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RIASSUNTO DI
LETTERATURA LATINA
GIAN BIAGIO CONTE
VOLUME I
I
ALTA E MEDIA REPUBBLICA
Roma, città latino-sabina. Per gli studiosi che sostengono tale ipotesi, i primi stanziamenti nella zona latina risalgono
al X secolo e la città sarebbe sorta, non per associazione, ma per successivi ampliamenti di un nucleo primitivo durante
i secoli IX e XIII a.C.
Roma, città etrusca. Per i sostenitori di tale ipotesi esistono tracce di stanziamenti pre-etruschi sul Palatino ma questi
rappresentavano solo confederazioni fra villaggi. Furono gli etruschi i primi a introdurre il tipo della “città-stato” in Italia.
Comunque, se Roma non è propriamente di origine etrusca, è etrusca senz’altro la Costituzione cittadina.
Il processo formativo della città e la distinzione della popolazione fra patrizi e plebei. La storiografia moderna
pone come organismo originario la familia, facendo derivare da questa organismi più ampi come la gens e la civitas.
Questa opinione non tiene conto della circostanza che l’organizzazione primitiva non era la famiglia, ma la comunità
indifferenziata. L’ipotesi più probabile è quindi quella gentilizia – cioè di una federazione di gentes – che, pur non
disconoscendo la possibilità di una formazione delle gentes nell’ambito di più vaste comunità, né la compresenza di
organismi minori, riconosce alla gens il carattere di una organizzazione politica sia perché in essa si verificava il primo
limitato fenomeno di divisione in classi, sia perché essa non aveva vincoli di sangue ma etnici.
Osserviamo i fatti: si ha una città stato solo se esiste una economia commerciale; infatti ad un’economia agricola
corrisponde una struttura gentilizia, aristocratica, gerarchica, territoriale, che non conosce lo schiavo, ma solo il cliente
che ne è elemento estraneo con esclusivi compiti di difesa.
La città-stato è un modello etrusco. Nel 754 a.C. gli etruschi ebbero la loro massima espansione territoriale a sud, e
giunsero al Tevere; all’altezza dell’isola Tiberina fondarono la loro più avanzata base commerciale, trovandovi però una
popolazione locale a struttura tribale (gentilizia). Nacque così un lunghissimo conflitto tra il modello etrusco importato
della città-stato e quello latino locale (gentes). In una prima fase la struttura gentilizia ebbe la meglio perché più solida (è
il periodo in cui le assemblee sono divise per curie); nella seconda fase i re acquisirono maggior potere ed entrarono in
contrasto con il Senato di origine gentilizia (è il periodo dei comizi centuriati divisi per censo). Si ebbe dunque un
cambiamento sociale, politico ed economico, insomma il passaggio da un modello politico statico ad uno dinamico. Il
quel periodo i clienti si staccarono dalla gens e si unirono al resto della plebe di origine alluvionale.
L’elemento razziale può perciò essere preso in considerazione per spiegare la differenza tra patriziato e plebe, ma solo
riguardo alla maggiore omogeneità del patriziato. Oltre alla struttura socio-politica, il divario tra patrizi e plebei era
dovuto ai diversi culti e al “connubium”.
Nella prima fase lo stato è federativo raggruppando numerosi insiemi di individui (gentes); in questa struttura il re deve
esistere in quanto costituisce la forma più semplice di legame federativo. Tale figura va intesa come coordinatrice di
funzioni religiose e militari.
Nella seconda fase i re vengono presentati come figure dispotiche poiché la storia di questo periodo è scritta da
elementi aristocratici contrari al potere regio. I re etruschi immettono nel diritto romano il concetto di “imperium”.
L’attribuzione del potere al re avveniva con la “lex curiata de imperio” in un primo tempo rappresentata da un
giuramento di fedeltà e successivamente un vero e proprio atto di sottomissione al sovrano. L’unico ostacolo era
rappresentato dal Senato comunque notevolmente indebolito a partire dalla dominazione etrusca.
Il comizio curiato. Il comizio curiato, costituito da tutto il popolo, rappresenta il più antico organo che la storia di Roma
ricordi. Secondo la tradizione fu Romolo a dividere la popolazione in tre tribù ed ogni tribù in 10 curie. Quanto alle
competenze possiamo certamente escludere le funzioni elettorali, legislative e giurisdizionali. In effetti, anche per
quanto riguarda la lex curiata de imperio occorre precisare che non si tratta di una lex o di una investitura ma di un
semplice atto con cui il popolo riconosce l’autorità del magistrato supremo e si obbliga a sottostare al suo imperium.
Il Senato. Il Senato era l’assemblea dei patres o degli anziani. La dottrina ritiene che il Senato avesse un carattere
originario e fosse depositario della sovranità che veniva, solo in un secondo tempo, delegata al rex. Le tre funzioni più
antiche del Senato erano:
1 l’interregnum, che si attuava quando veniva a mancare il rex. Gli auspici tornavano al Senato e i Senatori
esercitavano l’imperium a turno per cinque giorni ciascuno;
2 l’auctoritas, che consisteva in una sorta di ratifica delle deliberazioni ma non sappiamo se popolari o regie;
3 lo ius belli et pacis, che consisteva nella titolarità del diritto di concludere foedera o di decidere le guerre.
I comizi centuriati. Creazione regia furono anche i comizi centuriati, attribuiti tradizionalmente a Servio Tullio. Essi
erano ordinati in 193 centurie, ordinate gerarchicamente per censo, che erano al tempo stesso distretti di leva e unità di
voto.
Le secessioni della plebe. Nel 494 il contrasto tra patrizi e plebei causò la creazione dei tribuni della plebe: è la prima
secessione plebea. La plebe faceva giuramento (sacramentum) ai suoi magistrati (tribuni plebis) e creava le leggi
sacrate.
In età monarchica i tribuni erano esistiti come tribuni militum, le forme di magistrati più vicine al popolo. La plebe si
impegnava a difendere in armi i propri magistrati (coniuratio). I tribuni portavano aiuto alla plebe (auxilium) minacciando
nuove secessioni e con il potere di intercessio. La prima secessione si concluse con l’ambasceria di Menenio Agrippa.
Oltre a nuove terre e al riconoscimento delle proprie magistrature i plebei chiedevano l’accesso a tutte le magistrature
dello Stato e l’abolizione del connubium.
Il decemvirato e le leggi delle XII tavole. Nel 451 sarebbero state soppresse, secondo la tradizione, tutte la
magistrature, e sarebbe stato creato, su proposta del tribuno Trentilio Arsa, un collegio di 10 magistrati con il compito di
legiferare (decemviri legibus scribundis). L’anno successivo, in un secondo collegio, sarebbero stati eletti anche alcuni
plebei, ma a causa del loro comportamento tirannico i secondi decemviri sarebbero stati rovesciati. Lo scopo delle leggi
delle XII tavole – opera dei decemviri – era quello di mettere alla pari tutte le classi dei cittadini: infatti le leggi contenute
nelle tavole non erano nuove, ma essendo scritte erano certe. Quanto alla natura del decemvirato, secondo il De
Martino si tratterebbe di una magistratura permanente, e perciò avrebbe preso il posto dei consoli e dei tribuni della
plebe. Le XII tavole si possono dividere per argomenti: processo (I, II e III), diritto di famiglia (IV), eredità (V), negozi
giuridici (VI), norme sulla proprietà immobiliare (VII), delitti e processo criminale (VIII e IX), delitti e processo criminale (X),
norme di carattere costituzionale.
La prima legge delle tavole riguarda l’estinzione del debito e la punizione del debitore moroso (con garanzie per il
debitore). Seguono leggi che riguardano l’emancipazione dei figli, la manus sulla moglie, la tutela di minori e incapaci,
l’interpretazione restrittiva degli atti del contratto, la mancipatio e la in iure cessio. Vi sono poi leggi sui piccoli fondi,
contro i procedimenti magici, contro il furto e l’omicidio, sulla sovranità del popolo.
Le norme a carattere costituzionale riguardano:
• una legge sui rapporti tra patrono e cliente;
• una legge contro l’irrogazione di privilegi;
• una legge che attribuisce alla decisioni del popolo valore di legge;
• una legge sulla provocatio ad populum.
Dalle leggi Valerie Orazie alle leggi Licinie Sestie. Le leggi Valerie Orazie – dal nome dei consoli del 449 – sono
favorevoli alla plebe:
• lex de provocatione: le magistrature ordinarie si ricostituiscono e va ribadito il principio della provocatio;
• lex de tribunicia potestate: il patriziato accetta tale magistratura;
• lex de plebiscitis: per la quale hanno valore di legge le deliberazioni del “concilium plebis” accolte dal Senato
(sicuramente falsa);
• una legge che affida agli edili plebei il controllo dei Senatoconsulti.
Con la successiva legge Canuleia del 445 cadono le tavole inique e si attua l’unità cittadina. Dal 449 al 367 non vi fu il
consolato, che fu sostituito dal collegio dei tribuni militum con potestà consolare, tra i quali due erano eponimi (i loro
nomi cioè, venivano scritti nei fasti capitolini).
A partire dal 367 esistono per la storia del diritto romano dati sicuri.
Le leggi Licinie Sestie del 367 reintroducono il consolato – al quale venivano ammessi ora anche i plebei – introducono
la nuova magistratura della pretura, stabiliscono l’estensione di agro pubblico che ogni privato può possedere, e
dettano norme riguardanti l’aes alienum. Si è ormai arrivati alla completa fusione della classe dirigente patrizia con
quella plebea: nasce così la nobilitas che sarà comunque una casta chiusa.
Il tentativo di far rimanere le formule giudiziarie nell’ambito gentilizio terminò nel 337 con l’elezione alla pretura del
plebeo Publio Filone.
Magistrature importanti furono poi i censori, gli edili e i questori. Quanto al tribunato, esso non era ormai altro che il
primo gradino della carriera politica. Con il principio della collegialità, infatti, la carica contestataria del tribunato
decadde, perché, potendo ogni tribuno opporre il veto alle proposte di un collega, all’aristocrazia bastava controllarne
uno. I magistrati supremi avevano la potestas e l’imperium:
• la potestas era la facoltà di esprimere la propria volontà come la volontà dello Stato e si manifestava nei
seguenti poteri:
1 ius edicendi, cioè la facoltà di pubblicare nel foro gli edicta;
2 ius agendi cum populo o cum plebe, la facoltà di convocare i comitia e i concilia;
Il Senato nell’età repubblicana assume una posizione di notevole importanza: mentre teoricamente il suo parere non
vincolava i magistrati, di fatto essi risultarono i meri esecutori di una volontà politica che si formava indipendentemente
da loro nell’ambito senatorio. La trasformazione più importante del Senato riguardò il fatto che entrarono a farvi parte
anche i plebei. Il numero normale di senatori fu di 300 finché Silla non li portò a 600. I poteri rimasero sostanzialmente
immutati: tuttavia alcune leggi stabilirono che l’auctoritas patrum doveva precedere e non seguire la votazione comiziale
delle leggi.
Le magistrature altro non furono che la prosecuzione e lo sviluppo di cariche che già si erano costituite nei momenti
della crisi dello Stato Quiritario. Fra i magistrati si distinguevano i maiores, forniti di potestas e di imperium, e i minores,
forniti della sola potestas. Quanto alle modalità di elezione, alla regola secondo cui “il magistrato crea il magistrato” si
sostituì quella dell’elezione popolare dei magistrati.
I consoli. Fra tutte le magistrature il consolato emerge per il carattere illimitato delle sue competenze. I consoli sono
forniti di imperium ma tale potere non è illimitato come quello regio bensì sottoposto a tutti quei vincoli propri di tutte le
magistrature (annualità, collegialità, esistenza di altri magistrati, limiti della provocatio, ecc.). I consoli erano due,
esercitavano il potere collegialmente, duravano in carica un anno e all’anno stesso davano il nome. Erano nominati dai
comizi centuriati, presieduti da un magistrato con potere maggiore o uguale al loro, di regola il 15 marzo.
Le assemblee popolari. I comizi curiati ebbero attribuzioni di carattere religioso, anche perché continua-rono ad
esistere solo per rispetto alla tradizione. I comizi centuriati mantennero la loro origine militare; vennero convocate dai
magistrati cum imperio e si riunirono nel campus martius secondo rigorose formalità. Le loro attribuzioni furono:
• l’elezione dei magistrati maggiori e la conferma dei censori;
• la votazione delle leges centuriate;
• lo iudicium nelle cause con condanna alla pena capitale.
I comizi tributi erano l’assemblea deliberativa dell’intero populus, ordinato per tribus, su convocazione e sotto la
presidenza dei magistratus maiores. Le attribuzioni di tale assemblea furono:
• la creatio dei magistrati minori e dei tribuni militum;
• la votazione delle leges tributae;
• il iudicium in alcune cause;
• alcune attribuzioni religiose.
Infine, in epoca repubblicana, rimasero di preminente importanza i concilia plebis, cui si ricorse soprattutto per la
votazione delle riforme agli istituti dello ius civile. Le attribuzioni furono:
• l’elezione dei magistrati plebei;
• la votazione dei plebiscita;
• lo iudicium per i crimina passibili di mulcta.
• la prima guerra sannitica (343-341) scoppiò per la conquista di Capua, minacciata dai Sanniti;
• la guerra latina (340) determinò lo scioglimento della Lega Latina: da allora in poi non vi furono più trattati con
tutti i latini, ma solo con le singole città. I latini avranno tre privilegi: lo ius commercii, lo ius connubii, lo ius
migrandi.
• la seconda guerra sannitica (326-304) si combattè per il controllo su Napoli (città marittima); con essa Roma
guadagnò la Campania.
• con la battaglia di Sentino contro gli italici, Roma conquistò quasi tutta l’Italia.
Nel 282 scoppiò la guerra contro Pirro, che nel 272 permise a Roma di occupare tutta l’Italia peninsulare.
L’equiparazione plebisciti-leggi.
In questo periodo la contrapposizione sociale non è più ormai tra patrizi e plebei ma tra nobilitas e resto della
popolazione: si pensi che la legge Ogulnia del 300 permette ai plebei l’accesso anche al pontificato. La lex Publilia
Filonis del 339 prevede che i plebisciti abbiano valore di legge se autorizzati preventivamente dal Senato. La completa
parificazione plebisciti-leggi si avrà con la lex Hortensia del 286. Da allora le leggi saranno votate quasi solo dal popolo,
ma i tribuni, che devono proporre le leggi, appartengono anch’essi alla nobilitas, perciò non vanno contro gli interessi
della propria classe. Il riconoscimento alle assemblee del potere legislativo dette luogo all’inclusione, tra le fonti del
diritto romano, delle leges publicae populi romani. Leges erano tutte le deliberazioni comiziali, quindi anche quelle
relative alla creatio dei magistrati e quelle interferenti negli iudicia criminali. Solo più tardi il termine di “leges” fu
riservato alle sole deliberazioni a carattere normativo.
II. LE ORIGINI
1/2/3. La Nascita della Letteratura Latina
Nel 240 a.C. fu rappresentato per la prima volta da Livio Andronico un testo scenico in lingua latina.
Si tratta della data di nascita della letteratura latina, che nacque già “adulta” grazie allo stretto confronto con i modelli
greci, che ne comportò una precoce maturazione.
Le più antiche testimonianze della lingua latina si trovano nelle iscrizioni su pietra e bronzo (Cista Ficoroni), su alcune
fibbie (Fibula Praenestina) e nei primi documenti:
-‐ i fasti, calendari romani di carattere ufficiale che ogni anno i pontefici, le massime autorità religiose di Roma,
stabilivano e divulgano pubblicamente. I giorni dell’anno erano divisi in fasti e nefasti a econda che in essi fosse
permesso o vietato il disbrigo degli affari pubblici. Ben presto divennero più specifici e si arricchirono di altre
informazioni: fasti consulares, fasti pontificales, fasti triumphales;
-‐ la tabula dealbata, la tavola che il pontefice massimo usava per esporre pubblicamente i nomi dei magistrati
dell’anno in corso e gli avvenimenti di pubblica rilevanza (date di trattati, dichiarazioni di guerra, fatti degni di nota,
eventi climatici…). Dopo essere state depositate anno per anno, queste registrazioni presero il nome collettivo di
annales e cominciarono a formare una vera e propria memoria collettiva dello Stato romano.
Ebbero enorme impulso per la struttura delle opere storiografiche latine, in particolare per Livio e Tacito.
Per Annales Maximi si intende la raccolta degli annales degli ultimi 280 anni riunita dal pontefice Publio Muzio
Scevola in età graccana.
I Commentarii
Si tratta di una tipologia di opere “non professionali”, caratterizzate da un apporto di informazioni e memorie personali
(appunti, memorie, osservazioni). L’origine di questa produzione risale a una pratica dei magistrati di età repubblicana,
che sceglievano di tenere una sorta di diario dei provvedimenti e degli eventi principali del proprio periodo di carica. Se
depositati presso i collegi sacerdotali assumevano un carattere di documentazione ufficiale.
Primordi dell’Oratoria
L’oratoria delle origini era considerata l’unica attività intellettuale veramente degna di un cittadino di elevata condizioni.
Il suo fine era quello di “convincere”, base necessaria per poter affrontare una degna carriera politica.
Appio Claudio Cieco è una figura semileggendaria ed è ritenuto l’iniziatore della retorica.
Nato da una famiglia nobilissima, fu console nel 307 e nel 296, censore nel 312, poi dittatore. Sembrerebbe aver
combattuto contro Etruschi e Sabini, aver vinto i Sanniti nella terza guerra sannitica, aver permesso l’ingresso dei
plebei in Senato. Come censore promosse fondamentali opere pubbliche (l’acquedotto acqua Claudia/Appia e la via
Appia). La tradizione ne celebra l’efficacia e l’abilità oratoria.
Il suo discorso contro le trattative di pace con Pirro è ritenuto da Cicerone come il primo discorso ufficiale pubblicato
a Roma.
4. I Carmina
Nell’età delle origini erano comuni delle formule misteriose, coniate in una lingua arcaica, spesso ritmate e ricche di
assonanze, oscure già per i dotti di età classica. Si trattava dei cosiddetti carmina (carmen < cano “canto”).
La definizione di carmen non riguarda il contenuto del testo - che andava dal proverbio allo scongiuro, dal precetto
patetico al giuramento, dalla profezia alla preghiera - quanto piuttosto la forma, una sorta di prosa dotata di una
tessitura ritmica molto intensamente segnata e percepibile, caratterizzata da ripetizioni foniche (allitterazione) e
morfologiche, e soprattutto dalle corrispondenza fra i membri (cola) della frase. Una prosa segnata quindi da forti
effetti di parallelismo verbale.
Carmina Religiosi
Le più antiche forme di carmina pervenuteci riguardano una produzione di carattere religioso e rituale.
-‐ il carmen Saliare veniva intonato dal collegio sacerdotale dei Salii, istituito, secondo la tradizione, da Numa
Pompilio. I Salii erano i dodici sacerdoti del dio Marte, che ogni anno nel mese di marzo recavano in processione
i dodici scudi sacri, gli ancilia: uno di essi era famoso perché si credeva fosse caduto dal cielo. La processione si
svolgeva in una danza rituale in tre tempi (detta tripudium perché battevano tre volte, ritmicamente, il pede a terra),
accompagnata da percussioni ottenute battendo gli scudi con le lance, i Salii proferivano formule sacre, espresse in
un linguaggio che era incomprensibile già per i Romani di età storica: ne abbiamo tracce assai oscure;
-‐ il carmen Arvale veniva intonato dai Fratres Arvales, un collegio di dodici sacerdoti, fondato, secondo la leggenda,
da Romolo, che nel mese di maggio levava un inno di purificazione dei campi, implorando la protezione da Marte
e dai Lares. Anche qui è notevole l’insistenza su un ritmo ternario: ogni verso era infatti ripetuto tre volte,
sicuramente per garantire l’efficacia del rito. È stato inciso sul marmo degli Acta del 218 a.C.
Carmina Giuridici
-‐ il leges regiae, si tratta delle prime leggi di Roma, che ebbero una forte importanza storica, sociale e politica e che
erano dominate da una rigida impostazione religiosa. Un esempio è la lex Numae, per cui l’amante di uomo sposato
che avesse toccato l’altare di GIunone avrebbe dovuto, con i capelli sciolti, sacrificare alla dea un’agnella.
-‐ le leggi delle XII tavole, redatte dai decemviri legibus scribundis negli anni 451-450 a.C. e messe per scritto su
dodici tavole di bronzo che si trovavano esposte nel Foro. Cicerone le definisce carmina per le frequentissime
assonanze, le allitterazioni, la scansione in cola ritmici paralleli e staccati, che conferiscono alle norme del diritto un
sicuro effetto di sanzione inappellabile.
Gli argomenti trattati sono vari e riguardano la vita quotidiana: rapporti fra creditori e debitori, la difesa della
proprietà contro lo straniero, l’emancipazione dei figli dall’autorità paterna, la proibizione del malocchio, la legge
stessa del taglione…
Epitafi
-‐ gli elogia, una serie di testi epigrafici di carattere celebrativo e dedicati agli uomini illustri. Si tratta di testi di
notevole fattura letteraria, che rivelano l’influsso della cultura e della poesia funeraria greca.
Ad esempio, vengono elogiate sia le virtù militari che quelle intellettuali, spesso in associazione (kalokagathìa).
L’elogio più antico, quello di Lucio Cornelio Scipione (console nel 259 a.C.), databile al 240/230 a.C. è scritto in versi
saturni. Anche negli elogia si notano le particolari ripetizioni fonico-ritmiche.
Difficile è l’interpretazione metrica di questo verso, la cui struttura molto fluida sembrerebbe non basarsi su di una
scansione quantitativa ma piuttosto su una struttura regolata sugli accenti.
Alcuni studiosi ritengono che sia un verso non fondato esclusivamente sulla quantità sillabica, come i metri classici, ma
legato anche al ritmo verbale, cioè al susseguirsi di parole o gruppi di parole di misura costante.
Un altro metro utilizzato a livello popolare fu il versus quadratus, un settenario trocaico utilizzato per indovinelli,
cantilene infantili, motteggi e pasquinate del popolo. Potrebbe essersi originato grazie al contatto con la Magna Grecia.
6. Carmina Convivalia
Si tratta di una serie di narrazioni in versi di eroiche imprese, eseguite nei conviti e durante i banchetti funebri (vd.
Grecia e aedi): questi canti sono stati considerati alla base di un’epica latina autoctona, distinta da quella dotta e
letteraria giunta fino a noi. I principali testimon sulla diffusione di questi carmina convivalia sono Catone e Varrone che,
però, li citano solo per tradizione indiretta e non ne furono testimoni.
Si è pensato che fossero destinati solo alla cerchia ristretta delle grandi famiglie urbane e che quindi, dal momento del
loro rapidissimo contatto con la cultura ellenistica (fine III secolo) furono sostituite da quelle forme letterarie colte e
profondamente modellate dall’influsso greco di cui si fecero portavoce figure di letterati professionisti come Livio
Andronico.
Due dubbi esempi di carmina convivalia sono il carmen Nelei, in metro giambico e quindi di carattere non proprio epico,
e il carmen Priami, il cui unico verso rimastoci, un saturnio, - se non fosse un falso - ne mostrebbe l’epicità.
-‐ fescennini versus, una produzione - orale e improvvisata - con caratteri di motteggio e comicità. L’etimologia
secondo gli antichi sarebbe o da Fescennia, una cittadina dell’Etruria del Sud, o da fascinum, “malocchio” e insieme
“membro virile”. Il termine potrebbe quindi essere una traccia di influsso etrusco, oppure l’espressione di una
funzione apotropaica che questi canti avrebbero avuto in occasione di feste rurali.
I versi fescennini circolavano in occasioni di numerose occasioni sociali dell’antica Roma: i lazzi tipici delle feste
nuziali, le occasioni di pubblica diffamazione (“giustizia popolare”) e i carmina triumphalia, canti intonati dai
soldati in cui alle lodi del vincitore si mescolavano scherni.
Le rappresentazioni impegnano le autorità statali, che organizzano i festival, la nobiltà, spesso coinvolta nella
protezione degli artisti, e il popolo minuto, che di certi generi è il principale fruitore.
Al di là del successo popolare di questo tipo di comunicazione artistica, è importante la fioritura di corporazioni
professionali, degli autori e degli attori (nel 207 fu fondato il collegium scribarum histrionumque), e lo sviluppo di
un’evidente riflessione critico-letteraria.
• la palliata (pallio = indumento greco), il principale genere comico di cui saranno autori Plauto, Cecilio Stazio e
Terenzio;
• la cothurnata (coturni = calzari degli attori tragici greci), il principale genere tragico di cui saranno autori Livio
Anronico, Nevio, Ennio, Pacuvio e Accio.
Si sviluppano di conseguenza:
Togata e praetexta sono greche per modello, ma romane per argomento. Si tratta cioé di rigenerazioni romane dei
corrispondenti generi greci, retti dagli stessi canoni drammaturgici e rispondenti alle stesse tendenze stilistiche.
Preferivano, cioé, i fatti della storia di Roma ai miti della tragedia attica, ma allo stesso tempo si ispiravano a stile e
convenzioni della tragedia di Sofocle ed Euripide.
La Mediazione Etrusca
È possibile che i generi comico e tragico greci siano arrivati a Roma grazie ad una mediazione etrusca e, infatti, i termini
tecnici della drammaturgia sono tutti di origine greca o etrusca.
Livio testimonia l’origine etrusca degli spettacoli romani, cioé di spettacoli di musica e danza etruschi esportati a Roma,
ma non abbiamo sicurezza di una produzione teatrale etrusca. L’interpretazione più prudente è che gli Etruschi
abbiano introdotto a Roma l’usanza degli spettacoli pubblici, in occasione di pubbliche cerimonie religiose.
Se prendiamo in considerazione l’età di Plauto e Terenzio (gli unici autori di palliate di cui si siano conservate opere
integre), tra la fine del III secolo e la metà del II a.C., abbiamo 4 ricorrenze annuali deputate alla rappresentazione di
ludi scaenici:
A organizzare i ludi, durante i quali erano previsti sia spettacoli teatrali che giochi di gladiatori, erano sempre dei
magistrati in carica, edili o pretori urbani.
Organizzazione e Committenza
Gli oneri finanziari erano dello Stato, rappresentato dai magistrati organizzatori.
I magistrati dovevano trattare con gli autori e con il “capocomico” o dominus gregi, che dirigeva la compagnia, faceva
da impresario e talora poteva collaborare con gli stessi autori da lui prescelti.
-‐ i committenti delle opere teatrali si identificano con le autorità, quindi con i nobiles, che inevitabilmente
influivano sulla scelta degli argomenti. La praetexta avrà quindi una tematica non solo nazionale e nazionalista,
ma anche un riferimento a singole figure politicamente influenti, mentre per la commedia - il cui ambito era più
ridotto e il pubblico popolare - questo tipo di rapporto non è determinabile;
-‐ al di là dei tentavi di Terenzio, la commedia latina che conosciamo non esercita vere forme di critica sociale o di
costume; tanto meno sono consentiti attacchi personali ed espliciti, tipici p. e. della commedia di Aristofane, o prese
di posizione politiche. Il mondo della commedia può essere sì realistico, ma non ha punti di contatto con la sfera
dell’attualità politica.
Le Maschere e i Costumi
L’uso di maschere è sicuro a partire dalla metà del II secolo a.C., mentre per l’età di Plauto le testimonianze sono un
po’ controverse. Queste maschere erano fisse per determinati tipi di personaggi, ricorrenti nelle commedie: il lenone,
la cortigiana, lo schiavo, il parassita, il soldato, il vecchio…
Non escludevano qualche forma di recitazione “facciale” e la loro funzione era quella di far riconoscere, sin dall’inizio
dell’azione scenica, quale fosse il “tipo” del singolo personaggio.
L’uso del “tipo”, psicologicamente stereotipato e generico, è fortemente apprezzato da Plauto, un autore che si
concentra soprattutto sulla comicità delle singole situazioni e sull’invettiva verbale, ma rifiutato da Terenzio, che cercò
sempre di approfondire la psicologia dei propri personaggi, senza appoggiarsi troppo al repertorio tradizionale.
4. Le Forme Sceniche
Palliata
Le caratteristiche di questo genere sono riprese dal modello plautino:
Cothurnata
A causa del fatto che ci sono rimasti solo dei frammenti, possiamo formulare impressioni abbastanza generali:
-‐ soppressione del coro che, poiché avrebbe causato un conseguente vuoto di stile di immagini di repertorio, fu
ovviata con un innalzamento di tutto il livello stilistico del dramma;
-‐ stile elevato e opposto nettamente alla lingua quotidiana, con calchi dalla lingua poetica greca, arditi neologismi,
prestiti dal linguaggio politico, religioso e giuridico. Si viene a creare un linguaggio unico e identificabile (Ennio,
Accio);
-‐ polimetria;
-‐ pathos;
Atellana
Per atellana si intende un genere popolare proveniente con molta probabilità dalle zone della città di Atella, nella
Campania di cultura osca. Si tratta di un genere pre-letterario privo di una struttura professionale e probabilmente
basato sull’improvvisazione su canovacci rudimentali (equivoci, incidenti farseschi, bisticci affini ai fescennini
versus). C’erano sicuramente delle maschere fisse e ricorrenti come Bucco, il fanfarone o chiacchierone, e Dossennus,
il gobbo malizioso. L’atellana, che sicuramente aveva in sé elementi di tradizione culturale greca e magnogreca,
influisce (vd. maschere) sul teatro regolare latino.
• Fabula, termine generale che può identificare qualsiasi tipo di spettacolo o narrazione. È il sostantivo presupposto
agli aggettivi qui di sotto;
• Palliata, commedia di ambientazione greca;
• Togata, commedia di ambientazione romana, distinta da generi comici più popolari quali atellana e mimo;
• Tabernaria, commedia di ambientazione romana ma più “bassa”;
• Trabeata, neologismo che indica l’esperimento di un liberto di Mecenate, Gaio Melisso, che provò a comporre delle
commedie “borghesi”. Il termine si oppone alla toga e indica la trabea, l’indumento tipico dei cavalieri;
• Cothurnata o crepidata, indica - in opposizione alla praetexta - la tragedia di ambientazione greca;
• Praetexta o pratextata, tragedia di ambientazione romana.
IV. LIVIO ANDRONICO (Taranto 280 a.C. - Roma 200 a.C. ca.)
Vita
Arriva a Roma nel 272 a.C., probabilmente al seguito del nobile Livio Salinatore, di cui é liberto. Qui é grammaticus e
insegna latino e greco. Nel 240 rappresenta ai ludi romani un’opera teatrale con cui canonicamente viene dato inizio
alla letteratura latina.
Nel 207 viene incaricato di comporre un partenio in onore di Giunone mentre negli anni successivi al suo collegium
poetarum histrionumque viene conferita una sede ufficiale, il tempio di Minerva sull’Aventino.
Produzione Letteraria
Odusìa
Si tratta di una traduzione in metro italico, il saturnio, dell’Odissea di Omero.
L’opera, un poema epico, permette sia la diffusione del patrimonio culturale greco che il progredire della cultura
letteraria latina. Andronico cerca infatti di costruire, partendo da zero, una lingua epica “latina”, e per farlo sceglie di
partire dal lessico religioso che conferisce allo stile una particolare arcaicità.
Si pone molta insistenza sulla ricerca del patetico e sulla drammatizzazione delle scene dell’originale. Pur volendo
rimanere fedele all’opera omerica, Livio sceglie di modificare e adattare alla mentalità romana quanto risulterebbe
intraducibile o per limiti linguisti o per differenze irriducibili di mentalità e cultura.
1 Commedia
Gladiolus
IV. GNEO NEVIO (Campania 275 a.C. ca. - Utica 204 o 201 o 200-190 a.C.)
Vita
Cittadino romano di origine plebea, una volta arrivato a Roma, Nevio ebbe diversi contenziosi con la famiglia dei
Metelli, che finirono per farlo incarcerare. Non sembrerebbe aver avuto un protettore.
Partecipò agli ultimi anni della 1a guerra punica (264-241 a.C.), in onore della quale compone il Bellum Poenicum.
Produzione Letteraria
2 Tragedie Praetextae (argomento romano)
Romulus, sulla fondazione di Roma;
Clastidium, in onore della vittoria dei Romani sui Galli Insubri a Casteggio.
Il tema è di carattere storico-nazionalistico: non solo racconta la prima guerra punica ma adotta, nella prima parte,
un forte salto cronologico alle origini leggendarie di Roma (arrivo di Enea nel Lazio).
Viene dato particolare risalto all’elemento divino: gli dei intervengono in una sorta di “missione storica” in modo tale
da saldare mito e storia - che a livello narrativo si pensa costituissero due blocchi distinti - collocando così l’ascesa
di Roma in una visuale cosmica nutrita di cultura greca.
Nevio, che proveniva dalla Magna Grecia, sicuramente conosceva la poesia greca e la tradizione ellenistica del poema
storico-celebrativo: il Bellum Poenicum presuppone evidentemente Omero, ad esempio per il tema viaggio-guerra, un
chiaro incrocio tra Iliade, Odissea e Argonautiche.
A livello stilistico l’opera si caratterizza per un forte sperimentalismo linguistico, evidente in questa divisione:
• Sezione mitica: segue il modello poetico, con un linguaggio che vuole confrontarsi con la lingua epica omerica e
che è ricco di epiteti, aggettivi, nuovi composti e combinazioni sintattiche;
• Sezione storica: segue il modello storiografico, con un linguaggio adatto ad una lunga narrazione continua, quindi
uno stile monumentale, formalmente ricercato, con termini tecnici e vocaboli prosaici.
Nevio fa ampio ricorso alle figure di suono, testimonianza di una forte influenza della forma dei carmina.
In un primo momento si è pensato che il nome fosse Marcus Accius Plautus, in cui Marcus = praenomen, Accius =
gentilizio e Plautus = romanizzazione del cognomen umbro Plotus (“dai piedi piatti”). Grazie al ritrovamento del
Palinsesto Ambrosiano e alla constatazione che i tria nomina venissero difficilmente utilizzati per i cittadini non romani,
risulta più attendibile la proposta Titus Macc(i)us Plautus, in cui Maccius non risulterebbe essere un gentilizio ma un
“nome di battaglia”, un nome d’arte derivato da Maccus, la maschera tipica della farsa italica atellana, che avrebbe
aiutato l’identificazione della professione dell’uomo.
- commedia del riconoscimento: la trama ruota attorno ad un’agnizione che prima della sua scoperta può causare
una lunga serie di equivoci (commedia degli equivoci).
In entrambe le tipologie può intervenire la tuche, la sorte, che mostra una realtà diversa da quella iniziale, una realtà
sulla quale il servo opera i propri trucchi.
La sua novità sta quindi nell’originalità linguistica e nella scena di dare al servo un ruolo centrale.
• cambiamento del sistema onomastico greco: Plauto utilizza nomi nuovi rispetto al mondo greco e alla farsa
italica;
• polimetrìa (numeri innumeri);
• eliminazione degli atti;
• dispersione dell’azione*;
• no all’approfondimento psicologico ma personaggi autoriflessivi*;
• no alla coerenza drammatica*.
* sembrerebbe trattarsi di una scelta poetica, di un sacrificio effettuato per dar spazio alla lingua e alla comicità
situazionale.
Produzione Letteraria
21 Palliate
Si tratta delle 21 commedie individuate come autentiche da Varrone nel De comoediis Plautinis, a scapito di altre
che, seppur rappresentate, andarono perse tra il III e il IV secolo d.C.
Non si ha una cronologia sicura ma è possibile che quelle dalle tematiche più variegate e ricercate appartenessero
alla produzione matura.
1La data di nascita è ricostruita sulla base di un’informazione proveniente dal Cato Maior di Cicerone, che definisce Plauto senex nel
191, anno della rappresentazione dello Pseudolus.
© ALESSANDRO IANNELLA 16 DI 115
Amphitruo Giove arriva a Tebe per conquistare la bella Aclmena, moglie di Anfitrione. Per farlo il Unica commedia a
dio impersona Anfitrione, che è in guerra, e viene aiutato da Mercurio, che impersona soggetto mitologico
Sosia, il servo di Anfitrione. Ma improvvisamente tornano a casa i due personaggi
doppiati e, dopo una brillante serie di equivoci, Anfitrione si placa perché onorato di aver
avuto per rivale un dio.
Asinaria Un giovane cerca di riscattare la sua bella, una cortigiana e viene aiutato dai servi e -
cosa rara! - dal padre. Nasce poi una rivalità amorosa tra padre e figlio che si risolve con
la vittoria del giovane.
Aulularia Euclione, un vecchio avaro, trova una pentola piena d’oro grazie alla volontà del Lar
familiaris che vuole garantire alla giovane Fedria, figlia del vecchio, una buona dote. Tra
molte inutili ansie dell’avaro, che è ossessivamente impaurito dalla possibilità di esser
derubato, la pentola sparisce davvero. Verrà però utilizzata dal giovane innamorato,
aiutato da uno schiavo, per ottenere le nozze con Fedria.
Bacchides Due sorelle gemelle, entrambe cortigiane, cercano - con un ritmo indiavolato e con il Riprende il Dis
raddoppiamento degli equivoci - di conquistare i rispettivi giovani. Exapaton di
Menandro
Captivi Un vecchio ha perduto due figli: uno fu rapito da bambino, l’altro, Filepolemo, è stato Priva di uno scenario
fatto prigioniero in guerra dagli Elei. Il vecchio si procura due schiavi elei per effettuare erotico e con toni
uno scambio e, alla fine, non solo ottiene indietro Filepolemo, ma scopre che uno dei comici molto
prigionieri elei in sua mano è l’altro figlio. smorzati
Casina Un vecchio e suo figlio desiderano una trovatella che hanno in casa, Casina: ognuno Sulla repressione dei
vuole sposarla ma il vecchio, sposasto, viene ovviamente raggirato e trova nel suo letto Baccanali nel 186
un maschio. Alla fine si scopre che Casina è di nascita libera e che quindi può sposare il
suo giovane pretendente.
Cistellaria Un giovane vorrebbe sposare una fanciulla di nascita illegittima, mentre il padre gliene Tratta da Menandro
destina un’altra di nascita libera. Alla fine però la fanciulla desiderata si scopre libera e
può essere sposata.
Curculio Curculio è il parassita di un giovane innamorato di una cortigiana. Per aiutarlo inscena
un raggiro a spese sia del lenone che detiene la ragazza, sia di un soldato sbruffone,
Terapontigono, che ha già messo in atto l’acquisto della medesima. Alla fine si scopre
che la cortigiana è di nascita libera e quindi può sposare il giovane. Il lenone ci rimette i
soldi e Terapontigono non ha lagnanze in quanto la ragazza viene scoperta essere sua
sorella.
Epidicus Epidico è il servo di un giovane assai inquieto, che si innamora di due diverse ragazze:
si ha quindi un raddoppiamento di necessità che viene risolto grazie ad un
riconoscimento: una delle due è sua sorella. Epidico può quindi sposare tranquillamente
l’altra.
Maenechmi Menecmo ha un fratello gemello del tutto identico a lui. I due sono stati separati alla Commedia degli
nascita e non si conoscono. Quando si trovano entrambi nella stessa città si scatena equivoci per
una terrificante confusione, risolta solo dall’agnizione finale. eccellenza
Mercator Su uno schema assai affine alla Casina, vediamo affrontarsi in rivalità un giovane
mercante, vincitore, e l’anziano padre.
Miles Gloriosus Palestrione è un servo arguto e Pirgopolinice un soldato fanfarone. Lo schema è quello Capolavoro di Plauto
tipico del giovane che si affida al servo per sottrare a qualcuno la disponibilità della
ragazza amata ma questa esecuzione prevede un gran numero di brillanti variazioni.
Mostellaria Il servo Tranione, per coprire gli amori del giovane padrone, fa finta che nella casa del
vecchio padre Teopropide ci sia un fantasma. L’inganno diventa divertente ma non
dura a lungo: grazie all’intervento di un amico, la vicenda si chiude su un perdono
generale al servo e al giovane,
Persa È una beffa ai danni di un lenone ma l’innamoratore è un servo. Non manca un altro
serve in funzione di aiutante: l’inganno ha successo e prevede una buffa mascherata, in
cui il servo coadiuvante impersona un improbabile persiano.
Poenulus Le vicende di una famiglia cartaginese con riconoscimento finale e riunione degli Tratta da Alessi
innamorati, che tra di loro risultano esse cugini. Il tutto alle spese di un lenone.
Pseudolus Pseudolo è uno schiavo campione di inganni, che riesce a spennare il suo avversario, il 191 a.C.: aiuta per la
leone Ballione, portandogli via la ragazza amata e anche dei soldi in più: la beffa è così datazione della
ben riuscita che Ballione, senza sapere di aver già perso la donna, scommette una bella nascita di Plauto
somma di soldi sul fatto che lo schiavo non potrà portargliela via.
Rudens Nel prologo la stella Arturo preannuncia il naufragio di un cattivo soggetto, il lenone
Labrace. Labace porta con sé, indebitamente, una fanciulla di liberi natali. Il Caso vuole
che la tempesta scarichi i naufraghi su una spiaggia in cui si trovano il padre della
fanciulla rapita e il suo innamorato. Tutto si accomoda con danno del malvagio, e una
cassetta - ripescata grazie alla rudens, la gomena - risulta decisiva per il riconoscimento
finale.
Stichus Un uomo ha due figlie, sposate con due giovani da tempo in viaggio per affari; vorrebero 200 a.C., tratta da
spingerle al divorzio ma il ritorno degli uomini risolve la questione. Menandro
Trinummus Un giovane scialacquatore, che in assenza del padre si è quasi rovinato, viene salvato Unica commedia
da un vecchio amico del padre tramite un benevolo raggiro. edificante
Truculentus Fronesio è una cortigiana creatice di inganni, che sfrutta e raggira i suoi tre amanti. Protagonista diversa:
una cortigiana
caratterizzata molto
più negativamente
della media dei
“cattivi” plautini
Lingua e Stile
• Forte affettività;
• Lingua vicina al parlato e alla quotidianità -> funzione emotivo-conativa;
• Economicità linguistica: Plauto fa prevalentemente uso della paratassi e di molte elisioni;
• Grecismi (iubertas sermoni);
• Arcaismi linguistici e sintattici.
