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Ora dimmi di te
Cosa rimarrà di noi nella memoria di chi ci ha voluto bene? Come verrà
raccontata la nostra vita ai nipoti che verranno?
Andrea Camilleri sta scrivendo quando la pronipotina Matilda si intrufola a
giocare sotto il tavolo, e lui pensa che non vuole che siano altri – quando lei
sarà grande – a raccontarle di lui.
Così nasce questa lettera, che ripercorre una vita intera con l’intelligenza
del cuore: illuminando i momenti secondo il ruolo che hanno avuto nel
rendere Camilleri lo scrittore e l’uomo che tutti amiamo.
Uno spettacolo teatrale alla presenza del gerarca Pavolini e una strage di
mafia a Porto Empedocle, una straordinaria lezione di regia all’Accademia
Silvio D’Amico e le parole di un vecchio attore dopo le prove, l’incontro
con la moglie Rosetta e quello con Elvira Sellerio...
Con humour e limpidezza, queste pagine ripercorrono la storia italiana del
Novecento attraverso quella di un uomo innamorato della vita e dei suoi
personaggi. Ogni episodio è un modo per parlare di ciò che rende
l’esistenza degna di essere vissuta: le radici, l’amore, gli amici, la politica,
la letteratura. Con il coraggio di raccontare gli errori e le disillusioni, con la
commozione di un bisnonno che può solo immaginare il futuro e
consegnare – a Matilda e a noi – la lanterna preziosa del dubbio.
L’autore
Andrea Camilleri
Andrea Camilleri è nato a Porto Empedocle il 6 settembre 1925.
Padre del Commissario Montalbano e di innumerevoli altri personaggi e
racconti, tradotto in tutto il mondo, dopo una vita dedicata al teatro è
diventato il più amato scrittore italiano. Per le edizioni Bompiani ha curato
Un onorevole siciliano. Le interpellanze parlamentari di Leonardo
Sciascia.
ASSAGGI
Fotografia dell’autore: © Lia Pasqualino.
In copertina: Mariolina Camilleri – Elaborazione da una foto di Matilda.
Progetto grafico: Polystudio
www.giunti.it
www.bompiani.it
ISBN 978-88-587-8004-6
Sono nato nel 1925 a Porto Empedocle, un piccolo paese nel Sud della
Sicilia. La popolazione era in massima parte costituita da pescatori, operai
portuali, carrettieri, contadini. Pochissimi i piccoli impiegati, ancor meno i
commercianti. Quando andai alla prima elementare mi trovai in una classe
di coetanei che vivevano quasi tutti in condizioni di semipovertà. Pensa che
i figli dei contadini venivano a scuola con le scarpe appese al collo per non
consumarle e se le mettevano solo quando entravano in classe. Credo di non
essere mai riuscito a mangiare per intero la merendina che mamma ogni
mattina mi metteva dentro la cartella. La dividevo quasi sempre con gli
altri, non potendo sopportare lo sguardo invidioso e affamato dei miei
compagni.
Quando nacqui, da tre anni Benito Mussolini era il capo del governo
italiano e stava rapidamente assoggettando il paese al regime della dittatura
fascista. Siccome credo che questo termine, “fascista”, ti riuscirà alquanto
difficile da capire, provo a raccontarti quello che è successo in quegli anni.
La fine, per noi vittoriosa, della Grande guerra nel 1918 avrebbe,
teoricamente, dovuto apportare in Italia un periodo di tranquillità
economica e sociale. Invece le cose andarono diversamente. I soldati che
tornavano dal fronte trovavano difficilmente lavoro, perché la
trasformazione in industria di pace di quella che era stata per molti anni
industria bellica non era riuscita in tempi rapidi. Anche la situazione tra
datori di lavoro e lavoratori era apertamente conflittuale. Di tutte le
promesse fatte ai soldati durante la guerra, non ne era stata mantenuta
nemmeno una. Frequentissimi erano gli scontri di piazza tra polizia e reduci
e tra polizia e operai. Fu così che i grandi proprietari terrieri del Centro-
Nord e alcune importanti industrie decisero che era indispensabile un
ritorno all’ordine. Ma ci voleva una persona che avesse il carisma
necessario e che potesse essere totalmente fedele al mandato che gli
avrebbero affidato. La loro scelta cadde su un ex dirigente socialista, ex
direttore del quotidiano del Partito socialista “Avanti!”. Il suo nome era
Benito Mussolini: era stato ardentemente favorevole alla guerra e poi
combattente in prima linea. In breve Mussolini raggruppò attorno a sé tutti
gli ex combattenti e quella parte della borghesia che vedeva nel
malcontento operaio un pericolo reale. Ispirandosi alla simbologia degli
antichi romani, fondò i Fasci di combattimento, i cui aderenti indossavano
una camicia nera, erano armati di manganello e inclini alla violenza. Furono
detti “squadristi”. In poco tempo molte sedi di organizzazioni socialiste
vennero date alle fiamme, e ci furono violenti scontri con morti da ambedue
le parti. Nel 1921 avvenne inoltre una scissione tra gli stessi socialisti e
nacque così il Partito comunista d’Italia, il cui primo segretario fu Antonio
Gramsci. I comunisti divennero il bersaglio preferito dei fascisti.
