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[Testo completo presentato nel Convegno Internazionale

“Oltre carnevale: mascheramenti, travestimenti, inversioni”, Fondazione Ignazio


Buttitta, Palermo,Italia, 12 novembre 2016,
http://www.fondazioneignaziobuttitta.org/relazione-sulle-attivita-2016/]

Corpo ibrido e zoologia fantastica nel carnevale e nelle feste brasiliane

di Milton de Andrade

Nel 1507, Martin Waldseemüller elaborò la prima immagine cartografica in cui apparse
il Brasile con contorni accettabili e relativamente simili ai lineamenti definiti dalla
cartografia attuale. A partire dalle informazioni inviate dal fiorentino Amerigo
Vespucci, il cartografo tedesco creò una mappa dettagliata con il quarto continente:
sulla parte centrale del nuovo territorio, dove odiernamente si situa il Brasile, graffò in
distacco il nome al femminile America (in sintonia di genere con Europa, Asia e Africa)
e scrisse in lettere minute tutti i nomi con i quali il navigatore toscano aveva
identificato i contorni, gli accidenti geografici, le baie, le punte, i fiumi e i monti dei
nuovi territori. Pedro Álvares Cabral aveva già “scoperto” le nuove terre dell’Atlantico
nel 1500, tuttavia credeva aver trovato non più che un’isola (la terra papagallorum,
Ilha de Vera Cruz) nelle “Indie Occidentali”. Vespucci capì, per le conoscenze
cosmografiche che aveva, per l’osservazione della quantità d’acqua fluviale lanciata dai
fiumi amazzonici nell’oceano Atlantico e per le distanze colossali Nord-Sud, che quel
pezzo di terra non poteva essere un’isola e sì un grande e promettente Mundus Novus.
E così si avvia la storia multinazionale del Brasile: un luogo “scoperto” in forma
d’inganno dai portoghesi, disegnato, cartografato e battezzato ad honorem da un
tedesco e svelato con finezza da un toscano.

L’attrazione per il nuovo mondo si sparse impetuosamente nei primi decenni del
Cinquecento. Non solo portoghesi, tedeschi e italiani miravano con sguardi
opportunisti i nuovi confini; anche francesi, olandesi, inglesi, belgi e spagnoli
programmavano delle avventure in quelle terre vergini che promettevano un
allargamento spettacolare di prospettive: «si apriva, infine, un orizzonte per l’uomo
europeo confinato nella terra piatta e immobile tra il cielo e l’inferno» (De Andrade,
O., 1990: 224).

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La crescita dell’interesse internazionale e i conseguenti conflitti multiculturali della
colonizzazione europea in Brasile avvengono simultaneamente in quattro dimensioni:
la socioeconomica (la mercantilizzazione e lo sfruttamento materiale), l’ecologica
(l’occupazione e la devastazione del territorio), la biotica (la guerra batteriologica e la
contaminazione transgenica) e l’etnoculturale (la trasformazione delle lingue e delle
etnie e fondamentalmente la nascita del popolo brasiliano con la conseguente
mutazione dell’immaginario-culturale delle popolazioni colonizzate) [Ribeiro, 1995].

La maturazione graduale e continua di questa mutazione etnoculturale avviene in un


territorio mistico-religioso ibrido nel quale vengono assorbiti e trasportati a livello
simbolico i contrassegni identitari delle radici indigene, afrobrasiliane e europee. Nel
decorso assoggettante dell’identità del nuovo popolo, si crea la patina allegorica per la
quale vengono ambiguamente riconosciute le caratteristiche formative del mondo
estetico, festivo e culturale brasiliano, attributi essi che saranno reiterati e replicati in
modo imprudente e provocatorio nei riti odierni di consumo turistico-culturale.

La grandezza, l’esotismo gentile, la sensualità, la gioia e l’empatia “assimilazionista”, i


contorni splendenti, le danze fiammeggianti, l’animalità dei corpi liberi e strapotenti,
l’utopia serafica mischiata con la selvaggeria ritualistica del cannibalismo, la natura
grandiosa e incontenibile… sono più che altro immagini barocche sotto le quali si
nasconde la violenza dei processi colonizzanti che deforma le caratteristiche
autentiche delle popolazioni autoctone nei primi secoli della “scoperta” del nuovo
mondo, rende allegorica e mistificata la vita festiva popolare nel trascorrere dei secoli
e, alla fine dei conti, torna abbellita e spettacolare la “ricchezza folclorica” della
popolazione contemporanea straordinariamente sistemata in strati di alterità
sovrapposti. Lo sguardo europeo sotto il velo del sogno e della chimera, la voracità
sovrastante degli strumenti schiavisti-mercantili e l’azione religiosa sfacciata,
deformante e missionaria costituiscono la triade assimilativa per la quale si svolge la
proto cellula socioculturale del Brasile.