La prima guerra punica scoppiò per la crescente rivalità politica ed economica tra Roma e Cartagine. Dopo le
guerre tarantine, infatti, Roma aveva posto sotto la propria diretta influenza le città italiote della Magna Grecia,
minacciando in questo modo la supremazia cartaginese nel Mediterraneo meridionale, che poteva contare sui vasti
possedimenti punici in Sicilia; il controllo del mare era fondamentale per l'economia cartaginese, la cui agricoltura e la
cui attività manifatturiera, allora molto prospere, avevano nel commercio d'oltremare il loro sbocco naturale.
L'occasione del conflitto fu data dai mercenari campani mamertini, assediati a Messana (oggi Messina), che chiesero
aiuto a entrambe le città contro Gerone II di Siracusa. Cartagine, come si è detto, controllava già parte della Sicilia e i
romani accolsero la richiesta con l'intenzione di cacciare i cartaginesi dall'isola. Approntata la loro prima grande flotta, i
romani dichiararono guerra e sconfissero i cartaginesi nella battaglia di Milazzo (260 a.C.); le navi romane, sotto la guida
del console Caio Duilio avevano per l'occasione sperimentato i cosiddetti "rostri", pontili ribaltabili che consentivano di
agganciare le navi nemiche e farvi salire i propri soldati, trasferendo così nelle battaglie navali alcune delle modalità del
combattimento terrestre di fanteria in cui erano superiori ai cartaginesi. Altre vittorie arrisero ai romani, nelle acque di
Tindari e al largo del promontorio Ecnomo (presso Licata), ma essi non riuscirono a impadronirsi della Sicilia. Nel 256
a.C. un'armata romana sotto il comando del console Marco Attilio Regolo stabilì una base in Nord Africa, ma l'anno
seguente i cartaginesi la costrinsero a ritirarsi, dopo averla duramente sconfitta presso Tunisi: Regolo stesso fu fatto
prigioniero e molti dei soldati romani superstiti morirono travolti da una tempesta l'anno successivo. La guerra continuò,
combattuta in gran parte attorno alla Sicilia, e si concluse – dopo alterne vicende – solo nel 241 a.C. con una battaglia
navale presso le isole Egadi, vinta dai romani guidati dal console Caio Lutazio Catulo.
La vittoria fruttò a Roma il controllo della Sicilia (prima provincia romana) e nel 237 a.C. la conquista della Sardegna
e della Corsica, a loro volta organizzate in provincia. Le condizioni di pace, imposte ai cartaginesi dal console Lutazio
Catulo, furono durissime: oltre alle perdite territoriali e all'impegno di non belligeranza, essi dovevano restituire senza
riscatto i prigionieri romani e impegnarsi a pagare un'esorbitante indennità di guerra.
La Sicilia non entra a far parte dell’Italia: la vera Italia è quella peninsulare, tutto il resto è provincia. Anche in Sicilia si
riproduce la solita casistica degli accordi tra Roma e le singole città che potevano essere:
• civitates: comunità libere da obblighi e autoamministrantesi;
• collettività stipendiarie: sottoposte al pagamento di tasse;
• collettività immuni: che invece non avevano imposizioni fiscali.
La lex Ieronica (di origine ellenistica) prevede che il suolo delle Province sia proprietà dello Stato e chi lo coltiva debba
pagare una decima. I profitti delle decime portano a Roma fiumi di denaro. La circolazione monetaria però non trova
sbocchi non esistendo attività in cui il denaro possa essere investito: ciò comporta il depauperamento di larghi strati
sociali e il dissesto dell’economia.
Nel 218 comincia la seconda guerra punica, che avrà un costo umano altissimo. Ad essa appartengono le figure di
Quinto Fabio Massimo – fautore di una politica di temporeggiamento, vuole difendere l’Italia e vuole combattere
Annibale in Italia – e Scipione l’Africano – fautore di una politica aggressiva, vuol portare la guerra in Africa e
conquistare Cartagine. Avrà la meglio quest’ultimo e al termine della guerra Cartagine perderà la Sardegna, la Corsica e
la Spagna, che formeranno nuove province Romane. L’espansione romana continua nel 198 con la guerra macedonica
e nel 190 con la guerra siriaca, ma tale espansione presenta un aspetto differente rispetto al passato: non è più una
espansione territoriale ma commerciale, in quanto nel 198 verrà proclamata la libertà delle città greche senza che si
proceda ad annessioni, e la guerra del 190 ingrandirà solo gli stati alleati (Pergamo, Bitinia, Rodi).
Con le battaglie di Pidna (nel 168 e nel 148), la distruzione di Cartagine (146) e la riduzione a provincia di tutta la
Grecia, la tendenza a formare nuove province si stabilizza e si ricerca solo il monopolio del commercio marittimo.
In questo periodo, tre fattori, uniti alla prime deroghe costituzionali, provocano mutamenti dell’assetto dell’ordinamento
e la trasformazione del processo criminale:
1 lo sforzo del Senato per ottenere il controllo dei magistrati;
2 il tentativo degli equites di costituirsi come autonomo ordine politico;
3 il dissesto della plebe italica dopo il 146.
Quanto agli effetti giuridici di questa evoluzione politica, la visione tradizionale degli autori romani è unanime: con la lex
Hortensia l’assetto costituzionale è perfetto; in seguito inizia la decadenza.
© ALESSANDRO IANNELLA 19 DI 115
Nel 189-187 é in Grecia al seguito del generale Marco Fabio Nobiliore a cui dedica la tragedia praetexta Ambracia
celebra la vittoria romana ad Ambracia sulla Lega Etolica.
Ne consegue la protezione da parte della famiglia di Nobiliore e degli Scipioni che gli permettono l’accesso al proprio
circolo.
Gli verrà concessa la cittadinanza romana e, come é possibile dedurre dall’intonazione di molti passi, sarà tributato
d’onori anche in vita.
Produzione Letteraria
Dei suoi testi possediamo solo frammenti di tradizione indiretta e la cronologia é incerta.
Ennio rinnova i modelli greci producendo effetti teatrali e rafforzando gli elementi drammatici.
Il suo rapporto non è meramente emulativo, anzi è un ampliamento, un’intensificazione patetica, una libera
contaminazione di modelli diversi. Sostanzialmente può essere consideratore come il continuatore dei molti autori
drammatici ellenistici, che trattavano le opere come “aperte”, rifacendole e riscrivendole, con brani nuovi o tratti da altre
tragedie (Licofrone). Era il pubblico a chiedere questi interventi, a volere il ripetersi di una retorica drammatica facile e
di sicuro effetto, fatta di gesti assai patetici, di teatralità enfatica e di invocazioni disperate.
Tutti questi elementi concorrevano al produrre interesse nel pubblico, coinvolgendolo emotivamente e suscitando
processi psicologici di identificazione: lo spettatore partecipava infatti simpateticamente agli eventi rappresentati.
Ennio continua a scegliere il coro come strumento funzionale al processo di immedesimazione del pubblico: nel coro gli
spettatori vedono un’assemblea di virtuali cittadini, anonimi, comuni, ed è per questo che possono immedesimarvisi.
Negli altri personaggi rappresentati sulla scena vedranno i propri capi.
Parimenti alla ricerca di effetti spettacolari e all’intensificazione patetica si ha anche una retorica della commozione di
particolare rilievo: Ennio utilizza un vero e proprio vocabolario drammatico della teatralità greca.
È inoltre molto aggiornato e attento alle critiche: nella Medea exul ripristina l’ordine logico delle cause che Euripide
aveva invertito (praeposterum) nelle parole iniziali della nutrice.
22 Tragedie Cothurnatae
Tra queste il ciclo troiano comprendeva i seguenti titoli: Achilles, Aiax, Alexander, Hectoris lytra, Iphigenia, Hecuba,
Andromacha aechmalotis, Telamo e Telephus;
Aveva inoltre trattato leggende di origini diverse con una forte ripresa da Euripide: Alcmeo, Andromeda, Athamas,
Cresphontes, Erechtheus, Eumenides, Medea exul, Melanippa, Nemea, Phoenix e Thyestes.
2 Tragedie Praetextae
• Ambracia, l’opera ricorda la vittoria di Fulvio Nobiliore e si colloca perfettamente nel filone della “poesia di corte” dei
dinasti greci d’Asia: Ennio é un “poeta al seguito” proprio come fu Cherilo di Iaso per Alessandro Magno. Si stabilisce
così un vincolo assai stretto tra letteratura e potere. L’epica celebrativa a tema storico verrà ripresa e migliorata a
livello stilistico dal neoterico Furio Bibaculo, che celebrò le imprese di Cesare in Gallio, da Varrone Atacino, che
scrisse un Bellum Sequanicum sempre dedicato a Cesare, da Cicerone nel De consulatu suo per celebrare le proprie
(!) gesta. Fino a tutta l’età imperiale, la poesia epica storica continua a essere il miglior legame tra letteratura e
propaganda, tra letteratura e potere.
• Sabinae
2 Commedie
Caupuncula, Pancratiastes
Annales
Diviso in 18 libri é il primo poema (epico) latino in esametri. Narravano la storia di Roma, dalla venuta di Enea alle
campagne più recenti degli Scipioni (171 a.C.). Scritti nell’ultima fase della vita di Ennio, si ispiravano al Bellum
Poenicum di Nevio, il quale però non disponeva gli avvenimenti in una sequenza cronologica continuativa e non era
diviso in libri. I libri erano concepiti come unità narrative accostate in un’architettura complessiva: la poesia epica
alessandrina era così strutturata, e lo stesso Omero, a partire dal III secolo a.C., circolava diviso in libri.
• I-III dopo un proemio si narrava la venuta di Enea in Italia, la storia della fondazione di Roma, e il periodo dei re;
• IV-VI le guerre con i popoli italici e la grande guerra contro Pirro;
• VII-X dopo un secondo proemio detto “al mezzo”, in cui si da grande spazio alle muse, Ennio si dedica alle guerre
puniche;
• X-XII le campagne in Grecia, successive alla vittoria su Annibale;
• XIII-XVI le guerre in Siria;
• XV il trionfo di Nobiliore;
• XVI- XVIII le campagne militari più recenti, forse fino alla data della morte del poeta (169).
Ennio è molto più selettivo di uno storico, e si occupa quasi esclusivamente di avvenimenti bellici: molto poco di
politica interna. Gli Annales utilizzano ampiamente fonti storiografiche ma di natura incerta, l’unica deduzione sicura è
che Ennio abbia conosciuto l’opera storica di Fabio Pittore. Tra le fonti poetiche primeggia Omero.
Il titolo dell’opera si richiama ovviamente agli Annales maximi.
Sembra che inizialmente l’opera fosse stata concepita in 15 libri, che si sarebbero conclusi con il trionfo di
Nobiliore e, forse, con la consacrazione da parte di Nobiliore stesso di un tempio per le Muse. Per motivi poco chiari
Ennio aggiunse altri tre libri, forse per aggiornare il poema con la celebrazione di altre imprese militari romane.
I due proemi (I, VII) rivelano le motivazioni di Ennio del suo far poesia:
- il primo (I) tratta dell’investitura poetica, ricevuta su motivo callimacheo in sogno e alla presenza di Omero che gli
raccontava di essersi incarnato proprio in lui. In questo modo Ennio si offre come il “sostituto” vivente di colui che
era il più grande poeta di tutti i tempi;
- il secondo (VII) garantisce, invece, più spazio alle Muse (quelle greche, non le Camene di Livio Andronico) e
polemizza con Nevio, che aveva poetato in saturni, i versi di un passato pre-civilizzato. Ennio si presenta, invece,
come il primo poeta dicti studiosus, cioé filologo, cultore della parola, il primo “alessandrino” romano.
A livello di contenuto Ennio non racconto solo di gesta, ma anche di valori, esempi comportamenti e modelli
culturali. Si tratta, come del resto in Omero, di un epos formativo.
La visione del mondo che Ennio comunica è il trionfo dell’ideologia aristocratica: gli Annales celebrano la storia
romana come somma di imprese eroiche dettate dalla virtus degli individui eccellenti, come quel Fabio Massimo che
optò per una strategia attendista contro Annibale.
Insomma, in Ennio emergono ritratti di grandi condottieri e uomini di Stato, mentre in Nevio di figure minore, anonimi,
spesso rappresentanti l’aspetto collettivo della gloria del popolo romano. Al contrario Catone, negli stessi anni,
taceva nella sua opera storiografica i nomi dei singoli magistrati e condottieri.
Ennio é dunque il più grande poeta di una cerchia aristocratica che rilegge la storia di Roma in funzione dei propri
valori e interessi.
Ennio non elogia solo le virtù guerriere ma anche, e forse soprattutto, quelle “di pace”: saggezza, moderazione,
saper pensare e parlare. Si ha quindi una forte tendenza umanistica e grecizzante, che porta Ennio a comprendere
che è la poesia che deve portare incivilimento.
3 Scritti di Evasione
• Hedyphagetica, opera in esametri didascalico-parodica sulla gastronomia;
• Saturae, episodi autobiografici in metri diversi;
• Sota, opera parodico-oscena in versi sotadei.
3 Opere Filosofiche
• Euhèmerus, opera in prosa che divulgava il pensiero di Evemero da Messina (IV-III sec. a.C.);
• Epicharmus, opera in settenari trocaici sulle riflessioni del pensatore e comico greco Epicarmo;
• Protrèpticus, una raccolta di insegnamenti morali.
Lingua e Stile
A livello stilistico emerge un forte sperimentalismo e una grande innovazione, un giudizio forse influenzato dalle fonti
che ne analizzano i tratti anomali, cioé le peculariatà morfologiche, lessicali e metriche.
Sono molti i grecismi lessicali, sintattici e morfologici (gen. in -oeo su modello -oio omerico) mentre la metrica é
ricca di figure di suono, tipiche dei carmina, dei proverbi, delle leggi, delle formule sacrali e del saturnio. L’innovazione
di Ennio é quella di applicare uno stile, quello allitterante, tipico della poesia romana ad un metro greco, l’esametro.
Spesso il fine dell’alliterazione é il sottolineare il pathos.
Lo sperimentalismo stilistico lo si trova nell’esasperazione dell’allitterazione (o Tite, tute, Tati, tibi tanta, tyranne, tulisti,
“O Tito Tazio, tiranno, tu ti attirasti disgrazie tanto grandi!”) o del suono onomatopeico.
L’esametro, come già detto introdotto da Ennio a Roma, viene adattato alla lingua latina così come la stessa lingua
latina viene adattata al nuovo metro, con nuove regole di collocazione delle parole nel verso, con l’incontro di fonemi
vocalici e con l’uso delle cesure. Il risultato più duro rispetto a Virgilio o Ovidio è solo dovuto al fatto che Ennio non
aveva modelli davanti a sé a cui potersi ispirare o da poter migliorare.
Lo stile allitterante in metro esametrico, un aspetto quindi arcaico in Ennio, risultava spesso monotono, di ritmo
eccessivamente cadenzato. Si adattava con una certa regolarità, invece, al saturnio o al senario comico. Ecco che
successivamente i poeti fecero un uso molto più selettivo e misurato delle figure di suono nei loro esametri, cercando di
usarle con particolari finalità espressive. L’innovazione vera e propria si avrà con i poeti novi.
Produzione Letteraria
Tragedie
Iliona, sulla triste storia della figlia maggiore di Priamo, che, sposata a Polimestore, re di Tracia, sacrifica il figlio Difilo
per salvare il fratello Polidoro;
Niptra, sul ritorno di Odisseo a Itaca e la morte dell’eroe per mano del figlio Telegono;
Dulorestes, su Oreste schiavo.
Antiopa
Hermiona
Produzione Letteraria
Di lui conosciamo più di 40 titoli di cothurnatae e numerosi frammenti.
Tragedie Cothurnatae
Epinausìmache, Nuktegrèsia, Philoctèta, Astyanax, Atreus, Medea,
Tragedie Praetextae
Brutus, sulla storia “romanzesca” di Giunio Bruto, capo della rivolta anti-tirannica contro i Tarquini;
Decius, sul sacrificio di Publio Decio Mure nella battaglia di Sentino (295 a.C.)
Opere Erudite
• Didascalica, 9 libri di scritti di linguistica e ortografia latina;
• Pragmatica, opera di questioni critico-letterarie in versi trocaici;
• Parerga, un poema georgico in senari giambici sulle attività della campagna forse ispirato ad Esiodo;
• Annales, poema in esametro di argomento sconosciuto che forse richiama quello di Ennio.
Vengono accentuati gli elementi patetici, già presenti nei rifacimenti del periodo ellenistico, a cui vengono aggiunti
quelli romanzeschi/avventurosi (sogni, sortilegi, profezie, naufragi, tradimenti, incidenti…).
Si ha un gusto particolare per il pittoresco e per l’orrido (sangue, ossessioni) con grande “visualità” delle descrizioni,
soprattutto in Pacuvio.
La tematica della tirannide, già frequente nel dramma attico, torna ad essere di attualità e vivo interesse in questo
periodo in cui le prime grandi personalità carismatiche (oratori, eroici condottieri, demamoghi) si presentano sulla
scena. Vengono affrontati anche temi religiosi, sentiti vicini in un periodo di ricca stratificazione cultuale (statale, italica,
orientale, greca), e dibattiti filosofici, dovuti alla diffusione di nuove forme di pensiero e di morale (Stoicismo,
Epicureismo).
Pacuvio si rifà a concetti di retorica: l’eloquenza romana conosce proprio adesso il periodo di massimo splendore e
l’assimilazione della raffinata retorica greca é ormai compiuta. La scuola retorica asiana assume un’importanza
sempre maggiore. Accio, come Ennio, fu un poeta-filologo, interessato alla linguistica e alla retorica.
Lingua e Stile
La lingua di Accio e Pacuvio é definita “impura” perché ricca di costruzioni forzate, audaci neologismi, composti
difficili e calchi dal greco. Lucilio definisce Pacuvio ampolloso e spericolato.
Sono molti i virtuosisimi, specialmente in Accio, spesso criticati da grammatici ed eruditi che criticano negativamente
lo sperimentalismo linguistico dei due autori.
Alcune delle loro innovazioni linguistiche passeranno, però, alla lingua poetica di età cesariana e augustea: entrambi
contribuiscono a rendere il linguaggio poetico sempre più ricco e specializzato.
Tuttavia, dopo le polemiche di Lucilio contro Pacuvio e Accio, i poeti per così dire “d’avanguardia”
abbandoneranno il genere tragico, preferendo generi poetici più intimi e personali. Fino a Seneca, la tragedia
romana, pur continuando ad essere rappresentata, non troverà più momenti di grande ispirazione: mimo e farsa
domineranno la scena.
I primi oratori sono uomini politici di spicco: nel Brutus Cicerone ci parla di Marco Cornelio Cetego (console nel 204
a.C.), Scipione l’Africano (vincitore a Zama nel 202), Quinto Fabio Massimo Cunctator (dittatore nella guerra
annibalica), Lucio Emilio Paolo (vincitore a Pidna nel 168). Siamo comunque meglio informati sull’oratoria di Catone
stesso, il più grande oratore del II secolo, e su quella del suo avversario politico, Servio Sulpicio Galba, che si
distingueva - a detta di Cicerone - per l’uso delle digressioni e per la veemenza dell’actio.
Al tempo delle guerre contro Cartagine iniziano a comparire i primi veri storici romani, che scelgono di utilizzare il greco.
Perché? Perché Roma ha necessità di farsi propaganda, soprattutto in quel mondo ellenistico che inizialmente è
favorevole alla potenza cartaginese.
• Fabio Pittore é il primo aristocratico a scrivere in greco. Nella sua opera, pare, fossero prevalenti gli interessi
antiquari, cioé la minuziosa attenzione per riti, tradizioni religiose, istituzioni giuridiche e sociali. Fabio Pittore é quindi
da considerare un antropologo ante litteram benché questa scienza fosse in realtà esito dell’esigenza aristocratica
di conservare il passato tradizionale: la sua posizione é infatti chiaramente filoromana e gli attirerà le critiche di
Polibio;
• Lucio Cincio Alimento, un senatore e magistrato di origine plebea che come prigioniero durante la seconda guerra
punica poté conoscere Annibale. La sua storia, obiettiva secondo Polibio e Dionigi di Alicarnasso, partiva dalle origini;
• Gaio Acilio, un senatore che trattò nella sua opera diffusamente delle origini di Roma, con ricchezza di interessi
eziologici;
• Aulo Postumio Albino, un patrizio console nel 151 che fu preso in giro da Catone per la sua scarsa conoscenza della
lingua greca.
La novità presentata da Catone é quella di scrivere di storia in lingua latina: lo fa con una vena polemica che
dimostra anche come Roma oramai abbia affermato la sua supremazia sul Mediterraneo.
Inoltre Catone é il primo personaggio politico eminente a scrivere opere storiche: é un caso isolato nella storia della
cultura latina.
Dal 190 Catone é accusatore nei processi politici contro la fazione aristocratica ellenizzante, quella degli Scipioni.
Nel 184 diviene censore e si impegna nel mantenimento delle antiche virtù romane contro la degenerazione dei
costumi e il dilagare degli atteggiamenti individualistici di matrice greca. Esaltava la ricchezza e la potenza statale
promuovendo un vasto programma di edilizia pubblica.
Per il suo atteggiamento dovette partecipare a molti altri processi, in qualità di accusatore e difensore: Cicerone
conosceva oltre 150 orazioni catoniane. Ne conosciamo circa 80.
L’ultima sua grande battaglia fu per la distruzione di Cartagine, distrutta tre anni dopo, cioé nel 146 a.C., la sua morte.
Produzione Letteraria
Origines
Si tratta dell’opera storica catoniana, divisa in 7 libri, sicuramente intesa anche a diffondere i principi della sua
azione politica. Catone si mostra chiaramente contro la corruzione dei costumi e rievoca numerose volte le battaglie
che lui stesso aveva condotto in nome della salvezza dello Stato, contro l’emergere di singoli personaggi di
prestigio e del culto delle personalità.
L’opera riporta alcune delle orazioni politiche tenute in Senato da Catone stesso e privilegia la storia contemporanea
(3 libri su 7), dedicando mano a mano sempre più spazio agli eventi più vicini alla realtà politica
contemporanea.
Catone vede lo stato come l’opera collettiva del popolus Romanus stretto attorno alla classe dirigente
senatoria. Attribuisce una grande importanza alle istituzioni e denigra il culto carismatico delle grandi
personalità che emergevano sulla scena politica. A differenza della storiografia aristocratica, spesso assai
celebrativa, Catone non fa i nomi dei condottieri, né romani né stranieri. Anche Annibale é chiamato solo dictator
Carthaginiensium. Talvolta, invece, vengono citati i nomi e le azioni di soldati semplici o di personaggi più oscuri,
volti a rappresentare la virtù collettiva dello Stato.
L’opera mostra un chiaro interesse etnografico per i popoli italici, di cui viene messo in risalto il contributo dato alla
grandezza del dominio romano, e per quelli stranieri e le loro usanze.
Lo stile é arcaico, lessicalmente e morfologicamente, ma soprattutto a livello sintattico con una prevalenza netta
della paratassi. Non é raffinato e appare trascurato: molti gli anacoluti, le ripetizioni, i pronomi e le asimmetrie nella
costruzione del periodo.
De Agri Cultura
È un trattato in prosa formato da una prefazione e 170 capitoli brevi che consiste in una serie di precetti esposti
in forma asciutta e schematica, privi tuttavia di ornamenti letterari e di riflessioni filosofiche sulla vita e il destino
degli agricoltori.
L’opera vuole dare una precettistica generale da applicarsi al comportamento del proprietario terriero che,
rappresentato nella veste del pater familias, deve dedicarsi a questa attività come alla più sicura e onesta, la più
adatta formare cittadini e soldati buoni.
Il tipo di proprietà descritta non é però la realtà piccola della tenuta a condizione familiare ma quella del grande
latifondo, in cui immancabilmente deve essere descritta la brutalità dello sfruttamento degli schiavi.
Cogliamo qui i tratti salienti dell’etica catoniana: virtù come parsimonia, duritia, industria, il disprezzo per le
ricchezze e la resistenza alla seduzione dei piaceri. Il tutto é finalizzato ad un’esigenza pragmatica: trarre
dall’agricoltura vantaggi economici e accrescere la produttività del lavoro schiavile.
Lo stile é scarno, sostenuto e arcaicizzante ma colorito da espressioni di saggezza popolare e campagnola anche
sotto forma di proverbio.
Operette Morali
• Praecepta ad filium, è la prima enciclopedia latina dei saperi, cioé di arte militare, medicina e retorica. Rispecchia
chiaramente l’etica del mos maiorum.
• Carmen de moribus, scritto in prosa ritmata e scandita, conteneva una raccolta di precetti di argomento
morali, legati all’etica del mos maiorum.,
• Apophthegmata, una raccolta di detti memoraboli o aneddoti.
Altre opere
Disticha Catonis e Monosticha Catonis, raccolte di proverbi in esametri.
In realtà gli apporti della cultura greca si fanno comunque sentire nelle sue opere: nel De Agri Cultura sono tante
le acquisizioni della scienza agricola greca, mentre nelle Origines si sente l’influenza dello storico greco Timeo di
Tauromenio. Nelle orazioni la tecnica retorica greca era non solo assente ma proprio dissimulata: l’elaborazione a
tavolina viene sostituita da un’impressione dell’immediatezza vivace.
La critica di Catone é rivolta in particolare agli aspetti “illuministici”, cioé quelli di critica dei valori e dei rapporti sociali
tradizionali, sostanzialmente il lascito della riflessione sofistica, che avrebbero potuto corrodere le basi etico-politiche
della res publica e del regime aristocratico. Parimenti l’imitazione di certi costumi avrebbe potuto mettere a rischio
l’unità e la coesione interna dell’aristocrazia, portando all’affermazione figure individuali dominanti e di prestigio
eccezionale.
Alla luce di questo si capisce la lotta di Catone a favore delle leggi suntuarie che, limitando i consumi dei ricchi,
limitavano anche le manifestazioni di sfarzo e di ostentazione da parte di singoli gruppi familiari ed evitavano il sorgere
di eccessive diseguaglianze economiche all’interno della classe dirigente, disuguaglianze portatrici di instabilità.
Benché combatté apertamente Scipione l’Africano, Catone fu in buoni rapporti con l’Emiliano. Attraverso gli intellettuali
della cerchia di quest’ultimo, un po’ di cultura greca riuscì a penetrare a Roma, lasciando filtrare un po’ di razionalismo
ma comunque mantenendosi entro i limiti della conservazione politico-sociale. Tutto questo approderà ad una nuova
sintesi di mos maiorum ed edulcorate spinte “illuministiche” che costituirà la base della riflessione etico-politica
ciceroniana.
La Fortuna
Catone é ricordato come custode del conservatorismo e il suo appellativo, il Censore, irrigidisce il personaggio nella
sua funzione censoria, denunciando la sua trasformazione da personaggio a simbolo. Cicerone lo idealizza come figura
che assomma in sé le virtù fondamentali della Roma del passato (austerità, parsimonia, attaccamento al lavoro, rigore
morale) nel De re publica e nel dialogo Cato maior de senectute, mitigandone comunque le più dure asprezze
caratteriali. Anche Tito Livio ne apprezzò le doti, criticando comunque il suo integralismo.
Cornelio Nepote, Plutarco e Svetonio ne scriveranno la biografia, Gellio, Frontone e Adriano lo valutarono tanto
positivamente da - gli ultimi due - anteporlo a Cicerone.
X. CECILIO STAZIO (Milano nella Gallia Insubre 230-220 a.C. - 168 a.C.)
Vita
Portato a Roma nel 222, dopo la battaglia di Casteggio, Cecilio é contemporaneo prima di Plauto e poi di Ennio, di cui
fu anche amico. L’acme della sua produzione si colloca attorno al 180 a.C.
Fu legato all’influente impresario teatrale Ambivio Turpione.
Produzione Letteraria
Di Cecilio non possediamo più niente ma dalle fonti sappiamo che fu considerato un autore di primo rango, posto nel
canone dell’erudito Volcacio Sedigito al primo posto tra i poeti comici romani, persino di fronte a Plauto e Terenzio.
Ci restano come 40 titoli di palliate e 300 versi in frammenti.
40 Commedie Palliate
Plocium, Ex hautoù hestòs, Exul, Epistula, Gàmos, Epìcleros, Obolostàtes/Faenerator, Pugil, Synaristòsae, Synèphebi.
Questi tratti (Menandro + maggiore adesione al modello greco) accostano Cecilio più a Terenzio che a Plauto, come
anche per la riflessione sulla condizione umana (Homo homini deus est, si suum officium sciat).
Gellio, nelle Noctes Atticae, pone a confronto il Plocium di Cecilio con il Plòkion di Menandro, criticando quanto sia
libero il suo vertere. Sostanzialmente il modello, seppur rispettato, é un semplice canovaccio. Ad esempio un
tranquillo monologo menandreo in cui un marito si lamenta perché la moglie bisbetica l’ha cacciato dicasa, viene
convertito da Cecilio in un canticum farsesco che pone l’accento sul motivo della schiavitù dell’uomo sposato e sulla
negatività della figura della moglie.
Da ulteriori confronti si deduce che Cecilio caricava sui copioni menandrei anche lazzi e battutacce, reinventando
anche totalmente le storie dei modelli secondo una nuova e più autonoma poetica teatrale.
XI. PUBLIO TERENZIO AFER (Cartagine 194 o 184 a.C. ? - Stinfalo, in Grecia 159 a.C.)
Vita
Della vita di Terenzio abbiamo elementi controversi. Dal cognomen, Afer, viene la conferma che sarebbe proveniente
da Cartagine, mentre la data di nascita - il 184 - potrebbe essere “scelta” dai bibliografi perché anno di morte di
Plauto. Si crede che sia nato circa dieci anni prima.
Giunto a Roma come schiavo del senatore Terenzio Lucano, Terenzio ebbe stretti rapporti con Scipione Emiliano e
Lelio, che furono i suoi protettori, spesso ringraziati come “illustri amici” nelle sue commedie. Voci denigratorie
sostenevano che fosse solo un prestanome per i suoi due protettori, veri autori delle opere: questa diceria va
inquadrata ovviamente nel clima della rovente polemica letterario-politica di quegli anni.
Terenzio sarebbe morto nel 159 durante un viaggio culturale in Grecia, un momento importantissimo nella
formazione dei Romani colti. La proposta di morte per annegamento é da escludere ed é servita per accostare
l’evento alle circostanze in cui morì Menandro, suo riconosciuto ispiratore.
Di Terenzio abbiamo la Vita di Svetonio (100 d.C.) tramandataci come introduzione al commento a Terenzio di Elio
Donato, nel IV secolo.
Produzione Letteraria
Di Terenzio ci restano 6 commedie, la cui cronologia é certa grazie alle didascalie anteposte ai manoscritti medievali.
Il modello é quello della Commedia Nuova (Menandro, Difilo e Apollodoro di Caristo) e le storie riguardano le vicende
di giovani innamorati, contrastati dai genitori, di schiavi indaffarati a soddisfare i padroncini e di riconoscimenti destinati
a risolvere la situazione
• Hecyra, “La suocera” (165 a.C., riproposta due volte nel 160 a.C.)
Recitata dall’impresario di tutte le commedie di Terenzio, Ambivio Turpione, ebbe successo solo al terzo tentativo.
Il modello é l’Hecyra di Apollodoro di Carista, contaminata dall’Epitrèpontes, “L’Arbitrato”, di Menandro.
Sostrata, madre di Panfilo e suocera di Filùmena, non è una madre gelosa e ostile alla nuova ma, anzi, si adopera
per appianare le gravi incomprensioni fra i due sposi. Si scopre infatti che Filùmena, prima del matrimonio, è stata
messa incinta da uno sconosciuto durante una festa: Panfilo vorrebbe abbandonarla ma alla fine risulterà che era
proprio lo sconosciuto. Conquistato dall’indole dolce e remissiva della moglie, Panfilo si riconcilia con lei e rinuncia
all’amore per una cortigiana, Bacchide, che cerca anch’essa di favorire la riconciliazione tra i due sposi.
innamorati. Anche qui funziona il meccanismo dell’agnizione perché si scoprirà che Fanio, la ragazzi di cui Antifone è
innamorato, é in realtà figlia legittima di Cremete, zio dello stesso Antifone e padre di Fedria.
Le vicende narrate da Terenzio mostrano il declino del teatro popolare latino e il progressivo divaricarsi del gusti
del pubblico di massa e dell’élite colta, nutrita di raffinata cultura greca.
Terenzio, infatti, mette in scena gli ideali di rinnovamento culturale dell’aristocrazia scipionica ed è interessato
dall’approfondimento psicologico dei personaggi, rinunciando di conseguenza all’esuberanza comico-fantastica di
Plauto.
Terenzio é interessato alla rappresentazione psicologica del “tipo umano” e sceglie personaggi spesso
anticonvenzionali (p.e. la suocera dolce e gentile con la nuora), vicini ai Caratteri di Teofrasto. Ovviamente questo
approfondimento psicologico comporta una riduzione della comicità e strappa qualche sorriso in meno. Cesare
sostiene che la virtus comica manchi di vis, cioé di slancio e di energia. Tuttavia si tratterebbe di una scelta: Terenzio
sacrifica la ricchezza dell’inventiva verbale e d’intreccio, per approfondire i personaggi.
Al centro delle vicende vi sono le relazioni umane: la famiglia era sempre stata protagonista della palliata latina, ma
adesso i rapporti umani sono sentiti con maggiore serietà problematica. Terenzio (ri-)elabora il concetto di
humanitas2, ripreso dalla philanthropia greca: Homo sum: humani nihil a me alienum puto” (Heaut.).
Quest’ideale si colloca in perfetta sintonia con la cultura dell’età scipionica e in questo concetto - quello di “riconoscere
e rispettare l’uomo in ogni uomo” - confluiscono vari filoni di pensiero greci, ma tipicamente romana è la sintesi
costruttiva, ottimistica e pragmatico-attiva di questo ideale.
Non é un caso che la commedia di maggior successo sia proprio quella meno dotata di elementi psicologici,
l’Eunuchus, vicinissima alla comicità plautina del travistimento e del burlesco.
Di Menandro Plauto non rispettava la verosimiglianza e il suo gioco scenico finiva facilmente per rispecchiare stesso,
mettendo di fatto in crisi l’effetto di realtà dell’inteccio (metateatro plautino). In Terenzio, invece, la coerenza e
l’impermeabilità dell’illusione scenica sono molto più curati e gli esiti non sono mai metateatrali. Vengono, inoltre,
eliminate le battute che non abbiano una diretta motivazione interna allo svolgimento drammatico, ma che si
rivolgono liberamente al pubblico interrompendo l’illusione scenica e rivelando, come una sorta di commento all’azione,
il meccanismo drammatico dell’invenzione comica. In Terenzio, sostanzialmente, la palliata non apre nessuno spazio
di autocoscienza e i momenti di riflessione vengono tutti concentrati nel prologo.
2 Per humanitas si intende una virtù che regola i rapporti interpersonali su un piano di reciproca fiducia e rispetto. Riguarda ovviamente
ciò che è proprio del carattere e del comportamento della persona umana, in quanto pposta alle belve e agli esseri primitivi, ed indica
un senso di civiltà che si manifesta nella comprensione verso gli altri e nella benevolenza (sia all’interno del nucleo familiare, che nelle
amicizie, sia verso gli schiavi e i popoli sottomessi), ma anche nella cultura e, a livello esteriore, nel buon gusto e nell’eleganza.
© ALESSANDRO IANNELLA 30 DI 115
Il prologo, che nella Commedia Nuova e in Plauto aveva una funzione di introduzione, di panoramica all’azione, adesso
non ha più funzione informativa. In Terenzio serve ad esprimere personali prese di posizione, a chiarire il rapporto
con i modelli e a risponere alle critiche degli avversari.
Questi momenti di riflessione critica e poetica, avvicinano Terenzio ad Ennio, Accio e Lucilio, cioé al “poeta-filologo”.
Della tecnica di Terenzio fanno parte anche la contaminatio dei modelli, che serve a creare una commedia stataria,
cioé statica nel senso di riflessiva e verosimile la cui azione drammatica era fondata sul dialogo, anziché motoria, cioé
troppo movimentata (Plauto) e fondata sul clamore.
Lingua e Stile
A livello stilistico Terenzio sembra essere un po’ uniforme, piatto e sicuramente meno vivace rispetto a Plauto. Il
linguaggio appare censurato (il termine bacio e l’azione corrispondente compaiono solo due volte), si parla poco di
corpi, mangiare, bere e sesso. Non ci sono insulti pesanti e i personaggi “bassi” tipici della palliata compaiono
comunque ma privi della loro particolare carica linguistica.
Lo stile é quindi quello medio della conversazione quotidiana, che ricerca il verosimile. Non si tratta ovviamente
pari pari della lingua parlata ma piuttosto di una lingua settoriale, quella parlata dalle classi urbane di buona educazione
e cultura. La varietà metrica è ridotta: sono scarse le parti del tutto liriche ed è molto contenuta l’estensione dei
cantica (canto o declamazione con musica) rispetto ai deverbia (recitato).
La Fortuna
Terenzio continuò a tener la scena anche dopo la sua morte, ed ebbe sempre il favore dei critici più colti e sensibili, che
apprezzarono la purezza della lingua e la raffinatezza dello stile. Cicerone gli attribuisce un linguaggio scelto (lecto
sermone) insieme a urbanità (come loquens) e a dolcezza del dire (omnia dulia dicens).
Moderazione dei sentimenti, contenuti educativi, valori etici apprezzati anche dai cristiani (S. Agostino) e purezza di
lingua sono i motivi che introdussero le sue commedie nella scuola.
Curioso é il fatto che Volcacio Sedígito lo abbia collocato solo al sesto posto, dopo Cecilio, Plauto, Nevio e due
minori (Licinio Imbrice e Atilio) nella sua graduatoria poetica.
La data di nascita é dubbia: quella proposta da S. Girolamo (148) è stata messa in discussione a causa di alcuni
elementi storici: il fatto che Orazio lo definisca senex benché abbia vissuto appena 46 anni e la sua presenza nel
quartier generale dell’Emiliano durante l’assedio di Numanzia ad appena 15 anni, cioé nel 133. Gli studiosi hanno quindi
pensato al 180 e ad una confusione dovuta all’omonimia dei consoli dei due anni. L’opinione più diffusa é che sia nato,
invece, in una data intermedia: nel 168 o nel 167.
Nella sua maturità entro nel circolo scipionico e fu protetto da Scipione Emiliano e da Lelio, gli stessi personaggi
con cui entrò in contatto Terenzio.
Produzione Letteraria
30 Libri di Saturae, di cui possediamo brevi frammenti per circa 1300 versi.
Nel I secolo a.C. circolava un’edizione in ordine metrico (libri 1-21: esametri dattilici; l. 22-25: distici elegiaci; l. 26-30
metri giambici, trocaici ed esametri). È possibile che i primi libri furono 5, quelli che conosciamo come 26-30, e che
fossero stati pubblicati verso il 130 a.C.
L’adozione dell’esametro fu sicuramente una provocazione ironica, in quanto al verso tipico dell’epica eroica e
celebrativa venivano adattate una materia quotidiana e una dizione colloquiale spesso popolareggiante.
Il titolo non è affatto sicuro che fosse Saturae, un termine per lo più oraziano: Lucilio chiama le sue composizioni
poemata, sermones o ancora ludus ac sermones. Secondo altri il titolo primitivo sarebbe stato schèdia, in greco
“improvvisazioni”.
Lasciando da parte la ricerca delle origini nel dramma satiresco greco, la satura latina potrebbe trarre origini dalla
satura lanx, un piatto misto di primizie offerte agli dei, o dalla lex per saturam, ovvero quando si riunivano stralci di vari
argomenti in un singolo provvedimento legislativo. Satura indicava quindi “mescolanza e varietà”.
La satira si presenta quindi come un genere tutto romano (Satura tota nostra est, Quint.), che non aveva precedenti
in Grecia benché ovviamente ne avesse accolto alcuni apporti culturali, come i Giambi di Callimaco o la mordacità di
Aristofane.
La satira nasce quindi per un impulso tutto romano, per esprimere la voce personale del poeta, raccontando in
versi momenti ed esperienze della sua vita. Si tratta di una novità: nessuno dei generi canonici di poesia (epica,
tragedia e commedia) prevedeva uno spazio di espressione “diretta”, in cui il poeta possa rispecchiare il suo rapporto
con se stesso e con la realtà contemporanea.
Un elemento chiava é la poikilia, la varietà, che era una delle caratteristiche di Callimaco, in aperta polemica con
l’uniformità altisonante dell’epica narrativa.
Ennio aveva già scritto delle satire, principalmente in metri giambici o trocaici, e aveva trattato di argomenti disparati,
dagli accenni autobiografici con auto-ritratti alle favolette.
La novità di Lucilio é però la vis polemica e i veri e propri attacchi ai personaggi contemporanei: si tratta di una
dimensione aggressiva del satirico, forse più vicina agli attacchi di Nevio alla famiglia dei Metelli.
Lucio sceglie esclusivamente di dedicarsi alla satira: lo sviluppo di questo genere testimonia anche una crescita del
pubblico, interessato alla poesia scritta, quindi concepita per una lettura personale, e desideroso di una letteratura
più aderente alla realtà contemporanea.
• Altri: molte sono le questioni di retorica, grammatica e poetica. In alcune Lucilio deride Accio e Pacuvio, ritenuti
enfatici e declamatori. Critica inoltre lo stile solenne dei generi poetici elevati, in particolare della tragedia.
Lingua e Stile
Caratterizzano Lucilio un forte spirito anticonformista e moralistico: dai frammenti deduciamo una chiara polemica
contro i costumi contemporanei, contro gli eccessi del luxus e le manie grecizzanti.
La critica di Lucilio colpisce svariati aspetti della vita quotidiana, ripresi nella loro concretezza fisica e linguistica e alla
luce di un atteggiamento educativo socio-morale.
