico (17-26),
interamente fondato sul principio: « siate santi perché santo sonó io » (19,2, ecc.).
Come vediamo leggendo questi capitoli del Levitico, anche se qualche volta si
supera la prospettiva di una purezza puramente rituale per raggiungere l'idea di
una purezza morale (c. 19), tutto ció rimane in un quadro strettamente cultuale.
Questo quadro sará supérate dai profeti.
Un posto a parte merita Osea che unisce intimamente la santitá di Dio
all'amore di Dio, « idea, questa che non ha confronti nell'A. T. né prima né dopo
Osea. II profeta [...] concepisce la santitá di Jahvé — ossia la stessa natura
applicari non potest. Unde Ad Hebr. ult, 14, dicitur: « Pacem sequimini cum
ómnibus, et sanctimoniam, sine qua nenio videbit Deum ». — Firmitas etiam
exigitur ad hoc quod mens Deo applicetur. Applicatur enim ei sicut ultimo finí
et primo principio; huiusmodi autem oportet máxime immobüia esse. Unde
dicebat Apostolus, Rom. 8,38: « Certus sum quod ñeque mors ñeque vita
separabit me a caritate Dei » (IIa u", q. 81, a. 8, c.).
21
Per quanto segué, e che non ha la mínima pretesa di essere una trattazione un po' completa
dell'argomento ma vuole soltanto offrire una veduta genérale, ved. soprattutto l'art. óryío? del
Kittel, dovuto a O. Procksch e, per la parte riguardante il giudaismo, a K. G. Kuhn.
9
divina — come sorgente di un amore incrolíabile e fecondo che puó, si,
distruggere, ma poi ridá la vita (cfr. 6,1 s.) ».
Isaia puó esser detto il profeta della santitá. Al centro della sua teología
sta il trisaghion (6,3). « Esso significa che il Signore degli eserciti é in qualche
modo santo alia terza potenza »; mentre la gloria di Dio (kabód) si manifesta in
qualche modo nel mondo, « la santitá é invece l'essenza piü intima e nascosta di
Dio ». Da qui, il tremeré del profeta che di fronte alia santitá cosí rivelata si vede
impuro, di una impuritá che forse non é soltanto rituale ma anche morale (6,7:
« la colpa é tolta, il peccato é perdónalo »), impuritá che Dio stesso distnigge.
Vediamo quindi, attraverso in particolare la legge di santitá del Levitico
e anche Isaia, che non solo Dio é santo, ma chiama alia santitá e rende santi. É
santo il popólo d'Israele, é santo il sommo sacerdote, sonó santi i sacerdoti, i
leviti e tutto il popólo. Questo, nel periodo postesilico é stato spesso inteso in
senso únicamente rituale, producendo « una materializzazione del sacro, contro
la quale ha dovuto prender posizione Gesü (Mí. 23,17.19) ».
B. n Nuovo Testamento.
II NT, come si sa, eredita la lingua dei LXX, i quali avevano sistemática-
mente tradotto qádós con ájioq. Ritroviamo quindi nel NT le valenze fondamen-
tali del concertó vetero-testamentario di santitá.
Prima di tutto, la santitá é attributo proprio di Dio e il trisaghion di Isaia
riecheggia nell'Apocalisse (4,8). Ancora nell'Apocalisse, Dio é qualificato come
ó 0:710? Kai áAr/flivó? dai martiri che chiedono vendetta (6,10). In S. Giovanni,
Gesú stesso, in un momento particularmente solenne, s'indirizza a suo Padre
chiamandolo Trárzp áyie (17,11). A parte questi testi, 0:710? si trova applicato a
Dio, nel NT, solo in 1 Pt 1,15. Aggiungiamo infine il testo del Padre nostro in
cui si chiede che il nome di Dio (= Dio) sia santificato. Raccolta un po' scarsa,
ma si puó diré con ragione, insieme a Procksch: « nel N. T. la santitá di Dio,
anche se solo di rado é esplicitamente affermata, é pero costantemente presuppo-
sta ».
Anche Gesü é abbastanza raramente chiamato cfyto?22, ma non é inutile
esaminare brevemente questi casi.
In Le 1,35 (« e, perció, l'essere santo che nascerá sará chiamato figlio di
Dio »), é insinuata l'idea che la santitá di Gesú dipenda dai fatto di provenire
dall'opera dello Spirito Santo. E l'appellazione di Gesü come « santo di Dio »
0:710? TOÍI 0eoD (Le 4,34; Me 1,24) mostra come Gesú é santo in quanto riceve
questa santitá da Dio (dallo Spirito Santo) e in quanto é, per cosí diré, portatore
di questa santitá. Notiamo che, in Gv 6,69, la confessione di Pietro consiste nel
riconoscere in Gesü ó 0:710? TOV 9eov. Si tratta di un atto di fede in colui che il
Padre ha santificato (wíctaev) e che apparirá nell'Apocalisse chiamato ó 0:710?
Kai áArjflu'ó? e possedendo gli stessi attributi di Dio (6,10): « Come si vede, in
tutti i passi fin qui citati «710? indica la divinitá di Cristo ».
22
Le occorrenze sonó: Me 1,24; Le 1,35; 4,34; Gv 6,69; 1 Gv 2,20; Ap 3,7; Atti 3,14; 4,
27.30.
10
Secondo Procksch, e, sembra, con giusta ragione, la portata di 07101;
nell'espressione 6 0:7101; Trcdq (Atti 3,14; 4, 27.30) é diversa: si tratta del servo
di Dio ( 'ebedjhwh) che, come vittima e come sacerdote, dev'essere santo per
poter, come dice la lettera agli Ebrei (2,11; 9,13; 13,12 sqq), santificare
Lascio da parte turto ció che si potrebbe diré sullo Spirito Santo. Per
quanto c'interessa direttamente qui, possiamo diré che la qualifícazione dello
Spirito come santo (0:710 v) vuole indícame la natura divina.
Piü direttamente attinente al nostro tema é Tésame deirattribuzione della
santitá alia Chiesa e ai cristiani.
Prima di tutto é la Chiesa, infatti, ad essere santa. Essa é, secondo 1 Pt
1,16, Wvoq &JLOV. Cristo, ci dice S. Paolo (Ef 5,26), si é consegnato per « la
Chiesa, per santificarla [...] perché sia santa e senza difetto (ájía KOCÍ á/ioj/¿oc) »;
la Chiesa é un rao£ ayioq. E cosí, coloro che ne fanno parte sonó ctyioi, perché
sonó stati * santificad in Cristo Gesü » (1 Co 1,2). Come si sa, sia negli Atti sia
in S. Paolo, i fedeli sonó correntemente designati come oí 0:7106 (Atti 9, 13.32.41;
ecc.; Rom 1,7; 15,25; 1 Co 1,2; 16,1; ecc.). S. Paolo precisa, mediante in
particolare l'espressione /cXi/roi ¿7101 (Rm 1,7; 1 Co 1,2), che « i cristiani [...]
non sonó 0:71,01 per natura, ma per la chiamata di Dio ». Ma essendo stati cosí
chiamati e santificati, i cristiani devono condurre una vita degna di tale chiamata,
devono essere « un'ostia vívente santa per Dio » (Rm 12,1; cfr. 15,16).
Come si vede, anche se l'aspetto d'impegno morale, é presente, ció che
sembra caratterizzare il concertó di santitá nel NT é il rapporto con Dio, sia che
tratti di indicare la divinitá di Cristo, sia che si tratti d' indicare la « divinizzazio-
ne » del cristiano. II NT, pero, accentua le conseguenze.di tale « santificazione »,
insegnando chiaramente che non si tratta d'imputazione esterna ma di rinnovamen-
to interiore mediante il quale ci si riveste di Cristo.
.23
A. L'uso delle parole sanctus e
1. n cristianesimo primitivo.
'S
23
V. H. LECLERCQ, art. « Saint », in Dictionnaire d'Archéologie chrétienne et de Liíurgie.
11
vocabolo designa, senza eccessiva precisione, gli iniziati, gli aggregati mediante
il battesimo, quale che sia il valore morale di ciascuno di loro. I "santi" sonó
coloro che noi oggi chiamiamo correntemente i "fedeli"24 ».
2. L'epoca patrística.
L'uso genérale rimane ancora quello del NT e dei primi due secoli. D'uso
frequente sonó le espressioni plebs sánela (che equivale al nostro: « il popólo
fedele »). S. Agostino s'indirizza a volte ai suoi auditori chiamandoli sanctitas
uestra; Gregorio di Elvira li chiama con una certa rrequenza sanctissimi fratres,
ecc.
É piü interessante cercare di vedere come si é arrivato ad applicare, in
ámbito cristiano, il vocabolo sanctus o SÍJLOC; a delle persone singolari. Sembra
che ció sia awenuto sotto un doppio influsso.
Da un lato, si designa correntemente 1'insieme dei morti cristiani con
l'espressione sancti o spirita sancta [sic]. Nelle iscrizioni funerari l'espressione
Viuas cum sanctis o espressioni analoghe sonó correnti. Pero, si vorrá precisare;
e, parallelamente alio sviluppo del culto dei mártir i, questi verranno, a volte,
decorati del titolo di santi: soneto martyri Laurentio, ad esempio.
Questo andava a incontrarsi con l'uso, influenzato dalla titolatura ufficiale
dell'impero romano (secondo cui gli imperatori, in particolare, erano sanctissimi),
di utilizzare sanctus come titolo protocollare25. H. Leclercq fa notare che, se
S. Ambrogio chiama santi molti personaggi defunti che noi chiamiamo cosí
(sanctus Neemias, sanctus Dauid, sanctus Paulus, sancta Agnes, ecc.), attribuiva
anche questo titolo alia sua sorella Marcellina. S. Girolamo, benché preferisca
usare beatus, attribuisce anche il titolo di sancta alie sue amiche Melania,
Marcella, Paula.
In greco, o^toc é assai meno usato, ma seguirá con un certo ritardo
Fevoluzione del latino sanctus, fínendo col designare dei personaggi morti e
oggetto di un culto.
A questo breve esame, bisognerebbe aggiungere, come fa dom Leclercq,
la considerazione di altri vocaboli come domnus26, beatus" e beatissimus (di
24
Ibid., col. 376.
25
Questo uso fu applicato in modo particolare ai vescovi, che spesso sonó chiamati sanca o
sanctissimi; gli esempi antichi e altomedievali sarebbero sovrabbondanti. Attualmente, il titolo di
sanctissimus, nella Chiesa latina, é riservato al Papa.
26
Giovanni Beleth scrive al capitolo 25 della sua Summa de ecclesiasticis offidis (databüe
intorno al 1182):
[...] Hic dompne dicit, quoniam ad hominem loquitur, qui semiplenus et
inperfectus respecta Domini, et ideo utitur sincópate uocabulo, quod obseruant
monachi dicentes dorrmus abbas, non dominus abbas (CCMed 41A, p. 52).
Si deve tuttavia confessare che tale distinzione fta donmus applicato agli uomini e dominus
riservato a Dio sembra essere stata osservata in modo piuttosto incestante. Infatti, per quanto
possiamo fidarci dei scribi antichi e delle edizioni moderne, se si usa abbastanza raramente donmus
applicato a Dio o a Cristo (ma ne vedremo súbito un esempio), si usa pero con facilita, anche ad
12
cui i vescovi dei IV e V secoli fanno grande uso) e il corrispondente greco
ptoc28. Applicati a defunti, non signifícano necessariamente che si afferma la
loro presenza in paradiso; pero, a poco a poco, hanno preso (e, per domnus,
hanno poi perso29) questo senso. Occorre infine menzionare la parola bffioq che
época tarda, dominas per un uomo. Si legge, ad es., nel De situ terrae sanctae che ci ha lasciato
un certo Teodosio (sec. VI):
Sanctus iacobus, quera donúnus manu sua episcopum ordinauit, post ascensum
domni de pinna templi praecipitatus est et nihil ei nocuit, sed fullo eum de uecte,
in quo res portare consueuerat, occidit et positus est in monte oliueti (CCLat
175, p. 119 [corsivo nostro]).
Diverse volte, poi, si trovano nel regesto di S. Gregorio Magno (f 604) formule di questo tipo,
in cui si usano in modo promiscuo le forme domnus et domnus:
Data die x kalendarum iuliarum, imperante domino nostro mauricio tiberio
piissimo augusto armo xvnn, post consulatum eiusdem domni nostri anno xvm,
indictione nn (GREGORTVS MAGNVS, Registrum epistularum, 1. 11, ep. 45
[CCLat 140A, p. 943 - corsivo nostro]).
27
Come sonetos, beatus & un participio passato passivo; appartiene al verbo beare che significa
« colmare i vori di qualcuno, render felice, gratificare, arricchire »; etimología oscura (forse un
rapporto con bonus}; mentre beare é poco usato, almeno nella lingua colla, beatus é diventato un
aggettivo con comparativo e superlativo, di uso frequente.
28
Etimología oscura; primitivamente riservato agli dei, diventa alTépoca classica una parola
del tutto corrente per designare la felicita di un uomo; ben rappresentato nei LXX e nel NT (cf.
il relativo art. nel Kittel). Per l'uso di yMnúpioq nell'antichitá cristiana, v. DELEHAYE, SANCTVS,
cit., pp. 69-72.
29
< Domnus, forme réduite de dominas, a été, aux époques mérovingienne et carolingienne,
un véritable synonyme de sanctus » (A. LONGNON, cit. da H. LECLERCQ, art. cit., col. 448).
Concurrentemente a questo uso, domnus é « un titre honorifique qui precede le nom propre du roí
ou de l'empereur, du pape, des évéques, des abbés, puis (Xc siécle) des seigneurs et finalemení
(XUC siécle) des chevaliers » (J. F. NiERMEYER, Mediae latinitatis lexicón minus, Leiden, E. J.
Brill, 1976, s. u. dominus'); solo quest'ultimo uso si é mantenuto fino a noi, attraverso il « don »
che si da, fra l'altro, ai sacerdoti secolari itaüani e ai vescovi brasiliani e il « dom » che si
premette, in Francia, ad es., al nome dei monaci. Notiamo tuttavia che, se domnus usato da solo
non indica piü la santita di un personaggio, continua tuttavia (insieme a dominus) a qualificare i
santi, e ció verra reso nelle lingue volgari: per prender esempi al femminile, nel lai di Eliduc
(w. 821-826), María di Francia scrive:
Deu recleiment devotement,
Seint Nicholas e seint Clement
E madame seinte Marie
Que vers sun fiz lur quiere aie,
Qu'il les guarisse de perir
E qu'al hafne puissent venir.
