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Architettura della Memoria e Paesaggio

Da un’idea di Ennio Brion Ennio Brion, nato a Bassano del Grap- Pietro Valle, nato a Udine nel 1962, è

ARCHITETTURA DELLA MEMORIA E PAESAGGIO Sacrari di guerra come interventi ambientali


esplora quattro sacrari di guerra costru-
iti durante il ventennio fascista: Monte Testo di Pietro Valle pa nel 1940, è un imprenditore italiano, un architetto che ha studiato allo IUAV
alla guida della Brionvega dal 1968 sino a Venezia. Dopo la laurea si è trasferito
Grappa (1932-35), Redipuglia (1935-38), Fotografie di Giuseppe Dall’Arche alla incorporazione di questa nella Sèl- negli Stati Uniti dove ha conseguito un
Caporetto (1936-38) e Pocol a Cortina
d’Ampezzo (1932-35). Tre di questi sono eco nel 1992. Laureato in economia, alla Master a Harvard ed è rimasto a lavo-
stati progettati dall’architetto milanese
Giovanni Greppi (1884-1960) in coppia
ARCHITETTURA morte del padre Giuseppe (1968), affian-
ca la madre Onorina alla guida dell’a-
rare per sette anni. Rientrato in Italia, ha
vissuto a Trieste e dal 2003 è tornato a

DELLA
con lo scultore Giannino Castiglioni zienda Brionvega, produttrice di appa- Udine dove oggi dirige lo Studio Valle Ar-
(1884-1971) e il quarto (Pocol), è ricon- recchi radio-televisivi, che sotto la sua chitetti Associati. Dal 1993 ha insegnato
guida sviluppa prodotti oggi presenti al come visiting professor di progettazione
MEMORIA
ducibile alla loro supervisione, pur es-
sendo firmato dall’ingegner Giovanni MoMA di New York ed al Centre Pompi- architettonica in varie università di archi-
Raimondi. Condivisa tra i quattro sacrari dou di Parigi come importanti esempi di tettura europee e americane. Ha pubbli-
è una dimensione territoriale che supera
la differenza tra architettura, arte e pae-
E design industriale. Nel ruolo di commit-
tente ha richiesto progettazioni a diversi
cato diversi libri tra cui le monografie
Mecanoo, pragmatismo sperimentale e
designer tra cui Richard Sapper, Marco Rural Urban Framework, l’antologia di
saggio, caratterizzando i siti con rimo-
dellazioni dell’orografia, forme astratte PAESAGGIO L I B R I A
Zanuso, Achille e Piergiacomo Castiglio-
ni, Ettore Sottsass, Sergio Asti e Mario
scritti 00_arch.it papers, il libro-intervi-
sta Dan Graham, Half Square-Half Crazy
integrate con quelle naturali e percorsi
pedonali da esperirsi nello svolgersi del Sacrari di guerra come interventi ambientali Bellini. È stato committente anche in (assieme ad Adachiara Zevi) e le raccol-
architettura, commissionando la rea- te di saggi Alpe Adria senza, paesaggi
tempo. Monte Grappa
Queste strategie progettuali caratte- lizzazione di opere come il complesso contemporanei a Nord Est, Limboland,
Redipuglia monumentale Brion a San Vito d’Altivole Moderno costruito esistente visitato e
rizzano Monte Grappa, Redipuglia,
Caporetto progettato da Carlo Scarpa, la fabbrica Arte ambiente paesaggio. Nel 2017 ha
Caporetto e Pocol e li distinguono dagli
altri sacrari di guerra del Ventennio, Pocol Brionvega ad Asolo di Marco Zanuso, curato la monografia del lavoro del suo
spesso impostati su forme architettoni- la ristrutturazione di Palazzo Citterio a studio, Valle architetti associati 2003-16.
che e scultoree derivate dagli stili storici. Milano di James Stirling e il piano di ri-
Li collocano in una dimensione moderni- conversione dell’area Portello a Milano Giuseppe Dall’Arche, nato a Treviso
sta condivisa con altre esperienze delle dello Studio Valle Architetti Associati. nel 1965 è un fotografo professionista.
avanguardie storiche del Novecento e li Presidente dell’associazione industria Studia all’Accademia di Belle Arti di Ve-
avvicinano all’Arte Ambientale che si elettrotecnica ed elettronica (Anie) di nezia dove frequenta il corso di Giovanni
sarebbe diffusa trent’anni dopo la loro Milano, è anche membro dell’Associa- Soccol e consegue il Diploma Accade-
realizzazione. Pur essendo impostati su zione amici di Brera. mico, laureandosi in scenografia. Con
una retorica celebrativa della guerra Angelo Schwarz matura il suo approccio
vista come sacrificio collettivo, questi professionale alla fotografia come me-
sacrari in parte la superano aprendosi a dium privilegiato nella rappresentazione
un’intepretazione contemporanea per la e nella comunicazione visiva del territo-
loro capacità di rileggere i luoghi, di pro- rio antropizzato e costruito. Le sue foto-
muovere una partecipazione individuale grafie e i suoi reportage fotografici, che
all’evento storico e di far interagire ma- hanno come oggetto l’architettura e l’ur-
nufatto e natura. banistica, sono stati pubblicati, tra l’altro,
nelle riviste Domus e Casabella. Il suo
fotolibro Molo K Marghera. L’altra Vene-
zia (2007), che ha per oggetto, secon-
do i canoni dell’archeologia industriale,
una ricognizione sul polo petrolchimico
ISBN 978-88-6764-225-0 di Marghera, vince il premio Bastianelli
ISBN 978-88-6764-225-0 Opera Prima, indetto a Roma dall’editore
della rivista Fotografia Reflex.

euro 28,00 9 788867 642250


9 788867 642250
Architettura della memoria e paesaggio
Architettura della memoria e paesaggio
Sacrari di guerra come interventi ambientali
Monte Grappa, Redipuglia, Caporetto, Pocol

Da un’idea di Ennio Brion


Testo di Pietro Valle
Fotografie di Giuseppe Dall’Arche

L I B R I A
Ringraziamenti

Questo libro non sarebbe stato possibile senza l’intuizione di Ennio Brion che lo ha ideato e promosso.
Lo si ringrazia qui per la sua generosità e disponibilità. Francesca Medioli ha pazientemente rivisto tutti
i testi proponendo osservazioni, modifiche e integrazioni. Roberto Mancini, Marko Pogacnik e Tonci
Foscari hanno offerto preziosi commenti ai temi trattati. Paolo Nicoloso ha messo a disposizione
importanti materiali documentari per la stesura del testo. Gian Camillo Custoza e Franco Sovilla hanno
partecipato alla pianificazione iniziale del libro. Il Ministero della Difesa, Commissariato Generale per
le Onoranze ai Caduti, nella persona del Tenente Colonnello Riccardo La Bella, Direttore dei Sacrari
Militari di Cima Grappa e di Pocol, ha permesso l’accesso a questi due siti e Rocco Nuzzi, custode di
quest’ultimo, ci ha ripetutamente accompaganato alla visita degli interni.

Coordinamento Editoriale
Antonio Carbone

Prima edizione
Agosto 2020

© Pietro Valle
© Giuseppe Dall’Arche

Stampa
Antezza Tipografi - Matera

© Casa editrice Libria


Melfi (Italia)
ed.libria@gmail.com
www.librianet.it

ISBN 978 88 6764 225 0


Sommario

“La terra resti terra, il monte resti monte”: 7


sacrari militari come percorsi ambientali
Pietro Valle

Fotografie
Giuseppe Dall’Arche
Monte Grappa 55
Redipuglia 83
Caporetto 107
Pocol 129

Elenco immagini 156


“La terra resti terra, il monte resti monte”:
sacrari militari come percorsi ambientali

Pietro Valle

Premessa
Questo scritto esplora quattro sacrari di guerra costruiti durante il ven-
tennio fascista: Monte Grappa (1932-35), Redipuglia (1935-38), Caporetto
(1936-38) e Pocol a Cortina d’Ampezzo (1932-35). Tre di questi sono stati
progettati dall’architetto milanese Giovanni Greppi (1884-1960) in coppia
con lo scultore Giannino Castiglioni (1884-1971) e il quarto (Pocol), è
riconducibile alla loro supervisione, pur essendo firmato dall’ingegner
Giovanni Raimondi, tecnico dell’Ufficio Sepolture del Ministero della
Guerra1. Condivisa tra i quattro sacrari è una dimensione territoriale che
supera la differenza tra architettura, arte e paesaggio, caratterizzando i siti
con rimodellazioni dell’orografia, forme astratte integrate con quelle natu-
rali e percorsi pedonali da esperirsi nello svolgersi del tempo.
L’originalità dell’organizzazione ambientale di questi monumenti collettivi
non sfuggì agli osservatori del periodo. Come scrisse l’architetto Mario
Paniconi nella sua recensione del Sacrario del Monte Grappa sulla rivista
“Architettura” del 1935: «Plaudiamo alla scelta di non alzare l’edificio pre-
testuosamente verso il cielo, ma di lasciare che la terra resti terra, il monte
resti monte»2.

1 Nulla si sa dell’ingegner Raimondi. Il suo nome in relazione a Pocol è documentato assieme


a quello di Ghino Venturi in Loredana Pin, “L’ossario di Oslavia di Venturi, 1930-38” in
Le pietre della memoria, monumenti sul confine orientale, a cura di Paolo Nicoloso, Gaspari, Udine
2015, pp. 113-132. Per Greppi e Castiglioni, vedi nell’opera di riferimento Dizionario biografico
degli italiani, ora l’ottima voce di G.L. Ficorilli, http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-
greppi_(Dizionario-Biografico)/ e quella assai più modesta di G. Rosso Del Brenna,
http://www.treccani.it/enciclopedia/giannino-castiglioni_%28Dizionario-Biografico%29/.
Su quest’ultimo vedi la più esauriente monografia L’arte del fare, Giannino Castiglioni scultore,
a cura di Eugenio Guglielmi, Skira, Milano 2015.
2 Mario Paniconi, “Cimitero del Grappa”, in Architettura, 12, 1935, pp. 663-667, citato nella

voce “Sacrari militari della prima guerra mondiale” in Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/


Sacrari_militari_della_prima_guerra_mondiale_in_Italia

7
La storia dei cimiteri passa da un culto personale, monumentale o privato,
in epoca romana, a un appropriarsi del corpo del defunto da parte della
Chiesa, che difatti inumava i cadaveri all’interno degli edifici di culto. Con
l’arrivo di Napoleone le sepolture uscirono dagli abitati per diventare luoghi
a parte, all’esterno, esposti alle intemperie: le cappelle delle famiglie sorsero
per lo più nel tardo Ottocento. Durante la Grande Guerra – con milioni di
corpi insepolti fra le trincee – l’inumazione divenne un problema sanitario,
di elaborazione del lutto collettivo e personale per le 600.00 famiglie dei ca-
duti, a cui si doveva dare un luogo anche sostitutivo (come per i 60.000 mi-
litari non identificati tumulati a Redipuglia) presso cui sostare e raccogliersi.
La soluzione qui raccontata cerca di darne conto e di fornire una spiega-
zione, prima di tutto visiva e architettonica, ma non solo3.
A Monte Grappa, Redipuglia, Caporetto e Pocol, il monumento diviene
territorio e il territorio monumento: il tema è la corrispondenza tra il ma-
nufatto e l’orografia, il suo adagiarsi sul terreno nella dimensione orizzon-
tale, la strutturazione della visita in una sequenza di successive ‘stazioni’.
La fruizione dei caduti per chi resta e da tutt’Italia viene a visitare il pro-
prio defunto, senza distinzione di grado, soldato o ufficiale, è immediata:
in un immenso sforzo di ordine, reperimento e catalogazione, su ogni
singolo sacello appaiono nell’ordine cognome, nome, a volte grado, data di
nascita e di morte, spesso anche il luogo di essa. Qui non si può verificare
quanto raccontato in Tender is the night (capitolo XIII) di Francis Scott
Fitzgerald: in un giorno di pioggia sottile, una ragazza americana – in visita
dagli Stati Uniti a un cimitero di guerra in Francia – è in lacrime, non riesce
a trovare la sepoltura del proprio fratello perché il numero della lapide
datole dal Dipartimento della Guerra è errato. Interviene Dick Diver,
psichiatra e protagonista del libro, che accoglie il suo dolore e le suggerisce
di lasciare il suo mazzo di fiori sulla tomba di uno sconosciuto qualsiasi
dicendole: «È questo che tuo fratello vorrebbe tu facessi»4.
I morti sepolti nei sacrari, tutti uomini con l’unica eccezione di una croce-
rossina a Redipuglia, vengono pianti e visitati dalle madri e dalle mogli,
coloro che sono state lasciate. Ma se a Monte Grappa, Redipuglia, Capo-
retto e Pocol non c’è posto per i fiori portati ai congiunti, è la natura che

3 Sulle condizioni reali di vita, su tutti i fronti, nelle trincee resta imprescindibile Paul Fussell,
La Grande Guerra e la memoria moderna, il Mulino, Bologna, 2000.
4 Francis Scott Fitzgerald, Tender is the night (1934), Wordsworth Editions, Londra 2011,

pp. 50-51.

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riprende il sopravvento, il cimitero diventa per l’uno e per tutti, coi fiori,
gli alberi, le piogge, le rocce e le nevi, nel fluire delle stagioni, mentre il
tempo da lineare diventa circolare, in un eterno ritorno, la forma più natu-
rale e duratura di immortalità. Questa visione caratterizza Monte Grappa,
Redipuglia, Caporetto, Pocol, e li distingue dagli altri sacrari di guerra del
ventennio fascista, ancorati a forme architettoniche derivate dagli stili
storici. Li colloca in una dimensione modernista condivisa con altre esperien-
ze delle avanguardie del Novecento e li avvicina all’Arte Ambientale, quella
Land Art che si sarebbe diffusa oltre trent’anni dopo la loro realizzazione.
Pur essendo impostati su una retorica celebrativa della guerra vista come
sacrificio collettivo, i quattro sacrari la superano aprendosi a un’interpreta-
zione contemporanea per la loro capacità di rileggere i luoghi, di promuo-
vere una partecipazione individuale all’evento storico e di far interagire
manufatto e natura.
Il presente scritto vuole indagare le ragioni storiche che hanno portato alla
configurazione dei quattro siti e confrontarle con l’interesse che ancor
oggi essi esercitano. Il metodo adottato è quello della scomposizione del
racconto della visita ai siti in temi definiti, il confronto tra le scelte proget-
tuali originali, i risultati costruiti e la modificazione della percezione contem-
poranea di essi dopo l’emergenza di una riflessione critica sulla memoria
collettiva della guerra.

Marcare i siti, un programma strategico


I quattro sacrari del Monte Grappa, di Redipuglia, di Caporetto e di Pocol
a Cortina d’Ampezzo appartengono a un programma di monumentalizza-
zione dei siti dove erano avvenute le battaglie della Prima guerra mondiale
attuato dal regime fascista. Conclusosi il conflitto, lo Stato italiano si era
trovato ad affrontare l’urgente problema di dare sepoltura adeguata al
grande numero di caduti seppelliti in un’infinità di cimiteri di guerra sorti
in modo provvisorio, in prossimità dei campi di battaglia5.
Nel 1927 il governo nazionale fascista decideva di affrontare la questione
affidando l’incarico al generale Giovanni Faracovi, nominato commissario
straordinario per le onoranze ai caduti in guerra. A lui fu assegnato il com-
pito di predisporre un piano per la sistemazione delle salme in territorio
italiano ed estero. Il programma prevedeva la realizzazione di una serie di
5George L. Mosse, Fallen soldiers: reshaping the memory of the world wars, Oxford, Oxford
University Press. 1991.

9
grandi ossari militari lungo i principali fronti di battaglia, individuati nella
linea delle Alpi, lungo il corso dell’Isonzo e del Piave.
I «grandi concentramenti di Salme» cui Faracovi faceva riferimento nel suo
programma avrebbero contenuto i costi degli interventi e permesso di
dotarsi di architetture che fossero «espressione del sentimento, del presti-
gio, della civiltà e della dignità della Nazione». Il generale individuava come
tipologia più idonea quella degli ossari. Essa consentiva «l’Individualità […],
la Perpetuità […] e la Monumentalità»: ogni caduto avrebbe avuto il suo
loculo, la costruzione avrebbe garantito la conservazione delle spoglie
ed esse sarebbero state ospitate in architetture di forte impatto pubblico.
Queste ultime avrebbero dovuto costituire «attraverso i secoli la documen-
tazione storica dell’immane guerra» e, allo stesso tempo, testimoniare «la
perenne riconoscenza dell’Italia ai suoi Morti», divenendo «virile scuola
per i vivi»6. Con questa ricontestualizzazione, il regime cercava di appro-
priarsi della memoria della Grande Guerra e del sacrificio collettivo ponen-
doli come atto fondatore della rivoluzione fascista.
Gli ossari militari avrebbero avuto caratteristiche comuni: sarebbero sorti
su alture, avrebbero espresso il valore del sacrificio, utilizzando un lin-
guaggio architettonico fatto di «linee maestose senza frastagliamenti e
cincischiature». La massa tettonica avrebbe dominato sull’ornamentazione,
in omaggio alle «migliori tradizioni monumentali nazionali». La romanità
cui i progettisti avrebbero dovuto ispirarsi era legata alle mire imperialisti-
che del regime attraverso il rimando al linguaggio architettonico dell’an-
tichità classica e alla tradizione costruttiva italiana. La concentrazione di
salme in pochi luoghi accessibili avrebbe educato la massa al culto della
nazione. Se ubicati in prossimità di stazioni ferroviarie, o nelle vicinanze di
strade facilmente percorribili, gli ossari avrebbero incentivato i pellegri-
naggi individuali e collettivi. Inoltre, la grande dimensione avrebbe richia-
mato molti più visitatori, sull’esempio dei grandi cimiteri già esistenti degli
Invitti a Redipuglia, del Monte Grappa e del Pasubio. La soluzione pro-
spettata da Faracovi consisteva nel realizzare «pochissime opere […] ma
tutte monumentali»: questo è l’obiettivo che il regime avrebbe perseguito
in più di dieci anni di realizzazioni7. Il termine ‘sacrario’ prevalse su quello

6 Giovanni Faracovi, “Memoria sulla sistemazione definitiva delle salme dei militari italiani
caduti in guerra, 11 marzo 1930”, in A.M. Fiore, La monumentalizzazione dei luoghi teatro della
Grande guerra: i sacrari di Giovanni Greppi e Giannino Castiglioni (1933-1941), Tesi di Dottorato,
XIII Ciclo, IUAV 2001, p. 40.
7 Faracovi, “Memoria...” cit. p. 35.

