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La vita di Sciascia

Leonardo Sciascia nasce a Racalmuto, in provincia di Agrigento, l’8 gennaio 1921 e


muore a Palermo il 20 novembre del 1989. Sciascia è scrittore del nostro tempo, non
solo perché è vissuto in questi anni, ma perché nella sua vita e nelle sue opere ha
manifestato un profondo interesse per la realtà sociale, civile e politica che lo
circondava, ha ricercato con determinazione e passione le ragioni di ingiustizie o di
misteri che le cronache di questi anni documentano. Dopo un’infanzia lieta,
trascorsa tra le attenzioni delle zie e l’appassionata lettura di tutta la carta stampata
che potè trovare in famiglia, nel 1935 Sciascia si trasferisce a Caltanissetta con i
genitori e i due fratelli minori, Giuseppe e Anna. Erano gli anni del fasciamo, e fin da
bambino Nanà, come è chiamato dagli amici e dai parenti, è infastidito dalle
cerimonie militari che lo costringono a marciare nel cortile della scuola; preferisce di
grand lunga leggere Manzoni, Diderot, Pirandello. Nel 1941 Sciascia viene assunto
come impiegato nel Consorzio agrario di Racalmuto e vi resterà fino al 1948,
scoprendo i drammi dei contadini. Se da studente Sciascia scriveva poesie e prose
con estrema facilità, conquistando amici e professori, da giovane impiegato egli
approfondisce la sua cultura civica e letteraria, raffina la sua scrittura e si fa notare
per i suoi numerosi interventi nelle riviste locali. A quegli anni risalgono il felice
matrimonio con Maria Andronico, la nascita di due bambine, ma anche la perdita del
fratello Giuseppe. Sempre a Racalmuto, Sciascia diventa maestro elementare. Il
primo volume importante della sua carriera, uscito presso la casa editrice Laterza, Le
parrocchie di Regalpetra, trae origine proprio da questa esperienza; in esso non si
ritrovano solo la sua concezione dell’insegnamento, le riflessioni sui suoi scolari, ma
anche la chiara denuncia dei soprusi, delle violenze quotidiane che avvengono nel
paese, molti dei temi che verranno sviluppati nei suoi romanzi successivi. ‘’Tutti i
miei libri in effetti ne fanno uno. Un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del
passato e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua
sconfitta della ragione e di coloro che nella sconfitta furono travolti e annientati’’. In
questa considerazione si possono cogliere due delle caratteristiche salienti della sua
personalità: la volontà di denunciare le follie degli uomini, gli atti compiuti contro
ragione, e in particolare di rappresentare le sofferenze delle vittime di queste follie, e
in secondo luogo il legame indissolubile con la sua amata terra, che è il teatro di
quelle follie. Nel 1958 escono i tre racconti intitolati Gli zii di Sicilia, da cui è stato
tratto Il Quarantotto, e a cui verrà aggiunto L’Antimonio, nel 1961. Nello stesso 1958
viene pubblicato un libro, Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, che farà molto
discutere e che per argomento è vicino al racconto di Sciascia. In entrambi, gli anni
del Risorgimento fanno da sfondo alle vicende, ma mentre il narratore de Il
Quarantotto coltiva il desiderio di riscattare il destino dei vinti, degli oppressi, il
principe di Salina, protagonista del Gattopardo, proclama l’impossibilità di
modificare radicalmente la realtà politica e sociale della Sicilia. Col passare degli anni
si svilupperà in Sciascia lo stesso scetticismo di Tomasi, ma lo scrittore non desisterà
dal suo impegno civile. In quegli anni convivono in lui il senso della pietà per l’uomo
e la diffidenza nei confronti dei politici di professione. Negli anni Sessanta e Settanta
nascono i romanzi che procurano a Sciascia grande notorietà e successo. Egli, da
spregiudicato commentatore qual era di ogni fenomeno sociale siciliano, affronta in
essi i temi scottanti della mafia e dalla sua collusione con il potere economico e