E, tre secoli piü tardí, Jean Molinet dice:
[...]
Mes pour avoir paix, Madame saínete Anne,
Mente odorant, conchut la douce manne,
Tout purement, sans tache originelle,
[.-]
(Jean MOLINET, Chant royal; in Paul ZUMTHOR, Anthologie des granas
rhétoriqueurs, París, Union Genérale d'Éditions ["10/18, n. 1232"], 1978,
pp. 101-102).
13
Questo capitolo non intende esporre e nemmeno riassumere tutto ció che
il Vaticano II insegna a proposito della santitá, insegnamento che avremo a
ritrovare per di poi alFoccasione della nostra ulteriore trattazione. In modo assai
piü limitato, vorrebbe semplicemente cercare quale definizione della santitá da il
concilio. Ora non é una impresa cosí facile come potrebbe sembrare. II
Vaticano II parla in continuazione della santitá, ha perfino consacrato un intero
30
« Le superlatif bmúrrccrot; est un des titres qui sont fréquemment donnés aux évéques et
s'emploie comme de nos jours "sa Grandeur", "sa Sainteté", "sa Béatitude". Dans les
temps antiques Serios ne se rencontre pas faisant fonction de áyioq devant le nom d'un saint. Ce
n'est qu'au cours du moyen age qu'aprés avoir été employé pour désigner les moines en réputation
de sainteté, il devient un terme officiel pour désigner une catégorie de saints, correspondant a ceux
que l'Église latine appelle confesseurs non pontifes, ou les vierges non martyres. Dans les Menees
Fappellation est courante dans cette acception > (DELEHAYE, SANCTVS, rít. , pp. 72-73).
31
Per l'ambito greco, ved. evidentemente il dizionario di Lampe s. u. cryíog, óryíór»;?,
, ájiafffió<;t K. r. \.
orfíovc, [ . . . ] 6ióí TTJ£ TOV wevuaroq 8óaeü)£ /caí rüv óp9&v Soyuccrav (Hom. 82, 1, in Jo.).
33
Notiamo tuttavia che S. Atanasio, che nomina collettivamente i martiri oí 07101 ¡
non attribuisce mai il titolo di «7101; a S. Antonio, di cui scrive la vita (e nemmeno a S. Pietro
di Alessandria, l'ultimo dei martiri).
14
capitolo della Lumen gentium alia « vocazione universale alia santitá nella
Chiesa » (c. 5), ma non sembra considerare cosa molto urgente di definiré cosa
intende con questa parola. Cercando bene, si puó tuttavia trovare una « defínizio-
ne ». Leggiamo, infatti, non in questo capitolo 5, ma piü in la, nel capitolo 7
(« L' Índole escatologica della Chiesa pellegrinante e la sua unione con la Chiesa
celeste »), al n. 50:
Dura enim illorum conspiscimus vitara qui Christum fideliíer sunt secuti, nova
ratíone ad futuram Civitatem inquirendam (cf. Hebr. 13, 14 et 11, 10) incitamur
simulque tutissimam edocemur viam qua ínter mundanas varietates, secundum
statum ac condicionen! unicuique propriam, adperfectam cum Christo unionem
seu sanctitatem pervenire poterimus [corsivo nostro].
Vediamo qui la santitá equipárala con la perfecta unione con Cristo e, anche se
non in modo cosí esplicito, potremmo ritrovare questa idea attraverso diversi testi
conciliar!. Bisogna tuttavia confessare che difficilmente si puó riconoscere
nelFequazione: « santitá = unione con Cristo » una vera defmizione della santitá.
Lo stesso Concilio, infatti, insegna che Cristo é santo (p. es. LG 8): dovremmo
allora diré che lo é perché perfectamente unito con se stesso? e, piü ancora, il
Concilio dice anche che Dio é santo (p. es. Presbyterorum ordinis, 5): questo
significa che Dio é santo perché é unito con Cristo? Evidentemente no. E poi, in
piú di una occasione, il Concilio stesso riporta la santitá a Dio e all'unione con
Dio, come, ad es., nel bellissimo n. 40 della LG. Non é qui il luogo di esaminare
i motivi che hanno potuto portare a voler leggere in alcune espressioni del
Concilio, sepárate da altre espressioni complementar i, una « defmizione » della
santitá34; ci bastí rilevare che il Concilio non ha inteso daré definizioni (confor-
memente al suo índole pastorale), nemmeno una defmizione della santitá, ma ha
preferito tracciare delle descrizioni della santitá.
Per noi, pero, che dobbiamo metter le cose in ordine (sapientis est
ordinaré) e prender della realtá una conoscenza piú scientifica, piü speculativa,
é giocoforza ricorrere alia riflessione teológica per cercare di formarci un
concertó il piú chiaro possibile della santitá. In questa impresa non possiamo
prendere migliore guida se non quella che il Concilio stesso ha indicato (Optaíam
totius 16): S. Tommaso d'Aquino.
34
Fra questi motivi c'é senz'altro un « cristocentrismo » mal inteso o piuttosto, in molti casi,
inteso nella coerenza del pensiero rahneriano, il quale, in modo paradossale, ma non piú di tanto,
conduce a un rinnovato monofisismo, confondendo la cosiddetta « santitá sostanziale » di Cristo
(che riguarda, in realtá, la sola persona) con la santitá di Cristo nella sua umanitá, la quale, come
la santitá di ogni altra creatura, é data da Dio con la grazia abituale e le virtü e i doni che ne
sgorgano.
15
Y. Riflessione teológica sulla santita.
A. La santita divina.
In sacris litteris Deus dicitur Sanctus, uti constat ex 1. Reg. cap. 2. v. 2. Non
est Sanctus, ut est Domínus; Deus etiam vocatur Sanctus Sancíorum; et ipsa
Ecclesia de Deo dicit: Tu solas Sanctus. Deus enim sanctus est substantialiter,
ita ut in eo vox Sanctus ejus substantiam significet, idest sanctitatem per
essentíam, seu sanctitatem essentialem, secundum doctrinam Theologorum cum
D. Thoma 1. part. qu. 13. art. 2. Et hac quidem de causa Dei sanctitas est
ordinis superioris, cum a se ipso sanctitatem habeat: creaturae autem sanctae
sunt ex accidenti, et in eis non est idem sanctitas, ac essentia, sed sanctitatem
habent participatam, fortuitam, et quae ex sua ratione deficere potest [...] (1. 1,
c. 37, n. 7 [ed. cit., t. 1, p. 250a]).
33
Bisogna tuttavia confessare che S. Tommaso non sembra essersi molto interessato alia santita
di Dio. Ne parla rare volte e en passant, anche laddove uno sviluppo sul tema sembrerebbe andaré
da sé: cfr., ad es., lo scarno e delúdeme commento al trisaghion nella sua Expositio super Isaiam
(c. 6 [EL 28, p. 50a]). — Probabilmente, e lo capiremo meglio dopo gli sviluppi del parágrafo
seguente, gli sembrava aver detto tutto sull'argomento parlando della conoscenza che Dio ha di
se stesso e dell'amore che Dio ha per se stesso.
16
mondo; quando li applichiamo a Dio sappiamo che diciamo bene ma non
sappiamo che cosa, in realtá, diciamo (o, come dicevano gli scolastici, conoscia-
mo la ratio ma non il modus)26l Perció non ha senso partiré dalla santitá di Dio
per definiré la santitá delFuomo, poiché non sappiamo che cosa é la santitá di
Dio37. La santitá di Dio, infatti, é, l'abbiamo appena sentito, idéntica all'essenza
divina, a ció che Dio é in se stesso e ció che Dio é in se stesso ci rimane
irremediabilmente — sonó le parole stesse di S. Tommaso — penitus ignotum (3
CG 49). E cosí, una indagine sulla santitá deve necessariamente partiré dalla
santitá umana e, una volta questa definita, forse potremo formare a partiré di ció
una vaga idea di ció che potrebbe essere la santitá divina.
B. La santitá umana38.
36
Cfr., ad es., Super 1 Sent., á. 25, a. 2, c. (Mandonnet, p. 607):
[.,.] persona dicitur de Deo et creaturis, non univoce nec aequivoce, sed
secundum analogiam; et quantum ad rem significatam per prius est in Deo quam
in creaturis, sed quantum ad modum significandi est e converso, sicut est etiam
de ómnibus aliis nominibus quae de Deo et creaturis analogice dicuntur.
37
Ed é inoperante far notare che Dio, nella Rivelazione, ci fa conoscere la sua santitá, perché
lo fa attraverso, precisamente, concetti umani che non sonó adeguati alia sua realtá.
38
Lascio da parte Tésame della santitá degli Angelí, la cui definizione, peraltro, e
fondamentahnente la stessa che non quella della santitá umana
39
Evidentemente non abbiamo tenuto contó, in questo computo, del Supplementum.
40
In modo meno técnico ed articolato, ma del tutto equivalente, S. Tommaso scrive, nel
Commemo al Vangelo di Giovanni: In hoc est sanctitas hominis quod ad Deum vadat (Super ev.
loannis, c. 13, 1. 1, n. 4 [Marietti, n. 1743]).
41
«Id [...] in quo creatura rationalis excedit alias creaturas, est intellectus sive mens » (Ia,
q. 93, a. 6, c.).
17
In altre parole: né la pietra, né il gatto possono essere santi nel senso in cui le
creature intellettuali possono esserlo42.
Poi, crea senz'altro un po' di meraviglia la distinzione che fa S. Tommaso
fra « applicare se stesso a Dio » e « applicare i suoi atti a Dio », póiché é evidente
che « applicare se stesso a Dio » é un arto. Sembra, quindi, che sarebbe bástate
diré: « applicare i suoi atti a Dio ». Pero, come sappiamo, non é costume di
S. Tommaso di parlare per non diré milla e, sotto l'espressione apparentemente
ridondante da lui usata, si cela una importante distinzione fra la mente considérala
in se stessa, nella sua attivitá propria, immanente ed elicita, da un lato, e le
operazioni imperate ed esterne, dall'altro; ci torneremo fra un istante, ma, prima,
bisogna chiarire il senso preciso della parola « applicare ».
S. Tommaso da come equivalente alia espressione « applicare a Dio »,
l'espressione « riferire, rapportare a Dio » (referí in Deum)43: ambedue significa-
no, come appare alia lettura della questione 81, « prender Dio come fine »: la
santitá, come la virtü di religione (e si tratta, peraltro, della stessa cosa44),
ordina l'uomo a Dio45.
Questo significa che l'uomo prende Dio come fine di tutu i propri atti e,
in primo luogo, come fine della sua stessa mente; e tale fine si raggiunge
mediante gli atti proprii (eliciti) di questa mente: la conoscenza e l'amore; la
mente « si applica a Dio » quando si sforza di conoscerlo e di amarlo, e, in questo
modo, l'uomo diventa alFimmagine di Dio, póiché Dio e lui hanno il medesimo
fine della loro attivitá intellettuale: Dio stesso46. Gli altri atti deH'uomo, i quali
hanno un fine ¿inmediato che non é né puó essere Dio, saranno tuttavia ordinati
42
É possibile, pero, daré della santitá una defínizione piú genérica che s'applichi insieme alie
creature irrazionali e alie creature intellettuali, come fa S. Tommaso, ad es., nel Deperfectione
spiritualis vitae:
Dicitur [...] aliquid sanctum ex eo quod ordinatur ad Deum ; unde et altare
sanctum dicitur quasi Deo dicatum, et alia huiusmodi quae divino ministerio
mancipantur (c. 14 [EL 41, p. B 86a]).
«ITEr, q. 81, a. 8, c.
44
« sanctitas [...] non differt a religione secundum essentiam, sed solum ratione » (ibid.).
43
Ved., in part., IIa üae, q. 81, a. 1. — S. Tommaso diceva giá, in modo genérico, in Ia,
q. 36, a. 1, c.: « Sanctitas autem illis rebus attribuitur, quae in Deum ordinantur ».
46
« Responsio. Dicendum quod cum homo secundum intellectualem naturam ad imaginem Dei
esse dicatur, secundum hoc est máxime ad imaginem Dei, secundum quod intellectualis natura
Deum máxime imitari potest. Imitatur autem intellectualis natura máxime Deum quantum ad hoc
quod Deus seipsum intelligit et amat. — Unde imago Dei tripliciter potest considerari in nomine.
Uno quidem modo, secundum quod homo habet aptitudinem naturalem ad intelligendum et
amandum Deum; et haec aptitudo consistit in ipsa natura mentís, quae est communis ómnibus
hominibus. Alio modo, secundum quod homo actu vel habitu Deum cognoscit et amat, sed tamen
imperfecte; et haec est imago per conformitatem gratiae. Tertío modo, secundum quod homo
Deum actu cognoscit et amat perfecte; et sic attenditur imago secundum similitudinem gloriae.
Unde super illud Psalmi 4,7, "Signatum est super nos lumen vultos tui, Domine", Glossa distinguit
triplicem imaginem: scilicet creationis et recreationis et similitudinis. Prima ergo imago invenitur
in ómnibus hominibus; secunda in iustis tantum; tertia vero solum in beatis » (Ia, q. 93, a. 4, c.).
18
a Dio come fine ultimo, di modo che il santo autentico é colui la cui vita trova
senso soltanto in riferimento a Dio (poiché é il fine a daré senso): questo si
verifica perfettamente nel caso di Gesü Cristo47.
Per S. Tommaso, dunque, la santitá consiste nella conoscenza e nelFamore
di Dio. E si deve súbito precisare che tale conoscenza e tale amore sonó
nelFuomo solo per grazia e si realizzano quaggiü per mezzo della fede e della
carita. Si tratta, infatti, come lo abbiamo appena visto, non soltanto di acquisire
una certa conoscenza di Dio e di amarlo in qualche modo, ma di fare di Dio il
fine ultimo di tutta la riostra vita, e questo si puó fare solo per grana4*. Pero,
anche in questo caso, dobbiamo citare il famoso detto: grana non tollit naturam
sed perficit (Ia, q. 1, a. 8, ad 2m). É chiaro, infatti, che la santitá, cosí come
l'abbiamo definita seguendo S. Tommaso, non é qualcosa di sovraggiunto, un
ornamento magnifico di certo, ma come appiccicato dalFesterno sull'uomo, ma
é, tutt'al contrario, ció che porta alia sua perfezione la natura umana: la santitá
é, nella sua realizzazione perfetta, idéntica alia beatitudine che tutti gli uomini,
necessariamente, desiderano da un desiderio naturale e che consiste nella visione
di Dio. Diventare santo, quindi, non significa, come a volte si vorrebbe far
credere, allontanarsi dall'umanitá, ma significa awicinarsi sempre pin alia
perfezione per la quale é fatta, intrínsecamente, la natura umana. Abbiamo qui il
fondamento di questa «chiamata universale alia santitá» che il concilio
Vaticano II ha vigorosamente riproposta nel capitolo 5 della costituzione Lumen
gentium (= nn. 39-42)49.