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di ‘ossario’ nella propaganda dopo il 1930 per evidenziare il valore sacrale
dei caduti e per togliere qualsiasi atteggiamento pietistico che richiamasse
il dolore della morte. Il nuovo termine denominava grandi città dei morti
insediate in forma monumentale nei luoghi stessi dove essi erano caduti.
Se nei precedenti cimiteri era consentita una spontanea celebrazione di
ogni singola tomba da parte dei famigliari, nei nuovi monumenti ogni scel-
ta individuale fu cancellata. I singoli furono livellati alle stesse condizioni
in un’ambientazione dal respiro più vasto e connotata da una dimensione
collettiva, quasi il sacrario rappresentasse la compattezza delle falangi di un
esercito di pietra.
Dal 1928 si era posta fine alla costruzione di monumenti di iniziativa locale,
attribuendo allo Stato il compito di edificare i luoghi per la celebrazione
della Grande Guerra. Dal giugno del 1931 la discrezionalità concessa al
commissario per le onoranze ai caduti fu ridotta dall’entrata in vigore di
una legge che istituzionalizzava l’intervento dello Stato in materia. Essa
ufficializzava la carica di commissario – sottoponendo la sua attività diret-
tamente al controllo del Ministero della Guerra – e istituiva una commissio-
ne consultiva che lo avrebbe affiancato. Quest’ultima vincolò progressiva-
mente l’attività di Faracovi, sino alla decisione di azzerarne i poteri con il
decreto-legge del 31 maggio 1935, anno in cui la carica di commissario per
le onoranze ai caduti in guerra fu sostituita con quella di “commissario
generale straordinario per la sistemazione di tutti i cimiteri di guerra nel
Regno e all’estero”. La nuova figura, impersonata dal generale Ugo Cei
(1867-1953), ottenne maggiore potere decisionale e fu sottoposta unica-
mente al capo del governo. Nello stesso tempo la legge snelliva ulterior-
mente l’iter burocratico relativo alla realizzazione dei singoli sacrari. La
modifica introdotta dal decreto-legge avvantaggiò appunto il generale Cei,
che era stato chiamato a ricoprire il ruolo di commissario ancora prima del
varo della nuova legge, a partire dal febbraio del 1935.
Il primo intervento del nuovo commissario consistette nel rimettere in di-
scussione le scelte progettuali di buona parte dei sacrari in fase d’esecuzione.
Cei non era nuovo a un simile incarico: aveva già gestito per conto del
governo il Sacrario del Monte Grappa, unica costruzione sottratta al con-
trollo di Faracovi. Dall’aprile del 1932 aveva dato una svolta nella gestione
di quel cantiere, fino a quel momento condotta da un comitato nazionale
appositamente istituito. Nella realizzazione dell’opera, Cei fu affiancato
da Giovanni Greppi e da Giannino Castiglioni, conosciuti in quel periodo
tramite un nipote milanese del generale, di una generazione dunque più

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giovani, entrambi studenti all’Accademia di Brera negli stessi anni, entrambi
arruolati durante la Grande Guerra – l’uno come sottotenente maggiore e
l’altro che ebbe il fratello maggiore Achille (1880-1916) morto per ferite
riportate al fronte – entrambi mariti e padri di famiglia, l’uno sposato con
la nipote dello scultore romano Labus e con una bambina, natagli nel 1915,
l’altro padre di tre maschi, tutti futuri architetti e designer, Livio (1911-1979),
Pier Giacomo (1913-1968) e Achille (1918-2002). Essi vennero dapprima
chiamati a fornire una consulenza e poi assunti come progettisti definitivi.
L’intervento, condotto a termine nel volgere di un solo anno dal suo inizio,
avrebbe consolidato un sodalizio professionale e consentito a Ugo Cei, di
lì a poco nominato commissario generale straordinario di tutti i cimiteri di
guerra, di avvalersi dei due progettisti in buona parte dei cantieri che si sa-
rebbero aperti sotto la sua supervisione. Tale scelta portò alla realizzazione
non solo di Redipuglia e Caporetto, ma anche di altri sacrari di minore scala
tra cui Timau, Bezzecca, Pian dei Salesei, San Candido, Colle Isarco, Passo
Resia, Pola, Zara e il Mausoleo Gonzaga sul Monte Vodice nonché alla pro-
gettazione di una serie di memoriali, non realizzati, in territorio estero per
Bligny, Salonicco, Bitolj, Corfù e Sebenico. Questi sacrari di più ridotta scala
sono tra loro affini per l’uso dei muri a colombari – tema emerso al Monte
Grappa – ma rimangono manufatti tutto sommato tradizionali. Nessuno
di essi ha l’impatto orografico e ‘itinerante’ del Monte Grappa, di Redipuglia
e di Caporetto che rimangono unici per la loro dimensione territoriale. La
protezione di Cei fece anche in modo che le idee di Greppi e Castiglioni
permeassero altri progetti di colleghi come quello dell’ingegner Raimondi
per il sito di Pocol a Cortina d’Ampezzo, dove il contributo scultoreo di
Castiglioni è documentato mentre rimane misterioso il possibile controllo
esercitato da un architetto di chiaro talento. Greppi e Castiglioni si erano fino
ad allora affermati nel campo professionale con opere dettate da un misu-
rato storicismo – con occasionali aperture al Novecento – e dalla eclettica
capacità di adattamento alle diverse commissioni, un tema che risulterà fon-
damentale nella revisione dei progetti di cimiteri di guerra per il generale Cei.
Per capire la portata innovativa della proposta di Greppi e Castiglioni al
Monte Grappa – incentrata sulla rimodellazione dell’orografia attraverso
terrazzamenti, sull’insediamento dei loculi di sepoltura nei muri di conte-
nimento nella forma dei ‘colombari’ e sulla definizione di un percorso di
visita all’intero sito – bisogna però analizzare le tipologie dei sacrari fino ad
allora realizzati o in fase di completamento agli inizi degli anni Trenta,
quasi tutti commissionati da Faracovi o addirittura progettati prima del

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suo mandato (è il caso di quasi tutti i templi ossari, tutti caratterizzati da
lunghissimi cantieri e innumerevoli progetti sovrappostisi nel tempo) e
rientrati in seguito nel quadro del piano del 1931. Le soluzioni proposte
per essi erano ancora eterogenee: impiegavano modelli legati a precedenti
storici ed erano quasi sempre dotate di un interno celebrativo separato
dalle sistemazioni esterne. Il tema di una tipologia architettonica specifica
era ancora irrisolto e le soluzioni che erano state proposte a Faracovi erano
variegate e disomogenee. Tra i tipi ricorrenti vi erano infatti:
– il tempio-ossario, ossia una chiesa di impianto tradizionale, ampliata per
alloggiare navate e cripte con loculi per le spoglie dei caduti (Tempio
votivo di Venezia-Lido di Giuseppe Torres del 1919-23; Tempio della
Pace a Padova di Antonio Zanivan del 1920-34; Sacrario militare della
Santissima Trinità a Schio di Pietro Del Fabro del 1930; Tempio-ossario
di Bassano del Grappa, di Pietro Del Fabro del 1934; Tempio-ossario
dei Caduti d’Italia di Udine di Provino Valle e Alessandro Limongelli del
1925-1940; Sacrario militare di Trento di Pietro Del Fabro del 1932);
– l’arco trionfale di impronta romana, localizzato sulla sommità di rilievi e
non più nei centri urbani (Sacrario militare dello Stelvio, di Pietro Del
Fabro del 1932; Sacrario militare di Asiago al colle del Leiten di Orfeo
Rossato del 1936);
– la torre a pianta quadrata di ispirazione medioevale, punto di partenza
per il Sacrario di Pocol a Cortina (Sacrario del Montello presso Nervesa
della Battaglia, di Felice Nori del 1935);
– la torre a pianta circolare, che poteva richiamare alternativamente un
tempietto cilindrico o un faro marino (Sacrario militare di Castel Dante
a Rovereto di Fernando Biscaccianti del 1933-36);
– l’edificio a pianta semicircolare con cripta quadrata (Sacrario militare del
Tonale, di Pietro Del Fabro del 1936);
– il fortilizio che richiamava sia la tipologia germanica del Totenburg sia
quella degli antichi mausolei funerari romani di forma cilindrica, come
quello di Cecilia Metella sulla Via Appia, o di Lucio Munazio Planco a
Gaeta, o ancora dei Plauzi sulla via Tiburtina (Sacrario di Oslavia, di
Ghino Venturi, 1932 -1938);
– l’esedra colonnata già adottata nei cimiteri ottocenteschi (Sacrario di
Fagarè di Pietro Del Fabro del 19358.

8 Per l’elenco dei sacrari eclettici di fine anni Venti, il riferimento è ancora l’ottima voce
“Sacrari militari della prima guerra mondiale” in Wikipedia cit.

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Il linguaggio architettonico di questi sacrari, per quanto tendente a una
semplificazione degli stili storici, era ancora eclettico e vedeva una netta
separazione tra gli episodi scultorei e le masse architettoniche. Caratteristica
di Monte Grappa, Redipuglia, Caporetto e Pocol è invece non solo l’inte-
grazione paesaggistica del manufatto ma anche l’assorbimento degli ele-
menti figurativi nel bassorilievo di forme architettoniche che sembrano
originare dal terreno. Il loro è un vero e proprio ‘progetto di suolo’ che
supera l’architettura prospettando un territorio ‘totale’.

Percorso, orografia, sepoltura e mimesi


L’invito all’attraversamento del sito e alla visita di più ‘stazioni’ – raggiunto
per la prima volta al Monte Grappa da Greppi e Castiglioni – modifica il
concetto statico di monumento, il quale non sarà più un singolo elemento
architettonico che racchiude in sé tutto il valore celebrativo. Il sacrario di
guerra diventa percorso en plen air ed esso implica un diverso rapporto tra
strutturazione degli spazi aperti del sito, architettura e scultura. Se al Monte
Grappa il percorso che risale un rilievo ricuce delle preesistenze non coordi-
nate, vi è un unico precedente tra i primi sacrari degli anni Venti che può
avere ispirato una tale visione cinetica: il progetto di Eugenio Baroni per il
Concorso per il Monumento al Fante del Monte San Michele (1920-22)
che prevedeva una scalinata cadenzata da piattaforme con gruppi scultorei
che formavano un percorso celebrativo ascendente il sito della battaglia.
La rappresentazione della Via Crucis con figure dal sapore pietistico non
piacque però al regime, fu stigmatizzata da Margherita Sarfatti come ina-
datta a rappresentare la «gloriosa» vittoria e Mussolini negò l’approvazione
alla realizzazione del monumento nel 1923. Tuttavia, la soluzione di Baroni
deve avere colpito Giovanni Greppi, membro della commissione di concor-
so, per la disseminazione di più episodi nella dimensione spazio-temporale9.
Vi sono precedenti antichi ed esempi contemporanei di strutturazione
pae­saggistica del sito che, come vedremo, Greppi e Castiglioni richiamano
al Monte Grappa, Redipuglia e Caporetto. Nella loro versione costruita,
tuttavia, questi sacrari superano i riferimenti e operano un’astrazione dell’o-
rografia riducendo il pendio a una serie di terrazzamenti e a una materializ-
zazione diffusa della sepoltura con l’inserimento dei loculi al loro interno.
È questa simbiosi tra presenza collettiva e contenimento del declivio che
9Sulla proposta di Baroni vedi Massimiliano Savorra, “Il monumento al fante sul monte San
Michele al Carso, 1920-22”, in Le pietre della memoria..., cit, pp. 71-92.

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emerge come sintesi innovativa. Il sacrario è astrazione del sito e apparato
per il suo attraversamento nello stesso tempo. È la figurazione di un esercito
compatto tradotto nell’ordine seriale delle tombe che avanzano come on-
date successive. In esso, l’architettura non è più concepita dal regime come
simbolo in sé, ma piuttosto come la cornice o lo sfondo della massa che
lo occupa nelle occasioni rituali. La moltitudine, per il fascismo, diventa
l’obiettivo ultimo, un monumento mobile e dinamico che esprime, con la
forma che gli dà la pedagogia totalitaria, la legittimazione del potere e la
rivelazione dei suoi valori.
L’architettura scompare nel sito, nella moltiplicazione compatta delle tombe
e dietro alle folle. I quattro progetti declineranno questo tema in forme
diverse e comparabili formando un processo evolutivo verso un’astrazione
del declivio e della sepoltura sempre più distante dalla concezione di un
manufatto architettonico tradizionale.
Le diverse parti del sacrario sono unite dal percorso delineando una sor-
prendente varietas che richiama la tradizione del Pittoresco pur essendo
ottenuta con forme statiche e rigidamente geometriche. Questa apparente
opposizione tra monumentalità del segno architettonico e dispersione della
sua esperienza nel sito è un’anticipazione di temi che verranno esplorati
dalla Land Art. Il percorso a stazioni dei sacrari è fatto di momenti diversi,
di discontinuità di movimento e ha un significato rituale ben preciso. Il rap-
porto tra teatralizzazione pianificata dell’itinerario per le masse e scelta in-
dividuale del movimento pedonale da parte del singolo visitatore è dialettico.
La percezione della sepoltura collettiva contrapposta al riconoscimento
degli individui – la lettura dei nomi dei caduti e il modo con cui essa è rea­
lizzata in modo diverso nei quattro sacrari – è relazionata al ritmo del per-
corso e all’introiezione dell’intorno da specifici punti di vista. Un’analisi det-
tagliata del Monte Grappa, di Redipuglia, Caporetto e Pocol farà emergere
il contrappunto tra momenti collettivi e d’isolamento individuale, entrambi
presenti sin dalla loro concezione, per evidenziare l’evoluzione da una per-
cezione mirata a un punto di vista più distaccato.
I quattro sacrari, in modi diversi, si adagiano nell’orografia quasi scompa-
rendo e, alternativamente, emergono da essa. Servono da indicatori per il
paesaggio circostante e attirano l’attenzione su di sé come sostituzione to-
tale di esso. Alternano una presenza inserita nel sito, nello stesso tempo il
suo distacco. Questa natura duplice, anzi molteplice e interattiva, del Monte
Grappa, di Redipuglia, Caporetto e Pocol porta oltre al significato origi-
nale di monumenti di guerra e parla dei luoghi in cui essi sono inseriti,

15
ne offre una lettura complessa. È proprio questo il motivo del continuo in-
teresse per questi manufatti che ha portato a intraprenderne l’esplorazione.

Monte Grappa: gironi e Via Eroica


I due sacrari di più vasta scala, Monte Grappa e Redipuglia, condividono
una storia di ripensamenti tra più varianti di progetto, fasi di lavoro già
iniziate, contributi di diversi architetti e lo spostamento decisivo della loro
localizzazione (da ipogeo a esterno al Monte Grappa, dal Colle Sant’Elia
al prospiciente Monte Sei Busi a Redipuglia) nell’intervento risolutivo di
Greppi e Castiglioni imposto dal generale Cei. L’indecisione sulla versione
definitiva del progetto indica il difficile processo per giungere a una solu-
zione specifica per il primo di questi memoriali, capace di unire sepoltura
collettiva e celebrazione del sito dove erano avvenute le battaglie.
Sulla cima del Monte Grappa era sorto sin dall’inizio del Novecento un 4,
sacello alla Madonna che era stato danneggiato durante il primo conflitto
mondiale. Agli inizi degli anni Venti veniva deciso di erigere qui un sacrario
ai caduti delle battaglie che erano avvenute in più di tre anni di conflitto.
Nel 1925 i lavori per la sua costruzione erano già iniziati: si trattava di un
ossario ipogeo a pianta esagonale, posto in corrispondenza della cima del
monte, con sei gallerie radiali che avevano da una parte affacci panora-
mici sui campi di battaglia e dall’altra convergevano verso una cappella-
cripta centrale. Uno dei bracci dell’esagono collegava l’ossario alla galleria
Vittorio Emanuele III, scavata durante la guerra con uno sviluppo com-
plessivo di oltre cinque chilometri. In superficie, si pensò anche di tracciare
il percorso della Via Sacra che, lungo la linea di pendenza del crinale,
univa l’ingresso all’ossario con il sacello della Madonna. Attraverso questo
percorso, si cercava di trovare un punto d’incontro tra i simboli religiosi e
quelli militari presenti nel sito. Nel 1927 i lavori dell’ossario ipogeo erano
sostanzialmente conclusi: mancavano però le opere di completamento
all’esterno, l’ingresso monumentale al cimitero ipogeo e il coronamento di
un elemento verticale da erigersi nel punto trigonometrico di Cima Grappa.
Da questo momento si susseguirono diversi progetti di Alessandro Limon- 16, 19, 20
gelli prima e di Pietro Del Fabro dopo la morte del primo. L’elemento verti-
cale di completamento all’inizio fu pensato come un gigantesco faro e poi
si ridusse a quel Portale di Roma che vediamo ancora oggi al termine della
Via Sacra, un parallelepipedo cieco dal sapore quasi egizio con ingressi a
due livelli, a monte e a valle, che conducono al sistema dei percorsi ipogei. 19-20

16
All’arrivo del generale Cei, la scelta del sacrario ipogeo entrò in crisi con la
constatazione della pessima condizione della cripta, piagata da problemi
di infiltrazioni di acque meteoriche e di scarsa resistenza delle volte qui
scavate: si decise di chiuderla e di ripartire con un nuovo progetto in
superficie. Qui entrarono in gioco Greppi e Castiglioni che ripresero un
abbozzo di Del Fabro con un’esedra attorno al sacello della Madonna e lo
trasformarono in un sistema di muri di contenimento che avvolgevano tutta
la montagna a meridione, ispirandosi a quel cimitero a ‘gironi’ che segna
il Colle degli Invitti a Redipuglia10.
Il sacrario di Greppi e Castiglioni si estende lungo il costone a sud della
cima del monte e si affaccia verso Bassano e la pianura. È composto da un
sistema di sei gironi concentrici, muri di contenimento in pietra del Grappa
alti quattro metri e distanti dieci metri l’uno dall’altro, che avvolgono la
sommità del monte e paiono scendere a cascata verso valle con la loro
5, 6, 23 planimetria circolare. In essi trovano posto i resti di 12.615 soldati italiani
morti, dei quali solo 2.283 identificati, custoditi in loculi prefabbricati a
forma di lunetta chiusi da targhe di bronzo, in cui si alternano le sepolture
individuali, ciascuna con il suo nome, a quelle collettive raggruppate per
cento ignoti. Ogni sette loculi nella lunghezza, per tre nell’altezza di ogni
gradone, vi è un’asola verticale per i militi ignoti, generando così un ritmo
nella percezione dei muri continuamente curvi che sembrano non avere
7 fine. Il richiamo ai sepolcreti romani a colombario è evidente e questa sarà
la cifra stilistica che ritroveremo in diversi sacrari che Greppi e Castiglioni
progetteranno negli anni successivi: tra essi, San Candido, Colle Isarco,
Passo Resia, Pola e Zara. Il sovrapporsi delle muraglie, percorribili a piedi,
è tagliato da uno scalone centrale che porta alla tomba del maresciallo
9, 10, 11 Gaetano Giardino, il quale aveva voluto essere sepolto tra i suoi soldati.
La tomba è inserita nei gradoni circolari e obbliga a una deviazione laterale
della risalita. Il percorso culmina nel santuario della Madonnina, rico-
struito per l’occasione dopo l’abbattimento del sacello originale in forma
14 di tempietto cilindrico. Da lì parte la Via Sacra, ribattezzata “Eroica”, lunga
trecento metri, che si conclude con il Portale di Roma di Alessandro
0, 21, 22 Limongelli e Pietro Del Fabro. Ai lati, quattordici cippi in pietra, scolpiti
da Castiglioni, ricordano in rilievo i nomi delle località del massiccio del
Grappa dove si svolsero i combattimenti più cruenti, ma sono anche un

10Vedi la parte III, “I due artisti milanesi e l’incontro con il generale Ugo Cei: l’affidamento
per l’incarico del Sacrario del Grappa”, in Fiore, La monumentalizzazione... cit., pp. 88-131.

