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Il libro

Ora dimmi di te
Cosa rimarrà di noi nella memoria di chi ci ha voluto bene? Come verrà
raccontata la nostra vita ai nipoti che verranno?
Andrea Camilleri sta scrivendo quando la pronipotina Matilda si intrufola a
giocare sotto il tavolo, e lui pensa che non vuole che siano altri – quando lei
sarà grande – a raccontarle di lui.
Così nasce questa lettera, che ripercorre una vita intera con l’intelligenza
del cuore: illuminando i momenti secondo il ruolo che hanno avuto nel
rendere Camilleri lo scrittore e l’uomo che tutti amiamo.
Uno spettacolo teatrale alla presenza del gerarca Pavolini e una strage di
mafia a Porto Empedocle, una straordinaria lezione di regia all’Accademia
Silvio D’Amico e le parole di un vecchio attore dopo le prove, l’incontro
con la moglie Rosetta e quello con Elvira Sellerio...
Con humour e limpidezza, queste pagine ripercorrono la storia italiana del
Novecento attraverso quella di un uomo innamorato della vita e dei suoi
personaggi. Ogni episodio è un modo per parlare di ciò che rende
l’esistenza degna di essere vissuta: le radici, l’amore, gli amici, la politica,
la letteratura. Con il coraggio di raccontare gli errori e le disillusioni, con la
commozione di un bisnonno che può solo immaginare il futuro e
consegnare – a Matilda e a noi – la lanterna preziosa del dubbio.

L’autore
Andrea Camilleri
Andrea Camilleri è nato a Porto Empedocle il 6 settembre 1925.
Padre del Commissario Montalbano e di innumerevoli altri personaggi e
racconti, tradotto in tutto il mondo, dopo una vita dedicata al teatro è
diventato il più amato scrittore italiano. Per le edizioni Bompiani ha curato
Un onorevole siciliano. Le interpellanze parlamentari di Leonardo
Sciascia.
ASSAGGI
Fotografia dell’autore: © Lia Pasqualino.
In copertina: Mariolina Camilleri – Elaborazione da una foto di Matilda.
Progetto grafico: Polystudio

www.giunti.it
www.bompiani.it

© 2018 Giunti Editore S.p.A./Bompiani


Via Bolognese 165 - 50139 Firenze - Italia
Piazza Virgilio 4 - 20123 Milano - Italia

ISBN 978-88-587-8004-6

Prima edizione: agosto 2018

Prima edizione digitale: agosto 2018


Matilda, mia cara,
ti scrivo questa lunga lettera a pochi giorni dal mio novantaduesimo
compleanno, mentre tu hai quasi quattro anni e ancora non sai cosa sia
l’alfabeto.
Spero che tu possa leggerla nel pieno della tua giovinezza.
Ti scrivo alla cieca, sia in senso letterale sia in senso figurato. In senso
letterale perché negli ultimi anni la vista mi ha lentamente abbandonato.
Ora non posso più né leggere né scrivere, posso solo dettare. In senso
figurato perché non riesco a immaginarmi quale sarà il mondo fra
vent’anni, quello nel quale tu dovrai vivere.
Vedi, mia cara, nell’ultimo trentennio i cambiamenti attorno a me sono
stati tanti e alcuni del tutto inattesi e repentini. Il mondo non ha più lo
stesso aspetto che aveva durante la mia giovinezza e maturità. A cambiargli
la faccia hanno contribuito i mutamenti politici, economici, civili e sociali,
le scoperte scientifiche, l’uso della tecnologia più avanzata, le grandi
trasmigrazioni di massa da un continente all’altro, il quasi fallimento del
nostro sogno che è stato l’Unione Europea.
Ma perché sento il bisogno impellente di scriverti?
Rispondo alla mia stessa domanda con una certa amarezza: perché ho
piena coscienza, per raggiunti limiti di età, che mi sarà negato il piacere di
vederti maturare di giorno in giorno, di ascoltare i tuoi primi ragionamenti,
di seguire la crescita del tuo cervello. Insomma, mi sarà impossibile parlare
e dialogare con te. Allora queste mie righe vogliono essere una povera
sostituzione di quel dialogo che mai avverrà tra di noi. Perciò, prima di
tutto, credo sia necessario che io ti dica qualcosa di me. Forse tua madre
Alessandra te ne parlerà, ma preferisco essere io a dirti di me e dei miei
tempi con parole mie, anche se, come mi auguro di tutto cuore, alcune di
esse quali ad esempio nazismo, fascismo, razzismo, campi di sterminio,
guerra, dittatura ti appariranno remote e inattuali.

Sono nato nel 1925 a Porto Empedocle, un piccolo paese nel Sud della
Sicilia. La popolazione era in massima parte costituita da pescatori, operai
portuali, carrettieri, contadini. Pochissimi i piccoli impiegati, ancor meno i
commercianti. Quando andai alla prima elementare mi trovai in una classe
di coetanei che vivevano quasi tutti in condizioni di semipovertà. Pensa che
i figli dei contadini venivano a scuola con le scarpe appese al collo per non
consumarle e se le mettevano solo quando entravano in classe. Credo di non
essere mai riuscito a mangiare per intero la merendina che mamma ogni
mattina mi metteva dentro la cartella. La dividevo quasi sempre con gli
altri, non potendo sopportare lo sguardo invidioso e affamato dei miei
compagni.
Quando nacqui, da tre anni Benito Mussolini era il capo del governo
italiano e stava rapidamente assoggettando il paese al regime della dittatura
fascista. Siccome credo che questo termine, “fascista”, ti riuscirà alquanto
difficile da capire, provo a raccontarti quello che è successo in quegli anni.
La fine, per noi vittoriosa, della Grande guerra nel 1918 avrebbe,
teoricamente, dovuto apportare in Italia un periodo di tranquillità
economica e sociale. Invece le cose andarono diversamente. I soldati che
tornavano dal fronte trovavano difficilmente lavoro, perché la
trasformazione in industria di pace di quella che era stata per molti anni
industria bellica non era riuscita in tempi rapidi. Anche la situazione tra
datori di lavoro e lavoratori era apertamente conflittuale. Di tutte le
promesse fatte ai soldati durante la guerra, non ne era stata mantenuta
nemmeno una. Frequentissimi erano gli scontri di piazza tra polizia e reduci
e tra polizia e operai. Fu così che i grandi proprietari terrieri del Centro-
Nord e alcune importanti industrie decisero che era indispensabile un
ritorno all’ordine. Ma ci voleva una persona che avesse il carisma
necessario e che potesse essere totalmente fedele al mandato che gli
avrebbero affidato. La loro scelta cadde su un ex dirigente socialista, ex
direttore del quotidiano del Partito socialista “Avanti!”. Il suo nome era
Benito Mussolini: era stato ardentemente favorevole alla guerra e poi
combattente in prima linea. In breve Mussolini raggruppò attorno a sé tutti
gli ex combattenti e quella parte della borghesia che vedeva nel
malcontento operaio un pericolo reale. Ispirandosi alla simbologia degli
antichi romani, fondò i Fasci di combattimento, i cui aderenti indossavano
una camicia nera, erano armati di manganello e inclini alla violenza. Furono
detti “squadristi”. In poco tempo molte sedi di organizzazioni socialiste
vennero date alle fiamme, e ci furono violenti scontri con morti da ambedue
le parti. Nel 1921 avvenne inoltre una scissione tra gli stessi socialisti e
nacque così il Partito comunista d’Italia, il cui primo segretario fu Antonio
Gramsci. I comunisti divennero il bersaglio preferito dei fascisti.
Nel 1922 Mussolini capì che poteva contare sull’appoggio della grande
maggioranza della popolazione italiana. In questo modo, il 28 ottobre dello
stesso anno, con migliaia di aderenti al suo partito, marciò su Roma. La
situazione era gravissima. Alle porte della capitale, i fascisti si trovarono
davanti le truppe dell’esercito italiano. A questo punto la guerra civile era
inevitabile. Il primo ministro Facta andò dal re perché venisse proclamato
lo stato d’assedio, in altri termini l’autorizzazione per le truppe di sparare
sui fascisti. Da quello scontro il fascismo sarebbe sicuramente uscito
annientato; invece, con una decisione imprevista il re non solo non firmò lo
stato d’assedio, ma addirittura accolse Benito Mussolini al Quirinale,
dandogli l’incarico di formare il nuovo governo. Qui Mussolini dimostrò
una certa furberia politica, infatti di questo suo primo governo fecero parte
anche liberali, democratici e socialisti. Ma tutto questo durò pochissimo
tempo, e ben presto si capì che Mussolini aspirava a essere un uomo solo al
comando. La situazione si aggravò nel 1924, quando venne assassinato il
deputato socialista Giacomo Matteotti, che era uno dei più lucidi e
coraggiosi avversari di Mussolini. Di fronte a questo assassinio politico
buona parte del paese reagì negativamente e Mussolini vide traballare il suo
potere, però con l’aiuto dei suoi squadristi più facinorosi e violenti in breve
tempo seppe consolidare la propria posizione.
Da quel momento in Italia il fascismo si tramutò in un’autentica dittatura.
Mussolini sciolse parlamento e senato creando la camera dei fasci e delle
corporazioni composta da uomini a lui fedelissimi, proibì la pubblicazione
di giornali appartenenti all’area della sinistra, fece arrestare Antonio
Gramsci (lasciandolo poi praticamente morire in carcere), fece cessare con
la violenza ogni manifestazione di dissenso. Aveva bisogno di giovani per
le sue mire espansionistiche e così iniziò una politica demografica quasi
dissennata, premiando le famiglie che avevano più figli, non facendo pagare
le tasse ai giovani sposi che entro un anno avrebbero dato, come si diceva
allora, “un figlio alla patria”, imponendo una tassa sul celibato. Fatti salvi
pochi politici che scapparono all’estero, si verificò un curioso fenomeno,
vale a dire che il fascismo rapidamente conquistò il favore di quasi tutti gli
italiani. Poi Mussolini strinse ancora la cinghia, volle che tutti i dipendenti
dello stato facessero giuramento di fedeltà al regime fascista e ne
prendessero la tessera. Tutti, dico tutti i dipendenti statali, dai maestri delle
scuole elementari ai docenti universitari, dai magistrati agli uscieri,
obbedirono all’ordine. Va detto a loro merito eterno che solo ventiquattro
professori universitari non vollero giurare e perciò furono dimessi dalla
cattedra. Nel 1925, quando, come ho detto, io nacqui, il fascismo era già
una consolidata dittatura. Aveva inquadrato tanto i bambini quanto i ragazzi
in organizzazioni paramilitari. Il sabato indossavamo la divisa fascista e
andavamo a fare le esercitazioni. Io appartenevo all’Opera nazionale
Balilla; il nostro motto era “Libro e moschetto, fascista perfetto”, ma in
realtà i miei compagni leggevano pochissimi libri o non leggevano affatto.
Io invece costituivo un’eccezione. A cinque anni avevo imparato a
leggere e a scrivere con l’aiuto di mia madre e della nonna materna Elvira;
a sei anni avevo già messo mano alla libreria di mio padre che era molto
ben fornita. Così cominciai a leggere non i libri dei bambini o dei ragazzi
ma quelli degli adulti, i romanzi importanti. Le mie prime letture furono
infatti Conrad, Melville e Simenon. Da allora non smisi mai più di leggere.
Non finivo di sorprendermi del modo in cui le parole scritte arrivassero al
mio cervello, quasi che mi fossero state dette a viva voce, era un miracolo
che mi affascinava. A scuola i maestri ci ripetevano ogni giorno le tre
parole d’ordine mussoliniane, “Credere, obbedire, combattere”, e ci
magnificavano l’intelligenza del duce, così si faceva chiamare Mussolini, e
la sua volontà di fare grande l’Italia. Ogni sabato, dopo le esercitazioni,
venivamo portati in chiesa dove il prete ci spiegava il catechismo, ma non
perdeva occasione di ricordarci che il papa aveva definito Mussolini l’uomo
mandato dalla Provvidenza divina e che quindi bisognava seguirlo
ciecamente. Era perciò inevitabile che a dieci anni fossi un fervente fascista,
tanto che, quando Mussolini nel 1935 dichiarò guerra all’Abissinia, io gli
scrissi domandandogli di autorizzarmi a partire come volontario per il
campo di battaglia. Con stupore e gioia ricevetti una lettera in risposta, nella
quale mi diceva che ero ancora troppo giovane.
L’anno seguente, nel ’36, scoppiò una seconda guerra, quella di Spagna,
che fu una specie di spartiacque tra fascisti e antifascisti. Vedi, allora
l’Europa era dominata più dalle dittature che da governi democratici: in
Russia c’era Stalin, in Italia Mussolini, in Germania Hitler, in Portogallo
Salazar. La guerra di Spagna fece emergere un nuovo dittatore, Francisco
Franco. Le uniche due grandi democrazie rimaste tali in Europa erano la
Francia e l’Inghilterra, così fu inevitabile lo scontro tra queste diverse
concezioni e nel ’39 le mire espansionistiche di Hitler fecero sì che
scoppiasse la seconda guerra mondiale.
Quando anche noi italiani entrammo in guerra nel 1940 come alleati di
Hitler, io non ne fui tanto entusiasta perché a casa avevo visto le mie due
nonne piangere silenziosamente. Nella guerra precedente ognuna di loro
aveva perduto un figlio caduto in combattimento. “La guerra,” mi disse
carezzandomi nonna Elvira, “è sempre una cosa maledetta.” Anche papà in
quei giorni girava per casa con il volto rabbuiato e una mattina lo sentii dire
a mamma che la dichiarazione di guerra era stata un atroce errore di
Mussolini. Rimasi allibito. Papà aveva fatto in prima linea la guerra del ’15-
18 e poi era stato un fascista della prima ora. Ma insomma, mi chiedevo tra
me e me, se Mussolini era infallibile come andavano dichiarando i gerarchi,
se Mussolini era l’uomo della Provvidenza mandato da Dio per il bene
dell’Italia, come andavano predicando i preti a scuola, per quale ragione
aveva potuto commettere un simile errore?
Ecco, questa fu la seconda crepa nella mia fede fascista. La prima si era
prodotta poco tempo prima, nel ’38. Mentre stavo a scuola un mio
compagno, che si chiamava Ernesto Pera, alla fine delle lezioni venne a
salutarmi.
“Da domani non ci vedremo più,” mi disse, “non posso frequentare
questa scuola.”
Siccome era figlio di un ferroviere, gli chiesi se il padre fosse stato
trasferito.
“No,” rispose lui, “non posso frequentare più perché sono ebreo.”
E perché un ebreo non poteva più frequentare la mia stessa scuola?
Tornando a casa all’ora di pranzo domandai spiegazioni a papà, che divenne
subito rosso in faccia e con voce alterata affermò:
“Tu non devi credere a queste sciocchezze sugli ebrei; gli ebrei non
hanno nulla di diverso da noi, sono esattamente come noi. Questa storia
della razza è una cosa inventata da Hitler. E Mussolini non ha voluto essere
da meno di lui. Ma non credere a ciò che ti diranno. Siamo tutti uguali.”
Ecco, a novantadue anni devo dire che non finirò mai di essere grato a
mio padre per quelle sue parole.

