Sei sulla pagina 1di 17

La lotta per le investiture

IMPERO E CHIESA

L’impero formatosi per opera di Pipino e Carlo Magno, alla morte di quest’ultimo e dei suoi eredi, inizia a
frammentarsi in una miriade di piccole formazioni territoriali, ognuna governata da un signore locale che
difende la propria indipendenza dai vicini e dallo stesso imperatore.
In questa realtà le nuove dinastie imperiali, gli Ottoni come i Salici dopo di loro, che riescono a ridare una
certa stabilità al regno, si trovano nel bisogno di recuperare elementi che riportino sotto un unico scettro
questa costellazione di piccoli regni divisi. L’autorevolezza data un tempo dal titolo imperiale, eredità
dell’impero romano, è oramai completamente dissolta e non sembra possibile rievocarla per ottenere
obbedienza. L’opportunità per ottenere il risultato viene data dalla Chiesa. La religione cristiana è infatti
l’unico elemento comune a tutti i territori dell’Impero, l’unico universalmente riconosciuto, e l’apparato
ecclesiastico è la sua incarnazione ed emanazione.
La Chiesa è però anch’essa vittima della stessa confusione e frammentazione che affligge l’Impero. Divisa in
tante diocesi indipendenti, le parrocchie, i monasteri, le abbazie, gli stessi vescovi spesso devono la propria
fortuna a poteri locali. Non esiste una scuola di formazione comune del clero, non c’è neanche un’autorità
superiore universalmente riconosciuta; il Papa stesso potremmo definirlo un primus inter pares fra i vescovi.
È certamente una figura di prestigio ma non molto più che il vescovo di Roma.
Una chiesa caotica, invece di essere elemento di stabilità, è un elemento di disturbo. Nasce così una forte
esigenza di riforma che nel secolo XI prende il via con la dinastia salica, in particolare dall’Imperatore Enrico
III e dalla cerchia di ecclesiastici che lo circonda.
Gli strumenti e le basi per intraprendere questa riforma hanno un paio di secoli di storia. Vengono
dall’intuizione di Carlo Magno di creare un regno con una fisionomia unitaria. Carlo da impulso alla nascita di
una “scuola di formazione” in cui sarebbero state insegnate la lingua e la grammatica latina utili allo studio
delle Scritture con lo scopo di uniformare la pratica liturgica di tutto l’Impero, restituendo ordine a questa
istituzione. Viene stabilito nel 779 il pagamento della decima alla chiesa locale, per il sostentamento dei
chierici e l’aiuto ai bisognosi, le decime saranno gestite dai vescovi dando loro un potere ancora maggiore.
Viene riconosciuta ai vescovi autorità su chiese rurali e private e riorganizzata la distribuzione delle sedi
episcopali. Considerato il potere concesso ai vescovi Carlo se ne assume ovviamente la nomina. Saranno
vescovi nominati dalla sua Hofkapelle, ovvero fra i suoi cappellani, i chierici che lo circondano, anzi da cui si
fa circondare. Vescovi formati alla medesima scuola imperiale. In più sostiene la convocazione regolare di
sinodi diocesani che uniformino il lavoro di clero locale e gerarchie ecclesiastiche e promuove concili per
conferire un indirizzo unitario alla Chiesa Franca o Reichskirche. La Chiesa ed il suo benessere sono insomma
affare imperiale.

Gli imperatori si trovano a dover risolvere un altro tipo di problema più pratico, ovvero la gestione delle
immense terre afferenti all’Impero. L’Imperatore si trova nell’impossibilità di far fronte alla considerevole
macchina amministrativa necessaria a gestire tutto il suo regno. Per necessità affida allora parte delle terre
a dei vassalli, o a conti e marchesi. Queste terre però è poi difficile che ritornino nel suo patrimonio ma anche
solo alla sua fedeltà. Vengono infatti, col tempo, rivendicate come possedimenti allodiali dalle famiglie a cui
sono state date in beneficio ed i legami di lealtà stretti con i primi vassalli si indeboliscono con il passaggio
delle terre ai loro eredi.
Per governare in questa situazione, la dinastia Ottoniana fa largo ricorso alla concessione di diplomi che
riconoscono alle varie realtà locali, soprattutto nelle proprietà della Chiesa, il diritto di dominio del clero su
terre che nella pratica già erano fuori dal controllo imperiale o quantomeno terre di difficile rivendicazione;
in cambio viene richiesta una dichiarazione di fedeltà all’Imperatore.
Ottone sente la Chiesa come un suo possesso, con la stesura del privilegium vincola la consacrazione papale
al giuramento di fedeltà all’imperatore. Sfrutta inoltre l’istituzione ecclesiastica per mantenere le mani e
l’influenza su vaste terre e utilizza la nomina dei vescovi a conti per metterli a capo di importanti feudi. La
fedeltà delle terre date a questi vescovi andrà ovviamente al lui dalla cui nomina dipendono; ulteriore
vantaggio sarà che quelle terre potranno essere rivendicate alla morte dell’ecclesiastico e tornare all’Impero
Pag. 1 a 17
assieme all’ufficio; nominando poi un nuovo vescovo come conte l’imperatore continuerà a conservarne la
fedeltà.

C’è inoltre un problema di dispersione del patrimonio ecclesiastico e più in generale di patrimonializzazione
della res Ecclesia da parte delle famiglie aristocratiche che incamerano sia la carica vescovile o abaziale sia i
beni ad essa afferenti nei loro possedimenti allodiali. La res Ecclesia consiste in sterminate terre, terre che
l’imperatore cerca di riportare sotto il suo dominio o quantomeno sotto il suo controllo.
A causa dell’assenza di un potere centrale, la chiesa è gestita spesso da potentati locali. È diffusa la pratica di
privatizzazione di chiese e monasteri ovvero la pratica da parte di forze locali di investire nella costruzione di
chiese o monasteri privati ai quali vengono assegnate delle terre. Queste cessioni sono sempre un buon
investimento in quanto possedimenti dotati di immunità. Immunità significa che sono terre al di fuori di
qualsiasi controllo (sia fiscale, sia giudiziario) che non sia ovviamente quello della famiglia fondatrice. Questa
le gestisce mettendone a capo i membri stessi della famiglia o persone di comprovata fedeltà, infine,
considerandola un possesso, all’occorrenza la mette in vendita per intero o in parte. Più in generale le stesse
cariche ecclesiastiche vengono commercializzate. La loro vendita si concretizza in vere e proprie alienazioni
del patrimonio ecclesiastico; un esempio su tutti, che forse per l’imperatore segnò il punto di non ritorno, è
la vendita nel 1045 della carica papale da Benedetto IX al suo successore Gregorio VI.
Il teologo Gerberto di Aurillac (poi eletto Papa nel 999 col nome di Silvestro II), ai tempi di Ottone III, ne fa
anche una questione morale per cui i laici non dovrebbero appropriarsi dei beni della res Ecclesia; c’è da
notare che all’epoca di Silvestro non viene messa in dubbio la preminenza dell’Imperatore sulla Chiesa,è
ancora in vigore il Privilegium e dunque quella del Papa è una difesa non della Chiesa contro l’Impero ma dei
beni della Chiesa, di cui l’Imperatore all’epoca ha il diritto di disporre, contro appropriazione dei laici, ovvero
delle forze locali.
I beni della Chiesa sono inoltre tradizionalmente considerati beni in un certo senso pubblici, cioè dati alla
Chiesa che li avrebbe amministrati per il bene comune; così erano sin dalle prime comunità cristiane. Agli
occhi del popolo la commercializzazione che ne viene fatta era considerata un abuso, una spoliazione e quindi
una pratica insopportabile.
Sono le basi su cui negli anni successivi fonderà la riforma guidata da Impero e Papato nel suo scontro prima
contro la simonia ed il nicolaismo e poi per le investiture.
Il processo rivoluzionario che porterà alla lotta per le investiture comincia dal convergere di due esigenze:
un’esigenza di impero e papato di mettere ordine nella chiesa riformandola, un’esigenza del popolo di
riportare la chiesa ad una favoleggiata chiesa delle origini, basata sul modello monacale, e liberarla
dall’influenza dei signori locali e di quegli abati e vescovi che come tali si comportavano; infine diverrà lo
strumento di un ristretto gruppo di chierici che cercheranno di compiere una rivoluzione, quella di liberare
la chiesa da qualsiasi ingerenza dei laici e che li porterà ad affermarne il primato su ogni altra istituzione
esistente.

SIMONIA E NICOLAISMO

Simoniaci erano i sacerdoti che avevano acquistato il sacerdozio con il denaro, esattamente come voleva fare
Simon Mago che, nel racconto evangelico, spera di pagare gli apostoli per ricevere da loro il dono di far
discendere lo Spirito Santo sui fedeli.
Il Nicolaismo è l’accusa rivolta al clero che vive al di fuori del celibato. Tesi sostenute a Nicea da Nicola che
ne giustificava la pratica.
Il modello a cui dicono di rifarsi i riformatori è quello di una favoleggiata Chiesa delle origini; in realtà
l’ispirazione è quella del modello monastico, di un sacerdozio completamente distaccato dalla mondanità
ovvero dalle cose del mondo.
Le spinte verso una Chiesa riformata vengono da diverse direzioni: dall’Impero, dal Papato, dal monachesimo
e dalla popolazione ognuno con le sue ragioni.
Sono però senza dubbio l’Imperatore e la cerchia di ecclesiastici che alla corte imperiale si sono formati, ad
esserne i maggiori protagonisti; a partire da Enrico III, dal papa da lui sostenuto Leone IX e dalla cerchia di

Pag. 2 a 17
ecclesiastici di cui si circonderà (Umberto di Silva Candida, Ildebrando di Soana, Pier Damiani, Federico di
Lorena).
L’Imperatore ha necessità di avere una Chiesa forte e ordinata ai suoi ordini, per governare un’Impero che
solo dalla fede cristiana è unito. Il gruppo di ecclesiastici della sua cerchia condividono queste esigenze alle
quali si aggiunge quella di non dilapidare il patrimonio ecclesiastico di cui sempre più le grandi famiglie si
stavano appropriando con il fenomeno della privatizzazione della res Ecclesia.