17
richiamo esplicito alle stazioni della Via Crucis che egli ripeterà in tutti i
successivi sacrari in forma di bassorilievo scultoreo. Sul lato del Portale di 17, 18
Roma, distanti dalle sepolture degli italiani, rivolti geograficamente e sim-
bolicamente a nord, trovano posto i 10.295 caduti austro-ungarici in altri
due gironi concentrici, al centro dei quali si apre un frontone classico con
pilastri e timpano. 25
Il tema progettuale al Monte Grappa è l’articolazione del sacrario attraverso
un percorso di risalita alla montagna che diventa visita alla sepoltura col-
lettiva, una via di collegamento che permette di percorrere il crinale e una
penetrazione nelle viscere del terreno attraverso una soglia che porta al
sacrario ipogeo. I gironi circolari sono la rappresentazione geometrizzata
di una cima montana con le sue curve di livello, la Via Eroica un’astrazione
del crinale, il Portale di Roma piuttosto un costone artificiale che un edifi-
cio abitabile. La rappresentazione del sito non si arresta però alle forme
primarie: anche la materialità ha un suo ruolo perché viene fatta coincidere
con la modalità della sepoltura. Il muro di pietra dei gironi, trattato con
il bugnato e forato dai loculi, è espressione della sostanza lapidea della
montagna tradotta sulla superficie tattile, ora è diventata porosa e abitata
dai corpi. Per quanto solo un rivestimento, il muro opera una densifica-
zione percettiva del contenimento del terreno e il suo ‘impregnamento’ da
parte dei sepolti. I loculi dispiegati sui fronti circolari formano una città
dei morti installata sulla cima e affacciata sul territorio. Ricordano anche
un’infrastruttura antica, un acquedotto o un anfiteatro, ricontestualizzata
da occupazioni successive dei suoi fornici.
Al Monte Grappa, la scultura scompare all’interno del sacello della Madon-
na – le formelle a bassorilievo della Via Crucis di Castiglioni sono poste
qui, come a Redipuglia – e viene sostituita all’esterno dalla parola iscritta
nella pietra. Le immagini religiose affrescate sono relegate anch’esse all’in-
terno del sacello, i simboli del Fascismo evitati, in un rispetto inatteso della
cronologia, oltre che dell’apoliticità dei caduti. Ne emerge un’architettura
antiretorica nella quale i segni del regime non sono mai espliciti, non parla-
no il linguaggio iperbolico di altri monumenti del ventennio. La gigantesca
statua della Patria Fascista antistante il Portale di Roma, scolpita da Casti-
glioni e ben visibile nelle foto d’archivio, fu rimossa pochi giorni dopo
l’inaugurazione del sacrario in una sorta di riduzione retorica. I nudi muri
sono abitati dalle tombe e da rade iscrizioni a bassorilievo, le quali non sono
mai autoreferenziali ma costruiscono un legame con l’intorno. I quattordici
cippi in pietra di Castiglioni sulla Via Eroica hanno le gigantesche scritte

18
dei luoghi di battaglia scolpite su entrambi i fronti che obbligano il visita-
tore a entrare e fuoriuscire dall’asse prospettico per leggerle. I nomi, visi-
bili frontalmente, si sovrappongono alla vista a distanza dello specifico
17, 18 monte richiamato, creando un corto circuito tra parola e luogo. Questo
ruolo ‘indicativo’ della scrittura monumentale si lega a parallele esperienze
pubbliche del fascismo (dalle architetture di regime alle parate) ma qui, in
una dimensione olistica proiettata sull’intero orizzonte, quasi anticipa
l’Arte Concettuale degli anni Settanta.
I riferimenti all’architettura antica a Monte Grappa sono mediati, segno
anche questo di un distanziamento da una simbologia troppo diretta. I giro-
ni circolari richiamano non solo il Monte Sant’Elia a Redipuglia, ma riman-
dano anche al Paradiso dantesco e alla sua immagine allegorica nella pittu-
ra medievale. I colombari antichi avevano visto un recente revival in alcuni
progetti tra cui la proposta di Vincenzo Fasolo del 1922 per un cimitero in
forma di arco trionfale per il Verano a Roma, all’interno dei cui fornici
trovavano posto i loculi in serie. La riduzione prospettica della Via Eroica
allude alla teatralità barocca e sarà usata a Redipuglia come parte integran-
te del percorso ascensionale: in essa emerge la precedente esperienza di
Giovanni Greppi come scenografo. I cippi iscritti a scala monumentale sono
una versione contemporanea dei frammenti di antichità presenti nelle ve-
dute settecentesche di Roma di Giovanni Battista Piranesi. Tuttavia, Greppi
e Castiglioni si riferiscono anche a paralleli contemporanei: la grande
dimensione dell’intervento è parente di una certa urbanistica monumentale
del ventennio che culminerà con i grandi progetti per l’EUR a Roma e le
loro proporzioni ‘metafisiche’. Anche qui emerge una concezione cinetica
in cui la percezione dell’insieme è esperita attraverso il movimento e nel cor-
so del tempo. Vale la pena quindi analizzare dettagliatamente il ‘percorso’
del Monte Grappa, le sue stazioni, continuità e interruzioni.
Il Sacrario del Monte Grappa è posto sul costone meridionale dell’omoni-
ma cima affacciato sulla pianura veneta a sud. Dopo una lenta e tortuosa
salita lungo la Strada Cadorna – tracciata dal famoso generale fin dal 1916
– il paesaggio montano si apre qui a trecentosessanta gradi sui rilievi teatro
1 delle battaglie del conflitto. Il sacrario è oggi raggiungibile dal Rifugio
Bassano – termine della strada carrabile – con una risalita pedonale tra-
sversale all’asse della Via Eroica che porta direttamente al Portale di Roma.
Questo sentiero attrezzato, aggiunto dopo la costruzione, non rende però
giustizia al dipanarsi degli elementi dell’insieme come pensato da Greppi e
Castiglioni. Il vero approccio avviene dalla Caserma Milano più a valle con

19
una strada carraia che aggira il costone meridionale e si affianca al muro di
contenimento del girone più basso, il quale nasconde la vista dell’insieme
fino all’ultimo momento, quando essa si apre sul panorama e sulla scalinata
centrale ai muri curvi. Qui la percezione dei successivi gironi è ancorata 2, 3
al taglio della scala centrale che li unisce e del cilindro del sacello della
Madonna sulla sommità, ma sfugge lateralmente per la convessità dei muri-
colombario, i quali arretrano verso due punti di fuga laterali nascondendo
i loro terminali. 4, 5, 6, 8
La scala centrale è l’unico mezzo di risalita tra i gironi, ma la sosta presso
ognuno di essi costringe a interromperla e a ruotare attorno al monte
perdendo l’orientamento assiale e guadagnando una vista panoramica sul
paesaggio lontano e sugli altri gironi. Quelli inferiori, visti dall’alto, diven- 8, 9
tano esili profili astratti, quelli superiori scompaiono parzialmente e di essi
appare solo il coronamento. I gironi hanno un estensione di circa duecento- 11
dieci gradi in pianta e le estremità si innestano nel declivio naturale. Qui 23
Greppi e Castiglioni collocano altre due scale terminali, con una soluzione
che verrà ripetuta a Redipuglia. Le rampe sono disposte ortogonalmente
alla pendenza e costringono a continue giravolte che spezzano la continuità
del percorso. Non facilitano, quindi, un’ascensione continua, ma la inter-
rompono invitando a sostare a ogni livello. Questo movimento a zig-zag
diviene quasi una metafora dell’accidentato, dell’avanzamento incerto:
l’incavo tra le due rampe forma una vera e propria trincea astratta, visibile
sempre da una posizione sottomessa. Anche la scala centrale, che taglia la 12, 13
profondità dei terrazzamenti curvilinei, è costretta a interrompere il suo
percorso processionale e dividersi in due rampe laterali presso il penultimo
girone dove è la tomba del maresciallo Giardino. 9, 10
Si giunge trasversalmente al terrazzo sommitale dove il piccolo sacello
della Madonna è quasi annichilito dalla vastità del panorama lontano delle
catene dei monti. I muri con colombari sono scomparsi, l’attenzione è
magnetizzata dalla Via Eroica che spunta ai lati della cappella cilindrica. 14, 16
Sembra, anzi, che questo arrivo sghembo sia fatto apposta per porre a lato
il simbolo religioso e attrarre verso il prossimo elemento legato alla sceno-
grafia di guerra. Il percorso pedonale lungo la vasta strada prospettica sul
crinale è intervallato dai quattordici cippi che, come detto, sono indicatori
di specifici monti del panorama all’orizzonte. Sono orientati e orientano il
visitatore facendolo camminare qui, ma invitandolo anche a guardare là,
lontano e lateralmente. La lettura del nome sul fronte esterno disloca il
percorso facendo uscire e rientrare dall’asse centrale. 17, 18, 21

20
Il Portale di Roma si pone quasi come barriera, un grande muro cieco fron-
tale con una sola porta al centro che conduce all’ex-sacrario ipogeo, oggi
19, 20 chiuso. Invita a risalire due scale simmetriche laterali che conducono a un
ingresso superiore posto al livello dell’oculo che illumina la cripta al centro
24 delle gallerie radiali scavate nel 1920-25. Sulla sommità della porta il pano-
rama si apre ulteriormente. Il sentiero devia verso nord-est e un semplice
muro bugnato indica l’ingresso al cimitero austro-ungarico, il quale è avvi-
8 25 cinato lungo uno dei due fronti curvi con i colombari in modo graduale.
Il Sacrario del Monte Grappa offre una percezione panoramica radiale e
circolare del paesaggio che devia continuamente dall’impostazione assiale
della composizione e dall’itinerario lineare che essa vorrebbe imporre. Si esce
e si rientra dalla scala centrale per percorrere i gironi, si cammina al centro
e al lato della Via Eroica per leggere i cippi e riorientarsi sui monti all’oriz-
zonte, si devia a lato del Portale di Roma per scoprire il cimitero austro-
ungarico. In ognuno dei punti del percorso, le stazioni successive sono
sempre intraviste ma mai rivelate completamente e sono comunque guar-
date assieme al panorama lontano che entra a far parte di ogni scorcio:
invitano a proseguire per scoprire cosa c’è oltre a sé e offrono un indica-
tore per l’orientamento. In ogni posizione si sa sempre dove si è e dove bi-
sogna andare: la stasi e il moto sono integrati. Il paesaggio montano offre
una panoramica a trecentosessanta gradi, sempre deviata dalla parallasse
generata dai muri che curvano gradualmente o dalla proiezione laterale
offerta dalla toponomastica sui cippi. Rispetto a Redipuglia, che imprigiona
in un teatro assiale, il Sacrario del Monte Grappa offre un percorso più
continuo anche se diviso in episodi riconoscibili. La percezione di sé in
movimento e quella di altri visitatori, quella locale e quella a distanza, sono
unite dall’orientamento nel luogo sempre presente e offerto in ogni punto.
La percezione collettiva e individuale sono quindi mediate: il luogo sembra
diventare più importante delle persone, il sacrario scompare e appare solo
il teatro di guerra che qui coincide con il paesaggio naturale nella sua acce-
zione più panoramica. Visti a una distanza più ravvicinata, i gradoni e la Via
Eroica sono palcoscenici prospettici per assembramenti collettivi, ma per-
mettono anche l’isolamento e la concentrazione individuale nel percorrere
un settore di cerchio o nel fuoriuscire dalla Via Eroica per concentrarsi
sull’orizzonte. Il Sacrario del Monte Grappa offre più opzioni interpreta-
tive, può essere visto come teatro totale della guerra e della sepoltura, per-
corso e dispositivo che invita a scoprire il luogo o serie di episodi dove po-
1, 22 tersi isolare. Da un punto di vista contemporaneo, si rivela meno impositivo

21
di quanto inizialmente appare. Propone, comunque, la prima interpreta-
zione di una dialettica tra individuale e collettivo che articola la nozione di
monumento bellico e che si svilupperà in modo analogo – ma con forme
diverse – a Redipuglia, Caporetto e Pocol.

Redipuglia: gradinata e Bosco Sacro


Il Sacrario di Redipuglia, il più grande monumento ai caduti della Prima
guerra mondiale in Italia, doveva inizialmente sistemare il Cimitero degli
Invitti della Terza Armata posto sul Colle Sant’Elia, ideato dal colonnello
Paladini e da Giannino Antona-Traversi nel 1919. Il cimitero era stato
inaugurato il 24 maggio 1923 da Mussolini e da Emanuele Filiberto, duca
d’Aosta ed era uno dei più grandi d’Europa: le tombe erano disposte a
gironi concentrici intorno al Colle Sant’Elia per uno sviluppo complessivo
di oltre ventidue chilometri ed erano divise in sette settori. Sulla cima del
colle vi era una cappella votiva, sormontata da un faro a forma di obelisco.
Al posto delle tradizionali lapidi c’erano cimeli, armi, oggetti d’uso quoti-
diano della vita di trincea, raccolti e deposti a ricordo del caduto anche dai
famigliari. Tuttavia l’accento patetico di questo cimitero, ritenuto impor-
tante perché custodiva le salme dei caduti delle battaglie dell’Isonzo e del
Carso, fu giudicato non consono all’esaltazione della guerra vittoriosa: ogni
riferimento luttuoso al sacrificio individuale doveva scomparire, sostituen-
dolo con il culto di massa del caduto. 26
Già nel novembre 1928 il generale Faracovi, nel suo programma, aveva
pianificato di dare un assetto definitivo al Colle Sant’Elia riunendo in un
unico ossario i morti sul Carso. Emanuele Filiberto stesso gli aveva avanzato
l’idea di raccogliere i suoi soldati qui, in un unico luogo. Alla sua morte nel
1931, fu deciso di dare una sistemazione monumentale al Cimitero degli
Invitti, anche per ottemperare all’esplicita volontà espressa dal duca d’Aosta
di essere sepolto insieme ai suoi soldati della Terza Armata. A partire dal
novembre 1931 i progetti di risistemazione del Sant’Elia si susseguirono:
uno di Alessandro Limongelli e tre di Gino Peressutti vennero scartati a
favore di quelli di Pietro Del Fabro, che doveva sistemare i gironi con muri
di contenimento, e di Ghino Venturi per la tomba del duca d’Aosta, un
grande monolite sulla sommità del colle, e per l’ingresso monumentale al
cimitero pensato come un arco trionfale. Ma questi progetti, divisi in sin-
goli elementi, non trovarono il gradimento di Ugo Cei quando s’insediò al
posto di Faracovi. Fu lui a imprimere una svolta impedendo la prosecuzione

22
della sistemazione del cimitero: revocò l’incarico a Del Fabro e Venturi,
liquidò l’impresa e sospese i lavori. Come per il Sacrario del Grappa, Cei
decise di avvalersi della consulenza di Greppi e Castiglioni e di affidare loro
l’incarico di stendere una prima bozza, già pronta prima del settembre 1935.
La trasformazione del cimitero del Colle Sant’Elia, tuttavia, cominciava a va-
cillare per l’insorgere di problemi d’infiltrazioni d’acqua e di dissesti dei gironi.
Cei comunicò le sue perplessità a Mussolini, proponendogli la costruzione
di un monumento ex novo in una diversa ubicazione e, il duce approvò l’idea.
Nel giro di un anno si acquisirono i terreni del versante occidentale del
prospiciente Monte Sei Busi nelle frazioni Polazzo e Redipuglia. I lavori
per il sacrario ebbero inizio e la sorte del Cimitero degli Invitti fu segnata:
la torre-faro e la cappella votiva furono abbattute, la tomba del duca d’Aosta
e le salme dei caduti esumate e trasferite nel nuovo monumento, mentre il
Colle Sant’Elia fu trasformato in Parco della Rimembranza. Il 19 settem-
bre 1938 il Sacrario di Redipuglia venne inaugurato da Mussolini duran-
te il viaggio che toccò tutti i nuovi sacrari del Fronte Orientale e che è
rimasto tristemente famoso per l’annuncio, fatto a Trieste, dell’entrata in
vigore delle leggi razziali11.
Il nuovo sacrario è posto sul Monte Sei Busi, proprio di fronte all’ex-Cimi-
tero degli Invitti della Terza Armata sul Colle Sant’Elia, e consta di un’e-
norme scalinata di ventidue gradoni, alti due metri e profondi dodici, che
segue il declivio e si restringe man mano che si sale, così da accentuare
6, 27, 28 l’effetto di convergenza verso le tre croci poste sulla sommità.
La scalinata è preceduta da un vasto piazzale per le adunate e da una Via
Eroica, un falsopiano ascendente scandito da trentotto lapidi di bronzo a
28, 30 pavimento, in ricordo delle battaglie combattute sul Carso. Alla fine della
Via Eroica trovano posto i monoliti delle tombe di Emanuele Filiberto e
31, 32 dei suoi cinque generali schierati alle sue spalle.
Dietro alle arche dei comandanti della Terza Armata, i ventidue gradoni
custodiscono le salme di 40.000 soldati identificati, disposti in loculi chiusi
da lastre di bronzo recanti i nomi di ciascun caduto in lunghe liste verticali.
La scritta “Presente”, ripetuta 8.000 volte, scandisce le fasce marcapiano
dei gradoni in pietra bianca del Carso e richiama il rito fascista dell’appello.
Il tema era già stato impiegato nel 1932 da Adalberto Libera e Antonio

11Anna Maria Fiore, “La monumentalizzazione dei luoghi teatro della Grande Guerra: il
Sacrario di Redipuglia di Giovanni Greppi e Giannino Castiglioni”, in Annali di Architettura,
15, 2003, CISA “A. Palladio”, Vicenza, pp. 233-246.