I racconti leggendari dei primi cronisti e viaggiatori-forestieri, ricavati dall’impatto


veemente che questi esploratori ebbero con l’imponenza naturale e la diversità
culturale trovate nel territorio americano nei primi secoli della colonizzazione, sono un
punto di partenza significativo per capire le origini di questo dilatamento allegorico

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dell’immaginario brasiliano espresso in modo più o meno letterario (Cfr. Taunay,
1998). Le testimonianze del soldato e marinaio naufrago tedesco Hans Staden (Vera
storia e descrizione di uno Stato di persone selvagge, nude, sinistre, cannibali nel nuovo
mondo, America, pubblicato a Lisbona, 1557), del portoghese Pero de Magalhães
Gandavo (Storia della provincia di Santa Cruz, a cui volgarmente chiamiamo Brasile,
Lisbona, 1576), del frate e cosmografo francese André Thévet (Le singolarità della
Francia Antartica, Parigi, 1557), le xilografie del belga Theodor di Bry che illustrava le
narrative di Jean de Léry (Viaggio in Brasile, Galizia, 1592), la cartografia con immagini
fantastiche e antropofagiche dell’olandese Hendrik Hondius (Accuratissima Brasilae
tabula, Amsterdam, 1633), le memorie di Johan Jacob Nieuhof (Memorabile viaggio
marittimo e terrestre in Brasile, Amsterdam, 1682) e le narrative dell’avventuriere
inglese John Browne (Avventure prodigiose di un artigliere passato da Santa Elena alla
costa del Brasile nell’anno di 1799, Londra, 1802) sono esempi della produzione
illustrativa di un’etnologia incipiente che, unita alle descrizioni più scrupolose dei
religiosi della Compagnia di Gesù, tra di loro, José de Anchieta, Manuel da Nóbrega,
Simão de Vasconcelos, Fernão Cardim, Vicente de Salvador e Yvres d’Evreux,
alimenterà l’aspetto ingegnoso delle prime produzioni culturali della colonizzazione
brasiliana.

Il nuovo mondo si presenta all’inventiva di questi autori come un mondo fantastico e


misterioso, invitante e promettente, angosciante ed esaltante, in cui si poteva
immaginare in vita tutte le figure sognate, le chimere cosmografiche e zoo-
mitologizzate del bestiario e dell’inconscio atavico europeo. Le terre longinque
americane, sogni di ricchezza, diventano così il nuovo luogo oscuro e pulsante di
proiezione e d’immaginazione fantasiosa. Il zoomorfismo fantastico prende contorni
inusitati nelle mani di questi viaggiatori, alcuni illustri e talentosi, che si incuriosivano
con la fauna insolita e i modi bizzarri dei popoli indigeni.

Nel libro di Staden troviamo, tra le xilografie predominantemente indirizzate ai rituali


degli “indios” cannibali, un’illustrazione che raffigura i corpi impiumati e favolosi dei
Tupinambà osservati probabilmente nella costa atlantica meridionale del Brasile (dove
oggi si trova il confine tra le province di Rio de Janeiro e São Paulo). I due corpi indigeni
disegnati svelano una natura mistica e ibrida (uomo-uccello) e si confondono con un

