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I INTRODUZIONE

1) Mercato interno e libera circolazione delle merci. Il Trattato CE stabilisce che la libera
circolazione delle merci tra gli stati membri è uno strumento essenziale per realizzare gli scopi
della comunità e che è necessario a tal fine instaurare tra gli stati membri un mercato interno
caratterizzato dall’eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, delle persone e
dei capitali (art. 3). Tale nozione di mercato interno si affianca a quella di mercato comune e il fatto
che di mercato comune non si dia però una definizione precisa ha fatto sì che i due concetti
vengono considerati come sinonimi anche nelle interpretazioni della Corte di Giustizia. In realtà
però il concetto di mercato comune è più ampio di quello di mercato interno contenendo oltre che
le libertà che costituiscono il mercato interno anche l’instaurazione di politiche comuni nelle
materie oggetto del Trattato.

2)Le fonti della disciplina giuridica della libera circolazione delle merci La disciplina della
libera circolazione delle merci si articola nel Trattato in tre principali gruppi di norme : a) unione
doganale (artt da 23 a 27); b) il divieto di imposizioni fiscali interne discriminatorie per i prodotto
importati dagli altri stati membi (art. 90); c) l’abolizione delle restrizioni quantitative agli scambi
intercomunitari e delle misure di effetto equivalente, nonché l’abolizione dei monopoli commerciali
(artt da 28 a 31). La Corte di Giustizia Europea ha affermato più volte che alcune di queste
disposizioni producono effetti diretti negli ordinamenti nazionali e in tal caso prevalgono su ogni
norma nazionale in contrasto con esse-

3) L’ambito di applicazione delle norme comunitarie sulla libera circolazione delle merci
– L’art. 23 Trattato Ce stabilisce che la disciplina sulla libera circolazione delle merci si applica al
complesso degli scambi di merce. Per merce deve intendersi ogni prodotto valutabile in denaro e
perciò idoneo ad essere oggetto di transazione commerciale (es. oggetti di interesse storico
artistico, liberi, monete non avente corso legale, dischi, petrolio, energia elettrica, stupefacenti,
rifiuti, ecc). Sono invece fuori della sfera di applicazione i prodotti che riguardano la sicurezza in
senso stretto (come il materiale bellico) in quanto un altro articolo del Trattato stabilisce che gli
stati membri possono limitare il loro commercio per motivi di sicurezza. Per quanto riguarda
l’ambito di applicazione circa l’origine delle merci si stabilisce che esso comprende sia i prodotti
originari degli stati membri che quelli provenienti da stati terzi e importati nella Ce. Per quanto
riguarda il profilo soggettivo la disciplina ha come destinatari gli stati membri ( egli altri territori
come il dipartimenti francesi d’oltremare, le Azzorre e le Canarie) cui impone una serie di obiettivi
circa la liberalizzazione degli scambi. Per quanto riguarda i singoli tale disciplina non può portare
obblighi e quindi essi possono solo beneficiare dell’effetto diretto eventualmente prodotto negli
ordinamenti nazionali da alcune norme comunitarie.

II LA LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE MERCI E L’UNIONE DOGANALE


4) Il Divieto di dazi doganali e di tasse di effetto equivalente – Le norme del Trattato Ce
sulla libera circolazione delle merci stabiliscono che essa si realizza tramite l’instaurazione di una
unione doganale e del divieto di restrizioni quantitative all’esportazione e all’importazione. Le
norme sull’unione doganale stabiliscono il divieto di applicare dazi doganali all’importazione ed
esportazione tra paesi membri, di adozione di qualsiasi tassa di effetto equivalente ai dazi, nonché
l’obbligo di adottare una tariffa doganale comune negli scambi con i paesi terzi. I prodotti originari
di paesi terzi che siano stati regolarmente importati in un paese comunitario si dicono in libera
pratica nel senso che godono della stessa libertà di circolazione delle merci originarie dei paesi
membri. Il divieto di dazi doganali all’importazione/esportazione e il divieto di tasse equivalenti
sono sanciti dall’art. 25 Trattato Ce. Il divieto di porre dazi ( e quindi oneri riscossi da uno stato
membro per il passaggio di merce attraverso una frontiera intercomunitaria) è generale e riguarda
anche i dazi di carattere fiscale. Il divieto di porre tasse di effetto equivalente ai dazi ha lo scopo di
rendere operativo il primo divieto evitando che esso possa essere aggirato mediante l’imposizione
di altri oneri sulle merci che varcano le frontiere tra gli stati membri. La Corte di Giustizia ha
stabilito che sono tasse di effetto equivalente tutti gli oneri imposti in maniera unilaterale da uno
stato sulle merci per il fatto che varcano la frontiera. Esulano invece dal concetto di tasse di effetto
equivalente le seguenti tipologie : a) oneri che costituiscono il corrispettivo di un servizio prestato;

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b) oneri riscossi per operazioni imposte da norme comunitarie; c) oneri imposti da uno stato
membro nel quadro di un regime di tributi interni applicabili sia alle merci nazionali che a quelle
importate da altri stati membri. Per tali oneri valgono comunque i divieti stabiliti dall’art. 90.

5) La soppressione dei controlli fiscali alle frontiere tra stati membri - Il divieto di dazi
doganali e di tasse di effetto equivalente ha comportato anche la soppressione dei controlli fiscali
sulle merci in transito alle frontiere intercomunitarie. L’abolizione di tali controlli ha favorito sia la
libera circolazione delle merci che delle persone le quali possono infatti introdurre senza limiti in
uno stato membro i prodotti acquistati in un altro stato membro. Le imposte indirette su tali prodotti
sono pagate nello stato d’acquisto purchè esse siano destinate ad uso personale e non al
commercio. Le norme comunitarie stabiliscono alcuni criteri per valutare l’uso personale dei
prodotti come lo status commerciale di chi li detiene, la natura e la quantità dei prodotti. Questo
regime spiega perché i viaggiatori che in aereo o nave si spostano da uno stato membro all’altro
non possono più avvalersi dei vantaggi fiscali offerti dai duty free. Si dimostra anche lo stretto
legame tra la libera circolazione delle merci e le disposizioni comunitarie in tema di politica fiscale.

6) Imposizioni fiscali interne – Le norme sulla politica fiscale che hanno rilevanza sulla
libera circolazione delle merci sono poste dall’art. 90 che la Corte di Giustizia ritiene che
costituisca una integrazione delle norme sul divieto di dazi doganali e delle tasse di effetto
equivalente in quanto impedisce che esse possano essere eluse mediante l’imposizione di altri
tributi di carattere discriminatorio o protezionistico. Infatti al primo comma l’art, 90 vieta agli stati
membri di applicare ai prodotti di altri stati membri tributi discriminatori (e quindi quantitativamente
superiori a quelli applicati sui prodotti nazionali similari). Sono prodotti similari quelli che hanno
proprietà simili e rispondono alle stesse esigenze dei consumatori (es. energia elettrica nazionale
e importata). Al secondo comma l’art. 90 vieta agli stati membri di applicare ai prodotti di altri stati
membri imposizioni interne al fine di proteggere altre produzioni. Sono quindi vietati i tributi interni
che abbiano scopo protezionistico e a tale proposito la Corte ha stabilito alcuni criteri per accertare
tale scopo, come il fatto che l’imposta sia applicata al prodotto importato e non a quello nazionale
o il fatto che sia sproporzionata in quanto di ammontare pari a quasi la metà del prezzo del
prodotto importato. Il fatto che al secondo comma l’art, 90 parli di “altre produzioni” si deve
intendere rispetto ai prodotti di cui al primo comma, per cui nell’ambito di applicazione del 2^
comma cadono quei prodotti che non sono similari (ai sensi del primo comma) ma sono in
concorrenza con i prodotti importati dagli altri stati membri. Le altre produzioni sarebbero quindi
quei prodotti nazionali alternativi ai prodotti importati (es. vino e birra, banane e frutta tipica
italiana). Secondo la Corte un onere imposto ad un prodotto importato se non esistono prodotti
nazionali similari o concorrenti non è una tassa di effetto equivalente ai sensi dell’art. 90 in quanto
non ha effetti discriminatori o protezionistici e quindi pur essendo un tributo interno dovrebbe
essere considerato legittimo.

7) Il diritto di rimborso dei tributi riscossi da uno stato membro in violazione del diritto
comunitario – Le norme comunitarie viste sopra producano generalmente effetti diretti negli stati
membri e ciò implica il diritto dei contribuenti alla ripetizione dell’indebito nei confronti dello stato.
L’ordinamento comunitario lascia alla discrezione degli stati membri la definizione delle modalità
processuali e degli organi competenti per la tutela del diritto al rimborso nei limiti però del principio
di equivalenza (per cui tali modalità non devono essere meno favorevoli di quelle previste per i
ricorsi simili di diritto interno) e di effettività ( per cui non devono rendere impossibile o
eccessivamente difficile l’esercizio del diritto). Ogni ordinamento statale può poi fissare i termini di
prescrizione e decadenza all’esercizio del diritto sempre nei limiti dei principi visti sopra. Secondo
la corte è possibile porre termini meno favorevoli di quelli previsti per le azioni di ripetizione di
indebito tra privati purchè essi siano applicati sia ai ricorsi basati sul diritto interno che su quello
comunitario.

8) La tariffa doganale comune e il regime delle franchigie – Le norme del Trattato Ce


sull’unione doganale dispongono anche l’adozione di una tariffa doganale comune da applicarsi
allo scambio di merci con gli stati terzi. I dazi della tariffa doganale comune sono stabiliti con
regolamento del Consiglio a maggioranza qualificata su proposta della Commissione. La disciplina

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vigente prevede regolamenti adottati dal Consiglio sulla tariffa doganale comune e sulla
nomenclatura combinata. La nomenclatura combinata è un sistema di classificazione delle merci
oggetto di scambio internazionale e comprende migliaia di voci contraddistinte da un codice
numerico di 8 cifre (di cui le prime sei rappresentano il codice della merce e le ultime due eventuali
sottovoci). Per ogni voce e sottovoce della nomenclatura sono determinati un dazio autonomo (la
cui quota è definita autonomamente dalla Comunità) e un dazio convenzionale (la cui quota è
determinata in base ad accordi internazionali che vincolano la comunità). Nomenclatura e dazi
possono essere adeguati sulla base di atti del Consiglio o della Commissione ai mutamenti della
politica commerciale della Ce. Per avere un quadro aggiornato di Nomenclatura e aliquote ogni
anno il Consiglio adotta un regolamento. La comunità per esigenze di politica commerciale può
stabilire preferenze tariffarie in favore di paesi in via di sviluppo e pertanto sono necessarie ulteriori
suddivisioni di voci che si aggiungono alle voci e sottovoci della nomenclatura combinata. Per
integrare tutti gli atti in materia doganale ogni anno la Commissione pubblica una tariffa integrata
della Comunità Europea (TARIC) ossia una comunicazione che si basa sulla N.C. ma riprende
anche le aliquote dovute ai provvedimenti di politica commerciale visti sopra. Il TARIC ovviamente
non ha rilevanza di strumento giuridico in quanto non produce effetti giuridici propri ma rinvia a
quelli prodotti dagli atti in essa incorporati. La tariffa doganale comune che si applica alle
importazioni di merci dagli stati terzi perciò si compone della N.C. e delle tariffe contenute nel
TARIC ma poiché il TARIC incorpora tutti i provvedimenti in materia si può dire che essa
rappresenta integralmente la tariffa doganale comune. Per quanto riguarda l’applicazione della
tariffa doganale comune è stato approvato il Codice Doganale Comunitario. Esso in primo luogo
definisce il territorio doganale di ogni stato membro (per l’Italia esso corrisponde a quello della
repubblica ad eccezione di Livigno, Campione d’italia e le acque nazionali del Lago di Lugano). Il
codice stabilisce poi i criteri per definire l’origine delle merci e per definire il loro valore in dogana.
Per quanto riguarda l’origine delle merci si distingue : a) merci provenienti da stati cui non si
applica un regime tariffario preferenziale. Per queste merci la regola è che sono originarie di un
paese le merci interamente prodotte in tale paese. Se le merci sono prodotte con il contributo di
più stati si considerano originarie dello stato in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o la
lavorazione sostanziale). B) merci provenienti da paesi cui si applicano tariffe preferenziali. Qui si
rinvia agli accordi presi dalla comunità con tali stati o se la tariffa è stata applicata unilateralmente
dalla Ce tramite una procedura che prevede il parere del Comitato del Codice Doganale. Tale
Comitato è istituito e disciplinato con norme contenute nel Codice Doganale Comunitario. Per
quanto riguarda il valore delle merci in dogana si tiene conto del prezzo effettivamente pagato per
le merci aumentato delle spese di mediazione, trasporto, imballaggio e assicurazione. Nel caso in
cui il valore non possa essere determinato sul prezzo effettivo sono previsti criteri sussidiari come
il valore di merci similari o l’uso di criteri ragionevoli. Il codice doganale prevede poi un regime di
franchigie per cui in alcune circostanze le merci sono esonerati dai dazi. Tale regime si giustifica
allorchè la Comunità non abbia interesse ad applicare misure protettive alla propria economia o
quando ciò è stabilito da convenzioni internazionali di cui siano parte alcuni o tutti gli stati membri i
(in tal caso la comunità è vincolata sul piano internazionale in sostituzione degli stati membri in
quanto ha competenza esclusiva nella materia). Tra le categorie di merci cui si applicano le
franchigie citiamo i beni ad uso personale di persone fisiche che trasferiscono la residenza da uno
stato terzo ad un paese membro, i beni personali importati per un matrimonio o oggetto di
successione. Per quanto riguarda i beni di carattere scientifico o culturale è posto un doppio
regime: alcuni sono in franchigia indipendentemente dalla loro destinazione, altri solo se destinati a
istituti di pubblica utilità.

III LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE MERCI E DIVIETO DELLE RESTRIZIONI QUANTITATIVE


TRA STATI MEMBRI

9) Divieto di restrizioni quantitative e di misure di effetto equivalente – La libera


circolazione delle merci tra stati membri è come abbiamo visto assicurata sia dall’unione doganale
che dalle regole che impongono il divieto di restrizioni quantitative o di misure di effetto equivalente
alle restrizioni quantitative sia alle esportazioni che alle importazioni /(artt 28 e29).I due obblighi
hanno finalità identiche ossia vietare ogni misura che possa restringere gli scambi tra gli stati
membri o creare discriminazione tra commercio interno di uno stato membro e commercio

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intracomunitario. Per quanto riguarda il primo obbligo si vieta agli stati membri qualunque misura
volta a provocare una preclusione totale o parziale agli scambi intercomunitari di merci. Per quanto
riguarda il secondo obbligo la Corte ha chiarito che costituisce misura di effetto equivalente alla
restrizione quantitativa qualunque misura che ostacoli direttamente o indirettamente gli scambi di
merci tra stati membri. In questo ambito va compresa ogni misura imputabile allo stato membro,
adottata da organi centrali o locali. Se il comportamento è invece adottato da privati, se esso è
tollerato dagli organi dello stato che avrebbero l’obbligo di provvedere si potrebbe configurare un
loro comportamento omissivo che costituirebbe quindi misura di effetto equivalente imputabile allo
stato membro. La Corte ha poi distinto le misure applicate in modo distinto ai prodotti nazionali ed
a quelli mportati/esportati e le misure che si applicano in modo indistinto sia ai prodotti nazionali
che quelli esportati/importati. Per quanto riguarda le prime sono vietati i provvedimenti che
impongono autorizzazioni per le importazioni/esportazioni o che richiedano certificati attestanti la
qualità dei prodotti importati o che impongano prezzi diversi ai prodotti nazionali e a quelli
importati. Per quanto riguarda le seconde la Corte sembra considerare vietate quelle indistamente
applicabili ai prodotti nazionali e a quelli importati mentre sembra escludere quelle indistintamente
applicabili ai prodotti nazionali e a quelli esportati purchè ininfluenti sulla libera circolazione delle
merci. La Corte ha considerato poi vietate le misure che stabiliscono prezzi minimi ad un livello
così elevato da neutralizzare il vantaggio posseduto dalle merci importate per il loro prezzo
inferiore, o quelle che stabiliscono un prezzo massimo ad un livello talmente basso da portare alla
vendita in perdita dei prodotti importati in quanto non consente di coprire i costi di importazione. La
Corte ha poi chiarito che l’applicazione ai prodotti importati da altro stato membro di regole
nazionali (es. divieto di apertura domenicale dei negozi) non costituisce in linea di principio una
misura equivalente purchè esse incidano ugualmente sul commercio dei prodotti nazionali e su
quello dei prodotti importati da altro stato membro.

10) Gli ostacoli alla libera circolazione delle merci derivanti da norme tecniche nazionali
e principio di mutuo riconoscimento – Possono costituire misure di effetto equivalente
(indistintamente applicabili ai prodotti nazionali e a quelli importati) le regole tecniche nazionali che
stabiiiscono la composizione o le caratteristiche dei prodotti. La Commissione Europea ha pertanto
rappresentato l’esigenza di eliminare gli ostacoli posti alla libera circolazione dalle divergenti
norme tecniche dei vari stati nazionali e ha utilizzato allo scopo due strumenti: il principio del
mutuo riconoscimento eil principio dell’armonizzazione delle norme nazionali. Il principio del mutuo
riconoscimento fu elaborato dalla Corte con riferimento alla sentenza relativa alla
commercializzazione di un liquore francese in Germania. Secondo tale principio (art. 28) lo stato
membro ha l’obbligo di ammettere nel proprio territorio le merci provenienti da altro stato membro
se esse sono state prodotte e commercializzate secondo le norme tecniche vigenti nello stato di
provenienza. Se in questo caso lo stato membro applicasse a tali merci la propria disciplina tecnica
ostacolerebbe gli scambi e ciò costituirebbe una misura di effetto equivalente. Tale applicazione è
invece possibile qualora sia necessaria per soddisfare esigenze imperative legate alla salute
pubblica, alla difesa dei consumatori, ecc. E’ inoltre necessario che la normativa tecnica sia
indistintamente applicabile, che l’obiettivo non possa essere perseguito con misure meno restrittive
e che nella materia regolata non sia stata adottata una disciplina comunitaria di armonizzazione.

11) Armonizzazione delle legislazioni nazionali – Il principio del mutuo riconoscimento può
essere insufficiente a garantire la soppressione degli ostacoli tecnici in quanto possono esservi
divergenze tra le norme nazionali tecniche dei vari paesi in temi rilevanti quali la salute pubblica e
la sicurezza. Per tale motivo la Ce provvede con l’armonizzazione delle legislazioni nazionali (art.
94 e 95). L’elaborazione delle regole tecniche è affidata dalla Commissione a specifici organi
europei. Se il prodotto è fabbricato secondo tali norme europee armonizzate è ritenuto conforme ai
requisiti essenziali stabiliti dalla normativa comunitaria tramite direttiva. Il fabbricante può avvalersi
della facoltà di realizzare prodotti non conformi a tali norme ma in tal caso ha l’onere di dimostrare
che i suoi prodotti sono conformi ai requisiti stabiliti dalla direttiva tramite un attestato rilasciato da
un organismo competente (designato da ogni stato e notificato alla commissione e agli altri stati
membri) con riferimento ad un esemplare della sua produzione. La conformità dei singoli prodotti
all’esemplare è attestata dal fabbricante mediante l’apposizione al prodotto di una marcatura
contenente il simbolo Ce. Naturalmente ciò potrebbe costituire un ostacolo alle esportazioni verso

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stati terzi che potrebbero avere regole tecniche diverse e a ciò si potrebbe ovviare applicando la
normativa solo al mercato interno della comunità europea.

12) Le deroghe al divieto di restrizioni quantitative e delle misure equivalenti – Il divieto di


restrizioni quantitative alle esportazioni e importazioni e di misure equivalenti trova una deroga
nell’art. 30 che giustifica l’adozione di provvedimenti restrittivi qualora ricorrano motivi di moralità
pubblica, ordine pubblico, pubblica sicurezza, tutela della salute di persone e animali,
preservazione di vegetali, tutela del patrimonio artistico e culturale, tutela della proprietà industriale
e commerciale. L’art. 30 ha sollevato parecchie questioni interpretative, In primo luogo
sembrerebbe crearsi una sovrapposizione tra i motivi di deroga di cui all’art. 30 e le esigenze
imperative contemplate in deroga al mutuo riconoscimento. A tale proposito c’è però da dire che
essi hanno una diversa sfera di applicazione: le esigenze imperative infatti possono essere
invocate solo per misure applicate indistintamente ai prodotti nazionali e a quelli importati mentre i
motivi di cui all’art. 30 sono invece applicabili anche ad una misura che riguardi solo le importazioni
Inoltre le esigenze imperative possono riferirsi anche a motivi non compresi nell’art. 30. La
sovrapposizione può quindi operare solo su una misura applicabile indistintamente ai prodotti
nazionali e alle importazioni, giustificata da un motivo (es. salute pubblica) contemplato sia dall’art.
30 che dalle esigenze imperative. Se ciò si verifica la Corte ha stabilito che la deroga va valutata
solo sulla base dell’art. 30 senza stabilire se quel motivo possa costituire anche esigenza
imperativa. La Corte ha poi avallato una interpretazione restrittiva dell’art. 30, nel senso che esso
può consentire deroghe solo agli obblighi stabiliti dagli artt. 28 e 29 e quindi non può giustificare
deroghe al divieto di dazi doganali e misure equivalenti ai dazi. L’art. 30 inoltre giustifica deroghe
solo per i motivi da esso tassativamente contemplati e quindi è riferibile ai soli provvedimenti di
natura non economica. La portata restrittiva dell’interpretazione dell’art. 30 risulta anche dal fatto
che non è possibile effettuare restrizioni quantitative ed invocare l’art. 30 qualora sulla materia sia
intervenuta una azione comunitaria di armonizzazione delle legislazioni nazionali perché in tal caso
l’interesse meritevole di tutela sarebbe protetto dalla normativa comunitaria. Inoltre la Corte ha
stabilito un ulteriore limite all’art. 30 costituito dal rispetto del principio di proporzionalità e cioè dal
fatto che gli stati possono porre restrizioni quantitative alla libera circolazione delle merci solo per
ciò che è strettamente necessario per tutelare l’interesse protetto e sempre che tale scopo non sia
perseguibile con misure meno restrittive per gli scambi intercomunitari. Altre questioni
interpretative si pongono per ciascun motivo enunciato dall’art. 30. Ad esempio per la moralità
pubblica la corte ha stabilito che uno stato può porre il divieto di importare alcune merci ritenute
oscene solo se nello stato non esiste un commercio interno lecito delle stesse merci. Nello stesso
modo uno stato non può invocare motivi di tutela della salute di persone o animali o di
preservazione di vegetali per vietare l’importazione di un prodotto che abbia un valore nutritivo
minore di altri prodotti in commercio nello stato perché ciò non comporta un reale pericolo per la
salute. Altre questioni si pongono per la tutela della proprietà industriale e commerciale. Ad es. i
diritti di brevetto e di marchio conferiscono ai titolari diritti esclusivi nell’ambito territoriale di
pertinenza e quindi essi potrebbero pretendere che venga vietata nel loro stato l’importazione di
prodotti aventi marchio identico o confondibile. In tal modo si avrebbe una restrizione quantitativa
agli scambi che potrebbe essere giustificata ai sensi dell’art. 30. Per conciliare la regola della libera
circolazione delle merci con la tutela della proprietà di beni immateriali la Corte ha stabilito che la
deroga al divieto di restrizioni quantitative può essere ammessa qualora esistano due requisiti: la
deroga deve avere lo scopo di proteggere l’oggetto specifico del diritto di proprietà e deve essere
indispensabile a tale scopo.

13) La libera circolazione di beni culturali – Gli scambi di beni culturali tra stati membri non
possono essere soggetti a dazi doganali o a tasse di effetto equivalente ma possono subire
restrizioni quantitative ai sensi dell’art. 30 che tra i motivi di deroga, come abbiamo visto,
contempla la protezione del patrimonio artistico, storico e archeologico nazionale. Naturalmente la
deroga può essere applicata solo ai beni che costituiscono una espressione significativa della
cultura nazionale e non ai beni di scarso valore o ai beni che pur trovandosi nel territorio di uno
stato non appartengono alla sua cultura ma a quella di un’altra nazione. Sotto questo profilo
l’obbligo di non praticare restrizioni quantitative agli scambi con gli stati membri potrebbe essere
incompatibile con gli obblighi assunti sul piano internazionale da alcuni stati nei confronti di stati

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terzi circa la restituzione di beni culturali illecitamente esportati. In questo caso se gli obblighi sono
stati presi prima dell’entrata in vigore del Trattato Ce prevarrebbero sulle regole del Trattato. In
caso contrario dovranno invece essere applicate le regole pertinenti all’incompatibilità tra gli
obblighi in questione. La comunità ha poi emanato due normative con riferimento alle misure che
uno stato può adottare per la tutela del suo patrimonio culturale. La prima impone agli stati
l’obbligo di subordinare l’esportazione verso stati terzi di beni culturali (le cui categorie sono
elencate in un allegato) alla presentazione di una licenza di esportazione. La licenza viene
rilasciata allo stato in cui il bene si trova illecitamente e può essere negata sulla base di una legge
nazionale che tuteli il patrimonio culturale di tale stato. La seconda impone allo stato membro in cui
si trova un bene culturale, uscito illecitamente da un altro stato membro doo il 1.1.93 l’obbligo di
restituirlo allo stato di appartenenza. Naturalmente la direttiva chiarisce che per bene culturale
deve intendersi un bene del patrimonio nazionale avente valore artistico, storico o archeologico e
che deve essere compreso in una delle categorie elencate in un allegato alla normativa e chiarisce
cosa debba intendersi per bene uscito illecitamente da uno stato membro (ossia quando il bene è
esportato in violazione alla legge statale o al regolamento comunitario circa l’esportazione di beni
culturali verso stati terzi). Entrambi gli atti normativi, che hanno alla base una forma di
cooperazione tra gli stati membri, dovrebbero portare all’effetto di ridurre da parte degli stati
membri l’uso di misure restrittive in base all’art. 30. Pertanto tali atti possono offrire un valido
contributo per rendere effettiva la libera circolazione dei beni culturali.

