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Giorgio Antei

MORTI DAL RIDERE


Il significato del riso nelle antiche statuette ceramiche mesoamericane

Nonostante l’aridità del paesaggio, sulle alture del sud del Messico, a metà strada fra
Veracruz e Oaxaca, fiorirono sorrisi d’una gaiezza mai vista. Tale fenomeno,
pervenutoci grazie all’arte dei ceramisti mesoamericani, si protrasse per diversi
secoli, corrispondenti all’alto medioevo cristiano. Nel Vecchio Mondo non accadde
nulla di minimamente paragonabile fin dopo il Mille, quando apparve il “riso
gotico”, quell’espressione di lieta beatitudine riconoscibile sul volto dell’“angelo di
Reims”: un’espressione estatica, ben diversa da quella ridanciana delle figure qui
riprodotte. Un confronto, semmai, potrebbe essere stabilito con il riso carnascialesco,
invalso fin dall’antichità greco-romana in occorrenze festive e rituali come i
saturnali; in occasioni, cioè, in cui il riso era polivalente: segno di vita, segno di
morte e segno di rigenerazione. Il senso del risus paschalis, o riso pasquale, è il
medesimo: manifestazione di dolore per il sacrificio di Cristo, manifestazione di
giubilo per la resurrezione. Le statuette messicane hanno anch’esse, sicuramente, un
significato sacrificale, legato alla rinascita della natura.

Le Sorridenti sono apparse nel panorama archeologico messicano a seguito degli scavi
intrapresi nel 1949 da Alfonso Medellín Zenil e altri. L’esplorazione venne proseguita
negli anni successivi, in particolare nei siti di Remojadas, Los Cerros e Dicha Tuerta,
localizzati nella zona centrale della regione di Veracruz, di modo che nel 1953 i reperti
superavano il migliaio. I ritrovamenti si produssero nelle vicinanze di centri cerimoniali
secondari, in depositi poco profondi simili a “sacre discariche”. F. Peterson, che
intervenne negli scavi nel 1952, osserva che, trattandosi di oggetti devozionali, qualora
le terrecotte si rompessero o scolorissero durante la cottura, venivano fatte a pezzi,
accumulate e sotterrate ritualmente. Sarebbe questa la ragione per cui di molte figure è
stata rinvenuta solo la testa.
Per plasmare le statuette i figuli totonacas impiegavano argilla sabbiosa castana, che una
volta modellata dipingevano con pigmenti gialli, rossi, neri e biancastri. Generalmente
si servivano di calchi, anche se, va osservato, completavano l’opera con tocchi
fisionomici distintivi più o meno vistosi. Le figure rappresentano sia uomini che donne,
queste ultime abbigliate con gonne, fasce pettorali e copricapi trapezoidali. Gli
indumenti sono spesso rifiniti con motivi decorativi in rilievo, a volte molto elaborati.
Altrettanto frequenti sono le buccole, le collane e altri ornamenti. Non è raro, poi, che le
figure femminili sostengano bambini fra le braccia. A proposito di braccia, va notato
che alcune delle statuette dispongono di arti separati, attaccati al corpo per mezzo di
articolazioni. Altra particolarità è costituita dall’esibizione della lingua, che in non
pochi casi spunta sfacciatamente fra i denti (un gesto che taluni hanno interpretato come
segno di pace).
La decisione di battezzarle con il nome “Sorridenti” si deve al loro sembiante
apparentemente condiviso: gli occhi a mandorla, il cranio deformato, i denti mutilati e
soprattutto il sorriso che, in ogni caso, ne illumina il volto. Sembiante invariabilmente
sorridente ma tutt’altro che identico, anzi, talmente differenziato da risultare unico.
Sebbene facessero uso di stampi, i vasai totonacas (così si chiamavano anticamente gli
abitanti della regione di Veracruz) non si attennero a un modello standard. Per contro, si
sforzarono di rimarcare i connotati di ciascuna statuetta, quasi si trattasse di un ritratto
dal vero. Così facendo dettero vita a un insieme di figure omogeneo e allo stesso tempo
diversificato. In altre parole, i figuli preispanici si ispirarono sì a prototipi presenti da
tempi immemorabili nell’immaginario della loro terra, ma anziché riprodurli talis qualis
si adoperarono per rinnovarli, adattandoli alle mutazioni del gusto in atto. Il realismo
imperante nella cultura mesoamericana nell’epoca tardo classica richiedeva un’inedita
attenzione alle singolarità di ogni figura, e i ceramisti della Mixtequilla (la culla dei
vasai) dimostrarono di essere all’altezza della nuova mimesis.