A dare il colpo di grazia alla mia fede fascista fu il raduno internazionale


della gioventù nazifascista che avvenne a Firenze nella primavera del ’42
presso il Teatro comunale. Teatro che, fin dalle prime ore, si gremì di
giovani venuti da ogni parte dell’Europa, naturalmente di quell’Europa
occupata dai nazisti: greci e polacchi, ungheresi e romeni, albanesi e slavi e
ovviamente una folta rappresentanza della gioventù tedesca. Eravamo tutti
in divisa. Io, che avevo una precoce passione per il teatro, fui invitato a
esporre un repertorio ideale per la gioventù fascista.
Al secondo giorno del raduno capitò un incidente. All’aprirsi del sipario
con stupore vidi che il fondale era costituito solamente da un’enorme
bandiera nazista. Il giorno avanti invece le era stata affiancata anche quella
italiana. A quella vista ebbi una reazione tanto violenta quanto inaspettata
anche per me. Mi alzai in piedi e mi misi a urlare:
“Via quella bandiera! Mettete almeno anche la nostra!”
Ci fu un momento di silenzio assoluto, poi in modo del tutto imprevisto
molti giovani applaudirono alle mie parole. Il sipario venne
immediatamente richiuso, si riaprì poco dopo. Ora c’erano le due bandiere,
scoppiò un applauso fortissimo. Entrò la delegazione dei gerarchi italiani e
tedeschi e prese posto dietro il lungo tavolo sul palcoscenico. Si alzò a
parlare per primo Alessandro Pavolini, allora ministro della cultura
popolare; alla fine del suo discorso scese in platea e cominciò a percorrere il
corridoio centrale verso l’uscita. Io ero seduto in una poltrona laterale che
dava proprio nel corridoio e lui passandomi accanto mi fece cenno con la
mano destra di seguirlo. Mi alzai e gli andai appresso. Arrivammo nell’atrio
che era deserto, lui si fermò e si voltò a guardarmi, mi disse:
“Avvicinati, coglione.”
Appena fui davanti a lui, alzò la gamba destra calzata da stivali e mi
diede un violentissimo calcio nel basso ventre, quindi voltò le spalle e se ne
andò. Rimasi a terra gemente per il dolore ma due miei compagni, Gaspare
Giudice e Luigi Giglia, avevano capito le intenzioni del ministro e perciò
mi avevano seguito. Furono loro a chiamare un taxi e ad accompagnarmi
all’ospedale.
Tornai in teatro due giorni dopo, per la manifestazione di chiusura.
Parlava Baldur von Schirach, capo della Hitler-Jugend, e, siccome il tema
dell’incontro era “L’Europa di domani”, egli descrisse come sarebbe stata
l’Europa secondo l’ideologia nazista. Via via che lui parlava sudavo freddo,
davanti ai miei occhi l’Europa si trasformava in un’enorme caserma grigia
senza altro colore che le divise naziste, con un solo libro che eravamo tutti
obbligati a leggere, Mein Kampf (La mia battaglia), scritto da Adolf Hitler.
Mentre Von Schirach continuava la sua esposizione, io mi andavo
domandando: e i miei autori? Il mio Gogol’? Il mio André Gide? Non potrò
più leggerli? Dovrò leggere solo autori tedeschi “autorizzati” e indossare
per sempre questa divisa che mi trovo addosso?
Quando, durante il viaggio di ritorno verso la Sicilia, ripensai al discorso
di von Schirach, mi augurai con uno spavento interiore fortissimo che
quella Europa sognata dai nazisti non fosse realizzabile, che il loro ideale
fallisse. Questo fu l’inizio della mia grande crisi. Passai notti insonni, non
potevo confidarmi con nessuno, nel timore di essere denunciato. Stavo
veramente male, ero molto dimagrito, mangiavo di malavoglia, quasi non
scambiavo più parola con i miei compagni. Mi rendevo conto che il mio
essere stato fascista aveva rappresentato un errore enorme, ma mi sentivo
come una sorta di traditore soprattutto verso mio padre che nel fascismo
continuava a credere sia pure a modo suo.
Questa crisi durò mesi e mesi. Poi una mattina finalmente mi resi conto
che mi ero completamente liberato dall’idea fascista. Non avevo più né
scrupoli né dubbi. Inoltre, proprio in quei giorni mi capitò tra le mani un
libro sfuggito miracolosamente alla censura. Era La condizione umana di
André Malraux. Lo lessi. Credo che in quella notte masse del mio cervello
si siano spostate da un luogo all’altro. Fui assalito da una leggera febbre. In
quel libro scoprii che i tanto odiati comunisti erano gente come noi, con
nulla di diverso da noi, non mangiavano i bambini e avevano degli ideali
come li avevo io. Tra i libri di mio padre c’era una sorta di riassunto del
Capitale di Karl Marx, lo presi e cominciai a leggerlo. C’era anche il
Manifesto, quello famoso che inizia così: “Uno spettro si aggira per
l’Europa…” Compresi che quelle idee combaciavano con quello che io
sentivo dentro di me. Già alle elementari pensavo non fosse giusto che io
avessi le scarpe lucidissime e i miei compagni andassero a piedi nudi, che
io indossassi un cappotto di lana durante l’inverno e loro arrivassero a
scuola con solo strappate e consunte camicie. Erano pensieri confusi, ma
chiaro in me era il senso dell’ingiustizia. Non era giusto che non si partisse
tutti allo stesso modo, che alcuni prendessero il via svantaggiati, che il loro
destino di poveri fosse già scritto. No, non era giusto. Ecco come
lentamente cominciai a diventare comunista in pieno regime fascista.
Perduta la fede nel fascismo, quasi contemporaneamente venne a
mancare la mia tiepida fede religiosa, perché negli ultimi anni chiesa e
regime si erano completamente identificati.
Finii il terzo liceo nell’aprile 1943. Il 1° luglio fui chiamato alle armi con
un anno di anticipo. I miei familiari si erano trasferiti in un paese al centro
della Sicilia per evitare i bombardamenti che ci colpivano giorno e notte.
Solo papà era rimasto a Porto Empedocle. Io, per soli nove giorni, presi
servizio alla base navale di Augusta e non mi imbarcai mai. Nella notte tra
il 9 e il 10 luglio venni a sapere da un compagno che gli angloamericani
stavano sbarcando in Sicilia. Immediatamente decisi di disertare: me ne
andai dal rifugio militare, chiesi passaggio a un camion e dopo due giorni di
inferno riuscii a raggiungere i miei. Davanti al primo carro armato
americano che vidi comparire, mi misi a piangere. Ero preso da un
sentimento contraddittorio: da un lato esultavo per la sconfitta definitiva del
fascismo e del nazismo, ma dall’altro vedere avanzare un carro armato
straniero sulla mia terra mi provocava un dolore intenso. I soldati americani
alleati, che sbarcarono in Sicilia e la conquistarono, erano tecnicamente
coloro che avevano vinto la guerra mentre noi eravamo quelli che l’avevano
persa.
Eppure quei soldati furono accolti da tutta la popolazione con gioia ed
entusiasmo. Rappresentavano la fine di un incubo. Infatti negli ultimi mesi i
bombardamenti erano stati incessanti, notturni e diurni, le vie di
comunicazione erano andate tutte distrutte. Non c’erano più viveri,
irreperibili i medicinali. Il loro arrivo significò la fine della guerra. Ma
significò anche qualcosa di molto più grande: la libertà. Furono chiamati
“liberatori” perché ci liberavano da oltre un ventennio di dittatura fascista e
ci riportavano alla democrazia.
Io vissi quei primi giorni di libertà in uno stato di ebbrezza. Credo di aver
avuto sempre una sorta di sorriso ebete stampato sul volto. Era come un
vento caldo che ti accarezzava la faccia, il corpo. Mi inebriava sapere di
poter finalmente avere delle idee non indotte e di poterle esprimere
liberamente, trovando magari delle persone che non la pensavano come me
ma con le quali era possibile confrontarsi, discorrere, discutere anche
animatamente, senza paura che orecchie vili e nascoste ti ascoltassero e ti
andassero a denunziare alla polizia politica. Il vento della libertà ci
sospingeva in avanti. Vivevamo in un paese totalmente distrutto, privo di
fabbriche, di vie ferrate, di qualsiasi cosa si possa immaginare; eppure
dentro di noi c’era la coscienza che quel periodo avrebbe avuto termine a
breve. Che l’Italia sarebbe potuta risorgere dalle sue rovine. E la cosa
straordinaria di quei giorni, mesi, anni fu che nei momenti critici tutti, a
qualsiasi partito politico appartenessimo, ci ritrovammo fianco a fianco in
quest’opera di ricostruzione.
La mia gioia toccò il culmine quando il 25 aprile 1945 l’Italia intera fu
liberata dal nazifascismo, grazie a tutti coloro che durante quegli anni
avevano preso le armi per combattere i tedeschi: la Resistenza, i partigiani.
Da questo grande movimento rinnovatore io purtroppo, essendo in Sicilia,
ero rimasto escluso.
Devo fare un passo indietro. Quando andavo alle elementari ero un
bambino gracile e malaticcio, mentre i miei compagni, malgrado la povertà
in cui vivevano, godevano tutti di una buona salute. Non fui mai vittima di
quelli che oggi verrebbero chiamati atti di bullismo, ma in realtà ero
guardato con una certa commiserazione. Perciò decisi un giorno di mettermi
alla pari con questi compagni e cominciai a partecipare ai loro giochi post-
scolastici che erano francamente rischiosi. La mia classe era divisa in due
bande che ingaggiavano spesso battaglie a sassate: io mi aggregai a una di
esse e in breve tempo ne divenni il capo. Naturalmente le battaglie
pomeridiane non lasciavano molto spazio per i compiti a casa, sicché i
maestri cominciarono a lamentarsi con i miei genitori e ricevetti spesso
delle punizioni. Finite le elementari venni iscritto al ginnasio-liceo
Empedocle di Agrigento. Ogni mattina alle sette e mezzo prendevo la
corriera che mi portava nel capoluogo. Ci ritrovavamo in piazza San
Francesco, dove sorgeva la scuola, in centinaia di ragazzi, ed era tutto uno
scambiarsi di notizie sui fatti accaduti nei vari paesi da cui ciascuno
proveniva.
Al secondo ginnasio, una mattina, appena suonò la campanella che
segnava l’inizio della lezione, non so perché, voltai le spalle e invece di
entrare in classe me ne andai a spasso. La cosa si ripeté il giorno dopo e il
giorno appresso ancora. Facevo lunghe camminate in campagna, mi
spingevo fino alla Valle dei Templi e lì mi fermavo a leggere qualche
romanzo all’ombra delle colonne greche. A farla breve, per un intero
trimestre non misi piede a scuola. Quando pensavo alla mia aula, davanti ai
miei occhi essa si trasformava in un’orrenda cella di carcere; sentivo la
necessità di vivere all’aria aperta senza obbedire a nessuna regola, se non a
quelle che di volta in volta mi davo io stesso. Alla fine del trimestre,
quando ci consegnarono le pagelle, io risultai non giudicabile per le troppe
assenze. Come avrei fatto a portare quella pagella a casa? Allora comprai
una confezione di “scolorina”, un composto chimico che riusciva a
cancellare la scrittura a inchiostro senza lasciare nessuna traccia.
L’operazione mi riuscì perfettamente e mi diedi dei voti mediocri
abbastanza compatibili con quelli del trimestre precedente. All’ora di
pranzo papà, che non si era mai interessato dei miei studi, mi chiese:
“Oggi te l’hanno data la pagella?”
Questa domanda avrebbe dovuto insospettirmi, invece ci cascai.
“Sì, papà.”
Mi alzai, presi la cartella, estrassi la pagella e gliela porsi, restandogli
accanto in piedi. Papà l’aprì, la guardò e senza dire parola mi diede il suo
primo e ultimo schiaffo. Uno schiaffo potente che mi fece volare alla parete
opposta. Poi, volto verso di me piangente, mi disse che ad avvertirlo dello
stato pessimo dei miei studi era stato il preside. Ora, papà quella pagella
contraffatta non avrebbe potuto mai firmarla, quindi ricorse a uno
stratagemma. Versò mezza bottiglietta di inchiostro di china sulla pagella
cancellando completamente la mia falsificazione e l’indomani mattina mi
accompagnò dal preside spiegandogli che, mentre stava per firmare, gli si
era rovesciato il calamaio. Ma la pagai assai cara.
Malgrado fossi figlio unico, coccolatissimo e quasi adorato, venni
mandato presso il Collegio vescovile di Agrigento. Ogni sera, prima di
coricarmi, dalla mia camerata guardavo le luci lontane del mio paese sul
mare e mi mettevo a piangere. In poco tempo cominciai a soffrire della
sindrome dell’evasione. Una volta scoprii una via di fuga che mi avrebbe
portato in aperta campagna ma, scavalcando un muretto interno del
collegio, caddi malamente e dovetti essere raccolto dai guardiani. Allora
pensai di commettere tutta una serie di violazioni al regolamento interno in
modo da essere cacciato via. Commisi le infrazioni, fui punito severamente,
ma non ottenni mai la sperata espulsione. Al secondo anno mi convinsi che
dovevo fare un gesto estremo, tanto irreparabile che i preti sarebbero stati
costretti veramente ad aprirmi la porta di quello che ormai consideravo un
carcere. Il cibo in collegio era piuttosto scarso, per cui mia madre si
preoccupava ogni settimana di mandarmi delle uova fresche e io all’ora di
pranzo, passando davanti alla grande cucina, ne consegnavo due al cuoco.
Una mattina invece mi tenni in mano le due uova e, dal momento che ero il
primo della lunghissima fila e si aspettava l’ordine di prendere posto ai
tavoli, alzando gli occhi vidi sulla parete di fronte a me il crocifisso enorme
che dominava il refettorio. Chiusi gli occhi, raccolsi tutto il coraggio che
potevo avere e scagliai il primo uovo contro il crocifisso. Lo presi, me lo
ricordo benissimo, nell’occhio sinistro. Subito dopo scagliai il secondo e
questa volta ne centrai il torace. Ci fu un momento di silenzio. Il tempo si
sospese. Poi, in un urlìo confuso di orrore e rabbia, tutti i miei compagni si
gettarono sopra di me picchiandomi selvaggiamente. Fu una sorta di
linciaggio dal quale mi salvarono i preti. Venni naturalmente e finalmente
espulso ma per mesi e mesi ogni notte mi svegliai sudato e spaventato per
l’atto sacrilego che avevo compiuto.

Al liceo non fui certo tra i migliori. Mi rimandarono persino in


educazione fisica, non perché non partecipassi alle dure prove ginniche ma
per una battuta infelice che rivolsi al mio insegnante, un fanatico fascista. In
palestra usava incitarmi in continuazione con questa frase:
“Scattare, Camilleri! Scattare! Dai al cavalletto! Dai ai cento metri piani!
Dai al salto con l’asta!”
Finché un giorno, stremato, gli dissi:
“Scusatemi, professore, ma voi sbagliate verbo.”
Lui mi guardò perplesso e poi mi domandò:
“E che verbo dovrei usare?”
E io risposi:
“Schiattare, Camilleri! Schiattare!”
Uomo di poco spirito, si infuriò e per questo mi rimandò a ottobre.
Al terzo liceo, però, mi capitò una cosa assai più grave. Una mattina il
preside ci comunicò che alle dieci le lezioni sarebbero terminate e che noi
saremmo dovuti andare a disporci lungo la via Atenea, che era il corso di
Agrigento, per applaudire il passaggio in auto del principe ereditario
Umberto, venuto in visita nella città. Si era in piena guerra. Io avevo con
me accanto il mio amico e compagno di classe Luigi Giglia, con il quale
intendendoci più a occhiate che a parole avevamo scoperto la comune
caduta di fede nei riguardi del fascismo. Sicché, un attimo prima che, nel
suo lentissimo incedere, la macchina scoperta del principe arrivasse alla
nostra altezza, ci scambiammo un’occhiata e ci intendemmo al volo.
Saltammo tutti e due sul predellino e gridammo in faccia a Umberto:
“Liberateci da Mussolini!”
Venimmo agguantati immediatamente dalla scorta e portati in questura.
Qui il questore ci fece una solenne ramanzina ma ci lasciò liberi. Senonché
fu il preside a venirci a dire il giorno dopo che ci aveva proposto per
l’espulsione dal Partito fascista. Questo significava la nostra rovina civile,
infatti senza tessera non avremmo potuto frequentare nessuna scuola. Non
osai raccontare niente a papà. Tre giorni dopo suonò l’allarme aereo. Il
preside aveva disposto che al suono delle sirene una squadra composta da
dieci ragazzi uscisse prima di tutti gli altri per gestire con ordine
l’evacuazione verso il rifugio. La mia postazione, come quella di Luigi
Giglia, si trovava ai piedi di una tremolante scaletta di legno che immetteva
al rifugio sotterraneo. Prendemmo i posti assegnati ma si verificò un fatto
mai successo prima. Gli allarmi fino a quel momento erano stati tutti a
vuoto perché gli aerei inglesi e americani si erano limitati a sorvolare la
città; quella volta invece cominciarono a sganciare le bombe e nella scuola
si scatenò il parapiglia. La maggioranza dei compagni abitava nei paesi
dell’interno e non si era mai trovata sotto un bombardamento, a differenza
di me che avevo visto il mio paese cambiare volto per i continui attacchi
dovuti al fatto che nel porto si trovavano moltissime navi da guerra. I
ragazzi, dunque, caddero nel panico e si lanciarono in una corsa disperata
per entrare nel rifugio, travolgendo le ragazze che io vidi dal basso della
scaletta cascare calpestate. Avevo accanto a me una sedia di paglia e, come
impazzito, brandendola cominciai a dare botte a destra e a manca; aiutato da
Luigi Giglia riuscii a bloccare i maschi, a fare un po’ d’ordine, prendemmo
le ragazze ferite e le trasportammo giù. L’indomani mattina il preside entrò
nella nostra classe e dichiarò che non avrebbe fatto la richiesta di ritiro della
tessera fascista né a me né a Giglia, che ci eravamo comportati tanto
coraggiosamente.
La scuola si concluse senza che dovessi sostenere il temuto esame di
maturità che fu abolito per quell’anno, dato che gli americani erano già
arrivati a Lampedusa e noi sentivamo il rimbombo delle cannonate.

