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Parte seconda

Dalla promozione allo scontro col moderno. Analisi


giacomo todeschini
Cristianesimo e modernità economica

1. La «rivoluzione economica» medievale e la chiesa.

La trasformazione economica concretizzatasi in Europa, dal xii al xv


secolo, in una accelerazione della circolazione di ricchezza e in una mol-
tiplicazione degli scambi, è stata spesso considerata dagli storici come
un fenomeno autoreferenziale, ossia esterno alle dinamiche politiche e
istituzionali che gli facevano da sfondo. Si è dunque troppo spesso par-
lato di prima economia di mercato, o di cultura mercantile, dimentican-
do che il «tempo» mercantile e quello rituale o religioso erano comun-
que interni a una dimensione istituzionale, a dialettiche del potere e del-
la politica, che ne stabilivano i ritmi e che fissavano e diffondevano i
linguaggi in grado di rendere parlabili quelle differenti temporalità. Se,
come ha sottolineato di recente Avner Greif1, le regole di comportamen-
to di una società sono, oltre che riassunte, anche descritte e diffuse da-
gli apparati istituzionali, civici, governativi, cultuali, apparirà verosimi-
le che, nell’epoca della «rivoluzione economica» bassomedievale, la cre-
scente solidità istituzionale delle chiese, e della chiesa romana che le
ricapitolava, abbia avuto molto a che fare con la formazione e la propa-
gazione dei vocabolari e delle concettualizzazioni riguardanti il profit-
to, il denaro, e, nel complesso, il significato sociale degli scambi econo-
mici. Una volta chiarito il ruolo determinante svolto dal mondo signo-
rile europeo nel decollo di un’economia mercantile, si dovrà dunque
sottolineare il fatto che, nel centro di questo mondo signorile e sovra-
no, fatto di principi, capifamiglia, padroni della terra, piccoli e grandi,
forti e meno forti, si ergeva il modello dominativo e amministrativo ec-
clesiastico reso possente e riconoscibile, da secoli, tanto in conseguen-

1
a. greif, Institutions and the Path to the Modern Economy. Lessons from Medieval Trade, Cam-
bridge University Press, Cambridge 2006, pp. 128 sgg. Sulla questione del rapporto tra «tempo»
mercantile e «tempo» religioso cfr. j. le goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, e altri sag-
gi sul lavoro e la cultura nel Medioevo, Einaudi, Torino 1977, discusso in g. todeschini, Valore del
tempo consacrato e prezzo del tempo commerciabile: le dialettiche dello scambio nel basso medioevo,
in aa.vv., Sentimento del tempo e periodizzazione della storia nel medioevo, Centro italiano di studi
sull’Alto Medioevo, Spoleto 2000, pp. 232-56.
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za della pratica gestionale esercitata da vescovi e abati su vasti territo-


ri, quanto in ragione dell’abitudine di questi signori consacrati a legife-
rare in materia economica e amministrativa oltre che a ragionarne in
chiave allegorica e teologico-morale. I tre aspetti vanno considerati con
attenzione senza cadere nella trappola di una sottovalutazione dell’uno
o dell’altro: furono infatti importanti e storicamente influenti sia l’abi-
tudine della cultura scritta cristiana a servirsi di linguaggi e immagini
economici per descrivere i fondamenti metafisici dell’identità colletti-
va dei fedeli (dalla parabola dei talenti alle procedure discorsive relative
alla «contabilità della Salvezza», sino alla divulgata immagine del Cri-
sto-mercante e del demonio-usuraio), sia la concreta consuetudine am-
ministrativa di vescovi e abati, in se stessa produttiva di logiche della
contabilità razionale, sia la produzione normativa ecclesiastica in mate-
ria economica sfociante, dal xii al xiii secolo, nella codificazione di una
razionalità in grado di rappresentare come sacre tutte le transazioni eco-
nomiche e le forme di proprietà che si potessero riconoscere come «pub-
bliche» in quanto ecclesiali, oltre che di descrivere, per logica conse-
guenza, come eminentemente «pubblica» la realtà delle relazioni eco-
nomiche propriamente ecclesiastiche ovvero concernenti gli spazi e gli
oggetti sacri2.
Se si hanno in mente queste premesse, apparirà chiaro che la pro-
gressiva legittimazione ecclesiastica dell’operatività commerciale e del-
la professionalità mercantile, palese dall’xi al xiii secolo, non ebbe ba-
nalmente il senso di una resa di fronte alle esigenze di un’incipiente e
dura modernità, ma piuttosto significò l’inclusione crescente nello spa-
zio dell’economia sacra delle chiese e delle città o dei regni di quanti,
commercianti in origine anonimi e «poveri» ossia laici e ignoti, veniva-
no acquisendo una sempre maggiore visibilità pubblica e diventavano
sempre più evidentemente funzionali alla costruzione della civitas cri-
stiana. Fenomeni storico-economici largamente indagati come, da un la-
to, l’alleanza due e trecentesca della Santa Sede con compagnie com-
merciali capaci di gestire in termini bancari le politiche fiscali pontifi-
cie, e, dall’altro, la netta polemica ecclesiastica sia politica che teologica
nei confronti del prestito a interesse, appaiono dunque le naturali e non
contraddittorie conseguenze di una preliminare e ben più antica oltre

2
Cfr. p. von moos, “Public” et “privé” à la fin du Moyen Âge. Le “bien commun” et la “loi de la
conscience”, in «Studi medievali», 3ª serie, XLI (2000), n. 2, pp. 505-48; g. todeschini, Il prezzo
della salvezza. Lessici medievali del pensiero economico, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1994; id.,
Linguaggi teologici e linguaggi amministrativi: le logiche sacre del discorso economico fra viii e x seco-
lo, in «Quaderni storici», CII (1999), n. 3 (Linguaggi politici, a cura di E. Artifoni e M. L. Pesan-
te), pp. 597-616.
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che strutturata connessione fra cristianità istituzionale e pratiche del


mercato. Se, infatti, dopo gli approfondimenti giuridici e teologici del-
la nozione di credito avvenuti fra xi e xiii secolo, la prassi bancaria e fi-
scale poteva apparire come un versante tecnico e necessario dell’ammi-
nistrazione della Salvezza organizzata dalla Sede romana, allo stesso tem-
po la realtà del prestito a interesse su pegno o su base ipotecaria gestito
quotidianamente e in pubblico da soggetti privati e laici appariva come
il complemento negativo, come il lato oscuro, di un’economia legalizza-
ta, invece, soltanto dalla sacralità dei suoi obiettivi3. Il protagonismo ci-
vico delle compagnie mercantili italiane dal Due al Trecento, l’intrec-
cio fitto delle loro strategie di arricchimento con le politiche finanzia-
rie, oltre che della Santa Sede, di sovrani europei che, come quello
francese o quello inglese, vivevano e vedevano riconosciuto il proprio
potere nei termini di un carisma divino, fece sì che la primissima mo-
dernità economica avesse uno spiccato carattere religioso, ambiguamen-
te oscillante fra la devozione a una civitas o a una patria e la fedeltà, la
fides, nei confronti di un modello rituale e cultuale specificamente cri-
stiano.
Era in questo quadro di riferimento, in grado di connettere i signi-
ficati civici a quelli economici, e di fare del profitto commerciale un
aspetto dell’organizzazione cittadina intesa come sistema di relazioni ri-
conoscibile primariamente a partire dalle sue valenze religiose e cultua-
li, che affiorava sempre più chiaramente dal xii al xiv secolo la questio-
ne dell’economia gestita dagli «infedeli», e in particolare dagli ebrei.
Poiché l’identità civica e religiosa degli operatori economici, mercanti,
artigiani, negozianti, faceva della loro credibilità sul mercato una fac-
cenda simultaneamente religiosa ed economica, ne risultava che quanti
agivano economicamente dal di fuori del perimetro civico cristiano ve-
nivano a trovarsi in una condizione molto particolare. Non per caso, l’i-
dentificazione usuraria degli ebrei della diaspora occidentale era appar-
sa e si era divulgata, prima di tutto in ambiente canonistico, a partire
dalla metà del xii secolo, concretizzandosi non, come spesso si crede, in
una generica accusa di monopolizzare il mercato del credito, ma nella
assai più specifica imputazione di impossessarsi dei beni immobili eccle-
siastici tramite mutui ipotecari4. La condanna esplicita della professio-