Nella regione di Veracruz, il rigoglio della ceramica, attività per altro radicata in una
tradizione millenaria , si produsse nel periodo Epiclassico o Tardo Classico. La
periodizzazione proposta dagli archeologi per l’area mesoamericana si riferisce
(similmente a ciò che succede per l’antichità mediterranea) allo stile caratteristico di
ciascuna epoca. Le Sorridenti riuniscono i caratteri salienti dello stile Epiclassico:
marcato realismo, colorazione policroma, varietà di elementi decorativi e rifiniture
oltremodo curate. Fra le manifestazioni monumentali dello stile Epiclassico,
relativamente alla regione di Veracruz, figura il complesso scultoreo di El Zapotal,
costituito dalla statua in creta del Signore dell’Inframondo (Mictlantecuhtli), seduto, e
da 19 statue cave in terracotta di Cihuateteotl (“donne guerriere”), quasi tutte erette.
Nell’ambito della religione totonaca, strettamente connessa a quella azteca, le
Cihuateteotl erano divinizzazioni malevole di puerpere cadute lottando contro gli dei a
difesa dei nascituri. Come le Erinni, anche le Cihuateteotl avevano fattezze benevole,
rassicuranti. Infatti il loro significato non era solo mortuario bensi pure vivificante, in
seno al ciclo naturale vita-morte. Nell’insieme i ritrovamenti de El Zapotal rimandano
alla compresenza, se non alla permutabilità, di riti funebri e riti di fertilità (un amalgama
intrinseco alla religiosità mesoamericana). Nella medesima sequenza rientrano pure le
Sorridenti, alcuni esemplari delle quali sono stati rinvenuti all’interno dello stesso
perimetro cerimoniale.
Le statue di El Zapotal evidenziano la straordinaria perizia degli artigiani messicani,
capaci di confrontarsi con ogni tipo di manufatto, dal più piccolo e semplice al più
grande ed esigente (le Cihuateteotl misurano in media 150 centimetri di altezza). Oltre a
ciò, mettono in luce l’esistenza di nessi morfologici e tecnici fra figure plasmate in
luoghi anche lontani fra sè, nessi che a loro volta si nutrono di analogie d’ordine
simbolico e rituale. Fra le centinaia di reperti di El Zapotal emerge una statua femminile
sorridente, il seno nudo, il perizoma finemente decorato e una raganella in mano. Non
differisce dalle altre Sorridenti se non per il petto prosperoso, un particolare che
sembrerebbe ricondurre all’allattamento (e di rimando a un parto felice). La presenza di
statuette del genere all’interno di El Zapotal sta forse a indicare che le sembianze delle
terracotte antropomorfe prodotte nella regione di Veracruz si adeguavano a modelli
fissati nel corso del tempo nei grandi centri religiosi e funerari.
Oltre a costituire reperti emblematici in seno alla ceramica totonaca, le Sorridenti
emettono richiami insperati nei confronti di un complesso scultoreo remotissimo nel
tempo e nello spazio: le Kourai marmoree del Partenone. In entrambe i casi si tratta di
sacri corteggi femminili, disposti nei pressi dell’altare di una determinata divinità,
all’interno di un perimetro cerimoniale. Non solo, ma le statue ateniesi sfoggiano un
sorriso per certi versi simile all’espressione ridente delle figurine totonacas: un sorriso
lieve, misterioso, discosto da quello appariscente delle seconde (1), e nondimeno affine
– si direbbe – in quanto a funzione religiosa. In altre parole, entrambe le serie,
rivelerebbero attraverso il sorriso l’avvenuto contatto con il sovrannaturale. Plasmate
secondo lo stile Arcaico, le Kourai, al di là dell’apparente uniformità, mostrano fattezze
più o meno disformi, fra le quali spicca appunto il sorriso, diverso da statua a statua.
Tale disformità – si è ventilato – potrebbe dipendere dall’impiego di modelle in carne e
ossa. Se così fosse, gli autori delle Kourai si sarebbero ispirati a criteri mimetici
realistici, in contrasto con i lineamenti dell’arte Arcaica. Come si è detto sopra, la
“nuova mimesi” messa in atto dagli artefici delle Sorridenti rivela anch’essa un deciso
gusto realistico. Quantunque solo ipotetica, questa comune tendenza induce a riflettere
sull’imprevedibilità dei nessi fra le manifestazioni di civiltà quasi del tutto estranee.