Durante il liceo mi ero fatto un piano: volevo andare all’Università di


Firenze dove c’erano professori che amavo e dei quali avevo letto già delle
pubblicazioni, e quindi, per poter vivere in quella città, ero riuscito
attraverso un amico di mio padre a trovare un posto retribuito di praticante
giornalista presso il quotidiano “La Nazione”. Ma l’arrivo degli americani
nel ’43 mi costrinse a iscrivermi all’Università di Palermo.
Il mio sogno era di diventare, una volta laureato, “lettore” di italiano
presso qualche università straniera di lingua francese. Bisognava perciò che
all’università avessi i voti migliori almeno in due materie: francese e
italiano. Quando diedi il primo esame di francese non ci furono problemi,
presi il mio primo trenta e lode. Sostenni altri esami, come quello di
filosofia, ottenendo anche lì il massimo dei voti. Stavolta studiavo con un
impegno estremo e, siccome l’esame di letteratura italiana consisteva anche
in un testo a scelta, io presentai le Laudi drammatiche di Feo Belcari.
Capitò però che, il giorno del mio esame, il titolare della cattedra fu
sostituito dal docente di Filologia romanza, il professor Ettore Li Gotti.
Risposi benissimo alle sue domande, poi si arrivò alle Laudi e qui le acque
si intorbidirono, non mi piacque come Li Gotti articolò la domanda. Disse
testualmente:
“Lei certamente non saprà che nel ’33, al Maggio musicale fiorentino, è
stata messa in scena una sacra rappresentazione…”
“Certo che lo so,” l’interruppi. “È stato messo in scena Il miracolo di
Santa Uliva.”
“Lei certamente non saprà chi ne è stato il regista.”
Sinceramente mi irritai.
“Sì che lo so, professore, è stato messo in scena da Jacques Copeau.”
“Non mi dica che sa anche chi è Copeau?”
“Purtroppo, professore, lo so. È uno dei maggiori innovatori del teatro
mondiale del Novecento. Se vuole, gliene illustro anche la teoria.”
Stavolta ad arrabbiarsi dovette essere lui. Mi guardò e mi domandò:
“Perché alle mie lezioni non ho avuto il piacere di vedere un mostro di
sapienza come lei?”
Perdetti le staffe.
“Professore,” risposi, “io vivo a quattro ore di treno da Palermo. Quattro
all’andata e quattro al ritorno fanno otto ore di viaggio; troppo lungo per
venire alle sue lezioni.”
Mi guardò freddamente e disse:
“Va bene, l’esame finisce qui, le do diciotto.”
Diciotto in italiano significava la fine del mio sogno.
“Rifiuto il voto,” dissi e lui rispose:
“La prossima volta che si presenterà la boccerò.”
Mi alzai e me ne andai senza nemmeno salutarlo. Da quel momento in
poi l’università finì di interessarmi. La frequentavo, certo, davo gli esami,
certo, ma mi bastava il diciotto.
Nel frattempo però scrivevo poesie e racconti e, quando cominciai a
mandarli a riviste letterarie del continente e a quotidiani, mi vennero tutti
pubblicati. Partecipai a concorsi poetici di prima grandezza come il premio
Saint-Vincent del 1947 dove entrai in finale. Ungaretti, presidente della
giuria, volle che tre mie poesie fossero incluse in una antologia da lui
curata. Fui segnalato al premio Libera Stampa di Lugano, che aveva una
giuria prestigiosa composta da Gianfranco Contini, Carlo Bo, Giansiro
Ferrata e altri. Su trecento concorrenti vinse un giovanissimo poeta,
Pierpaolo Pasolini, seguito a ruota da me e da un’altra promessa della
poesia, Andrea Zanzotto.

Il mio incubo era quello di finire i miei giorni facendo il professore di


ginnasio o di liceo ad Agrigento. Volevo andarmene dalla Sicilia, anche se
durante gli anni universitari mi ero fatto degli amici, Leo Guida, Marcello
Carapezza, Giuseppe Ruggero, con i quali avevamo formato un gruppo che
prendeva parte a tutte le manifestazioni artistiche e culturali. Ogni sabato ci
riunivamo per discutere fino a notte inoltrata di poesia, di pittura, di
letteratura e soprattutto del nostro futuro. Furono i miei anni di vera e
propria maturazione.
L’occasione per andar via dall’isola capitò nel ’47. In quell’anno venne
indetto a Firenze un concorso per un atto unico inedito e io, che mi ero
sempre interessato di teatro fin dalla prima giovinezza, partecipai con un
lavoro intitolato Giudizio a mezzanotte. La giuria presieduta dal
grandissimo critico Silvio d’Amico mi assegnò il primo premio ex aequo.
Andai a Firenze, ritirai il premio e durante il viaggio di ritorno in treno
rilessi il mio lavoro. Lo trovai assolutamente mediocre, mi domandai
meravigliato perché l’avessero premiato e lo buttai fuori dal finestrino.
Senonché, un mese dopo, mi arrivò una lettera dell’Accademia nazionale
d’arte drammatica di Roma della quale era presidente appunto Silvio
d’Amico. Mi scriveva che, se fossi stato veramente interessato al teatro,
avrei potuto fare domanda d’ammissione agli esami per allievo regista, e
con un alto punteggio c’era in palio anche una ricca borsa di studio. Presi la
palla al balzo, ricevetti il bando di concorso e decisi la commedia sulla
quale scrivere una sorta di tesi di laurea, consistente nella sua ideale messa
in scena. Scelsi il Così è (se vi pare) di Pirandello e presentai una
voluminosa tesi corredata del piano di impianto luci, di bozzetti
scenografici e figurini dei costumi. Nel settembre del ’49 venni chiamato a
Roma per sostenere l’esame. Candidati di regia eravamo in trenta. Il mio
esame con il maestro di regia, Orazio Costa, fu una specie di interrogazione
presso il tribunale dell’Inquisizione. Al termine, Costa gelidamente mi
disse:
“Sappia che io non condivido nulla di quello che lei ha detto durante il
nostro dialogo.”
Mi alzai, lo salutai, mi congedai da d’Amico e dagli altri insegnanti e me
ne andai. Una frase così significava che Costa non avrebbe mai avuto me
tra i suoi allievi, perciò, per godermi un po’ di giorni a Roma, lasciai
l’albergo dove abitavo e chiesi ospitalità a un mio parente. Restai otto
bellissimi giorni ma poi arrivò l’ora di tornare in Sicilia. Il giorno prima di
prendere il treno mi venne lo scrupolo di passare dall’albergo dove ero stato
all’inizio e qui trovai tre telegrammi disperati di mio padre nei quali mi
veniva detto e ripetuto che avevo superato l’esame, che ero stato ammesso
all’Accademia e che avevo vinto la massima borsa di studio. Mi accorsi con
orrore che l’Accademia era cominciata già da quattro giorni e perciò mi ci
precipitai. Dissi al bidello:
“Sono Camilleri, il nuovo allievo regista, devo andare nella classe del
dottor Costa.”
Lui mi guardò e mi rispose:
“Costa non c’è.”
E io:
“Oggi non fa lezione?”
E lui:
“E a chi la doveva fa ’sta lezione? Ha preso solo te! Aspetta che lo
chiamo ar telefono e gli dico che finalmente ti sei presentato.”
Telefonò e poi mi disse:
“Aspetta, che Costa viene tra dieci minuti.”
Appena Costa arrivò mi portò nella sua aula immensa, io mi sedetti di
fronte al suo tavolo e la sua prima domanda fu:
“Perché arrivi con questo ritardo?”
“Dottore, lei all’esame salutandomi mi ha detto una frase che non
ammetteva equivoci.”
“Cioè?”
“Che non condivideva nessuna mia idea e quindi io ne ho tratto la logica
conseguenza.”
Mi guardò e mi disse:
“Non condividere le idee di una persona, quando esse sono acute e
intelligenti, non significa affatto rifiutarle, anzi.”
E fu così che Costa divenne il mio solo e unico maestro, non solo un
maestro di regia ma un maestro di vita.
Non era ancora quarantenne, alto, elegantissimo, coltissimo, ma gelido
come un pezzo di ghiaccio. Ogni mattina che Dio mandava in terra ci
trovavamo l’uno di fronte all’altro e affrontavamo testi di Eschilo e di
Shakespeare sviscerandoli, analizzandoli da tutti i punti di vista. Mi insegnò
veramente a leggere e a capire in profondità le parole che leggevo. E così
lentamente dirottò il mio cervello dalla poesia al teatro. Non fui più capace
per anni di scrivere un verso o un raccontino. Costa alla fine dell’anno mi
diede dieci in regia, non l’aveva mai dato prima a nessuno, ma pochi mesi
dopo venni cacciato via dall’Accademia per condotta immorale: ero stato
sorpreso a fare all’amore con un’allieva. Orazio, uomo di ferrea moralità,
però mi volle lo stesso come aiuto regista presso la sua compagnia.

Se ti ho raccontato queste storie è per spiegarti che non ho mai avuto un


carattere facile. Riuscire a sottostare a una qualsiasi disciplina, riuscire a
starmene zitto quando avevo qualcosa da dire, non ribellarmi a quello che
credevo un ordine sbagliato era per me impossibile, non faceva parte della
mia natura.
Venutami a mancare la borsa di studio, mi trovai costretto a vivere,
diciamo così, di espedienti. Faccio un esempio per tutti: un mio amico mi
aveva presentato a due importanti produttori cinematografici di origine
greca, Mosco e Potsios, che avevano da tempo costituito a Roma una grossa
società di produzione e di distribuzione, la Minerva Film. Saputo che io
avevo bisogno di trovare un lavoro, Mosco generosamente me lo offrì. Si
trattava di leggere i soggetti per film che arrivavano alla casa di produzione
e di selezionarli sottoponendo alla loro attenzione solo quelli che ritenevo di
qualche interesse. Alla fine del primo mese di lavoro, venni convocato
nell’ufficio di Potsios. Egli mi disse che era molto soddisfatto del mio
impegno e che perciò mi avrebbe subito dato la paga. Con mia grandissima
sorpresa estrasse da un cassetto della scrivania cinque stecche di sigarette
Lucky Strike e me le diede. Io gli domandai stupito:
“Che devo farmene? Me le devo fumare?”
E lui tranquillamente mi rispose:
“Questa è la tua paga. Puoi tramutarla in denaro con quelli che vendono
sigarette di contrabbando alla stazione Termini.”
E così feci. Naturalmente quel sistema di pagamento non mi piacque e
cercai un altro lavoro. Mi giunse una nuova proposta che in un primo
momento mi entusiasmò. Si trattava di fare l’aiuto regista a Luigi Zampa
che stava girando il film Processo alla città con un grande divo di allora,
Amedeo Nazzari. Zampa era un uomo autoritario e decisamente antipatico.
L’unica funzione che mi assegnò fu quella di andargli a comprare ogni tanto
dei pacchetti di sigarette. Alla fine della settimana di lavoro presi la
modesta paga e non mi feci più vedere.
Mi nutrivo di cappuccini e brioche; magro per natura, ero diventato
magrissimo. Per un altro mese sostituii un venditore di libri usati che aveva
una bancarella a Porta Pia. Un altro lavoro mi venne offerto dal giovane
regista Francesco Rosi che faceva l’aiuto di Raffaello Matarazzo, specialista
di film lacrimevoli, in genere con Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson. Rosi
mi propose di andare a fare la comparsa a Cinecittà in questi film.
Cominciai così a guadagnare qualcosa ma, quando Matarazzo seppe che tra
le comparse c’era un ex allievo regista dell’Accademia, non volle più
vedermi sul set. Non ho mai capito perché.
Non c’era nessun vittimismo, in me come in tanti coetanei che passavano
da un lavoro all’altro in attesa di imboccare la strada che speravano.
Faulkner vendeva panini, Steinbeck faceva il portiere di notte: leggendo le
biografie degli americani scoprivamo che avevano fatto gli strilloni e i
venditori di hot dog, e questa non era stata per loro una diminutio culturale
ma un arricchimento di esperienza.
Roma era una città meravigliosa, aperta agli incontri, facilmente le
persone ti offrivano la loro amicizia e se possibile anche un lavoro. Io non
potevo ancora credere di essere riuscito ad andare via dalla Sicilia, tuttavia
mi capitava di sognare gli arancini che sapeva fare divinamente mia nonna
Elvira o la pasta al forno di mia madre.
Un giorno casualmente incontrai Sandro d’Amico, redattore capo della
grande Enciclopedia dello spettacolo, fondata e diretta da suo padre Silvio.
Sapeva che io conoscevo molto bene il teatro francese dell’Otto-Novecento
e che ero un attento studioso del teatro italiano contemporaneo. Così mi
propose di entrare nella redazione dell’Enciclopedia come specialista in
queste materie. Lì conobbi Chicco Pavolini, redattore capo per la sezione
“Cinema”, alla quale mi invitò presto a collaborare, e nipote di Alessandro
Pavolini: ma tanto diverso dallo zio che diventò per me un fratello, così che
qualche mese dopo decidemmo di andare a vivere insieme.
La paga però era molto scarsa, dovevo in qualche modo integrarla, mi
venne in soccorso un altro amico, Giovanni Calendoli, che allora dirigeva la
rivista teatrale “Scenario”. Firmavo come inviato speciale a Parigi e mi
occupavo quindi delle novità teatrali francesi. In realtà non mi muovevo da
Roma, mi limitavo a leggere le critiche teatrali dei giornali d’oltralpe e da
esse traevo la materia per i miei articoli. La collaborazione a questa rivista
mi permise una sopravvivenza abbastanza tranquilla, ma Calendoli aveva
altre ambizioni. Infatti, qualche tempo dopo riuscì a costituire una
compagnia teatrale di buon livello che avrebbe avuto sede stabile presso il
Teatro Pirandello – poi Teatro Tordinona – e che avrebbe rappresentato solo
novità di autori italiani. Volle che a inaugurare la stagione fossi io e così
cominciai a provare una commedia di Raoul Maria De Angelis, scrittore
allora molto noto, intitolata Abbiamo fatto un viaggio. La critica romana –
che all’epoca era rappresentata da intellettuali come d’Amico e Contini, De
Feo e Prosperi – ebbe parole di elogio per la mia regia, e così nel 1953
cominciò la mia carriera in teatro. Ero convinto che quella sarebbe stata la
mia strada, però certe notti, quasi di nascosto, anche da me stesso, mi
ritrovavo a scrivere poesie, per poi dimenticarmene la mattina appresso.