23
Valente nel Sacrario dei Martiri Fascisti, realizzato per la Mostra della
Rivoluzione Fascista che si era tenuta al Palazzo delle Esposizioni a Roma. 32, 33, 3
Nel Sacrario di Redipuglia questa soluzione porta a compimento il discre-
to percorso ideologico di fascistizzazione della Grande Guerra, definitiva-
mente assurta a mito di fondazione del regime. 34
La risalita avviene attraverso due rampe di scale laterali ai gradoni. Giunti
alla sommità della scalinata, l’ultimo gradone non sale, ma obbliga a scen-
dere conducendo alla cappella con due aule laterali ove sono concentrati i
resti di 60.000 militi ignoti. L’unico edificio con un interno scompare die-
tro all’enormità della scalinata e ha una sezione contenuta all’interno del­
l’ultimo livello. La cappella è a pianta rettangolare con deambulatorio ed è 39
organizzata in tre navate scandite da pilastri. L’interno ha pareti rivestite in
marmo nero e la volta ribassata con mosaico dorato. Le uniche decorazioni
figurative – la Via Crucis a bassorilievo di Castiglioni e le figure a mosaico
sul fondo oro – sono poste qui. Gli ingressi alla cappella e alle due aule
hanno portali segnati da profonde strombature che richiamano le fortezze
militari del Rinascimento. Le tre croci visibili alla sommità della scalinata
sono poste sulla copertura della cappella.
La sommità del sacrario apre verso la pianura a ovest permettendo la vista
oltre il Parco della Rimembranza, ma nasconde sul retro anche un belvede-
re sulla Valle dell’Isonzo, il vero teatro di guerra. Sul colle prospiciente a 38
est, si erge la stele di Filippo Corridoni posta a Grise, un altro segnale di
una triangolazione delle distanze che porta oltre al teatro prospettico del
sacrario.
Il Colle Sant’Elia è sistemato come parco paesaggistico con un bosco di
cipressi alla base e pini marittimi sulla sommità. Dopo una prima gradinata 29
assiale, la risalita si disperde in una serie di percorsi curvilinei che circoscri-
vono il rilievo ascendendolo. I cimeli di guerra – frammenti di armi e di 41, 42
oggetti, nonché targhe con iscrizioni – che caratterizzavano il preceden-
te cimitero, sono posti lungo i sentieri come singoli episodi d’accento. 43, 44
L’informalità del Parco della Rimembranza contrasta con la chiarezza geo-
metrica della scalinata: il sacrario e il Monte Sant’Elia sono lasciati voluta-
mente contrapposti.
Il tema progettuale di Redipuglia è la ridefinizione totale delle due colline
del cimitero preesistente e di quello nuovo con forme di rappresentazio-
ne antitetiche del territorio e del modo di percorrerlo. Una, la più nota,
è quella dell’immensa scalinata con terrazzamenti; l’altra, più sommessa,
è il percorso irregolare che risale il Bosco Sacro del Sant’Elia costellato di

24
cimeli di guerra. La prima è una geometrizzazione delle curve di livello,
35, 36, 37 la seconda una rappresentazione pittoresca di una natura in cui perdersi.
Le due colline fanno da contraltare l’una all’altra: mentre il bosco del Colle
Sant’Elia diventa quasi una forma di graduale dimenticanza dei cimeli del
cimitero precedente, il vero magnete è il nuovo sacrario sul Monte Sei Busi.
La sovrapposizione di rappresentazione e realtà nella scalinata di Redipu-
glia si muove in due direzioni:
– la geometrizzazione della natura e la sua scomposizione in elementi
seriali. Il declivio è letto attraverso le curve di livello che sono regolariz-
zate e rese realtà fisica. Questa operazione ha origine in un pensiero
positivista che riduce la realtà a figure primarie: la coincidenza tra terri-
torio e la sua figura passa attraverso un’astrazione totale;
– la costruzione di una rappresentazione che non è più letta come riduzione
della realtà, ma come totale sovrapposizione a essa, giungendo infine a
sostituirla. È come se qui si cercasse di fare corrispondere una mappa geo­
grafica in scala uno a uno al territorio che essa descrive. Tale rappresen-
tazione riscrive la guerra con i soldati caduti che configurano una forma
‘parlante’ del territorio attraverso le loro formazioni schierate nei gradoni.
La scalinata, tuttavia, non rimanda solo al passato recente. Essa appare
anche come la ricostruzione di un paesaggio agrario mediterraneo, una
sequenza di terrazzamenti fatti con muri di pietra a secco. Il memoriale, a
un primo sguardo, sembra collocare i morti in una monumentalizzazione
dell’insediamento archetipico che dà forma alla terra. In questa amplifi-
cazione dei terrazzamenti vi è un’allusione vernacolare mischiata alla più
platonica purezza della geometria, una compresenza frequente nell’archi-
tettura italiana degli anni Trenta in cui l’autarchia invitava a riscoprire l’or-
dine razionale del quotidiano, mischiando mito mediterraneo, localismo
‘popolare’ e linguaggio astratto.
La materialità contraddice, però, questo radicamento e opera in contrappo-
sizione ai terrazzamenti con i loculi del Monte Grappa. I gradoni di Redi-
puglia sono composti da placche di bronzo verticali con incisi migliaia
di nomi e dal marcapiano superiore che ripete ossessivamente la parola
36, 37 “Presente” in bassorilievo lapideo. Sullo stesso gradone il ricordo della
guerra è perseguito attraverso lo smarrimento dei singoli e la parallela reite-
razione del ‘destino comune’. Il rapporto tra tomba e marcapiano sospeso
rivela che i terrazzamenti non contengono la terra retrostante bensì i morti,
sono bocche lineari. La pietra è appesa su una sorta di trave parapetto, il
metallo funge da coperchio e l’idea di radicamento svanisce per rivelare

25
una fossa comune semplicemente appoggiata al suolo. Con questa originale
soluzione, più che la memoria di una fondazione dell’insediamento agrario,
prevalgono una soluzione architettonica decisamente modernista – il peso
sollevato su una trave a sbalzo – e il ruolo della parola iscritta nella pietra. 36
I gradoni possono essere percorsi uno a uno ma, essendo alti solo due
metri, lasciano intravedere le stazioni superiori, contrariamente a quelli del
Monte Grappa alti quattro. Le proporzioni tra tombe e marcapiano fanno
sì che la prospettiva da un singolo gradone, guardando verso l’alto, cancelli
le placche metalliche e lasci visibili solo le linee dei “Presente”. La parola 35, 37
incisa diviene geografia, architettura, movimento ascensionale onnipre-
sente e appare come un segno fossilizzato che cancella la memoria degli
individui. Salendo i gradoni, i singoli caduti diventano, infatti, episodi lo-
cali, occupano uno spazio di pochi metri dettato dalla distanza di leggibilità
dei nomi sulle placche che deferisce allo sfondo inesorabile dei “Presente”.
Il radicamento nel terreno a Redipuglia, se c’è, è affermato solo nella cap-
pella superiore dove, raggiunta la cima, si scende all’interno della montagna
artificiale.
L’immagine della scalinata con le croci in sommità è quella del Golgota,
mentre le placche della Via Eroica alla sua base sono state riferite al
Giudizio Universale del Beato Angelico, un dipinto quattrocentesco dove
appare una sequenza lineare di tombe pavimentali scoperchiate viste in
scorcio prospettico. Queste due immagini rimandano non solo a riferimen-
ti storici, ma costruiscono una forte simbologia di morte e resurrezione.
Da un altro punto di vista, Redipuglia si rifà alle scenografie barocche,
assiali e deformate. Con la sua riduzione prospettica forzata, essa è supremo
artificio che richiama precedenti come il Sans-Souci a Potsdam, Versailles
o il Campidoglio. In questo suo essere teatro ascensionale, Redipuglia è
parente del Monumento ai Caduti di Erba Incino di Giuseppe Terragni,
della Villa Malaparte a Capri e dell’auditorium all’aperto sul tetto del Palaz-
zo dei Congressi all’EUR di Adalberto Libera. La centralità di Redipuglia 31, 32
è, tuttavia, affermata e curiosamente tradita perché, una volta catturati
all’interno del teatro prospettico, si scopre che non ci si può mai muovere
sull’asse di simmetria della scalinata e che ci si sposta da una stazione all’altra
con le scale laterali.
Redipuglia è posta al confine fra tre paesaggi: le colline boscose della valle
dell’Isonzo, le ultime propaggini del Carso e la distesa della pianura friulana.
Come detto, il memoriale occupa i declivi di due colline prospicienti: il più
alto – il Monte Sei Busi – con la scalinata e l’altro – il Colle Sant’Elia –

26
con il Parco della Rimembranza. Il punto di partenza dei due declivi è
posto su di un passo rialzato rispetto alla pianura e, visto a distanza, il
memoriale mostra la scalinata posta al di sopra del bosco che la fronteggia
26 in una sovrapposizione che ne annulla la reciproca distanza.
La collina ridisegnata dalla scalinata è visibile come un miraggio lontano,
ma quando ci si approssima, è temporaneamente celata dal Parco della
Rimembranza che si frappone tra essa e la pianura. La strada d’accesso è
forzata a compiere una deviazione e a correre trasversalmente all’asse ascen-
sionale non permettendo la visione a distanza. Giunti alla sommità del pas-
so, la scalinata appare improvvisamente, non più inserita nelle colline, ma
dilatata a diventare la sola orografia presente. Anche la ferrovia corre di
27 lato in trincea e rivela il memoriale solo all’ultimo momento. Redipuglia è
concertata per essere sempre troppo lontana o troppo vicina, per sorpren-
dere, infine, come un’apparizione. Giunti ai piedi della scalinata, la gradua-
lità dell’avvicinamento e il territorio circostante sono entrambi cancellati.
Ora il visitatore è racchiuso tra il Colle Sant’Elia e il Monte Sei Busi, le
due sponde del teatro del sacrario: l’orizzonte lontano è escluso.
Giunti alla base vi sono solo la sequenza dei gradoni, i due filari di cipressi
28 ai lati e le tre croci sulla sommità. Il salto dimensionale tra la strada indi-
stinta e la scalinata orientata è parzialmente assorbito da un falsopiano
lastricato. È questa la Via Eroica, segnata da trentotto lapidi pavimentali
di bronzo che abbassano temporaneamente lo sguardo per una lettura
delle loro scritte. La pendenza ritarda l’avvicinamento a qualcosa che sembra
vicino e ridotto, ma in realtà è più vasto e remoto. La prospettiva è qui in-
30 ganno della distanza tra il corpo umano e un’architettura incommensurabile.
Passate le cinque urne dei generali della Terza Armata e il monolite centra-
le del Duca d’Aosta, giganteschi cippi di granito che ancorano la base
della scalinata, ci si accorge che i ventidue gradoni non sono veicolo per
ascendere, ma tombe, contenitori di corpi, il terminale dilatato su tutto il
2, 33, 36 declivio e non il mezzo di locomozione.
I gradoni riescono a isolare sufficientemente l’esperienza di un singolo li-
vello senza perdere di vista lo sfondo. Vi è un salto di scala tra una terrazza
e l’altra, tra il troppo grande dell’insieme e il contenuto di ogni singolo
35 livello. La risalita avviene attraverso due rampe di scale poste lateralmente
alle terrazze. Sono formate da un diverso numero di gradini e cambiano
posizione a ogni livello per recuperare la riduzione prospettica. Chi vuole
salire in cima direttamente, si trova a traslare continuamente tra una terraz-
za e l’altra. Come nelle due risalite terminali del Monte Grappa, anche qui

27
le due scale non facilitano l’ascensione, ma la interrompono invitando a
sostare a ogni livello. Essendo poste ortogonalmente alla pendenza, costrin-
gono a continue giravolte che spezzano la continuità del percorso. Chi sale 34
può scorgere altre persone distanti, dilatate nella lontananza: lo spazio
pubblico di Redipuglia è una costellazione di gruppi o di singoli isolati su
piani staccati. Bisogna, tuttavia, fare attenzione al cammino e rivolgere lo
sguardo ai propri piedi. Ogni ascesa tra i livelli è un’interruzione parziale
della percezione della collettività per concentrarsi sul proprio corpo che
avanza incerto. Tra spazio, sguardo, durata e movimento si creano degli
scollamenti che isolano il soggetto mentre lo sottopongono alla dittatura 43
del teatro prospettico. Le stesse scale, usate in discesa, diventano un labi-
rinto di rampe contrapposte, quasi fossero le anse di un fiume impazzito
che scende vertiginoso. È come se in questo sacrario non ci si possa 40
muovere normalmente, si è sempre troppo lenti o troppo affrettati, fuori
controllo, dominati da un’architettura che impone una propria dinamica.
Redipuglia non è mai statica, pur non offrendo continuità nei movimenti.
Pare segnata da interruzioni temporanee, da salti di scala che si vuole non
collegati. La regia del cerimoniale impone un ritmo discontinuo e lo sforzo
di collegare episodi staccati.
L’arrivo al gradone sommitale è un altro salto di scala, un’ulteriore interru-
zione della continuità del percorso con la scomparsa dell’esterno, la disce-
sa nella cappella e nelle due aule laterali con i militi ignoti. Il ‘Presente’
dei caduti con un nome era stato dilatato, l’anonimato è quasi nascosto.
‘Presenti’ nello spazio pubblico sono i nomi mentre gli ignoti sono con-
centrati in un ambiente separato che invita al raccoglimento. È questa
d’altronde l’unica tomba che permette di scendere all’interno del terreno
artificiale della scalinata. Bisogna arrivare in cima a essa per conquistare
questo privilegio. Anche le tre croci sovrastanti la cappella partecipano alla
riduzione di tono: viste qui, si rivelano più piccole di quel che ci si aspetta-
va e risultano dimensionate per accentuare l’arretramento prospettico du-
rante la risalita. I simboli religiosi – la cappella e le croci – sono posti sulla
sommità ma, come al Monte Grappa, hanno una dimensione rimpicciolita
rispetto a quelli della guerra. 39
Si scende dallo stesso percorso da cui si è saliti. Dalla sommità le scale
laterali si vedono tutte insieme nel loro tracciato ossessivo. La discesa fa ve-
dere i piani delle terrazze, ci sono solo affacci, non più nomi né “Presente”. 38, 40
Si attraversa la strada per affrontare il Parco della Rimembranza sul Colle
Sant’Elia. Dopo avere percorso lo spiazzo con il centro servizi, inizia un

28
fitto bosco di cipressi che seguono più tracciati che portano a una colonna
29, 41 posta sulla sommità. All’apertura e alla direzionalità della scalinata si con-
trappone l’ombra della foresta. Un’altra percezione della natura si presenta:
divisa, frammentata, dispersiva. Da lontano i cipressi sembrano alludere
a un ordine verticale, d’appresso si attraversa un bosco che offre solo
42 vedute parziali. In esso sono dispersi i reperti bellici dell’ex-Cimitero degli
Invitti casualmente disposti: cannoni, cippi, brani di filo spinato, altari con
iscrizioni. La colonna sommitale non riunisce i reperti trovati per caso
lungo la strada, essi devono rimanere segni di una memoria parziale. La
3, 44, 45 guerra, prima presentata come totalità, ridiviene qui identità divisa. Se i
gradoni razionalizzano il declivio con la geometria, il parco è una sceno-
grafia che usa il registro dell’informale, risultando non meno artificiale.
Redipuglia imprigiona nel suo sistema di rappresentazioni allontanando la
realtà: se si pensava di trovare riposo nel Bosco Sacro del Colle Sant’Elia,
ci si trova invece in un altro teatro, questa volta pittoresco, che propone
un’analoga dispersione. La scala assiale e le risalite tra gli alberi, il percorso
diretto e quello obliquo, la linea e la circolarità, la distanza controllata e
quella mutevole, la montagna artificiale e quella simulata, la singolarità e la
molteplicità. Due modi di muoversi, di guardare il paesaggio, di interagire
con la natura si incontrano a Redipuglia. La compresenza della scalinata e
del parco afferma e, allo stesso tempo, relativizza l’idea della permanenza
del monumento, dividendola in due realtà antitetiche.
All’interno della scalinata, isolati dal paesaggio circostante, ci si sente con-
tenuti in un ambiente totale che cancella l’intorno. Bosco Sacro del Colle
Sant’Elia non fa che sottolineare questa artificialità con la ricostruzione di
una natura informale. Anche nel suo intrico si è persi all’interno di una
rappresentazione, non c’è più punto di contatto con l’intorno. Redipuglia
è un segno a distanza che poi scompare quando si è dentro, un apparato
che disperde sia la propria immagine sia quella dell’ambiente circostante.
La scalinata e il bosco sono itinerari con esito ridotto che propongono il
durante, l’esperienza della morte come attraversamento e non come fine.
Nella scalinata, la geometria delle terrazze provoca la tensione tra la loro
chiarezza platonica e l’assenza di una misura di riferimento. Ci si perde
nelle pieghe della geometria primaria, la sua nitida apparenza non accom-
pagna un percorso definito: esso è a salti, interrotto a ogni livello. A un
ulteriore livello, Redipuglia scinde la percezione individuale dallo spazio
pubblico che propone. Il percorso lungo i gradoni e all’interno del bosco
diventa esperienza della propria presenza in un sottoambiente ridotto, il

29
quale è separato dalla percezione dominante dell’insieme. La fisicità del
proprio corpo è evidenziata e contrapposta alla distanza che l’occhio riesce
a contemplare. Il cammino è più lungo e la meta, sempre presente a distanza,
è resa più remota. La visione lungo la scalinata propone un teatro moltipli-
cato con diversi palcoscenici ove le persone sembrano congelate nelle loro
posizioni locali. Funziona come scenario collettivo per i grandi gruppi: i
gradoni sono allo stesso tempo platea da cui osservare e luogo dello spet-
tacolo da cui essere osservati. I singoli e i piccoli gruppi sono invece isolati
e distanziati: questo crea raccoglimento ma anche pulsione a proseguire il
percorso perché ci si sente implacabilmente controllati.
La chiarezza dell’insieme si confronta con la fatica dell’ascesa e del movi-
mento. La tensione tra fisicità e visione propone una dialettica tra indivi-
duale e collettivo che articola la nozione di monumento. Redipuglia, da un
lato traccia una mappa del territorio e lo rende figura nota e percorribile,
dall’altro pianifica la dispersione del singolo nel teatro di una rappresenta-
zione dominata da un registro di massa che non sembra lasciare spazio al
singolo. Vista con occhi contemporanei, sembra quasi segnare il passaggio 48
da un’esperienza della morte come memoria collettiva al mutismo di uno
smarrimento individuale dilatato oltre ogni sopportazione. In ciò anticipa
altri monumenti del secondo dopoguerra che dichiareranno la perdita de-
finitiva delle grandi narrazioni per proporre un’idea di raccoglimento indi-
viduale come unica forma di identità pubblica12.

Caporetto: una nuova montagna e la chiesa preesistente


Il Sacrario di Caporetto, posto lungo la Valle dell’Isonzo oggi in territorio
sloveno, era stato pianificato sin dai tempi del generale Faracovi e la sua
progettazione era stata affidata all’architetto veneziano Brenno Del Giudice.
Esso sarebbe dovuto sorgere nell’area dove era collocato il precedente ci-
mitero militare ai margini del centro storico del paese. Il sacrario avrebbe
accolto i caduti sepolti in una serie di cimiteri militari del circondario e in
particolare quello di Plezzo (oggi Bovec). Del Giudice fu costretto a elabo-
rare successive varianti del progetto dalla commissione consultiva che af-
fiancò il commissario a causa dei presunti costi eccessivi della realizzazione.
I progetti, progressivamente semplificati, vedevano un recinto con loculi
e al centro un volume verticale, prima composto da quattro torri, poi
12
Pietro Valle, “Redipuglia”, in Alpe Adria senza, paesaggi contemporanei a nord-est, Beit - Maqom
Hazè, Trieste 2014, pp.87-99.