A livello stilistico Lucilio si apre in tutte le direzioni: utilizza il linguaggio elevato dell’epica, rivissuto come parodia, e
i più disparati linguaggi specialistici (retorico, tecnico-scientifico, gastronomico, politico-giuridico, quotidiano),
utilizzando moltissimi grecismi. La disarmonia dello stile di Lucilio é sicuramente una scelta meditata e rivolta ad un
preciso programma espressivo: questo poeta é vicinissimo al realismo moderno.
I Gracchi
Un periodo di grande sconvolgimento fu l’età graccana, che fu descritta da Diodoro, Appiano e Plutarco. Uno dei più
importanti motivi di crisi della Roma di questo periodo consiste nell’espropriazione dei piccoli proprietari terrieri, cui
aveva fatto seguito lo spopolamento delle campagne e la crisi demografica. La famiglia dei Gracchi si fa interprete
delle istanze della plebe che più di chiunque scontava le conseguenze di tale crisi.
Nel 133 Tiberio Gracco, figlio di Tiberio Sempronio Gracco, viene eletto tribuno e presenta una legge sulla misura
dell’agro pubblico secondo la quale quest’ultimo doveva essere diviso in lotti non superiori a 500 iugeri. Chi ne
possedeva di più doveva restituirli affinché una commissione (detta “dei tresviri”) procedesse all’assegnazione a favore
della plebe nullatenente. Il tribuno Ottavio oppose il proprio veto. Tiberio, non riuscendo a far togliere il veto, fece
deporre Ottavio dall’Assemblea.
La legge viene quindi approvata ma la sua attuazione incontra mille difficoltà opposte per far terminare l’anno di carica
di Tiberio che tuttavia, al termine del mandato, ripropone la sua candidatura. Questo fa scoppiare dei disordini in cui
Tiberio trova la morte. A questo punto dovranno trascorrere dieci anni prima del secondo tribunato graccano.
Caio Gracco (123) si preoccupò di garantire una funzione costituzionale alla neonata ordo degli equites proponendo
una legge sul trasferimento delle corti giudicanti dai Senatori ai cavalieri, assicurando così a quest’ultimi il compito di
giudicare nelle quaestiones extra ordinem. Propose inoltre numerosissime altre leggi, tra le quali:
• provvedimenti per la fondazione di nuove colonie;
• legge sull’attribuzione delle sfere di competenza ai singoli consoli;
• legge sull’organizzazione della provincia d’Asia;
• legge che proponeva di concedere la cittadinanza romana ai latini e quella latina agli Italici;
• legge “de repetundis”, l’unica rimastaci in materia criminale.
L’esperienza graccana si protrasse per i due tribunati del 123 e 122. Dopo i tentativi di far abrogare la lex Rubria, il
Senato votò un provvedimento senza precedenti, il senatus consultum ultimum, che aboliva le garanzie costituzionali e
dava ordine al console Lucio Opimio di operare la repressione dei tumulti. Roma fu occupata militarmente e i graccani,
ritiratisi sull’Aventino, furono in gran parte uccisi, compreso Caio. La morte di Caio segna l’inizio effettivo delle guerre
civili.
Mario e Silla
Dopo la repressione graccana si assiste alla formazione della factio in seno alla nobilitas, un gruppo ristretto della
classe dirigente che accentra tutte le magistrature e le posizioni di governo. I poteri dei tresviri vengono ridotti da tre
leggi:
1 una legge del 121 che abolisce il divieto di alienazione dei terreni distribuiti;
2 la lex Toria del 111 che sancisce la definitività del possesso dell’ager publicus;
3 una legge del 111 con cui si abolisce il vectigal.
Nel 106 Servilio Cepione reintroduce i Senatori nella quaestio de repetundis, la cui giuria deve essere quindi composta
per metà da Senatori e per metà da cavalieri.
In seguito alla guerra di Numidia e all’ascesa al trono di Giugurta (figlio illegittimo del re di Numidia ma appoggiato da
Roma), si creano in Roma due fazioni, una interventista – guidata dai cavalieri – e una non interventista – guidata dal
Senato. Una strage di mercanti romani operata da Giugurta a Cirta fa scoppiare la guerra. Caio Mario – successo al
comando delle operazioni in Numidia a Quinto Cecilio Metello – riesce a catturare Giugurta grazie anche all’aiuto del
suo luogotenente Silla.
Contemporaneamente alla guerra in Numidia, le popolazioni barbare dei Cimbri e dei Teutoni invadono l’Italia
settentrionale infliggendo una pesante sconfitta ai romani. Mario – che era stato eletto console – vide prolungato il suo
mandato dal 104 al 101, anno in cui sconfisse gli invasori. Le gravi perdite di quegli anni indussero Mario ad arruolare
anche la plebe urbana non iscritta nelle centurie e gli italici.
Nel 100 Mario si ripresenta al Consolato, alleandosi con Apuleio Saturnino e con Servio Glaucia. A questi ultimi si
dovettero:
• la lex Apuleia de maiestate minuta che ampliava l’ambito dei delitti politici;
• la lex frumentaria che abbassava il prezzo del grano;
• la lex agraria che distribuiva ai veterani l’ager gallicus conquistato da Mario;
• una lex de coloniis in Africam deducendis per distribuire 100 iugeri a testa tra i veterani in Numidia.
© ALESSANDRO IANNELLA 34 DI 115
Durante i comizi elettorali Gaio Memmio, candidato avverso a Glaucia, viene ucciso in un tumulto: il Senato vota quindi
un senatus consultum ultimum e ordina a Mario di attaccare Apuleio, Glaucia e i loro seguaci. Mario, consapevole che
ciò avrebbe compromesso il suo credito e il suo potere politico, esegue suo malgrado l’ordine. Le leggi di Apuleio e
Glaucia saranno abrogate e sarà così stroncato il secondo tentativo di cambiamento.
Riguardo al senatus consultum ultimum, molti studiosi romanisti affermano che il Senato compì un abuso, ma non
considerano che presso gli antichi non esisteva una costituzioni scritta ma solo una prassi costituzionale determinata
da rapporti di forza.
La quaestio de maiestate è la seconda quaestio perpetua dopo quella de repetundis, ma al contrario di quest’ultima è
attivata per conto dello Stato, e l’accusa viene esercitata solo da cittadini romani.
La produzione normativa di questo periodo è molto vasta e si sente il bisogno di proteggerla: nasce così la sanctio legis
di Saturnino la clausola propria delle leggi che si prevede saranno fortemente osteggiate dagli oligarchici.
Nel 92, il tribuno Livio Druso propose che il numero dei Senatori fosse raddoppiato e che i nuovi Senatori fossero
equites. Tale misura era di carattere conciliativo: si sarebbe così arginato lo strapotere degli equites con l’immissione nel
Senato dei membri più influenti e sarebbe terminata la lacerante contesa per il controllo delle quaestiones perpetue. In
campo popolare Druso concesse la cittadinanza agli italici per porre rimedio alla loro contrarietà alla distribuzione delle
terre.
La morte di Druso lasciò aperta una situazione di estrema tensione che sfocerà nel 90 nella guerra sociale. In tale anno
insorgeranno contro Roma tutti gli alleati italici che creeranno una vera e propria “civitas Italia” contrapposta alla “civitas
romana” con una propria organizzazione indipendente. La guerra sarà sanguinosissima (oltre 300.000 caduti per parte)
e terminerà con l’emanazione di tre leggi:
1 la lex Iulia del 90 che concede la cittadinanza romana a tutti gli italici che non avessero preso le armi contro
Roma;
2 la lex Plautia Papiria dell’89 che concede la cittadinanza romana a tutti gli italici che ne facciano richiesta;
3 la lex Pompeia dell’88 che concede lo ius Latii agli abitanti della Gallia Cisalpina.
Nonostante l’estensione della cittadinanza, il modello romano non cambia: tutte le città d’Italia diventano municipi
“optimo iure”.
Intanto nell’88 scoppia la guerra contro Mitridate re del Ponto. Il tribuno Sulpicio Rufo propose due leggi, una delle
quali toglieva il comando delle operazioni di guerra a Silla – che aveva già radunato il suo esercito a Napoli – e l’altra
che iscriveva gli italici in tutte le 35 tribù. Silla – che sarebbe stato sostituito da Mario – marciò su Roma, cacciò Mario e
fece abrogare le leggi di Sulpicio; dopodiché partì per la guerra.
Mentre Silla vinceva Mitridate a Cheronea e a Orcomeno, Cinna – eletto console nell’87 – instaurò a Roma, per tre anni,
un potere dispotico e antinobiliare: nacquero le liste di proscrizione. Silla, conclusa la pace con Mitridate, tornò in Italia
nell’83 e sconfisse i cinnati nella battaglia di Porta Collina dell’82.
Roma vive ora uno dei momenti più drammatici della sua storia: le proscrizioni hanno ridotto il Senato da 300 a 100
membri; 100.000 veterani di Silla chiedono terre, e Silla concede loro di occupare le terre italiche dove vogliano
all’interno di determinati confini.
Silla ebbe dopo l’82 una formale investitura perpetua a dittatore per la riorganizzazione dello Stato. Il Senato fu
portato a 600 membri, e i nuovi Senatori furono in massima parte equites, forse scelti direttamente da Silla. La lex
Villia “de annalis” del 180 ripristinò gli intervalli regolari tra le magistrature. Una legge permise ai soli Senatori di rivestire
il tribunato e vietò a chi era stato tribuno di rivestire cariche successive.
L’eloquenza é un’arma potente nei veementi dibattiti di fronte al Senato e nei comizi: ce lo testimonia un episodio
secondo cui i due censori del 92 a.C., Licinio Crasso e Domizio Enobarbo, chiusero la scuola di retorica di Plozio
Gallo, un cliente di Mario. La scuola era pericolosa per la parte aristocratica perché era di tendenza popolare: agli
uditori non era richiesta la conoscenza preliminare del greco e le rette non erano elevate. Chiudendola riuscirono ad
annientare un ceto dal quale, in futuro, sarebbero potuti uscire pericolosi capi popolari ben versati nell’arte della parola.
Gli insegnamenti di questa scuola paiono riflettersi nella Rhetorica ad Herennium (80 a.C. ca.), un manuale di autore
ignoto che influenzerà Cicerone.
Nel Brutus Cicerone ci informa che nel circolo degli Scipioni c’era chi tendeva alla gravitas, tipica dell’Emiliano, e chi alla
levitas, tipica dell’amico Lelio. Veemente e ispirata era invece l’oratoria dei Gracchi
Nella generazione precedente a Cicerone incominciano a delinearsi due gusti stilistici differenti:
• Stile Asiano, nato nelle scuole di Pergamo tra la fine del IV e l’inizio del III sec., dotato di grande pathos e di
musicalità, assai ridondante. La sua actio era molto affettata. Ne esistevano due tipologie, che comunque poteva
combinarsi: una caratterizzata dalla sequenza ininterrotta di frasi sofisticate ricche di metafore e giochi di parole, e
un’altra più tumida e sovrabbondante di parole colorite.
Di tendenza asiana erano Gaio Gracco, Publio Sulpicio Rufo e soprattutto Quinto Orensio Ortalo, la cui eloquenza
influenzò profondamente gli anni giovanili di Cicerone;
• Stile Atticista, che si affermò a Roma più tardi come reazione diretta all’asianesimo, di cui fu accusato Cicerone. Gli
atticisti, che si ispiravano alla sobrietà di Lisia, avevano uno stile nitido, conciso. Esponenti erano il futuro
tirannicida Marco Bruto e soprattutto Gaio Licinio Calvo, amico di Catullo e grande avversario di Cicerone.
Impetuoso e austero a detta di Quintiliano, Calvo evitava il pathos grandioso e questo, a detta di Cicerone, era
sintomo di un eccessivo autocontrollo.
• Teoria Analogica, viva ad Alessandria e a Rodi con Dioniso Trace, che appellandosi all’autorità dei classici voleva
la lingua fondata sulla norma (ratio) e sull’analogia, la regolarità basata sul rispetto dei modelli riconosciuti: ne deriva
una tendenza fortemente purista e conservatrice.
Fu sostenuta da Alessandro Poliìstore, un liberto di Silla autore di dotte opere di compilazione e da Giulio Cesare,
autore di un perduto De analogia.
Il grammatico e filologo Elio Stilone, e in seguito Varrone, cercheranno un tentativo di conciliazione tra le due
tendenze.
• Lucio Elio Stilone Preconino, un cavaliere aristocratico, che fu maestro di Varrone e di Cicerone, dette inizio a un
lavoro critico di pubblicazione e di commenti a itesti letterari. Stilone si occupò di commentare le commedie plautine,
il Carmen Saliare e le leggi delle XII tavole;
• Ottavio Lampadione curò invece l’edizione di Nevio, mentre Vettio Filocomo quella di Lucilio.
Rispetto alla storiografia arcaica si adotta un metodo razionalistico, chiaramente influenzato da Polibio.
• Sempronio Asellione, per esempio, dichiara specificamente la sua opinione sulla storiografia annalistica precedente,
criticandone la mera esposizione e chiarendo la propria volontà di descrivere intenzioni e moventi delle imprese,
ovviamente delle uniche alle quali lui stesso aveva assistito;
• Celio Antipatro, plebeo ma giurista e maestro di eloquenza dalla raffinata cultura, scrisse dopo il 120 a.C. un’opera
storica in sette libri che si rifaceva alla narrazione monografica della seconda guerra punica. La sua narrazione, non
ab urbe condita, mirava non solo ad ammaestrare il pubblico ma anche a dilettarlo, con elementi fantastici e miracoli,
con il pathos tragico, con sogni e apparizioni.
Fu molto apprezzato da Cicerone;
• Cornelio Sisenna (120-67 a.C.) fu un uomo politico aristocratico, fautore di Silla e autore delle Historiae, un’opera
storiografica di vicende contemporanee con una breve introduzione dedicata alla storia antica. Con uno stile asiano,
Sisenna é attento agli eventi politici ma la sua importanza é dovuta all’aspetto artistico: quella dell’opera di Sisenna
é un’atmosfera favolosa e romanzesca, secondo il metodo della storiografia tragica (drammaticità, colpi di scena,
pathos), che si rifaceva allo storico di Alessandro Magno Clitarco.
Fu autore anche delle Fabulae Milesiae, racconti licenziosi ispirati al genere creato da Aristide di Mileto e che
fungeranno da modello per Petronio e Apuleio.
Nello stesso periodo sono molti gli studi antropologici, definiti “antiquari” e volti ad indagare le origini remote di usi,
costumi, istituzioni giuridiche e sociali.
La commedia togata continua nel solco terenziano e su modello menandreo con opere come la Veliterna (“La
ragazza di Velletri”) o l’Aedilicia (“La commedia degli edili”), di chiarissima ambientazione romana o italica. Autori di
questo genere furono Titinio, Lucio Afranio e Atta.
Molto probabilmente puntava al realismo, cioé alla rappresentazione di un mondo di personaggi umili meno tipizzati di
quelli di Plauto: non c’é più lo schiavo furbo e imbroglione ma anche l’artigiano e la lavandaia, insomma un ambiente
popolano e forse piccolo-borghese più credibile. La togata non permetteva, però, di rappresentare il servo come più
furbo del padrone perché, pur rappresentando senza mediazioni la realtà romana, non poteva metterne troppo in
ridicolo il concreto ordine sociale.
Per Seneca la togata stava a mezzo tra tragedia e commedia.
Verrà soppiantata nell’età cesariana dal mimo, che dominerà fino a tutta l’età imperiale: si tratta di un’etichetta per
spettacoli di diverso genere, ritenuti dai più diseducativi, e che riguardavano danze, momenti di arte mimica muta,
intermezzi musicali, salaci gag, scenette piccanti di amori boccacceschi, litigi inscenati, improvvisazioni con finali
bruschi e inaspettati (fuggi fuggi generali). Pare che i mimi più popolari forse quelli dei ludi Florales, durante i quali si
esibivano anche delle spogliarelliste.
Alcune volte il mimo era crudo, eccessivamente realista: i condannati a morte venivano giustiziati sulla scena in modo
da accrescere il realismo delle scene di violenza. Il gusto veristico della platea era ben soddisfatto dal mimo, in cui gli
attori non portavano più maschere e le parti femminili erano impersonate da donne.
Il mimografo a noi più noto é Publilio Siro, un liberto venuto dall’Oriente e padrone di una compagnia di giro, attore a
autore. Viene apprezzato anche da Seneca per la sua vena riflessiva e sentenziosa che lo accomuna al suo concorrente,
Laberio: entrambi erano estranei agli aspetti più triti e commerciali di tale produzione teatrale.
Tutto questo ci mostra la chiara decadenza del teatro tradizionale (commedia, tragedia) dovuta sicuramente al
cambiamento di gusto del pubblico: da una parte c’era l’élite che richiedeva un’espressione letteraria sempre più
elaborata e raffinata, dall’altra la massa urbana che, avendo subito un processo di deriva culturale, adorava le forme di
spettacolo semplici e, in genere, piuttosto volgare.
Il teatro comico non poteva più esercitare la sua coesione culturale: per gli uni era troppo schematico, elementare
e poco flessibile, per gli altri poco realistica e incapace di riprodurre direttamente le più semplici manifestazioni del
vivere e i bisogni più materiali.
II
LA TARDA REPUBBLICA
Nel 67 scoppiò la guerra piratica e la lex Gabinia affidò il comando dell’esercito a Pompeo, attribuendogli poteri enormi.
Terminata la guerra piratica, Pompeo fu inviato contro Mitridate nel 66. Qui non si limitò a concludere il conflitto ma
conquistò ingiustificatamente anche la Siria e la Palestina che organizzò a suo profitto.
Con Pompeo, dunque, i poteri militari vengono prolungati indefinitivamente, e ciò sarà un elemento di disgregazione
dello Stato, perché un tale tipo di imperium è contrario ai principi repubblicani.
Nel 64, appoggiato da esponenti dei Senatori e dei cavalieri, si candida al consolato Catilina, esponente della nobiltà
più antica. Ma fu proprio la factio che temeva Catilina per i suoi progetti innovatori, ad opporgli l’homo novus Cicerone,
che infatti ottenne il consolato. Durante il consolato di Cicerone la situazione precipitò: Catilina venne accusato di gravi
misfatti, il Senato emanò un senatus consultum ultimum, Catilina si rifugiò a Pistoia dove venne sconfitto e ucciso.
Nel 60 venne stipulato un accordo privato per la guida dello Stato fra tre personaggi: Crasso, Pompeo e Cesare.
Quest’ultimo era nato nel 100 dalla gens Iulia, antichissima ma con un patrimonio dissestato. Era stato governatore
della Spagna e era diventato console nel 59. In quest’anno Cesare propose moltissime leggi:
• fece ratificare l’operato di Pompeo in Asia;
• fece votare una legge agraria munita di “sanctio”;
• fece approvare molti provvedimenti favorevoli ai cavalieri;
• fece votare la lex Iulia de repetundis.
Nel 59 un tribuno di fiducia di Cesare, Vatinio, fece approvare una legge che concedeva a Cesare il governo della Gallia
Cisalpina per 5 anni.
L’anno successivo un altro tribuno, Clodio, fa approvare numerose leggi fra cui:
• una lex frumentaria;
• una legge che costituisce l’isola di Cipro in provincia con il fine di allontanare Catone – chiamato a governarla –
nemico di Cesare;
• una legge che toglieva agli auguri l’obnuntiatio, cioè la facoltà di opporsi alle leggi adducendo motivi religiosi.
Clodio fece anche esiliare Cicerone per aver fatto uccidere i catilinari senza un regolare processo e solo in base ad un
senatus consultum ultimum. Si trattò dello scontro fra due principi: quello aristocratico, secondo il quale un senatus
consultum ultimum autorizzava ad uccidere i cittadini romani dichiarati nemici pubblici; e quello democratico, secondo il
quale ogni cittadino poteva essere condannato a morte soltanto dopo un processo. L’esilio di Cicerone non durò
comunque a lungo: nel 57 fu richiamato a Roma in quanto Cesare aveva bisogno di riconciliarsi con il mondo Senatorio
e quello equestre.
Nel 56 i triumviri stipularono a Lucca un secondo accordo: Pompeo e Crasso avrebbero avuto il consolato nel 55 e
Cesare avrebbe avuto il comando della Gallia per altri cinque anni. Dopo il consolato Crasso andò a governare la Siria e
a combattere i Parti; Pompeo, che sarebbe dovuto andare in Spagna, restò a Roma. Crasso morì nella battaglia di Carre
del 53; Pompeo venne eletto console senza collega.
Nel 49 il mandato di Cesare scadeva ma questi non volle deporre l’imperium per non finire sotto processo. Nel 49
Cesare passò il Rubicone con l’esercito contravvenendo alle leggi di Silla; il Senato emise un senatus consultum
ultimum ma Cesare giunse a Roma e la occupò. In seguito inseguì Pompeo e lo sconfisse a Farsalo nel 48. Tornato in
Italia si fece eleggere dittatore per 10 anni nel 46, console unico nel 45, dittatore a vita, imperator, tribuno a vita,
pontefice massimo e padre della patria nel 44. Portò il Senato a 900 membri, estese la cittadinanza romana alla Gallia
Cisalpina, fece votare una legge sull’unificazione dei municipi. Nel 44 venne ucciso.
Vengono inoltre introdotti i principi della bona fides e quello opposto del dolus. Giuristi come Manio Manilio e Giunio
Bruto ricercano la possibilità di interpretazioni in base a leggi posteriori a quelle decemvirali, mores e principi equitativi.
In seguito nasce l’attività definitoria che tende a determinare i singoli istituti. In tal senso, Quinto Mucio Scevola fu il
primo a comporre un trattato giuridico unitario. Mentre in tutta l’età repubblicana il giurista è sempre stato un uomo
politico, nella tarda repubblica si assiste al suo progressivo distacco dalla vita politica, con un notevole incremento della
produzione dottrinale.
Nel 75 é questore in Sicilia nel 70 si conquista fama di oratore principe sostenendo con successo l’accusa dei
siciliani contro l’ex governatore Verre. Nel 69 é edile, nel 66 pretore.
Nel 63 diviene console e reprime la congiura di Catilina.
Dopo la formazione del primo triumvirato, che Cicerone guardava con grande preoccupazione perché la sua
realizzazione come “patto privato” gli appariva insidiosa per l’autorità senatoria, il suo astro inizia a declinare: nel 58
viene esiliato con l’accusa di aver messo a morte senza processo i complici di Catilina e la sua casa viene rasa al
suolo. Torna trionfalmente a Roma nel 56.
Fra il 56 e il 51 tenta una collaborazione con i triumviri e continua a svolgere attività forense. Compone diverse
opere (De oratore, De re publica) e inizia a lavorare al De legibus.
Nel 51 é governatore in Cilicia e allo scoppiare della guerra sociale nel 49 aderisce con lentezza alla causa di
Pompeo. Si reca in Epiro ma non sarà presente nel 48 a Farsalo. Dopo la sconfitta di Pompeo, Cicerone ottiene il
perdono di Cesare.
Nel 46 scrive il Brutus e l’Orator, divorzia da Terenzia e sposa la sua giovane pupilla, Publilia, dalla quale divorzierà
pochi mesi dopo. Nel 45 muore la figlia Tullia e inizia la produzione di opere filosofiche, mentre il dominio di Cesare
lo allontana dagli affari pubblici.
Alla morte di Cesare, nel 44, Cicerone torna alla vita politica e intraprende con le Filippiche la lotta contro Antonio. Ma
dopo il voltafaccia di Ottaviano, che si stringe in triumvirato con Lepido e Antonio, Cicerone viene inserito nelle liste di
proscrizione e ucciso dai sicari di Antonio il 7 dicembre del 43.
Della vita di Cicerone abbiamo informazioni dalle sue stesse opere, in particolare dall’epistolario, dal Brutus, dalle
orazioni e dai proemi di alcuni dialoghi e trattati. Importante anche la biografia scritta da Plutarco e il commento storico
redatto in età neroniana dal grammatico Asconio Pediano.
Produzione Letteraria
Orazioni Conservate
A livello generale la carriera politica di Cicerone dimostra un filo coerente. L’homo novus si accostò alla nobilitas
nel contesto di un generale riavvicinamento fra Senato ed equites, e anche in seguito rimase fedele all’ideale della
concordia e alla causa del Senato. Il tentativo di collaborazione con i triumviri fu infatti una risposta al diffuso bisogno
di un governo autorevole e, anche in questo caso, Cicerone si preoccupò di salvaguardare il prestigio e le prerogative
del Senato. In questa stessa prospettiva va inquadrato persino il momentaneo riavvicinamento a Cesare, dopo la
guerra civile, dettato dal desiderio di mitigarne le tendenze autocratiche e di mantenere il potere nel solco delle
tradizioni repubblicane.
Il suo progetto di concordia dei ceti abbienti (concordia ordinum, poi consensum omnium bonorum), un
tentativo quindi di superare - in nome della collettività - la lotta di gruppi e fazioni che dominava la scena politica
romana, fallì per molteplici motivi.
Da un lato a Cicerone mancarono le condizioni per crearsi il giusto seguito clientelare o militare necessario a far
trionfare la sua linea politica. Dall’altro sottovalutò il peso degli eserciti personali. Inoltre sopravvalutò i cosiddetti
boni: in tempo di guerra, infatti, i ceti possidenti ritennero che le loro esigenze fossero meglio garantite dalla politica di
Cesare.
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• Verrinae, 70;
Nel 75 Cicerone é questore in Sicilia e nel 70 i Sicialini, contenti per il suo governatorato onesto e scrupoloso, gli
chiesero di sostenere l’accusa nel processo contro l’ex governatore Verre, che aveva sfruttato la provincia.
Cicerone raccolse le prove e le testimonianze in tempo brevissimo, in modo tale che il processo si tenesse nello
stesso anno perché Quinto Ortensio Ortalo, difensore di Verre, era stato designato console per l’anno successivo
(69). A Cicerone bastò la prima delle due actiones in Verrem perché Verre, schiacciato dalle prove, fuggisse e
venisse condannato in contumacia.
L’Actio Secunda, che fu pubblicata successivamente divisa in cinque libri, ci mostra un chiaro spaccato sui metodi
di cui si serviva l’amministrazione romana nelle province, metodi in linea di massima avidi di sfruttamento.
A livello stilistico Cicerone contrappose uno stile duttile, maturo e un periodare armonioso, all’esasperato
manierismo asiano di Ortensio, che risultò sicuramente stucchevole. La gamma dei registri di Cicerone é
dominata con piena sicurezza: si passa dalla narrazione piana e semplice al racconto colorito, dall’ironia al pathos
tragico. Splendidi i ritratti dello stesso Verre e del suo entourage.
Contrario comunque a qualsiasi programma di redistribuzione delle terre pubbliche e di sgravio dai debiti, Cicerone
cominciava ora a scorgere la via d’uscita dalla crisi che minacciava la repubblica nell’accordo fra i ceti abbienti,
senatori e cavalieri: quella concordia ordinum destinata a diventare il fondamento del suo progetto politico.
• Catilinariae, 63;
La candidatura al consolato di Cicerone fu appoggiata da una parte della nobilitù coalizzata con il ceto equestre.
Nello stesso momento, un nobile decaduto di parte sillana, Lucio Sergio Catilina, aspirava anch’eggi alla stessa
carica e cercava il consenso politico in maniera ambigua, facendo leva sui bisogni delle masse proletarie di Roma e
di alcune regioni d’Italia. Sconfitto alle elezioni, Catilina ordì una congiura per raggiungere il potere, congiura che fu
sventata dal nuovo console del 63, Cicerone.
Le Catilinariae sono le quattro orazioni con cui Cicerone riuscì a soffocare il tentativo eversivo di Catilina,
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costringendolo fuggire da Roma e giustificando la propria decisione di far giustiziare i suoi complici senza processo.
A livello artistico spicca la prima Catilinaria, in cui Cicerone attaccò Catilina di fronte al Senato. I toni sono veementi,
minacciosi e ricchi di pathos.
Orazioni “Anticlodiane”
Con il primo triumvirato (Cesare, Pompeo e Crasso) le fortune politiche di Cicerone subirono un rapido declino.
Nel 58 Clodio, un tribuno di parte popolare, che aveva verso Cicerone anche rancori di origine personale, presentò
una legge in base alla quale doveva essere condannato all’esilio chiunque avesse fatto mettere a morte dei
cittadini romani senza un regolare processo. In questo modo la legge avrebbe colpito l’operato di Cicerone che,
non più sostenuto né dalla nobiltà né da Pompeo - che doveva tener conto delle esigenze degli altri triumviri -,
dovette soccombere (vd. Catilinariae) andò in esilio soprattutto tra Tessalonica e Durazzo. Richiamato dall’esilio nel
57, Cicerone trovò Roma in preda all’anarchia e le bande di Clodio e Milone, difensore degli optimates e amico di
Cicerone, si fronteggiavano in continui scontri di strada.
In quest’ottica si spiega anche l’avvicinamento ai triumviri che compie Cicerone in questi anni e che non va inteso
come un tradimento della nobilitas. Cicerone vuole infatti condizionare l’operato dei triumviri per evitare che il loro
potere prevaricasse su quello del Senato.
• In Pisonem, 56;
È un’invettiva contro il suocero di Cesare ritenuto da Cicerone uno dei responsabili del proprio esilio. Va a
collocarsi perfettamente nel periodo in cui Cicerone, pur avvicinandosi ai triumviri, continua ad attaccare Clodio e i
popolari.
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Con quest’orazione Cicerone ha anche modo di dipingere uno spaccato della società romana del suo tempo e
si sforza di giustificare agli occhi dei giudici i nuovi costumi che la gioventù ha assunto da tempo e che possono
scandalizzare soltanto gli arcigni moralisti troppo attaccati al passato.
Cicerone sostiene che, allentando loro le briglie e purché essi non perdano di vista alcuni principi fondamentali, i
giovani sapranno tornare sulla nobile via del mos maiorum. Se infatti il divario tra rigore e nuove opportunità si
approfondisse troppo, l’intero connettivo ideologico della società rischierebbe una dissoluzione.
Attraverso la Pro Caelio e la Pro Murena Cicerone propone un modello culturale che miri a ricondurre i nuovi
comportamenti all’interno di una scala di valori che continui a essere dominata dalle virtù della tradizione,
spogliate tuttavia del loro eccesso di rigore e rese più flessibili alle esigenze di un mondo in evoluzione.
Le Orazioni Cesariane
Nel 49, allo scoppio della guerra civile, Cicerone aderì senza entusiasmo alla causa di Pompeo ed era
consapevole che, qualunque fosse stato l’esito, il Senato sarebbe risultato indebolito di fronte al dominio schiacciante
del vincitore. Dopo la vittoria di Cesare, Cicerone ne ottenne il perdono e accettò di perorare di fronte al
dittatore le cause di alcuni pompeiani “pentiti”.
Tutte queste orazioni abbondano di esagerati elogi a Cesare: la Pro Marcello, addirittura, addita a Cesare un
programma politico di riforma dello Stato nel rispetto delle forme repubblicane e delle prerogative del Senato.
• Philippicae, 44-43;
Dopo l’uccisione di Cesare, Antonio, il suo più stretto collaboratore, mirava ad assumerne il ruolo, mentre sulla
scena romana si affacciava anche il giovane Ottaviano, erede di Cesare, con un esercito ai propri comandi.
La manovra politica di Cicerone tendeva a staccare Ottaviano da Antonio, e a riportare il primo sotto le ali protettrici
del Senato.
• Per indurre il Senato a muovere guerra ad Antonio e a dichiararlo nemico pubblico, Cicerone pronunciò - a partire
dall’estate del 44 - le 18 Philippicae, delle quali ce ne rimangono 14. Il titolo, che allude alle celeberrime
requisitorie dell’oratore greco Demostene contro Filippo di Macedonia, é controverso. Alcuni antichi scrittori le
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chiamano Antonianae mentre il nome Philippicae venne effettivamente usato da Cicerone nella sua corrispondenza
privata, ma in senso scherzoso.
La seconda Filippica (l’unica che non venne pronunciata ma fu fatta circolare per scritta) é quella che si distingue
maggiormente per la veemenza dell’attacco e i toni di indignata denuncia: spira odio e presenta Antonio come
un tiranno dissoluto, un ubriacone e un ladro del denaro pubblico.
Quando, però, con un brusco voltafaccia, Ottaviano - sottraendosi alla tutela del Senato! - si accordò con Antonio e
Lepido nel secondo triumvirato, i tre divennero i padroni assoluti di Roma e Antonio ottenne la morte di Cicerone,
durante un tentativo di fuga.
Titoli/Orazioni frammentarie
• Pro Cornelio, 65;
• In toga candida, 64.
Opere Retoriche
Al di là del De inventione, scritto negli anni della gioventù, le opere retoriche di Cicerone si collocano a partire dal 55,
poco dopo il ritorno dall’esilio. Scritte per il bisogno di dare una sistemazione teorica a tutta una serie di conoscenze,
si concentrano per lo più sulla riflessione teorica sulla formazione necessaria alla figura dell’oratore.
• De inventione (84)
È un trattatello incompleto iniziato durante la gioventù e ispirato dalla Rhetorica ad Herennium, un manuale che
rifletteva gli insegnamenti della scuola di Plozio Gallo.
Importante é il proemio, in cui Cicerone si pronuncia in favore di una sintesi di eloquenza e sapientia,
indispensabile per la formazione della coscienza morale dell’oratore.
• De oratore (55)
L’opera, in tre libri, é ambientata al tempo dell’adoloscenza di Cicerone, nel 91, ed é scritta in forma di dialogo: vi
prendono parte alcuni oratori dell’epoca, fra i quali Marco Antonio, il nonno del triumviro, e Lucio Licinio Crasso,
che figura come portavoce dello stesso CIcerone.
Crasso sostiene che all’oratore é necessaria una vasta formazione culturale. Antonio gli contrappone l’ideale di un
oratore più istintivo e autodidatta, la cui arte si fondi sulla fiducia nelle proprie doti naturali, sulla pratica del foro e
sulla dimestichezza con l’esempio degli oratori precedenti.
Cicerone passa alla trattazione di questioni più analitiche: Antonio espone i problemi che concernono inventio,
dispositio e memoria. Viene dedicata una lunga digressione sulle arguzie e i motti di spirito a Cesare Strabone, un
personaggio spiritoso e caustico.
Crasso qui discute le questioni relative alla elocutio (l’esposizione delle idee rintracciate nella inventio) e alla
pronuntiatio, cioé in generale all’actio, alla recitazione dell’oratore, sottolineandone anche la necessità di una vasta
cultura generale e della formazione filosofica.
Il 91 é scelto perché anno della morte di Crasso e precede di poco la guerra sociale e i conflitti civili tra Mario e
Silla, nel corso dei quali soccomberanno crudelmente altri degli interlocutori principali, fra cui lo stesso Antonio.
La crisi statale é un’ossessione incombente su tutti i partecipanti al dialogo e stride volutamente con l’ambiente
sereno e raffinato in cui essi si riuniscono: la villa tuscolana di Crasso.
Ricreando l’atmosfera degli ultimi giorni di pace dell’antica repubblica, Cicerone cerca di conservare la
verosimiglianza della caratterizzazione dei propri personaggi.
Il dialogo utilizza come modello quello platonico mostrando quindi un notevole scarto rispetto agli aridi manuali di
retorica greci e a quelli latini, che si limitavano ad enunciare delle regole.
L’opera é viva, interessante, e, seppur basata sulla letteratura specialistica greca, si nutre dell’esperienza romana e
conserva uno strettissimo rapporto con la pratica forense (Non l’eloquenza é nata dalla teoria retorica, ma la teoria
retorica dall’eloquenza).
L’oratore é visto come un vir bonus a cui é necessaria una formazione completa e vasta: proibitas e prudentia sono
due virtù importantissime che chi vuole intraprendere questa carriera deve possedere.
La formazione retorica viene dunque a coincidere con quella politica: Cicerone mostra quindi lo statuto ambiguo di
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un’ars continuamente oscillante fra la sapientia etico-politica e la nuda tecnica del dominio.
•Orator (46)
Sull’ Ars Dicendi
Dedicato all’oratore atticista Marco Bruto, riprende
I 3 generi dell’Oratoria
• giudiziario;
schematicamente le tematiche del De oratore in una forma più
• deliberativo: riguarda le orazioni di argomento esile. Disegnando il ritratto dell’oratore ideale, Cicerone sottolinea i
politico, pronunciate davanti al Senato o al tre fini ai quali la sua arte deve indirizzarsi:
popolo; -probare: prospettare la tesi con argomenti validi;
• dimostrativo: per elogiare persone vive -delectare: produrre con le parole una piacevole impressione
(panegirici) o defunte (laudationes funebres).
estetica;
Le 5 parti dell’orazione -flectere: muovere le emozioni attraverso il pathos.
• exordium/principium/proemium: l’oratore apre il A questi tre fini corrispondono tre registri stilistici: umile, medio ed
discorso e cerca di attirarsi il favore degli uditori elevato/patetico. L’ultimo é spesso destinato alla peroratio.
(captatio benevolentiae);
• propositio/partitio: dichiara lo scopo del
discorso; •Brutus (46)
• narratio: espone i fatti in maniera chiara e La rivendicazione della capacità di muovere gli affetti (flectere) come
ordinata; compito dell’orator nasceva da una polemica nei confronti della
• argumentatio/demonstratio: presenta argomenti tendenza atticista, i cui sostenitori avevano rimproverato a Cicerone
e prove a sostegno dei fatti narrati. È il nucleo
del discorso e ha l’obiettivo di persuadere gli di non aver preso a sufficienza le distanze dall’asianesimo. Le
uditori sia sul piano razionale che emotivo; accuse si riferivano alla ridodanza del suo stile oratorio, all’uso
• peroratio: riassume il senso del discorso e frequente di figure, all’accentuazione dell’elemento ritmico, all’abuso
cerca di convincere definitivamente gli di facezie. Gli atticisti preferivano uno stile semplice, asciutto, scarno
ascoltatori della sua tesi, usando tutti i mezzi
ed esemplificato su quello di Lisia.
per coinvolgerli anche affettivamente.
Come si costituisce un’orazione Su questo contrasto Cicerone prese posizione nel Brutus, dove
• inventio: scelta degli argomenti adatti a assume il ruolo di principale interlocutore. Gli altri due sono Marco
svolgere la tesi da dimostrare; Bruto, anche destinatario dell’opera, e Attico.
• dispositio: ricerca del modo migliore di disporre
gli argomenti perché il discorso risulti chiaro ed
efficace; Qui Cicerone vuole disegnare una storia dell’eloquenza greca e
• elocutio: scelta di un’espressione linguistica romana, dimostrando doti di storico della cultura e di fine critico
adatta ad ottenere la persuasione; letterario. L’opera si mostra come autoapologetica e vede una vera e
• memoria: apprendimento mnemonico del propria rievocazione delle tappe della carriera oratoria dello stesso
discorso;
Cicerone, dal ripudio dell’asianesimo giovanile al raggiungimento
• actio/pronuntiatio: declamazione del discorso,
accompagnata dai gesti volti a sottolinearne i della piena maturità dopo la questura in Sicilia.
momenti salienti.
L’ottica in cui Cicerone guarda al passato é quella di una rottura
Gli Scopi
degli schemi tradizionali che contrapponevano i generi di stile cui
• probare: sostenere la tesi con argomenti validi
con uno stile umile; “asiani” e “atticisti” erano tencamente attaccati. Questa rottura
• delectare: produrre un discorso esteticamente rispecchia una tendenza di fondo della pratica oratoria di Cicerone: le
piacevole con uno stile medio; varie esigenze, le diverse situazioni, richiedono il ricorso all’alternanza
• movere/flectere: coinvolgere l’uditorio a livello di registri diversi; e il successo dell’oratore di fronte all’uditorio, che
emotivo con uno stile sublime o patetico.
deve essere “trascinato”, è il criterio fondamentale in base al quale
valutare la riuscita stilistica.
• Topica (44)
Ispirata ad un’opera omonima di Aristotele, in quest’opera dall’intento divulgativo, Cicerone tratta dei tòpoi, cioé dei
luoghi comuni a cui può far ricorso l’oratore nella ricerca degli argomenti da sviluppare nel discorso.
I tòpoi sono comunque utilizzabili anche dal filosofo, dallo storico, dal giurista e dal poeta.
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Opere Politiche
Le opere politiche vedono Cicerone impegnato nella difesa e nel consolidamento delle fondamenta dello Stato
romano.
• De re publica (54-51)
Si tratta di un dialogo sempre su modello platonico e con chiaro riferimento all’opera omonima di Platone. A
differenza dell’opera del filosofo ateniese, però, Cicerone non elabora un modello di Stato ideale astratto e
temporale, ma si proietta nel passato e identifica la miglior forma di Stato nella costituzione romana del tempo
degli Scipioni.
Il dialogo si svolge nel 129 nella villa suburbana di Scipione Emiliano, uno dei principali interlocutori con l’amico e il
collaboratore Lelio. Della trama abbiamo notizie frammentarie: l’opera fu ritrovata agli inizi del XIX secolo in un
palinsesto vaticano mentre alcuni brani famosi, come il Somnium Scipionis, sezione finale dell’opera, sono stati
conservati da autori antichi come Agostino.
III) Tratta della iustitia e della critica all’imperialismo romano, concentrandosi sul concetto di “guerra giusta” al
quale i Romani ricorrevano per soccorrere i propri alleati in difficoltà, giustificando di fatto l’estensione - spesso
arbitraria - del proprio dominio;
IV) Tratta dell’educazione dei cittadini e dei principi che devono regolare i loro rapporti;
V) Già dal IV libro Cicerone introduce la figura del rector et gubernator rei publicae, o princeps.
