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Premessa

Che cos’è la letteratura per l’infanzia?


E’ nato un dibattito: più autori, anziché di letteratura per l’infanzia, parlano di letteratura
giovanile.
La letteratura per l’infanzia è una disciplina relativamente recente: si sviluppa e in
qualche misura segue la nascita dello stato nazionale, ha cioè una connotazione politica e
ideologica fondativa che spesso il lettore non avverte.

L’importanza delle immagini


“Guardare le figure” di Faeti è un testo che dice che la letteratura dell’infanzia è nata da
persone che andavano nelle piazze, mostrando fotogrammi di cartone, per presentare in
modo vivace storie che il narratore raccontava fidandosi totalmente del potere della figura.
I narratori sapevano molto bene già da allora che la copertina di un libro è il primo biglietto
da visita per comprarlo: l’immagine ci cattura nella dinamica della lettura del testo.
Esempio emblematico è il Piccolo Principe, nella cui introduzione viene rappresentato un
cappello, che in realtà è un serpente boa, il quale rappresenta la chiave d’accesso per
leggere il libro: se il lettore capisce che il disegno non è un cappello può andare avanti a
leggere il libro. L’autore del libro, dunque, cerca di far capire che le cose importanti sono
invisibili.
L’immagine, dunque, nella letteratura per l’infanzia ci racconta una storia, non tanto perché
l’immagine dettaglia la storia, ma perché siamo noi che riempiamo l’immagine di significati.

Il caso di Pinocchio (slide). E’ rappresentato nelle prime immagini (Mazzanti, Chiostri,


Toppi) un Pinocchio molto magro, burattino, molto poco bambino: è un problema fisico,
non si poteva colorare, dunque si doveva giocare sul chiaro e sullo scuro.
Nelle seconde immagini (Mussino, Bernardini, Disney), i Pinocchi sono totalmente
diversi: sono molto più bambini, meno legnosi. Negli anni ‘60 (Jacovitti, Verdini,
Innocenti), Pinocchio diventa quasi “pop”, carico di illustrazioni, di doppi sensi: in centro
Verdini che illustra un Pinocchio fumettistico, commentato da Rodari, il quale riesce a
riportare la vicenda di Pinocchio tutto in rima; l’ultima è l’immagine di Innocenti, nel quale
si colloca un Pinocchio dentro una realtà perfettamente verosimile.
Cappuccetto Rosso. Anche qui, ci sono diverse immagini sulla storia: c’è una versione
della fiaba di Perrault, politicamente inadeguata, e una dei Fratelli Grimm. Questa storia
aveva un solo elemento che la rendeva distinguibile in tutte le varie versioni: il cappuccetto
rosso. Il rosso rappresenta la fertilità.

Capiamo bene, dunque che il tabù nei confronti delle stesse sono andate man mano
scomparendo e, di conseguenza, le tecniche di riproduzione delle immagini, nel tempo,
si sono raffinate.
Nella letteratura per l’infanzia, nel ‘700/ ‘900, dunque, il valore dell’iconografia era
fondamentale, tanto che le immagini hanno aggiunto un commento alle letteratura:
addirittura, le immagini possono diventare degli iconotesti, cioè non possiamo
prescindere dall’immagine per capire il testo (esempio del Piccolo Principe).
Poche immagini significava attribuire molto valore a quelle poche immagini: Gianni
Rodari, nelle filastrocche “In cielo e in terra”, presenta un testo per l’infanzia usando
pochissime immagini: in questo caso le parole del testo, solo apparentemente non a
portata di bambino, sono più importanti delle immagini, le quali sono volutamente stilizzate
e provvisorie.
L’illustratore deve avere rispetto di alcune regole (Quentin Blake):
1. L’illustratore deve perdere le sue inibizioni, cioè deve osare.
2. L’illustratore deve incontrare il suo personaggio per renderlo credibile.
3. L’illustratore deve enfatizzare il ruolo dell’autore
4. Non si deve mai giudicare il libro dalla copertina
5. L’illustratore deve prendere ispirazione dal contesto della storia
6. L’illustratore non deve essere sofisticato o esoterico, deve avere il coraggio di essere
comprensibile.
7. L’illustratore deve cercare di esser flessibile, di fare in modo che le illustrazioni possano
funzionare.

Fumetti per adulti


Molto importanti sono le immagini anche in Mauss (in tedesco “topo”), un fumetto
pubblicato per la prima volta nel 1980 da un autore di nome Art Spiegelman, dove viene
disegnato un mondo che riprende la vicenda ebraica: gli ebrei perseguitati sono
rappresentati come topi, contrapposti ai nazisti che sono dipinti come gatti. I francesi,
invece, sono rappresentati come rane; i polacchi come maiali; gli americani come cani; La
metafora degli animali, fondamentale nella letteratura per l’infanzia, qui viene
completamente stravolta: il gattino qui è il persecutore degli ebrei che son topi.
In una delle pagine conclusive del testo, si vede il fumettista che indossa una maschera da
topo e racconta la sua vicissitudine familiare: il testo sottolinea che mentre il padre
lavorava nel campi di sterminio nel 1944, l’autore aveva iniziato a scrivere il fumetto; poi
mentre l’autore nel 1987 stava per avere un bambino, negli stessi giorni, nel 1944, gli
ungheresi vennero uccisi nelle camere a gas; la madre dell’autore si uccise nel maggio del
1968 senza lasciare nessuna motivazione, mentre il padre morto per un attacco di cuore
nel 1982. Dopo la morte della madre, lo stesso autore cade in depressione e si
rappresenta su un campo di corpi di topi morti.
Questo romanzo, dunque, fa i conti con la vicenda terribile della Shoah e mostra come
l’autore non è neutrale nel raccontare la storia, ma è un autore protagonista che vive con il
senso di colpa di aver avuto successo sulla morte nei suoi fratelli.
Capiamo bene, quindi, che questo è sicuramente un testo rivolto ad un pubblico adulto.

A destra, invece, vediamo il fumetto “Pompeo”, considerato il migliore romanzo del ‘900
italiano, che rappresenta un giovane seduto su un water circondato di siringhe e con la
carta igienica di soldi. In questo fumetto, Andrea Pazienza, illustratore, racconta la
discesa del protagonista nell’inferno dell’eroina: l’autore, dunque, fa un’autobiografia nel
suo dramma di dipendenza.
In questo caso, dunque, il codice narrativo del fumetto, il quale è spensierato, considerato
non in grado di veicolare i contenuti profondi della narrazione destinata ai bambini, diventa
occasione di riflessione. E’, infatti, un romanzo di deformazione, certamente non a misura
del bambino.

Che cosa distingue la letteratura dello scaffale basso a quello dello scaffale alto?
Quali sono i libri, se noi fossimo bibliotecari, che metteremmo in alto o in basso a misura di
bambino? Pinocchio, testo molto importante, sicuramente in basso, in modo che il
bambino possa prenderlo con più facilità.
Qual è il criterio oggettivo per collocare i libri in modo tale che siano utili per il
bambino? Bianca Pizzone sostiene che fino a quando i testi parlano della relazione
affettiva tra i protagonisti della storia, senza che ci siano componenti sessuali, parliamo di
letteratura dell’infanzia: il vero discrimine oggettivo è quello.
La metafora dello scaffale in cui collocare il libro dunque, serve a capire che la letteratura
per l’infanzia deve essere alla portata del bambino e che quando nasce la letteratura per
l’infanzia, dunque, nasce un prototipo di bambino.
Rousseau diceva che la letteratura è il flagello dell’infanzia: finché il bambino resta tale è
un sognatore che impara dalla natura, nel momento in cui gli si da un libro termina il
periodo d’infanzia, in quanto gli si da un modello, lo si costringe in una direzione.

Nascita di un genere
Un autore importante è P. Ariès, che nel 1960 scrive un testo dal titolo L’enfant et la vie
familiale sous l’ancien règime 1960, tradotto Padri e figli nell’Europa medievale e moderna
1968) sostenendo che nell’ Antico Regime il bambino era considerato solo un adulto in
miniatura. L’infanzia era, dunque, una condizione transitoria e precaria, da cui si doveva
uscire al più presto.
Era talmente facile vedere morire i propri bambini, che l’infanzia era il più possibile
abbreviata: era un’esperienza che le persone non volevano enfatizzare. Fino al ‘900, la
sopravvivenza fino ai 6 anni di vita, infatti, era modestissima.
A cavallo tra XVIII e XIX secolo, invece, i mutamenti di stile di vita e soprattutto la
diminuzione della mortalità infantile, portano ad una consapevolezza diversa e ad un
diverso sentimento dell’infanzia, percepita come età autonoma da quella adulta.

La letteratura dell’infanzia può nascere se ci sono mutamenti sociali relativi agli indici di
alfabetizzazione. Fino all’età moderna c’è stato il paradosso di una letteratura per l’infanzia
analfabeta, non scritta. Quando questa diventa un testo codificato, presuppone la fatica di
leggere e, dunque, l’obbligo dell’istruzione: non è più il godimento della piazza del mercato
o lo spettacolo delle marionette.
La letteratura dell’infanzia può svilupparsi se esiste un motivo economico che giustifica
questi investimenti, cioè se c’è qualcuno disposto a spendere dei soldi per comprare dei
libri per l’infanzia. Il mercato, dunque, era assolutamente fondamentale: se c’è un mercato,
il prodotto si disegna. Se ci sono dei possibili acquirenti, bisogna produrre dei testi a
misura della richiesta del mercato.
Per il successo della letteratura per l’infanzia, dunque, un ruolo fondamentale l’ha avuto lo
sviluppo dell’editoria (libri e periodici): la fiaba popolare senza autore viene, dunque,
soppiantata nel ‘600 dalla fiaba d’autore. Nelle corti e nelle piazze, le fiabe popolari
venivano raccontate con varie modifiche che chi narrava faceva nel momento, mentre la
fiaba d’autore non si può cambiare, è quella e basta.
Il guadagno della narrazione: l’aggiungere alla storia degli elementi che rendano il testo
in sintonia con l’auditorio; l’aggiungere elementi perché la storia guadagni significato.
Il guadagno della narrazione, in realtà, era anche una forma di guadagno in senso proprio:
il narratore, spesso un cantastorie, viveva di storie. Di conseguenza, questo si
guadagnava il pane in base alla capacità di suscitare interesse nel pubblico di ascoltatori
con la sua storia. I narratori dicevano agli ascoltatori “Se vuoi sapere il resto della storiella,
mi devi riempire la padella”: il cantastorie continuava a raccontare le loro storie solo se gli
ascoltatori gli davano qualcosa da mangiare. In “Mille e una notte”, Sherazade
sopravvive letteralmente mille notti inventando una storia ogni sera, perché il suo marito le
risparmiasse la vita se lei gli avesse raccontato una storia degna di essere ascoltata.
Ovviamente, il primo e più rigoroso difensore dell’organizzazione della fiaba e del racconto
è il bambino, il quale ci ascolta e ci chiede, dopo la fine del racconto, di riascoltare la
stessa storia, piuttosto che sentirne un’altra.
Nascita della letteratura per l’infanzia
La letteratura dell’infanzia nasce ufficialmente in Inghilterra nel XVIII secolo: le condizioni
citate erano presenti più in Inghilterra di quanto lo fossero in Italia. Il 1744 si può
considerare come anno inaugurale della letteratura per l’infanzia occidentale, ovvero
l’anno in cui John Neway pubblica in Inghilterra “A Little Pretty Pocket Book”, di fatto un
abbecedario dove l’autore si rivolge a un pubblico di genitori, affinché leggano ai propri figli
le narrazioni contenute nel testo. Quest’opera ha tre motivi del suo successo: il fatto che
fosse scritto; il fatto che fosse tascabile; il fatto che fosse un abbecedario e, dunque, ogni
piccola storiella in realtà aveva un contenuto morale.
Sostanzialmente è costituito da una rima alternata e una morale.
Chi pubblica questo testo, ovviamente, intuisce la possibilità dell’avere negli adulti dei
mediatori che possano proporre un libro piccolo, bello e tascabile. Di conseguenza,
sostiene che le persone siano disposte a spendere dei soldi per comprare questo libro.

Altri casi come “The Life and Strange Surprisina Adventures of Robinson Crusoe”
(1719) di Daniel Defoe che non è un romanzo destinato all’infanzia, ma è un grandissimo
successo in Inghilterra, nonostante le critiche di incongruenze e logicità. La sua fortuna
deriva dal fatto che coglie uno degli elementi essenziali della letteratura per l’infanzia, la
quale ha due filoni: quello della fiaba e del fantastico e quello del romanzo di formazione;
questo romanzo è legato al romanzo di formazione.
Il romanzo ebbe enorme futuro anche in Italia, dove viene ridotto e riadattato per i bambini.

Travels into Several Remote Nationes of the World in Four Parts. By Lemuel Gulliver
(1726) di Jonhatan Swift: pubblicato in anonimo a Londra nel 1726 e diventa un classico
per l’infanzia a partire dalla versione ridotta del 1805. In Italia, invece, gli adattamenti più
importanti cominciano ad arrivare solo dopo il 1860.
All’interno di questo romanzo c’è l’idea che la realtà non sia così oggettiva e stabile.

Letteratura dell’infanzia – Boero


Perchè e quale “storia” della letteratura dell’infanzia?
Boero sceglie tre impostazioni: la prima è quella di riflettere sulla Letteratura dell’infanzia
intesa come uno strumento di promozione alla lettura e di lotta all’analfabetismo: si può,
dunque, parlare di Letteratura dell’infanzia solo dal momento in cui il bambino incontra la
lettura e la scrittura.
Secondo fattore è un’ideologia dell’infanzia e l’intenzionalità degli autori (reader oriented)
per cui si riconosce che esiste un tempo della nostra vita che merita una propria cultura,
uno spazio preciso, diverso sa quello adulto.
Ci sono degli autori, uno di questi si chiama William Corsaro, che compie uno studio
etnografico sostenendo che i bambini abbiano una sub-cultura che noi non conosciamo,
che cambia di generazione in generazione: i bambini hanno degli interessi che si
comunicano l’un l’altro, ma che agli adulti sfuggono.
Terzo elemento è il ruolo della scuola di base, in quanto la scuola elementare era l’unica
occasione di incontro con il libro: i bambini nella loro vita, fino alla metà del ‘900, non
conoscevano altro libro che quello che frequentavano a scuola.
La memoria, dunque, era uno dei fondamenti che distingueva il soggetto colto e virtuoso
da quello ignorante: in un mondo dove non esisteva la capacità di leggere, ricordare era
molto importante. Non disponendo di libri, gli antichi imparavano le regole con i proverbi e
non con lo studio: da quando avviene la scoperta del libro, ovviamente, quest’abilità
diventa meno importante.
Il manuale di Boero è costruito secondo degli schemi espositivi, dove c’è la presentazione
di autori prevalentemente italiani, o anche stranieri se hanno influenzato quelli italiani.
La letteratura per l’infanzia – Boero e De Luca
Prefazione alla nuova edizione
La produzione di libri e periodici per l’infanzia, produzione consapevole dei propri scopi,
degli spazi culturali da occupare, dei compiti da assolvere, prende corpo in Italia negli
stessi anni in cui nasce lo Stato nazionale. Nei decenni successivi, e fino a oggi, lo
sviluppo della letteratura per ragazzi sarà talmente consistente e eserciterà tanto fascino
da sedurre e coinvolgere non soltanto gli scrittori specialisti, ma quasi tutti i narratori e
poeti di letteratura “alta“.

I. La generazione del Risorgimento


Introduzione
A partire dal Decreto del 15 settembre 1860, contenente i Programmi per la scuola
elementare e le relative Istruzioni e maestri delle scuole primarie, dunque prima dell’Unità
d’Italia, ci furono una serie di iniziative private come gli asili d’infanzia, che cercarono sia di
rendere meno pesanti le carenze del sistema scolastico sia di evitare che un’istruzione
familiare inesistente fra i ceti subalterni creasse generazioni di sbandati, allo sviluppo di
un’editoria mirata, “popolare“ e scolastica.
La quasi totalità dei testi nasceva in funzione educativa e il loro successo si valutava con il
metro della diffusione scolastica; “classico“ e famosissimo diventa in questo senso il
Giannetto di Luigi Alessandro Parravicini.
Grazie al contributo degli autori stranieri educativi possiamo segnalare due linee di
tendenza che troveranno riscontro anche nei periodi successivi: una relativa a traduzioni di
opere straniere tipicamente educative, l’altra riguardante testi “aperti” in direzione della
cosiddetta “letteratura amena” anche se nati con finalità pedagogiche.
Accenniamo, dunque, all’influenza che in Italia e in Europa ha l’iniziativa del maestro e
scrittore francese Arnaud Berquin, il quale non conosce che un moralismo spicciolo,
propenso a epidermiche commozioni, e, nonostante lo sforzo di rendere il linguaggio più
colloquiale, lo stile appare ugualmente eccessivamente ingessato. La vera novità dei suoi
testi riguarda i bambini, certamente tipizzati in base all’appartenenza di classe, ma assoluti
padroni della scena narrativa.
Per quanto riguarda la seconda linea di tendenza segnaliamo alcuni casi significativi: il
primo è quello del romanzo The Life and Strange Surprising Adventures of Robinson
Crusoe, of York, mariner di Daniel Defoe, commerciante, politicante, polemista e scrittore,
la cui trama offre a critici malevoli l’occasione di segnalarne tutte le incongruenze e le
illogicità. La sua fortuna deriva dal fatto che coglie uno degli elementi essenziali della
letteratura per l’infanzia, la quale ha due filoni: quello della fiaba e del fantastico e quello
del romanzo di formazione. Non v’è dubbio, invece, che aldilà del mito pedagogico
ampiamente suggerito dalla stessa figura di Robinson, naufrago e costretto a organizzare
la propria vita su un’isola deserta, la modernità di Defoe consista, fra l’altro, proprio
nell’aver capito che il gioco letterario parte dall’accettazione di regole particolari e che
l’elemento discriminante non sta della verosimiglianza, ma nella capacità di offrire al
lettore una chiave per muovere alla scoperta di sé: in questo senso Robinson diventa
simbolo della libera impresa, dell’intraprendenza, della forza di volontà e, anche in Italia,
nonostante la cultura protestante di cui il libro è permeato, conosce una straordinaria
fortuna.
Significativo anche il percorso italiano dell’opera principale di uno dei grandi autori satirici
inglesi, Jonathan Swift, il cui testo, pubblicato anonimo a Londra nel 1726, si intitola
Travels into Several Remote Nations of the World in Four Parts, by Lemuel Gulliver, il
quale diventa un classico per l’infanzia a partire dalla versione ridotta del 1805. In Italia,
invece, gli adattamenti più importanti cominciano ad arrivare solo dopo il 1860.
All’interno di questo romanzo c’è l’idea che la realtà non sia così oggettiva e stabile.
Sempre dall’Inghilterra arriva nell’Italia del Risorgimento per transitare nell’editoria post
unitaria per l’infanzia, l’intera opera di Walter Scott, intitolata Ivanhoe: l’avventura di
Scott mescola mondo leggendario e “valori” come la dignità e l’amore.
Su un altro versante tematico gli italiani del nuovo Stato unitario trovano disponibili anche
le opere di un altro inglese, Charles Dickens che godono, soprattutto nella seconda metà
dell’Ottocento, di notevole fortuna, tra cui Oliver Twist e David Copperfield. Anche i due
romanzi Dickensiani , come quelli di Scott, restano a lungo nel catalogo delle case editrici
nostrane e vengono letti come testimonianza della necessità di una “letteratura della
sofferenza“, di una produzione “con gli occhi lacrimosi“ da offrire dall’infanzia in nome di
un’educazione “seria“, severa e completa.
Dall’America arriva tempestivamente nell’Italia del Risorgimento gran parte dell’opera di
Fenimore Cooper, The Last of the Mohicans: l’autore d’oltreoceano contribuisce a
costruire un prototipo di romanzo avventuroso, giocato sul contrasto fra la natura
selvaggia e il progresso e destinato a influenzare anche i percorsi nostrani dell’avventura.
Ultimo libro straniero è Uncle Tom’s Cabin, or Life among the Lowly di Harriet Beecher-
Stowe. Il romanzo, a livello narrativo piuttosto scorrevole, dipinge il personaggio del negro
con tinte forti e positive e questo rende il romanzo particolarmente gradito agli educatori di
molte generazioni, che vi costruiscono intorno percorsi di pietà, solidarietà umana,
commozione.

Torniamo agli autori italiani: l’educatore Francesco Soave, è un autore che ha una
posizione importante nel 700, non solo come autore per la letteratura per l’infanzia, ma
anche perché svolge compiti di carattere amministrativo a servizio dell’imperiale regio
governo austriaco. Di fatto è un sacerdote somasco e il propagatore del “metodo
normale” appreso dall’Austria e introdotto a Milano. Soave adatta, dunque, il metodo
austriaco, con delle lezioni simultanee in classe, alla scuola lombarda. Quando, però, si
utilizza questo metodo, è fondamentale che ci siano dei testi che vengano gestiti dal
maestro e che vengano utilizzati simultaneamente dalla classe.
Inoltre, lui è il propugnatore di un’idea di sincronizzazione, di conseguenza deve proporre
dei testi che vadano bene alla classe di merito (non di età).
In questi anni, ci sono dei concorsi per produrre dei testi di lettura che siano utilizzabili in
classe e che rispondano agli obiettivi di dare un’istruzione e una moralità ai fanciulli: è
quello che l’autore farà in “Novelle Morali”, che, dopo una prima edizione milanese del
1782, arriva nel 1786 una terza edizione definitiva di cinquantadue novelle.
Soave non eccede nei toni lacrimevoli e anche se nella dedica dichiara che il sentimento
che ha avuto premura di testare è quello della compassione, il suo impegno appare
piuttosto un altro: riflettere sull’adattabilità “alla capacità de’ piccioli” dei testi narrativi e sul
racconto al servizio di una moralità non palesata. Ciò che, dunque, colpisce nella pratica
narrativa dello scrittore è la sostanziale capacità di muoversi sui terreni minati dalle
tematiche senza però lasciarsi definitivamente coinvolgere.
Nella letteratura dell’infanzia, in quest’epoca, è sempre presente una vedova amata, un
bambino orfano, la lacrima, in quanto l’obiettivo era di tipo morale.
Il caso di un testo delle “Novelle Morali” tratta di una popolazione analfabeta e inizia con
un bambino che racconta le sue sfortune e chiede il soccorso a uno straniero: la carità è
ammessa in questo caso perché proviene da un bambino dal cuore puro.
Gian Pietro Vieusseux, ginevrino trapiantato a Firenze, nel 1812 fonda nel capoluogo
toscano un Gabinetto scientifico e letterario destinato a lasciare segno profondo nella
storia del nostro Risorgimento e della cultura italiana fino ai giorni nostri. L’autore pubblica
dal 1812 la notissima “Antologia. Giornale di scienze, lettere e arti“, soppressa dalla
censura granducale nel 1833.
Il ginevrino si pone il problema della miseria e dell’ignoranza dei ceti subalterni e ribadisce
l’importanza di “un’istruzione morale, religiosa, popolare, universale“, che delega proprio
alla classe colta e benestante.
Lambruschini fonda e dirige la “Guida dell’Educatore“, un foglio mensile, e aveva aperto
un collegio educativo in cui insegnava un’educazione fisiocratica, a contatto della natura,
per la ricchezza del povero attraverso il suo lavoro. Noi vediamo come esempio
didascalico di una letteratura dell’infanzia con funzione morale, l’idea che la stessa storia
possa servire come libro di lettura.
Il merito principale di quest’autore è quello di aver scoperto Pietro Thouar annunciandone
la “comparsa” ai lettori della sua “Guida”. Thouar rappresenta il tipico autore organico per
l’infanzia visto che concentra proprio su questa attività tutto il suo impegno.
Fra i suoi numerosissimi testi sembra opportuno segnarne almeno due: “Libro di lettura
giornaliera. Repertorio di nozioni utili adattate alla intelligenza dei fanciulli” non tanto per i
contenuti quanto per l’idea di “gradualità“ che lo permea e il complessivo “progetto di
lettura“ che sembra costituirne l’involucro: l’impegno è quello di insegnare i bambini “una
quantità di cose utili divertendoli“ (anche se in un altro punto l’autore ribadisce che le
letture non devono essere solo gradevoli “ma anche atte ad educare all’onestà e al
sapere” e che quindi non bisogna leggere senza il consenso dei genitori o maestri).
Anche dal punto di vista ideologico esistono alcuni elementi piuttosto interessanti: la
considerazione che “il lavoro è un obbligo, nello stesso modo che il riposo è necessario,
ma con moderazione“.
Altro suo testo è La casa sul mare (1852), libro di letture varie, contenente descrizioni di
bellezze naturali, racconti e poesie morali: c’è da apprezzare la precisione con cui i diversi
argomenti risultano trattati, non vi sono troppe sbavature e anzi in alcuni casi le descrizioni
di tipo scientifico appaiono puntuali anche se un po’ pedanti.

La lettura a scuola
Lingua e dialetto
Informazioni dirette sulla diffusione e l’uso dell’italiano e dei dialetti nell’Italia degli anni
dell’unificazione vengono fornite dall’inchiesta Matteucci del 1865, primo bilancio della
situazione scolastica italiana. Le relazioni degli ispettori scolastici provinciali disegnano
un’Italia in cui, a parte i territori di Roma e della Toscana, la lingua nazionale è pressoché
del tutto sconosciuta e il dialetto è l’unico idioma della comunicazione quotidiana.
L’inchiesta Matteucci conferma quanto già si sapeva da qualche tempo. Infatti, nel 1861, i
dati del primo censimento della popolazione italiana, avevano posto all’attenzione delle
classi dirigenti una situazione preoccupante: la presenza di analfabeti sul territorio
nazionale superava il 78%.
A conti fatti, risulta che nel periodo dell’unificazione, gli italiani in grado di usare la lingua
nazionale per leggere scrivere ammontano al 2,5% della popolazione. L’italiano
funzionava soltanto come lingua adatta a scrivere libri, mentre per il parlare comune ci si
affidava ai dialetti. Insomma l’italiano è, secondo la felice espressione di Tullio de Mauro,
una lingua “straniera in patria“.
Al sistema scolastico nazionale, istituito con il decreto legge di Gabrio Casati del 13
novembre 1859, viene affidato l’immane compito di porre rimedio al diffusissimo
analfabetismo e di vincere le molteplici resistenze che da varie parti, soprattutto da parte
cattolica, vengono frapposte all’istruzione popolare.
I primi programmi della scuola italiana sono emanati dal ministro Terenzio Mamiani nel
settembre 1860: essi pongono a fondamento dell’insegnamento elementare ancora prima
dell’istruzione, l’obiettivo di educare le nuove generazioni ai valori della classe dominante.
I pilastri dell’insegnamento sono costituiti dalla religione, dalla lingua italiana e
dall’aritmetica. Grande importanza viene assegnato all’insegnamento grammaticale il cui
scopo prioritario è di contribuire, attraverso l’alfabetizzazione delle masse popolari,
all’unificazione linguistica e culturale dell’Italia.
I programmi Mamiani hanno effetti del tutto insoddisfacenti nella lotta contro
l’analfabetismo, tanto che nel 1867 si ritiene necessario intervenire con dei ritocchi, i
cosiddetti ritocchi Coppino, i quali ammoniscono i programmi del ’67: per il dialetto si
tollera soltanto un uso strumentale e le parole della lingua materna sono unicamente
subordinate all’acquisizione delle parole italiane.

I libri scolastici
L’inchiesta Matteucci del ‘65 prende in esame anche la situazione dei libri di testo per
valutarne l’efficacia. Si chiede, dunque, agli ispettori scolastici di indicare quale profitto si
ricavi dai libri di lettura e quali di questi siano più generalmente usati, ma le risposte non
sono univoche. I libri scolastici erano gli unici con i quali una parte dei bambini veniva a
contatto.