14) Monopoli commerciali e libera circolazione delle merci.- La libera circolazione delle
merci può essere ostacolata da monopoli nazionali in ambito commerciale in quanto essi,
gestendo in maniera esclusiva un settore commerciale, potrebbero discriminare i produttori di altri
stati membri. Pertanto l’art,. 31 Trattato Ce impone agli stati membri l’obbligo di riordinare i
monopoli commerciali nazionali per escludere ogni discriminazione tra cittadini di stati membri.
L’art. 31 non ha lo scopo di sopprimere i monopoli nazionali ma solo di conciliarli con l’esigenza
della libera circolazione delle merci, facendo sì che negli stati dove esiste un monopolio
commerciale sia garantita la circolazione di merci simili a quelle oggetto del monopolio provenienti
da altri stati membri. Un monopolio si considerato produtttore di discriminazioni ogni volta che le
sue regole di funzionamento gli attribuiscono diritti esclusivi di importazione ed esportazione che
andrebbero a danno degli esportatori ed importatoti di altri stati membri che verrebbero così
esclusi dagli scambi commerciali. Una deroga all’art. 31 è ammessa in base all’art. 86 che
stabilisce che le imprese che gestiscono servizi di interesse economico generale possono essere
sottoposte alle norme del Trattato nei limiti in cui esse non pregiudichino il raggiungimento dello
scopo affidato all’impresa. Secondo la corte su questa base si può giustificare da parte di uno stato
membro la concessione ad una impresa incaricata di gestire un servizio di interesse economico
generale di diritti esclusivi contrari all’art. 31 qualora ciò sia fondamentale al raggiungimento dello
scopo e lo sviluppo degli scambi non ne risulti compromesso in modo contrario agli interessi della
comunità. E’ chiaro che trattandosi però di una deroga ad un divieto generale le relative norme
devono essere interpretate in maniera restrittiva per evitare che vengano utilizzate per eludere il
divieto e per pregiudicare la libera circolazione delle merci.

CAPITOLO II – LA LIBERTA’ DI CIRCOLAZIONE DELLE PERSONE

I ELIMINAZIONE DEI CONTROLLI ALLE FRONTIERE INTERNE E LA POLITICA


DELL’IMMIGARAZIONE

1) Introduzione – La libertà di circolazione delle persone ha costituito fin dall’inizio un obiettivo


prioritario per la Ce insieme alla libertà di circolazione delle merci, dei capitali e dei servizi, le
quattro libertà che costituiscono il nucleo del mercato comune. In realtà la libera circolazione delle
persone prima dell’entrata in vigore del Trattato di Maastricht era direttamente legata all’esercizio
di una attività di tipo economico e quindi era uno dei mezzi per raggiungere gli obiettivi di tipo
economico che gli stati fondatori della Cee volevano perseguire. E’ con l’Atto Unico Europe del
1986 che gli stati membri si impegnano per la prima volta a realizzare la libera circolazione delle
persone e non dei lavoratori. In base all’Atto Unico il mercato interno è uno spazio senza frontiere
interne nel quale è assicurata la libera circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e dei

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capitali e pertanto sulla base dellÁtto Unico è stata affermata, a determinate condizioni, la libertà di
circolazione degli studenti, dei pensionati e delle altre persone che non esercitano attività
economiche.

2) La cittadinanza dell’Unione Europea – La tendenza a svincolare da un contenuto economico


la libera circolazione delle persone ha il suo culmine nelle modifiche introdotte nel Trattato Ce a
seguito del Trattato di Maastricht del 1992 che ha istituito la cittadinanza europea. La cittadinanza
europea si acquista per il solo fatto di essere cittadino di uno stato membro. Il diritto comunitario
stabilisce che ogni stato è libero di attribuire la cittadinanza secondo la sua legislazione ma che
tale libertà deve operare nel rispetto del diritto comunitario. Tale limite può avere rilievo nel caso di
doppia o plurima cittadinanza. Infatti in primo luogo se un soggetto possiede, oltre alla cittadinanza
di uno stato membro anche quella di uno stato terzo lo stato membro non può, dando prevalenza
alla seconda, negargli l’applicazione delle norme comunitarie. In secondo luogo se un soggetto
possiede la cittadinanza di due stati membri potrà avvalersi della cittadinanza che gli consente
l’applicazione di norme comunitarie più favorevoli. Tra i diritti riconosciuti ai cittadini europei il più
significativo è quello di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli stati membri (art. 18).
Nell’enunciare tale diritto però l’art. 18 fa salve le limitazioni e le condizioni previste dal Trattato. A
tale proposito c’è però da dire che la Corte ha imposto una interpretazione piuttosto restrittiva di
tali limiti. A tali condizioni si aggiungono i limiti generali alla circolazione e al soggiorno previste dal
Trattato per motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica. Nel 2004 il Parlamento
Europeo e il Consiglio hanno adottato una direttiva relativa al diritto dei cittadini europei e dei loro
familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli stati membri allo scopo di riunire
in un unico documento normativo tutte le regole esistenti e di restringere il potere degli Stati
membri di adottare misure limitative. Tale direttiva riconosce a tutti i cittadini il permesso di
soggiornare negli stati membri per un periodo fino a 3 mesi senza formalità, a meno che ciò non
diventi un onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale dello stato ospitante. Per periodi
superiori a 3 mesi il cittadino deve dimostrare di essere lavoratore, subordinato o autonomo, o di
seguire un corso di studi, o di essere familiare di un cittadino dell’Unione ammesso al
ricongiungimento o di disporre di mezzi economici o di una assicurazione sulle malattie. Tale
normativa risponde ovviamente all’esigenza di evitare che le persone diventino un onere per lo
stato ospitante.

3) La questione dell’ingresso e della circolazione dei cittadini di paesi terzi –


L’attuazione della libertà di circolazione delle persone ha incontrato più difficoltà rispetto a quella
delle merci perché la libertà di circolazione di cittadini di stati membri senza controlli alle frontiere
interne è realizzabile solo se una simile libertà è accordata anche ai cittadini di stati terzi ma ciò
richiede ovviamente che vengano stabilite norme comuni in quanto solo stabilendo dei controlli di
pari efficacia alle frontiere esterne di tutti gli stati membri, questi ultimi possono accettare che un
cittadino di uno stato terzo, entrato in uno stato membro, possa poi entrare nel proprio territorio. I
progressi a livello comunitario sono però stati lenti perché molti stati non erano d’accordo ad
attribuire alla comunità competenza in tema di immigrazione e quindi hanno preferito muoversi al
di fuori dell’ambito comunitario dando luogo nel 1999 all’applicazione dell’Accordo di Schengen (di
cui si dirà dopo). A llivello comunitario una svolta si è avuta con il Trattato di Amsterdam del 1997
che ha attribuito alla Comunità la materia dell’immigrazione (prima contenuta nel Terzo Plastro e
cioè fuori del Trattato Ce insieme alla cooperazione in materia di polizia e in materia penale). Ciò è
stato reso possibile grazie sia ad un clima politico più favorevole a tale operazione che al fatto che
l’attività svolta nel Terzo Pilastro era stata alquanto insoddisfacente.

4) Il Titolo IV del Trattato Ce : struttura e finalità - Il Titolo IV del Trattato Ce, introdotto dopo il
Trattato di Amsterdam, attribuisce alla Comunità la competenza ad adottare norme in materia di
visti, asilo e immigrazione allo scopo di assicurare uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia. >Si
muove infatti dal presupposto che la realizzazione della libera circolazione delle persone comporta
l’esigenza di trovare strumenti adatti a combattere la criminalità che può essere favorita
dall’abolizione dei controlli alle frontiere interne. L’obiettivo prioritario del Titolo IV resta però
l’attribuzione alla Comunità delle competenze necessarie per la realizzazione dellla libertà di
circolazione delle persone. Ciò si vede chiaramente nell’art. 61 (devono essere adottate tutte le

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norme volte ad assicurare la libera circolazione delle persone) e nella norma che stabilisce
l’abolizione dei controlli alle frontiere interne sia per i cittadini degli stati membri che per quelli di
stati terzi. Le misure previste dal Titolo IV devono essere adottate entro 5 anni dall’entrata in vigore
del Trattato di Amsterdam secondo le linee stabilite dal Consiglio Europeo di Tampere del 1999
(assicurare ai cittadini di stati terzi che soggiornano legalmente in uno stato membro un equo
trattamento e combattere l’immigrazione clandestina anche attraverso la cooperazione con gli stati
terzi di provenienza). Il Consiglio Europeo, visto che non tutti gli obiettivi erano stati realizzati, ha
adottato nel 2004 il Programma Dell’Aja in cui si ribadisce l’esigenza di risolvere la questione
dell’immigrazione sollecitando la commissione a presentare le proposte necessarie.

4.1. (segue) Gli aspetti procedurali e le competenze della Corte di Giustizia - Nello
svolgimento dell’attività normativa prevista dal Titolo IV il Consiglio gode di una ampia
discrezionalità in quanto le norme del Titolo IV stabiliscono genericamente l’adozione di misure da
parte del Consiglio senza specificare quali atti normativi debbano essere prescelti. Ai fini
dell’adozione degli atti previsti era previsto un periodo transitorio di 5 anni dall’entrata in vigore del
Trattato di Amsterdam durante il quale la proposta di un atto poteva pervenire, oltre che dalla
Commissione, anche dagli stati membri (il cui ruolo nel procedimento normativo era quindi
accresciuto) e il consiglio doveva deliberare all’unanimità. Trascorso il periodo transitorio invece il
diritto di iniziativa spetta in maniera esclusiva alla Comissione e si è stabilito il ricorso alla
procedura di codecisione per l’adozione dei vari atti. Riguardo alle competenze della Corte di
Giustizia circa l’interpretazione delle disposizioni del Titolo IV e degli atti adottati in base ad essi,
esse risultano molto più limitate rispetto al regime generale. In primo luogo la Corte non può
deliberare sulle misure relative al mantenimento dell’ordine pubblico ed alla salvaguardia della
sicurezza interna, che devono essere così valutate ed interpretate solo dai giudici nazionali. In
secondo luogo è riconosciuta solo ai giudici nazionali di ultima istanza la competenza a rivolgere
alla corte domande per gli atti fondati sul Titolo IV. Tale possibilità non è riconosciuta invece ai
giudici non di ultima istanza che quindi su queste materie non possono operare il rinvio alla Corte.
Ciò è dovuto all’esigenza che procedimenti nazionali che richiedono una certa rapidità (come un
ricorso contro un provvedimento di espulsione) possano essere ritardati da un rinvio alla Corte ma
rischia di compromettere la possibilità di interpretazione delle disposizioni uniforme in tutti gli stati
membri. Con questi limiti posti alle competenze della Corte si è derogato per la prima volta al
principio generale di sottoponibilità al rinvio alla Corte di qualunque questione relativa
all’interpretazione di norme comunitarie o alla legittimità di atti comunitari.

5) L’abolizione dei controlli alle frontiere interne e la politica dell’immigrazione – Per


realizzare la libertà di circolazione delle persone l’art. 62 stabilisce l’’abolizione dei controlli alle
frontiere interne sia per i cittadini di stati membri che per i cittadini di stati terzi. Tale abolizione è
compensata dall’adozione di misure comuni nell’attraversamento delle frontiere esterne da parte
dei cittadini di stati terzi. Tali misure comuni devono garantire uno stesso grado di efficacia dei
controlli delle frontiere esterne da parte di tutti gli stati membri in quanto i controlli più rigidi da
parte di uno stato sarebbero vanificati da un controllo inefficace da parte di un altro stato. A tale
scopo è stato istituto un codice comunitario che stabilisce le modalità delle procedure di controllo
sulle persone e le forme di cooperazione tra le varie autorità nazionali competenti. E’ inoltre
stabilito che spetta al Consiglio stabilire l’elenco dei paesi per i quali i cittadini hanno bisogno di un
visto per varcare le frontiere esterne e predisporre un modello uniforme di visto. Si stabilisce inoltre
la competenza della Comunità nel porre le norme per il rilascio di visti a lungo termine di permessi
di soggiorno. A tale proposito sono state adottate due direttive bel 2003. La prima (n. 109)
stabilisce uno status di particolare favore per i cittadini di paesi terzi che abbiano soggiornato
legalmente e ininterrottamente per almeno 5 anni in uno stato membro, che abbiano risorse stabili
e dispongano di una assicurazione sulle malattie. Se si hanno queste caratteristiche si ottiene lo
status (che può essere negato solo per ragioni di ordine pubblico e pubblica sicurezza) che
permette di ottenere un permesso di soggiorno valido per almeno 5 anni automaticamente
rinnovabile. Lo status di questi cittadini è equiparabile così a quello dei cittadini dell’Unione che
soggiornano in uno stato diverso da quello di appartenenza. La seconda (n. 86) riconosce allo
straniero che abbia un permesso di soggiorno di almeno un anno e abbia la prospettiva di ottenere
il diritto di soggiorno in modo stabile il diritto di farsi raggiungere dai propri familiari. La normativa

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permette però ai singoli stati di richiedere requisiti aggiuntivi (es, la disponibilità di un alloggio o di
una assicurazione sulle malattie) con la possibilità per gli Stati di adottare soluzioni diversificate
che potrebbero determinare flussi migratori verso i paesi che consentono il ricongiungimento
familiare a condizioni più favorevoli. E’ ancora competenza della Comunità la materia
dell’espulsione e del rimpatrio anche se non è precisato se tale competenza è limitata alle
decisioni circa i presupposti dell’espulsione o anche alle modalità di esecuzione e alle garanzie.
Limiti a ciò sono posti dall’esigenza di assicurare il rispetto degli obblighi assunti dagli stati membri
con convenzioni internazionali e dei diritti enunciati nella Convenzione Europea per i Diritti
dell’Uomo. Questi ultimi non consentono l’espulsione se viola il diritto alla tutela della vita privata e
familiare e nel caso i ncji lo straniero potrebbe essere sottoposto nello stato di appartenenza a
trattamenti proibiti dalla convenzione,. Il Trattato non fa espressamente riferimento a tali limiti ma
essi devono essere ritenuti operanti ai sensi dell’art. 6 del Trattato dell’Unione Europea. E’ compito
infine della comunità stabilire a quali condizioni i cittadini terzi possano spostarsi da uno stato
membro all’altro. A tale riguardo finora si è solo riconosciuto ai soggiornanti di lungo periodo il
diritto di trasferirsi in un altro stato membro per motivi di lavoro o di studio.

5.1 (segue) Il diritto di asilo e la protezione temporanea degli sfollati – E’ compito della
comunità adottare misure in materia di asilo nel rispetto degli impegni internazionali assunti dagli
stati membri e in particolare della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951. Spetta al Consiglio
stabilire le norme per determinare lo stato competente ad esaminare le richieste di asilo. A tale
proposito il Consiglio ha emanato nel 2003 un regolamento che stabilisce (riprendendo le regole
della Convenzione di Dublino) che può essere competente, secondo i casi,. lo stato che ha
rilasciato al richiedente un visto o un permesso di soggiorno, lo stato dove lo straniero è entrato
irregolarmente o lo stato che abbia riconosciuto ad un familiare lo status di rifugiato. In ogni caso
un solo stato deve esaminare la domanda di asilo. Ciò parrebbe in contrasto con la Convenzione
di Ginevra (che stabilisce l’obbligo di esaminare la domanda a ciascuno degli stati cui sia
presentata) ma il fatto che ci siano criteri uniformi circa l’attribuzione della qualifica di rifugiato
risolve il problema in quanto diventa indifferente per il richiedente da quale stato membro venga
esaminata la domanda. Il Trattato prevede poi norme comuni sulle procedure per la concessione e
la revoca dello status di rifugiato e sull’attribuzione della qualifica di rifugiato, nonché dei livelli
minimi delle prestazioni che lo stato membro deve assicurare lasciando agli stati la facoltà di
stabilire una protezione più ampia. E’ competenza della comunità stabilire norme per la protezione
temporanea degli sfollati, ossia quei cittadini terzi che non possono tornare nei paesi di origine e
che quindi pur non rientrando nella qualifica di rifugiato secondo la Convenzione di Ginevra sono
comunque bisognosi di protezione. Si richiede a tale proposito un equilibrio tra gli sforzi di
accoglienza da parte degli stati membri e viene istituito un fondo europeo per i rifugiati per ripartire
in modo equo gli oneri tra gli stati membri che ricevono i rifugiati e gli sfollati.

6) La natura della competenza comunitaria in tema di immigrazione – La natura della


competenza attribuita alla comunità dal titolo IV è di tipo concorrente. Ciò si evince da norme
(come quella sull’asilo) che attribuiscono alla comunità la competenza ad adottare solo le misure
minime (lasciando agli stati membri la possibilità di stabilire una protezione più ampia) o dall’art. 63
in tema di condizioni alle quali i cittadini terzi che soggiornano in uno stato membro possano
spostarsi in altri stati membri (“le misure adottate dal consiglio non impediscono che uno stato
membro introduca disposizioni nazionali compatibili con il Trattato e con gli Accordi internazionali”).
L’art. 64 infine stabilisce che il titolo IV non ostacola l’esercizio delle responsabilità gravanti sugli
stati per il mantenimento dell’ordine pubblico e della sicurezza interna. Ciò non significa che la
comunità non possa adottare normative per la tutela dell’ordine pubblico (e quindi non delinea una
competenza esclusiva degli stati membri) ma consente agli stati membri di adottare misure più
restrittive di quelle comunitarie per le esigenze di sicurezza interna (es. impedire l’ingresso di uno
straniero per motivi di sicurezza interna).

7) L’applicazione differenziata del Titolo IV- Il Titolo IV ha una applicazione differenziata in


quanto alcuni protocolli allegati al Trattato Ce e al Trattato dell’Unione Europea dispongono che le
competenze attribuite alla Comunità dal Titolo IV non valgono per alcuni stati. In primo luogo
Regno Unito e Irlanda possono effettuare controlli sulle persone alle frontiere interne con altri stati

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membri ( e analogamente possono fare gli stati membri per le persone provenienti da tali stati).
Pertanto le frontiere tra tali stati e gli stati membri sono considerate come frontiere esterne e quindi
si crea una deroga rispetto all’art. 14 in quanto i controlli sulle frontiere rimangono sia per i cittadini
terzi che per quelli di stati membri. In secondo luogo Danimarca, Regno Unito e Irlanda non sono
vincolati dal titolo IV e dalle normative e convenzioni adottate sulla base di tale Titolo. Tuttavia,
mentre Regno Unito e Irlanda possono accettare atti fondati sul Titolo IV (sia notificando di volersi
vincolare ad un atto già adottato sia entro 3 mesi dalla dichiarazione di una proposta possono
partecipare al provvedimento normativo e all’adozione dell’atto) analoga possibilità non è prevista
per la Danimarca.

8) Convenzione di Schengen e la sua integrazione dell’Unione Europea – Come si è detto


prima la cooperazione tra gli stati membri i n tema di libera circolazione delle persone aveva
condotto alla convenzione di Schengen. A tale convenzione partecipavano all’inizio solo Francia,
Germania e Benelux ma vi avevano poi aderito alcuni stati terzi e tutti gli stati membri ad
eccezione del Regno Unito e dell’Irlanda. La convenzione prevedeva: a) l’abolizione dei controlli
sulle persone alle frontiere interne – b) l’adozione di misure comuni per il controllo alle frontiere
esterne – c) i presupposti per l’ingresso di cittadini terzi per un periodo non superiore a tre mesi.
Tali cittadini potevano essere ammessi purchè non figuranti in un elenco di persone formato con
le segnalazioni dei vari stati membri costituito da una banca dati consultabile presso le frontiere.
Con la Convenzione di S. veniva realizzato un obiettivo del Trattato Ce (la libera circolazione delle
persone) al di fuori del diritto comunitario e quindi del controllo della Corte di Giustizia e del
Parlamento Europeo. Per porre rimedio a questa situazione di è previsto tramite alcuni protocolli
l’integrazione della Convenzione di S. all’interno dell’Unione Europea. Alcuni degli atti adottati dagli
organi della convenzione sono stati comunitarizzati (e quindi hanno il fondamento giuridico nel
titolo IV del Trattato Ce), mentre altri sono stati inquadrati nel Terzo Pilastro ( ossia nel titolo IV del
Trattato Ue. La decisione sul fondamento giuridico degli atti della convenzione è stata presa dal
Consiglio che ha stabilito che gli atti relativi all’eliminazione dei controlli alle frontiere interne e ai
requisiti per l’ingresso alle frontiere esterne sono stati comunitarizzati mentre gli altri (in particolare
quelli sulla cooperazione di polizia) sono stati fondati sul Titolo VI del Trattato Unione Europea.
Sempre nel Terzo Pilastro sono state inquadrate quelle disposizioni per le quali il Consiglio non ha
stabilito il fondamento giuridico. L’integrazione della convenzione di S. nell’Unione Europea ha
permesso di superare in parte i problemi sopra evidenziati e quindi Corte e Parlamento possono
ora esercitare le loro competenze sulla base del Titolo IV Trattato Ce (se si tratta di disposizioni
comunitarizzate) o del Titolo VI del Trattato sull’Unione Europea (se si tratta di disposizioni
inquadrate nel Terzo Pilastro).

8.1 (segue) L’applicazione differenziata dell’Accordo di Schengen – A decorrere dall’entrata in


vigore del Trattato di Amsterdam la Convenzione di S. si applica immediatamente ai tredici stati
parti delle convenzione. Irlanda e Regno Unito non essendo parte della convenzione non ne sono
vincolati: possono i n qualunque momento possono chiedere di parteciparvi in tutto o in parte ma la
loro partecipazione è subordinata (diversamente da ciò che è previsto per l’accettazione delle
disposizioni degli altri atti fondati sul titolo IV) ad una decisione del Consiglio presa all’unanimità. Si
verifica così un fenomeno di cooperazione rafforzata che i tredici stati firmatari della convenzione
di S. sono autorizzati a porre in essere. Gli stati membri che fanno parte della convenzione di S.
possono rafforzare la loro cooperazione adottando ulteriori atti che devono essere emanati dal
Consiglio che ha assunto la funzione di organo legislativo della convenzione. La Danimarca si
trova invece in una situazione particolare in quanto è parte della Convenzione di S. ed è quindi
vincolata dalle sue disposizioni ma è libera di accettare eventuali altri atti normativi qualora essi
siano fondati sul titolo IV. Ciò deriva dal fatto che la Danimarca, come detto prima, non è vincolata
dalle norme del titolo IV e quindi, qualora accettasse un atto fondato su tale titolo, quest’ultimo
creerebbe tra essa e gli altri stati membri un vincolo fondato sul diritto internazionale e non sul
diritto comunitario. I paesi che hanno aderito alla Ue il 1.5.2004 sono vincolati solo ad alcuni atti
della Convenzione e agli atti adottati successivamente. Gli altri atti si applicheranno solo dopo
decisione del Consiglio degli stati membri precedenti all’unanimità e quindi la decisione di
eliminare i controlli alle frontiere interne di tali stati sarà frutto di una decisione degli stati per i quali
tali controlli sono stati già eliminati.

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9) Rapporto tra gli atti della Convenzione di S. comunitarizzati e gli altri atti fondati sul titolo VI -
Attraverso la comunitarizzazione di alcune disposizioni facenti parte della Convenzione di S. sono
stati raggiunti alcuni degli obiettivi che dovevano essere raggiunti entro 5 anni dall’entrata in vigore
del Trattato di Amsterdam. Spetterà quindi alla comunità stabilire se adottare altre normative che
vadano ad integrare quelle elaborate dalla Convenzione di S. ora comunitarizzate o se sostituire
queste ultime con nuove disposizioni adottate in base al titolo IV. Infatti le norme facenti parte della
convenzione di S che sono state comunitarizzate hanno il loro fondamento nel Titolo IV del
Trattato Ce e quindi il loro rango nel sistema delle fonti è quello di atti comunitari derivati: esse
quindi devono essere conformi al Trattato e ai principi generali e possono essere modificate o
sostituite o abrogate da successivi atti normativi.

II LA CIRCOLAZIONE E IL TRATTAMENTO DEI LAVORATORI SUBORDINATI CITTADINI DI


ALTRI STATI MEMBRI

10) Disposizioni del Trattato e la normativa derivata interna di circolazione dei lavoratori
subordinati – Il Trattato Istitutivo della Ce riconosce ai cittadini degli stati membri il diritto di
spostarsi da un paese membro all’altro per svolgere attività lavorativa e quindi enuncia il principio
del pari trattamento dei lavoratori nazionali e di quelli di altri stati membri. E’ attribuita al consiglio
la competenza ad adottare gli atti normativi necessari per l’applicazione di tali principi ed è sempre
rilevante il compito della Corte sia nell’interpretazione che nel criterio di applicazione delle norme.
La Corte ha tra l’altro stabilito che il principio della parità di trattamento tra lavoratori ha effetto
anche nei rapporti tra privati e vieta non solo le discriminazioni fondate sulla cittadinanza ma anche
le cosiddette discriminazioni indirette. Abbiamo discriminazione indiretta nel caso di normative
nazionali che pur applicando criteri diversi dalla cittadinanza (es. residenza) che operano sia per i
cittadini nazionali che per i cittadini di altri stati membri finiscono per creare per questi ultimi una
situazione meno favorevole.

11) Ambito di applicazione della normativa in tema di libera circolazione dei lavoratori – Le
norme sulla libera circolazione dei lavoratori (artt. 39-42) si applicano solo ai cittadini di stati
membri che esercitano o abbiano esercitato il diritto alla libera circolazione e pertanto non si
applicano a coloro che lavorano nello stato di cui sono cittadini e non hanno mai in precedenza
lavorato in altri stati membri. Le norme comunitarie si applicano anche ai cittadini di stati membri
che abbiano svolto un periodo di formazione in uno stato membro diverso da quello di
appartenenza. Qualora la normativa comunitaria preveda un trattamento più favorevole di quello
nazionale può sorgere una discriminazione a rovescio a sfavore di coloro che non esercitano il
diritto alla libera circolazione. Infatti a tali cittadini potrebbe essere riservato dalle norme nazionali
un trattamento meno favorevole di quello che, in base alle norme comunitarie, è accordato ai
cittadini che abbiano esercitato il diritto. Ne consegue che potrebbe essere conveniente per il
lavoratore esercitare il diritto alla libera circolazione per poi beneficiare delle norme comunitarie al
rientro nello stato di appartenenza. Per quanto riguarda gli stati entrati nell’Unione il 1.5.2004 essi
possono derogare all’applicazione delle norme per sette anni ma devono impegnarsi per pervenire
quanto prima alla completa applicazione delle norme comunitarie sulla libera circolazione dei
lavoratori.

