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Incisione calcografica e stampa originale d’arte

I caratteri grafici
Bulino
L’incisione a bulino è la prima in ordine di tempo delle tecniche della calcografia (scrivere su rame). Discende in linea
diretta da quel genere di incisione fine a sé stessa, perché utilizzata dagli artigiani orafi per decorare ad intaglio i metalli
preziosi che prende il nome di niello in ragione della nera e inamovibile pasta di smalto con la quale si colmavano gli
incavi per dar risalto al disegno.
I primi paesi a fare tesoro di questa tecnica furono la Germania, le Fiandre e l’Italia.
Le stampe su carta da nielli, quelle anonime e quelle che appartengono a Peregrino da Cesena o a Antonio Pollaiolo,
risalgono alla prima metà del XV secolo. La maggior parte delle opere sono per lo più prive di riferimenti di identità
anagrafiche ed è questo che le rende più avvincenti.
L’esempio più emblematico è il San Girolamo penitente, inciso tra 1450 e 1460 da un anonimo.
Contemporaneamente a quello che accadeva in Italia, in Germania gli orafi sperimentano la stampa incisa. Le stampe
restano anonime ma riescono ad essere distinte più facilmente per la presenza di sigle o monogrammi.
Il trapasso verso una concezione più autonoma dell’immagine e del modo di condurre il bulino coincide in Italia con Maso
Finiguerra, Martin Schongauer e con il Maestro del libro di casa. Ma lo stacco decisamente innovativo si ha con
Antonio del Pollaiolo nel suo Combattimento di uomini nudi dove la tesa continuità dei contorni e l’obliquo andamento
de tratteggio si ripete all’infinito. Importante è anche l’opera di Andrea Mantegna che incise nello stesso periodo,
intagliando il rame con una tecnica semplice ed essenziale, con rare sovrapposizioni di tratteggio, mettendo in risalto luci
e volumi dei soggetti.
Le potenziali risorse del bulino sono dimostrate dalle stampe di Alberto Durer. In tutti i suoi rami e particolarmente in
quelli che costituiscono il trittico dei “capolavori” (Il cavaliere, il diavolo e la morte, La Malinconia e il San Gerolamo
nella cella) la linea ed il tratteggio modellanti si dispiegano e frammentano fino a ridursi in segmenti brevi e puntinati per
arrivare ad un nitido risalto dei rilievi con vibrazioni della luce contenute.
Oltralpe, le opere di Luca de Leyda si distinguono per l’argentea luminosità, tutte concepite in modo che le sue ampie e
affollate visioni vivano perché trasmesse attraverso un taglio lieve, trasparente, discreto, determinato a comunicare le
rarefazioni luminose della terra e della cultura che gli hanno dato natale.
Amico di Durer, Jacopo de’ Barberi, noto in ambito bulinistico come Maestro del Caduceo, è degno di figurare tra i
vertici pe l’eleganza e la luminosità delle sue incisioni e per il suo modo di percorrere il bulino verso percorsi fluenti e
dispiegati.
Il bolognese Marcantonio Raimondi avvia invece quella che verrà classificata come incisione di riproduzione: egli attinge
frequentemente a diverse fonti e più frequentemente ai disegni che Raffaello gli affidava ben consapevole della
intelligenza interpretativa e degli esiti grafici che ne sarebbero conseguiti.
è doveroso citare quei pittori che si sono occupati anche di incisione come Bartolomeo Montagna e Giulio
Campagnola, che mediante l’abbandono quasi totale del segno e del tratteggio e l’adozione del punteggio, è riuscito a
convertire in bianco e nero i valori tonali e cromatici innovativi della pittura lagunare di quegli anni.
Mentre il Parmigiaino si avviava a ritentare con la tecnica dell’incisione indiretta, quella a bulino è ancora lontana
dall’essere accantonata: a Firenze, Cristofano Robetta muove il suo bulino fra nudi cespugli e vaganti nuvole con
laboriosità e disinvoltura. In Francia Jean Douvet (Maestro del Liocorno) incide con insistenza orafesca e vigorosità.
Ancora in Italia, Annibale e Agostino Carracci inventano quelle “variazioni di frequenza del segno”.