Fu durante le prove di questa mia prima commedia che feci un incontro


che avrebbe segnato per sempre la mia vita. Un’amica mi presentò una
ragazza da qualche anno trasferitasi da Milano a Roma e che si era laureata
a La Sapienza con una tesi su Pico della Mirandola. Si chiamava Rosetta
Dello Siesto. La mia amica mi disse che Rosetta avrebbe voluto seguire la
preparazione del mio spettacolo e che era disposta a darmi una mano se ne
avessi avuto bisogno. Rosetta cominciò a seguire le prove, ma dopo qualche
giorno mi accorsi che il mondo del teatro e le sue regole erano mille miglia
distanti da lei. Una o due volte che le chiesi di aiutarmi concretamente per
gli effetti sonori e rumoristici mi combinò dei disastri. Se non persi le staffe
fu perché mi riusciva stranamente simpatica e la sua presenza mi metteva
allegria. Dopo che lo spettacolo andò in scena partii per restare un mese in
Sicilia dai miei. Trascorsa una settimana, mi resi conto con mia grande
sorpresa che non c’era stato giorno che non avessi pensato a quella ragazza.
Non riuscivo sinceramente a spiegarmene le ragioni ma un fatto era sicuro:
ogni sera, prima di addormentarmi, davanti ai miei occhi compariva la sua
immagine sorridente. Avevo due compagni di infanzia, veri e autentici
amici, e raccontai a loro lo strano fenomeno che mi stava capitando.
Devo confessarti che fino a quel momento io ero passato da una ragazza
all’altra con grande facilità. La risposta dei miei due amici fu di una
semplicità elementare:
“Te ne sei innamorato.”
Nei restanti giorni di vacanza siciliana ebbi modo di constatare come
quella risposta fosse stata giusta. Così, appena tornai a Roma le telefonai e
la invitai a cena, lei accettò.
Da quella sera ceniamo assieme da oltre sessant’anni. Ma di questo
tornerò a parlarti fra un po’.

Come ho detto in precedenza, io ero diventato comunista negli anni del


fascismo. Terminata la guerra le mie idee politiche si rafforzarono e,
quando mi trasferii a Roma, mi misi a disposizione del partito. Anche due
miei vecchi amici siciliani, Leo Guida e Gaspare Giudice, si erano trasferiti
a Roma e lavoravano per il partito. In particolare Gaspare era redattore del
settimanale “Vie Nuove” che era diretto dal presidente del PCI Luigi Longo,
figura mitica. Mi capitò così di scrivere qualche articolo non firmato per
quella rivista. Intanto Stalin aveva deciso di abolire il Comintern, che era
l’organismo direttivo di tutti i partiti comunisti del mondo, e di sostituirlo
con il Cominform, vale a dire un organismo solamente informativo. Il
Cominform pubblicava un settimanale intitolato “Per una pace stabile, per
una democrazia popolare” al quale collaboravano giornalisti comunisti di
ogni nazione. Questo settimanale si stampava in almeno sessanta traduzioni,
era una specie di vangelo. Un giorno Longo chiese a Gaspare Giudice e a
me di scrivere degli articoli sul canale Volga-Don, una grandissima opera
pubblica dei sovietici. Il redattore capo della rivista, Libero Bigiaretti, ci
disse di scriverle i nostri articoli in modo più narrativo possibile perché lui
aveva intenzione di qualificarci come inviati speciali. Andammo
all’ambasciata sovietica, ci fornimmo dei materiali tecnici necessari e
quindi cominciammo a scrivere, inventandoci incontri, situazioni, interviste
di pura fantasia. Il tutto fu pubblicato in tre articoli. Un mese dopo, con
enorme stupore, ci accorgemmo che erano stati ripubblicati con grandissima
evidenza dal settimanale del Cominform: le nostre fantasie erano diventate
una realtà per tutti i sessanta e più paesi in cui veniva pubblicata la rivista.
Ricordo che ci guardammo sconsolati e ci chiedemmo: ma non può darsi
che anche gli altri articoli siano frutto di fantasia? Questa possibilità ci gettò
in una crisi profonda.
Sempre nell’ambito della mia attività nel partito, nel 1950 venni inviato a
Genova per le Olimpiadi culturali della gioventù. Lì ebbi modo di
conoscere i grandi intellettuali italiani, da Massimo Bontempelli a Galvano
Della Volpe, da Sibilla Aleramo a Giacomo Debenedetti, e vinsi anche il
premio per la Poesia con una mia lirica intitolata Morte di Garcia Lorca.
Dopo un po’ mi allontanai dal partito, non rinnovai la tessera.
La richiesi e l’ottenni quando si trattò di partecipare a grosse conquiste
civili del nostro paese quali il divorzio e il diritto all’aborto. Da allora
rimasi comunista finché il partito esistette; quando in Italia esso cambiò
nome e divenne Partito democratico della sinistra io non aderii, così come
non ho mai aderito al PD, ma sono sempre rimasto comunista nell’animo.
Certo, Matilda cara, sono rimasto comunista a modo mio, perché non posso
non riconoscere i danni e gli orrori del comunismo staliniano.
Con Rosetta mi fidanzai ufficialmente, arrivai perfino a chiedere la sua
mano al padre Andrea e fu un incontro straordinario in cui, onestamente,
non saprei dire chi dei due fosse il più imbarazzato. Decidemmo di sposarci
presto ma sfortunatamente la morte precoce di suo padre ci obbligò a
ritardare di qualche anno. Arrivò il giorno del matrimonio. Devo confessarti
che la notte precedente era stata per me letteralmente infernale. La mia
personalità era divisa in due. L’Andrea numero uno mi diceva: “Guarda che
non sarai mai un buon marito, non sarai mai capace di essere un uomo
fedele alla parola data, hai ancora un po’ di tempo davanti a te, rivestiti in
fretta, piglia il primo treno e fai sparire le tue tracce.” L’altro Andrea
ribatteva: “Ma sei impazzito? Il matrimonio è stato una tua libera scelta, sai
benissimo che Rosetta è l’unica donna che tu sei in grado di sposare, perché
fai il cretino?” Non riuscii a chiudere occhio.
Allora mi facevo fare i vestiti da un sarto che, non so perché, mi
confezionava delle giacche che avevano le spalle troppo strette. Rosetta mi
aveva raccomandato:
“Il vestito per il matrimonio, per favore, fattelo fare da un altro sarto.”
Ma io tornai dal mio. Quella mattina mi vestii e con orrore mi accorsi che
il sarto aveva superato se stesso, nel senso che aveva tagliato le spalle sulle
misure di un bambino e la giacca mi stava strettissima. Mi presentai a
Rosetta che era già in abito da sposa e aveva accanto a sé mio padre.
Appena Rosetta mi vide, mi disse:
“Lo vedi? Non hai voluto sentirmi e il sarto ti ha fatto delle spalle
strettissime.”
A quelle parole mi sentii impazzire, tutta la tensione della notte
precedente divenne esplosiva. Mi tolsi la giacca e urlai:
“E allora scegliti un marito dalle spalle larghe!”
Presi la giacca e gliela sbattei in faccia. Mentre mio padre si precipitava a
baciarle le mani dicendole:
“Perdonalo, perdonalo!”
Rosetta non batté ciglio, fece un passo avanti e mi mollò un ceffone in
piena faccia. È stato l’unico schiaffo che mi ha dato, ma ebbe un effetto
straordinario perché un secondo dopo guardandoci ci mettemmo a ridere, a
ridere con le lacrime e tutta la cerimonia del matrimonio in chiesa fu un
ridere continuo. Tra l’altro capitò che, al momento di scambiarci gli anelli,
Rosetta riuscì, ridendo e non rendendosene conto, a infilare l’anello
matrimoniale non nel mio dito ma in quello del prete, che si tirò indietro
inorridito esclamando:
“No, ma io no! Io no!”
Nove mesi dopo il matrimonio nasceva la prima figlia Andreina, tua
nonna. Poi venne la seconda figlia Elisabetta e infine la terza, Mariolina.
Voglio che sia chiara una cosa: non rimasi deluso che la mia prima figlia
fosse appunto una femmina, non mi è mai importato nulla di avere un erede
maschio. Dirò di più, ne fui segretamente felice e la felicità si ripeté
identica per la nascita delle altre due figlie.

Rosetta aveva rinunciato a fare i concorsi come insegnante e aveva


preferito impiegarsi all’INAM, Istituto nazionale assistenza malattie, dove
fece una rapida carriera diventandone dirigente. Ma in casa occorreva più
denaro, così nel 1955 mi decisi a partecipare al concorso per funzionari RAI.
I concorrenti in tutta Italia furono diecimila. Agli scritti venimmo
ammessi solo in centocinquanta. Sostenni gli orali a Roma, la commissione
era presieduta da un grande storico del teatro e della letteratura, il professor
Mario Apollonio. Fu lui a intrattenere una lunga conversazione con me sul
tema che avevo svolto, alla fine si alzò e stringendomi la mano mi disse,
testualmente:
“È stato un vero piacere conoscerla. Credo di interpretare il pensiero
della commissione dichiarandole che ci rivedremo presto a Milano per il
corso di formazione.”
Esultante, telefonai in ufficio a Rosetta dandole la buona notizia.
Manco a farlo apposta quella sera stessa mi chiamò da Milano Orazio
Costa. Stava mettendo in scena al Piccolo Teatro il dramma di Diego Fabbri
che si intitolava Processo a Gesù. Mi disse che non si trovava a suo agio
con l’aiuto regista che gli era stato assegnato. Siccome mancavano una
quindicina di giorni all’andata in scena mi pregava di raggiungerlo a Milano
e fargli da aiuto. Gli risposi che avevo appena sostenuto positivamente
l’esame come funzionario RAI e mi aspettavo di essere chiamato fra non
molto, quindi ero costretto a rinunciare alla sua offerta. Dopo una settimana
ricevetti una strana telefonata da Orazio, mi diceva che aveva incontrato
Apollonio, il quale gli aveva riferito che purtroppo per volontà del
presidente della RAI io non ero stato ammesso al corso di formazione, ero
stato escluso. Così, profondamente deluso, dissi a Costa che l’avrei subito
raggiunto a Milano per fargli da aiuto.
Due giorni appresso, Costa e io andammo a cena con Diego Fabbri e
questi mi chiese perché non fossi stato preso dalla RAI. Risposi che non ne
avevo la minima idea. Allora lui si alzò dal tavolo e andò a telefonare a Pier
Emilio Gennarini, che della commissione giudicatrice era stato
vicepresidente, e lo invitò a cena per la sera seguente. A fartela breve, la
sera successiva Gennarini, imbarazzatissimo, ci spiegò che ero stato escluso
perché le informazioni sulla mia posizione politica, richieste come avveniva
per ciascun concorrente, tracciavano il ritratto di un comunista violento e
pericoloso. La fonte era un maresciallo dei carabinieri del mio paese. Costa
e Fabbri si voltarono verso di me stupiti:
“Ma perché, sei comunista?” mi domandò Orazio.
Non volli sfruttare la situazione e non feci la vittima. Il sogno di entrare
nella RAI perciò mi sembrò essere sfumato per sempre.
Tre anni dopo, di ritorno da Bergamo dove avevo messo in scena
un’opera lirica, venni convocato da Cesare Lupo, direttore del terzo
programma radiofonico. Pensai che mi avesse chiamato per fare qualche
regia alla radio, invece mi chiese se potevo sostituire la funzionaria addetta
ai programmi della prosa che era andata in maternità; si trattava di un
contratto di sei mesi. Accettai con entusiasmo ma mi sentii in dovere di
aggiungere:
“Guardi, direttore, che io al concorso di tre anni fa non sono stato preso
come funzionario perché ero comunista. E lo sono tuttora.”
Lui mi guardò e mi disse:
“E chi se ne frega.”
La spiegazione di questo mutato atteggiamento era semplicissima: era
cambiato il presidente della RAI, ruolo ricoperto all’epoca del mio esame
dall’ingegner Filiberto Guala, divenuto in seguito frate trappista e sostituito
da un uomo di tendenze assai più liberali, il dottor Marcello Rodinò. Cesare
Lupo, prima di lasciarmi andare, mi diede un avvertimento:
“Guardi che chi entra in RAI difficilmente ne esce.”
Fu un facile profeta. Il contratto di sei mesi venne rinnovato per altri sei
mesi, poi per un anno, insomma a fartela breve raggiunsi l’età della
pensione sempre all’interno della RAI, e quasi sempre con incarichi che mi
piacevano assai. Ecco, Matilda, questa solidità lavorativa mi tranquillizzò
molto, mi dette la possibilità di trovare una certa stabilità, e questo contribuì
ad attenuare le mie variazioni di umore. Ma di certo non fu solo il lavoro.
Sono stato un uomo fortunato. E se il mio matrimonio è durato tanto ciò è
dovuto principalmente all’intelligenza, alla comprensione e alla pazienza di
Rosetta. Il nostro rapporto non è mai stato alterato da nessun evento
esterno. Ti rivelerò un segreto: la nascita delle tre figlie e il fatto che
nell’appartamento accanto vivessero le due consuocere, miracolosamente
amiche, fecero sì a un certo momento che Rosetta e io avessimo poco
tempo per stare insieme e scambiarci idee, opinioni. Allora io ricorsi a uno
stratagemma. Senza dire niente a nessuno affittai un pied-à-terre, l’arredai e
poi lo comunicai a Rosetta e lì, di nascosto da tutti, come due amanti, ci
vedevamo qualche ora nel pomeriggio, poi la sera ci ritrovavamo a cena
come se non ci fossimo visti dall’ora di pranzo.
Rosetta è stata la spina dorsale della mia esistenza e continua a esserlo.
Quando facevo il regista di teatro tenevo più al suo giudizio che a quello dei
critici. Non c’è rigo che io abbia pubblicato che non sia stato prima letto da
lei. Ho sempre seguito i suoi intelligenti e penetranti consigli, tanto da
essere costretto a riscrivere decine di pagine dei miei romanzi.
Al momento della creazione del secondo programma televisivo, fui
chiamato a farne parte dal direttore Angelo Romanò e così passai dalla
radio alla televisione a fare il delegato alla produzione, cioè il responsabile
di certi programmi, e debuttai con le prime otto commedie, allora in bianco
e nero, di Eduardo De Filippo. A questo primo lavoro ne seguirono tanti
altri, tra i quali due grandi romanzi sceneggiati come La figlia del capitano
di Puškin e Luisa Sanfelice, che era scritto appositamente per la TV. Inoltre
ho prodotto un esperimento assai difficile: la direzione di alcuni lavori del
cosiddetto “teatro dell’assurdo”, vale a dire Beckett, Pinter, Adamov,
Ionesco. Ho continuato per tutta la mia carriera in RAI a fare regie tanto alla
radio quanto alla televisione.
Intanto Orazio Costa, che aveva abbandonato la cattedra di Regia
all’Accademia nazionale di arte drammatica, mi aveva voluto come suo
successore. Ne rimasi francamente molto stupito. Nei suoi anni di
insegnamento Orazio aveva formato registi di grande talento, come ad
esempio Mario Ferrero o Giacomo Colli, fedelissimi alla sua idea di teatro.
Orazio era stato allievo e aiuto regista di Jacques Copeau, che del teatro
aveva una concezione quasi religiosa, a momenti addirittura mistica. Le mie
idee invece erano assai più laiche; insomma, tra tutti gli allievi di Costa io
ero stato il più infedele, perciò il fatto che mi designasse come successore
all’ambita cattedra mi stupì. Nel corso degli anni eravamo diventati amici,
lui frequentava la mia casa, fu addirittura il padrino di battesimo della mia
prima figlia. Ci stimavamo moltissimo, io non osai mai dargli del tu,
malgrado lui mi avesse ripetutamente invitato a farlo. Quando gli chiesi che
mi spiegasse le ragioni per cui mi aveva voluto come suo successore,
esibendo una memoria straordinaria mi ricordò la frase che mi aveva detto
al nostro primo incontro di tanti anni addietro:
“Non condividere le idee di un altro non significa che esse siano poco
intelligenti o poco motivate”.