Con Leone IX, salito al soglio pontificio dopo essere stato nominato vescovo per volontà dell’imperatore
Corrado II nel 1049, il papato acquisisce una coscienza di maggior sensibilità verso le periferie della Chiesa,
copiando i tratti imperiali di un’amministrazione itinerante, nel tentativo di allargare la propria capacità
d’azione fino ai confini del mondo cattolico. Il clero, formatosi nella cultura della Reichskirche non solo
fornisce il sostrato culturale occorrente alla riforma, ma anche la necessaria formalità nella produzione
documentale utile all’amministrazione dell’Impero. C’è una sovrapposizione fra la corte salica e quella papale
che dalla prima attinge le forze riformiste necessarie al suo rafforzamento.

Quelli di simonia e nicolaismo sono pratiche estremamente diffuse ed abituali nella Chiesa medievale e non
da tutti gli attori in gioco sono presentate e affrontate nel medesimo modo. Si passa da una posizione più
moderata, quella di Pier Damiani nel suo Liber Gratissimus del 1052, ad una di totale intolleranza come quella
di Umberto di Silva Candida esposta nell’Adversus Simoniacos datato nella seconda metà degli anni 50 dell’XI
secolo.
Cos’era nella pratica la simonia? chi doveva esserne accusato? quali sarebbero dovute essere le conseguenze
della condanna? Sono tutti dibattiti aperti in questi anni. La lotta alla simonia nasce dall’esigenza di
impadronirsi della Chiesa, meglio sarebbe dire della res Ecclesia, da parte dell’Imperatore per mezzo della
sua curia di ecclesiastici. Si svilupperà però nella curia Papale il pensiero di liberare la Chiesa da qualsiasi
ingerenza dei laici, fosse anche lo stesso Imperatore.
Nel perseguire questo intento c’è l’esigenza di mostrare un modello di ecclesiastico diverso da quello del
laico, in una realtà che da secoli mostra esempi di commistioni significative fra le due figure fino a renderle
indistinguibili. Riferimento di questo chierico riformato è il monaco con la sua ascesi o meglio separazione
dal mondano. La chiara differenziazione di questi due esempi di vita dovrà essere il riflesso di una ben più
ampia separazione, quella fra potere temporale e potere spirituale.
Col tempo la simonia diventerà un pretesto per giustificare le lotte di potere che si svolgono in questi anni,
prima per l’ordine ed il predominio sulla Chiesa, poi per il predominio della Chiesa su ogni altra istituzione.
Da teologico e canonistico il problema della simonia diventerà un problema politico, una lotta fra fazioni.

Tornando un passo indietro, quali sono le due direzioni su cui ci si muove per elevare il chierico sul laico? In
primis sulla sua essenza: il chierico è toccato dallo spirito santo, è vocato, chiamato a quel compito o meglio
richiamato a quel compito dal Signore; quello che ha di più prezioso è il suo rapporto con Dio, la sua vicinanza
a Dio. Da quella discendono i suoi privilegi ed il suo ufficio, non dall’uomo; ne consegue che se dall’uomo non
procedono, allora dal denaro non possono essere acquistati.
La seconda direzione di intervento è sullo stile di vita, il chierico concentra la sua esistenza nel suo rapporto
con il Signore, quello è il suo focus. Questo rapporto non può che essere esclusivo, non può essere diviso con
una donna. C’è anche una considerazione della donna quale fonte di corruzione per l’uomo, che procede nel
sostrato della cristianità a partire dal racconto del peccato originale.
Questi principi erano solo formalmente accettati, erano indicazioni di buona consuetudine, “belle parole”,
non interdizioni né pratiche inaccettabili. Sono però braci vive su cui soffiare per accendere nei cuori la
fiamma della riforma. Ancor più per risolvere contenziosi di potere, soprattutto nel momento in cui non
vengono avversate sul piano disciplinare ma su quello della lotta all’eresia, parola sempre in grado di
mobilitare coscienze e forze come nessun’altra. Simonia e Nicolaismo sono pericolosi per la chiesa non tanto
per ragioni soteriologiche cioè di salvezza delle anime, anche se l’aspetto di autenticità e sincerità non deve
essere sottovalutato; Simonia e Nicolaismo sono pericolosi per la dispersione del patrimonio della Chiesa.
Simoniaco è chi privatizza il patrimonio della Chiesa e ne fa compravendita, nicolaita è chi usa questo
patrimonio per lasciare un’eredità ai propri figli.

Pag. 3 a 17
Nella pratica, riformare questi due aspetti della vita degli ecclesiastici, coinvolge una matassa inestricabile di
interessi. Il problema da disciplinare diventa dottrinale con l’Adversus Simoniacos di Umberto di Silva
Candida. Da Umberto i simoniaci sono considerati eretici in quanto si sentono superiori allo Spirito di cui
pensano di disporre a loro piacimento. I vescovi simoniaci, non avendo ricevuto lo Spirito Santo, non
potevano trasmetterlo e quindi nominare altri sacerdoti. Questi quindi non erano veri sacerdoti ed i
sacramenti da loro amministrati erano null’altro che una recita, privi di qualsiasi valore.
Diversa l’idea di Pier Damiani secondo il quale il sacerdote non era auctor del sacramento ma solo un tramite,
soltanto un minister, perché il sacramento viene dal Cristo.
Non contano dunque i meriti dell’amministratore del sacramento e non conta la sua purezza. Un dibattito
che in futuro coinvolgerà molte eresie che promuovono una Chiesa che vorranno esclusivamente partecipata
da puri o Santi.
Divisi sull’aspetto sacramentale, Pier Damiani e Umberto di Silva Candida erano però concordi sulla
inseparabilità fra ufficio ecclesiastico, e patrimonio ecclesiastico, ovvero i beni materiali connessi all’ufficio.
Nel dibattito infatti, vescovi accusati di simonia, venivano difesi con la giustificazione di non aver acquistato
col denaro la grazia dello Spirito, ma solo le ricchezze connesse al titolo. È il caso dei vescovi Teudetchino e
Giovanni nel 1066 che così si difendevano nel racconto di Pier Damiani: “non può essere definito simoniaco
chi compera un episcopato, fatta eccezione per l’imposizione delle mani. Dicevano infatti che quando ciò
accade non viene alienata la chiesa ma il patrimonio: non si vende il sacerdozio ma il possesso dei beni. […] A
pagamento ottengono ciò che li fa ricchi, gratis ricevono quello che il fa sacerdoti.”
A esemplificare quanto fosse complicato definire cosa fosse la simonia, un brano di Bernoldo di Costanza può
aiutare: “I simoniaci sono soliti comprare gli uffici ecclesiastici in diversi modi, ma commettendo sempre lo
stesso reato. Per avere l’ufficio sacro, a volte versano denaro di persona, a volte lo versano i loro amici prima
o durante l’ordinazione; altrimenti promettono ai loro elettori oppure a coloro che li ordinano o infine ai loro
fautori che li pagheranno in seguito.”
Si capisce bene che in questo modo l’accusa di simonia è talmente imprecisa, talmente sfumata da poter
essere usata in ogni caso lo si desideri; pertanto non può che diventare un’arma nelle mani del potere da
utilizzare contro un nemico politico qualora se ne avesse la necessità.
Questo risulta ancor più vero negli anni gregoriani quando la lotta contro l’Impero per le investiture vescovili
si fa più decisa e l’accusa di simonia sarà utilizzata sia dal Papa contro l’Imperatore sia nella direzione
contraria.

La castità ed il celibato sono sempre stati richiesti al clero sin dalle origini della cristianità. La disputa fu
condotta per lo più contro il matrimonio nel clero. Una spinta all’adozione di questo stile di vita era già stata
data con la riorganizzazione sostenuta nell’Impero carolingio che promosse per i chierici la conduzione di una
vita comunitaria e, in caso di matrimonio precedente il sacerdozio, l’allontanamento dalle mogli. Vietato il
matrimonio non significa però che comportamenti come la pratica del concubinato non fossero più che diffusi
e tollerati.
La chiesa infatti formalmente non poteva essere insidiata da mogli concubine e dai loro figli, in quanto ritenuti
illegittimi e quindi privi di diritti ereditari alla morte del chierico congiunto. Questo però valeva nella teoria,
nella pratica invece iniziò a capitare sempre più spesso che figli illegittimi di sacerdoti venissero avviati alla
carriera ecclesiastica e prendessero il posto dei genitori o che fossero in qualche modo alienati beni dal
patrimonio del padre per farne entrare in possesso il figlio. Non erano pochi i chierici che considerassero il
patrimonio a loro affidato con l’ufficio religioso come un bene di cui disporre liberamente, tanto più se era
stato pagato e che quindi ritenessero normale che parte di esso fosse lasciato ai familiari. Questi
possedimenti venivano di fatto sottratti ai vescovi che sin dal X secolo, già per iniziativa di Ottone I, iniziarono
un’opera di regolarizzazione e riappropriazione del patrimonio ecclesiastico soprattutto riaffermando il
diritto del solo episcopato di nominare i sacerdoti; ciò gli avrebbe infatti consentito di tenere sotto stretto
controllo i possedimenti loro affidati.
Il nuovo modello di chierico che viene promosso con la riforma è quello del monaco, riaffermato anche nel
terzo canone di Nicea e ripreso nel sinodo del 1059. La proibizione di vivere con donne nella stessa casa portò
a interdire i cristiani alla partecipazione a funzioni amministrate da chierici nicolaiti.