11.1 (segue) La nozione di lavoratore dipendente – La Corte ha provveduto a fornire una


definizione comunitaria di lavoro subordinato ai fini dell’applicazione uniforme dell’art. 39. Si ha
lavoro subordinato allorchè una persona compie per un certo tempo a favore e sotto la direzione di
un’altra persona una prestazione contro corrispettivo. Non possono essere considerate lavoro
subordinato occupazioni che non costituiscono reali attività economiche mentre è invece
ininfluente l’entità ridotta della prestazione o le modalità di pagamento (infatti rientra
nell’applicazione della norma anche il lavoro a tempo parziale). Secondo la Corte costituisce lavoro
subordinato anche lo svolgimento di un tirocinio che comporti l’esecuzione di prestazioni in cambio
della retribuzione, e l’esercizio di una attività sportiva. Ai fini della corretta applicazione delle norme
comunitarie è fondamentale la distinzione tra lavoro subordinato (cui si applicano le norme da 39 a
42) e lavoro autonomo (cui si applicano le norme sulla libera prestazione di servizi o sulla libertà di
stabilimento). La Corte non ha enunciato criteri precisi di distinzione ma ha preferito valutare di

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volta in volta la natura autonoma o subordinata dell’attività in questione. Le disposizioni sulla libera
circolazione dei lavoratori dipendenti si applicano anche al settore dei trasporti marittimi e quindi ai
lavoratori che prestano attività su navi di nazionalità di altri stati membri rispetto a quello di
appartenenza.

12) La normativa sull’ingresso e il soggiorno dei lavoratori – Presupposto essenziale della


libera circolazione dei lavoratori è ovviamente la libertà di ingresso e di soggiorno in uno stato
membro diverso da quello di appartenenza. Il trattato perciò precisa (art. 39) che la libertà di
circolazione implica la libertà di ingresso e soggiorno nel territorio degli stati membri per svolgere
una attività lavorativa nei limiti di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica. Tali
disposizioni sono state attuate con la direttiva 38 del 2004 che stabilisce le procedure per
l’ingresso e il soggiorno negli stati membri. Per l’ingresso gli stati membri hanno l’obbligo di
accogliere i cittadini degli altri stati membri muniti di carta di identità o passaporto valido Non si
richiede la presentazione del documento alla frontiera a seguito dell’eliminazione dei controlli alle
frontiere interne. A tale obbligo si aggiunge l’obbligo per gli stati membri di riconoscere ai propri
cittadini il diritto di uscita. La corte ha quindi ritenuto vietata ogni misura con cui uno stato membro
ostacoli la libera circolazione anche per motivi diversi dalla cittadinanza (e. è stata ritenuta
incompatibile con il Trattato la norma nazionale che impediva ad un calciatore che voleva prestare
la sua attività in una società di un altro stato membro che quest’ultima versasse alla società di
appartenenza una indennità di trasferimento). Per quanto riguarda il soggiorno gli stati membri
possono solo chiedere al cittadino Ue che soggiorni per un periodo superiore ai 3 mesi l’iscrizione
presso le Autorità Competenti. L’attestato di iscrizione viene rilasciato se il cittadino esibisce un
documento di identità va,ido e una conferma di assunzione da parte del datore di lavoro. Secondo
la Corte però i documenti richiesti ai fini del soggiorno hanno solo valore dichiarativo di un diritto
conferito ai cittadini dal Trattato e pertanto la loro omissione può comportare solo sanzioni
proporzionate ma non discriminatorie e tanto meno l’espulsione. Comunque gli stati membri se
sono competenti ad adottare provvedimenti che gli consentono il controllo della popolazione sul
territorio non possono costituire un limite alla libertà di circolazione . La direttiva riconosce il diritto
di soggiorno al cittadino che dopo aver esercitato un lavoro si trovi in stato di disoccupazione
involontaria e sia iscritto all’ufficio di collocamento. Per quanto riguarda i cittadini che si recano in
uno stato membro per trovare lavoro e dopo un certo periodo non lo hanno ancora trovato la Corte
ha stabilito che dopo sei mesi il cittadino non sarà costretto a lasciare lo stato membro se fornisce
la prova di continuare a cercare un lavoro e di avere buone probabilità di trovarlo. La Corte però
non ha fornito lo strumento per valutare se tali buone probabilità ci siano e pertanto si può stabilire
il contrario solo se il cittadino si trovi nell’impossibilità oggettiva (es. una malattia) di esercitare un
lavoro. L’assenza di precisazioni nella direttiva implica il rischio che gli stati membri limitino la
possibilità dei cittadini di altri stati membri di trattenersi nel loro territorio per cercare un lavoro e
quindi per evitare ciò sarebbe opportuno che la direttiva chiarisse le condizioni che consentono il
soggiorno a chi è ancora alla ricerca della prima occupazione. Il Trattato stabilisce anche il diritto a
rimanere nel territorio di uno stato membro ai cittadini che vi hanno lavorato alle condizioni fissate
da un regolamento del 2004 (pensionati, inabili al lavoro, lavoratori frontalieri).

12 (segue) Limiti all’ingresso e al soggiorno – Secondo l’art. 39 la circolazione dei lavoratori


può essere limitata solo per motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica. Il
contenuto di tali limiti è stato esplicitato dalla direttiva 38/2004 e dalla giurisprudenza della corte
che hanno cercato di bilanciare l’esigenza di lasciare una certa discrezionalità agli stati e nello
stesso tempo quella di evitare che gli stati incidano in maniera rilevante sulla libertà di circolazione.
Su queste basi possiamo dire che per la sanità vengono indicate le malattie che possono
giustificare provvedimenti restrittivi mentre per ordine pubblico e pubblica sicurezza è stabi,lito che
eventuali misure restrittive non sono applicabili per motivi economici o per la sola esistenza di
condanne penali e comunque possono essere prese solo per il comportamento personale che
deve rappresentare una minaccia, reale, attuale e abbastanza grande per un interesse
fondamentale della società. Nel tentativo di bilanciare le due esigenze di cui sopra la Corte ha
riconosciuto che il concetto di ordine pubblico varia da uno stato all’altro ma ha anche stabilito
delle precisazioni sul contenuto di tali concetti per porre comunque dei limiti alla valutazione
discrezionale degli stati. La corte ha ribadito che tali criteri devono comunque essere considerati

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una eccezione alla libertà di circolazione e quindi devono essere interpretati restrittivamente e
comunque non possono eccedere ciò che è necessario per soddisfare le esigenze di ordine
pubblico e devono rispettare i principi della convenzione europea dei diritti dell’uomo. La corte ha
anche precisato che le misure restrittive possono essere adottate allorchè lo straniero eserciti un
comportamento che l’ordinamento reprime anche se tenuto da un cittadino e questo sulla base del
principio di non discriminazione. Infine la direttiva stabilisce un bilanciamento tra l’esigenza di
tutela dell’ordine pubblico e la situazione personale del cittadino per cui lo stato può evitare il
provvedimento di espulsione o sostituirlo con un provvedimento che consenta il soggiorno solo in
una parte del territorio qualora lo richiedano circostanze relative alla situazione familiare ed
economica del cittadino.

12.2 (segue) Le garanzie nei confronti di provvedimenti restrittivi dell’ingresso e del


soggiorno – La direttiva 38/2004 chiede agli stati membri di riconoscere alcune garanzie agli
stranieri colpiti da un provvedimento restrittivo o di rifiuto di ingresso. Tale direttiva (integrata dagli
interventi della corte) stabilisce che il provvedimento deve essere notificato per iscritto (in una
lingua conoscibile per lo straniero) e deve indicare in modo chiaro i motivi che lo giustificano.
Inoltre deve indicare l’organo (amministrativo o giurisdizionale) a cui rivolgersi per il ricorso e il
termine (non inferiore ad un mese dalla notifica). La direttiva richiede anche che il giudice debba
valutare sia la legittimità del provvedimento che le circostanze che lo hanno giustificato. Abbiamo
quindi una variazione rispetto alla normativa precedente che non dava agli stati membri l’obbligo di
consentire l’accesso ai mezzi di ricorso e prevedeva un controllo sulla sola legittimità del
provvedimento. La giurisprudenza della corte ha poi stabilito che i provvedimenti di espulsione non
hanno effetto definitivo in quanto decorso un certo termine (tre anni) dall’espulsione lo straniero
può chiedere di essere riammesso dimostrando il mutamento delle circostanze in base alle quali
era stato adottato il provvedimento di espulsione.

13) L’accesso al lavoro – Secondo l’art. 39 devono essere abolite tutte le discriminazioni fondate
sulla nazionalità per ciò che riguarda l’impiego e viene stabilito il diritto di rispondere ad offerte di
lavoro in altri stati. Tale articolo era stato in un primo tempo interpretato in maniera restrittiva e cioè
nel senso che consentiva l’ingresso solo ai cittadini in possesso di una offerta di lavoro,, ma in
seguito è stata adottata una interpretazione più estensiva e quindi comprendente anche il diritto di
spostarsi in un altro stato membro per cercarvi un lavoro. Il regolamento di attuazione di tale
articolo ha poi precisato che sono vietate non solo le discriminazioni direttamente fondate sulla
nazionalità ma anche quelle indirette che, fondandosi su criteri diversi, tendono comunque ad
escludere dalle offerte di lavoro i cittadini di altri stati membri (es. la corte ha ritenuto incompatibile
con l’art. 39 una normativa spagnola che per l’accesso ad un certo impiego richiedeva il possesso
di un diploma di un istituto di formazione situato in Spagna).

13,1 (segue) – I limiti dell’accesso al lavoro: l’eccezione degli impieghi nella P.A. – Secondo
l’art. 39 gli impieghi nella P.A. sono esclusi dall’applicazione delle norme sulla circolazione dei
lavoratori. La corte ha però chiarito la portata di tale limite stabilendo che la deroga è consentita
per i soli posti di lavoro nella P.A. che comportano l’esercizio di pubblici poteri e la responsabilità
della tutela di interessi generali dello stato. La corte ha anche fornito un elenco di impieghi che non
possono essere considerati come impieghi nella P:A: (es. insegnante di scuola superiore,
infermiere, ricercatore, guardia giurata). L’esercizio di pubblici poteri comunque deve costituire una
parte rilevante e non marginale dell’impiego in questione. Inoltre, una volta che lo straniero abbia
avuto accesso alla P.A. non sono consentiti provvedimenti discriminatori rispetto ai lavoratori
nazionali. Può solo essere preclusa la carriere allorchè le mansioni di funzione di livello più elevato
comportino l’esercizio di pubblici poteri.

13.2 (segue) Il requisito delle conoscenze linguistiche – Un altro limite nell’accesso al lavoro
da parte dei cittadini di stati membri diversi è dato dal regolamento del 1968 che prevede che il
principio di parità nell’accesso al lavoro non riguardi le condizioni relative alle conoscenze
linguistiche richieste per l’impiego offerto. La Corte ha prospettato una interpretazione piuttosto
restrittiva ricorrendo al criterio di proporzionalità e non discriminazione per cui i requisiti relativi alle

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conoscenze linguistiche devono essere giustificati in relazione alla specifica natura dell’impiego in
questione.

14) Il trattamento dei lavoratori – L’art. 39 stabilisce anche l’abolizione di ogni discriminazione
basata sulla nazionalità (oltre che per l’accesso al lavoro) per la retribuzione e le altre condizioni di
lavoro. Tale articolo ha avuto poi attuazione dal regolamento del 1968 (n. 1612( e nella
giurisprudenza della corte. Per quanto riguarda la retribuzione la corte ha affermato che ai fini del
calcolo della retribuzione e della pensione lo stato membro deve tenere conto nello stesso modo
anche dei periodi di lavoro prestati dal lavoratore in altri stati membri. Per quanto riguarda la parità
delle altre condizioni di lavoro la corte ha affermato che il lavoratori stranieri devono avere la
stessa tutela di quelli nazionali anche rispetto ai licenziamenti anche se il trattato non considera
espressamente tale ipotesi. Il regolamento attuativo ha anche stabilito che al lavoratore straniero
spettano gli stessi diritti sindacali di quelli nazionali con il solo limite di esclusione dalla
partecipazione alla gestione di organismi di diritto pubblico. La corte ha però interpretato
restrittivamente tale limite (come già fatto per quello degli impieghi nella P.A.) stabilendo la sola
esclusione da attività che implichino la partecipazione del lavoratore straniero al pubblico potere. Il
regolamento attuativo ha anche interpretato l’art. 39 come operante non solo per le condizioni
legate al rapporto di lavoro (es. retribuzione, orario) ma anche per le altre condizioni applicate ai
lavoratori nazionali (es. assistenza sociale e trattamento fiscale). L’art. 39 è stato così interpretato
nel senso di attribuire al lavoratore straniero gli stessi vantaggi sociali e fiscali di cui godono i
lavoratori nazionali . La corte ha poi contribuito ad una interpretazione piuttosto allargata del
concetto di vantaggio sociale includendovi anche misure non connesse al rapporto di lavoro (es.
sussidio di disoccupazione, riduzione delle tariffe ferroviarie per le famiglie numerose, ecc). Tutto
ciò sulla base del fatto che, al di là di quanto contenuto nell’art, 39, l’art. 12 del trattato impone
comunque la parità di trattamento dei lavoratori comunitari rispetto a quelli nazionali. La corte ha
però precisato che coloro che sono alla ricerca della prima occupazione in uno stato membro
diverso da quello di appartenenza hanno diritto di beneficiare dei vantaggi sociali previsti per quelli
che già hanno esercitato un lavoro solo dopo che lo stato membro abbia accertato che ci sia stato
un sufficiente periodo di residenza e che l’interessato abbia effettivamente cercato un lavoro sul
mercato di lavoro del proprio territorio. Il principio di parità implica il divieto non solo delle
discriminazioni dirette, fondate sulla nazionalità ma anche di quelle indirette, fondate su altri criteri,
ma tese al medesimo risultato, La corte ha pertanto ritenuto incompatibili con l’art. 39 normative
nazionali tese a stabilire il criterio della residenza permanente sul territorio nazionale come
condizione necessaria per ottenere alcune indennità o per accedere a determinati impieghi. La
corte però nel valutare tali discriminazioni indirette valuta se le normative nazionali che le pongono
in essere possono essere giustificate in base ad esigenze imperative dello stato. Qualora ritenga
che la normativa che produce effetti discriminatori possa essere giustificata la corte la sottopone al
controllo di proporzionalità per accertare se l’interesse nazionale possa essere tutelato con
strumenti che non implichino discriminazioni. Anche con questo temperamento il criterio resta
comunque non completamente accettabile in quanto se le discriminazioni indirette rientrano
nell’applicazione dell’art. 39 dovrebbero essere proibite in ogni caso. Ad. es. nell’intervento della
corte nelle discriminazioni indirette alcune sentenze hanno dimostrato che in tema fiscale il
principio di parità tra lavoratore non residente e lavoratore nazionale può operare solo quando il
reddito familiare è in gran parte prodotto nel territorio di occupazione. Infatti in una sentenza circa
la compatibilità del trattato di una normativa tedesca che concedeva alcune agevolazioni fiscali ai
soli residenti escludendo da tali benefici i cittadini stranieri residenti in altri paesi ma lavoratori in
Germania la corte ha stabilito che le agevolazioni fiscali vanno accordate anche ai non residenti
solo se essi traggono la maggior parte del loro reddito dall’attività esercitata nello stato in cui
lavorano. In tale caso infatti non esiste una differenza oggettiva tra lavoratore residente e
lavoratore non residente che possa giustificare un diverso trattamento.

15) Diritto al ricongiungimento familiare – La direttiva 38/2004 consente ai familiari (coniuge,


figli, figli del coniuge se minori di 21 anni o a suo carico, ascendenti del cittadino o del coniuge) del
cittadino dell’unione il diritto di accompagnarlo o raggiungerlo nello stato in cui si trasferisce . Tale
diritto non ha lo scopo di estendere la libertà di circolazione dei lavoratori ma solo di facilitarlo
garantendo il rispetto della vita familiare. Nella nozione di familiare può essere incluso anche il

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partner a condizione che abbia con il cittadino dell’unione una unione registrata sulla base della
legislazione dello stato di appartenenza qualora lo stato ospitante equipari tale unione al
matrimonio, La corte ha però stabilito che se uno stato consente ad un proprio cittadino il
ricongiungimento con il partner straniero non può negare la stessa cosa al lavoratore cittadino di
altro stato membro. In questo caso può essere applicata la legislazione nazionale più favorevole di
quella comunitaria. Qualora il familiare sia anch’esso cittadino di uno stato membro può acquistare
un diritto autonomo : la direttiva precisa infatti che il decesso o la partenza del lavoratore, il
divorzio o lo scioglimento dell’unione non incidono sul soggiorno dei familiari se anch’essi sono
cittadini di uno stato membro. Se invece il familiare non è cittadino di uno stato membro il decesso
del coniuge lavoratore non gli fa perdere il diritto di soggiorno se ha soggiornato nel territorio del
paese ospitante per almeno un anno prima del decesso. Inoltre se ricorrono particolari condizioni il
familiare del cittadino UE può ottenere il diritto autonomo al soggiorno anche in caso di
scioglimento del matrimonio o dell’unione registrata. Per quanto riguarda i figli, i figli di lavoratori di
stati membri conservano il diritto al soggiorno in caso di partenza della famiglia se devono
continuare gli studi e ciò non è possibile nello stato di appartenenza. Il rilievo pratico di tale diritto
si ha però solo nel caso in cui il figlio non sia cittadino di uno stato membro. Il familiare (anche se
non cittadino UE) ha il diritto di accompagnare o raggiungere il cittadino per un periodo fino a 3
mesi. Per i periodi superiori i familiari cittadini UE possono ottenere il diritto ottenendo l’attestato di
iscrizione (presentando la carta di identità e un documento attestante la qualifica di familiare)
mentre i familiari non cittadini UE dovranno ottenere una apposita carta di soggiorno. I familiari
cittadini UE possono avere il diritto di soggiorno permanente se il loro familiare cui si
ricongiungono l’ha ottenuto o se hanno soggiornato nello steso ospitante per almeno 5 anni (o un
periodo più breve se ricorrono particolari condizioni).

15. 1 (segue) Il ricongiungimento dei familiari non cittadini UE – La normativa comunitaria


qualora il ricongiungimento riguardi familiari non cittadini UE è applicabile solo se il lavoratore
cittadino di uno stato membro ha esercitato il diritto alla libera circolazione. Per quanto riguarda
l’ingresso la direttiva 2004/38 stabilisce che i familiari non cittadini UE se provenienti da uno stato
terzo per il quale ciò è richiesto sono soggetti all’obbligo del visto di ingresso (tale obbligo decade
solo se sono in possesso di una carta di soggiorno rilasciata da un altro stato membro). La corte
ha però stabilito che il coniuge del lavoratore non può essere respinto alla frontiera per mancanza
del documento o del visto qualora sia in grado di provare la sua identità e il legame coniugale
purchè non vi siano elementi per ritenere che possa costituire un pericolo per la sanità o la
sicurezza pubblica. La direttiva 2004/38 stabilisce anche la possibilità per il familiare di ottenere un
diritto di soggiorno autonomo: ad. es. la partenza del cittadino o il suo decesso non comporta la
perdita del diritto di soggiorno per il coniuge e il figlio iscritto in un istituto scolastico finchè non
siano terminati gli studi. In alcuni casi nemmeno lo scioglimento del matrimonio comporta la perdita
del diritto di soggiorno per i familiari. Il diritto di soggiorno è comunque soggetto al fatto che il
familiare eserciti una attività lavorativa o comunque disponga dei mezzi sufficienti Per quanto
riguarda il regime del soggiorno la direttiva estende i limiti previsti per i cittadini degli stati membri
(sanità pubblica, pubblica sicurezza e ordine pubblico) anche i familiari ammessi al
ricongiungimento qualunque sia la loro cittadinanza. La corte ha ribadito tale orientamento
stabilendo che per negare l’ingresso al familiare non cittadino UE non è sufficiente che esso sia
stato segnalato ai fini della non ammissione dalla banca dati del sistema Schengen ma occorre
che egli costituisce una minaccia effettiva, attuale e grave ad un interesse fondamentale per la
comunità. Per il soggiorno inferiore a 3 mesi non sono previste formalità; per i periodi superiori
occorre una carta di soggiorno che si ottiene presentando il passaporto, un documento che attesta
la qualità di familiare e la prova del soggiorno nello stato del cittadino UE che si accompagna o si
vuole raggiungere. I familiari non cittadini Ue possono acquistare il diritto di soggiorno permanente
dopo un soggiorno legale e continuativo di 5 anni nello stato ospitante.

16) Il trattamento dei familiari del lavoratore – Ai familiari del lavoratore ammessi al
ricongiungimento è assicurata la parità di trattamento rispetto ai cittadini nazionali. Tale principio è
assicurato in base al Trattato (art. 12) per i familiari cittadini UE; per i familiari di paesi terzi è
invece assicurato dall’interpretazione da parte della corte del regolamento del 1968 n. 1612 che fa
rientrare il trattamento riservato ai familiari nei vantaggi sociali per i quali opera il principio di non

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discriminazione. Nella parità di trattamento rientra anche la parità del diritto all’accesso al lavoro
nella quale il familiare è equiparato al cittadino UE lavoratore. I figli del lavoratore hanno il diritto di
frequentare i corsi di insegnamento e di formazione in parità di trattamento rispetto ai figli dei
cittadini nazionali. La parità di tratamento non è solo relativa alle norme sull’ammissione ma anche
a tutte le misure atte ad agevolare la frequenza dell’insegnamento (es,. aiuti per coprire le spese
dello studente che essendo vantaggi sociali devono essere assicurati ai figli dei lavoratori
comunitari come ai figli dei cittadini nazionali). Anche per il trattamento dei familiari la corte ha
vietato le discriminazioni indirette basate sul criterio di residenza. Se infatti una normativa
nazionale non subordina la concessione di una borsa di studio ai flgli di lavoratori nazionali al
criterio di residenza non può farlo nemmeno per i figli di lavoratori comunitari. Restano escluse
dall’applicazione del principio di parità quelle misure non concesse ai familiari del lavoratore ma a
tutti i cittadini (es. sussidio per disabili). Tali prestazioni rientrano comunque nel campo di
applicazione dell’art.12 Trattato che vieta in generale le discriminazioni in base alla cittadinanza.

17) La sicurezza sociale – La normativa comunitaria in tema di sicurezza sociale è funzionale


rispetto alla libera circolazione dei lavoratori in quanto la stessa non potrebbe realizzarsi se ai
lavoratori fossero negati quei vantaggi previdenziali previsti dalle leggi nazionali. In questo caso il
principio della parità di trattamento non è sufficiente a garantire lo scopo in quanto è necessaria
una normativa che elimini gli ostacoli dovuti a diversi regimi di sicurezza sociale applicati dagli stati
membri. Il trattato a tale proposito (art. 42) stabilisce che debba essere adottato un sistema che
garantisca il cumulo di tutti i periodi lavorativi svolti nei vari stati membri sia per il sorgere del diritto
alle prestazioni sia per stabilirne l’entità. Ad attuare tali principi è intervenuto il regolamento del
1971 che dovrà essere sostituito da un nuovo regolamento emanato nel 2004 ma che sarà
applicabile solo dalla data del relativo regolamento di applicazione. Il regolamento del 1971
stabilisce i criteri relativi alla prestazione stabilendo che debba essere lo stato dove è stata
effettuata l’ultima prestazione a provvedere alla totalizzazione dei vari periodi assicurativi. E’ chiaro
che l’applicazione di tale disposizione richiede un coordinamento tra i vari stati interessati e
pertanto è stata istituita una commissione formata dai rappresentanti dei vari stati membri. La corte
ha interpretato il regolamento tenendo presente che la sua finalità è quella di favorire la libera
circolazione dei lavoratori e su questa base ha ritenuto invalido un articolo di tale regolamento che
prevedeva che la totalizzazione dei vari periodi non avrebbe potuto eccedere l’importo più elevato
cui il lavoratore avrebbe avuto diritto se avesse lavorato in un solo stato e pertanto il lavoratore
migrante non avrebbe potuto ricevere un trattamento più favorevole di quello che avrebbe avuto
lavorando in un solo stato. Tale articolo è stato ritenuto incompatibile con l’art. 42 in quanto la
liberalizzazione dei lavoratori non potrebbe attuarsi se il lavoratore fosse privato dei vantaggi
garantiti dalle leggi di uno stato membro. Per quanto riguarda la prestazione oggetto del
regolamento la corte ha chiarito che le prestazione tende alla prevenzione di determinati rischi e
quindi il regolamento deve intendersi applicabile alla sola previdenza sociale e non alla assistenza
sociale.

III LA CIRCOLAZIONE E ILTRATTAMENTO DEI LAVORATORI SUBORDINATI CITTADINI DI


STATI TERZI

Il Trattato di Amsterdam ha stabilito la competenza della comunità a regolare le condizioni di


occupazione dei cittadini di stati terzi ma in realtà tale principio poteva già desumersi dal Trattato in
quanto è funzionale alla tutela dell’occupazione di cittadini di stati membri. Se infatti fosse
consentito agli stati stabilire condizioni di lavoro meno favorevoli per i cittadini di stati terzi questi
potrebbero essere avvantaggiati nell’ottenere un lavoro per la maggiore convenienza dei datori di
lavoro ad assumerli. Gli atti comunitari che verranno emanati per regolare la materia, pertanto,
tenderanno ad allineare le condizioni di lavoro per i cittadini di stati terzi a quelle previste per i
cittadini di stati membri-

18) Il trattamento e la circolazione dei lavoratori negli accordi di associazione – Le norme


poste in essere da alcuni accordi di associazione conclusi dalla comunità con stati terzi hanno
rilievo per quanto riguarda il trattamento dei lavoratori degli stati associati, stabilendo che esso non
debba essere discriminante rispetto a quello dei cittadini nazionali. La corte ha affermato che le

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norme degli accordi di associazione in tema di non discriminazione producono effetti diretti e quindi
possono essere invocate dagli interessati davanti ai tribunali nazionali e possono essere invocate
anche nei confronti di privati per cui sono idonee a produrre effetti diretti anche orizzontali.
Inoltre .la corte ha accolto una interpretazione estensiva di tali norme. In particolare interpretando
l’accordo di associazione con la Turchia la Corte ha ritenuto che il principio di parità. Pur essendo
riferito solo alle condizioni di lavoro e alla retribuzione, debba essere esteso anche alla sicurezza
sociale. Inoltre la corte dal principio di non discriminazione ha ricavato effetti anche sotto il profilo
del soggiorno. Infatti interpretando l'accordo di associazione con il Marocco la corte ha sostenuto
che qualora un cittadino del Marocco abbia ottenuto un permesso di lavoro più lungo del permesso
di soggiorno ha il diritto alla proroga di quest’ultimo che lo stato membro potrebbe rifiutare solo per
motivi connessi a sanità pubblica, ordine pubblico e pubblica sicurezza. Come si vede questi motivi
sono gli stessi che permettono limiti alla libertà di circolazione dei cittadini di stati membri e quindi
la pronuncia della corte potrebbe indicare una estensione agli accordi di associazione dei principi
operanti per la libera circolazione dei cittadini UE. Tuttavia si deve dire che i motivi sono stati
indicati dalla corte in maniera esemplificativa e quindi non si esclude che si possano invocare
anche motivi diversi che vadano a tutelare un interesse legittimo dello stato.