Gli autori e le opere


Il “Giannetto” di Parravicini: “romanzo” di un’ascesa sociale
Nella scuola dei primi anni di Unità nazionale, il testo scolastico riveste un ruolo
totalizzante e assume un carattere enciclopedico, in cui il bambino deve essere messo a
contatto con contenuti validi. Svolge contemporaneamente diverse funzioni, ad esempio
quello di strumento di alfabetizzazione delle nuove generazioni e di guida didattica per gli
insegnanti, i quali non ricevono alcuna formazione professionale.
Prototipo del perfetto libro di testo è il Giannetto di Luigi Alessandro Parravicini,
pubblicato a Como nel 1837, ristampato negli anni con aggiornamenti vari, e ancora nel
1859 è tra i libri più dotati in molte parti d’Italia.
Il libro, suddiviso in sei sezioni, intrecciando due percorsi, uno nozionistico ed
enciclopedico, l’altro narrativo e morale:
1. L’uomo, i suoi bisogni, i suoi desideri
2. I mestieri, arti e scienze
3. Geografia
4. Scienze naturali
5. Racconti sui doveri dei fanciulli
6. Racconti morali tratti dalla storia dell’Italia.
Campione del sistema biologico che ha come sfondo la società industriale della
manifattura lombarda è Giannetto, figlio di un “onesto e probo” commerciante. Il
protagonista, alla fine di un’infanzia e un’adolescenza che è vero e proprio tirocinio
sociale, diventa prima un apprezzato artigiano poi, grazie alle sue capacità imprenditoriali,
un “agiato mercante”, ricco e stimato industriale, un “gran signore”.
Il testo si presenta, dunque, come un forte progetto educativo raccontato attraverso
l’esemplare vicenda della vita del protagonista e articolato rispetto i valori della cultura
dell’epoca: Giannetto, bambino modello, percorre un’avventura.
Altri autori
La stagione dei libri educativi continua con le “Letture graduate” di Giulio Tarra, rettore e
maestro dell’Istituto dei sordomuti poveri della provincia di Milano.
Quello che colpisce è l’estrema preoccupazione di far accettare comunque la povertà,
magari lasciando aperta una porta alla carità di un piatto di polenta fumante offerto dei
benestanti ai piccoli spazzacamini.
L’opera di Tarra viene segnata anche da una forte diffidenza verso il mondo moderno: città
e campagna sono le due scenografie di una rappresentazione. Tarra non ignora, però, il
fatto che il mondo popolare contiene saggezza ma anche superstizione, purezza ma
anche grossolanità. Se da un lato ribadisce le ragioni per cui occorre prestare fede ai
proverbi, dall’altro invita a non dare troppo peso alle credenze popolari: tutto ciò che sa di
immaginario pagano, insomma, può essere utilizzato solo se corretto dalla fede.
Accanto a Tarra, naturalmente, stanno altre opere e altri autori: non si può ignorare ad
esempio la produzione di Cesare Cantù che attraversa gran parte dell’Ottocento e che
costituisce uno dei pilastri formativi dell’Italia di allora, soprattutto per quanto concerne i
ceti subalterni.
In sostanza, Cantù rappresenta il vecchio italiano diffidente verso tutto ciò che sa di novità,
di turbamento dell’ordine costituito; la stessa città è guardata con diffidenza a causa
dell’idea di corruzione che suscita e dei pericoli relativi alle possibili agitazioni sociali: la
gente va in città per “mera presunzione”, mentre la famiglia del contadino conserva il
primordiale carattere patriarcale. Cantù ritiene, dunque, che ognuno debba rimanere al
proprio povero posto, senza invidiare chi è ricco perché è la proprietà il motore dell’attività
dei ceti subalterni e l’operaio che tentasse la ribellione con lo sciopero danneggerebbe
soprattutto se stesso; occorre, quindi, accontentarsi, rispettando la volontà di Dio,
accettando la beneficenza, doverosa da parte di ricchi, onorando maestri, anziani, soldati.
II. Dopo l’Unità (1870-1878)

La lettura a scuola
Lingua e dialetti
Negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia la questione della lingua assume la
natura di problema sociale nazionale. Era stato istituito un sistema scolastico esteso
all’intero territorio nazionale, si erano elaborati programmi scolastici la cui principale
finalità era di lottare contro l’analfabetismo, ma come si è già rilevato, i risultati furono
scarsi. Nel 1867, il ministro della Pubblica Istruzione Broglio, allo scopo di elaborare un
progetto organico di intervento per la questione linguistica, nomina una commissione di
studiosi (di essa fa parte anche Collodi) e chiama a presiederla Alessandro Manzoni, il
quale già da tempo va caldeggiando l’idea di una lingua comune che attinga all’uso vivo
del parlato. Il progetto manzoniano propone l’adozione del fiorentino parlato colto come
lingua comune per tutti gli italiani e suggerisce alcuni provvedimenti per diffonderlo in tutta
la penisola. Prima di tutto, la compilazione di un vocabolario che sia deposito del parlato
comune; poi, la destinazione di insegnanti toscani nelle scuole di tutta Italia, infine
l’organizzazione di corsi per insegnanti in forma di conferenze nelle quali dei maestri e
delle maestre della Toscana si rechino nelle varie province, per intrattenere i maestri e le
maestre delle scuole primarie in letture di libri classici e di libri moderni. Insomma, un vero
e proprio piano di intervento a tappeto, piano che tradotto in pratica comporta la
sostituzione forzata di un idioma (il fiorentino colto) a tutti gli altri (le diverse parlate locali).
È ben comprensibile che un progetto del genere contenga l’idea di un’emarginazione dei
dialetti, ritenuti ostacolo alla diffusione dell’italiano.
La proposta di fiorentinizzazione dell’Italia suscita gli entusiasmi di numerosi intellettuali
dell’epoca, ad esempio di Edmondo De Amicis, ma gli oppositori del progetto, gli
antimanzoniani non sono da meno: la più lucida e netta critica alle idee manzoniane è
sicuramente quella di Ascoli, contenuta nel Proemio all’Archivio glottologico italiano uscito
agli inizi del 1873. Ascoli ritiene errato pensare che il fiorentino possa essere norma
linguistica alla quale conquistare tutte le genti della penisola. Questo, sostiene,
condannerebbe all’oblio secoli di cultura popolare (fiabe, leggende, filastrocche), ricche di
un plurisecolare patrimonio di testi orali, cacciandola in una condizione di grave
emarginazione e condannandola ad essere dimenticata.
In quanto alla questione specifica dell’insegnamento scolastico, Ascoli è del parere, del
tutto opposto a quello dei manzoniani, che il processo di acquisizione dell’italiano risulti
tanto più efficace quanto più si sviluppa il rapporto con i dialetti e le culture locali,
attraverso un costante organico confronto tra i due sistemi. Secondo lui, l’insegnamento
dell’italiano sarebbe più efficace se messo in rapporto con le parlate locali. Insomma,
Ascoli ipotizza già nell’Ottocento l’idea di una didattica contrastiva basata sul bilinguismo.
Nella scuola reale sia il progetto manzoniano sia l’ipotesi ascolana, però, non hanno
seguito e non trovano possibilità di un’attuazione, in quanto troppo gravose e impegnative
le condizioni perché l’una o l’altra possano avere spazio nell’editoria scolastica, attecchire
nel comportamento concreto degli insegnanti e tradursi in pratica didattica.
Il periodo post-unitario prevede di assegnare un grande peso all’alfabetizzazione, in
quanto questa, secondo questa visione utilitaristica, consente di superare i rischi della
ribellione e violenza sociale: il popolo ignorante è più pericoloso del popolo colto, perché
essendo poco istruito è facilmente malleabile e si presta alla propaganda. La classe
dirigente ritiene, dunque, di fondamentale importanza istruire il popolo.
Inoltre, secondo il progetto liberale, l’istruzione avrebbe dato anche un posto alle
giovinette, le quali potevano lavorare come maestre. In ogni caso, l’istruzione avrebbe
fornito utili cognizioni per trovare un impiego e realizzarsi.
I libri scolastici
L’industria editoriale si rivela, nell’Italia postunitaria, particolarmente agguerrita e vivace. Ai
volumi editi nei decenni passati (primo fra tutti il Giannetto di Parravicini) è continuamente
rivisti e adattati alle novità dei programmi, si aggiungono testi di autori nuovi che spesso
non hanno alcuno scrupolo a compilare opere che sono rimaneggiamenti di quelle di
maggior successo.
I contenuti dei libri per la scuola sono strumenti di omogenizzazione sociale e puntano a
formare “l’uomo e il cittadino“ attraverso la presentazione di una serie infinita di ideali
modelli umani portatori di irreprensibili qualità morali e civili.
E’ difficile che un manuale scolastico osi una qualche innovazione rompendo le regole
ferree dei valori dominanti: il libro che avesse tentato, anche per aspetti marginali, di
scardinare la gabbia del pedagogismo patriottardo e del paternalismo edificante, che
avesse provato a vivacizzare il rapporto con i giovani lettori, sarebbe stato destinato alla
“bocciatura”. Accade ai libri di Collodi, compreso il Giannettino pubblicato nel 1876,
quando nel 1883 una commissione ministeriale istituita due anni prima per esaminare i libri
di testo e scegliere i più adatti all’adozione indica tra i non consigliabili i testi di Collodi,
ritenuti troppo romanzeschi. L’irruzione del Giannettino rappresenta, però, il primo caso di
scardinamento del sistema ideologico che sacrifica l’infanzia all’altare della morale
borghese.

Gli autori e le opere


Carlo Collodi. Prima di “Pinocchio”
Carlo Lorenzini, alias Carlo Collodi dal nome del paese materno, nacque a Firenze nel
1826 e muore nel 1890. Il padre e la madre erano di origini molto modeste e lavoravano
alle dipendenze della fabbrica di ceramiche della famiglia “Ginori”, che produceva
porcellane.
I Ginori finanziano di fatto l’istruzione dei figli dei loro dipendenti, compreso Lorenzini.
La vita di Collodi è segnata dalla morte dei fratellini, dalla visibile ricchezza dei marchesi
Ginori, dalla frequentazione del seminario per 5 anni e dalla partecipazione alla I e alla II
Guerra d’Indipendenza. A 17 anni e, dopo cinque anni nel seminario di colle Val d’Elsa e
due di retorica e di filosofia presso gli Scolopi del Liceo Ginnasio fiorentino, l’autore
abbandona gli studi.
Inizia abbastanza presto a muoversi fra i libri, ma lo fa assumendo il ruolo di giovane
praticante presso la libreria Piatti di Firenze con l’incarico di “redigere notizie e recensioni
per il catalogo della libreria che annunciava le novità“. Al ritorno dalla sfortunata guerra
ottiene un posto di segretario presso il Senato toscano: è proprio in questi anni che inizia
un’intensa attività giornalistica, da “Il Lampione“ (1848) a “La Nazione“ (1859), a “Il
Fanfulla“ (1871), con articoli talvolta aggressivi, caustici e pungenti; non abbandona,
tuttavia, l’impiego amministrativo, approdando nel ‘60 alla carica di “commesso aggregato
alla Commissione di Censura Teatrale” per diventare quattro anni dopo “segretario di
seconda classe nella carriera dell’amministrazione provinciale di Firenze“. Bisogna dire,
però, che quasi tutti i testi collodiani nascono su commissione, sono scritti su invito o
proposta di un committente legato al mondo della carta stampata.
In ogni caso, il primo testo di Collodi è intitolato Un romanzo in vapore da Firenze a
Livorno. Guida storica-umoristica, il quale è stato voluto dall’editore dell’Orario della strada
ferrata, e nasce come agile libretto-guida della nuova linea ferroviaria Firenze-Empoli-
Pisa-Livorno.
L’opera dopo è intitolata I misteri di Firenze in cui Collodi anticipa lo spirito Pinocchiesco:
non prende troppo seriamente la forma di romanzo con cui si sta cimentando, ma gioca
con un teatrino di figure, capovolgendo i luoghi comuni.
Collodi prosegue l’attività giornalistica, ma soprattutto stringe legami di collaborazione con
Alessandro e Felice Paggi, i quali nel ‘75 chiedono a Collodi di tradurre dei testi in
francese: lui si prende tantissime libertà nell’adattarle a quello che era il suo immaginario.
Insomma, anche applicandosi ai testi francesi, quest’autore non cessa di essere il toscano
acuto, pessimista, ironico, sempre pronto con un vocabolo o una battuta.
Dopo I racconti delle fate, la collaborazione di Collodi con i Paggi prosegue e nel giro di
due anni escono Giannettino (1877) e Minuzzolo (1878), che ha come protagonista un
bambino di nove anni, diviso fra gli impegni scolastici e il piacere del gioco e delle
attrazioni che circondano il mondo dell’infanzia.
Lorenzini scrive nel 1876 “Il Giannettino”, un libro per la scuola elementare, il quale porta
all’autore una discreta fortuna. Egli capisce che bisogna cambiare gli italiani attraverso,
non un impegno con gli adulti, ma con i bambini. Sosteneva, dunque, che bisognasse
inventare un personaggio, ma il “Giannetto” di Parravicini gli andava stretto: gli serviva un
“Giannettino” un po’ più astuto e vicino al sentire del bambino. Giannettino era un
ragazzetto di buona famiglia, il quale poteva diventare un galantuomo, ma anche un
discolo o un rompicollo: questo lo decideva il maestro.
Questo personaggio rappresentava il primo caso di scardinamento del sistema ideologico
che sacrifica l’infanzia sull’altare della morale borghese: i libri scolastici erano strumenti di
omogeneizzazione sociale.
Dal Giannettino deriva una serie di libri didattici, tra cui La grammatica di Giannettino
(1879); Il viaggio di Giannettino in Italia (suddiviso in tre volumi); La lanterna magica di
Giannettino (1890).
Pur inserendosi nel filone della precettistica sentenziosa ha caratteristiche
pedagogicamente innovative, ad esempio l’attenzione alla motivazione intrinseca e la
trasmissione dei contenuti con un linguaggio vicino a quello in un uso.
Giannettino è un bambino capriccioso, brioso, avido di conoscere senza annoiarsi,
bugiardo, prepotente, ma buona e capace di ammettere il proprio torto.
Nel 1883 una commissione ministeriale inserisce la collana del Giannettino tra i testi
sconsigliabili: “han pregi molti di sostanza e di dettato, ma sono concepiti in modo così
romanzesco, da dar soverchio luogo al dolce, distraendo dall’utile; e, son scritti in stile così
galo, e non di rado così umoristicamente frivolo, da togliere ogni serietà all’insegnamento.”
Questo commento finisce per rendere la letteratura per l’infanzia poco autorevole, ludica,
non di insegnamento.

I tratti dello stile di Collodi sono:


• Bizzaria (animali che parlano, bambino mangiato dal pesce-cane)
• Indagatori dei tipi umani (giudice, la fata, allevatore di polli, Mangiafuoco)
• Ironico (ricercatore dei luoghi comuni)
• Critico del mondo moderno)
• Pessimista
• Arguto e polemico
• Teatrale
• Affamato di cibo e denaro
• Toscano e italianissimo (aveva l’idea di Firenze che doveva essere capitale)

Ciò che interessava più a Collodi era formare un cittadino nuovo: il suo sguardo si
rivolgeva al futuro. Dunque, parla all’infanzia inserendo una visione di quello che sarebbe
dovuto essere il bambino nuovo, il bambino che risorge. Il bambino del Risorgimento è,
dunque, un bambino che partecipa alla risurrezione nazionale.
Siamo arrivati agli anni ‘80: Collodi fa uscire sempre con Paggi Occhi e Nasi, volume
antologico sostanzialmente diviso in due parti, la prima dedicata a figure, personaggi,
ritratti della Firenze a lui contemporanea, la seconda dedicata la Firenze “di una volta“,
libro con il sapore moderno dell’indefinito e il colore sfumato dell’incertezza.
Quando Collodi stigmatizza il bambino protagonista di quest’opera, lo fa perché è
preoccupato che ci possano essere degli italiani che corrispondano esattamente all’idea
dell’italiano che si aveva all’estero, ovvero l’italiano screditato e umiliato. Bisogna dunque,
costruire il carattere degli italiani: non più emozioni e pianti, ma un’Italia della creatività,
dell’invenzione, un’Italia rinascimentale.

Collodi usa una retorica carnevalesca che per qualche tratto rovescia l’immaginario che il
bambino può avere del mondo degli adulti, un rovesciamento con sovvertimento dei poteri
(giustizia/tribunali) e della verità (Noi stiamo tutti dalla parte di Geppetto, ma poi questo
viene messo in prigione; stiamo dalla parte di Pinocchio che va a denunciare il furto subito,
ma questo viene condannato): un mondo, dunque, dove gli innocenti vengono puniti.
E’, infatti, un mondo rovesciato che si contrappone alla retorica fino ad allora dominante
degli occhi rossi, ovvero una retorica del pianto, della morte e della sofferenza.
In “Pinocchio” abbiamo adulti che sono delle marionette (Geppetto e Mastociliegia),
mentre Pinocchio si presenta come un burattino che si realizza da se stesso e che
assume una funzione divina.
In “Pinocchio”, infatti, c’è una dissacrazione, in quanto tutto il racconto è concepito come
una controprova all’attesa e all’aspettativa: il fuoco che alimenta la casa di Geppetto è
dipinto, l’uovo contiene il pulcino, la genealogia di Pinocchio è di poveri e di falliti, il posto
dove dovrebbe ripararsi Pinocchio è un luogo vile, dove fa freddo, quando lui chiede
l’elemosina gli viene buttato un secchio di acqua gelata. Di conseguenza, capiamo bene
che Collodi non invita a riflettere sul patetico o sul lacrimoso.
C’è, dunque, una sorta di capovolgimento o demistificazione: Mangiafuoco, personaggio
apparentemente truce, s’intenerisce, ma al posto di piangere, starnutisce; il grillo parlante
rappresenta la morale, ma una morale antipatica, tant’è vero che siamo quasi contenti del
fatto che Pinocchio lo zittisca; l’ambigua figura della bambina dai capelli turchini, la quale è
nel corso della storia bambina, sorella, nonnina.
C’è inoltre uno stravolgimento della morte: Stravolgimento della morte della bambina;
Pinocchio muore come Cristo.

Carlo Collodi e “Le avventure di un burattino” (Italia Umbertina)


Il “Giornale per i bambini”, uscito il 7 Luglio 1881, è un vero e proprio settimanale per
l’infanzia italiana che ospita una serie di articoli e che guarda a un pubblico di lettori
nuovo, in quanto di fatto era da poco che esisteva la scolarizzazione obbligatoria.
La rivista importa in Italia modelli americani, inglesi e francesi di grande successo, creando
un nuovo mercato editoriale.
Questo tipo di letteratura si rivolge al ceto medio borghese, il quale andava valorizzato
perché era la classe più importante che aveva accompagnato l’Unità nazionale. Il target
era, dunque, il ceto medio borghese che, escluso dall’elaborazione culturale del
risorgimento, doveva ora contribuire al consolidamento delle istituzioni intellettuali,
politiche e ideologiche del nuovo stato unitario (sinistra storica).
Tutto ciò chiarisce l’assenza nel “Giornale per i Bambini” di un motivo comune alla
produzione letteraria italiana del periodo e chiarisce, al contrario, una valorizzazione
dell’industria.
Noi troviamo, dunque, nella rivista dei valori pedagogici riconoscibili, i quali sono inseribili
un po’ nel tradizionalismo pedagogico, mentre un po’ si staccano dall’approccio
tradizionale. Alcuni elementi saltano agli occhi, come il discorso sulla morte: osserveremo,
infatti, che a morire nelle prime pagine del “Giornalino per i Bambini” sono sempre i poveri,
i diversi.
Valori pedagogici della rivista:
- Il valore della casa come nido (morale della proprietà privata, della cura del proprio
domicilio, sporcizia/pulizia: si passa dalla casa patriarcale dove era inserito tutto il
parentato, ad una casa che diventa espressione dell’intimità della famiglia.
- Famiglia come santuario di buoni sentimenti
- L’auspicio di un’alleanza tra piccola borghesia e classe dirigente (idea mazziniana del
dovere), efficientismo capitalistico, il popolo prospera solo nel sacrificio.
- Alcuni temi ricorrenti nella rivista: il tema della morte, il riferimento frequente alle
invenzioni.
Linea pedagogica della rivista
I racconti di Collodi si inseriscono nella linea editoriale della rivista connotata dall’assenza
di ogni riferimento alla nostalgia precapitalistica e alla valorizzazione dell’industria, ma non
vengono messi in dubbio i rapporti di produzione.
Il capitalismo di Collodi rispetta le distinzioni sociali: i poveri andranno a lavorare e i ricchi
devono fare in modo che avvenga un legame tra mondo industriale e mondo contadino.
Il lavoro ha una grande accezione pedagogica ed è inteso come fatto etico e spirituale: il
bambino deve capire fin da piccolo che il pane va guadagnato con la fatica.
I colleghi di Collodi scrivono in ogni occasione che i bambini devono ascoltare i buoni
consigli dei maggiori e non metter bocca nei discorsi senza essere interrogati : l'adulto,
infatti, viene visto come una sorta di re da guardare con rispetto e ammirazione.

Ida Baccini e le “Memorie di un pulcino”


Figlia del direttore di una tipografia fiorentina, Ida Baccini insegna nelle scuole elementari
del capoluogo toscano dal 1871 al 1878, quando decide di dedicarsi interamente al
giornalismo e all’attività di scrittrice: è direttrice del settimanale “Cordelia” (1881), fondato
da Angelo Degubernatis, giornale che si rivolgeva essenzialmente alle giovani ragazze e
bambine di famiglie dell’Italia borghese; nel 1895 apre “Il Giornalino dei bambini”,
destinato a fondersi nel 1906 con “Il Giornalino della Domenica”.
La fama raggiunta con Le Memorie di un pulcino, racconto autobiografico di un pulcino
di campagna che cambia padroncino e diventa grande in città.
Da un punto di vista strettamente contenutistico e di struttura, la Baccini fa emergere in
questo tempo la necessità di esorcizzare la morte e la deformità infantile, scrivendo infatti
che alle bimbe deformi, in punto di morte, spuntano le ali degli angeli.
Sostiene anche l’impegno della carità, in modo che i poveri e gli infelici conservino la fede
consolatrice dei loro dolori, valorizzando le alte e sublimi teorie del socialismo cristiano.
Invita, dunque, a sopportare i dispiaceri con quella fermezza d’animo che il buon Dio mette
anche nelle povere bestioline, ad essere cauti nello stringere amicizie, a badare ai fatti
propri.
Sostiene, infine, anche l’importanza dell’ubbidienza, elemento necessario al progresso e al
benessere: il bambino deve obbedire senza il lusso di tanti “se” e di tanti “ma”.
Il libro illumina anche sulle possibilità di successo che si aprivano a chi, scrivendo per
bambini, avesse saputo mettere in campo con divertito compiacimento modi di dire e
proverbi popolari.
Solo su un punto la Baccini cambia opinione nel corso degli anni: nelle Memorie di un
pulcino la campagna è vista come oasi serena, mentre trent’anni dopo nella commediola
Se Dio vuole siamo in villa è la città con i suoi raggi e le sue comodità a risultare
valorizzata, segno significativo che il processo di industrializzazione era andato avanti e
che la città aveva perduto agli occhi di molti intellettuali il carattere negativo e violento.
Michele Lessona: l’ottimismo dei proverbi
Michele Lessona era un medico, naturalista, docente universitario di mineralogia e
zoologia ed abile divulgatore, ma anche autore di letteratura dell’infanzia, il quale si
preoccupa soprattutto della formazione di un pubblico adulto, ma che si rende conto che il
popolo è un popolo bambino: per fare politica in Italia, ad esempio, si devono trattare gli
italiani come se fosse studenti delle medie, in quanto non sono in grado di capire e, di
conseguenza, bisogna fare un discorso semplificato.
Lessona, dunque, sostiene che bisogna essere molto semplici, chiari e concisi nei
confronti degli adulti, e, dunque, usare un linguaggio bambino.
Viene chiamato da Barbera a compilare con esempi italiani un libro simile a quello di
Samuel Smiles, Self-help (1859), uscito in Italia con il titolo “Chi s’aiuta il cielo l’aiuta”
(1865): Smiles valorizza soprattutto l’intraprendenza individuale di chi partendo da
modeste condizioni ha saputo affermarsi nel campo della politica, dell’industria, della
scienza e, Lessona, prosegue su questa strada partendo dalla Sicilia e risalendo l’Italia
alla ricerca di esempi simili a quelli utilizzati dall’inglese.
Nei paesi nord-europei, visti con grande ammirazione nell’800, c’era il successo del
capitalismo, dettato dal fatto che la religione protestante (calvinista) riteneva che la
ricchezza e lo spirito di intraprendenza non fossero una forma di sfida a Dio, ma se l’uomo
sa mettere a frutto il proprio ingegno realizza ciò per cui è votato: ciascuno è padrone del
proprio destino, se il Signore l’assiste.
Di conseguenza, la cultura protestante non sostiene che il denaro sia sempre da
disprezzare: l’uomo deve riconoscere il fatto di essere stato unto dal Signore se mette a
frutto la sua volontà; se l’uomo evade dalla sua volontà fa un peccato. Il bambino che non
è volenteroso, dunque, pecca.
“Chi l’aiuta il cielo l’aiuta” risponde proprio a questa logica di un capitalismo non egoista,
ma volontarista..
Questo tema è presente anche nella letteratura dell’infanzia: una sorta di morale laica che
ha come fondamento la capacità di costruire imprenditori di noi stessi. Questa pedagogia
del talento e della volontà è giocata facendo riferimento al tema dell’emulazione, su cui
Lessona confida molto.
Il modello popolare che consente di definire degli standard di saggezza, di bontà e di
verità è sicuramente l’uso dei proverbi (il popolo non conosce la scienza), i quali danno ai
problemi una risposta di profonda saggezza derivante dalla conoscenza del popolo.
Lessona, infatti, ai bordi del suo libro Volere è potere, mette per ogni pagina quattro
proverbi, in modo che anche il margine della pagina diventasse importante, così che il
lettore avesse modo di leggere queste frasi istruttive per una lettura edificante.
L’opera è divisa in 14 capitoli, il primo di introduzione e i successivi tredici dedicati a grandi
città, generalmente le capitali degli stati italiani preunitari, da Sud a Nord.
La fiaba. A raccogliere parole.
Se si volesse limitare l'indagine sulla fiaba al campo folclorico o demologico non si
potrebbe prescindere dalla considerazione di alcuni elementi fondamentali a partire
dall'oralità, mezzo di costruzione e diffusione di testi. Ma è evidente che una tale
limitazione non gioverebbe: l’oralità non esclude la scrittura, la popolarità non nega la
valenza artistica e l’anonimato non trascura l’individualità dell’autore.
Varrà la pena, allora, per quanto riguarda la fiaba a livello europeo, ripensare per linee
generali il secolo XXI come momento di proficua mescolanza fra rigore scientifico e
fervore, fra idea rousseauiana d'un mondo popolare vicino allo stato di natura e
infatuazione romantica.
Dal 1812, il nome di Jacob e Wilhelm Grimm è stato strettamente legato non solo alla
storia della cultura tedesca ma anche a quella della fiaba. I due fratelli hanno
rappresentato per la Germania il tentativo di segnare sul piano culturale e politico i punti
fermi di un comune sentire, di un'identità collettiva, ma è anche vero che hanno
caratterizzato a livello europeo il modo stesso di intendere la fiaba.
Il fatto che le fiabe dei Grimm e più in generale la fiaba come genere letterario sono state
oggetto delle cautele pedagogiche di molti, non deve stupire più di tanto perché la storia
della letteratura per l'infanzia in Italia ha spesso costruito i suoi percorsi su precauzioni e
assennatezza. Se questi sono i limiti ideologici che hanno caratterizzato per lungo tempo i
nostri addetti ai lavori, è comprensibile che nell’Italia dell’800 si cominciano a raccogliere
fiabe della tradizione popolare solo alla fine degli anni ’60, con circa 50 anni di ritardo
rispetto alla Germania, e solo dal 1875 si hanno le raccolte di Pitrè ,Imbriani ,Nerucci.
La stessa raccolta delle fiabe tradizionali di Jacob e Wilhem Grimm, le Fiabe del focolare
dal 1812-1822, che costruiscono dei punti fermi nel comune sentire della Germania, arriva
in Italia solo nel 1908.
Questo perchè Italia c’erano grandi sospetti verso la fiaba;
Si scopre, infatti, che Basile aveva scritto nel 1634 un testo intitolato “Pentamerone” che
era stato trascurato come opera e visto con sfiducia, finché Croce, il quale aveva una
grande sfiducia nei confronti della letteratura dell’infanzia, ma un grande amore verso la
letteratura meridionale, in particolare napoletana, valorizza questo testo, sostenendo che
valeva la pena metterlo nelle antologie di letteratura.
Il timore era nella forza trasgressiva della fiaba, in quanto aveva una tendenza didattica e
moralistica della letteratura per l’infanzia nella cultura italiana: prevaleva sicuramente il
racconto istruttivo ed edificante.

La scoperta della fiaba. Oralità e scrittura del racconto popolare


Scoprire la fiaba significa scoprire l’oralità che diventa scrittura del racconto popolare.
Nella fiaba d’autore, la voce diventa testo: il racconto che aveva subito nel tempo un
usura, continuamente modificato e tagliato, diventa scritto e si codifica .
I racconti popolari erano racconti del meraviglioso, del misterioso, incoerente e animato:
un modo opposto, dunque, a quello della verità (controfattuale). Infatti, la fiaba deriva
dall’antropologia e non dalla letteratura per l’infanzia: ha origine dal folklore, dai canti
popolari, dai racconti di piazza.
Se vogliamo, inoltre, la fiaba è stata usata come escamotage per superare determinati
tabù: era un modo per rovesciare i ruoli e in cui tutto diventava accettabile.
Ovviamente, il fatto che la fiaba fosse un po’ eversiva, rendeva essa e i loro autori
particolarmente sospetti.
Calvino, invece, sostiene tutto il contrario, ovvero che le fiabe siano vere poiché
costituiscono una spiegazione generale della vita. Noi abbiamo, infatti, nella fiaba il
giacimento di tutte le sfumature dell’essere umano: il timore, l’arguzia, la bramosia, il
rispetto, la seduzione, la gelosia etc.
Che cos’è una fiaba? E’ diversa dalla saga, la quale ha una sua oggettività; dalla
leggenda (la fondazione di Roma), la quale seppur assurda, serve come mito fondativo
(serve per dire che Roma è esistita); è diversa da un exemplum (dalla favola), un testo che
ha una morale di esemplificazione. La fiaba si può, invece, definire come l’immaginario
che entra nel racconto. La funzione della fiaba è quella di costruire e raccogliere un
giacimento di cultura popolare perché attraverso questo si poteva costruire l’identità di un
popolo.
La letteratura, soprattutto quella popolare, aveva dunque il compito di costruire un’identità
popolare: chi sono i tedeschi? Sono quelli che si riconoscono in una serie di racconti; Chi
sono gli italiani? Sono figli di Pinocchio o di Cuore.
Nella fiaba ci devono essere temi eterni (orgoglio umiliato, malvagità invidiosa scoperta e
punita, la bontà premiata dopo guai), i quali in realtà sono funzioni standardizzate che
tolgono spazio all’invenzione.