Se la santitá, poi, é la conoscenza e l'amore di Dio, possiamo caratteriz-
zarla con un concetto, di origine pagana, é vero, ma che, da molto tempo, é stato
accolto nel cristianesimo: il concetto di contemplazione. Questa parola, a volte,
puó fare un po' paura e molti pensano che si tratti di qualcosa che é riservato a
poche anime elette. Questo é un errore funeste, perché, in realtá, il cristiano é
contemplativo oppure non é veramente cristiano50. Difatti, se amiamo Dio,
47
Cf. m*, q. 19, a. 2.
48
Ved. Ia IIa*, q. 109, aa. 1 & 3, senza dimenticare che « facienti quod in se est Deus non
denegat gratiam » (ibid., q. 112, a. 3); cf. ibid., q. 89, a. 6.
49
Arrivati a questo punto, si potrebbe far rilevare come Cristo sia assente da tutto quaato
S. Tommaso ci dice sulla santitá e rimanere perplesso di fronte a una dottrina sulla santitá che
sembra non fare posto a colui che é « il santo di Dio » e nel quale siamo santificati. Tale assenza
é dovuta al fatto che Cristo, nella sua umanitá, é soltanto un mezzo nell'economia voluta da Dio,
mezzo necessario e sublime, certamente, ma mezzo (e, in quanto tale, contingente) della nostra
santiñcazione. Su questo punto, che non possiamo sviluppare qui, ved. Yves CONGAR, « Le
moment 'économique' et le moment 'ontologique' dans la Sacra doctrina (Révélation, Théologie,
Somme théologique) », in Mélanges Chenu, París, J. Vrin, 1967, pp. 135-187; ID., « 'Ecclesia'
et 'Populus (fidelis)' dans l'ecclésiologie de S. Thomas », in St. Thomas Aquinas. 1274-1974.
Commemorative Studies, Toronto, Pont. Instituteof Mediaeval Studies, 1974, vol. 1, pp. 159-173
(spec. p. 170); Louis-Bertrand GILLON, « L'imitation du Christ et la morale de saint Thomas »,
Angelicum 36 (1959), pp. 263-286 (spec. pp. 278-284).
30
«[...] hoc videtur esse atnicitiae máxime proprium, simul conversan ad amicum.
Conversatio autem hominis ad Deum est per contemplationem ipsius: sicut Apostolus dicebat,
Philipp. 3,20: Nostra conversado in caelis est. Quiaigitur Spiritus Sanctus nos amatores Dei facit,
19
desideriamo di conoscerlo meglio, e, piú conosciamo Dio, piü lo amiamo; questa
circolazione (nel senso etimológico della parola) é la contemplazione stessa51;
essa non si limita alie esperienze mistiche straordinarie, né al tempo passato
neU'orazione: include tutto ció che riguarda il nostro progresso nella conoscenza
di Dio52 e S. Tommaso enumera i sei gradi attraverso i quali 1'uomo raggiunge,
a partiré dalla considerazione delle creature, la contemplazione di Dio53. Cosí
diventa manifestó come lo studio e, in particolare, lo studio della sacra dottrina
(condotto, evidentemente, da ognuno secondo la propria condizione e le proprie
capacita) é essenziale alia santitá, poiché é in tale studio che consiste fondamental-
mente la contemplazione, anche se essa puó, a volte, elevarsi al di la della
considerazione discorsiva.
Pertanto — e bisogna insistere con grande energía su questo punto —,
pertanto, lo studio, e in particolare lo studio della teología, puó essere considérate
come un mezzo solíante da un punto di vista esclusivamente estrinseco e
giuridico. Infatti, é evidente che la Chiesa deve preoccuparsi che i suoi ministri
posseggano le qualifiche e le conoscenze necessarie aH'adempimento corretto del
loro ufficio (ed é questa la prospectiva — del tutto legittima, poiché si tratta del
consequens est quod per Spiritum Sanctum Dei contemplatores constituamur » (4 CG 22).
31
« [.,.] vita contemplativa, licet essentialiter consistat in intellectu, principium tamen habet
in affectu, inquantum videlicet aliquis ex caritate ad Dei contemplationem incitatur. Et quia finís
respondet principio, inde est quod etiam terminus et finís contemplativae vitae habetur in affectu,
dum scilicet aliquis in visione rei amatae delectatur et ipsa delectado rei visae amplius excitat
amorem. Unde Gregorius dicit, Super Ezech. [1. 2, hom. 2 (PL 76, 954)], quod "cum quis ipsum
quem amat viderit, in amorem ipsius amplius ignescit". Et haec est ultima perfectio contemplativae
vitae, ut scilicet non solum divina ventas videatur, sed etiam ut ametur > (IIa u", q. 180, a. 7,
ad lm).
52
«[...] ad vitam contemplativam pertinet aliquid dupliciter: uno modo principaliter, alio
modo, secundario vel dispositive. Principaliter quidem ad vitam contemplativam pertinet
contemplatio divinae veritatis, quia huiusmodi contemplatio est finís totius vitae humanae. [...] Sed
quia per divinos effectus in Dei contemplationem manuducimur, secundum illud Ad Rom. 1,20:
"Invisibilia Dei per ea quae facta sunt, intellecta, conspiciuntur", inde est quod etiam contemplatio
divinorum effectuum secundario ad vitam contemplativam pertinet, prout scilicet ex hoc
manuducitur homo in Dei cognitionem » (IP IIa6, q. 180, a. 4, c.).
53
Riccardo di S. Vittore distingueva sei specie di contemplazione, di cui solo l'ultima
sembrava concernere la contemplazione della venta divina (De gratia contemplationis [ = Beniamin
maior], 1. 6, c. 6 [PL 196, 70]); S. Tommaso interpreta e organizza nel modo seguente
1'enumerazione del vittorino:
Dicendum quod per illa sex designantur gradus quibus per creaturas in Dei
contemplationem ascenditur. Nam in primo gradu ponitur perceptio ipsorum
sensibilium; in secundo vero gradu ponitur progressus a sensibilibus ad
intelligibilia; in tertio vero gradu ponitur diiudicatio sensibilium secundum
intelligibilia; in quarto vero gradu ponitur absoluta consideratio intelligibilium
in quae per sensibilia pervenitur; in quinto vero gradu ponitur contemplatio
intelligibilium quae per sensibilia invenir! non possunt, sed per rationem capí
possunt; in sexto gradu ponitur consideratio intelligibilium quae ratio nec
invenire nec capere potest, quae scilicet pertinent ad subliman contemplationem
divinae veritatis, in qua finaliter contemplatio perficitur (IIa üae, q. 180, a. 4, ad
3ra).
20
bene delle anime, che é la legge suprema34 — dei testi legislativi55); ferisce
pero le orecchie sentir diré, ad esempio, che si studia per diventare sacerdote: in
modo genérale, se si studia checchessia, dovrebbe essere a motivo deH'interesse
che vi si trova; ma, quando si tratta di Dio, come si potrebbe ridurlo ad essere
un mezzo? S. Tommaso ha espresso questa autofinalitá dello studio della veritá
divina quando spiega che esso non potrebbe esser meglio paragonato se non al
gioco, poiché, come il gioco, esso ha il suo fine in se stesso ed é sorgente di
diletto56. Gaudium de ventóte, é proprio in questo che consiste la beatitudine: in
contemplatione divinorum máxime consistit beatitudo (Ia IIae, q. 3, a. 5, c.).
Probabilmente, si sará notato che, finora, non abbiamo parlato per niente
delle virtú morali. Difatti, la santitá consiste essenzialmente neU'attivita dell'intel-
letto suscitata dalla virtú teologale di carita ed esercitata, quaggiü, mediante la
virtú teologale di fede, e non puó, quindi, esser definita con l'esercizio delle virtú
(morali). Quest'ultime sonó soltanto le condizioni che rendono possibile la
34
«[...] prae oculis habita salute animarum, quae in Ecclesia suprema lex esse debet»
(CIC 1752 — sonó queste le ultime parole del Códice).
55
S. Tommaso stesso si pone, quand'é necessario, in questa prospettiva:
[...] sacerdos habet dúos actus: unum principalem, supra corpus Christi verum,
et alium secundarium supra corpus Christi mysticum. Secundus autem actus
dependet a primo, sed non convertitur; et ideo aliqui ad sacerdotium promoven-
tur, quibus committitur primus actas tantum, sicut religiosi quibus cura
animanim non committitur; et a talium ore non requiritur lex, sed solum quod
sacramenta conficiant; et ideo talibus sufficit, si tantum de scientía habeant quod
ea quae ad sacramentum perficiendum spectant, rite servare possint. Alii autem
promoventur ad alium actum qui est supra corpus Christi mysticum; et a talium
ore populus legem requirit; unde scientia legis in eis esse debet, non quidem ut
sciant omnes difficiles quaestiones legis, quia in his debet ad superiores haberi
recursus; sed sciant quae populus debet credere et observare de lege. Sed ad
superiores sacerdotes, scilicet Episcopos, pertinet ut etiam ea quae difficultatem
in lege faceré possunt, sciant; et tanto magis, quanto in majori gradu collocantur
(Super 4 Sent., d. 24, q. 1, a. 3, q" 2, ad 1ra [Parm., 7, p. 893b]).
56
« [...] sapiencie contemplado conuenienter ludo comparatur propter dúo que est in ludo
inuenire. Primo quidem quia ludus delectabilis est et contemplado sapiencie maximam habet
delectationem, unde Eccli. xxnn [27] dicitur ex ore Sapiencie: "Spiritus meus super mel dulcís".
Secundo quia operationes ludi non ordinantur ad aliud set propter se queruntur, et hoc ídem
competit in delectationibus sapiencie. Contingit enim quandoque quod aliquis apud se ipsum
delectatur consideratione eorum que concupiscit uel que agere proponit, set hec delectado ordinatur
ad aliquid exterius ad quod nititur peruenire; quod si deficiat uel tardetur delectationi huiusmodi
adiungitur non minor afflictio, secundum illud Eccli. XXXffl [rectius Prou. 14,13]: "risus dolore
miscebitur". Set delectado contemplationis sapiencie in se ipsa habet delectationis causara, unde
nullam anxietatem patitur quasi expectans aliquid quod desit; propter quod dicitur Sap. vm [16]:
"Non habet amaritudinem conuersatio nec tedium conuictus illius", scilicet sapiencie. Et ideo
diuina Sapiencia suam delectationem ludo comparat, Prou. vra [30]: "Delectabar per singulos dies
ludens coram eo", ut per diuersos dies diuersarum ueritatum considerationes intelligantur. Vnde
et hic subditur [Eccli. 32,16]: et illic age conceptiones tuas, per quas scilicet homo cognitionem
accipit ueritatis » (Expositio libri Boetii de ebdomadibus, I [EL 50, pp. 267b-268a]).
21
contemplazione (e, perció, la santitá)57 e che manifestano la grazia santificante58
37
« [...] ad vitam contemplativam potest aliquid pertinere dupliciter: uno modo, essentialiter;
alio modo, dispositive. Essentialiter quidem virtutes morales non pertinent ad vitam contemplati-
vam. Quia finís contemplativae vitae est consideratio veritatis. Ad virtutes autem morales "scire
quidem", quod pertinet ad considerationem veritatis, "parvam potestatem habeí", ut Philosophus
dicit in II Eth. [1105b2]. Unde et ipse in X Eth. [1178a9], virtutes morales dicit pertinere ad
felicitatem activara, non autem ad contemplativam. — Dispositive autem virtutes morales pertinent
ad vitam contemplativam. Impeditur enim actus contemplationis, in quo essentialiter consistit vita
contemplativa, et per vehementiam passionum, per quam abstrahitur intentio animae ab
intelligibilibus ad sensibilia, et per tumultus exteriores. Virtutes autem morales impediunt
vehementiam passionum, et sedant exteriorum occupationum tumultus. Et ideo virtutes morales
dispositive ad vitam contemplativam pertinent » (u" II", q. 180, a. 2, c.).
58
« [...] gratia [...] est [...] habitado quaedam quae praesupponitur virtutibus infusis, sicut
eorum principium et radix » (Ia IPe, q. 110, a. 3, ad 3m). — Nella prospettiva che stiamo
sviluppando si capisce perché, nelle cause di canonizzazione, le virtú che interessano sonó le virtú
infuse: sonó esse, infatti, a manifestare la relazione di grazia fra la creadora e Dio. — Un altea
manifestazione della santitá sonó i miracoli. Su questo argomento bisogna fare diverse
osservazioni. Per primo, si deve distinguere fra i miracoli fatti in vita da un fedele e i miracoli
attribuiti all'intercessione di un fedele morto in odore di santitá. Infatti, il dono dei miracoli é una
gratia gratis data e non é impossibile (anche se non si tratta del caso nórmale) che uno sia favorito
di tale grazia senza possedere la grazia santificante (ved. u* H"6, q. 178, a. 2; S. Gregorio Magno
insegnava giá: « Probado [...] sanctitatis non est signa faceré, sed unumcumque ut se diligere, de
Deo autem uera, de próximo uero meliora quam de se sentiré » [S. GREGORH MAGNI, Moralia in
lob, 1. 20, c. 7, n. 17 (CCLat USA, p. 1016)]). Con il núracolo, Dio conferma la veritá della
predicazione, anche se questa e opera di un peccatore. I miracoli fatti dopo morte, pero, come é
evidente, non hanno per scopo la confennazione della predicazione, ma la manifestazione della
santitá: perció, sonó da ritenersi come sanzione divina ad una progettata beatificazione o
canonizzazione. In secando luogo, c'e da notare come, nella procedura cattolica dei tempi
moderni, i miracoli vengano sempre preso in considerazione in un secondo tempo, una volta che
si sia stabilito la eroicitá delle virtú o la realtá del martirio. Nell'alto medio evo e, spesso, ancora
piú tardi, invece, i miracoli possono essere stati considerad per primi e, a volte, costituire a se
soli la prova della santitá. Si trova una traccia di questa situazione in S. Tommaso, ad es., il
quale, nel quodübet che citeremo piú in la (p. 45), indica bene ch&pontifex, cuius est canonizare
sonetos, potest certifican de statu alicuius per inquisitionem uite et attestationem miraculorwn, et
precipue per instínctum Spirítus sanca, qui omnia scrutatur, etiam profunda Dei [1 Co 2,10]
(Quodlibet 9, a. 16, ad lm), ma dimostra anche di esser cosciente del ruólo primordiale giocato
dai mkacoli nella canonizzazione dei santi antichi quando fa riferimento a S. Alessio (cf. Acta SS.
