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Da Piergiorgio Giorilli, maestro dell’arte bianca, una guida completa sulla

tecnica della lievitazione lenta destinata a diventare un testo di riferimento


per addetti ai lavori e semplici appassionati.

Nella parte introduttiva sono trattate le materie prime, analizzandone


caratteristiche e impiego: farine, malto, sale, dolcificanti, uova, latte, burro,
acqua, frutta secca e candita, cacao e cioccolato, miele e, inoltre, sono
spiegate le tecniche di lievitazione, l’impasto, l’autolisi, il lievito madre, la
biga e il poolish, la procedura per la pasta lievitata sfogliata…

PIÙ DI 60 RICETTE, TUTTE FOTOGRAFATE, SPIEGATE IN


MANIERA SEMPLICE E DETTAGLIATA PER FAR CHIAREZZA
ANCHE NEI PASSAGGI PIÙ COMPLESSI.

I grandi classici come pandoro, colomba e panettone, ma anche focacce


dolci, panfrutto, danesi, pandolci, brioche, veneziane, croissant, girelle…

PIERGIORGIO GIORILLI, Dal 1987 è Maestro Panifi catore nelle Scuole Professionali del
settore, docente e consulente specializzato. Cavaliere Commendatore della Repubblica italiana e si è
classifi cato secondo per il settore panifi cazione alla Coupe du Monde 1994. È stato preparatore
delle squadre partecipanti a concorsi internazionali conquistando sei volte il podio. Dal 1998 è
docente di CAST Alimenti di Brescia. È fondatore e Presidente onorario del Richemont Club Italia e
membro – tra le altre – degli Ambassadeurs du pain, della Confraternita de la Chaine des Rôtisseurs
con il titolo di Chevalier du Baillage d’Italie, della Confraternita Ticinese dei Cavalieri del Buon
Pane e di Le Club Élite de la Boulangerie Internationale (EIB). Coautore e autore di varie
pubblicazioni sulla panifi cazione, con Gribaudo ha pubblicato Pane & Pani, Snack Food - spuntini
& stuzzichini e Il grande libro del pane.
La
lievitazione
lenta
A Laura e Michela,
perché abbiano del loro padre
un dolce ricordo.

La lievitazione lenta
Testi: Piergiorgio Giorilli
Fotografie interne e di copertina: Francesca Brambilla, Serena Serrani
© IF - Idee editoriali Feltrinelli srl
info@gribaudo.it
www.feltrinellieditore.it/gribaudo/
Prima edizione digitale: dicembre 2017
ISBN Ebook: 9788858020418

Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore.


È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non
autorizzata.
PIERGIORGIO GIORILLI

La
lievitazione lenta

PRODOTTI DA FORNO PERFETTI


GRAZIE AI CONSIGLI
DI UN GRANDE MAESTRO

FOTOGRAFIE DI,
FRANCESCA BRAMBILLA
E SERENA SERRANI
J
e suis très honoré de préfacer ce livre historique écrit par mon ami
Piergiorgio Giorilli.
En effet, depuis de nombreuses années l’Italie, son pain et sa gastronomie
sont portés par ce défenseur infatigable qu’est Piergiorgio Giorilli. Par ses
recherches, ses déplacements internationaux, sa compétence unanimement
reconnue, notre illustre professeur se distingue par ses appréciations et sa vision
sur la boulangerie mondiale et surtout Italienne.
Aujourd’hui, l’auteur de ce livre se dévoile à nous par une délicate et ingénieuse
recherche autour de la fermentation tant recherchée par les amateurs du
meilleur pain.
Il nous livre tous les secrets des arômes du levain, toute la subtilité de la
fabrication de cette fermentation naturelle.
La passion emporte notre auteur Piergiorgio Giorilli dans la confection délicate
et stricte de l’élaboration de ses créations : tel est l’homme, son levain, sa
curiosité et l’amour du travail bien fait.
Merci à l’auteur, pour ces belles pages
Bonne lecture et bonne délectation.

Christian Vabret
Meilleur Ouvrier de France en Boulangerie Créateur de la Coupe du Monde de la
Boulangerie Président de la Confédération Européenne de la Boulangerie -
Pâtisserie

S
ono molto onorato di scrivere la prefazione di questo storico libro scritto dal
mio amico Piergiorgio Giorilli.
In effetti, da molti anni l’Italia, il suo pane e la sua gastronomia sono portati
avanti da questo instancabile sostenitore. Per le sue ricerche, i suoi spostamenti
internazionali, la sua competenza unanimemente riconosciuta, il nostro illustre
maestro si distingue per i suoi giudizi e la sua visione sulla panificazione
mondiale e, soprattutto, su quella italiana.
Oggi, l’autore si rivela a noi tramite una delicata e ingegnosa ricerca intorno alla
fermentazione, tanto richiesta dagli amanti del miglior pane. Egli ci rivela tutti i
segreti degli aromi del lievito, le sottigliezze della lievitazione naturale.
Piergiorgio Giorilli trasmette passione nella preparazione delicata e rigorosa e
nello sviluppo delle sue creazioni: questo è l’uomo, la sua pasta madre, la sua
curiosità e l’amore per il lavoro ben fatto.
Grazie all’autore per queste belle pagine.
Buona lettura e buon gusto.

Christian Vabret
Meilleur Ouvrier de France in Panificazione Creatore della Coppa del Mondo della
Panificazione Presidente della Confederazione Europea della Panificazione -
Pasticceria
C
onobbi Piergiorgio Giorilli venti anni fa, e con lui il Richemont Club: dopo
vent’anni posso affermare con sicurezza che quell’incontro cambiò la mia
vita. A colpirmi fu la sua determinazione nel fare quello che più amava,
trasmettere agli altri il suo sapere, la sua esperienza nell’ambito della
panificazione, meticoloso nell’approfondire ogni tematica e preciso nelle
risposte. Per diciotto anni presidente di Richemont Club Italia e per quattro di
Richemont International. Tantissimi i momenti trascorsi insieme, da quelli di
formazione a quelli di puro divertimento, sempre pronto alla battuta e disponibile
alla compagnia. Capace di passare dalla dovuta serietà nell’insegnare a
realizzare un grande panettone alla non celata commozione nel vederne il
risultato uscire dal forno: un “inguaribile romantico”. Ecco la giusta definizione
per Piergiorgio. Ora è un grande piacere scrivere la prefazione di questo suo
ultimo lavoro, “ciliegina sulla torta”, giusto coronamento di una lunga e brillante
carriera. Un libro eccezionale che va ad aggiungersi a quelli già scritti, in cui
l’autore, con incondizionata passione, illustra da par suo le lunghe lievitazioni.
Molte le ricette, tutte innovative, che vanno dai grandi lievitati alle vienneserie,
riassumendo l’ideale racconto di una vita dedicata all’arte bianca. A renderlo
ancora più interessante e di piacevole lettura la bellissima idea di affiancare ai
prodotti le leggende che narrano della loro “invenzione”. In questo particolare
emerge la presenza di Fausta, moglie e compagna da sempre di Piergiorgio,
deliziosamente “folle”, ispiratrice del tutto. Di lei vorrei scrivere un libro, mi
limito qui a dire che la sua forza, la sua voglia di continuo progresso, di nuove
idee ne fanno un sicuro valore aggiunto per chiunque abbia la fortuna
d’incontrarla: io questa fortuna l’ho avuta. Grazie per l’amicizia, Piergiorgio, e
grazie per questa tua nuova opera.

Roberto Perotti
Presidente Richemont Club Italia

La forza del semplice

E
ro seduto in un angolo del laboratorio professionale di Trevano per
assistere a un corso su diversi tipi di lievitati. Avevo volutamente cercato
una posizione che avesse un campo visivo eccellente, in quanto, dalle
informazioni in mio possesso, colui che guidava questo corso era veramente un
professionista degno della massima attenzione, grazie al quale si sarebbe usciti a
fine corso particolarmente arricchiti. E fu così! Qualche tempo prima avevamo
ospitato nella nostra sede di insegnamento professionale alcuni nomi per i quali
il bilancio finale tra capacità di presentarsi e concretezza lavorativa non risultava
essere dei migliori. Era quindi scontato che questa nuova figura professionale
venisse pericolosamente aspettata al varco. Ebbi modo di assistere a
un’impostazione di insegnamento tipica di chi aveva le proprie origini
professionali in tempi di fatica, ma era stato particolarmente capace di offrire
tutto il suo sapere a un prossimo molto meritevole che, seguendo i suoi consigli e
le sue teorie molto lungimiranti, sarebbe poi riuscito a ottenere lusinghieri
risultati anche su scala internazionale. Tornando al corso di quel giorno, alla fine
volli complimentarmi con l’insegnante per come era riuscito a far passare il suo
messaggio nel modo più efficace e professionalmente completo. E pensare che il
tutto era accompagnato da schede di materiale didattico semplicissime, ma di
straordinario potere esaustivo.
Ecco, questo è Piergiorgio Giorilli, un artigiano capace, convinto, tenace e
particolarmente rispettoso del suo lavoro e di quello degli altri, purché ben fatto!
Sono particolarmente felice che Piergiorgio sia riuscito a mettere in cantiere
ancora una pregevole e accattivante pubblicazione. Un grande grazie va anche
alla moglie Fausta, gregario di lusso (con Piergiorgio ho in comune una grande
passione per il ciclismo), collaboratrice assolutamente decisiva e determinante.
E grazie anche a te, caro Piergiorgio, a te che ho voluto intronizzare come socio
onorario della Società Mastri Panettieri Pasticcieri Confettieri della Svizzera
italiana proprio nello stesso giorno in cui ne assumevo la presidenza. Ho
conosciuto poche persone che con così tanta umiltà sono riuscite a far arrivare
una luce così splendente e onesta all’interno del nostro straordinario mestiere.

Massimo Turuani
Presidente SMPPC (Società Mastri Panettieri Pasticcieri Confettieri del Canton
Ticino) Presidente dell’associazione I Solisti della Svizzera Italiana
P
lus que jamais la fermentation naturelle est remise au goût du jour et
permet de revisiter notre métier. Celui-là même qui consiste à maitriser la
fermentation et son optimisation pour obtenir un produit à la mie alvéolée
et aux arômes complexes. Cette fermentation, peut être accompagnée de faibles
doses de levure mais il est évident que plus on favorise la fermentation naturelle
et que plus on donne du temps à la pâte, plus on améliore la valeur nutritionnelle
du pain et favorise le développement des arômes complexes.
Ces techniques sont maitrisées par Piergiorgio depuis longtemps, il prend plaisir
à les transmettre non seulement à son école, mais aussi au travers de cet
ouvrage. C’est un honneur pour moi de préfacer ce livre.
J’ai rencontré Piergiorgio il y a 25 ans à la coupe d’europe de Nantes. Il a été un
des premier membre des ambassadeurs du pain italien et il a été le 1er président
du concours Mondial du Pain. Par ses formations, Piergiorgio est un fervent
défenseur de la profession.
Il a su transmettre cette passion à de nombreux boulangers italiens et
internationaux faisant partie ou non du Club Richemont. Je suis fier qu’il
représente les Ambassadeurs du Pain en Italie.

Amitiés boulangères
Dominique Planchot
Meilleur Ouvrier de France en Boulangerie Président des Ambassadeurs du Pain

P
iù che mai il sapore della lievitazione naturale è divenuto attuale e ci
permette di rivisitare la nostra professione. La stessa che consiste nel
padroneggiare la fermentazione e l’ottimizzazione del prodotto al fine di
garantire mollica alveolata e aromi complessi. Questa fermentazione può essere
accompagnata da basse dosi di lievito, ma è ovvio che più si favorisce la
fermentazione naturale e più si dà tempo alla pasta, più si migliora il valore
nutrizionale del pane, favorendo lo sviluppo di aromi complessi.
Queste tecniche sono praticate da lungo tempo da Piergiorgio, che è felice di
trasmetterle non solamente nella sua scuola, ma anche grazie a questo libro, di
cui mi onoro di scrivere la prefazione.
Ho incontrato Piergiorgio 25 anni fa a Nantes alla Coppa Europa. È stato uno dei
primi membri italiani degli Ambasciatori del Pane, primo presidente del concorso
Mondial du Pain. Grazie alla sua formazione, Piergiorgio è un fervente
sostenitore della professione. Ha saputo come trasmettere questa passione a
molti panettieri italiani e internazionali all’interno e all’esterno del Richemont
Club. Sono orgoglioso del fatto che egli rappresenti gli Ambassadeurs du Pain in
Italia.

Amicizie di fornai
Dominique Planchot
Meilleur Ouvrier de France in Panificazione Presidente degli Ambassadeurs du Pain
R
icordo che, parecchi anni fa, in occasione di un viaggio a Strasburgo per
una dimostrazione, un carissimo amico e famoso pasticciere italiano mi
disse: «Un giorno tu diventerai un grande lievitista». In quel momento mi
sentii lusingato per il complimento ma anche un po’ perplesso, perché mi ero
avvicinato da poco al mondo del lievito naturale, inizialmente per curiosità e in
seguito con crescente interesse e passione.
Non so se quell’intuizione si sia avverata, ma è certo che quando l’Editore mi
ha chiesto di dedicarmi a questa pubblicazione ho subito pensato che stavo per
tagliare il traguardo dei miei sogni.
La lievitazione lenta è un titolo che calza perfettamente ai prodotti presentati
in quest’opera. Prodotti anche di facile esecuzione e, per la maggior parte,
preparati con l’utilizzo del lievito naturale. La stesura delle ricette è molto
chiara, semplice e alla portata di tutti. Gli ingredienti utilizzati sono tutti
genuini e di agevole reperibilità.
Mi sono inoltre divertito a raccontare storia e leggende di alcuni prodotti della
nostra tradizione conosciuti ormai in tutto il mondo e mi sono soffermato su
interessanti informazioni riguardanti le materie prime utilizzate per la loro
preparazione.
Non mi sono voluto dilungare troppo sulle varie tecniche, peraltro trattate in
maniera approfondita ne Il grande libro del pane di recente pubblicazione: ho
solo fornito alcune indicazioni fondamentali riguardanti gli impasti, il lievito
naturale e le paste lievitate sfogliate.
Ma per raggiungere un obiettivo come la preparazione di un’opera così
importante serve un grande lavoro di squadra: e anche per questa
pubblicazione il lavoro di squadra è stato fondamentale e i ringraziamenti sono
obbligatori. In primis a Cast Alimenti, la scuola dei mestieri del gusto, per la
disponibilità nell’utilizzo di laboratori, macchine e ingredienti. Ringrazio il
Molino Dallagiovanna per la fornitura delle farine, Corman Italia per la
fornitura del burro, Francesca Brambilla e Serena Serrani, vere professioniste
della fotografia, i borsisti di Cast Alimenti che mi hanno aiutato nell’esecuzione
delle ricette, capitanati da Matteo Cunsolo, eccellente panificatore e mio fedele
collaboratore. Ringrazio ovviamente mia moglie Fausta, sempre al mio fianco
nel lavoro di squadra come nella vita.
L’ultimo, ma non ultimo, ringraziamento è per te, che stai sfogliando ora queste
pagine. Buon dolce a tutti!

Piergiorgio Giorilli
Chi si accinge a preparare prodotti da forno, non
solo a lievitazione lenta, dovrebbe essere a
conoscenza delle materie prime, delle loro
caratteristiche e della loro composizione chimica,
senza dimenticare le modificazioni biochimiche e
fisiche a cui sono soggette durante i vari processi di
trasformazione.

I CEREALI
Risalgono all’antichità l’uso e la coltivazione dei cereali da
parte dell’uomo. Le genti del Mediterraneo orientale già tra
il 10.000 e il 7000 a.C. coltivavano lungo il corso dei fiumi
orzo e grano. La semina era effettuata sul limo che si
depositava durante le inondazioni.

Dalla valle del Nilo fino al fiume Indo, verso il 3000 a.C.,
quasi tutte le popolazioni erano a conoscenza di importanti
tecniche di irrigazione sia in superficie sia sotterranee.

In Cina, invece, si faceva uso di un altro tipo di cereale che


si diffuse poi in India, in Africa e successivamente nel Sud
dell’Europa: il miglio.
La segale, che inizialmente era considerata un’erbaccia che
disturbava il frumento, in seguito fu presa in
considerazione come alimento e coltivata nell’Europa
occidentale già agli inizi dell’era cristiana. Pare che fosse
utilizzata da Traci, Macedoni e popoli slavi, mentre era
disprezzata da Greci e Romani, che la miscelavano al farro
destinandola alla plebe. Nel Medioevo fu ampiamente
rivalutata e particolarmente apprezzata dalle popolazioni
nordiche per preparare il pan di spezie.

Sempre nel Medioevo, a questi cereali si aggiunse una


poligonacea: il grano saraceno, detto anche grano nero.
Originario della Manciuria, era molto resistente e
sopravviveva in terreni dove orzo, grano e segale non
spuntavano.

Il riso, invece, è da oltre cinquemila anni il re


incondizionato dell’Asia orientale e meridionale. Introdotto
nel V secolo a.C. in Persia e Mesopotamia, arrivò
successivamente in Egitto e Siria. Le prime piantagioni di
riso in Italia risalgono al Medioevo, ma solo nel XIII secolo
si svilupparono le coltivazioni nell’Italia del nord.

Il mais era, già dieci secoli prima dell’era cristiana, un


cereale particolarmente significativo per le popolazioni
mesoamericane. Diceva il grande libro dei Maya: «Il primo
uomo era fatto d’argilla e fu distrutto da un’inondazione. Il
secondo era fatto di legno e fu disperso dalla grande
pioggia. Solo il terzo sopravvisse. Era fatto di mais».

IL FRUMENTO

Appartiene all’ordine delle Glumiflorae e alla famiglia delle


graminacee, senza dubbio la più importante del regno
vegetale perché comprende circa 5.000 specie di piante.
Il frutto è la caratteristica cariosside nella quale il seme si
fonde con la parete dell’ovario; ciascun seme risulta
formato esternamente da albume proteico (glutine) e
internamente da albume amilaceo (amido).
La cariosside, di forma ellittica, ha una faccia convessa e
una pianeggiante scanalata, alla cui sommità è posto
l’embrione e, dalla parte opposta, la barbetta. La
complessità strutturale della cariosside è così
semplificabile:

◾ involucri esterni (pericarpo e spermoderma)


◾ strato aleuronico
◾ endosperma

Il pericarpo è costituito da 4-5 strati di cellule che


formano l’epidermide esterna e interna.

Lo spermoderma, o tegumento, copre l’embrione e


l’endosperma e ha essenzialmente funzioni di difesa e
protezione delle strutture sottostanti. In particolare, è
formato da due strati di cellule: lo strato più esterno è
incolore, mentre quello più interno, caratterizzato da
cellule pigmentate dal rosso al bruno, è responsabile del
colore del granello nelle diverse specie. Gli involucri
esterni, che derivano dalle trasformazioni del fiore e
dell’ovario dopo la fecondazione, concorrono alla
produzione della crusca.

L’endosperma, con l’embrione che ne occupa una


piccolissima parte, riempie l’intero granello. Presenta
all’esterno uno strato di grosse cellule che costituiscono lo
strato aleuronico, che si differenziano da quelle più
interne dello strato amilifero sia per la composizione
chimica, sia per la struttura. L’endosperma rappresenta
inoltre la componente più importante della cariosside sotto
il profilo nutrizionale. Lo strato aleuronico è ricco di
proteine, lipidi, sali minerali, vitamine ed enzimi. Purtroppo
nel corso della macinazione il destino di tale componente
segue quella degli involucri, con perdita del valore nutritivo
della materia prima; le recenti sperimentazioni sulla
macinazione sono volte al recupero e al maggiore rispetto
del valore nutritivo del frumento.

L’endosperma amilifero costituisce la parte maggiore


dell’endosperma ed è formato da cellule poliedriche:
piccole presso l’embrione, a mano a mano più grandi
procedendo verso l’interno; sono quasi tutte riempite di
granuli di amido.
L’embrione è collocato presso la base del granello. La
maggior parte dell’embrione è rappresentata dallo
scudetto, massa carnosa provvista di uno strato epiteliare a
cellule cilindriche allungate, che sono in contatto con
l’endosperma. Queste cellule producono le diastasi,
fondamentali nella solubilizzazione dell’amido durante la
fase di germinazione.
Il pericarpo ha un aspetto traslucido e nei tipi di grano
maturati nella stagione calda e asciutta ha una tinta crema
pallido. I grani bianchi hanno tegumento incolore; quelli
colorati presentano molte variazioni del rosso, per la
presenza di un materiale oleoso che si forma durante la
maturazione nelle cavità cellulari e fra le pareti dei due
strati del tegumento.
Oltre che dalla colorazione più o meno intensa del
tegumento, il colore della cariosside dipende dalla
grossezza del chicco, dalla tinta del pigmento, dalla
trasparenza del pericarpo e dal fatto di possedere un
endosperma farinoso o corneo.

L’apparenza bianca opaca dei grani farinosi è dovuta alla


presenza di piccole fessure, vuote o parzialmente riempite
d’aria che, nel corso della maturazione, si formano tra le
cellule dell’endosperma o anche all’interno delle medesime.
Questi spazi mancano nell’endosperma dei grani duri: le
cellule sono completamente riempite di granuli d’amido
tenuti insieme da una matrice protoplasmatica che formano
una massa coerente.
I principali accertamenti sui grani più noti hanno
evidenziato i seguenti rapporti medi fra le varie parti della
cariosside:

◾ embrione 2,8-3,5%

◾ endosperma 87-89%

◾ pericarpo, spermoderma, perisperma, strato aleuronico


7,8-8,6%.

PROFILO CHIMICO DEL FRUMENTO

Il chicco di frumento, allontanato dalla pianta madre, non è


un’entità priva di vita, ma è in grado di interrompere il suo
stato di quiescenza anche prolungato solo ed
esclusivamente nel momento in cui le condizioni di umidità
e di temperatura risultano ottimali alla ripresa delle sue
funzioni metaboliche. La contemporanea presenza dei due
requisiti fisici (temperatura e umidità dell’ambiente) è la
condizione indispensabile per provocare l’attivazione di
quelle componenti enzimatiche che sono il punto di
partenza della germinazione.

Nelle varie fasi di germinazione, il chicco di frumento vive


di vita propria senza attingere nutrienti dall’esterno: sono
le componenti racchiuse nella cariosside a funzionare da
substrato per lo sviluppo del germoglio. Sono proprio le
potenzialità enzimatiche, abbinate alla presenza dei
nutrienti che la natura ha posto nella cariosside, a essere
sfruttate per l’ottenimento delle farine e dei prodotti
lievitati che da esse derivano.
Per poter mantenere il suo stato di quiescenza, la
cariosside presenta un tasso di umidità che è correlabile al
terreno e al clima in cui si è sviluppata la pianta madre. Il
tenore in acqua rappresenta un parametro fondamentale
che deve essere determinato per diversi motivi: come
indice commerciale, in quanto influenza il parametro del
peso specifico, e come indice di conservabilità del
frumento.

Il D.M. 27/5/85 descrive la metodica ufficiale di


determinazione del tenore di umidità nei cereali in
granella; accanto a tale metodo analitico ne esistono altri
che si fondano su principi diversi, magari meno precisi, ma
senz’altro più rapidi e ugualmente significativi.

L’umidità del frumento oscilla da valori minimi di 8-8,5% a


valori massimi di 17-17,5%.

Considerando che al di sotto del 15% di umidità è inibita la


crescita microbica, si comprende come il ritiro di grani che
soddisfino tale condizione sia un vantaggio, non solo sotto il
profilo semplicemente commerciale. A tutela del prodotto
finito, grani che hanno un’umidità superiore possono essere
stoccati solo dopo opportuni trattamenti di ventilazione ed
essiccamento o conservati in atmosfera controllata.

I carboidrati nella cariosside rappresentano poco meno dei


tre quarti del suo peso. Sono costituiti per il 65% da amido,
polisaccaride complesso, per il 7% da pentosani, per il 2%
da cellulosa e da una piccola frazione di zuccheri riducenti.

La biochimica molecolare ha evidenziato che l’amido è


caratterizzato da due molecole polimeriche: l’amilosio e
l’amilopectina. Sono entrambe formate dallo stesso
monomero, il D-glucosio, ma differiscono per la loro
struttura: lineare, nel caso dell’amilosio, ramificata, per
l’amilopectina.
Mediamente il 24% dell’amido totale è rappresentato
dall’amilosio, mentre il 77% è amilopectina.

Le caratteristiche panificatorie delle farine finite dipendono


in larga misura dall’aspetto microscopico dei granuli di
amido e dal loro livello di danneggiamento.

Mentre la prima caratteristica dipende dalla natura del


terreno in cui il frumento è stato coltivato e dal grado di
maturazione raggiunto prima della mietitura, la seconda è
legata al diagramma di macinazione o, più semplicemente,
dipende da quanto il processo meccanico della macinazione
ha danneggiato i granuli di amido.

Un danneggiamento contenuto dei granuli è proficuo, in


quanto potenzia le capacità di assorbimento del prodotto
finito, mentre un’eccessiva azione meccanica è
responsabile di impasti collosi.

Gli zuccheri riducenti aumentano durante le fasi di


stagionatura dei grani e delle farine e sono fondamentali
per la fermentazione degli impasti.

Il contenuto proteico è frazionabile in gliadina e glutenina,


insolubili in acqua, ma solubili in solventi polari, e in
leucosina ed edestrina, solubili in soluzioni saline.

Sono essenzialmente la gliadina e la glutenina a


determinare le caratteristiche tecnologiche delle farine in
relazione alla loro maggiore o minore capacità di formare
legami intramolecolari.

La tenacità e l’estensibilità della maglia glutinica


dipendono non solo dal numero dei legami intramolecolari,
ma anche dalla loro natura e, quindi, dalla sequenza degli
amminoacidi di entrambe le componenti proteiche.
Non sono da dimenticare, nel gruppo delle proteine, quelle
con attività catalitica, prima fra tutte la diastasi. Le due
forme a-amilasi e b-amilasi agiscono in successione
sull’amido, formando maltosio e destrine.

Tra le altre proteine con attività catalitica vale la pena di


ricordare le proteasi, che esercitano la loro attività litica
sul glutine e sono presenti essenzialmente nel germe,
nell’aleurone e nell’endosperma.

Percentualmente sono poco rappresentate e questo è un


vantaggio, vista la loro azione antagonista nella formazione
del costrutto proteico.

La frazione lipidica non supera il 2% ed è localizzata


principalmente nel germe. I lipidi sono rappresentati da
gliceridi, fosfolipidi, steroli e acidi grassi insaturi. Il ruolo
dei lipidi nella formazione degli impasti è stato
recentemente rivalutato in relazione alla loro capacità di
interagire con le proteine grazie alle loro proprietà
tensioattive.

I sali minerali sono distribuiti essenzialmente negli strati


esterni del chicco e oscillano tra l’1,5% e il 2%.

Il fosforo, il calcio, il potassio, il magnesio e lo zolfo sono le


componenti inorganiche più rappresentate, ma la loro
frazione percentuale dipende essenzialmente dalle
caratteristiche del terreno in cui si sviluppa la pianta.

La loro localizzazione periferica nel chicco li fa reperire


essenzialmente nei sottoprodotti. La loro determinazione
nelle farine finite come “tenore in ceneri sulla sostanza
secca” è un indice del tasso di estrazione durante la
macinazione. La cariosside durante la macinazione viene
privata non solo dei sali minerali ma anche del suo
contenuto in vitamine, a causa della loro maggiore
presenza negli strati esterni. Il chicco è ricco di vitamine
del gruppo B, di acido pantotenico, acido folico e biotina,
ma è privo di vitamine C e D.

L’ORZO

L’Hordeum vulgare è attualmente coltivato soprattutto in


Cina, Stati Uniti e Giappone. Si distingue in orzo esastico,
tetrastico e distico in base alla disposizione delle granelle,
mentre le varietà sono orzo tenero e orzo duro. Dall’orzo
duro, destinato all’alimentazione umana, si ottengono l’orzo
decorticato e l’orzo perlato.

L’orzo tenero, dopo la germinazione, viene trasformato in


malto, ingrediente utilizzato nella produzione di impasti
lievitati, nell’industria della birra e del whisky, per ottenere
distillati e caramello.

La composizione chimica dell’orzo è data da glucidi (70%),


protidi (10%) e lipidi (5,7%) oltre che da acqua, vitamine,
sali minerali e cellulosa. Fra le vitamine, le principali sono
la B1, la B2, la PP e la B12, che ha funzione antianemica.
Sono abbondanti alcuni sali minerali, tra cui il calcio, il
magnesio, il fosforo, il ferro e il potassio, necessari sia per
la crescita sia per ridurre la fatica mentale. Tra le proteine
spicca l’ordeina, importante per le funzioni cerebrali,
mentre gli antiossidanti sono fondamentali nella
prevenzione di malattie degenerative: tutti questi nutrienti
rendono il cereale degno di attenzione.

L’AVENA

Coltivata nei Paesi a clima temperato freddo, da noi era


conosciuta soprattutto come alimento per i cavalli, ma
recentemente è stata molto valorizzata sul piano
nutrizionale. L’avena (Avena sativa) ha un contenuto molto
elevato di fibre perché il pericarpo della cariosside aderisce
strettamente al seme, rendendo difficile la separazione
della parte cruscale. Sembra che un regolare consumo di
avena riduca il livello di colesterolo LDL; dall’altra parte,
l’avena è poco digeribile e irritante per l’intestino poiché
una quantità eccessiva di cellulosa assorbe i succhi
gastrici, ostacolando l’assimilazione degli elementi
nutritivi. È più digeribile trasformata in fiocchi.

È un cereale adatto alla prima colazione, essendo ricco di


grassi e quindi molto energetico, e consigliato nei periodi
invernali perché stimola il funzionamento della tiroide,
aumentando la resistenza dell’organismo al freddo.

La composizione chimica dell’avena è data da glucidi


(72,8%), protidi (12,4%) e lipidi (8,7%).

È buono il contenuto di vitamine come B1, B2, PP, D e


carotene; fra i sali minerali troviamo il ferro, il calcio, il
sodio, il fosforo e il magnesio.

Contiene antiossidanti naturali (vitamina E) e composti


fenolici che svolgono un’azione protettiva nei confronti
delle membrane cellulari. Ha inoltre proprietà energetiche,
tonificanti, rigeneratrici, diuretiche e disintossicanti.

In panificazione la farina di avena si utilizza solo miscelata


alla farina di frumento: non ha una buona attitudine alla
panificazione poiché contiene poche gluteline, quindi non
favorisce la formazione del glutine.

LA SEGALE
Questo cereale (Secale cereale) viene coltivato soprattutto
nel Nord Europa, mentre in Italia è presente quasi
esclusivamente nelle zone alpine. Non richiede cure
particolari e quindi si adatta a essere coltivata a basse
temperature e su terreni poveri. In passato era destinata al
nutrimento del bestiame poi, essendo un cereale fra i più
ricchi di sodio, potassio, calcio, iodio e soprattutto fosforo,
è stata rivalutata e, sola o miscelata alla farina di frumento,
utilizzata per produrre pane e prodotti da forno ricchi di
fibre. È un cereale con ottime proprietà energetiche (la
quantità di zuccheri contenuti è superiore di tre volte a
quella della farina di frumento), depurative e rinfrescanti,
indicato soprattutto per chi conduce un’attività stanziale o
una vita sedentaria. Contiene inoltre una buona quantità di
ferro e di acido folico, importanti nella rigenerazione del
sangue; a tal proposito si è constatato che le popolazioni
che consumano abitualmente questo cereale sono
raramente colpite da malattie cardiovascolari,
probabilmente per la sua proprietà di fluidificare il sangue
e di mantenere elastiche le arterie. Un’alta percentuale di
fibre rende questo cereale indispensabile per le diete
depurative.

La farina di segale viene utilizzata in panificazione in


particolare nelle aree nordiche, ma ha poca capacità di
formare il glutine e va quindi usata con l’aggiunta di farina
di frumento. Anche se contiene poco glutine, però, non è
idonea per la preparazione di prodotti per celiaci.

È possibile anche utilizzarla pura al 100%, ma i prodotti


ottenuti con il solo impiego di farina di segale non potranno
mai avere un volume sviluppato e l’alveolatura della mollica
sarà sempre piuttosto appiccicosa e umida.

È solo grazie all’alto contenuto di fibre, che assorbono i


liquidi, che si riesce a ottenere un impasto accettabile per
poter panificare. La quantità di cellulosa e di fibre solubili
nella farina di segale è infatti doppia rispetto a quella della
farina di frumento.

IL MAIS

Chiamato anche granoturco, è un cereale la cui coltivazione


nel nostro Paese è localizzata nelle regioni settentrionali.
Originario dell’America centro-meridionale, fu introdotto
nel XVI secolo in Europa, dove è ancora ampiamente
coltivato e diffuso. La pianta del mais possiede uno stelo
diritto e grosso, rivestito da foglie lanceolate a guaina; i
chicchi sono disposti in file intorno a un asse centrale
fibroso costituito da cellulosa, detto tutolo. La pannocchia
così formata è rivestita da grandi foglie, chiamate brattee;
le cariossidi hanno consistenza morbida, aspetto piriforme
con superfici lucenti e vitree; le loro dimensioni sono
maggiori rispetto ai chicchi degli altri cereali. Il colore
delle cariossidi varia da bianco-avorio a giallo-arancio, ma
può anche essere marroncino, in base alla varietà del
cereale. Il mais è una pianta annuale; il suo seme
germoglia a una temperatura di 10-12 °C, per cui non può
essere coltivato in zone fredde. In base al periodo di
coltivazione viene suddiviso in tre gruppi:

◾ mais primaverili, con ciclo vegetativo di circa 6 mesi; si


semina in primavera e si raccoglie in autunno, la
pannocchia è più grossa e mediamente presenta 12-16
file di 30-40 chicchi ciascuna;
◾ mais estivi, con ciclo vegetativo di circa 3 mesi; si
semina in maggio-giugno e si raccoglie ad agosto-
settembre; la pannocchia è più piccola e presenta 10-12
file di 20-25 chicchi ciascuna;
◾ mais quarantini e cinquantini, con ciclo vegetativo
più breve, inferiore a 3 mesi, con pannocchie che
presentano 8-10 file di 15-20 chicchi ciascuna.

Queste varietà di mais possono essere suddivise ancora in


diverse sottospecie, che si differenziano fra loro in base a
caratteristiche come la forma e la superficie della
cariosside, la struttura interna dell’endosperma ecc.
Possiamo così individuare:

◾ Zea mais indurata (mais vitreo)


◾ Zea mais indentata (con cariossidi morbide al centro e
vitree all’esterno con forma di dente)
◾ Zea mais amilacea (con cariossidi tenere e farinose)

◾ Zea mais saccharata (mais dolce)


◾ Zea mais rostrata (mais da sciroppo)

La composizione chimica del mais assomiglia a quella del


frumento; le differenze sono dovute soprattutto alla
composizione proteica del cereale.

Componente principale della cariosside è l’amido, la cui


quantità varia dal 66 al 75%, mentre le proteine sono
presenti per il 10% e non hanno un alto valore biologico
perché contengono pochi amminoacidi essenziali come la
lisina, la treonina, la isoleucina e il triptofano, mentre sono
principalmente costituite dalla zeina, che contiene
amminoacidi non essenziali.

La zeina appartiene al gruppo delle proteine insolubili


(prolamine) e copre il 45% di tutte le proteine del mais,
mentre la quantità di gluteline è molto ridotta; da ciò
deriva l’incapacità di questo cereale di formare il glutine,
caratteristica che lo rende inadatto alla panificazione. La
quantità di grassi contenuta nel mais si aggira intorno al
4,5%: si trovano soprattutto nel germe, con prevalenza di
acidi grassi polinsaturi come l’acido linoleico. Sono
presenti sali minerali, principalmente il fosforo, seguito in
minor quantità da calcio, ferro e magnesio, ma il mais
contiene anche l’acido fitico, sostanza antinutriente che
impedisce all’organismo umano l’assorbimento di questi
elementi. Troviamo anche vitamine del gruppo B, come
tiamina e riboflavina, vitamina E (tocoferolo), presente nel
germe della cariosside, vitamina A (betacarotene) presente
sotto forma di tracce solo nel mais giallo e ancora tracce di
vitamina PP, che però non può essere utilizzata
dall’organismo umano perché nel cereale sono presenti
sostanze antivitaminiche che ne impediscono
l’assimilazione.

Il mais ha un alto valore energetico (100 g di mais


forniscono 355 kcal), ricco di carboidrati complessi
(amido), ma con un moderato contenuto di proteine,
vitamine e sali minerali per cui, nella dieta, deve essere
integrato con prodotti ricchi di proteine, calcio e vitamine
(soprattutto vitamina PP).

Dal mais si possono ricavare farine e semolati, fiocchi,


popcorn, olio di semi, amido, prodotti ottenuti dalla sua
idrolisi (glucosio, destrine, sciroppi ecc.) e dalla successiva
fermentazione (alcol e derivati), alimenti zootecnici.

Per ottenere questi prodotti, i chicchi di mais dopo la


raccolta vengono sottoposti a processi di decorticazione e
degerminazione. Per esempio, per ottenere i fiocchi si
utilizza hominy grits, cioè un macinato di mais con buona
granulometria, che viene addizionato di acqua, malto, sale;
cotto ed essiccato viene avviato a un laminatoio
compressore che lo ridurrà in fiocchi successivamente
tostati.
Per le farine per alimentazione umana (polenta) viene
utilizzato il grits medio, con granulometria di dimensioni
inferiori, mentre per la produzione della birra, del whisky,
del gin e della vodka si utilizza il brewery grits. L’olio,
invece, si estrae dal germe.

La farina di mais viene dunque utilizzata in buona parte


nella produzione di semolati per polenta (bramata) e per
alcuni dolci (fioretto). Trova minor impiego in panificazione
e deve essere miscelata con farina di grano tenero di forza
per consentire lo sviluppo (anche se parziale) della maglia
glutinica. In ogni caso, i pani a base di farina di mais non
presenteranno un eccessivo volume, ma avranno un gusto
ricco e particolare e un’ottima conservabilità.

Utilizzando preimpasti a caldo, in cui la farina di mais viene


portata alla temperatura di gelatinizzazione dell’amido (55-
60 °C) è possibile ottenere un discreto volume del prodotto.
LA FARINA
Panettone, pandoro, colomba, veneziana ecc. sono il
simbolo festoso di ricorrenze come Natale,
Capodanno e Pasqua, ed è alla loro importanza che
affidiamo la chiusura in bellezza, e in dolcezza, di
pranzi o cene consumati in queste occasioni.

Per preparare prodotti così importanti servono farine


importanti. Farine che sono l’ingrediente principale e
l’elemento fondamentale per ottenere una buona
lievitazione e una considerevole struttura del prodotto.

Questi elaborati, così come le lunghe lievitazioni in


panificazione, richiedono miscele di farine di frumento
preparate con grani provenienti prevalentemente da Nord
America, Canada, Australia.

Queste farine hanno un contenuto proteico elevato e,


idratandosi, portano alla formazione di un glutine
estensibile, idoneo alla formazione di impasti molto elastici.

Per una buona tecnica di panificazione e per le paste


lievitate in genere è importante porre molta attenzione al
controllo dell’attività biologica e alle proprietà fisiche della
farina come umidità, acidità, contenuto proteico, pH,
elasticità del glutine, falling number.

Il contenuto enzimatico di amilasi (a e b) è invece


fondamentale per una corretta lievitazione.
Notevole importanza hanno anche le caratteristiche
tecnologiche di una farina, poiché ne determinano il
comportamento nei processi di panificazione e dei lievitati
in genere. Sono numerose le indicazioni necessarie per
definire le qualità panificabili di una farina e, per fornire
una completa informazione, tali indicazioni devono essere
valutate complessivamente.

