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Storia della camorra

Capitolo 1: La camorra al tempo dei borbone

La camorra si sviluppa nel tessuto urbano della Napoli ottocentesca, dentro gli strati sociali
plebei. Si diffuse soprattutto nelle carceri e quindi negli eserciti, dove spesso venivano
arruolati i criminali già detenuti.
Nel corso dell’Ottocento “Camorra” diventa sinonimo di estorsione, “Fare camorra”
identifica l’atto dell’estorsione; poi, anche per l’influenza indiretta delle sette segrete, la
Camorra diverrà sempre più organizzazione, strutturandosi, specie dopo il 1861, in
associazione di delinquenti specializzati anzitutto nelle estorsioni.
La camorra, come associazione di delinquenti, si sviluppa tra Napoli, Caserta e altre aree
della regione Campania lungo tutto l’Ottocento, fino ai primi decenni del Novecento. Poi si
determinerà una rottura nella continuità del fenomeno criminale, che assumerà caratteri
innovativi ed espansivi, e manterrà il vecchio nome solo in ordine alla collocazione
territoriale.
Negli anni della restaurazione borbonica la camorra si dà dunque un’organizzazione, che
prevede tre livelli da percorrere: picciotto d’onore, picciotto di sgarro, camorrista. Prima di
iniziare questa specie di carriera, il giovane aspirante è chiamato tamurro. Viene eletto un
capo per ognuno dei dodici quartieri di Napoli, che sono a loro volta suddivisi in paranze.
Lo stesso avviene per alcuni capoluoghi provinciali, oltre che nei luoghi di detenzione e nei
corpi militari.
Questi caposocietà eleggono un capintesta generale della camorra napoletana; per molto
tempo il comando dell’organizzazione resta nelle mani della famiglia Cappuccio. Oltre che
nella capitale, dove tra Cinquecento e primo Ottocento si addensò la plebe, la camorra si
era affermata già in epoca borbonica nella Terra di Lavoro, in particolare nell’area ristretta
fra Caserta, Marcianise e Santa Maria Capua Vetere. La struttura della camorra prevedeva
che ci fosse un solo capintesta e che fosse di Napoli.
L’associazione delinquenziale plebea esercitava una forma di totale sfruttamento delle
categorie sociale più diseredate, si arricchiva con i poveri.
A Napoli le estorsioni si estendevano soprattutto nelle carceri, dove ciascun detenuto era
tartassato dall’ingresso alla eventuale uscita. Altre attività importantissime erano i mercati
delle farine, dei cereali, della frutta, del pesce e della carne. C’erano inoltre le tangenti
sulle case da gioco e sulla prostituzione (attività che invece non è segnata nel bilancio di
Cosa Nostra poiché è considerata un’attività disonorevole).
I camorristi poi esercitavano il lotto clandestino, estorsioni sul nolo delle carrozze e dei
carri da trasporto, sullo scarico delle barche e sull’attività di facchinaggio.
Poi la camorra, stabilendosi a tutti gli ingressi di Napoli, esercitava il contrabbando alle
barriere daziarie, percepiva cioè l’esazione fiscale dei dazi per le merci che giungevano
nella capitale sia dalla terra che dal mare. L’attività dell’imposizione fiscale era quindi
svolta dai camorristi in aggiunta ai funzionari, ma anche, spesso, in loro sostituzione, con
notevole danno per l’erario pubblico.
Questa associazione a delinquere amministrava, a suo modo, la giustizia nei diversi
quartieri della capitale, componendo le liti e le risse. Ogni quartiere aveva il suo tribunale
(Mamma). L’intera città aveva il suo organo giudiziario supremo (Gran Mamma),
presieduto dal capintesta (assumeva il titolo di Mammasantissima)
La camorra era una violenta organizzazione criminale composta di plebei (il carattere
plebeo dell’associazione viene confermato dall’assenza di impiegati e operai), che però
guardavano in alto. Da una parte si ponevano in diretta concorrenza con lo Stato,
sottraendogli l’esercizio di una funzione basilare, qual era l’esazione fiscale. Per altro verso
cercavano di imitare i modelli e i codici di comportamento dell’aristocrazia. La “onorata
società” guardava anche con interesse imitativo alle associazioni settarie diffuse tra le
élites liberali: la massoneria e la carboneria, anzitutto.
In seguito all’insurrezione liberale fallita del 1848 la polizia borbonica fece ricorso ai
camorristi incarcerati per avere informazioni sui comportamenti dei detenuti politici.
Anche alcuni liberali cercarono accordi politici con alcuni camorristi: fornivano loro denaro
per l’organizzazione di tumulti antiborbonici.

Capitolo 2: Alle luci della ribalta, tra Garibaldi e l’Italia

Francesco II di Borbone, di fronte alla dissoluzione del regno relle Due Sicilie, nominò un
governo di moderati e liberali. Alla testa della polizia e poi del ministero dell’Interno era
stato posto il liberale Liborio Romano. Fu Liborio Romano a trovare una soluzione molto
discutibile, ma per altri aspetti forzata ed efficace, per la tutela dell’ordine pubblico, nel
tempestoso periodo in cui si spappolava il regime borbonico e veniva sostituito dalla
dittatura garibaldina: il ministro dell’Interno affidò al capo della camorra di allora,
Salvatore De Crescenzo, il compito del mantenimento dell’ordine pubblico nella capitale
durante l’accesso di Garibaldi ;i camorristi si trasformavano in tutori dell’ordine pubblico,
erano diventati guardie cittadine.
Dopo Liborio Romano viene nominato direttore della polizia, e successivamente
luogotenente, Silvio Spaventa. Pochi giorni dopo l’insediamento Spaventa e il prefetto di
polizia De Blasio dirigono il primo grande blitz contro la camorra, che, grazie alla sua
legittimazione da parte dello Stato, aveva superato ogni limite nel contrabbando e
nell’esazione in proprio dei dazi.
Nel 1861 viene redatto da Spaventa il primo Rapporto sulla camorra. Intanto egli
proseguiva nell’operazione di espellere dalla polizia napoletana la gran parte delle forze
camorristiche che vi erano state immesse nel periodo transitorio tra la fine del regno delle
Due Sicilie e l’avvento del regno d’Italia.
Nell’estate 1861 esplode con grande violenza il brigantaggio nelle province meridionali. Le
feroci violenze dei briganti, sostenuti dalla popolazione, provocano la reazione brutale
dell’esercito italiano: si scatenerà una vera e propria guerra contro briganti e contadini del
Sud, che farà più morti delle battaglie risorgimentali.
Nel 1862 il generale La Marmora dà vita a una sorta di dittatura militare nel Mezzogiorno
e procede al rapido arresto di 300 camorristi.
Intanto la potenza della camorra era aumentata, insieme alla capacità di intimidazione, che
produceva una totale omertà. Appariva evidente che mancavano ancora strumenti
legislativi e giudiziari per interventi adeguati ad affrontare una associazione criminale così
pericolosa. Di conseguenza nel 1863 la “Legge Pica” per la repressione del brigantaggio e
dei camorristi nelle province infette, che introduceva il domicilio coatto per i sospettati
anche solo di connivenza con i briganti e i camorristi, nonché per gli oziosi e i vagabondi, fu
approvata dal Parlamento.
Nel primo decennio unitario fu la camorra napoletana, e non la mafia siciliana, l’oggetto
privilegiato di una continua azione repressiva dello Stato. Però, passati gli anni delle
repressioni postunitarie, l’attività camorristica finirà per essere considerata un fenomeno
di delinquenza comune (la linea liberale e garantista del <<non luogo a procedere per
insufficienza di indizi>> veniva costantemente adottata dal ministro della Giustizia e dai
suoi organi periferici, quali erano allora le Procure del re. Inoltre la dottrina liberale si era
sempre dichiarata sospettosa del reato associativo perché volto a colpire le associazioni di
pensiero e le organizzazioni politiche).
Nel 1869 la Prefettura napoletana, in un documento, confermava la contiguità tra la
camorra plebea e la camorra elegante, le relazioni che legavano gli ambienti criminali ai
ceti sociali più elevati, gli intrecci di interesse che legavano i camorristi ai ceti borghesi
operanti nell’amministrazione pubblica e nelle attività economiche e professionali. In
corrispondenza quindi alla Bassa camorra si vide sorgere un’alta camorra, costituita dai più
scaltri e audaci borghesi.
Nel passaggio dai Borbone ai Savoia la camorra riceve un trattamento opposto dalla
politica e dallo Stato, venendo prima coinvolta, poi combattuta.

Capitolo 3

Pasquale Villari si schiera con la linea intransigente di Spaventa.


Villari porterà all’attenzione dell’Italia, per la prima volta, la drammatica condizione sociale
di Napoli e del Sud. Fu lui stesso a “inventare” le questioni di Napoli e del Sud, portate al
centro dell’attenzione nazionale grazie alla precisa descrizione delle condizioni di
miserabile abbandono in cui si trova la “bassa plebe” di Napoli.
Causa, secondo Villari, della camorra è la grande miseria della plebe napoletana.
Contemporaneamente Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, percorrendo a piedi e a
dorso di mulo le province meridionali, contribuivano a far conoscere la struttura
economica e le condizioni sociali del Mezzogiorno e della Sicilia e lanciavano un appello
patriottico per la costruzione di una effettiva e salda unità nazionale tra regioni che
restavano invece contrapposte. I problemi del Sud non riguardavano solo i meridionali.
Fortunato, esponente della Sinistra meridionale e uno dei più importanti rappresentanti
del Meridionalismo, attraverso le sue indagini metteva in rilievo la condizione del
Mezzogiorno attribuendo molte colpe ad una borghesia inattiva, confermando la necessità
di una riforma profonda delle classi dirigenti.
Per Fortunato la forza della camorra e la sua influenza sulla plebe napoletana sono dovute
alla inadeguatezza delle classi dirigenti.
Pasquale Turiello si dedicò per anni a cercar di definire i rapporti tra potere politico e
società civile, tra masse e Stato nell’Italia postunitaria.
Turiello indica un diverso atteggiamento nel Sud verso lo Stato e l’ordinamento legislativo.
In Sicilia e nella mafia vede prevalere sentimenti di distaccata ignoranza e di profondo
disprezzo verso lo Stato e la legge, che non sono sentiti come propri. Nel Napoletano
invece trova più diffusa l’indifferenza e l’inclinazione ad abusarne.
Perciò l’abuso che molti sono inclinati a fare della legge crea il bisogno di legami speciali, di
camorre in basso, di clientele più in alto.
Turiello parlò inoltre del fenomeno del clientelismo, che definì come a metà strada tra la
politica e la camorra, necessario a causa delle pessime condizioni della gestione politica
dell’epoca. Il punto centrale è l’insistenza circa l’affermazione di nuove forme di
interscambio in una fase di crescenti relazioni tra i vari strati sociali. Questo apre la strada
ad una larga diffusione della corruzione dentro un’attività politico-amministrativa orientata
dagli interessi particolari di individui e di gruppi.

