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Se la concezione gerarchica di Sepùlveda risente delle influenze del pensiero aristotelico, la concezione

egualitaria di Las Casas dev’essere presentata come una derivazione dall’insegnamento di Cristo.
Infatti, anche se il cristianesimo non ignora le opposizioni e ineguaglianze, le riduce tutte alla
opposizione fondamentale tra il cristiano e il non cristiano, e chiunque può diventarlo; al contrario, nel
caso dell’opposizione tra padrone e schiavo in Aristotele, lo schiavo è un essere intrinsecamente
inferiore, dato che gli manca la ragione, che non si può acquisire, come invece può avvenire con la fede.
Las Casas non è comunque il solo a difendere i diritti degli indiani e a proclamare che essi non possono
essere ridotti in schiavitù, anzi, anche gli stessi documenti ufficiali della corona si pronunciano in
questo modo; parimenti, il pontefice Paolo III, in una bolla del 1537, afferma che Quest’affermazione
dell’eguaglianza di tutti gli uomini, però, è fatta in nome di una religione particolare, il cristianesimo,
senza che questo particolarismo sia riconosciuto: vi è dunque il pericolo di vedere affermare non solo
la natura umana degli indiani, ma anche la loro natura cristiana; il pericolo dell’assimilazione è sempre
costante, poiché l’identità biologica porta quasi ad una sorta d’identità culturale dinanzi alla religione.
Egli infatti, inizia con il constatare che la religione cristiana può essere adottata da tutti, ma afferma
subito dopo che tutte le nazioni sono destinate alla religione cristiana, ripetendo poi instancabilmente
che gli indiani sono già dotati di caratteristiche cristiane, sono obbedienti e pacifici.
La percezione di Las Casas non è dunque più sfumata di quella di Colombo, quando questi credeva
all’esistenza del "buon selvaggio": "Mi sembrava di vedere in lui il nostro padre Adamo, quando viveva
ancora in stato di innocenza" (Historia, II, 44).
La sua Apologetica Historia contiene invero una massa d’informazioni sulla vita materiale e spirituale
degli indiani, ma se essa ha il valore di un documento etnografico, si ha la sensazione che ciò avvenga
contro le intenzioni dell’autore, sempre impegnato a distruggere ogni differenza: il ritratto degli
indiani che possiamo ricavare dalle opere di Las Casas è in realtà molto più povero di quello lasciatoci
da Sepùlveda.

Infatti egli, nella maggior parte dei casi disconosce le differenze tra indiani e spagnoli, e quand’anche le
riconosca, subito le riconduce ad un unico schema evolutivo (essi sono ora come noi eravamo una
volta): il postulato d’eguaglianza sbocca così in un’affermazione d’identità, e la seconda grande figura
"dell’alterità", sebbene più simpatica, ci fornisce una conoscenza dell’altro ancora minore di quella
fornitaci dalla prima.

