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Emanuele Menconi

IL COSIDDETTO “STILE RUBATO”


Osservazioni sulla sua origine ed applicazione negli stili esecutivi
dei secoli XVI, XVII, XVIII

Indice

PREMESSA 3

La stampa musicale e la perdita del non-scritto 4

L’antenato del Rubato: il Canto Gregoriano 7

Tempo Rubato: un “glorioso latrocinio” 9

Le Notes Inégales 16

La Variazione Melodica 20

L’Ornamentazione 23

L’Arpeggio 29

Arpeggio e tempo rubato: le forme libere del periodo Rinascimentale-Barocco 31

CONCLUSIONI 33

BIBLIOGRAFIA 34

1
PREMESSA
Nella seconda metà del XX secolo il modernismo musicale si affermò in maniera sempre più
prorompente. I compositori del novecento si cimentaroni nel tentativo di creare uno stile nuovo e
per certi versi rivoluzionario, attraverso un deciso strappo con il passato. Ciò avvenne anche
mediante il brusco superamento di alcuni dei precetti fondamentali che avevano guidato e
caratterizzato la musica fino ad allora. Ne è un esempio lampante, fra gli altri, la progressiva rottura
della tonalità. Questo processo di rinnovamento da un lato portò ad inaugurare una nuova stagione
musicale, che puntava a svincolarsi sempre di più dai canoni teorici e dalle strutture formali che
avevano caratterizzato i secoli precedenti; ma dall'altro lato contribuì a risvegliare un desiderio di
riscoperta del repertorio antico, in particolare dei secoli XVI, XVII e XVIII. Vide la luce un
consistente numero di ristampe di pagine di musica antica e gli esecutori cominciarono ad
interrogarsi sulla sua corretta interpretazione. Si riaffermava una fondamentale metodologia di
approccio, fondata sull’indagine critica, che i musicisti della precedente generazione avevano
colpevolmente trascurato.

...a differenza delle arti immediatamente percepibili, la musica si trovava in una situazione
particolarmente delicata perché aveva bisogno di interpreti.
I musicisti dell’800, partendo da nuove basi, non potevano immaginare che i segni della
musica fossero stati letti, un tempo, in modo diverso da come essi stessi li leggevano; non
avevano infatti la minima nozione delle antichissime convenzioni che fino a poco tempo
prima avevano regolato l’esecuzione musicale e soprattutto non passava loro neanche per
la testa che potesse esistere un’estetica diversa dalla loro.
Lo sbalorditivo verdetto di quel tempo finì per fare scuola, ed è contro una specie di
tradizione che urtano gli insegnamenti autentici e le prove accumulate da mezzo secolo a
questa parte contro quel sorprendente e monumentale deviamento artistico. […] Da allora,
a quanto pare, i musicisti, sempre fidandosi della competenza dei loro predecessori, non
ricorsero più agli antichi trattati riguardanti l’esecuzione se non per quanto concerneva la
traduzione dei segni di abbellimenti, evidentemente ritenendo che fosse quella l’unica
particolarità della Musica Antica. Spesso anzi, parve più comodo ignorare il problema.1

Queste affermazioni forniscono lo spunto per una interessante riflessione riguardante il corretto
approccio alla Musica Antica ed alla sua esecuzione. Esso non può in alcun modo prescindere da
un’attenta e scrupolosa consultazione dei trattati dell’epoca (in particolar modo i metodi tedeschi e
francesi, particolarmente dettagliati, ma anche gli avvertimenti di Caccini, Frescobaldi,
Monteverdi...), che ci forniscono precise ed inequivocabili indicazioni sulle intenzioni degli autori e
sulla corretta resa espressiva delle loro composizioni.
Ignorare tali indicazioni porta ad un evitabile allontanamento della propria esecuzione da quelle che
erano le intenzioni originali dell’autore. E’ proprio questo, infatti, ciò che accade se si pretende di
leggere le antiche partiture dando ai segni musicali i significati che hanno nel nostro tempo, senza
tener conto del loro significato originario.
Si assiste così, da diversi decenni, ad una presa di coscienza sempre maggiore sulle problematiche
relative alla “corretta” prassi esecutiva dei secoli passati, con la volontà di indagare e comprendere
le ragioni di fondo di questo fenomeno. Ci si propone di analizzare gli “errori” di interpretazione
compiuti dai nostro predecessori; non tanto per il gusto di individuarne i colpevoli, quanto per far sì
che non si ripetano e restituire in tal modo agli esecutori un autentico e corretto approccio alla
Musica Antica.

1 Antoine Geoffroy-Dechaume, I Segreti della Musica Antica (1973), pagg. 5-8.

2
La stampa musicale e la perdita del non-scritto
Prima di procedere e di addentrarsi nei dettagli dell’interpretazione, è interessante ripercorrere
brevemente alcune fasi della storia della notazione musicale, per capire alcune delle cause di questo
allontanamento progressivo tra segni grafici ed effettiva resa in musica. Già nel Trecento la
notazione musicale aveva raggiunto un notevole livello di ricchezza e complessità.2
La varietà di soluzioni ritmiche in mano ai compositori era già notevole e molto spesso una stessa
soluzione poteva essere espressa mediante molteplici segni grafici. Parallelamente, la formazione
musicale non poteva prescindere dall’apprendimento di alcune “regole di gusto” che consentivano
una corretta interpretazione dal punto di vista espressivo della scrittura. Queste “regole” erano
talvolta molto difficili da esprimere compiutamente in forma scritta, ma un allievo immerso
nell’atmosfera del tempo non aveva difficoltà a desumerle attraverso l’ascolto e la successiva
pratica.
Una successiva tappa, fondamentale nella storia della notazione musicale, è rappresentata dalla
rivoluzione tipografica. A partire dagli inizi del Cinquecento avvenne una storico rinnovamento
delle modalità di trasmissione della musica: con l’invenzione dei caratteri mobili, si cominciò a
stampare ciò che fino ad allora era stato tramandato mediante manoscritti. Per rispondere a questa
nuova esigenza, fu operata una ripulitura dal punto di vista grafico della notazione, per favorire la
leggibilità e la pulizia delle stampe.
A questo, ovviamente, non si fece corrispondere un appiattimento del risultato musicale, tramite la
cancellazione di molte delle combinazioni ritmiche adoperate dai compositori. Nulla doveva
cambiare nell’esecuzione. La semplificazione riguardava soltanto l’aspetto grafico ed estetico della
scrittura. Si voleva semplicemente evitare di trascrivere e di conseguenza di rendere troppo arida e
meccanica la varietà ritmica; quest’ultima non scompariva affatto, ma era implicita nella notazione,
che era dotata di un sistema di convenzioni assolutamente non trascurabile se si voleva che
l’esecuzione fosse fedele e rispettosa delle intenzioni degli autori.
Tali convenzioni riguardavano principalmente l’ineguaglianza che era consuetudine applicare ai
valori immediatamente più brevi a quelli che rappresentavano l’unità ritmica della battuta. Per
esempio, in una battuta che avesse la minima come unità ritmica tale ineguaglianza si applicava alle
semiminime

Il modo di ben cantare le semiminime è di cantarle come a due a due, soffermandosi un po’
più sulla prima che sulla seconda; come se la prima avesse un punto e la seconda fosse
una croma3

Queste sottigliezze ritmiche non erano riportate dalla notazione, ma avevano a che fare con le
convenzioni della prassi esecutiva. Risultava impossibile tradurle graficamente in maniera esatta per
almeno due motivi: innanzitutto era totalmente contrario all’interpretazione antica ripetere la stessa
ineguaglianza in maniera meccanica e costante per tutta la durata della frase musicale o, peggio
ancora, dell’intero brano (la semplificazione “semiminima con punto e croma” riportata sopra è
soltanto un’approssimazione e risulterebbe arida ed inespressiva se fosse eseguita
pedissequamente).
In secondo logo, questa ineguaglianza doveva adattarsi all’andamento della musica: in un
movimento rapido essa era quasi impercettibile, ma aumentava progressivamente più marcata in
corrispondenza di un rallentando. Semplificando, si può affermare che era dunque poco marcata in
un andamento veloce e molto più marcata in un andamento lento.
2 Antoine Geoffroy-Dechaume, I Segreti della Musica Antica (1973), pag. 14.
3 Loys Bourgeois, Le Droict chemin de Musique (Ginevra, 1550), pagg. 45-46.

3
Pretendere di trascrivere matematicamente tutte queste sfumature sarebbe stato pressoché
impossibile ed avrebbe oltretutto generato risultati estremamente ingarbugliati dal punto di vista
grafico e pertanto poco leggibili, oltre che fondamentalmente scorretti.

Proprio in virtù di questo si optò per una scrittura più pulita, che venne dotata di un impianto di
convenzioni che permettessero di leggerla in maniera corretta e conforme alle intenzioni dei
compositori. Analoghe regole per l’interpretazione dei segni grafici restarono in vigore anche per
tutto il Seicento ed il Settecento. Gli avvertimenti, fra gli altri, di Caccini e Quantz non fanno altro
che riprendere, a distanza rispettivamente di uno e due secoli, i dettami di Loys Bourgeois
sull’espressività e sull’ineguaglianza.
Fu nell’Ottocento che si cominciarono a predicare un’esecuzione ed una resa ritmica strettamente
conforme ai segni grafici. In tal modo tutto il non-scritto che si celava tra essi veniva
inesorabilmente perso. A questo proposito, scrive ancora Antoine Geoffroy-Dechaume:

L’esecuzione musicale cominciò ad essere danneggiata il giorno in cui si cominciò a


prendere sul serio lo schema grafico, e cioè nell’Ottocento. Soltanto la musica popolare o
assimilata continuava a far sentire ciò che non poteva essere trascritto.

Proprio in questo consiste il “sorprendente e monumentale deviamento artistico”: benché fino a quel
momento tutti i musicisti ed i trattatisti avessero riservato grande spazio all’enunciazione delle
regole di gusto per l’interpretazione dei segni grafici, esse vennero improvvisamente accantonate, a
favore di una realizzazione che tenesse conto esclusivamente di ciò che si vedeva scritto nella
partitura. Gli antichi trattati sull’esecuzione musicale non furono totalmente dimenticati, ma vi si
ricorse solo ed esclusivamente per tradurre i segni di abbellimento. Tutti gli altri avvertimenti,
fondamentale ed imprescindibile integrazione dei segni grafici delle partiture, furono tralasciati.
L’antico modo di suonare aveva l’espressività della frase musicale come priorità assoluta: erano
esclusi rigidi vincoli ritmici, si basava su una certa libertà nell’esecuzione dei valori musicali (a
patto che la loro somma non alterasse la lunghezza della battuta) ed offriva all’esecutore un gran
numero di artifici melodici e ritmi da impiegare secondo il suo gusto per esprimere gli affetti e
sottolineare ed assecondare al meglio i diversi caratteri di un brano musicale.
La resa esecutiva si basava sull’applicazione di principi della Retorica, il cui legame con la musica
è consolidato fin dal Medioevo. L'”Ars Rethorica” veniva utilizzata anche dal musicista, il cui
scopo principale doveva essere quello di “muouer l' animo, disponendolo a vari affetti” 4. E’
importante sottolineare come tutto ciò fosse la prerogativa tanto della musica vocale quanto di
quella strumentale.
Cominciando a dare importanza quasi esclusivamente ai segni grafici, tutto quel linguaggio in un
certo qual modo “implicito” andava inesorabilmente perso e si finiva per promuovere un’esecuzione
che rischiava di risultare arida e meccanica. L’interprete, al quale fino ad allora era “concesso di
avere per principale obiettivo la perfezione dello stile e dell’espressione musicale” 5, veniva privato
di quella libertà ritmica della quale aveva da sempre potuto disporre. Improvvisamente la sua
principale preoccupazione diveniva quella di attenersi ad una precisione matematica, che fino ad
allora gli era stata totalmente sconosciuta e che addirittura travisava e tradiva le intenzioni originali
degli autori.

