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L’annuncio e la preparazione del

Concilio Vaticano II
Giovanni Sale
16 Giugno 2012
QUADERNO 3888

25 gennaio 1959: Giovanni XXIII a San Paolo fuori le Mura (Vatican Media)

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Il 25 gennaio 1959 fu dato l’annuncio del Concilio Vaticano II, appena tre mesi dopo
l’elezione al soglio pontificio del patriarca di Venezia, Angelo Giuseppe Roncalli. In
realtà, l’idea di indire un Concilio era presente nella mente del nuovo Papa fin
dall’inizio del suo ministero petrino; ciò non tanto, come egli stesso successivamente
ebbe a dire, per la necessità, avvenuta in passato, di definire nuovi dogmi, formulare
nuove dottrine o per confutare alcune tendenze della teologia moderna, ma poiché
riteneva che un tale evento ecclesiale avrebbe dato nuovo slancio e dinamismo alla
Chiesa in campo pastorale, spirituale e missionario, come era avvenuto dopo il
Concilio di Trento — di cui egli era conoscitore ed estimatore — e, allo stesso tempo,
avrebbe favorito l’incontro e l’unità tra i cristiani separati. A tale problema egli,
anche per le esperienze che aveva fatto in passato[1], era molto sensibile. «Come
può mai essere — egli confidò al direttore della Civiltà Cattolica durante un’udienza
— che, dopo duemila anni che il Figlio di Dio si è incarnato, così pochi lo conoscano e
tra gli stessi cristiani ci siano tante divisioni?». Disse inoltre di nutrire la speranza che
il Concilio sarebbe stato l’occasione per molti «di convertirsi individualmente al
cattolicesimo, o almeno di rivedere le loro posizioni e il loro punto di partenza».
Aggiunse però che anche i «cattolici debbono riconoscere i propri errori», in
particolare «i peccati del clero». È necessario, concluse il Papa, in tono fiducioso,
«riformarsi individualmente per preparare la riunione» [2].

L’annuncio del Concilio avvenne in un’occasione molto particolare e significativa,


cioè alla conclusione dell’ottavario — istituito da Leone XIII — della preghiera per
l’unità dei cristiani. Giovanni XXIII, dopo aver celebrato la Messa e impartito la
solenne benedizione nella basilica di San Paolo fuori le mura, tenne «concistoro» con
i 17 cardinali convenuti per la celebrazione nella sala capitolare del monastero.
Soltanto alcuni tra i cardinali presenti erano al corrente di quanto il Papa avrebbe
comunicato; e pare che neppure molti prelati della Curia, e in particolare del
Sant’Uffizio, fossero stati informati della cosa. Qualche giorno prima il Papa, «assai
titubante e incerto», aveva informato della sua decisione, che aveva nel frattempo
maturato, il suo segretario di Stato, card. Domenico Tardini, che la accolse con
entusiasmo e rassicurò il Pontefice sulla bontà e sull’opportunità dell’iniziativa[3] .
L’idea di convocare un Concilio ecumenico è stata essenzialmente una libera
decisione di Giovanni XXIII; essa però maturò attraverso il sapiente consiglio di
ecclesiastici a cui il Papa si era rivolto, anche se la questione fu tenuta riservata,
anzi segreta, fino all’annuncio ufficiale.

«Pronunciamo innanzi a voi —– disse il Papa nella sua allocuzione del 25 gennaio —,
certo tremando un poco di commozione, ma insieme con umile risolutezza di
proposito, il nome e la proposta della duplice celebrazione: di un Sinodo diocesano
per l’Urbe e di un Concilio ecumenico per la Chiesa universale». Egli parlò anche
della necessità dell’«aggiornamento» del Codice di diritto canonico. Trattando
specificatamente del Concilio — e accennando al fatto che la celebrazione di questi
eventi ha sempre aiutato la Chiesa nella formulazione di «affermazioni dottrinali» e
nello stabilire «saggi ordinamenti ecclesiastici» dando frutti di «straordinaria
efficacia» —, disse che esso mirava «a edificazione e a letizia di tutto il popolo
cristiano, a rinnovato invito ai fedeli delle Comunità separate a seguirci anch’esse
amabilmente in questa ricerca di unità e di grazia, a cui tante anime oggi anelano
da tutti i punti della terra». L’annuncio fu accolto dai cardinali presenti, per usare le
parole del Papa, «in commosso silenzio»[4]; in realtà, come si è detto, molti furono
colti di sorpresa dal triplice annuncio, che giungeva inaspettato e quindi tutto da
decodificare e da comprendere.