Successivamente la tecnica del bulino volge in tecnicismo e sobrietà grafica, frequentemente in ostentata emulazione
delle finezze della pittura. Con Claude Mellan che affida ad unico segno mosso a spirale, ha inizio il grande spettacolo del
virtuosismo bulinistico che fra Settecento e Ottocento, si appoggia ai nomi di Cornelio Blomaret, Giuseppe Longhi,
Joseph Wagner e Luigi Calamatta.
La grande stagione del bulino volge al termine: per logico e naturale rigetto e perché il gran vento romantico spinge gli
artisti all’uso della tecnica dell’acquaforte, più affine e congeniale ai temi proposti.
Soltanto tra fine Ottocento e inizi Novecento, in coincidenza con le riemergenti necessità di pulitezza e rigori espressivi, la
tecnica dell’intaglio a bulino torna ad essere considerata e sperimentata da altri artisti incisori come è riscontrabile nelle
opere di Jean Emile Laboureur, Pablo Picasso, Stanley William Heyter e Hans Bellmer.

Punta secca
Chiunque, anche chi non ha quotidiana confidenza con la stampa d’arte, può rilevare facilmente i caratteri grafici della
punta secca. Si notano delle lacerazioni prodotte dalla punta sul metallo che corrispondono sulla carta a caratteristiche
fisiche inconfondibili: un segno, un dato graficamente più teso e distesamente dispiegato perché nutrito da percorsi senza
stacchi frequenti che rimandano alla punta letteralmente posseduta dal metallo.
L’esordio dell’incisione a punta secca si ha fra Germania e Paesi Bassi, dove hanno operato i cosiddetti “predureriani”. È
da ricordare soprattutto l’opera del Maestro del libro di casa o Maestro del gabinetto di Amsterdam
(Hausbuckmeister) attivo tra la seconda metà del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento. Si dice che incidesse con il
bulino su lastre di stagno e che poi stampava senza rimuovere le barbe.
Probabilmente sollecitato dalle risorse grafiche di questa tecnica, anche Durer incide alcune matrici a punta secca, con
risultati tali da non scostarsi molto dalle sue incisioni a bulino. Da ricordare la sua opera “San Girolamo sotto il salice”
del 1512 dove la materia espressiva della punta secca prende una rilevanza atmosferica e cromatica insolita.
In Italia, Parmigianino aveva iniziato a incidere all’acquaforte, mentre Andrea Meldolla, detto lo Schiavone affida
l’eleganza delle sue figure oltre che all’acquaforte anche alla punta secca. Ma è sicuramente Rembrandt che per
entrambe le tecniche realizza opere tecnicamente più esaltanti. Tra le sue incisioni ricordiamo “Il pittore e la modella”
del 1639, “L’abbeveratoio” del 1645, “San Gerolamo che scrive” del 1648 e “La conchiglia in secondo stato” del
1650.
Nel Settecento gli artisti incisori mettono da parte la punta secca. Soltanto nei decenni seguenti questa tecnica viene
riproposta da Auguste Rodin che incide “Protrait de Victor Hugo”, dove il segno condotto per ampie e vorticose
movenze perpetua nell’essenzialità del bianco e nero.
Fra fine e principio di secolo e in coincidenza con la belle epoque, Edvard Munch esordisce nella grafica incisa con
l’acquaforte e la punta secca per comunicare i suoi dolenti e angoscianti messaggi. Ne “Il bacio” del 1896 o ne “i
Solitari” dell’anno precedente, la sua punta si muove lentamente seguendo lunghi e fluenti percorsi.
È scuramente in campo espressionista che si devono cercare le nuove connotazioni espressive di questo genere di
incisione che proprio per essere gestualmente improvviso e lancinante viene dagli artisti privilegiato. Significativa è
l’opera di Erich Heckel, Otto Dix, Ernst Ludwig Kirchner e Max Beckman, che si distingue per la crudezza impietosa,
per la sua grafia incisa fatta di tagli siglati, con spietata determinazione in modo da restituire la lacerante rigidità
dell’utensile tenuto quasi letteralmente come un’arma.
Dei tanti incisori e peintre-graveur che si avvalsero della punta secca non si possono non ricordare André Dunoyer de
Segonzac, Anselmo Bucci e la sua serie di stampe che ha per titolo “Paris qui bouge”, Pablo Picasso, Jaques Villon e
le sue punte secche volte a composizioni astratte, Bernard Buffet e infine la luminosa ampiezza e la distesa naturalezza
di quell’unica prova di Giorgio Morandi catalogata come “Natura morta” nel 1931.

