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Capiamo bene, dunque che il tabù nei confronti delle stesse sono andate man mano
scomparendo e, di conseguenza, le tecniche di riproduzione delle immagini, nel tempo,
si sono raffinate.
Nella letteratura per l’infanzia, nel ‘700/ ‘900, dunque, il valore dell’iconografia era
fondamentale, tanto che le immagini hanno aggiunto un commento alle letteratura:
addirittura, le immagini possono diventare degli iconotesti, cioè non possiamo
prescindere dall’immagine per capire il testo (esempio del Piccolo Principe).
Poche immagini significava attribuire molto valore a quelle poche immagini: Gianni
Rodari, nelle filastrocche “In cielo e in terra”, presenta un testo per l’infanzia usando
pochissime immagini: in questo caso le parole del testo, solo apparentemente non a
portata di bambino, sono più importanti delle immagini, le quali sono volutamente stilizzate
e provvisorie.
L’illustratore deve avere rispetto di alcune regole (Quentin Blake):
1. L’illustratore deve perdere le sue inibizioni, cioè deve osare.
2. L’illustratore deve incontrare il suo personaggio per renderlo credibile.
3. L’illustratore deve enfatizzare il ruolo dell’autore
4. Non si deve mai giudicare il libro dalla copertina
5. L’illustratore deve prendere ispirazione dal contesto della storia
6. L’illustratore non deve essere sofisticato o esoterico, deve avere il coraggio di essere
comprensibile.
7. L’illustratore deve cercare di esser flessibile, di fare in modo che le illustrazioni possano
funzionare.
A destra, invece, vediamo il fumetto “Pompeo”, considerato il migliore romanzo del ‘900
italiano, che rappresenta un giovane seduto su un water circondato di siringhe e con la
carta igienica di soldi. In questo fumetto, Andrea Pazienza, illustratore, racconta la
discesa del protagonista nell’inferno dell’eroina: l’autore, dunque, fa un’autobiografia nel
suo dramma di dipendenza.
In questo caso, dunque, il codice narrativo del fumetto, il quale è spensierato, considerato
non in grado di veicolare i contenuti profondi della narrazione destinata ai bambini, diventa
occasione di riflessione. E’, infatti, un romanzo di deformazione, certamente non a misura
del bambino.
Che cosa distingue la letteratura dello scaffale basso a quello dello scaffale alto?
Quali sono i libri, se noi fossimo bibliotecari, che metteremmo in alto o in basso a misura di
bambino? Pinocchio, testo molto importante, sicuramente in basso, in modo che il
bambino possa prenderlo con più facilità.
Qual è il criterio oggettivo per collocare i libri in modo tale che siano utili per il
bambino? Bianca Pizzone sostiene che fino a quando i testi parlano della relazione
affettiva tra i protagonisti della storia, senza che ci siano componenti sessuali, parliamo di
letteratura dell’infanzia: il vero discrimine oggettivo è quello.
La metafora dello scaffale in cui collocare il libro dunque, serve a capire che la letteratura
per l’infanzia deve essere alla portata del bambino e che quando nasce la letteratura per
l’infanzia, dunque, nasce un prototipo di bambino.
Rousseau diceva che la letteratura è il flagello dell’infanzia: finché il bambino resta tale è
un sognatore che impara dalla natura, nel momento in cui gli si da un libro termina il
periodo d’infanzia, in quanto gli si da un modello, lo si costringe in una direzione.
Nascita di un genere
Un autore importante è P. Ariès, che nel 1960 scrive un testo dal titolo L’enfant et la vie
familiale sous l’ancien règime 1960, tradotto Padri e figli nell’Europa medievale e moderna
1968) sostenendo che nell’ Antico Regime il bambino era considerato solo un adulto in
miniatura. L’infanzia era, dunque, una condizione transitoria e precaria, da cui si doveva
uscire al più presto.
Era talmente facile vedere morire i propri bambini, che l’infanzia era il più possibile
abbreviata: era un’esperienza che le persone non volevano enfatizzare. Fino al ‘900, la
sopravvivenza fino ai 6 anni di vita, infatti, era modestissima.
A cavallo tra XVIII e XIX secolo, invece, i mutamenti di stile di vita e soprattutto la
diminuzione della mortalità infantile, portano ad una consapevolezza diversa e ad un
diverso sentimento dell’infanzia, percepita come età autonoma da quella adulta.
La letteratura dell’infanzia può nascere se ci sono mutamenti sociali relativi agli indici di
alfabetizzazione. Fino all’età moderna c’è stato il paradosso di una letteratura per l’infanzia
analfabeta, non scritta. Quando questa diventa un testo codificato, presuppone la fatica di
leggere e, dunque, l’obbligo dell’istruzione: non è più il godimento della piazza del mercato
o lo spettacolo delle marionette.
La letteratura dell’infanzia può svilupparsi se esiste un motivo economico che giustifica
questi investimenti, cioè se c’è qualcuno disposto a spendere dei soldi per comprare dei
libri per l’infanzia. Il mercato, dunque, era assolutamente fondamentale: se c’è un mercato,
il prodotto si disegna. Se ci sono dei possibili acquirenti, bisogna produrre dei testi a
misura della richiesta del mercato.
Per il successo della letteratura per l’infanzia, dunque, un ruolo fondamentale l’ha avuto lo
sviluppo dell’editoria (libri e periodici): la fiaba popolare senza autore viene, dunque,
soppiantata nel ‘600 dalla fiaba d’autore. Nelle corti e nelle piazze, le fiabe popolari
venivano raccontate con varie modifiche che chi narrava faceva nel momento, mentre la
fiaba d’autore non si può cambiare, è quella e basta.
Il guadagno della narrazione: l’aggiungere alla storia degli elementi che rendano il testo
in sintonia con l’auditorio; l’aggiungere elementi perché la storia guadagni significato.
Il guadagno della narrazione, in realtà, era anche una forma di guadagno in senso proprio:
il narratore, spesso un cantastorie, viveva di storie. Di conseguenza, questo si
guadagnava il pane in base alla capacità di suscitare interesse nel pubblico di ascoltatori
con la sua storia. I narratori dicevano agli ascoltatori “Se vuoi sapere il resto della storiella,
mi devi riempire la padella”: il cantastorie continuava a raccontare le loro storie solo se gli
ascoltatori gli davano qualcosa da mangiare. In “Mille e una notte”, Sherazade
sopravvive letteralmente mille notti inventando una storia ogni sera, perché il suo marito le
risparmiasse la vita se lei gli avesse raccontato una storia degna di essere ascoltata.
Ovviamente, il primo e più rigoroso difensore dell’organizzazione della fiaba e del racconto
è il bambino, il quale ci ascolta e ci chiede, dopo la fine del racconto, di riascoltare la
stessa storia, piuttosto che sentirne un’altra.
Nascita della letteratura per l’infanzia
La letteratura dell’infanzia nasce ufficialmente in Inghilterra nel XVIII secolo: le condizioni
citate erano presenti più in Inghilterra di quanto lo fossero in Italia. Il 1744 si può
considerare come anno inaugurale della letteratura per l’infanzia occidentale, ovvero
l’anno in cui John Neway pubblica in Inghilterra “A Little Pretty Pocket Book”, di fatto un
abbecedario dove l’autore si rivolge a un pubblico di genitori, affinché leggano ai propri figli
le narrazioni contenute nel testo. Quest’opera ha tre motivi del suo successo: il fatto che
fosse scritto; il fatto che fosse tascabile; il fatto che fosse un abbecedario e, dunque, ogni
piccola storiella in realtà aveva un contenuto morale.
Sostanzialmente è costituito da una rima alternata e una morale.
Chi pubblica questo testo, ovviamente, intuisce la possibilità dell’avere negli adulti dei
mediatori che possano proporre un libro piccolo, bello e tascabile. Di conseguenza,
sostiene che le persone siano disposte a spendere dei soldi per comprare questo libro.
Altri casi come “The Life and Strange Surprisina Adventures of Robinson Crusoe”
(1719) di Daniel Defoe che non è un romanzo destinato all’infanzia, ma è un grandissimo
successo in Inghilterra, nonostante le critiche di incongruenze e logicità. La sua fortuna
deriva dal fatto che coglie uno degli elementi essenziali della letteratura per l’infanzia, la
quale ha due filoni: quello della fiaba e del fantastico e quello del romanzo di formazione;
questo romanzo è legato al romanzo di formazione.
Il romanzo ebbe enorme futuro anche in Italia, dove viene ridotto e riadattato per i bambini.
Travels into Several Remote Nationes of the World in Four Parts. By Lemuel Gulliver
(1726) di Jonhatan Swift: pubblicato in anonimo a Londra nel 1726 e diventa un classico
per l’infanzia a partire dalla versione ridotta del 1805. In Italia, invece, gli adattamenti più
importanti cominciano ad arrivare solo dopo il 1860.
All’interno di questo romanzo c’è l’idea che la realtà non sia così oggettiva e stabile.
Torniamo agli autori italiani: l’educatore Francesco Soave, è un autore che ha una
posizione importante nel 700, non solo come autore per la letteratura per l’infanzia, ma
anche perché svolge compiti di carattere amministrativo a servizio dell’imperiale regio
governo austriaco. Di fatto è un sacerdote somasco e il propagatore del “metodo
normale” appreso dall’Austria e introdotto a Milano. Soave adatta, dunque, il metodo
austriaco, con delle lezioni simultanee in classe, alla scuola lombarda. Quando, però, si
utilizza questo metodo, è fondamentale che ci siano dei testi che vengano gestiti dal
maestro e che vengano utilizzati simultaneamente dalla classe.
Inoltre, lui è il propugnatore di un’idea di sincronizzazione, di conseguenza deve proporre
dei testi che vadano bene alla classe di merito (non di età).
In questi anni, ci sono dei concorsi per produrre dei testi di lettura che siano utilizzabili in
classe e che rispondano agli obiettivi di dare un’istruzione e una moralità ai fanciulli: è
quello che l’autore farà in “Novelle Morali”, che, dopo una prima edizione milanese del
1782, arriva nel 1786 una terza edizione definitiva di cinquantadue novelle.
Soave non eccede nei toni lacrimevoli e anche se nella dedica dichiara che il sentimento
che ha avuto premura di testare è quello della compassione, il suo impegno appare
piuttosto un altro: riflettere sull’adattabilità “alla capacità de’ piccioli” dei testi narrativi e sul
racconto al servizio di una moralità non palesata. Ciò che, dunque, colpisce nella pratica
narrativa dello scrittore è la sostanziale capacità di muoversi sui terreni minati dalle
tematiche senza però lasciarsi definitivamente coinvolgere.
Nella letteratura dell’infanzia, in quest’epoca, è sempre presente una vedova amata, un
bambino orfano, la lacrima, in quanto l’obiettivo era di tipo morale.