Questa parte é molto lacunosa ma possiamo ritenere che Cicerone sembra pensare a una élite di personaggi
eminenti che si ponga alla guida del Senato e dei boni, e si raffigura probabilmente il ruolo del princeps sul
modello di quello che nella repubblica romana aveva ricoporto Scipione Emiliano. Cicerone non prefigura quindi
esiti augustei, ma intende mantenere il ruolo del princeps all’interno dei limiti della forma statale
repubblicana: non pensa a una riforma istituzionale, ma alla coagulazione del consenso politico attorno a leader
prestigiosi. L’autorità del princeps non é alternativa a quella del Senato, ma ne é il sostegno per salvare la res
publica. Il princeps deve armare il proprio animo contro tutte le passioni egoistiche e, in particolare, contro il
desiderio di potere e di ricchezza;
VI) L’opera si conclude con la rievocazione, da parte si Scipione l’Emiliano, del sogno in cui tempo addietro gli era
apparso l’avo Scipione l’Africano, per mostrargli, dall’alto del cielo, la piccolezza e l’insignificanza di tutte le cose
umana, anche della gloria terrena, e rivelargli la beatitudine che attende nell’aldilà le anime dei grandi uomini di
Stato.
Il libro era formato di 5 libri dei quali abbiamo conservati per intero solo i primi 3:
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I) Cicerone esprime la testi stoica secondo la quale la legge non è sorta per convenzione, ma si basa sulla
ragione innata in tutti gli uomini ed è perciò data da dio;
II) Si illustrano le leggi che dovrebbero essere in vigore nel migliore degli Stati, basandosi sulla tradizione
legislativa romana che ha i suoi punti di riferimento nel diritto pontificio e sacrale;
III) Cicerone presenta il testo delle leggi che riguardano i magistrati e le loro competenze.
L’opera é ambientata nel presente e gli interlocutori sono Cicerone, il fratello Quinto e l’amico Attico. Il dialogo é
ambientato nella villa di Cicerone ad Arpino e nei boschi e nelle campagne circostanti, raffigurate secondo i principi
del locus amoenus.
Opere Filosofiche
Nelle opere filosofiche Cicerone prende in considerazione l’intero corpus di metodi e teorie cresciuto entro le
scuole di filosofia ellenistiche. Cicerone intende offrire un riferimento etico-culturale alla classe dirigente
romana, nella prospettiva di ristabilirne l’egemonia sulla società; non guarda solo ai problemi immediati, ma affronta
questioni che coinvolgono i fondamenti stessi della ceisi sociale, politica e morale, nel tentativo di escogitare
soluzioni di lungo periodo.
Le opere sono in larga parte compilative e, pur riprendendo fonti greche, le rielaborano risultando originali nella
scelta tematica e nel taglio degli argomenti.
Si tratta di dialoghi platonici che vogliono mettere a confronto le più diverse opinioni in modo tale da verificare se
esse siano più coerenti e probabili di altre.
Cicerone riprende l’ideologia dell’humanitas, invitando ad un atteggiamento intellettuale di aperta tolleranza,
costituito però da una netta e radicale chisura nei confronti dell’epicureismo, confutato nei primi due libri del De
finibus bonorum et malorum per il disinteresse mostrato nei confronti della politica e per l’esclusione della funzione
provvidenziale della divinità, che indebolisce i legami con la religio tradizionale.
• Academica (45)
Si tratta di un’opera di carattere gnoseologico che ebbe una doppia redazione: gli Academica priora (2 libri) e gli
Academica posteriora (4 libri). Nell’ambito della teoria della conoscenza Cicerone aderì, nei suoi anni maturi, al
probabilismo degli accademici, una sorta di scetticismo pragmatistico che, senza negare l’esistenza di una verità
oltre i fenomeni, si limitava tuttavia ad affermare la possibilità di una conoscenza probabile.
Ci restano:
- II Libro (prima redaz.): é intitolato Lucullus perché Lucullo é l’interlocutore di Cicerone. Qui Lucullo rimprovera a
Cicerone di distruggere la stessa possibilità della conoscenza rifiutandosi di ammettere l’esistenza di criteri sicuri
delle nostre percezioni in quanto se è tutto opinabile, non vi sarà più né certezza né verità. Cicerone replica che
anche un dubbio generalizzato non comporta la negazione della verità né è necessario pensare, come gli scettici,
che esistano molteplici verità. Si propone il tentativo di definire le condizioni reali dell’esperienza umana e
avvicinarsi al vero attraverso le apparenze e la probabilità, anche in questioni morali;
- I Libro (seconda redaz.): é il Varro, in cui Varrone espone le sue teorie ad Attico e a Cicerone.
- Primo dialogo (libri I-III): esposizione della teoria degli epicurei e confutazione da parte di Cicerone;
- Secondo dialogo (libri III-IV): confronto tra la teoria stoica e le teorie accademica e peripatetica;
- Terzo dialogo (libro V): teoria eclettica di Antioco di Ascalona, maestro di Cicerone e di Varrone, la più vicina al
pensiero dell’autore.
Oggetto di forte critica nel De finibus sono quindi lo stoicismo e l’epicureismo: Cicerone ritiene che il primo,
difeso fortemente da Catone il Giovane nel libro III, fornisca la base morale più solida all’impegno dei cittadini verso la
collettività, ma sostiene che il rigore etico di uno stoico intransigente come Catone, o di un accademico come Bruto,
sia anacronistico, assai poco praticabile in quella società che, dopo l’epoca delle grandi conquiste, era andata
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La teoria eclettica punta invece a una conciliazione tra il rigore e la solidità delle posizioni stoiche, e l’apertura a
un piacere moderato, propria della filosofia peripatetica. In quest’ottica il sommo bene viene identificato, anche se
con qualche esitazione, con il bene dell’anima, che coincide con la virtù, l’unica che possa garantire la vera
felicità dell’uomo.
L’opera, dedicata a Bruto, è divisa in 5 libri e ha forma di dialogo tra Cicerone e un interlocutore anonimo: questa
figura evanescente sembra presentare piuttosto una lezione espositiva sulla traccia del dialogo aristotelico.
L’ambientazione é la villa di Cicerone a Tuscolo.
I cinque libri trattano, rispettivamente, di: morte, dolore, tristezza, turbamenti dell’animo e virtù come garanzia della
felicità. Si tratta evidentemente di una grande summa dell’etica antica, un vasto trattato sul tema della elicità, una
terapia per liberare l’animo dalle afflizioni.
L’opera presenta anche un intento divulgativo, perché richiede ai Romani di utilizzare la cultura filosofica nella vita
pratica, e si presenta una forte partecipazione emotiva dell’autore agli argomenti trattati.
Benché le sue stesse critiche, é inevitabile notare che l’autore scrive con una posizione essenzialmente stoica.
• Trilogia Filosofico-Teologica
Si tratta di un’ampia riflessione di carattere religioso e teologico che, essendo svolta da Cicerone nel difficile
periodo tra il 44 e il 45, implica anche inevitabili risvolti etico-politici. I problemi religiosi, seppur non manchino
intenti divulgativi, interessano l’autore soprattutto per i loro riflessi sulla concreta vita dello Stato.
I) Velleio espone la tesi epicurea, poi confutata da Cotta, dell’indifferenza degli dei rispetto alle cose umane;
II) Balbo prende in esame la tesi stoica del panteismo provvidenziale;
III) Cotta critica la tesi epicurea e sembra schierarsi in favore dello scetticismo accademico.
Lo stato lacunoso del terzo libro non ci permette di capire se davvero, come sembrerebbe, Cicerone sia a favore
della tesi stoica di Balbo, ritenuta la più verosimile.
• De divinatione (44)
Si tratta di un dialogo in 2 libri fra Cicerone e il fratello Quinto, sul tema dell’arte divinatoria. L’autore si mostra
qui esitante fra la denuncia della falsità della religio tradizionale e la necessità del suo mantenimento per
dominare sulle classi inferiori.
Ci permette di conoscere molti aspetti della vita religiosa romana.
• De fato (44)
Il discorso, incompleto, discute la dottrina stoica del fato, inteso come un destino inevitabile, prestabilito dal
logos divino, che ordina il mondo. Il discorso coinvolge la questione della libertà dell’uomo e della sua
responsabilità nelle azioni. Cicerone, cercando di confutare le tesi stoiche e di dimostrare la libertà degli
individui nelle scelte libere e consapevoli, ci fa avvertire il clima politica all’indomani della morte di Cesare e
la sua volontà di stimolare una presa di coscienza riguardo alle possibilità di intervenire attivamente nella
gestione statale.
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vecchiaia che, oltre al decadimento fisico e alla morte imminente, è terribile soprattutto per la perdita della
possibilità di intervento politico.
Il dialogo è ambientato nel 150, anno precedente la morte di Catone, in un passato ideale che permette all’autore di
eludere la propria inattività vestendo i panni dell’antico Censore.
Importante è il ritratto che viene fatto di Catone, assai distante dalla realtà storica. Ammansito, addolcito, il rude
agricolotore sabino ha ceduto il posto a un raffinato cultore della humanitas e della socievolezza. Le due
esigenze, otium e tenacia nell’impegno politico, si armonizzano perfettamente in questa figura.
La novità ciceroniana è quella di allargare la base sociale delle amicizie al di là della cerchia della nobilitas,
riconoscendo a fondamento di questo concetto virtus e proibitas, riconosciuti a vasti strati della popolazione.
Cicerone scrive chiaramente per i suoi boni perché l’amicizia serva a cementare la loro coesione sia politica che di
rapporo interpersonale sincero.
• De officiis (44)
È un trattato sistematico in 3 libri cui Cicerone vuole formulare una morale della vita quotidiana che permetta
all’aristocrazia romana di riacquistare il controllo sulla società. Poiché si configura come un tentativo estremo di
individuare riferimenti etici sicuri in una società travolta dalla crisi della repubblica, l’opera si presenta come una sorta
di testamento individuale dell’autore.
Cicerone si rivolge ai giovani, confermando la configurazione pedagogica che attribuisce al suo lavoro di
divulgazione filosofica. Vuole mostra come l’assolvimento dei doveri pubblici, cioé verso lo Stato e verso la
collettività, non sia possibile senza aver assorbito e meditato la riflessione filosofica dei Greci.
Si pone quindi in aperta polemica con le resistenze della cultura romana, che era avverso al pensiero filosofico e
speculativo perché visto come evasione dai propri doveri.
Questo trattato d’etica è dedicato al figlio Marco, allora studente di filosofia ad Atene, e il suo titolo riprende il
termine greco kathèkon (“ciò che conviene”) con cui gli stoici definivano l’azione perfetta e razionale. L’opera fa
quindi riferimento alla discussione sui doveri legati all’esercizio della virtù e alle azioni opportune da compiere,
intendendo fornire anche una dettagliata precettistica sui comportamenti da tenere nelle più diverse
circostanze.
I tre libri discutono, rispettivamente, dell’honestum (“ciò che è moralmente giusto”), dell’utile e del conflitto tra
honestum e utile. I primi due riprendono il Sul conveniente del filosofo stoico Panezio di Rodi, mentre il terzo vede
una rielaborazione di più fonti, forse in primis di Posidonio, per discutere i criteri per decidere in concreto sulle
questioni etico-politiche più difficile e dubbie.
La dottrina di Panezio, rispettosa della tradizione e dell’ordine politico-sociale seppur priva di fanatismi, forniva a
Cicerone la base ideale per la sua riflessione secondo cui le virtù sono “parti dell’honestum”, mentre i modi di
conseguire potere e consenso da parte della classe dirigente si attengano all’utile. Di conseguenza honestum e
utile non sono da porre in contraddizione ma in identità, in quanto il secondo è conseguenza diretta del primo.
Rispetto all Stoà antica, Panezio aveva un giudizio più positivo sugli istinti, che non devono essere repressi dalla
ragioni ma piuttosto corretti e disciplinati: le tradizionali virtù cardinali stoiche (giustizia, sapienza, fortezza e
temperanza) erano reinterpretata come l’organico sviluppo di questi istinti fondamentali.
Basandosi su Panezio, Cicerone afferma - all’inizio del De officiis - che l’honestum si compone di quattro elementi fra
loro collegati: la ricerca della verità, la protezione della società, il desiderio di primeggiare e l’aspirazione all’armonia.
Si tratta di naturali tendenze insite nell’uomo che, se ben indirizzate dalla ragione, possono dare origine a
comportamenti virtuosi, in quanto ciascuna delle quattro parti dell’honestum è fonte di specifiche categorie di doveri.
La ricerca della verità origina la sapienza, la protezione della società si realizza nella giustizia intesa come “dare a
ciascuno il suo”, il desiderio di primeggiare nella magnitudo animi (fortezza) e l’aspirazione all’armonia nella
temperanza.
Una novità importante del modello etico presentato dall’opera è il fatto che legata all’armonia (temperanza) si fonda
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anche la possibilità di una pluralità di atteggiamenti e scelte di vita, che trovano radici nella qualità personali,
nelle disposizioni intellettuali e morali di ognuno. Di qui ovviamente la legittimazione di scelte di vita anche diverse
da quella tradizionale del perseguimento delle cariche pubbliche, purché chi le intraprende non dimentichi i suoi
doveri verso la collettività.
Questa filosofia morale flessibile si coniuga perfettamente ad un modello etico più duttile di quello antico,
permettendo di conseguenza anche alle figure emergenti di integrarvisi agevolmente.
L’architettura logica si mostra nell’eliminazione delle incoerenze e delle incongruenze della prosa arcaica latina e nella
sostituzione della paratassi con l’ipotassi. I periodi sono lunghi e complessi ma se
Sorprende la varietà dei registri stilistici. Le tre gradazioni di stile (semplice, temperato e e sublime) vengono
adeguatamente impiegate a seconda delle esigenze discorsive corrispondenti: probare, delectare, movere.
Inoltre, ad ogni livello di stile e a ogni diverso registro espressivo, corrisponde un’opportuna sonorità armonica ed
euritmica. Soprattutto, la disposizione verbale è sempre accuratamente tale da realizzare il numerus, che agisce
come un sistema di regole metriche adattate alla prosa di modo che i pensieri gravi trovino un andamento solenne
e sostenuto, mentre il discorso piano un’intonazione familiare.
Gli effetti metrico-ritmici sono presenti soprattutto nella clausola, la parte finale del periodo in cui l’orecchio
dell’ascoltatore deve sentirsi impressionato dagli effetti suggeriti dalla successione dei piedi (clausole frequenti sono
cretico+trocheo, dipodia cretica, dipodia trocaica e peone primo+trocheo).
In questa prosa periodizzata, Cicerone si tenne lontano dagli eccessi asiani di un Ortensio e fu molto vicino al
modello di Iocrate.
Si tratta di lettere vere che non furono scritte con l’intento di una pubblicazione, come avverrà per Seneca. Ci
mostrano quindi un Cicerone non ufficiale, privato, aperto a confidenze, dubbi, incertezze ed esitazioni.
A livello stilistico vediamo il sermo cotidianus delle classi elevate, cioé un linguaggio caratterizzato da un periodare
spesso ellittico, gergale, allusioni cifrate, abbondanti grecismi e colloquialismi. La sintassi é paratattica, con molte
parentesi, mentre il lessico è assai pittoresco.
• vicino alla poesia alessandrina perché predilige componenti brevi e dal contenuto erudito-didascalico
In gioventù scrive infatti poemetti alessandrineggianti di argomento mitologico come il Glacus e l’Alcyones.
Opera miscellanea é il Limon, che conteneva forse una raccolta di giudizi in versi su poeti.
Sembra essere un precursore dei neoterici.
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che cantava le gesta dell’altro grande arpinate, il De temporibus suis cui Cicerone accenna nelle lettere, e il De
consulatu suo, scritto in tre libri e composto attorno al 60 per celebrare l’anno della gloriosa battaglia contro
Catilina e, di conseguenza, se stesso.
Tra le due fasi sarebbero da collegare gli Aratea, traduzione in esametri dei Fenomeni del poeta ellenistico Arato di
Soli, un poemetto didascalico di argomento astronomico. Presentano uno stile solenne e magniloquente che richiama
Ennio e Lucrezio.
Cicerone è importante anche nella storia dell’esametro latino, che da lui viene regolarizzato per la posizione delle
cesure e per la specializzazione di alcune forme metrico-verbali in clausola. Il suo esametro è elegante, duttile e
vivace nel ritmo, vicinissimo alla struttura che assumerà in età augustea (Lucrezio, Virgilio georgico, Orazio e Ovidio).
È lui a sviluppare l’enjambenet che permetteva la conquista di una maggiore libertà espressiva nella
disposizione delle parole, spingendo il discorso oltre i rigidi confini del verso.
Traduzioni
• Timeo e Protagora di Platone;
• Economico di Senofonte.
• Hortensius (45)
È un’opera filosofica, un’esortazione alla filosofia sul modello del Protreptikòs di Aristotele (esortazione alla pratica
filosofica), che ebbe grande influenza nell’antichità (Sant’Agostino);
Poetica
Cicerone é protagonista e testimone della crisi che porta al tramonto della repubblica, crisi a cui cercò di rispondere
elaborando un progetto etico-politico capace di tenere insieme tradizione e innovazione.
La sua rimane, comunque, un’ottica di parte, solidale con il progetto di egemonia di un blocco sociale, quello dei ceti
possidenti, progetto le cui possibilità di affermazione all’interno della società romana sono assai legate all’uso abile e
accorto delle tecniche di comunicazione più efficaci.
Grande avvoxato, Cicerone é manipolatore delle parole ai fini della persuasione con un’ars dicendi raffinatissima,
funzionale al dominio dell’uditorio e alla regìa delle sue passioni.
Il fine delle sue opere filosofiche é quello di dare una solida base ideale, etica e politica, ad una classe dominante
il cui bisogno di ordine non doveva tradursi in ottuse chiusure, il cui rispetto della tradizione nazionale (mos maiorum)
non impedisse l’assorbimento della cultura greca. Insomma, la classe dominante doveva assolvere ai propri doveri
verso lo Stato senza divenire insensibile ai piaceri di un otium nutrito di arte e letteratura, coltivando uno stile di vita
raffinato e culturalmente cosciente (humanitas).
In sostanza, Cicerone ricerca un difficile equilibrio fra istanze di ammodernamento e necessità di conservazione
dei valori tradizionali.
Fortuna
Già i contemporanei si divisero fra estimatori e detrattori di Cicerone: fra i secondi vanno ricordati Asinio Pollione e,
soprattutto per i gusti stilistici, Sallustio.
Per il Medioevo cristiano Cicerone è uno dei massimi mediatori delle idee e dei valori della civiltà antica, maestro di
filosofia e di arte retorica. Dante ne ricorda soprattutto le opere filosofiche. Col primo umanesimo, l’interesse – spesso
critico – per la figura umana e storica va ad aggiungersi all’ammirazione per lo scrittore.
In personaggi come Petrarca (che scoprirà parte dell’epistolario), la riflessione sull’esperienza ciceroniana alimenta
anche la tensione sempre viva fra vita attiva e vita contemplativa, impegno politico e ritiro negli studi filosofici.
L’Umanesimo e il Rinascimento conoscono una lunga polemica di stile fra ciceroniani e anti-ciceroniani (fra
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quest’ultimi si annoverano intellettuali come Poliziano ed Erasmo). Il ciceronianesimo fanatico morì abbastanza presto,
dopo aver trovato un autorevole campione in Pietro Bembo; la successiva cultura europea erediterà l’idea del primato
dell’eloquenza e della retorica, il culto e l‟imitazione dei classici: anche di qui le difficoltà della formazione di una vera
prosa storica e scientifica.
Nell’epoca moderna egli ha contribuita soprattutto ad alimentare il moderatismo politico: l’odio per la tirannia
unito al disprezzo per il volgo, il culto della libertà unito al rifiuto dell’eguaglianza e al disprezzo per la democrazia.
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Le caratteristiche della ricerca antiquaria si presentano comunque contradditorie: da una parte c’è chi venera il
passato nazionale con una mancanza totale di senso critico, dall’altra chi - come Varrone - riconosce comunque gli
apporti stranieri di cui si è nutrita la civiltà romana.
In Nepote, ad esempio, la venerazione per i valori tradizionali romani, si intreccia con un moderato relativismo
culturale, implicito nella struttura della sua opera che mette a confronto, per ogni specifica categoria di eccellenza, i più
insigni uomini romani e i più insigni rappresentanti di culture straniere.
Migliore amico di Cicerone, fu soprattutto studioso ma anche “organizzatore di cultura”: nella sua casa sul Quirinale
si riunivano a mo’ di circolo Cicerone, Varrone e forse anche Cornelio Nepote.
Aderì alla filosofia epicurea ma riuscì a conciliare il proprio pensiero con il culto delle antichità romane: Cicerone lo
elogia come raccoglitore di memorabilia, cioé di episodi di imprese e gesta memorabili di personaggi della tradizione
romana. In questo modo Cicerone lo sgancia dalla filosofia edonista, cui é avverso, assegnandogli una sorta di
missione culturale d’accordo con i propositi di esaltazione della virtus e dell’impegno politico.
Produzione Letteraria
• Divulgazione delle opere di Cicerone, in particolare delle orazioni.
• Liber Annalis (47), un prontuario storico, cioé un sunto della storia romana anno per anno fino al 49 a.C;
• Ritratto dei grandi uomini romani, un album in cui ogni ritratto era accompagnato da un epigramma di quattro o
cinque versi;
• Operazioni di ricerca genealogica su alcune famiglie dell’aristocrazia.
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Poetica
L’attaccamento alle tradizioni romane è molto forte in Varrone, che interpreta la storia romana dell’ultimo secolo
come un periodo di decadenza e considera l’espansione dei consumi come un pericoloso fattore di corruzione.
Varrone è aperto ad ammettere l’importanza degli apporti stranieri (greci, italici ed etruschi) alla formazioni della
civiltà romana molto più di Cicerone. Il suo pensiero si pone sulla linea di Posidonio di Apamea, che individuava le
ragioni della superiorità dei Romani nella loro capacità di assimilare il meglio delle civiltà straniere con cui erano venute
in contatto.
La sua figura si pone quindi come ponte tra il conservatorismo e il riconoscimento degli apporti culturali stranieri.
Il fine delle sue opere è quello di fornire una risposta intellettuale e culturale alla crisi che Roma stava attraversando: per
questi motivi ricorda da vicino Cicerone.
Produzione Letteraria
Scrisse forse più di 600 libri e i suo interessi spaziarono quasi in ogni campo del sapere.
Libro I: dedicato a Fundania, moglie di Varrone, che ha comprato un podere e ha chiesto al marito di aiutarla nella
gestione. Tratta quindi dell’agricultura in generale;
Libro II: dedicato a un allevatore di bestiame, Turranio Nigro, tratta dell’allevamento;
Libro III: dedicato a un vicino di campagna, Quintino Pinnio, tratta dell’allevamento di animali da cortile, di api e di
pesci.
La concezione varroniana della produzione agricola accentua tendenze già presenti in Catone. L’opera presuppone,
infatti, il processo di concentrazione delle terre nelle mani di pochi proprietari: Varrone ha quindi in mente villae e
latifondi di più vaste dimensioni, sfruttati attraverso l’uso intensivo della mano d’opera servile.
Nella villa di Varrone si incontrano anche produzioni lussuose destinate al mercato cittadino, allevamento su vasta
scala con fini di lucro, ma anche utilitas e voluptas dell’agricoltura.
L’opera, saggia ma vivace e spiritosa, non ha finalità didascaliche quanto piuttosto “estetizza” la vita agricola:
vuole dare un’immagine dignitosa al signorotto di campagna, piuttosto che insegnare le tecniche produttive.
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Varrone riprendeva questa classificazione dalla teologia stoica, ma la piegava alla necessità politica di
conservare il patrimonio culturale della religione romana, anche senza accettarne il credo. Inoltre, la stessa struttura
dell’opera, che antepone le res humanae alle divinae, conferma la credenza di Varrone che la religione sia
un’invenzione umana.
Da quest’opera, come dal De vita populari Romani, si evince che la ricerca storica è soprattutto storia di
costumi, di istituzioni e anche di mentalità: è la storia colletiva del popolo romano sentito come un organismo
unitario in evoluzione. Riprende, pertanto, l’idea radicata in Catone di una storia romana come creazione collettiva
del popolo romano, raccolto attorno ad un’élite senatoria.
• De comoediis Plautiniis, in cui affronta il problema delle numerosissime (130) commedie attribuite a Plauto.
Distinse 90 commedie spurie, 19 incerte e 21sicure in base alla sua sensibilità per la lingua e per lo stile di Plauto;
Retorica e Diritto
• De philosophia, dodici libri;
• De forma philosophiae;
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• Logistorici (tardo), 76 libri di dialoghi su argomenti filosofici, morali e storici illustrati con esempi tratti dal mito.
I titoli prevedevano il nome del personaggio e l’argomento di sua competenza: Marius de fortuna, Catus de liberis
educandis, Orestes de insania…
• Disciplinae (34-33), 9 libri per organizzare tutto il sapere della scienza antica. Varrone opera una classificazione
che prefigura la distinzione delle arti liberali in quello che nelle scuole medievali sarebbe stato il Trivium (grammatica,
dialettica e retorica) e il Quadrivium (geometria, aritmetica, astronomia e musica).
Si tratta di 150 libri in un misto di prosa e versi di cui abbiamo solo frammenti per 600 versi e circa una novantina di
titoli. Da quest’ultimi possiamo farci un’idea degli argomenti: le Eumenides erano indirizzate contro i filosofi alla
moda, il Marcipor era la descrizione di un viaggio su modello di Lucilio, Marcopolis conteneva la descrizione di una
città utopistica, il Sexagesis raccontava l’avventura di un tale che, addormentatosi da giovane, si svegliava a
sessant’anni in una Roma cambiata in peggio.
Come argomento di massima riconosciamo la decadenza dei costumi contemporanei, forse legata ad alcune
tematiche della predicazione popolare dei filosofi ellenistici.
Da Menippo deriva probabilmente la mescolanza di realismo crudo e libera immaginazione fantastica, e anche il
tono amaro e tagliente della predicazione popolare. Sempre secondo il modello si ha una ricchissima varietà
metrica.
L’opera segna l’inizio di un genere letterario, quello della satira menippea, che verrà ripreso da Seneca e da
Petronio, e trova le sue radici anche nelle Saturae di Ennio e di Lucilio, nei prologhi plautini.
Per Quintiliano é sicuramente Ennio il modello latino scelto da Varrone, che si sarebbe limitato ad arricchire di pochi
tratti.
Fortuna
Della sterminata produzione di Varrone poco ci è rimasto ma sappiamo che incontrò - durante tuta l’antichità - una
fortuna incredibilmente vasta e continua, tale da essere paragonata a quella di Cicerone e Virgilio.
Quanto agli eruditi successivi, il loro debito verso Varrone è eccezionalmente vasto.
Il trionfo del Cristianesimo dette nuovo lustro alla fama di Varrone: fu lui il bersaglio polemico di Girolamo ed
Agostino, lui il teorizzatore “più” perfetto della religione pagana, doveva essere conosciuto a fondo per essere
meglio combattuto. Petrarca lo definirà “il terzo grande lume romano”, dopo Cicerone e Virgilio: al sommo oratore e al
sommo poeta è accostato il sommo erudito.
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È comunemente classificato come un filosofo neo-pitagorico ma i suoi argomenti astrusi gli diedero la reputazione di
mago. Pretore nel 58, fu sempre sostenitore di Cicerone e avverso a Cesare, che infatti lo mandò in esilio, dove morì nel
45.
Produzione Letteraria
• Chronica, un’opera di cronografia universale in tre libri in cui dedica particolare attenzione - è una novità! - al
sincronismo tra gli avvenimenti della Grecia, di Roma e dell’Oriente;
• Exempla, cinque libri forse concepiti come un repertorio per gli oratori;
• Geografia, da alcuni però identificata con gli Exempla;
Lingua e Stile
A livello stilistico Cornelio Nepote rimane mediocre: la qualità dell’esecuzione non è assolutamente pari al progetto e il
suo merito maggiore è quello di aver influenzato le Vite Parallele di Plutarco. Lo stile è sbrigativo e l’opera sembra
rivolgersi ad un pubblico culturalmente poco preparato, forse più interessato all’aneddoto che all’accuratezza
dell’informazione e al giudizio critico.
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Nel 60 stipula, con Pompeo e Crasso, il primo triumvirato e riveste il titolo di console nel 59 assieme a Marco
Calpurnio Bibulo.
Dal 58 ottiene il proconsolato nell’Illiria e nella Gallia romanizzata (Cisalpina e Narbonense): la conquista delle Gallie
si protrasse per sette anni e con essa Cesare si procurò la base per un vastissimo potere personale.
Poiché i suoi avversari, con cavilli giuridici, cercavano di impedirgli un secondo consolato al ritorno dalla Gallia,
Cesare invade l’Italia il 10 gennaio 49. Ha iniziò così la guerra civile.
Nell’agosto del 48 sconfisse a Farsàlo l’esercito senatorio di Pompeo e soffocò a Tapso (46) e a Munda (45) altri
focolai di resistenza pompeiana.
A Roma, dal 49 aveva ricoperto, talora contemporaneamente, la dittatura e il consolato ma viene assassinato nel 44
poco dopo esser stato proclamato dictator perpetuus (dittatore a vita).
Produzione Letteraria
Commentarii
Benché la narrazione dei Commentarii appaia impassibile, per niente abbellita da elementi retorici, gli studiosi hanno
pensato ad alcune deformazioni degli eventi storici, sicuramente non falsificazioni vistose ma omissioni più o
meno rilevanti. Lo troviamo, ad esempio, quando si vogliono giustificare gli insuccessi.
In entrambe le opere Cesare evidenzia le proprie capacità militari e politiche, rinunciando ad alimentare l’alone
carismatico che aleggiava attorno alla sua figura, diversamente da quanto faceva nelle forme di propaganda non
scritta, che si rivolgevano - invece - ad un pubblico popolare.
Presente nella narrazione è anche la fortuna, che non viene rappresentata come una divinità protettrice, ma come un
concetto che serve a spiegare cambiamenti repentini di situazione, un fattore imponderabile che spesso coincide
con ciò che sfugge alla capacità di previsione e di controllo razionale dell’uomo.
Le divinità non intervengono mai.
Narra i fatti che vanno dal 58 al 52 in cui Cesare procedette alla sistematica sottomissione, a fasi alterne, della
Gallia:
I) 58 a.C., sulla campagna contro gli Elvezi che, con i loro movimenti migratori, avevano offerto a Cesare il
pretesto per intraprendere la guerra, e contro il capo germanico Ariovisto;
III) 56 a.C., sulla campagna contro le popolazioni situate sulla costa atlantica;
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IV) 55 a.C., sulle operazioni contro le infiltradizioni dei popoli germanici, che avevano passato il Reno, e
contro i capi gallici ribelli (Induziomaro e Ambiorige);
V) 55-54 a.C., sulle due spedizioni contro i Britanni, accusati di fornire aiuti ai Galli ribelli, e sulla campagna di
sterminio e devastazione contro le popolazioni della Gallia Belgica nel 54-53;
VI) 54-53 a.C., sulla campagna di sterminio e devastazione contro le popolazioni della Gallia Belgica nel
54-53;
VII)52 a.C., sulla nuova campagna di devastazioni e massacri contro l’insurrezione generale della Gallia,
guidata dal re degli Arverni, Vercingetorìge; questa resistenza termina con l’espugnazione di Alesia, dove
Vercingetorige viene catturato.
Il Libro VIII ha, invece, la funzione di congiungere il De bello Gallico al De bello civili tramite la narrazione degli
eventi del 51-50.
La composizione risale, secondo alcuni, ad una scrittura di getto nell’inverno 52-51, mentre per altri sarebbe stata
scritta anno per anno, durante i periodi in cui le operazioni militari venivano sospese.
La seconda ipotesi, più probabile, è testimoniata dalle contraddizioni presenti nel testo e dal genere stilistico scelto,
quello del commentarium.
Nella prefazione al libro VIII, Irzio testimonia una certa rapidità di Cesare nella composizione: resta comunque
possibile che Cesare, per comodità compositiva, abbia redatto separatamente, in una forma abbozzata, i resoconti
delle varie campagne e poi li abbia riordinati e coordinati in un secondo momento.
L’opera non può essere letta come un’esaltazione della conquista, ma piuttosto mette in rilievo le esigenze
difensive che lo hanno spinto a intraprendere la guerra. Era el resto consuetudine dell’imperialismo romano
presentare le guerre di conquista come necessarie a proteggere la res publica e i suoi alleati da pericoli
provenienti da oltre confine.
Lo stile è quello generale dei Commentarii, quindi scarno e disadorno, ma arricchito di elementi tipici
dell’historia.
Si tratta quindi sì degli appunti di un generale ma gli elementi a tratti drammatici e la presenza di discorsi diretti e
sinonimi, soprattutto nella seconda parte dell’opera, conferiscono all’opera una forte caratterizzazione storica.
Cesare ricorre a una satira sobria contro i suoi avversari politici: avvesario principale è Pompeo, le cui azioni
meschine e il cui carattere imbelle sono sottolineati a più riprese, ma egli non rinuncia a tratteggiare un quadro
assai negativo dell’intera classe dirigente romana. Viene quindi messa in evidenza l’ipocrisia di uomini come
Catone o Lentulo Crure, che si fingono iusti ma che in realtà sono spinti da rancori personali o avidità.
Straordinaria è l’immagine del campo pompeiano prima della battaglia di Farsàlo, in cui gli uomini, sicuri che
avrebbero sconfitto Cesare, si trovano a aggiudicarsi a priori i beni di coloro che stanno per proscrivere,
contendendosi le cariche politiche arrivando ad accapigliarsi.
L’opera non presenta un programma di rinnovamento politico dello Stato romano: Cesare scrive per
dissolvere l’immagine che ha di lui l’opinione pubblica, che lo crede un rivoluzionario, un continuatore dei
Gracchi o, peggio ancora, di Catilina. Si rivolge allo strato medio e benpensante dell’opinione pubblica romana e
italica, che vede nei pompeiani i difensori della costituzione repubblicana e della legalità.
Si presenta come un modrato, un politico certo non incline a processi di tipo rivoluzionario e sempre
rispettoso delle leggi.
Cesare quindi vuole rassicurare i ceti possidenti, dando ragione di alcuni suoi provvedimenti di emergenza e
sottolineando una volontà di pace e un sentimento di clemenza verso i vinti. Sostiene, inoltre ,che la guerra civile
sia dovuta al rifiuto, più volte ripetuto, di trattative serie da parte dei pompiani.
Si preoccupa quindi di rassicurare la popolazione.
Accomuna l’opera al De bello gallico, l’elogio della fedeltà e del valore del suo esercito cui viene aperta da
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Opere Perdute
• Orazioni, che secondo Cicerone sarebbero state ricche di ornamenta retorici ma prive di gonfiori (tumores) e di colori
eccessivi;
• De analogia (54), trattato in tre libri e dedicato a Cicerone che ha la funzione di purificare la lingua latina correggendo
“l’uso scorretto e guasto con l’uso corretto e puro”. Da quest’opera prevale la convinzione di dover scegliere
nell’eloquenza le parole già in uso (verba usitata) e di evitare quelle strane e inusuali: si ha quindi una presa di
posizione analogica, coerente con la scelta stilistica semplice, chiara e ordinata dei Commentarii;
Opere Spurie
In linea di massima potrebbero presentare l’andamento sobrio e scarno della tradizione stilistica del commentario in
modo più aderenti di quelle del Cesare autentico che, invece, si spingevano verso la historia.
• Bellum Alexandrinum, forse opera di Irzio, narra della guerra contro gli Egiziani del 48-47;
• Bellum Africanum, relativo alle guerre contro i pompeiani in Africa nel 46 e dallo stile particolarmente arcaizzante;
• Bellum Hispaniense, relativo alle guerre contro i pompeiani in Spagna nel 45 e con sporadiche ricercatezze di stile
all’interno di un tessuto linguistico popolareggiante e colloquiale, talvolta volgare e, per questo forse opera di un
homo militaris.
Fortuna
Se Cicerone e Irzio apprezzavano la qualità e lo stile asciutto dei Commentarii, le generazioni successive furono più
fredde nei confronti di Cesare. Quintiliano lodava il Cesare oratore, non lo scrittore di storia. Montaigne e Manzoni
daranno un giudizio di elogio.
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Dopo lo scoppio della guerra civile, combatté dalla parte di Cesare, e fu riammesso in Senato dopo la sua vittoria: nel
46 diviene pretore e, una volta che Cesare sconfisse i pompeiani in Africa, viene nominato governatore della
provincia di Africa nova (praticamente il regno di Numidia). Dette, tuttavia, prova di malgoverno e di rapacità e fu
accusato di malversazione: per evitare la condanna e una nuova espulsione dal Senato, Cesare gli consigliò di ritirarsi
una volta per tutte dalla vita politica (quest’informazione ce la testimonia lo stesso Sallustio).
Fino alla morte, avvenuta nella sua residenza a Roma nel 35 o nel 34, si dedicò alla storiografia.
Produzione Letteraria
Le Due Monografie Storiche
Nei proemi Sallustio giustifica il fatto di essersi ritirato dalla vita politica per dedicarsi alla composizione di
opere storiche: da in questo modo conto della propria attività intellettuale di fronte a un pubblico come quello romano,
fedele alla tradizione per cui fare storia è più importante che scriverne. Questa rivalutazione dell’attività intellettuale è
compiuta con meno orgoglio rispetto alle giustificazioni analoghe addotte da Cicerone: per Sallustio la storiografia
resta infatti strettamente legata alla prassi politica, e la sua maggiore funzione è individuata nel contributo alla
formazione dell’uomo politico.
L’abbandono della vita politica è spiegato anche con la crisi che ha irrimediabilmente corrottole istituzioni e la
società: Sallustio denuncia l’avidità di ricchezza e di potere come i mali che avvelenano la vita politica romana. La sua
storiografia tende a configurarsi come indagine sulla crisi.
L’aver scelto avvenimenti singoli (la congiura di Catilina e la guerra contro Giugurta) che, pur essendo di breve durata,
sembrano decisivi per le conseguenze che ebbero sulla storia successiva, è una vera e propria novità nella storiografia
romana. Se, infatti, da una parte il Bellum Catilinae illumina il punto più acuto di questa crisi, ovvero il delinearsi di
un pericolo sovversivo di qualità finora ignota allo Stato romano; il Bellum Iugurthinum affronta direttamente,
attraverso una vicenda paradigmatica, il nodo costituito dall’incapacità della nobilitas corrotta a difendere lo Stato,
e insiste sulla prima resistenza vittoriosa dei populares.
- Capp. 19-25: la nobilitas, che grazie ad alcune indiscrezioni comincia a subodorare il complotto, decide di
affidare il consolato ad Antonio e a un homo novus, Cicerone. Catilina continua così i suoi preparativi,
estendendoli a tutta l’Italia. Grazie a Manlio, un suo accolito, raduna a Fiesole un esercito composto in larga
parte da disperati caduti in miseria;
- Capp. 26-36: Catilina viene sconfitto alle elezioni consolari e compie alcuni attentati, che vanno a vuoto, alla vita
di Cicerone. Cicerone ottiene dal senato i pieni poteri per soffocare la ribellione e, l’8 novembre del 63 accusa
apertamente in Senato Catilina con la Prima Catilinaria. Catilina fugge da Roma e raggiunge Manlio e il suo
esercito: il senato li dichiara entrambi nemici pubblici;
- Capp. 37-39: Sallustio introduce un excursus sui motivi della degenerazione della vita politica e sulle condizioni
che hanno favorito l’attività di Catilina. Sallustio risale al periodo che va dalla dominazione di Silla alla guerra
civile fra Cesare e Pompeo: la sua condanna coinvolge sia i populares che i fautori del Senato. Da una parte ci
sarebbe solo dei demagoghi, che con elargizioni e promesse alla plebe ne aizzano l’emotività, dall’altro
aristocratici che si fanno paladini della dignità di Senato ma combattono in realtà solo per consolidare e
ampliare i propri privilegi;
- Capp. 40-52: Cicerone inizia ad avere in mano le prove tangibili del complotto e fa incarcerare i complici di
Catilina rimasti in città. Il senato si riunisce per deliberare sulla loro sorte: Silano vuole la condanna a morte,
Cesare una pena più mite mentre Catone ribadisce la necessità della condanna a morte.
- Capp. 53-54: dopo averne riportato il discorso, Sallustio introduce un parallelo tra Cesare e Catone;
- Capp. 55-61: i complici di Catilina vengono giustiziato e Catilina tenta, a capo della sua armata, di rifugiarsi nella
Gallia Transalpina, ma viene intercettato dall’esercito regolare e costretto al combattimento vicino Pistoia nel
gennaio del 62. L’armata ribelle viene annientata e lo stesso Catilina muore.
La Figura di Cesare
Come è ben visibile nel secondo excursus, la condanna del “regime dei partiti” è coerente con le aspettative
che Sallustio ripone in Cesare. Da quest’ultimo, lo storico auspica l’attuazione di una politica per certi aspetti non
diversa da quella che Cicerone si riprometteva dal suo princeps: un regime autoritario, che sapesse porre fine alla
crisi dello Stato ristabilendo l’ordine, rinsaldando la concordia fra i ceti possidenti, restituendo prestigio e dignità a
un Senato ampliato con uomini nuovi provenienti dall’élite di tutta l’Italia.
La divergenza principale fra l’ideale di Sallustio e la politica effettivamente perseguita da Cesare riguarda la funzione
che quest’ultimo attribuì all’esercito. Sallustio fu infatti disgustato però dall’ “inquinamento” del Senato, dovuto
all’immissione di personaggi provenienti dai ranghi militari.
Questa impostazione ideologica generale spiega la parziale deformazione di Cesare, che viene purificato da ogni
contatto e legame con i catilinari e allontanato da una condanna esplicita della sua politica come capo dei
populares.
Il discorso pronunciato da Cesare in senato e relativo alla condanna dei complici di Catilina, fa largo appello a
considerazioni legalitarie. Non si tratterebbe di un falso ma di un’insistenza sicuramente coerente con la
propaganda cesaria degli ultimi anni e con l’ideale politico di Sallustio. Questa preoccupazione per l’ordine e per la
legalità conteneva, agli occhi dello storico, un valore perenne: mostrandola operante nel pensiero di Cesare già dal
63, Sallustio implicitamente suggeriva una coerenza e continuità nella sua linea politica.