Maniera nera o mezzotinto


La stampa tratta da una matrice elaborata a maniera nera si impone senza possibilità di equivoco anche quando è a colori
per la densa e morbida qualità del dato grafico, per la pastosità del nero e dai grigi e bianchi limitati. L’immagine appare
per variate ma rare accensioni di luce. Altra inconfondibile proprietà è l’eccesso di sfumati e di passaggi chiaroscurali.
L’idea primitiva di questa tecnica risale al 1642 per opera del tedesco Ludwig von Siegen. Sarà poi il principe Ruprecht
von der Pfalz a esportarla in Inghilterra, dove verrà praticata da molti artisti e pittori con grande dedizione e fortuna. Tra
questi John Raphael Smith, William Ward, Valentine Geen, Samuel William Reynolds, Thomas Watson e Richard
Erlom.
Interessante è il versante rappresentato dalle riproduzioni di dipinti magistralmente elaborate tramite questo
procedimento tecnico.
Si dovrà però attendere Goya per riavere una indicazione fra le più attendibili ed esaltanti delle rilevanze espressive della
maniera nera. L’unica stampa che egli ha elaborato a mezzotinto è intitolata “El Coloso”.
Da ricordare sono anche le opere a mezzotinto di Jacob Christoph le Blon.
Altre opere esemplari della ricchezza di risorse espressive di questa tecnica sono quelle dei giapponesi Hasegawa e
Yozo Hamaguchi, del francese Mario Avati e, più prossimi alle problematiche delle neo-avanguardie americane e
europee degli anni ’70, del tedesco Wolfgang Gafgen, dell’austriaco Joerg Ortner e dell’iperrealista americano Chuck
Close.

Acquaforte
I caratteri grafici dell’acquaforte sono subito distinguibili: accentuata varietà timbrica dell’insieme visivo e inchiostro che
sui segni si addensa e si aggruma in spessori rilevanti meno continui e regolari, tanto che ad indagarli ad occhio nudo,
sembrano avere registrato proprio il lavorio minuto e subdolo della corrosione. La materia grafica che ne deriva non
dipende solo dalla manualità dell’artista ma anche e soprattutto dall’azione corrosiva esercitata dagli acidi.
I primi sperimentali tentativi di utilizzare i corrosivi liquidi per incidere una matrice risalgono alla intraprendenza di Daniel
Hopfer, Urs Graf, Marcantonio Raimondi e di Albert Durer. Le sei acqueforti che egli ha inciso tra 1515 e 1518, sono
certamene insolite, ricche di nuovi stimoli grafici ma non sono poi così lontane e dissimili dai modi dell’intagliare a bulino.
Il primo vero acquafortista, colui che ha intuito le risorse davvero nuove dell’incisione a punta e mordente è Francesco
Mazzola detto il Parmigianino. Nelle sue se pur poche incisioni possiamo vedere prontezza di scrittura, corsività del
segno e freschezza di chiari e di scuri.
Tuttavia le anticipazioni parmigianesche non hanno avuto un vistoso e subitaneo seguito anche perché la maggior parte
dei professionisti dell’incisione a bulino stenta a adottare i procedimenti e i modi nuovi e semmai ricorre ad entrambe le
tecniche sulla matrice.
Bisognerà attendere Federico Fiori detto Barocci, un pittore, che vede nel segno e nella macchia a tramatura più o meno
serrata una personale e affascinante equivalenza del colore. Gli è stato attribuito l’originario uso e invenzione delle
morsure per coperture o, quantomeno, la prima e più efficace esibizione delle risorse ad esse connesse. Famosa è la sua
Annunciazione incisa all’acquaforte e a bulino, caratterizzata da linee lunghe e tese, segni ortogonali disposti ad incrocio
e puntinato fitto. Al contrario, nella stampa intitolata “Stigmate di San Francesco”, si può notare un’essenzialità di segni
e di tratteggi.
Apparentemente meno finite perché affidate ad un segno più disinvolto sono le stampe di Guido Reni e quelle più
toccanti di Simone Cantarini, detto il Pesarese.