Le caratteristiche tecnologiche, chiamate anche


caratteristiche di panificabilità, sono quelle dalle quali
dipende la qualità di un impasto e, conseguentemente, la
qualità di un prodotto finito.
A queste caratteristiche appartengono:
◾ le caratteristiche reologiche e le caratteristiche del
glutine della farina
◾ le caratteristiche fermentative della farina.

La reologia è un ramo della fisica che studia le


deformazioni subite dalla materia sotto uno sforzo
meccanico. Lo studio di queste deformazioni è necessario
per stabilire le proprietà fisiche dell’oggetto esaminato. Le
caratteristiche reologiche di un oggetto solido sono
quelle che riguardano:

◾ la sua tenacità (il grado di resistenza che può avere


l’oggetto contro la deformazione);
◾ la sua elasticità (la capacità di recuperare velocemente
la forma iniziale dopo la deformazione);
◾ la sua estensibilità (il grado di deformazione che può
essere raggiunto dall’oggetto prima che avvenga la sua
rottura).

Le varietà di farine vanno a formare i diversi impasti (più o


meno tenaci, estensibili, elastici): da come risulterà
l’impasto ottenuto con la farina in prova, dipenderà il modo
di operare con tale farina. Le caratteristiche reologiche
dell’impasto ottenuto con la farina esaminata rivestono
dunque una certa importanza, perché descrivono tale
farina dal punto di vista della panificabilità.

Per misurare le caratteristiche reologiche della farina


esistono vari strumenti, tra cui:

◾ farinografo di Brabender
◾ alveografo di Chopin
◾ estensografo di Brabender.

LA FORZA DELLA FARINA

Con questi strumenti si possono ricavare i dati riguardanti


la forza della farina, la sua capacità d’assorbimento di
acqua e altre informazioni utili per panificare.

Il termine “forza della farina” è molto diffuso in


panificazione. Vediamo di cosa si tratta e da quali fattori
dipende. Possiamo definirla un insieme di due capacità:
◾ quella di assorbire l’acqua durante l’impasto;
◾ quella di trattenere anidride carbonica durante la
lievitazione.

La farina è forte quando assorbe un’elevata percentuale


d’acqua per creare un impasto di consistenza morbida.
L’impasto ottenuto con una farina forte risulta molto
asciutto, elastico e non appiccicoso e, avendo una maglia
glutinica resistente, ha un’alta capacità di trattenere
l’anidride carbonica. Generalmente, gli impasti preparati
con farine forti sono in grado di sopportare lunghe
fermentazioni e danno prodotti voluminosi, con
un’alveolatura ben sviluppata.

La farina è debole quando, durante l’impasto, assorbe poca


acqua. Se l’impasto viene lavorato per qualche minuto in
più, può perdere le sue caratteristiche meccaniche e
risultare liquido e appiccicoso, a causa di una debole
maglia glutinica. Si possono inoltre riscontrare difficoltà
nella formatura dei pezzi e, durante la lievitazione, le forme
non hanno la capacità di trattenere l’anidride carbonica per
cui tendono a “stendersi” a causa della rottura parziale del
glutine. Il prodotto finito generalmente non è voluminoso e
ha una forma piatta e larga.

La farina è di forza normale quando possiede


caratteristiche intermedie fra quelle sopra elencate.
L’importanza tecnologica della forza della farina,
considerando anche altre caratteristiche, definisce dunque:

◾ la quantità di acqua necessaria all’impasto e il tempo di


impastamento;
◾ le caratteristiche dell’impasto;
◾ il mutamento dell’impasto durante la fermentazione, la
formatura, la lievitazione e la cottura;

◾ lo sviluppo del prodotto durante la lievitazione, i tempi e


i parametri della stessa;
◾ il volume del prodotto finito, la sua forma e le
caratteristiche della mollica.

Ma la forza della farina dipende soprattutto dalla quantità e


dalla qualità del glutine.
Le proteine della farina insolubili in acqua e in soluzioni
saline hanno la capacità di formare durante l’impasto una
struttura elastica, compatta e spugnosa chiamata glutine,
dalle cui proprietà dipende maggiormente la forza della
farina. Più alto è il contenuto di glutine, più forte risulta la
farina.

IL GLUTINE

È quello che sostiene l’impasto, svolge praticamente la


funzione dei muri portanti di un’abitazione. La quantità di
glutine però non determina tutto, sono importanti anche le
sue caratteristiche. Per esempio, due farine possono avere
la stessa quantità di glutine, però una può risultare più
forte e l’altra più debole.

Il glutine è composto dalle prolamine (rappresentate


maggiormente da una proteina detta gliadina) e dalle
gluteline (tra le quali è presente soprattutto una proteina
chiamata glutenina).

La gliadina a contatto con l’acqua forma una massa collosa


e fluida, mentre la glutenina, assorbendo l’acqua, forma
una massa compatta, elastica e resistente. Possiamo quindi
dedurre che una farina, per essere più forte, deve
contenere in maggioranza glutenine.

IMPORTANZA TECNOLOGICA DI PROTEINE E


CARBOIDRATI DELLA FARINA

Le proteine sono i più importanti costituenti degli


organismi animali e vegetali. Sono composte da numerosi
amminoacidi legati tra loro per mezzo di legami peptidici.
Sono, quindi, dei polipeptidi.

Gli amminoacidi esistenti in natura sono venti e possono


legarsi tra loro in modo diverso, formando migliaia di
proteine che si differenziano per la maggiore o minore
complessità strutturale, per la diversa lunghezza delle
catene amminoacidiche e, soprattutto, per la diversa
composizione amminoacidica.

Nella farina sono presenti diverse proteine che, in base alla


classificazione di Osborn, possono essere divise nei
seguenti quattro gruppi, differenziati in base alla loro
solubilità:
◾ albumine, solubili in acqua e in soluzioni saline; a
questo gruppo appartiene la leucosina;

◾ globuline, insolubili in acqua, ma solubili in soluzioni


saline;
◾ prolamine, insolubili in acqua e in soluzioni saline, ma
solubili in alcol e in acetone, negli acidi, negli alcali e
anche nelle loro soluzioni. La proteina che rappresenta
questo gruppo è la gliadina;

◾ gluteline, solubili solamente negli acidi e negli alcali. La


proteina caratteristica di questo gruppo è la glutenina.

Le proteine della farina e, in modo particolare, gli ultimi


due gruppi (prolamine e gluteline), insolubili in acqua e in
soluzioni saline, hanno una grande importanza tecnologica
perché, durante l’impasto, a contatto con l’acqua si
uniscono tra loro con legami intermolecolari formando il
glutine.

GLUTINE = FARINA + ACQUA + ENERGIA

Il glutine è una massa compatta, elastica e porosa, simile a


una spugna, che rappresenta la struttura principale
dell’impasto. Dalla quantità e dalla qualità del glutine
dipendono le caratteristiche dell’impasto stesso. Nella
farina di frumento sono presenti molte proteine del tipo
prolamine e gluteline che provocano la formazione del
glutine.

I carboidrati, o glucidi, si possono dividere in tre gruppi:


◾ monosaccaridi, le unità costitutive dei glucidi, con una
sola molecola nella loro struttura;
◾ disaccaridi, composti da due monosaccaridi;
◾ polisaccaridi, composti da molte molecole di
monosaccaridi unite tra loro.

Dei monosaccaridi fanno parte il glucosio, il fruttosio e il


galattosio.
◾ Glucosio: è il più diffuso e il più importante tra i
monosaccaridi. Si trova allo stato libero nel succo di
molti frutti. Allo stato solido si presenta come una
sostanza bianca e cristallina, solubile in acqua, con
sapore dolce ma meno intenso rispetto allo zucchero
comune. Viene utilizzato nell’industria dolciaria,
conserviera e farmaceutica. Il glucosio svolge un ruolo
importantissimo nella panificazione perché è la fonte
alimentare delle cellule del lievito.
◾ Fruttosio: monosaccaride assai diffuso in natura, si
trova in abbondanza nella frutta e nel miele. Cristallizza
difficilmente, è molto solubile in acqua, ha un sapore più
dolce del glucosio e del saccarosio e anch’esso viene
impiegato nell’industria farmaceutica, conserviera e
dolciaria.
◾ Galattosio: ha una struttura simile al glucosio.

Dei disaccaridi fanno parte il saccarosio, il maltosio e il


lattosio.
◾ Saccarosio: il più importante tra i disaccaridi, è il
comune zucchero da tavola. In natura è prodotto da
molte piante; le più ricche sono la canna da zucchero e la
barbabietola da zucchero. Il saccarosio, che si presenta
come una polvere bianca, cristallina, solubile in acqua e
di sapore dolce, è formato dall’unione di glucosio e
fruttosio.
◾ Maltosio: composto da due molecole di glucosio, è una
sostanza cristallina solubile in acqua, dal sapore poco
dolce.

◾ Lattosio: è formato dall’unione di una molecola di


glucosio con una molecola di galattosio ed è presente nel
latte dei mammiferi. Si presenta come un solido bianco,
cristallino, poco dolce e solubile in acqua.

I polisaccaridi derivano dall’unione di numerose molecole


di monosaccaridi. Sono poco solubili in acqua e non hanno
sapore dolce, quindi non appartengono agli zuccheri anche
se, a volte, con il termine “zuccheri” si fa riferimento ai
glucidi in generale. I polisaccaridi più importanti contenuti
nella farina sono l’amido, la cellulosa e i pentosani.

◾ Amido: è formato da molte molecole di glucosio unite fra


loro. Nella sua struttura si possono distinguere due
componenti: l’amilosio, che ha una struttura lineare, e
l’amilopectina, che ha una struttura ramificata.
◾ Cellulosa: come l’amido è formata da molecole di
glucosio, ma con legami differenti.

◾ Pentosani: chiamati anche geli (perché gelatinizzano a


temperatura ambiente), hanno una grande capacità di
legare l’acqua e di formare, al contatto con essa, una
soluzione viscosa. Sono polisaccaridi non amidacei con
struttura piuttosto complessa. Tutti i pentosani
contengono nella loro struttura pentose (residui di
fruttosio) da cui prendono il nome.

I carboidrati della farina sono composti per l’8% da amido,


per il resto da zuccheri, cellulosa e pentosani.
IL MALTO
È un prodotto derivato dalla germinazione dei
chicchi dei cereali. Fra questi, quello che si è
dimostrato più idoneo è l’orzo.

La trasformazione dei chicchi d’orzo in malto si chiama


maltaggio: i chicchi sono messi a macerare in acqua tiepida
per causare la crescita del germe, poi sono asciugati,
separati dalla piantina e infine macinati.

Quando il chicco d’orzo inizia a germinare, nella sua


cariosside avvengono numerose reazioni chimiche che
favoriscono il nutrimento e la crescita della piantina. Tra
queste, la reazione principale è la trasformazione
dell’amido, presente nella cariosside, in zucchero maltosio
(saccarificazione dell’amido) con l’intervento degli enzimi
diastasi.

Le condizioni principali per la germinazione dei chicchi


sono l’idratazione dei semi e la presenza di ossigeno.

Nell’ambiente tiepido e umido si attivano tutti gli enzimi


(anche le diastasi) e ha inizio la saccarificazione dell’amido.
Poiché tra i componenti chimici del chicco d’orzo è
presente soprattutto l’amido, con la saccarificazione si
ottiene una notevole quantità di maltosio. La germinazione
dura finché nel chicco non viene raggiunto il massimo
contenuto di maltosio. Ciò che si ottiene dalla macinazione
è la farina di malto che, oltre allo zucchero maltosio,
contiene anche altri componenti chimici residui del chicco,
come gli enzimi; fra questi, grande importanza hanno le
amilasi. Per tale motivo il malto non è solo fonte di zuccheri
ma anche di enzimi: tra questi i più importanti sono le a- e
b-amilasi.

Le cellule del lievito si nutrono di zuccheri, la cui


abbondanza nell’impasto favorisce l’attività della
fermentazione. Per ottenere ciò, lo zucchero (maltosio e
saccarosio) non va semplicemente aggiunto all’impasto,
perché sarebbe subito consumato, ma deve essere prodotto
continuamente dalla saccarificazione dell’amido della
farina, con l’aiuto delle amilasi.

L’attività degli enzimi presenti nel malto è proprio la


caratteristica che determina il suo valore.

Non tutti i malti, però, hanno la stessa attività enzimatica.


Il potere enzimatico del malto (chiamato anche potere
diastasico) viene misurato con l’analisi di Pollak. Se nel
malto in prova gli enzimi diastasi sono particolarmente
attivi, anche la saccarificazione dell’amido risulta veloce e,
quindi, aumenta la quantità di maltosio ottenuto.

L’Unità Pollak è la quantità di maltosio prodotta da 1.000


g di farina maltata o di estratto di malto.

Se un malto presenta un alto valore Pollak significa che ha


un alto potere diastasico e che i suoi enzimi (in particolare
a- e b-amilasi) sono molto attivi. La sua aggiunta
all’impasto stimola notevolmente la fermentazione, perché
può produrre una grande quantità di zuccheri, nutrendo nel
modo migliore il lievito.

Se invece un malto ha un basso valore Pollak, la sua


aggiunta all’impasto è quasi equivalente a quella dello
zucchero e, quindi, non può stimolare sufficientemente la
fermentazione.
Solitamente i valori Pollak per il malto variano da 6.000-
8.000 a 24.000 Unità Pollak (per l’estratto di malto
concentrato).

In commercio sono disponibili i seguenti tipi di malto:


◾ farina di malto (ottenuta dalla macinazione dei chicchi
d’orzo germinati); ha un alto potere diastasico (intorno a
13.000 Unità Pollak) e contiene poco zucchero
(maltosio);

◾ estratto di malto in sciroppo (ottenuto dalla


saccarificazione della farina in malto); ha un alto potere
diastasico (mediamente 16.000 U.P.) e contiene quasi
l’85% di zuccheri riducenti (espressi in maltosio);

◾ estratto di malto concentrato in sciroppo: ha un


potere diastasico di 24.000 U.P. e contiene una grande
quantità di zuccheri;

◾ estratto di malto in polvere (ottenuto mediante


l’essiccamento dell’estratto di malto in sciroppo):
contiene molto maltosio (80-90% di zuccheri riducenti), è
comodo da usare ma ha un Pollak di valore medio
(intorno a 8.000 U.P.).

Possiamo quindi constatare che il potere enzimatico più


elevato è contenuto nell’estratto di malto liquido, seguito
dalla farina maltata, mentre l’estratto di malto in polvere
risulta meno attivo. Alcune volte, però, un malto in polvere
può essere più attivo del malto liquido se ha un indice di
Pollak maggiore.

L’indice di Pollak del malto determina la quantità da


aggiungere a un impasto.

Da un punto di vista pratico, l’aggiunta del malto


all’impasto produce i seguenti effetti:
◾ una più attiva fermentazione;

◾ un’alveolatura del prodotto più sviluppata e quindi un


prodotto più leggero e digeribile (grazie a una
fermentazione più attiva);

◾ una colorazione della crosta più dorata (dovuta alla


caramellizzazione degli zuccheri rimasti in abbondanza
dopo la lievitazione);
◾ un gusto e un profumo più intensi (prodotti dalla
reazione di Maillard, che lega gli zuccheri rimasti dopo la
lievitazione con gli amminoacidi formando sostanze
volatili profumate).

L’utilizzo del malto è indispensabile soprattutto nelle farine


con bassa attività amilasica (con un alto indice di Hagberg)
e negli impasti preparati con bighe, perché, dopo numerose
ore di fermentazione, la quantità di zuccheri è bassa. L’uso
del malto non è invece consigliabile in farine con attività
amilasica già alta, perché può produrre risultati negativi
come un impasto troppo appiccicoso, una crosta troppo
scura, una mollica troppo umida e così via.
IL SALE
«Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui»: così
Dante Alighieri racconta le pene del suo esilio nel
Paradiso, la terza delle tre cantiche che compongono
la Commedia, per indicare le umiliazioni e le
difficoltà che la lontananza da Firenze comportano.
Perché il pane toscano è sciapo, ovvero senza sale. Il
sale è onnipresente nei proverbi della maggior parte
delle culture. Per esempio, secondo un proverbio
africano «Un discorso senza proverbi è come un
pasto senza sale».

E poi c’è il sale della sapienza, che rappresenta


simbolicamente ciò che dà sapore all’esperienza e acutezza
alla mente.

Il sale è un ingrediente fondamentale nelle nostre cucine,


prezioso e, fin dall’antichità, ricco di significati simbolici.

Ne esistono due tipi: il sale marino e il salgemma. Il


primo si ottiene per evaporazione dell’acqua di mare, il
secondo si estrae invece dal sottosuolo.

La formula chimica, in entrambi i casi, è la stessa: si tratta


sempre di un minerale composto dal residuo dell’acido
cloridrico e del sodio. In termini strettamente chimici è
cloruro di sodio, ovvero NaCl. Esiste anche il sale iodato,
che viene arricchito di iodio sotto forma di iodato di
potassio.
Le funzioni del sale all’interno di un impasto sono svariate
e tutte importanti. Vediamo le principali.

◾ Rallenta l’attività enzimatica in generale e


particolarmente delle proteasi, responsabili della
reazione proteolitica che porta al rammollimento
dell’impasto.

◾ È igroscopico: le sue capacità di assorbire acqua rendono


l’impasto più elastico e meno appiccicoso.
◾ Agisce positivamente sul glutine, rendendo la maglia
glutinica più resistente. Un impasto contenente sale sarà
più malleabile nella formatura.

◾ Svolge un’azione disinfettante nell’impasto, in quanto


blocca lo sviluppo e l’attività metabolica dei
microrganismi, inibendo i batteri e i microrganismi
patogeni responsabili, per esempio, della malattia del
pane e della crescita di muffe. Rende parzialmente
inattivi altri batteri come gli acetici e i lattici
eterofermentanti che, con la loro fermentazione,
potrebbero aumentare l’acidità dell’impasto e di
conseguenza dare un prodotto con gusto e profumo
troppo forti.

Se aggiunto in piccole quantità negli impasti, il sale stimola


notevolmente l’attività delle cellule del lievito poiché
neutralizza i derivati del loro metabolismo, che hanno
un’azione tossica nei confronti del lievito stesso.

Se aggiunto in quantità superiori allo 0,5%, il sale rallenta


invece lo sviluppo delle cellule del lievito. È importante
ricordare che il sale uccide le cellule del lievito con le quali
viene a contatto e, quindi, che questi due elementi non
devono mai essere aggiunti nell’impasto
contemporaneamente.
LO ZUCCHERO
Definizione di uso corrente del saccarosio,
dolcificante appartenente alla famiglia dei glucidi
disaccaridi che si ricava dalla canna o dalla
barbabietola da zucchero e che, una volta raffinato,
si presenta in forma di polvere cristallina bianca,
dolce, più o meno fine.

Lo zucchero che viene utilizzato quotidianamente, e che


oggi diamo per scontato, ha alle spalle una lunga storia.

Già nel VI secolo a.C. i persiani scoprirono un vegetale dal


quale si ricavava uno sciroppo che, una volta asciugato,
produceva cristalli che si conservavano a lungo. Anche
Alessandro Magno riportò la notizia che a Oriente si
trovava qualche cosa di simile al miele, ma non prodotto
dalle api.

Furono gli Arabi a diffondere in Europa la coltivazione della


canna da zucchero e la tecnica per l’estrazione e la
produzione del prezioso dolcificante.

Era chiamato “sale arabo” quando veneziani e genovesi


iniziarono a importarne modeste quantità. Nel XIII secolo i
polinesiani esportarono in un primo momento in Cina e in
India e successivamente in Australia quella che chiamavano
la poba, cioè la canna da zucchero.

Portoghesi, spagnoli, inglesi e francesi diffusero la


produzione della canna da zucchero nell’America Centrale
e Meridionale, area che ancora oggi detiene il primato della
produzione mondiale.

Le colonie divennero cruciali nelle economie europee,


poiché i Paesi coloniali monopolizzarono a lungo la
produzione dello zucchero.

Nel 1806 il decreto di Berlino, voluto da Napoleone, istituì


il “blocco continentale” delle importazioni inglesi, a causa
di contrasti commerciali tra Francia e Inghilterra, e lo
zucchero quasi scomparve dall’alimentazione umana.

Fu così che si riprese una ricerca avviata nel 1575 da un


agronomo francese, il quale aveva osservato che la
barbabietola, ortaggio molto comune, attraverso un
procedimento di cottura produceva un dolce sciroppo. Ciò
non sfuggì a Napoleone, che incentivò la produzione di
zucchero da barbabietola in Francia e in tutti i territori da
lui dominati.
E, dopo la caduta di Napoleone, quando riprese il
commercio dalle colonie, lo zucchero di barbabietola era
ormai divenuto una valida alternativa allo zucchero di
canna, anche per il prezzo inferiore.

In teoria si potrebbe produrre zucchero da qualsiasi


vegetale che contenga saccarosio, ma si usano quasi
esclusivamente canna da zucchero, che contiene saccarosio
pari al 7-18% del peso, e barbabietola da zucchero, che ne
contiene per l’8-22% del peso. Un ruolo minore riveste la
produzione di zucchero estratto dall’acero e dalla palma da
dattero.

IL PROCESSO DI ESTRAZIONE

Le canne vengono dapprima private delle foglie


incendiando il campo, poi sono tagliate o a mano o con
l’aiuto di macchinari e, una volta eliminato lo stelo ricco di
impurità, trasportate nella fabbrica. L’operazione di
stoccaggio non deve superare le 24 ore. Qui la canna verrà
sottoposta a vari lavaggi per eliminare scorie e parassiti.
Dopo vari passaggi a fasi alterne fra macerazione in acqua
e torchiature si arriverà all’estrazione per spremitura di
una soluzione contenente circa il 10-15% di saccarosio. Il
succo così ricavato è pronto per la raffinazione.

Si passerà in seguito alla cristallizzazione tramite apposite


apparecchiature, con le quali si potrà definire la
granulometria. Dopo vari processi svolti a una temperatura
inferiore a 80 °C e sottovuoto si ottiene un miscuglio dal
quale si otterranno uno zucchero di prima qualità e, dopo
un’altra cristallizzazione e centrifugazione, uno zucchero di
seconda qualità (brown sugar) e la melassa.

Esiste un tipo di canna da zucchero, chiamata Ribbon cane,


il cui succo veniva estratto con macine azionate da muli o
da cavalli, bollito in un recipiente piatto e usato come
dolcificante in forma liquida. Oggi la sua coltivazione è
molto limitata.

I maggiori produttori mondiali di canna da zucchero sono


Brasile, India, Cina, Thailandia, Pakistan, Messico,
Colombia, Australia, Argentina e Stati Uniti.

Per quanto riguarda, invece, lo zucchero ricavato dalla


barbabietola, la semina avviene intorno a febbraio-marzo e
il raccolto si effettua ad agosto-settembre. Le barbabietole
vengono sradicate tramite macchinari e trasportate in
fabbrica, dove avviene un’importante opera di pulizia che
comprende il lavaggio e l’eliminazione di pietre e di terra.
La barbabietola è una radice grossa e carnosa che può
arrivare a una lunghezza di 20 cm, di colore grigiastro,
attraversata da due solchi longitudinali detti solchi
saccariferi.
La lavorazione avviene dapprima con la trinciatura, dalla
quale vengono ricavate delle strisce dette fettucce che
passeranno attraverso gli estrattori per l’estrazione dello
zucchero. Le fettucce vengono prima riscaldate a 70-78 °C
per circa 5 minuti, per aprire le cellule, poi portate a 69-73
°C per evitare che temperature troppo elevate facciano
sciogliere nell’acqua anche altre sostanze organiche e
minerali, contenute nei tessuti vegetali, che
abbasserebbero la concentrazione di saccarosio nell’acqua.
Dopo vari passaggi si ottiene un succo denso che viene
inviato alla cristallizzazione, operazione che avviene
tramite alcuni passaggi in centrifughe forate che ruotano a
forte velocità, per espellere il liquido e trattenere i cristalli.
Lo sciroppo verrà quindi sciacquato con acqua e i cristalli
essiccati con aria calda. Il procedimento verrà ripetuto
varie volte fino a ottenere una quantità sufficiente di
zucchero puro.

I maggiori produttori mondiali di barbabietola da zucchero


sono Francia, Stati Uniti, Germania, Russia, Turchia,
Polonia, Ucraina, Regno Unito, Paesi Bassi e Belgio.

ZUCCHERO INVERTITO E ALTRI DOLCIFICANTI

Lo zucchero invertito si ottiene per idrolisi acida o


enzimatica del saccarosio, che si decompone con
formazione di una miscela di glucosio e fruttosio,
monosaccaridi costituenti originalmente il saccarosio. La
miscela che ne deriva subisce un’inversione della rotazione
ottica rispetto al saccarosio: ciò spiega il termine
“invertito”. Gli agenti dell’idrolisi sono gli acidi (via
chimica) o l’enzima invertasi (via enzimatica), normalmente
prodotto da lieviti (Saccharomyces carlsbergensis,
Saccharomyces cerevisiae).
Lo zucchero invertito ha proprietà igroscopiche e viene
largamente impiegato nei prodotti da forno che devono
rimanere umidi per lunghi periodi. Può avere, inoltre,
secondo il tasso di inversione, un potere dolcificante
superiore a quello del saccarosio. Presenta il vantaggio di
diminuire la viscosità della massa e può pertanto essere
usato nei prodotti da colare, perché permette di utilizzare
temperature più basse. In cottura lo zucchero invertito
partecipa e contribuisce alla reazione di Maillard per la sua
ricchezza di zuccheri riducenti. Il fruttosio, fra l’altro, è
particolarmente sensibile al calore e a temperature
superiori a 70 °C si decompone, contribuendo
all’intensificazione della colorazione del prodotto.

Il destrosio deriva il suo nome dal fatto che tale zucchero


ruota verso destra il piano della luce polarizzata. È un
prodotto cristallino che può essere commercializzato in due
forme: anidra o con una molecola di acqua di
cristallizzazione (forma monoidrata, più stabile e più
utilizzata). Il destrosio è meno dolce rispetto al saccarosio,
ma viene rapidamente fermentato dai lieviti, pertanto viene
utilizzato in panificazione come alimento prontamente
disponibile per i lieviti. Caramellizza a temperature più
basse rispetto al saccarosio e ciò comporta la formazione di
una crosta intensamente colorata nei prodotti da forno.

Il fruttosio, detto anche levulosio perché ruota il piano


della luce polarizzata verso sinistra, al contrario di
saccarosio e glucosio, ha potere dolcificante 1,2-1,5 volte
superiore a quello del saccarosio, ma ha un costo più
elevato. Viene utilizzato in prodotti per diabetici, in quanto
ha un metabolismo indipendente dall’insulina. È inoltre
acariogeno (non dà luogo alla formazione di carie). Apporta
le stesse calorie del saccarosio ma, avendo potere
dolcificante superiore, può essere utilizzato a dosi inferiori
e consentire di ridurre l’apporto calorico in un regime
dietetico.
Il fruttosio si presenta in cristalli bianchi o in sciroppo
dosato a circa 70 Brix (i gradi Brix esprimono i grammi di
zucchero per 100 g di soluzione).
Il fruttosio ha la più alta solubilità tra gli zuccheri più
comuni. Questa proprietà consente di trasportare lo
sciroppo concentrato di fruttosio a una temperatura
superiore a 4 °C senza che esso cristallizzi. Pertanto il
fruttosio può essere stoccato in cisterne non riscaldate e
non dà problemi di bloccaggio nelle tubazioni di trasporto e
stoccaggio.
Tra gli zuccheri, il fruttosio è il più igroscopico, pertanto è
in grado di trattenere acqua in un preparato, riducendo
così le probabilità di fermentazione e di sviluppo di muffe
nel prodotto ed evitando l’essiccazione del preparato
stesso.
Il fruttosio possiede anche un certo potere
anticristallizzante, grazie al suo peso molecolare, che è
circa la metà di quello del saccarosio. Confrontando due
soluzioni di fruttosio e di saccarosio aventi la stessa
concentrazione in zucchero, possiamo affermare infatti che
il numero di molecole presenti nella soluzione di fruttosio è
circa il doppio rispetto alla soluzione di saccarosio, proprio
a causa della differenza di peso molecolare tra le due
molecole. Poiché il punto di congelamento di una soluzione
diminuisce con l’aumento del numero di molecole (soluto)
in soluzione, possiamo concludere che, volendo abbassare il
punto di congelamento di una soluzione per evitare che
essa congeli, si devono utilizzare minori quantità di
fruttosio rispetto al saccarosio. In fase di cottura di un
prodotto, il fruttosio reagisce più facilmente con le
componenti proteiche dando origine a imbrunimenti. A pH
4 si evita però l’imbrunimento del prodotto in fase di
cottura.
Il maltosio è uno zucchero a basso potere dolcificante e
può essere utilizzato dal lievito solo dopo essere stato
scisso dalle maltasi nelle due molecole di glucosio che lo
compongono. In panificazione viene apportato soprattutto
sotto forma di farine di malto ed estratti di malto.

Il lattosio è il disaccaride del latte, composto da glucosio e


galattosio. Non viene fermentato dai lieviti, pertanto risulta
completamente disponibile in cottura per le reazioni di
Maillard.

GLI SCIROPPI

Gli sciroppi di glucosio sono prodotti ricavati solitamente


dall’amido di mais, sottoposto a un’idrolisi che può essere
condotta per via chimica (idrolisi acida) oppure per via
chimica, e poi completata enzimaticamente.

Commercialmente tali sciroppi sono caratterizzati da due


parametri:
◾ densità, espressa in gradi Baumé (Bé), ricavabile dal
peso specifico riferito all’acqua a 4 °C;
◾ destrosio equivalente (D.E.), definito come il
contenuto in zuccheri riducenti, espressi in destrosio e
riferiti a 100 parti di sostanza secca.

Sciroppi a D.E. alto hanno sapore più dolce; se invece il


D.E. è basso si ottengono prodotti la cui composizione è
spostata verso i polisaccaridi, che vengono posti in
commercio, una volta essiccati, con il nome di
maltodestrine.
Quando il glucosio dello sciroppo viene in parte
isomerizzato a fruttosio, si ottengono miscele di glucosio e
fruttosio dette HFCS (sciroppi ad alto contenuto di
fruttosio). Tali sciroppi, per la presenza di fruttosio che
arriva in certi casi anche al 90%, hanno un potere
dolcificante superiore a quello degli sciroppi di glucosio.
L’isomerizzazione (la trasformazione di una molecola in un
suo isomero: gli isomeri sono molecole che, pur avendo la
stessa formula molecolare, si differenziano per una diversa
disposizione degli atomi) viene effettuata grazie a enzimi
(isomerasi) prodotti da microrganismi dei generi
Streptomyces, Arthrobacter, Bacillus.

L’IMPIEGO DEI DOLCIFICANTI NEI PRODOTTI DA


FORNO

Gli zuccheri fermentescibili presenti nell’impasto vengono


utilizzati dai lieviti, che li demoliscono producendo anidride
carbonica e alcol etilico (fermentazione alcolica). L’anidride
carbonica formata, trattenuta dalla maglia glutinica,
permette il rigonfiamento dell’impasto (lievitazione). Il
lievito può utilizzare glucosio e fruttosio direttamente,
maltosio e saccarosio dopo scissione degli zuccheri,
rispettivamente da parte delle maltasi e delle invertasi
della cellula stessa. Bassi quantitativi di zuccheri
fermentescibili nell’impasto portano a ottenere un prodotto
di volume scarso e alveolatura molto stretta. Un aumento
delle quantità di zuccheri nell’impasto rende più veloce la
fermentazione, pur richiedendo un parallelo aumento delle
dosi di lievito. Un forte aumento di volume deve però
essere accompagnato da un impasto di struttura tale da
evitare il collassamento del prodotto e la formazione di una
depressione centrale. Peraltro, quantità eccessive di
zuccheri danneggiano le cellule del lievito e hanno quindi
un effetto inibitore sulla fermentazione, che subisce un
rallentamento a dosi di zuccheri superiori al 10%. I dolci
nei quali le quantità di zucchero arrivano al 100% della
farina richiedono perciò necessariamente un lievitante di
tipo chimico, che non risente delle eccessive concentrazioni
zuccherine.

Aumentando la quantità di zuccheri nell’impasto aumenta


inoltre il tempo di impastamento e ciò per il fatto che,
secondo alcuni, lo zucchero entra in competizione con il
glutine nel legare l’acqua.

Corretti dosaggi di zuccheri danno una buona friabilità ai


prodotti da forno, mentre un eccesso di impiego comporta
difetti come la spugnosità.

Il potere edulcorante
ZUCCHERI ED EDULCORANTI POTERE EDULCORANTE

lattosio 0,16

galattosio 0,22

maltosio 0,32

sorbitolo 0,54

mannitolo 0,70

glucosio 0,74

xilitolo 1,10

saccarosio 1,00

fruttosio 1,50

ciclammato 35

aspartame 200

acesulfame K 200

saccarina 400

monellina 2.000
ZUCCHERI ED EDULCORANTI POTERE EDULCORANTE

taumatina 3.000

Gli zuccheri, influenzando la viscosità dell’impasto,


rendono più uniforme e stabile la distribuzione dei gas di
fermentazione in esso e determinano quindi la porosità e il
volume del prodotto finito.

Gli zuccheri che infine rimangono non fermentati


nell’impasto hanno importanti funzioni in cottura poiché
permettono una più rapida formazione del colore della
crosta, dovuta alla caramellizzazione e alla reazione di
Maillard tra zuccheri riducenti e proteine. Ciò consente,
attraverso la riduzione dei tempi e delle temperature di
cottura, di trattenere maggiormente gli aromi e l’umidità
all’interno del prodotto. È importante ricordare che
l’intensità di colorazione della crosta dipende anche dal
tipo di zuccheri impiegati e dalle loro quantità.

Nel corso della cottura gli zuccheri danno origine a


composti (aldeide e acidi volatili), che conferiscono
particolari aromi al prodotto. L’aggiunta di zuccheri agli
impasti rende inoltre la mollica più soffice e bianca.

Infine, nel corso della conservazione, aumenta la shelf-life


(durata commerciale di un prodotto alimentare, detta
anche “vita di scaffale”) dei prodotti a maggiore contenuto
di zuccheri per l’elevata igroscopicità (capacità di
trattenere acqua) di questi ultimi, in particolare levulosio,
zucchero invertito, zuccheri del miele, sciroppi ad alto D.E.

In panificazione non si osservano significative differenze


nella formazione di gas nell’impasto utilizzando miele al
posto di zucchero. Tuttavia, impiegando miele fortemente
aromatico in percentuali superiori al 4% si ottiene un pane
che presenta aromi e odori propri del miele stesso. Va
comunque sottolineato che l’impiego del miele in pane e
prodotti da forno è limitato dal costo elevato rispetto agli
altri dolcificanti.
LE UOVA
L’uovo è considerato un alimento povero a causa del
suo costo relativamente basso, ma in realtà è ricco di
principi nutritivi. Grazie alle sue particolari
proprietà e, soprattutto, alla sua capacità di legarsi
agli altri ingredienti, si presta a numerose
preparazioni in cucina, in gelateria, in pasticceria e
per la produzione di una notevole varietà di prodotti
da forno.

L’uovo viene depositato da animali detti ovipari ed è


un’unica cellula di grandi dimensioni, nella quale sono
presenti tutti i componenti necessari per la formazione e la
crescita iniziale di un nuovo organismo animale.

L’uovo è un concentrato di lipidi, proteine, vitamine e sali


minerali: è dunque un alimento di altissimo valore
nutrizionale e biologico. È avvolto da un guscio protettivo,
calcareo e poroso, costituito da sali inorganici:
principalmente carbonato di calcio e, in piccole quantità,
carbonato di magnesio e fosfato di calcio, con tracce di
polisaccaridi e altre sostanze organiche. Nel guscio
dell’uovo fresco, per esempio, è contenuta la mucina, una
proteina che ha una funzione importante perché ricopre la
superficie con una pellicola protettiva, impermeabile ai gas
e ai microbi.

All’interno del guscio si trova una membrana composta da


due pellicole di cheratina attaccate fra loro, che si
separano nella parte ottusa dell’uovo formando una
“camera d’aria” il cui volume, inizialmente basso, tende ad
aumentare con il passare del tempo. È il volume della
camera d’aria che determina la freschezza dell’uovo.

A seconda della loro qualità e freschezza, le uova possono


essere classificate in quattro categorie:
◾ categoria A extra: con camera d’aria non superiore a 4
mm; non deve essere trascorsa più di una settimana dalla
loro deposizione;

◾ categoria A: con camera d’aria non superiore a 6 mm e


che non abbiano subito trattamenti di conservazione e
refrigerazione (mantenimento a una temperatura
inferiore a 8 °C). Si suddividono a loro volta in S
(piccole), M (medie), L (grandi), XL (grandissime) e il
loro peso varia da 53 a 73 g circa;

◾ categoria B: con camera d’aria non superiore a 9 mm,


possono aver subito trattamenti di conservazione e di
refrigerazione e sono quindi di qualità inferiore;
◾ categoria C: declassate per la loro misura più piccola
(ma non scadute), sono destinate all’uso immediato
nell’industria alimentare.

A livello “casalingo” esistono diversi metodi per


determinare la freschezza dell’uovo. Il primo consiste nel
romperlo delicatamente in un piatto e valutarne aspetto e
odore: nell’uovo fresco il tuorlo ha la superficie arrotondata
e l’albume risulta più compatto, mentre nell’uovo meno
fresco il rosso è appiattito e il bianco è più fluido. Le uova
fresche sono inodori, mentre quelle scadute si
caratterizzano per l’odore forte e sgradevole. Un altro
metodo è quello di immergere l’uovo in una soluzione
salina (acqua con il 10% di sale): se le uova sono fresche
affondano, se sono meno fresche tendono a salire in
superficie, grazie alle maggiori dimensioni della camera
d’aria.

Il terzo metodo di controllo viene effettuato dall’industria.


È un metodo più tecnologico, poiché richiede l’utilizzo di
un’apposita apparecchiatura e consiste nell’osservare le
uova contro una sorgente di luce forte (operazione
chiamata speratura) per determinare la misura della
camera d’aria, che deve essere minima nell’uovo fresco, e
la posizione del rosso, che nell’uovo fresco deve essere
centrale.

Quando si dice uovo, si intende uovo di gallina, poiché è il


più utilizzato, anche se esistono uova di quaglia, anatra,
oca e struzzo. In base al loro peso, le uova di gallina
possono essere suddivise in 7 categorie:

◾ cat. 1, di peso superiore a 70 g;


◾ cat. 2, da 70 a 65 g;
◾ cat. 3, da 65 a 60 g;
◾ cat. 4, da 60 a 55 g;
◾ cat. 5, da 55 a 50 g;
◾ cat. 6, da 50 a 45 g;
◾ cat. 7, di peso inferiore a 45 g.

All’interno dell’uovo si trovano due parti principali:


l’albume e il tuorlo. Mediamente da due uova di peso medio
di 60 g circa si ottengono 100 g di parte commestibile,
composta per il il 74% da acqua, per il 12-13% da proteine,
per l’11% da lipidi, da sali minerali, vitamine, enzimi e, in
quantità minima, da glucidi. Questi componenti chimici
sono distribuiti diversamente fra il tuorlo e l’albume.

L’albume ha una consistenza acquosa e gelatinosa, è quasi


incolore e insapore ed è costituito da tre frazioni di diversa
densità una delle quali, con densità più alta, si trova vicino
al tuorlo. Lo strato sottile ma resistente di albuminoide
densa circonda il tuorlo e tramite due cordoncini, detti
calaze, lo ancora ai due poli per mantenerlo in posizione
centrale. L’albume copre i 2/3 del peso dell’uovo senza
guscio, ed è costituito per l’87% da acqua, per l’11% da
proteine, da qualche traccia di vitamine e di sali minerali; è
privo di grassi. Le proteine dell’albume sono composte per
il 60% circa da ovoalbumina, una fosfoproteina contenente
anche i gruppi sulfidrili dotata di proprietà gelificanti e
stabilizzanti; per il 9-14% circa da conalbumina, per il 10-
13% da ovomucoide e in quantità minore da altre proteine,
soprattutto globuline, solubili in soluzioni saline.