Dopo la narrazione della seduta in Senato, Sallustio delinea i ritratti di Cesare e Catone:
• Cesare: liberalità, munificentia, misericordia, energia;
• Catone: integritas, severitas, innocentia (tradizione).
Benché Sallustio differenzi i loro mores, magnitudo animi par, item gloria (“pari era in loro la grandezza d’animo, pari
era la fama): Sallustio afferma che entrambi erano positivi per lo Stato romano e che loro virtù erano
complementari.
La Figura di Cicerone
Il personaggio di Cicerone, protagonista della congiura, viene alquanto ridimensionata benché non denigrato: il
console non è per Sallustio il politico che domina gli eventi grazie al proprio ingegno, ma un magistrato che fa
solamente il suo dovere pur non essendo un eroe, superando inquietudini e debolezze.
Il Ritratto di Catilina
Attinge una sua grandezza malefica il personaggio di Catilina, del quale Sallustio delinea un ritratto a tinte forti e
contrastanti, sottolineandone da un lato l’energia indomabile, dall’altro la facile consuetudine con ogni forma di
depravazione. Il ritratto è delinato da un’esigenza moralistica: mentre tratteggia il suo personaggio, Sallustio lo
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giudica.
La degenerazione morale di Catilina e di moltissimi membri della classe dirigente, viene presentato come una sorta
di conseguenza logica e necessaria della crisi, i cui motivi profondi si ritrovano nelle stesse parole di Catilina: da una
parte pochi potenti che monopolizzano cariche politiche e ricchezze, sfruttando i popoli dominati, dall’altra una
massa senza potere, coperta di debiti e priva di vere prospettive future.
Giugurta, dopo essersi impadronito col crime del regno di Numidia, aveva corrotto col denaro gli esponenti
dell’aristocrazia romana inviati a combatterlo in Africa, riuscendo così a concludere una pace vantaggiosa.
Metello, inviato in Africa, ottenne dei successi notevole, ma non decisivi; Mario, luogotenente di Metello, dopo
lunghe insistenze ottiene da lui il permesso di recarsi a Roma per presentare la candidatura al consolato. Eletto
console per il 107, Mario riceve l’incarico di portare a termine la guerra in Africa e modifica la composizione
dell’esercito arruolando i capite censi (i proletari non soggetti a tassazione perché privi di averi e perciò “censiti per
testa”, cioé registrati non per il loro censo ma per la loro persona fisica”. La guerra riprende con varie vicende e si
conclude solo quando il re di Mauritania, Bocco, tradisce Giugurta, suo precedente alleato, e lo consegna ai Romani.
La narrazione si svolge quindi sullo sfondo di una degenerazione della vita politica e apre al centro un excursus
che indica nel “regime dei partiti” (mos partium et factionum) la causa prima della lacerazione e poi della rovina
della res publica. La condanna appare però più sfumata e il bersaglio principale di quest’opera è la nobiltà,
rappresentata in maniera deformata come un blocco unico guidato da un gruppo corrotto. Sallustio trascura di
parlare quindi quella parte dell’aristocrazia favorevole a un impegno attivo nella guerra, quella più legata al mondo
degli affari e incline alla politica di imperialismo espansionistico.
Memmio protesta contro la politica inconcludente dello Stato e contro l’arroganza dell’oligarchia dominante,
mentre Mario, che convince la plebe ad arruolarsi in massa, delinea una nuova aristocrazia, che non si fonda
sulla nascita ma sulla virtus e sui talenti e sull’impegno di ciascuno.
Il fondamentale moderatismo di Sallustio fa sì che egli non possa accantonare importante riserve su Mario, nei
confronti del quale il giudizio è ambiguo e l’ammirazione limitata dal suo riporre quasi le sorti dello Stato nelle mani
del proletariato militare.
Il ritratto di Giugurta
Giugurta è raffigurato con un’ammirevole energia indomabile, segno di una virtus corrotta, e a differenza di
Catilina ha una personalità rappresentata in fieri. La sua natura non è corrotta fin dall’inizio, ma lo diviene
progressivamente: il seme della corruzione viene gettato in Giugurta durante l’assedio di Numanzia, da nobili e
homines novi romani. Giugurta non viene comunque giustificato e, una volta corrotto, viene raffigurato come un
piccolo tiranno perfido, ambizioso e senza scrupoli.
Nell’opera dominano le tinte cupe: la corruzione dei costumi dilaga senza rimedio e sulla scena politica si
affacciano soprattutto avventurieri, demagoghi e nobili corrotti. In generale, il pessimismo sallustiano sembra
acuirsi, probabilmente perché, dopo la morte di Cesare e la frustrazione delle aspettative riposte nel dittatore, lo
storico non ha più una parte dalla quale schierarsi, né aspetta più alcun salvatore.
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Opere Spurie
• Due Epistulae ad Caesarem senem de re publica, che pur essendo un falso presentano uno stile più sallustiano
di quello dello stesso Sallustio (tendenza tipica dei falsari). La prima è un’irrisione violenta di Cicerone, della sua
linea politica e delle sue ambizioni; l’altra comprende una serie di suggerimenti a Cesare affinché scelga la via
della clementia e concili le fazioni. Forse frutto di un’opera scritta nelle scuole di retorica del I d.C.;
• Invectiva in Ciceronem, forse scritta da un retore di età augustea a cui fa pendant l’Invectiva in Sallustium,
attribuita a Cicerone ma sicuramente un falso confezionato nelle scuole di retorica, in cui Sallustio viene accusato
del malgoverno in Numidia;
• Empodeclea, opera sulle dottrine empedoclee e pitagoriche forse scritta dall’omonimo Gneo Sallustio, amico
di Cicerone.
Lingua e Stile
Se lo stile storiografico di Cicerone era armonioso e fluido, derivato dall’oratoria, quello di Sallustio è caratterizzato
dall’inconcinnitas, cioé il rifiuto del discorso ampio e simmetrico, dall’uso frequente di antitesi, asimmetrie e
variationes di costrutto. Questi elementi producono un effetto di gravitas austera e maestosa, dovuto anche ad una
ricca patina arcaizzante sia nel lessico che nella sintassi paratattica. I pensieri si giustappongono come blocchi
autonomi di una costruzione e si hanno pochissime subordinate.
Estrema è l’economia dell’espressione (asindeti, ellissi dei verbi ausiliari), frequente l’allitterazione.
Si tratta quindi uno stile arcaico ma allo stesso tempo innovativo, perché il suo andamento spezzato è del tutto
anticonvenzionale e perché lessico e sintassi contrastano di fatto quel processo di standardizzazione che si stava
verificando nel linguaggio letterario.
L’esigenza di sobrietà e austerità imponeva la rinuncia agli elementi tragici, che rendevano la narrazione più
vivace e realistica: in realtà proprio questa limitazione comporta una drammaticità ancora più intensa.
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XX. TITO LUCREZIO CARo (Pompeo o Ercolano 98/96/94 a.C. - Roma 55/53-51 a.C.)
Vita
Della vita dell’epicureo Lucrezio sappiamo poco:
- la testimonianza di San Girolamo (Chronicon3) colloca la morte suicida a 43 anni: sarebbe nato nel 96 o nel 94 con
conseguente morte tra il 53 e il 51;
- dalla Vita Virgili di Elio Donato sappiamo che Virgilio compì 17 anni nell’anno in cui morì Lucrezio: sarebbe quindi
morto nel 55 e nato nel 98 (quindi Girolamo avrebbe confuso il nome dei consoli del 94 con quelli del 98).
Forse un liberto, si pensa sia nato in Campania perché a Napoli - dove molto probabilmente visse - era fiorente una
scuola epicurea e perché la Venere a cui è rivolto l’inno del De rerum natura è molto simile alla Venus fisica venerata a
Pompei. Secondo altri nacque a Roma, dove conobbe i poetae novi e assorbì la profonda cultura romana.
Ottenne sicuramente un’ampissima formazione culturale.
Dalla Vita Borgiana, una succinta biografia scoperta nel 1894 ma molto probabilmente un falso, sappiamo che fu amico
di Cicerone, Attico, Bruto e Cassio, e che ebbe rapporti con le figure di maggior rilievo del I secolo a.C.
Sempre San Girolamo ci informa sulla sua presunta follia e sulle sue frequenti crisi isteriche, secondo alcuni
invenzioni nate in ambito cristiano per screditare la polemica antireligiosa di Lucrezio. Secondo alcuni studiosi la follia
di Lucrezio coinciderebbe con una depressione cronica che motiverebbe il pessimismo lucreziano, così lontano
dall’ottimismo di cui è portavoce la filosofia epicurea. Secondo altri questo squilibrio mentale attribuito a Lucrezio
sarebbe derivato da un’errata identificazione della figura dell’autore con quella del narratore della sua opera.
Benché fosse stato bandito nel II secolo, nel I l’epicureismo riuscì a diffondersi anche negli strati elevati della
società romana: il console Calpurnio Pisone Cesonino si presentava, infatti, come protettore di filosofi epicurei e
nella sua villa di Ercolano teneva lezione Filodemo di Gadara.
Un altro cenacolo epicureo sorgeva a Napoli dove, sotto la guida di Sirone, studiavano diversi giorni, fra i quali Virgilio
e Orazio. Anche l’amico di Cicerone, Attico, e il cesaricida Cassio avevano simpatie epicuree: questo ci prova che
l’epicureismo trovò i suoi adepti in entrambe le fazioni che si scontravano nella vita politica.
Seppur in maniera minore, anche tra le classi inferiori circolavano i pensieri epicurei, grazie alle divulgazioni in
cattiva prosa latina di Amafinio e di Cazio. Chiari e semplici, questi messaggi - d’accordo con i principi di Epicuro -
erano universali e potevano essere recepiti dalle persone di ogni rango sociale.
3Si tratta di una traduzione dell’opera omonima del greco Eusebio con l’aggiunta di notizie su vari scrittori latini tratte dal De poetis di
Svetonio.
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Il testo è conservato integralmente grazie a due codici del IX secolo, l’Oblungus e il Quadratus, oggi conservati a
Leida. Alcune parti si leggono anche in schedae, fogli di codici conservati a Copenaghen e Vienna. Numerosi codici
umanistici riproducono il testo tratto dal codice che Poggio Bracciolini scoprì nel 1418 in Germania.
Diade L Contenuto
Atomismo (I) I Dopo lʼInno a Venere, lʼElogio di Epicuro e la narrazione dell’episodio del Sacrificio di Ifigenia ci si dedica
alla fisica epicurea e in particolare alla teoria atomistica. Si afferma il principio per cui niente nasce dal
nulla, niente va a finire nel niente, tutta la materia si trasforma in quanto tutto avviene per
aggregazione e disgregazione degli atomi.
Atomismo (I) II Dopo lʼelogio del saggio viene introdotto il concetto del clinamen, una deviazione che gli atomi
possono subire e che impedisce che la loro caduta sia sempre verticale e quindi determinata. Questa
permette variabilità e imprevedibilità nella formazione degli aggregati atomici.
Antropologia (II) III Lucrezio spiega che l’anima è costituita da atomi proprio come il corpo, anche se questi sono di forma
diversa, più leggeri e lisci; anche l’anima è quindi soggetta al processo di disgregazione che investe tutte
le realtà consistenti di atomi. Pertanto essa muore con il corpo e non c’é da attendersi alcun destino
ultraterreno di premio o di punizione.
Non essendoci nemmeno più lʼaggregato che costituisce il nostro corpo, si ritorna come quando eravamo
nati, cioé ad una dimensione di nulla: noi non ci siamo più. Se ci siamo noi, non cʼè la morte, se cʼè la
morte non ci siamo noi.
Antropologia (II) IV Viene introdotta la Teoria dei simulacra, secondo cui le percezioni sensoriali avvengono perché dai
corpi si staccano degli atomi molto piccoli che vanno a sollecitare i sensi di colui che percepisce.
Tutte le sensazioni sono da spiegare con questi urti degli atomi, che si staccano dai vari corpi e
sollecitano la percezione di chi guarda, sente o gusta.
Anche i Sogni sono atomi che si distaccano dalla realtà sensibile del giorno e colpiscono i sensi del
dormiente.
LʼAmore è descritto in termini estremamente materialistici e brutali, non è nientʼaltro che una
sollecitazione che parte dai sensi di un corpo e sconvolge i sensi di un altro. Eʼ visto come un affanno
continuo, implacabile, insaziabile, in quanto anche nel momento in cui il desiderio amoroso viene
soddisfatto immediatamente si re-instaura il desiderio che non può mai essere placato. LʼAmore è una
forza dilaniante che acceca lʼuomo ed è ridotta ad un puro istinto riproduttivo: è qualcosa di materiale,
brutale, selvaggio. Lucrezio tenta di smantellare la parte sacrale dellʼamore mostrandoci una
casistica di figure femminili, idealizzate dallʼamante ma in realtà estremamente meschine (misoginia)
perché animate da esigenze puramente corporee o banalmente ordinarie.
Tutto quello che è la sede sentimentale e ideale dellʼamore è “distrutto”: lʼamore è una forza
accecante che allontana dallʼedoné in quanto affanno continuo.
Cosmologia (III) V Fa vedere come si presenta l’universo, infinito ma destinato a morire perché è come un corpo che si
aggrega, sviluppa e si evolve, poi inizia a invecchiare e muore. Lʼuniverso è una realtà che subisce le
stesse sorti del corpo, è stato creato da una divinità ed ha un fine positivo.
Si parla poi degli dei che esistono ma nel loro intermundia, completamente staccati dai problemi
dellʼuomo.
Nel libro si ripercorre poi la storia dellʼumanità e dell’uomo, inizialmente una creatura ferina,
animalesca, che via via acquisisce elementi nuovi che lo perfezionano. Progredisce, pertanto, da uno
stato di natura verso uno di civiltà: si tratta di una prospettiva moderna
Cosmologia (III) VI Lʼultimo libro è dedicato ad indagare i fenomeni atmosferici e naturali (fulmini, piene...), che lʼuomo nella
sua ignoranza ha attribuito agli dei ma che sono legati al meccanicismo e al movimento degli atomi.
La chiusura è dedicata alle Malattie, in particolare alla Peste del 430 ad Atene (ripresa di Tucidide) che
portano alla disgregazione di tutto quello che è una civiltà dal momento che tutti i legami sociali si
allentano e gli uomini diventano preoccupati solo per sé (egoismo naturale).
Il finale dellʼopera è talmente negativo che si è pensato che la promessa di liberare lʼuomo dagli affanni
attraverso la conoscenza della natura Lucrezio non lʼabbia mantenuta nemmeno per sé: quella serenità
che dovrebbe caratterizzare il sapiens è una dimensione che nemmeno lui raggiungerà mai (ndr. si
suicida).
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Conclusione dell’Opera
Ripetizioni e incongruenze potrebbe essere sintomo di una mancata revisione finale dell’opera. Inoltre, nel Libro
V, Lucrezio annuncia la descrizione delle sedi beate degli dei, non inserita e che forse era stata scelta per la chiusa
dell’opera. Se si considera questa supposizione, il poema avrebbe dovuto concludersi con una nota serena - che
avrebbe fatto da pendant con il gioioso inno iniziale a Venere - e non con la dimensione drammatica della malattia.
La scelta di una chiusa drammatica (morte) e di un inizio positivo (vita) potrebbe però dimostrare come tra queste
due potenze non possa esistere alcuna conciliazione.
Il Poema Epico-Didascalico
Il De rerum natura è un poema epico-didascalico che costituisce un unicum nella produzione a base filosofica
epicurea. Epicuro condannava infatti la poesia, in particolare quella omerica, perché essendo strettamente connessa
al mito e alle belle invenzioni, causava l’allontanamento da una comprensione razionale della realtà.
Se gli altri epicurei, come Filodemo, avevano scelto di attenersi alle indicazioni del maestro, servendosi al massimo
della poesia scherzosa, Lucrezio adotta una posizione ben precisa: vuole raggiungere le classi più alte e vuole
farlo in una forma adatta. Scrive infatti di voler “cospargere col miele delle Muse” una dottrina apparentemente
amara, come si fa con i fanciulli, cospargendo di miele gli orli della coppa che contiene l’assenzio amaro destinato a
guarirli.
Alla scelta stilistica e al fatto che effettivamente quest’opera fosse pericolosa e potesse avere forti valenze
disgregatrici per la società aristocratica, può essere ricollegato il silenzio di Cicerone, che si distingueva per una
violenta polemica contro l’epicureismo e contro le opere che ne diffondevano il messaggio (Amafinio e Cazio).
In radicale contrapposizione rispetto agli insegnamenti del maestro Epicuro, Lucrezio trova modelli greci in Omero e
Empedocle. La poesia didascalica era già presente a Roma con Ennio (Epicharmus, settenari; Euhemerus, prosa) ed
Accio (Pragmatica, settenari; Didascalica, misto di versi e prosa) mentre in Grecia la produzione, tutta esametrica,
era quella ellenistica di Arato di Soli e di Nicandro, più volte tradotti a Roma.
L’opera di Lucrezio si differenzia però dalla poesia didascalica precedente e successiva, che ricercava la sua
ispirazione in argomenti tecnici. L’autore non si limita a descrivere ma preferisce spiegare ogni aspetto importante
della vita del mondo e dell’uomo, utilizzando argomentazioni e dimostrazioni serrate. Questo accomuna l’opera al
poema filosofico in esametri Perì physeos di Empedocle, cui Lucrezio rende omaggio alla fine del primo libro.
Si tratta, pertanto, di un misto tra poesia didascalica e poema filosofico.
L’elemento didascalico è ben visibile anche nel rapporto docente-discepolo che Lucrezio instaura con il lettore,
continuamente esortato e talvolta minacciato affinché segua diligentemente il percorso educativo propostogli
dal maestro. È un altro elemento che distingue l’opera dalla poesia didascalica ellenistica, che si limita per lo più a
descrivere fenomeni.
L’opera si basa inoltre su una “retorica del necessario”, contraria alla “retorica del miracoloso” presente nelle opere
didattiche di stampo ellenistico. L’intenzione non è quindi encomiastica, cioé volta a colpire e sorprendere, ma vuole
mostrare come non ci sia di che meravigliarsi di fronte ai fenomeni, dal momento che sono regolati tutti da principi
regolativi oggettivi.
Stile dell’Opera
La forma stilistica è quella del sublime, volto a catturare e ad affascinare il lettore suggerendogli un bisogno
morale e promuovendolo alla grandezza d’animo. Il sublime si ritrova negli scenari narrati, in cui il lettore è chiamato
a trasformarsi in un eroe, a emozionarsi per la natura che gli si viene rivelando e a trovare in sé la forza di accettarla
e di adeguarsi. Per questo motivo compaiono di frequente appelli, esortazioni e raccomandazioni.
L’esperienza è quindi travolgente e sconvolgente e il rapporto tra docente e allievo, che nel poema didascalico
tradizionale è solo di contorno, diventa un centro di tensione dal momento che nelle stesse parole del docente non
si fa altro che leggere il dubbio della propria irrealizzabilità, una strana e forte insicurezza.
Struttura dell’Opera
L’opera procede con una rigorosa struttura argomentativa, i cui procedimenti dimostrativi sono per lo più il
sillogismo, l’analogia e gli strumenti retorici, la cui cura nella scelta degli esempi e delle immagini creano una
fortissima forza persuasiva. La tipologia dei procedimenti dimostra il contatto con la letteratura diatribica,
sviluppatasi in Grecia con Bione di Boristene durante la prima età ellenistica.
Un esempio su tutti è il terzo libro con la confutazione del timore della morte, dimostrata in maniera lineare
(l’anima é materiale -> é quindi mortale ) e con il supporto di 29 diverse prove.
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Lucrezio utilizza in questo caso una dimostrazione scientifica che viene completata da un’ulteriore osservazione,
portata a voce dalla Natura stessa: se la vita è stata colma di gioie allora questa può ritirarsi come un convitato felice
da un banchetto, se invece è stata segnata da dolori e tristezze perché desiderare che essa prosegua?
Tematiche Rilevanti
La Confutazione della Religio
All'inizio del poema Lucrezio invita il lettore a non considerare subito empia la dottrina che egli si accinge ad
esporre e a riflettere su quanto, al contrario, sia davvero crudele ed empia la religione tradizionale (emblema ne è il
sacrificio di Ifigenia o anche l'immolazione del vitellino e la descrizione della madre che lo cerca, disperata). La
religione è in grado di sopprimere e condizionare la vita di tutti gli uomini immettendo nel loro cuore un
seme di paura ma se gli uomini sapessero che dopo la morte non c'è più nulla, smetterebbero di essere succubi
della superstizione religiosa e dei timori che essa comporta.
Si vede, quindi, già dai primi versi come Lucrezio offra un nesso tra superstizione religiosa e timore della morte
mostrando la necessità di una speculazione scientifica per ovviare a questo timore che nasce dall'ignoranza
delle leggi meccaniche che governano il mondo (Libro V).
Epicuro viene presentato come un eroe liberatore, un nuovo Prometeo, perché fu “il primo a osare levare gli
occhi contro la religione che incombeva minacciosa dal cielo”. Per questi motivi è da venerare quasi come un
dio.
Per quanto riguarda gli dei essi esistono e sono dotati di vita eterna ma se ne stanno felici nella pace degli
intermundia, la zona tra terra e cielo in cui abitavano, incuranti delle vicende della terra e dell’uomo.
Costituiscono un punto di riferimento ideale che, chi vuole, può contemplare.
Nella seconda metà del Libro V tratta della storia dell’uomo e della vita sulla terra: uomini e animali non sono
stati creati da un dio ma si sono formati per particolari circostanze fisiche. Vengono inoltre confutate le tradizioni
su esseri mitici che avrebbero popolato l’alba della terra, come i centauri: è infatti impossibile che due esseri di
natura diversa - ad esempio un uomo e un cavallo - si congiungano e generino, appunto, il centauro.
È invece possibile che la natura, non governata da esseri superiori, commetta degli “sbagli” dando vita a uomini
deformati.
Nello stesso libro si parla del progresso umano, le cui tappe positive (scoperta del linguaggio, del fuoco…) sono
alternate ad altre negative (guerra, sorgere del timore religioso…). Spesso è stata proprio la natura ad indicare
all’uomo come agire: la necessità di comunicare ha, per esempio, spinto l’uomo a cercare le prime forme di
linguaggio. Caso e bisogno materiale sono i fattori di avanzamento della civiltà.
Il progresso materiale è valutato positivamente fino a che soddisfa i bisogni primari: gli aspetti di
decadenza morale dovuti al progresso (bisogni innaturali, guerra, ambizioni e cupidigie) vengono aspramente
criticati perché corruttori della vita dell’uomo.
L’uomo ha bisogno di poche cose, cioé quelle naturali e necessari e per configurarsi come un saggio deve
non solo abbandonare le inutili ricchezze ma allontanarsi anche dalle tensioni della vita (làthe biòsas) per
dedicarsi a coltivare lo studio della natura assieme agli amici fidati (l’amicizia è vista come somma ricchezza della
natura umana).
La Natura Matrigna
La tensione mostrata dall’autore è sempre rivolta a conseguire il convincimento razionale del suo lettore, a
trasmettergli i precetti di una dottrina di liberazione morale in cui egli stesso profondamente crede. E se nel poema
hanno una loro parte innegabile anche descrizioni a tinte fosche, violentemente drammatiche, di queste vanno
sempre ricercate le motivazioni contestuali.
Ad esempio, Lucrezio insiste a lungo sull’idea della natura come incurante delle esigenze dell’uomo, una forza
molto più grande di noi contro cui dobbiamo lottare per ritagliarci il nostro spazio.
Lo vediamo nell’asperità del terreno, nel vagito del bambino appena nato, nella durezza del clima, negli animali
nocivi all’uomo, nelle malattie.
L’obiettivo è quello di confutare la tesi stoica di una natura provvidenziale.
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Lingua e Stile
Lo stile adottato da Lucrezio doveva piegarsi al fine di persuadere il lettore e, in quest’ottica, si spiegano le frequenti
ripetizioni, nelle quali a lungo si è visto un segno di immaturità stilistica di Lucrezio: alcuni concetti andavano
riassunti in brevi formule facilmente memorizzabili, collocati a più riprese in punti chiave del poema.
Per consentire al lettore di familiarizzare con il linguaggio filosofico vengono reiterati alcuni termini tecnici - spesso
tradotti dal greco con perifrasi nuove, coniazioni o calchi diretti - e alcune nessi logici (adde quod, quod superest,
praeterea, denique).
Lucrezio sfrutta inoltre il vocabolario arcaico (aggettivi composti) per creare nuovi avverbi (moderatim, filatim) e
perifrasi (natura animi = animus; equi vis = equus su modello omerico). Inoltre, dalla poesia epico-tragica romana, egli
riprende molte forme dell’espressione: allitterazioni, assonanze ed effetti fonici patetico-espressionistici.
L’esametro è assai diverso da quello di Ennio, rispetto al quale predilige l’incipit dattilico, che sarà usuale nella
poesia augustea, con una tendenza a comporre il verso di due parti quasi equivalenti (Virgilio e Ovidio preferiranno
un ordine chiuso o chiastico) in modo tale da permettere una più pacata e lineare comprensione del contenuto.
A livello contenutistico dimostra di conoscere Omero, Platone, Eschilo, Euripide, Tucidide e Callimaco.
Curiosa è la concretezza espressiva: per supplire alla povertà della lingua latina, soprattutto a livello di linguaggio
filosofico, Lucrezio utilizza potenti immagini, esempi e numerose similitudini in grado di spiegare concetti astratti.
L’opera utilizza una lingua viva e colloquiale e uno stile grande e sublime. Anche se i livelli di questo stile sono molti e
diversi, il registro che li unifica è uno solo e continuo: è quello dell’enthousiasmòs poetico, posto al servizio di una
missione didattica vissuta con ardore eccezionale. Il risultato è uno stile severo, capace di durezze e di eleganze,
pronto alla commozione e alla meraviglia, ma anche all’invettiva profetica.
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La poesia neoterica è conseguenza diretta dell’ellenizzazzione dei costumi romani, dovuta alle grandi conquiste del II
secolo a.C. nel Mediterraneo e alla conseguente progressiva scomparsa del mondo greco.
Emergono così esigenze nuove, dettate dall’affinarsi del gusto e della sensibilità e un lento indebolimento dei valori
e delle forme letterarie della tradizione (epica e teatro in primis).
Poeti Preneoterici
• Lutazio Catulo, un potente aristocratico e console al tempo della guerra contro i Cimbri (101 a.C.), impegnato nella
vita politica e autore anche di opere storiche. Riserba all’otium e alla poesia nugatoria poco spazio: si ricorda una
variazione sul tema dell’èros paidikòs, ripreso da Callimaco. Attorno a Lutazio si raccoglie un gruppo di letterati
accomunati dal nuovo gusto per la poesia leggera di intrattenimento;
• Valerio Edituo, autore di epigrammi erotici di manierata fattura alessandrina: si ricorda una rielaborazione del motivo
topico dell’amore come fiamma o fuoco dell’Ode 31 di Saffo;
• Volcacio Sedìgito, noto per aver stilato una celebre graduatoria in versi dei migliori poeti comici latini, tramandati
da Gellio (Noctes Atticae) e che era contenuta nella sua opera De poetis;
• Levio, autore degli Erotopaegnia (“Scherzi d’amore”), di cui possediamo una cinquantina di versi e in cui i miti più
famosi della tradizione epica (le storie di Ettore, Elena, Circe, Laodamìa…) divengono temi d’amore, storie
appassionate e spesso sensuali. È famoso per la coniazione di composti strani e per la sperimentazione di forme
metriche inusitate. Legati al preziosismo alessandrino sono i suoi carmina figurata, componimenti in cui la forma e
l’ordine dei versi disegnano l’oggetto di cui si parla nel testo.
La sperimentazione di nuove possibilità espressive e l’originalità nella rielaborazione dei modelli ellenistici di poesia
nugatoria ci permette di considerarlo il precursore più diretto della vera e propria poesia neoterica.
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- amore come tema privilegiato: bisogna leggere in questo caso una forte differenza rispetto alla filosofia epicurea,
per cui l’eros è una malattia insidiosa che non permette l’atarassia, fine dell’uomo che si sostanzia nel piacere senza
turbamenti. Per i neoteroi, invece, l’amore è il sentimento centrale della vita, la sua ragione essenziale;
- attività critico-filologica, che accompagna la pratica poetica e garantisce il confronto - tramite incontri, lettere e
letture comuni - con gli altri poeti;
- evidente e scrupolosa cura formale (labor limae) secondo i dettami callimachei;
- brevitas, contrapposta all’epos omerico (Callimaco), e ars, un lavoro meticoloso;
- scelta di generi eruditi tipici della poesia callimachea, come l’epigramma e l’epillio, che permettono di affrontare
tematiche mitiche ma vicine alla sensibilità moderna e di attuare raffinate strategie compositive (racconti a incastro);
- nuovo linguaggio poetico.
Poeti Neoterici
• Publio Valerio Catone (Gallia Cisalpina, 100 a.C. ca. - ?), grammatico e maestro di poesia a Roma per tutta la vita.
Lettore, critico e filologo è da considerare il caposcuola dei neòteroi. A livello di produzione poetica ricordiamo alcuni
epilli, una Dictynna (Diana), sul mito cretese della dea, e una Lydia, di chiara ispirazione alessandrina.
Si distingue per una forte cura formale.
• Marco Furio Bibaculo (Cremona, 90 a.C. ca. ? - ?), ricordato da Tacito e Quintiliano, scrisse aspri epigrammi contro
Agusto: ci restano un fammento contro Orbilio, il manesco maestro di Orazio, e un paio di epigrammi
affettuosamente ironici sull’amico Valerio Catone.
Scrisse anche un poemi epico-storici: Pragmatia belli Gallici, forse un elogio nei confronti di Cesare; Etiopide, la cui
tematica è legata al ciclo troiano; le Lucubrationes (“Veglie”), un’opera in prosa di gusto neoterico e fortemente
erudita.
• Publio Terenzio Varrone Atacino (Atax, nella Gallia Narbonense 82 a.C. - 40/35 a.C.) fu autore di diverse opere:un
poema storico di stampo enniano, il Bellum Sequanicum (sulla campagna di Cesare contro Ariovisto nel 58 a.C.);
- un’opera di poesia neoterica erotica (la prima!), i Leucadia (dal nome della donna amata);
- un’opera geografica, la Chorogràphia;
- un’opera sui pronostici e sull’astronomia, l’Ephèmeris, che servì da modello - assieme ad Arato - a Virgilio per la
sezione sui segni celesti nelle Georgiche (I, 373 ss.);
- un poema epico, Argonautae, libera traduzione/rifacimento in esametri latini delle Argonautiche di Apollonio Rodio.
Il fine della traduzione è quello sia di elaborare un linguaggio poetico latino nuovo che di trattare argomenti epici
vicini alla poesia neoterica per la trattazione dell’eros e delle sue conseguenti complicazioni psicologiche.
• Gaio Elvio Cinna (Brescia 85 a.C. - Roma 44 a.C.), fu amico di Catullo e partecipò con lui al viaggio in Bitinia del 57
a.C.; scrisse la Zmyrna, una storia d’amore incestuosa di una fanciulla (Smirna) per il proprio padre, Cinira. Il
poemetto, scritto in nove anni, fu elogiato per la sua accuratezza formale da Catullo e si ispira ai componimenti del
poeta greco Partenio di Nicea, autore degli Erotikà pathèmata sulle sofferenze d’amore nel mito.
• Gaio Licinio Calvo (Roma 82 a.C. - 47 a.C.) era appartenente ad un’illustre famiglia plebea e fu un famoso oratore di
indirizzo atticista4. Tra i frammenti è da ricordare il dolente epicedio (canto funebre) scritto per la moglie Quintilia, e
l’epillio Io, che racconta la storia dell’eroina amata da Giove e perseguitata da Giunone, che la trasformò in una
giovenca. La tematica della metamorfosi è di chiara matrice alessandrina dal momento che soddisfa il gusto per il
paradosso e per le descrizioni virtuose ed elaborate.
4 In effetti è da notare che l’atticismo, perseguendo un ideale di nitida, concisca asciuttezza, contrario all’enfasi e alla prolissità, si
conciliava perfettamente con il gusto neoterico.
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GAIO VALERIO CATULLO (Verona, nella Gallia Cisalpina 87/84 a.C. - Roma 57/55 a.C.)
Vita
Per quanto riguarda la data di nascita si hanno incertezze: Girolamo colloca la nascita all’87 e a 30 anni, quindi nel 57
la morte. Tuttavia, dai componimenti ricaviamo informazioni relative all’anno 55: si suppone quindi una datazione 87/84
- 54/55.
Nato da una famiglia agiata (Cesare fu ospite della sua casa), Catullo conobbe e frequentò a Roma personaggi di
spicco dell’ambiente politico e letterario, tra i quali l’oratore Ortensio Ortalo, i poeti neoterici Elvio Cinna e Licinio
Calvo, Lucio Manlio Torquato, il giurista e futuro console Alfeno Varo, Cornelio Nepote e Gaio Memmio.
Ebbe una relazione d’amore con Clodia (Lesbia), la sorella mediana del tribuno Publio Clodio Pulcro e moglie di
Quinto Cecilio Metello, console nel 60.
Nel 57 si recò in Bitinia, per un anno, come membro dell’entourage del governatore Gaio Memmio: in occasione del
viaggio visitò la tomba del fratello nella Troade (carme 101).
Informazioni sulla sua vita le ricaviamo dagli stessi componimenti (bisogna però prestare attenzione al preziosismo con
cui Catullo scrive) e da Svetonio (De vita Caesarum). Sull’identificazione di Lesbia con Clodia ci informano Apuleio
(Apologia) e Cicerone (Pro Caelio).
Il Liber
Si tratta di un corpus di 116 carmi divisi in 3 sezioni:
1. Carmi 1-60: componimenti brevi e di carattere leggero (nugae) in metro vario, per lo più endecasillabi faleci e
trimetri giambici. Sono chiamati polimetri;
2. Carmi 61-68: componimenti eterogenei di maggiora estensione e cura formale. Sono noti come carmina docta e
sono composti in vari metri: dal galliambo, a gliconei, ferecratei, esametri e pentametri;
In realtà i carmi sono 113 perché i numeri 18, 19 e 20 (carmi “priapei”) sono stati aggiunti in un secondo momento
dall’umanista cinquecentesco Mureto e poi esclusi da Lachmann nell’Ottocento. La numerazione, però, non subì
cambiamenti. I 3 carmi sono oggi conservati tra i Priapea dell’Appendix Vergiliana.
Dal momento che il criterio di numerazione è per lo più filologico (per metri) è ritenuto dai più che sia relativo ad
all’edizione pubblicata postuma, in occasione della quale alcuni carmi furono esclusi (ci sono giunti per tradizione
indiretta). Pertanto, l’opera che aveva tra le mani Catullo, il libellus che dedica a Cornelio Nepote nell’incipit del carme
1, non corrispondeva esattamente al Liber rimastoci.
Questi carmi si distinguono per una particolare spontaneità, che non è frutto di un’ingenuità del poeta, ma di una
ricercatezza estrema: anche i componenti che maggiormente sembrano occasionali, cioé riflesso immediato della
realtà, hanno sempre i loro precedenti letterari. Sono tantissime le risonanze letterarie dissimulate con sapienza.
Nulla è lasciato ad una disposizione casuale.
Influisce sicuramente sulla precisione stilistica la presenza di un destinatario colto. Dobbiamo infatti immaginare
che lo sfondo della poesia di Catullo è l’ambiente letterario e mondano della capitale romana, di cui fa parte la
cerchia degli amici neoterici, accomunati dagli stessi gusti, da uno stesso linguaggio, da un ideale di grazia e
brillantezza di spirito: lepos, venustas e urbanitas sono i principi che fondano questo codice etico ed estetico.
Esempi:
• carme 2 Passer, deliciae meae puellae, in cui quello che vuol sembrare un sospiro sfuggito al poeta è in realtà
costruito preziosamente su precissimi rapporti formali (2 parti simmetriche da 4 versi ciascuna che fungono da
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• carme 5 Vivamus, mea Lesbia, atque amemus, in cui un bilanciato gioco di antitesi e di richiami simmetrici si
cela dietro le parole che vogliono apparire dettate dalla passione più immediata e sincera;
• carme 8 Miser Catulle, desinas ineptire, che si distingue per la sua salda forma circolare, che riesce a
comunicare contemporaneamente l’ansia e il suo faticoso controllo.
La Figura di Lesbia
Lesbia è l’incarnazione della devastante potenza dell’eros. Lo stesso pseudonimo, che ovviamente rievoca
Saffo, creare attorno alla donna un alone idealizzante: Lesbia non ha solo grazia e bellezza straordinarie, ma
anche intelligenza, cultura, spirito brillante, modi raffinati che alimentano la passione del poeta.
Gioie, sofferenze, tradimenti, abbandoni e rimpianti scandiscono le vicende di questo amore, che viene vissuto da
Catullo come l’esperienza capitale della propria vita, capace di riempirla e di darle un senso.
All’eros non è più riservato uno spazio marginale ma esso stesso diventa centro dell’esistenza e valore primario, il
solo in grado di risarcire la fugacità della vita umana: basta essere un civis impegnato politicamente, bisogna
essere amans che sappia valorizzare i sentimenti.
L’amore per Lesbia nasce in realtà come un adulterio, un amore libero, che però nel farsi oggetto esclusivo
dell’impegno morale del poeta, tende paradossalmente a esser vissuto come un vincolo matrimoniale. Sono
infatti tante le recriminazione fatte da Catullo a Lesbia per aver violato il foedus (“patto”) d’amore.
Questo foedus ha un valore sociale e culturale perché si fonda sulla fides, che garantisce il patto stipulato
vincolando moralmente i contraenti, e la pietas, la virtù propria di chi assolve ai suoi doveri nei confronti degli altri.
Interessante è notare come il tradimento del foedus produca in Catullo una dissociazione fra la componente
sensuale (amare) e quella affettiva (bene velle): nel carme 72 il poeta ammette di non aver più stima per la donna
che, però, continua ad accendergli la passione. Parimenti, Catullo mostra una speranza sempre frustata di un
amore fedelmente ricambiato che si accompagna alla consapevolezza di non aver mai mancato al foedus d’amore
con Lesbia: il ricordo di questa fides ad un impegno morale gli garantisce consolazione (carme 76).
• carme 64, è un epillio, un poemetto di 408 esametri che narra il mito delle nozze di Teti e Peleo ma che,
nella vicenda principale, contiene - incastonata mediante la tecnica alessandrina dell’èkphrasis e della
digressione - un’altra storia, che figura ricamata sulla coperta nuziale, cioé quella dell’abbandono di Arianna
a Nasso da parte di Teseo.
Si tratta di due vicende d’amore, uno infelice e uno felice, che hanno il loro nucleo nel tema della fides, la virtù
cardinale del mondo etico catulliano: Arianna ammonisce lamentando l’infedeltà di Teseo (vv. 143ss.) mentre le
Parche esaltano la reciproca fedeltà di Teti e Peleo (vv. 334ss.)
•
• carme 63, è un epillio che si ispira alla vicenda del giovane frigio Attis che, nel delirio religioso, si mutila della
sua virilità per farsi sacerdote di Cibele - il cui culto orgiastico fu introdotto a Roma nel 205-204 a.C. - e una
volta libero dall’invasamento lamenta il folle gesto. Non è in esametri ma in galliambi perché questo era il metro
lirico alessandrino utilizzato per esprimere la frenesia orgiastica del culto di Cibele.
• carme 61, è un epitalamio scritto in onore delle nozze dei nobili Lucio Manlio Torquato e Vibia Aurunculeia,
e si immagina cantato durante la deductio, la processione che accompagna la sposa: dopo l’inno a Imeneo, c’è
infatti l’invito alla sposa a uscire dalla casa del padre per recarsi in quella del marito;
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• carme 62, è un epitalamio non composto per un’occasione reale ma un esperimento di contrasto in quanto è
costituto da una serie di strofe in esametri cantate alternativamente da due cori di giovani e fanciulle sul
tema dell’amore e della verginità. Evidente è l’influsso di Saffo.
• carme 66, è la traduzione-omaggio dell’elegia di Callimaco Chioma di Berenice, che pare occupasse la
parte finale del Libro IV degli Aitia. In essa Callimaco celebrava in versi la cortigiana escogitazione di Conone,
l’astronomo della corte di Tolomeo III Evèrgete, re d’Egitto, che aveva identificato una nuova costellazione da lui
scoperta con il ricciolo offerto come ex voto dalla regina Berenice per il ritono del marito dalla guerra e
successivamente scomparso.
Si tratta quindi di una vicenda di catasterismo (trasformazione in stella), che viene accompagnata da Catullo
da temi centrali della sua ideologia: l’esaltazione della fides e della pietas, la condanna dell’adulterio e la
celebrazione dei valori tradizionali.
• carme 65, funge da biglietto di accompagnato in distigi elegiaci al carme 66 ed è indirizzato all’amico
Ortensio Ortalo. Catullo giustifica l’invio di una traduzione al posto di un carme autentico con la disperazione
per la morte del fratello, che gli avrebbe inaridito la vena creativa.
• carme 67, in questo carme una porta racconta le vicende non proprio edificanti di cui è stata protagonista la
singolare famiglia che abita in quella casa;
• carme 68, incerto se da considerare un componimento unico o duplice, riassume tutti i temi principali della
poesia di Catullo, in particolare l’amore, l’amicizia, l’attività poetica e la sua connessione con Roma, il
dolore per la morte del fratello.
Bellissima l’immagine dei primi amori, furtivi, con Lesbia, immagine che sfuma nel mito: la vicenda di Protesilao
e Laodamìa (unitisi prima che fossero celebrate le nozze e perciò puniti con la morte di lui appena sbarcato a
Troia) si fa archetipo esemplare della vicenda di Catullo e Lesbia, di un coniugium anch’esso imperfetto e
precario. La proiezione mitica di un ricordo fa apparire questo carme come il progenitore della futura elegia
soggettiva latina.
Lingua e Stile
La lingua catulliana è il risultato di un’originale combinazione di linguaggio letterario e sermo familiaris: il lessico e
le movenze del parlato vengono infatti assorbiti e filtrati da un gusto aristocratico che li raffina e li impreziosisce, senza
però isterilirne le capacità espressive.