Pag. 4 a 17
Nelle conclusioni del concilio l’attenzione però è spostata dal clero uxorato alla castità completa del clero e
la questione da disciplinare passa ad essere discussa come disputa teologica. Il clero non può unirsi al genere
femminile in nessun caso in quanto l’unione con la donna lo rende impuro. Ancora una volta emerge l’idea
che un sacerdote impuro non possa e non debba amministrare sacramenti. Così Pier Damiani in una lettera
“Non sai forse che il figlio di Dio scelse per sé una carne talmente pura che non volle incarnarsi neppure per
opera di un casto atto coniugale, bensì soltanto nell’utero di una vergine?”. Lo stesso Pier Damiani pone poi
la riflessione su un secondo aspetto nel considerare la faccenda ed è quello del sacerdote sposo della Chiesa
e padre dei suoi fedeli. Il nicolaita ed il concubinario sono accusati pertanto di tradimento del voto e incesto,
spirituale si intende, perché uniti sia pure nel sacramento del matrimonio, con una donna “Con quanta più
severità si dovrà allontanare te, che non temi di perire con la figlia carnale, ma con la figlia spirituale! Tutti i
figli della tua Chiesa sono infatti tuoi figli.”
“Inoltre essendo tu sposo della Chiesa, tutti quelli che sono stati generati in essa tramite il battesimo vengono
vincolati a te tramite il legame di figliolanza”. Dove diventa pericoloso ed eretico questo clero è però non
nella pratica peccaminosa ma nella predicazione della liceità di queste consuetudini attraverso le parole e
l’esempio.
Non dissimili sono le predicazioni di Umberto di Silva Candida per il quale il connubio sacerdote-Chiesa è
talmente totalizzante da rendere fornicatio qualsiasi altra unione. Più pratica sarà invece la posizione di
Gregorio VII per il quale “se qualche membro degli ordini che servono all’altare ha una moglie o una
concubina, non potrà svolgere il suo ministero né potrà godere di un qualsivoglia beneficio ecclesiastico a
meno che, lasciata la donna, non faccia una congrua penitenza”, ma per rendere chiaro il vero pericolo
aggiunge “il nicolaita unisce atrocissimo misfatto e il turpissimo delitto al sacrilegio, infatti costruisce la dote
alle figlie avute dall’illecito matrimonio usando le proprietà e i redditi della Chiesa”. Ecco dunque quale è il
difetto intollerabile per Gregorio VII, la dispersione dei beni ecclesiastici.
Non mancarono ovviamente libelli di difesa a giustificazione delle pratiche nicolaitiche e del matrimonio dei
chierici, fondate sulla sacralità e indissolubilità del matrimonio, ma l’eresia nicolaitica come quella simoniaca
si rivelarono alla fine una scusa per attaccare i propri nemici. Bisogna infatti ricordare che furono i riformatori
a voler stravolgere una realtà e delle pratiche largamente accettate e diffuse, a voler soffiare sul fuoco dello
scontro per qualcosa rivoluzionare qualcosa che non era fino a quel momento mai stato considerato un
problema se non di opportunità.
La riforma sentì il bisogno di imporre una figura di chierico così elevata da non ingenerare più alcun dubbio
sulla sua differenza con il laico né avere più alcuna commistione con questi.

LO SCISMA DEL 1054

In questi anni si inserisce anche un tentativo di avvicinamento fra la Chiesa cattolica e quella ortodossa. Il
tentativo fallì nel peggiore dei modi, con la bolla di scomunica al patriarca di Costantinopoli Giovanni
Cerulario, depositata sull’altare di Santa Sofia da Umberto di Silva Candida, inviato del Papa.
Il pretesto fu la questione del Credo e precisamente la processione dello Spirito Santo che per la chiesa
orientale procede dal Padre e per quella occidentale dal Padre e dal Figlio.
Questa che può sembrare solo una questione di puntiglio, in realtà è essenziale nella costruzione
ecclesiologica dei riformatori. La valorizzazione del Figlio è anche valorizzazione della Chiesa che Lui ha
fondato. Se lo Spirito Santo procede dal Cristo, procederà anche dalla Chiesa che per suo tramite è stata
fondata. Solo la Chiesa quindi è la fonte dello Spirito in terra, solo da questa potrà venire sia la nomina dei
presbiteri, sia la salvezza dell’anima.
Questa polemica è però completamente superflua in quanto una riconciliazione sarebbe stata comunque
impossibile per ragioni politiche. La Chiesa cattolica riformata fondava la sua forza su quella del Papa, il Papa
doveva essere il dominus del mondo cristiano. Questo era completamente al di fuori della pratica della Chiesa
tardoantica e altomedievale che prevedeva una Chiesa policentrica e non accentrata, nonché era al di fuori
della pratica ortodossa che vedeva il capo della Chiesa nel basileus, mentre il patriarca di Costantinopoli
aveva solo poteri spirituali e non politici.

Pag. 5 a 17
Un ulteriore tentativo di riconciliazione fu fatto nel 1058 da Papa Stefano IX ma fu abortito sul nascere in
quanto Desiderio, suo misso per Costantinopoli, dovette rinunciare al viaggio per la sua nomina abbaziale a
Montecassino.

IL CONCILIO DEL 1059

Con la morte di Stefano IX ed Enrico III finisce quel periodo di riforma in cui Impero e Papato hanno proceduto
di pari passo spalleggiandosi l’un l’altro. Iniziato con Corrado II e Leone IX e proceduto sotto, Vittore II e
Stefano IX con Enrico III.
Dopo Stefano IX e con la successione al trono imperiale di un bambino, l’aristocrazia romana riprese
l’iniziativa. Guidata dai conti di Tuscolo ci fu l’elezione a pontefice di Benedetto X; di contro, i cardinali fedeli
a Ildebrando di Soana, che avevano promesso di lasciare a lui la scelta del nome del futuro pontefice,
fuggirono da Roma ed elessero al soglio petrino il vescovo di Firenze Gerardo col nome di Niccolò II. Il suo
insediamento fu possibile solo grazie alle armi di Goffredo il Barbuto Duca di Lorena e reggente di Toscana
già fratello di Stefano IX (al secolo Federico di Lorena).
Fu il primo vero successo della cerchia degli ecclesiastici riformatori oramai saldamente insediati nei gangli
del potere romano; seppur con l’indispensabile beneplacito di Goffredo fu la prima elezione al di fuori della
diretta influenza imperiale.
Ci vorranno 9 anni prima che Enrico IV sia dichiarato maggiorenne, anni essenziali per fare un passo deciso
in avanti in una riforma che oramai aveva preso altri connotati rispetto alle premesse iniziali e che virava
verso un obiettivo più alto, la separazione del potere temporale da quello secolare. Togliere la Chiesa
dall’influenza dei laici.
L’obiettivo ultimo, che nel ’59 ancora non poteva essere visto né intuito, sarebbe stato il più ardito possibile,
l’imposizione della preminenza del papato su ogni altro potere terreno.
Il modello Imperiale è quello di una Chiesa episcopale e pluricentrica sotto l’influenza dell’Imperatore che si
riserva la nomina dei presuli; il modello che invece hanno in mente i riformatori è quello di una Chiesa
centralizzata, libera da ogni influenza laica, sottostante al Papa.
Il sinodo del ‘59 prevedrà che l’elezione del pontefice avvenga solo per accordo dei cardinali episcopi ovvero
i vescovi più importanti del territorio della Chiesa (da chat GPT: nel corso del XI secolo, i cardinali vescovi
erano generalmente associati alle sette diocesi suburbicarie intorno a Roma. Queste diocesi suburbicarie
erano Albano, Ostia, Porto e Santa Rufina, Palestrina, Tusculum (Frascati), Sabina e Velletri), altra cosa
rispetto ai cardinali presbiteri, i titolari delle maggiori chiese romane (Ugo Candido di San Clemente sarà fra
questi), ed i cardinali diaconi, funzionari al servizio del vaticano. I riformatori vogliono in tal modo assicurarsi
di avere mani libere rispetto alla aristocrazia romana, ma allo stesso tempo danno una forte spinta a quella
che era stata l’influenza imperiale nella nomina papale.
Il documento del 1059 non prevede alcun coinvolgimento dell’Imperatore e sarà emendato in questo senso,
più di 20 anni dopo, da Guiberto di Ravenna, divenuto antipapa col nome di Clemente III durante il pontificato
di Gregorio VII.

