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Fig.1: Deputato dell’opposizione distrugge telefono in Aula durante la discussione sulla legge
contro la disinformazione online (Credit: Euronews)
Introduzione
La Turchia si trova attualmente al 149° posto nella classifica sulla libertà di stampa stilata
dall’Associazione Reporters Senza Frontiere; mentre è ormai dal 2018 (con riferimento all’anno
precedente) che Freedom House ha declassificato il Paese da “parzialmente libero” a “non libero”.
Quando si discute sullo stato della libertà di stampa e di espressione in Turchia ci troviamo di fronte a
un paradosso: come può un Paese che da anni è tra i Paesi con il maggior numero di giornalisti in carcere,
il cui governo ha fatto chiudere centinaia di organi di informazioni (e controlla oggi quasi il 90% dei
media) avere una società che è al contempo oggetto di forte repressione e caratterizzata da un vivace
dibattito pubblico e pluralismo di idee? La spiegazione risiede nella stessa storia della nascita e dello
sviluppo della Repubblica.
Ciò ha determinato dunque un sistema-paese che ha conosciuto una costante oscillazione tra un sistema
democratico illiberale ed uno autoritario, al punto da poter essere descritto come “autoritarismo
camaleontico”. In questo particolare meccanismo di riproduzione dell’autoritarismo proprio della
Turchia “le strutture rimangono pressoché inalterate mentre a mutare è il carattere identitario” (Donelli
p.161). Quasi paradossalmente il nuovo autoritarismo à la Erdoğan è stato frutto dapprima di una politica
di liberalizzazione (2002-2006) - civile, economica, politica - e della seguente dismissione del regime
tutelare militare (2008-10), per assumere poi la forma di un “autoritarismo competitivo” (2010-2016) che,
complici gli sviluppi interni ed esterni al Paese, è andato sempre più consolidandosi (2016-) in una sua
propria forma peculiare.
Se nei primi anni Ottanta, sotto diretta autorità dei Militari (1980-1983), fattori sociali e politici hanno
influenzato il settore dei media; con la liberalizzazione economica voluta dal nuovo governo civile di
Turgut Özal (Partito della Patria – ANAP) si avviò un’aspra competizione tra le aziende del settore e,
attraverso la privatizzazione e le acquisizioni multiple, il mercato dei media si trasformò in un oligopolio
di grandi Corporations. A partire dal 1995 cinque grandi Holding - Doğan, Bilgin, Aksoy, Ihlas and
Uzan Groups – hanno dominato il settore. Queste, avendo interessi economici in settori paralleli a quello
dei media, iniziarono a sviluppare relazioni clientelari con i partiti di governo e altri attori con il fine
di acquisire influenza politica. Esse, dipendendo fortemente dal governo per ottenere licenze e sussidi,
rimanevano infatti estremamente vulnerabili alle pressioni politiche e, di conseguenza, definivano le
linee editoriali in accordo a queste. Ciò ha anche determinato, in secondo luogo, un sistema dei media in
cui le varie realtà si sono divise secondo orientamenti politici distinti, creando stretti legami con i
partiti; un sistema dove i giornalisti sono attivi nella vita politica cercando di influenzare, invece che
informare, l’opinione pubblica su diretto interesse dei proprietari dei media.
Nonostante la progressiva liberalizzazione e una rinuncia dello Stato all’influenza diretta sui media - e
dunque una maggiore capacità formale di libertà di espressione – nei fatti si è andata affermandosi una
nuova forma di censura e di controllo della politica sui media.
di espressione era soggetta a limitazioni dal Codice penale, dalla Legge sulla Stampa e dalla Legge
sull’Anti-Terrorismo. In particolare, Forze Armate, Curdi e Islam politico erano temi altamente
sensibili che potevano determinare per i giornalisti condanne penali, persecuzioni, detenzioni o
arresti. Nel 2001 oltre 80 giornalisti sono stati arrestati per attività politica su tali basi, mentre si
attestavano a circa 9mila le persone detenute in connessione alla libertà di espressione.
Da parziale liberalizzazione …
Al momento della sua costituzione l’AKP aveva tra i propri punti programmatici l’ampliamento delle
libertà civili e politiche, tra cui quelle di espressione e di stampa; una posizione ribadita una volta vinte le
elezioni. Proprio sull’onda dell’accettazione nel 1999 del Paese quale candidato all’Unione, durante il
primo decennio di governo il partito islamico-conservatore ha implementato una serie di riforme –
anche in materia di libertà civili e politiche – in ottemperanza ai pacchetti di armonizzazione UE. In
questo contesto, il periodo 2002-2006 è stato caratterizzato da una decisa impronta di liberalizzazione,
all’interno della quale l’AKP ha cercato (ed in parte è riuscito) di scardinare alcuni tabù storici, tra cui
quello religioso e quello dei diritti delle minoranze, fino ad allora imposti dal regime tutelare dei militari.
