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Hecyra GIACOMO MAGNANTE IIIE

L’Hecyra, ovvero “suocera”, è una commedia di Terenzio rappresentata tre volte dal 160 ac al 165 ac. La
prima volta, nel 165 ac, il pubblico abbandonò il teatro, preferendo andare a vedere uno spettacolo circense.
La seconda volta, nel 160 ac, venne rappresentata insieme agli Adelphoe senza però riscuotere successo.
Terenzio, nel decostruire i personaggi stereotipati, non si limita a compiere un’operazione letteraria, ma
propone un ideale di convivenza mettendo in discussione i pregiudizi che inficiano i rapporti interpersonali.
Nello stesso anno venne riproposta con un prologo differente, in cui si invitava il pubblico a seguire con
attenzione lo svolgimento della commedia stessa. La prima differenza con Plauto si può già evincere dal
prologo stesso che, per Plauto è un’occasione per anticipare in breve la storia della commedia e, per
Terenzio, è un’opportunità per creare suspance tra il pubblico e difendersi dalle accuse che gli sono state
rivolte. La commedia è frutto di una contaminazione tra Apollodoro di Caristo e gli Epìtrepontes di
Menandro. Una delle accuse di Terenzio fu proprio quella di praticare la contaminatio. L’autore di
commedie latine si difese da questa accusa nel prologo dell’Andria, affermando che altri autori, tra cui
Nevio, Ennio e Plauto, avevano praticato nelle loro opere la contaminatio. Nel prologo II Terenzio rivolge un
chiaro invito al pubblico: quello di apprezzare la figura della suocera (nunc quid petam mea causa aequo
animo attendite ). Difatti uno dei motivi per cui le commedie di Terenzio non ebbero inizialmente un grande
successo, fu proprio la diversità dei personaggi. Il pubblico era ormai abituato con Plauto ad una commedia
che aveva come unico intento quello di far ridere con l’esaltazione dei tratti tipici di personaggi di tutti i
giorni. Questo in Terenzio non accade e, la suocera, che normalmente è ostile alla moglie del proprio figlio,
aiuta la nuora a mantenere stabile il matrimonio. Nell’Atto I vengono presentati due nuovi personaggi: Sira e
Filotide. Filotide non viene presentata come la classica meretrix avara ma, bensì, come una donna in grado di
innamorarsi e di trascurare il denaro per amore del proprio uomo, in contrapposizione con l’anus Siria, che
rispecchia i tratti caratteristici di una donna avida e interessata al solo guadagno economico. In questo stesso
Atto viene presentato anche il servus, non più callidus, Parmenone che racconta alle due la storia di Panfilo,
l’adulescens infelice. Come già detto prima, i personaggi di Terenzio sono particolarmente diversi da quelli
di Plauto, tant’è che il servo non è più currens e, soprattutto, non cerca di ingannare il proprio padrone. Il
linguaggio utilizzato in questo dialogo tra i tre personaggi è caratterizzato da molti intercalari ed espressioni
utilizzate da uomini e donne del popolo (at te di deaque…Lache!). nell’ Atto II sono descritti altri tre
personaggi: Sostrata l’hecyra, Lachete, marito di Sostrata e Fidippo padre di Filumena. In questo Atto
Lachete attacca Sostrata in quanto lei sarebbe la causa dell’allontanamento di Filumena poiché, le suocere
sono sempre odiate dalle nuore (itaque ad eo… oderunt nurus). Sostrata è però convinta di non essere lei la
causa dei mali di Filumena, in quanto coscienziosa del rapporto instaurato con la nuora. La povera suocera
viene però aiutata dal senex Fidippo che capisce che la colpa non è sua (edepol ne nos sumus inique… ut
redeat domum). Nell’Atto III fa ritorno dal suo viaggio l’adulescens Panfilo. Panfilo viene a conoscenza che
sua moglie Filumena è incinta e per questo manda lontano il suo servo Parmenone, per evitare che scopra del
figlio illegittimo. Nel mentre convince la madre che in realtà è proprio colpa sua e per questo, trovandosi a
scegliere tra la moglie e la madre, decide di lasciare la moglie. Ciò che spinge Panfilo a prendere questa
scelta è la pietas filiale, così definita all’interno della commedia. La pietas, come la generosità e l’aiuto
