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Procedimento amministrativo

La pubblica amministrazione persegue gli interessi pubblici stabiliti dalla legge. Quando ciò avviene
attraverso moduli autoritativi, ossia attraverso poteri che esulano da quelli previsti dal diritto comune,
l’amministrazione deve esplicare la propria attività mediante precise modalità e scansioni predefinite dalla
legge. Deve, cioè, porre in essere un procedimento amministrativo.
Il procedimento consiste in una serie di atti e di attività funzionalizzati all’adozione del provvedimento
amministrativo che rappresenta l’atto finale della sequenza (Atto amministrativo).
La formalizzazione dell’attività amministrativa rappresenta quindi un contrappeso all’efficacia autoritativa e
unilaterale del potere amministrativo.
La regola del procedimento è posta a tutela del privato sia nel caso di poteri restrittivi, nei quali il privato ha
interesse a limitare il danno, sia nel caso di poteri ampliativi, nei quali ha interesse a ottenere il beneficio.
Il procedimento amministrativo, inoltre, rappresenta la sede per la comparazione dei diversi interessi,
pubblici e privati, coinvolti dall’azione amministrativa (su cui Discrezionalità amministrativa). Infatti,
l’esercizio dei poteri che coinvolgono una pluralità di interessi è regolato dalla legge in forma
procedimentalizzata.
LA DISCIPLINA LEGISLATIVA SUL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO: LA L. 241 DEL 1990
In Italia, fino al 1990, vi erano soltanto diverse leggi di settore che disciplinavano alcuni specifici
procedimenti. Solo nel 1990, con l’adozione della legge 7 agosto 1990, n. 241, si è provveduto ad introdurre
una legge generale sul procedimento amministrativo che, per un verso, ha generalizzato alcuni dei principi
elaborati dalla giurisprudenza e, per l’altro, ha introdotto regole nuove.
La legge n. 241/1990, consta di sei capi (principi; responsabile del procedimento; partecipazione;
semplificazione dell'azione amministrativa; efficacia ed invalidità del provvedimento amministrativo.
Revoca e recesso; accesso ai documenti; disposizioni finali).
La legge 241 ha previsto per la pubblica amministrazione taluni puntuali obblighi, quali quello di concludere
il procedimento mediante l'adozione di un provvedimento espresso, entro un termine prefissato, di motivare
le proprie determinazioni (Motivazione dell’atto amministrativo) e ha introdotto nuovi importanti istituti
nell'organizzazione e nell'attività amministrativa.
Molto importante è stata la previsione espressa, all’art. 1, dei principi generali che ispirano tutta l’attività
amministrativa: tipicità dei fini (Principio di legalità), economicità, efficacia, imparzialità (Principio di
imparzialità), pubblicità e trasparenza (Trasparenza amministrativa). Inoltre si precisa che l’attività
amministrativa è retta anche dai “principi dell’ordinamento comunitario”.
Con la legge n. 15/2005 è stato inserito, all’art.1, il comma 1-bis, secondo cui “La pubblica
amministrazione, nell'adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato
salvo che la legge disponga diversamente”.
Inoltre si è previsto al comma 1-ter che anche “i soggetti privati preposti all’esercizio di attività
amministrative assicurano il rispetto dei criteri e dei principi di cui al comma 1”: in definitiva con tale
previsione i principi generali dell’azione amministrativi divengono principi comuni a soggetti pubblici e
soggetti privati nell’esercizio delle pubbliche funzioni.
LA STRUTTURA E LE FASI DEL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO
Tradizionalmente, il procedimento amministrativo è stato suddiviso nella fase di iniziativa, istruttoria e
decisoria. Tale suddivisione, peraltro, ha portata meramente esemplificativa di un percorso decisionale
unitario e che verrà formalizzato nel provvedimento.
Il procedimento amministrativo si apre con l’atto di iniziativa. L’avvio del procedimento può avvenire ad
istanza di parte, quando l’amministrazione viene sollecitata a procedere da un privato o da un’altra
amministrazione, ovvero d’ufficio, quando l’impulso proviene dalla medesima amministrazione competente
a svolgere il procedimento e ad emanare il provvedimento finale.
L’articolazione del procedimento prosegue con la fase dell’istruttoria, costituita da tutte quelle attività
necessarie a chiarire le questioni rilevanti per la decisione finale. In questa fase, un ruolo di primaria
importanza è svolto dal responsabile del procedimento, i cui compiti sono previsti dagli artt. 4 e 5 della
legge n. 241. Dopo aver presidiato l’istruttoria, il responsabile del procedimento adotta il provvedimento
finale ovvero, nei casi in cui non ne abbia la competenza, trasmette gli atti del procedimento
all’organo competente. Quest’ultimo, se diverso dal responsabile del procedimento, non può discostarsi

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dalle risultanze dell’istruttoria se non indicandone i motivi nel provvedimento finale. Nell’ambito della fase
istruttoria possono essere coinvolte altre amministrazioni pubbliche, ad esempio, quando la legge prevede
che l’ente procedente debba acquisire valutazioni provenienti da altri apparati pubblici. Generalmente, tale
ultima forma di partecipazione si risolve nell’attività consultiva nell’ambito della quale gli atti assumono la
veste di pareri.
LA PARTECIPAZIONE AL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO
Con l’introduzione della legge n. 241, si è incisivamente modificato il rapporto tra la pubblica
amministrazione e i soggetti portatori di interessi coinvolti nel procedimento, garantendo a questi ultimi, in
via generale, la partecipazione al procedimento stesso. Le garanzie di partecipazione al procedimento sono
state previste, da un lato, per una migliore cura dell’interesse pubblico e, dall’altro, per tutelare il privato di
fronte all’esercizio del potere amministrativo.
Nell’ambito delle garanzie partecipative, è stato previsto che, ove non sussistano ragioni di impedimento
derivanti da particolari esigenze di celerità, l’amministrazione debba comunicare l'avvio del procedimento ai
soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti e a quelli che per
legge devono intervenirvi. Qualora dal provvedimento possa derivare un pregiudizio a soggetti individuati o
facilmente individuabili (diversi dai suoi diretti destinatari), l'amministrazione è tenuta a fornire anche a loro
notizia dell'inizio del procedimento.
La legittimazione a partecipare al procedimento è garantita sia ai soggetti cui, ai sensi dell’art. 7, comma 1,
l. n. 241, deve essere comunicato l’avvio del procedimento, ma anche a qualunque altro soggetto, portatore
di interessi pubblici o privati, nonché ai portatori di interessi diffusi, costituiti in associazioni o comitati, cui
possa derivare un pregiudizio dal provvedimento.
Con riferimento al contenuto della partecipazione, questa si esplica attraverso il diritto di visionare gli atti
del procedimento e di presentare memorie e documenti. Il diritto di visione degli atti del procedimento
costituisce una forma particolare del più generale diritto di accesso ai documenti amministrativi previsto
dagli artt. 22 ss. della legge n. 241.
Con la legge n. 15 del 2005 si è inserito l’art. 10 bis il quale stabilisce che, nei procedimenti ad istanza di
parte, il responsabile del procedimento, prima della formale adozione del provvedimento di diniego,
comunica a coloro che hanno determinato l’avvio del procedimento i motivi che ostano all’accoglimento
dell’istanza. Si è ritenuto opportuno inserire tale previsione al fine di garantire ai destinatari degli effetti del
provvedimento un’ulteriore fase di contraddittorio scritto con l’amministrazione procedente.
L’art. 11 della legge n. 241, disciplinando l’istituto degli accordi, ha consentito all’amministrazione di
avvalersi di moduli consensuali per l’esercizio della funzione amministrativa, in questo modo
generalizzando l’alternativa all’usuale modello di amministrazione fondato sull’esercizio autoritativo ed
unilaterale del potere.
In particolare, la legge dispone che, in accoglimento di osservazioni e proposte avanzate dai privati,
l'amministrazione procedente può concludere, senza pregiudizio dei diritti dei terzi, e in ogni caso nel
perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto
discrezionale del provvedimento finale ovvero in sostituzione di questo. L’accordo, quindi, può apportare
elementi integrativi rispetto al contenuto del provvedimento finale ovvero può completamente sostituire
quest’ultimo.
GLI ISTITUTI DI SEMPLIFICAZIONE AMMINISTRATIVA
Il capo quarto della legge n. 241 disciplina gli istituti volti a semplificare l’azione amministrativa.
Al fine di accelerare e snellire l'azione amministrativa, si conferisce carattere generale alla conferenza di
servizi che può essere indetta qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici
coinvolti in un procedimento oppure quando l'amministrazione procedente debba acquisire intese, concerti,
nulla osta o assensi comunque denominati di altre amministrazioni pubbliche. In tal caso le determinazioni
concordate nella conferenza tra tutte le amministrazioni intervenute tengono luogo degli atti predetti (art.
14).
Gli ulteriori istituti di semplificazione, ossia la segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) e il silenzio-
assenso (Silenzio della pubblica amministrazione), sono talvolta indicati da dottrina e giurisprudenza anche
come espressione della c.d. liberalizzazione amministrativa e cioè forme di eliminazione o, quantomeno,
riduzione degli ostacoli di ordine amministrativo che si interpongono allo svolgimento di attività private.
Attraverso la Segnalazione Certificata di Inizio Attività, il privato può immediatamente iniziare l'attività alla
data di presentazione della segnalazione all'amministrazione competente. In caso di accertata carenza dei

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requisiti necessari, ed entro il termine di 60 giorni dal ricevimento della SCIA, l'amministrazione
competente adotta motivati provvedimenti con cui dispone il divieto di proseguire l'attività e la rimozione
degli eventuali effetti dannosi. L'interessato può evitare tali provvedimenti conformando alla normativa
vigente l'attività ed i suoi effetti entro un termine fissato dall'amministrazione, in ogni caso non inferiore a
30 giorni. In ogni caso, infatti, è fatto salvo il potere dell'amministrazione competente di assumere
determinazioni in via di autotutela, anche oltre tali termini. Restano esclusi dalla disciplina sulla SCIA i casi
in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali e gli atti rilasciati dalle amministrazioni
preposte alla difesa nazionale, alla pubblica sicurezza, all’immigrazione, all’asilo, alla cittadinanza,
all’amministrazione della giustizia, all’amministrazione delle finanze, ivi compresi gli atti concernenti le reti
di acquisizione del gettito anche derivante dal gioco, nonché quelli imposti dalla normativa comunitaria.
Come si è detto, la legge stabilisce che il procedimento amministrativo sia concluso entro un termine
prefissato. Poiché l’inerzia dell’amministrazione costituisce una delle più gravi e frequenti inefficienze
dell’attività amministrativa, la legge ha cercato di trovare dei rimedi, tra quali si annovera l’istituto del
silenzio-assenso attraverso cui il provvedimento richiesto dal privato si considera tacitamente rilasciato a
meno che non siano in gioco interessi che richiedono una determinazione espressa. L’art. 20 della legge n.
241 stabilisce che nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi, il
silenzio dell'amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, se la
medesima amministrazione non comunica all'interessato, entro il termine previsto per la conclusione del
procedimento, il provvedimento espresso di diniego ovvero non indice una conferenza di servizi. Anche nel
caso del silenzio-assenso, la delicatezza di alcune materie esclude l’applicabilità dell’istituto di
semplificazione.
L’ACCESSO AI DOCUMENTI AMMINISTRATIVI
Allo scopo di assicurare la trasparenza dell'attività amministrativa e di favorirne lo svolgimento imparziale,
è riconosciuto a chiunque vi abbia interesse e con le modalità indicate dalla legge, il diritto di accesso ai
documenti amministrativi e cioè di ottenerne copia e prenderne visione. Il diritto di accesso è escluso per i
documenti coperti dal segreto di stato nonché nei casi di segreto o di divieto di divulgazione altrimenti
previsto dall'ordinamento. Inoltre, il Governo può escludere il diritto di accesso con appositi regolamenti al
fine di salvaguardare particolari interessi: la sicurezza, la difesa nazionale e le relazioni internazionali; la
politica monetaria e valutaria; l'ordine pubblico e la prevenzione e la repressione dei reati; la riservatezza dei
terzi, persone, gruppi e imprese (art. 22 e segg.).

Annullamento d’ufficio
L’annullamento d’ufficio costituisce un provvedimento amministrativo di secondo grado che può essere
emanato, sussistendone le ragioni di pubblico interesse, entro un termine ragionevole, dallo stesso organo
che ha emanato l’atto (v. Atto amministrativo) da annullare o da diverso organo previsto dalla legge (art.
21 nonies della l. n. 241/1990, introdotto dalla l. n. 15/2005).
In tale quadro, si parla di annullamento d’ufficio gerarchico quando il provvedimento viene preso
dall’autorità gerarchicamente superiore a quella che ha emanato l’atto, e più in particolare di annullamento
ministeriale, nei rari e particolarissimi casi di cui all’art. 14 d.lgs. n. 165/2001, e di annullamento
governativo, nei casi previsti dall’art. 138 d.lgs. n. 267/2000, inquadrabili tra gli atti di alta amministrazione.
Si parla invece di auto-annullamento quando il provvedimento viene preso dalla stessa autorità che ha
emanato l’atto illegittimo, nell’esercizio dei poteri di autotutela. Quest’ultimo è normalmente un
provvedimento a carattere discrezionale (v. Discrezionalità amministrativa), fin quando l’illegittimità non
sia riconosciuta da un’autorità di controllo o dall’autorità giudiziaria con sentenza passata in giudicato. In
particolare, la discrezionalità non si esplica in un confronto tra l’interesse alla legittimità e gli altri interessi
pubblici, ma, piuttosto, nello stabilire se sussista o meno una perdurante situazione di illegittimità o se
quest’ultima possa ritenersi ormai sanata. Il potere di annullamento d’ufficio non è soggetto ad alcun
termine.

Atto amministrativo

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Atto adottato da una pubblica amministrazione in quanto autorità. Si distingue dagli accordi, dalle
convenzioni, dai contratti, che la pubblica amministrazione conclude non in posizione di autorità, ma in
posizione di sostanziale parità nei confronti dell’amministrato.
 L’evoluzione della categoria. - Inizialmente, la nozione di atto amministrativo era molto ampia e
comprendeva tutte le misure adottate unilateralmente da pubbliche amministrazioni: dalla semplice nota
indirizzata da un ufficio a un altro, ai pareri, agli accertamenti tecnici, ai bilanci, alle decisioni di espropriare
proprietà private per ragioni di pubblica utilità. In seguito, grazie alla giurisprudenza, si è introdotta una
distinzione fra atto amministrativo in senso stretto e proprio, da un lato, e provvedimento amministrativo,
dall’altro.
L’atto amministrativo in senso stretto. - L’atto amministrativo in senso stretto indica gli atti strumentali,
serventi, ausiliari che nell’ambito di un procedimento amministrativo precedono e preparano la decisione, o
la seguono e ne assicurano l’efficacia. Sono atti amministrativi, per es.: gli accertamenti e le valutazioni
tecniche, i pareri, le ispezioni, le comunicazioni delle decisioni agli interessati. Tali atti, di regola, non
incidono direttamente sui diritti o sugli interessi degli amministrati e non sono impugnabili dinanzi
al giudice. Vi sono, tuttavia, eccezioni: per es., un parere negativo che la pubblica amministrazione trasmetta
all’amministrato può considerarsi immediatamente lesivo dei suoi diritti o interessi e, come tale,
impugnabile.
Il provvedimento amministrativo: i tratti fondamentali. - Il provvedimento amministrativo sta a indicare
l’atto fondamentale di un procedimento amministrativo, che coincide con la decisione adottata dalla
pubblica amministrazione, incide direttamente sui diritti o sugli interessi degli amministrati ed è
impugnabile dinanzi al giudice. Il provvedimento, dunque, è l’atto amministrativo che riveste maggiore
importanza. Esso può definirsi come l’atto mediante il quale la pubblica amministrazione dispone in ordine
all’interesse pubblico affidato alla sua cura, esercitando il proprio potere autoritativo e incidendo in
situazioni giuridiche (di diritto o di interesse) proprie del soggetto amministrato. In definitiva, il
provvedimento amministrativo ha forza costitutiva di situazioni giuridiche ed è imperativo: con esso, cioè, la
pubblica amministrazione costituisce, modifica o estingue diritti o interessi degli amministrati in via
unilaterale e senza il consenso dei destinatari. Per esempio, un provvedimento di espropriazione.
Il primo aspetto essenziale del provvedimento amministrativo è che esso proviene da una pubblica
amministrazione. Vi sono, tuttavia, casi in cui misure adottate da soggetti privati sono equiparate a
provvedimenti amministrativi: per esempio, la Corte di Cassazione ha sostenuto che gli atti posti in essere da
imprese concessionarie di opere pubbliche o di servizi pubblici sono da considerarsi provvedimenti
amministrativi, traendone la conseguenza che misure come i bandi di gara emanati dal concessionario siano
impugnabili dinanzi al giudice amministrativo. Altro aspetto essenziale del provvedimento è che esso è
adottato da una pubblica amministrazione nell’esercizio di un suo potere autoritativo, regolato dal diritto
pubblico. Da questo punto di vista, il provvedimento amministrativo si distingue dal contratto della pubblica
amministrazione, che è stipulato su un piano di parità fra amministrazione e amministrato ed è disciplinato
in larga misura dal diritto privato. Sono, però, considerati provvedimenti amministrativi gli atti della
pubblica amministrazione che preludono alla conclusione di un contratto, come i bandi di gara e
l’aggiudicazione di un contratto di appalto al miglior offerente.
Il provvedimento, di regola, dispone in ordine a un caso concreto e si rivolge a uno o più amministrati
determinati: si autorizza un’impresa a svolgere una certa attività commerciale; o si espropria la proprietà dei
tali soggetti privati. Si parla, in questo caso, di provvedimenti individuali o particolari. Vi sono, tuttavia,
anche provvedimenti che si rivolgono a un numero indeterminato di soggetti e pongono regole dotate di
efficacia generale: sono i cosiddetti provvedimenti amministrativi generali, come le programmazioni
territoriali o economiche. In questi casi non è sempre agevole distinguere il provvedimento amministrativo
generale dal regolamento.
Usualmente il provvedimento è discrezionale. Vi sono, però, provvedimenti a discrezionalità limitata, come
le autorizzazioni cosiddette obiettivate, che vengono rilasciate sulla base di un accertamento semiautomatico
di certi requisiti: è il caso delle autorizzazioni all’esercizio dell’attività bancaria.
Il regime del provvedimento amministrativo: efficacia e validità. - Norme rilevanti sull’efficacia,
l’esecuzione e l’invalidità del provvedimento sono dettate dalla legge generale sul procedimento
amministrativo (l. n. 241/1990, modificata dalla l. n. 15/2005). Il provvedimento che limita la sfera giuridica
dei privati (come l’espropriazione) acquista efficacia con la comunicazione al destinatario; se non ha
carattere sanzionatorio, può contenere una clausola motivata di efficacia immediata; hanno immediata

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efficacia i provvedimenti cautelari e urgenti (art. 21 bis). I provvedimenti efficaci sono di regola eseguiti
immediatamente (art. 21 quater). I provvedimenti che costituiscono obblighi in capo ai privati (per es., di
consegnare la cosa requisita, o di installare un depuratore) indicano il termine e le modalità per l’esecuzione
da parte del soggetto obbligato. Se quest’ultimo non ottempera, la pubblica amministrazione, previa diffida,
può provvedere all’esecuzione coattiva, senza l’intervento del giudice, nelle ipotesi previste dalla legge: ciò,
in termini tecnici, si definisce esecutorietà del provvedimento (art. 21 ter). Il provvedimento a efficacia
durevole può essere revocato per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, ovvero nel caso di mutamento
della situazione di fatto, o di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario. La revoca rende il
provvedimento inidoneo a produrre ulteriori effetti. Se vi è un pregiudizio a danno di chi subisce la revoca,
l’amministrazione è obbligata a provvedere all’indennizzo (art. 21 quinquies). Quanto all’invalidità, il
provvedimento può essere nullo o annullabile. È nullo se manca degli elementi essenziali, se è viziato da
difetto assoluto di attribuzione (quando vi è carenza del potere, come nel caso di espropriazione in assenza
di dichiarazione di pubblica utilità del bene), ovvero se è stato adottato in violazione o elusione di una
sentenza passata in giudicato (art. 21 septies). È annullabile (art. 21 octies) per violazione di legge, eccesso
di potere, o incompetenza (su cui si v. competenza amministrativa).

Funzione amministrativa
Con riferimento alla classica tripartizione dei poteri in legislativo, giurisdizionale ed esecutivo, affidati
rispettivamente al parlamento, alla magistratura e al governo, locuzione utilizzata per indicare l’insieme dei
compiti attribuiti all’amministrazione, ma di fatto priva di valore giuridico. Infatti, la separazione dei poteri
e delle funzioni non corrisponde né all’ordinamento comunitario, che manca di questa netta distinzione – la
Commissione europea, per es., ha compiti sia di iniziativa legislativa sia di natura contenziosa – né
all’ordinamento nazionale, che conosce diversi ibridi, quali le autorità indipendenti, aventi compiti
riconducibili a più di un potere, le funzioni amministrative affidate ai giudici (come l’attività di
volontaria giurisdizione), le funzioni normative svolte dall’apparato esecutivo (come il potere
regolamentare), le funzioni di risoluzione dei conflitti svolte dall’amministrazione (attività amministrativa
contenziosa).
In un’altra accezione, il termine funzione si utilizza, in contrapposizione a quello di servizio (su cui Servizi
pubblici) per indicare l’attività di tipo autoritativo che contraddistingue l’amministrazione pubblica.Tale
distinzione, propria dello Stato liberale, può considerarsi superata in termini generali, mentre si riscontra in
alcune disposizioni normative particolari sia dell’ordinamento nazionale, sia di quello comunitario.
Nell’ordinamento italiano, l’art. 357 c.p. definisce, ai soli fini dell’applicazione della legge penale, la
funzione amministrativa quale attività disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, e
caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal
suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi; e l’art. 358 c.p. qualifica il servizio come
un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei
poteri tipici di quest’ultima.
Nell’ordinamento comunitario, invece, la nozione è stata utilizzata come criterio per limitare la deroga alla
libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità che, ai sensi dell’art. 45, par. 4, TFUE, si
applica agli impieghi nella pubblica amministrazione. In attuazione di tale norma, l’art. 8 Reg. CEE 1612/68
ha specificato che il lavoratore cittadino di uno Stato membro può essere escluso, sul territorio di un altro
Stato membro, dall’esercizio di una funzione di diritto pubblico e la Corte di Giustizia ha chiarito che
la disposizione trova applicazione solamente per quegli impieghi che implicano una partecipazione, diretta o
indiretta, all’esercizio del pubblico potere e alle funzioni che hanno per oggetto la salvaguardia degli
interessi generali dello Stato o delle altre comunità pubbliche e non anche per i servizi, quali, per
es., istruzione, sanità, trasporti, poste e telecomunicazioni, energia, ricerca.
Con altro significato, più rilevante per il diritto amministrativo, il termine è utilizzato per indicare che
l’attività amministrativa è funzione, nel senso che l’amministrazione, in tutti i suoi elementi (organizzazione,
personale, finanza, attività), deve essere in rapporto con i fini pubblici. Tale correlazione è sempre presente,
anche quando, nel caso del ricorso delle amministrazioni a istituti propri del diritto privato
(contratti, costituzione di società per azioni, gestione di beni pubblici ecc.), risulta meno evidente e assume
forme giuridiche diverse.

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Più diffusamente, si parla, al plurale, di funzioni pubbliche con riferimento all’insieme delle attività svolte
dagli apparati amministrativi dello Stato e degli altri enti o figure del settore pubblico. In questo senso, la
funzione si compone in realtà di un insieme di funzioni, le quali sono state oggetto di studio delle scienze
politiche e di una parte della dottrina giuridica. Sotto il primo profilo, il tema della progressiva espansione
delle funzioni pubbliche – dai campi d’azione tradizionali (difesa, affari interni ed esteri) a quelli legati allo
stato sociale (sanità, istruzione, protezione sociale) o volti all’intervento nell’economia (finanza,
assicurazioni, credito, fonti di energia, comunicazioni) o alla tutela di particolari settori (ambiente) – si
connette alla problematica relativa all’evoluzione storica dello Stato liberale, volta a garantire l’eguaglianza
dei cittadini in senso non soltanto formale, ma anche sostanziale. Una parte della scienza giuridica ha
mostrato un certo disinteresse per questa parte del diritto amministrativo mentre un’altra, di fronte al
moltiplicarsi delle funzione pubbliche, si è occupata sia di individuarne caratteri ed elementi, sia di
analizzare la loro ripartizione fra i vari apparati amministrativi.
Quanto ai caratteri, la funzione amministrativa non è libera ma soggetta a procedimenti e controlli (se volta
all’emanazione di atti giuridici su cui), ha natura permanente, nel senso che non è circoscritta al
raggiungimento di uno scopo concreto o all’adozione di un singolo atto, e trova sempre il suo fondamento in
una norma. Più in particolare, dall’analisi delle norme che le disciplinano, emergono quattro elementi
fondamentali delle funzioni amministrative: a) la materia individua il campo d’intervento; b) le attribuzioni
definiscono i compiti assegnati dalla legge all’amministrazione nell’ambito di una data materia; c) il fine
indica lo scopo generale dell’azione amministrativa, non legato a un singolo atto; d) i destinatari sono i
soggetti ai quali la funzione è rivolta (la generalità dei cittadini, o gruppi o singoli, definiti dalle norme).
In base all’ordinamento comunitario, i rapporti fra Comunità e Stati sono regolati dai principi di sussidiarietà
(art. 5 TUE) e leale cooperazione (art. 4, par. 3 TUE), per effetto dei quali le funzione amministrative
possono essere ripartite tra i due livelli, o svolgersi in modo concorrente, attraverso procedimenti composti.
In questo secondo caso, sono responsabili delle singole fasi ora l’amministrazione comunitaria, ora quella
nazionale, ora persino quella di altri Stati membri. Nell’ordinamento nazionale, a seguito della riforma
del titolo V della seconda parte della Costituzione, le funzioni amministrative non sono più distribuite in
base al criterio della materia, in correlazione con la potestà legislativa, ma sono attribuite ai comuni, «salvo
che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato,
sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza» (art. 118).

Istruttoria amministrativa
Fase del procedimento amministrativo nella quale si accertano i fatti e si acquisiscono gli interessi, pubblici
e privati, oggetto di valutazione da parte della pubblica amministrazione ai fini dell’adozione di una
decisione e della relativa motivazione (motivazione dell’atto amministrativo).
Prima dell’approvazione della l. n. 241/1990, accanto a una regolazione generale dell’istruttoria
procedimentale, basata su principi di derivazione giurisprudenziale, esistevano leggi di settore che
disciplinavano singoli procedimenti amministrativi (espropriazione per pubblica
utilità, procedimento disciplinare nei confronti degli impiegati civili dello Stato, procedimento di irrogazione
di sanzioni amministrative ecc.). Dal 1990, invece, è stata introdotta una disciplina generale del
procedimento amministrativo, con l’intento sia di rafforzare le garanzie di partecipazione del privato,
prevalentemente nella fase dell’istruttoria (diritto di prendere visione degli atti e di presentare memorie
scritte e documenti), sia di individuare, per ogni procedimento, la figura di un responsabile che ne assuma
la gestione fin dalla comunicazione di avvio agli interessati.
Nell’ambito del procedimento, la fase dell’istruttoria segue quella dell’iniziativa, d’ufficio o di parte, e
precede quella della decisione. Durante lo svolgimento dell’istruttoria, la pubblica amministrazione valuta le
condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione e i presupposti rilevanti per l’emanazione del
provvedimento; accerta d’ufficio i fatti, disponendo il compimento degli atti a tal fine necessari, potendo
esperire accertamenti tecnici, ispezioni, inchieste e ordinare esibizioni documentali; propone o indice
conferenze di servizi per acquisire il parere, e quindi, gli interessi di altre amministrazioni coinvolte nel
procedimento. In considerazione delle attività da compiersi in questa fase e, quindi, della natura dei fatti
oggetto di acquisizione, l’istruttoria può essere semplice o complessa. Gli oneri di documentazione sono a
carico dell’amministrazione procedente, in presenza di documenti attestanti fatti, stati, qualità e stati

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soggettivi che la medesima è tenuta a certificare, o che sono in suo possesso ovvero sono detenuti
istituzionalmente da altre pubbliche amministrazioni.
All’espletamento degli atti istruttori è preposto il responsabile del procedimento, inteso nella duplice
accezione di ufficio responsabile di una determinata tipologia di procedimenti e di funzionario responsabile
del singolo procedimento concreto. Non sempre il soggetto che provvede all’istruttoria coincide con quello
cui compete l’adozione del provvedimento finale; in questo caso, qualora l’organo competente ad assumere
la decisione intenda discostarsi dalle risultanze istruttorie predisposte dal responsabile del procedimento,
dovrà indicarne la motivazione nell’atto conclusivo del procedimento.
In seguito ad alcune modifiche della l. n. 241/1990, introdotte con la l. n. 15/2005, anche in materia di
invalidità del provvedimento amministrativo, la violazione di norme sul procedimento e, quindi, anche di
quelle che disciplinano l’attività istruttoria, non determina automaticamente l’annullabilità del
provvedimento qualora il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato
(sul punto si veda la voce Annullabilità e annullamento. Diritto amministrativo). In riferimento agli atti
istruttori la pubblica amministrazione dispone del più ampio potere di iniziativa, nonché del potere di
rinnovare e di integrare l’attività istruttoria già conclusa e ritenuta illegittima o inadeguata. L’esercizio del
suddetto potere di iniziativa costituisce l’applicazione del principio inquisitorio, che determina l’attribuzione
in capo all’amministrazione dell’onere di fornire la prova della sussistenza dei presupposti per l’adozione
del provvedimento. La fase istruttoria si ispira, inoltre, al principio della libera valutazione delle prove da
parte dell’amministrazione e del non aggravamento del procedimento, se non in presenza di motivate
esigenze imposte dalle attività compiute in tale fase.
Nell’ambito del processo amministrativo l’istruttoria si caratterizza, altresì, per il suo carattere meramente
eventuale, in quanto vi si procede solo in presenza di documentazione incompleta o di contraddizione tra
fatti affermati nell’atto impugnato e documenti presentati. Nel corso di tale fase, il giudice amministrativo,
tramite la disposizione di mezzi istruttori e l’acquisizione dei relativi risultati, conosce gli elementi di fatto
giustificativi delle istanze delle parti e costituenti oggetto della controversia. La varietà di mezzi istruttori di
cui il giudice amministrativo può disporre è molto ampia nell’ambito della giurisdizione esclusiva,
essendovi ricompresi tutti i mezzi probatori previsti dal codice di procedura civile, con l’eccezione
dell’interrogatorio formale e del giuramento. Al contrario, risulta circoscritta la sfera di applicazione degli
strumenti istruttori nella giurisdizione di legittimità, potendosi esperire la richiesta di chiarimenti o di
esibizione di documenti, disporre la consulenza tecnica ed effettuare nuove verifiche.