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paesaggio illustrato con tratti candidi, per poco infantili. La potenza mistica dei corpi
zoomorfizzati e impiumati si scioglie nel manierismo delle attitudini corporee
europeizzate: piedi an de hours, gambe croisées, avambracci bilanciati che sostengono
le arme, un danseur nobile, il garbo barocco che rimpiazza la più probabile ringhiosità
indigena. Nell’opera di Gandavo, elaborata con intenti propagandistici che distaccano
le anomalie e i pericoli transoceanici ai lettori portoghesi, si vede la figura di un mostro
marino, l’Ipupiara, una sirena mortifera, secondo lui, presente e frequente nelle acque
profonde brasiliane: il corpo foderato da scaglie ha nella sua metà superiore femminile
due mammelle ampollose, mani e dita bellicose con zampe prensili iguanodonte, la
testa canina girata e la lingua fuori tra i denti. Un coraggioso signore si fa da
spadaccino e punteggia un’improbabile cloaca localizzata nella linea centrale del corpo
della creatura malvagia. Il pescecanismo prende forma in una narrativa letteraria che
mescola dati della realtà coloniale, storie fantastiche e la crudeltà buffonesca-
coloniale. Nelle illustrazioni di Thévet, che seguivano i passi impraticabili del progetto
coloniale francese in Brasile (la France Antarctique), il bestiario è abbondante di
quadrupedi con facce diaboliche e code pompose, caproni, scimmiette e scimmioni,
uccelli giganti alternati con la figura ibrida ed eroica del capo tupinambá, Cunhambebe,
aleato dei francesi nelle mitiche battaglie contro i portoghesi. Dall’immaginazione
fiamminga di Nieuhof e Hondius, innalzano esseri selvaggi senza testa e con gli occhi, il
naso e la bocca sistemati sui muscoli pettorali, lagarti, anaconda e lumache giganti che
si riportano a un universo preistorico da fantascienza. John Browne preferisce esaltare
abusivamente la bravura degli artiglieri inglesi nei confronti dell’anaconda gigante
Ibibaboka.

Suddette proiezioni fantastiche – che come vedremo coincideranno con parte


costitutiva dell’immaginario festivo brasiliano – non si spiegano soltanto in base alla
sfrenatezza mentale degli avventurieri stranieri, ma trovano pure radice in un quadro
assimilativo fitto di forme, contrasti e colori concretamente osservato nella terra
brasilis: alberi giganteschi che offrono ombre assurdamente generose, piante
innervate di pigmenti scintillanti, mammiferi con musi curiosamente allungati,
anaconda veramente giganti, esseri umani nudi, truccati, tinteggiati, camuffati e
mimetizzati con l’ambiente, corpi coronati con elementi blu, rossi e gialli, corpi

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adornati, dipinti, impiumati, mascherati, supporti di un artigianato febbrile, assetti di
una natura ibrida, perforati con penne, ossa e legno, maschere corporee che in verità
non coprono, non nascondono assolutamente nulla, anzi, concedono un’identità
incrociata e innestata nei rituali: il bisogno innato d’essere allo stesso tempo umano,
animale e vegetale.

E non è solo la straordinaria plasticità dei corpi e della natura che sconvolgono gli
europei e rendono fertile il terreno simbolico delle nuove narrative mitologiche. Ci
sono anche dei mutamenti percettivi che toccano e confrontano prontamente
dimensioni religiose. La catechesi e gli adattamenti liturgici voluti dai gesuiti cattolici
già nella seconda metà del Cinquecento hanno avuto a che fare con un immenso
universo di pratiche ritualistiche indigene che sfuggivano alla loro logica religiosa. Le
missões gesuitiche concentravano gli sforzi di sistemazione ecumenica impegnando
migliaia di creature indigene catecumene che gli raccontavano storie piene di figure
sconosciute. Mescolate a considerazioni “scientifiche” sulla geografia del nuovo
mondo e allo studio criterioso delle lingue e delle usanze della gente indigena, queste
figure mitologiche appaiono costantemente nei testi dei religiosi: il Curupira, il giovane
e strapotente sovrano delle foreste con la testa rossa e i piedi girati all’indietro;
l’Anhanga, lo spirito malvagio senza forma definita; il Jurupari, signore dei diavoli tra i
Tupinambá. In questo mondo soprannaturale, non era semplice la conversione
religiosa necessaria alla consolidazione della fede e dell’identità di un nuovo popolo.
L’opificio gesuita di gente meticcia e acculturata doveva far i conti con la resilienza di
figure incomode.

La durata solenne dei rituali autoctoni sembrava anche una materia imponderabile agli
occhi cattolici. I rituali funerari di alcune tradizioni potevano durare molti giorni
quando i morti erano celebrati con caccie rituali, incisioni sulla pelle dei vivi,
incinerazioni degli oggetti del defunto, esumazioni, danze e canti che evocavano i
diversi livelli dell’esistenza e incoraggiavano la compresenza tra viventi e morti. La
descrizione di un rituale funebre Tupinambá che il colono portoghese Gabriel Soares
de Souza presenta nel Trattato descrittivo del Brasile nel 1587 attesta il zoomorfismo e
la convivenza dilungata tra vivi e morti incoraggiata in alcuni rituali funebri:

