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GRAFFI G. - SCALISE S.
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MANUALI
Linguistica
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della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet:
www.mulino.it
GIORGIO
GRAFFI
SERGIO
SCALISE

Lelingue
e il linguaggio
Introduzionealla linguistica

Terzaedizione

con scritti di CaterinaDonati


e di StefanoCappae AndreaMoro

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il Mulino
ISBN 978-88-15-24179-5 Copyright© 2002 by Società editrice il Mulino, Bologna. Terza edizione 2013. Tutti
i diritti sono riservaù. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata,
riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo- elettronico,
meccanico, reprografico, digitale - se non nei termini previsti dalJa legge che tutela il
Diritto d'Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie
Indice

Prefazione 11

I. Che cos'è il linguaggio? 15


1. La linguistica, il «linguaggio» e i «linguaggi» 15
2. Caratteristiche proprie del linguaggio umano 18
3. Il linguaggio e le lingue 24

Il. Che cos'è una lingua? 27


1. Parlato e scritto 29
2. Astratto - concreto 30
2.1. «Langue» e «parole» 31
2.2. Codice e messaggio 32
2.3. Competenza ed esecuzione 33
3. Conoscenze linguistiche di un parlante 33
3.1. Competenza fonologica 34
3.2. Competenza morfologica 34
3.3. Competenza sintattica 36
3.4. Competenza semantica 37
3.5. La grammatica dei parlanti 39
4. Una lingua non realizza tutte le possibilità 39
5. Sintagmatico e paradigmatico 41
6. Sincronia e diacronia 43
7. Il segno linguistico 43
8. Le funzioni della lingua 45
9. Lingua e dialetti 46
10. Pregiudizi linguistici 49
6 INDICE

lii. Le lingue del mondo 53


1. Classificazione genealogica: le famiglie linguistiche 59
2. La famiglia linguistica indoeuropea 61
3. La classificazione tipologica 65
3.1. Tipologia morfologica 65
3.2. Tipologia sintattica 68
4. I sistemi di scrittura delle lingue del mondo* 70

IV. I suonidelle lingue:fonetica e fonologia 75


1. Fonetica 76
1.1. L'apparato fonatorio 76
1.2. Classificazione dei suoni 77
1.3. Classi di suoni 78
2. I suoni dell'italiano 79
2.1. Consonanti dell'italiano 80
2.2. Vocali dell'italiano 81
2.3. Combinazioni di suoni 82
3. Suoni e grafia 83
4. Trascrizione fonetica 84
4.1. Confini 86
5. Fonetica e fonologia 87
5.1. Contesto 88
5.2. Poni e fonemi 88
5.3. Le regole di Trubeckoj 89
5.4. Allofoni 90
5.5. Varianti libere 92
5.6. Opposizioni fonologiche* 93
6. Tratti distintivi* 94
7. Regole fonologiche* 96
7.1. Parentesi* 96
7.2. Regole fonologiche espresse in tratti binari* 98
8. Fenomeni fonologici e tipi di regole* 98
8.1. Assimilazioni 100
9. La sillaba 102
10. Dalla parola ai tratti distintivi 104
11. Fatti soprasegmentali 104
11.1. Lunghezza 104
11.2. Accento 105
11.3. Intonazione 106
11.4. Tono 107
12. Il sistema fonologico dell'inglese* 107
13. Diversità fonologica tra le lingue* 109
INDICE 7

V. La struttura delle parole:morfologia 113


1. La nozione di parola 114
1.1. Tema, radice e forma di citazione 116
2. Classi di parole 116
2.1. Categorie e sottocategorie 118
3. Morfema 121
3.1. Morfemi liberi e legati 122
3.2. Parola e morfema 122
3.3. Morfema e allomorfi 123
4. Flessione, derivazione e composizione 124
5. Morfologia come «processo»* 125
6. Flessione 128
7. Derivazione 130
7.1. La suffissazione 130
7.2. Suffissi dell'italiano 130
7.3. Prefissazione 131
7.4. I prefissi dell'italiano 132
7 .5. Infissazione 133
7 .6. Alcuni casi di infissazione 134
8. Altri processi 134
9. Allomorfia e suppletivismo 135
10. Testa in derivazione 137
11. Composizione 139
11.1. Composti dell'italiano 140
11.2. Testa in composizione 141
11.3. Ancora sulla «testa» dei composti* 142
11.4. Classificazione dei composti 143
11.5. Flessione dei composti 144
11.6. Altri tipi di composti* 145
12. Morfologia e altri componenti 147
12.1. Morfologia e fonologia 147
12.2. Morfologia e sintassi 147
12.3. Morfologia e semantica 148

VI. Lessicoe lessicologia 153


1. Il lessico mentale 154
2. Dizionari 155
2.1. Un esempio: la preposizione «a»* 157
2.2. Lessicalizzazioni 157
2.3. Sigle e abbreviazioni* 158
3. Stratificazione del lessico 159
3.1. Stratificazioni dell'italiano 160
8 INDICE

4. Dizionari specialistici 162


4.1. Dizionari elettronici 162
4.2. Giochi* 163
4.3. Dizionari inversi* 164
4.4. Dizionari di frequenza* 165
4.5. Concordanze* 166

VII. La combinazionedelle parole:sintassi 169


1. La valenza 171
2. I gruppi di parole 172
2.1. Gli indicatori sintagmatici e lo «schema X-barra»* 176
3. Le frasi 180
3.1. Frasi e gruppi di parole 180
3.2. Tipi di frasi 182
3.3. Relazioni tra frasi di tipo diverso* 186
3.4. Tipi di frasi dipendenti* 188
3.5. Rappresentazione formale della struttura della frase* 191
4. Soggetto e predicato 194
5. Categorie flessionali 197
5.1. Genere, numero e persona* 198
5.2. Caso* 200
5.3. Tempo e modo* 201

VIII. Il significatoe l'uso delle parole e delle frasi:semanticae pragmatica 207


1. Significato, denotazione e riferimento 210
2. Semantica lessicale 212
2.1. Ambiguità del significato: omonimia e polisemia 212
2.2. Ancora sulla polisemia* 214
2.3. Estensioni del significato: metafora e metonimia 215
2.4. Relazioni di significato: sinonimia, antonimia, iponimia,
tperonuma 215
2.5. Analisi del significato in tratti semantici* 216
3. Semantica frasale 217
3.1. Tautologia, contraddizione, analiticità, presupposizione 218
3.2. Frasi con quantificatori e pronomi* 220
4. Gli atti linguistici 222
4.1. Tipi di atti linguistici 222
4.2. I performativi* 223
5. Uso letterale e uso non letterale delle espressioni linguistiche 224
INDICE 9

IX. Sociolinguisticae dialettologia 229


1. Linguistica teorica e sociolinguistica 229
2. Sociolinguistica 231
2.1. Centralizzazione a Martha's Vineyard (W. Labov)* 231
2.2. Comunità linguistica 234
2.3. Repertorio linguistico 235
2.4. Competenza comunicativa 235
2.5. Funzione di presentazione* 236
3. Sociologia del linguaggio 236
4. Etnografia della comunicazione 237
4.1. I pronomi del potere e della solidarietà* 238
5. Lingua e dialetto 239
5.1. Dialettologia e geografia linguistica 240
6. Dialetti in Italia 240
7. Bilinguismo e diglossia 243
8. Lingue pidgin e lingue creole* 244

X. Latrasformazionedelle lingue:linguisticastorica 247


1. Il metodo comparativo e la ricostruzione delle lingue originarie 250
1.1. Caratteristiche del metodo comparativo 250
1.2. L'«albero genealogico» delle lingue indoeuropee 253
1.3. Un esempio di ricostruzione* 257
2. Il mutamento fonetico e le «leggi fonetiche» 260
2.1. Leggi fonetiche concorrenti* 262
2.2. Analogia* 263
2.3. Contaminazione* 265
2.4. Assimilazione, dissimilazione, metatesi, aplologia* 265
2.5. Contatto tra lingue* 265
2.6. Conclusione sulle leggi fonetiche 267
3. Il mutamento morfologico 268
4. Il mutamento sintattico 269
5. Il mutamento lessicale e semantico 273

Xl. L'acquisizionedel linguaggio,di CaterinaDonati 277


1. La povertà dello stimolo 277
2. Come si studia l'acquisizione 279
2.1. La produzione linguistica: dati spontanei ed elicitazioni 280
2.2. La percezione: come scoprire cosa sa il bambino 282
3. Lo sviluppo della prima lingua 284
3.1. Lo sviluppo della fonologia 284
3.2. Lo sviluppo del lessico 285
3.3. Lo sviluppo della morfosintassi 287
Prefazione

Quello che qui presentiamo è principalmente un manuale di linguistica teorica.


Solo due capitoli, il VI ed il IX, affrontano temi più applicativi. Lo scopo
centrale che ci siamo prefissi è fondamentalmente di esplorare, da una parte,
la nozione di linguaggio come capacità umana e, dall'altra, quella di lingua nei
suoi molteplici aspetti: nel suo funzionamento, nelle sue articolazioni, nel suo
divenire. I destinatari privilegiati di questo lavoro sono gli studenti universitari
che affrontano un corso iniziale di linguistica generale o di glottologia, ma
speriamo che vi possa trovare motivo di interesse anche il pubblico colto in
generale e chi studia discipline vicine alla linguistica come psicologia, filologia,
teoria della letteratura, filosofia del linguaggio.
Abbiamo quindi cercato di non dare per scontata alcuna nozione tecnica della
linguistica e neppure la conoscenza di lingue diverse dall'italiano, antiche o
moderne.
Nel capitolo I si è cercato di definire cos'è il linguaggio umano e quali sono
le proprietà che lo distinguono da altri «linguaggi». Abbiamo poi cercato di
identificare alcuni dei tratti fondamentali della nozione di lingua (cap. II),
basandoci soprattutto sui lavori di Ferdinand de Saussure e di Noam Chom-
sky, vale a dire sullo strutturalismo linguistico e sulla grammatica generativo-
trasformazionale. Nel capitolo III si presentano i metodi di raggruppamento
delle varie lingue del mondo, con particolare attenzione alla tipologia lingui-
stica sia su base morfologica che su base sintattica. I capitoli successivi sono
dedicati all'analisi dei livelli linguistici fondamentali: la fonologia (cap. IV), la
morfologia (cap. V), la sintassi (cap. VII) e la semantica (cap. VIII). Il capitolo
X tratta dei problemi del mutamento linguistico. I capitoli più applicativi
sono invece il VI, dove si discutono i vari tipi di dizionari, ed il capitolo IX,
dove si affrontano alcune tematiche di stratificazione verticale delle lingue
(sociolinguistica) e di stratificazione orizzontale (dialettologia).
Ogni capitolo è chiuso da una breve nota storico-bibliografica, nella quale
vengono tra l'altro citati alcuni dei lavori più indicati per l'approfondimento
12 PREFAZ_IO_N,_E
_________________________ ~~---

dei temi trattati nel capitolo stesso. Abbiamo cercato di ridurre al minimo le
citazioni bibliografiche all'interno del testo per non appesantirne la lettura,
ma è owio che un lavoro di questo genere è debitore a schiere di studiosi
che hanno illuminato il cammino della linguistica moderna e che ci hanno
consegnato un dominio di studi concettualmente molto ricco, denso di pro-
blematiche appassionanti e di conoscenze che in ultima istanza hanno a che
fare con la mente umana, di cui il linguaggio è uno dei prodotti non secondari.
Il lettore potrà stupirsi del fatto che molti dei concetti di base sono difficili a
definirsi e a volte appaiono perfino sfuggenti, ma questo è il cammino della
scienza che non deve arrestarsi di fronte a difficoltà di definizione: il linguaggio
umano e le lingue del mondo sono un dato di fatto, accompagnano la nostra
esistenza fin dalla nascita e sono lo strumento principale dei nostri modi di
comunicare e di esprimerci.
Nei capitoli che trattano i livelli linguistici di base - e cioè fonologia, morfolo-
gia, sintassi e semantica - abbiamo cercato infatti di rispondere alla domanda:
che cosa conosce un parlante per poter parlare come parla e per poter capire i
suoi interlocutori come li capisce? Questo manuale non è dunque una tratta-
zione del pensiero delle varie scuole linguistiche, ma è un manuale che affronta
il problema linguaggio nel suo aspetto teorico e nei suoi aspetti empirici: vi
sono esemplificati e discussi molti dati da diverse lingue del mondo, anche se
la lingua privilegiata è per ovvi motivi l'italiano. Abbiamo inoltre cercato di
impostare il manuale in modo da fornire elementi di metodo per lo studio dei
suoni, delle parole, delle frasi e dei significati linguistici, guidando il lettore
attraverso percorsi di analisi che privilegiassero non le discussioni teoriche ma
quei metodi che hanno ormai uno statuto consolidato e che possono essere
condivisibili da studiosi di tendenze diverse.
Come abbiamo detto sopra, il manuale è pensato fondamentalmente come
un manuale universitario. Per un primo livello introduttivo, ci permettiamo
di consigliare solo quei paragrafi non contrassegnati da un asterisco(*). Gli
altri paragrafi- contrassegnati da asterisco e in corpo minore - possono essere
considerati degli approfondimenti, e dunque da riprendere in un secondo
momento. Naturalmente ogni docente darà una sua valutazione di quali parti
possono essere considerate introduttive e quali di approfondimento.

Diversi colleghi e amici hanno letto e commentato precedenti versioni del nostro
manoscritto. Ringraziamo innanzi tutto Edoardo Vineis, che, nonostante i suoi
impegni di Preside della Facoltà di Lingue di Bologna, ci ha fornito una serie
innumerevole di osservazioni critiche, costruttive e precise. Antonietta Bisetto,
Claudia Caffi, Antonella Ceccagno, Paola Cotticelli, Denis Delfitto, Caterina Do-
nati, Alberto Mioni, Clelia Mora, Andrea Moro, Salvatore Sgroi, Tullio Telmon,
Anna Thornton, Alessandra Tomaselli, Mario Vayra hanno letto parti del dattilo-
scritto fornendoci utili commenti. A tutti rivolgiamo un caloroso ringraziamento,
senza che per questo nessuno si debba sentire responsabile della versione finale di
questo lavoro. Un ringraziamento va infine al ministero dell'Istruzione, Università
e Ricerca per fondi 40% di cui ha usufruito Sergio Scalise.
13
-------- PREFAZIONE

Questo libro si basa molto concretamente sulla nostra attività didattica e


sui numerosi scambi scientifici che abbiamo avuto nel corso del tempo.
Esso deve dunque molto anche ai nostri studenti ed ai nostri colleghi ed
amici, tra i quali desideriamo ricordare specialmente - dedicando alla sua
memoria questa piccola fatica - Luigi Rosiello, nostro comune grande
amico.

Nota allasecondaedizione

Il buon successo ottenuto da questo manuale ne ha resa rapidamente ne-


cessaria una nuova edizione. Ringraziamo tutti i colleghi che lo hanno adot-
tato nei loro corsi o che lo hanno segnalato ai loro studenti. Ringraziamo
anche i nostri studenti più attenti e coloro che ci hanno fatto avere il loro
apprezzamento e/o le loro osservazioni critiche. Queste sono state davvero
numerose, al punto da motivare questa nuova edizione, in cui abbiamo
apportato delle modifiche che - speriamo - rendano questo libro ancora
più leggibile e con il minor numero possibile di inesattezze. Nella maggior
parte dei casi si tratta di correzioni, di piccole aggiunte, di precisazioni.
Solo il capitolo VII, dedicato alla sintassi, è stato parzialmente rimaneg-
giato nella sua struttura con l'aggiunta di due interi paragrafi (VII.2.1. e
VII.3.5.), l'ampliamento dei paragrafi VII.2. e VII.3.3. e la modifica di al-
cuni passi di VII.4.

Aicolleghi ringraziati nella prefazione del 2001 (tra i quali Denis Delfitto, Alberto
Mioni, Andrea Moro e Salvatore Sgroi ci sono stati prodighi di consigli anche in
occasione di questa nuova edizione), aggiungiamo ora Ernesto Napoli, Lorenzo
Renzi e Laura Vanelli.
Un ringraziamento speciale, infine, a Ugo Berti, Biagio Forino e a tutta la casa edi-
trice il Mulino, con cui abbiamo entrambi una confidenza ormai quasi trentennale.

ota

el sottoporre ai colleghi e agli studenti questa ristampa del manuale, ci corre


l'obbligo di rinnovare il nostro ringraziamento per l'attenzione che il nostro lavoro
ha suscitato e per il successo di cui continua a godere. Immutato nell'impianto
teorico e nel metodo espositivo, il volume presenta una novità significativa: è
collegato infatti a un sito web concepito appositamente per quanti lo utilizzano
nella didattica e nello studio. Siamo convinti che i materiali messi a disposizione sul
sito valgano a integrare proficuamente l'edizione cartacea e che possano dunque
andare incontro alle esigenze di approfondimento dei lettori.

Ringraziamo in particolare Emiliano Guevara, che ha curato gli esercizi di tra-


scrizione fonetica presenti sul sito web.

Bologna/Verona, settembre 2006


14 PREFAZIONE

Nota alla terzaedizione

Il tempo trascorso dalla prima uscita di questo manuale ci ha indotti ad alle-


stirne una terza edizione, che lo innova in modo molto più radicale rispetto
alle precedenti. Anzitutto, si è compiuta una revisione completa dell'intero
testo (correggendo inesattezze segnalateci da lettori, studenti e colleghi, ma
anche con ampliamenti di tematiche che i progressi della ricerca rendevano
necessari) e si è proweduto ad un aggiornamento della bibliografia. In tale
opera di revisione, un aiuto sostanziale ci è stato dato da Francesca Forza, che
desideriamo qui sentitamente ringraziare. Un ringraziamento altrettanto vivo,
per quanto riguarda la revisione del capitolo VII, va a Caterina Donati. Infine
un ringraziamento molto caloroso a Biagio Forino della casa editrice per la
cura e l'attenzione con cui ha seguito tutte le fasi di questa nuova edizione.
Si è deciso poi di arricchire i contenuti del volume includendovi la trattazione
di tematiche che, negli ultimi decenni, hanno conosciuto un grande sviluppo
dal punto di vista sia teorico che applicativo: l'acquisizione del linguaggio ed
il rapporto linguaggio/cervello. Alla prima di queste tematiche è dedicato il
nuovo capitolo XI, opera di Caterina Donati; alla seconda l'appendice, di cui
sono autori Stefano Cappa e Andrea Moro, e tramite la quale questo manuale
intende rivolgersi non solo al suo pubblico standard, ossia agli studenti dei
corsi di laurea umanistici, ma anche a quelli dei corsi di laurea di carattere
medico, all'interno dei quali si sta attivando un numero sempre maggiore di
insegnamenti di linguistica.
I materiali per lo studio e la didattica del testo presenti sul sito web sono stati
rivisti, aggiornati e ampliati da Francesca Forza, che ringraziamo ancora per
la sua disponibilità e per la sua accuratezza.
Ci auguriamo che questi aggiornamenti e questi ampliamenti incontrino il
favore non solo degli addetti ai lavori ma di tutto il pubblico sempre più vasto
che si awicina al mondo affascinante della linguistica e delle sue molteplici
connessioni interdisciplinari.

BolognaNerona, novembre 2012

GIORGIO GRAFFI
SERGIO SCALISE
Checos'èil linguaggio?

La linguistica è lo studio scientifico del linguaggio umano. In questo capitolo si spiega


cosa si intende con «studio scientifico» e si presentano alcune caratteristiche proprie del
linguaggio umano: la discretezza, la ricorsività, la doppia articolazione e la dipendenza
dalla struttura. Gli altri sistemi di comunicazione comunemente chiamati «linguaggi»
mostrano di non possedere queste quattro proprietà, o almeno di non possederle tutte.
li linguaggio umano è quindi una caratteristica propria della specie.

1. LALINGUISTICA,IL «LINGUAGGIO»
E I «LINGUAGGI»

Probabihnente la maggior parte di noi non ha un'idea molto chiara di che


cosa sia la «linguistica», e questa parola suona abbastanza strana, confinata
all'uso di pochi specialisti. Se a un uomo di cultura media viene chiesto
che cosa ritiene sia l'oggetto di questa disciplina, risponderà nella maggior
parte dei casi che essa «insegna le regole dello scrivere e del parlare cor-
rettamente»: per esempio, che in italiano non si deve dire a me mi (anche
se quasi tutti lo diciamo). Lo studioso di linguistica, di fronte a una simile
definizione, reagisce dicendo che essa esprime una concezione normativa
della linguistica, mentre la linguistica è in realtà una disciplina descrittiva,
o più esattamente «lo studio scientifico del linguaggio». Ma che significa
«studio scientifico»? E in che cosa consiste la differenza tra una concezione
«normativa» e una «descrittiva» della linguistica? E, in primo luogo, che
cos'è il linguaggio?
A differenza di «linguistica», la parola «linguaggio» suona, per la maggior
parte di noi, familiare: tutti sappiamo di possedere e usare un «linguaggio»,
che chiameremo linguaggio naturale. Tuttavia, si parla anche abitualmente
di «linguaggio degli animali», di «linguaggio dei computeD>,abbastanza fre-
quentemente di «linguaggio dei gesti», «linguaggio dell'arte», «linguaggio dei
media», ecc., e, a volte, di «linguaggio delle immagini», «linguaggio dei fiori»,
e così via. Tuttavia, un attimo di riflessione ci fa immediatamente domandare:
tutti questi «linguaggi» (illinguaggio naturale, che usiamo quotidianamente
per comunicare, quello dei computer, o quello dell'arte, e così via) sono la
stessa cosa, oppure sono diversi? E, se sono diversi, perché li chiamiamo tutti
«linguaggi»?
Cominciamo da quest'ultimo punto. Tutti i linguaggi di cui abbiamo appena
parlato (e molti altri assieme a loro) hanno certamente un elemento in comune:
sono tutti sistemi di comunicazione, servono cioè a trasmettere informazioni
da un individuo, che possiamo chiamare emittente, ad un altro, che possiamo
chiamare ricevente (o destinatario). Se, per esempio, voglio comunicare a
qualcuno di non passare per un determinato luogo, posso dirgli Fermati.' (e
in questo caso ho fatto uso di un'espressione del linguaggio naturale), oppure
alzare il palmo della mano aperta e mostrarglielo (e in questo caso ho fatto
uso del linguaggio gestuale). Un programmatore che vuole «dialogare» con
un computer per realizzare un determinato programma userà un determinato
tipo di «linguaggio» (per esempio, il basic).Per quanto riguarda i sistemi di
comunicazione animali, si sa ad esempio che le api, con i loro vari tipi di
«danza», comunicano alle loro compagne la distanza di una determinata fonte
di cibo e la direzione esatta da seguire per raggiungerla; oppure che varie
specie di uccelli fanno uso di determinati canti o richiami per comunicare,
ad esempio, la presenza di predatori, o il desiderio di accoppiarsi. Tuttavia,
una volta chiarito che tutti i vari tipi di «linguaggio» realizzano una qualche
forma di comunicazione, questo non è sufficiente per considerarli manifesta-
zioni di un unico sistema: infatti bisogna determinare se questi diversi sistemi
di comunicazione sono costruiti in base agli stessi principi, oppure no. In
altre parole, anche se avessimo dimostrato (cosa che in realtà non abbiamo
fatto, perché ci siamo fondati semplicemente sull'intuizione e il buon senso)
che tutti i vari «linguaggi» sono identici nella loro funzione (ossia quella di
permettere la comunicazione), non abbiamo detto nulla che dimostri che essi
sono identici anche nella loro struttura. Ebbene, la riflessione sul linguaggio
naturale (o umano; d'ora in poi useremo indifferentemente l'uno o l'altro di
questi termini) condotta nell'ultimo mezzo secolo propende largamente per
considerare la sua struttura come largamente specifica, e quindi molto diversa
sia dai «linguaggi» animali, sia dai «linguaggi» dei computer, e così via. Inoltre,
si sostiene che solo la specie umana ha la capacità di acquisire il linguaggio
umano, e che neppure le specie animali più vicine all'uomo in termini evolutivi,
come le scimmie antropoidi (per es. il gorilla, o lo scimpanzé), sono in grado
di acquisire tale linguaggio, se non in forma estremamente impoverita. Questo
non significa, ovviamente, che queste scimmie non abbiano un loro «linguag-
gio» (anzi ce l'hanno sicuramente), ma che esso manifesta delle caratteristiche
strutturali essenzialmente diverse da quelle del linguaggio umano. Possiamo
quindi introdurre già una modifica parziale della definizione di «linguistica»
che abbiamo dato sopra, e dire che la linguistica è lo studio scientifico del
linguaggio umano.
(HE COS'ÈIL LINGUAGGIO? 17

Cosa si intende con «studio scientifico»? Il tipo di metodologia e di analisi


dei problemi che caratterizza qualunque scienza. Sinteticamente, potremmo
definire le caratteristiche proprie di questa metodologia e di questa analisi
come: 1) la formulazione di ipotesi generali che rendano ragione di una mol-
teplicità di fatti particolari; 2) la formulazione di tali ipotesi in modo chiaro
e controllabile. In generale, il punto 1) si riferisce al fatto che qualunque
scienza (la fisica, la chimica, la biologia, ecc.) si trova di fronte a una grande
quantità di fenomeni diversi: corpi che si muovono nello spazio, sostanze
che si combinano, specie che mutano, ecc. Una scienza formula ipotesi che
intendono ricondurre a leggi generali questa molteplicità di fenomeni parti-
colari: per esempio, la legge della gravitazione universale, che dice che i corpi
si attraggono in proporzione diretta alla loro massa e in proporzione inversa
al quadrato della loro distanza, spiega il movimento di tutti i corpi celesti e
il fenomeno della gravità. Il punto 2) definisce la caratteristica propria che il
discorso scientifico deve avere: essere formulato in termini definiti in modo
esplicito e fondarsi su esperimenti ripetibili; solo il rispetto di questi criteri
permette il «controllo pubblico» della validità dei risultati raggiunti da un
determinato scienziato. Se questa chiarezza di metodo e questa ripetibilità
degli esperimenti mancassero, sarebbe impossibile dire se i risultati che uno
scienziato asserisce di aver raggiunto sono autentici oppure frutto di imbroglio
o di millanteria.
Quanto appena detto per la scienza in generale si applica anche alla linguistica.
Anche questa disciplina si trova di fronte a una molteplicità pressoché infi-
nita di fatti: per fare solo un esempio, possiamo pensare al numero in pratica
infinito di frasi e discorsi pronunciati (e a volte anche scritti) ogni giorno da
tutti i parlanti di tutte le lingue. Ricondurre questa molteplicità di fatti ad
alcune leggi generali che governano l'organizzazione e la struttura del lin-
guaggio umano, cioè formulare ipotesi generali sulla struttura del linguaggio,
è quindi il compito della linguistica come studio scientifico del linguaggio.
E, come accade per ogni altra scienza, la formulazione di queste ipotesi deve
essere fatta ricorrendo a una terminologia tecnica definita in modo preciso,
le osservazioni svolte su determinati fenomeni devono poter essere ripetibili,
in condizioni analoghe, anche da altri ricercatori, e così via.
Questo modo di procedere ci chiarisce anche perché la linguistica non sia
disciplina normativa, ma descrittiva: il suo scopo non è infatti quello di indicare
«ciò che si deve dire o non si deve dire» (come fanno le grammatiche dette
appunto normative), ma spiegare (nel senso di ricondurre a leggi generali)
ciò che effettivamente si dice. A scanso di equivoci, precisiamo che non vo-
gliamo affatto fare credere che «qualunque modo di parlare può andar bene
in qualunque circostanza»: ogni lingua, infatti, presenta delle varietà d'uso
(cfr. Il.9. e cap. IX), ognuna delle quali ha caratteristiche proprie che vanno
conosciute bene, per poter utilizzare tale varietà nei contesti e nei modi ap-
propriati. Per esempio, nell'italiano scritto è bene evitare di usare frasi come
la ragazzachegli ho parlatoieri, anche se questa è una forma molto comune
nel parlato, ed usare invece la ragazzaallaquale(oppure a cui)ho parlatoieri.
18 CAPITOLO1

L'indicazione delle forme «buone», «meno buone» o «decisamente da evi-


tare» è il compito della grammatica normativa: ed è un compito importante,
perché indica quali convenzioni dobbiamo seguire se vogliamo adottare un
certo tipo di comportamento accettato in un determinato gruppo sociale (nel
caso esemplificato, quello degli italiani colti). Questo importante compito,
tuttavia, è un compito pratico: esso ci indica una determinata gerarchia di
valori (sul cui fondamento si può discutere, ma che comunque esistono e
sono accettati). La linguistica come disciplina scientifica, invece, ha come
tutte le altre scienze un fine conoscitivo:vuole cioè, come si è detto, spiegare
in base a leggi quanto più possibile generali ciò che effettivamente si dice o,
in altre parole, il comportamento linguistico degli-esseri umani e investigare
i meccanismi che stanno alla base di tale comportamento.

2. CARATTERISTICHE
PROPRIE
DELLINGUAGGIO
UMANO

Una volta chiarito cosa si intende con «studio scientifico», dobbiamo ora
specificare cosa intendiamo con «linguaggio umano». Abbiamo detto nel
paragrafo precedente che la riflessione sul linguaggio umano negli ultimi
decenni è giunta alla conclusione che esso abbia delle caratteristiche molto
specifiche, essenzialmente diverse da quelle dei linguaggi animali o dei lin-
guaggi di programmazione tipici dell'informatica. Su che base si fonda una
tale conclusione? Questo argomento, per poter essere affrontato in modo
adeguato, necessiterebbe di una trattazione piuttosto lunga; qui cercheremo
di fornire soltanto alcuni cenni.
Cominciamo da una caratteristica che distingue tipicamente il linguaggio
umano dal linguaggio di molte specie animali, a cominciare da quello delle
api: il primo tipo di linguaggio è discreto, gli altri tipi sono continui. Cosa
vuol dire che il linguaggio umano è «discreto»? Vuol dire che i suoi elementi
si distinguono gli uni dagli altri per l'esistenza di limiti ben definiti. Ad esem-
pio, in italiano i suoni [p] e [b], oppure [t] e [d], per quanto molto simili
sotto vari punti di vista (i primi due sono articolati con le labbra, gli altri due
tramite il contatto della lingua con i denti superiori; v. più avanti, IV.2.1.),
hanno però, per il parlante e per l'ascoltatore, un effetto di contrasto netto:
patto vuol dire una cosa ben diversa da batto, e tardo una cosa ben diversa da
dardo. Non esistono cioè, nella mente del parlante e dell'ascoltatore, entità
«intermedie» tra p e b, oppure tra te d: a un certo momento, bruscamente,
l'ascoltatore percepirà batto invece di patto, o dardo invece di tardo. Nei
sistemi continui è sempre possibile, invece, «specializzare» sempre più il
segnale: la danza delle api ha queste caratteristiche. L'ape esploratrice, con
la sua 'danza', indica la direzione in cui si trova il cibo e la sua distanza. La
direzione è indicata dall'asse della danza mentre per la distanza essa si serve
della velocità in modo 'non-discreto': più è veloce la danza più vicino sarà il
cibo, più è lenta, più esso sarà lontano, con una gamma illimitata di variazioni
possibili.
CHE COS'ÈIL LINGUAGGIO? 19

Inoltre, dobbiamo notare che i segnali del linguaggio delle api (e, a quanto
si sa, dei «linguaggi» animali in genere) sono strutturati in modo abbastanza
diverso da quelli del linguaggio umano. In quest'ultimo, parole come batto o
patto,tardoo dardo,ecc., ciascuna delle quali ha un significato, sono formate
da entità più piccole, dette fonemi (su questo termine, v. il cap. IV) come
«b», «p», «a», ecc., nessuna delle quali ha significato, ma, se scambiata con
un'altra, ha la possibilità di produrre un significato diverso (ad esempio, i
casi di patto e batto, tardo e dardo citati sopra). In ogni lingua, i fonemi sono
in numero limitato (in generale, non più di qualche decina), mentre le parole
sono decine, anzi centinaia, di migliaia, ed è sempre possibile formare parole
nuove (cfr. a questo proposito i capp. V e VI). Quindi, una delle caratteri-
stiche del linguaggio umano è quella di poter formare un numero altissimo
di segni, cioè di entità dotate di significantee significato(cfr. II.7.), mediante
un numero molto limitato di elementi (i fonemi) che non hanno significato,
ma solo la capacità di distingueresignificati. Questa caratteristica, chiamata
doppiaarticolazione,sembra essere assente dai «linguaggi» degli animali: ad
esempio, nel linguaggio delle api, ogni specifico movimento di danza indica
la direzione e la distanza della fonte di cibo, ma non è analizzabile come
composto di «piccoli» movimenti ciascuno privo in sé di significato, e capace
di distinguere un movimento «significativo» da altri.
Un'altra differenza tra il linguaggio umano e i «linguaggi» animali è data
dall'inventario dei segni a disposizione in questi differenti sistemi (sul concetto
di segno cfr. II.7 .): in generale i sistemi di comunicazione animale sono carat-
terizzati da un numero finito di segni; le parole di ogni lingua umana, invece,
non costituiscono un insieme finito, perché si creano continuamente parole
nuove; e nel nostro parlare quotidiano facciamo uso, nella larga maggioranza
dei casi, di frasi nuove, create sul momento. A questa possibilità di creazione
continua di nuove frasi contribuisce in modo decisivo il meccanismo della
ricorsività:esso permette di costruire frasi sempre nuove inserendo, in una
frase data, un'altra frase, poi in quest'ultima un'altra frase ancora, e così via.
Per vedere come funziona in concreto il meccanismo della ricorsività, partiamo
da una frase semplice come (1):

(1) Maria mi ha colpito

Utilizzando un verbo come dire, possiamo trasformare (1) in una frase com-
plessa, cioè formata da una frase principale(I ragazzidicono) e da una frase
dipendente(che Maria mi ha colpito). (Sui concetti di frase semplice e frase
complessa, frase principale e frase dipendente cfr. VII.3.2.)

(2) I ragazzi dicono che Maria mi ha colpito

Possiamo poi trasformare l'intera frase (2) in una frase dipendente da un


verbo come credere:

(3) I vicini credono che i ragazzi dicano che Maria mi ha colpito


20 CAPITOLO1
-~---~-~--~~~~~-~------~~--~----~

Se facciamo dipendere la frase (3) da un verbo come sostenere,la frase che


risulta, (4), è ancora più complessa delle precedenti:

(4) I Rossi sostengono che i vicini credono che i ragazzi dicano che Maria mi
ha colpito

Come si può facilmente vedere, utilizzando un verbo opportuno (oltre a dire,


sostenere,credere,si potrebbero usare a/fermare,ritenere,pensare,ecc., nonché
ripetere uno qualunque di questi verbi, quante volte si vuole), il processo
potrebbe continuare all'infinito: non c'è dunque limite, in linea di principio,
alla lunghezza delle frasi di una qualunque lingua naturale.
Un altro modo per formare frasi complesse di lunghezza indefinita è ricorrere
all'uso della congiunzione e:

(5) a. Giorgio corre


b. Giorgio corre e grida
c. Giorgio corre e grida e suda
d. Giorgio corre e grida e suda e inciampa...

Il numero delle frasi possibili di qualunque lingua naturale è infinito. Così


come la serie dei numeri naturali è illimitata in quanto si può sempre aggiun-
gere 1 a qualsiasi numero, così è illimitato il numero delle frasi possibili in
ogni lingua, perché, data una certa frase, si può sempre costruire una frase
nuova, aggiungendo un'altra frase semplice alla frase data.
Si noti che abbiamo detto che il limite alla lunghezza delle frasi non esiste in
lineadiprinàpio:infatti, le nostre limitazioni di spazio, di tempo e di memoria
non ci permettono di costruire effettivamenteuna frase di lunghezza infinita;
per poter raggiungere questo risultato, sarebbe necessario poter disporre di
un tempo infinito (di cui nessun essere umano dispone) o di un foglio di carta
di lunghezza infinita (che è impossibile da produrre, anche da parte della mi-
gliore cartiera). C'è quindi un contrasto tra la capacità potenziale di produrre
frasi di lunghezza infinita e la realizzabilità effettiva di tali frasi: questo è un
esempio del contrasto tra due aspetti dell'attività linguistica, chiamati uno
competenza e l'altro esecuzione, su cui torneremo nel capitolo II. Quello
che ci interessa, però, è che questa capacità di produrre frasi di lunghezza
potenzialmente infinita, ossia la ricorsività, è presente solo nel linguaggio
umano, mentre è assente (a quanto sembra) nei sistemi di comunicazione
delle altre specie animali. Anzi, si può dire anche di più: sembra che soltanto
gli esseri umani abbiano la capacità di acquisire un sistema di comunicazione
caratterizzato dal fenomeno della ricorsività, mentre anche le specie animali
più vicine all'uomo (gli scimpanzé, i gorilla e altre scimmie antropoidi) non
possiedono tale capacità.
I risultati dei tentativi condotti da vari studiosi per insegnare ad alcuni gorilla
o alcuni scimpanzé una lingua umana sostanzialmente confermano questa
affermazione. Gli esperimenti in questione, condotti all'incirca a partire
dagli anni Sessanta del Novecento, hanno alimentato una vasta letteratura,
CHE COS'ÈIL LINGUAGGIO? 21

e hanno suscitato un interesse altrettanto vasto. Qui ne riferiremo molto in


breve, limitandoci a ricordarne gli aspetti essenziali e a valutarne la portata
generale. Anzitutto, bisogna dire che si tratta, nella maggior parte dei casi,
di esperimenti ben costruiti, che hanno cercato di eliminare quegli ostacoli
all'apprendimento del linguaggio umano da parte delle scimmie che paiono
insormontabili ma che non sono affatto essenziali. Il più importante di questi
è rappresentato dalla differenza tra la nostra anatomia e quella delle scimmie:
il nostro apparato fonatorio, quell'insieme di organi che ci permette cioè di
produrre i suoni del nostro linguaggio (cfr. IV.1.1.), è costituito tra l'altro
dalla bocca, dal naso e dalle labbra, che sono molto diversi da quelli delle
scimmie. L'aver trascurato questa importante differenza era la ragione del
fallimento, nei primi anni Cinquanta, del primo esperimento in assoluto (a
quanto risulta) di insegnare alle scimmie a parlare un linguaggio umano: le
scimmie non parlavano perché la loro anatomia non rendeva loro possibile
produrre i suoni del nostro linguaggio; questo, in sé, non dimostrava però
la loro incapacità mentaledi acquisirlo. Perciò, per tentare di insegnare alle
scimmie il linguaggio umano, dagli anni Sessanta in poi si studiarono altre
forme di comunicazione che ne realizzassero le parole e le frasi senza usarne
i suoni: la maggior parte dei ricercatori ricorse al linguaggio dei segni proprio
dei sordi congeniti americani (AmericanSign Language,ASL), mentre alcuni
altri fecero uso di un insieme di oggetti di plastica, ognuno indicativo di un
dato concetto e da disporre in un ordine determinato.
I primi risultati di questi esperimenti suscitarono grandi entusiasmi, e otten-
nero successo anche al di fuori della ristretta cerchia degli specialisti, ossia
nella grande stampa di comunicazione e anche in televisione: i ricercatori
coinvolti asserivano di essere in grado di «parlare» con le loro scimmie come
con degli esseri umani; e non si può sostenere che fossero in mala fede. Tut-
tavia, un'analisi più attenta dei resoconti dei vari esperimenti mostrò che le
cose stavano un po' diversamente: per esempio, le scimmie istruite a parlare
un linguaggio umano non rivelavano mai la capacità di produrre frasi com-
plesse, mostravano cioè di non possedere la ricorsività. Inoltre, non si poté
negare che, mentre i bambini sviluppano spontaneamente il loro linguaggio,
semplicemente perché vivono in una famiglia o in una comunità dove si parla,
e non perché le mamme decidono un determinato giorno di insegnare loro a
parlare, le scimmie esaminate cominciavano a «parlare» solo dopo che erano
esplicitamente stimolate a farlo. Quello che si può concludere, dunque, è che
il linguaggio umano è un sistema altamente specializzato, dotato di proprietà
specifiche, nel doppio senso di «specifiche del sistema», cioè possedute da
esso solo, e «specifiche della specie», cioè possedute dalla sola specie umana.
Come poteva accadere, dunque, che i ricercatori di cui abbiamo parlato rite-
nessero comunque di «parlare» con le loro scimmie? Probabilmente, perché
tra loro e le scimmie si era sviluppato un sistema di comunicazione che per-
metteva ad individui di due diverse specie animali di intendersi abbastanza
bene. Del resto, chiunque abbia familiarità con animali domestici sa che, in
una certa misura, si riesce a «intendersi» con loro, a comunicarsi reciproca-
mente stati d'animo e anche, in vari casi, a indicarsi oggetti o persone. on
è affatto stupefacente, quindi, che una tale comunicazione si sviluppi molto
di più con esseri, come le scimmie antropoidi, che ci sono molto più vicini,
quanto a storia evolutiva e a corredo genetico, dei gatti o dei cani, e che
quindi, con buona probabilità, condividono almeno una parte del nostro
sistema concettuale. Ma il sistema di comunicazione che si era sviluppato
tra i ricercatori di cui abbiamo parlato e le loro scimmie non è il linguaggio
umano, ma un altro tipo di sistema di comunicazione, che, se vogliamo, pos-
siamo continuare a chiamare «linguaggio», purché si tenga presente che un
tale linguaggio ha caratteristiche diverse da quello umano. Come abbiamo
detto all'inizio, il fatto che più sistemi siano analoghi dal punto di vista della
funzione (ossia, permettano la comunicazione tra individui diversi, in questo
caso individui appartenenti a due specie diverse, la scimmia e l'uomo) non
significa che essi siano analoghi (e tantomeno identici) dal punto di vista
della struttura.
Abbiamo dunque indicato, fra le caratteristiche proprie del linguaggio umano
in opposizione a quelle dell'una o dell'altra specie animale, 1) la discretezza,
2) la doppia articolazionee 3) la ricorsività.Esistono, però, altri sistemi che
chiamiamo «linguaggi» e che sono caratterizzati da queste proprietà, ma
che sono diversi dal linguaggio umano sotto altri punti di vista: i linguaggi
dell'informatica. In che cosa consiste la differenza tra questi linguaggi e il
linguaggio umano? In ciò che viene abitualmente chiamata la «dipendenza
dalla struttura». Per capire cosa si intende con questo concetto, consideriamo
una frase come (6):

(6) La donna che i ragazzi dicono che mi ha colpito è Maria

Il verbo della frase dipendente più «incassata», ha colpito,è alla terza persona
singolare: si accordacioè con il nome singolare donna, che non è immediata-
mente vicino ad esso, ma ne è separato da una lunga sequenza di parole (che
i ragazzidicono che mi). Il nome ragazziè molto più vicino al verbo ha colpito
che non il nome donna, eppure, se trasformassimo ha colpitoin hanno colpito,
per accordarlo al plurale con ragazzi,otterremmo una frase, (7), che suona
«non ben formata» o «agrammaticale» (i due termini sono equivalenti, e in
questo libro useremo indifferentemente ora l'uno e ora l'altro):

(7) *La donna che i ragazzi dicono che mi hanno colpito è Maria

Il simbolo*, ossia l'asterisco,indica le parole o le combinazioni di parole che


sono agrammaticali per il parlante nativo di una determinata lingua. Questo
simbolo ricorrerà spesso in questo libro, sempre per indicare parole o frasi
non ben formate, tranne che nel capitolo X, dedicato alla linguistica storica,
dove vedremo che l'asterisco ha un altro valore.
Le nozioni di grammaticalitàe agrammaticalitàsono particolarmente impor-
tanti, e possono, d'altra parte, essere fraintese. Dobbiamo quindi soffermarci
CHE cos·~IL LINGUAGGIO? 23

un po' su di esse. Occorre tenere sempre presente che la linguistica non è una
disciplina normativa, bensì descrittiva: quindi «agrammaticale» non significa
«scorretto», bensì «mal formato per il parlante nativo di una determinata
lingua». Per esempio, qualunque parlante nativo dell'italiano, anche privo di
istruzione, riconoscerà che soltanto (8) è una frase ben formata, mentre (9)
non è che una pura «lista» (o «insalata») di parole italiane:

(8) La ragazza di Pietro suona bene il pianoforte


(9) *Il Pietro pianoforte bene di ragazza suona la

Il contrasto tra (6) e (7) è indubbiamente più sottile, soprattutto perché si


tratta di due frasi più complesse di (8) e (9). Ciononostante, un parlante
nativo dell'italiano al quale sia dato tempo sufficiente per esaminarle con
un po' di attenzione noterà che in (7) c'è qualcosa di peggio rispetto a (6),
qualcosa «che non suona bene»: questo qualcosa è proprio la mancanza di
accordo tra il nome donna (singolare) e il verbo hanno colpito(plurale; sulla
nozione di accordo cfr. VII.5.). Questo senso intuitivo di buona o cattiva
formazione, ossia di grammaticalità o di agrammaticalità, delle espressioni di
una determinata lingua non è dunque un effetto della grammatica normativa:
del resto, i parlanti nativi di dialetti, che sono varietà linguistiche non fissate
normativamente (v. II.9.), distinguono senza difficoltà le frasi ben formate in
tali dialetti da quelle mal formate. Il senso intuitivo di grammaticalità rap-
pre enta dunque una caratteristica essenziale della competenza (cfr. II.2.3 .)
del parlante nativo di una determinata lingua. Si tratta, in altre parole, di un
fatto che la linguistica deve descrivere in modo adeguato.
Torniamo ora al contrasto tra (6) e (7). Esso mostra che, nelle lingue naturali,
le frasi non sono organizzate come una semplice successione di parole, in cui
la forma di una parola è determinata dalla forma di quella immediatamente
precedente, o comunque più vicina: al contrario, in molti casi la forma delle
parole è determinata da quella di altre parole molto «distanti». Se poi ricor-
diamo che questa distanza può in linea di principio aumentare indefinitamente,
grazie al meccanismo della ricorsività (che è quello in base al quale abbiamo
costruito (2), (3) e (4), partendo da (1)), ci accorgiamo come queste relazioni
siano complesse: esse non sono cioè determinate dalla semplice successione
delle parole, ma sono, come si è detto, dipendenti dalla struttura. Questa
caratteristica, propria delle lingue naturali, è come si vede assai complessa.
Se volessimo costruire un linguaggio artificiale, potremmo desiderare che
esso abbia delle caratteristiche più semplici. E infatti, non a caso, i linguaggi
dell'informatica sono in genere «indipendenti dalla struttura», cioè in essi
il valore di ogni elemento è normalmente determinato solo da quelli degli
elementi adiacenti.
Possiamo quindi riassumere questo paragrafo dicendo che il linguaggio umano
è una struttura altamente specifica, nel duplice senso che contiene delle
caratteristiche proprie, diverse da quelle di altri sistemi di comunicazione, e
che è una proprietà unica della specie umana.
24 CAPITOLO1

3. ILLINGUAGGIO
E LELINGUE
Finora abbiamo usato prevalentemente il termine «linguaggio», mentre ab-
biamo fatto poco uso del termine «lingua». L'esame di qualche lingua diversa
dall'italiano ci potrebbe indurre a pensare che in realtà tra «linguaggio» e
«lingua» non ci sia differenza: per esempio, in inglese abbiamo soltanto la
parola language,che equivale tanto a «linguaggio» quanto a «lingua», e lo
stesso accade in tedesco (Sprache).In francese, invece, la situazione è identica
all'italiano: oltre a langage,esiste anche langue.Di fatto, però, è molto im-
portante mantenere distinta la nozione di «linguaggio» da quella di «lingua»;
quindi, in inglese e in tedesco, la stessa parola indica due entità diverse, an-
che se ovviamente collegate. Con linguaggio intendiamo dunque la capacità
comune a tutti gli esseri umani di sviluppare un sistema di comunicazione
dotato di quelle caratteristiche proprie che abbiamo descritto nel paragrafo
precedente, e che lo distinguono da altri sistemi di comunicazione. Con
lingua intendiamo la forma specifica che questo sistema di comunicazione
assume nelle varie comunità. Pertanto, se ci riferiamo al linguaggio umano,
generalmente parliamo di linguaggio al singolare, perché questa capacità è
propria della specie umana, e comune a tutti gli esseri umani in quanto tali.
Parliamo, invece, di lingua tanto al singolare che al plurale, perché tante sono
le lingue del mondo. Esiste poi un senso più specifico e più tecnico di «lingua»
al singolare, su cui torneremo nel prossimo capitolo (II.2.1.).
Qual è il rapporto tra il linguaggio da un lato e le lingue dall'altro? E quale
il rapporto delle varie lingue tra di loro? Questo problema è stato affrontato
molte volte nella storia della linguistica, e le soluzioni avanzate sono state
spesso diverse, se non opposte. Un filosofo medievale, Ruggero Bacone
(1214-1292), scrisse che «la grammatica è unica ed identica nella sostanza,
anche se varia accidentalmente»: quindi (potremmo dire usando la nostra
terminologia), le lingue sono differenti, ma entro limiti ben definiti, ossia
quelli del linguaggio come capacità umana specifica. Di conseguenza, le lingue
non possono differire oltre certi limiti, ed hanno molti elementi in comune,
dato che sono realizzazioni diverse dell'unico «linguaggio». Una posizione
come quella di Ruggero Bacone cominciò ad entrare lentamente in crisi verso
l'inizio dell'età moderna, e fu abbandonata completamente nell'Ottocento e
nella prima metà del Novecento: in quest'epoca, la maggior parte (o forse la
totalità) dei linguisti riteneva che non ci fosse nulla in comune a tutte le lingue
del mondo, che esse cioè potessero, in linea di principio, differire l'una dall' al-
tra senza limiti. Nella seconda metà del secolo scorso, quest'ultima posizione
(che rimane comunque ancora quella di diversi linguisti) ha cominciato ad
essere abbandonata, e si è tornati di nuovo ad una concezione del rapporto
tra unicità del linguaggio e diversità delle lingue simile a quella di Ruggero
Bacone, anche se, ovviamente, formulata in modo diverso.
Ci si può a questo punto domandare: quali sono gli elementi comuni a tutte
le lingue (ossia, gli universalilinguistici) e quali invece gli elementi diversi
da lingua a lingua, o almeno non comuni a tutte? Tra gli universali linguistici,
CHE cos't IL LINGUAGGIO? 25

possiamo citare alcune delle caratteristiche proprie del linguaggio umano che
abbiamo già imparato a conoscere: la ricorsività e la dipendenza dalla struttura.
Finora, non sono stati trovati casi di lingue in cui sia impossibile applicare il
meccanismo della ricorsività, o che presentino casi di regole indipendenti dalla
struttura. Una caratteristica, invece, che distingue le varie lingue (o meglio,
vari tipi di lingue) è l'ordinedelle paroleo, come sarebbe meglio dire, l'ordine
degli elementi principali della frase. In italiano, l'ordine più comune in una
frase dichiarativa è quello Soggetto-Verbo-Oggetto (SVO):

(10) Gianni scrisse una lettera

Quest'ordine è tipico anche di molte altre lingue, come l'inglese o il francese,


ma non dobbiamo pensare che sia universale: altri ordini sono possibili. Per
esempio, in arabo e nelle altre lingue semitiche (v. sotto, III. l.) l'ordine è più
frequentemente VSO (Verbo-Soggetto-Oggetto); in lingue come il turco o il
giapponese, l'ordine è SOV (cioè con il verbo alla fine della frase). Quindi,
l'equivalente giapponese di (10) è (11):

(11) Gianni ga tegami o kaita


'Gianni la lettera scrisse'

(Ga e o sono due particelle che segnalano rispettivamente quale nome è il


soggetto e quale il complemento oggetto.)
L'ipotesi oggi più diffusa, dunque, è che le lingue siano diverse l'una dall'altra
(questo fatto, d'altronde, sarebbe difficile da negare), ma che questa variazione
non sia illimitata, bensì sia confinata in un ambito limitato di scelte possibili.
Esistono quindi degli universali linguistici, da un lato, e delle proprietà che
caratterizzano soltanto alcune lingue oppure, meglio, soltanto alcuni gruppi
di lingue. Lo studio di queste ultime è l'oggetto della tipologia linguistica,di
cui parleremo in III.3. Ma ora è il momento, dopo aver trattato del concetto
di linguaggio, di occuparci più da vicino del concetto di lingua.

NOTASTORICO-BIBLIOGRAFICA

La riflessione sul linguaggio caratterizza quasi tutte le culture, da quella cinese a quella indiana
a quelle ebraica ed araba. Nella tradizione occidentale, i primi ad occuparsi del linguaggio
furono i filosofi greci, principalmente Platone (429-347 a.C. circa), Aristotele (384-322 a.C.)
e gli stoici (IV-IIIsec. a.C.). La linguistica si costituisce come disciplina scientifica autonoma
(nel senso, ad esempio, di essere dotata di cattedre universitarie proprie) soltanto a partire
dall'inizio dell'Ottocento; in quest'epoca, viene a chiarirsi definitivamente il suo statuto di di-
sciplina descrittiva e non normativa. Una storia delle teorie sul linguaggio è Formigari [2001];
una storia dettagliata della linguistica, contenente anche capitoli sugli studi linguistici in culture
non occidentali, è Lepschy [1990-1994]; per l'epoca della cosiddetta linguistica «scientifica»,
v. Graffi [2010].
26 CAPITOLO 1

La concezione del linguaggio come capacità specifica, sia nel senso di struttura dotata di carat-
teristiche proprie che in quello di proprietà esclusiva della specie umana, è alla base della teoria
linguistica elaborata dallo studioso americano Noam Chomsky (n. 1928), nota come grammatica
generativa (termine con il quale si intende il carattere formale ed esplicito della teoria stessa).
Questa teoria ha trovato sia convinti sostenitori che decisi oppositori, ma in ogni caso rimane
il modello linguistico che ha avuto maggiore risonanza nella seconda metà del ovecento. Il
nostro elenco di caratteristiche proprie del linguaggio umano si basa per la maggior parte sulle
ricerche di impostazione generativa; il concetto di «doppia articolazione» è invece dovuto al
linguista francese A. Martinet [ad es., 1960].
Tra i numerosissimi testi di Chomsky, segnaliamo alcuni di quelli più significativi: Chomsky
[1975, specialmente il cap. I]; Chomsky [1980]; Chomsky [1986, s·pecialmente i capp. I e II;
2000]. Chomsky [1988] è particolarmente indicato per i non specialisti. Un'eccellente presen-
tazione della concezione chomskiana del linguaggio, anch'essa molto adatta ai principianti ed
inoltre di piacevole lettura, è Pinker [1994]. Sui sistemi di comunicazione animali, v. Sebeok
[1968]. Per gli universali e la tipologia linguistica, v. di recente Scalise, Magni e Bisetto [2008]
e le indicazioni nella nota al cap. III.

DOMANDE

1. Come si può definire la linguistica?


2. Cosa si intende dicendo che la linguistica non è una disciplina normativa, ma descrittiva?
3. Cosa indica l'asterisco posto davanti a una parola o a una frase?
4. Quali sono le caratteristiche proprie del linguaggio umano, che lo distinguono da altri tipi
di «linguaggi»?
5. Che cosa vuol dire che il linguaggio umano è «discreto»?
6. Che cos'è la «ricorsività»?
7. Per quali motivi i tentativi di insegnare alle scimmie a «parlare» il linguaggio umano sono
sostanzialmente falliti?
8. Cosa si intende dicendo che il linguaggio umano è «dipendente dalla struttura»?
9. Cosa si intende, rispettivamente, con «linguaggio (umano)» e con «lingua»?
10. Cosa sono gli «universali linguistici»?
Checos'èunalingua?

Le lingue storico-naturali sono sistemi articolati su più livelli: quello dei suoni, quello
delle parole, quello delle frasi e quello dei significati. I parlanti nativi di una determinata
lingua hanno conoscenze (competenza) di ognuno di questi livelli (competenza
fonologica, morfologica, sintattica e semantica). Le lingue del mondo si possono studiare
sia sincronicamente (senza fare ricorso alla variabile tempo) sia diacronicamente
(considerandone cioè il mutamento nel corso del tempo).

INTRODUZIONE

Una lingua è un oggetto tanto naturale quanto difficile a definirsi. È naturale


perché, in situazioni normali, parliamo senza sforzi particolari, non dobbiamo
riflettere su ciò che stiamo facendo e come: ci viene spontaneamente e siamo in
grado di costruire frasi e di capirle senza sforzo apparente e soprattutto senza
avere totale conoscenza di cosa sia una frase o di come funzioni il linguaggio
umano. È un po' come camminare: in situazioni normali lo si fa senza alcuno
sforzo e senza avere totale conoscenza della quantità di muscoli impiegati,
di fatti di equilibrio del corpo, della posizione delle braccia, di respirazione,
ecc. Allo stesso modo, in situazioni di normalità, non ci possiamo dimenti-
care di come si fa a camminare o di come si fa a parlare o a capire quel che
ci viene detto.
Siamo circondati, sin dalla nascita, da atti linguistici (i genitori ed i parenti
parlano ai bambini) e continuiamo a vivere circondati da atti linguistici: i
compagni di giochi, la radio e la televisione prima, la scuola, i giornali ed i
libri poi. Viviamo in un universo di atti linguistici e ci sembra del tutto «nor-
male» parlare una lingua, capire chi ci parla, farci capire ed esprimere ordini,
preghiere, supplicare, minacciare, scherzare, riferire, ricordare, immaginare ...
(e si noti che ognuno di questi «atti linguistici» presuppone conoscenze lingui-
stiche specifiche anche se implicite; basti pensare al fatto che per supplicare o
28 CAPITOLO2

per minacciare usiamo toni di voce, parole, giri di frase diversi). Ma definire
scientificamente una lingua sarebbe difficile per il profano così come sarebbe
difficile per chi non conosca l'anatomia umana definire il numero di muscoli
che prendono parte al semplice atto di camminare.
Basta poco a dimostrare questo aspetto inconsapevole del linguaggio umano:
per produrre una [b] (la [b] di bello) l'organismo umano deve «pompare»
dell'aria dai polmoni; quest'aria passa attraverso la trachea e la laringe; nella
laringe si trova la glottide dove vi sono le cosiddette corde vocali (ce ne sono
due vere e due false); l'aria, passando, fa vibrare le due corde vere (ma non
tutti i suoni - come si vedrà - fanno vibrare le corde vocali), il velo palatino
chiude il passaggio verso la cavità nasale (lo apre invece per formare i suoni
cosiddetti «nasali»); tutta l'aria prende dunque la via della cavità orale, le lab-
bra vengono chiuse ermeticamente, l'aria arriva dietro questo «sbarramento»
e vi resta per un minuscolo istante (si chiama «tenuta»); poi le labbra vengono
dischiuse e l'aria fuoriesce come una piccola esplosione; l'aria fuoriesce tutta
ed il suono non si può protrarre nel tempo (come si può invece fare con un
altro tipo di suoni, come con la [f] di/orse per esempio).
Immaginiamo poi di dover costruire una parola come inconfessabilmente: se
per produrre una [b] abbiamo dovuto realizzare quel che si è visto sopra, si
immagini il «lavoro» per costruire tutti i suoni di questa parola e disporli in
un continuum sonoro (dato che non pronunciamo le parole suono per suono
ma in un'unica emissione di fiato). Ma oltre al lavoro per realizzare i suoni,
è necessario mettere insieme dei «pezzi» per costruire la parola di cui sopra:
si parte da confessare, che è un verbo, vi si aggiunge il suffisso -bile e si fa
confessabile; bisogna però «sapere» che non sempre, dato un verbo, si fa una
parola in -bile: *volabtle non si può fare e *corribile nemmeno (l'asterisco
indica - come si è già detto nel capitolo I - una forma non grammaticale);
poi a confessabile si aggiunge il prefisso negativo in-: inconfessabile (ma non
sempre dato un aggettivo si può aggiungere un prefisso negativo: *inbrutto
non si può fare e *in/erroviario nemmeno); infine si aggiunge il suffisso
-mente ma, ancora, non a tutti gli aggettivi si può aggiungere questo suffisso
(*giallamente, *erbosamente). Ed ancora, questi «pezzi» sono messi insieme
in un certo ordine in-confessa-bile-mente e non in altri *mente-bile-con/essa-in,
*in-mente-bile-confessa, ecc. Si immagini ancora di costruire una frase come:

(1) Se solo avessipotuto lontanamente immaginare l'uso che avevi intenzione


di fare di quel libro che con tanta cura ho comperato nel negozio più co-
stoso di Bologna e che con altrettanta cura ti ho spedito al tuo indirizzo
di Carloforte in Sardegna, beh allora avrei fatto meglio a risparmiarmi
tutta quella fatica e a rivolgere i miei sforzi verso altri obiettivi, più nobili
e certamente meno angoscianti sia dal punto di vista della mia tranquillità
interiore che dal punto di vista della serenità dei nostri rapporti futuri.

Si tratta di una frase molto complessa in cui si debbono produrre più di 400
suoni, 88 parole, alcune semplici (solo, di, ho) altre complesse (lontanamente,
angoscianti, tranquillità), coniugare verbi (avevi, ho spedito), disporre le
CHE cos'è UNA LINGUA? 29

parole in un certo ordine (se solo avessipotuto immaginare)anziché in altri


(*immaginare sepotutosoloavessi),rispettare gli accordi tra le parole (negozio
costoso,mia tranquillità),coordinare alcune frasi (e a rivolgerei miei sforzi),
collegare unità anche molto lontane (sesolo avessi... beh alloraavrei/atto...),
subordinarne altre (checontantacuraho comperato),ecc. Eppure chi scrive ha
costruito questa frase senza sforzi particolari e chi legge ne capisce facilmente
il significato letterale. Anche se si tratta, molto probabilmente, di una frase
mai costruita/sentita prima.
Una lingua, come si vedrà meglio più avanti, è un sistema articolato su più
livelli e dunque un «sistema di sistemi». I livelli linguistici sono quello dei
suoni (fonologia), quello delle parole (morfologia), quello delle frasi (sintassi)
e quello dei significati (semantica). Ognuno di questi livelli ha un carattere
«sistematico» nel senso che le unità di ogni livello sono interdipendenti: per
esempio a livello di suoni - come si vedrà meglio nel capitolo dedicato alla
fonologia - ogni suono è collegato agli altri; a livello di morfologia i suffissi
-aioed -istasono collegati tra loro {jioraiol/iorista, giornalaio/giornalista,ma
verduraio/*verdurista, libraio/*librista, ma *petrarcaio/petrarchista,*costu-
maiolcostumista);a livello di sintassi se - nella frase in (1) - è collegato con
allora(es. se sorridi;alloravuol dire che sei contento),ecc.

1. PARLATOE SCRITTO

Una lingua, nelle società a noi più vicine, è sia scritta che parlata. La lingui-
stica, tuttavia, privilegia la lingua come espressione orale su quella scritta e
ciò per diversi motivi.
1) Esistono (e sono esistite) lingue che sono (o sono state) solo parlate e non
scritte. Per esempio il somalo è stato una lingua solo parlata fino al 1972, anno
in cui si è introdotto un sistema di scrittura. Molte lingue indiane d'America
sono (e sono state) lingue solo parlate. Dunque l'aspetto orale è primario e
quello scritto è, in linea di massima, secondario, derivativo. Non ci sono lingue
naturali che sono state soltanto scritte ma mai parlate.
2) Il bambino, quando impara una lingua, impara prima a parlare che a scri-
vere. Non solo, il bambino impara a parlare in modo del tutto naturale, anche
senza insegnamento specifico, mentre per imparare a scrivere ha bisogno di
addestramento specifico.
3) Le lingue cambiano nel corso del tempo. Ma ciò che cambia è la lingua
parlata e solo in ritardo la scrittura registra questi cambiamenti (e a volte vi
è bisogno di un atto formale come una riforma ortografica). Se una lingua è
molto usata, è soggetta a cambiamenti; se una lingua è solo scritta o preva-
lentemente scritta (come ad esempio è accaduto sostanzialmente all'italiano
fino all'unità d'Italia) non cambia, tende a mantenersi. Si pensi al latino che,
in generale, oggi non è una lingua parlata ma solo una lingua scritta (nelle
encicliche papali per esempio); ebbene è molto difficile che oggi il latino
cambi in modi sostanziali: è una lingua fossilizzata.
30 CAPITOLO2

Molto spesso gli alfabeti (che servono appunto a «scrivere» una lingua) sono
in ritardo rispetto ali'evoluzione delle lingue, che possono in certi periodi
cambiare anche molto velocemente. Gli alfabeti sono anche contraddittori
e incongruenti rispetto alle lingue «parlate»: basti pensare che in inglese
il suono [fJ può essere scritto/ (fly 'volare'), ph (philosophy 'filosofia'), gh
(enough 'abbastanza').
Certo, la lingua scritta è importante (e sicuramente l'umanità deve essere grata
alla moglie di Tolstoj, che ha copiato sette volte Guerrae Pace...) non solo per
le opere letterarie, ma per il funzionamento delle società complesse di oggi:
si pensi al numero di libri, riviste, lettere, fax o di e-mail che circolano per
il mondo o al numero di pagine web che si possono trovare in Internet. Tra
scritto e parlato vi è sicuramente «appoggio» e scambio reciproco: la lingua
scritta «fissa» la lingua, la lingua parlata offre variazione e novità.

2. ASTRATTO
- CONCRETO

Si immagini un dispositivo (ed in effetti tali dispositivi esistono) che misuri


esattamente la natura (altezza, durata, ecc.) dei suoni della parola mano
[m-a-n-o]. Ebbene se un parlante ripete un numero qualsiasi di volte, diciamo
dodici volte, la stessa parola non riuscirà mai a produrre due [m] o due [a]
identiche: vi saranno sempre delle variazioni. Avremo dodici [a] diverse dal
punto di vista «fisico». Per esempio la durata del suono [a] può essere più o
meno lunga, l'altezza tonale può variare così come qualsiasi altra proprietà
fisica di questo suono. Dovremmo concluderne che in italiano esistono dodici
[a] diverse? Secondo alcuni sì: ogni atto linguistico è un fatto a sé ed irripe-
tibile. In realtà ciò che in una lingua è fondamentale è la capacità distintiva
dei suoni e se dico mano dodici volte con dodici [a] diverse il significato cui
alludiamo è sempre lo stesso (un arto degli esseri umani). Ben diverso il caso
se dico meno: tra mano e meno c'è differenza di significato e dunque ciò che
è importante è la distinzione tra [a] ed [e] perché questa distinzione permette
di differenziare un grande numero di coppie di parole:

(2) manto mento sa se varo vero vale vele


mela mele la le ma me fiale fiele
lana lena pari peri sola sole tanto tento

In tutte le parole qui sopra non si dirà che esistono dodici [a] diverse e dodici
[e] diverse: non è rilevante. Diremo invece che esiste una vocale [a] che «si
oppone» ad una vocale [e] e questa opposizione basta da sola a distinguere
moltissime parole. Resta vero che concretamente tutte e dodici le [a] in que-
stione sono fisicamente diverse l'una dall'altra, ma tale diversità non produce
diversità di significato. Una buona descrizione di questi fatti potrebbe dunque
essere la seguente: vi è un livello astratto dove vi è una /a/ (ed una sola) e poi
questa /a/ si può realizzare in n modi diversi. E lo stesso si può dire per /e/:
CHE COS'ÈUNA LINGUA? 31

vi è una / e/ che si può realizzare in n modi diversi. Dunque vi è un livello al


quale ciò che conta è l'opposizione tra /a/ ed /e/ (per l'uso delle barre oblique
e delle parentesi quadre, v. cap. IV):

(3) livelloastratto

livelloconcreto

e vi è poi un livello «concreto», «fisico» dove c'è molta varietà (che dipende
da come in quel momento sono atteggiati gli organi della fonazione). La
distinzione tra /a/ ed /e/ è linguistica (perché su di essa si basa la distinzione
tra parole con significati diversi), quella tra [a 1] e [a3] oppure quella tra [e2]
ed [e3] non lo è. Dunque l'idea che esista un livello «astratto» della lingua
è importante perché aiuta ad identificare un livello in cui i fenomeni sono
«pertinenti».
In effetti, tutti i linguisti che hanno avuto un ruolo decisivo nello sviluppo
della linguistica contemporanea hanno fatto una distinzione tra un livello
astratto ed un livello concreto. illustreremo qui di seguito tre distinzioni,
quella tra languee paroledi Ferdinand de Saussure [1916], quella tra codice e
messaggio di RomanJakobson [1960] e quella tra competenza ed esecuzione
di oam Chomsky [1965].

2.1. «Langue,.e •parole•

Ferdinand de Saussure pose alla base del suo Corsodi linguisticagenerale


(pubblicato postumo nel 1916 a cura di due suoi allievi) una serie di distinzioni
che formano ancora oggi una base concettuale irrinunciabile per la definizione
di lingua e cioè le distinzioni tra sincronia e diacronia, tra rapporti associativi
e rapporti sintagmatici, tra significante e significato e, infine, quella tra langue
e parok (termini che manterremo in francese, secondo la tradizione) di cui
ci occuperemo qui di seguito.
Quando due individui comunicano si verifica il seguente scambio: il parlante
A associa al significato 'mano' dei suoni [mano] (producendo quello che si
chiama un atto di fonazione), i suoni giungono all'ascoltatore B che associa i
suoni [mano] ad un significato ('arto degli esseri umani'). Ba questo punto
può a sua volta diventare «parlante» ed associare significati a suoni, produrre
un atto di fonazione che giungerà ad A e così di seguito.
La paroleè un'esecuzione linguistica realizzata da un individuo, è un atto
individuale. Nel circuito comunicativo appena descritto, A produce dei suoni
«concreti», produce un atto di parole[mano], che è individuale. Ma un indi-
viduo non possiede tutta la «lingua», per esempio tutta la «lingua italiana».
L'italiano sta al di fuori degli individui, preesiste agli individui e soprawiverà
ad essi. Vi è una lingua che è della collettività, è sociale ed astratta, questa è
32 CAPITOLO2

la langue.L'individuo può realizzare atti di parolediversi ma non può da solo


modificare la langue.

(4) langue sociale, astratta


parole individuale, concreta

La lingua esiste nella collettività ed è necessaria perché gli atti di parolesiano


intelligibili, ma anche gli atti di parole sono necessari perché la lingua «si
stabilisca» e perché funzioni.
Gli esseri umani comunicano attraverso atti di parole,ma il fondamento di
questi atti è nella langueperché è la langueil sistema di riferimento collettivo:
è collettivamente che si è stabilito che mano significhi quel che significa. La
paroleè attuazione, realizzazione, la langueè potenzialità, è sistema astratto.

2.2. Codice e messaggio

Un'altra importante distinzione, dovuta aJakobson-quella tra codice e mes-


saggio - si basa sulla distinzione tra un livello astratto ed un livello concreto.
Si consideri un esempio molto semplice, il codice Morse. Questo codice è
costituito da due unità soltanto, il punto e la linea. Sulla base di queste due
unità e delle regole di combinazione di queste due unità, si possono costruire
diversi messaggi:

(5) 'SOS' (saveoursouls'salvate le nostre anime')


-- ·- - . ---
'mano ,

Il codice è un insieme di potenzialità, ed è astratto. Un messaggio viene co-


struito sulla base delle unità fornite dal codice, ed è un atto concreto. Anche
le lingue umane funzionano così: si potrebbe dire che a livello di codice esi-
stono unità come /p, n, e, a/ e che queste unità astratte possono combinarsi
- sulla base di determinate regole - per formare dei messaggi (6a) come dei
non messaggi (6b):

(6) a. pane, pena


b. eanp, eapn

Sia (6a) che (6b) sono costruite con le stesse unità del codice ma i «messaggi»
in (6a) rispettano le regole con cui tali unità debbono essere messe insieme in
italiano, mentre le sequenze in (6b) non le rispettano e sono dei «non-mes-
saggi» (una regola violata in (6b), per esempio, è che non possono esistere in
italiano - ad eccezione delle sigle - parole che terminino con due consonanti).
Combinando le proposte di Saussure e J akobson, avremo dunque il seguente
quadro:
CHE COS'ÈUNA LINGUA? 33

(7) Saussure Jakobson


livello astratto langue codice
livello concreto parole messaggio

2.3. Competenza ed esecuzione

Una terza distinzione tra un livello astratto e uno concreto è stata fatta da
Noam Chomsky tra competenza ed esecuzione. La competenza è tutto ciò
che l'individuo «sa» della propria lingua per poter parlare come parla e
per poter capire come capisce, l'esecuzione è tutto ciò che l'individuo «fa»
(linguisticamente). L'esecuzione è un atto di realizzazione (come la parole e
il messaggio) e dunque concreto. Di un'orchestra si dice che ha compiuto
un'ottima esecuzione, una buona performance,e che orchestre diverse pos-
sono dare esecuzioni diverse di uno stesso spartito musicale. L'esecuzione
corrisponde abbastanza bene alla nozione di paroledi Ferdinand de Saussure,
mentre la competenza è profondamente diversa dalla langue. La langue è
sociale e trascende l'individuo mentre la competenza è individuale ed ha sede
nella mente dell'individuo. Completando il quadro in (7) avremo dunque:

(8) Saussure Jakobson Chomsky


livello astratto langue codice competenza
livello concreto parole messaggio esecuzione

Parole,messaggio ed esecuzione grosso modo si equivalgono. Langue e com-


petenza sono diverse: la prima è sociale, la seconda è individuale. La langueè
depositata in una comunità linguistica, la competenza è la competenza di un
singolo parlante. La languegarantisce la comunicazione perché è collettiva,
la competenza garantisce la comunicazione perché è largamente condivisa da
chi parla la stessa lingua.

3. CONOSCENZE
LINGUISTICHE
DI UN PARLANTE

Competenza non significa «bravura»: competenza è semplicemente l'insieme


delle conoscenze linguistiche che un parlante ha. E sono tantissime, anche
molto sottili, per lo più inconsapevoli. Se ci poniamo la domanda: che cosa sa
un individuo per poter parlare una lingua L come la parla e per poter capire
un parlante della lingua L come lo capisce, dovremmo suddividere l'inter-
rogativo nei vari livelli in cui si struttura una lingua e parlare di competenza
fonologica, morfologica, sintattica e semantica.
34 CAPITOLO 2

3.1. Competenza fonologica

Un parlante italiano «sa» che i suoni [p, n, a, e] sono suoni della sua lingua
ma che suoni come [pf] (del tedesco P/erd 'cavallo'), il primo suono dello
spagnolo ]oséo il suono rappresentato da th nell'inglese thing 'cosa', ecc. non
sono suoni della sua lingua. Conosce inoltre - come si è già visto - quali sono
le combinazioni dei suoni che formano parole e quali no:

(9) a. pane, pena


b. pnae, eapn

Un parlante «sa» anche fatti più sottili. Per esempio in un qualche modo sa
che se una parola in italiano inizia con tre consonanti, la prima deve essere [s]:

(10) sproposito *tprota


strano *ctrano
scranno *tcrodo

Un parlante - se deve fare il plurale di amico- cambia automaticamente e


senza pensarci il suono [k] di amiconel suono [tJ] di amici(per questi simboli
v. cap. IV), cambia automaticamente la posizione dell'accento da amicoad
amichévole,cancella la o di Milano se deve costruire la parola milanese,sa
che però la [i] di Forlìnon si cancella per formare forlivesema che bisogna
inserire invece una [v]. Sa che la pronuncia di s in storianon è uguale alla
pronuncia di sin sdoganare.Sa dividere le parole in sillabe, sa identificare la
posizione dell'accento nelle parole, e molto, molto altro ancora (v. cap. IV).

3.2. Competenza morfologica

Un parlante ha anche una competenza relativa alle parole della propria lingua.
Sa che in italiano le parole finiscono di norma in vocale, tranne poche parole
come non, per, del ed alcune parole di origine straniera come sport o come
qualche «ideofono» (splash).Sa che due parole in tutto eguali tranne che per
l'accento come quelle in (11) hanno significati diversi:

(11) ancora/ancora
pero/pero
capitano/ capitano/ capitano

Un parlante conosce anche il vocabolario della propria lingua e «sa» che


parole come cane, volta, pipistrello, rettangolaresono parole della «sua»
lingua, mentre parole come paard,hond, telegraa/,portemanteaunon sono
parole della sua lingua o che pppssddststto gghatrnpnon sembrano essere
parole possibili.
CHE cos't UNA LINGUA? 35

Un parlante «sa» formare parole nuove e utilizza questa possibilità non di


rado. A partire dal verbo collocaresi può formare collocamento,dall'aggettivo
lucido si può formare extralucido, a partire dal nome magistrato si può for-
mare magistratura.Si possono formare parole composte come mangianastri,
contachilometri, ecc. In breve, i parlanti «sanno» che a partire da parole
semplici (collocare,lucido, magistrato)si possono formare parole complesse
(collocamento,extralucido,magistratura).Un parlante sa anche che a partire
da un verbo in italiano (per es. camminare)si possono formare un centinaio
di forme flesse (camminate, camminai, camminavamo, avremmo camminato,
camminando,camminato, ecc.).
Riepilogando, un parlante conosce le parole della propria lingua (12a) e le
sa distinguere da forme che non sono della propria lingua (12b) e (12c). Tra
queste ultime poi sa distinguere tra parole possibili ma non esistenti (12b) e
parole non possibili (12c):

(12) a. cane, libro


b. buna, lopa
c. drloto, pferdt

Sa formare parole complesse a partire da parole semplici (13a) (13c) (13e),


ma sa anche che non è sempre possibile applicare lo stesso meccanismo come
si vede in (13b) (13d) (13f):

(13) a. dolce ➔ dolcemente


b. ferroviario ➔ *ferroviariamente
c. abile ➔ disabile
d. veloce ➔ *disveloce
e. conta ➔ contabile
f. venire ➔ *venibile

Un parlante «sa» che alla parola libro si possono aggiungere molti dei co-
siddetti suffissi «valutativi» (14a), ma che lo stesso non può awenire per
una parola come balcone(14b) (il punto di domanda in esponente indica un
giudizio di grammaticalità incerto):

(14) a. libro -+ librone, libretto, librino, libricino, libriciattolo, libercolo,


libraccio, libresco
b. balcone -+ ?balconone, 1balconetto, *balconino, balconcino, *balco-
nercolo, balconaccio, *balconesco

o che ad una stessa parola si possono applicare sia suffissi che prefissi (15):

(15) utile -+ inutile


inutile -+ inutilità

Ed ancora, i parlanti sanno costruire composti (16a), ma sanno che non si


possono formare composti a partire da due parole qualsiasi (16b):
36 CAPITOLO 2

(16) a. uomo radar, uomo scimmia, uomo civetta


b. *uomo matita, *uomo descrizione, *uomo cielo

o che i termini di un composto in italiano non si possono invertire liberamente


(17), o che ad un composto non si possono applicare liberamente suffissi
diminutivi (18):

(17) capostazione/*stazionecapo
cassaforte/*fortecassa

(18) stazioncina/*capostazioncina
capostazione/*capettostazione

Queste, e molte altre ancora, sono le conoscenze morfologiche che un par-


lante ha intuitivamente della propria lingua. In breve, potremmo dire che
un parlante conosce le parole della propria lingua, alcuni aspetti della loro
struttura e conosce i meccanismi per formare parole complesse (v. cap. V).

3.3. Competenza sintattica

I parlanti conoscono le regole della sintassi, «sanno» che possono formare


vari tipi di frase; per esempio a partire dalla frase dichiarativa attiva semplice
in (19a) si possono formare rispettivamente delle frasi interrogative come in
(196) e (19c):

(19) a. i bambini adorano i dolci


b. adorano i dolci i bambini?
c. cosa adorano i bambini?

I parlanti di una lingua non hanno alcuna difficoltà a costruire ed a capire


un numero enorme di frasi nuove senza averle mai sentite prima, possono
costruire frasi molto lunghe (come abbiamo visto sopra) ed hanno delle intui-
zioni sulla grammaticalità o sulla non grammaticalità delle frasi stesse (v.I.2.).
Le conoscenze sintattiche possono essere davvero molto sottili ed altrettanto
inconsapevoli. Se si considerano le frasi in (20):

(20) a. Vado a prenderlo


b. Lo vado a prendere
c. Penso di prenderlo
d. *Lo penso di prendere

si osserverà che il pronome cliticolo può essere unito sia al verbo della frase
dipendente (20a) sia al verbo della frase principale (206), mentre può essere
unito solo al verbo della frase dipendente in (20c) ma non al verbo della frase
principale, come si vede in (20d). Si considerino ora le seguenti coppie di frasi:
CHE COS'ÈUNA LINGUA? 37

(21) a. Io ritengo Maria una buona giornalista


b. Io ritengo che Maria sia una buona giornalista

a'. Maria è ritenuta (da me) una buona giornalista


b'. *Maria è ritenuta (da me) sia una buona giornalista

(22) a. Giovanni ha trovato una foto di qualcuno


b. Giovanni ha sentito una storia su una foto di qualcuno

a'. Di chi ha trovato una foto Giovanni?


b'. *Di chi ha sentito una storia su una foto Giovanni?

(23) a. La gente che va alla Normale ama la fisica (relativa restrittiva)


b. Giorgio, che va alla Normale, ama la fisica (relativa non restrittiva)

a'. La gente che va alla Normale che ama la fisica otterrà il laboratorio
b'. *Giorgio, che va alla Normale, che ama la fisica, otterrà il laboratorio

Come si vede, si può fare il passivo di (21a) ma non di (216); in (22a) si


può rendere interrogativo il pronome qualcuno e spostarlo ad inizio di frase
rendendo la frase interrogativa, ma la stessa operazione sintattica non si può
fare con (226); in (23) si può osservare che solo le relative restrittive pos-
sono essere «accumulate», non le relative non restrittive (per questi termini,
v. VII.3.4.). Non tenteremo qui di spiegare perché le frasi in (b') risultano
agrammaticali: ci basta solo osservare che certe operazioni sintattiche (passivo,
interrogazione, «accumulazione») sono possibili con certe strutture frasali
ma non con tutte e che questa possibilità/impossibilità fa parte della nostra
competenza sintattica: in qualche modo, i parlanti «sanno» che le frasi in (a')
sono grammaticali mentre quelle in (b') non lo sono.
Le conoscenze sintattiche dei parlanti sono in realtà vastissime, dato che il
numero di frasi che si possono costruire (in ogni lingua) è pressoché illimi-
tato.

3.4. Competenza semantica

I parlanti di una lingua sanno anche riconoscere il significato delle parole e


delle frasi, ed oltre a questo «sanno» istituire molti tipi di relazioni semanti-
che tra le parole, come le relazioni di sinonimia (quando due parole hanno
significato in larga misura equivalente):

(24) avaro/spilorcio
molteplice/numeroso

Però i parlanti hanno anche intuizioni sul fatto che la sinonimia completa
non esiste, come si può vedere dalle due frasi qui di seguito, la prima delle
38 CAPITOLO2

quali (25a) è grammaticale, mentre la seconda (256) non lo è. Ciò significa


che molteplicee numerosonon sono del tutto identici quanto a significato:

(25) a. numerosi operai intervennero al banchetto


b. *molteplici operai intervennero al banchetto

Un'altra relazione di significato è l'antonimia (cioè l'espressione del «con-


trario»):

(26) vecchio/giovane
vivo/morto
alto/basso

ma, ancora una volta, i parlanti hanno intuizioni sul fatto che ci sono somi-
glianze e differenze: vecchioe giovanesono una coppia di antonimi diversa
dalla coppia vivo/mortoperché i primi sono aggettivi graduabili (Giovanniè
più giovanedi Franco),mentre i secondi non lo sono (*Giovanniè più morto
di Franco).I parlanti sanno identificare molte altre relazioni di significato e
riescono anche a disambiguare frasi potenzialmente ambigue come

(27) Svendita autunnale bambini

che non allude a un 'commercio di bambini' ma ad una 'svendita di articoli


per bambini che si tiene in autunno'. I parlanti sanno anche, a livello intui-
tivo, distinguere diversi tipi di ambiguità come l'ambiguità lessicale (28) e
l'ambiguità sintattica (29):

(28) il cane abbaia


il cane della pistola

L'ambiguità di queste due espressioni sta nel fatto che la parola caneha due
significati possibili, mentre l'ambiguità dell'espressione seguente

(29) uomini o donne in gamba

sta nel fatto che ha due «letture» diverse, a seconda della struttura sintattica:

(30) a. [uomini] e [donne in gamba]


(ci sono degli uomini e ci sono donne in gamba)
b. [uomini e donne] in gamba
(ci sono uomini e donne e tutti sono in gamba)

I parlanti «sanno» che esistono determinati rapporti tra le parole. Per esempio,
in (3la) il pronome lo non può riferirsi a Mario (è Mario che guarda qualcun
altro), mentre in (316) il pronome si deve riferirsi a Marioe a nessun altro:

(31) a. Mario lo guarda


b. Mario si guarda
CHE cos'E UNA LINGUA? 39

Ma se le frasi sono le seguenti, allora in (32a) lo può riferirsi a Mario,mentre


in (326) si non può più riferirsi a Marioma solo a il fratello:

(32) a. Il fratello di Mario lo guarda


b. Il fratello di Mario si guarda

Un parlante conosce dunque i significati delle parole, conosce le relazioni di


significato tra le parole, sa distinguere tipi diversi di ambiguità e - come per
tutti gli altri livelli visti sopra - sa molto più di quanto qui appena intravisto
(v. cap. VIII).

3.5. La grammatica dei parlanti

Tutte le conoscenze sin qui esemplificate fanno parte della grammaticadei


parlanti, intesa come un insieme di conoscenze che sono immagazzinate nella
mente. Questa grammatica viene costruita attraverso un complicato equilibrio
di fattori innati biologicamente (come ad esempio il fatto che le regole sono
dipendenti della struttura, v. I.2.) e di esperienze acquisite all'interno della
comunità linguistica di origine (ad esempio, le parole di una lingua vengono
certamente acquisite tramite esperienza). Si noti che il bambino, quando
apprende una lingua, non è esposto a «regole» della lingua ma solo a «dati»
di quella lingua (vale a dire agli enunciati che il mondo circostante pronuncia
attorno a lui). Il bambino dunque costruisce una grammatica a partire da dei
dati, che sono chiamati datilinguisticiprimari(v.XI.2.). Naturalmente questa
accezione di grammatica è diversa dall'accezione di grammatica intesa come
«volume in cui si studiano le regole di una lingua». Vale la pena di osservare
che la grammatica nella seconda accezione è per forza di cose solo un pal-
lido tentativo di descrizione della grammatica intesa nella prima accezione,
non diversamente da come un trattato di fisica è una pallida descrizione del
mondo della materia.

4. UNALINGUANON REALIZZA
TUTTELEPOSSIBILITÀ

Una lingua è un codice ed un codice è costituito fondamentalmente da due


livelli: le unità di base e le regole che combinano le unità.
Le lingue del mondo non sfruttano mai tutte le possibilità né a livello di unità
né a livello di regole. Per esempio l'italiano non ha parole diverse per le 'dita
della mano' e le 'dita del piede' ma l'inglese sì (fingersltoes),l'italiano ha parole
diverse per vetro e bicchiere,mentre l'inglese ha solo glass.
Per quel che riguarda i suoni, l'arabo ha solo tre vocali [i-u-a], l'inglese non
ha il suono per gn di gnomo;l'italiano non ha il suono iniziale di thing inglese,
il francese ha vocali nasali che né inglese né italiano hanno, ecc. Ogni lingua
fa dunque delle «scelte».
Le regole, come si è detto, combinano le unità più piccole per formare unità
più grandi. Così, date le unità di «suono» [p-a-n-e] vi sono in italiano delle
regole secondo le quali queste unità possono essere combinate solo in alcuni
dei vari modi logicamente possibili (e, a loro volta, di queste combinazioni
permesse solo alcune esistono come parole effettive dell'italiano):

(33) pane *pnae *npea *eapn nepa pean enap *naep *enpa
pena pnea *aepn *eanp *apne apen anep *neap
*npae *aenp nape epna paen *anpe epan

Il tedesco presenta combinazioni di suoni (come in Arzt 'medico', Schmied


'fabbro', zwei 'due') che in italiano non sono possibili.
Che tutte le possibilità non vengono realizzate è vero non solo per il lessico
e per i suoni ma anche per la morfologia e per la sintassi.
Per la morfologia basti un semplice esempio: come si vede in (34) (dove il
segno - indica le possibilità non realizzate), sette verbi diversi scelgono sette
suffissi diversi per formare un nome astratto di azione, dunque non si può
dire *revocata,·krevocazione,*revocamento.Se le lingue realizzassero tutte le
possibilità, in una tabella come (34) vi sarebbero soltanto dei segni+.

(34) a ata enza z1one ura aggio mento


revoca(re) + - (revoca)
chiama(re) - + (chiamata)
preferi(re) + (preferenza)
amministra(re) + (amministrazione)
arde(re)/ arso + (arsura)
boicotta(re) + (boicottaggio)
suggeri(re) + (suggerimento)

Osservazioni simili valgono per la sintassi. Per esempio, se abbiamo un nome


(capitolo)e due aggettivi (buono e primo) vi sono tre combinazioni possibili
(35a) e tre sfavorite (356):

(35) a. Il buon primo capitolo


Il primo buon capitolo
Il primo capitolo buono

b. ?IIbuon capitolo primo


*Il capitolo primo buono
*Il capitolo buono primo

Dati due aggettivi che si riferiscono allo stesso nome, dunque, l'italiano (in cui
pure l'aggettivo è più libero di quanto non sia l'aggettivo inglese - che occupa
sempre la posizione prenominale) non permette sempre tutte le combinazioni
logicamente possibili.
CHE cosl UNA LINGUA? 41

5. SINTAGMATICO
E PARADIGMATICO

In un atto linguistico, i suoni vengono disposti in una sequenza lineare: uno


dopo l'altro. Si osservi che in questo modo i suoni perdono la loro individua-
lità e diventano una «catena parlata»: come abbiamo già fatto notare, non
diciamo a-n-c-o-r-a,per esempio, separando un suono da un altro ma ancora
in un'unica emissione di fiato. In questa operazione succede che i suoni si
influenzano l'un l'altro; per esempio la n di ancoraè foneticamente diversa dalla
n di anfora:la prima è un suono velare, la seconda è un suono labiodentale
(per questi termini, cfr. il cap. IV.2.) e ciò perché nel primo caso è seguita da
una velare [k] e nel secondo da una labiodentale [f]. Cioè [k] e [f] esercitano
una certa influenza sul suono nasale precedente. Questi rapporti vengono
definiti rapporti sintagmaticie si hanno tra elementi che sono in praesentia,
cioè co-presenti. Si consideri ancora la coppia amico/amici: si leggano le due
parole e sarà evidente che, nonostante la grafia sia la stessa, la prima ha un
suono velare [k], la seconda un suono palatale [tJ]: è la vocale seguente che
influenza la realizzazione del suono che corrisponde alla lettera dell'alfabeto
c: anche questo è un rapporto di tipo sintagmatico.
Si consideri ora una parola come stolto: tra la [s] e la vocale [o] compare un
suono, [t]. Il «contesto», la «posizione» di [t] è dunque tra s ed o [s_o].
Al posto di questo suono possono comparire altri suoni nello stesso contesto:

(36) stolto sto


sdoganare sdo
scorta sco
sgombro sgo
sporta spo
sbobinare sbo

ebbene, tutti i suoni che possono comparire in un certo contesto intratten-


gono tra loro dei rapporti di tipo «paradigmatico» o «associativo», ma sono
rapporti in absentiacome diceva Saussure: se realizzo [t] non posso realizzare
gli altri. Tutti i suoni che possono comparire in un medesimo contesto hanno
qualcosa in comune; per esempio i suoni elencati sopra formano una classe
di suoni, che si chiamano occlusive e che hanno proprietà molto simili, come
si vedrà nel capitolo dedicato alla fonologia (cap. IV).
Rapporti sintagmatici e paradigmatici non riguardano solo i suoni. Si consi-
derino le seguenti espressioni:

(37) a. questo mio amico


b. questa mia amica
c. questi miei amici
d. queste mie amiche

in (37a) vi sono rapporti sintagmatici tra la o di questo, la o di mio e la o di


amico e così in (37b) tra la a di questa, la a di mia e la a di amica, in (37c) tra
42 CAPITOLO2

la i di questi, la i di miei e la i di amici ed infine in (37 d) tra la e di queste, la e


di mie e la e di amiche. Si considerino invece le seguenti espressioni:

(38) a. il libro
b. questo libro
c. quel libro

Tra il, questo e quel vi sono rapporti paradigmatici: se realizziamo il non


possiamo realizzare questo (cfr. *il questo libro) e così anche per quel:

(39) *il questo libro *questo il libro


*il quel libro *quel il libro
*questo quel libro *quel questo libro

Se introduciamo un possessivo come mio si vedrà allora che mio intrattiene


rapporti sintagmatici sia con il sia con questo e quel (40a) (analogo compor-
tamento avrà mia con questa e quella) (406):

(40) a. il mio libro b. la mia gatta


questo mio libro questa mia gatta
quel mio libro quella mia gatta

Si consideri ancora l'imperfetto indicativo dell'italiano:

(41) amavo
amavt
amava
amavamo
amavate
amavano

queste forme hanno una parte comune (amav-) e delle desinenze (o, i, a, mo,
te, no). Queste desinenze intrattengono tra loro rapporti paradigmatici: se
ne realizziamo una escludiamo tutte le altre. Tutte queste desinenze formano
un paradigma:forme che si possono aggiungere (una ad esclusione dell'altra)
ad una· stessa base. Lo stesso si applica alla declinazione di una parola latina
come rosa 'rosa':

(42) ros-a
ros-ae
ros-ae
ros-am
ros-a
ros-a

I rapporti sintagmatici e i rapporti paradigmatici sono un importante fatto


di coesione degli elementi linguistici: una unità della lingua, qualsiasi unità,
intrattiene rapporti sintagmatici con le forme «vicine» ma intrattiene rapporti
CHE cos·~U.NALINGUA? 43

paradigmatici con le unità assenti che avrebbero potuto essere realizzate in


quel dato punto.
Ferdinand de Saussure propone una similitudine molto convincente: in un
edificio una colonna ha rapporti di vicinanza (sintagmatici) con l'architrave che
essa sorregge; d'altra parte la colonna - se è di tipo dorico - ha rapporti para-
digmatici, in absentia,con altri tipi possibili di colonna (ionico, corinzio, ecc.).

6. SINCRONIAE DIACRONIA
Le lingue possono cambiare nel corso del tempo. Si pensi ad alcuni cambia-
menti dal latino all'italiano: le consonanti finali di parola sono cadute (RO-
SAM>rosa),il sistema dei «casi» (v.VII.5.2.) è stato sostituito da un sistema con
preposizioni e articoli (REGIS>delre, REGEM>ilre, REGUM> dei re) e l'ordine
delle parole da Soggetto-Oggetto-Verbo è diventato Soggetto-Verbo-Oggetto
(PUERPUELLAMAMAT> il ragazzoama la ragazza).Lo studio del cambiamento
linguistico è detto diacronico:è quindi lo studio di un fenomeno attraverso
il tempo. Una lingua può però essere studiata anche escludendo il fattore
«tempo». Se per esempio studiamo come funziona l'accordo tra nome ed
aggettivo in italiano senza ricorrere alla variabile «tempo» (Mario è buono,
Maria è buona,Mario e Gianni sono buoni, Mario e Maria sono buoni, Maria e
Carlasono buone) facciamo uno studio sincronico.Un fenomeno sincronico
è un rapporto tra elementi simultanei, un fenomeno
diacronico è la sostituzione di un elemento con un
altro nel corso del tempo. Questi due aspetti della e
lingua (il cambiamento e la coesistenza) possono
essere rappresentati su due assi (fig. 2.1).
L'asse AB è quello della sincronia (detto anche asse A----+----- B
delle simultaneità) e concerne i rapporti tra elementi
linguistici coesistenti con l'esclusione dell'intervento
del tempo. L'asse CD è quello della diacronia (detto
anche asse delle successioni) e concerne i cambiamenti D
lungo l'asse del tempo. Si noti che «sincronico» non
vuol dire «presente»: se studiassimo il sistema dell' ac- fig. 2.1.
cordo tra nome ed aggettivo in latino (senza conside-
rare la sua evoluzione dall'indoeuropeo) faremmo della linguistica sincronica
non diacronica. Entrambi questi aspetti delle lingue sono importanti perché
le lingue - in quanto «sistemi» - hanno la proprietà sia di «funzionare» che
di «cambiare».

7. IL SEGNOLINGUISTICO

Una parola è un segno (anche una frase è un segno, per quanto complesso).
Un segno è una unione di un significato e di un significante. Se diciamo
44 CAPITOLO 2

libro questa unità è formata di un significante che è


la forma sonora che noi realizziamo dicendo [libro]
(la forma grafica se stiamo scrivendo o stampando) e
significante/ libro/ di un significato, che è la rappresentazione mentale
che abbiamo di 'libro'. Si noti che il significato non è
m
significato l'oggetto, la «cosa» libro, ma il «concetto» di «libro»
(v. cap. VIII, dove si discute questa distinzione in
termini più specifici).
Significante e significato sono inscindibilmente uniti,
come il retto e il verso di un foglio; ciò che si può
fig.2.2. rappresentare come nella figura 2.2.
Il segno ha varie proprietà tra cui:
a) la distintività.Il segno notte si distingue dal segno botte o dai segni lotte,
cotte, dotte, nette, note, nocche, notti;
b) la linearità.Il segno si estende nel tempo (se è orale) o nello spazio (se
è scritto). Ciò implica una «successione», un «prima» e un «dopo». Questa
proprietà è ovviamente fondamentale per le lingue: al ha ovviamente un
significato diverso da la, rami ha un significato diverso da mira, Silvia ama
Giuseppe ha un significato diverso da Giuseppe ama Silvia;
c) l'arbitrarietà.Il segno è arbitrario nel senso che non esiste alcuna legge «di
natura» che imponga di associare al significante [libro] il significato 'libro'.
Tanto è vero che al medesimo significato possono corrispondere significanti
diversi in altre lingue: ingl. book, fr. livre, ol. boek, ted. Buch, ecc. Si dice che
l'associazione tra significato e significante deriva da una specie di «accordo
sociale» convenzionale: per convenzione (e non per una legge di natura) al
«concetto» di «libro» in questa lingua corrisponde il significante [libro].
Ci sono delle eccezioni all'arbitrarietà del segno e sono costituite soprattutto
da quelle forme che si chiamano onomatopeiche, come ad esempio sussurrare,
tintinnare, tamburellare. Nel corso del tempo l'evoluzione cui sono soggette
le lingue può eliminare la motivazione del segno, per esempio il latino pipio
'piccione' era ovviamente onomatopeico, ma l'italiano piccione, il francese
pigeon, ecc. hanno perso la motivazione originaria, non sono più parole ono-
matop~iche e sono segni «arbitrari» né più né meno di «libro».
I segni possono essere sia linguistici che non linguistici. Un vestito nero
(significante) può voler dire 'lutto' (significato); anche un cartello stradale
unisce un significante (colori rosso e bianco e forma stessa del cartello) ad un
significato (per es. 'divieto d'accesso') e pertanto è un segno. I segni linguistici
sono tipicamente «lineari» mentre i segni non linguistici non sono lineari: in
un cartello di «divieto di accesso» non importa se è stata realizzata prima la
parte disegnata in rosso o quella disegnata in bianco. La disciplina che studia
i segni linguistici è ovviamente la linguistica, la disciplina che studia i segni in
generale è la semiologia o, con sinonimo oggi più comune, semiotica.
(HE COS'È UNA LINGUA? 45

8. LEFUNZIONIDELLALINGUA

Secondo RomanJ akobson, le componenti necessarie per un atto di comunica-


zione linguistica sono sei: 1) il parlante, 2) ciò di cui si parla, 3) il messaggio,
4) il canale attraverso cui passa la comunicazione, 5) il codice e 6) l'ascoltatore.
Possiamo disporre queste componenti nel modo seguente:

(43)
2) referente
1) parlante 3) messaggio 6) ascoltatore
4) canale
5) codice

Parlante e ascoltatore sono nozioni intuitive. Di codice e messaggio si è già


detto sopra. Il referente è ciò cui l'atto linguistico rimanda, la realtà extra-
linguistica ed infine il canale è di norma l'aria, se due persone comunicano
parlando nel più normale dei modi, ma può essere una linea telefonica o
l'acqua supponendo forme di comunicazione particolari. A ciascuna di que-
ste componenti J akobson fa corrispondere una funzione linguistica diversa
secondo lo schema seguente:

(44)
2) referenziale
1) emotiva 3) poetica 6) conativa
4) fàtica
5) metalinguistica

La funzione emotiva(o espressiva) è quella che riguarda il parlante, si realizza


quando il parlante esprime stati d'animo, quando il parlare (o lo scrivere) è più
inteso ad «esprimere» che a comunicare qualcosa a terzi. Il genere letterario
che più corrisponde alla realizzazione della funzione emotiva è la poesia lirica.
La funzione referenzialeè una funzione informativa, neutra per così dire (per
esempio, una frase come il treno parte alle sei). Dunque un orario ferroviario
realizza al massimo questa funzione. La funzione faticaè quella che si realizza
quando vogliamo controllare se il canale è aperto e funziona regolarmente,
dunque espressioni come mi senti?, mi ascolti?, ci sei?, mi segui? realizzano
bene questa funzione. La funzione metalinguisticasi realizza quando il codice
viene usato per parlare del codice stesso: per esempio una grammatica realizza
pienamente la funzione metalinguistica: si usa la lingua X per parlare della
lingua X. La funzione poetica è forse la più complessa. Secondo J akobson
si realizza la funzione poetica quando il messaggio che il parlante invia all'a-
scoltatore è costruito in modo tale da costringere l'ascoltatore a ritornare sul
messaggio stesso per apprezzarne il modo in cui è formulato (per la scelta dei
suoni, delle parole, dei giri di frase, ecc.).
Se diciamo il treno parte alle sei si tratta di un messaggio che il parlante
invia all'ascoltatore per informarlo di un fatto (funzione referenziale):
46 CAPITOLO2

l'attenzione dell'ascoltatore va al «referente». Se abbiamo invece dei versi


come Nel mezzo del cammindi nostravita mi ritrovaiper una selvaoscura,il
parlante (o lo scrivente) ha costruito un messaggio che obbliga l'ascoltatore
a sospendere la funzione referenziale e a tornare sul messaggio stesso per
decifrarlo, diciamo così, per capire come è costruito (si noti, ad esempio,
l'insistita ripetizione del suono 't' nel famoso verso del poeta latino Ennio at
tuba terribilisonitu taratantaradixit 'ma la tromba con suono terribile disse
taratantara'). Da questo punto di vista anche messaggi pubblicitari (come
chi vespamangiale mele o tale macchina è comodosa)realizzano appieno la
funzione poetica perché costringono chi ascolta a porsi delle domande sulla
struttura del messaggio: vespaè un nome o un verbo? L'aggettivo comodosa
si può costruire?
La funzione conativa (o direttiva) si realizza invece sotto forma di comando o
di esortazione rivolti all'ascoltatore perché modifichi il suo comportamento.
Da questo punto di vista, i galatei con le loro prescrizioni (non sputareper
terra)realizzano tipicamente la funzione conativa.
Jakobson aveva in mente, quando proponeva questo modello, soprattutto un
modo per caratterizzare i vari testi letterari, ma avvertiva anche che ogni testo
può realizzare diverse funzioni e che dunque normalmente vi è prevalenza di
una funzione sulle altre. Così in una grammatica possono convivere funzioni
metalinguistiche («il participio passato di amareè amato»)ma anche conati ve
(«non si dice pomodori,si dice pomidoro»)o fàtiche («chi ci ha seguito fin
qui ...»). Un manuale per imparare a guidare l'automobile realizzerà sicura-
mente sia la funzione referenziale («i cartelli rotondi indicano divieto») che
quella conativa («col rosso non si passa»).
Diciamo dunque che ogni tipo di testo realizza prevalentemente una delle
funzioni jakobsoniane: un manuale di chimica o, come si diceva, un orario
ferroviario realizzeranno soprattutto la funzione referenziale; le liriche di
Petrarca o di Leopardi la funzione emotiva; il codice penale la funzione
conati va.

9. LINGUAE DIALETII
Si pensi alla situazione linguistica italiana. In Italia si parla «italiano»: lo
chiameremo italiano standard. Se qualcuno però si addentra nel quartiere di
Castello a Venezia non sentirà italiano, sentirà dialetto veneziano. Se si passerà
per il mercato della Vucciria a Palermo non si sentirà italiano né veneto, si
sentirà dialetto siciliano. Al quartiere Testaccio di Roma sarà il romanesco a
prevalere, e così via. In Italia si parla una lingua «ufficiale» che è l'italiano e
una quantità innumerevole di dialetti, dalle Alpi alle isole a sud della Sicilia
(oltre a diverse lingue «estranee» all'italiano come il greco in Puglia, il tedesco
in Alto Adige o il franco-provenzale in Piemonte).
Questa situazione è più o meno vera per tutti i paesi, ma torniamo all'Italia,
dove - come si è detto -la lingua ufficiale del paese è l'italiano. In realtà non
CHE cos't UNA LINGUA? 47

esiste un italiano unico per tutto il paese: un milanese parla un italiano sensi-
bilmente diverso da quello di un napoletano. Un parlante si «porta dietro» una
certa patina che ne denuncia la provenienza. Per cogliere questo fatto, si dice
che esistono quelli che vengono chiamati italianiregionali.Semplificando un
po', si dirà che esistono almeno tre grandi italiani regionali: quello del nord,
quello del centro e quello del sud. L'italiano regionale è dunque una varietà di
italiano parlata in un'area corrispondente approssimativamente ad una delle
tre principali aree geografiche dell'Italia (v. anche IX.5 .).
Questa nozione è importante perché costituisce un tramite, un livello inter-
medio tra dialetto e italiano standard:

(45) italiano standard


italiano regionale
dialetto locale

Attraverso l'italiano regionale passano all'italiano molte forme «locali» magari


modificate nella forma, più italianizzata. Per esempio in Emilia-Romagna la pa-
rola rusco(che significa 'spazzatura') è passata dal dialetto (dove si pronuncia
[rusk]) all'italiano regionale di chi vive in quella regione. In realtà il quadro
delineato in (45) è ancora più complesso perché ogni lingua è stratificata,sia
socialmente che geograficamente. Potremmo allora ampliare la stratificazione
in (45) nel modo seguente:

(46) italiano scritto


italiano parlato formale
italiano parlato informale
italiano regionale
dialetto di koinè
dialetto del capoluogo di provincia
dialetto locale

L'italiano scritto rappresenta la forma più austera della lingua, quella in


cui sono scritte le leggi della Repubblica, quella dei temi in classe (dove si
scriverà ho trascorsole vacanzecon la zia e non ho /atto le vacanzecon la zia).
Vi è poi un italiano parlato formale che è quello che usiamo nelle occasioni
«formali» appunto, come un esame, quando ci rivolgiamo a dei superiori: è
una forma molto controllata, usando la quale cerchiamo le parole più «alte»
(per es. depositareinvece di metter giù) e le costruzioni frasali più elaborate
(le dispiacerebbepassarmiil sale?). Spesso il parlato formale è realizzato a
velocità moderata, con articolazioni nette dei suoni. Il parlato informale
invece è quello che usiamo nelle situazioni non controllate, in famiglia, con
gli amici: è un italiano parlato spontaneamente, piuttosto rapido (dammi il
sale)e forse un po' trascurato, che conterrà molti «regionalismi» (rusco,per
esempio) e parec~hie regole di cancellazione (v. cap. IV.8.). La stessa frase
può subire modulazioni diverse in area veneta, grosso modo in accordo con
la stratificazione vista in (46):
48 CAPITOLO2

(46') non nutro molto interesse per la questione


non me ne importa un granché
non me ne frega niente
no me interesa gnente
a mi no me intaresa gnente
cossa ti vol che me ne ciava

Il dialetto è a sua volta articolato in alcune varietà: dialetto di koinè, che iden-
tifica grosso modo una regione dialettale (per esempio «il veneto» rispetto al
lombardo, al piemontese); dialetto del capoluogo di provincia (per esempio
il dialetto che si parla a Venezia); infine la forma più stretta di dialetto, quello
che si trova nei quartieri di una città (per esempio il dialetto del quartiere di
Castello a Venezia).
Dunque in uno stesso luogo possono coesistere diversi registri linguistici ed i
parlanti possono anche passare dall'uno all'altro (il cosiddetto codeswitching),
come succedeva ad esempio a Bologna in piazza Maggiore, dove i componenti
dei capannelli che popolavano la piazza si rivolgevano ad un nuovo arrivato
prima in dialetto e poi «traducendo» in italiano ...
È importante sapere che la lingua è articolata in modi simili a quelli appena
descritti perché è una caratteristica specifica delle lingue quella di non essere
un blocco monolitico: una lingua è articolata in codici e sottocodici, che a
loro volta servono a definire e a identificare dei gruppi sociali. Ed è ancora
stratificata per registri stilistici come ci si può rendere conto sfogliando
un giornale dove si troveranno sfumature diverse per parlare di politica (il
cosiddetto politichese), per parlare di letteratura, di cronaca, di sport e così
via. A questo proposito si può ricordare quell'esempio che Calvino chiamò di
«antilingua» e che esemplificò con il seguente gustoso episodio. Un testimone
fa il suo resoconto nei termini seguenti:
(47) Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato
tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. e ho preso uno per
bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata
scassinata.

che viene così trascritto dal funzionario addetto alla verbalizzazione:

(48) Il sottoscritto, essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali
dello scantinato per eseguire l'awiamento dell'impianto termico, dichia-
ra di essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di
prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al
contenimento del combustibile, e di aver effettuato l'asportazione di uno
dei detti articoli nell'intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano,
non essendo a conoscenza dell'awenuta effrazione dell'esercizio sopra-
stante.