Nel 1922 Mussolini capì che poteva contare sull’appoggio della grande
maggioranza della popolazione italiana. In questo modo, il 28 ottobre dello
stesso anno, con migliaia di aderenti al suo partito, marciò su Roma. La
situazione era gravissima. Alle porte della capitale, i fascisti si trovarono
davanti le truppe dell’esercito italiano. A questo punto la guerra civile era
inevitabile. Il primo ministro Facta andò dal re perché venisse proclamato
lo stato d’assedio, in altri termini l’autorizzazione per le truppe di sparare
sui fascisti. Da quello scontro il fascismo sarebbe sicuramente uscito
annientato; invece, con una decisione imprevista il re non solo non firmò lo
stato d’assedio, ma addirittura accolse Benito Mussolini al Quirinale,
dandogli l’incarico di formare il nuovo governo. Qui Mussolini dimostrò
una certa furberia politica, infatti di questo suo primo governo fecero parte
anche liberali, democratici e socialisti. Ma tutto questo durò pochissimo
tempo, e ben presto si capì che Mussolini aspirava a essere un uomo solo al
comando. La situazione si aggravò nel 1924, quando venne assassinato il
deputato socialista Giacomo Matteotti, che era uno dei più lucidi e
coraggiosi avversari di Mussolini. Di fronte a questo assassinio politico
buona parte del paese reagì negativamente e Mussolini vide traballare il suo
potere, però con l’aiuto dei suoi squadristi più facinorosi e violenti in breve
tempo seppe consolidare la propria posizione.
Da quel momento in Italia il fascismo si tramutò in un’autentica dittatura.
Mussolini sciolse parlamento e senato creando la camera dei fasci e delle
corporazioni composta da uomini a lui fedelissimi, proibì la pubblicazione
di giornali appartenenti all’area della sinistra, fece arrestare Antonio
Gramsci (lasciandolo poi praticamente morire in carcere), fece cessare con
la violenza ogni manifestazione di dissenso. Aveva bisogno di giovani per
le sue mire espansionistiche e così iniziò una politica demografica quasi
dissennata, premiando le famiglie che avevano più figli, non facendo pagare
le tasse ai giovani sposi che entro un anno avrebbero dato, come si diceva
allora, “un figlio alla patria”, imponendo una tassa sul celibato. Fatti salvi
pochi politici che scapparono all’estero, si verificò un curioso fenomeno,
vale a dire che il fascismo rapidamente conquistò il favore di quasi tutti gli
italiani. Poi Mussolini strinse ancora la cinghia, volle che tutti i dipendenti
dello stato facessero giuramento di fedeltà al regime fascista e ne
prendessero la tessera. Tutti, dico tutti i dipendenti statali, dai maestri delle
scuole elementari ai docenti universitari, dai magistrati agli uscieri,
obbedirono all’ordine. Va detto a loro merito eterno che solo ventiquattro
professori universitari non vollero giurare e perciò furono dimessi dalla
cattedra. Nel 1925, quando, come ho detto, io nacqui, il fascismo era già
una consolidata dittatura. Aveva inquadrato tanto i bambini quanto i ragazzi
in organizzazioni paramilitari. Il sabato indossavamo la divisa fascista e
andavamo a fare le esercitazioni. Io appartenevo all’Opera nazionale
Balilla; il nostro motto era “Libro e moschetto, fascista perfetto”, ma in
realtà i miei compagni leggevano pochissimi libri o non leggevano affatto.