L’annuncio era inatteso, e sorprese tutti gli ambienti, sia quelli ecclesiastici, sia quelli
laici. In poche ore la notizia fece il giro del mondo: per la prima volta in epoca
moderna, e attraverso la forza irradiante dei media, l’attenzione del mondo intero fu
rivolta alla Chiesa cattolica e ad un evento che la riguardava. La percezione
generale era che si sarebbe assistito alla celebrazione di un evento di grande
portata, non solo per la Chiesa, ma anche per la moderna società civile
secolarizzata, sebbene in pochi, anche in ambito cattolico, sapessero quale fosse la
reale portata dell’evento annunciato. L’annuncio avveniva in un momento storico
molto particolare, dopo la fine di una guerra mondiale sanguinosa e disastrosa
come nessun’altra, in un contesto internazionale segnato dalla guerra fredda e dalla
logica delle contrapposizioni ideologiche, ma allo stesso tempo dominato dall’idea
di progresso (sociale ed economico) e dalla volontà di molte nazioni e uomini di
Stato di instaurare un ordine internazionale nuovo, fondato sulla pace e sul diritto. In
realtà, tale intento fu molte volte disatteso, come nella sanguinosa guerra di Corea.
Negli ultimi tempi alcuni eventi fecero tuttavia sperare per il meglio: molti Paesi
coloniali avevano ottenuto l’indipendenza; negli Stati Uniti era stato eletto (per la
prima volta) un presidente cattolico, sensibile ai problemi della pace e della giustizia
sociale, e perfino nell’Unione Sovietica il nuovo presidente Nikita Krusciov — che era
intenzionato a chiudere la lunga stagione stalinista — sembrava non insensibile a
questi stessi valori, oltre a mostrare una certa attenzione a quanto accadeva nella
Chiesa cattolica.

Le testate cattoliche, soprattutto quelle più vicine al Papa, diedero la notizia


dell’annuncio papale con molta prudenza e circospezione. Addirittura L’Osservatore
Romano non riportò il breve discorso[5] che Giovanni XXIII tenne ai cardinali riuniti a
San Paolo fuori le mura, anche perché doveva essere inviato per conoscenza a tutti i
porporati, ma pubblicò un breve comunicato della Segreteria di Stato, che
successivamente fu ripreso, senza commento, dalla «Cronacacontemporanea» della
Civiltà Cattolica[6].La nostra rivista iniziò a trattare con una certa ampiezza le
questioni concernenti l’annunciato Concilio soltanto a partire dal quaderno del 2
maggio 1959, nel quale sono riportati i commenti della stampa a tale riguardo[7]. La
stampa laica italiana interpretò l’annuncio pontificio secondo le indicazioni della
direzione o secondo l’orientamento politico. Quella di sinistra fu particolarmente
«partigiana» nel commentare il fatto e lo utilizzò strumentalmente per contrapporre
l’attuale Pontefice a quello precedente. L’Avanti! del 30 gennaio rilevava
«l’intonazione pastorale e conciliante» di Giovanni XXIII, contrapponendola a quella
di Pio XII, che, secondo il giornale socialista, aveva sempre mostrato scarso
interesse nei confronti delle altre Comunità separate. Secondo l’Unità (27 gennaio),
organo del Partito Comunista Italiano, il Concilio, nonostante le parole concilianti
del Papa, avrebbe condannato, come era avvenuto in passato, il mondo moderno,
considerato «materialista ed estraneo alle esigenze dello spirito», e proponeva, per
fare argine al potere clericale, una coalizione tra le forze laiche e di sinistra. Il
giornale Italia domani (8 febbraio)affermava addirittura che «il Concilio è solo una
mossa del Vaticano per assicurarsi il predominio sull’Asia e sull’Africa, mentre al
riguardo dei protestanti e della Chiesa russa non solo non contiene alcun invito, ma
piuttosto ha un significato di sfida e quasi di ostilità».

I giornali nazionali non di partito tennero un tono più contenuto, anzi il Corriere della
Sera del 27 gennaio giudicò l’annuncio di Giovanni XXIII «l’iniziativa più coraggiosa
che possa prendere un Pontefice». La Gazzetta del Popolo (27 gennaio), in un
editoriale firmato dal prof. Agostino d’Avack, affermava che l’intento del Concilio
era soprattutto quello di «creare un fronte comune per la difesa degli ideali cristiani
contro il dilagare del neomaterialismo teorico e pratico» di orientamento marxista o
meno. La Stampa di Torino (10 febbraio) pubblicava un articolo a firma dello storico
Luigi Salvatorelli, il quale in tema di unità dei cristiani metteva in guardia da
posizioni troppo ottimistiche o ireniche: «Sarà bene — scriveva — non illudersi. Tali
posizioni appaiono a chi conosce non solo i termini del problema, ma le rispettive
tradizioni psicologiche collettive, scarsissime». Il massimo che oggi si può sperare,
continuava, è creare tra le confessioni cristiane «un clima stabile di serenità e di
comprensione reciproca, con una qualche cooperazione sul piano morale e
sociale».