2) Las Casas ama gli indiani ed è cristiano, ed ama gli indiani proprio perché è cristiano, senza che le due
cose siano in contrasto: il suo amore illustra la sua fede, ma proprio perché cristiano, Las Casas non aveva
una buona percezione degli indiani, e viene spontaneo chiedersi se si può davvero amare qualcuno se si
ignora la sua identità, oppure se non si rischi di voler trasformare l’altro in nome della propria personalità, e
quindi sottometterlo.
Il titolo del primo trattato da lui dedicato alla causa indiana, De unico vocationis modo omnium gentium ad
veram religionem, bene esprime l’ambivalenza della posizione del suo autore: l'unico modo è naturalmente
la dolcezza, e Las Casas rifiuta la violenza dei conquistadores, che giustificano le guerre in considerazione
del fine perseguito, l’evangelizzazione, ma nello stesso tempo per lui esiste una vera religione, cioè la sua,
che non è solo personale ma universale.
Tutta la sua vita è ricca di iniziative a favore degli indiani, ma alcune di queste ci appaiono quanto mai
ambigue, come ad esempio il massacro di Caonao, di cui fu testimone quand'era al seguito delle truppe di
Narvàez: per alleviare il dolore degli indiani massacrati egli, mentre un indios ha subito un colpo al fianco
che "gli mette a nudo gli intestini", gli parla "seduta stante delle cose della fede, per quel tanto che
l'angosciosa situazione lo permetteva, facendogli capire che, se voleva essere battezzato, sarebbe andato in
cielo a vivere con Dio"(Historia, III, 29): agli occhi di un credente non è indifferente sapere se un'anima
andrà in paradiso, perché battezzata, o all'inferno, ma quel battesimo in extremis, come riconosce in più
occasioni lo stesso Las Casas, ha qualcosa di derisorio.
Dopo la conversione poi, Las Casas si lancia nella colonizzazione pacifica della regione di Cumanà, in
Venezuela: al posto dei soldati dovevano esserci dei religiosi e dei contadini venuti dalla Spagna, ma la
spedizione si dimostra un fallimento completo, poiché da un lato egli è costretto a dover fare concessioni
sempre maggiori agli spagnoli e, dall’altro, gli indiani non si mostrano così docili come egli aveva sperato: la
spedizione, quindi, si conclude nel sangue, ma ciò non lo dissuaderà dal fare un altro tentativo analogo,
quindici anni più tardi, che finirà allo stesso modo.
Las Casas dunque non vuole porre fine all'annessione degli indiani, ma vuole soltanto che sia compiuta
da religiosi e non da soldati: il suo sogno è quello di uno Stato teocratico, nel quale il potere spirituale
sovrasti il potere temporale.
La colonizzazione e la sottomissione devono restare, ma gestite altrimenti, di modo che a guadagnarci
saranno sia gli indiani, che non verranno più torturati o sterminati, sia il re di Spagna, che potrà godere
di utili maggiori: questo non significa dare un giudizio totalmente negativo su Las Casas, anzi, se vi è
qualcuno che ha contribuito a migliorare la sorte degli indiani, è stato proprio lui.
Non toglie nulla alla grandezza del personaggio riconoscere che l'ideologia di Las Casas e di altri
difensori degli indiani è colonialista, mentre quella di altri indiani è schiavista: la differenza non è di
poco conto, giacché nel secondo caso l'altro è soltanto un oggetto, un essere inferiore, che può essere
ucciso per nutrire degli altri indiani o addirittura i cani, oppure per estrarne il grasso, a cui si mozzano
tutte le estremità, dal naso, alle mani, ai seni, alla lingua, al sesso, così come si pota un albero, di cui si
usa il sangue per innaffiare i campi come fosse l'acqua di un fiume.
Questo modo di utilizzare l'uomo non è però il più redditizio: se anziché ridurre l’uomo al rango di
oggetto lo si ritiene un soggetto intermedio capace di produrre oggetti, diventerà allora possibile
moltiplicare all’infinito il numero degli oggetti appropriabili, e dunque il profitto crescerà: il soggetto
deve rimanere intermedio e gli deve essere vietato di diventare come noi, ed a ciò penserà l'esercito, e
il soggetto sarà tanto più produttivo quanto meglio sarà curato, scopo a cui sono preposti i religiosi:
l'efficacia del colonialismo è superiore a quella dello schiavismo.

3) Se Colombo è da annoverare tra le fila degli schiavisti, possiamo dire che due personaggi tra loro
diversissimi come Cortés e Las Casas, sono legati entrambi alla ideologia colonialista: anche se molte
cose li dividono, a cominciare dal fatto che Las Casas ama gli indiani ma non li conosce e Cortés invece
li conosce ma non prova per loro alcun amore particolare, entrambi sono d’accordo su un punto
essenziale: la sottomissione dell’America alla Spagna, l’assimilazione degli indiani alla religione
cristiana, la preferenza per il colonialismo a danno dello schiavismo.
Si potrebbe dire che è scorretto definire con il termine colonialismo, che oggi ha assunto valenza
negativa, tutte le forme assunte dalla presenza spagnola in America, anche se queste hanno eliminato i
sacrifici umani, il cannibalismo, la poligamia, hanno introdotto il cristianesimo, le usanze europee,
animali domestici ed utensili: è innegabile che, sebbene certi doni siano stati pagati a caro prezzo,
alcuni di tali apporti siano stati positivi.
Se il colonialismo, da un lato, si contrappone allo schiavismo, dall'altro si oppone ad una pura e
semplice comunicazione, il diritto della quale è sancito dal principio di Vitoria, secondo cui bisogna
permettere una libera circolazione degli uomini, delle idee e dei beni

È però possibile stabilire un criterio etico in base al quale esprimere un giudizio sulla forma delle
influenze, basandosi sul fatto che esse siano imposte o proposte, cioè, alla lunga, riconoscano o
rifiutino di riconoscere agli altri una libera volontà e la stessa umanità: non è dunque necessario
rinchiudersi nella sterile alternativa della giustificazione delle guerre coloniali nel nome della
superiorità della civiltà occidentale, o del rifiuto di ogni comunicazione con lo straniero nel nome della
propria identità: esiste sempre, secondo il Todorov, e va difesa come un valore, la comunicazione non
violenta, di modo che la triade schiavismo-colonialismo-comunicazione possa essere non solo uno
strumento di analisi concettuale, ma anche una successione nel tempo.

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