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Angela Peccioli, Alberto Cacciapuoti a.a.

2023/2024

LABORATORIO DI STORIA MEDIEVALE

Torino e i suoi statuti nella seconda metà del Trecento, a cura dell'Archivio storico della città
di Torino (1981).

Rinaldo Comba, La popolazione di Torino nella seconda metà del Trecento. Crisi e ricambio
demografico.

Le ricerche sulla ricostruzione della storia demografica di una città permettono di conoscere meglio
le strutture sociali e produttive e i rapporti con il territorio circostante.

Le risorse disponibili per approfondire tali temi sono solitamente limitate, frammentarie e
richiedono un'interpretazione attenta. Nel contesto di Torino nel periodo bassomedievale, ad
esempio, le uniche raccolte di fonti che consentono un'analisi demografica con una certa regolarità
sono rappresentate dagli Estimi (documenti fiscali che contenevano una valutazione dettagliata dei
beni, delle proprietà e delle risorse economiche di individui e famiglie all'interno di una determinata
giurisdizione, come una città o un territorio. Gli estimi erano utilizzati per determinare l'ammontare
delle tasse dovute dai cittadini), dagli Ordinati (decreti o leggi emessi dalle autorità comunali o dai
signori locali per regolare vari aspetti della vita cittadina. Questi decreti potevano riguardare la
sicurezza, l'ordine pubblico, le regolamentazioni commerciali, le costruzioni e altre questioni
amministrative) e dagli Abitacoli (documenti che si riferiscono alle unità abitative, case, edifici e
residenze in cui vivevano i cittadini torinesi. Nel contesto dei documenti fiscali e amministrativi,
potevano essere valutati come parte degli "estimi" quando si valutavano le proprietà e i beni dei
cittadini).

Le evoluzioni demografiche rappresentano un fenomeno “globalizzante”, con molteplici relazioni


con il reale, attraverso cui è possibile leggere le trasformazioni di un’intera società.

Nel caso specifico di Torino, l’unico metodo che consente di ricostruire in maniera sufficiente e
solida i processi demografici nell’età tardomedievale è rappresentato da un esame comparato degli
elenchi nominativi dei contribuenti iscritti al catasto.

Avvicinandosi alla metà del ‘200 comincia ad affermarsi il “regime di popolo”. Il sistema
corporativo si basava sull’iscrizione nei registri. In questo senso, lo strumento della lista diviene
particolarmente importante, costituita dai membri delle corporazioni con l’obiettivo di tener traccia
dei gruppi di iscritti, selezionati, attraverso l’elenco dei loro nomi.

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Il valore fondamentale teorico-giuridico-amministrativo è che il nome, nella lista, rappresentava la


persona. La lista aveva, per l’appunto, questo potere: si trattava di una forma di ordinamento capace
di far comprendere in che modo la società avesse raggiunto livelli tali di astrazione e di “divisione”
in categorie. L’atto concreto di scrivere, in questo senso, veniva associato a finalità ordinatrici.

In età comunale, dunque, la lista diviene un vero e proprio sistema di ordinamento


dell’amministrazione dei cittadini capace di ridurre le persone a semplici nomi. In questa lista si
trovavano le firme. Il comune si basava molto su questo registro, per controllare la quantità di beni,
principalmente quelli immobili, che le persone avevano a disposizione. La cui finalità era la corretta
divisione delle tasse che ogni singolo cittadino doveva al comune.

Con la comparsa dell’estimo si comprende come il problema fosse stato risolto in direzione di una
tassazione proporzionale. La prima forma di ricchezza tassata era rappresentata dai beni immobili, e
nell’estimo ognuno aveva il dovere di dichiarare ciò che possedeva.

Per descrivere a grandi linee un modello di “dichiarazione di estimo”, si può dire che contenesse il
nome e il patronimico dei contribuenti, la loro provenienza e/o parrocchia di residenza e
informazioni dettagliate sulle proprietà terriere, i raccolti, il bestiame, le attività economiche e altre
risorse dei cittadini soggetti alla tassazione.

I cittadini iscritti a questi estimi facevano una autodichiarazione dei propri beni e per verificare che
non occorressero delle frodi poteva, inoltre, esserci un’inchiesta, in cui venivano mandati degli
inquisitores per controllare se quanto dichiarato corrispondesse alla realtà.