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«E quando muore un individuo superiore della tribù, diversi giorni dopo la
morte e prima di seppellirlo, fanno le seguenti cerimonie. Prima di tutto
coprono il morto con il miele, sopra il quale impiumano il corpo con penne di
diversi colori e mettono un copricapo con pennacchi sulla testa insieme agli
adorni che abitualmente portano nelle feste; e nella stessa casa in cui il morto
viveva scavano un fosso profondo e grande protetto da un legname che
struttura le fiancate dello scavo perché non cada la terra sopra il defunto, e nel
fondo dello scavo viene sistemata l’amaca in tale modo che il corpo non tocchi
il terreno; nell’amaca piazzano il defunto adornato e appoggiano sul giaciglio il
suo arco e freccia, la sua spada di legno, il suo maracá con il quale era abituato
a suonare, e accendono il fuoco per riscaldarlo, e gli mettono da mangiare
nell’alguidar e dell’acqua nella cabaça, come si fa con le galline, e quando
questa scorta è pronta, gli mettono in mano la cangoeira di tabacco; sistemano
ancora molto legname sul piano superiore dell’amaca lontano il sufficiente per
non sfiorare il corpo, e sopra questo legname tantissima somma di terra con
fogliami sottostanti perché non cada la terra sul defunto; sopra tale sepoltura
vivrà sua moglie, come prima» (Soares de Souza, 1971: 329).

I riti di nascita di altre tradizioni indigene accolgono invece i neonati con incisioni e
tinture intense sulla pelle, pigmenti neri del frutto jenipapo o rossi dell’urucum. Tali
rituali si ripetono durante tutta l’infanzia e diventano veri “officine”, rituali formativi
mediante i quali le mamme indigene diventano straordinarie artiste del grafismo
corporeo. I rituali di passaggio introducono ragazzi e ragazze nel mondo adulto con
pratiche complesse come i sacrifici fisici, l’empenação (pratica per la quale i corpi
vengono trattati con essenze e impiumati), la produzione di amuleti e l’impianto di
protesi corporee e piercings stravaganti.

Tanti altri esempi di questa manifesta teatralità possono essere riferiti nei rituali
indigeni di cura e guarigione, nei riti di celebrazione identitaria, nei rituali di
nominazione, d’inversione di ruolo e genere, nei rituali matrimoniali e di fecondità, di
vita e morte. Non è difficile immaginare la problematica interpretativa che la potenza
simbolica di questi rituali presenti nella costa atlantica brasiliana ha suscitato nella
mentalità europea nei primi secoli della colonizzazione. L’esperienza che i portoghesi

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avevano accumulato nella colonizzazione dell’Africa occidentale, in particolare nel
Regno del Congo, era solo in parte applicabile in Brasile. Il quadro di trasfigurazione
etnica era molto più problematico: una babele razziale precariamente edificata dal
regime schiavista portoghese.

Il risultato adattativo del trasporto dei simboli culturali delle micro etnie tribali
amerindie, con il successivo aggiustamento delle tradizioni africane risultante
dall’incremento del traffico di neri schiavizzati, è stato febbrile: recitazioni
catechetiche nella lingua geral tupi 1, misteri medioevali adattati alla mitologia
brasilíndia, processioni danzate, drammatizzazioni teatrali di conversione allegorica al
cristianesimo, santi tinteggiati di nero, cortili di chiese occupati con tamburi, bandiere
e maracás, inversioni simboliche e zoomorfiche, rituali profani fondati
sull’incongruenza religiosa e imbricati con elementi tradizionali e solenni, progettazioni
performative, congegni di “degustazione”, assimilazioni antropofagiche degli oggetti
religiosi in arte popolare.

Questo era solo l’inizio di un lungo processo di conformazione delle feste religiose e
pagane in territorio brasiliano, un intenso percorso di conversione e reinvenzione
semiotica durato cinque secoli (e tuttora attuante) ed espresso ambiguamente nelle
rinnovate allegorie riconducibili alla diversità dei riti urbani emergenti e all’instabilità
di una mitologia re-significata per un costante flusso immigratorio.