Alcune proteine dell’albume, come il lisozima, hanno


proprietà antibatteriche, altre, come l’avidina, che inattiva
la vitamina biotina, hanno proprietà antinutrizionali; queste
proprietà, però, vengono perse durante la cottura.

Il tuorlo è composto per il 50% da acqua, per il 16% da


proteine, sali minerali, vitamine e tracce di glucosio. È
particolarmente ricco di grassi (ne contiene circa il 32%).

I grassi sono costituiti principalmente da trigliceridi e


fosfolipidi, rappresentati per lo più da lecitine. Nel tuorlo è
contenuto anche colesterolo in quantità notevoli. Fra le
proteine prevalgono le lipovitelline (lipoproteine ad alta
densità) e le livetine (che formano le proteine del siero del
sangue nel pulcino). Sono inoltre presenti proteine
idrosolubili e lipoproteine a bassa densità. Le proteine del
tuorlo contengono un’elevata quantità di amminoacidi
essenziali, il che determina il loro alto valore biologico,
tanto che vengono considerate come “l’unità di misura” per
tutte le altre proteine animali. I sali minerali presenti
nell’uovo si trovano soprattutto nel tuorlo e contengono
elementi come calcio, zolfo, ferro, potassio, ma soprattutto
fosforo (spesso legato alle proteine e ai lipidi), elemento
che esalta il valore nutritivo dell’uovo. Fra le vitamine
contenute (principalmente nel tuorlo), troviamo: la
vitamina B1 (presente anche nell’albume), la vitamina B2, la
vitamina D, la vitamina PP, ma soprattutto la vitamina A,
contenuta soltanto nel tuorlo (il cui precursore,
chimicamente simile al pigmento carotene, determina la
caratteristica colorazione gialla).

Alla particolare composizione chimica dell’uovo sono


dovute le sue proprietà schiumogene, coagulanti ed
emulsionanti, ed è per questo motivo che questo alimento si
presta a molteplici usi in cucina, in pasticceria e nei
prodotti dolciari e da forno.

Nelle lavorazioni, l’albume e il tuorlo spesso vengono


separati perché hanno caratteristiche differenti e si
prestano a diverse preparazioni.

Le proteine dell’uovo, soprattutto quelle dell’albume, hanno


una struttura globulare, dalla forma simile a quella di un
gomitolo di lana, in cui le catene amminoacidiche vengono
ripiegate e arrotolate su se stesse, fissandosi in diversi
punti con legami di diversa natura (ionici, covalenti ecc.).
Con l’aumento della temperatura, dell’acidità o della
concentrazione del sale, i legami che tengono unite queste
strutture globulari si rompono, facendo sì che le proteine
perdano la loro struttura iniziale e acquistino una struttura
lineare, mentre i legami liberi possono collegarsi con le
catene amminoacidiche delle altre proteine. Questo
processo viene chiamato coagulazione, poiché si forma un
agglomerato proteico di struttura solida.

Questa struttura può inglobare al suo interno sia l’aria sia


l’acqua e può diventare più o meno gelatinosa, in base al
tipo e al numero dei legami fra le proteine: più sono
numerosi e forti, più densa sarà la massa. In caso contrario
si avrà una consistenza più acquosa.

Le proteine dell’albume coagulano a 62 °C, quelle del


tuorlo a 65 °C. Le molecole d’acqua sono collegate alle
proteine con legami “a idrogeno”, abbastanza deboli e
capaci di disfarsi rapidamente con l’aumento del calore.
Infatti, durante la cottura i complessi proteici dell’uovo
rilasciano l’acqua, mentre le catene amminoacidiche delle
diverse proteine si avvicinano, formando delle nuove
strutture.

È questo un fenomeno del quale bisogna tenere conto,


poiché le modalità di formazione e di cottura di un impasto
contenente l’uovo incidono sulle caratteristiche e sulla
qualità dei prodotti finiti.

Oltre al calore, anche l’aggiunta di ingredienti quali latte,


zucchero, sale o sostanze acide come succo di limone, di
frutta ecc. può influenzare la coagulazione delle proteine.
Per esempio, il latte e lo zucchero allontanano le proteine,
disturbando la loro coagulazione, mentre il sale e gli acidi
la favoriscono.

Un’altra importante caratteristica dell’uovo è la capacità


schiumogena del suo albume. Tale capacità viene sfruttata
soprattutto in pasticceria, per consentire la lievitazione
fisica in molti prodotti a base di impasti montati come pan
di Spagna, biscotti savoiardi, meringhe, soufflé ecc.

Durante la montatura dell’albume le sue catene proteiche


si slegano, si distendono e si legano nuovamente fra loro
formando un reticolo che ingloba aria e acqua e possiede
una certa stabilità. Le proteine maggiormente contenute
nell’albume contribuiscono alla formazione della schiuma.
Le ovoalbumine e le globuline favoriscono l’aumento della
viscosità del prodotto montato, mentre le ovomucine
formano una pellicola insolubile intorno alle bolle d’aria,
stabilizzando la struttura. L’inserimento di sale o materia
grassa riduce le proprietà schiumogene dell’albume,
mentre lo zucchero, in piccole quantità, favorisce la
stabilità della schiuma. Sulla montatura dell’albume
influisce anche la freschezza dell’uovo: è più difficile
montarlo quando l’uovo non è fresco.

Un altro fattore da considerare è il tempo di montatura,


che non deve essere eccessivo, altrimenti si avrà una
parziale rottura della struttura con la fuoriuscita dell’aria
precedentemente incorporata.

Il tuorlo non ha le proprietà schiumogene dell’albume, a


causa dell’elevato contenuto di grassi e della diversa
struttura proteica, però ha un forte potere emulsionante,
grazie a un alto contenuto di fosfolipidi e, in particolare, di
lecitine.

Questo potere emulsionante viene sfruttato soprattutto


nella preparazione di ricette contenenti materia grassa,
perché favorisce la formazione di un’emulsione stabile fra i
componenti non miscibili fra loro (per esempio olio e
acqua), in cui un liquido viene disperso nell’altro in forma
di piccole particelle. Inoltre le lecitine, come tutti gli altri
emulsionanti in generale, conferiscono al prodotto lievitato
uno sviluppo migliore e una più lunga conservazione.
Dunque, per quanto riguarda l’uso delle uova nei prodotti
lievitati, possiamo così riassumere le loro funzioni:

◾ aiutano a legare fra loro i vari ingredienti formando


impasti omogenei aventi maggiore elasticità;

◾ conferiscono al prodotto un maggiore sviluppo;

◾ in particolare il tuorlo migliora il sapore, il colore della


mollica e permette una più lunga conservazione.
IL LATTE
È il primo alimento assunto alla nascita, perché
contiene tutte le sostanze necessarie per una rapida
crescita dell’organismo. Con la parola “latte” si
intende il latte di vacca; diversamente, deve essere
riportato sulla confezione il nome dell’animale di
provenienza. Le raccomandazioni dei dietologi si
basano sul fatto che il latte è una fonte primaria per
tre fondamentali sostanze nutritive: calcio, potassio,
vitamina D.

Le sue caratteristiche essenziali sono:

◾ la complessità della sua composizione


◾ la sua alterabilità
◾ la variabilità quantitativa delle sostanze presenti.

Il latte è una miscela complessa contenente lipidi, vitamine


liposolubili, proteine e parte dei fosfati e citrati di calcio e
magnesio. Fornisce grandi quantità di calcio che viene
facilmente assorbito ed è un’importante fonte di proteine di
alta qualità biologica, di minerali e di vitamine.

Ma il latte non è solo quello di vacca. Il latte di capra è il


prodotto lattiero-caseario più digeribile di tutti a causa
della sua composizione molecolare simile a quella del latte
materno umano. Qualsiasi mammifero esistente sulla terra
può essere allevato con latte di capra che, a differenza di
altri tipi di latte, non stimola la produzione di muco nel
nostro organismo, come avviene per il latte di mucca, e non
stimola nessuna risposta di difesa del nostro sistema
immunitario.

Il latte di bufala ha un basso contenuto di colesterolo ed è


una buona fonte di nutrienti come calcio, vitamine e
minerali. È piuttosto denso e cremoso.

Il latte di asina è un alleato del peso forma per vari motivi,


in particolare per le elevate quantità di omega-3 e di calcio.
Inoltre, sembra aiuti a mantenere alti i livelli di energia per
tutta la giornata.

I tipi di latte in commercio


◾ Latte crudo: rispetto al latte fresco dà in bocca una
sensazione di maggior grassezza dovuta al fatto che
non subisce alcuna operazione di omogeneizzazione.
◾ Latte fresco: garantisce, dopo il latte crudo, il
massimo apporto nutrizionale, ma è pastorizzato.

◾ Latte UHT: subisce un trattamento termico per pochi


secondi ad alta temperatura in modo da ridurre il più
possibile la carica batterica per una più lunga
conservazione.

◾ Latte arricchito con le più svariate sostanze, dalle


vitamine agli omega-3.
◾ Latte di alta qualità, che non deriva da vacche
diverse da quelle da cui si ottiene il latte fresco o da
animali che pascolano sugli alpeggi. In realtà è il suo
contenuto di sieroproteine a classificarlo. Il latte
fresco ne ha per legge come minimo il 14%, mentre
per poter apporre sull’etichetta la dicitura “alta
qualità” questa percentuale deve arrivare almeno al
15,5%.
◾ Latte sterilizzato.

◾ Latte ad alta digeribilità.

◾ Latte condensato: viene ridotta con il calore la parte


di acqua e viene aggiunto zucchero.

◾ Latte in polvere: è un derivato del latte vaccino che


si ricava per disidratazione mediante calore.

Il latte di cammello contiene meno colesterolo rispetto al


latte di mucca o di capra, livelli tre volte più elevati di
vitamina C rispetto al latte di mucca e una quantità di ferro
dieci volte superiore, ma meno vitamine A e B2. Viene usato
per trattare il diabete di tipo 1.

I prodotti da forno confezionati con aggiunta di latte


presentano sulla superficie un colore bruno intenso, grazie
al lattosio, uno zucchero presente nel latte. Per l’utilizzo del
latte nei prodotti lievitati si consiglia un riscaldamento a 90
°C, cioè a una temperatura più alta della temperatura di
pastorizzazione.

Questa operazione denatura le proteine del siero che


andrebbero ad indebolire la maglia glutinica. Per questo
motivo viene spesso utilizzato, nei prodotti lievitati, il latte
in polvere, nel quale le proteine del siero sono già
denaturate.
IL BURRO
Derivato dalla parte grassa del latte, è un’emulsione
di minuscole goccioline di acqua disperse in un
grasso. Queste goccioline, nelle quali risultano
disciolti zuccheri e proteine, vengono tenute in
sospensione dalle sostanze emulsionanti
naturalmente presenti nel latte, che impediscono che
acqua e grassi si separino.

In base al regolamento Reg. UE 2991/94 il burro deve


contenere almeno l’80% di grassi e al massimo il 16% di
acqua. Per ottenere 1 kg di burro servono circa 23-25 litri
di latte. Il burro ha un punto di fusione compreso fra 28 e
33 °C, quindi si scioglie facilmente a temperatura
ambiente.

In base alla legge italiana (L. 202/1983) la denominazione


“burro” senza altri aggettivi è riservata «al prodotto
ottenuto dalla crema ricavata dal latte di vacca e al
prodotto ottenuto dal siero di latte di vacca» e non può
contenere grassi diversi aggiunti.

Esistono anche il burro di capra, proveniente soprattutto


dalle zone alpine, il burro di bufala, tipico campano, e il
burro di yak, ingrediente tradizionale di piatti e bevande
tibetane.

Le qualità di burro a livello produttivo si classificano in:


◾ burro centrifugato di alta qualità;
◾ burro di affioramento o burro di caseificio, di minore
qualità;
◾ burro grezzo, prodotto intermedio in attesa di rifusione
e pastorizzazione;
◾ burro di siero, sottoprodotto dei grassi residui nel siero
di origine casearia.

Profondamente demonizzato negli ultimi decenni del secolo


scorso, il burro sta lentamente riscattandosi, tanto che gli
specialisti ne consigliano un consumo misurato
alternandolo con l’olio extravergine d’oliva, poiché il burro
è meno calorico degli oli in quanto questi ultimi non
contengono acqua.

Già prima della nostra era si hanno notizie di burrificazione


per usi alimentari, cosmetici, cerimoniali e medici, ma
probabilmente si usava il latte di capre e pecore, visto che
sono state addomesticate prima delle vacche.

Anche Plinio il Vecchio, nella Naturalis historia, lo citava


come «alimento raffinato dei popoli barbari», poiché in
quelle popolazioni il suo consumo distingueva i ricchi dai
poveri.

La composizione del burro


grassi 80-84%

acqua 15-18%

lattosio 0,5-1,0%

proteine 0,4-0,8%

sali 0,1-0,2%
Nel Medioevo la chiesa proibì l’uso del burro e di altri
alimenti di origine animale nei periodi di Quaresima.
Divenne però possibile, nel tardo Medioevo, comperare
dalla Chiesa lettere di indulgenza che permettevano di
consumare il burro anche nei periodi proibiti. Una prova di
queste lettere è rappresentata da una delle torri della
cattedrale di Rouen, detta “la torre del burro” perché
costruita con il ricavato della vendita di queste dispense.

L’utilizzo del burro nei prodotti da forno ha una grande


importanza, poiché durante l’impastamento tende a
incorporare aria, favorendo la lievitazione. Inoltre, grazie
alla considerevole quantità di acidi grassi a catena corta
che conferiscono al burro plasticità, si otterranno prodotti
da forno molto morbidi e gradevoli al palato, effetto dovuto
anche al basso punto di fusione, dato che i prodotti lievitati
sfogliati devono essere mantenuti a una temperatura
inferiore a 26 °C.

I più diffusi tipi di burro


◾ Burro ordinario

◾ Burro salato
◾ Burro anidro con almeno il 99% di grassi, destinato
alla produzione di dolci
◾ Burro chiarificato con più del 99,8% di grassi, usato
per friggere
◾ Butter oil, simile al burro anidro, con meno dell’1%
di acqua, usato per i gelati
L’ACQUA
È una componente fondamentale di tutti gli
organismi viventi, che sono costituiti per la maggior
parte di acqua. L’acqua, l’aria, la terra e il fuoco
erano considerati dagli antichi filosofi come i quattro
elementi chimici, gli unici. Un concetto che continuò
a essere accettato finché Henry Cavendish, nel 1781,
dimostrò che l’acqua si forma per combustione
dell’idrogeno.

Si scoprì poi che l’acqua poteva essere decomposta per via


elettrolitica in due volumi di idrogeno e uno di ossigeno.
Nel 1860 Stanislao Cannizzaro stabilì la formula chimica
dell’acqua che, fino a quel momento, era stata oggetto di
controversie.

Principale componente delle cellule, l’acqua svolge funzioni


vitali nell’organismo in quanto veicola e distribuisce le
sostanze che devono essere utilizzate come fonti
energetiche, ma anche quelle impiegate nella sintesi di
sostanze più complesse; provvede all’eliminazione delle
sostanze di rifiuto, interviene nella termoregolazione ed è il
mezzo in cui avvengono tutte le reazioni metaboliche.

L’acqua riveste un ruolo fondamentale nella lavorazione dei


prodotti da forno, poiché permette la composizione
dell’impasto con la formazione della maglia glutinica,
aumenta la solidità dei granuli d’amido, aiuta lo
scioglimento del sale, attiva le reazioni degli enzimi,
permette il trasporto dei nutrienti attraverso la cellula di
lievito e favorisce l’eliminazione dei prodotti di scarto della
cellula del lievito. Costituisce inoltre il mezzo
indispensabile per l’attività del lievito e di altri
microrganismi.

Viene classificata in tre tipologie in base alla sua durezza:

◾ acqua dolce, con durezza non superiore a 5 gradi


francesi;
◾ acqua moderatamente dura, compresa fra 5 e 20 gradi
francesi;
◾ acqua dura, superiore a 30 gradi francesi.

La più indicata da utilizzare per i prodotti da forno è


un’acqua moderatamente dura e comunque con una
durezza che non superi i 20 gradi francesi, in quanto
l’utilizzo di un’acqua dolce comporterà un impasto troppo
molle e colloso mentre un’acqua troppo dura produrrà
impasti molto rigidi a causa della reazione chimica del
glutine con gli ioni di calcio e magnesio. Inoltre, il prodotto
finito potrebbe presentare irregolarità dovute a
un’eccessiva presenza di sostanze minerali, come ferro e
manganese. La quantità di acqua da aggiungere negli
impasti viene definita da fattori tra cui il tipo di impasto
che si desidera ottenere (molle, morbido o asciutto). Un
impasto richiede più idratazione se si utilizza un tipo di
farina forte o con fibre. Se nell’impasto vengono utilizzati
ingredienti come burro, uova, zucchero, la quantità di
acqua dovrà essere inferiore.
UVA SULTANINA E UVA PASSA
Questi due termini sono spesso utilizzati
impropriamente come sinonimi. Sono invece due
prodotti differenti, in quanto l’uva sultanina è una
varietà della specie Vitis vinifera della famiglia delle
Vitacee, mentre l’uva passa è un alimento conservato
e ricavato per disidratazione al sole o in forni
speciali e appartiene al gruppo della frutta
disidratata.

Un altro tipo di uva che si presta all’essiccazione è l’uva di


Corinto nera, con acini del tutto privi di semi,
generalmente piccoli e di colore violaceo scuro.

Molto spesso l’uva sultanina viene confusa con quella dello


Zibibbo, essendo entrambe bianche ma, a differenza della
sultanina, la Zibibbo ha i semi.

L’indicazione esatta degli acini di sultanina bianca dovrebbe


quindi essere “uvetta sultanina” o “uva sultanina passa”.

Si ricava da un vitigno vigoroso, di origine antica, che


richiede terreni freschi e profondi e climi caldi. L’uvetta
sultanina è un alimento disidratato e di conseguenza non
contiene molta acqua, quindi è un vero e proprio
concentrato nutrizionale e calorico per l’elevata quantità di
fruttosio che contiene. Sue peculiarità sono il contenuto di
fibre alimentari, sali minerali e sostanze fenoliche ed è
quindi molto utile contro la stitichezza (dopo la
reidratazione). I sali minerali contenuti sono il potassio, il
calcio e il ferro. Le sostanze fenoliche hanno una spiccata
azione antitumorale, ossidante, ipocolesterolemizzante e
positiva sul metabolismo glucidico. Sembra inoltre che
contribuiscano alla moderazione della carica batterica del
cavo orale, ostacolando la formazione della carie. Non si
deve però dimenticare che è un alimento estremamente
calorico e che fornisce un’alta concentrazione di zuccheri.

I tipi di uva passa in commercio


◾ Uva sultanina: è la varietà più comune, molto adatta
all’essiccazione, con chicchi piccoli e dolci, di colore
biondo-dorato, senza semi.

◾ Uva di Corinto: a chicchi piccoli e scuri, senza semi,


importata solitamente dalla Grecia ma attualmente
anche da altre parti del Medio Oriente.

◾ Uva di Smirne: con chicchi grossi e scuri, senza


semi.

◾ Uva di Malaga: con chicchi grossi, chiari, allungati,


con pochi semi.

◾ Uva cilena: particolarmente grande, senza semi, dal


colore ambrato (oggi le varietà sultanina e Malaga
sono coltivate ed essiccate anche in Italia).
LA FRUTTA CANDITA
La storia ci insegna che la cultura della
conservazione della frutta mediante gli zuccheri era
conosciuta nell’antichità dalle popolazioni della
Mesopotamia e della Cina. Era l’unico metodo di
conservazione conosciuto, tanto che gli antichi
Romani conservavano il pesce immergendolo nel
miele. Ma i precursori della canditura moderna sono
stati gli Arabi che, nei momenti più importanti dei
loro banchetti, servivano rose e agrumi canditi. La
parola “candire”, infatti, deriva dall’arabo qandat. In
Europa l’uso della frutta candita risale al
Cinquecento: la canditura arrivò in Occidente grazie
ai mercanti prima veneziani e in seguito genovesi.
Nel nostro Paese la frutta candita è diventata
ingrediente cardine dei dolci più famosi della
tradizione culinaria, come il panettone milanese e la
cassata siciliana.

La canditura consiste nel conservare la frutta mediante


immersione in uno sciroppo di zucchero.

Nel corso del processo di canditura il contenuto di acqua


della frutta viene ridotto, mentre viene gradualmente
elevato al 70% e più il contenuto di zucchero.
Lo zucchero utilizzato è quello proveniente dalla
barbabietola, ma sono teoricamente utilizzabili anche tutti
gli zuccheri alimentari.

Un metodo artigianale per ottenere la frutta candita è


porzionarla o inciderla, per facilitare il processo di osmosi,
porla in una vasca e coprirla di sciroppo. Dopo un periodo
che varia da un giorno a una settimana, lo sciroppo deve
essere separato dalla materia prima e riscaldato per far
evaporare l’acqua. È possibile, se necessario, aggiungere
altro zucchero.

Una volta giunto alla giusta concentrazione, lo sciroppo


viene nuovamente versato sulla frutta. Questa operazione,
detta “giulebbatura”, dall’arabo giulab («acqua di rose»),
verrà ripetuta fino a quando la concentrazione degli
zuccheri non sarà giunta al livello desiderato. A questo
punto i canditi sono pronti per essere utilizzati o conservati
nel loro sciroppo.

La pratica industriale prevede l’utilizzo di autoclavi a


chiusura ermetica in cui la frutta viene tenuta a bassa
pressione in modo da abbassare il punto di ebollizione (55-
60%) fino a quando non si giunge alla concentrazione finale
per evaporazione.

È possibile ottenere della frutta candita particolarmente


pregiata utilizzando il miele.

In Emilia-Romagna esistono pregiatissime preparazioni in


cui la frutta viene candita e conservata nel mosto cotto: la
saba è una di queste preparazioni.

Esistono anche i canditi “alla parigina”, ovvero “ghiacciati”


(ricoperti da uno strato di zucchero).
La frutta che più si presta alla canditura è quella a polpa
dura come arance, cedri, limoni e agrumi in genere, ma si
possono candire anche ciliegie, albicocche, prugne, pere,
pesche, melone, zucca...

È ottimo anche lo zenzero candito.

Quando si aggiunge frutta candita a un impasto, bisogna


controllare che non sia troppo “sciropposa”, altrimenti sarà
necessario togliere una parte dello zucchero previsto dalla
ricetta.
LA FRUTTA SECCA
Per frutta secca normalmente non si intende la frutta
essiccata ma i semi oleosi, ricchi di proteine e
particolarmente energetici, indicati nella dieta degli
sportivi e dei vegetariani per l’elevato contenuto di
fibre e di acidi grassi insaturi come omega-3 e 6. È
molto calorica ma, se assunta in dosi corrette, aiuta
a tenere sotto controllo il colesterolo riducendo il
rischio di aterosclerosi e patologie cardiovascolari.
Ecco le varietà più note e usate.

ANACARDI
La pianta, originaria del Brasile, si è poi diffusa in Africa e
India. Contengono acido folico, vitamine del gruppo B1, B2,
proteine e sali minerali tra cui fosforo, calcio, potassio,
zinco e selenio oltre a steroli vegetali che favoriscono la
riduzione dei livelli di colesterolo.

ARACHIDI
Dette anche noccioline americane, sono usate anche per
ricavare olio e burro e sono costituite principalmente da
grassi, proteine, minerali, fibre e vitamine fra le quali la
niacina, che protegge la circolazione sanguigna e la salute
del cervello.

MANDORLE
Ricchissime di proteine, contengono grassi insaturi,
vitamine, minerali e una piccola quantità di laetrile,
considerata una sostanza antitumorale. Dalle mandorle si
ricava un olio che è un ottimo emolliente per la pelle. Una
bevanda molto energetica è il latte di mandorle.

NOCCIOLE
Particolarmente caloriche per l’elevata quantità di lipidi,
apportano vitamina E, grassi monoinsaturi e fitosteroli, che
aiutano a prevenire le patologie cardiovascolari.

NOCI
Ricche di omega-3, minerali, acido folico, steroli vegetali,
fibre e antiossidanti, tra cui la vitamina E, hanno un basso
indice glicemico; gli acidi grassi in esse contenute
favoriscono il controllo del colesterolo.

NOCI DEL BRASILE O NOCI AMAZZONICHE


Ricchissime di proteine, hanno un alto contenuto di
vitamina E e acidi grassi polinsaturi. Apportano elevate
quantità di selenio: due sole noci al giorno sono sufficienti
per assumere la quantità giornaliera raccomandata.
Possiedono spiccate proprietà antiossidanti.

NOCI DI MACADAMIA
Dall’omonimo albero tropicale detto anche noce del
Queensland; contengono grassi monoinsaturi, carboidrati,
minerali, proteine, vitamine A, B1 e B2 e fibre che facilitano
l’attività intestinale. È bene evitare un consumo eccessivo,
poiché contengono una piccola quantità di grassi saturi e
sono fra le noci più caloriche. Hanno un sapore dolce e
delicato e sono quasi sempre vendute senza guscio, poiché
per romperle occorre una forza notevole. Sono molto
costose perché hanno una produzione piuttosto limitata.

NOCI PECAN
Sono molto caloriche e contengono tra il 65 e il 70% di olio,
per il 75% composto da acidi grassi monoinsaturi e per il
rimanente 25% da grassi polinsaturi. È il frutto in assoluto
più ricco di antiossidanti.

PINOLI
Sono il seme commestibile di alcune specie di pini.
Contengono grassi, proteine, fibre, minerali, vitamina E.
Tra gli acidi grassi prevalgono quelli insaturi.

PISTACCHI
Si ricavano da una pianta chiamata Pistacia vera, le cui
coltivazioni maggiori si trovano in Medio Oriente,
California e in alcune zone della Cina. In Italia sono
rinomati quelli di Bronte e di Adrano, alle pendici dell’Etna.
Sono costituiti per l’83% da lipidi, per il 12% da proteine e
per il 5% da carboidrati con presenza di minerali e
vitamine. Sono ricchi di vitamina A, che rallenta l’azione
dei radicali liberi, e di grassi utili per il controllo del
colesterolo.

SEMI DI ZUCCA
Di piccole dimensioni ma ricchi di proprietà benefiche.
Hanno un elevato contenuto di triptofano, un precursore
della serotonina che facilita il riposo notturno e influenza
l’umore, e anche di magnesio, che aiuta a combattere
stress, astenia e insonnia. Contengono proteine altamente
digeribili che contribuiscono a mantenere regolari i livelli
di zucchero nel sangue oltre a fibre, che regolarizzano
l’attività intestinale, e fitosteroli, che riducono il colesterolo
cattivo.

SEMI DI GIRASOLE
Sono i meno calorici. Hanno un ottimo contenuto di
vitamine B1, B2, B6, A, D ed E. Ne esistono tre tipologie:
bianchi (ricchi di acido linoleico), neri (con un’alta
concentrazione di minerali e fibre), striati (ottimi per il
buon funzionamento dell’intestino).
CACAO E CIOCCOLATO
Theobroma cacao è il nome scientifico della pianta
del cacao, dai cui semi si ricava il cioccolato,
alimento ampiamente diffuso e consumato nel mondo
intero.

Attorno all’anno 1000 a.C. gli Olmechi, primi scopritori


della pianta, chiamavano il cacao kakawa; in seguito, esso
fu rinominato kakaw dai Maya. Furono quindi i Maya i
primi a occuparsi della coltivazione della pianta del cacao
nelle terre comprese tra la penisola dello Yucatan, il
Chiapas e la costa del Guatemala affacciata sul Pacifico. I
semi per queste popolazioni erano così preziosi che
venivano utilizzati come vere e proprie monete di scambio
e anche come unità di misura: nel tesoro dell’imperatore
Montezuma se ne trovarono quasi un miliardo. La bevanda
che se ne ricavava venne chiamata kakaw uhanal, ovvero
«cibo degli dei»: il suo consumo era riservato alle classi più
abbienti come sovrani, nobili e guerrieri.

Per preparare la bevanda veniva utilizzata l’acqua calda e


da questo pare derivi l’origine della parola “cioccolata”, da
haa, «acqua», e chacau, «caldo». La bevanda di cacao
venne così chiamata chacauhaa. Un sinonimo di chacau era
chocol da cui deriva chocolhaa, nome che si avvicina
maggiormente allo spagnolo chocolat.

Una leggenda narra che la coltivazione del cacao fu


sviluppata dal re Maya Hunahpu. Un’altra versione, azteca,
racconta di una principessa rimasta sola, dopo la partenza
per la guerra del suo sposo, a custodire un immenso tesoro.
Quando arrivarono i nemici la principessa rifiutò di rivelare
il nascondiglio di tale tesoro e fu uccisa. Dal suo sangue
nacque la pianta del cacao i cui semi, così amari,
rappresentano la sofferenza, ma al tempo stesso sono forti
come le virtù della principessa. Dopo i Maya, anche gli
Aztechi iniziarono la coltura del cacao e, successivamente,
la produzione della cioccolata aromatizzata con la vaniglia.
Gli Aztechi associavano la cioccolata alla dea della fertilità
Xochiquetzal.

Nel 1502, in occasione del suo ultimo viaggio in America,


Cristoforo Colombo sbarcò in Honduras e assaggiò una
bevanda a base di cacao dal gusto molto amaro. Senza
molto entusiasmo portò comunque alcuni semi a
Ferdinando e Isabella di Spagna. Solo nel 1519 il cacao
viene introdotto in Europa grazie a Hernán Cortéz che,
recatosi nel Nuovo Mondo, fu scambiato dalla popolazione
locale per il dio Quetzalcoàtl, che secondo la leggenda
avrebbe dovuto tornare proprio quell’anno. L’imperatore
Montezuma lo accolse calorosamente e gli offrì un’intera
piantagione di cacao.

Cortéz, nel 1528, portò in Spagna alcuni semi di cacao per


donarli a Carlo V. La Spagna incrementò le coltivazioni di
cacao e fino alla fine del Cinquecento ne ebbe l’esclusiva.

All’inizio del XVII secolo furono gli olandesi, abili


navigatori, a strappare il controllo mondiale del cacao agli
spagnoli e a farlo conoscere in Europa. In Italia, e
precisamente in Piemonte, fu probabilmente importato da
Caterina, figlia di Filippo II di Spagna, che nel 1585 sposò
Carlo Emanuele I duca di Savoia. Ma anche in Italia
Meridionale si diffuse l’utilizzo del cacao grazie alla
dominazione spagnola.
Mentre in Brasile, Venezuela, Martinica e Filippine si iniziò
in maniera intensiva la produzione di cacao, molte città
europee guadagnarono fama per la lavorazione del
cioccolato.

Torino, con una produzione di 350 kg al giorno, esportava


cioccolato in Austria, Svizzera, Germania e Francia.
Nacque a Torino il primo cioccolatino da salotto, nel XVIII
secolo, creato da Doret, così come si deve ai cioccolatai
torinesi la diffusione in Italia delle “botteghe del
cioccolato”.

La prima tavoletta di cioccolato fu prodotta in Inghilterra,


ma la prima produzione importante di cioccolato iniziò nel
1826, grazie a Pierre Paul Caffarel che, con una nuova
macchina, era in grado di produrre oltre 300 kg di
cioccolato al giorno. Due anni dopo l’olandese Conrad J.
Van Houten brevettò un metodo per estrarre il grasso dai
semi di cacao trasformandoli in cacao in polvere e burro di
cacao.

Ancora a Torino, nel 1852, Michele Prochet miscelò cacao e


nocciole tritate e tostate creando la pasta gianduia, che
verrà poi prodotta sotto forma di gianduiotti incartati
singolarmente.

La nazione più legata al cioccolato è la Svizzera,


soprattutto romanda, che detiene il primato sia in termini
di fatturato sia in volume di produzione. Prima a livello
artigianale, poi su scala industriale con François-Louis
Cailler, inventore della “tavoletta”, Philippe Suchard, Henri
Nestlé, Jean Tobler, creatore del “Toblerone”, Daniel Peter,
genero di Cailler e inventore del cioccolato al latte, e
Rodolphe Lindt, inventore del cioccolato fondente con il
sistema del concaggio.
Cioccolato, che passione!
Amato da tutti, grandi e piccini, uomini e donne, giovani
e anziani, il cioccolato ha avuto grandi appassionati fra i
personaggi storici. Qualche nome?

◾ Papa Pio V, che consentì nei periodi di digiuno il


consumo di una tazza di cioccolata al giorno, destando
un certo scalpore.

◾ Madame de Maintenon, sposa del Re Sole, e le


favorite di Luigi XV.

◾ Maria Antonietta, moglie di Luigi XVI, che viaggiava


sempre con il suo cioccolataio personale.

◾ Voltaire, che beveva una dozzina di tazze di cioccolata


al giorno.
◾ Giacomo Casanova, che lo usava per gli effetti
afrodisiaci.
◾ Wolfgang Amadeus Mozart in Così fan tutte celebra il
desiderio di cioccolata.

Ma il cioccolato è anche ispiratore di libri e film di


successo, fra i quali:
◾ La fabbrica di cioccolato di Roald Dahl, storia per
bambini del 1964 dalla quale sono stati tratti due film,
Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato di Mel Stuart
nel 1971 e La fabbrica di cioccolato di Tim Burton nel
2005.

◾ Chocolat di Joanne Harris, dal quale viene tratto il


famosissimo e omonimo film di Lasse Hallström nel
2000.
Ma non possiamo dimenticare:
◾ Volere volare, per la regia di Maurizio Nichetti, 1991.
◾ Come l’acqua per il cioccolato di Alfonso Arau nel
1994.

◾ Lezioni di cioccolato, di Claudio Cupellini nel 2007.


◾ Emotivi anonimi, per la regia di Jean-Pierre Améris nel
2010.
◾ Lezioni di cioccolato 2, per la regia di Alessio Maria
Federici nel 2011.

In Belgio ebbe inizio, nella prima metà dell’Ottocento, la


produzione di cioccolatini ripieni di liquore, marzapane o
cioccolato fondente: le praline.

In Sicilia, la lavorazione del cioccolato fu introdotta dagli


Spagnoli nella contea di Modica, dove ancora oggi si
conserva l’artigianalità del prodotto: il cioccolato di Modica
è di colore scuro, con riflessi bruni, con granuli di zucchero
grossolani che conferiscono al prodotto una brillantezza di
pietra marmorea oltre alla particolarità del gusto, poiché la
lavorazione avviene quasi a freddo, permettendo di
mantenere inalterate le qualità organolettiche del cacao.

Nel 1907 viene fondata a Perugia la Società Perugina,


specializzata nel settore della produzione di cioccolato e
nella produzione e vendita di prodotti dolciari. Il suo
cioccolatino più famoso è il “Bacio”, un guscio di cioccolato
fondente con un ripieno morbido di gianduia e granella
croccante di nocciole, esportato in tutto il mondo.

Molte sono le proprietà del cioccolato, soprattutto


antiossidanti (nel fondente), grazie al contenuto di
flavonoidi. Ricco di teobromina, inibitore della
fosfodiesterasi, come alcuni farmaci utilizzati in caso di
insufficienza cardiaca acuta, il cioccolato ritarda
l’indurimento delle arterie nei fumatori, riduce la pressione
sistolica del sangue per effetto dei polifenoli e, grazie alla
feniletilammina, agisce contro la depressione.

Il cacao viene usato negli impasti soprattutto per conferire


al prodotto un aroma più pungente di cioccolato. Prima di
essere utilizzato deve sempre essere setacciato. Inoltre il
cacao assorbe i liquidi due volte più della farina: nel
bilanciamento delle ricette è necessario tenerne conto.
IL MIELE
Il miele è la sostanza alimentare che le api
producono succhiando il nettare dei fiori o le
secrezioni di parti vive di piante, che poi
trasformano combinandole con sostanze proprie e
deponendole nei loro favi. All’interno dell’alveare
avvengono una graduale maturazione e un
arricchimento con enzimi derivanti dalle secrezioni
ghiandolari delle api stesse.

Per millenni il miele è stato il principale dolcificante usato


dall’uomo e l’unico alimento zuccherino concentrato
disponibile. Risalgono al VI millennio a.C. le prime tracce di
arnie costruite dall’uomo.

Già 4.000 anni fa, in Egitto, gli apicoltori si spostavano


lungo il Nilo con le loro arnie per seguire la fioritura delle
piante; gli Egizi usavano deporre grandi coppe e vasi
ricolmi di miele accanto alle mummie per accompagnarle
nel loro viaggio nell’Aldilà. Tramite i geroglifici si
conobbero gli usi che gli Egizi facevano del miele, sia
alimentari sia medici, per la cura di disturbi della
digestione e per preparare unguenti per curare piaghe e
ferite.

I Sumeri lo utilizzavano miscelandolo con argilla, acqua e


olio di cedro per preparare creme, mentre i Babilonesi lo
usavano in cucina per preparare focacce con farina, sesamo
e datteri.
I Greci lo consideravano “cibo degli dei” e quindi era
utilizzato per offerte votive.

I Romani lo importavano da Creta, da Cipro, dalla Spagna e


da Malta.

Con l’introduzione dello zucchero raffinato industrialmente,


il miele fu gradualmente soppiantato come agente
dolcificante.

Componenti principali del miele sono fruttosio, glucosio,


acqua, altri zuccheri e sostante diverse fra le quali acidi
organici, sali minerali, enzimi, aromi e altro.

Il miele è un alimento di elevato valore nutritivo, facilmente


assimilabile. Il glucosio entra direttamente in circolo e
viene subito utilizzato, mentre il fruttosio viene consumato
più lentamente, garantendo un apporto energetico diluito
nel tempo: per questo motivo viene consigliato agli sportivi,
alle persone anziane e ai bambini. Il miele ha un potere
dolcificante elevato: 100 g forniscono 320 kcal, tuttavia non
è un alimento completo, per la carenza di vitamine e
protidi.

Per la legge italiana, il miele non può subire aggiunte di


sorta. Gli unici trattamenti cui può essere sottoposto sono:

◾ estrazione dai favi per forza centrifuga


◾ decantazione
◾ filtraggio
◾ cristallizzazione guidata.

Il miele dona colore e profumo agli impasti a cui viene


aggiunto e ne migliora la conservabilità.

I tipi di miele più diffusi in Italia


◾ Millefiori: non presenta un ingrediente prevalente.
◾ Miele di acacia: di consistenza liquida, tende a non
cristallizzare, ha un sapore delicato, è ottimo per
dolcificare dolci e bevande senza modificarne il
sapore. Utilizzato per decotti contro affezioni
respiratorie e come emolliente per la pelle di viso e
mani.

◾ Miele di agrumi: prodotto solo nelle regioni dove


vengono coltivati gli agrumi, ha proprietà
antispasmodiche e sedative.
◾ Miele di corbezzolo: piacevolmente amarognolo per
via dell’arbutina, un glucoside contenuto nel nettare
di corbezzolo. È il più costoso, perché uno dei più rari.
Ha proprietà antiasmatiche, diuretiche, antisettiche.
Ottimo contro il mal di gola e la bronchite.
◾ Miele di castagno: prodotto su tutto il territorio
nazionale, ha un aroma intenso e un sapore molto
deciso, quasi amarognolo. Ha proprietà mucolitiche ed
è un regolatore dell’intestino.

◾ Miele di ciliegio: piuttosto raro, ha profumo delicato


e sapore intenso.

◾ Miele di eucalipto: il miele balsamico per eccellenza,


utilizzato per le affezioni delle vie respiratorie.

◾ Miele di rosmarino: molto raro, tipico di Puglia e


Sardegna, ha proprietà depurative e rivitalizzanti.
Altrettanto fondamentale della conoscenza delle
materie prime è la padronanza delle lavorazioni. La
lievitazione, l’impastamento, la sfogliatura
influenzano decisamente il risultato finale.

