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LOUIS BOUYER

EUCARISTIA
Teologia e spiritualità
della Preghiera eucaristica

editrice elle di ci
Collana LITURGIA E VITA/3
La collana
LITURGIA E VITA
presenta opere di singoli Autori
i quali con la loro riflessione contribuiscono
a rendere sempre più operante e incisivo
quel rapporto tra mistero di Cristo e vita cristiana
attuato in forma privilegiata dalla celebrazione liturgica.
I volumi,
pur affrontando temi specifici o problematiche più vaste,
costituiscono un indispensabile punto di confronto
sia per l’insegnamento
che per lo studio e la riflessione personale.

1. S. R inaudo
La Liturgia, epifania dello Spirito.
Iniziazione all’esperienza dello Spirito Santo
nella celebrazione del mistero cristiano.

2. L.-M. Ch auvet
Linguaggio e Simbolo.
Saggio sui sacramenti.

3. L. B ouyer
Eucaristia.
Teologia e spiritualità della Preghiera eucaristica.

4. A . A dam

L’anno liturgico, celebrazione del mistero di Cristo.


Storia ‫ ־‬Teologia - Pastorale.
LOUIS BOUYER

EUCARISTIA
Teologia e spiritualità
della Preghiera eucaristica

Seconda edizione riveduta

EDITRICE ELLE DI CI
10096 LEUMANN (TORINO)
Titolo originale: Eucharistie. Théologìe et spiritualité de la prière
eucharistique
© Desclée& Cie, Tournai 1966; 21968.
Traduzione di L uigi M elotti
A cura del Centro Catechistico Salesiano di Leumann (Torino).

2a edizione
l a ristampa

Proprietà riservata alla Elle Di Ci 1992 ‫־‬


ISBN 88-0111974-7‫־‬
Premessa alla seconda edizione italiana

Venti anni or sono il Concilio Vaticano II approvava il pri-


mo documento: la Costituzione Sacrosanctum Concilium. Con
essa i Padri conciliari ponevano le basi per una riforma genera-
le della liturgia perché la lex orandi tornasse ad essere davvero
!,espressione del popolo di Dio, e razione liturgica come il cui-
mine e la fonte della vita della Chiesa.
Il lavoro che è scaturito da quei principi si è tradotto nella
elaborazione dei nuovi libri liturgici: il Pontificale, il Rituale
e soprattutto il Messale.
Ristrutturati i riti e rielaborati i testi, non si è però esaurito
Pimpegno di studio, di riflessione e di approfondimento di quel-
le forme che costituiscono - insieme alla liturgia della Parola -
là parte essenziale di ogni Eucaristia: le Preghiere eucaristiche.
Definite un cantico nuovo che risuona nella vita delle singole
comunità ecclesiali, le anafore racchiudono un patrimonio di
ricchezza di ordine biblico, teologico, liturgico, catechetico, spi-
rituale,... che non esaurisce mai la ricerca e la contemplazione
della Chiesa di ogni tempo e luogo che celebra i divini misteri.
È la inesauribilità dello stesso mistero eucaristico che riman-
da continuamente alla sua origine, al momento in cui il Signore
Gesù prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede...; e altret-
tanto fece con la coppa del vino... Così, nel contesto del grande
rendimento di grazie proprio della Cena pasquale ebraica, il
Signore Gesù anticipa nel segno del convito il sacrificio che
avrebbe portato a compimento sulla Croce, e affida alla Chiesa
il comando di perpetuare il memoriale della sua morte e ri-
surrezione.
In questo contesto si inserisce l'opera del B o u y e r : quale pre-
zioso strumento per approfondire un aspetto particolare del
paschale mysterium, essa ha lo scopo di recuperare !,origine, la
evoluzione, la struttura della beràka-euloghia da cui ha preso
forma la preghiera eucaristica cristiana.

5
Il contributo del Bouyer, d’altra parte, si colloca nel mosaico
di altre opere, provenienti dal mondo della Riforma, che negli
stessi anni dell’immediato postconcilio o durante la sua celebra-
zione hanno contribuito ad approfondire ulteriori aspetti dell’uni‫־‬
co grande mistero. Intendiamo riferirci alla dimensione anam-
netica illustrata da M. T h u r i an (L ’eucharistie. Mémorial du
Seigneur, Neuchàtel 1963), e a quella della presenza efficace
evidenziata dagli studi di F.-J. L eenhardt (Ceci est mon corps,
Neuchàtel 1955), di J. de W a t t e v il l e (Le sacrifice, Neuchà-
tei 1966) e di J.-J. von A l l m e n (Essai sur le repas du Seigneur,
Neuchàtel 1966).
* * ❖

L’opera del Bouyer, pur apparsa in prima edizione nel 1966,


conserva la sua freschezza e attualità; per questo la riproponia-
mo in questa nuova edizione italiana sicuri di rispondere ad una
esigenza da più parti sentita ed espressa.
In particolare segnaliamo che la traduzione è stata condotta
sulla seconda edizione francese; gli adattamenti riguardano so-
lo le note: l’aggiornamento è separato dal testo originale per
mezzo di un trattino; un asterisco al termine della nota indica
che questa è nuova. Le note infine sono state alleggerite con
l’uso di sigle e abbreviazioni.
L’ultimo capitolo che nel testo appare quasi come un’Ap-
pendice, è quello che maggiormente risente dell’usura del tempo.
Ma l’attenzione del lettore sarà tutta protesa verso ciò che pre-
cede, in un entusiasmante cammino di riscoperta di quella che
è stata l’origine della Preghiera eucaristica e il suo sviluppo nelle
tradizioni delle varie Chiese che nelle singole formulazioni di
questa Preghiera hanno riespresso in modo vero e originale la
propria lex credendi.
M. S odi - F. D e l l ’O ro

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Introduzione

Questo libro è il frutto di tutta un'esistenza dedicata alle ri-


cerche, e per felice coincidenza viene alle stampe in un momen-
to in cui è più che mai attuale la conoscenza approfondita della
preghiera eucaristica tradizionale e, in particolare, del Canone
della Messa romana. È da molto tempo, infatti, che non si era
più visto, nella Chiesa cattolica, un desiderio così vivo e così
diffuso di ritrovare una « eucaristia » pienamente viva e vera.
Ma non si era nemmeno visto un pullulare di teorie talmente
fantasiose, pur con pretesa di solide basi, che, se passassero
nella pratica, ci farebbero perdere quasi tutto quello che conser-
viamo ancora della autentica tradizione. Ci auguriamo che que-
sto volume contribuisca, da parte sua, a favorire questo rinno-
vamento e, nello stesso tempo, a scoraggiare ?anarchia ignoram
te e pretenziosa che ne potrebbe essere la rovina.
Sentiamo il dovere di una grande riconoscenza per tutti co-
loro che ci hanno aiutato in questo lavoro. Tra i ricercatori del-
le ultime generazioni, siamo particolarmente debitori a E. Bi-
shop e ad A. Baumstark. Nessun maestro contemporaneo ci
ha tanto illuminato e stimolato come lo studioso Dom Bernard
Botte, tanto onesto e sagace, al quale abbiamo avuto l'onore di
essere associati in qualità di uno dei suoi più modesti collabora-
tori della prima ora per la fondazione dell'Istituto di studi li-
turgici di Parigi. Il miglior omaggio che noi possiamo rendere
alla sua scienza critica è di dire che anche quando ci siamo sco-
stati da lui su alcuni punti secondari, non ci è stato possibile
farlo se non sforzandoci di applicare i suoi stessi principi nello
spirito che egli stesso ci aveva inculcato.
Ci sia anche permesso di esprimere qui la nostra gratitudine
per tutti quelli che ci hanno facilitato le ricerche, in particolare
i Padri Benedettini di Downside Abbey che hanno messo a no-
stra disposizione le risorse della biblioteca del defunto E. Bishop;

7
il professore Cyrille Vogel che ha fatto altrettanto per le hi-
blioteche deiruniversità di Strasburgo; monsignor Sauget per la
biblioteca vaticana; il canonico A. Gabriel la cui cordiale ospi-
talità, che uguaglia la sua impeccabile erudizione, ha fatto del
Mediaeval Institute, nella Library of Notre Dame University,
quasi un settimo cielo degli eruditi e dei ricercatori;/e i nume-
rosi amici israeliti che hanno dimostrato tanta simpatia per que-
sti nostri studi, specialmente il rabbino Marc H. Tanenbaum,
di New York, per i suoi calorosi incoraggiamenti; e il cantore
Brown, di Temple Bethel, South-Bend, Indiana, il quale, non
contento di imprestarci generosamente i volumi più preziosi
della sua biblioteca personale, ci ha anche aiutato con la sua
profonda conoscenza del rituale sinagogale. Se questo libro po-
tesse contribuire, anche in piccola parte, alLunione tra ebrei e
cristiani, sarebbe la realizzazione di uno dei nostri più cari de-
sideri.
Un ultimo tributo di gratitudine da parte nostra deve esse-
re rivolto al nostro giovane confratello Jean Lesaulnier, che si
è dimostrato di un’instancabile dedizione per procurarci o fo-
tocopiarci i documenti di cui avevamo bisogno.
Festa del Corpus Domini 1966
Abbaye de la Lucerne

Avevamo quasi terminato questo lavoro quando abbiamo po-


tuto leggere i lavori già pubblicati del padre Ligier. Un colloquio
con lui, quando stavamo per dare alle stampe questo lavoro, ci ha
permesso di costatare la stretta convergenza dei nostri punti di vi-
sta sulla relazione tra !,eucaristia cristiana e i formulari ebraici.
Dato che solo una parte delle sue ricerche è stata pubblicata, ci
interessa precisare che esse non dipendono in nulla dalle nostre.
Dopo la prima edizione di questo lavoro, è stato compiuto un
rinnovamento delF« eucaristia » romana ad opera del « Consilium »
per la riforma liturgica. Abbiamo quindi aggiunto un nuovo capi-
tolo che analizza la riforma del Canone romano e le tre nuove pre-
ghiere eucaristiche che vi sono state aggiunte, con Tintento di dare
rilievo a questa riforma di capitale importanza.

8
Abbreviazioni

Le abbreviazioni dei libri della S. Scrittura sono quelle adotta-


te nella edizione a cura della Conferenza Episcopale Italiana: LA
SACRA BIBBIA, Roma 1971.

ALW Archiv fiir Liturgiewissenschaft, Regensburg 1, 1950 -.


BVC Bible et vie chrétienne, Paris 1, 1953 ‫ ־‬.
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finora, Wien 1, 1866 ‫־־‬.
CSEL Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum, 90 voli.
DACL Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie,
edd. F. Cabrol ‫ ־‬H. Leclerq ‫ ־‬H. M arrou, 30 voli.,
Paris 1907-1953.
DH D. H edegard, Seder R. Amram Gà’òn. Part I: Hebrew
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EThL Ephemerides Theologicae Lovanienses, Louvain 1,
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9
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10
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PG Patrologia Graeca, ed. J. P. M igne, 168 voli., Paris
1857 - 1868.
PL Patrologia Latina, ed. J. P. M igne, 217 voli.; 4 voli, di
Indices, Paris 1878 - 1890; 5 voli, di Supplementum a
cura di A. H am m an , Paris 1958 - 1974.
PO Patrologia Orientalis, edd. R. G raffin - F. N a u , 37
voli, finora, Paris 1907
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RHPhR Revue d'histoire et de philosophie religieuses, Stras-
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RThAM Recherches de théologie ancienne et médiévale, Lou-
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Ve L. C. M ohlberg - L. E izenhofer ‫ ־‬P. S iffrin (ed.),
Sacramentarium Veronense {— Rerum Ecclesiasticarum
documenta, Series maior, fontes 1), Herder, Roma
31978.
ZAW Zeitschrift fiir die alttestamentliche Wissenschaft und
die Kunde des nachbiblischen Judentums, Berlin 1,
1881 -.

il
Capitolo I

Teologie sull’eucaristia
e teologia dell’eucaristia

Alla scoperta dei temi comuni e fondamentali


della « eucaristia » cristiana

Questo libro è stato scritto per invitare i lettori ad un viag-


gio di scoperta, Per conto nostro, un simile periplo è uno dei
più appassionanti che si possano proporre a coloro che hanno il
presentimento delle ricchezze poco 0 nulla sfruttate della tradì-
zione cristiana. È un viaggio che noi pure abbiamo intrapreso
trentanni fa, e, per quanto Pabbiamo ripreso tante volte nel
corso degli anni, non ci illudiamo certo di aver portato alla
luce tutti i tesori intravisti fin dalla prima escursione.
Si tratta, infatti, di tentare di seguire passo passo la pro-
gressiva fioritura dell’eucaristia cristiana, Per « eucaristia »,
intendiamo qui esattamente quello che, alPorigine, viene indi-
cato dalla parola: la celebrazione di Dio rivelato e comunicato,
il mistero di Cristo, in una preghiera di tipo speciale, in cui la
preghiera stessa unisce la proclamazione dei mirabilia Dei alla
loro ri-presentazione in un'azione sacra che costituisce il cuore
di tutta la ritualità cristiana.
Si dirà che molti prima di noi hanno intrapreso una simile
esplorazione. Tuttavia, il nostro intento non è esattamente lo
stesso. Prima di tutto, non ci occuperemo delPinsieme della li-
turgia eucaristica, ma, ancora una volta, di ciò che ne costituì-
see il cuore: quella che in Oriente viene chiamata l’anafora e
che unisce in modo inseparabile gli elementi che corrispondo-
no al nostro prefazio e al nostro Canone romano. Soprattutto,
poi, la descrizione di questa eucaristia, per quanto attenta la si
possa auspicare, non è il nostro oggetto ultimo. Quello che ci
interessa è cercare di comprendere quanto vi è di comune, di
fondamentale, pur nella varietà delle forme; come pure il signi-
ficato dello sviluppo, più o meno felice, più o meno riuscito,

13
di questo nucleo, o meglio, di questa cellula-madre del culto
cristiano.
Ci si perdonerà, speriamo, di rievocare qui l’emozione, non
ancora diminuita, che abbiamo provato il primo giorno in cui
ci è stato possibile dare una scorsa, in un vecchio esemplare
di Hammond (1), a questi testi decisivi. Alla meraviglia susci‫־‬
tata dalla scoperta dei più luminosi gioielli della tradizione li-
turgica si univa il senso della splendida unità di quello che brìi-
lava sotto tante sfaccettature. L’eucaristia ci si presentava come
una realtà traboccante di vita, ma una vita d’incomparabile in-
teriorità, profondità e unità, anche se riusciva a manifestarsi so-
lo in molteplici espressioni, in un’armonia, direi, o meglio an-
cora, in una sinfonia di temi concertanti che, a poco a poco,
vengono orchestrati. Direi che vedevamo con i nostri occhi la
veste cangiante, l’ornamento sacro in cui tutto l’universo si ri-
flette intorno alla Chiesa e al suo Sposo celeste. In nessun poe-
ma, in nessuna opera d’arte e, a maggior ragione, in nessun si-
sterna di pensiero astratto ci pareva così bene espresso il
νους Χρίστου, che è nello stesso tempo la mens Ecclesiae...
Non c’importa di essere giudicati temerari se aggiungiamo
che un’esperienza del genere è sicuramente necessaria per de-
dicarsi agli studi liturgici, al movimento liturgico, che è ben
diverso dallo sprofondarsi in un mondo divertente per antiqua-
ri, in un’esperienza di esteti, in una discutibile <<mistica delle
masse » o in una noiosa e puerile pedagogia delle folle. Ecco
un test che permette, con certezza, di distinguere tra i liturgisti
del passato e del presente quelli che sono veri « amici dello Spo-
so » e quelli che sono solo degli eruditi, quando non si tratti
di semplici pedanti o volgari buffoni. Ci sono di quelli che
hanno compulsato tutti i testi e che non hanno sicuramente mai
provato nulla di simile. E ve ne sono altri, monomani stirac-
chiatori di rubriche o ferventi « manipolatori » che, pur tanto
lontani dai primi, ne condividono almeno la stessa anchilosità.
Gli uni, per quanto dotti, sono solo degli archeologi della litur-
già, e gli altri, anche se son persuasi di esserne i conservatori o
i rinnovatori, saranno sempre e solo dei distruttori o dei cor-
ruttori.
(1) C. E. H ammond, Liturgies Eastern and Western. Being a Reprint
of the Texts either original or translated of the most representative Litur-
gies of the Church, Oxford 1878.