MU, IV, Venetiis, 1748, 252 B & F):
cuius sanctitatis indicium fuit vox caelitus delapsa, audientibus papa et
imperatoribus Honorio et Arcadio et universo populo romano in ecclesia beati
Petri existentibus, quae testata est mentís eius Romam stare: multis etiam
miraculis post mortem claruit, unde et canonizatus est et eius festum a romana
ecclesia solemniter celebratur (Contra impugnantes, c. 7, § 8 [EL 41,
p. A 114b]).
Nella procedura moderna, invece, i miracoli sonó considerad, non come una prova diretta
della santitá, ma come una confennazione divina ad un giudizio umano, il quale, per quanto serio
e fondato, rimane sempre soggetto a possibile errare, poiché si tratta di decidera a partiré da indizi
(la apparente pratica delle virtú) di ció che e, in sé, inafferrabile per l'uomo, cioé la santitá:
« nessuno sa se é degno di amore o di odio » (Qo 9,1 [sec. VgJ); se ciascuno non lo sa di se
stesso, tanto meno lo possono sapere gli altri (cf. nota seguente); e anche se uno é in cielo, puó
darsi che non sia poi cosí degno come sembra di un culto pubblico. Perció il miracolo e di
importanza capitale, perché é come la sanzione divina data alie illazioni nostre e, se diverse cause
22
che é la sorgente della contemplazione. Siccome é impossibile védete la grazia o
misurare la contemplazione59, si é costretto di giudicare della santitá delle
persone a partiré dai loro atti virtuosi; é del tutto necessario, pero, sottolineare
che questi sonó soltanto degli indizi di santitá, non la santitá stessa. Troppo
spesso, lungo i secoli (e ancora oggi!) si é pensato che essere santo voleva diré
multiplicare gli atti virtuosi (o supposti tali) e compiere atti virtuosi sempre piü
difficili60: non é cosí! S. Tommaso lo spiega benissimo a proposito di un
problema che potrebbe forse sembrare un po' futile, quello dei meriti rispettivi
del martire e del confessore:
[...] quantum ad genus operis plus meretur minimus martyr quam quicumque
confessor. Tamen quantum ad radicem operis potest confessor plus merereri in
quantum ex maiori caritate operatur; et quia praemium essentiale respondet
radici caritatis, accidéntale vero generi actas, inde est quod aliquis confessor
potest aliquo martyre esse eminentior quantum ad praemium essentíale, martyr
tamen quantum ad praemium accidéntale61 (QQ. DD. de veníate, q. 26, a. 6,
ad 8m; cf. Super ep. ad Hebr., c. 11, 1. 8 [Marietti, n. 645]).
sonó da moho tempo ferme per mancanza di miracolo, ció puo certamente esser dovuto al fatto
che nessuno chiede rintercessione del Servo di Dio con sufficiente fervore, ma puó anche esser
dovuto al fatto che, per motívi da lui conosciuti, Dio ritenga che il Servo di Dio in questione non
é degno dell'onore degli altari. É quindi di somma importanza conservare la necessita dei miracoli
nelle cause di canonizzazione.
59
II concilio Tridentino insegna:
[...] quilibet, dum seipsum suamque propriam infirmitatem et indispositionem
respicit, de sua gratia formidare et timere potest, cum nullus scire valeat
certitudine fidei, cui non potest subesse falsum, se gratiam Dei esse consecutum
(DS 1534 - Cf. I1 n-, q. 112, a. 5).
É evidente che se uno non lo puó sapere di se stesso, tanto meno lo puó sapere degli altri.
Ma, come puó congetturarlo da determinati segni (S. Tommaso dice, nelTarticolo citato:
inquantum percipit se delectan in Deo, et contemnere res mundanas; et inquantum homo non est
conscius sibi aücuius peccati mortalis), cosí puó congetturare, vedendo che uno compie le opere
che normahnente sonó effetti della grazia, che questi fc in grazia.
60
Si trovera un esempio veramente estremo di tale mentalitá negli exploits ascetico-sportivi
di S. Domenico Loricato (t 1062), raccontati con compiacimento da S. Pier Damiani (Vita sancti
Rodulphi et sancti Dominici Loricati [PL 144, 1015-1021]).
61
Ecco cosa si deve intendere con praemium essentiale e praemium accidéntale:
Qui [...] habet uoluntatem dandi eleemosinam et non dat quia non habet
facultatem, tantundem meretur quantum si daret, per comparationem aá premium
essentiale quod est gaudium de Deo: hoc enim premium respondet caritati, que
ad uoluntatem pertinet; set per comparationem ad premium accidéntale, quod est
gaudium de quocumque bono créalo, magis meretur qui non solum uult daré set
dat: gaudebit enim non solum quia daré uoluit, set quia dedit, et ex ómnibus
bonis que ex illa datione prouenenmt (QQ. DD. de malo, q. 2, a. 2, ad 8m
[EL 23, p. 34 — corsivo nostro]).
23
E S. Tommaso insegna, richiamandosi all'autoritá di S. Anselmo62, che non si
deve sovraccaricare i novizi di osservanze, poiché ció che conta é l'adesione alia
legge di Cristo, che é la legge della carita, e la moltiplicazione delle osservanze
potrebbe scoraggiarli e allontanarli63.
Da tutto ció risalta, quindi, come la santitá si realizzi nella contemplazione
della veritá divina, che dev'essere il fine di ogni nostro desiderio e di ogni nostra
azione64 e che é quaggiü l'anticipazione della beatitudine del cielo65.
Per essere completi, dovremmo ora, dopo aver defmito la santitá nella sua
essenza, cercare di scendere un po' piü nel particolare e vedere come essa si
realizza nelle diverse condizioni della vita deH'uomo. Per fare ció, si dovrebbe
tener presente, contemporáneamente, da un lato, il numero 41 della Lumen
gentium e, dall'altro, i trattati della IIa IIae sulla vita attiva e la vita contemplativa
(qq. 179-182) e sugli stati di vita (qq. 183-189). Una tale considerazione, pero,
richiederebbe troppo tempo e possiamo tralasciarla, poiché, in sostanza, si tratta
soltanto dell'applicazione concreta dei principi che abbiamo appena illustrati66.
62
L'edizione Marietti porta Ambrosias, ma si tratta di una lectura evidentemente errónea per
Anselmas. S. Tommaso cita con una certa Érequenza, attribuendola sempre alio stesso Anselmo,
la raccolta di detti di S. Anselmo pubblicata dal suo segretario Eadmero e conosciuta sotto il títolo
Líber de sancti Anselmi similitudinibus. Nel testo citato alia nota seguente, S. Tommaso rimanda
ai capitoli 177-179 del libro (PL 159, 695-697).
63
« Aliud habuit primordium lex vetus, et aliud lex nova; lex enim vetus primordium habuit
in timore; lex nova in amore; unde Rom. 8,15: Non enim accepistis spiritum servitutis iterum in
timare, sed accepistis spiritum adoptionis fiüorum Dei. Et Hebr. 12,22: Accessistis ad montem
Sion, et civitatem Dei viventis lerusalem. Quia igitur primordium novae legis fuit in amore, ideo
discipulos suos nutriré debuit in amore quodam: ideo se sponsum nominat, et discípulos filios, quia
ista sunt nomina [corr. : nomine Marietti] amoris. Unde bonum est quod conservera eos, et ideo
nolo aliquid grave eis imponere ne abhorreant, et sic retrocedant.
Et ideo qui in religionibus sunt novi non sunt gravandi. Unde Anselmus [corr. : Ambro-
sius Marietti] in lib. De símil, reprehendit eos qui novitios graviter onerant. Et hoc est quod
Christus dicit: Numquid possunt filii sponsi lugere? etc. [Mt 9,15]; quasi dicat: non oportet quod
ieiunent, sed magis in quadam dulcedine vivere et amore; ut sic legem meara recipiant in amore,
ut habetur ad Rom. 6,4: Quomodo surrexit Christus a mortuis per gloriara Patris, ita et nos in
novitate vitae ambulemus » (Super ev. S. Matthaei, c. 9, 3 [Marietti, n. 769]).
64
« [...] ventas prima, quae est fidei obiectum, est finís omnium desideriorum et actionum
nostrarum [...]> (u1 H", q. 4, a. 2, ad 3m).
65
« [...] Sic igitur patet quod per visionem divinam consequuntur intellectuales substandae
veram felicitatem, in qua omnino desideria quietantur, et in qua est plena sufficientia omnium
bonorum, quae secundum Aristotelem [X Ethic., 7, 3; 1177a], ad felicitatem requiritur. Unde et
Boetius dicit [III De Cons., prosa 2] quod beatitudo est status omnium bonorum congregatione
perfectas.
Huius autem ultimae et perfectae felicitatis in hac vita nihil est adeo simile sicut vita
contemplantium veritatem, secundum quod est possibile in hac vita » (3 CG 63).
66
Proponíanlo tuttavia due osservazioni.
In primo luogo, si puó, ancora una volta, rilevare la differenza di prospectiva fra il
Concilio Vaticano n e la Summa theologiae. Nel n. 41 della Lumen gentium, il concilio si limita
ad enumerare diversi stati di vita (non sempre distinti fra di loro in modo adeguato). Si elenca,
per primo, i chierici (vescovi, presbiteri, diaconi, chierici inferiori che si preparano al sacro
24
A. D vítale consortium.
ministero); poi, i laici che « sonó chiamati dal vescovo perché si diano piü completamente alie
opere apostoliche »; poi, i coniugi e i genitori cristiani; poi, le persone vedove e quelle non
sposate; poi, i lavoratori; infíne, coloro che soffrono. Come si vede, nonostante un certo sforzo
di classificazione, si tratta di un'elenco che non presenta una reale necessitá in rapporto alia santitá
(e, per di piü, si sonó dimenticate alcune categorie come i religiosi). Nella Somma, al contrario,
tutto é ordinato secondo quel cardine della santitá ch'é la contemplazione. Per prima cosa, si
definisce in rapporto alia contemplazione, due grandi tipi di vita, la vita attiva e la vita
contemplativa, poi, si considerano gli stati concreti di vita nel loro rapporto alia possibilitá che
offrono di attuare la vita contemplativa.
In secondo luogo, arrivati a questo punto, si deve sottolineare due cose. Da un lato, vita
attiva e vita contemplativa, normalmente, coesistono nel cristiano (cf. q. 182, a. 1, ad 3m); anzi,
la vita attiva, mediante Topera delle virtü morali che collegano e ordinano le passioni, aiuta la vita
contemplativa (cf. q. 182, a. 3, c.). DalPaltro lato, ne segué immediatamente che vita
contemplativa non s'identifica con vita religiosa. La vita religiosa é soltanto lo stato di vita piü
favorevole per lo sviluppo della vita contemplativa (cf. q. 184, a. 5, c.).
67
«[...] non per ecclesiam terrenam, sed caelestem, quia ibi est vera ecclesia, quae est mater
nostra et ad quam tendimus et a qua nostra ecclesia militans est exemplata » (Super Ep. ad
Ephesios, c. 3, 1. 3 [Marietti, n. 161]).
68
Mi pare estremamente importante ricordare che l'appartenenza al Corpo di Cristo é, se cosí
si puó diré, modulata, in tal modo che, in maniera assoluta e definitiva, ne fanno parte solo i beati
in cielo, ma che, finché uno £ su questa térra, ne fa parte almeno in potenza. Spiega bene
S. Tommaso (ffl1, q. 8, a. 3):
[...] accipiendo generaliter secundum totum tempus mundi, Christus est caput
omnium hominum, sed secundum diversos gradus.
Primo enim et principaliter est caput eorum qui actu uniuntur sibi per
gloriara.
Secundo, eorum qui actu uniuntur sibi per caritatem.
Tertio, eorum qui actu uniuntur sibi per fidem.
Quarto vero, eorum qui sibi uniuntur solum in potentia nondum reducta
ad actum, quae tamen est ad actum reducenda secundum divinara praedestinatio-
25
chiamati a vivere della stessa vita di cui vivono i beati e, cioé, la vita della
grazia, infatti, la grazia e la gloria non differiscono essenzialmente e grafía [...]
per sui augmentumfit gloría (QQ. DD. de ventóte, q. 27, a. 5, ad 6m [EL 22,
p. 81 Ib])69. Questa dottrina é ribadita dal Vat. II in questi termini, non senza
qualche solennitá:
nem.
Quinto vero, eorum qui in potentia sunt sibi uniti quae nunquam
reducetur ad actum; sicut nomines in hoc mundo viventes qui non sunt
praedestinati. Qui tamen, ex hoc saeculo recedentes, totaliter desinunt esse
membra Christi, quia iam nec sunt in potentia ut Christo uniantur.
Non é possibile commentare qui un tale testo; bisogna tuttavia far notare che S. Tommaso
si pone dal punto di vista decisivo (e invisibile) che é l'unione a Cristo mediante la carita; per
essere completo bisognerebbe integrare anche l'aspetto visibile e, in particolare, situare il
battesimo: per fare ció, bisogna partiré dalla LG 7-8.
69
Per il delicato problema deU'identitá specifica qui affermata da S. Tommaso e le sfumature
che essa richiama, ci pennettiamo di rimandare al nostro lavoro: « Plénitude de gráce et visión
beatifique. Une voie peu fréquentée pour établir la visión beatifique du Christ durant sa vie
terrestre », Doctor commwis 44 (1991), pp. 14-28 (spec. pp. 17-21). Comunque, ció che
interessava a noi, qui, era di segnalare il modo vigoroso con cui S. Tommaso insegna l'identitá
del principio vítale soprannaturale dei viatori e dei comprensori.
70
S. Tommaso riassume in una frase turto quanto andiamo dicendo:
Quia cum oratio pro alus facta ex caritate proveniat [...], quanto sancti qui sunt
in patria sunt perfectioris caritatis, tanto magis orant pro viatoribus, qui
orationibus iuvari possunt; et quanto sunt Deo coniunctiores, tanto eorum
orationes sunt magis efficaces (IIa E", q. 83, a. 11, c.).