4 Gioseffo Zarlino, Le Istitutioni Harmoniche (Venezia, 1558), pag. 10.


5 Antoine Geoffroy-Dechaume, I Segreti della Musica Antica (1973), pag. 19.

4
Nel corso del XX secolo, fortunatamente, cominciò a farsi strada la volontà di recuperare la musica
del passato nella sua forma più pura ed autentica, superando l’errato approccio che aveva
caratterizzato l’800. Non senza un notevole sforzo intellettuale, per il quale bisogna esser loro
riconoscenti, i musicisti abbandonarono la “comodità” dell’esecuzione ritmicamente rigorosa
predicata nel secolo precedente, a beneficio di un ritorno alle fonti.
Si intraprese uno scrupoloso studio degli antichi trattati, che tornarono ad essere di fondamentale
importanza nell’interpretazione della notazione musicale. Non solo per decifrarne i segni relativi
agli abbellimenti, ma anche e soprattutto per tornare a conferire alla musica la resa espressiva
originale.

E’ interessante notare come i metodi di esecuzione che vennero in tal modo riscoperti siano
accomunati da un numero sorprendente di affinità. Stiamo parlando di opere che abbracciano un
periodo di quasi tre secoli6: partendo da Le droict chemin de musique di Loys Bourgeois del 1550
(il primo a parlare di inegalité, in riferimento all’allungamento del valore della prima di una coppia
di note), passando dagli “Avvertimenti al lettore” di Giulio Caccini (prefazione a Le Nuove Musiche
del 1602) e di Girolamo Frescobaldi (prefazione a Il libro primo di Toccate d’intavolatura di
cembalo e organo) e L’Art de toucher le Clavecin di François Couperin del 1717 e dalle Opinioni
de' cantori antichi, e moderni, o sieno Osservazioni sopra il canto figurato di Pierfrancesco Tosi del
1723, per giungere fino a Versuch über die wahre Art das Clavier zu spielen di Carl Phlipp Emanuel
Bach del 1753, agli scritti di Johann Joachim Quantz ed infine alle istruzioni disseminate
nell’epistolario di Wolfgang Amadeus Mozart, solo per citarne alcuni.
Tuttavia, benché siano distribuiti lungo un arco temporale di ben più di duecento anni e nonostante
alcuni si occupino di musica vocale ed altri di musica strumentale , essi condividono non solo l’idea
di fondo sull’interpretazione, ma anche molti degli artifici messi a disposizione degli esecutori per
realizzarla. Il loro confronto permette di ricavare quelle caratteristiche comuni che, ancor prima di
essere formalizzate, avevano contraddistinto continuativamente la prassi esecutiva dei secoli
precedenti, prima di essere abbandonate dagli interpreti dell’Ottocento. Il medesimo approccio nei
confronti della notazione, intesa non come un copione da seguire con obbedienza assoluta, ma come
canovaccio al quale applicare a proprio gusto gli espedienti che l’esecutore aveva a disposizione, è
il tratto comune di un’era musicale che abbraccia epoche diverse e distanti temporalmente e
geograficamente. Dal Medioevo e dal canto gregoriano fino a Mozart, passando per il Cinquecento,
per la musica madrigalistica e per il Barocco.

6 Pur non essendo Trattati in senso stretto, si potrebbero inserire in questo novero anche le indicazioni presenti già a
partire dal IX secolo nei codici medievali. Anche la notazione neumatica gregoriana, infatti, presentava molte
indicazioni espressive: segni che indicavano la necessità di allungare un suono, le liquescenze, ossia
differenziazioni di alcuni neumi corrispondenti a particolari gruppi di consonanti che necessitano di particolare
attenzione nella pronuncia e le litterae significativae, utilizzate per fornire indicazioni melodiche o ritmiche
sull’esecuzione dei neumi ai quali sono accostati.

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Legato a tutte queste problematiche di prassi esecutiva è il termine Tempo Rubato, che fece la
propria comparsa nella prima metà del XVIII secolo, in riferimento ad una pratica di uso comune
nella musica vocale barocca. Essa consisteva nella modifica del valore di alcune note all’interno di
una melodia, con l’intento di accrescerne l’espressività. Non poteva, invece, beneficiare di questa
libertà l’accompagnamento, che doveva mantenere intatta la precisione ritmica.
Ben presto tale pratica si estese anche alla musica strumentale. Intanto l’espressione Tempo Rubato
estese il proprio campo semantico e cominciò ad indicare non soltanto la modifica del valore di
alcune note di una melodia, ma la variazione strutturale del tempo dell’intera sezione di una
composizione.
Alcuno studiosi hanno coniato differenti espressioni che definiscono rispettivamente i due tipi di
rubato appena definiti. Richard Hudson, in Stolen Time: The history of Tempo Rubato (Oxford
University Press, U.S.A. 1994) parla rispettivamente di Earlier e Later Rubato. Howard Ferguson,
nel suo Style and Interpretation: an Anthology of 16th – 19th Century Keyboard Music usa invece i
termini Melodic e Structural Rubato. Robert Donington, infine, in The Interpretation of Early
Music (Faber, 1975) preferisce invece distinguere tra Borrowed e Stolen Time.
La distinzione è tuttavia meno netta di quanto potrebbe sembrare da queste definizioni formali; per
lo meno fino al 1850 circa, infatti, queste due sfumature della pratica del rubato coesistono e si
integrano l’una nell’altra.

L’antenato del Rubato: il Canto Gregoriano


Abbiamo visto come sia stato necessario attendere il Settecento per avere tale formalizzazione dei
procedimenti utilizzati dagli esecutori per accrescere il carico espressivo di una frase musicale. E’
evidente che con l’introduzione del termine rubato, adottato poi unanimemente da lì in avanti, non
si siano inventati all'improvviso tali artifici, ma ci si sia semplicemente limitati ad introdurre una
“definizione” che in un certo senso li riunisse. Essi erano già presenti e ben consolidati nella pratica
dell’esecuzione musicale da secoli. E se ne trova traccia in un’epoca molto precedente anche agli
avvertimenti dei trattatisti del Cinquecento sopra menzionati.
E’ addirittura il Canto Gregoriano a portare in sé i germi di quello che poi sarà definito tempo
rubato, presentandone per primo alcuni degli artifici.

Le melodie gregoriane esistono solo in funzione del loro elemento primario, il testo, al
punto da identificarsi con esso e assumerne le qualità. Pertanto, la qualità ritmica del
neuma si attinge dal testo e non dalle qualità fisiche del suono. La perfetta simbiosi fra
testo e melodia costituisce nel gregoriano il dato fondamentale per la soluzione del
problema del valore delle note. Il Canto gregoriano non conosce mensuralismo e la sua
interpretazione è basata essenzialmente sul valore sillabico di ciascuna nota, caratterizzato
da una indefinibile elasticità di aumento e diminuzione.7

Questa forma di monodia medievale, le cui prime testimonianze si possono rinvenire all’interno dei
tonari8, è concepita fin dal principio come spontaneo sviluppo della preghiera, e quindi della
declamazione. Nel Canto Gregoriano la melodia nasce e si sviluppa in un rapporto di inscindibile
legame con il testo e con le sue caratteristiche linguistiche e ritmiche. Essa non viene “creata” e
successivamente “assemblata” sul testo, con quest’ultimo forzato ad assecondarne l’andamento. Al
contrario, è la melodia ad avere origine dal testo stesso nella maniera più naturale e spontanea
possibile, assecondandone la conformazione ritmica, le unità strutturali, (sillabe toniche, parole,

7 Alberto Turco, Il Canto Gregoriano, corso fondamentale (Edizioni Torre d’Orfeo. Roma, 1991), pag. 5.
8 Un tonario era un libro liturgico, in uso nel medioevo nella chiesa cattolica, contenente diversi canti liturgici
organizzati secondo gli otto tenor del canto gregoriano. Esso poteva includere antifone alla Messa, responsori ed
altri canti. Il primo esemplare di tonario a noi noto è stato rinvenuto in un Salterio carolingio del 799.

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frasi) e ponendosi come principale obiettivo quello di comunicarne in maniera efficace ed esaltarne
il significato.
Pertanto la notazione gregoriana (sia quella adiastematica, che sostanzialmente consisteva in
simboli che venivano apposti sul testo con l’intento di evidenziarne gli accenti principali e di
conseguenza il ritmo corretto della declamazione, sia la successiva notazione quadrata) non
presenta segni grafici direttamente associabili ad un preciso valore, come nel caso della moderna
notazione musicale. Si potrebbe affermare un po’ grossolanamente che presumibilmente il
gregoriano debba essere cantato, in gran parte, con note di uguale valore. 9
In realtà è più corretto dire che è la sillaba del testo latino a rappresentare il valore sillabico della
nota, cioè l'entità stessa del neuma; infatti la struttura del verso latino è determinata dalla rigida
distinzione operata fra sillabe lunghe e sillabe brevi. Proprio questa distinzione deve guidare
l’approccio al gregoriano: la prassi esecutiva prevede la possibilità di accorciare o prolungare
lievemente alcune note con lo scopo di perseguire una corretta e naturale accentazione di una
determinata sillaba o di una parola.

9 Cfr. Richard Hudson, Stolen Time: the History of Tempo Rubato (Oxford University Press, 1994), pag. 5.

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Tempo Rubato: un “glorioso latrocinio”

Io priego i Signori Moderni di perdonarmi la troppo ardita libertà di dire in favor della
Professione, che il buon gusto non risiede nella velocità continua d’una voce errante senza
guida, e senza fondamento, ma nel cantabile, nella dolcezza del Portamento, nelle
Appoggiature, nell’Arte, e nell’Intelligenza de Passi, andando da una nota all’altra con
singolari, e inaspettati inganni con rubamento di Tempo, e sul MOTO de’ Bassi, che sono
le qualità principali indispensabilmente essenzialissime per cantar bene, e che l’umano
ingegno non può trovar nelle loro capricciose Cadenze.
Se l’inventar Cadenze particolari senza offesa del Tempo è stata una delle degne
occupazioni de’ chiamati Antichi, chiunque studia la rimetta in uso, procurando d’imitarli
nell’intelligenza di saper rubare un po’ di Tempo anticipato,
Chi non fa rubare il Tempo cantando, non sa comporre, né accompagnare, e resta privo del
miglior gusto, e della maggiore intelligenza. Il rubamento di Tempo nel patetico è un
glorioso latrocinio di chi canta meglio degli altri, purché l’intendimento, e l’ingegno ne
facciano una bella restituzione. Gli manca quell’arte, che insegna di guadagnare il Tempo
per saperlo perdere, che è un frutto del Contrappunto, ma non così saporito come quello di
saperlo perdere per ricuperarlo: Produzione ingegnosa di chi intende la composizione, e di
chi ha miglior gusto.
Dalle qualità accessorie si impara che [il Passo] sia rubato sul Tempo acciò diletti
l’anima.10

Queste indicazioni sono tratte dall’opera saggistica di Pierfrancesco Tosi, celebre castrato attivo in
tutta Europa nella seconda metà del 1600 e poi compositore. Il trattato Opinione de' cantori antichi
e moderni, o sieno osservazioni sopra il canto figurato vide la luce a Bologna nel 1723 e
rappresenta il primo esempio di raccomandazione esplicita verso la pratica che l’autore definisce
“rubare il tempo”. Oltre a presentare i principi fondamentali della scuola di canto italiana, esso offre
anche una serie di consigli didattici ed estetici utili alla formazione sia tecnica che espressiva del
cantante. Fra di essi viene riservato grande spazio e grande importanza proprio al “rubare il tempo”;
finalità principale di questi suggerimenti era riportare in auge uno stile di canto non più in voga al
suo tempo del quale l’autore era un grande ammiratore, e che definiva stile “patetico”.

Il gusto de’ chiamati Antichi era un misto di gajo, e di cantabile la di cui varietà non potea
far di meno di dilettare; l’Odierno è tanto preoccupato del suo, che purché s’allontani
dall’altro si contenta di perder la maggior parte della sua vaghezza; lo studio del Patetico
era la più cara occupazione de’ primi: E l’applicazione de’ Passaggi più difficili è l’unica
meta de’ secondi. Quegli operavano con più fondamento; e questi eseguiscono con più
bravura. Ma giacché il mio ardire è giunto fino alla comparazione de’ Cantanti più celebri
dell’uno, e dell’altro stile, gli si perdoni anche la temerarietà di conchiuderla dicendo, Che
i Moderni sono inarrivabili per cantare all’udito, e che gli Antichi erano inimitabili per
cantare al cuore.

Con queste parole Tosi dimostra di avere una certa predilezione verso il gusto e le capacità di resa
espressiva tipiche dei cantanti “Antichi”. Questa capacità di dare alla musica differenti sfumature lo
affascina chiaramente molto di più di una mera dimostrazione di virtuosismo nella quale talvolta
rischiano di cadere i cantanti “odierni”, ai quali raccomanda di rifarsi ai predecessori per carpirne
10 Pierfrancesco Tosi, Opinione de' cantori antichi e moderni, o sieno osservazioni sopra il canto figurato.
(Bologna, 1723), pagg. 111-113.