I maggiori giornali internazionali valutarono positivamente, a volte


entusiasticamente, l’annuncio del nuovo Concilio. Le Figaro del 27 gennaio indicava
l’annuncio pontificio come un «gesto di alto valore storico», mentre Le Monde lo
definiva come un «fattore di pace e di distensione tra gli Stati». Il New York Herald
Tribune (28 gennaio) giudicava la decisione come un gesto coraggioso, soprattutto,
scriveva, «in un momento in cui vaste zone del mondo sono in schiavitù sotto la
tirannia che nega ogni diritto individuale e sottomette ogni religione ad inumana
persecuzione», intendendo con ciò i Paesi sottoposti alla dittatura comunista. A sua
volta il New York Times del 29 gennaio definiva l’annunciato Concilio come un
«progetto meraviglioso e di significato eccezionale per tutto il mondo». Anche la
stampa di lingua tedesca espresse posizioni di sostegno e apprezzamento nei
confronti dell’iniziativa pontificia; secondo il Die Ostschweiz (del 26 gennaio) esso
era indubbiamente un «avvenimento di portata storica mondiale», mentre l’Echo der
Zeit (del 29 gennaio) lo definiva per le sue valenze in ambito ecumenico come il
«Concilio della speranza» e della riconciliazione. Secondo il giornale di Barcellona
Vanguardia española (28 gennaio) l’annuncio pontificio «è giunto in un momento
quanto mai opportuno: le Chiese scismatiche orientali sono in crisi. Queste Chiese
nazionali […] hanno sofferto le conseguenze della gravissima crisi delle rispettive
nazioni […]. Con un Papa come quello attuale, aperto alle necessità della nostra
epoca, si può prevedere che il Concilio eliminerà quegli ostacoli che, senza essere
sostanziali, finora non hanno permesso l’unità dei cristiani». Anche la stampa
latinoamericana commentò con articoli interessanti la decisione pontificia,
ritenendola opportuna per riportare ordine, dopo decenni di crisi e di sbandamento
tra le nazioni, in ambito sia spirituale sia politico[8].

Il Concilio cresce nella mente del Papa


L’annuncio del Concilio, soprattutto a motivo del richiamo all’unità tra i cristiani, che
costituiva, almeno per il momento, la vera novità del breve discorso del Papa, fu
accolto con grande interesse dalle Chiese separate di Oriente e di Occidente, che
furono colpite dal tono rispettoso e fraterno del messaggio pontificio, che si
contrapponeva all’antica ostilità generalmente usata dai cattolici (e debitamente
ricambiata) nei confronti degli «eretici» e degli «scismatici». Verso la fine di marzo
1959 fu inviato in Vaticano un rappresentante del patriarcato ortodosso di
Costantinopoli, il metropolita Iakovos di Malta. Egli fu ricevuto da Giovanni XXIII
come rappresentante del patriarca Atenagora, il quale aveva risposto con inusuale
sollecitudine e cortesia al messaggio inviatogli dal Papa il 1° gennaio di quell’anno.
Anche altre Chiese ortodosse, e orientali ortodosse come quella copta egiziana e
quella antiochena, espressero al Papa la loro attenzione per l’evento e la loro
vicinanza spirituale. Le reazioni più tempestive all’annuncio del Concilio arrivarono
da Ginevra, cioè dalla sede del Consiglio Ecumenico delle Chiese.

Già il 27 gennaio il segretario generale, il pastore olandese Willem Adolph Visser’t


Hooft, espresse a nome del Consiglio simpatia e vivo interesse per le inattese parole
del Papa sull’unità dei cristiani. Subito dopo un rappresentante dell’arcivescovo di
Canterbury consegnò a Giovanni XXIII una lettera dell’arcivescovo anglicano, la
quale spianava la via a una sua futura visita in Vaticano. Cosa che impensierì molto
gli ambienti curiali e, in particolare, il Sant’Uffizio, che giudicava affrettate sul piano
dottrinale le «aperture di amicizia» del Pontefice bergamasco. Su tale delicata
questione il Papa ritornò successivamente per chiarire il suo pensiero in materia di
strategia ecumenica e correggere alcune interpretazioni diffuse nel frattempo dalla
stampa internazionale.