Riguardo al significato e alla finalità delle Sorridenti, nel corso dei decenni sono state
formulate diverse congetture, nessuna delle quali, a dire il vero, è prevalsa chiaramente.
Nell’attualità esiste un accordo di massima sul loro carattere religioso; tuttavia non
mancano coloro che, facendo leva sull’espressione ridevole, le ritengono piuttosto delle
caricature o dei giocattoli. Nella prospettiva di taluni studiosi, l’abbondante presenza di
sonagli e raganelle rimanderebbe a un significato festivo, collegato al culto di
Xochipilli, dio dei fiori, dell’amore e della danza. Il sorriso è segno inequivoco di
gaiezza, argomentano, per cui il senso delle Sorridenti non può essere se non giocondo.
L’interpretazione di Octavio Paz è più complessa: “La loro allegria sovrumana, osserva
lo scrittore, celebra l’unione dei due versanti dell’esistenza, nello stesso modo in cui il
sangue del decapitato si trasforma in sette serpenti, ponte fra il principio solare e quello
terrestre”. Per Doris Heyden l’allegrezza delle Sorridenti simboleggerebbe la
complementarietà di due esperienze considerate comunemente opposte, come la festa e
il sacrificio. José García Payón si spinge oltre, supponendo che l’ilarità sia conseguenza
dell’ebrezza provocata dal “pulque”, una bevanda inebriante somministrata alle vittime
dei sacrifici umani con cui culminava il gioco rituale della palla (in lingua nahuatl
“ulama”). Henry N. Nicholson concorda con Payón, sebbene a differenza di questi
ritenga che l’euforia delle vittime venisse scatenata non da libagioni bensì da agenti
psicotropici. Allontanandosi dalla prospettiva archeologica, Victor M. Esparza stabilisce
un nesso ipotetico fra le Sorridenti e i “folletti” che si aggirano fra i partecipanti alle
veglie rituali che ancor oggi, nella regione di Veracruz, vengono celebrate per invocare
la pioggia o un buon raccolto. Nel corso delle “veladas” propiziatorie si fa uso di funghi
allucinogeni (semi di Ololiuhqui o di Poyomatli, ovvero Cordyceps capitata), chiamati
affettuosamente “bambini”, “angioletti” oppure “ometti”. Ritenuti gioviali e profittevoli,
tali spiritelli – presenti da sempre nelle mitologia messicana – potrebbero aver fornito
l’ispirazione ai vasai della Mixtequilla: una supposizione suggestiva che, seppure
infondata, ha il merito di proiettare le Sorridenti su un orizzonte magico e ludico. A
questo proposito, esiste una recente testimonianza di Amatlán de los Reyes, guaritrice di
Veracruz, centrata per l’appunto sul ruolo degli “ometti”:

“Nei tempi antichi, quando i nostri progenitori smarrivano o volevano sapere qualcosa,
per esempio quando le mogli volevano scoprire dove si trovavano i loro mariti, o chi
aveva gettato il malocchio su di loro, o se sarebbero guariti, ingerivano dei funghi
chiamati “tlakatsitsin”, che vuol dire “ometti”, ed essi rispondevano a ciò che gli
veniva chiesto… [i funghi] si trovano in quantità in agosto, all’epoca della raccolta dei
peperoncini, e si dice che rispondono meglio se si mangiano durante la festa di
yehwatsin… Gli “ometti” ti dicono tutto ciò che vuoi sapere, se hai smarrito una cosa ti
dicono chi l’ha presa, se tuo marito se ne va in giro, te lo dicono; se qualcuno è
arrabbiato con te, se sparlano di te e t’infangano, verrai a sapere tutto. Ti dicono anche
se diventerai ricco, o se invece finirai sul lastrico. Se sei malato ti diranno come
curarti, anzi loro stessi provvederanno a curarti, ti applicheranno massaggi. Se hai
qualcosa bloccato dentro di te, gli ometti, con le loro manine, lo rimuoveranno e
sentirai che lo stomaco “scende”, facendo rumore, e il ventre pure, e ti tolgono tutte le
malattie. Oppure vedrai come ti aprono lo stomaco, e piazzandosi sopra di te
estraggono il male. Le donne dei tempi passati solevano ingerirli spesso, adesso non
più, ne hanno paura. C’erano anche altri semi, chiamati “semenze della vergine”, ma
ormai non se ne trovano più, gli ometti sono scomparsi, anche se ad agosto, quando
piove, qualcuno riappare”.