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Solo Dio scruta i pensieri e i cuori, ma non è proibito avere
delle impressioni. Personalmente, sono convinto che Cirillo di
Gerusalemme (o l’autore delle catechesi che vanno sotto il suo
nome), come pure Gregorio Nazianzeno, o san Massimo, o
san Leone, non sono, in questo campo, di quelli a cui sia man-
cata la grazia. Lo stesso si dica, sulla soglia della nostra èra, del
cardinal Bona, o, molto vicino a noi, di Edmund Bishop, o di
Anton Baumstark. Confesso, invece, di essere molto meno sicu-
ro della « salvezza » liturgica di altri personaggi del passato,
pur altrettanto famosi in questo campo per la loro influenza.
Non parliamo poi di certi moderni e contemporanei: non mi si
perdonerebbe mai se collocassi questa gente, con tanto di nome
e cognome, nel piccolo inferno personale in cui, però, li siste-
mo « in petto ». Se mi si chiede come potrei giustificare un si-
mile ardire, dirò semplicemente che basta aver mangiato al-
cune briciole di ambrosia per accorgersi senza difficoltà della
sobria ebrietas degli uni e per non subire l’inganno di quelli che
hanno potuto mettere delle etichette dovunque, o che magari
hanno anche chiazzato l’intera tovaglia con le loro dita spor-
che. Questi tali, presentatisi al banchetto dell’Agnello certa-
mente senza grande appetito, non hanno nemmeno notato che
le vivande avevano un sapore tutto particolare.
Non tanto tempo fa, un abate benedettino, che mi onora del-
la sua amicizia, mi raccontava come credeva di aver scoperto
che cos’è la liturgia. Quando era novizio, aveva intrapreso co-
raggiosamente la lettura di tutto il Migne, cominciando dal pri-
mo volume. E si era imbattuto, quasi all’improvviso, nella li-
turgia eucaristica del libro V ili delle Costituzioni apostoliche
e, di colpo, i suoi occhi si erano aperti. Trovai in questa con-
fidenza un’eco delle mie vecchie impressioni, perché, senza dub-
bio, il testo che più mi aveva colpito, nella raccolta di Ham-
mond, era stato proprio quello: l’anafora che sembrava realiz-
zare alla lettera la notissima formula di Giustino riguardo al
celebrante che rende grazie « con tutte le sue forze » (2). Tutto,
assolutamente tutto, infatti, di quello che l’eucaristia antica
può radunare, vi si trovava contenuto, anche se è vero che certi
testi più sobri, come la meravigliosa anafora di san Giacomo,
ne esprimono più sensibilmente lo sviluppo e lo slancio.

(2) G iustino , Apologia /, 67. Celebrare l'eucarestia con tutte le forze!

15
Mi affretto ad aggiungere che avevamo, tutti e due, dei pre-
cursori molto* rispettabili presso i patrologi del Rinascimento
cristiano, senza parlare di molti liturgisti anglicani tra i più di-
stinti, i quali avevano creduto di ritrovare in questo testo la
stessa anafora apostolica e il modello primitivo e permanente
di ogni eucaristia ideale (3). So bene a quali beffe mi espongo
da parte dei sapienti liturgisti contemporanei, rivelando, pro-
prio nelle prime pagine di questo libro, un entusiasmo così vivo
che non si è ancora spento! Perché quella è la compilazione tar-
diva di un eretico (0 semieretico), per di più impostore. È una
liturgia scritta sulla carta e che non ha mai avuto (e non avreb-
be potuto avere) il minimo inizio di effettiva realizzazione:
ecco, ci dicono a gara i più rispettabili manuali odierni, quello
che avremmo dovuto imparare! Niente paura! Discuteremo
tutto questo con calma, e se non riterremo tutti questi giudizi pe-
rentori allo stesso grado, ma di sicurezza disuguale, si vedrà
che pensiamo di avere, anche noi, qualche buona ragione per
rigettare la primitività della liturgia pseudo-clementina (per non
parlare di quella di san Giacomo). Però crediamo almeno che,
come terminus ad quem, se non come terminus a quo, questi
testi, di una evoluzione molto antica, hanno motivo di giustifì-
care gli entusiasmi alquanto giovanili dei liturgisti del XVII e
XVIII secolo e di alcuni altri molto posteriori, più che non la
negligenza con la quale vengono trattati ora da certi critici
che sono un po' troppo soddisfatti delle loro prime costatazioni.
Comunque sia, non è un romanticismo vaporoso, basato su
una scienza insufficiente, a spiegare Pinteresse, anzi il fascino,
suscitati da tanto tempo dall’anafora delle Costituzioni aposto-
liche: è perché essa è un testimone particolarmente eloquente
di ciò che la tradizione liturgica racchiude, invece, di più teo-
logico. Essa costituisce indubbiamente il più grande sforzo che
mai sia stato fatto per esplicitare a fondo tutto quello che vi
era di teologia implicita nell’antica eucaristia, se non addirittu-
ra primitiva.
Qui si tratta evidentemente di una teologia che non è quella
a cui ci hanno abituato i nostri manuali moderni (ed è appunto3

(3) Cf W. J. A. G risbrooke, Anglican Liturgies of the seventeenth


and eighteenth Centuries, London 1958, e il capitolo XII di questo vo-
lume.

16
per questo che la sua scoperta può suscitare un simile incan-
to!). Questa teologia, per quanto sia rigorosa (e lo è a modo
suo), rimane molto vicina al senso originario del greco θεολογία,
che indica un inno, una glorificazione di Dio per mezzo del
λόγος, il pensiero espresso dall'uomo. Indubbiamente questo
pensiero si manifesta razionale in sommo grado, ma di una ra-
zionalità che è armonia, musica intellettuale, che si traduce
spontaneamente in un canto liturgico e non nel dividere un ca-
pello in quattro o in una etichettatura piuttosto noiosa.
L'arte è più razionale della scienza!!
Uno studio che ci restituisce la teologia deireucaristia
Lo studio che stiamo per intraprendere dovrebbe proprio
restituirci una teologia di questo genere, ed è l'unico studio che
si presti a una teologia eucaristica degna di questo nome. Dire-
mo meglio: è la teologia dell3eucaristia.
Questa precisazione di terminologia non è inutile. Infatti, c'è
un abisso tra le teologie eucaristiche che si sono moltiplicate
nella Chiesa cattolica e fuori di essa dal tardo medioevo all'epo-
ca moderna, e quella che è unica a meritare di essere chiamata
la teologia dell'eucaristia. Pio XI non aveva esitato a dire, in
un'epoca in cui chiunque che non fosse il papa sarebbe stato
tacciato di aver fatto un'affermazione non solo scandalosa ma
assurda, che « la liturgia è il principale organo del magistero
ordinario della Chiesa ». Ma se essa lo è rispetto alla proclama-
zione del mistero cristiano in generale, si può pensare che lo
sia, in grado sommo, rispetto alla proclamazione di quello che
ne costituisce la sostanza specifica: il mistero eucaristico, e in
particolare la celebrazione di questo mistero.
Ora, è un fatto che le teologie correnti circa l'eucaristia, in
generale non lasciano alcun posto alla « eucaristia » nel senso
primario del termine, alla grande preghiera eucaristica tradizio-
naie. Sono indiscutibilmente teologie sulla eucaristia. Non sono
quasi mai la teologia della eucaristia, cioè una teologia che ne
deriva, e non una teologia che vi si adatta dal di fuori, più o
meno opportunamente, oppure si riduce a sorvolarla senza mai
degnarsi di un rapporto stretto con essa.
Questo lo si può costatare anche nelle migliori opere che
pure ci hanno riportati, nelle ultime generazioni, a una visione
più sana di quella dei secoli precedenti. Crediamo sia doveroso

17
essere riconoscenti a Lepin (4), a de la Taille (5), a Vonier (6),
a Masure (7), che hanno respinto i punti di vista di Lessius e
di Lugo sul sacrificio eucaristico, e ci hanno riportati a una con-
cezione molto più soddisfacente, in particolare alla relazione
che intercorre tra eucaristia e sacrificio della Croce (anche se
siamo, forse, troppo portati a fare nostri, ma senza verificarli,
i giudizi che essi danno sulla colpevolezza dei loro predeces-
sori). È anche difficile, però, ammettere che le loro stesse sin-
tesi possano essere più definitive, quando si vede che il posto
che essi riservano alla testimonianza dell'eucaristia circa il pro-
prio significato e contenuto è ristretto quanto quello dei loro
predecessori. Le loro opere hanno per fondamento alcune parole
della Scrittura: praticamente le sole parole dell'istituzione, e,
nel migliore dei casi, anche alcuni brani del capitolo VI di san
Giovanni e della I lettera ai Corinzi. Per di più, questi brani
vengono interpretati solo alla luce delle controversie medievali
o moderne, senza che affiori il minimo dubbio di dover cambia-
re prospettive. Eppure, queste sono richieste inevitabilmente
da uno studio esegetico, che deve essere prima di tutto filologi-
co e storico, come quello a cui si è dedicato ai giorni nostri
J. Jeremias (8), sulle parole eucaristiche di Gesù. Quello però
che è soprattutto negativo nelle loro opere, è che essi partono,
più che da questi testi, da nozioni a priori del segno o del sacri-
ficio. E se, nel corso del loro studio, si ricollegano o si imbatto-
no in alcune formule liturgiche, le fanno proprie per confer-
mare maggiormente le loro teorie, o, il più sovente, forniscono
spiegazioni più o meno elaborate per far vedere come vadano
d'accordo, o come possano accordarsi, con determinate teorie
del sacramento o del sacrificio, che sono state proposte senza di
esse.
Se una simile costatazione si impone anche quando si tratta

(4) M. Lepin , L ’iàée du sacrifice de la Messe d’après les théologiens


depuis Vorigine jusqu’à nos jours, Paris 1926.
(5) M. D e la T aille, Mysterium Fidei, Paris 1931.
(6) A. V onier, La chiave della dottrina eucaristica, Ed. Paoline, Al-
ba 21963.
(7) E. Masure , Il sacrificio del Corpo Mistico, Morcelliana, Bre-
scia 1952.
(8) J. Jeremias, Le parole dell'ultima Cena ( = Biblioteca di cultura
religiosa, 23), Paideia, Brescia 1973.

18
di autori recenti, ugualmente preoccupati, come gli autori di cui
sopra, di fare !,inventario e di capire tutte le ricchezze della
tradizione teologica, patristica e medievale, non sarà" difficile
immaginare la pura e semplice ignoranza dell’eucaristia (nel
senso in cui prendiamo qui tale parola, e che rimane il suo si-
gnifìcato basilare), di cui sono testimoni tante altre speculazio-
ni anteriori e di cui sono pieni i nostri manuali. I risultati di
questo stato di cose sono disastrosi, prima di tutto, ma non sol-
tanto, sul piano dottrinale. Anche ammesso che rimangano
nell’ortodossia, nel senso che almeno non la contraddicano, le
teologie eucaristiche così costruite creano e moltiplicano i falsi
problemi. Incapaci di risolverli (e questo non fa meraviglia, dal
momento che sono impostati male), non possono tuttavia evi-
tarli, poiché sono proprio esse a crearli. E così la teologia eucari-
stica si trova invasa da interminabili controversie che, per un
vano e insipido frutto, distolgono !,attenzione dal mistero euca-
ristico che dovrebbe, invece, captarla interamente.
Un primo esempio di queste controversie senza vero og-
getto, come anche senza via di uscita, ci è fornito, fin dall’alto
medioevo, dalla discussione tra bizantini e occidentali sul mo-
mento e soprattutto sul mezzo della consacrazione eucaristica.
Si effettua in forza delle parole dell’istituzione o in forza di
una preghiera speciale, alla quale si riserverà il nome di epìcle-
si? Quando si rileggono, da entrambe le parti, gli autori dell’e-
poca in cui ?elaborazione delle anafore era ancora un fatto
contemporaneo, per cui potevano averne una conoscenza con-
naturale, sembra di trovarvi argomenti decisivi a favore di una
teoria, escludendo ?altra. Bisogna però riconoscere che questo
avviene solo perché si leggono quei testi sotto una luce e con
preoccupazioni che sono loro estranee. Se invece ci si immerge di
nuovo nelle prospettive della celebrazione eucaristica antica, ?al-
ternativa sembra svanire. Ciò che si vuol mantenere e affermare
di essenziale, tanto da una parte che dall’altra, potrà essere
tanto meglio conservato quanto più si cesserà di opporlo arti-
ficiosamente a ciò con cui, in realtà, è solidale.
Ora, se questo succede per la vecchia controversia che, a
poco a poco, si è fatta strada e si è fossilizzata nelle rispettive
teologie di oriente e di occidente, a maggior ragione ci si potrà
aspettare che avvenga lo stesso per controversie posteriori: que-
ste, infatti, sorsero in epoche in cui più nessuno aveva la capa­

19
cità di rileggere gli antichi formulari alla luce delle loro speci‫־‬
fiche coordinate. È soprattutto il caso della controversia tra prò-
testanti e cattolici che si è completata e fissata all’epoca baroc-
ca. La celebrazione eucaristica è un sacrifìcio attuale, oppure il
memoriale di un sacrificio passato? Formulata così, ci si permei‫־‬
ta di insistere ancora una volta e anche di più, non solo la que-
stione non è suscettibile di alcuna risposta soddisfacente, ma, a
rigor di termini, è assolutamente priva di senso. Infatti essa pre-
suppone nelle parole « sacrificio » e « memoriale » certe real-
tà che sono ben diverse da quelle che gli stessi termini hanno
negli antichi formulari eucaristici.
Cosa dire allora delle controversie moderne, che non han-
no cessato di turbare le menti all’interno del cattolicesimo, sul
problema della presenza eucaristica: non solo la presenza di
Cristo negli elementi, ma anche e specialmente la presenza del-
la sua azione redentrice nella celebrazione liturgica?
Scrutando il mistero eucaristico tanto alla luce di una filo-
sofia che si può dire prefabbricata, quanto alla luce di una sto-
ria comparata delle religioni che lo mette a confronto con ciò
che non ha alcun rapporto con esso, ci si ingolfa sempre di più
in argomenti di controversia il cui solo enunciato dovrebbe già
far capire che si è fuori strada fin dall’inizio: com’è possibile
che lo stesso corpo possa essere simultaneamente presente in
parecchi luoghi? Come può un’unica azione del passato diven-
tare di nuovo presente tutti i giorni? Per uscirne, forse baste-
rebbe ritornare ai testi antichi, ed è certamente necessario per
cominciare. Ma, si capisce, a condizione di lasciarli parlare co-
me essi intendono parlare: e allora tutti questi rompicapi scorn-
paiono e la verità del mistero, pur non cessando di essere miste-
riosa, diventa di nuovo intelligibile, e pertanto credibile e ado-
r abile.
Ma le teologie sull’eucaristia che non si preoccupano di quel-
la che abbiamo chiamato la teologia ^ / / ’eucaristia, che, si di-
rebbe, non suppongono nemmeno che essa esista, non fanno
che suscitare questioni assurde e sterili controversie. Inevitabil-
mente esse reagiscono, di riflesso, sull’eucaristia, per alterarne
e viziarne, più o meno gravemente, la pratica. Se la liturgia si
deteriora col logorio, l’abitudine, la sclerosi, essa si vede falsi-
ficata ancora molto più radicalmente dalle teorie che non han-
no nulla a che vedere con essa, ma alla luce delle quali si pre­