politico: nel 1960 viene dato alle stampe Il giorno della civetta, cui seguiranno A
ciascuno il suo e Il contesto. Questi libri assumono i colori del giallo, di quel genere
poliziesco di cui Sciascia era appassionato. In quegli anni, egli si dedica, oltre alla sua
professione di scrittore (si pubblicano due romanzi storici, Il Consiglio d’Egitto nel
1963 e Morte dell’inquisitore nel 1964), alle collaborazioni con il Corriere della Sera
prima e con la Stampa poi. Dal 1967 Sciascia abita, infatti, a Palermo, anche per
consentire alle figlie di frequentare l’università e torna a Racalmuto solo d’estate, per
scrivere in tranquillità, lontano dal traffico cittadino. Nonostante lo scrittore critiche
anche aspramente il sistema dei partiti, sia quelli al governo che quelli
all’opposizione, il suo sentimento civile lo fa entrare nella politica attiva nel 1976,
quando viene eletto consigliere comunale a Palermo e nel 1979, quando viene eletto
deputato nelle liste del Partito Radicale. Già seriamente ammalato e sottoposto a
cure estenuanti, Sciascia trova consolazione nella scrittura; e un mese dopo la sua
morte uscirà una raccolta di articoli tra i più significativi degli ultimi anni, scritti
contro la mafia e a favore di una giustizia vera: A futura memoria (se la memoria ha
un futuro).

IL QUARANTOTTO di Sciascia
Contesto storico;
Il dominio borbonico in Sicilia fu gravato da qualcosa di più del semplice lento
sviluppo economico. Una rivolta nel 1837, innescata da un'epidemia di colera, indicò
la tensione sociale nel paese. Tutti credevano che l'infezione fosse dovuta a un
veleno del governo deliberatamente diffuso. Questa volta, però, le cose rimasero
relativamente tranquille a Palermo, mentre a Catania fu costituito un comitato
rivoluzionario. Il re Ferdinando II visitò la Sicilia nel 1838 e ritenne che i disordini
popolari fossero dovuti alla mancanza di rigore della legge. Il governo iniziò quindi
alcune riforme fino a quando la rivoluzione del 1848 pose fine a questo periodo. I
primi giorni della rivoluzione furono giorni di grande agitazione a Palermo, poiché
circolavano voci di una nuova costituzione e circolava un manifesto non firmato, che
sosteneva un probabile comitato rivoluzionario inesistente. Questo manifesto
proclamava che sarebbe iniziata una rivolta per raggiungere l'indipendenza siciliana
con il pretesto dei festeggiamenti per il compleanno del re il 12 gennaio. I ricchi si
ritirarono rapidamente, le strade furono svuotate, furono erette barricate, ma la
mattina del 13 gennaio arrivarono a Palermo gruppi di contadini e iniziò la rivolta.
Molti degli insorti non avevano davvero la più pallida idea dell'Italia, figuriamoci una
costituzione: stavano lottando per migliorare le condizioni sociali. I contadini erano
di gran lunga gli elementi più rivoluzionari in una società sottomessa. La notizia dei
moti palermitani è stata un segnale per tutti che c'era speranza che le lamentele
sarebbero state risolte. Questo diede alla rivolta una forza incredibile e ben presto ci
furono moti della fame nei paesi e nei piccoli paesi e attacchi ai circoli dei
"galantuomini". Le pecore sono state uccise, i pagliai bruciati, le aree boschive
distrutte, i municipi attaccati per esprimere lamentele. I funzionari sono fuggiti per
salvarsi la vita e presto l'amministrazione si è fermata. Il morale di una popolazione
oppressa alla fine si è perso in rivolte diffuse che hanno lasciato morti agenti di
polizia e spie. Ne seguì un grande caos e un altro elemento delle rivolte furono i
gruppi armati, per lo più briganti. Certamente alcuni erano stati dipendenti
borbonici, alcuni avevano prestato servizio come poliziotti privati per i liberali e altri
usarono la ribellione per pescare in acque agitate. Appena i napoletani si ritirarono,
la rabbia dei cittadini dovette essere contenuta e incanalata in altri canali politici.