Tradizionalmente gli “ometti”, cioè i funghi tlakatsitsin, venivano mescolati e ingeriti


assieme ai funghi siwatzitsintl, che vuol dire “donnette” (Psilocybe wassonii), perché si
riteneva che mescolandoli l’effetto migliorasse (l’impiego curativo di Cordyceps
capitata e di Psilocybe wassonii trova riscontro in altre parti del mondo, come per
esempio in Nepal). Comunque sia, l’esistenza di un qualche tipo di rapporto fra il
consumo curativo o rituale di specifiche sostanze psicoattive e l’espressione ilare delle
nostre statuette è un’ipotesi poco incoraggiante. Gli “ometti” menzionati da Amatlán de
los Reyes ricordano le figurine totonacas perché nel nostro immaginario i folletti sono
minuscoli e gai per antonomasia. Ogni altra associazione manca per il momento di
validi riscontri. Quantunque le Sorridenti avessero (verosimilmente) un carattere
religioso e sebbene nell’ambito dell’esperienza religiosa mesoamericana l’immolazione
delle vittime sacrificali costituisse la culminazione di eventi festivi, desumere da ciò che
esse rappresentassero dei morituri esaltati non risulta convincente. Osservandole da
vicino le Sorridenti non sembrano simulacri funerari, non comunque in senso
convenzionalmente mortuario. L’espressione che le accomuna sembra alludere piuttosto
alla forza vivificante dei cicli naturali, al morire e al rinascere delle cose.

In quanto espressioni rituali, le Sorridenti costituiscono un fenomeno a dir poco


significativo nell’ambito dell’antica religiosità mesoamericana, e, come si è detto,
rientrano ancor oggi (in un modo o nell’altro) nello sciamanesimo messicano. Per
contro, dal punto di vista fotografico, sono un’invenzione di Massimo Listri. Le
immagini rimandano indubbiamente a delle statuette di coccio fabbricate attorno a VII
secolo d.C. nella Mixtequilla; tuttavia, ben più che semplici riproduzioni fotografiche,
sono figure rielaborate dalla lente di Listri: immagini o ritratti che, in virtù
dell’inquadratura ravvicinata e dell’illuminazione frontale evidenziano aspetti
imprevedibili. Le fotografie di Listri, per dir così, hanno vita propria, ed è appunto per
questo che aiutano a riscoprire le figure originali.

Al calore del positivismo ottocentesco, le scienze dell’uomo fecero grandi passi avanti,
scoprendo fra altre inedite verità che le manifestazioni facciali delle emozioni posso
suddividersi in genuine e simulate. Parecchi decenni prima, William Blake aveva alluso
a una terza possibilità in un poema (“The Smile”, 1803) che gli studiosi di psicologia
trascurarono inspiegabilmente:

There is a Smile of Love


And there is a Smile of Deceit
And there is a Smile of Smiles
In which these two Smiles meet

Blake riassume in una quartina ciò che ognuno sa per esperienza e intuizione. Il sorriso
è un fenomeno talmente universale e allo stesso tempo talmente particolare che solo i
poeti possono parlarne senza cadere nell’ovvietà. Poeti come Dante, per esempio, che
con tre versi dipinse sul volto di Beatrice un sorriso ancor più etereo di quello della
Gioconda:

Così orai; e quella, sì lontana


come parea, sorrise e riguardommi;
poi si tornò all’etterna fontana
Nel Paradiso dantesco il sorriso esprime il gaudio del Creato; nell’Inferno, per contro,
rappresenta l’ebrezza del corpo innamorato:

Quando leggemmo il disïato riso


esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.

L’anima sorride, il corpo ride: ambedue – riso e sorriso – si addicono all’uomo e alla
donna, sempre e quando si manifestino con moderazione:

“E che è ridere se non una corruscazione della dilettazione de l’anima, cioè uno lume
apparente di fuori secondo sta dentro? E però si conviene a l’uomo, a dimostrare la sua
anima ne l’allegrezza moderata, moderatamente ridere, con onesta severitade e con
poco movimiento della sua faccia; sì che donna, che allora si dimostra come detto è,
paia modesta e non dissoluta. Onde ciò fare ne comanda lo Libro de le Quattro Vertù
Cardinali: “Lo tuo riso sia senza cachinno”, cioè senza schiamazzare come gallina.
Ahí mirabile riso de la mia donna, di cui io parlo, se mai non si sentía se non
dell’occhio” (Dante, Convivio, VIII, 11-12).