Alla fine di aprile, Giovanni XXIII, anche per sollecitazione della Curia, cercò di
chiarire il suo progetto in materia di ecumenismo. In tale discorso egli fissava una
sorta di «scaletta» per giungere all’unità: «In Oriente — disse — [è necessario] il
riavvicinamento prima, il riaccostamento poi e la riunione perfetta di tanti fratelli
separati coll’antica Madre comune, e in Occidente la generosa collaborazione
pastorale dei due cleri»[9]. Ora, che fosse il Papa a dire questo, non era cosa da
poco, tanto più che egli si espresse non invitando gli «scismatici» e gli «eretici» a
«ritornare» nella casa, comune, ma a convergere verso l’unità e a cooperare per la
formazione di un «unico gregge».

Il discorso del Papa del 25 gennaio, a parte il richiamo all’unità dei cristiani, non
fissava nessun programma, neppure di massima, per il futuro Concilio, né tanto
meno dava indicazioni di contenuto su di esso, soffermandosi soltanto a sottolineare
il carattere spirituale e pastorale dell’evento. Il Papa infatti — al quale, ricordiamo,
spettava fissare l’agenda del Concilio — desiderava che fossero i vescovi stessi,
liberamente, a indicare, nei tempi e nei modi ancora da stabilire, i contenuti da
sottoporre all’attenzione delle assise conciliari[10]. Eppure nei mesi successivi
all’annuncio dell’evento a molti sembrava che la Curia fosse riuscita a ridurre il
programma giovanneo annullandone lo slancio profetico. «Poco a poco — scriveva il
teologo domenicano francese Yves-Marie Congar — le speranze suscitate
dall’annuncio del Concilio sono state ricoperte da un sottile strato di cenere. C’è un
lungo silenzio, una sorta di black out, appena interrotto da questa o quella
simpatica dichiarazione del Papa»[11], le quali, continua il teologo, «sembrava che
avessero arretrato rispetto all’annuncio primitivo».

Giovanni XXIII ritornò a parlare del Concilio in occasione della festa di Pentecoste (17
maggio 1959), prendendo spunto dalla ricorrenza per indicare questo avvenimento
come una «nuova Pentecoste», definizione che da allora in poi venne quasi sempre
associata all’evento conciliare. In tale circostanza il Papa rendeva pubblica
l’istituzione della «Commissione ante-preparatoria» incaricata di raccogliere il
materiale per l’avvio del Concilio e di formulare proposte per la composizione degli
organi che avrebbero gestito la preparazione vera e propria dello stesso. L’atto
pontificio stabiliva che tale Commissione fosse composta da dieci cardinali, tutti di
Curia e italiani, mentre la direzione della stessa veniva assegnata al cardinale
Segretario di Stato. Alla segreteria fu chiamato un prelato della Sacra Rota, mons.
Pericle Felici, che avrebbe conservato tale incarico per tutta la durata del Concilio.
Se la decisione del Papa di nominare tale Commissione mostrò a tutti in maniera
inequivocabile che sulla convocazione del Concilio egli non aveva cambiato idea,
come invece molti speravano, la composizione «tutta romana» della stessa fu vista,
soprattutto dai «transalpini», come un segnale non favorevole. Tale valutazione si
rivelò, come dimostreranno ampiamente i fatti, del tutto errata, e il Papa già
dall’inizio s’impegnò ad assicurare la libertà del Concilio e a fare in modo che la sua
agenda di lavoro fosse determinata dagli stessi padri conciliari, chiamati a
esprimersi liberamente su tale materia.

In realtà la Curia, attraverso mons. Felici, aveva chiesto al Papa che la


determinazione della materia che sarebbe stata trattata in Concilio fosse affidata
alla Commissione romana e che ai vescovi venisse inviato un «questionario preciso»
con l’invito a rispondere che cosa essi pensavano sulle singole questioni indicate nel
prestampato. Il Papa bocciò tale proposta e dispose che nella lettera indirizzata a
tutti i vescovi e agli altri aventi diritto si chiedesse quali erano, a loro parere, le
questioni che dovevano essere trattate dal Concilio. La Curia ottenne che le
Commissioni preparatorie (incaricate di redigere i testi) e quelle conciliari ordinate
per materia fossero presiedute dai prefetti del corrispondente dicastero romano. Il
Papa però stabilì che il segretario delle singole commissioni fosse scelto fuori della
Curia. Ciò che fu fatto effettivamente.