20
tende, abusivamente, di rifarla. Perché, in questo caso, si tratta
non di errori dovuti semplicemente a negligenze o a dimenti-
canze più o meno profonde, bensì di errori commessi autore-
volmente, per principio, e che, col pretesto di arricchire o di ri-
formare, storpiano o mutilano irrimediabilmente.
È infatti un fenomeno costante che una teologia sulla litur-
già che non proceda da essa, non trovandovi nulla che vera-
mente la soddisfi, fa in fretta a secernere pseudo-riti o formu-
le aberranti. Così ridotta, la liturgia diventa ben presto travisa-
ta e coartata, quando non sia addirittura alterata. Presto o tar-
di, il senso delPincongruenza del complesso che ne deriva, su-
scita un desiderio di riforma. Ma se, e questo è il caso più fre-
quente, la riforma procede semplicemente da una teologia al-
Pultima moda e non da un vero ritorno alle sorgenti, allora essa
sfronda di qua e di là quello che ancora c'era di primitivo, com-
pletando così il processo già iniziato di camuffamento dell'es-
senziale sotto il secondario.
Si pensi solo alla riforma della liturgia eucaristica ad opera
del protestantesimo del XVI secolo. Col pretesto di ritornare al-
l'eucaristia evangelica, essa in realtà non ha fatto altro che met-
tere le parole dell'istituzione in quel forzato isolamento in cui
le aveva già collocate, in teoria, la teologia medievale. Della
tradizione che fino allora accompagnava ancora queste parole,
essa ha ritenuto solo la tendenza medievale tardiva di sostituì-
re l'azione sacramentale, profondamente misteriosa e reale del
Nuovo Testamento e dei Padri con una evocazione psicologica e
sentimentale degli avvenimenti evangelici. E ha coronato il tutto
lasciando che la celebrazione fosse invasa da elementi peniten-
ziali che, negli ultimi secoli, non hanno fatto che sovraccaricare
gli aspetti secondari. La conclusione è che si ha un'eucaristia
in cui non c'è più assolutamente nulla di eucaristia nel senso
originario del termine. Se vi si parla ancora (e questo non capi-
ta nemmeno sempre) di « azione di grazie » è semplicemente
nel senso di un'espressione di gratitudine per i doni di grazia
individualmente ricevuti dai comunicandi: tardivo senso medie-
vale, e degradato fino al più completo controsenso, di un'espres-
sione neotestamentaria che ormai non dice quasi più nulla del
suo senso originario.
Queste false teologie che prima ingombrano l'eucaristia col
pretesto di svilupparla, poi la distruggono pretendendo di rifor­

21
maria, evidentemente danno origine a forme di eucaristia sca-
denti, di cui a loro volta si nutrono. Non è un indice rivelatore
che !,espressione « devozione eucaristica », nell’epoca moderna,
abbia potuto giungere a indicare di preferenza, e anche esclu-
sivamente, pratiche 0 forme di pietà legate agli elementi eucari-
siici, ma completamente estranee alfazione liturgica, alla cele-
brazione eucaristica? Stando così le cose, non c’è da meravi-
gliarsi se troppo sovente questa devozione, non contenta di igno-
rare la celebrazione, si è sviluppata a detrimento della stessa ce-
lebrazione, oppure ha influito su di essa, ma solo per renderla
ancora più incomprensibile e per travisarla. La messa diventa
allora soltanto un mezzo per rifornire il tabernacolo. Oppure
la si interpreta come se culminasse nella « adorazione del santis-
simo Sacramento » alla quale dà luogo la consacrazione e Pele-
vazione che si è aggiunta molto tardi.
Vedremo come la liturgia luterana, anziché reagire efficace-
mente contro questo capovolgimento delle prospettive primitive,
non ha fatto altro che portarlo alla sua logica conclusione, am-
putando dal Canone romano tutto quello che segue la consa‫־‬
orazione e !,elevazione, e mettendo a questo punto il Sanctus con
il Benedictus. Questo per dimostrare che quando le « riforme »
non procedono da una migliore comprensione della liturgia tradì-
zionale, non fanno che portare alpestremo la sua alterazione.
Anche senza giungere a questi estremi, che cosa pensare di
una pietà eucaristica che moltiplicava le « benedizioni eucari-
stiche » nella proporzione con cui rendeva più rare le comunio-
ni? Che si compiaceva nelle « esposizioni del Santissimo » sem-
pre più solenni, e contemporaneamente nelle messe « lette » il
più possibile « private »? Che faceva « visite » con tanto affetto
al « divin prigioniero del tabernacolo », ma che non rivolgeva un
solo pensiero al Cristo glorioso, del quale, tuttavia, !,eucaristia
non fa (o non faceva) che cantare la vittoria?
Anche qui ci riesce facile scorgere la pagliuzza nelLocchio
dei nostri predecessori, mentre corriamo il rischio di non ve-
dere nemmeno la trave che si conficca nel nostro. Ci si può
certamente rallegrare per aver ritrovato il senso comunitario
della celebrazione eucaristica, come pure per essere tornati a
concetti di sacrificio eucaristico che implicano la nostra parte-
cipazione. Però è già un cattivo segno che i valori di adorazione
e di contemplazione, fino a ieri concentrati su una devozione eu­

22
caristica estranea, in realtà, aireucaristia, siano così poco ri-
fluiti sulla nostra celebrazione eucaristica, anzi si siano pura-
mente e semplicemente volatilizzati, insieme alla scomparsa prò-
gressiva delle pratiche a cui erano legati: « benedizioni col san-
tissimo Sacramento », « visite al Santissimo », « atto di ringra-
ziamento dopo la comunione », ecc. In queste condizioni, la ce-
lebrazione comunitaria che non è animata dalla contemplazio-
ne e meno ancora dall’adorazione di Cristo presente nel suo mi-
stero, corre il rischio di cadere in una di quelle « manifestazio-
ni di massa » così care al paganesimo contemporaneo, solo su-
perficialmente aureolata di un’atmosfera di sentimenti cristiani.
Sembrerebbe quindi inevitabile che la nostra unione al sacrifi-
ciò del Salvatore attraverso la messa, arrivi fino a confondersi,
come già si vede anche troppo, con una semplice aggiunta che
può addirittura aprire la strada ad una sostituzione pura e sem-
plice delle nostre opere interamente umane, all'opus redemptio-
nis.
È il caso, allora, di meravigliarsi se, ancora una volta, non
potendo trovare quanto soddisfa queste tendenze in una liturgia
che non le ha certamente ispirate, alcuni vogliono approfittare
della riforma liturgica in corso per ottenere, o per imporre, quel-
la che sarebbe la massima deformazione? Mescolando, come si
deve, !’ecumenismo in voga con la « conversione al mondo »,
vengono proposti certi ritocchi alla messa, i quali, come sem-
pre, intendono riportarla alle sue origini evangeliche, conservan-
dovi (e, se è necessario, introducendovi) solo quello che può
adattarsi, così si dice, all’« uomo d’oggi », un uomo che viene
proclamato completamente « desacralizzato »! Non avendo potu-
to proporre al Concilio un progetto di questo genere, un prelato
tiene una conferenza-stampa per assicurare la massima pubbli-
cità a questa « messa ecumenica » e secolarizzata, che l’uomo
d’oggi potrebbe capire senza aver niente da imparare. Un teoio-
go conciliare, da parte sua, non osando avventurarsi fin lì,
suggerisce di scartare almeno il Canone e di sostituirlo con la li-
turgia di Ippolito, ma adattata all’ultimo grido. Altri passano
dalle parole ai fatti. Si prepara già la liturgia di domani con le
« agapi fraterne » (anch’esse ecumeniche, si capisce), in cui ci
si distribuisce pane e vino non consacrati, ma oggetto di una
semplice « azione di grazie », in cui, evidentemente, è assente
qualsiasi sospetto di « magia sacramentale »... Tutto questo è

23
frutto di pura fantasia, indubbiamente, e appare così povero e ri-
dicolo che siamo stati a lungo incerti se fosse il caso di parlarne
qui. Bisogna però stare attenti: è così che si vanno preparando e
che prendono consistenza certi « gruppi di pressione »: questi pò-
irebbero benissimo, fra non molto, avere un grande peso sulle
eventuali riforme e, non riuscendo ad assumerne la direzione,
potrebbero perlomeno limitarne o falsificarne la realizzazione.
Dom Lambert Beauduin asseriva che la relativa fossilizza-
zione della liturgia nei tempi moderni era stata forse la sua sai-
vezza: se, diceva, non fosse stato così, che cosa sarebbe giun-
to fino a noi della grande tradizione della Chiesa? L'èra di que-
sta mummificazione è passata, ed è un bene. Non basta, però,
rimettere a nuovo per far rivivere. Non bisogna che un nuovo
e più grave processo di decomposizione colpisca così in fretta
Lazzaro appena uscito dal sepolcro, da correre iLrischio di far-
velo ritornare, e questa volta definitivamente. Si vede già fin
troppo quello che certe fantasticherie individuali e certe chi-
mere collettive riescono a ordire intorno anche ai migliori orien-
tamenti dell'autorità conciliare... Non c'è che un rimedio a tutte
le malformazioni liturgiche, sia contemporanee che del passato,
e a tutto quello che tiene loro dietro o che le mantiene o le pro-
duce, tanto nella pietà come nel pensiero religioso: è il ritorno al-
le fonti, ma bisogna che sia un ritorno autentico e non fittizio,
né tanto meno fallito.

£ necessario ritornare alle fonti


Che grande incoraggiamento, per il teologo cattolico, ve-
dere quanto questo ritorno ha già operato di positivo, anche al
di fuori della Chiesa cattolica! I nostri ecumenisti improvvisati,
che credono di andare incontro ai protestanti facendo man bassa
della tradizione cattolica, non hanno il minimo sentore di quel-
lo che costoro, sovente, hanno già recuperato e che non riesco-
no ancora ad apprezzare pienamente. Per tutti quei protestanti
che non si rassegnano a vivere su quello che c'è di più morto
nel loro passato, non ha più nessuna attrattiva un'eucaristia sen-
za mistero, senza presenza reale, un'eucaristia ridotta solo a
un'allegra riunione fraterna, in un comune ricordo riconoscen-
te di un Gesù che apparirebbe uomo solo nella misura in cui si
potesse dimenticare che è Dio. Come diceva recentemente un

24
ecumenista protestante, « il più grave ostacolo attuale per il
riavvicinamento tra di noi potrebbe venire da quei cattolici i
quali credono che !,ecumenismo, per loro, debba consistere
nell’abbandonare tutto quello che noi stiamo recuperando, e
nell’adottare tutto quello di cui ci stiamo liberando ». Che dire,
poi, di quegli approcci all'« uomo moderno », che credono di
rendergli accettabile il cristianesimo secolarizzandolo al mas-
simo, proprio nell’epoca in cui psicologi e antropologi sono d’ac-
cordo nel riconoscere che il sacro, anzi il « mito » (nel senso in
cui lo intendono gli storici moderni della religione, e che non
ha nulla a che vedere con la terminologia né con la problemati-
ca, incredibilmente ritardataria, di Bultmann), è semplicemen-
te inseparabile dall’umano, a meno che non lo si voglia radicai-
mente travisare?...
Più di tutte le discussioni, la cura migliore per le varie il-
lusioni di quei cattolici che vogliono essere appassionatamente
moderni, ma che non hanno ancora avuto il tempo di informar-
si su quello che c’è di più interessante nell’evoluzione dei loro
contemporanei, si troverà nel risalire alle sorgenti della stessa
eucaristia. Per questo, però, bisogna rileggere e interpretare di
nuovo i testi, applicandosi pazientemente a discernere il movi-
mento della fede viva della Chiesa che fece prendere forma alla
sua eucaristia, che ne fece la sua più pura e, contemporanea-
mente, più piena espressione. È quello che vorremmo almeno
abbozzare nelle pagine che seguiranno.
Non si tratterà di riscoprire la formula di quella anafora
apostolica che si è creduto di ritrovare, prima, proprio nel li-
bro V ili delle Costituzioni « apostoliche », e poi in molti altri
testi, fino alla Tradizione, anch’essa « apostolica », come ha fat-
to recentemente Dom Cagin, insieme a tanti altri ammiratori
di Ippolito che si direbbero non del tutto liberati da quest’ul-
timo miraggio. Non se ne parlerà, semplicemente perché una si-
mile formula certamente non è mai esistita. Se fosse esistita,
tutti la conoscerebbero, e nessuno avrebbe mai osato fabbricar-
ne un’altra!...
Questo, però, non vuol dire affatto che non vi sia un tipo,
uno schema, e soprattutto quasi un’anima viva di ogni eucari-
stia fedele alla sua sostanza originale, un’anima che si è rivela-
ta e quasi proiettata nei più antichi formulari eucaristici: qui
noi la possiamo recuperare nella sua unità fondamentale, come

25
pure nella sua inesauribile ricchezza. È un po' come il Vangelo
che sfugge a qualsiasi formula unica, che non potrebbe essere
contenuto in tutti i libri che riempiono la terra e che, d’altra
parte, ci è tramandato autenticamente nei quattro vangeli ca-
nonici. Indubbiamente, per l’eucaristia, non c’è un formulario
ispirato, e pertanto definitivo. Ma questo è perché l’eucaristia
della Chiesa, essendo per sua natura risposta umana alla pa-
rola di Dio in Gesù Cristo, non può essere completa finché la
Chiesa non sarà consumata nella sua unione perfetta al suo
Sposo, al Cristo totale che solo allora raggiungerà l’età adulta,
nella moltitudine definitiva e nella perfetta unità di tutti i suoi
membri. È questo movimento, questo slancio spirituale dell’eu-
caristia orientato fin dall’inizio verso il « segno del Figlio del-
l’uomo » che i documenti del periodo creativo della liturgia cri-
stiana ci devono permettere di scoprire, e di ritrovare poi nelle
grandi preghiere rimaste classiche e che continuano, ancora og-
gi, a consacrare le nostre eucaristie. Riscoprendole quindi co-
me dall’interno, incontrando, per così dire, il soffio vitale che le
ha permeate per modellarle quasi dal di dentro, saremo in grado
di penetrare il senso di quello che fa la Chiesa quando celebra
!,eucaristia. Senza di questo, la Chiesa stessa non sarebbe in
grado di costruirsi e di formarsi in noi.