Io invece costituivo un’eccezione. A cinque anni avevo imparato a
leggere e a scrivere con l’aiuto di mia madre e della nonna materna Elvira;
a sei anni avevo già messo mano alla libreria di mio padre che era molto
ben fornita. Così cominciai a leggere non i libri dei bambini o dei ragazzi
ma quelli degli adulti, i romanzi importanti. Le mie prime letture furono
infatti Conrad, Melville e Simenon. Da allora non smisi mai più di leggere.
Non finivo di sorprendermi del modo in cui le parole scritte arrivassero al
mio cervello, quasi che mi fossero state dette a viva voce, era un miracolo
che mi affascinava. A scuola i maestri ci ripetevano ogni giorno le tre
parole d’ordine mussoliniane, “Credere, obbedire, combattere”, e ci
magnificavano l’intelligenza del duce, così si faceva chiamare Mussolini, e
la sua volontà di fare grande l’Italia. Ogni sabato, dopo le esercitazioni,
venivamo portati in chiesa dove il prete ci spiegava il catechismo, ma non
perdeva occasione di ricordarci che il papa aveva definito Mussolini l’uomo
mandato dalla Provvidenza divina e che quindi bisognava seguirlo
ciecamente. Era perciò inevitabile che a dieci anni fossi un fervente fascista,
tanto che, quando Mussolini nel 1935 dichiarò guerra all’Abissinia, io gli
scrissi domandandogli di autorizzarmi a partire come volontario per il
campo di battaglia. Con stupore e gioia ricevetti una lettera in risposta, nella
quale mi diceva che ero ancora troppo giovane.
L’anno seguente, nel ’36, scoppiò una seconda guerra, quella di Spagna,
che fu una specie di spartiacque tra fascisti e antifascisti. Vedi, allora
l’Europa era dominata più dalle dittature che da governi democratici: in
Russia c’era Stalin, in Italia Mussolini, in Germania Hitler, in Portogallo
Salazar. La guerra di Spagna fece emergere un nuovo dittatore, Francisco
Franco. Le uniche due grandi democrazie rimaste tali in Europa erano la
Francia e l’Inghilterra, così fu inevitabile lo scontro tra queste diverse
concezioni e nel ’39 le mire espansionistiche di Hitler fecero sì che
scoppiasse la seconda guerra mondiale.
Quando anche noi italiani entrammo in guerra nel 1940 come alleati di
Hitler, io non ne fui tanto entusiasta perché a casa avevo visto le mie due
nonne piangere silenziosamente. Nella guerra precedente ognuna di loro
aveva perduto un figlio caduto in combattimento. “La guerra,” mi disse
carezzandomi nonna Elvira, “è sempre una cosa maledetta.” Anche papà in
quei giorni girava per casa con il volto rabbuiato e una mattina lo sentii dire
a mamma che la dichiarazione di guerra era stata un atroce errore di
Mussolini. Rimasi allibito. Papà aveva fatto in prima linea la guerra del ’15-
18 e poi era stato un fascista della prima ora. Ma insomma, mi chiedevo tra
me e me, se Mussolini era infallibile come andavano dichiarando i gerarchi,
se Mussolini era l’uomo della Provvidenza mandato da Dio per il bene
dell’Italia, come andavano predicando i preti a scuola, per quale ragione
aveva potuto commettere un simile errore?
Ecco, questa fu la seconda crepa nella mia fede fascista. La prima si era
prodotta poco tempo prima, nel ’38. Mentre stavo a scuola un mio
compagno, che si chiamava Ernesto Pera, alla fine delle lezioni venne a
salutarmi.
“Da domani non ci vedremo più,” mi disse, “non posso frequentare
questa scuola.”
Siccome era figlio di un ferroviere, gli chiesi se il padre fosse stato
trasferito.
“No,” rispose lui, “non posso frequentare più perché sono ebreo.”
E perché un ebreo non poteva più frequentare la mia stessa scuola?
Tornando a casa all’ora di pranzo domandai spiegazioni a papà, che divenne
subito rosso in faccia e con voce alterata affermò:
“Tu non devi credere a queste sciocchezze sugli ebrei; gli ebrei non
hanno nulla di diverso da noi, sono esattamente come noi. Questa storia
della razza è una cosa inventata da Hitler. E Mussolini non ha voluto essere
da meno di lui. Ma non credere a ciò che ti diranno. Siamo tutti uguali.”