La Commissione ante-preparatoria lavorò fino all’aprile del 1960, ordinando in base


al contenuto le circa 2.000 risposte, che arrivarono da ogni parte del mondo. La
lettera, e non il questionario, con la data del 18 giugno 1959, che fu inviata con la
firma del card. Tardini a tutti i vescovi del mondo e ad altri aventi diritto a
partecipare al Concilio, in modo semplice e diretto diceva: «Il Venerabile Pontefice
desidera conoscere le opinioni o i punti di vista e ricevere i suggerimenti e desideri
delle Eccellenze Vostre, vescovi e prelati convocati per legge (canone 223) a
prendere parte al Concilio ecumenico […]. Questi [suggerimenti] saranno utilissimi
per preparare gli argomenti da discutere nel Concilio». La lettera, inoltre, esortava i
vescovi a esporre le loro idee con grande libertà e su «qualsiasi tema» che essi
volessero fosse trattato in Concilio. Il 77% dei vescovi rispose nel giro di poco tempo
alla lettera del Segretario di Stato: alcuni con sole poche righe, altri inviarono a
Roma relazioni voluminose. Quando, dopo il Concilio, queste risposte furono date
alle stampe, riempirono otto volumi, che superavano abbondantemente le 5.000
pagine[12].
Tale materiale fotografa bene la situazione della Chiesa cattolica di quegli anni.
Innanzitutto, sul piano dottrinale si chiede la conferma del magistero dei Papi
precedenti, in particolare quello recente di Pio XII. Si chiede inoltre la condanna dei
mali moderni, sia quelli interni sia quelli esterni alla Chiesa, in particolare il
liberalismo laicista e il comunismo ateo. Alcune risposte erano un poco più audaci e
chiedevano una maggiore responsabilizzazione dei laici nella Chiesa e l’adozione
del volgare nella sacra liturgia. Alcuni vescovi di Paesi non occidentali chiedevano
inoltre l’abolizione del celibato ecclesiastico. Numerose inoltre erano le proposte
circa nuove formulazioni dogmatiche, o di altro tipo, sulla Vergine Maria[13].

I criteri di orientamento del Concilio secondo Giovanni XXIII


Nel giugno 1960 il lavoro di preparazione del Concilio riprese il suo corso: furono
nominate una Commissione cardinalizia centrale e 10 Commissioni preparatorie,
competenti per i diversi ambiti tematici. Esse praticamente ricalcavano le
competenze delle Congregazioni della Curia ed erano presiedute dai rispettivi
prefetti. La sola Commissione che non aveva alle spalle una Congregazione di
riferimento era quella sull’apostolato dei laici. Successivamente il Segretariato per
l’unità dei cristiani, presieduto dal cardinale Agostino Bea —, che aveva come
compito originario quello di prendere contatto con le Chiese separate e invitare,
come osservatori, al Concilio i loro rappresentanti —, fu equiparato, per volontà del
Papa, alle altre Commissioni, con il compito dunque di intervenire nella redazione
dei testi. Tale decisione ebbe un grande influsso sulle sorti del Concilio, in quanto i
suoi membri provenivano da diverse nazionalità e riflettevano universi mentali
differenti. La maggior parte dei membri che componevano le Commissioni
preparatorie, incaricate di redigere gli schemi da portare nel Concilio, provenivano
dagli ambienti romani, anche se con il passare dei mesi vi furono inseriti vescovi e
teologi provenienti da altre culture e continenti, che portarono nelle Commissioni
idee nuove e modalità diverse di approccio pastorale.

Ora, poiché in questa fase non esisteva ancora un disegno organico delle questioni
da trattare nel Concilio, il lavoro preparatorio si andò frantumando in una miriade di
argomenti, a volte secondari, dando vita a un numero spropositato di schemi (circa
70); e poiché non c’erano contatti tra le Commissioni competenti, una stessa materia
veniva spesso trattata diverse volte e secondo prospettive differenti. In generale si
può dire che tali schemi preparatori di solito si limitavano a «riepilogare» gli
insegnamenti dottrinali degli ultimi Pontefici, soprattutto quello particolarmente
ricco di Pio XII.
Questa fase durò due anni e fu molto intensa; essa si concluse il 2 febbraio 1962 con
la decisione di Giovanni XXIII di fissare per l’11 ottobre dello stesso anno l’inizio dei
lavori dell’assemblea conciliare. Nei quasi quattro anni di preparazione del Concilio,
anche nella mente del Papa, come si è detto, si erano andate maturando idee e
prospettive nuove; in questo «tempo di grazia», come disse, egli ebbe modo di
approfondire alcuni importanti temi che avrebbero indirizzato in modo significativo
il percorso del futuro Concilio.