8
gli artifici espressivi e cercare di imitarne il gusto. Proprio con questa finalità viene presentata, e
ribadita più volte nel corso dell’intero trattato, la necessità di ricorrere al “rubamento del tempo”.
Quando il cantante, rispettando i vincoli ritmici, giunge in un punto dell’aria nel quale desidera
intensificare l’espressività più di quanto gli consentano le note scritte, ruba tempo da una nota e lo
dà ad un’altra. In questo modo produce un’emozione più intensa, mentre l’accompagnamento
persiste nel proprio andamento e l’ascoltatore è in grado di percepire la tensione fra i due.
Da ciò emergono cinque aspetti essenziali del Rubato predicato da Tosi:
1. Alcune note di una melodia rubano tempo da altre note. Talvolta il prolungamento di note è
enfatizzato, con l’accorciamento di altre che semplicemente ne deriva di conseguenza
2. L’accompagnamento si mantiene rigorosamente aderente ai vincoli ritmici
3. La regolarità del basso impone la compensazione nella modifica della melodia, cosicché la il
valore aggiunto ad alcune note deve corrispondere esattamente a quello tolto ad altre note.
4. Il punto di attacco di una nota può risultare anticipato o posticipato rispetto a come appare
scritto
5. Note della melodia che nella partitura risultano allineate in verticale con note
dell’accompagnamento possono, nella pratica, essere sfasate e non essere eseguite
simultaneamente. Da ciò spesso derivano delle dissonanze
Infine, nel caso della musica vocale, questa pratica può coinvolgere anche la collocazione delle
sillabe e la pronuncia del testo. 11
Il lavoro di Tosi si diffuse rapidamente oltre i confini italiani, anche in virtù della grande
considerazione di cui l’autore godeva come cantante in Europa, in particolar modo in Inghilterra. Il
suo trattato fu tradotto e pubblicato anche all’estero. Nel 1731 fu pubblicata da J. Alençon la
traduzione olandese di una versione ridotta del trattato di Tosi; John Ernest Galliard curò la versione
inglese, uscita nel 1742 con il titolo “Observations on the Florid Song”. Anche Roger North,
avvocato, biografo e musicista dilettante inglese, si occupò di Tosi nelle sue opere di critica
musicale, alle quali si dedicò totalmente dopo il ritiro dall’attività forense e politica avvenuto nel
1688. In uno scritto del 1726 afferma di aver assistito alle esibizioni di Tosi e di averne studiato le
teorie di didattica musicale. In un altro scritto, addirittura risalente al 1695 (tre anni dopo il
trasferimento pressoché definitivo, fatta eccezione per un viaggio a Bologna del 1723, di Tosi a
Londra), espone nel dettaglio l’idea di Rubato di Tosi. Le traduzioni qui riportate hanno il merito di
integrare l’esposizione con numerosi esempi musicali, che mancano invece nel trattato originale.
In tal modo si diffusero sia gli insegnamenti, sia le espressioni quali rubare di tempo, rubamento di
tempo, rubato sul tempo, che Tosi utilizza per riferirsi alla maniera conveniente di eseguire un
passaggio di grande coinvolgimento, nella quale l’alterazione di alcuni valori della melodia causa
uno sfasamento con il rigore ritmico del basso, rispetto al quale alcune note della melodia possono
trovarsi in anticipo o in ritardo. Vale la pena di ribadire che all’epoca di Tosi il rubato era già una
pratica consolidata e diffusa; egli non ne fu dunque l’inventore, ma si impegnò piuttosto nel
riportarlo in auge presso i contemporanei, i quali, stando alle sue osservazioni, ne stavano
dimenticando la pratica per orientarsi più sul mero virtuosismo. Oltre a questo, a lui si deve il
merito di aver coniato l’espressione che da lì in avanti (e fino ai giorni nostri) fu utilizzata per
racchiudere tutti gli artifici espressivi adoperati dagli esecutori, tanto nella musica vocale quanto in
quella strumentale.
Occorre tuttavia aggiungere un’ulteriore precisazione sull’utilizzo del termine.
Già alla fine del XVII secolo queste pratiche di alterazione ritmica erano largamente diffuse.
Consistevano da un lato nel rubare del tempo ad una nota di una melodia per darlo ad un’altra
(quello che, come già visto in precedenza, alcuni studiosi hanno scelto di definire earlier o melodic
rubato), dall’altro in quello che viene definito later o structural rubato, che consiste invece
11 Cfr. Richard Hudson, Stolen Time: the History of Tempo Rubato (Oxford University Press, 1994), pag. 42.

9
nell’abbandonare il rigoroso vincolo ritmico in un’intera sezione di una composizione (come ad
esempio avveniva in corrispondenza di una cadenza, nelle prime forme libere strumentali - quali
preludi, toccate e capricci - o nei recitativi). Ebbene, inizialmente e per almeno un secolo, il termine
coniato da Tosi fu adoperato per indicare esclusivamente il primo tipo di rubato, quello da
applicarsi nel patetico e che “presuppone una bella restituzione”.

All’epoca della comparsa del vocabolo rubato, i due modelli sopra citati si erano già
compiutamente sviluppati; essi coesistevano, talvolta compenetrandosi, nella pratica
dell’esecuzione musicale. Ciò che rende speciale e così degno di nota il lavoro di Tosi è l’aver
rivitalizzato, attraverso gli insegnamenti tecnici, l’attenzione e l’intento espressivo nel repertorio
“patetico” del tardo Settecento. Ma questo procedimento di “rubamento di tempo” si estende ad un
periodo della storia della musica molto precedente a Tosi e prosegue oltre fino ai giorni nostri. Le
fonti storiche che lo testimoniano sonno innumerevoli. E’ infatti assai cospicuo il numero di trattati
o indicazioni agli esecutori che troviamo, per esempio, nelle Prefazioni di raccolte di composizioni
sia vocali che strumentali, attestano la vastissima diffusione di questa pratica, che di fatto si estende
dal Medioevo alla musica jazz, toccando tutti i secoli e le epoche della storia dell’esecuzione
musicale.
Gli espedienti tecnici in mano agli esecutori per realizzare nella pratica lo stile rubato comprendono
la variazione melodica (forse l’artificio più antico), l’ornamentazione, l’arpeggio e la pratica delle
notes inégales o inégalité (che consiste nell’esecuzione diseguale di note che graficamente appaiono
scritte dello stesso valore). Prima di entrare maggiormente nello specifico, analizzando nel dettaglio
per lo meno le più significative applicazioni di queste soluzioni, vale la pena di presentare una serie
di esempi di alcune delle più significative fra le fonti storiche sopra citate. Alcune sono veri e propri
trattati di filosofia musicale, altri affrontino più nello specifico determinati aspetti tecnici di resa
espressiva; ancora, alcuni forniscono semplici indicazioni di approccio all’esecuzione applicabili da
qualunque musicista, mentre altre si rivolgono espressamente a specifici strumentisti oppure ai
cantanti. Ma al di là di queste distinzioni particolari, ciò che è veramente significativo è il fatto che,
esaminati nel loro complesso, forniscano la testimonianza di come l’idea di fondo di questa pratica
che chiamiamo rubato sia una costante della musica vocale e strumentale di ogni epoca e stile.

Guido d’Arezzo, Micrologus (c. 1026)


Bisogna che la cantilena venga scandita quasi in piedi metrici e che i suoni abbiano l’uno
rispetto all’altro una durata doppia o dimezzata oppure tremula, cioè un tenor vario, che
qualche volta è indicato come lungo da una lineetta posta sopra la lettera.

Loys Bourgeois, Le droict chemin de musique (Ginevra, 1550)


Sul cantare le semiminime:
Il modo di ben cantare le semiminime in questi tempi diminuiti Ø ₵ O2 C2 O2 C2 è di
cantarle come a due a due, soffermandosi un po’ più sulla prima che sulla seconda, come se
la prima avesse un punto e la seconda fosse una croma. Bisognerà fare lo stesso con le crome
nei seguenti tempi interi O C O2 C2

Girolamo Diruta, Il Transilvano (Venezia, 1593)


Così necessario il saper quali siano le dita buone, e cattive; quali note buone e cattive […]
Sappiate pure che la cognizione delle dita è la più importante cosa, che habbi ancor detto, e
dichi pur chi vuole, che tal cognizione è di grandissima importanza, e errano quelli, che

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dicono poco rilevare con quale dito si pigli la nota buona. Hor vedete, cinque dita habbiamo
nella mano: il primo dicesi pollice, il secondo indice, il terzo medio, il quarto anulare, il
quinto auricolare. Il primo dito fa la nota cattiva, il secondo la buona, il terzo la cattiva, il
quarto la buona, il quinto la cattiva. E il secondo, terzo, e quarto dito sono quelli, che fanno
tutta la fatica, in far le note negre, e quello, che dico d’una mano: dico dell’altra, le note
negre vanno ancor loro con lo medesimo ordine, cioè, buona, e cattiva, come per l’esempio
posto qui di sotto intenderete.
B C B C B C B C B C B C B
Credo che cotesta Regola facci sonare infallibilmente.

Giulio Caccini, Le Nuove Musiche – “Ai lettori” (Firenze, 1602)


Sono stato necessitato, et anco mosso da amici, di far istampare dette mie musiche; et in
questa mia prima impressione con questo discorso à i Lettori mostrare le cagioni che
m'indussero à simil modo di canto per una voce sola, affine che, non essendosi ne' moderni
tempi passati costumate (ch'io sappia) musiche di quella intera grazia ch'io sento nel mio
animo risonare, io ne possa in questi scritti lasciare alcun vestigio, e che altri possa giungere
alla perfezione, chè "Poca favilla gran fiamma seconda". […] Posso dire d'avere appreso più
dai loro dotti ragionari, che in più di trent'anni non ho fatto nel contrappunto; imperò che
questi intendentissimi gentiluomini m'hanno sempre confortato, e con chiarissime ragioni
convinto, a non pregiare quella sorte di musica, che non lasciando bene intendersi le parole,
guasta il concetto et il verso, ora allungando et ora scorciando le sillabe per accomodarsi al
contrappunto, laceramento della Poesìa, ma ad attenermi a quella maniera cotanto lodata da
Platone et altri Filosofi, che affermarono la musica altro non essere che la favella e'l rithmo
et il suono per ultimo, e non per lo contrario, à volere che ella possa penetrare nell'altrui
intelletto e fare quei mirabili effetti che ammirano gli scrittori, e che non potevano farsi per il
contrappunto nelle moderne musiche. […] Mi venne pensiero introdurre una sorte di musica,
per cui altri potesse quasi che in armonia favellare, usando in essa (come altre volte ho detto)
una certa nobile sprezzatura di canto. […] Si deve crescere e scemare la voce, a fare
l'esclamazioni, trilli e gruppi, et in somma tutti i tesori di quest'arte… et acciochè servano
per esempio in riconoscere in esse musiche i medesimi luoghi, ove saranno più necessari
secondo gli affetti delle parole; avvenga che nobile maniera sia così appellata da me quella
che va usata senza sottoporsi a misura ordinata, facendo molte volte il valor delle note la
metà meno secondo i concetti delle parole, onde ne nasce quel canto poi in sprezzatura, che si
è detto.