Il caso di un testo delle “Novelle Morali” tratta di una popolazione analfabeta e inizia con
un bambino che racconta le sue sfortune e chiede il soccorso a uno straniero: la carità è
ammessa in questo caso perché proviene da un bambino dal cuore puro.
Gian Pietro Vieusseux, ginevrino trapiantato a Firenze, nel 1812 fonda nel capoluogo
toscano un Gabinetto scientifico e letterario destinato a lasciare segno profondo nella
storia del nostro Risorgimento e della cultura italiana fino ai giorni nostri. L’autore pubblica
dal 1812 la notissima “Antologia. Giornale di scienze, lettere e arti“, soppressa dalla
censura granducale nel 1833.
Il ginevrino si pone il problema della miseria e dell’ignoranza dei ceti subalterni e ribadisce
l’importanza di “un’istruzione morale, religiosa, popolare, universale“, che delega proprio
alla classe colta e benestante.
Lambruschini fonda e dirige la “Guida dell’Educatore“, un foglio mensile, e aveva aperto
un collegio educativo in cui insegnava un’educazione fisiocratica, a contatto della natura,
per la ricchezza del povero attraverso il suo lavoro. Noi vediamo come esempio
didascalico di una letteratura dell’infanzia con funzione morale, l’idea che la stessa storia
possa servire come libro di lettura.
Il merito principale di quest’autore è quello di aver scoperto Pietro Thouar annunciandone
la “comparsa” ai lettori della sua “Guida”. Thouar rappresenta il tipico autore organico per
l’infanzia visto che concentra proprio su questa attività tutto il suo impegno.
Fra i suoi numerosissimi testi sembra opportuno segnarne almeno due: “Libro di lettura
giornaliera. Repertorio di nozioni utili adattate alla intelligenza dei fanciulli” non tanto per i
contenuti quanto per l’idea di “gradualità“ che lo permea e il complessivo “progetto di
lettura“ che sembra costituirne l’involucro: l’impegno è quello di insegnare i bambini “una
quantità di cose utili divertendoli“ (anche se in un altro punto l’autore ribadisce che le
letture non devono essere solo gradevoli “ma anche atte ad educare all’onestà e al
sapere” e che quindi non bisogna leggere senza il consenso dei genitori o maestri).
Anche dal punto di vista ideologico esistono alcuni elementi piuttosto interessanti: la
considerazione che “il lavoro è un obbligo, nello stesso modo che il riposo è necessario,
ma con moderazione“.
Altro suo testo è La casa sul mare (1852), libro di letture varie, contenente descrizioni di
bellezze naturali, racconti e poesie morali: c’è da apprezzare la precisione con cui i diversi
argomenti risultano trattati, non vi sono troppe sbavature e anzi in alcuni casi le descrizioni
di tipo scientifico appaiono puntuali anche se un po’ pedanti.
La lettura a scuola
Lingua e dialetto
Informazioni dirette sulla diffusione e l’uso dell’italiano e dei dialetti nell’Italia degli anni
dell’unificazione vengono fornite dall’inchiesta Matteucci del 1865, primo bilancio della
situazione scolastica italiana. Le relazioni degli ispettori scolastici provinciali disegnano
un’Italia in cui, a parte i territori di Roma e della Toscana, la lingua nazionale è pressoché
del tutto sconosciuta e il dialetto è l’unico idioma della comunicazione quotidiana.
L’inchiesta Matteucci conferma quanto già si sapeva da qualche tempo. Infatti, nel 1861, i
dati del primo censimento della popolazione italiana, avevano posto all’attenzione delle
classi dirigenti una situazione preoccupante: la presenza di analfabeti sul territorio
nazionale superava il 78%.
A conti fatti, risulta che nel periodo dell’unificazione, gli italiani in grado di usare la lingua
nazionale per leggere scrivere ammontano al 2,5% della popolazione. L’italiano
funzionava soltanto come lingua adatta a scrivere libri, mentre per il parlare comune ci si
affidava ai dialetti. Insomma l’italiano è, secondo la felice espressione di Tullio de Mauro,
una lingua “straniera in patria“.
Al sistema scolastico nazionale, istituito con il decreto legge di Gabrio Casati del 13
novembre 1859, viene affidato l’immane compito di porre rimedio al diffusissimo
analfabetismo e di vincere le molteplici resistenze che da varie parti, soprattutto da parte
cattolica, vengono frapposte all’istruzione popolare.
I primi programmi della scuola italiana sono emanati dal ministro Terenzio Mamiani nel
settembre 1860: essi pongono a fondamento dell’insegnamento elementare ancora prima
dell’istruzione, l’obiettivo di educare le nuove generazioni ai valori della classe dominante.
I pilastri dell’insegnamento sono costituiti dalla religione, dalla lingua italiana e
dall’aritmetica. Grande importanza viene assegnato all’insegnamento grammaticale il cui
scopo prioritario è di contribuire, attraverso l’alfabetizzazione delle masse popolari,
all’unificazione linguistica e culturale dell’Italia.
I programmi Mamiani hanno effetti del tutto insoddisfacenti nella lotta contro
l’analfabetismo, tanto che nel 1867 si ritiene necessario intervenire con dei ritocchi, i
cosiddetti ritocchi Coppino, i quali ammoniscono i programmi del ’67: per il dialetto si
tollera soltanto un uso strumentale e le parole della lingua materna sono unicamente
subordinate all’acquisizione delle parole italiane.
I libri scolastici
L’inchiesta Matteucci del ‘65 prende in esame anche la situazione dei libri di testo per
valutarne l’efficacia. Si chiede, dunque, agli ispettori scolastici di indicare quale profitto si
ricavi dai libri di lettura e quali di questi siano più generalmente usati, ma le risposte non
sono univoche. I libri scolastici erano gli unici con i quali una parte dei bambini veniva a
contatto.
La lettura a scuola
Lingua e dialetti
Negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia la questione della lingua assume la
natura di problema sociale nazionale. Era stato istituito un sistema scolastico esteso
all’intero territorio nazionale, si erano elaborati programmi scolastici la cui principale
finalità era di lottare contro l’analfabetismo, ma come si è già rilevato, i risultati furono
scarsi. Nel 1867, il ministro della Pubblica Istruzione Broglio, allo scopo di elaborare un
progetto organico di intervento per la questione linguistica, nomina una commissione di
studiosi (di essa fa parte anche Collodi) e chiama a presiederla Alessandro Manzoni, il
quale già da tempo va caldeggiando l’idea di una lingua comune che attinga all’uso vivo
del parlato. Il progetto manzoniano propone l’adozione del fiorentino parlato colto come
lingua comune per tutti gli italiani e suggerisce alcuni provvedimenti per diffonderlo in tutta
la penisola. Prima di tutto, la compilazione di un vocabolario che sia deposito del parlato
comune; poi, la destinazione di insegnanti toscani nelle scuole di tutta Italia, infine
l’organizzazione di corsi per insegnanti in forma di conferenze nelle quali dei maestri e
delle maestre della Toscana si rechino nelle varie province, per intrattenere i maestri e le
maestre delle scuole primarie in letture di libri classici e di libri moderni. Insomma, un vero
e proprio piano di intervento a tappeto, piano che tradotto in pratica comporta la
sostituzione forzata di un idioma (il fiorentino colto) a tutti gli altri (le diverse parlate locali).
È ben comprensibile che un progetto del genere contenga l’idea di un’emarginazione dei
dialetti, ritenuti ostacolo alla diffusione dell’italiano.
La proposta di fiorentinizzazione dell’Italia suscita gli entusiasmi di numerosi intellettuali
dell’epoca, ad esempio di Edmondo De Amicis, ma gli oppositori del progetto, gli
antimanzoniani non sono da meno: la più lucida e netta critica alle idee manzoniane è
sicuramente quella di Ascoli, contenuta nel Proemio all’Archivio glottologico italiano uscito
agli inizi del 1873. Ascoli ritiene errato pensare che il fiorentino possa essere norma
linguistica alla quale conquistare tutte le genti della penisola. Questo, sostiene,
condannerebbe all’oblio secoli di cultura popolare (fiabe, leggende, filastrocche), ricche di
un plurisecolare patrimonio di testi orali, cacciandola in una condizione di grave
emarginazione e condannandola ad essere dimenticata.
In quanto alla questione specifica dell’insegnamento scolastico, Ascoli è del parere, del
tutto opposto a quello dei manzoniani, che il processo di acquisizione dell’italiano risulti
tanto più efficace quanto più si sviluppa il rapporto con i dialetti e le culture locali,
attraverso un costante organico confronto tra i due sistemi. Secondo lui, l’insegnamento
dell’italiano sarebbe più efficace se messo in rapporto con le parlate locali. Insomma,
Ascoli ipotizza già nell’Ottocento l’idea di una didattica contrastiva basata sul bilinguismo.
Nella scuola reale sia il progetto manzoniano sia l’ipotesi ascolana, però, non hanno
seguito e non trovano possibilità di un’attuazione, in quanto troppo gravose e impegnative
le condizioni perché l’una o l’altra possano avere spazio nell’editoria scolastica, attecchire
nel comportamento concreto degli insegnanti e tradursi in pratica didattica.
Il periodo post-unitario prevede di assegnare un grande peso all’alfabetizzazione, in
quanto questa, secondo questa visione utilitaristica, consente di superare i rischi della
ribellione e violenza sociale: il popolo ignorante è più pericoloso del popolo colto, perché
essendo poco istruito è facilmente malleabile e si presta alla propaganda. La classe
dirigente ritiene, dunque, di fondamentale importanza istruire il popolo.
Inoltre, secondo il progetto liberale, l’istruzione avrebbe dato anche un posto alle
giovinette, le quali potevano lavorare come maestre. In ogni caso, l’istruzione avrebbe
fornito utili cognizioni per trovare un impiego e realizzarsi.
I libri scolastici
L’industria editoriale si rivela, nell’Italia postunitaria, particolarmente agguerrita e vivace. Ai
volumi editi nei decenni passati (primo fra tutti il Giannetto di Parravicini) è continuamente
rivisti e adattati alle novità dei programmi, si aggiungono testi di autori nuovi che spesso
non hanno alcuno scrupolo a compilare opere che sono rimaneggiamenti di quelle di
maggior successo.
I contenuti dei libri per la scuola sono strumenti di omogenizzazione sociale e puntano a
formare “l’uomo e il cittadino“ attraverso la presentazione di una serie infinita di ideali
modelli umani portatori di irreprensibili qualità morali e civili.