Motivazione dell’atto amministrativo


Nel diritto amministrativo la motivazione consiste nella enunciazione dei presupposti e dei motivi su cui si
fonda un determinato provvedimento (v. Atto amministrativo). Più specificamente, intendendo per
presupposti i fatti permissivi o costitutivi il cui verificarsi consente l’adozione di un determinato atto, e per
motivi gli interessi coinvolti nel procedimento, in base al suo oggetto, si distingue tra una motivazione in
senso ampio, quale insieme dei presupposti e dei motivi, e una motivazione in senso stretto, circoscritta
all’esposizione dei soli motivi.
La motivazione può inoltre essere suddivisa, dal punto di vista logico in due parti: l’esposizione delle
circostanze di fatto e di diritto, e cioè dei suoi presupposti, definita anche ‘giustificazione’, e l’esposizione
dei motivi in senso stretto, vale a dire del percorso logico-giuridico che ha presieduto e condotto a un
determinato provvedimento.
Operando prevalentemente nei confronti degli amministrati, il provvedimento amministrativo non può
mancare di rendere ragione dei suoi cosiddetti presupposti, e cioè dei fatti permissivi o costitutivi assunti
alla base dell’adozione di un determinato atto, pena la ravvisabilità di un vizio del presupposto stesso,
suscettibile di determinarne l’annullamento. Attraverso la motivazione, l’amministrazione rende ragione dei
fattori legittimanti il potere esercitato con l’adozione di un determinato provvedimento. Il che, ovviamente,
non la sottrae alla possibilità che il giudice amministrativo intervenga in merito alla congruità dei motivi
addotti a sostegno della decisione.
Anteriormente alla legge sul procedimento amministrativo, in mancanza di un obbligo generalizzato di
motivazione, la giurisprudenza aveva individuato alcune categorie di atti per i quali si riteneva necessaria, a
pena di illegittimità, l’indicazione dei motivi posti a base dell’adozione, onde rendere possibile
il controllo degli interessati e del giudice amministrativo in caso di impugnativa. Al di là dei procedimenti

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tipici (disciplinari, espropriativi), specificamente regolati, si riteneva obbligatoria, pur nel silenzio della
legge, la motivazione per i provvedimenti che sacrificano gli interessi dei destinatari (per es., le sanzioni
amministrative), che hanno contenuto negativo (rifiuto di nulla osta e licenza), che concludono un
procedimento di secondo grado (revoca o annullamento in sede di autotutela), che comportano giudizi o
valutazioni comparative. Inoltre, per gli atti a contenuto vincolato, in cui è la stessa norma attributiva di
potere che ne spiega l’ambito, non occorreva la motivazione, che invece era richiesta nei provvedimenti a
contenuto discrezionale nei quali la stessa fattispecie legale affida all’autore il potere di scelta tra soluzioni
diverse.
L’art. 3 della legge sul procedimento amministrativo (l. n. 241/1990, come modificata dalla l. n. 15/2005) ha
recepito l’istanza volta alla generalizzazione dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti, compresi quelli
concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi e il personale, dettando
puntuali indicazioni sulla struttura della stessa (che deve «indicare i presupposti di fatto e le ragioni
giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze
dell’istruttoria»), ed escludendo dall’obbligo solo gli atti normativi e quelli a contenuto generale. Il co. 3
dello stesso articolo ha altresì disciplinato la motivazione per relationem, prevedendo che, qualora le ragioni
della decisione risultino da altro atto dell’amministrazione, richiamato dalla decisione stessa, insieme alla
comunicazione di quest’ultima debba essere indicato e reso disponibile anche l’atto cui essa si richiama.
L’omessa esternazione del percorso giustificativo e dell’iter logico seguito dall’amministrazione determina
pertanto l’illegittimità del provvedimento.
La previsione del carattere obbligatorio della motivazione produce effetti rilevanti con riferimento alla tutela
giurisdizionale: ai sensi dell’art. 3 della citata legge, la mancanza della motivazione, o l’omessa indicazione
delle ragioni che hanno indotto l’autorità ad adottare l’atto, costituisce un vizio del provvedimento che può
portare al suo annullamento per violazione di legge. Attraverso la motivazione, dunque, l’autorità
amministrativa deve rendere ragione del modo in cui ha svolto la propria funzione. Con il conseguente
effetto che la previsione dell’obbligo di motivazione viene oggi strutturalmente riconnessa alle ‘risultanze
dell’istruttoria’, sicché attraverso la motivazione l’autorità amministrativa dovrà rendere ragione del modo
in cui ha svolto la propria funzione (sul punto v. Istruttoria amministrativa). Tuttavia, la sentenza 2281/2002
del Consiglio di Stato ha pure specificato che non si rende necessaria una motivazione dettagliata dei
presupposti di fatto e delle argomentazioni giuridiche a supporto dell’atto quando l’iter logico che ha portato
al provvedimento finale sia agevolmente desumibile dall’istruttoria amministrativa. L’insufficienza o
l’inadeguatezza della motivazione è invece censurabile per eccesso di potere in uno dei suoi profili
sintomatici.
La motivazione deve essere esternata chiaramente attraverso espressioni idonee, e deve essere percepibile
all’esterno, ai soggetti nella cui sfera il provvedimento va a incidere. Giurisprudenza e dottrina prevalenti
hanno peraltro sottolineato una sorta di polifunzionalità della motivazione, che assolverebbe a una funzione
di garanzia del privato nei confronti dell’operato della pubblica amministrazione, ma che andrebbe
soprattutto riconosciuta come fondamentale strumento per l’interpretazione e il controllo sull’esercizio del
potere amministrativo, nonché per l’accertamento giudiziale dell’atto conseguente. Su questo sentiero
sembra del resto muoversi la stessa interpretazione comunitaria, secondo cui l’obbligo di motivazione
risponderebbe alla duplice esigenza di consentire da un lato, agli interessati, di conoscere le giustificazioni
del provvedimento adottato, e quindi di difendere i propri diritti, e, dall’altro, di rendere possibile al giudice
l’esercizio del suo sindacato sulla legittimità del provvedimento stesso.

Annullabilità e annullamento. Diritto amm.ivo


L’annullamento consegue all’anormalità di un atto amministrativo. In particolare, si usa distinguere
l’annullamento su ricorso, risultante cioè dalla presentazione di un ricorso, amministrativo o giurisdizionale,
l’annullamento d’ufficio, consistente nel ritiro spontaneo da parte di una pubblica amministrazione di un atto
amministrativo affetto da vizi di legittimità originari, e l’annullamento in sede di controllo (in particolare
sugli atti amministrativi degli enti locali).
I vizi di legittimità per cui è tradizionalmente annullabile un atto amministrativo consistono
nell’incompetenza, nell’eccesso di potere e nella violazione di legge. Nell’incompetenza, che può
presentarsi «per grado», «per valore», e «per materia», alcuni fanno rientrare anche i difetti di composizione
di organi collegiali, di numero legale, di incompatibilità (si v. competenza amministrativa).

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L’eccesso di potere è frutto di una creazione giurisprudenziale e consiste in un vizio funzionale dell’atto, che
si manifesta direttamente quale sviamento di potere o, indirettamente, in alcune figure cosiddette
sintomatiche (irragionevolezza, illogicità, contraddittorietà, travisamento dei fatti, difetto di istruttoria,
difetto di motivazione. La violazione di legge è infine il vizio residuale che ricomprende tutte le
manifestazioni di illegittimità non riconducibili a incompetenza e a eccesso di potere, quali l’errata
applicazione di norme, i vizi della volontà e dell’oggetto, i vizi dei presupposti e tutti i vizi formali.
Non sempre, tuttavia, la ricorrenza di uno dei tre vizi conduce all’annullamento dell’atto da parte
del giudice amministrativo.
La l. n. 80/2005 che ha modificato la l. n. 241/1990 sul procedimento amministrativo, oltre ad aver
espressamente disciplinato all’art. 21 octies, comma 1 i tradizionali vizi di legittimità dell’atto
amministrativo, al comma 2 ha infatti previsto che la ricorrenza di determinati vizi (cd. formali o relativi al
mancata comunicazione di avvio del procedimento) può non determinare l’annullamento dell’atto laddove
l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto dispositivo dello stesso atto non sarebbe comunque
potuto essere diverso da quello concretamente adottato.
Aldilà di tali ipotesi - che investono il momento della tutela giurisdizionale - l’atto annullabile può essere
comunque convalidato dalla stessa amministrazione se sussistono rilevanti ragioni di interesse pubblico e,
comunque, entro un termine ragionevole. Tale potestà generale rientra, tuttavia, tra i poteri
di autotutela decisoria dell’amministrazione; in questa prospettiva, la l. n. 80/2005 ha disciplinato il potere
generale di convalida dell’atto viziato nell’ambito dell’art. 21 nonies che si occupa dell’annullamento
d’ufficio.

Trasparenza amministrativa
Principio fondamentale dell’esercizio della funzione amministrativa, manifestazione del principio
di imparzialità e buon andamento contenuto nell’articolo 97 della Costituzione.
L’art. 1 della l. n. 241/1990 (come modificato dall’art. 1 della l. n. 15/2005) individua la trasparenza tra i
principi generali attinenti alle modalità di svolgimento del rapporto tra pubblica amministrazione e privati-
cittadini, insieme ad altri principi quali l’economicità, l’efficacia, la pubblicità ecc. La trasparenza delinea la
comprensibilità dell’azione dei soggetti pubblici sotto diversi profili, quali la semplicità e la pubblicità
(conoscibilità), in modo da consentire la conoscenza reale dell’attività amministrativa e di effettuare
il controllo sulla stessa. L’azione amministrativa deve quindi consentire agli interessati di accedere alle
informazioni relative al procedimento in corso e per le pubbliche amministrazioni vi è il dovere di
comunicare agli stessi tutte le informazioni richieste, salvo i casi eccezionali espressamente esclusi dalla
legge. La trasparenza amministrativa trova applicazione soprattutto attraverso il diritto di accesso ai
documenti amministrativi, la comunicazione dell’avvio e la partecipazione al procedimento,
la motivazione del provvedimento. Tali principi, quindi, consentono al soggetto privato che abbia un
interesse diretto, concreto e attuale, di interloquire con la pubblica amministrazione, a tutela del proprio
interesse, prima che sia adottata la decisione finale (Corte cost., sent. 104/2006; art. 1, co. 1, 3, 22, l. n.
241/1990).

Parere
Atto tipico della fase istruttoria del procedimento amministrativo. È previsto dalla legge quando sia
necessario acquisire una valutazione, un apprezzamento o un giudizio in funzione ausiliare e preparatoria di
un provvedimento di amministrazione attiva. Quando il contenuto del parere è esclusivamente tecnico si
parla di valutazione tecnica.
I pareri vengono rilasciati dagli organi dell’amministrazione consultiva, che hanno normalmente struttura
collegiale (per es., il Consiglio di Stato e l’Avvocatura dello Stato). All’interno di un procedimento
amministrativo, la richiesta e la concessione del parere costituiscono una fase sub-procedimentale. Il parere
è, pertanto, un atto istruttorio, endo-procedimentale. Nella generalità dei casi, non essendo suscettibile di
ledere situazioni giuridiche soggettive, non è autonomamente impugnabile.
I pareri si distinguono in facoltativi e obbligatori. Nel caso dei pareri facoltativi l’amministrazione
procedente non è tenuta a richiederli, ma è tenuta a prenderli in considerazione una volta richiesti, e può
discostarsene solo motivando la decisione. Nel caso dei pareri obbligatori l’amministrazione è tenuta sia a

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richiederli sia a tenerne conto, e anche in questo caso solo motivatamente può provvedere in difformità.
Inoltre, sono pareri vincolanti quei pareri obbligatori che obbligano l’amministrazione attiva – oltre che a
richiederli – a uniformarsi al loro contenuto. Infine, sono pareri conformi i pareri obbligatori che
intervengono in un procedimento in cui l’amministrazione ha la discrezionalità di provvedere o meno ma,
nel caso in cui si disponga a provvedere, è tenuta a uniformarsi al parere reso.
Il rilascio dei pareri è stato sovente, in passato, causa di ritardi nel corso dei procedimenti; la l. n. 241/1990
sul procedimento amministrativo (e successive modifiche) ha pertanto previsto (art. 16) una disciplina di
semplificazione dell’attività consultiva, volta a definire i termini per rendere i pareri e a statuire che, decorsi
tali termini, l’amministrazione può procedere indipendentemente dal parere.

Revoca. Diritto amministrativo


Atto che elimina gli effetti di un precedente provvedimento, in quanto viziato nel merito e, quindi,
inopportuno, inadeguato o ingiusto.
La revoca appartiene alla categoria dei provvedimenti amministrativi cosiddetti di secondo grado o di
riesame (annullamento, sospensione, convalida), con i quali l’amministrazione rimuove, modifica, sospende
o conferma atti adottati in precedenza, al fine di curare l’interesse pubblico e verificare che sia soddisfatto in
via concreta e attuale (su cui si veda la voce Autotutela. Diritto amministrativo).
In particolare, con la revoca (per vizi di merito e con efficacia ex nunc) e con l’annullamento d’ufficio (per
vizi di legittimità e con efficacia ex tunc), l’amministrazione esercita un potere uguale e contrario a quello
posto in essere con il provvedimento revocato o annullato ed espleta nuovamente la medesima funzione
realizzata con l’adozione del primo atto.
Fino all’introduzione di una specifica disciplina legislativa, intervenuta con la l. n. 241 del 1990 (art.
21 quinquies e nonies), modificata dalla l. 15/2005, la revoca e l’annullamento d’ufficio hanno ricevuto una
regolazione giurisprudenziale, orientata a riconoscere in capo all’amministrazione un generale potere di
revoca e di annullamento degli atti amministrativi, espressione di un più ampio potere di autotutela.
La revoca può essere adottata per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, per mutamento della situazione
di fatto, nonché per una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario.
Oggetto di revoca sono i provvedimenti amministrativi a efficacia durevole (atti normativi, piani urbanistici,
autorizzazioni commerciali ecc.), con conseguente esclusione di quelli che hanno già esaurito i propri effetti
(per es. espropriazioni, sovvenzioni). Organo competente a disporre la revoca è quello che ha emanato il
provvedimento, ovvero un altro organo previsto dalla legge.
La revoca non ha efficacia retroattiva; il provvedimento revocato, quindi, non produce più effetti dal
momento in cui è disposta la revoca.
Ai soggetti privati che abbiano subito un danno in conseguenza della revoca di un provvedimento, deve
essere corrisposto un indennizzo che, prima dell’intervento legislativo, era ammesso solo in alcuni casi. Le
controversie relative alla determinazione di tale indennizzo sono devolute alla giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo.

Autotutela. Diritto amministrativo


Il concetto di autotutela nel diritto amministrativo fa riferimento al potere della pubblica amministrazione di
annullare e revocare i provvedimenti amministrativi già adottati. Si distingue l’autotutela esecutiva
dall’autotutela decisoria.
Autotutela esecutiva. - In particolare, l’autotutela esecutiva è il potere di eseguire unilateralmente e
coattivamente provvedimenti che impongono obblighi a carico dei destinatari (per es., l’obbligo di
consegnare il bene espropriato o di installare un depuratore), e implicano l’indicazione del termine e delle
modalità di esecuzione cui deve attenersi il soggetto obbligato. L’autotutela esecutiva è un potere con un
fondamento normativo specifico, che va rinvenuto caso per caso e deve essere, dunque, espressamente
prevista e regolata dalla legge.
Autotutela decisoria. - L’autotutela decisoria è il potere della pubblica amministrazione di riesaminare,
senza l’intervento del giudice, i propri atti sul piano della legittimità, al fine di confermarli, modificarli o
annullarli.

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Il riesame amministrativo dà luogo a un procedimento di secondo grado, a iniziativa d’ufficio, che incide su
un provvedimento (di primo grado) già adottato. In ogni caso, il provvedimento di secondo grado deve
essere giustificato da un interesse pubblico concreto. La finalità dell’amministrazione non si esaurisce
nell’accertamento in sé della legittimità o dell’illegittimità del provvedimento di primo grado, ma si concreta
nel perseguimento di un interesse pubblico ad adottare il provvedimento di secondo grado (su tali profili si
veda Revoca. Diritto amministrativo).
La conferma costituisce un nuovo provvedimento, che assorbe il precedente e si sostituisce a esso. Essa è
adottata a seguito di una nuova valutazione degli interessi in gioco. Si distingue dall’atto meramente
confermativo, con il quale l’amministrazione, su istanza di riesame presentata dal privato, si limita a
confermare senza una nuova istruttoria e senza motivazioni. Diversamente dalla conferma, l’atto meramente
confermativo non riapre i termini di impugnazione del provvedimento di primo grado.
La convalida elimina un vizio sanabile del provvedimento di primo grado, attinente alla competenza o
alla procedura, e ne riafferma l’efficacia. La convalida può adottarsi «sussistendone le ragioni di interesse
pubblico ed entro un termine ragionevole» (l. n. 241/1990, art. 21 nonies, co. 2). Se il vizio rimosso è di
incompetenza, la convalida si denomina ratifica. Se si rimuove una semplice irregolarità, che non integra un
vizio di legittimità in senso proprio, si ha la rettifica (nel caso, per es., di correzione di meri errori materiali).
L’annullamento d’ufficio rimuove il provvedimento di primo grado. Il presupposto è che il procedimento di
riesame abbia accertato la sussistenza di vizi non sanabili. E, in base a giurisprudenza consolidata, che vi sia
un interesse concreto e attuale all’eliminazione del provvedimento illegittimo. Bisogna aggiungere che
l’annullamento va adottato «entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei
controinteressati» (l. n. 241/1990, art. 21 nonies, co. 1). Ciò a garanzia della certezza del diritto e della tutela
dell’affidamento legittimo di coloro ai quali il provvedimento di primo grado da eliminare abbia recato
vantaggio. Ne risulta che l’annullamento non si limita al ripristino della legalità, ma è provvedimento
discrezionale, chiamato a ponderare l’interesse pubblico alla rimozione del provvedimento invalido con gli
altri interessi dei soggetti coinvolti.
I provvedimenti di secondo grado hanno effetti retroattivi: retroagiscono al momento in cui i provvedimenti
di primo grado sono divenuti efficaci.

Esecutorietà. Diritto amministrativo


Capacità dell’atto amministrativo di imporsi unilateralmente; consiste nell’esplicazione di efficacia diretta e
immediata dell’atto stesso nella sfera giuridica dei terzi, anche con l’eventuale impiego di mezzi coattivi (su
cui v. Autotutela. Diritto amministrativo). In concreto, significa che, in alcuni casi espressamente previsti
dalla legge, l’amministrazione provvede direttamente a dare attuazione ai propri atti (alla realizzazione
dell’interesse pubblico di cui sono portatori), senza dover rivolgersi al giudice per ottenere un
provvedimento giurisdizionale di esecuzione che adegui la situazione di fatto a quella di diritto. Talvolta
inquadrata tra le forme di autotutela della pubblica amministrazione, l’esecutorietà è una caratteristica
propria solo di alcuni provvedimenti (per es., quelli di pubblica sicurezza), è espressamente prevista dalla
legge ed è ammessa nei limiti dei valori costituzionali.
L’ordinamento contempla due ipotesi di esecutorietà: i provvedimenti ablatori reali (per es., l’espropriazione
per pubblica utilità, ex art. 42 Cost., l’occupazione d’urgenza ecc.) e gli ordini (in quanto obblighi di dare o
fare). Nel caso dei esecutorietà provvedimenti ablatori reali, l’efficacia diretta e immediata è insita nel
provvedimento stesso (d.p.r. n. 327/2001, art. 23, co. 1, lettere f, g e h; e l. n. 241/1990, art. 3 e 21 bis). Per
quanto concerne gli esecutorietà ordini, in caso di inadempimento del destinatario del provvedimento
l’amministrazione competente può, nell’esercizio di un autonomo potere amministrativo, avviare
un procedimento esecutivo.
A tale proposito la l. n. 15/2005, di riforma della l. n. 241/1990 ha introdotto l’articolo 21 ter, che prevede
una disciplina generale dell’esecutorietà. La legge disciplina i casi e le modalità secondo cui, le pubbliche
amministrazioni possono imporre coattivamente l’adempimento di obblighi da parte dei destinatari, in modo
da garantire l’attuazione degli stessi: il provvedimento costitutivo di obblighi deve indicare il termine e le
modalità dell’esecuzione da parte del soggetto obbligato. Nel caso in cui non vi ottemperi spontaneamente,
le amministrazioni, previa diffida, possono provvedere all’esecuzione coattiva nei suoi confronti nelle
ipotesi, secondo le modalità previste dalla legge.

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Sanzioni amministrative
Di norma applicate da un’autorità amministrativa, sono dirette a colpire l’autore di un illecito
amministrativo incidendo sul suo patrimonio, sulla sua attività ovvero sul suo status. L’illecito rilevante
sotto il profilo della responsabilità amministrativa può concretizzarsi nella violazione sia di un dovere di tipo
generale, dotato di un’applicazione diffusa (per es., le norme del codice della strada), sia di un dovere
imposto a soggetti che rivestono un particolare status o qualifica nei confronti dell’amministrazione (per es.,
rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione). In molti ambiti disciplinati dal diritto
amministrativo (per es., normativa in materia tributaria, edilizia, urbanistica, codice della strada,
concorrenza ecc.) sono previste sanzioni, e, per effetto del processo di depenalizzazione, riguardano anche
fattispecie che prima erano punite solo con multe o ammende. Esistono varie tipologie di sanzioni
amministrative: quelle pecuniarie consistono nell’obbligo a pagare una somma di denaro; quelle interdittive
precludono, invece, l’esercizio di un diritto; quelle accessorie si applicano congiuntamente a un’altra figura
di sanzione amministrativa.
La l. n. 689/1981 ha definito i principi generali e il procedimento di irrogazione delle sanzioni
amministrative, con particolare riguardo a quelle pecuniarie, prevedendo una disciplina simile a quella
vigente nel diritto penale e stabilendo tra l’altro: la tassatività della fattispecie; l’irretroattività delle leggi che
le prevedono; la responsabilità per dolo o colpa; il concorso di persone. L’irrogazione della sanzione
amministrativa è preceduta da un accertamento, compiuto dagli organi addetti al controllo, sull’avvenuta
inosservanza di una determinata disposizione, nonché dalla contestazione, ove possibile immediata, o dalla
notifica della violazione al trasgressore. Il procedimento si può concludere anche con il pagamento in misura
ridotta, pari a un terzo del massimo della sanzione prevista o, se più favorevole, al doppio del minimo, che
deve avvenire entro 60 giorni dalla contestazione o dalla notifica. Se non è stato effettuato il pagamento in
misura ridotta, l’organo che ha accertato la violazione deve presentare un rapporto al soggetto competente a
comminare la sanzione amministrativa, individuata nell’autorità cui sono attribuite o delegate le relative
funzioni amministrative. L’adozione della decisione avviene nel rispetto del principio del contraddittorio, in
virtù del quale i soggetti destinatari della contestazione possono presentare scritti difensivi e documenti e
chiedere di essere ascoltati. L’organo titolare del potere di irrogare la sanzione amministrativa, sentiti gli
interessati ed esaminati gli argomenti esposti negli scritti difensivi, emana un’ordinanza motivata, con la
quale, se ritiene fondato l’accertamento, determina la somma dovuta e ne ingiunge il pagamento, o in caso
contrario, dispone l’archiviazione degli atti. Contro l’ordinanza è possibile proporre opposizione mediante
ricorso davanti al giudice del luogo in cui è stata commessa la violazione.

Conciliazione amministrativa
Istituto di tipo oblatorio volto a conciliare le sanzioni amministrative attraverso il pagamento volontario di
una somma di denaro entro un termine prefissato a partire dalla contestazione. In particolare, ai sensi
dell’art. 16 della l. n. 689/1981, il trasgressore o l’obbligato in solido, entro 60 giorni dalla contestazione
immediata – o, se questa non vi è stata, dalla notificazione degli estremi della violazione –, può effettuare il
pagamento della sanzione in misura ridotta, pari a un terzo del massimo o, se più favorevole, al doppio del
minimo della sanzione prevista per la violazione. Qualora non sia previsto un minimo edittale, il pagamento
in misura ridotta è pari a un terzo del massimo, come disposto dal primo comma del medesimo articolo. Il
pagamento in misura ridotta estingue l’obbligazione e conclude a tutti gli effetti di legge il procedimento di
applicazione della sanzione amministrativa. In passato, l’istituto è stato oggetto di alcune pronunce
della Corte costituzionale con riferimento a provvedimenti legislativi che, nel prevedere l’irrogazione di
sanzioni amministrative, non avevano pure disciplinato la possibilità di ricorrere alla conciliazione
amministrativa (sentenza n. 121/1977, che ha negato un contrasto di tale mancata previsione con il principio
di eguaglianza e con il diritto di difesa). Tali questioni sono oggi superate dal fatto che l’art. 16 della l. n.
689/1981 ammette il ricorso alla conciliazione amministrativa anche nei casi in cui le norme antecedenti
all’entrata in vigore della predetta legge non consentivano l’oblazione.

Discrezionalità amministrativa
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Potere della pubblica amministrazione di adottare una decisione effettuando, in base alla legge, una scelta
fondata sulla ponderazione di un interesse pubblico primario con interessi secondari, pubblici, privati, o
collettivi.
Ha assunto dimensioni sempre più rilevanti con l’espandersi dei poteri attribuiti dalle leggi alle
amministrazioni pubbliche, soprattutto a partire dalla fine del XIX secolo. Progressivamente ha incontrato
due limiti, che hanno preso corpo soprattutto nella seconda metà del XX secolo.
In primo luogo, le leggi hanno previsto procedimenti che la pubblica amministrazione è tenuta a seguire
prima di adottare la scelta discrezionale. In particolare, la ponderazione fra più interessi va effettuata
tenendo conto delle osservazioni che i soggetti coinvolti dalla scelta formulano nell’ambito
del procedimento.
In secondo luogo, si è progressivamente ampliato il controllo del giudice, in particolare del giudice
amministrativo, sull’esercizio della discrezionalità. Pur non potendosi sostituire alla valutazione effettuata
dalla pubblica amministrazione, il giudice verifica se il potere discrezionale sia stato esercitato
correttamente. Il controllo giurisdizionale si concretizza nel giudizio sull’eccesso di potere: il giudice
verifica, fra l’altro, se l’amministrazione abbia esattamente rappresentato i fatti posti a base della decisione,
se abbia rispettato i canoni della logicità e della non contraddizione, o le regole di parità di trattamento, se
abbia condotto un’istruttoria completa tenendo in adeguata considerazione tutti gli interessi in gioco (su cui
v. istruttoria amministrativa).
Alla decisione amministrativa discrezionale si contrappone la decisione vincolata, che si verifica quando
l’amministrazione non ha margini di scelta e tutto è predeterminato dalla norma di legge. Le decisioni
vincolate, in realtà, sono poche. Può farsi l’esempio di un’autorizzazione che deve essere rilasciata sulla
base dell’accertamento di requisiti o di presupposti certi.
La contrapposizione fra decisione discrezionale e decisione vincolata ha effetti pratici limitati. In passato si
era affermato che la contrapposizione fosse rilevante al fine di individuare la competenza giurisdizionale: si
sottolineava che la decisione discrezionale dell’amministrazione trova di fronte a sé un interesse legittimo
dell’amministrato, e dunque è competente il giudice amministrativo; che la decisione vincolata, invece,
incide su un diritto soggettivo, e quindi è competente il giudice ordinario.
Oggi la giurisprudenza non giunge più a conclusioni così nette; al tempo stesso, la ripartizione
della giurisdizione fra giudice amministrativo e giudice ordinario dipende sempre più dalle materie nelle
quali si esercita il potere dell’amministrazione e sempre meno dalla situazione di interesse legittimo o di
diritto soggettivo fatta valere (su tali profili si v. Giurisdizione amministrativa e giustizia amministrativa).
Un’altra conseguenza della contrapposizione fra decisione discrezionale e decisione vincolata sembra
potersi ricavare dalla legge sul procedimento amministrativo (l. 241/1990, modificata dalla l. 15/2005), là
dove si prevede che «non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o
sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato» (art. 21 octies). La
giurisprudenza, tuttavia, applica la norma non solo ai provvedimenti vincolati, ma anche a quelli
discrezionali (sul punto si v. Annullabilità e annullamento. Diritto amministrativo).
Dalla discrezionalità amministrativa si distingue la cosiddetta discrezionalità tecnica, la quale si presenta
quando non si abbia una scelta dell’amministrazione basata su una ponderazione fra interessi. In questo caso
l’amministrazione adotta una decisione applicando regole tecniche o conoscenze specialistiche, come quelle
della medicina, della storia dell’arte, dell’economia, per es. quando procede a un accertamento medico, o
decide se un immobile è di interesse storico e artistico, o valuta se vi sia un cartello fra imprese o altro
illecito che violi la concorrenza. Anche le decisioni adottate con discrezionalità tecnica sono soggette ad un
controllo giurisdizionale: negli ultimi anni – anche grazie all’introduzione della consulenza tecnica d’ufficio
nel processo amministrativo – il sindacato su tali decisioni si è fatto particolarmente penetrante, giungendo a
sindacare la stessa adeguatezza e coerenza del parametro tecnico adottato (il fenomeno è particolarmente
rilevante per le valutazioni tecniche poste in essere dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato).