26
Capitolo II

Liturgia giudaica
e liturgia cristiana

Genesi dell'eucaristia cristiana

Per tracciare fedelmente e, più ancora, per capire quasi dal-


Pinterno la genesi della liturgia eucaristica, bisogna partire be-
ne. In una ricerca di questo genere i primi passi sono quelli che
determinano tutto il resto. Immaginare che la liturgia cristia-
na sia nata come da una specie di generazione spontanea, senza
né padre né madre come Melchisedech, o attribuirle gratuita-
mente qualche paternità putativa che dimenticasse definitiva-
mente la percezione della sua autentica genealogia, equivarreb-
be a ridurre, fin dall’inizio, tutte le ricostruzioni a un’impalca-
tura di controsensi più o meno intelligente, più o meno inge-
gnosa.
È vero che la liturgia cristiana - e !,eucaristia in modo tutto
particolare - è una delle creazioni più originali del cristianesi-
mo. Ma, per quanto originale, non è sicuramente una creazione
ex nihilo. Il crederlo vuol dire condannarsi a non capirci più
tanto. Questo fatto non solo porterebbe ad ingannarsi sugli eie-
menti con cui essa si andrà costruendo, ma - e questo è molto
più grave - porterebbe a non capire più il movimento che li com-
bina insieme per ricavarne quel tempio spirituale, o meglio
quell’albero vitale che è l’anafora. I materiali di cui si serve
l’eucaristia cristiana sono infatti ben altra cosa di una materia
grezza. Sono pietre già levigate e sapientemente lavorate. E non
provengono da un cantiere di demolizione, da cui verrebbero
prese per essere lavorate a nuovo senza nessuna preoccupazione
della loro originaria configurazione. È tutto l’opposto: la nuo-
va lavorazione avviene in un laboratorio che vive coscienziosa-
mente dell’esperienza acquisita attraverso i secoli e che ne ac-
cetta i prodotti finiti, però non per annullarli, bensì per com-
pletarli con un metodo geniale, anzi più che geniale, per cui,

27
è il caso di dirlo, non uno iota di quello che era stato già scoi-
pito sarà cancellato.
Non si può partire da zero per le prime formule eucari‫־‬
stiche cristiane, come non si può partire da zero per il Vange-
lo. Tanto in Un caso come nell’altro, c’è, per disegno provviden-
ziale, Un Antico Testamento che non va saltato a piè pari. Se,
infatti, come appare chiaro, la Provvidenza ha giudicato neces-
saria questa tappa, noi non abbiamo il diritto né la possibilità
di scartarla.
Il dire questo ci indica già in quale direzione dobbiamo cer-
care le preparazioni provvidenziali. Sarebbe perlomeno sorpren-
dente che l’Antico Testamento della liturgia non fosse lo stesso
di quello del Vangelo. Eppure, per quanto la cosa possa stupì-
re, è quello che molti studiosi sembrano ammettere come un
assioma sicuro e indiscutibile. I casi sono due, dicono alcuni:
o non esiste una preistoria dell’eucaristia, oppure, se ce n’è
una, essa non può essere che fuori del giudaismo.
La permanenza o la persistenza di questa mentalità, anche
tra studiosi tanto profondamente intuitivi quanto ampiamente
documentati, è - bisogna riconoscerlo - piuttosto sconcertante.
Quando si vede lo sforzo immenso di Dom Odo Casel per
trovare nei riti pagani più incongruenti gli antecedenti del mi-
stero del culto cristiano, e il poco interesse dimostrato per gli an-
tecedenti giudaici di questo mistero, anche per quelli meno con-
testabili, ci si chiede come mai una mente così aperta abbia po-
tuto rimanere così poco accessibile a certe evidenze. Il colmo
è che egli non ignorava affatto quei testi giudaici il cui con-
fronto con i testi cristiani si imponeva prima di ogni altro. Egli
li cita (1); ne osserva i più evidenti parallelismi. Però, si tratta
per lui soltanto di parallelismi notevoli. Si direbbe che egli non
riesca a intravedere che l’origine e, di conseguenza, la spie-
gazione di quello che è particolarmente sui generis nell’eucari-
stia cristiana, debbano trovarsi da quella parte. Egli ne cerca
sia l’origine che la spiegazione unicamente nei misteri pagani;
si direbbe, perfino, che si possano supporre solo in essi.
Un altro liturgista, Baumstark, ancora più erudito e forse

(1) Cf O. Casel, Le Mémorial du Seigneur dans la liturgie de Van-


tiquité chrétienne, Paris 1945, pp. 23ss.

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più geniale di Casel, non ha potuto resistere all'evidenza (2).
Per lui, non c'è dubbio che molti testi della liturgia cristiana
sono stati mutuati o, comunque, derivano da quella giudaica.
Però, non è giunto senza fatica ad ammettere questa dipenden-
za come un fatto originale. Nel campo della preghiera eucaristìa
ca, in particolare, si stenta a supporre che le corrispondenze
tematiche, o perfino di espressione, possano essere primitive.
Per la maggior parte, si tratta solo di un fatto secondario, di una
contaminazione tardiva, sopravvenuta nel corso delle elabora-
zioni definitive dei testi eucaristici cristiani che dovevano poi
diventare classici. È un'ipotesi che non è giustificata da nessu-
na prova positiva, ma di cui si capirà l'inverosimiglianza quan-
do si sarà notato l'antisemitismo ad oltranza diffuso, purtrop-
po, tra i cristiani sin dalla fine dell'età patristica. Teniamo pre-
sente che, di solito, è presso gli autori siriaci che questo antise-
mitismo è più marcato. Si pensi soltanto ai testi paradossali di
san Giovanni Crisostomo che Lukyn Williams ha potuto racco-
gliere su questo argomento (3). Ora, sono proprio essi che, in
questo caso, dovrebbero essere responsabili di questa rabber-
ciatura tardiva delle forme della Sinagoga su quelle della Chiesa.

Dalla liturgia giudaica alla liturgia cristiana


La domanda che si presenta è allora inevitabile. Perché si
vuole ad ogni costo andare a cercare così lontano e, con dei rag-
giri così poco verosimili, evitare di trovare tanto vicino le vere
sorgenti della liturgia cristiana? Sembra che a questa domanda
si debba dare una serie di risposte che, d'altronde, si sostengono
e perfino si connettono le une con le altre.
Prima di tutto, la nostra scienza critica delle origini cristia-
ne rimane troppo dipendente dagli studi protestanti e riflette,
di conseguenza, un pregiudizio fondamentale del protestante-
simo: quello secondo cui la tradizione, ben lungi dal completare

(2) A. Baumstaric, ancora reticente in Trisagion und Qedussà, in


JLW 3 (1923) 18-32, nel cap. Ili di Liturgie comparée (Chevetogne 231953)
arriva a un'opinione molto vicina a quella che sarà sostenuta in tutto
questo libro.
(3) Cf A. Lukyn W illiams , Adversus Judaeos. A Bird's Eye View
of Christian Apologiae until the Renaissance, Cambridge 1935. Vedere
alcuni testi, come: Crisostomo, Contra Judaeos, PG 48, 843ss.

29
la Scrittura, non ne potrebbe essere che una degradazione e
una corruzione. Poi, la stessa scienza rimane oberata dalle op-
posizioni concettuali di una dialettica hegeliana che vede come
unica spiegazione possibile della sintesi cattolica il conflitto di
una antitesi « pagano-cristiana » con la tesi « giudeo-cristiana ».
Infine, tutto questo si completa con una di quelle false eviden-
ze critiche che il secolo XIX, al suo tramonto, ha preso per
fatti intangibili, ma che sono solo uno sviluppo sofistico di co-
statazioni provvisorie: rocce apparenti che si sfaldano sotto
una vera critica.
Riprendiamo a uno a uno questi tre punti. Gli studiosi cat-
tolici ammettono benissimo che, nel cristianesimo, a partire dal
Nuovo Testamento, i testi ispirati non possono essere staccati
dal corpo in cui permane vivo lo Spirito che li ha ispirati. Essi
10 ammettono perché sono cattolici, e non lo sarebbero più se
non lo ammettessero. Una volta ammesso, non hanno difficoltà
ad applicare ai fatti più irrefutabili la certezza di questo
a priori, a tal punto che gli stessi studiosi protestanti arrivano,
più o meno volentieri, ma sempre più decisamente, ad essere
d'accordo con loro. Tuttavia, appena si tratta non più del cristia-
nesimo, ma del giudaismo, il principio cattolico non conta più.
11 vecchio a priori protestante riprende allora il sopravvento.
Quella verità che non si è trovato difficoltà ad ammettere e a
provare quando si trattava del cristianesimo - i testi ispirati
non sono né in opposizione alla tradizione, né separabili da es-
sa, anzi, è in essa e da essa che sono venuti fuori - , ora non
sembra più imporsi come verità di fede, e si dimentica che è
innanzitutto una verità di buon senso. Ecco allora che da catto-
lici che si era per il Nuovo Testamento, si ridiventa o si diventa
protestanti per TAntico. La tradizione si riduce così a sinonimo
di superfetazione estranea ai testi sacri, che sfocia nella degra-
dazione e che va a finire nell’alterazione radicale del loro con-
tenuto. Ciò è stato ammesso una volta per sempre dalla vec-
chia scienza protestante. La scienza cattolica, anche quella più
moderna, non vedendosi obbligata a metterlo in dubbio, l’ac-
cetta e lo fa tranquillamente proprio.
Eppure, dovrebbe sembrare strano che ciò che è la condizio-
ne per la verità di vita nel Nuovo Testamento non lo sia nel-
TAntico:

30
- che i testi sacri, in un caso, non possano essere separati
dalla tradizione viva, e che, nell’altro, debbano esserlo;
- che la parola di Dio, a partire da Cristo, sia viva nel pò-
polo di Dio nel quale dimora quello Spirito che si crede l’abbia
ispirata, mentre prima di Cristo questa Parola sarebbe come
caduta dal cielo, quasi che lo Spirito avesse prodotto diretta-
mente la lettera senza passare attraverso il cuore degli uomini,
e quindi senza lasciarvi alcuna testimonianza viva del suo pas-
saggio.
In realtà, il progresso delle scienze bibliche, presso i prote-
stanti per primi, ha denunciato l’artificiosità di questa dicoto-
mia (4). Non solo nell’Antico Testamento, ma anche - e mol-
to più - nel Nuovo, la verità rivelata vive nei cuori prima di
depositarsi nella lettera e, anche una volta fissata con il massi-
mo di autorità, rimane viva e sempre suscettibile di sviluppo in
questi cuori. Prima di Cristo, infatti, noi non abbiamo ancora
l’autorità unica, finale di una personalità trascendente, che do-
mina qualsiasi altra espressione della verità, che si impone co-
me la Verità finale. Isolare, separare Parola sacra e tradizione,
parola di Dio espressa una volta per sempre e vita nel popolo
di Dio dallo Spirito che ha ispirato questa espressione, è anco-
ra più contrario, se mai fosse possibile, alla natura delle cose
nell’Antico Testamento che non nel Nuovo. È quindi impos-
sibile immaginare il rapporto del Nuovo Testamento con l’Anti-
co come un rapporto che si collegherebbe con questo solo per
quanto riguarda i testi ispirati in senso stretto, mentre potrebbe,
anzi dovrebbe, trascurare tutto ciò che li circonda.
C’è un’obiezione che a prima vista desta una forte impres-
sione, ed è questa: Gesù, si dice, ha denunciato nelle tradizio-
ni degli scribi e dei farisei una corruzione della parola dell’An-
tico Testamento; e ha denunciato, in particolare, ciò che impe-
diva di passare da questa parola alla sua parola. La forza di
questa obiezione sta tutta nella sua ambiguità. Gesù non ha de-
nunciato la tradizione in quanto tale, ma le sue forme aberran-4

(4) Tra i primi, cf Tarticolo suggerito a O. C ullmann dai problemi


suscitati dalla « Formgeschichte » e apparso in RHPhR 5 (1925) 459‫־‬
477.564579‫־‬. D’altra parte, è merito della scuola esegetica scandinava
aver fatto vedere l’importanza capitale della tradizione giudaica - e
specialmente della tradizione liturgica - per un’esatta comprensione
dell’Antico Testamento.

31
ti o aride. Una simile denuncia vale riguardo ai deterioramenti
o alle decadenze che sono sempre possibili tanto nel cristiane-
simo quanto nel giudaismo. Sono queste deviazioni o queste
fossilizzazioni che, oggi come ieri, producono le eresie. Non è
però su queste forme sbagliate che si può giudicare una tradì-
zione, qualunque essa sia. La nostra migliore conoscenza dei
farisei (5) - e più generalmente di quei movimenti animatori del
giudaismo antico che troppo facilmente vengono qualificati co-
me settari e che bisognerebbe invece paragonare ai nostri ordini
religiosi - ci ha convinti del loro valore positivo (6). Anche se cer-
ti spiriti hanno potuto impegolarsi fino al rifiuto della novità crea-
trice del vangelo, non sono stati meno numerosi quelli che hanno
fatto leva su di essi per andare oltre. Ed è forse presso san Paolo,
l’apostolo cristiano più rigido nella sua volontà di universali-
smo, nel suo rifiuto di includere il cristianesimo nelle categorie
ormai fissate dal giudaismo, che, nelle formulazioni più ardite
del vangelo, si nota maggiormente quello che è strettamente at-
tinente, malgrado tutto, a queste categorie (7).
Per tenerci al solo esempio di san Paolo, gli studi che si so-
no moltiplicati sul rapporto tra il suo pensiero e il pensiero rab-
binico vietano di credere che quest’ultimo non possa essere di
qualche utilità per comprendere il pensiero di Paolo, se non
altro per fissare il senso grammaticale di una formula o
il genere letterario di una pericope. Più profondo ancora sa-
rebbe l’errore di credere che quello che nel suo pensiero si rial-
laccia al pensiero giudaico sia solo un peso morto, come i resti
di un busto che egli avesse potuto spezzare ma non togliersi di
dosso. Questo pensiero giudaico è legato, in quello che ha di più
personale, al corpo e non al solo vestito del pensiero paolino.
Il suo spirito cristiano non è comprensibile se lo si separa dallo
spirito giudaico che l’aveva preceduto e dal quale si è distac-

(5) Cf l’opera, già vecchia ma sempre degna di essere letta, di R.


T ravers H erford, The Pharisees, London 1924.
6) Impossibile dare qui una bibliografia, anche elementare, di tutto
quello che si è scritto sul problema delle « sètte » giudaiche dopo le sco-
perte di Qumràn; per una prima conoscenza ci si può riferire a A.
D upont-Sommer, Les Écrits esséniens découverts près de la Mer Morte,
Paris 1959.
(7) Cf W. D. D avies, Paul and Rabbinic Judaism, London 1948.

32
cato attraverso un mutamento in cui i pentimenti contano molto
meno degli sviluppi.
Probabilmente si dirà: nel cristianesimo, per distinguere le
tradizioni certamente autentiche da quelle che sono dubbie o
chiaramente eterogenee, abbiamo un criterio semplice: le prime
sono quelle che risalgono fino a Cristo, o almeno agli apostoli.
Questo criterio, evidentemente, non entra più in gioco quando
si tratta di tradizioni anteriori al cristianesimo. Ma dal punto
di vista cristiano c’è per queste ultime un criterio reciproco, la
cui applicazione è ancora più semplice. Ed è ciò che il cristia-
nesirno apostolico, di fatto, ha preso dalla tradizione giudaica.
Ora, più si moltiplicano le testimonianze contemporanee,
come avvenne dopo le scoperte di Qumràn, più diventa eviden-
te che la portata di questa conservazione ricreatrice oltrepassa
di molto tutto quello che si poteva immaginare fino a non mol-
to tempo fa. La supposizione degli esegeti dominati dai criteri
post-hegeliani - che, cioè, !,originalità cristiana si sarebbe perlo-
meno definita in e mediante una sostituzione di temi di pensie-
ro ellenistici, universalisti per essenza, ai temi propriamente
giudaici, e pertanto particolaristi - appare priva di base e perfino
di sostanza. È un semplice criterio mentale, del tutto a priori,
che si poteva imporre ai fatti solo nella misura in cui questi era-
no conosciuti poco o male.
In primo luogo, la conoscenza che abbiamo oggi del giudai-
smo ellenistico basta per convincerci che il fatto di aver utiliz-
zato, come mezzo di espressione o anche di riflessione, i mate-
riali e perfino gli strumenti del pensiero greco, non ha nulla di
specificamente cristiano, e soprattutto nulla che permetta di
opporre il cristianesimo al giudaismo. È chiarissimo, infatti, che
gli ebrei Thanno fatto ben prima dei cristiani e che, se c'è sta-
ta qualche ellenizzazione effettiva del cristianesimo antico -
per non dire primitivo - , questa è avvenuta prima di tutto alla
scuola degli ebrei e non per reazione contro di essi (8).
Intanto, i migliori studi contemporanei su Filone lo compro-
vano sempre meglio: già per gli ebrei si era trattato, di fatto,
di una giudaizzazione degli elementi e dei temi del pensiero

(8) Cf E. R. G oodenough, By Light Light. The Mystic Gospel of


Hellenistic Judaism, New Haven 1935; H. A. W olfson, Philo. Cam-
bridge (Mass.) 1948.