Capitolo 4

Nel 1874 il prefetto Antonio Mordini aveva segnalato una notevole espansione delle
attività criminali dell’organizzazione camorristica, nonché l’incremento dei suoi rapporti di
affari illeciti con esponenti dei più elevati strati sociali. Si praticavano dappertutto
estorsioni. I camorristi controllavano appalti e aste pubbliche. E non avevano alcun timore
di recarsi in tribunale per intimidire i giudici e i giurati.
I camorristi non erano isolati delinquenti plebei e marginali, facili da perseguire e sbattere
in galera quando si voleva. Nel primo quindicennio unitario avevano allargato le loro
relazioni, aumentato gli affari, consolidato la loro posizione economica e sociale. Avevano
amici autorevoli, compagni di affari, ricattati e ricattabili, che garantivano per loro,
quand’era necessario.
I forti timori espressi dal prefetto Mordini trovavano conferme: sia riguardo all’azione poco
attenta e di scarsa efficacia esercitata dalla magistratura per la repressione dei reati di
stampo camorristico, sia riguardo alla capacità della camorra di riprodursi e di rigenerarsi
con la comparsa di giovanissime leve.
Un altro settore fondamentale dell’attività camorristica era quello legato alla “filiera” dei
cavalli. Il controllo criminale iniziava al momento delle aste degli scarti equini dall’esercito,
che venivano accaparrati a basso prezzo, grazie all’eliminazione della concorrenza. Il
secondo passaggio era rappresentato dal commercio della crusca e delle carrube per
l’alimentazione degli animali, ed era questa l’attività ufficiale svolta da molti capicamorra.
L’organizzazione criminale aveva infine il pieno controllo di tutti i cocchieri e stallieri.
Inoltre i camorristi esercitavano l’usura.
La camorra non cessava di evolversi. S’intrecciava con altri strati sociali ben distanti dalla
plebe. La sua pratica fondativa, l’estorsione, riscuoteva un enorme successo, producendo
effetti imitativi che si diffusero nella “società civile” dell’epoca e nella sua rappresentanza
politica ed amministrativa. Questa pratica si fonda sulla organizzazione e la violenza,
attributi specifici della dimensione statuale, e si manifesta in tanti modi diversi. Dà quindi
vita a una organizzazione che punta a conquistare il monopolio territoriale della violenza,
in diretta concorrenza con lo Stato.
L’espansione dell’illegalità criminale andava di pari passo con gli sviluppi della politica,
delle competenze e delle attività statuali, dei partiti.
Il colera del 1884 aveva acceso i riflettori su quella che era la città più grande e popolata
d’Italia. L’epidemia esplose nei quartieri popolari e devastò la popolazione ammonticchiata
nei fondaci e nei bassi. I rappresentanti delle istituzioni si recarono in visita a Napoli e
conobbero la spaventosa realtà che gli esperti denunciavano da anni.
In pochi mesi fu preparata la legge per il Risanamento della città di Napoli che prevedeva
un finanziamento di 100 milioni per le opere di bonifica e per la rete fognaria, agevolazioni
fiscali, una più incisiva procedura di esproprio per pubblica utilità, che colpiva gli interessi
dei proprietari.
Ma queste condizioni con convinsero le imprese edili nazionali ad assumere i lavori di
risanamento dei quartieri bassi, considerati più costosi e incerti. Questa legge portò quindi
ad una paralisi operativa e ad una parallela espansione della città grazie all’intervento dei
locali. Tale legge non venne subito applicata ma, a distanza di anni, portò alla
modernizzazione e all’ampliamento della città di Napoli. Ci furono varie rivolte e vari
scambi politici tra personalità differente, e in mezzo alla confusione la camorra si intromise
sempre più all’interno della scena politica napoletana.
Nel 1900 il Presidente dei Consiglio Giolitti incaricò il Ministro Saredo di procedere ad
un’inchiesta riguardo la situazione della città di Napoli. Saredo compose una Commissione
d’inchiesta amministrativa (non parlamentare) sulle amministrazioni locali e le Opere pie a
Napoli. La Commissione d’inchiesta lavorò intensamente e sviscerò la “questione di
Napoli” sul terreno della destrutturazione economica e sociale e del connesso degrado
politico-amministrativo.
L’inchiesta Saredo sarà pubblicata nel 1901. La conclusione insisteva nel sottolineare
l’importanza e la gravità della “questione di Napoli”. Saredo insisteva sulla necessità di un
“risanamento morale”, quale condizione necessaria anche per la ripresa economica della
città. L’inchiesta sollecitò infine il comune interesse nazionale per un intervento statale
effettivamente mirato a sollecitare lo sviluppo produttivo e civile di Napoli.

Capitolo 5

La lotta alla “camorra amministrativa” (corruzione e clientelismo erano le caratteristiche


fondanti l’organizzazione interna della macchina comunale) non apre la strada a
cambiamenti di segno più democratico e progressivo. Una parte, seppur ridotta, di Napoli
viveva la sua belle époque.
Giolitti affidò a Nitti la redazione del disegno di legge per l’incremento industriale di Napoli,
che 1904 si trasformò nella legge speciale per Napoli. Vennero messe in atto delle
agevolazioni fiscali e costruite infrastrutture con l’obiettivo di promuovere e mettere in
atto l’industrializzazione e modernizzare la città simbolo del Mezzogiorno.
Tra Ottocento e primo Novecento la camorra si presenta come un fenomeno
eminentemente urbano, espresso da un ceto sociale, la plebe, prodotto dalla peculiare
storia di Napoli nell’età moderna.
La relativa espansione economica della città di Napoli comporterà anche l’allargamento dei
circuiti economici illegali, che porterà ad una crescita dei delinquenti arricchitisi con i nuovi
traffici e affari dentro il centro elegante della bella città. A questi delinquenti moderni e
aggiornati, sempre più lontani dai fondaci e vicini alle frequentazioni e alle abitudini delle
classi borghesi e aristocratiche, si adatterà meglio il termine di guappi di sciammeria,
ch’era una specie di abito. I camorristi e i guappi napoletani amavano soprattutto
apparire, quando erano in grado di farlo: era il patetico tentativo della “aristocrazia della
plebe” di certificare in pubblico il potere e la ricchezza acquisiti. Il risultato era tragicomico
e finirà rappresentato sulle scene da Raffaele Viviani nella figura ridicola del “guappo di
cartone”.
La camorra tradizionale delle carceri e dei quartieri popolari e degradati era riuscita a
resistere alla Destra storica, ma la camorra moderna della belle époque non sopravviverà
all’assalto dei Reali Carabinieri. La camorra “elegante” fu rimessa al suo posto. Anzi, si
inabissò e scomparve la camorra propriamente detta, nella sua forma storica
ottocentesca.
L’inabissamento della camorra urbana di Napoli dopo il processo Cuocolo (costituisce il
primo procedimento giudiziario che vede come imputati numerosi esponenti della camorra
napoletana) conferma la sua marginalità sociale e la subalternità politica ai poteri
dominanti nel regno d’Italia che, dopo averla usata, non avevano difficoltà ad eliminarla.
Questa volta l’eliminazione sarà definitiva. La camorra storica scomparirà al tempo della
Grande Guerra e, nella sua forma tradizionale, non comparirà più.