71
« f...] Sed si supponamus, sicut fidei ventas habet, quod initíum fidei sit in nobis a Deo;
iam etiam ipse actus fidei consequitur primam gratiam, et ita non potest esse meritorius primae
gratiae. Per fidem igitur iustificatur homo, non quasi homo credendo mereatur iustificationem, sed
26
diffondere Topera di Cristo nel mondo intero. Ho brevemente ricordato queste
dottrine che richiederebbero lunghissimi sviluppi e molte sfumature per render
presente alia mente lo sfondo sul quale si svolge la nostra presente considerazio-
ne.
L'uomo é, quindi, chiamato a collaborare all'opera di Cristo, e questa
collaborazione si concretizza principalmente nel mérito72. É questa una parola
poco di moda; il concertó, pero, che designa é indispensabile se vogliamo farci
una idea un po' precisa della salvezza e, per quel che ci riguarda, della
comunione dei santi73.
quia dura iustificatur, credit; eo quod motus fidei requintar ad iustificationem impii [...] » (Ia W,
q. 114, a. 5, ad lm).
72
Una tale affermazione puó sembrare sorprendente. Pensiamo infatti a tutte le opere, a tutte
le fatiche apostoliche mediante le quali i cristiani cercano di collaborare con Cristo. Sonó tutte
cose necessarie, ma hanno solo valore di preparazione. L'opera di Cristo £ la salvezza, vale a diré
la comunicazione della grazia. Ora, il modo che abbiamo di collaborare da piü vicino a questa
opera é, precisamente, l'intercessione, il cui valore dipende dal mérito. Tutte le altte cose sonó
delle preparazioni estrinseche all'opera di Cristo, che possono essere per chi le attua fonte di
grandi mentí, ma che di per sé non contribuiscono direttamente a daré la grazia o a preservare
la grazia, perché sonó opere umane e la grazia b opera divina. II ponte fra Topera divina di
misericordia e Topera umana é proprio il mérito.
73
Quanto segué (nei paragrafí B e C) non é altro che una breve spiegazione di queste
affermazioni del concilio Vaticano u:
<fratres qui in pace Christi dormierunt> in patriam recepti et praesentes ad
Domirmm (cf. 2 Cor. 5,8), per Ipsum, cum Ipso et in Ipso non desinunt apud
Patrem pro nobis intercederé, exhibentes menta quae per unum Mediatorem Dei
et hominum, Christum lesum (cf. 1 Tim. 2, 5), in terris sunt adepti, Domino in
ómnibus servientes et adimplentes ea quae desuní passionum Christi in carne sua
pro Corpore Eius quod est Ecclesia (cf. Col. 1, 24). Eorum proinde fraterna
sollicitudine infirmitas nostra plurimum iuvatur (LG 49).
27
giustificazione non é in nessun modo meritata daH'uomo: é stata meritata per
l'uomo da Cristo, mediante la sua passione e morte. Ma, una volta giustifícato,
l'uomo si trova messo in grado di mentare, sul fundamento della grazia
santificante che gli é comunicata da Cristo e che é partecipazione alia grazia di
Cristo, in modo che si puó diré, come diceva il Gaetano a Lulero, che quando
diciamo che meritiamo, diciamo che Cristo menta in noi74. Meritiamo, quindi,
la nostra salvezza, sul fondamento della grazia abituale, mediante gli atti virtuosi
che noi operiamo75.
74
« [...] non enim dicimus, quod ex operibus nostris, quatenus a nobis sunt, sed quatenus a
Christo in nobis et per nos sunt, meremur uitam aeternam » (THOMAS DE Vio, CARD. CAIETANUS,
Defide et operibus, c. 12; in Opúsculo omnia Thomae de Vio Caletean [...] in tres distincta tomos,
Venetiis, Apud Tuntas, 1588, t. 3, p, 292a).
S. Agostino aveva detto in un testo citato spesso e ripreso dalla liturgia:
Quid est ergo meritum hominis ante gradara, quo mérito percipiat gratiam, cum
orone bonum meritum nostrum non in nobis faciat nisi grada ; et cum Deus
coronat merita nostra, nihil aliud coronet quam muñera sua ? (S. AUGUSTINUS,
Epístola 194, 5, 19 [PL 33, 880]).
E, come lo sottolinea giustamente il card. Congar, nella teologia del mérito elaborata da
S. Tommaso,
<la> référence décisive est la promesse de Jesús, dans son entretien avec la
Samaritaine : « L'eau que je lui donnerai deviendra en lui une source jaillissante
en vie éternelle » (Jn 4, 14) [P nac, q. 114, a. 3 et a. 6; Com. in Rom. c. 8 lect.
4; in loan. c. 4 lect. 2; comp. C. Gent. IV, 21 et 22; Compend. theol. I, 147]
(Yves CONGAR, Je crois en l'Esprit Saint, t. 2, París, Éd. du Cerf, 1980,
p. 85).
73
II concilio tridentino ha espresso tutto ció con precisione e brevita:
Si quis dixerit, hominis iustificati bona opera ita esse dona Dei, ut non sint etiam
bona ipsius iustificati merita, aut ipsum iustificatum bonis operibus, quae ab eo
per Dei gratiam et lesu Christi meritum (cuius vivum membrum est) fiunt, non
veré mereri augmentum gratiae, vitara aeternam et ipsius vitae aeternae (si tamen
in gratia decesserit) consecutionem, atque etiam gloriae augmentum: anathema
sit (Can. 32 de iustificatione [DS 1582]).
28
solo per chi é in grazia76 e che l'impegno della creatura sará dunque fondato
sulFamore di Dio, sulla carita. Avremo allora il mérito ex congruo.
76
Per il semplice motivo che la volontá (consequente) di Dio fe necessariamente efficace: se
Dio ama qualcuno, questi si converte (v. IIIa, q. 86, a. 2, ad 3m; Ia H", q. 114, a. 5, ad 2m).
77
Non voglio entrare nella giustificazione di questa asserzione. Credo che il motivo sta nel
fatto che il mérito é proporzionale alia carita; ora la carita della vía é una quantitá discreta in
rapporto ad atti molteplici (che precisamente sonó atti meritori), mentre la carita della patria é una
quantitá continua in rapporto ad un solo atto eterno, che é la visione beata (ved. u* IIM, q. 24,
a. 7, ad 3m & a. 8, c.; per quanto riguarda direttamente il problema del mérito, ved., soprattutto,
Ia, q. 62, a. 9, ad lm, e anche Super 4 Sera., d. 45, q. 3, a. 3, ad 2m; IIa IIae, q. 83, a. 11, ad lm,
ecc.).
78
É un po' quanto awiene nella « raccomandazione ». Quando qualcuno mi viene raccomanda-
to, se accordo ció che é chiesto, non lo faccio in considerazione del raccomandato (che
generalmente non conosco nemmeno), ma in considerazione del raccomandatore (sia in virtu
delTamicizia che ho per lui, sia per paura, sia per interesse, ecc.).
29
sanctorum », che é insieme comunione dei santi e comunione delle cose sante79:
grazie alia comunione che ho con un beato posso aver parte ai benefici procurati
dai suoi meriti. A giusto titolo, il concilio Vaticano II, parlando della intercessio-
ne dei santi, ha voluto inquadrarla nella vitale unione di carita che dobbiamo
avere con essi:
79
In realta, storicamente, si intende generalmente con communio sanctorum (sanctorum
essendo inteso al neutro) la comunione nei sacramenti, in particolare neU'Eucaristia. Infatti, anche
se nella sua prima apparizione (fine del IV secólo, presso Niceta di Remesiana [ved. DS 19])
l'espressione é interprétala come « communione dei santi >, il medio evo ha preferito capire la
parola sanctorum come neutra, poiché, cosí facendo, trovava nei símbolo una allusione ai
sacramenti (cf. Yves CONGAR, Je erais en l'Esprit Saint, t. 2, París, Éd. duCerf, 1980, pp. 83-84
[la nota 26, p. 83, presenta una buona bibliografía sul tema]).
30
D. L'esempio dei beati.
Duro [...] illorum conspicimus vitam qui Christum fideliter sunt secuti, nova
ratione ad futuram Civitatem inquirendam (cf. Hebr. 13, 14 et 11, 10) simulque
tutissimam edocemur viam qua Ínter mundanas varietates, secundum statum ac
condicionem unicuique propriam, ad perfectam cum Christo unionem seu
sanctitatem pervenire poterimus. In vita eorum qui, humanitatis nostrae
consortes, ad imaginera tamen Christi perfectius transformantur (cf. 2 Cor. 3,
18), Deus praesentiam vultumque suum hominibus vivide manifestat. In eis Ipse
nos alloquitur, signumque nobis praebet Regni sui, ad quod tantam habentes
impositam nubem testium (cf. Hebr. 12, 1), talemque contestationem veritatis
Evangelii, potenter attrahimur (LG 50).
Notiamo soltanto qui l'accento messo sulla diversitá delle condizioni in cui
i beati si sonó santificad: possiamo diré che completano cosi l'esempio di Cristo;
non che manchi niente alia santita di Cristo, ma evidentemente questa sua santitá
si é manifestata in circostanze necessariamente particolari: quelle di un giudeo
dell'época di Tiberio; i santi ci mostrano come nelle piü svariate condizioni
ambientali, sociali, politiche é possibile imitare Cristo e vivere la carita.
80
Origene ha vigorosamente sottolineato come il desiderio di essere con i santi nella gloria
implica necessariamente la volonta di imitare la loro vita e i loro patimenti (cosí come, per essere
con Cristo nella gloria, bisogna prendere la propria croce):
Spesso nelle preghiere diciamo: « Dio omnipotente, dacci di aver parte con i
profeti, dacci di avere parte con gli Apostoli del ruó Cristo, per poterci ritrovare
anche noi insieme con Cristo ». Ma, quando diciamo questo, non ci rendiamo
contó di che cosa chiediamo. In realta, noi diciamo: « Dacci di pariré ció che
hanno patito i profeti; dacci di essere odiati como furono odiati i profeti; dacci
di proferiré parole che ci rendano oggetto di odio; dacci di subiré awersita
simili a quelle che subirono gli Apostoli ». Infatti, diré: « Dammi di aver parte
con gli Apostoli, senza voler diré in verita, con la stessa disposizione di Paolo:
* piü di loro nelle fatiche, piú di loro nelle prigionie, immensamente di piü sotto
le battiture e spesso nei pericoli di morte •» [2 Co 11,23], ecc., questo é piü
ingiusto di turto (ORIGENE, Hom. in leremia, 14 [GCS 6, 119]).
31
a Dio81. Infatti, abbiamo, noi e loro, lo stesso fine, tendiamo alio stesso bene
che é Dio. Dio é il bene comune della Chiesa di lassü e della Chiesa di quaggiü,
Dio visto dalla prima, Dio crédulo dalla seconda; e, se ci ricordiamo come
abbiamo definito la santitá come tensione verso Dio, capiremo come essa unisca
le due partí della Chiesa.
VIL La canonizzazione.
A. Perché canonizzare?
X
E evidente che non abbiamo qui a fare la storia del come si é sviluppato
nella Chiesa l'istituto della canonizzazione. Dal nostro punto di vista, che é
speculativo, dobbiamo cercare di evidenziare i motivi che fondano tale istituto.
81
« Omne enim genuinum amoris testimonium coeliíibus a nobis exhibitum, suapte natura
tendit ac tenninatur ad Christum qui est "corona sanctorum omnium" et per Ipsum ad Deum qui
est mirabilis in Sanctis suis et in ipsis magnificatur » (LG 50).
82
Decretal. Gregor. IX, 1. 3, tit. 45 De reliquiis et Veneratione Sanctorum, cap. Audivimus
(FR 2, 650).
83
II testo origínale della lettera di Alessandro III (il celebre canonista bolognese Rolando
Bandinelli) é stato pubblicato da Johannes Gustavus Liljegren, Diplomatarium Suecanum, I,
Holmiae, 1829, pp. 61-63, e le sue partí essenziali sonó riprodotte da quasi tutti gli autori che
hanno scritto sulle canonizzazioni.
32
2. Una proposta autorevole.
84
Su questo tema, lo studio piü recente e: Ernesto PIACENTINI, Infallibile anche nelle cause
di canonizzazione?, Roma, E. N. M. I., 1994, che riprende lo studio pubblicato sotto il titolo
« L'infallibilitá pontificia nelle cause di canonizzazione » nel volume Sacramenti, Liturgia, Cause
dei Santi. Studi in onore del cardinale Giuseppe Casona, a cura del Prof. Antonio MORONI, di
Mons. Cario PINTO e di Mons. Marcello BARTOLUCCI, Napoli, Campagna Notizie / E. C. S.
Editoriale Comunicazioni sociali, 1992, pp. 541-588 (si tratta di uno scritto notevole per il numero
impressionante di errori di stampa). — Si avrá sempre interesse a ricorrere a Max SCHENK, Die
Unfehlbarkeií des Papstes in der Heiligsprechung, Freiburg (Schweiz), Paulusverlag ("Thomisti-
sche Studien, 9"), 1965, che ha radunato e studiato moltissimi testi relativi al nostro argomento.
33
83
Dico « in particolare », perché si incontra qui anche un altro problema, quello delle venta
di ordine teológico o metafisico che non sembrauo appartenere — almeno esplicitamente — al
deposito rivelato, ma che sostengono con esso un rapporto necessario, in modo che negarne
qualcuna ha per conseguenza inevitabile un danno inferto a questo deposito (si puó daré come
esempio di tale tipo di verita, la necessitá, per il cristiano, di essere « realista », necessitá
affermata da Paolo VI nel n. 5 del prologo della Sollemnis Professio Fidel [AAS 60 (1968),
pp. 433-445 (p. 435)]).
86
o, come dice S. Tommaso: « Spiritus sanctus sufficienter providet Ecclesiae inhis quae sunt
utilia ad salutem » (IIa 11*=, q. 178, a. 1, c.)..
87
Si dovrebbe anche precisare che, secondo molti autori, quando la Chiesa condanna
proposizioni estratte da uno scritto in sensu auctoris, si deve capire che condanna queste
proposizioni nel senso che risultano avere dall'insieme del contesto deü"opera da cui sonó estratte,
ma non nel senso che hanno o possono avere nella testa dell'autore, la qual cosa sfugge alie
possibilita della conoscenza umana. Cosí, quando uno e condannato come erético, é condannato
perché dice delle eresie e rifiuta di correggersi, ma non si puó mai sapere a rigore (anche se ci
sonó segni che difficihnente potrebbero ingannare) se pensa veramente eresie (su questo, ved.
Yves M. J. CONGAR, Sainte Église, París, Éd. du Cerf ["Uñara Sanctam, 41"), 1964, pp. 363-
364).
34
larga. Non v'é dunque dubbio, sembra, che la Chiesa possa ritenere di esser
infallibile anche quando si tratta di definiré un « fatto dogmático »?8.