L’ispirazione callimachea non produce un’eleganza esangue, e lascia spazio, per esempio, alla cruda espressività di
certi volgarismi (non è segno di un tratto linguistico popolare ma dello snobistico compiacimento di un’élite colta che
ama esibire il turpiloquio accanto all’erudizione più raffinata).
Molti sono i diminutivi (flosculus, labella, turgiduli ocelli, molliculus, pallidulus) che si collocano perfettamente
nell’estetica del lepos, della grazia.
È uno stile composito, sempre vitale, con un’ampia gamma di modalità espressive (invettiva, morbidezza,
turpiloquio, malinconia, momenti elegiaci, baldanza giovanile…).
La distinzione stilistica tra i carmi brevi e quelli dotti è presente ma non va troppo marcata: i primi presentano un
linguaggio più affettivo e patetico, i secondi - di carattere più letterario - vedono un lessico più ricercato e la presenza di
stilemi della poesia alta tipici della tradizione enniana (arcaismi, composti, clausole allitteranti).
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II
L’ETA DI AUGUSTO
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Lepido fu tolto di scena, mandato prima ad amministrare la Sicilia e poi eletto pontefice massimo; rimanevano Antonio
e Ottaviano che si divisero l’impero: a Ottaviano l’Occidente; a Antonio l’Oriente con l’incarico di far guerra ai Parti.
Mentre Ottaviano riusciva a ripristinare il potere degli organi repubblicani, Antonio invece di far guerra ai Parti si trasferì
in Egitto dove legò con la regina Cleopatra. Nel 32 Ottaviano rese noto il testamento di Antonio che lasciava alcun
territori romani all’Egitto: il Senato affidò quindi ad Ottaviano il compito di muover guerra all’Egitto e ad Antonio,
dichiarato nemico pubblico. Ottaviano sconfisse Antonio ad Azio nel 31 e fece dell’Egitto un suo possedimento
personale che trasferì ai suoi successori.
Ottaviano fu console dal 31 al 23 e fino al 28 rimase triumviro senza colleghi. Nel 27 dichiarò di volersi ritirare a vita
privata ma dietro supplica del Senato accettò l’amministrazione di alcune province; nel 23 deposto il consolato, accettò
l’imperium proconsulare maius e la tribunicia potestas, due cariche che successivamente mantennero tutti gli altri
imperatori; nel 12 fu nominato pontefice massimo a vita. Infine cambiò nome: si fece attribuire i titoli di imperator in
quanto governatore delle province e capo dell’esercito, Caesar in quanto figlio adottivo di Cesare, Augustus.
Egli conservò tutti gli istituti giuridici e le formule costituzionali repubblicane: ciò è scritto nell’epigrafe del Monumentum
Ancyranum, una stele ritrovata ad Ankara, in cui Augusto parla in prima persona definendo le proprie azioni “res gestas
divi Augusti”. Egli vuole essere considerato un restauratore che ha posto termine alle guerre e restaurato la Repubblica .
Quale capo dell’esercito, Augusto si preoccupò della sua riorganizzazione:
• le legioni vengono portate a 25, ognuna di 5.000 uomini divisi in 10 coorti;
• vi sono poi i pretoriani, la guardia ufficiale dell’imperatore formata da 9 coorti di 1.000 uomini con notevoli
vantaggi rispetto ai legionari;
• infine quattro flotte, stanziate a Marsiglia, Ravenna, Miseno e in Grecia.
Si calcola che sotto le armi servissero almeno 500.000 uomini su 4.000.000 di cittadini: nasceva il problema della
carenza di uomini.
In conclusione, non si può parlare di Augusto come di un magistrato con poteri straordinari; certo i suoi poteri non
derivano da alterazioni violente della costituzione ma dall’introduzione di competenze nuove in materie nuove e
dall’integrazione delle strutture preesistenti con nuove strutture che si erano rese necessarie:
• una amministrazione centralizzata;
• una nuova organizzazione dell’esercito;
• un fisco unitario.
Ottaviano Imperatore
Tutto questo nuovo apparato fa capo al princeps che naturalmente ha bisogno di numerosi collaboratori, scelti
solitamente fra gli schiavi poiché privi di capacità giuridica. La struttura burocratica che si va formando è
essenzialmente diversa da quella repubblicana: il magistrato repubblicano è investito dei suoi poteri dal popolo; il
burocrate di questo periodo è un funzionario con poteri amministrativi legittimati dal principe. Scelti dal principe, i
magistrati persero molti poteri; i consoli divennero prima 4, poi 8 fino a 25, divisi in ordinari, eponimi e suffecti; i pretori
divennero 16 con la creazione di nuovi pretori per singole materie; i proconsoli vennero inviati ad amministrare le
province Senatorie; i Senatori vennero ridotti da 900 a 600. Gli equites si orientano verso la carriera burocratica in
quanto gli appalti delle province Senatorie sono ben poca cosa; la plebe ha perso il potere legislativo dei concilia in
quanto le leggi sono presentate dai consoli o da Augusto stesso ai comizi centuriati.
Per quanto riguarda la giurisdizione, Augusto riorganizza la materia con le leggi Iulia iudiciorum privatorum e Iulia
iudiciorum publicorum; fa inoltre votare una lex sumptuaria per la repressione del lusso e si occupa di legislazione in
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campo matrimoniale e relativa agli schiavi. In quest’ultimo campo tre leggi, la Fufia Caninia, la Aelia Sentia, la Iunia
Norbana, pongono una nuova disciplina fondata sulla limitazione del diritto del padrone di manomettere (liberare) lo
schiavo rendendolo così cittadino.
L’economia dell’epoca Augustea è di tipo monetario, basata sul commercio e non produttiva: si sarebbe dovuto
alimentare il circuito monetario attraverso una politica di conquiste cui Augusto era però contrario; ciò porterà alla crisi
economica del III secolo.
Se la vera legislazione finisce con Augusto, con lui nascono fonti normative diverse. In età repubblicana, il Senato non
può emanare leggi, ma ne può raccomandare una determinata interpretazione: su questa base nascono in epoca
augustea i senatoconsulti normativi, che integrano anche le antiche leggi comiziali.
L’imperium proconsulare maius conferisce ad Augusto la facoltà di emanare editti validi per tutte le province: uno degli
esempi più importanti è l’Editto ai Cirenei con il quale viene modificata la lex Iulia de repetundis creando un tipo di
processo più rapido, per questa materia, da svolgersi davanti al Senato. Gradualmente questa procedura si estende
anche ad altre materie: in particolare il Senato viene reso arbitro della giurisdizione sui propri membri in campo
criminale.
Viene estesa la nozione di reato maiestas alle lesioni dell’assetto costituzionale; la cognitio extra ordinem, che si
estende al di fuori dell’ordo iudiciorum delle quaestiones perpetue, finisce per assorbire in gran parte le loro
competenze. Mentre nelle quaestiones perpetue il rito è accusatorio, nella cognitio extra ordinem è inquisitorio: un
delegato di Augusto, ricevuta una denuncia, procede ad una inchiesta. Nei processi, Augusto si riserva il c.d. “voto di
Minerva”, in caso di parità dei voti dei giudici, e l’appellatio, cioè l’intervento diretto per tutta una serie di casi.
In campo civilistico, la lex Iulia iudiciorum privatorum abolisce le legis actiones, già in disuso. Resta il processo
formulare, caratterizzato dalla tipica forma contrattuale della c.d. litis contestatio. Anche nell’ambito del diritto
processuale privato interviene la cognitio extra ordinem, subentrando al processo formulare: con la cognitio, la formula
viene sostituita dalla domanda scritta di una delle parti al funzionario imperiale davanti al quale si svolgerà il processo.
In questo periodo l’editto pretorio giunge ad un tale grado di perfezionamento che le formule in esso contenuto
divengono fisse o quasi. Quanto alla giurisprudenza, c’è ora un istituto nuovo: lo ius respondendi, il diritto di dare
risposte a quesiti giuridici completi suffragate dall’autorità dell’imperatore.
In epoca augustea si accentua anche il distacco dei giuristi dalla vita pubblica: si formano due scuole di pensiero,
quella Proculiana, più tradizionalista, e quella Sabiniana, più aperta alle innovazioni.
Il frutto più importante del nuovo regime fu senza dubbio la pace che era, dopo decenni di sanguinose lotte,
un’esigenza insopprimibile. La classe che trasse maggiore vantaggio dal nuovo assetto costituzionale fu il ceto medio,
composto da professionisti, funzionari, ufficiali, impiegati ecc. Si moltiplicarono difatti gli impieghi a reddito fisso e
quindi gran parte dei cittadini si trovavano ad essere mantenuti ma anche a dipendere dallo Stato.
Con la morte di Augusto si apre il problema della successione. Molti storici affermano che non si trattò di un potere
monarchico perché non ci fu trasmissione ereditaria. Ma in realtà Augusto fece di tutto per rendere ereditaria la sua
carica. Ebbe infatti tre mogli ma non una discendenza diretta maschile. Augusto pensò ai figli che Giulia – sua figlia con
la moglie Scribonia – aveva avuto da Agrippa (uno dei tre mariti di costei): però due morirono giovani e uno fu esiliato.
Rimase Tiberio, figlio di primo letto di Livia Drusilla (terza moglie di Augusto) e Tiberio Nerone, nonché marito di Giulia.
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• Vario Rufo (74 a.C. - 14 a.C.), lodato da Virgilio nelle Bucoliche, fu lui a introdurre Orazio nel circolo di Mecenate. Fu
scelto da Augusto per pubblicare il testo dell’Eneide dopo la scomparsa di Virgilio: è chiaramente un protagonista
dell’ambiente letterario ottavianeo-augusteo. Compose una tragedia, Thyestes, che fu rappresentata nel 29 a.C.
La sua fede epicurea sembrerebbe aver influenzato la prima produzione di Virgilio e tutta l’opera di Orazio; e
un’atmosfera epicurea contorna anche la vita privata di Mecenate.
Di lui abbiamo pochi frammenti del De Morte, che sembrano aver ispirato in molti punti l’opera di Virgilio (sono infatti
presenti in antichi commenti all’opera di Virgilio). Più tardi compose un Panegirico del principe.
• Gaio Cilnio Mecenate (Arezzo 68 a.C. - 15 a.C.) è il vero centro di attrazione di tutta la generazione poetica augustea.
Mecenate è insieme un aristocratico e un borghese: nacque infatti da una nobilissima famiglia etrusca ma, da
cittadino romano, non volle mai andare oltre lo stato di cavaliere, eques, e non occupò mai delle vere e proprie
cariche ufficiali. Tutto questo finì per alimentare un vero e proprio mito della sua persona, che ritroviamo riflesso nella
poesia di Orazio, Virgilio e Properzio.
Negli anni infuocati delle guerre civili, Mecenate era stato un importantissimo consigliere diplomatico e politico di
Ottaviano e, dopo il trionfo del partito ottavianeo, continuò ostentatamente a non integrarsi nel tradizionale
sistema politico romano su cui si fondava il programma politico di Augusto.
Mecenate, uomo potente ma che rifiuta le cariche ufficiali e tradizionali, è una sorta di simbolo vivente dei tempi
nuovi.
Il suo circolo è fondato su stretti legami privati e individuali e promuove una letteratura “nazionale”, non di
massa e dal forte impegno ideale: Mecenate non chiede mai ai giovani letterati di talento nessuna
partecipazione diretta alle fortune del partito di Ottaviano, ma la sua influenza è evidente in una nuova
generazione di opere poetiche (Epodi e Georgiche, in particolare).
A livello personale coltivava una poesia nugatoria, intimista e ironica.
• Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto (Roma 63 a.C. - Nola 14 d.C.) adorava gli esperimenti poetici, spesso
scherzosi e ironici (parla di una sua tragedia, Aiace, in cui il protagonista si suicidava con una spugna per cancellare
invece che con la spada). Ebbe una certa circolazione una sua autobiografia, incompiuta, che forse fu utilizzata dagli
storici di età imperiale.
Di cultura media, Augusto non scrive con particolari compiacimenti. Importanti sono le sue Res gestae divi Augusti,
un’opera di propaganda ideologica e politica di grande interesse storico e ideologico, conclusa poco prima della
morte (14 d.C.). È un testo che ci è noto per via epigrafica in quanto spesso riprodotto in pubbliche iscrizioni. In uno
stile asciutto ed efficace, apparentemente semplice ma ben calcolato nei toni, Augusto dichiara di aver liberato la
repubblica romana dalle minacce degli assassini di Cesari e della regina egiziana. Le guerre civili sono
schematicamente riassunte in una “liberazione” dell’Italia dai tiranni e dalle minacce esterne. Augusto pone
particolare cura a spiegare che la fonte delle sue cariche è la volontà del Senato e del popolo, ed enumera molto
diffusamente tutti i benefici e i doni distribuiti a Roma e ai cittadini. Esemplare la densità e la capacità persuasiva.
• Gaio Asinio Pollone (Teate 76 a.C. - Tusculum 5 d.C.), soldato di parte antoniana ma ritiratosi prima del disastro di
Azio, raccolse attorno a sé un gruppo di letterati, fondò la prima biblioteca pubblica di Roma (nell’atrio del Tempio
della Libertà), e incoraggiò la pratica delle recitationes, le letture pubbliche servivano a divulgare in anteprima i nuovi
testi.
• Marco Valerio Messalla Corvino (64 a.C. - 8 d.C.), anche lui soldato prima di Bruto e poi di Antonio, seppe scegliere
un aggancio con Ottaviano al momento giusto. Lo troviamo, infatti, come uomo pubblico per tutta l’età augustea,
anche se non sembra legato alla cerchia intima del principe. Della sua cerchia fa parte Tibullo, di cui fu patrono.
Compose un genere di poesia appartata. Uno dei suoi protetti gli dedicò un Panegirico.
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Per ricompensare i veterani della battaglia di Filippi, negli anni 42-41 le campagne del Mantovano videro numerose
confische di terreni: si tratta di un periodo di gravi disordini, all’interno del cui clima Virgilio è spinto a comporre le
Bucoliche (42-39).
Una notizia incerta ci informa che avesse perso - proprio in occasione di queste confische - il podere di famiglia e
che poi lo avesse riacquistato, forse grazie ad Ottaviano o ad alcuni personaggi coinvolti nell’amministrazione del
territorio transpadano (Pollione, Gallo, Varo).
Attorno al 39 a.C. Virgilio entra nel circolo di Mecenate e, quindi, anche di Ottaviano. Nei lunghi anni di incertezza e
di lotta politica che vanno sino alla battaglia di Azio, Virgilio lavora alle Georgiche, in piena sintonia con l’ambiente di
Mecenate. Non sembra che amasse Roma: la chiusa dell’opera parla di Napoli come amato luogo di ritiro e di
impegno letterario.
Nel 29 Ottaviano, tornato vincitore dall’Oriente, si ferma ad Atella, in Campania, per farsi leggere da Virgilio le
Georgiche. Da qui in avanti Virgilio compone l’Eneide, alla cui composizione sembra che Augusto avesse una
partecipazione attiva. L’opera fu pubblicata postuma: Virgilio muore a Brindisi nel 49 a.C., di ritorno da un viaggio in
Grecia, e viene sepolto a Napoli.
Della sua vita abbiamo informazioni dalle numerose Vitae tardoantiche e medievali che si rifanno all’opera biografica di
Svetonio. La più famosa di queste Vitae è quella di Elio Donato. Di particolare importanza è il commentario di Servio
(IV-V d.C.), che contiene informazioni storiche di valore oscillante.
Produzione Letteraria
Bucolica o Eclogae (42-39)
Sono 10 brevi componimenti in esametri per un totale di 829 versi.
Il titolo sottintende carmina e significa “Canti dei Bovari”, mentre al singolare - per una tradizione dei grammatici
latini - si usa il termine ecloga, cioé “poemetto scelto”.
Dal titolo ricaviamo il tratto fondamentale di questo genere letterario, che rievoca uno sfondo rustico in cui i pastori
stessi sono messi in scena come attori e creatori di poesia, sul modello degli Idilli di Teocrito.
L’opera presenta un forte livello di complessità architettonica e di unitarietà. I criteri di ordinamento sono molto
discussi mentre la scelta di dieci componimenti potrebbe risalire a una raccolta di dieci Idilli teocritei usata da
Virgilio.
La poesia degli Idilli di Teocrito ricostruisce - in maniera nostalgica ma dotta - il mondo pastorale tradizionale, i cui
protagonisti sono i pastori e il paesaggio (locus amoenus) - ricco ma statico - su cui si muovono. La trattazione dei
tempi, anche profondi, avviene sempre in maniera semplice ed estraniata. Particolare è il gusto descrittivo e
realistico.
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Virgilio rilegge in Teocrito quel mondo rurale in cui era nato ed è affascinato dalla possibilità offerta dalla figura del
pastore-poeta di approfondire per rispecchiamento la vocazione letteraria dell’autore.
Il poeta mantovano non si limita ad imitare il modello ma ne vuole imparare i codici per trasferirsi nel suo mondo
(é come se si comportasse come quando si impara una lingua straniera): non c’è nessuna ecloga che sta in rapporto
1:1 con un idillio. Piuttosto è tutta l’opera di Virgilio a stare alla pari con il modello.
Ancora vicina al gusto neoterico per dottrina, stilizzazione e culto della poesia, le Bucoliche sono la prima opera
della letteratura augustea: già ne interpretano l’esigenza di fondo, cioé “rifare” i testi greci trattandoli come dei
classici.
Temi e ambientazioni in Teocrito erano, secondo il principio della poikilìa alessandrina, molto vari: c’erano
incursioni di “campagnoli” nel mondo delle città, poesie celebrative legate ad occasioni storiche, scenette pastorali,
ambientazioni siciliane, greche o magnogreche. Questa polifonia tematica non compare davvero nelle Bucoliche,
che sono più monocordi e molto più concentrate sullo stilizzato mondo dei pastori. Vengono inoltre accentuati gli
elementi di stilizzazione e di idealizzazione: i toni dei paesaggi sono meno intensi, e gli stessi pastori sono per lo
più figure delicate, quasi tenere.
I Dialogo fra due Melibeo è costretto a partire, ad abbandonare i campi che le confische gli hanno Contrasto di
pastori sottratto. Titiro, invece, può restare, grazie anche all’aiuto di un giovane dalla destini
natura divina. Il primo vagherà lontano mentre l’altro vivrà tranquillamente.
III Tenzone poetica È svolta in canti alternati, detti amebei, cioé a botta e risposta. I protagonisti sono Vita Pastorale,
fra due pastori Dameta e Menaica. Deliziosa è l'immagine fuggente di Galatea, innamorata di uno Amore e
dei due. Poesia
Viene lodato Asinio Pollione come letterato e si criticano alcuni poetrasti.
IV Canto profetico Forse dedicata ad Asinio Pollione, si annuncia l'avvento di un nuovo ciclo Avvento di una
cosmico, che riporterà nel mondo la mitica età dell'oro. L'inizio dell'era coinciderà nuova età
con la nascita di un puer prodigioso, che durante la sua vita realizzerà una dell’oro
rinnovata età di pace, fertilità e felicità.
V Lamento Il pastore Menalca invita Mopso a una gara di canto. Mopso eleva un disperato Lamento per
(Monologo) lamento per la triste morte di Dafni; Menalca celebra l'apoteosi di Dafni, forse una morte
Cesare, assunto in cielo con gli altri dei, la gioia delle campagne e l'istituzione di dovuta
cerimonie per la nuova divinità. all’amore
VI Narrazione Il vecchio Sileno, catturato da due giovani, canta l’origine del mondo e un Poetica,
semplice catalogo di miti, in cui campeggia la consacrazione poetica di Cornelio Gallo. cosmologia,
L’ecloga è preceduta da una dichiarazione di poetica che serve - secondo l’uso fisica e amore
alessandrino - a introdurre la seconda metà del libro.
È importante sul piano della poetica in quanto Virgilio si giustifica con Alfeno
Varo per aver preferito la poesia pastorale a quella epica, dimostrando di
preferire quest’ultima ma di ritenersi orgoglioso di essere il primo latino ad aver
introdotto il genere bucolico, tuttavia più basso.
Ci si rifà quindi alla posizione di Ottaviano, che predilige l’epica e i generi alti per
veicolare le proprie politiche etiche in aperta contrapposizione con i neoterici.
VII Gara di canto Melibeo narra una gara poetica tra i pastori Tirsi e Coridone, che ottiene la Amore (?)
vittoria. Degna di nota è la descrizione del paesaggio agreste mantovano.
VIII Gara di canto Dedicata ad Asinio Pollone narra dei pastori Damone e Alfesibeo, che gareggiano Amore Infelice
nel canto: il primo si lamenta per l'infedeltà della bella Nisa e dichiara di voler
morire (emerge una concezione dolorosa e funesta dell’amore), il secondo narra le
pratiche magiche di una donna per riconquistare il suo amante, Dafni.
IX Dialogo tra due Il vecchio Meri, mentre conduce dei capretti al suo nuovo padrone, un ex soldato, Realtà Storica
pastori-poeti narra a Licida come Menalca, che soleva cantare beatamente, sia stato cacciato
dalle proprie terre a causa delle espropriazioni seguite alle guerre civili.
X Consolatio I pastori, il dio Pan e tutta la natura elevano per alleviare il dolore di Gallo, Sofferenze
abbandonato dalla sua Licoride, che l’ha tradito per un soldato. d’Amore
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L’esperienza personale auto-biografica di Virgilio la troviamo nel dramma dei pastori esuli (ecl. I e IX), che si
rifanno direttamente alle confische di terre a favore dei veterani prima a Cremona e poi a Mantova (IX, 28: Mantova,
ahimè, troppo vicina alla sventurata Cremona).
Benché dubbia sia l’identificazione di Titiro (ecl. I) con Virgilio (la ricostruzione storica è ampiamente arbitraria!), sicura
è la presenza implicita di Ottaviano nell’ecl. I é sicura, così come anche i riferimenti storici dell’ecl. IV.
Le ecloghe I, IV e IX affrontano quindi tematiche legate all’epoca delle guerre civili.
Nell’ecl. IV si ha l’immagine di un puer in grado di riportare con il suo avvento una nuova età dell’ora sul mondo in
crisi: le identificazioni sono state molteplici - quelle medievali lo identificano in Gesù - benché tutte si inseriscano
nelle aspettative di rigenerazione tipiche dell’età di crisi tra Filippi e Azio (anche epodo 16 di Orazio).
L’ecloga è databile al 40 a.C., cioé al consolato di Asinio Pollione, e si pensa che il bambino fosse atteso proprio per
quell’anno ma che non fosse nato mai. In effetti fu proprio nel 40 che Antonio, in un matrimonio con la chiara funzione
di patto di potere prendeva in moglie la sorella di Ottaviano. Tuttavia il foedus durò poco e non vi furono figli maschi.
A Cornelio Gallo sono dedicate le ecloghe VI e X. La VI, che al suo centro l’omaggio al poeta, è forse quella più vicina
alla poetica alessandrina per le sue scene mitologiche e una forte simbologia poetica. Nella X Gallo ritorna come
poeta d’amore sullo sfondo dell’Arcadia secondo il principio per cui la poesia sia in grado di medicare le pene
d’amore avvicinando l’uomo alla natura.
Gallo è quindi rappresentato come l’incarnazione di un’altra poesia, l’elegia d’amore, che è anche (come avverrà per
Tibullo e Properzio) una scelta di vita. Il poeta elegiaco, provato da un amore infelice che è la sua scelta di vita, cerca
rifugio nella poesia bucolica dell’amico.
La gestazione dell’opera copre un arco di quasi dieci anni e l’input alla scrittura importante potrebbe essere stata a
lettura dell’opera di Varrone sull’agricoltura. Le Georgiche si distinguono per un accanito lavoro di rifinitura e per
un’influenza di molteplici letture: la poesia greca (Omero, i tragici, gli alessandrini), quella romana (Lucrezio,
Catullo), le fonti tecniche in prosa e i trattati filosofici.
Il lungo processo compositivo è denunciato dalla scalatura delle allusioni storiche: il Libro I evoca un’Italia in
preda alle guerre civili, in cui l’ascesa di Ottaviano è solo una speranza insediata da molti pericoli (ha quindi senso
collocarla al 36 a.C., quando il potere di Ottaviano ancora non si era ben assestato). In molti altri luoghi il poema,
invece, mostra già il principe trionfatore dell’universo pacificato. Non si tratta di discrepanze o imprecisioni: Virgilio
vuole inglobare nel poema, non solo la vittoria del nuovo ordine, ma anche le lacerazioni che lo hanno preparato.
È noto il problema del doppio finale: Servio sostiene che Virgilio avrebbe rimaneggiato il finale del poema, in cui
tesseva le lodi di Cornelio Gallo, sostituendovi la storia del pastore Aristeo. Causa della doppia redazione
sarebbe stata il suicidio di Gallo nel 26 perché caduto in disgrazia presso Augusto.
Se però l’opera cominciò a circolare già nel 29 è strano che i versi espunti siano scomparsi del tutto: inoltre, visto che
il brano di Aristeo occupa oltre 200 versi, se il brano soppresso era di lunghezza equivalente (e lo sarebbe dovuto
essere per il delicato equilibrio strutturale dell’opera), che cos’altro poteva contenere oltre alle lodi?
Ciò che, invece, è sicuro è che la digressione narrativa della fabula Aristaei non ha niente di posticcio o
improvvisato. Si tratta di un grande esempio di poesia che si collega perfettamente alla trama dell’opera e alla
strutturazione didascalica del contesto: Aristeo è un eroe che “impara”, la sua paziente lotta contro la natura è
sostenuta da tenace obbedienza ai precetti divini. È il prototipo mitico del modello di vita che Virgilio, con le
Georgiche, vorrebbe insegnare ai propri contemporanei.
La tematica dell’opera è di carattere agreste e ogni libro è dedicato ad un particolare aspetto del lavoro agricolo,
che presuppongono un lavoro di selezione preciso se confrontato con il contenuto del De re rustica di Varrone.
La disposizione contenutistica mostra una curva secondo cui l’apporto della fatica umana diviene sempre meno
accentuato e la natura diventa sempre più protagonista. Allo sforzo incessante dell’aratore, risponde la terribile
operosità delle api, animali che - per le loro caratteristiche - si fanno quasi sostituti dell’impegno umano.
I libri, disposti in ordine simmetrico, presentano un’autonomia tematica e sono tutti dotati di un proemio e di
sezioni digressive. La cura rigorosa della struttura formale è un’evidente lezione di Lucrezio: Virgilio, da una parte,
si stacca dal modello perché tende a indebolire le costrizioni logiche del pensiero, i forti nessi argomentativi e i
collegamenti tra un tema e l’altro; dall’altra ne accentua l’architettura formale in una maggiore simmetria e regolarità.
Nasce quindi una nuova struttura poetica: il discorso fluisce naturale e, talora, capriccioso, nascondendo i
passaggi logici, muovendosi per associazioni di idee e contrapposizioni. Nello stesso tempo, il suo dinamismo
trova equilibrio in una studiatissima architettura d’insieme, nelle ricercate simmetrie tra libro e libro.
Allevamento del Bestiame (III) Lungo Peste degli animali nel Nòrico (morte)
Si nota quindi che il Libro I e III possono essere accoppiati sia per la lunghezza, esorbitante rispetto
all’argomento, sia per la tematica della digressione: si tratta di uno specchio tra le gli orrori della storia (guerre
civili) e i disastri della natura (peste degli animali).
Le altre digressioni (Libri II, IV) hanno invece un effetto rasserenante: l’elogia della vita campestre si oppone alla
minaccia della guerra, la rinascita delle api replica allo sterminio della pestilenza. Si legge quindi una grande polarità
tra i temi di morte e i temi di vita volta a suscitare una riflessione nel lettore.
Contrasti e incertezze caratterizzano, così, le Georgiche, in cui la struttura formale splendidamente equilibrata è come
contaminata dall’irrompere di inquietudini e conflitti:
• la fatica dell’uomo è inviata dalla provvidenza divina per una sorta di necessità cosmica, ma l’ideale del
contadino si richiama al mito dell’età dell’oro, quando cioé il lavoro non era necessario perché la Natura
rispondeva da sola ai bisogni;
• la vita semplice e laboriosa del contadino italico ha portato alla grandezza di Roma, ma Roma è anche città di
degenerazione e conflitti;
Aristeo ha seguito i consigli divini per rigenerare il suo sciame, ma il suo gesto poco avveduto ha provocato l’infelicità
del disobbediente poeta Orfeo.
Aristeo - che nella mitologia greca è un eroe civilizzatore e scopritore di teniche - ha perso le sue api a causa di
un’epidemi. Con l’aiuto della madre, la ninfa Cirene, l’eroe contadino scopre l’origine del morbo: senza volerlo ha
causato la morte di Euridice, la sposa del cantore Orfeo.
Proteo, il marino dai poteri profetici, racconta ora ad Aristeo la triste storia del poeta: sceso all’Ade, aveva saputo
riportare in vita la moglie grazie alla forza del suo canto; poi, per un fatale errore, l’aveva di nuovo, e per sempre,
perduta. Segue la sconsolata morte del poeta Orfeo.
Da questo racconto Aristeo trae un insegnamento prezioso e con un sacrificio di buoi placa la maledizione: dalle
vittime del sacrificio miracolosamente si svilupperà la vita delle nuove api.
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Virgilio collega così due miti abbastanza diversi tra loro, rispettandoli entrambi e disponendoli in una struttura a
cornice.La tecnica è quella, alessandrina prima e neoterica poi, del racconto ad incastro in cui ovviamente non è
solo importante il collegamento meccanico ma anche il richiamo contenutistico.
Ed è in quest’ultimo punto che Virgilio dispiega grande virtuosismo: i due racconti sono collegati da sottili
parallelismi narrativi. Aristeo e Orfeo affrontano entrambi delle peripezie:
il primo è calato entro un fiume sino alla favolosa origine delle acque, il secondo scende nell’Ade;
entrambi - per vie diverse - si trovano a lottare con la morte.
Paralleli nello sviluppo, i due racconti sono però opposti nelle conclusioni: fallisce l’impresa di Ofeo, che non
rispetta la prescrizione divina, mentre ha successo quella di Aristeo, che invece si distingue per una scrupolosa
obbedienza.
In questa narrazione Virgilio inserisce, sotto specie non più didattica ma narrativa, alcuni temi fondamentali del
poema:
Orfeo fonde insieme le grandi possibilità dell’uomo, che con il suo canto arriva persino a dominare la natura, e il
suo scacco, l’impossibilità a vincere la legge naturale della morte;
Aristeo affronta invece una paziente lotta contro la natura che è sostenuta da una tenace obbedienza ai precetti
divini e conduce fino alla rigenerazione delle api.
Senza offrire una soluzione precettistica, Virgilio lascia che il suo racconto sia attraversato dal contrasto fra due
differenti modelli di vita.
In Lucrezio ricerca formale e gusto letterario sono sicuramente due aspetti importantissimi ma obiettivo della sua
opera è il veicolare contenuti che avrebbero potuto spingere i lettori ad una riflessione sulla vita, sulla libertà,
sulla saggezza. Si tratta di messaggi di salvazione attraverso il sapere.
La bellezza della forma è solo il miele che possa rendere più “dolce” la trasmissione del sapere.
Elementi che ricollegano Virgilio a Lucrezio e, più in generale, agli alessandrini, sono il gusto delle cose tenui, lo
sforzo per trasformare in poesia dettagli fisici e realtà minute, in apparenza refrattarie alla dizione poetica.
È inoltre chiaro il suo programma poetico In tenui labor (“é esile il tema della mia fatica” IV, v. 6) in cui si può leggere
il labor limae (travaglio formale), il tenue/leptòn (la poesia sottile che rifugge dai temi elevati ma ricerca la massima
perfezione formale).
Molti bravi rivelano emulazione diretta di poeti quali Arato, Eratostene, Nicandro e Varrone Atacino; oltre a fonti
tecniche in prosa quali Varrone Reatino soprattutto nei punti in cui il discorso si fa più pratico.
La figura dell’agricola si ricollega, inoltre, a quella del sapiens lucreziano: entrambi conducono una vita alla
ricerca di un’autosufficienza materiale e spirituale. Quest’autarchia risponde ovviamente all’incombere della crisi
sociale e culturale della repubblica romana.
Netta differenza rispetto a Lucrezio è però la trattazione della religione, che nelle Georgiche è largamente
tradizionale.
Il poema può quindi essere considerato come il primo vero documento della letteratura latina nell’età del
principato. Augusto e, accanto a lui, il suo consigliere, Mecenate, possono essere considerati illustri dedicatari e
veri e propri ispiratori.
Queste figure, però, hanno un po’ il ruolo che in Lucrezio ha Epicuro: il ruolo di destinatario della comunicazione
didattica è infatti affidato alla figura collettiva dell’agricola, dietro cui si cela il pubblico che conosce la vita delle città e
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le sue crisi. Rivolto di facciata ai problemi della vita urbana, le Georgiche finiscono per affrontare di scorcio anche i
problemi della vita urbana e i più generali problemi del vivere.
È abbastanza difficile credere che le Georgiche siano ispirate da un “programma augusteo” di risanamento del
mondo agricolo: l’eroe del poema è il piccolo proprietario agricolo e pochissimi sono gli accenni alle trasformazioni in
corso (estensione del latifondo, spopolamento delle campagne, assegnazione di terre ai veterani…). Più notevole è la
mancanza di qualsiasi accenno al lavoro schiavile. L’ideale del colonus, che si incarna, ad esempio, nella figura del
vecchio giardiniere Corycius, ha un puro significato morale.
Sono invece svariati i punti di contatto tra Virgilio e la propaganda ideologica augustea. L’esaltazione delle
tradizioni dell’Italia contadina e guerriera, sentita come mondo unitario, delle qualità morali degli abitanti, della
fecondità e della salubrità del clima, della perfezione ambientale italica per la vita umana.
Aenèis
Si tratta di un poema epico di argomento storico diviso in dodici libri in esametri per un totale di poco meno di
10000 esametri. Pubblicato incompleto postumo, presenta alcune incongruenze, ripetizioni e versi incompleti (58),
che Virgilio stesso chiamava tibicines cioé “puntelli” per sostenere un edificio in costruzione.
L’opera, dedicata alle imprese di Augusto, dimostra di non voler continuare l’epica enniana ma di sostituirla
grazie ad un confronto diretto con l’epica omerica.
L’Eneide svolge la leggenda di Enea dall’ultimo giorno di Troia sino alla vittoria dell’eroe nel Lazio e alla fusione di
Troiani e Latini in un unico popolo.
Virgilio opta quindi per una partizione strutturale particolare: sei libri dalle tematiche vicine all’Odissea, sei dalle
tematiche vicine all’Iliade.
In questa scelta è evidente l’inversione delle due fabulae omerica che vengono ripresentate in sequenza
rovesciata. La motivazione sta nel fatto che il viaggio di Enea non è un ritorno a casa come quello di Odisseo ma è
un viaggio verso l’ignoto. Parimenti, la guerra di Enea non serve a distruggere una città, ma a costruire una città
nuova. È la prima complessa trasformazione di modelli omerici che si ha nella poesia antica.
L’Eneide non è solo una particolare contaminazione dei due poemi omerici, ma è anche una continuazione di
Omero stesso. Le imprese di Enea, infatti, fanno seguito all’Iliade (il Libro II racconta l’ultima notte di Troia, che
nell’Iliade veniva solo profeticamente intravista) e si riallacciano all’Odissea (il Libro III vede Enea seguire in parte la
traccia delle avventure di Odisseo).
Virgilio riprende l’esperienza dell’epos ciclico, cioé di tutte quelle narrazioni epiche che “integravano” la poesia di
Omero in una sorta di continuum.
L’opera é anche una ripetizione di Omero in quanto molti passi risultano paralleli (guerra di Troia = guerra nel Lazio),
un rispecchiamento, però, non passivo (i Troiani nel Lazio sono prima assediati ma poi vincitori).
È chiaro quindi un superamento di Omero, anche nella stessa concezione della guerra, che sembra non portare più
alla distruzione inevitabile, ma alla costruzione di una nuova unità.
Il personaggio di Enea riassume in sé sia un Achille vincitore, sia un Odisseo che, dopo tante prove, conquista la
patria restaurando la pace.
Innumerevoli le tecniche narrative di matrice omerica che permettono a Virgilio di guardare da lontano, tramite
scorci profetici, la Roma Augustea: la discesa nell’Ade, gli elogi degli dei, la descrizione degli scudi.
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Sebbene Enea non sia mai stato effettivamente né il fondatore di Roma né il titolare di un particolare culto nella Roma
arcaica, la sua figura acquisì crescente fortuna tra il II e il I secolo a.C., grazie a motivazioni politiche. Con il
progetto egemone nel Mediterraneo greco, Roma sentiva infatti la necessità di rivendicare una sorta di autonoma
parità con i Greci e la personificava in uno dei Troiani, antagonisti mitici dei Greci che nei Romani avrebbero trovato la
propria rivincita. Un’altra motivazione è il fatto che la gens Iulia, nobile casata romana, rivendicasse le sue illustri
origini attraverso la figura di Ascanio-Iulo, figlio di Enea.
Virgilio, comunque, rielabora i dati storici tradizionali, insistendo su come ogni popolo (Troiani, Latini, Etruschi e,
persino Greci) abbia dato un contributo positivo alla genesi di Roma.
L’Eneide ha quindi un denso significato storico e politico, ma non si tratta di un poema storico: il taglio dei
contenuti è infatti dettato da una selezione “drammaturgica del materiale”, che ricorda più Omero che Ennio.
Inoltre, nonostante le aspettative create dal titolo, di Enea Virgilio non traccia nemmeno una biografia completa né ce
ne assaporare il trionfo.
METÀ ODISSIACA
I Giunone, non potendo dimenticare il suo odio per quello che resta del popolo troiano, decima con una tempesta le navi di
Enea, costringendolo ad approdare a Cartagine. Favorito da Venere, Enea trova ospitalità presso la regina Didone, che gli
chiede di narrarle la fine di Troia.
II Enea racconta di come, nella distruzione di Troia, abbia trovato la forza di fuggire con il vecchio padre, il figlioletto e i Penati,
simbolo della continuità di una stirpe. Gli viene, però, strappata la moglie Creùsa.
III Enea racconta di come i Troiani, partiti dalla Troade, si rendano conto che li aspetta una nuova patria in Occidente. Il
racconto si chiude con la morte del padre Anchise.
IV La tragica storia dell’amore di Didone che, abbandonata da Enea che deve partire per seguire il fato, si uccide,
maledicendolo e profettizando odio tra Cartagine e i discendenti di Troia.
V I Troiani fanno tappa in Sicilia dove si tengono i giochi funebri in onore di Anchise.
VI A Cuma, in Campania, Enea viene spinto a consultare la Sibilla e a guadagnarsi l’accesso al mondo dei morti, dove incontra
Deìfobo caduto a Troia, Didone, Palinuro e il padre Anchise. Anchise profetizza sul futuro. Il mondo dei morti cela in sé
anche gli eroi del futuro, i condottieri che faranno la storia di Roma.
META ILIADICA
VII Enea sbarca alla foce del Tevere e riconosce da segni prestabiliti la terra promessa: instaura allora un patto con il re Latino.
Giunone lancia contro questo patto il demone della discordia Aletto. Invasati da Aletto, Amata, la moglie di Latino, e il
principe rutulo Turno, promesso sposo alla figlia di Latino, Lavinia, fomentano la guerra. Al primo incidente, si rompe il patto
con Enea e il matrimonio dinastico tra Lavinia ed Enea va in fumo. Una potente coalizione di popoli italici marcia sul campo
troiano e Lavinio, una nuova Elena, è al centro della discordia.
VIII In grave difficoltà, Enea per consiglio divino risale il Tevere con un piccolo distaccamente. Qui - proprio nel luogo dove
sorgerà Roma - trova l’appoggio di Evandro, il re di una piccola nazione di Arcadi. Insieme al figlio di Evandro, Pallante,
Enea trova poi un potente alleato: la coalizione etrusca sollevata contro Mezenzio, crudele tiranno di Cere ora messo al
bando, e alleato di Turno. L’aiuto divino a Enea si completa nel dono dell’armatura vulcania, il cui scudo è istoriato con il
futuro di Roma.
IX Il campo troiano, assente Enea, si trova in una situazione critica: Turno e i suoi alleati ottengono parziali successi. Il
coraggioso sacrificio dei giovani troiani Eurialo e Niso in spedizione notturna non dà esito.
X Enea, con gli alleati, irrompe sulla scena e sposta la bilancia della guerra: Turno, in singolar tenzone, uccide Pallante, alleato
di Enea e suo protetto, e lo spoglia del balteo, che indossa come ricordo della superba vittoria. In risposta Enea uccide
Mezenzio, il fortissimo alleato di Turno.
XI Dopo la prima vittoria, Enea piange Pallante. Le sue offerte di pace non hanno successo e Turno tenta ancora la sorte delle
armi. In una grande battaglia equestre cade anche Camilla, l’eroica vergine guerriera latina.
XII Provato dagli insuccessi, Turno deve accettare un duello decisivo con Enea. La ninfa Giuturna, spinta da Giunone, fa cadere
anche questo patto. La battaglia riprende; quando ormai è certa la vittoria dei Troiani, GIunone si riconcilia con Giove e
ottiene che nel nuovo popolo non resti più traccia del nome troiano. Enea sconfigge Turno in duello, esita se risparmiargli la
vita ma, scorgendo su di lui il balteo del giovane Pallante, in uno slancio di indignazione lo uccide.
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Anche i personaggi antagonisti, e di conseguenza i simboli di cui sono portatori vengono messi in primo piano:
la storia di Didone spiega le guerre Puniche come nate da un eccessivo e tragico amore fra simili, mentre la storia ci
tramanda uno scontro tra “diversi”. Così, la guerra con Turno non è vista come un sacrificio necessario ma come un
tragico errore voluto da potenze demoniache: una guerra fratricida.