Analisi strutturale della fiaba


eqXy W ^ L – V Rm ? n

e= allontanamento (la mancanza delle figlie che vengono rapite, la mancanza di una casa)
q= divieto infranto (“Non andate nel bosco”, “Non rispondere al lupo”)
X= danneggiamento o menomazione (se si infrange il patto, succede qualcosa)
y= mediazione contro la sciagura (per il personaggio che viene allontanato, che infrange
un divieto, riceve un danno, ci sarà una prova da superare)

W= l’azione svolta dal cercatore (che può essere anche l’eroe)


^= partenza dell’eroe per risolvere
L= l’eroe lotta
V= vittoria sull’antagonista

R= ritorno
n= ricompensa

Propp pubblica, nel 1928 in Russia e nel 1966 in Italia, la “Morfologia della fiaba”
individuando una struttura coerente nel racconto dell’immaginario: l’immaginario che, nella
sua fantasia, ha una sua coerenza.
Propp sostiene che strutturalmente le fiabe sono tutte uguali: di conseguenza, le fiabe
sono in realtà delle funzioni, legate ai personaggi, dove è importante che cosa fanno i
personaggi e non chi o cosa sono essi. I personaggi, per Propp, sono semplicemente, non
degli attori, ma degli attanti, ovvero coloro che agiscono in un certo modo perché non
possono non agire in quel modo: l’eroe di mestiere fa l’eroe, il quale, essendo un attante,
svolge una determinata funzione.
I personaggi delle fiabe sono, dunque, comprensibili per la loro connotazione e per
l’attributo che gli viene dato. Le funzioni dei personaggi sono costanti e di numero
limitato: più eroi o più antagonisti avranno la stessa funzione.
I protagonisti hanno bisogno di effetti speciali: si fa un grande uso della metamorfosi, un
espediente narrativo, e degli aspetti morfologici dei personaggi.
I personaggi hanno ovviamente una connotazione che li contraddistingue; possiamo fare
l’esempio della dimensione del corpo: il corpo dei protagonisti è incorruttibile (non li
vediamo mai sudare ad esempio). E’ importante anche la pelle dei personaggi: i poveri
dovevano lavorare e quindi erano sicuramente più abbronzati dei ricchi.
Altro elemento importantissimo sono gli orifizi del personaggio (gli occhi, la bocca, il
naso), i quali avevano una funzione comunicativa per gli attanti.
Il pianto porta ricchezza, mentre il riso è segno di stoltezza: se il protagonista ride in modo
sguagliato all’inizio del racconto non è visto di buon occhio.
Altro elemento della morfologia del personaggio è la miniaturizzazione, il diventare piccoli
e il vedere il mondo a dimensione ridotta.
Riguardo il concepimento, nelle fiabe non c’è mai una relazione affettiva che produce il
figlio: c’è un autogenesi del personaggio, il quale nasce senza una condizione che lo
rende possibile (la madre non riesce ad avere figli, si buca il dito che sta usando per
tessere, esce il sangue sulla neve e improvvisamente la principessa si trova incinta di
Biancaneve).

E’ importante, inoltre, la successione delle funzioni della fiaba: l’incipt sarà sempre “C’era
una volta” (in un tempo sospeso, difficile da definire) e il finale sarà “Vissero felici e
contenti”: dentro questi due termini c’è una situazione di disequilibrio che rompe l’incipit e il
tentativo di sopperire a questo disequilibrio si ha con l’autore che cerca di raccontare quali
sono le prove che consentono di ristabilire l’equilibrio ormai perduto. In questo caso, è
fondamentale la funzione dell’eroe, dei cercatori, degli aiutanti, dei mediatori: grazie a
questi, la situazione si ristabilisce.
Il percorso della fiaba si muove su un orizzonte controfattuale, non necessariamente
veritiero, tendenzialmente falso (situazioni appartenenti al mondo magico etc).
Una delle caratteristiche del racconto fiabesco è che la preoccupazione di trovare un finale
risolutivo, a volte, fa perdere il senso del racconto; la mancanza della finalità fa si che la
fiaba stia in piedi anche se non ha un epilogo.
Nelle fiabe, inoltre, non è possibile la sfumatura, in quanto i colori devono essere netti:
nero è nero, bianco è bianco. Non c’è la sfumatura neanche nell’emozione, nei punti di
vista: c’è il buono e il cattivo, il bello e il brutto. La tendenza nella fiaba, dunque, è quella di
ragionare secondo una logica binaria: è questo o quello.

Un caso inglese Lewis Carroll – Charles Dodgson (1832 – 1898)


Charles Dodgson, balbuziente ed affetto di emicrania che produceva scariche fortissime,
era un professore di matematica all’Università di Oxford, un sacerdote, un fotografo, un
logico e un inventore di giochi, il quale si celava dietro lo pseudonimo di Lewis Carroll.
Amava molto la fotografia e, in particolare, fotografare i bambini: infatti, con i figli del
rettore del suo college trascorre una serie di simpatici pomeriggi in riva al fiume durante i
mesi estivi e, alla richiesta di Alice Pleasance Liddel, figlia del rettore, di raccontarle una
storia, lui produce un racconto talmente bello che la bambina gli chiese che venisse stesa.
Lewis Carroll, pseudonimo dell’autore, gliela consegnò nel Natale del 1864 e la diede alle
stampe nel 1865.
Questa fiaba non è italiana e segna un punto di distanza dalla concezione della letteratura
dell’infanzia come racconto fiabesco, il quale ha elementi onirici, strani e illogici.
Carroll, dunque, si allontana dalla fiaba tradizionale, inventando un mondo dell’illogico e
giocando con il nonsense e le parole.
C’è una grande attenzione all’immagine e al disegno, che deve cercare di rappresentare il
concetto di assurdo e di ironico: l’autore delle immagini, John Tenniel, fece la
raffigurazione di Alice, la quale ebbe l’approvazione di Dodgson, l’autore.
La fiaba non è didattica, in quanto l’andamento della fiaba non può consentire un uso
utilitaristico della fiaba.
Tuttavia, Alice’s Adventures in Wonderland (1865) è vista con sospetto in Italia da chi
crede solo nel valore della letteratura per l’infanzia come strumento utilitaristico. Verrà
riscoperta e rivalorizzata da autori come Calvino e Rodari che colgono l’idea di una
letteratura per l’infanzia giocosa, gratuita e dilettevole.
E’ certo, però, che l’autore è in grande debito con Alice, tant’è vero che in un altro testo del
1871 intitolato “Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò”, noi notiamo dei versi in
rima baciata che nascondono un acrostico: leggendo verticalmente le iniziali di ogni verso
si compone in nome e il cognome della musa ispiratrice del racconto, Alice Pleasance
Liddel.

Abbiamo detto che Dodgson era anche un fotografo, il quale scatta foto soprattutto a
bambini con posizioni ambigue: fotografa, ad esempio, una bambina (slide) vestita con
abiti stracciati, la quale mostra velatamente il seno. Questo ha aumentato tutta una serie di
fantasie sulla reale predisposizione ad un’amicizia sincera di Dodgson con il suo pubblico
di bambine: quando scriverà ad Alice, a distanza di anni, per chiedere il favore di avere la
prima copia del testo di Alice, le dirà “ho avuto ancora altre amiche bambine, ma nessuna
è stata come te”. Emerge, dunque, che quest’autore era un pedofilo per certi versi.
Capiamo anche, però, che l’attenzione di Carroll è focalizzata sul bambino spogliato di
ogni costruzione, il quale gioca con l’immaginazione.
I personaggi hanno tutti un’attinenza, o nel nome o nei comportamenti, con aspetti della
vita reale: è un fantastico legato alla realtà.
Ad esempio, la creazione di alcuni personaggi del “Pool of tears” sono l’Anitra (Duck),
che è un riferimento al reverendo Duckworth; Lorichetto (Lory), che si riferisce a Lorina
Liddell, una delle sorelle cui è dedicata la storia; l’Aquilotto (Eaglef), che si riferisce
probabilmente all’utore stesso, Charles Lutwidge Dogson, ironizzando implicitamente sui
suoi problemi di balbuzie nelle occasioni pubbliche (da qui il gioco Do-do-sogson).
Altri personaggi, poi, devono il loro nome a proverbi e tradizioni. Un’espressione
proverbiale, “to be Mad as a hatter”, da origine al Cappellaio matto, che si riferisce
verosimilmente al fatto che il mercurio utilizzato per trattare i capelli è altamente tossico.

Il caso francese Jules Verne (1828 – 1905)


Due delle opere più importanti di Julies Verne sono intitolate “Viaggio al centro della terra”
(1864) e “Ventimila leghe sotto i mari” (1870).
L’autore esprime un aspetto sempre più importante nella tradizione della letteratura per
l’infanzia: un realismo che poi si astrae, diventando un racconto di pura avventura
(invenzione di mondi fantastici, topici e distopici).
Verne esprime da un lato l’ottimismo, la fiducia nella scienza e nella ragione (si può fare il
giro del mondo in 80 giorni), riferendosi al tema dell’avventura e del viaggio come
catalizzatore dell’interesse del lettore, ma anche alla preoccupazione per i pericoli della
modernità, la quale va gestita perché produce degli effetti collaterali (Capitan Nemo,
protagonista di “centomila leghe sotto i mari” è un uomo geniale ma ha anche delle
perversioni, un lato oscuro, un senso di fuga dal mondo degli umani per costruire un suo
mondo fantastico).
La descrizione è così dettagliata che un pre-adolescente coglie la plausibilità del contesto
del racconto. Questo testo susciterà tanta ammirazione: De Amicis andrà alla scuola di
Jules Verne, in quanto il suo modo di scrivere sarà per certi versi lo stesso della penna
dell’autore che scriverà “Cuore”.
III. L’Italia umbertina (1878-1900)
Il periodo preso in considerazione si apre con la morte di Vittorio Emanuele II, il re
dell’Unità nazionale, e si chiude con l’uccisione a Monza del suo successore, Umberto I.
Dalla morte di Vittorio Emanuele II all’uccisione di Umberto I (1878-1900) si succedono
una serie di eventi:
- c’è un allargamento del diritto di voto (1881), comprendendo coloro che sanno leggere
e scrivere, importante per la letteratura per l’infanzia perché i bambini che devono leggere
e scrivere obbligatoriamente per conquistare il diritto di voto sono gli stessi che devono
essere messi a contatto con una buona letteratura;
- in questi anni muore Garibaldi (1882), figura iconica del Risorgimento nazionale;
- Depretis e Crispi, uomini di punta, esprimono un nuovo carattere degli italiani
militaresco e coloniale con avventure poco fortunate in terra d’Africa;
- Nasce il Partito socialista (1892), primo partito di massa che parla direttamente al
proletariato;
- Scandalo della Banca Romana (1893);
- Ci sono tensioni sociali in Sicilia e a Milano (1898): De Caris (?) spara sulle folle
scioperanti, creando una tensione sociale così forte che non è escluso che la morte di
Umberto I sia una risposta dal basso per liberarsi da tutte le forme di autoritarismo sociale.

Questo è un po’ il retroterra culturale. Se volessimo riassumere in una parola, potremmo


utilizzare il termine di Sacralizzazione del Risorgimento: il Risorgimento è considerato
come un momento sacro della storia nazionale.
In questo clima di restaurazione politica e culturale si matura l’idea di programmi nuovi
che tolgano “il troppo e il vano” dai precedenti, i quali partono, nel 1880, da un approccio
oggettivo, scientifico e empirico, fino al 1894 in cui si dice “poca istruzione, molta
educazione”: il compito della scuola non era tanto dare conoscenza, quanto piuttosto
buone maniere, rispetto delle autorità, ubbidienza alla monarchia.
Si afferma la nuova filosofia di scuola che il ministro Baccelli racchiude nella formula
“Istruire il popolo quanto basta, educarlo più che si può“. Come dire: la scuola deve
educare alla moderazione e deve funzionare come apparato per arginare le tensioni
sociali.
In materia di insegnamento linguistico i programmi del 1894 accentuano il carattere
antidialettale e ripristinano l’insegnamento grammaticale che nei precedenti programmi
dell’88 era stato subordinato all’osservazione diretta delle “cose”. In quanto alla lettura, si
sostiene che il suo esercizio è funzionale non soltanto al “parlare scrivere bene“, ma
anche all’”intendimento di migliorare l’animo per virtù degli esempi contenuti nel libro“.

Edmondo De Amicis: storia di un cuore.


Edmondo De Amicis (1846-1908) ha un percorso di scrittura che derivava dall’accademia
militare: era stato chiamato per attività di propaganda dell’esercito attraverso il giornalismo
dei campi di battaglia. Era un sotto-tenente alla scuola militare di Modena: partecipa alla III
Guerra d’Indipendenza e descrive da giornalista militare la presa di Roma il 20 Settembre
del 1870. Abbandona l’esercito nel 1870 per diventare giornalista e scrittore.
Inizia a viaggiare come inviato di giornali e riviste tra il 1872 e il 1879, percorrendo
l’Europa e l’Oriente alla scoperta di stati che venivano presentati ad un pubblico in una
forma letterale: Spagna, Olanda, Marocco, Parigi, Londra, Costantinopoli.
Da qui partirono le sue cronache ed ebbe un grande riscontro come autore di letteratura di
tipo adulto.
L’amicizia con l’editore Treves di Milano gli consente di lavorare serenamente: intraprende
una fortunata carriera editoriale con soprattutto uno sguardo rivolto alla borghesia, sicuro
di incontrare il gusto medio e le aspettative della maggioranza dei lettori.
Alla fine degli anni ‘80, De Amicis pubblica il resoconto di un viaggio in America latina
compiuto proprio su esaltazione dell’editore Treves a bordo del piroscafo “Galileo” carico
anche di emigranti: lo scrittore racconta con impegno la miseria, la disperazione, la
sofferenza di quanti sono costretti dalla povertà a lasciare l’Italia.
La svolta avviene con un romanzo scritto in una forma rapida e con una profonda
trasformazione, non tanto per lo stile di scrittura, quanto del setting (l’ambientazione) dei
suoi testi: non la vita militare, l’esercito e i soldati, ma la scuola intesa come un grande
campo di battaglia, come un luogo in cui si ritrovano i tipi umani e dove è possibile
descrivere le caratteristiche delle persone quando ancora queste non si sono sviluppate.
Ottiene fama e successo, infatti, con la pubblicazione di Cuore nel 1886.
Dopo l’esperienza di questo libro, De Amicis matura l’idea che come nel racconto di Cuore
la scuola era un microcosmo parallelo all’esercito in cui le classi sociali si confrontavano,
così dovesse avvenire per la società, la quale doveva ricomporsi attorno all’idea del
socialismo (1893 il Partito Socialista celebra il suo primo congresso a Genova).
Pensava che la letteratura potesse servire a formare gli italiani facendo in modo che non
siano in lotta l’uno contro l’altro, ma che colgano, attraverso la parola e la guida sicura di
un maestro, che il destino dell’Italia è possibile solo se tutti si impegnano per trasformare il
proprio carattere: inizia scrivere un romanzo dal titolo Primo maggio, che avrebbe dovuto
avvicinare le masse alle nuove idee, ma anche persuadere i ricchi, i borghesi della
necessità di promuovere una maggiore giustizia sociale. Il romanzo, per diversi motivi, non
esce, e De Amicis si limita a collaborare a periodici sociali con racconti e riflessioni,
destinati poi a confluire in opuscoli di propaganda o in un volume dal titolo significativo di
Lotte civili.
Tornando a Cuore, De Amicis ci tiene a giustificare la “geometria“ del suo testo,
solidamente impiantato su tre blocchi distinti, ma complementari: quello del diario
dell’anno scolastico tenuto da Enrico, quello degli interventi epistolari dei genitori e della
sorella, quello di racconti mensili.
Si prenda il diario di Enrico e lo si legga con un occhio meno ironico: abbiamo un bambino
di terza elementare che affronta il primo giorno di scuola “di mala voglia“ perché pensa
ancora alle vacanze e alla campagna, inoltre la nuova classe non è delle migliori.
Fortunatamente all’uscita la madre capisce i dubbi e le ansie del figlio e lo aiuta così:
“Coraggio, Enrico! Studieremo insieme“. Basta questo per segnare l’intero percorso del
testo dove tutto è predisposto per convincere Enrico della necessità di smettere di essere
bambino, di crescere, di farsi uomo, degno delle affettuose aspettative dei genitori, delle
nobili attese della Patria e dello stesso consorzio umano.
Esiste una lettera, conservata nel Fondo Peruzzi della Biblioteca Nazionale di Firenze, che
costituisce la testimonianza attendibile di come De Amicis si ponga il problema dell’opera
buona, educativa, ricca di “mille sfumature di sentimenti delicati e poetici“: tutto concorre,
insomma, a costruire Cuore sull’urgenza dei “buoni sentimenti“ necessari all’integrazione
fra borghesia e ceti subalterni, ma anche sulla loro evidente superficialità.
C’è poi un altro aspetto che di Cuore colpisce, quello della tristezza, della sofferenza, delle
disgrazie e delle morti seminate a piene mani.
Nel passaggio tra 1888 e 1891 c’è uno dei momenti più tragici dell’esistenza di
quest’autore: In famiglia ci furono alcune tragedie, tra cui la morte dell’amatissima madre
nel luglio ‘98, il suicidio inspiegabile del figlio ventunenne Furio nel novembre dello stesso
anno e la separazione dalla moglie che lo accusava di infedeltà.
Nel 1908, De Amicis morirà improvvisamente e il suo corpo godrà di una grandissima
onoreficenza: viene trasportato della salma tra ali di folla.
Come abbiamo parlato del doppio in Collodi, qui possiamo parlare del triplo: i Tre De
Amicis apparentemente conflittuali (nazionalista – borghese - socialista).
De Amicis nasce nazionalista, in quanto la tradizione borghese dell’800 voleva che i
giovani si impegnassero nelle lotte patriottiche; nazionalista e borghese son due concetti
vicini; il socialista è una piega che assume la vicenda nazionale quando ci si rende conto
che esiste sempre qualcosa di più rivoluzionario: come i borghesi apparivano rispetto agli
aristocratici esponenti del Terzo Stato, di coloro che dalla Rivoluzione francese in poi
rivendicavano uno spazio sociale, così con l’avvento del socialismo si scopre il proletariato
e molti borghesi aderiranno al socialismo con una visione umanitaria, massonica,
democratica, repubblicana.
Nella prima fase noi abbiamo il propagandismo del primo giornalismo nella rivista “Vita
Militare”, in cui si parla molto della disciplina e della caserma. Le novelle e i documenti
confidenziali di Bozzetti fanno riferimento ai valori fondanti della monarchia e dello Stato.
Dunque, vista l’esperienza di vita di De Amicis, l’esercito ricopre un ruolo di primaria
importanza nella sua ideologia: è uno dei momenti di massima aggregazione e
socializzazione tra diversi, è il posto che modernizza gli italiani.
I suoi resoconti di viaggio gli permettono di entrare nel “salotto buono” della casa
borghese.
Alla fine degli anni ‘80, De Amicis pubblica un resoconto di viaggio a bordo del piroscafo
Galileo carico di emigranti diretto in sud America: si troverà da borghese e viaggiatore di
prima classe a vedere come vivono gli emigranti di terza, quarta o quinta classe.
Questo è l’inizio dell’attenzione alla “questione sociale”: abbiamo una sorta di
ripensamento da parte dell’autore riguardo la collocazione sociale grazie all’incontro dei
emigranti.
Tra il 1891 e il 1892 scrive un romanzo dal titolo “Primo maggio”, festeggiato per la prima
volta nel ‘90, ma pubblicato solo nel 1980: questo ci consente di dare un’interpretazione
del tutto nuovo di De Amicis.

Cuore 1886
Cuore si inserisce nel filone della letteratura precettistica che in Italia ebbe inizio con
Parravicini, Thouar e Baccini, fortemente orientata al lettore bambino, il quale andava
catechizzato. Questa catechesi poteva essere religiosa, morale o civile.
La svolta avviene con questo romanzo, pubblicato nel 1886, scritto in una forma rapida e
con una profonda trasformazione, non tanto per lo stile di scrittura, quanto del setting
(l’ambientazione) dei suoi testi: non la vita militare, l’esercito e i soldati, ma la scuola
intesa come un grande campo di battaglia, come un luogo in cui si ritrovano i tipi umani e
dove è possibile descrivere le caratteristiche delle persone quando ancora queste non si
sono sviluppate.
Cuore si presenta, dunque, come il diario di un anno scolastico di un bambino di terza
elementare torinese. Torino è la capitale del Risorgimento nazionale, luogo dove c’era il
re: era un contesto industriale in cui esistevano le manufatture e il lavoro e le classi sociali
erano già strutturate. Dunque, la collocazione del romanzo è importante.
E’ importante anche l’anno, il 1881, periodo in cui le istanze del patriottismo erano molto
forti.
Si prenda il diario di Enrico e lo si legga con un occhio meno ironico: abbiamo un bambino
di terza elementare che affronta il primo giorno di scuola “di mala voglia“ perché pensa
ancora alle vacanze e alla campagna, inoltre la nuova classe non è delle migliori.
Fortunatamente all’uscita la madre capisce i dubbi e le ansie del figlio e lo aiuta così:
“Coraggio, Enrico! Studieremo insieme“. Basta questo per segnare l’intero percorso del
testo dove tutto è predisposto per convincere Enrico della necessità di smettere di essere
bambino, di crescere, di farsi uomo, degno delle affettuose aspettative dei genitori, delle
nobili attese della Patria e dello stesso consorzio umano.
De Amicis ci tiene, inoltre, a giustificare la “geometria“ del suo testo, solidamente
impiantato su tre blocchi distinti, ma complementari: quello del diario dell’anno scolastico
tenuto da Enrico, quello degli interventi epistolari dei genitori e della sorella, quello di
racconti mensili.
Esiste anche una lettera, conservata nel Fondo Peruzzi della Biblioteca Nazionale di
Firenze, che costituisce la testimonianza attendibile di come De Amicis si ponga il
problema dell’opera buona, educativa, ricca di “mille sfumature di sentimenti delicati e
poetici“: tutto concorre, insomma, a costruire Cuore sull’urgenza dei “buoni sentimenti“
necessari all’integrazione fra borghesia e ceti subalterni, ma anche sulla loro evidente
superficialità.
La scuola, inoltre, entra in altri due i romanzi che devono essere ricordati: “Romanzo di un
maestro” e “Amore e ginnastica”, dove si ricorda l’avvento dell’educazione fisica nelle
scuole e si descrivono gli affetti e i trasporti di un maestro per una maestra che,
emancipata, pratica per prima l’educazione fisica in una scuola.
Altro aspetto che di Cuore colpisce è quello della tristezza, della sofferenza, delle
disgrazie e delle morti seminate a piene mani.
Nel passaggio tra 1888 e 1891 c’è uno dei momenti più tragici dell’esistenza di
quest’autore: In famiglia ci furono alcune tragedie, tra cui la morte dell’amatissima madre
nel luglio ‘98, il suicidio inspiegabile del figlio ventunenne Furio nel novembre dello stesso
anno e la separazione dalla moglie che lo accusava di infedeltà.
Cuore ebbe notevole riscontro da parte del pubblico e una fortuna straordinaria: all’inizio
del ‘900 viene considerato il libro di lettura per la formazione degli italiani, mentre negli
anni ‘60 si inizia a dire che Franti, il quale aveva deriso il soldato storpio, non aveva fatto
altro che annunciare la protesta verso l’autorità.

Struttura tripartita (+1) di Cuore


1. Diario di un anno scolastico di un bambino di III (Enrico) a.s 1881-82
2. Interventi epistolari di genitori e sorella: è un altro punto di vista
3. Racconti mensili: per ogni mese esiste una narrazione con valore storico, biografico.
+1. Presentazione di figure mitiche nella storia del risorgimento: Vittorio Emanuele,
Cavour, Mazzini, Garibaldi.
Nel testo non ci sono riferimenti alla religione: dunque, tutti questi autori dell’Italia pre-
unitaria sono convertiti ad un aspetto laico e ad una politica liberale.

Tematiche del romanzo


In questo romanzo c’è
- L’invito a smettere di essere bambini per diventare uomini;
- L’idea di costruire, attraverso la scuola, un’Italia come un incrocio delle classi sociali:
l’incontro tra figli di ceti subalterni e ceti abbienti;
- Manca il tema alimentare, ma ci sono i buoni sentimenti (es. elemosina specie verso i
poveri);
- Tristezza, malattia, morte (valore formativo del lutto, del sacrificio della vita)
- Nazionalismo (racconti mensili), ideologia dellerosimo e della dedisione assoluta alla
causa patriottica.
Per i critici, De Amicis “riassorbe l’ideologia scolastica dei ceti dominanti dell’Italia post-
risorgimentale” e toglie vigore all’intento morale, facendolo diventare moralistico.
Rimproverano all’autore ipocrisia, insincerità, rispetto delle gerarchie, lacrimosità, tragicità,
sadismo, linguaggio astratto e predicatorio, una pedagogia “ospedaliero-cimiteriale”: una
pedagogia che ha come massima realizzazione la morte del giusto.
L’atmosfera è sempre di profonda tristezza, atta a produrre paralizzante struggimento
interiore e non a stimolare l’azione, a suscitare ottimismo ed energie vitali.
Manca ogni traccia di umorismo nella presentazione dei personaggi, nelle situazioni, nei
commenti dell’autore: a differenza di Pinocchio, in Cuore l’autore si prende sul serio e non
ammette l’ironia, tratto caratteristico della scrittura di Lorenzini: una descrizione
dell’infanzia senza il riso diventa una costruzione falsa dell’infanzia.
De Amicis, dunque, è un tipico esponente di quella scrittura “della morte”, capace di
toccare le corde più profonde utilizzando episodi di intesa drammaticità.
De Amicis esprime, inoltre, un socialismo piccolo borghese umanitario e filantropico che
non si inserisce bene in una società democratica quale quella che intendiamo noi con la
costituzione del 1948.

Critica pedagogica
Dal punto di vista pedagogico, le critiche che si possono muovere a De Amicis sono:
- Il fatto che l’autore faccia frequente ricorso al ricatto emotivo nei confronti dei bambini (“ti
do il premio”, “ti metto in castigo”).
- Sono da stigmatizzare i meccanismi di esclusione attivati nei confronti del diverso. Per
esempio, la cattiveria di Franti è connaturata, non viene indagata nella sua genesi
(determinismo biologico).
- C’è una difesa patriottico dell’italiano e una certa animosità verso gli stranieri.
Dobbiamo riconoscere, però, anche dei meriti:
- Concezione progressista dello studio, la fede nelle capacità dell’istruzione come
strumento di miglioramento sociale e progresso, l’ispirare nei lettori un pensiero laico:
sostiene fermamente che l’educazione possa trasformare realmente il mondo e che grazie
al sacrificio e allo studio ci può essere un’Italia migliore.
- “Cuore” opera una grande operazione di unificazione nazionale intorno alla borghesia
protagonista del Risorgimento e ai suoi valori: obbedienza, operosità, affrattellamento,
rispetto delle gerarchie, beneficenza.
- Rende comprensibile ai bambini il concetto di virtù incarnandola in idealtipi.
- Esalta il mondo interiore degli affetti, del sentimento, degli ideali risorgimentali (che
nell’Italia umbertina andavano svanendo).
- E’ un testo che è costruito per la ricerca di un’unificazione morale, sociale, linguistica e
culturale.
- Non fa ricorso al tema della religione e di Dio, ma costruisce un nuovo concetto laico di
bene comune.