33
greco più che di una conversione o di una immersione in que-
sto pensiero (9). La stessa cosa, a maggior ragione, deve essere
detta degli autori cristiani di cui si era creduto di poter ridurre
!,originalità a un processo di ellenizzazione. Questo vale in mo-
do tutto speciale per colui nel quale si credeva di poter scopri-
re un trapasso evidente di concezione intellettuale e una tale
metamorfosi religiosa: Fautore del IV vangelo. Infatti, a uno
studio più approfondito e più ampiamente fornito di termini
di confronto, egli si è rivelato molto più tributario del giudai-
smo e ben più fedele al suo spirito di quanto lo si potesse im-
maginare una o due generazioni fa (10).
Se però nelTinsieme della tradizione cristiana c'è un eie-
mento che, sotto tutte le forme conosciute, accusa la continuità
e la dipendenza rispetto al giudaismo, questo è proprio la pre-
ghiera eucaristica. Certo, è una autentica creazione del cristia-
nesimo, e tuttavia noi pensiamo che tutto lo studio che seguirà
stabilirà questo: sia che si tratti dei temi fondamentali, sia del-
le loro relazioni reciproche, sia della struttura e dello sviluppo
della preghiera, la continuità con la preghiera giudaica chiamata
« beràkà » è così infrangibile che non si vede come se ne potreb-
be evitare la dipendenza.
È qui che interviene Tultimo argomento che si oppone al-
Tesarne di una simile ipotesi. Il suo solo enunciato, dobbiamo
riconoscerlo, fa a prima vista un effetto così decisivo che si può
essere tentati di abbandonare ogni discussione. Però, è più che
mai il caso di dire che Targomento o prova troppo o non prova
nulla.
Ad ogni confronto tra le eucaristie cristiane e i testi corri-
spondenti della liturgia giudaica, certuni oppongono, infatti,
questa obiezione pregiudiziale: non abbiamo, di quesfultima,
un solo testo che sia anteriore al medioevo. Dunque - si di-
ce allora - come si potrebbe istituire un confronto valido tra
testi così tardivi e Teucaristia, sia quella primitiva, sia quella
già evoluta nelle forme ancora in uso, e che si sono fissate, in
massima parte, nelTepoca patristica? Per quanto possa sembra-
re impressionante, Targomento è solo un paralogismo. Esso pog-

(9) Cf J. D aniélou, Philon d’Alexandrie, Paris 1958.


(10) Cf C. H. D odd, L ’interpretazione del quarto Vangelo, Paideia,
Brescia 1974.

34
già interamente su una confusione implicita tra la data di un
testo e la data conosciuta del manoscritto più antico o della rac-
colta più antica che ce lo ha conservato. A questo riguardo, è
certamente esatto che i più antichi manoscritti che abbiamo
della liturgia sinagogale sono degli esemplari medievali più o
meno tardivi del Seder Amram Gà’on (11), una raccolta del
resto composta solo nel secolo IX. Prima però di ricavarne con-
clusioni precipitose, sarebbe bene ricordare che prima delle sco-
perte di Qumràn non avevamo nemmeno alcun testimone del
testo ebraico della Bibbia che fosse anteriore a questa data.
In modo più generico, prima delle scoperte più o meno re-
centi di papiri egiziani, rarissimi erano i manoscritti degli autori
dell'antichità pervenuti a noi che risalissero oltre la rinascenza
carolingia o la prima rinascenza bizantina press'a poco contem-
poranea. Se ha qualche valore il ragionamento secondo cui la
liturgia giudaica, come la conosciamo noi, non può essere an-
teriore di molto a quest'epoca, chi sarebbe pronto a sostenere
la tesi che si imporrebbe parallelamente riguardo a tutta la let-
teratura dell'antichità greco-latina? A dire il vero, bisogna notare
che all'inizio del secolo XVIII c'è stato uno studioso che lo ha
sostenuto. Si tratta del p. Hardouin-Mansart: questi, con una
logica impavida, non esitò a denunciare in Virgilio, Orazio, Ci-
cerone, come pure in Platone e Omero, dei semplici prestanomi
assunti da monaci disoccupati di Bisanzio o della Gallia per
coprire le loro personali elucubrazioni (12). È pur vero che l'au-
tore di questa mirabolante teoria, tanto erudito quanto ingegno-
so, doveva morire « in casa di cura »...
Le stesse verifiche esterne e la critica interna che distruggo-
no la sua speciosa argomentazione nel caso degli autori classici,
valgono anche per la liturgia giudaica. Sebbene non abbiamo
nessun testimone completo dei testi che risalga oltre Amram
Gà'on, abbiamo troppe allusioni e citazioni precise, innegabil-
mente anteriori, perché si possa dubitare seriamente che que-
sti testi, nel loro insieme, siano ben più antichi dei loro più

(11) Cf D. H edegard, Seder R. Amram Gà'on. Part. I: Hebrew


Text with critical Apparatus. Translation with Notes and Introduction,
Lund 1951.
(12) Questa incredibile storia è stata delineata da O. Chadwick,
From Bossuet to Newman, Cambridge 1957, ρρ. 49ss.

35
vecchi testimoni finora sopravvissuti. Questo viene poi cor-
roborato dal loro contenuto, dal loro stile, dalla loro lingua,
che non possono assolutamente passare per medievali. I testi
di preghiere giudaiche che si possono mettere in parallelo coi
più antichi testi deireucaristia cristiana non riflettono la teoio‫־‬
già giudaica delimito medioevo, bensì quella del giudaismo
contemporaneo alle origini cristiane. Tanto il loro stile come
la loro lingua si apparentano con le preghiere e con gli inni ri-
trovati a Qumràn, molto più che con l’ebraico dei piyutim po-
steriori, per non dire nulla dell’ebraico del medioevo. Ma soprat-
tutto sono numerosi i detti rabbinici, le prescrizioni o le citazioni
della Misnà o della Tósefta - innegabilmente di un’epoca molto
antica - che li riflettono in un modo o nell’altro, perché sia le-
cito un dubbio serio, almeno sul tenore generale delle preghiere.
A questo si deve aggiungere una controprova. La sorpren-
dente affinità dei testi forniti da Amram Gà’on e dei testi anco-
ra in uso nella Sinagoga ai giorni nostri (13) attesta il conserva-
torismo liturgico degli ebrei, molto più accentuato di quello
dei cristiani, e ci assicura che qui, meno che mai, non si posso-
no tirare le conclusioni sulla data di un testo dalla data di un
manoscritto o di una raccolta. A questo si aggiunge ciò che co-
nosciamo da buona fonte: se gli ebrei hanno, di fatto, modifica-
to la loro liturgia dopo l’inizio dell’èra cristiana, queste modifi-
che- quando non si tratta di semplice aggiunta di nuovi eie-
menti - sono state generalmente guidate dalla preoccupazione
di abolire nel culto giudaico quello che aveva potuto essere
nuovamente impiegato o interpretato dai cristiani. È soprattut-
to il caso del calendario delle letture bibliche (14). Ne conse-
gue una sicurezza tutta speciale per quelle parti della liturgia
giudaica che sono innegabilmente parallele ai testi cristiani più
caratteristici. Se sono ancora presenti, è perché esse erano giu-
dicate dagli stessi ebrei troppo essenziali, troppo fondamentali,
perché la preoccupazione polemica che animava la riforma della

(13) Cf S. S inger, The Authorised Daily Prayer Book of the United


Congregations of the British Empire, with a new Translation, London
151944; I. A brahams, A Companion to the Authorised Daily Prayer Book,
ed. riveduta, London 1922 (nuovamente edita nel 1966).
(14) Cf R. G. F inch, The Synagogue Lectionary and the New
Testament, London 1939.

36
loro propria liturgia, potesse non contare proprio là dove ci
sarebbero state le maggiori occasioni di manifestarsi.
Infine, bisogna ricordarlo, e questo è fondamentale: non è
solo nei testi di preghiere che si accusa la dipendenza della Chie-
sa rispetto alla Sinagoga. Lo stesso accade per tutti gli aspetti
del culto: che si tratti dell'architettura, della musica sacra, o an-
che - ed è l'ultima cosa a cui si sarebbe pensato senza le recen-
ti scoperte - dell'iconografia.
Infatti, l'archeologia ha dimostrato un'analogia, che si può
dire evidente, tra la disposizione delle sinagoghe contempora-
nee alle origini cristiane e quella dei primi luoghi di culto cri-
stiani, come è perdurata in Siria. Questo argomento l'abbiamo
trattato in un altro studio, e pensiamo di riprenderlo più detta-
gliatamente in un prossimo volume (15). Qui basti ricordare
alcuni punti salienti.
Le sinagoghe antiche sono, come le chiese cristiane, le do-
mus ecclesiae: la casa in cui si raduna l'assemblea dei fedeli.
Esse rimangono strettamente legate al Tempio di Gerusalemme
(o al suo ricordo) e sono orientate verso quest'ultimo per la
preghiera. La direzione del debir, del « santo dei santi » in cui
si credeva risiedesse la presenza divina - la Sekinà - è indicata,
nelle più antiche, da un portico, bloccato da un'« arca » in cui
si conservano le sante Scritture, munita - come nel Tempio - di
un velo e del candeliere a sette bracci, la menorà. Più tardi il
portico, in realtà da molto tempo inutilizzato, sarà sostituito
da un'abside dove finalmente sarà portata l'arca. La stessa as-
semblea si organizza intorno alla « cattedra di Mosè », su cui
siede il rabbino che presiede, in mezzo ai banchi degli « anzia-
ni ». Essa si raggruppa intorno al bèma, predella munita di un
leggio, dove sale il lettore per leggere i testi che lo hazzan, il
« ministro », antenato del nostro diacono, ha estratto dall'ar-
ca. Tutti si voltano poi verso Gerusalemme per la preghiera (16).
Nelle antiche chiese siriache la cattedra di Mosè è diventa-
ta il trono episcopale, e il banco semicircolare che lo circonda è
diventato il posto dei « presbiteri » cristiani. Ma sono rimasti,

(15) Si veda, nel mio volume II rito e l'uomo, Morcelliana, Brescia


1964, il capitolo su Lo spazio sacro, pp. 189ss.
(16) Cf E. L. S ukenik , Ancient Synagogues in Palestine and Greece.
London 1934.

37
come nella sinagoga, in mezzo all’assemblea. Vi si trova anche
il bèma, in prossimità dell’arca con le Scritture, sempre al suo
antico posto, non in fondo ma poco distante dall’abside. Essa
rimane nascosta dal suo velo ed è sempre accompagnata dal can-
deliere. Tuttavia l’abside non è più rivolta verso Gerusalemme,
ma verso Oriente: simbolo dell’attesa di Cristo nella sua paru-
sia. Mentre essa era vuota nelle antiche sinagoghe (più tardi vi
sarà messa l’arca), nella chiesa siriaca quest’abside rivolta ver-
so oriente è ora occupata dall’altare, preceduto da un secondo
velo, come per significare che questo ormai è il solo « santo dei
santi », nell’attesa della parusia (17).
Il confronto di queste due disposizioni illustra meglio di
qualsiasi commento, insieme all’origine giudaica del culto cri-
stiano, che cosa è la novità cristiana. L’eucaristia ha sostituito
i sacrifici del Tempio e la Sekinà, ormai, dimora nell’umanità di
Cristo risorto che non ha più un habitat terrestre, ma che ri-
tornerà nell’ultimo giorno, come l’Oriente definitivo che ogni
eucaristia anticipa.
L’iconografia comparata viene a confermare questa genea-
logia del culto cristiano. Quando è stata scoperta la sinagoga di
Dura-Europos e se ne sono potuti ammirare gli affreschi, essa
è apparsa come un’eccezione: sembrava in contraddizione con
l’iconoclastia giudaica. In realtà, come il Sukenik mette in
chiara luce nel suo studio sulle antiche sinagoghe, la sinagoga
di Dura-Europos è un’eccezione soltanto per la conservazione
della sua decorazione (18). Praticamente, però, in tutte le
sinagoghe antiche sussistono vestigia di una decorazione del tut-
to simile. Da questo bisogna concludere - sottolinea l’autore -
che solo molto più tardi, e per una reazione evidente contro il
cristianesimo, le sinagoghe sono giunte a proibire qualsiasi
ornamento figurativo.
Pertanto, la similarità dei temi biblici selezionati nelle si-
nagoghe con quelli che si trovano negli affreschi o nei mosaici
paleocristiani è impressionante. Gli stessi episodi sono conser-
vati da una parte e dall’altra. Il loro uso attesta che nella Sina-
goga, come più tardi nella Chiesa, erano interpretati nel senso

(17) Cf il capitolo già citato (nota 15) del mio volume II rito e
l'uomo.
(18) E. L. S ukenik , op. c i t pp. 82ss.

38
di un'applicazione attuale al popolo di Dio che ne celebrava
il « memoriale » nella sua liturgia. Ritorneremo più avanti su
questo punto; intanto c'è da sottolineare che le analogie, anzi
le identità, sono così impressionanti (per esempio, a Dura-Eu-
ropos, tra la sinagoga che è stata ora menzionata e la chiesa
scoperta nella stessa località) che certuni sono giunti a chieder-
si se quella che era stata presa per una sinagoga non fosse piut-
tosto una chiesa giudeo-cristiana (19). Questa supposizione ha
creduto di trovare un appoggio nel fatto che, tra i frammenti
di manoscritti scoperti nella presunta sinagoga, se ne è trovato
uno che ci dà una delle preghiere eucaristiche della Didachè,
ma in ebraico! In realtà, troppi indizi concorrono a dimostrare
che si tratta proprio di una sinagoga, ma rimane pur vero che la
continuità dalla sinagoga alla chiesa è così stretta, che non c'è
da meravigliarsi se qualcuno può confondersi.
Questa scoperta di un originale ebraico di una preghiera
eucaristica della Didachè sottolinea un ultimo fatto che non
permette più di dubitare della genesi della preghiera eucaristi-
ca cristiana a partire dalle preghiere giudaiche. Ed è che noi
abbiamo una serie di testi particolarmente preziosi che servono
di legame tra la liturgia giudaica e la liturgia cristiana. Si trat-
ta prima di tutto di testi ebraici, come quelli della Didachè, che
i cristiani hanno potuto utilizzare per un certo tempo senza
quasi ritoccarli, ma dando semplicemente un senso nuovo a cer-
ti temi essenziali, come qahal-ecclesia, beràkà-eucaristia, ecc.
Ma vediamo che ben presto si succedono altri testi, come
quelli di cui Bousset ha segnalato l'origine giudaica nel VII li-
bro delle Costituzioni apostoliche (20), e che Goodenough ha
studiato nei particolari (21). In questi ultimi, il fondo e il corpo
del testo rimangono giudaici, ma alcuni termini sono stati ag-
giunti solo per precisare l'interpretazione e la trasposizione cri-
stiane.
Un altro passo avanti e troveremo nel libro V ili della stes-

(19) Questo punto di vista è stato sostenuto in una relazione alla


Patristic Conference di Oxford, nel 1963.
(20) W. Bousset , Eine Jiidische Gebetsammlung im siebeten Buck
der apostolischen Konstitutionen, in Nachrichten von der Kònigliche
Gesellschaft, der Wissenschaften zu Gottingen, Philologische-Historische
Klasse, 1915 (1916), pp. 435-485.
(21) E. R. Goodenough, op. cit., pp. 306ss.

39
sa raccolta, preghiere di fattura indiscutibilmente cristiana, ma
ancora dominate dai modelli giudaici, anzi con frammenti di
preghiere giudaiche.
Quando si tengono presenti tutti questi fatti, diventa molto
difficile rifiutare ancora i confronti testuali. Se dunque esami-
niamo punto per punto i testi e seguiamo passo passo la loro
evoluzione, diventerà evidente - ci pare - che la preghiera eu-
caristica, come tutte le « novità » cristiane, è una novità radi-
caia non solo nell’AT in generale, ma, immediatamente, in quel-
la preistoria del Vangelo che è la preghiera di coloro « che at-
tendevano la consolazione di Israele » (22).