Il comune di Torino dispone di una delle serie di catasti medievali più importanti del Piemonte, a
partire dagli anni 1349-50. Quelli che sono stati conservati al completo riguardano gli anni 1363,
1391-93, 1415, 1453, 1464, 1485, 1488.

I catasti più antichi sono stati sottoposti ad un esame dettagliato dal punto di vista demografico, al
fine di individuare i processi di rinnovamento della popolazione: nella pratica, attraverso il
confronto di questi, è stato possibile verificare se i nomi recensiti si ripetessero o se, al contrario,
fossero stati sostituiti da nomi nuovi; di conseguenza, nel momento in cui si è notato che in uno
stesso quartiere a diversi anni di distanza si trovavano contribuenti con lo stesso cognome, è stato
legittimo credere che quel determinato gruppo familiare fosse sopravvissuto.

Patrizia Carmine ha dedicato uno studio ai catasti del 1363 e del 1415, i quali forniscono una lista
nominativa completa dei possessori di beni mobili e immobili. Questa fase storica riguarda il

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periodo che va dall'inizio della dominazione sabauda nel 1280 alla conclusione del dominio dei
Savoia-Acaia sulla città nel 1418.

I dati riferiti a ciascun nome possono essere inoltre integrati con una terza lista situata all’interno di
un riassunto del 1393. Tale lista consente di integrare a sua volta i dati contenuti in un catasto del
1391, il riassunto o estratto a fini fiscali, (liber summarum registri), comprendente solo tre quartieri
della città, per questo non è del tutto analizzabile.

A tale elenco sono state aggiunte a margine notizie riguardanti la morte o l’emigrazione, tra il 1393
ed il 1404, dei contribuenti recensiti nel 1391: ciò permette di avere un quadro ancora più
dettagliato del rinnovamento della popolazione in quegli anni.

Si potrebbero inoltre aggiungere 58 volumi di Ordinati a partire dal 1325, che in verità̀
costituiscono una serie sostanzialmente completa soltanto dal 1372.

Dalla rielaborazione sistematica dei dati presenti in queste serie, eventualmente integrati con
informazioni provenienti da fonti diverse, è necessario procedere per ottenere una breve ma
accurata ricostruzione delle dinamiche demografiche e delle strutture di Torino nel periodo
compreso tra il 1280 e il 1418.

La dimensione demografica di Torino tra la fine del XIII secolo e gli anni precedenti alla diffusione
della peste nera non è documentata in modo esplicito da nessuna fonte. Tuttavia, basandosi sui dati
parziali del registrum del 1349-50, compilato principalmente dopo l'epidemia che aveva colpito
circa un terzo della popolazione cittadina, e considerando il numero di esenti e degli extravagantes
non registrati nell'estimo, si stima che, nel terzo decennio del XIV secolo, la popolazione di Torino
fosse costituita da circa 1100 nuclei familiari, corrispondenti probabilmente a 4000-5000 abitanti.
Le proporzioni demografiche complessive di Torino risultavano relativamente limitate, se messe a
confronto non solo con le dimensioni della metropoli ambrosiana ma anche rispetto a molte altre
località nell'Italia centro-settentrionale e alcuni considerevoli centri minori all'interno della diocesi
torinese.

Nel primo mezzo secolo di dominazione sabauda, la popolazione torinese deve aver conosciuto un
sensibile incremento.

Per acquisire conoscenza sulle aree geografiche coinvolte e sugli ambiti sociali e professionali
interessati da questo fenomeno, si potrebbe condurre un'indagine utilizzando dati provenienti dagli
estimi, dai libri summarum registri e dagli Ordinati comunali. Inoltre, si potrebbe esplorare il Liber
instrumentorum pactorum habitatorum civitatis Taurini, un codice pergamenaceo che contiene

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documenti relativi agli "abitacoli" e agli acquisti effettuati da immigrati ufficialmente accettati in
città come habitatores a partire dal 1284.