Girolamo Frescobaldi, Il primo/secondo libro di Toccate d’Intavolatura di cimbalo et organo -


“Avvertimenti al lettore” (Roma, rispettivamente 1615-1637 e 1629-1637)
Si gradisca l’affetto, con cui l’espongo al studioso esercitio, sicuro che per mezzo di questo si
troueranno l’opere più facili, che in apparenza non sono. I Principij delle Toccate sian fatti
adagio, et s’arpeggino le botte ferme. Nel progresso s’attenda alla distinzone de i passi,
portandoli più et meno stretti conforme la differenza de i loro effetti, che sonando
appariscono. Nei i passi doppi similmente si vada adagio, acciò siano meglio spiccati, et nel
cascar di salto l’ultima nota innanzi al salto, sia sempre resoluta, et veloce. Conuiene
fremarsi sempre nell’ultima nota di trillo, et d’altri effetti, come di salto, ouero di grado,
benché sia semicroma o biscroma; Et communemente si sostengano assai le cadenze. Nelle
partite si pigli il tempo giusto, et proportionato, et perché in alcune sono passi veloci si

11
cominci con battuta commoda, non conuenendo da principio far presto, et seguir
languidamente; Ma vogliono esser portate intere col medesimo tempo; et non ha dubbio, che
la perfettione di sonare principalmente consiste nell’intendere i tempi. […] Hauendo io
conosciuto quanto accetta sia la maniera di sonare con affetti cantabili e con diversità, di
passi, mi e paruto di mostrarmele altrettanto fauorevole. Primieramente; che non dee questo
modo di sonare stare soggetto a battuta, come ueggiamo usarsi ne i Madrigali moderni, i
quali quantunque difficili si ageuolano per mezzo della battuta, portandola hor languida, hor
veloce, e sostenendola etiandio in aria secondo i loro affetti, o senso delle parole. […]
Parendomi cosa assai conueneuole a chi suona che se l’opere paressero di fatica il cominciar
da principio sino al fine si potrà pigliar dove più piacerà di detti passi et finire in quelli che
termineranno del suo tuono. Si deuono i principii cominciarli adagio a dar maggior spirito e
vaghezza al sequente passo et nelle cadenze sostenerle assai prima che si incominci l’altro
passo, e nelle trippole, o sesquialtere, se saranno maggiori, si partino adagio, se minori
alquanto più allegre, se di tre semiminime,più allegre se saranno sei per quattro si dia il lor
tempo con far caminare la battuta allegra. Conviene in alcune durezze fermarvi con
arpeggiarle acciò che riesca più spiritoso il seguente passo. […] Trovandosi alcun passo di
crome e di semicrome a tutte e due le mani portar si deve non troppo veloce: e quella che farà
le semicrome dovrà farle alquanto puntate, cioè non la prima, ma la seconda sia col punto, e
così tutte: l’una no, e l’altra sì [...] Le cadenze, benché sieno scritte veloce conuiene
sostenerle assai.

Claudio Monteverdi, Prefazione al Quinto libro dei madrigali (Venezia, 1605)


Giulio Cesare Monteverdi, Prefazione agli Scherzi Musicali (Venezia, 1632)
...Uscirà in luce portando in fronte il nome di SECONDA PRATICA, ovvero PERFETTIONE
DELLA MUSICA MODERNA. Ho nondimeno scritta la risposta per far conoscere ch’io non
faccio le mie cose a caso, dice mio fratello, che non fa le sue cose a caso: atteso che la sua
intenzione è stata (in questo genere di musica) di fare che l’orazione sia padrona
dell’armonia e non serva […] Nel qual modo l’armonia considerata, di padrona diventa
serva al oratione e l’oratione padrona dell’armonia, al qual pensamento tende la seconda
pratica overo l’uso moderno.
Il paragrafo seguente è invece l’indicazione che compare all’inizio del “Lamento della Ninfa”
(Ottavo libro dei madrigali – Madrigali guerrieri et amorosi, 1638)
Modo di rappresentare il presente canto. Le tre parti, che cantano fuori del pianto de la
Ninfa; si sono così separatamente poste, perché si cantano al tempo de la mao, le altre tre
parti che vanno commiserando in debole voce la Ninfa, si sono poste in partitura, acciò
seguitano il pianto di essa, qual va cantato a tempo del’affetto del animo, e non a quello della
mano.

François Couperin, L’Art de toucher le clavecin (seconda edizione. Parigi, 1717)


A mio parere, ci sono dei difetti nel nostro modo di scrivere la musica, che corrisponde al
modo in cui scriviamo la nostra lingua. Il problema è che scriviamo una cosa in maniera
differente da come la eseguiamo: ed è questo che fa sì che gli stranieri suonino la nostra
musica meno bene di come suonano la propria. […] Esaminiamo dunque la fonte di questa
contraddizione. Trovo che confondiamo Misura o Tempo (ossia il numero di battiti o
pulsazioni all’interno di una battuta) con ciò che si chiama Cadenza o Movimento (ossia
Tempo, il grado di velocità, insieme ad accento, fraseggio ecc.), in breve Espressività o
Sentimento. La Misura definisce il numero e l’uguaglianza delle pulsazioni; e la Cadenza è

12
letteralmente l’intelligenza e l’animo che occorre aggiungervi. […] Tutte le nostre Arie per
violino, i nostri pezzi per clavicembalo, per viola ecc. sembrano descrivere e provare a
trasmettere un qualche sentimento. Ma, non disponendo di specifici segni o lettere per
comunicare le nostre idee, cerchiamo di porre rimedio indicandole all’inizio del brano con
parole come Teneramente, Velocemente ecc. […] Benché questi Preludi siano scritti in tempo
misurato, vi è uno stile dettato dal gusto che occorre seguire. Spiego ciò che intendo: il
Preludio è una composizione libera, nella quale l’immaginazione da sfogo alla fantasia.
Devono essere suonati in uno stile libero e leggero, senza attenersi troppo alla precisione del
ritmo, se non dove l’ho espressamente indicato con la parola ‘mesuré’.

Johann Joachim Quantz, Versuch einer Anweisung die Flöte traversiere zu spielen (Berlino,
1752)
Bisogna che nei tempi in movimento lento o moderato le note più brevi siano suonate con
qualche ineguaglianza, anche se alla vista sembrino dello stesso valore, e si deve appoggiare
sulle note forti, cioè sulla prima, sulla terza, sulla quinta e sulla settima, più che non su
quelle che passano, cioè sulla seconda, sulla quarta, sulla sesta e sull’ottava, benché, però,
non si debbano tenere come se fossero puntate. Per note brevi intendo le semiminime nel 3/2 ,
le crome nel 3/4, le semicrome nel 3/8, le crome nel ₵, le semicrome o le biscrome nel 2/4 o
nel C. Tuttavia, non si deve tener conto di queste indicazioni qualora dette note siano miste
con altre ancor più brevi… Sono allora queste ultime che si devono suonare nel modo testé
insegnato.

Carl Philipp Emanuel Bach, Versuch über die wahre Art das Clavier zu spielen (Berlino, 1753)
Ben spesso l’interpretazione esige alterazioni ritmiche qualificabili scolasticamente come
madornali errori; si osservi, in questi casi, che spesso si possono commettere deliberatamente
alterazioni ritmiche: se si suona soli o con poche persone intelligenti, tutto il movimento nel
suo insieme può subire oscillazioni. […] Le note brevi precedute da punti saranno sempre
eseguite più brevemente di quanto richiede la loro notazione, di conseguenza è superfluo
contrassegnarle. I punti dopo le note lunghe o in tempo lento dopo le note brevi o isolate
saranno generalmente tenuti; ma se in tempo rapido compaiono lunghe successioni di note
puntate spesso non verranno tenuti, anche se la grafia lo richiederebbe. In considerazione di
questa variabilità, quando manchi qualcuna delle notazioni, si cercherà nel significato stesso
del pezzo come chiarire i dubbi. Nelle figurazioni di note puntate, seguite da quattro o anche
più note brevi, queste ultime saranno abbreviate quanto sia possibile. […] Una nota spesso è
scritta solamente per rispettare la correttezza contrappuntistica. Talvolta per fini espressivi si
fanno durare sia le note sia le pause oltre il loro valore scritto. […] Se in un pezzo alcune
frasi in maggiore vengono poi ripetute in minore, l’espressività suggerisce che la ripetizione
avvenga un po’ più lentamente. Anche da ciò ha origine il tempo rubato. Una parte di battuta
si può trasformare, per così dire, in una battuta intera, o in più d’una. […] L’esecuzione
dovrà essere tale da dare l’impressione che una mano suoni aritmicamente e l’altra
perfettamente in tempo. Nel Rubato le voci cadono ben di rado contemporaneamente in
battere.

Questi estratti (assieme a molti altri altrettanto importanti) dimostrano la larghissima diffusione del
rubato in tutte le epoche e gli stili musicali; è pertanto erronea la convinzione che talvolta porta ad
attribuire all’800 l’invenzione di questi artifici interpretativi. Autori quali Chopin, in realtà, non
hanno fatto altro che proseguire su un percorso già tracciato nei secoli precedenti, recuperando e

13
perfezionando una tradizione già consolidata. “Nel tempo rubato di un adagio la mano sinistra non
deve essere coinvolta” 12, scrive Wolfgang Amadeus Mozart al padre, confermando che anche gli
autori del secondo Settecento avevano ben chiari in mente i precetti dei secoli precedenti
sull’alterazione ritmica per fini espressivi. E in tal senso non fa eccezione l’Ottocento: resoconti da
parte di studenti, colleghi o critici dell’epoca circa il modo di suonare di Fryderyk Chopin 13 non
lasciano alcun dubbio sul fatto che accanto all’uso del rubato ‘agogico’ - in un certo modo
direttamente correlato ed ispirato ai ritmi della mazurka – a contribuire all’unicità delle sue
esecuzioni ci fosse anche un ampio utilizzo del rubato in stile vocale italiani. Chopin suonava
abitualmente con la melodia che lievemente indugiava o anticipava il battere, mentre
l’accompagnamento persisteva nel suo rigore ritmico. E’ probabile che avesse ascoltato ed
assimilato questo tipo di rubato assistendo a rappresentazioni operistiche a Varsavia così come al
Conservatorio, dove un italiano, Carlo Soliva, era direttore del Dipartimento di musica vocale. 14

Chiarito questo, passiamo ad analizzare più dettagliatamente gli artifici utilizzati dagli esecutori per
realizzare nella pratica questo stile rubato. Come vedremo, alcuni di essi si basano sull’alterazione
ritmica, altri sulla variazione o sull’ornamentazione melodica; alcuni sono maggiormente indicati
per determinati strumenti (per esempio l’arpeggio, peculiarità soprattutto della musica per
clavicembalo e per liuto), altri per la musica vocale. Ma tutti presentano una caratteristica comune:
il fatto di non essere indicati da uno specifico segno grafico sulla partitura. Fatta eccezione per
alcuni casi, essi hanno a che fare con la prassi esecutiva e pertanto non hanno una diretta
corrispondenza simbolica nei segni grafici presenti sullo spartito.

12 Wolfgang Amadeus Mozart, lettera al padre scritta ad Augusta, datata 24 ottobre 1777.
Cfr. Marco Murara, Tutte le lettere di Mozart, l’epistolario completo della famiglia Mozart 1755-1791, Vol.I,
(Zecchini Editore, Milano 2011)
13 Cfr. Jean-Jacques Eigeldinger, Chopin Pianist and Teacher: as seen by his pupils.
(Cambridge University Press, 1988)
14 Cfr. Sandra P. Rosenblum, The Uses of Rubato in Music, Eighteenth to Twentieth Century
Performance Practice Review: Vol. 7: No. 1, Article 3. DOI: 10.5642/perfpr.199407.01.03

14
Le Notes Inégales
Uno degli espedienti più utilizzati dagli esecutori è il fenomeno delle notes inégales o inégalité, che
consiste nell’alterare il ritmo ed eseguire a valori ineguali alcune note all’interno di un gruppo che
graficamente appare scritto a valori uguali. Assunsero grande rilievo nella pratica e nella trattatistica
in particolare nella Francia del XVI secolo; da lì si diffusero e furono adottate in tutta Europa,
assumendo talvolta caratteristiche particolari in relazione ai differenti repertori, alle differenze aree
e scuole, ai differenti periodi storici.
Alcuni musicologi e studiosi ritengono che tale pratica potrebbe essere addirittura un’eredità della
monodia medievale, ed in particolare di alcuni modelli di canto piano della Chiesa Cattolica, quali
gli Inni Ambrosiani.15 In un passo delle Confessioni, Sant’Agostino definisce questi inni tria
tempororum. Da ciò l’interpretazione secondo la quale questi ultimi sarebbero stati eseguiti
seguendo un’alternanza valori brevi – valori lunghi, con ciascun gruppo di note (graficamente
uguali) a formare una cellula ritmica 2+1.
Restando in territorio francese, anche la Scuola di Notre-Dame, a partire dal tardo XII secolo,
applicava a gruppi di note scritte con notazione grafica equivalente, moduli ritmici di tipo lunga-
breve ed è pertanto considerata da alcuni ricercatori un altro possibile precursore della pratica delle
Notes Inégalés. Infine, vanno menzionate anche le diteggiature di numerosi brani cinquecenteschi
per tastiera. Nelle scale, per esempio, alla mano destra venivano regolarmente suggerite diteggiature
del tipo 34343 nei movimenti ascendenti e diteggiature di tipo 323232 nei movimenti discendenti.
Tali suggerimenti sono totalmente incomprensibili ad un esecutore moderno che non sia al corrente
della pratica dell’ineguaglianza a due a due e dell’alternanza nota buona / nota cattiva,16 ma
diventano comprensibili in quest’ottica .