30
ridotte a una sola, affiancata da una cappella. Il progetto finale fu approvato
nel 1933 e l’anno successivo il Ministero della Guerra avviava le procedure
per l’appalto dell’opera.
Con la nomina del generale Cei a commissario straordinario, il cantiere,
ormai avviato, venne bloccato, l’impresa e l’architetto furono celermente
liquidati. Come al Monte Grappa e a Redipuglia, anche a Caporetto le scelte
perseguite dai predecessori furono cancellate. Il generale non condivideva
la scelta del luogo in un’area ubicata in prossimità del centro abitato ma,
soprattutto, collocata «in una piatta pianura» che sottraeva monumentalità
al sacrario13. Al subentro, anche qui, di Greppi e Castiglioni corrispose il
cambiamento di ubicazione dell’opera: il nuovo sacrario fu eretto tra il 1935
e il 1938 sulla collina di Sant’Antonio, un’altura dominante la conca di
Caporetto e la valle dell’Isonzo, caratterizzata dalla preesistenza dell’omo-
46, 47 nima chiesetta seicentesca..
Per raggiungere la base dell’altura fu ristruttu-
rata la strada a tornanti che saliva alla chiesa, scandita da quattordici stazioni
scultoree della Via Crucis eseguite da Giannino Castiglioni con bassorilievi
8, 49, 50 su cippi di pietra, qui per la prima volta collocate all’aperto.
Il podestà di Caporetto e l’arcivescovo di Gorizia accettarono la cessione
della chiesa di Sant’Antonio, ma pretesero che al suo abbattimento suben-
trasse la costruzione di un nuovo edificio religioso. Invece di attuarne la de-
molizione, Greppi e Castiglioni operarono una trasformazione della chiesa
preesistente per integrarla alla costruzione del nuovo ossario: lo sviluppo
del corpo longitudinale venne ridotto e la facciata assunse un semplice
fronte intonacato. Eliminata la precedente forometria, fu sovrapposta una
grande croce intagliata nella muratura. Il sacrario vide invece il completo
rimodellamento dell’altura su cui sorgeva la chiesa e la sua riduzione a due
‘gironi’ terrazzati concentrici a pianta ottagonale posti su un alto basamen-
to e circondati da alte arcate cieche con, al loro interno, le lapidi contenen-
ti i nomi dei caduti. L’anello ottagonale sommitale ebbe le stesse arcate
51 libere che formavano un diaframma attorno alla chiesa. Il paramento
murario, dalle proporzioni più ‘edilizie’ che al Monte Grappa e Redipuglia,
fu realizzato in pietra serpentina grigia appena sbozzata che conferì all’in-
52, 56 sieme un carattere massiccio e difensivo. I nomi contenuti nelle superfici
inquadrate furono incisi su lastre della stessa pietra levigata nella parte in-
57 feriore mentre nella lunetta sovrastante ricomparve la scritta “Presente”.
Nel sacrario vennero sepolti 7.014 caduti di cui 3.000 ignoti contenuti in

13 “Il Sacrario di Caporetto”, in Fiore, La Monumentalizzazione...cit., pp. 151-163.

31
sei arcate localizzate lungo la risalita centrale. I terrazzamenti, profondi
sette metri e alti quattro, furono resi accessibili attraverso una grande scala
centrale raggiungibile da un piazzale d’accesso posto al termine della stra-
da con la Via Crucis. Essa è formata da una prima rampa assiale e poi in 52, 53
successive coppie trasversali, che richiamano le risalite di Redipuglia e
quelle laterali del Monte Grappa ma con una dimensione più vasta, la quale
caratterizza tutto il prospetto d’arrivo del sacrario con tagli diagonali. 53, 54, 5
Il Sacrario di Caporetto riprende e sintetizza in forma ridotta elementi
presenti al Monte Grappa e Redipuglia. Tuttavia, li ripresenta in modo
diverso e sincretico. Assente è la condizione ‘orografica’ di scomparsa nel
declivio in quanto i gironi staccano dal terreno circostante. Presente è
invece il respiro territoriale: il sacrario appare come una fortezza murata
posta a mezza costa su un rilievo che domina la valle dell’Isonzo. La osserva 46, 47
panoramicamente ed è percepibile a grande distanza. La chiesa posta sui 58, 59
contrafforti ottagonali, tuttavia, attenua il carattere difensivo e crea la
visione di un santuario accessibile attraverso un sistema di rampe che risal-
gono una montagna di pietra. Il viale di tigli, dove si addentra la strada con 52
la Via Crucis, ripete il Bosco Sacro del Sant’Elia a Redipuglia, ma lo pone
a servizio dell’accesso al sacrario: la natura non è contrapposta all’artificio.
Il tema originale di Caporetto è il porre i gironi del sacrario come base e
risalita alla chiesa esistente, mantenuta e ricontestualizzata. Il nuovo inter-
vento attua una modificazione che riadatta quello che c’è già e non una
trasformazione totale. La chiesa non è il paesaggio naturale come a Monte
Grappa e Redipuglia, ma un’architettura dalla presenza monumentale per
tutto l’abitato di Caporetto. Il segno religioso non è ridotto, come in quei
due sacrari, ma è trattato come un objet trouvé. Persino gli interventi sulla
chiesa stessa costituiscono un ulteriore livello di mimesi. Essa non è vera-
mente lasciata com’era ma modificata per entrare in simbiosi con il sacrario. 62, 63, 6
L’ultimo livello di arcate aperte che la cingono dissimula il diverso orienta-
mento della sua facciata con l’asse della risalita ai gironi, il quale è condi-
zionato dall’arrivo della strada alla base. 59, 60, 6
Nel ricostruire la montagna su cui poggia la chiesa, i gironi si propongono
come orografia artificiale – curve di livello geometrizzate – e hanno una
proporzione più architettonica caratterizzata dal ritmo delle arcate. Le pareti 48
con i colombari posti in modo puntiforme e ripetuto del Monte Grappa
sono diventati il motivo tettonico dell’intero fronte. Le arcate cieche for-
mano una sorta di diaframma in elevazione abitato e riempito, forse, suc-
cessivamente alla loro costruzione, come negli acquedotti o negli anfiteatri

32
antichi rioccupati nei secoli successivi. Assumono il ruolo di soglie che
conducono verso l’interno della montagna, quasi ci fossero delle grotte.
I morti abitano un’infrastruttura che offre la possibilità di dimorare nella
terra. Il legame simbolico tra sepoltura di un esercito insediato, forma dei
56 gironi e presenza dell’architettura religiosa è così rinsaldato.
I nomi dei soldati noti sono inseriti nell’ordine di cinque per cinque all’in-
55 terno di una singola arcata con la scritta “Presente” nella lunetta superiore.
Essi hanno lo stesso supporto degli ignoti posti nelle sei arcate prospicienti
la scalinata principale: cambia soltanto la dimensione delle iscrizioni all’in-
terno delle arcate. Come a Redipuglia, prevale la lista dei nomi rispetto
all’identificazione di ognuno dei loculi. Il destino collettivo, per quanto
57 ‘radicato’, domina gli individui.
I terrazzamenti con rampe richiamano i grandi santuari dell’antichità come
il Tempio della Fortuna Primigenia a Palestrina quale è visibile in tutta una
serie di ricostruzioni rinascimentali, tra cui quella di Palladio. La geometria
ottagonale è riferibile a fortificazioni dalla forma ‘assoluta’ a cominciare da
Castel del Monte per giungere ai modelli bellici nei trattati di Francesco di
Giorgio Martini. Questa visione difensiva è supportata dal trattamento a
bugnato rustico dei conci di pietra. Il ruolo di diaframma delle arcate ripetu-
te richiama, come già accennato, le infrastrutture antiche, ma anche le perti-
nenze rurali – logge e barchesse – di molte architetture venete del passato.
Guardando ai riferimenti contemporanei, il Sacrario di Caporetto appare
meno ‘astratto’ di Redipuglia o del Monte Grappa e più segnato da stilemi
storicisti. È invece innovativo nell’inserimento di una preesistenza all’in-
terno di un nuovo contesto. Pochi altri interventi dell’era fascista riescono
a coniugare monumentalità ‘moderna’ e dialogo con il contesto circostante.
Tra questi, ricordiamo il Palazzo delle Poste di Napoli di Giuseppe Vaccaro
64 e Gino Franzi per l’assorbimento di una loggetta rinascimentale in una
piccola piazza aperta all’interno del nuovo complesso.
Il sacrario si raggiunge ancora oggi con un’ombrosa strada a tornanti che
61, 62 sale dal centro storico di Caporetto: lungo di essa sono collocate le stazioni
della Via Crucis, unite dalla ricorrenza dei cippi in pietra sulla cui sommità
si aprono delle finestre che inquadrano i gruppi scultorei proiettandoli sul
8, 49, 50 paesaggio retrostante. Sulla cima, la strada spunta nel grande piazzale-
parcheggio, punto di partenza per le comitive, dove il sacrario si presenta
sul fronte occidentale con la scalinata centrale, le rampe diagonali, il dia-
framma delle arcate sommitali, il fronte della chiesa di Sant’Antonio con
51, 52 la croce incisa nel suo bianco muro e il campanile a guglia alla sua destra.

33
La scala, dopo la prima rampa frontale, obbliga a deviare lateralmente
scegliendo una delle due rampe simmetriche le quali raggiungono i livelli
superiori, ma sono anche indipendenti da essi, compiendo il loro auto-
nomo percorso di risalita a zig-zag. Le scalinate intagliano ognuno i gironi
ottagonali e obbligano, dopo averli circoscritti, a cambiare livello, a ripren-
denderle per salire o scendere. La visita a ognuno di essi alla ricerca dei 53, 54, 5
nomi dei caduti, posti in ordine alfabetico, fa compiere un percorso radia-
le che presenta un panorama a trecentosessanta gradi che passa dalla pros-
simità della montagna, dove si infila l’Isonzo a nord-est, alla distanza della
conca prospiciente il Monte Matajur a sud-ovest con il centro storico di
Caporetto. L’ottagono superiore presenta il diaframma di arcate libere e la 57, 58
chiesa raccolta in un recinto permeabile. 60, 61, 6
Anche a Caporetto il percorso è discontinuo con ognuno dei livelli sepa-
rato dagli altri e un movimento che passa dalla risalita laterale delle rampe
al cammino radiale attorno ai gironi ottagonali. L’identità di ognuno dei
fronti con le arcate e lo smarrimento della rotazione continua tra lati po-
sti a quarantacinque gradi l’uno rispetto all’altro sono compensati dall’o-
rientamento offerto dal paesaggio circostante e dalla dimensione ridotta
del­l’intero sacrario, il quale sembra più uno ziggurat che una montagna
irraggiungibile come Redipuglia. Il paesaggio circostante sembra più vi-
cino man mano che si risale, il sacrario fa capire dove ci troviamo e offre
una sponda ‘naturale’ e ‘civile’ alla ripetizione dei caduti. La chiesa con il 57, 58
suo piccolo recinto, quasi un chiostro, dona infine intimità, un senso di
sosta dopo aver percorso i gironi. L’insieme ordina la percezione di un 60, 61, 6
mini-insediamento posto sul versante di una grande montagna che per-
mette di affacciarsi sulla valle dell’Isonzo spuntando sopra i boschi e le
balze. I successivi punti di sosta hanno una dimensione intermedia tra
geografico e locale.
La percezione individuale e collettiva è mediata dal paesaggio sempre pre-
sente e dalle distanze ridotte. Se la scalinata principale è un palcoscenico
collettivo – sia mobile nelle sue rampe sia statico nelle successive piattafor-
me dove sostano i gruppi – i gironi radiali offrono momenti di isolamento
discosti dal teatro della ‘risalita al santuario’. La ricerca dei nomi tra le
arcate fa compiere un percorso, la sosta presso il caduto ritrovato crea un
momento di raccoglimento. Caporetto fa quindi compiere un giro comple-
to ai fronti curvi del Monte Grappa, racchiudendoli in un percorso breve
che aiuta a percepire la sostanziale unità dell’organizzazione ad anelli.
Come i due precedenti sacrari è un punto panoramico, ma qui il giro a

34
trecentosessanta gradi è del cammino, non solo dello sguardo. Il percorso
e la visione sono stati ricongiunti.

Pocol: torre, cippo, pozzo e trincea


Il Sacrario di Pocol presso Cortina d’Ampezzo sembra non appartenere al
55, 59
gruppo dei memoriali segnati da un’orografia artificiale che sono stati sinora
descritti. È chiaramente un edificio – una torre alta quasi cinquanta metri –
con un interno dove sono collocate le sepolture e il suo progetto è attribuito
72, 73 all’ingegner Giovanni Raimondi e non a Greppi e Castiglioni. Tuttavia lo
stacco con i sacrari ‘esterni’ è più apparente che reale in quanto anche Pocol
è basato su un percorso dal forte impatto paesaggistico che conduce dall’e-
62, 63, 64, 65
sterno all’interno e prosegue nel pozzo verticale che unisce i suoi vari livelli.
L’influenza di Greppi e Castiglioni è anche qui direttamente presente nelle
modifiche attuate al progetto originale e nell’apparato scultoreo.
Sul colle di Pocol, che domina da sud-ovest la conca ampezzana, furono
sepolti dal 1915 al 1917 i soldati italiani caduti durante la Prima guerra
mondiale. Il luogo, posto a quota 1.535 metri lungo la statale 48 delle
Dolomiti tra Cortina e il passo Falzarego, era chiamato Cimitero delle
Aquile. Già nel 1930-31, presente ancora Faracovi, si decise di radunare i
caduti di questo e altri piccoli cimiteri dell’Ampezzano in un unico sacrario.
In esso avrebbero trovato luogo le tombe del generale Antonio Cantore e
del capitano Francesco Barbieri, caduti il primo nella zona delle Tofane e
l’altro presso Costabella, entrambi decorati con Medaglia d’Oro al Valor
62, 63
Militare. Vi sono ad oggi custoditi i resti di 9.707 caduti italiani di cui 4.455
rimasti ignoti, oltre a 37 caduti austro-ungarici14.
Poco si sa dell’ingegner Raimondi che firmò il progetto, ma di sicuro la
sua opera ricevette diverse influenze che portarono alla configurazione
finale. La prima è legata ai memoriali scultorei del generale Cantore, in
particolare all’omonimo monumento realizzato dallo scultore Domenico
Diano a Cortina nel 1921-22, e al cippo in onore del generale eretto sulle
Tofane nel luogo dove egli trovò la morte. Il primo è una colonna pira-
midale che appare come una sorta di montagna artificiale – un cristallo
sfaccettato cubista – da cui emergono i gruppi scultorei. Diano è anche
l’autore delle due figure in pietra degli Alpini in Guardia che sembrano

14Sulle sepolture nell’Ampezzano e sulla vicenda del Sacrario di Pocol vedi Paolo Giacomel,
Arrivederci, aufwiedersehen Cortina d’Ampezzo, 1915-1939 cimiteri di guerra, Regole d’Ampezzo,
Cortina d’Ampezzo 1996.

35
emergere da un blocco di pietra e sono collocati presso la rotonda all’in-
gresso del Sacrario di Pocol. Ancora più stringente è il parallelismo con il 68
cippo delle Tofane, un parallelepipedo verticale formato da quattro bloc-
chi di dolomia appoggiato su un doppio basamento formato da altri due
dei medesimi blocchi e da un cordolo in pietra bianca. L’edificio di Pocol
è una letterale trasposizione del rapporto tra i tre parallelepipedi del cippo,
la tomba dei soldati rimanda a quella del loro generale15.
Vi è poi la presunta partecipazione dell’architetto Ghino Venturi – autore
del Sacrario di Oslavia presso Gorizia – nella stesura del progetto. La storia
dei due monumenti è parallela, anche se dai documenti si evince che il pro-
getto dell’ossario di Pocol – elaborato tra il 1931 e l’anno seguente, realiz-
zato nel 1935 e inaugurato nel 1938 – precede quello di Oslavia. Il Sacrario
di Oslavia è un grande cilindro con un basamento scanalato che ricorda
alternativamente il frammento di una colonna classica, i grandi mausolei
funerari antichi e la tipologia a fortilizio dei Totenburg tedeschi. Pocol trasla
simili caratteristiche nella forma parallelepipeda presentandosi come ‘pila-
stro’: il corpo intermedio da cui svetta la torre presenta su ognuna delle
sue facce tre grandi scanalature verticali che incidono il volume e rimandano
al trattamento delle colonne antiche. Loredana Pin ha documentato che gli 72, 73
elaborati grafici per Oslavia vennero esaminati a Roma assieme a quelli per
Pocol. Sebbene le pubblicazioni del Ministero della Difesa attribuiscano la
paternità dell’ossario del Pocol al solo ingegner Raimondi, è possibile che
il progetto sia stato redatto assieme all’architetto Ghino Venturi16.
Vi è infine la probabile influenza di Greppi e Castiglioni dopo l’arrivo del 70
generale Cei, quando il secondo fu chiamato a intervenire su Pocol. Non
solo c’è l’apparato scultoreo inserito in diversi punti del sacrario con più
figure di diversi autori coordinate tra loro, ma anche la collocazione dell’e-
dificio al termine di un percorso d’accesso intagliato nella montagna – una
vera e propria trincea d’avvicinamento – ritmato dalla presenza delle for-
melle della Via Crucis di Castiglioni. Il cannocchiale della trincea isola la
sola torre e rivela all’ultimo momento la presenza dei due basamenti tra-
sformando l’elemento verticale in un volume terrazzato, un’altra montagna
a gradoni che allude al Monte Grappa, a Redipuglia e a Caporetto. Vi è, 69, 70, 7
inoltre, il tema della penetrazione nel cuore della montagna – irrisolto nel

15 Gian Camillo Custoza, Il monumento al generale Cantore a Cortina d’Ampezzo, Libreria Sovilla,

Cortina d’Ampezzo 2019.