Ecco, a novantadue anni devo dire che non finirò mai di essere grato a
mio padre per quelle sue parole.
Due anni dopo scoppiò il ’68, che fu l’anno delle rivendicazioni in tutti i
sensi. I giovani in rivolta volevano una società diversa, la parità tra uomo e
donna, il rispetto delle libertà individuali, un tessuto sociale che avesse
meno smagliature. Così un giorno si presentò a casa mia un gruppo di
allievi del Centro, capitanati da uno dei più grandi attori di quel tempo,
Gianmaria Volonté. Gli allievi del Centro si erano barricati all’interno della
scuola e avevano cacciato via tutti i docenti. Avevano tenuto un’assemblea
per chiamare a insegnare professori di loro gradimento e il primo nome era
stato il mio, il secondo quello di Dario Fo. Mi sentii sinceramente onorato
di quell’invito e accettai. Il primo giorno per accedere al Centro dovetti
superare diversi controlli e sbarramenti di polizia. Nell’atrio della scuola si
trovava su una parete un grande orologio che segnava non solo le ore ma
l’inizio e la fine di ogni lezione. La prima cosa che vidi entrando fu il
povero orologio divelto e gettato in un angolo: era stato sostituito da un
tazebao. Entrai nella classe di regia e vi trovai due o tre allievi che
dormivano dentro i sacchi a pelo, non volli disturbarli e me ne andai in
un’altra classe non senza aver scritto sul tazebao che Camilleri era arrivato
ed era pronto a far lezione. Non si presentò nessuno. Allora attraverso il
tazebao feci sapere che l’indomani mattina alle nove avrei cominciato le
mie lezioni. Il giorno appresso il primo allievo si presentò alle undici, io mi
ero fumato un intero pacchetto di sigarette nell’attesa. Discorremmo un po’
della situazione e me ne andai, dopo aver dato lo stesso appuntamento. Il
giorno dopo si presentarono in due ma non prima delle dieci e mezzo, allora
scrissi sul tazebao quanto segue: “Differenza tra rivoluzionario e cialtrone:
il rivoluzionario strappa l’orologio segnatempo dalla parete e lo distrugge,
però si presenta cinque minuti prima dell’orario della lezione. Il cialtrone
strappa dalla parete l’orologio e si presenta alla lezione con due ore di
ritardo. Domani Camilleri fa l’ultima prova, alle nove è in classe.” Va da sé
che il giorno appresso alle nove mi trovai tutti e cinque gli allievi di regia.
Dall’insegnamento ho ricevuto assai più di quello che ho dato. Mi spiego
meglio: dal confronto continuo tra le mie idee e quelle di un giovane colto,
preparato e intelligente, sentivo di guadagnarci perché nelle mie idee veniva
iniettato come un sangue fresco e diverso; il mio approccio a un testo,
fermo a vent’anni prima, attraverso la lettura fatta da un giovane si
modificava in senso positivo, si rinnovava. L’esperienza fu per me così
eccitante che la mattina andando a fare le mie lezioni mi sentivo come
Dracula, che succhia sangue per mantenersi vivo. Se oggi continuo a essere
curioso dell’altrui modo di pensare lo devo proprio all’esperienza
dell’insegnamento.
Nello stesso anno ’68 qualcosa di simile a quello che era accaduto al
Centro sperimentale capitò nell’Accademia nazionale d’arte drammatica,
ma qui avvenne un fatto straordinario. I professori non solo non furono
cacciati via ma invitati dagli allievi a occupare con loro la scuola e così, con
il direttore di allora in testa, Ruggero Jacobbi, ci trovammo a dormire tra i
banchi della scuola negli immancabili sacchi a pelo.
Per circa vent’anni ho lavorato senza mai risparmiarmi, facevo regie in
teatro, in televisione, alla radio, insegnavo, scrivevo articoli per riviste e
giornali specializzati; tutto questo lavoro però aveva un risvolto negativo,
quello che non riuscivo a stare vicino alle mie figlie che intanto crescevano.