Autorizzazione. Diritto amministrativo


L’autorizzazione è una tipologia di atto amministrativo discrezionale con cui un’autorità rimuove i limiti
che, per motivi di pubblico interesse, sono posti in via generale ed astratta dalla legge all’esercizio di una

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preesistente situazione giuridica soggettiva. A differenza della concessione, l’autorizzazione non attribuisce
nuovi diritti ma permette l’esercizio di un diritto già esistente.
Lo svolgimento di talune attività private è subordinato al rilascio di un’autorizzazione ossia di un atto
positivo di accertamento, con cui l’amministrazione verifica la compatibilità di tali attività con un
determinato interesse pubblico (come la tutela del paesaggio e l’assetto del territorio, la sicurezza dei
cittadini, l’incolumità pubblica ecc.). L’autorizzazione segue dunque la richiesta del privato di poter
esplicare un diritto rientrante nella propria situazione giuridica (per es., la costruzione o la ristrutturazione di
un immobile, la guida di un autoveicolo o motoveicolo, il possesso di un’arma ecc.).
A partire dagli anni 1990, sotto l’influenza della politica di liberalizzazione del diritto europeo, si è avvertita
l’esigenza di introdurre forme semplificate di controllo da parte della pubblica amministrazione. In
alternativa all’autorizzazione, la l. n. 241/1990 (art. 19, modificato dalla l. n. 80/2005) ha quindi esteso la
possibilità di avvalersi della Denuncia di Inizio di Attività (DIA), già in uso nel settore edilizio, in base alla
quale il privato comunica all’autorità competente, mediante autocertificazioni, l’avvio di una determinata
attività (per il regime attualmente in vigore, si rinvia alla voce Segnalazione certificata di inizio attività che
ha sostituito l’istituto della DIA).
Per tutelare il privato dall’inerzia dell’amministrazione, l’articolo 20 della medesima legge (modificato
anch’esso dalla l. n. 80/2005) ha previsto l’applicazione della disciplina del silenzio-assenso come regola nei
procedimenti a istanza di parte. In questi casi il silenzio dell’amministrazione competente equivale
all’accoglimento della domanda, senza la necessità di ulteriori istanze o diffide se, la medesima
amministrazione, non comunica il provvedimento di diniego entro i termini di legge (art. 2, co. 2 e 3),
oppure non indice la conferenza di servizi entro i 30 giorni successivi. La regola del silenzio-assenso
prevede tuttavia alcune importanti eccezioni (procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e
paesaggistico o l’ambiente), in cui il silenzio dell’amministrazione va qualificato come silenzio-
inadempimento (su cui silenzio della pubblica amministrazione).
In linea con la politica di semplificazione degli strumenti di controllo sulle attività private, l’art. 20 della l. n.
59/1997 (sostituito dall’art. 1, co. 1 della l. n. 229/2003) ha previsto il ricorso all’autorizzazione a. generale
di a. in determinati settori. In particolare, in quello delle comunicazioni elettroniche, il d.lgs. n. 259/2003
(art. 25 e ss.), l’inizio dell’attività dell’operatore è subordinata alla presentazione di una semplice richiesta
notificata al Ministero competente. L’attività può essere tuttavia interrotta dall’amministrazione in ogni
momento, per l’insussistenza o il venir meno delle condizioni cui è sottoposta l’autorizzazione, condizioni
che devono essere presenti sia al momento della notificazione della richiesta al ministero sia
successivamente. L’autorizzazione generale ha durata di 20 anni, può essere rinnovata e ceduta a terzi.
L’ordinamento prevede anche la peculiare forma di autorizzazione a. plurima, che consiste nella somma di
tutti gli atti di consenso richiesti dalla legge. Ne sono esempio lo sportello unico delle attività produttive
(d.lgs. n. 112/1998, art. 23 e ss.), e l’autorizzazione integrata ambientale (d.lgs. n. 59/2005), lo sportello
unico per l’edilizia presso le amministrazioni comunali (D.p.r. n. 380/2001, art. 5).

Concessione amministrativa
La concessione è l’atto amministrativo con cui la pubblica amministrazione consente al concessionario l’uso
di risorse e/o l’esercizio di attività non disponibili da parte dei privati e riservate ai pubblici poteri.
Si distinguono, come tipi principali: la concessione di bene pubblico (v. Beni pubblici e di interesse
pubblico); la concessione di servizio pubblico; la concessione di opera pubblica. La concessione di bene
pubblico conferisce, per es., diritti d’uso del demanio marittimo (spiagge, arenili) per lo svolgimento di
attività quali la gestione di stabilimenti balneari, o di complessi turistici, o di impianti di raffinazione di
idrocarburi; oppure diritti d’uso del demanio idrico (acque dei fiumi) a fini di irrigazione o di conduzione di
attività industriali.
La concessione di servizio pubblico consente lo svolgimento di attività economiche quali la distribuzione
dell’energia elettrica o del gas.
La concessione di opera pubblica attribuisce il diritto di costruire e di gestire opere quali strade o autostrade.
In taluni casi si ha una concessione mista, come nel caso della concessione aeroportuale, che consente l’uso
di un bene demaniale (il cosiddetto sedime aeroportuale), la costruzione dell’aeroporto e la gestione dei
servizi e delle altre attività aeroportuali.

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Vi sono anche concessioni che consentono l’esercizio di funzioni fortemente autoritative, come l’esazione
dei tributi.
Aspetti contrattuali. - L’atto di concessione, nei casi meno complessi, è un provvedimento amministrativo
unilaterale (v. atto amministrativo). Vi può essere il provvedimento amministrativo, che concede, e
un contratto collegato (cosiddetto ‘contratto accessivo alla concessione’), che regola il rapporto patrimoniale
che si viene a instaurare fra l’amministrazione concedente e il concessionario.
Nei casi più complessi – soprattutto in materia di servizi pubblici e di opere pubbliche – la concessione è un
contratto che ha la doppia finalità di concedere e di regolare gli aspetti patrimoniali.
L’affidamento delle concessioni è regolato da diverse procedure e modalità. Talora è
la legge che disciplina in estremo dettaglio i requisiti del concessionario, tanto da consentirne
l’individuazione (è il caso di alcune concessioni aeroportuali). Spesso l’affidamento è lasciato alla scelta
largamente discrezionale dell’amministrazione concedente. In altri casi vi sono procedure di gara o a
evidenza pubblica, che consentono la competizione fra diversi aspiranti concessionari. La Commissione
europea ha raccomandato l’affidamento con gara delle concessioni, proprio per tutelare la concorrenza e
la trasparenza nel conferimento di diritti e di poteri così delicati ai concessionari. Tale prassi, tuttavia, è
ancora scarsamente diffusa, non soltanto in Italia.
La concessione costituisce un rapporto fra amministrazione concedente e concessionario. Il concessionario
ha il diritto di utilizzare il bene, di gestire il servizio, o di realizzare l’opera. Diviene spesso titolare di
privilegi, di esclusive, o di posizioni economicamente dominanti, poiché la concessione consente la
disponibilità di risorse scarse (come le spiagge), o l’esercizio di attività in situazione di monopolio (come la
distribuzione del gas a unica impresa concessionaria in un comune). Il concessionario deve rispettare una
serie di obblighi nello svolgimento delle attività oggetto di concessione, di regola stabiliti dal contratto di
concessione e spesso molto dettagliati nel contenuto (per es., standard e criteri nella realizzazione degli
impianti costruiti sul demanio), e deve versare all’amministrazione concedente un canone o altri
corrispettivi.
Talora il concessionario può esercitare poteri amministrativi: la giurisprudenza configura come
provvedimenti amministrativi alcuni atti adottati dal concessionario di servizi o di opere, come gli atti di
aggiudicazione di contratti di appalto per l’esecuzione di lavori. Di regola, l’amministrazione concedente è
titolare di poteri molto penetranti. Può controllare l’attività del concessionario e adottare direttive; può
sostituirsi al concessionario nei casi di inerzia di quest’ultimo; ha un potere di sanzione, che consiste nel
dichiarare la decadenza della concessione in caso di inadempimento grave del concessionario; può, ove
previsto dalla legge o dal contratto di concessione, esercitare il diritto di riscatto, che comporta la risoluzione
del medesimo contratto e il trasferimento degli impianti all’amministrazione; può revocare la concessione
per ragioni di pubblico interesse (in tal caso, è dovuto un indennizzo al concessionario se vi è un pregiudizio
economico: art. 21 quinquies, l. 241/1990, modificata dalla l. 15/2005).
Il rapporto fra concedente e concessionario è ampiamente disciplinato dal diritto privato e dal codice civile.
Si applicano le regole previste consensualmente nelle clausole contrattuali. In via integrativa si applicano,
salvo eccezioni, norme e principi del codice civile, per es. in materia di eccessiva onerosità sopravvenuta o
di risoluzione contrattuale. La disciplina sostanzialmente paritaria e consensuale delle concessioni si
converte spesso in una posizione di maggiore forza del concessionario – talora un’impresa di organizzazione
e dimensioni rilevanti – nei confronti dell’amministrazione concedente, non sempre attrezzata a sufficienza a
esercitare la vigilanza e i poteri di controllo sullo svolgimento delle attività del concessionario.
L’impiego di tale strumento si è esteso notevolmente nel corso del 20° secolo. Sul finire del secolo, tuttavia,
si è registrata una tendenza di segno contrario, a seguito del rafforzamento del principio della libera
concorrenza attuato sia dal diritto comunitario sia da quello nazionale. La concessione, infatti, consentendo
privilegi o esclusive alle imprese concessionarie e, al tempo stesso, prevedendo poteri di controllo e di
direzione della pubblica amministrazione sulle attività economiche dei concessionari, può comportare
distorsioni o restrizioni della libera concorrenza. Per tali ragioni al posto delle concessioni sono subentrati,
in diversi casi, altri strumenti e misure, come le autorizzazioni, che permettono lo svolgimento dell’attività
economica a un maggior numero di operatori e prevedono controlli e poteri discrezionali meno penetranti da
parte dell’amministrazione pubblica.

Espropriazione per pubblica utilità

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Istituto che attribuisce la potestà di sacrificare diritti reali altrui nel pubblico interesse, dietro indennizzo.
Con il d.p.r. 327/2001 (di qui in avanti denominato testo unico, t.u.) il legislatore ha riordinato la materia,
introducendo nell’ordinamento alcuni elementi di novità, in relazione sia a particolari aspetti della
pregressa disciplina sui procedimenti ablatori, sia a fattispecie che erano state elaborate
dalla giurisprudenza e che non avevano mai avuto un preciso e diretto riconoscimento legislativo. Il t.u.,
entrato in vigore il 30 giugno 2003, è stato poi oggetto di modifiche e integrazioni, contenute nel d.lgs. n.
302/2002, come previsto dall’art. 5, co. 4, della l. n. 166/2002, al fine di apportare, senza oneri per lo Stato,
le modifiche e le integrazioni che si fossero rese necessarie per adeguare il t.u. alla legge obiettivo n.
443/2001, nonché «per assicurare il più celere svolgimento delle procedure di e. e tra esse, segnatamente,
quella volta all’immissione nel possesso delle aree oggetto di esproprio». L’accennata esigenza di riordino
nasceva da un insieme di fattori.
Innanzitutto, dalla pluralità degli atti normativi riguardanti la materia, succedutisi e stratificatisi nel tempo, a
partire dalla l. 2359/1865. In secondo luogo, dalla circostanza che tali atti normativi non avevano composto
un insieme organico, ma, anzi, per il carattere episodico, quanto a finalità perseguita e/o ad ambito normato,
avevano concorso a segmentare la disciplina complessiva. Ne discendeva, conseguentemente, la riscontrata
impossibilità di individuare un unico modello di e. e un unico tipo di procedimento espropriativo.
L’art. 5 del t.u., completamente riscritto con il d.lgs. n. 302/2002, descrive la ripartizione di competenze in
materia espropriativa tra Stato e Regioni, anche alla luce del nuovo assetto scaturito dalla riforma
del titolo V della Costituzione. Accogliendo un orientamento da tempo seguito dal legislatore (art. 3 d.p.r. n.
8/1972, art. 106, co. 1, d.p.r. n. 616/1977), l’art. 5 del t.u. ha precisato che, in materia di e. «strumentale»
alle materie di competenza regionale, le Regioni a statuto ordinario esercitano la potestà legislativa
«concorrente» nel rispetto «dei principi fondamentali della legislazione statale» e dei principi generali
desumibili dalle disposizioni del t. u. Quanto alle Regioni a statuto speciale (e alle Province autonome di
Trento e Bolzano), queste esercitano la propria potestà legislativa in materia di espropriazione nel rispetto
delle proprie norme statutarie e delle relative norme di attuazione e con riferimento alle disposizioni del
titolo V Cost. per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite. Si è
così definitivamente accolta la tesi secondo cui l’espropriazione è una funzione strumentale, neutra e
trasversale, rispetto alle altre funzioni amministrative e, dunque, non una «materia» autonoma ai sensi
dell’art. 117 Cost., ma una parte costitutiva o una porzione di altre «materie». Alla pluralità di modelli e di
tipi procedurali si è inteso, così, sostituire un solo tipo di procedimento espropriativo, con un regime in parte
legislativo e in parte regolamentare. Anche tra i principi, enunciati nell’ultimo gruppo di disposizioni
contenute nel titolo I del t.u., si è distinto tra quelli a carattere organizzativo e quelli procedurali.
Innanzitutto, per quanto riguarda i principi di carattere procedurale, l’art. 2, co. 1, del t.u. ha previsto che
l’espropriazione «può essere disposta nei soli casi previsti dalle leggi e dai regolamenti», con una
formulazione che ha fatto sorgere parecchi dubbi interpretativi, visto che sembra porre una riserva, ma non
una riserva di legge, come l’art. 42, co. 3, Cost., ma una riserva di legge e di regolamento. Inoltre, per l’art.
2, co. 2, del t.u., i procedimenti da quest’ultimo disciplinati «si ispirano ai principi di economicità, di
efficienza, di efficacia, di pubblicità e di semplificazione dell’azione amministrativa».
Quanto ai principi di carattere organizzativo, vanno menzionati quello di «accessorietà», in base al quale
il potere espropriativo spetta all’autorità che ha la competenza in ordine alla realizzazione dell’opera o
dell’intervento, sicché il potere espropriativo diviene un potere «diffuso», e quello di «concentrazione»,
secondo il quale tale autorità governa l’intero procedimento, emanando tutti i vari atti che lo compongono.
Si è pertanto abbandonata la distinzione tra autorità competente a pronunciare l’e. e quella competente a
dichiarare la pubblica utilità dell’opera, distinzione che caratterizzava la l. n. 2359/1865 e in base alla quale
si era desunta la necessaria «terzietà» dell’autorità competente a emanare taluni atti del procedimento e, in
particolare, il decreto di esproprio.
Quanto ai soggetti materialmente investiti della competenza, il t.u. ha stabilito, sempre nell’ottica della
razionalizzazione, che tutte le autorità pubbliche titolari di poteri espropriativi organizzino al loro interno un
«ufficio per le espropriazione» (attribuendo i relativi poteri a un ufficio già esistente, o creandone
uno comune a più enti, che a tal fine potranno consorziarsi), al vertice del quale dovrà essere preposto un
dirigente (o, in mancanza, il dipendente con la qualifica più elevata). Inoltre, per ciascun procedimento
espropriativo deve essere designato un responsabile, incaricato di dirigere, coordinare e porre in essere tutte
le operazioni e gli atti del procedimento. Di particolare importanza è l’art. 6, co. 7, del t.u., che individua il
soggetto legittimato a emanare il provvedimento conclusivo del procedimento: questi può essere solo il

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dirigente dell’ufficio delle espropriazioni, non anche il preposto al singolo procedimento. A tal fine,
derogando rispetto ai principi generali per i quali il dirigente può assegnare ad altri anche l’adozione dei
provvedimenti finali dei procedimenti, ma in coerenza con la disciplina sulla dirigenza, il citato art. 6
stabilisce che sia il dirigente dell’ufficio a emanare il provvedimento finale, anche se non predisposto dal
responsabile del procedimento. L’unica eccezione è rappresentata dai casi in cui l’opera pubblica o di
pubblica utilità venga realizzata da un concessionario, cui l’amministrazione concedente, in applicazione del
principio di accessorietà, può demandare in tutto o in parte i poteri espropriativi; tuttavia, l’effettivo ambito
dei poteri delegati deve comunque essere chiaramente esplicitato nell’atto di concessione, i cui estremi
vanno specificati in ogni atto del procedimento espropriativo (art. 6, co. 8, t.u.).
Il d.lgs. n. 302/2002 ha poi ampliato la portata di tale eccezione, prevedendo la possibilità per
l’amministrazione, titolare del potere di esproprio, di delegare in tutto o in parte l’esercizio dei propri poteri
al general contractor incaricato di realizzare l’opera pubblica.
L’art. 1 d.lgs. n. 327/2001 precisa che il t.u. regola l’e. anche a favore di privati, dei beni immobili o dei
diritti relativi a beni immobili per l’esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità o, ancora, per
consentire l’utilizzazione del diritto acquisito a favore della collettività (appare chiaro il riferimento alla
realizzazione di zone verdi, aree protette o aree di particolare pregio artistico culturale), non senza il
pagamento di una indennità. In realtà, esso non fornisce una nozione dell’istituto dell’espropriazione, che
può comunque desumersi dalla lettura del t.u. nel suo complesso. Il t.u. non ha peraltro trascurato di
disciplinare anche fenomeni diversi dall’espropriazione, anche se a quest’ultima assimilabili (così l’art. 39
regolamenta la reiterazione di un vincolo preordinato all’esproprio o di un vincolo sostanzialmente
espropriativo, nel quale è assente l’effetto dell’acquisizione). Nell’ambito della nuova disciplina vanno
quindi compresi tutti i diritti reali relativi a beni immobili, con riguardo tanto alla loro soppressione, quanto
alla loro costituzione, mentre devono essere esclusi i diritti relativi a beni mobili materiali e immateriali.
Con la previsione della necessità dell’apposizione del vincolo come presupposto alla dichiarazione di
pubblica utilità e all’emanazione del decreto di esproprio, il legislatore ha inteso sottolineare
l’interdipendenza funzionale tra la materia dell’urbanistica e quella dell’espropriazione. L’esercizio del
potere ablatorio reale viene così a collocarsi nel più ampio ambito della pianificazione urbanistica. In
particolare, la fase dell’imposizione del vincolo può aversi o con lo strumento urbanistico generale o con un
atto equivalente. In base all’art. 8, co. 1, lett. b, del t.u., il decreto di esproprio deve essere preceduto dalla
dichiarazione di pubblica utilità. Tuttavia, il t.u. (art. 12), recependo e portando a compimento una lunga
evoluzione normativa, ha generalizzato il modello della dichiarazione di pubblica utilità implicita,
stabilendo, in via generale, che detta dichiarazione «si intende disposta», quando sia stato adottato uno degli
atti che vengono elencati dalla medesima disposizione, atti che, in aggiunta agli effetti propri di ciascuno di
essi, producono l’ulteriore effetto autorizzativo nei confronti dell’autorità espropriante che è tipico della
dichiarazione.
Gli art. 23-25 del t.u. trattano, rispettivamente, dei contenuti ed effetti del decreto di esproprio,
dell’esecuzione di quest’ultimo e degli effetti dell’espropriazione per i terzi. Di particolare rilevanza è
la norma che, al fine di ridurre i casi in cui le aree espropriate non vengono utilizzate per la realizzazione
delle opere progettate, collega il trasferimento della proprietà del bene oggetto dell’espropriazione non
all’emanazione del decreto, ma alla notifica e all’esecuzione dello stesso con l’immissione in possesso, vale
a dire al momento in cui l’espropriante dispone, in genere, dei mezzi finanziari necessari per l’esecuzione.
I procedimenti di determinazione dell’indennità di espropriazione sono disciplinati dagli art. 20-22 bis del
t.u. Le modalità di pagamento di quest’ultima sono invece disciplinate dagli art. 26-31 del t.u.
In particolare, si distingue tra un procedimento di determinazione provvisoria (art. 20) e un procedimento di
determinazione definitiva dell’indennità (art. 21), cui si aggiungono un procedimento urgente di
determinazione dell’indennità provvisoria (art. 22) e il procedimento di determinazione in via provvisoria
dell’indennità di espropriazione che si accompagna all’occupazione anticipata dei beni (art. 22 bis).

Occupazione. Diritto amministrativo


Provvedimento con cui la pubblica amministrazione dispone coattivamente la privazione o la limitazione del
godimento di un bene, incidendo sulla sfera patrimoniale dei privati. Può essere disposta per l’esecuzione di
opere di pubblica utilità, qualora l’avvio dei lavori sia caratterizzato da una particolare urgenza, tale da non
consentire di attendere i tempi previsti per l’espletamento della procedura ordinaria di espropriazione

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(v. Espropriazione per pubblica utilità). In questi casi, ai sensi dell’art. 22 bis del d.p.r. 327/2001 (testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), l’autorità
espropriante adotta, senza particolari indagini o formalità, un decreto motivato con il quale determina in via
provvisoria l’indennità di espropriazione e dispone l’occupazione anticipata dei beni immobili necessari.
L’esecuzione dell’occupazione, preordinata alla realizzazione dell’espropriazione, deve avvenire nel termine
perentorio di 3 mesi dalla data di emanazione del relativo decreto, che in ogni caso perde efficacia qualora il
decreto di esproprio non sia emanato nel termine previsto dalla dichiarazione di pubblica utilità, ovvero in
quello di 5 anni, decorrenti dalla data in cui diviene efficace l’atto che dichiara la pubblica utilità dell’opera.
Nell’ambito del procedimento espropriativo, accanto all’occupazione di beni immobili per ragioni d’urgenza
si rinviene l’occupazione temporanea di aree non soggette a esproprio, cui si ricorre qualora risulti
necessario per la corretta esecuzione dei lavori. L’occupazione temporanea è disposta con ordinanza, che
viene eseguita secondo la disciplina di cui all’art. 49 del testo citato. In entrambe le fattispecie sopra
descritte al proprietario è corrisposta una indennità di occupazione, quantificata ai sensi dell’art. 50 del d.p.r.
327/2001.
L’occupazione d’urgenza può dare luogo alla cosiddetta occupazione appropriativa, definita
anche espropriazione indiretta o accessione invertita. Si tratta di un istituto di creazione giurisprudenziale
che consiste nell’acquisto a titolo originario, da parte dell’amministrazione, della proprietà del suolo
occupato in modo illegittimo (bene immobile occupato senza titolo o in base a un provvedimento divenuto
inefficace), qualora la realizzazione di un’opera pubblica determini una modifica irreversibile delle
caratteristiche e della destinazione del medesimo fondo. Parte della dottrina e della giurisprudenza sono
contrarie all’introduzione e al consolidamento di un simile istituto, ritenendolo peraltro non conforme ad
alcune disposizioni di rango comunitario.

Contratti della pubblica amministrazione


Accordi che lo Stato e gli altri enti pubblici non economici stipulano con i privati per costituire, modificare o
estinguere rapporti giuridici patrimoniali. Si usa distinguere tra contratti di diritto comune, alla stipulazione
dei quali le parti addivengono in regime di diritto privato e nei quali la pubblica amministrazione non gode
di una posizione privilegiata, e contratti a oggetto pubblico o di diritto pubblico, che sono collegati ad alcune
tipologie di provvedimenti con i quali la pubblica amministrazione trasferisce a privati la disponibilità di
beni o la gestione di servizi pubblici (per es., le cosiddette concessioni-contratto) e, proprio per questo,
subiscono l’influenza degli eventuali provvedimenti di revoca, per ragioni di interesse pubblico, o
di annullamento, per vizi di legittimità, del provvedimento cui sono collegati (sul punto si fa rinvio alle
voci Accordi amministrativi e Concessione amministrativa).
Si definiscono contratti a evidenza pubblica quelli alla cui conclusione si perviene tramite un
particolare procedimento, cui partecipano l’amministrazione che è parte del contratto e l’autorità che su di
essa esercita il controllo. Assunta una deliberazione, o determinazione a contrattare, viene scelto il
contraente privato (attraverso procedura aperta, ossia pubblico incanto o asta pubblica, procedura ristretta,
ovvero licitazione privata, o attraverso procedura negoziata, comprende l’appalto-concorso e la trattativa
privata), e si perviene quindi alla conclusione del contratto (in forma scritta quando si sia seguita la trattativa
privata, nonché nei casi di espressa riserva da parte dell’amministrazione di trasferire al momento della
stipula del contratto l’effetto dell’insorgenza del vincolo obbligatorio) e all’approvazione dello stesso da
parte dell’autorità di controllo.
Sul piano procedurale si osservano differenze ai fini del perfezionamento dei cosiddetti contratti «passivi»
(vale a dire quelli che, comportano una spesa a carico dei bilanci pubblici), che trovano la
propria regolamentazione anche nelle norme di derivazione comunitaria, e dei contratti «attivi» (cioè quelli
che comportano l’acquisizione di una entrata a vantaggio del bilancio pubblico), la cui disciplina è
rinvenibile principalmente nel diritto nazionale.
Nella fase dell’esecuzione del contratto sono poi riconosciuti all’amministrazione specifici poteri di
intervento unilaterale riconducibili alla capacità speciale di autotutela. L’esercizio di tali poteri può incidere,
anche con effetto risolutivo, sul rapporto obbligatorio costituito con il contratto. In questo quadro, vanno
ricordati, in particolare, i seguenti poteri dell’amministrazione: a) di sostituirsi alla controparte
nell’esecuzione del contratto; b) di disporre l’anticipata esecuzione del contratto di appalto, prima della sua
approvazione, in casi di urgenza; c) di rescindere il contratto qualora il contraente privato si renda colpevole

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di frode o di grave negligenza, o contravvenga agli obblighi e alle condizioni stipulate; d) di recedere
unilateralmente dal contratto; e) di sospendere l’esecuzione del contratto quando particolari circostanze ne
impediscano temporaneamente l’esecuzione a regola d’arte.
Quanto agli strumenti di tutela, a fronte della tradizionale ripartizione
della competenza tra giudice amministrativo e giudice ordinario (basata sull’attinenza della controversia al
momento antecedente o successivo l’aggiudicazione del contratto), il legislatore ha devoluto
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie aventi a oggetto le procedure di
affidamento di appalti pubblici di lavori, di servizi e di forniture svolte da soggetti comunque tenuti, nella
scelta del contraente, all’applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di
evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale (l. n. 205/2000, art. 6). Tali previsioni sono
oggi contenute agli artt. 119 e ss. del Codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104/2010, su cui si
vedano le voci Giustizia amministrativa, Giurisdizione amministrativa e Processo amministrativo). Il
Codice, pur avendo mantenuto agli artt. 120 ss. la distinzione netta tra la fase pubblicistica concernente lo
svolgimento della gara (affidata alla cognizione del giudice amministrativo in sede di giurisdizione
esclusiva) e la fase privatistica di esecuzione del rapporto contrattuale (affidata alla cognizione del giudice
ordinario), ha tuttavia attribuito al giudice amministrativo – in attuazione della cd. ‘Direttiva Ricorsi’
(2007/66/CE) – il potere di dichiarare anche l’inefficacia del contratto qualora l’aggiudicazione sia stata
annullata per gravi violazioni della normativa comunitaria (disciplinate dall’art. 121 del Codice): in questi
casi, il giudice dovrà comunque tener conto degli interessi delle parti, dell’effettiva possibilità per il
ricorrente di conseguire l’aggiudicazione, dello stato di esecuzione del contratto e della possibilità di
subentrare nello stesso (art. 122).
Si è discusso, e in alcuni casi si continua a discutere, sull’applicabilità ai contratti della pubblica
amministrazione di alcuni strumenti di tutela previsti per i rapporti tra soggetti privati. Circa
la responsabilità precontrattuale (art. 1337 c.c.), è ormai consolidato l’orientamento giurisprudenziale che la
ammette quando l’amministrazione abbia deciso di procedere secondo le forme della trattativa privata,
mentre sono contrastanti le pronunce giudiziarie nei casi di ricorso a procedure di gara formalizzate (anche
su tali profili si veda la voce Responsabilità amministrativa). Si può inoltre ritenere applicabile alle
pubbliche amministrazioni la normativa in tema di clausole vessatorie (art. 1341-1342 c.c.), almeno a
seguito del recepimento della direttiva comunitaria 93/13 avente a oggetto la tutela del consumatore, che
vale ugualmente nei confronti di soggetti pubblici e privati. Analogamente, l’art. 2932 c.c. sull’esecuzione in
forma specifica dell’obbligo di contrarre può essere applicato con la sola eccezione dell’ineseguibilità degli
obblighi aventi a oggetto prestazioni infungibili, non potendo, per es., il giudice sostituirsi all’autorità
amministrativa competente nell’adozione dell’atto di approvazione del contratto. Per quanto riguarda
l’adempimento da parte della pubblica amministrazione delle obbligazioni pecuniarie derivanti dal contratto,
si ritiene ormai che lo Stato e gli altri enti pubblici siano al riguardo soggetti alla comune disciplina
civilistica, prevalendo tale principio sulla specialità di regime delle procedure contabili obbligatorie per il
soggetto pubblico.