Il primo ad utilizzare il termine inégalité e’ Loys Bourgois, nel già citato Le Droict Chemin de
Musique del 1550. L’autore si concentra in particolare sul modo corretto di “cantare a due a due” i
quarti e gli ottavi in battute nelle quali l’unità ritmica fosse rispettivamente la minima e la
semiminima. Questo l’esempio sulla prima situazione:

mentre per quanto riguarda gli ottavi, l’esecuzione suggerita è quella che segue

Lo spunto fornito da Bourgeois fu raccolto pressoché unanimemente dai compositori e trattatisti


francesi, tanto che a partire dal 1550 e fino al XIX secolo circolarono in Francia oltre 80 trattati che
affrontavano l’argomento, fornendo indicazioni interpretative basate sull’applicazione delle Notes
Inégalés. In essi talvolta si incontrano raccomandazioni affinché le note accorciate non lo siano
‘troppo’. A questo proposito, è chiaro come uno dei principali problemi di questa pratica sia
determinare l’entità dell’ineguaglianza, ossia il rapporto tra la nota allungata e quella accorciata
all’interno di una coppia. Nel XVIII secolo François Couperin cominciò ad aggiungere il punto di

15 Gli Hymni di Ambrogio di Milano, dottore della Chiesa, composti a partire dal 386.
16 Girolamo Diruta, Il Transilvano (Venezia, 1593), pag. 13.

15
valore in alcune note da prolungare. Ciò contribuiva a dare una misura di tale rapporto. Restava
infatti in vigore la prassi di suonare ineguali le note graficamente dello stesso valore, ma tale
inégalité doveva essere meno stretta di quella che si andava invece a realizzare in corrispondenza
delle figurazioni nelle quali compariva il punto di valore. L’esatta misura del rapporto tra nota
prolungata e nota accorciata restava, tuttavia, non precisato e veniva lasciato al gusto dell’esecutore.
Nonostante questa libertà, alcuni studi hanno tentato di stabilire una precisa entità dell’inégalité,
suggerendo ora un rapporto 3:2, ora 3:1. Engramelle 17, spingendosi ad un grado di scientificità
probabilmente eccessivo e poco realizzabile nella pratica, arriva addirittura a distinguere una serie
di ineguaglianze il cui rapporto oscilla fra 3:2 e 9:7 (1.29), specificando inoltre che essa dovrebbe
essere più marcata nei brani vivaci ed attenuarsi in quelli più dolci e variare anche all’interno di un
medesimo pezzo.
Dopo l’uscita di Le Droict Chemin de Musique, la pratica cominciò a diffondersi anche fuori dai
confini francesi, assumendo differenti caratteristiche nelle diverse scuole europee. Un trattato
spagnolo 18 uscito una quindicina d’anni dopo l’opera di Bourgeois ne avalla i dettami, aggiungendo
però un secondo modo di realizzare l’ineguaglianza degli ottavi scritti uguali: oltre alla possibilità
dell’alternanza lunga-breve, appare anche la soluzione inversa

Anche nell’Italia della seconda metà del Cinquecento e dell’inizio del Seicento abbiamo
testimonianze sull’utilizzo di entrambe le possibilità di questa forma di inégalité,. Per quanto
riguarda la musica strumentale, sono ancora una volta gli “Avvertimenti al lettore” di Frescobaldi a
fornircela. Scrive infatti l’autore: “Trovandosi alcun passo di crome e semicrome insieme a tutte e
due le mani, portar si dee non troppo veloce: e quella che farà le semicrome dovrà farle alquanto
puntate, cioè non la prima, ma la seconda sia col punto; e così tutte. L’una no e l’altra sì.” In
generale, salvo specifiche indicazioni come quella riportata qui sopra, il capovolgimento breve-
lunga era meno utilizzato: veniva utilizzato nei passaggi veloci oppure, come divenne abitudine in
Francia, dove esplicitamente indicato dalla notazione. Negli altri casi si preferì la realizzazione
lunga-breve.
Anche la musica vocale va di pari passo e raccoglie le indicazioni predicate da Bourgeois. In tal
senso è illuminante la seguente serie di esempi pratici di interpretazione della grafia musicale
fornita da Giulio Caccini nella Prefazione a Le Nuove Musiche. Come si vede, in essa compaiono
sia la soluzione lunga-breve che il suo capovolgimento, con la prima che tuttavia appare più
ricorrente.

17 Cfr. Marie Dominique Joseph Engramelle, La tonotechnie: ou L'art de noter sur les cylindres et tout ce qui est
susceptible de notage dans les instruments de concerts méchanique. (1775)
18 Tomàs de Santa Maria, Libro llamado arte de tañer fantasía (Valladolid, 1565)

16
E’ certo che l’uso delle notes inégalés sia stato imitato ed importato da tutti i paesi europei a partire
dal XVII secolo. Tuttavia, nelle diverse convenzioni di notazione, si svilupparono delle differenze
rispetto al modello francese. Non potendo dare per scontato che tale pratica fosse conosciuta da tutti
gli esecutori, spesso si preferì evitare di lasciarla implicita e si scelse di scriverla con la notazione
puntata. Proprio questo ne rende così controversa l’applicazione.
Uno dei dibattiti più accesi si ha attorno all’interpretazione della musica di Bach, ma la medesime
argomentazioni a favore dell’uno o dell’altro punto di vista possono essere sicuramente
generalizzate. Alcuni studiosi ritengono, infatti, che la diffusione dello stile francese fosse tale da
poter dare per scontato che le sue convenzioni andassero applicate anche a tutte le opere scritte al di
fuori della Francia. Altri invece sostengono che la norma fosse l’esecuzione omoritmica e che
l’inégalité venisse sempre esplicitamente indicata.
Lo stesso Bach si rese conto di questa difficoltà e lavorò ad alcune ristesure (in particolare delle
composizioni ‘in stile francese’) chiarendo graficamente la differenza tra note regolari e note
ineguali. 19
In questo caso il ricorso alla letteratura dell’epoca non chiarisce in maniera inequivocabile la
questione. Alcune fonti suggeriscono che l’esecuzione inégale fosse sottintesa, altri avvalorano
invece la tesi opposta. La spiegazione di tali discrepanze potrebbe essere semplicemente una
differente convenzione in relazione all’area geografica.
Quel che è certo è che, a due secoli dall’uscita del saggio di L. Bourgeois, Johann Joachim Quantz,
non lasciò dubbi sul fatto che lo stile francese fosse arrivato anche in Germania, scrivendo quanto
segue nel suo trattato “Versuch einer Anweisung die Flöte traversiere zu spielen” (Saggio di un
metodo per suonare il flauto traverso) del 1752:
Bisogna che nei tempi in movimento lento o moderato le note più brevi siano suonate con
qualche ineguaglianza, anche se alla vista sembrino dello stesso valore, e si deve

19 Ne è un esempio l’Overture secondo il gusto francese. Confrontando la definitiva BWV831 con la versione arcaica
BWV 831a, conservata in manoscritto dall’allievo Johann Preller, si nota come Bach prima della pubblicazione si
sia ricreduto ed abbia deciso di non lasciare sottintesi alcuni ritmi che potevano generare ambiguità. La stessa cosa
si verifica nelle due versione della Suite per liuto in do minore. Nella seconda stesura viene precisata l’esecuzione
di diversi passaggi attraverso l’uso del punto di valore.

17
appoggiare sulle note forti, cioè sulla prima, sulla terza, sulla quinta e sulla settima, più
che non su quelle che passano, cioè sulla seconda, sulla quarta, sulla sesta e sull’ottava,
benché, però, non si debbano tenere come se fossero puntate.

Per quanto riguarda la diffusione di questa pratica nei paesi di lingua tedesca (Austria e Germania
su tutti), grande importanza è attribuita dagli studiosi alla figura di Georg Muffat. Nato in Savoia
nel 1653, studiò a Parigi con Jean-Baptiste Lully e successivamente conobbe ed entrò in contatto
con Arcangelo Corelli. La sua formazione gli consentì di favorire nei paesi tedeschi la sintesi dello
stile francese e dello stile italiano. Acquisì grande fama ed esercitò grande influenza sui
contemporanei in particolare grazia alla pubblicazione del Suavioris harmoniae instrumentalis
hyporchematicae Florilegium, una raccolta di danze pubblicata in due parti nel 1695 e nel 1698. In
particolare la prefazione al secondo volume, scritta in latino, tedesco, francese ed italiano, è di fatto
un perfetto manifesto dello stile lullista, che ebbe grande impatto e contribui a far sì che Muffat
venisse poi indicato come il “creatore” dello stile tedesco, sintesi della “viva soavità dei balletti in
stile francese” e degli “affetti del patetico italiano”. La Prefazione espone, tra le altre cose,
l’artificio delle notes inégalés, il più diffuso esempio di alterazione ritmica dello stile lullista,
fornendone un chiaro quadro anche ai compositori tedeschi. Proprio in virtù dell’influenza
esercitata attraverso la sua opera, Georg Muffat è ritenuto una delle figure più autorevoli ed
influenti dell’epoca di transizione tra Frescobaldi e Bach.

...le note diminuenti del primo ordine, quali sono le biscrome nel tempo ordinario
imperfetto; le crome sotto il tempo binario, ò alla breve; quelle che vanno della metà più
presto che le parti essentiali delle Triple un pocò allegre, e delle proportioni, messe
consequitamente non si suonano uguali come stanno; havrebbono cosi quache cosa di
troppò languido, crudo, e semplice: Mà si cambiano alla Francese aggiungendo à ciasch’
una di quelle che vengono nel numero caffo ò impari, come il valore d’un punto, dal quale
diventando queste più longhe, rendono la seguente altretanto più curta.

L’abbondanza di fonti storiche che trattano questo artificio dimostra come l’accentazione a due a
due, ad imitazione del fraseggio degli strumenti ad arco e dei cantanti, fosse una dei procedimenti
più adottati per quanto riguarda le alterazioni ritmiche e che direttamente incidono sulla pratica del
“Rubato”. Ma accanto ad essa erano offerte all’esecutore anche altre soluzioni, da scegliere
soprattutto in relazione all’andamento del brano.
Un’altra possibilità, che il già citato Tomàs de Santa Maria definisce “la màs galana de todas”
(ossia la più elegante di tutte) prevede l’accentazione a quattro a quattro delle crome, affrettando
leggermente le prime tre per poi giungere ad indugiare leggermente sulla quarta. 20
Circa due secoli più tardi, Johann Joachim Quantz proponeva il rovesciamento di questa
ineguaglianza, invertendo il ruolo della prima e della quarta nota:
Nei passaggi rapidi in un movimento molto vivace in cui il tempo non consente di suonare
in modo ineguale a due a due, si può appoggiare ed accentare soltanto la prima di quattro
note.

Quest’ultimo paragrafo, oltre ad esporre questa soluzione ritmica, è molto significativo anche per
un altro motivo: il fatto che Quantz specifichi esplicitamente il caso in cui l’esecutore era esentato
dall’inégalité a due a due ci dà l’idea di quanto questa pratica fosse ben nota (quasi data per
scontato) anche ai musicisti di area tedesca del secondo Settecento.

20 Cfr. Tomàs de Santa Maria, Libro llamado arte de tañer fantasía (Valladolid, 1565)

18
La Variazione Melodica
Un artificio assai diffuso, che affonda le proprie radici addirittura nella musica medievale, è quello
della variazione melodica, che consiste nell’alterare una linea mediante l’aggiunta di note che
ornano quelle originali o ne collegano una con quella seguente. Questo procedimento porta
inevitabilmente ad un’alterazione ritmica delle note originali, dal momento che la struttura della
frase musicale deve restare intatta; vale a dire che la versione variata deve coincidere con quella di
partenza battuta per battuta, e pertanto il tempo “occupato” dalle note che fioriscono la melodia
deve essere sottratto da quelle originali, così da mantenere inalterata la struttura ritmica nel suo
complesso.
I germi di questa pratica sono, ancora una volta, da ricercarsi nella monodia medievale: basti
pensare alla differenza tra la salmodia di andamento sillabico e le forme melismatiche dei graduali e
dei responsori. Sempre in campo liturgico, una tecnica diffusa principalmente nel Duecento e
denominata Frangere Voces consisteva nell’abbondante ornamentazione di una melodia di partenza
a valori molto larghi.
Le prime testimonianze scritte della variazione melodica apparvero nel 300 nella pratica
dell’Intavolatura strumentale (nello specifico per strumenti a tastiera) di brani vocali. Tali brani
assumono una propria indipendenza rispetto all’originale vocale, ma è chiaro come l’effetto sortito
e l’emozione suscitata nell’ascoltatore dalla trascrizione variata per tastiera o per altro strumento sia
accresciuta dalla familiarità di quest’ultimo con la versione originale priva di rubamento del tempo.
Un interessante esempio di intavolatura per tastiera di una melodia vocale si trova nel Frammento
Robertsbridge 21, databile attorno al 1350.