Rispetto allo stile, De Amicis usa un vocabolario appropriato ed è convinto che occorra
uniformare gli italiani anche con la lingua. Usa un linguaggio colto e ha un atteggiamento
intransigente verso le inflessioni dialettali, i francesismi e i barbarismi.
L’idioma gentile. De Amicis pubblica l’Idioma gentile nello stesso anno, il 1905, in cui
vengono emanati i nuovi programmi per la scuola elementare. Addirittura il libro assume la
natura di documento ufficiale della politica ministeriale in materia di educazione linguistica:
una circolare del 23 marzo 1905 del ministro Vittorio Emanuele Orlando ne raccomanda a
tutte le scuole del regno la lettura.
L’Idioma gentile destina la sua lezione esclusivamente ai giovani rappresentanti dalla
buona borghesia alla quale sono affidati gli interessi e le sorti del paese. Non a caso, il
libro si apre con un capitolo da significativo titolo La lingua della patria, in cui l’autore si
rivolge a un giovinetto e lo invita allo studio della lingua.
L’architettura del libro è organizzata per buona parte intorno ai ritratti di simbolici
personaggi della “gran famiglia dei poveri della parola“: il signor Coso, impreciso nell’usare
la parola giusta, lasciava a mezzo ogni periodo con un insomma tu capisci; e con la parola
Coso “faceva di meno di mille vocaboli“; la signora Pisospinto “parlava nel modo che può
parlare un orecchiante della lingua, che ode a frullo e legge a vanvera. Usava sgattaiolare
per imitare la voce del gatto, sobillare per fare il solletico, cincischiato per azzimato“; il
falso Monetario da alle parole significati stravaganti; Il professor Pataracchi, purista
permaloso per il quale “lingua e nazione sono una cosa sola: dunque chi offende la lingua
tradisce la patria”; Scrupolino, alle prese con i dubbi di sinonimi; il Pescatore di perle,
sempre a caccia di termini rari; il visconte La Nuance, fanatico della lingua francese e delle
sue sfumature; il dottor Raganella, i cui discorsi sono “cascate, frane, diluvi di parole“; lo
Stilettatore, alla ricerca affannosa di un proprio stile; Carlo Imbroglia, che pasticcia parole
e frasi e non è mai chiaro.
Per il resto, è tutto un disapprovare e censurare usi errati e impropri e denunciare l’offesa
recata all’italiano.
De Amicis si preoccupa anche di fornire indicazioni e orientamenti, soprattutto a proposito
di lessico, su quel che è corretto, chiaro, appropriato in fatto di lingua.

Emilio Salgari
Emilio Salgari, veronese, di origini modeste, non porta a termine gli studi al Nautico di
Venezia e rinuncia a quella carriera sul mare che tanto spazio troverà invece nella sua
opera, compiendo diciottenne solo una breve navigazione in Adriatico fino a Brindisi.
La sua collocazione è, non tanto nella letteratura per bambini, ma nella letteratura per pre-
adolescenti, anche se non mancano elementi che possono rendere i testi di interesse per
il lettore adulto.
Dopo alcune limitate esperienze di lavoro, comincia a pubblicare a puntate sulla rivista
milanese di viaggi il racconto I selvaggi della Papuasia, arrivando subito dopo al
quotidiano della sua città, “Nuova Arena“, con una novella e due romanzi, La tigre della
Malesia e La favorita del Mahdì, che danno già misura di una fervida fantasia non
disgiunta, per quanto concerne i modi della narrazione, da un precoce mestiere.
Dopo alcuni anni di giornalismo, la contemporanea pubblicazione in volume dei primi
romanzi e il matrimonio con la ventiquattrenne attrice dilettante Ida Peruzzi, si trasferisce a
Torino nel 1893: qui l’editore Speirani può offrirgli una serie di collaborazioni alle sue
pubblicazioni per l’infanzia e l’adolescenza e consentirgli di vivere del lavoro di scrittore e
qui richiederà fino alla morte.
Salgari lavora instancabilmente vivendo in condizioni di notevole stress , in quanto lui e la
moglie hanno quattro figli, di nome Fathima, Nadir, Romero e Omar, ma sembrano non
essere totalmente in grado di controllare la situazione familiare: Emilio lavora tantissimo,
ma ha sempre problemi di bilancio; inoltre, Ida dopo la tragica conclusione di un parto
gemellare, comincia a dare segni di squilibrio mentale e finisce internata in un manicomio;
Fatima è spesso malata.
Salgari vive, dunque, una vita piuttosto stressata anche perché cambia molti editori,
rimanendo molto deluso dal trattamento economico che essi gli riservano: è schiavo del
meccanismo editoriale dell’Ottocento.
Con Donath, casa editrice di Genova, pubblica 34 romanzi, tra cui i suoi titoli più noti:
l’editore fa fortuna con i suoi romanzi, ma non in condizioni particolarmente favorevoli, in
quanto i contratti lo costringevano a lavorare giorno e notte.
Per combattere la tensione, ma anche per mantenere un ritmo di lavoro sostenutissimo, lo
scrittore abusa di sigarette e marsala, ha problemi di parziale cecità ad un occhio e cade,
quindi, ancora di più in profonda depressione, ricordando il suicidio del padre, lo tenta
anche lui una prima volta nel 1908 ma fallisce, mentre riesce nell’intento il 25 aprile 1911,
tagliandosi gola e ventricolo con un rasoio in un bosco vicino a Torino e lasciando una
toccante lettera ai figli e un bruciante atto d’accusa contro i suoi editori: “Ai miei editori: a
voi che vi siete arricchiti con la mia pelle mantenendo me e la mia famiglia in una continua
semi-miseria ed anche più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che io vi ho dato
pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna.” Il suicidio, infatti, rappresenta la
vita persa a rincorrere i bisogni materiali.
Indubbiamente Salgari era vittima di un’editoria selvaggia, preoccupata soprattutto dei
risultati di vendita, ma va anche ribadito che probabilmente lo scrittore porta in sé quella
generosa disorganizzazione, che se da un lato gli consente di assumere nomi di fantasia
per poter riempire più pagine, dall’altro gli impedisce ogni razionale pianificazione del
lavoro e dell’amministrazione della famiglia.

Potremmo dire che la scrittura di Salgari sia una scrittura cinematografica, dunque che
quello che viene messo in scena è come un film e quindi il racconto è serrato, pieno di
onomatopee, di ritmo, di colori e fascinazione: il lettore anche se in certi contesti non ci è
stato, se lo può immaginare.
L’autore è, inoltre, un autore che segnò la transizione tra il tipo di letteratura che si pratica
nell’età preunitaria e umbertina, molto censurata, e la letteratura più sboccata, in cui
vengono fuori temi estranei fino ad allora.
Ebbe comunque un successo internazionale, in quanto fu il più grande scrittore di
avventure in italiano e grazie alle sue traduzioni: le prime trascrizioni in francese risalgono
alla fine dell’Ottocento.
La critica ha riscoperto solo di recente questo autore, perché per quanto i suoi testi siano
inaffidabili dal punto di vista storico, scientifico e geografico e nonostante una lingua non
sempre letteraria, ma molto diretta e colloquiale, resta il fascino di un racconto che rifiuta
le comode vie dell’insegnamento didascalico e del nazionalismo, che anzi evidenzia ansia
di libertà, rifiuto del colonialismo e attenzione per le minoranze. Questo tipo di scrittura è
molto critica verso un ideale patriottico e nazionalista: Salgari infatti non si concilia con
l’esaltazione del fascismo e con il libro Cuore, perché lui ci parla di personaggi introvabili
che hanno però una loro etica

Il ciclo del West


Il West di Salgari non è preciso e storicamente attendibile. E’ infarcito di errori grossolani, i
quali però giocano sul meccanismo di complicità con il lettore: non è una lettura filologica,
ma una letteratura prossima al fruitore di questi testi.
L’autore dedica al West “solo” una decina di romanzi e racconti, curiosi per il fatto che
Salgari, pur non avendo un retroterra anticoloniale, per la prima volta ci racconta dei
pellerossa, sottraendoli agli stereotipi tipici della cultura americana: esprime un punto di
vista sui pellirosse che si sottrae ai clichè volgarizzati negli Stati Uniti e in Europa.
Piuttosto che del bianco civilizzatore, dunque, il suo punto di vista è più del bianco
missionario che in questo caso indica una certa cordialità nei confronti di queste
popolazioni.
I romanzi più famosi sono “Sulle frontiere del Far West”, “La scotennatrice”, “Le selve
ardenti”, costruiti come una breve saga che coprono il periodo tra il 1863 e il 1878: l’autore
è un maestro nel mantenere alta la tensione del lettore, tenendo sempre sotto pressione i
personaggi, fa cioè in modo che il lettore sia coinvolto dai personaggi.
Uno dei temi ricorrente è l’amore, spesso fallito o che provoca morte (duelli, conquiste
sentimentali o di territori); altro tema è sicuramente la vendetta: si compiace, infatti, nel
descrivere torture e violenze per stimolare le emozioni del suo pubblico.
Il linguaggio che usa Salgari è il linguaggio del parlato, fatto di dialoghi serrato, in cui la
mutazione esotica è stemperata da discorsi che potrebbero essere fatti tra amici.
Riesce a sfuggire dal rischio di un esotismo irrealistico attraverso lo stratagemma del cibo
e della fame che riporta alla realtà anche le scene più fantasiose.

Stranieri in Italia
Scrittore per vocazione, laureato in giurisprudenza senza mai esercitare la professione,
Robert Louis Stevenson (1850-94) ha instabile salute e vita avventurosa .
Pubblica articoli, saggi, racconti e romanzi, notissimi in Italia, fra cui Treasure Island
(1883) e The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr Hyde (1886): riguardo il primo, il senso
di avventura dello scrittore viene letto come quel desiderio di scoperta, quella sete di
conoscenza che caratterizzano gli spazi della cultura occidentale e quei viaggi di
iniziazione che dai boschi delle fiabe passano ai mari e agli oceani.
Il periodo 1878-1900 vede approdare in Italia altri numerosi titoli stranieri .Come ultimo
riferimento femminile al continente americano è quello di Louisa May Alcott, condannata
in Italia all'emarginazione in nome dei continenti vecchi e sorpassati delle sue Piccole
Donne.
Ultimo caso è “Heidi” di Johanna Spyri ebbe più successo in Italia nel Novecento grazie
alla trasposizione giapponese in cartoon: il cartone ebbe più successo del libro.

Giornali per l'infanzia


Nei giornalini del dopo l’Unità meritano attenzione particolare due testate: “Cordelia”
destinata alle ragazze e, tra i periodici indirizzati ai più piccoli, il “Novellino”.
“Cordelia”. Il settimanale “Cordelia”, edito da Le Monnier e diretto da Angelo de
Gubernatis, nasce nel 1881 e con le sue otto pagine fitte si presenta in testata come
“foglio settimanale per le giovinette italiane”, anche se precisa il direttore, “non per le
giovinette in genere, ma per quelle che studiano in famiglia, o vanno ancora a scuola”.
I punti di riferimento della filosofia che ispira il giornale sono la famiglia e la scuola, le due
istituzioni cui sono demandati i ruoli educativi fondamentali.
“Novellino”. Una novità di grande interesse nel campo dei periodici per l’infanzia
rappresenta il settimanale romano “Novellino”, sorto nel 1899 e pubblicato dalla casa
editrice Calzone-Villa come “foglio illustrato a colori per bambini”: il periodico, infatti,
propone per la prima volta in Italia la novità di pagine con illustrazioni a colori. Rispetto alle
colonne di stampa grigie e uguali dei giornalini precedenti, “Il Novellino” può
accompagnare i racconti, le fiabe, le novelle con numerosi disegni riccamente colorati che
incantano i giovanissimi lettori e costituiscono un nuovo strumento di stimolo delle
capacità di immaginazione.
Spesso il rapporto tra scritto e disegno, soprattutto in copertina e nell'ultima pagina, si
rovescia e prevale l'illustrazione nelle brevi e semplici storie vignettate con versi.
Per i primi tempi la maggior parte delle illustrazioni sono firmate da Raimondi, mentre con
il tempo anima creativa del giornalino diventerà Yambo. Accanto al “Novellino”, infatti,
apparve “Il Novellino rosa”, stampato su carta rosata, diretto sempre da Yambo.
Dopo qualche anno, “Il Novellino” si presenta in testata semplicemente come “foglio di
fiabe e novelle” senza mettere più l’accento sulle illustrazioni a colori; resterà, comunque,
in vita fino al 1922.

IV.Gli esordi del Novecento

Introduzione
All’esordio del nuovo secolo viene ucciso il re e inizia una fase complessa della storia
nazionale, connotata da spinte patriottiche nazionalistiche: l’Italia vuole conquistare un
posto negli imperi e, dunque, si lancia in avventure coloniali. Idealmente, quest’età si
conclude nel 1914 con lo scoppio della I Guerra Mondiale.
Dal punto di vista della letteratura dell’infanzia, Andrea Zanzotto rileva come proprio a
partire dagli esordi del secolo sia possibile individuare un composito intreccio di tre
tendenze con le quali chiunque presti attenzione alla letteratura giovanile è costretto a
fare i conti, sia in sede teorica sia in sede di ricostruzione storica. Le osservazioni di
Zanzotto, a dire il vero, sono riferite specificamente alla poesia, ma il loro valore può
certamente essere esteso a tutta la produzione, in prosa e in versi, che fa riferimento
all’infanzia: finalmente ci sono autori che non scrivono espressamente per bambini, ma
che hanno una poetica al tema dell’infanzia intesa come un momento della vita dell’uomo
che merita un particolare rispetto e una particolare cura.
Una prima tendenza è caratterizzata dalla creazione di una letteratura “incentrata
sull’infanzia” e comprende gli scritti di autori che solo occasionalmente producono per un
destinatario, i bambini e le bambine, istituzionalmente diverso da quello a cui sono abituati
a rivolgersi: gli scrittori, dunque, non sono abituati a rivolgersi ai bambini.
Per quanto riguarda la seconda linea consiste nel fatto che la letteratura non è più
didascalica o edificante come nell’Ottocento, ma è giocosa: c’è il gusto della parola come
gioco, ad esempio la parola in rima che accompagna i fumetti. Dunque, questi narratori
guardano all’infanzia per divertire.
Per quanto riguarda specificamente la poesia, sul piano formale che si abbandonano
“schemi metri e stilistici di tipo tardoromantico” per adottare moduli metrici liberamente
costruiti, sia per le soluzioni ritmiche, sia soprattutto per le scelte lessicali.
La terza è invece il fatto che è una stagione di grandissima vitalità del mercato editoriale
per l’infanzia: l’infanzia diventa interessante dal punto di vista della pubblicistica e dunque
gli editori investono ad esempio nella stampa a colori, nelle copertine figurative, negli
illustratori etc.

La lettura a scuola
Lingua e dialetto
L’ostilità verso i dialetti raggiunge le punte più alte e sprezzanti nei primi anni del nuovo
secolo, in coincidenza con l’emanazione, nel 1905, dei programmi per la scuola primaria,
nuovi rispetto agli ormai obsoleti programmi del positivismo. La guerra contro i dialetti si
gioca soprattutto nelle scuole. I programmi del 1905 della scuola primaria con rigorosa
insistenza impongono l’attenzione massima alle correzioni degli errori dialettali.

I libri scolastici
I libri di lettura della scuola elementare, gli unici libri a entrare nelle case di molte famiglie
e ad essere letti a volte anche dei genitori, per i primi anni del Novecento restano nella
sostanza dei contenuti ancora vincolati ai parametri ottocenteschi, cioè finalizzati ad
ammaestramenti morali. Si basano sulla mozione degli affetti/sentimentalismo: moralità e
retorica del patetico di ispirazione deamicisiana, modello che si era imposto dalla mentalità
dei maestri di scuola.
Gli autori e le opere

L’avventura missionaria di Ugo Mioni


Ugo Mioni (1870-1935), figlio di un ufficiale della Marina, è un autore post-salgariano che
si dedicò contemporaneamente alla letteratura avventurosa per ragazzi e a opere di
cultura religiosa, dando alle stampe più di 400 libri. Mioni, letto e giudicato negativamente
anche da Gramsci per il contenuto antisemita dei suoi testi e per la trascuratezza stilistica
e grammaticale della scrittura, cerca di incanalare l’avventura salgariana entro i binari di
un cattolicesimo conservatore, diffidente nei riguardi del mondo moderno e
sostanzialmente ostile agli stessi meccanismi liberatori e fantastici del genere
avventuroso. Di conseguenza, abbiamo una scarsa incidenza del prodotto letterario: i libri
vendono molto, ma solo perché regalati dalla Chiesa e “letti per castigo, per imposizione o
per disperazione” (Gramsci)
L’atteggiamento polemico di Mioni investe i giudici anticlericali, le università che fanno
perdere la fede ai giovani, le manifestazioni del mondo moderno.
Lo scrittore si rifugia, quindi, in una improbabile società preindustriale, descrive le bellezza
della natura, valorizza la dimensione del viaggio, ma il suo strumento linguistico è
inadeguato anche a questo scopo perché conosce solo un’assurda mescolanza di
scolastica letterarietà e di modi del parlato.

Luigi Motta: sui sentieri di altre avventure


Luigi Motta, come Mioni, oggetto della stroncatura di Gramsci, è noto come “copioso
scrittore di romanzi d’avventura che non contento di aver istupidito tanti innocenti bambini,
vorrebbe continuare la sua opera anche con gli adulti”.
La scrittura di Motta è spesso gonfia e manierata, la macchina narrativa gira a pieno ritmo
mescolando in continuazione gli stessi elementi e il dato conclusivo forse più interessante
riguardo la dimensione industriale che lo scrittore sa dare alla propria attività.
I suoi libri sono intitolati “Le tigri del Gange”, “Dominatore della Malesia”, “Devastatore
della giungla”, i quali ostentano l’ispirazione salgariana dalla quale non riesce mai a
rendersi autonomo.

Giuseppe Ernesto Nuccio: i conti con la realtà


La narrativa di tipo realistico trova in Giuseppe Ernesto Nuccio un significativo
rappresentante. Nuccio fu davvero figlio del Risorgimento: suo padre, palermitano, ufficiale
dei bersaglieri di la Marmora, sposò la milanese Clotilde Gerli , figlia di uno scultore
piuttosto noto, e dal nord tornò in Sicilia nel 1878.
Ernesto Nuccio è il fautore di una narrativa più realistica (quasi verista) che affonda le
sue radici nel Cuore di De Amicis, ma usa una forma più melliflua per trattare il tema del
“fare gli italiani”.
I primi scritti sono più sensibili alle posizioni naturaliste (Verga, Capuana), ma nella
produzione successiva i suoi testi non sono esenti dai tradizionali vizi di moralismo e
didattismo della maggior parte degli autori contemporanei e che lo hanno preceduto.
Propone un consenso acritico all’autorità costituita da Crispi e da Mussolini: tale
atteggiamento è condiviso con molti autori di letteratura giovanile e degli insegnati, sia per
la debolezza della loro formazione culturale, che per la subalternità delle loro occupazioni.
Bisogna dire che Nuccio si muove sul terreno della produzione per l’infanzia in modo
piuttosto articolato, è attento all’evoluzione dei tempi, ai cambiamenti di regime, alle
esigenze degli adulti educatori.
I notissimi Racconti della Conca d’Oro, pubblicati per la prima volta sul “Giornalino della
Domenica” di Vamba: sono un prodotto letterariamente riuscito. I giovani protagonisti
emarginati risaltano per la loro innocenza anche quando si mettono al di fuori delle leggi,
le immagini appaiono efficaci e tese e non manca una qualche ironia nelle definizioni,
finanche il senso della morte che pervade ogni pagina non risulta esasperato e alcune
descrizioni costituiscono pagine da antologia.
In Testagrossa acconsente, ad esempio, siamo davanti ad un problema, quello della
mafia, che conserva tutta la sua autorità; Testagrossa da giovane sbandato parteciperà al
“gioco” dell’omertà, entrerà fra gli amici e la sua strada sarà segnata dalla rinuncia
all’istruzione.
I racconti non hanno necessariamente un lieto fine e Nuccio non rinuncia a un approccio
moralista e i suoi ideali si riducono a Dio, Patria e Famiglia.
Gli ideali di Nuccio trovano sponda nel fascismo, tanto che lui scrisse dei testi di chiara
ispirazione fascista, intitolati “A noi” E Vita e insegnamenti del Duce”.
Fra il Nuccio verista dei Racconti della Conca d’Oro e quello fascista nessuno dei racconti
brilla per particolare originalità, anche se almeno vengono risparmiate lettore
atteggiamenti troppo caricati dal punto di vista sentimentale o politico.

Enrico Novelli: la coazione del racconto


Yambo, pseudonimo di Enrico Novelli (1874-1943), figlio del grande attore Ermete, muove
i primi passi della sua formazione nell’ambiente teatrale, una teatralità fantasiosa,
sorridente, vitalistica, a volte irriverente, ma talvolta anche facilona e spavalda.
La sua carriera di scrittore, disegnatore, giornalista, drammaturgo comincia con un’alta
consapevolezza di sé e del suo mestiere: a 15 anni pubblica il suo primo romanzo, di
evidente matrice verniana, Dalla Terra alle Stelle, subito dopo scrive e illustra Il Cavaliere
Nero e fonda e dirige “Il Marciapiede“. Da quegli anni in poi, Yambo pubblica via via un
centinaio di libri, un numero sconfinato di racconti e novelle, collabora giornali e riviste,
dirige il quotidiano di Firenze “La Nazione“ e dal 1927 al 1942 “Il Nuovo Giornale“, fonda
un “Teatro dei Fantocci“ che si impone con considerevoli successi in Italia e all’estero.
La sua scrittura ha sempre un carattere irruente, fantasioso e talvolta frettolosa: punta a
stupire i lettori, grandi o piccoli che siano, con trovate, invenzioni di personaggi e situazioni
incredibili, adottando uno stile che vuole essere ad ogni costo brioso, vivace, divertente:
ad esempio, non si può non rimanere colpiti da Capitan Fanfara, una caricatura che mira a
dare un carattere enfatico e spavaldo a tutto quello che qualifica.
Altri fattori specifici della scrittura yambiana sono la voluta esagerazione delle sue trovate,
il tono umoristico scanzonato e finanche goliardico, la ferma rinuncia a ogni morale
conclusiva e a qualsiasi ammaestramento edificante. Questi ingredienti lessicali, sintattici
e retorici, quando sono ben combinati ed evitano di cadere in eccessi e in compiacimenti,
fenomeni di cui Yambo a volte è vittima, formano una ricetta narrativa che raggiunge
immediatamente la curiosità e l’intelligenza dei ragazzi. Allora si stabilisce tra scrittore e
lettore un rapporto di pieno coinvolgimento e capiamo come la lettura per puro
divertimento e per puro piacere del testo, sia connaturato la scrittura di Yambo.
Si ispira a Salgari, a Verne per certi tratti ed è un anticipatore del futurismo, in quanto
esalta le macchine e la velocità.
Yambo è inoltre un onnivoro consumatore di parole: si appropria di vari linguaggi e di
schemi narrativi e li riutilizza, magari per farne parodia nelle sue storie per ragazzi.
Non è certo senza significato che per i primi tre decenni del ‘900 egli pubblichi a getto
continuo titoli nuovi (anche due-tre in un anno) e metta sul mercato senza interruzione
restante e rimaneggiamenti di libri già usciti, tanto da apparire un perfetto promoter di se
stessi e della sua opera.
I volteggi di Antonio Rubino
Antonio Rubino, poeta, scrittore, illustratore, appare fra le vittime più illustri del
pregiudizio che vuole la produzione per l’infanzia e per l’adolescenza chiusa in spazi
ristretti, in oasi di sereno moralistico buon senso, in paradisi davvero artificiali di innocenza
e candore. Rubino esordisce in un volume nel 1911, con Versi e disegni, il quale consente
di verificare il solito legame fra le prime prove poetiche e la successiva produzione per
bambini comprese le bande disegnate, le vignette, i cartoni animati.
Rubino, proprio perché coinvolge il lettore nelle sue fitte trame di immagini e parole, non
rinuncia a giustiziare con l’ironia e il grottesco ogni pretesa di morale assoluta.
Nel corso della sua carriera Rubino crea almeno una cinquantina di personaggi, in
maggioranza presentati nella tipica forma di sei-otto tavole con gli ottonari in sostituzione
degli americani baloons, all’insegna di un tratto aguzzo, ora rotondo, ma sempre
ricchissimo e bizzarro nella creazione di scenari naturali e domestici.
Delinea tipi e caratteri, mescola elementi diversi, ma non abbandona la razionalità della
sua costruzione; c’è una geometrica compostezza anche nelle sue soluzioni assurde, nelle
sue decisioni imprevedibili, nel gusto ligure e popolare per il surreale. Rubino manda in
scena una straordinaria serie di personaggi, che recitano con bravura da parte loro
assegnata, ma fingono di ignorare ogni volta gli esiti dell’avventura di carta, ottenendo così
effetti imprevedibili.

I crepuscolari dell'infanzia
La presenza dell'infanzia nelle opere crepuscolari è duplice: per un verso è la dolceamara
età trascorsa, nostalgico universo di ingenuità e spontaneità smarrite, dimensione di vita
disimpegnata dai vincoli della realtà adulta; per altro verso, il bambino viene assunto come
fattuale interlocutore e destinatario di scritti in prosa e in versi specialisticamente prodotti.
Ricordo e ritorno all'infanzia attraverso la memoria della propria esperienza acquistano
toni a volte patetici e nostalgici per una fanciullezza dolorosamente vissuta, altre volte toni
malinconicamente estenuati per una serenità perduta e non più riconquistabile.
Ma quel che conta di più è la vera e propria rivoluzione del linguaggio poetico che i
crepuscolari attuano nel primo decennio dell’Ottocento: ai modi solenni e ricercati, essi
sostituiscono un linguaggio che si ritira, spesso con animo ironico e insieme nostalgico, a
rappresentare la quotidianità delle piccole cose e l’universo dell’intima familiarità.
Lina Schwarz (1876-1947), autodidatta, attenta ai problemi sociali, fu soprattutto
poetessa per i bambini: Il libro dei bimbi, Ancora, ...e poi basta costituiscono le tappe più
significative di un'esperienza letteraria degna ancora oggi di qualche considerazione.
Lina Schwarz mostra, inoltre, di saper usare con perizia i ritmi delle cantilene tradizionali e
sa anche rendere divertenti i motivi più frusti della poesia d'occasione.
Corrado Govoni (1884-1965) è celebre e celebrato nell'ambito della letteratura giovanile
grazie a una delicata poesia “La Trombettina “ ospitata da gran parte dei libri di lettura
della scuola elementare e delle antologie di scuola media.
Tratta dalla raccolta Il Quaderno dei sogni e delle stelle del 1924, in pochi versi (16 in
tutto) rappresenta la felicità di una bambina che suona una trombettina di latta da pochi
soldi.
L’unica opera che Govoni scrive per l’infanzia è quel quasi sconosciuto Libro del bambino,
pubblicato a Milano nel 1913 presso l’editore Rizzoli. Il libro raccoglie dieci testi (quattro in
versi e sei in prosa ) e intende essere in assoluto il libro del bambino: già col titolo che
porta ambisce al ruolo di totale esemplarità.
Veramente singolare è il caso di Aldo Palazzeschi che pur non avendo scritto nulla per
l'infanzia, ha avuto e continua ad avere grande fortuna presso i piccoli per certi suoi
deliziosi componimenti poetici, ospitati nei libri di lettura per la scuola elementare e nelle
antologie per la scuola media: Rio Bo, La fontana malata, Lasciatemi divertire, Comare
Coletta, La passeggiata vengono proposte ai bambini secondo procedimenti di “riduzione”
alle ragioni scolastiche il più delle volte del tutto diverse dalle ragioni della poesia .

Guido Gozzano
Gozzano scrisse per bambini alcuni versi che, per quanto le si voglia e si possa
valorizzare, risultano a conti fatti veramente marginali rispetto al resto della sua
produzione poetica. Si tratta di un esiguo gruppo di otto liriche nate perlopiù come poesia
d’occasione: una per la nascita del fratello Renato, altre per celebrare in versi festività
della liturgia cattolica.
Certamente non marginali nella produzione gozzaniana sono le fiabe: l’autore sa bene che
l’esagerazione è sempre un’efficacia e generosa ispiratrice di fiabe. Sa che è l’esagerata
presentazione, fino alla deformazione, di personaggi, di situazioni, di funzioni, di azioni a
qualificare la struttura testuale del genere fiaba e, al tempo stesso, a raggiungere i
giovanissimi lettori e toccare le corde giuste della loro immaginazione. Allora dà vita a
personaggi bizzarri che se non appartenessero all’universo fiabesco, dove tutto, anche
l’impossibile l’assurdo, ha immediato diritto di cittadinanza, si direbbero figure di matrice
surrealistica.

Giulio Giannelli: l’attrazione per l’infanzia


Giulio Giannelli è voce sicuramente minore del panorama della poesia italiana del primo
Novecento: i suoi versi videro la luce su riviste e raccolte quasi clandestine. La fama di
Giannelli come autore per ragazzi è affidata soprattutto al suo romanzo storia di Pipino
nato vecchio e morto bambino, che ha per motivo conduttore quello dell’adulto che torna
bambino.