Tale fase di tentata conformazione al diritto UE si è tuttavia protratta in modo scostante e frammentario:
ma se fino al 2007 può essere caratterizzata come tendenza positiva, dal 2007 al 2011 le poche riforme
apprezzabili sono state oscurate da un trend generale in negativo. In particolare, l’adozione nel 2007
della legge sulla regolazione dei contenuti online, la prassi di intentare cause civili contro giornalisti,
scrittori e editori da parte dei politici, nonché le campagne di boicottaggio invocate da questi contro alcuni
media critici verso il governo sono stati elementi centrali di quegli anni. A questi si è poi affiancato
l’utilizzo crescente di pressioni economiche quali le sanzioni alle agenzie di informazioni non allineate
al governo; quelle di tipo politico, come il negato accreditamento di giornalisti “scomodi” o il divieto di
pubblicazione a determinati quotidiani (in particolare in lingua curda); nonché di tipo giudiziario, con
l’utilizzo della legge antiterrorismo e il reato di diffamazione contro giornalisti e scrittori.
…A progressivo deterioramento
Come riporta Freedom House, nel 2011 il settore dei media in Turchia era “vivace, ma non per questo
caratterizzato da standard qualitativi di libertà”: vari giornalisti risultavano in carcere; quasi tutte le
strutture mediatiche appartenevano a Holding legate in qualche modo ai partiti politici, e un cospicuo
numero di giornalisti aveva perso il proprio lavoro in seguito a critiche al governo. Motivo quest’ultimo
per cui l’auto-censura da parte degli stessi stava divenendo un fenomeno sempre più comune. In
aggiunta a ciò, lo Stato iniziò a regolare in maniera restrittiva (censurare) lo spazio online: nel 2011
venne introdotto un primo sistema per filtrare i contenuti online, nonché l’oscuramento sistematico di
alcuni determinati siti e/o contenuti specifici.
In seguito alle proteste di Gezi Park (2013) la libertà di stampa e di espressione ha subito un ennesimo
deterioramento: nell’aprile 2014 è stato approvato un emendamento alla Legge sui Servizi di Intelligence
che ha esteso i poteri del MIT (Millî İstihbarat Teşkilatı, Organizzazione d’Intelligence Nazionale), il quale
prevedeva anche l’incarcerazione fino a 9 anni in caso di pubblicazione di materiale di intelligence
non autorizzato. Sono aumentati poi i casi di perquisizione da parte delle autorità nelle sedi
giornalistiche (in particolare quelle ritenute vicine al movimento gülenista), oltre a un incremento
qualitativo e quantitativo delle pratiche messe in essere già negli anni precedenti. È in questo periodo,
inoltre, che si inizia ad affermare una crescente disparità nella copertura mediatica da parte delle
emittenti pubbliche tra partito di governo e opposizioni, in particolar modo nei periodi preelettorali. Da
ultimo, considerato l’utilizzo estensivo e il ruolo che ha avuto Twitter (ma più in generale il mondo web)
nell’organizzazione delle proteste di Gezi Park, il governo ha iniziato a esercitare maggiori ingerenze e
pressioni anche sullo spazio cibernetico.
4. Il nuovo autoritarismo
La reazione del governo al tentato e fallito colpo di stato del 15 luglio 2016 ha infine determinato la più
grave involuzione in materia di libertà di stampa e di espressione per la Repubblica di Turchia degli
ultimi 35 anni. Nei mesi seguenti il 15 luglio più di 150 organi di informazione sono stati chiusi
forzatamente; il partito di Erdoğan ha decretato lo “stato di emergenza” estendendone poi la durata fino
a luglio 2018, dopo aver vinto le elezioni presidenziali. La fine di questo non ha però decretato la fine
della repressione dei media: a dicembre 2018 erano ancora 68 i giornalisti in carcere, facendo della
Turchia il paese con il più alto numero di giornalisti in prigione al mondo. Nuove chiusure di testate
giornalistiche e arresti si sono verificati anche negli anni successivi, con un incremento notevole durante
l’autunno 2019, in concomitanza all’operazione militare “Primavera di Pace” nel nord-est della Siria.
Sebbene esista a oggi un piccolo numero di organi di informazione indipendenti, questi subiscono
costantemente pressioni politiche, giudiziarie ed economiche andando incontro a regolari persecuzioni.
Nel 2021 numerosi giornalisti sono stati perseguiti penalmente per aver coperto mediaticamente alcune
proteste antigovernative e aver parlato di casi di corruzione interni al governo. Al di fuori di questi
elementi, il 90 percento dei media nel Paese figura essere di proprietà grandi aziende con stretti legami
personali con il Presidente Erdoğan.