(22) Per tutti i termini ebraici, aramaici o siriaci che si troveranno


nel seguito del volume, abbiamo cercato semplicemente di dare una tra-
scrizione che si presti a una lettura più facile da parte di coloro tra i
lettori che non sono degli orientalisti di professione (g è sempre aspro,
u pronunciato come in italiano, q corrisponde alla gutturale esplosiva).

40
Capitolo III

Parola di Dio e «berakà»

Parola di Dio e conoscenza di Dio

L'elemento della liturgia sinagogale che attira subito la no-


stra attenzione quando cerchiamo le origini dell'eucaristia cri-
stiana è quel tipo di preghiere chiamate in ebraico beràkòt, la
cui traduzione abituale, inizialmente, fu data dal vocabolo greco
ευχαριστία, generalmente tradotto, a sua volta, con « azione di
grazie », proprio come beràka, anche se l'uso giudaico sia piut-
tosto di chiamare beràkòt le « benedizioni ».
Il p. Audet, domenicano, nei suoi studi molto suggestivi, ha
criticato un po' questa traduzione (1). Egli ha giustamente sot-
tolineato il ■fatto che « azione .di grazie », nell'uso corrente che
noi facciamo dell'espressione, è passato a significare nient'altro
che « ringraziamento ». Si rende grazie nel senso che si esprime
a Dio la propria riconoscenza per un favore particolare che egli
ci ha fatto. Invece, secondo l'Audet, 1'eucharistia primitiva -
né più né meno come prima di essa la beràka giudaica - è fon‫־‬
damentalmente una jproclamazione, una confessione dei mirabi-
lia Dei. Il suo oggetto non è affatto limitato a un dono ricevuto
e alla gratitudine, più o meno egocentrica, che può suscitare.
Per quanto sia giustificata questa osservazione, non biso-
gnerebbe però renderla così rigida come egli fa, o tende a far-
lo. La beràka giudaica - come pure 1'eucharistia cristiana - non
potrebbero assolutamente essere assimilate alla lode disinteres-
sata, almeno in apparenza, che si trova, per esempio, negli inni

(1) J.-P. A udet, Esquisse historique du gerire littéraire de la « Bé-


nédiction » juive et de Γ« Eucharistie » chrétienne, in RB 55 (1958) 371ss.
Si veda anche la sua edizione con commento: La Didachè. Instructions
des apòtres, Paris 1958. - Del medesimo autore: Geme littéraire et
formes cultuelles de VEucharistie. «N ova et vetera», in EL 80 (1966)
353-385.

41
di culto deirantichità classica, in quelli già più letterari quali
gli inni omerici, o in quelli nettamente filosofici dell'epoca el-
lenistica, come il celebre inno di Cleante. La beràkà infatti, e
specialmente le beràkòt liturgiche che sono gli antecedenti im-
mediati dell'eucaristia cristiana, è sempre la preghiera propria
dell'ebreo - in quanto membro del popolo eletto - che non be-
nedice Dio in generale, come farebbe un filosofo neoplatonico,
per dei mirabilia Dei che non lo riguardino personalmente. È in-
vece la « benedizione » del Dio che si è rivelato ad Israele, che
si è comunicato a lui in un modo unico, che lo ha « conosciuto »,
e, di conseguenza, si è fatto « conoscere ». Ciò vuol dire che ha
creato, tra sé e i suoi, una relazione sui generis che, qualunque
sia l'oggetto preciso della lode, vi rimane perlomeno soggiacente.
Se vogliamo dunque evitare di sbagliarci, sia restringendo,
sia allargando abusivamente il senso preciso di un'espressione
che indica una preghiera di tipo del tutto speciale, dobbiamo
cominciare col rimetterla nel suo contesto letterario e storico.
La beràkà è speciale, infatti, ed è specifica di tutta la pietà giu-
daica. Questa è una pietà che non considera mai Dio in generale,
in astratto, ma sempre in correlazione con un fatto fondamen-
tale: l'alleanza di Dio con i suoi. Più precisamente ancora: la
beràkà è una preghiera la cui caratteristica essenziale è di es-
sere una risposta: la risposta per eccellenza alla parola di Dio.
Premessa indispensabile per qualsiasi accostamento alle be-
ràkòt giudaiche è dunque uno studio su ciò che era venuta a si-
gnificare - per gli ebrei che le hanno composte e utilizzate - la
parola di Dio.
Il primo punto da sottolineare, appena si affronta questo
studio, è che per gli ebrei contemporanei alle origini cristiane
« parola di Dio » significava molto di più e ben altra cosa di
quanto significhi per la maggior parte dei cristiani moderni. I
nostri manuali di teologia, per lo più, preferiscono parlare della
« rivelazione » anziché della « parola di Dio ». Sembra che la
parola di Dio li interessi solo in quanto essa rivela certe veri-
tà inaccessibili alla ragione umana. Siccome queste stesse « ve-
rità » vengono concepite come enunciati dottrinali separati, la
parola di Dio finisce per ridursi a una collezione di formule.
D'altronde, vengono poi staccate per essere riorganizzate in un
concatenamento logicamente più soddisfacente, oppure per es-
sere ritoccate o manipolate in modo da renderle più chiare e

42
più precise. Tutto quello che, dopo questo lavoro, rimane della
parola di Dio apparirà come un rimasuglio, una specie di tessu-
to connettivo in se stesso privo di interesse. In questo modo, lo
si voglia o no, la parola di Dio viene a dare !,impressione di uno
strano guazzabuglio da cui il teologo professionista estrae -
come un minerale dalla sua ganga - conoscenze astratte minute
e preziose, con il compito successivo di chiarirle e sistemarle in
un nuovo contesto. In questa prospettiva, la parola di Dio non
rimane altro che una presentazione elementare, grossolana, con-
fusa, di verità più o meno latenti che tocca ai teologi mettere
in luce e ordinare (2).
Però, anche per coloro che non sono intaccati direttamente
da questa deformazione professionale - frutto di una teologia
concepita come una scienza astratta - la parola di Dio, consi-
derata di primo acchito come « sacra Scrittura », rimane troppo
sovente una semplice comunicazione di idee, Il motivo è che, per
noi moderni, la parola, e specialmente la parola scritta, tende
ad essere solo questo. Una deformazione scolastica, praticamen-
te universale, ci rende convinti che ormai si ascolta e si legge
solo per imparare qualcosa che non si conosceva ancora. Il re-
sto, se pure c’è, passa per un divertimento o una fantasia su-
perflua.
Per il pio ebreo, invece, e soprattutto per quegli ebrei che
meditavano la parola di Dio verso la fine di quello che noi chia-
miamo VAntico Testamento, la Parola divina significava una
realtà intensamente viva. Non si trattava, prima di tutto, di idee
da manipolare, ma di un fatto, di un evento, di un intervento
personale nella loro esistenza. Per essi, la tentazione di identifica-
re religione della Parola con religione intellettualistica non esi-
steva. Il solo enunciato di una tale equivalenza sarebbe loro sem-
brato assurdo, per non dire privo di significato.
In primo luogo, infatti, quando si servivano delPespressio-
ne « parola di Dio », essi restavano molto vicini al senso primiti-
vo della parola umana. Inoltre, erano docili a ciò che questa

(2) Su questo punto, però, comincia a farsi strada una reazione, di


cui un segno particolarmente incoraggiante, almeno in Francia, è la
serie dei libri di P. G relot, in particolare: La Bible, Parole de Dieu,
Paris 1965, e Bible et théologie, Paris 1966.

43
Parola divina dice di sé, al modo con cui essa si presenta an-
cora a noi nella Bibbia (3).
Gli uomini non hanno incominciato a parlare per tenere
lezioni o conferenze. Dio, parlandoci, non si atteggia a profes-
sore di teologia. L’esperienza prima della parola umana è quel-
la di qualcun altro che entra nella nostra vita. E l’esperienza,
ancora fresca e già completa - in un certo senso - della Parola
divina al termine dell’antica alleanza era quella di un inter-
vento analogo, infinitamente più attraente e vitale: l’intervento
del Dio onnipotente nella vita degli uomini.
« Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è
uno solo » (Dt 6,4) : ecco, per l’ebreo, non solo il riassunto di
tutta la parola di Dio, ma la parola di Dio più tipica. Dio ir-
rompe nel nostro mondo, per imporsi a noi con la sua presenza,
divenuta tangibile. Si può dire che ad ogni pagina della Bib-
bia la Parola divina si definisce, o meglio, si manifesta così.
Non è un discorso, ma un'azione: l’azione con la quale Dio in-
terviene da padrone nella nostra esistenza. « Ruggisce il leo-
ne », dice Amos, « chi mai non trema? Il Signore Dio ha parla-
to: chi può non profetare? » (Am 3,8). Questo significa che la
Parola, non appena si fa sentire, prende possesso dell’uomo per
realizzare il proprio disegno. Isaia dice, a sua volta:
« Come infatti la pioggia e la neve
scendono dal cielo e non vi ritornano
senza avere irrigato la terra,
senza averla fecondata e fatta germ ogliare,
perché dia il seme al sem inatore
e pane da m angiare,
così sarà della parola
uscita dalla m ia bocca:
non ritornerà a m e senza effetto,
senza aver operato ciò che desidero
e senza aver com piuto ciò p er cui Pho m andata »
(Is 55,10-11).
Per Israele, non solo la Parola divina - come ogni parola de-
gna di questo nome - è azione, intervento personale, presenza

(3) Si vedano gli studi di M. B uber sulla Parola, di cui H. U rs


von Balthasar ha fatto vedere tutto quello che una teologia cristiana
dovrebbe saper ricavare: Einsame Zwiesprache. Martin Buber und das
Christentum, Kòln und Olten 1958.

44
che si afferma e si impone, ma, essendo la Parola dellOnnipo-
tente, essa produce, per virtù propria, ciò che annuncia. Dio è
verace, non solo nel senso che non mente mai, ma anche nel
senso che ciò che dice è la sorgente di ogni realtà (4). Basta che
lo dica perché ciò avvenga.
Questa convinzione è così forte che anche gli empi, in Israe-
le, non saprebbero sfuggirvi. I re infedeli tormenteranno i prof e-
ti perché profetizzino ciò che loro piace, o almeno perché tac-
ciano, perché sono persuasi che appena la Parola divina si è fat-
ta sentire, fosse anche solo per bocca di un semplice pastore,
come Amos, essa va diritta alla sua realizzazione (5).
I profeti, dal canto loro, dimostrano di essere convinti di
questo potere della Parola che supera anche loro stessi; Ezechie-
le non esiterà a rappresentare in anticipo - con atti simbolici
che ricordano i modi di agire dei maghi - gli avvenimenti che
annuncia, per sottolineare bene la loro ineluttabile realizzazio-
ne (6). Ma non è più questione di magìa, poiché non si tratta
affatto di uno sforzo dell’uomo per costringere gli avvenimenti
a seguire la sua volontà. Avviene tutto il contrario, come in un
segno sacramentale: è Paffermazione concreta del potere di Dio
che annuncia di fare ciò che dice, per mezzo della sola Parola
espressa.
La conclusione di tutto questo sarà la certezza manifesta-
ta dal racconto sacerdotale della creazione: la parola di Dio non
interviene semplicemente nel corso delle cose preesistenti per
modificarle. Tutte le cose non hanno esistenza, fondamentalmen-
te, se non per una parola di Dio che le ha fatte esistere. Ed esse
non sono buone se non in quanto rimangono quali la Parola di-
vina le ha proiettate nelPesistenza (Gn 1).
Finché non si è capito questo - o fino a quando ci si rifiuta
di accettarlo - la Bibbia non ha senso. Oppure, se si cerca di
trovargliene uno, non è il suo, non è quello che il popolo di Dio
ha riconosciuto nella parola di Dio.
Dire questo non significa, però, che la parola di Dio sia pri-
va di un contenuto intellettuale, o che tale sia sembrata agli

(4) Si veda la voce αλήθεια, in GLNT, I, 625665‫־‬.


(5) Cf Am 7,10ss; Ger 26; ecc.
(6) Cf Ez 5,13‫ ־‬e il commento di A. Lods, Les prophètes d’Israel et
les débuts du judaisme, Paris 1935, pp. 5859‫־‬.

45
ebrei. Arrivare a questa conclusione sarebbe spingere fino al-
l'assurdo la reazione necessaria contro Terrore precedente. Di
fatto, non è altro che il cedimento alla tentazione permanente
di agnosticismo che paralizza troppo sovente il pensiero religio‫־‬
so moderno (soprattutto, ma non esclusivamente, protestante).
Questo era sconosciuto al giudaismo antico, come gli era estra-
neo anche il nostro intellettualismo esangue.
La parola di Dio in Israele ha come suo correlativo la co-
noscenza di Dio. È vero che questa conoscenza non è un eie-
mento di astrazione, ma ciò non toglie che sia conoscenza, e
nel senso più ricco di cui il vocabolo sia suscettibile (7). La co-
noscenza di Dio che risulta dalla Parola - che ne è il frutto per
eccellenza -, conoscenza di cui Dio sarà l'oggetto, procede es-
sa stessa da una conoscenza anteriore alla Parola e nella quale
essa si esprime: la conoscenza di cui Dio è il soggetto (8). La
prima non procede e non si può capire se non partendo dalla
seconda. « Allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono
conosciuto» (1 Cor 13,12): questa parola di san Paolo espri-
me Lambito e Fefficacia della Parola divina ricordati da Isaia.
La « conoscenza di Dio » - nel senso radicale della cono-
scenza che Dio ha di noi - è ben altra cosa di una semplice on-
niscienza impassibile o semplicemente contemplativa. Nella Bib-
bia, « conoscere » una persona per Dio vuol dire interessarsi,
attaccarvisi, amarla, colmarla dei propri doni. « Soltanto voi
ho conosciuto fra tutte le stirpi della terra », dice Dio agli israe-
liti per mezzo di Amos; « perciò io vi farò scontare tutte le vo-
stre iniquità » (Am 3,2). In altre parole: ho fatto per voi quello
che non ho fatto per nessun altro; dunque esigerò da voi quello
che non potrei richiedere da nessun altro.
La conoscenza di Dio (intendiamo sempre la conoscenza
che Dio ha di noi) andrà, dunque, di pari passo con la sua eie-
zione: la scelta che egli ha fatto di alcuni, perché il suo dise-
gno abbia, in essi o per mezzo di essi, il suo compimento (9).

(7) Si vedano su questa nozione le osservazioni di A. N eher, L ’es-


sence du prophétisme, Paris 1955, specialmente pp. lOlss.
(8) Cf le ottime osservazioni, sulfimportanza di questa conside-
razione, di J. D upont, Gnosis. La connaissance religieuse dans les épi-
tres de Saint Paul, Louvain-Paris 1949, pp. 51 ss.
(9) Cf Η. H. Rowley, The Biblical Doctrine of Election, London
1950.

46
Essa implica la sua compassione, la sua simpatia per le nostre
miserie, persino per le nostre debolezze. Ciò proviene dal fatto
che non solo ci ha creati, ma rimane per noi come un padre
pieno di comprensione:
« Come u n pad re ha p ietà dei suoi figli,
così il Signore ha pietà di quanti lo tem ono.
Perché egli sa di che siam o plasm ati,
ricorda che noi siam o polvere » (Sai 103,1314‫)־‬.