È infine importante sottolineare che un dialetto è un sistema linguistico a tutti


gli effetti, non è un codice secondario, ridotto, imperfetto. Ogni dialetto è
CHE COS'ÈUNA LINGUA? 49

costituito - come tutte le lingue del mondo - da suoni, parole, frasi e signi-
ficati e dunque la differenza di «importanza» tra una lingua ed un dialetto
non è una differenza linguistica: è semmai una differenza socioculturale (al
punto che qualcuno scherzosamente, ma non senza ragioni, ha definito una
lingua come «un dialetto con un esercito e una marina»). Si potrebbe anche
dire che la lingua è «un dialetto con una letteratura importante» e così via.
Certamente un dialetto può avere un lessico carente in determinati settori,
ma è anche vero che i dialetti - come le lingue - hanno strumenti interni per
arricchire il proprio lessico (v. cap. IX).

10. PREGIUDIZI
LINGUISTICI

Le lingue, come s'è detto, fanno parte della nostra vita quotidiana ma sono
spesso oggetto di diversi pregiudizi. Uno di questi riguarda l'idea che vi siano
(o vi siano state) lingue «primitive» nel senso di lingue con sistemi fonologici,
morfologici e grammaticali poco sviluppati e che da queste lingue si siano
poi evolute le lingue «complesse» come le conosciamo oggi. In realtà lingue
di questo tipo non sono attestate: tutte le lingue - sia quelle parlate oggi sia
quelle «morte» di cui abbiamo documentazione - hanno sistemi fonologici,
morfologici e sintattici complessi. Il parallelismo società primitive/lingue
primitive non ha dunque motivazioni scientifiche.
Il pregiudizio opposto è quello secondo cui vi sono lingue per eccellenza
«logiche» (status spesso attribuito a lingue come il latino o il greco, per esem-
pio): gli argomenti per contrastare questo punto di vista sono esattamente
gli stessi di quelli per contrastare la visione «primitiva». on esistono lingue
logiche e lingue illogiche: tutte le lingue hanno una loro logica interna per il
semplice motivo che sono un prodotto della mente umana e debbono poter
essere apprese e tramandate.
Un altro pregiudizio - simile al primo qui discusso - ha a che fare con la
distinzione lingua/dialetto: la lingua sarebbe un sistema più evoluto dei
dialetti. Anche questo - se ne è appena parlato nel paragrafo precedente - è
un pregiudizio, nel senso che i dialetti non si differenziano qualitativamente
- come «sistemi» - da una lingua (v. cap. IX). I dialetti potranno avere delle
lacune lessicali in determinati ambiti, ma ogni dialetto - come si è appena
detto - ha sistemi fonologici e sintattici complessi esattamente come quelli di
qualsiasi altra lingua e d'altra parte le lingue «nazionali» sono spesso (come
nel caso dell'italiano) dei dialetti all'origine, assurti poi per una serie di fat-
tori sociopolitici e letterari a lingue nazionali. Ogni affermazione del tipo «la
lingua x è superiore alle lingue y, z» è quindi destituita di fondamento. Allo
stesso modo sono destituite di fondamento opinioni come quella di Carlo V
secondo cui il francese era adatto per parlare agli uomini, l'italiano alle donne
e il tedesco ai cavalli!
Un altro punto - forse più controverso - riguarda giudizi estetici secondo
cui certe lingue sono «belle» ed altre sono «brutte» (gli olandesi, ad esempio,
50 CAPITOLO 2

fanno dell'autoironia sulla propria lingua dicendo che l'olandese non è una
lingua ma un «mal di gola» ...). È molto probabile che questi giudizi siano
soggettivi dato che non saremmo in grado di trovare dei parametri oggettivi
per definire una lingua come bella o come brutta.
L'ultimo punto riguarda infine giudizi secondo cui ci sono lingue «facili»
e lingue «difficili». Nel dare questi giudizi in genere non si tiene conto del
punto di partenza. Per esempio gli italiani sostengono che lo spagnolo è
facile e che il tedesco è difficile. Ciò può sembrare vero (anche se non tutti
i linguisti sarebbero d'accordo) perché italiano e spagnolo sono lingue ro-
manze non molto distanti {italiano e francese sono anche lingue romanze ma
con una «distanza» maggiore, misurata in termini di differenziazione rispetto
alla comune lingua madre, il latino), mentre italiano e tedesco appartengono
a due famiglie linguistiche diverse, la romanza e la germanica. È presumibile
però che per un cinese lo spagnolo e il tedesco siano entrambe ugualmente
«difficili».

NOTASTORICO-BIBLIOGRAFICA

Come si è detto nel testo, le distinzioni tra langue e parole, sincronia e diacronia, rapporti
sintagmatici e rapporti paradigmatici, significante e significato, sono dovute a F. de Saussure
(1857-1913), il fondatore della cosiddetta linguistica strutturale. Roman J akobson (1896-1982)fu
uno dei principali rappresentanti di questa corrente linguistica; i concetti di codice e messaggio,
come pure l'analisi delle sei funzioni della lingua (cfr. II.8.), sono discussi in Jakobson [1960].
Tra gli altri linguisti strutturalisti, ricordiamo anche Nikolaj S. Trubeckoj (1890-1938), di cui si
parlerà nel capitolo IV, Louis Hjelmslev (1899-1965), al quale propriamente si deve l'adozione
del termine «paradigmatici» per indicare quei rapporti che Saussure aveva originariamente
battezzato «associativi».
L'opposizione tra competenza ed esecuzione è stata introdotta in Chomsky [1965, cap. I,§ 1]
che, richiamandosi esplicitamente alla distinzione saussuriana tra languee parole,osservava al
tempo stesso che i concetti di langue e di competenza non sono identici. Nel § 4 Chomsky ha
introdotto anche l'uso del termine «grammatica» per indicare sia ciò che abbiamo chiamato
«grammatica dei parlanti» (II.3 .5.), sia la descrizione che di essa viene data dal linguista.
Uno strumento indispensabile per la comprensione di Saussure [1916], nonché per la colloca-
zione storica del pensiero di Saussure e la sua fortuna presso glistudiosi successivi,è il commento
di T. De Mauro, originariamente preparato per la traduzione italiana e che dal 1972 correda
anche le riedizioni francesi del volume. La migliore panoramica della linguistica strutturale è a
tutt'oggi Lepschy [1966]. Per la bibliografia relativa a Chomsky e alla grammatica generativa,
v. la nota al cap. I.
Le nozioni presentate in questo capitolo (insieme a molte altre) sono trattate in vari manuali di
linguistica di uso corrente, tra i quali ricordiamo De Mauro [1998], Simone [1990], Basile et
al. [2010] e Berruto e Cerruti [2011]. Esistono poi vari dizionari di terminologia linguistica, tra
cui segnaliamo Beccaria [1994] e Casadei [2001]. Un volume di esercizi è Luraghi, Thornton
e Voghera [2000].
CHE cos1 UNA LINGUA? S1

DOMANDE

1. Che cos'è una lingua?


2. Perché il parlato è primario rispetto allo scritto?
3. Qual è la differenza tra langue e parole?
4. Qual è la differenza tra langue e competenza?
5. Che cos'è la competenza linguistica?
6. Che differenza c'è tra rapporti sintagmatici e rapporti paradigmatici?
7. Che cos'è lo studio diacronico di una lingua?
8. Quali sono le proprietà del segno linguistico?
9. Che cos'è la funzione metalinguistica?
10. Di quanti registri linguistici hai competenza?
owrrow3

Lelinguedel mondo

In questo capitolo si discutono principalmente due criteri di classificazione delle lingue


del mondo: quello genealogico e quello tipologico. In base al primo criterio, si dice che
due o più lingue appartengono alla stessa«famiglia linguistica» se derivano da una stessa
lingua originaria. In base al secondo criterio, si dice che due o più lingue appartengono
allo stesso «tipo» se presentano un determinato insieme di caratteristiche comuni,
indipendentemente dal fatto che facciano parte o meno della stessa famiglia linguistica.

INTRODUZIONE

Quante sono le lingue del mondo? Una risposta precisa è impossibile: si cal-
cola, comunque, che il loro numero si aggiri sulle settemila. Questo numero
può aumentare ancora se anche i vari dialetti sono considerati lingue: come
abbiamo visto nel capitolo precedente, la differenza tra lingua e dialetto è
infatti di carattere sociopolitico, non linguistico. Il numero di parlanti di
ciascuna di queste lingue presenta differenze impressionanti; ci sono lingue
che contano più di un miliardo di parlanti: è il caso dell'inglese o del cinese
mandarino (putonghuà).Dal lato opposto rispetto all'inglese o al cinese man-
darino, ci sono lingue che contano poche migliaia, se non poche centinaia, di
parlanti: è il caso di alcune lingue degli indiani d'America, o degli aborigeni
australiani. Ad esempio, il Matukar Panau (Nuova Guinea) è parlato solo da
circa seicento persone.
Possiamo in qualche modo mettere ordine in questa molteplicità, cioè fornire
un raggruppamento, una classificazione delle varie lingue? Naturalmente,
ogni classificazione presuppone la scelta di un criterio, di un punto di vista.
Un criterio potrebbe essere proprio quello del numero di parlanti. Un'or-
ganizzazione appositamente dedita allo studio delle lingue del mondo, la
Linguasphere,ha proposto sulla base del numero dei parlanti un indice di
classificazione che conta 10 ordini di grandezza, che vanno da 9 (lingue che
54 CAPITOLO3
-----

contano più di un miliardo di parlanti) fino a O (lingue estinte, o «morte»,


ossia quelle che non hanno più parlanti; Linguasphereconsidera solo quelle
estinte nel corso del XX secolo, ma ovviamente ve ne sono molte altre che
si sono estinte in precedenza, e alcune di esse sono di grande importanza
culturale, come il latino o il greco antico). In base ai dati di Linguasphere,le
lingue più parlate del mondo, ossia quelle di ordine di grandezza 9 (più di
un miliardo di parlanti) e 8 (più di 100 milioni di parlanti) sono le seguenti:

cinese mandarino 1 miliardo


inglese 1 miliardo
hindi+ urdu 900 milioni
spagnolo 450 milioni
russo 320 milioni
bengali 250 milioni
arabo 250 milioni
portoghese 200 milioni
maleo-indonesiano 160 milioni
giapponese 145 milioni
francese 125 milioni
tedesco 125 milioni

In base alla stessa fonte, l'italiano appartiene all'ordine di grandezza 7 (più


di dieci milioni di parlanti e meno di cento): infatti all'italiano sono attribuiti
70 milioni di parlanti (tra Italia, Svizzera e italiani emigrati in Canada, Stati
Uniti, Argentina e Brasile).
Questi dati, come ogni tipo di dato statistico «crudo», vanno naturalmente
considerati con una certa cautela, e gli stessi studiosi che li forniscono ci danno
raccomandazioni in questo senso. Anzitutto, certe lingue che ufficialmente
sono diverse, come lo hindie lo urdu, che sono rispettivamente lingue ufficiali
dell'India e del Pakistan, sono considerate la stessa lingua «perché i parlanti di
entrambe si comprendono a vicenda». Inoltre, il numero dei parlanti include
anche quelli che parlano la lingua in questione come «seconda lingua»: questo
è il caso di molti parlanti dell'inglese o del francese in ex colonie della Francia
o dell'Inghilterra, la cui prima lingua è quella della popolazione colonizzata,
e che hanno appreso l'inglese o il francese perché, ad esempio, le scuole che
hanno frequentato erano inglesi o francesi. Infine, la stima del numero di
parlanti si basa, fondamentalmente, sul numero dei cittadini di una determi-
nata nazione, ma questo può essere un criterio inaffidabile. Ad esempio, per
arrivare a un numero di 70 milioni di parlanti dell'italiano si è ipotizzato che
tutti i cittadini italiani parlino, o almeno comprendano, l'italiano: ma questo
è discutibile, perché esiste ancora un buon numero di italiani, soprattutto tra
quelli di età più avanzata, che parla solo il proprio dialetto, e forse ha difficoltà
non solo a parlare, ma anche a comprendere l'italiano. In conclusione, quindi,
OCEANO

T10p,co
del C.11cro AlLANTICO

Equ,toff I OCEANO

PACIFJCO OCEANO
INDIANO

AlLANTICO --
indoruropcc '
- sudanesi
uralo-alWchc
- sahariane
amerindie
- khoisanc
nigcrkordofanianc - giapponcs:i e COl"Nnc
sinotibetane - dravidiche
camito-amùtichc
- aiUllichc
papi.liie australiane -.Ju,

- m.Jcopolinesianc

fig. 3.1. Principalifamiglielinguistichedelmondo.

Fonte:G. FERRARO
(1995, 11o-111).
56 CAPITOLO3

i dati più significativi sul numero dei parlanti delle varie lingue non sono tanto
quelli assoluti, ma piuttosto quelli che indicano l'ordine di grandezza a cui
una determinata lingua appartiene (e questa è, del resto, anche la posizione
di Linguasphere).
In ogni caso, classificare le lingue in base al numero dei parlanti, per quanto
certamente importante dal punto di vista sociopolitico, non è particolarmente
significativo dal punto di vista linguistico: da questo punto di vista, una lingua
come l'inglese, o una come il sopracitato Matukar Panau, parlata da poche
centinaia di parlanti, o una lingua morta, sono esattamente equivalenti. Un
altro criterio possibile è quello puramente geografico. Potremmo cioè distin-
guere le lingue a seconda del continente in cui sono parlate, e così avremmo
lingue dell'Europa, lingue dell'Asia, lingue delle Americhe, ecc. Un criterio
di questo genere è senz'altro utile e, di fatto, qualche volta capiterà anche a
noi di ricorrervi: per esempio, parleremo spesso di «lingue delle Americhe».
Tuttavia, anch'esso è un criterio sostanzialmente non linguistico, in quanto
non si basa su caratteristiche proprie delle lingue, ma sulla loro distribuzione
territoriale. Si può quindi andare alla ricerca di criteri propriamente linguistici,
cioè basati sulle proprietà che le varie lingue manifestano.
Come abbiamo già detto in I.3., tutte le lingue del mondo condividono certe
caratteristiche, che abbiamo chiamato universali linguistici. Ma le relazioni
tra le lingue non si limitano alla condivisione degli universali: infatti alcune
lingue sono «più vicine» tra loro che non a certe altre. Come si fa a stabilire
questa vicinanza, questa relazione? Da un punto di vista linguistico, esistono
tre modalità possibili di classificazione:esse sono denominate, rispettivamente,
genealogica, tipologica e areale. Tutte e tre sono perfettamente legittime e
ugualmente significative, perché si basano su tre diverse modalità di relazione
tra le lingue umane. Queste modalità di classificazione forniscono, in certi
casi, risultati differenti: per esempio, dal punto di vista genealogico l'italiano e
l'inglese sono raggruppati insieme, mentre il cinese (oltre a molte altre lingue)
non può essere raggruppato con queste lingue; dal punto di vista tipologico,
l'inglese presenta alcune caratteristiche che lo possono avvicinare al cinese
più che all'italiano; dal punto di vista areale, il giapponese e il cinese possono
essere raggruppate insieme ma, contrariamente a quello che si potrebbe cre-
dere, non dal punto di vista genealogico.
Si dice che due lingue fanno parte dello stesso raggruppamento genealogico
se esse derivano da una stessa lingua originaria (o lingua madre, da non
confondersi con madrelingua, che è la lingua che ognuno di noi ha acquisito
per prima nella sua infanzia). Un caso evidente di lingue genealogicamente
apparentate è quello delle lingue romanze, o neolatine (italiano, francese,
spagnolo, portoghese, romeno e altre ancora): esse sono tutte derivate da
un'unica lingua madre, il latino. A loro volta, poi, le lingue romanze fanno
parte di un'unità genealogica più ampia, quella delle lingue indoeuropee,
che costituiscono una famiglia linguistica. La famiglia è l'unità genealogica
massima: se due lingue non appartengono alla stessa famiglia, esse non sono
genealogicamente apparentate. Le unità genealogiche di livello inferiore
~DA

r:;i" i:J
o

ASI A

6 o

URALICO NORD-CAUCASICO
Germanico □ slavo D Finno-ugrico § Abcaso-Ad,ghé

O Greco Ssamoiedo [Il] Naco-Daghestano


AFRICA ALTAICO
O Albanese O Turcico IIIIIBASCO
Baltico -Iranico [TI]Mongolo □ MALTESE

fig. 3.2. / gruppilinguisticiin Europa.


[1996,82].
Fonte:ALINEI
58 CAPITOLO3

alla famiglia sono chiamate gruppi (o classi): quindi una famiglia linguistica
contiene abitualmente diversi gruppi, che a loro volta si articolano in sot-
togruppi,o rami, e così via (la terminologia varia a seconda degli studiosi).
Quindi l'inglese e l'italiano fanno parte della famiglia indoeuropea (di cui
non fa parte, per esempio, il cinese), ma appartengono a due gruppi distinti;
su questi argomenti torneremo in III. I. e in III.2.
Si dice che due lingue sono tipologicamente correlate se esse manifestano
una o più caratteristiche comuni. Quindi, come vedremo in III.3., visto che
l'inglese e il cinese manifestano alcune caratteristiche comuni, esse possono
essere considerate tipologicamente correlate. La classificazione tipologica è
molto più complessa e molto più difficile da realizzare che non quella genea-
logica; inoltre, c'è da tenere presente che una lingua può essere tipologica-
mente correlata ad un'altra per quanto riguarda determinate caratteristiche, e
tipologicamente correlata a una terza per quanto riguarda altre caratteristiche.
Anche su questo torneremo in III.3. Infine, l'affinità tipologica non esclude la
parentela genealogica: due lingue tipologicamente correlate possono derivare
da un'unica lingua madre. Semplicemente, non è necessario il contrario: due
lingue tipologicamente correlate possono anche non essere genealogicamente
parenti, come è appunto il caso dell'inglese e del cinese.
Il punto di vista areale coglie quelle affinità che si creano tra lingue genea-
logicamente irrelate, oppure solo lontane parenti, ma che hanno sviluppato
alcune caratteristiche strutturali comuni in quanto sono parlate in una stessa
area geografica. In casi di questo genere, si dice che le lingue in questione
formano una legalinguistica.Cinese e giapponese non sono genealogicamente
parenti, cioè non derivano da una stessa lingua madre, ma i contatti che nei
secoli hanno avuto corso tra la cultura cinese e la cultura giapponese hanno
fatto sì che le due lingue, che, oltretutto, sono anche assai diverse dal punto
di vista tipologico, abbiano sviluppato alcune caratteristiche comuni.
Un altro caso di lega linguistica, geograficamente più vicina a noi, è quello
delle lingue balcaniche, così chiamate perché parlate nella penisola balcanica
o in territori vicini ad essa. Queste lingue sono «lontane parenti» dal punto di
vista genealogico, in quanto sono tutte lingue indoeuropee, ma appartenenti
a gruppi diversi: il serbo-croato, il bulgaro e il macedone appartengono al
gruppo slavo, il romeno appartiene al gruppo romanzo, l'albanese e il neo-
greco formano gruppi a sé stanti. Ciononostante, queste lingue presentano
delle caratteristiche comuni, che non ricorrono in altre lingue dello stesso
gruppo genealogico. Una di queste caratteristiche è la cosiddetta «assenza
dell'infinito»: nelle lingue balcaniche, una frase come l'italiano Voglio man-
giare suona all'incirca come 'voglio che mangio'. Questa struttura è propria
anche del romeno, in quanto lingua balcanica, mentre manca in tutte le altre
lingue romanze, a cominciare dall'italiano (è presente, tuttavia, in alcuni dia-
letti italiani meridionali, probabilmente influenzati dal neogreco). Un altro
fenomeno, comune soltanto ad alcune lingue della lega (macedone, bulgaro,
albanese e romeno), è il fenomeno dell'«articolo posposto»: invece di dire la
casa,in queste lingue si dice qualcosa di analogo a 'casa la'. Questo fenomeno
LE LINGUEDELMONDO 59

è, come si è detto, proprio anche di due lingue slave della lega linguistica
balcanica, ossia il bulgaro e il macedone, mentre in tutte le altre lingue slave
(russo, polacco, ecc.) l'articolo (preposto o posposto) manca.
Per quanto riguarda le relazioni linguistiche di tipo areale, ci limitiamo a questi
cenni. Il resto del nostro capitolo sarà dedicato alla classificazione genealogica
(ill.1. e III.2.) e alla classificazione tipologica; il paragrafo conclusivo (III.4.)
è dedicato ai sistemi di scrittura, cioè ai vari modi in cui, nel corso della storia
dell'umanità, le varie lingue sono state fissate su un «supporto stabile».

1. CIASSIFICAZIONE
GENEALOGICA:
LEFAMIGUE LINGUISTICHE

Si è detto nel paragrafo precedente che due lingue sono genealogicamente


parenti quando derivano da una stessa lingua originaria, o lingua madre.
A questo punto ci si può domandare: come si fa a stabilire che più lingue
derivano tutte da una stessa lingua? Nel caso delle lingue romanze, questo
è abbastanza facile: le lingue romanze derivano dal latino. In realtà, questa
conclusione, che ci sembra molto banale, non è stata sempre così evidente:
ad esempio, Dante (De vulgari eloquentia, libro I) sostenne esplicitamente
che provenzale, francese e italiano derivano da un'unica lingua, ma, nella sua
visione, questa non poteva essere il latino, che egli non considerava una lingua
naturale, ma una lingua costruita artificialmente o, nei suoi termini, «gram-
maticale». Il problema si fa poi ancora più complicato quando, a differenza
di quanto accade per le lingue romanze, non c'è alcuna lingua attestata (cioè
documentata da testi scritti) che possa essere ritenuta la lingua originaria di
un determinato gruppo di lingue. Come ci si comporta in questi casi? Per il
momento, rimandiamo la risposta al capitolo X e ci limitiamo a elencare alcune
famiglielinguistiche, dando per scontato che tutte le lingue che appartengono
ad esse derivano da un'unica lingua originaria. Le famiglie linguistiche più
studiate sono le seguenti.
• La famiglia indoeuropea, di cui ci occuperemo in dettaglio nel prossimo
paragrafo.
• La famiglia afro-asiatica (o camito-semitica). Essa comprende numerose
lingue parlate o estinte, in un'area che comprende l'Africa settentrionale
(Egitto, Libia, Tunisia, Algeria, Marocco), il Medio Oriente (Libano, Siria,
Iraq, Israele, Giordania, Arabia Saudita e altri stati della penisola arabica)
e parte dell'Africa orientale (Etiopia, Eritrea, Somalia). A questa famiglia
appartengono l'egiziano antico, l'arabo e l'ebraico. A causa dei numerosi
movimenti migratori, l'arabo è oggi parlato anche in molti paesi europei
(particolarmente in Francia).
• La famiglia uralica, che comprende numerose lingue parlate in Europa
orientale e nell'Asia centrale e settentrionale (prevalentemente all'interno
della Repubblica russa). Tre lingue uraliche sono lingue ufficiali di altrettanti
stati europei: il finlandese (o finnico) della Finlandia, l'estone dell'Estonia
60 CAPITOLO 3

e l'ungherese dell'Ungheria. La parentela genealogica tra l'ungherese e il


finnico è stata la prima ad essere dimostrata con i metodi che diverranno poi
quelli standard della linguistica storica (cfr. X.1.1.), verso la fine del XVIII
secolo.
• La famiglia sino-tibetana,alla quale appartiene tra le altre lingue il cinese
mandarino,che, come si è detto, è la lingua che conta il maggior numero di
parlanti al mondo. Altre lingue della famiglia sono il tibetanoe il lolo-birmano.
• La famiglia nigerkordofaniana,che comprende la maggioranza delle lingue
parlate nelle nazioni africane poste a sud del Sahara. Tra esse, particolare im-
portanza hanno le lingue bantu (circa 300 milioni di parlanti dislocati in tutti
i paesi a sud del Camerun). La lingua bantu più diffusa è il swahili, con più
di 80 milioni di parlanti, in diversi stati dell'Africa orientale (per es. Kenia,
Tanzania, Uganda, Ruanda, Burundi).
• La famiglia altaica,che comprende altre lingue dell'Asia centrale, come il
mongolo, nonché la lingua di una popolazione originaria dell'Asia centrale,
ma successivamente stabilitasi nell'Asia minore: il turco.
Altre famiglie linguistiche sono: quella dravidica,che comprende le lingue
parlate nella parte meridionale dell'India (le più diffuse delle quali sono il
tamile il telugu,ognuna con circa 70 milioni di parlanti), quella austro-asiatica
(che comprende, tra l'altro, il khmer e il vietnamita)e quella austronesiana
(comprendente un gran numero di lingue, che vanno dal malgascio,la lingua
del Madagascar, passando per le lingue dell'Indonesia, fra le quali il bahasaè la
più diffusa, fino alle lingue delle isole del Pacifico orientale). Vi sono poi altre
famiglie linguistiche minori, cioè comprendenti un numero limitato di lingue:
per esempio, le famiglie delle lingue degli indiani d'America (o amerindiane)
sono oltre un centinaio, e ciascuna contiene poche lingue. Analogamente, le
lingue degli aborigeni dell'Australia sono numerose e non riconducibili a un'u-
nica famiglia, o anche soltanto a poche famiglie. Quindi, per indicare queste
lingue si ricorre spesso al criterio geografico di cui si è detto nel paragrafo
precedente, e si parla appunto di lingue dell'America centrale, o di lingue
dell'Australia del nord, ecc. Vi sono infine anche lingue «isolate», cioè di cui
non è dimostrabile la parentela con altre. Un caso in Europa di lingue isolate
è rappresentato dal basco; in Asia, ricordiamo il giapponese e il coreano
(da alcuni studiosi, tuttavia, considerate apparentate con le lingue altaiche).
Bisogna osservare che il quadro che abbiamo fornito non è né esaustivo né
definitivo, nel senso che, mentre l'esistenza di alcune famiglie può essere con-
siderata dimostrata, non è detto che non possano esistere relazioni anche tra
lingue credute isolate e tra famiglie ritenute irrelate l'una con l'altra. Quindi,
altre proposte di classificazione genealogica sono state avanzate, rispetto a
quelle che abbiamo riportato. Per esempio, secondo vari studiosi, le lingue
sino-tibetane, austro-asiatiche e austronesiane fanno parte di un'unica fami-
glia, denominata sino-austrica.Al contrario, secondo altri studiosi il khmer
e il vietnamita non fanno parte di un'unica famiglia austro-asiatica, ma sono
lingue da raggruppare soltanto geograficamente. Per quanto riguarda le lingue
amerindiane, uno dei loro massimi esperti, Edward Sapir, propose nel 1929
LE LINGUEDELMONDO 61

di ricondurre le oltre cinquanta famiglie dell'America settentrionale a sei sole


«specie». Un altro linguista americano, Joseph Greenberg, ha proposto, in
anni più recenti, di ricondurre tutte le lingue delle Americhe (settentrionale,
centrale e meridionale) a tre sole famiglie. Per quanto riguarda le lingue
dell'Europa, dell'Asia e dell'Africa, già dalla fine dell'Ottocento si è soste-
nuta, con numerosi argomenti, la parentela tra la famiglia indoeuropea e la
famiglia camito-semitica (o afro-asiatica). Nella prima metà del Novecento il
danese Holger Pedersen avanzò l'ipotesi che non solo queste due famiglie,
ma anche quella nigerkordofaniana e quella uralica potessero far parte di
un'unica grande famiglia, detta nostratica(dal latino nostriis 'del nostro paese',
'nostrano'). on tutte queste ipotesi hanno goduto di uguale favore presso
gli studiosi: ad esempio, mentre quella del rapporto tra lingue indoeuropee
e lingue afro-asiatiche è stata accettata da molti, quella dell'esistenza di una
«superfamiglia»nostratica o quella della riduzione delle lingue delle Americhe
a tre sole famiglie sono state respinte dai più. Come diceva un grande linguista
della prima metà del Novecento, Louis Hjelmslev, «mentre è possibile dimo-
strare che due lingue sono geneticamente apparentate, non è mai possibile
provare che due lingue non lo sono».

2. LAFAMIGLIA
LINGlITSTICA
INDOEUROPEA

Una delle più importanti scoperte nella storia della linguistica fu quella,
compiuta nei primi decenni dell'Ottocento, che un'antica lingua dell'India,
il sanscrito,ed alcune lingue europee, come il latino e il greco, sono genealo-
gicamente apparentate. Negli anni intorno al 1830, per indicare questa fami-
glia linguistica fu coniato il termine indoeuropeo. Altri termini equivalenti a
«indoeuropeo» sono arioeuropeoe indogermanico.La famiglia indoeuropea
si suddivide nei seguenti gruppi e sottogruppi:
• Il gruppo indo-iranico,suddiviso in due sottogruppi: indiano ed iranico.
Al primo di questi due sottogruppi appartengono varie lingue antiche e varie
lingue moderne. Tra le prime, ricordiamo le due lingue della cultura e della
religione indù: il già citato sanscrito, parlato nel I millennio avanti Cristo, e
il vedico, di attestazione ancora più antica (fine del II millennio a.C.). Tra
le lingue indiane moderne, derivate non direttamente dal sanscrito ma dai
cosiddetti dialetti pracriti,ricordiamo lo hindi e lo urdu.
Il gruppo iranico è ulteriormente suddiviso in due rami: lingue iraniche occi-
dentalie lingue iraniche orientali.Tra le lingue antiche del ramo occidentale
ricordiamo il persiano antico, conservato nelle iscrizioni dell'impero degli
Achemenidi, risalenti all'epoca tra il VI e il IV secolo a.C., e l'avestico, così
denominato perché in tale lingua è scritto l'Avesta, libro sacro della religione
di Zarathustra; tra le lingue moderne ricordiamo il persianomoderno,lingua
ufficiale dell'Iran, e il curdo. Anche al ramo orientale delle lingue iraniche
appartengono varie lingue antiche e moderne: tra queste ultime ricordiamo
il pashto o afgano.
62 CAPITOLO3

• Il gruppo tocario, rappresentato da due lingue estinte e convenzionalmente


indicate come «Tocario A» e «Tocario B», documentate da alcuni testi tra
la metà e la fine del I millennio d.C., scoperti all'inizio del Novecento nella
regione cinese del Xinjiang.
• Il gruppo anatolico, comprendente varie lingue diffuse nel II e nel I millen-
nio a.C. nell'Anatolia o Asia minore (odierna Turchia), e oggi estinte. Tra esse,
quella maggiormente documentata è l'ittita, lingua di un popolo, gli ittiti, che
creò un potente regno nell'Asia minore tra il XVII/XVI e il XII secolo a.C.
• Il gruppo armeno, rappresentato da una sola lingua, l'armeno appunto.
L'armeno è attestato fino dal V secolo dopo Cristo, con traduzioni della
Bibbia e di numerosi testi filosofici e grammaticali greci. Attualmente è la
lingua ufficiale della repubblica dell'Armenia ed era parlato fino all'inizio
del Novecento dalle popolazioni armene stanziate in Turchia e ora disperse
in vari paesi dell'Europa, dell'Asia e delle Americhe.
• Il gruppo albanese, anch'esso rappresentato da una sola lingua, attestata dal
XV secolo d.C. e oggi parlata, oltre che nel territorio della repubblica d'Alba-
nia, anche dalla maggioranza degli abitanti del Kosovo e da una consistente
minoranza di quelli della repubblica di Macedonia. Dialetti albanesi sono
anche parlati in alcune regioni dell'Italia meridionale (soprattutto Calabria e
Sicilia), da discendenti di popolazioni albanesi colà immigrate nel XV secolo
d.C. per sfuggire ai turchi.
• Il gruppo slavo, diviso in tre sottogruppi: slavo orientale, comprendente il
russo, il bielorusso e l'ucraino; slavo occidentale, comprendente il polacco,
il ceco, lo slovacco e altre lingue minori; slavo meridionale, comprendente il
bulgaro, il macedone, il serbo-croato e lo sloveno. Le prime attestazioni delle
lingue slave sono i testi religiosi in antico slavo ecclesiastico (o antico bulgaro),
appartenente al gruppo slavo meridionale, che risalgono al IX-X secolo d.C.
• Il gruppo baltico, che comprende il lituano e il lettone, lingue ufficiali,
rispettivamente, delle repubbliche di Lituania e Lettonia, e varie lingue oggi
estinte, di cui la più importante è il prussiano antico. Le prime attestazioni
di queste lingue non risalgono a prima del XVI secolo; tuttavia, il lituano
conserva dei caratteri fortemente «arcaici», tanto che può essere messo sullo
stesso piano, per il valore delle testimonianze che ci fornisce in merito alla
lingua originaria della famiglia indoeuropea, delle lingue indoeuropee di più
antica attestazione: il sanscrito, il greco, il latino, l'ittita.
• Il gruppo ellenico, rappresentato da una sola lingua, il greco, le cui prime
attestazioni risalgono al II millennio a.C. (ilcosiddetto miceneo); il greco fu di
gran lunga la lingua più importante della civiltà occidentale tra il V secolo a.C.
e il V secolo d.C. La forma moderna di questa lingua (il cosiddetto neogreco
o greco moderno) è attualmente lingua ufficiale della Grecia e di Cipro, ed è
parlata da minoranze linguistiche in Bulgaria e Albania. Comunità che parlano
un dialetto greco sono presenti anche in alcune zone dell'Italia meridionale
(prevalentemente in Puglia).
• Il gruppo italico. Questo gruppo si suddivide in due sottogruppi: italico
orientale e italico occidentale (o italo-falisco). Questi due sottogruppi hanno
LE LINGUEDELMONDO 63

avuto due destini molto diversi: il primo, comprendente alcune lingue dell'I-
talia antica, come l'osco, l'umbro,il sannita, attestate da documenti risalenti
agli ultimi secoli a.C., si è successivamente estinto; il secondo comprende il
latino,attestato dal 600 a.C. circa, la cui importanza culturale non ha bisogno
di essere sottolineata e che ha dato origine a numerose altre lingue, dette
neolatine o romanze.
Tra le lingue romanze ricordiamo quelle ufficiali dei rispettivi paesi, andando
da ovest verso est: il portoghese,lo spagnolo,il francese,l'italiano,il romeno.
Altre lingue romanze che hanno un riconoscimento ufficiale a livello regionale
sono il gallego(lingua della Galizia, nella Spagna nord-occidentale), il catalano
(lingua della Catalogna, la regione della Spagna con capitale Barcellona, non-
ché di Valenza e delle Baleari) e le diverse varietà del ladino (ladino grigionese,
o retoromanzo,parlato in Svizzera, cantone dei Grigioni, ladino centrale o
dolomitico, parlato nelle vallate dolomitiche intorno al Gruppo di Sella, e
friulano).Ricordiamo infine il provenzale,lingua romanza del sud-est della
Francia, oggi poco parlata, ma assai importante nel medioevo per la copiosa
letteratura in essa prodotta (in particolare la poesia dei trovatori). Alcune lin-
gue romanze sono attestate già in epoca alto-medievale: per esempio, il primo
testo francese risale all'anno 848, e il primo testo italiano al 960. Tra queste
lingue, il francese, il portoghese e lo spagnolo, per effetto delle dominazioni
coloniali, si sono diffuse in molti paesi dell'Africa e dell'Asia sud-orientale
(soprattutto il francese) e dell'America centrale e meridionale (soprattutto il
portoghese, lingua ufficiale del Brasile, e lo spagnolo, lingua ufficiale di quasi
tutti gli stati centro- e sud-americani).
• Il gruppo germanico, diviso in tre sottogruppi: germanico orientale,
germanico settentrionale (o nordico) e germanico occidentale. L'unica
lingua sufficientemente attestata del sottogruppo orientale è il gotico, oggi
estinto, che ci è documentato da alcune parti di una traduzione della Bibbia
eseguita nel IV secolo d.C. Il sottogruppo settentrionale (che alcuni studiosi
uniscono a quello orientale, considerando entrambi due diversi rami di un
unico sottogruppo) comprende le lingue nordiche, ossia lo svedese, il danese,
il norvegese, l'islandese e il feroico (lingua delle Frer 0er). Il sottogruppo
occidentale si divide in due rami: anglo-frisonee neerlando-tedesco.Al primo
di questi due rami appartengono il frisone, lingua riconosciuta ufficialmente
nella Frisia, una regione dell'Olanda, e l'inglese, che, come sappiamo, dal suo
luogo d'origine, l'Inghilterra, si è diffuso in tutto il mondo, fino a diventare la
prima lingua al mondo come numero di parlanti, assieme al cinese mandarino.
Il ramo neerlando-tedesco comprende, come lingue ufficiali, l'olandese o ne-
derlandese,lingua ufficiale dell'Olanda e della parte fiamminga del Belgio, e il
tedesco, lingua ufficiale della Germania, dell'Austria e di parte della Svizzera.
Ad esse vanno aggiunte l' afrikaans,varietà di olandese parlato dai coloni di
origine olandese in Zimbabwe, in Namibia e in Sudafrica (i cosiddetti «boeri»),
e lo yiddish ('giudaico'), dialetto tedesco proprio degli ebrei di Germania,
che a causa di successive migrazioni si diffuse anche in vari paesi dell'Europa
orientale, come la Polonia e la Russia.
64 CAPITOLO 3
---------------------

• Il gruppo celtico, che comprende lingue parlate un tempo (fino all'inizio


dell'era cristiana) in buona parte dell'Europa occidentale, ed oggi sostanzial-
mente confinato, con qualche eccezione, alle isole britanniche. Esso si divide
in due sottogruppi: gaelico e britannico. Al primo di essi appartiene l'unica
lingua celtica che sia oggi ufficiale di uno stato, ossia l'irlandese, lingua ufficiale
della repubblica d'Irlanda assieme all'inglese; vi appartiene inoltre il gaelico
di Scozia, con un limitato numero di parlanti. Al sottogruppo britannico
appartengono il cimrico o gallese, parlato nel Galles, il comico, un tempo
parlato in Cornovaglia (regione sud-occidentale dell'Inghilterra) e oggi estinto,
e infine il bretone, parlato in Bretagna, regione nord-occidentale della Francia.

Ora che abbiamo dato uno sguardo alla classificazione genealogica delle
lingue del mondo, proviamo a confrontarla con il criterio di classificazione
puramente geografico a cui abbiamo alluso all'inizio di questo capitolo. Ve-
diamo immediatamente che i due criteri non coincidono, in quanto non tutte
le lingue genealogicamente parenti si collocano in una stessa entità geografica
e, viceversa, una stessa entità geografica non contiene soltanto lingue genea-
logicamente parenti. Le lingue indoeuropee non sono parlate soltanto in
Europa, ma anche in Asia (e non soltanto in India, a dispetto del loro nome,
ma anche in Iran, ad esempio). D'altro lato, le lingue dell'Europa non sono
soltanto indoeuropee: il finlandese, l'estone e l'ungherese sono lingue uraliche
(e altre lingue uraliche si parlano nella parte europea della Russia), il basco
è una lingua isolata, dalle origini incerte. Ugualmente, non tutte le lingue
dell'India sono indoeuropee: ad esempio, le lingue della parte meridionale di
questo paese appartengono alla famiglia dravidica. Un altro fatto ben noto,
che ha fatto capolino qua e là anche nella nostra presentazione, è che un'unità
politica non corrisponde necessariamente ad un'unità linguistica: una stessa
lingua può essere la lingua ufficiale di paesi diversi (l'inglese è lingua ufficiale
della Gran Bretagna, degli Stati Uniti, dell'Australia e di altri paesi ancora,
il tedesco è lingua ufficiale della Germania, dell'Austria e della Svizzera),
e uno stesso paese può avere più lingue ufficiali (per esempio, il Belgio ha
il francese e il nederlandese, la Svizzera il tedesco, il francese, l'italiano e il
retoromanzo). Il quadro si fa poi ulteriormente complicato se si tiene conto
delle lingue che hanno un riconoscimento ufficiale soltanto a livello regionale
(come il catalano) e complicatissimo se si tiene conto anche delle lingue «senza
esercito né marina», ossia i dialetti.
Come si vede, la problematica linguistica finisce qui col confondersi con
quella antropogeografica e sociopolitica. Come è bene che un linguista non
ignori i rapporti tra lingua e società (ne parleremo nel capitolo IX, dedicato
alla sociolinguistica), così è bene che i sociologi, i politici e gli studiosi di
geografia umana non ignorino certe nozioni base di linguistica: come av-
venimenti recenti purtroppo ci insegnano, la convivenza tra popolazioni
diverse sullo stesso territorio è spesso stata resa difficile anche dal fatto che
esse parlavano lingue diverse, genealogicamente lontane e a volte addirittura
genealogicamente irrelate.
LE LINGUE DEL MONDO 65

3. LACLASSIFICAZIONE
TIPOLOGICA

Abbiamo detto all'inizio del capitolo che due lingue sono tipologicamente
correlate se manifestano una o più caratteristiche comuni, e questa correlazione
è indipendente dal fatto che tali lingue siano apparentate genealogicamente
oppure no. In quali aspetti del linguaggio vanno ricercate queste caratteri-
stiche comuni? Nella storia delle ricerche di tipologia linguistica, esse sono
state prima ricercate nella struttura delle parole, successivamente in quella
dei gruppi di parole e delle frasi. Si parla quindi di una tipologia morfolo-
gica e di una tipologia sintattica. La classificazione tipologica, pur essendo
nata più o meno contemporaneamente a quella genealogica, cioè all'inizio
dell'Ottocento, e in molti casi ad opera degli stessi studiosi, non è riuscita
finora a raggiungere dei risultati così sicuri come quelli che ha ottenuto la
classificazione genealogica. Ciononostante, anzi forse proprio per questo
carattere di «impresa ancora da completare», la tipologia è uno dei settori di
ricerca più vivaci della linguistica contemporanea.

3.1. Tipologia morfologica

I tipi morfologici tradizionalmente riconosciuti sono i seguenti: isolante, ag-


glutinante, flessivo (quest'ultimo a sua volta distinto in un sottotipo analitico
e in un sottotipo sintetico) e polisintetico o incorporante. Molti studi recenti
non considerano «polisintetico» e «incorporante» come due designazioni dello
stesso tipo, ma come due tipi diversi; tuttavia, dato il carattere introduttivo
di questo manuale, qui non opereremo tale distinzione. Vediamo ora le ca-
ratteristiche essenziali di ciascun tipo morfologico.
Il tipo isolante è caratterizzato da una mancanza quasi totale di morfologia:
i nomi non si distinguono né per caso (per es., nominativo o accusativo), né
per genere (per es., maschile o femminile), né per numero (per es., singolare o
plurale); i verbi non presentano differenze di persona, di numero, di tempo o
di modo, ma la forma verbale è sempre unica, e così via. Per indicare le varie
relazioni tra le parole, una lingua isolante fa uso in un modo cruciale 1) dell'or-
dine delle parole stesse e 2) di alcune particelle. Quindi, in cinese, lingua pre-
valentemente isolante, due frasi come Io ti picchioe Tu mi picchisuonerebbero
più o meno come 'io picchiare tu' e 'tu picchiare io': solo l'ordine rispettivo dei
pronomi 'io' e 'tu' indica qual è la persona che picchia e qual è la persona che è
picchiata. Le particelle sono utilizzate, ad esempio, per segnalare se un verbo
indica un evento passato, o se un nome è singolare oppure plurale, come si vede
dalla frase (1) (a cui seguono prima una traduzione parola per parola, in cui
le particelle sono indicate in maiuscolo, e poi una traduzione vera e propria):
(1) Liu Xiuying mai le yi ben shu
Liu Xiuying-comprare-PASSATO-uno-CLASSIFICATORE-libro
'Liu Xiuying ha comprato un libro'
66 CAPITOLO3

In questa frase il verbo non manifesta differenze di tempo: infatti, nella


traduzione parola per parola, mai è reso con 'comprare'; il tempo passato
è indicato dalla particella le. Che il libro comprato da Liu Xiuying sia uno
solo è indicato dal numerale yi; se ci fosse solo il nome shu, la frase potrebbe
voler dire tanto 'Liu Xiuying ha comprato un libro' quanto 'Liu Xiuying ha
comprato dei libri'. (La particella ben indica la classe di oggetti a cui il libro
appartiene: è un cosiddetto «classificatore nominale», una forma linguistica,
come si vede, che è sconosciuta all'italiano e alle altre lingue indoeuropee.)
Definite dunque le lingue isolanti, possiamo ora tornare ad un'affermazione
che abbiamo fatto all'inizio del capitolo, ossia che da un certo punto di vista
il cinese e l'inglese potrebbero essere raggruppate insieme: questo punto
di vista è quello tipologico. Se infatti esaminiamo la struttura delle parole
semplici (cioè né derivate né composte; cfr. cap. V) in inglese, notiamo che
la maggior parte di esse sono invariabili: gli aggettivi sono invariabili; i nomi
non presentano una differenza grammaticale tra maschile e femminile, e la
differenza singolare/plurale è data unicamente dall'aggiunta di una -s finale
(tranne casi come mouse/mice 'topo' /'topi', goose/geese'oca'/' oche', e pochis-
simi altri); la coniugazione dei verbi (a parte quella dito be) al tempo presente
ha un'unica forma per tutte le persone, ad eccezione della terza (I talk, you
talk, he talks, ecc.), e al passato tutte le persone sono identiche (I talked, you
talked, he talked, ecc.). Inoltre, in inglese l'ordine delle parole è molto rigido
e a volte certe relazioni grammaticali sono indicate da «parole vuote» (come
il verbo to do, completamente privo del suo originario significato di 'fare',
per indicare la modalità interrogativa oppure negativa di una frase). L'inglese
(o meglio, l'inglese moderno, perché fino a qualche secolo fa la situazione era
differente) presenta quindi, nel dominio delle parole semplici, molte caratte-
ristiche di una lingua isolante, come il cinese.
Passiamo ora al secondo tipo linguistico elencato sopra, ossia quello agglu-
tinante. In questo tipo ogni parola contiene tanti affissi (su questo termine,
v. più avanti, V.4.) quante sono le relazioni grammaticali che devono essere
indicate. Il turco è un tipico esempio di lingua agglutinante. Ad esempio,
data una parola come ku1 ('uccello'), ad essa si possono aggiungere il suffisso
indicante il plurale (in questo caso -lar),e, dopo di esso, un suffisso che indica
i casi diversi dal nominativo, come illustra la seguente tabella (sul concetto
di caso, v. anche VII.5.2.):

(2)
Singolare Plurale
Nominativo ku§ ku§-lar
Accusativo kup ku§-lar-1
Genitivo ku§-JD ku§-lar-m
Dativo kup ku§-lar-a
Locativo ku§-da ku§-lar-da
Ablativo ku§-dan ku§-lar-dan

Si noti che -in indica sempre e solo il genitivo, -dan sempre e solo l'ablativo.
LE LINGUEDELMONDO 67

Nel tipo linguistico flessivo, vi è naturalmente una flessione molto ricca


(l'italiano ha, ad esempio, un centinaio di forme flesse del verbo). Spesso un
solo suffisso, contrariamente a quanto visto in turco, esprime più relazioni
grammaticali. Il latino, il greco, il sanscrito, l'italiano appunto e, in generale,
la maggior parte delle lingue indoeuropee appartengono a tale tipo.
Per vedere le differenze rispetto al tipo agglutinante, prendiamo la parola latina
corrispondente al turco kuJ, ossia avis, e confrontiamo le loro strutture in un
identico caso e in un identico numero, per esempio l'ablativo plurale: al turco
ku1-lar-dancorrisponde il latino av-ibus.La parola latina ha un unico suffisso,
-ibus, che esprime contemporaneamente i significati 'ablativo' e 'plurale':
nella parola turca, ciascuno di questi due significati è espresso da un suffisso
autonomo. Si noti ancora che in latino lo stesso suffisso esprime il significato
di ablativo ma anche di dativo, nozioni espresse in turco da due suffissi diversi.
Un'altra caratteristica delle lingue flessive è quella di poter indicare le diverse
funzioni grammaticali mediante la variazione della vocale radicale della parola:
per esempio, in italiano/accia rispetto a/eci, escorispetto a uscii, ecc. Questo
fenomeno è noto come flessione interna,ed è molto diffuso nelle lingue indo-
europee ed in quelle semitiche. Per quanto riguarda le prime, citiamo ad esem-
pio: latino ago-egi'conduco-condussi', greco lefpo-élipon'lascio-lasciai', inglese
I sing-I sang 'canto-cantai', tedesco ich spreche-ichsprach 'io parlo-io parlai'.
Per quanto riguarda le lingue semitiche facciamo un esempio dall'arabo. In
arabo la parola può essere rappresentata da una radice triconsonantica (per
es. k-t-b 'scrivere') e le diverse parole sono formate essenzialmente variando le
vocali: così avremo kataba'egli scrisse', kutiba 'fu scritto', katib 'scrittore', kitab
'libro', ecc. A differenza che nelle lingue indoeuropee, nelle lingue semitiche
la flessione interna non si applica soltanto a un numero limitato di verbi, ma è
un procedimento regolare e produttivo. Per questi motivi, riferendosi a lingue
come l'arabo e le altre lingue semitiche si parla talvolta di un tipo introflessivo.
In italiano, oltre alle forme del tipo feci e uscii, sono possibili anche altre
forme di passato, ossia quelle del tipo ho/atto, sono uscito;viceversa, in latino
esistono solo le forme/eci, exii, da/acio ed exeo. Questo contrasto esemplifica
la differenza tra sottotipo analitico e sottotipo sintetico delle lingue flessive:
il sottotipo analiticopuò realizzare le relazioni grammaticali (in questo caso,
l'espressione del tempo passato) anche mediante più parole, il sottotipo sin-
tetico concentra tale espressione in una sola parola.
Nel tipo linguistico polisintetico o incorporante una sola parola può esprimere
tutte le relazioni che in italiano sono espresse da un'intera frase, come mo-
strano gli esempi (3) e (4), tratti rispettivamente dall'eschimese e dal nahuatl
(lingua degli aztechi):

(3) angya-ghlla-ng-yug-tuq
barca-ACCRESCITIVO-acquistare-DESIDERATIVO-III SINGOLARE
'vuole acquistare una grande barca'
(4) ni-k-qua in-nakati ni-naka-qua
'io mangio la carne' 'io carnemangio'
68 CAPITOLO3

In (4), l'oggetto del verbo viene anteposto al verbo stesso, formando un'unica
parola complessa.
Questa classificazione in tipi morfologici non appare completamente soddi-
sfacente: alcune lingue che, sulla base di certe loro caratteristiche, dovrebbero
essere collocate in un tipo, sulla base di altre caratteristiche sembrerebbero
invece appartenere ad un altro. Si pensi al caso dell'inglese: abbiamo detto
che esso presenta molti aspetti propri delle lingue isolanti, ma abbiamo visto
che presenta anche fenomeni di flessione interna, propri delle lingue flessive.
Inoltre, l'inglese presenta anche fenomeni tipici delle lingue agglutinanti (lo-
nely+ ness'solitudine', overt+ ly 'apertamente', drink+er 'bevitore'), e perfino
alcuni fenomeni che ricordano quelle incorporanti (cfr. horseriding'andare a
cavallo'). Gli esempi si potrebbero moltiplicare, anche relativamente ad altre
lingue, e probabilmente non troveremmo nessuna lingua che sia soloisolante,
solo agglutinante, solo flessiva, o solo incorporante. In altri termini, ne po-
tremmo concludere che non esistono tipi «puri». Per esempio in italiano, che è
una lingua prevalentemente flessiva,vi sono fenomeni isolanti (come nomi che
non variano per il genere, come artista,o per il numero, come città),fenomeni
agglutinanti (ad esempio in parole col suffisso -mente, come veloce-mente,o
con più suffissazioni come credi-bil-ità),fenomeni introflessivi (vedo-vidi),
e molto parzialmente fenomeni incorporanti (manomettere,pescivendolo).
Questo vuol dire dunque che la tipologia morfologica è una classificazione
senza valore? No, purché la si interpreti non come una classificazione delle
lingue ma, appunto, dei tipi o, come a volte si è detto, dei sistemi. In altre
parole: esistono fenomeni di tipo isolante, agglutinante, flessivo e incorpo-
rante (o polisintetico), e normalmente ogni lingua presenta fenomeni di più
tipi diversi. In una data lingua prevarranno fenomeni isolanti, in un'altra
fenomeni flessivi, e così via, ma nessuna lingua (probabilmente) presenterà
fenomeni di un solo tipo.

3.2. Tipologia sintattica

Passiamo ora alla tipologia sintattica. Essa si è sviluppata notevolmente a


partire dagli anni Sessanta del Novecento, grazie soprattutto all'impulso del
linguista americano Joseph Greenberg. Essa si basa sull'osservazione che
esistono correlazioni sistematiche, in tutte le lingue, tra l'ordine delle parole
nella frase e in altre combinazioni sintattiche, e per questo è chiamata anche
tipologia dell'ordine delle parole. Le combinazioni sintattiche che vengono
analizzate sono anzitutto le seguenti: 1) la presenza, in una data lingua, di
preposizioni (Pr) oppure di posposizioni (Po). Una lingua che fa uso di po-
sposizioni anziché di preposizioni è, ad esempio, il giapponese: yuusyokugo
significa letteralmente 'cena dopo', cioè' dopo cena'. Il giapponese è dunque,
da questo punto di vista, «speculare» all'italiano. 2) La posizione del verbo (V)
rispetto al soggetto (S) e all'oggetto (O) nella frase dichiarativa. Dati questi
LE LINGUEDELMONDO 69

tre costituenti, sono logicamente possibili i seguenti ordini: SVO, SOV, VSO,
VOS, OSV, OVS. Di questi, soltanto i primi tre sono attestati da un numero
considerevole di lingue; il quarto solo da pochissime lingue, il sesto (forse) da
una sola e il quinto, per quanto se ne sa, da nessuna. Di fatto, quindi, i tipi di
ordine dominanti sono solo i primi tre, ossia SVO,SOVe VSO.3) L'ordine
dell'aggettivo (A) rispetto al nome (N) che esso modifica: in certe lingue
prevale l'ordine AN (come in inglese, white borse),mentre in altre lingue
prevale l'ordine NA (come in italiano, cavallobianco).4) L'ordine del com-
plemento di specificazione o, come si dice ricorrendo alla terminologia della
grammatica latina, del «genitivo» (G) rispetto al nome (N) che esso modifica.
In giapponese l'ordine è GN: Taroonoie ('Taroo-di-casa', 'la casa di Taroo'),
Taroono otoosannoie ('Taroo-di-padre-di-casa', 'la casa del padre di Taroo');
in italiano l'ordine è NG: la casadi Gianni, la casadel padredi Gianni.
L'esame di un buon numero di lingue diverse mostra che esistono delle
correlazioni sistematiche tra l'ordine delle parole in questi quattro tipi di
costruzioni, ossia tra Pr oppure Po, SVO, SOV o VSO, AN oppure NA,
GN oppure NG. In generale, queste correlazioni sistematiche possono essere
riassunte come segue:

(4) a. VSO/Pr/NG/NA
b. SVO/Pr/NG/NA
c. SOV/Po/G / AN
d. SOV/Po/G /NA

Il significato di queste formule è il seguente: (4a) se una lingua presenta


l'ordine VSO, allora essa usa preposizioni, colloca il genitivo dopo il nome
e l'aggettivo dopo il nome; (46) se una lingua presenta l'ordine SVO, allora
essa usa preposizioni, colloca il genitivo dopo il nome e l'aggettivo dopo il
nome; (4c) se una lingua presenta l'ordine SOV, allora essa usa posposizioni,
colloca il genitivo prima del nome e l'aggettivo prima del nome; (4d) se una
lingua presenta l'ordine SOV, allora essa usa posposizioni, colloca il genitivo
prima del nome e l'aggettivo dopo il nome. Esempi del tipo (4a) sono la
maggior parte delle lingue semitiche (tra cui l'arabo e l'ebraico) e, tra le lin-
gue indoeuropee, le lingue celtiche; del tipo (46), le lingue romanze; del tipo
(4c), il giapponese e le lingue altaiche; del tipo (4d), il basco e altre lingue.
Come si vede, le formule in (4) si possono parafrasare mediante la forma «se
... allora», cioè quella che i logici chiamano un'implicazione: per questo tali
formule sono state chiamate universali implicazionali.
Come si può vedere, le correlazioni tra ordine VSO e ordine SVO, da un lato,
e gli ordini delle parole nelle altre costruzioni, dall'altro, sono le stesse: si può
quindi dire, in generale, che l'ordine VO, indipendentemente dalla posizione
del soggetto, si correla sistematicamente alla presenza di preposizioni e alla
posizione postnominalesia del genitivo che dell'aggettivo. La formula (4c)
esprime invece i valori esattamente opposti: l'ordine OV è sistematicamente
collegato alla presenza di posposizioni e alla posizione prenominaledel genitivo
e dell'aggettivo. Quindi, sembrerebbe di poter concludere che la differenza
70 CAPITOLO3
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tipologica fondamentale è l'ordine VO oppure OV: le lingue VO sono pre-
posizionali e collocano tanto il genitivo quanto l'aggettivo dopo il nome, le
lingue OV sono posposizionali e collocano tanto il genitivo quanto l'aggettivo
prima del nome. Abbiamo detto «sembrerebbe» perché, evidentemente, que-
sta correlazione così com'è non funziona: ce lo mostra il caso delle lingue del
tipo (4d), che pur essendo OV, avendo posposizioni e collocando il genitivo
prima del nome, collocano tuttavia l'aggettivo dopoil nome.
Inoltre, bisogna osservare che non tutte le lingue rientrano negli schemi da
(4a) a (4d): per esempio, le lingue slave seguono lo schema (46), ma, invece
di mettere l'aggettivo dopo il nome, lo mettono prima; l'amarico (una lingua
semitica dell'Etiopia) segue lo schema (4c), ma ha preposizioni invece che
posposizioni, e altre lingue «eccezionali» non mancano. C'è infine da ricor-
dare che non è sempre facile nemmeno definire se una lingua è SVO, VSO
o SOV: esistono lingue, come il tedesco e l'olandese, in cui l'ordine è SVO
nelle frasi dichiarative principali e SOV nelle frasi dichiarative dipendenti
(sui vari tipi di frase cfr. VII.3.2.). Nel caso dell'inglese, l'ordine è SVO e
ci sono preposizioni, ma la lingua è tendenzialmente AN (blue eyes, 'occhi
blu') e, a tratti, GN (Mike'sbike, 'la bici di Mike'). La spiegazione per questi
fenomeni può essere trovata in stadi anteriori delle lingue germaniche, in cui
l'ordine era SOV.
Come si è comportata la ricerca in tipologia linguistica di fronte a questi
problemi? Per quanto riguardava le eccezioni «singole», come è il caso del
doppio ordine del tedesco o dell'olandese, o dell'ordine «incoerente» degli
aggettivi, ha individuato i principi che, interferendo con le correlazioni
d'ordine generale presentate in (4), spiegavano tali apparenti eccezioni. Per
quanto riguarda il caso delle lingue SOV, che a volte presentano l'aggettivo
dopo il nome e a volte prima di esso, si è sostituita alle implicazioni (4c) e
(4d), che come si è visto hanno conseguenze in contraddizione l'una con
l'altra, un'implicazione più complessa, che suona come segue: se una lingua
presenta l'ordine SOV, allora essa è posposizionale, e, se colloca l'aggettivo
prima del nome, allora colloca il genitivo prima del nome. Infatti non sono
attestati casi di lingue SOV che presentino contemporaneamente l'ordine
AN e l'ordine NG, mentre esistono lingue SOV che presentano l'ordine NA
e l'ordine GN, per es. il basco. Naturalmente, esistono anche lingue SOV
che presentano l'ordine NA e l'ordine NG, ma attenzione: l'implicazione
complessa che abbiamo riportato dice che AN richiedeGN, ma non dice che
NA richiede necessariamente GN.

4. I SISTEMI
DI SCRITI1JRA
DELLELINGUEDELMONDO*
Abbiamo visto in II.1. che la scrittura è un fenomeno, in certo senso, «derivativo»
rispetto alla lingua parlata. I più antichi sistemi di scrittura (quelli elaborati nell'Egitto
antico e nella Mesopotamia antica) risalgono «soltanto» a tre millenni circa prima di
Cristo, cioè a cinquemila anni fa.
LE LINGUEDELMONDO 71

I primi sistemi di scrittura elaborati dagli antichi egizi e dalla popolazione dei sumeri,
stanziata in Mesopotamia (all'incirca, l'odierno Iraq), ma di origine sconosciuta, sono
del tipo cosiddetto ideograficoo per meglio dire logografico.Un tipo di scrittura ideo-
grafica (sviluppatosi, owiamente, in modo del tutto indipendente da quelli egiziano e
sumerico) è utilizzato ancora in diverse lingue importanti, prima fra tutte il cinese; i
caratteri ideografici cinesi sono usati, accanto ad altri sistemi di scrittura, dei quali però
non parleremo qui, anche per scrivere il giapponese. Gli altri tipi di scrittura, oltre a
quello ideografico, sono il tipo sillabico e il tipo alfabetico.Esaminiamo brevemente
le caratteristiche di ciascuno dei tre tipi.
Nel tipo ideografico,in teoria, ad ogni simbolo (ideogramma)corrisponde un concetto,
concreto o astratto: per esempio, nei geroglifici egiziani 'occhio' è rappresentato dal
disegno di un occhio, 'rondine' dal disegno di una rondine, e 'vecchiaia' dal disegno
di un uomo curvo che si sorregge con un bastone. In molti casi, però, i simboli ideo-
grafici vengono ad assumere un valore puramente fonetico, in virtù di quello che
viene spesso chiamato, con riferimento al classico gioco enigmistico, il «principio
del rebus». Ad esempio, la parola 'rondine', che, come si è detto, era indicata col
disegno di una rondine, veniva pronunciata wr: dato che anche la parola 'grande'
era pronunciata wr (un caso, questo, di omonimia; v. più avanti, VIII.2.1.), nei testi
scritti in geroglifico egiziano il disegno della rondine può indicare tanto il sostantivo
'rondine' quanto l'aggettivo 'grande'.
L'utilizzazione fonetica del simbolo ideografico determinò il passaggio dal sistema di
scrittura ideografico al sistema sillabico. (Bisogna tenere presente, per l'esattezza, che i
primi sistemi di scrittura sillabica, come il cuneiforme mesopotamico sviluppato dalla
primitiva scrittura sumerica, mantengono una componente ideografica. Inoltre, non
tutti i sistemi ideografici si sono trasformati in sistemi sillabici: è il caso del cinese.) Nei
sistemi sillabici, determinati segni passarono a indicare determinati gruppi di suoni,
ossia determinate sillabe (sul concetto di sillaba v. più avanti, IV.9.). Così, ad esempio,
nel sumerico 'bocca' si pronunciava ka: quindi il segno per 'bocca' fu utilizzato in
varie parole in cui ricorreva la sillaba ka, ad esempio ka-bar'giovane pastore', ka-du
'riscatto'. L'adozione di un sistema sillabico riduce grandemente il numero dei segni,
rispetto a un sistema ideografico: mentre in un sistema di quest'ultimo tipo i segni
sono normalmente qualche migliaio, in un sistema sillabico non sono più di qualche
centinaio, e in alcuni casi non superano le cento unità.
Un inventario ancora più ridotto di segni è necessario nei sistemi di scrittura alfa-
betici, la cui invenzione è di solito attribuita ai Fenici, ma che in realtà furono ela-
borati, con passaggi successivi, da diverse popolazioni semitiche durante la seconda
metà del secondo millennio a.C.: di fatto, i Fenici furono semplicemente la popo-
lazione che trasmise l'idea dell'alfabeto ai Greci, con cui erano in stretto contatto
commerciale. I sistemi alfabetici sono caratterizzati da un principio che potremmo
chiamare «a ogni suono corrisponde un segno»: quindi si differenziano nettamente
dai sistemi sillabici, in cui un segno corrisponde a un gruppo di suoni. Di fatto,
questo principio ideale non sempre viene rispettato, anzi spesso viene violato:
nella parola italiana chiesai segni sono sei, ma i suoni sono cinque, o nella parola
inglese tough ('duro') i segni sono cinque, ma i suoni sono tre (essa si pronuncia,
approssimativamente, «taf»; per una trascrizione più accurata v. il cap. IV). Del
resto, ognuno di noi che abbia un po' di familiarità con l'inglese o con il francese
sa che nella maggior parte delle parole il numero dei segni grafici non corrisponde
al numero dei suoni. Questo è in buona parte dovuto al fatto che le lingue mutano
attraverso il tempo, ma il modo di scriverle non riesce a tenere il passo di questi
mutamenti: quindi, in molti casi, una parola si pronunciava «come è scritta», per
esempio in inglese, vari secoli fa, mentre oggi non c'è più corrispondenza tra la sua
forma grafica e il suo suono. Sul cambiamento di pronuncia delle parole torneremo
più avanti (cap. X).
72 CAPITOLO3

I greci costruirono un loro alfabeto, adattando alla propria lingua quello fenicio.
L'alfabeto greco è, con varie modificazioni, all'origine della stragrande maggioranza
delle altre scritture alfabetiche europee, una delle quali, l'alfabeto latino, si è diffusa
in tutto il mondo. Un altro alfabeto derivato da quello greco è il cirillico, in cui sono
scritti il russo e alcune altre lingue slave dell'Europa orientale (per es., serbo, bulgaro
e ucraino).
Prima di chiudere questa breve rassegna sui vari sistemi di scrittura, dobbiamo dissi-
pare un equivoco abbastanza diffuso: se due lingue usano lo stesso sistema di scrittura,
ciò non significa necessariamente che siano lingue genealogicamente apparentate, e
viceversa, due lingue apparentate genealogicamente possono essere scritte in due modi
diversi. Per esempio, tanto l'italiano che il vietnamita sono scritti in caratteri latini, ma
non sono apparentati; viceversa, il polacco e il russo sono apparentati strettamente, ma
il primo si scrive in alfabeto latino, l'altro in alfabeto cirillico. Il sistema di scrittura è
un fatto accidentale, che non ha rdazione con l'effettiva storia della lingua: quindi la
stessa lingua può essere stata scritta, in una certa epoca, con un determinato sistema,
e in un'altra epoca con un altro. Il romeno esemplifica benissimo questa situazione:
fino a metà dell'Ottocento lo si scriveva in caratteri cirillici, e da quell'epoca in poi
lo si è scritto in caratteri latini, ma è stato sempre una lingua romanza. Per fare un
altro esempio: il turco, fino al 1928, si scriveva in caratteri arabi, poi è stato scritto
in caratteri latini, non è però né una lingua semitica né una lingua romanza, ma fa
parte della famiglia altaica.

NOTASTORICO-BIBLIOGRAFICA

Nell'antichità e nel medioevo le uniche lingue oggetto di studio in Occidente erano il greco
e il latino: quindi, scarso era l'interesse per le altre lingue del mondo. Con le grandi scoperte
geografiche che caratterizzano l'età moderna, la situazione comincia a capovolgersi: gli studiosi
occidentali, all'inizio soprattutto per scopi pratici (come la predicazione del cristianesimo nei
«nuovi mondi» o l'instaurazione di rapporti commerciali, o la creazione di colonie), comin-
ciano a studiare attentamente le lingue «esotiche», come le lingue dell'Estremo Oriente, le
lingue dell'India, le lingue amerindiane, ecc.; inoltre, si rafforza in quest'epoca lo studio delle
lingue semitiche, una delle quali (l'ebraico) aveva sempre goduto di grande prestigio, in quanto
lingua della Bibbia. Uno dei risultati di questo nuovo interesse per la diversità delle lingue è
la nascita della tipologia linguistica, che (con alcuni precedenti settecenteschi) si ha all'inizio
dell'Ottocento per opera dei fratelli F.e A.W. Schlegel e, soprattutto, di Wilhelm von Humboldt
(1767-1835): a questi studiosi risale, sostanzialmente, la classificazione delle lingue in isolanti,
agglutinanti, flessive e polisintetiche. L'opera più famosa di Humboldt nell'ambito della tipologia
linguistica è Humboldt [1836]. Contemporaneo allo sviluppo della tipologia linguistica è quello
della classificazione genealogica delle lingue: alla fine del Settecento, gli ungheresi}. Sajnovics
(nel 1770) e S. Gyarmathi (nel 1799) dimostrano la parentela tra l'ungherese e il finlandese e
all'inizio dell'Ottocento incomincia la grande stagione dell'indoeuropeistica, cioè lo studio
comparato delle lingue appartenenti alla famiglia indoeuropea; su questo argomento, v. la nota
al cap. X. Gli studi di tipologia linguistica continuano ad essere coltivati per tutto l'Ottocento,
ma con risonanza relativamente scarsa, tanto che oggi sono in buona parte dimenticati. Nella
prima metà del Novecento, le osservazioni più acute di tipologia linguistica sono probabilmente
quelle dovute a Sapir, contenute nel capitolo VI di Sapir [1921]. Una svolta radicale agli studi
tipologici è data dal saggio di Greenberg [1963], che fonda la tipologia dell'ordine delle pa-
LE LINGUEDELMONDO 73

role, dando l'avvio a una serie ricchissima di ricerche che prosegue tuttora [si vedano Ruhlen
1987; Greenberg 2000]. Nell'ambito della teoria generativa elaborata da Chomsky (cfr. la nota
al cap. I), la tipologia linguistica è interpretata come studio dei rapporti tra gli universali del
linguaggio umano e le proprietà dei singoli gruppi di lingue, ossia, nella terminologia propria
della teoria, tra principi e parametri. La dipendenza dalla struttura (di cui si è parlato nel cap.
I), ad esempio, è un principio, cioè è presente in qualunque lingua umana; l'ordine delle parole
OV, oppure VO, è un parametro.
Tra le panoramiche delle lingue del mondo segnaliamo, in lingua straniera: Meillet e Cohen
[1952], Voegelin e Voegelin [1977], Comrie [2009]; in italiano, Banfi e Grandi [2003; 2008a;
20086]. Una sommaria presentazione delle varie famiglie linguistiche del mondo si può trovare in
Hjelmslev [1963, trad. it. pp. 78-92]. Lo stesso volume contiene osservazioni molto interessanti
in merito alla tipologia. Per quanto riguarda la famiglia indoeuropea, v. la nota al cap. X. Come
introduzioni alla tipologia linguistica, v. Comrie [1981] e Grandi [2003]; alcuni classici della
tipologia (tra cui il citato Greenberg [1963]) sono raccolti, in traduzione italiana, in Ramat [1976].
Una raccolta di studi tipologici recenti è Cristofaro e Ramat [1999]. Per un'interpretazione
della tipologia dell'ordine delle parole nel quadro della grammatica generativa, v. Graffi [1980].
Sui diversi sistemi di scrittura, v. Friedrich [1966] e Gelb [1963]. Si vedano anche Cardona
[1986] e Daniels e Bright [1996].

DOMANDE

1. Quali sono le lingue del mondo con il maggior numero di parlanti?


2. In base a quali punti di vista si possono classificare le lingue?
3. Cosa si intende, rispettivamente, con classificazione «genealogica», «tipologica» e «areale»?
4. Quali sono le principali famiglie linguistiche?
5. Quali sono i gruppi e i sottogruppi in cui si suddivide la famiglia linguistica indoeuropea?
6. Quali sono le caratteristiche dei tipi «isolante», «agglutinante», «flessivo» e «polisintetico»?
7. Cosa vuol dire che una lingua usa «posposizioni» anziché preposizioni? Cosa indicano,
rispettivamente, le sigle VSO, SVO e SOV? E quelle NG e GN? E quelle NA e AN?
8. Cosa sono gli «universali implicazionali»?
9. Come si può risolvere il problema rappresentato dal fatto che alcune lingue OV presentano
un ordine AN, mentre altre presentano un ordine NA?
10. Quali sono i principali sistemi di scrittura? Quali sono le loro caratteristiche?
I suonidellelingue:
foneticae fonologia

In questo capitolo studieremo prima l'apparato preposto alla produzione dei suoni,
distingueremo poi tra suoni e fonemi. Introdurremo l'Alfabeto Fonetico Internazionale,
analizzeremo le principali proprietà del sistema fonologico dell'italiano (inventario di
fonemi e regole fonologiche) ma accenneremo anche a singole proprietà di alcune altre
lingue europee maggiori.

INTRODUZIONE

Uno degli aspetti più evidenti del linguaggio umano è la produzione di


«suoni». Un suono è un fatto fisico, misurabile, ed il nostro apparato fonato-
rio è in grado di produrre una quantità enorme di suoni. Di tutti i suoni che
un essere umano è in grado di produrre (dai fischi ai singhiozzi alle imitazioni
dei rumori della natura) solo una piccola parte sono i suoni che fanno parte
di una lingua in senso stretto. Ad esempio il suono emesso per spegnere una
candela non è un suono della lingua italiana: con esso non si formano delle
parole.
Ogni lingua ha un suo inventario di suoni che funzionano linguisticamente
(fonemi), che formano cioè delle parole, e ogni lingua ha regole proprie per
combinare insieme questi suoni in sillabe e in parole. Quando vengono combi-
nati insieme per formare delle parole, i suoni possono influenzarsi l'un l'altro:
per dar conto di questi cambiamenti, le lingue dispongono di un insieme di
regole fonologiche. Inventario dei fonemi, regole di combinazione dei fonemi
e regole fonologiche sono diversi da lingua a lingua. Fanno parte del dominio
della fonologia anche l'accento, l'intonazione e i toni.
76 CAPITOLO4

1. FONETICA

La disciplina che studia la produzione dei suoni è detta foneticaarticolatoria.


Accanto a questa vi è la fonetica acustica che studia sostanzialmente la na-
tura fisica del suono e la sua propagazione (nel caso più normale) attraverso
l'aria. Vi è infine una fonetica uditiva o percettiva che studia l'aspetto della
ricezione del suono da parte del!' ascoltatore. Quel che segue è basato sulla
fonetica articolatoria.

1.1. L'apparato fonatorio

L'apparato fonatorio umano è riprodotto nella figura 4.1.


Un suono è prodotto normalmente dall'aria che viene emessa dai polmoni,
sale lungo la trachea, attraversa la laringe (all'altezza del pomo d'Adamo),
sede delle corde vocali. Dopo aver superato la faringe, l'aria giunge alla cavità
orale e da qui fuoriesce dalla bocca (la cavità nasale può essere esclusa o atti-
vata tramite l'innalzamento del velo palatino: se questo si sposta all'indietro
chiudendo la comunicazione tra faringe e cavità nasale l'aria fuoriesce solo
dalla bocca ed avremo suoni orali, altrimenti se il velo palatino resta inerte,
l'aria fuoriesce anche dalla cavità nasale ed avremo suoni nasali).

cresta
alveolare palato duro

palato molle o velo

epiglottide

laringe

glottide
t
(polmoni)

fig. 4.1. L'apparatofonatorio.


I SUONIDELLELINGUE 77

1.2. Classificazione dei suoni

Per classificare un suono, ad una prima analisi, sono necessari tre pa-
rametri: modo di articolazione, punto di articolazione e sonorità. I vari
organi della fonazione (labbra, lingua, velo palatino) possono essere po-
sizionati in modi diversi nella produzione di un suono: i vari assetti che
gli organi assumono nella produzione di un suono sono detti modo di
articolazione.

TAB.4.1. I simboli dell'lnternational Phonetic Alphabet.

CONSONANTI PUNTI DI ARTICOLAZIONE


Bilabiali Labio- Dentali Alveolari Postalveo- Retro- Palatali Velari Uvulari Farin- Glottidali
dentali lari flesse gali

I Occlusive p b t d t cl c J k g q G 11
Nasali m l'!) n 'l Jl lJ N

Vibranti B r R

Monovibranti f r
H
Fricative q, ~ f V e ò Is zl 5 3 ? 2i. ç j X 'i X li" h ) h fi
Cl
a Fricative laterali i l3
o Approssimanti u
::E l -l J l4
Appross. laterali I l ,(
I L

Dovei simboliappaionoin coppia,quelloa destra rappresentauna consonantesonora.Le aree in grigioindicanoarticolazioni


considerateimpossibili.

VOCALI

Anteriori Centrali Posteriori


Chiuse 1 y i l::l---W u
I y u
Medio-chiuse e 0 y o
e
Medio-aperte E ce /1.
re
Aperte a CE a o

Dove i simboli appaiono in coppia, quello a destra rappresenta una vocale arrotondata.
78 (APITO_L_0_4
________ ~~---,-------------~~-·----

Il flusso d'aria necessario per produrre un suono può essere modificato in


diversi punti dell'apparato vocale (labbra, denti, alveoli, palato, faringe, ecc.):
ognuno di questi punti è chiamato punto di articolazione.
Infine la sonorità è data dalle vibrazioni delle corde vocali: se queste vibrano
avremo un suono sonoro, se non vibrano avremo un suono non sonoro, o
sordo. Sulla base di questi tre parametri è possibile classificare la stragrande
maggioranza di tutti i suoni di tutte le lingue del mondo, come si vede dalla
tabella dell'Alfabeto Fonetico Internazionale (in inglese IPA, da International
PhoneticAlphabet) riprodotta nella tabella 4.1.

L'alfabeto fonetico internazionale risponde all'esigenza fondamentale di usare


gli stessi simboli per gli stessi suoni in tutte le lingue del mondo. Questo
compito non può infatti essere svolto dagli alfabeti delle lingue naturali: per
esempio la lettera c non corrisponde allo stesso suono in italiano (centro)e
in inglese (center), t in francese può corrispondere ad un suono [s] come
nella parola administration'amministrazione'; gli alfabeti sono poi incoerenti
all'interno della stessa lingua (la stessa lettera dell'italiano c corrisponde ad
un suono in una parola come centroe ad un altro suono in una parola come
canto, come si vedrà più diffusamente in IV.3.).
La tabella 4.1 servirà a definire non solo i suoni dell'italiano (che discute-
remo dettagliatamente) ma anche suoni di altre lingue cui capiterà di fare
riferimento.

1.3. Classi di suoni

I suoni possono essere classificati in tre classi maggiori: consonanti, vocali


e semiconsonanti (o approssimanti). La distinzione più importante è quella
tra consonanti e vocali e si fonda su un semplice fatto articolatorio: nella
produzione di una vocale l'aria non incontra ostacoli, fuoriesce liberamente.
Le vocali inoltre sono normalmente sempre sonore. La cavità orale è massi-
mamente aperta per una vocale come [a] e massimamente chiusa per vocali
come [i] ed [u]. Per produrre una consonante, invece, l'aria o viene mo-
mentaneamente bloccata (come per una [b]) o deve attraversare una fessura
molto stretta (come per una [O). Le consonanti inoltre possono essere sia
sorde che sonore.
Le semiconsonanti (anch'esse sempre sonore di norma) condividono proprietà
sia delle vocali (sono articolate come delle vocali) sia delle consonanti (per
esempio non possono costituire il nucleo di una sillaba).
Vocali, semiconsonanti, liquide e nasali formano la classe delle sonoranti.
Tutti i suoni non sonoranti si chiamano ostruenti. Le sonoranti sono tutte
sonore, il flusso d'aria necessario per produrle fuoriesce dalla cavità orale
piuttosto liberamente. Il flusso d'aria necessario per produrre le ostruenti
invece incontra ostacoli di varia natura come si vedrà nel paragrafo seguente.
I SUONIDELLELINGUE 79

2. I SUONIDELL'ITALIANO

Ogni lingua, come si è visto nel capitolo Il, fa delle «scelte» e così, se la tabella
4 .1 rappresenta i suoni di tutte le lingue del mondo, l'italiano ne seleziona circa
una trentina, che sono quelli riprodotti qui sotto (prima i suoni consonantici
e poi quelli vocalici; i suoni tra parentesi sono «varianti combinatorie» come
si vedrà in IV.5.4.):

(1) bilabiali labiodentali dentali alveolari palato-alveo!. palatali velari


occlusive p b t d k g
fricative f V s z s
affricate ts dz tJ d3
nasali m (fD) n J1 (JJ)
laterali 1 !.
poli vibranti r
semiconsonanti w
o approssimanti

Se in una casella vi sono due suoni, per convenzione il suono a sinistra


rappresenta il suono sordo, quello a destra il suono sonoro. Sono dunque
consonanti sorde [f, t, s, k, ts, t, tJ]. Se in una casella vi è un solo suono si
tratta di un suono sonoro. Sono dunque suoni sonori dell'italiano [b, d, g, v,
z, dz, m, n, Jl, 1, I..,r, j, w]. Qui di seguito in (2) vi sono le definizioni dei suoni
insieme ad alcuni esempi:

(2)
Definizioni Esempi
p occlusiva, bilabiale, sorda pane, epico, tappo, stop
b occlusiva, bilabiale, sonora bene, ebanista, abbastanza, kebab
t occlusiva, dentale, sorda tana, eterno, otto, alt
d occlusiva, dentale, sonora dente, adorare, addentrarsi, yod
k occlusiva, velare, sorda caro, che, pacchi, accanto, tic tac
g occlusiva, velare, sonora gara, ghiro, alghe, traggo, smog
m nasale, bilabiale (sonora) mano, amare, lemma, uhm
l'D nasale, labiodentale (sonora) anfora, inferno, invidia, inverno
n nasale, alveolare (sonora) naso, lana, danno, non
J1 nasale, palatale (sonora) gnocco, ignifugo, ogni
lJ nasale, velare (sonora) ancora, anguria
l laterale, alveolare (sonora) lana, alato, palla, col
!. laterale, palatale (sonora) gli, aglio, imbroglio
r polivibrante, alveolare (sonora) rana, motore, carro, per
f fricativa, labiodentale, sorda fame, afa, ceffo, arf
V fricativa, labiodentale, sonora vento, avaro, avviso, vov
s fricativa, alveolare, sorda sano, casa (in toscano), cassa, lapis
z fricativa, alveolare, sonora smodato, casa (it. del nord)
s fricativa, palato-alveolare, sorda
ts affricata, alveolare, sorda
scemo, ascesa, slash
stazione, pazzo, zio (toscano)
80 CAPITOLO 4

dz affricata, alveolare, sonora zero, azzimato


tf affricata, palato-alveolare, sorda cenare, acido, accento
d3 affricata, palato-alveolare, sonora gente, agire, aggiornare
J semiconsonante, palatale (sonora) ieri, piede
w semiconsonante, velare (sonora) uovo, duomo

In alcune parole si trova il suono [3], una fricativa palato-alveolare sonora,


ma si tratta di prestiti, per lo più di origine francese (come garage,[gaRa3]).

2.1. Consonanti dell'italiano

I diversi modi di articolazione concorrono alla produzione di consonanti:


occlusive: il suono è prodotto tramite una occlusione momentanea dell'aria
cui fa seguito una specie di «esplosione». Sono dette anche momentanee o
esplosive [p, b, t, d, k, g];
fricative: l'aria deve passare attraverso una fessura piuttosto stretta produ-
cendo così una certa «frizione». A differenza delle occlusive, le fricative sono
suoni che si possono prolungare nel tempo e dunque si chiamano anche
«continue» [f, v, s, z, J];
affricate: sono suoni che iniziano, per così dire, con un'articolazione di tipo
occlusivo e terminano con un'articolazione di tipo fricativo [ts, dz, tf, d3].
Si noti che nella tabella IPA 4.1 le affricate non appaiono: questo proprio
perché sono ritenute suoni complessi riconducibili a due suoni semplici, ad
esempio [tJ] 'inizia' con una occlusiva dentale e 'termina' con una fricativa
palato-alveolare;
nasali: per la produzione dei suoni nasali, il velo palatino si posiziona in modo
tale da lasciar passare l'aria attraverso la cavità nasale [m, ru,n, J1,!J];
laterali: per produrre un suono laterale la lingua si posiziona contro i denti
e l'aria fuoriesce dai due lati della lingua stessa. L'italiano ha due laterali: [l]
che è una liquida laterale dentale e [i(] che è una liquida laterale palatale (in
questo caso il dorso della lingua si avvicina al palato);
vibranti: la produzione di un suono vibrante avviene mediante vibrazione o
dell'"apicedella lingua [B] o dell'ugola [R], cfr. fig. 4.1. L'italiano ha un'unica
vibrante, [r], che essendo realizzata tramite più vibrazioni è detta polivibrante,
al contrario, ad esempio, dello spagnolo, che presenta una monovibrante [e];
approssimanti: sono suoni in cui gli organi articolatori vengono awicinati
ma senza contatto. Le approssimanti dell'italiano sono le seminconsonanti
[j] e [w], così chiamate perché sono Ùn po' a metà strada tra consonanti e
vocali (la fuoriuscita dell'aria è più ostruita di quanto non awenga per la
produzione delle vocali, ma lo è meno che per le consonanti). In italiano [i]
ed [u] sono semiconsonanti quando sono seguite da una vocale tonica: piede
si trascriverà [pjcde], può si trascriverà [pw;,], sono semivocali (o vocali non
sillabiche) quando seguono una vocale tonica come in sei,pausa(e si possono
trascrivere nel modo seguente: [sci] [pauza]). Si noti che [w] non compare
I SUONIDELLELINGUE 81

nella tabella 4.1 ma viene elencata in una tabella a parte, in genere, perché è
da molti ritenuta una labio-velare, dall'articolazione complessa che, in quanto
tale, non viene rappresentata in IPA.
L'italiano utilizza sette punti di articolazione: non ci sono dunque in italiano
consonanti interdentali, uvulari, faringali o glottidali.
bilabiali: il suono è prodotto tramite l'occlusione, cioè la chiusura di entrambe
le labbra [p, b, m];
labiodentali: il suono deve attraversare una fessura che si forma appoggiando
gli incisivi superiori al labbro inferiore [f, v];
dentali: la parte anteriore della lingua (la lamina) tocca la parte interna degli
incisivi [t, d];
alveolari: la lamina della lingua tocca o si avvicina agli alveoli [s, z, ts, dz, n,
1,r]; la lingua si avvicina senza toccare gli alveoli per suoni come [s, z, ts, dz],
tocca gli alveoli per suoni come [n, l];
palato-alveolari: la lamina della lingua si avvicina agli alveoli ed ha il corpo
arcuato [f,tJ, d3];
palatali (o anteriori): suoni prodotti con la lingua che si avvicina al palato
[Jl, /., j];
velari (o posteriori): suoni prodotti con la lingua che tocca il velo palatino
[k,g,w].

2.2. Vocali dell'italiano

I parametri per classificare le vocali sono l'altezza della lingua (cioè se la


lingua si alza o si abbassa verso il palato rispetto alla posizione di «riposo»),
l'avanzamento o l'arretramento della lingua, l'arrotondamento o meno delle
labbra, la realizzazione di questi movimenti in modo teso o rilassato. Se la
lingua assume una posizione alta si produrranno suoni come [i] o [u], se
assume una posizione bassa si produrranno suoni come [a]. Se la lingua è in
posizione avanzata si produrrà una [i] o una [e], se in posizione arretrata una
[u] o una [o]. e le labbra sono arrotondate si produrranno vocali come [u] o
[o], se non sono arrotondate si produrranno vocali come [i] ed [e]. In italiano
le vocali [e] ed [o] possono essere sia (semi)aperte che (semi)chiuse e vi è una
sola [a]: ciò dà luogo ad un sistema eptavocalico inscrivibile in un triangolo:

(3)
anteriore centrale posteriore
(o palatale) (o velare)
u
alte (chiuse)
medio-alte (semichiuse) e o

medio-basse (semiaperte) e: ;)

basse (aperte) a
82 CAPITOLO 4

Il sistema è eptavocalico per alcuni italiani regionali come il toscano. Vi


sono delle aree - come ad esempio, la Sicilia o la Sardegna - dove, in linea
di massima, si ha solo una vocale media anteriore e solo una vocale media
posteriore, dove cioè il sistema è di cinque vocali.

(4)

Definizioni Esempi
alta, anteriore (o palatale), italiano, vino, soli
non arrotondata
e medio-alta, anteriore (o palatale), eroico, venti (numero), sapore
non arrotondata
e medio-bassa, anteriore (o palatale), elle, venti (plurale di vento),lacchè
non arrotondata
a bassa, centrale, non arrotondata amo, sano, scorta
;:i medio-bassa, posteriore (o velare), otto, botte (percosse), però
arrotondata
o medio-alta, posteriore (o velare), obesità, botte (recipiente), amico
arrotondata
u alta, posteriore (o velare), unico, luna, zebù
arrotondata

Le vocali alte e medio-alte sono dette anche chiuse e semichiuse rispettiva-


mente, quelle medio-basse e basse sono dette anche semiaperte ed aperte
rispettivamente.

2.3. Combinazioni di suoni

Le consonanti possono combinarsi insieme e formare dei nessi consonantici.


La combinazione delle consonanti non è libera ma è soggetta a restrizioni: per
esempio mentre [pr], [tr], [fr] sono nessi consonantici possibili in italiano
(prendere,treno,francese),*[fts], *[gv], *[gJ] non sono, al contrario, possibili.
Vi è inoltre differenza tra combinazioni possibili in posizione iniziale di parola
ed in posizione interna di parola. Per esempio [p + r] è una combinazione
possibile sia in posizione iniziale di parola che in posizione interna (prendi,
apri), ma [r+ p] è possibile in posizione interna di parola (arpa)ma non in
posizione iniziale. In italiano se una parola inizia con tre consonanti, la prima
deve essere una [s]: strano, sbrodolarsi.
La combinazione di vocali e approssimanti in una medesima sillaba dà luogo ai
dittonghi che possono essere ascendenti (approssimante seguita da vocale ac-
centata (5a, b)) o discendenti (vocale accentata seguita da altra vocale (5c, d)):

(5) a. j+V fienile, piacere


b. w+V questo, quasi
c. V+i ai, noi
d. V+u cauto, euro
I SUONIDELLELINGUE 83

Esistono anche dei trittonghicome ad es. miei [mjci]. Come si è già detto,
[j] e [w] nei dittonghi ascendenti sono di norma chiamate semiconsonanti.
mentre [i] e [u] nei dittonghi discendenti sono chiamate semivocali. Le
combinazioni di due vocali appartenenti a sillabe diverse danno luogo ad
uno iato (follia, idea, beato).

3. SUONIE GRAFIA
Anche se si dice comunemente che l'italiano ha una grafia abbastanza coerente,
si possono rilevare diverse incoerenze del sistema grafico: si è infatti appena
visto che nella grafia dell'italiano le due vocali [o] ed [o] sono rappresentate da
un unico simbolo o. Un sistema è coerente quando ad un suono corrisponde un
segno e viceversa, cioè quando si dà una relazione biunivoca del tipo seguente:

(6) suono [bJ


1t
V.
simbolo b

In italiano si riscontrano le seguenti incoerenze del sistema grafico:

a. due simboli diversi per un solo suono:

(7) cuore/quando [k]

b. due suoni diversi scritti con lo stesso simbolo:

(8) sera/rosa [s] [z]


razza/mezzo [ts] [dzJ
cera/cara [tf] [kJ

c. due simboli per un solo suono (9a) e tre simboli per un solo suono (96):

(9) a. legno gn per [Jl]


esci se per [f]
egli gl per [,(]
che eh per [kJ
maghe gh per [g]
mangia gi per [d3J
mancia ci per [tf]
b. aglio gli per [,(]
SCIOCCO sci per (f]

Quelle che seguono sono, oltre a quelle appena viste, le «incoerenze» del-
l'italiano (nella riga superiore vi sono i simboli dell'alfabeto italiano, in quella
84 CAPITOLO4

sottostante la rappresentazione in alfabeto fonetico internazionale dei suoni


così come vengono pronunziati):

(10)
a b c d e f g h i m n
I I /\ I I\ I /\ I /Ì\ I /Ì\
a b tf k d e t f d3 g 0 i i 0 m n ~ lJ

o p q r s u V z
I\ I I I I\ I\ I I\
o o p k r s z t u w V ts dz

Come si vede, il simbolo dell'alfabeto e sta per due suoni diversi, e lo stesso
vale per il simbolo g; il simbolo s sta per il suono sia sordo [s] sia sonoro
[z], il simbolo dell'alfabeto e sta (nella maggior parte delle varietà regionali
dell'italiano) sia per la vocale chiusa [e] che per la vocale aperta [E] e, pa-
rallelamente, il simbolo o sta sia per la vocale chiusa [o] che per la vocale
aperta [o]. Vi sono poi simboli dell'alfabeto che non sempre rappresentano un
suono: il simbolo i può rappresentare la vocale alta anteriore (come in [vino]),
oppure può stare per la semiconsonante palatale (come in [pjano]) ed infine
può essere solo grafico, senza un corrispettivo nella pronuncia (come si vede
in ( 11a, b)); h non corrisponde ad un suono ma ha la funzione di indicare che
la e o la g precedente seguite da e o da i si pronunciano velari e non palatali
(llc). I contrasti in (lld) illustrano il modo in cui l'ortografia italiana rende
conto della differenza di pronuncia di e e g palatali e velari:

(11) ortografiadell'italiano trascrizioneIPA


a. Giorgio [d3ord30] (la i è solo grafica)
b. scienza [Jrntsa] (la i è solo grafica)
c. che/chi [ke]/[ki] (la h non corrisponde ad
un suono)
d. giro/ghiro, getto/ghetto [d3iro]/[giro], [d3Etto]/[getto]
china/Cina,brache/brace [kina]/[tJina], [brake]/[bratJe]

Naturalmente tutte le lingue presentano incongruenze, per esempio in inglese il


suono [p] oltre che con p, può essere reso con gh (hiccough'singhiozzo'), ma la
grafia gh può anche corrispondere al suono [f] come in cough'tosse'. Il suono
[k] può essere scritto come e (car'automobile'), come k (kit 'attrezzatura'),
come eh (character'carattere') o come x (exceed'eccedere'). Il suono [s] può
essere scritto come s (sing 'cantare') o come e (peace'pace'), ecc.

4. TRASCRIZIONEFONETICA

I suoni possono essere semplici, per es. [t, d, k, tJ, dz], o geminati [tt, dd,
kk, tJtJ, dzdz] (si noti che la lunghezza delle affricate può anche essere resa
I SUONIDELLELINGUE 85

raddoppiando solo il primo simbolo: [ttf], [ddz]); la lunghezza (anche voca-


lica) si indica con un segno diacritico simile ai due punti e dunque gli stessi
suoni possono essere trascritti come [t:, d:, k:, t:f, d:z] (qui marcheremo la
lunghezza delle affricate dopo il primo simbolo [t:f], [d:3] e non dopo il
secondo [tf:], [d3:]); [o] ed [a] indicheranno una vocale breve, [o:] ed [a:]
una vocale lunga.
Il simbolo IPA per l'accento è ['] e si colloca prima della sillaba accentata,
e dunque parole come casa,lampione, intimità si trascriveranno nel modo
seguente: ['kaza], [1am'pjone], [intimi 'ta]. Sui monosillabi l'accento può non
essere segnato ([ma], [se]). Si ricordi infine che in IP A non esistono maiuscole
e dunque Carlotta,Genoveffae Asdrubalesi trascriveranno come [kar'bt:a],
[d3eno'vcf:a] e [az'drubale]; dato che non si segnano nemmeno gli apostrofi
l'amicosi trascriverà [la'miko]. In questo manuale trascriveremo gli accenti
soltanto quando avranno rilevanza per l'argomento in esame.
A partire dai simboli dell'IPA, si può trascrivere qualsiasi enunciato di qual-
siasi lingua. Raccomandiamo caldamente allo studente di esercitarsi con la
trascrizione fonetica, anche utilizzando i preziosi materiali appositamente
predisposti sul sito web dedicato al manuale. Daremo qui di seguito tre esempi:
uno italiano (un sonetto di Dante, dato in una trascrizione semplificata, parola
per parola e che non tenta di riprodurre la pronuncia fiorentina (12)), uno
francese (13) ed uno inglese (14):

(12)
italiano trascrizioneIPA
Tanto gentile e tanto onesta pare 'tanto d3en'tile e 'tanto o'm:sta 'pare
La donna mia quand'ella altrui saluta la 'don:a 'mia kwand 'el:a al'trui sa'luta
Ch'ogni lingua devien tremando muta 'b]1:i 'liIJgwade'vjrn tre'mando 'muta
E li occhi no l' ardiscon di guardare e li 'ok:i no lar'diskon di gwar'dare
Ella s'en va sentendosi laudare 'el:a sen va s:en'tcndosi lau'dare
Benignamente d'umiltà vestuta be'niJ1:a'mentedurnil'ta ves'tuta
E par che sia una cosa venuta e 'parke 'sia 'una 'kosa ve'nuta
da ciel in terra a miracol mostrare da 'tJd in 'ter:a 'a mi'rakol mos'trare
Mostrasi sì piacente a chi la mira 'mostrasi si pja'tJrnte a ki la 'mira
Che dà per li occhi una dolcezza al core ke da per li 'ok:i una dol'tJet:sa al 'bre
Che 'ntender no la può chi no la prova ke 'ntrnder no la pwo ki no la 'prova
E par che de la sua labbia si mova e 'parke de la 'sua 'lab:ja si 'mova
un spirito soave e pien d'amore un 'spirito so'ave e pjrn da'more
che va dicendo a l'anima 'sospira' ke va di'tJrndo a 'lanirna sos'pira

(13) /rancese
vous écriviez [vuzckri 'vje] 'voi scrivevate'
des petits tas [dcpti'ta] 'dei piccoli mucchi'
chaque petit os [fakpti'tos] 'ogni piccolo osso'
cette latte [sct'lat] 'questa asticella'

Per l'inglese, sono qui riprodotte due pronunce, una accurata ed una più
veloce [O'Grady et al. 1987, 67]:
86 CAPITOLO4

(14)
accurata veloce
in my room [m ma1 ru:m] [1mmai ru:m] 'nella mia stanza'
I see him [a1si: hlffi] [a1si: j1m] 'Io vedo lui'
shall we [Jalwi] [Jwi] 'ausiliare del futuro e I
pers. pi.'
balloons [balu:nz] [blu:nz] 'palloni'
my advice [ma1.dva1s] [ma1.va1s] '(il) mio consiglio'
best book [best bok] [bes bok] 'libro migliore'
hand me that [ha::ndmi: òa::t] [ha::mi:òa::t] 'allungami quello'
Pam willmiss you [pa::mwtl mis ju:] [pa::mlrmJja] 'Pam sentirà la tua
mancanza'

4.1. Confini

Nelle trascrizioni può essere importante indicare vari tipi di confine: quello di
sillaba, quello di morfema e quello di parola. La sillaba sarà discussa in IV.9.,
il morfema e la parola nel capitolo successivo. Mentre le nozioni di sillaba
e di parola sono nozioni con un ampio contenuto intuitivo (pe, lu, stra,spin
sono sillabe e ieri, ottobre, virtù sono parole), il morfema è una unità che si
ricava attraverso analisi specifiche. Anticipiamo qui che il morfema è l'unità
più piccola dotata di significato in una lingua (v. V.3.) e dunque parole come
veloce-mente,bar-istasono costituite da due morfemi, mentre in-abil-ità,in-
civil-mentesono costituite da tre morfemi.
Il confine di sillaba viene di norma rappresentato con un punto (.). Dunque
alcune delle parole italiane citate qui sopra hanno la seguente divisione in
sillabe:

(15) ie.ri, ot.to.bre, vir.tù, ve.lo.ce.men.te, i.na.bi.li.tà

Il confine di morfema è rappresentato con il simbolo (+). La divisione in


morfemi non coincide, come si vede, con quella in sillabe:

(16) ieri, ottobre, virtù, veloce+mente, bar+ista, in+abil+ità

Il confine di parola, rappresentato con il simbolo (#), marca l'inizio e la fine


della parola:

(17) #ieri#, #ottobre#, #virtù#, #velocemente#, #barista#, #inabilità#

Abitualmente si segna solo il confine che interessa la discussione in corso,


ma nulla impedisce che si marchino contemporaneamente due o più confini:

(18) a. #ot.to.bre# b. #bar+ista#


I SUONIOELLELINGUE 87

In (18a) si sottolinea che si tratta di una parola costituita da tre sillabe, in


(18b) che si tratta di una parola costituita da due morfemi. I confini servono
anche per la formulazione delle regole fonologiche, come si vedrà più avanti,
dato che certe regole possono essere favorite o bloccate a seconda della natura
del confine.

5. FONETICAE FONOLOGIA

Mentre la fonetica si occupa dell'aspetto fisico dei suoni (o «foni»), la fonologia


si occupa della funzione linguistica dei suoni. L'unità di studio della fonetica è
dunque il fono, l'unità di studio della fonologia è il fonema, che verrà definito
nei paragrafi seguenti. In particolare, la fonologia cerca di scoprire:
1) quali sono i fonemi di una data lingua; se cioè a una differenza di suono
corrisponde una differenza di significato. Nel primo dei due esempi italiani
qui sotto, (19a), alla differenza di suono [l]-[r] corrisponde una differenza
di significato, nel secondo caso, (19b), alla differenza di suono [r]-[R] non
corrisponde una differenza di significato (come si vede nella tab. 4.1, [R] rap-
presenta una [r] uvulare, «alla francese», detta comunemente «erre moscia»):

(19) a. [kalo] - [karo]


b. [karo] - [kaRo]

2) come i suoni si combinano insieme; in italiano ci sono suoni come [J], [t]
e [r], ma mentre alcune combinazioni di questi suoni sono ammesse (20a),
altre non lo sono (20b):

(20) a. [tr], [rt]


b. *[Jr], *[Jt]

3) come i suoni si modificano in combinazione. Per esempio, il prefisso


negativo s- (che è costituito da un solo fonema) diventa sonoro se seguito da
un fonema sonoro, come in (21b):

(21) a. s+fortunato ➔ [s]fortunato


b. s+regolato ➔ [z]regolato

Il problema al punto 1) si affronta ricorrendo alla nozione di distribuzione


e alla nozione di coppie minime, come vedremo più avanti in IV.5.2. I pro-
blemi ai punti 2) e 3) vengono descritti dalle «regole fonologiche» (IV.7.).
Prima di affrontare questi temi è però necessario illustrare la nozione di
contesto.
88 CAPITOLO 4
---~---------~----------~-----~

5.1. Contesto

Un suono ha una sua distribuzione. In altre parole, alcuni tipi di contesti o


di posizioni in cui può comparire (e, quindi, un certo numero di contesti o di
posizioni in cui non può comparire). Per esempio, [r] in italiano può comparire
nei seguenti contesti(#, come si è visto in IV.4.1., indica il confine di parola):

(22) distribuzione esempio contesto


tra due vocali ora V_V
dopo [t] tra t_
dopo [p] pruna p_
dopo [b] bravo b-
all'inizio di parola prima di vocale rana #_ V
in posizione finale di parola bar -- #
ecc.

Lo stesso suono, però, non può comparire in altri contesti; ad esempio non
può comparire:

(23) all'inizio di parola prima di consonante *rt... #_C


tra due consonanti *trf C_C
dopo [m] *mr... m_

Classi di suono simili hanno distribuzioni simili: per esempio le occlusive


hanno una distribuzione simile tra loro e diversa, per esempio, dalle liquide.

5.2. Foni e fonemi

Tra i suoni che l'apparato fonatorio può produrre, ogni lingua ne sceglie un
certo numero che usa nel linguaggio articolato: questi suoni saranno allora
detti foni, cioè suoni/rumori del linguaggio articolato. I foni hanno valore
linguistico quando sono distintivi, quando cioè contribuiscono a differenziare
dei significati. Così [p] e [t] non solo sono suoni dell'italiano ma contribui-
scono anche a formare delle coppie minime, cioè coppie di parole che si
differenziano solo per un suono nella stessa posizione:

(24) pare/tare #_V


premo/tremo #_ r
carpa/ carta r__ a
tappo/tatto v_v
ripa/Rita V_V
top/tot _#

Due foni che abbiano valore distintivo sono detti fonemi. Un fonema non
«ha» significato in sé ma contribuisce a differenziare dei significati.
I SUONIOELLELINGUE 89

Un fonema è un segmento fonico che a) ha una funzione distintiva, b) non


può essere scomposto in una successione di segmenti di cui ciascuno abbia
una tale funzione, c) è definito solo dai caratteri che abbiano valore distintivo
(tali caratteri si dicono «pertinenti»). Si consideri un fenomeno come l'aspi-
razione; se diciamo [pane] o [phane] con una leggera aspirazione della [p]
iniziale non si otterrà una coppia minima; le due realizzazioni rimandano allo
stesso identico concetto: l'aspirazione è pertanto possibile in italiano ma non
pertinente (in hinài invece, come si vedrà più sotto, in IV.5.4., l'aspirazione è
pertinente e può produrre coppie minime).
Il fonema è una unità astratta che si realizza in «foni». I fonemi vengono rap-
presentati tra barre oblique (per es. !ti), mentre i foni vengono rappresentati
tra parentesi quadre (per es. [t]). Il fonema è una unità che si colloca ad un
livello astratto, e dunque a livello di langue (o di competenza); i foni si collo-
cano ad un livello «concreto» e dunque a livello di parole (o di esecuzione)
(v. Il.2.1. e Il.2.3.):

(25) Langue/Competenza Fonema /ti


Parole/Esecuzione Fono [t]

Ci sono suoni che sono intercambiabili e suoni che non lo sono. I suoni in-
tercambiabili sono quelli che possono apparire nel medesimo contesto (nelle
stesse posizioni), i suoni non intercambiabili sono quelli che non possono
comparire nel medesimo contesto. Per esempio, /p/ e /bi in italiano sono
intercambiabili in quanto possono comparire nello stesso contesto: in pare
e bare /pi e /bi possono comparire in posizione iniziale di parola prima di
/a/ (#_a).

5.3. Le regole di Trubeckoj

Per stabilire se due foni abbiano valore distintivo e siano quindi fonemi di
una determinata lingua, Trubeckoj [1939], uno dei padri della fonologia, ha
proposto una serie di regole, le più importanti delle quali sono le seguenti:

Prima regola
«Quando due suoni ricorrono nelle medesime posizioni e non possono essere
scambiati fra loro senza con ciò mutare il significato delle parole o renderle
irriconoscibili, allora questi due suoni sono realizzazioni fonetiche di due
diversi fonemi».

(26) varo - faro

[v] e [f] ricorrono nella medesima posizione(#_ V), se li scambiamo otte-


niamo parole con significati diversi, dunque lvi e /f/ sono fonemi dell'italiano.
90 CAPITOLO 4

Secondaregola
«Quando due suoni della stessa lingua compaiono nelle medesime posizioni
e si possono scambiare fra loro senza causare variazione di significato della
parola, questi due suoni sono soltanto varianti fonetiche facoltative, o libere,
di un unico fonema».

(27) rema - Rema

La [r] alveolare e la [R] uvulare in italiano possono essere suoni intercambia-


bili, però - come abbiamo già visto - lo scambio non dà luogo a due parole
con significato diverso. I due suoni non sono due fonemi diversi ma due
varianti (libere) di un solo fonema.

Terzaregola
«Quando due suoni di una lingua, simili dal punto di vista articolatorio, non
ricorrono mai nelle stesse posizioni, essi sono due varianti combinatorie dello
stesso fonema».

(28) naso - ancora [nazo] - [aJJkora]

La [n] alveolare di naso e la [JJ] velare di ancoranon possono ricorrere


nelle medesime posizioni (la [JJ] velare si trova solo e soltanto prima di
consonante velare e la nasale alveolare mai davanti a consonante velare) e
dunque non sono due fonemi diversi ma varianti (combinatorie) dello stesso
fonema.

La linguistica statunitense ha utilizzato invece le nozioni di distribuzione con-


trastiva e distribuzione complementare. Quando due foni possono comparire
nello stesso contesto e si ottengono così due parole di senso diverso, allora
i due foni sono in distribuzione contrastiva ed i due foni sono realizzazioni
di due fonemi diversi. Quando invece due foni non possono mai ricorrere
nello stesso contesto, ma il fono X ricorre in una certa serie di contesti ed il
fono Y ricorre in un'altra serie di contesti (distribuzione complementare),
allora, se questi due foni sono foneticamente simili, si tratta di due allofoni
dello stesso fonema.
Attraverso queste procedure si giunge all'inventario dei fonemi di una lingua.
Tale inventario è diverso da lingua a lingua: si va da lingue con poco più di
una decina di fonemi a lingue che superano il centinaio di fonemi. L'italiano
ne ha circa trenta.