E’ difficile che un manuale scolastico osi una qualche innovazione rompendo le regole
ferree dei valori dominanti: il libro che avesse tentato, anche per aspetti marginali, di
scardinare la gabbia del pedagogismo patriottardo e del paternalismo edificante, che
avesse provato a vivacizzare il rapporto con i giovani lettori, sarebbe stato destinato alla
“bocciatura”. Accade ai libri di Collodi, compreso il Giannettino pubblicato nel 1876,
quando nel 1883 una commissione ministeriale istituita due anni prima per esaminare i libri
di testo e scegliere i più adatti all’adozione indica tra i non consigliabili i testi di Collodi,
ritenuti troppo romanzeschi. L’irruzione del Giannettino rappresenta, però, il primo caso di
scardinamento del sistema ideologico che sacrifica l’infanzia all’altare della morale
borghese.
Ciò che interessava più a Collodi era formare un cittadino nuovo: il suo sguardo si
rivolgeva al futuro. Dunque, parla all’infanzia inserendo una visione di quello che sarebbe
dovuto essere il bambino nuovo, il bambino che risorge. Il bambino del Risorgimento è,
dunque, un bambino che partecipa alla risurrezione nazionale.
Siamo arrivati agli anni ‘80: Collodi fa uscire sempre con Paggi Occhi e Nasi, volume
antologico sostanzialmente diviso in due parti, la prima dedicata a figure, personaggi,
ritratti della Firenze a lui contemporanea, la seconda dedicata la Firenze “di una volta“,
libro con il sapore moderno dell’indefinito e il colore sfumato dell’incertezza.
Quando Collodi stigmatizza il bambino protagonista di quest’opera, lo fa perché è
preoccupato che ci possano essere degli italiani che corrispondano esattamente all’idea
dell’italiano che si aveva all’estero, ovvero l’italiano screditato e umiliato. Bisogna dunque,
costruire il carattere degli italiani: non più emozioni e pianti, ma un’Italia della creatività,
dell’invenzione, un’Italia rinascimentale.
Collodi usa una retorica carnevalesca che per qualche tratto rovescia l’immaginario che il
bambino può avere del mondo degli adulti, un rovesciamento con sovvertimento dei poteri
(giustizia/tribunali) e della verità (Noi stiamo tutti dalla parte di Geppetto, ma poi questo
viene messo in prigione; stiamo dalla parte di Pinocchio che va a denunciare il furto subito,
ma questo viene condannato): un mondo, dunque, dove gli innocenti vengono puniti.
E’, infatti, un mondo rovesciato che si contrappone alla retorica fino ad allora dominante
degli occhi rossi, ovvero una retorica del pianto, della morte e della sofferenza.
In “Pinocchio” abbiamo adulti che sono delle marionette (Geppetto e Mastociliegia),
mentre Pinocchio si presenta come un burattino che si realizza da se stesso e che
assume una funzione divina.
In “Pinocchio”, infatti, c’è una dissacrazione, in quanto tutto il racconto è concepito come
una controprova all’attesa e all’aspettativa: il fuoco che alimenta la casa di Geppetto è
dipinto, l’uovo contiene il pulcino, la genealogia di Pinocchio è di poveri e di falliti, il posto
dove dovrebbe ripararsi Pinocchio è un luogo vile, dove fa freddo, quando lui chiede
l’elemosina gli viene buttato un secchio di acqua gelata. Di conseguenza, capiamo bene
che Collodi non invita a riflettere sul patetico o sul lacrimoso.
C’è, dunque, una sorta di capovolgimento o demistificazione: Mangiafuoco, personaggio
apparentemente truce, s’intenerisce, ma al posto di piangere, starnutisce; il grillo parlante
rappresenta la morale, ma una morale antipatica, tant’è vero che siamo quasi contenti del
fatto che Pinocchio lo zittisca; l’ambigua figura della bambina dai capelli turchini, la quale è
nel corso della storia bambina, sorella, nonnina.
C’è inoltre uno stravolgimento della morte: Stravolgimento della morte della bambina;
Pinocchio muore come Cristo.
e= allontanamento (la mancanza delle figlie che vengono rapite, la mancanza di una casa)
q= divieto infranto (“Non andate nel bosco”, “Non rispondere al lupo”)
X= danneggiamento o menomazione (se si infrange il patto, succede qualcosa)
y= mediazione contro la sciagura (per il personaggio che viene allontanato, che infrange
un divieto, riceve un danno, ci sarà una prova da superare)
R= ritorno
n= ricompensa
Propp pubblica, nel 1928 in Russia e nel 1966 in Italia, la “Morfologia della fiaba”
individuando una struttura coerente nel racconto dell’immaginario: l’immaginario che, nella
sua fantasia, ha una sua coerenza.
Propp sostiene che strutturalmente le fiabe sono tutte uguali: di conseguenza, le fiabe
sono in realtà delle funzioni, legate ai personaggi, dove è importante che cosa fanno i
personaggi e non chi o cosa sono essi. I personaggi, per Propp, sono semplicemente, non
degli attori, ma degli attanti, ovvero coloro che agiscono in un certo modo perché non
possono non agire in quel modo: l’eroe di mestiere fa l’eroe, il quale, essendo un attante,
svolge una determinata funzione.
I personaggi delle fiabe sono, dunque, comprensibili per la loro connotazione e per
l’attributo che gli viene dato. Le funzioni dei personaggi sono costanti e di numero
limitato: più eroi o più antagonisti avranno la stessa funzione.
I protagonisti hanno bisogno di effetti speciali: si fa un grande uso della metamorfosi, un
espediente narrativo, e degli aspetti morfologici dei personaggi.
I personaggi hanno ovviamente una connotazione che li contraddistingue; possiamo fare
l’esempio della dimensione del corpo: il corpo dei protagonisti è incorruttibile (non li
vediamo mai sudare ad esempio). E’ importante anche la pelle dei personaggi: i poveri
dovevano lavorare e quindi erano sicuramente più abbronzati dei ricchi.
Altro elemento importantissimo sono gli orifizi del personaggio (gli occhi, la bocca, il
naso), i quali avevano una funzione comunicativa per gli attanti.
Il pianto porta ricchezza, mentre il riso è segno di stoltezza: se il protagonista ride in modo
sguagliato all’inizio del racconto non è visto di buon occhio.
Altro elemento della morfologia del personaggio è la miniaturizzazione, il diventare piccoli
e il vedere il mondo a dimensione ridotta.
Riguardo il concepimento, nelle fiabe non c’è mai una relazione affettiva che produce il
figlio: c’è un autogenesi del personaggio, il quale nasce senza una condizione che lo
rende possibile (la madre non riesce ad avere figli, si buca il dito che sta usando per
tessere, esce il sangue sulla neve e improvvisamente la principessa si trova incinta di
Biancaneve).
E’ importante, inoltre, la successione delle funzioni della fiaba: l’incipt sarà sempre “C’era
una volta” (in un tempo sospeso, difficile da definire) e il finale sarà “Vissero felici e
contenti”: dentro questi due termini c’è una situazione di disequilibrio che rompe l’incipit e il
tentativo di sopperire a questo disequilibrio si ha con l’autore che cerca di raccontare quali
sono le prove che consentono di ristabilire l’equilibrio ormai perduto. In questo caso, è
fondamentale la funzione dell’eroe, dei cercatori, degli aiutanti, dei mediatori: grazie a
questi, la situazione si ristabilisce.
Il percorso della fiaba si muove su un orizzonte controfattuale, non necessariamente
veritiero, tendenzialmente falso (situazioni appartenenti al mondo magico etc).
Una delle caratteristiche del racconto fiabesco è che la preoccupazione di trovare un finale
risolutivo, a volte, fa perdere il senso del racconto; la mancanza della finalità fa si che la
fiaba stia in piedi anche se non ha un epilogo.
Nelle fiabe, inoltre, non è possibile la sfumatura, in quanto i colori devono essere netti:
nero è nero, bianco è bianco. Non c’è la sfumatura neanche nell’emozione, nei punti di
vista: c’è il buono e il cattivo, il bello e il brutto. La tendenza nella fiaba, dunque, è quella di
ragionare secondo una logica binaria: è questo o quello.
Abbiamo detto che Dodgson era anche un fotografo, il quale scatta foto soprattutto a
bambini con posizioni ambigue: fotografa, ad esempio, una bambina (slide) vestita con
abiti stracciati, la quale mostra velatamente il seno. Questo ha aumentato tutta una serie di
fantasie sulla reale predisposizione ad un’amicizia sincera di Dodgson con il suo pubblico
di bambine: quando scriverà ad Alice, a distanza di anni, per chiedere il favore di avere la
prima copia del testo di Alice, le dirà “ho avuto ancora altre amiche bambine, ma nessuna
è stata come te”. Emerge, dunque, che quest’autore era un pedofilo per certi versi.
Capiamo anche, però, che l’attenzione di Carroll è focalizzata sul bambino spogliato di
ogni costruzione, il quale gioca con l’immaginazione.
I personaggi hanno tutti un’attinenza, o nel nome o nei comportamenti, con aspetti della
vita reale: è un fantastico legato alla realtà.
Ad esempio, la creazione di alcuni personaggi del “Pool of tears” sono l’Anitra (Duck),
che è un riferimento al reverendo Duckworth; Lorichetto (Lory), che si riferisce a Lorina
Liddell, una delle sorelle cui è dedicata la storia; l’Aquilotto (Eaglef), che si riferisce
probabilmente all’utore stesso, Charles Lutwidge Dogson, ironizzando implicitamente sui
suoi problemi di balbuzie nelle occasioni pubbliche (da qui il gioco Do-do-sogson).
Altri personaggi, poi, devono il loro nome a proverbi e tradizioni. Un’espressione
proverbiale, “to be Mad as a hatter”, da origine al Cappellaio matto, che si riferisce
verosimilmente al fatto che il mercurio utilizzato per trattare i capelli è altamente tossico.
Cuore 1886
Cuore si inserisce nel filone della letteratura precettistica che in Italia ebbe inizio con
Parravicini, Thouar e Baccini, fortemente orientata al lettore bambino, il quale andava
catechizzato. Questa catechesi poteva essere religiosa, morale o civile.
La svolta avviene con questo romanzo, pubblicato nel 1886, scritto in una forma rapida e
con una profonda trasformazione, non tanto per lo stile di scrittura, quanto del setting
(l’ambientazione) dei suoi testi: non la vita militare, l’esercito e i soldati, ma la scuola
intesa come un grande campo di battaglia, come un luogo in cui si ritrovano i tipi umani e
dove è possibile descrivere le caratteristiche delle persone quando ancora queste non si
sono sviluppate.
Cuore si presenta, dunque, come il diario di un anno scolastico di un bambino di terza
elementare torinese. Torino è la capitale del Risorgimento nazionale, luogo dove c’era il
re: era un contesto industriale in cui esistevano le manufatture e il lavoro e le classi sociali
erano già strutturate. Dunque, la collocazione del romanzo è importante.
E’ importante anche l’anno, il 1881, periodo in cui le istanze del patriottismo erano molto
forti.