Marino Moretti o dell’ambivalenza


Marino Moretti mantiene nei confronti dell’infanzia un atteggiamento ambivalente, sia
quando essa viene designata destinataria di versi e prose, sia quando la fanciullezza
diventa soggetto e protagonista di storie in versi. Lo straordinario suo mestiere di poeta e
di narratore costruisce testi soltanto in apparenza per bambini, ma nella sostanza ben
lontani dall’aria degli interessi e dalle possibilità di fruizione infantile. Il tono sommesso, la
cadenza musicale del verseggiare, la disadorna prosa-poesia di Moretti, che possono di
primo acchito far ritenere i suoi comportamenti, senza mediazione alcuna, adatti
all’infanzia, sono di fatto strumenti per la elaborazione di un atteggiamento d’animo
complesso, insieme distaccato e nostalgico, partecipe e al tempo stesso ironico. Insomma,
l’ambivalenza di Moretti pare operare secondo un meccanismo precisamente identificabile:
assume la dimensione infantile, i suoi tratti più quotidiani e umili, prima di aspirazione, la
rappresenta secondo una narrazione esemplarmente fluida e suggestiva, quindi la piega la
ragione di un’allegoria del patetico o del nostalgico, partecipe e al tempo stesso ironico.

Giovanni Pascoli e la lingua del “Fanciullino”


In fatto di testi destinati a ragazzi, Pascoli si impegna nella realizzazione di antologie
scolastiche, quali Lyra (1895) ed Epos (1897), Fior da fiore (1900) eccetera.
La presenza e il rilievo di Pascoli nella letteratura per l’infanzia sono affidati meno alle
poesie per ragazzi e più a ciò che, in versi e in prosa, scrisse sull’infanzia come età
dell’innocenza intatta, della spontaneità aurorale, dello sguardo innocente, della parola
sorgiva.
L’idea che Pascoli ha dell’infanzia si ricava con sufficiente chiarezza dal celebre scritto Il
Fanciullino, che contiene la formulazione più compiuta e articolata della sua poetica.
Pubblicato nel 1897 sulla rivista “il Marzocco“, ampliato e riproposto nel 1903 e ancora nel
1907.
“È dentro di noi un fanciullino“: questo l’esordio del discorso in venti paragrafi. Da subito il
fanciullino è ritratto secondo caratteristiche che ne sottolineano l’intatta identità di
originaria puerilità, di ingenuo stupore, di un parlare e dire spontanei. Chi meglio incarna il
fanciullino e il Poeta. Il poeta riesce a dargli spazio e voce, ad alimentarne l’autentico
desiderio di vedere.

Luigi Bertelli (Vamba) e il Gian Burrasca


Luigi Bertelli, meglio conosciuto come Vamba, mentre si trovava a Foggia era un
funzionario dell’amministrazione ferroviaria.
In questi anni, Vamba frequenta, fra gli altri, Pietro Coccoluto Ferrigni e Luigi Arnaldo
Vassallo, due protagonisti del giornalismo scritto ma anche di quello disegnato: questi
contribuiscono sicuramente a sviluppare in lui quella tendenza all’illustrazione caricaturale
e pupazzettistica che esploderà nei tipi del Giornalino di Giamburrasca.
In ogni caso, dal romanzo Ciondolino, nel 1895, Vamba si dedica al mondo dell’infanzia:
un ragazzino negligente e disordinato, viene soprannominato Ciondolino perché un lembo
di camicia gli usciva sempre dai calzoni, il quale non ama lo studio e preferisce cambiare
stato trasformandosi in formica. Nel mondo degli animali, però, ci sono i pregi e i difetti,
finché Ciondolino tornerà più maturo e consapevole alla primitiva condizione.
Si potrà notare che Ciondolino offre diverse chiavi di lettura: da un lato mette in gioco
riferimenti al momento storico (governo, imperialismo, immigrazione) e dall’altro costringe
a un confronto serrato con quei temi comuni alla letteratura popolare di fine ‘800.
Riguardo il Giornalino di Giamburrasca, invece, le cinquantacinque puntate che lo
costituiscono, sotto il velame umoristico e birbantesco, furono cariche di intenzionalità
pedagogica verso i giovanissimi figli della borghesia italiana.
La carica umoristica di questo, disegni compresi, sta soprattutto nell’esperienza di un
autore che arriva alla stesura del suo capolavoro dopo anni di militanza giornalistica sul
versante della satira politica: non perde, infatti, occasione per mettere a dura prova
egoismi e ipocrisie del ceto benestante, a cui Giannino per nascita appartiene.
Vamba, inoltre, mette in evidenza che linguaggio degli adulti e linguaggio dell’infanzia
appartengono a sfere diverse e, fra i due, quello meno sincero e costruito su convenzioni e
convenienze è sicuramente quello degli adulti: il Giornalino di Giamburrasca, infatti, da
questo punto di vista è testo per l’educazione dei “grandi”.
Vamba adotta per la comunicazione con i suoi giovani lettori una lingua colloquiale,
costituita da toscanismi, impiegati a dare colore locale alla scrittura. L’esito è un italiano
elegante e familiare, brillante, spesso con toni umoristi e ironici.

Ermenegildo Pistelli: nei panni di Omero Redi


Il frate scolopio Ermenegildo Pistelli (1862-1927), filologo, scrittore, educatore, quando,
messe da parte le carte dei suoi classici greci, latini e italiani, scriveva per ragazzi, aveva
bisogno di un alter ego capace di guardare e giudicare con gli occhi scapati di ragazzo “
privo del senso del contrasto e della relatività” e al tempo stesso di far tesoro della ricca
esperienza e della sanguigna visione del mondo del “professore”.
Dal 1906 al 1911 sulle pagine del “Giornalino della Domenica” escono le Pìstole che
Omero Redi, all'inizio alunno di quarta elementare e poi ginnasio , indirizza al direttore del
periodico, Vamba ,per raccontare “tante cose buffe che succedono nelle scole”. Le Pìstole
funzionano come un arguto e appassionato osservatore delle vicende politiche, culturali,
scolastiche, oltre che di costume .
Pistelli via via ironizza su questioni linguistiche, scolastiche e pedagogiche, politiche, ma
lui ha soprattutto obiettivi politici: mira a infiammare gli animi dei giovani lettori per l'idea
irredentista. Da quel che finora si è detto, il lettore avrà notato che la figura di padre Pistelli
pare segnata da contraddizioni non da poco.
Giorgio Pasquali traccia un ritratto dettato da incondizionata stima del Pistelli scrittore per
ragazzi ,filologo e educatore .Girolamo Vitelli, che fu suo insegnante, commemorandolo ad
un anno dalla morte, ne tesse elogi commossi, ne spiega e giustifica il bollente amor di
patria ma, sia pure con delicatezza e, per così dire, indirettamente, attraverso un paragone
con san Girolamo ,accenna alla sua violenta intolleranza .

Collodi Nipote e “Sussi e Birbissi”


Paolo Lorenzini (1876-1958), figlio di un fratello di Carlo Collodi, firmandosi appunto
Collodi Nipote, calca la scena della letteratura per l'infanzia per molti anni come autore di
testi narrativi e continuatore del Pinocchio dello zio.
L’ideologia dello scrittore è legata sicuramente a un universo preindustriale, a un mondo
contadino che conosce la fatica fisica e guarda con preoccupazione l'imprenditorialità dei
ceti emergenti.
L’unico suo testo che appare offrire più spunti a livello critico è Sussi e Birbissi, a cui non
mancano quella felicità espressiva e quell’ironia tipica del Collodi maggiore.
Sussi e Biribissi è un piccolo capolavoro: due ragazzi, Sussi e Biribissi, profondamente
diversi nel fisico ma legati da grande amicizia, vogliono emulare i protagonisti del verniano
Viaggio al centro della Terra, affrontando così una paradossale discesa negli inferi delle
fogne di Firenze. Le vicende dei due protagonisti sono sostanzialmente un ricalco della
trama di Don Chisciotte della Mancia di Cervantes, non solo per la dinamica degli
avvenimenti, ma anche per il motivo generatore della storia.
La lingua di Collodi Nipote è infarcita di toscanismi e il tono narrativo risulta spesso
scomposto e denso di effetti comici inattesi.

Giornali per l’infanzia


Il Corriere dei Piccoli
A Natale del 1908 entra nelle famiglie della buona borghesia italiana il primo numero del
“Corriere dei Piccoli”. Geniale appare subito l’impostazione grafica con la prima pagina
divisa in riquadri a vignette colorate e ai piedi quei versi parisillabi a rima baciata destinati
a segnare fino i nostri giorni uno dei più produttivi e divertenti percorsi della poesia per
bambini, ma geniale risulta anche l’idea di importare i personaggi dei fumetti che
furoreggiavano in quegli anni negli Stati Uniti. Il “Corriere dei Piccoli” è italiano, aperto
all’estero, pensato per una borghesia medio-alta capace di controllare razionalmente i
processi di sviluppo.

“La Domenica dei Fanciulli”


“La Domenica dei Fanciulli“, diretto da Luisa Sclaverano, nasce a Torino all’inizio del
secolo (1900). Ci troviamo davanti a una rivista sostanzialmente povera anche dal punto di
vista grafico-editoriale e, se si prescinde dalla copertina a colori con illustrazione centrale
ogni volta affidata a disegnatori diversi, non si ritrova all’interno delle 13 pagine di ogni
fascicolo che una scansione piuttosto precisa degli argomenti.

“Il Giornalino della Domenica”


“Il Giornalino della Domenica“ nasce nel 1906, quando l’editore fiorentino Bemporad
incarica Luigi Bertelli (Vamba) di progettare un nuovo periodico per ragazzi. E’ diretto da
Bertelli fino al 1911; nel 1918, dopo la conclusione della guerra, riprende le pubblicazioni
per due anni ancora, fino alla morte di Vamba (1920). Dal 1921 al 1924 viene stampato a
Milano, con periodicità quindicinale, sotto la direzione di Giuseppe Fanciulli. Nel 1926 la
testata è acquisita da Mondadori.
Il linguaggio, tranne alcuni casi, tende in genere a conformarsi ad uno stile semplice e
diretto, lontano dai paludamenti retorici dalla tradizione. Il “Giornalino“ rompe con la
tradizione dei periodici dell’Ottocento che si configurano come veri e propri sussidi
didattici. Nelle pagine dirette da Vamba si preferisce proporre e offrire ai giovanissimi
lettori scritti di firme prestigiose da cui risulta assente ogni connotazione scolastica, ad
esempio Emilio Salgari ed Edmondo De Amicis, i quali collaborano con racconti, poesie,
articoli che non hanno nulla a che fare con il quotidiano fare scuola e fanno riferimento
semmai ad un progetto formativo che ha come proprie finalità non di leggere, scrivere e far
di conto, ma la progressiva acquisizione di un’identità culturale e sociale tipica della
nascente borghesia urbana. Si rivolgono ad un interlocutore che non è più lo scolaro
impegnato nell’apprendimento di nozioni, ma il ragazzo in quanto persona
autonomamente dotata di gusti, desideri, fantasie. L’unico che parla di scuola sulla pagina
del periodico, ma solo per criticarne e irriderne l’organizzazione, i programmi, le
consuetudini di insegnamento è il caustico Omero Redi.
Il “Giornalino“, insomma, si presenta sulla scena dei periodici per ragazzi come un
soggetto educativo alternativo e parallelo all’istituzione scolastica, uno strumento di
formazione precisamente calibrato sulle esigenze culturali della borghesia. Ogni fascicolo
è aperto da pagine color rosa dedicate alla corrispondenza con i lettori di ogni parte
d’Italia.

V. Guerra e dopoguerra (1915-1922)

Introduzione
L’esame dei giornali di trincea nella guerra 1915-18 ha consentito a Mario Isnenghi di
mettere in luce questioni determinanti per lo sviluppo della nostra storia nazionale, dalla
funzione degli intellettuali come organizzatori del consenso all’insistenza su quei temi che
risultano presenti anche nella produzione per l’infanzia; per parlare alle classi subalterne e
convincerle dell’opportunità del conflitto sembrava necessario, infatti, giocare sui
sentimenti elementari, idealizzati, emotivamente coinvolgenti e risultava ovvio, pertanto, il
ricorso al linguaggio bamboleggiante, a toni infantili, degni più di deamicisiani maestri di
scuola che di seriosi professori di liceo.

La lettura a scuola
Lingua e dialetti
Negli anni intorno alla guerra, le cifre della presenza di analfabeti nel paese vanno, sia pur
lentamente, riducendosi; la scolarizzazione ottiene un qualche tiepido ma concreto
risultato; l’editoria passa decisamente da un’organizzazione di tipo artigianale alla
dimensione industriale. Il paese, in parte, intraprende la strada di una moderna
industrializzazione. Restano tuttavia ampi i margini di analfabetismo. L’Italia è ben lontana
dai livelli culturali raggiunti da altri paesi europei. Ancora nel 1911, quasi 4 italiani su 10
sono del tutto estranei alla conoscenza e all’uso della lingua nazionale, e in circa la metà
dell’Italia il tasso di analfabetismo supera il 50%. Quel che resta preoccupante tuttavia è il
grande divario tra Nord e sud, tra un’Italia avviata a traguardi di civiltà industriale e un’Italia
ancora ferma, in alcuni settori della vita pubblica e privata, a strutture addirittura medievali.

I libri scolastici
Nel 1922 un libro di lettura per la quinta elementare, Ascendere, di Angelo e Enrica Josia,
propone ai bambini un testo di Maria Bartolini in cui si affermano idee eccezionalmente
avanzate e progressive. Il brano, che nella sua interezza è una ben articolata
argomentazione sulla libertà di pensiero e secondo il procedimento didattico della
induzione, pone a confronto opinioni dei ragazzi su questioni varie (la campagna ela città,
libri lieti e libri tristi, argomenti scientifici e argomenti letterari ecc.) con le idee politiche dei
“grandi”, è accompagnato da una rubrica didattica che chiede risposta ad un gruppo di
interrogativi.
Un testo del genere, apparisse in un libro di lettura dei giorni nostri, sarebbe accolto con
una qualche perplessità in quanto “rivoluzionario”, troppo avanzato rispetto alle diffuse
cautele che ispirano molti corsi per la scuola elementare. Alle idee progressive si
accompagna una immagine nuova del bambino e del suo mondo esistenziale: una
immagine fatta di gioiosa vitalità e allegra operosità. Gli autori di libri scolastici si lasciano
“catturare dal fascino dell’ingenuità infantile e dalla naturalezza con cui il bambino mette in
atto il fantastico, il surreale, l’assurdo“. Una stagione felicemente aperta all’infanzia, quella
degli anni del secondo decennio del ‘900. Ma, come vedremo, l’interessante fenomeno di
attenzione particolare alle dimensioni autentiche dell’infanzia ha vita brevissima. Dietro
l’angolo della storia si nasconde il progetto educativo e politico di una subordinazione di
bambini e bambine all’idea di Stato autoritario ed è loro inquadramento negli schemi
dell’addestramento premilitare e saranno Figli/Figlie, della lupa e Balilla e Piccole italiane.

Gli autori e le opere

Laura Orvieto e “Beppe racconta la guerra”


L’attività letteraria di Laura Cantoni Orvieto (1876-1953) si svolge a stretto contatto con
gli ambienti della migliore intellighenzia fiorentina dei primi decenni del ‘900. Moglie del
poeta Angiolo Orvieto, è tra i protagonisti del clima di grande fervore intellettuale che a
Firenze fiorisce grazie alle attività organizzative della famiglia Orvieto. Lei collabora al
“Marzocco“, ma il suo interesse e la sua sensibilità sono indirizzati prevalentemente alla
narrativa per l’infanzia.
Esordisce nella scrittura per ragazzi nel 1909 con un libro di storie dedicate ai figli,
intitolato Leo e Lia. Storia di due bimbi italiani con una governante inglese. Due anni dopo
scrive l’opera sua di maggior successo, Storie della storia del mondo, in cui una mamma
racconta ai suoi due bambini Lia e Leo i miti greci che fanno da contorno alla guerra di
Troia. La materia del libro è il frutto di un intelligente e, per molti versi, coraggiosa
rielaborazione.
Nel 1914, Orvieto pubblica una raccolta di favole, Principesse, bambini e bestie, e nel
1920 da alle stampe Sono la tua serva e tu sei il mio signore. Nel 1925, in occasione del
decennale dell’entrata in guerra, pubblica Beppe racconta la guerra, cronaca romanzata
del conflitto dal 1915 al 1918.
Il ciclo dedicato ai miti classici viene ripreso con altri tre libri: il Natale di Roma (1927), la
forza di Roma (1933) è, nel 1937, Storie dei bambini molto antichi. Poi, dall’autunno del
‘38 le leggi razziali emanate dal fascismo obbligano la scrittrice a un doloroso e forzato
silenzio.
Beppe racconta la guerra è certamente il libro di maggiore impegno della Orvieto, nel
senso che è costruito secondo un copione narrativo di particolare efficacia. Una struttura a
cornice in cui si dà un personaggio-affabulatore, consente qui di presentare tre diversi
intrecci, uno centrale di natura rievocativa e due complementari.
Vediamo in dettaglio tre livelli narrativi a cui si è accennato.
Il primo, di contenuto prevalentemente emotivo e sentimentale, coincide con il contesto
affabulatorio in cui si svolge il racconto degli anni di guerra. Alla fine della giornata di
lavoro, Beppe racconta la guerra, alla quale ha partecipato come soldato automobilista, ai
suoi colleghi che sono a servizio della stessa casa, il cameriere Jean, la guardarobiera
Maddalena, Andrè cameriere da tavola, la signorina Nora, e altri domestici. In questa
cornice si origina una varia trama di rapporti fatta di simpatie, gelosia, invidia: soprattutto,
ha rilevanza il trasporto di Beppe per Nora che alla fine sfocerà in dichiarato amore.
Il secondo livello o contesto narrativo, di contenuto storico, è dato dal racconto della
guerra, articolato nella rievocazione di vicende, luoghi e personaggi di maggiore
suggestione: lo slancio patriottico del popolo italiano, gli alpini e i bersaglieri, il re, fino alla
vittoria finale. Il racconto si snoda secondo i tipici moduli retorici della letteratura di guerra
che poggia sull’enfatizzazione degli eroismi, sull’esaltazione dei protagonisti, sulla
magnificazione del sacrificio e della sofferenza.
Ma il copione narrativo affrontato dalla scrittrice ha un ulteriore livello di lettura, i cui
contenuti alludono all’attualità politica. Questo terzo contesto, più sfumato e meno
percepibile rispetto ai primi due, è formato dai numerosi riferimenti più o meno espliciti alla
situazione politica e sociale dell’epoca di narrazione. A questo terzo livello di narrazione
l’autrice affida continui messaggi di fiducia e di credito verso chi è a capo della nazione: lo
comprovano le allusioni a Mussolini e soprattutto lo spazio rilevante riservato nel libro al
duca d’Aosta, più volte presente nel racconto di Beppe come eroe senza macchia e senza
paura.
Nell’ultimo capitolo, i tre segmenti narrativi si concentrano in un generale e tranquillizzante
lieto fine, così la macchina narrativa congegnata contro diversi livelli di lettura consentì
all’autrice di tessere una trama di personaggi che, grazie all’intreccio di vicende
sentimentali, politiche e storiche, catturano l’attenzione del lettore e al tempo stesso sono
portatori di una interpretazione dei fatti storici passati e presenti all’insegna della continuità
delle idee che prima condussero l’Italia in guerra e poi furono terreno fertile per il sorgere e
lo sviluppo del fascismo.

Salvator Gotta e “Il piccolo alpino”


La fama di Salvator Gotta (1888-1980), autore di una sessantina di romanzi (molti quelli
dedicati ai ragazzi) è legata a un libro, Il piccolo alpino, che all’uscita (1926) ottiene un
grande successo e resta fra i best seller per l’infanzia fino agli anni ‘50. Il libro narra la
storia del ragazzo Giacomino Rasi, che durante un’escursione in montagna per dei
genitori travolti con lui da una valanga e li crede morti; dopo diverse vicende, viene
adottato come mascotte dagli Alpini, vive da eroico protagonista il primo conflitto mondiale,
cattura spie nemiche e soldati avversari, porta informazioni ai nostri, ottiene una medaglia
al valor militare e infine ritrova sia il padre sia la madre che, impazzita per la scomparsa
del figlio, rinsavisce immediatamente alla sua vista. Il racconto non si ferma agli esiti
vittoriosi del primo conflitto mondiale e infatti nell’altra guerra del Piccolo alpino,
Giacomino Rasi vive da protagonista il caos del primo dopo guerra, entra nelle squadracce
fasciste e ha ripetuti scontri, sempre vittoriosi, con operai in sciopero, comunisti, anarchici.
Il libro è una continua esaltazione della violenza. Insomma, il tributo di servilismo di
Gotta verso il regime appare davvero fuori misura perché lo scrittore non si limita
all’esaltazione bigotta dei nuovi padroni, ma legge la contemporaneità storica all’insegna
della violenza cieca, brutale, finalizzata all’eliminazione fisica del nemico.
Anche in Soldatini di ogni giorno, scritto in collaborazione con Olga Visentini, Gotta esalta
il regime, ma forse per la presenza della scrittrice e per la maggiore distanza cronologica
dal dopo guerra, egli tempera la sua violenza verbale, si perde in descrizioni di vita
paramilitare, in atti di fede politica e religiosa. Negli anni ‘50 Gotta opera ancora una
trasformazione all’interno della sua vocazione e trasferisce sui giovani personaggi in altre
epoche, facendo loro vestire panni diversi: ad esempio, nel Piccolo soldato della grande
armata è il tredicenne Rino a indossare la divisa per ritrovare il padre granatiere arruolato
da Napoleone.
Sergio Tofano e “Il romanzo delle mie delusioni”
Sergio Toffano (1886-1973), figlio di un magistrato napoletano, segue a Roma corsi di
recitazione e debutta in teatro con Ermete Novelli, esordisce come illustratore per
l’infanzia sulla copertina del “Giornalino della Domenica“ di Vamba e nel ‘17 inventa per il
“Corriere dei Piccoli” il personaggio del signor Bonaventura, destinato a lasciare un segno
profondo nell’immaginario di diverse generazioni di italiani.
La storia personale di Toffano si sviluppa così fra il palcoscenico e le pagine illustrate di
libri e riviste in un intrecciarsi di scrittura teatrale che dà corpo alle figure, di percorsi
narrativi che diventano teatro, di invenzioni letterarie che pescano nel gigantesco
serbatoio delle fiabe e delle maschere.
Nel Romanzo delle mie delusioni, uscito a puntate sul “Corriere dei Piccoli“ nel 1917 e,
ripreso in volume da Mondadori nel 25, il protagonista Benvenuto non può certo fondare
un curriculum scolastico ammirevole e l’autore sembra prendere subito le distanze da quei
modelli esemplari di studenti di cui la letteratura per l’infanzia sembrava non poter fare a
meno. Dopo tante vicissitudini scolastiche e innumerevoli maestri privati, Benvenuto trova
il precettore che fa per lui, Palmiro Mezzanella. Il potere affabulatorio del maestro è tale
che il giovane Benvenuto gli ruba un paio di magici stivali fatti con la pelle di quelli delle
sette leghe e parte alla scoperta del mondo delle fiabe.
Dal punto di vista della struttura, poi, il Romanzo delle mille delusioni ha tutti gli aspetti del
romanzo di formazione.
Una modalità particolare della letteratura-gioco di Toffano è la parodia, la contraffazione, il
testo in prosa e versi che in termini ilari e funambolici fa il verso ad un altro testo.
La dimensione parodistica di Sergio Toffano ha natura bonaria e sobria e gli è strano ogni
elemento beffardo e derisorio. Toffano punta solamente a divertirsi con un affabile,
elegante e sorridente presa in giro del clamore delle immaginifiche acrobazie poetiche
dannunziana o delle corrive provocazioni futuriste o della lagna dei piccoli sentimentali
verificanti.

Giornali per l’infanzia


“Lo scolaro”
Il quindicinale (poi settimanale) genovese “Lo scolaro“ risulta particolarmente degno di
attenzione sia perché nasce a ridosso della guerra (1912), sia perché nei primi tre anni di
esistenza chiarisce fin dal titolo (“Facciamo gli Italiani“) il suo programma editoriale. Col
1915 il periodico assume l’intestazione più nota e conquista un vasto pubblico di
insegnanti, che lega le sue pagine soprattutto attraverso la pubblicazione dei
componimenti migliori che gli stessi docenti “associati“ forniscono.
“Lo scolaro“ ha una vita lunghissima, è diretto per molti anni da un insegnante, Giovanni
Battista Balestra, e di fatto non conosce le ricorrenti crisi di tutti i periodici destinati
all’infanzia. Le ragioni di tanta longevità sono dovute al fatto che l’impostazione
redazionale non muti negli anni, sia prevedibile e tranquillizzante, sistemi in apertura
vignette umoristiche piuttosto povere e rozze con didascalie a fondo pagina, usi con
larghezza il racconto educativo di taglio ottocentesco, trasformi gli stessi romanzi di
viaggio in percorsi di istruzione; in secondo luogo il carattere “istituzionale” della
pubblicazione, sempre rispettosa del potere costituito, sempre pronta a esplicitare i territori
verso il nuovo, a dar corpo alla vocazione piccolo borghese di molta classe magistrale;
infine il dato relativo al bacino di utenza: “Lo scolaro“ non è di fatto un settimanale per
ragazzi, ma un periodico per insegnanti di cui si interpretano umori, paure, aspirazioni.
In un linguaggio dotato della robusta terminologia che sarà tanto cara al regime fascista, la
rivista garantisce continuità di impegno educativo all’insegna di tutti i possibili Ideali con
l’iniziale maiuscola: Dio, Patria, Umanità, con i relativi corollari del Controllo sociale delle
devianze e dei sogni.
“Cuore”, giornalino dei fanciulli del popolo
Vita grama e stentata quella del settimanale “Cuore“, fondato nel 1921 e diretto da
Giuseppe Invernizzi. Resta in vita poco più di due anni tra interruzioni e difficoltà di
diffusione. Il primo fascicolo esce a Milano il 26 ottobre 1921, l’ultimo porta la data del 22
dicembre 1923.
L’articolazione di “Cuore“ è quella adottata dalla maggior parte dei giornalini per ragazzi: la
storia illustrata a colori in copertina, il più delle volte con i classici distici rimati, una tavola
o più tavole pure a colori nell’ultima pagina, le pagine interne occupate da racconti e
poesie, rubriche, spigolature umoristiche, curiosità, qualche fotografia in bianco e nero.
Uno spazio specifico ospita componimenti in prosa o in versi dei giovani lettori ai quali si
danno consigli sulla scrittura letteraria. Ma rispetto ad altre più curate testate, qui si
rilevano due grossi limiti: l’adozione di un linguaggio spesso adultistico e predicatorio e
una impaginazione scarsamente sorvegliata, contesti che si affastellano talora in modo
poco ordinato e funzionale.
Gli scritti che appaiono su “Cuore” sono basati su moduli linguistici didascalici, quasi mai
rinunciano al esemplarità edificante e al tono enfatico e moralistico. In copertina due
grandi vignette a colori rappresentano una locomotiva in partenza e sono accompagnate
da una didascalia che ha chiari riferimenti ad un socialismo ottimistico.

VI. Il ventennio fascista (1922-1943)

Introduzione
Incidere sugli italiani
La letteratura giovanile è il terreno sul quale, forse meglio che su altri, è possibile misurare
la capacità del fascismo di riuscire ad acquisire consensi incidendo sui comportamenti
mentali degli italiani. Nel campo della produzione editoriale, l’ambito specifico dei libri e dei
periodici destinati ai ragazzi e alle ragazze, per via del ruolo pedagogico e didascalico che
istituzionalmente rivestono, si trova, infatti, a essere più immediatamente soggetto a
processi di strumentalizzazione da parte del potere costituito e ad essere privilegiato come
canale di propaganda.
È del tutto ovvio che il regime totalitario mira a rappresentarsi in termini positivi soprattutto
fra le più giovani generazioni. I libri per l’infanzia diventano strumento di penetrazione tra i
giovani e giovanissimi con il compito di alimentare, con storie di varia esemplarità,
l’ideologia del regime, a partire dalla mitizzazione di Mussolini.
Tutto considerato, tuttavia, si può sostenere che i risultati della macchina del consenso
non hanno corrisposto alle aspettative del regime. Nel campo della letteratura per ragazzi,
come in altri campi del sapere, il fascismo riuscì, sì, a creare una sorta di mentalità fatta di
patriottismo acceso, di retorica reboante e magniloquente, di esaltazione di miti e riti
guerreschi. Ma non fino al punto di occupare totalmente e irreversibilmente il mondo
fantastico e immaginativo dei più giovani.
L’impressione è che gli enormi sforzi per costruire una cultura infantile omogenea al
fascismo abbiano avuto effetti più sugli adulti educatori che non sui diretti destinatari,
bambini e bambini, e che la rete del controllo di quanto in Italia si andava stampando e
diffondendo abbia funzionato più sul versante della censura e del divieto e molto meno sul
versante dell’efficacia di proposte nuove. L’atteggiamento degli scrittori per l’infanzia non è
in tutti i casi di totale arrendevolezza ai voleri del fascismo.
In quanto alle caratterizzazioni culturali e pedagogiche della letteratura giovanile, torna
utile distinguere nell’arco del ventennio fascista due periodi: prima e dopo la presa del
potere totale, prima e dopo il ‘26.
La prima fase è caratterizzata dalla dominanza della cultura idealista, la seconda fase
appare come un procedere, complesso e faticoso, verso la cultura fascista che sul piano
teorico non sarà mai raggiunta e formalizzata, e che, al contrario, sul piano degli interventi
concreti farà sentire il duro peso di provvedimenti censori, dal divieto di leggere opere di
autori stranieri fino alla lista degli autori ebrei “non graditi“ al fascismo, tra i quali Laura
Orvieto.
Giuseppe Lombardo Radice, estensore dei programmi scolastici della riforma del 1923,
ha modo di riflettere sui libri destinati all’infanzia sia quando fornisce ai maestri indicazioni
sulla scelta delle letture da proporre ai bambini nella pratica didattica, sia quando va alla
ricerca, sul piano della scrittura per giovani, di correlativi oggettivi delle sue idee
pedagogiche ispirate alla filosofia idealistica. Così nella premessa dei programmi per la
scuola elementare sottolinea il valore educativo della “grande letteratura che ha dato, in
ogni tempo, mirabili opere di poesia, di fede, di scienza, accessibile appunto perché
grandi, agli umili“. Secondo questo principio Lombardo Radice raccomanda innanzitutto la
lettura di libri di autori italiani, maestri di patriottismo e di educazione morale e civile.
A partire dal 1926 prende il via la seconda fase, quel processo di fascistizzazione che
attraverso tappe differenziate, tenderà a occupare tutti gli spazi dell’infanzia e a costruire
intorno all’esistenza di bambini e bambini, un rigido apparato di indottrinamento.
I libri per ragazzi saranno sempre più rigorosamente sottoposti a controllo, alle opere
straniere tradotte in italiano sarà impedita la libera circolazione, sarà istituito per le scuole
elementari libro il testo unico di Stato, molti periodici e fumetti, soprattutto americani,
saranno messi fuorilegge, si tenterà con “il Balilla“ di confezionare un organo ufficiale per
ragazzi, alternativa agli altri più diffusi giornalini.
Nel 1938 sarà istituita una commissione per la Bonifica libraria e in un convegno, a
Bologna, si proverà a mettere a punto una strategia di controllo di tutta la produzione per
ragazzi (libri scolastici e non scolastici, giornalini, fumetti, teatro, radio, cinema).
Tuttavia, come sopra detto, le incongruenze culturali, le disattenzioni e distrazioni, le
incapacità anche organizzative lasceranno spazio a pubblicazioni niente affatto
assoggettati a regime; opere che considerate nel loro insieme formano una zona franca,
che se non è di esplicita opposizione al fascismo, sicuramente è affrancata in misura
diversamente accentuata dagli obblighi di indottrinamento ideologico.