Stavo troppo tempo fuori casa: l’esempio più lampante è dato dallo
svolgimento del tema “Mio padre”, fatto da tua nonna Andreina che allora
andava alle elementari. “Mio padre quando torna a casa litiga con mia
madre. Poi si chiude nello studio e legge copioni. La sera esce e torna il
giorno dopo. Qualche volta sa fare andare la lavatrice.” A mia difesa dirò
che proprio in quel tempo Rosetta e io vivevamo felici in pieno accordo,
quindi quelli che Andreina credeva litigi erano normalissime discussioni
familiari. Era vero che io uscivo la sera per andare a provare in teatro ma
tornavo verso la mezzanotte quando la bambina dormiva, perciò per lei io
rincasavo il giorno dopo. Era vero che sapevo far andare la lavatrice perché
non funzionava bene e ogni tanto si inceppava. Avevo scoperto che con un
calcio in un certo posto riuscivo a rimetterla in moto. Aggiungerò anche
che, all’insaputa di tua nonna, spesso stiravo. Ma giuro che il mio
contributo alla famiglia non si è limitato solo a questo.
Sono stato, però, un buon nonno. Tanto buon nonno che le figlie non mi
hanno negato qualche scenata di gelosia. I miei nipoti, fin da piccolissimi,
hanno avuto libero accesso al mio studio dove potevano giocare senza che
minimamente mi disturbassero, anzi mi piaceva sentirli vivere e liberare la
loro energia dentro la mia stanza, un’energia contagiosa che mi faceva
scrivere meglio. Potevano salire sul tavolo o, come succedeva più spesso,
starsene a giocare sotto la scrivania interrompendomi continuamente, non
battevo ciglio, non mi davano nessun disturbo, tanto che un giorno mia
moglie mi disse:
“Tu non sei uno scrittore, sei un corrispondente di guerra.”
Puoi quindi immaginare, cara Matilda, la felicità di sapere che sotto alla
mia scrivania sei arrivata anche tu.
Fare teatro cambiò il mio carattere. Nelle mie prime regie il rapporto con
gli attori era addirittura conflittuale. Mi preparavo a una regia leggendo e
rileggendo per decine di volte di seguito un testo, contemporaneamente
prendevo appunti sul carattere dei vari personaggi, studiavo il copione non
solo in rapporto alle altre opere dello stesso autore ma anche alla posizione
dell’autore nel complesso del teatro a lui contemporaneo. Quindi a un certo
punto mi capitava uno strano fenomeno: possedevo talmente il testo che i
personaggi si alzavano dalla pagina e cominciavano a girare per la stanza
come creature in carne e ossa. Solo in quel momento mi sentivo pronto per
affrontare la regia, quindi mi sedevo al tavolo con gli attori. Tutta questa
preparazione mi creava uno schema mentale fisso e rigido dal quale non
intendevo sgarrare; la mia regia era una sorta di imposizione della mia idea
che non ammetteva digressioni o scarti, ma commettevo un errore: non
consideravo che l’attore è un uomo che ha una sua formazione e delle sue
precise idee, oltre che una lunga o breve esperienza in scena. Un giorno mi
capitò di radunare tutti gli attori in palcoscenico e, insoddisfatto, non solo li
redarguii severamente ma mi scappò anche qualche pesante insulto.
Riprendemmo a provare, fra gli attori c’era un vecchio comico ottantenne,
Aristide Baghetti, che era stato una star del teatro comico dei primi del
Novecento. Dato che abitava vicino a casa mia, ogni notte al termine delle
prove io me lo prendevo sotto braccio e lo riaccompagnavo fino al suo
portone. Quella sera mi sentii in dovere, per riguardo alla sua età avanzata,
di domandargli scusa per la scenataccia che avevo fatto e allora egli mi
disse:
“Guardi, dottore, che se noi non facciamo quello che lei vuole non è
perché vogliamo fare qualcosa di testa nostra ma perché non sempre
comprendiamo quello che lei vuole. Lei è un giovane colto e noi non lo
siamo. Lei usa parole o espressioni che ci sono quasi incomprensibili, a
volte. Se lei invece dialogasse di più con noi, se alla fine di una sua
esposizione facesse una domanda che si fa a scuola – Avete capito quello
che ho detto? –, la risposta sarebbe no. Risposta che potrebbe cambiare se
lei avesse la pazienza di insistere a spiegare le sue idee a noi fin quando
esse ci appariranno finalmente chiarissime. Allora vedrà che rimarrà
soddisfatto di noi.”