Venne alla ribalta un gruppo di persone che avevano un programma politico. Per
mantenere l'ordine furono istituiti comitati improvvisati, composti principalmente da
liberali e nobili antinapoletani. Sulla terraferma il re aveva ceduto e concesso una
costituzione liberale, ma i siciliani chiesero il completo distacco da Napoli. Pertanto,
conservatori e radicali si unirono il 25 marzo e dichiararono deposto Ferdinando.
Tuttavia, la rivoluzione dovette presto affrontare seri problemi poiché gli elementi
politici e sociali divennero sempre meno coordinati. I gruppi armati costituirono una
minaccia anche dopo la partenza delle truppe borboniche: fu istituita una Guardia
Nazionale per proteggere le proprietà, ma ciò contribuì a creare divisioni all'interno
del governo di coalizione. La situazione della pubblica sicurezza era devastante, i
gruppi armati saccheggiavano, espellevano interi villaggi e uccidevano i
"galantuomini". Si parla quindi di brigantaggio impunito. Mentre gli abitanti del
villaggio temevano per la propria vita e il proprio sostentamento, e i rapimenti e le
rapine continuavano senza controllo, i parlamentari discutevano se celebrare il
giorno di Santa Rosalia o come rinominare le strade di Palermo. Fu uno sfascio e
quando le truppe borboniche attaccarono Messina nel settembre 1848, tutti
rimasero sorpresi. All'isola fu nuovamente offerto un proprio parlamento e viceré,
proposta che fu respinta. I soldati siciliani erano mal organizzati e così i Borboni
incontrarono poca resistenza. I membri del parlamento rivoluzionario hanno chiesto
perdono al re e hanno assicurato loro che le minacce alla loro vita li avevano costretti
a sostenere la rivoluzione. La rivoluzione del 1848 diede il via a una catena di eventi
che alla fine portò all'unificazione con l'Italia nel 1860.
Con questo racconto lo scrittore si pone come continuatore di quella tradizione
siciliana di scrittori come Verga, Capuana, De Roberto, Pirandello che, ispirandosi ai
moti del Risorgimento, e a quello del ‘60 in particolare, ne avevano riconosciuto il
fallimento e avevano asserito l’irredimibilità della Sicilia, la negazione della storia,
per concludere che niente era cambiato in Sicilia. Quando Sciascia scrive e pubblica
questo racconto, l’Italia in cui egli vive è quella venuta fuori dalla esperienza del
fascismo, della guerra, della lotta della Resistenza, e nella quale si avvertiva un
desiderio quasi eroico di rinnovamento, di risorgimento dalle macerie del recente
passato. Ma l’affermazione della Democrazia Cristiana nelle elezioni del 1948 dava
un freno all’entusiasmo iniziale, a questo si aggiungeva, poi, l’immobilità economica,
sociale e politica degli anni ’50, che alla fine degli stessi anni smorzava ancor di più le
aspettative di un cambiamento in meglio. Ma Sciascia, credendo nel PCI, nutre
ancora una debole speranza” la silenziosa fragile speranza dei siciliani migliori” che
non si rassegnano che non rinunziano alle idee. Perciò esprime un iniziale rifiuto e
un aspro giudizio sul “Gattopardo”. Ma già negli anni settanta, approdato ad un
giudizio più sereno, ne riconosceva i dati positivi, giustificando il suo iniziale dissenso
con le illusioni che gli venivano dall’antifascismo e dalla Resistenza, che si rivelarono
nel tempo solo miti e illusioni, e non forze operanti capaci di produrre miglioramenti
e cambiamenti nella politica e nell’amministrazione della cosa pubblica, in Italia. E
riprendendo l’argomento nel 1989, concludeva che era arrivato per i giovani il tempo
di leggerlo. Uno studioso delle opere di Sciascia, Massimo Onofri (“Storia di
Sciascia”), nel rilevare come il sentimento della storia sia molto simile in Sciascia e in
Tomasi, ha messo pure in evidenza “un’inquietante assonanza”, come qualcuno l’ha
definita, tra “Il Quarantotto” e “Il Gattopardo”, là dove Sciascia scrive: ”Il barone:
domani, disse, appena l’alba fa occhio, vado dal vescovo: voglio vederci chiaro in
quello che succede, se rivoluzione dobbiamo fare la facciamo tutti, non vi pare? E “Il
Gattopardo”:” Se bisogna che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi” come
sussurra il garibaldino Tancredi al suo caro zione. Un’assonanza che rivela un male
divenuto notorio ed endemico nella classe politica siciliana e italiana: il
trasformismo.