5.4. Allofoni

Si consideri la distribuzione dei suoni [s] e [z] nell'italiano del nord (si leggano
le parole a voce alta e si faccia attenzione alla pronuncia):
I SUONIDELLELINGUE 91

(29) a. [s]era b. lapi[s] c. [s]paurito


[s]emplice note[s] [s]tupido
[s]orriso ribe[s) [skavare
[s]pirito
d. ro[z]a e. [z]dentato
ri[z]o [z]modato
corro[z]o [z]gocciolare
a[z]ola [z]naturato
a[z]ino [z]bagliare

il fono [s] ricorre in posizione iniziale di parola prima di vocale (#_V), in


posizione finale di parola (_#) e prima di consonanti sorde (_C sorde).
Il fono [z] ricorre invece tra due vocali (V_V) e prima di una consonante
sonora (_C sonore). I due foni sono pertanto in distribuzione comple-
mentare e quindi sono due allofoni di uno stesso fonema. In altri termini, [z]
ricorre prima di consonante sonora e tra due vocali, [s] altrove. Si dirà che vi
è un fonema solo /s/ che si realizza come [s] nei contesti (29a-c) ma si realizza
come sonoro (cioè come [z]) nei contesti (29d-e):

(30) /s/ livellofonologico -+ fonemi


~
[s] [z] livellofonetico -+ varianti

Si sarà notato che nella tabella dei suoni dell'italiano in (1) ci sono dei suoni
tra parentesi: la nasale velare [IJ] e la nasale labiodentale [l'!)J.Il primo fono
si trova solo e soltanto nel contesto «prima di consonante velare» (__ k, g),
il secondo si trova solo e soltanto prima di consonanti labiodentali (_f, v),
[n] nasale alveolare si trova in tutti gli altri contesti. La descrizione di questi
fatti può dunque essere la seguente:

(31) /n/
~
[n] [JJ] [T!)]

Gli allofoni sono dunque prevedibili perché sono legati ad un determinato


contesto. Si considerino i seguenti dati dell'inglese (dove la h in esponente
indica che il suono è aspirato e dunque [p] è una occlusiva bilabiale sorda e
[ph] è una occlusiva bilabiale sorda aspirata) [O'Grady 1987):

(32)
[ph] [p] [th] [t] [khJ [k]
pat spat tat cat scat 'colpetto', 'litigio', 'groviglio', 'gatto',
'filare via'
pan span tan stan can scan 'tegame', 'spanna', 'tintarella', 'Stan',
'barattolo', 'scansione'
pin spin rin kin skin 'spillo', 'rotazione', 'lattina', 'stirpe',
'pelle'
pub tub stub cub 'pub', 'tinozza', 'mozzicone', 'cucciolo'
spoon tune coon 'cucchiaio', 'armonia', 'procione'
92 CAPITOLO 4

I due foni [ph] e [p] non sono intercambiabili: [ph] ricorre all'inizio di parola
prima di vocale, mentre [p] ricorre dopo una [s] e prima di vocale. Questi
due suoni, secondo la terza regola di Trubeckoj, sono varianti combinatorie o,
secondo la terminologia statunitense, sono in distribuzione complementare e
dunque sono due allofoni di uno stesso fonema. Stesso discorso vale per [th]
e [t] e per [kh] e [k]. Se si confrontano invece [p] e [t] si vedrà che i due foni
ricorrono nello stesso contesto (dopo sibilante e prima di vocale) e pertanto
sono in distribuzione contrastiva e dunque sono realizzazioni fonetiche di
due fonemi diversi. La soluzione di questo problema sarà quindi la seguente:

vi sono cioè tre fonemi ognuno con due allofoni o varianti combinatorie.
Dati analoghi possono ricevere un'analisi diversa se l'aspirazione è un fattore
pertinente e dunque distintivo, come in hinru:

(34) pal - phaJ 'prendersi cura' - 'lama'


tan - than 'canto' - 'rotolo di stoffa'
kan - khan 'orecchio' - 'mimo'
In hinru [ph] e [p] (così come [th] e [t], [kh] e [k]) sono in distribuzione con-
trastiva: la comparsa dell'uno o dell'altro fono determina un cambiamento
di significato e dunque la soluzione fonemica per questa lingua sarà diversa
da quella dell'inglese:

/t/ fkh/ /k/


I I I
[t] [kh] [k]

In altre parole, in hinru ci sono fonemi aspirati e non aspirati, ognuno dei quali
si realizza in un fono corrispondente. Come si vede la differenza tra hindi: e
inglese non è a livello fonetico ma a livello di inventario dei fonemi. Lo hinru
ha fonemi aspirati, l'inglese no.

5.5. Varianti libere

Se due suoni foneticamente simili si possono trovare nello stesso contesto, ci


sono due possibilità: o danno luogo a due parole con significato diverso o il
significato non cambia. Nel primo caso i due foni sono realizzazioni di due
fonemi diversi, nel secondo caso sono variantilibere. Se dico [phane] con una
leggera aspirazione e [pane] senza aspirazione [p] e [ph] sono varianti libere,
così come se dico [rema] o [Rema] cioè con una [r] vibrante alveolare nel
primo caso e con una [R] uvulare nel secondo. Quello che segue è un quadro
riassuntivo di quanto sin qui detto su come si possono analizzare due suoni
(foneticamente simili):
I SUONIDELLELINGUE 93

(36) suoni intercambiabili


(= si possono trovare nello stesso contesto)

Sì No
cambiano il significato varianti combinatorie
~
Sì No
2 fonemi diversi varianti libere
I I
Es. [pare] [bare] [rema] [Rema] [stanko] [zbat:ere]
[dito] [rito] [pane] [Ifane] [naso] [atJkora]

5.6. Opposizioni fonologiche*

In un sistema ogni unità si definisce in relazione a tutte le altre unità. I fonemi di una
lingua intrattengono tra loro dei rapporti di opposizione: una /6/ funziona in quanto si
oppone e si distingue da /p/, da /k/, ecc. dando luogo a dei contrasti (bare/pare/care,
ecc.). Le opposizioni fonologiche sono state·studiate magistralmente da Trubeckoj.
Ne illustreremo qui solo alcune.
Un'opposizione è bilateralequando la base di comparazione è propria solo dei membri
dell'opposizione (la base di comparazione è la parte uguale di due fonemi), altrimenti
è multilaterale.Si consideri l'opposizione /p/ -/bi in italiano:

(37) /pi /bi


occlusiva occlusiva
bilabiale bilabiale
sorda sonora
questa opposizione è bilaterale perché la base di comparazione (occlusiva bilabiale)
è propria solo di questi due fonemi (non ci sono altri fonemi occlusivi bilabiali nel
sistema dell'italiano). L'opposizione /p/ - /k/ è invece multilaterale:

(38) /pi /k/


occlusiva occlusiva
bilabiale velare
sorda sorda
dato che c'è in italiano almeno un'altra occlusiva sorda (/ti) questa opposizione è
multilaterale. Due fonemi accomunati da un'opposizione bilaterale sono in qualche
modo più «vicini» (si comportano in modo più simile) di quanto non siano due fonemi
che fanno parte di un'opposizione multilaterale.
Ci sono poi opposizioni privativeo non privative.Questo tipo di opposizione riguarda
quelle coppie di fonemi in cui si potrebbe dire che un fonema ha le proprietà x e
l'altro fonema ha tutte le proprietà x più un'altra proprietà. Si consideri ancora la
coppia /p/ - /bi: si potrebbe dire che /p/ è priva della sonorità e per converso che
/6/ ha tutto quello che ha /p/ più la sonorità; in questo caso conviene riformulare
l'opposizione sonoro/sordo come sonoro/non sonoro:

(39) /pi /bi


occlusiva occlusiva
bilabiale bilabiale
non sonora sonora
94 CAPITOLO4

Il termine dell'opposizione che ha una proprietà in più è detto marcato.Dunque


nell'opposizione privativa [p] ~ [b], [b] è il termine marcato.
L'opposizione /p/ ~ /k/ invece non è privativa ma equipollente perché la bilabialità
di /p/ (v. (38)) equivale alla velarità di /k/.
Infine considereremo le opposizioni costantie quelle neutralizzabili.Le opposizioni
costanti sono opposizioni che funzionano in tutti i contesti, mentre quelle neutraliz-
zabili sono caratterizzate dal fatto che in certi contesti non funzionano, sono sospese.
In olandese, per esempio, il contrasto tra /t/ e /d/ funziona in posizione iniziale di
parola (40a), funziona in posizione interna alla parola (406), ma non funziona in
posizione finale di parola (40c). In quest'ultimo contesto si trova solo [t] e mai [d]:

(40) a. tuin/duin [tJ/[dJ #_ 'giardino'/' duna'


b. landen/planten [tJ/[dJ n__ v 'terre'/'piante'
c. land/plant [t]/[t] _# 'terra' /'pianta'

La parola scritta land si pronuncia [lant]. In realtà questa neutralizzazione non


riguarda solo /ti e /d/, ma tutti i contrasti sonoro/non sonoro: quindi, per esempio,
si ha contrasto tra /b/ e /p/ in [b]ier 'birra'/[p]ier 'lombrico', kra[b]en 'grattare'/
kra[p]en 'stretto', ma krab 'granchio' e krap 'stretto' si pronunciano entrambe con
una occlusiva sorda [krap]. Questo fenomeno si trova in diverse lingue come tede-
sco, russo, e in alcuni dialetti dell'Italia settentrionale (cfr. l'alternanza amiklamiga
'amico/amica') ed è noto come «desonorizzazione delle sonore in fine di parola».
La neutralizzazione è dunque il fenomeno per cui in una certa posizione si perde un
contrasto presente in altre posizioni.

6. TRATTIDISTINTIVI*
Le opposizioni privative hanno costituito la base per lo sviluppo di una teoria fono-
logica nota con il nome di binarismo, dovuta a Roman Jakobson. Secondo questa
teoria ogni elemento linguistico si differenzia dagli altri per una serie di scelte binarie
(di tipo «sì/no»).
Ogni fonema può essere analizzato in un insieme di tratti distintivi che definiscono quel
fonema in opposizione a tutti gli altri. Una matrice di tratti distintivi delle consonanti
(41) e delle vocali (42) dell'italiano è la seguente:
(O ~O
(41)
p b f V d ts dz s z k g tf d3 f m n J1 f. r w
sillabico - - - - - -
conson. + + + + + + + + + + + + + + + + + + + + +
sonorante - - + + + + + + + +
sonoro - + - + - + - + - + - + - + - + + + + + + + +
continuo - - + + - - + + - - + + + + + + + + +
nasale - - - - - - - - + + +
stridente - - + + + + + + + + +
laterale - + + -
arretrato - - - - - - + + - - +
anteriore + + + + + + + + + + - - - - - + + - + - +
ril. ritardato - - - - - - + + - - - - + + - - - - - - - - -
, coronale - - - - + + + + + + - - + + + - + - + - +
~
95
------------------------------ I SUONIDELLELINGUE

o c.
(42)
e e a o o u
sillabico + + + + + + +
arrotondato - - - - + + +
alto + - - - - - +
basso - - + + +
arretrato - - - + + + +
Il segno + significa che il fonema in questione ha quel determinato tratto, il segno -
che non ce l'ha; [+continuo] accomuna dunque le consonanti continue, che sono /f,
v, s, z,J, m, n,J1, 1,/..,r, j, w/.
Il «significato» dei tratù è, semplificando molto, il seguente:
[+sillabico]: sono i fonemi che possono fungere da nucleo sillabico (v. IV.9.); [-sil-
labico] i fonemi che non possono fungere da nucleo sillabico. Le consonanti sono
[-sillabico], le vocali sono [+sillabico]. In italiano nasali e liquide sono [-sillabico]
ma in altre lingue possono anche essere [+sillabico] (v. IV.9.).
[+consonantico]: sono i fonemi la cui realizzazione implica un'ostruzione dell'aria.
[+sonorante]: sono i fonemi per la produzione dei quali l'aria fuoriesce dall'apparato
vocale piuttosto liberamente e sono le vocali, le semiconsonanti, le liquide e le nasali.
Le consonanù [-sonorante] sono dette ostruenti.
[+sonoro]: sono i suoni prodotù con vibrazione delle corde vocali.
[+continuo]: sono suoni la cui articolazione può essere protratta nel tempo.
[+nasale]: sono i suoni prodotti con il velo palatino abbassato (il flusso d'aria passa
dunque anche attraverso la cavità nasale).
[+stridente]: suoni la cui produzione comporta una frizione dovuta ali'attrito del
flusso d'aria.
[+laterale]: il flusso d'aria supera l'ostacolo (la lingua) dai due lati.
[+anteriore]: suoni prodotù con un'ostruzione situata nella regione alveolare o davanù
ad essa; quindi labiali, dentali, ecc. sono [+anteriore], postalveolari, palatali, velari
sono [-anteriore].
[+rilascio ritardato]: sono suoni che iniziano con un'articolazione occlusiva e termi-
nano con un'arùcolazione fricaùva.
[+coronale]: suoni prodotù con la parte anteriore della lingua (corona) sollevata al di
sopra della sua posizione neutra. Un suono è [-coronale] se la corona è in posizione
neutra.
[+arrotondato]: sono suoni prodotù con arrotondamento delle labbra.
[+alto]: sono suoni prodotti con la lingua in posizione più alta rispetto alla posizione
di riposo.
[ +basso]: sono suoni prodotti con la lingua in posizione più bassa rispetto alla po-
sizione di riposo.
[ +arretrato]: sono suoni prodotti con il corpo della lingua arretrato rispetto alla
posizione di riposo.
Ogni fonema viene individuato in modo univoco da un fascio di tratù distinùvi. L'uùlità
dei tratti distintivi consiste principalmente nel fatto che il loro impiego permette di
cogliere delle generalizzazioni nei processi fonologici, come si vedrà più sotto.
96 CAPITOLO 4

7. REGOLEFONOLOGICHE*

Una regola fonologica collega una rappresentazione astratta (fonematica) ad una


rappresentazione concreta (fonetica). Una regola è un'istruzione a cambiare una
data unità con un'altra unità in un determinato contesto. Tipicamente, queste regole
hanno la forma seguente:

(43) A-> B/_C

che si legge «A diventa B nel contesto C». L'alternanza amico/amici(da [amiko] si


passa ad [amitji] e cioè una consonante velare sorda [k] diventa una affricata palato-
alveolare sorda [tJ] prima della vocale palatale [i]) potrà essere descritta tramite una
regola come la seguente:

(44) k -> tJ/_+i

che si legge: [k] diventa [tJ] prima di [i] preceduto da un confine di morfema. La
stessa alternanza si trova in forme come [diko]-> [ditJi], [viJJko]-> [vintJi], ecc.
(Questa regola in realtà è sottoposta a molti condizionamenti morfologici che qui
non discuteremo.)

7.1. Parentesi*

È importante disporre di strumenti descrittivi per poter unificare fatti che sono
formalmente un po' diversi tra loro ma che in realtà sono manifestazioni di un unico
fenomeno. In fonologia uno di questi strumenti sono le parentesi. Si considerino i
seguenti dati dell'italiano:

(45) piango -> piangi [pjaJJgo] -> [pjand3i]


dirigo -> dirigi [dirigo] -> [dirid 3i]
Di questi dati si può dar conto tramite la regola seguente (che si legge: una occlusiva
velare sonora diventa affricata palato-alveolare sonora prima di [i] preceduto da
confine di morfema):

(46) g -> dy_+i

Si considerino ora questi altri dati:

(47) correggo -> correggi [kor:Eg:o] -> [cor:Ed:3i]


leggo -> leggi [kg:o] -> [kd:3i]
Di questi dati si può dar conto tramite la regola seguente (che si legge: una occlusiva
velare sonora «geminata» diventa una affricata palato-alveolare sonora «geminata»
prima di [i] preceduto da un confine di morfema):

(48) g: -> d:y_+i

Ora, se si confrontano le due regole in (46) ed in (48) si constata che si tratta eviden-
temente dello «stesso» processo, nel primo caso è una occlusiva velare semplice che
I SUONIDELLELINGUE 97
~----------------------------•--

viene palatalizzata, nel secondo è una occlusiva velare «geminata» che viene palata-
lizzata. Si possono descrivere tutti i dati in (45) e (47) nei termini seguenti: una velare
sonora semplice o geminata viene palatalizzata in una affricata semplice o geminata
prima della vocale palatale [i]:

(49) g(:) _, d(:):y'_+i

Le parentesi tonde indicano dunque facoltatività. Si considerino ora i seguenti dati:

(50) in+possibile -> impossibile 1. n-> m/_+p


in+battibile --+ imbattibile 2. n--+ rnl_+b
in+mangiabile --+ immangiabile 3. n ➔ m/_+m

queste tre regole riguardano evidentemente uno stesso fenomeno e cioè il fatto che il
suono nasale alveolare [n] si assimila (v. IV.8.1.) al punto di articolazione del suono
seguente ([p, b, m] tutte e tre bilabiali). Queste tre regole possono essere unificate in
un'unica regola mediante l'uso delle parentesi graffe che indicano «scelta». La regola
(51) indica che la nasale alveolare /n/ diventa una nasale bilabiale davanti a /p, b, ml
(tre suoni bilabiali):

(51) n-> rnl_ lfI


Le parentesi tonde e graffe possono combinarsi:

(52) a. A_, B/__ C


b. A --+B/D_E
c. A --+B/(D)_
{~}
Le regole (52a) e (526) possono essere unificate nella regola (52c), che si legge: A
diventa B dopo D e prima di C o di E; la presenza di D è facoltativa.
Riprendendo ora in (53a, c) i dati già visti in (45) e (47) ed ampliandoli (536, d), si
vedrà come le parentesi tonde e graffe si possono combinare e come questa combi-
nazione permette di cogliere delle generalizzazioni, che altrimenti ci sfuggirebbero:

(53)
I
a. dirigo -> dirigi a. g _, d:y'_+i
prediligo-> prediligi
b. dirigo -> dirige b'. g --+d:y'__ +e
e. g _, d3/_+
{~}
prediligo-> predilige
c. leggo _, leggi c'. g: --+d::y'_+i
friggo ➔ friggi f. g: _, d:3/ __ + {~}
d. leggo -> legge d'. g: --+d::y'_+e
friggo -> frigge

I dati in (53a) e (536) si descrivono, rispettivamente, con le due regole in (53a') e


(536'). Queste due regole possono essere combinate tramite l'uso della parentesi graffa
in (53e). I dati in (53c) e (53d) si descrivono, rispettivamente, con le regole in (53c') e
(53d'). Queste due regole possono essere combinate tramite l'uso della parentesi graffa
in (530. A loro volta, ed infine, le due regole (53e) e (530 possono essere combinate
tramite l'uso delle parentesi tonde come si vede in (54):
98 CAPITOLO4

(54) g(:) _. d(:)3 I_+ { ~}

(54) si legge così: la velare sonora (semplice o geminata) diventa una affricata palato-
alveolare (semplice o geminata) davanti alle vocali palatali [i] o [e]. Non vi è quindi
bisogno di quattro regole diverse per descrivere i dati sopra esposti, ma solo di una
regola, dato che si tratta dello stesso processo: palatalizzazione della velare (semplice
o geminata) davanti a vocale palatale.

7.2. Regole fonologiche espresse in tratti binari*

Una regola fonologica può essere formulata sia ricorrendo ai fonemi, sia utilizzando
i tratti distintivi. Si considerino i seguenti dati:

(55) [s]torto [z]degno [z]nodare


[s]posto [z]baglio [z]litta
[skarso [z]garbo [z] regolato
[s]fortuna [z]vogliato [z]gelare
Da questi dati si può constatare che la sibilante resta sorda davanti a consonante
sorda [t, p, k, f], ma diventa sonora davanti a consonante sonora, ciò che può essere
espresso tramite la seguente regola:

(56) s -> [z]/_d, b, g, v, n, 1, r, d3

dato che tutti i suoni del contesto della regola [d, b, g, v, n, 1, r, d3] sono sonori, è
inutile menzionare tutti i suoni uno per uno, basta cogliere ciò che hanno in comune,
la sonorità appunto:

(57) s -> [ +sonoro]/__ [+cons]


[+sonoro]

La regola in (57) si legge dunque così: la sibilante non sonora diventa sonora prima
di consonante sonora. Allo stesso modo, per gli esempi in (53), si tratta di cogliere
la generalizzazione per cui una consonante posteriore (o velare) diventa anteriore (o
palatale) davanti ad una vocale anteriore (o palatale). Un sistema di tratti distintivi
rende bene questo processo in modo semplice: con la regola in (58) non si postula
che sia tutto il suono a cambiare ma solo il tratto [± arretrato]:

(58) C _. [-arr]/_ V
[+arr] [-arr]
Questa notazione permette inoltre di evidenziare la causa del cambiamento: le vocali
anteriori ([-arretrato]) esercitano un influsso sul segmento consonantico precedente
rendendolo [-arretrato].

8. FENOMENI
FONOLOGICI
ETIPIDI REGOLE*
Una regola fonologica, come si è visto, è un meccanismo che connette una rappresen-
tazione fonologica ad una rappresentazione fonetica ed opera una serie di cambia-
menti. Tali cambiamenti non sono liberi ma sono soggetti a restrizioni (non vi sono
I SUONIDELLELINGUE 99

regole «pazze» che dicano: cambia tutte le [k] della seconda sillaba in [a], cosa che
cambierebbe parole come vicolo e fico rispettivamente in *viaolo e */iao). Le regole
sono in genere motivate e operano una ristretta serie di cambiamenti; in particolare,
le regole fonologiche possono:

(59) A) cambiare dei tratti [+a]-+ [-a]/_[+~]


B) inserire segmenti 0 -+ A/_B
C) cambiare l'ordine dei segmenti AB-+ BA
D) cancellare segmenti A-+ 0/_B

A) Regole che cambiano i tratti. Sopra abbiamo visto la regola di palatalizzazione


della vdare sonora. Anche la vdare sorda può sottostare ad un processo analogo.

I
(60) a. dico -+ dici a. k-+ tJ/_+i
c. k-+ tf/_+{ ~}
vmco -+ vinci
b. dico -+ dice b'. k-+ tJ/_+e
vinco -+ vince

In (60a, b) vi sono un paio di esempi, in (60a', b') le rispettive regole ed in (60c) la


regola che unifica le due regole precedenti. (60c) si legge: la vdare sorda viene pala-
talizzata prima di [i] o di [e].
Di tipo analogo è anche la regola di sonorizzazione di /s/ in inglese (anche qui vi sono
prima i dati (61a) e poi la regola (616)):

(61) a. cub+s -+ cub[z] 'cuccioli'


pad+s -+ pad[z] 'cuscinetti'
b. sibilante -+ [ +sonoro] I [+cons] __ _
[+son]

B) Regole che inseriscono segmenti. In italiano vi è una sporadica inserzione di [i]


dopo consonante e prima di una parola che inizia con [s] seguita da consonante (ma
si tratta di una regola molto marginale e tipica solo di registri letterari o di varietà
regionali):

(62) a. in storia -+ inistoria


in Spagna -+ inispagna
per scritto -+ per iscritto

b. 0 -+ i/ { ~} _#sC

La regola si legge così: inserisci una [i] dopo una [n] o una [r] finale di parola e una
parola che inizia con una sibilante seguita da una consonante (bisogna menzionare la
«Consonante» nd contesto della regola altrimenti in#solitudine dovrebbe diventare
*inisolitudine).
C) Le regole che cambiano l'ordine dei segmenti sono note col nome di «metatesi».
In italiano non sono regole produttive e si ritrovano quasi esclusivamente nei lapsus
(cimena per cinema) o nei linguaggi patologici, come si vede dai seguenti dati di un
paziente afasico:
100 CAPITOLO4

(63) una pacca vezzata (una vacca pezzata)


le hanno polto i tunti (le hanno tolto i punti)
lo dice l'orospoco (oroscopo)

D) Le cancellazioni sono un fenomeno molto diffuso nelle lingue del mondo. Esem-
plificheremo la cancellazione di vocale e la cancellazione di sillaba. Come sempre, si
considerino dei dati e la regola che li descrive (vocale passa a zero prima di confine
di morfema seguito da vocale):

(64) a. golpe+ista ➔ golpista non *golpeista


vino+aio ➔ vma10 non *vinoaio
fama+oso ➔ famoso non *famaoso

b. V ➔ 0/_ +V
La regola di cancellazione della vocale non agisce però se la vocale è accentata, come
si vede dai dati seguenti:

(65) a. virtù+oso ➔ virtuoso non *virtoso


indù+ista ➔ induista non *indista
blu+astro ➔ bluastro non *blastro

b. V ➔ 0/_ +V
[-accento]

La regola (646) andrà quindi modificata come (656), che si legge: vocale non accen-
tata viene cancellata quando si trova prima di confine di morfema seguito da vocale.
In inglese vi possono essere regole che cancellano la vocale indistinta [a] in posizione
atona come si vede negli esempi seguenti:

(66) pa'te1tou ➔ 'pteitou 'patata'


ta'nfik ➔ 'tnfik 'eccezionale'
pa'li:s ➔ 'pli:s 'polizia'

Questa regola agisce solo in una varietà linguistica di discorso casuale ed informale
non nel linguaggio formale ed accurato. Si tratta di una regola facoltativa e quindi
diversa dalla cancellazione di vocale in italiano vista sopra in (656), che è obbligatoria.

8.1. Assimilazioni

Daremo, a parte, una breve descrizione delle regole di assimilazione perché


sono un fenomeno molto rilevante e naturale in tutte le lingue del mondo.
Le assimilazioni possono essere totali o parziali, progressive o regressive.
Sono totali quando il segmento che causa l'assimilazione rende il segmento
assimilato totalmente uguale a se stesso. Sono parzialise il segmento che causa
l'assimilazione cambia l'altro segmento solo parzialmente (vi sono assimilazioni
al tratto di sonorità, al punto di articolazione o al modo di articolazione).
L'assimilazione è progressiva quando il segmento che causa l'assimilazione
è prima del segmento che si assimila (cioè lo precede), l'assimilazione è
I SUONIDELLELINGUE 101

regressivaquando il segmento che causa l'assimilazione è dopo il segmento


che cambia (cioè lo segue). Vedremo ora delle esemplificazioni di questi tipi
di assimilazione:

• Assimilazione totale regressiva (al punto e modo di articolazione):

(67) i[n+r]agionevole -+ i[rr]agionevole


i[n+l]ogico -+ i[ll]ogico

• Assimilazione parziale regressiva (al punto di articolazione (68a) e al tratto


di sonorità (686)):

(68) a. in+probabile -+ improbabile


in+bevuto -+ imbevuto
b. [s]battere -+ [z]battere
[s]ragionare -+ [z]ragionare

• Assimilazione totale progressiva:

(69) mondo -+ monna (romanesco)


want to -+ wanna 'volere'

• Assimilazione parziale progressiva (il morfema del plurale s si assimila, per


sonorità, al segmento precedente):

( .,
(70) dog+[s] -+ dog[z] cani
head+[s] -+ head[z] 'teste'

Vi sono anche molte assimilazioni di tipo diacronico come le seguenti (che


sono assimilazioni totali regressive), che caratterizzano il passaggio dal latino
all'italiano:

(71) FACTUM -+ fatto


APTUM -+ atto

In tutte le assimilazioni esemplificate fin qui i due segmenti coinvolti sono


adiacenti e questa è la norma per le assimilazioni. Esistono però anche casi
di assimilazione a distanza, nota anche come metafonesi o Umlaut, come si
vede dagli esempi qui sotto:

(72) a. nero -+ niri (umbro meridionale [m::ro]/[ni:ri], 'nero/neri')


b. toso -+ tusi (veneto [to:zo]/[tu:zi], 'ragazzo/ragazzi')

Come si vede, in (72a) la regola morfologica del plurale comporta la sosti-


tuzione della vocale media [o] con la vocale chiusa [i]. Tale sostituzione
provoca la chiusura della vocale media non adiacente [e] nella vocale chiusa
102 CAPITOLO4
-------------------------------~

[i]. Analogamente, in (726), la sostituzione della vocale finale media [o] con
la vocale chiusa [i] comporta la chiusura della vocale media non adiacente
[o] nella vocale chiusa [u].
Ed infine, è un tipo di assimilazione a distanza quella che viene chiamata armo-
nia vocalica,che si ritrova in lingue come il turco o l'ungherese e che riguarda
il fenomeno per cui le vocali entro un determinato dominio, tipicamente la
parola, si assimilano per un particolare tratto o per più tratti. Nell'esempio
turco che segue, la vocale del suffisso flessivo (plurale) si «armonizza» alla
vocale più vicina della parola cui si aggiunge:

(73) adam + lar 'uomo+ PI'


ev + ler 'casa+ PI'

La differenza tra metafonesi e armonia vocalica sta nel fatto che nella metafo-
nesi sono le vocali postoniche ad influenzare le vocali toniche, mentre nell' ar-
monia vocalica sono le vocali toniche che influenzano le vocali postoniche.
La dissimilazione invece è il fenomeno contrario (ed anche più raro): un
segmento cambia tratti per distinguersi da segmenti del suo contesto:

(74) lat. PEREGRINUS ➔ pellegrino (r...r ➔ ll...r)


ebbene ➔ embè (bb ➔ mb)

Accenneremo infine a un tipo di regole particolari, dette regole sandhi(dall'an-


tico indiano 'fusione'), che sono quelle regole che di solito si manifestano tra
la fine di una parola e l'inizio della parola seguente. Una di queste regole è
il cosiddetto raddoppiamento fonosintattico che caratterizza per esempio
il toscano o il romano (che/fai?) e che consiste nel raddoppiamento della
consonante della parola seguente a fronte di una vocale tonica finale nella
parola precedente. Un'altra di queste regole è la cosiddetta liaisondel francese
(/esamis ➔ [leza'mi]) che consiste nella realizzazione sonora della sibilante
(che normalmente è solo grafica) davanti ad una parola che inizia per vocale.

9. LASILLABA
La sillaba è stata definita in vari modi nel corso del tempo: sostanzialmente vi
sono definizioni di tipo fonetico e di tipo fonologico. Una definizione fonetica
è la seguente: «la sillaba rappresenta un'unità prosodica costituita da uno o
più foni agglomerati intorno a un picco di intensità» [Albano Leoni e Maturi
1998, 70]. Nella parola [pata:ta] si osservano tre picchi in corrispondenza
delle tre vocali e tre avvallamenti in corrispondenza delle tre consonanti. Ad
ogni «picco» corrisponde una sillaba: [pa.ta.ta]. Gli approcci fonologici alla
sillaba assumono in genere che vi sia una correlazione tra sillaba e parola e
che le restrizioni sulle sequenze possibili all'inizio di sillaba valgano anche per
l'inizio di parola e che lo stesso avvenga per le restrizioni sulla fine della parola
I SUONIDELLELINGUE 103

e della sillaba. La sillaba, in quest'ottica, è vista come una unità prosodica di


organizzazione dei suoni.
La sillaba minima è costituita, in italiano, da una vocale, il nucleo sillabico.
Il nucleo può essere preceduto da un attacco e seguito da una coda. Nucleo
più coda costituiscono la rima. La sillaba costituita da un attacco sillabico e
da un nucleo vocalico (consonante+ vocale= CV) sembra essere il tipo di
sillaba più diffuso e comune a tutte le lingue.
La sillaba dunque (simbolizzata con sigma, o) ha una sua struttura interna
che possiamo rappresentare nel modo seguente:

(75) o
~
attacco
nma
~
nucleo coda
a (a)
m a (ma)
c o n (con-durre)
tr o Il (tron-co)
a n (an-tico)

L'attacco può dunque essere costituito da una o più consonanti. Il nucleo può
essere costituito da un dittongo (pie-de).
Una sillaba è aperta o libera se è priva di coda e finisce dunque in vocale (a,
ma) altrimenti è detta chiusa o implicata (con, an).
Vi sono lingue in cui il nucleo può essere costituito da sonoranti come [r, 1,n,
m]: è il caso dello sloveno Trst [trst] 'Trieste' o dell'inglese americano bottle
[bot:JJ'bottiglia' o garden [ga:dt?-]'giardino' dove il nucleo sillabico nel primo
caso è la liquida e nel secondo la nasale, o ancora dello svedese vatten 'acqua'
[vati;i]o del tedesco haben [ha:bn;i] 'avere'.
Come si è detto, il componente obbligatoriamente presente in una sillaba
è il nucleo: in italiano attacco e coda possono esserci o non esserci. Che la
sillaba abbia struttura interna lo si può verificare dal fatto che nella cosiddetta
aplologia (cancellazione di sillaba in composizione) la regola tiene conto solo
di una parte della sillaba stessa:

(76) a. morfo-fonemico morfonemico


. . ➔
(fo+fo ➔ fo)
ero1co-com1co ➔ eroicomico (co+co ➔ co)
b. cavalli leggeri ➔ cavalleggeri (li+leg ➔ leg)
esente+tasse ➔ esentasse (te+ta ➔ ta)
ostrica+cultura ➔ ostricultura (ca+cul ➔ cul)

Dagli esempi in (76a) sembrerebbe che la regola dell'aplologia sia formulabile


nei termini seguenti: si cancelli la sillaba finale di parola prima di una parola
che inizia con una sillaba uguale (co#co ➔ #co); in realtà, come si vede dagli
104 (APITO_L_0_4
___________________________ ____,

esempi in (76b), la regola tiene conto solo dell'attacco sillabico (te#ta ➔ ta) e
va formulata diversamente: si cancelli la sillaba finale di parola prima di una
parola che inizia con una sillaba con attacco uguale.

10. DALLAPAROLAAITRAmDISTINTIVI

Prima di passare a fatti di tipo soprasegmentale, si consideri il seguente schema


riassuntivo dei vari livelli di analisi dalla parola ai tratti distintivi:

(77)

livello della parola cane

livello della sillaba

livello dei fonemi k


~ ---------------
ca

a
~
Il
ne

e
(o livello segmentale)

livello dei tratti distintivi


-sili
-ant
+sili l
[+arretr
-sili +sili
+cont [ -arretr
l
-son +nas

11. FAffi SOPRASEGMENTALI

Come si è appena visto, la parola [kane] è costituita da quattro segmenti


(ovvero da quattro fonemi): /k/ /a/ /n/ /e/. La fonologia basata sui segmenti
è di tipo segmentale. Vi sono però fenomeni fonologici che non possono
essere attribuiti ad un segmento o che lo oltrepassano e che sono detti per
l'appunto soprasegmentali.Considereremo qui la lunghezza, l'accento, l'in-
tonazione e il tono.

11.1. Lunghezza

La lunghezzaè relativa alla durata temporale con cui vengono realizzati i suoni.
Non tutti i suoni hanno la stessa durata. Per esempio - di norma - le vocali
alte sono più brevi delle vocali basse. Una fricativa sonora è più lunga di una
occlusiva sorda. Una vocale tonica (con accento) non finale e in sillaba aperta
è più lunga di una vocale atona (senza accento) in sillaba aperta o chiusa che
sia: si confrontino le due [a] di [ka:za]: la prima è più lunga della seconda.
In certe lingue la lunghezza vocalica assume valore distintivo (come ad es.
in latino, dove si trovano coppie minime come lévisllevis 'leggero/levigato',
p6puluslpopulus 'popolo/pioppo').
I SUONIDELLELINGUE 105

In italiano, la lunghezza vocalica non è distintiva: non vi sono due parole


con significati diversi che si differenzino solo per la presenza di una vocale
lunga o breve. In italiano, invece, è la lunghezza consonantica ad essere
distintiva:

(78) fato pale pena caro


fatto palle penna carro

Rispetto alla lunghezza, le lingue del mondo possono avere diverse opzioni.
Per esempio in finlandese è distintiva sia la lunghezza consonantica che quella
vocalica:

(79) lunghezzaconsonantica lunghezzavocalica


kuka 'chi' sata 'cento'
kukka 'fiore saata 'accompagna (imperativo)'
sataa 'piove'

Lunghezza consonantica e vocalica possono essere compresenti e dare luogo


a «triplette» come la seguente:

(80) muta 'melma'


mutta 'ma'
muutta 'traslocare'

In olandese è distintiva solo la lunghezza vocalica:

(81) maan - man 'luna' - 'uomo'


door-dor 'attraverso' - 'secco'
poot- pot 'zampa' - 'pentola'
veer-ver 'traghetto' - 'lontano'

Infine esistono lingue, come il greco moderno, dove non è distintiva né la


lunghezza consonantica né la lunghezza vocalica. La lunghezza può essere
usata a scopo espressivo o enfatico (una coda luuungaaa...).

11.2. Accento

L'accento è una proprietà delle sillabe e non di singoli segmenti. Una sillaba
tonica è più prominente di una sillaba atona perché è realizzata con maggiore
forza o intensità di una sillaba atona. L'accento può essere contrastivo, come
accade in italiano:

(82) 'ankora/an'kora
'kapito/ka'pito/kapi'to
'kapitano/kapi' tano/kapita' no
In altre parole, si può considerare l'accento come un «fonema» anche se di tipo
un po' speciale. I fonemi- come abbiamo detto - si possono considerare come
dei segmenti [k-a-n-e], mentre l'accento è un fenomeno soprasegmentale.
Dagli esempi sopra citati, però, si può dedurre che in italiano l'accento non
è prevedibile su basi esclusivamente fonologiche: non vi è una regola per
prevedere dove comparirà l'accento; infatti nelle parole viste sopra non vi è
alcun contesto «speciale» per l'accento: su una parola di tre sillabe può essere
sia sulla terzultima, sia sulla penultima, sia sull'ultima. In realtà vi possono
essere contesti in base ai quali si può prevedere la posizione dell'accento, ma
sono contesti morfologici, come ad es. la terza persona singolare del passato
remoto della prima coniugazione, che richiede accento sull'ultima vocale,
amò, cantò,lodò.
Vi sono lingue che hanno accento fisso e lingue che hanno accento non fisso:
in ungherese cade sempre sulla prima sillaba, in francese l'accento cade sem-
pre sull'ultima sillaba (si faccia attenzione alla pronuncia e non alla grafia):
(83) fenetre, camion, solitude, portenfant
Solo nelle lingue con accento non fisso l'accento può avere funzione distintiva.
In inglese (e, come si è visto, in italiano) l'accento è libero e può dar luogo
a coppie minime:
(84) verbo nome
kan'trrest 'kantrrest 'contrastare' - 'contrasto'
,m'po:t '1mpo:t 'importare' - 'importazione'
to:'mcnt 'to:mcnt 'tormentare' - 'tormento'
Una parola può avere più di un accento. Per esempio, in capostazionevi è un
accento primario sulla o di [stat'tsjone] ed uno secondario sulla a di [,kapo]:
i due tipi di accento, come si vede, sono marcati diversamente (in apice il
primario ed in pedice il secondario).

11.3. Intonazione

L'altezza dei suoni non è uniforme: ci sono dei picchi e degli awallamenti che
producono un effetto percettivo di tipo melodico che è quello che si chiama
intonazione. L'intonazione è chiamata appunto «melodia» o curva melodica
o contorno intonativo. L'intonazione ha grande rilevanza sintattica, come si
può capire leggendo ad alta voce tipi diversi di frase come una dichiarativa
(85a) e la corrispondente interrogativa (856):
(85) a. Piermarco diverte gli amici con le sue storie incredibili
b. diverte gli amici con le sue storie incredibili Piermarco?
Le dichiarative hanno una curva melodica con andamento finale discendente,
mentre le interrogative hanno un andamento finale ascendente. Si osservi
che in (856) l'interrogativa è ottenuta sia spostando il soggetto (e dunque
I SUONIDELLELINGUE 107

«sintatticamente») sia cambiando la curva melodica rispetto alla dichiarativa.


In italiano è possibile formare le interrogative solo attraverso l'intonazione
(Piermarco[pausa] diverte gli amià con le sue storie incredibili?).
Si osservi che la punteggiatura offre un sussidio molto limitato per decifrare le
curve melodiche degli enunciati: vengono infatti segnalate solo l'interrogativa
con il punto di domanda e l'imperativa o l'esclamativa con il punto esclamativo.

11.4. Tono

Una sillaba può essere pronunciata con altezze di tono diverse: la parola ma,
in italiano, può essere realizzata con una pronuncia molto «bassa» o con
una pronuncia «alta». In italiano però a queste due differenti pronunce non
corrisponde un cambiamento di significato. Vi sono lingue invece dove a
differenza di «altezza» di pronuncia corrispondono variazioni di significato.
Queste lingue sono dette tonali. Il cinese mandarino è una lingua tonale o a
toni. In questa lingua la stessa sillaba può essere realizzata con quattro toni
diversi e ad ogni realizzazione diversa corrisponde un significato diverso:

(86) sillaba tono significato rappresentazione


grafica
ma 1. alto costante madre 7
ma 2. alto ascendente lino ~
ma 3. basso discendente cavallo 'v1
ma 4. alto discendente insultare \J
Il sistema dei toni è molto più complesso di quanto non si possa dire qui (ad
esempio, il terzo tono ha delle varianti a seconda che sia realizzato in isola-
mento o prima di altre sillabe, esiste anche un tono «neutro», ci sono varietà
del cinese, come il cantonese, che hanno ben otto toni diversi, e così via).
L'altezza tonale è del tutto relativa: in termini assoluti, infatti, l'altezza dipende
da molte variabili extralinguistiche come sesso, età, ecc. per cui una bambina
ha in genere, in termini assoluti, toni più alti di quelli di un maschio adulto.
Ciò che è pertinente dunque è l'altezza relativa a cui vengono pronunciate
le varie sillabe. Si osservi infine che «sbagliare un tono» in una lingua tonale
è come sbagliare una consonante in una lingua non tonale, cioè come dire
dune invece di/une. Le lingue tonali sono molto numerose e si raggruppano
in tre grandi aree linguistiche: lingue amerindie, la maggior parte delle lingue
africane e quasi tutte le lingue della famiglia sino-tibetana.

12. ILSISTEMA
FONOLOGICO
DELL'INGLESE*
Diamo qui di seguito, e senza commentarla ulteriormente, una tabella del sistema
fonologicodell'ingleseseguita da alcuni esempi. I suoni qui descritti rappresentano
un compromessotra l'ingleseamericanoe l'inglesebritannico. Il sistemaconsonantico
108 CAPITO_L_o_4~~~----------------~-~--~-------'

inglese è diverso da quello italiano come si potrà constatare confrontando questa


tabella con quella in (1). Si noti qui soltanto che in inglese la nasale velare [IJ] è un
fonema (dato che vi sono coppie minime come [9r1J]'cosa' e [9rn] 'sottile', scritti
rispettivamente thinglthin) mentre in italiano è una variante combinatoria. Dopo la
tabella dei suoni dell'inglese (87), vengono dati degli esempi per ciascun suono (88):

(87)
labiali labiodent. interdentali alveolari palato-alveo!. velari glottidali
occlusive p b d k g (7)
fricative f V e ò s z J 3 h
affricate tJ d3
nasali m n lJ
laterali I
(mono)vibranti r
semiconsonanti w

(88)
Simbolo Esempi
[p] pit, tip, appear, hiccough
[b] hall, globe, tab, bubble
[t] tag, pat, stick, pterodactyl
[d] dip, card, drop, loved
[k] kit, scoot, car, exceed, character
[g] guard, longer, designate, Pittsburgh
[7] Batman, Manhattan
[f] foot, coffee, carafe, philosophy, laugh
[v] vest, dove, average
[9] through, wrath, thistle, teeth
[ò] the, mother, either, teethe
[s] soap, psychology, descent, peace
[z] zip, roads, kisses, design
[J] shy, shock, mission, nation, glacial, sure
[3] measure, vision, casualty
[h] who, hat, rehash, hole
[tJ] choke, match, feature •
[d3] judge, George, region
[m] moose, lamb, smack, amnesty
[n] nap, design, snow, mnemonic, know,
[IJ] sing, thing, finger, singer, ankie
[I] leaf, feel, Lloyd, mild, applaud
[r] reef, fear, Harris, prune, carp
[j] you, beautiful, feud, yell
[w] water, weapon, which, whale
Il simbolo [7] indica il cosiddetto «colpo di glottide» o, più propriamente, !'«occlusiva
glottidale». In italiano, come in inglese, tale suono non ha valore fonematico: può
essere utilizzato per «scandire bene» le parole, ad esempio in una frase come «Ho
detto la ama [la?ama], non lama [lama]».
Il vocalismo dell'inglese è più complesso di quello dell'italiano e vede la presenza di
vocali centrali medie (come [a]) che non esistono in italiano standard. Il sistemavo-
calico varia molto non solo tra l'inglese britannico e l'americano, ma anche all'interno
di queste due varietà. Seguiremo qui in parte Radford et al. [1999]:
I SUONIDELLELINGUE 109

(89)
anteriori centrali posteriori
alte 1: u:
u
medie e e: a ,\ J:
re
basse a:a
Le vocali i ed u sono realizzate con un'articolazione più «tesa» mentre I ed u sono
realizzate con un'articolazione più «rilassata». L'opposizione teso/rilassato distingue
le vocali tese [i, e, u, o] dalle vocali rilassate [1,u, e, ;i]:
(90)
[i:] alta, anteriore, tesa, non beat, we, bdieve, keep, people,
arrotondata money
[1] medio-alta, anteriore, rilassata, bit, pin, tip, fish, business
non arrotondata
[e] media, anteriore, tesa, non bait, reign, great, they, gauge
arrotondata
[e:] media, anteriore, rilassata, non bet, reception, says, guest, bury
arrotondata
[re] medio-bassa, anteriore, rilassata, bat, man, gas, anger, rally
non arrotondata
[u:] alta, posteriore, tesa, arrotondata boot, who, sewer, through
[o] alta, posteriore, rilassata, put, butcher, could, boogie-woogie
arrotondata
[J:] media, posteriore, rilassata, bought, caught, wrong, stalk, core
arrotondata
[A] media, rilassata, posteriore, but, cut, some, another, oven
non arrotondata
[a:] bassa, posteriore, non arrotondata card, master, heart
[a] bassa, posteriore, arrotondata cod, pot, what, rock
[a] media, centrale, non arrotondata among, sofa

L'inglese esibisce anche diversi dittonghi: [au] low, [ao] loud, [a1]light, [el] lane, [J1]
loin, [u:] loon, [i:] lean, [1a] leer, [ca] lair, [oa] Iure.

13. DIVERSITÀ
FONOLOGICA
TRALELINGUE*
Le lingue differiscono tra loro sia per l'inventario dei fonemi e degli allofoni che
per le regole fonologiche. Si metta a confronto il sistema consonantico dell'inglese e
quello dell'italiano.
Le occlusive sono sei in entrambi i sistemi [p, b, t, d, k, g]. Si noti però un fatto arti-
colatorio molto importante per chi impara l'inglese: [t] e [d] sono dentali in italiano
ed alveolari in inglese, differiscono dunque quanto al punto di articolazione. Vi sono
più fricative in inglese che in italiano (le interdentali [8] [ò], la glottidale [h]). Le
affricate sono quattro in italiano [ts, dz, tf, d3], due in inglese [tj] e [d3]. Nell'inglese
americano la [tt] di una parola come better 'migliore' è pronunciata con un suono
vicino alla [d], in IPA [r], chiamato/lap.
Per quanto riguarda le nasali, entrambe le lingue hanno [m] e [n], ma l'italiano ha
la nasale palatale (r) che l'inglese non _ha,ed inoltre l'inglese - come si è già detto
110 CAPITOLO4

sopra - ha il fonema velare [!J] che per l'italiano è solo una variante combinatoria.
L'italiano ha due fonemi laterali, [l] e [,(J, laddove l'inglese ha solo [l], ma l'inglese ha
due varianti di [l]: una, detta «chiara», che ricorre prima di vocali anteriori come /i/
o hl, ed una detta «oscura» (o velarizzata), che ricorre davanti a vocali non anteriori.
Infine polivibranti e semiconsonanti sono simili.
Il francese ha suoni uvulari, come la tipica [R] parigina, ed anche l'arabo ha suoni
uvulari come [q].
Per quel che riguarda le vocali, vi sono lingue come il francese che fanno un uso
estensivo di vocali nasali (ad es. bien [bji:], dans [do] bon (65]) e di vocali anteriori
arrotondate, come ad es. la [y] di lune 'luna' o del lombardo luna (che è un suono
prodotto nella stessa posizione della [i], ma con le labbra arrotondate).
Per quel che riguarda le regole fonologiche, si può osservare che vi sono regole che
esistono in una lingua e non in un'altra o regole che funzionano in modo diverso a
seconda della lingua.
Una regola del primo tipo è la regola di assimilazione della sibilante. In italiano la
sibilante si assimila in sonorità al fonema successivo:

(91) [s]+mangiucchiare ➔ [z]mangiucchiare


[s]+venturato ➔ [z]venturato

L'inglese, al contrario, non ha questa regola e parole come smoke 'fumo' o come smile
'sorriso' si pronunciano [s]moke, [s]mile con la sibilante sorda (si noti che un italiano
che apprende l'inglese tende a trasportare le proprie abitudini articolatorie e quindi
a dire erroneamente [z]moke, [z]mile, ecc.).

NOTA STORICO-BIBLIOGRAFICA

ell'antichità i fenomeni fonetici furono analizzati approfonditamente dai grammatici indiani,


tanto che alcuni dei termini da loro introdotti, come sandhi,fanno tuttora parte del lessico tec-
nico della disciplina. Al contrario, la linguistica occidentale dedicò scarsa attenzione all'aspetto
fonico del linguaggio fin verso la metà dell'Ottocento. Tra i primi studiosi di fonetica possiamo
ricordare R. von Raumer (1815-1876), H. Sweet (1845-1912), E. Sievers (1850-1932), W. Vietor
(1850-1918), P. Passy (1859-1940), D. Jones (1881-1967). A questi studiosi e ad altri loro con-
temporanei risalgono le classificazioni dei suoni ancora oggi in uso. Il sistema di trascrizione
fonetica IPA fu presentato per la prima volta nel 1888.
Il termine fonema fu coniato nel 1873 da un oscuro fonetista francese, A. Dufriche-Desgenettes,
che tuttavia non lo intendeva nel senso odierno, cioè come entità astratta contrapposta ali'entità
concreta «suono» o «fono», ma semplicemente nel senso di «suono del linguaggio». La distin-
zione tra fonema e fono e quella tra fonetica e fonologia sono entrate a far parte dei concetti
fondamentali della linguistica contemporanea a partire da Trubeckoj [1939], ma esse erano già
state adombrate, sia pure con un'altra terminologia, dal linguista russo-polacco J. Baudouin de
Courtenay (1845-1929). Le ricerche di Trubeckoj e degli altri linguistidella «scuola di Praga»
(R.Jakobson, A. Martinet, e altri), condotte nel periodo tra le due guerre mondiali, furono
comunque quelle decisive per lo sviluppo della fonologia.
L'analisi dei suoni del linguaggio in tratti binari (binarismo) fu elaborata da J akobson dopo il
suo trasferimento negli Stati Uniti negli anni Quaranta del Novecento, e trovò la sua formula-
zione sistematica nella parte I diJakobson e Halle [1956]. Negli anni successivi, il binarismo
~--------------------------~ I SUONIDELLELINGUE 111

ha conosciuto diversi sviluppi e diverse versioni. Quella presentata qui è sostanzialmente la


versione che si trova in Chomsky e Halle [1968], testo che tra l'altro utilizza in modo essenziale
il concetto di regola fonologica. Per l'italiano, v. Muljaè'ié [1969].
Quest'ultimo volume ha dato l'impulso ad una messe di studi noti con il nome di fonologia
generativa, in quanto analizzano il lato fonologico del linguaggio nella prospettiva di ricerca
propria della grammatica generativa. Molti di questi studi vertono sui fenomeni soprasegmentali,
per la cui trattazione sono state sviluppate diverse ipotesi teoriche, tuttora in corso di discussione
e di approfondimento.
Per la fonologia teorica (soprattutto relativamente ai fenomeni soprasegmentali) e la fonologia
dell'italiano si veda oggi Nespor [1993] e Nespor e Bafile [2008]; per la fonetica si vedano Albano
Leoni e Maturi [1998], Canepari [1979], Mioni [2002] e Maturi [2010]. Per un confronto tra
la fonologia delle varie lingue europee v. Mioni [1973] e De Dominicis [1997].

DOMANDE

1. Come si classifica un suono?


2. Quali sono le occlusive dell'italiano?
3. Quali sono e come si definiscono le affricate dell'italiano?
4. Quali sono le vocali anteriori dell'italiano?
5. Sai scrivere quattro parole contenenti semivocali?
6. Cos'è una coppia minima?
7. Che differenza c'è tra un fono e un fonema?
8. Come definiresti le varianti libere e le varianti combinatorie?
9. Sapresti fare un esempio di regola fonologica?
10. Quanti tipi di assimilazione conosci?
Lastrutturadelle parole:
morfologia

In questocapitolo si analizzerannole nozioni di parola,di morfema, di parola complessa


e le variazioni morfologiche cui le parole possonosottostare:flessione,prefissazione,
suffissazione,composizione.

INTRODUZIONE

Lo studio delle parole e delle varie forme che la parola può assumere è la
morfologia. Le parole (che rappresenteremo tra parentesi quadre) possono
essere semplici [capo] o complesse. Le parole complesse sono le parole
derivate (che possono essere prefissate [ex-capo] o suffissate [capetto]) e
le parole composte [capostazione]. Sia le parole semplici che le parole com-
plesse possono poi essere flesse (per genere, numero, ecc.): [capi], [ex-capi],
[capetti], [capistazione].
Una parola semplice non ha struttura interna [capo], mentre le parole com-
plesse hanno struttura interna [[capo]+ [stazione]], [[capo] +etto].
La morfologia è tradizionalmente concepita come lo studio della struttura
interna delle parole. Oggi alla morfologia è affidato un compito più complesso:
di dar conto di tutte le conoscenze che un parlante ha delle parole della pro-
pria lingua, di dire cioè se una parola è ben formata o meno, se è una parola
possibile o non possibile, ecc. (II.3 .2.), a quale categoria lessicale appartiene,
come si può combinare con prefissi e suffissi o con altre parole. Ed inoltre, il
parlante conosce il genere delle parole, sa come formare forme flesse e a che
grado di complessità può giungere una parola complessa e molte altre cose
ancora, come si vedrà nei paragrafi seguenti.
114 CAPITOLO5
I

1. LANOZIONEDI PAROLA

Le parole sono unità del linguaggio umano istintivamente presenti alla consa-
pevolezza dei parlanti. Quasi quotidianamente abbiamo a che fare con parole
(basti pensare anche ai numerosi modi di dire: paroled'oro,/atti, non parole,
un uomo di pocheparole,rimaneresenzaparole,ecc.).
Ogni parlante di italiano dirà che nella frase Il ragazzoha dato una rosaa
Mariavi sono otto parole o che nella frase Telefonamidomanisera,diròio al
capostazionedi/ermareil trenove ne sono undici e dunque - almeno a livello
di rappresentazione grafica - in italiano non sembrano esservi problemi per
l'identificazione delle «parole».
Se però traduciamo la prima frase in latino (puer dedit rosamMariae),le
parole da otto diventano quattro. C'è pertanto un primo problema: ciò che
conta come «parola» in una lingua non è detto che valga anche per altre
lingue. Per esempio, nel confronto tra italiano e latino si osserva che, nella
frase appena data sopra, a due parole dell'italiano corrisponde sempre una
parola sola del latino:

(1) italiano latino


il ragazzo puer
ha dato dedit
una rosa rosam
a Maria Mariae

Anche la diversità tra le lingue può rendere difficoltoso definire la nozione di


«parola» una volta per tutte. Basta confrontare le parole qui sotto: le prime
due sono parole dell'italiano (2a, b), una massimamente corta ed una massima-
mente lunga, le successive tre (2c, d, e) sono parole complesse rispettivamente
del tedesco (2c), dell'inglese (2d), dell'olandese (2e) (cioè lingue germaniche),
che hanno la possibilità di costruire parole composte particolarmente lunghe,
e l'ultima (2f) una parola eschimese che sembra assomigliare più ad una frase
che ad una parola semplice (v. sopra III.3.1.):

(2) a. a
b. precipitevolissimevolmente
c. Donaudampfschiffahrtgesellschaftkapitanwitwe
'vedova del capitano della società di navigazione di battelli a vapore
del Danubio'
d. student filmsociety committee scandal inquiry
'inchiesta sullo scandalo della commissione della società del cinema
studentesco'
e. brandweerladderwagenknipperlichtinstallatiemonteurs
'meccanici per l'installazione di luci lampeggianti per le scale della
macchina dei pompieri'
f. iqalussuarniariartuqqusaagaluaqaagunnuuq
'è stato detto che abbiamo avuto l'ordine tassativo di andare fuori a
pescare pescecani'
I LASTRUTTURADELLEPAROLE:MORFOLOGIA 115

I criteri proposti per definire una parola sono stati molti, ma quasi tutti - di
fronte alla grande varietà delle lingue del mondo e di fronte a problemi interni
ad ogni lingua - si sono rivelati alla lunga inadeguati. Per contare le parole
delle frasi citate sopra, di fatto, abbiamo utilizzato il criterio seguente: è parola
ciò che è compreso tra due spazi bianchi.
Questa definizione di parola è intuitivamente semplice e sembra molto efficace,
ma ha un limite di applicazione in quanto può funzionare solo per lingue dotate
di scrittura e non per lingue che ne sono sprovviste: gli «spazi bianchi» sono
evidentemente un criterio ortografico. Il somalo, ad esempio, non ha avuto un
sistema di scrittura fino al 1972, ma non per questo prima di quella data era
privo di parole. Vi sono poi lingue- come il cinese-dove esistono parole com-
poste da due caratteri, a volte separati da un puntino (ad es. mii· ma che significa
'mamma'). Infine, non sempre la grafia è coerente: per esempio nave traghetto
si scrive a volte come due parole separate, a volte con un trattino in mezzo.
Un'altra possibilità è definire «parole» quelle unità della lingua che possono
essere usate da sole, che possono, cioè, da sole formare un enunciato, come
Elvira (in risposta a chi è?), domani in risposta a quando?, ecc. Ma questo
criterio escluderebbe le parole grammaticali come di, e, ecc. che di norma
non possono da sole costituire un enunciato. Vi sono stati naturalmente altri
tentativi di definizione della parola, ma sinora tutte le proposte avanzate
hanno rivelato delle debolezze.
onostante le difficoltà, non si può abbandonare la nozione di parola, dato
che le si è sempre riconosciuta un'importante realtà psicologica. Le soluzioni
contemporanee a questo problema si fondano sul riconoscimento che non è
possibile definire la nozione di parola una volta per tutte. Si possono distin-
guere varie accezioni di «parola», a seconda del punto di vista a partire dal
quale si considera questo «oggetto». Così, la nozione di parola fonologica
(tutto ciò che si raggruppa attorno ad un accento primario) non coincide con
la nozione di parola morfologicao di parola sintattica:da un punto di vista
fonologico, per esempio, telefonami è una parola sola, ma dal punto di vista
sintattico è costituita da più unità(= telefona a me), una parola composta come
capostazione invece è una parola sola da un punto di vista sintattico (si tratta
di un nome maschile singolare e questo è quanto è rilevante per la sintassi),
ma dal punto di vista fonologico è forse costituita da due unità separate, dato
che ha due accenti [, kapostat'tsjone].
Un criterio operativo abbastanza efficace è di considerare «parola» quelle
unità che non possono essere «interrotte», o meglio al cui interno non si può
inserire dell'altro «materiale» linguistico. Così le due espressioni lat. sentis e
it. tu senti - anche se a un qualche livello possono essere considerate equiva-
lenti - sono rispettivamente costituite da una parola in latino e da due parole
in italiano, dato che in italiano tra le due unità tu e senti si può inserire del
«materiale» lessicale (tu lo senti, tu oggi non senti), mentre non si può inserire
alcunché all'interno della parola latina sentis.
Non cercheremo oltre di definire la nozione di «parola»; assumeremo invece
che nella maggior parte dei casi un parlante nativo abbia intuizioni corrette su

J
[ 116 CAPITOLO5 l

cosa siano le parole e che sappia identificarle in un discorso, fermo restando


che vi sono casi problematici che anche i linguisti hanno difficoltà a risolvere
in modo coerente.

1.1. Tema, radice e forma di citazione

Si consideri il verbo amare.La forma amareè la forma di citazione, la forma


che troviamo sui vocabolari, chiamata anche lemma. Questa forma è come
la rappresentante di tutte le forme flesse che il verbo può avere (amo,ama,
amate,amavamo,amasti,amando,ecc.). Le entrate del dizionario in italiano,
cioè i lemmi, non sono forme flesse, sono le forme di citazione. Convenzio-
nalmente, per l'italiano, la forma di citazione del verbo è la forma dell'infinito
(per es. amare)mentre per altre lingue (per esempio latino e greco) vige una
tradizione diversa e la forma di citazione è la prima persona dell'indicativo
presente (per es. lat. amo, gr. agapdo).La forma di citazione del nome è il
maschile/femminile singolare (e dunque viso/favolae non viszl/avole),la forma
di citazione dell'aggettivo è sempre il maschile singolare (per gli aggettivi a
quattro uscite) o la forma unica di maschile/femminile per gli aggettivi a due
uscite (bello,felice e non bella,belli, belle o felici).
Si osservi che una differenza importante tra un dizionario e un testo è che
in un testo compaiono forme flesse (per es. vedemmoi primi capolavoridegli
impressionisti)mentre in un dizionario compaiono forme di citazione o lemmi
(vedere,il, primo,capolavoro,di, impressionista).Vi è un'operazione che porta
dalle forme flesse ai lemmi ed è chiamata lemmatizzazione (v.VI.2.) e consiste
appunto nel riportare una forma flessa al suo lemma (amavo➔ amare,avremmo
cucinato ➔ cucinare,scaffali ➔ scaffale,/amose➔ famoso).
Per quel che riguarda il verbo, bisogna ancora distinguere tra tema e radice.
Se ad un verbo regolare come amaresi toglie la desinenza flessiva -re (che
significa 'infinito presente') resta ama:questa forma è il tema del verbo. Il tema
si può analizzare a sua volta come una radice (am) più una vocale tematica
(a).Le vocali tematiche dell'infinito italiano sono tre: a (come in contare),e
(come in temere)e i (come in sentire):

(3) TEMA
/ormadi citaz. radice voc.tematica
amare am a
temere tem e
sentire sent

2. CLASSIDI PAROLE

Le parole di una lingua sono state tradizionalmente raggruppate in classi o


parti del discorso, dette anche categorie lessicali. Secondo le grammatiche
I LASTRlJTTURADELLEPAROLE:MORFOLOGIA 117 ;

scolastiche tradizionali dell'italiano, le parti del discorso sono il nome (es.


Simona,tavolo,virtù, ecc.), il verbo (es. camminare,mangiare,colpire,ecc.),
l'aggettivo (es. rosso,rapido,analogo,ecc.), il pronome (es. io, lui, lo, ci, ecc.),
l'articolo (es. il, la,un, ecc.), la preposizione (es. di, a, con,ecc.), l'avverbio (es.
probabilmente,lentamente,subito,ecc.), la congiunzione (es. e, ma, o, ecc.) e
l'interiezione (es. ahi!, ehi!, ecc.). Alcune di queste classi di parole o «parti
del discorso» (d'ora in poi useremo indifferentemente l'uno o l'altro di questi
termini) assumono delle desinenze diverse a seconda delle altre parole con cui
si combinano: l'uomocammina,ma gli uomini camminano.Le classi di parole
che assumono forme diverse sono, in italiano, i nomi, i verbi, gli aggettivi, gli
articoli e i pronomi: esse sono perciò dette anche parti del discorso variabili;
le altre parti del discorso (avverbi, preposizioni, congiunzioni, interiezioni)
sono dette parti invariabili. Un'altra distinzione è quella tra classi di parole
aperte e chiuse: le prime sono quelle a cui si possono sempre aggiungere
nuovi membri, le seconde quelle formate da un numero finito di membri,
che non può essere aumentato. I nomi, i verbi, gli aggettivi e gli avverbi sono
classi aperte; gli articoli, i pronomi, le preposizioni e le congiunzioni sono
classi chiuse. Le interiezioni costituiscono un caso un po' particolare. Forse
è possibile pensare che nuove interiezioni possano essere formate, per esem-
pio usando come interiezioni parole appartenenti ad altre classi: si pensi ad
una parola come diavolo,che è ovviamente un nome, ma che, nel mezzo del
discorso, diventa di fatto un'interiezione (Unacosacomequesta,diavolo,non
me l'aspettavoproprio.').
L'elenco tradizionale di nove parti del discorso su cui ci siamo basati fin
qui è adeguato oppure deve essere in qualche misura rivisto, o addirittura
modificato totalmente? Anzitutto, bisogna domandarsi se questo elenco sia
adeguato per l'italiano oppure per tutte le lingue del mondo. Lasciamo da
parte la questione relativa ali'italiano, limitandoci ad osservare che è possibile
introdurre in questo elenco alcune modifiche, pur senza cambiarne l'impianto
generale: ad esempio, si può sostenere che la classe degli avverbi debba essere
incorporata nella classe degli aggettivi (un avverbio come rapidamentesi può
considerare come derivato dall'aggettivo rapido,con l'aggiunta del suffisso
-mente). Invece, è ben difficile sostenere che questo elenco sia valido per
tutte le lingue del mondo: l'esame di lingue diverse dall'italiano lo mostra
immediatamente. Prendiamo il caso dell'articolo: esso manca in molte lingue,
a cominciare dal latino (come si è visto in (1)). Quindi l'inventario delle parti
del discorso non può essere lo stesso per tutte le lingue. Questo non significa,
però, che non esistano parti del discorso universali, cioè presenti in tutte le
lingue, nome e verbo, probabilmente, lo sono.
Veniamo ora ad un altro problema: quali sono i criteri in base ai quali si dice
che una determinata parola è un nome, oppure un verbo, oppure un aggettivo,
ecc.? I criteri tradizionali sono di tipo semantico, cioè basati sul significato:
si dice che i nomi designano delle «entità» o degli «oggetti», mentre i verbi
designano delle «azioni» o dei «processi». Tuttavia, esistono parole, come
partenza,descrizione,nascita,ecc., che non designano oggetti, ma piuttosto
118 CAPITOLO5

processi: queste parole non sono però verbi, bensì nomi. Viceversa, è abba-
stanza strano dire che verbi come sapere,conoscereo credereindicano azioni
o processi, quando piuttosto designano degli stati. Osservazioni come queste
mostrano l'insufficienza dei criteri di tipo semantico per definire le parti del
discorso. Esiste però un'importante proprietà delle parti del discorso in base
alla quale si possono elaborare criteri di classificazione diversi e più attendibili.
Si può supporre che le parole siano immagazzinate nella memoria dei parlanti:
tutti noi sappiamo produrre una lista di parole; è del tutto plausibile, inoltre,
che le parole siano immagazzinate nella memoria insieme alla loro categoria
lessicale: tutti noi sappiamo produrre una lista di nomi (cane,/antasia,libro),
di verbi (cantare,correre,disobbedire,indovinare), di aggettivi (bello, brutto,
dolce, ingrato, elegante), di preposizioni (di, a, da, in, con, su, per, tra.fra),
ecc. (v. VI.I.). Il fatto che ad una parola sia associata una categoria lessicale
limita in modo drastico le combinazioni delle parole. Se prendiamo quattro
parole come Mario/mangiare/la/melae cerchiamo di combinarle, osserveremo
che non tutte le combinazioni sono grammaticali. Combinando due parole,
osserviamo che si danno tre casi: (4a) il caso in cui sono possibili sia un ordine
di parole che il suo inverso, (46) il caso in cui solo un ordine è possibile e (4c)
il caso in cui nessun ordine è possibile ma, in ogni modo, sono più numerose
le combinazioni impossibili che le combinazioni possibili:

(4) a. Mario mangia b. la mela c. *Mario la


mangia Mario *mela la *la Mario
*Mario mela
,;mela Mario
Ciò dimostra che le parole sono classificate in categorie che limitano la loro
distribuzione libera all'interno della frase. Un articolo (come la) dunque può
essere seguito da un nome (mela),ma non da un verbo. Un nome (come Mario)
può essere seguito da un verbo (come mangia), non da un articolo (la) o da
un altro nome (mela).Le categorie lessicali cui le parole appartengono hanno
quindi un effetto importante: limitano le combinazioni possibili delle parole.
Le parti del discorso possono essere perciò riconosciute in base a criteri pu-
ramente distribuzionali:i nomi, i verbi, ecc. saranno definiti in base alle altre
classi di parole assieme alle quali possono, oppure non possono, ricorrere. La
definizione precisa delle varie parti del discorso in termini distribuzionali è
un'operazione complessa, ma abbiamo visto che le definizioni tradizionali di
tipo semantico sono decisamente inadeguate, e un'impostazione distribuzio-
nale è la via più promettente per superare queste difficoltà.

2.1. Categorie e sottocategorie

Un parlante «sa», dunque, che ragazzo,cane,libro,virtù, sporciziasono parole,


ma sa anche che sono dei nomi ed inoltre che questi nomi hanno proprietà
diverse. Si considerino questi esempi:
LA STRUTTURA MORFOLOGIA119
DELLEPAROLE:

(5) Il ragazzo legge il libro


*il cane legge il libro
*la virtù legge il libro
*la sporcizia legge il libro

Il fatto che solo la prima di queste frasi sia grammaticale e le altre siano invece
non grammaticali (o, almeno, suonino alquanto bizzarre) ha una spiegazione:
il soggetto del verbo leggeredeve essere un nome ma non un nome qualunque,
deve essere un nome «di persona» o, come si dice più tecnicamente, un nome
marcato con il tratto [+umano]. Questi tratti che suddividono la categoria
«nome» in (altre) sottocategorie del nome possono essere rappresentati
come segue:

(6) ±comune

±numerabile ±animato

~ ~
±animato ±astratto ±umano Egitto
A
±umano libro
A
virtù sporcizia
A
Carlo Fido

ragazzo cane

Questa notazione in tratti binari è simile a quella usata per la fonologia:


[+umano] significa che il nome in questione è un nome di «persona»,
[-umano] significa che non è un nome di persona (e dunque può essere di
animale, cosa, ecc.), [-comune] equivale a «proprio», [-astratto] equivale a
«concreto». Il tratto [±numerabile] divide i nomi in nomi che possono essere
«contati», come libro, cane, mano, e nomi che non possono essere contati
(detti anche nomi «massa»), come zolfo. I nomi non numerabili non hanno
di norma il plurale (*zolfi, *sangui;-:'acque),ma se ce l'hanno è un significato
particolare o idiosincratico (la rottura delle acque).In inglese vi è un riflesso
molto netto di questa distinzione: si usa many con i nomi numerabili ma si usa
much con i nomi massa (many books 'molti libri' versus much butter 'molto
burro'). Esistono dunque nomi comuni numerabili umani non astratti come
ragazzo,nomi comuni numerabili non umani non astratti, come libroe così via.
Allo stesso modo, i verbi possono essere sottocategorizzati in (verbi) transitivi
o intransitivi, regolari o irregolari, verbi che possono avere la costruzione
progressiva (sto leggendo)e verbi, detti «stativi», che non possono avere tale
costruzione (*sto sapendo la risposta).
Tutte queste informazioni categoriali e subcategoriali sono fondamentali per
il funzionamento delle parole sia in sintassi che in morfologia. Ogni percorso
lungo i rami di quest'albero è definitorio (ragazzoè dunque un nome [+co-
mune, +numerabile, +animato, +umano]).
120 CAPITOLO5

Se si considerano nomi con diverse proprietà di sottocategorizzazione come


nomi propri (Gianni),nomi comuni che designano esseri umani (bambino),
nomi di animali (coniglio),ecc. si constaterà che ognuno di essi può comparire
unitamente a certi suffissi ma non a tutti come si vede in (7).

(7) ara 1era ena oso atico


Gianni
bambino + = bambinata
coniglio + = conigliera
libro + = libreria
virtù + :.... = virtuoso
luna + = lunatico

Al nome proprio Gianni non può di norma unirsi alcuno dei suffissi dati (in
certi contesti è forse possibile dire una giannatamal' espressione è marginale;
ai nomi propri possono unirsi di norma quasi esclusivamente degli affissi
diminutivi o accrescitivi: ad es. Giannino, Cariane,Pinuccia,ecc.; -ata può
unirsi a nomi [+umano] come ragazzoa significare 'azione da ragazzo' e ad
alcuni nomi [+animato] [-umano] (asino➔ asinata,porco➔ porcata),ma non a
tutti, come si vede per uccello ➔ *uccellata,leone ➔ *leonata,gatto ➔ *gattata.
E ancora, un suffisso come il suffisso -iera(nel senso di 'contenitore') si di-
stribuisce nelle seguenti due possibilità:

(8) a. conigliera b. cappelliera


uccelliera saliera
fagianiera teiera
baleniera zuccheriera
c. *Gianniera d. *virtuiera
*Franchiera *pazienziera
*Antoniera *speranziera

Come si vede, il suffisso in questione non si aggiunge a nomi [-comune]


come quelli in (8c) né a nomi [+astratto] come quelli in (8d). Si può dunque
aggiungere a nomi marcati con il tratto [+comune], [+animato], [-astratto]
come in (8a) e [+comune], [-animato], [-astratto], come in (86). Per quanto
riguarda il tratto [±animato], dunque, il suffisso non sembra distinguere: si
può aggiungere sia ai nomi [+animato] sia a quelli [-animato] con il significato
apparentemente costante di 'contenitore'.
Anche la sottocategorizzazione dei verbi in transitivi o intransitivi è impor-
tante: ad esempio, sono di norma i verbi transitivi che possono formare ag-
gettivi in -bile (amabile,cantabile,*volabile,*divorziabile).Ma mentre -bileè
sensibile al tratto [+transitivo], il suffisso -mentonon lo è (cfr. collocamentoe
andamento).Si noti che a queste affermazioni possono esistere eccezioni: per
esempio, il suffisso -bile può sporadicamente aggiungersi a verbi intransitivi
(cfr. commerciabile, vivibile,/ruibile),ma si tratta effettivamente di eccezioni
a fronte di migliaia di casi in cui il suffisso seleziona un verbo transitivo.
LASTRUTTURADELLEPAROLE:MORFOLOGIA 121

Si vede quindi che categoria e tratti specificati nel lessico sono informazioni
importanti per il funzionamento dell'apparato morfologico di una lingua. Si
può concludere dicendo che tutte le informazioni associate ad una determinata
parola nella sua rappresentazione lessicale «servono» per il funzionamento
dei processi morfologici che possono riguardare quella parola.

3. MORFEMA
Se la nozione di parola è una nozione intuitivamente semplice ma di difficile
definizione, la nozione di morfemaè, al contrario, intuitivamente meno evi-
dente ma di più semplice definizione. Un morfema è la più piccola parte di una
lingua dotata di significato. Un morfema è un «segno linguistico» ed è quindi
costituito da un significante e da un significato (v. II.7.). Se applichiamo la
definizione di morfema alle seguenti unità dell'inglese (9a) e dell'italiano (96):

(9) a. boys b. libri

possiamo identificare i seguenti morfemi: [boy+s], [libr+i]. Per poter asse-


gnare ad una unità lo status di morfema bisogna che tale unità abbia signi-
ficato: il significato di boy è 'essere umano, non adulto, di sesso maschile', il
significato di -s è 'plurale', il significato di libr- è 'insieme di fogli stampati',
il significato di -i è 'maschile, plurale'. Boy e libr- sono morfemi lessicali, -se
-i sono morfemi grammaticali.
Con questi termini si vogliono identificare le forme che hanno un significato
«lessicale», che non dipende cioè dal contesto (per esempio nomi, aggettivi,
verbi) e le forme che esprimono soprattutto delle funzioni grammaticali e
ricevono (in parte) significato dal contesto in cui compaiono.
Si considerino le due forme donna e di. Donna ha un significato che le deriva
dalla sua collocazione nel lessico dell'italiano: si oppone a uomo per quel che
riguarda il genere, si oppone a bambina per quel che riguarda l'età, si oppone
a leonessaper quel che riguarda il tratto [±umano], ecc. e designa un 'essere
umano adulto di sesso femminile': questo significato non cambia col variare
del contesto linguistico. Il significato del morfema grammaticale di è invece
in gran parte legato al contesto (cfr. i vari significati che questa preposizione
può assumere in frasi diverse come le seguenti: il cane di Clelia, lafar/alla di
carta,un odore di /umo, i realidi Francia,ecc.).
La distinzione tra morfemi lessicali e morfemi grammaticali non è naturalmente
sempre netta, come si può osservare ad esempio nelle locuzioni: il morfema
parte è lessicale o grammaticale nella locuzione da parte dz?
Un'ultima osservazione relativa a queste due classi di morfemi è che la loro
frequenza nei testi si avvicina al 50%, vale a dire che molto spesso vi è al-
ternanza perfetta tra morfemi lessicali e morfemi grammaticali (cfr. la frase
iniziale dei Promessi Sposi dove i morfemi lessicali sono sottolineati: Quel
ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno).
122 CAPITOLO5

Un morfema può essere così «piccolo» da essere costituito da un solo fo-


nema: per esempio il morfema -s del plurale nell'esempio inglese visto sopra
è costituito da un solo fonema, /s/; in italiano un morfema costituito da un
solo fonema è la congiunzione e, o la preposizione a. Generalmente, però, un
morfema è costituito da più fonemi.

3.1. Morfemi liberi e legati

I morfemi possono essere liberio legati:sono morfemi liberi quelli che possono
ricorrere da soli in una frase e dunque bar, ieri, virtù sono morfemi liberi.
Sono morfemi legati quelli che non possono ricorrere da soli in una frase e
che per poterlo fare si debbono «aggiungere» a qualche altra unità e dunque
-s dell'inglese (in boy+s)o -i dell'italiano (in libr+i)sono morfemi legati.
I morfemi liberi dell'italiano sono parole (di, voi, che, ecc.), i morfemi legati
sono quelli flessivi (-a del femminile singolare, -i del maschile plurale, -e del
femminile plurale; tutte le desinenze del verbo), tutti i suffissi (-oso, -tare,
-zione, ecc.) e tutti i prefissi (ri-,s-, in-, ecc.).

3.2. Parola e morfema

Le parole in (9) sono composte da due morfemi, sono dunque parole bimor-
femiche. In inglese generalmente le parole semplici sono mono-morfemiche,
in italiano generalmente nomi ed aggettivi semplici sono bimorfemici mentre
i verbi regolari sono trimorfemici (dato che si possono analizzare in radice,
vocale tematica e desinenza flessiva):

(10) inglese italiano


table tavol+o
mce carin+o
walk cammin+a+re
Le parole complesse possono essere trimorfemiche ed oltre:
(11) in+util(e)+ità
dolc(e)+issim+a+mente
ferro+vi(a)+ario
industri(a)+al(e)+izz+a+zion+e
precipit(e)+evol(e)+issim(a)+evol(e)+mente

Nonostante l'apparente semplicità operativa della nozione di morfema, restano


non risolti molti problemi. Ne segnaliamo uno che riguarda l'italiano. Se appli-
chiamo la definizione di morfema a boyse a ragazzi,otteniamo risultati diversi:
(12) boys -+ boy+s
ragazzi -+ ragazz+i
DELLEPAROLE:MORFOLOGIA 123
LA STRUTTURA

In inglese possiamo togliere il morfema -s del plurale e resta boy che è un


morfema libero, con pieno significato lessicale. Se ali'italiano ragazzitogliamo
ilmorfema -i del plurale, resta ragazz-che non è un morfema libero ed appare
come una forma incompleta di ragazzo.Ma anche l'analisi di ragazzoporta alla
stessa incongruenza. Per le parole semplici dell'inglese, dunque, può valere
una definizione che per l'italiano non vale: una parola è tutto ciò che resta se
vi si tolgono i morfemi flessivi (e dunque boy-s ➔ boy, sing+s ➔ sing).

3.3. Morfema e allomorfi

Il termine morfemadesigna propriamente una unità astratta che è rappresen-


tata a livello concreto da un allomorfo (o morfo). La distinzione è parallela a
quella vista in fonologia tra fonema e allofono (v. IV.5.4.):

(13) fonologia morfologia


livello astratto fonema morfema
livello concreto allofoni allomorfi

Generalmente un morfema è rappresentato da un solo allomorfo. Vi sono


casi però in cui un morfema può essere rappresentato da più allomorfi, come
vedremo con un esempio molto noto di allomorfia: la formazione del plurale
in inglese. Graficamente, il plurale regolare inglese è marcato con una s o
con es (per es. cat ➔ cats 'gatto, gatti', dog ➔ dogs 'cane, cani' dash ➔ dashes
'trattino, trattini'). Foneticamente, invece, si riscontrano tre realizzazioni di-
verse [s], [z] e [rz]: infatti si dice cat[s] con la sibilante sorda, ma dog[z] con
la sibilante sonora e dash[rz] con un suono vocalico più la sibilante sonora.
Queste tre realizzazioni sono condizionate dal contesto, come si vede in (14):

(14) a. [-s] dopo consonanti sorde (come [k, t, p, f])


b. [-z] dopo consonanti sonore (come [b, g, d, v, 1,m, n, r]) e vocali
c. [-rz] dopo consonanti stridenti (come [s, z,f, tf, d3])

Il plurale dei seguenti gruppi di parole sarà dunque come segue:

(15) a. rock[s] ' rocce' rat[s] 'ratti'


hip[sJ 'fianchi' cliff[s] 'scogliere'
b. tub[z] 'vasche' rug[z] 'tappetini'
head[z] 'teste' room[z] 'camere'
stove[z] 'stufe' fool[z] 'folli'
ton[z] 'tonnellate' car[z] 'macchine'
toy[z] 'giochi' cow[z] 'mucche'
shoe[z] ' scarpe' bra[z] 'reggipetti'
c. loss[1z] 'perdite' dish[rz] 'piatti'
pinch[rz] 'pizzichi' ax[rz] 'asce'
edg[1z] 'angoli'
124 (APrTOLO 5

Come si vede, ognuno di questi tre allomorfi compare in contesti definiti e in


quei contesti gli altri allomorfi non possono comparire. In casi come questi,
si dice che i tre allomorfi hanno distribuzione complementare. Una rap-
presentazione grafica di quanto abbiamo detto sin qui è la seguente:

(16) morfema del plurale s

allomorfì
~
S
Z IZ

Un caso di allomorfia in italiano è quello dell'articolo maschile: i e gli sono


due allomorfi, la cui distribuzione è determinata foneticamente: gli compare
prima di s+Cons (gliscogli),di [J] (glisciocchi)e [Jl] (glignomi),di vocale (gli
amici,gli udinesi),e di semiconsonante [w] o [jJ (gli uomini/gli iettaton');i
compare negli altri contesti e dunque prima di consonante (i sentien·,i pistacchi,
i bolognesi);analoga è la distribuzione di il e lo, al singolare.

4. FLESSIONE,
DERIVAZIONEE COMPOSIZIONE

Le parole semplici possono subire diversi tipi di modificazione. I processi


morfologici più comuni sono la derivazione, la composizione e la flessione.
La derivazione raggruppa tre diversi processi e consta dell'aggiunta di una
forma legata (affisso) ad una forma libera:

(17) Derivazione
(affissi)

Prefìssazione Infissazione Suffissazione


(prefissi) (infissi) (suffissi)

Se l'affisso si aggiunge a sinistra della parola, allora l'affisso sarà un prefisso


e il processo si chiamerà di prefissazione (18a), se l'affisso si aggiunge a
destra della parola, allora l'affisso sarà un suffisso e il processo si chiamerà
di suffissazione (186), se l'affisso si aggiunge nel mezzo della parola, allora
l'affisso sarà un infisso e il processo si chiamerà di infissazione. Dato che in
italiano l'infissazione praticamente non esiste, gli esempi in (18c) (infissazione
di -ka-) sono tratti dall'ulwa, lingua del Nicaragua:

(18) a. marito ➔ ex+marito


fortunato ➔ sfortunato
b. dolce ➔ dolcemente
virtù ➔ virtuoso
c. su:lu ➔ su:kalu 'cane - del cane'
kuhbil ➔ kuhkabil 'coltello - del coltello'

La composizione forma invece parole nuove a partire da due parole esistenti:


!______________________ LASTRUTTURADELLEPAROLE:MORFOLOGIA 125

(19) capo, stazione ➔ capostazione


dolce, amaro ➔ dolceamaro

La flessione «aggiunge» alla parola di base informazioni relative a genere,


numero, caso, tempo, modo, diatesi, persona, come si vede qui sotto:

(20) genere bello ➔ bella (maschile ➔ femminile)


numero bello ➔ belli (singolare ➔ plurale)
caso lat. rosa ➔ rosam (nominativo ➔ accusativo) 'rosa'
tempo ama ➔ amava (presente ➔ imperfetto)
modo ama ➔ amando (indicativo ➔ gerundio)
diatesi lat. amo ➔ amor (attivo ➔ passivo) 'amo-sono amato'
persona amo/ami/ama (prima, seconda, terza persona)

La flessione delle parole derivate (216) e composte (21c) non è diversa quanto
a desinenze da quella delle parole semplici (21a), come si vede qui sotto per
la flessione del plurale:

(21) a. amaro ➔ aman


capo ➔ capi
b. virtuoso ➔ virtuosi
invasivo ➔ invasivi
c. dolceamaro ➔ dolceamari
capostazione ➔ capistazione

Quelli appena elencati sono i processi morfologici più comuni. Naturalmente


non esauriscono l'intero campo delle possibilità delle lingue del mondo, le
quali ricorrono ad una grande varietà di processi (v. ad es. V.8.).

5. MORFOLOGIA COME «PROCESSO»*

Una categoria lessicale, come ad esempio il verbo, può o «nascere» come tale (rom-
pereè un verbo (22a)) oppure può «diventare» verbo attraverso vari processi, come
si vede qui sotto (22b-h):

(22) a. V rompere
b. V ➔V giocare -+ giocherellare
c. -+ V magnete -+ magnetizzare
d. A-+ V attivo -+ attivare
e. V-+ N ➔ V agire -+ azione -+ azionare
f. N ➔ N ➔ V palla -+ palleggio -+ palleggiare
g. A ➔ N ➔ V giusto -+ giustizia -+ giustiziare
h. -+A-+ V centro -+ centrale ➔ centralizzare
Esistono dunque diverse modalità che possono portare alla categoria verbo: questo
è l'aspetto dinamico della morfologia.
Si consideri una parola come indubitabilmente. Dal punto di vista categoriale è un
awerbio. Se la morfologiaavessesolo un compito classificatorioci si potrebbe fermare
qui. Ci si può però chiedere anche «come» questo awerbio è stato costruito. Per
126 CAPITOLO5

esempio, si può supporre che all'aggettivo indubitabilesia stato aggiunto il suffisso


-mente secondo la modalità suggerita qui appresso:

(23) indubitabile aggettivo di base


indubitabile+mente aggiunta di -mente
indubitabilmente cancellazione di e

Ma l'aggettivo da cui siamo partiti, indubitabile,è a sua volta scomponibile in un


prefisso in- più un aggettivo, dubitabile, e quest'ultimo è a sua volta costruito a
partire dal verbo dubita(re)più il suffisso -bile. Ricostruendo tutto il processo, pos-
siamo supporre che le varie «fasi» di formazione della parola in questione siano le
seguenti:

(24) [dubita]v (tema del) verbo di base


[[dubita]y+bile]A aggiunta di -bile
[in[[dubita]v+bile]A] A aggiunta di in-
[[in[[dubita]v+bile] A]A+mente]Aw aggiunta di -mente
[indubitabilmente]Aw cancellazione di e

La parola indubitabilmenteè stata costruita attraverso una serie di processi, ognuno


dei quali ha portato ad una nuova categoria: Verbo Aggettivo .....Aggettivo .....Av-
verbio.
È questo aspetto di formazione che si può chiamare «dinamico».
Anche per quel che riguarda la composizione, ci si può concentrare sul solo «risultato»
(capostazione è un nome, dolceamaroè un aggettivo), oppure sul processo: capostazione
è formato da due nomi, capoe stazione,che intrattengono tra di loro un certo tipo
di relazione grammaticale e semantica, nel senso, per esempio, che si tratta del 'capo
della stazione' e non della 'stazione del capo' ma nemmeno di un 'capo proprietario
di una stazione', ecc.; dolceamaroè un aggettivo formato da due aggettivi che stanno
tra loro in un rapporto di coordinazione: dolcee amaroallo stesso tempo. Ci si può
quindi domandare quali nomi, quali aggettivi, quali verbi possono essere combinati
per formare parole composte, dato che, come illustrato qui sotto per un piccolo
campione, non tutte le combinazioni portano a risultati accettabili (come composti):

(25) Nome Nome *capo-telefono


*sollievo-autarchia
*luce-interrogazione
AggAgg *dolce-vecchio
*amaro-dispari
*contrario-agricolo

Si può poi affrontare la questione dell'ordine degli elementi costitutivi dei composti,
detti costituenti. Perché capostazioneè un composto ben formato mentre *stazione-
caposembra non esserlo? Perché cassa/orteè ben formato mentre */ortecassano? Si
può ancora cercare di capire perché stazioncinae/ortissimasono due parole del tutto
normali ma collocate in un composto rendono il composto anomalo: *capostazioncina,
*cassa/ortissima. E perché, ancora, la combinazione di categorie uguali non dà sempre,
come risultato, la stessa categoria di partenza (26c), come si vede qui sotto:

(26) a. Nome+Nome ..... Nome: [[capo]N [stazione] ]N ..... [capostazione]N


b. Agg+Agg ..... Agg: [[dolce]A [amaro]A]A ..... [dolceamaro]A
c. Verbo+ Verbo ..... Nome: [[sali]v [scendiJvJN ..... [saliscendi]
LASTRlffTURADELLEPAROLE:MORFOLOGIA 127

Ci si può pertanto porre il problema non solo di classificare le parole, ma anche di


capire attraverso quali vie sono state formate, obbedendo a quali principi, violandone
quali altri.
Composizione e derivazione si differenziano innanzi tutto perché la prima combina
due forme libere mentre la seconda combina una forma libera ed una forma legata.
Prefissazione e suffissazione si differenziano in primo luogo perché, come si è già
visto, la suffissazione aggiunge un morfema legato a destra della parola mentre la
prefissazione aggiunge un morfema legato a sinistra della parola:

(27) Pre/issazione Su/fissazione


[in+[attivo]A]A [[attivo]A+ità])'I
[s+[fortunato]A]A [[inverno]éale]A
[ex+[presidente]N]N [[veloce]A+mente]Avv
[ri+[scrivere]vlv [ [amministra] v+zione] N

In secondo luogo, la prefissazione non cambia la categoria lessicale della parola cui
si aggiunge, mentre la suffissazione, di norma, la cambia:

(28) Pre/issazione
[elegante]A -+ [in+[elegante]A]A
[presidente]N -+ [ex+[presidente]N]N
[scrivere lv -+ [ri+[scriverelvlv

Su/fissazione
[atomo]N -+ [[atomo]N+izzare]v
[inverno]N -+ [[inverno] N+ale]A
[veloce]A -+ [[ veloce]A+ità]N

La suffissazione può operare i cambiamenti di categoria, o di sottocategoria (cfr.


V.2.1.), esemplificati qui di seguito, ognuno con alcuni dei più importanti suffissi
derivazionali dell'italiano:

(29) N -+ V
-1zzare atomo -+ atomizzare
-arei-ire film -+ filmare, fiore -+ fiorire
-eggiare alba -+ albeggiare
-ificare pace -+ pacificare
N -+ A
-oso fama -+ famoso
-ale funzione -+ funzionale
-ano confusione -+ confusionario
-ico filosofia -+ filosofico
-ese Milano -+ milanese
N -+
-aio giornale -+ giornalaio
-ena pirata -+ pirateria
-ista Petrarca -+ petrarchista
-ismo Mao -+ maoismo
-iere banca -+ banchiere
-ato console -+ consolato
128 CAPITOLO5
---------
V-+ N
-zione amministra(re) -+ amministrazione
-ata cammina(re) -+ camminata
-aggio lava(re) -+ lavaggio
-mento arreda(re) -+ arredamento
-tare lavora(re) -+ lavoratore
V -+ A
-bile giustifica(re) -+ giustificabile
-tivo collabora(re) -+ collaborativo
-torio consola(re) -+ consolatorio
-evole ammira(re) -+ ammirevole
A-+ N
-ezza bello -+ bellezza
-anza/-enza abbondante -+ abbondanza, intelligente -+ intelligenza
-aggme ridicolo -+ ridicolaggine
-ità/-età semplice -+ semplicità, vario -+ varietà
A -+ V
-arei-ire calmo -+ calmare, snello -+ snellire
-ificare beato -+ beatificare
-eggiare bianco -+ biancheggiare
-izzare impermeabile -+ impermeabilizzare
A-+ Avv
-mente veloce -+ velocemente

Generalizzando, si può dire che in derivazione ogni categoria lessicale maggiore (N, V,
A) può diventare qualsiasi altra categoria lessicale maggiore. Questa generalizzazione
esclude le preposizioni, sia come categoria di entrata sia come categoria di uscita. In
più, gli aggettivi possono diventare avverbi.
In terzo ed ultimo luogo, la suffissazione in italiano di norma cambia la posizione
dell'accento della parola di base, mentre con la prefissazione di norma questo non
avviene:

(30) base pre/issazione su/fissazione


onèsto disonèsto onestà
moràle amoràle moralìsmo
nàto innàto innatìsmo

6. FLESSIONE
Una delle variazioni morfologiche più comuni, soprattutto nelle lingue a
tendenza flessiva e a tendenza agglutinante, è la flessione. La morfologia
dà luogo a forme flesse di parola, ovvero a forme che esprimono, oltre ad
un significato lessicale, anche uno o più significati grammaticali. Possiamo
dire che la flessione è realizzata tramite morfemi legati che si aggiungono a
basi che necessitano marche grammaticali di qualche tipo. Le informazioni
grammaticali, dette morfosintattiche perché danno 'istruzioni' rilevanti sia in
LASTRUTTURADELLEPAROLE:MORFOLOGIA 129

morfologia che in sintassi, si distinguono tramite diverse categorie. Queste


categorie assumono dei valori, rappresentati da tratti. Le categorie morfo-
sintattiche (v. anche VII.5.) sono ad esempio il numero, il genere, il caso, il
modo, il tempo, l'aspetto, ecc. I tratti morfosintattici sono invece i valori che
ogni categoria può assumere.

(31) libr-o

In (31) -o esprime la categoria morfosintattica 'numero' del nome. Tale cate-


goria ha, in italiano, due possibili tratti, cioè il plurale e il singolare, e qui -o
esprime singolare. Ma, in altre lingue, all'interno della categoria 'numero' del
nome, è possibile trovare il duale esemplificato in (32a) in sloveno. In (326)
invece un esempio di singolare, duale e plurale per le categorie del nome e
del verbo in greco antico:

(32) a. volle vollcova 'lupo' 'due lupi'


b. àv~Q YQO.(j)Et 'l'uomo scrive'
<XVòQEYQO.(j)E,OV 'i due uomini scrivono'
<XVòQEçYQO.(j)OUO"l 'gli uomini scrivono'

In altre lingue ancora si può trovare anche il triale, il paucale, e così via. Inoltre,
i tratti che le varie categorie morfosintattiche possono assumere sono di due
tipi, cioè inerenti e contestuali. I tratti inerenti sono i tratti che sono insiti
nella parola. In italiano, si pensi al genere maschile (il cane) o femminile (la
donna) dei nomi. Tali tratti non vengono cambiati in alcun contesto. Diver-
samente, i tratti contestuali, appunto, sono legati al contesto in cui la parola
viene a trovarsi, come ad esempio il caso dell'accordo di genere (maschile o
femminile), ma anche di numero (singolare o plurale) negli aggettivi italiani.

(33) a. l'uomo beli-o


b. la donna beli-a
c. gli uomini beli-i
d. le donne beli-e

Si noti come l'aggettivo bell- venga modificato a seconda del contesto sintat-
tico. Per quanto concerne la categoria genere, con un nome maschile, esso
assumerà tratto maschile ((33a) e (33c)). Con un nome femminile, esso assu-
merà tratto femminile ((33 b) e (33 d)). Per quanto invece riguarda la categoria
numero, con nomi al singolare l'aggettivo assume tratto singolare, e con nomi
al plurale l'aggettivo assume tratto plurale. Si osservi che poi i tratti di due
categorie coesistono nell'aggettivo: maschile singolare (33 a), maschile plurale
(33c), femminile singolare (336), femminile plurale (33d). Diversamente,
i nomi qui hanno determinato il tratto contestuale della categoria genere
dell'aggettivo tramite il loro tratto di genere inerente. Ma in italiano i nomi
hanno tratto contestuale numero, che però a sua volta determina il tratto della
categoria numero aggettivale.
130 CAPITOLO5

In italiano anche il verbo si può flettere, e le categorie sono il tempo, l'aspetto,


il modo, la diatesi. A loro volta, queste categorie conterranno tratti: in italiano,
ad esempio, la categoria 'tempo' conterrà i tratti di presente, futuro, ecc.
Nomi e verbi si influenzano vicendevolmente tramite il fenomeno dell'ac-
cordo, come in (34).

(34) La vecchia pazza mi ha dato la torta.

Qui, il soggetto determina il tratto di persona (terza persona) della categoria


del verbo, e il soggetto stesso a sua volta determina che la, vecchiae pazza
siano accordate al femminile singolare, e così via.

7. DERIVAZIONE
7 .1. La suffissazione

La suffissazione consiste nell'aggiunta di un morfema grammaticale alla destra


della base. La rappresenteremo nel modo seguente:

(35) [ Jx ➔ [[ Jx+ Suf]y


[inverno] ➔ [[inverno]N + ale]A

In (35) X è la categoria lessicale della base, Suf è il suffisso e Y è la categoria


di uscita. Si tratta in genere, dunque, di aggiungere una forma legata a una
forma libera.
I suffissi sono «regole» che si applicano con diverse funzioni grammaticali:
per cambiare categoria, per cambiare alcuni tratti formali, per dare una sfu-
matura di significato (come nel caso dei valutativi). Vediamo alcuni casi di
suffissazione dell'italiano.

7.2. Suffissi dell'italiano

I suffissi dell'italiano possono essere raggruppati in grandi categorie, che


possono anche incrociarsi. Vi è ad esempio la classe dei suffissi deverbali,
che comprende suffissi che formano nomi da verbi. Tali suffissi formano
nomi d'azione o deverbali astratti (con parafrasi 'l'atto espresso dal Verbo'),
che in certi casi possono «concretizzarsi» e diventare - come si dice - nomi
risultato, vale a dire nomi «concreti», non astratti:

(36) nomi deverbaliastratti nomi risultato


-zione ammirazione, inibizione costruzione
-ata camminata aranciata
-ura andatura frittura
-mento giuramento arredamento
LASTRUTTURADELLEPAROLE:MORFOLOGIA 131

Si noti che uno stesso nome può fungere come nome d'azione e come nome
risultato (La costruzionedellacasaè stata laboriosadi contro a Quellacostru-
zione giallaè orrenda;La frittura del pesce mi è costatadue ore di lavorodi
contro a Lafrittura non è proprioindicataper il tuo colesterolo).
Vi sono suffissi che formano nomi agentivi [+umano] (ed a volte strumentali
[-umano]):

(37) agentivi strumentali


-aio giornalaio
-ista giornalista
-tore colonizzatore contatore
-ino postino colino

Vi è poi la grande classe dei suffissi valutativi (formata dai cosiddetti diminu-
tivi, accrescitivi, peggiorativi, vezzeggiativi, ecc.):

(38) -ino, -one, -accio, -otto, -ucolo, -astro, ecc.

I valutativi sono molto numerosi e produttivi in italiano, al contrario di quanto


avviene in inglese o in francese, dove questi suffissi sono pochissimi (cfr. ingl.
-let come in piglet 'porcellino', fr. -ette come in maisonnette'casetta').
I suffissi possono essere «rivali», ed in questo caso si «spartiscono» per così
dire le basi cui possono aggiungersi:

(39) a. amoreggiamento *amoreggiazione


cannoneggiamento *cannoneggiazione
corteggiamento *corteggiazione
b. banalizzazione *banalizzarnento
carbonizzazione *carbonizzamento
evangelizzazione *evangelizzamento

Il suffisso -mento predilige le basi in -eggia(re)mentre il suffisso -zione pre-


dilige le basi in -izza(re),cosicché le sequenze in ''eggiazionenon si·formano
e quelle in *izzamentorisultano sfavorite: il Disc (DizionarioItalianoSabatini
Co/etti)ne elenca 19 tra cui voci decisamente poco in uso come sottilizzamento,
guizzamento,polverizzamento.

7.3. Prefissazione

La prefissazione consiste nell'aggiunta di un morfema grammaticale a sinistra


della base e può essere rappresentata nel modo seguente.

(40) [ Jx➔ [Pref + [ JxJx


[vedereJv ➔ [ri + [vedereJvJv
132 CAPITOLO5

Come si può constatare, la prefissazione è un processo che non cambia la


categoria della base: il verbo resta verbo e ciò vale anche per le altre categorie
(ad es. marito -+ ex-marito,utile -+ inutile).

7.4. I prefissi dell'italiano

Quello che segue è un inventario dei prefissi dell'italiano con la specificazione


della categoria (Nome, Aggettivo, Verbo) a cui ognuno tende ad aggiungersi:

(41)
N A V Pre+N Pre+A Pre+V
a-/an- + + - asimmetria a-politico
ante- + + + anteguerra antelucano anteporre
anti- 1 + + - antitarlo antigovernativo
anti-2 + + + anticamera antidatato antivedere
arei- + + - arcivescovo arcinoto
auto- + + + autobiografia autosufficiente autoconvincersi
avan- + avanguardia . .
c1rcum- - + + circumterrestre c1rcumnav1gare
cis- - + - cisalpino
CO- + + + coinquilino coassiale coabitare
con- + + + condirettore connazionale convivere
contro- + + + controcanto controfattuale controbattere
de- - - + deumidificare
dis- + + + disarmonia disabile disfare
ex- + exmoglie
extra- + + - extrasistole extralucido
• I
m- - - + immettere
• 2
m- + + - inesperienza incapace
infra- + + - infrastruttura infrarosso
inter- + + + interregno internazionale intercorrere
intra- - + + intramolecolare intraprendere
iper- + + + ipermercato iperattivo ipernutrire
ipo- + + + ipoalimentazione ipocalorico iponutrirsi
macro- + - - macroeconomia
max1- + maxischermo
mega- + megaconcerto
meta- + + - metalinguaggio metagiuridico
m1cro- + microclima
mmi- + miniappartamento
multi- + + - multistrato multidimensionale
neo- + + - neoformazione neoclassico
oltre- + + + oltretomba oltremarino oltrepassare
paleo- + + - paleografia paleocristiano
para- + + - parastato paramilitare
pluri- + + - plurilingue pluricentrico
poli- + + - poliambulatorio policentrico
post- - + + postmoderno postdatare
pre- + + + preguerra prematrimoniale prevedere
LASTRUTTURADELLEPAROLE:MORFOLOGIA 133

pro- + + - proaborto proamencano


re-/ri- + ridiscutere
retro- + + + retrobottega retroattivo retrodatare
s- + + + sblocco sfortunato sbalzare
semi- + + - semicerchio semideserto
sopra- + + + sopraddote sopraesposto sopraeccitare
sovra- + + + sovraccarico sovrastrutturale sovrapporre
sotto- + + + sottocommissione sottostimato sottoutilizzare
stra- - + + stragrande stravedere
sub- + + + subappalto subalpino subaffittare
super- + + + superburocrate supermodesto superv1S1onare
sur- + + + survoltaggio surreale surriscaldare
trans- + + + transcodifica transalpino transfondere
ultra- + + - ultrasuono ultravioletto
vice- + - - viceré
A partire da questo quadro, si possono fare diverse considerazioni sulla
distribuzione dei prefissi in relazione alle categorie lessicali che selezionano.
Per esempio, si osservi che sui 53 prefissi elencati, le categorie privilegiate
dalla prefissazione sono nomi, 45, ed aggettivi, 42, segue il verbo con 28 casi.
I prefissi che si aggiungono ad una sola categoria lessicale sono 12 (8 prefissi
si aggiungono solo a nome, 3 a verbo e 1 ad aggettivo).
Si osservi ancora che in 19 casi i prefissi si possono aggiungere a due sole
categorie, nome e aggettivo (15 casi) o aggettivo e verbo (4 casi). Un pre-
fisso può aggiungersi infine a tutte e tre le categorie in 19 casi. Si sono
distinti due prefissi anti- (uno con valore 'contro' e uno con valore locativo-
temporale) e due prefissi in- (uno con valore 'direzionale' ed uno con va-
lore 'negativo').
Naturalmente non tutti i prefissi qui elencati sono ugualmente produttivi:
ad esempio le costruzioni [ipo+Verbo], [circum+Verbo] possono contare
pochissime formazioni al proprio attivo (ipo+nutrire, circum+navigare,
circum+cingere), mentre le costruzioni [mini+Nome], [in+Aggettivo] sono
molto produttive (mini+appartamento, mini+gonna, in+adatto, in+eguale,
ecc.). In altri casi ancora la produttività della costruzione è legata a linguaggi
settoriali, come quello della medicina o della chimica (ad es. [ipo+Nome],
cfr. ipo+glicemia, ipo+/os/ito, ecc.). In altri casi, infine, costruzioni apparente-
mente possibili (ad es. [ri+Aggettivo], come in ricurvo) o non sono produttive
o hanno struttura interna diversa da quella richiesta (ri+con/ermabile, ad es.,
ha la struttura [[ri+[conferma]]+bile] e dunque ri- è aggiunto al verbo e non
all'aggettivo).

7.5. Infissazione

Nelle lingue indoeuropee, l'infissazione è un fenomeno di gran lunga più


marginale rispetto a suffissazione e prefissazione, al punto che ad es. in italiano
si possono rinvenirne pochissimi casi.
134 CAPITOLO5
------------------------~------

In Seri (una lingua parlata nella regione costiera di Sonora, Messico), si trovano
ad esempio casi come il seguente:
(42) itk .....iti-t6o-c 'l'ha piantato?' 'l'hanno piantato?'

In questo tipo di processo, un morfema legato si aggiunge all'interno della


base. Possiamo rappresentarlo nel modo seguente.
(43) [ Jx .....[[ Jx + Suf + [ JxJv
[itic] ---+ [[itiJx + t6o + [c]J

L'infissazione è molto più spesso un fenomeno flessivo che derivazionale.

7.6. Alcuni casi di infissazione

Nelle lingue indoeuropee, come si è detto, l'infissazione non è un processo


molto attestato.
In italiano si potrebbe forse considerare un caso di infissazione una parola
come mangi-ucchi-are, dove -ucchi-essendo inserito all'interno della parola
mangiarepotrebbe essere considerato un infisso. In inglese ci sono casi di
infissazione altamente produttiva ma in registri estremamente specifici,
essenzialmente di tipo scientifico o colloquiale. Il primo caso può essere
rappresentato da espressioni della chimica, come in picoline 'picolina' de-
rivato in pipecoline'pipecolina', dove -pe-sta per 'idrogenazione completa',
e phenidine 'fenidina' derivato in phenetidine 'fenetidina', dove -et- sta per
'etile'. Gli altri casi si allontanano dall'inglese standard. Un altro esempio è
quello degli infissi espletivi (registro volgare) come -/reaking-o -bloody-,che
danno luogo a parole come/an-/reaking-tastic dafantastice abso-bloody-lutely
da absolutely.In questi casi si parla anche di tmesi, e l'infisso rispetta i confini
di sillaba e viene posto prima della sillaba accentata (*fanta-freaking-stic e
*absolute-bloody-ly).