Si prenda il diario di Enrico e lo si legga con un occhio meno ironico: abbiamo un bambino
di terza elementare che affronta il primo giorno di scuola “di mala voglia“ perché pensa
ancora alle vacanze e alla campagna, inoltre la nuova classe non è delle migliori.
Fortunatamente all’uscita la madre capisce i dubbi e le ansie del figlio e lo aiuta così:
“Coraggio, Enrico! Studieremo insieme“. Basta questo per segnare l’intero percorso del
testo dove tutto è predisposto per convincere Enrico della necessità di smettere di essere
bambino, di crescere, di farsi uomo, degno delle affettuose aspettative dei genitori, delle
nobili attese della Patria e dello stesso consorzio umano.
De Amicis ci tiene, inoltre, a giustificare la “geometria“ del suo testo, solidamente
impiantato su tre blocchi distinti, ma complementari: quello del diario dell’anno scolastico
tenuto da Enrico, quello degli interventi epistolari dei genitori e della sorella, quello di
racconti mensili.
Esiste anche una lettera, conservata nel Fondo Peruzzi della Biblioteca Nazionale di
Firenze, che costituisce la testimonianza attendibile di come De Amicis si ponga il
problema dell’opera buona, educativa, ricca di “mille sfumature di sentimenti delicati e
poetici“: tutto concorre, insomma, a costruire Cuore sull’urgenza dei “buoni sentimenti“
necessari all’integrazione fra borghesia e ceti subalterni, ma anche sulla loro evidente
superficialità.
La scuola, inoltre, entra in altri due i romanzi che devono essere ricordati: “Romanzo di un
maestro” e “Amore e ginnastica”, dove si ricorda l’avvento dell’educazione fisica nelle
scuole e si descrivono gli affetti e i trasporti di un maestro per una maestra che,
emancipata, pratica per prima l’educazione fisica in una scuola.
Altro aspetto che di Cuore colpisce è quello della tristezza, della sofferenza, delle
disgrazie e delle morti seminate a piene mani.
Nel passaggio tra 1888 e 1891 c’è uno dei momenti più tragici dell’esistenza di
quest’autore: In famiglia ci furono alcune tragedie, tra cui la morte dell’amatissima madre
nel luglio ‘98, il suicidio inspiegabile del figlio ventunenne Furio nel novembre dello stesso
anno e la separazione dalla moglie che lo accusava di infedeltà.
Cuore ebbe notevole riscontro da parte del pubblico e una fortuna straordinaria: all’inizio
del ‘900 viene considerato il libro di lettura per la formazione degli italiani, mentre negli
anni ‘60 si inizia a dire che Franti, il quale aveva deriso il soldato storpio, non aveva fatto
altro che annunciare la protesta verso l’autorità.
Critica pedagogica
Dal punto di vista pedagogico, le critiche che si possono muovere a De Amicis sono:
- Il fatto che l’autore faccia frequente ricorso al ricatto emotivo nei confronti dei bambini (“ti
do il premio”, “ti metto in castigo”).
- Sono da stigmatizzare i meccanismi di esclusione attivati nei confronti del diverso. Per
esempio, la cattiveria di Franti è connaturata, non viene indagata nella sua genesi
(determinismo biologico).
- C’è una difesa patriottico dell’italiano e una certa animosità verso gli stranieri.
Dobbiamo riconoscere, però, anche dei meriti:
- Concezione progressista dello studio, la fede nelle capacità dell’istruzione come
strumento di miglioramento sociale e progresso, l’ispirare nei lettori un pensiero laico:
sostiene fermamente che l’educazione possa trasformare realmente il mondo e che grazie
al sacrificio e allo studio ci può essere un’Italia migliore.
- “Cuore” opera una grande operazione di unificazione nazionale intorno alla borghesia
protagonista del Risorgimento e ai suoi valori: obbedienza, operosità, affrattellamento,
rispetto delle gerarchie, beneficenza.
- Rende comprensibile ai bambini il concetto di virtù incarnandola in idealtipi.
- Esalta il mondo interiore degli affetti, del sentimento, degli ideali risorgimentali (che
nell’Italia umbertina andavano svanendo).
- E’ un testo che è costruito per la ricerca di un’unificazione morale, sociale, linguistica e
culturale.
- Non fa ricorso al tema della religione e di Dio, ma costruisce un nuovo concetto laico di
bene comune.
Rispetto allo stile, De Amicis usa un vocabolario appropriato ed è convinto che occorra
uniformare gli italiani anche con la lingua. Usa un linguaggio colto e ha un atteggiamento
intransigente verso le inflessioni dialettali, i francesismi e i barbarismi.
L’idioma gentile. De Amicis pubblica l’Idioma gentile nello stesso anno, il 1905, in cui
vengono emanati i nuovi programmi per la scuola elementare. Addirittura il libro assume la
natura di documento ufficiale della politica ministeriale in materia di educazione linguistica:
una circolare del 23 marzo 1905 del ministro Vittorio Emanuele Orlando ne raccomanda a
tutte le scuole del regno la lettura.
L’Idioma gentile destina la sua lezione esclusivamente ai giovani rappresentanti dalla
buona borghesia alla quale sono affidati gli interessi e le sorti del paese. Non a caso, il
libro si apre con un capitolo da significativo titolo La lingua della patria, in cui l’autore si
rivolge a un giovinetto e lo invita allo studio della lingua.
L’architettura del libro è organizzata per buona parte intorno ai ritratti di simbolici
personaggi della “gran famiglia dei poveri della parola“: il signor Coso, impreciso nell’usare
la parola giusta, lasciava a mezzo ogni periodo con un insomma tu capisci; e con la parola
Coso “faceva di meno di mille vocaboli“; la signora Pisospinto “parlava nel modo che può
parlare un orecchiante della lingua, che ode a frullo e legge a vanvera. Usava sgattaiolare
per imitare la voce del gatto, sobillare per fare il solletico, cincischiato per azzimato“; il
falso Monetario da alle parole significati stravaganti; Il professor Pataracchi, purista
permaloso per il quale “lingua e nazione sono una cosa sola: dunque chi offende la lingua
tradisce la patria”; Scrupolino, alle prese con i dubbi di sinonimi; il Pescatore di perle,
sempre a caccia di termini rari; il visconte La Nuance, fanatico della lingua francese e delle
sue sfumature; il dottor Raganella, i cui discorsi sono “cascate, frane, diluvi di parole“; lo
Stilettatore, alla ricerca affannosa di un proprio stile; Carlo Imbroglia, che pasticcia parole
e frasi e non è mai chiaro.
Per il resto, è tutto un disapprovare e censurare usi errati e impropri e denunciare l’offesa
recata all’italiano.
De Amicis si preoccupa anche di fornire indicazioni e orientamenti, soprattutto a proposito
di lessico, su quel che è corretto, chiaro, appropriato in fatto di lingua.
Emilio Salgari
Emilio Salgari, veronese, di origini modeste, non porta a termine gli studi al Nautico di
Venezia e rinuncia a quella carriera sul mare che tanto spazio troverà invece nella sua
opera, compiendo diciottenne solo una breve navigazione in Adriatico fino a Brindisi.
La sua collocazione è, non tanto nella letteratura per bambini, ma nella letteratura per pre-
adolescenti, anche se non mancano elementi che possono rendere i testi di interesse per
il lettore adulto.
Dopo alcune limitate esperienze di lavoro, comincia a pubblicare a puntate sulla rivista
milanese di viaggi il racconto I selvaggi della Papuasia, arrivando subito dopo al
quotidiano della sua città, “Nuova Arena“, con una novella e due romanzi, La tigre della
Malesia e La favorita del Mahdì, che danno già misura di una fervida fantasia non
disgiunta, per quanto concerne i modi della narrazione, da un precoce mestiere.
Dopo alcuni anni di giornalismo, la contemporanea pubblicazione in volume dei primi
romanzi e il matrimonio con la ventiquattrenne attrice dilettante Ida Peruzzi, si trasferisce a
Torino nel 1893: qui l’editore Speirani può offrirgli una serie di collaborazioni alle sue
pubblicazioni per l’infanzia e l’adolescenza e consentirgli di vivere del lavoro di scrittore e
qui richiederà fino alla morte.
Salgari lavora instancabilmente vivendo in condizioni di notevole stress , in quanto lui e la
moglie hanno quattro figli, di nome Fathima, Nadir, Romero e Omar, ma sembrano non
essere totalmente in grado di controllare la situazione familiare: Emilio lavora tantissimo,
ma ha sempre problemi di bilancio; inoltre, Ida dopo la tragica conclusione di un parto
gemellare, comincia a dare segni di squilibrio mentale e finisce internata in un manicomio;
Fatima è spesso malata.
Salgari vive, dunque, una vita piuttosto stressata anche perché cambia molti editori,
rimanendo molto deluso dal trattamento economico che essi gli riservano: è schiavo del
meccanismo editoriale dell’Ottocento.
Con Donath, casa editrice di Genova, pubblica 34 romanzi, tra cui i suoi titoli più noti:
l’editore fa fortuna con i suoi romanzi, ma non in condizioni particolarmente favorevoli, in
quanto i contratti lo costringevano a lavorare giorno e notte.
Per combattere la tensione, ma anche per mantenere un ritmo di lavoro sostenutissimo, lo
scrittore abusa di sigarette e marsala, ha problemi di parziale cecità ad un occhio e cade,
quindi, ancora di più in profonda depressione, ricordando il suicidio del padre, lo tenta
anche lui una prima volta nel 1908 ma fallisce, mentre riesce nell’intento il 25 aprile 1911,
tagliandosi gola e ventricolo con un rasoio in un bosco vicino a Torino e lasciando una
toccante lettera ai figli e un bruciante atto d’accusa contro i suoi editori: “Ai miei editori: a
voi che vi siete arricchiti con la mia pelle mantenendo me e la mia famiglia in una continua
semi-miseria ed anche più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che io vi ho dato
pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna.” Il suicidio, infatti, rappresenta la
vita persa a rincorrere i bisogni materiali.
Indubbiamente Salgari era vittima di un’editoria selvaggia, preoccupata soprattutto dei
risultati di vendita, ma va anche ribadito che probabilmente lo scrittore porta in sé quella
generosa disorganizzazione, che se da un lato gli consente di assumere nomi di fantasia
per poter riempire più pagine, dall’altro gli impedisce ogni razionale pianificazione del
lavoro e dell’amministrazione della famiglia.
Potremmo dire che la scrittura di Salgari sia una scrittura cinematografica, dunque che
quello che viene messo in scena è come un film e quindi il racconto è serrato, pieno di
onomatopee, di ritmo, di colori e fascinazione: il lettore anche se in certi contesti non ci è
stato, se lo può immaginare.
L’autore è, inoltre, un autore che segnò la transizione tra il tipo di letteratura che si pratica
nell’età preunitaria e umbertina, molto censurata, e la letteratura più sboccata, in cui
vengono fuori temi estranei fino ad allora.