18.1 (segue) La circolazione dei lavoratori – Disposizioni circa la circolazione dei lavoratori di
stati terzi sono contenute solo nell’accordo di associazione con la Turchia e con i paesi dell’Efta
(che ha però perso rilevanza dopo l’ingresso nella comunità di Austria, Svezia e Finlandia).
Nell’accordo con la Turchia è prevista la graduale applicazione della libertà di circolazione dei
lavoratori tra comunità e Turchia tra la fine del 12^ e del 22^ anno di entrata in vigore dell’accordo.
La corte ha escluso che tale norma possa avere effetti diretti ma ha ritenuto che le decisioni del
consiglio di associazione possano avere effetti diretti. Tra queste ultime è importante quella che
prevede che il cittadino turco ha diritto al rinnovo del permesso di lavoro presso lo stesso datore di
lavoro se quest’ultimo vuole proseguire il rapporto di impiego. Dopo 3 anni di attività ha diritto di
assumere un impiego presso un altro datore di lavoro che esercita la stessa attività e dopo 4 anni
ha diritto ad accedere a qualunque lavoro. Secondo la corte tali diritti per essere esercitati
implicano l’esistenza di un diritto di soggiorno in capo all’interessato.

CAPITOLO III LA LIBERTA’ DI STABILIMENTO


1. Premessa – Dobbiamo subito dire che nel trattato Ce la libertà di circolazione dei lavoratori è
soggetta ad una disciplina unitaria solo per ciò che riguarda i lavoratori subordinati, Per quanto
riguarda invece i lavoratori autonomi la disciplina della libertà di circolazione è fissata attraverso i
due momenti del diritto di stabilimento (diritto dei cittadini di uno stato membro di svolgere la loro
attività indipendente in modo continuo o permanente nel territorio di un altro stato membro) e della
libera prestazione di servizi ( diritto del cittadino comunitario di esercitare la sua attività in o verso
uno stato membro diverso da quello dove è stabilito in modo permanente).

2. Diritto di stabilimento nel Trattato Cee e superamento del periodo transitorio – Il Trattato
Cee (Comunità Economica Europea) prevedeva il divieto per gli stati di introdurre nuove limitazioni
al diritto di stabilimento ma anche l’adozione di un programma generale (entro il 31..12.1961) che
avrebbe dovuto eliminare le restrizioni già esistenti. Nel 1961 il programma generale fu adottato
ma la realizzazione di tale programma si doveva avere tramite l’adozione di direttive che però non
avvenne con sollecitudine e completezza, tanto è vero che la relativa normativa si limita oggi a due
sole direttive, la direttiva 73/Cee (che stabilisce il diritto per il cittadino e per i suoi familiari di
recarsi in un altro stato membro per svolgervi lavoro autonomo e quindi il relativo diritto di
permesso e soggiorno) e la direttiva 75/Cee (che estende il diritto di soggiorno previsto per il
lavoratore dipendente che abbia cessato l’attività per anzianità o invalidità anche al lavoratore
autonomo). La corte ha però ritenuto che la mancata adozione delle direttive non poteva essere di
ostacolo alla applicazione del Trattato in quanto il diritto di stabilimento non ha il suo fondamento
nelle direttive ma nel Trattato stesso che sancisce all’art. 43 il divieto di discriminazione in base
alla nazionalità, visto che tale norma è dotata di effetto diretto.

3. La distinzione dalla libera prestazione dei servizi e dalla libertà di circolazione dei
lavoratori – La libertà di stabilimento presenta elementi comuni ed elementi di differenziazione

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rispetto allalibera circolazione del lavoro subordinato ed alla libertà del prestatore di servizi.
L’elemento che accomuna il llibero prestatore di servizi e il titolare della libertà di stabilimento è il
carattere non subordinato e autonomo del lavoro svolto caratterizzato quindi dall’assunzione del
rischio economico. L’elemento che accomuna invece il titolare della libertà di stabilimento con il
lavoratore subordinato è il carattere tendenzialmente permanente della presenza del lavoratore
nello stato membro diverso da quello di appartenenza. Il soggetto deve avere quindi una presenza
stabile nel mercato economico del paese ospite (mentre la presenza del prestatore di servizi ha
carattere transitorio o temporaneo). Rientra quindi nel diritto di stabilimento sia una prestazione
senza previsione di durata sia una a tempo determinato purchè preveda una durata tale da
consentire il concreto insediamento del lavoratore nel mercato economico del paese ospite.

4) Le situazioni puramente interne – Dobbiamo ora vedere quando la libertà di stabilimento può
essere disciplinata dal diritto comunitario e quando invece tale disciplina nn può essere applicata e
deve essere invece applicata la normativa nazionale. Perché la libertà di stabilimento possa
essere regolata dal Trattato Ce (artt. 43-48) è necessario il requisito dell’interstatualità. Ad
esempio non ricade nel diritto comunitario e quindi non si ha stabilimento nel caso di professionisti
italiani che esercitano esclusivamente in Italia sulla base di qualifiche professionali conseguite in
Italia dove risiedono. C’è da dire però che è probabile che i legislatori nazionali adottino discipline
in armonia con la disciplina comunitaria in quanto un diverso e meno favorevole trattamento
riservato dal legislatore nazionale ad una situazione puramente interna potrebbe essere
censurabile alla luce del principio costituzionale di uguaglianza assumendo come parametro la
situazione soggettiva garantita dal diritto comunitario.

5) Campo di applicazione. Persone fisiche . Il requisito della cittadinanza – Per quanto


riguarda le persone fisiche l’art. 43 Trattato Ce richiede, come requisito per il diritto di libertà di
stabilimento la cittadinanza di uno stato membro ( e quindi dell’unione). Tale requisito non è
derogabile,.come invece avviene per la libera prestazione di servizi. La possibilità per i cittadini
non comunitari di stabilirsi all’interno della comunità resta quindi affidata alle norme nazionali, agli
accordi internazionali sottoscritti dai singoli stati membri o agli accordi di associazione conclusi
dalla comunità con stati terzi.

5.1) Lo stabilimento delle persone giuridiche – L’art. 48 Trattato Ce equipara, ai fini


della libertà di stabilimento, le società alle persone fisiche a condizione che si tratti di società
costituite conformemente alla legislazione di uno stato membro e con la sede sociale o il centro di
attività principale all’interno della comunità. La norma quindi richiede un certo legame con
l’ordinamento comunitario che per le persone fisiche è dato dalla cittadinanza e per quelle
giuridiche è dato dalla costituzione secondo le leggi di uno stato membro e dalla localizzazione del
loro centro di interesse all’interno della comunità. C’è da dire che in un primo tempo l’art. 48 era
stato interpretato con solo riferimento alle persone giuridiche mentre in seguito è prevalsa
l’applicazione anche a quelle società prive di personalità ma comunque dotate di sufficiente
autonomia rispetto ai soci. Secondo l’art. 48 in linea di principio le persone giuridiche potrebbero
esercitare la libertà di stabilimento sia a titolo principale che a titolo secondario ma in realtà, come
vedremo dopo, ad esse è consentita la sola forma di stabilimento secondario (possibilità di aprire
filiali, succursali o agenzie). E’ chiaro che poiché la persona giuridica esiste solo in base alla legge
nazionale che la costituisce il diritto di stabilimento presuppone il mutuo riconoscimento delle
società tra i vari sati dell’Unione. Il Trattato Ce prevedeva quindi che gli stati membri avviassero
negoziati che garantissero sia il mutuo riconoscimento che il mantenimento della personalità
giuridica in caso di trasferimento della sede della società da un paese membro ad un altro. Poiché
tale obiettivo non è stato raggiunto il legislatore comunitario ha cercato di perseguire un obiettivo di
armonizzazione tra i vari diritti societari degli stati membri. Il primo passo in avanti in tale senso è
stato svolto dal Consiglio Europeo di Nizza del 200 con l’adozione di un regolamento (che
costituisce e fissa lo statuto della società europea) e di una direttiva (che concerne il
coinvolgimento dei lavoratori),. Il successo della società europea potrà essere valutato solo in
futuro sulla base della verifica sul numero delle imprese e dei settori economici che vi saranno
coinvolti.

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6) Campo di applicazione materiale – L’art. 43 Trattato Ce non contiene alcuna indicazione
delle attività per le quali può essere esercitato il diritto di stabilimento e ne consegue pertanto un
vastissimo campo di applicazione che è sicuramente sovrapponibile a quello della libera
prestazione di servizi. E’ ovvio che deve trattarsi di una attività economica e quindi finalizzata alla
produzione di beni e servizi ma la Corte ha adottato una interpretazione estensiva facendovi
rientrare ogni attività economicamente rilevante anche indirettamente. L’art. 45 attribuisce al
Consiglio su proposta della Commissione la competenza di escludere alcune attività dal campo di
applicazione ma ciò non ha mai trovato applicazione in quanto costituirebbe una limitazione di
diritti attribuiti dall’art. 43 che ora (scaduto il periodo transitorio) è considerato dotato di effetto
diretto.

6.1) Esclusione di attività che partecipano all’esercizio di pubblici poteri – L’art. 45


esclude dal campo di applicazione della libertà di stabilimento le attività che nello stato ospite
partecipano anche occasionalmente all’esercizio di pubblici poteri. Come abbiamo già visto per la
libera circolazione dei lavoratori subordinati tale esclusione è interpretata in maniera restrittiva
escludendo dalla libertà di stabilimento solo quelle attività in cui si ha una partecipazione diretta e
specifica all’esercizio di un pubblico potere.

7) Le modalità di esercizio della libertà di stabilimento


7.1) Stabilimento a titolo principale – Il diritto di stabilimento può essere esercitato a titolo
principale o a titolo secondario. Nel primo caso la persona fisica cittadino UE può stabilire il proprio
centro di attività principale in un altro stato membro. In linea di principio anche le società (purchè
costituite in conformità con la legge di uno stato membro e aventi sede in esso) potrebbero
esercitare il diritto di stabilimento a titolo principale, partecipando alla costituzione di una nuova
società in un altro stato membro o trasferendo la propria sede in un altro stato membro.
Praticamente però la sola forma di stabilimento a titolo principale attualmente consentita alle
società è la prima . Poiché infatti in molti stati è la sede della società a determinarne la nazionalità
il trasferimento della sede potrebbe essere incompatibile con il mantenimento della personalità
giuridica.

7.2) Stabilimento a titolo secondario – L’art. 43 Trattato Ce prevede che il diritto di stabilimento
comporta il divieto di restrizioni all’apertura di agenzie,.succursali o filiali da parte di cittadini di stati
membri stabiliti sul territorio di un altro stato membro. Il diritto di stabilimento a titolo secondario
comporta quindi due distinti centri di attività: uno nello stato di stabilimento originario e l'’altro nello
stato di apertura di agenzia, succursale o filiale. C’è da dire peròche non è detto che il secondo
centro di attività debba essere subordinato al primo in quanto potrebbe verificarsi anche l’inverso in
quanto attraverso lo stabilimento secondario potrebbero svolgersi le attività economicamente più
rilevanti per la società. Può accadere che una società venga costituita in uno stato e poi apra una
succursale in un altro stato dove può svolgere la totalità delle sue attività economiche. Ciò
costituisce un esercizio della libertà di stabilimento (che comporta di scegliere l’ordinamento più
favorevole per la costituzione della società) e non un abuso del diritto comunitario. Pertanto una
normativa nazionale che neghi lo stabilimento secondario ad una società costituita all’estero
sarebbe contraria al diritto di stabilimento dettato dal Trattato. L’art. 43 menzionando il caso di
agenzie, succursali o filiali sembrerebbe alludere solo alle società ma, in mancanza di limitazioni
nel Trattato esso è stato ritenuto applicabile anche alle persone fisiche anche se, non potendo
applicarsi alle società lo stabilimento principale, lo stabilimento a titolo secondario è la sola forma
di stabilimento cui le società possano, allo stato attuale, fare ricorso. Il Trattato non definisce ciò
che si debba intendere per agenzia succursale o filiale e pertanto, al riguardo, abbiamo solo la
definizione data dalla Corte e precisamente “centro operativo che si manifesta in modo
permanente come una estensione della casa madre, provvisto di direzione e in grado di trattare
con terzi

8) IL contenuto della libertà di stabilimento . La regola del trattamento nazionale – Il


contenuto del diritto di stabilimento si ispira al principio del trattamento nazionale e quindi della
assimilazione dello straniero comunitario al cittadino per quanto riguarda l’accesso e l’esercizio di

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una attività autonoma (art. 43) vietando limitazioni e condizionamenti che non siano imposti anche
ai cittadini.
Ci troviamo così di fronte ad una applicazione dell’art. 12 Trattato Ce che vieta ogni
discriminazione fondata sulla nazionalità. Il Trattato prevedeva originariamente la graduale
attuazione della libertà di staibilmento per cui doveva essere subito attivo il divieto di introdurre
nuove limitazioni mentre l’eliminazione di quelle già esistenti doveva avvenire sulla base di un
programma generale e di direttive. Tale programma non è stato mai completamente realizzato ma
la Corte ha stabilito che l’art. 43 è di efficacia diretta in quanto il programma generale doveva solo
servire a facilitare la libertà di stabilimento la quale trova invece il suo fondamento direttamente nel
Trattato, Il divieto di discriminazione vieta tutte quelle normative nazionali basate sulla cittadinanza
che precludono o limitano l’accesso o l’esercizio delle attività economiche o che discriminano lo
straniero nella fruizione di vantaggi o facilitazioni anche indirettamente connesse con l’esercizio di
attività economiche (es. è incompatibile con il diritto di stabilimento la normativa nazionale che
riservi ai soli cittadini il diritto di immatricolazione nello stato per le imbarcazioni da diporto).

9) Il divieto di misure indistintamente applicabili – La regola del trattamento nazionale ha


evidenziato i propri limiti in quanto gli stati hanno applicato normative nazionali che, pur rivolte
indistintamente a cittadini nazionali e comunitari e quindi su un presupposto diverso dalla
nazionalità, realizzano comunque una discriminazione nei confronti degli stranieri. Un esempio è
dato dal requisito della residenza, richiesto indifferentemente a cittadini e stranieri comunitari che
però può essere più facilmente soddisfatto dai cittadini. Altro esempio è dato dalle norme fiscali
che esigevano la residenza fiscale all’interno dello stato per ottenere rimborsi di imposte non
dovute che discriminavano le società straniere che, esercitando lo stabilimento secondario
avevano la residenza fiscale nello stato dove esercitavano lo stabilimento principale. La
giurisprudenza della corte ha ritenuto tali misure incompatibili con il diritto di stabilimento.
L’orientamento della corte è quello di favorire la parificazione e quindi di individuare anche quelle
misure nazionali non discriminatorie che rappresentano comunque un ostacolo all’accesso al
mercato da parte di operatori di altri stati membri. Ad. es. sono ritenute incompatibili anche quelle
misure non discriminatorie di esercizio dell’attività che possono costituire per l’operatore straniero
che vuole entrare nel mercato un ostacolo alla redditività dell’attività maggiore rispetto a quanto
avviene per gli operatori nazionali già presenti sul mercato i quali godendo di una posizione
consolidata possono meglio sopportare l’impatto negativo della normativa sulla loro redditività. Tali
misure potrebbero quindi rendere meno attraente allo straniero l’esercizio della sua attività nello
stato considerato.

10) – Le eccezioni alla libertà di stabilimento: l’abuso del diritto – Anche il diritto di
stabilimento è sottoposto a restrizioni sia contenute nel Trattato che nella giurisprudenza della
corte. Il diritto attribuito dal diritto comunitario infatti non può essere oggetto di uso abusivo al fine
di eludere interessi protetti dalle norme nazionali e ritenuti meritevoli di tutela da parte della
comunità. Pertanto uno stato membro può, nel rispetto del principio di non discriminazione e
proporzionalità. Adottare misure per evitare che, grazie al trattato, i suoi cittadini si sottraggano al
rispetto delle leggi nazionali. La Corte ha però escluso che ogni elusione di normative nazionali
possa considerarsi abuso del diritto comunitario. Infatti non costituisce abuso il fatto che un
cittadino costituisca una società nello stato membro la cui normativa è più favorevole per poi
creare succursali in altri stati membri anche se ciò viene fatto per evitare le normative più severe
operanti nello stato membro in cui si stabilisce la succursale. La Corte ha infatti chiarito che le
motivazioni che spingono un cittadino a costituire una società in uno stato membro piuttosto che in
un altro sono irrilevanti per l’applicazione del diritto comunitario a meno che non si configuri una
frode, ipotesi che però non viene definita dalla corte e quindi sulla cui rilevanza pratica ci sono seri
dubbi.

11) Le restrizioni discriminatorie – Per quanto riguarda le restrizioni consentite al diritto di


stabilimento occorre distinguere tra misure discriminatorie e misure indistintamente applicabili. Per
quanto riguarda le prime l’art. 46 stabilisce che sono ammesse misure nazionali discriminatorie
fondate su motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica. Naturalmente tali
misure, costituendo una deroga, devono essere interpretate restrittivamente. Le nozioni di ordine

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pubblico e di pubblica sicurezza non sono state definite né della corte né dal Trattato: è stato
escluso che misure discriminatorie possano essere giustificate sulla base di considerazioni di tipo
economico e inoltre è richiesto agli Stati nell’applicazione di tali misure il rispetto del criterio di
proprorzionalità e la necessità che il comportamento dell’interessato costituisca una minaccia
reale, attuale e sufficientemente grave ad un interesse fondamentale della società.

12) Le restrizioni non discriminatorie .- Gli stati possono adottare misure nazionali non
discriminatorie restrittive del diritto di stabilimento sulla base di esigenze imperative connesse
all’interesse generale anche se non riconducibili a quelle espressamente menzionate di ordine
pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica. Le misure non discriminatorie per essere
ammissibili devono rispondere a quattro condizioni definite dalla giurisprudenza della corte: a)
devono essere giustificate da esigenze imperative di interesse generale. Gli interessi di cui si
consente la tutela dovrebbero essere quelli ammessi quali deroghe alla libera circolazione delle
merci ma non si possono escludere ulteriori esigenze imperative quali la tutela dei creditori o la
coerenza del sistema fiscale statale . b) la misure restrittiva deve essere idonea a garantire
l’interesse che deve proteggere – c) la misura restrittiva deve essere conforme al principio di
proporzionalità ossia non deve imporre restrizioni superiori a quelle necessarie alla protezione
dell’interesse d) la misura restrittiva deve rispettare la verifica che la protezione dell’interesse
generale non sia già garantita dalla normativa del paese di provenienza di colui che esercita il
diritto di stabilimento.

13) Le misure di facilitazione del diritto di stabilimento – Il mutuo riconoscimento dei diplomi e
dei titoli di studio. – La regola del trattamento impone che lo stabilito che voglia accedere ad una
attività il cui esercizio sia subordinato nel paese di stabilimento ad una qualifica professionale o a
un titolo di studio percorra il necessario curriculum nello stato ospitante. L’applicazione di tale
principio però costituirebbe un serio ostacolo ala libertà di stabilimento e pertanto il Trattato all’art.
47 prevede che il Consiglio debba adottare direttive tese al reciproco riconoscimento dei diplomi e
degli altri titoli. Durante il periodo transitorio furono attivi gli interventi della Corte che oltre ad
attribuire efficacia diretta all’art. 43 stabilì un obbligo per gli Stati di concedere il riconoscimento
qualora le norme interne sull’equipollenza dei titoli lo consentissero. Tutto ciò però non evitava le
disparità tra i vari sistemi nazionali e pertanto le istituzioni comunitarie dovettero intervenire per
adottare le direttive previste dall’art. 47. Le istituzioni seguirono il criterio di adottare per ogni
professione due direttive : una per il coordinamento della formazione professionale nei vari stati e
l’altra per il reciproco riconoscimento dei titoli ottenuti dopo tale formazione. In seguito, vista la
difficoltà di applicare tale sistema a tutte le formazioni professionali si ricorse ad un altro criterio e
cioè al solo mutuo riconoscimento dei percorsi formativi(anche se non armonizzati) eventualmente
con la previsione di misure compensative. Tale sistema può applicarsi a tutte le professioni e pone
l’obbligo agli stati membri di concedere il diritto ad esercitare la professione a tutti i cittadini che
possiedono un titolo che li autorizza ad esercitare tale professione in un altro stato membro. Sono
previste però misure compensative per cui se la formazione acquisita in un altro stato si basa su
materie diverse da quelle contemplate dallo stato ospitante quest’ultimo può subordinare il
riconoscimento ad un tirocinio o ad una prova attitudinale, dove la scelta tra i due meccanismi è in
genere lasciata all’interessato.

14) Il diritto di stabilimento degli avvocati – Diversamente dalle altre professioni il diritto di
stabilimento dell’avvocato è stato solo in tempi recenti (2005) oggetto di specifici interventi
normativi. Prima di allora poteva essere applicata agli avvocati la direttiva Cee che prevedeva il
mutuo riconoscimento dei diplomi di formazione di durata uguale o superiore ai 3 anni che
consentiva però agli stati di ricorrere per le professioni giuridiche alla prova attitudinale che
rappresentava nei fatti una forte limitazione del diritto di stabilimento. C’erano quindi stati interventi
della Corte che aveva stabilito il dovere degli stati di riconoscere i diplomi conseguiti in altri stati
membri se equipollenti in base alla loro legislazione e in caso contrario che effettuassero la
comparazione tra le conoscenze conseguite dal candidato con quelle richieste dal diritto nazionale,
richiedendo, nel caso la corrispondenza fosse parziale, che il candidato dimostrasse di aver
acquisito le conoscenze mancanti. Nel 2005 il legislatore comunitario è intervenuto con una
direttiva che consente a certe condizioni che l’avvocato possa esercitare stabilmente la

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professione in un paese diverso da quello di origine. L’avvocato potrà esercitare tutte le attività
tranne quelle che nel paese di provenienza sono esercitate da categorie diverse da quella di
avvocato anche se nello stato di stabilimento esse sono esercitate da avvocati. Se poi l’interessato
può provare di aver esercitato per 3 anni nello stato membro potrà essere assimilato all’avvocato
dello stato ospitante esercitando la professione con il titolo dello stato ospitante senza sottoporsi
alla prova attitudinaria.

CAPITOLO IV . LA LIBERA PRESTAZIONE DI SERVIZI

1) Introduzione – La realizzazione del programma di integrazione socio economica contemplato


dall’art. 2 del Trattato comporta la creazione di un mercato interno (ossia di uno spazio senza
frontiere interne) caratterizzato dall’eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione delle merci,
delle persone, dei servizi e dei capitali. Per quanto riguarda i lavoratori autonomi il sistema di
liberalizzazione viene attuato consentendo ai soggetti di svolgere la propria attività nel territorio
comunitario o trasferendosi fisicamente e in maniera stabile in uno stato membro (libertà di
stabilimento) o mantenendo la sede nel proprio stato e rivolgendo le proprie prestazioni a
destinatari che risiedono in un altro stato membro (libera prestazione di servizi). Rimangono fuori
del campo di applicazione della normativa comunitaria le attività che non comportano
attraversamento di frontiera e quindi sono da considerarsi come puramente interne.

2) L’ambito di applicazione sostanziale e le materie escluse – Ai sensi dell’art. 50 Trattato Ce


sono servizi le prestazioni fornite normalmente dietro corrispettivo e che non siano regolate dalle
disposizioni relative alla libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone (carattere
residuale). Lo stesso articolo cita una serie di attività che rientrano nella nozione di servizi (a
carattere industriale, commerciale, artigiano o delle libere professioni) ma la corte ha chiarito che
esso ha carattere solo esemplificativo e quindi ha fatto rientrare nella nozione di servizio anche ad.
es. le attività sportive e le attività televisive. Esclusa dal campo di applicazione dell’art. 50 invece
l’attività di trasporto (che rientra nel titolo V del Trattato) e la prestazione di servizi bancari e
assicurativi (che rientra nella libera circolazione dei capitali). Per quanto riguarda la materia fiscale
se è vero che la materia delle imposte dirette rientra nella competenza nazionale è anche vero che
gli stati non possono adottare politiche fiscali contrarie alle norme comunitarie in quanto esse
sarebbero disapplicate. Dall’art,. 50 si evince anche che una attività, per rientrare nell’ambito dei
servizi, deve avere una rilevanza economica (“le prestazioni devono essere normalmente fornite
dietro retribuzione”). Non può quindi rientrare nell’ambito dei servizi la composizione di
rappresentative sportive nazionali ,in quanto rispondenti a criteri tecnico-sportivi e quindi
considerata gratuita o l’attività di servizio (es. istruzione) svolta dallo stato membro non a fini di
lucro ma per assolvere i propri obblighi di natura sociale. Alla luce della giurisprudenza della corte
poi non è richiesto un previo accordo tra prestatore e destinatario potendo l’attività di servizio
essere rivolta anche ad un numero indefinito di destinatari. Non è neanche necessario che il
corrispettivo provenga dal destinatario della prestazione, essendo sufficiente che il servizio venga
fornito dietro remunerazione (es. programmi televisivi diffusi da uno stato membro in altri stati e
remunerata dai cittadini dello stato di origine attraverso il canone o la pubblicità). Abbiamo visto
che la nozione di servizio ha carattere residuale e cioè che una attività viene presa in
considerazione dalla disciplina della libera prestazione di servizi se ad essa non sono applicabili le
norme sulla libera circolazione delle merci, dei capitali o della libertà di stabilimento. E’ vero che
non è sempre facile trovare la linea di demarcazione tra la libertà garantita dall’art. 49 e seguenti e
le altre. Per quanto riguarda la distinzione tra libera prestazione di servizi e libertà di stabilimento la
vedremo dopo. Per quanto riguarda la differenza con la libera circolazione delle merci il riferimento
alla prestazione ci fa escludere che le attività che si concretano nella produzione di beni possano
rientrare nella nozione di servizi. Se nella prassi si verificano attività che comportano sia la
prestazione di servizi che la fornitura di beni la giurisprudenza della corte ha stabilito che occorre
dare rilevanza alla prestazione principale che dovrà essere individuata in base al valore economico
delle due prestazioni. Pertanto la nozione di servizio rilevante per il diritto comunitario comprende
ogni attività economicamente rilevante che consista in un facere e non comporti scambio di beni.