3
Cfr. j. gilchrist, The Church and Economic Activity in the Middle Ages, St. Martin’s Press,
New York 1969.
4
Cfr. s. grayzel, The Church and the Jews in the Thirteenth Century. A Study of their Relations
During the Years 1198-1254, Based on the Papal Letters and the Conciliar Decrees of the Period, Dropsie
College, Philadelphia Pa. 1933; da integrare con a. linder (a cura di), The Jews in the Legal Sources
of the Early Middle Ages, Wayne State University Press, Detroit Mich. 1998.
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ne di usuraio pubblico, senza ulteriori precisazioni religiose, codifica-


ta nel terzo Concilio lateranense del 1179, aveva indicato nel mestiere
di prestare denaro a interesse sotto gli occhi di tutti una prova dell’estra-
neità al consorzio civile di individui solo nominalmente cristiani e che,
pertanto, non avrebbero potuto partecipare ai riti della socialità né es-
sere sepolti in terra consacrata. Nel 1215, tuttavia, il quarto Concilio
lateranense aveva precisato quel divieto sottolineando la specifica peri-
colosità dell’usura ebraica: l’estraneità civica e religiosa dell’usuraio cri-
stiano era riassunta e tipizzata dall’infidelitas di quanti, ebrei, servendo-
si di transazioni creditizie, spogliavano la cristianità dei suoi possessi
più sacri, quelli delle chiese5. La prossimità dell’usura all’eresia e all’i-
dolatria, tradizionalmente stabilita dalla teologia morale sin dai tempi
patristici, si traduceva, quindi, in fase di «rivoluzione economica», in
una definizione più tecnica dell’illecito economico e contrattuale. Era
usura, e dunque eresia ed estraneità al mercato cristiano, in primo luo-
go la compravendita di denaro operata fra privati, al di fuori di ogni con-
trollo, ma anche ogni transazione nell’ambito della quale il denaro frut-
tava altro denaro senza che fosse possibile individuare alcun connotato
pubblico (e dunque sacro) dell’affare, né risultasse visibile alcuna iden-
tità riconoscibile come cristiana ossia come civica di coloro che concre-
tamente stipulavano un contratto. Ciò fece sì che, nello sviluppo, due-
centesco soprattutto, della riflessione giuridica e morale sull’economia
dei cristiani, all’usura venisse riservata una grande attenzione6. Questa
attenzione, tuttavia, desumibile da bolle pontificie, trattati e questioni
di argomento economico o contrattuale, e dispute su problemi di ambi-
to monetario, non mirava a destabilizzare su basi teologiche il mercato
e il sistema delle relazioni creditizie, ma anzi, al contrario, a distingue-
re, con la massima precisione possibile, gli affari e il credito di pubbli-
ca utilità, ossia funzionali alla crescita e all’arricchimento di chiese, città
e regni, dalle imprese commerciali e dal credito pertinenti ad ambiti
esclusivamente privati o estranei alla socialità cristiana, e dunque cata-
logabili come forme nocive della relazionalità economica, come, dun-
que, speculazioni e usure. Soprattutto i due ambiti economici caratte-
rizzati dall’imprenditorialità mercantile-bancaria delle grandi aziende
interfamiliari e dal commercio delle rendite agricole operato normalmen-
te dagli enti religiosi, vennero sempre più, a partire dalla metà del xiii

5
Cfr. Constitutiones Concilii Quarti Lateranensis una cum Commentariis Glossatorum, a cura di
A. Garcìa y Garcìa, Città del Vaticano 1981, canone 62.
6
Cfr. t. p. mclaughlin, The Teaching of the Canonists on Usury (xii, xiii and xiv Centuries), in
«Medieval Studies», n. 1 (1939), pp. 81-147; n. 2 (1940), pp. 1-22.
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secolo, rappresentati dalla normativa e dalla trattatistica come gli spazi


del profitto legittimo ed etico. Tra la figura del mercante-banchiere in-
serito in un contesto familiare di alto significato civico, ossia apparte-
nente ad ambienti della ricchezza politicamente convalidati come otti-
mamente reputati, gli amministratori ecclesiastici di chiese e monaste-
ri, e gli amministratori laici delle città o dei regni (fossero essi intesi
come sovrani o come funzionari di altissimo livello), si veniva creando
una continuità fatta tanto di effettive relazioni finanziarie quanto di una
visibilità pubblica, in grado di farne i rappresentanti ufficiali dell’eco-
nomia cristiana per definizione. Questa tipicità economica di mercanti-
banchieri, abati, vescovi o economi diocesani, e grandi funzionari al ser-
vizio delle politiche sovrane, convalidava alcune forme specifiche della
transazione commerciale e finanziaria: come appunto, da un lato, gli in-
vestimenti nel commercio marittimo di vasto raggio finalizzato all’im-
portazione ed esportazione di materie prime e prodotti semilavorati, e
dall’altro la commercializzazione del diritto di riscuotere rendite perio-
diche. In altre parole, l’indiscutibile primato politico e civico di alcuni
soggetti cristiani determinava, dal Due al Trecento, in Europa, la lega-
lizzazione etica ed economica di alcune strategie del profitto, fondando
puntualmente la nozione della loro legittimità sull’autorevolezza di quan-
ti avevano il diritto di calcolare il valore potenziale contenuto in taluni
oggetti commerciabili, concreti o astratti che fossero.

2. Il mercato come luogo di organizzazione sociale e religiosa fra xiv e


xv secolo.

Fu dunque sulla base di un’elaborazione giuridica sostanzialmente


canonistica e allo stesso tempo di una consapevole pratica amministra-
tiva ecclesiastica, che la trasformazione degli stili economici propria de-
gli ultimi secoli del Medioevo cittadino ebbe a che fare con quanto og-
gi chiamiamo chiesa. Quello che agli storici in passato è potuto sembra-
re un tremebondo adattamento dei teologi alle «leggi» dell’economia di
mercato, può oggi più credibilmente apparirci come un colloquio teori-
co e pratico – iniziato ben prima delle vistose manifestazioni due o tre-
centesche dell’economia mercantile – fra gestori dei beni sacri e orga-
nizzatori privati e pubblici dell’economia dei cristiani laici7. Fu nell’am-
bito di questo dialogo serrato, il cui vocabolario di base si era però
formato nell’ambito delle discussioni teologiche, giuridiche e ammini-
7
Cfr. p. cammarosano, Le campagne nell’età comunale, Loescher, Torino 1974.
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strative tipiche soprattutto dell’epoca che fra ix e xii secolo produsse