In questo senso, Virgilio vuole che i suoi lettori non solo apprezzino la necessità fatale della vittoria, ma
ricordino anche le ragioni degli sconfitti. Si tratta di guardare il mondo da una prospettiva superiore, quella di
Giove o del narratore onnisciente, per partecipare alle sofferenze degli individui.
Si tratta quindi di accettare sia l’oggettiva epica, che contempla dall’alto il grande ciclo provvidenziale della storia,
che la soggettività tragica, conflitto di ragioni individuali e di verità relative (ripresa dei tragici greci).
La ricerca neoterica aveva imposto dure restrizioni nell’uso delle cesure, nell’alternanza di dattili e spondei, nel
rapporto fra sintassi e metro. Questa disciplina, influenzata dalle scelte formali degli alessandrini, comportava spesso
degli effetti monotonia e di irrigidimento, accentuati proporzionalmente alla lunghezza del testo.
Virgilio plasma, invece, il suo esametro come strumento adatto ad un narrazione lunga e continua, articolata e
variata. Grazie anche all’uso di poche cesure principali, in configurazioni privilegiate, si ha una regolarità di fondo
che è indispensabile per lo stile epico. Nello stesso tempo, la combinazione di cesure principali e cesure accessorie
permette una notevole varietà di sequenze, garantendo alla frase una vera e propria libertà rispetto al metro.
L’esametro riesce ad adattarsi ad un’estrema varietà di situazioni espressive: ampie e pacate descrizioni, battute
concitate e patetiche. Il ritmo è scandito dalla diversa proporzione di dattili e spondei.
Virgilio utilizza in maniera regolata e motivata anche l’allitterazione, che nella poesia latina arcaica era il procedimento
formale tipico: essa sottolinea i momenti patetici, collega fra loro parole-chiave, produce effetti di fonosimbolismo e
richiama fra loro diversi momenti della narrazione.
Il genere epico richiede di per sé un linguaggio elevato, ricco di arcaismi e poetismi, che si colloca in un
manierismo tutto virgiliano, la cacozelìa, un manierismo sfuggente, né gonfio, né sottile, ma fatto di parole normali.
Per parole normali si intendono i vocabili non marcatamente poetici, ma impiegati nella prosa e nella lingua d’uso
quotidiana colta: la novità virgiliana risiede nei collegamenti inediti di queste parole (recentem caede locum, tela
exit, frontem rugis arat), che spesso rischiavano di forzare senso e sintassi (rumpit vocem, eripe fugam).
La narrazione appare piena, cioé graduale e senza vuoti intermedi. Azioni ricorrenti e ripetute si prestano ovviamente
a riptezioni naturali, come gli epiteti. Grande è l’uso di procedumenti formulari di matrice omerica.
Novità dell’epiteto virgiliano è il fatto che riesce a coinvolgere il lettore nella situazione e, spesso, anche nella
psicologia dei personaggi che sono in scena, garantendo maggiore esplicitazione.
Lo stile di Virgilio è anche uno stile soggettivo in quanto viene data maggiore iniziativa al lettore, ai personaggi e al
narratore. Il controllo di questa soggettività, inevitabile nella struttura epica, è garantito dalla funzione oggettivante
dell’intervento del poeta, che lascia emergere nel testo sì i singoli punti di vista soggetti, ma si incarica sempre di
ricomporli in un progetto unitario.
Appendix Vergiliana
Si tratta di una serie di testi poetici ritenuti in gran parte spuri: solo un paio di brevi componimenti della raccolta
Calepton hanno buona probabilità di essere autentici e relativi alla produzione giovanile.
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XXIV. QUINTO ORAZIO FLACCO (65 a.C. Venosa, al confine tra Apulia e Lucania - 8 a.C.)
Vita
Orazio proviene da una famiglia modesta, proprietaria di una piccola terra, ma compie sin da bambino ottimi studi
prima a Venosa e poi dal grammatico Orbilio a Roma.
A Roma Orazio svolge la professione di esattore nelle vendite all’asta.
Attorno ai vent’anni, Orazio si reca in Grecia per perfezionare i suoi studi. Approfondì ad Atene le sue conoscenze
filosofiche, ascoltando le lezioni di maestri come Cratippo di Pergamo, filosofo peripatetico, e di Teomnesto,
accademico.
La sua formazione fu traumaticamente interrotta: la Grecia era a quei tempi la base delle operazioni dei cesaricidi.
Orazio, attratto dagli ideali della libertas, si arruolò nell’armata repubblicana di Bruto, ricevendo il comando di una
legione con il titolo di tribuno militare. La rotta di Filippi del 42 a.C. interruppe la sua carriera militare.
Nel 41 a.C., grazie ad una amnistia, Orazio torna a Roma, ma, poiché il fondo di Verona era stato confiscato dai
triumviri, dovette impiegarsi come scriba questorius per guadagnarsi da vivere. A questo periodo risale probabilmente
anche l’inizio della sua carriera poetica.
Attorno alla metà del 38 a.C. Virgilio e Vario avrebbero presentato Orazio a Mecenate. Nove mesi più tardi
quest’ultimo lo ammise nel proprio circolo e, nel 33, gli donò un podere nella campagna sabina.
Da questo momento la vita di Orazio prosegue solo con la pubblicazione delle sue opere, prima sotto il patrocinio di
Mecenate e poi sotto quello di Augusto. Orazio morì solo due mesi dopo di Mecenate, nel novembre dell’8 a.C.
Ricaviamo informazioni su Lucrezio dalla sue stesse opere e dalla Vita Horati, dedotta dal De viris illustribus di Svetonio.
Produzione Letteraria
Epodi (41- pubbl. 30 a.C.)
Il titolo rimanda alla forma metrica dell’“epodo” (un verso più corto che segue uno più lungo) mentre Orazio li chiama
iambi, facendo riferimento al ritmo che prevale negli Epodi e, insieme, alludendo al recupero di quel tono aggressivo
tipico della poesia giambica greca.
Si tratta di 17 componimenti scritti tra il 41 e il 30 a.C. e pubblicati assieme al Libro II delle Satire.
La raccolta è ordinata secondo il criterio editoriale metrico, tipicamente alessandrino:
• Epodi di invettiva: il 3 contro l’aglio e Mecenate che lo ha imbandito al poeta; il 4 contro uno schiavo arricchito; il
6 contro un ignoto malèdico; il 5 e il 17 contro la strega Canidia, l’8 e il 12 contro una donna vecchia e vogliosa;
• Epodi erotici: 11, 14 e 15;
• Epodi civili: il 7 e il 16 sono deprecazioni della guerra fratricida; il 9 la celebrazione della battaglia di Azio;
• Epodo gnomico: 13, un invito a bere in una giornata d’inverno;
• Epodo idilliaco: 2, elogio della vita rustica sulle labbra ipocrite di un usuraio.
Al di là di questi aspetti auto-biografici dobbiamo considerare che l’aggressività di Orazio è testimonianza di un alto
tasso di letterarietà, esplicitamente dichiarata dal poeta. Orazio trasferisce in poesia latina i metri (numeri) e l’
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ispirazione aggressiva (animi) di Archiloco, ma non i contenuti (res). Gli Epodi non sono traduzioni e attingono a
una realtà romana e personale.
La differenza sostanziale rispetto ad Archiloco sta nella tipologia di persone cui l’aggressività si rivolge: se
Archiloco era un aristocratico che poteva permettersi di dar voce chiara ai propri odi e rancori, Orazio proviene invece
da una famiglia modesta, da un’esperienza politica rischiosa e scriveva in una Roma dominata dai triumviri.
Di conseguenza la sua aggressività è rivolta a bersagli “minori”: personaggi scoloriti, anonimi o addirittura fittizi
(l’usuraio, la fattucchiera, la signora invecchiata…).
In realtà, proprio per la loro res, gli Epodi sembrano “copiare” Archiloco: l’epodo 10, un propemptikòn (“carme
di buon viaggio”) al rovescio, ricalca il cosiddetto “epodo di Strasburgo” di Archiloco. Ed in questo epodo notiamo
che, benché la res sia la stessa, l’aggressività e il carattere personale dell’invettiva suono un po’ a vuoto: non si dice
né chi sia il bersaglio, il “fetido” Mevio, che cosa abbia fatto e perché il poeta ce l’abbia con lui.
Insomma l’animi suona totalmente a vuoto.
Altri epodi propongono invece una res effettivamente romana: è il caso dell’epodo 4, che reagisce ai repentini
rivolgimenti sociali connessi alla “rivoluzione romana” insultando uno schiavo arricchito, o delle inquietudini espresse
negli epodi relativi alle guerre civili (7 e 16).
A livello stilistico gli Epodi si avvicinano molto alla satira e presentano un linguaggio teso e carico, che comunque
indugia sugli aspetti più crudi e ripugnanti della realtà. Accanto all’eccesso troviamo anche la misura.
• Argomento morale
I, 1: sull’incontentabilità umana e l’avarizia;
I, 2: contro l’adulterio;
I, 3: sull’indulgenza nei confronti dei difetti.
• Tono personale
I, 6 e II, 6: il poeta riflette sulla propria condizione sociale e sui rapporti con Mecenate. Nella prima ricorda con
commozione il padre liberto, che malgrado le origini umili non gli fece mancare una buona educazione.
• Argomento gastronomico
II, 2: argomentazioni di un contadino di Venosa, Ofello, contro il lusso della mensa;
II, 4: Cazio espone la sua teoria gastronomica;
II, 8: Fundazio racconta a Orazio una cena in casa del ricco Nasidieno, che ha pretese di gastronomo. Riprende
Lucilio e sarà modello per Petronio.
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Il Modello
Lasciando da parte Ennio, modello per la poesia satirica - e ce lo dicono Quintiliano e Orazio stesso - era Lucilio, che
ne aveva fissato i tratti fondamentali: a lui risaliva l’aver scelto l’esametro come forma metrica e l’averlo utilizzato per
l’aggressione personale e la critica mordace. L’aggressività di Lucilio - sostiene Orazio in Satira I, 4 - viene ripresa
direttamente dai comici greci antichi, cioé Eupoli, Cratino e Aristofane.
Lucilio criticava quindi la società contemporanea, soprattutto il ceto dirigente. Ma i suoi temi sono moltissimi:
polemiche letterarie, discussioni filosofiche, questioni linguistiche o grammatiche, lettere e conversazioni. Importante
era l’elemento autobiografico e il fatto di utilizzare personaggi della propria vita quotidiana, scelta ripresa da Orazio.
Orazio muta quindi da Lucilio aggressività e autobiografismo ma ne critica lo stile, ritenuto sciatto e facilone.
La Morale Oraziana
A livello contenutistico sono da rintracciare alcune differenze rispetto a Lucilio: l’inventor della satira dedicava
attenzione ai temi della riflessione morale riallacciandosi alla diatriba, un genere di letteratura filosofica popolare in cui
l’argomento morale era illustrato da dialoghi e aneddoti: ma nella sua satira non era chiaro il rapporto tra diatriba e
aggressività. Caratteristica della satira di Orazio è proprio il collegamento tra queste due componenti: l’attacco
personale è sempre collegato con un’intenzione di ricerca morale.
Al piacere gratuito dell’aggressione, ancora vivace in Lucilio, Orazio sostituisce l’esigenza di analizzare e indagare i
vizi mediante l’osservazione critica e la rappresentazione comica delle persone.
Questa ricerca morale empirica non si propone il proselitismo ma solo di individuare una strada per pochi,
attraverso le storture di una società in crisi. Questo elemento collega strettamente la satira oraziana al circolo di
Mecenate.
Se in Lucilio l’aggressività era mirata contro personaggi eminente, Orazio si rivolge a un piccolo mondo di irregolari
(artisti, cortigiane, parassiti, imbroglioni, affaristi…). La sua morale è quindi radicata nell’educazione, nel buon
senso tradizionale, ma è costruita con i materiali elaborati dalle filosofiche ellenistiche, che giungono a Orazio anche
attraverso il filtro della diatriba.
Gli obiettivi fondamentali della ricerca oraziana sono l’autarkeia, cioé l’autosufficienza interiore, e la metriòtes, cioé
la moderazione. Questi concetti non erano propri di una filosofia particolare ma erano sostenuti dall’epicureismo, che
sembra esercitare parecchia influenza sulla satira oraziana.
Lo dimostrano la satira I, 2 contro l’adulterio e le sue inutili follie e quelle legate al tema della philia, cioé all’amicizia,
all’affinità intellettuale, alla comunanza di vita.
La ricerca morale non è però tipica solo delle satire dall’impostazione diatribica, cioé che si sviluppano sulla
discussione di un ampio problema morale, ma anche a quelle che rappresentano scenette e situazioni, in cui è la
rappresentazione stessa ad essere la lente attraverso cui il poeta osserva fatti e personaggi.
Stile
La satira appare più vicina alla prosa e si distingue da questa solo per l’uso del metro.
Orazio usa il linguaggio della conversazione, che viene accuratamente elaborato con attenzione per cercare di
simulare un’improvvisazione.
La lingua è semplice, disciplinata, mobile e varia nei toni: ora familiare, ora grave e oratoria, ora solenne e poetica.
Sono molte le ripetizioni, le giustapposizioni di incisi e le costruzioni libere (negligenza prosastica).
È presente l’elemento chiave della diatriba: il dialogo, che coinvolge gli interlocutori, anticipa le obiezioni, introduce
scene drammatiche, esempi del mito o della storia, parodie, aneddoti e giochi di parole.
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Nel 17 a.C. Orazio tornò alla poesia lirica per comporre, su incarico di Augusto, un inno cantato da 27 giovinette e 27
giovinette, per le celebrazioni dei ludi saeculares: si tratta del Carmen saeculare, in metro saffico, un’invocazione agli
dei - in particolare ad Apollo e Diana - perché assicurino prosperità a Roma e al regime augusteo.
I metri sono vari e dominano quelli tipici della lirica greca (strofe alcaica, strofe saffica minore, strofe asclepiadea),
la lunghezza varia dagli 8 agli 80 versi.
All’interno di ogni libro i componimenti sono ordinati in una ordinata struttura architettonica:
- le odi che aprono e chiudono sono dedicate a personaggi di riguardo (Mecenate, Pollione, Augusto) e in
genere trattano di questioni di poetica;
- vengono spesso giustapposti carmi dal contenuto simile;
- in un caso viene costituito un ciclo (3, 1-6), caratterizzato da un proemio (3,1) e un proemio mediano (3,4), e
dedicato interamente ai temi dell’ideologia nazionale;
- variatio metrica (il Libro I presenta i primi 9 componimenti in metri diversi), di tono (alternanza di stile alto e stile
leggero) e di contenuto (alternanza di temi politici e privati).
Le odi oraziane raramente danno voce a libere meditazioni o introspezioni: presentano quasi sempre
un’impostazione dialogica e sono rivolte ad un “tu”, che può essere un personaggio reale, immaginario, una Musa,
un dio, una collettività o un oggetto inanimato (es. la lira).
Ma rispetto ai suoi modelli - da cui ovviamente trae temi e occasioni tradizionali, non mancano mai un’ambientazione
e una sensibilità romane, nonché un linguaggio poetico assai personale.
Curiosa é la cosiddetta tecnica del “motto”: Orazio riprende lo spunto iniziale di un componimento, nella forma di
una citazione che funzione da motto, per poi proseguire in una maniera personale, dimenticando il modello (es.
Ode a Taliarco I, 9).
• Bacchilide: Orazio lo riprende per l’ode mitologica (I, 15) e per lo stile elevato;
• Pindaro: l’imitatio è assai riconoscibile nel Libro IV per la poesia di argomento civile: periodi ampi e
dall'andamento impetuoso, solenne gravità delle sentenze, ammonimenti improvvisi, transizioni audaci. Da
Pindaro derivano idee importante, come la coscienza dell’alta funzione della poesia, la capacità del poeta di
conferire l’immortalità, l’apprezzamento della saggezza etico-politica;
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• Poesia Alessandrina: il richiamarsi alla poesia lirica greca esprime la volontà di Orazio di distinguersi
dall’alessandrinismo e dai neoteroi. Comunque sia, Orazio riprende un vasto repertorio di temi, immagini e
situazioni (paesaggio, galanteria, amore, festività) nonché l’ideologia culturale e politica del mondo ellenistico.
Nella poesia alessandrina Orazio trova la forma letteraria in cui incanalare la vita quotidiana di Roma metropoli
ellenizzata: una mondanità fatta di amori, feste, conviti, danze e poesia.
• Letteratura prosastica: Orazio riprende la diatriba filosofica, gli scritti di panegiristica, la trattatistica retorica
e quella politica del “buon governo”.
La Meditazione Filosofica
Meditazione e riflessione sono due componenti essenziali della poesia oraziana, diverse dalla gnomica della
lirica greca arcaica perché presuppongono l’assimilazione di idee problemi affrontati dalle scuole filosofiche
ellenistiche e dalla filosofia diatribica.
A differenza delle Satire, nelle Odi non troviamo una ricerca morale fondata sull’osservazione critica degli altri
ma poche fondamentali conquiste della saggezza:
- brevità della vita: é il punto centrale, che comporta la necessità di appropriarsi delle gioie del momento senza
perdersi nell’inutile gioco delle speranze, dei progetti o delle paure (Carpe diem I, 11).
Il saggio deve affrontare gli eventi, quali che siano, e saperli accettare: egli conta solo sul presente, che
cerca di cogliere nella sua fugacità e si comporta come se ogni giorno della sua vita fosse l’ultimo. Il carpe diem
non è un banale invito al godimento: l’invito al piacere - in Orazio come in Epicuro - non è separato dalla
consapevolezza acuta che quel piacere stesso è caduco, come è caduca la vita dell’uomo.
- conquista dell’equilibro: ovvero della ricerca della felicità dell’autarkeia, la condizione del poeta-saggio, libero
dai tormenti della follia umana e benedetto dalla protezione divina. Il favore divino si manifesta trasfigurando in
miracolo circosanza dell’esistenza quotidiana (vari episodi di scampato pericolo), ed è sempre intimamente
connesso con la vocazione del poeta: gli dei e le Muse salvano Orazio per riservarlo a quel destino.
E tuttavia saggezza, serenità, equilibrio, padronanza di sé, l’aurea mediocritas (“preziosa medietà”) di chi sa sfuggire
tutti gli eccessi e adattarsi a tutte le fortune, niente di tutto ciò è un possesso sicuro, acquisito una volta per
sempre. Il poeta non ignora la forza insidiosa delle passioni, conosce le debolezze dell’animo, e sa che ciò cui
egli aspira e che consiglia agli amici va conquistato e difeso in ogni momento. La saggezza si scontra così con i
dati immutabili della condizione dell’uomo nel mondo: la fugacità del tempo, la vecchiaia, la morte.
Nessuna saggezza ha la capacità di eliminare tanto peso negativo: contro le angosce e contro il dolore della vita
si può soltanto ingaggiare una lotta virile che richiede energia e conosce qualche eroismo, per trasformare
l’inquietudine e l’amarezza in accettazione del destino (Odi, IV, 7, vv. 7ss.).
La Poesia Civile
Oltre alla trattazione di una poesia privata - che comunque punta ad una validità sempre più generale e collettiva-,
Orazio affronta anche temi civili e nazionali, con la celebrazione di personaggi, eventi e miti del regime
augusteo.
Il poeta trae spunti dall’epica, dalla storiografia e dalla poesia celebrativa ellenistica: l’obiettivo è quello di mostrare
la personale fiducia, speranza ed entusiasmo, oltre a qualche angoscia mal sopita, verso il principe vincitore e
garante della pace, Augusto. Non bisogna quindi pensare ad una poesia voluta dalle pressioni della politica culturale
augustea.
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• Carmi conviviali: rimandano ai sympositikà di Alceo per quel che riguarda la descrizione del paesaggio e l’invito
a bere per vincere la malonconia dell’esistenza, ma devono molto anche all’epigramma ellenistico negli inviti e
nelle descrizioni dei preparativi, con il tradizionale apparato del simposio ellenistico-romano (vino, fiori, uisca).
• Poesia dell’amore: 1/4 delle odi sono erotiche, caratterizzate da un particolare distacco ironico dalla passione.
In generale l’amore costituisce un rituale il cui canovaccio è piuttosto scontato: serenate, incontri, giuramenti,
conviti…; spesso il poeta osserva con un sorriso la credulità del giovane amante, la serietà con cui ciascuno
interpreta la sua parte, giura l’esclusività e l’eternità del propio sentimento. La passione non è però per questo
ignorata e, anzi, ne vengono accentuate crudeltà e malinconia.
• Inno: la lirica religiosa è lontana da quella greca perché priva del legame con un’occasione o con una vera
esecuzione rituale (a parte il Carmen saeculare): dell’inno si conserva spesso il formulario e l’andamento, ma è
intessuta di riferimenti e sviluppi di carattere letterario.
Temi Ricorrenti
- la campagna amena (locus amoenus), italica, e la natura selvaggia-dionisiaca (montagne, selve, boschi, fonti);
- l’angulus, il luogo-rifugio: lo spazio limitato e racchiuso del piccolo podere personale, spazio caro perché noto e
sicuro, inattaccabile perché appartato e volutamente modesto. Questo spazio privilegiato ha al funzione di una
figura simbolica sia dell’esistenza del poeta (è la forma dei suoi affetti, pochi ma sicuri) sia della sua esperienza
poetica (ne è la forma estetica). È il luogo deputato al canto, al vino e alla saggezza ma è anche spesso associato
al tema della morte (per lo più malinconico) e dell’amicizia;
- l’amicizia: con una grande componente affettiva e personale;
- la vocazione poetica, che segue la topica ellenistica e la rivendicazione orgogliosa.
Stile
Lo è stile è perfetto perché:
- semplice nel vocabolario;
- spesso prosaico
- poche sono le figure di suono, metafore e similitudini, ma molti aggettivi;
- semplice nella sintassi, che ama l’ellissi, le costruzioni greche, l’iperbato e l’enjambent;
- raffinato nella riduzione dei mezzi espressivi, con una dizione libera da ogni ridondanza, asciutta e levigata
(Callimaco);
- virtuoso nel metro e nella collocazione delle parole (Alceo).
La callida iunctura è la strategia che segue Orazio nella collocazione delle parole, strategia che ha il fine di far
percepire le parole usuali come “nuove” e pronunciate ora per la prima volta. I loro significati, liberati così dalla
patina dell’abitudine, trovano nuova luminosità nel testo. Si creano così effetti nuovi, associazioni insolite, significati
impliciti, immagini latenti e sensi dimenticati.
Orazio riesce a ottenere il massimo di espressività con minimo sforzo di inventiva linguistica (pochissimi sono i
neologismi): il suo stile di composizione confida piuttosto su nuove analogie, su nitide corrispondenze contestuali
(parallelismi o antitesi) e su strutture ben disegnate (simmetriche o variate). Questo genera un effetto di sobrietà e
limpidezza classica.
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• Libro I (17 - pubbl. 20 a.C.), comprende venti componimenti in esametri per un totale di 1000 versi.
I) a Mecenate, ha funzione proemiale e presenta-giustifica la nuova forma letteraria;
II) a Lollio, riflessione sugli insegnamenti morali che si possono ricavare dalla lettura di Omero;
III) a Floro, chiede informazioni sull’attività letteraria degli amici di Tiberio;
IV) ad Albio Tibullo, contiene precetti epicurei rivolti all’amico poeta;
V) a Torquato, un invito a cena;
VI) a Numicio, sul tema filosofico dell’impassibilità;
VII) a Mecenate, garbata rivendicazione di autonomia, soprattutto del diritto di vivere lontano da Roma;
VIII) ad Albinovano Celso, sull’inquieto torpore che affligge il poeta;
IX) a Tiberio, biglietto di raccomandazione;
X) a Fusco, su vita di città e vita di campagna;
XI) a Bullazio, sulla mania dei viaggi e la strenua inertia (“smanioso torpore”);
XII) a Iccio, amministratore dei beni di Agrippa, che si interessa di filosofia;
XIII) a Vinnio, istruzioni per consegnare ad Augusto i primi tre libri delle Odi;
XIV) al fattore della villa sabina, sulla vita di campagna in confronto a quella di Roma;
XV) a Numonio Vala, una richiesta di informazioni per un soggiorno a Salerno e Velia;
XVI) a Quinzio, sull’idea del vir bonus;
XVII) a Sceva, una serie di consigli su come trattare con i potenti del mondo;
XVIII) a Lollio, idem XVII;
XIX) a Mecenate, polemica contro gli imitatori servili e difesa della propria poesia lirica;
XX) al libro stesso, un commiato dalle Epistole e una previsione sull’accoglienza che ad esse sarà riservata.
• Libro II (19 - 13 a.C.; pubbl. postuma), contiene due lunghe epistole di argomento letterario.
I) ad Augusto, critica dell’ammirazione per i poeti arcaici ed esame dello sviluppo della letteratura romana;
II) a Giulio Floro, lettera dal carattere personale, una specie di congedo dalla poesia, con un quadro memorabile
della vita quotidiana del letterato romano e un’ampia riflessione sulla ricerca della saggezza filosofica.
Fin dal XVI secolo, l’epistola ai Pisoni, detta Ars Poetica, viene stampata dopo le due epistole del Libro II, per la
comunanza della forma e dell’argomento. Si pensa sia posteriore al 13, mentre altri la collocano tra il Libro I delle
Epistole (20 a.C.) e il Carmen saeculare (17 a.C.). Si tratta di un trattato in esametri che espone teorie peripatetiche
sulla poesia, soprattutto drammatica, con un’evidente ripresa dal grammatico Neottolemo di Pario. I vv. 1-294
parlano dell’ars, i vv. 295-476 dell’artifex; a sua volta la prima parte è bipartita in una trattazione sul contenuto poetico
e in una sullo stile.
Le Epistole, per la forma in versi e il tema filosofico, costituiscono una vera e propria novità.
Alcune lettere in versi di Lucilio e di Catullo esistono, ma non trattavano argomenti filosofico; viceversa, esistevano
ben note trattazionifilosofiche sotto forma di epistole (Platone, Epicuro), ma sempre in prosa.
Il fattore di novità più evidente che separa Epistolae e Satirae è il diverso scenario su cui si leva a parlare la
persona assunta dall’autore:
• la satira apparteneva ad un ambiente cittadino, che corrispondeva ai bisogni sociali del genere satirico
favorendo la circolazione dell’opera fra i ceti colti (equites) e offriva facile materia all’immaginazione comica del
poeta.
• le epistole, invece, presuppongono uno spostamento verso una periferia rustica (l’angulus delle Odi), che
risuona di memorie filosofiche. La vocazione è quella protrettica, di esortazione alla filosofia, e i destinatari sono
invitati a ripetere una scelta sapienza che Orazio rappresenta figurativamente in forma di viaggio verso l’angulus,
un cammino metaforico che è, propriamente, un iter mentale.
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Altra differenza riguarda la forma dei contenuti: le Epistole mancano dell’aggressività comica che era la marca
evidente del genere satirico. La riflessione morale non procede attraverso un’osservazione critica della società
contemporanea ma prende coscienza sempre più netta delle proprie debolezze e contraddizioni: l’equilibrio fra
autarkeia e metriòtes, sui cui si reggeva la possibilità stessa della satira, appare ormai irrecuperabile, e non si
intravede nessun equilibrio diverso.
Grande spazio è anche dato al tema diatribico dell’insoddisfazione del sé, dell’incostanza, della noia angosciosa
e impaziente (strenua inertia). L’inquietudine è presentata come una specie di male del secolo cui i propositi di
saggezza sembrano incapaci di assicurargli riparo.
A questa esibita debolezza e insicurezza della propria posizione etico-filosofica, fa riscontro - quasi
paradossalmente - l’accresciuta impostazione didascalica del discorso oraziano. La forma epistolare costituisce
uno spazio sia per confessare che per ammonire e insegnare.
Per assicurare una più ampia base ideologica e culturale al difficile compromesso sociale del principato, Augusto
vedeva con favore una produzione letteraria nazional-popolare. Se da una parte l’epica e la storia avevano trovato
una risposta alle esingenze del princeps nell’Eneide, rimaneva aperta la questione del Teatro, cui Augusto affidava
grande importanza per la sua capacità di rappresentare ideali, valori e modelli culturali.
Nell’epistola ad Augusto (II, 1), Orazio affronta la questione del teatro polemizzando contro il favore
indiscriminato nei confronti dei poeti del teatro romano arcaico. In una specie di disputa “degli antichi e dei
moderni”, Orazio si schiera dalla parte di questi ultimi, in nome del principio callimacheo dell’arte colta e
raffinata. Egli quindi resiste alle preferenze di Augusto e gli raccomanda un’attenzione bevola per la poesia
destinata alla lettura privata, l’unica che possa raggiungere quell’eccellenza formale che la cultura e il prestigio
stesso della Roma augustea richiedono.
Orazio non mostra di nutrire fiducia in una vera rinascita del teatro, dal momento che il pubblico di questo
genere, più vasto e sicuramente non scelto, non potrebbe apprezzare una produzione drammatica di qualità,
privilegiando per sua stessa natura il fasto spettacolare o le dozzinali buffonerie di mimi e acrobati.
Nell’Ars Poetica (da intendere, se si vuole come II, 3), Orazio sembra orientare la sua analisi su arte e poesia verso i
problemi della letteratura drammatica (tragedia, commedia e dramma satiresco). In qualità di teorico, il poeta
predica un’arte raffinata (labor limae), paziente e meditata, attenta e colta.
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Tuttavia il tono soggettivo, che sicuramente nell’elegia latina diviene marchio distintivo, era sicuramente presente
nell’elegia greca, soprattutto in quella alessandrina.
L’elegia mitologica di Antimaco, Fileta, Ermenasiatte probabilmente conteneva in nuce un elemento
autobiografico, un collegamento, sebbene forse appena esplicitato, tra le avventure degli eroi del mito e le vicende
personali del poeta. L’elegia latina ha sviluppato quindi ampiamente quest’aspetto, conservando però a sua volta
certi tratti oggettivi, gnomici, che generalizzano la storia personale in una visione più ampia, e ha dato spazio a elementi
assorbiti da altri generi letterari: la commedia, la lirica, la tragedia, l’epigramma e la poesia bucolica.
- servitium amoris: l’elegia è una poesia d’amore, sentimento che per il poeta elegiaco è esperienza unica e
assoluta, che riesce a riempire l’esistenza e a darle un senso. È la sua perfetta forma di vita (aristos biòs), che si
contrappone orgogliosamente agli altri modelli etici proclamando la sua superiorità e la raggiunta autarkeia.
La vita del poeta si configura come servitium, come schiavitù di fronte alla domina, che è “padrona” della sua
esistenza, capricciosa e infedele. La relazione con la danna amata è fatta, naturalmente, di rare gioie e di molte
sofferenze: oltre a tradire e ingelosire l’amante, gli si concederà a fatica (es. paraklausìthyron), ma il dolore che
provocherà nel poeta verrà accettato.
- proiezione nel mito: le amarezze e le continue delusioni d’amore portano il poeta a proiettare la propria vicenda
nel mondo mitico, o nella felice innocenza di un’età dell’oro, a sublimarla assimilandola agli amori eroici della
letteratura, a trasferirla cioé in un universo ideale e pienamente appagante.
- degradazione del poeta: prigioniero di un amore irregolare, di una passione alienante e socialmente infamante, il
poeta pratica una vita di nequitia, di degradazione, di dissipazione, perché tutti l’avrebbero appunto giudicata
priva di qualità positive: ripudia i suoi doveri di civis, i valori gloriosi del cittadino-soldato, contrapponendo alle
durezza della guerra le mollezze dell’amore, e a questa sfera trasferisce tutto il suo impegno morale, fino alla
dedizione assoluta.
- recupero dei valori del mos: è singolare e paradossale il fenomeno per cui l’elegia, che si dichiara ribelle ai valori
consolidati della tradizione, di fatto recuperi quei valori trasferendoli nel proprio universo. Vedremo quindi come la
relazione d’amore, istituzionalmente regolare (perché coinvolge solo cortigiane o donne comunque “libere”, mai
della società rispettabile), tende a configurarsi come legame coniugale, vincolato quindi dalla fides, salvaguardto
dalla pudicitia, diffidente verso la luxuria e le raffinatezze cittadine.
- poesia come mezzo di corteggiamento: è la funzione pratica della poesia ed è dimostrato dal suo stile. Non si
tratta, infatti, di uno stile elevato ma più leggero, dai toni e contenuti ispirati alla mediatezza della passione: la
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ricerca e l’eleganza formale ne sono un tratto distintivo (lo eredita dai neoteroi).
- gusto dell’otium: in qualità di erede della poesia neoterica, l’elegia possiede il senso di rivolta morale, del gusto di
una vita estranea all’impegno civile e politico, tesa a coltivare gli affetti privati e a farne l’oggetto della propria
attività poetica.
Eleganza formale e intensa partecipazione affettiva sono quindi i due tratti caratterizzanti ereditati dalla poesia
neoterica, in particolare da Catullo.
GAIO CORNELIO GALLO (Forum Iulii, nella Gallia Narbonense 70 a.C. - 26 a.C.)
Vita
Nato da un’umile famiglia nella Gallia Narbonense, Gallo fu condiscepolo e amico di Virgilio - che gli dedica l’ecloga
X e forse il finale delle Georgiche - a Roma. Si schierò dalla parte di Ottaviano contro Antonio, combattendo nel 30
a.C. in Egitto. Subito dopo la vittoria fu nominato praefectus Aegypti, ma ben presto cadde in disgrazia e subì la
condanna all’esilio con confisca dei beni: morì suicida nel 26.
Importante la sua amicizia con Partenio di Nicea, poeta greco venuto a Roma attorno al 73 a.C., amicizia che avrebbe
garantito una funzione mediatrice fra cultura ellenistica e poesia neoterica.
A Gallo, Partenio dedica gli Erotikà pathemata.
Produzione Letteraria
Erede, attraverso Euforione e Partenio, della poesia alessandrina, Gallo è sicuramente un mediatore fra neoterismo ed
elegia augustea e gli è quindi attribuibile il titolo di fondatore di questo nuovo genere per l’aver unito la dottrina
mitologica dell’elegia alessandrina con la propria esperienza autobiografica.
Amores
Si tratta di quattro libri di elegie dedicate alla passione per Licoride, individuabile nella mima Volumnia, in arte
Citeride, che anche Antonio avrebbe amato.
Importante nella sua opera sono l’erudizione mitologica e l’influenza, nella minuta erudizione geografica, di
Euforione di Calcide.
Per quanto riguarda i temi centrali della poesia elegiaca latina, Cornelio Gallo presenta in nuce quello del servitium
amoris e della vita dominata dalla nequitia. Ben radicato è il concetto di poesia come mezzo di corteggiamento.
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ALBIO TIBULLO (Gabii o Pedum, nel Lazio Rurale 55-50 a.C. ? - Roma 19 o 18 a.C.)
Vita
Nato da una famiglia equestre e agiata, che probabilmente - come testimonia la sua poesia - fu colpita da rovesci
economici e da momenti di povertà, Albio Tibullo fu grande amico di Messalla Corvino.
Seguì il suo patrono in alcune spedizioni militari affidategli da Augusto: ad esempio, partecipò a quella in
Aquitania, il cui esito vittorioso valse a Messalla l’onore del trionfo, celebrato nell’elegia I,7.
Da un’altra elegia (I, 3) sappiamo che Tibullo intraprese, nello Stato maggiore di Messalla, anche un’altra missione
in Oriente, ma la malattia lo trattenne a Corcìra (Corfù), prima del forzato ritorno in Italia.
Gli ultimi anni della sua vita visse forse nella campagna del Lazio.
Della vita di Tubillio abbiamo informazioni dalla Vita desunta dal De poetis di Svetonio e da accenni delle sue elogie o di
altri poeti come Domizio Marso e Orazio.
Produzione Letteraria
Il Corpus Tibullianum5 conserva 3 libri - dei quali l’ultimo fu diviso in due parti in età umanistica - dei quali si
attribuiscono a Tibullo, per evidenze stilistiche, i primi due, gli ultimi due del libro IIIb (o IV), e i cinque (IIIb o IV, 2-6)
sull’amore di Sulpicia, nipote di Messalla.
- Le elegie 4, 8 e 9 sono invece dedicate al giovane Màrato, dal tono meno sofferto e venato di giocosa ironia.
- L’elegia 7 è per il compleanno di Messalla;
- L’elegia 10 celebra la pace e la vita campestre.
• Libro II
- Le elegie 3, 4, 6 sono dedicate a Nemesi (“Vendetta”, cioé colei che ha scalzato Delia dal cuore del poeta), una
figura dai tratti più aspri, una cortigiana avida e spregiudicata.
- L’elegia 2 è dedicata all’amico Cornuto;
- L’elegia 1 descrive le celebrazioni di una festa agricola, gli Ambarvalia;
- L’elegia 5 celebra la nomina di Messalino, primogenito di Messalla, nel collegio sacerdotale dei quindecemviri
sacris faciundis.
La campagna tibulliana è uno spazio di idillica felicità, di vita semplice e serena ed è pervaso da una rustica religiosità
ancestrale. Tibullo fa di questo spazio ideale il luogo del rimpianto e del desiderio, lo vagheggia come lo scenario
perduto di una remota e felice età dell’ora e insieme come l’approdo sperato a cui ancorare un’esistenza sofferta e
precaria.
È forte in Tibullo il bisogno di un rifugio, di uno spazio intimo e tranquillo in cui coltivare e proteggere i propri affetti
lontano dalle insidie e dalle tempeste della vita.
A tale bisogno corrisponde il desiderio di pace: l’antimilitarismo, l’esecrazione della guerra e dei suoi orrori - che
trovano corrispondenza nella diffusa esigenza di pace avvertita dalla cultura del tempo, dopo la lunga tragedia delle
guerre civili - si accorda col vagheggiamento di questo antimondo ideale, popolato di persone semplici, riscaldato
dall’amore di una donna fedele.
Sono molti gli elementi autobiografici, che spesso ci riportano all’infanzia del poeta.
La stessa campagna rivela un carattere italico ed è pervasa dal patrimonio di antichi valori agresti celebrati
dall’ideologia arcaizzante del principato augusteo: Tibullo aderisce intimamente ai valori tradizionali ed è
antimodernista, rappresenta così il caso più vistoso di quella contraddizione che la poesia elegiaca, dichiaratamente
ribelle e anticonformista, contiene in se stessa.
Lingua e Stile
Mentre Properzio si proclama il “Callimaco romano”, Tibullo non è incline a dichiarazioni di poetica benché nella sua
opera possiamo trovare una forte influenza della poesia alessandrina, in particolare della sua erudizione formale.
Quintiliano definisce Tibullo tersus atque elegans per il suo stile semplice, luminoso, sciolto e raffinato. La purezza
lessicale, la fluida movenza dei pensieri, i toni tenui e spesso mollemente sognanti, il sorriso lievemente ironico
danno alla sua poesia il fascino di una forte maturità stilistica e di un’evidente naturalezza espressiva.
Tibullo condivide con Catullo la parvenza di una poesia immediata e spontanea ma che in realtà è profondamente
studiata.
Il ritmo ha una certa lieve cantabilità, una cadenza regolare, che spesso acquista quasi la risonanza di una rima,
quando il suono che chiude la seconda metà del verso riecheggia quello alla chiusura della prima. Il pentametro di
Tibullo influenzerà vistosamente il distico elegiaco ovidiano.
Al di là dell’identità degli autori è importante notare come fu importante il circolo di Messalla in qualità di
ambiente culturale e letterario.
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Ebbe molti contatti con Mecenate e con il suo circolo, probabilmente nel 28, cioé dopo la pubblicazione del primo
canzoniere. Ebbe di conseguenza legami stretti sia con Virgilio che con Ovidio.
Della sua breve vita abbiamo informazioni dalle sue stesse elegie e da Ovidio. Di Cinzia ci parla Apuleio nell’Apologia.
Produzione Letteraria
Quattro Libri di Elegie che seguono una pubblicazione cronologia e non dovuta ad un arrangiamento strategico.
Si apre nel nome di Cinzia (Cynthia prima suis miserum me cepit ocelissi El. I, 1, v. 1), il cui fascino di donna colta e
raffinata dà vita, più o meno direttamente, a tutte le elegie del libro. In questo libro è assente l’interesse per i temi
civili.
La passione per Cinzia è totalizzante e di questa Properzio si presenta come un prigioniero (nequitia) destinato
irrimediabilmente a una vita dissipata. Cinzia è una donna elegante, raffinata e ricca di cultura letteraria e musicale (lo
pseduonimo deriva dal Cinto, monte di Delo sacro ad Apollo), che vive da cortigiana negli ambienti mondani.
Legarsi ad una donna del genere significa per Properzio compromettersi socialmente, contravvenire al codice di
rispettabilità cui un uomo della sua condizione è tenuto. Ma di questa degradazione, a cui egli stesso si condanna,
Properzio ne fa una rivendicazione e un vanto. Il rapporto con la donna amata si configura come un servitium: il
poeta accetta la sua situazione e si compiace della sua sofferenza.
L’amore è per il poeta il valore assoluto della vita, Cinzia la ragione unica della sua esistenza.
Properzio teorizza il rifiuto del mos maiorum per un’esistenza totalmente dedita all’amore (i, 6, vv. 27-30): si
tratta di una scelta di vita quasi di tipo filosofico, capace cioé di fornire l’autosufficienza interiore, l’autarkeia promessa
dalle filosofie greche. Otium e servitium fanno un tutt’uno con l’attività letteraria.
L’amore per Cinzia non l’ amore libertino che contraddistinguerà Ovidio, ma l’amore del mito, fatto di passioni
esclusive ed eterne in grado di superare la morte. Per Cinzia Properzio vagheggia quindi i modelli e i valori della
tradizione, e vorrebbe configurare l’amore con lei come un foedus, garantito dagli dei e sostanziato di castitas, pudor
e fides. Tutto questo a conferma del singolare il fenomeno per cui l’elegia, che si dichiara ribelle ai valori consolidati
della tradizione, di fatto recuperi quei valori trasferendoli nel proprio universo.
Inevitabile la fuga nel mondo ideale del mito.