Così, per diciassette anni ho insegnato regia e recitazione e qui vorrei


spendere qualche parola sul mio metodo. Il corso di regia durava un triennio
e i posti disponibili al primo anno erano soltanto tre. Quindi il mio numero
massimo di allievi avrebbe dovuto raggiungere quota nove per tutti e tre gli
anni. Ma dato che agli esami ero severissimo, spesso rimanevo ben al di
sotto della quota, prendevo due allievi, oppure uno soltanto. Perché ero così
esigente? Perché io della regia teatrale ho sempre avuto un altissimo
concetto. Non ho mai creduto alle estrose invenzioni registiche né
tantomeno ai finti fuochi di artificio che si possono creare facilmente sul
palcoscenico. Per me il testo teatrale era tutto. La comprensione critica del
testo era la base essenziale e sostanziale della futura regia, della futura
messa in scena. Volevo quindi dagli allievi, anche se non molto colti, che
avessero idee radicate, convinte su quello che dicevano a proposito del testo
che avevano scelto per gli esami. Facevo sì che fossero costretti a un’analisi
accuratissima e che portassero soprattutto le cosiddette “pezze d’appoggio”,
bibliografia compresa, per lo sviluppo della loro tesi. Una volta che
superavano gli esami io cercavo il più possibile di capire la personalità
dell’allievo che mi stava davanti, le sue cognizioni, i suoi propositi, il suo
modo di affrontare e leggere un testo. Se ero convinto che l’allievo era
altrettanto convinto delle proprie idee, io non cercavo di dirottarle sulle mie
ma l’aiutavo al massimo grado a svilupparle, approfondirle. Desideravo che
dal mio insegnamento non derivassero dei buoni allievi pedissequamente
allineati al mio modo di concepire il teatro e il testo, ma delle personalità
autonome. Nel corso degli anni cercavo semmai di scalfire la consistenza
delle loro idee per vedere quanto esse fossero resistenti, pronto a tirarmi
indietro e a mettere a loro disposizione tutto il mio sapere e la mia
esperienza, purché le loro concezioni raggiungessero una forma compiuta.
Questa è stata la base del mio insegnamento, un insegnamento di libertà.
Mi onoro di aver avuto, per allievi, futuri registi degni di fama e di stima.
Volendo fare un consuntivo del mio insegnamento mi rendo conto con
sorpresa che nel corso del tempo sono venuti fuori più scrittori che registi o
attori.
Ho tenuto anche la cattedra di Direzione dell’attore al Centro
sperimentale di cinematografia per cinque anni consecutivi, dal 1961 al
1966, e anche qui ho diplomato registi di cui ancora oggi apprezzo molto il
lavoro. Insegnavo agli allievi registi come ottenere dagli attori quello che
loro desideravano, perché il regista cinematografico aveva, allora, la
naturale tendenza a considerare l’attore come un qualsiasi elemento di
scena. Me ne andai dal Centro sperimentale perché ero sovraccarico di
lavoro tra Accademia e RAI televisione.

Due anni dopo scoppiò il ’68, che fu l’anno delle rivendicazioni in tutti i
sensi. I giovani in rivolta volevano una società diversa, la parità tra uomo e
donna, il rispetto delle libertà individuali, un tessuto sociale che avesse
meno smagliature. Così un giorno si presentò a casa mia un gruppo di
allievi del Centro, capitanati da uno dei più grandi attori di quel tempo,
Gianmaria Volonté. Gli allievi del Centro si erano barricati all’interno della
scuola e avevano cacciato via tutti i docenti. Avevano tenuto un’assemblea
per chiamare a insegnare professori di loro gradimento e il primo nome era
stato il mio, il secondo quello di Dario Fo. Mi sentii sinceramente onorato
di quell’invito e accettai. Il primo giorno per accedere al Centro dovetti
superare diversi controlli e sbarramenti di polizia. Nell’atrio della scuola si
trovava su una parete un grande orologio che segnava non solo le ore ma
l’inizio e la fine di ogni lezione. La prima cosa che vidi entrando fu il
povero orologio divelto e gettato in un angolo: era stato sostituito da un
tazebao. Entrai nella classe di regia e vi trovai due o tre allievi che
dormivano dentro i sacchi a pelo, non volli disturbarli e me ne andai in
un’altra classe non senza aver scritto sul tazebao che Camilleri era arrivato
ed era pronto a far lezione. Non si presentò nessuno. Allora attraverso il
tazebao feci sapere che l’indomani mattina alle nove avrei cominciato le
mie lezioni. Il giorno appresso il primo allievo si presentò alle undici, io mi
ero fumato un intero pacchetto di sigarette nell’attesa. Discorremmo un po’
della situazione e me ne andai, dopo aver dato lo stesso appuntamento. Il
giorno dopo si presentarono in due ma non prima delle dieci e mezzo, allora
scrissi sul tazebao quanto segue: “Differenza tra rivoluzionario e cialtrone:
il rivoluzionario strappa l’orologio segnatempo dalla parete e lo distrugge,
però si presenta cinque minuti prima dell’orario della lezione. Il cialtrone
strappa dalla parete l’orologio e si presenta alla lezione con due ore di
ritardo. Domani Camilleri fa l’ultima prova, alle nove è in classe.” Va da sé
che il giorno appresso alle nove mi trovai tutti e cinque gli allievi di regia.
Dall’insegnamento ho ricevuto assai più di quello che ho dato. Mi spiego
meglio: dal confronto continuo tra le mie idee e quelle di un giovane colto,
preparato e intelligente, sentivo di guadagnarci perché nelle mie idee veniva
iniettato come un sangue fresco e diverso; il mio approccio a un testo,
fermo a vent’anni prima, attraverso la lettura fatta da un giovane si
modificava in senso positivo, si rinnovava. L’esperienza fu per me così
eccitante che la mattina andando a fare le mie lezioni mi sentivo come
Dracula, che succhia sangue per mantenersi vivo. Se oggi continuo a essere
curioso dell’altrui modo di pensare lo devo proprio all’esperienza
dell’insegnamento.
Nello stesso anno ’68 qualcosa di simile a quello che era accaduto al
Centro sperimentale capitò nell’Accademia nazionale d’arte drammatica,
ma qui avvenne un fatto straordinario. I professori non solo non furono
cacciati via ma invitati dagli allievi a occupare con loro la scuola e così, con
il direttore di allora in testa, Ruggero Jacobbi, ci trovammo a dormire tra i
banchi della scuola negli immancabili sacchi a pelo.
Per circa vent’anni ho lavorato senza mai risparmiarmi, facevo regie in
teatro, in televisione, alla radio, insegnavo, scrivevo articoli per riviste e
giornali specializzati; tutto questo lavoro però aveva un risvolto negativo,
quello che non riuscivo a stare vicino alle mie figlie che intanto crescevano.
Stavo troppo tempo fuori casa: l’esempio più lampante è dato dallo
svolgimento del tema “Mio padre”, fatto da tua nonna Andreina che allora
andava alle elementari. “Mio padre quando torna a casa litiga con mia
madre. Poi si chiude nello studio e legge copioni. La sera esce e torna il
giorno dopo. Qualche volta sa fare andare la lavatrice.” A mia difesa dirò
che proprio in quel tempo Rosetta e io vivevamo felici in pieno accordo,
quindi quelli che Andreina credeva litigi erano normalissime discussioni
familiari. Era vero che io uscivo la sera per andare a provare in teatro ma
tornavo verso la mezzanotte quando la bambina dormiva, perciò per lei io
rincasavo il giorno dopo. Era vero che sapevo far andare la lavatrice perché
non funzionava bene e ogni tanto si inceppava. Avevo scoperto che con un
calcio in un certo posto riuscivo a rimetterla in moto. Aggiungerò anche
che, all’insaputa di tua nonna, spesso stiravo. Ma giuro che il mio
contributo alla famiglia non si è limitato solo a questo.
Sono stato, però, un buon nonno. Tanto buon nonno che le figlie non mi
hanno negato qualche scenata di gelosia. I miei nipoti, fin da piccolissimi,
hanno avuto libero accesso al mio studio dove potevano giocare senza che
minimamente mi disturbassero, anzi mi piaceva sentirli vivere e liberare la
loro energia dentro la mia stanza, un’energia contagiosa che mi faceva
scrivere meglio. Potevano salire sul tavolo o, come succedeva più spesso,
starsene a giocare sotto la scrivania interrompendomi continuamente, non
battevo ciglio, non mi davano nessun disturbo, tanto che un giorno mia
moglie mi disse:
“Tu non sei uno scrittore, sei un corrispondente di guerra.”
Puoi quindi immaginare, cara Matilda, la felicità di sapere che sotto alla
mia scrivania sei arrivata anche tu.

Fare teatro cambiò il mio carattere. Nelle mie prime regie il rapporto con
gli attori era addirittura conflittuale. Mi preparavo a una regia leggendo e
rileggendo per decine di volte di seguito un testo, contemporaneamente
prendevo appunti sul carattere dei vari personaggi, studiavo il copione non
solo in rapporto alle altre opere dello stesso autore ma anche alla posizione
dell’autore nel complesso del teatro a lui contemporaneo. Quindi a un certo
punto mi capitava uno strano fenomeno: possedevo talmente il testo che i
personaggi si alzavano dalla pagina e cominciavano a girare per la stanza
come creature in carne e ossa. Solo in quel momento mi sentivo pronto per
affrontare la regia, quindi mi sedevo al tavolo con gli attori. Tutta questa
preparazione mi creava uno schema mentale fisso e rigido dal quale non
intendevo sgarrare; la mia regia era una sorta di imposizione della mia idea
che non ammetteva digressioni o scarti, ma commettevo un errore: non
consideravo che l’attore è un uomo che ha una sua formazione e delle sue
precise idee, oltre che una lunga o breve esperienza in scena. Un giorno mi
capitò di radunare tutti gli attori in palcoscenico e, insoddisfatto, non solo li
redarguii severamente ma mi scappò anche qualche pesante insulto.
Riprendemmo a provare, fra gli attori c’era un vecchio comico ottantenne,
Aristide Baghetti, che era stato una star del teatro comico dei primi del
Novecento. Dato che abitava vicino a casa mia, ogni notte al termine delle
prove io me lo prendevo sotto braccio e lo riaccompagnavo fino al suo
portone. Quella sera mi sentii in dovere, per riguardo alla sua età avanzata,
di domandargli scusa per la scenataccia che avevo fatto e allora egli mi
disse:
“Guardi, dottore, che se noi non facciamo quello che lei vuole non è
perché vogliamo fare qualcosa di testa nostra ma perché non sempre
comprendiamo quello che lei vuole. Lei è un giovane colto e noi non lo
siamo. Lei usa parole o espressioni che ci sono quasi incomprensibili, a
volte. Se lei invece dialogasse di più con noi, se alla fine di una sua
esposizione facesse una domanda che si fa a scuola – Avete capito quello
che ho detto? –, la risposta sarebbe no. Risposta che potrebbe cambiare se
lei avesse la pazienza di insistere a spiegare le sue idee a noi fin quando
esse ci appariranno finalmente chiarissime. Allora vedrà che rimarrà
soddisfatto di noi.”
Ti confesso che non ci dormii la notte. Quelle poche parole di Baghetti
furono per me una lezione non solo di teatro ma anche di vita. Da allora il
dialogo con gli altri è stato un elemento fondante del mio essere. E se ho
fatto qualche regia di buon livello è stato proprio perché le parole di
Baghetti non hanno mai smesso di risuonare dentro di me.