l’universo concettuale rotante intorno all’ideologia e alla politica del co-
siddetto «primato romano», che si venne collocando e sviluppando, dal-
la fine del Duecento, l’analisi economica francescana8. Fu infatti nel-
l’ambiente testuale e politico oltre che, ovviamente, religioso, definito
dall’epistemologia economica minoritica, che si avviò un deciso proces-
so di modernizzazione economica, tanto più efficace quanto più inter-
no alle logiche e ai linguaggi che nello stesso tempo rendevano parlabi-
le la vita civica della maggioranza cristiana.
Si possono individuare, nel discorso economico francescano e nel si-
stema di definizioni dell’economia corretta che ne derivarono, un crite-
rio principale di rappresentazione e legittimazione degli scambi e una
serie di corollari in grado di tradurre quel criterio fondante in altrettan-
ti aspetti di razionalità economico-politica. Al centro del sistema testua-
le francescano di argomento economico è, infatti, possibile vedere il pro-
gressivo delinearsi (dalla fine del Due alla metà del Quattrocento) di una
forte nozione di «mercato» adatta a spiegare le dinamiche delle relazio-
ni sociali, fossero esse intese come etiche, come religiose o come civi-
che. Il sistema degli scambi, contrattualmente articolato in compraven-
dite, mutui, locazioni, investimenti a breve, medio o lungo termine, era
percepito e raffigurato dagli scolastici francescani, fra Due e Quattro-
cento, come la filigrana tecnica e razionalmente decifrabile del comples-
so tessuto di relazioni sociali e civili, ossia rituali e religiose, che disor-
dinatamente collegava le città toscane, provenzali, inglesi, catalane e li-
guri, senza tuttavia possedere una propria specifica dignità linguistica
ovvero un proprio codice espressivo comunemente e ufficialmente rico-
nosciuto. La civiltà economica europea duecentesca, perdurante nei due
secoli successivi nonostante le battute di arresto determinate da crisi
contingenti di varia natura, era infatti caratterizzata da una singolare
assenza di stili autorappresentativi: benché dunque l’accelerazione eco-
nomica e commerciale o finanziaria europea si presenti come un evento
di lunga durata, essa tuttavia, nella sua fase iniziale, non fu rappresen-
tabile da parte dei suoi diretti protagonisti secondo una lingua e un vo-
cabolario concettuali indipendenti da quelli della tradizione politica e
religiosa o, viceversa, della prassi strettamente computazionale e ammi-
nistrativa. La cosa non può stupire, se si ricordi che la possibilità di una
identificazione sociale dei «mercanti» e la convalida giuridica della di-
mensione economico-contrattuale giungevano, fra Due e Trecento, sul-

8
Cfr. g. todeschini, Ricchezza francescana. Dalla povertà volontaria alla società di mercato, il
Mulino, Bologna 2004.
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la piazza concreta del mercato o della fiera non provenendo da una im-
maginaria cultura mercantile, in qualche modo preesistente e dotata di
proprie regole dialettiche interne, ma piuttosto dalla sfera, esterna (se-
condo le nostre attuali categorie interpretative) al «mercato», costitui-
ta dai poteri governativi e carismatici, con tutto il peso di autorevolez-
za, ma anche con tutta l’aspecificità che i linguaggi amministrativi par-
lati da quei poteri comportavano. Dalle memorie del mercante fiorentino
Francesco Balducci Pegolotti ai libri sul governo familiare di Leon Bat-
tista Alberti, e sino al manuale sul «mercante perfetto» del raguseo Be-
nedetto Cotrugli9, appare chiaro che questi tutto sommato tardivi rap-
presentanti di una cultura mercantile e «umanistica», sono in ogni caso
in grado di parlare di sé e di definire la propria virtù civica o economica,
ma anche di produrre un’immagine della propria avvedutezza commer-
ciale o bancaria, sulla base dei sedimentati vocabolari teologico-econo-
mici concernenti l’utilità civica del mercato e degli scambi, primaria-
mente ricapitolati e rinnovati, a partire dal Duecento, in ambiente fran-
cescano.
L’abilità con la quale gli intellettuali francescani crearono e diffuse-
ro un linguaggio in grado di rappresentare le relazioni economiche co-
me relazioni civiche non fu, però, il risultato di una generica attitudine
mistica, ma piuttosto l’esito della sintesi fra una preesistente riflessio-
ne normativa sull’organizzazione economica dei cristiani o degli infede-
li e la forma giuridica assunta, su basi teologiche e mistiche, dall’Ordi-
ne dei Minori in quanto soggetto istituzionalmente privo di proprietà,
e precocemente riconosciuto come tale dalla Santa Sede e come tale in-
vestito di compiti a vario titolo civici: dall’evangelizzazione delle coscien-
ze all’inquisizione dei reati, alla giurisdizione concernente usi e costumi
cittadini, prevalentemente di ambito economico (l’usura, il gioco d’az-
zardo, i prezzi). L’istituzionalizzazione di un ente la cui possibilità di agi-
re socialmente era definita dalla nozione di paupertas ovvero di uso limi-
tato e temporaneo dei beni economici stabiliva – nel cuore stesso della
cosiddetta «rivoluzione commerciale» e della incipiente modernizzazio-
ne dell’agire economico – una possibilità di verbalizzazione dei compor-
tamenti esistenti sul mercato, e del mercato stesso in quanto spazio ci-
vico, del tutto particolare10. Questo fenomeno veniva poi potenziato dal-
l’appartenenza prevalente dei Minori ad ambienti intellettualmente

9
b. cotrugli, Il libro dell’arte di mercatura (1458), a cura di U. Tucci, Arsenale, Venezia 1990.
10
Cfr. g. todeschini, Oeconomica franciscana. Proposte di una nuova lettura delle fonti dell’eti-
ca economica medievale, in «Rivista di storia e letteratura religiosa», XII (1976), n. 1, pp. 15-77;
l. k. little, Religious Poverty and the Profit Economy in Medieval Europe, Elek, London 1978.
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agguerriti, accademici o giuridici che fossero, capaci in ogni caso di tra-