LA LIEVITAZIONE
Sul dizionario, alla voce “lievito”, si legge: «Insieme di
funghi unicellulari, detti saccaromiceti, capaci di
trasformare per via enzimatica gli zuccheri in alcol etilico e
anidride carbonica; sono responsabili della lievitazione del
pane e della fermentazione del vino e della birra;
commercialmente sono usati come fonte di proteine e
vitamine e nella sperimentazione di laboratorio, soprattutto
nel campo dell’ingegneria genetica».

Questa è la definizione, ma il sostantivo racchiude in sé ben


altro, qualche cosa di misterioso... di magico.

La leggenda attribuisce la scoperta del pane lievitato a una


schiava egizia, che dimenticò la pasta destinata alla
preparazione di alcune gallette. Su questa pasta si erano
posati spontaneamente dei lieviti e l’avevano fatta gonfiare:
la donna, non avendo tempo per prepararne altra, la fece
cuocere così com’era. Il suo padrone gradì molto questo
nuovo tipo di pane. In effetti, è proprio in Egitto che è nata
l’arte della panificazione e della pasticceria. Nelle tombe
egizie sono stati ritrovati semi di cereali e le ricette
necessarie per prepararli.

Ma la vera storia del lievito ci riporta al 1680 quando,


utilizzando un microscopio, il ricercatore Antoni van
Leeuwenhoeck osservò i globuli del lievito di birra per la
prima volta. Solo nel 1857, però, grazie al lavoro dello
scienziato francese Louis Pasteur, il processo di
fermentazione fu finalmente compreso: Pasteur riuscì a
stabilire il ruolo chiave del lievito come responsabile della
fermentazione alcolica. Lo scienziato aveva ben presto
compreso che il lievito è indispensabile per ottenere gli
aromi e i sapori del pane. Nel corso della storia, il lievito per
panificazione, Saccharomyces cerevisiae, si è imposto in
tutto il mondo come il migliore per far crescere gli impasti.

Noi conosciamo tre tipi di lievito:

◾ lievito compresso
◾ lievito chimico
◾ lievito madre

e tre sistemi di lievitazione:

◾ lievitazione fisica
◾ lievitazione chimica
◾ lievitazione biologica.
LA LIEVITAZIONE FISICA

Viene utilizzata soprattutto in pasticceria per la produzione


di prodotti quali meringhe, panna montata, pan di Spagna
ecc. Questa lievitazione è dovuta all’aria inglobata durante
la fase di impastamento e alla dilatazione termica, in cottura,
del vapore acqueo e delle bollicine d’aria presenti
nell’impasto. Si ottiene mediante un intenso lavoro
meccanico di impastatrici come, per esempio, la planetaria,
o di impastatrici continue provviste di un sistema di
insufflamento di aria (impastatrici per paste montate).

Uova, grassi ed emulsionanti sono ingredienti che, per la


loro struttura chimica, sono in grado di facilitare e
stabilizzare l’incorporazione di aria.

Nel metodo tradizionale di preparazione del pan di Spagna,


per esempio, l’aria viene inglobata nella miscela di uova e
zucchero grazie all’azione meccanica dell’impastatrice fino a
ottenere una massa montata e stabile alla quale si
aggiungerà la farina.
In cottura, l’aria e il vapore acqueo si espandono per effetto
del calore, facendo aumentare di volume il prodotto. Per
effetto del calore avvengono la coagulazione delle proteine
delle uova e della farina e la gelatinizzazione dell’amido. Il
prodotto assume così la sua struttura definitiva.

Anche la lievitazione per laminazione fa parte della


lievitazione fisica: ne è un esempio la pasta sfoglia, che non
contiene lievito. Nelle fasi di preparazione, però, l’impasto
subisce diverse laminazioni con incorporazione di materia
grassa in diversi strati ma con un’unica struttura. In cottura
viene prodotto vapore acqueo che, trattenuto dagli strati
impermeabili di materia grassa, causerà il rigonfiamento del
prodotto.

LA LIEVITAZIONE CHIMICA

Nella preparazione di alcuni prodotti, come biscotti o torte


dette “da forno”, vengono utilizzati agenti lievitanti chimici,
sostanze che producono chimicamente anidride carbonica a
contatto con l’acqua o in fase di cottura. I più utilizzati sono
bicarbonato di ammonio e bicarbonato di sodio.

Queste sostanze producono entrambe anidride carbonica,


ma con alcune differenze.

Il bicarbonato d’ammonio reagisce al calore, formando


anidride carbonica e ammoniaca che, se non viene eliminata
in cottura, avrà un effetto sul gusto e sul colore del prodotto,
alterandolo. Viene usato in pasticceria per prodotti soffici e
con una buona alveolatura.

Il bicarbonato di sodio genera anidride carbonica ma non


origina sostanze odorose. La produzione di anidride
carbonica avviene a contatto con l’acqua ed è più rapida se
avviene in presenza di agenti acidificanti. Gli agenti
acidificanti sono sali acidi e si trovano in commercio già
miscelati con tutte le componenti necessarie (baking
powder).

LA LIEVITAZIONE BIOLOGICA

È la lievitazione più utilizzata in panificazione ed è anche la


più difficoltosa, poiché necessita dell’azione di organismi
viventi. Si usa soprattutto in panificazione, ma anche in
alcuni prodotti dolciari della tradizione.

Un lievito molto utilizzato in panificazione è il


Saccharomyces cerevisiae (lievito compresso, più
comunemente chiamato lievito di birra), introdotto
direttamente nell’impasto o utilizzato per la preparazione di
bighe o poolish. Possono essere utilizzati anche altri tipi di
lievito, come il lievito secco attivo, in forma di piccoli
granuli, il lievito secco istantaneo, in forma di piccole
particelle allungate o il lievito liquido, detto crema di
lievito.

Il lievito compresso si compone per due terzi di acqua,


mentre la parte rimanente è costituita da proteine,
carboidrati, fibre, lipidi e sali minerali. Contiene anche le
vitamine del gruppo B (B1, B2, B6). Va conservato in
frigorifero non oltre i 4 °C.

L’altra lievitazione biologica è legata al lievito madre,


costituito da batteri lattici omofermentanti,
eterofermentanti, eterofermentanti facoltativi e
Saccharomyces cerevisiae o altri lieviti presenti
naturalmente nella farina. Questo tipo di lievito è utilizzato
soprattutto per la produzione di grandi lievitati come il
panettone, il pandoro, la colomba ma anche per alcuni tipi di
pane.
In questo libro verrà presa in considerazione soprattutto la
lievitazione biologica, ovvero quella che consente le lunghe
lievitazioni. Le lunghe lievitazioni permettono di avere dei
prodotti molto più delicati e gustosi, che si conservano più a
lungo e sono più digeribili.

Gli impasti per prodotti da forno a lievitazione biologica sono


composti da organismi viventi, i lieviti, che si suddividono in:

◾ funghi unicellulari (microrganismi completi, composti


da un’unica cellula);

◾ microrganismi eucarioti (contengono un nucleo ben


definito racchiuso da una membrana nucleare che lo
separa dal resto della cellula dove è concentrato il DNA);

◾ microrganismi anaerobici facoltativi: possono vivere


sia con ossigeno sia senza. Nelle condizioni aerobiche (in
presenza di ossigeno) si moltiplicano, mentre nelle
condizioni anaerobiche (in assenza di ossigeno)
fermentano.

IL LIEVITO COMPRESSO

Il lievito compresso è costituito per due terzi da acqua e per


un terzo (sostanza secca) da proteine, carboidrati (fra cui
trealosio, lo zucchero disaccaride costituente della parete
cellulare), una piccola quantità di fibra (circa il 6%), pochi
lipidi e sali minerali. La composizione del lievito compresso
varia in base al suo utilizzo. I ceppi contenenti più proteine
sono più rapidi nell’azione, hanno una velocità di
fermentazione più alta, ma non sono consigliati per gli
impasti contenenti molto zucchero oppure per le produzioni
che richiedono la surgelazione. I ceppi osmotolleranti e
crioresistenti (resistenti alle basse temperature) hanno un
contenuto in trealosio maggiore, ma una minore quantità di
proteine e quindi una più limitata velocità di fermentazione.
Il lievito compresso si conserva in frigorifero, alla
temperatura di 1-4 °C. L’ambiente di conservazione deve
essere fresco e arieggiato, le confezioni del lievito devono
essere chiuse in uno strato di carta e avvolte in pellicola per
alimenti, in modo che il prodotto mantenga costante la
propria umidità. Avvolgere il lievito è importante non
soltanto per impedire l’inquinamento o l’essiccamento delle
cellule sulla superficie, che potrebbe portare alla perdita
della loro attività, ma anche perché in presenza di ossigeno
il lievito attiva il metabolismo ossidativo che, generando
calore, porta all’alterazione del prodotto stesso.

L’ATTIVITÀ ENZIMATICA DEL LIEVITO COMPRESSO

Con “attività enzimatica” si intende l’attività degli enzimi


zimasi, ossia la loro capacità di trasformare lo zucchero in
anidride carbonica e alcol etilico. Per determinare l’attività
enzimatica del lievito esistono diversi metodi.
◾ Metodo rapido
Si prepara una miscela composta da 6,5 g del lievito in
esame, 7 g di farina e acqua in quantità tale da
raggiungere la consistenza normale di un impasto. Il
composto così ottenuto viene formato come un palloncino
e messo in un bicchiere con acqua tiepida. Si calcola il
tempo che passa dal momento in cui il palloncino è stato
introdotto nel bicchiere fino al momento in cui sale in
superficie. Questo tempo, per un lievito di buona qualità,
deve essere intorno ai 20 minuti. Se risulta superiore,
l’attività del lievito è inferiore alla media.

◾ Metodo con utilizzo di reofermentografo


È lo strumento che studia l’evoluzione, durante la
fermentazione, di un impasto sottoposto a sollecitazioni
(temperatura, pesi applicati ecc.), in base a un protocollo.
Viene misurato lo sviluppo della pasta e, attraverso un
sensore di pressione, l’aumento di pressione della pasta in
fase di fermentazione. Il risultato del test è dunque
formato da due tracciati: la curva di sviluppo della pasta e
la curva di rilascio del gas. La curva di rilascio del gas
permette di determinare il coefficiente di ritenzione R,
definito come il rapporto in percentuale tra il volume
trattenuto nella pasta e il volume totale di gas prodotto
durante il test.

Tramite il test reofermentografico è possibile avere


informazioni sia sullo sviluppo dell’impasto sia sulla quantità
di CO2 sviluppata e trattenuta efficacemente all’interno della
massa: la conoscenza del tempo in cui appare la cosiddetta
“porosità” dell’impasto è di grande interesse tecnologico, in
quanto esso è direttamente correlato alla durata della
lievitazione di un reale processo produttivo. Con questo
metodo, oltre a verificare l’efficacia del lievito, si verificano
le caratteristiche della farina.

IL LIEVITO MADRE

Fino alla scoperta del lievito compresso i prodotti da forno, e


soprattutto il pane, venivano preparati esclusivamente con
impasti avanzati il giorno precedente che alcuni, ancora
oggi, chiamano “crescente” o “criscito”. Alcune volte
l’impasto era formato da sole acqua e farina ma altre volte,
essendo un avanzo del giorno precedente, poteva contenere
anche sale o condimenti. In questo caso non si parla di
lievito madre ma di pasta di riporto.

Il lievito madre nasce spontaneamente da un impasto


composto da farina e acqua più, eventualmente, un elemento
per attivare il processo di fermentazione, lasciato a maturare
per un tempo più o meno lungo durante il quale i
microrganismi presenti nella farina, nell’acqua e nell’aria si
riproducono e innescano il processo di fermentazione.
Nel lievito madre avvengono due tipi di fermentazione: la
fermentazione lattica e la fermentazione alcolica.

INIZIO DI UN LIEVITO MADRE

Il metodo classico per preparare un lievito madre consiste


nel miscelare farina (di buona qualità) e acqua e lasciarle a
maturare. Questo tipo di maturazione può essere abbreviato
con l’aggiunta di yogurt, frutta matura frullata o altri
prodotti in grado di attivare più velocemente il processo di
fermentazione.

INGREDIENTI

◾ 50 g di frutta matura frullata e filtrata


◾ 300 g di farina
◾ 120 g di acqua (meglio acqua minerale gassata, perché
contiene anidride carbonica che facilita l’attivazione
dell’acidità, elemento essenziale per la trasformazione in
pasta acida)

PROCEDIMENTO

Impastate in modo omogeneo e ponete l’impasto in un


recipiente coperto (non ermeticamente) per evitare
incrostazioni. Ponete a lievitare a 26-28 °C per circa 48 ore,
coperto.
Continuate i rinfreschi, impastando di nuovo aggiungendo
altra acqua e farina (la farina deve essere in quantità pari al
peso del lievito, l’acqua deve essere pari al 47%) fino a
quando il lievito non giungerà a giusta maturazione in 4 ore
a una temperatura di 28 °C. Solo a questo punto si potrà
procedere ai rinfreschi preparatori per l’impasto.

CONSERVAZIONE DEL LIEVITO MADRE


Oltre a essere utilizzato per gli impasti di pane e paste dolci
lievitate, il lievito madre può essere conservato per le
successive lavorazioni mantenendolo a bagno in acqua.

Rinfrescate il lievito madre con farina e acqua (con questo


metodo di conservazione la percentuale di acqua dovrà
essere di circa il 38-40%). Il lievito madre deve essere
lavorato in condizioni di massima igiene; l’impasto dovrà
essere asciutto e omogeneo e dovrà essere messo a bagno in
acqua a 20 °C circa, in una quantità tre volte superiore
rispetto al volume del lievito. Infine va messo a riposare in
un ambiente con temperatura di 18 °C per 12-24 ore.
Se si vuole conservare il lievito per un periodo più lungo (5-6
giorni), le dosi di farina e acqua andranno aumentate di 3-4
volte rispetto alla dose utilizzata abitualmente per un
normale rinfresco. Dopo l’impasto ponetelo in acqua (a 20 °C
circa) e, quando sarà risalito in superficie, mettetelo in
frigorifero a 5-7 °C per rallentare l’attività fermentativa.

La conservazione del lievito madre a bagno in acqua può


avvenire anche per surgelamento: è un metodo adatto per la
conservazione su lungo periodo.

Prendete una parte dell’ultimo rinfresco, ponetela in acqua e


lasciatela salire in superficie; attendete per circa un’ora, poi
mettetela in frigorifero (4-5 °C) per qualche ora e infine
trasferitela, sempre a bagno in acqua, nel congelatore.

Il lievito madre in queste condizioni può conservarsi anche


per lunghissimi periodi.

Lo scongelamento dovrà poi avvenire a temperatura


ambiente (20-22 °C) nello stesso recipiente per circa 2
giorni; il composto va poi lasciato lievitare per altre 24 ore
per terminare la sua ripresa. A questo punto si potrà
procedere alle normali operazioni di rinfresco.

Per la conservazione senza surgelamento, ponete nella


planetaria farina e lievito madre in pari quantità e mescolate
a bassa velocità sino a ottenere una polvere; stendetela su
un piano pulito e lasciatela asciugare completamente.
Quando sarà ben asciutta, mettetela in sacchetti di plastica e
riponetela in frigorifero a 5-6 °C; così preparato, il lievito si
può conservare per lunghi periodi. Per riportarlo alla
condizione ottimale, aggiungete acqua e procedete alle
normali operazioni di rinfresco fino a ottenere un lievito
madre a giusta maturazione.

UTILIZZO CORRETTO DEL LIEVITO MADRE

Per il rinnovo del lievito madre conservato per più giorni,


utilizzate solo la parte centrale, pulita da croste e impurità, e
rinfrescatelo per tre volte per fargli acquistare la forza
necessaria.

Si utilizza il lievito madre prelevato dall’acqua e ben


strizzato e lo si impasta con una quantità di farina pari al suo
peso e il 40% di acqua (la temperatura dell’acqua dovrà
essere di 22-24 °C).

È importante verificare sempre la qualità del lievito madre


controllando lo stato di maturazione e il livello di acidità con
il piaccametro (o pH-metro), anche se quest’ultimo non è in
grado di fornire informazioni sufficienti sul rapporto fra le
due acidità. È importante anche la temperatura, che può
oscillare tra 25 e 30 °C: è importante mantenerla a questi
livelli non soltanto per avere un giusto grado di acidità nel
prodotto finito, ma anche per conservare l’esatto equilibrio
tra le due acidità prodotte nel lievito madre (acido acetico e
acido lattico).

Il lievito madre ben trattato avrà:

◾ sapore dolce acido senza retrogusti


◾ pasta di colore bianco avorio
◾ consistenza morbida e non appiccicosa
◾ alveoli prolungati e ben sviluppati
◾ pH ottimale a 4,5, ma che può oscillare fra 4,3 e 4,8
◾ profumo acido-dolce fruttato

Il lievito madre troppo debole avrà:

◾ sapore poco acido, quasi insipido (sa di farina)


◾ colore eccessivamente chiaro, quasi bianco
◾ pasta compatta
◾ alveoli scarsi e poco sviluppati
◾ acidità scarsa con pH superiore a 5

Il lievito madre troppo forte avrà:


◾ sapore acido amaro
◾ colore grigiastro e comunque più marcato del solito
◾ alveoli irregolari di forma rotonda
◾ consistenza appiccicosa
◾ acidità pronunciata con pH inferiore a 4

Il lievito madre eccessivamente acido avrà:

◾ sapore di acido acetico


◾ odore di formaggio (acido butirrico)
◾ colore grigio-ocra
◾ alveolatura quasi assente
◾ pasta appiccicosa e gelatinosa
◾ acidità molto forte con pH molto basso.

ACCORGIMENTI CORRETTIVI PER MIGLIORARE IL


LIEVITO MADRE

Se il lievito è troppo forte

Affettate il lievito madre e ponetelo a bagno in acqua (20-22


°C) aggiungendo 2 g circa di zucchero per ogni litro di
acqua; lasciate a bagno per 15-20 minuti. Strizzate il lievito
madre e passate all’operazione di rinfresco con le seguenti
dosi:

◾ 200 g di lievito madre


◾ 400 g di farina W 350 - P/L 0,55
◾ 200 g di acqua

Procedete ai rinfreschi successivi fino a quando il lievito non


verrà in superficie in un’ora circa a 18-20 °C.

Se il lievito è troppo debole

Rinfrescate il lievito madre con le seguenti dosi:


◾ 250 g di lievito madre
◾ 200 g di farina W 350 - P/L 0,55
◾ 100 g di acqua
◾ 2 g di zucchero

Procedete ai rinfreschi successivi fino a quando il lievito non


verrà in superficie in un’ora circa a 18-20 °C.

Se il lievito è inacidito

Procedete al lavaggio come per il lievito madre troppo forte


e proseguite poi con le seguenti dosi di rinfresco:

◾ 250 g di lievito madre


◾ 500 g di farina W 350 - P/L 0,55
◾ 250 g di acqua
◾ 20 g di tuorlo
◾ 3 g di zucchero

Impastate fino a ottenere una pasta asciutta e omogenea e


ponetela in acqua. Procedete quindi ai successivi normali
rinfreschi (senza più utilizzare tuorlo e zucchero) finché il
lievito madre non verrà in superficie in un’ora a 18-20 °C.

Come portare un lievito madre nella


condizione di utilizzo per la produzione
di un grande lievitato
La preparazione di un grande lievitato richiede molta
attenzione: ogni fase deve essere mantenuta sotto
costante controllo, perché il lievito madre pretende
particolari riguardi. Per questo motivo, il giorno che
precede i classici 3 rinfreschi si consiglia di procedere nel
modo seguente.
PREPARAZIONE DEL LIEVITO MADRE CONSERVATO LEGATO (O IN
ACQUA)

Impastate con pari peso di lievito e farina e con il 47% di


acqua (calcolata sul peso della farina). La temperatura
finale del primo rinfresco deve essere di 27 °C circa. Se il
lievito madre è conservato in acqua, la percentuale di
acqua dovrà essere del 40%.
Terminato il rinfresco, arrotondate l’impasto e praticare
un taglio a croce, quindi ponete in un contenitore dalla
grandezza adeguata alla quantità di lievito. Mantenete a
una temperatura costante di 27-28 °C al cuore.
Dopo 3,30-4,00 ore si procede alla seconda
preparazione.
Impastate la quantità di lievito da utilizzare con pari peso
di farina e il 47% di acqua, calcolato sul peso della farina.
Arrotondate e ponete il lievito madre in un contenitore
cilindrico contenente acqua a una temperatura di 18 °C.
La quantità di acqua deve essere circa il triplo della
quantità del lievito. Mantenete a una temperatura di 16
°C fino al giorno successivo, quando procederete al
1° rinfresco del lievito madre
Prelevate il lievito madre dal contenitore, strizzatelo bene
e procedete al rinfresco con pari peso di lievito e farina e
il 40% di acqua. Se il lievito è stato mantenuto a 16 °C, la
temperatura dell’acqua del rinfresco dovrà essere
superiore ai 30 °C, per poter portare la temperatura del
lievito a 27 °C circa.
Terminato l’impasto, arrotondate e praticate un taglio a
croce. Mantenete una temperatura costante al cuore di
27-28 °C circa. Trascorse 3,30-4,00 ore, procedete al
2° rinfresco del lievito madre
Impastate il lievito con pari peso di farina e con il 47% di
acqua alla temperatura di 20 °C circa. La temperatura al
cuore deve essere sempre mantenuta a 27-28 °C circa. Se
il lievito è molto forte, aggiungete un quantitativo
maggiore di farina. Questa operazione dovrà essere
eventualmente effettuata solo nel secondo rinfresco.
Terminato l’impasto, arrotondate e praticate un taglio a
croce. Mantenete una temperatura costante al cuore di
27-28 °C circa. Trascorse 3,30-4,00 ore, procedete al
3° rinfresco del lievito madre
Impastate il lievito con pari peso di farina e il 47% di
acqua a 20 °C circa. La temperatura al cuore deve essere
sempre mantenuta a 27-28 °C circa.
Terminato l’impasto, arrotondate e praticate un taglio a
croce. Mantenete una temperatura costante al cuore di
27-28 °C circa. Trascorse 3,30-4,00 ore, procedete al
primo impasto richiesto dalla ricetta.
L’IMPASTO
L’impasto è una delle fasi principali nella
preparazione del pane e dei prodotti da forno in
generale. Dalle sue qualità dipendono per l’80% circa
le caratteristiche del prodotto finito, per cui una
corretta esecuzione dell’impasto riveste
un’importanza fondamentale per ottenere un risultato
eccellente.

I metodi per la preparazione di un impasto sono vari. I più


diffusi sono:

◾ il metodo diretto, nel quale tutti gli ingredienti vengono


impastati in un’unica fase;
◾ il metodo indiretto, in cui prima viene preparato un
preimpasto come biga o poolish a base di farina, acqua e
lievito compresso. Il preimpasto subisce una
fermentazione al termine della quale viene inserito
nell’impastatrice e impastato con gli altri ingredienti.

◾ il metodo semidiretto, che prevede l’utilizzo di una pasta


di riporto o di un prefermento.

Esistono inoltre altre tecniche quali l’impasto intensificato,


l’impasto a caldo ecc.

Riveste un’importanza particolare la tecnica dell’autolisi. Il


suo utilizzo dona al prodotto finale numerosi vantaggi, dovuti
principalmente alle caratteristiche dell’impasto, la cui
consistenza risulta assai liscia, elastica e malleabile, capace
di assorbire maggiori quantità d’acqua. Il prodotto finito
acquisisce un volume maggiore e la mollica risulta molto
sviluppata e soffice. Si hanno altresì benefici a livello
organolettico (come gusto e profumo) e di conservabilità.

Prima di spiegare nel dettaglio l’autolisi, però, occorre


descrivere i processi dell’impasto in generale. In qualsiasi
impasto, indipendentemente dal metodo di preparazione,
avvengono processi fisico-meccanici, colloidali, biochimici e
microbiologici.

I PROCESSI FISICO-MECCANICI

La prima fase è la formazione dell’impasto, che consiste nel


miscelare gli ingredienti e, fornendo energia (o in modo
manuale o con l’uso dell’impastatrice), creare una massa
liscia e omogenea, che abbia una certa sofficità e una certa
elasticità. L’impastamento è un processo molto importante,
dal quale dipendono le caratteristiche dell’impasto, il suo
comportamento sia durante la fermentazione sia durante la
cottura e, di conseguenza, la qualità del prodotto finito.

È necessario mescolare bene tutti gli ingredienti, non solo


per incorporarli uniformemente, ma anche perché
impastando si ottiene l’attrito e l’unione a livello molecolare
dei componenti chimici della farina e degli altri ingredienti,
che formano una massa omogenea chiamata “impasto”.

La reazione principale di questa fase è la formazione del


glutine. Le proteine del grano hanno dimensioni differenti:
durante l’impasto le forze di coesione uniscono le molecole
di diverse misure, formando una massa plastica ed elastica,
chiamata glutine. Non tutte le proteine presenti nella farina
hanno la capacità di formare il glutine, ma soltanto quelle
insolubili in base alla classificazione di Osborne, che
suddivide tutte le proteine della farina in quattro gruppi in
base alla loro solubilità:

◾ albumine (solubili in acqua)


◾ globuline (solubili in soluzioni saline)
◾ prolamine (solubili in alcol)
◾ gluteline (solubili in acidi e in basi).

Ognuna di queste frazioni ha proprietà fisiche diverse, come


diverse sono anche le loro dimensioni molecolari, le quali
aumentano passando da albumine a gluteline. Il glutine
viene formato soltanto dalle due frazioni non solubili in
acqua e in soluzioni saline (prolamine e gluteline), le quali si
uniscono fra loro sotto l’azione dell’acqua e dell’energia. Le
molecole proteiche di una farina durante il mescolamento,
dopo essersi unite tra loro, si stirano e si orientano in modo
che i gruppi elettronegativi siano sottoposti all’azione
dell’acqua. Quindi il contenuto proteico di una farina e la
quantità d’acqua necessaria sono strettamente in relazione.

L’acqua aggiunta nell’impasto non dovrà mai essere in


quantità tale da rimanere, anche in parte, libera. La quantità
d’acqua assorbita dipende da diversi fattori, quali la
granulometria, il contenuto proteico, la qualità, l’umidità
della farina, la presenza di altri ingredienti nella pasta, il
grado idrometrico dell’ambiente e il grado di consistenza
che si desidera avere nell’impasto. Gli impasti contenenti
maggiori quantità d’acqua devono essere impastati più a
lungo, affinché l’acqua risulti legata e l’impasto raggiunga la
consistenza ottimale.

Inoltre, durante il mescolamento l’impasto incamera una


parte di aria, diventa meno denso e più soffice. Ossigenare
l’impasto è importante non soltanto per renderlo più
morbido e più estensibile, ma anche per favorire il processo
di fermentazione, in quanto l’ossigenazione dell’impasto
stimola l’attività vitale dei lieviti. L’azione dell’ossigeno
rinforza la maglia glutinica formata durante l’impastamento,
perché ossida i gruppi tiolici delle proteine della farina,
trasformandoli in gruppi disolfurici. I processi fisico-
meccanici che avvengono durante l’impastamento consistono
nel cambiamento dell’aspetto fisico e delle caratteristiche
meccaniche (resistenza ed elasticità) dell’impasto, e
dipendono dall’azione meccanica dell’impastatrice. Lo sforzo
che oppone un’impastatrice all’impasto non è sempre
costante e cambia in base alle caratteristiche dell’impasto.
Misurando questi sforzi partendo dall’inizio
dell’impastamento, si possono evidenziare tre periodi.

PRIMO PERIODO

Dopo la miscelazione degli ingredienti, lo sforzo


dell’impastatrice aumenta. Ciò è dovuto alla formazione del
glutine che diventa sempre più rigido e, quindi, oppone una
resistenza sempre maggiore all’impastatrice fino ad arrivare
al punto massimo.

SECONDO PERIODO

Lo sforzo dell’impastatrice rimane costante. In questo


periodo l’impasto ha le caratteristiche ottimali (è molto liscio
e di massima estensibilità). Ciò è dovuto al fatto che la
maglia glutinica acquista estensibilità sempre maggiore,
mentre la sua resistenza diminuisce, perché comincia la
reazione della proteolisi. In questa fase l’impasto è pronto e
deve essere tolto dall’impastatrice; risulta molto elastico e
non aderisce alle pareti. Continuando l’operazione le sue
caratteristiche peggioreranno.

TERZO PERIODO
Quando gli sforzi dell’impastatrice sono in diminuzione,
l’impasto diventa sempre più molle per l’eccessivo
riscaldamento e per l’eccessivo sforzo meccanico e avviene
la rottura della maglia glutinica.
Per ogni impasto il tempo necessario per raggiungere le
caratteristiche ottimali (secondo periodo) varia e dipende:

◾ dalla forza della farina; il tempo di impasto di una farina


debole è inferiore al tempo di impasto di una farina forte,
in quanto ha una resistenza della maglia glutinica minore);

◾ dal tipo d’impasto (molle, morbido, asciutto); gli impasti


molli devono avere una temperatura finale più alta ed
essere impastati di più, fino a raggiungere il punto
massimo di consistenza. Gli impasti asciutti devono
risultare abbastanza freddi dopo l’impastamento, vanno
tolti prima dall’impastatrice, anche se non sono
completamente formati, perché generalmente vengono
cilindrati. Durante la cilindratura avviene un ulteriore
riscaldamento dell’impasto e si raggiunge la consistenza
ottimale;

Valori di riscaldamento dell’impasto dato


dall’impastatrice
GRADI FORNITI PER
TIPO DI GRADI FORNITI PER
UN IMPASTO
IMPASTATRICE UN IMPASTO DIRETTO
INDIRETTO

Impastatrice a
3 6
forcella

Impastatrice a spirale 9 18

Impastatrice a
6 12
braccia tuffanti

◾ dal tipo di impastatrice; con un’impastatrice a spirale


l’impasto si forma prima rispetto a un’impastatrice a
braccia tuffanti, perché il tipo a spirale fornisce più attrito
all’impasto. L’impastatrice a forcella è quella che dà uno
sforzo minore e tra tutti i tipi risulta la più lenta. Durante
l’impasto avviene il riscaldamento, dovuto al tipo di
impastatrice e ad altri fattori; esso varia da 3 °C a 18 °C.

I PROCESSI COLLOIDALI

Mescolando la farina e l’acqua inizia a formarsi un


complesso colloidale molto idratato. Le proteine della farina
sono capaci di assorbire e di legare una quantità d’acqua 2-3
volte superiore rispetto al loro peso.

Le proteine, che appartengono ai gruppi delle prolamine e


delle gluteline (insolubili in acqua e in soluzioni saline),
assorbendo l’acqua si gonfiano, si allungano e si legano tra
loro con legami covalenti, disolfurici ecc., formando il
glutine. Inoltre nell’impasto si creano i legami dipolari,
all’idrogeno (con l’acqua), ionici, causati dai sali minerali
che in parte sono contenuti nella farina stessa (fosfati,
solfati, cloruri ecc.) e in parte aggiunti, come il cloruro di
sodio (sale da cucina). L’aggiunta del sale in percentuali
moderate (intorno al 2%) migliora la resistenza e l’elasticità
della pasta, la capacità di trattenere il gas e, in definitiva, il
volume del pane, mentre un’elevata quantità di cloruro di
sodio causa la formazione di un numero eccessivo di legami
ionici che rendono l’impasto troppo consistente e rigido.

L’amido, la cui quantità nell’impasto è cospicua, assorbe


l’acqua e forma i legami elettrostatici con il glutine, creando
una maglia omogenea. Anche i lipidi dell’impasto
(soprattutto quelli polari, come mono e digliceridi) hanno la
capacità di legarsi con le proteine, formando i complessi
lipo-proteici, migliorando così l’estensibilità e la capacità di
ritenzione dei gas da parte dell’impasto.
La maglia glutinica così formata assorbe l’acqua, i liquidi e i
gas presenti nell’impasto, non soltanto sulla superficie, ma
anche in profondità, provocando il rigonfiamento della
maglia glutinica stessa. L’impasto si può immaginare come
un sistema complesso che comprende tre fasi: solida,
liquida, gassosa.

La fase solida dell’impasto è rappresentata dalle proteine


insolubili (unite tra loro nella maglia glutinica), dai granuli
dell’amido e dai residui della crusca. I granuli dell’amido non
hanno la stessa capacità d’assorbimento dei liquidi del
glutine (essi assorbono soltanto il 30-35% di acqua rispetto
alla loro massa) e quindi non aumentano molto il loro
volume. Però, considerando che nella farina c’è molto amido,
la quantità d’acqua assorbita sarà più o meno uguale a
quella assorbita dalle proteine. La capacità d’assorbimento
dell’acqua da parte dei granuli d’amido aumenta con il loro
danneggiamento durante la macinazione (a meno che non
siano eccessivamente danneggiati, altrimenti assorbiranno
meno acqua). I residui della crusca sono quelli che
assorbono la maggior quantità d’acqua (fino all’800% del
loro peso).

Oltre all’acqua, alla fase liquida appartengono tutte le altre


sostanze che si trovano in soluzione: le proteine solubili in
acqua e in soluzioni saline (gruppi delle albumine e delle
globuline), i sali minerali e gli zuccheri sciolti nell’acqua, le
destrine. Anche i pentosani (i geli) appartengono alla fase
liquida. La fase liquida può trovarsi intorno alle superfici
delle fasi solide ma anche essere assorbita al loro interno.

La fase gassosa è composta dall’aria incamerata


dall’impasto durante l’impastamento e dall’anidride
carbonica prodotta durante la fermentazione.

I PROCESSI BIOCHIMICI
Sono i processi della trasformazione dei lipidi, dei
carboidrati, delle proteine e degli altri componenti chimici
della farina e dell’impasto dovuti agli enzimi contenuti nella
farina e nel lievito. Le reazioni che avvengono nell’impasto
sono numerose e complesse. Durante l’impastamento si
creano diversi legami (covalenti, dipolari, ionici, idrogeno,
elettrostatici ecc.) tra le proteine formanti il glutine e gli
altri componenti (le proteine solubili, i sali minerali, l’amido,
i lipidi ecc.) che permettono di ottenere una materia
uniforme e omogenea chiamata “impasto”.

Inoltre, con l’aiuto degli enzimi della farina, attivati con


l’acqua, nell’impasto cominciano le reazioni dell’idrolisi delle
proteine e dell’amido. Sotto l’azione delle proteasi, le
proteine della farina cominciano a disgregarsi in peptidi,
aiutando l’impasto a diventare più molle e più malleabile.
Questo processo avviene in ogni impasto, ma può essere più
o meno attivo: dipende da fattori come l’attività enzimatica
della farina, le proprietà del glutine, la temperatura
dell’impasto ecc.

Nell’impasto avviene anche l’idrolisi dell’amido sotto l’azione


delle amilasi, che inizia dall’impastamento, ma si sviluppa
più che altro durante la fermentazione, apportando gli
alimenti (zuccheri) per le cellule di lievito: per questo motivo
ha una notevole importanza. Anche questo processo (la
saccarificazione dell’amido) svolge un’azione “liquefacente”
nell’impasto, oltre ad attivare le reazioni della
trasformazione degli zuccheri e dei lipidi. Il comportamento
di questi ultimi ha un duplice effetto: di per sé aumentano
l’estensibilità della maglia glutinica e rendono l’impasto più
malleabile, ma se vengono trasformati con l’aiuto degli
enzimi (lipasi e lipossiasi) nelle sostanze perossidi (processo
che avviene parzialmente) provocano l’effetto contrario,
perché queste ultime rendono la maglia glutinica più forte e
rigida.
I PROCESSI MICROBIOLOGICI

Ne fanno parte la moltiplicazione delle cellule di lievito e dei


batteri lattici, la fermentazione alcolica e quella lattica.
Durante l’impastamento avviene un’attiva moltiplicazione di
questi microrganismi, i quali cominciano a fermentare
durante la prima fermentazione (detta anche “puntata”)
dell’impasto. Lo scopo della fermentazione è ottenere un
impasto che abbia le proprietà ottimali per la formatura e, di
seguito, la lievitazione e la cottura. Durante la fermentazione
continuano i processi colloidali e biochimici: i granuli
dell’amido e gli altri componenti della fase solida
dell’impasto continuano ad assorbire i gas e i liquidi; inoltre,
la fase gassosa aumenta per la formazione di CO2 prodotta
dai lieviti, e quindi fa aumentare il volume dell’impasto e la
sua sofficità. Durante la fermentazione cambiano le
proprietà del glutine: le molecole delle proteine del glutine
continuano a gonfiarsi, assorbendo l’anidride carbonica
prodotta dai lieviti, si distendono e si legano tra di loro,
rendendo l’impasto più spugnoso. Inoltre avviene la reazione
della proteolisi, che rende l’impasto più plasmabile. Come
già detto, i processi principali che avvengono durante la
fermentazione dell’impasto sono la fermentazione alcolica e
quella lattica.

L’AUTOLISI: PROCEDIMENTO E ASPETTI CHIMICI

L’autolisi è una tecnica particolare che consente di sfruttare


l’autoevoluzione delle caratteristiche del glutine. Questo
sistema si pratica in tre fasi: miscelazione iniziale della
farina con acqua; riposo dell’impasto autolitico ottenuto e
infine impasto finale.

Nella prima fase, nell’impastatrice vengono dosati gli


ingredienti di base, farina e acqua (55%), e vengono
delicatamente miscelati in prima velocità (per esempio per
5-8 minuti con impastatrice a spirale). Il composto così
ottenuto subisce successivamente un riposo (seconda fase)
che può variare da 20 minuti a 24 ore. Se il tempo di riposo
è superiore a 5-6 ore, è consigliabile aggiungere alla miscela
una parte del sale e non superare il 45-50% di acqua.

Mentre per un periodo di riposo abbastanza breve l’impasto


viene lasciato a temperatura ambiente, eventualmente anche
nella vasca stessa dell’impastatrice, per un riposo
prolungato la conservazione dovrà essere effettuata a 18-20
°C.

Infine segue la terza fase (impasto finale), in cui vengono


aggiunti gli ingredienti mancanti nella ricetta come lievito,
malto, l’acqua rimanente, sale o altri ingredienti. Il tutto
viene impastato in seconda velocità per il tempo necessario.
L’impasto autolitico può essere utilizzato totalmente o
parzialmente (con una dose minima del 20%).

La tecnica di autolisi consente di ottenere un prodotto finale


caratterizzato da tre particolarità: un sapore caratteristico,
un ottimo sviluppo e una più lunga conservazione. Si
riducono inoltre i tempi d’impasto e la consistenza diventa
particolarmente liscia e malleabile; si ottiene una formatura
più agevole e il prodotto finito ha un volume superiore, una
migliore alveolatura e una maggiore sofficità della mollica.

Queste peculiarità prodotto sono il risultato dei processi


fisici, chimici e colloidali che avvengono durante il riposo
della pasta. In questa fase il glutine subisce delle modifiche
(lisi) a opera degli enzimi (in particolare amilasi e proteasi)
attivati dall’acqua dell’impasto. Sotto l’azione degli enzimi
amilasi, come è già stato detto, l’amido viene trasformato in
zuccheri, aumentando così il numero degli zuccheri
disponibili nell’impasto, agevolando la fermentazione e
apportando al prodotto finale migliori caratteristiche
organolettiche come gusto e profumo più intensi.
Gli enzimi proteasi sono protagonisti della reazione della
proteolisi, che avviene in qualsiasi impasto e si sviluppa
soprattutto durante il periodo di riposo della pasta. Con tale
reazione la maglia glutinica della pasta viene frantumata in
pezzi più piccoli; le catene proteiche si allungano, la pasta
acquista una maggiore estensibilità e diventa più malleabile.
La reazione della proteolisi può essere più o meno attiva in
base a diversi fattori: la struttura delle proteine, l’attività
enzimatica della farina, la temperatura dell’impasto ecc.