L’esempio qui riportato mostra una linea vocale e la corrispondente intavolatura per tastiera, nella
quale la linea stessa appare arricchita da ripetizioni e note di volta che fungono da collegamento tra
le note della melodia originale. Si nota come la struttura complessiva delle due frase resti inalterata
e perfettamente sovrapponibile, a dispetto delle numerose aggiunte di note e di alterazioni ritmiche
che compaiono nella versione strumentale.
A partire soprattutto dal XV secolo la variazione melodica entrò a far parte della prassi
improvvisativa di strumentisti e cantanti e fecero la loro comparsa numerosi trattati che istruivano
gli esecutori alla pratica dell’improvvisazione su una linea melodica data, fornendo un’ampia
gamma di soluzioni da applicare. Di seguito un breve frammento musicale, seguito da una serie di
possibili abbellimenti suggeriti da Sylvestro Ganassi dal Fontego, nel suo Opera intitulata
Fontegara, trattato su flauto dolce e diminuzione pubblicato a Venezia nel 1535.

21 Manoscritto del XIV secolo rinvenuto a Sussex, in Gran Bretagna, che contiene i più antichi esemplari di musica
scritta per strumenti a tastiera. Contiene sei brani: tre estampie (brani strumentali in forma di danza) e tre arrangiamenti
di mottetti, due dei quali attribuiti a Philippe de Vitry.

19
Il carattere di improvvisazione è messo in risalto dall’utilizzo di un numero sempre crescente di
note di abbellimento e, soprattutto dal fatto che esse si presentino in gruppi irregolari. Il che denota
la grande libertà ritmica di cui godevano cantanti e strumentisti in questo tipo di pratica.
Gli stessi insegnamenti sono rivolti ai violisti da gamba nel Tratado de Glosas pubblicato a Roma
nel 1553 da Diego Ortiz. In esso l’autore fornisce un vero e proprio campionario di formule per
imparare ad ornare e ad improvvisare su una melodia data. La trattazione è estremamente precisa e
sistematica: Ortiz presenta per ogni possibile intervallo, partendo dalla terza per giungere fino
all’ottava, una serie di soluzioni per abbellirlo. Seguono poi tre serie di composizioni che
presentano i tre generi in cui veniva suonata la viola da gamba: la prima è la Fantasia, basata
sull’improvvisazione “di sua testa e di suo studio” dell’esecutore; segue poi la fantasia fiorita su un
canto fermo; infine Ortiz propone una serie di composizioni polifoniche esistenti nelle quali la viola
diminuisce ora la linea del basso, ora la linea del canto quella del canto, seguendo l’espressione e il
carattere della composizione originale e del suo testo poetico, utilizzando una combinazione delle
formule precedentemente esposte nel trattato.
Analoghi insegnamenti, questa volta riservati ai cantanti, sono contenuti nelle Regole di Giovanni
Battista Bovicelli, pubblicate a Venezia nel 1594. Oltre alla trattazione sistematica di tutti gli
intervalli con relative possibilità di abbellimento, l’opera ne contiene le applicazioni a mottetti e
madrigali. Dopo aver presentato Diversi modi di diminuire i vari intervalli ascendenti e discendenti,
i gradi congiunti ed una sezione dedicata alle cadenze, l’autore offre un gran numero di esempi nei
quali esibisce Avvertimenti intorno alle note, proponendo esempi di variazioni di melodie note, ai
quali aggiunge Avvertimenti quanto alle parole, precisando i modi più convenienti di “accomodar
le parole” ed adattare la sillabazione alla melodia ornata.

...nel cantare, e particolarmente nel formare i Passaggi, non solo si deve por mente alle
note, ma anco alle parole; poi che si ricerca gran giuditio nel compartirle bene. […] Mi è
parso, dopo l’haver messo i sopra scritti Passaggi, quali, come si dice, in astratto, che si
possono adattare ad ogni sorte di Canto... Mottetti, e Madrigali, e Falsi bordoni
Passeggiati.

20
L’esempio qui riportato non esaurisce, ovviamente, il ventaglio di possibilità nella variazione
melodica offerta da Bovicelli, ma ne chiarisce il modo di procedere. Dapprima viene presentato un
frammento (in questo caso un Alleluia a valori larghi costituito da una successione di gradi
congiunti ascendenti), al quale poi segue una possibile versione variata. Grande attenzione è
riservata al posizionamento delle sillabe, fondamentale per mantenere intatta la comprensione del
testo: l’idea dell’autore è che, nelle fioriture a valori uguali, si debba il più possibile prediligere il
vocalizzo su un’unica sillaba. Non proferire nuova sillaba, ma continuare fino al fine sotto la
prima incominciata, perché riuscirà più commoda.

Tale vincolo può essere invece sciolto in presenza di Passaggi nei quali le note non saranno tutte di
un’istesso valore, come in questo secondo esempio. In questo caso l’esecutore può mantenere la
scansione sillabica originale anche quando esegue la melodia ottenuta rompendo le note in tante di
minor valore.
E’ quindi interessante notare come, oltre alle formule di variazione melodica, analoga importanza
sia riservata al problema della comprensione del testo da parte dell’ascoltatore. Esso è trattato in
L’arricchimento della melodia non deve mai sfociare esclusivamente in uno sfoggio virtuosistico di
tecnica e di agilità; parafrasando Monteverdi, si può affermare che esso debba comunque rimanere
al servizio dell’orazione.

21
L’Ornamentazione
Già a partire dalla fine del Cinquecento, la resa espressiva di un testo era tra le principali
preoccupazioni di compositori ed esecutori in particolare della musica vocale italiana. In
quest’ottica si cominciarono ad arricchire le melodie con piccoli gruppi di note ornamentali che
ponevano in evidenza determinate sezioni di una frase musicale; in corrispondenza della loro
esecuzione, il rubamento di tempo di questi gruppetti rispetto alla nota precedente o seguente faceva
sì che si verificasse uno sfasamento - più o meno percettibile - della melodia originale rispetto alla
linea del basso, che doveva invece continuare a procedere sotto il rigido vincolo del ritmo scritto.
Questo tipo di fioritura cominciò, per questo intento espressivo, ad essere preferita alla tecnica della
variazione melodica esposta precedentemente, che invece mirava ad abbellire la melodia nella sua
interezza e non solo alcune note ben precise.
Nell’introduzione di questi piccoli gruppi di note si riconosce il tentativo di imitare e di trasporre
nella musica le inflessioni vocali tipiche dell’oratore, il cui tono di voce è costantemente influenzato
dai sentimenti che lo animano. Essi traggono dunque origine dalla volontà di riprodurre una
modulazione naturale, legata agli affetti e non ad una ben precisa intenzione. Non devono pertanto
essere una mera ostentazione virtuosistica o tecnica, ma nascono e si sviluppano come “essenza
emotiva allo stato puro” 22
La pratica dell’abbellimento o ornamento musicale si estese ben presto anche al di fuori della
musica vocale. Chiaramente ebbe sviluppi differenti nella pratica dei diversi strumenti, in relazione
alle rispettive tecniche e caratteristiche; ciò non toglie, tuttavia, che l’origine comune - e di
conseguenza anche l’intento principale – sia l’imitazione della voce e delle sue inflessioni.
Il principale problema legato a questa pratica è rappresentato dalle relative convenzioni sulla
notazione. E’ infatti piuttosto frequente imbattersi in pagine che, pur provenendo da contesti
temporalmente e geograficamente piuttosto vicini, presentano discrepanze anche molto
significative: in alcune sono indicati un gran numero di abbellimenti, altre invece appaiono
totalmente sprovviste di segni grafici che ne suggeriscano l’esecuzione. Queste differenze hanno
spesso creato problemi di interpretazione ed hanno indotto in errore gli esecutori dei secoli
successivi, i quali hanno creduto di dover suonare senza alcuna ornamentazione le pagine che non
presentassero specifiche indicazioni in tal senso.
In realtà, nell’ambito della Musica Antica, discordanze di questo genere hanno spesso altre origini:
una su tutte i già citati limiti tecnici della tipografia musicale dell’epoca.
Fin dal Cinquecento, per rispondere alla nuova esigenza della musica, ovvero quella di essere
stampata, si affermò una notazione epurata, graficamente più pulita e che necessitava di essere
dotata di un sistema di convenzioni per la corretta interpretazione e realizzazione. D’altra parte, era
scontato che ogni esecutore imparasse, nel corso dei propri studi musicali, a collocare
convenientemente gli abbellimenti non indicati dove era necessario e di buon gusto farlo.
Già nel 1623, Jehan Titelouze, organista e compositore considerato il capostipite della Scuola
organistica francese, scriveva:
Al Lettore: le misure e gli accenti sono raccomandabili tanto alle voci, quanto agli
strumenti. Le misure regalano il movimento, & gli accenti animano il canto […] Per gli
accenti, la difficoltà di apporre dei segni a tutte le note che li richiederebbero mi ha indotto
a rimettermi al giudizio di chi suonerà, tal quale faccio per le cadenze che sono comuni
come ognuno sa… 23 24

22 Marin Mersenne, Harmonie Universelle (Parigi, 1637)


23 Jehan Titelouze, Hymnes de l’Eglise. (Parigi, 1623), Prefazione “Al lettore”, f. 2v.
24 Con accenti (accents) e cadenze (cadences) l’autore indica rispettivamente appoggiature e trilli.

22
Oltre a questa esigenza di mantenere una certa pulizia dal punto di vista grafico e visivo, va anche
considerato che le partiture, non avendo una specifica destinazione strumentale (potevano essere
eseguite da uno strumento polifonico, per esempio a tastiera, tanto quanto da un ensemble) erano
concepite con un carattere più svincolato “teorico” e svincolato. Per questo le indicazioni sugli
abbellimenti, che avevano a che fare con la prassi esecutiva, erano di norma omesse e si lasciava
agli esecutori il compito di improvvisarne di volta in volta la realizzazione, ognuno in relazione alla
tecnica ed alla consuetudine del proprio strumento. 25
Da ciò appare già abbastanza evidente che “...dai tempi delle più antiche opere per canto o
strumenti che ci sono state tramandate, era sottinteso che l’esecutore ornasse secondo il suo gusto
le melodie, scritte molto semplicemente nelle loro linee principali” 26. Nessun musicista del XVI,
XVII e XVIII secolo si sarebbe mai aspettato di trovare specifiche indicazioni e segni grafici
apposti su ognuna delle note che necessitavano di un abbellimento. L’ornamentazione fu da sempre
considerata come un’irrinunciabile tecnica che ogni aspirante musicista doveva imparare a
padroneggiare fin dall’inizio dei propri studi e che nel tempo contribuiva a plasmare lo stile ed il
gusto personale, nonché a differenziare un esecutore da un altro. Per dar loro il “vero significato,
occorre arrivare ad eseguirli come se provenissero dall’interprete ispirato e non dall’autore”. 27
Sono ancora una volta i trattati dell’epoca ad avvalorare questa tesi. Girolamo Diruta, nel suo
Transilvano, avverte che:
...si debbono far gli Tremoli nel incominciar qualche Ricercare, o Canzone, o che altro si
vogli; & anco quando una mano fa più parti, & l’altra mano una parte sola, in quella parte
sola si devono fare i tremoli; e poi secondo che torna commodo, & arbitrio de’ Organisti
avvertendoli, che il tremolo fatto con leggiadria & a proposito, adorna tutto il sonare, & fa
l’armonia viva, & leggiadra.
Gli fa eco Alessandro Piccinni, liutista, tiorbista (strumento da lui stesso inventato assieme
all’arciliuto) e compositore:
Sono li tremoli di grandissimo ornamento nel suonare […] In tutti i luoghi dove si deve
fermare assai, o poco, quivi si deve fare il Tremolo, farà buonissimo effetto sempre. E
perché i luoghi, dove si devono fare li Tremoli, sono infiniti, non ho voluto fare segno
alcuno nella Intavolatura per non offuscarla, bastando l’avviso dato. 28
Contribuisce a dissipare ogni dubbio al riguardo anche Giovanni Girolamo Kapsberger:
Il suonar senza trilli, over accenti, fuor che nei luoghi dove la prestezza sia tale che non li
ammetta, è cosa insipida; si trillarà ovvero accentuarà ogni botta quando si possa […]
quelle di tre, dua et una corda senza trillo son morte. 29
Lo stesso tipo di raccomandazioni si trova in abbondanza anche nella trattatistica del resto
dell’Europa, in particolare in Francia e Germania. Anche Georg Muffat dedica un capitolo del suo
Florilegium alla discussione “Degli abbellimenti e degli ornamenti dell’esecuzione”. Dopo aver
esposto in dieci paragrafi una serie di consigli sul loro impiego, ribadisce l’importanza “di saper
adoprar con giudicio certe gratiette e certi ornamenti convenevoli, i quali fanno spicar l’armonia
qua e là come tante gioie scintillanti […] Si manca facilmente intorno a questa principal parte
della Melodia, ch’alcuni vani sprezzatori credono forse esser di poca importanza: cioè con
25 Cfr. Lorenzo Ghielmi, Il suonar senza trilli è cosa insipida. In “In Organo Pleno” Festschrift fur Jean-Claude
Zender zum 65. Geburstag. Peter Lang, Bern 2007, pagg. 130-131.
26 Hugo Riemann, Musik-Lexicon. Lipsia, 1882
27 Antoine Geoffroy-Dechaume, I Segreti della Musica Antica (1973)
28 Alessandro Piccinni, Intavolatura di Liuto, et di Chitarrone. Libro Primo (Bologna, 1623), pag. 4.
29 Giovanni Girolamo Kapsberger, Libro Quarto d’Intavolatura di Chitarrone (Roma, 1640), pag. 2.