Capitolo 6

Intorno a Napoli si estendeva la Campania felix (Campania antica). In questa vasta pianura
si svilupperà una delinquenza che intensificherà le tradizionali forme economiche dello
sfruttamento contadino, procedendo ben oltre i confini della legalità, dentro nuovi ambiti
di iniziativa propriamente criminale.
A differenza della mafia in Sicilia, qui non ci sono i gabellotti, che si pongono tra i
proprietari e i contadini. Sono molto numerosi, invece, i mediatori, i guappi che operano
individualmente, senza precise appartenenze a determinate associazioni. Per cui è
improprio parlare, in questi casi, di “camorra rurale”. Sono forme di intermediazione,
esercitate anche ricorrendo alla violenza, che però costituiscono l’unica strada consentita
ai contadini di mettersi in relazione con i mercati urbani e con l’industria di trasformazione.
È attraverso l’imposizione violenta di queste plurime mediazioni che, in Campania, viene
assicurata la commercializzazione dei prodotti agricoli, nella prima metà del Novecento.
Nella vasta provincia di Terra di Lavoro (con capoluogo Caserta) le aree infestate da
delinquenti e camorristi sono l’agro aversano e la zona dei Mazzoni. La camorra di
quest’area casertana ha caratteri diversi da quella napoletana, perché è sempre stata
largamente rurale. I suoi adepti erano per lo più sensali, mediatori, sedicenti guardiani e
soprattutto “tribù” di bufalari, selvaggi come le bestie che allevavano.
Questa forte e diffusa delinquenza rurale non si mostrerà affatto preoccupata del
progressivo incedere del regime fascista. Anzi s’inserisce subito nella nuova vita politica.
Sul finire del 1926 un ispettore generale del ministero dell’Interno documentò con
precisione l’espansione di una “camorra a raggiera” che dal Napoletano si espandeva in
tutta la Campania felice. Uno Stato aspirante al totalitarismo non poteva perdere proprio
il monopolio della violenza. E così, mentre il prefetto Mori si occupava della mafia in
Sicilia, nella Terra di Lavoro fu mandato il maggiore dei carabinieri Vincenzo Anceschi,
nato a Giugliano e quindi pratico della zona. La consegna di Mussolini non poteva essere
più chiara: <<Liberatemi di questa delinquenza col ferro e col fuoco!>>.
Ma il duce fece di più. Nel 1927 abolì la grande provincia di Terra di Lavoro procedendo
anche con l’accorpamento di alcuni comuni. I carabinieri svolsero bene il compito. Con il
processo Cuocolo e l’attacco alla delinquenza casertana i carabinieri conseguirono
l’obiettivo di rimuovere la camorra storica dalle aree calde controllate dalla delinquenza
campana. La guerra dello Stato alla camorra si poteva considerare largamente vinta.
Questo però non comportava la scomparsa della criminalità! La camorra, nella sua forma
ottocentesca, scompare per sempre alla vigilia della Prima Guerra Mondiale.
Restavano i guappi, sparsi nei quartieri, dove si atteggiavano a gestori e controllori della
delinquenza diffusa e di un ordine di tipo particolare. Si comportavano come “Sindaci di
quartiere”.
A Napoli avanzava la modernità, che apportava cambiamenti positivi nella strutturazione
sociale: con la diffusione di una numerosa classe operaia si riduceva l’enorme corpo
plebeo.
*La differenza principale tra la mafia e la camorra sta nel fatto che la camorra ottocentesca
resta comunque un fenomeno marginale e subalterno rispetto ai poteri dominanti, mentre
la mafia è sempre in stretto contatto e sempre più in concorrenza con le classi dominanti in
Sicilia e procede a espandere progressivamente il suo spazio operativo dentro il sistema di
potere dominante nell’isola.
Napoli uscì materialmente e moralmente distrutta dalla Seconda Guerra Mondiale.
“Gli uomini e le donne di Napoli erano un popolo diseredato, affamato, disperato e
disposto a fare assolutamente tutto per sopravvivere” (J. Huston).
Insieme alla fame, l’altro tratto distintivo della Napoli occupata dagli eserciti alleati era il
mercato nero, che era rifornito di tutti i prodotti di provenienza alleata: sigarette, farina,
zucchero, cibi in scatola, biancheria, coperte, scarpe, orologi, farmaci.
Secondo informazioni di Norman Lewis, il traffico clandestino della penicillina, insieme a
tanti altri, era controllato dal boss della mafia italo-americana Vito Genovese.
Un altro boss di Cosa Nostra siculo-americana si insedierà a Napoli, dopo aver lasciato la
prigione americana nel ’46, in compenso dell’aiuto fornito allo sbarco alleato in Sicilia:
Salvatore Lucania, più noto come Lucky Luciano. Luciano svolgerà un’intensa attività di
mediazione nei traffici internazionali illegali: contrabbando prima del tabacco, poi
soprattutto della droga. Sarà, già nel dopoguerra, tra i primi fornitori di eroina.
Il contrabbando delle sigarette americane e la borsa nera degli altri prodotti di prima
necessità sono attività che coinvolgono a Napoli consistenti masse popolari e determinano
l’affermazione dei principali esponenti criminali, che si caratterizzano per la loro
individualità, non potendo più parlare di gruppi e associazioni camorristiche. Tornano in
uso o si affermano altre denominazioni: guappi, carte di tressette. A Napoli, tra guerra e
dopoguerra, primeggiano tre gruppi di fratelli: Spavone, Mormone, Giuliano.
Nel centrale quartiere di Forcella si svolgono negli anni del dopoguerra tutti i tipi di traffici
illeciti. Anzitutto il contrabbando di sigarette. Poi dominano la borsa nera, i falsi, le
contraffazioni, gli scartiloffi (merci costose vendute per tali ma sostituite da mattoni,
segatura e carta pressata). Il controllo di questa zona è assicurato dai fratelli Giuliano.
Tra gli anni ’40 e ’50 guappi e “carte di tressette” si affermano e spadroneggiano anche
nelle campagne e in quella specie di primitiva borsa merci all’aperto situata a corso
Novara, vicino alla Stazione centrale di Napoli. Sono i nuovi mediatori. Questa moderna
specie di criminali si ritaglia il ruolo centrale e decisivo nella catena che congiunge i
grossisti, che acquistano dai contadini e rivendono i prodotti della Campania felice, e i
concessionari dei magazzini del mercato ortofrutticolo all’ingrosso. Sono l’anello centrale
che decide i prezzi e quindi i profitti dei tanti anelli della catena che trasporta
faticosamente la frutta e gli ortaggi dal contadino all’acquirente al dettaglio. Questi
mediatori sono anche chiamati presidenti dei prezzi.
Come già la camorra ottocentesca, questa delinquenza urbana negli anni ’50 restava
marginale e subalterna.

Capitolo 7

Negli anni ’60 lo sviluppo capitalistico investe Napoli e il Sud, però non si riuscì a
immaginare che la significativa ma parziale espansione della società meridionale si sarebbe
accompagnata al più grande e imprevisto sviluppo della criminalità organizzata.
L’indipendenza del Marocco nel 1956 comporta la chiusura del porto franco di Tangeri. I
depositi di tabacco saranno quindi spostati nei porti jugoslavi e albanesi da dove,
transitando per la Puglia, le casse di sigarette di contrabbando arrivano a Napoli, che
diventa così uno dei principali mercati del Mediterraneo.
I criminali che gestiscono i gangli superiori di questo traffico sono per lo più siciliani di Cosa
Nostra e delinquenti corsi, marocchini, algerini che fanno capo a Marsiglia, che negli anni
’60 è il centro internazionale dei traffici illeciti, specie degli stupefacenti, e perciò vengono
chiamati “Marsigliesi”.
Un altro elemento che favorisce l’affermazione di Napoli nel traffico internazionale di
tabacco è la crisi traversata dalla mafia siciliana dopo la prima guerra intestina scoppiata
tra i Greco e i La Barbera al principio degli anni ’60.
Nel 1963, quando una Giulietta al tritolo destinata ai Greco ammazza invece sette
carabinieri, viene istituita la prima Commissione parlamentare antimafia. Cosa nostra
subisce per la prima volta un duro attacco dallo Stato repubblicano. Fino ad allora della
mafia si negava perfino l’esistenza. Il colpo della Commissione antimafia fu forte. Come
testimonierà in seguito il boss pentito Pippo Calderone: <<Cosa nostra non è più esistita
nel palermitano dopo il 1963. Era ko>>.
Lungo tutti gli anni ’60 i delinquenti napoletani non rivestono ruoli importanti. Si dedicano
alle attività tradizionali: estorsioni, usura, prostituzione, giochi d’azzardo, lotto clandestino,
contrabbandi locali. Collaborano in tono ancora minore e in ruolo subalterno ai grandi
traffici illegali, che hanno ormai scelto Napoli come centro di smistamento di tabacco e di
droga nel bacino del Mediterraneo.
La situazione cambierà al principio degli anni ’70 per l’intrecciarsi di due notevoli vicende.
Anzitutto il soggiorno obbligato lontano dalla Sicilia, previsto dalla nuova normativa
antimafia, porta nel Napoletano numerosi capimafia. L’altro evento decisivo sarà la guerra
tra Cosa nostra siciliana e il clan dei marsigliesi per il controllo del contrabbando di
tabacco e del narcotraffico nell’area napoletana.
I capimafia mandati a soggiornare nel Napoletano strinsero subito rapporti di
collaborazione e di alleanza coi gruppi criminali locali, superando l’antica distanza e
diffidenza tra mafiosi e camorristi.
Negli anni ’70 si avviava una nuova fase storica che avrebbe modificato profondamente la
criminalità campana.
Pompidou prenderà il posto di De Gaulle e avvierà, negli anni ’70, una collaborazione nella
lotta contro gli stupefacenti con gli Stati Uniti del presidente Nixon. Il clan dei marsigliesi,
attaccato dal Narcotic Bureau che gli distrugge le raffinerie di eroina collocate nei pressi di
Marsiglia, cala su Napoli provando a scalzare l’ormai consistente presenza mafiosa.
Cosa nostra reagisce con durezza. La guerra per il controllo del contrabbando del tabacco
si svolge a Napoli senza esclusione di colpi. Cosa nostra vincerà la partita con due mosse.
Anzitutto toglierà dalla circolazione i contrabbandieri e i criminali napoletani che si erano
lasciati “affascinare” dai marsigliesi, poi affilierà come “uomini d’onore” contrabbandieri e
criminali napoletani e casertani di notevole spessore.
Nel 1973 era stata costituita in Campania una famiglia di Cosa Nostra. Il rappresentante
era Salvatore Zaza, legato a Badalamenti e ai palermitani; sottocapo era Lorenzo
Nuvoletta, intimo dei corleonesi. Michele Zaza invece era a mezza strada tra palermitani e
corleonesi.
Sul finire degli anni ’70 la droga diventa l’affare principale di Cosa Nostra. Hashish e eroina
raffinata a Palermo giungono a Napoli fin dal 1977 e la città partenopea diventa
rapidamente un grosso mercato di consumo di eroina e di cocaina (sul finire degli anni ’70
si unificano le reti del contrabbando del tabacco e del traffico di droga: mafia siciliana e
criminalità campana procedono ormai d’amore e d’accordo).
Intanto è scoppiata anche la prima grande guerra tra i criminali campani. Si comincia a
capire che non si tratta della mitica, fantomatica “camorra di una volta”. La camorra non è
più soltanto locale, è già diventata globale.