LA STRUTTURA DELLE PROTEINE

Le proteine sono composte da amminoacidi e possono essere


disfatte in frammenti più corti (chiamati peptidi) sotto
l’azione degli enzimi proteasi.

La proteolisi è la reazione al disfacimento delle proteine, che


disintegra la struttura globulare della proteina. Avviene in
ogni impasto, però può essere più o meno attiva, può
coinvolgere più o meno proteine. Quanto più attiva sarà la
reazione della proteolisi, tanto più molle diventerà l’impasto.
La proteolisi, distruggendo le proteine coinvolte nella maglia
glutinica, abbassa le sue capacità d’assorbimento d’acqua e
di trattenimento d’anidride carbonica, quindi il progredire di
questa reazione diminuisce la forza dell’impasto e aumenta
la sua estensibilità. L’attività della reazione della proteolisi
dipende dall’attaccabilità delle proteine dagli enzimi. I
fattori che determinano l’attaccabilità delle proteine sono
quattro.

Presenza di determinati gruppi (tiolici o disolfurici): la


struttura delle proteine è abbastanza complessa. Oltre ai
legami peptidici sono presenti anche altri legami, tra cui, per
esempio, quelli che coinvolgono due atomi di zolfo, i
cosiddetti ponti disolfurici (–S=S–). Quindi, nelle proteine è
possibile evidenziare dei gruppi tiolici (–SH–) e disolfurici
(–S=S–). Una farina le cui proteine possiedono
prevalentemente gruppi disolfurici (–S=S–) ha
un’attaccabilità minore. Tale farina avrà un glutine più forte
e più robusto (rinforzato dai ponti disolfurici). La presenza
dei gruppi tiolici (–SH–), facilmente attaccabili dalle
proteasi, causa invece la formazione di una maglia glutinica
più debole.

Denaturazione: con essa aumenta l’attaccabilità delle


proteine. La denaturazione avviene quando le proteine,
reagendo al calore, perdono la struttura compatta
(globulare) e si trovano in una posizione intermedia tra
struttura globulare e fibrillare. Con questo processo si
disfano i legami disolfurici delle proteine, per cui essi
risultano facilmente attaccabili dalle proteasi. La
denaturazione delle proteine al calore avviene negli impasti
preparati con la tecnica a caldo.

Qualità del frumento da cui è stata ricavata la farina:


riguarda le caratteristiche genetiche del grano, che
determinano il contenuto proteico e la composizione chimica
delle proteine, e le caratteristiche climatiche della sua
maturazione (normalmente nei climi più caldi e più asciutti i
grani raggiungono più alti valori proteici). Una particolare
importanza ha la composizione chimica del glutine stesso. Le
proteine della farina, insolubili in acqua e in soluzioni saline,
hanno la capacità di formare glutine. La forza della farina
dipende soprattutto dal glutine: più alto è il contenuto di
glutine, più forte risulta la farina. La quantità di glutine,
però, non determina tutto: sono importanti anche le sue
caratteristiche. Due farine possono avere la stessa quantità
di glutine e una può risultare più forte dell’altra. Come
abbiamo già detto, il glutine è composto dalle prolamine
(rappresentate soprattutto dalla proteina gliadina) e dalle
gluteline (dove è presente soprattutto la proteina glutenina).
La gliadina a contatto con l’acqua forma una massa collosa e
fluida, invece la glutenina, assorbendo l’acqua, forma una
massa compatta, elastica e resistente. Il glutine umido
possiede le caratteristiche meccaniche di tutte e due le
proteine (gliadina e glutenina). Ovviamente, una farina per
essere più forte deve avere in maggioranza le glutenine. Se
invece una farina possiede un’alta quantità di glutine, ma
questo è composto soprattutto da gliadina, tale farina non
può essere molto forte, perché il suo glutine risulta molle e
poco spugnoso.

Tempo di conservazione della farina: in una farina


riposata (dopo la macinazione la farina deve riposare per
almeno dieci giorni prima dell’utilizzo) l’attaccabilità delle
proteine diminuisce, mentre in una farina scaduta risulta
eccessivamente alta.

GLI ATTIVATORI E GLI INIBITORI DELLA PROTEOLISI

Le proteasi disfano la struttura globulare delle proteine,


senza arrivare agli amminoacidi, perché non hanno la
capacità di distruggere tutti i legami peptidici. Si possono
trovare in forma passiva e in forma attiva, a seconda dei
gruppi contenuti nella loro struttura (tiolici o disolfurici):

Pr − S = S − Pr PROTEASI IN FORMA PASSIVA


Pr − SH − PROTEASI IN FORMA ATTIVA

Gli attivatori della proteolisi sono sostanze che trasformano


le proteasi dalla forma passiva alla forma attiva e
favoriscono con questo la reazione della proteolisi. Essi
indeboliscono la farina: ne fanno parte il glutatione e la
cisteina, sostanze di natura proteica, contenute nel germe di
grano e nel lievito.

Gli inibitori della proteolisi, invece, sono sostanze che


trasformano le proteasi dalla forma attiva in forma passiva e
rinforzano la farina. Come esempi degli inibitori della
proteolisi si possono elencare i perossidi, l’ossigeno, la
vitamina C e anche ossidanti come iodato di potassio (KJO3)
e bromato di potassio (KBrO3).

Nell’impasto autolitico avviene anche una reazione opposta


alla proteolisi, ossia il rinforzamento della maglia glutinica
dovuto all’azione dell’ossigeno, inglobato dalla pasta durante
l’impastamento. Sotto l’azione dell’ossigeno i gruppi della
maglia glutinica (SH–) si trasformano in ponti disolfurici (–
S=S–), il glutine si rinforza, diventa più elastico e potrà
assorbire quantità superiori d’acqua. Tale reazione prende
sviluppo soprattutto durante la prima e l’ultima fase
dell’impasto, ma in modo minore avviene anche durante il
riposo della pasta, quando la maglia glutinica viene
trasformata, grazie soprattutto a due reazioni, la proteolisi e
l’ossidazione, le catene proteiche si allungano, si gonfiano e,
assorbendo aria e acqua, completano la loro idratazione.
L’impasto raggiungerà così l’apice della sua consistenza in
un periodo più breve e con quantità maggiori di acqua.

Per concludere, l’autolisi è una tecnica che dona all’impasto


una particolare estensibilità, ma allo stesso tempo ne
migliora l’elasticità e il grado d’assorbimento d’acqua,
riducendo anche i tempi d’impastamento; l’impasto risulta
particolarmente liscio. Tale tecnica può essere utile per la
panificazione con il lievito madre oppure quando vengono
utilizzate farine resistenti.

LA BIGA

È un preimpasto asciutto ottenuto con farina, acqua e lievito,


che può avere molte ore di fermentazione (da 16 a 48). La
preparazione della biga richiede l’impiego di farine forti:
tenendo conto dell’analisi alveografica, devono avere un W
superiore a 300 e un equilibrato rapporto tra resistenza ed
elasticità (P/L compreso tra 0,5 e 0,6).
Gli ingredienti per ottenere una biga sono:

◾ 10 kg di farina forte (100%)


◾ 4,4 l d’acqua (44%)
◾ 100 g di lievito compresso (1%)

La temperatura finale di una biga, al termine della


miscelazione, deve essere relativamente bassa (20-21 °C) e,
quindi, i tempi di impastamento sono molto brevi: con
un’impastatrice a spirale circa 3-4 minuti, solo in prima
velocità, 4-5 minuti con un’impastatrice a braccia tuffanti e
6-7 minuti con un’impastatrice a forcella. Rispettando questi
tempi si ottiene una consistenza ruvida e grumosa e non una
consistenza liscia e omogenea come per un impasto finito.

Il tempo d’impasto per una biga (in relazione alla quantità


d’energia trasmessa dall’impastatrice) è un fattore molto
importante, perché influenza la fermentazione della biga
stessa. Maggiore energia si fornisce durante l’impasto, più la
biga si sviluppa e raggiunge velocemente la maturazione:
una biga impastata per più tempo e contenente lo 0,5% di
lievito può avere una lievitazione più veloce e uno sviluppo
maggiore rispetto a una biga con l’1% di lievito ma con
tempo di impastamento minore.

La temperatura per la fermentazione della biga varia in


funzione del tempo. Per esempio, per le bighe corte (16-20
ore di fermentazione) la temperatura varia mediamente fra
16 e 20 °C. Questa temperatura è ideale per ottenere una
biga di buona qualità e con un buon livello di maturazione,
determinato dal rapporto ottimale di 3:1 degli acidi lattico e
acetico. Temperature diverse di maturazione della biga
possono portare a uno squilibrio dell’acidità acetico-lattica,
peggiorandone le caratteristiche.

Per le bighe lunghe (48 ore di fermentazione) la temperatura


deve essere bassa (4 °C), ma non nelle ultime 24 ore, che
richiedono una temperatura di 18 °C.

IL POOLISH

Questo metodo, che ci giunge dai Paesi dell’Europa Centrale


(Polonia, Austria), è l’antico metodo della fermentazione
diretta e utilizza la totalità del lievito necessario per
garantire la fermentazione dell’impasto. In passato queste
prefermentazioni permettevano di moltiplicare i
microrganismi del lievito assicurando una miglior regolarità
di fermentazione, soprattutto per i panificatori che
impiegavano il lievito di birra dei birrai.

Introdotto in Francia dai panettieri viennesi al tempo di


Maria Antonietta, il poolish, a differenza della biga, è un
preimpasto semiliquido preparato alcune ore prima
dell’impasto finale ed è ottenuto da una miscela di farina e
acqua in uguali quantità e lievito compresso. La percentuale
di lievito compresso da utilizzare per la preparazione del
poolish varia in base al tempo di fermentazione che si vuole
dare. Nel poolish non si aggiunge sale.

Dose di lievito in funzione del tempo di fermentazione:

◾ 1-2 ore: 2,5-3%


◾ 4-5 ore: 1,5%
◾ 7-8 ore: 0,5%
◾ 10-12 ore: 0,2%
◾ 15-18 ore: 0,1%

Esempio di dosi per poolish con fermentazione di 2 ore:


◾ 1 kg di farina di media forza (100%)
◾ 1 l di acqua (100%)
◾ 25 g di lievito compresso (2,5%)
Per ottenere uno sviluppo ottimale, la durata della
fermentazione dipende dalla dose di lievito ma anche dalla
temperatura dell’ambiente.
La miscelazione degli ingredienti del poolish viene effettuata
a mano oppure in planetaria, poiché è possibile togliere la
vasca dal supporto.
Per una buona preparazione di un poolish è necessario
sciogliere molto bene il lievito nell’acqua, aggiungere la
farina e miscelare bene. Quando è pronto, il poolish
“ribolle”, appaiono delle strisce e il composto diventa
leggermente concavo al centro. È il giusto momento per
utilizzarlo e non bisogna attendere oltre, perché ha acquisito
la massima forza. Un poolish eccessivamente fermentato
risulterà appiccicoso e di conseguenza inutilizzabile.
La temperatura finale di un poolish deve essere di 23-25 °C.
Il poolish contribuisce a donare un buon gusto al prodotto
finito, aumenta la durata di conservazione e assicura una
maggior estensibilità della pasta durante la lavorazione. È
molto più sensibile di una normale pasta fermentata alle
variazioni di temperatura e di pressione. Per esempio, in
caso di temporale lo sviluppo si accelera e diventa difficile
da controllare.
L’utilizzo di un poolish permette, in caso di fermentazione
accelerata, di ridurre i tempi di appretto (la fase in cui il
pane, già formato, lievita prima della cottura) o le dosi di
lievito.
LA PASTA LIEVITATA SFOGLIATA
Oggi nelle pasticcerie e nei panifici una posizione di
rilievo viene ricoperta dalle paste lievitate sfogliate,
chiamate alla francese viennoiserie. Il termine deriva
dal fatto che questi prodotti della tradizione austriaca
furono conosciuti grazie alla loro diffusione in Francia
durante la prima metà del XIX secolo. Sono molto
versatili e possono essere sia dolci sia salati, come il
croissant, che può essere consumato a colazione con
una buona marmellata ma anche con formaggio o
prosciutto.

La gamma delle vienneserie è costituita da tre famiglie di


prodotti: i croissant, le paste lievitate e le paste lievitate
sfogliate. Si contraddistinguono per gli ingredienti che
contribuiscono all’idratazione, ovvero le uova e il latte.

L’idratazione fatta con le uova darà una pasta più ricca di


quella ottenuta con latte o acqua, oltre ad avere un’influenza
importante sulla struttura della pasta e sul gusto del
prodotto. Il fatto di utilizzare le uova richiede più lavoro. Per
gli impasti con uova solo una parte di materia grassa viene
incorporata nell’impasto: il resto viene inserito con la
sfogliatura.

Si parla di paste lievitate sfogliate perché esse condividono


le caratteristiche delle paste lievitate (per l’azione del lievito
che fa lievitare la pasta) e delle paste sfogliate (perché
formate da una pluralità di strati ottenuti alternando la
stratificazione del burro con la pasta).

Il croissant è il prodotto più rappresentativo della gamma


dei lievitati sfogliati ed è caratterizzato dalla combinazione
di due elementi: il burro e la sfogliatura.

A livello qualitativo, è il burro che permette di ottenere


prodotti migliori con migliore conservabilità; altri ingredienti
sono invece facoltativi, ma il loro utilizzo può migliorare il
risultato finale. Il burro è la più completa delle materie
grasse di origine animale; inoltre, la considerevole quantità
di acidi grassi a catena corta che contiene lo rende
particolarmente plastico e in grado di conferire morbidezza.

Il burro riduce leggermente lo sviluppo in forno, ma


favorisce il colore brillante del prodotto, la sua freschezza, la
sua crosta friabile e una mollica fine, oltre a conferire un
aroma tipico.

Il burro piatto per sfogliatura è quello normalmente


utilizzato nella produzione delle vienneserie e può essere
inserito nell’impasto finito in diversi modi, secondo il metodo
di lavorazione utilizzato. Esistono infatti molti metodi di
produzione delle vienneserie lievitate sfogliate.

Il primo è il metodo diretto, molto usato, semplice e


pratico, ma per ottenere prodotti di qualità è necessario
dare importanza al tempo di fermentazione, altrimenti si
avranno prodotti finali mediocri, poco profumati, poco
saporiti e di breve conservazione.

Un altro metodo di lavoro è quello a lunga lievitazione (a 4


°C per circa 12 ore), che comporta una fermentazione lenta,
ma permette lo sviluppo di acidi che migliorano la
conservazione del prodotto. Il lungo riposo della pasta, che
le permette di arrivare a un buon livello di fermentazione
prima della sfogliatura, consente una facile lavorazione;
inoltre, il gas sviluppato grazie alla fermentazione ottimizza
la crescita, l’alveolatura e la sfogliatura del prodotto. Con
questo metodo si raggiungono risultati buoni, simili a quelli
ottenuti con il poolish: prodotti ben sfogliati con buona
alveolatura, leggeri, gustosi.

Il metodo indiretto prevede invece una prefermentazione,


ossia l’aggiunta nell’impasto di un agente di fermentazione –
come poolish, pasta fermentata, lievito madre – che
permette di diminuire il tempo di riposo dell’impasto, quindi
del lavoro. L’apporto di pasta fermentata prevede l’aggiunta
di zucchero, che fornisce nutrimento ai lieviti e favorisce la
fermentazione, intervenendo inoltre nella formazione
dell’aroma. Lo zucchero inoltre affina il gusto e favorisce la
colorazione bruno chiaro del prodotto cotto. Quello con
aggiunta di pasta fermentata è un metodo di lavoro rapido,
che dà buoni risultati: favorisce l’alveolatura e migliora la
conservazione. Non richiede preparazioni particolari ma solo
di conservare un pezzo di pasta fermentata e lasciarla
riposare per 4 ore. Se non si conta il tempo di crescita della
pasta fermentata, è il metodo di lavoro più rapido per
ottenere ottimi risultati.

Un croissant ottenuto con il poolish è ben sviluppato, molto


gustoso, con bellissima alveolatura e sfogliatura e
un’eccellente capacità di conservazione, grazie a una
prefermentazione di circa due ore, a seconda della dose di
lievito usata. Il lievito madre comporta invece una
lavorazione molto lunga e delicata, ma permette di ottenere
una buona alveolatura e un’eccellente conservazione, un
gusto più pronunciato, leggermente acido. Il croissant con
lievito madre tende a svilupparsi poco, a causa delle piccole
dimensioni del prodotto, fenomeno ugualmente constatato
per il pane, ma è possibile ottenere risultati di grande
qualità. Il metodo a lievitazione controllata comporta invece
l’aggiunta del 25% di pasta fermentata unita a zucchero e
consiste nel fermare o rallentare la fermentazione durante il
periodo di riposo. È necessario usare una farina con buona
forza, perché la lievitazione è estesa oltre la sua durata
abituale e il glutine è impoverito.

Preparare la pasta sfogliata


1 Il burro viene disposto su due terzi della pasta.
2 Si ripiega verso il centro un terzo della pasta (quello
non coperto dal burro).
3 Si ripiega verso il centro anche l’altro terzo di pasta,
coperto dal burro.
4 Con il matterello o con la sfogliatrice si stende
l’impasto.
5 Una volta steso bene l’impasto, da un lato si ripiega un
piccolo lembo verso il centro, dall’altro si ripiega un
ampio lembo fino a toccare quello più piccolo.
6 Si chiude l’impasto a libro (piega a 4).
7-8Si stende di nuovo l’impasto con il matterello o con la
sfogliatrice, poi si piega di nuovo, prima un terzo verso
il centro e poi l’altro terzo sopra, a chiudere (piega a
3).
9 Si stende di nuovo con il matterello o con la
sfogliatrice.
Qualunque sia il metodo di lavorazione prescelto, la
temperatura dell’impasto deve essere sempre compresa tra
23 e 24 °C. I tempi di riposo e lievitazione, così come il
numero di sfogliature, variano ovviamente a seconda del
metodo utilizzato.

Il metodo indiretto, grazie all’aggiunta di prefermenti,


permette di ottenere uno sviluppo di acido acetico dalle tre
alle quattro volte più importante rispetto al lavoro con
metodo diretto. La prefermentazione permette di ottenere
paste che hanno più tenacia, più corpo, e che danno prodotti
più sviluppati, alveolati e sfogliati, cosa che si rivela molto
utile quando si panifica con farine a basso valore di forza.

La pasta lievitata sfogliata è utilizzata come punto di


partenza per ottenere numerose varianti, molto apprezzate
per gusto e presentazione. Essa offre un impasto morbido
che prende corpo grazie all’aggiunta di diverse uova per
ogni kg di farina. I prodotti ottenuti sono molto morbidi, ben
sfogliati, gustosi e con mollica dorata. La sua produzione ha
diverse analogie con quella della pasta del croissant: le
quantità di materie prime sono simili, ma la pasta sfogliata
lievitata si differenzia dalla pasta del croissant perché più
ricca, grazie alla presenza delle uova. La lavorazione è
inoltre abbastanza rapida. Le forme differenti che si possono
dare a questo tipo di prodotto permettono di variare
notevolmente la produzione, anche grazie all’aggiunta di
crema pasticciera e frutta, mandorle e granella di zucchero.

IL SEGRETO DI UNA BUONA BRIOCHE

Le paste lievitate sono estremamente variabili per metodi di


preparazione, presentazione e provenienza regionale.
Ingredienti come il latte, il burro, le materie grasse, le uova
e lo zucchero permettono di diversificare il prodotto,
influenzando la qualità della pasta, la forza di sviluppo e la
cottura. Sappiamo inoltre che le paste lievitate utilizzate per
la produzione di brioche possono variare a seconda
dell’aggiunta di marmellata di frutta, cioccolato, granella di
zucchero...

La brioche fine al burro, ossia quella classica, permette di


realizzare tutte le forme conosciute in panificazione e in
pasticceria. La brioche classica può essere ottenuta anche
con aggiunta di pasta fermentata o di lievito madre. Il suo
profumo e il suo sapore sono in gran parte influenzati dalla
qualità delle materie prime aggiunte all’impasto. Le uova e il
burro sono gli ingredienti più importanti per preparare e
migliorare la qualità di un prodotto di vienneseria: hanno la
capacità di conferire al prodotto finale aroma e sapore,
consentono di ammorbidire il glutine, hanno effetto
emulsionante e favoriscono il colore luminoso del prodotto,
la crosta tenera, una mollica più morbida e fine. Aiutano a
legare i vari ingredienti fra loro, formando impasti
omogenei, di elasticità più elevata, e conferiscono al
prodotto uno sviluppo maggiore. Bisogna ancora ricordare
che burro e uova rallentano leggermente l’azione del lievito,
e impongono dunque di aumentarne la dose nell’impasto.

La crema pasticciera
La regina delle farciture si può preparare in vari modi.

CREMA PASTICCIERA
[Ricetta base]
1 l di latte intero fresco
300 g di zucchero
220 g di tuorli (12)
80 g di amido di riso
1 bacca di vaniglia

Scaldate il latte con la bacca di vaniglia. A parte sbattete


bene i tuorli con lo zucchero, aggiungete e miscelate bene
l’amido di riso, stemperate con il latte tiepido e passate
sul fuoco. Portate a ebollizione sempre stemperando e
fate bollire per 2-3 minuti. Togliete dal fuoco, versate
negli appositi stampi per alimenti e fate raffreddare,
muovendo ogni tanto. Chiudete e passate in frigorifero.

CREMA FRANGIPANE
1 l di latte
250 g di zucchero
250 g di tuorli
90 g di farina
150 g di pasta di mandorle
Procedete come per la crema pasticciera, sciogliendo la
pasta di mandorle nel latte caldo prima di aggiungerlo
agli altri ingredienti.

CREMA PASTICCIERA DA FORNO 1


1 l di acqua
200 g di zucchero
150-200 g di farina
150 g di uova
1 bacca di vaniglia

Procedete come per la crema pasticciera.

CREMA PASTICCIERA DA FORNO 2


600 g di latte fresco intero
325 g di zucchero
200 g di tuorli
50 g di amido
1 bacca di vaniglia
100 g di panna

Procedete come per la crema pasticciera. Cuocete a 86


°C.

Ghiacce per la copertura dei


prodotti lievitati
Per avere una ghiaccia perfetta è necessario rispettare
alcune regole e trovare il giusto equilibrio di consistenza:
la ghiaccia non deve essere troppo asciutta, altrimenti si
staccherà dal prodotto dopo la cottura, e non deve essere
troppo molle, altrimenti dopo 10-12 giorni il prodotto
presenterà una sgradita umidità sulla superficie.

GHIACCIA P.G.
1.200 g di albume
1.000 g di zucchero
400 g di mandorle bianche
400 g di mandorle grezze
100 g di armelline
150 g di fecola
50 g di olio di semi di arachide

Montate l’albume senza zucchero, quindi unite uno alla


volta gli altri ingredienti. Si consiglia l’utilizzo il giorno
successivo alla preparazione.

GHIACCIA B&B
150 g di mandorle bianche
50 g di mandorle armelline
600 g di zucchero
60 g di amido di riso
albume

Mescolate insieme gli ingredienti in una planetaria con


foglia o frusta. Per una ghiaccia morbida e friabile
diminuite la dose di zucchero; aumentatela se volete una
ghiaccia croccante.
GHIACCIA ALLE MANDORLE
PER VENEZIANE, COLOMBE E ALTRI DOLCI
60 g di armelline
150 g di mandorle dolci
500 g di zucchero
50 g di amido di riso o fecola di patate
albume

Mescolate insieme gli ingredienti in una planetaria con


foglia o frusta. Per una ghiaccia morbida e friabile
diminuite la dose di zucchero, al contrario aumentatela se
volete una ghiaccia croccante.

GHIACCIA PER PANETTONE


TIPO PIEMONTE
1.000 g di zucchero
500 g di nocciole Piemonte
200 g di farina debole
albume

Mescolate gli ingredienti in una planetaria con foglia o


frusta. Per una ghiaccia morbida e friabile diminuite la
dose di zucchero, al contrario aumentatela se volete una
ghiaccia croccante.

GHIACCIA PER PANETTONE


350 g di mandorle dolci grezze
125 g di armelline
250 g di nocciole tostate
2.000 g di zucchero
120 g di farina di mais
150 g di fecola di patate
750 g di albume
50 g di olio di semi

Macinate o raffinate finemente gli ingredienti tutti


insieme, aggiungendo alla fine l’albume; miscelate bene
in planetaria a media velocità o in un mixer fino a
ottenere la consistenza desiderata. Si consiglia l’utilizzo il
giorno successivo alla preparazione.

GHIACCIA PER COLOMBA


500 g di nocciole tostate
200 g di mandorle dolci
250 g di mandorle grezze
150 g di armelline
500 g di farina
100 g di olio di semi vari
100 g di farina di mais
100 g di fecola
3.500 g di zucchero
1.800 g di albume

Mescolate insieme gli ingredienti in una planetaria con


foglia o frusta. Per una ghiaccia morbida e friabile
diminuite la dose di zucchero, al contrario aumentatela se
volete una ghiaccia croccante.

GHIACCIA ALL’AMARETTO
PER COLOMBA
300 g di mandorle amare o armelline
300 g di nocciole tostate
550 g di mandorle bianche e dolci
100 g di pinoli
2.250 g di zucchero
albume
100 g di acqua tiepida o di olio di semi vari

Macinate o raffinate finemente gli ingredienti tutti


insieme, aggiungendo alla fine l’albume. Impastate bene
nella planetaria aggiungendo altro albume, se necessario,
per ottenere una ghiaccia morbida. Prima dell’utilizzo
aggiungete a piacere l’acqua oppure l’olio.

GHIACCIA ALL’AMARETTO
400 g di mandorle pelate macinate a farina
240 g di zucchero
400 g di albume

Mescolate bene i tre ingredienti senza montare l’albume.

GHIACCIA CON PASTA DI MANDORLE


200 g di pasta di mandorle
75 g di fecola
75 g di olio di semi
230 g di albume
1 bacca di vaniglia

Mescolate insieme pasta di mandorle, fecola e olio di


semi. Unite l’albume senza montarlo.

GHIACCIA ALLA NOCCIOLA


130 g di albume
400 g di zucchero
270 g di nocciole tostate macinate a farina

Montate leggermente l’albume, poi unite gli altri


ingredienti.
PANETTONE

Re indiscusso della tavola natalizia dei milanesi, il panettone


è divenuto ormai il dolce italiano più conosciuto, e richiesto,
al mondo. La sua bella e tipica forma a cupola si conosce fin
dal XV secolo anche se lo storico Ludovico Antonio Muratori,
vissuto fra il 1672 e il 1750, riconduce la nascita del dolce a
tempi ancor più antichi, collegandola a un’usanza attestata
in Lombardia già nei primi anni dopo il Mille.
La sua forma alta nacque nel Novecento, quando iniziarono
le esportazioni, grazie all’inventiva di Angelo Motta che, per
primo, fasciò lo stampo con carta sottile imponendo
all’impasto una crescita verticale.
Oggi il panettone è soggetto al disciplinare di produzione del
“Panettone tipico della tradizione artigiana milanese”,
approvato dapprima dal Comitato Tecnico dei Maestri
Pasticceri Milanesi e successivamente, con decreto del 22
luglio 2005, dal Ministero delle Attività Produttive e da
quello delle Politiche Agricole e Forestali.
Molte sono anche le leggende dedicate a questo dolce.
Secondo la più conosciuta, il suo nome deriverebbe da “pane
di Toni”, dal nome di un garzone di cucina della corte di
Ludovico il Moro.
Si narra infatti che, in occasione di un banchetto organizzato
dal duca in occasione del Natale, il cuoco di corte bruciò il
dessert. La spiacevole situazione fu salvata dal dolce che
Toni aveva preparato con burro, canditi e avanzi di pasta. Il
dolce piacque al duca, il quale chiese quale fosse il suo
nome: visto che Toni non ci aveva ancora pensato, Ludovico
il Moro decise di chiamarlo “pan del Toni”.
Un’altra versione dice che il Toni della leggenda, vissuto
sempre alla corte di Ludovico il Moro, sarebbe stato un
fornaio padre di Adalgisa, amata dal cavalier Ughetto degli
Antellari che, per conquistarla, si finse apprendista fornaio
e, una volta entrato nel laboratorio di Toni, preparò un dolce
da offrire alla sua amata. L’impresa fu un successo e Ughetto
sposò la sua bella con il beneplacito del duca e della moglie
Beatrice. Ma il Toni fornaio volle per sé la ricetta e chiamò il
dolce “pan del Toni”.
Infine, un’altra leggenda fiorita intorno all’origine del
panettone, dai tratti decisamente fiabeschi, attribuisce
l’invenzione a una monaca di nome Ughetta che, per
celebrare il Natale con le sue consorelle, aggiunse
all’impasto del pane un po’ di zucchero, burro, canditi e
uvetta (che in dialetto milanese si chiama üghetta) e prima
della cottura tracciò una croce sulla superficie del dolce in
segno di benedizione.

PER IL 1° IMPASTO
4.000 g di farina W 350 - P/L 0,55
1.150 g di lievito naturale a maturazione pronta
2.000 g di acqua
1.250 g di zucchero
1.200 g di burro ammorbidito
900 g di tuorli
8 g di sale

PER IL 2° IMPASTO
il 1° impasto +
1.000 g di farina W 280/300 - P/L 0,50/0,55
1.100 g di zucchero
1.600 g di tuorli
62 g di sale
2.300 g di burro ammorbidito
30 g di malto
2.300 g di uvetta sultanina
1.000 g di arancia candita a cubetti
500 g di cedro candito a cubetti

PER GLI AROMI


250 g di miele d’acacia
4 bacche di vaniglia
la scorza grattugiata di 2 limoni non trattati
la scorza grattugiata di 2 arance non trattate

◾ Per il 1° impasto, mettete nell’impastatrice la farina con il


lievito e l’acqua; dopo circa 15 minuti, a impasto formato,
aggiungete lo zucchero, il sale e successivamente il burro
e i tuorli, alternandoli. Impastate fino a ottenere una pasta
liscia ma non troppo lavorata; questa operazione non
dovrebbe durare più di 25 minuti. Mettete a lievitare in
cella per 10-12 ore a 24-25 °C o, comunque, fino a quando
il volume non risulterà triplicato.

◾ Per il 2° impasto, aggiungere al 1° impasto la farina e


impastate per circa 15 minuti. Incorporate il malto e, poco
alla volta, lo zucchero; quando sarà stato assorbito, unite
metà dei tuorli, il sale e gli aromi, che avrete miscelato tra
loro il giorno precedente. Mescolate bene il tutto fino a
ottenere una pasta liscia e omogenea. Aggiungete i
restanti tuorli e 2.150 g di burro, amalgamando con cura.
Impastate bene e accertatevi che la consistenza
dell’impasto sia quella voluta. Unite i restanti 150 di di
burro, fuso, quindi la frutta candita e l’uvetta; continuate
a impastare finché la distribuzione della frutta non risulta
uniforme.
◾ Togliete dall’impastatrice, ponete in un contenitore e
lasciate riposare per circa 30 minuti. Trascorso questo
tempo, dall’impasto spezzate pezzi del peso desiderato,
formate le pagnotte, ponetele su tavole e mettete in cella
a 28 °C per una puntatura di circa 35-40 minuti.
Arrotondatele nuovamente ben strette e inseritele nelle
apposite fasce.
La lievitazione in cella a 28-30 °C può durare da 6 a 7 ore,
◾ in base alla forza dell’impasto. Lasciate lievitare fino al
bordo dello stampo e poi praticate un taglio (in questo
caso aggiungete una noce di burro al centro) o ghiacciate.
TEMPI DI COTTURA
500 g: 35 minuti a 170-180 °C
1.000 g: 50-55 minuti a 170-180 °C
1.500 g: 70-75 minuti a 170-180 °C

◾ Per mantenere la forma, dopo la cottura girate il


panettone immediatamente con le apposite pinze e
lasciatelo in quella posizione per circa 10 ore prima di
confezionarlo.
PANETTONE CON LIEVITO
COMPRESSO

PER IL 1° IMPASTO
300 g di farina W 380
30 g di lievito compresso
10 g di zucchero
180 g di acqua

PER IL 2° IMPASTO
1° impasto +
550 g di farina W 380
100 g di tuorli
250 g di acqua
30 g di zucchero

PER IL 3° IMPASTO
2° impasto +
1.000 g di farina W 380
20 g di lievito compresso
50 g di zucchero
100 g di tuorli
500 g di acqua

PER L’IMPASTO FINALE


3° impasto +
5.000 g di farina W 380
1.700 g di zucchero
500 g di tuorli
2.700 g di uova
1.500 g di burro ammorbidito
70 g di sale
2.500 g di uvetta sultanina
1.000 g di arancia candita a cubetti
500 g di cedro candito a cubetti

PER GLI AROMI


250 g di miele
la scorza grattugiata di 2 arance non trattate
la scorza grattugiata di 2 limoni non trattati
3 bacche di vaniglia

◾ Iniziate il 1° impasto lavorando tutti gli ingredienti, quindi


lasciate triplicare il volume iniziale a 26 °C.

◾ Per il 2° impasto, al 1° impasto unite gli ingredienti


incorporandoli, ponete a lievitare a 26 °C e fate triplicare
il volume iniziale.

◾ Per il 3° impasto, unite al 2° impasto gli ingredienti


incorporandoli: l’impasto dovrà risultare liscio ed
estensibile. Lasciate lievitare finché il volume non
risulterà triplicato.
◾ Per l’impasto finale, all’impasto precedente unite la farina,
il sale, metà dello zucchero, i tuorli, una parte di uova e gli
aromi, preferibilmente preparati il giorno precedente
macerando nel miele la scorza degli agrumi e la vaniglia.

◾ L’impasto deve essere asciutto ed estensibile. Unite poco


alla volta lo zucchero e le uova rimanenti,
successivamente incorporate il burro. A fine impasto
aggiungete anche l’uvetta e la frutta candita. Lasciate
riposare l’impasto in un contenitore per circa 30 minuti a
30 °C.
◾ Trascorso questo tempo prelevate dall’impasto dei pezzi
del peso desiderato e formate delle pagnotte che
andranno lasciate riposare su tavole per circa 45 minuti.
◾ Arrotondate nuovamente e ponete nelle apposite fasce.
Fate lievitare a 28 °C fino a quando l’impasto non avrà
raggiunto il bordo della fascia. Praticate un taglio a croce
o ghiacciate e infornate.
TEMPI DI COTTURA
500 g: 35 minuti a 170-180 °C
1.000 g: 50-55 minuti a 170-180 °C
1.500 g: 70-75 minuti a 170-180 °C

◾ Per mantenere la forma, dopo la cottura girate il


panettone immediatamente con le apposite pinze e
lasciatelo in quella posizione per circa 10 ore prima di
confezionarlo.
PANETTONE CON UVETTA E NOCI

PER IL 1° IMPASTO
4.000 g di farina W 350 - P/L 0,55
1.150 g di lievito naturale a maturazione pronta
2.000 g di acqua
1.250 g di zucchero
1.200 g di burro ammorbidito
900 g di tuorli
8 g di sale

PER IL 2° IMPASTO
1.000 g di farina W 280-300 - P/L 0,50-0,55
1.100 g di zucchero
1.600 g di tuorli
62 g di sale
2.150 g di burro ammorbidito
30 g di malto
2.300 g di uva sultanina
1.500 g di noci

PER GLI AROMI


250 g di miele d’acacia
4 bacche di vaniglia
la scorza grattugiata di 2 limoni non trattati
la scorza grattugiata di 2 arance non trattate

◾ Per il 1° impasto mettete nell’impastatrice la farina, il


lievito e l’acqua; dopo circa 15 minuti, a impasto formato,
aggiungete lo zucchero, il sale e, alternandoli, il burro e i
tuorli.
◾ Impastate fino a ottenere un impasto liscio ma non troppo
lavorato; l’operazione non dovrebbe durare più di 25
minuti. Mettete a lievitare in cella per 10-12 ore a 24-25
°C, e comunque finché il volume non risulterà triplicato.

◾ Per il 2° impasto, aggiungete al 1° impasto la farina e


impastate per circa 15 minuti. Incorporate il malto e, poco
alla volta, lo zucchero; quando sarà stato tutto assorbito,
unite la metà dei tuorli, il sale e gli aromi, preparati in
precedenza facendo macerare nel miele le scorze degli
agrumi e la vaniglia. Fate incorporare gli ingredienti fino a
ottenere una pasta liscia e omogenea. Aggiungete i
restanti tuorli e 2.000 g di burro e amalgamate. Impastate
bene il tutto e accertatevi che la consistenza dell’impasto
sia quella desiderata. Mettete nella pasta i restanti 150 g
di burro fuso, unite prima le noci e successivamente
l’uvetta finché non saranno incorporati all’impasto in
modo uniforme.
◾ Togliete dall’impastatrice, trasferite in un contenitore e
fate riposare per circa 30 minuti. Trascorso questo tempo,
prelevate dall’impasto dei pezzi del peso desiderato,
formate le singole pagnotte, ponetele su tavole e mettete
in cella a 28 °C per una puntatura di circa 35-40 minuti.
Arrotondatele nuovamente ben strette e ponetele nelle
apposite fasce.

◾ La lievitazione in cella a 28-30 °C può durare da 6 a 7 ore,


in base alla forza dell’impasto. Fate lievitare finché
l’impasto non raggiungerà il bordo dello stampo, e poi
praticate un taglio a croce o ghiacciate: se tagliate,
aggiungete una noce di burro al centro.
TEMPI DI COTTURA
500 g: 35 minuti a 170-180 °C
1.000 g: 50-55 minuti a 170-180 °C
1.500 g: 70-75 minuti a 170-180 °C
Per mantenere la forma, dopo la cottura girate
◾ immediatamente il panettone con le apposite pinze e
lasciatelo in quella posizione per circa 10 ore prima di
confezionarlo.
PANDORO

Indiscusso antagonista del panettone nel periodo natalizio, il


pandoro reca con sé alcune storie interessanti riguardanti le
sue origini.
Si dice che derivi da un dolce della Serenissima di forma
conica, riservato ai nobili, ricoperto da sottili foglie di oro
zecchino e chiamato Pan de oro.
Secondo altri sarebbe nato ai tempi dell’impero asburgico in
Austria, dove si produceva il “pane di Vienna”,
probabilmente derivato a sua volta dalla brioche e dal
croissant francesi e giunto a Verona grazie alla
collaborazione dei pasticcieri austriaci, molto introdotti nelle
pasticcerie della città.
Secondo un’altra tradizione, il pandoro sarebbe stato
“inventato” nel periodo di Natale del 1260 in onore dei nobili
Della Scala, Signori di Verona: questa versione primitiva
sarebbe stata piuttosto bassa, a forma di stella a otto punte e
ricoperta da una glassa.
Ma la nascita commerciale e ufficiale del pandoro ha una
data ben precisa: martedì 14 ottobre 1884, quando un
pasticciere veronese, tale Domenico Melegatti, presentò il
brevetto di un dolce natalizio al Ministero dell’Agricoltura e
Commercio del Regno d’Italia e ottenne l’Attestato di
Privativa Industriale. Ora che il pandoro era nato bisognava
trovargli una forma. A questo pensò Angelo Dall’Oca Bianca,
pittore di origine veronese, che disegnò lo stampo a
piramide tronca con otto punte che contraddistingue il
dolce. Fu subito un successo che molti tentarono di imitare,
tanto che la storia ricorda la “sfida delle mille lire”. A quei
tempi una cifra del genere rappresentava una piccola
fortuna: fu messa in palio personalmente da Domenico
Melegatti, per essere data a chiunque si fosse presentato
con un pandoro preparato con la stessa “vera” ricetta.
Nessuno vinse mai quelle mille lire!
PANDORO A DUE IMPASTI

PER IL 1° IMPASTO
2.000 g di farina W 360 - P/L 0,55
500 g di lievito naturale
1.650 g di uova
600 g di zucchero
700 g di burro ammorbidito
4 g di sale

PER IL 2° IMPASTO
il 1° impasto +
350 g di farina W 360 - P/L 0,55
25 g di malto
22 g di sale
350 g di tuorli
140 g di panna fresca

PER L’EMULSIONE
750 g di burro
350 g di zucchero
170 g di burro di cacao grattugiato
50 g di miele
1 bacca di vaniglia

◾ Per il 1° impasto, iniziate mescolando la farina con il


lievito e quasi tutte le uova. Quando la pasta risulta liscia
aggiungete le uova rimanenti. Dopo qualche minuto
incorporate lo zucchero, il sale e successivamente il burro.
Ponete a lievitare a 25-26 °C per circa 12 ore o fino a
quando il volume non risulta triplicato.
◾ Per il 2° impasto, lavorate metà del 1° impasto con la
farina e il malto. Quando l’impasto sarà diventato liscio
aggiungete l’altra metà, il sale e successivamente i tuorli,
poco alla volta. Quando la pasta sarà nuovamente liscia e
omogenea incorporate l’emulsione, preparata in
precedenza montando a crema il burro con lo zucchero e
amalgamando bene gli altri ingredienti. Terminate
l’impasto regolando la sua consistenza con la panna.