Un Convegno bolognese: “il bambino “naturalmente” fascista


Nel 1938 Mussolini istituisce la Commissione per la Bonifica libraria. Lo scopo è di
“adeguare la letteratura e l’arte da una parte, la cultura del popolo dei giovani dall’altra,
alle ispirazioni della nuova anima italiana e alle necessità dell’etica fascista“.
Qualche mese dopo si svolge a Bologna, promosso dall’Ente Nazionale per le biblioteche
popolari e scolastiche e dal Sindacato nazionale fascista autori e scrittori, un convegno
sulla letteratura infantile e giovanile che costituisce una decisiva svolta nel controllo di un
settore che rischia di sfuggire alla macchina organizzatrice del consenso che il regime va
mettendo in piedi.
Il convegno si articola su alcune idee di fondo:
a) il bambino è concepito come “naturalmente fascista“
b) il libro per l’infanzia deve essere “gioia serena, sostanziale nutrimento, fonte di fede
religiosa e patriottica, di bontà e di forza, di ardimento e di tenacia, di spirito di sacrificio di
disciplina“.
c) la letteratura giovanile deve affrancarsi dai libri stranieri, nocivi alla formazione delle
nuove generazioni.
“Una embrionale coscienza di razza”
L’antisemitismo fascista, che estromette dalle scuole italiane gli alunni e insegnanti di
razza ebraica, mette fuori legge anche i manuali scolastici e, in genere, i libri scritti da
autori ebrei. Gli stessi nomi saranno compresi in un elenco di oltre 900 autori “non graditi
in Italia“, che, compilato dalla direzione generale per la stampa tra il ‘39 e il ‘40, viene
trasmesso ai prefetti perché provvedano con interventi su editori e librai, a ritirare i loro libri
dalla circolazione. E nelle biblioteche pubbliche i loro libri vengono sottratti al pubblico con
il timbro “escluso dalla lettura” e relegati nei “reparti riservati” istituiti dal ministero
dell’Educazione nazionale.
Gli effetti della campagna di bonifica, tuttavia, solo, a conti fatti, limitati. Le difficoltà di
controllo di tutti i libri scritti da ebrei si rivelano insormontabili e non riescono a cogliere i
risultati desiderati.

Censura
Parallelamente ad una fase di repressione ed eliminazione di tutto quello che ancora in
circolazione è inviso a regime, si è mirato alla “Italianizzazione integrale“, della stampa
periodica per ragazzi costringendo gli editori a pubblicare “fatti e gloria della storia della
vita italiana“ e a dedicare spazio sufficiente “ai fatti e alla passione della nazione in
guerra“.
Topolino censurato. Un episodio significativo vede l’editore Mondadori, tra il 1941 e il
1942, in difesa delle storie dei personaggi di Walt Disney. Già nel marzo 1941 un
intervento ministeriale, coerentemente con la politica a favore di fumetti “autarchici“,
dispone di sopprimere dal settimanale “Topolino“, che conta su 110.000 lettori, la
pubblicazione delle storie create dal celebre disegnatore statunitense.
L’ordine non può essere certo accettato a cuore leggero. Significherebbe dover abolire
una delle principali fonti di profitto della casa editrice. Sulla base di questi indiscutibili
meriti si chiede di poter pubblicare materiali già acquisiti fino alla fine dell’anno. Il risultato
massimo ottenuto è la proroga delle pubblicazioni soltanto per qualche settimana,
nonostante gli interventi dell’editore, che propone di togliere il nome di Disney dalle
illustrazioni residue e di continuare a pubblicare, una volta esaurita la scorta, storie create
da autori italiani.

Il “caso” Descalzo: “illustri e cretini censori”. Altra vicenda esemplare di censura è


quella del romanzo per ragazzi di Giovanni Decalzo (1902-1951), Al lungo corso. Il
romanzo racconta la storia di Giorgio, adolescente italiano, orfano di entrambi genitori,
garzone di osteria in Australia. Il ragazzo si imbarca su un tre alberi per tornare in Italia dal
nonno materno che aveva rotto i rapporti con la figlia e arriva, dopo molte avventure,
maturo, pieno di buon senso e di denaro. Il libro è pronto già nel giugno del 1941, ma
nasce sotto una cattiva stella. Prima è l’editore che ritiene necessario lavoro di revisione
della forma, poi sono le maglie della censura fascista a imporre tagli.
La lettura a scuola
Lingua e dialetti
La riforma Gentile del 1923, definita da Benito Mussolini la “più fascista delle riforme“,
porta a cinque anni la durata della scuola elementare e pone a “fondamento dell’istruzione
elementare“ l’insegnamento della religione cattolica.
Con i programmi della scuola elementare, redatti da Giuseppe Lombardo Radice, si
raccomanda ai maestri con un calore del tutto inedito di tenere nel massimo conto le
possibilità che offre l’uso didattico del dialetto. Per la terza, quarta e quinta elementare si
suggeriscono “esercizi grammaticali con riferimento al dialetto“ e “esercizi di traduzione del
dialetto (proverbi, indovinelli, novelline)“. Per la prima volta nella scuola italiana i dialetti
sono ritenuti non una malerba da estirpare e fonte di ogni errore, ma strumenti preziosi per
un graduale processo di affinamento delle capacità comunicative e di conquista della
lingua nazionale.
Tuttavia, nonostante ogni sforzo la vita dei programmi della riforma è dura. Presto
comincia quel processo di fascistizzazione della scuola. La progressiva occupazione del
mondo educativo dell’infanzia, nei confronti del quale il primo fascismo aveva mostrato
scarsa attenzione, ha inizio nel ‘26 con l’istituzione dell’Opera Nazionale Balilla che,
occupandosi per statuto dell’educazione fisica e morale dei giovani, di fatto sottrae alla
scuola una parte importante dell’azione formativa e pone sotto il diretto controllo delle
organizzazioni fasciste la vita quotidiana delle nuove generazioni.
Un’altra tappa importante nel processo di fascistizzazione si ha nel 1929 con l’abolizione
della libertà di scelta dei testi scolastici e l’istituzione per le elementari del libro unico di
Stato che ha lo scopo di formare la nuova coscienza nazionale plasmando il tipo
dell’italiano nuovo, tutto devoto alla patria e conscio dei propri doveri verso di essa.
La conclusione del progetto che mira ad asservire il sistema educativo di base ai valori del
regime sia con i programmi del 1934. Essi in apparenza vengono proposti in sostanziale
continuità con i programmi precedenti. Di fatto disegnano una dimensione educativa del
tutto opposta; nella concezione generale alla libertà di insegnamento e al rispetto del
retroterra culturale del bambino oppongono il principio di una formazione concepita
soltanto in funzione della “dottrina fascista“. In altri termini, negando i valori di
un’educazione rispettosa della personalità del bambino, la scuola e la sua azione
formativa sono assoggettate alla macchina totalitaria del consenso della propaganda e
all’indottrinamento ideologico. Parate, adunate, divise, saluti romani regolano vita
dell’infanzia.
Per la parte relativa all’insegnamento linguistico, si ritorna alle vecchie posizioni di totale
disprezzo delle culture locali, viene cancellato ogni riferimento al dialetto come oggetto di
studio e si esalta una presunta e mistificata unità e integrazione linguistica.
A partire dalla fine degli anni ‘20 il regime impone il silenzio sul drammatico tema
dell’alfabetismo che ancora nel ‘21 supera il 27%.

I libri scolastici
Prima che il fascismo imponga nel 1929 il testo unico di Stato, i libri scolastici sono stati
oggetto di attenti controlli, ma non fino al punto che non si abbiano margini che si
sottraggono all’imposizione del regime. Le ragioni che spiegano questa sorta di zona
franca nell’editoria scolastica sono diverse, e hanno cooperato a crearla almeno tre cause:
una certa iniziale resistenza degli editori all’indottrinamento dell’infanzia che il fascismo
pretende, la presenza nelle commissioni di intellettuali di formazione idealistica che mal
digeriscono il fatto che la scuola sia assoggettata all’ideologia fascista, e probabilmente
una qualche disattenzione della rete di controllo.
Il 1 novembre 1928 il Consiglio dei Ministri approva l’istituzione del testo unico di Stato,
nel quale la qualità delle soluzioni grafiche non erano niente affatto improvvisate o banali.
La parte delle illustrazioni, ad esempio, è curata con attenzione non peregrina e affidata
ad artisti di prestigio. Ma, appena si guardi ai contenuti e si consideri l’uso che di quelle
pagine si fa nella quotidiana pratica scolastica, appare in tutta la sua evidenza il carattere
falso e grottesco della retorica fascista: procede la macchina dell’ideologia della
formazione del perfetto italiano. Una macchina che si regge sulle mitologie della patria e
della famiglia, della donna madre-sposa e dell’uomo soldato, della guerra, dell’italianità,
del mito della razza e al di sopra di tutto del duce.

Gli autori e le opere

Giuseppe Fanciulli: una vocazione nazionalistica


Fanciulli esordisce nel 1906 sul “Giornalino della Domenica“, di cui nel 1907 diviene
redattore e nel ‘20, alla morte di Vamba, direttore.
La vastissima produzione di Fanciulli comprende, naturalmente, romanzi, novelle, racconti
lunghi ed offre, anche ad una lettura parziale, uno spaccato davvero significativo di
un’Italia non più bambina, ma ancora in fase di crescita. Si veda L’omino turchino, tradotto
anche all’estero, che dimostra la straordinaria capacità dello scrittore di manipolare un
materiale fiabesco ricco di suggestioni remote: il pupazzetto ritagliato è un piccolo eroe,
che elimina le iniquità con bonarietà e umorismo.
Le novelline di Come sono felice! appartengono a quella vena di tenerezza fantastica che
caratterizzerà molta produzione di Fanciulli. Un’ultima notazione deve poi riguardare il
raccontino finale La Befana torna indietro, anche questo felicissimo nell’invenzione, tratta
di una sorta di rimpianto dei tempi dei giocattoli fatti “col legno e la magia“, di una
dichiarazione di disagio davanti al mondo in rapido cambiamento.
Fra i personaggi creati dallo scrittore ha, infine, una certa notorietà quello di Lisa-Betta,
protagonista di due romanzi, Lisa-Betta del ’32 e Lisa-Betta al mare.
In Lisa-Betta gioca un ruolo rilevante il tema del doppio (Lisa è buona e Betta è birichina),
ma gioca anche tutta una serie di riferimenti che puntano verso il fantastico, da Lisa fornita
di forte capacità di affabulazione e di immaginazione alla convinzione che solo i bambini e
gli artisti vedono cose straordinarie, che sfuggono agli altri.

Antonio Gramsci
Antonio Gramsci (1891-1937) trova posto in un panorama storico di letteratura giovanile
per certe sue traduzioni di fiabe dei fratelli Grimm e per quel gruppo di lettere, scritte dal
carcere ai familiari, nelle quali sono contenuti, in chiave esemplarmente educativa,
apologhi, raccontini, favole.
Non mancano nei Quaderni del carcere cenni e riferimenti alla letteratura per l’infanzia che
mostrano con quanta seria considerazione Gramsci fosse attento ai compiti educativi e
politici delle pubblicazioni destinate ai giovanissimi.
Riguardo le fiabe, alla loro traduzione Gramsci si applica nel carcere di Turi tra il 1929 il
1931 come esercizio volto a perfezionare la sua conoscenza del tedesco ma anche con
l’intento di farne dono ai nipoti.
Quando viene a conoscenza del divieto della direzione del carcere di spedire manoscritti
diversi da lettere, interrompe la trascrizione.
Gramsci traduce, dell’intero corpus dei Grimm, soltanto 24 fiabe, tra cui le più celebri
Cenerentola e Rosaspina e i Quattro musicanti di Brema.
Per la selezione dei testi, lui sceglie testi che più adatti ritiene allo sviluppo delle capacità
intellettive ed emotive del bambino e fra questi, ovviamente, quelle che propongono
esempi di solidarietà e di altruismo e quelle che, in grazia del lieto fine o di un piacevole
sviluppo degli avvenimenti, appaiono più gradevoli ai bambini.
Zona franca
Le incongruenze culturali, le disattenzioni e distrazioni, le incapacità anche organizzative
lasceranno spazio a pubblicazioni niente affatto assoggettati a regime: ci saranno opere
che, considerate nel loro insieme, formano una zona franca, che se non è di esplicita
opposizione al fascismo, sicuramente è affrancata in misura diversamente accentuata
dagli obblighi di indottrinamento ideologico
Antonio Baldini (1889-1962) pubblica nel '23 Strada delle meraviglie , raccolta in dieci
fiabe popolari estrose e fantastiche . Lui, in apertura del volume dichiara che i suoi testi
sono nati dalla viva voce di una popolana toscana, mettendo in gioco una molteplicità di
personaggi, dalla gente comune a Gesù, ai santi e agli angeli. La dimensione popolare,
inoltre, emerge dalla secchezza del dettato, dalle cadenze, dallo stesso vocabolario
toscano e dalle conclusioni che sfociano con linearità e precisione nella punizione dei
malvagi.
Baldini rinuncia a una lettura “impegnata”, sa che il libro deve divertire i ragazzi,
propendendo verso quegli spazi di libertà, di piacere, di gioco.
Annie Vivanti (1868-1942), figlia di un garibaldino e di Anna Lindau, scrittrice tedesca ,
risulta un altro caso interessante e particolare. Per i ragazzi la Vivanti pubblica nel '23 da
“Bemporad Sua Altezza “, rielaborato e ristampato da Mondadori nel '33 con il titolo “Il
viaggio incantato". Il viaggio incantato è un testo singolare perché all'orizzonte ristretto di
una famiglia degli anni Venti , in cui la creatività dei bambini, Tina e Bobby, è soffocata da
convenzioni e divieti, oppone il viaggio dentro un quadro appeso in salotto, la scoperta
cioè di un mondo altro, diverso, colorato e fantastico. Nel quadro i due protagonisti
incontrano personaggi bizzarri, finisco a quel paese, mangiano la proibitissima erba voglio;
insomma dentro il quadro il tema del viaggio, sempre presente nella letteratura per
l’infanzia, assume tutti i connotati della scoperta, dell’esperienza, del processo di crescita.
Tina e Bobby, alla fine, torneranno alla loro dimensione domestica più ricchi e più grandi,
sempre propensi però a credere alla logica delle fiabe.
La torinese Carola Prosperi (1883-1981) resta per gran parte del pubblico l'autrice di un
solo romanzo (Codaditopo) destinato ai bambini e ristampato fino a oggi da Giunti.
Anzitutto la trama: Codaditopo e sua nonna , madama Rosmarina ,vivono in assoluta
povertà al punto da cenare con pane e camomilla. Codaditopo nonostante le condizioni
economiche non rinuncia ad aiutare gli altri e la notte dell'Epifania, nella speranza di
incontrare la Befana e convincerla a non trascurare le povere calze dei bambini indigenti,
entra con due gatti, Miciosecco e Miciograsso, nel mondo “altro” della dimensione fiabesca
e dopo una serie di avventure, scopre la vera identità della nonna (una fata al confino che,
scontata la pena, riacquista i suoi poteri e torna con la nipote nel paese delle fate), ma non
rinuncia a accompagnare la Befana nei suoi giri per salvaguardare il diritto dei bimbi poveri
ai giochi.
La povertà del mondo reale assume i caratteri della fame e della miseria, ma è bandita
dalla narrazione ogni forma di populistica commozione, e anzi pare che la
rappresentazione acquisti forza sia per una non ignorata lezione di ironia collodiana, sia
per il contrasto con il disegno dell'abbondanza. Carola Prosperi, insomma, chiarisce non
solo come è fatta una fiaba, ma suggerisce i possibili itinerari del rifacimento,
scommettendo sulla polisemia della parola letteraria in un'epoca di imperativi categorici e
giocando sulle peculiarità e sulle ambiguità dell'infanzia in un momento storico che voleva
stretti in un fascio tutti gli italiani.
Collane
La “Biblioteca dei miei ragazzi”
Questa collana della casa editrice Salani di Firenze vede la luce del 1931 e fino al 1955
ospita 99 titoli, che raggiungono la cifra di 113 se si includono i volumi sostituiti nel dopo
guerra perché esplicitamente fascisti: la confezione del prodotto, il prezzo basso, la
capacità di attirare un vasto pubblico anche per il genere di racconto proposto la rendono
ancora oggi luogo privilegiato dell’immaginario di molte generazioni e oggetto di studi
articolati e complessi.

“La Scala d’oro”


La UTET di Torino, dal 1932 al 1936, offre con “La Scala d’oro“, diretta da Vincenzo
Errante e Fernando Palazzi, una collana organica di 93 volumi, sapientemente costruiti e
organizzati in otto serie per fasce d’età (dai 6 ai 13 anni). Nella realizzazione del progetto
sono coinvolti moltissimi scrittori e illustratori italiani, che danno loro contributo in modo
naturalmente diversificato: si presentano rielaborazioni dei capolavori della letteratura per
l’infanzia e dei classici di epoche e culture diverse o di leggende e “storie cristiane“, o di
figure, bozzetti e aneddoti. Si bada insomma a prefigurare la formazione di un bambino
che partendo dalla diversità degli stimoli e dei materiali approdi senza sforzo da parte dei
genitori a un sapere il più unitario possibile.
In conclusione, è giusto dire che la collana di Errante e Palazzi è da interpretare come uno
dei frutti della cultura liberale italiana che, fedele alla propria migliore tradizione, non si
lascia conquistare e dominare dalle rozzezze fasciste e occupa un posto tutto proprio
nell’Italia del ventennio.

Giornali per l’infanzia


Il fumetto, “scuola di fabulazione”
Negli anni Venti e Trenta, la stampa per ragazzi ha una strepitosa diffusione, proliferano le
testate di giornalini, soprattutto si verifica un boom dei fumetti. Le storie americane, alcune
fedelmente riprodotte con gli originali balloons, altre trasformate in vignette accompagnate
da didascalie in versi rimati, hanno vita tranquilla fino al 1938, anzi riscuotono un successo
straordinario.
Nell’autunno di quell’anno la censura del regime impone l’alt e vieta la pubblicazione di
fumetti stranieri. Alle numerose proteste dei lettori, l’”Avventuroso” risponde pubblicando
nel numero del 18 dicembre il testo della direttiva del ministero della Cultura popolare, a
cui devono uniformarsi tutti i giornali dedicati alla gioventù italiana.
L’ordine ministeriale è categorico: “Abolizione completa di tutto il materiale di importazione
straniera. Soppressione di quelle storie e illustrazioni che si ispirano alla produzione
straniera. Riduzione alla metà delle pagine per la parte dedicata alla pura illustrazione con
conseguente aumento del testo, finora quasi totalmente sacrificato“. Ovviamente, gli effetti
per le case editrici sono disastrose.
Del resto, a partire dal 1934-35 nasce e si sviluppa una scuola di autori italiani di fumetti. A
Milano, presso la Mondadori si forma, soprattutto ad opera di Federico Pedrocchi, un
gruppo che riunisce i più importanti disegnatori italiani dell’epoca, i quali si trovano a
inventare storie e schemi narrativi che fanno riferimento alla tradizione culturale e europea
e a reinventare motivi di matrice avventurosa o esotica.
Per spiegare le ragioni di tanta attenzione dell’editoria per le letture periodiche destinate a
bambini e adolescenti ci sono diversi fattori e almeno tre meritano di essere richiamati.
Per un verso, è certo che in questi anni giunge a maturazione un fenomeno, quello del
racconto per immagini, che già negli ultimi anni dell’Ottocento aveva cominciato a
riscuotere favori presso il pubblico dei piccoli lettori. Il grande veicolo del fumetto è stato il
“Corriere dei Piccoli”.
Peraltro verso, è probabile che l’impegno delle case editrici nella produzione di giornalini
e fumetti sia da considerare come indirizzo editoriale che compensa la perdita di spazi
commerciali conseguente all’adozione, a partire dall’anno scolastico 1930-31, del testo
unico di Stato nelle scuole elementari.
In terzo luogo, non è da escludere che il successo dei fumetti e di ogni tipo di storia
raccontata per immagine presso i più giovani lettori sia da collegare al generale clima di
cultura e di costume imposto dal regime fascista, che va approntando in questi anni una
vera e propria strategia di propaganda di massa basata prevalentemente sullo
sfruttamento delle potenzialità suggestive delle immagini.
Soprattutto all’immaginazione dei giovani e giovanissimi il fascismo ama presentarsi nei
termini di maestosità, magnificenza, grandiosità esibite attraverso un imponente sistema di
rappresentazione figurativa. Le mille avventure di eroi fascistissimi, insieme con le
immagini, realizzate con ogni tecnica, insieme con l’ossessiva reiterazione dei simboli del
fascismo e soprattutto dalla figura del duce, onnipresente è rappresentata in mille modi
diversi, formano la macchina di stimolazione costante dell’immaginario infantile.

“Il Balilla”: un giornalino per “i fiori della nostra razza”


Nel 1929, l’anno stesso del concordato tra Stato italiano e Chiesa cattolica, nel numero del
“Balilla“ uscito in occasione del Natale due intere pagine, firmate Madeo (pseudonimo del
direttore Dante Dini), sono occupate dal montaggio di testi e disegni di bambini sul
presepio. Per la diffusione del “Balilla“ va bene qualsiasi mezzo, anche Gesù bambino può
far comodo, soprattutto a Natale. Nelle altre settimane viene imposto nelle scuole ai
maestri e agli alunni. Ma con risultati non esaltanti.
Nel 1929 il giornalino dei piccoli fascisti ha già sei anni di vita. E’ nato a Milano il 18
febbraio 1923 con la testata “Il Giornale dei Balilla“. Nel “Balilla“ non c’è spazio per storie
evasive e amene. Anche quando il tono vuole essere divertente e brillante,
l’assoggettamento ai messaggi del fascismo vanifica la possibilità di un rapporto libero con
i piccoli lettori
Modello linguistico dominante e lo stile reboante e apodittico che Benito Mussolini impiega
nei suoi discorsi scritti e parlati. Uno stile vistosamente espressivo, che fa leva sull’uso di
una terminologia enfatica e iperbolica e su un fraseggio costruito per asindeto, ossia
sull’accostamento di brevi membri.
VII. L’età della ricostruzione (1944-1950)

Introduzione
Giana Anguissola parla dei bambini che leggevano “cose orribili”, divide gli editori in “di
buona volontà” e ”di cattiva e redditizia stampa”, cita la “battaglia grandiosa" iniziata
intorno agli anni Cinquanta contro i fumetti e la “malastampa, la rozzastampa dilagante”,
mette in evidenza, insomma ,un'attività militante, i cui compiti erano quelli di rifiutare i
prodotti letterari guasti o inconsistenti esigendo così i buoni testi.
Insomma fra il 1946 e il 1950 comincia a prendere corpo la consapevolezza che quello
della letteratura giovanile è un problema centrale all'interno del tema generale
dell'educazione e anche se la questione è posta in termini di “buona letteratura” e
l'atteggiamento è spesso antagonistico rispetto alle “influenze nefaste “ dei media di allora,
bisogna riconoscere che certe scelte compiute segnano anche positivamente i percorsi
successivi della letteratura per l'infanzia, dall'attenzione alle esperienze straniere alla
riflessione sui problemi della pubblica lettura.
Nel 1949 viene aperta a Monaco di Baviera la Biblioteca Internazionale per la gioventù,
la cui fondatrice, Jella Lepman ,darà vita a una sorta di forum internazionale sui problemi
della letteratura giovanile. Sempre nello stesso anno, la Cooperativa del libro popolare di
Milano dà inizio alla collana universale economica , il criterio informatore della collana è di
promuovere e diffondere una più larga conoscenza della cultura in tutte le sue
manifestazioni.

La lettura a scuola
Lingua e dialetti
Occorrerebbe indagare, se fosse ancora possibile, la partecipazione emotiva dell’infanzia
ai repentini e formidabili mutamenti che, tra il ‘43 e ‘45, si ebbero in tutti settori della vita
pubblica e privata. In particolare, sarebbe di grande interesse interrogarsi sulle reazioni
che bambine e bambini, nati e cresciuti nel clima della propaganda fascista, hanno avuto
nei mesi in cui si sono trovati a fare i conti, nell’Italia uscita dalla dittatura, con un
linguaggio del tutto nuovo; quando alla imperante terminologia bellicista, nutrita di rozzo
nazionalismo, razzismo, xenofobia si sostituiscono nel giro di poco tempo parole che
fanno riferimento alla pace, la libertà, la giustizia. A poca distanza di tempo da quelle
altisonanti frasi infiammate di sacri impulsi patriottici, dopo i mesi che videro la caduta del
fascismo, i ragazzini avranno dovuto ricomporre in qualche misura il proprio bagaglio
lessicale e parlare e scrivere parole nuove. A scuola avranno dovuto pensare e scrivere
frasi di un linguaggio per diversi aspetti inediti per loro.

Gli autori e le opere

Cesare Zavattini: parabole surreali


L’appartenenza a pieno titolo di Cesare Zavattini (1902-89) alla letteratura per l’infanzia è
certificata dal romanzo Totò il buono, da lui stesso definito “romanzo per ragazzi che
possono leggere anche i grandi“, dove si racconta la storia di Totò, membro di quella
famiglia di personaggi magico-letterari.
L’interesse di Zavattini per l’età infantile ha dato importanti e interessanti prove di almeno
altri due settori: fumetto e cinema. Negli anni 1936-38, quando già da qualche tempo è
attivo negli ambienti editoriali come organizzatore e promotore di iniziative nuove, scrive il
soggetto di storia a fumetti per conto dell’editore Mondadori presso cui è direttore
editoriale dei periodici.
La caratteristica dell’intera scrittura di Zavattini è una narrazione che rinuncia alla
rappresentazione mimetica della realtà e procede per invenzioni che possono essere
definite parabole surreali. Alla “parabola“ di Zavattini è estraneo ogni carattere
immediatamente didascalico pedagogico, non intende rappresentare verità morali.
L’autore preferisce quasi sempre raccontare rivolgendosi direttamente al lettore, vestire i
panni dell’affabulatore come in un funambolico filo dell’invenzione letteraria.

Alfonso Gatto: “non dare retta al re”


Alfonso Gatto (1909-76), poeta e scrittore, critico d’arte e pittore, pubblica nel 1945
presso l’editore Bompiani la raccolta di poesie per l’infanzia Il sigaro di fuoco. Può
sembrare singolare che Gatto, significativo rappresentante dei poeti ermetici, abbia
avvertito il bisogno, in due diversi tempi della sua vita della convulsa storia recente del
paese, all’uscita del ventennio fascista (1945) e all’ingresso dell’Italia della nuova fase di
sviluppo industriale (1963), di dedicarsi alla poesia per l’infanzia, e abbia modellato teneri
e armonici versi per le nuove generazioni.
Nessun altro poeta ermetico ha scritto poesie per l’infanzia. Se Gatto l’ha fatto vuol dire
che ragioni pressanti e motivanti urgevano. Furono le ragioni della svolta del ‘45,
dell’impegno per la ricostruzione anche morale e culturale a farlo determinare.