Appalti pubblici
L’appalto pubblico è un contratto a titolo oneroso, caratterizzato dal fatto che il committente o stazione
appaltante è un’amministrazione, centrale o periferica, dello Stato, un ente pubblico, anche territoriale, o un
organismo di diritto pubblico (cioè qualsiasi soggetto che sia stato istituito per soddisfare bisogni
di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale; tra gli organismi di diritto pubblico
possono essere ricomprese anche le società per azioni derivate dal processo di privatizzazione). Al fine di
evitare facili elusioni sono destinatari della normativa in materia di appalti pubblici anche quei soggetti che,
pur non essendo riconducibili a nessuna delle predette categorie di stazione appaltante, ricevono apposite
sovvenzioni da un’amministrazione aggiudicatrice. La natura del modello e il regime applicabile. - Tale
contratto, pur avendo natura privatistica e inquadrandosi nell’ambito dell’attività negoziale di diritto privato
della pubblica amministrazione, si differenzia dall’appalto civilistico in quanto
il procedimento di formazione della volontà dell’ente committente è interamente regolato dal diritto
pubblico e resta estrinseco al contratto, pur riflettendo i suoi effetti sulla validità e sull’efficacia dello stesso.
Inoltre, la stazione appaltante pubblica, a differenza di quella privata, non è libera nella scelta del contraente

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(si parla, al riguardo, di contratto ‘a evidenza pubblica’), essendo stabilite norme che regolano minutamente
le modalità di aggiudicazione.
Per la stipulazione è richiesta la forma scritta ad substantiam. Nella fase di esecuzione alla pubblica
amministrazione è poi riconosciuto un sensibile ius variandi, sia in relazione al contenuto concreto
dell’opera, della fornitura e della prestazione di servizio appaltate, sia in relazione al relativo prezzo, e vasti
poteri di autotutela le sono conferiti per ragioni di pubblico interesse. Le norme fondamentali in materia
sono contenute nel d.lgs. n. 163/2006 (cosiddetto Codice degli appalti), con l’emanazione del quale si è
inteso (in attuazione delle direttive comunitarie nn. 17 e 18/2004) semplificare e modernizzare
la disciplina vigente in materia, anche per consentire il più largo impiego delle nuove tecnologie
dell’informazione e delle telecomunicazioni e garantire la massima flessibilità degli strumenti giuridici
utilizzati.
Le tipologie di appalto pubblico. - Si è soliti distinguere tra appalti pubblici relativi a lavori, servizi e
forniture. I primi riguardano lo svolgimento di alcune attività (costruzione, demolizione, recupero,
ristrutturazione, restauro e manutenzione di opere e di impianti) aventi una forte connotazione costruttivo-
edificatoria, dalla quale emerge chiaramente che l’intervento deve avere a oggetto un bene immobile.
Conformemente all’orientamento comunitario, l’art. 3, co. 7, del Codice degli appalti ha però ricompreso
nella nozione di appalti pubblico di lavori anche la progettazione e la cosiddetta esecuzione con qualsiasi
mezzo, circoscritta alla figura del general contractor, a sua volta disciplinata in relazione ai lavori che
riguardano infrastrutture strategiche e insediamenti produttivi, facendo così venir meno le due figure
dell’appalto ‘integrato’ e di quello ‘concorso’. La nozione di fornitura si riferisce a qualsiasi contratto a
titolo oneroso avente per oggetto l’acquisto, la locazione finanziaria (leasing), la locazione, l’acquisto a
riscatto, con o senza opzione per l’acquisto, conclusi per iscritto tra un fornitore e una pubblica
amministrazione, ricomprendendovi, quindi, qualsiasi fattispecie civilistica di contratto avente a oggetto la
dazione di un bene verso il corrispettivo di un prezzo, a titolo definitivo o a termine, trasferendo o
costituendo sullo stesso un diritto reale o personale di godimento e superando, così, la pretesa sinonimia tra
fornitura e contratto di somministrazione. La nozione di servizio ha invece natura sostanzialmente residuale,
riferendosi a tutte le prestazioni rese alle amministrazioni pubbliche che non possono altrimenti rientrare
nell’ambito degli appalti pubblici di lavori e di forniture.
La scelta del contraente. - Nella scelta del contraente privato le amministrazioni aggiudicatrici possono
utilizzare le procedure del pubblico incanto (definita dal legislatore comunitario procedura aperta), quella
della licitazione privata (la cosiddetta procedura ristretta), nonché la trattativa privata (procedura negoziata),
fermo restando l’obbligo per la stazione appaltante di indicare nel bando di gara o nel capitolato d’oneri le
modalità di ponderazione e valutazione scelti in relazione alla natura dell’appalto.
I nuovi strumenti di contrattazione previsti dal Codice degli appalti - Alcuni nuovi strumenti, negoziali od
organizzativi, sono stati poi introdotti dal Codice degli appalti: l’‘accordo quadro’, concluso tra una o più
stazioni appaltanti e uno o più operatori economici, che serve a determinare le clausole degli appalti da
aggiudicare in un determinato periodo, con specifico riferimento a prezzi e quantità previste; il ‘sistema
dinamico di acquisizione’, consistente in un processo di acquisizione interamente elettronico per acquisiti di
uso corrente; l’‘asta elettronica’, che rappresenta un processo per fasi successive basato su un dispositivo
elettronico di presentazione di nuovi prezzi; la ‘centrale di committenza’, amministrazione aggiudicatrice
che acquista forniture e/o servizi, aggiudica appalti pubblici e conclude accordi quadro, in relazione a lavori,
forniture e servizi destinati ad altre amministrazioni aggiudicatrici o ad altri enti aggiudicatori; il ‘dialogo
competitivo’, che consiste, nel caso di appalti particolarmente complessi, in un dialogo con i candidati
ammessi a tale procedura, per meglio elaborare una o più soluzioni atte a soddisfare le necessità
dell’amministrazione e non determinabili con precisione a priori.
Il sistema dei controlli sui contratti pubblici. - Al settore degli appalti è poi preposta un’apposita Autorità di
vigilanza con competenza generale e non più limitata ai lavori pubblici, che dovrà garantire la correttezza e
la trasparenza delle procedure di scelta dei contraenti e di economica ed efficiente esecuzione dei contratti,
affiancata da un Osservatorio dei contratti pubblici. Specifiche disposizioni sono dedicate ad accertare
l’idoneità professionale e la qualificazione dei contraenti privati, nonché ad assicurare la qualità della
prestazione resa all’amministrazione. In particolare, la capacità tecnica dell’impresa può essere dimostrata
attraverso dichiarazioni attestanti alcuni profili curriculari dell’impresa medesima (i servizi e le forniture
effettuate nell’ultimo triennio, la attrezzature tecniche possedute, l’esito dei controlli effettuati dalla stazione
appaltante o, ancora, il rilascio di apposite certificazioni ambientali). La capacità economica e finanziaria dei

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soggetti esecutori di lavori pubblici deve essere provata secondo il sistema di qualificazione disciplinato dal
regolamento di attuazione del Codice degli appalti, mentre, per le forniture e i servizi, può essere dimostrata
attraverso la presentazione di dichiarazioni bancarie o di estratti relativi ai bilanci dell’impresa, o, ancora, di
una dichiarazione concernente il fatturato globale dell’impresa e l’importo relativo a forniture e servizi
realizzati nell’ultimo triennio e identici a quelli della gara.*

Silenzio della pubblica amministrazione


Il silenzio della pubblica amministrazione è un comportamento omissivo dell’amministrazione di fronte a un
dovere di provvedere, di emanare un atto e di concludere il procedimento con l’adozione di un
provvedimento entro un termine prestabilito (art. 2, co. 1 e 5, 20, l. n. 241/1990). L’ordinamento distingue il
silenzio in ipotesi legislativamente qualificate in senso positivo (silenzio assenso), in senso negativo
(silenzio diniego e silenzio rigetto) e ipotesi non giuridicamente qualificate (silenzio inadempimento).
IL SILENZIO ASSENSO
L’art. 20 della l. n. 241/1990 (modificato dall’art. 3 d.l. n. 35/2005) include il silenzio assenso tra gli istituti
di semplificazione amministrativa. La norma stabilisce che nei procedimenti a istanza di parte, esclusi quelli
disciplinati dall’art. 19 (Segnalazione certificata di inizio attività), per il rilascio di provvedimenti
amministrativi, «il silenzio dell’amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento
della domanda», se la stessa amministrazione non comunica all’interessato, nel termine indicato dall’art. 2,
co. 2 e 3, il provvedimento di diniego ovvero se, entro 30 giorni dalla presentazione dall’istanza, non indice
una conferenza di servizi.
Il silenzio assenso in alcuni casi è espressamente escluso dalla legge (per es., per procedimenti e gli atti
riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, nei casi in cui la legge qualifica il silenzio come rigetto
ecc.). In ogni caso l’art. 20, co. 3, prevede che l’amministrazione possa, in via di autotutela annullare
(Annullamento d’ufficio) o revocare (Revoca. Diritto amministrativo) l’atto implicito di assenso (art. 21
quinquies e nonies). Il silenzio diniego e il silenzio rigetto sono due ipotesi in cui le norme attribuiscono
espressamente all’inerzia dell’amministrazione una qualificazione giuridica negativa. Nel primo caso,
decorso inutilmente un determinato periodo di tempo, il silenzio equivale a un provvedimento di diniego.
Così, per es., in materia di diritto di accesso ai documenti amministrativi (art. 25, co. 4, l. n. 241/1990). Il
silenzio rigetto, invece, si ha in caso di mancata pronuncia sul ricorso gerarchico decorsi 90 giorni dalla sua
presentazione, senza che l’organo adito abbia comunicato la decisione, in questo caso esso si intende
respinto (art. 6 D.P.R. 1199/1971 e art. 20 l. 1034/1971).
IL SILENZIO INADEMPIMENTO
Nei casi in cui la legge non qualifica espressamente il silenzio, ovvero nelle numerose materie in cui il
silenzio assenso non trova applicazione per espressa disposizione di legge (si tratta delle materie indicate al
comma 4 dell’art. 20 della l. n. 241/1990 che, per la loro rilevanza, necessitano di un’istruttoria e di una
manifestazione espressa del potere: ad es., ambiente, difesa nazionale, patrimonio culturale, immigrazione,
cittadinanza), il silenzio dell’amministrazione equivale a un ‘inadempimento’.
Pertanto un soggetto che abbia richiesto l’adozione di un provvedimento, decorsi inutilmente i termini entro
cui avrebbe dovuto pronunciarsi la pubblica amministrazione può presentare ricorso
al giudice amministrativo, anche senza previa diffida all’amministrazione inadempiente, fintanto che
perdura l’inadempimento e, comunque, non oltre un anno dalla scadenza dei termini di conclusione del
procedimento. La disciplina concernente la tutela avverso il silenzio inadempimento è ora contenuta nel
Codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104/2010) all’art. 31 (che prevede l’azione verso il silenzio) e
all’art. 117 (che disciplina invece il regime processuale di tale azione).
SILENZIO E AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA
Il silenzio dell’amministrazione finanziaria assume un ruolo significativo nella disciplina del processo
tributario e dell’interpello. Nell’individuazione degli atti suscettibili di essere impugnati ai sensi dell’art. 19,
co. 1, lett. g, d.lgs. n. 546/1992, è stata prevista la possibilità di proporre ricorso avverso il rifiuto, espresso o
tacito, della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie e interessi o altri accessori non dovuti. In tale ipotesi
la disciplina del silenzio è correlata a quella dell’esercizio del diritto del contribuente a ottenere
il rimborso delle somme indebitamente versate al soggetto attivo dell’obbligazione tributaria. Il contribuente
che vanti nei confronti dell’amministrazione finanziaria un diritto al rimborso della maggiore somma pagata
non può ottenere direttamente una tutela giurisdizionale, perché per poter soddisfare il proprio diritto di
credito deve presentare in via preliminare un’istanza di restituzione all’amministrazione competente.
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Decorso il termine di 90 giorni dalla domanda, sorge la possibilità per i soggetti interessati di ricorrere
in giudizio al fine di soddisfare la propria pretesa di rimborso (né negata, né accolta dall’ufficio) entro il
termine di prescrizione decennale. Il silenzio dell’amministrazione ha assunto una rilevanza anche
all’interno dell’istituto dell’interpello. Ai sensi dell’art. 11 della l. 212/2000 (Statuto dei diritti del
contribuente), se l’amministrazione non risponde all’istanza del contribuente entro 120 giorni si intende che
l’amministrazione concordi con l’interpretazione o il comportamento prospettato dal contribuente. La
conseguenza di tale disciplina è che qualsiasi atto a contenuto impositivo o sanzionatorio, emanato in
difformità a tale ultima risposta, è nullo.

Danno
Il d. nel diritto amministrativo
Il tema del d. e della sua ingiustizia è stato studiato con particolare riferimento alla problematica
dell’individuazione delle situazioni giuridiche soggettive la cui lesione da parte
dell’amministrazione pubblica giustifichi il ricorso da parte dei privati a rimedi risarcitori e, soprattutto, con
riferimento alla questione della risarcibilità degli interessi legittimi, ferma restando la risarcibilità dei diritti
soggettivi. Uno dei principali fondamenti della tesi dell’irrisarcibilità degli interessi legittimi veniva
rinvenuto nell’identificazione del d. ingiusto con la lesione di un diritto soggettivo. A sostegno di tale
ricostruzione si portava innanzitutto – oltre alla formulazione letterale dell’art. 28 Cost., che prevede la
responsabilità civile dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici per gli atti «compiuti in violazione di
diritti» – una lettura dell’art. 2043 c.c. quale norma secondaria, meramente sanzionatoria della violazione di
norme preesistenti, la quale non può porre nuovi doveri di condotta a carico dei consociati. Peraltro, già da
molto tempo, si criticava il tentativo di cogliere il significato dell’ingiustizia del d. sulla base del rinvio a un
concetto dogmatico, tra l’altro controverso, come quello di diritto soggettivo.
In sede di applicazione della clausola generale di ingiustizia, si è così progressivamente allargato l’ambito
della risarcibilità, prima ristretto ai soli diritti soggettivi assoluti, riconoscendo la tutela risarcitoria anche ai
diritti di credito, alle aspettative di credito, alle situazioni di fatto pur non rientranti nella tipologia dei diritti
assoluti o relativi, e, infine, alle stesse aspettative «legittime», cioè fondate sulla coscienza sociale, sulle
norme che regolano i rapporti interindividuali, o sulla prassi comune. La medesima giurisprudenza già
considerava, poi, d. ingiusto, nei rapporti interprivati, quello arrecato agli interessi legittimi di cui i singoli
sarebbero titolari nei confronti delle cosiddette autorità private.
Un grande passo avanti avveniva poi con il d.lgs. n. 80/1998, il cui art. 35 conferiva al giudice
amministrativo il potere, nelle controversie relative a particolari materie devolute alla
sua giurisdizione esclusiva, di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento
del danno ingiusto.
Un secondo fattore che ha contribuito a mettere in crisi il tradizionale orientamento di irrisarcibilità degli
interessi legittimi è costituito dall’influenza del diritto comunitario, anche in termini di prevalenza di questo
sugli ordinamenti degli Stati membri.
Percorrendo questa strada, la Corte di cassazione è così giunta ad affermare, con la sent. 500/1999, la
risarcibilità ex se dell’interesse legittimo, quale «posizione di vantaggio riservata a un soggetto in relazione
a un bene della vita oggetto di un provvedimento amministrativo e consistente nell’attribuzione a tale
soggetto di poteri idonei a influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la
realizzazione dell’interesse al bene».
Tale orientamento ha trovato conferma nell’art. 7 della l. 205/2000, mediante il quale il giudice
amministrativo è stato investito in maniera generalizzata della cognizione di tutte le questioni relative al
risarcimento del danno. Tuttavia, per le Sezioni unite della Corte di cassazione, «la lesione dell’interesse
legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c.,
poiché occorre altresì che risulti leso, per effetto dell’attività illegittima e colpevole della pubblica
amministrazione, l’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla, e che il detto interesse
al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo». In altri termini, gli interessi legittimi
non sono risarcibili in maniera indiscriminata, ma soltanto se l’attività illegittima della pubblica
amministrazione determini la lesione del «bene della vita» al quale l’interesse legittimo è correlato. In
relazione agli interessi legittimi cosiddetti oppositivi, la preesistenza del «bene della vita» all’esercizio del
potere amministrativo determinerebbe per la Cassazione, ex se, la produzione di un d. ingiusto. Per gli

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interessi legittimi cosiddetti pretensivi, ovvero per quegli interessi il cui sottostante «bene della vita» è il
conseguimento di un provvedimento favorevole», si rende invece necessario un «giudizio prognostico» per
accertare la fondatezza della pretesa sostanziale dell’istante.
Al riguardo, è tuttavia necessario distinguere tra attività della pubblica amministrazione vincolata, tecnico-
discrezionale e discrezionale pura. Nel primo caso, il giudizio prognostico può essere effettuato dal giudice
amministrativo senza particolari problemi: quest’ultimo, accertata la sussistenza dei presupposti di legge,
può stabilire che l’amministrazione avrebbe dovuto adottare quel determinato provvedimento favorevole.
Nel caso in cui il provvedimento amministrativo sia espressione di una discrezionalità tecnica (quando cioè
l’amministrazione, per decidere, deve applicare regole tecniche di varia natura, che si caratterizzano per la
loro opinabilità), il giudizio prognostico sarebbe precluso al giudice ove si ritiene che la discrezionalità
tecnica attenga al merito amministrativo, cosicché le scelte tecniche dell’amministrazione non possono
essere sindacate in sede giurisdizionale; diversamente, ove si accede alla tesi secondo la quale l’opinabilità
delle valutazioni tecniche non coincide con l’opportunità delle scelte amministrative che caratterizza la
discrezionalità amministrativa pura, il giudice potrebbe sindacare tali valutazioni, anche attraverso l’ausilio
di consulenti tecnici d’ufficio, così come oggi consentito, in via generale, dall’art. 16 l. 205/2000. È
viceversa evidente la difficoltà del «giudizio prognostico» quando la pubblica amministrazione goda di
poteri discrezionali nell’adottare il provvedimento desiderato, poiché le valutazioni discrezionali con cui
l’amministrazione decide ciò che è più opportuno e conveniente per l’interesse pubblico sono per
definizione riservate all’amministrazione. In particolare, nel caso di esercizio di un potere discrezionale, il
giudice non può sostituirsi all’amministrazione e non può, sempre al fine di quantificare il danno risarcibile,
ricostruire l’intero procedimento, valutandone gli aspetti discrezionali. In queste ultime ipotesi, bisogna
accontentarsi di una valutazione empirica della ragionevole prevedibilità di successo da parte del titolare
dell’interesse legittimo leso. In tale quadro, è immediato il riferimento alla giurisprudenza sul risarcimento
per procurata perdita di opportunità, intesa come perdita della possibilità o probabilità di ottenere un certo
vantaggio.
Un grande dibattito è sorto in relazione ai rapporti tra l’azione diretta ad ottenere il risarcimento e
l’annullamento dell’atto amministrativo illegittimo fonte del danno. Ciò che si chiedeva era se, per il
risarcimento di un d. causato da un atto amministrativo invalido, fosse sufficiente l’accertamento di tale
illegittimità con riferimento al caso concreto o se fosse, invece, necessario rimuovere l’atto viziato
dall’ordinamento positivo con effetti erga omnes, in modo da non poter essere più fonte di ulteriori
pregiudizi.
La problematica è stata oggetto di un acuto confronto interpretativo tra le due massime giurisdizioni
superiori, orientata la Corte di Cassazione a sostenere l’autonomia delle due forme di tutela, convinto
il Consiglio di Stato nel ribadire il necessario rapporto di pregiudizialità tra di esse.
Da un lato, si ritiene che costringere il soggetto leso da un provvedimento illegittimo ad un’impugnazione,
alla quale potrebbe non avere alcun interesse, o alla rassegnazione, nel caso in cui sia incorso in decadenza,
costituirebbe una lesione del principio dell’effettività della tutela giurisdizionale. Dall’altro, si sostiene che,
in un regime in cui il breve termine di decadenza per l’impugnazione degli atti amministrativi è finalizzato
alla salvaguardia della stabilità delle situazioni giuridiche di diritto pubblico, il giudice amministrativo non
possa, con riferimento al singolo caso concreto, disapplicare l’atto illegittimo nell’ambito del solo giudizio
risarcitorio.
Attualmente, la disciplina dell’azione risarcitoria per lesione di interessi legittimi, contenuta nell’art. 30 del
Codice del processo amministrativo (d.lgs. 104/2010), rappresenta una forma di compromesso tra i due
orientamenti interpretativi sopra citati. La norma stabilisce, per un verso, che la domanda risarcitoria può
essere proposta entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è
verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo, e, per
l’altro, che nel determinare il risarcimento, il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento
complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando
l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti.

Accesso
A. ai documenti amministrativi I privati hanno diritto di prendere visione o estrarre copia dei documenti
amministrativi utilizzati dalle pubbliche amministrazioni, cioè di «ogni rappresentazione grafica,

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fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non
relativi a uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di
pubblico interesse» (art. 22 l. n. 241/1990, modificata dalla l. n. 15/2005). La legge stabilisce che l’a.
costituisce un «principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di
assicurarne l’imparzialità e la trasparenza» (art. 22 l. cit.) (su cui v. Principio di imparzialità e Trasparenza
amministrativa). Il diritto di a. spetta a tutti i soggetti privati, anche portatori di interessi pubblici o diffusi,
che abbiano un «interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente
tutelata» (art. 22 l. cit.): può trattarsi di diritti soggettivi, di interessi legittimi, o di situazioni strumentali alla
tutela di essi. Il diritto di a. si può far valere nei confronti delle pubbliche amministrazioni, delle aziende
autonome, degli enti pubblici e dei gestori di pubblici servizi: dunque, anche nei confronti di soggetti privati
che svolgono attività di pubblico interesse (art. 23 l. cit.).
I casi di esclusione del diritto di a., elencati dalla legge e oggetto di stretta interpretazione, riguardano, in
particolare, i documenti coperti da segreto di Stato, i procedimenti tributari, le attività finalizzate
all’adozione di atti normativi o amministrativi generali, i procedimenti selettivi nei confronti di documenti
contenenti informazioni di carattere psico-attitudinale relativi a terzi. Con regolamento governativo si
possono prevedere altri casi di sottrazione di documenti amministrativi all’a., quando esso possa
pregiudicare interessi di particolare rilievo, quali la sicurezza e l’ordine pubblico, la difesa nazionale, le
relazioni internazionali, la politica valutaria e monetaria, la riservatezza e la vita privata delle persone (art.
24 l. cit.).
Esercizio del diritto di accesso. - Il diritto si esercita mediante richiesta di a. motivata. Vi può
essere esercizio informale o formale (d.P.R. n. 184/2006). La prima ipotesi vale quando non vi siano
soggetti che possano veder compromesso il loro diritto alla riservatezza dall’esercizio di tale diritto: in tal
caso la richiesta può essere anche verbale, purché si specifichi l’interesse che ne è alla base, ed è esaminata
immediatamente e senza formalità. L’esercizio formale dell’a., invece, si ha quando l’accoglimento
immediato della richiesta risulti impossibile, ovvero quando sorgano dubbi sulla legittimazione del
richiedente, sulla sussistenza dell’interesse, sull’accessibilità del documento, o sull’esistenza di contro-
interessati. L’esercizio formale dà luogo a un procedimento amministrativo autonomo, con un responsabile e
un termine di 30 giorni.
Il diritto di a. può esercitarsi nell’ambito di un procedimento amministrativo o al di fuori di esso. Nel primo
caso, la conoscenza dei documenti può essere essenziale per esercitare i diritti di partecipazione al
procedimento tramite memorie scritte e documenti (art. 10 l. n. 241/1990). Se l’amministrazione non
accoglie la richiesta di a., può negare – espressamente o tacitamente – o differire l’a. per assicurare una
tutela temporanea agli interessi di particolare rilievo che giustificano la limitazione dell’accesso. Questo non
può essere negato ove sia sufficiente il differimento.
La tutela giurisdizionale e amministrativa. - Sono previsti appositi meccanismi di tutela del diritto di a.,
giurisdizionali e amministrativi. In caso di diniego o di differimento, l’interessato può presentare entro 30
giorni ricorso al TAR, che decide con procedimento speciale e abbreviato entro 30 giorni. Il rito in materia
di a. è ora disciplinato dall’art. 116 del c.p.a. (d.lgs. n. 104/2010).
L’interessato può anche chiedere il riesame del diniego o del differimento dell’a. al difensore civico se si
tratta di atti di amministrazioni comunali, provinciali o regionali, o alla Commissione per l’a. ai documenti
amministrativi presso la Presidenza del Consiglio se si tratta di atti di amministrazioni statali. L’istanza al
difensore civico, o alla Commissione, è preliminare e facoltativa rispetto al ricorso al TAR: se è presentata,
sospende i termini del ricorso al giudice.
A. alla  giustizia Ampio fenomeno culturale e istituzionale che ha investito i sistemi democratici
contemporanei con la progressiva costituzionalizzazione delle garanzie giurisdizionali avvenuta nel
passaggio dallo Stato liberale allo Stato costituzionale. Più in particolare, il fenomeno in questione va letto
alla luce del principio di effettività della tutela giurisdizionale, che nella nostra Carta fondamentale si evince
dal coordinato disposto dell’art. 24, co. 1, in materia di diritto di azione, con il co. 3 dell’art. 3, che sancisce
il fondamentale principio di uguaglianza sostanziale. La garanzia dell’a. alla giustizia riguarda, quindi, tanto
i tradizionali diritti soggettivi individuali di derivazione giusnaturalistica, quanto e soprattutto i nuovi diritti,
ovvero i diritti sociali emersi con il moderno Stato sociale e volti alla rimozione degli ostacoli, economici,
culturali e ambientali tra cittadini. È anzi in questa seconda prospettiva che la garanzia dell’a. alla giustizia
rileva, non solo sul piano processuale, ma anche su quello sostanziale del riconoscimento e della tutela
effettiva di valori e interessi nuovi. Tipico esempio di questo fenomeno è il riconoscimento di quei diritti

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che, per la loro diffusione all’interno della collettività, vengono detti diritti o interessi
collettivi oppure diritti o interessi diffusi, e riguardano, per es., l’ambiente o i consumatori, tutelati negli
ordinamenti di common law dal noto istituto delle class actions.
Va infine ricordato come il tema dell’a. alla giustizia assuma particolare importanza allorquando si ponga
come strumento di controllo dell’apparato pubblico governativo. In quest’ultimo caso, infatti, lo strumento
giurisdizionale si presenta anche come strumento di partecipazione all’amministrazione pubblica e come
strumento di determinazione e perseguimento dell’interesse generale.

Principio di legalità
Il principio di legalità è uno dei caratteri essenziali dello Stato di diritto (Forme di Stato e forme di governo):
con l’avvento del costituzionalismo liberale, infatti, si afferma l’idea che ogni attività dei pubblici poteri
debba trovare fondamento in una legge, quale atto del Parlamento, a suo volta unico organo diretta
espressione della sovranità popolare o della nazione.
La Costituzione vigente non contiene una formulazione espressa di questo principio, anche se ad esso si fa
riferimento indiretto in diversi articoli: in particolare, l’art. 23 Cost. stabilisce che «nessuna prestazione
personale o patrimoniale può essere imposta se non in base a una legge». Mentre parte della dottrina si è
espressa per la tesi della costituzionalizzazione implicita del principio di legalità,
la giurisprudenza costituzionale lo ha ritenuto un principio generale dell’ordinamento, ancorché non
costituzionalizzato.
Il principio di legalità si declina in due diversi significati: si parla di legalità  in senso formale quando è
sufficiente che i pubblici poteri abbiano come base giuridica una legge o un atto ad essa equiparato
(Decreto-legge e Decreto legislativo), laddove, invece, si parla di legalità in senso sostanziale quando la
legge non può limitarsi a costituire il fondamento normativo di una certa disciplina, ma deve altresì
contenere una disciplina sufficiente a circoscrivere la discrezionalità dell’amministrazione.
Una stringente affermazione del principio di legalità si ritrova in materia penale, laddove viene affermato
che nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente previsto come reato da una legge che
sia entrata in vigore prima della sua commissione (art. 25 Cost.; art. 1 c.p.). Un altro campo dove questo
principio trova grande applicazione è quello amministrativo, tanto che la violazione di legge costituisce una
delle cause tipiche dell’illegittimità di un atto amministrativo.