Ti confesso che non ci dormii la notte. Quelle poche parole di Baghetti
furono per me una lezione non solo di teatro ma anche di vita. Da allora il
dialogo con gli altri è stato un elemento fondante del mio essere. E se ho
fatto qualche regia di buon livello è stato proprio perché le parole di
Baghetti non hanno mai smesso di risuonare dentro di me.
Dopo anni e anni cominciai ad avvertire una certa stanchezza, non di far
teatro, ma di raccontare storie concepite da altri e scritte con parole di altri.
Come ti ho già detto, da giovane avevo pubblicato poesie e racconti che
avevano ottenuto dei buoni riconoscimenti, ma questa mia attività letteraria
era stata spazzata via dall’avvento del teatro. Studiare da regista e
successivamente fare il regista mi avevano immerso totalmente nel mondo
teatrale tanto che, per lungo tempo, non mi interessò più scrivere versi.
Senonché, a un certo punto, la vena poetica e narrativa che credevo di avere
definitivamente interrato si rivelò invece essere una sorta di fiume carsico.
La voglia di narrare una storia mia con parole mie trovò l’occasione di
concretizzarsi durante una situazione personalmente drammatica. Mio
padre, che con mamma si era trasferito dalla Sicilia a Roma per stare vicino
a me e alle nipotine, dopo qualche anno si ammalò gravemente e fu
ricoverato in ospedale. Qualche giorno appresso i dottori mi comunicarono
che papà aveva di fronte a sé appena pochi mesi di vita. Questa notizia del
tutto imprevista mi stordì. E poi, come dirlo a mia madre? Uscii dalla
clinica ed entrai in un bar. Erano le tre del pomeriggio, c’era un flipper,
cominciai a giocare e terminai la sera alle otto. Per cinque ore mi concentrai
solo sul gioco, ma al termine mi sentii pronto ad affrontare i giorni che
sarebbero seguiti. Abbandonai tutto quello che stavo facendo e trascorsi le
notti successive ad assistere papà, a tenergli compagnia in una stanzetta a
un letto dove feci aggiungere una poltrona per me. Papà non riusciva a
prendere sonno e così trascorrevamo la notte parlando di noi due,
chiarendoci le incomprensioni, i dissidi, ci svelammo l’un l’altro senza
pudori. Da quelle notti, malgrado tutto, uscimmo entrambi pacificati e
sereni. Terminato questo lungo e sofferto chiarimento, papà mi chiese di
raccontargli qualche storia. Allora io gli risposi che da qualche mese avevo
in mente di scrivere un romanzo. Papà si mostrò a un tempo contento e
sorpreso:
“Ma se tu fino a questo momento hai scritto poesie e brevi racconti come
mai ora desideri scrivere addirittura un romanzo?”
Gli risposi che forse era stata la lunga esperienza teatrale a spingermi al
grande passo. E cominciai a raccontarglielo. Alla fine papà volle da me una
promessa: che scrivessi quel romanzo allo stesso modo di come glielo
avevo raccontato. Come glielo avevo raccontato? L’avevo fatto adoperando
il modo di parlare della piccola borghesia siciliana, mischiando dialetto e
lingua. Ci adeguavamo insomma a quello che Pirandello in suo saggio
aveva acutamente osservato: “Di una data cosa la lingua ne esprime il
concetto, mentre della medesima cosa il dialetto ne esprime il sentimento.”
Infatti, quando volevamo formalizzare una situazione, renderla in qualche
modo distante da ogni sentimento, adoperavamo l’italiano. Mentre per ogni
mozione degli affetti, ogni ricerca di intimità nel discorso, per rendere più
penetranti le parole che dicevamo, usavamo il nostro dialetto.
Mantenni la promessa fatta a papà e l’anno seguente, nel ’68, scrissi il
mio primo romanzo intitolato Il corso delle cose. Una volta terminato, lo
mandai a un mio amico che era un grande critico letterario, Nicolò Gallo,
con il quale ci incontravamo ogni sabato. Ricevuto il mio romanzo, Nicolò
non si fece più vivo con me per un mese, allora gli lasciai in portineria un
bigliettino: “Caro Nicolò, non posso perdere la tua amicizia per un romanzo
che evidentemente non ti piace. Fai finta di non averlo mai ricevuto e fatti
vivo.” Mi telefonò immediatamente invitandomi ad andare a casa sua. Ci
andai e sul suo tavolo trovai il mio romanzo con accanto un mucchio di
foglietti contenenti le sue osservazioni. Nicolò mi disse che il mio romanzo
era molto bello ma che non avevo avuto il coraggio di spingere fino in
fondo il pedale della commistione tra lingua e dialetto e perciò, nei foglietti
a parte, mi aveva segnato tutte le frasi dove era meglio approfondirla,
invitandomi così a osare di più. Mi diede tre o quattro mesi di tempo per
riscrivere il romanzo e mi disse che poi me l’avrebbe fatto pubblicare da
Mondadori di cui era un importante editor.
