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Alessandro Di Battista
26 Maggio 2023
Nel suo ultimo libro, L’imbroglio dello sviluppo sostenibile, Maurizio Pallante ricorda che la
riduzione dei consumi di risorse naturali si può ottenere “limitando gli sprechi; aumentando
l’efficienza dei processi di trasformazione delle materie prime in beni; producendo oggetti che
durano di più e sono recuperabili; recuperando e riutilizzando i materiali contenuti negli oggetti
dismessi; ridimensionando il valore dell’innovazione perché induce ad accelerare i processi di
sostituzione degli oggetti, anche quelli che svolgono ancora perfettamente la loro funzione;
riducendo la mercificazione con lo sviluppo dell’autoproduzione e degli scambi fondati sul dono
reciproco del tempo; valorizzando le relazioni umane fondate sulla solidarietà”. Se tutto questo
non dovesse esser fatto in tempi brevissimi, il rischio estinzione per l’umanità aumenterebbe
considerevolmente. Qual è il problema? Tali azioni cozzano con l’essenza stessa delle società che
finalizzano l’economia all’aumento della produzione di merci. Le società dei consumi! Negli anni
70′, dalle dune di Sabaudia, Pier Paolo Pasolini parlava di fascismo e società dei consumi. “Ora
invece succede il contrario, il regime è un regime democratico, però quella acculturazione,
quell’omologazione che il fascismo non è riuscito assolutamente ad ottenere, il potere di oggi, il
potere della civiltà dei consumi riesce invece ad ottenere perfettamente distruggendo le varie realtà
particolari, togliendo realtà ai vari modi di essere uomini che l’Italia ha prodotto in modo
storicamente molto differenziato. E allora io posso dire senz’altro che il vero fascismo è proprio
questo potere della civiltà dei consumi che sta distruggendo l’Italia. E questa cosa è avvenuta
talmente rapidamente che non ce ne siamo resi conto”. In un momento in cui si è tornati a parlare,
spesso a sproposito, di fascismo tout court, è bene rileggere queste parole. Parole che ci fanno
comprendere perché Pasolini non venne avversato soltanto da destra.
La solita ipotetica svolta ottenuta grazie all’ultimo pacchetto di armi inviato. Quel che ci dissero
dopo l’invio dei razzi anticarro Javelin, dei lanciarazzi multipli Himars, dei Patriot, dei Leopard.
Il tutto per convincerci della bontà della strategia occidentale in Ucraina. Adesso proviamo a
pensare alla guerra come una delle innumerevoli modalità per rafforzare il fine ultimo della civiltà
dei consumi, per dirla alla Pasolini. Ovvero evitare in ogni modo che la domanda di merci cresca
meno dell’offerta. Quando questo è avvenuto gli esiti per la produzione industriale sono stati
catastrofici. Ebbene qual è il solo modo, ancor di più in un momento in cui la maggior parte dei
giovani, giustamente, pensa alle lotte ambientali e climatiche, per accrescere la produzione
industriale di armamenti? Fare (o promuovere) guerre e convincerci, oltretutto, che queste siano
scontri di civiltà da vincere ad ogni costo. Questa è la “scommessa” meloniana sulla vittoria
ucraina. Non sappiamo chi vincerà sul campo. Sappiamo chi sta vincendo nei consigli di
amministrazione.
E qual è il modo più rapido per dismetterli? Donarli e farli distruggere. E’ la guerra e, soprattutto, è
il modello economico che ci circonda e che non accetta la produzione di oggetti che durano di più
e sono recuperabili. E questo vale per le auto, per i cellulari, per i pc, per i forni a microonde e per
i cacciabombardieri. La guerra, soprattutto oggi, è necessaria per evitare che diminuisca la domanda
di sistemi d’arma, ovvero quel che farebbe crollare la produzione militare. In particolare, poi, vi è
una tipologia di guerra particolarmente utile a tale obiettivo: l’endless war, la guerra senza fine.
Come la guerra in Afghanistan la quale, se fosse durata pochi mesi e non vent’anni, gli oltre 2000
miliardi di dollari spesi dai paesi occidentali per portarla avanti sarebbero rimasti nelle casse degli
stati per la gioia di medici, infermieri e pazienti, professori, maestre e alunni, ricercatori e genitori
che li vedono fuggire via. Non certo per quella dei consiglieri di amministrazione della Lockheed
Martin e dei fondi finanziari che ne detengono i principali pacchetti azionari.