ALESSANDRO II E CADALO, LO SCISMA NELLA CHIESA ROMANA

Con la morte di Niccolò II nel 1061 verranno subito messe alla prova le riforme nell’elezione papale approvate
nel ‘59. Saranno gli stessi riformatori i primi a disattenderle non coinvolgendo l’Imperatore in alcun modo e
nominando Alessandro II al soglio pontificio. Nell’arco di un mese morirà anche Umberto di Silva Candida, il
più fervente sostenitore delle idee riformiste.
È Ildebrando di Soana, ancora una volta, ad avere la maggiore voce in capitolo nell’elezione del pontefice per
la quale sceglierà il vescovo di Lucca, che certamente, provenendo dalle terre di sua reggenza, non doveva
dispiacere a chi fino a quel momento in Italia aveva sostenuto la riforma con le proprie armi, ovvero Goffredo
il Barbuto.
Ancora una volta non sarà coinvolto direttamente l’Imperatore nella nomina del nuovo Papa e l’occasione
sarà sfruttata da chi più di tutti l’elezione del nuovo Papa avversava, ovvero l’aristocrazia romana. Furono
inviate da Roma delegazioni all’Imperatrice reggente affinché intervenisse per sanare questa “ingiustizia” e

Pag. 6 a 17
fu offerto all’Imperatore bambino il titolo di patricius romanus, grazie al quale per tradizione avrebbe potuto
perorare candidature per la nomina del Papa. Della delegazione farà parte anche un patrizio romano che
conosciamo col nome di Cencio del prefetto Stefano e che sarà protagonista di molti degli eventi romani degli
anni successivi. Alessandro ha una base di consenso debole e Goffredo, che in quel momento si era
riappacificato col suo Imperatore, resta a guardare.
Serviranno altre armi allora per imporre ai romani il nuovo pontefice, saranno quelle Normanne ad insediarlo.
Il non rispetto delle regole che i riformatori stessi si erano dati solo due anni prima, fu la breccia che
sfruttarono in primis i nobili romani e marginalmente l’Imperatrice reggente Agnese per prendere l’iniziativa.
Venne convocato un nuovo concilio, a Basilea, da cui uscì un nuovo pontefice, il vescovo di Parma Cadalo, col
nome di Onorio II.
Questa volta furono le armi imperiali o meglio delle famiglie vicine all’Imperatore (nel cui schieramento
figurano nobili romani tra i quali Cencio del prefetto Stefano) a insediarlo a Roma una volta sconfitti a Campus
Neronis i fautori di Alessandro.
A mettere ordine in questa situazione sarà ancora una volta Goffredo, spinto dalla moglie Beatrice di Canossa
e che arrivato in armi a Roma convinse i due rivali a ritirarsi entrambi.
Fu il rapimento dell’imperatore bambino da parte di vescovi vicini ad Alessandro II e l’esclusione della madre
reggente (ritiratasi nel monastero di Fruttuaria) a far di nuovo pendere l’ago della bilancia dalla parte del
presule di Lucca che con le armi normanne e lorensi di Goffredo fu insediato ancora una volta a Roma.
Con il suo pontificato ripresero le riforme avviate da Niccolò II contro simonia e nicolaismo, fu proibito agli
ecclesiastici di accumulare benefici e di accettare nomine da parte dei laici senza l’approvazione del vescovo
locale e del metropolita.
Si consumò in questi anni qualsiasi velleità di accordo fra papato e imperatore nella gestione del mondo
cristiano e si aprì il vero e proprio scontro. Scontro che fu tanto duro che convinse anche un moderato come
Pier Damiani a ricorrere ad ogni mezzo disponibile, anche al di là delle proprie convinzioni passate, per
prevalere. Ne sono un esempio gli inviti a Cencio di Giovanni Tignoso ed a Goffredo il Barbuto a servire il
Signore non con la preghiera ma con il proprio ufficio laico, ovvero con la forza.

PATARIA A MILANO

Il movimento patarino a Milano è un movimento di popolo, antinicolaita in un primo momento ed


antisimoniaco in seguito. Fu fortemente influenzato dagli ideali riformatori radicali di Umberto di Silva
Candida che vedevano nel clero uxorato e concubinario un ostacolo ed un nemico sulla via della salvezza. Il
nicolaita e poi il simoniaco sono impuri e pertanto non possono amministrare i sacramenti. Lo Spirito Santo
non è su di loro, i sacramenti da loro amministrati sono privi di valore e le comunità che a loro si affidano
mettono in pericolo la salvezza della loro anima. I peccati dei fedeli non sono rimessi, la comunione non
avviene, i figli non sono realmente battezzati. Per questo tali falsi chierici andavano rimossi, con la forza se
necessario.
La scintilla dello scontro fu l’elezione del nuovo presule di Milano dopo la morte di Ariberto. Enrico III ben
conosce i problemi che Milano ed il suo vescovo defunto avevano causato al padre Corrado II, ritiratosi senza
successo dalla città lombarda dopo averla a lungo assediata, sa di aver bisogno in città di qualcuno che tolga
potere alla vecchia gerarchia. Il nuovo vescovo potrà avere l’autorità per farlo. Non accetta allora di nominare
come successore nessuno dei quattro uomini proposti dai capitanei e dal clero della città ed al loro posto
nomina nel 1045 Guido da Velate. I quattro nomi proposti dai capitanei all’imperatore emergono da
un’assemblea cittadina "civium universorum collectio adunata" … "tam e clericis quam laicis"; questo a
testimonianza di quanto la nomina del vescovo fosse sentita come affare locale e quanto fosse riconosciuto
come consuetudinario il coinvolgimento dei laici nelle questioni che riguardavano la vita della chiesa locale.
Inoltre la vicenda è anche una conferma di come fosse presente fra i fedeli l’idea di una Chiesa pluricentrica
e non a guida romana ed il fatto di aver sottoposto i nomi ad Enrico III fa comprendere quanto fosse
considerato scontato il coinvolgimento imperiale sulla scelta del nome del presule.
Guido non viene rifiutato dalla città in cui il ceto medio lo vede con favore, sono invece i capitanei e l’alto
clero che organizzano contro di lui protesta eclatante. Lo abbandonano sull’altare durante una cerimonia

Pag. 7 a 17
solenne e lanciano su di lui l’accusa di simonia. Leone IX vicino ad Enrico III assolve il vescovo in un sinodo nel
1050 ed anche il clero si va a ricompattare attorno al suo arcivescovo.
Negli anni a seguire cresce la diffusione di quelli che saranno chiamati patarini. La pataria comincia la sua
diffusione sulla base delle prediche di un diacono di Vercelli di nome Arialdo che vedeva nel clero uxorato e
concubinario il maggiore dei problemi della Chiesa del tempo.
Quello di Arialdo era stato uno dei quattro nomi fatti ad Enrico III per la successione di Ariberto insieme a
Landolfo suo braccio destro e Anselmo da Baggio (futuro Papa Alessandro II).
L’opportunità dello scontro fu data ancora una volta da una cerimonia ed ancora una volta si rivolse, ma in
questa occasione con la violenza, contro i chierici accusati di essere impuri in quanto nicolaiti. Arialdo e
Landolfo allontanarono il clero ordinario e costrinsero sacerdoti diocesani a sottoscrivere un editto che li
impegnasse alla castità.
La lotta fra patarini e vescovo continuò con episodi di violenza da ambo le parti per anni.
La pataria non è una rivolta anticlericale sebbene si rivolga contro il clero, tutt’altro: i patarini sentono forte
la necessità di avere un clero solido e affidabile, perché lo riconoscono indispensabile per il proprio percorso
di salvezza. Il movimento patarino introduce inoltre due elementi nuovi nel dibattito: dà voce alle masse del
popolo e riconosce il diritto dei laici a giudicare il clero. Quest’ultimo elemento sarà inaccettabile per il clero
riformatore, nonostante se ne servirà senza grossi scrupoli in caso di bisogno.
Il Papa prova a intervenire nella disputa milanese cercando di far raggiungere un compromesso alle due parti.
Per questo vengono inviati in città, in due successive delegazioni, i suoi “uomini migliori”: Ildebrando di
Soana, Anselmo da Baggio e Pier Damiani. Questi riescono a far prestare giuramento al vescovo Guido di
abbandonare le pratiche illecite e di dedicarsi alla lotta contro i simoniaci.
I legati papali hanno in mente sì di proseguire nella loro opera riformatrice, ma hanno necessità che questo
sia fatto non con strappi, dal basso, ma sotto l’egida della Chiesa di Roma. Si trovano però anche a dover
riconoscere l’utilità che hanno i movimenti patarini nel mettere in discussione l’operato del vescovo
ribaltando quella che da sempre è stata una sua caratteristica ovvero l’immunità. Simbolo di questo
atteggiamento del papato che si trova a cavalcare la rivolta patarina è la consegna nel 1065 del vexillum
Sancti Petri nelle mani di Erlembaldo, fratello di Landolfo e guida dei patarini dopo la morte di Arialdo. Il gesto
avrà un doppio valore, sia come riconoscimento della giustezza delle richieste dei patarini sia come
riconoscimento che si può servire Dio tanto nel sacerdozio e nella vita monastica, quanto in quella laicale,
gettando le basi di una militia non più solo spirituale ma assolutamente terrena. È Anselmo da Baggio,
divenuto Papa Alessandro II, che da una svolta decisa all’atteggiamento della Chiesa schierandosi
apertamente con i patarini e contro il vescovo che aveva disatteso ogni promessa fatta.
L’atteggiamento di entrambe le parti si farà molto più ostile. Alla scomunica di Guido, questi risponderà
facendo ricorso al sentimento patriottico della Chiesa Ambrosiana che Roma voleva sottomettere. Il successo
di questa iniziativa ci fa capire quanto in quegli anni fosse ancora fragile il terreno su cui si stavano muovendo
i riformatori nel loro tentativo di accentramento del controllo su tutte le chiese oltre l’autorità dei vescovi.
La lotta ebbe un sussulto nel 1070 con l’elezione di un nuovo vescovo che Guido, dimessosi, indicò in
Gotofredo da Castiglione. A lui Erlembaldo ora capo dei patarini dopo la morte di Arialdo, contrappose Attone
(ultimo dei quattro nomi che erano stati fatti a Enrico III per la nomina).
Attone venne sostenuto con forza dal Papa mentre Enrico IV fece approvare dai vescovi lombardi riuniti
Gotofredo che ottenne anche il sostegno cittadino ribellatosi al tentativo di Roma di mettere le mani sulla
Chiesa Ambrogiana. Nel 1075 muore assassinato anche Erlembaldo ed i patarini rimasti si disperdono.
A Gotofredo succedette un altro vescovo di nomina imperiale Tedaldo, appartenente alla Reichskierke che
con consensi alterni rimase al suo posto fino alla morte nel 1085, lo stesso giorno in cui moriva Gregorio VII
a Salerno.