Principio di imparzialità
Il principio di imparzialità è esplicitamente affermato nell’art. 97 della Costituzione italiana. Esso
rappresenta il principio fondamentale che deve guidare la pubblica amministrazione nell’esercizio delle sue
funzioni.
Attraverso il ricorso alla riserva di legge per l’organizzazione dei pubblici uffici, il costituente ha inteso
rispondere a una preoccupazione di natura garantista, volta a riportare al Parlamento il potere di dettare le
norme fondamentali relative all’organizzazione della pubblica amministrazione.
Il combinato disposto degli art. 3 e 97 Cost. disegna un preciso obbligo per la pubblica amministrazione di
svolgere la propria attività nel pieno rispetto della giustizia, evitando ogni discriminazione e arbitrio
nell’attuazione dell’interesse pubblico. Il principio di imparzialità si esplicita, dunque, sia sul piano
dell’organizzazione sia su quello dell’attività; diventa principio generale che guida l’intera vita
amministrativa, dal reclutamento del personale attraverso il meccanismo concorsuale, alla definizione delle
sfere di competenza, al rapporto tra organi e uffici, alle modalità di svolgimento della stessa funzione
pubblica.
Dal precetto costituzionale di imparzialità derivano: l’ammissione di tutti i soggetti, indiscriminatamente, al
godimento dei servizi pubblici; il divieto di qualsiasi favoritismo e l’illegittimità degli atti amministrativi
emanati senza previa valutazione di tutti gli interessi, pubblici e privati; l’obbligo per i funzionari (e il
correlativo diritto di ricusazione per i cittadini) di astenersi dal partecipare a quegli atti in cui essi abbiano,
direttamente o per interposta persona, un qualche interesse; la prevalenza dell’elemento tecnico su quello
politico nella composizione delle commissioni giudicatrici di concorsi e gare pubbliche (Corte cost., sent. n.
453/1990). Anche il diritto costituzionale europeo sancisce con chiarezza, nel corrispondente precetto, il
diritto alla migliore amministrazione.

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La giurisprudenza amministrativa prima, e il legislatore poi, hanno tratto ulteriori applicazioni del principio
di imparzialità, fra cui: le norme sull’ineleggibilità e sull’incompatibilità; l’obbligo dell’amministrazione di
esaminare in modo completo, accurato e imparziale tutti gli elementi rilevanti della fattispecie (come
affermato dalla Corte di giustizia delle Comunità europee); l’obbligo di compiere in modo oggettivo un
esame comparativo degli interessi da valutare e di tenere conto dei relativi risultati (per es., nei concorsi per
l’assunzione di persone).
Il principio di imparzialità trova completa esplicazione nel procedimento amministrativo – preordinato a
garantire integrità del contraddittorio, completezza dell’istruttoria, motivazione degli atti e loro pubblicità –
e impone che la decisione dell’amministrazione sia preceduta da una sequenza di atti attraverso cui accertare
l’esistenza di presupposti di fatto e valutare i contrapposti interessi in gioco. Il procedimento diventa così la
forma obbligata dell’azione amministrativa autoritativa: solo in questo modo i portatori di interessi che sono
coinvolti, in modo favorevole o restrittivo, dalla decisione finale, diventano parti verso le quali
l’amministrazione deve comportarsi in maniera imparziale.
Tra le applicazioni del principio di imparzialità vanno anzitutto menzionati i pubblici concorsi per titoli,
laddove la predeterminazione dei criteri di massima vale a garantire che i titoli concretamente prodotti dai
candidati siano valutati in modo imparziale. Assolvono alla stessa funzione gli standard urbanistici, in
quanto regole astratte, stabilite con provvedimento amministrativo, che devono essere osservate nella
formazione degli strumenti urbanistici.
La legge sul procedimento amministrativo (l. n. 241/1990, modificata dalla l. n. 15/2005) prevede inoltre che
la concessione di sovvenzioni, contributi e vantaggi economici di qualunque genere sia subordinata alla
previa formazione e comunicazione dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni devono attenersi (art.
12). La nozione di imparzialità sembra richiamare anche il principio di ragionevolezza, che impone
l’adeguamento dell’azione amministrativa a canoni di razionalità operativa (oltre che al rispetto delle
prescrizioni normative). Infine, nel richiedere la motivazione dell’atto amministrativo, il principio di
imparzialità tende a sottrarre alla decisione amministrativa ogni carattere di arbitrarietà. L’atto
amministrativo viziato da una delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere (disparità di trattamento o
manifesta ingiustizia) è illegittimo e pertanto annullabile.

Principio di sussidiarietà. Diritto amm.vo


Principio e criterio di ripartizione delle funzioni e delle competenze amministrative all’interno
dell’ordinamento giuridico. La sussidiarietà ha due modalità di espressione: verticale e orizzontale.
La sussidiarietà verticale si esplica nell’ambito di distribuzione di competenze amministrative tra diversi
livelli di governo territoriali (livello sovranazionale: Unione Europea-Stati membri; livello
nazionale: Stato nazionale-regioni; livello subnazionale: Stato-regioni-autonomie locali) ed esprime la
modalità d’intervento – sussidiario – degli enti territoriali superiori rispetto a quelli minori, ossia gli
organismi superiori intervengono solo se l’esercizio delle funzioni da parte dell’organismo inferiore sia
inadeguato per il raggiungimento degli obiettivi.
La sussidiarietà orizzontale si svolge nell’ambito del rapporto tra autorità e libertà e si basa sul presupposto
secondo cui alla cura dei bisogni collettivi e alle attività di interesse generale provvedono direttamente i
privati cittadini (sia come singoli, sia come associati) e i pubblici poteri intervengono in funzione
‘sussidiaria’, di programmazione, di coordinamento ed eventualmente di gestione.
Evoluzione nell’ordinamento interno. - Le origini della sussidiarietà si rinvengono nella dottrina
ecclesiastica che sosteneva l’importanza del ruolo dei privati e delle comunità minori all’interno
della società, ai fini del mantenimento del giusto ordine (Enciclica per il Quadragesimo anno Rerum
Novarum, 1931; Enciclica Mater et Magistra, 1961).
Nell’ordinamento italiano la sussidiarietà è stata inizialmente recepita dalla l. n. 59/1997
(cosiddetta legge Bassanini) e dalla l. n. 265/1999 (confluita nella l. 267/2000, testo unico di ordinamento
sugli enti locali, t.u.e.l.), per poi divenire principio costituzionale in seguito alla riforma del titolo V, parte II,
Cost. attraverso la l. cost. n. 3/2001 (su cui v. Decentramento amministrativo). Un ruolo fondamentale
nell’articolazione concreta del principio di sussidiarietà è stato svolto dalla giurisprudenza costituzionale,
che ha ritenuto ammissibili deroghe alla rigida ripartizione delle competenze tra Stato e regioni, in virtù del
cosiddetto criterio della dimensione degli interessi (sent. 303/2003, 172/2004; 31, 242, 285 e 383 del 2005
ecc.).

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L’art. 118, co 1., Cost., disciplina la s. verticale, stabilendo che le funzioni amministrative sono attribuite ai
comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a province, città metropolitane,
regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza (l. cost. n. 12/2004).
La norma indica il comune quale ente «a competenza amministrativa generale», poiché organismo
territoriale più vicino ai cittadini e in grado di rappresentare meglio le necessità della collettività.
La sussidiarietà, in tal modo, tende a limitare l’azione dell’organizzazione di governo di livello superiore nei
confronti dell’organizzazione di livello inferiore, stabilendo che la prima interviene qualora le attività non
possano essere adeguatamente ed efficacemente esercitate dal livello inferiore.
Con la sentenza 303/2003 la Corte costituzionale ha specificato le modalità di trasferimento delle funzioni
amministrative dal livello inferiore al livello superiore, dovuto a «esigenze di carattere unitario», affermando
che esso deve essere disposto con legge statale e che, assieme alla funzione amministrativa, deve essere
altresì trasferita la funzione legislativa correlata; lo Stato avocando a sé, per sussidiarietà, funzioni
amministrative che non possono essere adeguatamente ed efficacemente esercitate ad altri livelli di governo,
può e deve, in osservanza del principio di legalità, disciplinare tali funzioni con legge statale. Questa deroga
è tuttavia legittima solo se «proporzionata», «ragionevole» e «concordata» con la regione interessata.
La sussidiarietà orizzontale ha trovato, inizialmente, riconoscimento nell’art. 2 della l. n. 265/1999, confluito
poi nella l. n. 267/2000 e, infine, nell’art. 118, co. 4, Cost., secondo il quale Stato, regioni, città
metropolitane, province e comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo
svolgimento di attività di interesse generale, sulla base appunto del principio di sussidiarietà. La sussidiarietà
orizzontale esprime il criterio di ripartizione delle competenze tra enti locali e soggetti privati, individuali e
collettivi, operando come limite all’esercizio delle competenze locali da parte dei poteri pubblici: l’esercizio
delle attività di interesse generale spetta ai privati o alle formazioni sociali e l’ente locale ha un ruolo
sussidiario di coordinamento, controllo e promozione; solo qualora le funzioni assunte e gli obiettivi
prefissati possano essere svolti in modo più efficiente ed efficace ha anche il potere di sostituzione.

Pubblicità
pubblicità Divulgazione, diffusione tra il pubblico. In particolare, l’insieme di tutti i mezzi e modi usati allo
scopo di segnalare l’esistenza e far conoscere le caratteristiche di prodotti, servizi, prestazioni di vario
genere predisponendo i messaggi ritenuti più idonei per il tipo di mercato verso cui sono indirizzati
Nel diritto civile, la p. soddisfa l’esigenza di certezza nei rapporti giuridici, esonerando, per i fatti che ne
formano oggetto, dall’onere della prova quando si vogliano far valere i singoli diritti derivanti dai fatti stessi.
Oltre alla funzione di portare a conoscenza dei terzi certe vicende, la p. ha, infatti, funzione probatoria, fino
a querela di falso, della dichiarazione ricevuta dal pubblico ufficiale addetto alla tenuta del pubblico registro.
La p. patrimoniale ha come oggetto i beni immobili e i beni mobili registrati e si attua nelle forme
della trascrizione, dell’iscrizione e dell’annotazione, le quali, pur con diversità di effetti giuridici trovano
tuttavia il loro momento unificante nel fatto che si riferiscono al compimento di atti traslativi di diritti reali
sui beni. La p. patrimoniale si effettua in Italia secondo il sistema personale che si fonda sulla registrazione a
favore dell’acquirente e a carico del dante causa, individuati in relazione all’atto posto in essere, cosicché
il bene oggetto dell’atto risulta descritto nel registro in relazione al soggetto titolare del relativo diritto. A
questo sistema si contrappone quello reale, di origine germanica, che trova attuazione solo nei territori già
sottoposti alla sovranità austriaca. La p. è requisito indispensabile per la validità del negozio o per la sua
efficacia, per quegli atti per i quali la legge richiede l’inserzione in pubblici registri: successioni, trascrizioni
e iscrizioni ipotecarie, separazione degli immobili del defunto da quelli dell’erede, brevetti e marchi,
matricole e simili per le navi maggiori e minori, per i galleggianti, per gli aeromobili, per gli alianti, per le
automobili. Quando sia prevista l’inserzione della p. nei pubblici registri, la sua funzione può essere
costitutiva (per es., iscrizione ipotecaria) ovvero solamente dichiarativa, nel senso che il negozio, valido tra
le parti, è altrimenti inopponibile ai terzi o ad alcuni terzi. La p. prescritta dalla legge è legale perché in essa
si prescinde dalla conoscenza che i terzi abbiano acquistato degli atti o dei negozi pubblicati. Si parla di p. di
fatto nel caso in cui la legge consente che si possa provare che i terzi abbiano avuto conoscenza di un dato
atto sebbene esso non sia stato reso noto nelle forme di legge (per es., art. 19 c.c.).
Per quanto riguarda invece la p. relativa alle persone occorre distinguere a seconda che si tratti
di persona fisica, nel qual caso la p. si realizza attraverso i registri dello stato civile, nei quali risultano

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inseriti tutti i fatti e le vicende che concernono la persona, dalla nascita alla morte, o di persona giuridica, nel
qual caso la p. si attua attraverso gli appositi registri.

Trasparenza
DIRITTO
T. amministrativa Principio fondamentale dell’esercizio della funzione amministrativa, manifestazione del
principio del buon andamento contenuto nell’articolo 97 della Costituzione. L’art. 1 della l. 241/1990 (come
modificato dall’art. 1 della l. 15/2005) individua la t. tra i principi generali attinenti alle modalità di
svolgimento del rapporto tra pubblica amministrazione e privati-cittadini, insieme ad altri principi quali
l’economicità, l’efficacia, la pubblicità ecc. La t. delinea la comprensibilità dell’azione dei soggetti pubblici
sotto diversi profili, quali la semplicità e la pubblicità (conoscibilità), in modo da consentire la conoscenza
reale dell’attività amministrativa e di effettuare il controllo sulla stessa. L’azione amministrativa deve quindi
consentire agli interessati di accedere alle informazioni relative al procedimento in corso e per le pubbliche
amministrazioni vi è il dovere di comunicare agli stessi tutte le informazioni richieste, salvo i casi
eccezionali espressamente esclusi dalla legge. La t. amministrativa trova applicazione soprattutto attraverso
il diritto di accesso ai documenti amministrativi, la comunicazione dell’avvio e la partecipazione al
procedimento, la motivazione del provvedimento. Tali principi, quindi, consentono al soggetto privato che
abbia un interesse diretto, concreto e attuale, di interloquire con la pubblica amministrazione, a tutela del
proprio interesse, prima che sia adottata la decisione finale (Corte cost., sent. 104/2006; art. 1, co. 1, 3, 22, l.
241/1990). T. delle condizioni dei contratti bancari e finanziari Imposta alle banche e agli intermediari
finanziari al fine di garantire agli investitori di addivenire ad una scelta informata in ordine alla stipulazione
dei contratti, interessa: la fase pre-negoziale, attraverso la pubblicizzazione dei tassi di interesse, dei prezzi,
delle spese per le comunicazioni alla clientela e di ogni altra condizione economica relativa alle operazioni e
ai servizi offerti; la fase negoziale, attraverso la specificazione che il contratto deve essere redatto per
iscritto e che eventuali modifiche del tasso d’interesse, di ogni altro prezzo o condizione contrattuale in
senso sfavorevole al cliente devono essere espressamente indicate nel contratto, con clausola approvata dal
cliente; la fase post-negoziale, attraverso l’obbligo in capo al professionista di comunicare al cliente
qualsiasi proposta di modifica unilaterale delle condizioni contrattuali e, almeno una volta all’anno, di
fornire per iscritto al cliente una comunicazione chiara e completa in merito allo svolgimento del rapporto.
Trovano applicazione in materia le disposizioni del testo unico bancario (d. legisl. 385/1993), del testo unico
dell’intermediazione finanziaria (d. legisl. 58/1998), del codice del consumo (d. legisl. 205/2006, soprattutto
per ciò che riguarda l’apposizione di clausole vessatorie al contratto e i contratti riguardanti servizi
finanziari stipulati a distanza) e gli art. 1341-1342 del c.c. T. delle società Regime di tassazione in base al
quale i redditi e le perdite conseguiti da una società vengono imputati, indipendentemente dalla percezione,
direttamente ai soci; questi ultimi ne rispondono verso l’erario in prima persona. Rappresenta uno dei metodi
per evitare la doppia imposizione dei redditi prodotti in forma collettiva. Secondo la disposizione contenuta
nell’art. 5 del testo unico delle imposte sui redditi (t.u.i.r.), costituisce il regime naturale di imposizione per
le società di persone e gli enti assimilati residenti nel territorio dello Stato. I redditi imputati per t. non
costituiscono un’autonoma categoria reddituale: per le società in nome collettivo e in accomandita semplice
trova applicazione la presunzione di commercialità (art. 6, co. 3, t.u.i.r.), per cui i redditi imputati ai soci
mantengono la propria natura di reddito d’impresa. Con il d. legisl. 344/2003 è stata introdotta la possibilità
anche per le società di capitali di optare per il regime di t. fiscale al ricorrere di determinati requisiti di
partecipazione (art. 115-116 t.u.i.r.; d.m. 23 aprile 2004). Per le società di capitali, quindi, la t. rappresenta
una modalità di imposizione alternativa. Il reddito imponibile della partecipata (società di capitali) può
essere così fiscalmente imputato pro quota alle partecipanti secondo il modello della tassazione per t. tipico
delle società di persone. L’opzione deve necessariamente essere approvata da parte di tutti i soci della
società di capitali.

Ordinamento
Complesso di norme che ordinano e disciplinano una determinata istituzione o attività.

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DIRITTO
Dell'o. giuridico si hanno sostanzialmente tre concezioni. La teoria  normativa, che fa capo a H. Kelsen, lo
definisce come un complesso o sistema di norme giuridiche positive generali (leggi formali) o individuali
(atti amministrativi o sentenze), ordinati secondo una norma fondamentale
(cosiddetto principio della costituzione più antica). La teoria istituzionale, di cui il maggiore esponente è S.
Romano, lo identifica con la istituzione, ossia con un ente o corpo sociale reale ed effettivo coincidente con
il diritto oggettivo (ubi societas ibi ius). Infine la teoria del rapporto, illustrata da A. Levi, considera l'o.
giuridico come un sistema di rapporti giuridici. Queste concezioni non si escludono, ma si integrano a
vicenda, contenendo ciascuna qualche elemento necessario a identificare il concetto di o. giuridico. La
concezione normativa e quella istituzionale pongono l'accento soprattutto sull'aspetto oggettivo dell'o.,
insistendo la prima sul fondamento statuale del diritto, la seconda su quello sociale. La concezione del
rapporto giuridico pone invece l'accento soprattutto sull'aspetto soggettivo dell'o. giuridico come matrice di
facoltà o di potestà, di diritti o di obblighi per i membri della collettività. In ogni caso, per l'esistenza dell'o.
giuridico sono necessarî: a) Una collettività (ente o corpo sociale o istituzione) che riconosce un'autorità, o
principio di legittimità del potere, cui è commessa la disciplina dei rapporti intersoggettivi per realizzare i
fini di accrescimento e di sviluppo della collettività stessa. Così negli o. democratici, come quello italiano, il
principio di legittimità del potere sta nella sovranità popolare (art. 1, co. 2, Cost.: «la sovranità appartiene al
popolo»); negli o. assoluti il principio di legittimità del potere sta nella volontà del monarca; negli o.
teocratici, nella volontà divina. Il perseguimento di un fine di accrescimento e di sviluppo è presunto
nell'autorità investita dei poteri sovrani, ma talvolta può essere espresso, come è nell'art. 1, co. 1, Cost.
(«Repubblica fondata sul lavoro»). b) Una condizione di uguaglianza giuridica tra i membri della
collettività, nel senso che a tutti sia riconosciuta una capacità di diritto. c) Una situazione di disuguaglianza
di voleri tra i membri della collettività, basata su una diversità di interessi particolari. Tale situazione
determina dei conflitti di interesse, per dirimere i quali l'autorità, in cui si esprime il potere sovrano, opera,
con l'emanazione dei comandi giuridici in via preventiva (leggi) o successiva (sentenze e atti
amministrativi), una mediazione attraverso cui viene riconosciuto e tutelato l'interesse prevalente e certi
comportamenti vengono di conseguenza autorizzati, vietati, o resi obbligatorî (rapporti giuridici). Secondo
talune dottrine, il concetto di o. giuridico si identificherebbe senz'altro con quello di diritto in senso
oggettivo. Da altri si afferma invece che o. giuridico e diritto oggettivo sono entità distinte. In realtà non
sembra che il diritto oggettivo, come complesso di norme scritte o consuetudinarie, esaurisca il concetto di
o. giuridico, il quale comprende, oltre alle norme, anche quel principio di autorità da cui le norme stesse
emanano e che ben può definirsi potere sovrano o potere normativo. Questo assolve alla funzione di ridurre
a unità il complesso delle norme informandole alle esigenze storiche di giustizia che scaturiscono dal corpo
sociale. Nell'ambito dell'o. giuridico si risolve quindi lo storico conflitto tra diritto ed equità, dove l'equità
non è una categoria extragiuridica, ma l'espressione delle esigenze giuridiche nuove per un regolamento dei
rapporti che tenga conto delle modificazioni intervenute nella struttura sociale. Nell'ambito dell'o. giuridico
il fenomeno interpretativo è destinato a vivificare in sede di applicazione l'effettiva portata della norma
mediante il processo di integrazione della norma stessa con i principî giuridici dell'equità. Le norme
giuridiche, diritto in senso obiettivo, non si identificano pertanto con l'o. giuridico, essendo lo strumento di
cui l'o. giuridico si serve per dirimere i confini di interesse e dare ai membri della collettività la certezza
dell'interesse tutelato. Negli o. moderni caratterizzati dalla codificazione si è acuita l'esigenza della norma
giuridica astratta come garanzia di libertà e di autonomia degli individui rispetto all'autorità sovrana; con le
costituzioni di tipo rigido si tende a limitare, entro precise norme giuridiche, anche i principî fondamentali
su cui si basa l'o. giuridico e quindi a controllare anche il nucleo essenziale della sovranità e cioè il potere
legislativo. Tuttavia questa sovranità non può comprimersi oltre un certo limite, perché anche nelle
costituzioni di tipo rigido, le norme costituzionali sono modificabili con le prescritte maggioranze
parlamentari. Non si può, comunque, escludere che sussista - come caso limite - un o. giuridico senza norme
giuridiche, almeno così come comunemente vengono intese; e cioè come regole astratte e preordinate
di condotta. Si supponga, per es., una collettività organizzata attorno a un potere sovrano universalmente
riconosciuto e chiamato a dirimere i concreti conflitti di interesse (diritto giurisprudenziale tipico dello ius
praetorium). Del resto anche negli o. giuridici più evoluti si hanno di solito due sistemi di norme giuridiche
spesso contrastanti, il primo improntato a una razionalità deduttiva (codificazione), il secondo a carattere
empirico nascente dalle esigenze sociali contingenti (ius civile e ius praetorium, diritto comune e statuti,
codici e legislazione speciale). Si è ritenuto pure che i termini di o. giuridico e di stato coincidano. Ora, non

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v'è dubbio che se si intende lo stato sotto il profilo di comunità organizzata, il concetto di stato si identifica
con quello di o. giuridico statuale, ma se si intende lo stato nella concezione di soggettività giuridica, come
titolare cioè di diritti soggettivi, i due termini non coincidono, perché l'o. giuridico sovrano si caratterizza al
di fuori della regolamentazione giuridica, in quanto fatto produttore del diritto (ex facto oritur ius) e creatore
esso stesso delle qualificazioni giuridiche, compresa la stessa qualificazione dello stato
come persona giuridica e come titolare di diritti soggettivi. Nell'o. giuridico e sovrano gravitano o. giuridici
minori o semiautonomi (pluralità degli o. giuridici), ossia collettività organizzate secondo particolari norme
interne, che trovano il loro limite, oltre che nei principî informati alla natura e al tipo dei rapporti
intersoggettivi, anche nei principî e nelle leggi dell'o. giuridico statale in cui si muovono e operano. Questi
o. sono pertanto giuridici in quanto riconosciuti, e sono riconosciuti in quanto non contraddicano ai principî
e alle norme dello stato (morale, buon costume, ordine pubblico) e perseguano i suoi stessi fini di
accrescimento e di sviluppo. Non sono pertanto o. giuridici, secondo l'opinione prevalente, le associazioni a
delinquere, le quali pur essendo o., si trovano a essere antigiuridiche in senso obiettivo. Sono invece o.
giuridici espressamente riconosciuti sul piano del diritto costituzionale e civile: la famiglia come aggregato
organizzato nei suoi rapporti da un'autorità cui è commesso il relativo potere (il padre o, nell'o. italiano
vigente, entrambi i genitori); l'impresa come aggregato organizzato nei suoi rapporti di lavoro da un'autorità
cui è commesso il relativo potere (l'imprenditore); e in genere gli altri enti o istituzioni comunque
riconosciuti come ordinamenti.
L’o. giudiziario
L’insieme delle norme che regolano la Costituzione e il funzionamento degli organi giurisdizionali; in senso
più ristretto e più comune, l’insieme delle norme che regolano la Costituzione e il funzionamento degli
organi della giurisdizione ordinaria. In Italia, le norme fondamentali dell’o. giudiziario sono contenute negli
art. 101-10 Cost., in relazione ai quali molto lento è stato il processo di adeguamento della legislazione
ordinaria. È pertanto in vigore, pur se modificato in modo rilevante, l’o. giudiziario del guardasigilli D.
Grandi, adottato con r.d. 12/1941. Principio fondamentale del sistema delineato dalla Costituzione è che la
funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari, ossia istituiti e regolati dalle norme sull’o.
giudiziario (art. 102). Al riguardo l’art. 1 del r.d. del 1941, modificato dalla l. 374/1991 e successivamente
dal d.legisl. 51/98, con cui sono stati soppressi gli uffici dei giudici conciliatori e le preture, stabilisce che la
giustizia nelle materie civile e penale è amministrata: a) dal giudice di pace; b) dal tribunale ordinario; c)
dalla Corte di appello; d) dalla Corte di cassazione; e) dal tribunale per i minorenni; f) dal magistrato di
sorveglianza; dal tribunale di sorveglianza. La Costituzione afferma anche il principio della partecipazione
diretta del popolo all’amministrazione della giustizia, ma demanda alla legge di regolare i casi e le forme di
essa (Corte di assise). È vietata invece l’istituzione di giudici straordinari o di giudici speciali, potendosi
solo per determinate materie provvedere alla istituzione di servizi specializzati presso gli organi giudiziari
ordinari.
Altro principio fondamentale è quello dell’autonomia e indipendenza della magistratura da ogni potere: il
potere giudiziario è quindi esercitato da organi che esplicano la loro funzione senza alcuna interferenza con
quelli che esercitano il potere esecutivo e legislativo. Corollari del principio sono l’inamovibilità dei
magistrati, l’autogoverno e l’autodisciplina della magistratura. Questi ultimi sono attuati per mezzo
del Consiglio superiore della magistratura, al quale spettano le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le
promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati.
Le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso, ma la legge sull’o. giudiziario può ammettere la
nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli (per es., il
giudice di pace). Il principio secondo cui i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni
ha avuto una prima attuazione nella l. 382/1951, che aboliva i gradi gerarchici, mentre di particolare rilievo
per la progressione di carriera è stata la l. 570/1966; con tale legge e con leggi successive è stato infatti
adottato un sistema di progressione automatica a ruoli aperti per anzianità (a seguito
di valutazione favorevole del Consiglio superiore della magistratura, previo motivato parere del Consiglio
giudiziario) che ha svincolato il grado dal conseguimento delle relative funzioni. Un cenno particolare
merita la posizione del pubblico ministero, al quale la Costituzione assicura particolari garanzie di
indipendenza in analogia a quelle previste per il giudice, stabilendo che esso gode delle garanzie fissate nei
suoi riguardi dalle norme sull’o. giudiziario. Pertanto, pur conservando la sua originaria funzione
di collegamento tra il potere politico e quello giurisdizionale, il pubblico ministero è organo soggetto alla
sola legge, facendo parte della magistratura e non essendo, come in passato, sottoposto alla direzione
del ministro della Giustizia.
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Al ministro competono l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia (cancellerie e
segreterie giudiziarie, ufficiali giudiziari, locali giudiziari ecc.), e spetta altresì la facoltà di promuovere
l’azione disciplinare nei confronti dei magistrati senza che, peraltro, tale potere incida sull’indipendenza del
potere giudiziario, dato che la deliberazione del provvedimento disciplinare compete al Consiglio superiore
della magistratura anche nel caso in cui l’azione sia promossa dal ministro (art. 14 della l. 195/1958).

Accordi amministrativi
Gli accordi amministrativi sono forme consensuali dell’esercizio della potestà amministrativa,
istituzionalizzate dalla l. n. 241/1990 sul procedimento amministrativo e riformate dalla l. n. 80/2005. Sono
espressione del nuovo principio generale contenuto nella l. n. 241/1990, secondo il quale la
pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto
privato salvo che la legge disponga diversamente. Sono previsti due tipi di accordi: fra pubblica
amministrazione e privati e fra amministrazioni pubbliche.
Gli accordi fra privati e pubblica amministrazione. - Si tratta di strumenti che favoriscono la partecipazione
dei privati interessati al procedimento e, più in generale, all’azione amministrativa. L’art. 11 della l. n.
241/1990, prevede che l’amministrazione procedente possa concludere, senza pregiudizio dei diritti dei terzi
e nel perseguimento del pubblico interesse, due tipi di accordi con i privati interessati: l’accordo sostitutivo
che ha come fine l’emanazione di un atto in sostituzione del provvedimento finale ed è soggetto agli stessi
controlli del provvedimento amministrativo, e l’accordo preliminare o integrativo che comporta la
determinazione del contenuto discrezionale del provvedimento finale. Gli accordi in questione devono
essere stipulati, a pena di nullità, in forma scritta, salvo che la legge disponga altrimenti; si applicano i
principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili, salvo l’ipotesi di
recesso unilaterale dall’accordo da parte dell’amministrazione per sopravvenuti motivi di pubblico interesse
e salvo l’obbligo di provvedere alla liquidazione di un indennizzo per gli eventuali pregiudizi subiti dal
privato; con questa deroga la legge vuole specificare che pur trattandosi di forme contrattuali, espressione di
potestà non autoritativa, è, comunque, sempre presente il vincolo del perseguimento dell’interesse pubblico
(tale particolare forma di recesso è stata in realtà accostata dalla dottrina alla potestà generale di autotutela e,
in particolare, alla revoca del provvedimento da parte dell’amministrazione, su cui si vedano le
voci: Autotutela. Diritto amministrativo e Revoca. Diritto amministrativo).
A garanzia del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), è previsto
che la stipulazione dell’accordi sia preceduta da una determinazione dell’organo che sarebbe competente per
l’adozione del provvedimento.
Le controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi amministrativi sono
riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. L’art. 11 della legge citata prevede che gli
accordi si debbano concludere senza arrecare pregiudizio dei diritti dei terzi; questi ultimi, in caso di accordi
lesivi, hanno la possibilità di opporvisi, ma l’impugnazione potrà essere fatta solo nei confronti degli accordi
sostitutivi, in quanto idonei a produrre effetti diretti nella situazione giuridica soggettiva dei terzi, mentre per
quanto riguarda gli accordi integrativi, non essendo idonei di per sé a incidere all’esterno, saranno
impugnabili esclusivamente insieme al provvedimento finale. La competenza a decidere sull’impugnazione
segue i normali criteri di ripartizione della giurisdizione, essendo devoluta al giudice amministrativo
relativamente alla lesione di un interesse legittimo e al giudice ordinario in caso di lesione di un diritto
soggettivo (su cui si fa rinvio alla voce Giurisdizione amministrativa).
Gli accordi fra pubbliche amministrazioni. - Gli accordi amministrativi fra amministrazioni pubbliche,
rientranti nell’ambito degli accordi organizzativi, sono strumenti di semplificazione dell’azione
amministrativa e di coordinamento tra amministrazioni. Sottoposti a una disciplina generale contenuta
nell’art. 15 della l. n. 241/1990 che prevede la facoltà per le pubbliche amministrazioni di concludere degli
accordi tra loro per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune, questi
accordi sono dei veri e propri contratti aventi lo scopo di permettere la rapida e contestuale ponderazione di
interessi pubblici concorrenti. Come previsto per gli accordi tra pubblica amministrazione e privati, a essi si
applicano i principi del codice civile in materia di obbligazioni e di contratti in quanto compatibili ma,
diversamente dai primi, hanno soprattutto il fine di vincolare gli organi amministrativi nell’esercizio delle
rispettive competenze, di predeterminare i tempi entro cui vanno esercitate, di quantificare i rispettivi
impegni finanziari e di stabilire le conseguenze degli eventuali impedimenti. Per questi accordi si osservano

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in quanto applicabili le norme relative alla forma, ai controlli e alla giurisdizione previsti per gli accordi
integrativi o sostitutivi.