16 Pin, “L’ossario di Oslavia...”, cit., pp. 113-132.

36
sacrario ipogeo a Monte Grappa, accennato nella discesa alla cappella di
Redipuglia e nelle arcate di Caporetto – che qui è sviluppato nel dialogo tra
interno ed esterno attraverso i rustici corsi orizzontali del basamento e le
finestre orizzontali che si vengono a formare tra essi, le quali intervallano
74, 81 i volumi con i loculi facendoli apparire come sospesi.
La torre del sacrario svetta oltre il bosco di conifere del Monte Pocol, un
basso rilievo posto a livello intermedio tra la valle d’Ampezzo e le cime
delle Tofane, ed è visibile come un parallelepipedo di dolomia, alternativa-
mente un manufatto e una guglia montana geometrizzata, simile a quelle
66, 67 naturali presenti sullo sfondo. Il complesso è raggiungibile da Cima Pocol
con una strada che si perde nel bosco e toglie la vista panoramica della
torre, onnipresente a valle. Si giunge, alla fine, a una rotatoria al cui centro
vi è una fontana con il Leone di San Marco, portata qui dal centro di
Cortina. Sul perimetro vi sono i due busti degli Alpini in Guardia di Diano
e la piccola chiesa costruita nel 1916 dagli alpini come cappella del vecchio
cimitero di guerra. La rotatoria è incassata in un leggero avvallamento e
uno dei suoi margini è intagliato da una trincea scavata nella nuda roccia
68, 69 che scende alla torre. Come detto, essa isola visivamente il solo elemento
verticale come fuoco prospettico ed è bordata dalle formelle della Via
Crucis di Castiglioni realizzate a bassorilievo e inserite nelle pareti verti-
cali sbrecciate, opponendo il ‘liscio’ delle figure al ‘ruvido’ della roccia.
Esse cadenzano la discesa su lunghi gradoni che porta a una radura nel
bosco dove la torre con i suoi due basamenti appare improvvisamente in
0, 71, 76 tutta la sua imponenza. Nella configurazione originale il bosco era più
arretrato e la torre era visibile quasi nella sua interezza, ma oggi gli alberi,
cresciuti nel tempo, operano assieme alla trincea per isolare visivamente la
sola parte verticale dell’edificio. La base è formata da grossi conci di dolo-
mia rossa posti orizzontalmente e formanti fasce avanzate e recesse ove si
aprono finestre orizzontali. Un portale d’ingresso, egualmente rustico, è
sormontato dal bassorilievo della Vittoria Alata scolpita da Paolo Boldrini.
Il corpo intermedio è cieco, rivestito nella stessa pietra liscia e scavato dalle
grandi scanalature semicilindriche che rimandano a Oslavia. La torre
71, 72 sommitale, anch’essa di pietra liscia, è intagliata al centro di ognuno dei
73, 74 quattro lati da una finestra a feritoia verticale.
L’interno presenta un volume cilindrico inserito nel parallelepipedo e unito
nei suoi principali livelli da oculi circolari posti al centro dei solai. Il piano
rialzato d’ingresso, il mezzanino e la cripta presentano pareti rivestite da
grossi conci di pietra con le scale a chiocciola che li collegano nascoste in

37
alvei racchiusi tra il volume parallelepipedo esterno e quello cilindrico
interno. Il livello principale ha il vuoto centrale cilindrico a doppia altezza
e le risalite si affacciano su di esso con terrazzini intermedi. Sulle sue pare- 67
ti si trovano quattro formelle opera di Delfo Paoletti raffiguranti i momen-
ti della vita in trincea: il Pensiero, l’Assalto, il Dolore e la Morte. In alto, la 75, 77, 8
luce zenitale scende dalle finestre della torre intravista in tutta la sua altezza,
nella cripta la scultura del Fante Morto di Dante Morozzi è sdraiata al centro
dell’asse verticale dove si aprono gli oculi tra i solai17. Viene a crearsi un 78, 79
pozzo con delle nicchie perimetrali da cui si accede a due anelli di corridoi
perimetrali. In quelli del piano rialzato e dell’interrato, i loculi sono collo-
cati in parallelepipedi rivestiti di marmo bianco intervallati da finestre oriz-
zontali che collegano visivamente i due percorsi ad anello tra loro e con
l’esterno. Sul perimetro, gli stessi parallelepipedi corrispondono ai conci
del basamento esterno qui visibili in tutto il loro spessore. Con l’andamen-
to alternato, essi paiono sospesi tra aperture di luce naturale che lasciano
intravedere il bosco circostante, il luogo della battaglia. I soffitti sono qui 80, 81
cassettonati e illuminati da luci indirette nascoste in riquadri con sezione a
gola. Questa soluzione, intensificata dalla trasparenza data dalle finestre
interne, dona un aspetto astratto ai passaggi e sembra che il pavimento,
il soffitto e le pareti perimetrali si riflettano in un generale annullamento
della gravità. 75, 76, 8
Nella cripta sottostante al piano d’ingresso, nel marmo bianco del Fante
Morto, sono sistemate le tombe del generale Cantore e del capitano Fran-
cesco Barbieri. Il piano superiore ospita le tombe di altre due medaglie
d’oro, il tenente Mario Fusetti e il capitano Riccardo Baiardi. I tre livelli 79
principali sono sostanzialmente unificati dal rapporto tra il pozzo centrale
e i corridoi perimetrali che sembrano costituire un labirinto di gallerie – di
trincee o di catacombe – scavate nel volume. La torre superiore, tagliata
dalla finestra verticale, ha anch’essa un volume interno cilindrico, risalito
da una scala a chiocciola posta sul muro perimetrale, il quale è rivestito da
più piccoli conci di pietra grezza che creano un forte effetto chiaroscurale.
Essa appare come un gorgo spiraliforme che ‘spinge’ lo spazio in direzione
centrifuga. 84, 85, 8
Il Sacrario di Pocol propone una propria versione del percorso: un itinera-
rio di penetrazione nella montagna reale e in quella artificiale con un pozzo

17 L’attribuzione delle sculture di Pocol a Castiglioni, citata in Guglielmi (a cura di), L’arte del
fare... cit., pp.197-211, a mia conoscenza, non è ripresa da altra fonte.

38
che unisce vari livelli interni e accede a gallerie sotterranee. La torre è
una cima dolomitica geometrizzata nel parallelepipedo superiore visibile
7, 72, 73 a distanza e un tumulo funerario di pietre sbozzate nei volumi della base.
Il percorso di visita al sacrario unisce la salita alla discesa: la prima è inter-
82 na alla torre; la seconda è prima obliqua nella trincea e poi verticale nella
71, 78 calata alla cripta. Il pozzo centrale è il punto di collegamento tra la cima e
la caverna, la cengia e la trincea sotterranea, il cielo e la terra. La scala spi-
86 raliforme avvita lo spazio penetrando in basso e spuntando verso il cielo.
Il basamento con i corridoi a loculi unisce il sotterraneo della cripta con
l’elevazione fuori terra e dona ‘profondità’ alla sepoltura facendola apparire
scavo e costruzione allo stesso tempo: dalla montagna si traggono i blocchi
che formano l’edificio della comunità dei caduti. La torre è quindi sia oro-
grafia sia struttura, un baluardo piantato nel terreno che affonda e si eleva
allo stesso tempo. Il vuoto verticale interno ha un aspetto ‘minerario’, una
trivellazione che accede a gallerie sotterranee, i corridoi con i loculi. Il per-
corso di accesso scavato in trincea per accedere all’edificio non fa che cor-
74, 81 roborare questa doppia identità materiale in negativo e positivo.
I riferimenti a precedenti architettonici dell’antichità sono già stati citati: la
torre difensiva medioevale, lo ziggurat a gradoni, il faro visibile a distanza,
il pilastro classico con le scanalature. Ad essi potremmo aggiungere il Pozzo
83 di San Patrizio a Orvieto di Antonio da Sangallo il Giovane del 1527-37
per il vuoto cilindrico centrale disceso da una doppia rampa a chiocciola.
Tra quelli contemporanei potremmo citare altri sacrari a torre come Oslavia
e il Sacrario del Montello per il volume della torre, i cilindri con le risalite
spiraliformi sugli esterni delle torri idriche delle stazioni di Angelo Mazzoni
e quella all’interno della Colonia Fiat di Vittorio Bonadè Bottino a Salice
D’Ulzio. La doppia valenza di cima e caverna che abbiamo analizzato, per
un verso stigmatizza e rinvia alla montagna, dunque è simile agli altri sacrari
paesaggistici nella concezione. Per altro verso, l’interno chiude i soldati
attorno al corpo del loro comandante, li serra nella eterna ombra dell’Ade
e, nel fare ciò, rinvia allo spazio architettonico della Sala dei Martiri della
Mostra della Rivoluzione Fascista che è, e rimane, il riferimento simbolico
86 del regime di quegli anni. Interessante è, inoltre, rilevare la sofisticazione
modernista della soluzione architettonica che alterna la definizione astratta
dei volumi alti alle fasce orizzontali del basamento rustico, le quali formano
vere e proprie finestre a nastro che uniscono leggerezza e gravità con il loro
spessore. Quest’ultima soluzione richiama precedenti dell’architettura espres­
sionista tedesca e olandese degli anni Venti del Novecento nell’impiego delle

39
superfici in mattoni per evidenziarne la texture. Questo riferimento ‘nordico’
ben si adatta al paesaggio alpino di confine in cui si colloca il sacrario. 74
L’approccio al Sacrario di Pocol passa dalla visione panoramica dalla valle
alla sua perdita e ritrovamento nel bosco attraverso la strada di accesso, il
suo inquadramento prospettico della trincea e l’apparizione finale dell’edi-
ficio gradonato d’appresso. Dopo le cesure dell’esterno anche la pene- 66, 67, 6
trazione del pozzo e la dilatazione orizzontale dei corridoi si allineano a
una narrazione percettiva divisa in episodi distinti e, all’interno, labirintici. 75, 77, 7
Il sacrario è un viaggio alla scoperta di successivi spazi tematici individual-
mente caratterizzati che appaiono a sorpresa all’ultimo momento. Chi vuole
capire l’articolazione dell’insieme deve esplorare un microcosmo che si
rivela solo gradatamente. I conci dei loculi sono gli unici elementi che
stabiliscono un legame tra interno ed esterno, ma esso si arresta sul limitare
del bosco, la cornice che isola il volume terrazzato. 74, 81
Il bosco non è, quindi, un luogo di grandi assembramenti, ma un luogo che
offre al visitatore o alla visitatrice una percezione di sé separata dagli altri, gli
richiede un impegno individuale a esplorare, a girare l’angolo, a proseguire.
Le comitive devono essere guidate, i passaggi sono soglie ristrette che am-
mettono pochi alla volta. Anche Pocol dunque – pur nell’enfasi retorica
delle sue figure e iscrizioni – sembra anticipare un’idea di raccoglimento
individuale come unica forma di identità pubblica.

Una riflessione sulla morte collettiva


Quali riflessioni sulla guerra e la sua celebrazione attivano i quattro sacrari
che abbiamo esplorato? Come si è modificata la percezione della morte
collettiva dall’originale intento autoritario con cui erano stati concepiti
all’attuale lettura critica della Prima guerra mondiale e del fascismo?
Nel suo libro Il martire necessario, guerra e sacrificio nell’Italia contemporanea,
Roberto Mancini riconosce una sostanziale continuità tra le modalità di
elaborazione del mito dei caduti per la patria del Risorgimento, della Prima
guerra mondiale e poi del fascismo. Alla base dell’immaginario di ricono-
scenza nei confronti dei caduti per la patria, Mancini identifica un mecca-
nismo di scambio, basato sul pagamento di un tributo:
I soldati agivano in guerra con un certo slancio […] in base al principio
dell’obbligazione morale. Cioè in base all’idea che ciascuno di loro aveva con-
tratto un debito con la comunità nazionale la quale elargiva mezzi tecnici,
vettovagliamento, armi; un debito che richiedeva di essere onorato.

40
E continua:
D’altra parte la comunità nazionale riceveva in termini di sicurezza ciò che
spendeva sui teatri di guerra, essa acquistava in termini di fama ciò che all’ap-
parenza era solo dissipazione e carneficina. Essa infatti metteva in moto un
poderoso meccanismo di sostituzione di beni materiali, cioè uomini e mezzi,
68, 69, 70, 71, 72 con beni immateriali, quali il senso di potenza, e il senso di grandezza. Si trat-
tava di un processo continuo, o un sorta di cinghia di trasmissione che colle-
78, 79, 80, 81 gava i poli produttivi della nazione e i suoi centri di reclutamento militare alle
zone di battaglia dove essi venivano per così dire ‘consumati’. Non c’era solu-
zione di continuità tra produzione e distruzione dei beni, tra costruzione e
decostruzione. E nemmeno tra il desiderio di vincere e quello di vedere mo-
rire i propri soldati in vista della vittoria. Il corpo nazionale si aspettava che i
soldati morissero per circondarli poi di ammirazione e pianti orgogliosi18.
La costruzione dei memoriali di guerra si basava su un meccanismo che
costruiva una mitologia dei caduti come forma di compensazione per la
vita dispersa durante la guerra. Il fascismo fu abilissimo nell’elaborare que-
sto scambio – che aveva già segnato la coscienza collettiva – ed esso si pro-
fuse in un misto di aggressività bellica e pietismo religioso, di segni eroici
e martirologici, entrambi presenti nei memoriali. Mancini è preciso nel
definire il connubio guerra-religione nella retorica fascista e il ruolo della
Chiesa cattolica nel giustificare la ‘bella morte’ per la patria come sacrificio
ammesso e santificato. Non stupisce, quindi, che i sacrari che abbiamo esplo-
rato operino sul doppio registro della celebrazione bellica e della pietas per
i caduti. In essi sono presenti da un lato il tumulo dell’eroe, l’avanzata
delle falangi – materializzata nei gradoni – e i simboli delle armi, mentre
dall’altro abbiamo il Calvario, la Via Crucis, l’altare, le croci e la cappella
votiva, ossia tutto l’armamentario riconosciuto della tradizione. Il ‘percor-
so’ che emerge come tema al Monte Grappa e poi nei successivi sacrari è
l’elemento di congiunzione tra le due realtà, bellica e religiosa, tra i diversi
simboli che esse disseminano nel sito della battaglia. Non solo ricalca iti-
nerari rituali come quelli degli antichi altari o la salita al Golgota, ma serve
per ricucire presenze diverse e a volte in reciproca competizione (nono-
stante la pacificazione dei Patti Lateranensi, avvenuta l’11 febbraio 1929).
Il percorso – spesso discontinuo – che unisce le varie ‘stazioni’ delinea una
dialettica tra percezione collettiva e raccoglimento individuale di fronte
alle singole tombe, i cui caduti, inumati in ordine alfabetico, sono d’imme-
diato reperimento. Se il movimento a piedi è il legante tra più presenze

18
Roberto Mancini, Il Martire necessario, guerra e sacrificio nell’Italia contemporanea, Pacini Editore,
Ospedaletto (PI), pp. 124-126.

41
disseminate nel sito, l’alternanza di ambienti fuori scala e di nicchie conte-
nute articola un tempo episodico in cui un visitatore può anche separarsi
dal gruppo. Si pensi, ad esempio alla duplice natura dei gironi curvilinei del
Monte Grappa e dei gradoni di Redipuglia, entrambi elementi di un insieme
e luoghi contenuti. Il fascismo voleva la teatralizzazione delle tombe e delle
masse dei visitatori a scopo didattico, ma la configurazione dei siti disse-
mina più episodi spaziali. Se anche questi erano pensati come palcoscenici
a una scala minore, portano comunque con sé un implicito distacco dalla
spazialità generale e dal moto continuo del percorso. I sacrari contengono,
quindi, in nuce le premesse per una percezione individuale compresente con
quella pubblica e che è possibile isolare in una dimensione propria. D’altra
parte il raccoglimento personale è parte integrante del rito religioso – qui
mutuato per servire la memoria della guerra – e si alterna a episodi di
gruppo. La compresenza di un’articolazione spaziale capace di accogliere
sia il collettivo sia l’individuale nella visita ai caduti è uno dei tratti originali
di questi quattro sacrari, che oltrepassano le premesse retoriche dell’inizia-
le programma di Faracovi nei loro esiti costruiti e ancora oggi percepibili.
Non stupisce, quindi, che gli elementi che in essi unificavano la sepoltura di
massa possano essere oggi distanziati criticamente e visti anche come ap-
parati percettivi che relazionano un singolo spettatore alla tomba di un
caduto e allo specifico luogo.
Molti monumenti funebri del secondo dopoguerra – si pensi a quelli dedi-
cati alla Resistenza o all’Olocausto – dichiareranno la perdita definitiva
delle grandi narrazioni, spesso fra loro conflittuali, per proporre un’idea di
raccoglimento individuale come unica forma di identità pubblica. Il distacco
diventerà per essi forma critica, denuncia dell’impossibilità di un linguaggio
condiviso. L’isolamento spaziale sarà l’unico esito per concentrarsi e riflet-
tere sulla morte. I quattro sacrari analizzati, invece, partiti da premesse op-
poste, giungono a una complessità ambientale inclusiva grazie alla sovrap-
posizione di sepoltura collettiva, sepolture individuali, memoria del luogo
di battaglia e visita allo specifico sito magnificato dall’apparato che per-
mette di percorrerlo. Questa inedita visione ricontestualizza la lettura dei
luoghi in una prospettiva storica che ammette una scelta personale da parte
dei visitatori. La sepoltura della guerra perde parte del suo aspetto di ine-
sorabilità e diventa meditazione sulla perdita.

42
Oltre l’architettura
Quali riflessioni sul ruolo dell’architettura e la sua capacità di elaborare il
lutto collettivo offrono i quattro sacrari con la modificazione dei siti in cui
sono posti? Innanzitutto, essi danno la possibilità di misurare il rapporto tra
monumento, memoria e rappresentazione attraverso un’evoluzione storica-
mente documentata in cui offrono un nuovo contributo: da un’architettura
in stile storicista a un percorso ‘orografico’ in forme astratte, dalla rappre-
sentazione della morte con un simbolo acquisito alla sua teatralizzazione in
una nuova massa architettonica vasta come l’intero sito. Di nuovo Mancini
identifica l’origine dei sacrari ai caduti degli anni Trenta nel Monumento a
Vittorio Emanuele II, il primo re dell’Italia infine unificata, il cosiddetto
Vittoriano, e la sua ricontestualizzazione come tomba al Milite ignoto
dopo il 1921.
Da quel momento, tutti i combattenti fecero parte di un unico, accomunante,
onnicomprensivo, sincronico, corpus mysticum nazionale. Il Monumento a
Vittorio Emanuele divenne lo specchio di tutte le guerre e tutte le vittorie,
divenne, come dissero i fascisti, l’altare della patria, epiteto che ancora oggi è
rimasto invariato. Esso fu lo sbocco ipertrofico della logica del sacrario in cui
la molteplicità delle ossa di soldati morti vengono ricomposte all’interno di
un’unitaria massa – architettonica – il cui scopo è quello di rendere la morte
accettabile e esteticamente spettacolare19.
Il sacrario nella Capitale risponde alla necessità di teatralizzare la morte dei
soldati, un desiderio questo perseguito dal fascismo con la moltiplicazione
di luoghi di culto, monumenti e cenotafi nei cimiteri e nelle piazze locali,
in cui i caduti di guerra erano celebrati e fatti corrispondere – come abbiamo
visto – ai martiri fascisti, per giustificarne l’esistenza nel sacrificio colletti-
vo e vincitore della Grande Guerra. Da un individuo simbolo – il Milite
ignoto – il sacrario doveva rimandare all’insieme dei soldati – l’intero eser-
cito dei caduti –, declinandolo in una dimensione più grande della somma
delle parti per evitare i personalismi dei primi cimiteri di guerra. Il Vitto-
riano, pur essendo stato concepito nel 1898 e completato già nel 1911,
rimanda all’Altare di Pergamo e al Tempio della Fortuna Primigenia a
Palestrina che, come visto, ispira anche Caporetto con l’idea di risalita di
una montagna simbolica. Esso è sia un altare vero e proprio sia un palco-
scenico per gli eventi di massa, operando alternativamente come centro e
sfondo del­l’azione collettiva. Il modello di significazione dell’architettura è
19 Mancini, Il Martire necessario..., cit., p.165.

43
però qui ancora ottocentesco e Beaux Arts. La tipologia architettonica
(l’altare, il tempio) e lo stile (classico) sono mutuati da precisi momenti
della storia, la cui autorità non è posta in discussione. Il rimando diretto al
precedente offre un significato condiviso, l’apparato decorativo (le sculture)
precisa l’oggetto dello specifico monumento. È quello che Alois Riegl, nel
suo Il culto moderno dei monumenti (1901) chiama Denkmalswert, il ‘valore
monumentale’, basato su una convenzione che riconosce a certe forme
– prevalentemente derivate dal passato – la capacità di trasmettere dei
valori collettivi20. Il Vittoriano si allinea alla logica dei cimiteri ottocenteschi
che impiegano delle figure prese in prestito dalla storia – funeraria e non –
per significare l’idea della morte: la piramide, il tempio, la torre, l’urna tutte
insieme riunite e fuse.
Con il programma del generale Faracovi entrano in gioco due nuovi fattori:
la dimensione di massa – la richiesta di rappresentare il valore collettivo
della guerra annullando la presenza individuale – e il sito specifico delle bat-
taglie da ricontestualizzare, introducendo in esso quello che Riegl chiama
Kunsthistorisches Wert, il ‘valore documentario’, qui legato al ricordo dell’e-
vento avvenuto nel luogo e non al memoriale in sé. Il sito controbilancia il
monumento e i primi sacrari cercano di contestualizzare i simboli ottocen-
teschi nel luogo, prevalentemente con segni storici dal volume verticale,
atti a essere posti su cime e declivi, a essere visti da lontano, a essere avvi-
cinati con un percorso processionale. L’espressione collettiva dei caduti è
però qui ancora imprigionata nell’oggetto singolo.
Durante gli anni Trenta le conquiste del Movimento Moderno internazio-
nale in architettura – il linguaggio geometrico astratto, la configurazione di
uno spazio infinito che apre gli interni verso gli esterni attraverso il concet-
to di ‘trasparenza’, la corrispondenza tra forma e funzione – sono assorbiti
gradatamente in Italia e in modo mediato. La presenza del passato non è,
però, mai definitivamente eliminata ma idealisticamente relazionata ora alle
forme astratte – le figure geometriche primarie, la proporzione armonica –,
ora alla semplificazione tipologica degli edifici storici. Il tempo nelle architet-
ture degli anni Trenta è, semmai, ‘sospeso’ in un’aura ‘metafisica’ posta oltre
alla storia in un’ambigua eternità21. La tensione dialettica tra l’eliminazione

20 Sul contributo teorico di Riegl vedi: Ignasi del Solà Morales, “Dal contrasto all’analogia,
trasformazioni nella concezione dell’intervento architettonico”, in Lotus International, 46, 1985,
pp. 37-45.
21 Il tema della ‘sospensione’ relativo all’arte, ma presente anche in architettura, è analizzato in

Paolo Fossati, L’immagine sospesa, pittura e scultura astratte in Italia 1934-40, Einaudi, Torino, 1971.