PATARIA FIORENTINA

La pataria fiorentina si muove secondo le medesime modalità di quella milanese. Al centro della disputa c’è
sempre la figura del vescovo, nel caso di Firenze Pietro Mezzabarba, accusato di simonia.
L’accusa viene mossa a buon diritto in quanto è il suo stesso padre Teuzone ad ammettere, anzi a vantarsi di
aver comprato per il figlio la carica vescovile.

Pag. 8 a 17
A sostenere l’accusa saranno i vallombrosiani di Giovanni Gualberto anche in questo caso fortemente
influenzati dalle tesi di Umberto di Silva Candida.
Come a Milano viene spinto il popolo a rifiutare i sacramenti, vengono amministrati battesimi senza il crisma
in quanto l’unico disponibile era quello benedetto dal vescovo Mezzabarba.
Il Papa ancora una volta tenta di prendere in mano la situazione e guidare il movimento della riforma in
Firenze, ma questa volta prevarranno ragioni di ordine pratico e verrà difeso il vescovo che trovava in
Goffredo il Barbuto un forte appoggio di cui lo stesso Papa Alessandro aveva bisogno in quegli anni per
stabilizzare il proprio potere.
Dopo alcuni tentativi di mediazione e la violenza esercitata da entrambi gli schieramenti, la situazione prende
una svolta decisa all’inizio del 1068 quando i vallombrosiani invocano un giudizio su Pietro Mezzabarba per
ordalia. Il monaco prescelto sarà Pietro soprannominato Igneo che supererà la prova camminando sulle braci
ardenti sena venirne intaccato. L’eco della prova nel tempo costringerà il vescovo a ritirarsi a Pomposa ed i
vallombrosiani, favoriti da Gregorio VII continuarono ad appoggiare le riforme avanzate dal papato in quegli
anni, ricevendone continui benefici.

GREGORIO VII ED ENRICO IV

PAPA A FUROR DI POPOLO

Il 21 aprile del 1073 muore Alessandro II. Gli succede Ildebrando di Soana eletto col nome di Gregorio VII.
L’elezione di Ildebrando avviene fuori dalle regole che la Chiesa si era data per l’elezione del pontefice. Sono
gli stessi registri di Gregorio a darne notizia. Il primo vulnus alle regole è il non rispetto di una normativa di
Bonifacio III concernente i tempi dell’elezione. Ildebrando viene eletto lo stesso giorno della morte del suo
predecessore, il 21 aprile, quando veniva richiesto di aspettare almeno 3 giorni prima di avviare la procedura
di elezione.
La seconda deroga sono le modalità di nomina che una lettera dello stesso Gregorio inviata all’abate di
Montecassino Desiderio ed al vescovo di Ravenna Guiberto riporta. Ci viene infatti raccontato che è il popolo
in rivolta ad acclamare Ildebrando pontefice e che egli nonostante il rifiuto, si trovò costretto a sottomettersi
alla volontà altrui; dal decreto del ‘59 sono i cardinali episcopi a dover eleggere il pontefice. Per recuperare
questa mancanza è riportata la presenza di uomini di tutti gli ordini (monacale, sacerdotale e laico) e ci viene
raccontato che sono i cardinali a ratificare la nomina.
Terzo e più significativo vulnus, non tanto delle norme ma delle consuetudini, è l’assenza dell’Imperatore che
non viene in alcun modo coinvolto nell’elezione. Viene solo avvisato indirettamente dell’elezione di
Ildebrando tramite due lettere, una scritta all’abate Desiderio di Montecassino presso il quale risiedeva
Agnese, madre di Enrico IV, una seconda scritta al vescovo di Ravenna Guiberto figura centrale della chiesa
imperiale in Italia.
Il nome scelto da Ildebrando, Gregorio, rievoca la figura di Gregorio Magno di cui il nuovo pontefice vorrà
rispecchiare il lavoro e l’idea di un papato forte. Non solo, dell’omonimo rispecchierà pienamente anche le
modalità di elezione, l’acclamazione popolare, il rifiuto, la costrizione ad accettare la carica pontificia.
I continui sforzi dei fautori di Gregorio, primo fra tutti Bonizone di Sutri nel suo Liber ad amicum, nel voler
mostrare come la corretta procedura di elezione fosse stata rispettata (così come riportato nel Decretum
Bucardi che prevedeva nella scansione in tre distinti momenti la nomina dei vescovi, ovvero elezione da parte
del clero, l’approvazione del popolo e la consacrazione da parte dei vescovi comprovinciali), fanno
chiaramente intendere quanto la questione fosse delicata e seria e quanto le accuse fossero credibili e
pericolose.
Bonizone fa però un ulteriore passo avanti, ci racconta non solo che la prima preoccupazione di Gregorio fu
di avvisare l’Imperatore, ma ci dice anche come a quest’ultimo fosse stato intimato che un eventuale rifiuto
della nomina non sarebbe stato accettato. Non solo, all’Imperatore veniva ingiunto di smettere di vendere le
cariche vescovili e di dichiararsi suddito del pontefice. Che sia vero o no è chiaro quanto sia sentita la
necessità di mostrare Gregorio in primo luogo come Papa autorevole in quanto eletto nel pieno rispetto delle
norme, in secondo luogo come fautore indiscusso della cristianità, non solo sotto l’aspetto spirituale ma
anche sotto quello temporale.

Pag. 9 a 17
PRIME SCHERMAGLIE

Colpisce come sin dai primi mesi Gregorio mostri senza remore fin dove deciderà di spingersi nelle proprie
affermazioni e quale sia lo scopo ultimo del suo pontificato.
Scrive all’Imperatore esplicitando chiaramente che in quanto laico dovrà occuparsi di ciò che ai laici compete
e nulla di più, riguardo la res Ecclesia, unica competenza dell’Imperatore sarà difenderne i beni esistenti ed
accrescerli.
Sorprende che Gregorio si lanci sin dall’inizio in uno scontro che non aveva né ragioni pratiche, nè basi
teologiche, rivoluzionando una consuetudine che aveva solide radici risalenti sino alla Chiesa Carolingia.

IL REGNO DI ENRICO IV

Enrico IV si trovò a riprendere in mano un regno in cui per 9 anni i poteri locali avevano avuto mano libera.
Dovette quindi dedicarsi alla ricostituzione di un’autorità imperiale che si era andata affievolendo in un
decennio di reggenza dell’Imperatrice.
Per questo non poté che subire in un primo momento gli strappi di Gregorio VII cercando di mostrarsi
compiacente e non aprire un altro terreno di scontro.
Enrico IV dovette costruire una nuova immagine imperiale, per farlo ricorse a diversi mezzi: epistole, libelli
come quelli di Benzone di Alba, architettura civile.
Le resistenze alla realizzazione del suo progetto vennero dalla grande aristocrazia. Enrico tentò di riproporre
un modello simile a quello carolingio con i missi, conti e marchesi. Nominò per questo una serie di funzionari
di umile origine che pose al di sopra della nobiltà locale nel controllo del territorio.

I DICTATUS PAPAE

Nel 1075 Enrico IV esce vittorioso dallo scontro con i Sassoni al quale segue, contro le promesse fatte, una
durissima repressione. Enrico ha ora le mani libere per dedicarsi allo scontro che Gregorio VII sta alimentando
dal momento della sua elezione al soglio pontificio.
Come ogni anno si svolge in Laterano il sinodo quaresimale nel quale viene minacciata la scomunica al re di
Francia Filippo I e comminata quella a Roberto il Guiscardo. Ultimo provvedimento è quello della sospensione
dal ruolo vescovile di 5 importanti pedine nello scacchiere a disposizione dell’Imperatore: i vescovi Guarnerio
di Strasburgo, Enrico di Spira (centro di irradiazione del potere imperiale), Ermanno di Bamberga, Guglielmo
di Pavia, Cuniberto di Torino, Liemaro di Brema e Dionigi di Piacenza (quest’ultimo è fatto decadere).
Si vengono a scontrare frontalmente due visioni della Chiesa distinte, una vescovile pluricentrica che era
largamente diffusa e accettata, contro quella di Gregorio di una chiesa centrata sulla figura papale, che nel
pontificato fondava l’autorità ultima e inderogabile.
Questa visione rivoluzionaria della Chiesa è chiaramente esplicitata nel Dictatus Papae, uno scritto ritrovato
nel Registro di Gregorio VII e che probabilmente precede il sinodo del ’75 dove troveranno conseguenza le
tesi che nel Dictatus venivano appuntate.
Il Dictatus da assoluta autorità al Papa sui vescovi e su ogni membro del clero, del quale rivendica la nomina,
la deposizione, la gestione dei beni ed il controllo attraverso i suoi legati. Il Papa viene stabilito come fonte e
giudice del diritto canonico, ingiudicabile perché infallibile. Per rafforzare questa posizione è affermato che
il Papa è di diritto Santo per mezzo dei meriti di San Pietro. L’autorità del Papa verrà estesa anche al secolo
ovvero sull’Imperatore, a cui lui solo può assegnare il titolo e se necessario rimuoverlo. Il pontefice può
inoltre decidere chi sia da considerarsi in seno alla Chiesa cattolica e chi no il che gli dà il potere di liberare
ogni uomo dall’obbedienza al suo signore.
Le reazione degli avversari di Gregorio non si farà attendere. Durante la celebrazione del Natale in Santa
Maria Maggiore, Cencio del prefetto Stefano lo rapirà; il tentativo fallirà per un insurrezione popolare che
libererà il pontefice dalla torre in cui era stato trattenuto.
L’Imperatore dal canto suo convoca un concilio a Worms nell’anno successivo alla presenza dei vescovi
tedeschi e nord italiani. Nel concilio riesce ad ottenerne l’obbedienza e la dichiarazione di nullità della nomina