8. ALTRIPROCESSI

Vi sono altri processi morfologici che non consistono propriamente nell'ag-


giunta di un morfema ad una base, tra questi ricordiamo la conversione (detta
a volte anche suffissazione zero), la reduplicazione e la parasintesi.
La conversione consiste in un cambiamento di categoria senza che sia stato
aggiunto alla base un affisso manifesto. In inglese, ad esempio, dal nome water
'acqua' si è formato il verbo (to) water 'innaffiare'. In italiano la conversione
è molto comune nel passaggio da aggettivo a nome (vecchio.....il vecchio),da
infinito a nome (volere ---+ il volere),da participio presente a nome (il can-
tante) e ad aggettivo (sorridente),da participio passato a nome (il coperto)e
ad aggettivo (deciso).
LASTRUTTURADELLEPAROLE:MORFOLOGIA 135
----------

La reduplicazione o raddoppiamento consiste nel raddoppiamento di un


segmento e può essere parziale (come ad esempio in tigak - lingua parlata
in Papua Nuova Guinea - giak 'mandare' gi-giak 'messaggero') o totale
(come in indonesiano kursi 'sedia' -+ kursi kursi 'sedie'). La reduplicazione
può riguardare sia la flessione (come negli esempi appena dati), sia la com-
posizione (v. V.11.4.), sia la derivazione (come in maori reo -+ reoreo 'voce'
- 'conversazione', o in turco dolu -+ dopdolu 'pieno' - 'piuttosto pieno'). Un
verbo reduplicato assume spesso un significato frequentativo (cfr. sundanese
guyon -+ guguyon 'fermentare' - 'fermentare ripetutamente').
Un altro processo morfologico è la cosiddetta parasintesi, che può essere sia
verbale che aggettivale. Una forma è parasintetica quando è formata da una
base più un prefisso ed un suffisso, in cui però la sequenza «prefisso+base»
non è una parola dell'italiano e nemmeno la sequenza «base+suffisso» lo è:
ingiallireè formato dal prefisso in-, dalla base aggettivale giallo e dal suffisso
-ire ma né *ingialloné 1'giallire sono sequenze grammaticali; abbottonare è
formato da una base nominale - bottone-, dal prefisso a- e dal suffisso -are,
ma né *abbottonené *bottonareesistono.
Esempi di parasintesi aggettivale sono parole come smemorato (*smemora,
·kmemorato), sfegatato(*sfegato,"]egatato).Questo processo è molto produttivo
nelle lingue romanze: è anzi uno dei modi più frequenti di formazione di nuovi
verbi (fr. agrandir'ingrandire', sp. alargar'allargare'), ma è ben rappresentato
anche nelle lingue germaniche come ad esempio ingl. en-light-en'illuminare',
ol. ver-arm-en'impoverire' e ted. be-reich-ern'arricchire'.
Infine, processi di formazione di parola più rari o più sporadici sono quello
che porta a retroformazioni (cfr X.3 .) (come in inglese il verbo edit da editor)
e quello che dà luogo alla formazione di ideofoni (come ad es. glu glu, bla bla,
ciacchete,bang, etciù, grr, umpapà, ecc.).

9. ALLOMORFIA
E SUPPLETMSMO

Si ha suppletivismo quando, in una serie morfologicamente omogenea, si


trovano radicali diversi che intrattengono evidenti rapporti semantici senza
evidenti rapporti formali. Un caso emblematico di suppletivismo è quello
della flessione del verbo andare, dove, a seconda delle forme del paradigma
flessivo, si alternano le radici and- e va(d)-:

(44) vado andiamo


vai andate
va andai
vanno andrei

Il suppletivismo si ritrova non solo nella flessione ma in tutto il dominio della


formazione delle parole. Per quel che riguarda la derivazione, si considerino
i seguenti esempi:
136 CAPITOLO5
-------------------------------

(45) N A
acqua idrico
fuoco pmco
cavallo equestre
maiale SUlilO

Idricoha con acquaun evidente rapporto semantico ma nessuna somiglianza


formale, ciò che è evidente anche per tutte le altre coppie di (45).
Idricopuò poi essere ulteriormente analizzato come idro+ico.Idro è connesso
nel lessico alla «parola» con cui intrattiene uno stretto rapporto semantico,
acqua.Le due unità formano un'entrata lessicale complessa e i suffissi che si
possono aggiungere a tali unità sono, di norma, in distribuzione complemen-
tare, come si può vedere qui sotto:

(46) -oso -lCO -atico -osi


acqua + +
idro + +

Un'entrata complessa può arrivare a comprendere diverse unità; per esempio


in italiano può capitare che accanto alla voce «principale», per così dire, siano
elencate due forme suppletive una [+greco] e l'altra [+latino]. Anche in questo
caso, vi è distribuzione complementare degli affissi:

(47) cavall+eria *cavali+estre *cavall+ico


*equ+eria equ+estre *equ+ico
*ipp+eria *ipp+estre ipp+ico

Il suppletivismo può essere sia forte che debole. È forte quando vi è alternanza
dell'intera radice (Chieti/teatino),è debole quando tra i membri della coppia
vi è una base comune riconoscibile e la differenza è di singoli segmenti fono-
logici (Arezzo/aretino).Non è semplice distinguere tra suppletivismo forte e
suppletivismo debole da una parte, così come non è semplice distinguere tra
suppletivismo e allomorfia dall'altra. Si considerino tre casi come i seguenti:

(48) a. Chieti - teatino


b. Arezzo - aretino
c. corretto - correzione

L'alternanza in (48c) è diversa da quella in (48a) perché tra le due forme alter-
nanti in (48c) vi è un evidente rapporto semantico accanto ad un altrettanto
evidente rapporto formale. Nell'alternanza in (48a) vi è un rapporto semantico
ma non vi è alcun rapporto formale. (48a) è un caso netto di suppletivismo
forte e (48c) è un caso netto di allomorfia.
Il rapporto tra le forme alternanti in (48a) è un rapporto «lessicale», cioè è
«dato» e deve essere memorizzato come tale. Il rapporto tra le forme di (48c),
invece, può essere espresso da una regola anche perché tale regola ipotizzata
non è ad hoc ma può dar conto di molti casi analoghi (per/etto/perfezione,
distratto/distrazione,circospetto/circospezione,ecc.).
LASTRUTTURADELLEPAROLE:MORFOLOGIA 13 7
~------------------------

Si consideri ora (486), un caso di suppletivismo debole. La differenza tra


(486) e (48a) è netta, come abbiamo già visto. Più difficile è distinguere tra
(486) e (48c).
Un criterio al quale si fa spesso ricorso è quello della «distanza fonologica»,
che si basa sul conto del numero di segmenti diversi tra una forma e l'altra.
Nel nostro caso, questo criterio pone le forme alternanti di (486) e (48c)
sullo stesso piano: entrambe si differenziano per un segmento: [ts:] - [t] nel
caso di (486) e [t:] - [ts:] nel caso di (48c). Ora, mentre la prima alternanza
si ritrova quasi esclusivamente in nomi etnici (cfr. Fidenza-fidentino, Pia-
cenza- piacentino)e rappresenta una regola fossile, la seconda è una regola
che serve a spiegare diverse forme alternanti dell'italiano (Marte ➔ marziano,
per/etto ➔ perfezione,ecc.).
Ne concludiamo che le alternanze (48a) e (486) sono alternanze suppletive
e (48c) è un'alternanza allomorfica. Le prime sono rappresentate nel lessico
(in quanto non prevedibili) mentre la seconda è frutto di una regola di riag-
giustamento (v. V.12.).
Il suppletivismo rappresenta dunque il polo estremo dell' allomorfia: il primo è
un'alternanza senza motivazioni fonologiche, la seconda si esprime attraverso
un'alternanza motivata fonologicamente.

10. TESTAIN DERIVAZIONE

Quando si mettono insieme due costituenti per formare una costruzione lin-
guistica più complessa, i due costituenti non sono sullo stesso piano: uno è,
per così dire, più importante dell'altro, per esempio è quello che attribuisce
a tutta la costruzione la categoria lessicale e molte altre proprietà.
Si considerino le seguenti parole:

(49) fama ➔ famoso


arnrninistra(re) ➔ amministrazione
veloce ➔ velocizzare

famoso, amministrazionee velocizzaresono rispettivamente aggettivo, nome


e verbo: queste tre categorie di 'arrivo' sono date dai suffissi (-osoche forma
aggettivi da nomi, -zioneche forma nomi da verbi e -izzareche forma verbi
da nomi). Si dirà dunque che nelle parole derivate in (49) la testa è, rispet-
tivamente, -oso,-zione,-izzare.In altri termini la testa è l'elemento di destra
in derivazione.
Il meccanismo che trasmette a tutta la costruzione le informazioni necessarie
è detto di percolazione(ingl. percolation)e si usa rappresentarlo nel modo
seguente:

(50)
138 CAPITOLO5
------------------------------~
La testa inoltre attribuisce alla parola in uscita altre informazioni. Si consi-
derino le seguenti derivazioni:

(51) a. bar ---->barista


b. friggere ---->frittura
c. anda(re) ---->andamento
d. atomo ---->atomizzare
e. gigante ---->giganteggiare

in (51a) è il suffisso a determinare che baristaè una parola col tratto [+umano];
in (516) è il suffisso a determinare che la frittura è un nome femminile mentre
è maschile in (5 lc); in (5ld) il suffisso produce un verbo transitivo, mentre
in (5 le) un verbo intransitivo.
Vi sono casi in cui il suffisso non sembra cambiare la categoria, ma cambia
comunque altre informazioni della parola di base. Si considerino i seguenti
esempi:

(52) a. bar ---->barista


b. magistrato ---->magistratura

In (52a) il suffisso -istaha cambiato il tratto [-animato] di barnel tratto [+ani-


mato] di barista, mentre in (526) il suffisso -ura, all'inverso, ha cambiato il
tratto [+animato] di magistratonel tratto [-animato] di magistratura;in questo
secondo caso, il suffisso ha anche cambiato il tratto [-astratto] in [+astratto].
I suffissi cosiddetti valutativi (-ino, -one, -accio,-astro,ecc.) spesso chiamati,
a seconda della semantica espressa, alterativi, diminutivi, accrescitivi, vezzeg-
giativi ecc. non cambiano mai la categoria della loro base, e nemmeno altri
tratti (tavolino è [-animato] come tavolo e ragazzaccioè [+animato] come
ragazzo)e dunque non sono teste:

(53) tavolo ---->tavolino


libro ---->librone
ragazzo ---->ragazzaccio
poeta ---->poetastro

Mentre la suffissazione, con le eccezioni viste, cambia quasi sempre la catego-


ria della base e sempre i suoi tratti sintattico-semantici, la prefissazione non
cambia la categoria della base:

(54) moglie ---->ex-moglie (nome testa nome)


elegante ---->inelegante (aggettivo resta aggettivo)
scrivere ---->riscrivere (verbo resta verbo)

dato che in una parola prefissata la testa è la base e non il prefisso e dato che
in una parola suffissata la testa è il suffisso, si può confermare la generalizza-
zione di cui sopra: in derivazione la testa si trova a destra.
LASTRUTTURADELLEPAROLE:MORFOLOGIA 139

11. COMPOSIZIONE

Come si è detto, mentre la derivazione consiste nell'aggiunta di una forma


legata ad una libera, la composizione consiste nell'unione di due forme libere,
di due 'parole' nella stragrande maggioranza dei casi. Possiamo rappresentare
il processo di composizione nel modo seguente:

(55) [ Jx, [ ]y -> [[ Jx [ ]y)z

X, Y e Z sono categorie lessicali, dunque i composti seguenti (56a) avranno


la struttura corrispondente in (566):

(56) a. capostazione
nave traghetto
lavavetri
agrodolce

Ciò che è peculiare della composizione è il fatto che le due parole che ven-
gono combinate esprimono una relazione grammaticale che è nascosta, non
è fisicamente presente, ma che tuttavia è 'recuperabile':

(57) capo (della) stazione


pesce (a forma di) spada
divano (che è anche) letto

Le regole della composizione possono combinare diverse categorie lessicali


ma l'uscita è di norma un nome, come si vede qui di seguito

(58) N+ _, N capo stazione


A+ _, N gentildonna
V+ _, N porta bagagli
P+ _, N sotto scala
V+P->N buttafuori
V+V->N saliscendi

Le uniche eccezioni riguardano il caso in cui sono coinvolti due aggettivi:

(59) A+ A-> A agrodolce


A+A->A grigioverde

o il caso in cui l'aggettivo sia un aggettivo di colore

(60) A+ _, A rosso mattone


A+ _, A grigio perla

Nelle varie lingue del mondo si riscontrano differenze per quel che riguarda
l'esistenza di verbi composti: mentre ad es. tali formazioni sono comuni in
140 CAPITOLO5

inglese, non lo sono in italiano (con l'eccezione di residui 'latini' come ad es.
crocefiggere,manomettere).

11.1. Composti dell'italiano

Quella che segue è una lista delle possibilità combinatorie della composizione
in italiano (date le categorie lessicali nome, aggettivo, verbo, preposizione ed
awerbio). Accanto vi sono altre specificazioni e cioè se il tipo di composto
esiste, se è produttivo, ed infine due esempi:

(61)
categoriedei cat. del esiste pro- esempi
costituenti composto duttivo
1. N+N N sì sì crocevia, pescecane
il. A+A A sì sì dolceamaro, verdeazzurro
lll. V+V N sì no saliscendi, giravolta
IV. P+P no *dicon, *senzaper
V. Aw+Aw Aw sì no malvolentieri, sottosopra
Vl. V+N N sì sì scolapasta, cantastorie
Vll. V+A no *pagacaro, *vedibello
Vili. V+P no *saltafra
IX. V+Aw N sì no buttafuori, cacasotto
X. N+A N sì no camposanto, cassaforte
xi. N+V V sì no manomettere, crocefiggere
Xli. N+P no *scalasotto, *abitosenza
xiii. N+Aw no *casamale, *tavolobene
XIV. A+N N/A sì no biancospino, verde bottiglia
xv. A+V no *gentileparla, *caropaga
XVI. A+P no *bellocon, *biancosenza
xvii. A+Aw no *bellobene, *biancooggi
xviii. P + N N sì no sottopassaggio, oltretomba
xix. P+A no *senzagentile, *soprabello
xx. P+V sì no contraddire, sottomettere
XXl. P+Aw sì no didietro, perbene

Come si può vedere, non tutte le combinazioni delle categorie teoricamente


a disposizione sono possibili. Vi sono combinazioni che mancano per
ragioni strutturali (per esempio tutte quelle con preposizione in seconda
posizione, dato che le preposizioni, per la loro natura, debbono stare da-
vanti e non dietro l'elemento retto). Da questi dati si può confermare che
la composizione in italiano forma essenzialmente nomi, tranne che nei due
casi visti sopra.
LASTRUTTURA MORFOLOGIA141
DELLEPAROLE:

11.2. Testa in composizione

Si consideri un composto come camposanto.La sua struttura si può rappre-


sentare nel modo seguente:

Come si vede, il composto ha la stessa categoria lessicale (nome) di uno dei


suoi costituenti, il nome campo(che è anch'esso nome). Diremo che campo
è la testa del composto e che la categoria N del composto «deriva», con la
modalità vista sopra della percolazione, dalla testa:

(63)

In altre parole, camposanto«È UN» nome perché campo«È UN» nome: è da


campoche la categoria nome viene passata a tutto il composto. Identificare la
testa di un composto è importante perché è dalla testa che deriva al composto
tutta una serie di proprietà. Per identificare la testa di un composto si può
applicare - come abbiamo appena fatto - il test «È UN». Questo test vale
sia per quel che riguarda la categoria lessicale (È UN nome), sia per quel che
riguarda la semantica (È UN 'campo').
Si consideri ora un altro composto, capostazione,e si applichi il test «È UN»
per la categoria lessicale:
(64) [[capo] [stazione]N]

In questo caso il test categoriale non dà una risposta chiara: capostazione«È


U » nome, ma sia capoche stazione«sono» nomi. Se si approfondisce l'analisi
si troverà però che capoè un nome [+maschile], [+animato] e che stazione,al
contrario, è un nome [-maschile], [-animato]. Capostazione«È UN» nome
[+maschile], [+animato] esattamente come capoe diversamente da stazione.
Caposarà quindi la «testa» del composto capostazione.
Questo esempio suggerisce che se non si riesce ad identificare la testa sulla
base della sola categoria lessicale, si può ricorrere ad altri tipi di informazioni,
come ad esempio ai tratti sintattico-semantici che fanno parte della rappre-
sentazione lessicale delle parole. Si noti che alla stessa conclusione saremmo
portati dall'applicazione del test semantico: capostazione«È UN» capo,non
«È U A» stazione.Ne possiamo concludere che è dalla testa del composto
che passano a tutto il composto a) le informazioni categoriali, b) i tratti
sintattico-semantici, c) il genere. Diremo quindi che un costituente è testa di
un composto quando tra tale costituente e tutto il composto vi è identità sia
di categoria che di tratti sintattico-semantici. In altri termini, una testa deve
essere sia testa categoriale che testa semantica.
142 CAPITOLO5

11.3. Ancora sulla «testa,,dei composti•

Vi sono lingue in cui la testa dei composti può essere identificata «posizionalmente».
Per esempio, in inglese, si dice comunemente che «la testa è a destra», come si può
verificare negli esempi che seguono:

(65) N+N=N apron string 'nastro del grembiule'


A+N=N black-board lett. 'nera asse, lavagna'
P+N=N overdose 'overdose'
V+N=N rattlesnake 'serpente a sonagli'
N+A=A honey-sweet 'dolce come il miele'
A+A=A icy cold 'freddo come il ghiaccio'

Come si vede, la categoria lessicale di tutto il composto è sempre uguale alla categoria
del costituente a destra. In italiano la situazione è più complessa. Si consideri ancora
una lista di composti:

(66) a. N + N pescecane ÈUN pesce (testa a sinistra)


N+A camposanto ÈUN campo (testa a sinistra)
b. A+ N gentiluomo ÈUN uomo (testa a destra)
c. N + N terremoto ÈUN moto (testa a destra)
d. N + N scuolabus ÈUN bus (testa a destra)

I dati in (66) sembrano suggerire che in italiano la testa di un composto può essere
sia a destra che a sinistra. Ma non è così. Analizzando i dati più da vicino, si noterà
che i composti come (666) presentano un ordine «marcato» (si dice normalmente un
uomo gentile non un gentile uomo) e non sono più produttivi in italiano. Per quelli
come (66c) si constaterà facilmente che si tratta di composti di origine latina (la e di
te"e è il residuo di un genitivo: 'moto della terra') ed infine per quelli come (66d) si
può facilmente vedere che si tratta di un calco dall'inglese, che ha testa a destra (per
la nozione di calco, v. Vl.3.1.).
Riassumendo, i casi di tipo (666) non sono produttivi, quelli di tipo (66c) sono residui
di uno stadio precedente della lingua italiana (illatino) e quelli di tipo (66d) derivano
da «contatti» sincronici con l'inglese. Ne concluderemo pertanto che la regola sin-
cronica produttiva per la formazione dei composti in italiano contemporaneo genera
composti con testa a sinistra, come quelli in (66a).
Non tutti i composti hanno però una testa. Si considerino gli esempi seguenti e le
loro strutture:

(67) a. saliscendi
b. portalettere
c. sottoscala

In (67a) nessuno dei due costituenti può essere testa del composto perché i due
costituenti hanno una categoria diversa dal composto; in (676) lettere sembra essere
testa del composto ma non lo è perché ha un tratto [-animato], mentre portalettere
è [+animato] (portalettere NON È un lettere); in (67c) vale lo stesso discorso: sotto-
scala NON È un tipo di scala, è uno spazio che si trova sotto una scala.
Distingueremo dunque tra composti endocentrici (che hanno una testa) e composti
esocentrici (che non hanno una testa). I composti endocentrici possono poi a loro
volta essere distinti in composti con una testa e in composti con due teste (come è il
caso dei composti coordinati, discussi nel paragrafo seguente).
LA STRUTTURA MORFOLOGIA143
DELLEPAROLE:

11.4. Classificazione dei composti

Come si è detto, i costituenti dei composti sono uniti da una relazione gram-
maticale non esplicita. Si considerino questi tre tipi di composti:

(68) portalettere
nave traghetto
cassaforte

In questi tre composti la relazione grammaticale tra i due costituenti è diversa:


nel primo caso lettereè l'oggetto del verbo portare,nel secondo caso vi è una
relazione di coordinazione (operatore 'e'), nel terzo caso forte è un attributo
di cassa.Sulla base di questi tre tipi di relazione grammaticale, è stata fatta
una classificazione in tre tipi: composti subordinati, composti coordinati e
composti attributivi. Rientrano in quest'ultima categoria non solo i composti
formati da un nome e un aggettivo ma anche quei composti formati da due
nomi in cui però uno dei nomi funziona come un aggettivo. Si considerino:

(69) discorso fiume


viaggiolampo

Discorsofiume indica un discorso 'lungo', viaggiolampoun viaggio 'rapido'. I


composti Nome+Nome di questo tipo si possono chiamare appositivi, e sono
raggruppabili con gli attributivi per la natura di tipo 'attributivo' della non
testa. Riassumendo con un grafico, avremo:

(70) Composti

subordinati coordinati attributivi/appositivi

Abbiamo ancora visto che ogni composto può essere endocentrico o eso-
centrico, a seconda che abbia o meno una testa e dunque, completando il
quadro classificatorio, i composti delle lingue del mondo possono rientrare
in questo schema:

(71) Composti

subordinati coordinati attributivi/app

endo
~eso ~eso
endo
~eso
endo
I I I I I I
capostazione lavavetri nave traghetto saliscendi cassaforte pellerossa
144 CAPITOLO5

11.5. Flessione dei composti

La flessione dei nomi composti è un aspetto piuttosto irregolare della morfo-


logia e non sempre si riescono a identificare delle regolarità senza eccezioni.
Un composto, come si è visto, è formato da Parolal + Parola2. Teoricamente,
la flessione dei nomi composti può presentare le seguenti possibilità:

(72) a. [Pl + P2] + Fless


b. [Pl + Fless] + P2 (dove Pl è la testa del composto)
c. [Pl + Fless] + [P2 + Fless]
d. Pl + P2
e. Pl + [P2 + Fless]
f. [Pl + Fless] + P2 (dove Pl non è la testa del composto)

I casi possibili possono pertanto essere i seguenti: flessione alla fine del com-
posto (72a); flessione dopo la prima parola del composto (72b); flessione
dopo entrambe le parole (72c). In questi tre casi, la flessione è flessione di
tutto il composto. Vi sono poi il caso di composti senza flessione (72d), cioè
composti invariabili, e due casi in cui la flessione è flessione non di tutto il
composto, ma di uno dei suoi costituenti: flessione di Parola2 (72e); flessione
di Parolal (72f).
Queste possibilità si realizzano tutte ad eccezione di (72f), come si può vedere
in (73):

(73) a. mezzogiorni b. navi traghetto


ferrovie mobili bar
camposanti capi stazione
c. cassepanche d. andirivieni
mezzelune tritacarne
terreferme voltafaccia
e. portalettere f. *filivia
guardasigilli *maniscritto
rompiscatole *scuole bus

Il plurale del tipo (73c), il plurale «doppio», sembra avere una duplice natura:
o è un plurale, per così dire, di «accordo» (tra nome ed aggettivo terre/erme)o
è un plurale di «doppia testa»: cassapanca «è sia una» cassa,«che una» panca
e quindi richiede la flessione di entrambi i costituenti.
Come si è detto in precedenza, però, è. difficile «prevedere» con regolarità il
plurale del composto. Le osservazioni sopra svolte sulla «testa» in alcuni casi
possono però aiutare. Si considerino questi tre composti: capostazione, capogiro
e capomastro; essi fanno il plurale in tre modi diversi e cioè capistazione(tipo
(736)), capogiri(tipo (73a)) e capimastri(tipo (73c)).
Ora, il tipo (73b) è un composto con testa a sinistra e flessione della sola testa;
il tipo (73a) è diverso perché la testa non è capoma giro,e quindi la flessione
DELLEPAROLE:MORFOLOGIA 145
LA STRUTTURA

sta a destra, sulla parola che è testa, ed infine capimastri(73c) si può spiegare
se si assume che si tratti di un composto di coordinazione che essenzialmente
si compone di due teste, flesse entrambe.
Un accorgimento molto importante è comunque di assicurarsi che i composti
in esame siano produttivi: solo per questi si può costruire una «regola». Con
un certo margine di approssimazione, si può dire che i composti produttivi
oggi sono quelli del tipo (736), vale a dire composti con testa a sinistra e
flessione della sola testa. Nel corso del tempo (e probabilmente in relazione
a fatti extralinguistici come la frequenza d'uso) i composti tendono a perdere
trasparenza, nel qual caso la testa diventa meno identificabile e il composto,
percepito come privo di struttura interna, viene flesso secondo la regola
generale di flessione dell'italiano, vale a dire «a destra».

11.6. Altri tipi di composti•

Le lingue del mondo presentano una grande varietà di tipi di composti. In partico-
lare vi sono composti costruiti con forme legate (i cosiddetti composti neoclassici) e
vi sono costruzioni «multiparole» per le quali - come appena visto - non è sempre
facile decidere se si tratta di composti o di sintagmi, come i composti incorporanti,
i composti sintagmatici, i composti reduplicati, ecc. Ne diamo qui di seguito alcuni
esempi.

• COMPOSTINEOCLASSICI
I composti neoclassici sono formati da due forme legate (74a) di origine per lo più
greca o latina (spesso detti confissi) o da una forma libera più una forma legata (746):

(74) a. antropo+fago
copro+lalia
parri+cida
b. dieta+logo -> dietologo
lacrima+geno -> lacrimogeno
calore+fero -> calorifero
callo+fugo -> callifugo

Queste formazioni sono molto produttive in tutte le lingue europee (basti pensare a
forme come -logia/-logocon cui si possono formare decine e decine di parole nuove:
politologo,musicologia,ecc.).

• COMPOSTIINCORPORANTI
I composti incorporanti derivano da un sintagma costituito da un verbo seguito da
un SN oggetto. L'incorporazione consiste nella formazione di un verbo composto il
cui primo costituente è il SN «oggetto». Di norma il nome incorporato nel verbo è
appunto l'oggetto, come si vede in questo esempio del nahuatl, una lingua uto-azteca
parlata in Messico:

(75) ni-c-qua in nacatl -> ni-naca-qua


'lo mangio la carne' 'io carne-mangio'
146 CAP_~_o_Lo_s
_______________________________ _

Si forma così un verbo che potrebbe corrispondere a qualcosa come carnemangiare.


Questo processo non è estraneo all'inglese, che ha formazioni come (to) babysit'fare
la babysitter' e (to)horseride'andare a cavallo' che sono sostanzialmente incorporanti.
In genere il nome incorporato è l'oggetto diretto, ma talvolta anche complementi
obliqui, come gli strumentali, possono essere incorporati come nel seguente esempio
nahuatl, precedentemente introdotto:

(76) ya' ki-kocillo-tete'ki panci


3sg it-knife-cut bread
'lett. lui coltellotaglia il pane'

Queste formazioni sembrano essere dei composti, tuttavia sono diverse dai composti
veri e propri, nel senso che le restrizioni sui composti tendono a riguardare la relazione
tra i due costituenti piuttosto che i significati individuali dei costituenti (a volte i nomi
incorporati possono essere solo quelli che designano le parti del corpo, in altri casi i
nomi propri non possono essere incorporati, ma i nomi umani non animati debbono
incorporare e così via).

• COMPOSTISINTAGMATICI
Un altro tipo di composto che si trova in inglese (77a) e in afrikaans (776) è detto
«composto sintagmatico», in quanto sembra più di origine sintattica che di origine
morfologica:

(77) a. a [pipe and slipper] husband 'un marito pipa e pantofole'


an [ate too much] headache 'un mal di testa (da) mangiato
troppo'
a [floor of a birdcage] taste 'sapore da pavimento di gabbia di
uccelli'
b. lach of ik schiet humor 'un umore da ridi o sparo'
God is dood theologie 'teologia da Dio è morto'

Che si tratti di costruzioni più sintattiche che morfologiche è testimoniato dal fatto
che in corrispondenti costruzioni dell'italiano si può inserire materiale lessicale, come
si vede qui di seguito:

(78) un marito pipa e pantofole


un marito tutto pipa e pantofole
un marito tutto casa, pipa e pantofole
un marito tutto casa, chiesa, pipa e pantofole
un marito tutto casa, chiesa anglicana, pipa Peterson e pantofole De Fonseca ...

• COMPOSTIREDUPLICATI
Si trovano composti reduplicati in tamil (79a) ma anche in spagnolo (796). Si tratta
di composti costituiti dalla stessa parola ripetuta ed hanno in genere un significato
intensivo o iterativo:

(79) a. vantu-vantu 'venire più volte'


b. picapica 'punge-punge' (pianta irritante)
duermeduerme 'dorme-dorme'
correcorre 'corsa precipitosa'
bullebulle 'ficcanaso'

Anche in italiano vi sono occasionali composti di questo tipo (leccalecca,/uggijuggi,


pigiapigia,ecc.).
LASTRUTTURADELLEPAROLE:MORFOLOGIA 14 7

• COMPOSTITRONCATI
In russo vi sono composti che vengono formati per troncamento o del primo costi-
tuente o di entrambi, come si vede qui sotto:

(80) zarabotnajaplata ➔ zar-plata


'guadagnato pagamento' 'salario'

In questi compostisi concatenano delle sottoparti dei due costituenti, un po' come le
cosiddetteparole-macedonia tipo motel (da motor 'motore' e hotel 'hotel') o smog(da
smoke'fumo' e/og 'nebbia'). Anche in italiano vi sono formazioni simili,ad esempio
con/commercio, con/industria.

12. MORFOLOGIA EALTRI COMPONENTI


12.1. Morfologia e fonologia

Quando le regole morfologiche combinano due forme libere o una forma libera
più una forma legata, la sequenza che ne risulta può essere o perfettamente
normale (81a) o può necessitare di piccoli riaggiustamenti fonologici (816):

(81) a. bar+ista ➔ barista


sotto+dimensionato ➔ sottodimensionato
lungo+mare ➔ lungomare
b. vino+aio ➔ vinaio
sotto+esposto ➔ sottesposto (facoltativa)
lungo+Arno ➔ lungarno

Per gli esempi in (816) vi è bisogno di una regola «di riaggiustamento» che
cancelli la vocale finale della prima parola. Sono regole di riaggiustamento
anche quelle che «riaggiustano» la vocale finale di parola in composizione
con una forma legata (v. V.11.6.): se una forma legata è di origine greca, la
vocale finale di parola diventa o, se è latina, la vocale finale di parola diventa
i, come si vede negli esempi riportati sopra in (746).
Altre regole di riaggiustamento riguardano casi di allomorfia (amico➔ amici,
dove agisce la regola di palatalizzazione della velare) o sporadici casi di inse-
rimento come gas ➔ gassoso,cognac➔ cognacchino.

12.2. Morfologia e sintassi

on è sempre facile distinguere tra composti (prodotto delle regole morfo-


logiche) e sintagmi (prodotto delle regole sintattiche; v. VII.2.). Per esempio,
ferro da stiro, produzionescarpesono composti o sintagmi? Diversi criteri
sono stati proposti nel tempo per distinguere tra questi due tipi di unità, noi
qui faremo riferimento solo a due di questi criteri: l'inseribilità di materiale
lessicale e la trasparenza ai processi sintattici. Un composto è una parola, la
148 CAPITOLO5
-----------------~~~-------------~
parola è caratterizzata dal fatto (come si è visto sopra) che non è interrompibile:
non si può cioè (tranne nel caso degli infissi) inserire del materiale lessicale
all'interno di una parola:

(82) libro -+ *li-mano-bro, *1-amo-ibro,*libr-ieri-o

Meglio ancora, le parole sono «isole», nel senso che non vi si può inserire
nulla (come appena visto) né estrarre nulla (*lbro,*liro, ecc.). Se si applica
dunque questo criterio, costruzioni come /erro da stiro (°''ferropesanteda stiro)
sembrano essere dei composti, mentre più problematica è la decisione per
costruzioni come produzionescarpe(cfr. produzioneinvernalescarpe).
Il secondo criterio riguarda il fatto che i costituenti di un composto (ma anche
di una parola derivata) non sono «visibili» alle normali regole della sintassi.
Si considerino le due frasi qui sotto:

(83) a. *questa [[lava]+[piatti]] è costosa ma non li lava bene


b. *sono proprio i [[reagan]+iani] che non lo amano

In entrambe queste frasi il pronome (/i/lo) non può «fare riferimento» ri-
spettivamente a piatti ed a Reaganperché queste due parole sono «opache»
alle regole della sintassi: sono parole complesse al cui interno la sintassi non
può «entrare». Lo stesso tipo di riferimento è invece possibile se le parole
in questione non sono incorporate in una struttura morfologica (cfr. Giorgio
lavai piatti ma non li lavabene e Sonoproprioi sostenitoridi Reaganche non
lo amano).

12.3. Morfologia e semantica

La formazione delle parole consta di una parte formale e di una parte se-
mantica.
È naturale che i processi di formazione di parola abbiano una diretta relazione
con la semantica, giacché gli affissi portano con sé la loro parte di significato
che si unirà in una funzione con il significato della parola di base. Allo stesso
modo la semantica entra in composizione, giacché le singole semantiche dei
due costituenti dei composti si formano per dare luogo al significato della
forma di uscita.
In affissazione, si consideri il significato delle parole suHissate vinaio,giorna-
laio,verduraio,che può essere reso con le parafrasi in (84):

(84) vino+aio = 'persona che vende vino'


giornale+aio = 'persona che vende giornali'
verdura+aio = 'persona che vende verdura'
Come si vede, il significato delle diverse parole in -aio consta di una parte
fissa ('persona che vende') e di una parte variabile ('vino', 'giornali', ecc.).
LA STRUTTURA MORFOLOGIA 149
DELLEPAROLE:

La parte «fissa» è la parte di significato, per così dire, introdotta dal suffisso,
mentre la parte variabile corrisponde al nome di base. Possiamo quindi
arrivare ad una parafrasi unica se formuliamo il significato utilizzando delle
variabili:

(85) 'persona che vende N' (dove N è la base)

Questa parafrasi può essere applicata ad un gran numero di parole in -aio.


Non a tutte però. Per esempio un orologiaio «vende» orologi ma li «ripara»
anche o addirittura li «fabbrica». La parafrasi in (85) non è ancora abbastanza
generale ed andrà quindi modificata con (86):

(86) 'persona che svolge un'attività connessa con N'

Si noti che in altre occasioni a significati diversi possono corrispondere suffissi


diversi: ad esempio giornalaioè chi vende i giornali mentre giornalistaè chi
li scrive; fioraio implica un'attività forse meno sofisticata di quella indicata
da fiorista. Ed ancora, esiste una serie di forme in -aio (come pollaio, granaio,
cimiciaio,formicaio, ecc.) per le quali la parafrasi non è quella in (86) ma
'luogo pieno di'. Vi sono infine formazioni in -aia (cfr. abetaia,/ragolaia)in
cui la parafrasi implica un qualche tipo di coltivazione.
Passando ad un altro suffisso, il suffisso -bile, si può constatare che la sua
semantica ha un significato «passivo» come rivelano le seguenti parafrasi:

(87) osservabile= 'che può essere osservato'


mangiabile= 'che può essere mangiato'

Tale parafrasi si può riassumere, analogamente a quanto fatto sopra, in una


forma astratta più generale come in (88):

(88) 'che può essere X-ato' (dove X è un verbo transitivo)

La semantica di una parola complessa è trasparente o composizionale, vale


a dire che il significato della parola complessa si può ricavare dal significato
degli elementi componenti. Nella formazione delle parole, la semantica svolge
anche un altro ruolo: i vari suffissi selezionano uno dei significati della base.
In altre parole, gli affissi come quelli in questione si possono unire solo a certe
basi a seconda del significato della base (si parla di restrizioni sull'entrata). È
il caso in italiano del verbo tentare e dei suffissi che gli si possono aggiungere.
Tentareha due significati, il primo dei quali potremmo equiparare a 'provare',
mentre il secondo è legato al significato di 'indurre in tentazione, provocare'.
Affissi diversi selezionano significati della base diversi.

(89) tentare -zione -tivo -tare


'provare' no (a) sì (b) no (c)
'provocare' sì (d) no (e) sì (f)
150 CAPITOLO5

(a) *Ho fatto una tentazione, ho provato a entrare.


(b) Ho fatto un tentativo, ho provato a entrare.
(c) *Quell'uomo è un tentatore, prova in tutti i modi a entrare in quella
scuola.
(d) La cioccolata è una tentazione troppo grande per resistervi.
(e) *La cioccolata è un tentativo troppo grande per resistervi.
(f) Il diavolo è un tentatore che finge di non esistere.

Vi sono diversi casi in cui il significato interagisce con la formazione delle


parole, uno di questi è stato chiamato «blocco» (blocking),che è un tipo di
restrizione semantica sull'uscita. Il blocco, in una definizione generale, av-
viene quando una parola complessa non viene formata, ferma restando la sua
possibile buona formazione fonologica, morfologica e sintattica, perché esiste
già un'altra parola nel lessico che copre il significato che la parola complessa
in questione andrebbe a rivestire.

(90) a. elegante ➔ inelegante


b. bello ➔ *inbello perché esiste 'brutto'

(91) ingl.
a. curious ➔ curiosity
b. glorious ➔ *gloriosity perché esiste 'glory'

Con «blocco» si definisce anche la condizione per cui alcuni affissi bloc-
cano, appunto, l'applicazione di altri affissi loro concorrenti, per così dire:
la negazione di correttosi fa col prefisso s- (scorretto)e questo 'blocca' la pur
possibile forma con in- (1'incorretto),o al contrario incapacevs.*scapace. Dato
che esistono diversi controesempi alla cosiddetta regola del blocco (per esem-
pio parole formate con suffissi 'rivali' come coordinamento/coordinazione),
ne concluderemo che non si tratta di una regola vera e propria ma piuttosto
della tendenza generale a non creare sinonimi.
Finora, abbiamo detto che le regole di formazione di parola hanno signifi-
cato composizionale. Ciò è vero quando la regola è produttiva, mentre una
parola che permane a lungo nel lessico può acquistare, come si è già detto,
significati idiomatici non più desumibili dagli elementi che la costituiscono.
Ad esempio, una parola come tavolaccionon significa soltanto 'un pessimo
tavolo' ma si riferisce anche al 'giaciglio del prigioniero', significato, questo,
che non si può desumere dai due costituenti tavolo e -accia.Si tratta delle
cosiddette idiosincrasie, owero, casi della lingua in cui il comportamento
delle unità linguistiche, in questo caso delle parole, non è prevedibile o non
risponde a regole sincroniche produttive. Per tornare al caso visto prece-
dentemente, X -bile ha parafrasi di aggettivo 'che si può X', ma abbiamo
dirigibile,che (ormai) è un nome e significa 'aerostato' e non 'che può essere
diretto'.
Per quanto riguarda la composizione, si è visto che la relazione semantica tra
i costituenti è un primo criterio della classificazione dei composti. Inoltre, il
LASTRUTTURADELLEPAROLE:MORFOLOGIA 151
------------------------
contenuto semantico è fondamentale nel rintracciare la testa in composizione.
Nello stesso modo in cui si assiste a idiosincrasie in affissazione, vi sono casi
di semantica non composizionale nei composti. Un esempio, in italiano, è
quello di pomodoro:il pomodoro non è un 'pomo di oro'. Allo stesso modo,
parole come gentildonna,alto/orno,santabarbara,e così via, non hanno se-
mantica trasparente, rintracciabile cioè tramite la somma della semantica dei
due costituenti. Parliamo dunque, in questi casi, di composti lessicalizzati,
vale a dire forme immagazzinate nel lessico come tali e dunque non formate
tramite regole.

NOTA STORICO-BIBLIOGRAFICA

Il termine morfologia è di origine abbastanza recente: esso risale probabilmente all'inizio


dell'Ottocento, ed era stato coniato nell'ambito delle scienze biologiche, con il significato di
«studio delle forme degli animali», ossia di «anatomia comparata». Successivamente, entrò anche
nel lessico tecnico della linguistica, indicando lo «studio delle forme delle parole». Lo studio
delle parole era comunque praticato fin dall'antichità, tanto che si può dire che la grammatica
greco-latina è per la maggior parte incentrata sulla morfologia e sulla classificazione delle parole
in parti del discorso: il primo sistema di parti del discorso è quello attribuito al grammatico e
filologo greco Dionisio Trace (I sec. a.C.), ed esso in buona parte coincide con quello tuttora
in uso nelle grammatiche scolastiche della maggior parte delle lingue europee. L'analisi della
parola nei grammatici antichi differisce però in modo notevole da quella odierna, in quanto
dagli antichi le parole non vengono scomposte nei loro elementi costitutivi, i morfemi, ma ven-
gono analizzate come unità che possono assumere forme diverse. Ad esempio, un determinato
verbo assume diverse forme a seconda della persona, del tempo, del modo, ecc., ossia presenta
il cosiddetto paradigma: per questo i modelli morfologici dei grammatici antichi, che di fatto
sono sopravvissuti fino al XIX secolo, sono chiamati a «parola e paradigma».
L'analisi delle parole in tema, radice e desinenza si impone solo nell'Ottocento, con la nascita
e lo sviluppo della linguistica storico-comparativa (cfr. cap. X e relativa nota). Il termine mor-
fema fu coniato verso il 1880 da Baudoin de Courtenay (v. nota al cap. IV), ma diventò di uso
comune solo nel Novecento, con l'affermarsi della linguistica strutturale (v. nota al cap. II).
Tra gli studi di morfologia dovuti ai linguisti strutturalisti, sono particolarmente importanti
quelli di L. Bloomfield (1887-1949): segnaliamo soprattutto i capp. X-XIVdi Bloomfield
[1933], in cui, tra l'altro, sono analizzati approfonditamente i concetti di parola e di morfema,
si classificano i vari tipi di parole (semplici, complesse, derivate, composte) ed è introdotta
la distinzione tra forme «libere» e forme «legate». Le analisi di Bloomfield furono riprese e
sviluppate da altri strutturalisti americani, tra i quali segnaliamo Z.S. Harris, C.F. Hockett e
E. Nida.
Con la nascita della grammatica generativa, anche la morfologia viene ad essere descritta come
un sistema governato da regole e una mole impressionante di lavori (da metà anni Settanta in
poi) ha finito con l'individuare molte più regolarità di quante non se ne sospettassero. In questo
ambito, bisogna ricordare soprattutto la monografia di Aronoff [1976] e le varie applicazioni
all'italiano di Scalise [1983; 1994]. Un manuale recente è Scalise e Bisetto [2008] mentre un
volume interamente dedicato a vari aspetti della composizione è Scalise e Vogel [2010]. Una
152 CAPITOLO5

corrente altrettanto importante è quella della cosiddetta morfologia naturale, dovuta soprat-
tutto al lavoro del Wolfgang Dressler [per es. Dressler et al. 1987]. Una buona fonte di dati per
l'italiano si trova in Dardano [1978e].

DOMANDE

1. Come si può definire la «parola»?


2. Quali «categorie lessicali» conosci?
3. Come si può definire il «morfema»?
4. Che differenza c'è tra parola e morfema?
5. Quanti tipi di parole conosci?
6. Come si possono classificare i morfemi?
7. Che cos'è un allomorfo?
8. Che differenza c'è tra derivazione e composizione?
9. Che cos'è un composto esocentrico. Ne sapresti dare tre esempi?
10. Che cos'è il suppletivismo?
Lessico
e lessicologia

In questo capitolo ci occuperemo brevemente del lessico da vari punti vista, da quello
lessicograficoa quello mentale; prenderemo anche in esame prima la stratificazione del
lessico dell'italiano, poi la struttura del dizionario monolingue ed infine illustreremo
diversi tipi di dizionari.

INTRODUZIONE

Così come ci sono due accezioni di grammatica (una è la grammatica «mentale»


dei parlanti, l'altra è la grammatica così come viene compilata dai linguisti;
v. II.3.5.), ci sono almeno due accezioni di lessico: uno è il lessico mentale
dei parlanti e l'altro prende la forma del dizionario o vocabolario, così come
viene realizzato dai lessicografi. Le grammatiche ed i dizionari di linguisti e
lessicografi possono essere più o meno adeguati alle conoscenze grammaticali
e lessicali dei parlanti.
Di solito lessico si oppone a grammatica così come «memorizzato» si oppone a
«costruito tramite regole». Le parole di una lingua (penna,libro,/oglia,mare)
sono memorizzate, mentre le frasi sono costruite tramite regole, ma non me-
morizzate (come abbiamo già detto, non esiste un dizionario di frasi, se non
di frasi fatte, proverbi, ecc., v. VI.2.2.). Una parola semplice (come appunto
penna,libro,ecc.) non è costruita tramite regole: va memorizzata, ricordata e
«ripescata» quando serve. Ci si può domandare che cosa è «elencato» e che
cosa è «formato tramite regole». Una prima risposta potrebbe essere che vi
è una scala come la seguente:

(1) morfema> parola> sintagma> frase

secondo la quale (generalizzando molto) tutti i morfemi di una lingua deb-


bono essere memorizzati, molte parole debbono essere memorizzate, quasi
154 CAPITOLO6
---~~----

tutti i sintagmi sono costruiti tramite regole, tutte le frasi sono costruite
tramite regole. Naturalmente questa è solo una semplificazione ma serve ad
impostare il problema.

1. ILLESSICO
MENTALE

Con lessico mentale si intende un sottocomponente della grammatica dove


sono immagazzinate tutte le informazioni (fonologiche, morfologiche, se-
mantiche e sintattiche) che i parlanti conoscono relativamente alle parole
della propria lingua. Con lessico mentale intendiamo dunque non solo la
conoscenza delle parole prese una per una, ma anche le conoscenze relative
al funzionamento delle parole e dei complessi rapporti tra le varie parole, tra
varie classi di parole, ecc.
Che esista un lessico mentale è facilmente constatabile: ognuno di noi (come
si è già detto in V.2.) è in grado di elencare una lista di parole a caso oppure
è in grado di fare una lista di nomi (casa,giostra,pazienza), di verbi (volare,
sognare,trascendere),di aggettivi (elegante,giocoso,/antastico),ecc. Più spe-
cificamente ancora, ogni parlante è in grado di fare una lista di nomi concreti
(tavolo, matita, libro), di nomi astratti (virtù, allegria,astuzia), di aggettivi in
-bile (amabile,contabile,leggibile),di verbi della prima coniugazione (amare,
collocare,salpare),ecc.
In altri termini, ogni parlante è in grado di estrarre dal proprio lessico
mentale delle liste di parole con certe caratteristiche. Certo, il parlante non
sarà né veloce né esaustivo come potrebbe esserlo un computer, ma di fatto
è abbastanza evidente che i parlanti hanno accesso a un proprio dizionario
«mentale».
In realtà, il lessico implica conoscenze ben più profonde da parte dei parlanti,
conoscenze che coinvolgono attività sia cognitive che dovute alla scolarizza-
zione, come riconoscimento, comprensione, produzione, lettura e scrittura
delle parole, ma anche collegamenti tra le varie unità e rapporti semantici come
sinonimia, antonimia, ecc. (v. cap. II e cap. VIII) e soprattutto conoscenze
che riguardano il funzionamento delle parole una volta «estratte» dal lessico
e collocate all'interno di frasi. Bisogna dunque supporre che alle parole siano
associate informazioni molto complesse perché possano funzionare morfo-
logicamente, sintatticamente e semanticamente. Un verbo come amare, ad
esempio, sarà etichettato come [+regolare], mentre un verbo come cuocere
come [-regolare] dato che il suo participio passato è cotto e non* cuociuto.Un
verbo come mangiaresarà marcato come [+transitivo] (potrà dunque avere
un oggetto), mentre un verbo come camminaresarà marcato come [-transi-
tivo], dato che non può avere un oggetto ('~camminareun marciapiede).Un
verbo come nascondere(a differenza di mangiare,che è solo facoltativamente
transitivo) sarà marcato come obbligatoriamente transitivo (cfr. io mangio vs.
*io nascondo).Un aggettivo come alto può avere il superlativo (altissimo),
può avere un contrario (basso)ed è graduabile (più alto, meno alto), mentre
LESSICOE LESSICOLOGIA155

un aggettivo come postale non può avere un superlativo (*postalissimo),non


ha un contrario lessicale e non è graduabile (*più postale, *meno postale).
I parlanti hanno anche conoscenze relative a come si «traducono» i suoni di
una parola nella grafia del proprio alfabeto (e dunque al fatto che - come si
è visto nel cap. IV - a suoni uguali possono corrispondere grafemi diversi
([k] in cara,chiodo e quadro).
Da un punto di vista linguistico il problema dell' «accesso» al lessico richiede
risposte relative a come gli esseri umani hanno accesso alle conoscenze lessicali
e come tali conoscenze debbono essere rappresentate.
Per quel che riguarda la rappresentazione delle parole nel lessico, un problema
su cui si discute tuttora molto è se le parole sono rappresentate effettiva-
mente con un lemma solo o se questo debba essere rappresentato insieme
a tutte le sue forme flesse e a tutte le sue forme derivate («rappresentato»
qui significa «memorizzato», «elencato» e comunque non derivato tramite
regole). Nel capitolo V abbiamo assunto che nel lessico vi siano solo forme
non flesse. Questa è una posizione logica ed «economicamente» corretta. Va
detto però che ricerche di psicolinguistica recenti lasciano aperta la porta a
varie possibilità; oggi si sostiene, ad esempio, che alcune forme flesse siano
immagazzinate nel lessico e non formate tramite regole (si deve supporre che
siano memorizzate soprattutto le forme flesse irregolari come l'alternanza di
forme verbali tipo posso/puoi/può, o le forme suppletive come vado/andai,
o i plurali irregolari come uovo/uova, o i casi in cui il plurale dei nomi viene
usato più frequentemente del singolare, come capelli,soldi, scarpe).
Per quel che riguarda le modalità con cui gli esseri umani hanno accesso al
lessico, vi sono vari modelli. Uno di questi suppone che alle parole si acceda
tramite i primi suoni delle parole stesse: se sentiamo la parola Baltimora,prima
si attiverebbero tutte le parole che iniziano con [b], poi parole con [ba], poi
ancora parole con [bal] e così via sino al «punto di non ritorno» (fino a balti
ci potrebbe essere baltico,ma con baltim solo Baltimora), cioè fino all'indivi-
duazione univoca della parola in questione (lo stesso sistGmapotrebbe essere
basato sulle sillabe invece che su singoli suoni). Un altro problema riguarda il
fatto se il riconoscimento delle parole avviene solo sulla base dell'input fone-
tico o se vi è (come sembra logico) anche ausilio di informazioni contestuali
sintattiche e semantiche.

2. DIZIONARI

Un dizionario potrebbe forse corrispondere al «dizionario mentale» che


gli esseri umani hanno immagazzinato nella mente, ma si è visto che non è
proprio così: la lessicografia tradizionale (la disciplina che si occupa della
progettazione e della realizzazione dei dizionari) non aveva questo obiettivo.
Un dizionario, infatti, non è un tentativo di descrivere la competenza lessicale
diun parlante, dato che un dizionario contiene un numero altissimo di parole
in larga parte sconosciute a ognuno di noi; basta fare una semplice prova e
156 CAPITOLO6

leggere tutti i lemmi di un paio di pagine di un dizionario annotando tutte le


parole che non si conoscono o sul cui significato si è incerti: sono sorpren-
dentemente molte. Un dizionario si pone piuttosto a livello della langue nel
senso che è l'insieme delle parole usate da tutta una comunità linguistica (e
dunque contiene, come abbiamo appena visto, sia parole di uso comune, sia
parole che fanno parte di lessici specialistici o settoriali). Un dizionario però
è anche molto di più di questo perché in un dizionario vi è molta diacronia
(v. II.6.) e vi si conservano parole che appartengono a fasi precedenti della
lingua e che pertanto non sono più in uso.
Vediamo rapidamente come è costruito un dizionario. Innanzitutto, come si è
già visto nel capitolo V, un dizionario è costituito da entrate lessicali o lemmi
e non da forme di parole flesse. Dunque, dato che i parlanti producono di
norma frasi (a parte il caso di quando facciamo degli elenchi, come la lista
della spesa) che sono costituite da parole e che le parole nelle frasi sono ob-
bligatoriamente flesse, è necessario lemmatizzarele parole (le forme verbali
avremmo amato, amando, amavamo, amammo, ecc. vanno tutte ricondotte al
lemma amare).Questa operazione è a volte complessa, perché non è sempre
facile attribuire una categoria e una sola a una forma: le parole potere, voleree
saperedebbono avere due entrate diverse, una per il Verbo e una per il Nome,
oppure debbono avere un'entrata unica? Lo Zingarelli ha un'entrata unica
per queste tre parole, anche se potere ha una flessione nominale (i poteri) che
volere (i voleri?)e sapere(i saperi?)non hanno o non hanno in forma così co-
dificata come i poteri. In tutti e tre questi casi il Dizionariodella linguaitaliana
di De Mauro (DM) e il DISC hanno entrate diverse per il verbo e per il nome.
I dizionari sono costruiti a partire da corporaper lo più scritti: un corpusgi-
gantesco potrebbe essere costituito da tutto ciò che è stato scritto a partire da
Dante ad oggi. Un corpus specialistico potrebbe essere costituito dai manuali
di chimica del XXI secolo o dai sussidiari per i bambini delle elementari.
In un dizionario il lemma è di solito evidenziato in neretto, segue (nei dizionari
migliori) la trascrizione fonetica o fonologica, l'etimologia e la definizione
della categoria lessicale. Vi sono poi di norma degli esempi e le varie accezioni
di significato.
Abbiamo già detto che in un dizionario ci sono più parole di quelle che un
parlante nativo possiede, ma è giusto sottolineare che in un dizionario vi è
anche «di meno» di quel che un parlante nativo «sa» sul lessico della pro-
pria lingua. Per esempio se un processo è molto produttivo non è registrato
nel dizionario: le parole in -mente dello Zingarelli sono poche decine e tra
queste non si trovano awerbi come dolcemente o furtivamente e ciò perché
il processo di formazione di queste parole è molto produttivo (praticamente
per una buona metà degli aggettivi italiani può esistere il corrispondente
awerbio in -mente).
Un dizionario è necessariamente sempre arretrato sia rispetto ai neologismi
(parole nuove) che sorgono continuamente, sia rispetto ai significati nuovi
che le parole possono assumere (come ad esempio navigareche oggi si rife-
risce anche alla 'navigazione in rete'). Esistono anche degli «osservatori» dei
LESSICOE LESSICOLOGIA15 7

neologismi, centri attrezzati dove vengono registrate tutte le parole nuove


che compaiono a stampa.
È importante distinguere tra dizionario ed enciclopedia: diremo che un
dizionario è una lista di parole che contiene informazioni sulla natura e
sull'uso delle parole, mentre un'enciclopedia contiene informazioni su tutto
lo scibile umano. Di una parola come giardino nel dizionario troveremo
informazioni grammaticali di vario genere (ad es. che si tratta di un nome
[+comune, +maschile, -animato]), mentre in un'enciclopedia troveremo la
storia del giardino (dell'oggetto «giardino» non della parola giardino... ), da
quelli cinesi e giapponesi a quelli rinascimentali, dal giardino all'italiana ai
giardini all'inglese,ecc. Il dizionario dovrebbe definire conoscenze soprattutto
di tipo linguistico-lessicale, l'enciclopedia le nostre conoscenze del mondo.

2.1. Un esempio: la preposizione «a,.•

I dizionari contengono dunque informazione linguistica. Sopra si è detto che i dizionari


non hanno lo scopo principale di rappresentare le conoscenze lessicali dei parlanti,
dato che contengono moltissime forme obsolete, di origine dialettale, di uso solo
letterario, ecc. Vero è però che i moderni dizionari (che fanno largo uso di liste di
frequenza e che hanno visto l'importante collaborazione di lessicografi e linguisti)
differenziano tra i vari livelli di uso e in alcuni casi rendono accessibili informazioni
molto elaborate. Si prenda ad esempio la voce a nel DM.
Sotto questa voce la lista dei significati di questa semplice paroletta è impressionante:
a indica spazio (andareal cinema),tempo (a maggio),passaggio (da qui a lì), termine
(aMario),strumento (barcaa vela),moda/stile (all'inglese),prezzo (a tremilaal chilo),
causa (alminimo rumore),vantaggio (utileallasocietà).Ha funzioni di relativa (i primi
a vederlo),predicativa (chiamarequalcunoa testimone),limitativa (brutto a vedersi),
distributiva (due volte al giorno),causale o finale (andarea lavorare),condizionale (a
dire il vero), temporale (al vederlo),di inizio di azione (cominciarea lavorare),agen-
tiva (farfare il lavoroal meccanico).Forma locuzioni: sostantivate (onoreal merito),
preposizionali (al contrariodt), avverbiali (a vanvera),congiuntive (a meno che).
Si noti che tutti questi usi fanno parte delle conoscenze lessicali (implicite) dei par-
lanti. Ma si ricordi anche che una grammatica o un dizionario (anche se costruiti
da specialisti) difficilmente potranno essere descrittivamente adeguati rispetto alle
conoscenze dei parlanti (per es. nella lista appena data si potrebbero classificare solo
con qualche difficoltà altri usi di a come in: condannareallapena di morte, bandiera
a stelle e strisce,ecc.).
Questo esempio rende evidente quanto si è detto in VI.l., e cioè che il lessico men-
tale è costituito, oltre che dai differenti sensi delle parole, anche dalle «istruzioni per
l'uso», uso sintattico naturalmente.

2.2. LesskaHzzazioni

Le entrate del dizionario sono in grande maggioranza, come si è detto nel


capitolo precedente, parole semplici non flesse. Gli altri tipi di parole ven-
158
---------------------------------
CAPITOLO6

gono invece «costruiti» tramite le regole della morfologia, come si è visto nel
capitolo V (derivazione, composizione e flessione). In realtà in un dizionario
non si trovano solo parole semplici, si trovano anche altre unità, tra cui le
forme lessicalizzate e le sigle. In altri termini, in un dizionario devono trovare
posto tutte le forme imprevedibili, che non si possono spiegare o analizzare
in modo regolare, forme cioè che non vengono formate tramite regole e che
pertanto hanno forme o significati idiosincratici.
Così, accanto a parole semplici come libro o come sollevare (che sono «ir-
regolari» nel senso che sono del tutto immotivate; v. cap. II), si troveranno
quelle espressioni il cui significato non è desumibile dalla somma dei signifi-
cati delle parti, come le cosiddette lessicalizzazioni,dette anche costruzioni
polirematiche.
Sono casi di lessicalizzazione le espressioni idiomatiche come tagliare
la corda, scoprire il fianco, ecc., ma anche unità originariamente frasali
come nontiscordardimé. Si può supporre che tali unità abbiano struttura
interna, ma che tale struttura sia opaca, vale a dire non analizzabile sulla
base di regole produttive della grammatica. Si può supporre che tali unità
abbiano subito una ricategorizzazione, come è probabilmente il caso per
nontiscordardimé che ha struttura frasale internamente ma che, per quel che
riguarda i suoi rapporti sintattici, vale come un nome dato che la categoria
più «esterna» è nome e non frase: [[#non+ti+scordar+di+me#]F]N. on-
tiscordardimé si comporta sintatticamente come un nome (cfr. raccoglimi
dei fiori/raccoglimi dei nontiscordardime/ e la sua struttura frasale interna
è, si potrebbe dire, opaca, non più trasparente. Se vi inseriamo un qualsiasi
elemento, infatti, ne distruggiamo l'unità oscurandone il significato (cfr. *rac-
coglimi dei non ti scordar mai più di me) e lo stesso accade se vi applichiamo
una delle normali regole della sintassi (*di me non ti scordar). Il processo di
lessicalizzazione fa sì che un gruppo di più parole si trasformi in una unità
lessicale che si comporta come una parola sola indipen-den-temente dalla
sua struttura interna.
Questo processo va distinto da un altro processo, anch'esso diacronico, noto
col nome di grammaticalizzazione,per cui una unità perde il suo significato
lessicalee ne acquisisce uno grammaticale, come il suffisso dell'italiano -mente,
che oggi è un suffisso mentre in latino era una parola (mens, mentis, ablativo
mente) o come l'inglese -able, che oggi può essere sia un aggettivo (be is not
able to do it 'non è capace di farlo') che un suffisso (drink-ab/e 'bevibile')
mentre in passato era soltanto un aggettivo (v. anche più avanti, X.3.).

2.3. Sigle e abbreviazioni•

Anche le sigle sono il risultato cliprocedimenti di formazione di parola sporadici,


non prevedibili. Si tratta di processi climorfologia «minore», che non possono essere
descritti né come derivazione né come composizione. Nella maggioranza dei casi si
tratta di «cancellazioni». Si considerino i seguenti esempi:
LESSICOE LESSICOLOGIA15 9

(2) a. anche la CGIL può sbagliare


b. la Tv potrebbe avere una grande funzione educativa
c. la prof di scienze è severa
d. due parole di spiega non farebbero male

Le parole in corsivo risultano tutte dall'abbreviazione di unità più lunghe: Confede-


razione Generale Italiana (del) Lavoro, televisione, professoressa, spiegazione.
Naturalmente si tratta di processi diversi: in (2a) è stato formato un acronimosulla
base delle lettere («lettere», si noti, non suoni) iniziali di ogni parola del sintagma di
partenza. Acronimi si possono formare anche sulla base delle sillabe iniziali (cfr. ALPRO
da Alleanza (per il) progresso, Ascom da Associazione commercianttì. Fondamental-
mente anche Tv è un acronimo, ma la base di partenza è una parola (complessa), non
un sintagma. Un buon dizionario di italiano può elencare fino a 1.500 sigle.
Altri processi sono all'origine di parole come polfer da polizia ferroviaria. Tali for-
mazioni sono chiamate, come si è visto nel capitolo precedente, parole-macedoniao
incroci e derivano da abbreviazioni di parti di parole.
(2c) e (2d) sono invece diversi: qui si tratta di sottrazione di una parte della parola.
I due casi non sono però assimilabili. In pro/la parte sottratta è essoressa che non è
un'unità morfologica (per esempio non è un suffisso).
In spiega, invece, la parte «sottratta» è una unità morfologica e cioè -zione: in questo
caso sembra lecito pensare che si sia partiti da destra e ci si sia arrestati al confine
di un'unità morfologica: la parte cancellata infatti è il suffisso -zione. Tra gli esempi
(2a) e (26) da una parte e gli esempi (2c) e (2d) dall'altra esiste però una differenza
di «registro» linguistico: (2a) e (26) fanno parte della lingua standard, mentre (2c)
e (2d) appartengono piuttosto a linguaggi settoriali e in certi contesti sarebbero
stigmatizzati.
In inglese i processi appena visti sono particolarmente diffusi: he is a TA (= teaching
assistent) 'lui è un assistente che insegna', con la particolarità che le sigle possono
venire incorporate nel sistema, trasformate - come in questo caso - da nomi in verbi
fino ad assumere flessione verbale regolare: he TA's ('lui assistente-insegna').

3. STRATIFICAZIONE
DELLESSICO

Il lessico di ogni lingua è stratificato, nel senso che è costituito da vari strati
(spesso dovuti a contatti tra sistemi linguistici, prestiti, ecc.).
Lo strato [+nativo] è quello «centrale» di una data lingua, quello [-nativo]
definisce gli strati «periferici» che spesso riflettono le vicende storiche, i
«contatti» che la lingua in questione ha o ha avuto con altri sistemi linguistici.
L'italiano ha diversi strati non nativi, come testimoniano voci di origine latina
(pamàda), greca (antropologia), inglese (spot), francese (garage), araba (bazar),
come vedremo meglio nei paragrafi seguenti.
Distinzioni di questo tipo sono rilevanti, perché affissidiversi possono scegliere
strati lessicali diversi. Per esempio, un tratto di strato che ha molta importanza
in inglese è il tratto [±latino]. L'invasione normanna dell'XI secolo infatti ha
comportato un'imponente irruzione nell'inglese di voci lessicali di origine
romanza (e quindi anche di origine latina) al punto che a tutt'oggi il lessico
dell'inglese è per larga parte di origine romanza, come testimoniano tanti
doppioni tipo darklobscure 'oscuro', Jatherlylpaternal 'paterno', heavenlyl
160 CAPITOLO6
-----~,--•------

celestial 'celestiale', ecc., o come testimoniano quelle forme di origine romanza


che hanno sostituito le voci di origine germanica (ad es./lower 'fiore' ma ted.
Blume, question 'domanda' ma ted. Frage, ecc.). Un suffisso sensibile al tratto
[±latino] è per esempio -ity, che si aggiunge a parole marcate come [+latino]
(come in (3a)) ma non a parole marcate come [-latino] (come in (36)):

(3) a. profane ----> profanity 'profano - profanità'


vivac10us ----> vivacity 'vivace - vivacità'
b. wide ----> *widity ' ampio'
strong ----> *strongity 'forte'

In questo senso, -ity contrasta con il suffisso -ness, che non discrimina tra
parole [+latino] (cfr. (4a)) e [-latino] (cfr. (46)):

(4) a. common ----> commonness 'banalità'


strange ----> strangeness 'stranezza'
b. happy ----> happiness 'felicità'
white ----> whiteness 'bianchezza'

Di solito, radici «native» si aggiungono ad affissi «nativi» e radici dotte ad


affissi dotti. In effetti, i tratti di strato attivi in italiano, soprattutto i tratti
[+latino] e [+greco], operano delle selezioni: parole con tratto [+latino]
selezionano di norma forme latine (5a) e inducono un riaggiustamento in i
della vocale finale della parola cui si aggiungono (5a'), mentre parole col tratto
[+greco] selezionano forme greche (56) e inducono un riaggiustamento in o
della vocale finale della parola cui si aggiungono(5b'):

(5) a. agricolo b. anemometro


a'. colorificio b'. cartografia

La selezione «di strato», per dire così, non è sempre esclusiva, dato che esi-
stono forme miste, come ad esempio epatobiliare, che consta di due forme
con tratti [+greco] e [+latino] rispettivamente. I tratti di strato sono rilevanti
per il lessico delle maggiori lingue europee, dal momento che in tutte queste
lingue la formazione di parole «colta» o «neoclassica» è presente e produttiva.
L'italiano oggi è particolarmente aperto a prestiti dall'inglese, ma la sua strati-
ficazione storica è molto più complessa, come si vedrà nel paragrafo seguente.

3.1. Stratificazioni dell'italiano

Lo strato [-nativo] dell'italiano è costituito da prestiti e da calchi. Sia i pre-


stiti che i calchi sono forme di «interferenza» tra sistemi linguistici diversi e
riguardano la riproduzione di una data parola da una lingua di partenza ad
una lingua d'arrivo. Se la riproduzione è di struttura morfologica, sintattica
161
LESSICOE LESSICOLOGIA

o semantica avremo un calco rispettivamente strutturale o semantico; se la


riproduzione è più centrata sul significante (v. II.7.) avremo un prestito.
I calchi sono anche detti «prestiti semantici» e rappresentano trasposizioni di
modelli morfologici o sintattici dalla lingua d'origine a quella d'arrivo come
grattacielodall'inglese skyscrapero come retroterradal tedesco Hinterland.
Tra i prestiti si possono distinguere i prestiti adattatie i prestiti non adattati.
I prestiti adattati sono parole entrate a far parte del lessico italiano in epoche
remote ed hanno una forma fonetica che non identifica più la loro origine
straniera, come le parole alfiere,complimento,giunchiglia(di origine spagnola
attestate in italiano a partire dal XVI secolo) o cara/fa,carciofo(di origine araba
sempre del XVI secolo), ghibellino,guelfo,guinzaglio,piffero, stambecco(di
origine tedesca, i primi tre del XIII secolo e gli ultimi due del XIV secolo).
I prestiti adattati sono parole italiane a tutti gli effetti ed un criterio per
verificare l'ingresso «definitivo» di una parola nel lessico di una lingua è di
controllare se può dar luogo a derivazione (complimento➔ complimentoso,
piffero ➔ pifferaio,carciofo➔ carcio/ino).
I prestiti non adattati sono quelli che conservano una forma estranea alle
regole fonologiche dell'italiano («spie» di questa estraneità possono essere
incertezze di pronuncia o sulla formazione del plurale). A dire il vero, la sola
forma fonologica non è sempre una spia di estraneità: parole come leader,
come/ilm o come sportterminano sì in consonante (ciò che sarebbe estraneo
alle regole fonologiche dell'italiano) ma mostrano di essere integrate nel si-
stema morfologico dell'italiano dato che danno luogo a parole derivate, come
leaderino,filmico,sportivo.
In italiano oggi predominano i prestiti dall'inglese (audience,bedandbreakfast,
big bang,bird watching,blackout),ma vi sono ovviamente anche prestiti dal
francese (à la coque,ballon d'essai,bidonville, bricolage,déjà vu, cahierde
doléance),dal tedesco e dallo spagnolo (ted. Dobermann,Edelweiss,Gulasch,
Ostpolitik,Umlaut,Putsch;sp. buen retiro,cucaracha, desaparecido,goleador).
Naturalmente in ogni lingua convivono moltissimi strati e così un esame ac-
curato del lessico italiano rivelerà la presenza di voci russe (agitprop, duma,
glasnost,gulag,kalashmkov), giapponesi (geisha,harakiri,judo, kamikaze,
karaoke),arabe (intifada,kefiyyah),ebraiche (kibbuz,shalom),turche (chefir,
harem,kebab),hindi: (mahatma,maharajah),afrikaans (apartheid),ecc.
Un dizionario contiene anche molta storia della lingua ed ha lemmi che si
dispongono lungo il corso dei secoli: zappa,erpice(IX sec.), cucchiaio,piede,
vacca(X sec.), battesimo,/iglio,prugna(XI sec.), argento,barbiere,compagnia
(XII sec.), abbagliare, acerbo,airone,canzone(XIII sec.),/reddezza,/requenza,
girasole(XIV sec.) e così via fino al secolo XVII (astronomo,baubau,com-
plimentoso,frivolezza) e fino ai nostri giorni con i neologismi più recenti
(swappare,scannerizzare,bipartisan,inciucio).
Un dizionario riflette stratificazioni di uso e di registro stilistico. Il DISC
identifica i seguenti livelli d'uso: antico (aderbare,adunazione),antiquato
(accorruomo, dappoiché),dialettale (cadrega,ceraso),letterario (accadimento,
gemebondo),non comune (accarezzevole, acquiescere),regionale (abbacchio,
....

162 CAPITOLO6
-------------------------------

appit:zare,bagigi) e toscano (babbione, berciare,bischeraggio);ed i seguenti


registri stilistici: familiare (acciderba,aggeggiare,appioppare,baluba, sbarac-
care),gergale (attacchinaggio,cuccare,/ico,matusa,sfiga),ironico (ambientino,
genietto, lentocrazia, santerello), popolare (ammucchiata, arruffianamento,
buggerare,castronaggine),scherzoso (cervellone,comprendonio,/antastilione,
gambalesta),spregiativo (canzonettaro,galoppino, mangiapolenta,penniven-
dolo), volgare (bagascia,incazzato,leccaculo,stronzata).
I dizionari più recenti (come ad es. il già citato DM) introducono anche cate-
gorie di uso come fondamentale(sono 2.000 vocaboli frequentissimi, come a,
di, il,/accia,andareche da soli coprono il 90% dello scritto o del parlato; sono
parole note a qualsiasi parlante anche con un livello di istruzione basso), di alta
disponibilità(parole di non alta frequenza ma legate a oggetti o atti della vita
quotidiana, come coperchioo furgone, garza o pantofola) e di alta frequenza
(sono circa 3.000 parole come bensì, viso, recarsiche coprono all'incirca il
6-8% dei testi e discorsi, noti a chi ha un livello almeno medio di istruzione).
Infine, un dizionario è anche il risultato della somma di vari glossari settoriali.
Vi sono lemmi che sono specifici di determinati settori (linguaggi settoriali)
e dunque lemmi specifici dei vari domini delle attività umane: lemmi usati
principalmente in aeronautica, agricoltura, antropologia, architettura e
urbanistica, arte, artigianato, biologia, botanica, chimica, cinema, diritto,
giornalismo, elettricità ed elettronica, filologia, filosofia, fisica, gastronomia,
geografia e così via fino a comprendere tutti i settori dello scibile e dei co-
stumi umani.

4, DIZIONARISPECIALISTICI
Vi è una grande varietà di tipi di dizionari diversi, mirati a vari usi. Vi sono
dizionari monolingui(il cui scopo principale è di dare «definizioni»), dizionari
bilingui (il cui scopo principale è fornire una traduzione di un termine da
una lingua ad un'altra), dizionari plurilingui(dove si trovano corrispondenze
tra diverse lingue), dizionari etimologici (che tracciano la storia delle parole
- quando è documentata - dalle origini alla contemporaneità), dizionari di
sinonimi e contrari, dizionari di neologismi, dizionari elettronici, inversi,
dizionari di frequenza e concordanze. Nei paragrafi che seguono esemplifi-
cheremo brevemente gli ultimi quattro tipi di «dizionari».

4.1. Dizionari elettronici

Oggi vi è una notevole proliferazione di dizionari elettronici. Menzioneremo


qui soltanto i tre che abbiamo consultato per questo capitolo: Drsc,Zingarelli
e DM, tutti con un lemmario di approssimativamente 100.000 parole. Vi è in
commercio anche un dizionario su CD-ROM della lingua italiana dei segni, il
LESSICOE LESSICOLOGIA163

Dizionario mimico gestuale, lavoro che permette di vedere i filmati di un'in-


terprete che traduce in segni circa 1.500 vocaboli.
I dizionari elettronici su CD-ROM (o su rete) permettono una serie di funzioni
importanti:
• ricerca di lemmi (a volte, man mano che si digita il lemma che si vuol tro-
vare, scorre l'elenco delle parole che cominciano con la stringa fin fi digitata);
• ricerca di più lemmi con certe caratteristiche comuni (categoria gramma-
ticale, etimologia, ambito d'uso);
• caratteri speciali: di solito il punto interrogativo che sostituisce un carattere
e l'asterisco che sostituisce un numero indeterminato di caratteri (di modo
che digitando ?aresi otterranno mare, dare,/are, care, ecc., digitando invece
*aresi otterranno calcare,molare, solare, mare, dare,/are, ecc.);
• operatori logici, come «e», «o», «non», «seguito da», «vicino a» (utilizzando
questi operatori si possono fare ricerche incrociate come ad es. i nomi di tutte
le parole letterarie ma non di derivazione greca);
• possibilità di creare dizionari personalizzati, salvare e stampare liste di
parole;
• sillabazione dei lemmi;
• ottenere le forme flesse con indicazione degli ausiliari per i verbi;
• trovare sinonimi e contrari;
• arrivare ad un lemma a partire da una forma flessa;
• ascoltare la pronuncia delle parole, soprattutto quelle straniere o di cui vi
è incertezza nella pronuncia.
Tutte queste funzioni (ed altre ancora) non sono ugualmente sviluppate nei tre
dizionari sopra citati ma dato che il settore dei dizionari elettronici (o in rete)
è in continua evoluzione, ci si può aspettare che in breve possano diventare
strumenti che permettano incursioni lessicali a 360 gradi con interfacce utenti
più «amichevoli» di quelle attuali e facilmente integrabili nei programmi di
maggior uso comune come i programmi di scrittura e di posta elettronica.

4.2. Giochi•

Molti dizionari su supporto elettronico, accanto alle ricerche più tipiche, prevedono
un settore «giochi». I giochi linguistici sono spesso una cosa seria... perché sono
anch'essi strumenti di conoscenza di una lingua.
Tra i giochi ad esempio trovano posto gli anagrammi (a partire da anticosi possono
formare catino,catoni,citano,conati,contai,ctonia,anticae tonica),le rime (che pos-
sono servire al poeta come allo studioso di morfologia per riunire tutte le parole che
terminano allo stesso modo), i palindromi(parole che rimangono le stesse anche se
scritte al contrario: afa,emme,ossesso),i bifronti(parole che diventano altre parole
diversese scritte al contrario: asso,enoteca,oremus),gli omografi(parole uguali per la
forma scritta ma distinte per significato:boanel senso di 'serpente' o di 'galleggiante',
atticonel senso di 'proveniente dall'Attica' o di 'ultimo piano abitabile di un edificio',
angolare:verbo o aggettivo), omografi ma non omofoni (parole uguali per la forma
scritta ma non per la pronuncia: ambito/ambito,balia/balia,compito/compito).Ed
164 CAPITOLO6

ancora gli «scarti» (ad una forma data viene tolta una lettera alla volta e vengono
cercate tutte le forme possibili anagrammando le rimanenti: sono ➔ oso, son) e le
«zeppe» (ad una forma data viene aggiunta una lettera alla volta e vengono cercate
tutte le parole possibili anagrammando: sono ➔ snodo, suono, sogno). (Si noti che il
gioco viene eseguito sulle lettere e non sui suoni: sono e sogno contengono sì quattro e
cinque lettere rispettivamente ma entrambi constano di quattro suoni: [sono] [so<ol)
Altre «curiosità» che possono essere facilmente soddisfatte grazie all'elettronica
applicata alla lessicografia sono liste di parole che iniziano con una certa lettera o
con una certa stringa di lettere e che finiscono con una certa lettera o con una certa
stringa di lettere, l'elenco delle parole più lunghe (non ce n'è nessuna di 27 lettere,
una di 26 (precipitevolissimevolmente),alcune di 25 (teleradiotrasmetterebbero)o di
24 (autoblindomitragliatrice,interconfessionalistiche))o la lista delle parole costruite
solo con una consonante o solo con una vocale.

4.3. Dizionari inversi*

In un dizionario normale l'ordine dei lemmi è dato dall'ordine alfabetico. Date cioè
le parole antico, epoca,estate, estensione, rubacuorie valorosol'ordine in cui queste
parole compariranno in un dizionario è esattamente quello dato perché a di antico
viene prima di e di epoca,e di epocaviene prima di r di rubacuorie così via. Se due
parole iniziano con la stessa lettera, l'ordine sarà determinato dalla lettera immediata-
mente successivaed è per questo che epocaviene prima di estate. Se, ancora, le prime
due lettere sono uguali si passa alla terza ed è per questo che estate viene prima di
estensione.L'ordine va dunque da sinistra verso destra.
Si immagini ora di invertire questo principio e di avere le seguenti regole: ordina le
parole a partire dall'ultima lettera, se per due parole l'ultima lettera è uguale passa
alla lettera immediatamente alla sua sinistra e così via. Per le parole date avremo
quindi due esiti diversi:

(6) dizionario«normale» dizionario inverso


antico epoca
epoca estensione
estate estate
estensione rubacuori
rubacuori antico
valoroso valoroso

Questo è il principio di ordinamento che vale per i dizionari «inversi». Questo tipo
di dizionari è importante per chi fa ricerche in ambito linguistico perché, ordinando
le parole a partire da destra, permette di ottenere liste di parole che terminano con
le stesse lettere e quindi anche con lo stesso suffisso. Per vedere bene la differenza si
consideri un gruppo di parole in ordine «normale» in (7a) e le stesse parole disposte
in ordine inverso in (76):

(7) a. ordine «normale» b. ordine «inverso»


appiccicoso erboso
bellicoso verboso
boscoso lumacoso
burrascoso succoso
erboso appiccicoso
LESSICOE LESSICOLOGIA165

faticoso bellicoso
focoso faticoso
giocoso vorticoso
lumacoso focoso
pescoso giocoso
succoso burrascoso
verboso pescoso
vorticoso boscoso
Le parole in (7a) saranno «sparse» in tutto il dizionario, le parole in (76) si troveranno
tutte insieme e permetteranno di studiare le proprietà delle parole suffissate con il
suffisso -oso.
Naturalmente questi strumenti debbono essere compilati con cura; per esempio è indi-
spensabile che le parole siano contrassegnate con la loro categoria lessicale, altrimenti
se chiediamo a un dizionario inverso elettronico tutte le parole in -are,otterremo una
serie di verbi (amare,contare,ecc.) ma anche una serie di aggettivi (lunare, militare,
ecc.). Un dizionario inverso può essere visto anche come un «rimario», vale a dire
una raccolta di voci che «fanno rima».

4.4. Dizionari di frequenza•

Nell'epoca degli elaboratori elettronici è concettualmente semplice pensare di rac-


cogliere mezzo milione di parole e chiedere all'elaboratore di disporle o in ordine
alfabetico o in ordine di frequenza. Queste imprese, che nella realizzazione si rivelano
molto complesse e laboriose, sono state portate a termine per l'italiano dal LIF e dal LIP.
Il LIF (Lessicodi/requenza della linguaitalianacontemporanea),partendo da 500.000
parole (scritte), presenta circa 5.000 lemmi. Questi lemmi sono presentati in ordine
alfabetico e in ordine di frequenza. Una proprietà molto interessante di questo di-
zionario è che sono stati spogliati testi diversi come testi teatrali (T), romanzi (R),
copioni cinematografici (C), periodici (P) e sussidiari (S), di modo che un'entrata di
questo dizionario offre la frequenza di un lemma e le forme di quel lemma per ogni
sottoinsieme dei testi spogliati:

(8) T R e p s
lemma: altezza 12 6 1 3 8
forme: altezza 11 6 1 3 5
altezze 1 o o o 3
Come si vede, nel corpus esistono le due forme del singolare e del plurale (altezza,
altezze) la cui somma (11+1) dà la frequenza del lemma altezza (12), evidenziato in
neretto. La parola ricorre più spesso nei testi teatrali, nei sussidiari e nei romanzi che
nei copioni cinematografici e nei periodici.
Scorrendo questo dizionario, il lettore può fare molte scoperte interessanti sulla pro-
pria lingua e su alcune differenze tra i vari generi linguistici rappresentati. La seconda
parte è la lista dei lemmi in ordine di frequenza. Le parole più frequenti dell'italiano
risultano essere: il, di, egli, a, essere,e, uno, in, che, non, io, avere, da, ecc.
Le liste di frequenza hanno molta importanza nello studio delle lingue straniere.
Nell'introduzione al LIF si sostiene infatti che le prime 100 parole più frequenti
arrivano a coprire il 60% di qualsiasi testo, le prime 1.000 1'85%e le prime 4.000 il
97%. Nell'affrontare una lingua straniera converrà dunque cercare di tener conto di
questa proprietà statistica dei vocabolari.
166 CAPITOLO6

Il LIP (Lessicodifrequenzadel!'italianoparlato)è di dimensioni simili al LIFma raccoglie


campioni di «parlato» in quattro città (Milano, Firenze, Roma, Napoli), in quattro
blocchi da 125.000 occorrenze ciascuno. Il «parlato» raccolto è di varia natura e
comprende vari tipi di interazioni linguistiche: scambi faccia a faccia, conversazioni
telefoniche, dibattiti, lezioni, conferenze, comizi, trasmissioni radiofoniche e televisive.
Il LIP è stato costruito in modo da poter essere confrontato con il LJF: si possono
così fare interessanti raffronti tra il «parlato» e lo «scritto» (per es. nello scritto
predominano aggettivi e nomi, nel parlato i verbi). Si constata che il vocabolario del
«parlato» per il 97 % è costituito da parole ben radicate nel suolo italiano. Anglicismi
ed esotismi sono dunque a livelli di minima significatività statistica. Il parlato si rivela
relativamente povero dal punto di vista lessicale rispetto allo scritto, ma non sembra
esistere un lessico specifico del parlato molto diverso dal lessico della lingua scritta.
Dunque una buona lista di frequenza della lingua scritta è in grado di dare conto
anche delle forme più frequenti nel parlato (fatta eccezione per parole specifiche che
distinguono lo scambio linguistico orale).

4.5. Concordanze•

Le concordanze non sono propriamente dei dizionari. Sono piuttosto le liste dei
contesti in cui una determinata parola appare (ci sono concordanze basate sulle
forme o concordanze basate sui lemmi). Agli inizi, le concordanze, specialmente per
opere letterarie di grande prestigio, venivano fatte a mano. Oggi si possono elaborare
piuttosto facilmente ricorrendo ad ausili elettronici. Quello che segue è un piccolo
campione di concordanze della Divina Commediaper le forme amor ed amore:

(9) amor ch'eran con lui quando l'amor divino InfI 39


amormi mosse, che mi fa parlare Inf II 72
amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende InfV 100
amor, ch'a nullo amato amar perdona Inf V 103
amor condusse noi ad una morte InfV 106
di Lancialotto come amor lo strinse InfV 128
amore vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore Inf I 83
ma sapienza, amoree virtute Infl 104
la somma sapienza e 'l primo amore Infill6
che con amoreal fine combatteo InfV 66
del vecchio padre, né 'l debito amore InfXXVI95
al padre, fuor del dritto amore,amica Inf.XXX:39

Le concordanze sono utilissimi strumenti di analisi testuale e oggi si possono ottenere


con molta facilità grazie a software specializzati. Particolare importanza riveste il
contesto: di solito per la poesia il contesto è il verso (come nell'esempio dantesco qui
sopra), per la prosa una riga, ma si possono ovviamente ottenere contesti più ampi
(come ad es. da punto a punto, l'intero paragrafo, ecc.).
LESSICOE LESSICOLOGIA16 7

NOTA STORICO-BIBLIOGRAFICA

La compilazione dei primi dizionari risale all'età moderna. In particolare, per l'italiano, la
prima edizione del Vocabolario degliAccademicidellaCruscaè del 1612, a cui ne seguirono altre
quattro (1623, 1691, 1729-38). Anche i primi dizionari del francese e dell'inglese risalgono a
quell'epoca: il Dictionnairede l'Académie/rançaiseal 1694 e il Diction-aryo/ EnglishLanguage
di Samuel J ohnson al 1775. L'attività lessicografica è proseguita nel corso dei secoli per tutte
le principali lingue di cultura, e negli ultimi decenni si è avvalsa in maniera sostanziale del
contributo dell'informatica.
Sul lessico mentale si può consultare Laudanna e Burani [1993] e, più recentemente, Cacciari
[2001] che affronta anche temi relativi alle basi biologiche del linguaggio. Sull'organizzazione
mentale della grammatica, si veda inveceJackendoff [1993].
Una buona guida per orientarsi nei problemi della lessicografia è Marello [1996]. Vedi anche
Massariello Merzagora [1983]. Su prestiti e calchi, si veda Gusmani [1986]. Oltre ai dizionari
citati in questo capitolo (e cioè Drsc,DM,Zingarelli) ricordiamo anche Devoto-Oli [2000-2001],
Battaglia [1961-2002] e il GRADIT. Molti di questi dizionari sono anche su CD-ROMciò che
permette la loro consultazione come dizionari inversi.
Per quel che riguarda i dizionari stranieri, si vedano rispettivamente: per l'inglese l'OxfordEn-
glishDictionary,per il francese il Trésorde la langue/rançaise,per il tedesco il Duden (Deutsches
Universal-Worterbuch ), e per lo spagnolo ilDiccionariode la lenguaespaiioladella Real Academia
Espaiiola.

DOMANDE

1. Che cosa si intende con «lessico mentale»?


2. Cosa vuol dire «lemmatizzazione»?
3. Cosa vuol dire «lessicalizzazione»?
4. Cosa si intende quando si dice che il lessico dell'italiano è «stratificato»?
5. Che operazioni di ricerca permettono i dizionari elettronici?
6. Come è costruito un dizionario inverso?
7. Che cosa sono le concordanze?
Lacombinazione
delleparole:
sintassi

Lasintassistudiai principiin baseai quali le parole delle varie lingue possonocombinarsi


in certi modi e non in altri. Questecombinazioni possonoesserefrasi oppure gruppi di
paroledi tipo nonfrasale.Gli argomentiprincipalitrattati in questocapitolosono:la frase
e gli altri tipi di gruppi di parole; il ruolo del verbo nella determinazione della struttura
della frase (la «valenzaverbale»);i vari tipi di frase.

INTRODUZIONE

egli ultimi capitoli abbiamo trattato delle parole: una lingua, tuttavia, non
è fatta soltanto di parole isolate, ma anche di combinazioni di queste parole.
Inoltre, non tutte le combinazioni di parole sono possibili, nel senso che non
tutte suonano grammaticali (cioè «ben formate») all'orecchio di un parlante
nativo di una determinata lingua. Per esempio, qualunque parlante nativo
dell'italiano, anche privo di istruzione, riconoscerà che soltanto (1) è una frase
grammaticale, mentre (2) non è che una pura «lista» (o «insalata») di parole
italiane (per altri esempi di sequenze di parole grammaticali o agrammaticali
v. anche V.2.):

(1) La ragazza di Pietro suona bene il pianoforte


(2) *Il Pietro pianoforte bene di ragazza suona la

Un fatto importante da tenere presente è che la grammaticalità (o «buona


formazione») di una frase è indipendente dal suo senso: per esempio, tanto
(3) quanto (4) sono «prive di senso», eppure (3) suona certamente migliore
di (4) all'orecchio del parlante italiano (e per questo non abbiamo messo un
asterisco davanti a (3)):

(3) Il cerchio quadrato suona la cornamusa


(4) *Cornamusa la suona quadrato cerchio il
170 CAPITOLO7
----------------------

Proviamo a leggere la frase (3) a voce alta: vedremo che essa ha la stessa into-
nazione di (1), cioè di una frase perfettamente «normale» (e questo fa sì che
(3) potrebbe anche essere utilizzata in contesti particolari, per esempio una
poesia surrealista). Viceversa, leggendo (4) a voce alta, ci accorgiamo subito
che l'intonazione «scende» dopo ogni parola. Questo accade, naturalmente,
anche in (2): è l'intonazione, appunto, con cui leggiamo non una combina-
zione, ma una lista di parole (un po' come la lista della spesa). Confrontiamo
ora (5) con (6):

(5) Gianni vuole andare al mare


(6) *Gianni vuole di andare al mare

Tanto (5) quanto (6) appaiono perfettamente sensate, ed è chiaro che vogliono
dire entrambe la stessa cosa, ma solo (5) suona come ben formata. La colpa,
per così dire, è della parola di, che in (6) è di troppo. Ma di non è sempre
di troppo; qualche volta, invece, è necessaria e, se manca, la frase non è ben
formata, come possiamo vedere confrontando (7) e (8):

(7) Gianni ha voglia di andare al mare


(8) *Gianni ha voglia andare al mare

Come si vede, anche (7) e (8) hanno lo stesso significato, che è poi lo stesso
di (5) e (6), ma, al contrario di quanto succedeva con la prima coppia di frasi,
in questo caso di è necessaria perché la frase sia ben formata. In altre parole,
di non può ricorrere dopo vuole, ma deve ricorrere dopo voglia.
Che conclusioni possiamo trarre da queste osservazioni? Evidentemente, che
le combinazioni di parole possono essere ben formate oppure no indipenden-
temente dal senso delle parole stesse. Bisogna quindi andare alla ricerca dei
motivi per cui certe combinazioni sono ben formate, mentre altre no. La parte
della linguistica che si occupa di questo problema è la sintassi.
Fino a questo punto abbiamo parlato genericamente di «combinazioni di
parole» e più specificamente di frasi. Dire «frase» e «combinazione di parole»
è quindi dire la stessa cosa? No, perché esistono sia combinazioni di parole
che comprendono più frasi (ad esempio, i discorsi o testi), sia combinazioni
di parole più piccole di una frase, ossia i gruppi di parole o sintagmi (dal
greco syntagma'composizione',' combinazione'). L'oggetto della sintassi sono
dunque la frase e le altre combinazioni possibili di parole.
In VII.1. tratteremo di uno dei meccanismi fondamentali che determinano il
raggruppamento delle parole, ossia la valenza verbale; in VII.2. esamineremo
i vari tipi di gruppi di parole ed introdurremo un modo per rappresentarne
graficamente la struttura; in VII.3. tratteremo delle frasi, mostrandone prima
la differenza rispetto agli altri gruppi di parole e poi esaminandone i vari tipi;
nel paragrafo VII.4. analizzeremo in modo più approfondito i due elementi
essenziali della frase, ossia il soggetto e il predicato; infine, nel paragrafo
VII.5. tratteremo di quelle categorie sintattiche che sono realizzate tramite
LACOMBINAZIONEDELLEPAROLE:SINTASSI 171

una modificazione della morfologia della parola, ossia le categorie flessionali.


La nostra esemplificazione verterà quasi esclusivamente sull'italiano, ma i
problemi di cui trattiamo hanno, ovviamente, portata più generale.

1. LAVALENZA

È facile notare che determinati verbi debbono essere accompagnati da un de-


terminato numero di altre parole, mentre altri verbi ne richiedono un numero
diverso (più basso o più alto). Un verbo come catturare,ad esempio, richiede
di essere accompagnato da due nomi o due gruppi nominali (sul concetto di
gruppo nominale, v. VII.2.), pena la non buona formazione della frase:

(9) Il poliziotto catturò il ladro


(10) *Il poliziotto catturò

Al contrario, un verbo come camminaredeve essere accompagnato solo da


un nome o gruppo nominale:

(11) Gianni cammina


(12) *Gianni cammina la strada

I verbi, quindi, come gli elementi chimici, hanno bisogno di essere accom-
pagnati da un numero determinato di altri elementi perché la frase in cui
ricorrono sia ben formata; come gli elementi chimici hanno dunque una
valenza (per esempio, l'ossigeno ha valenza doppia di quella dell'idrogeno,
come mostra la formula dell'acqua, H 20), così esiste una valenza verbale. Per
tornare agli esempi precedenti, si dice che un verbo come catturareè bivalente,
mentre uno come camminareè monovalente. Gli elementi che sono richiesti
obbligatoriamente dai vari verbi sono detti argomenti: ad esempio, in (9) il
poliziottoe il ladrosono gli argomenti del verbo catturare;in (11) Gianni è
l'unico argomento del verbo camminare.Il quadro completo delle classi verbali
dal punto di vista della valenza è il seguente.

• Verbi avalenti (o zerovalenti): verbi che non sono accompagnati da alcun


argomento. A questa classe appartengono, ad esempio, i verbi «meteorologici»:
una frase come *eglipiove è evidentemente mal formata, ed è necessario (in
italiano) dire semplicemente piove.
• Verbi monovalenti: sono, ad esempio, i tradizionali verbi «intransitivi»,
come camminare,parlare,morire,arrivare,partire,ecc. In frasi come Gianni
cammina,Gianniparla,Gianni è morto, ecc., l'unico argomento (o valenza)
del verbo è Gianni.
• Verbi bivalenti: sono, ad esempio, i tradizionali verbi «transitivi», come
catturare,compiere,/avorire,lanciare,piantare,ecc. (es. Gianni ha catturatoil
ladro,Il chirurgoha compiutol'operazione,ecc.). Con alcuni di questi verbi
172 CAPITOLO7
-----------------------
il secondo argomento può essere una frase dipendente (cfr. VII.3.4.): per es.
Gianni credeche Pietro verrà,dove il primo argomento è Gianni, e il secondo
che Pietro verrà.
• Verbi trivalenti:sono i verbi cosiddetti «di dire» e «di dare»: cfr., ad esempio,
Il professoreha detto ai ragazzidi/are silenzio dove le tre valenze (o argomenti)
di dire sono Il professore,i ragazzie di fare silenzio, oppure Gianni ha dato
un libro a Maria, dove gli argomenti di dare sono Gianni, un libro e a Maria.

In una frase sono presenti solo il verbo e gli argomenti del verbo? Certamente
no. In una frase possono essere presenti molti altri elementi:

(13) A mezzanotte, il poliziotto catturò il ladro davanti alla casa che aveva
appena svaligiato

Come si vede, abbiamo costruito (13) aggiungendo a (9) a mezzanottee davanti


alla casache aveva appenasvaligiato:( 13) è perfettamente ben formata, come
lo era (9). Questo significa che gli elementi aggiunti in (13) non sono obbli-
gatoriamente richiesti dal verbo catturare,ma sono facoltativi. Tali elementi
facoltativi sono detti circostanzialie si distinguono dagli argomenti, i quali
sono invece obbligatori. I circostanziali si distinguono inoltre dagli argomenti
per una maggiore «mobilità posizionale»: infatti essi possono presentarsi in
posizioni diverse all'interno della frase senza che quest'ultima divenga agram-
maticale o cambi il suo senso. Ad esempio, in (14) e (15) il circostanziale a
mezzanotte si presenta in due posizioni diverse, ma il senso delle due frasi è
pressoché identico:

(14) A mezzanotte il poliziotto catturò il ladro


(15) Il poliziotto catturò il ladro a mezzanotte

Al contrario, (16) ha un senso ben diverso da (9), da cui differisce solo per il
diverso ordine in cui si presentano gli argomenti del verbo catturare:

(16) Il ladro catturò il poliziotto

In prima approssimazione, possiamo dunque dire che in una frase italiana


sono presenti: a) il verbo, b) il numero di argomenti che esso richiede in
base alla sua valenza e, facoltativamente, c) uno o più circostanziali. Questi
ultimi, lo ripetiamo, sono facoltativi, hanno una certa libertà di spostamento
nella frase e aggiungono informazioni appunto sulle circostanze (di luogo, di
tempo ecc.) dell'evento.

2. I GRUPPI
DIPAROLE
Si sarà osservato che, nel paragrafo precedente, come esempi di argomenti
o di circostanziali sono state a volte usate parole singole (es. Gianni), a volte
più parole insieme (es. il ladro, il poliziotto, a mezzanotte, davanti alla casa
LACOMBINAZIONEDELLEPAROLE:SINTASSI 173

che aveva appena svaligiato). Quindi, la stessa funzione, di argomento o di


circostanziale, può essere indifferentemente svolta da una parola sola o da
un gruppodi parole (o sintagma).È abbastanza intuitivo riconoscere quali
parole fanno gruppo insieme a quali altre: ad esempio, in (14) è chiaro che il
si raggruppa più strettamente con la parola che lo segue (poliziotto) che non
con la parola che lo precede (mezzanotte). Esistono comunque anche alcuni
criteri che permettono di rendere esplicite queste intuizioni sul raggruppa-
mento delle parole all'interno di una frase, dei criteri, cioè, che ci permettono
di individuare i gruppi di parole.
Uno di questi criteri è quello del movimento:le parole che fanno parte di
uno stesso gruppo si «spostano insieme», per così dire, all'interno della
frase. Ritorniamo ancora a qualcuno degli esempi di VII.I. In (14) e (15), a
mezzanotte si sposta dalla posizione iniziale che occupa in (14) a quella finale
che occupa in (15), e sono tutte e solo queste parole a doversi spostare, come
mostra l'assoluta agrammaticalità di (17) e (18):
(17) *Poliziotto catturò il ladro a mezzanotte il
(18) *Mezzanotte, il poliziotto catturò il ladro a

Abbiamo detto che lo spostamento in alcuni casi mantiene identico il signifi-


cato, come in (14) e (15), in altri no, come avviene per (9) e (16): ma anche in
quest'ultimo caso lo spostamento dei gruppi di parole il poliziotto e il ladro
produce la frase (16), che è comunque grammaticale anche se ha un signi-
ficato diverso da (9). La differenza è dovuta al fatto che, come si ricorderà,
nel primo caso si ha a che fare con circostanziali, nel secondo con argomenti.
Un altro criterio che ci permette di individuare i gruppi di parole è quello
della enunciabilitàin isolamento:dato un contesto opportuno, le parole che
formano un gruppo possono essere pronunciate da sole, cioè non inserite in
una frase completa. Pensiamo ad esempio ad un dialogo come (19):
(19) Chi ha catturato il ladro?

Una risposta grammaticale a (19) è (20a). Una risposta a (19) del tipo di (206)
è invece malformata:
(20) a. Il poliziotto
b. *Il poliziotto ha

il contrasto tra (20a) e (206) indica che il e poliziotto appartengono allo stesso
gruppo di parole, mentre poliziotto e ha non vi appartengono.
Sappiamo già che le parole appartengono a classi diverse, e che quindi non
tutte le parole di qualunque classe sono intercambiabili l'una con l'altra (cfr.
V.2.). Lo stesso accade ai gruppi di parole, come possiamo vedere immedia-
tamente tramite il criterio della coordinabilità.Abbiamo visto che tanto a
mezzanotte quanto il poliziotto sono gruppi di parole, eppure una frase come
(21) non è ben formata:
(21) *A mezzanotte e il poliziotto catturò il ladro
174 CAPITOLO7

La frase (21) è mal formata in quanto a mezzanottee il poliziotto non sono


coordinabili. Perché? Perché appartengono a due tipi diversi di gruppi di
parole. Per vedere quali sono questi gruppi, possiamo osservare che a mezza-
notte è, per così dire, costruito intorno ad una preposizione, ossia a, mentre il
poliziottoè costruito intorno a un nome, poliziotto.Notiamo subito che intorno
all'elemento centrale della costruzione si possono costruire molti altri gruppi
simili: intorno ad a, a casa,a tardasera,all'alba,a Parigi;intorno a poliziotto,un
poliziotto,quelpoliziotto,il poliziottodi quartiere,ecc. L'elemento che svolge
la funzione di a in a mezzanotteo di poliziotto in il poliziotto è chiamato la
testa del gruppo di parole: i gruppi come a mezzanotte,visto che la loro testa è
una preposizione, sono detti gruppi (o sintagmi)preposizionali(SP); i gruppi
come il poliziotto,la cui testa è un nome, sono chiamati gruppi (o sintagmi)
nominali(SN). Altri tipi di gruppi di parole sono i gruppi (o sintagmi) verbali
(SV) e i gruppi (o sintagmi) aggettivali(SA): negli SV la testa è un verbo, negli
SA un aggettivo. Esempi di sintagmi verbali sono quindi catturòil ladro,legge
z'lgiornale,guardala partita,ecc. Esempi di sintagmi aggettivali sono molto
buono,abbastanzasciocco,troppoalto, ecc.
Una rappresentazione corrente della struttura interna dei sintagmi è quella
attraverso i diagrammiad albero, come si vede negli esempi seguenti (dove:
SN = Sintagma nominale, SV = Sintagma verbale, SP = Sintagma Preposizio-
nale, Art= Articolo, N = Nome, V= Verbo, P = Preposizione):

(22)

a. SN b. SV c. SP
~ ~ ~
Art N V SN P SN
~ I
Art. N N
I I I
il poliziotto catturò il ladro a mezzanotte

I diagrammi ad albero sono un espediente grafico molto utile per rappresentare


la struttura gerarchica delle frasi, ossia i sintagmi di cui esse sono composti
e i vari livelli in cui si realizza questa composizione, in quanto, come si vede,
alcuni sintagmi possono essere costituiti a loro volta da altri sintagmi, fino
alle singole parole. A volte può risultare comodo utilizzare un'altra rappre-
sentazione, quella detta a parentesi etichettate. Gli stessi sintagmi appena visti
possono pertanto essere rappresentati nel modo seguente:

(22') a. [sN[Artil Art][Npoliziotto N]SN]


b. [5v[v catturò y] [5N[Artil Art][Nladro N]sNJsvJ
c. [5p[p a p] [ 5N[ mezzanotte N] ]5p]

La rappresentazione della struttura sintagmatica, tramite alberi o tramite


parentesi, permette di disambiguare strutture ambigue. Data l'espressione
LACOMBINAZIONEDELLEPAROLE:SINTASSI 17 5

uomini e donne in gamba, vi sono due possibili letture: in base alla prima,
sono «in gamba» sia gli uomini che le donne, in base alla seconda, invece,
lo sono soltanto le donne. La diversa struttura sintattica associata a queste
due letture risulta molto chiaramente se rappresentiamo la loro struttura
sintagmatica come segue:

(23) a. [5N[s uomini e donne sNJ [ 5pin gamba 5p]5N]


b. [5N[N uomini N] e [5N[N donne N] [ 5pin gamba 5p]5N]

I sintagmi sono i costituenti della frase. Come si è già visto, essi possono es-
sere costituiti da altri sintagmi, fino alle singole parole, che sono i costituenti
ultimidella sintassi. Ad esempio, la rappresentazione della frase il poliziotto
catturò il ladro è la seguente (dove: F = Frase, e le altre sigle hanno i valori
dati più sopra):

(24) F

SN sv
~ ~
Art N V SN
~
Art N
I
Il
I
poliziotto catturò
I
il
I
ladro

I sintagmi possono essere molto semplici ma anche molto complessi. I sin-


tagmi più semplici sono quelli costituiti dalla sola testa: infatti la testa non è
solo l'elemento intorno al quale è costruito un gruppo di parole, ma anche
l'unico elemento la cui presenza è necessaria; possono perciò esistere sintagmi
formati dalla sola testa (ad esempio, il SN contenuto in (22c)). Quindi, dal
punto di vista della struttura sintagmatica, due frasi come (25) e (26) sono
perfettamente identiche, a dispetto della loro ben diversa lunghezza, perché
entrambe sono costituite da un sintagma nominale e un sintagma verbale,
rispettivamente Gianni e passeggiain (25) e il figlio di mio cugino e attraversa
la stradacon calmain (26):

(25) Gianni passeggia


(26) Il figlio di mio cugino attraversa la strada con calma

La differenza di lunghezza tra (25) e (26) è dovuta al fatto che solo nella
seconda di esse i due sintagmi che costituiscono la frase sono costituiti da
altri sintagmi, e non dalle sole teste, contrariamente a quanto avviene in
(25). Questa analogia di struttura tra (25) e (26) si vede molto chiaramente
176 CAPITOLO7
----··-

se rappresentiamo queste frasi nella forma dei diagrammi ad albero (25')


e (26') (dove: A= Aggettivo, e le altre sigle hanno i valori che già cono-
sciamo):

(25') F

SN
N
----------
I
SV
I
V
I I
Gianni passeggia

(26') F

sv
~p
/"'- ~ /"'-- ~
Art N PSN Art N P SN

l
I
A~N N
I I I
Il figlio mio cugmo attraversa la strada con calma

(25') e (26') ci mostrano dunque che argomenti e circostanziali possono essere


rappresentati tanto da gruppi di parole che da parole singole: queste ultime,
infatti, non sono che casi di sintagmi (nominali, verbali, ecc.) costituiti dalla
sola testa.