Un momento storico che influì significativamente sulla demografia è di certo individuabile nella
peste nera del 1348, la quale ebbe un impatto legato non solo all’epidemia in sé, (la quale,
d'altronde, si ripresentava in maniera ciclica ogni circa vent’anni) ma anche, e soprattutto, legato
alla decimazione demografica che portò con sé, spingendo così i comuni ad aprire la cittadinanza
per necessità di fondi e di persone.
Vi è da ricordare anche che, come la cittadinanza si acquista, la si può perdere. Venivano privati di
questo diritto, in particolare, i banditi, coloro che nel momento in cui il comune divenne “di
popolo” decisero di non partecipare all’estimo o di non pagare la tassazione loro dovuta.
Ci troviamo in un periodo in cui il concetto di cittadinanza acquista basi giuridiche ben solide,
quelle del diritto romano, ed è proprio su queste basi che vengono a delinearsi anche situazioni nelle
quali i cittadini potevano avere due cittadinanze, entrambe regolamentate.

La questione demografica a Torino può essere dunque analizzata scandendola in tre fasi principali:
prima, durante e dopo la peste nera, prendendo questa come momento di riferimento.

Prima della peste, l’immigrazione in città riguardava prevalentemente i nobili locali, incentivati dal
Consiglio (ci sono rimasti i patti che testimoniano la loro accettazione in quanto cittadini e con
privilegi particolari), ma poteva riguardare anche contadini o piccoli proprietari terrieri.

Durante la peste ci furono invece ondate cicliche ed impatti sulla popolazione, tanto che, dopo la
peste del 1348, la popolazione non riuscì effettivamente a diminuire di molto, poiché ci fu
comunque molta immigrazione. Si incentivò infatti l’immigrazione da lontano, aumentando il
raggio entro il quale accettare i nuovi ingressi, corrispondente a questo punto a 50km.
Con il raggio, cambia inoltre lo status sociale dei nuovi arrivi come cambiano i criteri di
accettazione: cominciano ad arrivare le maestranze (artigiani) e non solo più i contadini.
Questi nuovi ingressi furono dunque incoraggiati con l’obiettivo di riparare i danni provocati dalla
peste.
Tuttavia, i nuovi arrivati giungevano anche per necessità, avendo una condizione di vita precaria;
per questo, va da sé che le occupazioni che trovavano non potevano che essere di basso livello,
determinando di conseguenza una cittadinanza di basso livello.

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Sicuramente l’economia cittadina e territoriale ha contribuito non poco alle decisioni inerenti alla
questione della cittadinanza e delle immigrazioni. È possibile, infatti, individuare una correlazione
tra l’economia torinese e le ondate migratorie.
La città di Torino, pur non essendo un principale centro urbano (come Milano) è comunque uno dei
centri più importanti.
La principale forma economica intorno cui ruotava la città era rappresentata dall’agricoltura e
dall’allevamento, così che l’immigrazione, va da sé, era meno qualificata in senso artigianale e a
livello di potenzialità economica: erano pastori, agricoltori e proprietari terrieri. Tra coloro di più
alto livello, si potevano trovare principalmente i nobili con possedimenti, che entravano in città
offrendo il patrimonio fondiario tipico di coloro che investivano nell’agricoltura.
Questo ritratto dell’immigrato torinese non è l’unico che si potrebbe delineare: esisteva, infatti,
anche una forma di migrazione di uomini d’affari di vari livelli, la quale, tuttavia, fu più ridotta
nella fase precedente alla peste. Tutto ciò si può notare negli estimi, sia dal tipo di patrimonio delle
persone che si registravano, sia nel modo in cui si delineavano i patti che queste persone
effettuavano con il comune.
Dagli Ordinati è possibile stimare una media della richiesta di cittadinanza annua, al fine di
constatarne la tendenza comparata ai periodi di crisi demografiche. Un importante dato da prendere
in considerazione è quindi quello del cambiamento nella quantità di richieste accettate, con una
media di tre richieste all’anno che iniziava a fluttuare a cinque, fino ad arrivare ad una cifra
massima di otto richieste in un anno.
Confrontare questi dati con gli estimi permette allora di capire come l’immigrazione, di fatto, ebbe
un forte impatto sulla popolazione e che tipo di ricircolo ci fu; in particolare, quali cognomi
sopravvissero, quali patrimoni vennero trasferiti, quali nomi comparivano e rimanevano negli
estimi; dunque, quale percentuale di popolazione fosse non appartenente da lunga data alla
popolazione torinese.