88
Molti teologi tuttavia credono bene di precisare che la definizione cosí portata non puó
essere crédula de fide divina, poiché non é in nessun modo rivelata, ma é creduta de fide
ecclesiastica; non b qui il luogo per entrare nella discussione di tale asserzione (per un primo
orientamento, ved. Yves M.-J. CONGAR, op. cit. alia nota precedente, pp. 358-363).
89
Mons. Veraja scrive, ad es.:
L'oggetto del Magistero infallibile della Chiesa, com'é noto, oltre alie
veritá rivelate (credendae fide divina) e le dottrine che sonó in connessione
lógica necessaria con una veritá di fede, sonó anche i cosiddetti fatti dogmatici,
ossia fatti contingenti che sonó in connessione morale necessaria con U fine
primario della Chiesa, che é quello di conservare e spiegare il deposito rivelato.
Ora, tra i fatti dogmatici £ umversalmente annoverata anche la canonizzazione,
nella quale in modo definitivo viene dichiarata la santitá di un servo di Dio che
viene proposto come modello di santitá. Se la Chiesa universale errasse nel
venerare un individuo come modello di santitá evangélica, ossia se il Papa
errasse neU'imporre a tutta la Chiesa un tale culto, la Chiesa non sarebbe
infallibile neH'annunciare la santitá, che b l'ideale della vita cristiana (Fabijan
VERAJA, La canonizzazione equipollente e la questione dei miracoü nelle cause
di canonizzazione, Roma, 1975, p. 14, nota 19).
35
evidentemente molto spiacevole90. In altre parole, che i fedeli si pongano a
seguito di Lutero sarebbe di mortale gravita per loro; che venerino, per assurdo,
un santo che in realtá sarebbe alFinferno non ha tale gravita91 e puó, lo stesso,
aiutare la loro vita cristiana, perché la loro venerazione s'indirizza a quella
persona únicamente in quanto la ritengono santa, árnica di Dio. Afortiori, si deve
riconoscere che la venerazione di santi dubbi o perfino inesistenti (S. Filomena),
anche se, evidentemente punto auspicabile, non reca tuttavia nessun danno alia
fede dei devoti (v. S. Giovanni María Vianney) e ció per lo stesso motivo, e cioé
che si venerano questi personaggi a motivo delle loro (supposte) virtú cristiane,
segno della loro (supposta) unione con Dio. Non c'é nemmeno motivo di pensare
che le preghiere indirizzate mediante l'intercessione di questi pseudo-santi
rimangano necessariamente vane. Infatti, come diceva giustamente il bollandista
H. Delehaye:
C'6 da ricordarsi che la fiducia nella intercessione dei santi non e se non una
forma della fiducia in Dio. Perianto, si capisce che Dio esaudisca delle preghiere
che, in mancanza delTintermediario, vanno direttamente a lui92.
90
Bisogna puré tener presente che i cristiani, nella loro grandissima maggioranza, non si
preoccupano molto di sapere come un santo é diventato tale e non fa differenza fra i santi
formalmente canonizzati e i santi delTantichitá cristiana, ad es. Bisognerebbe puré non dimenticare
che la Chiesa, per secoli, ha preséntalo, nei suoi libri liturgici, alia venerazione dei fedeli santi
perlomeno dubbi. Tutto ció dimostra che la materia non S di tale vítale gravita da richiedere
TinfaUibilitá.
91
Nei testo del Qdl 9 che citiamo infra (p. 45), S. Tommaso riserva l'infallibilitá della Chiesa
a ció che é necessario alia salvezza; ora é chiaro che b necessario alia salvezza professare la vera
fede, non sembra necessario alia salvezza pregare solo persone degne di esser prégate.
92
« II faut se souvenir que la confiance dans l'intercession des saints n'est qu'une forme de
la confiance en Dieu. L'on concoit que Dieu exauce des priéres qui, l'intermédiaire faisant défaut,
vont directement á Lui » (Anal. Boíl. 44 [1946], p. 233). — Era giá, insomma, quanlo insegnava
Innocenzo IV (Sinibaldo de' Fieschi, f 1254):
Venerandi sunt omnes sancti canonizati [...] dicimus quod etiam si Ecclesia
erraret quod non est credendum: tamen preces per talem bona fide porrectas
Deus acceptaret (INNOCENTIUS IV, Super libros quinqué Decretalium, \. 3, tit.
45 De reliquiis et veneratione sanctorum, c. 1 [tit. da Max SCHENK, op. laúd.,
p. 9]).
36
3. La formula della soleóme canonizzazione93.
a. La formula stessa.
Pero, si dice, contra factum non valet illatio e la formula che usano i Papi
nella canonizzazione dimostra chiaramente che intendono portare una definizione
infállibile.
Vediamo quindi questa formula. Riproduco il testo di una delle piú recenti
canonizzazioni, quella di Rafaello di S. Giuseppe Kalinowski (17 novembre
1991):
93
Ved., in part., Amato Pietro FRUTAZ, « Auctoritate ... Beatorum Apostolorum Petri et
Pauli. Studio sulle formule di canonizzazione », Antonianum 42 (1967), pp. 435-501. — Mons.
Veraja lamenta che, quando trattano della infallibilitá della canonizzazione, i teologi tengano
presente soltanto le canonizzazioni formali, « dimenticando la canonizzazione equipollente •»
(Fabijan VERAJA, La canonizzazione equipollente e la questione dei miracoli nelle cause di
canonizzazione, Roma, 1975, p. 14, nota 19). Ricordiamo, anzitutto, che, secondo la dottrina di
Benedetto XIV cosí come viene interprétala da Mons. Veraja, la canonizzazione fórmale si ha
quando il Papa pronuncia « una fórmale solenne dichiarazione sulla santitá del Beato, U quale viene
iscrillo nell'albo dei Santi »; quando, invece, il Papa si limita a disporre che un beato sia oggetto
di un culto da parte della Chiesa universale, si tralla di una canonizzazione equipollenle (ibid.,
p. 16). Manca, quindi, nella canonizzazione, la formula che ci accingiamo a studiare (e che 6
generalmente ritenuta come la prava che il Papa inlende impegnare la propria infallibililá nella
canonizzazione); perció, se si puó mosttare che, nonoslante qualche apparenza, le canonizzazioni
formali non debbono essere ritenute come esercizio della infellibilitá pontificia, afortiorí si deve
diré la stessa cosa delle canonizzazioni equipollenti. O, detto con altre parole, le canonizzazioni
equipollenti fanno difficoltá per gF« infallibilisti > perché non vi é nessuna formula che possa
indicare una definizione (e anche perché sonó stati canonizzati in modo equipollente « certi santi
"discussi", la personalitá storica dei quali costituisce un problema •» [ibid., p. 15, nota 19]), ma
queste canonizzazioni equipollenti non pongono alcun problema particolare se si pensa che le
canonizzazioni, in modo genérale, non impegnano 1'infallibilitá pontificia.
94
E, precisamente, dal 1° novembre 1658, per la canonizzazione del beato Tommaso da
Villanova, ad opera di Alessandro VE (ved. A. P. FRUTAZ, art. cit., p. 441).
95
Ecco l'esempio che da Benedetto XIV (si tratta di una canonizzazione fatta da Clemente XI
il 22 maggio 1712):
Ad honorem Sanctae et Individuae Trinitatis, ad exaltationem fidei catholicae et
christianae Religionis augmentum, auctoritate D. N. J. C. Beatorum Apostólo-
37
formule che i Papi Pió IX e Pió XII hanno usato per le definizioni dogmatiche
rispettivamente della Immacolata Concezione di María e delF Assunzione di María
(e maggiormente con quella usata da Pió IX96 che non con quella usata da
Pió XII97). Dobbiamo tuttavia notare che queste ultime formule dicono esplicita-
mente che una determinata dottrina deve essere creduta (oppure che é un dogma
rivelato da Dio, il che é lo stesso). La formula della canonizzazione é piü vaga
poiché si limita a definiré (il che vuol diré determinare) non che si deve credere
che un tale é santo, ma soltanto che un tale é santo. Ora, se prendiamo santo nel
senso di comprensore, l'espressione é strana, perché non tocca alia Chiesa (al
Papa) determinare chi é santo e chi no, ma a Dio; la Chiesa non puó che
riconoscere (anche autoritativamente) ció che é disposto da Dio98; forse allora
bisogna prender santo in un senso piü debole che é: oggetto del culto ecciesiasti-
co. Insomma, non direbbe niente di piü che l'iscrizione nell'albo dei santi e, cioé,
il fatto che la Chiesa decide di venerarlo come tale, essendo evidente che, se lo
fa, é perché crede effettivamente che é in paradiso, ma senza che si debba vedere
qui una definizione infallibile di questo fatto.
Per di piü c'é da osservare che la formula di canonizzazione non dice
quale tipo di assenso il fedele deve avere nei confronti della « definizione »,
mentre sia per 1'Immacolata sia per l'Assunzione, é chiaro dal testo che si deve
credere queste dottrine come rivelate da Dio (cioé defide divina).
b. La censura annessa.
1302):
Porro subesse Romano Pontifici omni humanae creaturae declaramus, dicimus,
diffinimus omnino esse de necessitate salutis (DS 875).
In questa definizione, la brachilogia é evidente: non é Bonifacio VHI a decidere che la
sottomissione al Papa e necessaria alia salvezza, ma é lui a dichiarare con autoritá che tale dottrina
é dottrina di fede. — Si deve puré rilevare come il formulario usato nella formula di canonizzazio-
ne (e, in particolare, la formula auctoritate beatorum Apostolorum Petri et Paulí) e comune ad essa
e a molti altri atti del Papa, come sonó le scomuniche (referenze in A. M. FRUTAZ, art. cit.,
p. 467, nota 1) e le concessioni d'indulgenza (cf., ad es., la bolla di Alessandro u del 1063, citata
da Dom H. Leclercq, art. « Indulgence », mDictionnaire d'Archéologie chrétieme et de Liturgia,
t. 7, col. 540). Ció che é soprattutto messo in rilievo é l'autorita con la quale agisce il Papa.
99
« Quapropter si qui secus ac a Nobis definitum est, quod Deus avertat, praesumpserint corde
sentiré, ii noverint ac porro sciant, se proprio iudicio condemnatos, naufragium circa fidem passos
esse et ab unitate Ecclesiae defecisse, ac praeterea fácto ipso suo semet poenis a iure statutis
subicere, si, quod corde sentiunt, verbo aut scripto vel alio quovis externo modo significare ausi
ruerint» (DS 2804).
100
« Quamobrem, si quis, quod Deus avertat, id negare, vel in dubium vocare voluntarie ausus
fuerit, quod Nobis definitum est, noverit se a divina ac catholica fide prorsus defecisse »
(DS 3904).
101
Conformemente all'uso córreme, designamo con il vocabolo « bolle » gli strumenti delle
canonizzazioni. Notiamo tuttavia che, sotto Leone Xin e S. Pió X, tali strumenti vengono intitolati
Litterae apostolicae e, da Benedetto XV ai nostri giorni, Litterae decretales.
39
(1) L'anatema102.
Si quis interea (quod non credimus) temerario ausu contra ea, quae ab hac nostra
auctoritate pie ac finniter per hoc privilegium constituía sunt, contraire
tentaverit; vel haec, quae a nobis ad laudem Dei, pro reverentia iam dicti
Episcopi statuta sunt, rerragari; aut in quoquam transgredí; sciat, se auctoritate
beati Petri, Principis Apostolorum, cuius vel immeriti vices agimus anathematis
vinculo innodatum (FONTANINI, Codex Constitutioman quas Sumirá Pontífices
ediderunt insolemni canonizatione SanctorumaJohanne XVadBenedictum XIII,
sive ab A. D. 993 ad A. D. 1729, Romae, Ex typographia Reverendae Camerae
Apostolicae, 1729, p. 2 [JAFFÉ-WATTENBACH, n. 3848]).
(2) L'indignazione.
102
Sulla prudenza con la quale si deve giudicare della pórtala degü anatemi, ved., ad es.,
Raphael FAVRE, « Les condamnations avec anathéme >, Bulletin de littérature ecclésiastique 47
(1946), pp. 226-241 & 48 (1947), pp. 31-48.
103
Sul complesso problema delle diverse forme di scomunica nell'antico diritto, ved.
P. HUIZING, « Doctrina decretistarum de variis speciebus excommunicationis », Gregorianum 33
(1952), pp. 499-530.
40
Nulli ergo hominum íiceat hanc paginam nostrae voluntaos & constitutionis
Lnfringere, vel ei ausu temerario contraire. Si quis autem hoc attentare praesum-
pserit, indignatíonem omnipotentis Dei, & beatorum Petri et Pauli Apostolorum
ejus se noverit incursurum (FONTANINI, p. 150).
Nemini autem iis quae per has Litteras statuimus obnití íiceat. Quod si quis
temeré ausus ruerit, iustis poenis plectetur.
Nemini autem iis quae per has Litteras statuimus obniti íiceat. Quod si quis
temeré ausus ruerit, sciat se poenas esse subiturus iis iure statutas, qui Summo-
rum Pontificum iussa non fecerint (AAS 53 [1961], p. 713).
104
Giustificheremo piú in la questa asserzione (ved. infra, pp. 41 sq.).
103
Si puó notare una evoluzione esattamente parallela a quella che abbiamo brevemente
descritta per quanto concerne una altra clausula tradizionale delle bolle, quella che attribuiva alie
copie certifícate della bolla lo stesso valore dell'origínale e conteneva la formula: caeterís non
obstantibus. Tale clausula 6 sparita all'epoca attuale.
41
Quali conclusioni possiamo trarre dalle osservazioni appena faite?
1) Non é sembrato agli ultimi Papi che la clausula fosse necessariamente
richiesta per sanzionare il valore dell'atto riportato nella bolla. Se i papi avessero
visto nella clausula in questione una sanzione delía infallibilitá del loro pronuncia-
mento, sicuramente non l'avrebbero soppressa. Se invece si trattava solo di
awertire delle pene divine e umane incorse da chi avrebbe disubbidito, si poteva
anche sopprimerla senza cambiare niente alia sostanza delle cose, poiché é
evidente di per sé, anche se non si dice, che chi non obbedisce al Papa si espone
all'indignazione divina e alie pene previste dal diritto.