2.1. Gli indicatori sintagmatici e lo «schema X-barra,,•

I diagrammi ad albero come (24), (25') o (26') sono detti anche gli indicatorisintag-
matici (in inglese, phrase markers) delle rispettive frasi, in quanto ne rappresentano
la struttura in sintagmi. In questo paragrafo, daremo anzitutto qualche altro esempio
di indicatore sintagmatico, poi vedremo che le varie categorie di sintagmi presentano
una struttura analoga. Per esempio, alle frasi (27) e (28) si potrebbero assegnare,
rispettivamente, gli indicatori sintagmatici (27') e (28') (per semplicità, etichettiamo
questi come «Aggettivo», anche se probabilmente sarebbe più adeguato assegnarlo
ad una diversa categoria, quella dei determinanti):

(27) Gianni legge questi libri


(28) La lettura di questi libri migliora la mente
LACOMBINAZIONEDELLEPAROLE:SINTASSI 177

(27') F

s sv
~
V SN
~
A N
I I
Gianni legge questi libri

(28') F

SN sv
~
---------------
SN SP V
~
SN

0 /\ Art N

P SN
~
A N
I I
La lettura di questi libri migliora la mente

Soffermiamoci ad analizzare le analogie e le differenze tra (27') e (28'). Una differenza


evidente è che il primo SN di (28') (il soggetto della frase; v. oltre, VII.4.) è molto
più complesso di quello di (27'): la lettura di questi libri rispetto a Gianni. Questo si
spiega con quanto già osservato alla fine del paragrafo precedente, ossia che un intero
sintagma può essere costituito dalla sola testa (come in (25')) oppure da un gruppo
più o meno lungo di parole (come in (26')). I SV dei due indicatori sintagmatici sono
invece costituiti in modo del tutto analogo, cioè da un V e da un SN. In generale,
possiamo osservare che quando il verbo è bivalente (o «transitivo», per usare il ter-
mine tradizionale), come leggere o migliorare, esso è la testa di un SV che contiene
(almeno) un SN, che possiamo chiamare, ricorrendo ad un altro termine tradizionale,
il «complemento oggetto» (questi libri in (27'), la mente in (28')). Torniamo ora al
soggetto di (28'). Esso mostra alcune particolarità strutturali: infatti, come si può
vedere, è un N (la lettura di questi libri) che contiene (o domina, come si dice più
tecnicamente) un altro SN (la lettura) e un SP (di questi libri) che è costituito dalla
preposizione di e da un ulteriore SN (questi libri). Ora, il SN questi libri è lo stesso che
funge da complemento oggetto nel SV di (27'). Questa è un'importante analogia tra la
struttura dei SV e quella dei SN la cui testa è un nome (come lettura) derivato da un
verbo (come leggere;per il concetto di derivazione, cfr. cap. V). Possiamo dire che il
S questi libri è il «complemento» del N lettura in (28') come è il complemento del
V leggerein (27'). Altri esempi di nomi deverbali che hanno gli stessi complementi dei
verbi da cui derivano sono descrizione (Gianni ha descritto la situazione e la descrizione
della situazione), unione (Il referendum ha unito questi due paesi e l'unione dei due
paesi), ritratto (David ha ritratto Napoleone e il ritratto di Napoleone), ecc. Tuttavia,
un indicatore sintagmatico come (28') non riesce a rappresentare adeguatamente
il fatto che questi libri è il complemento di lettura in (28) allo stesso modo in cui
178 CAPITOLO7
---------------------

questi libri è complemento di leggein (27): infatti, mentre in (27') leggee questi libri
formano un unico sintagma (SV), in (28') letturae questi libri ricorrono all'interno di
due sintagmi diversi, rispettivamente il SN (lalettura)e il SP (di questi librz)dominati
dal S «più alto».
Prima di passare a quella che potrebbe essere una rappresentazione più adeguata
di SN del tipo la letturadi questi libri, notiamo che anche alcuni aggettivi ed alcune
preposizioni hanno complementi. Pensiamo, ad esempio, ad un aggettivo come unita,
derivato, come il nome unione, dal verbo unire:

(29) Fino a qualche anno fa, la Slovacchia era unita alla Repubblica Ceca

In (29) il SN laRepubblicaCecaè il complemento dell'aggettivo unita.Analogamente,


in un SA come molto legatoa Maria,il N Mariaè il complemento della testa A legato.
Per quanto riguarda le preposizioni, possiamo dire che, in un SP come a Roma, il
SN Roma è il complemento della testa P a;nel SP con la sua amica,il SN la sua amica
è complemento della testa P con, in dietro la porta il SN la porta è il complemento
della testa P dietro,ecc.
Chi ha seguito il nostro discorso con attenzione, forse osserverà che non dovremmo
dire che il complemento di lettura in (28) è il SN questi libri, ma piuttosto il SP di
questi libri;e che il complemento di unita in (29) non è il SN la RepubblicaCeca,ma
piuttosto il SP alla RepubblicaCeca.Le due analisi si possono conciliare dicendo
che il complemento oggetto di un verbo transitivo non è mai preceduto da una
preposizione, mentre è sempre preceduto da una preposizione (di oppure a) quando
diventa il complemento di un nome o di un aggettivo derivati da tale verbo; il perché
della presenza di tale preposizione può essere spiegato (cosa che non faremo qui).
In conclusione, si può dire che il «complemento» è presente in tutti e quattro i tipi
di sintagmi che abbiamo esaminato: Sintagmi Nominali (SN), Sintagmi Verbali (SV),
Sintagmi Aggettivali (SA) e Sintagmi Preposizionali (SP), che mostrano quindi una
notevole analogia di struttura.
Ritorniamo ora sulla struttura del SN soggetto di (28), ossia la lettura di questi libri,
come rappresentata in (28'). Abbiamo già notato che esso contiene due S , la lettura
e questi libri:quest'ultimo SN, introdotto dalla preposizione di, è, come si è detto,
il complemento del N lettura. Questa relazione tra testa e complemento può essere
rappresentata mediante un sintagma di «livello intermedio» tra la testa letturae l'intero
SN la letturadi questilibri.Per rappresentare questa categoria di livello intermedio, si
può usare il simbolo N con un tratto (o una «barra») sovrapposto, che qui, per ragioni
tipografiche, sostituiremo con un apice, e indicheremo dunque con N'. La categoria
N' si combina poi con l'articolo la per formare il SN la letturadi questi libri, al quale
assegniamo ora il seguente indicatore sintagmatico:

(30) SN

---------------
Art N'

---------------
N
s ~
p
SP

~
A N'

hI
la lettura di questi libri
LACOMBINAZIONEDELLEPAROLE:SINTASSI 179

Si può notare che anche nel SN complemento questi libri abbiamo introdotto la
categoria N'. Infatti, il dimostrativo questi svolge la stessa funzione dell'articolo la
in la lettura:questi è in rapporto paradigmatico con l'articolo i (i libri, questi libri,
ma non *i questi libri, *questii libri;cfr. II.5). In termini tecnici, si dice che tanto gli
articoli, quanto i dimostrativi svolgono la funzione di specificatore del SN. Quindi,
diremo che nel SN (30) la letturadi questi libri, la è lo specificatore, letturala testa e
questilibri (o di questi libri)il complemento. L'intero SN (specificatore, testa e com-
plemento) può anche essere rappresentato come N" (leggi: «N due barre»); la testa
più il complemento, come si è visto, sono rappresentati come N'; la sola testa come N.
Veniamo ora all'analogia di struttura tra SN, SV, SA e SP. Si è visto che tutti questi
sintagmi possono contenere un complemento; si può vedere facilmente che essi
possono contenere anche uno specificatore. Consideriamo tre sintagmi come (31) e
forniamone i rispettivi indicatori sintagmatici (31'):

(31) a. spesso legge questi libri (SV)


b. molto unito a Gianni (SA)
c. poco dietro la porta (SP)

(31') a. SV (= V") b. SA(=A")


~ ~
Avverbio V' Avverbio A'
~ ~
V SN A SP
~ ~
A N' P SN
I I
N N'
I
N
I
spesso legge questi libri molto unito a Gianni

c. SP (= P")
~
Avverbio P'
~
P SN
~
Art N'
I
N
I
poco dietro la porta

Si vede dunque che, esattamente come i SN, anche i SV,i SA e i SP hanno uno speci-
ficatore, una testa e un complemento. Nel SV (3 la), lo specificatore è spesso,la testa
legge,e il complemento questi libri;nel SA (316), lo specificatore è molto, la testa
unito, e il complemento Gianni (o a Gianni);nel SP (3 lc), lo specificatore è poco,
la testa dietro,e il complemento la porta. Naturalmente, non tutti i sintagmi devono
possedere questa struttura, cioè essere dotati di uno specificatore, di una testa e di
un complemento: come già sappiamo, l'unico elemento la cui presenza è obbligatoria
in ogni sintagma è la testa.
180 CAPITOLO7

Possiamo esprimere mediante un'unica formula questa analogia di struttura tra i


quattro sintagmi (o categoriesintagmatiche) SN, SV, SA e SP, utilizzando la lettera
X come variabile (analogamente a come si fain logica o in matematica), che può stare
per una qualunque delle categorie N, V, A e P, e le «barre» per indicare i vari livelli
strutturali del sintagma, o livelli di proiezione:il livello più basso è quello costituito
dalla sola testa, e si indica con X (che può assumere i valori N, V, A o P); il livello
immediatamente superiore è costituito dalla testa più il complemento, e si indica
con X' (che può assumere i valori N', V', A' o P'); il livello più alto è costituito dallo
specificatore e da X', e si indica con X" (che può assumere i valori N", V", A" o P",
corrispondenti rispettivamente, come si è visto, a SN, SV,SA e SP). Otteniamo così lo
«schemaX-barra», che riassumeappunto l'analogia strutturale tra le quattro categorie
sintagmatiche SN, SV,SA e SP:

(32) X"

~X'
Spec(i.fìcatore)

X
~ Comp(lemento)

3. LEFRASI
3.1. Frasi e gruppi di parole

Finora, abbiamo parlato di gruppi di parole, ma non abbiamo parlato di frasi.


Eppure, in un caso almeno, ossia l'esempio (13), che qui ripetiamo come (33 ),

(33) A mezzanotte, il poliziotto catturò il ladro davanti alla casa che aveva
appena svaligiato

il gruppo di parole (per l'esattezza, il sintagma preposizionale) davanti alla


casa che aveva appena svaligiato contiene una frase, ossia che aveva appena
svaligiato (un esempio di frase relativa;v. più avanti, VII.3.4.). Che rapporto
c'è, quindi, tra le frasi e i gruppi di parole? Le frasi sono gruppi di parole
come tutti gli altri oppure no? E anzitutto: tutte le frasi sono necessariamente
formate da più parole oppure no?
Cominciamo col rispondere a quest'ultima domanda, anche se la risposta
non può essere univoca, perché dipende da ciò che si intende con «frase»: e
su questo punto, l'accordo non è affatto generale, se si pensa che nella storia
della linguistica del concetto di frase sono state proposte oltre 300 definizioni
diverse. Una buona parte di queste definizioni sostiene che una frase è «un
gruppo di parole che esprime un senso compiuto». Ma che cosa si intende
con «senso compiuto»? Per esempio, di una frase come che aveva appena
svaligiato nessuno di noi probabilmente direbbe che esprime un senso com-
piuto, eppure la chiamiamo «frase». Viceversa, ci sono delle espressioni di
senso compiuto che non sono necessariamente gruppi di parole, ma possono
LACOMBINAZIONEDELLEPAROLE:SINTASSI 181

essere anche parole singole. Facciamo qualche esempio. Io vedo il mio amico
Gianni passare dall'altro lato della strada, e voglio richiamare la sua attenzione:
gli grido Gianni!, e questa sola parola è sufficiente ad esprimere un senso
compiuto, cioè appunto richiamare l'attenzione di Gianni. Ora, mettiamo
che Gianni si sia accorto di me e mi guardi con un'aria interrogativa: io gli
grido ancora una parola sola, per esempio, Vieni!, e anche così ho espresso
un senso compiuto. Altri esempi di espressione di senso compiuto vengono
dall'uso delle interiezioni. Io sto cercando di piantare un chiodo nel muro,
e causa la mia goffaggine, mi schiaccio un dito: con la sola interiezione Ahi/
esprimo compiutamente il mio stato d'animo (e il mio stato fisico). Da queste
osservazioni possiamo dunque trarre due conclusioni: 1) non tutti i gruppi
di parole che chiamiamo frasi esprimono un senso compiuto (es. che aveva
appena svaligiato in (33)); 2) non tutte le espressioni di senso compiuto sono
gruppi di parole (es. Gianni/, Vieni/, Ahi/).
Il fatto che alcune frasi siano formate da una sola parola non significa però che
tutte le frasi siano formate da una sola parola. A questo punto si ripropone
un altro quesito che ci eravamo posti prima: che differenza c'è- se c'è- tra
la frase e gli altri gruppi di parole, come il gruppo nominale, il gruppo agget-
tivale, ecc.? In realtà, una differenza essenziale esiste tra i gruppi di parole
chiamati «frasi» e gli altri tipi di gruppi di parole: solo le frasi sono composte
di soggettoe predicato.La definizione esatta di queste ultime categorie è assai
complessa, e la affronteremo in VII.4. Per il momento, ci basta osservare una
cosa: il rapporto soggetto/predicato è un rapporto di dipendenza reciproca,
ossia l'uno dei due elementi esiste solo perché esiste anche l'altro e viceversa;
gli altri rapporti possibili all'interno dei gruppi di parole non sono di questo
tipo. In VII.2. abbiamo introdotto il concetto di testa del gruppo di parole,
e l'abbiamo definito come l'unico elemento necessario del gruppo di parole
stesso: non c'è quindi dipendenza reciproca tra la testa e gli altri elementi
all'interno del gruppo di parole (elementi che possiamo chiamare modificatori
o, con i termini introdotti in VII.2.1., specificatori e complementi), perché
la testa può esserci anche senza i modificatori, mentre i modificatori non
possono esserci senza la testa.
Confrontiamo due strutture sintattiche come l'albero è verde e l'albero verde:
la prima è una frase, la seconda un sintagma nominale. Espressioni come
Yalbero è oppure *verde sono sentite entrambe come malformate, come
incomplete: questo è dovuto al fatto che nella prima manca il predicato,
nella seconda il soggetto. Al contrario, l'albero è perfettamente ben formato,
mentre '°'verdenon lo è: questo accade perché la prima delle due espressioni
contiene la testa del gruppo, mentre la seconda contiene solo il modificatore.
Un'obiezione che si potrebbe fare, a questo punto, è la seguente: la differenza
tra l'albero è verde e l'albero verde è che la prima struttura contiene un verbo
di modo finito (su questo concetto, cfr. VII.5.3.), mentre la seconda no.
Quindi, ciò che distingue le frasi dagli altri gruppi di parole è la presenza di
un verbo di questo tipo. Questa obiezione può essere vera (ma in realtà ci
sono dei controesempi) per l'italiano, ma in altre lingue non avrebbe peso:
182 CAPITOLO 7

infatti in molte lingue la presenza di un verbo di modo finito non è necessaria


per avere una frase. Ciò che invece è sempre necessario è la presenza di una
struttura soggetto/predicato, che può realizzarsi in molte modalità diverse:
la presenza di un verbo di modo finito non è che una di tali modalità. In
conclusione, diremo che i gruppi di parole di tipo frasale si distinguono dagli
altri tipi di gruppi di parole perché contengono una strutturapredicativa,
ossia un soggetto e un predicato.
Abbiamo quindi individuato tre tipi di entità che sono genericamente chia-
mate «frasi»: 1) espressioni di senso compiuto che sono gruppi di parole con
struttura predicativa (es. /' alberoè verde);2) espressioni di senso compiuto che
non sono gruppi di parole e non hanno una struttura predicativa (es. Gianni.',
Ahi.'); 3) strutture predicative che non sono espressioni di senso compiuto (es.
cheavevaappenasvaligiato).Alcuni linguisti preferiscono chiamare la struttura
predicativa «proposizione» e riservare il termine «frase» alle espressioni che
hanno un senso compiuto, siano esse predicative (il nostro caso 1) oppure
no (il nostro caso 2). Qui useremo sempre il termine «frase», semplicemente
distinguendo, ove necessario, le frasi che sono predicative (i casi 1 e 3) da
quelle che non lo sono (il caso 2), e quelle che hanno senso compiuto (i casi
1 e 2) da quelle che hanno solo un senso «parziale» (il caso 3 ). Intendiamo
proposizione come equivalente a «frase con struttura predicativa», sia che
essa esprima un senso compiuto (caso 1) oppure no (caso 3).

3.2. Tipi di frasi

Una prima distinzione da operare è quella tra frase semplicee frase complessa.
La frase semplice è quella che non contiene altre frasi; la frase complessa (o
periodo) è una frase che contiene altre frasi. Il rapporto tra le frasi semplici
che costituiscono una frase complessa può essere di coordinazioneoppure di
subordinazione:più frasi semplici sono coordinate se sono tutte sullo stesso
piano, mentre una frase semplice è subordinata ad un'altra se le due frasi
non sono sullo stesso piano. Che cosa intendiamo esattamente dicendo «sullo
stesso piano»? Vediamo prima un esempio di coordinazione:
(34) Gianni è partito e Maria è rimasta a casa

Confrontiamo ora (34) con un esempio di subordinazione che abbiamo già


presentato, la frase (33): A mezzanotte, il poliziotto catturòil ladrodavanti alla
casache aveva appenasvaligiato.In (34), le due frasi Gianni è partito e Maria
è rimastaa casasono coordinate.In (33), A mezzanotte, il poliziotto catturò il
ladrodavantiallacasaè la frase principale,e che avevaappenasvaligiatola frase
subordinata(o dipendente,o secondaria).Possiamo mostrare che entrambe
le frasi coordinate di (34) sono sullo stesso piano con un semplice test: se si
omette l'una o se si omette l'altra, il risultato è sempre una frase grammaticale
(Gianniè partito oppure Mariaè rimastaa casa).Nel caso di (33), se omettiamo
LACOMBINAZIONEDELLEPAROLE:SINTASSI 183

la frase principale, la frase che risulta, *che aveva appena svaligiato, detta in
isolamento, è agrammaticale. Nel rapporto di subordinazione vi è quindi
asimmetria tra le due frasi semplici che formano la frase complessa: questo
intendevamo quando abbiamo detto che in tale rapporto, al contrario che in
quello di coordinazione, le due frasi non sono «sullo stesso piano».
In una frase come (33), si dice anche che la frase principale è una frase indi-
pendente. Le frasi indipendenti sono quelle che esprimono un senso com-
piuto (es. A mezzanotte, il poliziotto catturò il ladro davanti alla casa oppure
l'albero è verde, ecc.). Le frasi indipendenti sono sempre frasi principali, ma
non sempre le frasi principali sono anche frasi indipendenti. Consideriamo
una frase come (35):

(35) Gianni crede che Paolo abbia mentito

(35) è costituita dalle due frasi Gianni crede e che Paolo abbia mentito: Gianni
crede è la frase principale, e che Paolo abbia mentito la frase dipendente.
Quest'ultima frase, detta da sola, è evidentemente agrammaticale (*che Paolo
abbia mentito non ha senso compiuto). Tuttavia, anche ·:«;iannicrede, detta in
isolamento, suona malformata, incompiuta; l'unico modo in cui può risultare
ben formata, all'orecchio del parlante italiano, è attribuendole il senso 'Gianni
è credente, Gianni ha fede in Dio', che non è evidentemente quello che crede
ha in (35). Perché allora diciamo che essa è la principale, mentre che Paolo
abbia mentito è la dipendente? Perché Gianni crede contiene il verbo credere,
la cui valenza è saturata da che Paolo abbia mentito.
Ora che abbiamo stabilito la differenza tra frase semplice e frase complessa
e abbiamo introdotto la distinzione tra coordinazione e subordinazione,
esaminiamo i vari punti di vista in base ai quali si possono classificare le
frasi semplici: la dipendenza, la modalità, la polarità, la diatesi e la segmen-
tazione.
Il punto di vista della dipendenzaè già stato introdotto nella discussione pre-
cedente: in una struttura di subordinazione, le frasi possono essere principali
o dipendenti. ell'esempio (35) Gianni crede è la frase principale e che Paolo
abbia mentito la frase dipendente.
Dal punto di vista della modalità,le frasi si possono distinguere in dichiarative
(Gianni è partito), interrogative(Gianni è partito? oppure Chi è partito?),
imperative(Gianni, parti!) ed esclamative(Che sorpresa mi ha fatto Gianni/).
Come vedremo in VIII.4., non è sempre detto che la forma sintattica della
frase corrisponda allo scopo per cui è usata: quindi non sempre una frase
dichiarativa è enunciata per constatare un fatto, o una frase interrogativa per
fare una domanda. La distinzione che abbiamo introdotto è quindi di tipo
puramente sintattico, e può non sempre coincidere con il valore semantico o
pragmatico delle frasi. Si sarà poi notato che della frase interrogativa abbiamo
dato due esempi abbastanza diversi: il primo (Gianni è partito?) contiene le
stesse parole della frase dichiarativa corrispondente Gianni è partito, e nello
stesso ordine; l'unica differenza è data dall'intonazione (cfr. IV.11.3.), che è
184 CAPITOLO7

indicata dal punto interrogativo. Il secondo esempio clifrase interrogativa (Chi


è partito?)contiene invece un elemento che non compare nella dichiarativa
corrispondente, ossia il cosiddetto pronome interrogativo chi. Questi due
esempi illustrano i due tipi fondamentali di frase interrogativa: nel primo, si
chiede se un certo evento (la partenza cliGianni) è avvenuto oppure no, e la
risposta sarà quindi «sì» oppure «no». Nel secondo caso, si chiede cliindicare
un determinato individuo di cui si predica una determinata proprietà (in
questo caso, l'essere partito), e la risposta in questo caso sarà l'indicazione
di un individuo, quindi Gianni, Maria, Pietro, ecc. Al primo tipo cli frasi
interrogative si dà dunque il nome di interrogative «sì-no»; al secondo tipo,
quello cliinterrogative «wh-». La sigla wh- è convenzionale, ed è ricavata dalle
lettere iniziali dei pronomi e degli avverbi interrogativi in inglese: who 'chi',
what 'che cosa', which 'quale', where 'dove', when 'quando', why 'perché',
how 'come'. Quindi, una frase interrogativa wh- chiede clispecificare una
determinata persona, o una determinata cosa, o un determinato luogo, o un
determinato tempo, e così via.
Il punto clivista della polarità distingue le frasi affermative dalle frasi negative:
ad esempio, Gianni è partito e Gianni non è partito.
Il punto clivista della diatesi distingue invece le frasi attive dalle frasi passive:
GianniamaMariae Mariaè amatada Gianni.
Il punto clivista della segmentazione oppone due tipi clifrasi come le seguenti:

(36) Non avevo mai letto questo libro


(37) Questo libro, non lo avevo mai letto

Come si vede, un elemento della frase (36) (ilsintagma nominale questolibro)


è collocato nella prima posizione della frase (37) ed è separato dal resto della
frase con una pausa, che nella lingua scritta è indicata dalla virgola: (37) è
quindi divisa in due «segmenti», il primo costituito da questolibro,il secondo
dal resto della frase. (37) è un esempio di frase segmentata detta dislocata
a sinistra. Altri tipi clifrasi segmentate sono i seguenti (tra parentesi la loro
denominazione):

(38) Questo signore, Dio gli ha toccato il cuore (Manzoni; frase a tema so-
speso)
(39) Gianniho visto ieri, non Paolo (frase focalizzata; il corsivo su Gianni
indica che la parola è pronunciata con un innalzamento del tono)
(40) Non lo avevo mai letto, questo libro (frase dislocata a destra)
(41) È questo libro che non avevo mai letto (frase scissa)

Non esamineremo qui in dettaglio tutti i tipi clifrasi segmentate. È sufficiente


notare che la loro caratteristica comune è comunque il fatto che un determinato
sintagma si trova in una posizione «messa in rilievo» rispetto agli altri: questo
libroin (37), (40) e (41), questosignorein (38), Gianni in (39).
Possiamo quindi riassumere la classificazione delle frasi mediante gli schemi
seguenti:
LACOMBINAZIONEDELLEPAROLE:SINTASSI 185

A) COMPLF.sSITÀ

< <
semplici coordinate

frasi
complesse

subordinate

B) DIPENDENZA
frasi < principali

dipendenti

C) MODALITÀ
dichiarative

frasi
interrogative

imperative
< «sì-no»
h
«:w -»

esclamative

D) POLARITÀ

frasi < affermative

negative

E) DIATF.sI

frasi < attive

passive

F) SEGMENTAZIONE

< a sinistra

frasi < segmentate


dislocate

focalizzate

scisse
a destra
a tema sospeso

non segmentate
Naturalmente, una frase non è solo dichiarativa, o solo principale, o solo
affermativa, ecc., ma appartiene ad un determinato tipo per ciascuno dei
vari punti di vista. Ad esempio, una frase come (42) è semplice, dichiarativa,
principale, affermativa, attiva e non segmentata:

(42) Gianni ha letto il giornale

Una frase come (43) è semplice, principale, interrogativa «sì-no», negativa,


passiva e segmentata.

(43) Da quel professore, Gianni non è stato ancora interrogato?

La frase in corsivo di (44) è semplice, dipendente, interrogativa «wh-», nega-


tiva, passiva e non segmentata:

(44) Pietro ha domandato da quale professore non era stato ancora interrogato
Gianni

Il lettore interessato può costruirsi da sé ulteriori esempi di combinazione dei


vari punti di vista in base ai quali abbiamo classificato le frasi.

3.3. Relazioni tra frasi di tipo diverso•

Si sarà notato che, per ciascuno dei punti di vista discussi nel paragrafo precedente,
esiste una corrispondenza sistematica tra frasi di un determinato tipo e frasi di un
determinato altro: per esempio, alla dichiarativa corrisponde un'interrogativa «sì-no»
che differisce dalla dichiarativa soltanto per l'intonazione (Gianni è partito rispetto a
Gianni è partito?); alla frase affermativa corrisponde una frase negativa che differisce
dalla prima soltanto per la presenza della particella non (Gianni è partito rispetto a
Gianni non è partito). A questo tipo di corrispondenza sistematica tra frasi di tipo
diverso si dà il nome di trasformazioni.Esaminiamo ora due di queste relazioni
trasformazionali: quella tra frasi attive e frasi passive e quella tra frasi dichiarative e
frasi interrogative «wh-».
Le corrispondenze che si possono osservare tra frasi attive e frasi passive sono le
seguenti: 1) il complemento oggetto della frase attiva è il soggetto della corrispon-
dente frase passiva (Gianni ama Maria rispetto a Maria è amata da Gianni) e 2) il
soggetto della frase attiva non deve essere espresso obbligatoriamente nella frase
passiva e, se è espresso, assume sempre la forma di un sintagma preposizionale la
cui testa è da.
Nelle frasi interrogative «wh-» si presenta questo fenomeno: un argomento del verbo
non compare nella stessa posizione della dichiarativa corrispondente, ma all'inizio
della frase. Se la frase interrogativa è complessa, cioè è costituita da una principale e
una o più dipendenti, questo ha l'effetto che un argomento può trovarsi in una frase
semplice diversa da quella in cui si trova il verbo a cui è collegato. Per esemplificare
quanto appena detto, consideriamo anzitutto queste due frasi dichiarative:

(45) Mario ha comprato il giornale


(46) Gianni ha detto che Mario ha comprato il giornale
LA COMBINAZIONE SINTASSI187
DELLEPAROLE:

(45) è una frase semplice; se vogliamo porre la domanda su che cosa ha comprato
Mario, avremo l'interrogativa «wh-» (47), in cui il secondo argomento del verbo
comprareè rappresentato dal pronome interrogativo cosa,posto all'inizio della frase:

(47) Cosa ha comprato Mario?

(46) è invece una frase complessa, costituita da una principale (Gianniha detto) e da
una dipendente (cheMarioha compratoil giornale).La frase interrogativa corrispon-
dente a (46) è quindi (48):

(48) Cosa ha detto Gianni che Mario ha comprato?

Anche in (48), il secondo argomento del verbo comprareè rappresentato dal pronome
cosa:quest'ultimo si trova all'inizio della frase principale (cosaha detto Gianm),
mentre il verbo compraresi trova nella frase dipendente (cheMarioha comprato).Si
può notare che, in linea di principio, non c'è limite alla distanza alla quale si possono
trovare, in una frase interrogativa «wh-», il pronome interrogativo e il verbo a cui
esso è collegato. Possiamo, infatti, complicare ulteriormente (48) come (49) e (50),
e si potrebbe continuare:

(49) Cosa ha detto Gianni che Pietro crede che Mario abbia comprato?
(50) Cosa ha detto Gianni che Pietro crede che Luisa pensi che Mario abbia com-
prato?

Ovviamente, è alquanto improbabile che frasi come (49) o (50) siano effettivamente
utilizzate nel nostro discorso quotidiano: esse però si possono costruire, e con un
minimo di attenzione qualunque parlante nativo dell'italiano ne può controllare la
grammaticalità. In altre parole, esse difficilmente ricorreranno nell'esecuzione, ma
appartengono alla competenzadei parlanti italiani (cfr. II.2.3.). Esse possono essere
costruite in base al meccanismo della ricorsività,che, come abbiamo visto in I.2., è
una delle caratteristiche proprie del linguaggio umano. Nel caso delle frasi interro-
gative «wh-», in lingue come l'italiano, questo meccanismo ha il curioso effetto che
abbiamo visto: quello di poter «allontanare indefinitamente» un argomento dal verbo
a cui è collegato.
La teoria sintattica elaborata da oam Chomsky e dai suoi allievi (la cosiddetta «gram-
matica generativa»; v. la nota storico-bibliografica alla fine del capitolo) ha dedicato
particolare attenzione allo studio di questo fenomeno, cercando di descriverlo nel
modo più adeguato e di individuarne le possibili ragioni. Qui ci limiteremo a dare
qualche indicazione solo sulla descrizione del fenomeno, lasciando a studi più avanzati
l'analisi delle sue possibili cause.
Le due nozioni chiave che dobbiamo introdurre sono quelle di movimento e di copia.
L'idea di Chomsky è che i sintagmi che sono interpretati in una posizione della frase
(cosaè interpretato come oggetto del verbo compraree lo dovrebbe quindi seguire)
ma pronunciati in una posizione diversa (in posizione iniziale di frase) sono introdotti
due volte nella derivazione: prima nella posizione cosiddetta di base, dove soddisfano
la valenza del verbo, poi nella posizione cosiddetta di arrivo, dove segnalano la moda-
lità interrogativa della frase. Il legame tra queste due posizioni può essere visto come
un'operazione di movimento: ad esempio il sintagma WH (cfr. VII.3.2.) cosaviene
introdotto come oggetto del verbo compraree quindi collocato dopo di esso, e mosso in
posizione iniziale di frase.
Al di là di questa metafora del movimento, l'idea fondamentale di questo approccio
è che la frase contenga due copie dello stesso elemento, e che entrambe svolgano un
ruolo nell'elaborazione della frase. La circostanza che una delle due copie, quella
188 CAPITOLO7

nella posizione di base, non venga pronunciata è vista come un fatto superficiale ri-
conducibile ad esigenze di economia dello sforzo, per cui parlando si tende ad evitare
le ripetizioni. La presenza di una copia nella posizione di base dell'elemento mosso
viene solitamente rappresentata con il simbolo t, o traccia, come si vede in (49') e (50').

(49') Cosai ha detto Gianni che Pietro crede che Mario abbia comprato t/
(50') Cosai ha detto Gianni che Pietro crede che Luisa pensi che Mario abbia
comprato t/

Nella teoria di Chomsky il simbolo tè ben più che una pura notazione, bensì indica
una precisa 'realtà mentale': la presenza di una copia di un elemento mosso. Non
affronteremo qui i dettagli di questa teoria, che è molto articolata e complessa (per
maggiori informazioni v. ancora la nota in fondo al capitolo). Ci limitiamo a notare
una particolarità del movimento, ossia che esso appare «limitato»: non nel senso che
non possa essere esteso indefinitamente, a livello di competenza (gli esempi come (49)
e (50) mostrano che ciò è possibile), ma nel senso che può trovare degli «ostacoli»
lungo il suo «percorso». Chiariamo questo concetto con qualche esempio. Le due
frasi in (51) hanno più o meno lo stesso significato, e, quello che più ci interessa, sono
entrambe grammaticali:

(51) a. Pietro crede che invaderanno quel paese


b. Pietro ha l'opinione che invaderanno quel paese

Proviamo ora a formare le frasi interrogative «wh-» corrispondenti a (51), intro-


ducendo nella loro rappresentazione anche il simbolo t, per indicare la posizione
originaria dell'elemento «spostato»:

(52) a. Quale paesei Pietro crede che invaderanno t/


b. *Quale paesei Pietro ha l'opinione che invaderanno t/

Mentre (52a) è perfettamente grammaticale, (52b) è agrammaticale, o comunque


molto peggiore dell'altra frase. L'ipotesi del movimento spiega questo contrasto sup-
ponendo che il nome opinione, al contrario del verbo credere, blocchi il movimento
del sintagma quale paese dalla sua posizione di base a quella di inizio di frase.
Questa teoria è assai complessa e articolata, e non entreremo qui nei suoi dettagli; in
VII.3 .5., invece, esamineremo un po' più da vicino la posizione in cui vengono «mossi»
costituenti come cosa nelle frasi (47)-(50), o come quale paese in (52a), e che fin qui
abbiamo semplicemente chiamato «posizione iniziale di frase».

3.4. Tipi di frasi dipendenti•

Tutti gli esempi di frasi dipendenti che abbiamo dato finora riguardavano frasi dipen-
denti che rappresentano degli argomenti del verbo della frase principale. Parliamo
quindi, in questo caso, di frasi dipendenti argomentali.Ricordiamo però che esistono,
oltre agli argomenti, anche i circostanziali: quindi, oltre alle frasi dipendenti argomen-
tali, avremo anche le frasi dipendenti circostanziali Gli esempi in corsivo di (53)-(59)
illustrano ciascuno un tipo di frase circostanziale (il cui nome è indicato tra parentesi).

(53) Quando Gianni è arrivato, Maria era già partita da un pezzo (temporale)
(54) Dato che Gianni è arrivato in ritardo, ce ne siamo andati (causale)
LACOMBINAZIONEDELLEPAROLE:SINTASSI 189

(55) Abbiamo predisposto tutto perché Gianni potesse arrivarein orario(finale)


(56) Gianni ci ha fatto attendere tanto a lungo che ce ne siamo andati via (conse-
cutiva)
(57) Se Gianni/asse arrivatoin orario,avremmo potuto cenare con calma (condi-
zionale)
(58) Benché Giannifosse arrivatoin orario,non trovò nessuno ad attenderlo (con-
cessiva)
(59) Abbiamo atteso Gianni più a lungo di quantofosse necessario(comparativa)

Come si ricorderà, la differenza essenziale tra argomenti e circostanziali è che i primi


sono obbligatori e i secondi, invece, facoltativi. Abbiamo già visto, esaminando (35),
che essa suona «incompleta» se alla principale Gianni credenon segue la dipendente.
Proviamo invece a enunciare ciascuna delle frasi (53)-(59) senza la parte in corsivo
(ossia la frase dipendente): vedremo che ognuna delle frasi risulta completa in se stessa,
senza bisogno di essere «saturata». Questo mostra che ciascuna delle frasi dipendenti
in (53)-(59) non è obbligatoria, ma facoltativa: si comporta cioè come un circostanziale.
(53)-(59) ci hanno anche fornito un primo inventario dei tipi di frasi circostanziali
possibili; vediamo ora di esaminare i tipi possibili di frasi argomentali. Frasi come che
Paoloabbiamentito in (35) sono chiamate oggettive, o completive.In questi esempi
le completive sono argomento di verbi (del verbo dire, in particolare); esistono però
anche alcuni tipi di nomi che possono avere degli argomenti, in particolar modo dei
complementi frasali. Questo è il caso, ad esempio, di nomi come/atto, idea, ecc., in
frasi come le seguenti:

(60) Il fatto che i soldatisi siano comportaticosi'non ha meravigliato nessuno


(61) L'idea chei soldatipotesserocomportarsicosi'nonera venuta in mente a nessuno

Definiremo quindi le frasi poste in corsivo in (60)-(61) frasi completivenominali.


Un altro tipo di frasi dipendenti argomentali è rappresentato dalle frasi soggettive:
un esempio di frase soggettiva è Che la Terragiri intorno al Sole in frasi complesse
come (62):

(62) Che la Terragiri intorno al Sole è noto da molto tempo

Infine, un ultimo tipo di frasi dipendenti argomentali è costituito dalle cosiddette


interrogativeindirette,un esempio delle quali è la frase in corsivo di (63):

(63) Gianni non sa chi partiràdomani

Vi è poi un terzo tipo di frasi dipendenti, oltre a quelle argomentali e a quelle circo-
stanziali, ossia le cosiddette frasi relative,alcuni esempi delle quali sono i seguenti:

(64) Gli studenti che non si sono iscrittiall'appellonon possono sostenere l'esame
(65) Gianni, che non si è iscrittoall'appello,non può sostenere l'esame

Entrambe le frasi sono caratterizzate dal fatto di modificare un sintagma nominale che
le precede (glistudenti in (66a); Gianni in (66b)). In questo senso hanno una funzione
molto simile a quella dell'aggettivo. (64) e (65) hanno tuttavia una funzione un po'
diversa: mentre la relativa in (64) serve a indicare, all'interno dell'insieme degli studenti,
il sottoinsieme di quelli che non si sono iscritti all'appello, (65) non svolge questa
funzione di delimitazione (Gianni, essendo un singolo individuo, non è ulteriormente
delimitabile), ma aggiunge alcune informazioni sul conto di Gianni. Questa differente
funzione dei due tipi di relative fa sì che esse siano chiamate rispettivamente relative
restrittive(il tipo in (64)) e relative appositive (il tipo in (65)).
190 (APITO_L_O_7
_______________ ~--

Un problema non immediatamente semplice di classificazione delle frasi dipendenti


riguarda la differenza tra i due ultimi tipi che abbiamo esaminato, ossia tra le comple-
tive nominali e le relative (tanto restrittive che appositive). Come fare a distinguerle?
Dopotutto, entrambe sono introdotte da che. Vediamo un caso particolarmente
problematico, illustrato dalla seguente coppia di esempi:

(66) a. Il fatto che Gianni ci ha riferito tutti i particolari ci ha impressionato molto


b. Il fatto che Gianni ci ha riferito ci ha impressionato molto

La frase dipendente (segnata in corsivo) in (66a) è una completiva nominale, quella


in (666) una relativa. Su che cosa ci basiamo nel tracciare questa distinzione? Su
considerazioni derivanti dalla teoria della valenza. Il verbo riferire è un verbo biar-
gomentale, o bivalente: i suoi argomenti sono la persona che riferisce e la cosa, o
le cose, riferite. In (66a) il primo di questi due argomenti è realizzato da Gianni, il
secondo da tutti i particolari. In (666), come in (66a), il primo argomento di riferire è
realizzato da Gianni, ma da cosa è realizzato il secondo? È facile vedere che esso è
realizzato da il/atto stesso, il quale ha dunque una duplice funzione: è soggetto nella
frase principale (il fatto ci ha impressionato molto), ed è l'oggetto nella frase relativa,
rappresentato dal pronome che (cfr. la frase semplice corrispondente «Gianni ci ha
riferito il fatto»). Quindi una frase relativa si distingue da una completiva nominale
perché il sintagma nominale che la precede svolge la funzione di argomento del verbo
della frase relativa stessa.
Riassumiamo ora graficamente quanto abbiamo detto sulla classificazione delle frasi
dipendenti dal punto di vista del loro rapporto con la principale. Possiamo rappre-
sentare tale classificazione in (67).

(67)

~
soggettive

argomentali completive
interrogative
< .. oggettive
norrunali

indirette

Frasi dipendenti circostanziali

restrittive
relative<
appositive

Oltre che dal punto di vista del loro rapporto con la principale, possiamo classificare
le frasi dipendenti anche in base alla loro forma, ossia in esplicite e implicite.Chia-
miamo esplicite le frasi dipendenti che contengono un verbo di modo finito; implicite
quelle che contengono un verbo di modo non finito. Così la parte in corsivo di (68)
è un esempio di frase dipendente esplicita, quella di (69) di dipendente implicita:

(68) Gianni ha promesso a Maria che partirà domani


(69) Gianni ha promesso a Maria di partire domani

Questi sono esempi di dipendenti argomentali, rispettivamente implicita ed esplicita;


ma la stessa opposizione si verifica anche negli altri tipi di dipendenti. (70) e (71) sono
esempi di circostanziali (temporali), l'una esplicita e l'altra implicita:
LACOMBINAZIONEDELLEPAROLE:SINTASSI 191

(70) Dopo che ebbe salutato la moglie, Gianni uscì


(71) Dopo aver salutato la moglie, Gianni uscì

Allo stesso modo, (72) e (73) sono esempi, rispettivamente, di una relativa (restrittiva)
esplicita ed implicita:

(72) Cerco la persona a cui devo consegnarequesto pacco


(73) Cerco la persona a cui consegnarequesto pacco

Quindi le due dimensioni di classificazione delle frasi dipendenti che abbiamo intro-
dotto, la prima in base al loro rapporto con la principale, la seconda in base alla loro
forma, si combinano in tutti i modi possibili.

3.5. Rappresentazione formale della struttura della frase•

In VII.3 .1. abbiamo visto che né il soggetto né il predicato possono essere considerati
la testa della frase: infatti, non si può avere (in una frase a struttura predicativa) né un
predicato senza un soggetto, né un soggetto senza un predicato. Questo fatto sembra
opporre nettamente la frase agli altri tipi di gruppi di parole, che sono tutti caratteriz-
zati dal possedere una testa, e sembra anche rendere impossibile ricondurre la frase
allo «schema X-barra», che, come si è visto in VII.2.1., descrive l'analogia di struttura
tra i vari tipi di sintagmi (SN, SV,SA, SP). In effetti, per molto tempo si è pensato che
la frase fosse una categoria priva di testa, o esocentrica,al contrario degli altri tipi di
sintagmi, che sono invece dotati di testa o endocentrici(questa distinzione è la stessa
che si applica ai composti in morfologia; cfr. V.11.3.). Da circa una ventina d'anni,
però, si è cominciato a proporre una struttura endocentrica anche per le frasi. Questo
comporta, naturalmente, l'individuazione di un elemento che possa essere la testa della
frase stessa, e che non può essere, per le ragioni che conosciamo, né il soggetto né il
predicato. Questa analisi richiede non solo di prendere in considerazione il livello
sintattico «concreto», «osservabile», ma di collocarsi a un livello più astratto, come
si è fatto alla fine di V.3.3. discutendo del concetto di «movimento». Aggiungiamo
anche che la struttura di frase che presenteremo qui non è quella dei lavori sintattici
più recenti, ma è ancora quella che si trova nei primi studi che hanno analizzato la frase
come categoria endocentrica. Gli studi più recenti, tuttavia, non hanno contraddetto
questa impostazione iniziale, ma l'hanno semplicemente approfondita ed elaborata.
Essa è quindi ancora un punto di partenza utile.
Tale punto di partenza è che la testa della frase sia la flessione del verbo, cioè, ad
esempio, in una frase come (25) (Giannipasseggia)la terza persona singolare dell'in-
dicativo presente. Ciò può sembrare a prima vista abbastanza strano, perché il verbo
fa parte del predicato, come vedremo ancora in VII.4., e già sappiamo che né il pre-
dicato né il soggetto possono essere la testa della frase. Tuttavia, occorre distinguere
il contenutolessicaledel verbo dalla sua flessione, in quanto sono l'uno indipendente
dall'altra. Il contenuto lessicale di un verbo come passeggiareè che si tratta di un verbo
monovalente (cfr. VII.I.), il cui significato è «camminare lentamente, spec. senza
meta precisa, per divertimento, esercizio fisico o per distrarsi» (definizione tratta dal
dizionario DM).Tale contenuto lessicale è identico per qualunque modo, qualunque
tempo e qualunque persona del verbo passeggiare,e lo stesso vale per tutti gli altri
verbi. Viceversa, la flessione (nel nostro caso, «indicativo presente terza persona
singolare») è identica per qualunque altro tipo di verbo, sia esso monovalente come
nevica, bivalente come ama, o trivalente come dona. Quindi, il contenuto lessicale
192 CAPITOLO7

del verbo è indipendente dalla sua flessione, e la flessione del verbo è indipendente
dal suo contenuto lessicale. Questo suggerisce che in realtà il verbo come categoria
lessicale e testa del SV sia, ad un livello astratto, disgiunto dalla flessione: a tale livello
dunque la flessione è un morfema libero (cfr. V.3.1.), mentre è un morfema legato
(al verbo) solo al livello concreto, osservabile. Il passo immediatamente successivo
è considerare la flessione come la testa della frase; del resto, chi ha familiarità con
grammatiche tradizionali, soprattutto delle lingue classiche, sa che spesso si parla non
solo di verbi, ma anche di/rasi all'indicativo, congiuntivo, ecc., a dimostrazione del
fatto che proprietà come quelle della flessione vengono considerate come non limitate
al verbo, ma come caratterizzanti la frase nella sua totalità.
In base a queste considerazioni, possiamo dare di una frase come Gianni passeggiala
seguente rappresentazione (in cui FLESS = flessione):

(74) FLESS"

~
SN (= N")FLESS'

I
N'
~
FLESS
SV (= V")
I I
N V'
I
V
I
Gianni III Sing. passeggiare
Ind. Pres.

Si può confrontare (74) con (25') e notare le differenze tra le due rappresentazioni.
In (25'), la categoria F è rappresentata come esocentrica: né SN né SV possono
essere infatti considerati la testa. (74) invece segue esattamente lo schema X-barra:
la testa è FLESS, che con il suo complemento, SV, costituisce il primo livello di
proiezione, FLESS'; quest'ultimo, insieme allo specificatore SN, forma l'intero co-
stituente FLESS", che equivale a F di (25). Si noterà che il soggetto è lo specificato re
di FLESS", e il predicato il complemento: ciò è conforme alle nostre precedenti
considerazioni, in base alle quali né il soggetto né il predicato sono la testa della
frase. Notiamo infine che in (74) la testa V di SV è indicata con la forma del verbo
all'infinito (passeggiare),a differenza di quanto accade in (25): questo perché essa
rappresenta il puro contenuto lessicale del verbo, che è separato dalla flessione, al
livello astratto in cui si colloca la rappresentazione (74). Un'operazione di trasfor-
mazione (cfr. VII.3.3.) porterà poi il verbo passeggiaread «amalgamarsi» con i tratti
«terza persona singolare indicativo presente» della testa FLESS, e questo produrrà
la forma osservabile passeggia.
Non tutte le frasi hanno una struttura così semplice come quella rappresentata in (25),
o nel suo equivalente più «formalizzato» (74). Come rappresentare, ad esempio, una
interrogativa «wh-» come (75), o una interrogativa «wh-» segmentata come (76) (per
queste frasi, cfr. VII.3.2-3.):

(75) Quale paese crede Pietro che invaderanno?


(76) A proposito di questi paesi, quale crede Pietro che invaderanno?

Inoltre, quale posizione assegnare agli elementi che introducono le frasi dipendenti,
come che o di in (77)-(78) (cfr. VII.3.4.):
LACOMBINAZIONEDELLEPAROLE:SINTASSI 193

(77) Gianni promette a Maria che partiràdomani


(78) Gianni promette a Maria di partire domani

Un'ipotesi a suo tempo fatta all'interno della sintassi di impostazione generativa


è che le posizioni di tali elementi siano «al di fuori» del sintagma FLESS", cioè al
di fuori di quello che potremmo chiamare il «nucleo predicativo» della frase, ma
che anch'esse siano rappresentabili in base allo «schema X-barra». Anche questa
ipotesi ha subito, nel corso degli anni, varie modifiche e perfezionamenti, ma noi la
riprodurremo qui, per semplicità, nella sua forma primitiva. Essa consiste nel con-
siderare il sintagma FLESS" come complemento di un'altra categoria, detta COMP
(= «complementatore»), che è a sua volta la testa di un altro sintagma, il «sintagma
del complementatore»; sempre seguendo la notazione X-barra, indicheremo questo
sintagma con COMP". Il risultato è che la frase sarà rappresentata secondo questo
schema generale, che include il precedente (74):

(79) COMP"

~
Specifìcatore COMP'

COMP
~FLESS"

~
SN (= N")
FLESS'

FLESS
~SV (=V")

Il termine «complementatore» è dovuto al fatto che questa categoria fu inizial-


mente proposta per rappresentare la struttura delle frasi completive (cfr. VII.3.4.),
di cui (77) e (78) costituiscono due esempi, il cui indicatore sintagmatico forniamo
qui sotto:

(80)

---------
SN
FLESS"

---------------
FLESS
FLESS'

SV
I
V'
~
V COMP"
I

Gianni ill Sing. promettere che/di


--------
COMP

I~
COMP'

FLESS"

partirà/partire domani
Ind. Pres.

Per brevità, abbiamo «fuso» i due indicatori sintagmatici in uno solo, segnando le
due alternative: la testa COMP può essere realizzata come che oppure come di, e di
1 94 CAPITOLO7
----~---~--

conseguenza il sintagma FLESS" dipendente sarà realizzato come partirà domani (se
la testa COMP è che), oppure come partire domani (se la testa COMP è di). Quindi,
la flessione finita o infinita della frase dipendente dipende dalla scelta del comple-
mentatore: questa è un'ulteriore prova del fatto che la flessione è indipendente dal
contenuto lessicale del verbo, e che è una proprietà dell'intera frase.
La struttura descritta in (79) si estende però anche alle frasi principali. Senza entrare
in dettagli, possiamo dire che i sintagmi «focalizzati», «dislocati a sinistra» e «spo-
stati» (cfr. VII.3 .2-3.) si trovano nella posizione di specificato re del sintagma COMP"
principale. Questa posizione è anche quella in cui vengono «mossi» (cfr. VII.3.3.)
costituenti come quale paese in (52a) e in (75), o cosa in (47)-(50). Può sembrare
strano ipotizzare che anche le frasi principali abbiano un complementatore, nozione
che per il suo stesso nome sembra essere limitata alle frasi dipendenti: tuttavia, in
alcune lingue (ad esempio l'arabo, il persiano, o il polacco) anche determinate frasi
principali sono introdotte da complementatori. La differenza tra tali lingue e le lingue
come l'italiano starebbe dunque nel fatto che in queste ultime il complementatore
della frase principale non ha mai una realizzazione concreta, ma esiste solo al livello
astratto.

4. SOGGETTOE PREDICATO

Nei paragrafi precedenti abbiamo adoperato più volte i termini di «soggetto»


e «predicato», senza darne però una definizione esplicita. Che cosa si intende
con tali termini?
Le definizioni tradizionali di soggetto sono numerose, ma nessuna di esse
è completamente soddisfacente. Forse la più diffusa è quella che dice che
il soggetto di una frase indica «la persona o la cosa che fa l'azione, o, nelle
frasi di forma passiva, che la subisce»; il predicato, a sua volta, esprimerebbe
l'azione compiuta oppure subita dal soggetto. Questa definizione risulta
certamente adeguata per alcuni tipi di frase, come Quel ragazzopicchiaquel
signore,oppure Quel signoreè picchiatoda quel ragazzo,nella prima delle quali
il soggetto è certamente quel ragazzo,mentre nella seconda è quel signore.M~
che dire di una frase come Quel ragazzoama Maria?Non sembra molto ade-
guato considerare il verbo amare come l'espressione di un' «azione»: eppure,
il soggetto della frase è quel ragazzo.Ancor più difficile è poi concepire come
agente di un'azione l'individuo indicato con quel ragazzoin una frase come
Quel ragazzoteme la guerra:il provare timore di qualcosa è ben difficilmente
qualificabile come un'azione. Il massimo del paradosso si raggiunge forse in
frasi come Quel ragazzoha subito molti torti: quel ragazzoè il soggetto della
frase, e dunque dovrebbe indicare chi compie l'azione; ma in questo caso in-
dica piuttosto colui che l'ha subita. La definizione del soggetto come «autore
di un'azione» si dimostra dunque valida solo per certi tipi di frasi e certi tipi
di verbi, ma non per altri.
Un'altra definizione di soggetto che ha una lunga tradizione è la seguente: «il
soggetto indica la persona o la cosa di cui parla il predicato». Questa seconda
definizione appare soddisfacente, per le frasi che abbiamo appena esaminato:
in Quel ragazzopicchia quel signore si parla di quel determinato ragazzo (e
LACOMBINAZIONEDELLEPAROLE:SWTASSI 195

si dice che picchia quel determinato signore), in Quel signore è picchiato da


quel ragazzosi parla di quel determinato signore, in Quel ragazzoama Maria
e in Quel ragazzoteme la gue"a si parla di quel determinato ragazzo, e così
via. Tuttavia, se consideriamo qualche altro tipo di frase, vediamo che anche
questa definizione è insoddisfacente. Pensiamo, ad esempio, ad una frase
come A Pietro piaccionoi fiori, oppure ad una come In questa casasi fermò
Garibaldi:ciò di cui si parla è, nella prima frase, Pietro, e ciò che si dice di lui
è che gli piacciono i fiori; nella seconda, ciò di cui si parla è una determinata
casa, e ciò che si dice di essa è che vi si fermò Garibaldi. Tuttavia, la nostra
tradizione grammaticale considererebbe (giustamente) un grave errore dire che
nella prima frase il soggetto è A Pietro, invece che i fiori, e che nella seconda
il soggetto è in questa casa,invece che Garibaldi.
Quale potrebbe essere, dunque, una definizione di soggetto che si riveli
adeguata per tutti i casi che abbiamo esaminato finora? Come sappiamo (cfr.
V.2.), in ogni frase ricorrono determinati verbi e, a seconda di quali sono
questi verbi, determinati argomenti, nel senso della teoria della valenza. e
consideriamo tutte le frasi che abbiamo esaminato fin qua, vediamo che in
ognuna di esse un solo argomento ha sempre la stessa persona e lo stesso
numero del verbo: Quel ragazzoin Quel ragazzopicchia quel signore, Quel
ragazzoama Maria, Quel ragazzoteme la guerra, Quel ragazzoha subito molti
torti; Quel signorein Quel signoreè picchiatoda quel ragazzo;i/iori in A Pietro
piaccionoifiori; Garibaldiin In questacasasifermò Garibaldi.Possiamo quindi
definire il soggetto come «quell'argomento che ha obbligatoriamentela stessa
persona e lo stesso numero del verbo» (sui concetti di persona e numero v.
anche più avanti, VII.5.1.). Abbiamo sottolineato «obbligatoriamente» perché
in molte frasi, come Quel ragazzopicchia quel signore oppure Quel ragazzo
teme la gue"a, ci sono due argomenti che hanno la stessa persona e lo stesso
numero del verbo: nella prima frase, tanto quel ragazzoquanto quel signore;
nella seconda, tanto quel ragazzoquanto la guerra.Proviamo però a sostituire
questi argomenti, tutti al singolare, con argomenti al plurale. I risultati sono
in due casi frasi ben formate, in altri due casi no:

(81) Quel ragazzo picchia quei signori


(82) Quel ragazzo teme le guerre
(83) *Quei ragazzipicchia quel signore
(84) *Quei ragazzi teme la guerra

In tutte e quattro queste frasi abbiamo lasciato il verbo al singolare; in (81) e


(82) abbiamo messo al plurale gli argomenti quel signoree la guerra,in (83)
e (84) l'argomento quel ragazzo.Tuttavia, solo (81) e (82) sono grammaticali,
mentre (83) e (84) non lo sono. Ciò significa che l'argomento che deve ob-
bligatoriamente accordarsi con lo stesso numero del verbo, in queste frasi, è
il soggetto (in questo caso, il sintagma nominale quel ragazzo).
Le definizioni tradizionali di soggetto che abbiamo riportato sono dunque
totalmente errate? Non è così: del resto, se lo fossero, sarebbe abbastanza
196 CAPITOLO7

strano che avessero potuto godere per così lungo tempo di tanta fortuna.
Piuttosto, si tratta di definizioni parziali,perché colgono soltanto alcuni aspetti
dell'organizzazione del linguaggio. Qual è la causa di questa parzialità? Il fatto
che, in realtà, parlando di «soggetto», e, correlativamente, di «predicato», esse
non distinguono i diversi livelli di analisi della frase: potremmo chiamare questi
livelli, rispettivamente, sintattico (o grammaticale), semantico e comunicativo
(altre etichette sono possibili ed usate da altri autori, ma l'importante non è
quali etichette si usano, ma a quali fenomeni ci si riferisce). La definizione di
soggetto che abbiamo proposto qui, ossia «l'argomento che ha obbligatoria-
mente la stessa persona e lo stesso numero del verbo», individua il soggetto
come entità sintattica.La definizione del soggetto come «colui che compie
l'azione» si colloca invece a livello semantico:tra i vari argomenti del verbo,
essa ne individua uno che svolge un particolare ruolo all'interno della frase,
ossia appunto quello di chi compie l'azione. Definire il soggetto come «ciò
di cui si parla» si basa su un'analisi dell'aspetto comunicativodella frase: essa
viene suddivisa in «ciò che è il tema» e «ciò che viene detto a proposito di tale
tema». Alcune volte, le tre nozioni (sintattica, semantica e comunicativa) sono
realizzate dalla stessa entità linguistica; altre volte, no. Per esempio, in Gianni
colpiscePietro,Gianniè, a livello sintattico, l'argomento che si accorda obbli-
gatoriamente col verbo; a livello semantico, indica colui che compie l'azione; a
livello comunicativo, indica colui di cui si parla. Negli altri esempi, la situazione
è diversa: in Gianniteme la guerra,Gianniè, a livello sintattico, il soggetto (in
quanto è l'argomento che si accorda obbligatoriamente col verbo) e a livello
comunicativo indica ciò di cui si parla, ma a livello semantico non indica colui
che compie l'azione (di fatto, non descrivendo questa frase un'azione, non
viene neppure indicato chi la compie). In A Pietropiaccionoi fiori, i fiori è
a livello sintattico il soggetto, ma a livello semantico non indica l'agente e a
livello comunicativo non indica ciò di cui si parla, che è invece Pietro.
Una volta chiariti i diversi livelli di analisi della frase, cioè sintattico, semantico
e comunicativo, è preferibile non continuare ad usare indifferentemente iter-
mini «soggetto» e «predicato», ma usare un'etichetta specifica per indicare tale
funzione a ciascuno dei tre livelli. Più esattamente, è meglio limitarsi ad usare
soggetto e predicato per riferirsi alle nozioni del livello sintattico: a questo
livello, il soggetto è dunque l'argomento che ha obbligatoriamente la stessa
persona e lo stesso numero del verbo. Il predicato è costituito dal verbo più
gli altri argomenti del verbo stesso, ossia dal sintagma verbale. (Naturalmente,
questo criterio di identificazione del soggetto e del predicato vale, formulato
così, solo per le frasi che contengono verbi flessi per persona e numero, cioè
verbi di modo finito; cfr. VII.3.1. È comunque possibile estenderlo in modo
tale da poter riconoscere il soggetto e il predicato anche in altri tipi di frasi.)
A livello semantico, invece di soggetto parleremo di agente, e, invece di pre-
dicato, di azione (nelle frasi come Quel ragazzopicchiaquel signore),oppure,
nelle frasi che non esprimono un'azione (come Gianni teme la guerra),di
stato; in queste ultime frasi, al soggetto sintattico daremo, dal punto di vista
semantico, l'etichetta di esperiente (cioè di chi prova un certo stato d'animo).
LA COMBINAZIONEDELLEPAROLE:SINTASSI 197

A livello comunicativo, al posto di soggetto, useremo tema (nel senso, più


o meno, in cui si parla di «tema da svolgere») e, al posto di predicato, rema
(dalla parola greca collegata alla radice che significa 'parlare').
Illustriamo queste nozioni analizzando due degli esempi precedenti, ossia le
frasi Quel ragazzopicchiaquel signoree A Pietro piaccionoi fiori, e indicando
il soggetto e il predicato, l'agente e l'azione (se presenti) e il tema e il rema di
ciascuna di esse. Come si può vedere, nella prima di queste frasi il soggetto
coincide sia con l'agente che con il tema, e il predicato coincide sia con l'a-
zione che con il rema. Nella seconda, invece, il soggetto non coincide con
il tema, bensì fa parte del rema, e il predicato è «spezzato» tra tema e rema;
inoltre tale frase non contiene un agente, ma un esperiente, e non descrive
un'azione, bensì uno stato.

Quel ragazzo picchia quel signore

Livellosintattico Soggetto Predicato


Livellosemantico Agente Azione
Livellocomunicativo Tema Rema

A Pietro piacciono i fiori

Livellosintattico Predicato Soggetto


Livellosemantico Esperiente Stato
Livellocomunicativo Tema Rema

5. CATEGORIEFLESSIONALI

In VII.2. abbiamo elencato le parti del discorso ed abbiamo distinto le parti


variabilida quelle invariabili.Le desinenze delle parti del discorso variabili
esprimono le diverse categorie flessionali:ad esempio, il genere, il numero,
il caso, il tempo, la personae il modo (cfr. V.4.). Queste categorie flessionali
si oppongono dunque alle categorie lessicali, cioè alle parti del discorso. Per
esempio, due parole come bello e bellaappartengono alla stessa categoria lessi-
cale, in quanto sono entrambe aggettivi, ma sono diverse dal punto di vista della
categoria flessionale del genere: belloè maschile, bellaè femminile. Ancora: ama
e amavasono entrambi verbi (categoria lessicale), ma sono diversi dal punto di
vista del tempo (categoria flessionale), in quanto la prima parola è un presente,
la seconda un imperfetto. Viceversa, bella e donna sono identiche dal punto di
vista flessionale, perché sono entrambe di genere femminile, ma appartengono
a due categorie lessicali diverse (rispettivamente, l'aggettivo e il nome). Poiché
ogni categoria flessionale si suddivide in opzioni diverse (ad esempio, il genere
può essere maschile o femminile, il numero singolare o plurale, ecc. v. V.6.), è
la realizzazione dell'una o dell'altra di queste opzioni a causare la variabilità
delle cinque parti del discorso che abbiamo elencato sopra.
Se due parole hanno le stesse categorie flessionali (per esempio, sono entrambe
maschili, o entrambe plurali, ecc.), si parla di accordo.Se invece una parola ha
198 CAPITOLO 7
----

una data categoria flessionale perché questa le è assegnata da un'altra parola


con categorie flessionali diverse, si parla di reggenza (ad esempio, si dice che
un nome ha un determinato caso perché è retto da un determinato verbo).
Esaminiamo ora le categorie flessionali che abbiamo elencato sopra: genere,
numero, persona, caso, tempo, modo. Alcune di esse sembrano corrispondere
a determinate categorie «naturali», cioè della realtà extralinguistica: il genere
al sesso, il numero all'unicità oppure alla molteplicità, il tempo grammaticale
al tempo cronologico. Come vedremo, però, questa coincidenza non è mai
perfetta: le categorie linguistiche non sono un semplice rispecchiamento delle
categorie della realtà, ma rappresentano un sistema organizzato secondo
principi indipendenti.

5.1. Genere, numero e persona•

L'italiano ha due generi: il maschile e il femminile. Si potrebbe pensare che il genere


non sia altro che il riflesso linguistico della categoria biologica del sesso, ma poche
considerazioni ci bastano per vedere che le cose non stanno così. Anzitutto, varie
lingue hanno più di due generi. Ad esempio, il tedesco ne ha tre: il maschile (der
Hm 'il signore'), il femminile (die Frau 'la signora') e il neutro (dasBuch 'il libro').
(Abbiamo messo davanti a ogni nome l'articolo, perché individua immediatamente
il genere del nome stesso: der è l'articolo maschile, die quello femminile e das quello
neutro.) Si potrebbe obiettare che la distinzione del tedesco è semplicemente più
sottile di quella dell'italiano: un genere, il neutro (che etimologicamente vuol dire «né
l'uno né l'altro», ossia né maschile né femminile), indica le cose inanimate, mentre gli
altri due generi indicano, rispettivamente, gli esseri animati di sesso maschile e quelli
di sesso femminile. Ma le cose non sono così semplici: ad esempio, in tedesco Weib
è neutro, eppure significa 'donna'. Inoltre, i nomi di molti oggetti inanimati hanno il
genere maschile oppure quello femminile, ed in vari casi il genere di questi nomi varia
da una lingua all'altra: in tedesco, il nome che indica il sole è femminile (die Sonne),
mentre quello che indica la luna è maschile (derMond); il nome che indica la morte
è maschile (der Tod);e gli esempi si potrebbero moltiplicare.
Non vi è quindi corrispondenza esatta tra la categoria «naturale» del sesso e la cate-
goria linguistica del genere. Ciò che è rilevante, dal punto di vista linguistico, è che
in lingue come l'italiano e le altre lingue romanze, in latino, in tedesco, e in altre, il
genere è indicato non soltanto nel nome testa di un sintagma nominale, ma anche
negli altri elementi del sintagma, che devono accordarsi con esso: quindi, uomo alto
ma donnaalta,e così via. Questa relazione di accordo non si realizza in tutte le lingue:
ad esempio, in inglese l'aggettivo è invariabile (tal!man e tal! woman). L'accordo di
genere, in latino, in italiano e nelle altre lingue romanze, si realizza anche tra soggetto
e predicato: quest'uomoè alto rispetto a questadonnaè alta.In tedesco, invece, questo
tipo di accordo non si realizza, e il predicato ha un'unica forma invariabile: dieser
Mann ist grofle dieseFrauist grofl.
Anche il numero è una categoria linguistica che ha un rapporto soltanto indiretto con la
corrispondente categoria della realtà. L'italiano oppone l'indicazione di un solo oggetto
a quella di più oggetti appartenenti ad una stessa classe, ed ha dunque due numeri:
il singolare e il plurale (casarispetto a case).In lingue come il greco e il sanscrito,
invece - come si è visto nel cap. V - esistono tre numeri grammaticali: il singolare, il
plurale, e il duale,in genere utilizzato per indicare tipiche coppie di oggetti: le mani, gli
LACOMBINAZIONEDELLEPAROLE:SINTASSI 199
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occhi, e così via. Altre lingue (per esempio, alcune dell'Oceania) hanno un'espressione
morfologica propria anche per il triale,cioè per indicare terne di oggetti. Come accade
per il genere, anche il numero manifesta il fenomeno dell'accordo, in lingue come
l'italiano: se la testa di un sintagma nominale è singolare, devono essere al singolare
anche tutti gli altri elementi del sintagma (l'aggettivo, l'articolo, ecc.); se è al plurale,
devono essere tutti al plurale. L'accordo di numero, in italiano, si realizza anche tra
soggetto e predicato: l'uomo è mortale, ma gli uomini sono mortali. D comportamento
del tedesco e dell'inglese è identico a quanto si è visto per l'accordo di genere. Non vi
è mai accordo in inglese, che utilizza sempre forme invariabili, mentre in tedesco c'è
accordo all'interno del sintagma nominale, ma non tra soggetto e predicato: nelle frasi
tedesche corrispondenti agli esempi italiani che abbiamo fatto, la forma invariabile
dell'aggettivo sterblich corrisponde tanto a 'mortale' quanto a 'mortali'.
Oltre che tra nome e aggettivo, l'accordo di numero può realizzarsi anche tra il soggetto
e il verbo, ed è proprio questo fenomeno che permette di individuare il soggetto sin-
tattico, come si è visto in VII.4. Questo tipo di accordo si realizza, nella terza persona
del presente indicativo, anche in una lingua come l'inglese, la cui morfologia flessionale
è in generale molto ridotta: he /ights 'egli lotta' si oppone a they /ight 'essi lottano'.
È proprio questa differenza di accordo di numero che ci permette di distinguere, in
inglese, tra /ight nome e fight verbo (ed altri numerosi casi del genere, come move
'muovere', 'mossa', love 'amore', 'amare', ecc.). Infatti la desinenza -s indica il plurale
nei nomi, ma il singolare nella terza persona dei verbi. Quindifights è nome in (85a)
ed è verbo in (85c); viceversa,/ight è verbo in (856) e nome in (85d):

(85) a. Their fights for their independence continue


'Le loro lotte per la loro indipendenza continuano'
b. They continuously fight for their independence
'Essi lottano per la loro indipendenza continuamente'
c. He continuously fights for his independence
'Egli lotta per la sua indipendenza continuamente'
d. His fight for his independence continues
'La sua lotta per la sua indipendenza continua'

Queste ultime osservazioni hanno introdotto anche la categoria di persona. Le persone


grammaticali sono tre: tradizionalmente esse sono definite «colui che parla» (prima
persona),«colui a cui ci si rivolge» (secondapersona)e «colui di cui si parla» (terza
persona). Queste definizioni non sono però del tutto soddisfacenti, in quanto «la
persona di cui si parla» può benissimo essere la prima o la seconda: io sto partendo
oppure tu sei arrivato. Quindi, è più adeguato definire la terza persona come quella
che «non entra nel dialogo», in quanto non indica né colui che parla né colui a cui ci
si rivolge. Il senso grammaticale del termine «persona» non coincide con quello del
linguaggio ordinario: infatti, col termine «persona» ordinariamente si pensa ad un
essere umano, ma se diciamo che frasi come la pietra rotola, oppure il cavallo corre,
sono alla terza persona, evidentemente utilizziamo la parola con un senso diverso. La
confusione tra l'uso ordinario e l'uso grammaticale del termine «persona» ha portato
alla creazione di un'etichetta curiosa, ossia quella di «verbi impersonali» (piove, ecc.),
che in realtà sono tutti alla terza persona (grammaticale), pur non avendo e non po-
tendo avere un soggetto che indichi una persona (nel senso ordinario della parola).
Anche la persona è una categoria flessionale che manifesta il fenomeno dell'accordo:
nelle lingue dotate di morfologia flessionale, la persona del verbo si accorda con quella
del soggetto, che può essere un pronome (prima, seconda e terza persona) oppure
anche un nome o un sintagma nominale (terza persona).
La tripartizione delle persone si riproduce nei diversi numeri: ad esempio, in italiano
e in molte altre lingue, abbiamo tre persone del singolare e tre persone del plurale.
200 CAPITOLO7

Per quanto riguarda la prima persona del plurale, essa può indicare sia i parlanti
che gli ascoltatori, oppure i parlanti ma non gli ascoltatori: nel primo caso si parla
di noi inclusivo,nel secondo di noi esclusivo. Mentre in lingue come l'italiano non
c'è differenza morfologica tra questi due tipi di noi, diverse altre lingue usano due
forme distinte, una per ognuno dei due significati. A questo proposito, un vecchio
aneddoto racconta di un missionario in Africa che, durante una predica che cercava
di tenere nella lingua degli indigeni, diceva una frase come Noi siamo tutti peccatorie
dobbiamoconvertirci,ma sbagliava ed usava la forma del «noi esclusivo», ottenendo
così l'effetto esattamente contrario a quello voluto.

5.2. Caso•

In prima approssimazione, possiamo dire che il caso indica la relazione che un dato
elemento nominale (nome, sintagma nominale o pronome) ha con le altre parole della
frase in cui si trova. L'esistenza di queste relazioni è universale; la loro realizzazione
mediante una categoria flessionale si ha invece soltanto in alcune lingue, ma non in
altre. Ritorniamo ad un esempio dato in V.1. Alla frase italiana (86a) corrisponde
quella latina (866):

(86) a. Il ragazzo ha dato una rosa a Maria


b. Puer rosam dedit Mariae

Le relazioni tra gli elementi sono le stesse in entrambe le lingue: le due frasi contengono
lo stesso verbo trivalente (dare),il quale ha come primo argomento (il «soggetto») il
ragazzooppure puer, come secondo argomento (l' «oggetto diretto») una rosaoppure
rosam e come terzo argomento (!'«oggetto indiretto» o «complemento di termine»)
a Maria oppure Mariae. Queste relazioni tra verbo e argomenti sono espresse in ita-
liano mediante 1) l'ordine delle parole (il soggetto precede il complemento oggetto,
e questo precede il complemento di termine) e 2) l'uso di un morfema grammaticale
libero (cfr. V.3.1.), la preposizione a, che distingue il terzo dal secondo argomento,
il cui ordine può quindi essere invertito: il ragazzoha dato una Rosa a Maria oppure
il ragazzoha dato a Maria una rosa. In latino, invece, l'ordine delle parole non ha la
funzione di indicare i diversi argomenti: (866) potrebbe essere trasformata in puer
Mariaerosamdedit, oppure Mariaepuer rosamdedit, oppure ancora rosamdedit puer
Mariae, ecc. mantenendo sempre lo stesso significato. Questo è possibile perché in
latino, a differenza che in italiano, la diversa relazione degli argomenti con il verbo è
espressa dalla loro desinenza: se rosam (caso accusativo)invece che oggetto diretto
fosse soggetto, avrebbe la forma rosa (caso nominativo);se fosse oggetto indiretto,
rosae(caso dativo). Se puer fosse oggetto diretto, avrebbe la forma puerum; se fosse
oggetto indiretto, puero.Alcuni studiosi chiamano «casi>>le relazioni tra i vari sintagmi
nominali ed il verbo, indipendentemente dal fatto che esse siano manifestate da una
variazione morfologica della parola, come in latino, oppure con altri mezzi, come in
italiano. Secondo questi studiosi, quindi, tanto il latino quanto l'italiano avrebbero un
caso nominativo, un caso accusativo ed un caso dativo. La differenza tra lingue come
il latino da un lato e come l'italiano dall'altro starebbe solo nel fatto che le prime, ma
non le seconde, danno un'espressione morfologica al caso o, più in breve, hanno casi
morfologici.Altri studiosi preferiscono invece riservare il termine «caso» alle lingue
come il latino, e dire che lingue come l'italiano non hanno la categoria del caso. Qui
non prenderemo posizione per nessuno dei due partiti. Si può comunque osservare
che l'italiano presenta anche un numero limitato di casi morfologici, nel sistema
LACOMBINAZIONEDELLEPAROLE:SINTASSI201

dei pronomi personali: il nominativo io si oppone all'accusativo me, il nominativo


tu all'accusativo te, i dativi gli e le agli accusativi lo e la, ecc. Lo stesso si può dire
dell'inglese: al nominativo he si oppone il dativo/accusativo him, al nominativo she
il dativo/accusativo her, ecc. Tra le lingue europee, il tedesco e le lingue slave hanno
casi morfologici anche nei nomi. Un residuo di caso morfologico nei nomi inglesi è
il cosiddetto «genitivo sassone»: John's book 'il libro di John', Hillary'shusband 'il
marito di Hillary', e così via.
Il numero dei casi morfologici varia da lingua a lingua: per esempio, il latino ne ha sei
(oltre ai già ricordati nominativo, accusativo e dativo, il genitivo, il vocativo e l'abla-
tivo); ilgreco antico ne ha cinque (gli stessi del latino, meno l'ablativo); il tedesco ne ha
quattro (nominativo, genitivo, dativo e accusativo). In alcune lingue non indoeuropee,
il numero dei casi può essere molto più alto: per esempio, il finlandese ha 16 casi.
Soffermiamoci un istante sulle relazioni che può esprimere il genitivo, che corrispon-
dono a quelle che in lingue non dotate di casi morfologici sono espresse per mezzo
di preposizioni o posposizioni, tanto che il termine «genitivo» è normalmente usato
in tipologia linguistica per riferirsi a ogni tipo di lingua, indipendentemente dal fatto
che tale caso abbia una realizzazione morfologica oppure no (cfr. ill.3.2.).
Il genitivo può essere approssimativamente definito come il caso che esprime la
relazione che un nome ha con un altro nome. Questa relazione può essere di vario
tipo; per esempio, una relazione di possesso: liber (nom.) pueri (gen.) 'il libro del
ragazzo'; ma può essere anche una relazione più astratta, come quelle espresse nei
seguenti sintagmi nominali:

(87) a. Expositio (nom.) doctrinae (gen.)


'L'esposizione della dottrina'
b. vulnus (nom.) Achillis (gen.)
'La ferita di Achille'

I due sintagmi nominali (87a) e (876) possono essere parafrasati mediante queste frasi:

(88) a. La dottrina espone (qualcosa)


b. (Qualcuno) espone la dottrina
c. Achille ha ferito (qualcuno)
d. (Qualcuno) ha ferito Achille

Come si vede, a ciascuno dei due esempi di sintagmi nominali ((87a) e (876)) corri-
spondono due frasi ((88a) e (886), (88c) e (88d), rispettivamente). In (88a) e (88c)
il nome che nel sintagma nominale era al genitivo è il soggetto, in (886) e (88d) è
l'oggetto diretto: quindi, nel primo caso si parla di genitivo soggettivo, nel secondo
di genitivo oggettivo.

5.3. Tempo e modo*

Occorre distinguere tra «tempo» in senso cronologicoe «tempo» in senso grammati-


cale.Questi due significati del termine italiano «tempo» sono lessicalmente distinti, in
alcune lingue: in inglese, ad esempio, il tempo cronologico è indicato con time, mentre
la sua espressione grammaticale è detta tense.In senso cronologico, la distinzione è
quella tra presente, passato e futuro. Questi sono anche nomi di tempi grammaticali,
ma dobbiamo osservare due cose: 1) esistono lingue (come il cinese, e in generale le
lingue isolanti; cfr. ill.3 .1.) che non distinguono tempi grammaticali; in queste lingue,
202 CAPITOLO7

il verbo ha sempre un'unica forma, e le indicazioni temporali sono date da particelle


(cfr. IIl.3.1., es. (l)); 2) non c'è corrispondenza assoluta tra il tempo cronologico e il
tempo grammaticale. Ad esempio, il futuro italiano può avere un uso che dal punto
di vista cronologico non indica un momento successivo a quello in cui viene emesso
l'enunciato che lo contiene: se si dice all'interlocutore Sarà pur vero quello che mi hai
raccontato, ma io lo n'tengo incredibile, il futuro grammaticale sarà non si riferisce a
qualcosa che deve ancora accadere, bensì mette in dubbio qualcosa che l'interlocutore
ha asserito essere accaduto. In questo caso, il futuro inteso come tense non indica il
futuro inteso come time.
Passiamo ora all'analisi di qualcuno dei tempi grammaticali dell'italiano, introducendo
alcuni concetti che ci permetteranno di spiegare le differenze tra l'uno e l'altro di
essi, limitandoci al modo indicativo. Esso distingue otto tempi grammaticali, quelli
tradizionalmente denominati «presente» (es. scrivo), «passato prossimo» (ho scn·uo),
«passato remoto» (scrissi), «imperfetto» (scrivevo), «trapassato prossimo» (avevo
scritto), «trapassato remoto» (ebbi scritto), «futuro semplice» (scriverò), «futuro
anteriore» (avrò scritto).
Una frase come Gianni è partito contiene evidentemente un'espressione di tempo (è
partito). Questa frase può essere enunciata in un determinato momento cronologico
(per esempio, le 8,15 del 23 settembre 2012): lo chiameremo momento dell'enun-
ciazione. Il momento dell'enunciazione è sempre il presente (in senso cronologico).
Al tempo stesso, la frase ci dice che un determinato evento (la partenza di Gianni) è
avvenuto in un momento diverso da quello dell'enunciazione: lo chiameremo momento
dell'evento. Il momento dell'evento, nell'esempio che abbiamo dato, è anteriore
rispetto al presente; in un esempio come Gianni partirà, il momento dell'evento è
posteriore rispetto al momento dell'enunciazione; in un esempio come Gianni parte,
il momento dell'evento e quello dell'enunciazione coincidono. In determinate frasi,
viene indicato anche un momento di riferimento diverso dal momento dell'enuncia-
zione e da quello dell'evento. Pensiamo a frasi come le seguenti:

(89) Quando Gianni era già partito da tempo, Piero finalmente arrivò
(90) Quando Piero fu finalmente arrivato, Gianni poté partire
(91) Quando Piero sarà arrivato, Gianni potrà partire

In tutti e tre questi esempi, il verbo della frase dipendente (era partito, fu arrivato,
sarà arrivato) indica un evento anteriore al momento di riferimento, che è quello del
verbo della frase principale (arrivò, poté, potrà). Si noti che (89) e (90) sono frasi ad
un tempo passato e quindi il momento dell'evento e il momento del riferimento sono
anteriori al momento dell'enunciazione; (91), invece, è una frase al tempo futuro e
quindi il momento dell'evento e ilmomento di riferimento sono posteriori al momento
dell'enunciazione. Se volessimo indicare lungo una linea la successione dei tre momenti
per ciascuno dei tre verbi erapartito,/u arrivato, sarà a"ivato di (89)-(91), otterremmo
la seguente rappresentazione (dove E= enunciazione, Ev = evento, R = riferimento):

(89') Ev----------R------------E
(90') Ev----------R ----------E
(91') E-----------Ev----------R

Il concetto di momento di riferimento permette dunque di distinguere, tra l'altro, il


futuro anteriore (saràpartito) dal futuro semplice (partirà), in quanto il primo dei due
tempi, ma non il secondo, faentrare in gioco un momento di riferimento. Per operare
invece altre distinzioni all'interno del sistema dei tempi dell'italiano, ricorreremo a
una categoria non riconosciuta dalla grammatica tradizionale, categoria che, con un
termine mutuato dalla grammatica delle lingue slave, viene chiamata aspetto. Essa
LACOMBINAZIONEDELLEPAROLE:SINTASSI 203

ci permette di distinguere fra tre tempi del passato: l'imperfetto, il passato prossimo
e il passato remoto.
Il termine stesso di «imperfetto» rimanda a qualcosa di non finito, non concluso:
si parla quindi, in questo caso, di aspetto imperfettivo. Passato prossimo e passato
remoto, invece, sono esempi di aspetto perfettivo, cioè «compiuto». Per cogliere
questa differenza, consideriamo queste tre frasi:

(92) a. L'anno scorso, Gianni scriveva un libro


b. L'anno scorso, Gianni ha scritto un libro
c. L'anno scorso, Gianni scrisse un libro

Da (92a) non possiamo ricavare l'informazione se Gianni ha terminato il suo libro


oppure no; da (926) e (92c) invece sì, come possiamo vedere confrontando la gram-
maticalità di (92a') con l'agrammaticalità di (926') e (92c'):

(92) a'. L'anno scorso, Gianni scriveva un libro, ma a tutt'oggi non l'ha ancora
finito
b'. *L'anno scorso, Gianni ha scritto un libro, ma a tutt'oggi non l'ha ancora
finito
c'. *L'anno scorso, Gianni scrisse un libro, ma a tutt'oggi non l'ha ancora
finito

Quindi l'imperfetto si distingue dal passato prossimo e dal passato remoto sulla base
dell'opposizione imperfettivo/perfettivo. Questa stessa opposizione, sia pure in un
modo non così netto, distingue anche il trapassato prossimo dal trapassato remoto.
Come si giustifica invece la distinzione tra passato prossimo e passato remoto? Os-
serviamo anzitutto che questa distinzione è presente solo in alcune varietà di italiano,
come la lingua scritta e le varietà toscane. La maggioranza delle varietà settentrionali
(ma non tutte, contrariamente a quanto spesso si dice) usano esclusivamente il passato
prossimo, mentre molte varietà centro-meridionali usano esclusivamente il passato
remoto. Il nostro discorso riguarderà quindi solo le varietà dell'italiano che usano i
due tempi con valori aspettuali diversi.
I termini «prossimo» e «remoto» suggeriscono l'idea di una distanza temporale
minore o, rispettivamente, maggiore, del momento dell'evento rispetto al momento
dell'enunciazione, ma una considerazione un po' attenta ci mostra che non è così. Per
esempio, parlando di una persona che è ancora viva, si dice Gianni è nato nel 1960,
e non Gianni nacque nel 1960: se si dicesse Gianni nacque nel 1960, si suggerirebbe
l'idea che Gianni sia già morto (e infatti è preferibile dire Manzoni nacque nel 1785
piuttosto che Manzoni è nato nel 1785). Invece, dicendo Gianni è partito per il servizio
militare nel 1980, si suggerisce l'idea che Gianni sia ancora militare, il che è perfetta-
mente possibile se Gianni avesse scelto la carriera militare, ma non se Gianni è stato
semplicemente militare di leva; in quest'ultimo caso sarebbe meglio dire Gianni parti'
per il servizio militare nel 1980. Quindi, in termini molto informali, possiamo dire
che il passato prossimo descrive un evento passato i cui effetti sussistono ancora nel
presente; il passato remoto descrive invece un evento passato che non ha più alcun
rapporto con il presente. In termini più formali, si dice che entrambi i tempi sono
perfettivi, ma il passato prossimo è compiuto, mentre il passato remoto è aoristico
(termine, quest'ultimo, tratto dal nome di un tempo del verbo greco e di altre lingue
indoeuropee antiche, che significa 'indefinito', 'indeterminato').
Potremmo definire il modo come l'espressione dell'atteggiamento del parlante rispetto
all'evento descritto dal verbo. Quindi, tra i modi dell'italiano, l'indicativo esprime la
pura e semplice constatazione di un fatto: Gianni parte; il congiuntivo un desiderio o
un augurio: (Se) Gianni partisse';l'imperativo un ordine: Gianni, parti.';il condizionale
204 CAPITOLO7

una possibilità o una irrealtà: Se Gianni partisse,saremmo tutti/elici (possibilità); Se


Giannifosse partito un'oraprima, non avrebbeperso la coincidenza(irrealtà). Di fatto,
queste definizioni dei modi sono da un lato estremamente generiche, dall'altro colgono
soltanto alcuni dei valori dei modi stessi. Inoltre, abbiamo descritto il valore di questi
modi soltanto nelle frasi principali: nelle frasi dipendenti, i modi sono determinati dal
verbo della frase principale, quindi hanno un valore puramente sintattico. Ad esem-
pio, il congiuntivo è il tipico modo delle frasi dipendenti da un verbo come credereo
volere:Credoche Gianni sia partito, oppure Voglioche Gianni parta domani. In casi
come questi, evidentemente, è difficile sostenere che il modo congiuntivo esprime un
desiderio o un augurio. A sua volta, il condizionale dipendente da un verbo al passato
non esprime tanto una possibilità o un'irrealtà, ma piuttosto un evento futuro rispetto
a un momento di riferimento nel passato (ilcosiddetto «futuro del passato»). Questo
valore del condizionale si ha in una frase come (93):

(93) Gianni disse che sarebbe arrivato alle quattro

TImomento dell'evento (l'arrivo di Gianni) è presentato come posteriore al momento


di riferimento (quello dell'affermazione da parte di Gianni che sarebbe arrivato alle
quattro), ed entrambi sono precedenti al momento dell'enunciazione. In questo caso,
il condizionale colma una lacuna, per così dire, dell'indicativo, che ha tempi che
descrivono un evento passato precedente al momento di riferimento (il trapassato
prossimo e il trapassato remoto; v. sopra), ma non ha tempi che descrivano un evento
passato ma successivo al momento di riferimento.
Oltre all'indicativo, al congiuntivo, all'imperativo e al condizionale l'italiano dispone
di altri tre modi: l'infinito,il participioe il gerundio.I modi di questo secondo gruppo
sono spesso chiamati modi non finiti, in opposizione a quelli del primo, detti modi
finiti.La «finitezza» in questione sta nel fatto che, mentre l'indicativo, il congiuntivo
e il condizionale distinguono tre persone e due numeri, questa distinzione non esiste
per l'infinito, ilparticipio e il gerundio. (Non abbiamo citato volutamente l'imperativo,
che tradizionalmente è collocato tra i modi finiti, ma che forse rappresenta una sorta di
«stadio intermedio» tra i due tipi di modi.) Con la sola parziale eccezione dell'infinito,
che può ricorrere anche in alcuni tipi particolari di frasi principali (per esempio Non
sporgersidai/inestrini), questi modi ricorrono soltanto nelle frasi dipendenti, per l'e-
sattezza in quel tipo di frasi dipendenti che abbiamo chiamato implicite (cfr. VIl.3 .4.).
La scelta del modo della frase dipendente è determinata quindi fondamentalmente
dal verbo della frase principale; ma anche la scelta del tempo della frase dipendente
è determinata dal tempo del verbo della frase principale. Questi fenomeni sono noti
con il termine latino di consecutio temporum (concordanza dei tempi), che forse
sarebbe più esatto chiamare consecutiotemporum et modorum. (93) è un esempio di
tali fenomeni: l'uso del condizionale come «futuro del passato» si usa in quanto il
verbo della frase dipendente è al passato. e invece di un discorso indiretto, come
(93), avessimo un esempio di discorso diretto, che riproduce cioè letteralmente le
parole pronunciate da Gianni, come (94), si userebbe il futuro:

(94) Gianni disse: «Arriverò alle quattro»

In una frase come (95) l'uso del futuro sarebbe invece agrammaticale:
(95) *Gianni disse che arriverà alle quattro

Un altro esempio di uso di tempo passato determinato da un puro fenomeno di


consecutioè (96):

(96) Sapevo che eri qui


LA COMBINAZIONEDELLEPAROLE:SINTASSI205

Dicendo (96), normalmente, non si vuole intendere che il nostro interlocutore non è
più qui, bensì che è ancora qui, nel momento della mia enunciazione: l'uso del perfetto
eri è dovuto semplicemente alla presenza dell'imperfetto sapevo.In certi casi, l'uso
del tempo passato può essere ambiguo:

(97) Gianni ha detto che era malato

(97) può significare tanto che Gianni è ancora malato, quanto che lo era nel passato,
ma ora non lo è più. Nel primo significato, il tempo passato del verbo della frase
dipendente è dovuto a un fenomeno di consecutio;nel secondo indica effettivamente
un evento che si è svolto nel passato (la malattia di Gianni), ma che poi è cessato.

NOTASTORICO-BIBLIOGRAFICA

Alcune nozioni base della sintassi, come quelle di parola e di frase, e il termine stesso sintassi,
risalgono all'antichità greca: già nel II secolo d.C. il grammatico Apollonio Discolo scrive un
trattato intitolato Della sintassi. Lo scopo di questo trattato era essenzialmente di tipo norma-
tivo: esso voleva cioè indicare le combinazioni di parole corrette e distinguerle dai «solecismi»,
cioè dagli errori. Questa concezione normativa caratterizzerà i lavori di sintassi (come, del
resto, tutta la linguistica) per molti secoli successivi. Tra Seicento e Settecento, cominciano a
essere formulate in modo esplicito alcune nozioni ancora non chiaramente presenti negli studi
di sintassi antichi e medievali, come quelle di frase dipendente e di gruppo di parole. Tra gli
ultimi decenni dell'Ottocento e i primi del Novecento vengono elaborate (con termini diversi
a seconda dei vari studiosi) le nozioni di tema e rema, distinte da quelle di soggetto e predicato
in senso sintattico. Intorno alla prima metà del Novecento, il linguista francese Lucien Tesnière
elabora i concetti di valenza verbale, di argomento e di circostanziale [v. Tesnière 1959]. Una
svolta radicale alle ricerche di sintassi è stata data, a partire dagli anni Cinquanta del ove-
cento, da Noam Chomsky, che ha ripreso l'idea di trasformazione originariamente dovuta a
Zellig Harris e ha progressivamente sviluppato la teoria sintattica detta «generativa» (v. nota
al cap. I). Qui di seguito segnaliamo i lavori più importanti di Chomsky dedicati alla sintassi
[1957; 1965; 1975 specialmente il cap. III; 1980, specialmente il cap. IV; 1986, specialmente il
cap. III; 1995].
Come introduzione ai concetti fondamentali della sintassi, v. Graffi [1994] e Donati [2008];
v. anche Frascarelli, Ramaglia e Corpina [2012]. La necessità di distinguere tra le nozioni di
soggetto e predicato, agente e azione, tema e rema è presentata in modo molto chiaro, anche se
con una terminologia in parte diversa da quella adottata qui, in Halliday [1970]. Su questo stesso
argomento e sulla nozione di valenza, v. anche il capitolo I di Renzi, Salvi e Cardinaletti [2001,
vol. I, in particolare i paragrafi 1.1. e 1.2.]. Molte delle osservazioni qui svolte sulle categorie di
genere, numero, persona, caso, tempo e modo si basano sulla classica trattazione di Jespersen
[1924; capp. XIII-XVII, XIX-XXI, XXIII]. Sul tempo verbale, v. Renzi, Salvi e Cardinaletti
[2001, vol. II, cap. I, paragrafi 1.1. e 1.2.].
206 CAPITOLO7

DOMANDE

1. Che cos'è un «argomento» e che cos'è un «circostanziale»? Quali sono i criteri per distin-
guerli?
2. Come si classificano i verbi in base alle valenze?
3. Quali sono i criteri per l'individuazione dei costituenti?
4. Cos'è una «struttura predicativa»? Tutte le frasi sono strutture predicative? Tutte le strutture
predicative hanno «senso compiuto»?
5. In base a quali punti di vista possono essere classificate le frasi?
6. Quali sono le relazioni sistematiche tra frasi interrogative «wh-» e frasi dichiarative corri-
spondenti?
7. Come si possono classificare le frasi dipendenti?
8. Cosa si intende, rispettivamente, con «soggetto» e «predicato», «agente» e «azione», «tema»
e «rema»?
9. Cosa si intende con «accordo» e cosa con «reggenza»?
10. Quali sono i rapporti tra categorie linguistiche di «genere», «numero» e «tempo gramma-
ticale» e le corrispondenti categorie della realtà extralinguistica? Questa corrispondenza è
esatta? Se no, perché?
CAPITOLO 8
Il significato
e l'usodelleparole
e dellefrasi:
semanticae pragmatica

In questo capitolo esaminiamo la nozione di «significato» nelle lingue naturali, che è


necessario distinguere dalle nozioni di «riferimento» e di «denotazione». È necessario
distinguere anche tra significato «letterale» e «non letterale», perché nelle lingue naturali
una stessa espressione può essere usata nel primo modo oppure nel secondo. Lo studio
del significato e del riferimento delle espressioni linguistiche è la semantica; lo studio
del modo in cui l'uso del linguaggio influisce sul significato e il riferimento di queste
espressioni è la pragmatica.

INTRODUZIONE

Finora abbiamo trattato gli aspetti per così dire «interni» della struttura
del linguaggio, cioè i suoni linguistici, la struttura delle parole e la loro
combinazione in gruppi e in frasi. Ma è chiaro che il linguaggio umano ha
anche un aspetto «esterno», ed anzi è proprio quest'ultimo aspetto quello
che maggiormente salta agli occhi di ciascuno di noi: il linguaggio si riferisce
al mondo e ci permette di comunicarci reciprocamente le nostre visioni del
mondo. Altrimenti detto, le espressioni del nostro linguaggio hanno signifi-
cato e vengono usate per comunicare questi significati da un parlante ad un
ascoltatore. Allo studio del significato delle espressioni linguistiche si dà il
nome di semantica (da una radice greca che vuol dire 'segnalare', 'indicare');
allo studio del loro uso si dà il nome di pragmatica (da un'altra radice greca
che significa 'fare', 'agire').
Ma che cosa vuol dire che «le espressioni del nostro linguaggio hanno un si-
gnificato»? Apparentemente, una cosa molto semplice: per esempio, la parola
gatto indica la specie animale dei gatti, oppure la frase Ieri sono partito per
Roma indica che nel giorno precedente a quello in cui io sto parlando sono
partito per Roma. Quindi, potremmo dire che il significato di una parola o
di una frase è il «segmento di realtà» cui la parola o la frase in questione si
208 CAPITOLO8

riferiscono. La nostra competenza (v. sopra, II.2.3 .) di parlanti dell'italiano si


manifesta, in questo caso, indicando quei determinati segmenti di realtà con
le espressioni appropriate; se, dicendo Questo è un gatto, indicassi un cane,
oppure se dicessi Ieri sono partito per Roma ed invece fossi partito per Milano,
oppure fossi semplicemente rimasto a casa, le spiegazioni possibili sarebbero
due: o io non conosco il significato dei termini gatto, partire, Roma, oppure
non sto dicendo la verità. E, in effetti, la nozione di verità è considerata da
molti filosofi del linguaggio come essenziale nella definizione del significato:
comprendere il significato di una frase è comprendere le condizioni in cui
essa risulta vera, e comprendere il significato di una parola è comprendere il
contributo che essa dà alle condizioni di verità di una frase. Quindi, secondo
queste teorie, la semantica consisterebbe in un rapporto di «denominazione»
tra il linguaggio e il mondo: le parole sono etichette di categorie della realtà,
le frasi sono descrizioni di frammenti della realtà, se sono vere, mentre non
descrivono nulla, se sono false.
Questo quadro, che forse può andare bene per i linguaggi formalizzati della
logica (e infatti, come si è appena detto, è stato proposto principalmente da
logici e filosofi del linguaggio), appare tuttavia un po' troppo semplice per
quanto riguarda il linguaggio naturale. Anzitutto, si potrebbe obiettare che la
definizione del significato basata sulla nozione di verità può andare bene per
frasi tipo Ieri sono partito per Milano, cioè le dichiarative (cfr. VII.3.2.), mentre
sembra molto più difficile applicarla alle frasi interrogative (Chi è partito per
Milano ieri?), oppure alle imperative (Parti per Milano.'). Questa, tuttavia, è
un'obiezione facilmente superabile, osservando, ad esempio, che le condizioni
di verità di una frase come Chi è partito per Milano ieri? sono tutte quelle
delle frasi che costituiscono una risposta vera a tale domanda: io sono partito
per Milano ieri, Mario è partito per Milano ieri, Gianni è partito per Milano
ieri, ecc., e risolvendo in modo analogo la questione delle frasi imperative.
Il problema è piuttosto un altro: il significato non è, a guardare le cose più
da vicino, semplicemente un rapporto tra linguaggio e realtà, ma è qualcosa
di più complesso e indiretto. Un primo problema è dato dalla mancanza di
corrispondenza globale tra i «significati» nelle varie lingue: ad esempio, la
parola inglese wood può voler dire tanto 'legno' quanto 'bosco'; viceversa,
mentre l'italiano usa dita tanto per le dita delle mani che per quelle dei piedi,
l'inglese distingue tra/ingers e toes. Quindi, in un caso, l'italiano sembra «più
preciso» dell'inglese, mentre nell'altro caso sembra che succeda il contrario.
In realtà, contrariamente a quanto spesso si sente dire, non esistono lingue
«più precise» di altre, ma piuttosto sembra che ogni lingua si riferisca alla
realtà in un modo diverso (poco o molto, a seconda dei casi). Questo implica
forse che i parlanti delle diverse lingue vedono la realtà in un modo diverso?
Per esempio, un parlante inglese non riconoscerebbe la differenza tra un
pezzo di legno e un boschetto, oppure un parlante italiano non riuscirebbe
a distinguere le dita delle mani da quelle dei piedi? Per quanto alcune teorie
sostenute in passato (soprattutto in epoca romantica e nella prima metà del
Novecento) potrebbero spingersi a darla, una risposta affermativa a queste
SEMANTICAE PRAGMATICA209

domande sembra piuttosto implausibile. La realtà è quindi sempre identica,


sia che essa sia descritta tramite l'inglese o tramite l'italiano. Piuttosto, que-
sti esempi ci suggeriscono che il rapporto tra linguaggio e realtà non è così
semplice come ci sembra a prima vista, che le espressioni linguistiche non si
limitano cioè a «denominare» la realtà.
Infatti, esistono delle relazioni tra espressioni linguistiche che qualunque
parlante nativo di una determinata lingua può cogliere senza alcun bisogno
di far entrare in gioco il rapporto tra lingua e realtà. Per esempio, qualsiasi
parlante competente dell'italiano riconosce immediatamente che, se si dice
Gianni è scapolo, ciò equivale esattamente a dire Gianni non è sposato, e, se si
dice Gianni è scapolo, ma è sposato, si cade in contraddizione, e tutto questo
anche senza sapere se nella realtà Gianni è effettivamente sposato oppure no; al
limite, senza neppure sapere chi è Gianni. Ancora: io sono assai poco esperto
di animali, e quindi non sono in grado di riconoscerne molti. Per esempio,
se di fronte ad una gabbia con tre uccelli mi si chiedesse di riconoscere un
airone cinerino, è probabile che sbagli, e che dica che l'airone cinerino è
l'uccello appollaiato più in alto, mentre in realtà è quello appollaiato più in
basso. Quindi, in tale situazione, la frase l'airone cinerino è l'uccello appo!laiato
più in alto sarebbe falsa. Tuttavia, io posso dire con grande sicurezza una
frase vera come l'airone cinerino è un animale, pur continuando a non saper
riconoscere, quindi a non sapere cosa sia esattamente, un airone cinerino.
Esistono dunque delle relazioni di significato che sono «interne alla lingua».
Il primo tipo di tali relazioni che abbiamo esemplificato, quello tra scapolo
e non sposato, è un esempio di relazione di sinonimia;la relazione tra airone
cinerino e animale è invece un esempio di relazione di iponimia. Su questi
termini torneremo più avanti (VIII.2.4.).
Un altro caso che ci mostra come la relazione tra espressioni linguistiche e
realtà sia molto più mediata di quanto si possa credere ci è dato dall'uso non
letteraledi queste stesse espressioni. Pensiamo, ad esempio, ad una frase come
Vuole uscire?. Se io, ad esempio, mi trovo in un museo che ormai ha chiuso la
porta di ingresso, perché non ammette nuovi visitatori dopo le 18, ma lascia
rimanere fino alle 19 chi era già entrato, e mi aggiro alle 18,30 vicino alla
porta chiusa, il guardiano mi può rivolgere questa domanda per accertarsi se
effettivamente io voglia lasciare il museo o se, invece, voglia ancora trattenermi
per un po'. In questo caso, la domanda è rivolta in senso letterale, e si attende
come risposta un si' oppure un no. Se invece la stessa domanda è rivolta dal
padrone di casa, o dal gestore di un locale pubblico, ad un ospite che si sta
comportando in una maniera troppo maleducata e fastidiosa, ben difficilmente
ci si potrà accontentare di una risposta sl, se questa non è immediatamente
seguita da un'uscita effettiva, e meno che mai ci si accontenterebbe di una
risposta no. La frase è dunque usata in un senso non letterale: ha cioè la
forma di una domanda, ma in realtà è un modo un po' sfumato di esprimere
un ordine. La possibilità di usare frasi e parole in senso letterale oppure non
letterale è un'altra caratteristica delle lingue naturali: tali diverse possibilità
di uso sono un tipico esempio di fenomeno pragmatico.
210 CAPITOLO8
----

Riassumendo: le relazioni semantiche non si possono semplicemente ridurre


a relazioni di denominazione tra le espressioni linguistiche da una parte e
la realtà dall'altra, sia perché queste relazioni di denominazione non sono
sempre univoche, sia perché non solo la realtà è coinvolta nelle relazioni di
significato, sia perché, infine, il riferimento letterale a un certo tipo di realtà
non corrisponde sempre al significato che il parlante vuole trasmettere. Nei
prossimi paragrafi analizzeremo in modo un po' più approfondito questi
problemi: nel paragrafo VIII. I. mostreremo come la nozione di «significato»
vada distinta da quelle di denotazione e riferimento; in VIII.2. tratteremo
del significato delle parole prese isolatamente, mentre in VIII.3. vedremo in
che modi la loro combinazione determina il significato delle frasi; in VIII.4.
e in VIII.5., discutendo, in particolare, dell'uso non letterale del linguaggio,
presenteremo alcune nozioni chiave della pragmatica.

I. SIGNIFICATO,
DENOTAZIONE
E RIFERIMENTO

Nel paragrafo precedente abbiamo detto che il significato di gattoè la specie


animale dei gatti: in realtà, una definizione di questo genere può essere sod-
disfacente per una frase come Il gattoè un animaledomestico,in cui la parola
gatto si riferisce ai gatti in quanto specie, ma non nel caso di una frase come
Il gattosta dormendosullapoltrona,in cui la stessa parola non si riferisce alla
specie dei gatti, ma a un gatto determinato. Possiamo dire che la parola gatto
ha due significati diversi? Un'affermazione del genere suona un po' strana,
perché in entrambe le frasi la parola gatto si riferisce sempre a un animale, e
per di più allo stesso tipo di animale, a differenza ad esempio di una parola
come vite, che può indicare sia una pianta, sia un attrezzo. Diciamo, piutto-
sto, che in un caso la parola gatto si riferisce ad una specie, nell'altro caso a
un singolo individuo. Veniamo ora ad un altro esempio che abbiamo fatto
nel paragrafo precedente, cioè quello della parola inglese wood,che equivale
tanto all'italiano 'legno' che all'italiano 'bosco'. Anche in questo caso si può
dire che la parola inglese ha due significati (ed in effetti normalmente si dice
così). Ma è pienamente adeguato un tale modo di esprimersi? Se lo fosse,
allora dovremmo dire che anche la parola dita ha due significati, dato che
può indicare sia le dita delle mani che le dita dei piedi (in inglese, rispetti-
vamente, /ingers e toes, come sappiamo). Pensiamo però che pochi parlanti
italiani sarebbero d'accordo con questa affermazione: piuttosto, direbbero
che dita può riferirsi tanto alle dita delle mani che alle dita dei piedi. Allo
stesso modo, i parlanti inglesi potrebbero dire che wood può riferirsi tanto
al legno quanto al bosco. In entrambi i casi, naturalmente, le circostanze
determineranno a che cosa esattamente ci si riferisce. Potremmo quindi
dire, più esattamente, che la parola inglese wood esprime il significato di due
parole italiane distinte ('legno' e 'bosco') e la parola italiana dita esprime il
significato di due parole inglesi distinte ('fingers' e 'toes'). Notiamo però che,
nella prima parte del nostro ragionamento, abbiamo parlato del rapporto tra
SEMANTICAE PRAGMATICA211

parole (italiane e inglesi) e realtà (legno e dita, presumibilmente uguali tanto


in Italia che in Inghilterra); nella seconda parte, invece, abbiamo parlato di
rapporti tra parolein due lingue diverse. La realtà è quindi la stessa, ma il
modo in cui le due lingue (o, per meglio dire, i loro parlanti) ce la presentano
è diverso.
Una stessa realtà può essere presentata in modo diverso anche all'interno di
una sola lingua. La città indicata dal nome Roma è la stessa (al momento in cui
scriviamo) di quella indicata dal sintagma la capitaled'Italia:quindi ognuna
delle due espressioni dovrebbe essere liberamente intercambiabile con l'altra,
senza che il significato delle frasi in cui esse ricorrono debba mutare. Tuttavia,
ognuno di noi si accorge immediatamente che una frase come Roma è Roma
è ben diversa da Roma è la capitaled'Italia:la prima frase è totalmente vuota
dal punto di vista informativo (a meno che non la si intenda in senso non
letterale, ossia, ad esempio, come Roma è una città davverospeciale),mentre
la seconda ci dà un'informazione importante, che qualcuno potrebbe anche
ignorare (per esempio, uno straniero che stia imparando l'italiano e non
abbia avuto in precedenza informazioni sulla geografia e la storia d'Italia).
Anche in questo caso, dunque, è necessario distinguere tra la realtà indicata
dal linguaggio, da un lato, e il modo in cui tale realtà è indicata, dall'altro:
nell'esempio in questione, tra la città di Roma e le due espressioni Roma e
la capitaled'Italia.Il modo di indicare la realtà mediante le espressioni del
linguaggio è chiamato significato, mentre la realtà denotata da queste stesse
espressioni è chiamata riferimento. (Questa coppia di concetti è stata battez-
zata anche in altri modi: per esempio, il logico tedesco G. Frege, a cui risale
la distinzione, chiamava senso ciò che noi abbiamo chiamato «significato», e
significato ciò che noi abbiamo chiamato «riferimento».) Il significato è costi-
tuito dai concetti espressi in ciascuna lingua, attraverso i quali ci riferiamo alla
realtà esterna alla lingua stessa. Le diverse lingue possono riferirsi all'identica
realtà esprimendo i significati in modo diverso. Legno e wood,/ingerse dita,
esprimono significati diversi, ma possono riferirsi agli stessi oggetti: se dico
in inglese put some more wood on the /ire, non intendo chiedere di mettere
sul fuoco una porzione più grande di bosco, ma un altro pezzo di legno; e se
dico a un mio commensale Usapure le dita per mangiareil pollo, le dita che
gli permetto di usare non sono quelle dei piedi, ma quelle delle mani.
Alcuni studiosi usano, invece di riferimento, denotazione, oppure indifferen-
temente l'uno o l'altro di questi due termini. Secondo altri, è invece necessario
tenere distinti i concetti di denotazione e riferimento: denotazione riguarda
il lessema in quanto tale, riferimento il suo uso in una frase determinata.
Torniamo all'esempio della parola gatto:il dizionario DM la definisce come
«felino domestico con corpo agile e flessuoso, pelo morbido e folto, orecchie
piccole e dritte, occhi fosforescenti, lunghi baffi e unghie retrattili». Questa
definizione indica la denotazione di gatto. Invece, il riferimento di gatto è
diverso nei due esempi che abbiamo discusso (Il gattoè un animaledomestico
e Il gatto sta dormendosulla poltrona):nel primo, la parola si riferisce alla
specie dei gatti; nel secondo, ad un gatto determinato.
212 (APITO_L_0_8
_________ ,,~-~--~-----

Una volta definite le nozioni di denotazione e riferimento come relative alla


realtà extralinguistica, si pone un altro problema: quale «realtà» indicano
parole come Pegasoo ippogrifo,o tante altre usate in opere di fantasia, op-
pure in resoconti di sogni? E qual è la realtà denotata dai nomi astratti, come
deduzione, o dai verbi come presupporre,in frasi del tipo «la verità della frase
X presuppone quella della frase Y»? E quale, ancora, è la realtà denotata da
parole come e, o, oppure se? Questi problemi sono molto complessi, e un
buon numero di filosofi del linguaggio e di linguisti si è concentrato su di essi,
proponendo soluzioni diverse e spesso contrastanti. Una di queste soluzioni
è che parole come quelle che abbiamo elencato abbiano sì significato, ma
non denotazione e riferimento: altrimenti detto, esse sono comprese dai par-
lanti dell'italiano (e lo stesso avverrebbe per parole analoghe in altre lingue)
soltanto in virtù delle connessioni che esse intrattengono con le altre parole
della lingua, e non indicano alcun oggetto, o classe di oggetti, nel mondo
reale. Un'altra soluzione è quella di considerare che il nostro linguaggio non
si riferisce soltanto agli oggetti del mondo reale, ma anche a una pluralità di
oggetti che non fanno parte di questo mondo: come si è appena visto, nelle
opere di fantasia, oppure nei resoconti di sogni, e così via. Questa è una pre-
rogativa importante del linguaggio umano: è grazie ad essa che sono possibili,
ad esempio, le opere letterarie. Si può quindi darne ragione sostenendo che il
linguaggio umano abbia la possibilità di riferirsi non soltanto al mondo reale,
ma anche a una pluralità di mondipossibili:il riferimento di Pegasoo quello
di ippogrifosi troverebbero in qualcuno di questi mondi. Per quanto riguarda
le parole astratte, il nostro linguaggio si comporta come se esse avessero lo
stesso tipo di riferimento delle parole concrete. Si badi bene: questa analisi
non vuole sostenere che i mondi di Pegaso o degli ippogrifi possano effetti-
vamente esistere, ma soltanto che noi possiamo, tramite il nostro linguaggio,
riferirciad essi come se esistessero.Allo stesso modo, non vogliamo dire che
una deduzione ha le stesse proprietà di un gatto o di un tavolo, e che noi
possiamo toccarla come tocchiamo quell'oggetto o quell'animale, ma soltanto
che mediante il nostro linguaggio noi ci riferiamo a una deduzione altrettanto
tranquillamente quanto ci riferiamo a un gatto o a un tavolo. La semantica
non è una teoria della realtà, ma del modo in cui gli esseri umani, tramite il
linguaggio, si riferiscono alla realtà.