Il mito della Resistenza


I rapporti tra Resistenza e letteratura giovanile sono rappresentabili secondo i tratti di un
appuntamento mancato. Vicende locali o narrazioni, episodi grandi e piccoli della guerra
partigiana avrebbero potuto alimentare una vera e propria epopea fatta di sacrifici e
drammi, vissuta con eroismi esaltanti o sconfitte tragiche da buona parte della nazione.
Chi ha indagato la storia dei libri per la scuola ha potuto segnalare che un solo libro del '45
(Il buon compagno di Bastiani e Sciortino), contiene pagine dedicate agli avvenimenti
della guerra partigiana. La guerra della Liberazione è stata pochissimo presente per
ragioni ideologiche, nascoste dietro troppo affettuosi moniti contro i fumetti accusati di
distogliere dallo studio e dalla lettura di “buoni libri”.
Sciuscià creato da Torelli con la collaborazione della scrittrice Giana Anguissola e
disegnato da Fernando Tacconi e Franco Paludetti , esce dal 22 gennaio 1949 al 14 aprile
1955, situa le avventure dei tre giovani protagonisti (Sciuscià ,Fiammetta , Pantera) nel
contesto della Resistenza . La narrativa destinata ai ragazzi si caratterizza per un
generalizzato silenzio sugli avvenimenti legati alla Resistenza.
Il libro, però, forse più interessante resta Il sentiero dei nidi di ragno, non solo per le qualità
della scrittura del giovane Calvino, ma anche perché la Resistenza è letta con gli occhi di
un ragazzo, Pin, che per ragioni anagrafiche è portato al fiabesco, è propenso cioè a
dilatare particolari, trascurandone altri.
Insomma Calvino scioglie la “leggerezza” del racconto fiabesco, il nodo complicato della
narrazione storica; sarà difficile, dopo di lui, trovare autori in grado di mantenere la sua
esattezza, il suo ritmo, in testi narrativi di argomento resistenziale dedicati a ai ragazzi.
La lettura in famiglia: guida alla diffusione di buone pratiche dai 0 ai 6 anni

Come si sviluppa il cervello di un bambino?


Il cervello di un bambino comincia a formarsi entro le prime settimane dal concepimento.
Il suo buon funzionamento dipende da miliardi di cellule cerebrali e soprattutto dai
collegamenti tra queste cellule. Questo sistema di collegamenti, chiamato rete neurale, fa
sì che le informazioni che arrivano al cervello del bambino siano ricevute, trasmesse,
memorizzate, connesse l’una all’altra. In questo modo si costruiscono un po’ alla volta
tutte le capacità del bambino: di muoversi, di ascoltare, di comprendere, di parlare, di
pianificare ed eseguire un’azione, di provare emozioni.
Oggi sappiamo che lo sviluppo del cervello dipende dall’eredità genetica, dal buon
andamento della gravidanza, del parto, e anche molto dall’ambiente in cui bambini vivono
e dalle possibilità che vengono date loro di imparare, sentendo e guardando gli altri.
I primi anni di vita sono un periodo fondamentale per i processi di sviluppo del cervello. La
ricchezza, sia in termini di numero che di forza, dei collegamenti della rete, dipende dalle
opportunità di interazione con il mondo circostante che vengono offerte al bambino.
Questo processo di costruzione della rete neurale, che continuerà durante tutto il corso
della vita, è più veloce e intenso nei primi due, tre anni. Durante questo periodo il cervello
del bambino assorbe le informazioni relative a quello che tocca, vede, sente, ascolta,
assapora e odora, e questo gli permette di sviluppare sempre più conoscenze, abilità e
capacità. I primi due anni di vita sono ad esempio fondamentali per lo sviluppo del
linguaggio. Alcune ricerche, infatti, hanno dimostrato che vi è uno stretto rapporto tra il
numero di parole che i bambini ascoltano e il numero di quelle che imparano: più parole il
bambino ascolta, più impara. Parlare al bambino, nominare le cose che si fanno e gli
oggetti che si usano, leggergli una storia lo aiuterà quindi ad avere un vocabolario più
ricco.
È ormai ampiamente noto che leggere ad alta voce ai bambini sin dalle primissime
settimane di vita rappresenta una buona pratica che sviluppa le abilità linguistiche con
positive ricadute nella futura vita scolastica e poi lavorativa dell’individuo, e in generale nel
raggiungimento di un suo stato di benessere psico-fisico.
Un bambino allenato, infatti, sin da piccolo alla lettura ha maggiori probabilità di diventare
da adulto un “lettore forte” e di mettersi a riparo dal dilagante fenomeno
dell’analfabetismo funzionale, vero e proprio handicap che colpisce al momento almeno
un terzo della nostra società ma che è in costante aumento.
Oltre questo, esiste anche l’analfabetismo strutturale, ormai quasi sconfitto. Si tratta di
una mancanza di literacy, cioè di quelle competenze basilari che impediscono la
comprensione di un testo anche banale con ricadute gravi nel quotidiano: l’incapacità di
decifrare un bugiardino, un modulo di iscrizione, un contratto: questo è probabilmente
dovuto anche alla crescente esposizione all’informazione attraverso il digitale.
Il Centro per il libro e la lettura, nel guardare con preoccupazione il panorama descritto,
ha incluso tra le proprie attività istituzionali il “Programma 0-6“ che ha lo scopo di
promuovere la lettura nella fascia di età compresa tra la nascita e l’avvio della
scolarizzazione.
Il ruolo dei genitori e delle figure di riferimento
Lo sviluppo delle competenze del bambino dipende dall’ambiente e dalle relazioni tra i
bambini e le figure adulte di riferimento, che nei primi anni sono soprattutto i genitori,
oltre ai parenti e agli amici che ruotano attorno alla famiglia. Attraverso queste interazioni
affettive il bambino assimila e fa proprio un modello di comportamento e di relazione.
Sappiamo che i bambini che ricevono cure e attenzioni amorevoli hanno più opportunità di
acquisire competenze cognitive, emotive e sociali utili al loro sviluppo. Al contrario, la
mancanza di cure e attenzioni ha un effetto negativo: maltrattamenti e trascuratezza sono
associati nei bambini piccoli a maggior frequenza di depressione, comportamenti
aggressivi, difficoltà nell’apprendimento, problemi di controllo delle emozioni, dipendenza
da droghe e alcol in età successive. Questi problemi tra l’altro, in assenza di interventi,
vengono spesso trasferiti alle generazioni successive.
È importante ricordare che il cervello non si nutre solo di vitamine, minerali, proteine ma,
per “nutrire“ il proprio cervello, il bambino ha bisogno anche di un ambiente amorevole e
attento che offra sicurezza e opportunità di crescita. Ad esempio, è noto che fin dalla
nascita i bambini stabiliscono un forte legame di attaccamento con le principali figure di
accudimento, in primo luogo i genitori, e in particolar modo la madre. In una buona
relazione di attaccamento, il genitore rappresenta una base sicura a partire dalla quale il
bambino si muove per esplorare il mondo, e alla quale sa di poter tornare dopo aver
compiuto le sue scoperte. Un attaccamento sicuro fornisce al bambino un senso di
protezione e accettazione che determina i modelli di relazione futuri con se stesso e con
gli altri.
Il modo stesso in cui genitori hanno vissuto la loro stessa infanzia ha un peso: a volte i
genitori cercano di usare con i loro figli le stesse modalità di educazione che avevano
ricevuto, perché le hanno giudicate buone o semplicemente perché sono quelle che
conoscono meglio; a volte scelgono stili di educazione diversi, proprio perché avrebbero
voluto qualcosa di diverso.
Tra le buone pratiche efficaci sullo sviluppo, la lettura in famiglia è l’attività di gran lunga
più studiata nei suoi meccanismi e nei suoi effetti sul bambino.
L’idea è nata negli ambulatori dei pediatri statunitensi negli anni ‘90 ed è stata recepita da
molti altri paesi. L’Italia è stata tra i primi paesi a sviluppare un proprio programma di
promozione della lettura in età precoce.
Dal 1999 il programma Nati per leggere si è posto l’obiettivo di promuovere la lettura in
famiglia sin dalla nascita tramite il consiglio fornito dai pediatri di famiglia ed altri operatori
sanitari, educativi e culturali. Le ricerche scientifiche hanno dimostrato come il leggere ai
bambini fin dei primi mesi abbia una positiva influenza sullo sviluppo del bambino, dal
punto di vista relazionale, cognitivo ed emotivo, e sia capace di stimolare nel bambino il
piacere della lettura e l’amore per i libri, che si protrae, soprattutto se è sostenuto anche
nelle età successive, per tutta la vita.
Il cervello e la lettura
L’acquisizione del linguaggio, e in seguito della capacità di lettura, sono i fattori che hanno
maggiormente contribuito allo sviluppo della civiltà. Per quanto riguarda il linguaggio, gli
studi di De Casper e Melher hanno evidenziato che neonati a termine hanno già
memorizzato la voce materna, dimostrando quindi che l’apprendimento inizia già in utero.
L’emergent literacy, definibile come il complesso di conoscenze, attitudini e abilità
necessarie per sviluppare le abilità di lettura, si sviluppa progressivamente nei primi anni
di vita, su basi geneticamente determinate e in relazione con quanto offre l’ambiente, in
particolare dal punto di vista della stimolazione verbale.
È stato dimostrato che i bambini con maggiore esposizione alla pratica della lettura a casa
nei primi anni di vita mostrano, una volta arrivati all’età scolare, una maggiore attivazione
di aree celebrale deputate alla lettura e situate nell’emisfero sinistro. In sostanza, in
bambini che possono giovarsi di un ambiente familiare dove la pratica della lettura e più
precoce, frequente, e di qualità vengono stimolati, e quindi sviluppati, circuiti neurali più
robusti a supporto della comprensione della narrazione, una delle componenti fondanti
dell’emergent literacy.
L’attivazione di aree cerebrali specifiche quando si ascolta una storia viene attribuita alla
mental imagery, cioè alla capacità di “vedere“ quando si sta ascoltando. Studi
comportamentali hanno ben documentato come questa capacità migliori la comprensione
narrativa e la capacità di ricordare una sequenza narrativa.
È naturale pensare che i bambini più abili a utilizzare e rafforzare questi circuiti
dell’immaginazione mentale siano poi più capaci di affrontare la transizione dalle storie
raccontate e illustrate a quelle basate sui testi.

I diversi ruoli degli operatori


In qualità di adulti “significativi“ per i bambini e le bambine che frequentano il nido o la
scuola, agenzie educative che coinvolgono i bambini fin dei primi anni di vita, educatori e
insegnanti possono contribuire in modo positivo alla loro crescita e a quella delle loro
famiglie. Assieme ai pediatri, educatori e insegnanti sono le figure più importanti che
accompagnano la crescita dei bambini e sostengono i genitori nel loro ruolo.
Il ruolo educativo di educatori e insegnanti è fondamentale quanto delicato: il lavoro
educativo è infatti inteso come un “prendersi cura dell’altro“, dove è continuamente
necessario fermarsi, riflettere, confrontarsi, agire, fermarsi di nuovo per accettare i nostri e
gli altrui limiti, porsi domande, cercare strade possibili, immaginare e dare forma alle
esperienze. In ambito educativo è indispensabile, inoltre, porre al centro la relazione con i
bambini, le famiglie e tutto il personale presente nella struttura mettendosi in gioco.
Nella continua ricerca del senso del lavoro educativo ed è la relazione con bambini e
genitori, occuparsi della promozione alla lettura è ormai una delle “cose da fare“.
La progettazione rappresenta un ambito che contiene aspetti di imprevedibilità, dati dalla
soggettività e dal carattere variabile dei bambini. La progettazione quindi deve considerare
molteplici condizioni a partire dall’analisi di fattibilità del progetto, tenendo conto di uno
sguardo a lungo termine.
La lettura può essere promossa, ad esempio, attraverso la progettazione per laboratori,
i quali sono luoghi attrezzati dove i libri possono essere vissuti autonomamente o
socializzati attraverso diverse attività: quelle tradizionali della lettura ad alta voce
unidirezionale dall’adulto al bambino, quella della lettura dialogica, quella dell’esplorazione
e “lettura autonoma“ dei bambini singoli o in gruppo.
Gli spazi hanno bisogno di cura e di attenzione, oltre che di rispettare i criteri di sicurezza,
stabilità, autonomia e di condivisione. Gli spazi dovrebbe raccogliere, mettere le persone a
proprio agio, di conseguenza dovrebbero essere esteticamente curati sia dal punto di vista
degli arredi, che delle luci. Gli spazi hanno la capacità di essere letti e interpretati e vanno
quindi progettati e condivisi dagli educatori e dal personale della scuola. Una delle
proprietà dello spazio è che comunica in maniera passiva, aldilà dei gesti e delle relazioni,
sia ai bambini che agli adulti. Implica quindi un’esperienza a sé attraverso i materiali,
informazioni, gli odori, i suoni, i colori che lo abitano.
Uno spazio di comunicazione importante è quello dove i genitori possono leggere
autonomamente alcune informazioni sulla promozione della lettura: di solito questo spazio,
dotato di manifesti, opuscoli o depliant, è individuato all’ingresso, ma anche nei corridoi
che congiungono diverse parti della struttura.
Per quanto riguarda gli spazi dedicati alle attività interne, è fondamentale la presenza di un
angolo di lettura, dotato di espositori di libri, tappeti, cuscini, seggiole e tavolini. E’
importante che questo spazio sia protetto dai rumori, rispettato, che diventi un luogo
“magico“ dove parole e voci possono dar vita a qualcosa di speciale che tocca le corde
profonde del bambino.

La lettura viene considerata come la quintessenza di una relazione significativa, infatti


durante la lettura il genitore e il bambino imparano a conoscersi e a fidarsi l’uno dell’altro.
Per leggere assieme un libro bisogna stare vicini, magari anche toccarsi, parlare a bassa
voce per entrare meglio nella storia, o alzarla quando la storia lo richiede. Leggere diventa
un altro modo per entrare in relazione con un bambino, esplorando assieme un libro con le
mani e gli sguardi, le parole, la curiosità, costruendo altre storie, ipotesi, avventure
inimmaginabili.
I benefici della lettura condivisa in famiglia, che perdurano nel tempo influenzando
positivamente il bambino fino all’età adulta, sono stati studiati da moltissime ricerche,
condotte negli Stati Uniti, nel Regno Unito e anche in Italia. Questi studi dimostrano
chiaramente che la pratica della lettura, iniziata precocemente, già dal primo anno di vita
del bambino, e adottata come pratica quotidiana, produce effetti positivi sul piano
cognitivo, sul piano emotivo e sociale ed è l’occasione per trascorrere un tempo di qualità
tra genitori e bambini contribuendo quindi allo stabilirsi di una relazione ricca in termini
affettivi. Bambini che possono fruire della lettura giornaliera e mantenuta nel tempo,
acquisiscono maggiori capacità e conoscenze basilari per imparare a leggere e scrivere
con maggiore facilità. Nella loro vita scolastica, ma non solo, avranno più confidenza con
la lettura, maggiore ricchezza nel linguaggio, maggiore capacità di mantenere l’attenzione
e la concentrazione. Questo li renderà più sicuri e partecipi ai processi di apprendimento.
In realtà, nella maggior parte delle famiglie non vi sono strumenti, né esperienza
personale per sviluppare la pratica della lettura precoce. Proprio per questo, è necessario
che l’educatore scelga varie modalità per presentare ai genitori l’importanza della lettura in
famiglia. Potrà, ad esempio, organizzare un incontro collettivo, in cui si abbia il tempo di
presentare con calma i contenuti, offrire esempi e rispondere alle domande dei genitori.
Durante l’incontro si dovranno portare dei libri, mostrarli, presentarli e narrare ai genitori le
esperienze con i bambini. Oltre all’incontro collettivo, ho in sostituzione adesso, si può
scegliere di parlare individualmente ai genitori o a piccoli gruppi, a seconda della
numerosità e degli argomenti, che si ritiene più opportuno affrontare.
Il ruolo dei bibliotecari e delle biblioteche
La ragion d’essere di una biblioteca è quella di fornire l’accesso alla conoscenza e
all’informazione tramite una gamma di risorse e di servizi e di essere aperta equamente a
tutti i membri della comunità senza distinzione di razza, nazionalità, età, genere, religione,
lingua, disabilità, condizione economica e lavorativa e grado di istruzione.
Riguardo i bambini in età prescolare, per accoglierli adeguatamente è essenziale creare
un ambiente accogliente, facilmente accessibile e sicuro. Particolare attenzione va posta
alla sicurezza e all’igiene dell’edificio, delle attrezzature e degli arredi, riservando ai più
piccoli spazi protetti, con pavimenti sui quali bambini possono gattonare e muoversi
libertà. Dovrebbero essere prese in considerazione anche le esigenze di cura dei più
piccoli, quali il cambio dei pannolini, l’allattamento e un apposito spazio dove depositare il
passeggino.
L’ambiente dovrebbe essere curato dal punto di vista estetico e avere una buona
illuminazione. Gli arredi e i contenitori di libri e giochi devono essere direttamente
accessibili da parte dei bambini. È importante la segnalazione di scaffali per bambini e
adulti per orientare un accesso di libri autonomo. A fianco degli scaffali o spazi bebè è
consigliabile la collocazione anche di riviste e materiali informativi sul programma per
genitori.
Molto cura va dedicata al momento di accoglienza di una nuova famiglia in biblioteca,
spiegando ai genitori le potenzialità che la biblioteca offre per il loro bambino e mostrando
gli ambienti e la dotazione libraria e documentaria pensata per loro e per i bambini.
Numerose iniziative possono essere intraprese per avvicinare i bambini ai libri e alla
lettura. Per i genitori con bambini di età compresa tra i 6 mesi e i 2 anni andrebbero, ad
esempio, strutturati degli incontri brevi durante i quali un operatore stimoli il genitore o
l’adulto che accompagna il bambino a leggere ed esplorare insieme ai bambini i libri più
adatti.
Incontri di condivisione dei libri e di lettura ad alta voce i bambini dai 2 ai 5 anni
dovrebbero avere una periodicità garantita per farli diventare parte integrante della routine
nella vita dei bambini. In relazione all’interesse mostrato che i bambini si possono
condividere più letture ad alta voce o lasciare che i bambini si scelgano un libro da
guardare con altri bambini o con un adulto disponibile.
Si potrebbe pensare di dare particolare rilievo all’iscrizione di bambini alla biblioteca,
creando un apposita tessera che faccia riferimento ai libri per i più piccoli e alle proposte di
lettura a cui si può prendere parte in biblioteca. I genitori gli operatori iscritti alla biblioteca
possono essere mantenuti aggiornati sulle iniziative per loro e per i loro bambini tramite
l’invio periodico di una newsletter.
Inoltre, appositi punti informativi possono essere allestiti in biblioteca e presso servizio di
esercizi pubblici cittadini.

Inoltre, la raccolta della biblioteca devono prevedere un buon assortimento di libri che
rispecchi la migliore produzione editoriale dal punto di vista della forma letteraria (poesie
e filastrocche, canzoni, fiabe, favole e storie illustrate), dal punto di vista fisico e
percettivo (cartonati, di stoffa, tattili, interattivi) e per l’apprendimento dei primi concetti
di base (abbecedari e libri su forme, colori, numeri).
Le biblioteche dovrebbero avere anche un occhio di riguardo per i libri prodotti per persone
con bisogni comunicativi complessi e per i libri bilingui.
Ovviamente di primaria importanza è una collaborazione sistematica tra bibliotecari,
pediatri, operatori sanitari dei servizi delle cure primarie e della promozione della salute,
educatori di nidi e scuole dell’infanzia, nella consapevolezza che nessun gruppo
professionale da solo può incidere sui comportamenti delle famiglie con bambini sotto i 5
anni con efficacia e sistematicità. La collaborazione interprofessionale va ricercata in
ogni contesto locale: un tipo di collaborazione a sei utile da ricercare e quella con il
personale sanitario responsabile dei corsi di preparazione alla nascita. Infatti, se la
mamma fosse a conoscenza della possibilità di lettura ad alta voce durante il primo anno
di vita e se fossero già presenti in casa libri per bambini alla loro nascita, la lettura
condivisa in famiglia sarebbe più frequente.

Il ruolo dei volontari


I volontari possono dare un grande contributo, rendendosi disponibili a collaborare con la
biblioteca nella gestione delle letture ad alta voce e in altri luoghi della città frequentati da
bambini e genitori, quali le sale d’aspetto degli ambulatori pediatrici, degli ospedali, dei
consultori pediatrici. Si tratta di persone che per indole vogliono dimostrare a bambini e
genitori il piacere della lettura. In particolare, leggendo con i genitori presenti, i lettori
dimostrano praticamente come si legge, quali libri sono più adatti ai bambini e possono
incoraggiare i genitori a ripetere le letture in ambito familiare.
Il volontario Npl riveste diversi ruoli, oltre a trasmettere l’amore per le belle storie e per i
libri di qualità i bambini loro genitori, ad esempio accoglie bambini e genitori nei luoghi in
cui si svolgono iniziative Nati per leggere offrendo informazioni sul programma e
sensibilizzando gli adulti sull’importanza di leggere insieme ai bambini fin da piccoli;
legge, da solo o insieme agli altri volontari, i libri che ho precedentemente selezionato,
tenendo conto del luogo in cui si svolge l’attività, dell’età dei bambini e della platea di
riferimento.
L’obiettivo del volontario è quello di dimostrare ai genitori che leggere è un gesto
d’amore, che non richiede nessuna dote particolare ma attenzione e ascolto: infatti, evita
di leggere in modo spettacolare ed enfatico e privilegia una lettura di interazione e
dialogica.
I volontari propongono attività di lettura in diversi luoghi: in biblioteca, sale d’attesa degli
ambulatori pediatrici, reparti di pediatria ospedalieri, punti vaccinali, nidi e scuole
dell’infanzia, in qualsiasi posto in cui si possa creare un angolo adatto ad accogliere i
bambini insieme ai loro genitori.
Inoltre, le iniziative Nati per leggere sono gratuite, aperte a tutti e prevedono sempre la
presenza dei genitori o di adulti accompagnatori del bambino per rinforzare e radicare il
messaggio che la lettura è una pratica da condividere in ambito famigliare.

Il ruolo degli operatori sanitari


I pediatri di famiglia
Il pediatra è considerato un interlocutore privilegiato in quanto spesso è il primo, se non
l’unico, operatore sanitario orientato verso lo sviluppo del bambino che viene in contatto
regolarmente con la famiglia; inoltre, costruisce un rapporto individuale di fiducia come
consulente della salute per il bambino e, più in generale, per tutta la famiglia con incontri
che si ripetono nel tempo.
L’impegno del pediatra si svolge in tre ambiti: i consigli anticipatori, il dono di un libro e, se
possibile, momenti di lettura ad alta voce con personale volontario all’interno della struttura
ambulatoriale.
Il pediatra di famiglia nella sua attività di prevenzione offre delle guide anticipatorie utili
nella prevenzione clinica e nella promozione di buon stili di vita. I consigli anticipatori
consistono in informazioni su quello che i genitori dovrebbero aspettarsi dal bambino, sulle
tappe per il suo sviluppo e per le pratiche su un corretto accudimento.
Tra le guide anticipatorie che il pediatra propone abitualmente ai genitori ricordiamo, ad
esempio, la guida sulla nutrizione nel primo anno di vita, sulle vaccinazioni, sulla
prevenzione degli incidenti domestici, sul sonno e così via.
È inoltre ormai prassi consolidata e raccomandato da tutte le associazioni pediatriche
nazionali e internazionali che, la promozione della lettura ad alta voce sia una
componente irrinunciabile, nell’ambito dei consigli pediatrici offerti nuovi genitori.
Anche perché la promozione della lettura ad alta voce permette al pediatra di valutare
alcune tappe dello sviluppo psicomotorio del bambino e di percepire alcuni segnali di
allarme.

Gli operatori del pre e post nascita


L’ostetrica, la ginecologa o l’infermiera che aderiscono al programma di promozione
della lettura possono proporre ai futuri genitori un incontro su questa tematica in
collaborazione con la bibliotecaria o con un volontario. Si tratta di presentare i libri da
utilizzare già nel corso nella gravidanza e nei primi mesi dopo la nascita, illustrando
brevemente i benefici della lettura per lo sviluppo del bambino dal punto di vista cognitivo,
neuro biologico, relazionale, emotivo.
Come per il pediatra di famiglia, anche per gli operatori ospedalieri o consultoriali, il
suggerimento ai futuri genitori è di esplorare i libri consigliati per trovare quelli che più
piacciono ed iniziare a leggerli per sé, in quanto il bambino infatti dal quinto mese di
gravidanza sente la voce suoni provenienti dall’esterno. In questo modo sia la mamma che
il papà possono iniziare a far sentire la propria voce attraverso letture di filastrocche e
ninna nanne.

La sala d’attesa del pediatra, del ginecologo, dell’ostetrica, in reparto o in consultorio, si


può attrezzare con libri forniti dalla biblioteca oppure con libri adatti che gli stessi genitori o
gli operatori possono reperire.
In base al contesto in cui si opera può essere vantaggioso attrezzare la sala d’attesa con
un angolo per la lettura (piccolo tavolino, due seggioline, un cesto di libri): questo consente
al bambino che viene periodicamente di avere un piccolo spazio conosciuto dove sa che ci
sono i libri che a lui piacciono. Inoltre, non dovrebbe mai mancare qualche libro
appoggiato sulla scrivania che il bambino incuriosito può liberamente prendere, oppure
essere offerto direttamente dall’operatore.4

Libri speciali per bambini speciali: i libri senza parole e gli IN-book
Due grandi famiglie, anche nelle tipologie di libri per bambini, non dovrebbero mancare in
una biblioteca di famiglia e scolastica: la fiction (narrativa, fiabe, favole) e non fiction
(libri di formazione storica, artistica, scientifica). Sono due raggruppamenti basilari che
sostengono i genitori ed educatori sia nella scelta dei libri più adatti agli interessi dei
bambini sia nella pratica quotidiana di promozione della lettura.
Tra i libri speciali si segnalano libri in lingua straniera per le comunità presenti e i libri
tattili che si leggono con le dita. Sono libri bimodali, hanno inseriti materiali diversi e in
rilievo, con scrittura in braille e a grandi caratteri, accessibile a bambini ciechi e ipovedenti,
ma adatti a sollecitare le emozioni di tutti i bambini.
Una delle tipologie di libri a volte incompresi dall’adulto riguarda i libri senza parole,
altrimenti detti silent book o wordless picturebook. I libri senza parole consentono la
fruizione da parte di tutti i bambini perché attraverso le immagini sono interpretabili
secondo gli stimoli che ciascuno raccoglie. Sono particolarmente adatti a bambini che
ancora non leggono autonomamente, a bambini che non conoscono la lingua del testo, a
bambini con difficoltà di lettura.
Gli inbook, invece, sono libri illustrati con testo integralmente scritto in simboli, nati per
facilitare la possibilità di ascolto della lettura ad alta voce, in particolare nei primi anni di
vita. Inizialmente sono stati sviluppati per bambini con gravi difficoltà di linguaggio e
comunicazione, ma nel giro di poco tempo hanno cominciato a circolare spontaneamente
e in modo un po’ inaspettato nelle case, nelle scuole dell’infanzia, nelle biblioteche e in
molti altri contesti. Sono così diventati patrimonio di tutti i bambini, non solo di quelli con
una disabilità della comunicazione. Sono serviti a tutti per crescere, per capire meglio il
linguaggio, per parlare, per immergersi in storie ricche di emozioni, per sostenere
l’attenzione, per aumentare la capacità di ascoltare, per scoprire come si può comunicare
con alcuni compagni.
In particolare, si sono dimostrati preziosi per sostenere in modo naturale quei bambini che,
pur non avendo una grave disabilità della comunicazione, hanno maggiori difficoltà con il
linguaggio con l’ascolto: bambini con disturbo di linguaggio di attenzione, bambini migranti
e molti altri.
La forza degli inbook introdotti in modo “ecologico” in diversi contesti sta proprio nella loro
trasversalità: sono diventati uno strumento collettivo che mette ciascuno in condizioni di
maggiore autonomia e che permette una vera condivisione, perché non sono uno
strumento che connota la disabilità di un singolo, ma un’opportunità che potenzia le
possibilità d’accesso di tutti.