reciproco, sono i tratti fondamentali dell’humanitas. Infatti, Terenzio vuole trasmettere al pubblico questo
sentimento profondo che secondo lui, dovrebbe essere alla base dei normali rapporti quotidiani. Nell’Atto IV
viene descritto un dialogo acceso tra Lachete, Panfilo e Sostrata. Sostrata per rendere al figlio la vita più
lieta, ritenendosi responsabile dei suoi mali, comunica al marito Lachete la sua decisione di trasferirsi con lui
in campagna. Il figlio è però contrastato in quanto cosciente della non colpevolezza della madre. Per questo
motivo persuade la madre a non partire per la campagna entrando in contrasto però con il padre (quaeso quid
istuc consilist?... mea causa nolo). Sebbene tra Lachete e Panfilo ci sia un veemente dialogo, caratterizzato
da espressioni colloquiali, i due tornano infine ad un sereno rapporto. Il momento appena citato evidenzia, in
modo chiaro, un’altra differenza con i personaggi di Plauto. Il rapporto padre-figlio descritto da Plauto è
caratterizzato da continui scontri che non sempre portano poi al ristabilirsi di un rapporto sereno ma, questo,
non accade nelle commedie di Terenzio in quanto, l’amore padre-figlio supera le avversità che si vengono a
verificare. La tesi che l’autore si propone di dimostrare è che, ai fini della formazione della personalità dei
giovani e della serenità nei rapporti familiari, è preferibile che i padri assumano verso i figli un
atteggiamento non severo, rigido e autoritario, ma indulgente, comprensivo e affettuoso. Nonché presente il
rapporto padre-figlio, viene messo in evidenza il rapporto marito-moglie. Nella commedia, infatti, le due
mogli si trovano in continuo scontro con i mariti che, le criticano in maniera incessante. All’interno
dell’opera le varie figure femminili appaiono, dunque, sottomesse agli uomini e accusate in maniera
spregiudicata le colpevoli. Questo schema fa da perno per lo sviluppo narrativo della commedia stessa e
molto spesso, tende a creare continui fraintendimenti che portano il pubblico sulla strada di comprensione
sbagliata. Il fatto che il pubblico venga dirottato sulla strada sbagliata tramite queste finte colpe, comporta
che una volta rivelato il vero colpevole, tutti rimangano esterrefatti dalla rivelazione finale. Nell’Atto V,
l’ultimo di questa avvincente commedia, entra in scena anche Bacchide. Anche Bacchide è una meretrix che
però esula dalla normalità. Infatti, Bacchide, dopo aver incontrato i due senex Lachete e Fidippo, è subito
disposta ad aiutarli, raccontando la verità sul rapporto tra lei e Panfilo. Se a Bacchide non fosse stata a cuore
la situazione, sicuramente non sarebbe intervenuta e, ciò, la rende in particolar modo settoriale, tenendo
conto del suo impiego. Dunque, la generosa meretrix entra in casa per parlare con le due madri. Sostrata però
nota subito al dito della ragazza l’anello che in passato Panfilo aveva donato a Filumena. I presenti, dunque,
comprendono che la notte in cui Filumena è stata violentata, colui che l’aveva seviziata, era stato proprio
Panfilo. In questo stesso atto è presente però una peculiarità delle commedie di Plauto. Sebbene i due autori
latini abbiano molti punti di divergenza entrambi, inseriscono delle battute in cui i personaggi si riferiscono
direttamente al pubblico (equidem plus hodie boni feci prudens quam sciens ante hunc diem umquam). In
Terenzio, tuttavia, i procedimenti metateatrali, non spezzano platealmente l’illusione scenica, svelano
tuttavia allo spettatore più acuto il carattere trito e inverosimile di alcuni topòi tradizionali, come quello
dell’agnizione. Ad esempio, con questa battuta che Panfilo rivolge al pubblico, si può evincere che Panfilo è
un adulescens diligente, in grado di capire i suoi errori. La situazione torna dunque serena, Panfilo accetta il
figlio che in passato ripudiava, e finalmente torna ad essere l’adulescens lieto e felice (deu’ sum si hoc itast).

Fonti: *Microsoft Word - Hecyra.docx (wordpress.com) ,

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