2. SEMANTICA
LESSICALE
2.1. Ambiguità del significato: omonimia e polisemia

I lessemi delle lingue umane manifestano alcune proprietà particolari ed


interessanti; inoltre, essi sono connessi gli uni agli altri da diversi tipi di rela-
zioni, che ora andremo a definire. Alcuni lessemi hanno la proprietà di essere
ambigui,cioè di poter avere più di un significato. Pensiamo ad una parola
come esecuzione:essa può significare tanto la realizzazione di una determinata
SEMANTICA 213
E PRAGMATICA

opera, quanto la messa in atto di una determinata pena, specialmente la pena


di morte. (Un quiz televisivo di una ventina d'anni fa chiedeva di completare
il fumetto di una vignetta in cui si vedeva un direttore d'orchestra, con la bac-
chetta in mano, che era appena stato fucilato. Il fumetto diceva: «Maestro, mi
è piaciuta molto la sua ... ». Per dare la risposta esatta, i puntini andavano riem-
piti, appunto, con la parola esecuzione.)Un altro caso di ambiguità lessicale è
quello di vite, che può significare tanto «pianta legnosa rampicante con rami
nodosi e foglie palmate che produce uva» quanto «piccola asta parzialmente
filettata, cilindrica o conica, spec. di acciaio o di ottone, usata per stringere,
per fissare, per collegare, ecc.» (definizioni tratte da DM). Questi due tipi di
ambiguità, tuttavia, ci suonano come un po' diversi l'uno dall'altro; infatti, nel
caso di esecuzionesi awerte una certa relazione tra i due valori del sintagma
(l'esecuzione di una condanna a morte è sempre la realizzazione di un atto),
mentre questa relazione non si awerte nel caso di vite, che si riferisce a due
entità molto diverse, una pianta e un utensile (curiosamente, l'etimologia dei
due lessemi vite è la stessa: l'utensile trae il suo nome dal fatto che la filettatura
ricorda il viticcio della pianta, ma una tale relazione non è più awertita dal
parlante italiano). Si dice quindi che l'ambiguità di lessemi come esecuzione
rappresenta un caso di polisemia, mentre quella di lessemi come vite rappre-
senta un caso di omonimia. Un lessema polisemico presenta quindi più signi-
ficati tutti collegati, in qualche misura, l'uno all'altro: altri casi di polisemia,
oltre a quello di esecuzione,possono essere collo (tanto delle persone quanto
delle bottiglie), mano (nel senso di arto superiore, di quantità di vernice data
su un muro, di turno di gioco in una partita a carte, e in altri sensi ancora),
taglio (dei capelli oppure del vestito), ecc. Altri esempi di omonimia, oltre a
quello di vite, possono essere spesso (aggettivo, nel senso di «denso» oppure
awerbio, nel senso di «frequentemente»), letto (oggetto da mobilio oppure
participio passato del verbo leggere),scoppiare(«esplodere» oppure «dividere
una coppia»), ecc. La stessa parola collo, oltre che rappresentare un caso di
polisemia, ha nell' uso odierno anche un omonimo (collocome bagaglio, nel
linguaggio aeroportuale).
Non sempre è facile dire se ci si trova di fronte a un caso di polisemia oppure
di omonimia: in molti casi, la scelta è lasciata al compilatore del dizionario.
Normalmente, le parole poliseme hanno una sola entrata nel dizionario, e
all'interno di essa vengono elencati i significati differenti: così, sotto l'entrata
di mano, si trovano elencati i significati: «l. Arto (...) 2. Turno di gioco. 3.
Strato di vernice», ecc. Le parole omonime, invece, hanno più entrate dif-
ferenti, in genere contrassegnate con un numerale sovrascritto davanti alla
parola in questione: quindi, nel caso di vite avremo « 1vite», seguito dalla
definizione «pianta legnosa», ecc., e «2vite», con la definizione «piccola asta
parzialmente filettata», ecc.
214 CAPITOLO8

2.2. Ancora sulla polisemia•

In diversi casi la polisemia di un termine può anche non essere esplicitamente regi-
strata all'interno di un dizionario. Questo accade quando i significati che il termine in
questione può assumere sono molto vicini l'uno all'altro, ma sono comunque diversi.
Questa diversità è causata dalle diverse combinazioni sintattiche in cui alcune classi
di parole possono ricorrere. Un caso di questo tipo di polisemia è illustrato da due
frasi come le seguenti:

(1) Gianni si è dimenticato di aver chiuso la porta


(2) Gianni si è dimenticato di chiudere la porta

Il significato di dimenticarein (1) e in (2) è simile, ma non è identico: infatti, da (1)


ricaviamo l'informazione che Gianni aveva chiuso la porta, mentre da (2) ricaviamo
l'informazione contraria, ossia che Gianni non aveva chiuso la porta. Tecnicamente,
si dice che in (1) la frase dipendente che avevachiusolaporta comunica una presup-
posizione di fattività,ossia il fatto che Gianni ha chiuso la porta, presupposizione che
non è invece comunicata, in (2), dalla frase dipendente di averchiusolaporta.Quindi,
mentre una frase come (3) è perfettamente normale, una come (4) suona bizzarra:

(3) Gianni si è dimenticato che aveva chiuso la porta e allora, visto che non aveva
con sé le chiavi, ha dovuto sfondarla
(4) ??Giannisi è dimenticato di chiudere la porta e allora, visto che aveva dimen-
ticato anche le chiavi, ha dovuto sfondarla

Alcuni verbi poi comunicano una presupposizione di esistenza se sono seguiti da


determinati complementi, mentre non la comunicano se sono seguiti da altri comple-
menti. Confrontiamo il significato del verbo cuocerein (5) e in (6):

(5) Gianni ha cotto le uova


(6) Gianni ha cotto una frittata

Sulla base di (5), noi concludiamo che le uova esistevano anche prima che Gianni le
cuocesse, e che quindi l'azione di Gianni ha avuto come effetto solo un «cambiamento
di stato» delle stesse uova; la frase (6) ci trasmette invece l'informazione che Gianni,
cuocendo, ha «prodotto» qualcosa di nuovo. In altre parole, le uova esistevano indi-
pendentemente dal cucinare di Gianni, mentre la frittata esiste solo perché Gianni
l'ha cotta.
Esistono poi alcune parole che assumono un numero indefinito di significati diversi
a seconda dei differenti contesti in cui possono ricorrere, tanto che alcuni hanno de-
finito questo fenomeno «creatività del significato». Esempi tipici di parole di questo
genere sono gli aggettivi che indicano qualità, come buono, rapido,ecc.: il significato
di buono non è identico in sintagmi come buon ragazzo,buon pianista,buon pane,
buon libro, buon negozio,ecc. Nel caso di buon ragazzo,l'aggettivo buono indica
che il ragazzo è particolarmente gentile, premuroso, ecc.; un buon pianista, invece,
può essere benissimo scortese, egoista, ecc., ma è un buon pianista perché è bravo a
suonare il pianoforte; un buon pane non ha né le qualità morali del buon ragazzo né
quelle artistiche del buon pianista, ma è piacevole da mangiare (informazione, questa,
che non ci è suggerita né da buon ragazzoné da buon pianista,a meno che non siamo
in una società di antropofagi); un buon libro, invece, non è piacevole da mangiare e
neppure da leggere, o almeno non necessariamente, ma contiene informazioni utili,
edificanti, ecc.; un buon negozio, infine, è quello in cui troviamo ciò che cerchiamo
E PRAGMATICA21 5
SEMANTICA

a prezzo conveniente. La polisemia dell'aggettivo buono sta quindi nel fatto che
esso indica, genericamente, una «qualità positiva» del nome con cui si combina: la
natura precisa di tale qualità è determinata dalle proprietà del nome stesso. Quindi,
se il nome è ragazzo,che indica un essere umano, e perciò dotato di qualità morali,
buono dà una valutazione positiva di tali qualità; se il nome è pianista, che indica un
suonatore di strumento, che può essere più o meno abile, l'aggettivo buono indicherà
una valutazione positiva di tali abilità; e così via.

2.3. Estensioni del significato: metafora e metonimia

Molte volte, all'origine di una pluralità di significati di uno stesso lessema,


stanno dei procedimenti che solitamente sono considerati propri della retorica,
ma che in realtà svolgono un ruolo anche nell'uso ordinario del linguaggio:
ci riferiamo alla metafora e alla metonimia. Con metafora si intende l'uso
traslato di una parola, sulla base di una parziale somiglianza tra il significato
che potremmo chiamare «fondamentale» e il significato traslato. Tra gli esempi
che abbiamo fatto sopra, quello dei due significati di vite può essere spiegato
come un'estensione metaforica del significato di 'pianta' a quello di 'utensile':
la filettatura della vite «utensile» assomiglia al viticcio della vite «pianta».
La metonimia consiste invece nell'estendere il significato di una parola ad
un altro significato connesso al primo per «contiguità». Un esempio di tale
estensione è dato dalla pluralità di significati della parola mano:il significato
fondamentale è quello di 'arto', ma poiché è con tale arto che si gioca a carte,
oppure che si spalma la vernice su un muro o su un oggetto, ecco che mano
è venuto ad assumere questi ulteriori significati.

2.4. Relazioni di significato: sinonimia, antonimia, iponimia,


iperonimia

Come uno stesso lessema può avere più significati, così più lessemi diversi
possono avere lo stesso significato: in questo caso la relazione tra tali les-
semi è detta di sinonimia. Ad esempio, manchee smazzatasono sinonimi di
manonel senso di «turno di gioco»; sovente e frequentementesono sinonimi
dell'avverbio spesso.Il fenomeno opposto alla sinonimia è l'antonimia, cioè
l'espressione di due significati opposti da parte di due lessemi: biancorispetto
a nero,caldorispetto a freddo, sposatorispetto a scapolo.Come si può vedere
facilmente, le prime due coppie di opposti sono diverse rispetto alla terza, in
quanto esse ammettono l'esistenza di entità intermedie, mentre per la terza
non è così. Tra biancoe nero,infatti, può stare grigio,come tra caldoe/reddo
può stare tiepido,mentre non c'è via di mezzo tra l'essere sposati e l'essere
scapoli. Si dice quindi, più esattamente, che le relazioni antonimiche del
primo tipo (biancoe nero,caldoe freddo) sono esempi di significati contrari,
mentre quelle del secondo (scapoloe sposato,oppure veroe falso)sono esempi
216 CAPITOLO8
-~--------~

di significati contraddittori. (Su sinonimia e antonimia cfr. anche gli esempi


in II.3.4. e la relativa discussione.)
I vari lessemi, oltre a manifestare significati identici oppure opposti, possono
anche essere inclusi nel significato di altri lessemi, oppure includere il signi-
ficato di altri lessemi. Così, uccelloinclude il significato di animale,mentre è
incluso nel significato di airone.Nel primo caso, si dice che uccelloe animale
sono in relazione di iponimia, oppure che uccelloè iponimo di animale;nel
secondo caso, si dice che uccelloe aironesono in relazione di iperonimia, op-
pure che uccelloè iperonimo di airone.Naturalmente, è del tutto equivalente
dire che animaleè iperonimo di uccello,e che aironeè iponimo di uccello.

2.5. Analisi del significato in tratti semantici*

Nella seconda metà del Novecento alcune teorie linguistiche hanno cercato di rappre-
sentare in modo esplicito le relazioni di significato come quelle che abbiamo appena
descritto (sinonimia, antonimia, iponimia, iperonimia, ecc.) mediante un sistema di
simboli che faceva uso della nozione di trattosemantico,modellata su quella di tratto
distintivodella fonologia (cfr. IV.6.). Così, come ad esempio si dice che un determi-
nato fonema è caratterizzato dal tratto [±sonoro], si può dire che un dato lessema è
caratterizzato dal tratto [±animato]. Quindi, la sinonimia tra due lessemi potrebbe
essere spiegata dicendo che essi condividono gli stessi tratti, e l'antonimia dicendo che
due lessemi hanno valori opposti rispetto allo stesso tratto. Analogamente, l'iponimia
e l'iperonimia potrebbero essere descritte in termini di condivisione di alcuni tratti
e dell'aggiunta o della mancanza di certi altri: uccello contiene più tratti semantici di
animale, e airone più tratti semantici di uccello.
L'analisi in tratti semantici non è stata coronata dallo stesso successo di quella in
tratti fonologici, per diversi motivi, tra i quali: 1) mentre per quanto riguarda la
fonologia, è chiarissima la differenza tra i fonemi e i tratti di cui essi sono costituiti
(così, ad esempio, un fonema come /si è [-sonoro], [+continuo] e uno come /z/ è
[+sonoro], [+continuo]), i tratti semantici sono sempre identici ai les emi (animale
è sia un lessema, sia un tratto semantico posseduto da un lessema come uccello). I
fautori dell'analisi in tratti semantici, naturalmente, hanno sempre insistito sul fatto
che, anche se si usa un lessema per indicare un tratto semantico, le due nozioni de-
vono essere tenute ben distinte: di fatto, tuttavia, questa distinzione non è sempre
trasparente. 2) Un secondo insuccesso dell'applicazione dell'analisi in tratti alla
semantica, rispetto alla fonologia, è che, mentre in quest'ultimo caso si è riusciti a
proporre un inventario di tratti assai basso (dodici o pochi di più) e comunque/i'nito,
per la semantica non si è mai arrivati a niente di neppure lontanamente comparabile:
nessun linguista è riuscito a proporre un inventario finito di tratti semantici, in grado
di rendere conto dei significati di un numero indefinito di parole in un numero in-
definito di lingue.
Tuttavia, questi insuccessi non devono fare necessariamente concludere che ogni
tentativo di individuare un inventario finito di tratti semantici, presumibilmente
comuni a tutte le lingue del mondo, debba essere considerato privo di senso. Di
fatto, lo studio del!' acquisizione del linguaggio da parte del bambino spinge proprio
in questa direzione. È stato calcolato che, dal momento in cui il linguaggio comincia
a svilupparsi in età infantile, si acquisiscono in media dieci nuove parole al giorno,
in modo che un diciottenne con un livello medio di istruzione conosce all'incirca
60.000 parole. Se l'acquisizione delle parole si basasse sui meccanismi generali di
E PRAGMATICA217
SEMANTICA

memorizzazione, se cioè si trattasse di memorizzare nel nostro cervello una quantità


di lessemi acquisiti indipendentemente l'uno dall'altro, questi stessi meccanismi
dovrebbero rendere possibili risultati analoghi anche in ambiti diversi dal linguag-
gio: per esempio, dovremmo essere in grado di memorizzare fino a 60.000 numeri
di telefono, cosa evidentemente alquanto difficile, per non dire impossibile. Come
spiegare quindi questa straordinaria capacità di acquisire nuove parole? L'ipotesi che
i lessemi siano costituiti da un numero finito di tratti semantici, con diversi valori
(+oppure-) e diversamente combinati, può costituire un primo passo in questa dire-
zione. Ipotizziamo, ad esempio, che il bambino abbia a disposizione in modo innato
un insieme universale di tratti semantici, e che alcuni di questi siano [±animato],
[±umano], [±che vola] (dove il simbolo ± indica che, come accade per tutti i tratti
semantici, il tratto in questione può essere o non essere presente): quindi, per impa-
rare il significato di animaleil bambino userà la combinazione di tratti [+animato],
[-umano], e per imparare il significato di uccellodovrà semplicemente aggiungere il
tratto [+che vola]. Non dovrà quindi imparare una parola completamente nuova, ma
solo aggiungere un tratto ad una parola che già conosce. Questo tratto, inoltre, gli sarà
utile per imparare il significato di altre parole, come per esempio quello di aeroplano,
che avrà i tratti [-animato] e [+che vola]; si noti che non c'è bisogno, per aeroplano,
di specificare il valore positivo o negativo del tratto [±umano], perché un oggetto
[-animato] è automaticamente [-umano]. L'importanza concettuale dell'analisi
in tratti è quindi quella di presentarci il lessico di una lingua non come un puro
inventario di parole, ma come un insieme strutturato in cui le parole sono legate
sistematicamente l'una all'altra. Naturalmente, si è ben lontani dal poter presentare
un'analisi in tratti semantici anche minimamente soddisfacente: questo però non
significa che l'ipotesi stessa dell'articolazione del lessico in tratti semantici debba
essere necessariamente abbandonata.

3. SEMANTICA
FRASALE

Dopo aver esaminato le proprietà e le relazioni di significato delle singole


parole (o lessemi), possiamo ora occuparci del significato delle frasi. L'ipotesi
più semplice è che, dato che le frasi sono composte di parole, il significato di
una frase sia il risultato della combinazione dei significati delle parole che la
compongono. In effetti, questa ipotesi è quella propria della maggior parte
degli studi logici e filosofici sul linguaggio, che l'hanno assunta come principio,
dandole il nome di principiodi composizionalità.In molti casi tale principio
funziona, come avremo modo di vedere in questo stesso paragrafo; in altri
esso sembra un po' troppo restrittivo, sia perché 1) le frasi del linguaggio
naturale a volte sembrano contenere «qualcosa in più» rispetto al significato
dei singoli elementi che le compongono, sia perché 2) alcune combinazioni
di parole hanno un significato che non è ricavabile da quello delle singole
parole da cui sono costituite. Ritorneremo sul primo punto in uno dei para-
grafi successivi; il secondo, invece, è quello rappresentato dalle espressioni
idiomatiche.Infatti, il significato di espressioni idiomatiche come tagliarela
corda,sbarcareil lunario,essereal verde,ecc. non deriva dalla composizione
dei significati delle parole da cui sono formate. Così, tagliarela cordanon ha
a che fare né con le corde né con i tagli, sbarcareil lunarionon significa certo
218 CAPITOLO8
--------------------------------
tirare giù da una barca un lunario (una specie di calendario con l'aggiunta
di previsioni meteorologiche, ecc.), ed essereal verdenon ha nulla a che fare
con il colore verde, ma significa, purtroppo, non avere soldi.

3.1. Tautologia, contraddizione, analiticità, presupposizione

Veniamo però ora ad alcuni dei moltissimi casi in cui il principio di compo-
sizionalità funziona: questo ci permetterà anche di analizzare il significato di
alcuni tipi di parole che non abbiamo trattato in Vlll.2., e non a caso, ma
perché in quel contesto sarebbe stato difficile analizzarle. Ci stiamo riferendo
alle parole come e, o oppure se: come è intuitivo, il loro significato è di tipo
diverso da quello di nomi come vite o animale,o di verbi come leggere,o di
aggettivi come biancoe nero, o di avverbi come spesso,e così via. e, o, se e
parole analoghe sono, come la tradizionale teoria delle parti del discorso ci
insegna, delle congiunzioni, cioè combinano parole o frasi; in quest'ultimo
caso, producono delle frasi complesse (cfr. Vll.3 .2.), e sono quindi dette, nella
terminologia logica, connettivi proposizionali (o frasali; cfr. VII.3.1.). Una
frase semplice è vera o è falsa; il significato dei connettivi frasali è illustrato
dall'effetto che essi hanno sulla verità o la falsità delle frasi complesse che
contribuiscono a formare. Quindi, ad esempio, una frase come (7) è certamente
falsa, e una frase come (8) è certamente vera:

(7) Oggi piove e non piove


(8) Oggi piove o non piove

Sicuramente frasi come (7) e (8) non sono particolarmente interessanti e


informative, e nessuno di noi le usa nella conversazione quotidiana, almeno
nel loro significato letterale. Il motivo per cui le abbiamo introdotte è che esse
illustrano molto bene il significato di e e di o: una frase complessa formata
tramite il connettivo e è vera se e solo se le frasi semplici che la compongono
sono tutte vere; dato che oggipiove e ogginon piove non possono essere en-
trambe vere, (7) è automaticamente falsa (se intesa in senso letterale; in senso
non letterale, infatti, potrebbe significare oggipiovigginaoppure oggipiove
a tratti).Una frase complessa formata tramite il connettivo o è vera se e solo
se almeno una delle frasi semplici da cui è formata è vera: quindi, dato che
una frase tra oggipiove o ogginon piove è vera, (8) è automaticamente vera. È
importante notare che questa nozione di verità è puramente linguistica,ossia
non si basa su alcuna osservazione della realtà. Noi saremmo sicuri che (7) è
falsa e che (8) è vera anche se fossimo rinchiusi in un luogo blindato e senza
finestre, e non potessimo minimamente controllare se fuori piove o non piove.
La stessa sicurezza avremmo anche se, per ipotesi, non conoscessimo il signi-
ficato del verbo piovere.La falsità di (7) e la verità di (8) derivano unicamente
dal significato di e e, rispettivamente, di o. Tecnicamente, si dice che (7) è un
esempio di contraddizione, e (8) un esempio di tautologia.
SEMANTICA 219
E PRAGMATICA

Oltre alle tautologie e alle contraddizioni, anche altri tipi di frasi possono
essere giudicati veri o falsi su base puramente linguistica. Esempi di questo
genere sono le frasi seguenti:

(9) Gianni è scapolo e non è sposato


(10) Gianni è scapolo ed è sposato
(11) Titti è un canarino ed è un uccello
(12) Titti è un canarino e non è un uccello

(9) e (11) sono linguisticamente vere, (10) e (12) linguisticamente false. In


questo caso, il valore di verità (vero o falso) è determinato non solo dal si-
gnificato del connettivo e, ma anche da quello delle parole scapolo,sposato,
canarinoe uccello.Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, scapoloè
sinonimo di non sposato,e canarinoè iponimo di uccello.Quindi, chi è scapolo
è anche necessariamente non sposato, e un canarino è necessariamente un
uccello. Frasi come (9)-(12), la cui verità o falsità è determinabile unicamente
sulla base del significato dei connettivi frasali e dei lessemi in esse contenuti,
rappresentano casi di analiticità.
Finora abbiamo sempre ipotizzato che le frasi dei nostri esempi avessero tutte
un valore di verità, fossero cioè tutte vere o false. Esistono casi, tuttavia, in
cui determinate frasi non sono né vere né false. Un esempio classico è dato
dalle frasi seguenti:

(13) L'attuale re di Francia è calvo


(14) L'attuale re di Francia non è calvo

È chiaro che (13) e (14), essendo in contraddizione l'una con l'altra, non
possono essere entrambe vere. Tuttavia, si potrebbe dire che sono entrambe
false, in quanto non esiste attualmente nessun re di Francia. Questa analisi è
stata proposta, in passato, da alcuni studiosi, ma ad essa è stata preferita un' a-
nalisi diversa, quella cioè che dice che tanto (13) quanto (14) presuppongono
entrambe la verità di (15):

(15) Attualmente c'è un re di Francia

Si dice quindi che (15) è la presupposizione di (13) e di (14). La presupposi-


zione è quella frase che deve essere vera perché le frasi che la presuppongono
possano avere un valore di verità. Quindi, dato che (15) è falsa, (13) e (14) non
sono né vere né false, ma semplicemente inappropriate. Si noti che, a differenza
di quanto accadeva per le frasi (7)-(12), la falsità di (15) non è determinata
unicamente dal significato delle espressioni che la compongono, ma anche
(e necessariamente) dalla nostra conoscenza del mondo. Il fenomeno della
presupposizione in sé, tuttavia, è puramente linguistico.
220 CAPITOLO8

3.2. Frasi con quantificatori e pronomi*

Altri esempi di frasi la cui verità o falsità è determinabile esclusivamente in base al


loro significato sono quelle contenenti i cosiddetti quantificatori,cioè parole come
tutti, nessuno, qualche, ogni, uno, ecc.:

(16) Se ogni studente ha superato l'esame, allora qualche studente ha superato


l'esame
(17) Se nessuno studente ha superato l'esame, allora qualche studente non ha
superato l'esame
(18) Se ogni studente ha superato l'esame, allora qualche studente non ha superato
l'esame

Le frasi (16) e (17) sono linguisticamente vere, mentre (18) è linguisticamente falsa.
Per stabilire la verità di (19), dobbiamo invece fare entrare in gioco la nostra cono-
scenza dei fatti:

(19) Qualche studente ha superato l'esame

Esaminiamo ora due frasi come le seguenti:

(20) Se qualche studente non ha superato l'esame, allora ogni studente ha superato
l'esame
(21) Se qualche studente non ha superato l'esame, allora ogni studente non ha
superato l'esame

(20) è falsa, su basi puramente linguistiche, come dovrebbe essere facile vedere. Si
potrebbe pensare che lo stesso valga di (21), ma in realtà non è così: il fatto che qualche
studente non abbia superato l'esame non è in contraddizione col fatto che ogni studente
non l'abbia superato (ossia, detto in modo più semplice, che nessuno studente l'abbia
superato). Torniamo ora a (19): enunciandola, io direi senz'altro la verità anche se
ogni studente, e non solo qualcuno tra gli studenti, avesse superato l'esame. Tuttavia,
questo sarebbe un modo abbastanza curioso di esprimersi: normalmente, enunciare
una frase come (19) significa voler comunicare che qualche studente non ha superato
l'esame, mentre qualche altro studente l'ha superato. Questo è uno dei tipici casi in
cui l'uso del linguaggio naturale restringe, di fatto, il numero delle interpretazioni che
di una data frase sono possibili in base alla sua struttura puramente linguistica, cioè
un caso in cui la pragmatica viene a completare la semantica. Torneremo su questo
argomento in VIII.5.
Ritornando ora all'aspetto puramente semantico dei quantificatori, notiamo alcuni
effetti che la presenza di due di essi ha sull'interpretazione della frase, partendo da
un esempio come (22):

(22) Ogni ragazzo ama una ragazza

(22) può avere due significati: il primo è che ogni ragazzo ama una ragazza diversa
(quindi Gianni ama Maria, Pietro ama Paola, Carlo ama Eva, ecc.), oppure che c'è
una ragazza determinata (per esempio Maria) che è amata da ogni ragazzo (Gianni,
Pietro, Carlo, ecc.). Naturalmente, sarà la situazione in cui una frase come (22) è
enunciata a risolvere l'ambiguità; dal punto di vista linguistico, tuttavia, entrambe le
interpretazioni sono possibili.
Quando in una frase ricorrono, oltre a un quantificatore, anche dei pronomi per-
sonali o delle espressioni analoghe a questi ultimi, si possono avere ulteriori effetti
SEMANTICAE PRAGMATICA221

di ambiguità come quelli illustrati da (23), in cui l'espressione analoga a un pro-


nome personale è il possessivo sua, in quanto, come un pronome personale, ha una
persona grammaticale determinata, la terza, che si oppone alla prima (mia) e alla
seconda (tua):

(23) Ogni ragazzo ama la sua ragazza

Questa frase può significare tanto che ogni ragazzo ama una ragazza differente (come
nel primo significato di (22), Gianni ama Maria, Pietro ama Paola, Carlo ama Eva, ecc.),
oppure che ogni ragazzo ama la ragazza di un ragazzo determinato (quindi, Gianni,
Pietro, Carlo, ecc. amano tutti la ragazza di Antonio). el primo caso, si dice che il
possessivo sua è legato dal quantificatore ogni, mentre nel secondo caso si dice che il
possessivo è libero. otiamo ancora che, nella frase passiva corrispondente a (23), è
molto difficile interpretare sua come legato (quindi l'unico significato possibile è che
la ragazza di Antonio sia amata da Gianni, Pietro, Carlo, ecc.):

(24) La sua ragazza è amata da ogni ragazzo

Come si vede, la differenza essenziale tra (23) e (24) è che nella prima il quantificatore
ogni precede il possessivo sua, mentre nella seconda sua precede ogni. In termini
tecnici, il possessivo è dentro la portata del quantificatore in (23), ma non in (24):
perché un pronome o un elemento analogo possa essere interpretato come legato da
un quantificatore, è necessario che esso sia nella portata del quantificatore stesso.
La proprietà dei pronomi e delle espressioni analoghe, come i possessivi, di essere
legati oppure liberi caratterizza in generale questa classe di parole, quindi non è
necessariamente connessa alla presenza di un quantificatore. Anche in questo caso,
i significati possibili delle frasi sono determinabili su base puramente linguistica; nel
caso in cui una frase sia ambigua, cioè possa avere più di un significato, sarà come
sempre la situazione in cui essa è utilizzata a far scegliere l'interpretazione pertinente.
Consideriamo, ad esempio, una frase come (25):

(25) Gianni dice che Francesco lo ha ingannato

Il pronome lo può riferirsi sia a Gianni, sia a un altro individuo (per esempio, Antonio)
che Gianni dice che è stato ingannato da Francesco. Nel primo caso, si dice che lo è
legato da Gianni;nel secondo caso, che è libero. Notiamo che un'altra interpretazione
non è possibile, ossia quella in cui lo si riferirebbe a Francesco: la nostra intuizione di
parlanti dell'italiano la esclude. Viceversa, questa nostra stessa intuizione ci dice che
in una frase come (26) il pronome se stessopuò riferirsi soltanto a Francesco (quindi
né a Gianni né a un altro individuo):

(26) Gianni dice che Francesco ha ingannato solo se stesso

Quali sono le differenze tra (25) e (26)? Entrambe sono frasi complesse, formate da
una principale e da una dipendente (cfr. VII.3.2.). Tuttavia, i pronomi che le due frasi
contengono appartengono a due categorie diverse: lo è un pronome personale, se stesso
un pronome riflessivo. Possiamo quindi ipotizzare questa regolarità: un pronome
personale non può essere legato entro la frase semplice in cui si trova (quindi lo in
(25) non può essere legato da Francesco),mentre un pronome riflessivo deve essere
legato entro la frase semplice in cui si trova (quindi se stessoin (26) deve essere legato
da Francesco).Vediamo qualche altro esempio di questa regolarità:

(27) Gianni lo ha ingannato


(28) Gianni ha ingannato se stesso
222 (A_PJT_O_LO_8
______________ ~-~---------------'

La nostra intuizione chiaramente ci dice che lo in (27) può riferirsi a qualunque


individuo di sesso maschile (Carlo, Pietro, Francesco, ecc.), ma non può riferirsi a
Gianni; e che, viceversa, sestessoin (28) deve obbligatoriamente riferirsi a Gianni.

4. GLIAID LINGUISTICI
4.1. Tipi di atti linguistici

L'uso del linguaggio umano consiste nell'esecuzione di determinati atti: 1) la


pronuncia di determinate parole e sintagmi; 2) il riferimento a determinate
entità e la predicazione di determinate proprietà in merito ad esse; 3) una
constatazione, un ordine, un consiglio, una promessa, e così via; 4) il tentativo
di produrre un determinato effetto sul nostro interlocutore, come ottenere
da lui un'informazione, oppure fargli compiere una certa azione, e così via.
Al primo tipo di atti si dà il nome di atti locutori (o atti di enunciazione); al
secondo tipo, il nome di atti proposizionali; al terzo tipo, di atti illocutori; al
quarto tipo, di atti perlocutori. Non si deve pensare che sia possibile compiere
un atto locutorio senza compiere un atto illocutorio, o un atto illocutorio senza
compiere un atto perlocutorio, e così via: in ogni atto linguistico tutti questi
tipi di atti sono compresenti. L'unico tipo di atto linguistico che non si realizza
sempre è l'atto proposizionale: infatti, abbiamo detto che esso consiste nella
predicazione di determinate proprietà a proposito di determinate entità, ma
sappiamo (cfr. VII.3.1.) che esistono espressioni di senso compiuto che non
sono predicative, come ad es. Gianni.',Ahi.', ecc. Se, comunque, enunciamo
una frase predicativa come Gianni ha telefonato?,realizziamo tutti e quattro
i tipi di atti linguistici: l'atto locutorio consiste nell'emissione dei suoni che
formano le parole Gianni, ha e telefonato;l'atto proposizionale consiste nel
riferirsi all'individuo «Gianni» e nel connetterlo alla proprietà di aver telefo-
nato in un momento precedente a quello in cui noi compiamo l'atto linguistico;
l'atto illocutorio consiste nel formulare una domanda; l'atto perlocutorio
consiste nel farci dare una risposta dal nostro interlocutore.
Vi sono relazioni diverse tra questi tipi di atti. Ad esempio, uno stesso atto
proposizionale può comparire in diversi atti illocutori: se io dico Gianni ha
telefonato,l'atto illocutorio che compio è un'asserzione, se dico Gianni ha
telefonato?,l'atto illocutorio è una domanda, se dico Gianni;telefona.',l'atto
illocutorio è un ordine. In tutti e tre i casi, tuttavia, l'atto proposizionale è
identico: io mi sono riferito a Gianni e ho predicato di lui la proprietà di
telefonare. Mettiamo ora che la persona che io chiamo confidenzialmente
«Gianni» sia il prof. Giovanni Rossi. Se io dicessi il prof GiovanniRossi ha
chiamatoper telefono?,oppure il prof GiovanniRossiha chiamatoper telefono,
compirei un atto di enunciazione diverso che se dicessi Gianniha telefonato
oppure Gianniha telefonato?,ma i miei atti proposizionali e illocutori sareb-
bero identici: uso parole diverse, ma mi riferisco alla stessa persona, predico
di lui le stesse proprietà e in un caso faccio un'affermazione, nell'altro una
domanda. Ancora: uno stesso atto illocutorio può corrispondere ad atti pro-
SEMANTICAE PRAGMATICA223

posizionali diversi: dicendo Gianni ha telefonatooppure la terra è rotonda


compio due atti proposizionali diversi, perché diversi sono i miei riferimenti
e le proprietà che predico di essi, ma il mio atto illocutorio è identico, cioè è
in entrambi i casi un'asserzione.
Non bisogna confondere i diversi tipi di atti illocutori con le diverse modalità
che può assumere una frase: una domanda non corrisponde necessariamente a
una frase interrogativa, o un'asserzione a una frase dichiarativa, o un ordine a
una frase imperativa (cfr. VII.3.2.), ecc. Pensiamo a frasi come Puoipassarmiil
sale?,o Adessofarestibenead andartene,o la già citata Vuoleuscire?.La prima
e la terza di queste frasi sono interrogative, e la seconda è una dichiarativa, ma
l'atto illocutorio compiuto da tutte tre è lo stesso, e non corrisponde alla loro
forma grammaticale: tutte e tre le frasi, infatti, esprimono, in forma «soft»,
un ordine o una richiesta, pur non essendo, dal punto di vista sintattico, delle
frasi imperative. In casi come questi si parla di atti linguistici indiretti.

4.2. I performativi•

Un tipo particolare di atti illocutori sono quelli contenenti i cosiddetti verbi perfor-
mativi. Essi sono esemplificati da frasi come le seguenti:

(29) Prometto di partire


(30) Questa corte dichiara l'imputato innocente
(31) Mi scuso di essermi comportato così

Performativoderiva dal verbo inglese to perform,che significa 'compiere', 'eseguire'.


Questo significa che, enunciando una frase come (29), io non mi limito a parlare,
ma compio un'azione, ossia quella di promettere; enunciando (30), il presidente
di una corte di giustizia compie l'azione di liberare l'imputato dalle accuse che gli
sono state rivolte; enunciando (31), io compio un atto preciso, cioè faccio le scuse al
mio interlocutore. L'uso performativo di determinate espressioni non è confinato ai
verbi: esistono infatti anche formule performative non verbali, come Rigore! detto
da un arbitro di calcio, il quale, così dicendo, modifica lo svolgimento della partita,
imponendo che il gioco si interrompa e il pallone venga collocato ad undici metri
dalla porta di una delle due squadre, per essere calciato da un giocatore della squadra
avversaria. L'esistenza di formule performative senza verbi si collega evidentemente
all'esistenza di atti linguistici che non contengono un atto proposizionale, di cui si
parlava in VIII.4 .1.
Perché l'enunciazione di una frase abbia un effetto performativo non è sufficiente
che tale frase contenga verbi come promettere,dichiarare,scusarsi,ecc. Ad esempio,
è evidente che se tali verbi sono usati ad un tempo passato, come nelle frasi seguenti,
il loro valore è ben diverso da quello che hanno in (29)-(31):

(32) Ieri ho promesso a Paolo di partire


(33) el processo di primo grado, la corte dichiarò l'imputato innocente
(34) Dopo essermi comportato in quel modo, mi sono scusato

In (32)-(34), i verbi promettere,dichiarare,scusarsinon eseguono alcun atto ma, come


gli altri verbi non performativi, semplicemente descrivono un determinato atto com-
224 CAPITOLO8

piuto dal soggettodellafrase.In questo caso,si parla di uso constatativo di questiverbi.


L'uso performativoe l'uso constatativosono irriducibilmentediversioppure possono
essere ricondotti l'uno all'altro? Su questi argomenti la discussioneè stata ampia ed
è ancora in corso. Qui non approfondiremo ulteriormente l'argomento: l'elemento
essenzialeda ricordare è il particolare valore che i verbi come quelli che abbiamo
esemplificatopossono avere, cioè la realizzazionedi azioni mediante il linguaggio.

5. USO LETTERALE
E USO NON LETTERALE
DELLEESPRESSIONILINGUISTICHE
Nel paragrafo precedente abbiamo dunque visto come una caratteristica del
linguaggio naturale sia quella di poter essere usato non letteralmente, di dire
qualcosa «di diverso» e «di più» di quanto le sue espressioni non significhino.
Un caso tipico di uso non letterale del linguaggio è infatti quello degli atti
linguistici indiretti, ma vi sono diversi altri casi. Com'è possibile che la comu-
nicazione riesca ad avvenire ugualmente, nonostante in molti casi i parlanti
non usino le espressioni della lingua nel loro senso letterale? Le risposte più
soddisfacenti a questa domanda sono venute finora da un filosofo inglese,
Paul Grice, che ha mostrato come gli scambi comunicativi siano guidati da
quella che egli ha chiamato la «logica della conversazione».
Secondo Grice, la conversazione è regolata da massime, che egli raggruppa in
quattro categorie: quantità, qualità, relazione e modalità, che suonano come
«raccomandazioni» date al parlante. La massima della quantità dice: «fornisci
l'informazione necessaria, ossia né troppa né troppo poca». La massima della
qualità dice: «sii veritiero, in base alle prove in tuo possesso». La massima
della relazione dice: «sii pertinente» (ossia fornisci soltanto informazioni
pertinenti alla conversazione che stai svolgendo). La massima della modalità
dice: «evita oscurità e ambiguità; sii breve ed ordinato». I partecipanti alla
conversazione, tacitamente e inconsciamente, si comportano seguendo queste
massime, sia come parlanti sia come ascoltatori. A volte, però, i partecipanti
a una conversazione sembrano violare alcune di queste massime: in qualche
caso, questa violazione è reale, e allora la comunicazione corre il rischio di
fallire; altre volte, invece, la violazione è solo apparente, perché il parlante
non ha usato le espressioni nel loro significato letterale, bensì ha voluto tra-
smettere un altro significato. In quest'ultimo caso, dice Grice, si realizza una
implicatura conversazionale.
Il termine implicatura è stato scelto per distinguerlo da quello di implicazione,
che è un termine della logica. Non sempre, infatti, le implicature della nostra
conversazione nel linguaggio naturale corrispondono a quelle che i logici
definiscono, in senso tecnico, implicazioni. Del resto, l'analisi delle frasi del
linguaggio naturale compiuta in base ali'analisi puramente logica di espressioni
come e, o, e i vari tipi di quantificatori, spesso non rende ragione in modo
soddisfacente delle nostre intuizioni semantiche. Consideriamo l'esempio
(19), ossia la frase Qualchestudenteha superatol'esame.Da un punto di vista
puramente logico essa non implica che qualche studente non abbia superato
SEMANTICAE PRAGMATICA225

l'esame: è cioè vera anche se tutti glistudenti hanno superato l'esame. Tuttavia,
se io enuncio (19), la conclusione più semplice che il mio interlocutore ne
trae è che qualche studente ha superato l'esame, ma qualche altro studente
non l'ha superato. Questa è appunto un'implicatura nel senso della «logica
della conversazione», ma non è un'implicazione nel senso della logica formale.
Come opera, quindi, la logica della conversazione, quando io enuncio una
frase come Qualche studente ha superato l'esame? In questo caso, entra in
gioco la massima della quantità, cioè si presume che io abbia fornito tutta
l'informazione necessaria. Se dunque io so che in realtà tutti gli studenti
hanno superato l'esame, e ciononostante dicessi che qualche studente l'ha
superato, violerei tale massima: non fornirei l'informazione necessaria. Ma il
mio interlocutore assume che io parli seguendo le massime: quindi trae dal
mio discorso l'implicatura che qualche studente non ha superato l'esame. Si
badi bene: da un punto di vista puramente formale io dico la verità, quindi
non sto violando nessuna regola logica, ma sto violando una massima dello
scambio comunicativo. In altre parole, dal punto di vista semantico sto di-
cendo il vero, ma dal punto di vista pragmatico mi sto comportando in modo
inappropriato. Ma, come abbiamo visto all'inizio di questo capitolo, l'aspetto
pragmatico è essenziale nelle lingue naturali.
Veniamo ora a qualche altro caso di implicatura, e precisamente a quelli che
chiaramente manifestano un uso non letterale del linguaggio. Supponiamo che
il mio amico Gianni, di cui mi fidavo moltissimo, mi abbia giocato un brutto
tiro; parlando della faccenda con una terza persona, che sa come stanno le
cose, dico, riferendomi a Gianni: Ah, Gianni è davvero un amico!. In questo
caso, io ho violato palesemente la massima della qualità, perché non sono
stato veritiero; tuttavia, la conversazione funziona perfettamente, perché io
ho trasmesso l'implicatura che ciò che dico non va inteso nel suo significato
letterale, ma nel suo esatto contrario, cioè che Gianni è un falso amico. Ancora:
se io ho ricevuto una serie di buone notizie, ma l'ultima è particolarmente
buona (oppure, ho ricevuto una serie di cattive notizie, e l'ultima è partico-
larmente cattiva), posso esclamare: Questa è la ciliegina sulla torta!. Anche
in questo caso, owiamente, non sono veritiero, ma trasmetto l'implicatura
conversazionale che l'ultima notizia che ho ricevuto è della natura di tutte le
altre precedenti, ma nella sua particolarità si può dire che le completa, come
la ciliegina completa la torta.
Il lettore informato si accorgerà che questi due ultimi esempi sono casi di
uso retorico, o figurato,del linguaggio: nel primo caso la figura in questione
è quella dell'ironia, nel secondo è quella della metafora. Ma come abbiamo
già visto in VIII.2.3 ., gli usi retorici costituiscono una componente essenziale
anche dell'uso ordinario del nostro linguaggio.
226 CAPITOLO8

NOTA STORICO-BIBLIOGRAFICA

Il termine semantica in senso linguistico è di origine relativamente recente: esso fu infatti co-
niato dal linguista francese Miche! Bréal (1832-1915), v. Bréal [1897]. La trattazione di temi
semantici è comunque molto più antica, soprattutto nell'ambito della riflessione filosofica sul
linguaggio: da questo punto di vista, si può dire che la semantica incomincia già con (almeno)
Aristotele. Gli studi semantici dei linguisti e quelli dei filosofi hanno per lo più proceduto
in modo parallelo, spesso addirittura ignorandosi a vicenda, tanto che a volte si parla di una
semantica «linguistica» contrapposta ad una semantica «filosofica». In realtà, questa opposi-
zione è infondata: tanto gli studi di matrice linguistica quanto quelli di matrice filosofica hanno
contribuito a cogliere proprietà importanti del linguaggio naturale. Se una distinzione si può
tracciare, si può forse dire (ma con molta approssimazione) che la semantica lessicale ha attratto
maggiormente l'attenzione dei linguisti, e quella frasale l'attenzione dei filosofi, ma dovrebbe
essere evidente che, in linea di principio, nessuno di questi due aspetti può essere trascurato a
scapito dell'altro.
La distinzione tra significato e riferimento risale a un saggio [Frege 1892] del logico tedesco
Gottlob Frege (1848-1925), che può essere a buon diritto considerato l'inizio della riflessione
logica e filosofica sulla semantica nell'epoca contemporanea. Altri lavori fondamentali in
quest'area di ricerca sono Wittgenstein [1922], Tarski [1935] e Carnap [1947]. Questi studiosi
partivano dall'analisi del linguaggio naturale, ma il loro interesse fondamentale era rivolto
alla definizione delle proprietà dei linguaggi della logica; qualche decennio più tardi, Richard
Montague (1932-1971) si pose invece lo scopo esplicito di analizzare il linguaggio naturale con
gli strumenti elaborati per lo studio dei linguaggi logici [v. soprattutto Montague 1974]. Per
un'accurata presentazione di tutti questi studiosi e delle problematiche da essi affrontate, si
veda Casalegno [1997].
L'inventore del termine pragmatica è considerato il filosofo americano Charles Morris (1901-
1979) [v. Morris 1938; 1946]. Il concetto di atto linguistico fu introdotto dal filosofo inglese
John L. Austin (1911-1960), in un ciclo di conferenze pubblicate postume [Austin 1962]; la
tematica degli atti linguistici è stata successivamente sviluppata dall'americano John R. Searle
[1969]. I lavori di Paul Grice sulla «logica della conversazione» hanno cominciato ad apparire
negli anni Settanta e sono stati successivamente raccolti in Grice [1989].
Tra le introduzioni alla semantica, v. Lyons [1977], Chierchia e McConnell-Ginet [1991], Chier-
chia [1997] e Delfitto e Zamparelli [2009]. Tra le introduzioni alla pragmatica disponibili in
italiano, segnaliamo Levinson [1983], Bianchi [2003] e Caffi [2009].

DOMANDE

1. Cosa significano i termini «semantica» e «pragmatica»?


2. Cosa si intende, rispettivamente, con «significato», «denotazione» e «riferimento»?
3. Che differenza c'è tra «omonimia» e «polisemia»?
4. Cosa si intende, rispettivamente, con «sinonimia», «antonimia», «iponimia» e «iperonimia»?
5. Cos'è l'analisi in tratti semantici?
SEMANTICAE PRAGMATICA227

6. Cosa si intende, rispettivamente, con «tautologia», «contraddizione», «analiticità» e «pre-


supposizione»?
7. Fate un esempio di uso «libero» e di un uso «legato» di un pronome o di un possessivo.
8. Quali sono i tipi di atti linguistici?
9. Perché una frase come Vuoleuscire?può costituire un «atto linguistico indiretto»?
10. Quali sono le «massime» di Grice? Fate un esempio di come funzionano.
CAPITOLO 9
Sociolinguistica
e dialettologia

In questocapitolo esamineremoalcuni aspetti dei due tipi di variazione cosìcome sono


studiati,il primo tipo,dalla sociolinguisticae il secondodalla dialettologia.Affronteremo
dunque il problema della variazione linguistica,di che cos'èuna comunità linguisticae
dellacompetenzacomunicativa.Riprenderemopoi il problemalingua/dialettoe vedremo
alcune caratteristichedei dialetti in Italia. Infine parleremo di bilinguismo e diglossiae
delle lingue pidgin e creole.

INTRODUZIONE

Come si è già visto nel capitolo II, una lingua non è un blocco monolitico:
è stratificata sia verticalmente che orizzontalmente. La stratificazione verti-
cale (o diastratica) riguarda le variabili legate alla stratificazione sociale. La
stratificazione orizzontale (o diatopica) riguarda le differenze dialettali. Con
queste dimensioni di variazione linguistica spesso se ne intrecciano altre due:
il livello di formalità, che riguarda il grado di accuratezza e di controllo con
cui si parla (variazione diafasica), e le variazioni dipendenti dal mezzo usato
per comunicare: scritto, inviato per e-mail, telefonato, parlato, ecc. (varia-
zione diamesica). È la sociolinguistica che ha affrontato queste tematiche
capovolgendo alcuni punti di vista della linguistica teorica, come vedremo
nel paragrafo seguente.

1. LINGUISTICA
TEORICAE SOCIOLINGUISTICA

La linguistica teorica e la sociolinguistica hanno domini diversi che si po-


trebbero sintetizzare così: la linguistica teorica si basa su «idealizzazioni» ed
ha come oggetto principale di studio il linguaggio umano come «capacità»;
la sociolinguistica tende invece a tenere conto di dati più vicini alle varie si-
230 CAPITOLO 9
------------------------------~

tuazioni comunicative ed ha come oggetto principale di studio l'uso effettivo


della lingua. Schematicamente:

(1) linguisticateorica sociolz"nguistica


parlante nativo idealizzato parlanti «reali»
competenza linguistica competenza comunicativa
comunità linguistica omogenea comunità linguistica stratificata
«identità» «diversità»
strutture usi

La linguistica teorica pone al centro della propria indagine il cosiddetto «par-


lante nativo idealizzato»: un parlante cioè con perfetta «competenza» della
propria lingua, che non fa errori, che sa distinguere tra frasi grammaticali e
non grammaticali, che non fa false partenze, che non fa dei lapsus, ecc. Come
il parlante, anche la sua comunità linguistica è «idealizzata» e di questa si ten-
dono a sottolineare più gli aspetti di omogeneità che quelli di differenziazione.
Ciò che colpisce maggiormente l'attenzione dei linguisti teorici è il fatto che
parlanti con storie linguistiche tanto diverse possano condividere un nucleo
così importante di conoscenze linguistiche.
Come è facile immaginare, questo quadro può essere capovolto e si può certo
sostenere che i parlanti «reali» fanno errori, false partenze, che i parlanti
conoscono non solo le regole per costruire frasi ben formate ma anche per
utilizzarle correttamente nelle varie situazioni (competenzacomunicativa),che
la comunità linguistica è stratificata linguisticamente così come lo è socialmente
e che dunque non è affatto omogenea, che ciò che vi è di dawero interessante
nel linguaggio umano è la sua diversità: ciò che interessa maggiormente i so-
ciolinguisti sono le differenze tra parlante e parlante o tra gruppo e gruppo
di parlanti e la rilevanza sociale di queste differenze.
Entrambe le posizioni appena delineate sono legittime e dovrebbero integrarsi:
la prima tende a ricercare ciò che c'è di comune, di uguale o di immutabile
nel linguaggio umano, la seconda tende a ricercare la diversità linguistica e
le possibili correlazioni con la stratificazione sociale, le dinamiche dei gruppi
sociali, i loro valori. Vale la pena di osservare che identità e diversità sono due
componenti entrambe fondamentali delle lingue del mondo.
La teoria del linguaggio cerca di descrivere le strutture del linguaggio umano,
la sociolinguistica cerca di descrivere l'uso che gli esseri umani farLnodi queste
strutture nelle situazioni comunicative concrete. Un conto è saper costruire
la frase ho moltofreddo questasera,forse per via di quel gelatoche ho sconsi-
deratamenteconsumatoal bar,altro conto è dire questa frase con l'intenzione
di indicare a qualcuno di chiudere una finestra aperta sapendo di avere a
che fare con un interlocutore cui si può rivolgere una tale richiesta sotto una
forma così indiretta. Ed altro conto ancora dire, invece della frase - piuttosto
formale - appena riportata, la seguente: c'ho un saccodi freddo stasera,forse
per colpadi quel gelatoche ho presosenzapensarcisu al bar.
E DIALETTOLOGIA231
---- SOCIOLINGUISTICA

2. SOCIOLINGUISTICA

La sociolinguistica contemporanea nasce da un'ipotesi molto semplice: la


variazione libera non esiste. Si ricordi quanto esposto in IV.5. e seguenti dove
abbiamo introdotto le nozioni di distribuzione contrastiva e di variazione
libera. In italiano, per esempio, [p] e [b] sono in distribuzione contrastiva:
la presenza dell'uno o dell'altro dà luogo a parole con significato diverso (per
esempio pere e bere), essi sono pertanto due fonemi diversi. I due suoni [r] e
[R] (r dentale e r uvulare) sono invece in variazione libera, non differenziano
tra significati (cfr. per es. rema, che può essere pronunciato sia [rema] che
[Rema]) e sono dunque due varianti libere di uno stesso fonema. La lingui-
stica teorica si interessa principalmente alla distribuzione contrastiva perché
questa permette di identificare i fonemi di una lingua, mentre presta scarsa
attenzione alla variazione libera.
La sociolinguistica (dagli anni Sessanta in poi) si è basata, al contrario, sul
seguente assunto: la variazione libera non è veramente libera perché tutte le
volte che esistono due modi diversi di dire una cosa, vuol dire che vi è una
«scelta» e che tale scelta (linguistica) può essere correlata a fattori sociali.
Dunque la variazione libera è (in certi casi) correlata con fattori sociali (non
linguistici, si noti bene).
Bisogna ancora osservare che «modi diversi di dire la stessa cosa» non ri-
guardano solo la fonologia (ossia la pronuncia) ma possono riguardare tutti
i livelli linguistici:

(2) fonologia: [rana]/[Rana]


morfologia: disadatto/inadatto, credé/ credette
sintassi: non me lo dire/non dirmelo
semantica: casa/magione

È vero però che gli studi di sociolinguistica sono stati in gran parte basati su
fatti fonetico-fonologici. Un po' si è lavorato anche sulla morfologia e molto
poco sugli altri livelli. In quello che segue, esporremo a grandi linee il lavoro
che ha gettato le basi di tutta la sociolinguistica contemporanea più feconda.

2.1. Centralizzazione a Martha's Vineyard (W. Labov)•

Il «campo» di studio è l'isola di Martha's Vineyard (nota sia ai lettori di Moby Dick
come «il Vigneto»nella traduzione italiana di Cesare Pavese,sia ai lettori di cronache
mondane, essendo l'isola luogo di villeggiaturadi vip americani).
L'isola,nel 1962,era abitata oltre che da pescatori anglofoni,da immigrati portoghesi
e indiani (6.000abitanti). I continentali, con la loro presenza vacanziera(42.000)de-
terminavano uno stravolgimentodell'economia dell'isola spingendola forzosamente
verso un'economia di tipo turistico.
Il fenomeno osservato (inconsapevoleper la maggioranza dei parlanti) è stato chia-
mato centra/iv.azione di [a]. Questo fenomeno riguarda la pronuncia «centralizzata»
232 CAPITOLO 9

di /a/, cioè invece di [haus] house si cominciava a sentire sull'isola una pronuncia
come [haus]. Foneticamente, questo fenomeno si può rappresentare molto bene su
un triangolo vocalico:

(3)

[a] viene realizzata più verso il «centro» del triangolo vocalico, nella direzione di
[a]. Si noti che la pronuncia [haus] o [haus] può essere considerata un tipico caso
di variazione libera: se si sostituisce il suono [a] col suono [a] non si ottengono due
parole con due significati diversi: sono due modi diversi di dire la stessa cosa.
Ora, le lingue esibiscono variazioni continue. Gran parte di queste finiscono nel nulla,
solo alcune acquisiscono un «senso» e hanno quindi diffusione. In questo secondo
caso, alcune di queste variazioni diventano una variabile.Una variabile è dunque una
variazione cui si può attribuire un significato (sociale). Identificare le variabili non
è facile: esse debbono essere a) frequenti (devono occorrere anche nel linguaggio
spontaneo), 6) strutturali(integrate nel sistema), c) stratificate(distribuzione asim-
metrica negli strati sociali).
Registrata dunque la variazione [haus]/[haus], si tratta di stabilire se è una variazione
occasionale o se è una variabile e qual è ilsuo significato.Allo scopo, fu somministrato un
questionario ad un campione di parlanti (69 su 6.000) e furono effettuate registrazioni.
Tali registrazioni sono una parte molto delicata di tutta la ricerca perché si trattava di
ottenere campioni di linguaggio «spontaneo» in una situazione di intervista formale
(situazione che spesso fa adottare da parte dell'intervistato registri stilistici «alti» e
controllati). Le registrazioni si rendevano altresì necessarie non solo perché ilfenomeno
della centralizzazione era al di sotto della soglia di consapevolezza ma anche perché i giu-
dizi dei parlanti relativamente ai propri comportamenti linguistici non sono affidabili.
La batteria di test somministrati era molto complessa e comprendeva domande sul
lessico, giudizi di valore sulla vita sull'isola, lettura di brani e tentativi di provocare
campioni di linguaggio spontaneo. Per esempio, ai pescatori - che si trovano spesso
in situazioni rischiose - veniva chiesto se avevano mai corso pericolo di vita. Questa
domanda provocava racconti molto concitati che potevano essere ritenuti molto
vicini al linguaggio spontaneo (alcune «spie» esterne, come l'aumento della velocità
di respirazione, risate nervose, ecc., sembravano confermare la spontaneità di questi
brani di parlato). Il questionario fu sottoposto, come s'è detto, a diversi gruppi sociali
(addetti alla pesca, all'agricoltura, al commercio, professionisti, casalinghe, studenti)
ed ai diversi gruppi etnici presenti sull'isola (anglofoni, portoghesi, indiani).
Si consideri ora il triangolo in (3) e si focalizzi lo «spazio fonetico» tra [a] e [a].
Anzi lo si «ingrandisca» e si attribuisca ad ogni segmento di questo spazio un valore
numerico, come qui sotto:

(4) a 5
4
3
2
1
a 0
Ogni parlante può realizzare la /a/ più o meno «centralizzata»: se dice [a] la centra-
lizzazione è zero, se dice [a] la centralizzazione è 5. Dato che la distanza fonetica tra
SOCIOLINGUISTICA
E DIALITTOLOGIA 233

[a] e [a] non è molto grande - almeno per l'orecchio umano - si è semplificato nel
modo seguente:

Sono ora disponibili 3 gradi: centralizzazione 0 (=nessuna centralizzazione o solo


casuale), centralizzazione 1 (=un po' di centralizzazione), centralizzazione 2 (= cen-
tralizzazione massima).
Ci si accorse poi che i vari contesti linguistici possono influenzare il fenomeno della
centralizzazione:
(6) o 1 2
(aj) right ♦♦ ♦♦♦♦ ♦♦♦♦♦♦ su 100 occorrenze
white ♦
like ♦♦
time ♦♦

Per quel che riguarda la centralizzazione di [a] nel dittongo [aj] (ma lo stesso
discorso vale anche per [a] in [aw]), si constatò che una [t] seguente favorisce la
centralizzazione, così come la favoriscono i suoni [h], [I], [r] seguenti, un suono [k]
seguente sembra essere piuttosto neutrale, mentre un suono come [m] sfavorisce la
centralizzazione. Quindi, in parole come right,light ci si aspetta molta centralizzazione
(pronunciate cioè [rajt, lajt]).
Si ricordi che solo quando viene assegnato un significato sociale alle variazioni lingui-
stiche tali variazioni iniziano ad essere imitate (o evitate) e a svolgere un certo ruolo
nella lingua. Si ricordi ancora che non tutte le variazioni hanno significato sociale. Si
noti infine che questo metodo consente di definire il grado di «centralizzazione» di
ogni individuo intervistato. È dunque possibile definire anche il grado di centraliz-
zazione di un gruppo sociale, dei maschi rispetto alle femmine, dei giovani rispetto
agli anziani, dei pescatori rispetto agli impiegati, ecc.
I dati (incrociati) mostrarono senza ombra di dubbio che i «portatori» del massimo
grado di centralizzazione erano i «pescatori» «maschi» di circa «35 anni». Questo
gruppo di persone condivideva un giudizio di valore positivo nei confronti dell'isola
(a 35 anni in genere i pescatori intervistati non ritenevano di dover cambiare vita, si
identificavano con i valori dell'isola e li volevano difendere). In più questo gruppo
esprimeva anche una forte avversione alle incursioni estive degli yankees e alla sem-
pre più marcata dipendenza dell'isola da un'economia del turismo. Ecco dunque il
«significato» della centralizzazione: identificazione del gruppo dei «nativi» dell'isola
ed avversione agli «estranei». Una tabella relativa al comportamento dei vari gruppi
etnici presenti sull'isola è la seguente (i dati numerici esprimono il grado di centra-
lizzazione di ogni gruppo):
(7) inglesi portoghesi indiani
età [aj] [aw] [aj] [aw] [aj] [aw]
oltre i 60 36 34 26 26 32 40
46-60 85 63 37 59 71 100
31-45 108 109 73 83 80 133
sotto i 30 35 31 34 52 47 88
tutte le età 67 60 42 54 56 90
234 CAPITOLO9

Come si vede molto chiaramente, se si considera solo il gruppo inglese, la centraliz-


zazione è più marcata nel gruppo di età tra i 31 e i 45 anni. I portoghesi imitano gli
inglesi e gli indiani addirittura estendono l'applicazione della regola.
In conclusione, la centralizzazione a Martha's Vineyard è l'espressione di una forte
resistenza contro le invasioni estive degli americani continentali e contro le conse-
guenze economiche che ne derivavano all'isola. Centralizzare significa «appartenere
all'isola», e difenderne i valori.
Il fatto metodologicamente rilevante di questa ricerca è, come si è già detto, che si
possono così misurare - quantificandoli nei dettagli - dei fenomeni relativi ad indi-
vidui, oppure relativi a livelli di età, a gruppi occupazionali (pescatori versus agri-
coltori), a sesso, ecc. Questo reticolo di informazioni fa apparire molto chiaramente
la stratificazione sociale ed in effetti queste ricerche furono ripetute in situazioni
sociali diverse come ad esempio tra i gruppi di emarginati, nei grandi magazzini di
New York City, ecc.
Questa corrente di sociolinguisticaha prodotto una serie di risultati notevoli, definendo
il comportamento linguistico di vari gruppi sociali, degli uomini rispetto alle donne,
facendo emergere l'importanza della variazione stilistica, il ruolo dell'ipercorretti-
smo, le modalità della nascita di un cambiamento linguistico e della sua diffusione.
All'interno di questo quadro si è sviluppata la nozione di regola variabile,regole
cioè che si applicano con maggior o minor probabilità col variare di date circostanze
linguistiche o extralinguistiche (come ad esempio la contrazione e la cancellazione
della copula nel Black English, quella varietà dell'inglese parlata dai neri di basso ceto
nelle metropoli statunitensi).

2.2. Comunità linguistica

Punti importanti di un approccio sociolinguistico sono le nozioni di comu-


nità linguistica, di repertorio linguistico, e di competenza comunicativa. Una
definizione intuitivamente semplice di comunità linguistica è la seguente:
l'insieme di tutte le persone che parlano una determinata lingua. Ma come
molte delle nozioni intuitivamente semplici, anche questa nozione è sfuggente.
C'è chi ritiene opportuno aggiungere un riferimento all'uso e chi oltre a «lin-
gua» aggiungerebbe «varietà linguistica» e dunque la definizione suonerebbe
così: una comunità linguistica è l'insieme di tutte le persone che parlano una
determinata lingua o varietà linguistica e ne condividono le norme d'uso. C'è
ancora chi ritiene che siano parte centrale della nozione di comunità linguistica
anche gli «atteggiamenti» sociali nei confronti della lingua.
È importante osservare che da un punto di vista sociolinguistico, ovviamente,
la comunità linguistica non è vista come «omogenea», è anzi considerata come
stratificata. La diversità linguistica «serve» funzioni comunicative importanti
in quanto segnala gli atteggiamenti dei parlanti e fornisce informazioni sulle
identità sociali dei parlanti.
SOCIOLINGUISTICAE DIALETTOLOGIA 235

2.3. Repertorio linguistico

Di questa nozione si è già parlato - anche se implicitamente - nel paragrafo


II.9. Il repertorio linguistico è l'insieme dei codici e delle varietà che un
parlante è in grado di padroneggiare all'interno del repertorio linguistico più
ampio della comunità cui appartiene. Classi sociali diverse hanno, ovviamente,
repertori linguistici diversi. Un parlante dell'alta borghesia, ad esempio, padro-
neggerà almeno l'italiano standard (formale ed informale), l'italiano regionale
e quello colloquiale, un contadino che vive in zone isolate padroneggerà il
dialetto locale, forse il dialetto urbano e qualche forma di italiano colloquiale.
A questo proposito si è parlato anche di «codice elaborato» e di «codice
ristretto» (nozioni che non hanno mancato di sollevare molte controversie).
È ovvio che cittadini con repertori linguistici più ampi hanno accesso ad un
maggior numero di funzioni sociali e che, per contro, poter disporre solo di
una varietà locale limita fortemente le possibilità comunicative, di scambio
e di crescita sociale.
Quando un parlante dispone di più varietà è facile che passi dall'una ali'altra.
Vi sono diversi fattori che inducono i parlanti a passare da una varietà ad un'al-
tra (il ruolo sociale dell'interlocutore, l'argomento, la situazione comunicativa):
questi passaggi sono chiamati code switching ('commutazione di codice').

2.4. Competenza comunicativa

La competenza comunicativa riguarda la capacità che i parlanti hanno di


utilizzare la lingua nei modi che sono appropriati alle varie situazioni. Questa
nozione va oltre la nozione di competenza linguistica che riguarda conoscenze
esclusivamente linguistiche. La competenza comunicativa non è un fatto
«sociale» come la langue, ma individuale; non riguarda le conoscenze delle
strutture linguistiche, bensì l'appropriatezza del loro uso nelle situazioni
comunicative, che nelle società evolute possono essere molto diversificate
(quando si parla e quando si tace, di che cosa si parla e con chi, quando,
dove e in che modo).
Si pensi ad uno/a studente/essa universitario/a di una grande città: interagi-
sce con i genitori, con i propri compagni, con i professori, con gli addetti ai
laboratori o alle biblioteche, con il/la proprio/a fidanzato/a, con gli istruttori
di una palestra, con gli inservienti di un ristorante, con i compagni della sera,
ecc. Se poi lo/a studente/essa in questione proviene da una regione italiana
diversa da quella dove compie gli studi universitari, interagirà a periodi con
genitori, parenti ed amici in dialetto ed ancora, se ha accesso a Internet e alla
posta elettronica, interagirà in rete probabilmente usando l'inglese con un
numero indefinito di interlocutori. Ebbene, in tutte queste situazioni il parlante
in questione, oltre a cambiare lingua, dovrà cambiare «stile» ed adattarlo alla
situazione, e se ai propri nonni si rivolge con il Voi, al proprio professore si
236 CAPITOLO9

rivolgerà con il Lei, ai propri compagni di studio con il Tu. Se questo/a stu-
dente/essa fosse pugliese e vivesse in una città del nord, dovrebbe ridefinire la
norma che in Puglia rende del tutto accettabile un saluto come Ciaosignora,
dato che il saluto ciao al nord implica il tu e l'appellativo signoraimplica il
Lei. Se questo/a studente/essa poi entra in contatto con studenti stranieri che
non conoscono perfettamente l'italiano, cercherà di semplificare la propria
lingua in modo da farsi capire (ed è accertato che i modi di semplificazione
di una lingua sono piuttosto sistematici e non casuali).
La competenza comunicativa va oltre la capacità di usare un codice adatto
alla situazione: essa regola tutti gli aspetti extralinguistici (sociali, culturali
e pragmatici) implicati nello scambio verbale e forma un tutt'uno con tutti
gli altri codici del comportamento comunicativo (ivi compresi il linguaggio
gestuale e la mimica facciale).

2.5. Funzione di presentazione•

Quando parliamo, abbiamo prevalentemente l'intenzione di comunicare con il nostro


interlocutore. Ma accanto a questa funzione che - come abbiamo visto nel capitolo
Il- è stata chiamata di «rappresentazione», ve n'è un'altra, della quale siamo in genere
meno consapevoli, ed è quella di «presentazione». Parlando, noi «presentiamo» noi
stessi, diamo - senza esserne consapevoli- un gran numero di informazioni su di noi.
La più ovvia è che riveliamo il nostro sesso, ma anche la nostra età. Ma vi sono molte
«spie» che rimandano alla nostra provenienza geografica. La stessa frase (vadoa casa
a vederese mio padre è tornato)sarà realizzata in modi sensibilmente diversi da un
toscano, da un milanese o da un napoletano.
Oltre a questo riveliamo anche - almeno in parte - il nostro livello di istruzione e forse
il posto che occupiamo nella scala sociale, se siamo in buona salute, se siamo ansiosi
o semplicemente raffreddati (un forte raffreddore può trasformare le nostre [n] in
[d]). Riveliamo ancora la nostra padronanza della lingua: vi sono infatti pronunce
più accurate e pronunce più sciatte, più lente e più veloci. Vi sono toni fermi ed altri
più dubitativi, vi sono pronunce sguaiate o - all'estremo opposto - tanto accurate da
essere affettate: possiamo essere più o meno assertivi, padroni di noi o timorosi del
contesto. pesso ci vogliamo «mimetizzare» nella comunità linguistica e questo può
riuscire come non riuscire (capita spesso in Emilia, ad esempio, di sentire la tipica
cadenza emiliana ma una pronuncia dei singoli suoni tipicamente «meridionale»).
Di tutti questi fatti siamo scarsamente consapevoli, ma sono «informazioni» (linguisti-
che e non) su di noi che trasmettiamo all'interlocutore attraverso le nostre esecuzioni
linguistiche.

3. SOCIOLOGIA
DELLINGUAGGIO
Accanto alla sociolinguistica intesa in senso stretto ed esemplificata dalla
ricerca condotta a Martha's Vineyard, vi è la «sociologia del linguaggio» (che
forse sarebbe meglio chiamare «sociologia delle lingue»), che si occupa di
problemi su più larga scala e con maggiore attenzione rivolta alla società (la
sociolinguistica è una scienza più linguistica che sociale), come ad esempio
SOCIOLINGUISTICAE DIALETTOLOGIA 237

tutte le pianificazioni linguistiche, strategie di politica linguistica (per es.


favorire o meno il bilinguismo di una determinata area), atteggiamenti verso
le lingue minoritarie parlate in un paese, riforme ortografiche, contenuti
degli insegnamenti linguistici nelle scuole e nelle università, la morte delle
lingue, ecc. Mentre la sociolinguistica è stata definita «lo studio della lingua
in rapporto con la società», la sociologia del linguaggio è stata definita come
«lo studio della società in rapporto con la lingua».
Un problema particolarmente attuale di sociologia del linguaggio potrebbe, ad
esempio, essere il seguente: quale o quali debbono essere le lingue della nuova
Europa comunitaria? Se si dovesse decidere, ad esempio, che sarà il tedesco,
allora le sedi istituzionalmente a ciò preposte dovrebbero preoccuparsi di
stanziare fondi per l'insegnamento del tedesco obbligatorio, per i programmi
televisivi, per la realizzazione di repertori linguistici, grammatiche, dizionari,
traduzioni con testi a fronte, ecc.
Se - come invece pare più probabile - in Europa si prenderà la strada di
favorire il plurilinguismo passivo (situazione in cui ognuno parla la propria
lingua e ognuno sarà allenato a «capire» la lingua degli altri, un po' come può
già succedere tra italiani e spagnoli), allora i finanziamenti e le varie attività
realizzative andranno in altre direzioni.
Anche la messa a punto di un'ortografia per una lingua che prima era solo
orale è un problema di sociologia del linguaggio: per esempio - come ci è
già capitato di accennare - in Somalia la grafia fu introdotta nel 1972. Come
è ovvio, non si tratta di problemi semplici. Nel caso della Somalia, per
esempio, si dovette risolvere la questione su quale avrebbe dovuto essere il
sistema di scrittura da preferire: quello arabo o quello latino? L'introduzione
di quest'ultimo fu, a buon diritto, ritenuta una scelta vantaggiosa per l'Italia
che aveva intensi rapporti economici, commerciali e scientifico-didattici con
la Somalia.

4. ETNOGRAFIADELLACOMUNICAZIONE

L'etnografia della comunicazione può essere intesa come una sottodisciplina


della sociolinguistica nel senso che si occupa di un particolare tipo di relazione
tra linguaggio e società. Il linguaggio viene considerato come uno dei sistemi
simbolici di una società ed anche come strumento di trasmissione e mante-
nimento degli schemi sociali. Alia base dell'etnografia della comunicazione
vi è dunque l'ipotesi che l'interazione verbale sia il «luogo» principale della
trasmissione degli schemi culturali e pertanto questa disciplina studia l'uso
del linguaggio nelle interazioni verbali della vita quotidiana di date comunità
linguistiche. Le domande che un etnografo della comunicazione si pone sono
di questo tipo: qual è il significato di quella interazione linguistica in quel
dato caso? che rapporto c'è tra quelle due date interazioni?
Temi tipici dell'etnografia della comunicazione possono essere di questa
natura: come si distribuiscono i turni conversazionali in un gruppo? Chi e
238 CAPITOLO9

come chiude una conversazione? Che cosa rappresenta il «silenzio»? Come


si presentano le scuse, come si esprime l'accordo o il disaccordo, ecc.

4.1. I pronomi del potere e della solidarietà*

Il potere cliuna persona su un'altra (per funzioni sociali - datore clilavoro, genitori o
anziani- ma anche per ricchezza o forza fisica) implica una relazione asimmetrica. Le
lingue possono esprimere questa asimmetria con i pronomidi cortesia(Lei/voi, vous,
Usted, Sie, ecc. =V) clicontro ai pronomidella solidarietà(tu, toi, tu, du, ecc. =T).
Vi sono relazioni asimmetriche dove un parlante usa il V e l'altro risponde con il T,
ma vi sono relazioni simmetriche dove i parlanti usano reciprocamente il T o il V
[Brown e Gilman 2000].
Se i parlanti usano T si tratta cliuna relazione - clinorma - simmetrica e solidale, se
usano il V si tratta cliuna relazione - clinorma - simmetrica ma non solidale.
Fino ad un certo momento ha prevalso nel Novecento una semantica asimmetrica
(8a) che è poi stata sostituita, in un quadro clidemocratizzazione dei rapporti sociali,
con una semantica della reciprocità (86):

(8) a. cliente ufficiale datore clilavoro genitore


..
rlv iv rlv Ìv rlv iv r! T:V
camenere soldato impiegato figlio

b. cliente ufficiale datore clilavoro genitore

!v
cameriere
!v
soldato
lv
impiegato
r!
figlio

Il sistema è oggi ancora in evoluzione (nei negozi climedio livello della penisola italiana
si sta sempre più diffondendo l'uso del T verso il cliente) ed è marcatamente diverso
da paese a paese (per esempio in Olanda vi sono ambienti - come l'università - dove
la regola è che tutti danno del T a tutti).
Sono anche molto interessanti le modalità per il passaggio dal V al T (è la persona con
status sociale più alto che «propone» il passaggio). Vi può essere un periodo interme-
dio di «imbarazzo» che consiglia alla persona con status sociale meno elevato l'uso
cliespressioni impersonali o ambigue tra il T ed il V e l'adozione cliforme clisaluto
intermedie come salve dato che ciaoimplica decisamente il T e buongiornoimplica il
V.L'uso del titolo professionale (professore,dottore,ingegnere)è clisolito solidale con
l'uso del V mentre l'uso del nome proprio (a parte qualche situazione particolare) è cli
solito solidale con l'uso del T. In Italia, ci si rivolge abitualmente agli immigrati con il
Te questo è spesso espressione clirazzismo, ma in alcuni casi può anche corrispondere
all'intenzione di adottare un sistema pronominale (e soprattutto - cliconseguenza -
verbale) semplificato (in questo caso, l'uso del T e cliun'unica morfologia verbale
rientrerebbe nell'ambito del cosiddetto /oreigner talk, cioè quel sistema semplificato
che adottiamo quando parliamo con chi padroneggia male la nostra lingua).
SOCIOLINGUISTICA E DIALITTOLOGIA 239

5. LINGUAE DIALETTO

Anche la questione dei criteri per distinguere tra dialetto e lingua è di quelle
da lungo tempo dibattute e mai risolte in modo soddisfacente. Il problema è il
seguente: date due varietà X e Y, come facciamo a stabilire se sono due varietà
diverse di una stessa lingua o due lingue diverse? Alcuni criteri proposti per
stabilire se X e Y sono due varietà diverse di una stessa lingua sono i seguenti:

a) di tipo «diacronico» e cioè se la parlata in questione, X, deriva dalla stessa


lingua da cui deriva Y;
b) comprensione reciproca;
e) criterio lessico-statistico: se X e Y condividono all'incirca 1'80% del lessico
allora sono varietà linguistiche di una sola lingua e non due lingue diverse;
d) come e) ma misurato su altri livelli linguistici, come ad es. la morfologia;
e) presenza o meno di una letteratura.

Inutile dire che questi criteri non danno sempre delle soluzioni univoche ed è
facile aggiungere altri criteri (ad es. il volume di scambi linguistici, la presenza
o assenza di strumenti normativi come dizionari e grammatiche, ecc.). In Italia,
ad esempio, ci sono diverse varietà che da sempre hanno aspirato (sulla base
soprattutto di criteri «interni», cioè linguistici) allo status di lingua, tra queste
il friulano e il sardo. Se accanto alle considerazioni strettamente linguistiche
aggiungiamo altri criteri di carattere sociolinguistico come i seguenti:
a) sovraregionalità
b) la varietà è parlata da ceti medio-alti
e) la varietà è scritta e codificata in base ad un corpus riconosciuto di opere
di riferimento
allora ne dovremmo concludere che sardo e friulano non sono «lingue», dato
che non superano questi ultimi tre test.
Per quel che riguarda la situazione linguistica italiana, si faccia attenzione
al fatto che l'espressione «l'italiano e i "suoi" dialetti» non è propriamente
corretta perché l'italiano di oggi non è che un dialetto (il toscano) assurto -
per varie vicende politiche, sociali, economiche, letterarie - a ruolo di lingua
nazionale: i dialetti italiani (emiliano, lombardo, abruzzese, pugliese, ecc.)
sono varietà «sorelle» tra di loro e sorelle con il toscano, discendendo tutte
da un'unica lingua madre, il latino:

(9) latino
~
emiliano toscano pugliese
I
italiano standard

Si notino ancora due fatti importanti a questo proposito. Il primo è che l'i-
taliano contemporaneo deriva sì dal toscano, ma nella sua forma scritta non
240 CAPITOLO9

nella sua forma parlata (per es. l'italiano non ha un fenomeno così tipico del
toscano come la cosiddetta gorgia toscana, v. IX.6.).
In secondo luogo, la differenza tra lingua e dialetto non è una differenza «di
sistema»: le lingue e i dialetti sono sistemi linguistici a tutti gli effetti: ogni
dialetto ha un sistema fonologico, morfologico, sintattico (quindi non è vero
che i dialetti non hanno grammatica come capita di sentir dire). La differenza
potrebbe consistere nella ricchezza lessicale, ma si noti che ogni sistema lin-
guistico ha in se stesso la possibilità di ampliare il proprio lessico attraverso
molte vie, come si è visto nel capitolo V.

5.1. Dialettologia e geografia linguistica

La dialettologia è lo studio dei dialetti ed ha avuto storicamente due aspetti


principali: la dialettologia diacronica e la geografia linguistica. La dialettologia
diacronica è lo studio, per esempio, dell'evoluzione dal latino ad un determi-
nato dialetto dell'area romanza. Di maggior interesse si è rivelato il metodo
legato alla geografia linguistica che ha prodotto strumenti di studio di grande
importanza, gli atlanti linguistici. Si immagini di condurre delle inchieste in
una serie di aree strategicamente predefinite. Si immagini ancora che una
delle domande agli informati sia «come si dice tetto nel suo dialetto?». Se
ora riportiamo su una carta di Italia le risposte degli informanti avremo la
distribuzione dialettale della parola tetto in tutt'Italia: tetto si dice kuwiart
in friulano, al kwert in area lombarda, sa kobertura in Sardegna, il tetto in
Toscana, cerami/i o kuvertura in Calabria, u tettu in siciliano. L'atlante più
famoso è quello di Jules Gilliéron, Atlas linguistique de la France, la cui pub-
blicazione durò dal 1902 al 1912. Diversi altri atlanti seguirono ed ebbero
importanza decisiva per una miglior comprensione delle leggi fonetiche (v.
X.2.) perché si constatò che gli esiti linguistici non si distribuiscono in modo
regolare e meccanico e che i confini dialettali non sono netti ma rivelano
ampie zone di transizione.

6. DIALEffi IN ITALIA

Una delle prime classificazioni dei dialetti di Italia la si deve a Dante, il quale
nel De Vulgari Eloquentia individuò quattordici dialetti («volgari» nella
sua terminologia) divisi grosso modo dalla linea appenninica: sette ad est
e sette ad ovest. Dante però fu in grado di rilevare anche differenze molto
sottili, sottolineando non solo la differenza tra il ravennate e il faentino o tra
il ferrarese e il piacentino, ma individuando anche differenze tra varietà di
bolognese parlato in località diverse della stessa città, nei pressi di «Borgo San
Felice» e nei pressi di «Strada Maggiore». Anche le classificazioni dialettali
contemporanee sono di tipo «geografico», ma mentre Dante divideva l'Italia
SOCIOLINGUISTICAE DIALETTOLOGIA 241

longitudinalmente, oggi la divisione geografica è tra nord, centro e sud e si


distingue pertanto tra dialetti settentrionali, toscani e centro-meridionali.
I dialetti settentrionali comprendono i dialetti gallo-italici (piemontesi, lom-
bardi, liguri, emiliano-romagnoli, che comprendono anche la Repubblica di
San Marino e buona parte del pesarese) e i dialetti veneti (trentino orientale,
veneziano-trevigiano, veronese, padovano-vicentino-rovigotto, feltrino-
bellunese, triestino e istro-veneto). Ha una posizione a sé il toscano. I dialetti
centro-meridionali sono l'umbro-marchigiano centrale, l'abruzzese-molisano,
il romanesco e l'aquilano, il pugliese settentrionale e il materano, il campano,
il calabrese settentrionale e il potentino; quelli meridionali estremi sono il
salentino (provincia di Lecce), il calabrese meridionale e il siciliano.
Di fondamentale importanza è la storica linea La Spezia-Rimini (ora in realtà
Massa-Senigallia, data la crescente diffusione verso sud di tratti settentrionali
lungo le coste) che divide i dialetti italiani settentrionali da quelli centro-
meridionali. Vi sono fenomeni linguistici che si ritrovano quasi esclusivamente
a nord di questa linea ed altri fenomeni che si ritrovano quasi esclusivamente
a sud. Tra i primi, elenchiamo:

• lo scempiamento delle consonanti lunghe: lat. ANNUM'anno'> piem. lomb.


emil. [an], venez. [ano];
• il passaggio del nesso latino CL a [tJ]: lat. CLAMARE'chiamare' > piem.
[tJa'me], lig. [tJa'ma], emil. [tJa'mcr];
• la sonorizzazione (detta anche «lenizione») delle sorde intervocaliche: lat.
FRATELLUM 'fratello'> lomb. [fra'dd];
• l'esistenza di vocali cosiddette turbate o «anteriori arrotondate», partico-
larmente evidente nei dialetti occidentali, come [y]: lomb. ['lyna] 'luna', tor.
[myr] 'muro';
• la palatalizzazione di [a] in [e], particolarmente evidente nei dialetti emi-
liani: lat. SALE'sale' > [selJ;
• la tendenza delle parole ad uscire in consonante a causa della caduta delle
vocali finali del latino;
• la tendenza ali'apocope, vale a dire alla cancellazione di vocali atone pre- e
postoniche latine: lat. PERICOLARE'correre pericolo'> emil. [pri'gh::r].

Fenomeni invece che si ritrovano a sud della linea La Spezia-Rimini sono:

• il raddoppiamento sintattico ([ak 'kasa]);


• la pronuncia sorda della sibilante intervocalica (['kasa]);
• la metafonesi (v. IV.8.1.): in certi dialetti meridionali il plurale di [fjore]
è [fjuri], vi è dunque un passaggio di [o] ad [u] (cioè il passaggio da una
vocale media ad una vocale alta) causato dal cambiamento morfologico della
desinenza [e] - vocale media - del singolare nella desinenza [i] - vocale
alta - del plurale;
• l'assimilazione totale progressiva del nesso consonantico ND in [nn] MUN-
DUM 'mondo'> ['monno];
• posposizione del possessivo: ['fratama] 'mio fratello'.
242 CAPITOLO9

--
Legenda:

Franco-provenzale
Provenzale

-
D
D
Toscano
Mediano

-
D Gallo-italico D Meridionale intermedio
Veneto Meridionale estremo
Friulano Sassarese-gallurese
Tedesco D Logudorese-campidanese
Ladino

fig. 9.1. Leprincipali areedialettali in Italia (nonsonorappresentatele isolealloglotte).


E DIALETTOLOGIA243
SOCIOLINGUISTICA

È owio che questi dialetti presentano caratteristiche comuni ma anche molto


diversificate: per esempio, i dialetti marchigiani e laziali non hanno la vocale
indistinta [a] come ad es. napoletano ['jamma] 'andiamo'.
Il toscano presenta anch'esso alcuni tratti tipici come il passaggio da [tJ] a
[J] e da [d3] a [3] in posizione intervocalica (cfr. [laJena] invece di [la tfena]
e [la 3ente] invece di [la d3ente]) e la cosiddetta «gorgia toscana», cioè l'in-
debolimento con passaggio a fricative delle occlusive sorde [p], [t], [k] in
posizione intervocalica, ad es. [identifi'kato] realizzato come [identifi'hato],
[la kasa] realizzato come [la hasa].
Un quadro molto illuminante della diversificazione dialettale in Italia è fornito
da Grassi, Sobrero e Telmon [1999, 107] con tavole come la seguente:

(10) latino NOCTEM LACTEM FACTUM


toscano n;,tte latte fatto
siciliano mtti latti fattu
napoletano notta latta fatta
emiliano n;,t lat far
veneto n;,te late fato

Da questa tabella emerge come lo stesso nesso consonantico latino (CT)abbia


esiti diversi a seconda del «dialetto»: può dar luogo ad una assimilazione (to-
scano, siciliano, napoletano) con successivo «scempiamento» come in veneto.
In Italia si parlano anche un certo numero di lingue «straniere» (alloglossia)
come francese e franco-provenzale (per es. in Valle d'Aosta ed in diverse valli
piemontesi), catalano (ad Alghero), sloveno (nel Friuli orientale) e croato (in al-
cune località del Molise), tedesco (in Alto Adige e in alcune altre località lungo
l'arco alpino), albanese (in vari paesi di tutte le regioni centro-meridionali,
compresa la Sicilia), greco (in Puglia ed in Calabria), ed altre ancora che sono
il risultato delle immigrazioni recenti, come cinese, arabo, ecc.

7. BILINGUISMO
E DIGLOSSIA

In una stessa area possono essere presenti due varietà linguistiche. A seconda
del rapporto tra queste due varietà si parlerà di bilinguismo o di diglossia. Si
ha una situazione di bilinguismo quando tutti i parlanti padroneggiano le due
varietà. Si ha una situazione di diglossia quando le due varietà sono usate in
modo complementare e una varietà ha uno statuto socioculturale più «alto»
e l'altra uno statuto più «basso».
Se applichiamo all'Italia queste definizioni (ed in particolare alle varietà ita-
liano/ dialetto) le situazioni possono «incrociarsi» per dare quattro possibilità
[Fishman 1972]:

• bilinguismo con diglossia: competenza sia dell'italiano che del dialetto


ma divisione degli ambiti funzionali di italiano e dialetto (per es. in Veneto);
244 CAPITOLO9

• diglossia senza bilinguismo: competenza dell'italiano limitata alle classi so-


ciali «alte» e per il resto diffusione generalizzata del dialetto (situazione tipica
di tutta l'Italia post-unitaria e ancora oggi delle zone depresse). I sistemi di
questo tipo sono instabili e destinati ad avere problemi linguistici non appena
entrino in un quadro di modernizzazione e di democratizzazione;
• bilinguismo senza diglossia: competenza di italiano e dialetto senza che gli
ambiti funzionali delle due varietà siano del tutto differenziati (aree metro-
politane, meta di grandi correnti di immigrazione);
• né bilinguismo né diglossia: questa situazione non sembra darsi se non in
comunità minuscole ed isolate con differenziazioni sociali pressoché nulle.
Ma Fishman osserva che una tale situazione è più facile a immaginarsi che
a trovarsi perché tutte le società prevedono cerimonie politiche o religiose
con accesso ristretto e lingue o varietà linguistiche specifiche, e che fattori
come esogamia, guerra, sviluppo economico, ecc. portano necessariamente
a diversificazioni interne.

In sostanza, bilinguismo e diglossia esistono dovunque vi sono comunità


linguistiche in cui i parlanti svolgono una certa varietà di ruoli e dunque in
tutte le società complesse (in Grecia fino al 1974 coesistevano una varietà
«alta», detta katharevousa 'pura', e una varietà «bassa», detta dhimotiki 'po-
polare', ora quest'ultima ha ufficialmente soppiantato la prima; nel mondo
arabo, l'arabo classico si oppone all'arabo colloquiale; in Svizzera il tedesco
standard si oppone al cosiddetto Schwyzertutsch). D'altra parte il bilinguismo
è specifico della versatilità individuale mentre la diglossia ha a che fare con
una distribuzione sociale delle diverse varietà utilizzate.

8. LINGUE PIDGIN E LINGUE CREOLE*

Si immagini la seguente situazione: una compagnia inglese deve costruire un ponte


in un villaggio dell'Africa. Ingegneri, progettisti, capimastri inglesi debbono quindi
comunicare con le maestranze locali. Le soluzioni possibili sono le seguenti: o inglesi
e locali adottano una lingua franca comune (una lingua che non è la lingua nativa
di nessuno dei due gruppi) o si adotta una sorta di plurilinguismo passivo (ognuno
parla la propria lingua) o sorge una lingua pidgin. Una lingua pidgin è una lingua
occasionale che nasce tra due gruppi che debbono comunicare e che non hanno una
lingua comune. Tali lingue, che hanno finalità per lo più strumentale, derivano da
una mescolanza di elementi indigeni e della lingua «sovraimposta» (in genere inglese,
francese, olandese, spagnolo, portoghese), modificati da forti fenomeni di semplifica-
zione che caratterizzano le fasi iniziali di ogni acquisizione di lingue.
Dato che tali lingue hanno un ambito ristretto di funzioni a confronto con le lingue
naturali (principalmente funzioni direttive o referenziali ma certamente non espressive,
metalinguistiche o di coesione sociale), ne risultano dei codici molto semplificati: il
lessico è ridotto (la sinonimia ad esempio è funzionale solo in presenza di variazioni
stilistiche con significato sociale), dalla sintassi vengono eliminate le frasi subordinate e
si privilegia la paratassi con un ordine delle parole che tende ad essere fisso. Mancano
anche molte parole funzionali come la copula e i pronomi non personali. La morfologia
subisce riduzioni: vengono eliminate le flessioni e la variazione allomorfica, il numero
E DIALETTOLOGIA 245
SOCIOLINGUISTICA

e il genere. Dal punto di vista fonologico, infine, si privilegiano parole monosillabiche


con struttura CV o bisillabiche con struttura CVCV.
Molti dei pidgin si estinguono con la fine dei rapporti di lavoro che li hanno fatti
emergere. Se però i rapporti di lavoro o commerciali si estendono nel tempo e vi è
una nuova generazione che ha come lingua madre quel pidgin, allora si assiste alla
formazione di una lingua creola. In questo caso succede che il pidgin dovrà rispondere
ad un'allargata serie di necessità comunicative (esprimere coesione sociale, emotività,
ecc.). L'afrikaans parlato in Sud Africa da tre milioni di persone è un esempio di lingua
creola a base olandese.
Si calcola che le lingue creole siano parlate da circa venti milioni di persone nel mondo.
Il gruppo più ampio è quello delle lingue creole a base francese (13 milioni): si parlano
varietà creole a base francese a Haiti, nelle Antille (Guadalupa, Martinica, Trinidad,
Santa Lucia, Dominica) e nell'Oceano Indiano (nelle isole di Reunion, Maurizio
e Seychelles). Le lingue creole a base inglese sono parlate nell'Africa occidentale
(Sierra Leone, Liberia, Gambia) e nelle Antille (Bermude, Bahamas, Giamaica, coste
dell'Honduras, Grenada, San Vincenzo, Isole Vergini, Trinidad, Barbados, ecc.).
Il ciclo pidgin-creolo può avere una continuazione in quello che è stato chiamato il
continuum post-creolo, e cioè quando il creolo va verso la fusione con una lingua
standard. Un caso estremo di continuum post-creolo è quello della parlata degli
afro-americani degli Stati Uniti (A/roamericanVernacular Englisho Ebonics)che nelle
sue varietà urbane si è molto awicinata all'americano standard, da cui si differenzia
soprattutto nel sistema verbale, che privilegia l'aspetto sul tempo, e in alcune sem-
plificazioni fonologiche.
In alcuni casi, forme di pidgin si stabilizzano anche senza diventare lingue materne
quando siano utili in situazioni di multilinguismo: varie forme di pidgin inglese sono
diffuse in Africa occidentale (almeno 10 milioni solo in Nigeria, Ghana, Camerun) e
in Oceania (il tok pisin, ingl. talk pidgin, è lingua ufficiale di Papua- uova Guinea,
delle isole Vanuatu e delle Salomone). Un certo livello di ristrutturazione hanno le
varietà di inglese parlato come lingua seconda dalle persone poco istruite in molti stati
del Commonwealth (il caso più importante è quello dell'anglo-indiano, con almeno
60 milioni di parlanti).
Lingue pidgin e lingue creole sono state a lungo considerate lingue marginali o dege-
nerate. Solo più recentemente si è capito che lo studio di queste varietà è di grande
importanza per la stessa teoria del linguaggio e pone questioni niente affatto banali:
ad esempio, come mai le lingue pidgin/creole hanno affinità strutturali così forti fra
di loro indipendentemente dalla loro origine? Come si concilia il fatto che accanto a
sistemi relativamente definiti esistono sistemi (come appunto le lingue pidgin/creole)
per i quali bisogna ammettere una certa non sistematicità? L'acquisizione di una lingua
pidgin risponde agli stessi meccanismi dell'acquisizione della prima lingua?
246 CAPITOLO9

NOTA STORICO-BIBLIOGRAFICA

L'importanza dei fatti sociali per lo studio del linguaggio è stata messa in risalto sin dai primi del
Novecento con la scuola francese di Antoine Meillet. Un lavoro che prelude allo sviluppo della
sociolinguistica contemporanea è Weinreich [1953]. Questa disciplina ha ricevuto un impulso
decisivo a partire dagli anni Sessanta con la scuola cosiddetta variazionistica di William Labov
[1972], che ha dato luogo ad una serie innumerevole di importanti lavori sulla stratificazione
sociale del linguaggio. Anche i problemi della nascita dei cambiamenti linguistici e della loro
diffusione tra le varie classi sociali sono stati analizzati minuziosamente. Un buon manuale di
questo tipo di sociolinguistica è Dittmar [1973]. Si vedano anche Berruto [1995] e Hudson
[1996] che affronta anche tematiche sul rapporto tra lingua e cultura. Per lo studio dell'etno-
grafia della comunicazione, si vedano soprattutto Gumperz e Hymes [1972].
La dialettologia italiana scientifica nasce con i lavori di Grazia dio Isaia Ascoli (1829-1907). Un
manuale di dialettologia di solida impostazione storica è Cortelazzo [1969] mentre un punto
di riferimento completo ed aggiornato è Grassi, Sobrero e Telmon [1999]. Per le lingue pidgin
e creole si può vedere ancora Dittmar [1973] oppure Miihlhasler [1986].

DOMANDE

1. Che differenza c'è tra competenza linguistica e competenza comunicativa?


2. In che cosa consiste e che significato ha il fenomeno della centralizzazione di [a] a Martha's
Vineyard descritto da Labov?
3. Che cos'è la funzione di «presentazione»?
4. Che differenza c'è tra lingua e dialetto?
5. Come si suddividono i dialetti in Italia?
6. Conosci qualche fenomeno tipico dei dialetti a sud della linea La Spezia-Rimini?
7. Che cos'è il bilinguismo?
8. Che differenza c'è tra una lingua pidgin e una lingua creola?
CAPITOW 10
Latrasformazione dellelingue:
linguistica
storica

Nel capitolo lii si è detto che due o più lingue fanno parte della stessa famiglia lingui-
stica se derivano da una stessa lingua originaria. In questo capitolo, ci occupiamo della
famiglia indoeuropea. l'origine comune delle lingue indoeuropee è mostrata da una
serie di corrispondenze sistematiche che si riscontrano soprattutto tra i loro sistemi
fonologici e morfologici. L'analisi di queste corrispondenze sistematiche permette di
«ricostruire» la lingua originaria, da cui le varie lingue della famiglia sono derivate per i
mutamenti che hanno subito nel corso del tempo. li tempo è infatti l'agente fondamen-
tale del cambiamento linguistico.

INTRODUZIONE

L'idea che le diverse lingue derivino tutte da un'unica lingua originaria è molto
antica: naturalmente, ad essa doveva anche aggiungersi una spiegazione del
perché l'originaria unità si fosse poi frantumata. Il mito biblico della torre di
Babele (Genesi, 11) è il tentativo più noto di risolvere il problema: la lingua
primitiva dell'umanità sarebbe stata una sola, l'ebraico, cioè la lingua in cui Dio
parlava ad Adamo, e gli uomini avrebbero cominciato a parlare lingue diverse
per effetto della punizione divina lanciata contro il loro blasfemo tentativo di
costruire una torre che giungesse fino al cielo. La spiegazione «babelica» della
diversità linguistica continuò ad essere accettata per molti secoli. Più tardi,
a partire all'incirca dal Rinascimento, furono elaborate ipotesi alternative,
alcune decisamente fantasiose (un erudito del Cinquecento, Goropius Beca-
nus, arrivò a sostenere, in pratica, che il fiammingo era la lingua originaria di
tutte le lingue del mondo), altre, invece, anticipatrici di scoperte successive:
Leibniz, ad esempio, ipotizzò una famiglia di lingue «giapetiche», estesa non
solo all'Europa ma anche a parte dell'Asia, prefigurando così quella che più
tardi verrà chiamata la famiglia linguistica indoeuropea (cfr. III.2.). Tuttavia,
è soltanto con l'inizio dell'Ottocento che lo studio della parentela genealogica
248 CAPITOLO1 0

delle lingue e del loro mutamento attraverso il tempo assume l'aspetto che
lo caratterizza ancora oggi. A questo settore degli studi sul linguaggio viene
dato il nome di linguistica storica (o storico-comparativa).
I principi e i metodi della linguistica storica come si è sviluppata a partire dai
primi decenni dell'Ottocento si distinguono in modo radicale dalle ipotesi
sui rapporti tra lingue che erano state elaborate nelle epoche precedenti.
Anzitutto, essi tengono ben distinti i due problemi delle lingue originarie
da un lato e dell'origine del linguaggio dall'altro, che invece una spiegazione
come quella babelica di fatto unificava (e certamente in questa unificazione
stava una parte del suo fascino): l'origine del linguaggio sta nella creazione
dell'uomo da parte di Dio, che gli dona la sua lingua, l'ebraico, e l'ebraico
è, al tempo stesso, la lingua originaria. Nell'epoca moderna, la spiegazione
biblica venne abbandonata, e la questione dell'origine del linguaggio fu
affrontata da numerosi filosofi partendo da ipotesi radicalmente diverse: ad
esempio, il filosofo francese E.B. de Condillac (1715-1780) ipotizzò che il
linguaggio avesse avuto origine da suoni primitivi (principalmente, grida),
all'inizio espressioni di emozioni, senza alcun valore simbolico, e poi divenuti
segni convenzionali di quelle entità, animate o inanimate, che tali emozioni
avevano prodotto negli esseri umani. Spiegazioni come queste, per quanto
affascinanti, non superarono mai però il livello di congetture, e gli studiosi di
inizio Ottocento che fondarono la linguistica storica nel senso moderno non
si preoccuparono più di spiegare come e perché fossero nati suoni e parole
delle lingue originarie, ma si interessarono unicamente a ricostruirli sulla
base della comparazione delle lingue da esse derivate (v.X.l.). Quanto fosse
diverso l'atteggiamento dei linguisti dell'Ottocento rispetto a quello degli
studiosi dei secoli precedenti lo si può capire molto bene da una decisione
presa dalla Società Linguistica di Parigi all'atto della sua fondazione (1866):
si stabiliva infatti che comunicazioni riguardanti l'origine del linguaggio non
sarebbero state accettate. Il problema dell'origine del linguaggio veniva cioè
considerato irrisolvibile, quindi, di fatto, «ascientifico». on tutti i linguisti,
in realtà, accettarono una conclusione così drastica, e al giorno d'oggi il pro-
blema dell'origine del linguaggio umano è tornato al centro dell'interesse di
molti studiosi, grazie anche al supporto fornito dagli studi di biologia, ed in
particolare di genetica. Una delle assunzioni più comunemente accettate è
che l'origine del linguaggio nella specie umana sia, almeno in parte, dovuta
all'aumento proporzionale del peso del cervello umano rispetto all'intero
peso corporeo durante l'evoluzione di Homo sapiens.Questa ipotesi è stata
contestata da alcuni, sulla base, ad esempio, del fatto che anche i delfini
hanno un cervello di dimensioni paragonabili a quello umano, ma certo non
possiedono un sistema di comunicazione comparabile al linguaggio umano
(su linguaggio umano e «linguaggi.»degli animali cfr. anche sopra, I.2.). Qui
non ci occuperemo ulteriormente della questione. In ogni caso, anche se il
problema dell'origine del linguaggio umano non può essere certo conside-
rato ascientifico, rimane sempre vero che esso va distinto dal problema della
ricostruzione delle lingue originarie. Inoltre, come si è detto in II.10., è bene
STORICA 249
LINGUISTICA

tenere presente che non esistono lingue «più primitive» di altre: anche popo-
lazioni di cultura molto «primitiva», almeno rispetto agli standard occidentali,
come gli indigeni dell'Amazzonia o della Nuova Guinea, parlano lingue
ugualmente complesse come quelle dei popoli di più antica civilizzazione.
Lo stesso vale per le lingue originarie di una determinata famiglia linguistica:
esse sono ricostruite sulla base delle lingue che ne discendono, e quindi non
dimostrano alcun tipo particolare di «primitività».
Un altro tratto che caratterizza la linguistica storica moderna dai suoi pre-
decessori pre-ottocenteschi è la rinuncia a qualunque ipotesi «catastrofista»
per spiegare il mutamento linguistico. Il mito babelico è un esempio tipico di
spiegazione catastrofista: le lingue si sono differenziate per punizione divina.
Ma spiegazioni catastrofiste furono avanzate fino a tempi molto più recenti:
per esempio, un umanista del Quattrocento, Flavio Biondo, sosteneva che
la trasformazione del latino nell'italiano era un effetto delle invasioni barba-
riche dell'Italia (in particolare, di quella longobarda). A quella del Biondo
si opponeva la spiegazione di un altro umanista, Leonardo Bruni: l'italiano
era sempre esistito, era semplicemente la forma di «volgare» parlata dal po-
polo anche in epoca latina. Caratteristica comune di tutte queste posizioni
era comunque assumere la necessità di una causa esterna del mutamento
linguistico. Con una geniale intuizione, invece, Dante aveva già individuato
la causa dei cambiamenti linguistici nel semplice scorrere del tempo: ad
esempio, egli sosteneva, se i pavesi antichi potessero risorgere all'improvviso,
si troverebbero a parlare una lingua molto diversa da quella dei pavesi mo-
derni (De vulgari eloquentia, libro I, cap. IX). La linguistica storica assume
una posizione analoga a quella dantesca: il tempo in se stesso è sufficiente a
produrre il mutamento linguistico (questo non significa, naturalmente, che
eventi catastrofici, come una conquista o un'invasione, non possano pro-
durre cambiamenti linguistici; semplicemente, essi non sono necessari). Non
c'è niente di mistico in questo rilievo assoluto dato al tempo come fonte dei
cambiamenti linguistici: ogni generazione apprende la propria lingua dalla
generazione precedente, ma questo apprendimento non è puramente pas-
sivo, perché ogni volta nei bambini si sviluppa una competenza (cfr. Il.2.3.)
propria e per ciò stesso diversa, almeno in parte, da quella dei genitori (per
l'acquisizione del linguaggio da parte del bambino, v. cap. XI). Queste dif-
ferenze sono molto lievi tra due generazioni immediatamente successive, ma
naturalmente si possono sommare tra più generazioni, in modo tale che, a
distanza di secoli, le fasi più antiche di una lingua sono incomprensibili ai
parlanti delle ultime generazioni: un italiano che non abbia studiato latino
non comprende un testo di Cicerone, o un inglese che non abbia studiato
inglese antico difficilmente riesce a leggere il Beowul/ (poema epico risalente
all'VIII secolo d.C., uno dei primi documenti della letteratura inglese).
In questo capitolo presenteremo dunque alcune nozioni di linguistica storica
ed alcuni fenomeni di mutamento linguistico. In X.l. esamineremo le carat-
teristiche fondamentali del metodo comparativo; nei paragrafi successivi,
vedremo alcuni esempi di mutamenti linguistici relativamente ai vari livelli
250 CAPITOLO10

di analisi che abbiamo trattato nei capitoli precedenti: tratteremo quindi del
mutamento fonetico (X.2.), di quello morfologico (X.3.), di quello sintattico
(X.4.) e di quello semantico e lessicale (X.5.).