Finito il periodo di crisi, non solo demografica ma anche in termini di produttività, pare che la città
non fosse riuscita a mantenere un buon livello di immigrazione. Conosciamo, infatti, il mestiere di
circa il 20% della popolazione: erano pastori, contadini, piccoli e medi proprietari terrieri. Dai dati
sembra non emergere che la città volesse trasformarsi, dopo la crisi, in un polo di attrazione in
termini fissi. Ricevette il flusso migratorio dalle campagne i cui abitanti fuggivano da una crisi di
sussistenza, che col passare del tempo si arrestò.
Sempre a partire dagli Ordinati sappiamo che gli imprenditori cittadini avevano particolare interesse
nel cercare di mantenere elevata questa tipologia di immigrazione, a livello artigianale in particolar
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modo, per cercare di fare uno scatto qualitativo ed aumentare la qualità delle produzioni, soprattutto
in ambito tessile. La città di Torino aveva infatti un discreto quantitativo di pastori poiché sulla via
della transumanza, e dunque tutti i colli torinesi si prestavano bene al pascolo determinando una
grande abbondanza di lana. Per la produzione dei tessuti c’erano, tuttavia, diversi passaggi che
potevano essere svolti a domicilio, al punto che le persone con un certo patrimonio in città
investivano proprio su questo, sulla materia prima e sulla manodopera di coloro che potevano
lavorare da casa.
Questo profilo di persone veniva regolarmente sottratto a Torino, principalmente da Moncalieri,
dove le tariffe erano più vantaggiose e di conseguenza i produttori di lana, tendenzialmente,
venivano meglio pagati.

L’idea di cittadinanza a livello torinese è legata all’élite cittadina che resta a Torino stabilmente e
che domina il panorama patrimoniale. Ha il controllo della maggioranza dei terreni, si occupa delle
attività produttive, ha un’iniziativa economica molto diversificata senza essere specializzata in nulla
e non è interessata ad espandersi; si tratta di un’élite che è abbastanza numerosa da non aver
bisogno di integrarsi nonostante le crisi, bensì è interessata a garantirsi il funzionamento delle
attività economiche incoraggiando la manodopera verso Torino.

Nella seconda metà del Trecento, il declino demografico nella città di Torino non fu indifferente:

furono 717 i contribuenti del 1363, sostituiti dai 723 dell’anno 1391-93 e successivamente dai 625
nel 1415.

La peste nera (1349-50) causò una dura decimazione sulla popolazione torinese, mietendo circa un
terzo degli abitanti.

Il confronto attuato dalla Carmine sui catasti del 1363 e del 1415 rivela che su 415 cognomi
recensiti nel 1363, 222 di loro (53%, cioè 41% dei contribuenti) scompaiono.

Rapportando invece le percentuali alle cifre del 1415, si nota come 320 contribuenti (51%) portano
uno dei 169 cognomi recensiti nel 1363, mentre la parte restante (44%) è rappresentata da cognomi
nuovi.

Si può notare come il fenomeno dell’estinzione dei cognomi abbia interessato soprattutto i
contribuenti i cui beni immobiliari erano poco importanti o addirittura inesistenti. In particolare:

- Il 60% dei cognomi scomparsi riguarda persone sprovviste di beni immobili

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- Il 48% persone proprietarie di meno di 10 giornate di terra

- Il 26% persone che possiedono da 10 a 40 giornate di terra

- Il 14% persone che dispongono di più di 40 giornate.

Le percentuali sul totale degli scomparsi sono inversamente proporzionali alla quantità di beni
immobili posseduti. Si verifica dunque un consistente rinnovamento della popolazione che
coinvolge prevalentemente le classi sociali più sprovvedute di beni.

Le élite, che gestivano la politica, che erano costituite da famiglie, rimasero pressoché invariate.
Gli estimi danno informazioni anche sulla variazione dei nuclei familiari: quante erano le donne
nubili, quali i periodi di nozze, quanto fossero diffusi i nuclei familiari, etc.

A quanto ammontava quindi la popolazione di Torino?

Per rispondere a questa domanda è possibile attuare un confronto tra i catasti del 1391 e l’elenco
nominativo del 1393, al fine di ricostruire in maniera pressoché precisa il numero dei possessori di
quegli anni: 723, marginali ed esonerati esclusi.

I marginali erano coloro che non possedevano beni in città, non iscritti al catasto, pur risiedendo ed
abitando in città con la famiglia. Si tratta di coloro che venivano classificati come extravagantes, ed
erano in tutto 73.