durre l’identità del gruppo a cui appartenevano in un discorso coerente
riguardo alla possibilità di esistere economicamente distinguendo l’uso
ossia l’utilità potenziale delle cose dalla proprietà che su di esse poteva
essere stabilita per varie ragioni. Si creava quindi nell’ambito di città a
forte sviluppo imprenditoriale, come, ad esempio, Genova, Montpellier,
Oxford, Firenze, Siena, Barcellona o Parigi, una nuovissima élite di in-
tellettuali, decisamente motivati dal punto di vista religioso a riflettere
sulla ricchezza come realtà dinamica, e allo stesso tempo competenti a
ragionare sistematicamente sulle relazioni economiche che li circonda-
vano e che li comprendevano.
Il risultato fu non semplicemente la creazione di una abbondante pro-
duzione testuale di argomento economico, fatta di trattati, sermoni, que-
stioni dibattute negli studi teologici, ma anche, se non soprattutto, la
diffusione sociale, per la via tracciata dalla predicazione, dalla cura pa-
storale, dall’insegnamento, ma anche dalla quotidiana concretezza di
uno stile di vita istituzionale, di terminologie, logiche interpretative e
conclusioni formali, adatte a rappresentare la realtà economica come si-
stema civico fatto di relazioni commerciali e lavorative, di prezzi e di
salari. Specificamente, la nozione in apparenza semplice, secondo la qua-
le lo scambio di beni equivale a una circolazione controllata della ric-
chezza di cui fanno parte sia i beni di consumo sia il denaro che ne quan-
tifica il valore e il prezzo, fu convalidata dalla Scuola francescana sia sul
piano logico che su quello etico. L’immagine e il concetto di circolazio-
ne della ricchezza furono, a questo punto, in grado di divenire una rap-
presentazione fondamentale dell’identità cristiana modellata a partire
dall’esempio del Cristo inteso come soggetto umano attivo ed efficace
anche se privo di beni di proprietà, anche se pauper. Dato che la perfe-
zione cristiana poteva essere riassunta e resa visibile, conoscibile e per-
cepibile, per mezzo di comportamenti tecnicamente economici, la capa-
cità di stabilire delle equivalenze tra valori di scambio poteva essere af-
fermata come la qualità precipua di chi, da buon cristiano, rinunciava
all’appropriazione in nome di una accelerazione distributiva che, d’al-
tronde, poteva anche essere intesa come costante reinvestimento di una
ricchezza tanto più etica quanto meno immobile. Ne conseguiva che fra
identità cristiana in quanto religiosa o cultuale e identità cristiana in
quanto civica ed economica poteva e doveva esistere una continuità pra-
tica oltre che teorica. La definizione dello spazio di «mercato» quale
spazio sociale per eccellenza si venne dunque chiarendo, nella riflessio-
ne e nella divulgazione francescana, sia in ragione dell’approfondimen-
to giuridico e formale di un assunto in origine religioso o mistico, l’ec-
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cellenza della vita in stato di «povertà», sia per effetto del dialogo co-
stante che i gruppi di «iniziati» costituiti dai Frati Minori realizzarono
sin dalla fine del Duecento con i gruppi di laici economicamente più in-
traprendenti, commercianti, cambiavalute o banchieri, artigiani, spes-
so ricapitolati ambiguamente dalla parola latina mercatores. Questo rap-
porto costante si concretizzò, in primo luogo, nella assunzione da parte
dei ceti mercantili di linguaggi autorappresentativi capaci di definire il
soggetto economicamente attivo a partire da un sistema di qualità e virtù
funzionali nel contempo alla prosperità e alla Salvezza, e codificati da
parole-chiave quali amicitia, concordia, largitas, fama, pietas, prudentia: un
insieme di tratti che, per esempio, Francesco Balducci Pegolotti riassu-
merà nel prologo al suo manuale di mercatura verso il 1330 disegnando
un ritratto del «buon mercante» le cui premesse non sono difficili da ri-
trovare nel trattato sui contratti del rigorista francescano Pietro Olivi,
intorno al 129011. Ciò poteva accadere poiché l’esaltazione della figura
sociale del mercator, iniziata nei testi di etica economica francescana di
fine Duecento, proseguita nel secolo successivo e culminante, nel Quat-
trocento, nelle opere dei francescani dell’Osservanza, per poi, come si
vedrà, diffondersi, non si limitava a tratteggiare un «tipo ideale» di uo-
mo d’affari ricco ma disinteressato, capace di rischiare negli investimen-
ti con profitto suo ma anche della collettività, e devoto frequentatore
degli spazi sacri cittadini, fossero essi la chiesa o la piazza, ossia di otti-
ma reputazione e dunque economicamente affidabile: oltre a questo, ta-
le flusso testuale veniva traducendo in linguaggi sempre più prossimi al-
la quotidianità alcuni capisaldi della dottrina canonistica precedente,
sottoponendoli però alla verifica dell’analisi pauperista, divenuta a que-
sto punto una pragmatica dell’uso economicamente appropriato delle ri-
sorse. L’esempio forse più limpido di questa traduzione di concettualiz-
zazioni in prassi e in rappresentazioni comunemente diffuse, ossia ap-
prese non necessariamente tramite lettura, è costituito dalla trasmissione
della nozione di «rischio» (risicum) dalla sintassi etico-economica cano-
nistica e scolastica alla consuetudine commerciale della civiltà impren-
ditoriale al confine fra Medioevo e prima età moderna. Nella tradizio-
nale analisi economica condotta da parte dei giuristi ecclesiastici da Gra-

11
f. balducci pegolotti, La pratica della mercatura (1340 c.), Evans, Cambridge Mass. 1936,
p. 20; g. todeschini, Un trattato di economia politica francescana. Il “De emptionibus et venditioni-
bus, de usuris, de restitutionibus” di Pietro di Giovanni Olivi, Istituto Storico Italiano per il Medioe-
vo, Roma 1980. Cfr. anche s. piron, Marchands et confesseurs. Le Traité des contrats d’Olivi dans son
contexte (Narbonne, fin xiiie siècle), in aa.vv., L’argent au Moyen Âge, Puf, Paris 1998, pp. 289-308.
Cfr. g. todeschini, Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal Medioevo
all’Età moderna, il Mulino, Bologna 2007.
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ziano a Innocenzo IV, ciò che soprattutto distingueva l’utilità civica del
«buon mercante» dal pubblico scandalo costituito dall’usuraio era la ca-
pacità, e si potrebbe dire la forza psicologica grazie alla quale il primo
metteva a rischio la propria ricchezza per guadagnare: la «sicurezza» di
guadagnare dell’usurarius contrastava con l’incertezza del profitto tipica
del mercator. Questa disposizione prima di tutto mentale a ipotizzare un
profitto, giocando il proprio capitale per terra o per mare, implicava d’al-
tro canto – stando al dettato canonistico e teologico-morale – un atteg-
giamento nei confronti della ricchezza posseduta connotato da un attac-
camento meno passionale, oggi diremmo meno feticista, di quello che, in-
vece, sempre secondo la tradizione linguistica cristiana, caratterizzava il
rapporto dell’usurarius con il denaro e più in generale la ricchezza. In-
vestimento arrischiato, per dirlo in breve, si opponeva a tesaurizzazio-
ne. Molta casistica accademica e legislazione ecclesiastica sino a tutta la
prima metà del Duecento aveva, di conseguenza, indagato con sottigliez-
za la differenza, a volte quasi impercettibile, che intercorreva fra opera-
zioni commerciali nelle quali un capitale veniva arrischiato e relazioni
contrattuali nell’ambito delle quali il rischio era solo apparente. La stes-
sa progressiva legalizzazione dei contratti di assicurazione commerciale
si era poi radicata nel terreno preparato da questi dibattiti12. La radice
di questa contrapposizione, già rintracciabile nella letteratura e nella
giurisdizione cristiana antica, stabiliva un’evidente corrispondenza fra
l’atteggiamento e la virtù codificate dalla parola largitas e la nozione as-
sai più giuridicamente stringente di risicum, mentre al contrario ricon-
netteva la disposizione mentale e il peccato segnalati dal termine avari-
tia (o filargyria) con la più concreta pratica contrattuale dell’usura. Nel
complesso, l’incapacità di comprendere la nuova Legge, che avrebbe ca-
ratterizzato gli infedeli e prima di tutto gli ebrei, era indicata dai teolo-
gi come la causa più profonda di un attaccamento alla ricchezza mate-
riale in se stesso prossimo all’idolatria, e diametralmente opposto al di-
stacco da questa più visibile ricchezza in nome della speranza ossia della
fede cristiana di ottenere profitti più lontani ma immensamente mag-
giori. Questo complesso intreccio di motivi metafisici, economici e mo-
rali, era stato raccolto e, per così dire, districato dalla teologia morale
francescana di argomento economico. Avvenuta ormai in ambiente ca-
nonistico la traslitterazione della sintassi concettuale del non attacca-
mento alla ricchezza e della largitas, della capacità virtuosa di distribui-

12
Riassunto della questione e bibliografia in g. ceccarelli, Risky Business. Theological and Ca-
nonical Thought on Insurance from the Thirteenth to the Seventeenth Centuries, in «The Journal of
Medieval and Early Modern Studies», XXXI (2001), n. 3, pp. 607-58.
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re la ricchezza, in quella del risicum e dell’attitudine avventurosa del


«mercante», i Maestri francescani riorganizzarono in modo decisivo le
coordinate del discorso facendo della abitudine a «elargire» o a «rischia-
re» le proprie ricchezze altrettante manifestazioni di una abilità, tecni-
camente specifica, a «usare» i beni economicamente produttivi in mo-
do appropriato, individuando cioè in ciascuno di essi un rapporto valo-
re/prezzo che massimamente lo rendesse scambiabile e dunque in grado
di circolare su quello che, appunto, diveniva ora lo spazio di «mercato»
delle relazioni tra fideles, tra cristiani consapevoli. Ne derivava, all’in-
terno dei testi economici francescani, ma, poi, nella dottrina civilistica
del Tre e Quattrocento, e sino al gran trattato sulle dialettiche contrat-
tuali di Konrad Summenhart che nel 1499 riassumeva tre secoli di di-
scussioni a partire dalla chiave interpretativa francescana13, una conti-
nuità nella sottolineatura della funzione pubblica dei «mercanti»: ossia
di quanti, banchieri, imprenditori, commercianti, artigiani, importato-
ri, esportatori, manifatturieri, potessero essere riconosciuti (e potesse-
ro riconoscersi) come cittadini capaci di arrischiare le proprie sostanze
per conseguire un guadagno che, a questo punto, si collocava, sempre
più ambiguamente, sull’orizzonte non immediato di una felicità priva-
ta e pubblica nello stesso tempo. La gamma delle virtù civiche e delle
abilità economiche, nonostante i suoi ovvi riferimenti letterari greci e
romani, poteva adesso essere completamente riassorbita e ricodificata
dal sistema linguistico e concettuale cristiano, nella sua versione «mo-
derna» ovvero cittadina e centro-occidentale europea. La competenza
finanziaria, la conoscenza delle piazze economiche, la professionalità in
ambito valutario, ossia la disinvoltura complessivamente politica del-
l’uomo d’affari, divenivano la naturale configurazione laica di una più
antica prudentia, così come l’avventura economica, l’atto di lanciare nel
gioco degli scambi il proprio denaro, poteva ora essere rappresentato e
convalidato come l’esperienza di un uso della ricchezza in grado di co-
glierne e affermarne le potenzialità e la precarietà, al di là dell’appro-
priazione individuale e conclusa; come il gesto che connotava, se siste-
matico, l’interlocutore privilegiato dei «poveri volontari» in quanto
esperti dello Spirito della Legge.