Se non è possibile trovare una linea di continuità evolutiva, molto meno un quadro
uniforme nell’immenso territorio etnografico brasiliano ricco di molteplicità
fenomenologica e variabilità storica e malgrado possa sembrare deterministica e
imprudente agli occhi della sociologia contemporanea la valutazione del “triangolo
delle etnie” come sostrato identitario del popolo brasiliano, crediamo sia possibile
verificare l’adesione dei principi conformatori della nostra gente ai meccanismi
contradditori per i quali si conferma il doppio ruolo che le tradizioni indigene, africane
ed europee hanno avuto nella consolidazione delle manifestazioni festive in Brasile: da
una parte, per le vie delle procedure adattative coloniali, costituiscono i riferimenti, il
“magazzino” di memoria e d’immagini, il nocciolo identitario di una nuova (e meticcia)
macro etnia; dall’altra, sottomesse alla derisione culturale, diventano allegorie,

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immagini eccessive e accessorie, utili ai racconti affermativi e tradizionalisti e alle
pratiche ideologiche di un’illusoria democrazia raziale.

L’inclinazione anarchica del “barocco assimilazionista” (Ribeiro, 1995) – carattere


tipico, irresponsabile, allegro ed esibizionista delle nostre feste popolari – è la
controscena dell’intenzionalità del progetto catechetico e coloniale. I meccanismi
ambivalenti d’imposizione e opposizione, di tolleranza e assimilazione associati
all’opportunismo ludico (Tinhorão, 2000) sono alle radici dei nostri carnevali, parate,
processioni, danze drammatiche, embaixadas, processioni marittime e fluviali,
cavalhadas, marujadas, congos, maracatus, reisados, caboclinhos, bois-bumbás, e
tante altre manifestazioni che portano coesistenze e ibridismi e contrastano, senza
alcun limite prevedibile, tradizione-religiosità-devozione vs esteriorità-leggerezza-
stravaganza. Sono pratiche di resistenza e confronto, patrimoni culturali immateriali
continuamente ricreati e aggiornati in sincronia con i mutamenti politici, ambientali e
naturali, tante volte problematici, che hanno un valore inestimabile per il
mantenimento della vitalità “mezzosangue” e per il salvataggio della criticità,
dell’ironia corrosiva e della gioia comunitaria per la quale il popolo brasiliano si
mantiene vivo.

Il carnevale brasiliano è il contenitore-catalizzatore di gran parte di questi elementi,


frutto di una creatività popolare geniale, una conseguenza naturale degli spostamenti
di prospettive varie risultanti da incontri migratori, ancoraggi, (in)digestioni, proiezioni
e resistenze identitarie, confluenza dell’arcaico col moderno, frutto della migrazione
simbolica e della potenza operativa dell’immaginario (trans)amerindio- africano-
europeo, cioè brasiliano. Come fenomeno politico, le performances carnevalesche
brasiliane seguono a quanto pare i principi generali della sovversione delle norme e
dell’inversione momentanea dei ruoli, dei generi e delle strutture di potere, della
sfrenatezza sessuale e liberazione degli atteggiamenti violenti: «una festività che
smantella frontalmente la realtà sociale e inventa un “ordine” rovesciato, senza centro
o gravità, […] una festa senza padrone assolutamente essenziale in una società in cui
c’è ovunque un padreterno, un paraninfo, un santo protettore, un professore, uno
specialista, un re, un padroncino, un buttafuori, un ruffiano, un padrone del pallone,
un caposquadra, un coordinatore, un ministro, un granduca, un dio!» (Da Matta, 1981:

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28 e 29). In sintesi, i carnevali brasiliani sono, come in pratica gran parte dei carnevali
nel pianeta, un modo generico di riconfermare l’adesione comunitaria attraverso le
antitesi morali del sottosuolo e del anti-mondo. Ci sono però percorsi genetici specifici,
particolarità ed esclusività formali nei carnevali brasiliani che l’antropologia
contestuale ha cercato d’individuare negli ultimi decenni (Da Matta, 1979 e 1981;
Leopoldi, 1978).

La migrazione di manifestazioni germinate all’interno di un contesto religioso verso il


calendario carnevalesco è una particolarità che si osserva, per esempio, nei maracatus-
nação di Pernambuco. L’ibridismo corporeo tipico dei maracatus con le figure di
conversione religiosa, le regine sacrosante vincolate alle tradizioni afrobrasiliane, i
caboclos con profili indigeni protettori della nação, il corteo svolto nella forma iberica
di una processione ritmata, cioè, l’insieme degli elementi performativi migra ai
festeggiamenti “pervertiti” del carnevale dove sono digeriti predominantemente come
spettacolo e divertimento. L’ibridismo etnico e corporeo si estende all’ibridazione e
alla discesa (o allargamento?) del senso. Viene configurato, come preannunciava
Oswald De Andrade, «l’assorbimento [antropofagico] del nemico sacro» (De Andrade,
O., 1990: 51): le figure religiose e mitologiche sono consumate e rigettate, trasportate,
celebrate ed elevate al panteon delle allegorie del carnevale contemporaneo.