Si può anche dire che nella mente del Papa il Concilio prese forma e vita poco alla
volta; in questo egli fu aiutato da vescovi e teologi con i quali nel frattempo era
entrato in confidenza (come mons. Suenens, vescovo di Bruxelles-Malines, che egli
nominò cardinale prima dell’apertura del Concilio, e i cardinali Bea, Léger, Lercaro,
Montini e altri): la profetica intuizione iniziale andò poco alla volta assumendo una
fisionomia ben precisa e definita e per nulla generica, come spesso è stato detto. Il
punto di arrivo, il frutto maturo, di questo lungo percorso è stato il Gaudet mater
Ecclesia, cioè il grande discorso di apertura delle assise conciliari, che più di ogni
altro testo sintetizza il pensiero di Giovanni XXIII sul Concilio.

Fin dall’inizio il tema principale del Concilio per Giovanni XXIII doveva essere quello
dell’«aggiornamento»; di questo aveva parlato, sebbene in modo ancora generico,
nell’allocuzione ai cardinali del 25 gennaio nella basilica di San Paolo fuori le mura.
Con questa parola — che passò in italiano nel vocabolario corrente del Concilio e
nella successiva pubblicistica — egli indicava la necessità che la Chiesa
annunciasse il Vangelo di Gesù Cristo all’uomo contemporaneo in maniera da
comprendere anche le specifiche esigenze dei tempi. Chiedeva, inoltre, alla
comunità dei credenti di lasciarsi alle spalle la lunga stagione di lotte e di
contrapposizioni, che spesso aveva visto su versanti opposti la Chiesa e il mondo
moderno, e di superare la mentalità intransigente che aveva caratterizzato buona
parte del magistero ecclesiastico e una certa pratica pastorale.

«Aggiornamento», secondo il Papa, non significava semplicemente «riforma» della


Chiesa — secondo una prospettiva tipicamente tridentina —, ma indicava piuttosto la
disponibilità dei cattolici e della Chiesa nel suo insieme a ricercare una rinnovata
inculturazione del messaggio cristiano nella vita e nel pensiero contemporaneo.
Secondo il teologo domenicano p. Marie-Dominique Chenu, «aggiornamento non
significa solo qualche modifica di parole in un linguaggio stereotipato […], indica
invece la sostanza permanente e autentica della fede, un’interiore invenzione di
concetti, di categorie, di simboli, che siano omogenei alla mentalità alla cultura, alla
lingua, all’estetica degli uomini di oggi»[14].
Altro concetto chiave presente fin dall’inizio nella mente del Papa è la «pastoralità»
del Concilio, principio da lui affermato in diverse occasioni e spesso frainteso.
Secondo alcuni studiosi, sembra che con tale caratterizzazione il Papa intendesse
superare il binomio tridentino dottrina-disciplina (fides et mores), come fondamento
del lavoro e delle decisioni conciliari, e volesse un orientamento non controversista o
conflittuale dell’opera del Concilio. Ciò di fatto significava rinunciare alla definizione
di nuovi dogmi dottrinali o alla formulazione di nuove condanne, ma adottare uno
stile più fraterno, ispirato all’accoglienza e al rispetto dell’altro e aperto al dialogo e
alla condivisione. Pastoralità e aggiornamento, così intesi, hanno posto le premesse
per evitare che la «teologia» sia meramente intesa come isolamento della
dimensione dottrinale della fede e sua concettualizzazione astratta, come anche
per il superamento del giuridismo.

Il principio di pastoralità è stato interpretato da una parte dei teologi, in particolare


da coloro che intendevano ridurre l’autorevolezza delle decisioni conciliari, come un
elemento di debolezza del Vaticano II; essi di fatto consideravano tale principio
come una categoria teologica secondaria rispetto all’elemento dottrinale, quasi che
essa riguardasse soltanto il momento dell’esecuzione e della messa in opera dei
«dati dottrinali della rivelazione». A tale riguardo Chenu sottolineava che «tutto
questo Concilio è pastorale, come presa di coscienza, da parte della Chiesa, della
sua missione. Tutto questo Concilio è dottrinale, perché esso vuole essere la
presenza del Vangelo per e nella Chiesa. Originalità sensazionale di un Concilio che,
senza ignorare gli errori, le malvagità, le oscurità di questo tempo, non si pone in
atteggiamento di tensione o di chiusura verso di esso, ma discerne soprattutto nelle
sue speranze e nei suoi valori richiami impliciti del Vangelo e vi trova la materia e la
legge di un dialogo»[15].