Sapendo di avere un po’ di tempo a disposizione, non misi subito mano
alle correzioni, senonché un brutto giorno mi arrivò la notizia che Nicolò
era morto improvvisamente. Allora cominciai a spedire il romanzo senza le
correzioni a tutte le case editrici italiane ed ebbi sempre la stessa risposta:
“Il suo romanzo è impubblicabile a causa del linguaggio.” I rifiuti durarono
esattamente dieci anni. Ma, ti dico la verità, non mi persi d’animo, non mi
scoraggiai, anzi me ne fregavo e continuavo a fare teatro.
Nel ’78, un amico sceneggiatore, visto e considerato che il mio romanzo
veniva rifiutato da tutti, mi propose di farne un testo per la televisione.
Accettai. Così qualche giornale pubblicò la notizia che si stava preparando
uno sceneggiato televisivo da un mio romanzo e che il titolo sarebbe stato
La mano sugli occhi. Allora ricevetti la lettera di un editore a pagamento,
Lalli, il quale mi propose di pubblicare gratis il romanzo se nei titoli di coda
dello sceneggiato avessi fatto scrivere che era tratto dal libro Il corso delle
cose edito da Lalli; voleva insomma un po’ di pubblicità televisiva. E così
attraverso questa sorta di baratto il romanzo venne pubblicato.
Naturalmente non ebbe una grande distribuzione e perciò fu quasi ignorato,
però a me avere tra le mani l’oggetto libro fece l’effetto immediato di
volerne scrivere un secondo. A più di dieci anni di distanza dal primo
scrissi Un filo di fumo. Questa volta, tuttavia, il mio amico Ruggero Jacobbi
mi disse:
“Non voglio che questo romanzo abbia la stessa sorte del primo.”
Se lo mise sotto braccio e se ne partì per Milano. Diede il dattiloscritto a
una brava scrittrice che in seguito divenne una mia grande amica, Gina
Lagorio, moglie dell’editore Livio Garzanti. Dopo una decina di giorni
ricevetti un’inattesa telefonata da Garzanti, il quale mi comunicava che il
mio libro gli era piaciuto assai e che l’avrebbe pubblicato prestissimo con la
sua prestigiosa casa editrice. E così infatti avvenne. Questa volta il romanzo
fu molto ben recensito.
Subito dopo scrissi un racconto-saggio, intitolato La strage dimenticata,
e attraverso Leonardo Sciascia lo pubblicai con la casa editrice di Elvira
Sellerio; fu l’inizio di una lunghissima collaborazione che dura tuttora. Ma
non solo di una collaborazione, fu l’inizio di una profonda, autentica
amicizia. Elvira era una donna straordinaria. Voglio dire che possedeva
caratteristiche naturali fuori dall’ordinario e aveva il dono di unire in sé
qualità umane e professionali apparentemente discordanti. Ricordo
discussioni accesissime, delle vere e proprie sfuriate dove però la sua
tenerezza era sempre presente.
Dopo aver pubblicato un altro romanzo, La stagione della caccia, non fui
più in grado di scrivere altro. Il problema era dovuto al fatto che non
riuscivo a scrivere le mie cose continuando a far teatro. Decisi di dare un
addio al palcoscenico. Addio che fu veramente lungo, durò infatti otto anni.
Quando feci il mio ultimo spettacolo tratto da tre poemi di Majakovskij e
intitolato Il trucco e l’anima, sentii che ormai non avevo più nulla da dire in
quel campo. Elvira, che durante quegli anni non mi aveva mai chiesto un
nuovo libro, venne alla prima dello spettacolo e alla fine prendendomi sotto
braccio mi disse: “Credo che ora tu sia pronto a darmi un nuovo libro.”