44
dei simboli ‘letterali’ del passato e il loro recupero in forma astratta carat-
terizza il Razionalismo architettonico degli anni Trenta operando un ri-
mando indiretto alle figure e proporzioni dell’antichità classica e del Rina-
scimento. Negli esempi più estremi, l’astrazione si attua in modo assoluto
con forme che appaiono fuori dal tempo. In altre architetture del periodo è
ancora visibile la transizione tra un’evocazione diretta dei linguaggi storici
– si pensi al Classico con i suoi sintagmi – e la loro resa con linee geo-
metriche semplificate legate alla realizzazione con moderne tecniche di
produzione in serie22.
L’evoluzione verso un linguaggio più astratto, visibile nei quattro sacrari
– il quale culmina forse a Redipuglia –, mostra una progressiva coscienza
delle conquiste del Movimento Moderno in architettura e la loro declina-
zione nel Razionalismo italiano. Solo che esse qui non sono applicate agli
oggetti architettonici, ma al sito e al percorso che lo attraversa. La proposta
del Monumento al Fante del Monte San Michele di Baroni deve aver isti-
gato la voglia di eliminare i gruppi scultorei e di lasciare la scalinata che
– in un successivo passaggio – è trasformata in terrazzamenti occupati
dalle tombe con l’invenzione dei loculi a colombario sul Monte Grappa.
L’effetto cumulativo delle tombe in serie, che assorbono in sé il sito, acqui-
sisce un valore monumentale perché il sacrario non è più un oggetto stac-
cato dal luogo ma diventa il luogo stesso con l’ampliamento percettivo alla
veduta panoramica del circondario. In più, le tombe in serie terrazzate
diventano l’astrazione di un esercito che avanza sul terreno con successive
ondate, assumendo un valore ‘letterale’ che sostituisce i segni storici.
Dall’astrazione della storia dell’architettura si passa all’astrazione del terri-
torio naturale e della collettività dei caduti. I quattro sacrari, del Monte
Grappa, di Redipuglia, di Caporetto e di Pocol, hanno valenze paesaggisti-
che e territoriali non rinvenibili in molti altri progetti dell’epoca. Vengono
in mente le città fasciste di fondazione o i già citati progetti per l’EUR,
ma questi sono manufatti ‘artificiali’ e non completamente integrati nel­
l’ambiente. I quattro sacrari qui esplorati offrono invece una corrisponden-
za con il qui e ora esperibile direttamente. Il linguaggio minimale delle loro
parti è costantemente legato alla fisicità del luogo, alla presenza dei corpi
sepolti, all’orientamento nel paesaggio. Essi sono città e territori condensa-
ti, ‘materializzati’ e ‘iscritti’ nella pietra locale impiegata, ognuna del suo co-
lore caratteristico: Redipuglia è bianco come la pietra d’Istria o l’aurisina,

22 Giorgio Ciucci, Gli architetti e il fascismo, architettura e città 1922-1944, Einaudi, Torino, 1989.

45
Caporetto è grigio ferro come la serpentina, Monte Grappa è grigio chiaro
come la pietra del Grappa e Pocol è rosa come la dolomia. In ciò tutti e
quattro i sacrari superano l’architettura e il paesaggio presentandosi come
veri e propri dispositivi ambientali.
Questo apparente realismo in parte sfuma quando si pensa al ruolo delle
forme geometriche primarie impiegate nei sacrari in relazione al tema della
sepoltura collettiva. La capacità del Razionalismo di porre il tempo in una
configurazione ‘sospesa’, altrove vista come un’idealizzazione del linguag-
gio astratto, riesce qui ad arrestare anche la morte e la proietta in una dimen-
sione eterna perché indefinita. Il differire la storia con la sua narrativa
legata agli eventi di guerra dona alla sepoltura una dimensione assoluta,
ciclica, legata, in fondo, a quella natura percepibile immediatamente nell’in-
torno e evidenziata in contrapposizione alle forme geometriche. Realismo
e idealizzazione del paesaggio, due apparenti opposti, si rinsaldano grazie
alla polarizzazione delle forme astratte. La geometria dell’architettura dialo-
ga con l’orografia, la vegetazione e la meteorologia, assumendo il ruolo di
intervallo senza durata.

Arte ambientale e arte ambientale ante litteram


Dopo aver analizzato il rapporto che i quattro sacrari intrattengono con
la memoria collettiva della guerra e con l’architettura degli anni Trenta,
abbiamo capito che in essi vi sono valenze che vanno oltre la retorica di
massa e i manufatti tradizionali che si elevano dal terreno. In particolare,
il percorso paesaggistico e il marcare i siti con un’orografia artificiale – temi
presenti in modo evidente a Monte Grappa, Redipuglia, Caporetto e in
modo più mediato a Pocol – rimandano alla Land Art, quell’arte ambien-
tale che si sarebbe diffusa dagli anni Sessanta in poi e che è caratterizzata
da grandi interventi che coinvolgono i paesaggi naturali con forme di
mimesi e di ‘iscrizione’ di segni nel terreno. Pur con le dovute cautele nel
confrontare periodi storici e contesti differenti, possiamo indagare quali temi
legati all’arte ambientale e a una riflessione contemporanea sul paesaggio
emergano da una visita ai quattro sacrari. Nel fare ciò dobbiamo, almeno
in prima istanza, scindere le originali intenzioni – la disseminazione della
sepoltura – dagli esiti ambientali dell’originale scelta progettuale di adagiarli
nell’orografia e di permettere di percorrerla.
Un importante ruolo che svolgono i ‘percorsi’ dei sacrari è di fungere da
apparato critico-percettivo che relaziona visitatori e contesto. Questa

46
‘proiettività’ del manufatto oltre se stesso avviene in due modi. Il primo è
il moltiplicare le rappresentazioni del sito con più punti di vista, percorsi e
astrazioni: il paesaggio – naturale e montano – è attivato attraverso una
partecipazione del visitatore che si trova stimolato a esperire diverse forme
percettive non necessariamente unificate. Il secondo è il marcare il terreno
con un ‘doppio’ di esso (un calco in negativo o, come abbiamo visto con i
terrazzamenti, con un’astrazione geometrica) che ‘segna’ ed ‘evidenzia’
il sito. Questa sovrapposizione di presenza e rappresentazione parla della
relatività della percezione del paesaggio e invita il visitatore a ‘percorrere’
l’opera, a cercare un propria posizione. Il tema non è, tuttavia, svolto solo
da una prospettiva visiva e cinetica ma anche fisico-tattile. I sacrari opera-
no una iniziale rimozione del materiale del sito – la pietra locale con cui
sono tutti costruiti – e il suo riposizionamento nella forma delle tombe
collettive poste nei muri a ridosso dell’orografia (con una corrispondenza
tra le due coppie di termini scavo-riempimento, paesaggio-memoria). Anche
questo corto circuito rimanda a pratiche critiche della Land Art di relativiz-
zazione della rappresentazione del paesaggio, di sovrapposizione tra realtà
e rappresentazione costruita.
La Land Art ha origine nel Minimalismo americano e la sua sperimentazio-
ne su volumi primari dislocati negli ambienti espositivi che intrattengono
un gioco percettivo con lo spazio circostante e con il movimento dello spet-
tatore, fuoriuscendo da una concezione idealista della geometria – com’era
nell’astrazione modernista – e situandola nella relatività del qui e ora.
Attorno al 1968, quest’arte che sperimenta modificazioni spaziali giunge a
un punto cruciale: la differenza tra opera e ambiente si è talmente assotti-
gliata che è impensabile adattare il proprio intervento a una condizione
espositiva preesistente e, in un certo senso, ‘neutrale’ quale quella della
‘scatola bianca’ del museo o della galleria modernista. E poi, perché parlare
di tali opere in termini di ‘scultura’ come categoria distinta quando queste
tendono a fondersi con lo spazio architettonico e con gli oggetti? Diversi
protagonisti del movimento Minimalista negano alla scultura il suo stato
di disciplina autonoma. Scelgono così di confrontare il loro lavoro diret-
tamente con l’ambiente della vita quotidiana, con la natura, con la città.
Portano l’arte fuori dalle gallerie, nel paesaggio, e le fanno assumere spesso
una scala territoriale: è la nascita della Land o Environmental Art, l’arte
ambientale. In un articolo rimasto celebre, Sculpture in the Expanded Field,
la critica Rosalind Krauss ha definito la fuoriuscita degli artisti ambientali
dalla scultura secondo uno schema logico di opposizioni tra ‘architettura’

47
e ‘non-architettura’, ‘paesaggio’ e ‘non-paesaggio’: esse definiscono un
campo espanso d’azione per l’arte contemporanea. Se la scultura tradiziona-
le occupava un territorio all’incrocio tra ‘non-architettura’ e ‘non-paesaggio’
che le dava un’identità autonoma tra le manifestazioni spaziali, ecco che
adesso gli artisti vanno a esplorare le intersezioni tra le altre categorie: tra
‘architettura’ e ‘paesaggio’ troviamo le ‘costruzioni nei siti’, o meglio, le
‘costruzioni dei siti’, vere e proprie interazioni tra strutture architettoniche,
terreno e vegetazione dove gli artisti sperimentano varie forme di dialogo
ambientale, trasformando l’intervento artistico in un apparato critico-
percettivo che relaziona visitatore e contesto. All’incrocio di ‘paesaggio’ e
‘non-paesaggio’ troviamo la pratica di ‘marcare i siti’ con interventi che
iscrivono segni nel terreno o nella vegetazione stessa. Essi producono un
corto circuito tra rappresentazione (il segno) e realtà (l’ambiente) dove l’arte
si presenta come anti-mimesi: invece di duplicare la realtà come nelle rap-
presentazioni tradizionali, sceglie di operare e significare attraverso la realtà
stessa. La dialettica tra ‘architettura’ e ‘non-architettura’ produce quelle
che Krauss chiama ‘strutture assiomatiche’ e che oggi vengono definite
‘installazioni’, interventi sullo spazio reale dell’architettura con la modifica
di strutture esistenti e la creazione di nuovi ambienti. In queste nuove pro-
cedure artistiche il concetto di ‘luogo’ o ‘paesaggio’ assume importanza
fondamentale perché diviene lo scopo ultimo dell’intervento artistico. Il
paesaggio non è tuttavia riferito a una visione distaccata e contemplativa,
ma visto come elemento complesso di cui lo spettatore è parte attiva e che
va continuamente ricostruito operando su elementi percettivi e sulla defi-
nizione del significato dei singoli siti. Ecco sviluppate, teoricamente alme-
no, due condizioni ritrovabili nei sacrari degli anni Trenta che abbiamo
analizzato, le ‘costruzioni dei siti’ e il ‘marcare i siti’: la strutturazione della
percezione e la modificazione del terreno sono relazionati23.
Gli artisti Land Art lavorano sulla percezione per rompere una visione uni-
taria e un controllo totalizzante dello spazio. In ciò riscoprono forme pro-
prie della cultura del giardino informale anglosassone senza però sposarne
le intenzioni pittoresche. Quello che interessa è il dispiegarsi del luogo nel
tempo, la percezione in movimento di chi cammina, tutte modalità del­
l’esperienza irriducibili a una formalizzazione unitaria. Nel 1970, Richard
Serra costruisce in un prato al confine tra Stati Uniti e Canada l’opera Shift

23Rosalind Krauss, “Sculpture in the expanded field” (1978) in The originality of the avantgarde
and other modernist myths, The MIT Press, Cambridge 1984, pp. 276-290.

48
(cambiamento-modificazione), composta da una serie di muri spezzati che
affiorano e sprofondano nel terreno, descrive gli assi visivi tra due persone
che camminano parallelamente a distanza nel prato e registra i punti e le
direzioni attraverso cui i due si vedono e si perdono di vista a causa del
terreno ondulato. Shift è così parallelamente trascrizione della percezione,
mappa orografica restituita alla realtà e dispositivo visivo che si sovrappo-
ne al paesaggio presupponendo un osservatore in movimento. La visione
che esso descrive è mutante, irregolare e profondamente fisica perché
legata al terreno e al corpo. Non sembra forse di leggere qui una descri-
zione del cammino al Monte Grappa o a Redipuglia? Lo spiazzamento del
movimento del corpo attuato dalla modificazione del sito, la percezione
mutante che ne risulta, sono già presenti in questa prima ‘iscrizione’ del
terreno, avvenuta ante litteram trent’anni prima della sperimentazione arti-
stica ambientale.
L’idea di marcare il paesaggio nella Land Art porta a una nuova considera-
zione dell’importanza del terreno come ricettore dell’arte. La negazione
della separazione arte-ambiente fa considerare l’orografia, la geologia, la
sedimentazione come elementi che ancorano il segno a una dimensione
ontologica ‘profonda’ e contemporaneamente lo dilatano orizzontalmente
verso l’estensione geografica. Michael Heizer è il fautore di questa scultura
al contrario, dell’operare per sottrazione e del riposizionamento del terreno.
Il suo Double Negative, gigantesco intaglio sul ciglio di una vallata desertica
visibile a scala territoriale è parallelamente incisione e traccia artificiale che
fa risaltare, per opposizione, l’orografia del terreno. In ciò, Heizer, Smithson
e altri artisti richiamano tutta una serie di siti preistorici come Nazca,
Stonehenge o Knowth in cui segnare il terreno e creare tumuli di terra
erano legati a forme di simbolizzazione funeraria del luogo. Tuttavia, se i
richiami ‘preistorici’ esistono per la Land Art, essa non ha desideri di radi-
camento né ricerca significati archetipici. Marcare il terreno può semplice-
mente essere la registrazione di un attraversamento temporaneo legandosi
così a una percezione mutevole e atemporale. Il paradossale parallelismo
tra evento, luogo e materia mostra come l’arte e l’ambiente condividono
una continua incertezza. Questo porta a una ricerca sulla rappresentazione
dei luoghi e dei manufatti.
La relatività del linguaggio e della percezione spingono a una sperimenta-
zione su molteplici procedimenti di rappresentazione dell’ambiente. Gli in-
terventi degli artisti in siti spesso remoti hanno bisogno di forme di docu-
mentazione che li facciano conoscere all’esterno. La realtà materiale e la

49
sua rappresentazione fanno così parte dell’articolazione delle nuove opere
ambientali: in ciò gli artisti accettano l’impermanenza dei mezzi di comu-
nicazione a fronte dell’unicità del sito. Ricerca sulla rappresentazione e
documentazione dell’opera sono due aspetti dello stesso processo che
mostrano come non esista una lettura unitaria dell’ambiente: ogni sua defi-
nizione lo ri-costruisce e lo modifica. La verità dei luoghi, se ne esiste una,
sta forse a metà strada tra molteplici letture. In ciò gli artisti ambientali
sperimentano descrizioni differenziate che non accettano la figurazione
riduttiva offerta dalle rappresentazioni tradizionali.
Questo incontro tra l’incertezza della definizione e la molteplicità dell’e-
sperienza è un terreno ricchissimo di novità. La fotografia non accetta la
banale pratica di circoscrivere l’opera ma cerca di farne vedere l’intorno
adottando punti di vista molteplici. La verità non è sintetizzabile in un’im-
magine ma proviene da una somma di segni parziali che incorporano la
durata e il movimento. Nello specifico, nella scomposizione della visita ai
quattro sacrari che abbiamo intrapreso, abbiamo rivelato la tensione dialet-
tica tra la lettura unitaria di una ‘forma assoluta’ e la sua frammentazione
in molteplici episodi locali, alternativamente attribuibili a una percezione
collettiva o individuale dei manufatti. La lezione sulla relatività del paesaggio
della Land Art ci aiuta a guardare retroattivamente Monte Grappa, Redi-
puglia, Caporetto e Pocol per scoprire la complessità immaginaria dei luoghi
offerta al visitatore.
Il contributo più importante dell’arte ambientale è la contaminazione tra
realtà fisica e rappresentazione nel riconoscimento della loro rispettiva
interazione. Robert Smithson inventa il concetto di ‘non sito’ come paral-
lelo dialettico al ‘sito’. Circoscrive su una mappa una porzione di territorio,
raccoglie su quello stesso territorio sassi e campioni di terreno in settori
corrispondenti a quelli della mappa e li porta all’interno di una galleria in
contenitori fatti con la stessa configurazione dei settori geografici. Qual è
il ‘sito’ e quale il ‘non sito’? La realtà della mappa sezionata da linee geome-
triche o l’astrazione resa reale del contenitore riempito con la materia del
luogo? Non c’è risposta definitiva: le due parti entrano in un circuito di
scambio continuo che parla di astrazione, materialità e di diverse scale di
lettura. Il luogo è riportato nell’ambiente della galleria con un processo di
straniamento che però rivela la natura di ‘quel’ paesaggio.
Non è forse questa una procedura affine a quella con cui operano i quat-
tro sacrari della Grande Guerra con la pietra del luogo? Il suo disloca-
mento nelle tombe-terrazzamenti è sì una forma di rimozione ma anche di

50
ricontestualizzazione della materia di ‘quel’ luogo che la evidenzia. I movi-
menti denominati Postminimalisti (che includono la Land Art, il Concet-
tuale e la Body Art) degli anni Settanta operano in questa ambiguità discor-
siva: il tema per loro pregnante è quello della ‘traccia’ o indizio, un fram-
mento o una rappresentazione parziale che viene sovrimposta alla realtà da
cui è stata attinta per svelare quanto relativa sia la percezione dell’ambiente.
Il racconto che è possibile intraprendere del percorso nei quattro sacrari,
è una ricerca di tracce che declinano la corrispondenza tra manufatto e
sito, tra sepoltura e terreno, tra segno e luogo.
Anche il tempo, la durata della percezione, il mutare dell’ambiente e della
materia sono parte della riflessione degli artisti ambientali. Come per il lin-
guaggio, anche il tempo è soggetto a deterioramenti e mutazioni impreviste.
Robert Smithson si richiama all’entropia, il secondo principio della termo-
dinamica secondo cui in ogni cambiamento vi è una produzione di energia
incontrollata che non è riutilizzabile. Entropia come scarto, come eccesso,
come detrito quindi. Smithson interpreta come processi entropici tutti quel-
li riguardanti il terreno e le rocce e, con un corto circuito logico, relaziona
tempo geologico, consumo incontrollato dell’ambiente post-industriale e
fragilità del linguaggio. Egli interpreta tutta una serie di luoghi ‘degradati’
(periferie, discariche industriali, miniere abbandonate) come ‘entropici’.
In essi legge un nuovo tipo di rovina: non quella prodotta dal passare del
tempo ma una rovina in fieri contenuta potenzialmente in ogni processo di
mutazione dell’ambiente. Il paesaggio post-industriale diviene il nuovo pa-
rametro per leggere una durata e una materialità che sfuggono al controllo
e alla certezza. Tempo e materialità, natura e artificio sono indissolubil-
mente legati in questa esplorazione critica che parla del crollo di un tempo
lineare e proietta la realtà verso una continua frammentarietà o una durata
‘geologica’ incontrollabile24.
Queste meditazioni sul rapporto tra tempo e ambiente stimolano una rifles-
sione sull’operare della memoria e sui procedimenti analogici non lineari
che richiamano il concetto di allegoria. Nei Passagenwerk di Walter Benjamin,
le rovine e le presenze materiali della città parlano indirettamente dei mec-
canismi tortuosi e complessi della memoria25. Parallelamente le ‘rovine al

24 Il testo di riferimento è Robert Smithson, “A sedimentation of the mind: earth projects”


in The Writings of Robert Smithson (a cura di Nancy Holt), New York University Press, New
York 1979, p. 35.
25 Le note sparse di questa colossale opera sono raccolte in Walter Benjamin, Parigi capitale del

XIX secolo, Einaudi, Torino 1986.