Di conseguenza, tra gli anni 1391-93, i catasti e gli elenchi nominativi riportano circa 800 persone.

La popolazione di Torino doveva aggirarsi sulle 3500/4000 persone.

Per quanto riguarda il rinnovamento della popolazione si deve tener conto sia del saldo naturale che
di quello migratorio: per fare ciò, sarà necessario basarsi sull’elenco dei catasti del 1393, che
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purtroppo presentano molte lacune (ad es. mancano le annotazioni a margine che ci privano di
notizie riguardanti la morte e l’emigrazione di 59 contribuenti e inoltre non abbiamo alcuna notizia
dei 73 extravagantes citati).

Lo scopo di queste informazioni non era di carattere demografico bensì fiscale, si cercava di
impedire eventuali frodi ai danni del comune di Torino. Sappiamo che dei 664 contribuenti, 128
erano morti prima del 1404 e 41 erano emigrati. Un esame più approfondito delle annotazioni
riporta che il 16% (cioè, 21 contribuenti) avevano lasciato i propri beni a persone con il loro stesso
cognome, il 40 % (cioè, 51 contribuenti) a persone con cognome diverso e il 36% (cioè, 46
contribuenti defunti) non avevano lasciato nulla in eredità a cittadini torinesi per diverse ragioni. Gli
eredi di 8 contribuenti erano emigrati, mentre altri 46 erano morti senza eredi (poiché privi di
discendenti o poiché i loro beni furono ceduti a creditori).

Da questi dati si può intendere un bilancio passivo della popolazione, e ciò non appare strano se si
tiene in conto il fatto che la peste colpì nuovamente la città nel 1399 con una conseguente
diminuzione della popolazione.

È possibile dedurre qualche elemento in più per capire il numero della popolazione Torinese dal
bilancio migratorio: sappiamo infatti che nei verbali del consiglio comunale fra il 1393 e il 1404,
circa 30 uomini con le rispettive famiglie emigrarono da Torino. Cifra sensibilmente inferiore a
quella accertata per i contribuenti emigrati nello stesso periodo. Se questi dati vengono associati tra
loro (bilancio migratorio e quello naturale) non è difficile spiegare il calo del numero dei
contribuenti tra fine ’300 e i primi anni del ‘400.

Tuttavia, l’immigrazione a Torino non è sempre stata così poco consistente: se tra il 1363-93 la
popolazione della città non diminuì, fu dovuto in gran parte all’immigrazione. Nei verbali del
registro comunale tra il 1373-93 vengono registrate circa 90 concessioni di domicilio, mentre nei 3
quartieri (Porta Pusterla, Doranea e Marmorea), per i quali è stato conservato il catasto del 1391, su
580 contribuenti, 147 erano habitatores immigrati a Torino e il rinnovamento della popolazione si
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effettuò a spese degli strati sociali più bassi. Non a caso, fra questi 147 censiti nella summa registri,
l’85% (cioè, 125) non oltrepassava le 10 lire, e 70 arrivavano appena al minimo imponibile di 3 lire.

Anche l’emigrazione interessava soprattutto le classi sociali più sfavorite, il 75% degli emigrati tra
il 1393-1404 non superava le 10 lire e fra loro il 39% non superava le 3 lire.

Nonostante ciò, le classi dirigenti comunali cercavano di favorire l’immigrazione di artigiani e di


manodopera specializzata, anche se con scarsi successi. Nel 1393 il consiglio cittadino accettò due
magistri milanesi specializzati nella fabbricazione di panni e fustagni, con clausole molto
favorevoli. Nel ventennio anteriore non risultano immigrati che provenissero da tanto lontano o con
un mestiere così prestigioso. Si ricorda solo la concessione della cittadinanza a un mercante di
Pinerolo ed un aiuto finanziario per l’affitto di una casa ad un riparatore d’armature.

Inoltre, nel ventennio precedente il 1393 si riscontra qualche artigiano che arriva in città su circa
100 habitatores, ma ciò sicuramente non ha permesso una svolta “industriale” alla Torino
dell’epoca, la quale basava ancora la maggior parte della propria economia sui contadini, tra i quali
pochissimi proprietari terrieri.

Questa situazione di depressione, non soltanto demografica, sembra però cambiare nel corso del
‘400, nonostante siano ancora necessari intensi studi per chiarificare al meglio la situazione.

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