Pag. 10 a 17
di Ildebrando usurpatore della carica perché eletto con una procedura illecita. La segnalazione ha tanto più
valore in quanto a Worms è presente il cardinale di San Clemente Ugo Candido che nei resoconti sull’elezione
di Ildebrando ne risulta come il principale fautore; colui che arringò la folla affinché il nuovo Papa venisse
acclamato. Enrico nell’occasione di presenta come difensore delle consuetudini e dei diritti dei vescovi con
un’espressione che chiaramente ne denota la volontà di ergersi a loro protettore e quindi protettore della
Chiesa “qui velut dolcissima membra nobis uniti sunt” così come era stata fino a quel giorno. Inoltre fa valere
il titolo di patritius romanus di cui era stato investito ancora bambino, probabilmente dallo stesso Cencio,
nell’occasione dello scisma di Cadalo sotto Alessandro II, per disconoscere ogni autorità a Ildebrando e
intimargli di abbandonare il soglio pontificio.
Niente che non si fosse già visto in passato; il vero passo rivoluzionario è compiuto da Gregorio nel sinodo
quaresimale dello stesso anno che risponderà alle decisioni di Worms con la scomunica dei vescovi che vi
avevano partecipato, nonché la scomunica di Enrico IV, lo scioglimento dall’obbligo di ubbidienza dei suoi
sudditi e la revoca del titolo imperiale.
Questo, combinato alle sempre più chiare tendenze autoritarie del governo di Enrico IV iniziarono a
sgretolarne la base di consenso dell’imperatore, già precaria presso l’aristocrazia tedesca dopo la
rappresaglia sui Sassoni. Il lavoro del clero riformatore inizia a raccogliere i frutti della regolarizzazione delle
procedure di nomina dei presuli e della lotta alla simonia, che tradotta nella pratica era lotta all’ingerenza di
logiche esterne alla Chiesa locale. In questo momento di debolezza sia imperiale sia papale, i vescovi cercano
di stabilizzare il loro insediamento ed il loro ruolo. Fiorisce una consistente produzione di agiografie, omelie,
liturgie, inventio di reliquie che esalti la santità del fondatore della sede e ne rafforzi la consapevolezza, la
coesione ed infine l’emancipazione dagli altri poteri. Il vescovo è forte per i meriti del Santo di cui è il legittimo
successore, legittimo perché eletto “senza macchie”.
L’erosione del consenso di Enrico IV culminò con la convocazione di un assemblea a Tribur per la sua
deposizione e la nomina di un nuovo imperatore. L’assemblea non diede frutti e fu riconvoca per il gennaio
seguente ad Augusta per dare modo al Papa di parteciparvi.
Enrico si mosse allora rapidamente promise ai nobili di riappacificarsi con il ponefice e partì alla volta
dell’Italia per raggiungere il papa in viaggio verso Augusta. L’incontro avvenne nel castello di Canossa ed ebbe
quali intermediari Matilde, Ugo di Cluny e la marchesa Adelaide di Susa che si fecero garanti per l’imperatore.
Lì in abiti da penitente, dopo tre giorni supplice in ginocchio, esposto al gelo invernale, ricevette il perdono.
Gregorio ci racconta come si trovò costretto ad accettare e riammettere Enrico in seno alla Chiesa. E l’evento
fu ben studiato per poterlo raccontare come il perdono concesso al peccatore, più che l’umiliazione difronte
al rivale, ma anche come la riappacificazione fra i due poteri universali con i gesti del bacio, del pianto (dono
fatto da Dio al penitente ed all’offeso), della messa e del banchetto. Tanto bastò all’Imperatore per
reinsediarsi sul trono.
Quanto l’episodio di Canossa sia da considerarsi una sconfitta per entrambi i protagonisti appare chiaro
dall’immutato atteggiamento dell’aristocrazia tedesca che proseguì imperterrita nel suo piano di rimozione
di Enrico. Questo fa capire chiaramente quanto deboli erano le minacce di scomunica, efficaci solo come
pretesto per innescare una reazione già progettata da tempo, ma che sole non avrebbero portato a nulla.
Inoltre mostra quanto deboli fossero le basi del potere di Enrico in Germania.
L’assemblea dei principi tedeschi riunitasi a Forcheim elesse come nuovo re di Germania Rodolfo di Svevia.
Gregorio VII non appoggiò né lui, né Enrico. Sperava infatti di poter essere lui l’ago della bilancia anzi il
risolutore della questione affermando una volta per tutte la sua autorità su tutto l’Impero. Ma il suo
intervento non fu richiesto e la scorta sollecitata per arrivare in sicurezza in Germania e sciogliere la questione
non fu mai inviata. Questo è un chiaro segno di quali fossero le reali capacità di influenza del Papa nel mondo
tedesco.

CENCIO DI GIOVANNI TIGNOSO

Cencio è uno dei più fedeli uomini di Gregorio VII e viene posto nella carica di prefetto cittadino dallo stesso
pontefice il che gli garantì un forte controllo sulla città e sul popolo, come si vide nel momento della sua
elezione al soglio pontificio.

Pag. 11 a 17
Suo rivale è un altro Cencio, figlio di un ex prefetto, Stefano. È uno zio di questo Cencio di Stefano che nel
1077 assassina Cencio di Giovanni. La punizione per questo delitto è terribile, viene bruciato e mani e testa
esposti nell’atrio della basilica di San Pietro. L’assassinio del prefetto è un duro colpo alla stabilità della
posizione di Gregorio in Roma.
Quello che avviene è l’elevazione del suo assassinio a martirio. Anche grazie ad una serie di miracoli avvenuti
presso la sua tomba. È il secondo caso di martire presso la cui tomba avvengono miracoli, dopo quello di
Erlembaldo, capo della pataria milanese morto solo un paio di anni prima ed anch’esso vicino a Gregorio VII.
Entrambe sono figure molto vicine al monachesimo ed alla riforma e con uno stile di vita che da vicino ricorda
appunto quello monacale. Per entrambi si sarebbe potuta aprire la strada della vita monastica ed entrambi
furono invitati a proseguire invece nel loro ufficio laico, ufficio armato in fin dei conti.
Pier Damiani ha molto chiaro che non deve esistere commistione fra laici e chierici, emerge chiaramente nel
consiglio che dà a Cencio di farsi monaco qualora ne sentisse la vocazione, ma anche nel fastidio che ha nel
saperlo laico e predicatore. È vero che lo consiglia di restare laico e di servire Dio come prefetto, ma non per
questo eleva l’uso delle armi alla sacralità.
Il miles Christi era stato fino a quel momento non un militare che impugna il ferro contro un nemico, ma un
soldato spirituale, uno che combatte satana con la preghiera.
Cencio è anche l’ultimo di una serie di laici che in modo significativo hanno interferito nella scelta della
direzione che doveva prendere la Chiesa, basti pensare appunto all’elezione di Gregorio VII. Questo era
assolutamente contrario agli ideali riformatori che nel 59 avevano trovato esplicitazione nelle nuove norme
redatte per l’elezione papale.
Gregorio VII ha invece un’idea più pratica della faccenda, come per la pataria milanese non ha remore ad
usare i laici, anzi richiede laici, “qualche principe che teme ed ama Dio”, che prestino servizio imponendo alla
cristianità l’ordine che la Chiesa voleva dargli.
Si pone per la Chiesa una questione che fortemente interesserà il mondo cattolico nel prossimo futuro ovvero
la possibilità di guadagnare meriti agli occhi di Dio tramite l’uso della forza e lo spargimento di sangue.
In fin dei conti è possibile per un laico sacralizzare la propria vita proprio come succede ad un chierico?
Ovviamente le risposte sono due; quella positiva che si andrà affermando poi con l’indizione delle crociate e
quella negativa che prevedeva un netto distacco fra meriti e compiti del laico e del chierico, guidata dal
pensiero monastico del tempo.
Quello che un tempo veniva accettato come servizio al re, un re che era il difensore della Chiesa, e che con
Gregorio diventa servizio a Pietro ed al Papa che ne è successore, diventerà infine servizio al Re Celeste,
scavalcando ogni mediazione. Il cristiano ha come scopo la santità, questa viene raggiunta attraverso il
martirio e se i combattenti sono martiri (come chiariscono i miracoli sulle tombe di Cencio ed Erlembaldo),
allora il cristiano ha la sua strada tracciata.