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3) L’ambito di applicazione soggettivo: i soggetti tutelati – Il Trattato prevede che possono
beneficiare della libertà di cui all’art. 49 i cittadini di stati membri residenti in un paese membro che
non è quello del destinatario della prestazione. Le condizioni richieste sono quindi due : a) il
prestatore di servizi deve essere cittadino europeo. Da notare che tale requisito non è richiesto per
il beneficiario del servizio che può essere cittadino terzo purchè residente nella comunità – b) i
soggetti devono risiedere nell’ambito della comunità. Non può pertanto usufruire della
liberalizzazione garantita dal trattato un prestatore di servizi cittadino Ue ma stabilito al di fuori del
territorio comunitario. Si tratta di una misura protezionista volta a non aprire i mercati a coloro che
non hanno un legame effettivo con il territorio comunitario. Ciò è confermato dal fatto che l’art. 49
prevede che i benefici della liberalizzazione possono essere estesi a prestatori di servizi di
nazionalità terza grazie ad una decisione del consiglio a maggioranza qualificata purchè residenti
nel territorio comunitario. La competenza a disciplinare l’attività di prestatori di servizi di nazionalità
terza ma stabiliti nel territorio comunitario è oggetto di una proposta di direttiva da parte del
consiglio che prevede l’introduzione di una carta Ce di prestazione di servizi uniforme in tutti gli
stati membri di durata al massimo di 12 mesi che consente al titolare di esercitare liberamente
l’attività al pari del cittadino comunitario. Tale carta viene rilasciata dallo stato dove il cittadino terzo
è stabilito ed è valida per esercitare temporaneamente l’attività in uno stato diverso da quello di
stabilimento. Per quanto riguarda le persone giuridiche l’art. 55 fa riferimento alla disposizione
contenuta nella parte relativa al diritto di stabilimento e pertanto la relativa normativa è applicabile
sia allo stabilimento che alla prestazione di servizi.

4) Le modalità di svolgimento della prestazione di servizi: il carattere transfrontaliero


dell’attività - L’art. 49 chiarisce il carattere transfrontaliero della prestazione dei servizi,
stabilendo, come abbiamo visto, che il prestatore di servizi deve essere stabilito in un paese
membro diverso da quello dove è stabilito il destinatario della prestazione. Ciò come abbiamo visto
concede di escludere dalla disciplina quelle attività che, pur costituendo servizi secondo la
definizione comunitaria, sono confinate solo all’interno di uno stato membro. Essenziale pertanto
perché una attività possa essere oggetto di liberalizzazione è che si svolga con il passaggio di
frontiera. Il trattato non richiede come requisito essenziale che il servizio sia prestato in maniera
occasionale o temporanea. Il requisito dell’occasionalità è invece richiesto qualora il prestatore di
servizi si rechi a titolo temporaneo per eseguire la prestazione nello stato dove risiede il
destinatario della prestazione o quando sia il destinatario a recarsi nello stato dove risiede il
prestatore di servizi. Se in quest’ultimo caso infatti ci fosse il requisito della stabilità ci troveremmo
di fronte ad una fattispecie inquadrabile nelle norme che regolano la libera circolazione delle
persone. Qualora comunque la prestazione di servizi richieda lo spostamento fisico del prestatore
si pone il problema di inquadrare l’attività nella libertà di stabilimento o nella prestazione di servizi.
A tale proposito la giurisprudenza della corte non è chiarissima e pertanto la questione va valutata
sulla base delle concrete circostanze . In generale si può presumere che se l’attività è svolta in
maniera continuativa e stabile in uno stato membro da risorse tecniche e umane che sono
fisicamente presenti in quello stato dovrà essere applicata la normativa sulla libertà di stabilimento;
mentre se la stessa attività è svolta senza spostamento fisico dei soggetti in quanto è la
prestazione ad attraversare la frontiera si applicherà la disciplina sulla prestazione dei servizi.
Rimangono comunque difficoltà di interpretazione e ciò ha indotto la Corte a suggerire l’adozione
di un regolamento comune per le quattro libertà fondamentali. L’art,. 49 quindi contiene come
regola generale l’ipotesi che non ci sia spostamento dei soggetti ma solo dell’attività per la quale
non è richiesto il requisito dell’occasionalità; ma copre anche le ipotesi che prevedono lo
spostamento fisico del destinatario nello stato dove è stabilito il prestatore. Essendo prevista
questa ipotesi è prevista anche quella inversa del prestatore che si reca nello stato dove è stabilito
il destinatario. La corte ha poi esteso la disciplina ad altri casi come quello dello spostamento di
entrambi i soggetti in uno stato membro diverso da quello di stabilimento dove verrà effettuata la
prestazione. La nozione quindi di prestazione di servizi rilevante per il diritto comunitario copre
qualunque attività economicamente rilevante che non rientrando nel campo di applicazione delle
altre libertà economiche garantite dal Trattato Ce si realizza nel territorio comunitario con un
passaggio di frontiera, sia che lo stesso sia dovuto allo spostamento fisico di uno o entrambi i
soggetti sia allo spostamento transfrontaliero del servizio stesso.

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5) Il regime della libertà di prestazione di servizi. – La libertà di prestazione dei servizi, al pari
delle altre libertà, si basa sulla eliminazione delle restrizioni ad essa poste dagli organi pubblici
degli stati nazionali ma anche da enti e associazioni private. La relativa disciplina ha subito negli
anni profonde trasformazioni dovute a modifiche degli articoli del trattato ad essa dedicate e agli
interventi della corte. Nel programma originario la liberalizzazione della prestazione dei servizi
avrebbe dovuto essere raggiunta in maniera graduale sulla base di un programma generale che
tutti gli stati dovevano adottare alla fine della prima tappa del periodo transitorio con l’unico divieto
immediatamente operante di non introdurre nuove misure restrittive,. Altro obbligo
immediatamente applicabile era quello che gli stati applicassero le eventuali restrizioni già esistenti
in maniera non discriminatoria rispetto agli altri prestatori sulla base di nazionalità o residenza. Il
programma non si è però realizzato nei tempi previsti e comunque alla fine del periodo di
transizione non tutte le direttive di liberalizzazione erano state adottate. A ciò ha posto rimedio la
Corte dichiarando la diretta efficacia del divieto di restrizione alla libera circolazione dei servizi
(artt. 49 e 50). La corte pertanto di fronte al ritardo del consiglio nell’adottare le necessarie direttive
ha interpretato l’art. 49 come dotato di efficacia diretta e quindi come ponente a carico degli stati
l’obbligo di eliminare tutte le discriminazioni che potessero colpire il prestatore di servizi per criteri
legali alla nazionalità o residenza.

6) L’effetto diretto delle disposizioni del Trattato e il divieto di discriminazione in base alla
cittadinanza – L’art. 49 essendo dotato di effetto diretto attribuisce ai cittadini posizioni giuridiche
soggettive perfette, cosa che consente loro il diritto di opporsi a qualsiasi disposizione nazionale
che comporti la restrizione della libertà garantita dal diritto comunitario. Nello stesso tempo le
autorità giudiziarie e amministrative nazionali sono tenute a non applicare le disposizioni nazionali
che costituiscono ostacolo alla prestazione di servizi. Un comportamento contrario da parte delle
autorità nazionali comporterebbe infatti la responsabilità dello stato per violazione del diritto
comunitario. Analoga efficacia diretta hanno anche le disposizioni contenute nelle direttive adottate
per dare contenuto concreto alle norme del trattato, in particolare quelle tese a facilitare l’esercizio
effettivo della libera prestazione di sevizi. Ciò non toglie che a carico degli stati incombe comunque
l’obbligo di depurare la normativa nazionale dalle disposizioni in contrasto con il divieto di
restrizione alla libera prestazione di servizi. Naturalmente il divieto di restrizione si estende anche
alle norme adottate da associazioni private (es. federazioni sportive) o dalle convenzioni tra i
privati che qualora pongano in essere restrizioni incompatibili con il trattato sarebbero inapplicabili
in quanto nulle per violazione di norme imperative. Le misure restrittive sono vietate sia qualora
siano imputabili allo stato in cui è stabilito il prestatore sia qualora siano imputabili allo stato in cui
è stabilito il destinatario (es. ostacoli allo spostamento di pazienti in uno stato diverso per ricevere
cure mediche).

7) Le misure discriminatorie consentite dal Trattato – Gli stati membri possono in via
eccezionale limitare la circolazione dei servizi adottando misure discriminatorie, ma deve trattarsi
di misure che rientrano nelle deroghe espressamente previste dal trattato e inoltre tali disposizioni
devono essere interpretate ed applicate in maniera restrittiva trattandosi di eccezioni ad una delle
libertà economiche fondamentali garantite dal trattato. Ovviamente ricade sullo stato membro che
le applica l’onere di dimostrare che le misure restrittive sono consentite dalle deroghe previste dal
trattato. Le deroghe sono consentite dall'’art. 55 trattato che opera un rinvio alle disposizioni
relative alla libertà di stabilimento e in particolare agli artt. 45 e 46-. L’art. 45 prevede che sono
escluse dalla liberalizzazione dei servizi quelle attività che nello stato partecipano sia pure
occasionalmente dell’esercizio dei pubblici poteri. Come già detto per la libertà di stabilimento la
corte ha interpretato tale deroga in maniera restrittiva limitandone la portata a ciò che è
strettamente necessario per tutelare gli interessi protetti dalla norma e comunque solo quando
l’attività costituisce una partecipazione diretta e specifica all’esercizio di pubblici poteri. L’art. 46
consente invece agli stati l’applicazione di misure legislative, amministrative e regolamentali che
prevedono un regime particolare per i cittadini di altro stato comunitario purchè siano giustificate
da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica. Come già detto il trattato non dà
una definizione della nozione di ordine pubblico e quindi la portata di tale nozione va ricostruita in
base alla giurisprudenza della corte. La corte ha escluso che la nozione di ordine pubblico possa

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essere invocata per raggiungere obiettivi di natura economica e ha richiesto che le misure adottate
dagli stati sulla base di tali motivi siano proporzionate allo scopo da raggiungere.

8) Il divieto di discriminazioni indirette: le misure indistintamente applicabili – Il divieto di


cui all’art. 49 riferendosi in via generale alle restrizioni alla libera prestazione di servizi coinvolge
anche quelle misure non discriminatorie in quanto indistintamente applicabili ai cittadini e ai
comunitari e che comunque finiscono per porre il prestatore comunitario in una situazione meno
favorevole rispetto al prestatore nazionale. La corte quindi considera vietate in base all’art 49 e
seguenti non solo le disposizioni nazionali discriminatorie palesi o occulte ma anche quelle misure
non formalmente discriminatorie che ricorrono a criteri diversi dalla cittadinanza ma che comunque
hanno le stesse conseguenze. Nell’interpretazione della corte quindi si applica il superamento del
principio del trattamento nazionale in favore di quello del mutuo riconoscimento. Secondo la corte
infatti la libera prestazione di servizi sarebbe resa più difficoltosa se il prestatore si vedesse
imporre regole diverse nei paesi della comunità in cui opera. Pertanto il controllo della sua attività
deve essere limitato al rispetto della normativa del suo stato di origine la quale deve essere
comunque riconosciuta dagli altri stati membri. Il superamento del principio del trattamento
nazionale è stato reso necessario dalla necessità di distinguere la libertà di prestazione di servizi
dalla libertà di stabilimento. Nella libertà di stabilimento infatti lo stato membro può chiedere che
tutti i soggetti che operano sul suo territorio rispettino le norme nazionali che regolano questo tipo
di attività. Nella libera prestazione di servizi invece ciò non avviene in quanto il prestatore di servizi
è già sottoposto alle regole dello stato in cui è stabilito che devono in linea di principio essere
riconosciute dallo stato di destinazione del servizio. Infatti richiedere al prestatore il rispetto della
doppia normativa vuol dire sottoporlo ad un trattamento di fatto sfavorevole rispetto ai soggetti che
sono stabiliti nel paese di destinazione del servizio.

9) Deroghe al divieto di discriminazione indiretta: le misure indistintamente applicabili


consentite secondo la corte – La libertà di prestazione dei servizi non è comunque assoluta. La
corte infatti permette allo stato di destinazione del servizio di applicare al prestatore misure
nazionali che sia pur non discriminatorie comportano di fatto una restrizione. Ciò può avvenire solo
se tali misure sono giustificate dai motivi indicati all’art. 46 Trattato Ce o da esigenze imperative
connesse all’interesse generale che non sarebbero salvaguardate dall’applicazione della sola
normativa nazionale del paese di stabilimento del prestatore. E’ chiaro che il concetto di “esigenze
imperative connesse all’interesse generale” è piuttosto relativo in quanto dipende dalle politiche
interne dei vari stati e quindi il suo contenuto è determinato dai vari interventi della corte che vi ha
incluso, tra l’altro, la tutela dei lavoratori, la tutela dell’ordine sociale, la lotta contro la criminalità, la
coerenza del regime fiscale, ecc. La corte richiede anche che tali esigenze non nascondano
obiettivi di natura economica e siano proporzionate all’obiettivo da perseguire. E’ chiaro che la
normativa nazionale restrittiva dovrà essere verificata per valutare se può essere giustificata in
base a ragioni imperative di interesse generale. Se ne deduce che vi è una presunzione relativa di
incompatibilità con il trattato di normative nazionali che sia pur non discriminatorie restringano la
libera circolazione dei servizi. Tale presunzione può essere superata se lo stato dimostra la
presenza dei requisiti di cui all’art. 46. Se ciò avviene il divieto di cui all’art. 49 non si applica. La
regola generale è quindi che lo stato di destinazione del servizio non può sottoporre l’attività al
rispetto delle condizioni previste per la libertà di stabilimento ma non si può escludere che in via
eccezionale lo stato può imporre al prestatore stabilito in un altro stato il rispetto di alcuni requisiti
richiesti dalle proprie normative se si verificano le condizioni di cui all’art. 46, anche se ciò rende di
fatto più onerosa l’attività in questione rispetto a quella esercitata dai prestatori stabiliti nel proprio
territorio.

10) La giurisprudenza recente – La ricostruzione fatta nei paragrafi precedenti per cui le misure
restrittive di tipo discriminatorio possono essere giustificate solo sulla base dell’art. 45 (esercizio di
pubblici poteri) e 46( ordine pubblico) mentre quelle non discriminatorie anche sulla base di
esigenze imperative viene messa in discussione da recenti sentenze della corte che hanno
attribuito rilevanza ad esigenze di protezione di alcuni interessi statali come il controllo del gioco di
azzardo. In una sentenza infatti la Corte ha ritenuto che esigenze imperative come il controllo del
gioco d’azzardo possono motivare misure discriminatorie che comportano l’attribuzione del diritto a

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svolgere l’attività solo ad organismi nazionali. Tale sentenza è sorprendente in quanto deroga al
principio consolidato permettendo che anche le misure discriminatorie possano essere giustificate
da esigenze imperative. La corte avrebbe potuto raggiungere lo stesso risultato inquadrando le
misure adottate per il controllo del gioco di azzardo nell’ambito delle restrizioni giustificate dalla
tutela dell'ordine pubblico (art. 46).

CAPITOLO V – CIRCOLAZIONE DEI CAPITALI E PAGAMENTI

1) La nozione di movimento di capitali e di pagamento – Il trattato Ce pone la disciplina dei


movimenti di capitale e dei pagamenti all’interno del titolo terzo (contenente la disciplina generale
della libera circolazione delle persone, servizi e capitali) agli articoli 56-60. La disciplina sia dei
movimenti di capitale che dei pagamenti è quindi accorpata in un unico capo e ciò è solo in parte
giustificata da alcuni elementi comuni in quanto ci sono differenze sul piano normativo e quindi i
due concetti non possono essere unificati. Movimento di capitale e pagamento hanno in comune il
trasferimento da uno stato all’altro di denaro o mezzi di pagamento o valori mobiliari (titoli di
credito, azioni o obbligazioni) ma si distinguono in quanto solo nei pagamenti è presente il concetto
di corrispettività. Si ha infatti movimento di capitale con le operazioni che comportano il
trasferimento da uno stato all’altro di denaro o valori assimilati per fini di collocamento o
investimento; si ha invece pagamento quando il trasferimento di denaro o valori assimilati è il
corrispettivo di una prestazione negoziale quale la vendita di merci o la prestazione professionale.

2) Profili generali della disciplina – Le norme sui movimenti di capitale e sui pagamenti sono
collocate nel quadro delle libertà di circolazione in quanto sono funzionali ad esse e contribuiscono
alla creazione di un mercato unico dove sono eliminati gli ostacoli alla circolazione dei fattori
produttivi. Le norme sui movimenti di capitale quindi oltre a costituire una libertà fondamentale
sono funzionali all’esercizio delle altre libertà e in particolare del diritto di stabilimento, Allo stesso
modo le norme sui pagamenti sono funzionali allo scambio di merci e servizi e alla circolazione di
persone e di capitali, La disciplina si pone lo scopo di sopprimere le restrizioni al movimento di
capitali e ai pagamenti sia tra gli stati membri che tra stati membri e stati terzi (art. 56) .. Le
disposizioni che esprimono le libertà di pagamenti e movimenti di capitale producono effetti diretti
in capo ai singoli. Tali norme quindi fanno sorgere in capo ai singoli situazioni giuridiche soggettive
che devono essere salvaguardate dalle autorità statali amministrative e giudiziarie che sono tenute
a non applicare il diritto interno qualora in contrasto con quello comunitario, La definizione “singoli
“farebbe concludere che le disposizioni di cui all’art. 56 siano operanti sia tra gli stati membri che
nei rapporti interindividuali. Mentre l’ambito di applicazione materiale degli art. 56 e seguenti è
chiaro (concetti di pagamento e movimento di capitale) più difficoltosa è la determinazione
dell’ambito di applicazione soggettivo. Infatti mentre le altre libertà si rivolgono ai soli cittadini di
stati membri una analoga limitazione non esiste in materia di capitale e pagamenti. Si deve
ritenere quindi che le norme in questione debbano indirizzarsi ai residenti negli stati membri in
quanto le libertà in questione non potrebbero attuarsi se ne restassero esclusi residenti cittadini di
stati terzi alle cui operazioni di capitale e pagamenti in questo caso dovrebbero applicarsi le
normative nazionali. La disciplina delle libertà di movimento di capitali e pagamenti ha quindi una
portata maggiore rispetto alle altre libertà (per le quali il trattato si limita a garantire lo svolgimento
sul piano interno) e quindi comprende sia i rapporti intracomunitari che quelli con i paesi terzi.

3) La dimensione interna dei pagamenti e dei movimenti di capitale - I pagamenti e i


movimenti di capitale tra stati membri sono regolati dall’art. 56 e dalle misure nazionali di ordine
generale poste dall’art. 58. Per quanto riguarda i pagamenti l’art 56 dispone che possono essere
liberamente effettuate le prestazioni monetarie quali corrispettivo della vendita di una merce, della
prestazione di un servizio o della collocazione di un capitale. Per quanto riguarda la circolazione di
capitali tra stati membri secondo l’art. 56 sono liberalizzati, tra gli altri, i movimenti di capitale che
comportano investimenti, operazioni in titoli, operazioni in conto corrente o deposito, importazioni o
esportazioni di valuta. Pertanto il residente di uno stato membro può accedere al sistema
finanziario di un altro stato membro senza restrizioni o discriminazioni. Ad. es. sarebbe in contrasto
con le norme comunitarie l’adozione di tassi di interesse inferiori per i non residenti che investono

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in titoli nazionali o la norma nazionale che subordina il trasferimento di valuta o di mezzi di
pagamento ad una autorizzazione amministrativa.

4) Le misure nazionali di ordine generale – Ai sensi dell’art. 58 gli stati membri conservano il
potere, a determinate condizioni, di applicare alcune disposizioni interne che possono incidere
positivamente o , più spesso, negativamente sulle libertà di cui all’art. 56. Tale potere degli stati
deriva direttamente dal sistema comunitario e anch’esso, come le altre deroghe alle libertà
fondamentali, subisce una interpretazione restrittiva. Lo stato che ricorra a tale potere è soggetto al
limite della proporzionalità e quindi deve limitare l’imposizione di oneri al minimo necessario per il
raggiungimento dello scopo richiedendo il minor sacrificio possibile ai singoli. Le misure previste
dall’art. 58 sono generali in quanto in materia di capitali e pagamenti possono operare sia nei
rapporti intercomunitari che nelle relazioni con i paesi terzi. Tali misure generali sono di due
tipologie: la prima risulta indirettamente dalle limitazioni che gli stati possono porre al diritto di
stabilimento e quindi hanno il loro fondamento in questo ambito normativo., La seconda è invece
disciplinata dall’art. 58 che nel contemplare il potere dello stato ne fissa anche il limite. Innanzitutto
l’art. 58 consente agli stati membri unicamente di adottare un trattamento tributario differenziato in
relazione al luogo di residenza dei contribuenti o di collocamento dei loro capitali.. L’art. 58
consente agli stati di adottare misure di controllo sui movimenti di capitale solo per realizzare
interessi riconosciuti dal sistema comunitario (es. ordine pubblico, pubblica sicurezza, contrasto
dell’evasione fiscale). Gli stati possono quindi per perseguire tali interessi sottoporre l’esportazione
di valuta all’obbligo di una dichiarazione preventiva da parte dei singoli. La giurisprudenza della
corte ha poi ammesso che per l’esportazione di valuta gli stati possono imporre l’autorizzazione
amministrativa solo per esigenze di ordine pubblico e pubblica sicurezza, qualora ci sia una
minaccia effettiva e abbastanza grave ad un interesse fondamentale e mai per motivi economici.
Gli stati non possono poi esercitare il potere di cui all’art. 58 con provvedimenti che rientrano nella
competenza della comunità, né in modo da costituire una discriminazione arbitraria o una
restrizione dissimulata agli obblighi di liberalizzazione di cui all’art. 56.

5) La dimensione esterna dei pagamenti e della circolazione dei capitali : norme e deroghe
– Gli articoli 57-60 comportano in linea di principio una liberalizzazione dei pagamenti e della
circolazione dei capitali con paesi terzi. Dall’analisi delle relative norme si evince però che la
liberalizzazione esterna è inferiore rispetto a quella che si ha nella dimensione interna. Innanzitutto
per i rapporti con stati terzi è possibile adottare anche dopo il 1993 (diversamente da quanto è
previsto per i rapporti tra stati comunitari) norme tributarie più gravose per i residenti in paesi
comunitari che hanno collocato i loro capitali all’estero. In secondo luogo l’art. 57 mantiene le
restrizioni per alcuni movimenti di capitale con gli stati terzi (es. quelli che riguardano gli
investimenti diretti) in vigore al 31.12.93. A questa deroga si possono richiamare gli stati qualora
adottino misure volte a limitare gli spostamenti di capitale con paesi terzi relativi ad investimenti
direti. C’è da dire che il valore pratico di tale deroga è abbastanza limitato in quanto il consiglio a
maggioranza qualificata può adottare misure relative a movimenti di capitale con stati terzi in
relazione ad investimenti diretti. Altra differenza con la disciplina sul piano interno si ha all’art. 59
che stabilisce che gli stati possono adottare misure di salvaguardia della stabilità della moneta
unica per movimenti di capitale (e non per i pagamenti) provenienti o diretti all’estero in caso di
gravi minacce al funzionamento dell’unione economica e monetaria. Tali misure possono essere
prese solo se strettamente necessarie, in circostanze eccezionali e per un periodo non superiore a
6 mesi.

6) (segue) – Misure di congelamento dei capitali e di blocco dei pagamenti destinati o


provenienti da paesi terzi – Altre misure di tipo restrittivo nei confronti dei paesi terzi possono
essere adottate ai sensi dell’art. 60 sia dalla comunità che dagli stati membri. Nel primo caso il
parlamento europeo è assente dal processo decisionale (come per gli atti nel settore della politica
estera e sicurezza comune) e quindi è il Consiglio, su proposta della Commissione, che può
adottare a maggioranza qualificata misure sanzionatorie nei confronti dei paesi terzi interessati.
Nel secondo caso gli stati membri possono adottare misure restrittive valide solo nei confronti di
alcuni paesi terzi qualora sussistano gravi ragioni politiche e motivi di urgenza. Gli stati hanno però
l’obbligo di consultare gli altri stati e di informare la Commissione entro la data di entrata in vigore

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delle misure stesse. Tali provvedimenti adottati dagli stati possono avere durata circoscritta. Infatti
esse potrebbero essere sostituite da misure comunitarie adottate dal Consiglio. Inoltre il Consiglio
può decidere che lo stato membro modifichi o revochi le misure adottate. In tal caso il Parlamento
deve essere informato delle decisioni prese dal Consiglio.

CAPITOLO VI – LE POLITICHE DI CONCORRENZA


Parte I .- La politica di concorrenza rivolta alle imprese private

I Generalità

1) I settori sottoposti alle regole di concorrenza – Gli artt. 81 e 82 del Trattato disciplinano il
comportamenti di imprese private sul mercato che potrebbero alterare il libero gioco della
concorrenza. Si tratta di norme di applicazione generale che operano in tutti i settori economici con
la parziale esclusione dell’agricoltura (settore dove tali regole non possono essere applicate agli
accordi necessari per perseguire gli obiettivi di una politica agricola comune).

2) il concetto di impresa – Nel diritto comunitario il concetto di impresa è concepito in maniera


diversa rispetto a ciò che avviene nel diritto civile nazionale. L’impresa secondo il diritto
comunitario è qualunque soggetto che svolge una attività economica e che quindi potrebbe
incidere sulla concorrenza del mercato a prescindere dalla natura giuridica e dalle modalità di
organizzazione (es. ufficio di collocamento, ente non profit, libero professionista). L’impresa deve
poi avere un carattere concreto di autonomia: sarebbe infatti esclusa dall’applicazione degli artt. 81
e 82 una impresa formalmente autonoma e dotata di personalità giuridica qualora un’altra impresa
eserciti su di essa un grado di controllo tale da impedirle di operare come entità economica
indipendente.