Capitolo 7: Le guerre tra le nuove camorre

Raffaele Cutolo, criminale campano impegnato nello smercio della cocaina, al principio
degli anni ’70 entra in rapporti stretti con i capi della ‘ndrangheta. I calabresi gli chiedono
di eliminare, a Poggioreale (carcere di Napoli), il vecchio boss Mico Tripodo e gli danno il
consiglio di creare una sua associazione criminale per non lasciare in Campania troppo
spazio ai siciliani. Nasce così la Nuova camorra organizzata, modellata sulle forme della
camorra ottocentesca, ma ben attrezzata per operare nei campi dell’imprenditoria più
aggiornata.
Cutolo sostituisce un sistema verticalizzato alla tradizionale strutturazione orizzontale
della criminalità napoletana e campana (un solo grande capo carismatico quindi).
L’affiliazione non è selettiva, è di massa. Come nella vecchia camorra si sviluppa anzitutto
nelle carceri, che da luogo del controllo statale si trasformano in centro di reclutamento e
conflitto criminale.
Entusiastica è la risposta della massa dei giovani devianti, insofferenti della marginalità in
cui vivono e pronti a tutto per il denaro e per un’ombra di potere. Accorreranno a migliaia
dai tanti affollati deserti urbani della regione. Questa massa di giovani delinquenti campani
sente già, negli anni ’80, quella “Cultura dell’urgenza” che, negli anni ’90, Magaly Sànchez
e Yves Pedrazzini individueranno come tratto caratteristico dei giovani sbandati
(malandros) dei quartieri popolari di Caracas. L’urgenza è prodotta dalla percezione diffusa
della brevità del tratto di vita disponibile, dell’incombere della morte; e quindi della
mancanza di futuro, della necessità di assaporare tutto quanto possibile della vita in un
presente contratto e disperato.
Cutolo non ha soltanto ottimi rapporti con la ‘ndrangheta. Intreccia anche solide relazioni
con la mafia siciliana. Proverà persino a ottenere una sorta di riconoscimento da Cosa
nostra americana, recandosi a New York, in uno dei rari momenti di latitanza, per
incontrare il capo dei capi Charles Gambino. Cutolo cercherà quindi di affermarsi come
unico capo riconosciuto di tutta la delinquenza campana.
La lunga detenzione negli anni ’70 aveva danneggiato Cutolo, emarginandolo dai fruttuosi
accordi sul traffico di tabacco e di droga stipulati con i siciliani da campani pronti ad
affiliarsi alla sicula Cosa Nostra. Quando però riesce a evadere dal manicomio giudiziario di
Aversa, Cutolo dichiara guerra ai boss campani affiliati a Cosa Nostra e agli indipendenti
che rifiutano di porsi sotto le sue insegne. Scoppierà una guerra lunga e feroce.
Nel 1978, esplosa la guerra campana, le carceri pugliesi si riempirono di camorristi
cutoliani, inviativi allo scopo di evitare a Poggioreale conflitti tra clan avversari. La Nco, che
in carcere era nata e sapeva bene come espandersi, affermò rapidamente il suo potere
nelle province pugliesi. Nel 1981 Cutolo avviò la formazione di un’associazione autonoma
e parallela, la Nuova camorra pugliese, tenuta però a versare fino al 50% degli introiti alla
Nco.
Il progetto cutoliano di dominio assoluto della delinquenza campana provocherà l’alleanza
tra la gran parte degli altri clan. Nel 1979 si formerà la Nuova famiglia.
Il confronto armato si accese in tutte le zone, durò cinque anni – dal 1978 al 1983 – e fece
circa 1500 morti. La guerra scatenata da Cutolo con l’imposizione di una tassa personale
sulle casse di sigarette sbarcate in Campania accelerò la crisi del contrabbando di tabacco,
già colpito dal forte apprezzamento del dollaro, e intensificò lo spostamento dei maggiori
interessi sul più remunerativo settore del narcotraffico.
Cosa Nostra intervenne subito, nel tentativo di evitare danni ai fiorenti traffici del tabacco
e della droga. Da Palermo fu mandato un killer, ch’ebbe appena il tempo di sbarcare e
venne ammazzato da due sicari in moto. Fallito il tentativo di eliminare Cutolo, Cosa Nostra
avviò una strategia di mediazione tra le due organizzazioni camorristiche in guerra. Ma fu
tutto inutile. La guerra continuava e diventava più feroce.

L’evento inatteso che schiuse le porte al più intensivo sviluppo imprenditoriale della
criminalità campana fu il terremoto del 1980. Si aprirà un intero decennio di grandi affari,
propiziati da enormi flussi di denaro pubblico. Il più rapido a profittare di questa insperata
fortuna fu Cutolo. La banda cutoliana sarà in prima fila, fin dal giorno del terremoto, con le
sue imprese, che avranno subito gli appalti per la rimozione delle macerie e per
l’installazione dei primi prefabbricati.
Intanto operava a Napoli da un po’ di tempo una colonna delle Brigate rosse diretta da
Giovanni Senzani. Nella primavera del 1981 i brigatisti di Senzani rapivano a Torre del
Greco Ciro Cirillo, assessore campano all’Urbanistica. Allora la segreteria della Dc incaricò i
servizi segreti di attivare Cutolo, che pareva allora il migliore controllore delle carceri
italiane, perché convincesse i brigatisti a rilasciare Cirillo. Imprenditori napoletani ed enti
di Stato raccolsero tre miliardi di lire, che furono spartiti a metà tra Cutolo e Senzani. Dopo
tre mesi Cirillo fu liberato. Cutolo venne ricompensato anche con l’assegnazione alle sue
imprese di numerosi appalti per la ricostruzione in Campania. Aveva avuto pure molte
promesse circa la riduzione delle pene e il trattamento carcerario. Ma Sandro Pertini,
conosciute le sontuose condizioni della sua detenzione nel carcere di Ascoli Piceno, impose
nel 1982, non senza difficoltà, il suo trasferimento nel carcere speciale dell’Asinara.

Contemporaneamente alla guerra di camorra si va svolgendo la seconda guerra nella


mafia siciliana. I corleonesi prendono il comando, ma insieme ad altri boss palermitani. I
corleonesi si fidano solo dei Nuvoletta, che resteranno negli anni ’80 l’unico clan mafioso
riconosciuto da Cosa Nostra siciliana in Campania.
La differenza tra la mafia siciliana e la camorra campana è che nella prima si combatte
soprattutto per il controllo del narcotraffico; mentre la seconda, dopo il terremoto, si
ristruttura e riammoderna con le sue imprese intorno alla capacità di imporre tangenti ed
esigere subappalti, grazie alle decine di migliaia di miliardi erogati dallo Stato per opere
pubbliche, infrastrutture stradali soprattutto. Le imprese camorristiche giungono a
controllare quasi del tutto alcuni settori fondamentali per l’attività edilizia: il movimento
terra e la fornitura di inerti e calcestruzzo. Negli anni ’80 si determina una sorta di parziale
ma significativa pubblicizzazione e politicizzazione della camorra.

Nel 1982 entra in vigore la legge Rognoni – La Torre, che introdusse per la prima volta nel
codice penale una nuova fattispecie di reato: l’associazione a delinquere si stampo mafioso
o camorristico (art. 416 bis). È la prima volta che la camorra viene riconosciuta
ufficialmente quale organizzazione criminale pericolosa come la mafia e la ‘ndrangheta. E
per la prima volta la Commissione parlamentare antimafia dedicherà una indagine
specifica alla criminalità organizzata in Campania.

Il primo maxiblitz delle forze dell’ordine nel giugno 1983 travolgerà definitivamente la
Nco, con l’arresto di centinaia di delinquenti, ma anche di persone innocenti come il
presentatore televisivo Enzo Tortora.
Nel corso del 1983 si determina una sorta di passaggio delle consegne da Cutolo a Alfieri,
che conquista una posizione dominante nel controllo criminale del territorio campano. Si
formava così una sorta di federazione sotto la direzione di Alfieri e del suo gruppo di
comando, che lasciava un’autonomia operativa ai diversi clan sul loro territorio.
La sconfitta di Cutolo fa esplodere lo scontro per la conquista del ruolo dominante nella
criminalità campana: nella primavera 1984 scoppia la guerra tra i Nuvoletta-Gionta e i
Bardellino-Alfieri.

Nel 1985 Gionta venne arrestato da una pattuglia di carabinieri. Due giorni dopo un
corrispondente precario del “Mattino”, Giancarlo Siani, scrisse che la cattura di Gionta
“potrebbe essere il prezzo pagato dagli stessi Nuvoletta per mettere fine alla guerra con
l’altro clan di “Nuova famiglia”, i Bardellino. Da un triennio questo giovane coraggioso
combatteva una solitaria battaglia di ricerca e di denuncia contro il sistema di potere che
dominava Torre Annunziata. Siani si era costituito come un fastidioso ostacolo per il
funzionamento a pieno regime del sistema criminale amministrato dal sindaco socialista
Domenico Bertone. Bertone aveva teorizzato il principio della “Tranquillità del territorio”,
che si realizzava con uno stabile rapporto tra gli esponenti politici e imprenditoriali e la
criminalità organizzata.
Giancarlo Siani, dopo aver gettato pubblicamente il sospetto di tradimento sui Nuvoletta,
fu ammazzato sotto casa, a Napoli.