1080 SINODO QUARESIMALE

Il consueto sinodo quaresimale del 1080 è il momento più rivoluzionario della lotta per le investiture. Il Papa
ribadisce una norma essenziale al suo piano: che tutte le cariche e le nomine avute da chi è scomunicato,
siano prive di valore; lo ribadisce perché nello stesso momento lancerà la scomunica sui suoi avversari: i
vescovi Tedaldo di Milano e Guiberto di Ravenna, nonché l’Imperatore Enrico IV, per la seconda volta.
L’importanza di questo documento di scomunica ci viene confermata dalla sua presenza nel Registro, cosa
non avvenuta per quanto riguarda il sinodo del 76 che pure aveva portato alla scomunica di Enrico. Questo
perché il documento è il manifesto della visione di Gregorio, la sua interpretazione della storia della Chiesa e
del suo pontificato. In quanto manifesto richiede che sia divulgato il più possibile e che faccia conoscere alla
cristianità quale è la verità sui fatti accaduti in quegli anni.
Gregorio inizia la stesura raccontando di sé e della sua elezione. Il tutto ci viene riferito non come
conseguenza delle sue decisioni e motivazioni, Gregorio fa un passo indietro, si mostra come un semplice
spettatore, l’oggetto di una scelta che viene da Pietro e Paolo che invoca a testimoni perché “con gemiti e
pianto” si è trovato ad accettare il pontificato e soprattutto perché “non io ho scelto voi, ma voi avete scelto
me e avete messo su di me il pesantissimo carico della vostra Chiesa”.

Pag. 12 a 17
Da questo momento Gregorio sparisce dalla scena, quel che è stato fatto a lui è stato fatto a Pietro e Paolo,
quel che è stato scelto, è stato scelto da Pietro e Paolo, chi ha disubbidito a lui ha disubbidito a Pietro e Paolo.
La parola e le volontà del Papa non sono più da considerarsi parole e volontà di un uomo, sono il volere dei
Santi, chi agisce contro di lui si macchia di sacrilegio, persino il disubbidire è un peccato di idolatria.
Tutti i principi e i potenti della terra devono sottomettersi a questa verità e temere la parola del Papa come
la parola dello Spirito Santo che da Pietro e Paolo per investitura di Gesù Cristo promana.
Il passo successivo sarà poi decisivo: nello contro fra Enrico e Rodolfo appoggerà il secondo ed a chiunque
imbraccerà le armi contro Enrico promette l’assoluzione dei peccati, ovvero il paradiso. Esattamente quanto
sarà riproposto con le crociate.

LETTERE A ERMANNO DI METZ

La visione che ha Gregorio della Chiesa e del ruolo che ricopre nel mondo è ben chiarita nelle due lettere a
Ermanno di Metz che seguono le due scomuniche comminate ad Enrico.
Negli scritti Gregorio si spende ad affermare quanto il papa sia da considerarsi superiore all’imperatore con
ragioni tutte debolissime ma nei toni quasi urlate:
Il Papa è sacerdote, come sacerdote si fece il Cristo
Il Papa per tramite di Pietro ha il potere di sciogliere e legare
Gli Imperatori Santi hanno fatto meno miracoli dei Santi chierici
Il Papa può amministrare i sacramenti e: “Quale re o imperatore può in virtù del suo ufficio strappare un
cristiano dal potere del diavolo mediante il santo battesimo e annoverarlo tra i figli di Dio e rafforzarlo con il
sacro crisma? E, cosa che rappresenta il massimo della religione cristiana, chi di loro può con la propria bocca
produrre il corpo ed il sangue del Signore, oppure a chi di loro è stata data l’autorità di sciogliere e legare in
cielo e sulla terra?”
Il Papa è superiore lo afferma anche Gelasio nella lettera ad Anastasio Imperatore
Sono ragioni deboli, non sufficienti per arrivare ad un provvedimento, la scomunica di un Imperatore, fino a
quel momento inaudito.
Il Papa ha bisogno di qualcosa di più, ha bisogno di togliere sacralità all’imperatore, renderlo uomo come gli
altri. Attacca frontalmente quindi tutta la storia degli ultimi due secoli che va da Carlo Magno, ad Ottone,
fino agli imperatori salici che avevano voluto unire saldamente il proprio ruolo alla volontà divina. La sacralità
dell’Imperatore è attaccata frontalmente. Essere Imperatori, dice Gregorio non è che il frutto di ruberie,
violenze, avidità e brama di potere, l’Imperatore altri non è che un peccatore, un uomo che per cupidigia si
è voluto elevare sopra gli altri. Ancor più, il titolo imperiale è il frutto del peccato ed il solo modo di salvarsi
che i potenti hanno, è quello di umiliarsi davanti i sacerdoti, accettarli come maestri e padri e sperare nella
misericordia divina.
Non c’è spazio per le interpretazioni.

IL SINODO DI BRESSANONE

La risposta di Enrico IV alla scomunica non si fece attendere. Nello stesso anno convocò un sinodo a
Bressanone nel quale fu deposto Gregorio VII ed eletto un nuovo Papa, Guberto vescovo di Ravenna, col
nome di Clemente III.
Nell’elezione del nuovo pontefice fu prestata grande attenzione alla forma (per questo era necessario un
cardinale che venne individuato nella figura di Ugo Candido, cardinale presbitero e non episcopo come
avrebbe voluto la norma, già fautore di Ildebrando ed ora suo nemico) perché sull’illegale elezione di
Ildebrando si fece leva per giustificare il provvedimento. Ildebrando non aveva rispettato alcuna norma, non
aveva atteso la tumulazione di Alessandro II, era stato eletto da una sommossa popolare (sobillata secondo
i sottoscrittori del documento) e non aveva coinvolto l’Imperatore nella nomina (nel decreto del ’59 in realtà
non è richiesto l’intervento imperiale nella nomina del pontefice, ma ne venne pubblicata una nuova versione
modificata, probabilmente dallo stesso Guberto). Inoltre Ildebrando si sarebbe macchiato di peccati quali
l’assassinio dei papi suoi predecessori, la simonia per aver acquistato il titolo di suddiacono, ma anche la
negromanzia e non da ultimo l’aver favorito un re impostore come Rodolfo di Svevia. Quello che però più

Pag. 13 a 17
chiarisce quale fosse stato il percorso rivoluzionario di Gregorio VII è ben riassunto nella frase “scosse ogni
cosa che pareva procedere con tranquillità tra coloro che vivevano piamente”.
La numerosa sottoscrizione dei provvedimenti presi nel sinodo di Bressanone da parte di vescovi sia italiani
che tedeschi attesta quanto diffuso fosse il sostegno dato da questi all’Imperatore.

LO SCISMA GUIBERTISTA

Eletto nel 1080 Clemente II dovette aspettare 4 anni prima di essere intronizzato a San Pietro. Enrico doveva
prima occuparsi del suo rivale Rodolfo. Ci riuscì con la battaglia sul fiume Elster; sebbene la battaglia si fosse
risolta con una sconfitta per Enrico, Rodolfo ferito allo stomaco e con una mano tagliata, morì il giorno
seguente. La ribellione, privata del suo capo, perse slancio. Lo scontro poteva ora essere orientato verso
Gregorio VII.
Enrico scese in Italia ed arrivò a Roma nel 1081 ma ci vollero 3 anni prima che potesse entrare in città e
intronizzare Clemente III. Una settimana dopo la cerimonia in Laterano per Clemente, Enrico IV veniva
incoronato Imperatore dallo stesso Papa, era il 1084.
Gregorio VII si dovette rifugiare in Castel Sant’Angelo dal quale fu liberato dalle forze di Roberto il Guiscardo,
che lo portarono a Salerno. Qui in stato di semiprigionia, lo costrinsero a vivere fino alla sua morte
sopraggiunta nell’anno successivo a maggio del 1085.
Seppure Guiberto regnasse per altri 15 anni e si fosse rivelato un Papa tutt’altro che marginale, la Chiesa lo
considerò fin dai primi tempi un antipapa. Un decennio dopo la sua elezione Urbano II aveva ricompattato la
sua base di consenso ed emarginato Clemente.
La pubblicistica sul suo conto ritrovata, che doveva anche essere stata considerevole, è molto ridotta; poco
ci è pervenuto, probabilmente come conseguenza di una damnatio memoriae che arrivò al punto, con
Pasquale II, di riesumarne il corpo dalla cattedrale di Civita Castellana e disperderlo nel Tevere. Si stava infatti
affermando a Roma e nel Lazio, dove consistenti sacche di fedeltà a Clemente non erano mai mancate, un
culto della sua persona, sulla cui tomba si erano verificati eventi miracolosi. Bisognava cancellarne il ricordo.
Era dai tempi del processo a Formoso che non si assisteva a un tale accanimento. Neanche un secolo dopo
fu completato il lavoro di rimozione con la nomina di un nuovo Papa Clemente III.
Probabilmente non era l’astio verso Guiberto a richiedere una tale durezza, quanto l’impossibilità di
ammetterlo come Papa perché questo avrebbe invalidato ogni atto di Gregorio VII.