◾ Trasferite in un contenitore e date una puntatura di circa


30 minuti a 28 °C. Trascorso questo tempo, spezzate dei
pezzi del peso desiderato, formate a pagnottella e ponete
su tavole imburrate. Passate nuovamente in cella a 28 °C
per circa 60 minuti. Avvolgete nuovamente e ponete negli
appositi stampi. Lasciate lievitare a 28-30 °C per circa 6
ore o comunque fino a quando l’impasto non raggiunge il
bordo dello stampo.
TEMPI DI COTTURA
500 g: 30 minuti a 170 °C
750 g: 40 minuti a 170 °C
1.000 g: 50 minuti a 170 °C

◾ Sfornate e lasciate raffreddare il pandoro per circa 60


minuti prima di toglierlo dallo stampo e porlo ad asciugare
su tavole.
NADALIN

È il padre del pandoro, secondo la tradizione nato a Verona


alla fine del XIII secolo alla corte della Signoria Scaligera
che, con questa creazione, celebrò in pompa magna il primo
Natale dopo l’investitura a Signori di Verona. Questo dolce
viene spesso collegato a Giulietta perché in quel periodo
sarebbe ambientata anche la vicenda dei due amanti
veronesi.
Il suo aspetto di stella soffice e compatta lo collega a
numerose leggende che lo accostano sia alla cometa dei
Magi sia al sole, celebrato in vari riti pagani durante il
periodo invernale. La sua superficie viene cosparsa di
mandorle e pinoli tostati.
Il nadalin ha ingredienti simili al pandoro ma è meno
burroso e fragrante, e più compatto e dolce. Molti veronesi
lo preferiscono al pandoro perché più legato alla tradizione
della città, dal momento che il pandoro è ormai divenuto un
dolce nazionale mentre il nadalin esprime meglio le origini e
le tradizioni di Verona. La consuetudine è di consumarlo la
notte di Natale dopo la messa di mezzanotte,
accompagnandolo con una tazza di cioccolata calda o con un
buon bicchiere di Recioto della Valpolicella.
Nel 2012 il nadalin ha ottenuto la certificazione De.C.O.

PER IL 1° IMPASTO
4.000 g di farina W 380 - P/L 0,55
1.000 g di lievito madre a giusta maturazione
2.000 g di acqua
1.200 g di zucchero
500 g di tuorli
1.200 g di burro ammorbidito
8 g di sale

PER IL 2° IMPASTO
il 1° impasto +
1.000 g di farina W 320 - P/L 0,55
1.000 g di zucchero
82 g di sale
1.100 g di uova
1.700 g di burro ammorbidito
200 g di burro di cacao

PER LA GHIACCIA ALLE MANDORLE


150 g di mandorle bianche in polvere
60 g di mandorle armelline in polvere
500 g di zucchero
50 g di amido di riso o fecola
albume

PER COMPLETARE
mandorle a bastoncino
pinoli
granella di zucchero
zucchero a velo

◾ Per il 1° impasto mescolate la farina con il lievito madre e


l’acqua, nella quale avrete sciolto lo zucchero. Dopo circa
10 minuti, quando la pasta inizia a incordare, incorporate
il sale, aggiungete i tuorli e successivamente il burro.
Impastate fino a ottenere un impasto liscio ma non troppo
lavorato. La durata della lavorazione non dovrebbe
superare i 20-25 minuti.

◾ Ponete a lievitare in cella a 24-26 °C per 10-12 ore e


comunque fino a quando il volume non risulterà triplicato.

◾ Per il 2° impasto, mettete nell’impastatrice il 1° impasto e


la farina. Impastate per circa 10 minuti, quindi aggiungete
lentamente circa 700 g di zucchero e successivamente il
sale. Quando l’impasto sarà ben incordato unite le uova e
successivamente il burro emulsionato con lo zucchero
restante. Alla fine incorporate anche il burro di cacao. La
lavorazione deve durare circa 40-45 minuti.

◾ Lasciate riposare per 60 minuti a 26-27 °C. Trascorso


questo tempo, staccate dall’impasto dei pezzi del peso
desiderato e poneteli nelle apposite fasce. Lasciate
lievitare per circa 5-6 ore a 30-32 °C, e comunque fino al
bordo dello stampo. Ghiacciate con uno strato sottile di
ghiaccia alle mandorle, preparata il giorno precedente
mescolando tutti gli ingredienti con albume fino a ottenere
una ghiaccia morbida. Spalmatela sulla superficie e
cospargete con mandorle a bastoncino, pinoli, granella di
zucchero; infine spolverizzate con zucchero a velo.
Infornate a 170 °C per 60 minuti circa per pezzature da
1.000 grammi.
COLOMBA

Il dolce tipico di Pasqua contiene ingredienti molto simili a


quelli di panettone e pandoro ma ha una forma
completamente diversa. Di colomba, appunto.
Insieme alle uova di cioccolato, questo dolce chiude in
bellezza il pranzo pasquale con i suoi valori simbolici di
pace, rinascita e amore. Fino dai tempi degli Egizi, dei Greci
e dei Romani, in occasione di alcune cerimonie si
preparavano pani a forma di colomba. I cristiani in seguito
fecero propria questa tradizione attribuendo alla colomba il
simbolo della pace, riferendosi a ciò che narrava la Bibbia
sul diluvio universale e sulla colomba inviata da Noè e
ritornata sull’arca con un ramoscello d’ulivo nel becco. A
quel tempo l’ulivo significava fecondità, solo in seguito gli
venne attribuito il significato di pace. Al pane dolce a forma
di colomba sono legate molte leggende.
La più conosciuta risale all’epoca medievale e alla calata di
re Alboino in Italia con le sue orde barbariche per assalire
Pavia. Dopo tre anni di assedio, alla vigilia della Pasqua del
572, riuscì a entrare nella città che, in segno di
sottomissione, gli fece alcuni regali fra i quali dodici
bellissime fanciulle. Pare che fra queste fanciulle ci fosse
anche la figlia di un vecchio artigiano, che si presentò al re
donandogli un dolce a forma di colomba. Questo dolce era
così invitante che spinse re Alboino a promettere di
rispettare sempre chiunque portasse questo nome. Quando il
sovrano interpellò le fanciulle chiedendo loro quale fosse il
loro nome, tutte risposero: «Colomba». Il re comprese allora
il tranello nel quale era caduto, ma rispettò la promessa
fatta.
Poi c’è la leggenda legata alla regina Teodolinda e a San
Colombano. Si narra che l’abate irlandese Colombano giunse
a Pavia nel 612; venne accolto dai sovrani insieme ai suoi
monaci e invitato a un pranzo troppo ricco che decise di
rifiutare. Il gesto offese la regina, ma Colombano affrontò
con diplomazia la situazione dicendo che avrebbe consumato
le carni solo dopo averle benedette. Alzò così la mano destra,
fece il segno della croce e le pietanze si trasformarono in
candide colombe di pane, bianche come le tuniche dei
monaci. Il prodigio colpì talmente la regina che decise di
donare ai monaci il territorio di Bobbio, dove nacque
l’abbazia di San Colombano. La colomba bianca è il simbolo
del santo ed è sempre raffigurata sulla sua spalla.
Un’altra leggenda risale al 1176, quando Federico
Barbarossa fu sconfitto nella battaglia di Legnano dalla Lega
dei Comuni Lombardi capitanata da Alberto da Giussano. Il
condottiero, durante la battaglia, osservò che tre colombe si
erano posate sopra le insegne lombarde e decise quindi di
celebrare il presagio facendo preparare dai suoi cuochi un
pane a forma di colomba.
Ai giorni nostri la colomba arriva arricchita da ingredienti
come burro, zucchero e canditi, grazie alla lungimiranza di
Dino Villani, direttore pubblicitario della Motta, ditta
milanese già nota per i panettoni, che negli anni Trenta
pensò di sfruttare gli stessi macchinari e la stessa pasta per
creare un dolce simile al panettone ma destinato alle
festività pasquali.
Il boom e la definitiva consacrazione di questo dolce come
simbolo della Pasqua sono dovuti al pubblicitario Cassandre
(pseudonimo di Adolphe Jean-Marie Mouron) che, nel 1930,
elaborò per Motta un manifesto sulla colomba con il celebre
slogan “Colomba Motta, il dolce che sa di primavera”.
COLOMBA CON LIEVITO MADRE

PER IL 1° IMPASTO
4.000 g di farina W 350 - P/L 0,55
1.150 g di lievito naturale
2.000 g di acqua
1.200 g di zucchero
1.200 g di burro ammorbidito
900 g di tuorli
8 g di sale

PER IL 2° IMPASTO
il 1° impasto +
1.000 g di farina W 300 - P/L 0,55
1.000 g di zucchero
1.500 g di tuorli
42 g di sale
2.150 g di burro ammorbidito
25 g di malto
3.200 g di arancia candita a cubetti

PER GLI AROMI


300 g di miele d’acacia
3 bacche di vaniglia
la scorza grattugiata di 5 arance non trattate

PER LA GHIACCIA
150 g di mandorle bianche in polvere
50 g di mandorle armelline
600 g di zucchero
60 g di amido di riso
albume
PER COMPLETARE
mandorle
granella di zucchero
zucchero a velo

◾ Per il 1° impasto mettete nell’impastatrice la farina con il


lievito e l’acqua. Dopo circa 10 minuti, e a impasto
formato, aggiungete lo zucchero, il sale e successivamente
il burro e i tuorli, alternandoli.

◾ Impastate fino a ottenere un impasto liscio ma non troppo


lavorato. Questa operazione non dovrebbe durare più di
25 minuti. Ponete a lievitare in cella per 10-12 ore a 24-25
°C o comunque fino a quando il volume non risulta
triplicato.

◾ Per il 2° impasto, mettete nell’impastatrice il 1° impasto,


la farina, il malto e lavorate per circa 15 minuti.
◾ Aggiungete lentamente lo zucchero e, dopo che sarà stato
assorbito, unite la metà dei tuorli, il sale e gli aromi,
miscelati il giorno prima e tenuti da parte. Fate
incorporare il tutto fino a ottenere una pasta liscia e
omogenea.

◾ Aggiungete i restanti tuorli e 2.000 g di burro. Impastate


bene il tutto e accertatevi che la consistenza dell’impasto
sia quella desiderata.
◾ Versate sopra l’impasto i rimanenti 150 g di burro, fuso, e
incorporate l’arancia candita a cubetti. Tutta l’operazione
non dovrebbe durare più di 45-50 minuti con una
impastatrice a braccia tuffanti.
◾ Togliete dall’impastatrice, ponete in un contenitore e
lasciate riposare per 30 minuti in cella a 30 °C. Trascorso
questo tempo, staccate dall’impasto dei pezzi del peso
desiderato e formate delle pagnottelle. Adagiatele su
tavole e fate riposare per circa 40 minuti. Dividete le
pagnottelle in due parti, allungatele a filone e ponetele
nelle apposite fasce. Lasciate lievitare per circa 6 ore a
30-32 °C. Spalmate sulla superficie uno strato sottile di
ghiaccia, preparata il giorno precedente macinando
finemente a secco e in una planetaria, a media velocità,
tutti gli ingredienti con albume. Cospargete la ghiaccia
con mandorle e granella di zucchero e spolverizzate con
zucchero a velo.
◾ Infornate a 180 °C per circa 50 minuti se le pezzature
sono da 1.000 grammi.

VARIANTI

COLOMBA CON ANANAS


Sostituite i cubetti d’arancia con cubetti di ananas candito.

COLOMBA AL CIOCCOLATO
Togliete 500 g di cubetti d’arancia e aggiungete 500 g di
gocce di cioccolato.

COLOMBA ALLE MANDORLE


Utilizzate 700 g di pasta di mandorle a cubetti (messi
precedentemente a ghiacciare) al posto dei cubetti
d’arancia.
COLOMBA CON LIEVITO
COMPRESSO

PER IL PREIMPASTO
500 g di farina W 320/330 - P/L 0,55
400 g di acqua
150 g di lievito compresso
130 g di zucchero

PER IL 1° IMPASTO
preimpasto +
750 g di farina W 320/330 - P/L 0,55
350 g di acqua
250 g di zucchero
250 g di burro

PER IL 2° IMPASTO
1° impasto +
1.000 g di farina W 380 P/L 0,55
400 g di acqua
400 g di zucchero
250 g di burro
140 g di tuorli

PER L’IMPASTO FINALE


2° impasto +
2.000 g di farina W 380 P/L 0,55
500 g di zucchero
130 g di tuorli
150 g di miele
80 g di sale
300 g di pasta d’arancia
2 bacche di vaniglia
400 g di acqua
500 g di burro ammorbidito
1.600 g di arancia candita a cubetti

PER LA CREMA DI BURRO


1.200 g di burro
600 g di zucchero a velo

◾ Per il preimpasto: impastate tutti gli ingredienti fino a


ottenere una pasta liscia e omogenea e fate lievitare per
circa 30 minuti a una temperatura di 23-24 °C.

◾ Per il primo impasto: impastate tutti gli ingredienti fino a


ottenere un impasto liscio e omogeneo. Lasciate lievitare a
27 °C per 50 minuti circa o fino al raddoppio del volume
iniziale.

◾ Per il secondo impasto: impastate tutti gli ingredienti fino


a ottenere un impasto liscio ed estensibile; fate lievitare a
25 °C per 60-70 minuti circa.
◾ Per l’impasto finale: all’impasto precedente aggiungete la
farina e lasciate incordare molto bene, poi unite lo
zucchero, i tuorli e successivamente il miele, il sale, la
pasta d’arancia, la vaniglia. Dopo aver incorporato bene
questi ingredienti aggiungete l’acqua, e quando sarà stata
assorbita aggiungete il burro e nel momento in cui la
pasta sarà lucida ed estensibile, incorporate la crema di
burro ottenuta montando a crema i due ingredienti. A
impasto ultimato unite i cubetti d’arancia candita.
◾ Lasciate riposare l’impasto in un contenitore per circa 30
minuti a 30 °C.

◾ Trascorso questo tempo, ricavatene dei pezzi del peso


desiderato e formare delle pagnottelle che saranno fatte
riposare per 30-40 minuti.
Dividete le pagnottelle in due parti (550 g + 400 g circa),
◾ allungatele a filone e ponetele nelle apposite fasce (corpo
e ali). Lasciate lievitare per 4 ore circa a 27-28 °C o fino al
raggiungimento del bordo dello stampo. Ghiacciate e
infornate a 180 °C. Per i tempi di cottura, calcolate 50
minuti per 1.000 g di impasto, 35 minuti per 500 grammi.
FOCACCIA DOLCE AL
CIOCCOLATO

700 g di farina W 300 - P/L 0,55


250 g di latte
150 g di uova
40 g di lievito
15 g di sale
1 bacca di vaniglia
la scorza grattugiata di 1 arancia non trattata
100 g di zucchero
100 g di burro ammorbidito
300 g di gocce di cioccolato
zucchero di canna per spolverizzare

TEMPI DI IMPASTO
Impastatrice a spirale:
4 minuti in 1a velocità - 6 minuti in 2a velocità
Impastatrice a braccia tuffanti:
5 minuti in 1a velocità - 7 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE DELL’IMPASTO


25 °C

VARIANTI

FOCACCIA DOLCE ALL’AMARETTO


Sostituite le gocce di cioccolato
con 180 g di amaretti sbriciolati.

FOCACCIA DOLCE ALL’UVETTA


Sostituite le gocce di cioccolato
con 300 g di uvetta sultanina ammollata
in 30 g di rum e ben strizzata.

FOCACCIA DOLCE ALLA PANNA


Procedete come per la ricetta principale per tutto il primo
punto, aumentando la dose di burro a 150 g e calcolando 4
minuti in 1a velocità e 7 minuti in 2a velocità per
l’impastatrice a spirale, 5 minuti in 1a velocità e 8 minuti in
2a velocità per l’impastatrice a braccia tuffanti. Dopo la
puntatura di 15 minuti, stendete la pasta su teglie imburrate
di 60×40 cm e passate in cella a lievitare a 27 °C. Nel
frattempo preparate la massa alla cannella mescolando 250
g di zucchero con 5 g di cannella. Tenete da parte. A metà
lievitazione distribuite sulla superficie 150 g di panna e,
successivamente, la massa alla cannella; con le dita
praticate dei buchi profondi nell’impasto. Mettete
nuovamente in cella per terminare la lievitazione (il volume
iniziale dell’impasto dovrà essere raddoppiato). Spennellate
la superficie con panna e infornate a 170-180 °C per 18
minuti circa.

◾ Iniziate l’impasto mescolando la farina con il latte, le uova


e il lievito. A metà della lavorazione aggiungete il sale, la
bacca di vaniglia, la scorza d’arancia e successivamente lo
zucchero. Quando questo sarà stato assorbito, unite il
burro. Alla fine incorporate le gocce di cioccolato
impastando lentamente ancora per qualche minuto.
L’impasto finale dovrà risultare liscio e omogeneo.
◾ Dopo una puntatura di 15 minuti, stendete la pasta su
teglie di 60×40 cm precedentemente imburrate. A metà
lievitazione spennellate con del burro fuso, spolverizzate
con zucchero di canna e terminate la lievitazione (il
volume iniziale dell’impasto deve risultare raddoppiato).
Infornate a 170-180 °C per 18 minuti circa.
FOCACCIA DOLCE RIPIENA ALLE
BANANE

650 g di farina W 280 - P/L 0,55


150 g di latte, 150 g di acqua
30 g di lievito compresso
100 g di uova
15 g di sale
120 g di zucchero
100 g di burro ammorbidito
700 g di banane mature

PER LA MASSA ALLA CANNELLA


150 g di zucchero
3 g di cannella in polvere

TEMPI DI IMPASTO
Impastatrice a spirale:
4 minuti in 1a velocità – 5 minuti in 2a velocità
Impastatrice a braccia tuffanti:
5 minuti in 1a velocità – 6 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE DELL’IMPASTO


25 °C

◾ Iniziate l’impasto mescolando la farina con il latte, l’acqua


e il lievito. A metà della lavorazione aggiungete le uova, il
sale, lo zucchero e successivamente il burro. L’impasto
finale dovrà risultare liscio e omogeneo. A questo punto,
dividetelo in due parti del peso di 650 g ciascuna. Fate
riposare per circa 20 minuti a temperatura ambiente,
quindi stendete una delle due metà dell’impasto in una
teglia di 60×40 cm imburrata.
◾ Tagliate le banane nel senso della lunghezza e
distribuitele uniformemente sulla superficie; spolverizzate
con la massa ottenuta mescolando lo zucchero con la
cannella, quindi ricoprite con la restante metà di pasta.
Dorate con una miscela composta da un uovo, 20 g di latte
e un pizzico di sale o di zucchero e ponete in cella a 28 °C
per circa 60 minuti. Trascorso questo tempo, praticate dei
tagli sulla superficie dell’impasto, dorate una seconda
volta e infornate con leggero vapore a 210 °C per 18
minuti circa.
FOCACCINE ALLA NOCCIOLA

1.000 g di farina W 300 - P/L 0,55


50 g di lievito compresso
10 g di malto
450 g di latte
150 g di uova
80 g di zucchero
80 g di miele
20 g di sale
150 g di burro ammorbidito
150 g di uvetta sultanina
180 g di arancia candita a cubetti
100 g di granella di mandorle

PER LA MASSA
130 g di albume
400 g di zucchero
270 g di nocciole polverizzate

◾ Iniziate l’impasto miscelando la farina con il lievito, il


malto, il latte, le uova e lo zucchero; successivamente
incorporate il miele e quindi il sale. A metà della
lavorazione aggiungete a poco a poco il burro e continuate
fino a ottenere una pasta liscia ed elastica. Alla fine unite
delicatamente la granella di mandorle, l’arancia candita e,
per ultima, l’uvetta sultanina.
◾ Lasciate riposare per 30 minuti, poi dividete in singoli
pezzi del peso desiderato, arrotondateli e dopo 30 minuti
circa appiattiteli. Infine, trasferiteli in stampi del diametro
di 10 cm (o altri a piacere) e lucidate con uovo.
◾ A metà lievitazione lucidate una seconda volta, stendete la
massa precedentemente preparata montando leggermente
l’albume con gli altri ingredienti e terminate la
lievitazione (il volume dovrà risultare raddoppiato).

◾ Infornate a temperatura moderata e tiraggio aperto per 20


minuti circa.
FOCACCIA CON YOGURT AL
MIELE

PER IL 1° IMPASTO
2.250 g di farina W 340 - P/L 0,55
600 g di latte
700 g di lievito naturale
400 g di uova
400 g di tuorli
300 g di zucchero
350 g di burro ammorbidito

PER IL 2° IMPASTO
1° impasto +
750 g di farina W 280 - P/L 0,55
10 g di malto
750 g di zucchero
2 bacche di vaniglia
450 g di yogurt al miele
600 g di burro ammorbidito
55 g di sale
albume per lucidare

◾ Iniziate il 1° impasto miscelando la farina con il latte, il


lievito naturale, le uova e tuorli. Quando l’impasto sarà
ben incordato, aggiungete lo zucchero e successivamente
il burro. Passate in cella a 24 °C per circa 10-12 ore.

◾ Trascorso questo tempo, preparate il 2° impasto lavorando


il 1° impasto con la farina e il malto. Quando sarà liscio e
asciutto, incorporate poco alla volta lo zucchero, il sale e
le bacche di vaniglia. Quando lo zucchero sarà stato
assorbito, unite lo yogurt e successivamente il burro.
Togliete dall’impastatrice, trasferite in un contenitore e
lasciate puntare per 30 minuti circa.
◾ Trascorso questo tempo, spezzate dei pezzi del peso
desiderato, avvolgete e ponete in cella a 30 °C per 30-40
minuti. Togliete dalla cella e avvolgete una seconda volta
ben stretto. Ponete nuovamente in cella a lievitare per
circa 4-5 ore a 30-32 °C.

◾ Prima di infornare, lucidate con albume sbattuto e


incidete leggermente la superficie a croce.
TEMPI DI COTTURA
500 g: 35 minuti a 180 °C
750 g: 45 minuti a 180 °C
1.000 g: 50-55 minuti a 180 °C
FOCACCIA DOLCE ALLO
ZAFFERANO E NOCI

700 g di farina W 300 - P/L 0,55


2 bustine di zafferano
300 g di latte
150 g di uova
40 g di lievito compresso
15 g di sale
100 g di zucchero
30 g di miele
130 g di burro ammorbidito
200 g di granella di noci

TEMPI DI IMPASTO
Impastatrice a spirale:
4 minuti in 1a velocità – 8 minuti in 2a velocità
Impastatrice a braccia tuffanti:
5 minuti in 1a velocità – 9 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE DELL’IMPASTO


25 °C

◾ Iniziate l’impasto mescolando la farina con lo zafferano


sciolto nel latte, le uova e il lievito. A metà della
lavorazione incorporate il sale, lo zucchero e il miele.
Quando tutto sarà stato assorbito aggiungete il burro. A
questo punto unite le noci impastando ancora per qualche
minuto in 1a velocità.

◾ Dare una puntatura di circa 15 minuti, quindi dividete


l’impasto in pezzi da 1.400 grammi. Dopo circa 30 minuti
stendete i pezzi di pasta su teglie di 60×40 cm
precedentemente imburrate.

◾ A metà della lievitazione spennellate con del burro sciolto,


spolverizzate con zucchero (semolato o di canna, a
piacere) e terminate la lievitazione (il volume iniziale deve
risultare raddoppiato).
◾ Infornate a 170-180 °C per 18 minuti circa.
VARIANTE

Potete sostituire la granella di noci con gocce di cioccolato.


PANDOLCE AL CIOCCOLATO
A LIEVITAZIONE MISTA

1.500 g di farina W 350 - P/L 0,55


450 g di lievito naturale a giusta maturazione
100 g di lievito compresso
375 g di uova
23 g di sale
550 g di zucchero
75 g di miele d’acacia
125 g di arancia candita macinata
150 g di tuorli
550 g di burro ammorbidito
250 g di acqua
1 bacca di vaniglia
500 g di gocce di cioccolato

◾ Iniziate l’impasto miscelando la farina con i due lieviti,


l’acqua e una parte delle uova. Dopo qualche minuto
aggiungete il sale e, quando l’impasto risulterà ben
estensibile, incorporate lentamente lo zucchero, la
vaniglia, il miele e successivamente l’arancia candita, le
rimanenti uova e i tuorli. Quando tutto sarà stato ben
assorbito aggiungete il burro. A impasto ultimato unite le
gocce di cioccolato, mantenute al freddo, incorporandole
ancora lentamente per qualche minuto.
◾ Ponete a una temperatura di 14-16 °C per circa 12 ore.
Trascorso questo tempo, dall’impasto ricavate dei singoli
pezzi e pesateli in base alla dimensione degli stampi,
quindi lasciate lievitare per 4-5 ore a 25-26 °C. Dorate con
un uovo mescolato con 20 g di latte e un pizzico di sale o
zucchero e finite a piacere. Infornate a 180 °C: il tempo di
cottura è determinato dalla pezzatura del prodotto.
PANDOLCE ALL’ANANAS
A LIEVITAZIONE MISTA

1.500 g di farina W 350 - P/L 0,55


450 g di lievito naturale a giusta maturazione
100 g di lievito compresso
250 g di acqua
350 g di uova
25 g di sale
550 g di zucchero
75 g di miele d’acacia
250 g di ananas candito macinato
150 g di tuorli
550 g di burro ammorbidito
1 bacca e 1/2 di vaniglia
500 g di ananas candito a cubetti

◾ Iniziate l’impasto mescolando la farina con i due lieviti,


l’acqua e una parte delle uova. Dopo qualche minuto
aggiungete il sale e, quando l’impasto sarà diventato ben
estensibile, incorporate lentamente lo zucchero, il miele,
la vaniglia, l’ananas candito macinato e successivamente
le rimanenti uova e i tuorli. Quando tutto sarà stato ben
assorbito, aggiungete il burro. Alla fine unite l’ananas a
cubetti impastando ancora per qualche minuto. Ponete a
14-16 °C per circa 12 ore. Trascorso questo tempo,
prelevate dall’impasto dei pezzi e pesateli in base alla
dimensione degli stampi scelti, oppure date loro una
forma a piacere. Lasciate lievitare per 4-5 ore a 25-26 °C.

◾ Dorate con un uovo mescolato con 20 g di latte e un


pizzico di sale o zucchero, quindi infornate a 180 °C: il
tempo di cottura è determinato dalla pezzatura del
prodotto.
PANDOLCE ALLA FRUTTA SECCA
A LIEVITAZIONE MISTA

1.500 g di farina W 350 - P/L 0,55


450 g di lievito naturale a giusta maturazione
100 g di lievito compresso
250 g di acqua
350 g di uova
25 g di sale
550 g di zucchero
75 g di miele d’acacia
150 g di tuorli
550 g di burro ammorbidito
1 bacca di vaniglia
100 g di noci
100 g di nocciole
100 g di mandorle non spellate
100 g di pistacchi

◾ Iniziate l’impasto miscelando la farina con i due lieviti,


l’acqua e una parte delle uova. Dopo qualche minuto
aggiungete il sale e, quando l’impasto risulterà ben
estensibile, incorporate lentamente lo zucchero, il miele,
la vaniglia e successivamente le rimanenti uova e i tuorli.
Quando tutto sarà stato ben assorbito aggiungete il burro.
Per finire unite la frutta secca macinata a granella,
impastando ancora per qualche minuto. Ponete a 14-16 °C
per circa 12 ore.
◾ Trascorso questo tempo, prelevate dall’impasto dei pezzi e
pesateli in base alla dimensione degli stampi scelti o date
loro la forma che preferite. Lasciate lievitare per 4-5 ore a
una temperatura di 25-26 °C. Dorate o ghiacciate a
piacere.
◾ Infornate a 180 °C: il tempo di cottura è determinato dalla
pezzatura del prodotto.
PANDOLCE ALLE MELE CANDITE
A LIEVITAZIONE MISTA

1.500 g di farina W 350 - P/L 0,55


450 g di lievito naturale a giusta maturazione
100 g di lievito compresso
250 g di acqua
350 g di uova
25 g di sale
550 g di zucchero
75 g di miele d’acacia
250 g di mele candite macinate
150 g di tuorli
550 g di burro ammorbidito
1 bacca e 1/2 di vaniglia
500 g di mele candite a cubetti

◾ Iniziate l’impasto mescolando la farina con i due tipi di


lievito, l’acqua e una parte delle uova. Dopo qualche
minuto aggiungete il sale e, quando l’impasto risulterà
ben estensibile, incorporate poco alla volta lo zucchero, la
vaniglia, il miele, le mele macinate e successivamente le
rimanenti uova e i tuorli. Quando tutto sarà stato ben
assorbito aggiungete il burro. A impasto ultimato unite le
mele candite a cubetti impastando ancora per qualche
minuto. Ponete a 14-16 °C per circa 12 ore.

◾ Trascorso questo tempo, dall’impasto staccate i singoli


pezzi e pesateli in base alla dimensione degli stampi scelti
oppure date loro la forma che preferite.
◾ Lasciate lievitare per 4-5 ore a 25-26 °C. Dorate con un
uovo mescolato con 20 g di latte e un pizzico di sale o
zucchero e infornate a 180 °C: il tempo di cottura è
determinato dalla pezzatura del prodotto.
PANDOLCE CON NOCI E UVETTA
A LIEVITAZIONE MISTA

1.500 g di farina W 350 - P/L 0,55


450 g di lievito naturale a giusta maturazione
100 g di lievito compresso
250 g di acqua
350 g di uova
25 g di sale
550 g di zucchero
75 g di miele d’acacia
150 g di tuorli
550 g di burro ammorbidito
1 bacca e 1/2 di vaniglia
200 g di granella di noci
200 g di uva passa

◾ Iniziate l’impasto mescolando la farina con i due tipi di


lievito, l’acqua e una parte delle uova. Dopo qualche
minuto aggiungete il sale e, quando l’impasto sarà
diventato ben estensibile, incorporate lentamente lo
zucchero, la vaniglia, il miele e successivamente le
rimanenti uova e i tuorli. Quando tutto sarà stato ben
assorbito unite il burro morbido. A impasto ultimato
incorporate prima le noci poi l’uva passa, lavorando
ancora per qualche minuto.

◾ Ponete al freddo a 14-16 °C per circa 12 ore. Trascorso


questo tempo, dall’impasto staccate dei pezzi e pesateli in
base alla dimensione degli stampi scelti oppure date la
forma che preferite.
Lasciate lievitare per 4-5 ore a 25-26 °C. Dorate o
◾ ghiacciate a piacere.

◾ Infornate a 180 °C: il tempo di cottura è determinato dalla


pezzatura del prodotto.
PANDOLCE PERE E CIOCCOLATO
A LIEVITAZIONE MISTA

1.500 g di farina W 350 - P/L 0,55


450 g di lievito naturale a giusta maturazione
100 g di lievito compresso
250 g di acqua
350 g di uova
25 g di sale
550 g di zucchero
75 g di miele d’acacia
150 g di pere candite macinate
150 g di tuorli
550 g di burro ammorbidito
350 g di pere candite a cubetti
1 bacca e 1/2 di vaniglia
350 g di gocce di cioccolato

◾ Iniziate l’impasto mescolando la farina con i due tipi di


lievito, l’acqua e una parte delle uova. Dopo qualche
minuto aggiungete il sale e, quando l’impasto sarà
diventato ben estensibile, incorporate lentamente lo
zucchero, la vaniglia, il miele e successivamente le pere
candite macinate, le rimanenti uova e i tuorli. Quando
tutto sarà stato ben assorbito aggiungete il burro. A
impasto ultimato unite le pere candite a cubetti e,
successivamente, le gocce di cioccolato, mantenute al
freddo, impastando ancora per qualche minuto.

◾ Ponete a 14-16 °C per circa 12 ore. Trascorso questo


tempo, prelevate dall’impasto dei singoli pezzi e pesateli
in base alla dimensione degli stampi scelti, oppure date
loro la forma che preferite.

◾ Lasciate lievitare per 4-5 ore a 25-26 °C. Dorate con


dell’uovo e infornate a 180 °C: il tempo di cottura è
determinato dalla pezzatura del prodotto.
PANFRUTTO ALL’AMARENA
A LIEVITAZIONE MISTA

1.500 g di farina W 350 - P/L 0,55


450 g di lievito naturale a giusta maturazione
100 g di lievito compresso
520 g di acqua
350 g di uova
25 g di sale
550 g di zucchero
75 g di miele d’acacia
1 bacca e 1/2 di vaniglia
150 g di tuorli
550 g di burro ammorbidito
1.000 g di amarene sciroppate scolate dal loro sciroppo

◾ Iniziate l’impasto con la farina, i due tipi di lievito, l’acqua


e una parte delle uova. Dopo qualche minuto aggiungete il
sale e, quando l’impasto sarà diventato liscio ed
estensibile, incorporate poco alla volta lo zucchero e poi il
miele, la vaniglia, le rimanenti uova e i tuorli. Quando
tutto sarà stato ben assorbito aggiungete il burro. A
impasto ultimato unite le amarene impastando ancora per
qualche minuto. Ponete a 14-16 °C per circa 12 ore.
◾ Trascorso questo tempo, prelevate dall’impasto dei singoli
pezzi e pesateli in base alla dimensione degli stampi scelti
o date loro la forma che preferite.
◾ Lasciate lievitare per 4-5 ore a 25-26 °C. Dorate con un
uovo unito a 20 g di latte e un pizzico di sale o zucchero,
poi decorate a piacere. Infornate a 180 °C: il tempo di
cottura è determinato dalla pezzatura del prodotto.

VARIANTI

PANFRUTTO ALLE ALBICOCCHE CANDITE


A LIEVITAZIONE MISTA
Al posto delle amarene usate 100 g di albicocche candite
macinate e 1.000 g di albicocche candite a cubetti.
Procedete come indicato nella ricetta principale, diminuendo
la dose di acqua a 250 g e aggiungendo le albicocche
macinate insieme alle bacche di vaniglia. A impasto ultimato
unite le albicocche a cubetti. Prima di infornare, coprite con
una glassa preparata il giorno prima mescolando 240 g di
zucchero, 400 g di farina di mandorle bianche e 400 g di
albume fresco, senza montare.

PANFRUTTO ALLE ALBICOCCHE DISIDRATATE


Miscelate la farina con i due lieviti e parte delle uova (che in
totale dovranno essere 750 g). Dopo qualche minuto
aggiungete il sale; quando l’impasto sarà ben estensibile,
incorporate poco alla volta lo zucchero e, successivamente,
gli aromi (che avrete preparato macerando in 75 g di miele
d’acacia la scorza grattugiata di due arance e una bacca di
vaniglia), le restanti uova e i tuorli. Quando tutto sarà stato
ben assorbito aggiungete il burro. A impasto ultimato unite
1.000 g di albicocche disidratate a cubetti, impastando
ancora per qualche minuto. Proseguite come indicato dalla
ricetta principale.

PANFRUTTO CON UVETTA

A LIEVITAZIONE MISTA
Mescolate la farina con i due lieviti, 250 g di acqua e una
parte delle uova (che in totale dovranno essere 350 g). Dopo
qualche minuto aggiungete il sale e, quando l’impasto sarà
diventato ben estensibile, incorporate poco alla volta lo
zucchero e gli aromi (che avrete preparato miscelando in 75
g di miele d’acacia la scorza grattugiata di 1 limone e
un’arancia e una bacca di vaniglia). Incorporate poi le
rimanenti uova e i tuorli. Quando tutto sarà stato ben
assorbito aggiungete il burro. A impasto ultimato unite 1.000
g di uvetta (ammollata in 50 g di rum), impastando ancora
per qualche minuto. Proseguite poi come indicato dalla
ricetta principale.
KOUGELHOPF D’ALSAZIA

1.000 g di farina W 300 - P/L 0,55


300 g di latte
40 g di lievito compresso
350 g di uova
20 g di sale
200 g di zucchero
350 g di burro ammorbidito
300 g di uvetta sultanina
50 g di rum
mandorle pelate
zucchero a velo

TEMPI DI IMPASTO
Impastatrice a spirale:
7 minuti in 1a velocità – 8 minuti in 2a velocità
Impastatrice a braccia tuffanti:
8 minuti in 1a velocità – 9 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE DELL’IMPASTO


25 °C

◾ Iniziate l’impasto miscelando la farina con il latte, il lievito


e metà delle uova. A metà della lavorazione aggiungete le
rimanenti uova, il sale e, lentamente, lo zucchero. Quando
avrete ottenuto una pasta liscia e omogenea, incorporate
il burro. Terminato l’impasto aggiungete l’uvetta, fatta
macerare nel rum, impastando per qualche minuto fino a
quando non sarà uniformemente distribuita.
◾ Ponete l’impasto a lievitare per circa 60 minuti a 26-27 °C.
Trascorso questo tempo, tagliate dei pezzi d’impasto a
seconda della dimensione degli stampi, arrotondate e
dopo 10-15 minuti fate un incavo al centro e ponete nelle
apposite forme, precedentemente imburrate e con alcune
mandorle pelate, ammorbidite in acqua, posate sul fondo.

◾ Lasciate lievitare fino a raggiungere il bordo, poi infornate


a 180-200 °C. Sfornate, fate raffreddare, bagnate con rum
e spolverizzate con zucchero a velo.
KOUGELHOPF SALATO

80 g di cipolle
300 g di pancetta affumicata a cubetti
burro
olio extravergine d’oliva

PER L’IMPASTO
1.000 g di farina W 320 - P/L 0,50
320 g di latte
60 g di lievito compresso
40 g di zucchero
130 g di tuorli
20 g di sale
450 g di burro ammorbidito
130 g di noci tritate

TEMPI DI IMPASTO
Impastatrice a spirale:
8 minuti in 1a velocità – 5 minuti in 2a velocità
Impastatrice a braccia tuffanti:
8 minuti in 1a velocità – 8 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE DELL’IMPASTO


26 °C

◾ Sbucciate le cipolle e affettatele sottilmente, mettetele in


un tegame con poco olio e lasciatele stufare a fuoco
moderato. In un’altra casseruola rosolate la pancetta con
un poco di burro.
◾ Iniziate l’impasto miscelando la farina con il latte, il
lievito, lo zucchero e i tuorli. A metà impasto aggiungete il
sale e poi poco alla volta il burro.

◾ Quando avrete terminato la lavorazione (l’impasto dovrà


risultare liscio ed estensibile) aggiungete le noci e
successivamente le cipolle e la pancetta, quindi lavorate
ancora per qualche minuto.