Nell’epigrafe posta in esergo al “Quarantotto” Sciascia pone la definizione del ’48
riportata dallo storico Gaetano Peruzzo nel Dizionario siculo -italiano(1881), in cui
leggiamo che “quarantottu” significa disordine e confusione per quello che era
accaduto in Sicilia in quell’anno , i disordini, comunque, non erano accaduti solo in
Sicilia ,ma anche in altre città d’Italia e d’Europa, solo che in Sicilia i cambiamenti
crearono una tale confusione, come è evidenziato nel racconto, specialmente nella
gente semplice, che non si capì più chi era amico e chi era nemico, da che parte
stava la ragione e il torto. Di questa confusione approfittarono allora coloro che, non
avendo alcuna convinzione politica, meglio si adattarono ai cambiamenti, traendone
vantaggi personali.
Il Quarantotto tra storia e invenzione;
Il racconto di Sciascia si dipana lungo tredici anni significativi per la storia della Sicilia
e dell’Italia tutta, dal 1847 al 1860, quelli in cui si andava costruendo l’unità politica e
territoriale della nostra penisola. Sciascia manifesta l’intenzione di dare credibilità
storica al suo racconto a partire dal frontespizio, in cui compare una citazione di G.
Perruzzo, linguista e storico locale, che il lettore incontrerà ancora. Ma Gaetano
Perruzzo è un personaggio inventato come altri del Quarantotto e segnala la volontà
di Sciascia di scrivere una vicenda fittizia, immaginaria, creata dall’autore, sia pure
ambientata in una precisa epoca storica e ricca di riferimenti a fatti reali.
(Parte prima): Nel 1847 la Sicilia è dominata dai Borboni di Napoli e il barone
Graziano, piccolo aristocratico di provincia, proprietario di almeno un terzo delle
terre di Castro, e stretto alleato politico del vescovo locale si proclama fedele
interprete dei voleri della corona. I funzionari regi non sono che burattini tra le mani
del potente vescovo e del barone, che si vanta dell’autorevole parentela del cognato,
uomo di corte. Si accenna alla presenza, anche a Castro, di alcuni nemici del re e in
particolare il barone vigila sullo speziale Napoli e sul medico Alagna, liberali che
vengono arrestati dai soldati regi, probabilmente per sua diretta segnalazione. Sullo
sfondo di eventi reali, Sciascia concentra la sua attenzione sulle vicende locali di
Castro, una cittadina non rinvenibile in nessuna carta geografica della Sicilia; ma
l’autore si premura, per rendere credibile la sua invenzione, di riprodurre un etimo
presente in altri nomi di paesi siciliani (Castrogiovanni, Castrovillari, per esempio) e
di collocarla non lontano da Marsala e Trapani. È anche l’epoca dell’infanzia del
narratore, il figlio del giardiniere di casa Garziano, ingenuo spettatore delle vicende
personali e familiari del barone e amico di sua figlia Cristina, che a otto anni ‘non
conosceva manco le vocali’. Egli, invece sa leggere ‘lo scritto grosso’. Questo dato è
riconducibile all’alto tasso di analfabetismo realmente presente nel sud della
penisola nell’Ottocento.
(Parte seconda): Giunge a Castro, pochi giorni dopo che è scoppiata a Palermo
l’insurrezione liberaldemocratica del gennaio del 1848, che apparentemente
travolge l’antico ordine costituito; di fatto il vescovo e il barone riprendono le redini
della città, rinnegando le istituzioni borboniche e assumendo la direzione del
Comitato rivoluzionario. Storicamente è accertata in Sicilia l’alleanza tra i democratici
borghesi, che avevano guidato inizialmente l’insurrezione, e i notabili (aristocratici
ed ecclesiastici), che fino a poco tempo prima avevano rappresentato i Borboni.