Questa conoscenza, in ultima analisi, è amore: un amore


misericordioso che condiscende a unirsi e, per unirsi, ad ab-
bassarsi fino al livello di ciò che è più lontano da lui, per la sua
debolezza e più ancora per la sua indegnità. È quello che sarà
espresso nell'immagine delle nozze, applicata al Signore e al
suo popolo. Più precisamente, secondo Osea, Dio si comporta
con Israele come un uomo innamorato di una donna indegna,
di una prostituta, ma che l'immensità delPamore con cui è ama-
ta arriverà a rendere degna (05 3). Per Ezechiele, è a una barn-
bina - frutto di adulterio, abbandonata fin dalla nascita, vero
aborto - che Pamore immeritato di Dio si è rivolto, per risolle-
varia, educarla, farne una regina (Ez 16). L'epitalamio regale
del salmo 45 cesella, quasi in filigrana, questa unione su quella
di un re israelita e di una principessa straniera (10). Il Cantico
di Salomone, a sua volta, sarà accettato nel canone dei libri
ispirati solo per merito di questa interpretazione che vede, nella
Sulammita, la figlia di Sion chiamata alPunione con un re che
è il Re dei cieli (11).
Questa serie di immagini nuziali è la contropartita di un'e-
spressione tipicamente ebraica che incontriamo fin dalle prime
pagine della Genesi (Gn 4,1). L'unione degli sposi, nella con-
giunzione carnale in cui si esprime e si realizza Punione di due
vite in una sola, è « conoscenza » per eccellenza. A sua volta,
la sessualità verrà a ricevere per questo una consacrazione su-
prema. L'unione dell'uomo e della donna troverà il suo senso
nello scoprire il suo mistero, che è quello della « conoscenza »

(10) Si tratta, con tutta probabilità, di un poema composto per il


matrimonio di Acab con Gezabele.
(11) Cf A. Robert, La description de VÉpoux et de VÉpouse dans
Cant. 5,11-15 et 7,2-6, in: Mélanges E. Podechard, Lyon 1945, pp. 211ss.

47
reciproca in cui deve sbocciare il dialogo di amore tra il Dio
che parla e l’uomo che gli risponde, nella fede alla sua Parola.
La conoscenza di Dio che siamo chiamati ad avere, è frut-
to in noi - mediante la Parola - della conoscenza che Dio ha
di noi. Perciò la nostra conoscenza dovrà modellarsi sulla sua
sorgente. Dovrà essere innanzi tutto una fede obbediente, tema
che sarà svolto in particolare da Isaia (12). Si conosce Dio sol-
tanto credendo in lui, in modo tale da cancellare tutto ciò che
non è lui, tutto ciò che non procede dalla sua Parola. Però, non
si crede così se non ci si impegna effettivamente nelPobbedien-
za a questa Parola.
Inoltre, questa obbedienza non è un’obbedienza qualsiasi a
qualsiasi parola. Se Dio esige da noi la giustizia - come sue-
cessivamente è stato messo in luce da Amos e da Osea -, è per-
ché egli è il giusto per eccellenza. Noi non potremmo beneficia-
re della sua misericordia senza limiti, e nemmeno riconoscerla,
se non diventiamo noi stessi misericordiosi. Ecco perché, agli
occhi divini, « la misericordia vale più del sacrificio » (13). La
fede obbediente, inerente a quella conoscenza di Dio a cui Può-
mo è chiamato, è dunque, di fatto, una conformazione di noi
stessi a lui.
Questa conformazione, però, è possibile solo perché Dio -
e questo è il segreto finale della sua Parola - ha voluto condi-
scendere ad unirsi a noi per unirci a lui. Seguendo questa via,
conoscere Dio equivarrà ad amarlo, ad amarlo come lui ci ha
amati, a rispondere al suo amore, in virtù di questo stesso amo-
re comunicato.
È qui che si delinea il contenuto intellettuale di questa « co-
noscenza », e che si vede che cosa abbia di unico. Conoscere
Dio, come si è stati da lui conosciuti, vuol dire, in ultima anali-
si, riconoscere Pamore con cui egli ci ama e ci segue in tutto
e - proprio perché lo si riconosce - nel riconoscerlo si accon-
sente, ci si dona e ci si abbandona a questo amore.
Si può così capire, senza equivoco, come nella pietà giudai-
ca la parola di Dio, quale la esprime il salmo 119, verrà a iden-
tificarsi con la Legge: la Torà. Per se stessa, questa identifica-
zione non significa affatto un legalismo qualsiasi. Perché la

(12) Cf Is 1,19-20; 30,15; ecc.


(13) Cf Os 6,6 che sarà citato da Gesù in Mt 9,13.

48
Torà, come Israele l’ha capita, è tutt’altra cosa di una legge nel
senso stretto del latino lex, o anche nel senso più largo di νόμος
(14). La Torà non è solamente, né prima di tutto, una serie di
prescrizioni formali che impongono una certa condotta. Esso
è ben più ancora di una regola interiore, corrispondente a qual-
che cosa di eterno nella natura delle cose. La Torà è una rivela-
zione di ciò che è Dio stesso, di ciò che egli vuol fare dei suoi, di
coloro che egli ha eletto, « conosciuto », nel senso che li ha
amati al punto da unirsi ad essi come nell’unione indissolubi-
le di un uomo e di una donna. Quanto è rivelatore questo leit-
moiiv del Levitico: « Siate santi, perché io, il Signore, Dio vo-
stro, sono santo » (19,2), che Gesù riprenderà ed esplicherà
in: « Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste » (Mt
5’48)!
Infatti la Torà, la sua fedele osservanza, deve contrassegna-
re il popolo di Dio col suo sigillo, un sigillo il cui marchio ri-
produce l’immagine di colui che lo imprime. La rivelazione della
Torà sul Sinai, nell’Esodo, ha il suo preludio nella rivelazione
del Nome divino a Mosè sullo stesso massiccio dell’Oreb. Que-
sta rivelazione del Nome di Dio - che significa la rivelazione, la
comunicazione di se stesso - rimane la base dell’alleanza tra lui
e i suoi (15). Di riflesso, essi saranno i suoi testimoni con la pra-
tica della Legge, perché così costituiranno come la testimonian-
za viva, per gli altri popoli, di ciò che egli ha fatto e, in quello
che egli fa dell’uomo, di quello che egli è.
In questo senso la Torà, nelle prescrizioni morali e fin nei
dettagli delle disposizioni cerimoniali, diventa come l’espressio-
ne di una vita comune tra Dio e il suo popolo, di una presenza
che è unione. Così, si può già dire della Torà quello che Gesù
dirà della legge evangelica: essa è un giogo comodo e un peso
leggero (16). È infatti un giogo d’amore: mette Dio nella vita
di coloro che egli ha conosciuto e che a loro volta lo conoscono.
La meditazione a cui si dedicheranno i Sapienti svilupperà

(14) Si veda E. Jacob, Théologie de l’Ancien Testament, Neuchà-


tel-Paris 1955, pp. 219ss, e la voce νόμος, in GLNT, VII, 1233ss.
(15) Si veda E. Jacob, op. cit., pp. 38ss.
(16) Cf Mima, trattato Beràkót, II, 2 e 10b. I trattati Beràkòt, ri-
spettivamente della Mima e della Tóseftà, sono stati tradotti in inglese
con un commento da A. L ukyn W illiams , Tractate Berakoth, London
1921.

49
tutte le esigenze della Parola così compresa e accettata (17). In
tutto lOriente antico, la Sapienza era una conoscenza pratica,
nutrita di esperienza meditata, e mirava all’arte suprema: Par-
te di vivere. Specialmente la Sapienza regale consisteva nell’ar-
te di far vivere non un solo individuo, ma tutto un popolo. Ac-
cettata in Israele con l’autorità regale, questa Sapienza - come
la regalità - si impregnerà degli insegnamenti della Parola. Co-
me il re non è che una epifania del solo vero Re, cioè di Dio
conosciuto nella sua Torà, così la Sapienza sarà il dono di Dio
fatto al re che lo rappresenta, il dono che lo farà regnare se-
condo le vie divine. Il principio della vera Sapienza sarà dun-
que la meditazione della Parola divina, sotto l’ispirazione del-
lo Spirito, del soffio di vita divina che la ispira. Sull’esperienza
e sulla riflessione razionale dell’uomo, essa proietterà dunque
la luce dall’alto.
Attraverso, però, l’esperienza storica d’Israele, guidato e il-
luminato dalla Parola, diventerà presto evidente che Dio, essen-
do il solo vero Re, rimane anche il solo Saggio degno di questo
nome. La Sapienza, identificata col contenuto essenziale della
Parola - la Torà (18) - verrà così a significare il disegno divino
seguendo il quale la storia dell’uomo deve prendere forma, per
realizzare un popolo, una umanità secondo il cuore di Dio. Sic-
come la Torà rivelata appariva inseparabile da una presenza
speciale di Dio con i suoi - cioè la Sekinà che lo faceva abitare
sotto la tenda con essi durante il loro pellegrinaggio - , la Sa-
pienza verrà a confondersi con questa Sekinà (19). Questa, però,
ormai non abiterà più semplicemente in un santuario in mezzo
ai suoi: farà dei loro cuori uniti il suo santuario.
Si direbbe che questa interiorizzazione e questa umanizza-
zione della Parola divina nella Sapienza, preparandone l’univer-
salizzazione, vadano incontro alle ultime visioni e alle supre-
me promesse profetiche. Per Ezechiele, come per Geremia, la
sostanza della nuova ed eterna alleanza che gli esiliati devono
attendere, portando con sé e in sé la presenza della Sekinà, è
una legge scolpita nei cuori e non più su tavole di pietra. In

(17) Si veda H. D uesberg, Les Scribes inspires, Paris 1939.


(18) Ci Sir 24,23.
(19) Cf tutto il c. 24 del Siracide, in cui si dice che la Sapienza di-
mora nella colonna di fuoco e di nube e nel tabernacolo.

50
questo modo « la conoscenza del Signore ricoprirà la terra co-
me le acque ricoprono il fondo dei mari » (20).
Qui si imporrà il carattere misterioso della Sapienza divi-
na. Essa supera il pensiero dei più sapienti degli uomini, come
i pensieri di Dio superano i pensieri dell’uomo. Solo Dio la co-
nosce. Essa è per Dio come un altro se stesso, cosicché conoscer-
la è conoscere Dio nel senso più pieno, L’uomo non vi può ac-
cedere se non per mezzo della rivelazione per eccellenza. Così,
dalla Sapienza che sembrava partire dalla terra, costituita dalla
ragione dell’uomo applicata alle esperienze di quaggiù, ma che
si è elevata fino al cielo, si passa all’Apocalisse: alla rivelazione
dei disegni ultimi, impenetrabili, di Dio, in cui è lui stesso che
si rivelerà ai suoi, per rivelarsi ben presto al mondo intero in
un modo definitivo (21).
Di qui, al termine dell’antica alleanza, l’attesa di una su-
prema rivelazione della Parola, in un’effusione dello Spirito
senza precedenti (22). Col Messia, l’Unto dall’alto che viene a
salvare il suo popolo, è Dio in persona che deve venire quasi al-
lo scoperto - perché il popolo lo riconosca e lo accolga -, in un
mondo che la Presenza svelata completerà nei suoi aspetti tem-
porali e temporanei, per renderlo perfetto nell’eternità beata.

Le « beràkòt », risposta alla Parola


La preghiera delle beràkòt risponderà alla Parola così inte-
sa. Esse sono la risposta, che si è precisata a poco a poco, della
fede ubbidiente alla Parola progressivamente sviluppatasi nella
sua ampiezza, altezza, profondità misteriose. Esse sono dunque
l’espressione completa della conoscenza di Dio nel cuore del
popolo che egli ha conosciuto, unico « fra tutte le stirpi della
terra » (Am 3,2).
Si può dire che i Salmi, i cantici del popolo di Dio ricono-
sciuti anch’essi come ispirati - ed essi stessi Parola di Dio -
hanno progressivamente nutrito e preparato lo sviluppo della
preghiera di Israele nella beràkà. Notiamo il valore di questo

(20) Cf Ez 36,26ss e Ger 31,31ss.


(21) Si veda D. D eden, Le « mystère » paulinien, in EThL 13 (1936)
405442‫־‬.
(22) Cf Gl 3,15‫־‬, che Pietro citerà in At 2,1721‫־‬.

51
fatto: i Salmi, le grandi preghiere di Israele, giunsero ad esse-
re accolti come parte integrante e centrale, « cordiale », della
Bibbia, della sacra Scrittura in cui si è depositata la Parola ispi-
rata. Nessun fatto potrebbe mettere meglio in evidenza questo
significato della parola di Dio per Israele, come quello di una
Parola creatrice, la cui creazione per eccellenza è quella di un
cuore nuovo nelPuomo, un cuore sulle cui tavole di carne sia
scolpita la Torà, in modo che l’uomo risponda, con tutto il suo
essere, e prima di tutto col suo cuore, all’intenzione profonda
della parola di Dio. Quello che essa vuol fare intervenendo nel-
la sua vita - il disegno di cui essa persegue pazientemente, ma
con onnipotenza, la realizzazione, attraverso la storia di un pò-
polo in cui essa lo impasta - è un uomo che conosca Dio come
ne è stato conosciuto, che dia alla sua Parola una risposta che
non sia altro che l’ultima parola, proferita in lui, di questa stes-
sa Parola. La traduzione del salmo 27 nelle Bibbie protestanti:
« Il mio cuore mi dice da parte tua: Cercate il mio volto, io cer-
co il tuo volto, o mio Dio », è solo una congettura, ma esprime
meravigliosamente bene questo disegno di tutta la Parola.
Considerati nella loro varietà e nel loro insieme, i Salmi co-
stituiscono come una vasta beràkà, anche se vanno al di là del-
la forma precisa che la tradizione giudaica definirà soltanto dopo
la composizione e la sistemazione della loro raccolta. Però, lo
schema della beràkà, come schema spontaneo della preghiera
che risponde alla Parola, è anteriore ad essi: lo si trova nelle
più antiche tradizioni d’Israele. In compenso, essi lo nutriranno
della loro sostanza, di modo che si può dire che è dalla loro re-
cita costante che la tradizione ulteriore ne afferrerà la teoria
pienamente esplicitata. Si spiega così come la liturgia giudaica
non abbia cessato di inquadrare la recita delle beràkót nella re-
cita continuata di tutto il Salterio, come la liturgia cristiana
avrebbe fatto dopo di essa (23). Le beràkòt giudaiche, come l’eu-
caristia cristiana, se venissero isolate dal Salterio si stacchereb-
bero dalle loro radici. L’una, come le altre, non tarderebbe a
vedere avvizzire il suo significato, a vederlo venir meno, e ri-
schierebbe di ridursi a un quadro vuoto.
Fin dalla Genesi e dall’Esodo si vede lo schema della beràkà.
Gli esempi che questi libri ce ne danno sono già di una chiarez-

(23) Cf DH, pp. 26ss.