Aveva capito tutto. Tornai alla narrativa.
Nel 1994 provai il bisogno di scrivere un libro chiudendomi dietro le
sbarre di quella gabbia che è il romanzo poliziesco e nacque La forma
dell’acqua, che aveva come protagonista un commissario, Salvo
Montalbano. Però non fui molto soddisfatto del mio lavoro. In quelle pagine
la figura del commissario era a tratti troppo sfumata, voglio dire che
Montalbano era più una funzione che un personaggio. Per renderlo tale,
scrissi un secondo romanzo, Il cane di terracotta. Nelle mie intenzioni,
dopo questo libro Montalbano non sarebbe più ritornato sulle mie pagine.
Ma accadde un fatto straordinario: i due romanzi di Montalbano ottennero
un grandissimo successo di lettori. E questo senza che Sellerio avesse fatto
alcuna pubblicità: il consenso era dovuto al passaparola dei lettori. Nel giro
di un anno, le copie vendute dei miei libri raggiunsero quota ottocentomila,
sicché Elvira Sellerio quasi mi costrinse a scrivere un terzo romanzo con
protagonista Montalbano. Obbedii a malincuore anche perché credevo di
essere incapace di reggere a un personaggio seriale. La serialità presuppone
una sorta di atletismo da maratoneta mentre io mi ero sempre considerato a
malapena un centometrista. Invece con Montalbano mi capitò che questo
personaggio cominciò a convivere con me e, più si dilatava il successo, più
io mi sentivo come fatto prigioniero da lui. Tra me e il mio personaggio si
creò insomma un rapporto di amore-odio che ancora oggi dura.
Mentre ti scrivo, l’editore Sellerio mi comunica che ha venduto ben
diciotto milioni di copie dei miei romanzi nella sola Italia. La trasposizione
televisiva delle inchieste di Montalbano, sempre alla stessa data, ha
superato in Italia il miliardo e duecento milioni di spettatori. Montalbano è
stato trasmesso in sessantatré paesi e tradotto come romanzo in trentasette
lingue. Malgrado questo, io continuo a credere che il meglio della mia
scrittura si trovi nei cosiddetti “romanzi storici e civili” come Il re di
Girgenti, Il birraio di Preston, La concessione del telefono, oppure nella
trilogia da me chiamata delle metamorfosi, di cui fanno parte Maruzza
Musumeci, Il casellante, Il sonaglio.
Insomma, sono diventato uno scrittore di grandissimo successo, ma
voglio confessarti che non sono mai riuscito a spiegarmene le ragioni. Ho
sempre scritto quello che mi sentivo di scrivere senza nessuna concessione
al gusto del pubblico.
Sono rimasto fedele a me stesso, alla mia scrittura, a quella scrittura che è
un work in progress perché sempre più diventa una lingua inventata.
In diverse interviste mi viene posta la domanda se il successo abbia in
qualche modo cambiato la mia esistenza. La mia risposta è no e corrisponde
esattamente alla verità delle cose. Il successo è rimasto sulla soglia della
mia casa, non è riuscito a penetrare né dentro i miei rapporti familiari né
dentro i rapporti con il mondo. Quando eravamo giovani sposi, non sono
mai riuscito a fare un regalo di un qualche valore, che so, una collana, una
pelliccia, a mia moglie Rosetta, lei era la persona più lontana da questi
segni esteriori. Non sono riuscito nemmeno quando avrei potuto farlo senza
alcun sacrificio. Ho sempre considerato con un certo distacco i
riconoscimenti che ho ottenuto, e anche con una certa autoironia. Ho avuto
una fortuna, quella di imbattermi giovanissimo nei saggi di Montaigne, che
hanno costituito una lettura fondamentale per la mia vita. Una frase di
Montaigne me la sono portata costantemente dietro per tutti questi lunghi
anni: “Ricordati che più in alto sali sempre più culo mostri”. Ammetto che
in una sola cosa il successo mi ha dato conforto, cioè nell’avere a
disposizione una certa quantità di denaro che mai avrei sognato di
possedere. Cosa ne ho fatto di questi soldi? Ho dato a figlie e nipoti una
casa, una casa l’ho data anche a me e a Rosetta e inoltre ho avuto la
sicurezza di poter impiegare quel denaro in caso di necessità, il che non è
poco. Una parte è stata devoluta per aiutare gli altri.