Ebbe comunque un successo internazionale, in quanto fu il più grande scrittore di
avventure in italiano e grazie alle sue traduzioni: le prime trascrizioni in francese risalgono
alla fine dell’Ottocento.
La critica ha riscoperto solo di recente questo autore, perché per quanto i suoi testi siano
inaffidabili dal punto di vista storico, scientifico e geografico e nonostante una lingua non
sempre letteraria, ma molto diretta e colloquiale, resta il fascino di un racconto che rifiuta
le comode vie dell’insegnamento didascalico e del nazionalismo, che anzi evidenzia ansia
di libertà, rifiuto del colonialismo e attenzione per le minoranze. Questo tipo di scrittura è
molto critica verso un ideale patriottico e nazionalista: Salgari infatti non si concilia con
l’esaltazione del fascismo e con il libro Cuore, perché lui ci parla di personaggi introvabili
che hanno però una loro etica
Stranieri in Italia
Scrittore per vocazione, laureato in giurisprudenza senza mai esercitare la professione,
Robert Louis Stevenson (1850-94) ha instabile salute e vita avventurosa .
Pubblica articoli, saggi, racconti e romanzi, notissimi in Italia, fra cui Treasure Island
(1883) e The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr Hyde (1886): riguardo il primo, il senso
di avventura dello scrittore viene letto come quel desiderio di scoperta, quella sete di
conoscenza che caratterizzano gli spazi della cultura occidentale e quei viaggi di
iniziazione che dai boschi delle fiabe passano ai mari e agli oceani.
Il periodo 1878-1900 vede approdare in Italia altri numerosi titoli stranieri .Come ultimo
riferimento femminile al continente americano è quello di Louisa May Alcott, condannata
in Italia all'emarginazione in nome dei continenti vecchi e sorpassati delle sue Piccole
Donne.
Ultimo caso è “Heidi” di Johanna Spyri ebbe più successo in Italia nel Novecento grazie
alla trasposizione giapponese in cartoon: il cartone ebbe più successo del libro.
Introduzione
All’esordio del nuovo secolo viene ucciso il re e inizia una fase complessa della storia
nazionale, connotata da spinte patriottiche nazionalistiche: l’Italia vuole conquistare un
posto negli imperi e, dunque, si lancia in avventure coloniali. Idealmente, quest’età si
conclude nel 1914 con lo scoppio della I Guerra Mondiale.
Dal punto di vista della letteratura dell’infanzia, Andrea Zanzotto rileva come proprio a
partire dagli esordi del secolo sia possibile individuare un composito intreccio di tre
tendenze con le quali chiunque presti attenzione alla letteratura giovanile è costretto a
fare i conti, sia in sede teorica sia in sede di ricostruzione storica. Le osservazioni di
Zanzotto, a dire il vero, sono riferite specificamente alla poesia, ma il loro valore può
certamente essere esteso a tutta la produzione, in prosa e in versi, che fa riferimento
all’infanzia: finalmente ci sono autori che non scrivono espressamente per bambini, ma
che hanno una poetica al tema dell’infanzia intesa come un momento della vita dell’uomo
che merita un particolare rispetto e una particolare cura.
Una prima tendenza è caratterizzata dalla creazione di una letteratura “incentrata
sull’infanzia” e comprende gli scritti di autori che solo occasionalmente producono per un
destinatario, i bambini e le bambine, istituzionalmente diverso da quello a cui sono abituati
a rivolgersi: gli scrittori, dunque, non sono abituati a rivolgersi ai bambini.
Per quanto riguarda la seconda linea consiste nel fatto che la letteratura non è più
didascalica o edificante come nell’Ottocento, ma è giocosa: c’è il gusto della parola come
gioco, ad esempio la parola in rima che accompagna i fumetti. Dunque, questi narratori
guardano all’infanzia per divertire.
Per quanto riguarda specificamente la poesia, sul piano formale che si abbandonano
“schemi metri e stilistici di tipo tardoromantico” per adottare moduli metrici liberamente
costruiti, sia per le soluzioni ritmiche, sia soprattutto per le scelte lessicali.
La terza è invece il fatto che è una stagione di grandissima vitalità del mercato editoriale
per l’infanzia: l’infanzia diventa interessante dal punto di vista della pubblicistica e dunque
gli editori investono ad esempio nella stampa a colori, nelle copertine figurative, negli
illustratori etc.
La lettura a scuola
Lingua e dialetto
L’ostilità verso i dialetti raggiunge le punte più alte e sprezzanti nei primi anni del nuovo
secolo, in coincidenza con l’emanazione, nel 1905, dei programmi per la scuola primaria,
nuovi rispetto agli ormai obsoleti programmi del positivismo. La guerra contro i dialetti si
gioca soprattutto nelle scuole. I programmi del 1905 della scuola primaria con rigorosa
insistenza impongono l’attenzione massima alle correzioni degli errori dialettali.
I libri scolastici
I libri di lettura della scuola elementare, gli unici libri a entrare nelle case di molte famiglie
e ad essere letti a volte anche dei genitori, per i primi anni del Novecento restano nella
sostanza dei contenuti ancora vincolati ai parametri ottocenteschi, cioè finalizzati ad
ammaestramenti morali. Si basano sulla mozione degli affetti/sentimentalismo: moralità e
retorica del patetico di ispirazione deamicisiana, modello che si era imposto dalla mentalità
dei maestri di scuola.
Gli autori e le opere
I crepuscolari dell'infanzia
La presenza dell'infanzia nelle opere crepuscolari è duplice: per un verso è la dolceamara
età trascorsa, nostalgico universo di ingenuità e spontaneità smarrite, dimensione di vita
disimpegnata dai vincoli della realtà adulta; per altro verso, il bambino viene assunto come
fattuale interlocutore e destinatario di scritti in prosa e in versi specialisticamente prodotti.
Ricordo e ritorno all'infanzia attraverso la memoria della propria esperienza acquistano
toni a volte patetici e nostalgici per una fanciullezza dolorosamente vissuta, altre volte toni
malinconicamente estenuati per una serenità perduta e non più riconquistabile.
Ma quel che conta di più è la vera e propria rivoluzione del linguaggio poetico che i
crepuscolari attuano nel primo decennio dell’Ottocento: ai modi solenni e ricercati, essi
sostituiscono un linguaggio che si ritira, spesso con animo ironico e insieme nostalgico, a
rappresentare la quotidianità delle piccole cose e l’universo dell’intima familiarità.
Lina Schwarz (1876-1947), autodidatta, attenta ai problemi sociali, fu soprattutto
poetessa per i bambini: Il libro dei bimbi, Ancora, ...e poi basta costituiscono le tappe più
significative di un'esperienza letteraria degna ancora oggi di qualche considerazione.
Lina Schwarz mostra, inoltre, di saper usare con perizia i ritmi delle cantilene tradizionali e
sa anche rendere divertenti i motivi più frusti della poesia d'occasione.
Corrado Govoni (1884-1965) è celebre e celebrato nell'ambito della letteratura giovanile
grazie a una delicata poesia “La Trombettina “ ospitata da gran parte dei libri di lettura
della scuola elementare e delle antologie di scuola media.
Tratta dalla raccolta Il Quaderno dei sogni e delle stelle del 1924, in pochi versi (16 in
tutto) rappresenta la felicità di una bambina che suona una trombettina di latta da pochi
soldi.
L’unica opera che Govoni scrive per l’infanzia è quel quasi sconosciuto Libro del bambino,
pubblicato a Milano nel 1913 presso l’editore Rizzoli. Il libro raccoglie dieci testi (quattro in
versi e sei in prosa ) e intende essere in assoluto il libro del bambino: già col titolo che
porta ambisce al ruolo di totale esemplarità.
Veramente singolare è il caso di Aldo Palazzeschi che pur non avendo scritto nulla per
l'infanzia, ha avuto e continua ad avere grande fortuna presso i piccoli per certi suoi
deliziosi componimenti poetici, ospitati nei libri di lettura per la scuola elementare e nelle
antologie per la scuola media: Rio Bo, La fontana malata, Lasciatemi divertire, Comare
Coletta, La passeggiata vengono proposte ai bambini secondo procedimenti di “riduzione”
alle ragioni scolastiche il più delle volte del tutto diverse dalle ragioni della poesia .
Guido Gozzano
Gozzano scrisse per bambini alcuni versi che, per quanto le si voglia e si possa
valorizzare, risultano a conti fatti veramente marginali rispetto al resto della sua
produzione poetica. Si tratta di un esiguo gruppo di otto liriche nate perlopiù come poesia
d’occasione: una per la nascita del fratello Renato, altre per celebrare in versi festività
della liturgia cattolica.
Certamente non marginali nella produzione gozzaniana sono le fiabe: l’autore sa bene che
l’esagerazione è sempre un’efficacia e generosa ispiratrice di fiabe. Sa che è l’esagerata
presentazione, fino alla deformazione, di personaggi, di situazioni, di funzioni, di azioni a
qualificare la struttura testuale del genere fiaba e, al tempo stesso, a raggiungere i
giovanissimi lettori e toccare le corde giuste della loro immaginazione. Allora dà vita a
personaggi bizzarri che se non appartenessero all’universo fiabesco, dove tutto, anche
l’impossibile l’assurdo, ha immediato diritto di cittadinanza, si direbbero figure di matrice
surrealistica.
Introduzione
L’esame dei giornali di trincea nella guerra 1915-18 ha consentito a Mario Isnenghi di
mettere in luce questioni determinanti per lo sviluppo della nostra storia nazionale, dalla
funzione degli intellettuali come organizzatori del consenso all’insistenza su quei temi che
risultano presenti anche nella produzione per l’infanzia; per parlare alle classi subalterne e
convincerle dell’opportunità del conflitto sembrava necessario, infatti, giocare sui
sentimenti elementari, idealizzati, emotivamente coinvolgenti e risultava ovvio, pertanto, il
ricorso al linguaggio bamboleggiante, a toni infantili, degni più di deamicisiani maestri di
scuola che di seriosi professori di liceo.
La lettura a scuola
Lingua e dialetti
Negli anni intorno alla guerra, le cifre della presenza di analfabeti nel paese vanno, sia pur
lentamente, riducendosi; la scolarizzazione ottiene un qualche tiepido ma concreto
risultato; l’editoria passa decisamente da un’organizzazione di tipo artigianale alla
dimensione industriale. Il paese, in parte, intraprende la strada di una moderna
industrializzazione. Restano tuttavia ampi i margini di analfabetismo. L’Italia è ben lontana
dai livelli culturali raggiunti da altri paesi europei. Ancora nel 1911, quasi 4 italiani su 10
sono del tutto estranei alla conoscenza e all’uso della lingua nazionale, e in circa la metà
dell’Italia il tasso di analfabetismo supera il 50%. Quel che resta preoccupante tuttavia è il
grande divario tra Nord e sud, tra un’Italia avviata a traguardi di civiltà industriale e un’Italia
ancora ferma, in alcuni settori della vita pubblica e privata, a strutture addirittura medievali.