Conferenza di servizi
Istituto volto a semplificare l’azione della pubblica amministrazione attraverso l’esame contestuale dei vari
interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo. Viene indetta quando l’inerzia di una o più
amministrazioni rischia di impedire l’adozione di un provvedimento ed è volta a scongiurare la possibile
paralisi dell’attività amministrativa e gli effetti negativi che verrebbero a subirne i privati. Rispondendo al
canone del buon andamento della pubblica amministrazione, la conferenza di servizi dà attuazione ai criteri
di economicità, semplicità, celerità ed efficacia.
La disciplina è contenuta nella l. n. 241/1990, con le relative modifiche apportate dalla l. n. 15/2005, che
prevede una disciplina generale (art. 14 e ss.) e una disciplina speciale per alcuni procedimenti di particolare
complessità (art. 14 bis). Di norma la conferenza viene convocata dall’amministrazione procedente, o da
quella che cura l’interesse prevalente, ma può essere anche richiesta da qualunque amministrazione
coinvolta, tramite il responsabile del procedimento. Può essere inoltre indetta su richiesta del privato
interessato, quando la sua attività sia subordinata ad atti di consenso di più amministrazioni pubbliche (art.
14, co. 4). La pubblica amministrazione si avvale della conferenza laddove ritenga opportuno esaminare
contestualmente i vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo o in più procedimenti
amministrativi connessi riguardanti i medesimi risultati e attività (art. 14, co. 1 e 3; cosiddetta conferenza di
servizi istruttoria); oppure qualora debba acquisire intese, concerti, nullaosta o assensi, comunque
denominati, da parte di altre amministrazioni pubbliche e non li ottenga entro 30 giorni dalla ricezione da
parte dell’amministrazione competente della relativa richiesta, o qualora il provvedimento finale sostituisca
tutti gli atti di competenza delle amministrazioni partecipanti o comunque invitate a partecipare ma assenti
(art. 14, co. 2, prima parte, e 14 ter, co. 9; cosiddetta conferenza di servizi decisoria).
Una volta indetta la conferenza di servizi, la prima riunione deve essere tenuta entro 15 giorni (30 se
l’istruttoria è particolarmente complessa). Per la durata dei lavori, la normativa stabilisce un termine
massimo di 90 giorni, salvo i casi eccezionali di sospensione (massimo 90 giorni) per la richiesta di una
valutazione di impatto ambientale (art. 14 ter, co. 1, 3, 4 e 5). La l. 1n. 5/2005 ha inoltre introdotto il
principio di posizione prevalente, in base al quale, alla conclusione dei lavori, o scaduti i termini di legge,
l’amministrazione procedente adotta la decisione di conclusione del procedimento motivata, valutando le
specifiche risultanze della conferenza e tenendo conto delle posizioni prevalenti (art. 14 ter, co. 6 bis). I
lavori della conferenza devono inoltre procedere attraverso decisioni deliberate a maggioranza dei presenti
(art. 14 ter, co. 1) e le amministrazioni dissenzienti devono dare un’adeguata motivazione al loro voto
negativo. Più in particolare, il dissenso deve essere manifestato nella conferenza, non può riferirsi a
questioni connesse, che non costituiscono oggetto della conferenza medesima, e deve recare le specifiche
indicazioni delle modifiche progettuali necessarie ai fini dell’assenso (art. 14 quater, co. 1). Inoltre, su tutte
le decisioni di sua competenza l’amministrazione deve esprimere la propria volontà attraverso un unico
rappresentante, legittimato a esprimersi in modo vincolante, e qualora non la esprima si considera comunque
acquisito l’assenso della medesima, configurandosi una vera e propria ipotesi di silenzio-assenso (art. 14 ter,
co. 6-7). Infine, la normativa attribuisce al provvedimento finale della c. un’efficacia sostitutiva, nel senso
che sostituisce a tutti gli effetti ogni atto (autorizzazione, concessione, nullaosta ecc. ) che ciascuna
amministrazione partecipante (o invitata a partecipare) avrebbe potuto adottare separatamente dalle altre
(art. 14, co. 9).
Il principio di maggioranza subisce una deroga nell’ipotesi in cui il motivato dissenso sia espresso da un
amministrazione preposta alla tutela di un interesse qualificato, quale la tutela dell’ambiente, del paesaggio e
del territorio, del patrimonio storico-artistico o la tutela della salute e della pubblica incolumità. In questi
casi l’amministrazione procedente rimette la decisione all’organo politico preposto alla comparazione degli
interessi qualificati: il Consiglio dei ministri, in caso di dissenso tra le amministrazioni dello Stato; la
conferenza permanente per i rapporti tra Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano
(conferenza Stato-Regioni), in caso di dissenso tra un’amministrazione statale e una regionale o tra più
amministrazioni regionali; la conferenza unificata, in caso di dissenso tra Regione ed ente locale (art. 14
quater, co. 3 e 3 quinquies).

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Accertamento
In diritto civile, si intende per negozio di a. un negozio giuridico con cui le parti attribuiscono certezza
giuridica a situazioni e rapporti preesistenti, in modo da escludere ogni successiva contestazione al riguardo.
Tale negozio è volto pertanto a rendere definitive e immutabili situazioni prima incerte, vincolando le parti
ad attribuire al rapporto precedente gli effetti che risultano dall’accertamento. Secondo un diffuso
orientamento giurisprudenziale, la situazione preesistente è regolata dalla fonte originaria nei limiti del
contenuto e con l’area di efficacia delineata dalla fonte nuova, la quale si giustappone alla prima senza
estinguerla. Parte della dottrina ritiene il negozio di a. inammissibile nel nostro ordinamento, in quanto la
funzione di a. è tipica dell’autorità giudiziaria e non dei privati.
Nel diritto processuale civile, l’attività giudiziale volta a eliminare la controversia mediante l’a.
incontrovertibile (con forza di giudicato) dell’esistenza o inesistenza del diritto soggettivo in base al quale è
sorta (art. 2909 c.c.). Tutte le azioni di cognizione, anche quelle di condanna e costitutive, presuppongono
l’a., essendo finalizzate alla produzione del giudicato sostanziale; tra di esse l’azione di a. mero assume un
ruolo specifico, giacché si esaurisce con la dichiarazione dell’esistenza o dell’inesistenza del diritto fatto
valere in giudizio.
Tale azione costituisce pertanto la tutela cognitiva minima, poiché con essa l’attore tende a risolvere una
controversia, sorta in conseguenza della contestazione, da parte di un terzo, dell’esistenza o dell’ampiezza di
un diritto soggettivo, oppure a seguito del vanto, sempre da parte di un terzo, di un diritto soggettivo
incompatibile con quello dell’effettivo titolare. Nel primo caso si parla di a. dell’esistenza del proprio diritto
(azione di mero a. positivo); nel secondo di a. dell’inesistenza del diritto vantato dal terzo (azione di mero a.
negativo). Ne consegue che l’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.) attraverso l’azione di mero a. non può
consistere in uno stato di incertezza del proprio diritto meramente soggettivo. Occorre che l’incertezza
presenti i caratteri dell’attualità e dell’obiettività, che sia cioè già in atto nel momento in cui si agisce in
giudizio e si manifesti in fatti o atti concreti, che provengano da terzi e creino un’effettiva situazione di
incertezza giuridica. Si parla, invece, di a. incidentale quando, ai sensi dell’art. 34 c.p.c., l’a. interessa una
questione la cui risoluzione ha carattere pregiudiziale rispetto a quella principale dedotta in giudizio
(Pregiudizialità. Diritto processuale civile). Tale a. non ha sempre l’efficacia propria del giudicato, ma solo
quando ciò sia previsto dalla legge, o richiesto da una delle parti. Negli altri casi la decisione ha efficacia
meramente incidentale, limitata alla risoluzione della controversia nell’ambito della quale è sorta, e dunque
può ancora essere oggetto di un autonomo giudizio.
Nel diritto tributario, l’ a. tributario è il procedimento di controllo con cui l’amministrazione finanziaria,
coadiuvata dalla Guardia di finanza, verifica la corretta applicazione delle norme tributarie da parte dei
contribuenti, al fine di recuperare le somme che risultano oggetto di evasione. Si applica sulle imposte
sul reddito e sull’IVA, ovvero sui tributi che si basano sull’autodichiarazione del presupposto e
sull’autoliquidazione delle imposte da parte dei contribuenti. Le categorie sottoposte a controllo vengono
individuate annualmente mediante provvedimenti normativi, in considerazione delle tipologie di
contribuenti che denotano una maggiore propensione all’evasione fiscale nei periodi presi in esame. I poteri
istruttori previsti dalla legge (art. 32 e 33 d.p.r. 600/1973 e art. 51 e 52 d.p.r. 633/1972) prevedono: la
richiesta di informazioni al contribuente (invito a rispondere a interrogatorio formale e a fornire dati o
notizie; invio di questionari da restituire entro termini stabiliti, compilati e firmati); la richiesta di
informazioni presso terzi (organi o amministrazioni dello Stato; notai o pubblici ufficiali; amministratori di
condominio; banche o istituti di credito, in presenza di determinate autorizzazioni); l’accesso, l’ispezione e
la verifica presso il domicilio del contribuente o il luogo in cui svolge l’attività lavorativa (sempre in
presenza di requisiti individuati dalla legge e di autorizzazioni specifiche). A seconda dei soggetti destinatari
del controllo (persone fisiche non tenute alle scritture contabili o soggetti tenuti alla contabilità) e dei
comportamenti tenuti da questi nei confronti dell’amministrazione finanziaria (mancata presentazione della
dichiarazione, omessa tenuta delle scritture contabili, mancata collaborazione alle indagini), il procedimento
di a. può essere effettuato con metodi diversi. A tale proposito si distingue l’ a. di tipo analitico, che tende a
ricostruire il presupposto sulla base dei dati forniti o dichiarati dal contribuente (attraverso rettifiche delle
singole voci), dall’ a. di tipo induttivo, che invece prescinde da quanto dichiarato dal contribuente,
avvalendosi di presunzioni legali relative (quale l’a. sintetico ex art. 38, co. 2, d.p.r. 600/1973 ovvero l’a.
induttivo ex art. 39, co. 2, d.p.r. 600/1973). Si parla di a. anche con riferimento all’atto conclusivo del

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procedimento, emanato a seguito dell’emersione di presupposti di imposta non dichiarati o non stimati
correttamente dal contribuente. Poiché viene emesso dall’amministrazione finanziaria nell’esercizio della
sua potestà impositiva, è un atto autoritativo destinato a consolidarsi laddove non venga impugnato nei
termini e modi stabiliti dalla legge (60 giorni dalla notifica dell’atto) ovvero annullato nell’esercizio del
potere di autotutela. Per essere valido l’atto di a. deve essere emesso dall’ufficio competente, entro i termini
previsti dalla legge, sostenuto da una reale difformità tra quanto dichiarato (o non dichiarato) e quanto
accertato e recare al suo interno la sottoscrizione, il dispositivo e la motivazione. Elemento centrale dell’a.,
la motivazione contiene la spiegazione dell’iter logico-giuridico che ha condotto all’emanazione dell’atto e
garantisce, contestualmente, la trasparenza dell’attività amministrativa e il buon andamento dell’eventuale
azione processuale, in quanto delimita la materia del contendere, laddove il contribuente dovesse contestare
l’atto. Si parla di a. con adesione con riferimento a una particolare tipologia di a. tributario caratterizzata
dalla determinazione consensuale del presupposto del tributo da parte della amministrazione finanziaria e
del contribuente. Notevolmente ridimensionata negli anni Settanta del secolo scorso, e poi eliminata dal
sistema, tale forma di a. è stata reintrodotta stabilmente con il d.legisl. 218/1997, per farvorire la
collaborazione del contribuente all’attività amministrativa. Tale procedura può essere attivata sia
dall’amministrazione, sia dal contribuente; dopo una fase di contraddittorio, laddove si raggiunga
un accordo, viene stilato un atto di a. con adesione. Laddove, invece, non si raggiunga l’accordo, l’a.
prosegue secondo l’iter previsto dalle procedure tradizionali. Alla determinazione consensuale del
presupposto conseguono effetti premiali sul piano sanzionatorio per il contribuente.

Processo amministrativo
Processo che si svolge innanzi agli organi di giurisdizione amministrativa «per la tutela nei confronti della
pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei
diritti soggettivi» (art. 103 Cost.).
Tradizionalmente, è stato configurato come un processo di tipo impugnatorio che ha per oggetto un
provvedimento amministrativo.
Attualmente, la dottrina e la giurisprudenza sono inclini a ritenere che l’oggetto precipuo del processo sia
divenuto il rapporto giuridico controverso. In altri termini, il processo amministrativo si sarebbe trasformato
da un “giudizio sull’atto”, teso a verificarne la legittimità alla stregua dei vizi denunciati, a un “giudizio sul
rapporto”, volto a valutare la fondatezza della pretesa sostanziale dedotta in giudizio.
Il processo amministrativo si svolge dinanzi ai Tribunali amministrativi regionali (TAR), in primo grado, e
dinanzi alle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, in grado di appello (per il TAR della Sicilia, il
secondo grado di giudizio si svolge davanti al Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana).
La magistratura amministrativa ha un autonomo organismo di autogoverno, il Consiglio di presidenza
della giustizia amministrativa.
Il processo amministrativo è un processo di parti, nel senso che sono queste, e non il giudice, ad avere il
potere di darvi l’impulso iniziale, di farlo proseguire, di allegare le prove e di farlo terminare, anche,
eventualmente, senza che la controversia sia decisa. Infatti, ove non siano coinvolti interessi generali e,
come tali, indisponibili, le parti hanno la piena disponibilità del processo.
Le parti necessarie del processo amministrativo sono: il ricorrente (il soggetto che si ritiene leso da un atto
amministrativo illegittimo), la parte resistente (normalmente, l’amministrazione che ha emanato l’atto o
posto in essere il comportamento lesivo) e i controinteressati (soggetti che hanno un interesse, contrapposto
a quello del ricorrente, alla sopravvivenza del provvedimento impugnato).
Quanto alle azioni proponibili nel processo amministrativo, il codice del processo (d.lgs. 104/2010) prevede:
a) l’azione di annullamento (art. 29); b) l’azione di condanna (art. 30); c) quella avverso il silenzio (art. 31);
d) quella diretta all’accertamento delle nullità (art. 31).
Il processo è a istanza di parte e viene quindi introdotto con un ricorso che deve indicare, a pena di
inammissibilità, i motivi su cui si fonda richiamando espressamente i vizi dell’atto impugnato. Il ricorso è
notificato al resistente e ai controinteressati entro 60 giorni dalla comunicazione, pubblicazione o piena
conoscenza dell’atto impugnato. Il ricorrente si costituisce in giudizio con il deposito del ricorso presso la
segreteria del TAR. Le parti intimate possono costituirsi in giudizio nel termine di sessanta giorni dal
perfezionamento nei propri confronti della notificazione del ricorso, eventualmente presentando memorie,
istanze, documenti e indicando i mezzi di prova di cui intendono valersi. È possibile sia l’intervento in

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giudizio che il ricorso incidentale. Presentato il ricorso, sulla base di apposita istanza, viene fissata
l’udienza.
Il processo amministrativo prevede anche una fase cautelare diretta ad evitare che i tempi necessari ad
ottenere una decisione del giudice comportino un ulteriore pregiudizio per il cittadino leso da un atto
amministrativo illegittimo. Potrebbe, infatti, accadere che, nelle more del procedimento giurisdizionale, il
provvedimento illegittimo sia portato comunque ad esecuzione, arrecando un grave pregiudizio al ricorrente.
È stato così previsto che, in presenza dei requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora, si possa
chiedere al giudice una pronuncia c.d. sospensiva dell’efficacia dell’atto. Inizialmente era prevista una sola
misura cautelare e tipica, vale a dire la sospensione del provvedimento impugnato. L’evoluzione della
giurisprudenza amministrativa, seguita dagli interventi codificatori del legislatore (si vedano la l. n.
205/2000 e il d.lgs. n. 104/2010, c.d. codice del processo amministrativo), si è mossa nella direzione di
ampliare la possibilità di tutela cautelare, per renderla effettiva. Il codice, conservando l’impostazione sul
contenuto atipico delle misure cautelari introdotta dalla l. n. 205/2000, dedica alle misure cautelari diverse
disposizioni sia nel Titolo II del Libro II, artt. 55-62 (ad esse espressamente dedicato), sia in ulteriori
disposizioni sparse in tutto il disegno codicistico. L’art. 55, comma 1, stabilisce che il ricorrente, il quale
alleghi un pregiudizio grave e irreparabile durante il tempo necessario a giungere alla decisione sul ricorso,
può chiedere l’emanazione di misure cautelari, compresa l’ingiunzione a pagare una somma in via
provvisoria, che appaiono, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della
decisione sul ricorso.
Per quanto concerne la fase istruttoria, in cui si accerta la situazione oggetto della controversia, il codice del
processo riconosce al giudice un’ampia possibilità di disporre dei mezzi di prova, quasi parificando la
situazione con il processo civile.
Il processo amministrativo è ispirato al principio del contraddittorio: al riguardo, l’art. 27 c.p.a. prevede che
il contraddittorio è integralmente costituito quando l’atto introduttivo è notificato all’amministrazione
resistente e,ove presenti, ai controinteressati.
Una volta conclusa l’istruttoria e svolta l’udienza pubblica di discussione, la causa è assegnata in decisione.
Il collegio si riunisce e decide in camera di consiglio. La decisione può essere di rito o interlocutoria, nel
qual caso viene assunta con ordinanza; oppure può concludere il processo definendo il merito, e viene
assunta con sentenza. L’eventuale annullamento dell’atto amministrativo opera con effetto ex tunc.
Accanto al rito ordinario, sono previste forme accelerate di risoluzione delle controversie, tra cui un rito
cosiddetto abbreviato per le controversie aventi a oggetto provvedimenti di particolare rilievo. Tale rito è ora
disciplinato dall’art. 119 c.p.a. e prevede, salvo che per la proposizione del ricorso, la dimidiazione dei
termini processuali. È inoltre, prevista una decisione in forma semplificata, in cui la semplificazione attiene
a un elemento formale della decisione, ossia la motivazione.
Tra i riti speciali si segnala quello in materia di accesso ai documenti amministrativi (art. 116 c.p.a.) e quello
in materia di silenzio-rifiuto (art. 117 c.p.a.).
Tra i rimedi giurisdizionali ordinari contro la sentenza di primo grado vi è l’appello che può essere proposto
– entro 60 giorni dalla notifica della sentenza – solo nei riguardi delle sentenze di primo grado non passate
in giudicato. Nel giudizio di appello il giudice si pronuncia sulla medesima controversia decisa dal giudice
di primo grado (cd. effetto devolutivo dell’appello: anche sul punto si rinvia alla voce Appello. Diritto
amministrativo).
Tra i rimedi straordinari vi sono la revocazione (art. 106 c.p.a.) e l’opposizione di terzo (art. 108 c.p.a.).
È ammesso, inoltre, il ricorso in Corte di cassazione soltanto per motivi di giurisdizione (art. 108 c.p.a.).
Il giudicato amministrativo si forma quando non è più esperibile alcun rimedio ordinario. Le
amministrazioni soccombenti hanno l’obbligo di adeguarvisi ma non è infrequente che tardino nell’adottare
gli atti di propria competenza e non diano seguito alla sentenza. È stato, così, previsto il rimedio del giudizio
di ottemperanza a conclusione del quale viene disposto uno specifico obbligo di dare esecuzione al
giudicato, anche con la fissazione di un termine e l’eventuale nomina di un commissario ad acta. Questo, in
caso di ulteriore inerzia dell’amministrazione, operando quale organo ausiliare del giudice, adotta quindi gli
atti amministrativi necessari a eseguire il giudicato.

Nullità

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DIRITTO
Diritto civile
Situazione di invalidità del negozio giuridico, determinata da un vizio che rende il negozio stesso inidoneo a
produrre i suoi effetti e quindi inefficace (art. 1418-24 c.c.). I vizi dai quali è determinata la n. sono: a) la
contrarietà a norme imperative; b) la mancanza di uno dei requisiti essenziali (accordo delle
parti, causa, oggetto, forma quando è prescritta); c) la illiceità della causa; d) la mancanza nell’oggetto dei
requisiti di possibilità, liceità, determinatezza o determinabilità. Il negozio è altresì nullo in tutti quei casi in
cui la n. sia stabilita direttamente dalla legge: si parla, in questi casi, di n. testuali; laddove, invece, la n. non
sia espressamente prevista, ma sia ricavabile dall’interprete, si parla di n. virtuali. La n. è in genere assoluta,
per cui è insanabile, può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse e può essere rilevata anche
d’ufficio dal giudice. Si parla invece di n. relativa se può essere fatta valere solo da alcuni soggetti (per es.,
nel caso previsto dall’art. 134 del Codice del consumo). La n. può colpire tutto il negozio ovvero soltanto
una parte di esso: si parla in questo caso di n. parziale, che provoca la n. dell’intero negozio solo se risulta
che le parti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto. La n. di singole clausole non
importa la n. del negozio quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative; inoltre, nel
negozio con più di due parti, in cui le prestazioni di ciascuna sono dirette al conseguimento di uno scopo
comune, la n. che colpisce il vincolo di una delle parti non importa n. del negozio, salvo che la
partecipazione di essa debba, secondo le circostanze, considerarsi essenziale. Il negozio nullo non può
produrre i suoi effetti, ma, a differenza del negozio inesistente, può comunque essere rilevante per il diritto:
per es., può essere soggetto a conversione (art. 1424 c.c.) o a conferma (art. 590 e 799 c.c.). L’azione per far
dichiarare la n. è imprescrittibile, salvi gli effetti dell’usucapione e della prescrizione delle azioni di
ripetizione.
Procedura civile
La n. costituisce il tipico regime di invalidità degli atti del processo civile. L’atto processuale, però, pur se
affetto da un vizio di n., produce comunque i suoi effetti sino a quando il giudice non dichiari la n. dell’atto
stesso.
La n. processuale, quindi, sotto questo profilo, appare radicalmente diversa dalla n. sostanziale. Il giudice
civile deve dichiarare la n. quando l’atto manca dei requisiti formali richiesti dalla legge a pena di n., o
quando un certo requisito formale mancante risulta indispensabile per il raggiungimento dello scopo
dell’atto. Tuttavia, la n. non può essere pronunciata se l’atto, pur mancante del requisito richiesto, ha in
concreto raggiunto lo scopo a cui è destinato (art. 156, c.p.c.). Per regola generale spetta alla parte nel cui
interesse la n. è stabilita rilevarla nella prima istanza, o difesa, successiva all’atto o alla notizia di esso,
sempre che non vi abbia dato causa o non vi abbia rinunciato anche tacitamente (n. relative; art. 157 c.p.c.).
Nei casi espressamente previsti dalla legge la n. può essere rilevata anche d’ufficio da parte del giudice (n.
assolute). Stando alla lettera della legge, danno luogo a n. rilevabili d’ufficio i vizi relativi
alla costituzione del giudice o all’intervento del pubblico ministero (art. 158 c.p.c.). Se la n. colpisce solo
una parte dell’atto, questa non si estende alle parti che ne siano indipendenti; inoltre, se il vizio impedisce un
determinato effetto, l’atto può tuttavia produrre gli altri effetti a cui è idoneo. Particolarmente rilevante è poi
il principio secondo cui la n. di un atto non si estende agli atti anteriori, ma si estende agli atti successivi e
dipendenti, sicché la sentenza stessa, contenente la decisione finale, potrà essere dichiarata nulla in ragione
della n. degli atti anteriori da cui dipende (art. 159, 1° co., c.p.c.). La n. della sentenza soggetta ad appello o
a ricorso in cassazione può essere fatta valere soltanto nei limiti e secondo le regole di tali mezzi di
impugnazione (cosiddetto principio di assorbimento o di conversione dei vizi di nullità in motivi di
gravame; art. 161, 1° co., c.p.c.). Se ciò non avviene la n. viene sanata. L’unica eccezione a questo principio
si realizza quando la sentenza manchi della sottoscrizione del giudice, ovvero sia inesistente (art. 161, 2° co.,
c.p.c.). Nell’ipotesi in cui il giudice dichiari la n., questi deve, per quanto possibile, disporre la rinnovazione
dell’atto viziato e degli atti a cui la n. si estende (art. 162 c.p.c.).
Procedura penale
Prevista e disciplinata dagli art. 177-86 c.p.p., la n. è un vizio che colpisce l’atto del procedimento che
sia stato compiuto senza l’osservanza di determinate disposizioni stabilite espressamente dalla legge appunto
a pena di nullità. L’art. 177 c.p.p. prevede espressamente il principio di tassatività in base al quale
«l’inosservanza delle disposizioni stabilite per gli atti del procedimento è causa di n. soltanto nei casi
previsti dalla legge». Da ciò deriva che non è possibile applicare la n. in via analogica. Sulla base delle
modalità di previsione, le n. si differenziano in primo luogo tra speciali e generali. Le prime sono quelle
previste per una determinata inosservanza precisata da una norma specifica (per es., l’inosservanza relativa

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alla lingua degli atti del procedimento ex art. 109, co. 3, c.p.p.); le seconde, invece si riferiscono ad ampie
categorie di inosservanza e sono indicate nell’art. 178 c.p.p.
Per quanto riguarda il regime giuridico, le n. si distinguono invece in tre tipi: assolute, intermedie e relative.
Sono colpite da n. assoluta le inosservanze più gravi che sono previste dall’art. 179 e riguardano i soggetti
necessari del procedimento penale. Tali n. sono rilevabili sia d’ufficio sia su istanza di parte in ogni stato e
grado del procedimento e, inoltre, sono insanabili, salvo l’irrevocabilità della sentenza. Rientrano in
questa categoria, per es., le violazioni delle disposizioni concernenti le condizioni di capacità del giudice o il
numero di giudici necessario per costituire i collegi. Sono invece colpite da n. intermedia le inosservanze di
media gravità che sono disciplinate nell’art. 180 c.p.p. e che riguardano una sfera più ampia di soggetti. Esse
sono rilevabili sia d’ufficio sia su domanda di parte, ma entro determinati limiti di tempo e sono sanabili.
Queste concernono, a titolo esemplificativo, l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato e
delle altri parti private o la citazione in giudizio della persona offesa dal reato e del querelante. Nel concetto
di intervento è ricompresa la difesa personale: pertanto dà luogo a n. intermedia l’aver omesso
l’informazione di garanzia (art. 369 c.p.p.) nei confronti dell’indagato. Le n. relative sono infine residuali
rispetto alle due categorie precedenti. Sono dichiarate solo su eccezione di parte ed entro brevi limiti di
tempo; anche queste sono sanabili. Un esempio paradigmatico è l’omessa notifica alla persona offesa e al
suo difensore.
I termini per rilevare o eccepire le n. sono stabiliti a pena di decadenza. Il codice prevede il cosiddetto limite
di deducibilità consistente in un difetto di legittimazione della parte. In particolare, le n. intermedie e quelle
relative non possono essere eccepite da colui che vi ha concorso a darvi causa o da chi non ha interesse
all’osservanza della disposizione violata (art. 18, comma 1, c.p.p.). Inoltre, quando la parte assiste a un atto,
la n. dello stesso deve essere eccepita prima del suo compimento ovvero, se non è possibile,
immediatamente dopo. Il giudice dichiara la n. di un atto quando, nel caso concreto, non vi sono limiti di
deducibilità, né si sono verificate sanatorie. Ai sensi dell’art. 185 c.p.p. la n. di un atto rende invalidi anche
gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo. L’estensione della n. tocca pertanto soltanto gli
atti che, oltre a essere temporalmente successivi, siano anche dipendenti in senso logico-giuridico, dall’atto
viziato. Sempre in base all’art. 185, il giudice che dichiara la n. di un atto, ne dispone la rinnovazione,
qualora sia necessaria e possibile, ponendo le spese a carico di chi ha dato causa alla n. stessa per dolo
o colpa grave.