La prima elegia reca una traccia vistosa dell’incontro con l’ambiente ufficiale di Mecenate: l’elegante rifiuto
(recusatio), di stampo callimacheo, della poesia epica, cioé della poesia celebrativa. È proprio Mecenate a cercare di
orientare Properzio verso forme poetiche nuove, di guadagnarlo come collaboratore alla politica culturale
promossa dal regime.
Il II libro vede, rispetto al I, un atteggiamento più complesso e meno lineare: da un lato si acuisce il senso di
disagio per la vita di nequitia ed emerge la consapevolezza dolente di un’esistenza incompleta e irrisolta: dall’altro si
fa più sofferto il rapporto con Cinzia e aumenta il bisogno di idealizzazione della sua figura, evidentemente impari al
confronto con i grandi paradigmi mitici.
Cinzia continua a dominare il canto benché, con l’elegia 10, si insinui l’omaggio poetico al princeps e ai suoi
trionfi.
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Anche questo libro è dominato dalla figura di Cinzia, ma con l’ombra, ormai, dell’imminente discidium, ovvero di
una separazione definitiva.
Accanto al tema d’amore compaiono comuni i motivi legati alle fortune e all’ideologia del regime augusteo:
- elegia 4: augurio per la spedizione contro i Parti, progettata nel 22;
- elegia 9: dedicata a Mecenate, è la promessa di una poesia impegnata, che sarà materie delle “elegie romane”
del Libro IV;
- elegia 22: elogio di Roma e dell’Italia;
- elegia ?: epicedio per il giovane Marcello, morto nel 23, figlio adottivo e genero di Augusto.
Questo libro presenta, inoltre, un’attenzione nuova, da parte di Properzio, per la moralità antica, una disponibilità
maggiore di fronte ai temi graditi agli ambienti ufficiali, testimonianza di un’ “integrazione difficile” (A. La Penna) al
regime.
Rispetto ai Libri I e II l’atteggiamento di Properzio si fa meno appassionato: i tratti autoronici sono sempre più
vistosi e il poeta guarda a sé stesso con maggiore distacco, spesso con arguta leggerezza. Questo distacco si
rivela anche in un ampliamento di prospettiva, nell’accentuarsi dell’atteggiamento gnomico-didascalico (che si
ispira talora a temi diatribici).
La scelta della Musa tenue con il conseguente rifiuto dell’epos è ancora ribadita, ma non è più strettamente associata
a uno stile di vita, bensì è motivata solo con ragioni estetico-letterarie, non più in quanto funzionale all’amore.
Il libro si conclude, emblematicamente, con il definitivo discidium, l'addio a Cinzia, concludendo così il ciclo apertosi
in suo nome.
Due elegie (8, 9) sono dedicate a Cinzia, che compare nella luce fosca - eppure seducente - del vizio e della
corruzione, oppure ritorna, come ombra dopo la morte, a rievocare l’amore passato.
Le restanti elegie sono per lo più una concessione, limitata e sorvegliata, alle direttive della cultura ufficiale. Non
si tratta però di una poesia celebrativa ma di un’illustrazione, confome quindi alle regole dell’elegia alessandrina e
al gusto callimacheo, dei miti e dei riti della tradizione romana e italica (il dio Vertumno, il tradimento della vergine
Tarpea, la leggenda di Ercole e Caco, il culto di Giove Feretrio…).
La poesia civile di Properzio non è dotata di gravitas ma di leggera e garbata comicità, di drammaticità e pathos
(IV, 4 sul mito di Tarpea, adattato al modello della drammatica storia di amore di Scilla per Minosse).
Oltre che nelle due elegie dedicate a Cinzia, l’amore è presente nell’elegia proemiale (IV, 1), in cui l’astrologo Horos
rileva il contrasto fra le ambizioni di Properzio e la sua naturale vocazione alla poesia erotica, e nell’elegie 3 (lettera di
Aretusa a Licota) e 11 (epicedio di Cornelia). In quest’ultime è visibile la rivalutazione dell’eros coniugale e
l’esaltazione degli affetti familiari e delle virtà domestiche, della castità e della tenerezza.
Questi elementi sembrano mostrare un processo sofferto compiuto da Properzio verso l’integrazione al modello etico
propugnato dall’ideologia augustea.
Lingua e Stile
Lo stile di Properzio è oscuro, difficile, caratterizzato da una forte concentrazione, densità di metafore,
sperimentazione. L’eredità callimachea, evidente nella dottrina mitologica e nella raffinata coscienza letteraria, si
manifesta anche nella ricerca attenta della iunctura insolita, spesso audace, nella struttura sintattica complessa.
Tratto distintivo è l’esordio ex abrupto e il consecutivo procedimento poi per movimenti improvvisi, scatti,
immagini e concetti senza esplicitarne i collegamenti ma seguendo una logica segreta e interna.
La forma espressiva alterna e mescola ironia e pathos (molte interrogazioni, esclamazioni e interiezioni) ed è ricca di
atteggiamenti psicologici.
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Entrato nel circolo letterario di Messalla Corvino, Ovidio stringe rapporti con i maggiori poeti di Roma presso i quali
ottiene una fama solida. A 40 anni si sposa con la sua terza moglie.
Nell’8 d.C., all’apice del successo, Ovidio è colto da un improvviso provvedimento punitivo di Augusto, che lo
relega sul mar Nero, a Tomi (Costanza.) Le cause delle relegazione non sono state mai chiarite pienamente ma si
sospetta che, dietro le accuse uffficiali di immoralità della sua poesia (Ars Amatoria in particolare), si volesse colpire
un suo coinvolgimento nello scandalo dell’adulterio di Giulia Minore, la nipote di Augusto, con Decimo GIunio Silano.
Produzione Letteraria
Una Poesia Nuova per una Nuova Società Mondana
Ovidio ha un atteggiamento fortemente relativistico ed analizza la realtà nei suoi aspetti più diversi, senza esclusioni: è
contrario a scelte assolute, sa aderire alle varie facce della realtà, privilegiando quelle che gli sembrano più conformi al
gusto, alle tendenze etico-estetiche del tempo.
Questo atteggiamento spiega il tratto più significativo della sua poesia, cioé l’accettazione convinta e spesso
entusiastica delle nuove forme di vita nella Roma dei suoi tempi.
Quest’apertura al nuovo coincide, comunque, con l’apertura ai valori della tradizione.
Ovidio cresce in un clima pacifico rilassato e meno severo, lontano oramai dalle guerre civili: Roma è aperta agli
agi e alle raffinatezze introdotte grazie alle conquiste orientali. Orazio si fa interprete di queste aspirazioni ed elabora
una poesia che corrisponde al gusto e allo stile di vita raffinato della società a lui contemporanea.
Prisca iuvent alios: ego me nunc denique natum Piacciono agli altri le cose del passate: di essere nato oggi
gratulor: haec aetas moribus apta meis. io mi rallegro: al mio stile di vita questa è l’epoca adatta.
Questo avviene sia sul piano contenutistico che su quello formale: la sua poesia è antimimetica, antinaturalistica,
fotemente innovatrice rispetto alla tradizione classica.
Come dice in una delle elegie dell’esilio (Ex Ponto, IV, 8) la poesia è in grado di conservare la memoria di uomini e azioni
nei secoli, ma poi progressivamente si stacca da questa linea per arrivare ad affermare il primato della poesia
sulla realtà.
Questa modernità la si legge anche nel linguaggio poetico, nello stile terso ed elegante e nella musicale fluidità del suo
distico elegiaco.
Estetismo ed eleganza sono l’espressione di questo nuovo gusto.
- manca il servitium amoris nei confronti della donna amata: è presente, solamente, quello nei confronti di Amore,
quindi dell’esperienza d’amore di per sé stessa (I, 2);
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- acquista un peso fondamentale la coscienza letteraria del poeta, che si manifesta nell’insistenza sulla poesia
come strumento di immortalità (I, 15) e come autonoma creazione del poeta, svincolata dall’obbligo di
rispecchiare il reale (III, 12, 41 ss.). L’elegia non si presenta più come subordinata alla vita, ovvero suo fedele
riflesso, ma rivendica il proprio primato, la propria centralità nell’esistenza del poeta.
Le lettere della prima edizione (1-15) si immaginano scritte da alcune eroine ai loro amanti o mariti lontani:
Penelope a Ulisse, Filide a Demofoonte, Briseide ad Achille , Fedra a Ippolito,Enone a Paride, Didone a Enea, Ipsipile
a Giasone, Ermione a Oreste, Deianira a Ercole, Arianna a Teseo, Canace a Macareo, Medea a Giasone, Laodamia a
Protesilao, Ipermestra a Linceo, Saffo a Faone.
Le lettere della seconda edizione (16-21) prevedono in tre coppie le lettere degli uomini e le risposte delle
donne: Paride e Elena, Ero e Leandro, Aconzio e Cidippe.
La scelta della forma epistolare impone vincoli precisi al poeta, in particolare per quanto riguarda le epistole della
prima serie: le varie lettere si configurano infatti come dei monologhi costruiti per lo più su di una situazione-
modello, “il lamento della donna abbandonata” (Catullo, Carme 64).
La struttura dell’epistola non permetteva molte variazioni: data per nota al lettore colto la situazione di partenza,
l’andamento mitologico (con l’alternanza delle varie fasi: dalla disperazione all’invocazione del ritorno,
all’esortazione a mantenere fede alle promesse: è evidente l’influsso dell’esercizio retorico delle suasoriae) è solo
interrotto qua e là da qualche flashback della memoria, che evoca narrativamente vicende lontane, ma manca di
uno sviluppo dinamico e drammatico.
L’idea della lettera in versi è probabilmente ripresa da Properzio, mentre i modelli sono sia i contenuti della
tradizione epico-tragica greca, che Callimaco, Catullo, Virgilio e la poesia elegiaca latina (sofferenza per la
lontananza della persona amata, lamenti, suppliche, accuse di tradimento, sospetti…).
Della poesia elegiaca ne viene anche utilizzato il codice che funge da filtro attraverso cui passano i materiali
narrativi tratti dalla tradizione epica, tragica e mitologica. Vengono quindi imposti dei tagli elegiaci al materiale
narrativo, una sorta di processo di deformazione-reinterpretazione-riscrittura.
I personaggi vengono calati nel contesto della Roma imperiale: p.e. la figura di Fedra (Fedra-Ippolito, 4) perde i
suoi tratti di nobile dignità tragica per assimilarsi a una dama spregiudicata della società galante, tesa a sedurre il
figliastro con le lusinghe di un facile adulterio e disinvolta assertrice di una nuova morale sessuale, beffardamente
insofferente delle antiche convenzioni. Parimenti Didone (Didone-Enea, 7) cerca di convincere Virgilio a non partire
insistendo sull’ipotesi di una gravidanza.
Ovidio ricodifica in termini elegiaci le storie delle eroine epico-tragiche, che non sono nate “dentro” e “per” il
codice elegiaco, introducendo il lettore in un universo letterario nuovo, né antico né moderno, né epico né tragico
né mitico né elegiaco, ma fondato sulla comprensenza di codici e valori, sulla loro integrazione.
Le Heroides sono in linea di massima poesie del lamento di una donna lasciata sola o abbandonata dallo sposo-
amante lontano. In realtà non mancano altre cause di infelicità (disaffezione, tipeidezza, guerra, vincoli paterni…)
che ci mostrano come l’innamorata non soffra in quantro tradita o non corrisposta ma anche, e soprattutto, in quanto
donna. Ed è questa la condizione comune che la condanna a un’esistenza segnata dall’abbandono, dall’umiliazione,
dalla propria debolezza, dall’inferiorità di chi deve subire senza potersi imporre.
Grandissimo spazio viene dato al pathos e al drammatico, rispetto alla concezione ironico-distaccata dell’amore-
lusus presente nell’Ars amatoria. Un aspetto importantissimo è l’approfondimento della psicologia femminile e
l’indagine delle sue ragioni.
Poemetti Erotico-Didascalici
Si tratta di un vero ciclo di poesia didascalica, il cui progetto, che mira a impartire una precettistica d’amore, sembra
l’esito naturale, e insieme estremo, della concezione dell’eros già delineata negli Amores, cioé un’esperienza che porta
inevitabilmente all’esaurimento della poesia elegiaca.
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L’elegia I, 8 degli Amores costituisce l’aggancio con l’Ars Amatoria: in questo componimento Ovidio rielabora un
motivo già tradiionale nella poesia elegiaca, quello della vecchia lena, l’astuta ed esperta mezzana che impartisce
consigli a una giovane donna sul modo migliore di mettere a frutto le proprie qualità con i vari pretendenti. Novità
ovidiana è il fatto che questa figura - deprecata dalla tradizione elegiaca (Properzio, IV, 5) - appare sotto una luce
positiva. La lena è una sorta di progenitrice del poeta didascalico, del maestro d’amore.
Differenza rispetto agli Amores è il fatto che Ovidio non è più protagonista delle avventure ma “regista” e
supervisore del gioco. L’amore è visto come un gioco intellettuale, un divertimento galante, codificato a livello etico-
estetico e che è lontano ormai dal carattere di passione devastante (Saffo, Catullo, neoteroi). I ruoli e le situazioni
sono tutti già previsti e codificati.
Ovidio descrive i luoghi e gli ambienti mondani della Roma imperiale, i momenti di svago e passatempo, le
occasioni più varie della vita cittadina in cui mettere in atto la strategia della seduzione.
La veste formale è quella del poema didascalico (Lucrezio, Virgilio), da cui Ovidio spiritosamente mutua moduli,
movenze e schemi compositivi; l’andametro precettistico è interrotto qua e là da inserti narrativi di carattere
mitologico e storico con la funzione di exempla a validità dei precetti impartiti.
Ovidio delinea la figura dell’amante perfetto, caratterizzato da una disinvolta spregiudicatezza, dall’insofferenza,
dall’aggressività nei confronti della morale tradizionale. Insomma si tratta di un personaggio libertino.
Tuttavia, l’assolutezza dell’eros come scelta di vita su cui fondare nuovi valori, una nuova morale, in Ovidio viene
meno: si stempera così il suo apparente libertinismo, lasciandosi ricondurre entro i confini dell’etica tradizionale e
delle sue convenzioni. In cambio di un’aperta rinuncia a ogni velleità conflittuale, l’eros ovidiano reclama solo una
certa tolleranza, una zona franca all’interno dell’universo sociale in cui sospendere la severità di una regola
morale oramai inadeguata al costume della metropoli ellenizzata.
Ovidio tenta anche una riconciliazione tra l’elegia e la società contemporanea in cui essa si radica, indicando
nell’armoniosa complementarità delle forme di vita, della sfera privata e di quella civile, la via migliori per
un’appagata adesione al presente.
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Il proemio dell’opera sembra chiarire l’intenzione - in contrasto con la forma alessandrina - di comporre un poema
epico (Ovidio prega infatti gli dei di ispirarlo).
L’intenzione è quella di realizzare un’opera universale, che vada al di là dei limiti segnati dalle varie scelte
poetiche: andava in questa direzione lo stesso impianto cronologico del poema, illimitato (dalle origini del
mondo ai giorni di Ovidio), che realizzava un progetto da tempo vagheggiato e solo abbozzato nella cultura latina (Ecl.
IV), e rispondeva anche, in qualche misura, a una tendenza diffusa nella cultura del tempo, la sintesi di storia
universale, particolarmente sensibile alla storiografia ellenistica.
Questo impianto permetteva a Ovidio di muoversi su terreni meno lontani dagli orientamenti del principato e di
rispondere anzi, ovviamente a modo suo, alle esigenze nazionali e augustee, facendo del nuovo regime il culmine e il
coronamento della storia del mondo (notevole in proposito la piccola Eneide nella sezione finale del poema).
Struttura e Composizione
Ovidio narra all’incirca 250 vicende mitico-storiche secondo un filo cronologico.
Le storie possono comunque essere collegate in altri modi: continuità geografica (saghe tebane) o per analogie
tematiche (amori, gelosie e vendette degli dei), o per contrasto (vicende pie vs. vicende empie), o per semplice
rapporto genealogico fra i personaggi, o ancora per analogia di metamorfosi…
Dopo il brevissimo proemio inizia la narrazione della nascita del mondo dall’informe caos originario e della
creazione dell’uomo: il diluvio universale e la rinascita del genere umano grazie a Deucalione e Pirra segnano il
passaggio dal tempo primordiale a quello del mito, degli dei e semidei, delle loro passioni e dei loro capricci.
Contenuto dell’Opera
Poikilìa è la parola chiave per descrivere i contenuti dell’opera, una varietà non solo contenutistica ma anche
formale: le dimensioni delle storie narrate possono oscillare dal semplice cenno allusivo allo spazio di qualche
centinaia di versi che rende molti degli episodi dei veri e propri epilli.
Ovidio presta particolare cura all’accostare e all’alternare storie di contenuto e carattere diverso: catastrofi
cosmiche e delicate vicende d’amore, violente scene di battaglia e patetiche novelle di amore infelice, torbide
passioni incestuose e commovente eros coniugale.
Anche lo stile risulta essere vario: ora epico, ora liricamente elegiaco, ora drammatico o bucolico.
Si può parlare di una vera e propria contaminazione di generi letterari.
La variazione è anche finalizzata ad una narrazione fluida e continua, armoniosa, ben visibile in una suddivisione in
libri non per episodi chiusi e conclusi ma adoperata nei punti “vivi” delle vicende. Quest’ultimo escamotage suscita
anche curiosità nel lettore.
Per tenere viva la tensione del racconto Ovidio fa spesso ricorso alla tecnica del racconto “a incastro”, che gli
permette di evitare la pura successione elencativa delle varie vicende incastonandone una o più all’interno di
un’altra usata come cornice. Altre volte gli stessi personaggi prendono la parola per narrare le vicende, permettendo
al poeta di adattare toni, colore e stile del racconto alla figura del personaggio narrante: è il caso della storia
solennemente epica del ratto di Proserpina raccontata da Calliope, la musa dell’epos.
L’argomento centrale dell’opera rimane, però, l’amore, non più ambientato nella vita quotidiana di una Roma
mondana, ma nell’universo del mito, caratterizzato da nuovi elementi.
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La dimensione mitica, infatti, non possiede più un ethos idealizzante, una grandezza o solennità di valori. Non ha
per Ovidio alcuna valenza religiosa e la profondità che ha per Virgilio: Ovidio fa del mito un ornamento della vita
quotidiana, uno scenario decorativo.Accade così che le divinità della tradizione religiosa greco-romana siano
assimilate alla dimensione terrena e agiscono sotto la spinta di passioni e sentimenti assolutamente umani.
Le Metamorfosi costituiscono una grandiosa enciclopedia mitica, una summa compendiaria di testi, di uno
sterminato patrimonio letterario che va da Omero ai tragici, alla vasta letteratura ellenistica fino ai poeti elegiaci.
Ad Ovidio piace esibire le proprie ascendenze, le proprie conoscenze letterarie, che accoglie proprie come tali cioé
avendo piena consapevolezza del carattere fittizio e inverosimile delle leggende narrate.
Età del mito: I Apollo e Dafne, con la metamorfosi della ninfa in lauro; Giove e Io, custodita ad Argo con i suoi cento
dei ed eroi occhi.
II Storia di Fetonte, che precipita col carro del Sole e provoca l’incendio del mondo.
III Storia di Atteone, tramutato da Diana in cervo e sbranato dai suoi cani. Storia di Narciso, che sdegna
l’amore di Eco e si consuma d’amore per se stesso; storia di Penteo punito da Bacco.
IV Amore tragico di Piramo e Tisbe, di Salmacide per Ermafrodito; Perseo salva Andromeda da un mostro
marino.
VI Gelosie degli dei: la vendetta di Minerva su Aracne tramutata in ragno; l’eccidio dei figli di Niobe; storia
di Tereo, Procne e Filomela.
VIII Volo fatale di Dedalo e Icaro; Meleagro e la caccia al cinghiale calidonio; pietà di Filemone e Bauci;
empietà di Erisittone.
X Vicenda di Orfeo ed Euridice, che incastona altre storie d’amore: Ciparisso, Giacinto, Pigmalione, Mirra,
Venere e Adone…
Passaggio alla XI Nozze di Peleo e Teti; storia d’amore coniugale di Ceice e Alcione; storia di Esaco, fratello di Ettore.
Storia
XIII Contesa per le armi fra Aiace e Ulisse; lutti troiani e amore di Polifemo per Galatea.
XIV Narrazione della sagha laziale delle divinità agresti Pomona e Vertumno.
XV Pitagora e la metamorfosi come legge universale (base filosofica del poema); apoteosi di Cesare, ultimo
degli Eneadi; celebrazione di Augusto e dell’immortalità poetica di Ovidio.
Illusione e Meraviglia
Quello delle Metamorfosi è un mondo ambiguo, in cui sono labili i confini tra realtà e apparenza, fra concretezza e
inconsistenza. I personaggi sembrano aggirarsi come smarriti in un universo insidioso, governato dalla
mutevolezza e dall’errore: travestimenti, ombre, riflessi, echi e parvenze sono le trappole in mezzo alle quali gli uomini
devono muoversi.
Il loro incerto agire, la naturale attitudine umana all’errore, costituiscono l’oggetto dello sguardo ora commosso ora
divertito del poeta, lo spettacolo che il poema rappresenta. La lingua stessa, lo stile, si presentano a mostrare la
natura ambigua delle cose: esibendo la sua connaturata doppiezza, anche il linguaggio rivela la sua pericolosità,
lo scarto fra l’illusorietà di ciò che appare e la concretezza di ciò che è.
I personaggi agiscono ognuno secondo il proprio punto di vista, convinti tutti di padroneggiare la realtà. Il
narratore , che è onnisciente, è l’unico a conoscere il punto di vista “vero” ed analizza divertito questa
moltiplicazione delle prospettive, seguendo i personaggi sulla strada che li allontana progressivamente dalla realtà,
mostrando così al lettore l’esito fatale che li attende.
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La tecnica narrativa privilegia i momenti salienti di questi eventi, ne isola singole scene e le sottrae alla loro
dinamica drammatica, fissandole nella loro plastica evidenza.
Straordinaria la percezione visiva della realtà, che si avverte particolarmente nella descrizione dell’atto della
metamorfosi. Questa è generalmente caratterizzata dai tratti del “meraviglioso” ed è messa in scena sotto gli
occhi di qualcuno: Ovidio la descrive fotografando le fasi intermedie del processo, soffermandosi sui confini
incerti tra la vecchia e la nuova forma, sul paradosso dello sdoppiamento fra il nuovo aspetto e l’antica psicologia
degli essere soggetti al mutamento.
Fasti
Si tratta di un calendario poetico in distici elegiaci, rimasto interrotto a metà: comprende infatti 6 libri (gennaio-
giugno), ognuno dedicato ad un mese. È sicuramente l’opera più vicina alle tendenze culturali-morali-religiose del
regime augusteo, sulle orme delle elegie romane di Properzio, in cui Ovidio si impegna ad illustrare gli antichi miti e
costumi latini, seguendo la traccia del calendario romano.
Al di là del precedente immediato di Properzio, l’opera deve molto a Callimaco (Aitia), in particolar modo sia alla sua
tecnica compositiva che al carattere eziologico, cioé di indagine delle cause, di ricerca delle origini della realtà
attuale nel mondo del mito. Ovidio si impegna così in dotte e accurate ricerche di svariate fonti antiquarie: da
Varrone, Valerio Flacco e Livio, Ovidio attinge una vastissima messe di dottrina antiquaria, religiosa, giuridica,
astronomica, che trova impegno nell’illustrazione di credenze, riti, usanze, nomi di luoghi, in quella riscoperta delle
antiche origini che costituiva un indirizzo fondamentale dell’ideologia augustea.
Al di là dell’insistenza sulla funzione civile di questa poesia, l’adesione di Ovidio al programma augusteo rimane
superficiale, forse un atto dovuto ad Augusto: sullo sfondo di carattere antiquario Ovidio inserisce infatti il materiale
mitico di origine greca o di carattere aneddotico, con frequenti accenni alla realtà e alle vicende contemporanee.
Questo gli permette di inserire momenti idillici, patetici ed erotici, con qualche tratto di sapido realismo e di ironia,
anche nei confronti del mito, talvolta visto con un po’ di scetticismo.
Gli studi sui Fasti non sono ancora stati davvero approfonditi: si pensa che l’uso che Ovidio fa dello schema
eziologico risulti essere alquanto malizioso e che in un certo senso possa addirittura mettere in dubbio il
rapporto fra presente e passato, minacciando il progetto ideologico di Augusto.
Opere dell’Esilio
Lasciando da parte l’Ibis, i Tristia e le Epistulae ex Ponto mostrano una sorta di ritorno alle origini, a quell’elegia vista
come poesia del lamento, del pianto. Costretto a diventare oggetto della sua stessa poesia, Ovidio, che aveva
cantato fino ad ora la mondanità romana e che si era divertito a trattare con un distaccato sorriso tutte l’universo delle
finzioni letterarie, proclama ora l’assoluta autenticità della sua materia poetica, recuperando i più famosi paradigmi
mitologici per affermare la portata eccezionale della sua tragedia personale. Nella poesia, diventata più che mai la
dimensione totale dell’esistenza, l’unica in grado di dare una ragione di vita e insieme un conforto, Ovidio ripone ogni
residua speranza per il futuro: pur così lontano da Roma, senza l’esperienza e la partecipazione diretta agli
avvenimenti, Ovidio non rinuncia a celebrare con i suoi versi il successo delle campagne militari di quegli anni
(Tristia IV, 2; Epistulae ex Ponto II, 1). Ma questa sorta di anticipazione del possibile ruolo di poeta che si fa interprete
delle grandi emozioni collettive non valse a sottrarlo alla desolante solitudine di Tomi.
- Le elegie del Libro I ripercorrono - in una sorta di diario - i momenti del commiato da Roma e del lungo viaggio
verso Tomi, la traversata invernale dell’Adriatico e dell’Egeo, con le tempeste, che rendono più difficile e
angosciosa la navigazione.
- Il Libro II è costituito da una lunga perorazione rivolta ad Augusto con l’intenzione di scagionare la propria
poesia erotica dall’accusa di immoralità.
- Le elegie dei libri successivi sono per lo più rivolte a un destinatario preciso, non esplicitamente nominato, ma
indicato talvolta attraverso segnalazioni indiretti.
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L’accentuazione del carattere epistolare si manifesta in vari modi: nell’uso regolare delle formule proprie del
genere (inizio e chiusura della lettera), nel riferimento alle lettere inviate in risposta dai destinatari e soprattutto
nell’infittirsi di una serie di topoi ricorrenti appunto nella letteratura epistolare (l’insistenza sulla lettera come colloquio
fra amici lontani, l’illusione della presenza nonostante il distacco…).
Molti critici hanno notato interessanti analogie con le Heroides, l’altra opera di carattere epistolare, in particolar
modo nel parallelismo fra la lontananza sofferta della donna abbandonata e del poeta esiliato.
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Produzione Letteraria
Opere filosofiche, scritte in gioventù;
Ab Urbe Condita
Si tratta di un’opera che ripercorre le vicende romane dalle origini troiane fino al principato di Augusto, in
particolare alla morte di Druso, avvenuta in Germania nel 9 a.C., o alla disfatta di Varo a Teutoburgo (9 d.C.).
È possibile che l’opera avesse l’obiettivo di arrivare fino alla morte di Augusto (14 d.C.).
Il nome è dato dai codici più autorevoli, invece l’autore indicava la propria opera alcune volte con il nome di
annales, altre con quello più generico di libri. Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia, la definisce come historia.
L’opera è composta da 142 libri con una media di 50 capitoli a libro, dei quali abbiamo conservato interamente:
• Libri I-X (prima decade), che narrano gli avvenimenti più antichi fino alla terza guerra sannitica (273 a.C.);
• Libri XXI-XLV (terza, quarta e metà quinta decade), che coprono gli avvenimenti dalla seconda guerra punica
(218 a.C.) fino al termine della guerra contro la Macedonia (167 a.C.);
• i Periochae, brevi riassunti che risalgono al III e IV secolo d.C. che ci consentono di ricavare il contenuto dei libri
mancanti.
La suddivisione per decadi, gruppi di libri comprendenti periodi distinti e accompagnati da dichiarazioni introduttive,
era stata concepita molto probabilmente dallo stesso Livio che, così facendo, ne facilitò la perdita a causa della
pubblicazione separata.
Metodo Storiografico
Livio sceglie la struttura annalistica delle origini, rifiutando implicitamente il nuovo impianto monografico delle
prime opere di Sallustio: la narrazione di ogni impresa si estende per l’arco di un anno, al compiersi del quale viene
sospesa per dar inizio alla narrazione di avvenimenti contemporanei; quindi viene adottato lo stesso metodo narrativo
nei confronti dell’anno seguente, riprendendo quanto lasciato sospeso allo spirare dell’anno precedente, e così via.
Come Cicerone, anche Livio dilatava l’ampiezza della propria narrazione mano a mano che si avvicinava
all’epoca contemporanea: dei 142, 85 contenevano la storia a partire dall’età graccana. La dilatazione
corrispondeva all’interesse dei lettori per le vicende più recenti.
Le fonti utilizzate da Livio sono per lo più gli annalisti recenti (Valerio Anziate, Licinio Macro, Claudio Quadrigario,
Fabio Pittore) e Polibio, dal quale Livio attinse soprattutto la visione unitaria del mondo mediterraneo e dei legami
fra Roma e i regni ellenistici. Sporadica la consultazione delle Origines di Catone.
Le fonti vengono spesso scelte per la facilità di reperibilità, utilizzate con un uso acritico e mai verificate sulla base
di altri documenti storici.
Di conseguenza, in Livio si è visto soprattutto un exornator rerum più che uno storiografo: è preoccupato di
amplificare e adornare la traccia per mezzo di una drammatizzazione piena di movimento e di varietà.
Livio è uno storico letterato, cioé quella figura che lavora prima di tutto di seconda mano sulla narrazione di storici
precedenti.
Livio non si colloca certamente all’opposizione, ma neppure svolgeva una propaganda di sostegno acritico:
Asinio Pollione coglieva in lui tracce di Patavinitas, di provincialismo padovano, sia a livello stilistico che a livello
politico-culturale, per un legame particolarmente stretto con le posizione repubbliche, sentitissime in quelle città
di provincia come Padova in cui secondo Cicerone era ancora vegeto il mos maiorum.
La simpatia per gli ideali repubblicani si riflette anche nella sua opera e negli elogi per Pompeo dei quali ci informa
Tacito. Un punto di contatto con l’ideologia augustea è sicuramente il culto della res pubblica, affrontato da Livio in
particolare modo con la tematica della condanna del disordine politico-sociale degli ultimi decenni della res publica
cioé i conflitti fra i partiti, l’avidità dei ricchi e le rivendicazioni dissennate dei poveri. Allo stesso modo la condanna
della demagogia.
Pur dovendo tenere di conto che non abbiamo a disposizione l’intera opera, dalla Praefatio ricaviamo una
consapevolezza acuta della crisi che Roma aveva da poco attraversato e che Livio - a differenza di Augusto - non
sembra considerare come risolta del tutto felicemente. Livio rimane del tutto estraneo, quindi, a quel valore
“carismatico” dato da Augusto al principato, presentato come la realizzazione di una nuova età dell’oro.
Con molta probabilità Livio non riusciva a scorgere nella vittoria di Augusto il rimedio miracoloso che aveva
estinto una volta per tutte i germi di corruzione che avevano provocato il declino dello Stato romano.
In più parti dell’opera emerge la giustificazione dell’Impero di Roma, alla cui edificazione hanno validamente
cooperato una fortuna sostanzialmente non diversa dalla provvidenza divina - p. e. le origini della città vengono
ricondotte proprio al fato - e la virtus del popolo romano, dotato di una forza morale superiore a qualsiasi
popolazione.
L’orgoglio nazionalistico che l’opera esala è dovuto alla generale tendenza a idealizzare il passato: un passato
ricco di modelli di comportamento sociale e individuale esemplari, sia positivi che negativi, cioé inviti alla virtà o
avvertimenti contro le atrocità. Il passato è in grado di indicare la via della salvezza a chi dovrà rinnovarne nel
presente il prezioso esempio. Livio non fa studi politici ma tiene conto di quegli exampla da imitare o da rifuggire che
conferiscono all’opera un forte impianto moralistico.
Grande spazio viene lasciato alla drammatizzazione del racconto, al pathos presente nelle figure femminili
(Lucrezia, Sofonisba) e nella descrizione di battaglie, sommosse e dibattiti in Senato.
Questo patetismo risente molto della tradizione storiografica “tragica” ellenistica (Eforo, Duride, Filarco), che
mirava a descrivere efficacemente i fatti, in modo da suscitare emozioni nel lettore, piuttosto che ricostruire
analiticamente gli eventi nei loro rapporti di causa ed effetto. In questo modo la historia diveniva un genere letteraio,
assai vicino alla retorica.
La concezione drammatica della storia ha lo scopo di mostrare come le qualità morali e mentali degli uomini abbiano
avuto un impatto decisivo sugli avvenimenti vissuti in prima persone dallo stesso Livio.
Scrivere la storia è per Livio far vivere gli uomini che la fanno: il procedimento maggiormente utilizzato per questo
scopo è l’uso dei discorsi indiretti e diretti, che si contraddistinguono per l’efficacia oratoria e vengono valorizzati
dai commenti degli spettatori.
Il pathos di Livio non è però quello acceso di Sallustio: si tratta maggiormente di ethos, quindi di un pathos più
sentimentale, che sa associare al piacere suscitato dal racconto una certa grandezza delle raffigurazioni, conferendo
ai personaggi un carattere monumentale.
Lingua e Stile
Livio si oppone nettamente alla tendenza di Sallusti, per accogliere piuttosto le indicazioni stilistiche tracciate da
Cicerone per la storiografia romana.
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Come ci informa Seneca il Vecchio (Controversie), Livio criticava il gusto per l’espressione oltremodo concisa, per
quella ricerca di brevitas con cui Sallustio voleva emulare Tucidide. Quintiliano, che riconosceva la superiore grandezza
di Sallustio come storico, contrapponevva alla sua brevitas austera e sentenziosa, la lactea ubertas (“l’abbondanza
dolce come il latte”) di Livio: uno stile ampio, fluido e luminoso, senza artifici e restrizioni, che evita ogni asperitas,
e dove i periodi scorrocono facilità. Sempre Quinitliano accenna al candor, la limpida chiarezza dello stile liviano.
Livio riprende dal De oratore di Cicerone la varietà dei toni e il corso dolce e regolare dell’espressione che permette
il paragone dell’opera con un “largo e pacato fiume maestoso, piuttosto che con un torrente in corsa
tumultuosa” (Orator). Rispetto ai dettami ciceroniani, il periodare di Livio risulta più carico e affollato, come impacciato
dal desiderio di accumulare troppi particolari, ed è quindi più adatto ad essere letto che ascoltato.
In ultima analisi è possibile notale un gusto arcaizzante nella prima decade, volto a sottolineare la remota solennità
degli eventi narrati, contrapposto ai toni più classici delle parti successive.
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• Asinio Pollione, potente personaggio politico cesariano, prese parte al partito di Antonio dopo la morte di Cesare.
Prima della battaglia di Azio (31 a.C.) si era ritirato dalla vita politica, riuscendo a mantenere una notevole
indipendenza dal regime di Augusto fino al 4 d.C.
La sua storiografia è caratterizzata da uno stile duro e da un atticismo severo. L’opera storica di cui fu autore sono
le Historiae, che sappiamo coprire un breve ma recente periodo, all’incirca dalla data del primo triumvirato alla
battaglia di Filippi (42 a.C.);
• Pompeo Trogo è un contemporaneo di Livio originario della Gallia Narbonense. Della sua opera, le Historiae
Philippicae, ci è giunta testimonanzia grazie all’epitome giustiniana del II/III sec. d.C.
Già dal titolo dell’opera vediamo l’assunto polemico: Trogo voleva scrivere una vera e propria opera universale, che
andasse dagli antichissimi tempi di Babilonia fino ai giorni dell’autuore; tracciando la storia dei diversi imperi, Trogo
dedicava ampio spazio a quello macedone, di Filippo e poi di Alessandro Magno. La sua opera ci consente di
intravedere una concezione diversa da quella di Livio - per il quale Roma è il perno attorno al quale ruotano le
vicende della storia universale -: Roma appare, agli occhi di Pompeo Trogo, solo una delle numerose egemonie
che si sono passate l’imperium nei secoli;
• Tito Labieno fu un autore di un’opera storiografica dissidente condannata al rogo nel 12 d.C.;
• Cremuzio Cordo scrisse gli Annales, un’opera storiografica che esaltava l’uccisione di Cesare e che fu condannata
al rogo ma salvata e poi pubblicata, mentre il suo autore scelse suicidò senza aspettare l’esito del processo
intentatogli da Seiano, il potente prefetto del pretorio di Tibero.
Vengono fondate tre biblioteche pubbliche, la più importanti delle quali è la Biblioteca Palatina, diretta da Giulio
Igino, un liberto di origine spagnolo, amico di Ovidio e iniziatore dell’esegesi virgiliana antica.
Valerio Flacco è invece il maggior grammatico del tempo. Fu scelto da Augusto stesso come precettore per i suoi
nipoti, Lucio e Livio. Le sue opere trattavano argomenti per lo più eruditi, tradizioni e costumi romani degli antichi; fra
queste si ricordano i Fasti, utilizzati sicuramente da Ovidio, e soprattutto il De verborum significatu, un glossario
alfabetico di termini difficili o desueti.
Sappiamo per certo che l’interesse grammaticale e lessicologico di Flacco era strettamente connesso con la ricerca
delle antiche tradizioni: i singoli lemmi offrivano all’autore continue occasioni di excursus sull’antica Roma e sui popoli
italici.
Nel suo trattato, Vitruvio offre anche un ritratto del perfetto architetto, figura che potrebbe essere paragonata
all’ingegnere moderno. Questi, lungi dall’essere solo uno specialista, doveva possedere una vasta cultura generale:
la conoscenza dell’acustica è richiesta per la costruzione dei teatri, quella dell’ottica per l’illuminazione degli edifici,
quella della medicina per la scelta delle aree edificabili e, soprattutto, quella della filosofia.
In questo ritratto è evidente l’eco del modello dell’oratore ciceroniano: Vitruvio manifesta così l’esigenza di conferire
all’architetto il prestigio sociale che la società antica di solito negava alle discipline tecniche.
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- le leggi delle XII tavole, che fissavano le più importanti norme del diritto consuetudinario arcaico e che non furono
mai abolite, rimanendo formalmente in vigore fino all’età di Giustiniano. Il diritto arcaico era caratterizzato da un
fortissimo formalismo, per cui ogni transazione legale o lite giudiziaria prevedeva l’uso di solenni formule orali, simili a
quelle del linguaggio religioso e liturgico.
Iurisperiti furono:
• Tiberio Coruncanio, primo pontefice massimo di estrazione plebea e console nel 280, ammetteva il pubblico alle sue
consultazioni di diritto;
• Gneo Flavio fu autore di un manoscritto delle legis actiones di Appio Claudio Cieco, di cui era liberto e segretario.
Per tutto il periodo repubblicano i giuristi più importanti provenivano da famiglie senatorie e associavano
all’attività giuridica le varie cariche della carriera pubblica. D’altra parte, poiché il giudice e il magistrato non erano
necessariamente esperti di diritto, la funzione del giureconsulto era assai rilevante nel sistema legale romano: oltre
a dare consigli nelle controversie tra privati, asssiteva con le sue consulenze i magistrati dello Stato, in particolare
curando la formulazione corretta degli editti di pretori, edili, questori, censori e governatori di province. Di questa attività
era espressione una letteratura giuridica che comprendeva raccolte di responsa e quaestiones, e soprattutto commenti
agli editti dei pretori.
A scrivere commenti alle leggi, spesso con funzione didattica, fu Elio Peto, console nel 198 e autore dei Tripertita,
un’opera contenente le leggi delle XII tavole, un commento giuridico e le legis actiones; l’opera di Peto fu la base su cui
fiorì una letteratura giudiziaria sempre più affinata.
Quinto Muzio Scevola l’Augure, di cui Cicerone fu scolaro, e Quinto Muzio Scevola il Pontefice furono figure di
rilievo per le loro competenze prestate alla costruzione di un pensiero giuridico sistematico. Il Pontefice pubblicò infatti
una trattazione sistematica di diritto civile, fondamento di molti commenti giuridici posteriori.
Servio Sulpicio Rufo fu un continuatore ex professo di questi studi: giureconsulto ammirato da Cicerone, scrisse un
gran numero di opere giuridiche (ca. 180 libri), commentò anch’egli le XII tavole, corredò di note critiche l’opera
sistematica di Scevola e si distinse per aver dedicato diverse monografie a singole parti del dilitto.
In età augustea gli studi giuridici maturano tanto da originare due scuole di pensiero, guidate da due figure di origine
plebea antagoniste tra loro.
• Antistio Labeone, che rifiutò il consolato offertogli da Augusto preferendo una vita più appartato, era un esperto di
dialettica, storia della lingua, grammatica e filosofia. Trascorreva, ogni anno, sei mesi a Roma per insegnare e sei
in campagna per scrivere e studiare: dei suoi ca. 400 libri ricordiamo i Pithanà (“Casi plausibili”), i Responsa, le
Epistulae e il De iure pontificio (libri 15), oltre a commenti, a leggi e opere giuridiche.
Fu un grande innovatore e per niente conservatore;
• Ateio Capitone, che completò il cursus fino al consolato (5 d.C.), conservatore rispetto al precedente, si occupò
principalmente di diritto costituzionale e di diritto sacro: ricordiamo il De iure pontificio, il De iure sacrificiorum e i
Coniectanea.
Dalla contrapposizione di queste due scuole di giurisprudenza vide originarsi, nel I sec. d.C., la contrapposizione tra:
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• Proculiani, dal nome di Proculo, giurista della prima metà del I sec. d.C., che curò delle Notae ai libri postumi di
Labeone, di cui si pose come seguace;
• Sabiniani, dal nome del giurista Masurio Sabino, o Cassiani, da quello del successore Cassio Longino.
Le divergenze tra queste due scuole dovevano manifestarsi soprattutto su singoli punti legali, piuttosto che su una
consistente base dottrinaria.
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