13
k. summenhart, De contractibus licitis atque illicitis, apud Franciscum Zilettum, Venezia
1580. Su queste questioni cfr. a. brett, Liberty Right and Nature. Individual Rights in Later Scho-
lastic Thought, Cambridge University Press, Cambridge - New York - Melbourne 1997; a. spiccia-
ni, La mercatura e la formazione del prezzo nella riflessione teologica medievale, Accademia dei Lin-
cei, Roma 1977.
98 Giacomo Todeschini

3. Il denaro come «equivalente universale» e la cristianità europea fra


xv e xvi secolo.

Nel centro della riflessione economica e delle pratiche finanziarie


che, concretamente, venivano componendo la modernizzazione econo-
mica europea dal Tre al Cinquecento, secondo una cronologia parzial-
mente diversa da quella dei conflitti religiosi o istituzionali, il denaro e
il modo di pensarlo e utilizzarlo giocavano un ruolo determinante. Ben-
ché la vulgata storiografica tenda ad affermare una soluzione di conti-
nuità o un conflitto fra cristianità in quanto realtà collettiva a sfondo
religioso o civico e mercato in quanto collettività composta da quanti si
occupavano quotidianamente e professionalmente di affari, appare in-
vece dimostrabile l’esistenza di contatti profondi fra i linguaggi, le lo-
giche e le procedure che definivano entrambi i settori come «civili» per
definizione. Il denaro, inteso sia come insieme numerabile di monete,
sia come funzione di un sistema di scambi meno tangibilmente affidato
alla fisicità delle monete, perché basato piuttosto su promesse di paga-
mento scritte o verbali, aperture di credito, fiducie, non poteva apparire
alla società economicamente attiva dell’ultimo Medioevo e della prima
modernità come un oggetto culturalmente neutro. Esso infatti, prima an-
cora di divenire lo strumento normale della transazione e dell’investimen-
to o dell’accumulazione, era apparso nei discorsi dei teologi e dei giuri-
sti, ossia di coloro che producevano norme e istituzionalizzavano con-
suetudini, in termini fortemente simbolici o metaforici.
La strumentalità della moneta e la sua particolare, storica capacità di
significare il valore di scambio gettando un ponte fra il valore oggetti-
vo ossia universalmente riconosciuto che essa conteneva e il valore sog-
gettivo che essa poteva o avrebbe potuto esprimere, era apparsa sin dal-
l’età patristica, ossia tardoimperiale, come una qualità del denaro in gra-
do di chiarire ai cristiani il complesso rapporto esistente fra i Valori
invisibili e le utilità visibili che, insieme, componevano l’organizzazio-
ne sociale cristiana e ne costituivano la specificità14. Su basi argomenta-
tive già agostiniane, la nozione stessa di fede, dunque di credibilità sia
religiosa che civica dei cives, era stata per secoli ricondotta all’immagi-
ne articolata di una moneta autentica perché coniata legalmente da un
potere legittimo, mentre, analogamente, l’estraneità al popolo dei cri-
stiani rinviava alla figura della moneta contraffatta e dunque non auten-

14
Cfr. r. bogaert, Changeurs et banquiers chez les Pères de l’Église, in «Ancient Society», n. 4
(1973), pp. 239-70.
Cristianesimo e modernità economica 99

tica. Se, tuttavia, «l’uomo» era «la moneta di Dio»15, e dunque diveni-
va moralmente come giuridicamente doveroso vigilare per poter distin-
guere il valore sociale e religioso autentico, da quello falso, d’altro canto
il principio, in se stesso teologico, della contenibilità dell’incommensu-
rabile in un oggetto finito e materiale, stabilito come fondamento del-
l’identità rituale e sociale dei cristiani soprattutto dopo le controversie
eucaristiche dei secoli x e xi, conferiva al denaro inteso come frammento
di materia convalidato da un segno carismatico (il conio rinviante al po-
tere politico di un sovrano) significati ancor più economicamente profon-
di di quelli impliciti nella metafora uomo-moneta. Non era un caso se, da
Onorio di Autun, sul principio del secolo xii, a Pietro di Giovanni Oli-
vi, alla fine del xiii, si insisteva sull’immagine della moneta legalmente
coniata e sull’efficacia del suo funzionamento sociale per spiegare in ter-
mini logici misteri come quello dell’eucarestia o del «premio» celeste16.
Tuttavia, questo uso linguistico, che riconduceva la rotondità dell’ostia
consacrata e contrassegnata dal Nome del Cristo alla forma e all’auten-
ticità della moneta, e spiegava dunque il pregio del pane eucaristico nei
termini di un oggetto che conteneva e insieme era il Valore, o che nella
capacità del denaro di quantificare una retribuzione ossia il valore di un
lavoro intravedeva la possibilità di raffigurare una ricompensa paradi-
siaca derivata da una somma di comportamenti, questo uso linguistico,
incardinato nell’abitudine ecclesiastica di gestire e pensare il valore
delle cose secondo una prospettiva binaria, determinava alle soglie del
Trecento tanto una speciale capacità degli scolastici di parlare autore-
volmente di economia monetaria, quanto una effettiva possibilità di
arrivare a chiarire la sostanza politica degli usi del denaro partendo dal-
l’affermazione, in origine teologica, che esso, come oggetto fisico o vir-
tuale, rappresentava e allo stesso tempo costituiva il valore delle cose e
delle relazioni sociali. La scienza pratica dei commercianti e degli uomi-
ni d’affari riuniti in «compagnie» riceveva quindi una lingua che, so-
prattutto in seguito alla mediazione francescana, aveva nella sua sintas-
si e nella sua grammatica gli strumenti adatti a esprimere l’eticità del-
l’arricchimento, inteso in particolare come esplorazione e decifrazione
dei valori implicitamente contenuti nelle cose o nelle relazioni economi-