Sospensione
Procedura civile
Temporaneo arresto del processo civile disposto dal giudice nell’attesa che riceva definizione una questione
da cui dipende la decisione della controversia. L’ordinamento italiano prevede diverse ipotesi di
sospensione. La s. necessaria, detta anche propria, ricorre quando davanti a diverso giudice ma tra le stesse
parti pende una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa (art. 295 c.p.c.). Ciò
accade, più precisamente, quando sul piano sostanziale due diritti sono connessi per pregiudizialità-
dipendenza e la riunione delle diverse controversie non può essere disposta. Secondo una lettura
maggiormente restrittiva la s. sarebbe necessaria solo se il rapporto pregiudiziale deve essere accertato con
efficacia di giudicato per volontà della legge o su richiesta delle parti. Se, peraltro, il rapporto pregiudiziale è
stato definito con sentenza e questa è soggetta a impugnazione, il giudice può sospendere il processo (art.
337, II, c.p.c.). Si discute, peraltro, se la sentenza in questione debba essere già passata in giudicato o meno.
Ipotesi particolari di s. si possono verificare in diverse altre circostanze. Per es. quando è proposto
regolamento di competenza o di giurisdizione davanti la Corte di cassazione, quando è stato ricusato il
giudice adito, se è stata proposta querela di falso in appello o davanti al giudice di pace, se si verifica la
rimessione alla Corte costituzionale affinché si pronunci sulla legittimità di una norma di legge o alla Corte
di giustizia dell’Unione Europea per l’interpretazione di una norma comunitaria ecc. In questi casi si parla di
s. impropria, perché la questione pregiudiziale da cui dipende la decisione della causa non è suscettibile,
come in quella necessaria, di costituire un autonomo oggetto di accertamento.
Ormai in disuso è la s. concordata, in virtù della quale il processo viene sospeso su richiesta congiunta delle
parti per un periodo non superiore a 4 mesi. La s. è disposta dal giudice con ordinanza. Durante la s. non
possono essere compiuti gli atti del processo. I termini in corso sono interrotti e iniziano nuovamente a
decorrere dalla ripresa del processo (art. 298 c.p.c.), cioè dal momento in cui quest’ultimo è riassunto. Se la
riassunzione non avviene nei termini perentori previsti dalla legge il processo si estingue.
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Pubblica amministrazione
Il termine pubblica amministrazione evoca sia l’attività dell’amministrare pubblico, sia gli apparati titolari di
tale funzione.
Profili storici e comparatistici. - Storicamente, l’amministrazione pubblica ha subito molte trasformazioni,
sotto il profilo degli apparati e delle funzioni. Nel XIX sec. era composta essenzialmente dalle strutture
amministrative che facevano capo al potere esecutivo, avevano dimensioni contenute e svolgevano
soprattutto funzioni d’ordine (polizia e ordine pubblico, difesa, giustizia, relazioni con l’estero). Prevaleva
l’idea che l’amministrazione pubblica fosse attività esecutiva delle leggi, destinata alla cura concreta e
puntuale di interessi pubblici, e svolta da apparati alle dipendenze del governo (in primo luogo, i ministeri).
Nel corso del XX secolo, l’amministrazione pubblica ha conosciuto una notevole espansione, ha
moltiplicato i suoi compiti, ampliando sempre più, accanto alle funzioni d’ordine, le attività finalizzate alla
promozione del benessere sociale e all’intensa disciplina dell’economia: ha così guadagnato
gradualmente autonomia rispetto all’apparato di governo, tanto da configurare un potere amministrativo
distinto dal potere esecutivo. Contemporaneamente, si sono sviluppate le amministrazioni territoriali,
politicamente indipendenti dal governo centrale, in virtù di un processo di autonomia e di decentramento che
ha interessato quasi tutti i paesi.
Dagli anni Ottanta del Novecento, sono intervenute ulteriori trasformazioni. Le politiche di liberalizzazione,
privatizzazione, de-burocratizzazione, fortemente praticate in Gran Bretagna e negli Stati Uniti d’America, e
sollecitate da organismi internazionali e dalla Comunità Europea, hanno imposto in diversi paesi un
ripensamento delle dimensioni e delle funzioni dell’amministrazione pubblica, sottolineando la necessità di
un’amministrazione più ‘leggera’ e al tempo stesso più efficace nel rendere servizi e nel regolare l’economia
senza eccessive ingerenze nel funzionamento dei mercati. Il potenziamento del diritto comunitario in tante
materie (dall’ambiente, alle telecomunicazioni, ai servizi finanziari) ha comportato la necessità di varare
normative molto complesse, la cui formazione ha richiesto un’estesa attività di preparazione da parte di
apparati amministrativi.
Le riforme degli anni novanta in Italia. - In Italia hanno avuto particolare importanza le riforme introdotte
a partire dagli anni Novanta del XX secolo. Si è potenziato il decentramento, fino alla riforma del titolo V
della Costituzione nel 2001, che ha rafforzato i poteri normativi delle Regioni e le competenze
amministrative dei Comuni (l. n. 142/1990; l. n. 57/1997; l. cost. n. 3/2001). Si è tentata (d.lgs. nn. 300 e
303/1999) la razionalizzazione dell’amministrazione centrale dello Stato, soprattutto con norme sulla
presidenza del Consiglio, sui ministeri e sulle agenzie. Sono state istituite diverse autorità amministrative
indipendenti dal governo, aventi anche funzioni di regolazione (per es. la CONSOB) e ‘quasi-giudiziali’.
Alla dirigenza amministrativa è stata riconosciuta una competenza generale a svolgere attività di gestione,
mentre agli organi politici sono state attribuite funzioni di indirizzo e controllo (d.lgs. n. 29/1993). A seguito
di queste trasformazioni, dunque, l’amministrazione pubblica ricomprende, sul piano degli apparati, strutture
dipendenti, autonome e indipendenti dal governo, centrale o locale, e distinte dagli organismi parlamentari e
giudiziari; e include, sul piano delle funzioni, attività di cura concreta di interessi pubblici, di regolazione e
‘quasi-giudiziali’.
I principi costituzionali. - L’amministrazione pubblica è oggetto di norme costituzionali. L’art. 97 Cost.
stabilisce i principi di imparzialità (v. Principio di imparzialità) e buon andamento. L’art. 98 Cost. afferma
che «i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione». Ciò significa che l’amministrazione
pubblica deve essere immune da influenze di parte e deve operare senza recare discriminazioni di sorta. Il
principio dell’imparzialità ha portata generale. Vale per tutti i tipi di amministrazione pubblica, centrale e
locale, direttamente collegata all’indirizzo politico (i ministeri), o separata da esso (le autorità indipendenti).
L’art. 5 cost. stabilisce i principi dell’autonomia e del decentramento, che sono stati potenziati dalla riforma
del titolo V (art. 117 Cost. e seg.). Quanto alle attività dell’amministrazione pubblica, l’art. 118 Cost.
prevede il principio di sussidiarietà, secondo cui le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni, le
strutture più prossime alle collettività amministrate: le amministrazioni territorialmente superiori – le
Province, le città metropolitane, le Regioni e lo Stato – intervengono solo se i fini pubblici non possono
essere adeguatamente realizzati dagli organismi di livello territoriale inferiore.
Articolazione dell’amministrazione pubblica. - L’amministrazione pubblica si articola essenzialmente in:
ministeri (su cui v. Ministro e ministero. Diritto amministrativo), agenzie amministrative, enti

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pubblici, autorità amministrative indipendenti), imprese con partecipazione pubblica (su cui si v. Impresa
pubblica), strutture amministrative delle Regioni, delle Province, dei Comuni e degli altri enti locali.
I ministeri costituiscono la struttura tradizionale dell’amministrazione dello Stato. Dipendono dal ministro,
che è al tempo stesso organo politico e vertice del dicastero. In origine (l. n. 1483/1853 e R.D. n. 1611/1853)
tutti gli uffici ministeriali erano gerarchicamente subordinati al ministro; a seguito della distinzione fra
indirizzo e controllo, da un lato, e gestione, dall’altro, i dirigenti sono stati tendenzialmente legittimati ad
adottare gli atti di gestione amministrativa, e ai ministri è stato riservato il compito di definire obiettivi,
programmi, direttive e di controllare i risultati (d. lgs. n. 165/2001). I ministeri possono essere articolati in
dipartimenti, grandi strutture organizzative che comprendono al loro interno uffici dirigenziali generali, o
direttamente in direzioni generali, talora coordinate da un segretario generale (d.lgs. n. 300/1999, modificato
dal d.l. 181/2006, convertito in l. 233/2006).
Gli enti pubblici nazionali fanno parte dell’amministrazione pubblica, ma non rientrano
nell’amministrazione dello Stato, tanto che sono stati anche denominati ‘amministrazioni parallele’. Hanno
strutture eterogenee e sono dotati di personalità giuridica. Possiedono organi propri (di regola, presidente
e consiglio di amministrazione), nominati dal governo, che dettano gli obiettivi e le direttive ai loro uffici. I
poteri di vigilanza spettano, in genere, all’autorità di governo, che talora è titolare di poteri di direttiva. Una
maggiore autonomia organizzativa e funzionale è riconosciuta agli enti pubblici che sono espressione di
comunità di settore, come le camere di commercio, o svolgono attività assistite da garanzie costituzionali,
come le università e le istituzioni scolastiche.
Le autorità indipendenti si sono sviluppate soprattutto dagli anni Novanta del 20° secolo. Di regola sono
sottratte al controllo politico (come avviene per l’Autorità garante della concorrenza e del mercato), sebbene
siano previsti poteri di indirizzo del governo in casi particolari e specificamente disciplinati (come quello
dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas). I titolari degli organi direttivi sono nominati con procedure che
escludono l’intervento dell’autorità di governo, o lo inseriscono in procedimenti in cui il ruolo essenziale è
svolto dagli organi parlamentari. Le autorità indipendenti operano in settori ‘sensibili’, nei quali la presenza
di diritti costituzionalmente garantiti richiede l’intervento di amministrazioni autonome dalla politica e
dotate di particolare qualificazione tecnica.
Le imprese a partecipazione pubblica – statale o di enti territoriali – hanno prevalentemente la forma
di società per azioni. Se la maggioranza del capitale è in mano pubblica, si applicano i controlli della Corte
dei Conti (Corte Cost. n. 466/1993); se è in mani private, l’impresa è sostanzialmente al di fuori dell’a.
pubblica. Può permanere in taluni casi l’esercizio della cosiddetta ‘golden share’, che consente all’azionista
pubblico di porre il veto ad acquisizioni di pacchetti azionari.
Regioni, Province e Comuni sono enti territoriali dotati, in base alla Costituzione, di autonomia politica.
Sotto questo profilo, sono indipendenti dallo Stato. Sul piano organizzativo, le strutture amministrative
regionali e locali sono apparati più compatti e meno disaggregati di quelli statali. Vi è maggiore continuità
fra organi politici e uffici amministrativi: il che rende più arduo realizzare in concreto la distinzione fra
indirizzo politico e gestione amministrativa, prevista dalla legge anche per Regioni ed enti locali. Di norma,
ciascun assessore – nominato dal vertice politico dell’amministrazione – ha alle sue immediate dipendenze il
complesso degli uffici amministrativi che operano nella materia affidata alla sua responsabilità. Nei Comuni
e nelle Province è previsto un segretario (comunale o provinciale): è impiegato di carriera, nominato dal
vertice politico dell’ente locale tra gli iscritti all’apposito albo per una durata corrispondente
al mandato politico; è revocabile; svolge compiti di collaborazione, di consulenza giuridico-amministrativa,
di coordinamento dei dirigenti, di attuazione delle delibere degli organi di governo. Regioni ed enti locali
possono affidare funzioni a soggetti esterni, come enti strumentali, aziende, o società in partecipazione
pubblica. Gli enti strumentali delle Regioni sono sottoposti a poteri di indirizzo, direzione, controllo e
nomina spettanti agli organi politici regionali.
Aziende e società regionali e locali godono di maggiore autonomia, sempre nei limiti dell’indirizzo politico
dell’ente di riferimento. Una disciplina specifica è dettata in materia di servizi pubblici locali: quelli di
natura economica (come i trasporti o l’erogazione dell’energia) sono affidati con procedure diverse a società
di capitali; quelli non aventi rilevanza economica sono affidati direttamente dall’ente locale a società a
capitale interamente pubblico, ad aziende speciali o a istituzioni dipendenti dall’ente locale stesso.
La complessità dell’amministrazione pubblica e la compresenza di strutture statali, regionali e locali hanno
richiesto lo sviluppo di apparati di coordinamento e di amministrazioni composte: fra i primi, si può
ricordare la Conferenza unificata di Stato, Regioni, città e autonomie locali; fra le seconde, il Servizio

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sanitario nazionale e il Sistema statistico nazionale, che inglobano strutture centrali, regionali e locali.
Attività di amministrazione pubblica possono essere affidate a soggetti privati o disciplinati dal diritto
privato. Soggetti privati possono svolgere funzioni o servizi pubblici: è il caso dei concessionari, che
svolgono attività autoritative (come l’esazione di tributi) o imprenditoriali (come la distribuzione del gas), e
dei notai, che svolgono attività costitutive di certezza pubblica.

Decentramento amministrativo
Dislocazione di poteri e/o di funzioni tra i diversi soggetti e organi dell’amministrazione pubblica, al fine di
raccordare le esigenze della collettività agli enti a essa più vicini. Si contrappone al fenomeno
dell’accentramento e può assumere connotazioni diverse a seconda del soggetto cui sono trasferite le
funzioni.
Si definisce decentramento burocratico od decentramento organico la traslazione di competenze da organi
centrali a organi periferici appartenenti allo Stato (per es., le prefetture), mentre per decentramento
autarchico o decentramento istituzionale si intende il conferimento di compiti pubblici a enti territoriali
separati dallo Stato (per es., gli enti locali) e con l’espressione decentramento per servizi, l’attribuzione di
compiti specializzati e funzioni a soggetti (spesso creati appositamente) non territoriali, separati dallo Stato
(per es., enti pubblici e aziende o agenzie autonome).
Il decentramento amministrativo in Italia. - Il decentramento amministrativo costituisce uno dei principi
fondamentali dell’organizzazione amministrativa e un corollario dell’ordinamento democratico, essendo
finalizzato a realizzare la partecipazione effettiva della collettività all’esercizio e alla cura degli interessi
pubblici attraverso l’esercizio diretto delle funzioni amministrative. È enunciato nell’art. 5 della Cost., in
base al quale «la Repubblica italiana, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali e attua
nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i
metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento» (v. Autonomia. Diritto
costituzionale). L’art. 97, co. 2, specifica che «nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere
di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari»; il principio del decentramento è
altresì previsto agli art. 114-133, Titolo V, parte II, della Costituzione, laddove si descrive l’assetto
organizzativo della Repubblica.
Nella storia della Repubblica italiana il principio del decentramento amministrativo ha iniziato ad avere
attuazione nel 1970, con il trasferimento alle regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative a esse
attribuite sulla base degli art. 117 e 118 Cost. e di funzioni proprie dello Stato (l. n. 281/1970, e d.p.r. 1
novembre 1972). Successivamente si è avuto un ampliamento delle funzioni regionali con il d.P.R. n.
616/1977 (l. delega n. 382/1975).
Negli anni 1990 l’attività legislativa è tornata sulla materia con la l. n. 142/1990 (confluita nel d.lgs. n.
267/2000) che ha dettato il nuovo ordinamento delle autonomie locali e con la l. n. 81/1993, relativa
all’elezione diretta del sindaco e del presidente della provincia.
Ma è soprattutto dal 1997, nell’ambito della riforma della pubblica amministrazione e dell’opera di
semplificazione dell’attività amministrativa, che si è avviata una politica di decentramento, attraverso la l. n.
59/1997 (cosiddetta legge Bassanini), contenente la delega al governo per il conferimento alle regioni e agli
enti locali delle funzioni e dei compiti amministrativi, e il seguente decreto di attuazione (d.lgs. n. 112/1998)
della suddetta delega che ha realizzato il conferimento di funzioni e compiti agli enti locali di alcune materie
espressamente indicate e riunite in quattro settori: sviluppo economico e attività produttive; territorio,
ambiente e infrastrutture; servizi alla persona e alla comunità; polizia amministrativa regionale e locale e
regime autorizzatorio.
Tale decreto stabilisce, inoltre, che il decentramento comprende anche tutte le funzioni di organizzazione e
le attività connesse e strumentali all’esercizio dei compiti conferiti, quali quelli di programmazione, di
vigilanza, di accesso al credito, di polizia amministrativa e l’adozione dei provvedimenti d’urgenza previsti
dalla legge.
La l. n. 59/1997 aveva come obiettivo la realizzazione del massimo decentramento possibile con legge
ordinaria, nei limiti consentiti dalla Costituzione (il cosiddetto ‘federalismo a Costituzione invariata’),
indicando i principi e i criteri cui dovevano ispirarsi le leggi di attuazione successive. Il testo si articola in
quattro capi: il capo I si occupa del conferimento di funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle
regioni e alle autonomie locali; il capo II del riordino dell’amministrazione statale; il capo III della

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semplificazione dei procedimenti amministrativi; il capo IV dell’autonomia e riorganizzazione del sistema
scolastico e formativo, e del trasferimento alle regioni delle funzioni amministrative relative alle acque
termali e minerali. Il capo I prevede un decentramento regionale e locale attuato attraverso lo strumento del
conferimento. In particolare, nell’art. 1 si specifica che per «conferimento» si intende il trasferimento, la
delega o l’attribuzione di funzioni e compiti, e che, per «enti locali», si intendono le province, i comuni, le
comunità montane e gli altri enti locali.
Nel rispetto del principio di sussidiarietà, si prevede inoltre il conferimento alle regioni e agli enti locali di
tutte le funzioni e i compiti amministrativi «relativi alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo
delle rispettive comunità, nonché tutte le funzioni e i compiti amministrativi localizzabili nei rispettivi
territori in atto esercitati da qualunque organo o amministrazione dello Stato, centrali o periferici, ovvero
tramite enti o altri soggetti pubblici».
Infine, con l. cost. n. 1/2001, la materia del decentramento è approdata nella riforma costituzionale
del titolo V, parte II della Cost., relativa all’assetto organizzativo dei rapporti tra i diversi soggetti
dell’ordinamento, che ha dato copertura costituzionale alle novità legislative appena richiamate di riforma
dell’assetto organizzativo della Repubblica, disegnando un’articolazione amministrativa tra diversi livelli di
governo territoriale.
L’assetto decentrato. - Nella definizione del nuovo assetto amministrativo territoriale dell’ordinamento, il
nuovo articolo 114 Cost. stabilisce che la Repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle città
metropolitane, dalle regioni e dallo Stato, con pari dignità istituzionale. Altra novità è l’individuazione
del comune come nuovo centro del sistema amministrativo, in quanto soggetto più vicino ai cittadini,
pertanto in grado di rappresentare al meglio le esigenze delle collettività di riferimento e assicurare servizi
migliori a costi minori (art. 3, co. 2, d.lgs. n. 267/2000), anche con il coinvolgimento dei privati cittadini,
individualmente o in associazione, per lo svolgimento di attività di interesse generale.
In tal senso, l’art. 118 Cost. stabilisce che «le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni salvo che,
per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a province, città metropolitane, regioni e Stato, sulla base
dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza» (su cui v. Principio di sussidiarietà. Diritto
amministrativo).
Con l’introduzione di questi ultimi si è voluto ottimizzare l’esercizio delle competenze, ripartendole non più
in base a principi astratti e generali ma secondo criteri specifici, relativi alle peculiarità territoriali,
demografiche ecc., e di criteri concreti di efficienza e idoneità organizzativa, nonché sottolineare il
superamento del principio del «parallelismo» tra le potestà legislative indicate all’art. 117 e le funzioni
amministrative ex art. 118 della Costituzione. Quest’ultimo prevedeva che alla regione e agli enti locali
spettassero le competenze amministrative nelle stesse materie oggetto della potestà legislativa, mentre ora
sono distinte e la ripartizione delle competenze amministrative fra ente territoriale centrale ed ente periferico
avviene nel rispetto del principio di sussidiarietà, secondo il quale, al primo spettano le funzioni
tassativamente riservate dalla legge mentre tutte le altre sono di competenza del secondo, salvo che, sia
necessario garantire l’esercizio unitario da parte dell’ente superiore.
Al Comune, ormai ente a competenza amministrativa generale, spettano tutte le funzioni amministrative
(d.lgs. n. 59/1997, art. 4, co. 3), secondo le proprie dimensioni territoriali, con l’esclusione di quelle
incompatibili che esulano dall’interesse locale e che necessariamente sono riservate all’ente
immediatamente superiore (provincia, città metropolitana, regione, Stato).
Collegata all’intervento sussidiario dell’ente di livello superiore è la previsione del potere sostitutivo dello
Stato nei casi espressamente individuati nell’art. 120 Cost., ossia nelle ipotesi di mancato rispetto di norme,
trattati internazionali o normative comunitarie, di pericolo grave per l’incolumità e della sicurezza pubblica,
di tutela dell’unità giuridica ed economica e in particolare di tutela dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali. Il potere sostitutivo deve essere esercitato nel rispetto dei principi di
sussidiarietà e di leale collaborazione, assicurati da limiti normativi e amministrativi volti a garantire che
l’ente compia l’attività nel tempo e nel modo ad esso assegnato e che l’intervento sostitutivo sia
proporzionato all’obiettivo da perseguire (l. n. 131/2003, art. 8).
Nell’ambito della riforma costituzionale del Titolo V va segnalata anche la ridefinizione dei rapporti tra
Stato e regione, in qualità di enti a competenza legislativa generale, attraverso l’‘inversione’ del criterio di
ripartizione delle competenze legislative tra tali soggetti; in tal senso, l’art. 117 Cost. stabilisce che «la
potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dai vincoli
derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali», e specifica che alle regioni spetta la

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potestà legislativa generale in ogni materia non espressamente riservata allo Stato (politica
estera, immigrazione, difesa, politica monetaria, ambiente, previdenza sociale ecc.).
Come previsto dalla l. n. 59/1997, art. 11, un’altra forma di decentramento ha avuto attuazione con i decreti
legislativi 300/1999 (riforma dell’organizzazione del governo) e 303/1999 (ordinamento della presidenza
del Consiglio dei ministri).

Competenza amministrativa
La competenza amministrativa, espressamente contemplata dall’art. 97 della Costituzione, è stabilita
dalla legge e non può essere derogata se non da istituti quali la delega, l’avocazione o la sostituzione.
Viene distinta per materia, per territorio, per grado e per valore economico. La competenza per materia
ripartisce i compiti fra i diversi organi con riferimento all’oggetto e ammette un’ulteriore ripartizione di tipo
funzionale; la competenza per territorio è data dalla ripartizione, nell’ambito di una stessa amministrazione,
fra i diversi organi dei compiti relativi alle singole parti del territorio sul quale l’ente deve svolgere la
propria azione; la competenza per grado è data dalla priorità gerarchica, nel senso che le funzioni più
importanti (di direzione e di coordinamento) sono affidate agli organi superiori, mentre le funzioni
d’esecuzione sono affidate agli organi inferiori; la competenza per valore è data invece dall’entità
economica dell’oggetto.
Prima di adottare qualsiasi atto, l’organo amministrativo deve accertarsi che sussista la propria competenza.
Qualora un atto sia stato emanato da un organo diverso da quello competente, all’interno della stessa
amministrazione, si configura l’ipotesi di competenza incompetenza (vizio di legittimità): l’atto sarà
invalido e produrrà effetti fino alla pronuncia di annullamento; se l’atto invalido è stato emanato da un
organo che appartiene a un’amministrazione diversa, si configura invece l’ipotesi di competenza difetto di
attribuzione. Più in particolare, la l. n. 15/2005 ha disciplinato il regime dell’invalidità degli atti
amministrativi introducendo all’interno della l. n. 241/1990 una distinzione tra le ipotesi di nullità (tra le
quali il difetto assoluto di attribuzione, art. 21 septies) e i casi di annullabilità del provvedimento
amministrativo (tra i quali il vizio di incompetenza, art. 21 octies, su cui v. Annullabilità e annullamento.
Diritto amministrativo). Un atto amministrativo perfetto in tutti i suoi elementi (contenuto, forma e fini) è
comunque affetto da vizio di legittimità se viene adottato da un organo non competente; pertanto risulterà
invalido e potrà essere oggetto di impugnazione davanti al giudice amministrativo (per essere annullato) o
davanti al giudice ordinario (per essere disapplicato), oppure potrà essere oggetto di ratifica da parte
dell’organo istituzionalmente competente, attraverso convalida o conversione.

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ANAC e informative del Giudice amministrativo
L’art. 8 della l. 27.5.2015, n. 69 onera il Giudice amministrativo di segnalare all’ANAC le violazioni della
“trasparenza” nei pubblici appalti; la raccolta di questi dati è valutata dal legislatore idonea ad identificare
sintomi di fenomeni illegali o corruttivi. La creazione di banche dati diviene strumento di prevenzione della
corruzione. L’ANAC, che ha assorbito le funzioni dell’AVCP, è gestore della Banca Dati Nazionale dei
Contratti Pubblici, e come tale fornisce informazioni a terzi in un’ottica di semplificazione (ad esempio
verifica unitaria dei requisiti di partecipazione alle gare pubbliche), e titolare dell’“Osservatorio dei contratti
pubblici relativi a lavori, servizi e forniture”, finalizzato, tramite la raccolta ed elaborazione dati, ad
individuare costi standard e promuovere la trasparenza nel settore degli appalti.
LA RICOGNIZIONE
L’art. 8 della l. 27.5.2015, n. 69 (Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di
associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio) ha introdotto il co. 32-bis nell’art. 1 della l. 6.11.2012, n.
190, che così recita: «nelle controversie concernenti le materie di cui al comma 1, lett. e) dell’art. 133 del
codice di cui all’allegato 1 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, il Giudice amministrativo trasmette
alla commissione ogni informazione o notizia rilevante emersa nel corso del giudizio che, anche in esito a
una sommaria valutazione, ponga in evidenza condotte o atti contrastanti con le regole della trasparenza».
LA FOCALIZZAZIONE. OGGETTO DELL’INFORMATIVA
La nuova disposizione si inserisce nella l. 6.11.2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la
repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione); l’art. 8, co. 2 della l. n.
69/2015 ha altresì interpolato il precedente co. 32 dell’art. 1 l. n. 190/2012 aggiungendo, all’obbligo di
pubblicazione sul sito internet istituzionale di una serie di dati inerenti le procedure di scelta del contraente
(struttura proponente; oggetto del bando; elenco degli operatori invitati a presentare offerte; aggiudicatario;
importo di aggiudicazione; tempi di completamento dell’opera, servizio o fornitura; importo delle somme
liquidate), un obbligo di trasmissione semestrale dei medesimi dati all’ANAC.
Il comma in commento individua l’oggetto dell’informativa con modalità tecnicamente discutibili; si può
fornirne una lettura avulsa dal precedente comma 32 ovvero al medesimo strettamente inerente,
circoscrivendo quindi le violazioni di interesse a quelle relative agli obblighi di pubblicazione sul sito
istituzionale o di prescritta trasmissione di dati all’ANAC.
In entrambi i casi innanzitutto l’endiadi “informazione o notizia” appare pleonastica.
L’oggetto dell’informativa è letteralmente costituito dalle “condotte o atti contrastanti con le regole della
trasparenza” e, tenuto conto della materia cui afferisce, può ingenerare ambiguità.
Se si decontestualizza la disposizione, infatti, fermo il riferimento alle procedure di affidamento di appalti
pubblici che ne delimita l’ambito, il concetto di “trasparenza” evoca il principio comunitario dell’evidenza
pubblica di cui all’art. 2, co. 1, d.lgs. 12.4.2006, n. 163 e alle presupposte norme comunitarie. Poiché buona
parte delle norme che disciplinano l’evidenza pubblica possono essere lette come poste a presidio della
“trasparenza” così intesa, il giudice potrebbe determinarsi ad una segnalazione ogniqualvolta riscontri una
violazione delle disposizioni applicabili in materia. L’oggetto, definito in termini così ampi (tanto più ove,
come infra chiarito, sussistono possibili effetti sanzionatori), risulta di dubbia utilità; se l’intento è agevolare
la raccolta di informazioni da parte dell’ANAC l’individuazione di un oggetto generico, oltre che eccentrico
rispetto alle informazioni che vedono naturalmente l’ANAC destinataria ex lege, non può che essere foriera
di confusione. Le informazioni, infatti, presentano utilità ove omogenee e semplicemente catalogabili,
mentre una congerie di informative soggettivamente valutate secondo parametri elastici rischia di creare
quella che, proprio in materia di trasparenza, è stata qualificata “opacità per confusione”.
L’Autorità potrebbe infatti divenire destinataria di un flusso di informazioni “opache”, nel senso sopra
descritto, come tali poco utili ai proclamati fini di prevenzione della corruzione. Inoltre una lettura in senso
ampio dell’obbligo di informativa rischierebbe di trovare un doppione, per gli enti difesi dell’Avvocatura
dello Stato, nella disposizione di cui all’art. 19, co. 5, lett. a-bis), d.l. 24.6.2014, n. 90, convertito in l.
11.8.2014, n. 114, che onera gli Avvocati dello Stato che vengano «a conoscenza di violazioni di
disposizioni di legge o di regolamento o di altre anomalie o irregolarità relative ai contratti che rientrano
nella disciplina del codice di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163» di effettuare una segnalazione
all’ANAC.