I libri scolastici
Nel 1922 un libro di lettura per la quinta elementare, Ascendere, di Angelo e Enrica Josia,
propone ai bambini un testo di Maria Bartolini in cui si affermano idee eccezionalmente
avanzate e progressive. Il brano, che nella sua interezza è una ben articolata
argomentazione sulla libertà di pensiero e secondo il procedimento didattico della
induzione, pone a confronto opinioni dei ragazzi su questioni varie (la campagna ela città,
libri lieti e libri tristi, argomenti scientifici e argomenti letterari ecc.) con le idee politiche dei
“grandi”, è accompagnato da una rubrica didattica che chiede risposta ad un gruppo di
interrogativi.
Un testo del genere, apparisse in un libro di lettura dei giorni nostri, sarebbe accolto con
una qualche perplessità in quanto “rivoluzionario”, troppo avanzato rispetto alle diffuse
cautele che ispirano molti corsi per la scuola elementare. Alle idee progressive si
accompagna una immagine nuova del bambino e del suo mondo esistenziale: una
immagine fatta di gioiosa vitalità e allegra operosità. Gli autori di libri scolastici si lasciano
“catturare dal fascino dell’ingenuità infantile e dalla naturalezza con cui il bambino mette in
atto il fantastico, il surreale, l’assurdo“. Una stagione felicemente aperta all’infanzia, quella
degli anni del secondo decennio del ‘900. Ma, come vedremo, l’interessante fenomeno di
attenzione particolare alle dimensioni autentiche dell’infanzia ha vita brevissima. Dietro
l’angolo della storia si nasconde il progetto educativo e politico di una subordinazione di
bambini e bambine all’idea di Stato autoritario ed è loro inquadramento negli schemi
dell’addestramento premilitare e saranno Figli/Figlie, della lupa e Balilla e Piccole italiane.
Introduzione
Incidere sugli italiani
La letteratura giovanile è il terreno sul quale, forse meglio che su altri, è possibile misurare
la capacità del fascismo di riuscire ad acquisire consensi incidendo sui comportamenti
mentali degli italiani. Nel campo della produzione editoriale, l’ambito specifico dei libri e dei
periodici destinati ai ragazzi e alle ragazze, per via del ruolo pedagogico e didascalico che
istituzionalmente rivestono, si trova, infatti, a essere più immediatamente soggetto a
processi di strumentalizzazione da parte del potere costituito e ad essere privilegiato come
canale di propaganda.
È del tutto ovvio che il regime totalitario mira a rappresentarsi in termini positivi soprattutto
fra le più giovani generazioni. I libri per l’infanzia diventano strumento di penetrazione tra i
giovani e giovanissimi con il compito di alimentare, con storie di varia esemplarità,
l’ideologia del regime, a partire dalla mitizzazione di Mussolini.
Tutto considerato, tuttavia, si può sostenere che i risultati della macchina del consenso
non hanno corrisposto alle aspettative del regime. Nel campo della letteratura per ragazzi,
come in altri campi del sapere, il fascismo riuscì, sì, a creare una sorta di mentalità fatta di
patriottismo acceso, di retorica reboante e magniloquente, di esaltazione di miti e riti
guerreschi. Ma non fino al punto di occupare totalmente e irreversibilmente il mondo
fantastico e immaginativo dei più giovani.
L’impressione è che gli enormi sforzi per costruire una cultura infantile omogenea al
fascismo abbiano avuto effetti più sugli adulti educatori che non sui diretti destinatari,
bambini e bambini, e che la rete del controllo di quanto in Italia si andava stampando e
diffondendo abbia funzionato più sul versante della censura e del divieto e molto meno sul
versante dell’efficacia di proposte nuove. L’atteggiamento degli scrittori per l’infanzia non è
in tutti i casi di totale arrendevolezza ai voleri del fascismo.
In quanto alle caratterizzazioni culturali e pedagogiche della letteratura giovanile, torna
utile distinguere nell’arco del ventennio fascista due periodi: prima e dopo la presa del
potere totale, prima e dopo il ‘26.
La prima fase è caratterizzata dalla dominanza della cultura idealista, la seconda fase
appare come un procedere, complesso e faticoso, verso la cultura fascista che sul piano
teorico non sarà mai raggiunta e formalizzata, e che, al contrario, sul piano degli interventi
concreti farà sentire il duro peso di provvedimenti censori, dal divieto di leggere opere di
autori stranieri fino alla lista degli autori ebrei “non graditi“ al fascismo, tra i quali Laura
Orvieto.
Giuseppe Lombardo Radice, estensore dei programmi scolastici della riforma del 1923,
ha modo di riflettere sui libri destinati all’infanzia sia quando fornisce ai maestri indicazioni
sulla scelta delle letture da proporre ai bambini nella pratica didattica, sia quando va alla
ricerca, sul piano della scrittura per giovani, di correlativi oggettivi delle sue idee
pedagogiche ispirate alla filosofia idealistica. Così nella premessa dei programmi per la
scuola elementare sottolinea il valore educativo della “grande letteratura che ha dato, in
ogni tempo, mirabili opere di poesia, di fede, di scienza, accessibile appunto perché
grandi, agli umili“. Secondo questo principio Lombardo Radice raccomanda innanzitutto la
lettura di libri di autori italiani, maestri di patriottismo e di educazione morale e civile.
A partire dal 1926 prende il via la seconda fase, quel processo di fascistizzazione che
attraverso tappe differenziate, tenderà a occupare tutti gli spazi dell’infanzia e a costruire
intorno all’esistenza di bambini e bambini, un rigido apparato di indottrinamento.
I libri per ragazzi saranno sempre più rigorosamente sottoposti a controllo, alle opere
straniere tradotte in italiano sarà impedita la libera circolazione, sarà istituito per le scuole
elementari libro il testo unico di Stato, molti periodici e fumetti, soprattutto americani,
saranno messi fuorilegge, si tenterà con “il Balilla“ di confezionare un organo ufficiale per
ragazzi, alternativa agli altri più diffusi giornalini.
Nel 1938 sarà istituita una commissione per la Bonifica libraria e in un convegno, a
Bologna, si proverà a mettere a punto una strategia di controllo di tutta la produzione per
ragazzi (libri scolastici e non scolastici, giornalini, fumetti, teatro, radio, cinema).
Tuttavia, come sopra detto, le incongruenze culturali, le disattenzioni e distrazioni, le
incapacità anche organizzative lasceranno spazio a pubblicazioni niente affatto
assoggettati a regime; opere che considerate nel loro insieme formano una zona franca,
che se non è di esplicita opposizione al fascismo, sicuramente è affrancata in misura
diversamente accentuata dagli obblighi di indottrinamento ideologico.
Censura
Parallelamente ad una fase di repressione ed eliminazione di tutto quello che ancora in
circolazione è inviso a regime, si è mirato alla “Italianizzazione integrale“, della stampa
periodica per ragazzi costringendo gli editori a pubblicare “fatti e gloria della storia della
vita italiana“ e a dedicare spazio sufficiente “ai fatti e alla passione della nazione in
guerra“.
Topolino censurato. Un episodio significativo vede l’editore Mondadori, tra il 1941 e il
1942, in difesa delle storie dei personaggi di Walt Disney. Già nel marzo 1941 un
intervento ministeriale, coerentemente con la politica a favore di fumetti “autarchici“,
dispone di sopprimere dal settimanale “Topolino“, che conta su 110.000 lettori, la
pubblicazione delle storie create dal celebre disegnatore statunitense.
L’ordine non può essere certo accettato a cuore leggero. Significherebbe dover abolire
una delle principali fonti di profitto della casa editrice. Sulla base di questi indiscutibili
meriti si chiede di poter pubblicare materiali già acquisiti fino alla fine dell’anno. Il risultato
massimo ottenuto è la proroga delle pubblicazioni soltanto per qualche settimana,
nonostante gli interventi dell’editore, che propone di togliere il nome di Disney dalle
illustrazioni residue e di continuare a pubblicare, una volta esaurita la scorta, storie create
da autori italiani.
I libri scolastici
Prima che il fascismo imponga nel 1929 il testo unico di Stato, i libri scolastici sono stati
oggetto di attenti controlli, ma non fino al punto che non si abbiano margini che si
sottraggono all’imposizione del regime. Le ragioni che spiegano questa sorta di zona
franca nell’editoria scolastica sono diverse, e hanno cooperato a crearla almeno tre cause:
una certa iniziale resistenza degli editori all’indottrinamento dell’infanzia che il fascismo
pretende, la presenza nelle commissioni di intellettuali di formazione idealistica che mal
digeriscono il fatto che la scuola sia assoggettata all’ideologia fascista, e probabilmente
una qualche disattenzione della rete di controllo.
Il 1 novembre 1928 il Consiglio dei Ministri approva l’istituzione del testo unico di Stato,
nel quale la qualità delle soluzioni grafiche non erano niente affatto improvvisate o banali.
La parte delle illustrazioni, ad esempio, è curata con attenzione non peregrina e affidata
ad artisti di prestigio. Ma, appena si guardi ai contenuti e si consideri l’uso che di quelle
pagine si fa nella quotidiana pratica scolastica, appare in tutta la sua evidenza il carattere
falso e grottesco della retorica fascista: procede la macchina dell’ideologia della
formazione del perfetto italiano. Una macchina che si regge sulle mitologie della patria e
della famiglia, della donna madre-sposa e dell’uomo soldato, della guerra, dell’italianità,
del mito della razza e al di sopra di tutto del duce.
Antonio Gramsci
Antonio Gramsci (1891-1937) trova posto in un panorama storico di letteratura giovanile
per certe sue traduzioni di fiabe dei fratelli Grimm e per quel gruppo di lettere, scritte dal
carcere ai familiari, nelle quali sono contenuti, in chiave esemplarmente educativa,
apologhi, raccontini, favole.
Non mancano nei Quaderni del carcere cenni e riferimenti alla letteratura per l’infanzia che
mostrano con quanta seria considerazione Gramsci fosse attento ai compiti educativi e
politici delle pubblicazioni destinate ai giovanissimi.
Riguardo le fiabe, alla loro traduzione Gramsci si applica nel carcere di Turi tra il 1929 il
1931 come esercizio volto a perfezionare la sua conoscenza del tedesco ma anche con
l’intento di farne dono ai nipoti.
Quando viene a conoscenza del divieto della direzione del carcere di spedire manoscritti
diversi da lettere, interrompe la trascrizione.