15
«Moneta Christi homo est»: agostino, Sermo 90, 8, in id., Opera omnia, vol. XXX/2, Città
Nuova Editrice, Roma 1983, p. 440; «Caesaris imago in nummo est, Dei imago in te est»: id., In
Ioh. ev. tract. 40,9 (CC sl 36), Brepols, Turnhout 1954, p. 355; cfr. id., Sermo IX 9, a cura di C.
Lambot, Brepols, Turnhout 1961 (CC sl 41), pp. 125-26; c. lambot, Sermons de saint Augustin, in
«Revue bénédictine», n. 79 (1969), p. 213.
16
onorio di autun, Gemma spiritualis, Patrologia Latina 147, 555: 35. De forma panis; pietro
di giovanni olivi, In Matthei Evangelium, Padova, Bibl. Antoniana, ms 336, f. 158r.
100 Giacomo Todeschini

che e rappresentabili per mezzo del «denaro»: ossia primariamente nel-


l’ambito di una socialità tecnica, il «mercato» appunto, sempre più in-
dicato come luogo ideale della riconoscibilità civica.
Non è tuttavia pienamente comprensibile questa transizione dal teo-
logico all’economico o, se si preferisce, dalla razionalità «medievale» al-
la razionalità «moderna», se non si ha chiaro che i percorsi ideologici sin
qui descritti furono accompagnati da rappresentazioni verbali di tran-
sazioni specificamente finanziarie che, in se stesse, riassumevano prag-
maticamente la nozione di denaro come oggetto in grado di raffigurare
il valore astratto e potenziale e, al tempo stesso, esemplificavano il nes-
so tra profitto e utilità pubblica. Come si è già accennato, la legittima-
zione teologica e giuridica, operatasi fra xiii e xiv secolo, delle compra-
vendite dei redditi o dei diritti di riscossione, aveva significato in senso
più ampiamente economico il riconoscimento della possibilità di investi-
re la ricchezza privata in affari il cui esito vantaggioso dipendeva dall’a-
bilità a calcolare l’equivalenza fra un capitale versato e un guadagno fu-
turo eventuale ossia potenziale. Dal punto di vista più concretamente
monetario, però, questa ammissione della liceità di commerciare i dirit-
ti sulla ricchezza eventualmente scaturita da un possedimento implicava
la definizione e la definitiva concettualizzazione dell’esistenza di un va-
lore economico invisibile nella tangibilità degli oggetti, e che, tuttavia, il
denaro opportunamente maneggiato poteva far emergere e rappresenta-
re. Poiché, d’altronde, questa virtualità aveva un senso sociale ed etico
se il diritto sui frutti ipotetici veniva commerciato nell’interesse degli
enti pubblici, ecclesiastici in primo luogo, ne conseguiva sia che il dena-
ro non era un oggetto culturalmente indifferenziato, sia che la sua pro-
duttività ossia la sua natura di capitale fruttifero poteva affermarsi ed
essere riconosciuta soltanto se veniva attivata da soggetti istituzionali,
ciò che poteva significare e significò, dal Tre al Quattrocento, consacra-
ti oppure intesi come rilevanti dal punto di vista del pubblico interesse.
Fu dunque grazie, da un lato, al riconoscimento teologico e giuridi-
co della capacità del denaro-moneta di raffigurare ma al tempo stesso di
essere il valore, e, d’altro lato, in virtù di pratiche economiche che fa-
cevano del denaro il segno di una virtualità del valore decifrabile in mo-
do convincente solo da chi risultasse «persona pubblica», e dunque «al
di sopra di ogni sospetto», che il denaro, nella sua specificità valutaria,
poté manifestarsi come oggetto molteplice: moneta, lettera di cambio,
promessa di pagamento ovvero apertura di credito, eventualità di profit-
to. L’invenzione da parte dei mercatores dell’Occidente cristiano di tec-
niche contrattuali e di logiche di contabilità in grado di far funzionare
commerci a lunga distanza, e, dal Quattrocento, reti bancarie, come pu-
Cristianesimo e modernità economica 101

re l’evidente abilità grazie alla quale essi presero a memorizzare e regi-


strare gli andamenti dei prezzi, i cambi delle valute e le tariffe doganali
che scandivano il trasferimento delle merci che, in parte, costituivano l’og-
getto delle loro transazioni, non è, allora, pensabile come fenomeno eco-
nomico astratto e atemporale, e cioè indipendente dalla concreta politi-
ca quotidiana che le norme, i linguaggi, le forme di legittimazione istitu-
zionale allestivano intorno alla prassi finanziaria o contrattuale.
L’abitudine dei «mercanti» medievali di testare in favore delle isti-
tuzioni religiose, di «restituire» alla città i guadagni ottenuti illecita-
mente sotto forma di fondazioni pubbliche, di contabilizzare parte dei
loro profitti a nome di Dio, ossia di devolverli sistematicamente alle
chiese perché li gestissero in favore dei poveri, e, infine, soprattutto dal-
l’inizio del Quattrocento, di trasformare gran parte dei propri averi nel
patrimonio di nuovi enti pii ossia pubblici, non potrà dunque avere un
significato di anacronistico moralismo o di adeguamento ipocrita a un bi-
gottismo di là da venire: sarà molto più semplice e coerente con quanto
le fonti ci dicono interpretare questi atteggiamenti economici come il
segno di una consapevolezza socialmente diffusa della superiorità civica
della ricchezza in qualche modo istituzionale rispetto a quella individua-
le e familiare nell’accezione più ristretta del termine17. Proprio perché
il movimento ampio della circolazione dei valori, espressi e rappresen-
tati dal denaro nelle sue forme differenti, era legalmente oltre che teo-
logicamente riconosciuto come produttivo di profitti tanto più quanto
più possedeva esplicitamente significati pubblici e cioè istituzionali, la
ricchezza degli uomini d’affari che intendevano e potevano aspirare a
guadagni eccedenti la misura del fabbisogno specificamente familiare
veniva orientata ad assumere configurazioni politicamente riconoscibi-
li come pubblicamente «utili» e cioè funzionali all’organizzazione della
civitas di cui tali uomini d’affari si ponevano o intendevano porsi come
rinomati gestori e arbitri. La «natura» di equivalente universale del de-
naro poteva dunque affermarsi a partire, in primo luogo, dal protagoni-
smo civico di una comunità politico-economica come appunto veniva a
essere dal Quattrocento quella europea dei «mercanti-banchieri»: tale
collettività di élite era stata progressivamente identificata come sogget-

17
Cfr. j. chiffoleau, La comptabilité de l’au-delà. Les hommes, la mort et la religion dans la
région d’Avignon à la fin du Moyen Âge (vers 1320 - vers 1480), École française de Rome, Roma
1980; aa.vv., Nolens intestatus decedere: il testamento come fonte della storia religiosa e sociale, Re-
gione dell’Umbria, Perugia 1985; p. bertrand, Commerce avec dame Pauvreté: structures et fonc-
tions des couvents mendiants à Liège (13.-14. s.), Droz, Genève 2004; m. gazzini, “Dare et habere”.
Il mondo di un mercante milanese del Quattrocento, Firenze University Press, Firenze 2002; id., Con-
fraternite e società cittadina nel medioevo italiano, Clueb, Bologna 2006.
102 Giacomo Todeschini

to pubblico dalla cultura teologico-giuridica altamente formalizzata che


dal Medioevo alla prima età moderna aveva ridefinito i linguaggi della
legittimità sociale, tanto più radicandoli nel variegato sistema normati-
vo cristiano, quanto più li rendeva parlabili. Il denaro poteva allora ri-
sultare, agli occhi di tutti coloro che avevano un’immagine e una credi-
bilità pubblica, come l’oggetto visibile, o invisibile e potenziale, in gra-
do di rendere pensabile il valore delle cose diversamente utili, o delle
relazioni sociali, poiché esisteva ormai, convalidato dai vocabolari del-
la Legge e delle leggi, un soggetto collettivo politicamente adatto a far-
lo circolare riconoscendolo come sempre differente nel numero e nella
forma ma sempre uguale nella sua sostanza di oggetto-concetto in gra-
do di mediare e far apparire il valore di cose e persone.