Va ricordato inoltre che tale elemento, tipicamente giovanneo (come risulta


dall’allocuzione Gaudet mater Ecclesia), fece subito breccia nella mente dei padri
conciliari, e alcuni dei primi schemi (in particolare quello sulle fonti della Rivelazione
e quello sulla Chiesa) furono criticati e respinti, già nella prima sessione conciliare,
proprio sulla base del principio di pastoralità, che secondo essi vi era disatteso.

Come si è prima accennato, un altro elemento presente nella mente di Giovanni


XXIII fin dall’origine, e che anzi fu avvertito nella percezione comune come la
ragione immediata della convocazione di un nuovo Concilio, era la chiamata
all’unità di tutta la Chiesa. Su questo tema il Papa, anche alla luce delle sue
esperienze personali, era particolarmente sensibile, anche se all’inizio non si
comprendeva bene quale significato si dovesse dare alle sue parole. Come si è
detto prima, il Papa dovette intervenire per specificare meglio questo aspetto ed
evitare fraintendimenti o malevole interpretazioni del suo pensiero.

Ciò che il Papa intendeva sollecitare era la disponibilità dei cattolici a farsi
coinvolgere in un cammino verso l’unità delle Chiese cristiane. Egli desiderava che al
Concilio partecipassero, nella veste di osservatori attivi e non passivi, i
rappresentanti delle Chiese di Oriente e di Occidente; per questo, accogliendo un
suggerimento del card. Bea e del vescovo di Paderborn, mons. Lorenz Jaeger, egli
istituì il Segretariato per l’Unità dei Cristiani. Gli osservatori, per regolamento,
parteciparono a tutte le congregazioni generali, indipendentemente dal tema
trattato, e furono coinvolti a diversi livelli anche in altre importanti attività del
Concilio.

Infine un altro argomento molto caro a Giovanni XXIII era la libertà del Concilio.
Secondo il Papa, proprio i vescovi sarebbero dovuti essere i veri protagonisti del
Concilio. La definizione dell’infallibilità, secondo la sua mente, non avrebbe dovuto
nuocere in nulla alla libertà del Concilio e in nessun caso poteva spingere i vescovi
all’inattività o ad assumere un ruolo passivo nella cura e nel governo della Chiesa
universale. Egli desiderava che i vescovi nel Concilio svolgessero pienamente la loro
parte e, abbattendo barriere ideologiche e culturali, imparassero a lavorare insieme
e a condividere le loro esperienze pastorali per il bene della Chiesa universale.

«Per quanto riguarda il Concilio — scrive nel suo diario il p. Tucci, riportando le parole
del Papa —, egli dice di essere pienamente soddisfatto: il Concilio è veramente
entrato in pieno nel suo lavoro soltanto nelle ultime settimane, quando ha
cominciato a comprendere le implicazioni del messaggio di settembre e del discorso
inaugurale dell’11 ottobre» (udienza del 9 febbraio 1963)[16].

Il Papa si sfoga con il gesuita su alcune posizioni che erano emerse nella prima
sessione del Concilio, a suo avviso troppo dure e poco aperte al dialogo, soprattutto
in materia di Scrittura e di ecclesiologia. Egli, soprattutto su queste materie, fece di
tutto per assicurare la tanto auspicata libertà del Concilio. In particolare, come
leggiamo nei diari del p. Tucci, il Papa criticava «quei padri conciliari che, per il fatto
di essere stati professori di teologia, credono di dover fare dei testi conciliari dei
manuali di teologia». Riaffermava ancora a chiare lettere, individuando la vera
natura del Concilio, «che non si tratta di dirimere questioni dottrinali, poiché non gli
pare vengano oggi agitate questioni la cui soluzione è necessaria per evitare gravi
danni alla fede della Chiesa».
Il Papa, come si è detto, aveva molto a cuore la libertà del Concilio. «Nella prima
sessione — annotava il p. Tucci — il Papa ha preferito non intervenire ai dibattiti per
lasciare ai Padri la libertà di discussione e la possibilità di trovare la giusta via da sé;
d’altra parte egli, non avendo la necessaria competenza nelle varie questioni, con
qualche suo intervento avrebbe potuto creare più disturbo che aiuto; i vescovi
dovevano imparare da sé e lo hanno fatto»[17]. Questo era lo spirito della pedagogia
conciliare di Giovanni XXIII, che ha dato l’avvio al lungo percorso conciliare e, già
da subito, ha permesso ai vescovi di diventare i protagonisti del «grande evento» del
Concilio, della «nuova Pentecoste», che si stava celebrando nella basilica vaticana.