Gramsci traduce, dell’intero corpus dei Grimm, soltanto 24 fiabe, tra cui le più celebri
Cenerentola e Rosaspina e i Quattro musicanti di Brema.
Per la selezione dei testi, lui sceglie testi che più adatti ritiene allo sviluppo delle capacità
intellettive ed emotive del bambino e fra questi, ovviamente, quelle che propongono
esempi di solidarietà e di altruismo e quelle che, in grazia del lieto fine o di un piacevole
sviluppo degli avvenimenti, appaiono più gradevoli ai bambini.
Zona franca
Le incongruenze culturali, le disattenzioni e distrazioni, le incapacità anche organizzative
lasceranno spazio a pubblicazioni niente affatto assoggettati a regime: ci saranno opere
che, considerate nel loro insieme, formano una zona franca, che se non è di esplicita
opposizione al fascismo, sicuramente è affrancata in misura diversamente accentuata
dagli obblighi di indottrinamento ideologico
Antonio Baldini (1889-1962) pubblica nel '23 Strada delle meraviglie , raccolta in dieci
fiabe popolari estrose e fantastiche . Lui, in apertura del volume dichiara che i suoi testi
sono nati dalla viva voce di una popolana toscana, mettendo in gioco una molteplicità di
personaggi, dalla gente comune a Gesù, ai santi e agli angeli. La dimensione popolare,
inoltre, emerge dalla secchezza del dettato, dalle cadenze, dallo stesso vocabolario
toscano e dalle conclusioni che sfociano con linearità e precisione nella punizione dei
malvagi.
Baldini rinuncia a una lettura “impegnata”, sa che il libro deve divertire i ragazzi,
propendendo verso quegli spazi di libertà, di piacere, di gioco.
Annie Vivanti (1868-1942), figlia di un garibaldino e di Anna Lindau, scrittrice tedesca ,
risulta un altro caso interessante e particolare. Per i ragazzi la Vivanti pubblica nel '23 da
“Bemporad Sua Altezza “, rielaborato e ristampato da Mondadori nel '33 con il titolo “Il
viaggio incantato". Il viaggio incantato è un testo singolare perché all'orizzonte ristretto di
una famiglia degli anni Venti , in cui la creatività dei bambini, Tina e Bobby, è soffocata da
convenzioni e divieti, oppone il viaggio dentro un quadro appeso in salotto, la scoperta
cioè di un mondo altro, diverso, colorato e fantastico. Nel quadro i due protagonisti
incontrano personaggi bizzarri, finisco a quel paese, mangiano la proibitissima erba voglio;
insomma dentro il quadro il tema del viaggio, sempre presente nella letteratura per
l’infanzia, assume tutti i connotati della scoperta, dell’esperienza, del processo di crescita.
Tina e Bobby, alla fine, torneranno alla loro dimensione domestica più ricchi e più grandi,
sempre propensi però a credere alla logica delle fiabe.
La torinese Carola Prosperi (1883-1981) resta per gran parte del pubblico l'autrice di un
solo romanzo (Codaditopo) destinato ai bambini e ristampato fino a oggi da Giunti.
Anzitutto la trama: Codaditopo e sua nonna , madama Rosmarina ,vivono in assoluta
povertà al punto da cenare con pane e camomilla. Codaditopo nonostante le condizioni
economiche non rinuncia ad aiutare gli altri e la notte dell'Epifania, nella speranza di
incontrare la Befana e convincerla a non trascurare le povere calze dei bambini indigenti,
entra con due gatti, Miciosecco e Miciograsso, nel mondo “altro” della dimensione fiabesca
e dopo una serie di avventure, scopre la vera identità della nonna (una fata al confino che,
scontata la pena, riacquista i suoi poteri e torna con la nipote nel paese delle fate), ma non
rinuncia a accompagnare la Befana nei suoi giri per salvaguardare il diritto dei bimbi poveri
ai giochi.
La povertà del mondo reale assume i caratteri della fame e della miseria, ma è bandita
dalla narrazione ogni forma di populistica commozione, e anzi pare che la
rappresentazione acquisti forza sia per una non ignorata lezione di ironia collodiana, sia
per il contrasto con il disegno dell'abbondanza. Carola Prosperi, insomma, chiarisce non
solo come è fatta una fiaba, ma suggerisce i possibili itinerari del rifacimento,
scommettendo sulla polisemia della parola letteraria in un'epoca di imperativi categorici e
giocando sulle peculiarità e sulle ambiguità dell'infanzia in un momento storico che voleva
stretti in un fascio tutti gli italiani.
Collane
La “Biblioteca dei miei ragazzi”
Questa collana della casa editrice Salani di Firenze vede la luce del 1931 e fino al 1955
ospita 99 titoli, che raggiungono la cifra di 113 se si includono i volumi sostituiti nel dopo
guerra perché esplicitamente fascisti: la confezione del prodotto, il prezzo basso, la
capacità di attirare un vasto pubblico anche per il genere di racconto proposto la rendono
ancora oggi luogo privilegiato dell’immaginario di molte generazioni e oggetto di studi
articolati e complessi.
Introduzione
Giana Anguissola parla dei bambini che leggevano “cose orribili”, divide gli editori in “di
buona volontà” e ”di cattiva e redditizia stampa”, cita la “battaglia grandiosa" iniziata
intorno agli anni Cinquanta contro i fumetti e la “malastampa, la rozzastampa dilagante”,
mette in evidenza, insomma ,un'attività militante, i cui compiti erano quelli di rifiutare i
prodotti letterari guasti o inconsistenti esigendo così i buoni testi.
Insomma fra il 1946 e il 1950 comincia a prendere corpo la consapevolezza che quello
della letteratura giovanile è un problema centrale all'interno del tema generale
dell'educazione e anche se la questione è posta in termini di “buona letteratura” e
l'atteggiamento è spesso antagonistico rispetto alle “influenze nefaste “ dei media di allora,
bisogna riconoscere che certe scelte compiute segnano anche positivamente i percorsi
successivi della letteratura per l'infanzia, dall'attenzione alle esperienze straniere alla
riflessione sui problemi della pubblica lettura.
Nel 1949 viene aperta a Monaco di Baviera la Biblioteca Internazionale per la gioventù,
la cui fondatrice, Jella Lepman ,darà vita a una sorta di forum internazionale sui problemi
della letteratura giovanile. Sempre nello stesso anno, la Cooperativa del libro popolare di
Milano dà inizio alla collana universale economica , il criterio informatore della collana è di
promuovere e diffondere una più larga conoscenza della cultura in tutte le sue
manifestazioni.
La lettura a scuola
Lingua e dialetti
Occorrerebbe indagare, se fosse ancora possibile, la partecipazione emotiva dell’infanzia
ai repentini e formidabili mutamenti che, tra il ‘43 e ‘45, si ebbero in tutti settori della vita
pubblica e privata. In particolare, sarebbe di grande interesse interrogarsi sulle reazioni
che bambine e bambini, nati e cresciuti nel clima della propaganda fascista, hanno avuto
nei mesi in cui si sono trovati a fare i conti, nell’Italia uscita dalla dittatura, con un
linguaggio del tutto nuovo; quando alla imperante terminologia bellicista, nutrita di rozzo
nazionalismo, razzismo, xenofobia si sostituiscono nel giro di poco tempo parole che
fanno riferimento alla pace, la libertà, la giustizia. A poca distanza di tempo da quelle
altisonanti frasi infiammate di sacri impulsi patriottici, dopo i mesi che videro la caduta del
fascismo, i ragazzini avranno dovuto ricomporre in qualche misura il proprio bagaglio
lessicale e parlare e scrivere parole nuove. A scuola avranno dovuto pensare e scrivere
frasi di un linguaggio per diversi aspetti inediti per loro.
Inoltre, la raccolta della biblioteca devono prevedere un buon assortimento di libri che
rispecchi la migliore produzione editoriale dal punto di vista della forma letteraria (poesie
e filastrocche, canzoni, fiabe, favole e storie illustrate), dal punto di vista fisico e
percettivo (cartonati, di stoffa, tattili, interattivi) e per l’apprendimento dei primi concetti
di base (abbecedari e libri su forme, colori, numeri).
Le biblioteche dovrebbero avere anche un occhio di riguardo per i libri prodotti per persone
con bisogni comunicativi complessi e per i libri bilingui.
Ovviamente di primaria importanza è una collaborazione sistematica tra bibliotecari,
pediatri, operatori sanitari dei servizi delle cure primarie e della promozione della salute,
educatori di nidi e scuole dell’infanzia, nella consapevolezza che nessun gruppo
professionale da solo può incidere sui comportamenti delle famiglie con bambini sotto i 5
anni con efficacia e sistematicità. La collaborazione interprofessionale va ricercata in
ogni contesto locale: un tipo di collaborazione a sei utile da ricercare e quella con il
personale sanitario responsabile dei corsi di preparazione alla nascita. Infatti, se la
mamma fosse a conoscenza della possibilità di lettura ad alta voce durante il primo anno
di vita e se fossero già presenti in casa libri per bambini alla loro nascita, la lettura
condivisa in famiglia sarebbe più frequente.
Libri speciali per bambini speciali: i libri senza parole e gli IN-book
Due grandi famiglie, anche nelle tipologie di libri per bambini, non dovrebbero mancare in
una biblioteca di famiglia e scolastica: la fiction (narrativa, fiabe, favole) e non fiction
(libri di formazione storica, artistica, scientifica). Sono due raggruppamenti basilari che
sostengono i genitori ed educatori sia nella scelta dei libri più adatti agli interessi dei
bambini sia nella pratica quotidiana di promozione della lettura.
Tra i libri speciali si segnalano libri in lingua straniera per le comunità presenti e i libri
tattili che si leggono con le dita. Sono libri bimodali, hanno inseriti materiali diversi e in
rilievo, con scrittura in braille e a grandi caratteri, accessibile a bambini ciechi e ipovedenti,
ma adatti a sollecitare le emozioni di tutti i bambini.
Una delle tipologie di libri a volte incompresi dall’adulto riguarda i libri senza parole,
altrimenti detti silent book o wordless picturebook. I libri senza parole consentono la
fruizione da parte di tutti i bambini perché attraverso le immagini sono interpretabili
secondo gli stimoli che ciascuno raccoglie. Sono particolarmente adatti a bambini che
ancora non leggono autonomamente, a bambini che non conoscono la lingua del testo, a
bambini con difficoltà di lettura.
Gli inbook, invece, sono libri illustrati con testo integralmente scritto in simboli, nati per
facilitare la possibilità di ascolto della lettura ad alta voce, in particolare nei primi anni di
vita. Inizialmente sono stati sviluppati per bambini con gravi difficoltà di linguaggio e
comunicazione, ma nel giro di poco tempo hanno cominciato a circolare spontaneamente
e in modo un po’ inaspettato nelle case, nelle scuole dell’infanzia, nelle biblioteche e in
molti altri contesti. Sono così diventati patrimonio di tutti i bambini, non solo di quelli con
una disabilità della comunicazione. Sono serviti a tutti per crescere, per capire meglio il
linguaggio, per parlare, per immergersi in storie ricche di emozioni, per sostenere
l’attenzione, per aumentare la capacità di ascoltare, per scoprire come si può comunicare
con alcuni compagni.