Lo stesso succede, tuttavia in modo invertito, alle feste di celebrazione totemica del
bue nella regione amazzonica, in particolare nella città, isola fluviale, di Parintis. Lì
invece le performances carnevalesche si spostano a fine giugno, periodo in cui si
svolgono tradizionalmente le feste dei boi-bumbás. Tali manifestazioni di origine sette-
ottocentesca e abituali in diverse zone del Brasile come feste agrarie invernali, si
svolgono tradizionalmente come un teatro di figure, con danze, musiche e personaggi
in un intreccio che racconta il dramma-satirico della morte e risurrezione del bue. Nella
regione Nord del paese, le celebrazioni vengono arricchite di forme scultoree e
zoomorfiche, personaggi leggendari e allegorie fantastiche delle mitologie indigene che
ricordano il passato chimerico dei colonizzatori e i contrasti tra i “bianchi” e le
popolazioni rosse-rivierasche dell’Amazzonia. Nella metà del Novecento a Parintis, il
dramma-totemico viene ulteriormente trasformato con la creazione di due grandi
collettivi folcloristici: il Boi caprichoso (di colore blu, il “bue dell’élite”) e il Boi

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garantido (rosso, il “bue del popolo”) gareggiano spettacolarmente in un “palio
carnevalesco” gioito da circa trentacinque mila spettatori divisi anche loro in due
grandi gruppi di tifosi, rossi e blu. Il bumbódromo (arena appositamente costruita per
la festa) viene invaso da muse impiumate e zoormorfizzate, carri allegorici di alta
tecnologia robotica, anaconda giganti, curupiras, sciamani, diavoli e diavoletti, uccellini
e uccelloni, araras, allegorie di “indios” erculei e cunhãs porangas strepitose, gli
stereotipi scaramantici delle donne indigene. L’effetto è la rivincita tipica di
un’apoteosi barocca, il massimo fulgore che sconvolge il calendario e porta il carnevale
e le sue bestie eccessive in un tempo prima abitato dalle figure durevoli del mito e dai
personaggi programmati nel dramma popolare.

I carnevali di strada – combinazioni indistinte di festeggiamenti onnipresenti in tutto il


territorio nazionale – e le sfilate delle scuole di samba – manifestazioni tipicamente
metropolitane che nascono a Rio de Janeiro e si diffondono gradualmente per tutte le
grandi città del Brasile nella seconda metà del Novecento – sono fenomeni altrettanto
fertili per le riflessioni intorno ai principi dell’adattamento dei festeggiamenti
spontanei e dello sviluppo successivo delle forme carnevalesche spettacolari.

Nello scompiglio dei carnevali di strada, l’ibridismo e il zoomorfismo fantastico sono


applicati alle inversioni di genere, alla produzione di figure satiriche e personaggi
stemperati, ai rovesciamenti transgender, alle danze impulsive e sfrenate,
all’invenzione di nuovi ritmi e tormentoni musicali, al sotterfugio e all’ebbrezza delle
parodie sociali, alle adulazioni sessuali sfacciate, ai corteggiamenti e alle fregature, al
menefreghismo e alla burla verso le autorità e le leadership che cercano inutilmente di
conservare l’ordine con l’organizzazione nostalgica di gruppi identitari, strutture di
accoglienza turistica, palchetti, tribune e allestimenti con i quali intendono trasformare
la festa diffusa in un rito affermativo e caricato. Nonostante queste tendenze
organizzative ideologicamente “inclusive”, il carattere instabile del travestimento è
ancora predominante nei carnevali di strada, con le figure metamorfiche folle, le
maschere anarchiche, il trionfo della gente che prende in mano la città, blocca il
traffico e toglie il posto alle auto. Il carnevale di strada è ancora in Brasile la negazione
pubblica che delocalizza il corpo civico e trasforma la faccia umana aneddotica in
maschera selvaggia e incontrollata.