Gli sviluppi post-2016 e l’approvazione del referendum costituzionale del 2017 verso un
iperpresidenzialismo hanno evidenziato il passaggio da un autoritarismo competitivo “standard” a una
più peculiare forma di nuovo autoritarismo. In questo, il principale obiettivo non è tanto la
soppressione e il controllo dei media e dell’opinione pubblica in sé, quanto piuttosto la loro
manipolazione e strumentalizzazione. Mentre in passato lo stato turco ha utilizzato strumenti
giudiziari ed economici per definire i limiti legali e politici del discorso pubblico, nella nuova forma di
autoritarismo i media e gli organi di informazione sono diventati essi stessi strumenti del potere
statale. La natura corporative della stampa turca e la crescente polarizzazione lungo le divisioni partitiche
è divenuta uno dei fattori chiave nell’influenzare i risultati elettorali e contribuire alla polarizzazione della
politica. I media governativi sono diventati progressivamente strumenti per debilitare e screditare le
opinioni critiche senza dover necessariamente censurarli: una strategia offensiva che consiste
nell'articolare in modo aggressivo e ripetitivo contro-verità anche su questioni fattuali, in modi che
ricordano la "politica della post-verità”. Una strategia che va a colpire i singoli giornalisti, accusati di
diffondere bugie e menzogne, i quali vengono sistematicamente attaccati sul piano personale da parte
dei “colleghi” e, sempre più spesso, dai cittadini. L’approvazione nell’ottobre scorso della nuova
controverse legge - ufficialmente volta a combattere la disinformazione online, nei fatti nuovo strumento
di repressione – potrebbe aggiungere un ulteriore tassello nella strategia del governo di controllare e
modellare sempre più la narrativa nel e del Paese. Specie in vista delle prossime, fondamentali, elezioni
del 2023. I tragici fatti occorsi domenica 13 novembre scorso potranno rivelare fino a che punto tale
strumento verrà utilizzato per incriminare chiunque non si uniformi alla “verità” governativa. Nel
frattempo, tutti i canali social nel Paese sono stati bloccati onde evitare speculazioni sull’accaduto e il
proliferare di teorie, immagini, video e perché no, proteste.
Un ulteriore aspetto cruciale dei media e dell’informazione in Turchia sotto il nuovo autoritarismo è il
fatto che tutte queste pratiche di coercizione, intimazione, svilimento e controllo sembrano esser
divenute strumenti per difendere l’immagine, l’identità e gli interessi del partito piuttosto che dello
stato (come avveniva invece in passato). Ciò anche e soprattutto data l’abilità retorica con cui Recep
Tayyip Erdoğan è riuscito a identificare gli interessi dello stato con quelli del proprio partito e, ancora
maggiormente, il partito con la propria figura.
5. Conclusioni
Nonostante l’evidente deterioramento dello status democratico del Paese e l’involuzione nella sfera dei
diritti delle libertà, la società turca esiste e resiste al potere dello stato. A testimoniarlo sono le vittorie
delle opposizioni alle elezioni locali del 2019 nelle due maggiori città (Istanbul e Ankara), le numerose
proteste e contestazioni su specifici temi nonostante l’utilizzo della forza da parte delle autorità, nonché
il persistere di media di informazione alternativi a quelli filogovernativi a fronte degli ostacoli e
impedimenti cui sono sottoposti. A favorire ciò è sicuramente l’estrema polarizzazione sociale presente
oggigiorno nel Paese, tale per cui la principale frattura interna è proprio tra erdoğanisti e anti-erdoğanisti:
una frattura capace di coalizzare sei partiti di opposizione che, al di là del contrasto alla figura del
Presidente, hanno poco o nulla da condividere. Il secondo elemento che ha impedito il completo tracollo
del Paese in termini di pluralismo è proprio la storia della Repubblica: se da una parte la stessa
affermazione di Erdoğan al potere e il suo autoritarismo sono imputabili a quell’ “ordine illiberale di
sottofondo, caratterizzato da statalismo, nazionalismo, conservatorismo religioso e protezione di potenti
interessi economici” (Donelli 2019, p.18); dall’altra, la società civile turca ha beneficiato di più di 70 anni
di coinvolgimento democratico e multipartitismo politico. Questa società civile, così come i partiti di
opposizione, sono consapevoli dei limiti e delle potenzialità delle strutture democratiche del Paese, ma
non hanno mai smesso di credere nelle potenzialità del voto democratico.
Bibliografia
M. Akser, “News Media Consolidation and Censorship in Turkey: From Liberal Ideals to Corporatist
Realities”, Mediterranean Quarterly, Vol. 29, N° 3, pp. 78-97, 2018
F. Donelli, Sovranismo islamico. Erdoğan e il ritorno della Grande Turchia, LUISS University Press,
Roma, 2019
A. T. Kuru, The Rise and Fall of Military Tutelage in Turkey: Fears of Islamism, Kurdism, and
Communism, Insight Turkey, vol. 14, n°2, pp. 35-57, 2012
K. Oktem, K. Akkoyunlu (eds), Exit from Democracy. Illiberal Governance in Turkey and Beyond,
Routledge, New York, 2018
B. Yesil, “Press Censorship in Turkey: Networks of State Power, Commercial Pressures, and Self-
Censorship”, Communication, Culture & Critique, n° 7, pp. 154–173, 2014
Sitografia
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