23
l’omissione, coll’improprietà, coll’eccesso e coll’inabilità. Dall’omissione restano la melodia e
l’armonia nude e senza ornamento. 30
A quasi un secolo di distanza, gli scritti di Johann Joachim Quantz dimostrarono una volta di più
che anche la scuola tedesca aveva fatto propri questi insegnamenti:
Non è sufficiente saper eseguire differenti tipi di appoggiature con il loro appropriato
valore quando esse sono segnate; bisogna anche saperle aggiungere convenientemente
quando non sono indicate. 31

A proposito di quelle ornamentazioni che invece venivano esplicitamente indicate nella partitura,
occorre comunque una precisazione. A partire dal Cinquecento si affermò la consuetudine di
scrivere esplicitamente e per esteso tutte le note che componevano un abbellimento; essa rimase in
vigore, in particolare in Italia, anche per una buona parte del XVII secolo. Va detto che anche per
una corretta interpretazione di segni grafici così apparentemente chiari è necessario conoscere
alcune convenzioni che stanno alla base di questa notazione. Sarebbe infatti un fraintendimento
eseguire, ad esempio, un trillo seguendo alla lettera il segno grafico: quest’ultimo era pur sempre il
frutto di una schematizzazione. Pur indicando le note reali, lo faceva in forma semplificata.
Nell’esempio che segue, le semicrome non vanno eseguite come scritte, ma sono la
rappresentazione di un trillo non misurato con risoluzione:

Proprio per questo rischio di incomprensione si preferì ben presto sostituire questa grafia con dei
segni specifici, da apporre sulla nota da ornare. Essi avevano già fatto la propria comparsa in
Francia nella fase in cui in Italia era ancora in uso la scrittura estesa e progressivamente la
sostituirono. Proprio in virtù di ciò fu necessario allegare alle raccolte le cosiddette “Tavole degli
abbellimenti”, indispensabili anche in virtù del fatto che il significato dei segni variava da una
scuola all’altra. Addirittura potevano differire all’interno nell’opera di uno stesso autore, a seconda
che si riferissero all’ornamentazione di una linea vocale o ad un determinato strumento. Anche in
questo caso vale la precisazione fatta poc’anzi: le Tavole servivano a “stabilire un’intesa
preliminare tra compositore ed interprete” 32 attraverso una grafia semplificata che non doveva
essere riprodotta alla lettera in sede di esecuzione.

30 Georg Muffat, Suavioris harmoniae instrumentalis hyporchematicae Florilegium (Parigi, 1695-1698), Prefazione.
31 Johann Joachim Quantz, Versuch einer Anweisung die Flöte traversiere zu spielen (Berlino, 1752)
32 Cfr. Antoine Geoffroy-Dechaume, I Segreti della Musica Antica (1973), pag.80.

24
Vediamo ora nel dettaglio alcune tipologie di abbellimento, la cui pratica cominciò ad affermarsi già
dal Seicento. Analizzarli, anche attraverso esempi pratici, mettendo in luce il loro legame con il
cosiddetto rubamento del tempo. Dapprima verranno esaminati alcuni tipi di appoggiatura, per poi
passare ai trilli. Anche questi ultimi, infatti, sebbene in maniera meno palese ed ‘intuitiva’,
comportano durante la loro esecuzione33 diversi tipi di alterazione ritmica.
Intorno alla metà del diciassettesimo secolo, Christoph Bernhard (musicista e compositore tedesco,
cantore a Dresda sotto la guida di Heinrich Schütz) descrisse34 alcuni ornamenti tipici dello stile
vocale italiano, molti interessanti in tal senso.
I seguenti esempi sono tipi di appoggiatura, nei quali l’anticipazione di una sillaba o l’introduzione
di note di volta comportano l’alterazione ritmica della linea melodica originale.
Il primo esempio menzionato da Bernhard è la cosiddetta Anticipatione della sillaba: come esposto
chiaramente dalla definizione stessa, l’esecutore anticipa leggermente la pronuncia di alcune delle
sillabe che compongono la frase; ciò fa sì che, in corrispondenza di questa anticipatione, si
sottragga alla nota precedente un po’ del suo valore

Nel caso qui riportato, ciò avviene per esempio in corrispondenza della sillaba DA: anticiparne la
pronuncia comporta la perdita di parte del proprio valore della nota sol corrispondente alla sillaba
LAU. Analogo procedimento si applica alle note corrispondenti rispettivamente alle sillabe BO e
DO.

Il Cercar della nota consiste invece nell’aggiunta di alcune note di volta

Anche in questo caso le note che precedono l’ornamentazione (rispettivamente il sol corrispondente
alla sillaba MI e il mi corrispondente alla sillaba JE perdono parte del proprio valore, che viene
rubato dall’esecuzione dell’abbellimento.

33 Quale sia quella corretta è tutt’oggi oggetto di discussione: non mancano opinioni anche significativamente
divergenti e controversie attorno a questo dibattito.
34 Cfr. Christoph Bernhard, Von der Singe-Kunst, oder Maniera (ca.1650)

25
Questa figurazione rimanda direttamente ad una forma di cadenza molto in voga nella musica
vocale barocca, caratterizzata dallo spostamento di una sillaba non accentata su una nota non
accentata (si veda l’esempio seguente 35). Tale procedimento è molto usato in Italia come formula
cadenzale, in virtù del fatto che nella stragrande maggioranza dei vocaboli della nostra lingua
l’accento cade sulla penultima sillaba.

Anche nella scuola francese si affermò un tipo affine di appoggiatura, detto Port de voix: tipico
della musica vocale, esso mira ad accrescere l’espressività della frase musicale attraverso la
creazione di una dissonanza su un tempo forte. Ciò avviene mediante l’introduzione di note estranee
alla melodia originale o semplicemente tramite alterazione ritmica e ‘sfasamento’ tra la melodia
stessa e la linea del basso, che deve invece continuare, come sempre, ad attenersi al rigore ritmico.
Questa l’illustrazione che Bacilly fornisce36 riguardo all’utilizzo di questo tipo di appoggiatura nella
musica di Michel Lambert:

L’esempio che segue è invece tratto da una raccolta37 di brani per clavicembalo di François
Couperin:

35 Jacopo Peri, Le Musiche sopra l’Euridice (Firenze, 1600), pag. 45.


36 Bénigne de Bacilly, Remarques curieuses sur l’art de bien chanter (Parigi, 1668), pag. 141.
37 François Couperin, Pièces de Clavecin, I libro. (Parigi, 1713), pag. 39.

26
Il Trillo è ancora oggi oggetto di accese discussioni riguardanti la sua corretta esecuzione. Resta
tuttavia innegabile che, in tutte le sue forme, esso comporti diversi fenomeni di alterazione ritmica e
di rubamento del tempo. Il dibattito a cui si accennava riguarda soprattutto due aspetti
fondamentali: da una parte l’inizio del trillo stesso, che alcuni studiosi collocano in battere ed altri
prima del battere; dall’altra il far cominciare il corpo dalla nota superiore o, in alternativa, dalla nota
reale.
… Poche cadenze sono complete senza il convenzionale Trillo almeno in una delle sue
parti. Le cadenze sono una irrinunciabile caratteristica della musica barocca , e piuttosto
che cercare di sfuggirle, è bene cercare di portarle con convinzione, incluso il quasi
inevitabile Trillo. Ciò significa non solo iniziare il Trillo, come vuole la prassi esecutiva
barocca, con la nota superiore, ma accentando, e spesso prolungando, quella stessa nota
superiore con grande sicurezza ed enfasi. 38
Come appare evidente da questo passo, Robert Donington (attraverso esempi tratti, fra gli altri,
dagli scritti di Girolamo Diruta, Sylvestro Ganassi, Diego Ortiz, Tomàs de Santa Maria e François
Couperin) fa cominciare l’ornamento in battere: ciò fa sì che la preparazione del Trillo vadano a
rubare tempo alla nota principale, la cui comparsa risulta inizialmente “sostituita” dalla
preparazione stessa e di conseguenza ritardata rispetto a quanto indicato dal segno grafico. Quando
il trillo presenta una risoluzione (che normalmente consiste nell’eseguire la nota sottostante alla
principale e la nota principale stessa), essa ruba a sua volta tempo dalla nota principale.
In un saggio del 197839, il violinista e direttore Frederick Neumann, tuttavia, ha presentato
inconfutabili testimonianze riguardo all’utilizzo di innumerevoli altri tipi di abbellimenti nella
prassi del Sei-Settecento. Fra di essi si trovano, ad esempio, Trilli la cui preparazione inizia prima
del battere (nonché trilli che iniziano dalla nota reale). In questo caso il rubamento del tempo
avviene a discapito della nota che precede quella ornata. Per quanto riguarda l’eventuale
risoluzione, vale il discorso fatto nel caso precedente.
Caratteristica comune a tutte le tipologie precedentemente descritte è invece l’uscita dal vincolo
ritmico che si verifica nel corpo del Trillo, ossia nella ripetuta alternanza della nota superiore e della
nota reale. Di questa libertà, che non è possibile esprimere efficacemente con la notazione e che
rischia pertanto di essere omessa, parla molto chiaramente, fra gli altri, Girolamo Frescobaldi:
Quando si trouerà un trillo della man destra, ò uero sinistra, e che nello stesso tempo
passeggierà l’altra mano, non si deve compartire à nota per nota, ma solo cercar che il
trillo sia veloce, et il passaggio sia portato men velocemente et affettuoso; altrimente
farebbe confusione. 40
Gli fa eco, un secolo più tardi, François Couperin:
Benché i Trilli siano annotati come misurati nelle tavole degli abbellimenti nel mio primo
libro, essi sono tuttavia da cominciare più lentamente di come finiscono. 41

La trattatistica dei secoli XVI, XVII e XVIII fornisce molte altre indicazioni di questo genere: così
come accade riguardo alla conduzione della frase musicale nel complesso, anche per ciò che
concerne gli abbellimenti i compositori si preoccupano di mettere in guardia i lettori delle loro
opere, affinché essi non si facciano trarre in inganno dai segni grafici, che spesso sembrano
suggerire un’esecuzione ritmicamente vincolata e regolare. Ma questo non è affatto l’intento di
38 Robert Donington, The Interpretation of Early Music (ed. Faber and Faber Limited. Londra, 1963), pag. 171
39 Frederick Neumann, Ornamentation in Baroque and Post-Baroque Music (Princeton University Press, 1978)
40 Girolamo Frescobaldi, Toccate d’Intavolatura di cimbalo et organo (Roma, 1615), Prefazione “Al lettore”.
41 François Couperin, L’Art de toucher le clavecin (seconda edizione. Parigi, 1717), pag. 17.