Per quanto riguarda questa tecnica, è impensabile non ricordare Antonio Van Dick e il suo tratteggiare ampio e disteso, i
fuochi notturni di Adam Elsheimer e le inquietanti figurazioni incise e stampate di paesaggi rocciosi, caricati e
desolatamente lunari di Hercules Seghers, il tratteggio conciso e chiaroscurato di Abram Bosse, Jaques Callot e in
Italia, Stefano della Bella che incide incrociando più intensamente il segno.
Chi è riuscito con l’acquaforte a possedere e ad esprimere il visibile e l’invisibile è Rembrandt Van Rijn. Egli ha creato
una lingua nuova, che nessuno aveva parlato prima di lui e il cui registro presta inflessioni ombrose e dorate a tutte le voci
della terra e del cielo. L’estesa gamma della materia grafica attingibile dall’acquaforte, dalla punta secca e dal bulino,
separatamente o fra loro congiunti, lui l’ha intuita, indagata e compiutamente rivelata. Il segno scorrevole e luminoso che
accarezza la tenerezza degli incarnati si contrappone a quello più secco, arido e corposo orizzontalmente o
diagonalmente accorpato, o all’infittirsi di segni sottili e sovrapposti.
Ancora dal ricco filone degli acquafortisti olandesi del Seicento prevalentemente paesaggisti spiccano nomi come Esaias
Van De Velde, Wilem Buytevec e Jacob Ruisdael.
L’approssimarsi del Settecento è segnato dalle presenze in Italia di Savator Rosa, Giovanni Benedetto Castiglione
detto il Grechetto, estrosi nel segno con scioltezza e levità di mano.
In Francia, Antoine Watteau, Honoré Fragonnard e Gabriel De Saint-Aubin con più frivoli compiacimento e insistita
eleganza e disinvolta spigliatezza del segno.
Per quanto riguarda l’acquaforte, è il XVIII secolo a registrare l’avvicendarsi e l’affiancarsi di alcuni degli ingegni più
illuminati della grafica incisa: Antonio Canal detto il Canaletto e le sue vedute veneziane intessute di segni quieti e valori
argentei che compongono la frizzante luminosità delle lagune. Un genere di incisione che non manca di precedenti in
area veneta come quella di Marco Ricci, tanto inconfondibile che alcuni la dicono “bianca” o “bionda”.
Giovan Battista Tiepolo (ma anche il figlio Giandomenico), è un pittore ma anche acquafortista che ha una grafia fratta,
svirgolata e gradevolmente convulsa.
Trapiantato a Roma ma veneto di nascita, Giovan Battista Piranesi è notoriamente autore di quelle incisioni
all’acquaforte che hanno per titolo: “Grotteschi o Capricci decorativi” e “Invenzioni capric (ciose) di carceri
all’acquaforte ecc.” entrambe pubblicate tra il 1744 e il 1745. La seconda è certamente l’opera più alta fra le tante che
l’autore ha ideato e incise ed è, certamente, uno dei capolavori dell’arte incisoria di tutti i tempi. Riprese quindici anni
dopo con il titolo di “Carceri di invenzione”, la grafia diviene più audace e tanto visionariamente cupa e ossessiva da
tenere il riguardante il costante turbamento.
Da Madrid, dove tuttavia aveva operato e fatto scuola per quanto è da riferire all’acquaforte Giovan Battista Tiepolo, nasce
ed opera unno dei più singolari pittori e incisori di tutti i tempi: Francisco Goya y Lucientes. Dotato di istintiva capacità
disegnativa, sul finire del secolo e in coincidenza con lo stacco fra mondo antico e mondo contemporaneo, Goya incide la
serie di acqueforti-acquetinte intitolata “Caprichos”, innalzando nel contempo una delle insegne meno inequivocabili del
“secolo dei lumi”: il sogno della ragione produce mostri. La sua scrittura per segni brevi e tangenti e mai incrociati,
sempre essenziali a reggere le larghe macchie di acquatinta che lo esaltano dando vivido corpo alle forme, alla cupezza
delle ombre ed ai bianchi per contrasto urlati. Più tardi, quasi come partecipazione attiva alla guerra civile non poteva non
emergere l’eroismo, il paradossale contrasto fra umanità e bestialità che è proprio a tutte le guerre e a tutte le violenze,
che egli incide l’altra grande serie “Desastres de la guerra” e più tardi “Tauromaquia”, “Los Disparatas” e
“Proverbios”.