51
contrario’ di Smithson e i suoi ‘paesaggi entropici’ sono procedimenti di
configurazione che aprono a una dimensione spazio-temporale multiforme
e tortuosa. Anche se questi temi non sono ancora presenti nei sacrari degli
anni Trenta che abbiamo analizzato, la forma della memoria frammentata
e la percezione spazio-temporale episodica legata ad essa sono ritrovabili
nel­l’esperienza individuale che emerge dalla loro visita, come una sorta di
‘residuo nascosto’ che va oltre la lettura eroico-collettiva che le loro inten-
zioni originali avevano. Il raccoglimento e lo smarrimento di fronte alle
sepolture diffuse fanno anch’essi parte della dispersione del monumento
nel paesaggio e perciò le ricerche della Land Art possono anche qui servi-
re come termine di confronto per un’analisi critica di questi luoghi della
memoria. Non sorprende che le forme della Land Art – pur non origina-
riamente pensate in relazione alla sepoltura – siano state impiegate nei
decenni successivi alla sua diffusione in due memoriali dal forte accento
emotivo: il Vietnam Veterans Memorial di Maya Lin a Washington (1981-82)
e il Denkmal für die Ermodeten Juden Europas (Memoriale per gli ebrei assas-
sinati d’Europa) di Peter Eisenman a Berlino (1997-2005). Il primo è un
intaglio a forma planimetrica di ‘V’ con un percorso che lo lambisce, invi-
tando i visitatori a ‘penetrare nella terra’ e a leggere i nomi dei caduti scritti
sulla pietra nera lucida che forma il muro di contenimento; il secondo è un
reticolo di mute steli di cemento – che evocano alternativamente una cava
o un cimitero – con un labirinto di stretti percorsi pedonali tra esse che
gradatamente penetrano e fuoriescono dal terreno. In entrambi i memo-
riali, i temi del percorso, dello scavo nel terreno e del doppio dell’orografia
sono posti a servizio di un’iniziazione dello spettatore volta al raccogli-
mento e alla rammentazione dei caduti qui celebrati. Nel frammentare la
coscienza collettiva in una serie di ‘tracce’ iscritte nell’ambiente, la rifles-
sione dell’arte contemporanea ha donato una dimensione narrativa alla no-
zione di attraversamento dei luoghi che si applica a questi recenti sacrari e
anche a quelli degli anni Trenta qui studiati, moltiplicandone la percezione
con più interpretazioni possibili26.

26 Pietro Valle, “Paesaggio non indifferente” in Arte ambiente paesaggio, Postmediabooks, Milano

2019, pp.12-31.

52
Fotografie
Giuseppe Dall’Arche
Monte Grappa

55
1.
Monte Grappa, veduta generale dal Rifugio Bassano

56
2.
Monte Grappa, strada d’accesso dalla Caserma Milano

57
3.
Monte Grappa, la strada di accesso e il girone più basso

58
4.
Monte Grappa, veduta frontale dei gironi e scala d’accesso

59
5.
Monte Grappa, veduta dei gironi

60
6.
Monte Grappa, veduta laterale dei gironi

61
7.
Monte Grappa, successivi gironi e loculi a colombario

62
63
8.
Monte Grappa, gironi inferiori

64
9.
Monte Grappa, risalita tra i gironi lungo la scala centrale

65
10.
Monte Grappa, tomba del maresciallo Giardino lungo la scala centrale

66
11.
Monte Grappa, panorama dall’alto dei gironi

67
12.
Monte Grappa, scale laterali dal basso

68
69
13.
Monte Grappa, scale laterali dall’alto

70
14.
Monte Grappa, sacello della Madonna

71
15.
Monte Grappa, interno del sacello della Madonna

72
16.
Monte Grappa, Via Eroica dal sacello della Madonna

73
17.
Monte Grappa, cippi lungo la Via Eroica, veduta verso il panorama

74
18.
Monte Grappa, cippi lungo la Via Eroica

75
19.
Monte Grappa, Portale di Roma, veduta frontale

76
20.
Monte Grappa, Portale di Roma, veduta laterale

77
21.
Monte Grappa, Via Eroica dall’interno del Portale di Roma

78
22.
Monte Grappa, Via Eroica dal Portale di Roma

79
23.
Monte Grappa, sacello della Madonna e gironi da nord

80
24.
Monte Grappa, accesso al sacrario ipogeo all’interno del Portale di Roma

81
25.
Monte Grappa, cimitero austro-ungarico

82
Redipuglia

83
26.
Redipuglia, veduta generale da nord-est con scalinata sul Monte Sei Busi e Colle Sant’Elia a destra

84
27.
Redipuglia, veduta generale della scalinata con la ferrovia in trincea

85
28.
Redipuglia, Via Eroica e scalinata

86
87
29.
Redipuglia, il Parco della Rimembranza sul Colle Sant’Elia dalla base della scalinata

88
89
30.
Redipuglia, lapidi pavimentali sulla Via Eroica e scalinata sullo sfondo

90
31.
Redipuglia, monolite del Duca d’Aosta alla base della scalinata

91
32.
Redipuglia, monoliti dei generali della Terza Armata alla base della scalinata

92
33.
Redipuglia, accesso alla scalinata

93
34.
Redipuglia, scale laterali dal basso

94
35.
Redipuglia, un gradone

95
36.
Redipuglia, sepolture su lastre di bronzo e marcapiano con inciso “Presente”

96
37.
Redipuglia, successione di gradoni e marcapiani con inciso “Presente”

97
38.
Redipuglia, veduta dall’alto della scalinata verso il Colle Sant’Elia e la pianura a ovest

98
39.
Redipuglia, discesa nella cappella alla sommità della scalinata

99
40.
Redipuglia, scale laterali dall’alto

100
101
41.
Redipuglia, risalita al Colle Sant’Elia

102
42.
Redipuglia, Parco della Rimembranza sul Colle Sant’Elia

103
43.
Redipuglia, sommità del Colle Sant’Elia, colonna e cimeli di guerra

104
44.
Redipuglia, la scalinata dalla sommità del Colle Sant’Elia con cimeli di guerra

105
45.
Redipuglia, discesa dal Colle Sant’Elia e scalinata sullo sfondo

106
Caporetto

107
46.
Caporetto, veduta generale da sud

108
47.
Caporetto, veduta generale da ovest

109
48.
Caporetto, inizio della strada di accesso dal centro storico

110
49.
Caporetto, strada di accesso con le stazioni della Via Crucis di Giannino Castiglioni

111
50.
Particolare di una stazione della Via Crucis di Giannino Castiglioni

112
51.
Caporetto, veduta generale del sacrario dal piazzale d’arrivo

113
52.
Caporetto, scalinata centrale, gironi e chiesa di Sant’Antonio sulla sommità
53.
Caporetto, scalinata centrale e gironi

114
115
54.
Caporetto, scalinata centrale, rampa iniziale e rampe superiori trasversali

116
55.
Caporetto, rampe superiori trasversali della scalinata e Monte Matajur sullo sfondo

117
56.
Caporetto, successivi gironi e arcate con le sepolture

118
57.
Caporetto, girone con terrazzamento pedonale, arcate con le sepolture e montagne a nord

119
58.
Caporetto, veduta della valle dell’Isonzo dai gironi

120
59.
Caporetto, panorama verso ovest dalla sommità della scalinata centrale

121
60.
Caporetto, arrivo in sommità delle rampe trasversali e arcate attorno alla chiesa di Sant’Antonio

122
61.
Caporetto, panorama verso ovest dal diaframma di arcate attorno alla chiesa di Sant’Antonio

123
62.
Caporetto, diaframma di arcate sommitali a est
63.
Caporetto, diaframma di arcate e fronte della chiesa di Sant’Antonio

124
125
64.
Caporetto, fronte della Chiesa di Sant’Antonio con la croce inserita nella facciata

126
127
65.
Caporetto, interno della chiesa di Sant’Antonio

128
Pocol

129
66.
Pocol, veduta generale dal centro di Cortina d’Ampezzo

130
67.
Pocol, veduta generale del monte con la torre

131
68.
Pocol, rotatoria d’accesso al sacrario con i busti degli Alpini in Guardia di Domenico Diano

132
69.
Pocol, rotatoria d’accesso, fontana con il Leone di San Marco e, sullo sfondo, la torre

133
70.
Pocol, trincea di accesso al sacrario con le formelle della Via Crucis di Giannino Castiglioni

134
71.
Pocol, arrivo alla torre alla fine della trincea con la Via Crucis

135
72.
Pocol, veduta frontale della torre con i due basamenti

136
137
73.
Pocol, veduta d’angolo della torre

138
139
74.
Pocol, basamento inferiore con portale d’accesso e bassorilievo della Vittoria Alata di Paolo Boldrini
75.
Pocol, ingresso all’interno della torre

140
141
76.
Pocol, veduta della trincea con la Via Crucis dall’ingresso della torre

142
143
77.
Pocol, interno con volume cilindrico centrale

144
145
78.
Pocol, veduta della cripta dal piano rialzato attraverso l’oculo centrale con la scultura del Fante Morto di Dante Morozzi
79.
Pocol, cripta con la scultura del Fante Morto di Dante Morozzi

146
147
80.
Pocol, veduta del volume cilindrico centrale dai corridoi con i loculi di sepoltura

148
81.
Pocol, veduta dei corridoi ad anello con i parallelepipedi sospesi contenenti i loculi di sepoltura

149
82.
Pocol, vuoto cilindrico centrale dal livello mezzanino

150
83.
Pocol, corridoi del livello mezzanino

151
84.
Pocol, oculo sommitale e scala a chiocciola di risalita alla torre
85.
Pocol, scala a chiocciola di risalita alla torre nell’interno cilindrico

152
153
86.
Pocol, scala a chiocciola di risalita alla torre dal basso

154
Elenco Immagini

1. Monte Grappa, veduta generale dal Rifugio Bassano | 27.08.2018

2. Monte Grappa, strada d’accesso dalla Caserma Milano | 27.08.2018

3. Monte Grappa, la strada di accesso e il girone più basso | 27.08.2018

4. Monte Grappa, veduta frontale dei gironi e scala d’accesso | 26.08.2018

5. Monte Grappa, veduta dei gironi | 27.08.2018

6. Monte Grappa, veduta laterale dei gironi | 27.08.2018

7. Monte Grappa, successivi gironi e loculi a colombario | 27.08.2018

8. Monte Grappa, gironi inferiori | 27.08.2018

9. Monte Grappa, risalita tra i gironi lungo la scala centrale | 28.08.2018

10. Monte Grappa, tomba del maresciallo Giardino lungo la scala centrale | 28.08.2018

11. Monte Grappa, panorama dall’alto dei gironi | 27.08.2018

12. Monte Grappa, scale laterali dal basso | 26.08.2018

13. Monte Grappa, scale laterali dall’alto | 27.08.2018

14. Monte Grappa, sacello della Madonna | 27.08.2018

15. Monte Grappa, interno del sacello della Madonna | 27.08.2018

16. Monte Grappa, Via Eroica dal sacello della Madonna | 27.08.2018

1.7 Monte Grappa, cippi lungo la Via Eroica, veduta verso il panorama | 27.08.2018

18. Monte Grappa, cippi lungo la Via Eroica | 27.08.2018

19. Monte Grappa, Portale di Roma, veduta frontale | 27.08.2018

20. Monte Grappa, Portale di Roma, veduta laterale | 27.08.2018

156
21. Monte Grappa, via Eroica dall’interno del Portale di Roma | 28.08.2018

22. Monte Grappa, Via Eroica dal Portale di Roma | 27.08.2018

23. Monte Grappa, sacello della Madonna e gironi da nord | 27.08.2018

24. Monte Grappa, accesso al sacrario ipogeo all’interno del Portale di Roma | 27.08.2018

25. Monte Grappa, cimitero austro-ungarico | 28.08.2018

26. Redipuglia, veduta generale da nord-est con scalinata sul Monte Sei Busi e Colle Sant’Elia a destra | 01.07.2020

27. Redipuglia, veduta generale della scalinata con la ferrovia in trincea | 26.06.2020

28. Redipuglia, Via Eroica e scalinata | 24.06.2020

29. Redipuglia, il Parco della Rimembranza sul Colle Sant’Elia dalla base della scalinata | 26.06.2020

30. Redipuglia, lapidi pavimentali sulla Via Eroica e scalinata sullo sfondo | 24.06.2020

31. Redipuglia, monolite del Duca d’Aosta alla base della scalinata | 24.06.2020

32. Redipuglia, monoliti dei generali della Terza Armata alla base della scalinata | 24.06.2020

33. Redipuglia, accesso alla scalinata | 24.06.2020

34. Redipuglia, scale laterali dal basso | 26.06.2020

35. Redipuglia, un gradone | 26.06.2020

36. Redipuglia, sepolture su lastre di bronzo e marcapiano con inciso “Presente” | 26.06.2020

37. Redipuglia, successione di gradoni e marcapiani con inciso “Presente” | 24.06.2020

38. Redipuglia, veduta dall’alto della scalinata verso il Colle Sant’Elia e la pianura a Ovest | 26.06.2020

39. Redipuglia, discesa nella Cappella alla sommità della scalinata | 26.06.2020

40. Redipuglia, scale laterali dall’alto | 03.10.2007

41. Redipuglia, risalita al Colle Sant’Elia | 24.06.2020

42. Redipuglia, Parco della Rimembranza sul Colle Sant’Elia | 26.06.2020

43. Redipuglia, sommità del Colle Sant’Elia, colonna e cimeli di guerra | 26.06.2020

44. Redipuglia, la scalinata dalla sommità del Colle Sant’Elia con cimeli di guerra | 24.06.2020

45. Redipuglia, discesa dal Colle Sant’Elia e scalinata sullo sfondo | 24.06.2020

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46. Caporetto, veduta generale da sud | 12.06.2020

47. Caporetto, veduta generale da ovest | 12.06.2020

48. Caporetto, inizio della strada di accesso dal centro storico | 13.06.2020

49. Caporetto, strada di accesso con le stazioni della Via Crucis di Giannino Castiglioni | 13.06.2020

50. Particolare di una stazione della Via Crucis di Giannino Castiglioni | 13.06.2020

51. Caporetto, veduta generale del sacrario dal piazzale d’arrivo | 12.06.2020

52. Caporetto, scalinata centrale, gironi e chiesa di Sant’Antonio sulla sommita | 12.06.2020

53. Caporetto, scalinata centrale e gironi | 12.06.2020

54. Caporetto, scalinata centrale, rampa iniziale e rampe superiori trasversali | 12.06.2020

55. Caporetto, rampe superiori trasversali della scalinata e Monte Matajur sullo sfondo | 12.06.2020

56. Caporetto, successivi gironi e arcate con le sepolture | 12.06.2020

57. Caporetto, girone con terrazzamento pedonale, arcate con le sepolture e montagne a nord | 12.06.2020

58. Caporetto, veduta della valle dell’Isonzo dai gironi | 12.06.2020

59. Caporetto, panorama verso ovest dalla sommità della scalinata centrale | 12.06.2020

60. Caporetto, arrivo in sommità delle rampe trasversali e arcate attorno alla chiesa di Sant’Antonio | 12.06.2020

61. Caporetto, panorama verso ovest dal diaframma di arcate attorno alla chiesa di Sant’Antonio | 12.06.2020

62. Caporetto, diaframma di arcate sommitali a est | 12.06.2020

63. Caporetto, diaframma di arcate e fronte della chiesa di Sant’Antonio | 12.06.2020

64. Caporetto, fronte della Chiesa di Sant’Antonio con la croce inserita nella facciata | 12.06.2020

65. Caporetto, interno della chiesa di Sant’Antonio | 12.06.2020

66. Pocol, veduta generale dal centro di Cortina d’Ampezzo | 03.07.2020

67. Pocol, veduta generale del monte con la torre | 03.07.2020

68. Pocol, rotatoria d’accesso al sacrario con i busti degli Alpini in Guardia di Domenico Diano | 19.06.2020

69. Pocol, rotatoria d’accesso, fontana con il Leone di san Marco e, sullo sfondo, la torre | 19.06.2020

70. Pocol, trincea di accesso al sacrario con le formelle della Via Crucis di Giannino Castiglioni | 19.06.2020

71. Pocol, arrivo alla torre alla fine della trincea con la Via Crucis | 19.06.2020

72. Pocol, veduta frontale della torre con i due basamenti | 19.06.2020

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73. Pocol, veduta d’angolo della torre | 19.06.2020

74. Pocol, basamento inferiore con portale d’accesso e bassorilievo della Vittoria Alata di Paolo Boldrini | 19.06.2020

75. Pocol, ingresso all’interno della torre | 19.06.2020

76. Pocol, veduta della trincea con la Via Crucis dall’ingresso della torre | 19.06.2020

77. Pocol, interno con volume cilindrico centrale | 19.06.2020

78. Pocol, veduta della cripta dal piano rialzato attraverso l’oculo centrale
con la scultura del Fante Morto di Dante Morozzi | 19.06.2020

79. Pocol, cripta con la scultura del Fante Morto di Dante Morozzi | 19.06.2020

80. Pocol, veduta del volume cilindrico centrale dai corridoi con i loculi di sepoltura | 19.06.2020

81. Pocol, veduta dei corridoi ad anello con i parallelepipedi sospesi contenenti i loculi di sepoltura | 19.06.2020

82. Pocol, vuoto cilindrico centrale dal livello mezzanino | 19.06.2020

83. Pocol, corridoi del livello mezzanino | 19.06.2020

84. Pocol, oculo sommitale e scala a chiocciola di risalita alla torre | 19.06.2020

85. Pocol, scala a chiocciola di risalita alla torre nell’interno cilindrico | 19.06.2020

86. Pocol, scala a chiocciola di risalita alla torre dal basso | 19.06.2020

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