URBANO II

Il colpo ricevuto dal clero riformatore gregoriano dalla morte del Pontefice fu duro, fu nominato Papa col
nome di Vittore III l’abate di Montecassino Desiderio, ma ci vollero ben due anni prima che accettasse a
dimostrazione di quanto forte e diffuso fosse l’appoggio a Clemente III. Vittore morì poco dopo la sua nomina
ed indicò nel cluniacense Odone di Chatillon vescovo di Ostia il suo successore. Fu un piccolo gruppo di
cardinali episcopi, rifugiatisi a Terracina ad eleggerlo col nome di Urbano II nel 1088.
Arrivato a Roma nell’anno successivo costrinse Guiberto a rifugiarsi a Tivoli e riprese l’opera riformatrice di
Gregorio.
Si assicurò un forte appoggio militare dai Normanni nominando Ruggero Borsa al ducato di Puglia, Boemondo
al Principato di Taranto e successivamente Ruggero I alla Legazia apostolica (ovvero in terra di Sicilia sarebbe
stato legato naturale del Papa, quindi arbitro assoluto della vita religiosa del Regno).
Trovandosi a stringere legami con il meridione italiano si confrontò anche con la necessità di portare
nell’alveo romano le chiese ortodosse a cui concesse di mantenere la loro liturgia. Tentò senza risultati anche
una riconciliazione con la chiesa ortodossa e persino l’imperatore Alessio I Comneno ricorse al suo aiuto
contro la pressione che i turchi selgiuchidi esercitavano sui confini imperiali.
La questione fu risolta con il concilio di Clermont che nel 1095 vide l’europa mobilitarsi alla sua invocazione
di un pellegrinaggio armato. Il successo di quella che sarebbe stata la prima crociata andò oltre ogni
aspettativa portando nel giro di 4 anni alla riconquista di Gerusalemme nonché dei porti della Palestina.
Consistente per Urbano fu anche l’opera di riappacificazione coi vescovi gubertisti o incerti che, costretti a
difendersi dalle accuse gregoriane, si erano rifugiati sul terreno imperiale. Pur proseguendo nella lotta

Pag. 14 a 17
antisimoniaca e antinicolaitica non si fece scrupolo a offrire ampie concessioni e accordare perdoni
riammettendo nella Chiesa Romana chiunque volesse tornarvi.

NORMALIZZAZIONE DELLA VITA REGOLARE. ISTITUZIONALIZZAZIONE DEL MOVIMENTO VALLOMBROSIANO E


CAMALDOLESE

La lotta per le investiture sta andando esaurendosi con la graduale scomparsa dei suoi protagonisti fra cui i
due più agguerriti Enrico IV e Gregorio VII.
Per gli stessi monaci, che avevano dato un così grande impulso alla riforma con la loro predicazione e
testimonianza, ora non c’è più spazio, non nella stessa forma. I toni di condanna devono affievolirsi, il caos
che è scaturito dalla lotta per le investiture deve sedimentarsi ed anche camaldolesi e vallombrosiani devono
adattarsi al nuovo corso ai nuovi indirizzi della Chiesa, che sono sì quelli della testimonianza di rigore morale
ma non più del tener viva la fiamma dello scontro.
I tempi eroici della lotta antisimoniaca di Giovanni Gualberto e l’estremismo riformatore di Romualdo di
Ravenna lasceranno il posto a costruzioni istituzionali innovative ed appoggiate da un papato che non cercava
più la lotta, ma il compromesso; non aveva bisogno più di combattenti per la causa della riforma ma di monaci
obbedienti e disciplinati.
Gli ordini furono irreggimentati sotto una stessa regola ispirata a quella benedettina, dalle strade e dalle
piazze in cui predicavano tornarono nei loro monasteri e questi si moltiplicarono. Grazie all’appoggio papale
di Urbano II e Pasquale II le loro sedi e i loro beni aumenteranno vertiginosamente, nel giro di un secolo,
verranno resi ricchi e resi forti, addirittura liberati dalla giurisdizione vescovile. In cambio si votarono
all’ubbidienza al Papa.

LA LOTTA PER LE INVESTITURE E LA NASCITA DEI COMUNI

Non sembra esserci un rapporto diretto fra la lotta per le investiture e la nascita dei comuni. Pare che nelle
città non ci si muovesse in base ad una logica di schieramento imperiale o papale quanto piuttosto schierarsi
fosse funzionale ad interessi interni alla città stessa. Certo la rivalità fra papato e impero ha sfiancato
entrambi lasciando modo a poteri cittadini di emergere

PASQUALE II

Il Pontificato di Pasquale II, cardinale diacono di San Clemente, iniziato nel 1099, poco dopo la conquista di
Gerusalemme ed il vittorioso esito della prima crociata, prosegue il lavoro di normalizzazione iniziato da
Urbano.
Da lì a 5 anni moriranno sia Enrico IV sia l’antipapa da lui sostenuto Clemente III. Silvestro IV sostenuto
dall’erede di Enrico IV, Enrico V non sarà mai una seria minaccia all’autorità di Pasquale che per un
quindicennio riuscirà a mantenere uno stabile controllo su Roma, la qual cosa gli consentirà di proiettarsi
all’esterno ed assolvere al ruolo universale del papato che con Urbano II e l’indizione della prima crociata era
stato inaugurato.
Lo stesso Imperatore Enrico V si dimostrerà ansioso di chiudere la disputa con il papato e seppure saranno
nominati altri antipapi, nessuno di questi sarà sostenuto dall’Imperatore come lo fu Clemente III.
Le lotte antisimoniache si sono completamente sgonfiate, per il Papa non era più importante sapere se un
vescovo avesse o meno pagato per l’investitura, ma sapere se l’avesse accettata da un laico, l’ingerenza dei
laici è la simonia.
In più i vescovi si troveranno a fare i conti con le nuove realtà cittadine che ne limiteranno pesantemente le
capacità di intervento, il potere si stava trasferendo nelle mani dei capitoli cattedrali, istituzione ecclesiastica
nella quale si raccoglievano i vertici cittadini.
Questo depotenziamento della figura del vescovo rese sempre più possibile un accordo fra papato e impero;
non serviva più scontrarsi per ottenere un potere che stava andando dissolvendosi.

IL PRAVILEGIUM DI SUTRI

Pag. 15 a 17
Prima di parlare di quanto stabilito nel 1111 a Sutri bisogna specificare che nell’intronizzazione di un vescovo
vengono scanditi 3 passaggi: l’elezione (ovvero la scelta del nome), l’investitura (ovvero l’investitura dei
poteri e dei beni annessi alla carica all’eletto), la consacrazione (ovvero il rito sacro in cui il vescovo diviene
tale).
Nel 1111 sembra che a Sutri legati papali e imperiali abbiano raggiunto un accordo; in virtù di questo Enrico
V scende a Roma per essere incoronato Imperatore. il 12 febbraio a S. Pietro l’accordo venne pubblicamente
letto e portato a conoscenza di tutti. Gli accordi prevedevano il ritorno di tutti i regalia dei vescovi (benefici
che il re concedeva attraverso l’investitura) nelle mani dell’Imperatore; l’Imperatore dal canto suo rinunciava
alla nomina dei presuli ed a tutte quelle pertinenze della chiesa che non fossero di sua competenza. Ma i
vescovi ritenevano di detenere quei diritti in primo luogo in quanto vescovi, e di possederli da sempre perché
sempre erano stati i veri signori delle città, sin dall’età dell’affermazione del cristianesimo; il gesto
dell’investitura stabiliva un rapporto di fedeltà personale tra vescovo e re, il re riconosceva che il vescovo
esercitava quelle prerogative e il vescovo le poneva a disposizione di colui che riconosceva come suo re. Gli
accordi saltano per una ribellione dei riformatori che accusano Pasquale di essersi piegato alla volontà
imperiale.
Il Papa è costretto a lasciare Roma e trova riparo nelle terre dell’abbazia di Farfa.
La trattativa deve ripartire. Questo il testo dell’accordo finale: [stabiliamo] che tu ai vescovi e agli abati,
liberamente eletti senza violenza e simonia, conferisca l’investitura della verga e dell’anello. Dopo
l’investitura, poi, ricevano la consacrazione canonica dal vescovo sotto la cui giurisdizione ricadono. Se
qualcuno fosse stato eletto dal clero e dal popolo all’infuori del tuo assenso, se non verrà investito da te non
sia consacrato da nessuno (tranne tuttavia coloro che per consuetudine sono nella disposizione degli
arcivescovi o del pontefice romano). Gli arcivescovi e i vescovi abbiano senza possibilità di dubbio la libertà
di consacrare canonicamente i vescovi e gli abati da te investiti. I vostri predecessori infatti hanno tanto
accresciuto le chiese del loro regno con i loro benefici i regali che il regno va munito massimamente con i
presidii di vescovi e abati, e che i contrasti popolari, che nelle elezioni spesso avvengono, sia opportuno
vengano repressi dalla maestà regale».
Non c’era molto di nuovo, ma in questa versione erano i re a tutelare le chiese ed i loro beni, in ogni caso non
c’era alcuna minaccia allo status quo. Tutto si sarebbe mosso in un quadro di consenso. Il re avrebbe
addirittura ottenuto di poter investire con la verga e con l’anello (generalmente inteso come il simbolo del
matrimonio mistico fra il vescovo e la sua Chiesa, gli veniva riconosciuto in qualche modo un ruolo sacrale).
La Chiesa romana otteneva, a sua volta, oltre alla possibilità di un diritto di veto in certi casi, una cosa molto
importante: il riconoscimento della sua sovranità su quanto il Patrimonio di San Pietro rivendicava almeno a
partire da Ottone I, se non da Carlo Magno. Insomma, sembrava ripristinato il pieno consenso
fra Regnum e Sacerdotium.
L’intesa costò ancora una volta numerose critiche al Papa fino anche all’accusa di eresia. Nonostante si fosse
giustificato dicendo di trovarsi, durante la discussione, in situazione di cattività, Pasquale difese fermamente
l’accordo anche schermandosi con gli strumenti messi a punto da Gregorio e Urbano dell’infallibilità del
pontefice (il pontefice non poteva essere eretico in quanto lui stesso era la misura dell’ortodossia) e delle
possibilità di deroga alle regole in caso di necessitas. Inaspettatamente gli strumenti pensati da Gregorio VII
per affermare il suo primato, non furono utilizzati contro l’Imperatore, ma proprio contro i vescovi di stretta
fedeltà gregoriana; furono le dispute con questi ultimi il vero banco di prova che li forgiò.
La volontà di concludere lì lo scontro con l’Impero era evidente.

Pag. 16 a 17
Pag. 17 a 17

Potrebbero piacerti anche