Pag. 43 a 49
In alternativa, alla luce del contesto in cui è inserito il nuovo comma, le violazioni oggetto dell’informativa
possono essere circoscritte a quelle connesse alla disciplina dettata in origine dal d.lgs. 27.10.2009, n. 150 e
quindi, in seguito alla legge delega n. 190/2012, in parte da quest’ultima e in parte dal d.lgs. 14.3.2013, n.
33.
A questi fini la trasparenza è oggi definita dall’art.1, d.lgs. n. 150/2009 come segue:
«1. La trasparenza è intesa come accessibilità totale delle informazioni concernenti l’organizzazione e
l’attività delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche. 2. La trasparenza […]
concorre ad attuare il principio democratico e i principi costituzionali di eguaglianza, di imparzialità, buon
andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell’utilizzo di risorse pubbliche, integrità e lealtà nel
servizio alla nazione. Essa è condizione di garanzia delle libertà individuali e collettive, nonché dei diritti
civili, politici e sociali, integra il diritto ad una buona amministrazione e concorre alla realizzazione di una
amministrazione aperta, al servizio del cittadino. 3. Le disposizioni del presente decreto, nonché le norme di
attuazione adottate ai sensi dell’articolo 48, integrano l’individuazione del livello essenziale delle
prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche a fini di trasparenza, prevenzione, contrasto della
corruzione e della cattiva amministrazione, a norma dell’articolo 117, secondo comma, lettera m), della
Costituzione e costituiscono altresì esercizio della funzione di coordinamento informativo statistico e
informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale, di cui all’articolo 117, secondo comma,
lettera r), della Costituzione».
Per quanto in specifico concerne la materia dei contratti pubblici gli obblighi di pubblicazione e trasmissione
di dati all’ANAC (sparsi in modo ridondante e disorganico nelle varie leggi succedutesi) risultano in parte
elencati dal già riportato art. 1, co. 32, l. n. 190/2012; l’art. 1, co. 15, impone poi di rendere noti «i costi
unitari di realizzazione delle opere pubbliche e di produzione dei servizi erogati ai cittadini»; il precedente
co. 16 genericamente prescrive un onere di trasparenza inerente la «scelta del contraente per l’affidamento di
lavori, forniture e servizi, anche con riferimento alla modalità di selezione prescelta ai sensi del codice dei
contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163»,
formulazione inutilmente identica all’art. 23 del d.lgs. n. 33/2013, il cui ultimo comma si limita ad
aggiungere che «per ciascuno dei provvedimenti compresi negli elenchi di cui al comma 1 sono pubblicati il
contenuto, l’oggetto, la eventuale spesa prevista e gli estremi relativi ai principali documenti contenuti nel
fascicolo relativo al procedimento. La pubblicazione avviene nella forma di una scheda sintetica, prodotta
automaticamente in sede di formazione del documento che contiene l’atto».
Ancora l’art. 37, d.lgs. n. 33/2013 ha da un lato ribadito gli obblighi di cui all’art. 1, co. 32, l. n. 190/2012,
mantenuto fermi gli obblighi di informazione prescritti dal d.lgs. 12.4.2006, n. 163 (codice dei contratti) e
puntualizzato l’obbligo di pubblicare la delibera a contrarre nell’ipotesi di procedura negoziata senza bando
(art. 56 del d.lgs. n. 163/2006).
Più in generale le disposizioni in tema di trasparenza fanno salvi i precedenti obblighi di informazione e
pubblicità previsti dal codice dei contratti.
Gli obblighi di informazione rinvenibili nel codice dei contratti possono a loro volta essere suddivisi in due
categorie, aventi finalità distinte; la prima, omogenea agli obblighi prescritti dalla disciplina della
trasparenza, si rinviene nell’art. 7 del medesimo codice ed è destinata a confluire nell’“Osservatorio dei
contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture”.
In particolare, ai sensi del co. 8 dell’art. 7, d.lgs. n. 163/2006, le stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori
sono tenuti a comunicare all’ANAC: «per contratti di importo superiore a 50.000 euro:
a) entro trenta giorni dalla data dell’aggiudicazione definitiva o di definizione della procedura negoziata, i
dati concernenti il contenuto dei bandi, con specificazione dell’eventuale suddivisione in lotti ai sensi
dell’articolo 2, comma 1-bis, dei verbali di gara, i soggetti invitati, l’importo di aggiudicazione definitiva, il
nominativo dell’affidatario e del progettista;
b) limitatamente ai settori ordinari, entro sessanta giorni dalla data del loro compimento ed effettuazione,
l’inizio, gli stati di avanzamento e l’ultimazione dei lavori, servizi, forniture, l’effettuazione del collaudo,
l’importo finale.
Per gli appalti di importo inferiore a 500.000 euro non è necessaria la comunicazione dell’emissione degli
stati di avanzamento. Le norme del presente comma non si applicano ai contratti di cui agli articoli 19, 20,
21, 22, 23, 24, 25, 26, per i quali le stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori trasmettono all’Autorità, entro
il 31 gennaio di ciascun anno, una relazione contenente il numero e i dati essenziali relativi a detti contratti

Pag. 44 a 49
affidati nell’anno precedente. Il soggetto che ometta, senza giustificato motivo, di fornire i dati richiesti è
sottoposto, con provvedimento dell’Autorità, alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma fino
a euro 25.822. La sanzione è elevata fino a euro 51.545 se sono forniti dati non veritieri».
Le informazioni contemplate dall’art. 7 in parte si sovrappongono al catalogo di cui all’art. 1, co. 32 l. n.
190/2012, con la differenza che quest’ultimo non pone limiti di valore del contratto.
Quanto alle modalità pratiche per inviare questo tipo di informative all’ANAC valgono tuttora le indicazioni
contenute nella deliberazione n. 26 del 22.5.2013, dell’allora AVCP (Autorità di Vigilanza sui Contratti
Pubblici), oggi ANAC.
Il codice dei contratti pubblici contiene inoltre una congerie di obblighi di pubblicità destinati a garantire,
rispetto agli operatori del mercato, il cosiddetto favor partecipationis, attraverso la circolazione
standardizzata di dati utili e necessari per valutare se proporre la propria candidatura, venire a conoscenza
delle procedure di interesse e parteciparvi su un piano di parità (si pensi alla pubblicità dei bandi, agli
obblighi di pre-informazione e post-informazione, alle informazioni ai concorrenti ai sensi dell’art. 79, d.lgs.
n. 163/2006); questo tipo di informative, di cui non è specifica destinataria l’ANAC, a differenza della
disciplina sulla trasparenza non sono finalizzate a favorire un controllo diffuso delle procedure e vanno
quindi tenute distinte, per la eterogeneità della funzione, dagli obblighi previsti dalle sovra riportate
disposizioni.
Pare dunque ragionevole concludere che l’obbligo di trasmissione previsto a carico del Giudice
amministrativo dalla fattispecie in commento insorga qualora emerga la mancata ottemperanza al dovere di
rendere noto sul sito istituzionale dell’amministrazione quanto prescritto ex lege, al fine di consentire un
controllo diffuso sull’attività contrattuale pubblica, ovvero al dovere di disporre la trasmissione all’ANAC di
dati.
Tale ultima lettura dell’oggetto dell’informativa consentirebbe di circoscriverne l’ambito in modo coerente
con l’impianto normativo in cui si colloca.
Resa la prescrizione coerente nel suo oggetto, diviene eccentrica la sede dalla quale l’informativa dovrebbe
partire, ossia il processo amministrativo in materia di appalti.
L’intera disciplina della trasparenza si fonda, come visto, sull’assunto che gli obblighi di pubblicità a fini di
trasparenza non possano e non debbano interferire con quelli analoghi previsti dal codice dei contratti
pubblici ad altri fini. Nel giudizio amministrativo, tuttavia, proprio questi ultimi aspetti della pubblicità
vengono maggiormente in considerazione; si pensi all’art. 79, d.lgs. n. 163/2006, che descrive il contenuto
delle informazioni dovute ai concorrenti di una gara e che rappresenta il momento di normale decorrenza dei
termini per impugnare.
Se si considera che il Giudice amministrativo è pacificamente un giudice che risponde a domande di parte e
non esercita, in termini generali, forme di controllo di diritto oggettivo (da ultimo Cons. St., A.P., 27.4.2015,
n. 5) appare evidente che il contenzioso amministrativo in materia di appalti non è il contesto più coerente
per individuare violazioni della trasparenza nel senso di cui alla l. n. 190/2012. Le parti nelle controversie
«concernenti le materia di cui al comma 1, lett. e) dell’art. 133 c.p.a.» 1, aspirano di norma a conseguire un
bene della vita (aggiudicazione della gara, riedizione della medesima o risarcimento del danno) che in linea
di principio prescinde da verifiche puntuali circa il rispetto della disciplina della trasparenza in senso stretto;
né, di norma, gli oneri di pubblicazione hanno specifico rilievo ai fini della verifica della tempestività
dell’azione, come visto ancorata ad altri adempimenti.
Al Giudice amministrativo spetterà dunque innanzitutto verificare, nell’interesse delle parti e nei limiti della
loro domanda, se l’amministrazione ha legittimamente condotto la procedura, non certo se ha rispettato gli
obblighi di pubblicazione dei dati sul sito internet istituzionale; né le stesse parti, che delimitano l’ambito
del giudizio con le loro istanze, avranno di norma interesse ad allegare violazioni degli obblighi di
trasparenza, magari utili ad colorandum ma non determinanti per stabilire se la gestione della procedura è
stata corretta.
Ancora, a rigore, non sussiste uno specifico obbligo di trasparenza riferito al procedimento di revisione dei
prezzi, che viene in causa tramite il rinvio all’art. 133, co. 1, lett. e), c.p.a., anche se esso ben può inferirsi
dall’obbligo di rendere noto l’importo delle somme liquidate e i costi unitari di beni e servizi.
Infine l’ordinamento conosce uno specifico giudizio, diverso da quello evocato dalla norma in commento,
che ha proprio ad oggetto l’accertamento della violazione delle norme sulla trasparenza, ossia quello a tutela
del cosiddetto “accesso civico”, previsto dall’art. 116 c.p.a.

Pag. 45 a 49
In quel tipo di contenzioso è previsto espressamente l’accertamento dell’inadempimento agli obblighi di
pubblicazione, sanzionato con il conseguente ordine di pubblicazione sul sito istituzionale.
Per questo tipo di giudizio, strutturalmente connesso alle problematiche di trasparenza in senso proprio, la
legge, tuttavia, non specifica alcun obbligo di trasmissione delle decisioni all’ANAC.
Per evitare palesi incongruenze, anche se a rigore il comma in commento evoca le sole controversie
risarcitorie e annullatorie, dovrebbe quantomeno ritenersi sussistere l’obbligo di trasmissione
dell’informativa anche nel caso del giudizio per l’accesso civico; per contro, in astratto, un giudizio di
accesso civico inerente la violazione dei numerosissimi ulteriori obblighi di trasparenza previsti dal d.lgs. n.
33/2013 ma estranei alla materia degli appalti, non ingenererebbe allo stato alcun obbligo di trasmissione
all’ANAC, con evidente irrazionalità.
In definitiva, nella non perspicua individuazione dell’oggetto dell’informativa la disposizione si candida ad
essere una norma manifesto, di scarsa incidenza pratica; se infatti si intende che l’ANAC sia destinataria di
informative inerenti generalmente la “trasparenza” nella gestione delle procedure, l’oggetto rischia di avere
confini vaghi, con difficoltà persino a individuare un nucleo omogeneo di notizie, e con il rischio di
esorbitare dalle competenze tipiche dell’ANAC; la norma, poi, risulterebbe pressocchè casualmente inserita
nella diversa disciplina della trasparenza che qualifica la l. n. 190/2012 e il decreto attuativo del 2013.
Qualora, per contro, si legga la disposizione in termini coerenti con il contesto in cui è inserita e con le
specifiche funzioni dell’ANAC la sede a quo individuata non è adeguata fonte di informazione, se non
nell’unico specifico giudizio di accesso civico, tralasciato dal co. 32-bis.
2.1 Destinatario dell’informativa
Destinatario dell’informativa è la “commissione” che è definita dall’art. 1, co. 2, l. n. 190/2012, come «la
Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche, di cui
all’articolo 13 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, e successive modificazioni, di seguito
denominata “Commissione”»; essa ad oggi «opera quale Autorità nazionale anticorruzione, ai sensi del
comma 1 del presente articolo».
Trattasi, in sostanza, di quella che in origine il d.lgs. n. 150/2009 aveva denominato CIVIT, attribuendole
principalmente competenze di ottimizzazione e valutazione della produttività del lavoro pubblico estese, a
partire dalla d.lgs. n. 190/2012, al monitoriaggio delle disposizioni in tema di anticorruzione e trasparenza;
l’art. 5, co. 3, d.l. 31.8.2013, n. 101, convertito in l. 30.10.2013, n. 125, la ha poi ridenominata Autorità
Nazionale anticorruzione e per la valutazione e la trasparenza delle pubbliche amministrazioni, ANAC.
Con l’art. 19, d.l. n. 90/2014 l’Autorità è stata infine ribattezzata Autorità nazionale anticorruzione e ha
assorbito le funzioni precedentemente proprie dell’Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici di lavori
servizi e forniture, accentrando le competenze regolatorie e di vigilanza in materia di contratti pubblici e
perdendo invece quelle in materia di misurazione e valutazione della performance dei dipendenti pubblici,
che sono transitate al Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
PROFILI PROBLEMATICI. INFORMATIVA E PROCESSO
L’obbligo di trasmettere l’informativa insorge nel “corso del giudizio”, quindi in ogni grado del medesimo.
Il presupposto può emergere nella fase cautelare; in questo senso depone infatti il riferimento alla
“sommaria valutazione”.
Per altro, se si considera quanto osservato (v. supra § 1), è verosimile che la valutazione concernente le
violazioni in tema di trasparenza in senso proprio, anche all’esito del giudizio di merito, resti “sommaria”; si
intende dire che, non cadendo pressoché mai la violazione dell’obbligo di trasparenza nel “fuoco” del
giudizio amministrativo ai sensi dell’art. 133, lett. e), c.p.a., e non potendo il giudice, in contrasto con il suo
complessivo modus procedendi, procedere ad accertamenti officiosi concernenti obblighi per lo più non
determinanti ai fini del decidere, la violazione della trasparenza sarà di norma solo “inferita” come
probabile. Ad esempio, ove il giudice riscontri che, in una determinata ipotesi, sia stata del tutto omessa la
doverosa evidenza pubblica, o ancora verifichi l’impiego di un modulo procedimentale non coerente con
quello prescritto, potrà “immaginare” che, come è stata omessa o errata la procedura, altrettanto omessi o
errati saranno stati la relativa pubblicità sul sito istituzionale e i connessi obblighi informativi.
L’accertamento di merito, dunque, agli specifici fini di cui alla disposizione, potrebbe non offrire mai
certezze maggiori di quelle di una sommaria valutazione2.
A diverse conclusioni si perverrà intendendo la violazione della trasparenza nella prima accezione proposta
(v. supra, § 1), salve le aporie già evidenziate in termini di disomogeneità delle informative.

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Considerata la finalità della norma, in ogni caso, particolare attenzione avrebbe dovuto essere posta dal
legislatore sull’attendibilità e omogeneità dell’informazione, esigenza che poco si concilia con una
valutazione sommaria, sia essa necessitata ovvero legata alla fase del giudizio in cui viene effettuata.
La norma non chiarisce poi a chi competa l’obbligo di trasmissione (collegio o presidente); posto che esso
insorge in concomitanza con un accertamento, ancorché sommario o presunto, pare ragionevole attribuire
l’onere di effettuare la segnalazione al collegio, dandone atto nel relativo provvedimento.
Non si ritiene, invece, che la questione debba essere d’ufficio sottoposta al contraddittorio delle parti ai sensi
dell’art. 73, co. 3, c.p.a.; la trasmissione all’ANAC appare infatti una conseguenza legale di un accertamento
di fatti o violazioni, quello sì effettuato in contraddittorio. Ove il collegio individui, a priori in
contraddittorio, una violazione della trasparenza o una illegittimità ragionevolmente ad essa collegata, la
trasmissione dell’informativa all’ANAC si configurerà infatti come atto dovuto, sul quale non potranno
incidere le difese delle parti.
Quanto all’eventuale appellabilità del capo di sentenza che dispone la trasmissione dell’informativa
all’ANAC, trovano ragionevolmente applicazione i principi già enunciati dal Giudice amministrativo
d’appello con riferimento all’obbligo di trasmissione degli atti alla Procura della Corte dei Conti. Si legge
infatti in Cons. St., Ad. Plen., 3.6.2011, n. 10: «la disposta trasmissione degli atti … pur occupando una
parte della sentenza e quindi costituendo, formalmente, un capo di essa, non è suscettibile di appello. Il
giudice di primo grado ha esercitato un potere di denuncia che compete ai pubblici ufficiali (ndr nel caso di
specie, imposto ex lege al Giudice amministrativo), e che si colloca a latere della sentenza, rispetto alla
quale resta esterno anche se formalmente esercitato nel corpo di essa e che, oltretutto, in quanto mera
denuncia, è privo di autonoma portata lesiva [Cass., 26.1.2010, n. 1542] e quindi non è suscettibile di
sindacato in appello».
3.1 Finalità dell’informativa
Ove l’obbligo di informativa si intenda nel più ampio significato prospettato (v. supra, § 1), sorge legittimo
dubbio circa l’utilità della segnalazione, che ingenererebbe, tra l’altro, possibili sovrapposizioni di
competenze e duplicazione di attività; siffatta ampia tipologia di violazioni si traduce infatti o in una
illegittimità della procedura, che vede nel Giudice amministrativo il normale censore, o in peggiori forme di
disfunzione dell’attività pubblica, demandate alla cognizione del giudice penale o contabile, cui per altro il
Giudice amministrativo, in qualità di pubblico ufficiale, è obbligato a trasmettere le notizie di reato o di
danno.
Escludendo che l’ANAC sia legittimata a sindacare la legittimità degli atti della procedura (una
legittimazione straordinaria in materia di concorrenza, tra cui rientra anche la contrattualistica pubblica, è
già attribuita all’Antitrust dall’art. 21 bis della l. 10.10.1990, n. 287) o che sia utile informare l’ANAC là
dove questa si limiterebbe a sua volta ad informare altra autorità, con duplicazione di incombenti rispetto al
Giudice Amministrativo, residuano la funzione, caratteristica dell’autorità, di coordinamento informativo
statistico dei dati, che gode di copertura costituzionale, nonché il rafforzamento della trasparenza.
Le moderne forme di prevenzione della corruzione assumono, infatti, condivisibilmente che la creazione di
banche dati e l’analisi statistica siano utili per rilevare anomalie comportamentali e quindi agevolare la
prevenzione. A tal fine, tuttavia, è coerente solo la più ristretta nozione di trasparenza, mentre una lettura in
termini ampi dell’oggetto dell’informativa renderebbe il dato scarsamente utilizzabile.
Accedendo, dunque, alla più coerente interpretazione, la trasmissione delle informazioni da parte del
Giudice amministrativo dovrebbe supplire alla scorretta o omessa trasmissione delle stesse da parte della
stazione appaltante, in principalità obbligatavi, avente la finalità di contribuire alla creazione delle banche
dati di cui agli artt. 6 bis e 7 del codice dei contratti; come già osservato, tuttavia, nel corso del giudizio
amministrativo per lo più potrà sorgere il “dubbio” che detti adempimenti siano stati omessi, difficilmente
realizzandosi un accertamento vero e proprio sullo specifico punto.
L’informativa, ove poi porti a individuare violazioni puntuali dei doveri di trasparenza, consentirà
all’Autorità di attivare i propri poteri sanzionatori.
Anche sotto quest’ultimo profilo non mancano aporie.
Quanto agli obblighi contemplati dalla l. n. 190/2012 (privi di ancoraggio al valore dei contratti) l’omessa
informativa dovrebbe portare, ai sensi dell’art. 1, co. 33, l. n. 190/2012 (che a sua volta, rinviando ai commi
31, 15 e 16 dello stesso articolo, ingloba anche le informazioni di cui al co. 32), a stigmatizzare la
«violazione degli standard qualitativi ed economici ai sensi dell’articolo 1, comma 1, del decreto legislativo
20 dicembre 2009, n. 198» ed essere valutata «ai sensi dell’articolo 21 del decreto legislativo 30 marzo

Pag. 47 a 49
2001, n. 165, e successive modificazioni. Eventuali ritardi nell’aggiornamento dei contenuti sugli strumenti
informatici sono sanzionati a carico dei responsabili del servizio».
Gli effetti di questo tipo di violazione, pertanto, si collegano da un lato al ricorso per l’efficienza delle
amministrazioni e dei concessionari pubblici, cui sono legittimati «i titolari di interessi giuridicamente
rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori», tra cui non si annovera certo l’ANAC,
dall’altro ai controlli di performance dell’attività del pubblico dipendente che, come supra evidenziato, a
partire dal 2014, sono stati ricondotti nell’ambito della Funzione Pubblica.
Quanto all’omessa pubblicità dei dati di cui all’art. 7, d.lgs. n. 163/2006 (informazioni in buona parte
analoghe a quella di cui alla l. n. 190/2012 ma caratterizzate per essere riferite a contratti di maggior valore
economico) l’ANAC potrà applicare, per l’omessa informazione, la sanzione «del pagamento di una somma
fino a euro 25.822», per l’informativa non veritiera, «la sanzione elevata fino a euro 51.545».
La potestà sanzionatoria dell’ANAC in materia resta disciplinata dal provvedimento AVCP del 26.2.2014,
«Regolamento unico in materia di esercizio del potere sanzionatorio da parte dell’Autorità per la vigilanza
sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture di cui all’art. 8, co. 4, d.lgs. 12.4.2006, n. 163»; il
provvedimento sanzionatorio sarà evidentemente a sua volta giustiziabile, con l’anomalia (figlia
dell’anomalo ruolo attributo sul punto al Giudice amministrativo) che il giudice dovrà sindacare ciò che ha
provocato con la segnalazione resa in condizioni di necessitato dubbio; si ritiene infatti che il subentro
dell’ANAC nella funzione sanzionatoria prevista dall’art. 7, d.lgs. n. 163/2006 in capo alla AVCP non faccia
cadere sul punto la giurisdizione esclusiva di cui all’art. 133 c.p.a.
Infine l’ANAC potrà utilizzare le segnalazioni per arricchire la banca dati di giurisprudenza prevista
dall’ultimo comma dell’art. 7, d.lgs. n. 163/2006.
In definitiva le «notizie e informazioni» di cui al comma in commento, dai confini incerti, paiono
annoverarsi tra le recenti numerose disposizioni che chiamano in causa l’ANAC, anche al di fuori della sua
originaria e naturale vocazione, non senza ingenerare il rischio di inutili sovrapposizioni di competenze e
moltiplicazioni di oneri ridondanti, metodo che non reca concreto ausilio ad un efficace progresso in tema di
trasparenza.
1
 Id est  quelle «1) relative a procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi, forniture, svolte da soggetti
comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all’applicazione della normativa comunitaria ovvero
al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale, ivi incluse
quelle risarcitorie e con estensione della giurisdizione esclusiva alla dichiarazione di inefficacia del contratto
a seguito di annullamento dell’aggiudicazione ed alle sanzioni alternative; 2) relative al divieto di rinnovo
tacito dei contratti pubblici di lavori, servizi, forniture, relative alla clausola di revisione del prezzo e al
relativo provvedimento applicativo nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, nell’ipotesi di cui
all’articolo 115 del decreto legislativo 12 aprile 2006 n. 163, nonché quelle relative ai provvedimenti
applicativi dell’adeguamento dei prezzi ai sensi dell’ articolo 133, commi 3 e 4, dello stesso decreto».
2
 Per un’ipotesi di trasmissione all’ANAC della decisione di merito in un caso di distorta applicazione delle
norme di evidenza pubblica (l’amministrazione aveva del tutto omesso di adottare le procedure di evidenza
pubblica prescritte per la tipologia di contratto prefigurata), si veda TAR Piemonte, 28.7.2015, n. 1238.

Accesso ai documenti amministrativi


I privati hanno diritto di prendere visione o estrarre copia dei documenti amministrativi utilizzati dalle
pubbliche amministrazioni, cioè di «ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o
di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi a uno specifico procedimento,
detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse» (art. 22 l. n. 241/1990,
modificata dalla l. n. 15/2005). La legge stabilisce che l’accesso costituisce un «principio generale
dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e
la trasparenza» (art. 22 l. cit.) (su cui v. Principio di imparzialità e Trasparenza amministrativa). Il diritto di
accesso spetta a tutti i soggetti privati, anche portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un
«interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata» (art. 22 l. cit.):
può trattarsi di diritti soggettivi, di interessi legittimi, o di situazioni strumentali alla tutela di essi. Il diritto
di accesso si può far valere nei confronti delle pubbliche amministrazioni, delle aziende autonome, degli enti
pubblici e dei gestori di pubblici servizi: dunque, anche nei confronti di soggetti privati che svolgono attività
di pubblico interesse (art. 23 l. cit.).

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I casi di esclusione del diritto di accesso, elencati dalla legge e oggetto di stretta interpretazione, riguardano,
in particolare, i documenti coperti da segreto di Stato, i procedimenti tributari, le attività finalizzate
all’adozione di atti normativi o amministrativi generali, i procedimenti selettivi nei confronti di documenti
contenenti informazioni di carattere psico-attitudinale relativi a terzi. Con regolamento governativo si
possono prevedere altri casi di sottrazione di documenti amministrativi all’accesso, quando esso possa
pregiudicare interessi di particolare rilievo, quali la sicurezza e l’ordine pubblico, la difesa nazionale, le
relazioni internazionali, la politica valutaria e monetaria, la riservatezza e la vita privata delle persone (art.
24 l. cit.).
Esercizio del diritto di accesso. - Il diritto si esercita mediante richiesta di accesso motivata. Vi può
essere esercizio informale o formale (d.P.R. n. 184/2006). La prima ipotesi vale quando non vi siano
soggetti che possano veder compromesso il loro diritto alla riservatezza dall’esercizio di tale diritto: in tal
caso la richiesta può essere anche verbale, purché si specifichi l’interesse che ne è alla base, ed è esaminata
immediatamente e senza formalità. L’esercizio formale dell’accesso, invece, si ha quando l’accoglimento
immediato della richiesta risulti impossibile, ovvero quando sorgano dubbi sulla legittimazione del
richiedente, sulla sussistenza dell’interesse, sull’accessibilità del documento, o sull’esistenza di contro-
interessati. L’esercizio formale dà luogo a un procedimento amministrativo autonomo, con un responsabile e
un termine di 30 giorni.
Il diritto di accesso può esercitarsi nell’ambito di un procedimento amministrativo o al di fuori di esso. Nel
primo caso, la conoscenza dei documenti può essere essenziale per esercitare i diritti di partecipazione al
procedimento tramite memorie scritte e documenti (art. 10 l. n. 241/1990). Se l’amministrazione non
accoglie la richiesta di accesso, può negare – espressamente o tacitamente – o differire l’accesso per
assicurare una tutela temporanea agli interessi di particolare rilievo che giustificano la limitazione
dell’accesso. Questo non può essere negato ove sia sufficiente il differimento.
La tutela giurisdizionale e amministrativa. - Sono previsti appositi meccanismi di tutela del diritto di
accesso, giurisdizionali e amministrativi. In caso di diniego o di differimento, l’interessato può presentare
entro 30 giorni ricorso al TAR, che decide con procedimento speciale e abbreviato entro 30 giorni. Il rito in
materia di accesso è ora disciplinato dall’art. 116 del c.p.a. (d.lgs. n. 104/2010).
L’interessato può anche chiedere il riesame del diniego o del differimento dell’accesso al difensore civico se
si tratta di atti di amministrazioni comunali, provinciali o regionali, o alla Commissione per l’accesso ai
documenti amministrativi presso la Presidenza del Consiglio se si tratta di atti di amministrazioni statali.
L’istanza al difensore civico, o alla Commissione, è preliminare e facoltativa rispetto al ricorso al TAR: se è
presentata, sospende i termini del ricorso al giudice.

Trasparenza amministrativa
Principio fondamentale dell’esercizio della funzione amministrativa, manifestazione del principio
di imparzialità e buon andamento contenuto nell’articolo 97 della Costituzione. L’art. 1 della l. n. 241/1990
(come modificato dall’art. 1 della l. n. 15/2005) individua la trasparenza tra i principi generali attinenti alle
modalità di svolgimento del rapporto tra pubblica amministrazione e privati-cittadini, insieme ad altri
principi quali l’economicità, l’efficacia, la pubblicità ecc. La trasparenza delinea la comprensibilità
dell’azione dei soggetti pubblici sotto diversi profili, quali la semplicità e la pubblicità (conoscibilità), in
modo da consentire la conoscenza reale dell’attività amministrativa e di effettuare il controllo sulla stessa.
L’azione amministrativa deve quindi consentire agli interessati di accedere alle informazioni relative al
procedimento in corso e per le pubbliche amministrazioni vi è il dovere di comunicare agli stessi tutte le
informazioni richieste, salvo i casi eccezionali espressamente esclusi dalla legge. La trasparenza
amministrativa trova applicazione soprattutto attraverso il diritto di accesso ai documenti amministrativi, la
comunicazione dell’avvio e la partecipazione al procedimento, la motivazione del provvedimento. Tali
principi, quindi, consentono al soggetto privato che abbia un interesse diretto, concreto e attuale, di
interloquire con la pubblica amministrazione, a tutela del proprio interesse, prima che sia adottata la
decisione finale (Corte cost., sent. 104/2006; art. 1, co. 1, 3, 22, l. n. 241/1990).

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