Le istanze romantiche tornano con altri aspetti a proporsi nelle acqueforti di Charles Meryon, nelle vedute di Parigi dove
l’attenzione al dettaglio e addirittura al frammento rivela “il vivere dei muri, finestre, tetti, attraverso il filtro di una nuova
compartecipazione al reale”.
Una materia grafica singolare, per il segno scorrevolmente commosso e non senza qualche patetico risvolto sentimentale
più che ideologico è quella delle acqueforti di Jean-Francois Millet.
Più sottilmente intessuta fra grigi tenerissimi e neri vellutati è quella di Edgar Degas.
Lunghi fili che si aggomitolano su se stessi e sulla forma che nel contempo generano ed alla quale danno respiro, nelle
poche incisioni di Baptiste Camille Corot e in quelle degli impressionisti che, pur privilegiando la litografia nel frattempo
inventata e promossa da Alojs Senefelder, non hanno mai mancato di affidare all’acquaforte qualcuna delle loro immagini
di spazi vibranti d’aria e di fibrillata luminosità.
Caso a parte è quello del belga, parmigiano di adozione e cultura, Felicien Rops che si avvale di questa tecnica per dare
immagine a idee letterariamente ambigue, a galanterie avariate e a situazioni libertine.
Altro stacco rilevantemente significante p determinato da Giovanni Fattori e dalle sue acqueforti. Viene riaffidato all’acido
un ruolo primario ed alle rievidenziate morsure. Tra le sue stampe più importanti ricordiamo quelle intitolate “Buoi” e “Il
ritorno a casa?”, dove si può bene avvertire la bruciante scrittura fattoriana e la validità dell’attuato superamento delle
ortodosse regole del cosiddetto “bell’incidere” di accademica memoria.
In area inglese troviamo James Abott McNeil Whistler che incide con un segno neppur tanto distintivo ma carico di forti
contrasti nei quali Baudelaire vedeva della poesia profonda e complessa.
Sul finire dell’Ottocento James Ensor, pittore fiammingo, incide all’acquaforte con una grafia di vivida temperie e per tanti
aspetti già espressionista.
Lo svedese Andres Zorn incideva a percorsi scorrevoli e lunghi, per accostamenti e tangenze di segni governati più
dall’istintività del gesto che dal calcolo mentale.
In un contesto che già quello dell’arte moderna annunciata, l’incisione torna a toccare gli alti vertici dell’espressione visiva,
recuperando schiettezza di scrittura, spessore di significati e capacità di coinvolgimento. Basti in proposito ricordare
“Bastimento” di Emil Nolde del 1910, “Ritratto di Ada Nolde” del 1911 e “Frau Mann, Dinner” del 1918. Sempre in
casa e in clima espressionisti, “Die Hobnenden” del 1911 di Lyonel Feininger, “Paesaggio Sassone” del 1908 di Karl
Schmidt-Rottluff e “Totter Sappenposten” del 1924 di Otto Dix.
Per altri artisti la stampa originale d’arte e anche l’acquaforte, non è stata un “simple divertissement d’hasard”, ma mezzi
e possibilità espressive non meno sollecitanti delle cosiddette “arti maggiori”.
Per valutare la veridicità di questa affermazione basta soffermarsi a considerare quanto hanno fatto Pablo Picasso in “Le
repas de frugal” del 1909 o nella serie di tredici incisioni per “Le chef d’oeuvre inconnu” di Balzac del 1927, Georges
Braque in “Etude de nu” del 1908 e in “Fox” del 1911, Jaques Villon ne “La petite mulatresse” de 1911, André
Dunayer de Segonzac in tante delle sue personalissime immagini idilliache, Marc Chagall e le sue lievitanti figure sul
tema “La mia vita” del 1925 o quelle per “Le anime morte” di Gogol, “Le favole” di La Fontaine e “La Bibbia” incise
per Vollard.
La conclusione di questo itinerario non sarebbe tale se non si accennasse alcune personalità di casa e tempi a noi più
vicini: al marchigiano Luigi Bartoni, al toscano Giuseppe Vivarini, al romagnolo Leonardo Castellani e infine a Giorgio
Morandi, bolognese, ed alla grande umiltà delle sue bottiglie, dei suoi bricchi e dei suoi paesaggi, per i quali ha
instancabilmente esercitato un commosso rigore compositivo.

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