II Le intese vietate dall’art. 81 –

3) I comportamenti vietati dall’art. 81 – L’art. 81 proibisce alle imprese di operare intese o di


operare con pratiche concordate aventi come oggetto o per effetto di impedire, restringere o
falsare il libero gioco della concorrenza sul mercato comune. La prima cosa da dire è che per
applicare la disciplina non è necessario che si verifichi una alterazione della concorrenza essendo
sufficiente la possibilità che un determinato comportamento dell’impresa possa provocare tale
effetto. In secondo luogo invece un accordo tra imprese avente per oggetto l’impegno a tenere
comportamenti lesivi della concorrenza non costituisce violazione dell’art. 81 se le condizioni del
mercato rendono impossibile alle imprese tenere un comportamento diverso. In tal caso infatti la
limitazione della concorrenza viene ricondotta ad una situazione di fatto e non all’accordo tra le
imprese. In terzo luogo non è necessaria ai fini dell’applicazione della disciplina che l’effetto
anticoncorrenziale sia effettivamente voluto dalle parti o se esso fosse più o meno prevedibile in
quanto ciò che rileva è solo la produzione o la potenziale produzione di tale effetto, Non sono
neanche necessari requisiti di forma in quanto nell’ambito di applicazione rientrano sia gli accordi
che le pratiche concordate: non è quindi necessario lo scambio del consenso essendo sufficiente
che un soggetto assuma un comportamento in corrispondenza del comportamento di un altro
soggetto e che tali comportamenti nel loro insieme producano una alterazione della concorrenza .
Ai fini dell’applicazione della disciplina è quindi dell’accertamento della compatibilità di un
comportamento con l’art. 81 vanno considerati tutti gli elementi che possono influenzare il mercato
e quindi sia i fattori anti che quelli pro concorrenziali, ma vanno escluse altre considerazioni
diverse da quelle sull’’impatto sulla concorrenza come ad es. considerazioni di politica industriale e
sociale. Tali considerazioni possono essere valutate successivamente nell’ambito della
concessione dell’esenzione ai sensi del III paragrafo dell’art. 81.

4) (segue) Accordi orizzontali e accordi verticali – L’art. 81 indica anche, in via


esemplificativa, i contenuti che rendono un determinato accordo contrario al diritto di concorrenza.
I contenuti sono i seguenti: a) fissare anche indirettamente prezzi di acquisto, di vendita o altre
condizioni – b) limitare o controllare la produzione, gli sbocchi o gli investimenti – c) ripartire i
mercati o le fonti di approvvigionamento – d) applicare condizioni diverse nei rapporti con gli altri

28
contraenti – e) subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti
di prestazioni che non hanno legame con l’oggetto del contratto. La Corte ha ritenuto che in linea
di principio rientrano nel divieto di cui all’art. 81 sia gli accordi orizzontali (accordi tra imprese che
hanno lo stesso ruolo nel ciclo economico: es. accordi che fissano i prezzi tra imprese concorrenti)
che quelli verticali ( accordi tra imprese che non hanno lo stesso ruolo nel ciclo economico: es.
accordi tra impresa che produce e impresa che distribuisce il prodotto).

5) La nullità delle intese vietate – Il II paragrafo dell’art. 81 prevede la sanzione della nullità per
le intese vietate dal primo paragrafo. La nullità è insanabile, opera automaticamente e può essere
rilevata d’ufficio dal giudice o accertata dalle istituzioni che vigilano sul mercato. Tale paragrafo è
inteso come producente effetti diretti.

6) Le esenzioni –
6.1 (segue) Profili generali – Il terzo paragrafo dell’art. 81 consente di non applicare la disciplina
ad accordi astrattamente distorsivi della concorrenza che possono produrre effetti positivi sul
processo di produzione o sul progresso tecnico-economico. Tali accordi devono però evitare di : a)
imporre alle imprese interessate restrizioni non necessarie per raggiungere gli obiettivi – b) dare a
tali imprese la possibilità di eliminare la concorrenza per la parte sostanziale dei prodotti
interessati. E’ inoltre necessario che i vantaggi prodotti siano in qualche modo distribuiti e che
comunque venga mantenuto un mercato concorrenziale. Nella prassi il potere di esenzione è stato
utilizzato per intese che non realizzavano gli effetti positivi espressamente previsti dalla norma ma
che erano invece diretti ad assicurare la coerenza tra le norme comunitarie.

6.2. Le esenzioni individuali – Occorre effettuare una distinzione tra esenzioni individuali ed
esenzioni per categoria. Le esenzioni individuali riguardano singoli accordi che rientrano nel divieto
di cui all’art. 81 ma che soddisfano le esigenze previste al paragrafo 3 dello stesso articolo.
Secondo il sistema vigente prima del nuovo regolamento del 2003 (in base alla mancanza di effetti
diretti dell’art. 81) il procedimento di esenzione era molto complesso e richiedeva una previa
notifica alla commissione degli accordi per i quali si richiedeva l’esenzione e il beneficio
dell’esenzione era subordinato ad un espresso provvedimento di autorizzazione da parte della
commissione. Con il nuovo regolamento del 2003 l’art. 81 ha ora efficacia diretta e quindi può
essere applicato dai giudici nazionali o dagli organismi di vigilanza senza una previa decisione
della commissione. La Commissione mantiene comunque la propria competenza sulla materia ma
il suo intervento ha ora carattere eccezionale e quindi riservato ai casi di particolare rilevanza.
Con il nuovo regolamento è anche scomparso l’obbligo di notifica e ne deriva quindi un sistema di
controllo a posteriori in quanto sono le imprese a valutare se esistono i presupposti per l’esenzione
e in caso positivo a concludere gli accordi e quindi invocare il terzo paragrafo dell’art. 81 nel corso
di procedimenti antitrust avviati d’ufficio o su denuncia di terzi. E’ comunque onere delle imprese
dimostrare l’esistenza delle condizioni di esenzione. Se il ruolo operativo della commissione è
quindi ridimensionato la stessa ha ora un ruolo normativo più attivo in quanto ha il compito di
guidare l’applicazione dell’art. 81 attraverso la collaborazione con le autorità nazionali garanti della
concorrenza. I vantaggi del nuovo regolamento sono di carattere pratico. Il sistema precedente
infatti portava le imprese a notificare alla commissione ogni genere di intesa talvolta anche allo
scopo di sospendere eventuali procedimenti nazionali. Il nuovo sistema decentrato previsto dal
regolamento del 2003 se permette di superare tali problemi presenta comunque delle difficoltà. In
primo luogo occorre considerare che il sistema delle esenzioni era stato concepito come un mezzo
per bilanciare il sistema antitrust con finalità di tipo ambientale, industriale e sociale e quindi la
commissione per ottenere tali scopi doveva compiere anche valutazioni di carattere politico al fine
di bilanciare gli interessi in gioco. Tale compito appare ora più difficile in quanto gli organi
giurisdizionali nazionali non hanno gli strumenti di valutazione necessari. In secondo luogo il nuovo
sistema rischia di creare una situazione di incertezza per cui le imprese potrebbero astenersi dal
concludere accordi quando esiste anche una remota possibilità che essi non siano considerati
meritevoli di esenzione.

6.3. – Le esenzioni per categoria - Il terzo paragrafo dell’art. 81 prevede che la commissione
possa emanare regolamenti che stabiliscono l’esenzione per intere categorie di accordi o pratiche

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concordate. In un primo tempo tali regolamenti contenevano per ogni categoria di accordi un
elenco di clausole vietate (clausole nere) che se presenti nell’accordo ne avrebbero determinato la
nullità e un elenco di clausole ammesse (clausole bianche). L’orientamento è ora diverso in quanto
i regolamenti, pur continuando e contenere un elenco di clausole vietate, prevedono di valutare la
possibile esenzione in base al potere di mercato detenuto dalle imprese interessate. I regolamenti
contengono infatti l’indicazione di una quota di mercato limite: al di sotto di questa gli accordi sono
esenti (salvo l’inserimento di clausole nere). Il superamento della quota limite invece comporta la
previsione di non esenzione e quindi in un eventuale procedimento giudiziario sarà onere
dell’impresa dimostrare le condizioni per beneficiare dell’esenzione individuale. Se invece la quota
non viene superata l’onere di dimostrare la violazione spetta agli organi di controllo e quindi si
verifica una inversione dell’onere della prova rispetto alle esenzioni individuali dove è l’impresa a
dover dimostrare l’esistenza di condizioni di esenzione. Possono revocare l’esenzione la
commissione e le autorità garanti nazionali a differenza delle esenzioni individuali dove anche
l’autorità giudiziaria ha potere di revoca. Altra differenza è che la revoca di esenzione per categorie
non ha effetto retroattivo mentre quella individuale si. Ovviamente gli accordi che non rientrano nei
regolamenti di esenzione per categoria sono vietati a meno che non godano delle condizioni
necessarie per l’esenzione individuale.

7)Le condizioni di esentabilità degli accordi verticali – Gli accordi verticali sono stati oggetto di
una profonda valutazione in quanto si è tenuto conto che essi potrebbero avere effetti
proconcorrenziali. >Si è stabilito infatti che in un mercato caratterizzato da una forte concorrenza
tra più marche essi potrebbero migliorare la distribuzione e l’assistenza al consumatore. Pertanto
essi sono stati oggetto di un regolamento di esenzione per categoria che prevede l’esenzione degli
accordi verticali qualora il potere di mercato del fornitore (o dell’acquirente in caso di acquisto
esclusivo) non superi il 30% del mercato. Entro tale limite la commissione ritiene che gli effetti
proconcorrenziali superino quelli anticoncorrenziali riservandosi comunque il potere di revocare
l’esenzione ex nunc qualora tali condizioni cambino. Ovviamente l’esenzione copre solo gli accordi
verticali che non presentano clausole nere. Vi sono poi clausole grigie che comportano la nullità
della sola parte dell’accordo che le contiene (obblighi di non concorrenza indeterminati o che
pongono ai distributori di un sistema selettivo il divieto di vendita dei prodotti di altre marche.

8)L’esistenza di una posizione dominante – L’abuso di posizione dominante è disciplinato


dall’art. 82 del Trattato. Occorre precisare che non è vietata l’esistenza di una posizione dominante
ma l’abuso che si fa di essa. Infatti i soggetti che hanno una posizione dominante sul mercato
godono di una particolare autonomia che consente loro di determinare le proprie strategie senza
tenere conto dei concorrenti e pertanto hanno una particolare responsabilità e non possono
mettere in atto comportamenti abusivi che invece sarebbero leciti se praticati da soggetti che non
sono in tale posizione. Per valutare se una impresa è in posizione dominante la quota di mercato
detenuta è un criterio importante ma non sempre decisivo in quanto può avere valore assoluto solo
se superiore al 90%. Può infatti essere in posizione dominante una impresa che ha una quota di
mercato minoritaria ma è dotata di un forte potere nei confronti dei concorrenti che gli consente di
essere indipendente dai loro comportamenti. Altri criteri sono il possesso di vantaggi tecnologici o
finanziari e la presenza di un mercato con barriere all’entrata per i nuovi concorrenti.

9) La posizione dominante collettiva – Si ha generalmente in un mercato oligopolista quando


più imprese non domiinanti possono mettere in atto un comportamento abusivo. In tal caso la
posizione dominante è detenuta collettivamente. E’ chiaro il collegamento di tale fattispecie con
l’accordo anticoncorrenziale di cui all’art. 81. Infatti un abuso di posizione dominante collettiva può
coesistere con una violazione all’art. 81 allorchè sia frutto di un accordo o di una pratica
concordata tra imprese. Rileva invece autonomamente quando gli accordi non sono in sé
anticoncorrenziali o sono esenti ai sensi del paragrafo 3 dell’art. 81 e gli effetti abusivi derivano dai
comportamenti delle imprese sul mercato a seguito degli accordi stessi.

10) Il mercato rilevante – Per stabilire la posizione dominante occorre definire il mercato rilevante
ossia il mercato in cui opera l’impresa in quanto una posizione può essere dominante se valutata
in un mercato ristretto e invece scomparire in un mercato più ampio. (es. una impresa può avere

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una posizione dominante nel mercato delle banane e non averla se si prende in considerazione
l’intero mercato della frutta). Il metodo di determinazione del mercato rilevante è stabilito dalla
commissione che distingue tra mercato geografico e mercato del prodotto. Il mercato del prodotto
comprende tutti i prodotti con un certo grado di sostituibilità dal punto di vista del consumatore con
i prodotti dell’impresa considerata. A determinare il grado di sostituibilità è l’elasticità della
domanda a piccole variazioni di prezzo. Se infatti a seguito di un aumento del prodotto dell’impresa
considerata i consumatori hanno propensione a spostarsi su un altro prodotto i due prodotti sono
sostituibili e quindi appartenenti allo stesso mercato,. Il mercato geografico è invece quello dove le
condizioni di concorrenza dei prodotti considerati sono omogenee tra di loro e in tal modo
distinguono tale zona da altre zone vicine che hanno condizioni di concorrenza diverse. Criterio
determinante è in tal caso la sostituibilità dell’offerta. Se a seguito di una variazione del prodotto la
domanda si rivolge ai fornitori della zona vicina e questi sono in grado di soddisfare la domanda
allora tale zona deve essere compresa nel mercato geografico rilevante. Tale mercato è quindi più
ristretto se esistono fattori che limitano la capacità delle imprese di altre aree geografiche a
soddisfare la domanda del prodotto considerato (es. preferenze del consumatore, caratteristiche
del prodotto).

11) Lo sfruttamento abusivo – Una volta definita la posizione dominante occorre stabilire quando
essa viene sfruttata abusivamente. L’art. 82 elenca in via esemplificativa i comportamenti che
possono costituire abuso di posizione dominante. Ad. es. in tema di prezzo costituisce abuso la
fissazione di prezzi minori o diversi per prestazioni equivalenti, o la fissazione di prezzi troppo
bassi rispetto ai costi di produzione (che eliminerebbero dal mercato le piccole imprese che non
sono in grado di sopportare perdite oltre un certo periodo) o troppo alti rispetto alla prestazione.
Sono inoltre abusive le vendite combinate di prodotti non collegati tra di loro. Importante è anche
l’obbligo posto in capo alle imprese dominanti di consentire ai concorrenti l’accesso alle essential
facilities, ossia le infrastrutture necessarie per esercitare l’attività (es. reti di telecomunicazione
possedute da un operatore il cui utilizzo è necessario per le imprese che vogliono offrire un certo
servizio).

IV I procedimenti di applicazione del diritto comunitario della concorrenza

I procedimenti di applicazione del diritto comunitario di concorrenza hanno subito un notevole


cambiamento con il citato regolamento 1/2003 che ha operato un ampio decentramento stabilendo
vari procedimenti sia a livello nazionale che comunitario ad opera di autorità sia amministrative che
giurisdizionali.

12) L’applicazione ad opera della Commissione – Il procedimento può essere attivato d’ufficio
dalla commissione o su denuncia di un soggetto che ne abbia interesse. La commissione, su cui
grava l’onere di provare la violazione antitrust, ha un ampio potere di accertamento in quanto può
chiedere alle imprese informazioni ed esse hanno l’obbligo di fornirle. Tuttavia la corte di giustizia
ha precisato che l’impresa ha il diritto di non rispondere allorchè la richiesta sia formulata in modo
da richiedere la confessione della violazione (applicazione del diritto penalistico di non testimoniare
contro se stessi). La commissione può anche accedere ai locali dell’impresa ed esaminare libri
contabili e documenti con la collaborazione delle autorità nazionali antitrust. Al termine della fase di
accertamento la commissione può decidere: a) di archiviare emettendo la decisione che dichiara
l’inapplicabilità degli articoli 81-82 b) respingere la denuncia c) aprire un procedimento formale di
infrazione. Se la commissione apre il procedimento sorgono in capo alle parti i diritti relativi alla
difesa e al giusto contraddittorio. La commissione ha l’obbligo di comunicare per iscritto alle parti
gli addebiti contestati che non potranno più essere modificati dalla commissione stessa a meno di
non riaprire il procedimento. Le parti indagate possono illustrare per iscritto il loro punto di vista o
chiedere una audizione orale. Tale audizione è fatta nel rispetto del contraddittorio ed è diretta da
un funzionario della commissione al quale sono riconosciute garanzie di indipendenza e terzietà..
Al termine del procedimento la commissione può_ a) constatare l’esistenza di una infrazione e
disporne la cessazione b) riconoscere l’inapplicabilità dei divieti di cui agli art. 81/82. Nel primo
caso la Commissione indica anche i rimedi applica ammende allorchè l’azienda abbia
contravvenuto intenzionalmente o per negligenza. La Commissione ha ampia discrezionalità nella

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fissazione delle ammende che comunque non possono superare il 10% del fatturato dell’impresa.
Nell’ambito della procedura la Commissione può anche decidere di revocare il beneficio
dell’esenzione di categoria agli accordi qualora constati che essi producono nel caso specifico
effetti incompatibili con il terzo comma dell’art. 81. La commissione può anche disporre misure
cautelari qualora ci sia presenza di un rischio grave e irreparabile per la concorrenza. Nel secondo
caso la Commmissione pronuncia, anche d’uifficio, una decisione di inapplicabilità degli art. 81 –
82. L’inapplicabilità può derivare sia dalla mancanza degli elementi di cui al paragrafo I articolo 81
che dal soddisfacimento delle condizioni previste dal terzo paragrafo di tale articolo. In questo
ultimo caso visto che l’esenzione opera di diritto la decisione della Commissione avrà solo valore
dichiarativo e non costitutivo. Il controllo giurisdizionale sulle decisioni della Commissione è
affidato al Tribunale di I grado per la giurisdizione di legittimità e alla Corte di Giustizia per la
giurisdizione di merito.

13) L’applicazione decentrata da parte delle autorità antitrust nazionali – La disciplina


antitrust comunitaria può essere applicata anche, in ciascuno stato, dalle autorità nazionali garanti
della concorrenza, le quali, al parti della Commissione e a differenza degli organi giudiziali
nazionali, hanno il compito della tutela del pubblico interesse ad una concorrenza non falsata e
non della tutela dei diritti dei singoli lesi dalla violazione del diritto comunitario antitrust. Tali organi,
al pari della Commissione, possono adottare d’ufficio o su richiesta decisioni sulla cessazione
dell’infrazione, prendere misure cautelari, disporre ammende e sanzioni oppure, qualora non
sussistano elementi per l'’nfrazione, decidere di non intervenire. Tali autorità possono inoltre
disporre sull'’ntero o su parte del proprio territorio la revoca del beneficio dell’esenzione per
categorie dall’art. 81 qualora una intesa, pur rientrando nel regolamento, determini nel concreto
effetti contrari all’art. 81. In Italia ci sono problemi applicativi in quanto il regolamento 1/2003
attribuisce alla autorità garante della concorrenza poteri di cui essa non dispone allorchè applica il
diritto interno antitrust, in quanto tali poteri non sono contemplati nella normativa italiana che ha
istituito l’autorità. E’ pertanto necessaria una riforma legislativa che disciplini anche sul piano
nazionale i poteri che sono attribuiti sul piano comunitario.

14) L’applicazione giudiziale – Poiché gli artt. 81 e 82 hanno effetti diretti possono produrre effetti
anche nei rapporti tra i privati e quindi attribuiscono loro diritti soggettivi che devono essere tutelati
dai giudici nazionali. Rispetto ai provvedimenti davanti alla Commissione e alle autorità garanti
quindi le procedure giudiziarie offrono il vantaggio della possibilità di tutela di posizioni di natura
privatistica con lo svantaggio però che i giudici nazionali non possono applicare sanzioni di
carattere amministrativo. I giudici nazionali sono competenti per l’applicazione degli artt. 81 e 82 in
tema di diritti soggettivi nell’ambito di un contenzioso che può avvenire su istanza di parte ma
anche d’ufficio visto che tali articoli hanno natura di norme di ordine pubblico, Diversamente dalla
Commissione e dalle autorità garanti i giudici non hanno però il potere di revoca del beneficio di
esenzione di categoria. Nello svolgimento del procedimento i giudici nazionali sono vincolati dal
rispetto dei precedenti della Corte di Giustizia e del Tribunale di I grado e dei regolamenti di
esenzione comunitari ma possono applicare la normativa processuale nazionale, nei limiti derivanti
dal diritto comunitario, nel senso che la normativa processuale non deve impedire o rendere
particolarmente difficoltosa la tutela delle posizioni soggettive attribuite ai singoli dal diritto
comunitario.

15) Il coordinamento tra le autorità competenti all’applicazione del diritto comunitario sulla
concorrenza – Abbiamo visto che il regolamento 1/2003 ha rafforzato il decentramento
nell’applicazione della disciplina antitrust. E’ però necessario un coordinamento tra le autorità al
fine di dare uniformità all’applicazione della disciplina evitando una applicazione differenziata da
parte dei vari organi. Tali obiettivi vengono raggiunti tramite la Commissione che mantiene un ruolo
guida con la possibilità di adottare comunicazioni che pur non vincolanti acquistano nella prassi
valore di atti normativi e tramite l’obbligo posto alle autorità nazionali di rispettare i principi generali
(regolamenti di esenzione per categoria e atti normativi adottati dalla Commissione).

15.1) Il coordinamento tra Commissione e autorità garanti nazionali – Il regolamento 1/2003


prevede per ciò che riguarda il coordinamento tra la Commissione e le autorità garanti nazionali

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quanto segue: a) la commissione deve essere avvisata per iscritto del’avvio della procedura e in
caso di gravi motivi di opportunità può avocare a sé un procedimento avviato dalle autorità garanti
nazionali .b) se la procedura è avviata dalla commissione ciò priva di competenza le autorità
nazionali ma al contrario l’avvio della procedura da parte delle autorità garanti non priva di
competenza la Commissione la quale ha solo l’onere di consultare l’autorità nazionale prima di
avviare il proprio procedimento – c) in presenza di un procedimento amministrativo o giudiziario già
avviato la Commissione può concedere o negare una esenzione. Il regolamento prevede anche il
coordinamento orizzontale tra le varie autorità garanti nazionali ma in tal caso si tratta solo di
facoltà e non di obblighi: prevede ad. esempio la facoltà di informazione alle altre autorità circa
l’inizio di un procedimento o sull’adozione di un provvedimento e la facoltà di respingere una
denuncia se la fattispecie è oggetto di esame da parte di un’altra autorità garante nazionale.

15.2) I coordinamenti tra la Commissione e le autorità giudiziarie – Il regolamento 1/2003


pone in capo ai giudici nazionali il divieto di adottare decisioni in contrasto con una precedente
decisione della Commissione circa la stessa violazione. Questo non impedisce al giudice di
effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte per farne valere l’invalidità e questo è lo strumento
tipico a disposizione del giudice che voglia disporre in contrasto con quanto stabilito
precedentemente dalla Commissione. Il regolamento 1/2003 prospetta anche strumenti di
collaborazione in quanto stabilisce che la commissione e le autorità garanti possono intervenire nel
giudizio interno presentando osservazioni scritte o rali nel rispetto del diritto processuale degli stati
membri. Nel regime di decentramento operato dal regolamento 1/2003 il ricorso al giudice può
apparire più conveniente rispetto al procedimento amminsitrativo davanti alle autorità garanti in
quanto le sentenze del giudice godono del regime di riconoscimento automatico mentre il
riconoscimento delle decisioni delle autorità antitrust appare più problematico.

V L’AMBITO DI APPLICAZIONE DEL DIRITTO COMUNITARIO DI CONCORRENZA

16) Il pregiudizio al commercio intracomunitario e l’alterazione sensibile della concorrenza –


Perché sia applicato il diritto comunitario della concorrenza è necessario che il comportamento di
una impresa sia idoneo a pregiudicare in maniera sensibile il commercio tra gli stati. In caso
contrario infatti gli artt. 81 e 82 non possono essere applicati e può essere applicata solo la
normativa nazionale della concorrenza. La Commissione ha precisato cosa si debba intendere per
pregiudizio al commercio comunitario affermando che esiste un pregiudizio al commercio
comunitario allorchè un accordo o una pratica può avere (anche potenzialmente) un’influenza sul
mercato comunitario interessando almeno due stati membri, In altre parole non esiste pregiudizio
al commercio comunitario quando l’accordo, pur avendo impatto sulla concorrenza, produce effetti
prevalentemente nel territorio di un solo stato membro o di paesi extracomunitari. Diverso è
invece il caso degli accordi di importanza minore, i quali, posti in essere da piccole o medie
imprese, hanno un effetto anticoncorrenziale trascurabile. La Commissione ha fornito indici
quantitativi (relativi al fatturato e alle quote di mercato) per inquadrare un accordo negli accordi di
importanza minore al fine di agevolare la cooperazione tra piccole e medie imprese dove gli effetti
proconcorrenziali superano in genere quelli anticoncorrenziali.

17) I rapporti tra diritto comunitario e diritto nazionale antitrust – Prima del regolamento
1/2003 l’ordinamento comunitario consentiva che un comportamento rilevante ai fini del diritto
antitrust sia comunitario che nazionale fosse preso in considerazione da entrambi gli ordinamenti e
quindi fosse colpito dalle sanzioni previste da ciascuno di essi. Il regolamento 1/2003 consente
tuttora una applicazione parallela del diritto antitrust comunitario e nazionale ma con i seguenti
limiti: a) divieto posto agli stati membri d sancire una violazione antitrust per quelle intese che
risultano lecite ai sensi del diritto comunitario -–b) obbligo per le autorità nazionali di applicare
sempre (oltre all’eventuale diritto nazionale) gli art. 81/82 quando il comportamento in questione
rientra nel campo di applicazione del diritto comunitario. Alcuni stati hanno però deciso di optare
per una esclusione reciproca delle due normative. Ad esempio l’Italia ha disposto per
l’applicazione della normativa nazionale solo quando non debba essere applicata quella
comunitaria e ciò pone il problema di valutare di volta in volta il diritto applicabile.

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18) La delimitazione territoriale– La Corte ha stabilito la competenza comunitaria a sanzionare
comportamenti lesivi della concorrenza anche se conclusi fuori del territorio della comunità se tali
effetti concorrenziali si verificano all’interno del territorio comunitario. Pertanto rientra nella
competenza comunitaria la sanzione di un comportamento posto in essere da imprese con sede al
di fuori del territorio comunitario che però, attraverso l’attività di filialli o succursali posti all’interno
della comunità, pregiudichi il libero gioco della concorrenza all’interno della comunità stessa.