Vengono dipinti con amara ironia i provvedimenti sia del Comitato, che del Consiglio
comunale successivamente eletto: nessuno di essi incide sulla riorganizzazione
dell’amministrazione e della finanza pubblica. Il barone giunge ad assoldare un
bandito perché elimini il medico Alagna, liberato dalle prigioni e ‘pericoloso’. Sciascia
documenta così l’esistenza di bande di malviventi, che spesso si ponevano al servizio
dei potenti e annullavano le funzioni della polizia. Per il narratore è l’epoca degli
studi più sistematici presso un vecchio prete dalle idee democratiche, che non gli
insegna solo a leggere, scrivere e far di conto, ma gli ‘parlava anche della rivoluzione
vera’.
(Parte terza): Nell’aprile del 1849 tutti gli esponenti dell’antico regime tonano a
Castro ai loro incarichi, compresi il giudice regio e gendarmi. Si sorvolano gli anni
compresi tra il 1850 e il 1860, in cui la borghesia riorganizza le attività economiche
della cittadina, si stempera l’alleanza tra il trono e l’altare e si diffondono sempre più
idee liberali e democratiche; finchè, nelle ultime pagine del testo, si profilano le
figure storiche di Garibaldi, di Nevio e dei volontari partiti da Quarto per liberare
l’isola e il sud dal dominio borbonico. E ancora una volta il barone si trasforma:
rimuove dalle pareti i ritratti della famiglia reale, quello del cognato e di Pio IX e con
cordialità ospita in casa sua il generale e i suoi ufficiali. Il figlio del giardiniere nel
frattempo è diventato un giovane abbastanza colto, lavora a Marsala presso una
ditta inglese, nutre simpatie democratiche, tanto che si arruola come volontario tra i
Garibaldini. È però attonito testimone del trasformismo finale del barone, che
nuovamente si adatta al nuovo corso della storia per non perdere i propri privilegi di
classe.
Come si può constatare il tempo della narrazione non scorre regolarmente, ma si
sofferma su alcuni eventi significativi ed accelera su altri, ritenuti secondari,
oscillando tra la storia civile e politica di Castro e quella personale e familiare del
barone Garziano. Il costante osservatore sia delle vicende collettive che di quelle
individuali è un esponente del ceto subalterno, il figlio di mastro Carmelo; egli nel
racconto acquista consapevolezza dei problemi della Sicilia, migliora il suo stato
sociale, diviene scrittore e nella scrittura trova consolazione e riposo. Come in altri
romanzi storici in cui ci si interroga sull’Unità d’Italia e si valutano gli effetti che
l’Unità produsse in Sicilia, si pensi a I Vicerè o a I vecchi e i giovani, Sciascia esprime,
attraverso la vicenda del narratore, l’adesione al Risorgimento e l’accettazione del
processo di unificazione, ma anche la delusione nei confronti di un rinnovamento
politico, economico e sociale, che era atteso ma che non si verificò.
Il fatto centrale del racconto Il Quarantotto di Sciascia è il moto liberale a Castro del
1848. Giunta la notizia della rivolta scoppiata a Palermo il 12 gennaio, il popolo di
Castro insorge il 16 dello stesso mese. Ma il moto viene imbrigliato e incanalato sul
nascere dal vescovo che, ricevuto il comitato rivoluzionario che già si era costituito,
si adopera per farne parte, anzi ne diventa il presidente, e inviterà farne parte anche
il barone Garziano, dopo aver vinto la resistenza degli oppositori. E tutto diventa una
farsa, una festa, si fa una solenne processione con il ritratto del papa Pio IX, si fanno
accattivanti discorsi sulla moderazione del popolo di Castro: il tutto finisce a sera
nelle taverne, piene di ubriachi, mentre nel casino dei nobili si tiene festa con
musica. Con la repressione dei moti nel ’49 e nel ’50 cominciano le condanne dei
liberali del paese che devono scontare quello che non avevano ottenuto e pagare
per quello che non avevano fatto, cioè una vera rivoluzione. Il protagonista guarda
con gli occhi disincantati di un ragazzo questi avvenimenti, ma fa tesoro, nel tempo,
degli avvertimenti del prete don Paolo che sembra farsi portavoce dell’autore,
perché è l’unico che osa dire la verità. Egli afferma infatti che la rivoluzione che si
stava facendo era tutt’altra cosa da quella che doveva essere la rivoluzione vera, era
solo: ”un modo di sostituire l’organista senza cambiare né strumento, nè musica: a
tirare il mantice dell’organo restavano i poveri”.
