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In occasione del suo anniversario di nascita voglio parlare di un’attrice labronica, nata a Livorno il 2 gennaio

1914, chiamata Vivi Gioi, nota durante il bruttissimo periodo del ventennio fascista. Di padre norvegese,
esordì come attrice nel film "Ma non è una cosa seria" (1936) di Mario Camerini, nella quale le venne
assegnato lo pseudonimo Vivien Diesca (il cognome è un anagramma in omaggio a Vittorio De Sica, che la
volle per un piccolo ruolo). La fama arriva con "Bionda sottochiave" (1939) di Camillo Mastrocinque, in cui si
rivela una delle dive del cinema telefonico bianco. Dopo "Rose scarlatte" (1940) e "L'amante segreta"
(1941), si dedica al cinema drammatico con "Bengasi" (1942) di Augusto Genina.

Il riconoscimento della critica arrivò con la tragicommedia "Caccia" (1947) di Giuseppe De Santis, che le
valse il Nastro d'Argento come migliore attrice non protagonista. Nel dopoguerra recitò in teatro, prima
nella compagnia di De Sica, poi, nel 1949, nella propria compagnia da lei fondata con Carlo Ninchi e Aroldo
Tieri. Negli anni Cinquanta lavorò con Enrico Maria Salerno e Luigi Cimara. Sposò il paracadutista Silvano
Tajani, morto nel 1949 durante una manifestazione aerea all'aeroporto di Roma, e fu in seconda moglie
l'ingegnere Dino Zanardo, industriale, dal quale si separò qualche anno dopo.

Successivamente ebbe relazioni sentimentali con il principe Mario Ruspoli, l'attore Gabriele Ferzetti e il
regista Mino Roli. Morì nel 1975 all'Ospedale San Camillo di Roma, dove era stata ricoverata in seguito ad un
incidente cardiovascolare nella sua casa di Fregene, e fu sepolta nel cimitero della Misericordia di Livorno
nella tomba della famiglia materna.

Fonti:
Enrico Lancia, Roberto Poppi, Dizionario del cinema italiano. Le attrici, Gremese Editore, Roma, 2003, pp.
161-162

Enzo Grazzini, Vivi Gioi, diva dei «telefoni bianchi» dirigeva a Fregene la squadra di calcio, in Corriere della
Sera, 14 luglio 1975, p. 10.

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