VI IL DIRITTO DELLA CONCORRENZA IN MATERIA DI CONCENTRAMENTO TRA IMPRESE

19) Problemi generali – Nella disciplina della concorrenza originariamente inserita nel Trattato
non era contemplato il fenomeno della concentrazione tra imprese e pertanto tale fenomeno era
disciplinato ricorrendo alle norme sulla concorrenza dirette alle imprese. Però tale sistema non era
coerente in quanto vietava fenomeni di collaborazione tra imprese ma non le fusioni e quindi il
Consiglio ha adottato un apposito regolamento nel 1989, regolamento ora abrogato e sostituito dal
regolamento n. 139 del 2004.

20) La disciplina delle concentrazioni nel regolamento 139 del 2004 – Il regolamento 139
del 2004 si applica alle sole concentrazioni di dimensioni comunitarie. Per concentrazione si
intendono sia le operazioni di fusione che di acquisto del controllo di un’altra impresa. Per stabilire
se una operazione è di dimensione comunitaria la Commissione ha elaborato degli indici
quantitativi basati sul fatturato delle imprese partecipanti. La disciplina può poi essere applicata a
concentrazioni che pur non superando le soglie di fatturato rientrano nel campo di applicazione
della normativa nazionale di almeno 3 stati membri e nessuno di essi si opponga al rinvio
dell’operazione alla commissione. La competenza sulle concentrazioni di dimensioni comunitarie è
esclusiva della commissione e quindi non spetta anche alle autorità nazionali, antitrust o
giudiziarie. Le concentrazioni vanno notificate alla Commissione e non possono essere realizzate
finchè la Commissione, dopo un complesso procedimento, ne abbia dichiarato la compatibilità con
il mercato comune. A tale proposito la valutazione della commissione segue ora criteri diversi
rispetto al precedente regolamento del 1989. Nel precedente regolamento infatti l’unico criterio per
valutare la compatibilità di una concentrazione con il mercato comune era la creazione o il
consolidamento (tramite la concentrazione) di una posizione dominante. Rimanevano quindi
esclusi dalla valutazione considerazioni di ordine sociale o relative alla tutela dei consumatori o
relative agli eventuali effetti pro-concorrenziali che la concentrazione avrebbe potuto raggiungere.
Il regolamento 139 del 2004 pone invece criteri diversi in quanto sono considerate non compatibili
con il mercato comune quelle concentrazioni che pur non costituendo una posizione dominante
provocano ad esempio un eccessivo aumento dei prezzi o una riduzione delle possibilità di scelta
del consumatore. Possono invece risultare compatibili quelle concentrazioni che pur costituendo
una posizione dominante possono produrre effetti positivi.

PARTE II
La Politica di concorrenza rivolta agli stati membri

21) Generalità - Il Trattato pone una serie di limiti agli stati membri circa il loro potere di
regolamentare i fattori economici e sociali quando ciò potrebbe alterare il gioco della libera
concorrenza. Tali limiti sono riconducibili a tre blocchi : a) il primo riguarda i comportamenti di
imprese pubbliche o di imprese cui lo stato riconosce diritti speciali per il perseguimento di
interessi pubblici – b) il secondo riguarda la possibilità che gli stati pregiudichino con proprie norme
l’efficacia dei divieti posti nel Trattato alle imprese private – c) il terzo, che sarà esaminato nel
capitolo seguente, riguarda gli aiuti di stato.

1) La disciplina dei comportamenti sul mercato di imprese pubbliche o incaricate della


gestione di servizi pubblici.

22) La struttura dell’art. 86 – Le imprese pubbliche e le imprese incaricate della gestione di


servizi pubblici sono soggette al diritto comunitario di concorrenza ma non sono sottoposte

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all’applicazione delle norme antitrust limitatamente al soddisfacimento dell’interesse pubblico che
perseguono. La disciplina di tali imprese è contenuta all’art. 86. L’articolo 86 si compone di tre
norme. La prima vieta agli stati di emanare nei confronti di tali imprese misure contrarie alle norme
comunitarie sulla concorrenza. La seconda riguarda l’applicabilità a tali imprese delle regole sulla
concorrenza. La terza stabilisce il potere normativo della commissione che può emanare decisioni
individuali o direttive nei confronti degli stati membri.

23) L’ambito di applicazione dell’art. 86 – L’art. 86 riguarda tutti i casi in cui lo stato assicuri con
proprie misure un regime preferenziale ad imprese pubbliche o ad imprese cui è affidato un
servizio pubblico o un monopolio legale. Sono quindi escluse dall’ambito di applicazione le attività
di soggetti o enti che non hanno carattere di imprenditorialità e le misure statali di sostegno ad
imprese private che non svolgono servizi pubblici (a queste ultime si applicheranno invece le
norme sugli aiuti di stato).

24) Criterio applicativo dei limiti posti agli stati membri – Le prime due norme dell’art. 86
pongono dei limiti alla attività normativa e imprenditoriale degli stati membri in quanto stabiliscono
che essi non possono adottare per le imprese pubbliche o che svolgono servizi pubblici misure
contrarie a ciò che prevede il Trattato sulla concorrenza. Inoltre gli stati possono costituire imprese
in monopolio legale le quali sono sottoposte alle norme comunitarie sulla concorrenza nel limite in
cui ciò non renda loro impossibile il perseguimento del proprio fine. Le due norme sono però
autonome tra di loro in quanto la prima ha un contenuto più ampio perché riguarda l’attività
normativa dello stato membro mentre la seconda riguarda il comportamento delle imprese sul
mercato. Pertanto l’art 86 nel suo insieme non riguarda solo il comportamento delle imprese: può
infatti costituirne violazione ogni atto dello stato teso a sottrarre alla concorrenza un settore senza
sufficienti motivazioni di carattere generale. E’ infatti consentita la deroga alle leggi comunitarie
sulla concorrenza solo se giustificata da un interesse pubblico nel rispetto del principio di
proporzionalità tra la realizzazione dell’interesse generale e l’alterazione della concorrenza nel
mercato. Accertare tutto ciò è però frutto di una valutazione abbastanza complicata che comporta
comunque che venga lasciato agli stati membri un certo margine di discrezionalità.

25) Le due fasi di applicazione dell’art. 86 – Nell’applicazione dell’art. 86 si possono individuare


due fasi. In una prima fase le istituzioni comunitarie hanno lasciato agli stati una certa
discrezionalità nel valutare sia l’esistenza di un interesse pubblico che giustificasse una deroga
alle leggi della concorrenza sia nello stabilire la misura di tale deroga. In una seconda fase invece
la Commissione ha cominciato ad utilizzare i poteri normativi che le riconosce il terzo paragrafo
dell’art. 86 per effettuare una attività di liberalizzazione di settori protetti quali ad esempio l’energia,
il gas o le telecomunicazioni, spingendo gli stati ad una politica detta di regolazione, tesa ad aprire
tali settori alla concorrenza pur nel rispetto delle esigenze di carattere sociale- politico. Ad esempio
nel settore dell’energia elettrica è stato imposto agli stati un processo di liberalizzazione con il
divieto per gli operatori di detenere quote di mercato superiori al 50%.

II MISURE STATALI E NORMATIVA COMUNITARIA SULLA CONCORRENZA

26) La norma dedotta dagli art. 3-g), 10,, 81 e 82 del Trattato- Come abbiamo detto nel Trattato
non ci sono norme che pongano agli stati membri obblighi circa le norme sulla concorrenza
imposte alle imprese private. Tuttavia la corte ha stabilito che il Trattato obbliga gli stati membri ad
astenersi dall’emanare norme che possano rendere inefficaci i divieti posti alle imprese private dall
art. 82. Tale principio viene ricavato dalla Corte dalla combinazione dell’art. 3-g) (che indica tra gli
obiettivi della comunità un mercato comune con una concorrenza non falsata), dell’art. 10 (che
obbliga gli stati ad assicurare l’esecuzione degli obblighi posti dal Trattato) e infine dagli articoli 81
e 82. Tale combinazione di norme fa nascere infatti in capo agli stati l’obbligo di non utilizzare il
proprio potere normativo in modo da ostacolare l’efficacia del diritto comunitario antitrust.

27) Il criterio applicativo della norma – Occorre ora definire l’ambito di applicazione dell’obbligo
posto in capo agli stati dalla combinazione degli artt. 3-g,10,81,82. L’orientamento attuale della
corte ha ricondotto l’incompatibilità con le norme comunitarie della normativa statale allorchè tale

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normativa comporti un comportamento attivo della impresa privata, nel senso che la
partecipazione attiva degli operatori privati alla creazione della norma priva quest’ultima del suo
carattere pubblico. Tale orientamento della corte quindi è basato sulla valutazione se la norma
statale abbia caratteristiche tali da essere ritenuta di carattere pubblico o se sia invece la semplice
copertura normativa di un accordo privato per il soddisfacimento di interessi individuali. E’ chiaro
che un tale orientamento non può essere considerato del tutto convincente in quanto è difficile
determinare quando la norma statale è illegittima in considerazione del sempre maggiore ricorso
alla consultazione con i soggetti economici interessati nell’ambito della attività normativa. Una volta
che la misura statale è riconosciuta incompatibile con il diritto comunitario essa deve essere
disapplicata sia dalle autorità giudiziarie che dalle autorità garanti. Per quanto riguarda le sanzioni
eventualmente a carico del soggetto privato che a tali norme si sia attenuto si ritiene inapplicabile
la sanzione al privato allorchè la norma incompatibile non lasci discrezionalità al soggetto privato.
Infatti se ciò avvenisse il privato si troverebbe costretto a violare la norma nazionale se prevede
che essa possa essere in contrasto con la norma comunitaria e, qualora la sua previsione sia
errata, sarebbe costretto a sopportare la sanzione che l’ordinamento interno prevede per la
violazione della norma nazionale. Il privato sarebbe invece soggetto alla sanzione prevista
dall’ordinamento comunitario qualora la norma nazionale incompatibile non ponga un obbligo ma
lasci una certa discrezionalità sul comportamento da tenere.

CAPITOLO VII – GLI AIUTI DI STATO

1) Introduzione – L’obbligo comunitario di garantire un mercato interno non falsato dalla


concorrenza non riguarda solo le imprese ma anche gli stati membri che potrebbero provocare
distorsioni applicando misure atte a sostenere alcuni settori produttivi o alcune imprese. In seguito
a tali misure infatti le imprese vengono a trovarsi in una situazione di maggiore competitività
rispetto alle altre. E’ chiaro che la problematica degli aiuti di stato presenta una maggiore
complessità rispetto alle regole sulla concorrenza in quanto in questo caso è in gioco l’autonomia
degli stati nell’intervento dell’economia nazionale e nel fare scelte politiche ed economiche di loro
competenza e quindi occorre una politica comunitaria in grado di bilanciare l’autonomia degli stati
membri con la libera concorrenza nel mercato comune. Per tale motivo il divieto di aiuti di stato
non è assoluto ma sono previste stabilite deroghe, alcune espressamente previste altre lasciate
alla valutazione di Commissione e Consiglio.

2) Il divieto degli aiuti pubblici: campo di applicazione della disciplina (artt. 87 – 89) – L’art.
87 pone il divieto di aiuti di stato, (ossia di aiuti accordati ad imprese o produzioni), che risultano
incompatibili in quanto falsano o possono falsare la libera concorrenza sul mercato comune. .
Sono esclusi dal divieto gli aiuti considerati ex lege compatibili, gli aiuti ai soggetti che non
esercitano attività economiche, ai piccoli commercianti o artigiani. Ci sono poi settori (pesca,
agricoltura, trasporti) che godono di un regime speciale di aiuti stabilito dal Trattato. Perché una
misura adottata da uno stato membro sia qualificabile come aiuto occorrono quattro condizioni: a)
origine statale dell’aiuto (e quindi onere per il bilancio statale) b) esistenza di un vantaggio a favore
di alcune imprese o produzioni c) esistenza di un impatto sulla concorrenza – d) idoneità ad
incidere sugli scambi tra gli stati membri.

3) Nozione rilevante di aiuto di stato – Tutti gli interventi che presentano le quattro
caratteristiche sopra esposte possono qualificarsi come aiuti di stato, indipendentemente dalla loro
forma (sovvenzione, prestito a tasso agevolato, vendita di beni, locazione di immobile, riduzione
fiscale, partecipazione al capitale di imprese a condizioni che non sarebbero accettate dai privati)
purchè costituiscano un aggravio per il bilancio statale e un vantaggio gratuito per i beneficiari
consentendo ad essi di non dover sostenere costi che normalmente avrebbero sostenuto,
alterando così la concorrenza. L’aiuto deve essere imputabile allo stato e quindi ad una pubblica
amministrazione, a un ente pubblico o anche privato sottoposto a controllo pubblico: lo scopo della
norma è infatti quello di impedire agli stati di aggirare il divieto erogando finanziamenti pubblici
attraverso altri organismi.

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4) Aiuti incompatibili con il mercato comune : requisiti di incompatibilità – Ai sensi dell’art.
87 sono incompatibili con il mercato comune gli aiuti che abbiano le seguenti caratteristiche: a)
selettività – ossia siano erogati a favore di alcune imprese o alcune produzioni. Restano quindi
fuori le misure di carattere veramente generale (es. riduzione dei tassi di interesse o svalutazione
della moneta) – b) che falsano o minacciano di falsare la concorrenza creando una situazione di
vantaggio di alcune imprese rispetto alle altre. C’è da dire che già la gratuità del beneficio è indice
di distorsione della concorrenza ma può costituire aiuto anche un vantaggio non gratuito qualora la
remunerazione sia inferiore a quella di mercato. L’effetto distorsivo comunque non può essere
presunto ma deve essere dimostrato dalla Commissione – c) che incidono sugli scambi tra paesi
membri. Tale condizione è difficilmente distinguibile da quella precedente. In generale possiamo
dire che si ha pregiudizio al commercio tra stati membri quando un aiuto statale rafforza la
posizione di una impresa nei confronti delle altre negli scambi intracomunitari. Anche in questo
caso la Commissione deve valutare caso per caso l’esistenza del pregiudizio e qualora dichiari
l’esistenza del pregiudizio deve fornire dati concreti sulla natura di esso-

5) Gli aiuti compatibili o potenzialmente compatibili – Costituiscono deroghe al generale


divieto di aiuti di stato quelle misure che a determinate condizioni possono considerarsi ammissibili
anche se soggette all’obbligo di notifica alla commissione cui spetta verificarne la compatibilità con
il mercato comune. Sono di due tipi: a) deroghe de jure (o compatibili di pieno diritto). Sono : a1)
aiuti a carattere sociale concessi ai singoli consumatori (riduzione del prezzo di alcuni beni o
servizi a favore di consumatori economicamente deboli) – a2) aiuti volti a contrastare danni
derivanti da calamità naturali o eventi eccezionali (devono essere temporanei, proporzionali al
danno subito e deve esserci causalità diretta tra danno e calamità)- a3) aiuti concessi a regioni
della Repubblica federale tedesca che hanno subito svantaggi economici a seguito della divisione
(dovrebbe ritenersi superato a seguito della riunificazione della Germania). B) Aiuti potenzialmente
compatibili – Possono essere autorizzati aiuti che altrimenti sarebbero incompatibili a seguito di
una valutazione discrezionale della commissione o del consiglio che rispondono a determinate
esigenze: 1) aiuti a favorire lo sviluppo economico di regioni dove il tenore di vita sia troppo basso
o la disoccupazione troppo alta rispetto al livello medio di sviluppo della comunità europea (e non
dello stato di cui la regione fa parte) 2) aiuti per realizzare progetti di comune interesse europeo
(es autostrade tra stati membri) o per rimediare alla difficoltà dell’economia di uno stato membro
nel suo complesso – 3) aiuti per promuovere lo sviluppo economico di attività o di regioni
all’interno di stati membri che sono sfavorite rispetto alla media nazionale ( e non europea come al
punto 1) purchè non alterino gli scambi in misura contraria al comune interesse – 4) aiuti per
promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio purchè non alterino le condizioni della
concorrenza (es. aiuti alla cinematografia e al settore audiovisivo) – 5) altre categorie di aiuti
considerati compatibili su decisione del consiglio su proposta della Commissione – Si tratta di
categoria residuale ed eventuale di aiuti per far fronte a particolari esigenze che dovessero di volta
in volta presentarsi. La Commissione ha ampio potere discrezionale nel valutare la compatibilità
degli aiuti, l’esistenza delle condizioni di deroga o l’introduzione di deroghe ulteriori rispetto a
quelle previste dall’art. 87. Nella prassi la commissione ha elaborato alcune grandi categorie di
aiuti: a) aiuti a finalità regionali diretti a favorire lo sviluppo di alcune aree geografiche – b) aiuti a
finalità settoriali – riguardanti settori economici in difficoltà c) regimi generali di aiuti – diretti a
favorire gli investimenti in generale ma il loro fine deve essere valutato da un punto di vista
comunitario e non nazionale e devono essere proporzionali rispetto all’interesse comunitario
perseguito. D) aiuti a carattere orizzonale – Non hanno specificità né regionale né settoriale,
riguardano settori produttivi di interesse comunitario per perseguire fini relativi alla tutela
dell’ambiente, la ricerca e lo sviluppo – e) aiuti in salvataggio di imprese in difficoltà, normalmente
considerati incompatibili ma talora consentiti se perseguono fini apprezzabili per l’ordinamento
comunitario purchè erogati una tantum e per un periodo di tempo fissato. La Commissione può poi
prevedere esenzioni per categorie di aiuti, dichiarando automaticamente compatibili ed esonerati
dall’obbligo di notifica aiuti a favore di ricerca, ambiente e occupazione.

6) IL controllo comunitario sugli aiuti di stato – L’azione della Commissione – Le


comunicazioni – Poiché un aiuto è considerato compatibile quando non porta pregiudizio alla
concorrenza è importante effettuare una valutazione che spetta alla commissione che gode in tal

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senso d ampia discrezionalità. Infatti l’art. 89 prevede che sia il consiglio ad emanare i regolamenti
ai fini dell’applicazione dell’art. 87 ma in realtà tali regolamenti non sono stati emanati e pertanto
l’ambito di applicazione dell’art. 87 può oggi ricavarsi grazie all’interpretazione della commissione e
della corte e alle comunicazioni emanate dalla commissione. Per quanto riguarda il primo punto
sono stati elaborati alcuni criteri generali: a) l’aiuto deve essere valutato in base al suo impatto sul
mercato e non alle sue finalità nazionali – b) gli aiuti devono rispettare i seguenti criteri _ b1)
necessità – ossia essere l’unico modo per raggiungere un obiettivo della comunità – b2)
proporzionalità – l’aiuto deve essere proporzionale al problema da risolvere – b3) temporaneità –
ossia deve cessare una volta raggiunto l’obiettivo – b4) trasparenza – ossia deve essere
connsentito alla commissione di valutarne l’entità – c) deve mirare alla creazione di occupazione e
non a mettere l’impresa in condizione più favorevole rispetto alla concorrenza.
Per quanto riguarda il secondo punto come abbiamo detto, in assenza di regolamenti del consiglio,
la commissione ha emanato, previo accordo con gli stati membri, delle comunicazioni contenenti i
criteri in base ai quali gli aiuti statali saranno ritenuti compatibili. E’ abbastanza difficoltoso
ricostruire la natura giuridica di tali atti in quanto da un lato essi non dovrebbero avere natura
vincolante contenendo solo i criteri indicativi e le linee di condotta della commissione, ma è anche
vero che essendo il punto di vista dell’organo che ha competenza esclusiva in materia, le misure
statali che non vi si conformassero non avrebbero la possibilità di essere autorizzate. La Corte ha
comunque ritenuto che il fatto che tali comunicazioni siano frutto di un accordo tra la commissione
e gli stati membri non ne modifica la natura di atti vincolanti, vincolanti non solo per gli stati ma
anche per la commissione che emanandole ha comunque limitato il suo potere discrezionale. Un
problema a parte è dato dagli aiuti statali ad imprese incaricate dello svolgimento di un servizio
pubblico generale le quali ai sensi dell’art. 86 agiscono in deroga alle regole sulla concorrenza
quando esse siano d’ostacolo al raggiungimento del fine ad esse affidate. In un primo tempo la
corte aveva affermato che gli aiuti a tali imprese non sono soggette agli obblighi di cui all’art. 87
(quando l’aiuto è necessario per il perseguimento di fini pubblici) ma solo all’art 88 (obbligo di
notifica alla commissione). In un secondo tempo però la Corte ha stabilito che essi qualora siano
pari a ciò che è necessario per assolvere gli obblighi del servizio pubblico imposti dalla normativa
nazionale non devono essere considerati come aiuti e quindi sono esonerati anche dall’obbligo
della previa notifica e lo stato può continuare ad erogarli a meno di una pronuncia di incompatibilità
da parte della commissione Tale orientamento è stato confermato anche dalla Commissione

7) I poteri del consiglio – Il consiglio mantiene una limitata competenza nella materia. Secondo
l’art. 87 il consiglio ha un potere di tipo normativo in quanto può ritenere compatibili alcune
categorie di aiuti non rientranti nelle deroghe previste pronunciandosi a maggioranza qualificata su
proposta della commissione. Inoltre ai sensi dell’art. 88 il consiglio può stabilire che un aiuto è
compatibile con il mercato comune e quindi autorizzarlo, ma ciò deve accadere su richiesta di uno
stato membro, deliberando all’unanimità e quando circostanze eccezionali giustifichino tale
decisione. Questo secondo tipo di intervento rientra invece nel ruolo attribuito al consiglio di
organo coordinatore della comunità e delle politiche economiche degli stati membri. Lo stato può
richiedere l’intervento del consiglio sia durante la fase preliminare di esame sull’aiuto sia durante la
fase del contraddittorio. La pronuncia del consiglio deve avvenire entro 3 mesi

8) Procedura comunitaria di controllo – a) gli aiuti esistenti – L’esame permanente – La


procedura di controllo prevista dall’art. 88 è affidata alla commissione che è l’unica competente a
decidere sulla compatibilità di un aiuto. Il controllo riguarda due categorie di aiuti : gli aiuti esistenti
o i progetti tendenti ad istituire nuovi aiuti o a modificare quelli esistenti – AIUTI ESISTENTI – La
commissione d’intesa con gli stati membri procede all’esame permanente degli aiuti già esistenti al
fine di verificarne la compatibilità con il mercato comune. Sono considerati aiuti esistenti: a) quelli
esistenti prima dell’entrata in vigore del Trattato o dell’atto di adesione per i paesi che hanno
aderito successivamente – b) quelli posteriori che sono stati notificati alla commissione e per i quali
la commissione si è pronunciata per la compatibilità o sono stati autorizzati dal consiglio o per i
quali la commissione non si è pronunciata dopo un termine di 2 mesi (in tal caso infatti lo stato
considera l’aiuto come autorizzato e può darvi attuazione dopo aver dato preavviso alla
commissione che ha 15 giorni per reagire) c) misure adottate nel quadro di un regime generale già
approvato dalla commissione. Il regime generale è un atto con cui la commissione fissa le

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condizioni generali per adottare misure di aiuto a favore di imprese definite in linea generale
nell’atto – d) misure che al momento della loro attuazione non costituivano aiuti ma lo sono
diventate dopo l’evoluzione del mercato comune – e) aiuti concessi senza previa notifica e quindi
illegittimi da oltre 10 anni senza che la commissione sia intervenuta. Se la commissione appura
che gli aiuti esistenti non sono compatibili o sono divenuti incompatibili informa lo stato interessato
che ha 1 mese per presentare osservazioni. Se la commissione conclude comunque per
l’incompatibilità propone allo stato di modificare il regime di aiuto o di abolirlo. Se lo stato accetta
avvisa la commissione ed è tenuto a dare applicazione, se non accetta la commissione avvia il
procedimento di indagine dando il via alla fase in contraddittorio.

9) Il procedimento in contraddittorio . La Commissione deve comunicare allo stato interessato


l’avvio del procedimento di indagine formale. La comunicazione deve contenere la messa in mora
ossia l’invito a presentare le proprie osservazioni entro un mese. Se lo stato non le presenta o le
presenta incomplete la commissione può ingiungergli di fornirle entro un termine essenziale. La
commissione può emettere una decisione positiva (e quindi pronunciarsi sulla compatibilità)o
decidere per l’incompatibilità e in tal caso ordina allo stato di sopprimere o modificare l’aiuto entro
un certo termine. Se lo stato non ottempera la commissione o un altro stato interessato può adire
direttamente la Corte. La decisione produce effetti solo per il futuro.

10) GLI AIUTI NUOVI – Qualsiasi progetto di concessione di nuovi aiuti o di modifica di aiuti già
esistenti deve essere notificata dallo stato membro alla commissione prima della sua adozione
formale. L’obbligo di notifica non ha eccezioni in quanto lo stato non può valutare la compatibilità di
un aiuto, spettando la valutazione solo alla commissione. Sono esonerati dall’obbligo di notifica (in
quanto sicuramente compatibili) : a) gli aiuti adottati in esecuzione di un regime generale
autorizzato – b) gli aiuti de minimis (di entità ridotta) – c) gli aiuti rientranti nelle categorie per le
quali la commissione ha adottato regolamento di esenzione – d) gli aiuti destinati alla formazione –
e) gli aiuti a piccole o medie imprese rientranti nei massimali stabiliti. In tutti gli altri casi se lo stato
omette la notifica ciò costiituisce violazione del trattato (per la quale la commissione può ricorrere
alla Corte) e comporta l’illegittimità delle misure adottate. La corte ha però stabilito che in tal caso
la commissione, pur potendo adire la corte per la violazione del trattato, deve comunque procedere
alla verifica di compatibilità dell’aiuto illegittimo. In caso la verifica sia positiva restano comunque
invalidi gli atti eseguiti precedentemente. L’art. 87 pone a carico degli stati l’obbligo di stand still
ossia di non dare esecuzione agli aiuti prima della decisione della commissione. Gli aiuti erogati
prima infatti devono considerarsi invalidi e non saranno sanati neanche da una decisione di
compatibilità della commissione che avrebbe comunque efficacia solo ex nunc. Tale disposizione
dell’art. 87 ha effetti diretti e ciò significa che attribuisce il diritto ai concorrenti che abbiano subito
un pregiudizio di rivolgersi ai giudici nazionali per far constatare l’illegittimità degli aiuti e farli
cessare.