Il giovane ragazzo, narratore del racconto, fa tesoro anche delle numerose letture
che gli aprono nuovi orizzonti sul mondo e sugli uomini, per cui matura, col trascorre
degli anni, la sua personale visione della vita, assume un atteggiamento di
opposizione alle ingiustizie, sfida le remore del conservatorismo che si oppongono ai
nuovi sviluppi sociali e politici, rifiuta il conformismo del padre, e sceglie una vita
pericolosa e precaria. Parte dal suo paese il 16 maggio del 1860 per partecipare ai
moti di Garibaldi, approdato nella vicina Marsala, giunge in ritardo per unirsi agli altri
nella battaglia di Calatafimi, che potrà guardare da un’altura. Quindi è con Garibaldi
e il colonnello Turr in marcia verso il suo paese, dove pensa di fare uno sgarbo al
barone Garziano, andandogli a rubare le pecore del suo gregge per sfamare le
truppe garibaldine. Ma con suo grande stupore trova il barone pronto ad accogliere
Garibaldi, e non solo, ma anche ad offrire a lui e ai suoi volontari ospitalità nel suo
palazzo. Ancora una volta la rivoluzione è fallita. Ma egli, pur deluso, continuerà a
credere nel cambiamento e miglioramento politico e sociale della Sicilia. Ma sempre
l’azione di rinnovamento viene vanificata. La Sicilia è condannata ad uno stato di
cristallizzazione perpetuo.
Il pessimismo dello scrittore si stempera sul piano umano nella possibilità di un
incontro tra nord e sud, alla fine del racconto, nelle parole conclusive “parole di
comprensione, d’amore” che Sciascia costringe il poeta Nievo a dire, quasi a
risarcimento della sua chiusura e incomprensione verso la Sicilia, nelle quali si rivela
la sua fede nei siciliani migliori, quelli che non si agitano, che parlano poco. Nella
descrizione del colonnello Carini poi “così silenzioso e lontano, impastato di
malinconia e di noia, ma ad ogni momento pronto all’azione: un uomo che pare non
abbia molte speranze, eppure è il cuore stesso della speranza, la silenziosa fragile
speranza dei siciliani migliori…una speranza, che teme se stessa, che ha paura delle
parole, ed ha invece vicina e familiare la morte” non è difficile cogliere il ritratto
dello stesso scrittore. Qualcuno lo ha definito “il sereno pessimista”: pessimista
secondo ragione, ma ottimista secondo cuore e sentimento, un pessimista che,
anche se deluso, come cittadino, di questa nostra Italia, e del volto desolato della
sua isola, non ha smesso mai di credere nelle idee, nel suo impegno di scrittore,
nell’arma della scrittura, per concorrere al disvelamento della verità e al trionfo della
giustizia, e per far sì che la Sicilia potesse diventare “una regione ordinata, civile, con
industrie, con un’agricoltura restaurata, con una società culturale più viva, più
aperta.”