Il dono del libro


Il dono del libro è ritenuto, sulla base di evidenze scientifiche, di gran lunga la modalità
più valida per stimolare l’abitudine alla lettura nelle famiglie, in particolare in quelle più
svantaggiate. L’intervento tramite il dono del libro è però efficace se messo in pratica dal
pediatra di riferimento, perché il suo consiglio viene preso maggiormente in
considerazione essendo una figura autorevole per i genitori e perché il pediatra raggiunge
tutte le famiglie, anche quelle che difficilmente frequentano biblioteche e librerie.
Pinocchio – Collodi

Riassunto per capitoli


La vicenda si apre nella bottega di falegname di mastro Antonio, detto “Ciliegia” per il
grosso naso perennamente rosso; un giorno, mentre egli sta lavorando un pezzo per
ricavarne la gamba di un tavolino, sente provenire dal tronchetto la richiesta di non fargli il
solletico. Ciliegia, terrorizzato, sviene dalla paura (capitolo 1). Il falegname si riprende
quando nella bottega entra il collega Geppetto, detto “polendina” dal colore della parrucca
giallognola; quest’ultimo è alla ricerca di un pezzo di legno per costruirsi un burattino per
guadagnarsi “un tozzo di pane e un bicchier di vino”. Ciliegia vorrebbe cogliere l’occasione
per rifilare a Geppetto il legno incantato, ma la voce di Pinocchio saluta Geppetto col suo
soprannome. Geppetto si infuria e, accusando mastro Antonio dell’offesa, si prende a
botte con l’amico. Presto riappacificatisi, i due concludono l’affare, ma Pinocchio si libera
dalla presa di Ciliegia e rifila un calcio a Geppetto: ne segue una nuova lite e una nuova
riappacificazione (capitolo 2). Tornato a casa, Geppetto scolpisce la sua marionetta ma è
sorpresissimo quando questa prende vita da sé, gli ruba la parrucca e fugge per le
strade. Un carabiniere ferma Pinocchio, ma poi arresta Geppetto quando sente dai
passanti che egli è “un vero tiranno con i ragazzi” (capitolo 3). Pinocchio torna allora a
casa, dove un Grillo parlante lo ammonisce sul destino dei ragazzi che non rispettano i
genitori e che non vogliono andare a scuola. Pinocchio lo uccide, schiacciandolo sulla
parete con un martello (capitolo 4). Il protagonista, in assenza del padre, ha però fame, ed
è costretto, rimpiangendo di non aver ascoltato il Grillo, a mendicare del pane nel paese
vicino (capitolo 5). In paese Pinocchio è scacciato in malo modo da una casa nella quale
ha chiesto da mangiare e, sulla via del ritorno, è pure sorpreso dal temporale. Messosi a
riposare di fronte a della brace accesa, si sveglia la mattina seguente con i piedi bruciati;
Geppetto è intanto tornato dal carcere (capitolo 6). Pinocchio dice che è stato il gatto a
mangiargli i piedi e poi mangia tre pere, che costituivano la colazione di Geppetto
(capitolo 7). Geppetto, spinto a compassione, crea due nuovi piedi a Pinocchio e poi, per
mandarlo a scuola, gli prepara “un vestituccio di carta fiorita, un paio di scarpe di scorza
d’albero e un berrettino di midolla di pane” e, vendendo la sua vecchia casacca di
fustagno, gli procura il libro di testo, “l’abbecedario” (capitolo 8).
Sulla via per andare a scuola, Pinocchio si imbatte però nel Gran Teatro dei Burattini;
per l’ingresso la marionetta vende il suo libro nuovo (capitolo 9). Le marionette dello
spettacolo, tra cui Arlecchino e Pulcinella, invitano Pinocchio a salire sul palco con loro ma
Mangiafuoco, il burbero proprietario del Teatro, minaccia di punirlo per aver interrotto lo
spettacolo (capitolo 10). L’uomo vorrebbe gettare Pinocchio nel fuoco per cucinare un
montone ma, rivelando un animo in realtà buono e sensibile, si intenerisce di fronte alle
richieste di pietà del burattino (capitolo 11). Mangiafuoco regala anzi cinque monete d’oro
a Pinocchio perché torni a casa da Geppetto, ma sulla strada del ritorno il Gatto e la
Volpe, due esperti truffatori, convincono il burattino a seguirli per piantare il denaro
al Campo dei Miracoli al paese dei Barbagianni per ricavarne “duemilacinquecento
zecchini lampanti e sonanti” la mattina dopo (capitolo 12). I tre si fermano all’Osteria del
Gambero Rosso, dove il Gatto e la Volpe si fanno offrire una cena luculliana e
nottetempo, mentre Pinocchio sogna le sue future ricchezze, se ne vanno. Pinocchio è
svegliato a mezzanotte dall’oste, che gli dice che i due lo attendono all’alba al Campo dei
Miracoli. Pinocchio parte immediatamente e nelle tenebre incontra l’ombra del Grillo
parlante, che lo avvisa senza successo dei rischi a cui va incontro (“Non ti fidare, ragazzo
mio, di quelli che promettono di farti ricco dalla mattina alla sera. Per il solito o sono matti
o imbroglioni! Dài retta a me, ritorna indietro.”) (capitolo 13). Il protagonista incontra
però gli Assassini (il Gatto e la Volpe travestiti) e nasconde in bocca le monete d’oro per
non doverle consegnare; Pinocchio morde poi uno degli aggressori, staccandogli di netto
“uno zampetto di gatto”, e fugge per quindici chilometri arrampicandosi poi su un pino. I
due Assassini lo costringono a scendere appiccando il fuoco all’albero: l’inseguimento
prosegue (capitolo 14). Pinocchio vede “una casina candida come la neve” dove chiede
disperatamente aiuto: si affaccia una Bambina, “coi capelli turchini e il viso bianco come
un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto”, che spiega che in casa
sono tutti morti e che anche lei sta attendendo la bara che la porti via. I due Assassini
acciuffano Pinocchio e lo impiccano alla Quercia grande. I due se ne vanno lasciando
Pinocchio in agonia (capitolo 15).1

La Bambina dai capelli turchini, che in realtà è una fata, ordina ad un Falco e al suo cane
tuttofare Medoro di recuperare il corpo del burattino e convoca poi tre medici (un Corvo,
una Civetta e il redivivo Grillo parlante) per sapere se Pinocchio è ancora vivo. Il Grillo
rimprovera aspramente Pinocchio, che piange (capitolo 16). Il burattino, benché
febbricitante, non vuole bere la medicina amara che gli porge la Fata; entrano allora in
camera quattro conigli neri che portano con sé una bara, e Pinocchio si convince a
curarsi. Racconta poi la sua vicenda alla Fata e dice più volte di aver perso le monete, ma
ad ogni sua bugia gli si allunga un po’ il naso.

La Fata propone a Pinocchio di vivere lì con lei, tanto più che Geppetto li raggiungerà a
breve: Pinocchio accetta e va incontro al padre in mezzo al bosco, dove però incontra
nuovamente il Gatto e la Volpe, che gli propongono ancora di seppellire le monete nel
campo miracoloso della città di Acchiappacitrulli (capitolo 18). Pinocchio, dopo una
breve attesa, toran al campo, dove un pappagallo gli svela l’inganno; rivoltosi ad un
giudice-Gorilla, viene però incarcerato per quattro mesi, in seguito ai quali può uscire di
galea sfruttando un’aministia imperiale (capitolo 19). Pinocchio corre a casa della fatina,
ma un gigantesco serpente gli sbarra la strada; nel saltarlo, Pinocchio inciampa e cade
conficcando la testa nel fango. Il serpente muore dal ridere ma Pinocchio, entrato in un
filare per cogliere dell’uva, rimane intrappolato in una tagliola (capitolo 20). Il contadino
proprietario del campo lo costringe a fare da cane da guardia alle sue proprietà al posto
del cane defunto, Melampo (capitolo 21). Sopraggiungono nottetempo le faine, che
avevano un accordo segreto con Melampo per poter saccheggiare indisturbate il pollaio:
Pinocchio finge di assecondarle ma poi le fa catturare dal contadino, che per
riconoscenza lo libera (capitolo 22). Pinocchio si precipita dalla Fata turchina, ma scopre
che è morta di dolore per la sua assenza; un grosso Colombo gli rivela che invece
Geppetto si sta costruendo una barchetta per attraversare l’Oceano, alla disperata ricerca
del figlio. I due partono in volo verso la spiaggia, dove Pinocchio non può far altro che
vedere la barca di Geppetto affondare all’orizzonte (capitolo 23). Tuffatosi in acqua,
Pinocchio, dopo aver nuotato tutta la notte, è sbalzato sull’isola delle Api industriose,
dove un Delfino gli svela l’esistenza di un gigantesco Pesce-cane, che probabilmente ha
inghiottito Geppetto e la sua barca. Pinocchio arriva poi in città, dove tutti lavorano in
maniera indaffarata. Pinocchio, che ha fame e ma che non vuole faticare per guadagnarsi
il pane, aiuta alla fine una donna a portare delle brocche d’acqua in cambio di un pasto. La
donna si rivela essere la Fata turchina (capitolo 24).

La Fata, che ora è cresciuta e può fare da “mamma” a Pinocchio, fa promettere al


burattino ch’egli diventerà un bambino vero se sarà ubbidiente, andrà a scuola e non
racconterà più bugie (capitolo 25). Pinocchio a scuola si distingue da subito come uno
scolaro serio e diligente, fino al giorno in cui alcuni compagni gli svelano che il
gigantesco Pesce-cane che ha inghiottito Geppetto è stato avvistato di fronte alla spiaggia
(capitolo 26). Ma si tratta solo di una “brutta celia” dei compagni, invidiosi dei suoi bei voti;
scoppia dunque una rissa in cui un ragazzino rimane ferito. Pinocchio viene dunque
arrestato da due carabinieri ma, sulla via del carcere sfugge al loro controllo, e si ritrova
inseguito da un feroce mastino, Alidoro (capitolo 27). Per sfuggire al cane, Pinocchio si
tuffa in mare, e poi salva il mastino che rischia di affogare, ma viene pescato dalla rete
di un mostruoso pescatore, che vuole friggerlo in padella (capitolo 28). Rientra però in
scena Alidoro, che salva Pinocchio e lo riporta in paese. Pinocchio si informa sulle
condizioni di salute del ragazzino ferito sulla spiaggia e si procura un nuovo vestito, fatto di
tela di sacco. Temendo che la Fatina non lo perdonerà più per l’ennesima bravata, bussa
alla porta di casa solo a notte fonda, ma la Lumaca di guardia gli apre solo il mattino
seguente. Pinocchio, che ha tirato un calcio nella porta e vi è rimasto incastrato dentro con
un piede, sviene dalla fame quando la Lumaca gli porta una colazione fatta di gesso,
Risvegliatosi presso al Fatina, le assicura che d’ora in poi si comporterà in maniera
irreprensibile. E a fine anno Pinocchio risulta il miglior alunno della classe, tanto che la
fatina, promettendogli di trasformarlo l’indomani in un bambino, organizza una gran festa
con “dugento tazze di caffè-e-latte e quattrocento panini imburrati di dentro e di fuori”
(capitolo 29). Quando però Pinocchio invita Romeo, detto Lucignolo e considerato “il
ragazzo più svogliato e più birichino di tutta la scuola”, questo gli propone una nuova
avventura: partire subito per il “Paese dei Balocchi” al di là del mare, dove non esistono
libri né professori e dove è sempre vacanza (capitolo 30).

Il burattino decide di seguire Lucignolo senza ascoltare il misterioso avvertimento di un


asino che traina il carro che li condurrà laggiù (capitolo 31). Pinocchio trascorre cinque
mesi senza libri e lezioni, ma una mattina si sveglia e scopre che, a partire dalle
orecchie, si sta trasformando in un asino, così come il suo amico Lucignolo (capitolo 32).
Pinocchio viene così venduto ad un impresario di circo, che lo vuole utilizzarlo
come fenomeno da baraccone per attrarre pubblico; durante l’esibizione, nella quale
intravede la Fatina nel pubblico, Pinocchio si azzoppa. L’impresario lo cede ad un
compratore che, volendone ricavare pelle da tamburo, butta il somaro a mare con una
pietra al collo, per farlo affogare e recuperarne il cadavere con una fune (capitolo 33).
Pinocchio però torna in superficie con le sembianze di un burattino: la Fata ha infatti
mandato “un branco infinito di pesci” a mangiare il corpo dell’asino e liberare così il
burattino. Pinocchio si allontana dunque a nuoto, e scorge uno scoglio su cui si trova una
capretta dalla lana color turchino come la Fata. Tuttavia, il protagonista, poco prima di
toccare terra, viene inghiottito dal Pesce-cane (capitolo 34). Intravisto un lumicino nel
gigantesco stomaco del pesce, Pinocchio scopre che si tratta di Geppetto, abbandonato
due anni prima e anch’egli mangiato dal Pesce-cane dopo il naufragio della sua
imbarcazione. Dato che le provviste scarseggiano, Pinocchio organizza un piano di fuga:
uscire nottetempo dalla bocca spalancata del mostro (capitolo 35). Fuggiti
rocambolescamente dalla bocca del Pesce-cane, Geppetto e Pinocchio sono aiutati da un
tonno a giungere a riva. Sulla strada verso casa, incontrano prima il Gatto e la Volpe,
ridotti a chiedere l’elemosina, e poi, in una piccola casetta, il Grillo parlante. Per curare
Geppetto, Pinocchio inizia a lavorare in una fattoria lì vicina (dove trova pure Lucignolo,
ancora asino e in fin di vita) e prosegue gli studi da solo. Un giorno viene a sapere dalla
Lumaca che la Fatina è ricoverata in ospedale, gravemente ammalata. Pinocchio le
dona le sue quaranta monete e la sogna quella stessa notte. Il mattino seguente,
Pinocchio scopre di essere un bambino vero, con una bella casa, dei vestiti e un nuovo
portamonete regalatogli dalla Fata; anche Geppetto, tornato a fare il falegname, ha
pienamente recuperato la sua salute. (capitolo 36)
Commento
La prima edizione in volume di Pinocchio viene pubblicata, con alcune modifiche, nel 1883
dalla Libreria Editrice Felice Paggi con le relative illustrazioni di Enrico Mazzanti. Il
successo dell’opera fu immediato, tanto che non sono calcolabili le copie vendute del libro
in Italia e nel resto del mondo. Si tratta comunque di una delle opere più tradotte e
vendute nella storia della letteratura italiana.
Collodi dà vita ne Le Avventure di Pinocchio a un mondo ibrido in cui i due piani, del
reale e della fantasia, si fondono insieme. Quest’ambivalenza pone il racconto di Collodi a
metà tra racconto e fiaba: l’elemento soprannaturale, caratteristico della fiaba, viene calato
nella fisicità e tangibilità del mondo reale, dando vita a un repertorio di personaggi
eccezionali, a cominciare dal protagonista.
Pinocchio esprime in se stesso la fusione tra reale e immaginario fin dal momento in cui
prende vita. Lo stesso Collodi si rivolge a Pinocchio riconoscendolo di volta in volta come
ragazzo o burattino. Il protagonista stesso si pensa ora come burattino ora come ragazzo.
Soffre e piange come un bambino, ma le sue caratteristiche fisiche rimangono quelle di un
burattino.
La favola si svolge in un luogo imprecisato, a nord di Firenze, in un paese povero, tanto
che la pentola dipinta nella casa di Geppetto è simbolo di un mondo di gente che
s’ingegna con la fantasia per sopperire alle mancanze e a una vita di stenti, che trova
buone anche bucce e torsoli perché li condisce col sale dell’appetito, che insegna ai propri
figli a mettere da parte vizi, capricci ed esigenze.
La storia di Pinocchio rappresenta un’allegoria della società moderna, caratterizzata da
forti contrasti, che si svolge in un periodo, quello di fine Ottocento, di grande severità
nell’attenzione al formale.
La storia del burattino viene vista, infatti, come la storia di un’iniziazione: ovvero di una
marionetta di legno, simbolo della meccanicità della persona, che cerca in ogni modo di
assumere le sembianze umane e di ritrovare la sua anima. Dunque, mentre Alice era la
storia di una bambina circondata dal mondo e dalla logica d’oggetti animati (carte,
scacchiere, creature strane), Pinocchio è la storia di un oggetto animato in un contesto
toscano fortemente realista.

La morale di Pinocchio è utilitaristica, fondata sul concetto di reciprocità (“quel che è


fatto è reso”), forse discutibile dal punto di vista pedagogico, ma sicuramente condivisibile
dalla morale preconvenzionale di un bambino di 8/9 anni: il bambino non guarda
all’intenzionalità, ma guarda il principio di parificazione (“se fai questa cosa, ricevi questo
premio).
Il bambino si immedesima nelle trasgressioni di Pinocchio, ma in questo modo sente
maggiore connessione emotiva nei momenti più pedagogici. L’infanzia non è angelicata: il
bambino ha un profilo etico, incerto, incline al male. Pinocchio lo sentiamo vicino a noi, in
quanto fa i nostri stessi sbagli (ad esempio non mantiene le promesse).
Il riscatto di Pinocchio dal male e dalla soggezione del proprio istinto sono proposti come
un ritorno al padre, un riscatto che gli permetterà di apportare un contributo all’evoluzione
di una coscienza civile e democratica.

Pinocchio doppio (o triplo) romanzo


Viene chiamato triplo perché per alcuni c’è un primo finale (morte di Pinocchio), un
secondo finale (Pinocchio diventa un bambino per bene), un terzo finale (la somma dei
due finali).
Il personaggio di Pinocchio
È la storia di un bambino che rifugge dall’ordine, che insegue i piaceri, che è debole nei
confronti delle tentazioni, che intraprende un viaggio costellato di simboli: il Gatto e la
Volpe rappresentano i vizi, le passioni del corpo che lo distraggono dalla scuola, la
scimmia (il giudice che condanna Pinocchio benché fosse lui la parte lesa) è simbolo della
corruzione, il Grillo è la coscienza, la virtù.
Pinocchio è fondamentalmente un essere buono e ingenuo ma che cade spesso nelle
tentazioni, che si lascia trascinare da brutte compagnie, rappresentate da diversi
personaggi come Lucignolo, il Gatto e la Volpe, e luoghi come il Paese dei Balocchi, il
quale promette la ricchezza e la felicità, ma che in verità conduce in un luogo che
trasforma persone inconsapevoli in somari, come schiavi ignoranti e assoggettati, incapaci
di potersi ribellare.
Pinocchio, come in genere ogni ragazzino, non riflette sulle conseguenze delle proprie
azioni, cosa che lo porta a colpire a morte il Grillo parlante, per esempio. Ma ogni volta il
burattino non agisce mai con crudeltà, piuttosto con avventatezza e irresponsabilità. Fin
dall’inizio risulta chiaro che Pinocchio sia dotato di un buon cuore e un animo gentile, ma
spesso prevalgono la sua istintività, il suo essere credulone ed egocentrico, cose che lo
fanno finire sempre nei pasticci. Tra i difetti, il più noto ed evidente è il fatto che il burattino
è un gran bugiardo, anche senza motivo, e, nonostante sia difficile nasconderlo per via
dell’allungamento del naso, Pinocchio si rivela ostinato anche nell’errore. In altre
situazioni, però, la sua ostinazione e la sua impulsività lo rendono coraggioso, al di là dei
possibili pericoli, per sé e per gli altri.
Pinocchio non ha, dunque, eguali nella cultura popolare: non esiste una storia che abbia
prodotto una parabola più indimenticabile sui pericoli di dire una bugia.
Secondo Collodi le bugie che hanno le gambe corte sono quelle che portano a poca
distanza ma che non possono superare la verità. La verità raggiunge sempre qualcuno
che dice una bugia con le gambe corte. Le bugie che hanno il naso lungo sono quelle che
sono ovvie, per tutti tranne la persona che ha detto la bugia, bugie che rendono ridicolo il
bugiardo. In entrambi i casi, secondo Collodi, le bugie sono cattive perché provocano
cattive conseguenze per il bugiardo.
Pinocchio ci insegna, però, la più grande delle lezioni, che per la salvezza, quindi,
occorre la verità, la conoscenza e il rispetto, e che è necessario attraversare e coltivare la
disobbedienza poiché essa ci aiuta a diventare esseri umani, autentici. Pinocchio, con la
sua narrazione asciutta ed essenziale, ha la potenza di narrare e raffigurare la realtà delle
cose oggettivamente, una forza intrinseca che, dopo quasi due secoli, non si è mai
affievolita.

Chi è il personaggio di Pinocchio?


- Benedetto Croce dice che “il legno, in cui è tagliato Pinocchio, è l’umanità”.
- E’ legno da catasta
- Esiste prima ancora di essere creato
- Nonostante chiami la fatta “mammina” e Geppetto “papà”, resta sospetto il concepimento
del personaggio
- Burattino senza ascendenti
- Fatica a morire perché è “diverso”
- Pinocchio è figura da palcoscenico (recita il dolore, strilla, batte la testa, si lamenta, raglia
ecc..)
- Pinocchio è solo, anche se gli adulti gli danno continuamente consigli. La proposta degli
adulti è quella di farlo crescere, di cambiare e di passare da irresponsabile a responsabile.
Questa è una maturazione che avviene solo nel secondo Pinocchio.
Gli altri personaggi
I personaggi della favola rispondono correttamente all’analisi di Propp nel suo La
Morfologia della fiaba: pur essendo i personaggi fantastici delle fiabe così numerosi e
diversi tra loro, questi possono tuttavia essere facilmente classificabili in base alla funzione
che rivestono in relazione agli altri personaggi.
Nella storia di Pinocchio gli animali parlanti svolgono fondamentalmente una funzione
“ammonitoria”, chiara nel Grillo Parlante, ma presente anche in tutti gli altri. Attraverso di
essi si esprime l’intento pedagogico della vicenda.
Per quel che riguarda il ruolo svolto dai personaggi possiamo parlare di “aiutanti”: essi
favoriscono il protagonista e lo aiutano, appunto, lungo il corso del suo progetto formativo,
salvandolo talvolta da situazioni pericolose e drammatiche.
Altri personaggi si incaricano, invece, di rappresentare gli aspetti negativi dell’essere
umano, diventandone caricature ed è proprio attraverso di essi che si riflette una dura
critica nei confronti della società contemporanea: tra questi, il Gatto e la Volpe, il giudice
Gorilla e l’Omino di burro. Il loro ruolo è di segno opposto a quello degli aiutanti,
ostacolano il protagonista rispetto all’acquisizione dell’oggetto di valore, che nel caso di
Pinocchio è rappresentato dal dono dell’umanizzazione .
Anche la fata, che apparentemente ricalca il classico personaggio fiabesco, oscilla
continuamente tra mondo reale e mondo fantastico, divenendo a un certo punto la “buona
donnina” che porta le brocche d’acqua nel paese delle Api industriose e, alla fine del
racconto, costretta ammalata in una camera d’ospedale.
Appare per la prima volta sotto le sembianze di una candida bambina dai capelli turchini,
simbolismo dell’innocenza; la seconda volta dichiara la sua natura e appare con le sue
reali sembianze di Fata; nella terza è una donna che porta con sé un vaso; e infine
nell’ultima torna in forma di capretta quando Pinocchio fugge dal pesce cane.

Lo stile
L’ironia di Collodi stravolge immediatamente la struttura della fiaba tradizionale mostrando
un anti-eroe: non un re o un principe, ma un pezzo di legno, e neanche di legno pregiato.
La lingua è, dunque, vicina al parlato e quindi all’infanzia: è frizzante, acuta, a volte
volutamente sgrammaticata. La narrazione è costantemente ravvivata da un dialogo fitto
che conferisce ritmo al racconto.
A differenza del quasi contemporaneo Cuore di Edmondo de Amicis del 1886, infatti, i toni
romantici sono stemperati: si contrappone alla retorica fino ad allora dominante degli occhi
rossi, ovvero una retorica del pianto, della morte e della sofferenza.
A metà tra fiaba e racconto orale, la narrazione di Pinocchio si contraddistingue anche per
la forte componente teatrale, a partire dal progetto iniziale di Geppetto di guadagnarsi il
pane andando in giro per il mondo a fare spettacoli con il suo burattino, fino ad arrivare
alla Commedia dell’Arte in quel Gran Teatro dei Burattini dove le diverse maschere
riconoscono Pinocchio come fratello e, infine, vediamo Pinocchio, trasformato in ciuchino,
esibirsi al Circo con pagliacci e acrobati.
Se da una parte abbiamo molteplici aspetti esteriori e fisici che rimandano al mondo del
teatro, dall’altra abbiamo una forma di teatralità nella narrazione: caricature ed eccessi,
grandi colpi di scena, fughe ed inseguimenti ed, infine, l’uscita di scena del burattino,
prova di grande teatralità.
Se è preponderante la componente teatrale, che usa l’ironia per dissacrare la
contemporaneità, non si può dimenticare l’altro versante stilistico,
quello melanconico e tenebroso, più discreto forse, ma non di secondaria importanza.
Paura e divertimento permeano insieme le avventure di Pinocchio e il lettore vi può
riconoscere i propri desideri e le proprie angosce
Collodi usa, inoltre, una retorica carnevalesca che per qualche tratto rovescia
l’immaginario che il bambino può avere del mondo degli adulti, un rovesciamento con
sovvertimento dei poteri (giustizia/tribunali) e della verità (Noi stiamo tutti dalla parte di
Geppetto, ma poi questo viene messo in prigione; stiamo dalla parte di Pinocchio che va a
denunciare il furto subito, ma questo viene condannato): un mondo, dunque, dove gli
innocenti vengono puniti.
In Pinocchio abbiamo adulti che sono delle marionette (Geppetto e Mastociliegia), mentre
il protagonista si presenta come un burattino che si realizza da se stesso e che assume
una funzione divina.
E’ anche un mondo rovesciato che si contrappone alla retorica fino ad allora dominante
degli occhi rossi, ovvero una retorica del pianto, della morte e della sofferenza.
In “Pinocchio” c’è una dissacrazione, in quanto tutto il racconto è concepito come una
controprova all’attesa e all’aspettativa: il fuoco che alimenta la casa di Geppetto è dipinto,
l’uovo contiene il pulcino, la genealogia di Pinocchio è di poveri e di falliti, il posto dove
dovrebbe ripararsi Pinocchio è un luogo vile, dove fa freddo, quando lui chiede l’elemosina
gli viene buttato un secchio di acqua gelata. Di conseguenza, capiamo bene che Collodi
non invita a riflettere sul patetico o sul lacrimoso.
C’è, dunque, anche una sorta di capovolgimento o demistificazione: Mangiafuoco,
personaggio apparentemente truce, s’intenerisce, ma al posto di piangere, starnutisce; il
grillo parlante rappresenta la morale, ma una morale antipatica, tant’è vero che siamo
quasi contenti del fatto che Pinocchio lo zittisca; l’ambigua figura della bambina dai capelli
turchini, la quale è nel corso della storia bambina, sorella, nonnina.
C’è inoltre uno stravolgimento della morte: Stravolgimento della morte della bambina;
Pinocchio muore come Cristo.
Commento Pinocchio per capitoli
I capitolo
Il re all’inizio appartiene ad uno stereotipo della fiaba: l’autore ammicca con il pubblico
come se fosse in una piazza. Ci porta, dunque, in un orizzonte diverso da quello della
fiaba immaginefica del ‘700 o ‘800, ma ci porta in una condizione di umiltà.
Il legno capita nella bottega, non si sa come mai
Mastr’Antonio, dalla faccia paonazza, ci fa pensar che fosse un alcolizzato, che viveva
solo e che aveva una parrucca. Non è un personaggio piatto, ma è un personaggio a cui
riusciamo ad attribuire una certa psicologia. Le azioni del falegname sono proprie del
lavoro di falegname, utilizzando termini ben specifici.

II capitolo
In questo caso vediamo un arzillo vecchietto, irascibile, di nome Polendina, il quale ha il
tarlo nella testa di prendere un pezzo di legno per fare un burattino, il quale serviva per
trovare pane e vino: la nascita di Pinocchio sarebbe stata triste per un lato utilitaristico.
Per molti, la storia di Pinocchio è molto suggestiva, in quanto abbiamo un figlio che nasce
da due padri: la prima famiglia di fatto della storia. Si racconta, dunque, di due uomini che
resteranno amici per tutta la vita, si presentano con due parrucche, che quando litigano lo
fanno graffiandosi e mordendosi. Quando fanno la pace, interviene il legno che si
intromette, provocando la ferita e dando inizio nuovamente al litigio tra i due uomini.

III capitolo
Qui possiamo notare che la genesi di Pinocchio è avvenuta per gradi. E’ un quadretto che
ci porta a stare dalla parte di Geppetto, il quale a causa di Pinocchio vive la tribolazione di
essere padri. Pinocchio ride: abbiamo visto che il riso è la sciagura dei personaggi
fantastici, che li fanno sembrare non affidabili.
In questo capitolo l’autore nomina la lingua che nell’immagine non è rappresentata, così
come non vediamo le orecchie.
In una logica tipica della pedagogia dell’800, se un genitore fa un errore nell’educare suo
figlio fin dalla nascita, allora si troverà un delinquente in casa: Geppetto aveva già visto
che nell’animo di Pinocchio ci potrebbe essere stato un bambino che fallisce.
Questo bambino, però, è già adulto, dunque non aveva bisogno di fare quello che
facevano gli altri bambini: dopo pochi istanti era già completo.
La questione del naso di Pinocchio è molto complicata:

Collodi ironizza sul lavorismo, paese delle api industriose, anche se crede nelle
possibilità redentive del lavoro. Pur ironizzando sulla scuola, sulla medicina, sulla giustizia,
non fa sconti sul tema della “buona volontà”, del “sacrificio” e del “risparmio”.

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