4. La cristianità come spazio moderno della contrattazione.

Sarà dunque opportuno, considerando le vicende della modernizza-


zione economica europea, ripartire non tanto dalla connessione stabili-
ta da Weber nel 1904 fra «etica» e «spirito» del capitalismo, quanto
piuttosto dalla sintesi ipotizzata ancora da Weber nel 1920 fra raziona-
lità culturale istituzionalizzata e organizzazione economica18, abbando-
nando però di questa impostazione e di questa sintesi l’equazione fra
«razionalità» e comportamenti economici intesi nel senso strettamente
contabile, benché a noi ancora oggi, un secolo dopo Weber, continui a
sembrare meglio rappresentabile se non addirittura oggettivo il nesso
fra la «ragione» e una contabilità senza «errori». Nell’ultimo Weber, in
effetti, la notissima tesi riguardante l’influsso esercitato da un’etica pro-
testante più o meno tarda, più o meno americana, sullo «spirito» capi-
talistico trionfante quando Weber scriveva, veniva sfumata da una ri-
considerazione della cronologia e da un allargarsi degli orizzonti. Esiste-
vano a quel punto, nel suo discorso, molti tipi di razionalità culturale e
religiosa, dunque economica, al di là di quella occidentale cristiana, men-
tre, restando a quest’ultima, era possibile rintracciare alcune premesse

18
m. weber, Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, in «Archiv für Sozialwissen-
schaft und Sozialpolitik», n. 20-21 (1904-905), poi in id., Gesammelte Aufsätze zur Religions-
soziologie, vol. I, Mohr, Tübingen 1920, pp. 1-206 (trad. it. Sociologia delle religioni, a cura di C.
Sebastiani, Utet, Torino 1988); id., Wirtschaftsgeschichte. Abriss der universalen Sozial- und Wirt-
schaftsgeschichte (1919-20, pubblicato postumo nel 1923), Duncker & Humblot, Berlin 1981 (trad.
it. Storia economica: linee di una storia universale dell’economia e della società, Donzelli, Roma 1993).
Cfr. w. schluchter, Religion und Lebensführung. Studien zu Max Webers Religions- und Herrschafts-
soziologie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1988.
Cristianesimo e modernità economica 103

della modernità economica, ben prima di Calvino, nell’abitudine eco-


nomica razionale dei monaci medievali.
La comprensione profonda da parte weberiana del nesso esistito, al-
l’inizio dell’epoca moderna, fra teologia della Salvezza e razionalizzazio-
ne economica europea, ha in effetti posto una consistente premessa di
metodo alla possibilità di rileggere le vicende economiche occidentali
di età moderna come insieme indissolubilmente formato da comporta-
menti, abitudini e linguaggi: ossia indecifrabile a partire da una scissio-
ne fra norme, codici espressivi, dialettiche contrattuali e tecniche dello
scambio. È appunto fondando l’analisi della modernizzazione economi-
ca su questo intreccio fra piani diversi della testimonianza storica, che
oggi è possibile intendere quanto profonda fu nella sostanza la continui-
tà tra economia razionale europea prima e dopo la Riforma, e quanto,
in realtà, il codice teologico-economico «medievale» si diffondesse nel-
l’Europa degli stati moderni, riapparendo in forme ovviamente mutate
e tuttavia decifrabili se considerate nel loro rapporto con i contesti che
le avevano generate e con quelli che, nel tempo, le avevano rielaborate.
In particolare, e primariamente, la dinamica stessa degli scambi, quan-
to noi oggi chiamiamo «mercato» o «repubblica internazionale del de-
naro», difficilmente potrà essere intesa in tutta la forza della sua moder-
nità se non se ne colga l’intima sostanza di spazio, locale e sovralocale in-
sieme, ove si situavano, dovevano situarsi, le appartenenze religiose, le
identità sociali, le affidabilità economiche, in una parola la riconoscibi-
lità complessiva delle persone che in quello spazio, ormai identico a quel-
lo politico e statuale, vivevano e agivano. In questa prospettiva, bisogne-
rà considerare un dato centrale dell’avanzata modernità economica pro-
prio quella dinamica «antidorale» che, invece, è stata ritenuta da molti
storici tipica della società economica precapitalista, stando a una logica
secondo la quale, sino alla prima età moderna, lo scambio di favori e l’e-
quilibrio tra «amicizie» avrebbe prevalso rispetto a una dialettica della
pura utilità economica nel senso sovrapersonale del termine. La transi-
zione da quel modello di relazione «personale» alle nitide geometrie del-
l’utilità razionale «moderna» si sarebbe invece progressivamente realiz-
zata, in teoria e in pratica, a partire dalla seconda scolastica e dal mer-
cantilismo seicentesco per poi culminare nella rivoluzione industriale19.
La ricerca storica, in effetti, viene mostrando, al contrario, e con sem-
19
Cfr. b. clavero, Antidora. Antropologia catolica de la economia moderna, Giuffrè, Milano
1991; s. piron, Le devoir de gratitude. Émergence et vogue de la notion d’antidora au xiiie siècle, in d.
quaglioni, g. todeschini e g. m. varanini (a cura di), Credito e usura fra teologia, diritto e ammini-
strazione. Linguaggi a confronto (sec. xii-xvi), École Française de Rome, Roma 2005. Cfr. anche a.
caillé, Anthropologie du don: le tiers paradigme, Desclée de Brouwer, Paris 2000.
104 Giacomo Todeschini

pre maggior chiarezza, l’intreccio, forte e indissolubile, esistito ancora in


piena età moderna, tra, da un lato, forme della solidarietà interfamilia-
re, relazioni privilegiate dal ceto e dalla consuetudine, presupposti di ap-
partenenza a un gruppo civico, confraternale, «affettivo», e, dall’altro,
strategie dell’investimento e del profitto. Diviene dunque sempre più
evidente che fu la dialettica tra reputazione pubblica, ossia collocazio-
ne civica, e possibilità di accedere ad avanzate logiche di profitto a for-
mare, tra Medioevo ed età moderna, la razionalità economica di un’Eu-
ropa costituita da poteri consacrati ed élite governanti, determinando
per un lunghissimo tratto di tempo, e cioè sino alla grande trasformazio-
ne sette-ottocentesca (se non oltre), la possibilità di far parte del «mer-
cato» inteso come specchio fedele della società civile. Se, in pieno Me-
dioevo, dal xii al xiv secolo, nel dialogo tra canonisti, civilisti e uomini
d’affari, si era venuta precisando la possibilità di scambiare gratiae ossia
favori e amicizie con beni economici apprezzabili20, e dunque si era giun-
ti a rappresentare il «commercio» come una transazione reale e compren-
sibile primariamente fra persone appartenenti a gruppi reciprocamente
connessi da una fiducia composta da elementi non soltanto economici,
si dovrà constatare che una simile contiguità fra spazio della fides ossia
della fede o della affidabilità politica e spazio degli affari continuò a esi-
stere nell’Europa dei conflitti religiosi, al di là di quanto prescrivevano
le nuove e più strette dinamiche dell’appartenenza confessionale. Non
stupisce in questa prospettiva che Giovanni Calvino, scrivendo di cre-
dito e commercio, argomentasse in termini analoghi a quelli che nel
Quattrocento erano stati impiegati dai cattolicissimi Gabriel Biel, An-
gelo da Chivasso e Konrad Summenhart21; né che in area cattolica come
riformata la dinamica delle fondazioni caritative rendesse possibile e per
così dire lubrificasse il meccanismo imprenditoriale, ponendolo funzio-
nalmente e strutturalmente in contatto con gli equilibri di potere che le
famiglie e i gruppi cittadini gestivano e che la carità ordinata traduceva
in chiave istituzionale.
Lo spazio del mercato si affermava, nel procedere dell’età moderna,

