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L'umano desiderio di infinito che denuncia Baudelaire in questo passo tratto da I paradisi artificiali è

uno stilema proprio di tutta la letteratura romantica, soprattutto quella di origine germanica. Il termine
streben - codificato in epoca tardo sttecentesca dal movimento dello Sturm und Drang - indica infatti
l'incolmabile desiderio di conoscenza che accomuna tutti gli uomini. Questo concetto si definisce
vividamente nel dramma faustiano: Faust cede alle avances di Mefistofele perchè convinto che
nemmeno il demone potrà placare la sua sete di conoscenza e finisce così per giocarsi l'anima.
Analogalmente il modello umano baudelairiano pecca di superbia e ingenuità nei confornti del male
fisico - droghe e alcol - e convinto di poterlo gestire, esso si fa invece sopraffarre in tutto il suo essere. A
mutare, rispetto agli autori strettamente romantici, è l'oggetto di questo incessante desiderio, se per
questi ultimi è la nuda conoscenza, per il poeta francese è la consapevolezza dell'unità e vividità naturale
che i moderni hanno perduto e che gli antichi invece possedevano. La natura, rifacendoci al pensiero di
Leopardi, non è dunque matrigna in quanto tale, sono bensì gli individui ad averla disconisuta come
madre durante il loro cammino verso il progresso. Questa distinzione rende Baudelaire, benchè post
romantico, più vicino al Foscolo dello Jacopo Ortis che al poeta di Recanati.

Il male fisico di cui sopra, benchè maggiormente normato, non ha mai smesso di affliggere la società
occidentale e permane come piaga anche nel nostro secolo. Il desiderio di astrarre dalla crescente
atomizzazione figlia dello sviluppo capitalista è oggi esponenzialmente amplificato dal massiccio utilizzo
di social e piattaforme di messaggistica istantanea che costituiscono un surrogato sempre più preferbile
alla comunicazine analogica. L'alcol e le droghe, oltre che soddisfare quel bisogno di trascendere il
grigiume prodotto dall'eccessiva razionalizazione già denunciato da Baudelaire, subentrano a colmare
quel vuoto che si va a creare tra individui abituati ad interagire unicamente attraverso la mediazione di
uno schermo quando questi si incontrano con corpo e mente.

In questo breve frammento tratto da Angelus Novus, il noto pensatore tedesco di origine ebraica Walter
Benjamin propone una riflessione sul mezzo fotografico che egli compie a partire da alcuni pensieri già
precedentmente espressi da Charles Baudelaire. Il carattere della riflessione è strettamente personale,
l'autore non argomenta nulla seguendo le regole della logica, imprende bensì un dialogo col lettore
basato su sensazioni personali più che su premesse definite, riproponendogli, dopo averli fatti propri, i
timori del poeta maledetto. Se Baudelaire, che della fotografia aveva conosicuto solo gli albori, può
essere dunque scusato per la sua analisi così carica di pessimismo e avversione nei confronti del
progresso tutto, tale da riuscire a far eco al pensiero del poeta di recanati; Benjamin, che invece aveva
conosciuto gran parte degli svilpuppi artistici novecenteschi di questo mezzo, non ha alcun appiglio a cui
aggrapparsi per riconfermare quell'analisi catastrofica. La fotografia toglierebbe spazio alle forze
irrazionali dell'immaginazione - Leopardi - perchè differentmente dalle altre arti figurative, oltre che
utilizzare la stessa meteria di cui è fatto il mondo, questa sarebbe ripetibile. Questo è il nocciolo duro
attorno cui ruotano le analisi di Benjamin e Baudelaire, ampiamente smentite dal percroso storico che il
mezzo fotografico compie nel corso di tutto il novecento e dalla svolta artistica che lo caratterizza.
Fotografia e cinema sono le arti dei moderni, una pellicola filmica appare pertanto oggi irripetibile alla
stregua del David di Michelangelo o del Viandante sul mare di nebbia di Caspar Friedrich, chi potrebbe
riproporre 2001 Odissea nello spazio nella maniera in cui Stanley Kubrick lo aveva concepito e girato nel
1968? Nessun remake, se mai ce ne sarà uno, potrà sovrapporsi o anche solo avvicinarsi al soggetto e il
girato kubrickiano che sarà per sempre unico e irripetibile.

Alla luce degli eventi traumatici caratterizzanti dell'intera sua vita, è possibile interpretare gran parte
della produzione poetica di Giovanni Pascoli come il tormentato tentativo di ritrovare quella felicità data
dall'unità familiare di cui il poeta fu bruscamente privato con l'assassinio del padre Ruggero, a questo
evento Pascoli stesso dedicò la poesia X agosto, contenuta nella raccolta Myricae e pubblicata per la
prima volta nel 1891. Qui il poeta romagnolo inscena con estrema lucidità il terribile misfatto avvenuto
nella notte di S. Lorenzo del 1867, le capacità retoriche e descrittive di Pascoli sono tali che il fenomeno
sale dalle quartine vivido alla mente e il significato attribuito a quel traumatico evento è reso senza
equivoci dall'analogia con una altra scena, contigua alla prima e connotata della simile potenza
figurativa: l'assasinio della madre dei rondinini mentre questa procurava loro il nutrimento. La struttura
del testo poetico è caleidoscopica ed a contenere le due scene è il cielo, descritto nell'ultima quartina
come l'involucro entro cui il male velocemente si dipana. Il cielo è uno stilema propro della poetica di
Giovanni Pascoli e da semplice contorno quale è in X agosto diviene poi soggetto e protagonista della
scena nei testi poetici il Lampo e Il Tuono, sempre contenuti in Myricae. Questi, perfettamente congiunti
tra loro, sembrano quasi il naturale continuo di X agosto e segnano per il poeta il passaggio dalla fisica
alla metafisica. Ciò che in X agosto era estensione e corpo diviene qui più rarefatto e smbolico, ampio
spazio viene lasciato alle percezioni immateriali che liberandosi fanno assumere alle quartine una
valenza quasi spirituale. Quel nido familiare così meticolosamente descritto in X agosto è ora
rappresentato dalla casa che, illuminata per un istante dal lampo, torna a sparire nell'oscurità con la
brevità di un battito di ciglia. A seguire poi il tuono, il cui rumore frastornante segna la fine della
tempesta e il ritorno alla quiete personificata dal canto della madre con la sua culla, come a voler
simboleggiare che il male, proprio per quella caducità che lo rende assimilabile ad una atomo opaco,
non ha le forze e men che meno le capacità per imporsi sul bene nella lotta eterna che li coinvolge e
dunque, come il poeta lascia trapelare nella poesia il gelsomino notturno, per ogni nido distrutto ve ne è
sempre uno in costruzione.

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