In particolare, si sono dimostrati preziosi per sostenere in modo naturale quei bambini che,
pur non avendo una grave disabilità della comunicazione, hanno maggiori difficoltà con il
linguaggio con l’ascolto: bambini con disturbo di linguaggio di attenzione, bambini migranti
e molti altri.
La forza degli inbook introdotti in modo “ecologico” in diversi contesti sta proprio nella loro
trasversalità: sono diventati uno strumento collettivo che mette ciascuno in condizioni di
maggiore autonomia e che permette una vera condivisione, perché non sono uno
strumento che connota la disabilità di un singolo, ma un’opportunità che potenzia le
possibilità d’accesso di tutti.
La Bambina dai capelli turchini, che in realtà è una fata, ordina ad un Falco e al suo cane
tuttofare Medoro di recuperare il corpo del burattino e convoca poi tre medici (un Corvo,
una Civetta e il redivivo Grillo parlante) per sapere se Pinocchio è ancora vivo. Il Grillo
rimprovera aspramente Pinocchio, che piange (capitolo 16). Il burattino, benché
febbricitante, non vuole bere la medicina amara che gli porge la Fata; entrano allora in
camera quattro conigli neri che portano con sé una bara, e Pinocchio si convince a
curarsi. Racconta poi la sua vicenda alla Fata e dice più volte di aver perso le monete, ma
ad ogni sua bugia gli si allunga un po’ il naso.
La Fata propone a Pinocchio di vivere lì con lei, tanto più che Geppetto li raggiungerà a
breve: Pinocchio accetta e va incontro al padre in mezzo al bosco, dove però incontra
nuovamente il Gatto e la Volpe, che gli propongono ancora di seppellire le monete nel
campo miracoloso della città di Acchiappacitrulli (capitolo 18). Pinocchio, dopo una
breve attesa, toran al campo, dove un pappagallo gli svela l’inganno; rivoltosi ad un
giudice-Gorilla, viene però incarcerato per quattro mesi, in seguito ai quali può uscire di
galea sfruttando un’aministia imperiale (capitolo 19). Pinocchio corre a casa della fatina,
ma un gigantesco serpente gli sbarra la strada; nel saltarlo, Pinocchio inciampa e cade
conficcando la testa nel fango. Il serpente muore dal ridere ma Pinocchio, entrato in un
filare per cogliere dell’uva, rimane intrappolato in una tagliola (capitolo 20). Il contadino
proprietario del campo lo costringe a fare da cane da guardia alle sue proprietà al posto
del cane defunto, Melampo (capitolo 21). Sopraggiungono nottetempo le faine, che
avevano un accordo segreto con Melampo per poter saccheggiare indisturbate il pollaio:
Pinocchio finge di assecondarle ma poi le fa catturare dal contadino, che per
riconoscenza lo libera (capitolo 22). Pinocchio si precipita dalla Fata turchina, ma scopre
che è morta di dolore per la sua assenza; un grosso Colombo gli rivela che invece
Geppetto si sta costruendo una barchetta per attraversare l’Oceano, alla disperata ricerca
del figlio. I due partono in volo verso la spiaggia, dove Pinocchio non può far altro che
vedere la barca di Geppetto affondare all’orizzonte (capitolo 23). Tuffatosi in acqua,
Pinocchio, dopo aver nuotato tutta la notte, è sbalzato sull’isola delle Api industriose,
dove un Delfino gli svela l’esistenza di un gigantesco Pesce-cane, che probabilmente ha
inghiottito Geppetto e la sua barca. Pinocchio arriva poi in città, dove tutti lavorano in
maniera indaffarata. Pinocchio, che ha fame e ma che non vuole faticare per guadagnarsi
il pane, aiuta alla fine una donna a portare delle brocche d’acqua in cambio di un pasto. La
donna si rivela essere la Fata turchina (capitolo 24).
Lo stile
L’ironia di Collodi stravolge immediatamente la struttura della fiaba tradizionale mostrando
un anti-eroe: non un re o un principe, ma un pezzo di legno, e neanche di legno pregiato.
La lingua è, dunque, vicina al parlato e quindi all’infanzia: è frizzante, acuta, a volte
volutamente sgrammaticata. La narrazione è costantemente ravvivata da un dialogo fitto
che conferisce ritmo al racconto.
A differenza del quasi contemporaneo Cuore di Edmondo de Amicis del 1886, infatti, i toni
romantici sono stemperati: si contrappone alla retorica fino ad allora dominante degli occhi
rossi, ovvero una retorica del pianto, della morte e della sofferenza.
A metà tra fiaba e racconto orale, la narrazione di Pinocchio si contraddistingue anche per
la forte componente teatrale, a partire dal progetto iniziale di Geppetto di guadagnarsi il
pane andando in giro per il mondo a fare spettacoli con il suo burattino, fino ad arrivare
alla Commedia dell’Arte in quel Gran Teatro dei Burattini dove le diverse maschere
riconoscono Pinocchio come fratello e, infine, vediamo Pinocchio, trasformato in ciuchino,
esibirsi al Circo con pagliacci e acrobati.
Se da una parte abbiamo molteplici aspetti esteriori e fisici che rimandano al mondo del
teatro, dall’altra abbiamo una forma di teatralità nella narrazione: caricature ed eccessi,
grandi colpi di scena, fughe ed inseguimenti ed, infine, l’uscita di scena del burattino,
prova di grande teatralità.
Se è preponderante la componente teatrale, che usa l’ironia per dissacrare la
contemporaneità, non si può dimenticare l’altro versante stilistico,
quello melanconico e tenebroso, più discreto forse, ma non di secondaria importanza.
Paura e divertimento permeano insieme le avventure di Pinocchio e il lettore vi può
riconoscere i propri desideri e le proprie angosce
Collodi usa, inoltre, una retorica carnevalesca che per qualche tratto rovescia
l’immaginario che il bambino può avere del mondo degli adulti, un rovesciamento con
sovvertimento dei poteri (giustizia/tribunali) e della verità (Noi stiamo tutti dalla parte di
Geppetto, ma poi questo viene messo in prigione; stiamo dalla parte di Pinocchio che va a
denunciare il furto subito, ma questo viene condannato): un mondo, dunque, dove gli
innocenti vengono puniti.
In Pinocchio abbiamo adulti che sono delle marionette (Geppetto e Mastociliegia), mentre
il protagonista si presenta come un burattino che si realizza da se stesso e che assume
una funzione divina.
E’ anche un mondo rovesciato che si contrappone alla retorica fino ad allora dominante
degli occhi rossi, ovvero una retorica del pianto, della morte e della sofferenza.
In “Pinocchio” c’è una dissacrazione, in quanto tutto il racconto è concepito come una
controprova all’attesa e all’aspettativa: il fuoco che alimenta la casa di Geppetto è dipinto,
l’uovo contiene il pulcino, la genealogia di Pinocchio è di poveri e di falliti, il posto dove
dovrebbe ripararsi Pinocchio è un luogo vile, dove fa freddo, quando lui chiede l’elemosina
gli viene buttato un secchio di acqua gelata. Di conseguenza, capiamo bene che Collodi
non invita a riflettere sul patetico o sul lacrimoso.
C’è, dunque, anche una sorta di capovolgimento o demistificazione: Mangiafuoco,
personaggio apparentemente truce, s’intenerisce, ma al posto di piangere, starnutisce; il
grillo parlante rappresenta la morale, ma una morale antipatica, tant’è vero che siamo
quasi contenti del fatto che Pinocchio lo zittisca; l’ambigua figura della bambina dai capelli
turchini, la quale è nel corso della storia bambina, sorella, nonnina.
C’è inoltre uno stravolgimento della morte: Stravolgimento della morte della bambina;
Pinocchio muore come Cristo.
Commento Pinocchio per capitoli
I capitolo
Il re all’inizio appartiene ad uno stereotipo della fiaba: l’autore ammicca con il pubblico
come se fosse in una piazza. Ci porta, dunque, in un orizzonte diverso da quello della
fiaba immaginefica del ‘700 o ‘800, ma ci porta in una condizione di umiltà.
Il legno capita nella bottega, non si sa come mai
Mastr’Antonio, dalla faccia paonazza, ci fa pensar che fosse un alcolizzato, che viveva
solo e che aveva una parrucca. Non è un personaggio piatto, ma è un personaggio a cui
riusciamo ad attribuire una certa psicologia. Le azioni del falegname sono proprie del
lavoro di falegname, utilizzando termini ben specifici.
II capitolo
In questo caso vediamo un arzillo vecchietto, irascibile, di nome Polendina, il quale ha il
tarlo nella testa di prendere un pezzo di legno per fare un burattino, il quale serviva per
trovare pane e vino: la nascita di Pinocchio sarebbe stata triste per un lato utilitaristico.
Per molti, la storia di Pinocchio è molto suggestiva, in quanto abbiamo un figlio che nasce
da due padri: la prima famiglia di fatto della storia. Si racconta, dunque, di due uomini che
resteranno amici per tutta la vita, si presentano con due parrucche, che quando litigano lo
fanno graffiandosi e mordendosi. Quando fanno la pace, interviene il legno che si
intromette, provocando la ferita e dando inizio nuovamente al litigio tra i due uomini.
III capitolo
Qui possiamo notare che la genesi di Pinocchio è avvenuta per gradi. E’ un quadretto che
ci porta a stare dalla parte di Geppetto, il quale a causa di Pinocchio vive la tribolazione di
essere padri. Pinocchio ride: abbiamo visto che il riso è la sciagura dei personaggi
fantastici, che li fanno sembrare non affidabili.
In questo capitolo l’autore nomina la lingua che nell’immagine non è rappresentata, così
come non vediamo le orecchie.
In una logica tipica della pedagogia dell’800, se un genitore fa un errore nell’educare suo
figlio fin dalla nascita, allora si troverà un delinquente in casa: Geppetto aveva già visto
che nell’animo di Pinocchio ci potrebbe essere stato un bambino che fallisce.
Questo bambino, però, è già adulto, dunque non aveva bisogno di fare quello che
facevano gli altri bambini: dopo pochi istanti era già completo.
La questione del naso di Pinocchio è molto complicata:
Collodi ironizza sul lavorismo, paese delle api industriose, anche se crede nelle
possibilità redentive del lavoro. Pur ironizzando sulla scuola, sulla medicina, sulla giustizia,
non fa sconti sul tema della “buona volontà”, del “sacrificio” e del “risparmio”.