20
Cfr., ad esempio, d. postles, Small Gifts, but Big Rewards: the Symbolism of some Gifts to the
Religious, in «Journal of Medieval History», n. 27 (2001), pp. 23-42; e l’ormai classico c. brittain
bouchard, Holy Entrepreneurs. Cistercian, Knights, and Economic Exchange in Twelfth Century Bur-
gundy, Cornell University Press, Ithaca N.Y. - London 1991; complessivamente, n. terpstra (a
cura di), The Politics of Ritual Kinship. Confraternities and Social Order in Early Modern Italy, Cam-
bridge University Press, Cambridge 2000.
21
Cfr. g. calvino, De l’usure, in Joannis Calvini opera selecta, a cura di P. Barth e G. Niesel,
vol. II, Christian Kaiser, München 1952: a. biéler, La pensée économique et sociale de Calvin, Georg,
Genève 1956; a. n. s. lane, John Calvin, Student of the Church Fathers, T&T Clark, Edinburgh
1999.
Cristianesimo e modernità economica 105

come una dimensione di civismo universale, come, dunque, l’argomen-


to e il meccanismo che consentiva, e non solo per motivi di utilità im-
mediata, un’espansione senza limiti della «cosa pubblica» cristiana: l’in-
civilimento di quanti erano fuori da questo spazio veniva pensato sem-
pre più come una conquista determinata dalla volontà di allargare i
confini della «fede» intesa ancor prima che come realtà religiosa come
realtà fiduciaria ossia in grado di rendere sempre maggiore la dialettica
contrattuale che, senza necessariamente identificarsi con il possesso as-
soluto, consentiva tuttavia un controllo e un dominio sul mondo, eco-
nomico e politico. Intorno alla metà del Cinquecento un economista spa-
gnolo, Juan Saravia de la Calle, introduceva a questa religione economi-
ca, a sua volta all’origine di una precisa psicologia dell’uomo d’affari, in
termini che i francescani medievali avrebbero ben riconosciuto ma che,
al tempo stesso, non erano estranei alla rappresentazione calvinista del
mercato come luogo dell’arricchimento ma non dell’avidità di possesso,
come territorio da dominare e controllare razionalmente senza per que-
sto appropriarsi con frenesia di ogni risorsa possibile.
Tu mercante vuoi essere ricco desiderando, accumulando, traficando, e affan-
nando, non è questa la via per farti ricco, e percio mai non sarai ricco. Piu facile, e
piu piana, e piu vera è quella via, la quale sprezzando, e riposando insegna che ci
distogliamo dalle faccende. Di modo, che se la cura che metti nelle opere la mettes-
si nel pensiero tosto saresti ricco, e tanto con maggior facilita quanto la cosa piu fa-
cilmente si desidera di quel che si ottiene. Et accioche tu intenda questa filosofia,
considera che niuno è tanto savio, si ingegnoso, e si industrioso, che il possa guada-
gnare tutto, e niuno è tanto rozo, e si ignorante, che no ’l possa guadagnare sprez-
zandolo tutto. Di modo, che per havere tutte le cose di tutti fa bisogno, che tu hab-
bia tutte le cose di tutti, e che spogli tutti di tutto. Il che è impossibile: e per esse-
re ricco di tutto basta sprezzarlo tutto. Non possedevano gli Apostoli tutte le cose
del mondo ma alcune reti ripezzate le quali essi ripezzavano quando Christo gli
chiamò e altre cose assai vili, e povere; e come che fossero stati patroni del mondo
nel possesso, come in effetto erano patroni per il disprezzo di quello, dicevano: Noi
lasciamo tutte le cose e seguitiamo te. Lasciarono le cose per che le sprezzarono tut-
te. Così disse Dio. Ogni luogo che calcherà il vostro piede sara vostro. Che cosa si
calca se non cio che si stima poco, e cio che si sprezza? Adunque vuol dire tutto
quel che sprezzarete sara vostro22.

Si trattava di un’immagine «filosofica» o «etica» e «religiosa» del-


l’iniziativa economica, direttamente funzionale all’esplorazione da par-
te di Saravia (e dei mercanti da lui istruiti) di quelle che venivano chia-

22
j. saravia de la calle, Institutione de’ mercanti che tratta del comprare et vendere, et della usu-
ra che puo occorrere nella mercantia: insieme con un trattato de’ cambi composta per il dottor Sarava &
nuovamente tradotta di lingua spagnuola dal S. Alfonso d’Ulloa, Bolognino Zaltieri, Venetia 1561
(1ª ed. Medina del Campo, 1544), ff. 17v-18r.
106 Giacomo Todeschini

mate, poche pagine dopo, le «potenze» utilmente differenti del denaro:


la «potenza» strumentale del denaro in quanto mezzo di pagamento e la
«potenza» riproduttiva del denaro in quanto capitale23.
Questa scienza del mercato poteva, tuttavia, essere condivisa e piena-
mente praticata soprattutto da chi faceva parte di un universo razionale
nel quale il profitto appariva come il premio conseguito da chi, sino in
fondo, era esperto delle forme di una socialità a sua volta fondata su re-
gole culturali fortemente determinate dai linguaggi della convivenza re-
ligiosa e rituale. Era questa la via che aveva condotto ad affermare, sin
dalla fine del Quattrocento, la liceità del credito finalizzato al «bene
pubblico», come nel caso dei Monti di pietà, e, poi, delle banche che ne
erano derivate. Ed era ancora questo il metodo che consentiva a Jean
Boucher, teologo difensore della fondazione dei Monti di pietà nei Pae-
si Bassi nella prima metà del Seicento, ben lontano da Saravia, oltre che
dai Frati Minori italiani che i Monti in origine avevano fondato, di af-
fermare che la pietà istituzionalizzata dal credito dei Monti, proprio per-
ché razionalizzava la vita economica di un territorio, contenendone la po-
vertà, creava un’occasione di investimento sicuro per i ricchi che sotto
tutti gli aspetti facessero parte della civitas, aprendo per loro una limpi-
da possibilità di fruttificazione dei capitali («colloquer seurement de-
niers à rente»): ciò che tuttavia nello stesso tempo coincideva con la fon-
dazione di istituzioni efficaci nel promuovere la vita religiosa e le mol-
teplici forme di socialità a essa collegate24.
Si potrà osservare che persino in un mondo ritenuto emblematica-
mente «moderno» e cioè estraneo alle dialettiche etico-economiche del-
la cristianità cattolica, quale sarà quello inglese sei e settecentesco, lo
slittamento25 del discorso economico dal piano concettuale di un «bene
comune» garantito dall’appartenenza religiosa e cultuale o rituale dei
partecipanti al mercato, a un piano concettuale per cui il mercato è «fat-
to di soggetti singoli, moralmente non differenziati dalla particolare for-
ma dei beni negoziabili che possiedono e usano», dunque di soggetti
equivalenti nella loro libertà di agire, è comunque reso possibile da una
realtà politica, quella definita dal potere assoluto del sovrano di regola-

23
Ibid., ff. 55r sgg.
24
Cfr. L’Usure ensevelie, ou Défense des monts de piété de nouveau érigez aux Païs-Bas pour ex-
terminer l’usure, divisée en III livres, par M. Jean Boucher, […] avec une repartie à I. D. L. M., préten-
du docteur en théologie, A. Quinqué, Tournay 1628, ff. 98 sgg.
25
m. l. pesante, L’usura degli inglesi: lessico del peccato e lessico della corruzione politica alla fi-
ne del Seicento, in g. boschiero e b. molina (a cura di), Politiche del credito. Investimento, consumo
solidarietà, Centro Studi sui Lombardi e sul Credito, Asti 2004, pp. 133-34. Cfr. Informazioni e
scelte economiche, a cura di W. Kaiser e B. Salvemini, «Quaderni storici» XLII (2007), n. 1.
Cristianesimo e modernità economica 107

re le relazioni fra gli individui, in se stessa fortissimamente connotata


in senso religioso e rituale. Anche questo «mercato», ormai prelimina-
re allo sviluppo di concezioni del denaro e della ricchezza apparente-
mente neutre dal punto di vista culturale, sarà, quindi, nettamente se-
gnato, se pure non più dalla antica nozione cristiana di contiguità diret-
ta fra diritto al guadagno e appartenenza consapevole e dimostrabile a
una comunità di «fedeli», tuttavia dalla sua traduzione nei termini di uno
statalismo in grado di garantire a ciascuno l’appartenenza a una società
di potenzialmente perfetti, anche indipendentemente dall’adesione lu-
cida degli individui a uno specifico codice di orientamento morale o di
comportamento economico.

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