◾ Lasciate puntare l’impasto per 60 minuti o fino a quando il


suo volume non sarà raddoppiato, ponetelo su un piano e,
dopo averlo ripiegato, lasciatelo lievitare per altri 20
minuti.

◾ Imburrate nel frattempo gli appositi stampi, dividete


l’impasto in singoli pezzi in base alle loro dimensioni,
arrotondate i pezzi d’impasto e, dopo qualche minuto,
create un’apertura al centro e mettete l’impasto negli
stampi (quelli tipici, con lo spuntone al centro, o altri a
piacere).
◾ Lasciate lievitare fino a quando l’impasto non raggiunge il
bordo dello stampo, quindi infornate a 190-200 °C. Il
tempo di cottura varia in base alle pezzature. A cottura
ultimata, sformate e rovesciate.

VARIANTE

Potete realizzare un’alternativa senza noci con 150 g di


pancetta affumicata tagliata a cubetti e 250 g di cipolle.
DANISH

1.000 g di farina W 300 - P/L 0,55


350 g di latte
200 g di uova
40 g di lievito compresso
150 g di zucchero
20 g di sale
350 g di burro ammorbidito
la scorza grattugiata di 1 limone o di 1 arancia non trattati (facoltativa)
bacca di vaniglia (facoltativa)
cardamomo (facoltativo)
600 g di burro per sfogliare

PER COMPLETARE
zucchero a velo

TEMPO DI LIEVITAZIONE
Metodo diretto:
2 ore a 27 °C - 1 ora a 5 °C
Metodo differito:
12 ore a 5 °C (l’impasto passato al freddo presenterà una stratificazione regolare
del burro)

◾ Iniziate l’impasto miscelando la farina con il latte, la metà


delle uova e il lievito. A metà impasto aggiungete lo
zucchero, il sale e le uova rimanenti e, quando il tutto sarà
stato assorbito, incorporate il burro e aromatizzate con
l’aroma prescelto. L’impasto dovrà avere una consistenza
liscia e omogenea.

◾ Stendete la pasta a rettangolo, ricoprite con il burro i due


terzi della sua superficie, ripiegate verso il centro la parte
senza burro e poi ripiegate sopra la parte con il burro.
Date tre giri semplici: i primi due in successione, il terzo
dopo 30 minuti di riposo al freddo a 4 °C, tirando la pasta
a uno spessore di 1,5 cm.

◾ Coprite e mettete al freddo per 30 minuti, poi stendete la


pasta a uno spessore di 3 mm e procedete a ritagliare i
singoli pezzi con la forma che preferite.

◾ Lucidate con un uovo mescolato a 20 g di latte e un


pizzico di sale o zucchero, lasciate lievitare per circa 50-
60 minuti a una temperatura di 25 °C, lucidate
nuovamente e posizionate gli ingredienti scelti per la
rifinitura dei pezzi.

◾ Infornate a 190-200 °C per 18-20 minuti. Lucidate subito


con una miscela di acqua e zucchero a velo in egual
misura, versati bollenti sul prodotto caldo.

NOTA

Con questa ricetta base è possibile preparare una vasta


gamma di danish: alla frutta sciroppata, alla crema, al
cioccolato e marmellata d’arancia, alla pasta di mandorle...
DANESI CIOCCOLATO E ARANCIA

1.000 g di farina W 300 - P/L 0,55


300 g di latte
35 g di lievito
200 g di uova
20 g di sale
150 g di zucchero
170 g di burro ammorbidito cardamomo
400 g di burro per sfogliare

TEMPERATURA FINALE DELL’IMPASTO


23-24 °C

TEMPI DI LIEVITAZIONE
Metodo diretto:
2 ore a 25 °C e 1 ora a 4 °C
Metodo differito:
12 ore a 4-5 °C (l’impasto con il metodo differito presenterà una stratificazione
regolare del burro)

PER COMPLETARE
gocce di cioccolato
marmellata di arance
zucchero a velo

◾ Iniziate l’impasto mescolando la farina con il latte, il


lievito e le uova. A metà impasto aggiungete il sale, lo
zucchero, il cardamomo e successivamente il burro.
Lavorate fino a ottenere un impasto liscio e omogeneo.

◾ Sfogliate con il burro, con 3 giri semplici, dando un riposo


di circa 20-30 minuti in frigorifero fra il 2° e il 3° giro,
quindi mettete in frigorifero per altri 20-30 minuti.
◾ Trascorso questo tempo stendete la pasta a uno spessore
di 3 mm ed evitate la lievitazione al caldo perché non si
verifichi la fuoriuscita del burro.

◾ Ritagliate un quadrato di 10×10 cm di lato e ponetelo su


una teglia rivestita con carta da forno. Tagliate un secondo
quadrato della stessa misura del precedente, con un
coppapasta ritagliate la parte centrale e posatelo sopra il
primo. Procedete così fino per formare tutti gli altri
quadrati. Alla fine dorate con un uovo mescolato con 20 g
di latte e un pizzico di sale o zucchero e ponete a lievitare
a 25 °C circa.

◾ Prima di infornare dorate una seconda volta e ponete al


centro delle gocce di cioccolato e un po’ di marmellata di
arance. Infornate a 200 °C per 15 minuti circa.

◾ La parte di pasta eliminata con il coppapasta dovrà essere


cotta a parte e poi utilizzata come decorazione.

◾ Sfornate e nappate con uno sciroppo composto da pari


peso di acqua e zucchero a velo, da utilizzare bollente sul
prodotto caldo.
DOLCEZZA AL LIMONE

PER IL 1° IMPASTO
4.000 g di farina W 350 - P/L 0,55
1.100 g di lievito naturale
2.000 g di acqua
1.250 g di zucchero
700 g di tuorli
1.200 g di burro ammorbidito
8 g di sale

PER GLI AROMI


300 g di miele d’acacia
4 bacche di vaniglia
la scorza grattugiata di 4 limoni non trattati

PER IL 2° IMPASTO
1° impasto +
1.000 g di farina W 280 - P/L 0,55
25 g di malto
1.250 g di zucchero
42 g di sale
1.500 g di tuorli
1.500 g di burro ammorbidito
4.000 g di limone candito a cubetti

PER LA GHIACCIA
600 g di albume
500 g di zucchero
200 g di mandorle bianche
200 g di mandorle grezze
50 g di armelline
75 g di fecola

PER COMPLETARE
granella di zucchero
zucchero a velo

◾ Iniziate il 1° impasto con la farina, il lievito e l’acqua.


Dopo circa 10 minuti aggiungete lo zucchero, il sale e una
parte dei tuorli, il burro e, alla fine, i tuorli restanti
(questa fase non dovrebbe durare più di 25 minuti).
Ponete a lievitare in cella a una temperatura di 25 °C per
circa 12 ore, e comunque finché il volume non sarà
triplicato. Nel frattempo, preparate gli aromi mettendo a
macerare nel miele le bacche di vaniglia e la scorza dei
limoni. Tenete da parte per la fase successiva.
◾ Per il 2° impasto, ponete nell’impastatrice il 1° impasto
con la farina e il malto e impastate per circa 10 minuti, poi
aggiungete lentamente lo zucchero. Quando sarà stato
incorporato del tutto, unite il sale e gli aromi tenuti da
parte, e amalgamate bene. Aggiungete quindi i tuorli e,
lentamente, il burro. Terminato l’impasto, unite i cubetti di
limone candito (la fase del 2° impasto non dovrebbe
durare più di 50 minuti con un’impastatrice a braccia
tuffanti).

◾ Trasferite l’impasto in un contenitore e fate riposare per


circa 30 minuti in cella a 30 °C.
◾ Trascorso questo tempo, dividete l’impasto in singoli pezzi
del peso desiderato e formate delle pagnottelle, ponetele
su tavole e lasciate puntare per circa 40 minuti.
Arrotondate una seconda volta stringendo bene e
disponete i pezzi negli appositi pirottini. Passate in cella
per 6 ore circa a una temperatura di 30-32 °C. Lasciate
lievitare finché l’impasto non raggiunge il bordo dello
stampo, quindi preparate la ghiaccia montando a neve
solo l’albume e incorporando in seguito lo zucchero e tutti
gli altri ingredienti. Distribuite sull’impasto uno strato
sottile di ghiaccia, cospargete con granella di zucchero e
spolverizzate con zucchero a velo.

◾ Infornate a 170-180 °C. Il tempo di cottura è determinato


dalle pezzature.
PANETTO ALL’AMARETTO
A LIEVITAZIONE MISTA

1.500 g di farina W 350 P/L 0,55


450 g di lievito naturale a giusta maturazione
100 g di lievito compresso
250 g di acqua
350 g di uova
25 g di sale
550 g di zucchero
75 g di miele d’acacia
150 g di tuorli
550 g di burro ammorbidito
1 bacca e 1/2 di vaniglia
150 g di farina di mandorle grezze
50 g di farina di mandorle amare
250 g di amaretti sbriciolati

PER LA GHIACCIA
30 g di mandorle armelline in polvere
75 g di mandorle dolci in polvere
250 g di zucchero
25 g di amido di riso o fecola
albume

◾ Iniziate l’impasto mescolando la farina con i due tipi di


lievito, l’acqua e una parte delle uova. Dopo qualche
minuto aggiungete il sale e, quando l’impasto sarà
diventato ben estensibile, incorporate poco alla volta lo
zucchero, il miele, la vaniglia e successivamente le
rimanenti uova e i tuorli. Quando tutto sarà stato ben
assorbito aggiungete il burro. A impasto ultimato unite le
farine di mandorle e gli amaretti, impastando ancora per
qualche minuto. Ponete a 14-16 °C per circa 12 ore.

◾ Trascorso questo tempo staccate dall’impasto singoli pezzi


e pesateli in base alla dimensione degli stampi scelti.
Lasciate lievitare per 4-5 ore a 25-26 °C.

◾ Preparate la ghiaccia (preferibilmente il giorno


precedente) mescolando tutti gli ingredienti con la
quantità di albume necessaria a ottenere un composto
liscio e denso.

◾ Infornate a 180 °C: il tempo di cottura è determinato dalla


pezzatura del prodotto.
PETTINE AL COCCO

1.000 g di farina W 300 - P/L 0,55


350 g di latte
40 g di lievito compresso
200 g di uova
20 g di sale
120 g di zucchero
200 g di burro ammorbidito
2 tuorli
500 g di burro per sfogliare

PER LA MASSA AL COCCO


500 g di zucchero
250 g di cocco rapé
200 g di albume
50 g di burro
70 g di farina
15 g di rum

TEMPI DI IMPASTO
Impastatrice planetaria:
4 minuti in 1a velocità – 6 minuti in 2a velocità
Impastatrice a spirale:
5 minuti in 1a velocità – 7 minuti in 2a velocità
Impastatrice a braccia tuffanti:
5 minuti in 1a velocità – 9 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE DELL’IMPASTO


23-25 °C
◾ Iniziate l’impasto con la farina, il latte, il lievito e metà
delle uova. A metà impasto aggiungete il sale, le rimanenti
uova, i tuorli, lo zucchero e successivamente il burro.
L’impasto finito dovrà essere liscio e omogeneo. Lasciate
lievitare per 90 minuti a 23 °C oppure per 12 ore a 4 °C.
◾ Trascorso questo tempo sfogliate con un giro a 4 e un giro
a 3 in successione. Passate a 4 °C per 20 minuti circa,
quindi stendete la pasta a uno spessore di 3 mm e
passatela brevemente nel congelatore. Nel frattempo
preparate la massa al cocco cuocendo insieme lo
zucchero, il burro, il cocco rapé e l’albume. Togliete dal
fuoco e incorporate la farina e il rum.
◾ Ritagliate dei quadrati di 10×10 cm e dorate il bordo
inferiore; poi con una tasca da pasticciere dressate al
centro di ogni quadrato un po’ di massa al cocco.
◾ Chiudete ogni quadrato in modo che i due lati combacino,
praticate quattro tagli con una lama, posate su teglie
dando una forma a semicerchio e lucidate con dell’uovo.
Lasciate lievitare a 25 °C. Cuocete a 200 °C per 15 minuti
circa.
PAIN AU CHOCOLAT
(“CHOCOLATINS”)

1.000 g di farina W 300 - P/L 0,55


500 g di acqua
100 g di panna fresca
40 g di lievito compresso
25 g di sale
120 g di zucchero
600 g di burro per sfogliare

TEMPERATURA DI BASE
54 °C (sottraendo a questa cifra
la temperatura della farina e quella dell’ambiente
si ottiene la temperatura del liquido
da usare nell’impasto)

PER COMPLETARE
barrette di cioccolato

TEMPI DI IMPASTO
Impastatrice a spirale:
3 minuti in 1a velocità – 6 minuti in 2a velocità
Impastatrice a braccia tuffanti:
4 minuti in 1a velocità – 7 minuti in 2a velocità

◾ Iniziate l’impasto con la farina, l’acqua, la panna e il


lievito. A metà impasto aggiungete il sale e
successivamente lo zucchero.

◾ Per la puntatura potete scegliere tra metodo diretto


(lasciate lievitare per un’ora a 26 °C, stendete l’impasto e
passatelo al freddo a 5 °C per circa 60 minuti) e metodo
differito (terminato l’impasto, passatelo al freddo a 5 °C
per un minimo di 12 ore).

◾ Trascorso questo tempo, sfogliate dando 2 giri semplici,


passate al freddo a 5 °C per un minimo di 30 minuti, poi
date il 3° giro e ponete nuovamente al freddo a 5 °C per
circa 60 minuti.
◾ Stendete la pasta a uno spessore di 3 mm, tagliate dei
rettangoli lunghi 15 cm e larghi un centimetro in più di
una barretta di cioccolato. Deponete le due barrette di
cioccolato a breve distanza l’una dall’altra, ripiegate la
pasta prima su una barretta, poi sulla seconda e dorate
con una miscela composta da un uovo, 20 g di latte e
vaniglia.
◾ Per la lievitazione:
passate in cella a 25 °C per 100-120 minuti, dorate
nuovamente e passate in forno a 210 °C per 15-16 minuti
circa.
DOLCE ALLO ZAFFERANO

1.000 g di farina W 320 - P/L 0,55


80 g di lievito compresso
130 g di latte
130 g di yogurt naturale
1 bacca di vaniglia
130 g di uova
70 g di tuorli
45 g di miele
50 g di zucchero
300 g di burro ammorbidito
180 g di arancia candita a cubetti
180 g di limone candito a cubetti
180 g di uvetta sultanina
18 g di sale
90 g di mandorle a bastoncino tostate
la scorza grattugiata di 1 arancia non trattata
2 bustine di zafferano

PER COMPLETARE

zucchero a velo

◾ Iniziate l’impasto mescolando la farina con il lievito, lo


zafferano sciolto nel latte, lo yogurt, gli aromi e le uova.
Quando sarà ben formato, aggiungete i tuorli, il miele, lo
zucchero, il sale e, successivamente, il burro. Alla fine
incorporate poco alla volta la frutta candita e le mandorle.
◾ Lasciate lievitare l’impasto fino a quando il suo volume
non sarà raddoppiato, poi staccatene dei singoli pezzi e
date loro la forma che preferite. Lucidate per due volte
con un uovo mescolato a 20 g di latte e un pizzico di sale o
zucchero, poi infornate a 180 °C. Il tempo di cottura è
determinato dalla pezzatura.

◾ Sfornate e lucidate con uno sciroppo composto da pari


peso di zucchero a velo e acqua, da utilizzare bollente sul
prodotto caldo.
PAN DI SPEZIE

1.000 g di latte
20 g di zenzero in polvere
30 g di anice stellato
15 g di cannella in polvere
15 g di coriandolo
20 g di miscela di spezie
12 g di chiodi di garofano
1.000 g di farina W 300 - P/L 0,55
500 g di farina di segale
150 g di lievito chimico
300 g di zucchero invertito
1.200 g di miele
600 g di uova
400 g di burro
30 g di sale
400 g di albumi
50 g di zucchero semolato

◾ Portate il latte a bollore, togliete dal fuoco e incorporate


tutte le spezie. Lasciate macerare per 5 ore circa e tenete
da parte.
◾ Mescolate le farine con il lievito. Mettete nel latte lo
zucchero invertito e il miele e procedete all’impasto in una
planetaria con la foglia.

◾ Alla miscela di latte incorporate il composto di farine e


lievito e le uova e impastate per 10 minuti. Aggiungete il
burro fuso e il sale. A parte meringate gli albumi con lo
zucchero e incorporate delicatamente nell’impasto questa
meringa con la spatola, sollevando il composto senza farlo
ricadere. Riempite degli stampi imburrati e infarinati fino
a tre quarti. Infornate a 150 °C: il tempo di cottura è
determinato dalle pezzature.
BAULETTI ALLO ZENZERO E
CIOCCOLATO BIANCO

1.000 g di farina W 320 - P/L 0,55


60 g di lievito compresso
130 g di zucchero
80 g di latte
500 g di uova
25 g di sale
500 g di burro ammorbidito
250 g di zenzero candito a cubetti
250 g di gocce di cioccolato bianco
granella di zucchero

◾ Iniziate l’impasto con la farina, il lievito, lo zucchero


sciolto nel latte e una parte delle uova. A metà impasto
aggiungete il sale, le restanti uova e successivamente il
burro. A impasto ultimato incorporate prima lo zenzero,
poi le gocce di cioccolato, conservate in frigorifero o in un
luogo fresco.
◾ Lasciate lievitare l’impasto a temperatura ambiente per
90 minuti circa, poi passate al freddo a 5 °C fino al giorno
successivo.
◾ Trascorso questo tempo suddividete l’impasto in pezzi da
150 g, arrotondateli e dopo qualche minuto disponeteli in
stampi rettangolari con la chiusura rivolta verso il basso.
◾ Lucidate con una miscela di uovo, latte e un pizzico di sale
e lasciate lievitare a 27 °C per 70-80 minuti circa.
Dorate una seconda volta, decorate con granella di
◾ zucchero e infornate a 190 °C. Il tempo di cottura è
determinato dalla pezzatura.
NOCCIOLOSO

1.000 g di farina W 320 - P/L 0,55


150 g di latte
35 g di lievito compresso
6 uova, 2 tuorli
20 g di sale
180 g di zucchero
220 g di burro ammorbidito
40 g di miele
1/2 bacca di vaniglia

PER LA MASSA ALLA NOCCIOLA


175 g di acqua
300 g di zucchero
300 g di nocciole tostate macinate
la scorza grattugiata di 1 limone non trattato
1,5 g di cannella in polvere

◾ Iniziate l’impasto mescolando la farina con il latte e il


lievito. A metà impasto aggiungete le uova, i tuorli, il sale,
il miele, la vaniglia, lo zucchero e infine il burro. L’impasto
dovrà risultare di una consistenza liscia e omogenea.
Terminata la lavorazione passatelo a 4-5 °C per circa 12
ore.
◾ Nel frattempo preparate la massa alla nocciola portando a
ebollizione l’acqua con lo zucchero, quindi incorporate le
nocciole, la scorza di limone e infine la cannella.

◾ Stendete la pasta a uno spessore di 3 mm, tagliate dei


singoli pezzi in forma rotonda e ponete in stampi del
diametro di 10 cm, precedentemente imburrati; riempite
con la massa alla nocciola e chiudete con una griglia.
◾ Lucidate con una miscela composta da uova, latte e un
pizzico di sale. Ponete a lievitare a 27-28 °C fino a quando
il volume dell’impasto non risulterà raddoppiato.

◾ Lucidate una seconda volta e infornate a 200 °C per 16


minuti circa.
PAIN D’ORANGE
A LIEVITAZIONE MISTA

1.500 g di farina W 350 - P/L 0,55


450 g di lievito naturale a giusta maturazione
100 g di lievito compresso
250 g di acqua
375 g di uova
23 g di sale
550 g di zucchero
75 g di miele d’acacia
125 g di arancia candita macinata
150 g di tuorli
550 g di burro ammorbidito
1 bacca di vaniglia
500 g di cubetti d’arancia candita

PER LA GHIACCIA
60 g di mandorle armelline in polvere
150 g di mandorle bianche in polvere
500 g di zucchero
50 g di amido di riso o fecola
albume

◾ Iniziate l’impasto con la farina, i due lieviti, l’acqua e una


parte delle uova. Dopo qualche minuto aggiungete il sale
e, quando l’impasto risulterà ben estensibile, incorporate
poco alla volta lo zucchero, il miele, la bacca di vaniglia e
successivamente l’arancia candita macinata, le rimanenti
uova e i tuorli. Quando tutto sarà stato ben assorbito unite
il burro.
A impasto ultimato unite i cubetti d’arancia candita
◾ impastando ancora per qualche minuto. Ponete a 14-16 °C
per circa 12 ore.

◾ Trascorso questo tempo prelevate dall’impasto dei singoli


pezzi e pesateli in base alla dimensione degli stampi
desiderati.
◾ Lasciate lievitare per 4-5 ore a 25-26 °C. Lucidate o
ghiacciate con la ghiaccia (preparata preferibilmente il
giorno precedente, mescolando tutti gli ingredienti con la
quantità di albume necessaria per ottenere un composto
liscio e denso) e infornate a 180 °C. Il tempo di cottura è
determinato dalla pezzatura del prodotto.
TRECCIA AI MARRON GLACÉ

1.500 g di farina W 350 - P/L 0,55


450 g di lievito naturale a giusta maturazione
100 g di lievito compresso
250 g di acqua
350 g di uova
25 g di sale
450 g di zucchero
50 g di miele d’acacia
1 bacca e 1/2 di vaniglia
150 g di tuorli
550 g di burro ammorbidito
900 g di marron glacé scolati in precedenza dal loro sciroppo
100 g di farina di mandorle grezze
25 g di farina di mandorle amare (armelline)
zucchero a velo

PER LA GHIACCIA
400 g di albume fresco
240 g di zucchero
400 g di farina di mandorle bianche

◾ Iniziate l’impasto con la farina, i due tipi di lievito, l’acqua


e una parte delle uova. Dopo qualche minuto aggiungete il
sale e, quando l’impasto sarà diventato ben estensibile,
incorporate poco alla volta lo zucchero, il miele, la
vaniglia, le rimanenti uova e i tuorli.
◾ Quando il tutto sarà stato assorbito aggiungete il burro e
successivamente le farine di mandorle. A impasto ultimato
incorporate i marron glacé a pezzi.
◾ Ponete l’impasto a 14-16 °C per circa 12 ore. Trascorso
questo tempo prelevate dall’impasto dei pezzi del peso
desiderato, in base alla dimensione degli stampi, oppure
date loro la forma che preferite.
◾ Lasciate lievitare per 3 ore circa a 27-28 °C. Prima di
passare alla cottura, preparate la ghiaccia miscelando i
vari ingredienti senza montare l’albume. Spolverizzate con
zucchero a velo.
◾ Infornate a 180 °C: il tempo di cottura è determinato dalla
pezzatura del prodotto.
BRIOCHE AL BURRO

1.000 g di farina W 320 - P/L 0,55


60 g di lievito compresso
100 g di latte
500 g di uova
20 g di sale
150 g di zucchero
400 g di burro ammorbidito
granella di zucchero

TEMPI D’IMPASTO
Impastatrice a spirale:
6 minuti in 1a velocità – 6 minuti in 2a velocità
Impastatrice a braccia tuffanti:
7 minuti in 1a velocità – 7 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE DELL’IMPASTO


23-24 °C

◾ Iniziate l’impasto con la farina, il lievito, il latte e metà


delle uova, aggiungete poi il sale, lo zucchero e le uova
rimaste; incorporate alla fine il burro. Dovete ottenere un
impasto liscio e omogeneo.

◾ La puntatura dovrà avvenire per un’ora a 25-26 °C;


ripiegate l’impasto durante la lievitazione per migliorarne
la forza. Passate poi al freddo a 5 °C per almeno 2 ore, se
l’utilizzo sarà in giornata, oppure per 12 ore a 5 °C.
◾ Trascorso questo tempo, staccate dei pezzi d’impasto di
circa 60-65 g, formate delle pagnottelle e ponetele negli
stampi prescelti, oppure date loro la forma che preferite.
◾ Dorate con una miscela di uovo, latte e un pizzico di sale e
passate in cella di fermentazione a 27 °C per circa 80-90
minuti.
◾ Dorate una seconda volta e decorate con granella di
zucchero prima di infornare a 200 °C per 15 minuti circa.
BRIOCHE AL CAFFÈ

1.250 g di farina W 300 - P/L 0,55


40 g di caffè solubile
165 g di zucchero
650 g di latte
110 g di lievito compresso
75 g di uova
115 g di burro ammorbidito
20 g di sale

PER LA CREMA
1.010 g di latte
220 g di panna
200 g di zucchero semolato
15 g di zucchero vanigliato
90 g di amido di mais
110 g di tuorli
caffè solubile

◾ Iniziate l’impasto con la farina, il caffè e lo zucchero sciolti


nel latte, il lievito e le uova. Dopo alcuni minuti
incorporate il burro e, verso la fine dell’impasto, unite il
sale. Dovete ottenere una pasta soffice e omogenea.
Prevedete una puntatura di 60 minuti a temperatura
ambiente e di 60 minuti a 5 °C.

◾ Trascorso questo tempo, formate dei pezzi di circa 45 g,


arrotondateli sul piano di lavoro stringendo bene e
disponete su teglie rivestite con carta da forno. Lasciate
lievitare per circa 40 minuti a 27 °C.
◾ Nel frattempo preparate la crema. Miscelate e cuocete
insieme 900 g di latte, la panna e gli zuccheri, quindi
mescolate altri 110 g di latte con l’amido di mais;
aggiungeteli alla miscela di latte bollente e fate cuocere
ancora. Incorporate infine i tuorli alla crema calda e unite
il caffè solubile.

◾ Riempite con la crema delle forme in flexipan (30 g circa)


e ponetele nel congelatore. Una volta congelate, togliete
dalle forme e conservate in congelatore fino all’utilizzo.
◾ A tre quarti della lievitazione schiacciate la parte centrale
dell’impasto in modo da ottenere un incavo nel quale
inserire una forma di crema al caffè congelata. Terminate
la lievitazione, dorate e passate alla cottura con leggero
vapore a 200 °C.
BRIOCHE BRIOSA

PER IL POOLISH
500 g di farina W 320 - P/L 0,55
30 g di lievito compresso
400 g di spumante Brut

PER L’IMPASTO
1.500 g di farina W 320 - P/L 0,55
50 g di lievito compresso
400 g di uova
350 g di latte
300 g di zucchero
150 g di tuorli
40 g di sale
800 g di burro ammorbidito
600 g di uvetta sultanina
60 g di rum

MASSA PER LA COPERTURA


200 g di pasta di mandorle
75 g di olio di semi
75 g di fecola
230 g di albume
1/2 bacca di vaniglia

PER COMPLETARE
350 g di mandorle filettate
zucchero a velo

◾ Preparate il poolish: sciogliete il lievito nello spumante,


poi incorporate la farina. Questa operazione può essere
fatta anche a mano. Lasciate riposare per circa 40 minuti.
◾ Iniziate l’impasto incorporando nel poolish la farina, il
lievito, le uova, il latte e lo zucchero. A metà impasto
aggiungete i tuorli e il sale, quindi, poco alla volta, il
burro. A fine impasto incorporate l’uvetta
precedentemente ammollata nel rum.
◾ Lasciate puntare l’impasto per 30 minuti circa, quindi
suddividetelo in tanti pezzi quanti sono gli stampi a
disposizione. Formate delle pagnottelle, lasciatele riposare
per 15 minuti circa, poi allungatele a filone e disponetele
negli stampi ben imburrati.

◾ Dopo una lievitazione di circa 90 minuti, spalmate sopra le


brioche la copertura ottenuta mescolando tutti gli
ingredienti; cospargete di mandorle, infine spolverizzate
con zucchero a velo.
◾ Cuocete in forno a 180 °C.
Il tempo di cottura dipende dalla pezzatura che avete
scelto.
BRIOCHE ALLE MANDORLE E
ALBICOCCA

PER LA PASTA BRIOCHE


500 g di farina W 300 - P/L 0,55
50 g di zucchero
125 g di uova
25 g di lievito compresso
150 g di burro
200 g di latte
10 g di sale

PER LA PASTA ZUCCHERATA


500 g di farina W 200 - P/L 0,50
250 g di zucchero a velo
250 g di burro
2 uova

PER LA MASSA ALLE MANDORLE


125 g di mandorle filettate
500 g di zucchero
25 g di farina
45 g di Grand Marnier

PER COMPLETARE
300 g di confettura di albicocche
500 g di albicocche disidratate
50 g di Grand Marnier

◾ Per la pasta brioche, impastate tutti gli ingredienti tranne


il sale, che aggiungerete a metà impasto. Lavoratelo fino a
quando non risulta liscio e omogeneo, quindi staccatene
dei pezzi da 50 g e date loro la forma, avvolgendoli
abbastanza stretti. Lasciate lievitare finché il loro volume
non sarà raddoppiato.
◾ Trascorso questo tempo, imburrate degli stampi del
diametro di 10 cm e foderateli con uno strato di pasta
zuccherata, preparata precedentemente sabbiando farina
e burro (a 16 °C), aggiungendo lo zucchero a velo e le
uova e tenendola in frigorifero per qualche ora prima
dell’utilizzo.
◾ Spalmate poi un velo di confettura e posatevi sopra delle
albicocche, tagliate a metà, messe a macerare il giorno
prima nel Grand Marnier. Appiattite leggermente i pezzi di
pasta brioche, disponeteli a coprire ogni stampo e
ricoprite con un po’ di massa alle mandorle.

◾ Lasciate lievitare per circa 60 minuti a 27 °C e infornate


con tiraggio aperto a una temperatura di 190 °C per 25
minuti circa.
BRIOCHE SFOGLIATA

1.000 g di farina W 320 - P/L 0,55


250 g di lievito madre
40 g di lievito compresso
500 g di uova
15 g di sale
100 g di tuorli
50 g di miele
250 g di zucchero
200 g di burro ammorbidito aromi a piacere
600 g di burro per sfogliare

TEMPERATURA FINALE DELL’IMPASTO


23-24 °C

◾ Iniziate l’impasto mescolando la farina con il lievito


madre, il lievito compresso e le uova. Dopo qualche
minuto aggiungete il sale e i tuorli; quando l’impasto sarà
diventato estensibile aggiungete poco alla volta il miele,
gli aromi, lo zucchero e il burro.
◾ Passate al freddo per 12-15 ore a 5-7 °C, poi sfogliate con
il burro, con una piega a 4 e una a 3, dando un riposo di
circa 30 minuti in frigorifero.

◾ Trascorso questo tempo, stendete la pasta a uno spessore


di circa 3 mm, ritagliate dei triangoli e formate a cornetto.
◾ Lasciate lievitare a temperatura ambiente fino a quando il
loro volume non sarà raddoppiato, dorate con dell’uovo e
infornate a 210 °C per circa 14 minuti.
CROISSANT

Sono diverse le leggende che riguardano l’origine del


croissant.
Si narra, per esempio, che nel 1683 un austriaco di nome
Kolschitzky creò un panino a forma di croissant («luna
crescente», emblema della bandiera turca) per venderlo
accompagnato da un caffè di scarsa qualità, privilegio che
aveva ricevuto per il coraggio dimostrato difendendo Vienna
dai Turchi. Chiamò questo panino turquoise, «turchese».
Secondo un’altra tradizione, nel 1686 i Turchi, mentre
assediavano Budapest, decisero di costruire un tunnel per
entrare di sorpresa in città. I fornai, che lavoravano di notte,
sentirono i rumori e diedero l’allarme, sventando il piano
turco. Come ricompensa venne assegnato loro il privilegio
esclusivo di creare una specialità a forma di mezzaluna che
poteva essere venduta a un prezzo più alto.
Non è certo se il croissant nacque grazie a Kolschitzky o ai
fornai di Budapest, ma è certo che il pane a forma di luna
crescente ebbe un enorme successo a Vienna, dove aveva il
sapore di una rivalsa contro i Turchi.
La specialità fu poi introdotta in Francia dalla regina Maria
Antonietta, moglie di Luigi XVI, austriaca. I primi croissant
furono realizzati a Parigi in un panificio di rue Dauphine: da
allora, i prodotti preparati con pasta lievitata fermentata che
accompagnano un caffè, una colazione o uno spuntino
vengono chiamati “viennoiserie”.

1.000 g di farina W 300 P/L 0,55


500 g di acqua
100 g di panna fresca
40 g di lievito compresso
25 g di sale
120 g di zucchero
600 g di burro per sfogliare

TEMPERATURA DI BASE
54 °C (sottraendo a questa cifra
la temperatura della farina e quella dell’ambiente
si ottiene la temperatura del liquido
da usare nell’impasto)

TEMPI DI IMPASTO
Impastatrice a spirale:
3 minuti in 1a velocità – 6 minuti in 2a velocità
Impastatrice a braccia tuffanti:
4 minuti in 1a velocità – 7 minuti in 2a velocità

◾ Iniziate l’impasto mescolando la farina con l’acqua, la


panna e il lievito. A metà impasto aggiungete il sale e
successivamente lo zucchero. Per la puntatura potete
scegliere tra metodo diretto (lasciate lievitare per un’ora a
26 °C, stendete l’impasto e passatelo al freddo a 5 °C per
60 minuti circa) o differito (terminato l’impasto, passatelo
al freddo a 5 °C per un minimo di 12 ore).
◾ Trascorso questo tempo, sfogliate con il burro con 2 giri
semplici, passate al freddo a 5 °C per un minimo di 30
minuti, poi date il 3° giro e ponete nuovamente al freddo a
5 °C per circa 60 minuti.

◾ Stendete la pasta a uno spessore di 3 mm, tagliate a


triangolo, formate, disponete su teglie e dorate. Per
l’appretto fate lievitare nuovamente in cella a 25 °C per
100-120 minuti, dorate nuovamente e passate alla cottura
a 210 °C per 15-16 minuti circa.
CROISSANT ALLE NOCI DI
MACADAMIA

PER L’IMPASTO
1.000 g di farina
20 g di sale
100 g di zucchero
35 g di lievito compresso
100 g di burro
500 g di latte
400 g di burro per sfogliare

PER LA MASSA ALLE NOCI DI MACADAMIA


400 g di granella di noci di macadamia
80 g di uvetta sultanina
400 g di pasta di mandorle
100 g di uova
50 g di burro ammorbidito
70 g di Marsala
80 g di biscotti secchi sbriciolati

◾ Iniziate l’impasto lavorando tutti gli ingredienti;


aggiungete il sale a metà impasto e il burro poco alla volta
a impasto già formato. L’impasto dovrà risultare asciutto e
liscio. Il composto può essere preparato il giorno
precedente e tenuto a 4 °C, coperto. Per un utilizzo
immediato lasciatelo lievitare per un’ora a 27 °C e per
un’ora a 4 °C, coperto per evitare incrostazioni.

◾ Trascorso questo tempo stendete la pasta a forma di


rettangolo e coprite con il burro per sfogliare i due terzi
della superficie; ripiegate verso il centro la parte senza
burro, poi ripiegate la parte con il burro sopra la parte
senza burro. Sfogliate con 3 giri semplici dando un riposo
di circa 20-30 minuti in frigorifero fra il 2° e il 3° giro, poi
mettete in frigorifero per altri 20-30 minuti.

◾ Nel frattempo preparate la massa alle noci miscelando


rapidamente tutti gli ingredienti, poi tenete da parte.
Stendete la pasta a uno spessore di 2 mm, ritagliate dei
triangoli, disponete nella parte inferiore un po’ di massa
come ripieno, chiudere bene i lati, poi conferite la classica
forma del croissant. Lucidate spennellando con un uovo
mescolato a latte (20 g) e a un pizzico di sale o zucchero;
lasciate lievitare per circa un’ora o fino al raddoppio del
volume.
◾ Prima della cottura lucidate una seconda volta e infornate
a 200 °C per 15 minuti circa.
CROISSANT CON POOLISH

PER IL POOLISH
220 g di burro pomata
550 g di acqua
10 g di lievito
700 g di farina W 300 - P/L 0,55

PER L’IMPASTO
1.650 g di farina W 300 - P/L 0,55
700 g di latte
80 g di lievito compresso
60 g di sale
260 g di zucchero
burro per sfogliare

TEMPERATURA DI BASE
54 °C (sottraendo a questa cifra
la temperatura della farina e quella dell’ambiente
si ottiene la temperatura del liquido
da usare nell’impasto)

TEMPI DI IMPASTO
Impastatrice a spirale:
3 minuti in 1a velocità – 6 minuti in 2a velocità
Impastatrice a braccia tuffanti:
4 minuti in 1a velocità – 7 minuti in 2a velocità

◾ Preparate il poolish il giorno precedente: sciogliete il


lievito nell’acqua, poi incorporate il burro e la farina;
lasciate lievitare per un’ora a temperatura ambiente, poi
passate a 5 °C per 12 ore. Il giorno successivo iniziate
l’impasto mescolando il poolish con la farina, il latte e il
lievito. A metà impasto aggiungete il sale e, per finire, lo
zucchero.
◾ Lasciate puntare per 30 minuti, quindi stendete la pasta e
passatela al freddo a 5 °C per circa 40 minuti.
◾ Sfogliate con 250 g di burro per ogni kg di pasta, dando 2
giri semplici, poi passate al freddo a 5 °C per almeno 30
minuti.
◾ Date il 3° giro e ponete al freddo a 5 °C per circa 45
minuti. Trascorso questo tempo stendete la pasta a uno
spessore di 3 mm, ritagliate dei triangoli e formate i
croissant. Date un appretto a 25-26 °C per 90-120 minuti,
dorate e cuocete a 210-220 °C per 16-18 minuti circa.
CORNETTO AL MIELE

la scorza di 1/2 arancia non trattata


la scorza di 1/2 limone non trattato
50 g di miele
1/2 bacca di vaniglia
1.000 g di farina W 300 - P/L 0,55
40 g di lievito compresso
4 uova
4 tuorli
15 g di sale
150 g di zucchero
180 g di burro
180 g di acqua
400 g di burro per sfogliare
zucchero a velo

TEMPERATURA FINALE DELL’IMPASTO


23-24 °C

◾ Il giorno precedente la preparazione grattugiate le scorze


di arancia e limone e mescolatele in una ciotola con il
miele con la bacca di vaniglia. Tenete da parte fino al
giorno dopo.

◾ Iniziate l’impasto mescolando la farina con il lievito,


l’acqua e le uova.
◾ Impastate per 5 minuti alla 1a velocità, aggiungete i tuorli,
il sale e lo zucchero e impastate per altri 5 minuti alla 2a
velocità, quindi incorporate gli aromi preparati il giorno
precedente. Quando saranno stati assorbiti aggiungete il
burro e continuate a impastare fino a ottenere un impasto
liscio e omogeneo.

◾ Lasciate riposare l’impasto per circa 60 minuti a


temperatura ambiente, poi passate in frigorifero a 4 °C
per un’ora, oppure, terminato l’impasto, ponetelo in
ambiente freddo a 4 °C per 12 ore. Trascorso questo
tempo, sfogliate con una piega a 4 e una a 3 in
successione, date un riposo di 15 minuti al freddo, poi
stendete a una misura di 2,5 mm, ritagliate dei triangoli e
procedete alla formazione dei singoli pezzi.
◾ Dorate spennellando con uovo e mettete a lievitare per
circa 90 minuti a 25 °C.