2) Bisogna notare che la clausula Nulli ergo hominum... Si quis autem...
non é particolare alie bolle di canonizzazione, ma fa parte dello schema nórmale
di ogni bolla, anche di quelle che non hanno alcuna pórtala dottrinale. Ad
esempio, Clemente VIII, che usa la clausula nella bolla di canonizzazione di
Raimondo di Peñafort (29 aprile 1601)106, l'aveva anche usata nella bolla Ea
Romani Pontificis (8 agosto 1596) relativa alia giurisdizione, ai privilegi, ecc.,
degli uditori della Camera apostólica107.
3) Si fará notare, pero, che bisogna porre attenzione alie enumerazioni,
dall'abbondanza barocca, che designano gli atti ai quali non ci si deve opporre.
Tali enumerazioni, anche se sovrabbondanti, hanno tuttaviaun rapporto piú stretto
che non potrebbe sembrare a prima vista con il contenuto della singóla bolla. Per
quanto ci riguarda, si sottolineerá che spesso vi si parla, fra l'altro, di definizione
e si dirá, forse, che il fatto di minacciare dall'indignazione divina chi non
obbedisce a tale definizione é affermare implícitamente 1'infallibilitá di questa
definizione. A ció, si deve rispondere che si parla di definizione perché,
effettivamente, la parola definimos é usata nel corpo del documento. Pero, é
evidente che il vocabolo definitio, che riprende questo definimos, ha esattamente
la stessa pórtala che definimus, e non si puó inferiré dalla minaccia dell'indigna-
zione divina che si tratla di definizione infallibile, poiché sonó oggetti di questa
stessa minaccia anche coloro che non rispetterebbero le tariffe stabilite per i notai,
ecc. La minaccia, quindi, deH'indignazione divina non dirime il problema della
infallibililá o meno delle canonizzazioni.
4) Infine, bisogna notare che, in questa clausula, non si minaccia
daH'indignazione divina chi non crederebbe alia verita della canonizzazione, ma
chi andrebbe contro, cioé manifesterebbe esternamente il proprio dissenso. Gli
anatemi delle definizioni dogmatiche, invece, condannano prima di turto coloro
106
« Nulli ergo hominum liceat hanc paginam nostrorum definitionis, decreti, adscriptionis,
statuti, concessionis, elargitionis et voluntatis infringere, vel ei ausu temerario contraire. Si quis
autem hoc attentare praesumpserit, indignationem omnipotentis Dei, ac beatorum Petri et Pauli
apostolorum Eius se noverit incursum » (Bull. Rom., ed. Taur., t. 10, p. 704b).
107
« Nulli ergo omnino hominum liceat hanc paginam nostrae absolutionis, concessionum,
assignationis, deputationis, substitutionis, subrogationis, approbationis, confirmationis,
innovationis, extensionis, ampliationis, impartitionis, obligationis, hypothecae, remissionis,
condonationis, commissionis, inhibitionis, indultorum, decretorum, statutorum, praecepti,
mandatorum, ordinationum, voluntatum, derogationis et declarationis infringere, vel ei ausu
temerario contraire; si quis autem hoc attentare praesumpserit, indignationem omnipotentis Dei,
ac beatorum Petri et Pauli apostolorum Eius se noverit incursum » (Bull. Rom., ed. Taur., t. 10,
p. 291b).
42
che non credono alia veritá defmita e solo dopo li minacciano di censure se
esprimono pubblicamente il loro dissenso.
4. La /ex orandi.
108
Ecco la formula usata in tale circostanza da Benedetto XTV:
Ad honorem Sanctae et individuae Trinitatis, ad exaltatíonem Fidei Catholicae,
et Christianae Religionis augmentum, authoritate Domini Nostri Jesu Christi,
beatorum Apostolorum Petri, et Pauli, ac Nostra; matura deliberatione
praehabita, et Divina ope saepius implórala, ac de Venerabilium Fratrum
nostrorum Sanctae Romanae Ecclesiae Cardinalium, Patriarcharum, Archiepisco-
porum, et Episcoporum in Urbe existentium consilio, beatos Fidelem a
Sigmaringa Martyrem, Camillum de Lellis, Petrum Regalatum, Josephum a
Leonissa, Confessores, ac Catharinam de Ricciis Virginem, Sanctos, ac Sanctam
esse decernimus et definimus, ac Sanctorum Catalogo adscribimus: Statuentes
ab Ecclesia universali illorum memoriam quolibet anno, die eorum natali, nempe
Fidelis die vigésima quarta Aprilis ínter Sanctos Martyres, Camilli decima quinta
Julii, Petri decimatertía Maii, Josephi quarta Februarii, Ínter Sanctos Confesso-
res non Pontífices, et Catharinae decimatertia ejusdem mensis Februarii Ínter
Sanctas Virgines non Martyres, pía devotíone recoli deberé: In nomine Pattris,
et Fitlü, et SpiritustSancti. Amen (BENEDICTOS XTV, De servorumDei..., cit.,
1. 7 [ed. cit., t. 7, pp. 312-313]).
109
Questa sola osservazione rovina raffermazione di Mons. Veraja, secondo cui « che il Papa
"voglia chiaramente impegnare la sua infallibilitá" nelle canonizzazioni/o/mz/z pare fuori dubbio »
(Fabijan VERAJA, La canonizzazione equipollente e la questione dd náracoli nelle cause di
canonizzazione, Roma, 1975, p. 14, nota 19).
110
Tale adagio (sotto la forma: [...] ut legem credendi lex. statuat supplicandi) proviene da un
insieme di capitula antípelagiani, chiamato anche Indiculus de gratia Dei, opera probabile di
Prospero di Aquitania (secondo M. CAPPUYNS, « L'origine des Capitula pseudo-célestiniens contre
le semi-pélagianisme », Revue bénédictine, 41 [1929], pp. 156-170), ma ha acquisito grande
diffusione quando Dionigi il Piccolo inserí Topera nella sua Decretalium collectio sotto il nome
del Papa Celestino I (DS 246). — Ved. anche P. DE CLERCK, « "Lex orandi, lex credendi", Sens
originel et avatars historiques d'un adage equivoque », Questions liturgiques 59 (1978), pp. 193-
212.
43
urta almeno a due difficoltá insuperabili: da un lato, il caso dei santi inesistenti;
dall'altro, il caso dei beati.
Se l'adagio vale, vale evidentemente per tutti i santi, anche per quelli che
non sonó stati canonizzati dal Papa: se si celebra litúrgicamente un santo, questi
é veramente tale. Ora, come si sa, piú di un « santo » deve la sua esistenza (e il
suo culto litúrgico) solo alia fantasía degli agiografi o all'ignoranza dei fedeli, se
non alia cristianizzazione di culti antecedenti. Senza andaré a esaminare « tutti i
santi delle nove diócesi di Bretagna », di cui Rabelais si faceva giá beffe112, tutti
sanno come, a Roma, i fondatori dei tituli sonó automáticamente diventati santi:
il titulus Eusebii diventa titulus S. Eusebii, il titulus Pudentianae diventa il titulus
S. Pudentianae1", il titulas Práxedis diventa titulus S. Práxedis, ecc.; in modo
análogo Costanza (o Costantina) diventa S. Costanza.
Ma la « creazione » di santi non é limitata a Roma:
111
Su questo argomento, si puó védete, in part., il capitulo 5, intitolato « Les saints qui n'ont
jamáis existe » dell'opera giá diverse volte citata di H. Delehaye, SANCTVS (pp. 208-232).
112
«Je vous jure le bon vraybis, que si cestuy monde, béat monde, ainsi á un chascun
prestant, ríen ne refusant, eust pape foizonnant en cardinaulx et associés de son sacre colliége, en
peu d'années vous y voiriez les sainctz plus druz, plus miraclificques, á plus de lecons, plus de
veuz, plus de bastons et plus de chandelles, que ne sont tous ceulx des neufz éveschéz de
Bretaigne. Exceptez seulement sainct Ivés »(Frangois RABELAIS, Le tiers lívre, c. 4; in RABELAIS,
(Euvres completes, edd. Jacques BOULENGER & Lucien SCHELER, París, NRF-Gallimard
["Bibliothéque de la Pléiade"], 1955, p. 344).
113
A diré il vero, in questo caso si assiste non solo a una « canonizzazione », ma anche a un
cambiamento di sesso. Infatti, il fondatore del titolo era un certo Pudens e, di consequenza, il
titolo fu chiamato titulus Pudentis o titulus Pudentianus o ecclesia Pudentiana. Questa ultima
dicitura, se messa al genitivo, come era spesso il caso nelle iscrizioni che indicavano Tappartenen-
za di un chierico a una determinata chiesa, diventa ecclesiae Pudentianae, che puó essere capito
come « della chiesa di Pudentiana»; e arriviamo cosí a ecclesia Pudentianae, poi titulus
Pudentianae e titulus S. Pudentianae (ved. Dictionnaire d'Archéologie chrétienne et de Liturgie,
t. 14, coll. 1970-1971).
114
H. LECLERCQ, art. « Saint », in Dictionnaire d'Archéologie chrétienne et de Liturgie, 15,
col. 445.
115
Ved. íbid.. — Non resistiamo tuttavia al piacere di citare un altro esempio, per noi
significativo, anche perché il Papa stesso vi interviene e sancisce con la sua autoritá il culto reso
ai « santi »:
44
b. I beati.
Alia stessa conclusione porta Tésame del caso dei beati. D Papa concede
un culto litúrgico in onore di un determinato servo di Dio, ma, come vedremo
infra (p. 50), non intende mínimamente con ció portare un giudizio definitivo
sulla santitá di questo servo di Dio.
c. Un necessario capovolgimento.
Tutto ció non fa che manifestare i limiti dell'adagio lex orandi legem
statuat credendi e mostra quanto é legittimo il capovolgimento che Pió XII ritenne
necessario di operare (ma che, purtroppo, é stato un po' dimenticato):
5. La posizione di S. Tommaso.
Tenuto contó di tutto quanto abbiamo detto fin qui a proposito dell'infalli-
bilitá delle canonizzazioni, la posizione piü ragionevole mi sembra essere quella
di S. Tommaso, che, a volte, si é voluto arruolare fra gl'infallibilisti, ma che in
realtá propone una soluzione di buon senso, fondata sulla convinzione di fede che
lo Spirito Santo assiste la Chiesa, senza che sia necessario, nel caso specifico
delle canonizzazioni, spingere questa assistenza fino alia garanzia deH'infallibilitá.
Interrógalo, nel corso di una disputa quodlibetale (tenuta probabilmente
nell'awento 1257 a Parigi), se tutti i santi canonizzati dalla Chiesa sonó nella
gloria o se alcuni sonó in inferno, cosí determinó:
116
Come mostra l'esempio che diamo qui di seguito, l'espressione risale almeno a S. Agostino
e potrebbe essere interessante studiare la sua fortuna e le sue sfumature attraverso la letteratura
teológica. Esaminando il problema della « comunione frequente », S. Tommaso cosí determina
nella Summa (ma la stessa citazione di S. Agostino si trova giá in Super 4 Sent., d. 12, q. 3, a. 1,
sol. 2 [Moos, pp. 533-534] e ibid., a. 2, q11, arg. 3 [Moos, p. 535]):
Dicendum quod reverenda huius sacramenti habet timorem amori coniunctum;
unde timor reverentiae ad Deum dicitur timor filialis, ut in Secunda Parte [T H",
q. 67, a. 4, ad 2m; IP W°, q. 19, aa. 9, 11 & 12] dictum est. Ex amore enim
provocatur desiderium sumendi; ex timore autem consurgit humilitas reverendi.
Et ideo utrumque pertinet ad reverentiam hüius sacramenti, et quod quotidie
sumatur, et quod aliquando abstineatur. Unde Augustinus dicit [Epist. 54, c. 3
(PL 33, 201)]: « Si dixerit quispiam non quotidie accipiendam Eucharistiam,
alius contra [Piona : affirmat quotidie Leonina]: faciat unusquisque quod
secundum fidem suam pie credit esse faciendum. Ñeque enim litigaverunt Ínter
se Zacchaeus et Ule Centurio, cum alter eorum gaudens suscepit Dominum [cf.
Le 19,6], alter dixit [Mt 8,8]: "Non sum dignus ut intres sub tectum meum",
ambo Salvatorem honorificantes, quamvis non uno modo ». Amor tamen et spes,
ad quae semper Scriptura nos provocat, praeferuntur timón; unde et cum Petrus
dixisset [Le 8,5]: « Exi a me, Domine, quia homo peccator sum », respondit
lesus [Le 5,10]: « Noli timere » (IIP, q. 80, a. 10, ad 3m).
118
« [...] dicendum quod talis [se. vir non baptizatus] si ad sacerdotium promoveatur, non est
sacerdos, nec conficere potest, nec absolvere in foro poenitentiali; unde secundum cañones debet
baptizan itérate, et ordinari. Et si etíam in Episcopum promoveatur; ilü quos ordinat, non habent
ordinem. Sed tamen pie credi potest quod quantum ad últimos effectus sacramentorum Summus
Sacerdos suppleret defectum, et quod non permitteret hoc ita latere quod periculum Ecclesiae
imminere potest » (Super 4 Sent., d. 24, q. 1, a. 2, q" 3, ad 2m [Parm. 7, p. 891b]).
119
« [...] Si autem sit puer, tune creditur pie quod summus sacerdos, scilicet Deus, defectum
suppleat et salutem ei conferat. Si tamen non facit, non iniuste facit, sicut nec in illo qui
sacramento non subjicitur » (Super 4 Sent., á. 6, q. 1, a. 2, q" 1, ad 2m [Moos, p. 237].)
120
« [...] resurrectio quorundam membrorum nobilium propter vicinitatem ad caput, non est
dilata usque ad finem mundi, sed statim resurrectionem Christi secuta est, sicut pie creditur de
beata Virgine et Joanne Evangelista » (Super 4 Sent., d. 43, q. 1, a. 3, qa 1, arg. 2 [Parm. 7,
p. 1062b] — Come si vede il passo citato si trova in obiezione, ma S. Tommaso non contesta,
nella sua risposta, che sia « pió » credere che la Madonna e S. Giovanni siano risuscitati prima
degli altri; rifiuta, invece, che ció sia dovuto alia loro maggiore conformita a Cristo [cf. ibid., ad
2m]. — II passo, quasi idéntico — ma con una significativa variante — che si legge nelle edizioni
delle Collationes in Symbolum Apostolorum, a. 5 [Marietti, n. 939], e sicuramente una
interpolaáone).