Capitolo 9

La gestione governativa dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno aveva prodotto un


sistema di potere totalizzante. L’apparato politico e l’assetto produttivo generati al Sud da
questo modello avevano la caratteristica comune di dipendere dall’assegnazione delle
risorse esterne. Erano quindi entrambi definiti dalla mancanza di autonomia e dalla
dipendenza subalterna.
I “favolosi” anni ’80 vedono consolidarsi a Napoli e in Campania, sull’onda delle gestioni
straordinarie post-terremoto, una figura rinnovata di politico-mediatore. Alla raccolta del
consenso in forme clientelari, sempre più in contiguità o in associazione con i clan
camorristici, si accompagna ora la ricerca crescente e diffusa di profitti illeciti, frutto di
accordi lobbystici tra politici, imprenditori e tecnici, con la partecipazione frequente dei
camorristi. Dal finanziamento illecito ai partiti e alle correnti si passa alla corruzione e alla
concussione.
La istituzionalizzazione dell’emergenza, a partire dal terremoto del 1980, ha facilitato il
processo tendente a sostituire l’eccezione alla norma, procedure e poteri straordinari alle
regole democratiche del gioco politico. Si è avviata così una fase di svuotamento delle sedi
istituzionali e rappresentative del potere legale; sono apparsi sempre più inceppati i
meccanismi democratici di produzione delle decisioni. La tendenza, sviluppatasi negli anni
’80, verso forme di concentrazione, privatizzazione e incontrollabilità dei poteri ha
prodotto profondi mutamenti nella ridefinizione degli assetti sociali e nel funzionamento
del sistema politico, operando una restrizione del processo democratico e consolidando
istanze ed esperienze che si muovono al di fuori della legge. È in questo contesto più
ampio che vanno collocati l’incremento di potere e di efficacia e l’espansione delle attività
della criminalità organizzata.
I partiti si trasformano in formazioni elettoralistiche, producendo un ceto politico
professionalizzato, sempre più autonomo dalla società e portato a svolgere funzioni utili ai
rappresentanti medesimi, piuttosto che funzioni di servizio per i rappresentati.
Il consolidamento e l’espansione delle organizzazioni criminali negli anni ’80 sono connessi
alla diffusione di comportamenti illegittimi e illegali nella forma e nella sostanza della
direzione politica esercitata principalmente dai poteri locali (espansione delle autonomie e
dei poteri locali con l’istituzione delle regioni a statuto ordinario nel 1970). Il controllo dei
cospicui flussi di spesa pubblica decentrata ha determinato la formazione di un nuovo ceto
di mediatori politici (formato da amministratori locali e rappresentanti di enti pubblici)
largamente permeabile alle pressioni di gruppi criminali impegnati ad espandere, con
l’inserimento nel vasto mercato degli appalti pubblici, la potenza economica conseguita
attraverso il narcotraffico e altre attività illegali. Gli enti locali si trasformano in
distributori di risorse pubbliche a beneficio privato (mutano il denaro pubblico in
ricchezza privata) di gruppi di interessi (lobbies politico-criminali). In questo contesto va
collocata l’espansione della criminalità organizzata, che riesce a intrecciare abilmente
politica, economia e società in un controllo sempre più esteso del territorio. Negli anni
’80 i clan criminali hanno tratto forza dalle forme di illegalità diffusa nella gestione del
potere politico-amministrativo, a livello centrale e periferico, negli enti parastatali, nelle
amministrazioni locali. Le organizzazioni criminali si sono inserite ben dentro lo Stato, la
società, l’economia.
Il forte incremento della spesa pubblica per la ricostruzione post-sismica, deviata dalle
abitazioni alle grandi opere infrastrutturali a partire dal 1983, trasforma la Campania nel
luogo privilegiato di intrecci fra clan criminali in ascesa, potentati politici, amministrazioni
locali, grosse imprese edili.
La camorra è diventata un’impresa polivalente. L’abbondanza di capitali cumulati
illegalmente sostiene il più largo ricorso al credito agevolato, che favorisce
l’investimento in attività legali in grado di sbaragliare la concorrenza sia con la riduzione
dei prezzi, sia mediante pressioni intimidatorie sul mercato (potenzialità intimidatorie:
scomparsa repentina della concorrenza e del sindacato, capitali in esubero, sicurezza
garantita, pace sociali, armonia politica.
Questa rinnovata criminalità ha sottratto alle istituzioni legali il controllo della parte più
dinamica del territorio e fornisce occasioni di lavoro illegale alla parte più disagiata. Ha
infiltrato i suoi uomini negli enti locali, ha investito una parte dei proventi del
narcotraffico nell’acquisizione di imprese edilizie abilitate ai grandi lavori, ha assunto il
controllo di settori fondamentali per l’edilizia e la realizzazione delle grandi opere
pubbliche (produzione di calcestruzzo e fornitura di macchinari per il movimento terra),
ed infine ha consolidato le relazioni con numerosi maggiorenti del sistema politico,
disponibili a tutto in cambio di voti e denaro.
In Campania politici, imprenditori, camorristi si accordano per realizzare nei modi più
fruttuosi per i loro interessi le grandi e spesso superflue opere pubbliche. Nel decennio e
oltre della ricostruzione si consolida anche il rapporto tra le diverse figure dei “camorristi-
imprenditori” e degli “imprenditori-camorristi”.
I consorzi diventarono lo strumento con cui la camorra monopolizzava sia la gestione di
interi comparti produttivi che il controllo del territorio, garantendo tranquillità e
sicurezza nei cantieri.
Il clan di Carmine Alfieri, a metà degli anni ’80, è diventato il più potente della Campania.
Aziende operanti nei diversi settori dell’industria edilizia si presentavano con le credenziali
di Alfieri alle società concessionarie delle grandi opere per la ricostruzione in Campania.
Ottenevano subito i subappalti, che contravvenendo al limite di legge del 40%, variavano
dal 60 fino al 100% dei lavori assegnati ai consorzi formati dai maggiori gruppi.
Le grandi imprese concessionarie di solito non facevano niente. Si limitavano a intascare
una grossa fetta di denaro pubblico, di solito il 10% dell’intero appalto, per il solo disturbo
di affidare i lavori ad altri, per lo più camorristi.

La Commissione d’inchiesta sulla ricostruzione presieduta dal democristiano Scalfaro,


rivelò le malversazioni compiute nell’appropriazione indebita di una quota cospicua degli
oltre 50.000 miliardi di denaro pubblico da parte di imprenditori, professionisti, politici e
camorristi. La relazione conclusiva della Commissione critica con asprezza la eccessiva
proliferazione di leggi, decreti e ordinanze succedutisi nel decennio dopo il terremoto.
Questa pluralità di norme ha consentito irregolarità e abusi. Di particolare gravità è
risultata l’attribuzione agli enti gestori delle risorse di un ampio potere di “deroga” da
tutte le norme vigenti, comprese quelle della contabilità generale dello Stato. Si è
sviluppato così un potere di ordinanza dai confini illimitati che ha reso inoperante
qualsiasi attività di controllo. Ministri e apparati amministrativi non hanno controllato le
opere affidate ai concessionari, i quali, in una sorta di progettazione continua, optavano
invariabilmente per le soluzioni più costose e profittevoli per i loro interessi. Di qui
l’enorme variazione dei prezzi, la lievitazione dei costi delle tante superstrade inventate
tra Napoli e la Basilicata ed elevate appena possibile sui costosi viadotti, anche a pochi
metri dal suolo, come il famigerato “Asse mediano” nei dintorni della metropoli. I grandi
consorzi di imprese si erano limitati a svolgere un ruolo di mera intermediazione
finanziaria. I subappalti finivano per lo più nelle mani di imprese camorristiche. La qualità
del lavoro era bassa come la quota di che restava alle aziende che eseguivano
effettivamente le opere. Infine il “pagamento anticipato” ha permesso indebitamente ai
privati di lucrare su consistenti somme di denaro pubblico.

Capitolo 10

Antonio Bardellino domina la camorra casertana per oltre un decennio, a partire dal 1977.
Bardellino sarà tra i primi a spostare i suoi interessi nel narcotraffico, entrando subito a far
parte di quella élite della nuova camorra campana, che per un verso viene affiliata a Cosa
Nostra, assumendone tutta la rilevanza criminale; ma riesce anche ad acquisire una
autonoma e originale dimensione e un giro di affari internazionali, grazie all’immediato
inserimento nelle nuove correnti mondiali del narcotraffico.
Bardellino si era trasferito in America Latina, a Santo Domingo; qui aveva stretto un
redditizio accordo col cartello di Medellìn, che gli forniva grosse partite di cocaina a prezzi
di favore.