◾ Prima di passare alla cottura dorate una seconda volta e


spolverizzate con zucchero a velo. Infornate a 210 °C per
15 minuti circa.
TRIANGOLI MELE E UVETTA

PER L’IMPASTO
1.000 g di farina W 300 - P/L 0,55
320 g di latte
40 g di lievito compresso
180 g di uova
20 g di sale
130 g di zucchero
300 g di burro ammorbidito
550 g di burro per sfogliare

TEMPERATURA FINALE DELL’IMPASTO


23-24 °C

PER IL RIPIENO
250 g di mele a cubetti
50 g di burro
100 g di zucchero
500 g di crema pasticciera
200 g di granella di nocciole tostate
250 g di uvetta sultanina

PER COMPLETARE
granella di nocciole

TEMPO DI LIEVITAZIONE
Metodo diretto:
2 ore a 27 °C - 1 ora a 4 °C
Metodo differito:
12 ore a 4 °C (l’impasto passato al freddo presenterà una stratificazione regolare
del burro)
Iniziate l’impasto mescolando la farina con il latte, il

lievito e metà delle uova. Impastate per 5 minuti in 1a
velocità, poi aggiungete le restanti uova, il sale, lo
zucchero e gli eventuali aromi e impastate per 5 minuti in
2a velocità. Incorporate infine il burro e impastate fino a
ottenere un impasto liscio e omogeneo.

◾ Stendete la pasta a rettangolo, ricoprite con il burro i due


terzi della sua superficie e ripiegate verso il centro la
parte senza burro, poi ripiegate sopra la parte con il
burro.
◾ Date 3 giri semplici: i primi 2 in successione, il terzo dopo
30 minuti di riposo al freddo a 4 °C, tenendo la pasta a
uno spessore di 2,5 mm. Coprite e mettete al freddo per
30 minuti.

◾ Nel frattempo preparate il ripieno. In una padella fate


caramellare i cubetti di mela con il burro e lo zucchero.
Quando la frutta sarà caramellata, fatela raffreddare e
trasferitela in una terrina. Mescolatela con la crema
pasticciera, incorporando alla fine la granella di nocciole e
l’uvetta. Tenete da parte.
◾ Passate alla formatura stendendo la pasta a uno spessore
di 3 mm. Tagliate dei quadrati di 10×10 cm e dorate con
dell’uovo i due bordi di ogni pezzo. Distribuite al centro di
ognuno un po’ di ripieno e ripiegate a forma di triangolo.
◾ Dorate e ponete a lievitare in cella a 25 °C per circa 90
minuti. Prima di passare in forno, dorate una seconda
volta, poi cospargete con granella di nocciole. Infornate a
200 °C per 18 minuti circa.
VENEZIANA

PER IL 1° IMPASTO
4.000 g di farina W 350 - P/L 0,55
1.150 g di lievito naturale a maturazione pronta
2.000 g di acqua
1.200 g di zucchero
600 g di tuorli
1.200 g di burro ammorbidito
8 g di sale

PER IL 2° IMPASTO
1° impasto +
1.000 g di farina W 280/300 - P/L 0,50/0,55
1.000 g di zucchero
1.600 g di tuorli
52 g di sale
2.000 g di burro ammorbidito
250 g di miele d’acacia
25 g di malto
4 bacche di vaniglia
la scorza grattugiata di 4 arance non trattate

PER LA GHIACCIA
albume
600 g di zucchero
150 g di mandorle pelate
60 g di amido di riso

PER COMPLETARE
granella di zucchero
zucchero a velo
◾ Per il 1° impasto mettete nell’impastatrice la farina, il
lievito, e l’acqua; dopo circa 15 minuti, a impasto formato,
aggiungete lo zucchero, il sale, una parte dei tuorli, il
burro e, dopo che questo sarà stato assorbito, i rimanenti
tuorli. Impastate fino a ottenere un impasto liscio ma non
troppo lavorato; questa operazione non dovrebbe durare
più di 25 minuti. Mettete a lievitare in cella per 10-12 ore
a 24-25 °C, o comunque fino a quando il volume non
risulterà triplicato.
◾ Aggiungete al 1° impasto la farina e il malto, poi
impastate per circa 15 minuti. Aggiungete lentamente lo
zucchero e, dopo il suo assorbimento, unite la metà dei
tuorli, il sale, il miele, gli aromi. Fate incorporare il tutto
fino a ottenere una pasta liscia e omogenea. Unite i
restanti tuorli e il burro. Lavorate bene fino a quando
l’impasto non avrà raggiunto la giusta consistenza.

◾ Togliete dall’impastatrice, ponete in un contenitore e


lasciate riposare per circa 30 minuti. Trascorso questo
tempo, prelevate dall’impasto dei pezzi del peso
desiderato, arrotondateli, poneteli su tavole e mettete in
cella a 28 °C per una puntatura di circa 35-40 minuti.
Arrotondateli nuovamente ben stretti e poneteli nelle
apposite fasce.
◾ La lievitazione in cella a 28-30 °C può durare da 6 a 7 ore,
in base alla forza dell’impasto. Lasciate lievitare fino al
bordo dello stampo e ghiacciate con uno strato sottile di
ghiaccia, che avrete preparato in precedenza montando
l’albume senza zucchero e incorporandovi poi gli altri
ingredienti. Cospargete la superficie ghiacciata con
granella di zucchero e spolverizzate con zucchero a velo.
TEMPI DI COTTURA
500 g: 35 minuti a 170-180 °C
1.000 g: 50-55 minuti a 170-180 °C
1.500 g: 70-75 minuti a 170-180 °C
2.000 g: circa 90 minuti a 160-170 °C

◾ Per mantenere la forma, dopo la cottura girate


immediatamente la veneziana con le apposite pinze e
lasciatela in quella posizione per circa 10 ore prima di
confezionarla.
VENEZIANA CON LIEVITO MISTO

1.000 g di farina W 320 - P/L 0,55


250 g di lievito naturale
250 g di zucchero
50 g di miele
300 g di burro
15 g di sale
500 g di uova
100 g di tuorli
50 g di lievito compresso
aromi a piacere

TEMPERATURA FINALE DELL’IMPASTO


24-25 °C

PER LA PASTA ZUCCHERATA


500 g di farina W 300 - P/L 0,55
250 g di burro
250 g di zucchero
4 uova
la scorza di 1 limone non trattato

◾ Per la pasta zuccherata, impastate il burro, lo zucchero e


la scorza di limone. Aggiungete le uova e successivamente
la farina, senza impastare troppo. Stendete la pasta a 2
mm di altezza e ponetela coperta al freddo.
◾ Con un coppapasta del diametro di 7 cm ricavate dei pezzi
che andranno dorati e zuccherati; dovranno essere posati
sopra le veneziane prima della cottura.
◾ Iniziate l’impasto con farina, lievito madre, lievito
compresso e uova. Dopo qualche minuto aggiungete il sale
e i tuorli e, successivamente, il miele, lo zucchero e il
burro. Ponete a lievitare a una temperatura di 4-5 °C per
12-14 ore.

◾ Spezzate in pezzature da 60 g, arrotondate e posate su


teglie con carta da forno.
◾ Lasciate lievitare a una temperatura di 27-28 °C fino al
raddoppio del volume, poi lucidate con uovo e coprite con
le forme di pasta zuccherata.

◾ Cuocete a 200 °C per 15 minuti circa.


VENEZIANA CON ARANCIA
CANDITA

PER IL 1° IMPASTO
4.000 g di farina W 350 - P/L 0,55
1.150 g di lievito naturale a maturazione pronta
2.000 g di acqua
1.200 g di zucchero
800 g di tuorli
1.200 g di burro ammorbidito
8 g di sale

PER IL 2° IMPASTO
1° impasto +
1.000 g di farina W 280-300 - P/L 0,50-0,55
1.000 g di zucchero
1.600 g di tuorli
52 g di sale
2.100 g di burro ammorbidito
25 g di malto
2.000 g di arancia candita a cubetti

PER GLI AROMI


250 g di miele
500 g di pasta d’arancia
4 bacche di vaniglia

PER LA GHIACCIA
albume
600 g di zucchero
150 g di mandorle bianche in polvere
50 g di mandorle armelline in polvere
60 g di amido di riso

PER COMPLETARE
granella di zucchero
zucchero a velo

◾ Per il 1° impasto mettete nell’impastatrice la farina, il


lievito, e l’acqua; dopo circa 15 minuti, a impasto formato,
aggiungete lo zucchero, il sale, una parte dei tuorli, il
burro e, dopo che questo sarà stato assorbito, i rimanenti
tuorli. Impastate fino a ottenere un impasto liscio ma non
troppo lavorato; questa operazione non dovrebbe durare
più di 25 minuti.

◾ Mettete a lievitare in cella per 10-12 ore a 24-25 °C e


comunque fino a quando il volume non risulterà triplicato.
◾ Per il 2° impasto, aggiungete al 1° impasto la farina e il
malto e impastate per circa 15 minuti. Aggiungete poco
alla volta lo zucchero e, dopo che sarà stato assorbito,
incorporate la metà dei tuorli, il sale e gli aromi, preparati
il giorno precedente macerando nel miele la pasta
d’arancia e la vaniglia. Fate incorporare il tutto fino a
ottenere una pasta liscia e omogenea. Unite i restanti
tuorli e il burro. Alla fine incorporate i cubetti d’arancia,
continuando a impastare per qualche minuto, finché
l’impasto non avrà raggiunto la giusta consistenza.

◾ Togliete dall’impastatrice, ponete in un contenitore e


lasciate riposare per circa 30 minuti. Trascorso questo
tempo, staccate dall’impasto dei pezzi del peso desiderato,
formate le pagnotte, ponetele su tavole e mettete in cella
a 28 °C per una puntatura di circa 35-40 minuti.
Arrotondatele nuovamente ben strette e ponetele nelle
apposite fasce.
◾ La lievitazione in cella a 28-30 °C può durare da 6 a 7 ore,
in base alla forza dell’impasto. Lasciate lievitare fino al
bordo dello stampo e ghiacciate con uno strato sottile di
ghiaccia, che avrete preparato in precedenza montando
l’albume senza zucchero e incorporandovi poi gli altri
ingredienti. Cospargete la superficie ghiacciata con
granella di zucchero e spolverizzate con zucchero a velo.
TEMPI DI COTTURA
500 g: 35 minuti a 170-180 °C
1.000 g: 50-55 minuti a 170-180 °C
1.500 g: 70-75 minuti a 170-180 °C
2.000 g: circa 90 minuti a 160-170 °C

◾ Per mantenere la forma, dopo la cottura girate


immediatamente la veneziana con le apposite pinze e
lasciatela in quella posizione per circa 10 ore prima di
confezionarla.
VENEZIANA CON GOCCE DI
CIOCCOLATO

PER IL 1° IMPASTO
4.000 g di farina W 350 - P/L 0,55
1.150 g di lievito naturale a maturazione pronta
2.000 g di acqua
1.200 g di zucchero
800 g di tuorli
1.200 g di burro ammorbidito
8 g di sale

PER IL 2° IMPASTO
1° impasto +
1.000 g di farina W 280/300 - P/L 0,50/0,55
1.000 g di zucchero
52 g di sale
1.600 g di tuorli
2.100 g di burro ammorbidito
25 g di malto
1.800 g di gocce di cioccolato

PER GLI AROMI


250 g di miele
500 g di pasta d’arancia
4 bacche di vaniglia

PER LA GHIACCIA
albume
500 g di zucchero
150 g di mandorle bianche macinate
60 g di mandorle armelline macinate
50 g di amido di riso o fecola

PER COMPLETARE
granella di zucchero
zucchero a velo

◾ Per il 1° impasto mettete nell’impastatrice la farina, il


lievito, e l’acqua; dopo circa 15 minuti, a impasto formato,
aggiungete lo zucchero, il sale, una parte dei tuorli, il
burro e, dopo che questo sarà stato assorbito, i rimanenti
tuorli. Impastate fino a ottenere un impasto liscio ma non
troppo lavorato; questa operazione non dovrebbe durare
più di 25 minuti.

◾ Mettete a lievitare in cella per 10-12 ore a 24-25 °C, o


comunque fino a quando il volume non risulterà triplicato.
◾ Per il 2° impasto, aggiungete al 1° impasto la farina, il
malto e impastate per circa 15 minuti. Aggiungete poco
alla volta lo zucchero e, dopo che sarà stato assorbito,
incorporate la metà dei tuorli, il sale e gli aromi, preparati
il giorno precedente macerando nel miele la pasta
d’arancia e la vaniglia. Fate incorporare il tutto fino a
ottenere una pasta liscia e omogenea. Unite i restanti
tuorli e il burro. Incorporate poi le gocce di cioccolato,
continuando la lavorazione per qualche minuto. Impastate
bene fino a quando l’impasto non avrà raggiunto la giusta
consistenza.
◾ Togliete dall’impastatrice, ponete in un contenitore e
lasciate riposare per circa 30 minuti. Trascorso questo
tempo, prelevate dall’impasto dei pezzi del peso
desiderato, arrotondateli, poneteli su tavole e mettete in
cella a 28 °C per una puntatura di circa 35-40 minuti.
Arrotondateli nuovamente ben stretti e poneteli nelle
apposite fasce.
◾ La lievitazione in cella a 28-30 °C può durare da 6 a 7 ore,
in base alla forza dell’impasto. Lasciate lievitare fino al
bordo dello stampo e ghiacciate con uno strato sottile di
ghiaccia, che avrete preparato in precedenza montando
l’albume senza zucchero e incorporandovi poi gli altri
ingredienti. Cospargete la superficie ghiacciata con
granella di zucchero e spolverizzate con zucchero a velo.
TEMPI DI COTTURA
500 g: 35 minuti a 170-180 °C
1.000 g: 50-55 minuti a 170-180 °C
1.500 g: 70-75 minuti a 170-180 °C
2.000 g: circa 90 minuti a 160-170 °C

◾ Per mantenere la forma, dopo la cottura girate


immediatamente la veneziana con le apposite pinze e
lasciatela in quella posizione per circa 10 ore prima di
confezionarla.
VENEZIANA ALL’AMARETTO

PER IL 1° IMPASTO
4.000 g di farina W 350 - P/L 0,55
1.150 g di lievito naturale a maturazione pronta
2.000 g di acqua
1.200 g di zucchero
800 g di tuorli
1.200 g di burro ammorbidito
8 g di sale

PER IL 2° IMPASTO
1° impasto +
1.000 g di farina W 280-300 - P/L 0,50-0,55
1.000 g di zucchero
1.600 g di tuorli
52 g di sale
2.100 g di burro ammorbidito
25 g di malto
500 g di farina di mandorle grezze
150 g di farina di mandorle amare
750 g di amaretti sbriciolati

PER GLI AROMI


300 g di miele
4 bacche di vaniglia

PER LA GHIACCIA
600 g di albume
500 g di zucchero
200 g di mandorle bianche
200 g di mandorle grezze
50 g di armelline
75 g di fecola

PER COMPLETARE
granella di zucchero, zucchero a velo

◾ Per il 1° impasto mettete nell’impastatrice la farina, il


lievito, e l’acqua; dopo circa 15 minuti, a impasto formato,
aggiungete lo zucchero, il sale, una parte dei tuorli, il
burro e, quando questo sarà stato assorbito, i rimanenti
tuorli. Impastate fino a ottenere un impasto liscio ma non
troppo lavorato; questa operazione non dovrebbe durare
più di 25 minuti.
◾ Mettete a lievitare in cella per 10-12 ore a 24-25 °C, o
comunque finché il volume non sarà triplicato.

◾ Per il 2° impasto, aggiungete al 1° impasto la farina, il


malto e impastate per circa 15 minuti. Aggiungete poco
alla volta lo zucchero e, dopo che sarà stato assorbito,
incorporate la metà dei tuorli, il sale e gli aromi, meglio se
preparati il giorno precedente macerando nel miele la
vaniglia. Fare incorporare il tutto fino a ottenere una
pasta liscia e omogenea. Unite i restanti tuorli e il burro.
Incorporate poi le farine di mandorla e, successivamente,
gli amaretti sbriciolati. Impastate bene finché l’impasto
non avrà raggiunto la giusta consistenza.
◾ Togliete dall’impastatrice, ponete in un contenitore e
lasciate riposare per circa 30 minuti. Trascorso questo
tempo, prelevate dall’impasto dei pezzi del peso
desiderato, arrotondateli, poneteli su tavole e mettete in
cella a 28 °C per una puntatura di circa 35-40 minuti.
Arrotondateli nuovamente ben stretti e poneteli nelle
apposite fasce.

◾ La lievitazione in cella a 28-30 °C può durare da 6 a 7 ore,


in base alla forza dell’impasto. Lasciate lievitare fino al
bordo dello stampo e ghiacciate con uno strato sottile di
ghiaccia, che avrete preparato in precedenza montando
l’albume senza zucchero e incorporandovi gli altri
ingedienti. Cospargete la superficie ghiacciata con
granella di zucchero e spolverizzate con zucchero a velo.
TEMPI DI COTTURA
500 g: 35 minuti a 170-180 °C
1.000 g: 50-55 minuti a 170-180 °C
1.500 g: 70-75 minuti a 170-180 °C
2.000 g: circa 90 minuti a 160-170 °C

◾ Per mantenere la forma, dopo la cottura girate


immediatamente la veneziana con le apposite pinze e
lasciatela in quella posizione per circa 10 ore prima di
confezionarla.
VENEZIANA CON ANANAS
CANDITO

PER IL 1° IMPASTO
4.000 g di farina W 350 - P/L 0,55
1.150 g di lievito naturale a maturazione pronta
2.000 g di acqua
1.200 g di zucchero
800 g di tuorli
1.200 g di burro ammorbidito
8 g di sale

PER IL 2° IMPASTO
1° impasto +
1.000 g di farina W 280-300 - P/L 0,50-0,55
1.000 g di zucchero
1.600 g di tuorli
52 g di sale
2.100 g di burro ammorbidito
25 g di malto
2.000 g di ananas candito a cubetti

PER GLI AROMI


250 g di miele
500 g di pasta di mandorle
la scorza grattugiata di 4 arance non trattate
4 bacche di vaniglia

PER LA GHIACCIA
albume
60 g di mandorle armelline macinate
150 g di mandorle bianche macinate
500 g di zucchero
50 g di amido di riso o fecola

◾ Per il 1° impasto mettete nell’impastatrice la farina, il


lievito, e l’acqua; dopo circa 15 minuti, a impasto formato,
aggiungete lo zucchero, il sale, una parte dei tuorli, il
burro e, dopo che questo sarà stato assorbito, i rimanenti
tuorli. Impastate fino a ottenere un impasto liscio ma non
troppo lavorato; questa operazione non dovrebbe durare
più di 25 minuti.

◾ Mettete a lievitare in cella per 10-12 ore a 24-25 °C, o


comunque fino a quando il volume non sarà triplicato.
◾ Per il 2° impasto, aggiungete al 1° impasto la farina e il
malto e impastate per circa 15 minuti. Aggiungete poco
alla volta lo zucchero e, dopo che sarà stato assorbito,
incorporate la metà dei tuorli, il sale e gli aromi, preparati
il giorno precedente macerando nel miele la pasta di
mandorle, la scorza degli agrumi e la vaniglia. Fate
incorporare il tutto fino a ottenere una pasta liscia e
omogenea. Unite i restanti tuorli e il burro, poi
incorporate l’ananas candito. Impastate bene fino a
quando l’impasto non avrà raggiunto la giusta
consistenza.

◾ Togliete dall’impastatrice, ponete in un contenitore e


lasciate riposare per circa 30 minuti. Trascorso questo
tempo, prelevate dall’impasto dei pezzi del peso
desiderato, arrotondateli, poneteli su tavole e mettete in
cella a 28 °C per una puntatura di circa 35-40 minuti.
Arrotondateli nuovamente ben stretti e poneteli nelle
apposite fasce.
◾ La lievitazione in cella a 28-30 °C può durare da 6 a 7 ore,
in base alla forza dell’impasto. Lasciate lievitare fino al
bordo dello stampo e ghiacciate con uno strato sottile di
ghiaccia, che avrete preparato in precedenza montando
l’albume senza zucchero e incorporandovi poi gli altri
ingredienti. Cospargete la superficie ghiacciata con
granella di zucchero e spolverizzate con zucchero a velo.
TEMPI DI COTTURA
500 g: 35 minuti a 170-180 °C
1.000 g: 50-55 minuti a 170-180 °C
1.500 g: 70-75 minuti a 170-180 °C
2.000 g: circa 90 minuti a 160-170 °C

◾ Per mantenere la forma, dopo la cottura girate


immediatamente la veneziana con le apposite pinze e
lasciatela in quella posizione per circa 10 ore prima di
confezionarla.
GIRELLA AL CRANBERRY

1.000 g di farina W 320 - P/L 0,55


500 g di tè al mirtillo
150 g di zucchero
20 g di sale
200 g di burro ammorbidito
35 g di lievito compresso
400 g di burro per sfogliare

PER COMPLETARE
250 g di crema pasticciera
250 g di cranberry
zucchero a velo

◾ Iniziate l’impasto mescolando la farina con il tè e il lievito.


A metà impasto aggiungete lo zucchero e successivamente
il sale. Infine incorporate il burro. Ponete a 4 °C per circa
12 ore. Trascorso questo tempo, sfogliate con il burro, con
una piega a 4 e una a 3 in successione. Ponete a 4 °C per
circa 20 minuti.
◾ Stendete la pasta a 3 mm di spessore, ritagliatene dei
rettangoli della misura desiderata, spalmatevi sopra un
sottile strato di crema pasticciera e cospargete con i
cranberry.

◾ Arrotolate ben stretto, ponete al freddo per 30 minuti


circa, poi tagliate il rotolo ottenuto a fette dello spessore
di 2 cm.
◾ Disponete le girelle su teglie rivestite con carta da forno,
lucidate con dell’uovo e ponete a lievitare a 25-26 °C per
circa 60 minuti.

◾ Passate per qualche minuto al freddo, quindi infornate a


210 °C.
◾ Sfornate e lucidate con uno sciroppo composto da pari
peso di acqua e zucchero a velo, da utilizzare bollente sul
prodotto caldo.
GIRELLA SFOGLIATA ALLA
GRANELLA DI ZUCCHERO

1.000 g di farina W 300 - P/L 0,55


300 g di latte
40 g di lievito compresso
230 g di uova
100 g di zucchero
20 g di sale
300 g di burro ammorbidito
300 g di burro per sfogliare
100 g di burro per spalmare ammorbidito
150 g di granella di zucchero

PER COMPLETARE
zucchero a velo

TEMPERATURA FINALE DELL’IMPASTO


24 °C

◾ Iniziate l’impasto con la farina, il latte, il lievito e una


parte delle uova. Dopo 5 minuti aggiungete le uova
rimanenti, lo zucchero e, quando questo risulterà
assorbito, anche il sale e il burro, lavorando fino a
ottenere un impasto liscio e omogeneo. L’impasto può
essere preparato in precedenza e conservato a una
temperatura di 4 °C. Per un utilizzo immediato, lasciate
lievitare per 60 minuti (o fino a quando il suo volume non
risulterà raddoppiato) a temperatura ambiente e per 60
minuti a 4 °C.
◾ Trascorso questo tempo stendete la pasta a rettangolo e
disponete il burro sui due terzi della superficie, ripiegando
verso il centro la parte senza burro e ripiegandovi sopra la
parte con il burro.
◾ Sfogliate con una piega a 4 e una piega a 3, poi mettete in
frigorifero finché non risulta rassodato.

◾ Dopo questo passaggio, stendete la pasta a 2 mm di


spessore, spalmatela con il restante burro e cospargetela
con la granella. Formate dei rotoli di 6 cm di spessore e
passateli al freddo per facilitare il taglio delle porzioni.
Tagliate quindi delle fette di 4 cm circa di larghezza,
mettetele in stampi rotondi e dorate con un composto a
base di uovo, latte e un pizzico di sale. Fate lievitare in
cella a 24 °C per circa 60 minuti o fino a quando il volume
non sarà raddoppiato.
◾ Dorate una seconda volta prima di infornare a 210 °C per
15 minuti circa.
◾ Sfornate, togliete dagli stampi, lasciate raffreddare le
girelle e infine spolverizzatele con zucchero a velo o
lucidatele con uno sciroppo composto da pari peso di
acqua e zucchero a velo, da utilizzare bollente sul
prodotto caldo.
FAGOTTINI AL MÜSLI

1.000 g di farina W 320 - P/L 0,55


150 g di latte
35 g di lievito compresso
7 uova
2 tuorli
20 g di sale
200 g di zucchero
250 g di burro ammorbidito
50 g di miele
1/2 bacca di vaniglia

PER LA MASSA AL MÜSLI


500 g di mele grattugiate
300 g di fiocchi d’avena
300 g di yogurt naturale
200 g di zucchero
100 g di uvetta sultanina
50 g di succo di limone

◾ Iniziate l’impasto con la farina, il latte e il lievito. A metà


impasto aggiungete le uova, i tuorli, il sale, lo zucchero, il
miele, la vaniglia e, successivamente, il burro. Alla fine
della lavorazione l’impasto dovrà risultare liscio e
omogeneo. Mettete a 4-5 °C per circa 12 ore.

◾ Preparate la massa al müsli amalgamando tutti gli


ingredienti, quindi lasciate riposare per una notte in
frigorifero.
◾ Trascorso questo tempo, stendete la pasta a uno spessore
di 4 mm, ritagliate dei rettangoli di 12×10 cm e distribuite
al centro di ogni rettangolo una striscia di massa.
Ripiegate i lati formando un fagottino e trasferite su teglie
rivestite con carta da forno, con la chiusura rivolta verso il
basso.

◾ Mescolate le uova con il latte e un pizzico di sale e usate


parte del composto per lucidare la superficie dei fagottini.
◾ Fate lievitare a 27-28 °C finché l’impasto non avrà
raddoppiato il suo volume. Lucidate una seconda volta e
infornate a 200 °C per 15 minuti circa.
FIOCCHETTI PROFUMATI

1.000 g di farina W320 - P/L 0,55


40 g di lievito compresso
400 g di latte
20 g di sale
220 g di uova
100 g di zucchero
220 g di burro ammorbidito

PER SFOGLIARE
400 g di burro
200 g di ananas candito, macinato e ridotto in pasta

PER COMPLETARE
crema pasticciera
ananas sciroppato
amarene sciroppate
zucchero a velo

TEMPI DI IMPASTO
Impastatrice a spirale:
5 minuti in 1a velocità – 8 minuti in 2a velocità
Impastatrice a braccia tuffanti:
7 minuti in 1a velocità – 8 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE DELL’IMPASTO


24 °C

◾ Iniziate l’impasto mescolando la farina con il lievito e il


latte. Dopo qualche minuto aggiungete il sale e le uova,
lasciate formare bene l’impasto, quindi incorporate lo
zucchero e successivamente il burro. Questo impasto può
essere preparato il giorno precedente e messo a 4 °C. Per
un utilizzo immediato lasciatelo lievitare per 2 ore a
temperatura ambiente, poi passatelo a 4 °C per circa 60
minuti.
◾ Per sfogliare, aromatizzate il burro con la pasta
all’ananas, mescolando bene i due ingredienti, quindi
mettetelo al freddo.

◾ Sfogliate con il burro aromatizzato per 2 volte a 3 pieghe,


mettete al freddo per circa 30 minuti poi sfogliate ancora
una volta a 3 pieghe.
◾ Stendete la pasta a uno spessore di 4 mm, ritagliate delle
strisce di 15 cm di lunghezza e 5 di larghezza. Con un
tagliapasta praticate un taglio al centro, lasciando 2,5 cm
di bordo alle estremità, che farete entrare nel taglio
praticato, l’una all’interno e l’altra all’esterno.

◾ Disponete i fiocchetti su teglie rivestite con carta da forno,


lucidate con dell’uovo, lasciate lievitare per 70 minuti
circa a 25 °C, quindi lucidate nuovamente e, prima di
passare in forno, con una tasca da pasticciere dressate
con crema pasticciera la parte centrale del fiocchetto.
Decorate con cubetti di ananas sciroppato e amarene.
◾ Infornate a 200 °C per 15 minuti circa. All’uscita dal forno
lucidate semplicemente con uno sciroppo composto da
pari peso di acqua e zucchero a velo, da utilizzare bollente
sul prodotto caldo.
MINT AND CHOCOLATE

PER L’INFUSO ALLA MENTA


600 g di acqua
25 g di foglie di menta fresca

PER L’IMPASTO
1.250 g di farina W 320 - P/L 0,55
60 g di lievito
20 g di latte in polvere
100 g di zucchero
25 g di sale
50 g di burro ammorbidito
600 g di infuso alla menta
10 g di menta essiccata
500 g di burro per sfogliare

TEMPI DI IMPASTO
Impastatrice a spirale:
3 minuti in 1a velocità – 6 minuti in 2a velocità
Impastatrice a braccia tuffanti:
4 minuti in 1a velocità – 7 minuti in 2a velocità

PER COMPLETARE
barrette di cioccolato

◾ Mettete in infusione per 10 minuti le foglie di menta


nell’acqua bollente. Filtrate, fate intiepidire e tenete al
freddo fino al momento dell’uso.
◾ Iniziate l’impasto mescolando la farina con il lievito e
l’infuso nel quale avrete sciolto il latte in polvere. A metà
impasto aggiungete lo zucchero, il sale, la menta essiccata
e successivamente il burro. Se scegliete il metodo diretto,
lasciate riposare l’impasto per circa un’ora a 25-26 °C,
stendetelo e passatelo al freddo a 5 °C per 60 minuti
circa. Se scegliete il metodo differito, una volta terminato
l’impasto passatelo al freddo a 5 °C per 12 ore circa.
◾ Trascorso questo tempo, sfogliate dando 2 giri semplici,
poi passate al freddo a 5 °C per 30 minuti. Date il 3° giro e
ponete nuovamente al freddo a 5 °C per circa 45 minuti.
◾ In alternativa, sfogliate con una piega a 4 e una a 3 in
successione. Ponete a 4 °C per 30 minuti poi stendete la
pasta a uno spessore di 3 mm, e formate a piacere
inserendo delle barrette di cioccolato.

◾ Distribuite su teglie con carta da forno e dorate con uovo.


Ponete a lievitare a 25-26 °C per 100-120 minuti, dorate
nuovamente e passate alla cottura a 210 °C per 15-16
minuti circa.
◾ Quando sfornate potete lucidare con uno sciroppo
composto da pari peso di acqua e di zucchero a velo, da
utilizzare bollente sul prodotto caldo.
PANDORINO AGLI AGRUMI

1.200 g di farina W 300 - P/L 0,55


400 g di latte
40 g di lievito compresso
100 g di zucchero di canna
25 g di sale
150 g di burro
2 uova
2 tuorli
500 g di burro per sfogliare
le scorze di 4 limoni o di 3 arance (oppure una miscela delle due) non trattati

PER COMPLETARE
zucchero di canna

TEMPI DI IMPASTO
Planetaria:
4 minuti in 1a velocità – 6 minuti in 2a velocità
Impastatrice a spirale:
5 minuti in 1a velocità – 7 minuti in 2a velocità
Impastatrice a braccia tuffanti:
6 minuti in 1a velocità – 8 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE DELL’IMPASTO


21-23 °C

◾ Impastate tutti gli ingredienti tranne lo zucchero e il sale,


che devono essere aggiunti a metà impasto. Questo
impasto può essere preparato il giorno precedente e
messo a lievitare a 4 °C per 12-14 ore. Per un utilizzo
immediato lasciatelo lievitare per 2 ore a temperatura
ambiente e per un’ora a 4 °C.

◾ Trascorso questo tempo, sfogliate con 3 giri semplici


dando un riposo di 20-30 minuti (in frigorifero) fra il 2° e il
3° giro, poi passate in frigorifero per altri 20-30 minuti.
◾ Stendete la pasta a uno spessore di 2,5 mm, distribuite
sopra la scorza degli agrumi grattugiata al momento e
cospargete con zucchero di canna. Arrotolate ben stretto,
ponete i rotoli al freddo per 30 minuti circa, poi tagliate
ogni rotolo ottenuto a fette dello spessore adeguato allo
stampo e passate nello zucchero di canna entrambi i lati
prima di sistemate le fette nello stampo.
◾ Fate lievitare a 27 °C per circa 60 minuti, passate per
qualche minuto al freddo, quindi infornate a 210 °C per 17
minuti circa.
ARROTOLATI MISTI

PER LA PASTA BRIOCHE


1.000 g di farina
35 g di lievito
20 g di sale
200 g di zucchero
250 g di burro
150 g di latte
50 g di miele
7 uova
2 tuorli
1/2 bacca di vaniglia

PER LA PASTA CROISSANT


1.000 g di farina
20 g di sale
150 g di zucchero
35 g di lievito
200 g di burro
450 g di latte
400 g di burro per sfogliare

PER COMPLETARE
burro
zucchero

◾ Per la pasta brioche: iniziate l’impasto con la farina, il


lievito, le uova e il latte. Impastate per 5 minuti in 1a
velocità, poi aggiungete i tuorli, la bacca di vaniglia, il
miele, lo zucchero e successivamente il sale. Quando tutti
questi ingredienti saranno stati assorbiti aggiungete
lentamente il burro. L’impasto dovrà essere liscio e
omogeneo. La temperatura finale dell’impasto dovrà
essere di 23-24 °C.
◾ Lasciate lievitare per un’ora a temperatura ambiente e per
un’ora a 4 °C, oppure per 12 ore a 4 °C.

◾ Per la pasta croissant: iniziate l’impasto con farina, latte e


lievito. A metà impasto unite lo zucchero, il sale e
successivamente il burro. I tempi di impasto sono: con
impastatrice a spirale, 3 minuti in 1a velocità e 6 in 2a
velocità; con impastatrice a braccia tuffanti, 4 minuti in 1a
velocità e 7 in 2a velocità; in planetaria, 2 minuti in 1a
velocità e 5 in 2a velocità. La temperatura finale
dell’impasto deve essere di 24 °C.

◾ Lasciate lievitare per un’ora a temperatura ambiente e per


un’ora al freddo a 4 °C, oppure per 12 ore a 4 °C.
Sfogliate 3 volte a 3 dando un riposo di circa 30 minuti in
frigorifero tra la seconda e la terza piegatura.
◾ Trascorso questo tempo, stendete un rettangolo di pasta
croissant e sopra ponete un rettangolo di pasta brioche
della medesima misura. Passateli insieme alla sfogliatrice
fino a ottenere una pasta dello spessore di 3 mm.
Ritagliate dei rettangoli di 30×20 cm, spennellate di burro
fuso tutta la loro superficie e spolverizzatela con un po’ di
zucchero, poi arrotolate il pezzo in modo da ottenere un
doppio rotolo. Chiudete bene e tagliate il rotolo in pezzi di
3 cm di larghezza. Torcete delicatamente di un mezzo giro
le due parti e disponete su teglie rivestite con carta da
forno. Dorate con dell’uovo e passate in cella a 25 °C a
lievitare per un’ora.

◾ Dorate una seconda volta prima di passare alla cottura a


220 °C per 18 minuti circa. Dopo la cottura i prodotti
possono essere nappati oppure spolverizzati con zucchero
a velo o lucidati con uno sciroppo composto da pari peso
di acqua e zucchero a velo, usato bollente sul prodotto
caldo.

NOTA

◾ Realizzati con di due impasti diversi, con una confezione


molto particolare, questi piccoli dolci sono molto saporiti
grazie alla combinazione burro/zucchero.
CESTINO DI RISO

1.000 g di farina W 300 - P/L 0,55


300 g di latte
40 g di lievito compresso
200 g di uova
20 g di sale
100 g di zucchero
320 g di burro ammorbidito
500 g di burro per sfogliare

TEMPERATURA FINALE DELL’IMPASTO


23-24 °C

PER IL RIPIENO DI RISO


120 g di riso
2 g di sale
500 g di latte
100 g di granella di amaretto
80 g di zucchero
80 g di uova
la scorza grattugiata di 1 arancia non trattata
800 g di crema pasticciera

PER COMPLETARE
zucchero a velo

◾ Iniziate l’impasto con la farina, il latte, il lievito e metà


delle uova. Impastate per 5 minuti in 1a velocità, poi
aggiungete le rimanenti uova, il sale, lo zucchero e
impastate per 5 minuti in 2a velocità. Incorporate il burro
e lavorate fino a ottenere un impasto liscio e omogeneo.
Scegliete il tempo di lievitazione: con metodo diretto, 2
ore a 27 °C e un’ora a 4 °C; con metodo differito, 12 ore a
4 °C. L’impasto passato al freddo presenterà una
stratificazione regolare del burro.
◾ Sfogliate con il burro, con una piega a 4 e una piega a 3,
dando un riposo di circa 30 minuti in frigorifero. Trascorso
questo tempo, stendete la pasta a uno spessore di 3 mm e
passatela brevemente nel congelatore.
◾ Nel frattempo preparate il ripieno: cuocete il riso con il
sale e dell’acqua finché questa non si sarà asciugata.
Aggiungete il latte e proseguite la cottura fino a quando il
latte non sarà stato assorbito. Lasciate raffreddare. Unite
la granella di amaretto, lo zucchero, le uova e la scorza
d’arancia amalgamando bene il tutto. Infine, incorporate
la crema pasticciera.
◾ Togliete la pasta dal congelatore, ritagliate dei quadrati di
8 cm di lato e poneteli in stampi tipo creme caramel,
quindi mettete un po’ di ripieno al centro. Lasciate
lievitare per circa 60 minuti a 25-26 °C e infornate a 190-
200 °C per 15 minuti circa. A cottura ultimata,
spolverizzate con zucchero a velo.
FIORE AI LAMPONI

1.000 g di farina
35 g di lievito compresso
20 g di sale
200 g di zucchero
300 g di burro
500 g di latte
2 uova
2 tuorli

PER LA CREMA PASTICCIERA


150 g di tuorli
100 g di zucchero
40 g di farina
500 g di latte
la scorza di 1/2 limone non trattato
1/2 bacca di vaniglia
100 g di lamponi

TEMPI DI IMPASTO
Planetaria:
4 minuti in 1a velocità – 6 minuti in 2a velocità
Impastatrice a spirale:
5 minuti in 1a velocità – 7 minuti in 2a velocità
Impastatrice a braccia tuffanti:
5 minuti in 1a velocità – 9 minuti in 2a velocità

TEMPERATURA FINALE DELL’IMPASTO


24 °C
◾ Per la crema pasticciera: miscelate in modo omogeneo i
tuorli, lo zucchero e la farina. Bollite il latte con gli aromi,
incorporate la miscela composta da tuorli, zucchero e
farina e completare la cottura. Lasciate raffreddare. Per
ottenere una crema pasticciera ai lamponi aggiungete i
lamponi passati al setaccio.

◾ Iniziate l’impasto con la farina, il latte, il lievito. A metà


impasto aggiungete lo zucchero e successivamente il sale;
quando questi ingredienti saranno stati assorbiti
aggiungete le uova e poi, lentamente, il burro.
◾ Terminato l’impasto, dividetelo in 2 parti di uguale peso.
In una delle due parti incorporate 25 g di pasta ai lamponi
e impastate ancora per qualche minuto, finché la pasta ai
lamponi non sarà stata completamente assorbita.

◾ Questo impasto può essere preparato il giorno precedente


e messo a lievitare a una temperatura di 4 °C per un
massimo di 12 ore. Per un utilizzo immediato lasciatelo
lievitare per un’ora a temperatura ambiente e per 2 ore a
4 °C.
◾ Dopo il riposo al freddo, stendete la pasta a uno spessore
di 6 mm; con un coppapasta della forma desiderata
ritagliate dei pezzi che serviranno da base e avranno una
forma leggermente più grande.
◾ Dall’altro pezzo di pasta, usando un coppapasta con la
stessa forma ma più piccolo, ricavate altri pezzi, con un
coppapasta rotondo create un foro nella parte centrale,
quindi posate questi pezzi sopra quelli più grandi (nel foro
centrale inserirete la crema pasticciera all’uscita dal
forno).

◾ Posate le forme negli stampi e fatele lievitare a una


temperatura di 26-27 °C per 70-75 minuti, dopo averle
lucidate con uovo, latte e un pizzico di sale o zucchero.
◾ Lucidate una seconda volta e infornate a una temperatura
di 200 °C per 16 minuti circa.

◾ All’uscita dal forno lucidate con pari peso di acqua e


zucchero a velo, da utilizzare bollenti sul prodotto caldo.
◾ Lasciate raffreddare, poi decorate con crema pasticciera e
lamponi.

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