Ci sono sorrisi salutiferi, che producono lo stesso effetto di “una cura essenziale di
saggezza”, altri ironici, sottili, lievi, patetici, tristi; ci sono sorrisi vacui, insulsi,
maliziosi, malevoli, e ci sono sorrisi iridati, como quello evocato da Mario Benedetti:

A veces
por supuesto
usted sonríe
…………….
Y a lo mejor
si la sonrisa viene
de muy
de muy adentro
usted puede llorar
sencillamente
sin desgarrarse
sin desesperarse
sin convocar la muerte
ni sentirse vacía
llorar
sólo llorar
entonces su sonrisa
si todavía existe
se vuelve un arco iris.
E poi c’è il riso (“cachinno” o meno), che molti considerano un sorriso rumoroso e
irriverente, spesso ottuso, meritevole, nei secoli, di innumerevoli reprimende. Per
Neruda, invece il riso – in particolare la risata della persona amata – rappresenta una
ragione di vita:

Quítame el pan, si quieres,


quítame el aire, pero
no me quites tu risa.

Fra i medici e gli antropologi dell’Ottocento, taluni si eressero a paladini dei


presupposti fisiognomici di Lavater e di Lombroso, mentre altri si arruolarono nelle fila
di Guillaume-Benjamin-Amand Duchenne (1806-1875), neurologo francese reso
famoso dalla scoperta dei meccanismi fisiologici del sorriso. Per mezzo di esperimenti
bio-elettrici mutuati da Galvani, Duchenne stabilì una netta differenza fra sorriso
sincero (“sourire de Duchenne”) e sorriso di circostanza (“sourire social”). Il “sorriso di
Duchenne” è un’espressione spontanea di benessere, equiparabile allo “smile of love” di
Blake; a sua volta il “sorriso sociale” equivale allo “smile of deceit”. Mentre il sorriso
di circostanza impegna unicamente le labbra, quello “di Duchenne” si avvale anche
degli occhi. Il neurologo francese scoprì, insomma, che un sorriso genuino si produce
per l’azione congiunta di due muscoli: il zigomatico maggiore, che piega all’insù gli
angoli delle labbra, e l’orbicolare dell’occhio, che contrae le palpebre formando le note
zampe di gallina.

Le ricerche in questione apparvero fra il 1855 e il 1862. Nel secolo e mezzo trascorso da
allora la scienza delle emozioni ha confermato ciò che il senso comune predica da
sempre, con il risultato che l’apporto più originale continua ad essere quello di
Duchenne. Torniamo dunque alle Sorridenti e osserviamo la figura qui riprodotta:
Il viso riunisce tutti gli elementi tipici della serie: sorriso aperto, occhi a
mandorla, denti mutilati, copricapo trapezoidale, orecchini (perduti). Il colore è
meglio conservato che in altri casi: pelle aranciata, labbra e cuffia rosse, ciglia e
sopracciglia nere. Con tinta nera il figulo ha dipinto anche le zampe di gallina
provocate dalla tensione dei muscoli orbicolari, mentre con mani esperte ha
piegato all’insù gli angoli delle labbra, riproducendo lo stiramento del muscolo
zigomatico maggiore. Tutto ciò indica da una parte che gli artigiani
mesoamericani conoscevano a puntino l’anatomia del sorriso, dall’altra che
sorridere, nell’antico Messico, era abituale, in particolare nell’ambito dei riti
sacrificali. Oltre alle cognizioni e alla padronanza tecnica, sorprende la finezza
con cui i ceramisti distinguevano un’espressione dall’altra, plasmando
individualmente ogni sorriso, quasi si trattasse di rappresentazioni dal vero.

Secoli prima che un celebre medico francese riuscisse a determinare i


meccanismi fisiologici del sorriso, isolando le sourire par excellence e
battezzandolo con il proprio nome, i ceramisti mesoamericani avevano raggiunto
una perizia tale che i volti ridenti usciti dalle loro mani conservano ancor oggi i
caratteri somatici e psicologici dei modelli. Se avesse avuto modo di conoscere il
loro lavoro, Duchenne, senza necessità di noiosissimi esperimenti, sarebbe giunto
alla conclusione che un sorriso è un sorriso è un sorriso...

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