Dopo anni e anni cominciai ad avvertire una certa stanchezza, non di far
teatro, ma di raccontare storie concepite da altri e scritte con parole di altri.
Come ti ho già detto, da giovane avevo pubblicato poesie e racconti che
avevano ottenuto dei buoni riconoscimenti, ma questa mia attività letteraria
era stata spazzata via dall’avvento del teatro. Studiare da regista e
successivamente fare il regista mi avevano immerso totalmente nel mondo
teatrale tanto che, per lungo tempo, non mi interessò più scrivere versi.
Senonché, a un certo punto, la vena poetica e narrativa che credevo di avere
definitivamente interrato si rivelò invece essere una sorta di fiume carsico.
La voglia di narrare una storia mia con parole mie trovò l’occasione di
concretizzarsi durante una situazione personalmente drammatica. Mio
padre, che con mamma si era trasferito dalla Sicilia a Roma per stare vicino
a me e alle nipotine, dopo qualche anno si ammalò gravemente e fu
ricoverato in ospedale. Qualche giorno appresso i dottori mi comunicarono
che papà aveva di fronte a sé appena pochi mesi di vita. Questa notizia del
tutto imprevista mi stordì. E poi, come dirlo a mia madre? Uscii dalla
clinica ed entrai in un bar. Erano le tre del pomeriggio, c’era un flipper,
cominciai a giocare e terminai la sera alle otto. Per cinque ore mi concentrai
solo sul gioco, ma al termine mi sentii pronto ad affrontare i giorni che
sarebbero seguiti. Abbandonai tutto quello che stavo facendo e trascorsi le
notti successive ad assistere papà, a tenergli compagnia in una stanzetta a
un letto dove feci aggiungere una poltrona per me. Papà non riusciva a
prendere sonno e così trascorrevamo la notte parlando di noi due,
chiarendoci le incomprensioni, i dissidi, ci svelammo l’un l’altro senza
pudori. Da quelle notti, malgrado tutto, uscimmo entrambi pacificati e
sereni. Terminato questo lungo e sofferto chiarimento, papà mi chiese di
raccontargli qualche storia. Allora io gli risposi che da qualche mese avevo
in mente di scrivere un romanzo. Papà si mostrò a un tempo contento e
sorpreso:
“Ma se tu fino a questo momento hai scritto poesie e brevi racconti come
mai ora desideri scrivere addirittura un romanzo?”
Gli risposi che forse era stata la lunga esperienza teatrale a spingermi al
grande passo. E cominciai a raccontarglielo. Alla fine papà volle da me una
promessa: che scrivessi quel romanzo allo stesso modo di come glielo
avevo raccontato. Come glielo avevo raccontato? L’avevo fatto adoperando
il modo di parlare della piccola borghesia siciliana, mischiando dialetto e
lingua. Ci adeguavamo insomma a quello che Pirandello in suo saggio
aveva acutamente osservato: “Di una data cosa la lingua ne esprime il
concetto, mentre della medesima cosa il dialetto ne esprime il sentimento.”
Infatti, quando volevamo formalizzare una situazione, renderla in qualche
modo distante da ogni sentimento, adoperavamo l’italiano. Mentre per ogni
mozione degli affetti, ogni ricerca di intimità nel discorso, per rendere più
penetranti le parole che dicevamo, usavamo il nostro dialetto.
Mantenni la promessa fatta a papà e l’anno seguente, nel ’68, scrissi il
mio primo romanzo intitolato Il corso delle cose. Una volta terminato, lo
mandai a un mio amico che era un grande critico letterario, Nicolò Gallo,
con il quale ci incontravamo ogni sabato. Ricevuto il mio romanzo, Nicolò
non si fece più vivo con me per un mese, allora gli lasciai in portineria un
bigliettino: “Caro Nicolò, non posso perdere la tua amicizia per un romanzo
che evidentemente non ti piace. Fai finta di non averlo mai ricevuto e fatti
vivo.” Mi telefonò immediatamente invitandomi ad andare a casa sua. Ci
andai e sul suo tavolo trovai il mio romanzo con accanto un mucchio di
foglietti contenenti le sue osservazioni. Nicolò mi disse che il mio romanzo
era molto bello ma che non avevo avuto il coraggio di spingere fino in
fondo il pedale della commistione tra lingua e dialetto e perciò, nei foglietti
a parte, mi aveva segnato tutte le frasi dove era meglio approfondirla,
invitandomi così a osare di più. Mi diede tre o quattro mesi di tempo per
riscrivere il romanzo e mi disse che poi me l’avrebbe fatto pubblicare da
Mondadori di cui era un importante editor.
Sapendo di avere un po’ di tempo a disposizione, non misi subito mano
alle correzioni, senonché un brutto giorno mi arrivò la notizia che Nicolò
era morto improvvisamente. Allora cominciai a spedire il romanzo senza le
correzioni a tutte le case editrici italiane ed ebbi sempre la stessa risposta:
“Il suo romanzo è impubblicabile a causa del linguaggio.” I rifiuti durarono
esattamente dieci anni. Ma, ti dico la verità, non mi persi d’animo, non mi
scoraggiai, anzi me ne fregavo e continuavo a fare teatro.
Nel ’78, un amico sceneggiatore, visto e considerato che il mio romanzo
veniva rifiutato da tutti, mi propose di farne un testo per la televisione.
Accettai. Così qualche giornale pubblicò la notizia che si stava preparando
uno sceneggiato televisivo da un mio romanzo e che il titolo sarebbe stato
La mano sugli occhi. Allora ricevetti la lettera di un editore a pagamento,
Lalli, il quale mi propose di pubblicare gratis il romanzo se nei titoli di coda
dello sceneggiato avessi fatto scrivere che era tratto dal libro Il corso delle
cose edito da Lalli; voleva insomma un po’ di pubblicità televisiva. E così
attraverso questa sorta di baratto il romanzo venne pubblicato.
Naturalmente non ebbe una grande distribuzione e perciò fu quasi ignorato,
però a me avere tra le mani l’oggetto libro fece l’effetto immediato di
volerne scrivere un secondo. A più di dieci anni di distanza dal primo
scrissi Un filo di fumo. Questa volta, tuttavia, il mio amico Ruggero Jacobbi
mi disse:
“Non voglio che questo romanzo abbia la stessa sorte del primo.”
Se lo mise sotto braccio e se ne partì per Milano. Diede il dattiloscritto a
una brava scrittrice che in seguito divenne una mia grande amica, Gina
Lagorio, moglie dell’editore Livio Garzanti. Dopo una decina di giorni
ricevetti un’inattesa telefonata da Garzanti, il quale mi comunicava che il
mio libro gli era piaciuto assai e che l’avrebbe pubblicato prestissimo con la
sua prestigiosa casa editrice. E così infatti avvenne. Questa volta il romanzo
fu molto ben recensito.
Subito dopo scrissi un racconto-saggio, intitolato La strage dimenticata,
e attraverso Leonardo Sciascia lo pubblicai con la casa editrice di Elvira
Sellerio; fu l’inizio di una lunghissima collaborazione che dura tuttora. Ma
non solo di una collaborazione, fu l’inizio di una profonda, autentica
amicizia. Elvira era una donna straordinaria. Voglio dire che possedeva
caratteristiche naturali fuori dall’ordinario e aveva il dono di unire in sé
qualità umane e professionali apparentemente discordanti. Ricordo
discussioni accesissime, delle vere e proprie sfuriate dove però la sua
tenerezza era sempre presente.
Dopo aver pubblicato un altro romanzo, La stagione della caccia, non fui
più in grado di scrivere altro. Il problema era dovuto al fatto che non
riuscivo a scrivere le mie cose continuando a far teatro. Decisi di dare un
addio al palcoscenico. Addio che fu veramente lungo, durò infatti otto anni.
Quando feci il mio ultimo spettacolo tratto da tre poemi di Majakovskij e
intitolato Il trucco e l’anima, sentii che ormai non avevo più nulla da dire in
quel campo. Elvira, che durante quegli anni non mi aveva mai chiesto un
nuovo libro, venne alla prima dello spettacolo e alla fine prendendomi sotto
braccio mi disse: “Credo che ora tu sia pronto a darmi un nuovo libro.”
Aveva capito tutto. Tornai alla narrativa.
Nel 1994 provai il bisogno di scrivere un libro chiudendomi dietro le
sbarre di quella gabbia che è il romanzo poliziesco e nacque La forma
dell’acqua, che aveva come protagonista un commissario, Salvo
Montalbano. Però non fui molto soddisfatto del mio lavoro. In quelle pagine
la figura del commissario era a tratti troppo sfumata, voglio dire che
Montalbano era più una funzione che un personaggio. Per renderlo tale,
scrissi un secondo romanzo, Il cane di terracotta. Nelle mie intenzioni,
dopo questo libro Montalbano non sarebbe più ritornato sulle mie pagine.
Ma accadde un fatto straordinario: i due romanzi di Montalbano ottennero
un grandissimo successo di lettori. E questo senza che Sellerio avesse fatto
alcuna pubblicità: il consenso era dovuto al passaparola dei lettori. Nel giro
di un anno, le copie vendute dei miei libri raggiunsero quota ottocentomila,
sicché Elvira Sellerio quasi mi costrinse a scrivere un terzo romanzo con
protagonista Montalbano. Obbedii a malincuore anche perché credevo di
essere incapace di reggere a un personaggio seriale. La serialità presuppone
una sorta di atletismo da maratoneta mentre io mi ero sempre considerato a
malapena un centometrista. Invece con Montalbano mi capitò che questo
personaggio cominciò a convivere con me e, più si dilatava il successo, più
io mi sentivo come fatto prigioniero da lui. Tra me e il mio personaggio si
creò insomma un rapporto di amore-odio che ancora oggi dura.
Mentre ti scrivo, l’editore Sellerio mi comunica che ha venduto ben
diciotto milioni di copie dei miei romanzi nella sola Italia. La trasposizione
televisiva delle inchieste di Montalbano, sempre alla stessa data, ha
superato in Italia il miliardo e duecento milioni di spettatori. Montalbano è
stato trasmesso in sessantatré paesi e tradotto come romanzo in trentasette
lingue. Malgrado questo, io continuo a credere che il meglio della mia
scrittura si trovi nei cosiddetti “romanzi storici e civili” come Il re di
Girgenti, Il birraio di Preston, La concessione del telefono, oppure nella
trilogia da me chiamata delle metamorfosi, di cui fanno parte Maruzza
Musumeci, Il casellante, Il sonaglio.
Insomma, sono diventato uno scrittore di grandissimo successo, ma
voglio confessarti che non sono mai riuscito a spiegarmene le ragioni. Ho
sempre scritto quello che mi sentivo di scrivere senza nessuna concessione
al gusto del pubblico.
Sono rimasto fedele a me stesso, alla mia scrittura, a quella scrittura che è
un work in progress perché sempre più diventa una lingua inventata.
In diverse interviste mi viene posta la domanda se il successo abbia in
qualche modo cambiato la mia esistenza. La mia risposta è no e corrisponde
esattamente alla verità delle cose. Il successo è rimasto sulla soglia della
mia casa, non è riuscito a penetrare né dentro i miei rapporti familiari né
dentro i rapporti con il mondo. Quando eravamo giovani sposi, non sono
mai riuscito a fare un regalo di un qualche valore, che so, una collana, una
pelliccia, a mia moglie Rosetta, lei era la persona più lontana da questi
segni esteriori. Non sono riuscito nemmeno quando avrei potuto farlo senza
alcun sacrificio. Ho sempre considerato con un certo distacco i
riconoscimenti che ho ottenuto, e anche con una certa autoironia. Ho avuto
una fortuna, quella di imbattermi giovanissimo nei saggi di Montaigne, che
hanno costituito una lettura fondamentale per la mia vita. Una frase di
Montaigne me la sono portata costantemente dietro per tutti questi lunghi
anni: “Ricordati che più in alto sali sempre più culo mostri”. Ammetto che
in una sola cosa il successo mi ha dato conforto, cioè nell’avere a
disposizione una certa quantità di denaro che mai avrei sognato di
possedere. Cosa ne ho fatto di questi soldi? Ho dato a figlie e nipoti una
casa, una casa l’ho data anche a me e a Rosetta e inoltre ho avuto la
sicurezza di poter impiegare quel denaro in caso di necessità, il che non è
poco. Una parte è stata devoluta per aiutare gli altri.

Non credo di essere un grande scrittore. In Italia si ha l’ambizione di


creare cattedrali, a me piace invece costruire piccole disadorne chiesette di
campagna. E tanto mi basta. Ho scritto molto, quando ho raggiunto i
novantun anni abbiamo festeggiato il mio centesimo libro. Credimi, non c’è
una sola pagina che io non abbia scritto con sincerità assoluta, per totale
bisogno di raccontare. Io stesso mi considero più che uno scrittore un
contastorie, cioè uno che esaurisce nel piacere della narrazione ogni sua
possibilità di espressione.
Come scrittore non ho mai voluto chiudermi dentro a una sorta di
prezioso isolamento. La turris eburnea tanto vagheggiata da alcuni miei
colleghi è per me un luogo inabitabile; nei miei romanzi la politica intesa
come partecipazione sociale non è mai stata del tutto assente. Mi è capitato
infatti di ricevere da qualche lettore messaggi di protesta per le idee
politiche prestate da me a Montalbano. Uno arrivò a scrivermi che non
avevo il diritto di connotare in quel senso Montalbano perché il personaggio
oramai non era più mio ma apparteneva ai lettori.
Fare politica l’ho sempre sentito come un dovere, ma non ho mai voluto
diventare un uomo politico. Mi spiego meglio. Il vescovo di Agrigento, a
nome di tutti i vescovi siciliani, mi comunicò un giorno che aveva
intenzione di scrivere una lettera al presidente Ciampi chiedendo che io
venissi nominato senatore a vita. Mi attaccai immediatamente al telefono,
parlammo per oltre un’ora e alla fine riuscii a farlo desistere dal suo
proposito. Lo stesso avvenne qualche anno dopo, nel 2000, quando l’allora
coordinatore della segreteria dei DS, Pietro Folena, mi propose di
candidarmi come senatore in un collegio blindato, vale a dire di sicura
elezione. Anche quella volta convinsi il mio interlocutore a cambiare idea.
Questi due rifiuti avevano per me una ragione ben precisa. So che per fare
bene un lavoro politico occorre dedicarsi interamente a esso. Sentivo
oscuramente che, se avessi accettato, la mia carriera di scrittore
inevitabilmente ne avrebbe risentito. Però non mi sono sottratto alla
politica. Quando venni chiamato dal direttore del quotidiano “Il
Messaggero” a collaborare, cominciai a scrivere noterelle critiche sugli usi
e sui costumi degli italiani di oggi e, passando all’edizione siciliana del
giornale “la Repubblica”, mi occupai concretamente di molte questioni
socioeconomiche dell’isola. Il mio impegno maggiore come articolista lo
svolsi durante la lunga collaborazione con il giornale “La Stampa” di
Torino. Lì, veramente, scrissi anche di politica. In seguito ho collaborato
con “l’Unità” per due anni.
Durante i vari governi Berlusconi, il mio impegno raggiunse il massimo.
Non solo scrissi saggi sulla rivista “Micromega” ma organizzai con l’amico
Paolo Flores d’Arcais manifestazioni pubbliche antiberlusconiane, sempre
pacifiche. Ho ritenuto che fosse, torno a ripetere, mio dovere come cittadino
quello di partecipare alla vita politica. Per lo stesso motivo sono intervenuto
in diverse trasmissioni televisive. Ho detto sempre la mia con sincerità,
senza secondi fini e forse molti ascoltatori hanno potuto percepire questo
mio atteggiamento.
Oggi, data l’età avanzata e la sopravvenuta cecità, il mio impegno si è
dovuto diradare ma non attenuare, anche se sono costretto a considerare
quasi estraneo a me l’odierno modo di far politica. Forse perché sono stato,
come dire, educato male. Gli uomini politici, che subito dopo la
Liberazione presero in mano le redini dell’Italia, erano uomini che il
fascismo aveva costretto all’esilio, alla galera, all’ostracismo, al silenzio.
Erano uomini come Alcide De Gasperi democristiano, Luigi Einaudi
liberale, Palmiro Togliatti comunista, Pietro Nenni e Sandro Pertini
socialisti, Carlo Sforza e Ferruccio Parri del Partito d’azione, tutti uomini
che avevano cominciato a far politica prima dell’avvento del fascismo e che
conoscevano benissimo i valori della democrazia. Ma a quei tempi, pur
combattendoci, avevamo un ideale comune, quello di far risorgere l’Italia
dalle sue macerie.
Ti voglio raccontare un episodio pochissimo conosciuto ma rivelatore.
Alla fine del 1946 il presidente del Consiglio italiano, Alcide De Gasperi,
venne convocato a Parigi per enunciare di fronte ai vincitori, gli inglesi, gli
americani, i francesi, i russi ecc., quali sarebbero stati i propositi del
governo per gli anni a venire. Bene, la notte prima del discorso di De
Gasperi, nella sua stanza d’albergo parigina, si assieparono appunto
Togliatti, Nenni e Sforza. Ogni frase che De Gasperi scriveva la
sottoponeva al giudizio degli altri che la modificavano, la correggevano,
aggiungevano un aggettivo, ne levavano un altro. In quella stanza, in quel
momento, non c’era solo il democristiano De Gasperi ma l’Italia tutta.
L’indomani mattina, al momento di uscire dall’albergo, Carlo Sforza si
accorse che la giacca di De Gasperi era lisa nei gomiti, allora si levò la sua
e gliela diede. De Gasperi si presentò ai vincitori iniziando il suo discorso
con questa frase:
“Sento che in questa sala tutto, tranne la vostra personale cortesia, è
contro di me e contro il paese che rappresento.”
Discolpò l’Italia e da quel momento in poi i rapporti tra il nostro paese e i
vincitori cambiarono radicalmente.

Mi pare importante che tu conosca il contesto nel quale si sono svolti


questi miei novantadue anni di vita. Gli storici hanno chiamato Prima
Repubblica il periodo compreso tra il 1948 e il 1994. Nel ’46, attraverso un
referendum popolare, venne dichiarata decaduta la monarchia che fino
allora aveva regnato in Italia e si indissero libere elezioni che portarono in
parlamento coloro che avrebbero dovuto scrivere la Costituzione italiana. I
padri costituenti fecero un ottimo lavoro, infatti la nostra Costituzione è
ritenuta tra le migliori al mondo. Però accadde che la Prima Repubblica fu
sostanzialmente dominata dal partito di maggioranza, che era la
Democrazia cristiana, ed entrarono in politica personalità la cui educazione
si era svolta sotto il fascismo. Tanto per fare un esempio, ricordo Amintore
Fanfani, personalità di primissimo piano della Democrazia cristiana, che era
stato addirittura presidente della Commissione fascista dei littoriali, così
come giovani fascisti erano stati altri alti esponenti dello stesso partito. La
prevalenza della Democrazia cristiana durò dunque oltre un quarantennio e
solo dagli anni ottanta si ebbe qualche governo socialista. Che cosa intendo
dire con ciò? Fu subito chiaro che si trattava di persone che non sentivano
la politica allo stesso modo dei loro predecessori. Molti di loro non seppero
attenersi alla regola prima dell’onestà e della trasparenza, che deve essere la
guida di ogni uomo che si dedica alla politica. La vox populi era quella che
in Italia esistesse una corruzione sotterranea riguardante appunto i partiti
politici. Come si era vissuto in quegli anni? Fino alla fine degli anni
cinquanta tutto il paese collaborò alla propria ricostruzione. Nel frattempo
aveva inizio un grosso movimento di emigrazione interna dal Sud verso il
Nord. Fu in quell’occasione che io mi accorsi di quanto gli italiani fossero
profondamente razzisti. Lavorando a Torino vedevo spesso affissi dei
cartelli sui portoni delle case, su cui c’era scritto “Non si affitta a
meridionali”. Ciononostante sul finire degli anni cinquanta scoppiò il boom
economico, cioè cominciò un periodo di piena occupazione per gli operai e
di benessere per tutti. Ma nel decennio successivo un fenomeno,
sconosciuto fino ad allora, sconvolse l’Italia; vennero create
clandestinamente le Brigate Rosse, gruppi armati appartenenti a una sinistra
rivoluzionaria. Si credevano una sorta di avanguardia operaia, invece erano,
come li avrebbe definiti Lenin, solo malati di infantilismo rivoluzionario.
Infatti la grandissima maggioranza operaia non cadde nell’inganno. Le
Brigate Rosse lasciarono dietro di sé una lunga scia di sangue: uccisero
magistrati, economisti, giuristi, sindacalisti. Le loro azioni culminarono nel
sequestro del presidente Aldo Moro, il quale era lì lì per formare un
governo che forse avrebbe potuto cambiare le sorti del paese, un governo di
democristiani appoggiati dal Partito comunista. Un simile progetto
dispiaceva tanto agli Stati Uniti quanto all’Unione Sovietica. Moro perciò
fu sequestrato e, dopo quasi due mesi di prigionia, ritrovato assassinato. Nel
contempo, sempre in Italia, era nata la cosiddetta “strategia della tensione”.
Erano cominciati degli attentati terroristici in banche, piazze, stazioni e
treni. Si voleva insomma mantenere il paese in un continuo stato d’allarme
perché si potesse creare un terreno fertile a una svolta autoritaria.