La lingua del Quarantotto;
La lingua del Quarantotto colpisce per la sua freschezza e immediatezza, per la
libertà lessicale e l’incisività dei registri. Va osservato che Il Quarantotto guarda ai
grandi eventi storici da un’ottica defilata, marginale. Si rappresentano le vicende di
una cittadina della Sicilia intorno alla metà del secolo scorso e l’occhio del narratore
registra scene di vita quotidiana. Notevoli sono le espressioni che rivelano
l’esperienza umana e culturale del protagonista-narratore, come accade nelle
similitudini in cui il secondo termine di paragone è spesso tratto dal mondo
contadino: ‘c’era fresco come nelle grotte’; ‘la domenica mio padre diventava come
un cavallo quando ha le mosche’. Queste ed altre forme gergali e popolari non
forniscono solo dati significativi sull’estrazione popolare del narratore, ma
contribuiscono ad immergere il lettore nella vita di Castro, a renderlo partecipe delle
consuetudini locali. Altre espressioni caratterizzano umoristicamente qualche
personaggio. Così come in diversi episodi di per sé drammatici alcuni enunciati
assumono le tinte del comico: all’ingiusto arresto di Pepè Spazzacannate segue la
descrizione ironica della falsa disperazione di Rosalia. Il linguaggio del Quarantotto è
uniforme in tutto il romanzo ed è un italiano con venature regionali; ciò è
percepibile, per esempio, nella frequente posposizione dei verbi tipica del siciliano:
‘e quando proprio niente c’era da riferire, con la maligna fantasia si aiutava’. Le
espressioni di registro colloquiale prevalgono nelle prime pagine del racconto,
mentre si può notare che spesso nella parte centrale, quando si narrano gli eventi
storico-politici di Castro, il narratore adotta un registro più neutro ed impersonale (a
tratti quasi tecnico) e che nel finale, forse perché questa parte della storia è vissuta
dal protagonista-narratore quando egli è ormai diventato adulto, si fa più rara la
presenza di espressioni popolari. La caratterizzazione del linguaggio in senso
colloquiale e siciliano è più evidente nei dialoghi, nelle parole pronunciate dai
personaggi e riportate tra virgolette. Il barone, a seconda delle circostanze,
dell’umore e degli interlocutori alterna un linguaggio di registro più alto (come
quando si rivolge a Garibaldi) con uno di registro più basso o addirittura triviale
(come quando inveisce contro il prete che ha consigliato donna Concettina di
rivolgersi al vescovo), e in ogni caso piuttosto colorito (della moglie dice che
‘appartiene ad una famiglia di teste dure che Dio liberi). È questo il tono più
frequente del barone, giacchè egli è tratteggiato come un personaggio umorale,
spesso in preda alla collera o alla paura. Viceversa il linguaggio del vescovo è
prevalentemente di registro medio-alto, a testimonianza di una cultura più elevata
rispetto a quella del barone: anche quando parla, recita versi latini per ingannare gli
interlocutori, e cita immagini e versetti biblici quali suoi naturali riferimenti. Nel
modellare la lingua del Quarantotto, Sciascia tiene presente l’esperienza stilistica di
Verga e dei narratori siciliani di costume (De Roberto e Pirandello) che avevano
rappresentato più realisticamente di quanto accadesse in passato i personaggi e gli
ambienti siciliani, ed avevano perciò adottato espressioni dialettali e moduli stilistici
vicini al parlato. Anche la colorita epigrafe al testo, la citazione del significato del
termine quarantotto tratta da un fittizio dizionario siculo-italiano, assume un
particolare significato se si esamina il racconto dal punto di vista della lingua:
Sciascia vuole connotare di ‘sicilianità’ la sua storia e forse la forte connotazione
regionale è una delle chiavi di lettura dell’opera.
La letteratura e il Risorgimento;
Molti scrittori siciliani si sono occupati degli eventi risorgimentali, di quell’arco di
tempo che intercorre tra il 1848 e il 1860 e oltre, da cui hanno tratto molti motivi
d’ispirazione per le loro opere: le precarie e arretrate condizioni economiche della
popolazione siciliana, le forti disparità sociali, il radicato movimento autonomista,
l’autentico sentimento patriottico di alcuni intellettuali, il trasformismo dei ceti
dirigenti. Luigi Pirandello nel romanzo I vecchi e i giovani prende in esame
l’incapacità delle generazioni nuove di realizzare gli ideali risorgimentali dopo
l’unificazione territoriale. Tomasi di Lampedusa ritrae nel Gattopardo il Principe di
Salina, ricco e colto proprietario terriero, all’epoca dell’Unità, quando si distacca
dalla vita pubblica lasciando il posto ad accorti e ambiziosi borghesi pronti ad
approfittare dei rivolgimenti politici per ottenere prestigio ed arricchirsi.

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