Il Clan dei Casalesi nacque ufficialmente nella primavera del 1988, dopo la morte di
Bardellino per mano del suo braccio destro, Mario Iovine, che lo aveva raggiunto in Brasile
durante la sua latitanza.
L’omicidio di Bardellino fu preparato con cura dagli aspiranti alla successione, Francesco
Schiavone e Francesco Bidognetti, che non sopportavano più la gestione del loro capo.
L’impero criminale che fu di Bardellino passò integralmente nelle mani dei suoi
luogotenenti, Schiavone, Bidognetti, Iovine e De Falco. Alla fine di giugno il quadrumvirato
si riunì a Casale per ridefinire l’assegnazione delle zone ai capi-regime: la gran parte
vennero confermati, mentre furono estromessi i superstiti fedeli a Bardellino.
L’eliminazione del capo non concluse però la guerra di successione; aprì anzi un’altra fase
nella lotta per l’affermazione di un nuovo dominio nel regno casertano della camorra. Lo
scontro principale si sviluppò tra gli Schiavone e i De Falco. Il conflitto spaccava il clan in
due schieramenti. Questa guerra sanguinosa si concluse nel 1992. L’organizzazione ora
guidata dagli Schiavone, insieme a Bidognetti, controlla l’intero territorio casertano,
esteso fino al basso Lazio, alle propaggini del Sannio e alle pendici dell’Irpinia.
Nel passaggio da un secolo all’altro il clan dei casalesi estenderà ulteriormente le sue
attività, invadendo, tra gli altri, anche il campo della commercializzazione dei prodotti
alimentari.
Nel 1993 Carmine Schiavone, mente economico-finanziaria del clan, iniziava a collaborare
con la giustizia.
Nel Casertano i camorristi controllavano, oltre ai traffici di ogni genere, anche la vita
politico-amministrativa di centri importanti. La diffusa infiltrazione mafioso-camorristica
nelle amministrazioni comunali casertane trova riscontro nei numerosi decreti
presidenziali che sciolgono per questo motivo, tra il 1991 e il 1993, tredici Consigli
comunali della provincia.
“La scelta del Sindaco ad Aversa è stata sempre decisa dall’organizzazione. Quando si
doveva votare, vi erano delle riunioni ove si stabiliva chi doveva occupare la carica di
Sindaco, sia per coprire tutto quanto fosse stato fatto in passato, sia per assicurare tutto
ciò che doveva essere fatto in futuro. […] Addirittura, si stabiliva la percentuale dei voti per
non dare nell’occhio in Prefettura o causare ispezioni di qualunque genere.” (Carmine Di
Girolamo, capozona dei casalesi)
A Casal di Principe i delinquenti giravano casa per casa chiedendo i voti per la loro lista.
“I sindaci non capivano nulla di politica e, comunque, ad essi la politica non interessava.
Erano, in ogni caso, ossequienti ai voleri del clan.” (Adolfo Ucciero, collaboratore di
giustizia)
Nel 1991 il governo Andreotti imprime una svolta all’azione contro la criminalità
organizzata, dopo la stasi del precedente governo De Mita. Il nuovo ministro di Grazia e
Giustizia, sempre socialista, Claudio Martelli, chiamerà poi alla Direzione generale degli
Affari penali Giovanni Falcone, mentre il nuovo ministro dell’Interno Enzo Scotti sceglie
come consulente l’esperto Pino Arlacchi. Le risoluzioni più importanti riguarderanno la
costituzione di due nuovi organismi da parte dei ministeri della Giustizia e dell’Interno. La
Direzione nazionale antimafia (Dna) coordinerà le nuove Direzioni distrettuali antimafia
(Dda), collocate presso le Procure della Repubblica. Sul terreno investigativo opererà la
nuova Direzione investigativa antimafia (Dia), con compiti di coordinamento di
carabinieri, polizia, Guardia di Finanza.
Sono sempre più numerosi i capiclan che temono una sorte di capri espiatori e scelgono
quindi la strada della collaborazione, per ottenere i vantaggi della legislazione premiale.
Non si tratta di poco: sconti di pena e salvaguardia almeno parziale di grandi patrimoni.
Dissoluzione del clan Alfieri: nel 1993, dopo che il suo potere è stato minato dal
pentimento di Pasquale Galasso, capo dei gruppi di fuoco del clan dominante in Campania,
Carmine Alfieri si pente a sua volta e con le sue dichiarazioni fa tremare la terra sotto i
piedi di diversi uomini puliti di livello nazionale, tra cui Antonio Gava, Paolo Cirino
Pomicino e Alfredo Vito.
La vicenda più impressionante è costituita dalla capacità dei clan criminali di penetrare
nelle istituzioni, corrompendo gli stessi addetti alla protezione di coloro che stanno
fornendo il maggiore contributo alla conoscenza del sistema di potere criminale in auge
per oltre un ventennio. È il segno di un radicale disfacimento della struttura di uno Stato e
del tessuto morale e civile di una nazione.
A cavallo degli anni ’90 il rapporto tra politica e camorra si è capovolto, nel senso che
ormai è la camorra che detiene il bastone di comando.

Capitolo 11

Mario Fabbrocino era stato, a fine anni ’70, tra i primi affiliati camorristi a Cosa Nostra, nel
clan Zaza. La riservatezza, il segreto, l’occultamento degli adepti e degli affari erano la
“fissazione” di Fabbrocino, che aveva anche creato, negli anni ’80, un’associazione
chiamata “Mafia Campana”, dove promuoveva affiliazioni secondo i rituali mafiosi. Il clan
Fabbrocino era un clan potente e sostanzialmente autonomo, molto attivo sul terreno
imprenditoriale. Uno dei settori principali d’intervento è quello edile, dove il gruppo è ben
presente nei lavori di scavo e movimento terra e nella fornitura di calcestruzzo. Il clan
inoltre partecipa attivamente alle iniziative nel settore della macellazione e del commercio
delle carni.
Dopo la disgregazione del clan Alfieri e la scelta di molti suoi capi di collaborare con la
giustizia, il clan Fabbrocino ne raccoglierà l’eredità.
Gli appalti delle opere pubbliche di maggior rilievo nel vasto territorio controllato da
Fabbrocino saranno “esclusivo appannaggio di imprese direttamente collegate al sodalizio
camorristico”.
La sconfortante conclusione della Procura antimafia di Napoli, nel 1997, sottolinea <<la
disponibilità dell’impresa legale a convivere pacificamente con quella mafiosa,
assecondandone le pretese all’elusione dei dispositivi legali astrattamente posti a
protezione della trasparenza del mercato>>.
Intanto Fabbrocino si spostava continuamente tra Paraguay e Argentina per sfuggire alle
ricerche dell’Interpol. Nel 1997 si concluse la decennale latitanza del boss, arrestato dalla
polizia argentina con la collaborazione del Dia. Nel 2001 viene estradato. Qualche anno in
prigione e già nel 2004 può tornare a casa, perché ha scontato i sei anni comminati per
narcotraffico e associazione mafiosa. Sarà la primavera 2005 a portargli l’ergastolo quale
mandante dell’omicidio di Cutolo nel 1990. A Ferragosto viene catturato e riportato in
carcere. Sarà quindi sottoposto alle rigide misure previste dall’art. 41 bis. Il clan continuerà
a funzionare secondo le sue direttive.

A metà degli anni ’90 il clan dei casalesi può considerarsi dominante in Campania.
Controlla due settori fondamentali dell’economia: lo smaltimento dei rifiuti tossici
provenienti dal Nord e l’attività edilizia. Dopo la ricostruzione post-sismica e la terza
corsia dell’autostrada Napoli-Roma, è ora la volta della linea ferroviaria dell’alta velocità,
sempre tra Roma e Napoli.
La giornalista del “Mattino” Rosaria Capacchione e il senatore del Pds Lorenzo Diana
denunciavano da tempo le pesanti infiltrazioni camorristiche nei lavori pubblici, ricevendo
minacce di morte dai casalesi.
A fine ’94 il senatore indipendente del gruppo dei Progressisti Ferdinando Imposimato
presenta un paio di interrogazioni al governo per denunciare forme di corruzione e
subappalti affidati a ditte camorristiche nei grandi cantieri della Tav.
Queste infiltrazioni camorristiche nei lavori per l’alta velocità ripropongono quelle già
avvenute per la costruzione della terza corsia dell’Autostrada del Sole e “sembrano
dimostrare che la Camorra non è più antagonista dello Stato, ma una sorta di controparte
dello Stato, una forza riconosciuta, rispettata, efficiente e temuta. Essa gestisce le grandi
opere pubbliche e assicura un certo ordine sociale. Lo Stato finisce così per finanziare la
Camorra, potenziandola e legittimandola.” (F. Imposimato, “Relazione sulla criminalità in
Campania”)
Intanto, nell’estate del 1995, la Procura antimafia di Napoli aveva concluso la lunga e
complessa indagine sui casalesi e aveva passato la montagna di carte al Gip, per le sue
conclusioni riguardo all’ordinanza di custodia cautelare da emettere per centinaia di
delinquenti. Fu un lavoro improbo concluso sul finire dell’anno e accompagnato da un
grande blitz di tremila agenti e carabinieri, cui spettava di eseguire 143 ordinanze di
custodia cautelare. Molti riuscirono a sfuggire all’arresto, ma una cinquantina di casalesi
finirono in carcere.

Il Mezzogiorno attraversa nella prima metà degli anni ’90, un periodo di intensa
recessione. La situazione economica cambierà nella seconda metà degli anni ’90. Il
Mezzogiorno e i suoi problemi strutturali sono cancellati dall’agenda politica nazionale,
vengono definitivamente archiviati. Sono del tutto mancati interventi di ampio respiro
volti a favorire lo sviluppo economico nella legalità. Non si sono offerte adeguate
possibilità di lavoro legale, non si sono attivate forme concrete di espansione
dell’istruzione e della cultura, che costituiscono i soli argini al dilagare delle attività, dei
modelli e dei comportamenti criminali. La completa deindustrializzazione delle aree
vicine al centro di Napoli si è dimostrata l’occasione per l’espansione e la moltiplicazione
dei gruppi criminali, con la loro peculiare, eppure quasi esclusiva capacità di offrire
molteplici possibilità di attività retribuite, sia illegali che apparentemente legali. Lì dove
c’erano fabbriche e operai si sono insediati agguerriti clan criminali.

Sul finire del Novecento la camorra a Napoli è diventata ‘o sistema. Negli anni ’90 si
consolida nella città e nell’area metropolitana di Napoli una sorta di cartello che collega
numerosi clan. È l’“Alleanza di Secondigliano”, che prende il nome dal vasto quartiere
controllato da chi se ne può considerare il fondatore: Gennaro Licciardi, che riesce a porre
il quartiere più degradato di Napoli (il Bronx napoletano) al centro degli equilibri
camorristici cittadini.
L’Alleanza di Secondigliano aveva conquistato il dominio camorristico della metropoli.
La criminalità campana mantiene comunque la sua storica caratterizzazione, definita da
una struttura di tipo orizzontale, non verticale come Cosa Nostra.
Ogni gruppo camorristico campano, a differenza di altri gruppi delinquenziali, è
autonomo. Sul finire del Novecento l’area flegrea appare un campo di battaglia tra clan
locali. Non sempre le vittime si limitavano ai contendenti. Spesso venivano coinvolte
persone di passaggio o colpiti bersagli sbagliati.
Dopo le guerre seguite alla dissoluzione della Jugoslavia riprende, in Montenegro e in
Albania, il nuovo traffico internazionale del contrabbando di sigarette. Per alcuni anni si
sviluppò un grosso affare internazionale, che vedeva in prima fila grossi trafficanti sistemati
in Svizzera, nel Canton Ticino, e gli stessi dirigenti politici dei malmessi stati balcanici,
retribuiti mediatori del traffico. Tutti i clan napoletani si fiondarono nel business. Era il
secondo affare che la camorra traeva dalle conseguenze delle guerre balcaniche. Il primo
era consistito nel trarre profitto dalla grande disponibilità di armi da guerra, di cui
s’erano riforniti tutti i clan, che ne avevano bisogno come il pane. Ma non era finita.
Dall’Albania e dalla ex Jugoslavia sarebbero presto venuti feroci veterani a combattere
nelle successive guerre di camorra.
Ma, poco dopo, una legge inasprì di parecchio le pene per il contrabbando di sigarette, che
fu di nuovo abbandonato per dedicarsi pienamente al più vantaggioso narcotraffico.
Capitolo 12