Nel 1992 alcuni magistrati milanesi scoprirono un caso di corruzione: il


dirigente di un’opera pia aveva intascato una mazzetta per concedere un
appalto. L’aspetto più sorprendente fu che quel dirigente non aveva preso il
denaro per sé ma per il suo partito, quello socialista. Come si usa dire, una
ciliegia tira l’altra. Indagando più a fondo vennero fuori casi di corruzione
di maggiore gravità che coinvolgevano quasi tutti i partiti e personalità
politiche di primissimo piano. Agli occhi della gente non apparve una
giustificazione sufficiente quella fornita dagli indagati, e cioè che avessero
intascato le mazzette a favore del partito d’appartenenza. Ebbe inizio
l’inchiesta – seguita dall’opinione pubblica come un grande scandalo – che
venne chiamata “Mani pulite”. Durante i processi scomparvero alcuni dei
partiti che fino a quel momento avevano governato l’Italia come la
Democrazia cristiana, il Partito socialista, il Partito liberale, il Partito
repubblicano. Con essi ebbe fine anche la Prima Repubblica.
La Seconda Repubblica, sorta dalle ceneri della Prima, vide emergere un
politico del tutto nuovo, Silvio Berlusconi, che aveva dato, attraverso le
televisioni di cui era proprietario, ampia pubblicità ai processi intentati agli
esponenti della vecchia politica. Berlusconi era un imprenditore
essenzialmente edile che era riuscito ad acquistare quasi tutte le televisioni
private fondendole in un’unica società, che divenne forte concorrente della
RAI. Per presentarsi come candidato, Berlusconi dovette ricorrere a uno
stratagemma. In qualità di concessionario delle reti televisive da parte dello
stato, per legge egli non avrebbe potuto candidarsi. Sostenne, falsamente,
che la concessione non era stata data a lui ma al suo sodale Fedele
Confalonieri. Va’ a sapere perché tutti i partiti superstiti chiusero un occhio
e così Berlusconi, presentatosi come l’uomo nuovo, venne eletto a furor di
popolo. Ma come imprenditore aveva parecchi scheletri nell’armadio, che
cominciarono a venire fuori quando prese il potere. Iniziarono a fioccare
contro di lui accuse di vario genere, sempre inerenti alla sua attività di
imprenditore. Allora Berlusconi si difese usando proprio la sua autorità. I
ministri della giustizia che si susseguirono nei suoi governi promulgarono
leggi retroattive che dichiaravano non perseguibili alcuni reati di cui
Berlusconi si era macchiato. Fu un diluvio di leggi ad personam. Dopo
molti anni, circa venti, il consenso per Berlusconi cominciò a declinare, ma
a costringerlo alle dimissioni furono le disastrose condizioni economiche in
cui l’Italia si stava venendo a trovare in seguito alla crisi, scatenata da
alcuni grossi fallimenti bancari accaduti negli Stati Uniti. I guasti prodotti
dai vari governi Berlusconi e quelli creati dal rimbalzo della crisi americana
ridussero l’Italia come alla fine del secondo dopoguerra. Dovettero chiudere
migliaia di fabbriche e di piccole industrie, la disoccupazione, soprattutto
femminile e giovanile, raggiunse vertici insostenibili. In sostanza, solo in
quest’ultimo anno, nel 2017-2018, si comincia a intravvedere una ripresa
sia pure ancora troppo gracile.
E questo, ti confesso, è un rimorso che mi porto appresso. Cioè a dire che
forse, personalmente, avrei potuto fare di più per non lasciare a voi un
avvenire incerto e oscuro. Quando ho espresso questo mio rincrescimento,
qualcuno mi ha domandato:
“Ma cosa avresti potuto fare tu?”
Allora io gli ho risposto raccontandogli una favola che mi fece conoscere
un intellettuale senegalese.
Nella foresta scoppia un enorme incendio. Dopo un po’ gli animali che vi
abitano si rendono conto che quell’incendio divamperà sempre di più, finirà
per distruggere la foresta e loro stessi se non scappano via subito. Si danno
tutti a una fuga disperata. L’ultimo a fuggire è il leone perché, essendo il re
degli animali, si sente in dovere di abbandonare per ultimo quel luogo. Ma,
quando sta per uscire dall’inferno di fiamme, vede un piccolissimo uccello,
un colibrì che vola verso la foresta incendiata avendo sul petto una piccola
goccia di acqua. Stupito il leone gli chiede:
“Ma perché vai verso l’incendio?”
E il colibrì, mostrandogli la goccia d’acqua, ribatte:
“Vado a fare la mia parte.”
Ecco, forse avrei dovuto fare come il colibrì, non rassegnarmi
all’incendio.
Ti ho accennato, all’inizio di questa lettera, a quello che ritengo il
fallimento o quasi dell’Unione Europea. Il primo a porre sul tappeto
l’ipotesi di una Europa unita era stato nel 1922 il conte Coudenhove-
Kalergi, il quale aveva pubblicato un libro-manifesto che proponeva una
unione fondata su basi tecnologiche più che politiche. In realtà si trattava di
un’ipotesi alquanto utopistica. Assai più concreto e realizzabile fu invece il
cosiddetto Manifesto di Ventotene, che negli anni 1941-44 Altiero Spinelli,
un antifascista condannato al confino proprio per il suo credo politico,
compose con la collaborazione di Ernesto Rossi. Spinelli auspicava
un’autentica federazione di stati (un po’ come gli Stati Uniti d’America),
che avesse un governo democratico, nominato da un parlamento costituito
da rappresentanti di tutte le nazioni eletti a suffragio universale. Il governo
europeo, secondo Spinelli, avrebbe dovuto porre la sua maggiore attenzione
sui problemi economici della federazione e sulla politica estera. Il
manifesto, che circolò prima in segreto suscitando l’interesse di molti
intellettuali e politici, fu poi pubblicato in volume sempre clandestinamente
nel 1944 a cura e con l’introduzione del filosofo Eugenio Colorni, pochi
mesi prima che questi venisse assassinato dai fascisti. Come vedi, mia cara,
si trattava di un’idea di Europa completamente opposta a quella esposta nel
’42 da Baldur von Schirach che mi aveva terrorizzato. Nell’immediato
secondo dopoguerra furono molti gli uomini politici che cominciarono a
porre le basi per rendere concreta quella che poteva sembrare un’utopia. In
prima linea si vennero a trovare uomini di idee politiche diverse ma uniti da
quell’ideale: da De Gasperi a Einaudi, da Adenauer a Brandt e tantissimi
altri.
Fu sul finire del Novecento che finalmente si poté parlare di unità
europea, però le nazioni aderenti (tra cui Italia, Francia, Germania, Belgio,
Olanda, Gran Bretagna) non riuscirono ad accordarsi su una Costituzione
comune. Si opposero soprattutto la Francia e l’Olanda e questo rappresentò
il peccato originale dell’Unione, che ne determinò una sostanziale fragilità,
perché una Costituzione largamente condivisa è la vera spina dorsale di
ogni comunità. E allora pur di realizzare l’Europa si preferì mettere da parte
il problema, estendere l’Unione a nuovi paesi e lavorare sull’unità
monetaria.
Fu deciso che l’Unione europea si sarebbe data una moneta unica,
governata da una Banca centrale europea secondo i criteri con cui era stato
governato fin lì il marco tedesco. Questo provocò immediatamente una
grossa difficoltà nei paesi, come il nostro, abituati a una moneta debole,
svalutata periodicamente. La prima nazione a non reggere la cosiddetta
“politica dell’austerità” fu la Grecia, e perciò venne sottoposta dai suoi
fratelli europei a un severo regime di restrizioni. La drammatica
conseguenza fu che, per pagare il suo debito all’Europa, la Grecia dovette
ridursi letteralmente alla fame. Ci furono giornate tragiche nelle quali la
nazione greca rischiò il fallimento, senza che l’Europa allentasse il rigore
dei nuovi criteri di finanza pubblica. Per restare nel sistema monetario
europeo i greci dovettero pagare un prezzo carissimo.
Ecco, devo dirti, mia cara pronipote, che allora mi fu chiaro che l’Europa
nella quale viviamo non aveva per niente preso dagli ideali espressi nel
Manifesto di Ventotene. Lasciando morire la Grecia, l’Europa compiva ai
miei occhi un autentico matricidio perché tutta la nostra cultura filosofica,
letteraria, scientifica, artistica, quella della quale ancora oggi ci nutriamo, è
nata ad Atene e dintorni.
Non credo che questa Europa possa sopravvivere a lungo se non cambia
radicalmente molte delle sue leggi.
Inoltre il fenomeno odierno delle migrazioni ha fatto riemergere con
prepotenza gli egoismi nazionali. Alcuni paesi, soprattutto quelli dell’Est,
sospendendo il trattato di Schengen (che aveva abbattuto le frontiere e
consentito una libera circolazione delle persone e delle merci quale mai si
era conosciuta prima), hanno alzato nuove mura e rinforzato i propri
confini. L’Austria ha addirittura minacciato di mandare i carri armati al
Brennero. La crisi è molto grave e non se ne vedono attualmente possibili
soluzioni.
Perché ti dico questo? Perché non so se, quando tu leggerai queste righe,
l’Europa sarà scomparsa o avrà finalmente ritrovato una sua unità. Nel
secondo caso non ho nulla da dirti, sarei pieno di gioia per te e per tutti i
cittadini europei. Nel primo caso invece mi farebbe felice l’idea che siate
voi giovani a ricostruire l’Europa su nuove basi perché vedi, mia cara,
malgrado tutte le belle parole degli ultimi anni le rivalità nazionali hanno
continuato a esistere e a mostrarsi qua e là in tutta la loro evidenza. Ora
basta un niente perché queste rivalità possano tramutarsi in un conflitto. Gli
unici dati positivi che io riconosco all’Europa di oggi sono quelli che tra le
nostre nazioni non ci sono più guerre guerreggiate e che quindi non potrà
mai più ripetersi l’orrore di milioni di morti. È solo per questo che gli
europei hanno, a mio parere, il dovere di superare tutti i problemi, le
avversità, le situazioni che si frappongono al cammino verso un’Europa che
abbia un comune ideale, una comune moneta, una comune politica estera,
una comune politica nei riguardi dell’altra parte del mondo.

L’11 settembre 2001 accade negli Stati Uniti qualcosa di così


imprevedibile, straordinario, impensabile da sembrare un film di
fantascienza. Quattro aerei passeggeri che sono in volo verso destinazioni
diverse vengono fatti dirottare da gruppi di terroristi armati.
Uno precipita, il secondo si lancia proprio sul cuore del comando militare
degli Stati Uniti, il Pentagono, e gli altri due vanno a schiantarsi ognuno
contro una delle due Torri gemelle di New York.
Gli attacchi terroristici vengono attribuiti a un’organizzazione islamica
chiamata Al Qaeda e capeggiata da Osama Bin Laden.
(Piccola digressione: un giornale italiano scrisse che erano stati colpiti i
simboli della nostra civiltà. Lette queste parole, mi sentii in dovere di
controbattere pubblicamente che io, pur deprecando il folle gesto, non
riconoscevo le due torri come simbolo della nostra civiltà e che invece i
miei simboli erano semmai l’Acropoli di Atene, il Colosseo e magari la
Tour Eiffel. Venni subissato da ingiurie.)
L’America reagì come non avrebbe mai dovuto. Prima attaccò
l’Afghanistan, dove pensava si fosse rifugiato Bin Laden, e subito appresso
attaccò l’Iraq, che era governato dal dittatore Saddam Hussein. Per
giustificare questo secondo attacco il governo degli Stati Uniti non esitò a
ricorrere a menzogne degne di Pinocchio. Il segretario di stato americano
mostrò al mondo una fialetta contenente una polverina giallastra che
spacciò per antrace, un batterio letale, sostenendo che Hussein ne disponeva
con larghezza. Insomma, si presentò il capo dell’Iraq come un pericolo per
l’intera umanità; credo che in questo momento nasca la “strategia della
paura” di cui siamo tutti ancora vittime. La guerra in Iraq finì dopo qualche
anno con una mezza vittoria degli americani, ma aprì un grossissimo
problema: Saddam Hussein con il suo potere dittatoriale era riuscito a
tenere unita la popolazione, che si componeva di due gruppi contrapposti, i
sunniti e gli sciiti. L’esecuzione per impiccagione di Saddam segnò il
rinfocolarsi degli scontri fra queste due fazioni. Gli Stati Uniti, qualche
anno dopo, decisero di intervenire in Siria, dove il dittatore Assad
reprimeva con violenza estrema gli appartenenti ai partiti di opposizione.
L’intervento americano provocò la reazione russa, turca e dell’Europa e
soprattutto il dissesto geografico, politico, economico della Siria. Quando
gli americani decisero di non continuare più la guerra contro Assad,
lasciarono liberi sul campo migliaia di guerriglieri che a loro si erano
associati. Di questa situazione approfittò il califfo al-Baghdadi, che creò ex
novo uno stato non riconosciuto da nessuno, il cosiddetto Califfato, che
aveva come basi principali due città: Mosul e Raqqa, una in Iraq e l’altra in
Siria. Da questo momento in poi il Califfato ha proclamato una guerra, che
continua tuttora, ma non si capisce sinceramente contro cosa sia diretta,
perché non solo usa il terrorismo contro le città europee ma commette
sanguinose azioni anche contro gli stessi musulmani. Si tratta di un
terrorismo del tutto particolare, che vuole colpire il sistema di vita
occidentale. Inoltre quasi tutti i terroristi sono dei kamikaze, disposti a farsi
saltare in aria con una cintura imbottita di esplosivo provocando così altre
vittime al momento del suicidio. In breve, siamo diventati tutti vittime della
psicosi dell’attentato, tanto che il nuovo presidente statunitense Trump ha
emanato una serie di leggi che limitano o addirittura negano l’ingresso negli
Stati Uniti a cittadini appartenenti a un determinato numero di paesi arabi.
Tale situazione, di per sé tragica, è stata aggravata dal fatto che intere
popolazioni africane coinvolte in queste guerre, tanto più crudeli in quanto
fratricide, hanno cercato scampo nell’emigrazione verso l’Europa.
Oltretutto, l’Africa subsahariana era da tempo in preda a guerre tribali
non si sa quanto fomentate da interessi europei. Già alla fine degli anni
novanta, un qualsiasi politico accorto avrebbe dovuto rendersi conto che da
lì a poco decine di migliaia di eritrei, kenioti, etiopi, nigeriani, siriani,
afghani, iraniani si sarebbero riversate come un torrente in piena in Europa.
Trattandosi in grandissima parte di povera gente, sono stati costretti ad
attraversare il Mediterraneo su mezzi di fortuna e del tutto precari. Perciò,
in breve, il Mediterraneo ha cominciato a essere, come diceva un grande
trageda greco, “fiorito di cadaveri”.
In questi ultimi anni migliaia di uomini, donne e bambini hanno perso la
vita, vittime prima di ignobili sfruttatori e poi dei rischi di una traversata
compiuta senza alcuna precauzione. Certo, l’Italia si è data molto da fare
nel salvataggio in mare di migliaia e migliaia di esseri umani, ma sta
pagando un prezzo durissimo perché la sua azione è stata sempre e
continuamente indebolita da un’opaca sordità dell’Europa tutta. Non solo
sordità ma addirittura egoismo esplicito. Quando si è tentato di assegnare a
ogni nazione europea una certa quota di migranti, il rifiuto è stato generale,
fatta eccezione per la Germania, la quale da sola ha accolto oltre un milione
di profughi siriani. A muovere questo rifiuto dell’accoglienza credo che
siano state due ragioni. La prima è di ordine economico: questa gente non
ha lavoro e, in un’Europa in crisi, l’arrivo di milioni di disoccupati non può
che accrescere il disagio nazionale; in secondo luogo ritengo che abbia un
ruolo rilevante una irrazionale paura dell’altro. Oltretutto, con molta abilità,
i partiti di destra hanno fatto falsamente coincidere l’immigrazione con il
terrorismo, aumentando così il tasso di paura. Si tratta, torno a ripeterlo, di
una falsità ampiamente dimostrata dai fatti. È molto difficile che un
terrorista si imbarchi su un gommone rischiando la vita e quindi il
fallimento della sua missione. Si è scoperto invece che oltre il 90% dei
terroristi, tra cui quelli che hanno agito in Francia, in Inghilterra e in Belgio,
erano cittadini di questi paesi e figli di gente da gran tempo immigrata.
Il nemico quindi non viene da fuori con gli immigrati, ma è già sul posto
dove è nato, è cresciuto ed è stato educato. Alzare muri significa chiudersi
in casa con lo stesso nemico. E poi, in nome di cosa chiudiamo la porta in
faccia a chi fugge dagli orrori della guerra e della fame?
Noi italiani siamo stati un popolo di emigranti, a milioni ci siamo dispersi
nel mondo, dagli Stati Uniti alla Germania al Belgio, e sappiamo quanto
costi abbandonare il proprio paese, i propri cari, le proprie abitudini.
L’“altro” sei tu che ti guardi allo specchio. L’“altro” sei tu. Come erano
altri gli italiani emigranti.
E non bisogna avere paura, innanzitutto perché non ce n’è motivo e poi
perché questi migranti spesso contribuiscono, e di molto, alla crescita di un
paese.