27
fondo. Ancora una volta, è il buon gusto a dover guidare l’esecutore più del segno grafico che
compare sulla partitura. La velocità del Trillo dipende dal contesto musicale del brano, nonché dal
luogo in cui si suona e dalle sue caratteristiche acustiche: un brano cupo e meditativo suggerisce
l’esecuzione di un Trillo lento, mentre un brano gioioso l’alternanza nota superiore / nota reale deve
essere più rapida. In una sala spaziosa e ricca di riverbero, un Trillo lento sortirà un effetto molto
migliore di uno eccessivamente rapido. Viceversa in un ambiente piccolo ed acusticamente secco.
E’ ancora una volta il musicista ad essere chiamato a trovare la soluzione migliore, facendo sempre
attenzione a non cadere in nessun tipo di eccesso. 42

L’Arpeggio
Ancora oggi l’arpeggio è un accorgimento molti diffuso, in particolare nella musica per
clavicembalo, clavicordo, liuto, tiorba ed arpa. Più che come un abbellimento, è visto come un
artificio indispensabile per combattere la secchezza degli strumenti sopra citati e mantenerne vivo il
suono. Ma esso veniva utilizzato, già nella musica rinascimentale e barocca, anche con intenti
espressivi. Laddove, oltre a spalmare le note di un accordo in una delle figurazioni possibili 43,
l’esecutore attribuisce una valenza melodica a tali figurazioni, non realizza un semplice arpeggio,
bensì un arpeggio figurato. 44
Questa tecnica ha origine da una precisa necessità di migliorare la sonorità di alcuni strumenti nei
quali l’esecuzione simultanea di tutte le note di un accordo darebbe un risultato alquanto secco ed
asciutto dal punto di vista acustico e renderebbe impossibile dare un effetto di legato. Ma essa
sviluppò subito nella sua pratica anche un intento melodico ed espressivo, assumendo un ruolo
centrale nella tradizione dell’ornamentazione libera. La sua importanza e diffusione, in particolare
nella musica per clavicembalo, clavicordo e liuto, fa sì che già dal periodo rinascimentale essa non
necessitasse di una precisa indicazione grafica che ne suggerisse l’utilizzo.
Il rubamento del tempo che si verifica durante l’esecuzione di un arpeggio ha a che fare,
chiaramente, con lo spostamento della voce superiore, che non viene più eseguita
contemporaneamente al basso come indicherebbe la grafia, ma risulta ritardata o anticipata. Ciò
rimanda direttamente alle indicazioni fornite in tal senso fin dal primo Seicento da Giulio Caccini
ed approfondite e formalizzate all’inizio del XVIII secolo da Tosi: in quel caso lo “sfasamento” si
creava tra una linea vocale, che l’interprete era chiamato a modellare ritmicamente sulla retorica del
testo, e l’accompagnamento strumentale, al quale era raccomandato di mantenere un rigido vincolo
ritmico. A questo proposito sono molto interessanti alcuni passaggi riportati da Roger North in un
suo lavoro databile attorno al 1695 (epoca nella quale era già entrato presumibilmente in contatto
con Tosi, la cui prima visita in Inghilterra avvenne nel 1692. Come abbiamo già visto, North curerà
poi la traduzione inglese delle Opinione de' cantori antichi e moderni). In esso l’autore fornisce
numerosi esempi musicali, riconducibili a quanto scriverà Tosi una trentina di anni dopo, senza
tuttavia menzionarlo. Essi sono preceduti da alcune emblematiche righe nelle quali si afferma:
The great secret is to break and yet keep the time […] There is a way of breaking the time,
and coming in again at [the] proper place, and affording the just sound to answer the
harmony.

42 Cfr. Johann Joachim Quantz, Versuch einer Anweisung die Flöte traversiere zu spielen (Berlino, 1752)
43 1) Iniziando in battere dal basso e poi risalendo l’accordo verso le voci più acute. 2) Partendo dalla nota più acuta e
scendendo verso il basso. 3) Dal basso all’acuto, per poi tornare al basso. 4) Dalla nota più acuta al basso e poi
risalendo nuovamente l’accordo; ed altre possibili elaborazioni.
44 Cfr. Robert Donington, The Interpretation of Early Music. (ed. Faber and Faber Limited. Londra, 1963)

28
ES. 1 ES. 2

ES. 3

Pochi anni più tardi Tosi descriverà il Tempo Rubato principalmente in termini di anticipazione o
ritardo a fini espressivi di un certo numero di note della melodia rispetto al basso; questi esempi di
North illustrano perfettamente il fenomeno. Va aggiunto che le scelte fatte nelle tavole di esempi
sembrano mostrare una predilezione di North verso il ritardo della melodia rispetto
all’accompagnamento. L’anticipazione è utilizzata più di rado.
Dagli esempi si nota anche che non veniva apposto nessun segno grafico per suggerire questo
spostamento di una voce; esso faceva parte del bagaglio di artifici che un esecutore doveva saper
utilizzare ogni volta che lo riteneva opportuno. Aveva a che fare più con la prassi esecutiva che con
la notazione.
Un’analoga pratica si sviluppò anche nella musica francese (in particolare per clavicembalo) del
XVIII secolo e venne descritta da François Couperin con il nome di Suspension o Demi Soupir.
Consiste nel portare deliberatamente in ritardo una nota allo scopo di accentuare il carico espressivo
della frase, mentre il resto dell’armonia viene suonato a tempo. Il fatto che anche nella trattatistica
francese del primo Settecento si utilizzi il termine “mezzo-sospiro”, potrebbe suggerire che questo
abbellimento potesse essere in origine un ornamento tipico dello stile vocale italiano, fatto poi
proprio dai compositori francesi.

29
I due esempi qui riportati provengono rispettivamente da L’Art de toucher le Clavecin di François
Couperin (Seconda edizione. Parigi, 1717) e dai Pièces de Clavecin di Jean-Philippe Rameau
(Parigi, 1731). In essi è evidente la presenza di uno specifico segno per indicare la suspension.

Arpeggio e tempo rubato: le forme libere del periodo Rinascimentale-Barocco


L’utilizzo dell’arpeggio non solo come esigenza, ma con un preciso intento di accrescimento
dell’espressività, è tipico delle forme libere del tardo Rinascimento e del primo Barocco. In origine
esse erano concepite come brani che precedevano l’esecuzione di composizioni più ‘importanti’.
Comparivano sotto il nome di fantasia, toccata, capriccio, intonatione; anche il preludio dell’epoca
(che più tardi divergerà fino ad affermarsi come forma a sé stante 45, con caratteristiche differenti)
apparteneva a questa categoria. Venivano, come detto, eseguiti come introduzione ad una
composizione principale, sia vocale che strumentale; da un lato andavano a rappresentare ed in un
certo senso sostituire il processo di riscaldamento delle mani e di controllo dell’accordatura da parte
dell’esecutore, dall’altro attiravano l’attenzione dell’uditorio, introducendo gli ascoltatori
nell’ambientazione musicale della composizione più ‘formale’ che di lì a poco sarebbe stata
eseguita. Dovevano avere caratteristiche ben precise che si distaccassero da quelle della
composizione principale. E’ praticamente certo che in origine fossero affidate all’improvvisazione;
anche quando si iniziò a scriverli, essi mantennero i tratti caratteristici della musica creata
estemporaneamente. Fra queste, oltre ad una certa mancanza di strutture organiche e alla solita
libertà ritmica che contraddistingue questo stile, vi è l’utilizzo dell’Arpeggio.
Nelle toccate ho havuta consideratione non solo che siano copiose di passi diversi et di
affetti: ma che anche si possa ciascuno di essi passi sonar separato l’uno dall’altro onde il
sonatore senza obligo di finirle tutte potrà terminarle ovunque li sarà grato. Li
cominciamenti delle toccate siano fatte adagio, et arpeggiando; e così nelle ligature, o vero
durezze, come anche nel mezzo del opera si batteranno insieme, per non lasciar voto
l’Istromento; il quale battimento ripiglierassi a bene placito di chi suona. 46

Anche Louis Couperin, uno tra i primi compositori ad aver presentato lo stile del Prélude non
mesuré per tastiera 47, precisa di rifarsi a questo stile anche nella concezione dei Preludi misurati.
Anche laddove questa notazione non misurata veniva abbandonata, i preludi del XVIII secolo
continuavano ad essere intesi con la stessa libertà ritmica. Ne L’Art de toucher le Clavecin,
l’utilizzo di una notazione apparentemente più vincolante è una scelta operata solo a fini didattici.
Nella prefazione viene specificato che:

45 Nella scuola francese, tuttavia, si continuarono a produrre Preludi non misurati, scritti con una notazione
estremamente sommaria ed incompleta rispetto alla moderna notazione. E’ indispensabile, per approcciarli in
maniera corretta, la conoscenza della pratica Barocca di sciogliere gli accordi.
46 Girolamo Frescobaldi, Toccate d’Intavolatura di cimbalo et organo (Roma, 1615), Prefazione “Al lettore”.
47 Lo stile nasce nella letteratura rinascimentale per liuto. Intorno al 1650 compaiono i primi preludi non misurati per
clavicembalo.

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...benché questi Preludi siano scritti in tempo misurato, vi è uno stile dettato dal gusto che
occorre seguire. Il Preludio è una composizione libera, nella quale l’immaginazione da
sfogo alla fantasia. Devono essere suonati senza attenersi troppo alla precisione del ritmo,
se non dove l’ho espressamente indicato con la parola ‘mesuré’.

Il celeberrimo Preludio (del quale sono qui sopra riportate le prime tre battute) in do maggiore
BWV 846, che apre Das Wohltemperierte Klavier di Johann Sebastian Bach, non è altro che un
esempio di successione di accordi spezzati; molti altri compositori del periodo barocco lo avrebbero
scritto in accordi compatti, lasciando che l’esecutore scegliesse la figurazione che riteneva più
consona alla sua esecuzione. Perciò è chiaro che esso vada eseguito con una libertà ritmica ed un
rubamento del tempo tale da dare l’impressione di un’improvvisazione.

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CONCLUSIONI
Al termine di questo breve excursus che ripercorre le principali regole non scritte della prassi
esecutiva antica, appare evidente il sorprendente e monumentale deviamento artistico48 che deriva
da un approccio alla musica antica inconsapevole e che non tenga nella giusta considerazione i
trattati dell’epoca; i dettami sull’interpretazione in essi contenuti rappresentano un fondamentale ed
irrinunciabile complemento alla notazione musicale che, da sola, non basta ad esplicitare le reali
intenzioni degli autori.
Si può giungere ad un’interpretazione autentica di questo repertorio soltanto attraverso il recupero
di uno studio sistematico delle fonti (talvolta colpevolmente ignorate), indispensabili per tradurre
correttamente in musica i segni grafici delle partiture. Occorre abbandonare il percorso di
“modernizzazione” dell’interpretazione, avvenuta quando si accantonò l’idea che i segni musicali
potessero essere stati, un tempo, letti in maniera differente e con con differenti convenzioni che ne
regolavano la resa espressiva.
La mancanza di simboli specifici che suggerissero l’impiego di determinati artifici espressivi deriva
da un lato dalla difficoltà di formulare in maniera oggettiva tali realizzazioni, dall’altro dal fatto che
lo sviluppo di questo “gusto” faceva parte della formazione musicale di ogni allievo e gli derivava
dall’essere direttamente immerso nell’atmosfera del proprio tempo.
Questa tradizione diretta non può, chiaramente, giungere fino a noi; pertanto la nostra unica risorsa
in tal senso è un’attenta lettura di ciò che gli stessi autori ed i contemporanei avevano da dire sulla
propria musica. Resta il fatto che un’interpretazione esatta non esista; nessuno, neppure lo stesso
compositore, suona un passaggio in maniera identica per due volte. Attraverso questo studio,
pertanto, non si giunge a delineare in maniera definitiva un’esecuzione autentica ed idale, ma si
mira a perseguire la più rilevante delle autenticità, ossia l’autenticità dei sentimenti.

48 Antoine Geoffroy-Dechaume, I Segreti della Musica Antica (1973), pag. 6.

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