L’economia del Mezzogiorno, specie di quello tirrenico, cessa di svilupparsi già negli anni
’80. Tra l’inverno del 1992 e la primavera del 1993 si conclude definitivamente la politica
dell’intervento dello Stato nel Mezzogiorno. Contemporaneamente i governi Amato e
Ciampi danno inizio alla politica di rigore e di stretta fiscale necessaria per ridurre il debito
pubblico ed entrare nell’area dell’euro. La spesa statale al Sud si abbatte drasticamente.
La “deindustrializzazione” si completa con la dismissione delle imprese pubbliche, che
costituivano la gran parte dell’industria meridionale. Le privatizzazioni si susseguono. La
disoccupazione sale ad altissimi livelli. Torna a crescere il divario tra Centro-Nord e Sud.
Si abbassa anche il livello dei consumi. Di positivo c’è, nel 1993, l’apertura dello
stabilimento Fiat a Melfi. Tra il 1988 e il 1993 sarà definita la politica regionale dell’Ue.
La situazione cambierà nei secondi anni ’90. Tra il 1996 e il 1999 il Pil del Sud, grazie
soprattutto alle regioni adriatiche, aumenta del 2,2% annuo (+ della media nazionale).
Crescono anche il numero delle imprese, l’esportazione e il turismo. L’occupazione
meridionale aumenta; contemporaneamente, però, trasferiscono la residenza nel Centro-
Nord circa 400.000 meridionali, per lo più giovani laureati.
I governi di csx di fine millennio, come quelli precedenti e successivi di cdx, si
occuperanno poco del Mezzogiorno.
I cospicui sostegni dell’Ue si disperdono per lo più, nelle regioni meridionali, in azioni e
provvedimenti pulviscolari, incapaci di progettare ad ampio spettro e di avviare una ripresa
dell’espansione e del lavoro produttivi. La gran parte del territorio meridionale non riesce
quindi a consolidare la sua struttura economico-sociale.
Il Mezzogiorno è toccato solo marginalmente dalla rivoluzione tecnologica e produttiva di
fine Novecento e dalle innovazioni legate alla nuova “economia della conoscenza”. Per
questo il rischio più grave, nella gran parte del Sud, è il crescente ruolo della criminalità
nella gestione d’impresa e nell’offerta di lavoro, sia legale che illegale.
Questo rischio è aggravato dai comportamenti diffusi nel ceto politico-amministrativo
meridionale, che oscillano prevalentemente tra la collusione coi poteri criminali e la
sottovalutazione strumentale della loro incidenza, a copertura di una sostanziale incapacità
di offrire concrete alternative di attività e di lavoro rispetto alla dilagante iniziativa
criminale.
I governi, di entrambi gli schieramenti, e il ceto politico-amministrativo di tutto il paese
fanno a gara nel cercare di ignorare il problema. Non vogliono più nemmeno sentir parlare
del crimine al Sud, e in fondo nemmeno del Sud. In questo vuoto di politica e in questo
deserto di economia produttiva prendono il volo le imprese criminali e quindi le “imprese
a partecipazione criminale”, dove i boss condividono il controllo di società lasciate alla
gestione di titolari già operanti nella legalità.
Mentre i governi nazionali e gli enti regionali e locali del Sud sotterrano definitivamente la
“questione meridionale”, i nuovi camorristi viaggiano sicuri per il mondo sulle ali della
globalizzazione neoliberista e si consolidano nei loro territori come principali datori di
lavoro e di opportunità a strati sociali emarginati. Questi moderni criminali-imprenditori
sanno anche come servirsi delle nuove reti di comunicazione.
Così, nel disinteresse generale, la criminalità meridionale diventa protagonista nei
meccanismi finanziari ed economici maturati nel corso del lungo processo di
globalizzazione. La nuova camorra è stata pronta a conquistare gli appena aperti mercati
dell’Est europeo, a partire dai depositi di armi pesanti e dalle abitazioni di interi quartieri.
La camorra non ha perso tempo nel conquistare una inedita centralità nel narcotraffico
rispetto alle altre due mafie italiane e nel diventare leader in altri settori centrali per la
moderna criminalità: il commercio internazionale di merci con marchi falsificati, le
imprese edilizie, il traffico dei rifiuti tossici e urbani.
Una novità degli ultimi anni è rappresentata dall’ampliamento di massa della platea degli
investitori nel traffico della cocaina. I Nuvoletta hanno allargato il modello di espansione
finanziaria, creando una sorta di azionariato popolare, formato da impiegati, pensionati,
percettori di piccoli redditi che partecipano per quote minime all’acquisto delle partite di
droga e ricevono i relativi profitti.
Napoli e la camorra sembravano sempre più un anello centrale della catena che stringeva
in affari comuni le tre grandi mafie del Sud: nel narcotraffico (centralità di Napoli nel
traffico della droga), ma anche negli appalti dei grandi lavori pubblici, come dimostrava
l’infinita storia della Salerno-Reggio Calabria.
Quindi, faide interne ai clan (faida di Scampia interna al clan Di Lauro e faida nella Sanità)
per aprire nuove egemonie e prospettive, ma accordi ai vertici tra le grandi organizzazioni
criminali (porto di Gioia Tauro ripetutamente colpito dai sequestri della Guardia di
Finanza).
Nei primi anni del nuovo millennio il mondo politico finge di non vedere l’espansione in
Campania della camorra rinnovata e sempre più globalizzata.
La nuova camorra è riuscita a diventare il potere dominante l’economia e la società
napoletana e, in larga misura, campana (è diventata o’sistema).
<<La Campania sembra essersi trasformata nel vero e proprio laboratorio nazionale degli
accordi corruttivo-collusivi e delle convivenze perverse tra politica, affari e criminalità con i
due settori della sanità e della raccolta e smaltimento dei rifiuti che spiccano su tutti.>>
(Conclusione di una relazione di maggioranza della Commissione parlamentare antimafia)

Capitolo 13

Tra gli aspetti più impressionanti della situazione economico-sociale che caratterizza, da
alcuni decenni, Napoli e la gran parte della Campania va segnalato il tragico contrasto tra il
completo stallo dell’economia, del lavoro e della società nell’ambito della legalità e invece
il frenetico attivismo delle iniziative che si sviluppano in forme illegali e criminali.
Una differenza importante tra i diversi insediamenti criminali sul territorio campano si
riscontra rispetto alla stabilità del potere. Una marcata stabilità caratterizza innanzitutto i
clan del Casertano, dominato dal cartello dei casalesi, ma anche le famiglie della gran parte
della provincia di Napoli. Ben diverso appare invece il quadro nella vasta città di Napoli,
dove la situazione è in continuo cambiamento, per il mutare delle egemonie e delle
alleanze, nonché della stessa composizione e dislocazione dei clan. Il panorama
napoletano non è affatto tranquillo. Anzi si susseguono scissioni e faide, alleanze e
ribaltamenti di campo, vecchie e nuove egemonie, anche per la diffusione dei collaboranti.
Nel nuovo millennio è scomparsa l’Alleanza di Secondigliano, mentre il clan Sarno, nel
2009, tocca il livello massimo di alleati e fiancheggiatori. Ma dopo una serie di arresti e di
collaborazioni fra i tanti fratelli e nipoti del capoclan ci sarà la fine del clan.
A fronte di questi continui sconvolgimenti napoletani si staglia la solida tranquillità
provinciale, poco attraversata dai cambiamenti e dalle collaborazioni. Il clan Nuvoletta non
conosce tramonto. Il clan Fabbrocino, nonostante la detenzione del capo, ha rafforzato il
controllo dell’area vesuviana tra San Giuseppe, Ottaviano e Terzigno. Il clan Lubrano-
Ligato, imparentato coi Nuvoletta, domina sempre a Pignataro Maggiore, conosciuto come
la “Svizzera dei clan”: <<L’unico territorio nel casertano gestito direttamente da Cosa
Nostra>>, scrisse Roberto Saviano nel 2003. Questo borgo casertano è da sempre una
“colonia” mafiosa nel territorio campano.
I Moccia di Afragola e i Mallardo di Giugliano non hanno problemi a consolidare il loro
semisecolare dominio territoriale. Anche il clan D’Alessandro continua a controllare da
parecchi decenni Castellammare di Stabia. Nell’autunno 2009 si è invece conclusa la
latitanza dei fratelli Russo. Il clan Gionta, nonostante la detenzione del suo capo, si colloca
ai vertici nazionali del narcotraffico, che resta tra le prime fonti di reddito del crimine
organizzato, insieme alle estorsioni e all’usura. Si sono intensificati i rapporti dei clan
locali con gruppi criminali dell’Europa orientale (a partire dall’Albania) e di paesi africani
come la Nigeria, dediti allo sfruttamento della prostituzione e alla riduzione in schiavitù
delle donne tradotte per questo mercato, oltre che allo spaccio di droga.
Il litorale domizio, tra Castelvolturno e Mondragone, è da oltre vent’anni abitato da
migliaia e migliaia di immigrati ed è stato controllato dal clan La Torre, che ha riscosso le
tangenti per i traffici svolti dagli extracomunitari, anche per conto del clan dei casalesi.
Le due relazioni svolte dalla Dia nel 2008 sottolineavano la progressiva diffusione, specie
nel contesto metropolitano, di un aggressivo modello gangsteristico, caratterizzato da
instabili equilibri e da un rapido turn over delle alleanze e delle conflittualità. Nell’area
napoletana i principali clan accordano a gruppi secondari (“clan satelliti”) la gestione di
attività illegali al prezzo di forti tangenti, determinando un incremento della criminalità
diffusa. Secondo le stesse modalità i grossi clan consentono lo svolgimento delle diverse
attività illegali ai gruppi criminali stranieri, dai cinesi ai nigeriani, agli slavi.