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Le “scuole di samba” sono organizzazioni di origine novecentesca che nascono dai
cordões e ranchos e altre libere manifestazioni festive consuete nei sobborghi del Rio
già alla fine dell’Ottocento e si sviluppano successivamente grazie al bisogno di
condividere ed esprimere valori identitari amalgamati sotto forma di danze, samba-
canzoni, ritmi, racconti, colori, arti visive, forme tradizionali e nuove modalità
tecnologiche. Il carnevale delle scuole di samba è l’occasione massima per la
celebrazione di tale percorso collaborativo ed è anche la condizione festiva essenziale
alla convalida delle esperienze comunitarie mediante il confronto competitivo tra le
diverse escolas che si distinguono in base alle dinamiche associazionistiche dei
quartieri periferici. Come risultato naturale della feconda partecipazione comunitaria,
del potenziamento identitario e dello splendore estetico e agonistico raggiunto con
sforzi volontari e finanziamenti pubblici e privati, tale processo produttivo ha
guadagnato un carattere specialistico-professionale, concorrenziale, mediatico e
altamente sofisticato. In Brasile, si può parlare contraddittoriamente di un’industria
del carnevale. Tale fabbrica di allegria, bellezza e arte, che produce anche
accontentamento popolare e mezzi di visibilità per le élite cosmopolite, non sarebbe
condizionata all’instabilità delle vie pubbliche neanche racchiusa nei limiti degli spazi
comunitari immarginati. Ci voleva un luogo polifunzionale, un teatro all’aperto che
però demarcasse le dimensioni performative e spettacolari del rito carnevalesco: il
sambódromo, la “passarella del samba”.

La forma architettonica del sambódromo, ideata sia a Rio de Janeiro (1983) come a San
Paolo (1991) dall’architetto modernista Oscar Niemeyer, è la risoluzione utopica della
dicotomia pulsante tra il pubblico e il privato, l’aperto e il chiuso, il crudo e il cotto, il
gioco e la competizione, la regressione mitologica e l’evoluzione teatrale del carnevale,
la follia delle strade e le coreografie delle comissões de frente, la festa senza pretese
compositive e l’artigianato popolare maniacalmente applicato agli strati elaborati
dell’arte contemporanea. Se il popolo appare sciolto e invadente nei carnevali di
strada, qui la gente viene concentrata e messa a fuoco nell’osservatorio pungente del
sambódromo. Se nei carnevali di strada le figure allegoriche appaiono decentrate, ora
esse vengono sottomesse alle procedure di addensamento delle forme. Se nelle strade
vediamo solitamente uomini travestiti da donne, donne travestite da uomo e

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transessuali espansi nella loro identità di genere, nel sambódromo vediamo donne,
uomini e transessuali tirati e addensati in forme ridondanti da super-uomini, super-
donne e super-trans, tutti splendenti e ambigui nella loro “mostruosità” sensuale e
sovrumana. Se le figure allegoriche vanno a spasso nei festeggiamenti di strada, perse
e senza script nei sentieri della città confusa, nelle sfilate delle grandi metropoli
brasiliane esse vengono invece sottomesse alla regia di una narrativa spettacolare che
evoca l’argomento identitario di ogni luogo. Se nelle feste di strada è inevitabile
mescolare le cose, nelle sfilate i ritmi musicali, le forme coreutiche e le andature
confluiscono per produrre nuovi modi di classificare e categorizzare, criteri con i quali
si stabiliscono i punteggi che eleggono i vincitori nell’apoteosi conclusiva. L’allegoria è
sempre il fondamento della gloria. Ciò che conta è la capacità di lavorare con gli
ibridismi e le forme zoomorfiche, l’ingegnosità di reinventare muse, impiumare i corpi,
introdurre

un corpo nell’altro, trovare uno strato di alterità fantastico e sovrastante, insomma,


ripescare l’eccentrico nella polisemia della nostra storia.