121
« [•••] Quedara uero sunt que causant remissionem uenialis peccati secundum dúo
predictorum : non enim causant gratiam set excitant rationem ad aliquid considerandum quod
excitet caritatis feruorem ; et etiam pie creditur quod uirtus diuina interius operetur excitando
dilectionis feruorem, et hoc modo aqua benedicta, benedictio pontificalis et huiusmodi
sacramentalia causant remissionem uenialis peccati » (QQ. DD. de malo, q. 7, a. 12, c. [EL 23,
pp. 189b-190a] — Questo testo necessiterebbe di un approfondito commento relativo alia dottrina
di S. Tommaso sui sacramentali, dottrina completamente dimenticata dalla teología moderna. Su
questo si puó vedere, in part., il Gaetano, In IIF* Partem, q. 83, a. 4 [EL 12, p. 276]).
122
Lascio da parte la questione di sapere se si tratta della pietá come virtü (di cui in na üac,
q. 101 [in quanto riferita a Dio, ved., in part., a. 3, ad 2m]) o della pietá come dono (di cui ibid.,
q. 121).
48
123
Tranne quando cita S. Agostino in IIIa, q. 80, a. 10, ad 3m (ved. sopra, nota 116).
124
« Dicendum quod de santificatione Beatae Mariae, quod scilicet fuerit sanctificata in útero,
nihil in Scriptura canónica traditur; quae etiam nec de eius nativitate mentíonem facit. Sicut tamen
Augustinus, in sermone De Assumpt. [Ps.-AUGUSTlNtrs (PL 40, 1141)] ipsius Virginis,
rationabiliter argumentatur quod cura corpore sit assumpta in caelum, quod tamen Scriptura non
tradit; ita etiam rationabiliter argumentan possumus quod fuerit sanctificata in útero. Rationabiliter
enim creditur quod illa quae genuit "Unigenitum a Patre, plenum gratiae et veritatis" [loann. 1,
14], prae ómnibus alus maiora privilegia gratiae acceperit; unde, ut legitur Lúe. 1,28, Ángelus ei
dixit: "Ave, Maria, gratia plena". Invenimus autem quibusdam ah'is hoc privilegialiter esse
concessum ut in útero sanctificarentur; sicut leremias, cui dictum est, lerem. 1,5: "Antequam
exires de vulva, sanctificavi te"; et sicut loannes Baptista, de quo dictum est, Lúe. 1,15: "Spiritú
Sancto replebitur adhuc ex útero matris suae". Unde rationabiliter creditur quod Beata Virgo
sanctificata fuerit antequam ex útero nasceretur » (IIIa, q. 27, a. 1, c. — É evidente che, dal punto
di vista sotto il quale consideriamo le cose ora, non si tratta di portare, col senno di poi, un
giudizio sulla veritá di quanto insegna qui S. Tommaso, ma di cercare di determinare il senso delle
espressioni da luí úsate).
125
O, addirittura, nel caso della supplenza divina quanto alia res dei sacramenta impartid da
chi non sarebbe sacerdote, pie credi potest (v. sopra, nota 118). — Notiamo anche come la stessa
espressione pie creditur riveste una portata diversa quando si tratta della supplenza nel battesimo
invalido, dove S. Tommaso affenna esplicitamente la possibilitá del caso contrario (v. sopra,
nota 119) e quando si tratta della risurrezione anticipata di Maria e di S. Giovanni Evangelista,
dove non é evocata tale possibilitá (v. sopra, nota 120).
49
6. La posizione di Benedetto XIV.
Videtur [... ] nobis utraque opinio in sua probabilitate esse relinquenda, usquequo
Sedis Apostolicae judicium prodeat (op. cit., 1. 1, c. 45, n. 27 [ed. cit., t. 1,
p. 335b]).
126
Forse queste affermazioni avrebbero bisogno di una certa precisazione. Senz'altro, le
censure elencate dal nostro autore si applicano a chi senza motivo suficiente e pubbUcamente
negherebbe o porrebbe in dubbio la santitá di un santo canonizzato. Pero, e finché non é definita
1'infallibilitá delle canonizzazioni, mi pare che uno studioso, che riterrebbe di avere/oratoz motivi
per negare la santitá di un santo canonizzato o dubitarne e che non darebbe pubblicitá a questa sua
posizione, non cadrebbe sotto le dette censure. Mi sembra che agirebbe secondo quanto
raccomanda la Istruzione Donum verítatts della Congregazione per la Dottrina della Fede (24
maggio 1990):
Etiamsi doctrina fidei in discrimen non adducatur, theologus opiniones suas vel
hypotheses suas contrarias non exhibebit, quasi de conclusionibus agatur, quae
nullam controversiam admittant. Quod exigitur ob reverentiam tum erga
veritatem, tum erga Populum Dei (cf. Rm 14, 1-15; 1 Cor 8; 10, 23-33). Ob
easdem causas, ipse abstinebit ab earum publica declaratione intempestiva (n. 27
[AAS 82 (1990), p. 1561]).
Si puó, d'altronde, far osservare che il P. Paul De Vooght aveva negato il valore della
canonizzazione di S. Giovanni Nepomuceno (v., inpart., « Les dimensions réelles de l'infaillibilité
pápale », in L 'infaillibilité, son aspect philosophique et théologique, París, Aubier, 1970). Non
risulta che sia mai stato colpito da alcuna censura. — u P. Piacentini afferma che « De Vooght,
dopo circa 20 anni dalla polémica, onestamente, conosciuta la venta storica, ha fatta una
"rétractation" cioé ha ritrattato le sue affermazioni contra 1'infallibilitá del papa in materia di
canonizzazione per quanto riguardava in particolare il Nepomuceno » (Ernesto PIACENTINI, op.
cit. [alia nota 84], p. 16; affermazione ripresa p. 29, nota 57 & p. 33). Ora siamo qui di fronte
ad un madornale errore, che dimostra come il Piacentini non abbia letto nemmeno superficialmente
lo scritto del De Vooght al quale rimanda, limitandosi a prender conoscenza del suo titolo e
fraintendolo. Infatti, alia fine del suo poderoso studio sulla eresia di Giovanni Huss, Paul De
50
C. La beatificazione .
Dal punto di vista teológico, ch'é il nostro punto di vista qui, la beatifica-
zione non dovrebbe porre grandi problemi. Si tratta, come si sa, della concessio-
ne, da parte della Chiesa, di un culto limitato a certi luoghi o a certe congregazio-
ni religiose e mai nessuno, che io sappia, ha preteso che si debba considerare le
beatificazioni come infallibili: Benedetto XIV insiste sul carattere non definitivo
della sentenza di beatificazione128.
É giocoforza, pero, notare come la differenza fondamentale fra canonizza-
zione (che é giudizio definitivo e precettivo per la Chiesa universale) e beatifica-
zione (che é permissione per alcune categorie di fedeli) tende a diventare
difficilmente awertibile da parte dei cristiani. Da un lato, infatti, a partiré da
Paolo VI, il rito della beatificazione é officiato dal Papa in persona e, daH'altro,
Vooght inserisce una « ré-tractation » relativa al caso di Giovanni Nepomuceno (Paul DE VOOGHT,
L'hérésie de Jean Huss, Louvain, Publications universitaires de Louvain ["Bibliothéque de la
Revue d'Histoire ecclésiastique, Fascicule 35 bis"], 19752, pp. 995-1009). Come lo sottolinea il
trattino introdotto nella parola, non si tratta, come ha crédulo il P. Piacentíni, di una « ritrattazio-
ne », nel senso di una palinodia, ma di una « ri-trattazione », cioé di una nuova trattazione. In
essa, De Vooght prende in esame le obiezioni che gli sonó state mosse (in part. da J. V. Polc) e
ribadisce in modo deciso le proprie posizioni, affermando che « saint Jean Népomucéne n'a pas
existe historiquement » e che « du point de vue théologique, il [luí] paraít inadmissible qu'on lui
substitue un autre personnage que l'Église n'a pas canonisé » (p. 1009).
127
Ved. Fabijan VERAJA, La Beatificazione. Storia, problemi, prospettive, Roma, S. Congrega-
zione per le Cause dei Santi ("Sussidi per lo studio delle Cause dei Santi, 2"), 1983; Gaetano
STAND, « II rito della beatificazione da Alessandro VII ai nostri giorni >, in CONGREGAZIONE PER
LE CAUSE DEI SANTI, Miscellanea in occasione del IVcentenario della Congregazione per le cause
dei Santi (1588-1988), Cittá del Vaticano, 1988, pp. 367-422.
128
Ecco come Benedetto XIV riassume le differenze fra la beatíficazione e la canonizzazione:
12. [...] primo, [...] Beatificationem esse cultus permissionem, et
aliquando etiam posse importare cultus praeceptum, constitutum taruen per actum
directum ad sententíam definitivam non adhuc prolatam, sed, accedentibus novis
circumstantiis, proferendam, etin nonnullis particularibus locis coercitum. [...]
13. [...] secondo [...] Beatorum cultus coarctari sane intra aliquam
provinciam, dioecesim, civitatem, aut religiosam Familiam; at aliquando tamen
posse ad universam Ecclesiam extendi, citra tamen legem praecepti, sed per
modum semplicis facultatis, et per actum minime extremum, nec ultimo
definitivum. [...]
14. Tertio denique [...] Canonizationem esse summi Pontificis
sententiam ultimo definitivam, qua cultus praecipitur in universa Ecclesia.
Idcirco ultima differentía ínter Beatificationem et Canonizationem minime
quidem constituenda erit vel in permissione cultus, vel in ejus coarctatione ad
personas, aut locos particulares, quae in Beatificatione habeatur, secus ac in
Canonizatione; sed in extrema et definitiva de sanctitate sententia cultum alus
Sanctis debitum in universa Ecclesia per Canonizationem, nequáquam per
Beatificationem praecipiente (BENEDICTOS XIV, De servorum Dei..., cit., 1.1,
c. 39, nn. 12-14 [ed. cit., pp. 266b-267a]).
51
anche se la formula della beatificazione é molto diversa da quella della canonizza-
zione129, l'omelia che pronuncia il Papa in tale circostanza (la quale é certamen-
te piü afferrabile dal popólo che non la formula stessa) potrebbe generalmente
convenire benissimo per una canonizzazione130. A ció si aggiunge che, dacché
la riforma litúrgica ha reso il culto di molti santi facultativo, la differenza fra
culto universale e culto particolare non corrisponde piü, in realtá, alia distinzione
fra santi e beati, poiché molti santi (e parecchi dei santi recentemente canonizzati)
non hanno diritto al culto universale obbligatorio. Una differenza tuttavia rimane,
ed é che, a tutti e ovunque, é lecito far memoria di un santo, anche se questi non
gode di una memoria obbligatoria, mentre non si puó far memoria di un beato se
non quando siano realizzate le condizioni poste dal decreto di beatifícazione.
Perció, potrebbe essere opportuno che, per tradurre meglio la realtá
teológica della beatifícazione e la sua distinzione dalla canonizzazione, essa venga
celébrala con una cerimonia litúrgica che si distingua piü nettamente da quella in
uso per la canonizzazione.
129
Quistamente scrive a tale riguardo il P. G. Stano:
Ma l'elemento propriamente diversificante fra i due riti e la formula, che ne
rende il signifícate specifico teológico e giuridico, rimarcando la differenza
sostanziale tra l'atto di beatifícazione e quello di canonizzazione: essendo la
prima, una concezione indultiva di culto, sia puré ufficialmente autorizzato nella
Chiesa, ma limitato e circoscritto nei luoghi e nelle forme manifestative; la
seconda, invece, un atto o sentenza definitiva del Sommo Pontefice, che iscrive
un Servo di Dio (sólitamente giá annoverato tra i Beati), nel catalogo dei Santi,
indicándolo alia venerazione della Chiesa universale. Ed 6 specialmente su
questo punto, che va richiamata e diretta l'attenzione e riflessione dei fedeli, per
una piú esatta comprensione delle cose ed un maggiore approfondimento di riti
cosí venerandi e significativi (Gaetano STANO, art. cit,, p. 422).
130
II Pontefice regnante ebbe a diré, ad es., neU'omelia della messa di beatificazione di Mons.
Josemaría Escrivá de Balaguer e di Suor Giuseppina Bakhita:
« Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uní gli altri; come io vi ho
amato, cosí amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete
miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri » [Gv 13, 34-35]. Con queste
parole di Gesú si conclude il Vangelo della Messa di oggi. In questa frase
evangélica troviamo la sintesi di ogni santitá; della santitá che hanno raggiunto,
per strade diverse ma convergenti nella stessa ed única meta, Josemaría Escrivá
de Balaguer e Giuseppina Bakhita. Essi hanno amato Dio con tutta la forza del
loro cuore ed hanno dato prova di una carita spinta fino all'eroismo mediante le
opere di servizio agli uomini, loro fratelli. Perció la Chiesa li eleva oggi agli
onori degli altari e li presenta come esempi nelTimitazione di Cristo, che ci ha
amato e ha donato se stesso per ognuno di noi [Cf. Gal 2, 20] (IOANNES
PAULUS II, Homilía inforo S. Petri habita ob decretos Servís Dei losephmariae
Escrivá de Balaguer et losephinae Bakhitae Beatorum caelitum honores, 17 maii
1992 [AAS 85 (1993), pp. 241-246 (p. 246)]).
52
VIH. Conclusione.
«Si vis Deo et Sanctis placeré [...]; inspice vitam Sanctorum, lege
doctrinara eorum, ut cum Sanctis sanctus fias, et a Sanctis erudiaris; per Sanctos
1
adjuveris, a Sanctis exaudiaris, cum Sanctis coroneris-131
"
Daniel Oís, O. P.
131
THOMAS A KEMPIS, De disciplina claustralium, c. 15, n. 2, in Ven. Viri THOMAE
MALLEOLI A KEMPIS, Canonici Regularis Ordinis D. Augustini, Opera omnia f . . J, opera ac studio
R. P. Henrici SOMMALn, é Societate Jesu, ed. 7a, Coloniae Agrippinae, apud Hermannum Demen
Bibliopolam, sub signo Monocerotis, Anno M.DC.LXXX, pp. 519-541 (pp. 539-540).
ÍNDICE
VIL La canonizzazione 31
A. Perché canonizzare? 31
1. Una necessaria disciplina 31
2. Una proposta autorevole 32
B. II valore dogmático della canonizzazione 32
1. I fatti dogmatici 32
2. La canonizzazione come fatto dogmático 34
3. La formula della solenne canonizzazione 36
a. La formula stessa 36
b. La censura annessa 38
54
(1) L'anatema 39
(2) L'indignazione 39
4. La lex orandi 42
a. I santi dubbi o inesistenti 43
b. I beati 44
c. Un necessario capovolgimento 44
5. La posizione di S. Tommaso 45
6. La posizione di Benedetto XIV 49
C. La beatificazione 50
VIII. Conclusione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 52