11) Le fasi del procedimento – L’esame preliminare – La fase preliminare riguarda solo i nuovi
aiuti e ha lo scopo di consentire alla commissione una prima valutazione sulla compatibilità di tali
aiuti. Se la notifica da parte dello stato è incompleta la commissione può richiedere informazioni
aggiuntive entro un certo termine. Se lo stato non ottempera la notifica si ritiene ritirata. La
commissione ha un tempo ragionevole per concludere la sua indagine. La durata ragionevole va
valutata nel caso concreto ma, comunque, secondo la corte, nn può eccedere i 2 mesi dalla
notifica o dal ricevimento delle informazioni supplementari. Trascorsi 2 mesi quindi lo stato può
ritenere l’aiuto autorizzato e darvi esecuzione dopo averne preavvisato la commissione (che ha 15
giorni di tempo per decidere). Tale aiuto diviene quindi esistente e sarà sottoposto al controllo
permanente della commissione. Il termine di due mesi non è applicabile in caso di aiuti illegali,
ossia adottati senza notifica, perché in tal caso il ritardo della commissione non può avere l’effetto
di trasformare un nuovo aiuto (illegale) in un aiuto esistente. Se la commissione ha notizia che uno
stato ha concesso un nuovo aiuto senza notifica o ha eseguito un aiuto prima della sua decisione
può ordinare allo stato di sospenderlo (ma deve consentire ad esso di esporre il suo punto di
vista). Se lo stato non ottempera la commissione può adire la corte per violazione del trattato
proseguendo nel contempo il suo esame sulla compatibilità. Al termine della fase preliminare la
commissione emana una decisione che può: a) constatare che la misura non costituisce aiuto b)

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ritenere che non ci sono dubbi sulla compatibilità dell’aiuto – c) avviare il procedimento formale di
indagine. La decisione è pubblicata sulla GUCE.
t
11) La fase in contraddittorio – La commissione come abbiamo visto dà il via al procedimento di
indagine formale tutte le volte che abbia dubbi sulla compatibilità in quanto è solo in tale
provvedimento che può svolgere un esame più approfondito e soprattutto può trovare garanzia la
tutela degli interessi dei terzi. Come nel caso degli aiuti esistenti la procedura in contraddittorio si
apre con la notifica allo stato membro, da parte della commissione, dell’avvio della procedura. Tale
notifica deve contenere la valutazione preliminare della commissione e i suoi dubbi sulla
compatibilità. La notifica contiene anche l’invito allo stato e agli interessati a presentare le loro
osservazioni entro un mese. La commissione ha l’obbligo di notifica solo agli stati e non ai terzi
interessati (impresa beneficiaria dell’aiuto e imprese concorrenti). L’obbligo di informare i terzi
infatti ricade sullo stato membro e comunque i terzi possono essere informati tramite la
pubblicazione sulla GUCE della decisione di avvio procedura da parte della commissione. La
commissione può subordinare l’approvazione dell’aiuto ad alcune condizioni (importo, durata, ecc).
Se lo stato erogando l’aiuto non ottempera a tali condizioni la commissione può adire la corte per
violazione del trattato ma deve comunque aprire la procedura per valutare la compatibilità
dell’aiuto concesso in violazione delle condizioni perché solo esso offre agli interessati specifiche
garanzie a tutela dei loro interessi lesi, garanzie non presenti nel ricorso alla corte per infrazione.
La procedura si chiude con la decisione della commissione che può essere: a) decisione di
accertamento negativo- La misura non costituisce aiuto – b) decisione condizionale – L’aiuto è
compatibile rispettando alcune condizioni di erogazione – c) decisione negativa – L’aiuto è
incompatibile. In questo caso la commissione ordina allo stato di non dare esecuzione all’aiuto. La
commissione ha comunque l’obbligo di motivare le sue decisioni onde consentire il controllo della
corte e la garanzia dei diritti della difesa. Lo stato ha l’obbligo di eseguire la decisione della
commissione nei termini fissati e, qualora la commissione ordini la soppressione o la modifica degli
aiuti, tale decisione può essere fatta valere dagli interessati davanti ai giudici nazionali. Per
regolamento il procedimento deve terminare entro 18 mesi dall’avvio della procedura (salvo
proroga concordata con lo stato membro). Scaduto il termine lo stato membro può richiedere alla
commissione di pronunciarsi entro due mesi. Se la commissione ritiene di non avere sufficienti
informazioni emetterà una decisione negativa. La decisione deve essere pubblicata sulla GUCE.

13) Gli aiuti illegali – Per gli aiuti attuati in modo abusivo cioè in violazione alla decisione della
commissione, come abbiamo visto, la commissione apre un procedimento formale di indagine. Per
gli aiuti illegali, invece, (ossia i nuovi aiuti attuati in violazione all’art. 88) un apposito regolamento
prevede una specifica procedura per la quale la commissione non è tenuta al rispetto dei termini
temporali (2 mesi per l’esame preliminare, 18 mesi per chiudere l’indagine). La Commissione può
chiedere informazioni allo stato interessato entro i termini stabiliti. Se lo stato non ottempera la
commissione può adottare l’ingiunzione a fornire informazioni. La commissione può adottare: a)
ingiunzione di sospensione . con cui ordina allo stato di sospendere l’erogazione dell’aiuto finchè la
commissione non abbia terminato la valutazione – b) ingiunzione al recupero . cioè ordinare allo
stato di recuperare le somme a titolo provvisorio – Ciò può avvenire b1) quando non ci sono dubbi
che la misura sia un aiuto – b2) quando c’è una situazione di emergenza – b3) quando c’è un
grave rischio di un danno irreparabile ad un concorrente. Se la commissione adotta questa
decisione è tenuta ad adottare la decisione finale entro i termini previsti per gli atti notificati. Se lo
stato non ottempera alle ingiunzioni la commissione, pur continuando le sue valutazioni, può adire
la corte per violazione del diritto comunitario. Se la procedura si conclude con un verdetto di
incompatibilità la commissione impone allo stato di recuperare l’aiuto (decisione di recupero) a
meno che ciò non sia in contrasto con un principio generale dell’ordinamento comunitario (es.
principio di affidamento).

14) Il recupero degli aiuti illegali – Gli aiuti erogati dagli stati membri in modo illegale devono
essere restituiti da parte delle imprese beneficiarie. Lo scopo di tale regola è quello di ripristinare la
situazione vigente prima dell’aiuto e quindi di eliminare il vantaggio di cui il beneficiario ha goduto
nei confronti dei concorrenti con conseguente distorsione della libera concorrenza. Il recente
orientamento della corte però esonera dall’obbligo della restituzione gli aiuti illegittimi in quanto

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concessi senza previa notifica poi ritenuti compatibili a seguito della valutazione. Tale
orientamento si basa sul fatto che non è corretto vietare aiuti compatibili per irregolarità formali in
quanto la ratio della norma che vieta gli aiuti di stato è proprio la loro incompatibilità. Nel caso di
aiuti esistenti di cui la corte ha deciso l’incompatibilità l’eventuale recupero riguarda ovviamente
solo le somme erogate dopo la decisione negativa della commissione. Mancando una procedura
comunitaria la restituzione deve avvenire secondo le procedure previste dal diritto interno e
l’importo dovrà essere valutato dalle autorità nazionali mentre ogni controversia è di competenza
dei giudici nazionali, cui spetta garantire nell’ordinamento interno l’applicazione del diritto
comunitario. La decisione con cui la commissione ordina il recupero allo stato membro è definitiva,
vincolante e deve essere eseguita nel termine indicato,. Lo stato non può addurre, per sottrarsi al
recupero, motivazioni legate a difficoltà di ordine giuridico (es. scadenza dei termini per la
ripetizione previsti dal diritto interno), economiche (rischio di fallimento per l’impresa beneficiaria) o
pratiche. L’unico modo per lo stato di sottrarsi al recupero è dimostrarne l’impossibilità per difficoltà
impreviste o imprevedibili. Dal punto di vista dell’impresa beneficiaria sorge la questione se possa
trovare applicazione il principio di affidamento che, come abbiamo visto, è uno dei principi generali
dell’ordinamento comunitario. A tale proposito però la corte ha adottato un atteggiamento rigoroso
sostenendo che le imprese sono tenute ad accertare se nell’erogazione degli aiuti siano state
rispettate le procedure comunitarie, che le relative comunicazioni sono conoscibili in quanto
pubblicate sulla GUCE e che comunque la commissione ha emanato una comunicazione in cui
avverte i potenziali beneficiari del carattere precario degli aiuti concessi illegalmente. I beneficiari
possono quindi invocare solo circostanze eccezionali quali il ritardo della commissione nel
concludere la procedura di oltre 26 mesi, cosa che può aver ingenerato nel beneficiario un
legittimo affidamento sulla regolarità dell’aiuto. L’ordine di recupero riguarda i capitali più gli
interessi calcolati ad un tasso stabilito dalla commissione. La decisione di recupero della
commissione ha efficacia diretta e quindi pur rivolta allo stato è opponibile direttamente al
beneficiario che può far valere il suo punto di vista durante la procedura e impugnare la decisione
davanti alla corte.

15) Le competenze dei giudici nazionali – L’attuazione del sistema di controllo degli aiuti di stato
(ex. Art. 88) spetta sia alla commissione che ai giudici nazionali. I giudici nazionali non possono
valutare la compatibilità di un aiuto, né applicare le deroghe previste dall’art. 87 in quanto queste
sono competenze esclusive della commissione. I giudici nazionali però possono procedere
all’applicazione dell’art. 88 in virtù della sua efficacia diretta e quindi possono interpretare la
nozione di aiuto e quindi valutare se una misura sia un aiuto e in caso positivo, se sia nuovo o
esistente. Nel concreto un giudice chiamato a pronunciarsi sulla illegittimità dell’erogazione di un
aiuto non notificato può dichiararlo illegittimo e quindi porre misure cautelari (come la sospensione
dell’aiuto) ma anche disporre la restituzione degli aiuti già erogati, cosa che come abbiamo visto
non può fare la commissione prima di aver adottato la decisione finale di incompatibilità- Inoltre il
giudice nazionale può prescrivere il risarcimento dei danni causati alle parti dalla p.a. Se infatti è
affermato il principio della responsabilità della p.a. per violazione del diritto comunitario è anche
affermato il diritto dei privati a ottenere il risarcimento dei loro diritti lesi dalla violazione del diritto
comunitario da parte della p.a.. Poiché le norme comunitarie pongono obblighi specifici circa la
notifica solo agli stati le imprese beneficiarie che omettono di verificare la notifica non possono
essere considerate civilmente responsabili sulla base del diritto comunitario ma possono essere
applicate le norme nazionali sulla responsabilità extracontrattuale. Nei casi dubbi il giudice può
chiedere chiarimenti alla commissione o proporre alla corte un ricorso pregiudiziale di
interpretazione.

16) I ricorsi giurisdizionali comunitari – Le decisioni della commissione, qualora producano


effetti giuridici, possono essere impugnate davanti alla corte o al Tribunale di I grado che
comunque non possono sindacare la valutazione della commissione sulla compatibilità o meno di
un aiuto, ma possono solo accertare che la decisione non sia viziata da procedura irregolare,
errore manifesto o insufficiente motivazione. Gli stati membri possono presentare ricorso di
annullamento delle decisioni della commissione davanti alla corte entro 2 mesi dalla pubblicazione
o dalla notifica al destinatario. Le persone fisiche o giuridiche invece possono, negli stessi termini,
presentare ricorso al tribunale di I grado contro le decisioni che, pur rivolte agli stati, li coinvolgano

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direttamente, Le persone fisiche/giuridiche devono dimostrare il loro diretto interesse
all’impugnazione (impresa beneficiaria o mancata beneficiaria, imprese concorrenti) e devono aver
partecipato alla procedura di cui all’art. 88( presentando la denuncia o presentando osservazioni
esaminate durante il procedimento) e devono inoltre dimostrare che la loro posizione
concorrenziale sul mercato sia stata danneggiata dalla decisione. Davanti al tribunale di I grado
possono ricorrere gli enti autonomi territoriali qualora le decisioni della commissione, pur rivolte
agli stati, li riguardino direttamente.
.Può essere impugnata anche la decisione della commissione di non aprire il procedimento
formale in quanto atto avente carattere definitivo e quindi produttivo di effetti giuridici. Anche qui
l’impugnazione può avvenire da parte dello stato membro o dei soggetti interessati, Può inoltre
essere presentato un ricorso in carenza (visto l’obbligo della commissione di aprire una procedura
qualora nutra dubbi sulla compatibilità) quando la commissione non avvii la procedura in
contraddittorio. Ciò può avvenire quando alla commissione sia stato chiesto espressamente di
agire e non solo perché la commissione non abbia aperto la procedura e qualora si possa
dimostrare che la commissione nutriva dubbii sulla compatibilità- Inoltre le imprese concorrenti che
si ritengano danneggiate dall’assenza di obiezione ad aiuti possono presentare ricorso alla corte
per il risarcimento dei danni ma appare in tal caso improbabile un esito favorevole visto che gli
interessati dovrebbero dimostrare il nesso causale tra la decisione della commissione e il danno
lamentato.

CAP. VIII POLITICA COMMERCIALE COMUNE

1) La politiica commerciale comune è una delle fondamentali azioni poste in essere dalla
comunità ed e fondata, secondo l’art. 133 Trattato Ce, su principi uniformi sulla conclusione di
accordi tariffari e commerciali, sulla politica di esportazione, sull’adozione di misure di difesa
commerciale da adottare in casi di dumping e sovvenzione. La politica commerciale comune quindi
è particolarmente legata all’unione doganale e ha consentito alla comunità di operare come un
unico blocco commerciale (il più importante al mondo) in quanto, salvo poche eccezioni, la
comunità è riuscita ad operare all’estero come un unico soggetto giuridico. I trattati di Maastricht,
Amsterdam e Nizza hanno introdotto in materia alcune modifiche importanti al Trattato. Il trattato di
Maastricht ha previsto che, qualora in base alle disposizioni del Trattato sulla politica estera e
sicurezza comune, la comunità debba intraprendere una azione comune per interrompere le
relazioni economiche con un più stati terzi, le misure urgenti vengono prese dal Consiglio a
maggioranza qualificata e su proposta della commissione. Il trattato di Amsterdam prevede che in
materia di politica commerciale il Consiglio può adottare misure per rafforzare la cooperazione
doganale tra stati membri e tra questi e la Commissione. Il trattato di Nizza infine ha portato
modifiche che da un lato sembrano aumentare le competenze della comunità dall’altro rafforzano
le posizioni degli stati membri Infatti da un lato vengono incluse nella politica commerciale comune
alcuni settori prima esclusi (come il commercio dei servizi e il commercio della proprietà
intellettuale) dall’altro si afferma la facoltà degli stati membri di concludere accordi con paesi terzi o
con organizzazioni internazionali purchè conformi al diritto comunitario e ai relativi accordi
internazionali in materia.

2) Specifici strumenti della politica commerciale comune – La politica commerciale comune è


definita nei suoi contenuti dall’art. 133 Trattato. Non è definito con precisione cosa debba
intendersi per politica commerciale comune e pertanto è necessario esporre quale sono i suoi
strumenti di realizzazione:

a) Politica Tariffaria – Dal 1968 la comunità ha introdotto una tariffa doganale comune applicata
da tutti gli stati membri ai prodotti provenienti da paesi terzi. I prodotti provenienti da stati terzi
vengono sdoganati una sola volta da uno degli stati membri e da quel momento sono considerati in
libera pratica ossia liberi di circolare nel territorio comunitario. La Tariffa Doganala Comune viene
fissata annualmente (per ogni voce della Nomenclatura Combinata) da un regolamento del
Consiglio ed è amministrata dalla Commissione che ne cura anche la pubblicazione sulla GUCE.
Sono previsti trattamenti particolari per i paesi in via di sviluppo per i prodotti dei quali la comunità
applica tariffe preferenziali.

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b) Regimi di importazione/esportazione – Salvo i casi in cui la Comunità si sia vincolata con
accordi internazionali la politica di importazione ed esportazione viene decisa in comune dagli stati
membri e viene attuata tramite regolamenti del Consiglio. Per le importazioni la regola generale è
quella della libertà delle importazioni (ad esclusione di un certo numero di prodotti elencati in un
allegato del regolamento) anche se rimane possibile l’applicazione temporanea di misure di
salvaguardia qualora ne ricorrano i presupposti. Per i paesi a commercio di stato la situazione è
ribaltata in quanto la libertà delle importazioni è limitata ai prodotti contenuti nell’allegato del
regolamento.. Anche per le esportazioni la regola generale è per la libertà delle esportazioni
(tranne che per i prodotti elencati in un allegato del regolamento) salvo la possibilità che esse
vengano limitate in caso di scarsità dei prodotti.

c) Le misure di difesa commerciale – La dottrina distingue le misure di difesa commerciale in


due tipi: il primo tipo riguarda quelle misure che vanno a rimediare al pregiudizio subito dai
produttori comunitari a seguito delle importazioni da paesi terzi. Il secondo riguarda quelle misure
volte a neutralizzare gli effetti prodotti da pratiche illecite. Nel primo caso si tratta di misure di
salvaguardia che la commissione può adottare solo dopo aver verificato che ne esistono i
presupposti in quanto, in caso contrario, c’è il rischio di incorrere in responsabilità internazionali.
Nel secondo caso si tratta di misure che tendono a reagire a pratiche definite illecite dal GATT e
precisamente le misure antidumping e le misure antisovvenzione.

d) Misure antidumping – Un apposito regolamento del consiglio (che ricalca ciò che è contenuto
nel GATT) stabilisce che la comunità può imporre un dazio antidumping su qualunque prodotto
oggetto di dumping la cui circolazione in libera pratica può causare un pregiudizio alla comunità.
Un prodotto è oggetto di dumping qualora il suo prezzo all’esportazione nella comunità è inferiore
al prezzo normale applicato per le operazioni commerciali nel paese esportatore. Si tratta quindi di
una reazione alla pratica di alcune imprese di paesi terzi di vendere i propri prodotti ad un prezzo
inferiore a quello normale. Il regolamento prevede anche che una volta accertata la misura
dumping occorra valutare se l’interesse della comunità nel suo complesso porti ad assumere una
valutazione favorevole all’adozione della misura antidumping.

e) Misure antisovvenzione – Un apposito regolamento (che recepisce quanto contenuto nel


GATT) stabilisce norme per proteggere le imprese comunitarie contro le importazioni
sovvenzionate provenienti da paesi terzi. Contrariamente a quanto visto sopra in questo caso la
condotta illecita non è imputabile alle imprese ma direttamente allo stato terzo il quale dispone
vantaggi a favore delle proprie imprese in modo tale che queste possono praticare prezzi ridotti
danneggiando le imprese comunitarie concorrenti. In tal caso (e al di fuori dei casi in cui la
sovvenzione è ammessa) la comunità, dopo aver valutato il caso, può adottare un dazio
compensativo che appunto compensa la sovvenzione concessa ai prodotti di stati terzi la cui
circolazione in libera pratica nel territorio comunitario produca un grave pregiudizio alle industrie
comunitarie del settore. Le procedure previste dal regolamento antisovvenzione sono simili a
quelle previste dal regolamento antidumping.

3) La natura esclusiva della competenza comunitaria nella politica commerciale comune e


la giurisprudenza della corte – Sin dai primi anni di vita la comunità europea ha utilizzato i suoi
poteri per negoziare e concludere trattati internazionali nelle materie di propria competenza,
attirandosi spesso le critiche degli stati membri che non erano disposti ad abbandonare i propri
poteri in ambito internazionale. Ciò è stato possibile anche grazie all’interpretazione iniziale della
corte che ha mirato ad accrescere le competenze esterne della comunità escludendo dove
possibile il potere concorrente degli stati membri. In una sentenza (AETS) la corte aveva anche
stabilito il principio del parallelismo delle competenze per cui anche nelle materie non
espressamente attribuite se la comunità adotta norme comuni gli stati membri non hanno più il
potere di contrarre con stati terzi obbligazioni che incidano su tali norme. In seguito la corte ha
attenuato tale interpretazione stabilendo dei limiti all’esclusività della competenza della comunità in
tema di politica commerciale comune (ad. es.nel caso di merci, come il petrolio, di vitale
importanza per le economie nazionali o in presenza nell’accordo di oneri gravanti sui bilanci di stati
membri). A seguito di ciò è del Trattato di Nizza si può quindi oggi parlare di due differenti regimi

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per gli accordi di politica commerciale comune: l’uno per il quale vige la regola dell’esclusività,
l’altro per il quale si ha una competenza concorrente e ripartita con gli stati membri.

4) Accordi puramente comunitari e prassi degli accordi misti- Per accordi puramente
comunitari si intendono gli accordi che rientrano nella competenza esclusiva della comunità e che
quindi vincolano gli stati membri anche se essi non vi prendono parte. Tuttavia il fatto che gli stati
membri non sono favorevoli ad abbandonare i loro poteri sovrani ha moltiplicato nella prassi i
cosiddetti accordi misti ossia accordi negoziati e ratificati dalla comunità rafforzati dalla firma dei
rappresentanti degli stati membri. Tali accordi sono di natura diversa (accordi di associazione,
accordi nel contesto di organizzazioni internazionali o di cooperazione internazionale) ma hanno in
comune il fatto che non sono attribuibili alla competenza esclusiva della comunità e che il
perfezionamento dell’accordo implica la ratifica da parte degli stati membri,. La dottrina comunque
attribuisce a tali accordi natura bilaterale in quanto anche se vi partecipa una pluralità di parti la
posizione contrattuale della comunità e degli stati membri è ritenuta comunque unitaria. La Corte
ha poi chiarito che ogni volta che gli accordi prevedano oneri finanziari a carico di stati membri si
debba escludere la competenza esclusiva della comunità e ha negato che accordi recenti come il
GATS (in materia di servizi) e il TRIP (in materia di proprietà intellettuale) potessero rientrare nella
competenza esclusiva della comunità. La corte tuttavia ha ribadito la necessità di cooperazione tra
comunità e stati membri al fine di garantire comunque l’unitarietà della posizione contrattuale
anche se è evidente che la negoziazione e ratifica congiunta a parte di comunità e stati membri
attenua l’immagine unitaria della comunità all’esterno. Pertanto a seguito del Trattato di
Amsterdam si è introdotto un nuovo paragrafo all'art 135 per il quale è attribuito al consiglio
all’unanimità su proposta della commissione e previo parere del parlamento il potere di estendere
la procedura degli accordi puramente comunitari alle materie rientranti negli accordi GATS e
TRIPS.

5) Gli accordi commerciali : in particolare il GATT e la sua tradizionale inidoneità a


produrre effetti diretti – Come abbiamo detto nell’ambito della politica commerciale comune la
comunità può concludere accordi tariffari e commerciali. Nell’arco di 40 anni la comunità ha posto
in essere una serie di accordi con paesi terzi (sia europei che extraeuropei) che hanno istituito
unioni doganali o zone di libero scambio. Scopo degli accordi con paesi extraeuropei è in genere
quello di promuovere lo sviluppo economico di tali paesi e di instaurare relazioni economiche tra
questi e la comunità- Scopo degli accordi con i paesi europei (ad. es. paesi dell’Europa centro
orientale) è quello di creare le condizioni materiali e giuridiche per una loro futura adesione alla
comunità. Il principale accordo internazionale commerciale rilevante per la comunità e L’accordo
Generale sulle Tariffe e sul Commercio (GATT) entrato in vigore nel 1948 e inglobato nel 1995
nell’Accordo Sull’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC o WTO). Il GATT è stato il più
efficace strumento di liberalizzazione del commercio mondiale prevedendo per le sole merci la
riduzione dei diritti doganali e il divieto di restrizioni quantitative tra stati contraenti. Sebbene le
parti contraenti del GATT siano stati i singoli stati membri in quanto l’accordo è precedente al
Trattato di Roma la comunità si è gradatamente sostituita agli stati membri anche se non si è
pervenuti ad una concreta vincolatività delle norme GATT a carico della comunità. Infatti la Corte
ha affermato che la validità degli atti emessi dalla comunità può essere inficiata da una norma di
diritto internazionale solo se tale norma è vincolante per la comunità attribuendo ai cittadini Ue il
diritto di esigerne giurisdizionalmente l’osservanza. Pertanto la corte ammetterebbe il controllo di
legittimità sugli atti comunitari alla luce del GATT solo se esso contenesse norme direttamente
efficaci, cosa che deve negarsi in quanto esse sono caratterizzate da ampia flessibilità e possibilità
di deroga. La corte pertanto non ha ancora affermato l’invalidità di un atto comunitario sulla base di
una norma del GATT.

6) Gli accordi di associazione e la loro idoneità a produrre effetti diretti – Il Trattato Cee
prevedeva sin dall’inizio che la comunità potesse concludere con stati terzi o organizzazioni
internazionali accordi di associazione caratterizzati da diritti e obblighi reciproci e azioni in comune.
La dottrina più recente ha sottolineato la somiglianza di questi accordi con quelli commerciali
sottolineando però che essi implicano una collaborazione più intensa di quelli puramente
commerciali sia perché prevedono l’istituzione di organi comuni, sia perché mirano a raggiungere

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una sorta di integrazione con l’economia comunitaria. Così in riferimento agli accordi di
associazione con Grecia e Turchia la corte ha precisato che tali accordi possono avere effetti
diretti simili a quelli delle norme comunitarie nel territorio della comunità.

7) Le sanzioni economiche – Il tema delle sanzioni economiche (intese con riferimento


all’interruzione delle relazioni commerciali) si è posto in quanto l’art. 133 del Trattato si riferisce a
provvedimenti restrittivi del commercio internazionale (di competenza esclusiva della comunità)
come difesa di interessi puramente commerciali mentre tale tipo di sanzione spesso ha invece un
connotato politico. Ciò si era manifestato con la prima sanzione comunitaria contro i prodotti
originari dell’Argentina a seguito della presa di possesso da parte di tale paese delle Falkland con
il conseguente conflitto con il Regno Unito. In quella circostanza si pervenne infatti ad un
regolamento che poneva il duplice livello (cooperazione politica e politica commerciale comune)
che sarebbe stato poi sancito con la modifica al Trattato Ce da parte del Trattato di Maastricht
( art. 301 “ quando disposizioni del Trattato relative a politica estera e sicurezza comune
prevedono una azione della comunità per interrompere o ridurre le relazioni economiche con paesi
terzi, il consiglio (a maggioranza qualificata e su proposta della commissione) prende le misure
urgenti necessarie). La prassi successiva si è poi conformata a questo quadro normativo.

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