“L’affare monnezza” inizia sul finire degli anni ’80, proprio mentre si conclude “l’affare
terremoto”. Il traffico nuovo, non meno prezioso di quello della droga, riguarda i rifiuti
urbani, industriali, tossici trasferiti in quantità enormi dal Nord al Sud (gli inventori del
nuovo traffico sono gli imprenditori del Centro-Nord).
Grazie alla legge per la riconversione industriale, negli anni ’80, le imprese del Centro-Nord
si andavano espandendo con forza, ma avevano sempre l’esigenza di abbattere i costi di
gestione e pensarono bene di rivolgersi ai camorristi campani perché si assumessero il
servizio dello smaltimento dei rifiuti a prezzi stracciati.
Cosa Nostra rispetta la gestione soltanto camorristica di questo grosso affare.
Le attività di trasporto dal Nord e di scarico nelle aree di confine tra Casertano e
Napoletano sono svolte dai più abili imprenditori campani del settore rifiuti, che
dispongono delle discariche e delle imprese di trasporto. In qualche caso poi, per evitare i
fastidi e i rischi dello smaltimento, si ricorre al trucco di abbandonare i grossi camion per
strada e di avvertire i carabinieri perché sia lo Stato a sbrigare la faccenda. C’è poi l’anello
fondamentale che congiunge Nord e Sud in questo affare criminale: gli intermediari, che
raccolgono le commesse degli amministratori comunali, dei dirigenti delle Asl e soprattutto
degli industriali del Centro-Nord per gli amici del Sud. Sono questi che mandano file
infinite di camion a raccogliere milioni di tonnellate di rifiuti urbani e soprattutto di rifiuti
tossici (piombo, zinco, amianto, fanghi dei depuratori, materiali platici, ossa dei morti,
scarti di ospedali, ecc…), che getteranno nelle loro discariche o sottoterra nei territori
strettamente controllati. È una vera pacchia per le imprese, per gli ospedali, per i comuni
del produttivo e ordinato Centro-Nord poter disporre (e a che prezzi!) di questi benemeriti
imprenditori meridionali, che li liberano di tutti i rifiuti con efficienza e rapidità. Un’azienda
industriale per smaltire i suoi rifiuti al Nord paga due euro al chilo, mentre gli amici del
Sud si accontentano di quaranta centesimi.
Così, negli anni ’90, le discariche e il sottosuolo dell’area casertana tra Villa Literno,
Cancello Arnone e Casal di Principe e dell’area napoletana tra Giugliano, Nola e Acerra
vengono riempiti di monnezza, ma soprattutto di rifiuti tossici in costante arrivo dal
Veneto, dalla Lombardia, dal Piemonte, dalla Toscana, dall’Emilia.
Il ministro dell’Interno Giorgio Napolitano, recatosi a visitare il Casertano, riceveva dalla
magistratura una precisa informazione sul danno irreparabile che stavano procurando alla
Campania le “ecomafie”. Il ministro ne era profondamente allarmato e istituiva
immediatamente una sezione del Nucleo Operativo Ecologico (Noe) dei carabinieri, di cui
faceva parte il colonnello Sergio De Caprio (il capitano “Ultimo” che aveva arrestato Totò
Riina).
La Campania diventa l’immondezzaio d’Italia. Intanto le discariche vanno esaurendosi. Ma
non si esaurisce la fantasia delinquenziale. Colmate tutte le discariche, si procede a
bruciare tutti i rifiuti, per fare posto ad altri rifiuti. E così si arriva a produrre diossina a cielo
aperto, che si spande nell’aria e penetra nella terra. Il triangolo Giugliano-Villaricca-
Qualiano diventa la “terra dei fuochi”.
La parte più fertile del territorio campano è ormai colma dei rifiuti urbani e speciali del
Centro-Nord, grazie al servizio svolto dalla camorra casalese a vantaggio proprio e dei
fratelli dell’Italia progredita.
A metà anni ’90 non ci sono più dubbi sul fatto che la camorra ci abbia visto giusto: “La
munnezza è oro”. Ma la camorra non è sola in questo affare. Lo smaltimento dei rifiuti
non è soltanto il settore imprenditoriale più sicuro e proficuo per la sua inarrestabile
crescita, ma si connette anche al comparto innovativo e sussidiato delle energie
alternative. Il combustile derivato dai rifiuti (cdr), trattato da appropriati inceneritori, può
produrre energia pulita. Per incentivare questa produzione, fin dal 1992, il Comitato
interministeriale dei prezzi (Cip) aveva emanato un provvedimento che triplicava il prezzo
di questa energia elettrica “pulita”. Questo incentivo si chiamò quindi Cip6.
L’Enel scese subito in campo. L’ente, per ottenere gli incentivi Cip6 e gli altri previsti
dall’Ue, si impegnava a realizzare gli impianti per la produzione di cdr e il connesso
inceneritore (o termovalorizzatore), nonché a ritirare il cdr prodotto e a smaltire a propria
cura le ceneri. Tutto a costo zero, in cambio di una lunga gestione completa del ciclo dei
rifiuti. Questo accordo non si realizzò: per garantire la concorrenza a livello europeo, si
disse. E in effetti non si poteva procedere altrimenti che mediante un bando di gara.
L’accordo fu fatto con la Fibe (società priva di qualsiasi esperienza nel settore
appartenente a un membro della criminalità campana). Il punto essenziale è che in tanti
anni la Fibe non ha mai prodotto cdr di qualità tale da non poter essere incenerito e
produrre energia. Ha soltanto accatastato a cielo aperto oltre cinque milioni di tonnellate
di rifiuti in balle (falsamente definite “ecoballe”), che non potranno mai essere bruciate,
ma dovranno soltanto essere gettate in discariche, che peraltro non esistono. La situazione
precipita nel marasma più totale. Nel 2005 il governo stanzia venti milioni di euro per
l’adeguamento tecnico funzionale degli impianti della Fibe che non producono cdr tale da
poter essere incenerito. Questo è una perfetta esemplificazione del carattere criminogeno
che è diventato intrinseco alla parte per così dire “affaristica” della legislazione italiana.
Alla fine il governo Berlusconi, nel 2008, ha scelto la via drastica della militarizzazione del
territorio e dell’affidamento della responsabilità decisionale a un organo politico-
tecnocratico guidato dal sottosegretario Bertolaso. Il primo inceneritore, ad Acerra, ha
iniziato a funzionare nella primavera del 2009. Ma questa tragica storia è ben lontana
dall’essere conclusa. È in pieno svolgimento, però, l’azione della magistratura e delle forze
dell’ordine, che ancora una volta sono costrette a svolgere funzioni di supplenza rispetto ai
compiti e ai controlli non eseguiti dagli organi politici e amministrativi che ne avevano la
responsabilità. Sotto le lenti dei controlli investigativi, contabili, giudiziari sono finiti
l’attività del Commissario all’emergenza rifiuti e l’abnorme malfunzionamento dei
“consorzi di bacino” (18 consorzi intercomunali, istituiti nel 1993 dalla Regione Campania
per la gestione del ciclo dei rifiuti: trasporto e smaltimento, avrebbero dovuto fare la
raccolta differenziata).
La Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti concludeva che questi
consorzi diventati società miste non erano altro che <<luoghi di incontro tra malavita
camorristica e mala amministrazione>>.
Amministrazioni comunali, imprese dei rifiuti, organizzazioni criminali sono i tre soggetti
che si intrecciano nell’affare monnezza.
Nel 2007 i protagonisti di questa storia sono tutti arrestati, con le accuse di danni allo Stato
e falso ideologico.
Nel 2009 entra in gioco la s.r.l Imp.re.ge.co (impianti regionali gestione consortili), la quale
era una sorta di superconsorzio che unificava tre consorzi e veniva formato con lo scopo di
diventare uno strumento capace di attivare un Ciclo integrato dei rifiuti. Questo nuovo
progetto si orientava verso una prospettiva di “provincializzazione” del servizio, fondata
su una autonomia gestionale a livello provinciale, visti i pessimi risultati ottenuti sulla
dimensione regionale.
Nel primo decennio del XXI secolo l’emergenza rifiuti ha segnato drammaticamente la
storia della Campania. Sono stati sciolti, per infiltrazioni camorristiche, decine e decine di
comuni, nonché società municipalizzate, consorzi, imprese per la raccolta e lo smaltimento
dei rifiuti.
Fu così istituita una squadra di emergenza che aveva il compito di “togliere” la camorra e,
grazie anche al successo del libro “Gomorra” di Saviano, la questione venne posta sotto i
riflettori, diventando di dominio internazionale.
I casalesi hanno dominato per decenni tutta la Terra di Lavoro allargata agli antichi, estesi
confini, nel silenzio e nell’indifferenza diffusi. Improvvisamente sono finiti sotto i riflettori
e sono diventati il bersaglio principale della lotta alla camorra, sortita inaspettatamente
all’interesse del mondo. Essi infatti non sembrano più controllare il territorio come una
volta ed appaiono in crescenti difficoltà tra denunce, arresti e nuove collaborazioni. La
magistratura, i carabinieri, la polizia, la Guardia di Finanza tengono sempre più il fiato sul
collo dei criminali-imprenditori casertani. Pare ormai che i casalesi, insieme ai maggiori
clan camorristici, si muovano più speditamente nelle città del Nord.
Il 15 gennaio 2010 la Corte di Cassazione conferma in via definitiva tutte le condanne
inflitte ai casalesi in appello, tra cui 16 ergastoli. Dopo 17 anni di indagini e sentenze di
conclude il grande processo alla camorra casertana (denominato dalle varie inchieste
“Spartacus”).

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