Ti voglio raccontare, in proposito, un episodio personale.


Nel 2001, decisi di prendermi una vacanza e trascorrere una settimana a
Vienna dove non ero mai stato. Con me vennero Rosetta e Mariolina, la
figlia più piccola. Una mattina decidemmo di andare al Museo di storia
dell’arte. Davanti alla famosa Torre di Babele di Bruegel sostammo per un
po’. A un tratto, senza alcun preavviso, sentii come se un maglio
pesantissimo cominciasse a premere sulla mia testa, aprii la bocca, volevo
dire ai miei “Mi sto sentendo male”, invece mi uscirono fuori delle parole
prive di senso. In una frazione di secondo percepii lucidamente che stavo
perdendo la possibilità di parlare e in quel preciso momento tutti i capillari
della mia testa esplosero sotto la pressione di quel maglio. Il sangue
cominciò a sgorgarmi dal naso a fiotti tanto che dovevo continuamente
inghiottirne buona parte per non restare soffocato. Uscimmo, cominciammo
a traversare il parco, io ormai avevo i vestiti completamente imbrattati di
sangue e l’epistassi non accennava a fermarsi, anzi. Allora mia figlia corse
alla ricerca di un taxi, mia moglie mi accompagnò fino all’uscita del parco,
correndo anche lei alla ricerca di un aiuto. Io rimasi solo. La gente – i
buoni, civili, austriaci – passava davanti a me e mi guardava ma nessuno in
quella via affollatissima mi si avvicinò per chiedermi se avevo bisogno di
aiuto, anzi alcuni, nel vedere che continuavo a perdere sangue, si
scostavano disgustati. Fu allora che davanti a me comparve un arabo, un
venditore di cianfrusaglie, un pezzente, che aveva a tracolla una grande
scatola di metallo. Si levò la scatola di corsa dalle spalle, la poggiò a terra,
mi ci fece sedere sopra, con un fazzoletto che estrasse dalle tasche tentò di
tamponarmi il sangue non riuscendoci, allora mi disse in una lingua che non
conoscevo ma che capii lo stesso di aspettarlo lì un momento, corse via,
tornò con una sciarpa bagnata di acqua gelida che usò per pulirmi la faccia,
cercò di metterla alla radice del naso per tamponarmi il sangue, non ci
riuscì, ogni tanto mi faceva una carezza sul volto dicendomi parole che
capivo essere di incoraggiamento. Finalmente arrivò un taxi con dentro
Rosetta e Mariolina, io mi alzai, cercai in tasca, trovai un biglietto da
cinquantamila lire, glielo porsi, rifiutò con grandissima dignità e disse,
avendomi sentito parlare in italiano con i miei:
“Io solo amico.”
Si riprese la cassetta e se ne andò.
Questo è “l’altro”.

Cambio discorso e torno a parlarti della corruzione che purtroppo


attanaglia ancora il nostro paese e ha finito con il toccare di nuovo la
politica; però, mentre prima la corruzione era giustificata come
sovvenzionamento illecito ai partiti, ora essa è diventata un modo personale
per mettersi in tasca dei quattrini non dovuti. Oggi per le opere pubbliche,
ad esempio, sembra trascorrere un’eternità prima che giungano a
compimento. Ciò è fatto a bella posta affinché i costi lievitino fino a tre o
quattro volte il preventivato. E poi spesso al danno si aggiunge la beffa. Un
ponte, una scuola, un cavalcavia inaugurati solennemente tre mesi prima
crollano all’improvviso perché realizzati con materiale scadente.
Anche io, nel mio piccolo, sono stato oggetto di un tentativo di
corruzione. Un giorno venne nel mio ufficio alla RAI un produttore
discografico per propormi di mettere una certa canzone come sigla iniziale
di una trasmissione molto seguita. Gli risposi che arrivava tardi e che avevo
disposto diversamente. Qualche giorno dopo fui invitato a cena da alcuni
amici e con grande sorpresa trovai seduto alla mia sinistra quel produttore,
della cui presenza non ero stato avvertito. Durante la cena si parlò di diversi
argomenti. Tornato a casa, nel levarmi la giacca vidi nella tasca sinistra una
grossa busta. Ero sicuro di non avercela messa io. La tirai fuori, conteneva
cinquecentomila lire in contanti. Capii subito che me l’aveva inserita in
tasca quel produttore. Caddi in preda a una violenta rabbia: mi sentivo
offeso, offeso che qualcuno avesse potuto pensare di me che io fossi una
persona corruttibile. L’indomani lo chiamai nel mio ufficio, gli restituii la
busta e lo pregai di non farsi più vedere.
C’è stata un’altra occasione, assai diversa, che ha provocato in me uno
scatto di rabbia incontenibile. Il 21 settembre 1986 ero tornato al mio paese
per qualche giorno. Quella sera, era domenica, siccome aveva fatto un caldo
afoso e nel pomeriggio aveva piovuto rinfrescando, la gente si era riversata
per strada come per una festa. Io decisi di andare a bere un whisky in un
bar, i tavolini del locale erano stati trasportati fuori e disposti lungo il
marciapiede. Oltre il marciapiede c’erano parecchie macchine posteggiate.
Per un attimo sostai sulla porta ordinando da bere al barista, stavo a
guardare la gente che passeggiava. Dall’interno del bar uscì un signore che
conoscevo e mi invitò a sedere fuori per presentarmi a suo padre e a un suo
amico. Risposi di sì. Mentre lui si avviava al suo tavolo, io misi un piede
dentro il bar per andare a prendere il mio bicchiere, ma mi fermai di colpo
perché vidi che tutte le bottiglie che erano disposte dietro al banconista
esplodevano letteralmente, un secondo dopo sentii come un rabbioso
abbaiare di piccoli cani e capii immediatamente che quelli erano spari di
mitragliette in azione. Uscii e mi trovai di fronte a uno spettacolo
incredibile. Sei morti giacevano per terra, tra loro anche il signore che mi
aveva invitato al suo tavolo e decine di feriti che urlavano e gridavano. Mi
ritrovai nel mezzo di una strage di mafia. Ecco, fui travolto da questa rabbia
che non so spiegarmi, rientrai, dissi al cassiere di darmi il suo revolver
(glielo avevo visto nel cassetto della cassa), ma lui me lo negò. Allora,
sempre in preda a quella rabbia incontrollabile, urlando “Assassini! Porci!”,
andai di nuovo fuori. Appena all’aperto, mi spararono addosso. Sentii i
colpi fischiare attorno a me, ebbi la presenza di spirito di buttarmi per terra
dietro a un’automobile. E così me la cavai. La rabbia era tale che tremavo
tutto e non riuscivo a parlare. Il barista tentò di rassicurarmi dicendo:
“Stia calmo, non abbia paura, ora è finito tutto.”
Ma non si trattava di paura. Ecco, io penso che questa rabbia sia
provocata dal fatto che per me ogni forma di coartazione della volontà
altrui, sia attraverso la corruzione sia attraverso l’uso delle armi, costituisce
l’offesa più profonda che si possa fare all’uomo. Levargli cioè la libertà di
decidere di testa propria. Privarlo del suo bene maggiore: la libertà di
pensiero.
E la mafia in Italia, attraverso la sua strategia di paura, di intimidazione
(pensa che il ricorso alla strage era diventata di uso quasi quotidiano), stava
per minare le basi stesse del nostro stato.

Mi avvio alla conclusione di questa lettera. Non vorrei che ti facessi di


me un’idea errata.
Anche io ho commesso errori, anche io ho sbagliato, ma ho sbagliato,
credimi, non sapendo di sbagliare. Certe volte ho avuto torto, però quando
me ne sono reso conto, ho domandato scusa.
Anche io, soprattutto nel periodo della giovinezza, ho detto delle
menzogne. Menzogne, attenzione, non falsità. Poi ho smesso e ho detto
sempre la verità, non per un fatto etico ma perché avevo potuto
sperimentare che dire la verità era il modo più comodo per uscire da certe
situazioni incresciose. La menzogna, per poterla sostenere nel tempo,
comporta la necessità di dire altre menzogne e ci fa entrare così in un
labirinto tortuoso che sembra non avere vie di uscita. La verità invece è
come un punto fermo. Oltre non si può andare. Può produrre situazioni di
rottura, può produrre la fine magari di un’amicizia o di un rapporto di
lavoro ma comunque non può avere un seguito. La verità è sempre una.
Altra idea errata che tu potresti farti leggendo queste mie parole è che
l’età mi abbia reso alquanto pessimista. Non è così, io non patisco
dell’“umor nero del tramonto” di cui scriveva Alfieri. Credo di non avere
nessun rimpianto per il tempo passato, non ho mai detto la frase che è sulla
bocca di molte persone di età avanzata, quella che comincia con “Ai miei
tempi…”, anzi credo che la vecchiaia mi stia dando un certo ottimismo. Il
fatto è che io credo nell’umanità, io ho fiducia nell’uomo.
C’è stato un filosofo del Novecento che ha detto che una volta esistevano
degli eroi da prendere a modello e che oggi non esistono più in quanto
l’eroe dell’uomo d’oggi è diventato proprio l’uomo comune. Un uomo
comune che sa come la sconfitta, lo scacco, possa nascondersi dietro
l’angolo, ma che ha piena coscienza di questo e continua lo stesso ad andare
avanti.
Ai molto giovani, che mi vengono a trovare in questi ultimi tempi
domandando consigli, io rispondo che hanno un preciso dovere: quello di
fare tabula rasa di noi. Noi oggi siamo dei morti che camminano. Morti nel
senso che le nostre idee, le nostre convinzioni appartengono a un tempo che
non ha futuro, quindi “lasciate che i morti seppelliscano i morti”.
I giovani hanno in loro la capacità di far questa tabula rasa e di ridare
alla politica la sua etica perduta, hanno la possibilità di dare un senso
diverso e nuovo alla vita in comune, hanno la possibilità di far risorgere il
nostro paese non solo economicamente ma infondendo la forza trascinante
di un ideale nuovo. Sono certo che questa mia fiducia non sarà tradita.

Che altro dirti di me? Non sono in condizioni di suggerirti qualcosa


sull’uso della tua vita. Come usare della propria vita, lo si impara solo
vivendola.
Io mi sono fatto l’idea che all’atto della nostra nascita, avvenuta al di
fuori della nostra volontà, ci venga applicato addosso un invisibile foglietto,
un ticket, sul quale c’è stampato tutto il nostro futuro, l’infanzia, la
giovinezza, la maturità, le malattie, le disavventure, la vecchiaia, la morte.
È tutto scritto. A me, ad esempio, è toccata la cecità a novant’anni. Non è
stato per niente facile, potevo decidere di lasciare andare tutto, compreso
me stesso, e invece proprio per questa fiducia nell’uomo e quindi in me ho
saputo trovare un modo di reagire. La stessa posizione ho verso la morte:
non ho paura di morire, mi dispiace solo enormemente di dover lasciare le
persone che più amo.
Che cosa posso ancora aggiungere? Ho imparato pochissime cose e te le
dico.
La prima è che il lupo non è, come ti hanno detto nelle favole, cattivo. Il
lupo non è né cattivo né buono, sono aggettivi che noi gli applichiamo
addosso mentre lui ne è totalmente ignaro; il lupo azzanna solo quando ha
fame. L’uomo azzanna non per fame ma per invidia, per gelosia, per rivalità
e questo, a differenza del lupo, lo rende colpevole.
Altra cosa che ho imparato è che sicuramente due più due non fa quattro;
l’esperienza mi ha insegnato che due più due può fare tre o addirittura
cinque. Che significa?, ti chiederai. Be’, lo apprenderai appunto dalla vita.
Ad esempio, spesso alla fine di un processo chi ne esce assolto o
condannato ti fa nascere il dubbio che due più due non faccia quattro.
Colgo al volo l’occasione per dirti che non sono mai stato capace di
esprimere giudizi assoluti sull’operato di qualcuno. Ho sempre nutrito molti
dubbi. Molto tempo fa venni chiamato al Palazzo di Giustizia a Roma e lì
un cancelliere mi comunicò che il mio nome era stato sorteggiato quale
giudice popolare per le corti d’assise. Mi sentii impallidire:
“Posso rifiutare?”
“No, impossibile.”
Mi vennero quasi le lacrime agli occhi.
“Senta, ma io non sono capace di giudicare nessuno.”
Mi guardò, spalancò le braccia:
“Cosa vuole che le dica? Lei non può rifiutarsi.”
A questo punto due lacrime mi colarono dagli occhi, lui mi guardò
sorpreso. Disse:
“Ma davvero giudicare un altro le fa tanta paura?”
Io risposi:
“Sì, non ne sono capace, mi creda.”
Allora lui si mosse a compassione, mi suggerì:
“Una via di uscita ci sarebbe.”
Mi aggrappai a quelle parole come un naufrago si aggrappa a un pezzo di
legno:
“Qual è? Per favore, me lo dica.”
“Lei è un dipendente dello stato?”
“No,” risposi.
“La via sarebbe questa,” disse, “che lei domani mi portasse un certificato
di uno psichiatra che sostiene che lei non sta proprio bene come sanità
mentale, mi sono spiegato?”
“Si è spiegato benissimo,” esclamai esultante.
Nel giro di poche ore trovai un amico psichiatra, e l’indomani con il suo
referto medico mi presentai al cancelliere, lui lo lesse, mi guardò: “Tutto a
posto”, mi disse. Io lo salutai ma gli avrei voluto baciare le mani e così,
negli archivi giudiziari, sono schedato come pazzo.
L’ultima cosa che ho imparato consiste nell’avere necessariamente
un’idea, chiamala pure ideale, e a essa attenersi fermamente ma senza
nessuna faziosità, ascoltando sempre le idee degli altri diverse dalle proprie,
sostenendo le proprie ragioni con fermezza, spiegandole e rispiegandole, e
magari perché no, cambiando la propria idea.
Ricordati che, sconfitta o vittoriosa, non c’è bandiera che non stinga al
sole.

E ora dimmi di te.

Roma, agosto 2017


INDICE

Ora dimmi di te. Lettera a Matilda

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