1. ILMETODOCOMPARATIVO E LARICOSTRUZIONE
DELLE LINGUEORIGINARIE
1.1. Caratteristiche del metodo comparativo

Il termine stesso di metodo «comparativo» suggerisce che esso si fonda sul


confronto tra le lingue. Lo scopo di questo confronto, come si è già accennato,
è scoprire se due o più lingue sono genealogicamente apparentate oppure
no, ossia se derivano da una stessa lingua originaria. Ma che cosadeve essere
confrontato e in che modo il confronto deve essere condotto? Anzitutto,
bisogna evitare di cadere in un facile errore, ossia che sia la semplice somi-
glianza tra parole a mostrare che due lingue sono apparentate. Per dare un
esempio di questo possibile errore, confrontiamo qualche parola di italiano,
tedesco e turco:

(1) Italiano Tedesco Turco


stazione Bahnhof istasyon
biglietto Fahrkarte bilet
bagaglio Gepack bagaj
treno Zug tren

Se dovessimo basarci sulla semplice somiglianza di parole, saremmo tentati


di dire che, delle tre lingue, quelle apparentate tra loro (cioè discendenti da
un antenato comune) sono l'italiano e il turco, mentre il tedesco sta a sé. Noi
sappiamo che non è così, e che sono l'italiano e il tedesco che discendono da
un antenato comune, da cui invece non discende il turco, ma che cosa ce lo
dimostra? E, anzitutto, a cosa è dovuta la somiglianza di parole che accomuna
italiano e turco ed esclude, in questo caso, il tedesco? La risposta a quest'ul-
tima domanda è abbastanza semplice: la somiglianza tra italiano e turco è
dovuta a fenomeni di prestito (cfr. VI.3.1.). Il turco ha cioè preso a prestito
molte parole dall'italiano o, in generale, dalle lingue romanze (specialmente
dal francese); il tedesco, che in questo campo ha sviluppato un lessico pro-
prio, rimane a parte rispetto a queste altre lingue. Il primo errore da evitare,
dunque, nell'applicazione del metodo comparativo, è il confronto generico
tra parole, che può essere il più delle volte sviante, a causa dei fenomeni di
prestito, e in generale di interferenza linguistica, che caratterizzano i contatti
tra lingue.
Per evitare quindi di essere indirizzati sulla cattiva strada da fenomeni di pre-
stito, è opportuno limitare il nostro confronto a quelle parti del vocabolario
di una lingua che sono meno suscettibili di essere state prese a prestito da
LINGUISTICASTORICA 251

altre lingue, a quelle cioè che in VI.3. abbiamo chiamato «native». Tra queste
parti, possiamo scegliere le parole indicanti i numerali e i nomi di parentela.
Se quindi confrontiamo ancora una volta le nostre tre lingue in questi campi
semantici, vediamo che il quadro delle somiglianze che ne risulta è ben diverso
da quello precedente:

(2) Italiano Tedesco Turco


uno ein bir
due zwe1 iki
tre drei iiç
quattro v1er dort
crnque funf be~
padre Vater baba
madre Mutter anne

Da quest'altro confronto, l'italiano risulta sicuramente più simile al tedesco


che non al turco. Tuttavia, anche in questo caso la nostra valutazione di
somiglianza è molto approssimativa: ad esempio, che cosa c'è di particolar-
mente simile tra due parole come quattro e vier? Eppure, se correttamente
applicato il metodo comparativo ci può mostrare che queste due parole
derivano da una stessa parola nella stessa lingua originaria (l'indoeuropeo)
da cui derivano l'italiano e il tedesco; allo stesso modo, si può dimostrare
che due parole come l'italiano piede e l'inglese/oot non solo hanno lo stesso
significato, ma hanno anche, come quattro e vier, la stessa etimologia, cioè
derivano da un'unica parola nella lingua originaria (ancora una volta, l'in-
doeuropeo).
In che cosa consiste, allora, la «corretta» applicazione del metodo compara-
tivo? Nell'individuare una serie di corrispondenze sistematiche tra fonemi
e morfemi in determinate lingue, ossia che a determinati fonemi e morfemi
in una lingua corrispondono, in un numero significativo di casi, determinati
altri fonemi e morfemi in un'altra lingua: questo significa che due parole
corrispondenti in due lingue possono essere anche formate da fonemi tutti
diversi, e quindi avere un aspetto molto diverso, eppure avere la stessa
etimologia. È il caso di piede e di /oot [fut], composte di fonemi diversi
tanto per il numero (cinque contro tre) quanto per il tipo (nessun fonema
dell'una ricorre nell'altra e viceversa), e tuttavia apparentate. Come si fa a
dimostrare l'esistenza di queste corrispondenze sistematiche? Anzitutto,
mostrando che esse non si limitano ad una parola sola, ma si estendono ad
altre parole di quello che abbiamo chiamato «vocabolario nativo» (in cui,
oltre che i numerali e i nomi di parentela, possiamo a buon diritto collo-
care anche i nomi delle parti del corpo). Inoltre, è necessario ricostruire il
cammino che ha portato dalla parola nella lingua originaria alla parola nelle
due lingue apparentate: nel caso dell'italiano e dell'inglese, questo cammino
non è breve, perché le due lingue fanno sì parte della stessa famiglia, ma
appartengono a due diversi gruppi all'interno di essa, l'italiano alle lingue
252 CAPITOLO 10

romanze, l'inglese alle lingue germaniche (cfr. III.2.). Inoltre, ciascuna


delle due lingue ha avuto una propria evoluzione, che ha comportato una
certa serie di modifiche attraverso il tempo. La comparazione tra lingue
per dimostrarne la parentela genealogica richiede quindi di ripercorrerne
la storia, e per questo la linguistica storica è spesso chiamata anche lingui-
stica storico-comparativa. In generale, il procedimento storico-comparativo
permette di stabilire qual è l' «antenato comune» più vicino di determinate
lingue, nonché gli antenati «più remoti», cioè quelli comuni a vari gruppi
di lingue. Nel caso dell'italiano e delle altre lingue romanze, l'antenato co-
mune è il latino, una lingua di cui possediamo numerosissime attestazioni
scritte. Nel caso dell'inglese e delle altre lingue germaniche, un simile an-
tenato comune non è attestato: non abbiamo cioè nessuna documentazione
scritta della lingua da cui sono derivate, presumibilmente, l'inglese, il tede-
sco, l'olandese, le lingue scandinave, ecc. Tuttavia, il metodo comparativo ci
mostra che le lingue germaniche manifestano tra loro corrispondenze siste-
matiche come ce le mostrano le lingue romanze: si può quindi ricostruire,
sulla base della comparazione tra le lingue germaniche, la lingua originaria
da cui esse sono derivate, che viene abitualmente chiamata proto-germanico
o germanico comune. Vediamo qualche esempio di comparazione nelle
lingue romanze e nelle lingue germaniche; teniamo sempre presente che la
comparazione non si effettua tra parole, ma tra/onemi o morfemi di lingue
diverse.
Un esempio di comparazione nell'ambito romanzo è il seguente:

(3) Italiano Spagnolo Francese Romeno


fatto hecho fait fapt
latte leche lait lapte
notte noche nuit noapte

La sequenza di fonemi tt in italiano corrisponde dunque sistematicamente


alla sequenza eh in spagnolo (pronunciata [tf]), alla sequenza it in francese
e alla sequenza pt in romeno (in francese moderno, la i forma dittongo con
la vocale precedente, il dittongo ai si è monottongato in /r,/ e la t finale non
viene più pronunciata, sicché la pronuncia di una parola come lait è [le];
la grafia ci testimonia comunque della pronuncia in fasi più antiche della
lingua; cfr. III.4.). Questa corrispondenza sistematica ci suggerisce che tali
sequenze fonematiche abbiano un'origine comune. Il latino, lingua docu-
mentata, ci mostra questa origine comune, ossia la sequenza -et-:/actum,
lactem, noctem (abbiamo citato, negli ultimi due casi, la forma dell'accusa-
tivo, perché è da essa che derivano le forme romanze; la forma lactem ap-
partiene al latino tardo, mentre quella classica è lac). L'originaria sequenza
latina et si è dunque mutata in tt in italiano, [tf] in spagnolo, it in francese e
pt in romeno.
Vediamo ora un esempio di comparazione nell'ambito germanico (dopo ogni
parola, diamo la corrispondente trascrizione fonetica):
STORICA 253
LINGUISTICA

(4) Inglese Tedesco Olandese Danese


house [haws] Haus [haws] huis [h0ys] hus [hu:?s]
'casa'
mouse [maws] Maus [maws] muis [m0ys] mus [mu:?s]
'topo'
louse [laws] Laus [laws] luis [10ys] lus [lu:?s]
'pidocchio'
out [awt] aus [aws] uit [0yt] ud [u:?ò]
'fuori'
brown [brawn] braun [brawn] bruin [br0yn] brun [bru:?n]
'marrone'
Esiste quindi una corrispondenza sistematica tra [aw] in inglese, [aw] in
tedesco, [0y] in olandese e [u:?J in danese. (Per il valore del simbolo [?], v.
IV.12.) Assieme a molte altre di questo tipo, la corrispondenza che abbiamo
presentato ci suggerisce che queste lingue (assieme ad altre) facciano parte di
una stessa unità genealogica, il gruppo germanico delle lingue indoeuropee,
derivate da una lingua non attestata, il già ricordato proto-germanico o ger-
manico comune. Nel nostro caso particolare, si può ipotizzare che all'origine
dei suoni corrispondenti, ma in parte diversi, in ciascuna delle quattro lingue,
ci fosse un unico suono. Ma come si fa a determinarne la natura, visto che del
proto-germanico non ci rimangono attestazioni? In generale, su quali basi si
possono ricostruire le forme di una lingua originaria non attestata?
In primo luogo, c'è da tenere presente che ogni ricostruzione linguistica è
un'ipotesi, e come tale non può pretendere di essere assolutamente incon-
futabile: la linguistica storico-comparativa è, come tutti gli altri campi della
linguistica, una disciplina empirica, e quindi le sue ipotesi, per quanto fon-
date, sono in linea di principio falsificabili. In molti casi, tuttavia, una serie
di considerazioni ci fa propendere per una certa ipotesi ricostruttiva con un
buon grado di ragionevolezza. Nel nostro caso, le prime attestazioni scritte
di dialetti inglesi e tedeschi antichi ci presentano le parole in questione come
contenenti una u: hus, mus, lus, ut (nei dialetti della Germania meridionale
uz, per un motivo su cui torneremo più avanti), brun. Si ipotizza quindi che
l'originaria forma proto-germanica fosse *[u:], da cui sono poi derivate [aw]
in inglese, [aw] in tedesco, [0y] in olandese e [u:7) in danese. L'asterisco che
abbiamo posto davanti alla forma proto-germanica indica appunto che essa
non è documentata, ma è frutto della nostra ricostruzione: esso va cioè letto
«forma ricostruita». Il valore dell'asterisco in linguistica storica è quindi di-
verso da quello che ha in altri campi della linguistica, dove esso indica invece
«frase (o parola) agrammaticale».

1.2. L'«alberogenealogico• delle lingue indoeuropee

Come abbiamo visto dall'esemplificazione fatta sui gruppi romanzo e germa-


nico delle lingue indoeuropee, e sulle lingue indoeuropee nel loro complesso,
254 CAPITOLO 10
------------------------------~
la logica del metodo comparativo sembra essere sostanzialmente questa:
dal confronto di lingue più strettamente apparentate, cioè appartenenti
allo stesso gruppo, o meglio ancora allo stesso sottogruppo, si ricostruisce
una lingua originaria; a queste lingue si dà il nome di germanico comune (o
proto-germanico), slavo comune (o proto-slavo), ecc.; esse sono tutte frutto di
una ricostruzione, con la sola eccezione del latino. La comparazione dei vari
gruppi linguistici (riassunta nella lingua originaria ricostruita per ciascuno di
essi) ci permette poi di ricostruire la lingua originaria dell'intera famiglia, cioè
l'indoeuropeo. In pratica, è come se si ricostruisse la storia di una famiglia
con numerosi rami fino ad arrivare ad un antenato comune: e infatti l'imma-
gine della famiglia linguistica indoeuropea che deriva da questa concezione
del metodo comparativo ha esattamente la forma di un albero genealogico.
Quindi i gruppi e i sottogruppi delle lingue indoeuropee che abbiamo elencato
sopra (III.2.) potrebbero essere rappresentati come nella figura 10.1, dove
con i nomi dei gruppi e dei sottogruppi si intende anche la lingua originaria
di ciascuno di essi e le singole lingue sono indicate in corsivo.

L'albero genealogico lì raffigurato contiene numerose semplificazioni, anche


rispetto alla descrizione delle lingue indoeuropee che abbiamo fornito in III.2.:
ad esempio, molte lingue non sono indicate, ma vi si rimanda semplicemente
con la sigla «ecc.». Inoltre, abbiamo rappresentato l'indiano e l'iranico come
due gruppi distinti, anziché come due sottogruppi all'interno di un unico
gruppo indoiranico. Esso dà comunque un'immagine abbastanza fedele della
parentela tra le varie lingue appartenenti alla famiglia indoeuropea.
A questo punto ci si deve però domandare se questa immagine delle relazioni
tra lingue genealogicamente apparentate sia adeguata oppure no. La questione
è stata lungamente discussa, fin da quando, alla metà dell'Ottocento, la rap-
presentazione delle lingue indoeuropee nella forma di albero genealogico fu
proposta per la prima volta dal linguista tedesco August Schleicher, e resta
tuttora oggetto di discussione. Vediamo di esaminarne gli aspetti principali.
L'immagine dell'albero genealogico, se presa alla lettera, esclude che ci possano
essere interferenze tra lingue dopo la loro separazione dall'antenato comune: i
rami dell'albero non si incrociano, né hanno punti di contatto di qualsiasi tipo.
Ad esempio, non ci potrebbero essere stati contatti tra le lingue indiane e le
lingue iraniche dopo la loro separazione dalla lingua originaria indoeuropea o,
se si ammette l'esistenza di un super-gruppo indoiranico, dopo la separazione
dei due gruppi all'interno di esso. Lo stesso si dovrebbe dire dei contatti tra
lingue germaniche, lingue romanze, lingue slave, e così via. Ma è evidente che
questa immagine è drasticamente confutata dai fatti: l'interferenza tra lingue
appartenenti a diversi gruppi è un fatto che non ha mai conosciuto né conosce
interruzioni, come lo studio dei fenomeni di prestito ci indica. E c'è di più:
un gruppo di lingue può avere in comune certe caratteristiche con un altro
gruppo, certe altre con un secondo gruppo, certe altre ancora con un terzo,
e così via. Per esempio, il gruppo italico ha in comune con il gruppo celtico
(e, in realtà, anche con l'anatolico e il tocario) le desinenze in -r del passivo
indoeuropeo

celtico germanico italico ellenico baltico slavo albanese armeno anatolico tocario iramco indiano
~ ~ A ~ A
gaelico brit. occ. sett. or. occ. or. occ. mer. or. occ. or.
I I I I I I I I I I I I
irl. bret. ingl. dan. got. latino greco lituano pol. bul. russo albanese armeno ittita tocario av. afg. sanscrito
ecc. cimr. ted. svedese lettone ceco s.c. ucraino ecc. pers. ecc. ecc.
ecc. ol. norvegese slc. slv. ecc. curdo
ecc. ecc. ecc. ecc. ecc.
italiano
francese
spagnolo
ecc.

Abbreviazioni:afg. =afgano; av. =avestico; bret. =bretone; brit. =britannico; bul. =bulgaro; cimr. =cimrico; dan. =danese; got. =gotico; ingl. =inglese; irl. =
irlandese; mer. =meridionale; occ. =occidentale; ol. =olandese; or. =orientale; pers. =persiano; poi. =polacco; s.c. =serbo-croato; sett. =settentrionale; slc. =
slovacco; slv. =sloveno; ted. =tedesco.

fìg. 10.1. Alberogenealogicodellelingueindoeuropee.


256 CAPITOLO 10

(tipo latino amor 'sono amato'), e questa è una delle caratteristiche che ha
talvolta fatto ipotizzare l'esistenza di un super-gruppo italo-celtico. Ma l'italico
ha anche una caratteristica in comune con il germanico, ossia la mancanza
dell'opposizione tra perfetto e aoristo, che è presente invece in greco. D'altra
parte, italico e greco hanno in comune un'altra caratteristica, ossia la presenza
di sostantivi femminili con desinenza maschile (tipo latino populus'pioppo').
Dal canto suo, il greco condivide una caratteristica con l'armeno, l'iranico e
l'indiano, !'«aumento», ossia un prefisso vocalico prima delle forme di tempo
passato (come nel greco élegon'dicevo'). L'elenco potrebbe continuare, ma gli
esempi dovrebbero essere sufficienti: tra i vari gruppi di lingue indoeuropee
esistono sovrapposizioni parziali, ora in direzione di un gruppo, ora di un
altro. Questo stato di cose suggerì un modello alternativo a quello dell'albero
genealogico, la cosiddetta «teoria delle onde»: i vari fenomeni linguistici si
distribuirebbero, all'interno delle lingue indoeuropee, come le onde in uno
specchio d'acqua, in modo che alcuni fenomeni linguistici si estenderebbero
fino a un certo punto, altri fino ad un altro, altri si incrocerebbero tra loro,
e così via. Alle linee che determinano l'estensione dei vari fenomeni viene
dato il nome di isoglosse, sul modello dei termini geografici tipo «isoterme»
(che indicano sulla carta geografica tutti i luoghi dove si registra la stessa
temperatura) o «isoipse» (che indicano tutti i punti che hanno la stessa alti-
tudine sul mare). Tornando ai nostri esempi, si può dire che italico e celtico
(e anatolico e tocario) condividono l'isoglossa dei passivi in -r, italico e greco
quella dei sostantivi femminili con desinenza maschile, greco, iranico e indiano
l'isoglossa dell'aumento, ecc.
L'immagine dell'albero genealogico va dunque sostituita con l'immagine dei
mutamenti diffusisi a onde? Da vari decenni, le due immagini non sono più
concepite come alternative, ma piuttosto come complementari. Se si vogliono
indicare con nettezza le proprietà che caratterizzano le differenziazioni tra
i sistemifonologico e morfologico di un determinato gruppo o sottogruppo
di lingue, l'albero genealogico è senz'altro la rappresentazione più chiara: la
mutazione consonantica germanica (v. X.1.3) distacca nettamente le lingue
germaniche dalle altre lingue indoeuropee, e questo distacco è ottimamente
rappresentato dall'immagine di un ramo che si stacca da un tronco. Se vo-
gliamo indicare invece l'estensione che un determinato fenomeno ha avuto
nell'ambito della famiglia indoeuropea, eventualmente indicandone anche
la cronologia relativa (ossia, in quale gruppo di lingue si è diffuso prima ed
in quali dopo, ecc.), allora il ricorso all'immagine delle onde e al concetto di
isoglossa diventa necessario.
Le immagini dell'albero genealogico - e, rispettivamente, delle onde - ci
suggeriscono anche due diverse immagini della lingua originaria indoeu-
ropea (e, se si vuole, anche delle lingue originarie dei singoli gruppi, ma la
discussione si è concentrata sostanzialmente sulla lingua madre dell'intera
famiglia): l'albero genealogico ce la presenta come una lingua rigorosamente
omogenea, senza variazioni dialettali, la «teoria delle onde» come una lingua
distinta in gruppi dialettali considerevolmente diversi l'uno dall'altro. Anche
LINGUISTICASTORICA 257

in questo caso, ci si può domandare quale sia l'immagine più adeguata, ma


una risposta a questo problema richiede anzitutto di chiarire cosa si intende
esattamente con lingua originaria. Non si dimentichi infatti che (tranne i
rarissimi casi come quello del latino) essa è frutto di una ricostruzione, com-
piuta confrontando sistematicamente i fonemi, i morfemi e i significati delle
lingue derivate: possiamo considerare il frutto di queste ricostruzioni come
una lingua sullo stesso piano di tutte le altre, oppure semplicemente come
un insieme di formule che ci permettono di riassumere le corrispondenze
sistematiche che abbiano riscontrato tra le varie lingue? Su questo punto i
vari studiosi di lingue indoeuropee hanno assunto posizioni diverse, spesso
in modo implicito. Alcuni hanno, di fatto, considerato le parole della lingua
originaria ricostruita come «formule» per esprimere le varie corrispondenze;
altri, hanno pensato che, pur nell'ipoteticità della ricostruzione, queste parole
rappresentassero comunque una testimonianza di una lingua parlata nonché
di una cultura, e anche questa cultura si è cercato di ricostruire sulla base
delle evidenze linguistiche e delle varie isoglosse.

1.3. Un esempio di ricostruzione•

Nella ricostruzione linguistica hanno particolare importanza le testimonianze fornite


dalle fonti scritte più antiche: è infatti ragionevole pensare che esse documentino uno
stato precedente a quello di molti mutamenti subiti dalle varie lingue, e quindi più
vicino a quello della lingua originaria che si vuole ricostruire. È questo il motivo per
cui, nella ricostruzione della lingua originaria indoeuropea, si ricorre di preferenza
alle lingue di attestazione più antica, come il sanscrito, il greco, il latino, tra le lingue
germaniche il gotico, tra le lingue slave l'antico slavo ecclesiastico, e così via. Diamo
ora qualche esempio di comparazione tra lingue appartenenti a gruppi diversi nell'am-
bito della famiglia indoeuropea, per vedere in che modo si può ricostruire la lingua
originaria indoeuropea o, più in breve, l'indoeuropeo. Come esempi, scegliamo le
parole per 'fratello' e 'padre' in sanscrito, in greco, in latino, nella lingua di più antica
attestazione tra quelle germaniche, ossia il gotico, e in una lingua del gruppo celtico,
l'irlandese (per notizie su queste lingue, cfr. III.2.):
(5) Sanscrito Greco Latino Gotico Irlandese
'fratello' bhratar phr~ter frater bropar brathir
'padre' pitar pater pater fadar athir
Prima di discutere le corrispondenze fonetiche esemplificate da queste parole, è bene
fornire qualche chiarimento:
1) La pronuncia dei segni bh e ph è quella delle occlusive b e p seguite da un lieve
soffio d'aria: si tratta infatti delle cosiddette «occlusive aspirate». La pronuncia del
segno p in una parola come il gotico broparè quella dell'inglese th in thing (ossia [0],
in trascrizione fonetica IPA); la pronuncia del segno d in/adar quella dell'inglese th
in there(ossia [ò]).
2) La parola phrdter,in greco, significa propriamente «membro di una fratria» (cioè
di un gruppo di famiglie discendente da un antenato comune); la parola esatta per
'fratello' è adelph6s.
3) Dove non diversamente segnato, l'accento cade sulla prima sillaba.
258 CAPITOLO 10
--------

Proviamo ora ad esaminare una per una le corrispondenze tra i diversi fonemi che
costituiscono le parole in questione, cominciando dai fonemi consonantici. Come si
vede, il fonema /r/ ricorre nella posizione finale di tutte le parole. Più complesso è
il caso delle occlusive: cominciando dalle labiali, osserviamo, esaminando la parola
per 'padre', che alla /p/ sanscrita, greca e latina corrispondono, rispettivamente, /f/
in gotico e nessun fonema in irlandese; esaminando la parola per 'fratello', vediamo
che alla occlusiva aspirata sonora sanscrita (/bh/), corrispondono rispettivamente una
occlusiva sorda aspirata in greco (/ph/), una fricativa in latino, come pure in gotico
e in irlandese. Passando alle occlusive dentali, notiamo che la sorda /ti del sanscrito
si trova anche in greco e in latino, in tutte e due le parole esaminate, diventa una fri-
cativa (/0/, scritta th) in irlandese, mentre un po' curioso appare il caso delle lingue
germaniche: alla occlusiva sorda /t/ del sanscrito, del greco e del latino corrisponde
una fricativa sorda (/8/, scritta P) nella parola per 'fratello', ma una fricativa sonora
(/ò/) in quella per 'padre'.
Osserviamo ora i fonemi vocalici. Nelle parole per 'fratello', il primo di essi è una /a/
in tutte le lingue, ad eccezione di quelle germaniche, in cui troviamo una /o/. ella
parola per 'padre', invece, al fonema/ a/ del greco e del latino corrisponde in sanscrito
una /i/, e in gotico una /a/. Il secondo fonema vocalico è una /e/ in greco e latino,
una /a/ in sanscrito, una /a/ in gotico e una /i/ in irlandese.
Cerchiamo di tirare le somme da queste osservazioni. Abbiamo riscontrato tre corri-
spondenze sistematiche: prendendo per comodità come punto di riferimento le parole
latine, quelle con i fonemi /e/ e /r/ difrater e pater, e quelle con la /p/ di pater. Due
corrispondenze, invece, mostrano qualche anomalia: si tratta di quelle del fonema /t/
di /rater e pater, a cui corrispondono due fonemi diversi nelle lingue germaniche, e
del fonema /a/ delle tre parole latine, a cui corrispondono due fonemi diversi in san-
scrito. Osserviamo però che le corrispondenze sono sistematiche per quanto riguarda
le altre lingue considerate. Ancora una volta insistiamo sul fatto che corrispondenza
sistematica non significa necessariamente identità, e neppure somiglianza: al latino
pater corrisponde sistematicamente, fonema per fonema, l'armeno hayr, ma difficil-
mente queste due parole potrebbero essere considerate simili. Queste corrispondenze
sistematiche sono confermate da un gran numero di altre parole (che non possiamo
riprodurre qui per brevità), in cui ricorrono questi stessi fonemi.
Di fatto, molte delle corrispondenze sistematiche osservate sono casi particolari di
corrispondenze più generali, e i due casi di anomalia che abbiamo riscontrato relativa-
mente alle lingue germaniche ed al sanscrito non sono in realtà tali, ma sono anch'essi
riconducibili ad altre corrispondenze, più difficili da riconoscere ad un primo esame
ma non per questo meno dimostrabili. Lasciamo però da parte, provvisoriamente,
questi casi più complessi, e presentiamo una corrispondenza sistematica generale tra
gruppi diversi di lingue indoeuropee, un caso della quale è stato illustrato dagli esempi
appena discussi. Ci riferiamo al caso della corrispondenza tra /p/ del sanscrito, del
greco e del latino, da un lato, e /f/ del gotico dall'altro: si tratta di un caso particolare
della corrispondenza sistematica che esiste tra le occlusive delle lingue germaniche
e quelle di altri gruppi di lingue indoeuropee. La formulazione completa di tale
corrispondenza è la seguente.

( 1) Alle occlusive sorde del sanscrito, del greco e del latino corrispondono nelle lingue
germaniche fricative sorde. Quindi, a /p/ corrisponde nelle lingue germaniche /f/
(oltre a lat. pater- got.fadar, cfr. lat. pes- ingl.foot, lat. piscis- ingl.fish); a /ti, /0/
Oat. tres - ingl. three, lat. tenuis - ingl. thin, lat. tacere - got. f,ahan); a /k/, /h/ (cfr.
lat. centum [kentum] - ingl. hundred, lat. caput- ingl. head, lat. cornu - ingl. horn).

(2) Alle occlusive sonore del sanscrito, del greco e del latino corrispondono nelle
lingue germaniche occlusive sorde. Quindi, a /6/ corrisponde nelle lingue germa-
LINGUISTICA
STORICA 259

niche /p/ (greco krinnabis 'canapa' - ingl. hemp; notare come le consonanti iniziali
delle due parole siano un ulteriore esempio della corrispondenza descritta al punto
precedente); a /di, /ti Oat. duo - ingl. two, lat. dens - ingl. tooth, lat. edere - ingl.
eat); a /g/, /k/ Oat. granum - ingl. korn, lat. genus 'genere' - ingl. kin 'famiglia', lat.
ager 'campo'- ingl. acre 'acro (unità di misura del terreno)').

(3) Ai fonemi che sono in sanscrito occlusive sonore aspirate, in greco occlusive sorde
aspirate, in latino fricative sorde, corrispondono nelle lingue germaniche occlusive
sonore. Quindi, a /bh/ del sanscrito, /ph/ del greco e /f/ del latino corrisponde nelle
lingue germaniche /6/ (sanscrito bhririimi 'porto' - greco phéro - latino faro - ingl.
bear);a /dh/ del sanscrito, /th/ del greco e/f/ del latino, /di (sanscrito mridhu 'miele',
'idromele (alcolicoderivato dal miele)' -greco méthu 'bevanda' -ingl. mead'idromele';
a /h/ del latino, /g/ Oat. hostis 'straniero', 'ospite' - ingl. guest 'ospite').

A questo insieme di corrispondenze sistematiche tra occlusive nelle lingue germaniche


da un lato e nelle altre lingue indoeuropee dall'altro si dà tradizionalmente il nome
di «legge di Grimm», dallo studioso tedesco che lo scoprì, negli anni Venti dell'Ot-
tocento (v. la nota in fondo al capitolo). Sul significato esatto del termine «legge», e
sulla sua possibile identificazione o meno con le leggi delle scienze naturali, come la
fisica e la chimica, ci soffermeremo più avanti (X.3.). La legge di Grimm (nella termi-
nologia tedesca, Lautverschiebung) è chiamata in italiano mutazione(o «rotazione»)
consonanticagermanica.
Veniamo ora alle conseguenze che il riconoscimento di corrispondenze sistematiche
come quelle presentate sopra ha per la ricostruzione dell'indoeuropeo. L'ipotesi co-
munemente accettata è che, per le serie (1) e (2), ossia, rispettivamente, le occlusive
sorde e le occlusive sonore, i fonemi sanscriti, greci e latini corrispondano a quelli
originari indoeuropei, sicché avremo gli esiti qui di seguito riportati (i.e. = indoeuro-
peo; > = «diventa»; germ. = germanico):

Serie (1): i.e. */p/ > germ. /f/


i.e. */ti > germ. /0/
i.e. */k/ > germ. /h/

Serie (2): i.e. */bi> germ. /p/


i.e. *Idi > germ. /ti
i.e. */g/ > germ. /k/

Serie (3): questa serie, ossia quella delle occlusive aspirate, pone più problemi delle
precedenti, e in alcuni casi è necessario ipotizzare un fonema indoeuropeo originario
diverso da quello documentato da qualunque lingua attestata. Sulla base comunque
di una serie di studi che qui non possiamo permetterci neppure di riassumere, si
postulano le seguenti corrispondenze:

i.e. */bh/ > germ. /bi


i.e. */dh/ > germ. Idi
i.e. */gh/ > germ. /g/

Su queste basi, possiamo procedere alla ricostruzione di due intere parole indoeuropee,
ossia quelle per 'fratello' e 'padre'. Assumendo inoltre che l'accento indoeuropeo
avesse la stessa posizione dell'accento sanscrito, possiamo ricostruire la parola per
'fratello' come *bhrriter. Come ricostruiamo la parola indoeuropea che significava
'padre'? Per poterlo fare, dobbiamo risolvere due problemi che abbiamo notato sopra.
Il primo sta nelle diverse corrispondenze che il fonema /a/ in latino e in greco ha in
260 CAPITOLO10
-----------------

sanscrito: lat. /rater - sanscrito bhrdtar, ma lat. pater - sanscrito pitdr. La soluzione,
in questo caso, è stata trovata nell'ipotizzare che le /a/ di /rater e di pater e delle
corrispondenti parole greche non derivino dallo stesso fonema indoeuropeo, ma da
due fonemi diversi: /a/ di/rater corrisponderebbe a un fonema indoeuropeo */a/,
conservato anche in sanscrito; /a/ di pater a un fonema indoeuropeo detto laringale
e corrispondente a una vocale di timbro indistinto, il cui simbolo è /Hl. (Sull'esatta
natura della laringale indoeuropea si è discusso e si discute molto, come pure sul fatto
che le laringali possano essere più d'una; anche in questo caso non ci addentreremo
nella questione.) Il secondo problema è che in alcuni casi, come quello del gotico
/adar, al fonema */ti indoeuropeo, attestato da sanscrito, greco e latino, non corri-
sponde una fricativa sorda, come previsto da 1), ma una fricativa sonora. Su questo
problema ritorneremo in X.2.1., a cui rimandiamo, dunque, la ricostruzione della
parola indoeuropea per 'padre'.
Torniamo ora alle lingue germaniche, per esaminare un'apparente eccezione che il
tedesco sembra fare alla «legge di Grimm», rispetto alle altre lingue del gruppo: ad
esempio, a i.e. */ti non corrisponde in tedesco /8/, come in inglese, bensì /di: ingl.
three, ma ted. drei, ingl. thin, ma ted. dunn; e a i.e. */d/ non corrisponde !ti, bensì
/ts/: inglese two, ma ted. zwei [tsvai], ingl. tooth, ma ted. 7-ahn [tsa:n]. Senza entrare
in tutti i dettagli, possiamo osservare che in questo caso si ha una corrispondenza
sistematica tra tutte le altre lingue germaniche da un lato e il tedesco dall'altro
(per l'esattezza, bisognerebbe parlare di «dialetti alto-tedeschi», cioè delle varietà
di tedesco parlate grosso modo a sud del fiume Meno, e chiamate «alte» perché il
territorio è in queste zone collinoso o montuoso, a differenza dei territori a nord,
prevalentemente pianeggianti; il tedesco standard moderno si basa sostanzialmente
su questi dialetti alto-tedeschi). i può quindi ipotizzare che il tedesco abbia subito
un ulteriore mutamento consonantico, chiamato anche «seconda mutazione (o «ro-
tazione») consonantica germanica», o «seconda legge di Grimm». In altre parole: i
fonemi originari del germanico comune sarebbero, nei casi ricordati sopra, */8/ e* /ti,
derivati rispettivamente da i.e. */ti e *Idi. Nei dialetti alto-tedeschi, essi avrebbero
subito un ulteriore mutamento, diventando /d/ e /ts/; nelle altre lingue germaniche,
essi sarebbero invece rimasti tali e quali.
Le linee essenziali del metodo comparativo dovrebbero a questo punto essere chiare.
Qui sono state illustrate con esempi dalla fonologia, ma analoghi risultati sono stati
ottenuti anche nel campo della comparazione dei morfemi, cioè nella morfologia.
Molto più difficile, invece, è risultata l'applicazione di rigorose tecniche comparative
ai campi della sintassi e del lessico. I motivi di queste difficoltà sono vari e discussi,
ma non ce ne occuperemo qui.

2. IL MUTAMENTO FONETICO E LE «LEGGI FONETICHE»

Esaminiamo due esempi di mutamento fonetico, l'uno relativo alla storia


dell'italiano, l'altro a quella dell'inglese.
Il sistema fonologico dell'italiano contiene sette fonemi vocalici, in sillaba
accentata (cfr. IV.2.2.): /i, e, e, a,;,, o, u/. Questi fonemi si distinguono per la
posizione della lingua in senso verticale (alti, medio-alti, medio-bassi e bassi) e
in senso orizzontale (anteriori, centrali e posteriori). In latino, invece, i fonemi
vocalici si distinguevano anche per lunghezza (cfr. IV.11.1.): ad esempio, il
nominativo rosa [rosa] si oppone all'ablativo rosii [rosa:]. Nel passaggio dal
sistema vocalico latino a quello italiano, quindi, sono andate perdute le di-
LINGUISTICASTORICA 261

stinzioni fonologiche clilunghezza, che sono state trasformate in distinzioni


cliposizione della lingua in senso verticale, secondo lo schema seguente:

latino I E E A A o o ù D

italiano
V I V I V I

e a ;:, o u

Es.: it. /i/: vino da lat. VlNU(M);


it. /e/: verdeda lat. VIRIDE(M),stella [stella] da lat. STELLA(M);
it. /e/: vento ('vrnto] da lat. VENTU(M);
it. /a/: amo da lat. ÀMO, sano da lat. SÀNU(M);
it. hl: otto da lat. ÒCTO;
it. / o/: soleda lat. OLE(M),botte (recipiente) [botte] da lat. tardo BÙTTE(M);
it. /u/: luna da lat. L0NA(M).

Uno dei mutamenti fonetici più importanti della storia della lingua inglese
è il cosiddetto Great Vowel Shi/t («grande mutazione vocalica»), verificatosi
all'incirca nella prima metà del Cinquecento, e che segna il passaggio dal
cosiddetto «inglese medio» (Middle English) all'inglese moderno. In sintesi,
si può descrivere tale fenomeno nel modo seguente.
A) Le vocali lunghe alte dell'inglese medio sono diventate dittonghi: ad es.,
five 'cinque', in precedenza pronunciato [fi:v], ha cominciato ad essere pro-
nunciato [faiv]; town 'città', in precedenza pronunciato [tu:n] e scritto tune,
ha cominciato ad essere pronunciato [tawn].
B) Le vocali lunghe medie dell'inglese medio sono diventate vocali alte: ad
esempio, /eet 'piedi', già pronunciato [fe:t], ha mutato la sua pronuncia in
[fi:t];foot 'piede', già pronunciato [fo:t], ha mutato la sua pronuncia in [fu:t].
C) Le vocali medio-basse dell'inglese medio sono diventate vocali medie: ad
esempio, mate 'compagno', già pronunciato [mre:t], ha cominciato ad essere
pronunciato [meit]; goat 'capretto', già pronunciato [go:t], ha cominciato ad
essere pronunciato [gout].
Come si vede, la grafia dell'inglese è riuscita a tener dietro a questi mutamenti
fonetici solo in pochi casi; nella maggioranza degli altri, essa è rimasta più o
meno identica a quella dell'inglese medio. Questo è uno dei motivi per cui la
distanza della grafia dell'inglese moderno dalla sua pronuncia è così rilevante.
I mutamenti fonetici che abbiamo descritto sembrano operare con assoluta
regolarità: questo è il motivo per cui è stato coniato il termine cli«legge fo-
netica», clicui la mutazione consonantica germanica, o legge cliGrimm (su
cui v. X.1.3 .), è forse l'esempio più classico. Sul concetto clilegge fonetica si
è discusso moltissimo e si continua a discutere ancora. Uno dei problemi è
se queste leggi siano analoghe alle leggi delle scienze naturali, come la fisica
o la chimica, o ne siano invece essenzialmente diverse. Un altro problema,
collegato del resto al precedente, è come debbano essere trattate le numerose
«eccezioni» che praticamente ogni legge fonetica presenta. Per esempio, la
legge cliGrimm prevede che alle occlusive sorde indoeuropee corrispondano,
nelle lingue germaniche, delle fricative sorde: e in effetti, a */ti indoeuropeo,
I
conservato tra l'altro nel latino /rater 'fratello', corrisponde il gotico bropar, b
dove il simbolo pindica la fricativa sorda /0/ (pronunciata come il segno th I
r
nell'inglese thing). La stessa corrispondenza si osserva in molte altre parole r
(p. es., lat. tres - ingl. three, lat. tenuis - ingl. thin, lat. tacere- got. f:,ahan).
Tuttavia, contrariamente a quanto previsto dalla legge di Grimm, nella parola
gotica per 'padre', ossia/adar,alla* /ti indoeuropea, conservata in latino (pater)
e in varie altre lingue indoeuropee, non corrisponde una fricativa sorda /0/,
ma una fricativa sonora /ò/. Per quanto riguarda, invece, il mutamento del
sistema fonologico dal latino all'italiano, possiamo osservare queste eccezioni:
parole come vinco, lingua,/amigliaderivano rispettivamente dal latino vznco,
lzngua(m),/amzlia(m):in base a quanto detto più sopra, ossia che la i breve
latina in posizione accentata diventa /e/ in italiano, il mutamento «regolare»
avrebbe dovuto produrre *venco,*lengua,*/amelia(si noti che qui l'asteri-
sco non indica «forma ricostruita», ma «forma agrammaticale»). Un altro
controesempio, relativo ancora al primo caso della legge di Grimm: al primo
fonema dell'italiano pagare(dal latino PACARE),dovrebbe corrispondere in
inglese una /f/, ed invece vi corrisponde una /p/: pay.
I propugnatori della nozione di «legge fonetica», i cosiddetti Neogrammatici,
attivi in Germania tra l'ultimo quarto dell'Ottocento e l'inizio del Novecento,
sostenevano che il mutamento fonetico era «privo di eccezioni», e quindi in
quanto tale soggetto a «leggi», ma «nella misura in cui procede meccanica-
mente». Essi quindi riconoscevano tutte le eccezioni alle leggi fonetiche, di
cui quelle che abbiamo appena elencato sono un esempio, ma riconoscevano
anche che il «procedere meccanico» dei mutamenti veniva spesso ad inter-
ferire con altri fattori: il risultato è quindi che, in molti casi, il mutamento
fonetico che si è verificato non è quello che ci si aspetterebbe in base alla legge
fonetica. Naturalmente, si tratta di individuare e definire in modo adeguato
i motivi che hanno causato queste «eccezioni» alle leggi fonetiche. Come
vedremo, questo è possibile, e quindi la posizione dei Neogrammatici può,
nella sostanza, essere considerata adeguata. L'esame della questione, tuttavia,
ci impone di riconsiderare radicalmente il contenuto del concetto di «legge
fonetica», come vedremo in X.2.6.
Le eccezioni alle leggi fonetiche si possono distinguere in due grandi gruppi,
ognuno dei quali ha poi ulteriori suddivisioni. Nel primo gruppo, possiamo
collocare le eccezioni dovute all'effetto di altri fattori, rispetto alla legge fo-
netica in questione, sull'aspetto fonetico assunto dalla parola che ha subito il
mutamento. Questi fattori sono di diverso tipo; li descriviamo nei paragrafi
X.2.1.-X.2.4. Il secondo gruppo di eccezioni sarà trattato in X.2.5.

2.1. Leggi fonetiche concorrenti*

Ritorniamo, ad esempio, sul caso del gotico Jadarinvece di *fapar,che ci aspetteremmo


sulla base di bropar.Se confrontiamo però le due parole corrispondenti a bropare fadar
in sanscrito, ci accorgiamo di una differenza importante: esse sono, rispettivamente,
LINGUISTICASTORICA 263

bhrdtare pitdr. ella prima, l'accento è sulla prima sillaba, e quindi precede l'occlusiva
/ti; nella seconda, è sulla seconda sillaba, e quindi segue l'occlusiva /ti. Nell'ipotesi
ragionevole che la posizione dell'accento sanscrito sia quella originaria dell'indoeu-
ropeo, si può ipotizzare quindi che tale posizione abbia un ruolo determinante nel
mutamento delle consonanti occlusive dall'indoeuropeo al germanico. Nel 1876 il
linguista danese Karl Verner formulò quindi questa legge che porta il suo nome: nel
passaggio dall'indoeuropeo alle lingue germaniche, le occlusive sorde indoeuropee
diventano dapprima fricative sorde; tali fricative sorde, oltre ali'originaria fricativa
indoeuropea /si, diventano sonore se l'accento le segue, mentre rimangono sorde se
l'accento le precede. Quindi, dato che nella parola indoeuropea per 'fratello'(* bhrdter)
l'accento precede l'occlusiva /ti, essa diventa fricativa sorda nelle lingue germaniche
e rimane tale; invece, nella parola per 'padre', l'accento segue la stessa occlusiva, che
diventa quindi prima /6/ e infine /ò/. Possiamo, a questo punto, sulla base della legge
di Verner e di quanto abbiamo detto in X.1.3. sul primo fonema vocalico della parola
indoeuropea per 'padre', ricostruire questa parola come *pHtér.
Della legge di Verner sono state date molte successive riformulazioni, rispetto a quella
originaria qui riportata. La sostanza della spiegazione di Verner è però rimasta intatta:
l'eccezione alla legge di Grimm è spiegabile come effetto dell'intervento di un'altra
legge, che riguarda la sonorizzazione delle consonanti in germanico in una determinata
posizione della parola, ossia quella immediatamente precedente l'originario accento
indoeuropeo. Si noti che la legge di Verner parla di consonantein genere e non di oc-
clusiva:per esempio, la parola per 'figliastra', riconducibile ad una forma indoeuropea
*snusd,è in antico inglese snoru e in antico alto-tedesco snura, con sonorizzazione
del fonema /si in /r/. Anche l'alternanza tra le forme del preterito inglese I was - you
were è riconducibile a questo processo.
L'effetto di un'altra legge spiega anche l'eccezione al mutamento del sistema voca-
lico dal latino all'italiano che abbiamo ricordato sopra, ossia il fatto che lat. vznco,
lzngua(m),/amzlia(m)danno in italiano vinco, lingua,/amiglia, senza trasformazione
della /i/ breve latina in /e/. Questo è il fenomeno detto anafonesi:la /e/ tonica italiana
si è trasformata in /i/ davanti a nasale velare (la [JJ] di [viJJko] e [li)Jgwa]) e a laterale
palatale (la f. di [fa'rnif.f.a]). Questo fenomeno si è verificato soltanto nel toscano,
cioè nel dialetto che è poi diventato la lingua standard dell'Italia (cfr. IX.5.): infatti,
negli altri dialetti troviamo i tipi venco,/ameglia, lengua, ecc.
Veniamo ora a un secondo fattore che può interferire con l'effetto di una legge fo.
netica, ossia il contesto fonetico. Esaminiamo alcune altre «eccezioni» alla legge di
Grimm. Per esempio, al greco ast!r, latino stella, corrisponde il gotico stairno, senza
mutazione di /t/ in /6/; al latino specere 'vedere' corrisponde l'antico alto-tedesco
spehon 'spiare', senza mutazione di /p/ in /f/. Un altro esempio di contesto fonetico
è dato dal rapporto del gotico ahtau con il greco okt&e il latino octo 'otto': l'occlusiva
sorda /ti del greco e del latino è rimasta identica in gotico, invece di mutarsi in /6/. La
mutazione consonantica germanica è dunque bloccata nei seguenti contesti: 1) se le
occlusive sorde sono precedute dalla fricativa sorda /s/; oppure 2) se sono precedute
da una fricativa prodotta per effetto della stessa mutazione consonantica. Il caso 1)
spiega «eccezioni» come ast!r-stella-stairnoe specere-spehon,il caso 2) quelle come
ahtau-okt6-octo.

2.2. Analogia•

L'analogiaè un meccanismo in base al quale si creano forme nuove sul modello di


forme esistenti. Si tratta quindi di un fenomeno morfologico, ma i cui effetti sono tali
da produrre apparenti eccezioni alle leggi fonetiche. In italiano, l'aggiunta di un suffisso
264 CAPITOLO1 0

-tore a un tema verbale X dà come risultato un nome con il significato «colui che fa
l'azione descritta da X» (cfr. V.8.). Così da parla(re)abbiamo parlatore,da lavora(re),
lavoratore,e così via. In base a questo modello, si possono costruire parole nuove: ad
esempio, da un verbo come sviolinaresi può tranquillamente derivare un nome come
sviolinatore.Quest'ultima parola non è registrata da molti vocabolari (per esempio,
il DM, nonché da quello su cui si basa il correttore ortografico del mio sistema di
scrittura, che me la sottolinea in rosso): tuttavia, essa è perfettamente comprensibile
a qualunque parlante italiano conosca il significato del verbo sviolinare.In generale,
si rappresenta una creazione analogica come risultato dell'applicazione di una pro-
porzione, nel senso aritmetico del termine. Nel nostro caso, tale proporzione sarebbe:

parlare : parlatore = sviolinare : x

Il «quarto proporzionale» x è appunto la forma sviolinatore.Ora, accade molte volte


che una forma costruita per analogia, secondo lo schema del quarto proporzionale,
entri in concorrenza con un'altra forma derivata invece da un mutamento fonetico
«regolare», cioè conforme alle leggi. Facciamo ancora una volta un esempio dall'in-
glese e uno dall'italiano. In inglese antico la parola per 'mucca' era cu [ku:], da cui è
derivata regolarmente la forma cow dell'inglese moderno. Il plurale di cu era cy [ky:],
il cui esito fonetico regolare è [kaj], forma attestata in vari dialetti inglesi moderni.
La forma dell'inglese standard, tuttavia, è cows. Essa è stata costruita sul modello di
molte altre parole inglesi che regolarmente prendevano -s come forma del plurale: ad
esempio, sow 'scrofa' - sows 'scrofe', bough 'ramo' - boughs 'rami', stone 'pietra' -
stones 'pietre', ecc. Per un certo periodo, [kaj] e cows sono probabilmente coesistite,
fino a quando la più «regolare» cows ha preso il sopravvento.
In italiano contemporaneo, la desinenza della prima persona singolare dell'imperfetto
indicativo è -o: amavo, donavo, ecc. La desinenza che ci aspetteremmo in base alla
derivazione latina è invece -a:le forme latine sono amabam, donabam,la nasale finale
cade e alla a latina corrisponde in italiano ancora una a, come si è visto sopra. Quindi,
la derivazione «regolare» sarebbe amava, donava, ecc.: e in effetti queste forme si
incontrano largamente in numerosi testi italiani fino all'Ottocento, anzi in molti casi
sono più numerose di quelle in -o. Queste ultime si sono sviluppate per analogia con
la desinenza della prima persona del presente, che è in -o derivando da un -o latino:
amo,dono,ecc. La forma amavosi è quindi costruita sul modello amo : ami= x : amavi.
Dopo esser coesistita a lungo con la forma amava,essa si è poi definitivamente imposta
a spese di quest'ultima.
L'analogia quindi non è, in sé, un mutamento fonetico «irregolare»: è una forma
nuova, costruita in base allo schema del quarto proporzionale, che ha gradatamente
soppiantato la forma derivata in base alle leggi fonetiche. La forza dell'analogia sta
nella regolarità che essa impone alla lingua: la forma «regolare» tende a sostituire quella
«irregolare», come dimostra tra l'altro il fatto che i verbi «irregolari» di una lingua sono
sempre di numero limitato, e verbi di nuova formazione seguono sempre lo schema
regolare di coniugazione. In italiano, esso è quello della prima coniugazione. In inglese
e nelle altre lingue germaniche, quello dei cosiddetti verbi «deboli» (con il preterito e
il participio in dentale, -ed in inglese, -te, -t in tedesco). Anche nelle lingue germaniche
i verbi forti costituiscono una classe chiusa (cioè con un numero limitato di membri),
mentre i verbi deboli formano una classe aperta (a cui cioè si possono sempre aggiun-
gere nuovi membri). Inoltre, certi verbi che in passato erano forti hanno cominciato
a sviluppare una coniugazione debole, per analogia con lo schema dominante: così
abbiamo, in tedesco, gleitete 'scivolava' (da gleiten) invece del preterito forte glitt, o
wurde 'diventava' (da werden) invece di ward; in inglese, accanto al participio sewn
di sew 'cucire', si è formato anche sewed. Si potrebbe pensare che l'analogia, con la
sua forza regolarizzatrice, finisca mano a mano coll'espellere da una lingua tutte le
LINGUISTICASTORICA 265

forme irregolari, ma non sempre è così: ad esempio, in inglese il plurale/eet resiste


benissimo, e non corre (almeno per il momento) il pericolo di essere soppiantato da
una forma */oots(a parte, forse, il linguaggio dei bambini, che come è noto tendono a
«regolarizzare» i paradigmi). Probabilmente, le forme irregolari che resistono meglio
alla sostituzione da parte di forme analogiche sono quelle di maggiore uso.

2.3. Contaminazione*

La contaminazione è un fenomeno simile all'analogia, ma si differenzia da quest'ul-


tima perché non è descrivibile secondo lo schema del quarto proporzionale. Si ha
contaminazione quando gli elementi che costituiscono una forma si «mescolano»
con quelli di un'altra forma (e infatti un sinonimo di contaminazione è mescolanza).
Per esempio, la parola italiana greveè da ricondurre a una forma latina (ricostruita)
*greve(m),sviluppatasi per contaminazione di grave(m)'grave' con leve(m) 'lieve'. Il
risultato di questo processo è l'esistenza, in italiano, di due aggettivi, gravee greve,di
significato simile ma non identico. Un altro esempio di contaminazione è quello della
forma inglese neither'né l'uno né l'altro', la quale, se «conforme» alle leggi fonetiche,
dovrebbe essere *nother,derivando dall'inglese antico nawòer:ma essa deriva invece
da una contaminazione con either 'l'uno e l'altro'.

2.4. Assimilazione, dissimilazione, metatesi, aplologia*

Questi fenomeni sono già stati definiti ed esemplificati, anche con casi di derivazioni
storiche, nel capitolo IV. Ci limitiamo quindi a fornire alcuni esempi solo diacronici,
in qualche caso ripetendoci. Per l'assimilazione: latino FACTU(M)> italiano fatto,
latino OCTO > italiano otto, latino LACTE> italiano latte. Per la dissimilazione: latino
ARBORE(M)> italiano albero,lat. MIRACULU(M)> spagnolo milagro.Per la metatesi:
latino CROCODILUS> italiano coccodrillo.Per l'aplologia: latino stipendium da *stipi-
pendium, composto da stips (gen. stipis)'piccola moneta' e pendere'pagare'.

2.5. Contatto tra lingue*

Veniamo ora al secondo gruppo di fenomeni che sembrano rappresentare un contro-


esempio alle leggi fonetiche. Essi sono costituiti dall'introduzione, in una lingua, di
parole nuove per effetto del contatto con altre lingue, più o meno lontane. Quest'ul-
tima specificazione si riferisce al fatto che una parola può entrare in una lingua per
il prestito da un dialetto molto simile ad essa: ricordiamo ancora una volta che la
differenza tra lingua e dialetto è puramente sociopolitica, non linguistica, e quindi
uno di due dialetti molto simili e molto vicini geograficamente tra loro può diventare,
per motivi diversi, la lingua standard. La vicinanza dei dialetti può, naturalmente,
favorire largamente i prestiti dall'uno all'altro. Per comodità, comunque, possiamo
distinguere tre tipi di prestiti, a seconda del rapporto tra lingua «che presta» e lingua
«che riceve»: 1) prestiti tra due lingue culturalmente e cronologicamente sullo stesso
piano (ad es. prestiti tra francese e inglese, inglese e italiano, ecc.); 2) prestiti tra una
lingua morta e una lingua parlata (ad es. prestiti tra latino e greco da un lato e varie
lingue moderne dall'altro); 3) prestiti tra un dialetto e una lingua standard.
266 CAPITOLO10
------~-~~~~

Un esempio del primo caso è il già citato inglese pay, che presenta una occlusiva sorda
/p/, tanto quanto i suoi corrispondenti nelle lingue romanze, invece di una /f/, come
/oot, che corrisponde al latino pes. Il motivo di questa differenza è che, mentre/oot
e pes derivano entrambi da una radice indoeuropea, e quindi, nel passaggio dall'in-
doeuropeo alle lingue germaniche, il fonema /p/ si è mutato in /f/, pay è un prestito
dal francese payer,a sua volta derivato dal latino pacare,da cui deriva anche l'italiano
pagare.Pay è entrato nella lingua inglese verso il Due-Trecento, quando la mutazione
consonantica germanica non era più attiva.
I prestiti dalle lingue classiche alle lingue moderne sono numerosissimi, soprattutto
nei settori del lessico relativi a concetti astratti, e sono entrati nelle lingue moderne in
epoche diverse. Parole come abolire,arguzia,esagerare,pugile sono prestiti dal latino
entrati in italiano nel Cinquecento; assioma,entusiasmo,plastico,sono entrati dal greco,
nello stesso periodo. Redigeree utente sono prestiti latini attestati in italiano a partire
dall'Ottocento. Un fenomeno particolarmente interessante che riguarda i rapporti
tra latino e italiano è quello dei cosiddetti allòtropi, ossia coppie di parole italiane
derivate dalla stessa parola latina, ma entrate in italiano per due vie diverse, ossia per
mutamento fonetico «regolare» da un lato e per prestito dall'altro. Nel primo caso si
parla anche di «derivazione popolare», perché si suppone che la parola abbia sempre
appartenuto alla lingua parlata, in tutte le fasi di trasformazione di quest'ultima dal
latino all'italiano; nel secondo, di «derivazione dotta», perché la parola è stata presa
a prestito dal latino in fasi successive, normalmente ad opera di eruditi. Un esempio
classico di allotropi è rappresentato dalla coppia pieve- plebe, derivate entrambe dal
latino plebe(m) 'popolo', la prima, però, per via popolare, la seconda per via dotta.
La derivazione di pieve è conforme a tutte le leggi fonetiche che caratterizzano il
passaggio dal latino all'italiano: il nesso consonante+ liquida /pi/ si è trasformato
in consonante+semiconsonante /pj/, la /6/ intervocalica si è spirantizzata, cioè è
diventata la fricativa lvi, e la consonante finale Imi è caduta. In plebe, al contrario, i
primi due processi non si sono verificati: questo è accaduto perché plebe è stata presa
a prestito dal latino nel Due-Trecento, senza percorrere il mutamento che ha portato
dal latino all'italiano. Altri esempi di allotropi sono coltura (derivazione popolare)
e cultura (derivazione dotta), dal latino CULTURA(M),vezzo (derivazione popolare)
e vizio (derivazione dotta) dal latino ViTIU(M), cosa (derivazione popolare) e causa
(derivazione dotta) dal latino CAUSA(M),ecc.
Molte parole sono poi entrate nell'italiano, fin dai primi secoli della sua storia,
come prestiti da altre lingue romanze. Ad esempio, coraggio,gioia, omaggio,viaggio
sono parole entrate in italiano dal francese o dal provenzale in epoca medievale.
Esse quindi non rispettano le leggi fonetiche che descrivono il passaggio dal latino
all'italiano: ad esempio, gioia deriva dal francesejoie, a sua volta derivato dal latino
GAUDIA,che, se passato direttamente in italiano per via popolare, avrebbe dato *gazza
oppure *gaggia.Un termine come guerra è entrato in italiano nel medioevo da una
lingua germanica, soppiantando il latino bellum (che è rimasto invece nel derivato
dotto bellico). Naturalmente, l'adozione di parole di prestito in italiano da lingue
classiche, altre lingue romanze, lingue germaniche, altre lingue indoeuropee e anche
non indoeuropee (in primo luogo, arabo ed ebraico) non ha caratterizzato soltanto
i primi secoli della storia della nostra lingua, ma anche quelli successivi, e continua
tuttora.
Passiamo ora al terzo caso di prestito, seguendo la distinzione di comodo che abbiamo
introdotto, ossia l'ingresso in italiano (o meglio, nel toscano) di parole prese a prestito
da altri dialetti. Ad esempio, corazzae rugiadasono prestiti entrati in toscano già nel
Trecento da dialetti settentrionali. Rugiada deriva dal latino ROSATA(M),e presenta
quindi la sonorizzazione dell'occlusiva intervocalica /ti, un fenomeno questo che non
si verifica nel toscano, in cui dovrebbe dare *rosata.Anche in questo caso, quindi,
l'eccezione alla legge fonetica è solo apparente: la parola rugiadafa parte del lessico
LINGUISTICASTORICA 267

italiano da molti secoli, ma non vi è giunta per una derivazione diretta dal latino, bensì
per un fenomeno di prestito.

2.6. Conclusione sulle leggi fonetiche

In conclusione, possiamo dire che la posizione dei Neogrammatici in merito


alle leggi fonetiche appare sostanzialmente corretta. In effetti, non sono state
trovate eccezioni alle leggi fonetiche in quanto tali, ossia non si è riusciti a
trovare un suono A che si sia mutato, all'interno di una stessa lingua o, per
meglio dire, di uno stesso dialetto, a volte in un suono Be a volte in un suono
C.Questo è il senso in cui si deve interpretare l'affermazione dei Neogramma-
tici che il mutamento fonetico si compie secondo leggi ineccepibili «fin dove
procede meccanicamente». Tuttavia, non tutte le parole di una lingua sono
conformi alle leggi fonetiche, perché o sono intervenuti nella loro formazione
«fattori di disturbo» come l'azione di un'altra legge, o un particolare contesto
fonetico, o fenomeni di contaminazione, assimilazione, dissimilazione, ecc.
Inoltre, alcune parole derivate secondo il mutamento fonetico regolare pos-
sono essere state sostituite da altre costruite sulla base di schemi analogici.
Infine, molte parole sono entrate in una lingua come prestiti da altre lingue
più o meno lontane, e quindi i suoni che le compongono hanno seguito altre
leggi fonetiche.
Tuttavia, proprio l'analisi dei fenomeni di prestito ci dimostra che le leggi
fonetiche non sono leggi analoghe a quelle delle scienze naturali. Pensiamo
al caso dell'inglese pay, di cui abbiamo detto che è entrato in inglese verso il
Due-Trecento, quando la mutazione consonantica, o «legge di Grimm», non
era più attiva. Questo significa che tale legge ha avuto una validità limitata
nel tempo (secondo alcuni specialisti, tra gli ultimi secoli prima di Cristo e i
primi dopo Cristo); inoltre, possiamo aggiungere, ha avuto una validità limitata
anche nello spazio, perché si è verificata in un'area geografica limitata, cioè
quella occupata dalle popolazioni che parlavano lingue germaniche.
Se però le leggi fonetiche sono di validità limitata nel tempo e anche nello
spazio, esse non sono allora paragonabili alle leggi delle scienze naturali,
come la legge della gravitazione universale o quella dei rapporti tra pressione
e volume dei gas. Infatti le leggi di quest'ultimo tipo sono valide in ogni
tempo e in ogni luogo. Ma allora qual è il contenuto «vincolante» delle leggi
fonetiche e come deve essere interpretata l'asserzione che esse sono «prive
di eccezioni», nella misura in cui «il mutamento procede meccanicamente»?
Tenendo presente che il dibattito sulle leggi fonetiche non può dirsi ancora
definitivamente concluso, una risposta possibile è la seguente: le cosiddette
«leggi fonetiche» sono in realtà delle determinazioni di corrispondenze si-
stematiche tra suoni in fasi storiche diverse di una stessa lingua. Qualunque
ricostruzione etimologica che implichi corrispondenze diverse deve essere
giustificata o dall'individuazione dell'effetto di un'altra legge, o di un de-
268 CAPITOLO10
------------------------------~

terminato contesto fonetico, o di particolari fattori, oppure deve riguardare


parole entrate nella lingua per effetto di prestiti.

3. IL MUTAMENTO MORFOLOGICO

Il fenomeno dell'analogia, che abbiamo descritto in X.2.2. per mostrare come


esso spieghi quelle che sono delle apparenti eccezioni alle leggi fonetiche, è
uno dei meccanismi fondamentali di mutamento morfologico per quanto
riguarda la nascita di forme e di parole nuove. La nascita di parole come
sviolinatoreda sviolinare,cliplurali «regolari» come l'inglese cowsdestinato a
soppiantare [kaj], di forme come la prima persona dell'imperfetto indicativo
italiano in -o che si è mano a mano sostituita a quella in -a, sono altrettanti
esempi di mutamenti morfologici prodottisi per effetto dell'analogia, il
primo nel campo della morfologia derivazionale, i due restanti in quello della
morfologia flessionale. Esaminiamo ora qualche altro caso di mutamento
morfologico.
Il fenomeno detto della retroformazione è quello per cui una determinata
parola sembra essere la base di una parola derivata, mentre in realtà il processo
è il contrario: la parola apparentemente derivata è quella base, e quella appa-
rentemente base è quella derivata. Spesso, questo accade perché l'autentica
parola base contiene un suffisso in più rispetto a quella «retroformata». In
inglese, esistono parecchi verbi che foneticamente sono molto simili a parti-
cipi passati latini, ma non è possibile ipotizzare un'origine di questo genere,
perché tali verbi sono prestiti dal francese, e in francese il loro participio
passato si era ormai notevolmente differenziato da quello latino. Così, il verbo
inglese act 'agire' richiama da vicino il participio actus del latino agere,ma
in francese il verbo è agir,con participio passato agi. Qualche altro esempio:
verbo inglese a/flict'affliggere', latino a/fligere,participio passato a/flictus,ma
francese a/fliger,participio passato a/fligé;inglese separate'separare', latino
separare,participio passato separatum,ma francese séparer,participio passato
séparé.La spiegazione di questo curioso fenomeno sta nel fatto che verbi come
a/flict, act, separate,sono retroformazioni dai nomi in -tion corrispondenti:
a/fliction, action, separation,derivati dal latino AFFLICTIONEM,ACTIO EM,
SEPARATIONEM, ed entrati in inglese (nel Trecento) per il tramite del francese.
Questa spiegazione è confermata dall'analisi dei testi inglesi dell'epoca, che
ci mostra come i nomi in -tion siano attestati prima dei corrispondenti verbi
in -t. Il modello con cui queste retroformazioni sono state create è ancora
una volta lo schema analogico del quarto proporzionale: come da un nome
come communion 'comunione' fu derivato un verbo come commune 'essere
in comunione', così da un nome come actionfu derivato un verbo come act,e
così via. Un caso di retroformazione in italiano è rappresentato da nomi come
arrivo,rinvio,che derivano, rispettivamente, dai verbi arrivaree rinviare,e non
viceversa: arrivarerisale al 1300 circa, arrivoal 1566; rinviareal XII secolo,
rinvio al 1812 (datazioni tratte dal dizionario DM).
LINGUISTICA
STORICA 269

Passiamo ora a qualche esempio di grammaticalizzazione, che è il mutamento


linguistico in base al quale un determinato lessema viene a trasformarsi in un
morfema legato (v. anche VI.2.2.). Un primo esempio è quello degli avverbi
italiani in -mente. Dal punto di vista etimologico, -mente è l'ablativo della
parola latina mens 'mente', 'disposizione di spirito', ed in latino sincera mente
era un gruppo formato da due parole, che significava appunto 'con mente
sincera', 'con sincera disposizione di spirito'. A mano a mano, la parola mente
ha cominciato ad essere percepita dai parlanti come un suffisso aggiunto agli
aggettivi come sincera, onesta, rapida, veloce, ecc., dando quindi origine ad av-
verbi come sinceramente, onestamente, rapidamente, velocemente, ecc. Un altro
caso di grammaticalizzazione è quello che è all'origine delle forme di futuro
e di condizionale italiano (e di altre lingue romanze), come canterò, canterei,
ecc. Forme del genere costituiscono un'innovazione totale rispetto al latino,
in cui il futuro è cantabo, e il condizionale è rappresentato dal congiuntivo
(cantarem, cantavissem). Nel latino volgare si svilupparono le forme cantare
habeo (letteralmente 'avrò da cantare') per il futuro e cantare habui ('ebbi da
cantare') per il condizionale, costituite, come si vede, dall'infinito seguito dal
verbo 'avere' al presente (habeo) o al perfetto (habui). Successivamente, le
forme dell'ausiliare si sono fuse con quelle dell'infinito che le precedeva, fino
a diventare dei morfemi desinenziali: canterò, canterei, ecc.
Concludiamo questo paragrafo con un esempio di un fenomeno che potremmo
chiamare di ricategorizzazionee che riguarda il passaggio dal sistema dei
generi del latino a quello dell'italiano. Il latino possedeva tre generi: maschile
(filius 'figlio'), femminile (filza 'figlia') e neutro (folium 'foglia'). L'italiano, in-
vece, possiede solo due generi, maschile e femminile. In generale, i nomi neutri
sono diventati maschili in italiano, grazie anche al fatto che, in latino, la forma
del nominativo-accusativo neutro corrisponde all'accusativo maschile: quindi
somnium è diventato sogno, venenum è diventato veleno, vitium è diventato
vezzo, ecc. Come mai, dunque,/oglza è femminile? In questo caso, la parola
italiana deriva dal plurale latino folta, dapprima inteso come nome collettivo
e poi ricategorizzato come accusativo femminilefolia(m). Il singolare/olium
è invece all'origine della parola italiana/aglio, significato, quest'ultimo, che
nel latino tardo si era aggiunto a quello di 'foglia'.

4. IL MUTAMENTO SINTAmco

Ci può essere il dubbio se alcuni fenomeni di mutamento descritti nel para-


grafo precedente e in questo paragrafo siano da considerare sintattici oppure
morfologici: ad esempio, l'origine del futuro romanzo, che abbiamo già
discusso, e quella del passato prossimo romanzo, che discuteremo ora, sono
spesso trattate insieme, ed in effetti esse presentano, come si vedrà, molti
elementi comuni. Per convenzione, abbiamo classificato l'origine del futuro
romanzo tra i mutamenti morfologici, perché il suo esito è un'unica parola,
mentre trattiamo l'origine del passato prossimo tra i mutamenti sintattici,
270 CAPITOLO 10

perché il passato prossimo è formato da due parole (ausiliare+participio).


Naturalmente, questa convenzione può essere modificata, ed entrambi i
cambiamenti possono essere considerati morfologici, oppure entrambi sin-
tattici. La questione non è, comunque, di importanza fondamentale, almeno
nel presente contesto.
Anche la formazione del passato prossimo romanzo può essere considerata un
caso di grammaticalizzazione: il verbo latino habere, che era originariamente
un verbo con un significato puramente lessicale, ossia 'possedere' (rimasto
nelle lingue romanze in costruzioni del tipo Gianni ha molti soldi), ha assunto
anche un valore equivalente a quello di un puro morfema grammaticale, cioè
quello di indicare il tempo passato. La differenza tra il morfema ho in ho
cantato e il morfema -ò in canterò è che il primo dei due è libero, il secondo
legato (cfr. V.3.1.).
In latino, un unico tempo, il perfetto, serviva ad esprimere tanto quello che noi
esprimiamo con il passato prossimo che quello che esprimiamo con il passato
remoto: litterasscripsipoteva significare tanto 'ho scritto una lettera' quanto
'scrissi una lettera' (da notare che, nell'esempio latino, abbiamo collocato il
verbo dopo il nome; questa scelta non è casuale, come vedremo più avanti in
questo stesso paragrafo). In testi latini anche abbastanza antichi (ad esempio
Plauto, III-II a.C.), troviamo costruzioni tipo litteras scriptashabeo, dove il
participio passato (scriptas)si accorda in genere e in numero con il nome
(litteras,che in latino è plurale): il significato di una frase del genere è quindi
'possiedo una lettera scritta', in cui il verbo habere ha ancora un significato
puramente lessicale. Non seguiremo ora in dettaglio l'intera storia della co-
struzione attraverso i secoli, ma ci basterà notare che verso il VI secolo d.C.
troviamo costruzioni del tipo litteras scriptum habeo, dove il sostantivo e il
participio non concordano più in genere e numero: litterasè femminile plurale,
scriptum è maschile (oppure neutro) singolare. Il passaggio al tipo italiano
ho scritto una lettera è dunque a questo punto abbastanza vicino: anche in
italiano non c'è accordo di genere e numero tra il sostantivo e il participio, e
il significato del verbo avere non è quello lessicale di 'possedere', ma quello
grammaticale di indicare che il mio atto di scrivere ha avuto luogo nel passato.
Notiamo, naturalmente, che per arrivare alla forma italiana (e romanza in
generale) l'ordine reciproco del verbo e del participio si è invertito: in tutte
le fasi del latino, il participio precede il verbo 'avere', mentre nelle lingue
romanze lo segue.
Leggendo gli esempi precedenti, anche chi non conosce il latino avrà probabil-
mente notato che c'è un'altra differenza di rilievo tra latino e italiano: il latino
non possiede gli articoli. Litteras scriptashabeopuò significare tanto 'possiedo
una lettera scritta', quanto 'possiedo la lettera scritta'. Come si sono sviluppati
gli articoli italiani una, la, ecc., e i loro corrispondenti nelle lingue romanze? In
questo caso, ci troviamo di fronte ad un altro fenomeno di ricategorizzazione.
Gli articoli italiani derivano infatti da espressioni che in latino appartenevano
ad altre categorie: illu(m) 'quello' e illa(m) 'quella' erano pronomi dimostrativi,
ed hanno dato origine agli articoli determinativi il, lo, la, ecc. (La storia dell' o-
STORICA271
LINGUISTICA

rigine delle diverse forme dell'articolo determinativo italiano è in realtà più


complessa, ma qui non entreremo nei dettagli.) Unu(m) (maschile) e una(m)
erano dei numerali, quindi significavano 'esattamente uno', 'uno solo', oppure
avevano un valore di indefinito: 'qualche', 'qualcuno'; da essi sono derivati gli
articoli indeterminativi italiani un, uno e una. Quindi, tanto nel caso dell'ar-
ticolo determinativo che in quello dell'articolo indeterminativo, si è formata
nel passaggio dal latino all'italiano una nuova categoria, in cui sono confluiti
alcuni elementi originariamente appartenenti ad altre categorie grammaticali.
Veniamo ora a un mutamento sintattico verificatosi nella storia della lingua
inglese, quello riguardante i verbi cosiddetti modali: canlcould, may/might,
shalllshould, will/would, must, need. Questi verbi, in inglese, hanno un com-
portamento particolare. Ad esempio, in una frase interrogativa o in una nega-
tiva essi assumono la stessa funzione che, con altri verbi, assume il verbo to do:

(6) a. Can you leave your baggage bere?


'Puoi lasciare il tuo bagaglio qui?'
b. *Do you can leave your baggage bere?
(7) a. Do you want to leave your baggage bere?
'Vuoi lasciare il tuo bagaglio qui?'
b. *Want you to leave your baggage bere?
(8) a. I cannot leave my baggage bere
' on posso lasciare il mio bagaglio qui'
b. *I do not can leave my baggage bere
(9) a. I do not want to leave my baggage bere
' on voglio lasciare il mio bagaglio qui'
b. *I want not to leave my baggage bere

I verbi modali quindi si comportano come i verbi ausiliari inglesi (to be, to
bave e to do) ed in modo diverso dai verbi lessicali, tanto che a volte sono
chiamati anche «ausiliari modali». Fino alla metà del Cinquecento circa questa
differenza di comportamento tra verbi modali e verbi lessicali non esisteva
in inglese: le frasi interrogative e negative contenenti verbi lessicali avevano,
rispettivamente, le forme (76) e (96), non quelle (7a) e (9a). A partire da
quell'epoca, una serie di mutamenti morfologici e intattici ha progressiva-
mente «isolato» i verbi modali dai verbi lessicali, ed ha fatto sì che queste due
classi verbali sviluppassero due modi diversi di formare le frasi interrogative
e le frasi negative, nonché altre strutture sintattiche.
Ritorniamo ora alla questione del diverso ordine delle costruzioni latine tipo
litteras scriptas habeo oppure litteras scriptum habeo rispetto alle corrispon-
denti italiane ho scritto una lettera. Anche se è difficile dare una valutazione
esatta di quello che poteva essere l'ordine delle parole in latino, sia per le dif-
ferenze che esso presenta nei vari testi latini, sia, ovviamente, per la mancanza
di parlanti nativi che ci possano informare sull'ordine che essi avvertono come
«più normale», ci sono tuttavia buoni motivi, almeno su base statistica, per
affermare che nel latino classico l'ordine prevalente fosse quello con il verbo
dopo il complemento oggetto, ossia quello dei due esempi appena riportati.
Usando la terminologia introdotta in III.3.2., diremo quindi che il latino è
272 CAPITOLO 10
-----------~--~-----

una lingua OV. In III.3 .2. abbiamo visto anche che l'ordine rispettivo dell' og-
getto e del verbo, in una lingua, è correlato sistematicamente all'ordine delle
parole all'interno di altre costruzioni: le lingue OV sono posposizionali, e se
collocano l'aggettivo prima del nome, collocano anche il genitivo prima del
nome. Viceversa, le lingue VO sono preposizionali e collocano l'aggettivo e
il genitivo dopo il nome. L'italiano è una lingua VO, e quasi senza eccezioni
manifesta tutte le altre proprietà d'ordine di questo tipo di lingue. Ci si può
quindi chiedere: se il latino era una lingua di tipo OV, presentava tutte le
caratteristiche delle lingue di questo tipo? E il passaggio dal latino all'italiano
ha comportato un cambiamento di tutte le proprietà d'ordine, dal tipo OV
al tipo VO? Una risposta decisamente affermativa a questi due quesiti non è
possibile: il latino non manifesta in modo netto tutte le caratteristiche del tipo
OV, e quindi non si potrebbe parlare neppure di un completo cambiamento
tipologico realizzatosi nel mutamento sintattico dal latino all'italiano. Tuttavia,
in termini almeno di «rafforzamento» dell'ordine VO un simile cambiamento
non può essere negato.
Una caratteristica del tipo OV che il latino non dimostra certamente in ma-
niera preponderante è la presenza di posposizioni invece che di preposizioni:
infatti il latino possiede molte preposizioni. Non mancano, però, alcuni casi
di posposizioni, in espressioni del tipo legiscausa,legisgratiii'per legge', an-
che se si potrebbe obiettare che queste costruzioni sono piuttosto dei gruppi
nominali, con il nome testa (causa,gratiii)all'ablativo, preceduto dal genitivo
legis.Interpretando in questo secondo modo tali esempi, comunque, si vede
che il latino manifesta un'altra caratteristica propria delle lingue OV, ossia
l'ordine genitivo-nome (GN); tale ordine ci è documentato anche dai composti
italiani come terremoto,che conservano l'ordine latino terrae(gen.) motus (cfr.
V.11.3.). Assai problematico è stabilire se il latino possedesse l'ordine NA
(tipico delle lingue VO) oppure quello AN (tipico, sia pure in misura minore,
delle lingue OV; cfr. III.3.2.), in quanto entrambi gli ordini sono largamente
attestati: ad esempio, anche con lo stesso aggettivo, abbiamo sia ordini AN
come Punicaarbos 'melograno', lett. 'punico albero', che ordini NA come
malumPunicum'melagrana', lett. 'mela punica'. Stando così le cose, il latino
sembrerebbe possedere alcune caratteristiche delle lingue OV e altre delle
lingue VO. Come si è detto, invece, l'italiano, come tutte le lingue romanze,
appartiene decisamente al tipo VO: ciò significa che nel passaggio dal latino
all'italiano le caratteristiche OV del latino sono andate mano a mano perdute.
Ora, un'altra delle caratteristiche del tipo OV è che l'ausiliare segue il verbo
lessicale (nel nostro caso, rappresentato dal participio), mentre nel tipo VO, al
contrario, l'ausiliare lo precede. Si può dunque spiegare il mutamento dall' or-
dine litterasscriptashabeo,litterasscriptumhabeodel latino a quello ho scritto
una letteradell'italiano come dovuto al definitivo imporsi dell'ordine VO in
italiano. Il verbo haberelatino si era trasformato da verbo lessicale a verbo
ausiliare, mantenendo però la posizione che l'ausiliare ha nelle lingue OV: la
definitiva affermazione che il tipo VO ha avuto con la nascita dell'italiano ha
implicato il cambiamento dell'ordine tra ausiliare e participio.
STORICA273
LINGUISTICA

5. ILMUTAMENTO
LESSICALE
E SEMANTICO
In VIII.1. abbiamo definito il significato come «il modo di indicare la realtà»
da parte di una data parola in una data lingua. Un mutamento semantico sarà
dunque un mutamento nel modo di indicare la realtà: per esempio, la parola
latina plebs (accusativo plebe(m))indicava originariamente la 'popolazione';
successivamente, diventando l'italiano pieve, ha cominciato ad indicare il
gruppo di fedeli che facevano capo ad una certa chiesa rurale; infine, è passata
ad indicare la chiesa stessa. Per indicare la popolazione, e in particolare gli
strati più umili di essa, si è ricorsi quindi al termine plebe, di «derivazione
dotta» (v. sopra, p. 266).
Possiamo ora elencare alcune categorie principali in base alle quali possono
essere classificati i mutamenti semantici. Come si vedrà, in diversi casi queste
categorie sono quelle della retorica: ma si è già visto in VIII.2 .3. come i concetti
retorici abbiano un ruolo importante anche nell'uso ordinario del linguaggio.
Un primo tipo di mutamento semantico è il restringimento del significato
di una parola: il latino necaresignificava genericamente 'uccidere', ma i suoi
derivati romanzi (italiano annegare,francese noyer,ecc.) significano specifi-
camente 'uccidere per mezzo dell'acqua'. Il latino fortuna significava 'sorte'
in generale, poi ha assunto il significato più ristretto di 'buona sorte', 'sorte
favorevole'. In inglese, meatè passato dal significato generale di 'cibo' a quello
più specifico di 'carne'.
Il fenomeno contrario al restringimento è l'ampliamento di significato. La
parola latina virtus, che significava le qualità proprie dell'uomo maschio
(vir),quindi in primo luogo il valore, soprattutto bellico, ha assunto, nei suoi
derivati nelle lingue romanze, come l'italiano virtù, il significato di 'qualità
positiva'~ generale. Un altro esempio è quello di caballus,che originariamente
significava 'cavallo da lavoro', 'ronzino', e che è poi passato ad indicare il
cavallo in generale, soppiantando equus(che è rimasto nelle derivazioni dotte
equino,equestre,ecc.).
Un mutamento semantico per metafora si ha in un caso come quello dell'ita-
liano capire,che deriva dal latino capere,il cui significato originario è 'afferrare',
nel senso concreto del termine (afferrare con le mani). L'estensione metaforica
consiste nell'attribuire a tale verbo il significato di 'afferrare in senso astratto',
afferrare cioè con la mente.
Un esempio di mutamento semantico per metonimia è quello che ha portato
dal latino BUCCA(M),originariamente 'guancia', al significato di 'bocca' (che
si diceva originariamente os, da cui l'italiano orale):la metonimia è la crea-
zione di un nuovo significato per contiguità con quello precedente; quindi la
contiguità dei significati di 'guancia' e 'bocca' ha portato la parola buccadal
primo al secondo. Anche il passaggio del significato di pieve da 'popolazione
che si raccoglie intorno ad una determinata chiesa' a 'chiesa' può essere un
esempio di metonimia.
Un caso di sineddoche (una parte per il tutto) è quello dell'inglese stove, che
significa 'stufa', ma che deriva da una parola che significava 'stanza riscaldata'
274 CAPITOLO10

(ted. Stube).Un caso di iperbole(intesa come passaggio da un significato più


forte a un significato più debole) è quello del francese étonner ('stupire'), la
cui etimologia si fa risalire, per ricostruzione, a un ipotetico latino* ex-tonare,
ossia 'colpire con il tuono'. La litote è il passaggio da un significato più debole
a uno più forte: per esempio, in latino eliminarevoleva dire 'allontanare di
casa' Oett. 'fare uscire dalla soglia di casa'), mentre in italiano può significare
addirittura 'uccidere'.
Il significato di una parola può anche mutare per degenerazioneoppure per
innalzamento.Un fenomeno del primo caso è quello dell'italiano facchino,
derivato probabilmente dall'arabo faqrh, originariamente 'giureconsulto',
poi, per una serie di degenerazioni successive, passato ad indicare prima
'funzionario di dogana' e poi 'portatore di pesi'. Il caso contrario, ossia l'in-
nalzamento, può essere esemplificato dalla parola ministro,dal latino minister,
che significava 'servo', e poi, attraverso il significato specifico di 'servo del re',
'servo dell'imperatore', è passato a quello odierno di 'capo di un ministero'.
Gli esempi di capiree di eliminareci hanno mostrato un'altra caratteristica
importante del mutamento semantico, ossia il fatto che molti significati
astratti derivano da significati concreti. Così, l'inglese understandsignifica
letteralmente 'stare sotto' e, dato che in antico inglese undervoleva dire anche
'fra' (inglese moderno among),anche 'stare fra', 'stare in mezzo a'. Quindi,
originariamente una frase come I understand these things 'capisco queste
cose' significava 'sto in mezzo a queste cose'. Il latino definire significava
originariamente 'tracciare i confini' (dafinis, 'confine').
Un altro fattore di mutamento semantico è la trasformazione di nomi propri in
nomi comuni. Il caso più celebre è forse quello del tedesco Kaisere del russo
zar,entrambi con il significato di 'imperatore', e derivati da un nome proprio
latino, Caesar,ossia Giulio Cesare, il primo imperatore romano di fatto (anche
se non di diritto). Ma anche la parola dollaroderiva, in un'ultima analisi, da
un nome proprio. L'inglese d'America dollarè infatti un prestito dal tedesco
Taler,che abbrevia ]oachimstaler,a sua volta derivato da ]oachims-tal('valle
diJoachim'): in questa valle, che si trova in Boemia, vi era nel Cinquecento
una zecca di monete d'argento.
LINGUISTICASTORICA 275

NOTA STORICO-BIBLIOGRAFICA

Ai tentativi di classificazione genealogica delle lingue prima dell'Ottocento si è già accennato


nel testo. Lo sviluppo della linguistica storico-comparativa ricevette un impulso decisivo dalla
scoperta della parentela del sanscrito con le lingue dell'Europa: questa «scoperta» è solitamente
attribuita all'inglese William J ones (1746-1794), in una memoria del 1786, ma qualche intuizione
del genere non manca in studiosi precedenti. La parentela del sanscrito con le lingue europee fu
ribadita, una ventina d'anni dopo (1808), dal letterato tedesco Friedrich Schlegel (1772-1829),
in un volume dedicato alla «lingua e alla sapienza degli indù». La popolarità e il prestigio di
cui godeva Schlegel accrebbero in modo considerevole l'interesse per queste tematiche presso
i giovani studiosi tedeschi. Nel 1816, uno di essi, Franz Bopp (1791-1867), pubblicò quello
che può essere considerato il primo lavoro di grammatica storico-comparativa nell'ambito
indoeuropeo [Bopp 1816]. Dai primi decenni dell'Ottocento, l'indoeuropeistica conosce uno
sviluppo tumultuoso: nel 1822 Jacob Grimm (1785-1863), nella seconda edizione della sua
DeutscheGrammatik,formula quelle corrispondenze sistematiche tra le lingue germaniche e
le altre lingue indoeuropee che passeranno alla storia come la legge fonetica che porta il suo
nome (in realtà, queste corrispondenze erano già state individuate dal danese Rasmus Rask nel
1818 e Grimm non usava il termine «legge»). Il metodo storico-comparativo viene applicato con
successo anche ad altri gruppi di lingue indoeuropee, come le lingue romanze: il fondatore della
linguistica romanza può essere considerato Friedrich Diez (1794-1876), che tra il 1836 e il 1844
pubblica la prima edizione della sua grammatica comparata delle lingue romanze. Il successo
raggiunto dal metodo comparativo è testimoniato dall'opera di August Schleicher (1821-1868),
a cui, come si è visto nel testo, si deve l'immagine dell'albero genealogico per rappresentare la
parentela tra le lingue indoeuropee. In realtà, l'albero genealogico era per Schleicher molto più
che un'immagine, in quanto egli aveva una concezione naturalistica della storia delle lingue, da
lui considerate «organismi naturali, che nascono, si sviluppano e muoiono». (Spesso si asserisce
che Schleicher fu influenzato in questa sua concezione dalle teorie di Charles Darwin sull' e-
voluzione delle specie biologiche, ma in realtà egli aveva già sostenuto queste posizioni prima
che Darwin pubblicasse, nel 1859, la sua opera L'originedelle specie,in cui formulava le teorie
evoluzionistiche.) Il «naturalismo» di Schleicher fu abbandonato, anzi addirittura osteggiato,
dagli studiosi della generazione successiva alla sua, ma questi stessi studiosi insistettero sulla
regolarità dei mutamenti fonetici, anche in base agli importanti risultati che la linguistica storico-
comparativa aveva conseguito negli anni Sessanta e Settanta dell'Ottocento: in particolare, nel
1876 Karl Verner (1846-1896) aveva dimostrato che alcune «eccezioni» alla legge di Grimm erano
spiegabili come effetto di un'altra legge (cfr. sopra, X.2.1.) e altre «eccezioni» in altri gruppi di
lingue indoeuropee avevano trovato spiegazioni analoghe. Sulla base di questi risultati, nel 1878
due giovani studiosi (da cui il nome tedesco ]unggrammatiker,reso un po' liberamente in italiano
con «Neogrammatici»), Karl Brugmann (1849-1919) e Hermann Osthoff (1847-1909), poterono
sostenere che le leggi fonetiche non ammettono eccezioni (cfr. X.2.). Questa affermazione fu
condivisa da alcuni linguisti e vivacemente contestata da altri, e si originò così un aspro dibattito
che durò all'incirca dal 1880 al 1885: sulla valutazione generale del concetto di legge fonetica
si veda ancora il testo. A parte queste discussioni di principio, l'attività dei Neogrammatici si
realizzò comunque in una serie di imponenti lavori di sistemazione dei risultati raggiunti durante
tutto l'Ottocento dalla linguistica storico-comparativa delle lingue indoeuropee: la grammatica
276 CAPITOLO10

comparata delle lingue indoeuropee (Grundrissder vergleichendenGrammatikder indogerma-


nischenSprachen),opera di Brugmann e di Berthold Delbriick (1842-1922), rimane a tutt'oggi
un riferimento imprescindibile per chiunque svolga ricerche in questo campo.
Una presentazione accuratissima dello sviluppo della linguistica storica è Morpurgo Davies
[1996] (riedizione del cap. X di Lepschy [1990-1994]), a cui si rimanda per qualunque ul-
teriore informazione. Per un'introduzione alla linguistica storica, v. Fanciullo [2007]; alcune
tematiche specifiche della disciplina sono trattate in Lazzeroni [1987]. Ancora molto utili sono
i capitoli dedicati alla linguistica storica del classico Languagedi L. Bloomfield [1933, capp.
XVII-XXVII]: vi si potranno trovare numerose informazioni sul concetto di legge fonetica e sui
problemi connessi, sul mutamento morfologico e sul mutamento semantico e lessicale. Molto
utile, come introduzione al metodo comparativo, nonché per la discussione delle «eccezioni»
alle leggi fonetiche, anche Hjelmslev [1963]; questo volume affronta poi in modo assai pene-
trante il confronto tra parentela linguistica genealogica e parentela tipologica. Sulla famiglia
linguistica indoeuropea in generale e sui singoli gruppi di lingue indoeuropee, v. Giacalone
Ramate Ramat [1993].

DOMANDE

1. Perché la somiglianza di parole non è un criterio adeguato per dire che due lingue sono
apparentate genealogicamente?
2. Sapresti fare un esempio di «corrispondenza sistematica» tra fonemi di più lingue?
3. Che cos'è una «forma ricostruita»? E come la si indica?
4. Che cos'è l'«albero genealogico» delle lingue indoeuropee? Quali sono i vantaggi e quali i
limiti di tale immagine?
5. Quali sono le corrispondenze fonetiche descritte dalla cosiddetta «legge di Grimm»?
6. Quali sono i motivi che possono causare «eccezioni» alle «leggi fonetiche»?
7. Le «leggi fonetiche» possono essere considerate analoghe alle leggi delle scienze naturali?
8. Cosa si intende rispettivamente con «retroformazione», «grammaticalizzazione» e «ricate-
gorizzazione»?
9. In base a quali fatti si può dire che nella trasformazione dal latino all'italiano si è rafforzato
l'ordine VO?
10. Quali sono i tipi principali di mutamento semantico?
CAPITOLO 11
L'acquisizione
del linguaggio

I bambini imparano a parlare la loro lingua in un tempo relativamente breve, senza


ricevere istruzioni esplicite,attraversando tutti le stessetappe. Questo capitolo è dedicato
all'acquisizione della prima e della seconda lingua, e a quello che questi processi ci
possono insegnare sulla natura del linguaggio.

INTRODUZIONE

Gli studiosi del linguaggio, siano essi filosofi o linguisti, si interessano da


sempre a come il linguaggio sia appreso dai bambini, e lo stesso faremo noi in
questo capitolo. Ma è chiaro che questo interesse costituisce un'anomalia. È
difficile trovare un capitolo sull'apprendimento della fisica in un'introduzione
a tale disciplina di livello universitario, ed è ancora più improbabile che si
rifletta sull'acquisizione in manuali di ingegneria. Il primo motivo di questa
specificità ha a che vedere con quella che potremmo chiamare l'universalità
del linguaggio: tutti gli uomini parlano (e tutti i bambini imparano a parlare),
e questo rende il linguaggio un fenomeno strettamente connesso alla natura
umana, certo molto più dell'ingegneria. È comprensibile in questo senso che
si cerchi di indagare come il linguaggio, questa proprietà così strettamente
legata alla sua natura, arrivi all'uomo. Il secondo motivo per cui si sente il
bisogno di studiare l'acquisizione del linguaggio riguarda le caratteristiche
uniche e sorprendenti con cui questa avviene, che ci possono dire molto sulla
natura stessa del linguaggio.

1. LAPOVERTÀDELLOSTIMOLO

Pensiamoci un momento: c'è qualcosa di molto strano in come i bambini


imparano a parlare, se li confrontiamo agli adulti. Di fatto piccoli individui
278 CAPITOLO 11

immaturi, capricciosi e poco inclini alla concentrazione fanno molto meglio


di studiosi e linguisti.
Un bambino impara a padroneggiare la sua lingua in pochi anni, molto prima
di cominciare ad andare a scuola. Lo fa senza porvi particolare attenzione o
dedizione, anzi, mentre è impegnato a fare cose per lui altrettanto o spesso più
importanti, come imparare a stare in piedi, a deambulare, a nutrirsi da solo,
a socializzare, a giocare. Questo vale sia per il bambino accudito, stimolato
e coccolato che per quello trascurato o deprivato; tanto per il «primo della
classe» che per il bambino con difficoltà di apprendimento. Si tratta di un
processo che può naturalmente variare da individuo a individuo, ma che si
compie comunque in maniera sostanzialmente uniforme con un successo.
Un adulto, al contrario, per quanto «portato per le lingue», impiegherà molti
anni di duro lavoro e impegno per raggiungere un risultato che non è neanche
lontanamente paragonabile a quello del bambino. Avrà probabilmente bisogno
di una forte motivazione e dell'aiuto di un insegnante, si dovrà impegnare
in noiosi e frustranti esercizi e ripetizioni. Ma per quanti sforzi faccia, avrà
un accento straniero, ci saranno degli errori che continuerà a commettere, e
difficilmente si sentirà completamente a suo agio nella seconda lingua.
Eppure, i bambini non sono esposti a un modello molto ricco e coerente della
lingua che devono apprendere: i loro genitori o le persone che li accudiscono
non sono sempre attenti a parlare con enunciati perfetti e completi; spesso
producono frasi frammentarie, lapsus, false partenze. Non si può neanche dire
che i genitori insegnino a parlare ai propri figli: i feedback con cui accolgono
le produzioni infantili sono molto più spesso concentrati sul contenuto del-
1'enunciato piuttosto che sull'accuratezza formale. Per fare un esempio, se una
bambina mostra trionfante il disegno di una farfalla alla madre dicendo una
ciacialla,è molto difficile che la madre la sgridi e la corregga per la pronuncia
inaccurata. Nei rari casi in cui gli adulti forniscono una correzione linguistica,
si concentrano piuttosto sulla correttezza pragmatica («non si dice voglio,si
dice vorrei»),o morfologica («non aprito,aperto»).E comunque, è esperienza
comune osservare quanto i bambini siano refrattari a queste (poche) corre-
zioni: come vedremo più avanti, le forme regolarizzate come apritovengono
sostituite con quelle corrette solo molto tardi.
Tutte queste osservazioni si possono riassumere in quello che va sotto il nome
di problema della povertà dello stimolo. In altre parole, si osserva nel bambino
una discrepanza tra lo stimolo (ciò che sente o che gli viene insegnato: si usa
spesso l'espressione neutra ciò a cui viene esposto),che è appunto povero,
disturbato, variabile e discontinuo, e la rapidità, uniformità e solidità con cui
egli sviluppa una lingua. Il bambino, come vedremo, non sembra procedere
per tentativi ed errori, provvedendo a correggersi dopo essere stato corretto.
Sembra al contrario seguire un percorso predefinito e in parte autonomo da
quello che gli viene detto: come vedremo, gli errori che commette sono sia
molti meno sia molto diversi da quelli che ci aspetteremmo se procedesse alla
cieca. Solo lo studio scientifico, sistematico e controllato di come ciò avvenga
può permetterci di spiegare il problema della povertà dello stimolo. È anche
L'ACQUISIZIONEDEL LINGUAGGIO 279

per questo che qui si parlerà di acquisizione piuttosto che di apprendimento,


per sottolineare la sostanziale estraneità del fenomeno da altre forme di ap-
prendimento basate su tentativi ed errori.
In generale, lo studio dell'acquisizione del linguaggio da parte del bambino,
come anche quello dell'apprendimento di una seconda lingua nell'adulto,
possono illuminare aspetti centrali della natura del linguaggio. In partico-
lare, ci possono dire qualcosa di più circa la predisposizione che i bambini
dimostrano per il linguaggio, se si tratti in particolare di una predisposizione
generica all'apprendimento o di un vero e proprio istinto del linguaggio, una
predisposizione specifica a elaborare in una grammatica gli stimoli linguistici
cui si è esposti. In quest'ultimo caso, che si è dimostrato molto più probabile,
lo studio dell'apprendimento ci porta a concludere che il linguaggio, con
cui pure non nasciamo (i neonati non parlano!), è parte del bagaglio che
ereditiamo in quanto membri della specie umana, e non solo come cittadini
di questa o quella comunità.

2. COMESI STUDIAL'ACQUISIZIONE

Non è facile studiare come i bambini imparano a parlare, soprattutto quando


si tratta di bambini molto piccoli. Innanzitutto, perché quello che è immedia-
tamente tangibile, la produzione del linguaggio, cioè come i bambini parlano, è
solo un aspetto del loro apprendimento: i bambini devono anche naturalmente
imparare a cogliere e capire il linguaggio, e non abbiamo alcuna garanzia che
comprensione e produzione vadano di pari passo. Si devono quindi trovare
modi per capire cosa un bambino sappia sul linguaggio anche a prescindere
da quello che effettivamente produce. Non è facile, perché non glielo si
può chiedere, soprattutto se è molto piccolo. Pensiamo ai neonati. Passano
molti mesi prima che i bebè comincino a produrre suoni articolati definibili
come linguistici (lo vedremo più avanti), eppure fin dalla nascita i bambini
dimostrano interesse e spesso autentica passione per la parola, specie quella
della madre: che cosa percepiscono? Che cosa traggono da questa continua e
prediletta esposizione al linguaggio? Ecco che si dovranno escogitare (e fortu-
natamente si sono escogitati) veri e propri trucchi sperimentali per indagare
nella loro competenza anche precoce o precocissima. Anche con bambini più
grandi, molte delle tecniche adoperate dai linguisti per indagare la competenza
linguistica degli adulti sono inutilizzabili: è praticamente impossibile che
bambini sotto i quattro anni possano fornire giudizi di grammaticalità (cfr.
I.2.), e qualunque compito sperimentale deve fare i conti con la loro scarsa
capacità di prestare attenzione o ricordare le istruzioni, e con la loro spesso
imprevedibile e ondivaga disposizione a collaborare con un estraneo.
D'altra parte anche l'analisi dell'aspetto più visibile e per così dire «dato»
del linguaggio del bambino, la sua produzione spontanea, non è immediata
né priva di problemi. Certo, nell'ultimo secolo, con l'avvento delle nuove
tecnologie di registrazione audio e video, questo tipo di analisi ha subito
280 (APrTOLO11
------------------------------~

un'evoluzione rapidissima. Il risultato è stato l'accumulo di un'enorme massa


di dati, che ci possono fornire informazioni importantissime sullo sviluppo
del linguaggio, ma aprono anche molti problemi: i dati registrati non sono
utilizzabili senza essere prima trascritti e codificati. Solo così possono essere
condivisi e confrontati, ma l'operazione non è priva di rischi. Ne parleremo
brevemente nel prossimo paragrafo.

2.1. La produzione linguistica: dati spontanei ed elicitazioni

Il modo più semplice di studiare come un bambino impara a parlare è osser-


varlo. Si ottengono così dati naturali e spontanei, in questo senso reali, che
rispecchiano il linguaggio che il bambino usa quotidianamente con i suoi
familiari in contesti quotidiani svolgendo attività abituali.
Alcuni dei primi studi sull'acquisizione linguistica si richiamano a questo
approccio, e sono costituiti dai cosiddetti diari genitoriali: annotazioni e
descrizioni più o meno dettagliate e regolari di un genitore (spesso il padre)
che osserva e riflette sullo sviluppo linguistico del figlio. Un esempio spesso
citato è il diario che tenne Charles Darwin in relazione alle prime produzioni
di suo figlio.
Questo tipo di analisi presenta due limiti molto evidenti. Il primo riguarda la
forma del diario in sé: non contiene dati puri, ma solo dati analizzati, trascritti,
selezionati tra quelli che l'osservatore considera più interessanti. Risentono
quindi fortemente dell'ipotesi di partenza o anche semplicemente del punto
di vista del ricercatore, tanto più specifico e potenzialmente fuorviante.
L'altro problema è quello della rappresentatività: le conclusioni che si
vogliono raggiungere di solito riguardano l'apprendimento del linguaggio
come fenomeno generale e non solo quello di un singolo individuo. I diari
genitoriali tipicamente riguardano lo sviluppo di un solo bambino, e sono
difficilmente confrontabili e incrociabili per la metodologia diaristica con
cui sono compilati.
Gli studi basati sull'osservazione hanno ricevuto un fortissimo impulso con
gli anni Sessanta del Novecento, quando intere équipe di ricercatori comin-
ciarono ad audioregistrare e trascrivere la produzione di campioni di bam-
bini. Si trattava per lo più di studi longitudinali,cioè che seguono, registran-
doli a intervalli periodici in contesti familiari, un numero esiguo di bambini
lungo un arco di tempo piuttosto lungo (anche diversi anni). Alcuni di
questi studi (come quello di Roger Brown di Harvard sui tre bambini Adam,
Eve e Sarah) sono ancora oggi alla base di molte delle nostre conoscenze.
Ma finché ogni gruppo trascriveva e codificava i dati secondo sistemi empi-
rici elaborati per l'occorrenza, era difficile la necessaria comparazione tra i
diversi studi e la loro integrazione in un corpus di conoscenze affidabili che
consentisse di trarre conclusioni generali sul processo di acquisizione lingui-
stica. La situazione è cambiata radicalmente a partire dai primi anni Ottanta
L'ACQUISIZIONEDEL LINGUAGGIO 281

con il sistema CHILDES (child language data exchange: http://childes.psy.


cmu.edu), un sito che ha consentito agli studiosi di condividere i propri dati,
resi perfettamente omogenei dall'uso di uno stesso sistema di trascrizione
(il cosiddetto CHAT), e completamente disponibili ai ricercatori tramite il
web. Oggi, CHILDES è il più vasto corpus di parlato spontaneo del mondo,
con dati provenienti da 28 lingue diverse, e permette di studiare lo sviluppo
linguistico di un vasto numero di bambini (o ex bambini: i primi dati risal-
gono ai primissimi anni Ottanta!), inclusi bilingui e individui affetti da varie
patologie.

Ma persino la vastità e l'omogeneità di CHILDES non possono ovviare a un


limite intrinseco dei dati di osservazione: quello di essere per forza di cose
episodici. Supponiamo che una data costruzione non risulti mai attestata nel
corpus relativo ali'osservazione della produzione di un bambino. Possiamo
concludere con certezza che tale costruzione non è stata appresa? Non è detto.
La sua assenza potrebbe essere casuale (non è mai capitato che il bambino la
producesse in presenza dell'osservatore), o dovuta a una difficoltà strutturale.
Pensiamo per esempio alle frasi relative (cfr. Vll.3 .4.): si tratta di strutture
molto complesse, e per questo piuttosto rare nella produzione spontanea
parlata anche degli adulti. È poco probabile che la semplice osservazione del
parlato spontaneo fornisca dati sufficienti a darci un'idea di questa struttura,
peraltro presente in tutte le lingue, e della sua evoluzione.
È quindi necessario integrare i dati di osservazione con dati sperimentali, che
con varie tecniche inducano il bambino a produrre una data forma. Si parla
in questo caso di elicitazione linguistica. Queste tecniche variano natural-
mente sia a seconda dell'età dei bambini da testare
sia a seconda della domanda sperimentale, owero del
fenomeno che si intende indagare. Essendo basati di
solito su protocolli sperimentali abbastanza brevi nella
loro applicazione, gli studi di elicitazioni consentono
ricerche di tipo trasversale: si possono raccogliere e
confrontare i dati di diversi gruppi anche numerosi
di bambini divisi per età o per lingua di acquisizione.
Un esempio storico di questo tipo di tecniche, un po'
«This is a wug»
più antico dello studio pionieristico di Brown sopra
citato, è il cosiddetto test di wug elaborato da Jean
Berko e dalla sua équipe per studiare l'acquisizione
della morfologia flessiva (fig. 11.1).
In questo test veniva chiesto a gruppi di bambini di
diverse età di formare il plurale di animali sconosciuti
dal nome inventato, come appunto il wug. Lo speri-
mentatore indicava un'immagine che rappresentava «Now there is another one.
There are two of rhem.
uno di questi animali e diceva «questo è un wug». There are two ... ?»
Indicava poi un'altra immagine che ne ritraeva due e
diceva: «Ora ce n'è un altro. Ce ne sono due. Ci sono fig. 11. 1. Thisis a wug [Berko 1958).
282 CAPITOLO11

due __ ». È importante usare parole inventate, perché solo così si può essere
sicuri che il bambino stia seguendo una regolaastratta e non ripetendo una
forma già sentita. È stato grazie a questo tipo di esperimento che si è scoperto
che i bambini conoscono e seguono regole di questo tipo per la formazione
dei plurali e altro ben prima di aver mai messo piede in una scuola. Il test di
wug rappresenta ancora oggi un modello di tecnica sperimentale per ottenere
dati di produzione focalizzati intorno a un determinato fenomeno. Ma non
c'è limite alla fantasia dei ricercatori quando si tratta di indurre i bambini a
produrre la struttura in esame: pupazzi parlanti, cartoni animati, giochi di
ruolo, vignette e via dicendo.

2.2. La percezione: come scoprire cosa sa il bambino

Come si è detto, la produzione linguistica di un bambino rappresenta solo la


punta dell'iceberg della sua competenza linguistica. Sappiamo che sia a livello
lessicale sia a livello strutturale la comprensione precede cronologicamente
la produzione. In altre parole, il bambino capisce molte cose ben prima di
produrle. Per fare un esempio ovvio, sappiamo che i bambini preverbali (cioè
che ancora non parlano) capiscono molte parole, tra cui il proprio nome e
quello dei loro familiari più stretti. Ma lo stesso vale per i bambini più grandi,
che sono per esempio in grado di usare informazioni grammaticali presenti
negli enunciati cui sono esposti (quali i morfemi flessivi: cfr. V.6.) prima
di cominciare a produrli essi stessi. La necessità di indagare cosa sappia il
bambino è particolarmente pressante in relazione alla lunga fase di silenzio
(in realtà tutt'altro che silenziosa, come ben sanno mamme e babysitter!)
che caratterizza i primi sei mesi di vita dell'infante. In questa fase è anche
interessante capire che cosa percepiscail bambino, se sia per esempio in grado
di «sentire» differenze fonologiche non presenti nella lingua che è destinato
ad imparare, o quando cominci a spezzare il flusso di suoni cui è esposto in
segmenti, le parole. In questo caso non c'è alternativa alla sperimentazione,
e si sono sviluppate soluzioni spesso molto ingegnose, in molti casi prese in
prestito dalla psicologia, per accrescere le nostre conoscenze.
Une delle procedure più usate per indagare la competenza linguistica dei
neonati è il paradigma della suzione non nutritiva (HASP: high amplitude
sucking paradigm).Questa tecnica prevede l'uso di uno speciale succhiotto,
collegato a sensori che misurano la frequenza e l'intensità di suzione. Si basa
sul fatto che la forza con cui un bambino succhia è in qualche modo misura
della sua attenzione. Il bambino viene lasciato succhiare tranquillamente, fin-
ché gli viene fatto sentire un dato input linguistico. A sentire questa novità, il
bambino comincerà a succhiare con maggior vigore. Dopo diverse ripetizioni
dello stesso input, comincia a calare l'attenzione e con essa la frequenza di
suzione. A questo punto comincia l'esperimento, e i bambini sono divisi in
due gruppi. A un gruppo, cosiddetto di controllo, si continua a far sentire
L'ACQUISIZIONEDEL LINGUAGGIO 283

fig. 11.2. Fammi vedereil gallo che guarda i cani I Fammi vedereil gallo che i cani guardano.

lo stesso input: e la frequenza di suzione continua a calare gradualmente. A


un altro gruppo, il gruppo sperimentale vero e proprio, si fa invece sentire
un nuovo input. Se la differenza non è percepita, la frequenza di suzione
continuerà a calare; se invece il nuovo input è percepito come tale, i bambini
ricominceranno a succhiare con vigore, e si avrà quindi evidenza di una ca-
pacità di discriminazione tra i due input.
Questo tipo di tecnica è stata adoperata con grandi successi per dimostrare
che bambini di pochi giorni e settimane hanno già una competenza fonologica
sviluppatissima.
Dal sesto mese di vita si adopera piuttosto il paradigmadella preferenza
nell'orientamentodella testa (HPP: headturn pre/erence procedure), in cui
la capacità di discriminare due input sonori viene stabilita verificando se il
bambino porta o meno lo sguardo nella direzione da dove proviene il dato
che gli è più familiare.
Per testare invece la comprensione di strutture complesse presso bambini
più grandi si adoperano spesso materiali come la vignetta riprodotta nella
figura 11.2, usata recentemente in uno studio sulla comprensione delle
frasi relative in bambini di età prescolare. In questo test ogni bambino
osserva una serie di vignette simili a quelle riprodotte nella figura 11.2 e
riceve un'istruzione del tipo: a) «fammi vedere il gallo che guarda i cani»,
oppure b) «fammi vedere il gallo che i cani guardano». Se somministrato a
un numero significativo di bambini, possibilmente appartenenti a gruppi di
età diversi, questo tipo di tecnica sperimentale può dirci molto su quando e
come vengano acquisite strutture come le relative. Si è scoperto per esempio
che le frasi relative sul complemento oggetto, come b), diventano del tutto
comprensibili molti anni dopo le frasi relative sul soggetto come a).
3. LO SVILUPPODELLAPRIMA LINGUA

Per molti genitori, la prima parola, di solito pronunciata intorno al primo


anno, segna il vero inizio del linguaggio del loro bambino. Ma c'è molto altro,
sia prima sia dopo, quella prima parola. Il primo anno è tutt'altro che una
fase passiva o statica per l'acquisizione del linguaggio; e, come abbiamo visto
lungo tutto questo volume, c'è ancora molta strada che il bambino deve fare
prima che lo si possa definire un parlante: le parole, cioè, sono solo un aspetto
della complessa grammatica che deve arrivare a padroneggiare, che è fatta di
suoni, di forme e di strutture. In questo paragrafo seguiremo a grandi linee
le tappe di questo percorso, tenendo sempre distinti e presenti i due aspetti
della percezione e della produzione.

3.1. Lo sviluppo della fonologia

Un neonato è in una condizione molto simile a quella in cui ci troviamo noi


di fronte a una lingua sconosciuta: sentiamo un flusso continuo di suoni
senza riuscire a percepirne i confini e a intravederne il significato. Inoltre
il neonato non ha la memoria e le capacità di astrazione e di elaborazione
dell'informazione che possiede un adulto, e naturalmente non ha mai sentito
una lingua prima. È quindi in questo senso molto svantaggiato. Eppure riesce
in pochi mesi a raggiungere traguardi linguistici che un adulto non riesce mai
a superare. Come è possibile?
Grazie alle tecniche cui si è accennato nel precedente paragrafo, si è capito
che il neonato percepisce molte più distinzioni linguistiche dell'adulto. Dal
momento che un neonato deve essere in grado di imparare qualunque lingua
del mondo (naturalmente non ereditiamo la nostra lingua dai nostri genitori
biologici: impariamo quella cui siamo esposti), egli deve essere quindi in grado
di percepire tutte le differenze tra i suoni che svolgono un ruolo in ognuna di
esse. Solo in un secondo momento potrà concentrarsi sui suoni significativi
della lingua cui è esposto. Lo sviluppo della percezione fonologica del bambino
nei primi otto mesi di vita è stato in questo senso descritto con una formula
felice «un apprendimento per dimenticanza» [Mehler e Dupoux 1990]. Sottili
differenze tra suoni che sono percepite dai neonati cominciano a non esserlo
più intorno ai dieci mesi di vita, se non sono distintive (cfr. IV.5.) nella lingua
che il bambino sta apprendendo. Per fare un esempio, qualunque neonato
sarà perfettamente in grado di percepire la distinzione tra /la/ e /ra/; ma
intorno ai dieci mesi il bambino giapponese (lingua in cui questa distinzione
·non è significativa) «dimenticherà» questa differenza, e non sarà più in grado
di percepirla e produrla, neanche da adulto (a meno che non la riapprenda
faticosamente nell'ambito di una seconda lingua).
È molto probabile che questa straordinaria capacità iniziale di discrimina-
zione acustica serva al bambino anche per altri scopi, oltre che per acquisire
L'ACQUISIZIONEDEL LINGUAGGIO 285

il repertorio fonetico della propria lingua. Come vedremo meglio più avanti,
diversi studi hanno ipotizzato che la percezione di differenze molto piccole
nel ritmo e nell'altezza dei suoni possa aiutare i bambini a segmentare il
flusso sonoro in parole, o addirittura indirizzarli verso alcune caratteristiche
sintattiche della loro lingua.
Quanto alla produzione linguistica, gli studiosi pensano che inizi intorno ai
sei mesi di vita, con la lallazione,o balbettio. Il neonato produce molti suoni
vocalici prima di quell'età, alcuni dei quali anche dotati di contorni intonativi e
ritmici che li avvicinano già agli enunciati della loro (futura) lingua. C'è anche
una chiara evoluzione in questi vocalizzi, che si fanno via via più complessi
e variegati. Ma è solo a sei mesi che il bambino comincia a produrre suoni
dotati di una struttura linguistica, e più precisamente sillabe (cfr. IV.9.) con
un contorno intonativo. Le prime sillabe prodotte sono le stesse per tutti i
bambini: hanno generalmente la forma consonante-vocale (CV), e la vocale
preferita è sempre la /a/. Solo in un secondo momento le sillabe cominciano
a convergere verso i modelli sonori della lingua degli adulti.
La lallazione, ovvero la ripetizione di sequenze sillabiche senza significato, ha
sicuramente una componente di esercizio per così dire «ginnico», per cui il
bambino esercita il suo apparato fonatorio ad articolare suoni combinati. Ma
ha anche una funzione più astratta e più strettamente linguistica. Una scoperta
molto interessante in questo senso è stata che i bambini sordi esposti alla
lingua dei segni fin dalla nascita attraversano anch'essi, e intorno alla stessa
età, una fase di lallazione, ma manuale anziché vocale: ripetono ritmicamente
configurazioni della mano in movimento, senza associarvi alcun significato.
Quest'osservazione conferma l'importanza di questa tappa, indipendente-
mente dalla modalità (vocalica o manuale), nello sviluppo del linguaggio.
Quanto alla produzione dei singoli suoni che vanno a comporre il repertorio
fonetico della lingua di arrivo, si evolve in un arco di tempo piuttosto lungo.
Per i bambini italiani i primi suoni sono quelli appunto della lallazione, ovvero
vocali, occlusive e nasali alveolari, labiali e dentali (cfr. IV.2.1.), che vengono
apprese prima del primo anno. Seguono le occlusive velari prima e le fricative
dopo, nel secondo anno. Gli ultimi suoni, come in particolare la/ r/ e talvolta
la /s/, possono non essere prodotti correttamente fino al momento di andare
a scuola. Si evolve anche la capacità del bambino di combinare sillabe diverse
nella stessa sequenza, per cui si passa da «parole» sempre omosillabiche
(mamma,pappa, nanna ecc.) a «parole» dalla struttura più variabile.