Copyright © La Civiltà Cattolica 2012


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***

[1] Nella primavera del 1925 il neovescovo mons. Roncalli (consacrato a Roma nella
chiesa di San Carlo il 17 marzo) fu invitato dal Papa come visitatore e delegato
apostolico in Bulgaria, dove esisteva un piccola comunità cattolica divisa tra il rito
orientale e quello latino. Nel novembre 1934 fu nominato delegato apostolico in
Turchia e Grecia. Si insediò nella nuova sede con il titolo di arcivescovo di
Mesembria nel gennaio 1935. Rimase a Istanbul fino al dicembre del 1944, quando
Pio XII lo scelse per la prestigiosa nunziatura di Parigi. Cfr M. RONCALLI, Giovanni
XXIII. Angelo Giuseppe Roncalli. Una vita nella storia, Milano, Mondadori, 2006, 174-
282; A. MELLONI, Papa Giovanni. Un cristiano e il suo Concilio, Torino, Einaudi, 2009,
141 s.

[2] Archivio della Civiltà Cattolica (ACC), Carte del p. Roberto Tucci.

[3] Cfr G. Caprile, Il Concilio Vaticano II. Annuncio e preparazione, vol. I/1, Roma, La
Civiltà Cattolica, 1966, 43

[4] Ivi, 51. Il Papa stimava molto il cardinale Tardini che, nonostante le resistenze del
presule, aveva voluto che divenisse Segretario di Stato e suo fidato collaboratore nel
governo della Chiesa universale. «Disse — confidò al p. Tucci — di averlo stimato dal
tempo in cui furono studenti insieme e di credere che Tardini non lo stimasse molto.
Ma ammirava la sua lealtà e sincerità e disse che in fondo si sono sempre trovati
sostanzialmente d’accordo; pur partendo spesso da punti di vista opposti, ci si
incontrava a mezza strada»: ACC, Carte del p. Roberto Tucci. Udienza del 1°
febbraio 1960.
[5] Fu riportato sugli Acta Apostolicae Sedis 51 (1959) 65-69. Il testo fu pubblicato
anche nella Documentation catholique del 29 marzo 1959, 385-388.

[6] Tale comunicato, trattando delle necessità della Chiesa universale, nell’ultima
parte, diceva: «Per quanto riguarda la celebrazione del Concilio Ecumenico, esso nel
pensiero del Santo Padre mira non solo alla edificazione del popolo cristiano, ma
vuole essere altresì un invito alle comunità separate per la ricerca dell’unità, a cui
tante anime oggi anelano da tutti i punti della terra», in Oss. Rom., 26-27 gennaio
1959.

[7] Cfr G. Caprile, «Primi commenti all’annuncio del futuro Concilio», in Civ. Catt. 1959
II 283-295.

[8] Sulle reazioni della stampa nazionale e internazionale all’annuncio del Concilio
cfr Id., Il Concilio Vaticano II. Annuncio e preparazione, cit., 57 s.

[9] Discorsi, Messaggi, Colloqui del S. Padre Giovanni XXIII, vol. I, Città del Vaticano,
Tip. Vaticana, 1960, 903.

[10] In ogni caso «Giovanni XXIII non ha partorito il Concilio tutto fatto, come
Minerva dal cervello di Giove. Gli scopi e la natura sono stati progressivamente
sbozzati, messi a fuoco e approfonditi nei loro spessori e nelle loro implicazioni nel
corso della riflessione personale del Papa, anche a contatto con gli echi e le critiche
suscitate nella Chiesa e tra i cristiani dall’annuncio della convocazione, con
l’evolversi della situazione mondiale e, infine, con l’avvio della preparazione stessa
del Concilio» (G. Alberigo [ed.], Storia del Concilio Vaticano II, vol. I, Bologna, il
Mulino, 1995, 51).

[11] Ivi, 59 s.

[12] Cfr J. W. O’Malley, Che cosa è successo nel Vaticano II, Milano, Vita e Pensiero,
2010, 21.

[13] Ivi, 22. Sulla base di tale materiale fu redatta una «Breve sintesi finale sui consigli
e suggerimenti degli Ecc.mi Vescovi e prelati di tutto il mondo per il futuro Concilio
ecumenico», che concluse il lungo e faticoso lavoro della Commissione ante-
preparatoria. Partendo da questo testo, mons. Felici mise a punto le «Questioni poste
alle Commissioni preparatorie del Concilio», che funsero da base per i futuri
«schemi» da sottoporre all’attenzione dei padri conciliari.
[14] M. D. Chenu, «Un pontificat entré dans l’histoire», in Témoignage chrétien, 7
giugno 1963

[15] Id., «Una costituzione pastorale della Chiesa», in Il tetto 2 (1965) n. 10-11, 17.

[16] ACC, Carte del p. Roberto Tucci.

[17] Ivi.

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