Dopo la consolidazione della pratica del consumo turistico-culturale spuntata


fondamentalmente negli ultimi decenni del Novecento, l’ibridismo “adultero” tipico
del carnevale brasiliano viene tendenzialmente indebolito da un meccanismo riduttivo
che trasforma la resilienza inventiva e gli elementi mitologici e simbolici dell’arte
popolare in allegorie “famigliari” e nazionali, personificazioni stereotipate di
appartenenza. La diversità etnoculturale del folclore e dell’arte popolare viene
trasportata a una zona di fluttuazione antropologica: dove c’erano la peculiarità e
l’eccentricità si notano le onde della convenzionalità, della standardizzazione e della
spettacolarizzazione delle forme. Molte feste folcloriche e carnevalesche diventano
gravemente organizzate per il consumo e le loro narrative si rifondono sull’adattabilità
ideologica dei discorsi interraziali di superficie. Dalle feste di strada evolute in spazi
peculiari di fiducia collettiva emergono le feste di massa destinate agli spazi ambigui
del divertimento e della celebrazione di valori discutibili in un ambiente dominato dal
maschilismo, dal sessismo, dalla competitività e dalla violenza urbana. Un meccanismo
simile succede nelle feste religiose che, nonostante la permanenza di rudimenti
tradizionali, si rinnovano con l’inserimento di elementi decorativi e rappresentazionali,

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corporeità fake, forzature estetiche ispirate nel realismo novellistico tipico delle
culture piccolo-borghesi emergenti. I corpi non sono più presenze ibride attuanti
all’interno della logica del rito identitario bensì allegorie pesanti e manierate in
contesti patrocinati da operatori esterni. Il meccanismo produttivo coloniale si
ripropone in modo fortuito, ciclico e convergente: non si produce cultura per i bisogni
interni e comunitari ma si lavora per l’impianto sfruttatore-tecnologico che risponde
alle domande esterne di consumo. L’ibridismo corporeo non è più un modo di fondersi
ai domini della natura, rivela invece impronte della memoria, mascheramenti sotto i
quali si nasconde l’essere morale e ottuso (che ha bisogno di sfogarsi).

La chiesa ha avuto il suo ruolo, la schiavitù ultimata ha liberato il gesto sovraccarico, la


logica di espropriazione mercantile ha confermato il carattere sarcastico-diabolico-
cannibalistico in forma di comportamenti spudorati, la dissolutezza sesso-consumistica
ha trasformato gli amuleti e i talismani in donne impiumate messe nel centro del
mondo, gli immigranti continuano ad alimentare e mescolare il pentolone del
repertorio simbolico con influssi latini, sassoni, germanici, orientali, medio-orientale,
slavi e perfino nord-americani, gli stranieri continuano per tutto ciò a consumare le
chimere sognate, il popolo brasiliano continua a concedersi alla natura e ai numi, e a
produrre ininterrottamente i materiali con i quali vengono ricuciti i tessuti vigorosi
della cultura comunitaria contemporanea.

Non è assolutamente evidente che il mutamento delle feste brasiliane rappresenti un


processo definitivo e irreversibile di decadenza e abbassamento culturale. Si tratta di
un’intercessione promossa da meccanismi istituzionali che palleggiano con
l’intenzionalità latente delle popolazioni che ora re-esistono nei territori protetti e
reagenti delle micro etnie brasiliane che, come già attestava Amerigo Vespucci nelle
sue lettere scritte nel distante 1502: «ostentano una scelerata libertà di vivere, la
quale piuttosto se conviene agli Epicurei che agli Stoici».

Bibliografia

Da Matta, 1979, Carnavais, malandros e heróis, Zahar, Rio de Janeiro.

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Da Matta, R., 1981, Universo do carnaval: imagens e reflexões, Edições Pinakotheke,
Rio de Janeiro.

De Andrade, O., 1990, Utopia antropofágica, Globo, São Paulo.

De Andrade, M., 2016, Entre papas, reis, rainhas e mouros com os braços cortados:
raízes da performatividade negra no Brasil, in Aurelio da Cruz Souza, Marco (a c. d.),
2016, As Danças populares no Brasil na contemporaneidade, All Print Editora, São
Paulo.

Fonyat, B., 1978, Carnaval, Editora Nova Fronteira, Rio de Janeiro.

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Letras, São Paulo.

Soares de Souza, G., 1971, Tratado descritivo do Brasil em 1587, Cia. Editora Nacional,
São Paulo.

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brasileira nos séculos XVII e XVII, Companhia das Letras, São Paulo, prima edizione
1937.

Tinhorão, J. R., 2000, As festas do Brasil colonial, Editora 34, São Paulo.

Note
1
Derivazione linguistica del tupi-guarani utilizzata nella costa atlantica come “lingua
franca” tra i portoghesi, i popoli indigeni e i brasilíndios e diffusa come “lingua
nazionale” alle zone hinterland occupate dai gesuiti, bandeirantes e mamelucos fino alla
sua proibizione ultimata nella Lei dos Diretórios Indígenas del 1757.

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