3.2. Lo sviluppo del lessico

Prima che possa cominciare a parlare, il bambino deve essere in grado di


riconoscere le parole (cfr. V.l.), deve cioè riuscire a compiere quella che si
chiama segmentazione. È molto difficile, l'abbiamo già detto, perché nel
flusso del parlato le parole non sono separate come nello scritto da spazi o
286 CAPITOLO 11

virgole: sono tutte legate insieme in un'unica melodia. Per compiere questa
prodezza, il bambino usa sottili indizi acustici, quali la posizione dell'accento
o la durata delle sillabe. In questo modo apprende la struttura ritmica della
lingua, e impara che in quella struttura alcune combinazioni di suoni sono
possibili o probabili, e altre no. Grazie alle tecniche cui si accennava, si sa che
il bambino intorno ai nove mesi esegue vere e proprie analisi statistiche su
questa base. È grazie a questa straordinaria capacità che un bambino italiano
può capire, per esempio, che lananna è formato da due parole, la e nanna, e
non da tre, fan, nane na.
Il difficile è cominciare: una volta riconosciute alcune parole, come il proprio
nome (è stato dimostrato che all'età di quattro mesi un bambino è già in grado
di distinguerlo anche da parole dalla struttura simile) e quello di protagonisti
della propria vita quotidiana, è tutto più facile: le parole già riconosciute
possono aiutare il bambino a segmentare quello che rimane, e così di seguito,
in una sorta di effetto valanga.
D'altra parte, non basta «trovare» le parole, bisogna anche capire cosa si-
gnifichino. Sembra che il bambino sia in grado di riconoscere e ricordare
parole, a partire dai quattro mesi, molto prima di avere una qualsiasi idea del
loro significato. È solo intorno ai dieci mesi che si colgono i segni del primo
apprendimento lessicale vero e proprio. Questo ritardo non deve stupirci:
cogliere il nesso tra una parola e il suo significato è un compito davvero
arduo, soprattutto se si pensa che si tratta di un legame del tutto arbitrario
(cfr. II.7 .). Il bambino ha quindi bisogno di rilevare una stretta coordinazione
tra parola e oggetto. Vari studi hanno mostrato che tale coordinazione è resa
visibile, e l'apprendimento facilitato, se il nome viene detto mentre l'oggetto
si muove. Più in generale, la natura degli scambi in cui tipicamente è impe-
gnato - ripetitivi, concreti, basati sul qui e ora - viene in aiuto del bambino.
In particolare, svolge un ruolo importantissimo in questa fase un gesto che
compare ed è compreso dal bambino nell'ultimo trimestre del primo anno,
quello dell'indicare (o pointing). C'è infatti una relazione tra l'età in cui un
determinato bambino comincia a indicare e la comparsa delle sue prime parole.
Sappiamo così che intorno all'anno, un bambino è generalmente in grado di
comprendere una settantina di parole diverse, mentre il suo vocabolario attivo
è ancora di pochissime unità. Questo iato non sorprende. Per cominciare a
parlare, il bambino, oltre che riconoscerle, memorizzarle e associarle a un
significato, deve imparare a pronunciare le parole. Il primo passo in questa
direzione è costituito dalle cosiddette protoparole:associazioni stabili tra
suono e significato, ma del tutto personali e comprese solo dalle persone che
sono a più stretto contatto con il bambino. Un esempio potrebbe essere il
caso di un bambino che dice dadda ogni volta che vuole qualcosa.
Subentrano successivamente le prime parole, che sono però ancora diverse
dalle parole «adulte» perché legate alcontesto: si tratta di etichette per oggetti
specifici prima che di nomi per categorie di oggetti. Un esempio potrebbe
essere quello del bambino che adopera la parola gatto solo riferita alsimpatico
micio di casa, e non agli altri membri della classe felina.
L'ACQUISIZIONEDELLINGUAGGIO 287

Le prime parole si riferiscono comunque a cose che il bambino incontra e sente


nominare spesso dagli adulti. Si tratta per lo più di nomi concreti, di qualche
verbo e pochissimi aggettivi. Il processo verso l'acquisizione di vere parole,
dal significato stabile, convenzionale e generale, è così innescato e inesorabile.
Ma non costante. Inizialmente, l'apprendimento è lento e il bambino impara
al massimo una decina di parole al mese. Ma poco tempo dopo che il bambino
ha imparato circa cinquanta parole (il che avviene in media tra i diciannove e
i ventuno mesi) si verifica un cambiamento radicale nella natura dell'appren-
dimento lessicale: la cosiddetta esplosione del vocabolario. In questa fase si
stima che il bambino impari fino a nove parole al giorno, per un totale sba-
lorditivo di più di 50 parole alla settimana. Mentre sono impegnati in questo
compito immane, i bambini compiono spesso sovraestensioni semantiche:
utilizzano una parola al di là dei contesti in cui noi la consideriamo adatta.
Un esempio è l'uso di cane per riferirsi a qualsiasi tipo di animale. Si pensa
che queste sovraestensioni frequenti non siano tanto segno di una difficoltà
a catalogare il mondo (il bambino non ha problemi a distinguere mucche e
cavalli da cani), ma siano piuttosto legate alla produzione: avendo difficoltà nel
«pescare» la parola giusta nel proprio magmatico lessico mentale (cfr. VI.l.),
il bambino ricorre alla parola più familiare. Lo stesso tipo di sovraestensione
non si riscontra affatto a livello di comprensione.

3.3. Lo sviluppo della morfosintassi

La fase della parola singola dura solitamente dai 12 ai 18 mesi. In questo


lungo periodo il lessico del bambino cresce molto velocemente, mentre i suoi
enunciati rimangono per lo più stabilmente costituiti da una sola parola. A
ben guardare tuttavia parlare di «una parola» è fuorviante. Per molti aspetti,
questi enunciati hanno la funzione di vere e proprie frasi: come vere frasi
si accompagnano a un'intonazione appropriata e sono prodotti con un'in-
tenzione comunicativa precisa, che i genitori di solito non hanno difficoltà
a interpretare nel contesto in cui sono proferiti. Si parla per questo di fase
olofrastica.
Per fare un esempio immaginiamo una bambina (con un fratello di nome Filù)
che produca la parola Dudù nei tre contesti e modalità descritti sotto in (1).

(1) a. Dudù? La parola è accompagnata da una chiara intonazione ascen-


dente. La bambina la produce quando sente il rumore di qualcuno
che si avvicina nel corridoio: sta chiedendo un'informazione. Si tratta
di una domanda.
b. Dudù. La parola è pronunciata con un'intonazione discendente e
trionfante. La bambina la produce quando vede comparire suo fratello.
È un'affermazione.
c. Dudù! Pronunciata con tono insistente e un'intonazione continua,
mentre la bambina protende le braccia verso il fratello. Si tratta chia-
ramente di un ordine.
288 CAPITOLO11

In questa fase, in altre parole, il bambino è quindi in grado di esprimere


intenzioni anche molto chiaramente, ma i suoi enunciati sono interpretabili
solo in funzione del contesto.
Quando il bambino, dopo l'anno e mezzo, conosce all'incirca cinquanta
parole, comincia a fare le prime combinazioni. Si tratta di una fase impor-
tantissima nello sviluppo del linguaggio, in cui si osserva per la prima volta
all'opera la funzione combinatoria che più chiaramente contraddistingue il
linguaggio umano. Ma per molto tempo le frasi del bambino rimangono brevi
e brevissime, e si riducono per lo più a coppie di parole. Soffermiamoci un
momento su questa fase, che viene detta telegrafica. Osserviamo qualche
esempio di enunciati tipici.

(2) a. Ancora latte!


b. Palla bum
c. Mette scarpa
d. Mamma su
e. Mamma bella

La prima cosa che possiamo osservare è che queste espressioni hanno ancora
bisogno di una forte integrazione dal contesto per poter essere interpretate.
Prendiamo la prima: è probabile, data l'intonazione esclamativa con cui è
proferita, che corrisponda a una richiesta o a un ordine, qualcosa come: «voglio
ancora del latte!», o «Datemi altro latte!», ma l'espressione di per sé è molto
rudimentale. In questo tipo di enunciati, manca in particolare tutta una serie
di elementi grammaticali che costituiscono l'ossatura delle frasi grammaticali
«mature», le cosiddette parole funzionali (cfr. IX.8.): non ci sono (o ci sono
solo ogni tanto) articoli e altri determinanti, preposizioni, ausiliari, la copula.
In questo senso queste espressioni somigliano abbastanza alla modalità che
adottiamo noi adulti quando siamo costretti per motivi di tempo o di spazio
a scrivere molto velocemente (come si faceva un tempo, appunto, nei tele-
grammi, o oggi negli SMS), e riduciamo i nostri messaggi a sequenze di parole
contenuto omettendo appunto tutte le parole solo grammaticali.
Ma il fatto che queste espressioni siano incomplete e rudimentali non signi-
fica che siano prive di proprietà strutturali, che le rendono ben diverse da
semplici insiemi di parole. Torniamo agli esempi in (2). In ognuno di essi c'è
una precisa relazione tra le due parole combinate che possiamo ricondurre a
relazioni grammaticali: (2b) corrisponde alla combinazione di agente e azione
(qualcosa come soggetto-verbo); (2c) combina un'azione e il suo oggetto
(verbo-oggetto); (2d) e (2e) combinano un tema con un predicato.
La varietà delle relazioni espresse rispecchia sicuramente anche lo sviluppo
cognitivo che il bambino sta raggiungendo intorno al compimento dei due
anni: sta scoprendo un intero mondo di relazioni tra persone e oggetti che si
possono esprimere solo combinando più parole insieme. Ma il modo in cui
le esprime, sfruttando l'ordine per assegnare una funzione alle parole com-
binate, non è una conseguenza passiva di queste nuove scoperte sul mondo,
è un'operazione attiva, puramente grammaticale.
L'ACQUISIZIONEDELLINGUAGGIO 289

L'interpretazione da dare a questa fase non è ovvia. A prima vista, la gram-


matica semplificata di queste frasi fa pensare a un processo di maturazione
della grammatica. Secondo l'ipotesi di Radford [1990), in questa prima fase
la frase si riduce alla semplice struttura soggetto-predicato (cfr. VII.3.1.),
mentre le proiezioni funzionali (come FLESS; cfr. VII.3.5.) vengono apprese
solo in un secondo momento.
Un'analisi più approfondita suggerisce che le cose sono più complicate. A
livello di produzione, si osserva che anche in questa fase in cui omettono
la maggior parte delle parole funzionali e delle desinenze grammaticali, i
bambini trattano diversamente i verbi all'infinito e i verbi flessi. In italiano,
per esempio, se insieme al verbo producono un pronome atono (come lo),
lo posizionano correttamente: prima del verbo quando è flesso; dopo di esso
quando è all'infinito. Questa distinzione è illustrata negli esempi in (3) del
parlato di una bambina tra i 20 e i 21 mesi.

(3) aprirlo
lo sai, babbo

Ciò suggerisce che la grammatica in questa fase sia più complessa di quanto
possa apparire. Ma si deve ancora una volta guardare ai dati di comprensione
per capire meglio cosa sappia il bambino in questo stadio.
È importante soprattutto verificare se il bambino sia in grado di interpretare
le parole grammaticali quando ancora non le produce. I dati mostrano chia-
ramente che lo è. In particolare, è stato provato che bambini di due anni, che
non producono ancora sistematicamente l'articolo, sono in grado di ricono-
scerlo nel flusso del parlato e di interpretarlo. Per fare un esempio (tratto da
Michnick Golinkoff e Hirsh-Pasek [1999)), se si chiede a dei bambini, usando
le forme in (4), di indicare un cane su un libro illustrato

(4) Trova il cane per me


Trova gub cane per me
Trova era cane per me
Trova cane per me

questi saranno molto più accurati nel soddisfare la nostra richiesta quando la
frase è corretta e contiene quindi il giusto articolo. Lo stesso tipo di risultato
si è ottenuto con preposizioni e desinenze.
L'idea che prevale oggi è quindi che la struttura funzionale della frase sia già
presente nella grammatica del bambino quando comincia a produrre le prime
frasi (in una sostanziale continuità con la grammatica matura), ma che per
risparmiare energia cognitiva, egli faccia più o meno quello che facciamo noi
quando abbiamo fretta o problemi di spazio: tronca la struttura, mantenendo
la frase ali'osso pur essendo in grado ali'occorrenza di espanderla.
Il bambino naturalmente non si ferma qui, e impiega i successivi anni ad
arricchire la propria produzione e comprensione morfosintattica. Una delle
scoperte sconvolgenti che sono state fatte grazie agli studi longitudinali degli
290 CAPITOLO11

anni Settanta (in particolare lo studio di Brown già citato) è che tutti i bambini
che imparano una data lingua seguono uno sviluppo morfologico e sintattico
prevedibile: esiste cioè una vera e propria sequenza invariabile di acquisizione
di desinenze e parole funzionali. Può variare l'età in cui un singolo bambino
raggiunge un determinato stadio, ma la sequenza degli eventi rimane senza
dubbio la stessa. Si noti che già l'esistenza della fase delle due parole, e la sua
durata, mostrano chiaramente come il bambino sia lontano dall'imitazione:
gli adulti, tranne circostanze eccezionali che non coinvolgono tipicamente i
bambini (SMS,telegrammi, diari veloci), non parlano così. Ma la prevedibi-
lità del successivo sviluppo conferma ancora una volta quanto il processo di
acquisizione del linguaggio sia lontano da un processo di passiva ripetizione
di cose dette da altri.
Per i bambini italiani, questo ulteriore sviluppo inizia con il singolare, tanto
dei nomi quanto dei verbi, i quali sono spesso al participio passato o alla terza
persona del presente indicativo. Il plurale compare dopo, insieme all'imper-
fetto. Contemporaneamente compaiono gli articoli: prima una forma femmi-
nile invariabile (a o la), e poi le altre forme. Le prime preposizioni sono in e
a. È a questo punto che cominciano quegli errori di ipergeneralizzazione che
abbiamo già menzionato (aprilo,romputo, diti), segno chiaro dell'aderenza sin
troppo perfetta a una regola di cui queste forme sono invece eccezioni. Anche
le costruzioni grammaticali sono acquisite con un certo ordine, e richiedono
un certo tempo. Abbiamo già accennato che le frasi relative sull'oggetto
(cose come: «Voglio il giocattolo che il bambino tiene in mano») non sono
comprese perfettamente prima dei cinque anni. Le interrogative, sia quelle
sì/no che quelle «-wh» (cfr. VII.3.2.), sembrano essere già del tutto acquisite
tra i due e i tre anni di età. Le ricerche sono tuttora in corso, e non è ancora
del tutto chiaro quando si possa parlare di grammatica matura nello sviluppo
di un bambino.

3.4. Lo sviluppo della pragmatica

Con l'arricchimento delle forme utilizzate e la capacità di costruire frasi com-


plesse, il modo di parlare di un bambino tra i ventiquattro e i trentasei mesi
di età assomiglia sempre di più a quello di un adulto. Quello che ancora gli
manca da imparare è la «patina sociale» che gli consente di comportarsibene
con il linguaggio. Deve imparare a formulare le sue richieste o a dire no in
maniere che siano socialmente accettabili, deve apprendere a condurre una
conversazione e a parlare al telefono, e via dicendo. Tutte queste abilità richie-
dono una notevole conoscenza delle persone e di ciò che ci si può attendere
da loro, del corso degli eventi e delle regole sociali che li influenzano. Non
c'è da meravigliarsi che siano necessari anni di pratica per padroneggiare tutti
questi aspetti cosiddetti pragmaticidel linguaggio (cfr. VIII.4-5 .). Il bambino
comincia con i «trucchi» più facili, le famose paroline grazie e perfavore, per
L'ACQUISIZIONEDELLINGUAGGIO 291

acquisire poi le diverse convenzioni sociali che ci si aspetta da lui e che lo


renderanno un abile comunicatore.
Questo è l'ambito in cui l'intervento attivo dei genitori, la loro «educazione»,
sono più visibili e pronunciati. Mentre nei vari stadi dell'acquisizione gram-
maticale il bambino fa per lo più da solo, estraendo dai dati cui è esposto le
informazioni che gli servono per costruire la sua grammatica, la pragmatica e
le convenzioni sociali in molte culture gli vengono esplicitamente insegnate:
ciò che è considerato educato in una cultura è ritenuto scortese in un'altra, e
queste regole vengono insegnate attraverso il linguaggio.

4. LASECONDALlNGUA
Finora abbiamo visto come bambini e adulti siano diversi dal punto di vista
linguistico. Gli adulti non sembrano avere facile accesso a quel complesso ma
naturale, irrevocabile e regolare processo cui soggiacciono i bambini quando
imparano la loro prima lingua. In questo paragrafo cercheremo di capire
meglio la natura di questa differenza. In particolare ci chiederemo: quando si
«diventa adulti» da questo punto di vista? In altre parole, quando viene meno
la straordinaria capacità che abbiamo descritto nella prima parte di questo
capitolo? E che relazione c'è tra il processo di sviluppo del linguaggio e l'ac-
quisizione della seconda (e della terza) lingua? Infine: oltre alla dimensione
temporale, ci sono altri limiti nella capacità dei bambini di imparare le lingue?
In altre parole, si può imparare più di una lingua secondo questa modalità?

4.1. Il periodo critico

La maggioranza degli studiosi riconosce all'età un ruolo fondamentale sia


per l'acquisizione della lingua madre sia per quella delle seconde lingue.
Molti avanzano a questo proposito l'ipotesi che ci sia un periodo critico
per lo sviluppo del linguaggio. In psicologia e biologia dello sviluppo, un
periodocriticoè una fase nella vita di un organismo in cui questo presenta
una spiccata sensibilità agli stimoli esterni che sono necessari allo sviluppo
di una determinata abilità. Se l'organismo non riceve lo stimolo appropriato
durante questo periodo critico, diventa difficile o addirittura impossibile
sviluppare l'abilità in questione.
Al di là delle ovvie differenze tra adulti e bambini di cui abbiamo già parlato,
le prime prove che ci fosse una vera e propria finestra temporale dedicata
all'acquisizione del linguaggio provengono da alcuni casi di bambiniselvaggi,
bambini cresciuti fino all'adolescenza in uno stato di quasi totale deprivazione
linguistica. Un primo caso storico ben documentato (e raccontato al cinema
da François Truffaut) risale alla fine del Settecento: quello di Victor, il ragazzo
selvaggio dell' Aveyron, vissuto in un bosco fino a quando fu raccolto e istruito
292
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CAPITOLO11

dal medico Jean-Marc Itard. Un secondo caso, molto più moderno, è quello di
Genie, una ragazzina trovata nel 1970 a Los Angeles in uno stato di cattività e
di isolamento, che fu poi a lungo seguita ed istruita da una équipe di linguisti e
psicologi. In entrambi i casi, gli anni di sforzi degli studiosi che si occuparono
di loro si risolsero in un fallimento dal punto di vista linguistico: i due ragazzi
non andarono mai oltre un lessico limitatissimo e semplici giustapposizioni non
strutturate di poche parole. Alle soglie della pubertà l'istinto del linguaggio
che abbiamo già citato, non essendo stato sollecitato durante l'appropriata
finestra temporale, si era per così dire atrofizzato.
La forza dell'evidenza fornita da questi casi è tuttavia indebolita dalla loro
stessa natura di fatti straordinari: in particolare, è impossibile avere la certezza
che questi due bambini non presentassero dei deficit linguistici o in generale
cognitivi anche prima di venire isolati o abbandonati. Oggi, si preferisce
quindi concentrarsi sull'osservazione di casi meno clamorosi ma più facil-
mente controllabili di deprivazione linguistica: quella di molti bambini sordi.
La maggior parte dei bambini sordi non nasce da genitori sordi, ma udenti,
che in molti casi impiegano un certo numero di anni per accorgersi della loro
sordità e per correre ai ripari esponendoli a una lingua naturale, la lingua dei
segni del loro paese. È stato così dimostrato che c'è una relazione diretta tra
l'età di esposizione alla lingua e la competenza linguistica testabile con test
di comprensione e di produzione. Più tardivamente un bambino è esposto al
linguaggio e peggio imparerà la sua prima lingua.
Oggi si tende a pensare che esistano due periodi critici nella vita di un essere
umano. Dopo il primo, diventa difficile l'acquisizione della prima lingua (o
Ll); dopo il secondo diventa difficile l'acquisizione di una seconda lingua
(o L2).
Per quanto riguarda Ll, sembra che questo primo periodo critico si aggiri
intorno ai cinque anni di età. Per quanto riguarda L2, la soglia critica si aggira
intorno al periodo della pubertà: dopo tale periodo è molto difficile che un
individuo riesca ad apprendere una lingua a livello di un madrelingua, specie
per quanto riguarda l'accento. Alcuni studiosi indagano sui cambiamenti
neurofisiologici che potrebbero essere alla base di questo sviluppo a finestre.

4.2. Lo sviluppo della seconda lingua

Al di là dei risultati, che sono senz'altro diversi nel senso che la competenza
nella prima lingua è sempre superiore a quella in una L2 acquisita più o meno
tardivamente, ci si può chiedere se il processocon cui si apprendono la prima e
la seconda lingua sia lo stesso oppure no. In questo paragrafo ci concentreremo
su quanto sappiamo sul punto di partenza (4.2.1.), sui progressi o interlingue
(4.2.2.) e sul punto di arrivo (4.2.3.) dell'acquisizione di L2.
L'ACQUISIZIONEDEL LINGUAGGIO 293

4.2.1. n punto di partenza


Per la prima lingua, abbiamo visto che l'argomento della povertà dello stimolo
ci porta a concludere che il bambino non parte da zero, ma avanza dotato di
quello che abbiamo chiamato l'istinto del linguaggio. Molti studiosi pensano
che si tratti di una vera e propria proto-grammatica (detta anche grammatica
universale),un insieme di conoscenze istintive che il bambino si deve limitare
ad adattare e arricchire con i dati della lingua cui viene esposto. Se questo è
vero, ci dobbiamo chiedere: da cosa partiamo invece quando impariamo una
seconda lingua? Ci sono tre possibili risposte che si possono dare a priori a
questa domanda, elencate brevemente nel punto (5) qui sotto.

(5) Lo stato iniziale per l'apprendimento di 12 è


a. L1
b. La grammatica universale
c. La grammatica universale mediata da LI

Queste tre possibili ipotesi sullo stato iniziale danno luogo a diverse predi-
zioni per quanto riguarda le difficoltà e gli errori che compiranno coloro che
apprendono una seconda lingua. Se chi impara 12 ha a disposizione solo
LI come punto di partenza, ci si aspetta che nella maggior parte dei casi gli
errori compiuti saranno errori di interferenza:dovuti cioè al trasferimento
improprio di una regola di L1 alla grammatica di 12. Un esempio di errore di
interferenza potrebbe esser quello per cui gli italiani che imparano l'inglese
tendono a produrre enunciati come (6).

(6) Is very beautiful

(6) è una frase agrammaticale in inglese, perché manca di un soggetto espresso


(per esempio the weather). Questa produzione può essere interpretata come
un'interferenza della grammatica di LI, perché in italiano il soggetto può
essere regolarmente sottinteso.
Se invece chi impara L2 è in grado di ripartire dallo stesso stato iniziale (la
proto-grammatica universale) da cui partono i bambini, allora nella maggior
parte dei casi gli errori compiuti saranno errori di sviluppo, riconducibili a
stadi di acquisizione della grammatica simili a quelli che abbiamo visto in
dettaglio per la prima lingua nel paragrafo precedente. Un esempio di errore
di sviluppo potrebbe essere quello per cui uno straniero che impara l'italiano
tende a produrre enunciati come (7).

(7) Io chiesto certificato

Anche (7) è una frase agrammaticale, perché manca l'ausiliare (ho). Questo
enunciato non è riconducibile a un'interferenza di LI, in quanto potrebbe
essere prodotto da qualunque apprendente di italiano L2, sia esso di LI spa-
gnola o francese (dove esiste un sistema di ausiliari molto simile al nostro),
che di L1 per esempio cinese (dove invece gli ausiliari non esistono). Somiglia
294
--------
CAPITOLO 11

invece molto a quegli enunciati telegrafici dei bambini che abbiamo discusso
a lungo nelle pagine precedenti.
Nella realtà dei fatti, gli apprendenti una L2 compiono tanto errori simili a
(6) che errori simili a (7). Sembrano basarsi sulla loro grammatica di L1 come
punto di partenza, pur mostrando segni di un processo in parte indipendente
da essa. È possibile che questa duplice natura sia spiegabile con il modello
c) in (5), quello per cui si ha ancora accesso alla proto-grammatica ma solo
attraverso la mediazione di Ll.

4.2.2. I progressi: le interlingue


Una volta capito come comincia l'acquisizione di L2, ci si può porre il problema
di come l'apprendente progrediscaverso la L2, detta anche lingua obiettivo.
Tutti concordano sul fatto che anche l'apprendimento di L2 si configura come
lo sviluppo di una serie di regole astratte, via via adattate, abbandonate, o
rafforzate a mano a mano che aumentano i dati a disposizione degli appren-
denti. Questo procedere per sistemi successivi viene solitamente descritto con
il termine di interlingua: i passi che compie chi apprende una L2 sono vere e
proprie lingue provvisorie, magari lontane dalla lingua obiettivo e quindi in
questo senso «sbagliate», ma non per questo meno coerenti e sistematiche.
In questo quadro gli errori che si osservano in chi impara una L2 non vanno
visti come scorie negative da eliminare, ma come sintomi positivi di un'ela-
borazione grammaticale.
Per capire a fondo come avvenga questo progresso, è necessario· non con-
fondere ancora una volta la competenza con la produzione. Abbiamo visto
che il bambino sa e capisce molto più di quanto dica. Lo stesso vale per chi
impara una L2 in età più matura. Gli studi più interessanti sull'apprendimento
di L2 non si limitano quindi a una semplice analisi degli errori che vengono
commessi, ma puntano a testare la comprensione della lingua attraverso tec-
niche sperimentali molto simili a quelle che vengono utilizzate per i bambini.
Il vantaggio in questo caso è che avendo a che fare con individui più maturi
si può ricorrere a quelli che potremmo chiamare dati di intuizione, in cui si
chiede all'apprendente di esprimere giudizi espliciti sulla grammaticalità o la
verità di alcune frasi per verificare il loro status nella sua interlingua.
Questo tipo di dati ha portato a due importanti scoperte circa le interlingue:
la prima è che anche per L2 esisterebbe un ordine naturale di acquisizione di
parole e morfemi grammaticali (cfr. V.3.), in parte indipendente dalla lingua di
partenza dell'apprendente e abbastanza sovrapponibile a quello che si osserva
per l'apprendimento di Ll. La seconda è che anche per la L2 si potrebbe
parlare di povertà dello stimolo: in certi casi gli apprendenti mostrerebbero
infatti di sapere cose sulla L2 che né possono avere tratto da Ll (perché in
quel dato aspetto le due lingue divergono) né hanno potuto apprendere per
evidenza diretta o insegnamento esplicito. Le ricerche sono ancora in corso
su questi aspetti. Se queste osservazioni fossero confermate definitivamente,
dovremmo concludere che il processo di apprendimento di Ll e L2 non è
irriducibilmente diverso.
L'ACQUISIZIONEDEL LINGUAGGIO 295

4.2.3. Il punto di arrivo


Rimane un fatto che la convergenza verso la lingua obiettivo non è inevi-
tabile: in altre parole, non è affatto detto che l'apprendimento di una L2
si risolva con un successo, come ben sanno tutti gli studenti che si sono
arrovellati per anni con l'inglese senza riuscire a sbarazzarsi del loro pesante
accento italiano o a mettere due parole in fila in una situazione di necessità
comunicativa.
È chiaro che questi insuccessi possono essere in molti casi dovuti a fattori
di ordine didattico, per esempio al fatto che il metodo con cui si insegna
la seconda lingua a scuola non è adatto allo scopo. È vero però che questa
possibilità concreta e quasi inevitabile di insuccesso più o meno grave è una
delle maggiori differenze che intercorrono tra L1 e L2. Un'altra differenza
riguarda l'ampiezza delle differenze individuali: mentre qualunque individuo
impara la sua Ll con successo a meno che non sia affetto da patologie, tutti
sanno che esistono persone per cui l'apprendimento di una seconda lingua
è un traguardo irraggiungibile e altre che ne imparano diverse con grande
facilità. Non è facile arrivare a una spiegazione univoca e semplice di queste
differenze. È possibile che ci sia una componente strettamente neurolin-
guistica, per cui l'apprendente maturo non riesce a riconfigurare la propria
grammatica Ll in modo completo; è possibile però che a questa differenza
per così dire biologica vadano ad aggiungersi altri fattori di diversa natura,
in primo luogo affettiva, psicologica e sociologica.
Dal punto di vista psicologico, va sottolineato il ruolo importantissimo di
fattori come l'emotività e la motivazione nello spingere un apprendente a
procedere o meno verso interlingue sempre più vicine alla lingua target. In
molti casi l'apprendimento non procede verso l'obiettivo non tanto perché
l'apprendente ha preso una strada sbagliata che non converge verso la L2 (il
che può anche succedere), ma piuttosto perché l'apprendente per così dire
si ferma: smette di rielaborare i dati, e si fossilizza in un'interlingua. Tale
fossilizzazione può essere dovuta alla motivazione stessa dell'apprendente,
che si accontenta strumentalmente di riuscire a ottenere con L2 quello che si
era prefissato: fare amicizia in campeggio, portare a termine acquisti online,
leggere articoli scientifici, o chissà cos'altro. In questo senso la motivazione più
forte che più facilmente porta al successo è quella integrativa, ossia quella del
migrante che vuole inserirsi in un nuovo contesto di vita. Ma la fossilizzazione
può anche essere dovuta alla natura dei dati cui l'apprendente è esposto, che
possono essere per esempio molto impoveriti (basti pensare alle poche ore
dell'insegnamento scolastico, per lo più impartito da docenti non madrelin-
gua). Sia per la qualità dei dati sia per quella della motivazione, il bambino
è senz'altro privilegiato: la sua motivazione è quella primaria di diventare
comunicatore, e i dati cui è esposto sono regolari, costanti e caratterizzati da
quell'ancoraggio ripetitivo al qui e ora che abbiamo visto giocare un ruolo
importante nel facilitarne l'apprendimento.
Eppure, ancora una volta, la differenza tra bambino e adulto sfugge alle spie-
gazioni più ovvie. Rimane qualcosa di irriducibile e misterioso, che emerge
chiaramente non appena si volge lo sguardo allo straordinario fenomeno del
bilinguismo.

4.3. Imparare due lingue insieme: il bilinguismo

Oltre la metà dell'umanità è bilingue, nel senso che parla correntemente due
lingue nazionali (cfr. IX.7.). Ma se si calcolano tra i bilingui anche coloro
che parlano una lingua nazionale e un dialetto (cfr. IX.5.), il numero è an-
cora maggiore. Eppure, almeno in teoria, apprendere due lingue dovrebbe
essere difficile, eccezionale, fonte di confusione e magari problemi. In effetti,
il motivo per cui nella maggior parte dei sistemi scolastici si cominciano a
studiare le lingue alle medie sta proprio in questa convinzione, piuttosto e
purtroppo diffusa: che il bambino piccolo sia in grado di occuparsi di una sola
lingua alla volta e che quindi sia meglio aspettare che abbia «consolidato» la
sua Ll prima di passare alla L2. Lo stesso pregiudizio è stato per molti anni
alla base del consiglio frequente che veniva dato alle famiglie di immigrati:
quello di abbandonare la propria lingua di origine per non intralciare l'ap-
prendimento linguistico del bambino e la sua conseguente integrazione nel
paese di accoglienza.
La realtà è molto diversa, come ha ampiamente dimostrato la ricerca scienti-
fica. Non solo i bambini non fanno confusione quando apprendono due (o
più!) lingue insieme, ma non iniziano necessariamente a parlare più tardi o
con un lessico impoverito.
Addirittura, alcuni studi hanno mostrato che i bilingui hanno indubbi vantaggi
cognitivi sui monolingui: i bambini bilingui sono più abili nei compiti che
richiedono riflessione metalinguistica e più abili a gestire più attività contem-
poraneamente. Quanto agli adulti, sembra che il bilinguismo li preservi più a
lungo dall'invecchiamento cognitivo e che ritardi significativamentel'emergere
di sintomi nelle persone affette dal morbo di Alzheimer.
Torniamo allo sviluppo del linguaggio. I bambini che sono esposti precoce-
mente a due o più lingue raggiungono le diverse fasi di sviluppo in ognuna
delle lingue seguendo la stessa tabella maturazionale che abbiamo visto valere
per i bambini monolingui. Ma come è possibile?
Il vecchio pregiudizio che il bilinguismo fa male si basava su un'idea molto
ragionevole: owero che non siamo fatti per imparare più lingue, ma una
alla volta, e che quindi il bambino parta inizialmente dall'ipotesi che i di-
versi input cui è esposto sono da ricondurre a un'unica grammatica. Da qui
sorgerebbero la difficoltà e il ritardo, dovuti al fatto che nella fase iniziale il
bambino confonderebbe le due lingue. La versione scientifica di questa idea,
detta ipotesi del sistema linguistico unitario, ipotizza che il bambino bilin-
gue passi attraverso una fase unitaria, da cui si allontana progressivamente
separando le due lingue. Studi più recenti ci portano a ripensare radicalmente
questa ipotesi.
L'ACQUISIZIONEDEL LINGUAGGIO 297

Il primo passo fondamentale è naturalmente riuscire a tenere separati gli input


provenienti dalle due lingue. Ebbene, è stato dimostrato che il bambino bi-
lingue ha il modo di «sapere» fin dall'inizio di non dover cercare di costruire
una sola grammatica che sia coerente con tutti i dati cui è esposto, ma due
grammatiche indipendenti, ognuna compatibile con alcuni degli input. Sempre
grazie al paradigma della suzione non nutritiva, si è infatti scoperto che fin dai
primissimi giorni di vita i neonati sono in grado di distinguere lingue anche
molto simili, come per esempio lo spagnolo e il catalano. In questo svolge
ancora una volta un ruolo cruciale quella straordinaria sensibilità acustica di
cui abbiamo già parlato.
Questo significa che il primo passo, quello di tenere le due lingue separate,
è facile e immediato. Da quel momento, lo sviluppo linguistico procede in
parallelo, senza che il processo in una lingua interferisca con quello nell'altra.
Un altro segnale chiaro di una precoce separazione dei due sistemi linguistici
viene dal lessico. Il bambino bilingue deve sviluppare una doppia conoscenza
lessicale, quella di ogni parola nella lingua A e del suo equivalente nella lin-
gua B; deve quindi arrivare a conoscere coppie di parole come, per esempio,
Tasche/borsa; Ap/ellmela; Schwein/maiale,e via dicendo. Se, come vorrebbe
l'ipotesi del sistema linguistico unitario, il bambino passasse per una fase in
cui lavora all'elaborazione di un'unica lingua compatibile con tutti gli stimoli
diversi cui è esposto, ci aspetteremmo che le coppie di parole equivalenti emer-
gessero tardi, quando il bambino si avvia verso la divisione delle due lingue.
I dati vanno in un'altra direzione: lo sviluppo degli equivalenti procede in
parallelo con lo sviluppo del lessico, e fin dallo stadio olofrastico il bambino
bilingue mostra di lavorare nelle due direzioni.
Naturalmente dire che il bilingue non ha maggiori difficoltà e non confonde
le due lingue non significa che non le usi spesso insieme, «mescolandole»
nello stesso enunciato. Al contrario, tutti i bilingui, e in particolar modo i
bambini, fanno con molta naturalezza quello che viene definito commutazione
di codice (codeswitching).Qui di seguito sono riportati alcuni esempi classici
di commutazione infantile, relativa a due bambine italo-tedesche.
(8) Lisa lo dà fiirMarni
Lisa lo dà per mamma
Lisalo dà a mamma
(9) Mettela die Tasche
Mette-la la borsa
Mettilala borsa
(10) Anche Schwein Apfel essen
Anche maiale mela mangiare
Anche il maialemangiala mela
(11) Ich willpettinare
Io vogliopettinare
Tanto nel bambino che nell'adulto, la commutazione di codice non è casuale, e
non è in questo senso il frutto di una confusione. Al contrario è stato mostrato
che tanto i bambini quanto gli adulti rispettano le grammatiche delle lingue
298 CAPITOLO 11

in gioco negli enunciati mistilingui, attivandole e seguendole entrambe. In


particolare, i bambini (come gli adulti) evitano per esempio la commutazione
di codice in quelle aree della frase in cui le grammatiche confliggono.

Questi risultati contribuiscono a spiegare l'osservazione da cui siamo partiti in


questo paragrafo, owero il fatto che la maggioranza delle persone è bilingue:
il bilinguismo è una condizione naturale che ogni individuo è equipaggiato per
affrontare. I dati sull'acquisizione di L2, insieme a quelli sullo sviluppo della
prima lingua che abbiamo preso in esame in questo capitolo, ci forniscono
un'immagine affascinante ed estremamente informativa sul linguaggio e sulla
sua natura di istinto tipicamente umano.

NOTA STORICO-BIBLIOGRAFICA

La ricostruzione presentata nel testo è per forza di cose molto semplificata, e non rende giustizia
al lungo dibattito sull'apprendimento del linguaggio che ha preceduto gli studi su cui si basa il
capitolo, tutti grosso modo successivi agli anni Sessanta e alla svolta cognitivista inaugurata in
linguistica da Noam Chomsky (cfr. cap. VII). Uno dei suoi primi articoli importanti [Chomsky
1959] fu proprio una recensione ferocemente polemica a VerbalBehavior di Skinner [1957],
che connetteva l'acquisizione del linguaggio al condizionamento operante, il meccanismo di
stimolo e rinforzo al centro dell'ipotesi comportamentista. Ma il dibattito sul problema della
povertà dello stimolo e sulla necessità (o meno) di postulare meccanismi innati (quello che qui
abbiamo chiamato l'istinto del linguaggio) non è ancora chiuso. In anni più recenti, partico-
larmente influenti sono state le ricerche di Michael Tomasello, che ha rinnovato su nuove basi
il tentativo di spiegare lo sviluppo del linguaggio invocando semplici processi di analogia e
induzione [Tomasello 2003].
Per un'introduzione rapida e abbastanza completa alle diverse scuole che studiano lo sviluppo
del linguaggio e agli obiettivi delle diverse teorie, si veda King e Mackey [2008].
Per un'introduzione al sistema CHILDES si raccomanda Mac Whinney [1995]. Tra gli studi
cui si fa riferimento nel testo, vanno segnalati almeno gli studi pionieristici di Brown [1973] per
l'approccio naturalistico e di Berko [ 1958] per quello sperimentale. Sulla conoscenza preverbale,
non solo linguistica, dei neonati, presenta una panoramica molto appassionante e divulgativa
Mehler e Dupoux [1990].
Le scoperte sulla lallazione manuale si devono a Petitto e Marentette [1991]. L'ipotesi del periodo
critico è stata formalizzata per la prima volta in Lenneberg [1967]. Gli studi sulla correlazione
tra deficit linguistici e ritardo di esposizione alla lingua nei bambini sordi americani sono di
Newport e Supalla [1987].
Quanto allo sviluppo della sintassi, l'ipotesi della maturazione si deve a Radford [1990]. L'al-
ternativa presentata nel testo, per cui il bambino «tronca» la propria struttura sintattica, si deve
a Luigi Rizzi (v. i saggi raccolti in Rizzi [2000]).
Per approfondire gli aspetti empirici, metodologici e formali dell'acquisizione della prima
lingua, si può leggere in italiano Michnick-Golinkoff e Hirsh-Pasek [1999], libro ricchissimo
e molto informativo ma che risente un po' dell'impostazione «per le mamme» scelta nel com-
pilarlo. Un'introduzione di taglio più scientifico è Guasti [2007], versione breve e divulgativa
L'ACQUISIZIONEDEL LINGUAGGIO 299

dell'autorevole Guasti [2002]. Scritti dalla massima studiosa italiana di processi di acquisizione
linguistica (autrice tra l'altro di numerose ricerche sulle frasi relative cui si accenna nel testo),
questi testi hanno entrambi il vantaggio di citare molti risultati riguardanti anche l'italiano.
Per quanto concerne l'acquisizione di L2, White [2003], ricercatrice di punta in questo campo,
presenta una visione di insieme sui problemi teorici, empirici e metodologici. Sul bilinguismo: gli
studi sui vantaggi cognitivi dei bilingui si devono a Bialystock e alla sua équipe (v. per esempio
Bialystock [2001]), mentre l'ipotesi del sistema unitario è solitamente ricondotta a Volterra e
Taeschner [1978] e Taeschner [1983]; per quella dei due sistemi paralleli, si veda per esempio
De Houwer [1990].

DOMANDE

1. Che cosa si intende per povertà dello stimolo?


2. Perché è importante distinguere il piano della produzione da quello della comprensione/
percezione?
3. Come si studia la competenza dei neonati?
4. A cosa si riferisce l'espressione «apprendimento per dimenticanza»?
5. Che cos'è l'esplosione del vocabolario?
6. Quali sono le caratteristiche tipiche della fase olofrastica?
7. Che cos'è il periodo critico?
8. Quali ipotesi si possono fare circa il punto di partenza per l'apprendimento di L2? Che
tipo di errori predicono?
9. Cosa sono le interlingue e cosa si intende per fossilizzazione?
10. Che cos'è la commutazione di codice (code switching), e come la si può interpretare dal
punto di vista della competenza bilingue?
Appendice
APPENDICE

Cervelloe linguaggio

1. METODI

L'esistenza di una relazione tra un organo materiale, il cervello, ed una


funzione complessa della mente, come il linguaggio, oggetto di discussioni
filosofiche che proseguono sino ai nostri giorni, è stata data per scontata sin
dall'antichità in un ambito pratico, come quello della medicina. L'osservazione
tradizionalmente considerata più antica è quella del papiro detto «di Edwin
Smith», ove è descritto un caso di «perdita della capacità di parlare» conse-
guente ad un trauma cranico [Minagar et al. 2003]. Dalla scarna descrizione
è difficile capire se il paziente in realtà presentasse un disturbo linguistico,
piuttosto che una perdita della capacità motoria di articolare la parola. Le
osservazioni cliniche, in particolare in ambito di chirurgia di guerra, si susse-
guono nei secoli successivi, e dimostrano la possibilità che lesioni del cervello
interferiscano con aspetti specifici delle abilità linguistiche, come la «memoria
delle parole» o la capacità di leggere e scrivere. Il punto di passaggio dalla
descrizione aneddotica di casi clinici allo sviluppo di un vero e proprio metodo
di ricerca sperimentale, il metodo anatomo-clinico, si colloca nel periodo
storico ed in uno dei luoghi di nascita della medicina sperimentale, ovvero
la Francia ottocentesca. Le dettagliate osservazioni cliniche, associate alla
documentazione anatomica della sede della lesione cerebrale, presentate da
Paul Broca nel 1861 [Dronkers et al. 2007] inaugurano lo studio scientifico
delle basi neurologiche del linguaggio, ponendo le fondamenta di quello che
rimane a tutt'oggi il metodo principe per la ricerca in questo ambito. A que-
sto approccio insostituibile si sono in seguito aggiunte altre metodiche, che
consentono di studiare le relazioni tra funzionamento cerebrale e processi di
elaborazione linguistica anche in soggetti sani. L'insieme di questi strumenti,
che descriviamo in seguito, costituisce l'armamentario attuale delle neuro-
scienze cognitive del linguaggio.
1.1. La patologia del linguaggio

Come sopra accennato, lo studio delle malattie del cervello ha costituito il fon-
damento storico della neurobiologia del linguaggio, e continua a svolgere un
ruolo centrale nello sviluppo delle nostre conoscenze. Qualsiasi patologia che
coinvolge le aree cerebrali specializzate può rappresentare una finestra sull' or-
ganizzazione cerebrale del linguaggio. In particolare, glistudi si sono rivolti alle
afasie, ovvero ai disturbi acquisiti del linguaggio conseguenti a lesioni acute
dell'encefalo, come le lesioni vascolari cerebrali. A questo tipo di osservazioni
si devono le prime fondamentali scoperte sulla specializzazione dell'emisfero
sinistro per il linguaggio e sul ruolo di regioni circoscritte in aspetti specifici
dell'elaborazione linguistica. Lo studio di pazienti colpiti da lesioni localizzate,
in particolare i pazienti divenuti afasici per lesioni vascolari come infarti ed
emorragie, ha infatti consentito di dimostrare il legame tra preferenza manuale
(nella maggior parte dei soggetti, per la mano destra) e dominanza emisferica
per il linguaggio. Tale legame è sistematico per i soggetti destrimani, che pre-
sentano quasi universalmente una specializzazione dell'emisfero sinistro per il
linguaggio, più complesso nei soggetti mancini (meno della metà presenta una
dominanza dell'emisfero destro). Tali osservazioni hanno consentito inoltre di
stabilire le prime correlazioni, necessariamente grossolane, tra alcuni aspetti
dell'elaborazione linguistica e regioni specifiche dell'emisfero dominante,
quali il rapporto tra produzione e area frontale ventrolaterale (area di Broca)
o tra comprensione e giro temporale superiore (area di Wernicke) (fig. A.1).
Un evidente limite della correlazione anatomo-clinica classica, praticata dai
clinici neurologi sino alla metà del secolo scorso, era l'impossibilità di stabilire
a paziente vivente dove fosse localizzata nel cervello la lesione responsabile
dell'afasia. L'unica possibilità era infatti di attendere il decesso del paziente
ed eseguire un'autopsia. Il quadro si modifica radicalmente prima con gli

Area
di Broca

cissura
silviana

fig. A.1. Emisferosinistro(i numeri corrispondonoalle areedi Brodmann).


CERVELLOE LINGUAGGIO 305

sviluppi della neurochirurgia, in seguito, in modo ancora più decisivo, con


gli avanzamenti tecnologici della radiologia, a partire dagli anni Settanta del
secolo scorso. Con l'introduzione della tomografia computerizzata (TC) e, in
seguito, della risonanza magnetica (RM) diventa possibile individuare sede ed
estensione della lesione cerebrale in vivo,e porre quindi in correlazione diretta
la patologia del cervello con il quadro di deficit linguistico. In un primo tempo
la ricerca si indirizza verso la correlazione tra le sindromi classiche, descritte
dai clinici dell'Ottocento, e la sede della lesione cerebrale. La collaborazione
tra neurologi, psicologi e linguisti tuttavia sposta progressivamente l'attenzione
dalle sindromi cliniche alle caratteristiche qualitative e quantitative del deficit
linguistico. Fondamentali a questo proposito sono gli studi del gruppo di Bo-
ston [Goodglass e Kaplan 1983], basati sull'analisi delle caratteristiche della
produzione afasica e sui parametri linguistici che influenzano le prestazioni dei
pazienti in compiti quali la ricerca e la produzione lessicale o la comprensione
di frasi. Parallelamente, lo studio di correlazione si prefigge di individuare
i correlati neurali di aspetti specifici dell'elaborazione linguistica, quali le
compromissioni del livello fonologico e semantico-lessicale, o delle alterazioni
della comprensione di frasi sintatticamente complesse. Gli sviluppi delle me-
todiche di analisi dei dati hanno un ruolo importante nell'affinare questo tipo
di ricerca, in particolare per quanto riguarda gli studi di gruppo. Le prime
tecniche si basavano su metodi di sovrapposizione delle lesioni [Mazzocchi e
Vignolo 1979]. Negli ultimi anni sono state sviluppate numerose procedure
a carattere semi-automatizzato, basate su programmi di elaborazione dati
dedicati quali MRicro [Rorden et al. 2007], o le tecniche basate sull'analisi
dei voxel [Bates et al. 2003; Seghier et al. 2008], che consentono di affrontare
quesiti più specifici con relativa precisione.

1.2. Le neuroimmagini funzionali

Lo sviluppo di tecniche che consentono di misurare parametri di funziona-


mento cerebrale, quali il flusso ematico o il metabolismo regionale, in soggetti
normali impegnati in compiti sensorimotori e cognitivi ha costituito un'au-
tentica rivoluzione nello studio delle basi neurali dell'elaborazione linguistica.
Piuttosto che attendere l'osservazione di pazienti che presentassero disturbi
specifici dell'aspetto di elaborazione linguistica sotto indagine, diviene pos-
sibile applicare compiti appositamente disegnati per valutare il panorama di
attivazione cerebrale ad esso associato. Anche in questo caso, i primi studi
tendono a utilizzare i compiti derivati dalla pratica clinica, quali lettura o ripe-
tizione, per confermare ipotesi derivate dalla osservazione anatomo-clinica. Ra-
pidamente, tuttavia, le osservazioni raccolte non si limitano a replicare quanto
noto dallo studio dell'afasia, ma aprono nuove prospettive alla ricerca sulle
basi neurologiche del linguaggio. Anche in questo caso, gli sviluppi tecnologici
giocano un ruolo essenziale, ampliando le possibilità di studio sia dal punto
306 APPENDICE
-------------------------------~

clivista dei paradigmi utilizzabili che della sensibilità dei metodi. A titolo cli
esempio, vale la pena cliricordare come nei primi esperimenti con la tecnica
della tomografia ad emissione clipositroni (PET) le modalità cliacquisizione del
segnale (tipicamente variazioni del flusso sanguigno regionale) richiedessero
situazioni sperimentali del tutto innaturali, come la presentazione cliparole
per 40 secondi cliseguito [Petersen et al. 1988). Gli sviluppi della tecnologia,
in particolare con la risonanza magnetica funzionale (RMf), consentono la mi-
surazione della risposta emodinamica a singoli eventi, quali la presentazione di
un singolo stimolo, consentendo cliriprodurre situazioni sperimentali classiche
della psicolinguistica. Analogamente, il miglioramento del rapporto segnale-
rumore negli studi clirisonanza magnetica funzionale consente attualmente
clieseguire degli studi in singoli soggetti, piuttosto che in gruppi [Abutalebi
et al.2009]. Questo tipo cliindagine è stata applicata in particolare allo studio
clisoggetti afasici, al fine di valutare la riorganizzazione funzionale spontanea
o conseguente a trattamento riabilitativo [Vitali et al. 2007].
Un cenno particolare meritano gli sviluppi dei metodi analitici che consen-
tono clistudiare, oltre alla localizzazione cerebrale dei diversi aspetti della
elaborazione linguistica, la comunicazione tra le diverse aree (connettività)
durante l'esecuzione di un compito [Friston 2002).

1.3. La neurofisiologia cognitiva

I metodi di immagine sopra descritti (PET, RMf) hanno consentito clirea-


lizzare una cartografia delle aree del linguaggio sempre più precisa, e cli
studiarne gli aspetti di universalità e di variazione in contesti differenti,
quali il bilinguismo e il recupero dopo lesione cerebrale. Una limitazione cli
questi metodi riguarda la possibilità clistudiare l'andamento nel tempo dei
processi cerebrali. L'elaborazione linguistica procede in tempo reale sulla
scala dei millisecondi; la RMfregistra fenomeni dell'ordine dei secondi. Una
valida finestra sull'andamento temporale dell'elaborazione linguistica ci è
fornita dalle metodiche neurofisiologiche. La tecnica elettroencefalografica
è stata sviluppata nel secolo scorso, soprattutto per studiare l'attività elettrica
del cervello in condizioni clipatologia (ad esempio, nell'epilessia). L'analisi
delle risposte elettriche evocate nel cervello dalla presentazione di stimoli
visivi o acustici è in seguito divenuta uno degli strumenti fondamentali della
psicolinguistica e, integrata con le informazioni spaziali derivate dai metodi
clineuroimmagine, una fonte cliinformazione insostituibile sulle basi neuro-
logiche del linguaggio. Ad esempio, è possibile determinare con la RMfquali
aree cerebrali sono responsabili dell'analisi delle caratteristiche sintattiche,
fonologiche e semantiche cliuna frase, e studiare la loro sequenza temporale
di attivazione mediante la tecnica dei potenziali evocati. Questa tecnica si
basa sulla registrazione della risposta elettrica del cervello alla presentazione
clistimoli esterni, come parole o frasi. Ripetendo la presentazione degli stimoli,
CERVELLOE LINGUAGGIO 307

ed effettuando una media della risposta cerebrale, è possibile separare questa


risposta dall'attività cerebrale non correlata allo stimolo e dal rumore di fondo.

2. DUEINDIRIZZI
DI RICERCA
RAPPRESENTATM
Come abbiamo visto, da quei primi risultati della seconda metà dell'Ottocento
la ricerca nell'ambito della neuropsicologia del linguaggio si è arricchita di
tanti e tali strumenti e metodi di indagine che il campo si presenta in un modo
completamente diverso. Non solo l'enfasi sulla patologia diminuisce a favore
dello studio di soggetti normali, ma si può procedere indagando aspetti funzio-
nali e morfologici senza dover aprire la scatola cranica. Tuttavia, come sempre,
un avanzamento metodologico e la scoperta di nuovi fatti empirici permet-
tono sì nuove domande ed offrono nuove risorse, ma pongono al contempo
anche nuovi problemi. Il maggiore tra tutti è, almeno al momento, capire
come mettere in relazione le scoperte ottenute nell'ambito della linguistica
teorica (e comparata) con quelle inerenti la struttura e i processi effettivi che
hanno luogo nelle reti neuronali individuate con i nuovi metodi di indagine
in vivo (sui soggetti sani). In altre parole: il problema principale è verificare
se ciò che si è scoperto sulla struttura formale delle lingue umane e quello
che si è scoperto sulla struttura morfologica e funzionale dell'encefalo sono
comparabili, compatibili e, in linea di principio, integrabili.
Per procedere in questa direzione, non esistono ovviamente strategie speri-
mentali privilegiate né fenomeni che emergano in modo speciale; occorre come
sempre fare delle scelte e tentare nuove vie. Qui sceglieremo due indirizzi
rappresentativi di questo percorso scientifico, nella convinzione non solo che
siano più stabili di altri rispetto ai risultati e alle conferme ottenuti, ma anche
che rappresentino in qualche modo due aspetti complementari dei fenomeni
linguistici: la sintassi e il lessico.

2.1. La sintassi e le lingue impossibili

Anche concentrandoci sulla sola sintassi, il campo deve essere ulteriormente


ristretto. Come sempre, la ricerca scientifica può solo procedere attraverso
l'idealizzazione del campo empirico, cioè la scelta di riduzione della comples-
sità dei fenomeni da osservare, ed in questo caso si tratta certamente di una
riduzione molto forte. Con il termine sintassi si indicano tanti e tali fenomeni
linguistici diversi che anche solo progettare un esperimento utile a confrontare
tutte le proprietà formali del linguaggio con le proprietà neuropsicologiche
porterebbe ad un livello di complessità di fatto ingestibile.
Nella scelta della sintassi come campo di indagine esistono tuttavia anche
aspetti molto vantaggiosi. A partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso,
infatti, si è inaugurata una stagione di studi che ha condotto a una vera e
propria rivoluzione in questo ambito per almeno due motivi indipendenti:
308 APPENDICE

da una parte, la possibilità di utilizzare ed adattare metodi raffinati di analisi


sviluppata in ambito logico-matematico, dall'altra la maturazione di nuove
tecniche di indagine dei codici linguistici in senso computazionale, essen-
zialmente ereditati dalle necessità di costruire e decifrare automaticamente
codici di comunicazione durante la Seconda guerra mondiale (si veda a que-
sto proposito uno dei manuali di riferimento più autorevoli ed i riferimenti
ivi citati: Hopcroft et al. [2006]). Questa nuova stagione di studi, definita
da Graffi [2001] «l'era delle teorie sintattiche» apre effettivamente nuove
possibilità rispetto al problema di confronto tra strutture formali e strutture
cerebrali. In questo paragrafo si è scelto di concentrare l'attenzione su una
delle proprietà più chiaramente identificate della struttura della sintassi, vale
a dire la cosiddetta struttura «ricorsiva» delle lingue umane (v. sopra, I.2.).
È d'obbligo, per evitare equivoci, premettere tre osservazioni preliminari.
Una terminologica: la parola ricorsivitàha originariamente assunto valore
tecnico nell'ambito degli studi dei fondamenti della matematica [si veda ad
esempio Odifreddi 1989], e non ha un equivalente diretto in linguistica. La
nozione tecnica di ricorsività in linguistica è stata invece definita negli anni
Cinquanta a partire almeno dai primi lavori di Chomsky [per es. 1956] ed ha
subìto progressive rielaborazioni fino ad oggi, pur mantenendo fissa l'idea
centrale oggi (si veda, ad esempio, Chomsky [in stampa]). Questa nozione
ha portato tra l'altro ad un enorme sviluppo la ricerca empirica e teorica sui
codici naturali ed artificiali di comunicazione, producendo varie versioni delle
cosiddette «gerarchie di grammatiche» (tra le quali certamente la più famosa
è proprio quella cosiddetta «di Chomsky»), cioè tassonomie generali basate
sul livellodi complessità di qualsiasi codice dotato di una sintassi. La seconda
precisazione ha invece carattere più squisitamente linguistico: la nozione di
ricorsivitàallude, in prima approssimazione, alla possibilità che una struttura
di un certo tipo possa essere contenuta in una struttura dello stesso tipo
senza restrizioni. Questa proprietà obbliga a tener distinte due nozioni che
spesso vengono invece confuse: quella di subordinazione (che è certamente
un tipo di struttura ricorsiva, anzi, è quella che ne ha probabilmente motivato
la nascita in ambito teorico) e quella di gerarchia. In altre parole, se anche
si trovasse una lingua (o, in seconda istanza, uno stile espressivo) in cui la
subordinazione frasale fosse assente, questo non sarebbe affatto sufficiente a
dire che la lingua non contiene strutture gerarchiche. Anche l'esistenza di un
solo sintagma nominale che non fosse costituito dalla sola testa sarebbe infatti
sufficiente ad individuare una struttura ricorsiva (formalizzata ad esempio
con le rappresentazioni di tipo X-barra (v. VII.2.1.) e dunque a mostrare che
la ricorsività è una proprietà di quella lingua. Quanto alla confusione tra ge-
rarchia e ricorsività, basta notare che la struttura della sillaba (come si è visto
in V.9.) è certamente gerarchica ma non è affatto ricorsiva: la sua struttura
completa comprende attacco e rima e la rima a sua volta comprende nucleo
e coda, dunque chiaramente una struttura gerarchica; tuttavia, malgrado
l'apparente somiglianza con un albero sintattico, è chiaro che né l'attacco né
la coda possono a loro volta essere costituiti da sillabe. Infine, occorre distin-
___________________________ C~ER_V~EL_LO~E
LINGUAGGIO 309

guere nettamente tra iterazione e ricorsività: il tipo di ricorsività che interessa


la struttura linguistica non è infatti limitato alla semplice iterazione, come
in una frase allungabile all'infinito (ho comprato mele, pere, carote, arance,
carburatori,ciliegie,ecc.), ma riguarda anche il fatto che si possano creare «di-
pendenze annidate» (cui spesso ci si riferisce direttamente col termine inglese:
nested dependencies),cioè dipendenze tra due parole tra le quali si possono
avere infinite dipendenze dello stesso tipo dove per «dipendenza» si intende
una qualsiasi relazione fra le due parole, ad esempio l'accordo. Uno dei primi
esempi studiati di dipendenza annidata fu la costruzione di frasi del tipo sei
allora contenenti a loro volta frasi del tipo sei allora, come: se1 il primario
dice che se2 si prende questa medicinaallora2 si guarisceallora1 sta sicuroche la
terapianon funziona. Naturalmente, sulla possibilità di utilizzare all'infinito
dipendenze annidate nel linguaggio parlato - possibilità certamente ammessa
in linea teorica - si impongono condizioni limitanti relative all'esecuzione e
non alla competenza, come quelle che riguardano la memoria a breve termine
o proprietà di parsing che ancora oggi pongono problemi empirici e teorici
non minimi (si veda ad esempio Lazzari et al. [2010] ed i riferimenti ivi citati).
Restano comunque ben comprovati due fatti: (1) che in tutte le lingue umane
- e soltanto in esse - esistono strutture sintattiche ricorsive, la cui natura non è
evidentemente riconducibile ad altre proprietà linguistiche o comunicative né
imitabile «copiando» aspetti del mondo fisico, e (2) che la ricorsività assegna
alle lingue la possibilità di costruire frasi di lunghezza potenzialmente infinita,
dotate di particolari strutture gerarchiche. Malgrado vari tentativi, nessuno è
ancora riuscito a mostrare se e come le strutture ricorsive siano vantaggiose per
la comunicazione rispetto a strutture non ricorsive; di fatto, l'assenza di lingue
non ricorsive - e comunque di regole che pongano un limite superiore alla
lunghezza e al numero delle frasi-fa immediatamente emergere una domanda
molto netta: l'assenza di lingue di questo tipo è un fatto convenzionale e arbi-
trario o è invece dovuta alla struttura neuropsicologica del cervello? Pur non
citando la proprietà della ricorsività, questa stessa preoccupazione fu espressa
proprio da Eric Lenneberg nell'introduzione al suo ormai classico testo sui
fondamenti biologici del linguaggio: «Una ricerca biologica sul linguaggio
appare necessariamente paradossale dal momento che viene così ampiamente
ammesso che le lingue consistono di convenzioni culturali di natura arbitraria»
[Lenneberg 1967, trad. it. p. 8]. Vedremo brevemente insieme nelle pagine
che seguono se questa preoccupazione è ancora valida o meno.
Siamo dunque in grado di dare forma ad un quesito non vago sulla questione
fondamentale della relazione tra strutture del linguaggio da una parte e strut-
ture e processi neuropsicologici dall'altra. Vale a dire: la struttura ricorsiva
della sintassi delle lingue umane è l'esito di una convenzione di natura arbitra-
ria o si correla con attività neurobiologiche specifiche? Qui daremo una traccia
sintetica della strategia sperimentale che ha portato a dare una risposta, sia
pure parziale, a questo quesito, una risposta che comunque esclude una serie
di alternative che ancora oggi faticano ad essere dismesse malgrado abbiano
a sfavore numerosi e robusti risultati sperimentali. Per una rassegna critica
310 APPENDICE

dei lavori rimandiamo a Cappa [2012), mentre per una trattazione divulga-
tiva ed estesa degli esperimenti che presentiamo in questo paragrafo si veda
Moro [2008). Il discorso verrà scandito in due parti: una preliminare ed una
centrale, dove si affronta la questione dei correlati neurali della ricorsività.
La parte preliminare, ovviamente, consiste nel verificare che innanzitutto nel
cervello esiste una rete dedicata alla sintassi. Questo punto fu affrontato all'i-
nizio di questo secolo da almeno due gruppi di ricerca che hanno dato risultati
del tutto convergenti. Per comprendere la strategia sperimentale occorre
mettere in evidenza uno dei limiti sperimentali principali che caratterizzano
le indagini basate sulle neuroimmagini. Dal momento che queste metodiche
danno fondamentalmente una misura dell'attività emodinamica del cervello,
dalla quale si deduce l'attività metabolica e dunque funzionale dell'organo,
non è possibile avere dati diretti selettivi su un determinato compito, cognitivo
o meno: il cervello, infatti, com'è ovvio, salvo patologie, è comunque sempre
completamenteirrorato dal flusso ematico. Occorre dunque procedere secondo
almeno due possibili alternative: o si confrontano due compiti minimamente
differenti e si associa il risultato emodinamico alla differenza tra i due com-
piti (metodo sottrattivo); oppure si confrontano due fasi diverse dello stesso
compito e si associa il risultato emodinamico all'andamento del compito, ad
esempio in termini comportamentali (metodo parametrico; per queste diffe-
renze si veda il lavoro pionieristico di Friston [1997)).
È ovvio che, per vedere se esiste nel cervello una rete dedicata alla sintassi, non
possiamo confrontare due compiti linguistici che si differenziano per il fatto
che in un caso vengono eseguiti compiti sintattici e in un caso no: non esiste
infatti alcun linguaggio senza sintassi; può certo esistere comunicazione, ma
linguaggio nel senso normalmente inteso no. Una soluzione a questo apparente
vicolo cieco è stata quella di confrontare se nel cervello si attivano reti diverse
in corrispondenza di errori di tipo diverso. Questa strategia d'indagine è stata
utilizzata per la prima volta in due lavori indipendenti e diversi ma convergenti:
Embick et al. [2000] e Moro et al. [2001). L'idea comune nei due lavori consiste
nell'ipotesi che, se esiste una reazione diversa del cervello agli errori sintattici
rispetto ad errori di altro tipo (ad esempio, fonotattici o morfosintattici), allora
il cervello contiene una rete dedicata alla sintassi. Questa deduzione è valida,
com'è ovvio, solo se si ammette che la rete che riconosceerrori di un certo tipo
è fondamentalmente sovrapponibile alla rete che produce le regolarità dello
stesso tipo; d'altronde, ammettere che nel cervello le regole sintattiche siano
codificate due volte in modo separato - una volta per la produzione, una volta
per il controllo - equivarrebbe ad ammettere una costosa ridondanza nell' ar-
chitettura funzionale delle facoltà cognitive che non sarebbe facile giustificare.
Come se avessimo in testa due aritmetiche: una per calcolare se 2 + 2 fa 4 e una
per dire che 2 + 2 non fa 5. La differenza tra i due esperimenti sta invece nel
fatto che nel secondo esperimento citato si sono utilizzate pseudoparole, vale
a dire parole di classe aperta (v. V.2.), morfologicamente e fonotatticamente
corrette, ma con una radice lessicale inventata. Un esempio è la frase: il gulco
gianigevale brale. In questa frase riconosciamo la buona formazione delle
CERVELLOE LINGUAGGIO 311

parole e, in generale, delle regole di combinazione, anche se non sappiamo as-


solutamente cosa sia un gulco,una bralae cosa significhi gianigiare.Il motivo di
questa scelta è che, quando si produce un errore di tipo sintattico, ad esempio
mettendo le parole in disordine come in gulcoil gianigiavabralala, dobbiamo
esser sicuri di non produrre anche un errore semantico. Se si usassero parole
vere, infatti, questo non sarebbe sempre garantito. Vediamo la questione con
un semplice esempio: se dico sbranatotigre una una gallinaha, non ho dubbi
che la frase, per quanto sgangherata, intende alludere al caso di una tigre che
ha sbranato una gallina, visto che il significato delle singole parole mi consente
comunque di ricostruire lo scenario e quindi di recuperare il significato (in un
mondo dove non esistono galline giganti, s'intende). Se invece dicessi ucciso
serpente un una gallina ha non potrei ricostruire il significato: avrei infatti
almeno due combinazioni plausibili, quella in cui la gallina uccide il serpente,
magari con una beccata profonda in mezzo alla testa, e quella opposta in cui
il serpente uccide la gallina con il veleno di un morso. Dunque un errore
sintattico potrebbe produrre anche un problema a livello semantico, cioè
l'incapacità di assegnare le condizioni di verità all'enunciato. Se invece, come
è stato fatto nel secondo esperimento qui citato, si utilizzano pseudoparole,
questo problema viene troncato sul nascere - per così dire - perché la rete
di riconoscimento dei lessemi non può nemmeno essere attivata o, se lo è, è
attivata a vuoto: gulchi e bralenon sappiamo assolutamente come siano fatti.
Nell'esperimento in questione, che in questo caso si è awalso della tecnica
PET, i soggetti destrimani e sani, omogenei per grado di istruzione ed età, si
trovavano dunque di fronte a frasi del tipo: il gulcogianigevale brale, il gulco
giangztrgevale brale, il gulcogianigevanole brale e gulco il gianigevabrale le.
Accanto alla frase ben formata c'erano dunque frasi con errori. Il risultato fu
che le frasi con errori di tipo sintattico attivavano nell'emisfero sinistro una
rete dedicata che comprendeva essenzialmente una zona corticale, la porzione
dell'area di Broca denominata parteopercolare(o BA 44), e una parte più in-
terna dell'encefalo, un ganglio della base denominato nucleo caudato.Questo
primo passo autorizzava dunque ad affrontare la domanda sull'assenza di lingue
non ricorsive in un modo nuovo: indicava quale fosse la rete da osservare nel
caso di variazioni sintattiche, avendo con l'esperimento precedente isolato una
rete dedicata per la sintassi. È evidente che, oltre al fatto empirico in sé, il risul-
tato metteva in luce una convergenza niente affatto scontata tra la linguistica (il
termine sintassivenne utilizzato almeno a partire dal IV sec. a.C. e stabilizzato
in senso tecnico in epoca alessandrina) e la neuropsicologia; nulla poteva infatti
escludere che ciò che noi chiamiamo sintassi fosse solo un comodo artificio
descrittivo e ad esso non corrispondesse un'attività neuropsicologica dedicata.
I fatti sperimentali hanno dimostrato il contrario. L'attivazione selettiva del
nucleo caudato di sinistra per errori di tipo sintattico è stata inoltre successi-
vamente confermata in un importante lavoro indipendente che confronta il
giudizio su errori sintattici rispetto ad errori «logici» [Monti et al. 2009].
A questo punto si hanno tutti gli elementi per costruire un paradigma spe-
rimentale che verifichi un eventuale correlato dell'elaborazione di strutture
ricorsive nei processi neuropsicologici del cervello. L'idea centrale diventa
semplice: confrontare l'elaborazione di giudizi di grammaticalità di frasi co-
struite con regole ricorsive rispetto a frasi costruite con regole non ricorsive
e vedere se c'è una differenza. A fronte di questa semplicità nel paradigma
sperimentale, naturalmente nascono subito vari problemi di difficile ma non
impossibile soluzione. Ce ne sono almeno due.
Il primo sta nel fatto che ovviamente i soggetti che vengono coinvolti nell' espe-
rimento devono trovarsi di fronte a degli stimoli ragionevolmente semplici; ad
esempio, si esclude che possano andare a lezione di linguistica e apprendano
con esercizi e impegno la nozione di ricorsività. Occorre dunque trovare il
sistema di produrre regole che rispettino o meno la ricorsività senza per questo
impegnare i soggetti in una fase difficile di apprendimento. Questo problema
viene risolto in modo semplice, utilizzando uno degli effetti tipici più vistosi
dell'architettura ricorsiva, cioè vengono date strutture sintattiche nelle quali
le relazioni a distanza tra due parole (la relazione tra le parole se e allora)non
dipendono affatto dal numero delle parole che intervengono tra le due parole
dipendenti e vengono confrontate con regole nelle quali invece si impone che
il numero di parole conti: ad esempio, una regola che richiedesse che tra un
se e un allora potessero esserci sempre solo n parole. Più in generale, sono
state proposte regole di due tipi: da una parte, regole per le quali non contava
l'ordine lineare; dall'altra, regole per le quali l'ordine lineare era fondamentale
(per una valutazione in termini di complessità si veda la breve discussione
critica in Chesi e Moro [2012] ed i riferimenti ivi citati).
Il secondo problema sta nel fatto che occorre che le regole di tipo ricorsivo e
quelle di tipo non ricorsivo siano comparabili dal punto di vista della comples-
sità, altrimenti l'eventuale differenza nell'attività emodinamica potrebbe non
essere altro che il riflesso della diversa complessità e non aver dunque nulla a
che fare con la distinzione formale tra strutture ricorsive e non ricorsive. Per
escludere questa eventualità occorre condurre preliminarmente esperimenti
di tipo cosiddetto «comportamentale»: sostanzialmente si provano sui soggetti
le reazioni ai giudizi di grammaticalità sulle regole e si misurano la velocità di
risposta e le percentuali di errore.
Sulla base di questa idea generale sono stati condotti almeno tre esperimenti
con tre gruppi di ricerca diversi in tre centri diversi utilizzando la tecnica della
risonanza magnetica funzionale [Musso et al. 2003; Tettamanti et al. 2002;
Tettamanti et al. 2009]. La differenza fondamentale nei tre esperimenti stava
nel tipo di stimolo: frasi di pseudoparole nel primo caso, frasi con parole di
due lingue reali nel secondo, sequenze di simboli grafici senza significato
nel terzo. Anche la fase preparatoria dei soggetti era differente: nel primo
e nell'ultimo caso i soggetti dovevano scoprire da soli le regole vedendo un
numero consistente di esempi; nel secondo, invece, venivano istruiti esplici-
tamente. Com'è ovvio, non gli veniva mai detto che alcune regole si basavano
su procedure ricorsive, altre su strutture lineari. Nel caso di due lingue reali,
inoltre, si è provveduto a scegliere due lingue di famiglie differenti, in modo
che si potesse escludere che la somiglianza della lingua da acquisire potesse
CERVELLOE LINGUAGGIO 313

in qualche modo influenzare l'esperimento. Nella fattispecie, si è insegnato a


parlanti monolingui del tedesco (reclutati nella ex Repubblica Democratica
Tedesca) un «microitaliano» e un «microgiapponese» che nascondevano regole
non ricorsive, accanto alle regole autentiche, cioè ricorsive.
È fondamentale notare che, dal punto di vista comportamentale, in tutti e tre
gli esperimenti i soggetti hanno commesso per le regole ricorsive e le regole
non ricorsive la stessa percentuale di errori. Per quanto riguarda invece la ve-
locità di risposta, il primo e l'ultimo esperimento davano lo stesso incremento
progressivo di velocità con i due tipi di regole, mentre il secondo esperimento
dava un lievissimo rallentamento per le regole non ricorsive. Questo permette
di escludere che tra le regole ricorsive e quelle non ricorsive ci fosse un'in-
trinseca differenza nella difficoltà di elaborazione: se ci fosse stata, si sarebbe
potuto attribuire i risultati ad esempio ad un reclutamento di aree maggiori
per questioni di memoria e non per questioni genuinamente strutturali.
Il risultato centrale di questi esperimenti è dunque sufficientemente omoge-
neo e coerente: nel giudicare la grammaticalità delle frasi (o delle sequenze
di simboli) il cervello dei soggetti aumentava progressivamente l'attività
emodinamica nell'area di Broca per il caso delle regole ricorsive, mentre
la diminuiva per quello delle regole non ricorsive. L'interpretazione del
risultato - che ovviamente apre tantissime questioni, forse più di quante ne
chiuda -lascia comunque pochi dubbi: la preoccupazione di Lenneberg può
considerarsi ormai del tutto superata. Dal momento che l'attività emodina-
mica dell'encefalo non può essere certo oggetto di convenzioni culturali di
natura arbitraria e dal momento che essa dipende dal fatto che una regola
sia o meno ricorsiva, ne deriva necessariamente che anche la distinzione tra
regole ricorsive e regole non ricorsive non può essere una distinzione culturale
di natura arbitraria ma deve dipendere in qualche modo - che non è affatto
ancora chiaro - dall'architettura neurobiologica del cervello. Se lo fosse, le
reti coinvolte sarebbero identiche.
Se chiamiamo le lingue con regole non ricorsive lingue impossibili possiamo
dunque concludere, più in generale, che l'assenza di lingue impossibili non
è un fatto convenzionale, arbitrario e culturale ma un fatto naturale: certo le
lingue possono variare, e di certe variazioni possono darsi misurazioni speci-
fiche (ad es. le varie correlazioni sistematiche di ordine delle parole descritte
in III.2. possono essere riformulate come diverse realizzazioni possibili dello
schema X-barra, su cui v. VII.2.1.), ma esistono dei confini entro i quali la
variazione della babele delle lingue è circoscritta. I confini di Babele - per
così dire - ci sono e sono inscritti nella nostra carne.
Non è forse nemmeno il caso di rimarcare quanto questi lavori siano del
tutto preliminari e quanto rimanga da scoprire: anzi, sta forse proprio nel
fatto di porre nuove domande che questi esperimenti si pongono come inte-
ressanti. Altri esperimenti sono seguiti a questi ed hanno utilizzato tecniche
e stimoli diversi (ad esempio [Friederici et al. 2006]). Ovviamente, inoltre,
gli esperimenti sulle lingue impossibili non sono gli unici nei quali si cerca di
vedere se quello che sappiamo sulla sintassi delle lingue umane è com.men-
314 APPENDICE

surabile con quello che sappiamo sulla struttura neurobiologica del cervello.
Un altro ambito di ricerca promettente è ad esempio quello che riguarda la
natura della struttura dei sintagmi. Si sente spesso dire che i sintagmi, anzi la
rappresentazione che ne diamo, è un'astrazione e che la realtà sono invece i
neuroni che a tale regolarità danno origine. Certamente la rappresentazione
dei sintagmi è un'astrazione; ma è altrettanto certamente vero che - come
propose Rutherford nel 1911- anche la rappresentazione di un atomo come
un piccolo sistema solare lo era. L'atomo di Rutherford era semplicemente
un modo sintetico e coerente di rappresentare la risposta ad alcuni esperi-
menti e non una realtà di «rango minore» da contrapporre ad una realtà «più
reale». Allo stesso modo dovrebbe senza alcun dubbio essere interpretata la
rappresentazione sintattica in termini di teoria X-barra o in altre notazioni
equivalenti anche se non è stata ottenuta indagando la base materiale dalla
quale la sintassi scaturisce, cioè la struttura neurobiologica.
A questo proposito, tuttavia, va senz'altro aggiunto che, anche in questo set-
tore specifico della sintassi, si stanno iniziando ad accumulare dati empirici
di natura neuropsicologica che offrono nuovi supporti a tali rappresentazioni,
rendendo questa cautela nel valutare le rappresentazioni sintattiche, già di per
sé non giustificabile, ancor meno plausibile. In questa direzione si sono mossi
ad esempio Abutalebi et al. [2007] e Pallier et al. [2011], con due esperimenti
di neuroimmagini che utilizzano RMf.Nel primo si è misurata la differenza
di reazione nel cervello di soggetti bilingui sottoposti all'ascolto di una storia
in cui si saltava in modo inaspettato da una lingua all'altra. Si è osservato che,
in caso di salto dopo lo specificatore di un sintagma, il cervello reagiva in
modo diverso che in caso di salto dopo la testa del sintagma. Nel secondo si
è misurata invece la diversa attività cerebrale nel caso di accumulo di parole
senza legame sintattico, come in una lista, rispetto al caso di legami strutturali
sintagmatici. In entrambi gli esperimenti, tolti ovviamente gli aspetti non
rilevanti, si è visto che la rappresentazione dei costituenti in termini formali
si correla in modo del tutto coerente con le attivazioni nelle reti corticali (e
subcorticali) dedicate al linguaggio.

2.2. L'organizzazione del lessico nei soggetti normali e nei soggetti


afasici

Lo studio dell'organizzazione cerebrale dei processi di elaborazione seman-


tico-lessicale costituisce un esempio eccellente di integrazione tra le differenti
metodologie descritte in precedenza. Punto di partenza sono infatti le osserva-
zioni su soggetti afasici. Un disturbo nel denominare oggetti e figure costituisce
uno degli elementi comuni tra le diverse forme cliniche di afasia, anche se
i pazienti commettono differenti tipi di errori. Alcuni pazienti commettono
errori che suggeriscono una compromissione della capacità di produrre la
struttura fonologica di una parola (parafasie fonemiche), mentre altri pro-
CERVELLOE LINGUAGGIO 315

ducono errori che indicano una disfunzione a livello della selezione lessicale
o rappresentazioni concettuali (parafasie verbali o semantiche). Gli studi di
correlazione con la sede della lesione in pazienti con lesioni vascolari hanno
individuato una possibile differenza, con lesioni delle aree poste all'intorno
della scissura di Silvio (fig. A.1) associate a deficit fonologici e lesioni in aree
temporali o parietali extrasilviane associate alle difficoltà semantico-lessicali
[Cappa et al. 1981]. Più recentemente, lo studio dei pazienti con afasia pri-
maria progressiva ha confermato e precisato questa distinzione, attraverso il
confronto tra le caratteristiche cliniche e di neuroimmagine tra pazienti con
variante semantica e pazienti con variante logopenica [Gorno-Tempini et al.
2004]. Le osservazioni cliniche sono supportate dagli studi di neuroimmagine
eseguiti in soggetti normali. Un classico studio eseguito con la PET [Demonet
et al. 1992] ha confrontato le attivazioni cerebrali quando i volontari esegui-
vano un compito puramente fonologico (giudicare l'organizzazione fonologica
all'interno di sequenze sillabiche prive di significato) con quelle relative a un
compito semantico-lessicale (decidere se la parola presentata si riferiva ad una
specifica categoria di entità concrete). Nel primo caso l'attivazione cerebrale
era limitata alle classiche aree del linguaggio all'intorno della scissura silviana.
Nel caso del compito semantico l'attivazione si estendeva invece più estesa-
mente nelle aree sopra definite come extrasilviane: giro temporale medio e
inferiore, lobulo parietale inferiore e aree prefrontali.
Un importante ulteriore contributo allo studio delle basi neurologiche dei
processi di elaborazione semantico-lessicale è derivato da altre osservazioni
cliniche, basate sullo studio di singoli casi con l'approccio della neuropsi-
cologia cognitiva [Shallice 1988]. In particolare, alcune osservazioni hanno
dimostrato la possibilità che lesioni cerebrali colpiscano in modo relativamente
selettivo la capacità di produrre e/o comprendere parole riferite a specifiche
categorie semantiche, oppure appartenenti a diverse categorie grammaticali.
Nel primo caso, i primi disturbi selettivi sono stati verificati al livello delle
categorie delle entità biologiche e degli artefatti. Nel secondo, la principale
distinzione riguarda i nomi ed i verbi. Passiamo brevemente in rassegna le
ipotesi che sono state formulate per spiegare le dissociazioni osservate a livello
clinico, e gli studi che hanno cercato di mettere in relazione questi fenomeni
con l'organizzazione neurale della elaborazione semantico-lessicale.
L'osservazione di disturbi specifici per alcuni domini semantici è stata ini-
zialmente interpretata come effetto secondario della organizzazione delle
conoscenze concettuali sulla base delle modalità sensorimotorie associate alla
loro acquisizione [McCarthy e Warrington 1988]. Un ruolo essenziale delle
conoscenze di tipo visuo-percettivo, preponderanti nelle rappresentazioni
concettuali relative alle entità biologiche (animali, frutta e verdura), deter-
minerebbe, nel caso della loro compromissione in seguito a danno cerebrale
di aree dedicate, un disturbo selettivo per le entità biologiche. Viceversa, il
disturbo relativo agli artefatti conseguirebbe ad una compromissione delle
conoscenze relative alla funzione, in cui un ruolo importante hanno rappre-
sentazioni motorie ed enciclopediche (come si usano, a quale scopo, in quali
316 APPENDICE
--~--------------------------~

contesti). La difficoltà di ricondurre le caratteristiche di tutti i pazienti descritti


ad un meccanismo di questo tipo ha condotto alla formulazione di teorie
completamente contrastanti, ove viene ipotizzata una organizzazione delle
conoscenze semantiche totalmente indipendente dalle modalità di acquisizione
e rappresentazione (amodale), ma differenziata per domini rilevanti sul piano
evolutivo, quali le entità biologiche e gliartefatti [Caramazza e Shelton 1998].
Altre posizioni teoriche contemplano l'esistenza di due livelli nella elabora-
zione semantica, ove ad una organizzazione specifica per modalità segue un
livello di rappresentazione simbolico-amodale [Patterson et al. 2007], oppure
propongono un ruolo di arricchimento delle rappresentazioni concettuali
amodali da parte delle conoscenze sensorimotorie [Mahon e Caramazza 2008].
A livello neurologico queste differenti ipotesi sono state messe a confronto
attraverso lo studio della sede della lesione in pazienti con disturbi selettivi
per categoria [Gainotti 2000], o attraverso esperimenti di neuroimmagine in
soggetti normali [Cappa 2008]. I risultati di queste indagini hanno in generale
evidenziato il ruolo delle aree sensorimotorie nei processi di elaborazione
semantica lessicale o non-lessicale, anche se i risultati ottenuti, in particolare
per quanto riguarda le neuroimmagini, non consentono di concludere con
sicurezza per un ruolo necessario o sufficiente di tali attivazioni. Mancavano
inoltre ipotesi specifiche riguardo ai possibili correlati neurali della elabo-
razione amodale. Lo studio approfondito dei pazienti affetti da demenza
semantica ha condotto alcuni studiosi ad attribuire un ruolo centrale alla
parte anteriore del lobo temporale, regione raramente implicata dalle lesioni
di tipo cerebrovascolare.
Per quanto riguarda le osservazioni di deficit relativi a categorie gramma-
ticali (nomi e verbi), la discussione verte sul ruolo delle distinzioni a livello
semantico e sintattico. In effetti, la categoria dei verbi si distingue dai nomi
per molteplici caratteristiche, tra cui spiccano il riferimento semantico (molti
verbi si riferiscono ad azioni) e, soprattutto, la complessità sintattica. In alcuni
pazienti il deficit per i verbi sembra essere conseguente ad una compromis-
sione delle conoscenze semantiche relative all'azione, mentre in altri sembra
piuttosto riflettere un disturbo di tipo sintattico, spesso nel contesto di una
produzione agrammaticale. Anche in questo caso, gli studi di neuroimmagine
hanno dimostrato in linea di massima l'attivazione di aree specifiche, collegate
alla rappresentazione dell'azione, durante compiti semantici relativi ai verbi di
moto; se i compiti richiedevano invece operazioni di tipo morfosintattico l' at-
tivazione coinvolgeva tipicamente le aree descritte nel paragrafo precedente.
Un aspetto comune ad entrambe le dissociazioni sopra descritte è che, mentre
alcuni pazienti presentano un quadro compatibile con una compromissione
del sistema semantico (ovvero difficoltà che coinvolgono sia la capacità di
produrre che di comprendere), altri presentano un disturbo specifico della
produzione, compatibile con una compromissione selettiva a livello lessicale.
La separazione tra i due livelli è supportata da un'ampia messe di studi eseguiti
con metodiche neurofisiologiche, che hanno indagato i tempi richiesti dai
processi di selezione e codifica lessicale. L'osservazione di disturbi lessicali
CERVELLOE LINGUAGGIO 317

selettivi non è problematica nel caso delle categorie grammaticali, in quanto


i differenti modelli di produzione convergono nell'inclusione di informazioni
sintattiche a livello lessicale, seppure con modalità differenti. Nel caso dei
disturbi lessicali selettivi per categoria semantica è stato invocato un mec-
canismo di disconnessione tra uno specifico dominio semantico e il sistema
lessicale [Capitani et al. 2003].

3. PROSPETI1VE:
GENETICA,
EVOLUZIONE,
NUOVETECNICHE DI INDAGINE

È ovvio da quanto abbiamo visto sopra che non si può trarre ancora alcuna
conclusione definitiva sul legame tra linguaggio e cervello se non che si
sono aperte strade che portano a domande totalmente nuove. Nemmeno le
tecniche di indagine sono stabilizzate: dati promettenti arrivano ad esempio
ora dalla neurochirurgia funzionale, investendo settori importantissimi
come quelli relativi alla scrittura [si veda ad esempio Magrassi et al. 2010] e
alla elaborazione lessicale [Sahin et al. 2009]. Le possibilità di un'indagine
nei termini di genetica molecolare della facoltà di linguaggio umano sono
limitate dall'ovvia impossibilità ad accedere a modelli animali - è ormai più
che assodato quello che a livello intuitivo era già colto da Cartesio e poi von
Humboldt, cioè che solo noi esseri umani facciamo «uso infinito di mezzi
finiti», come dimostra ad esempio Anderson [2008] e Terrace et al. [1979].
Informazioni interessanti derivano dallo studio dei disturbi dell' acquisi-
zione, in particolare per quanto riguarda il linguaggio scritto. L'importanza
dei lavori sulle mutazioni del gene FOXP2 - una mutazione nella sequenza
delle molecole (nucleotidi) che costituiscono la specifica porzione di DNA
corrispondente a questo gene, che era stato dapprima messo in relazione a
un deficit di tipo grammaticale e poi derubricato ad una capacità molto più
periferica, legata sostanzialmente alla pronuncia dei morfemi plurali rego-
lari in inglese - è stata in qualche modo ridimensionata (si vedano a questo
proposito Marcus e Fisher [2003], Moro [2008; 2012], ed i riferimenti ivi
citati); ciò nonostante, l'applicazione di modelli genetici più complessi sem-
bra fornire dei risultati promettenti [Pinel et al. 2012; Vernes et al. 2008].
Anche gli studi sull'evoluzione del linguaggio sembrano ancora una volta
esser fermi: un motivo è che non abbiamo equivalenti fossili del linguaggio
(ovviamente non considerando le testimonianze scritte sufficientemente
antiche per essere sfruttate rispetto ai tempi della scala evolutiva); un altro
motivo sta nel fatto che, se la marca distintiva della sintassi è la ricorsività e
se la ricorsività produce per definizione strutture potenzialmente infinite, la
sintassi non può per definizione manifestarsi gradualmente, sbarrando con
questo la strada all'ipotesi di protolinguaggi che non siano caricature delle
lingue naturali. Ma qui il discorso si fa troppo complesso, non solo rispetto
all'orizzonte di questo libro, ma anche per la sua stessa natura, e dunque non
è possibile affrontarlo in modo definitivo.
318 APP_EN_D_IC_E
_____________ _

La storia della relazione tra cervello e linguaggio dunque non finisce cer-
tamente qui, semmai inizia: quel che è certo è che né la neuropsicologia
può fare a meno della linguistica né la linguistica della neuropsicologia. Per
fortuna, il linguaggio, come l'universo, è patrimonio comune di chiunque sia
interessato ad indagarlo.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Forniamo qui di seguito una serie di indicazioni bibliografiche utili per tutti i lettori che vogliano
approfondire i temi trattati nell'appendice.
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Indici
Indicedellelingue

afgano, 61,255 comico, 64


afrikaans, 63, 146,161,245 curdo,61,255
afro-asiatiche, lingue, 61
albanese,58,62,243,255 danese,61,63,253,255
altaiche, lingue, 55, 60, 69 dravidiche, lingue, 55
amarico, 70 ebraico,59,69, 72,247,248,266
AmericanSign Language(ASL), 21 egiziano, 59, 71
amerindiane, lingue, 60, 72 eschimese, 67, 114
anatoliche, lingue, 62, 254-256 estone, 59, 64
arabo,25,39,54,59,67,69, 110,147,194,237,
243,244,266,274 feroico, 63
armeno, 62,255,256,258 finlandese,59,64, 72,105,201
austro-asiatiche, lingue, 60 francese, 24, 25, 39, 50, 54, 56, 59, 63, 64, 71, 78,
austronesiane, lingue, 60 85,102,106,110,131,159,161,167,243,244,
avestico, 61, 255 250,252,255,266,268,293
franco-provenzale, 46,242,243 (vedianchepro-
bahasa, 60 venzale)
balcaniche, lingue, 58 frisone, 63
basco,60,64,69, 70
bengali,54 gaelico,64,255
bielorusso, 62 gallego,63
bretone, 64,255 gallese, 64
bulgaro, 58, 59, 62, 72, 255 germaniche, lingue, 70, 114,135,252,254, 256-
antico, 62 261, 263,264,266,267,275
giapponese, 25, 54, 56, 58, 60, 68, 69, 71,284,313
catalano, 63, 64,243,297 gotico, 63,255,257,258,260,262,263
ceco,62,255 greco,46,49,54,61,62,67, 72,116,129,136,
celtiche, lingue, 69 160,170,201,203,243,255-260,263,265,266
cimrico, 64, 255 (vedi anchegallese) moderno, 58, 62, 105
cinese, 25, 56, 58, 65, 66, 71, 115,201,243,293 hindi,54, 61, 89, 92, 161
mandarino, 53, 54, 60, 63, 107
coreano, 60 indiane, lingue, 29, 61,254
332 INDICEDELLE
LINGUE

indoeuropee, lingue, 56, 58, 61, 62, 64, 66, 67, persiano, 61, 194,255
69, 133, 134, 203, 247, 253-259, 261-263, polacco,59,62, 72,110,194,255
266,275,276 portoghese, 54, 56, 63,244
inglese, 24, 25, 30, 34, 39, 53, 54, 56, 58, 63, 64, provenzale,59,63,242,266
66-71, 85, 91, 92, 99,100,103, 106-110, 114, prussiano, 62
121-123, 134, 135, 142, 146, 157-161, 199,
201,20~210,211,234,251~53, 255,260- retoromanzo, 63, 64
268,271,273,274,293 romanze, lingue, 50, 56, 58, 59, 63, 69, 135, 198,
iraniche, lingue, 61,254 250,252,254,266,269,270,272,273,275
irlandese, 64,255,257,258 romeno,56,58,63, 72,252
islandese, 63 russo,54,59,62, 72,94, 110,147,255,274
italiano, 24, 25, 29-32, 34-36, 39, 40, 43, 44, 46-50,
54, 56, 58, 59, 63, 64, 66-69, 78-85, 87-91, 93- sahariane, lingue, 55
96, 99-101, 103, 105-110, 114-117, 121-124, sannita, 63
129-137, 140, 142, 160, 161, 198-204, 235, sanscrito, 61, 62, 67,198,255, 257-260, 263,275
239,240,243,244, 249-252, 255,259-274, 293 semitiche, lingue, 25, 65, 67, 69, 72
ittita, 62,255 serbo-croato, 58, 62, 255
sino-tibetane, lingue, 60
khmer, 60 slave, lingue, 59, 62, 70, 72, 201, 202, 254, 257
khoisane, lingue, 55 slovacco, 62, 255
sloveno, 62, 103, 129,243,255
ladino, 63,242 somalo, 29, 115
latino, 29, 43, 49, 50, 54, 56, 59, 61-63, 67, 72, spagnolo,34,50,54,56,63,80, 146,161,244,
101,104,114-117,136,142,158-160,l98,200, 252,255,265,297
201,204,237, 239-241, 243,249,252, 254-274 sudanesi, lingue, 55
lettone, 62, 255 sumerico, 71
lituano, 62, 255 sundanese, 135
lolo-birmano, 60 svedese,63, 103,255
swahili, 60
macedone, 58, 59, 62
malgascio, 60 tamil, 60, 146
maleo-indonesiano, 54 tedesco,24,34,40,46,50,54,63,64,67,70,94,
maori, 135 103, 114, 161, 198, 199,201,237, 242-244,
mongolo, 60 250-255,259,260,263,264,274,313
telugu, 60
nahuatl,67, 145,146 tibetano, 60
nederlandese, 63, 64 (vedi anche olandese) tocario, 62, 254-256
neogreco, vedi greco moderno turco,25,60,66,67, 70, 72,102,135,250,251
neolatine, vedi romanze
ucraino, 62, 72, 255
nigerkordofaniane, lingue, 55
ulwa, 124
norvegese, 63,255
umbro, 63
nostratica, famiglia, 61
ungherese,60,64, 72,102
uraliche,lingue,59,64
olandese, 50, 63, 70, 94, 105,114,244,245,252,
urdu,54,61
253,255
osco, 63 vedico, 61
vietnamita, 60, 72
papua,55
pashto, 61 yiddish, 63
Indiceanalitico

accento, 34, 104, 106,263 perlocutori, 222


accordo,23,43, 130,144, 197-199 awerbio, 117, 179
agente, 194,196,197 azione, 194,196,197,205
aggettivo, 28, 40, 69-71, 116, 117, 126, 129,
133, 134 bilinguismo, 229,243,244,296,298,299
agglutinante, tipo linguistico, 65-68, 128 binarismo, 94, 110
affisso/i, 120, 124, 134, 148, 149, 160
albero genealogico, 253-256, 275 calco, 142, 161
alfabetico, sistema di scrittura, 71 caso,66, 125,129,197,198,200,201
allofono, 123 ablativo, 66, 201
alloglossia, 243 accusativo, 66, 200
allomorfo/allomorfia, 123,124, 135-137, 147 dativo, 66, 200
allotropi, 266 genitivo, 66,201
ambiguità, 38,212,213,220,221 locativo, 66, 201
anafonesi, 263 nominativo, 66, 200
analiticità, 218,219 vocativo, 66, 201
analogia, 263-265, 268 categorie flessionali, 171, 197, 198
antonimia, 38,215,216 categorie lessicali, 116, 118, 133, 139, 140,
aplologia, 103, 265 197
apparato fonatorio, 21, 76 centralizzazione, 231-234
arbitrarietà del segno, 44 CHILDES, 281, 298
argomento, 171-173, 186,187,189,190,196 circostanziali, 172, 173, 176, 188-190
armonia vocalica, 102 classi di parole, 116-118, 214 (vedi anche parti
articolo, 117,118,179,198,271 del discorso)
aspetto, 29,130,202,203 classificazione
assimilazione, 100-102, 265,267 dei morfemi, 121, 122, 145, 146
asterisco, 22, 28, 253 dei suoni, 77, 78
astratto vs. concreto, 30-33, 123 delle frasi (vedi frase)
atti linguistici, 27, 222-226 classificazione delle lingue, 53,-65, 72
illocutori, 222, 223 areale, 56, 58, 59
indiretti, 223 genealogica, 56, 58-60, 72, 275
locutori, 222 tipologica, 56, 58, 59, 65
334 INDICEANALITICO

codeswitching, 48,235,297,298 emittente, 16


codice e messaggio, 31, 32, 45, 50 enciclopedia, 157
competenza, 20, 23, 27, 33, 89,187,229,230 esecuzione, 20, 31, 33, 50, 89, 187
comunicativa, 230, 234-236 esperiente, 196, 197
ed esecuzione, 31, 33, 50
fonologica, 34
lessicale, 155 famiglia linguistica, 53, 56, 58, 61
morfologica, 34 indoeuropea, 58, 59, 61, 62, 247, 254, 256
semantica, 37 257,276 '
sintattica, 36 flessionali, categorie, 197, 198
complemento, 25, 69, 177-180, 192,193,200 flessione, 124,125,128,135,144,191,192
composizionalità, principio di, 217,218 flessione interna, 67, 68
composizione, 124-127, 139-141, 150,151 flessivo, tipo linguistico, 65, 67
composti endocentrici vs. esocentrici, 142 fonema, 87-96, 106, 110, 123, 258-260
comunità linguistica, 33,229,230,234,236 fonetica, 76,87, 96, 98,102,110,261,262
concordanze, 166 fono, 87, 89-92
confini, 86, 87 fonologia, 34, 87, 98, 109-111, 115, 119 123
congiunzione, 20, 117, 122 147,284 ' '
connettivi proposizionali, 218 forma di citazione, 116
consonanti, 32, 34, 77-83, 95 fossilizzazione, 295
contaminazione, 265 frase, 19-22, 25, 29, 36,153, 169-194, 196
contesto, 41, 87, 88 affermativa vs. negativa, 184-186
contraddizione, 218, 219 attiva vs. passiva, 36, 184-186
conversione, 134 complessa vs. semplice, 19, 20, 182, 185
coppie minime, 87-89, 104, 106, 108 coordinata, 182, 185
corpus/corpora, 156, 165 dichiarativa, 183, 185
costituenti, 69,126,137, 140-144, 175 dipendente, 19,182,185 (vedianchesubordi-
nata)
denotazione, 210-212 esclamativa, 183, 185
derivazione, 124, 127, 128, 130, 135, 137 139 imperativa, 183, 185
264,266 ' ' indipendente, 183, 185
destinatario, 16 (vedi anche ricevente) interrogativa, 183, 185
diagrammi ad albero, 174, 176 principale, 19, 182, 185
dialetti d'Italia, 46, 94, 239-243 relativa, 180, 189, 190
diatesi, 125, 130, 183-185 segmentata, 184, 185
diglossia, 243,244 soggettiva, 189
dipendenza dalla struttura, 15, 22, 25, 73 subordinata, 182, 185
discorso diretto vs. indiretto, 204 funzioni della lingua, 45, 50
discretezza, 15, 22
dissimilazione, 102,265,267
genealogia linguistica, 56-61, 64, 65, 72,250
distribuzione, 87, 88, 90-92 genere, 197-199
contrastiva vs. complementare, 90, 92 124 grammatica, 39, 46, 50, 153, 154,275,293
231 ' '
generativa, 26, 73,111,151,187
dittonghi, 82, 83, 109 universale, 293
dizionario/i, 116, 153, 155-159, 161, 162 grammaticalità, 22, 35
di frequenza, 162, 165
vs. agrammaticalità, 22, 23, 36, 37, 172, 183,
elettronici, 162 203
inversi, 162, 164 grammaticalizzazione, 269,270
doppia articolazione, 19, 22, 26 Great Vowel Shi/t, 261
INDICEANALmCO 335

gruppidiparole,65, 170, 172-176, 180-182 (vedi massime di Grice, 224


anchesintagmi) metafonesi (o Umlaut), 101,102,241
gruppi linguistici, 57, 254 metafora, 215,225,273
metatesi, 99, 265
metonimia, 215,273
ideografico (o logografico), sistema di scrittura,
modali, verbi, 271
71 modificatori, 181
ideogramma, 71 modo, 125, 129, 197, 198, 201-204
implicatura, 224, 225 modo di articolazione, 77, 100, 101
indicare (pointing),286
momento
infisso/i, 124, 134 dell'enunciazione, 202-205
interferenza, 293 dell'evento, 202-204
interiezione, 117, 181 di riferimento, 202-204
interlingua, 294 mondi possibili, 212
InternationalPhoneticAlphabet (IPA), 77, 78 morfema, 86, 121-124, 151
intonazione, 106, 107, 170, 287 grammaticale, 121, 130,131,270
introflessivo, tipo linguistico, 67 lessicale, 121
iperonimia, 216 libero vs. legato, 122, 192
iponimia, 209,215,216 morfologia,29, 113,125,128,147,148,151,152
isoglosse, 256, 257 movimento, 173,187,188,191
isolante, tipo linguistico, 65, 66, 68 mutazione consonantica, 256,261,263,266,267
italiano regionale, 47, 235 (vedi anchelegge di Grimm)

lallazione, 285,298 nessi consonantici, 82


languee parole,31, 5 O nome,22,43,69,70,117-119,126,129, 131,133,
lega linguistica, 58, 59 141,143, 198-201
legge di Grimm, 259-263, 267, 275 numero, 125,129, 197-199
legge di Verner, 263
leggi fonetiche, 240, 260-268, 275,276 oggetto, 25, 43, 145, 177, 187
lemma, 116, 163, 165 diretto, 200
lemmatizzazione, 116, 156 indiretto, 200
lessicalizzazione, 158 olofrastica, fase, 287
lessico, 153-161, 285,314 omonimia, 71,212,213
letterale vs. non letterale, uso delle espressioni, opposizioni fonologiche, 93
209-211, 224,225 ordine delle parole, 25, 43, 68, 69, 73,200,244,
lingua/e, 18-25, 27-50 271,272,313
classificazione, 53-70 origine del linguaggio, 248
e dialetti, 239 OV, lingue, 69, 70,272
funzioni della, 45
originaria, 56, 59, 62, 247-257 paradigma, 42,151
linguaggio, 15-26, 207,208,212, 232, 248, 249, paradigma della preferenza nell'orientamento
277,279 della testa (Headturn pre/erenceprocedure,
degli animali, 15-21 HPP), 283
dell'informatica, 18, 22, 23 paradigma della suzione non nutritiva (High
naturale, 15, 16,208,224,226 amplitudesuckingparadigm, HASP ), 282,297
umano, 16-26,222,229,248 paradigmatico vs. sintagmatico, 41
lingue pidgin e lingue creole, 244, 245 parasintesi, 134, 135
logica della conversazione, 224-226 parentesi, 31, 89, 96, 97
lunghezza,20, 104,105 parlato vs. scritto, 29, 30, 47, 166
336 INDICEANALITICO

parola/e, 104, 106, 113-122 rotazione consonantica, 259, 260 (vedi anche
complesse, 35, 36, 113, 122 legge di Grimm),
composte, 113-115, 125, 126
derivate, 125, 137 sandhi, 102, 110
macedonia, 147, 159 segmentazione, 184,185,285
possibili, 34, 35, 164 segno linguistico, 43, 121
prefissate, 113 semantica, 29, 37, 148-151, 207-213, 216-219, 226
semplici, 113, 122-125 semiconsonanti, 78-80, 83, 95, 108, 110
suffissate, 113, 148, 165 semiologia/semiotica, 44
parti del discorso, 116-118, 151,197,218 senso, 180-183,209,211,218
performativo, 223,224 sigle, 158, 159
periodo critico, 291, 292, 298 significato, 31, 37-39, 43, 44, 148-150, 207-212,
persona, 65, 119, 197-200 214-217, 273
plurilinguismo, 237, 244 vs. significante, 31, 43, 44, 50
polisemia, 212-215 sillaba, 102-107
polisintetico (o incorporante), tipo linguistico, sillabico, sistema di scrittura, 71
65, 67, 68 sincronia e diacronia, 31, 43, 50
posposizione, 241 sinonimia, 37,209,215,216
povertà dello stimolo, 277,278,293,294,298 sintagma/i, 170, 173-180
pragmatica, 207-210, 226,290 aggettivale, 174,178
predicato, 181, 182, 191, 192, 194, 196, 197 nominale, 174-176, 178
pregiudizi linguistici, 49 preposizionale, 174,178,180,186
prefissi, 122, 124, 132, 133 verbale, 174, 176, 178
preposizione, 117,157,174,178 sintagmatico e paradigmatico, 41
prestito, 250, 266 sintassi, 147,148,169,170,205,298, 307-311
presupposizione, 214,218,219 sistemi di comunicazione, 16, 19, 20, 24
pronomi, 220,221,238 sistemi di scrittura, 70-72
proposizione, 182 soggetto, 25, 43, 177, 181, 182, 186, 191, 192,
protoparola, 286 194-197
punto di articolazione, 77, 78, 97, 100, 101, 109 specificatore, 179,180, 192-194
stato, 196, 197
quantificatori, 220, 224 stratificazione, 159, 160, 229
suffissi, 29, 35, 36, 127, 130, 131, 149
radice, 116 suoni, 28, 31, 34, 41, 75-84, 87-93, 95
reduplicazione, 134, 135 e grafia, 83, 84
reggenza, 198 suppletivismo, 135-137
registri stilistici, 48, 162, 232
regole tautologia, 218
di riaggiustamento, 137, 147 telegrafica, fase, 288
di Trubeckoj, 89-92 tema (di una frase), 197,205
fonologiche, 75, 87, 96-99, 109,110 tema verbale, 116, 126,264
rema, 197,205 tempo, 125,130,201
repertorio linguistico, 234,235 testa, 137,138, 141-145, 174-181, 191-194
retroformazione, 268 tipologia linguistica, 25, 65, 70, 72, 73
ricategorizzazione, 158, 269, 270 morfologica, 65-68
ricevente, 16 sintattica, 68-70
ricorsività, 19-23, 25, 187, 308-310, 317 tono, 107
ricostruzione, 250, 253, 254, 257-260 trascrizione fonetica, 84, 85, 110
riferimento,210-212,226 trasformazione, 186, 192
INDICEANALITICO337

tratti, 94-98, 104, 119, 129, 130, 141 varietà, 17,239


categoriali, 119, 141 d'uso, 17
fonologici, 94, 95, 98, 104 verbo,22,25, 116,117,125,126,171, 172,186-
semantici, 216,217 196, 201-205
trittonghi, 83 verità, nozione di, 208, 218
VO,lingue,69, 70,272
universali linguistici, 24, 25, 56 vocabolario, esplosione del, 287
implicazionali, 69 vocali, 77, 78,81-83

valenza, 171, 172 Wug, test di, 281,282


classificazione dei verbi in base alla, 171
varianti, 79, 90-93 X barra, schema, 176-180, 191-193, 308,313,314
Finito di stampare nel mese di settembre 2021
presso la Tipografia Casma, Bologna
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