52
za così sorprendente che si sarebbe tentati di vedervi un riflesso
della pietà tardiva degli scribi « sacerdotali », ultimi redattori
o revisori di questi scritti. Tuttavia le formule vi appaiono co-
sì semplici e così spontanee che vi sono molte probabilità che
esse siano piuttosto dei lontani modelli, conservati e preservati,
della risposta immediata alla Parola, modelli che lo sviluppo di
quest'ultima non avrebbe fatto che arricchire maggiormente. Nei
Salmi, in cui questo arricchimento della preghiera primitiva per
mezzo della Parola sempre più rivelatrice è ovunque sensibile,
10 schema della beràkà appare tante volte come sottofondo, an-
che se raramente chiaro. Si può dire che si trova lì come un cri-
stallo in formazione nella sua acqua-madre, ancora invisibile
allo sguardo superficiale, ma pronto a precipitarne tutta la so-
stanza nella forma richiesta.
Quando Eliezer, nella Genesi, ha incontrato Rebecca e ha
coscienza del modo con cui Dio, che si era rivelato ad Abramo,
ha condotto tutto, esclama: « Sia benedetto il Signore, Dio del
mio padrone Abramo, che non ha cessato di usare benevolenza
e fedeltà verso il mio padrone. Quanto a me, il Signore mi ha
guidato sulla via fino alla casa dei fratelli del mio padrone »
(Gn 24,27). In altre parole, Dio è benedetto per il fatto che ha
mantenuto le sue promesse verso colui che aveva creduto nella
sua Parola. L'oggetto di questa benedizione, per quanto sia ru-
dimentale, è già il riconoscimento di ciò che san Paolo avrebbe
espresso: « Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio... »
(.Rm 8,28).
Più sorprendente ancora è la beràkà pronunciata da Ietro, il
suocero di Mosè, soprattutto se la si colloca nel suo contesto.
Ietro vede quasi coi suoi occhi che Dio ha effettivamente par-
lato a Israele per mezzo di Mosè e ha realizzato le sue promes-
se. Allora esclama: « Benedetto sia il Signore, che vi ha libera-
ti dalla mano degli egiziani e dalla mano del faraone: egli ha
strappato questo popolo dalla mano dell'Egitto! Ora io so che
11 Signore è più grande di tutti gli dèi ». Il testo aggiunge: « Poi
Ietro, suocero di Mosè, offrì un olocausto e sacrifìci a Dio. Ven-
nero Aronne e tutti gli anziani d'Israele e fecero un banchetto
con il suocero di Mosè davanti a Dio » (Es 18,10-12).
Questa beràkà è dunque, in bocca a un estraneo al popolo
di Dio, l'espressione della sua associazione alla fede di quest'ul-
timo. Ietro riconosce che la Parola divina si è fatta sentire ad

53
Israele, che essa ha mantenuto le sue promesse per questo popo-
lo. Questa proclamazione di Dio, riconosciuto nei suoi mirabi-
lia, dà origine all'offerta del sacrifìcio e, di conseguenza, all'en-
trata nella comunione del popolo che la Parola ha formato, al-
la presenza di Dio.
Molti salmi non saranno che delle beràkòt di questo genere,
che si sono semplicemente sviluppate. Essi completeranno il
senso di queste espressioni: benedire (benedicere), cantare {can-
tare), confessare (confiteri), proclamare (praedicare), applicate ai
mirabilia Dei, come li annuncia, li manifesta e li produce la Pa-
rola onnipotente. Anche se il loro oggetto è la creazione in gè-
nerale, o qualche beneficio ricevuto individualmente, resta pur
sempre implicata nella loro lode !,esperienza propria d'Israele:
Dio manifestato prima di tutto nella storia dei suoi e riconosciu-
to poi ovunque e in tutto, cosicché, per l'israelita credente, tut-
to diventa eco della sua Parola, opera che lo proclama.
I Salmi che sono preghiere di domanda suppongono sempre,
come sfondo, questa lode; essa è la molla di ogni preghiera:
il Dio che viene pregato da Israele non è uno sconosciuto. È il
Dio ben conosciuto attraverso la sua Parola, riconosciuto nei
grandi fatti che l'accompagnano e che ne sono il prodotto. An-
che quando questo presupposto rimane implicito, sottende sem-
pre l'implorazione: il Dio che ha fatto queste meraviglie, come
le riteniamo, è colui, solo, da cui si può attendere tutto.
Molti però abbozzano già, e sovente fanno più che abbozza-
re, uno sviluppo dello schema che diventerà formale nelle gran-
di beràkòt liturgiche della Sinagoga. Nei salmi redatti per ac-
compagnare i sacrifici ‫ ־־‬sembrano questi i tipi più antichi e più
costanti nella struttura - , una prima fase rievoca, nella gioia di
una confessione di fede esultante, le grandi gesta operate da Dio
per i suoi nel passato. Poi viene offerto il sacrificio accompa-
gnato da suppliche, perché rinnovi e confermi le meraviglie di
un tempo. Sovente un oracolo sacerdotale, tratto indubbiamen-
te in origine da presagi colti nello svolgimento del rito, viene
a questo punto a promettere in anticipo la liberazione o la gra-
zia. Così, cominciato nella lode, sviluppato nella supplica, il sai-
mo terminerà in dossologia: Dio rimane lo stesso; oggi e doma-
ni, come una volta, egli esaudirà i suoi (24).

(24) Cf A. Bentzen, Introduction to the Old Testament, voi. I, Co-

54
Questo schema appare particolarmente chiaro nel salmo 40.
Esso si apre con la proclamazione delle liberazioni avvenute nel
passato:
« Ho sperato: ho sperato nel Signore
ed egli su di me si è chinato,
ha dato ascolto al mio grido.
Mi ha tratto dalla fossa della morte,
dal fango della palude;
i miei piedi ha stabilito sulla roccia,
ha reso sicuri i miei passi.
Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo,
lode al nostro Dio ».
Segue quindi Tofferta sacrificale insieme alla preghiera per-
ché Dio si mostri sempre lo stesso, perché rinnovi ancora e con-
duca a termine quello che ha cominciato a fare per colui che lo
invoca. Nello stesso tempo, però, è una consacrazione dello
stesso orante, nel sacrificio e al di là delEofferta materiale, in
quanto questa rappresenta soltanto il dono, o meglio, Tabban-
dono di sé alla volontà divina.
« Sacrifìcio e offerta non gradisci,
gli orecchi mi hai aperto.
Non hai chiesto olocausto e vittima per la colpa.
Allora ho detto: ‫״‬Ecco, io vengo.
Sul rotolo del libro di me è scritto
che io faccia il tuo volere.
Mio Dio, questo io desidero,
la tua legge è nel profondo del mio cuore”.
Ho annunziato la tua giustizia nella grande assemblea;
vedi, non tengo chiuse le labbra, Signore, tu lo sai.
Non ho nascosto la tua giustizia in fondo al cuore,
la tua fedeltà e la tua salvezza ho proclamato. (...)
Non rifiutarmi, Signore, la tua misericordia,
la tua fedeltà e la tua grazia
mi proteggano sempre ».
È su questa base della consacrazione alla volontà di Dio, in-
fatti, che può librarsi la preghiera. Ed essa poggia su una cer-
tezza che la supplica, di per se stessa, diventa nuova e definiti-
va lode.

penhagen 1948, pp. 146ss; S. Mowinckfx, The Psalms in Israel's Worship,


Oxford 1962.

55
« Degnati, Signore, di liberarmi;
accorri, Signore, in mio aiuto.
Vergogna e confusione
per quanti cercano di togliermi la vita. (...)
Esultino e gioiscano in te quanti ti cercano,
dicano sempre: “Il Signore è grande”
quelli che bramano la tua salvezza ».

Il nucleo di questo salmo sta in un pensiero che ritorna mol-


te volte nel Salterio, e che è un insegnamento centrale dei prò-
feti, in particolare di Isaia. Non sono le offerte materiali che pos-
sono soddisfare il Signore, ma Sofferta di se stesso. Solo la con-
sacrazione della nostra volontà alla sua volontà riconosciuta
nella sua Parola dà un senso ai nostri sacrifìci (cf / s i ) .
L'esegesi del secolo XIX, influenzata dai pregiudizi protestan-
ti, ha voluto vedere in queste formule un rifiuto dei sacrifici, che
sarebbe espresso, con la massima chiarezza, nella parola di Osea
e che Gesù avrebbe poi ripreso: « Voglio la misericordia e non
il sacrificio » (Mt 9,13). Ma, come ha fatto notare chiaramente
la scuola scandinava contemporanea, si tratta qui di un falso
« letteralismo » che non tiene conto dello stile deliberatamente
paradossale dei profeti. Essi non sono dei protestanti o degli
anticlericali ante litteram, che vorrebbero sostituire la chimera di
una religione laica alla realtà inevitabilmente rituale della reli‫־‬
gione concreta. Essi esprimono semplicemente il senso che deve
avere il sacrificio nella religione della Parola: una consacrazio-
ne dell'uomo e della sua vita intera attraverso elementi rituali
(25). Quello che ne deriverà non è una morale in cui la religio-
ne verrebbe assorbita al punto da scomparirvi, ma una religione
che consacra le esigenze morali, in modo da rendere tutta la vi-
ta un unico atto di religione.
Quello che permane vero, in questa prospettiva, è che la
preghiera consacratoria che accompagna il sacrificio avrà un pò-
sto sempre più grande, man mano che essa esprime più forte-
mente la consacrazione dell'uomo stesso. Nulla di più tipico, a
questo riguardo, dell'evoluzione del senso dato a un'espressio-

(25) Si veda in particolare A. H aldar, Associations of the Cult Pro‫־‬


phets among the ancient Semites, Uppsala 1945; J. P edersen, The Role
played by inspired Persons among the ancient Semites, in Studies in Old
Testament Prophecy presented to T. H. Robinson, Edinburgh 1950.

56
ne liturgica: seva tódà (« sacrificio di lode », oppure « di azione
di grazie »). \n origine essa indica un genere particolare di sa-
crifici; e il salmo di lode che li accompagna ne esprime il signi-
ficato. Ma, a poco a poco, il « sacrificio di lode » significherà
la stessa lode, divenuta non solo parte integrante del rituale sa-
crificaie, ma il sacrificio per eccellenza. Di qui le espressioni co-
me quella, così eloquente, che si trova ancora in Osea: « il sa-
crificio delle nostre labbra » (Os 14, 3). Questo « sacrificio delle
labbra » in cui si esprime !,oblazione del cuore, farà un tutPuno
con quel « cuore affranto e umiliato » che la conclusione del sai-
mo 51 oppone al ritualismo senza contenuto.
Una particolare espressione di san Paolo indica chiaramen-
te che qui non si trattava di annullamento del sacrificio, bensì
della sua interiorizzazione. Questa gli torna così naturale che
doveva già essere diventata abituale tra gli ebrei, a dispetto
del suo tono così paradossale da avvicinarsi al controsenso. In
uno dei più antichi testi in cui si esprime il senso sacrificale dato
alla croce dai cristiani, egli dirà che Cristo si è sacrificato per
noi di sua spontanea volontà, come offerta e sacrificio a Dio in
odore di soavità (cf Ef 5,2). Il riferimento al salmo 40 , che ab-
biamo citato, è evidente. Però, il salmo diceva testualmente:
« Non hai chiesto olocausto e vittima per la colpa », ma Paccet-
tazione della volontà divina. San Paolo traduce, o meglio fa la
trasposizione del senso, dicendo ciò che, nelle parole, è press’a
poco il contrario: Paccettazione della volontà divina è Pofferta
voluta da Dio (26).
La progressiva introduzione, nel cuore del sacrificio, della
preghiera di offerta di se stesso, sotto la forma specifica di una
beràka, trarrà le sue ultime conseguenze nel culto sinagogale.
NelPimpossibilità in cui si troveranno gli ebrei delPesilio e della
diaspora di offrire dei sacrifici, una preghiera di questo tipo,
che risponda alla lettura della Parola, arriverà a prendere il po-
sto del culto sacrificale. Quando il Tempio sarà ricostruito, essa
servirà ad accompagnare i sacrifici del mattino e della sera. In
tutte le sinagoghe la si pronuncerà rivolti verso Gerusalemme,
più precisamente verso il « Santo dei santi », dove il sommo sa­

(26) Si troverà una trattazione più particolareggiata di questo prò-


blema nel nostro volume La spiritualità del Nuovo Testamento ( = Sto-
ria della spiritualità cristiana, 1), Ed. Dehoniane, Bologna 1967, pp. 266ss.

57
cerdote, una volta all’anno, introduceva il sangue delPespiazio-
ne (27).
Tutto questo rende chiara la descrizione che ci è fatta, nel
libro di Neemia, del qahal, cioè dell’assemblea liturgica del pò-
polo, tra le rovine del Tempio, di ritorno dalla prigionia (Ne
8 9 ‫)־‬. Al primo qahal, in cui al Sinai era stata conclusa l’allean-
za, il popolo aveva risposto con adesione unanime alle dieci pa-
role della Torà, e poi erano stati offerti i primi sacrifìci dell’al‫־‬
leanza (Es 1924‫)־‬. Al qahal quasi altrettanto solenne che ave‫־‬
va segnato la riforma di Giosia - dopo la lettura del Deuterono-
mio, cioè della legge illustrata dai profeti, che ribadiva la proi-
bizione degli idoli - si era pure rinnovata questa adesione e l’al-
leanza era stata sigillata con la celebrazione della Pasqua, il sa-
crificio memoriale dell’uscita dall’Egitto (2 Re 2223‫)־‬. Al ter‫־‬
zo grande qahal, quello dello scriba Esdra - la Sinagoga dell’ul-
timo giudaismo lo considererà come data della propria fonda-
zione o della propria consacrazione (28) - viene letta tutta la
Torà sacerdotale degli scribi, cioè il Pentateuco, nella sua defi‫־‬
nitiva redazione, avvenuta in esilio. Non è ancora possibile ce‫־‬
lebrare i sacrifici: non c’è più Tempio né altare e, probabilmen-
te, non era nemmeno possibile trovare la vittima che potesse es-
sere offerta. Ma impegnandosi nella ricostruzione del luogo san‫־‬
to e nella restaurazione del suo servizio, gli « anziani » pronun-
ciano la beràkà più esplicita nella forma e più completa nel con-
tenuto che si possa trovare nella Bibbia. I leviti cominciano con
l’esortare il popolo all’azione di grazie:
« Alzatevi e benedite il Signore vostro Dio ora e sempre!
Si benedica il tuo Nome glorioso che è esaltato al di sopra
di ogni benedizione e di ogni lode! ».
Segue quindi una grande preghiera che compendia tutta la
storia della creazione e tutta la storia del popolo di Dio fino al
presente, e si conclude con una consacrazione formale ai suoi
disegni, insieme a una supplica insistente affinché egli ripren-
da e porti a compimento la sua opera, per i suoi e nei suoi.
Si può dire che qui abbiamo quasi un modello delle due gran-
di preghiere dell’ufficio sinagogale: le benedizioni che introdu-

(27) Cf DH, pp. 81ss.


(28) Cf il primo capitolo del classico libro di A. Cohen, Le Talmùd.

58
cono alla Qedussà e alla recita dello Sema, e la grande preghiera
della cAmìdà o Tefitta (la preghiera per eccellenza). La pietà
del giudaismo estenderà a tutta la vita del pio israelita le ramifì-
cazioni di queste beràkòt, che si trovano minutamente nella
Misnà e nella Tòseftà. Dal risveglio a ciascuna delle azioni del
giorno, fino al suo coricarsi e alla sua immersione nel sonno,
esse consacreranno ogni azione. E, contemporaneamente, consa‫־‬
oreranno il mondo, restituendolo, nella lode, a quella Parola
che lo aveva creato alPorigine, perché non saranno, tutte e eia-
scuna, se non altrettanti atti di « riconoscenza » di questa Pa-
rola, come origine e fine di tutte le cose. Come dice il rabbino
Trifone a san Giustino (29), facendo eco a tutta la tradizione
rabbinica: è con Pofferta incessante di queste beràkòt che gli
ebrei dispersi tra i gentili avranno coscienza di offrire a Dio, in
ogni luogo, « Poblazione pura » di cui aveva parlato il profeta
Malachia (MI 1,11). È così che tutto Israele crederà di veder
realizzarsi la promessa del libro delPEsodo, di fare di esso un
intero popolo sacerdotale, un regno di sacerdoti, consacratori di
tutto Puniverso alla sola volontà divina, rivelata nella Torà (cf
Es 1920‫)־‬.
Con questa visione finale che Israele è arrivato ad avere del
suo compito specifico, è certo che noi oltrepassiamo definitiva-
mente il vecchio rituale mutuato da Canaan. Quali che siano le
trasformazioni del senso e del contenuto che aveva potuto su-
bire, esso è ormai superato. Ecco perché la distruzione definì-
tiva del Tempio e dei suoi sacrifici nel 70 della nostra èra, non
potrà più annullare né Israele né il culto della Torà.
Come abbiamo già sottolineato, questo non significa tanto
una moralizzazione dei sacrifici, quanto piuttosto la sacralizza-
zione della morale o, meglio, della « giustizia » della Torà. Sa-
rebbe, però, un errore credere che questa religione delPultimo
Israele si sia liberata da ogni rituale particolare, e specialmente
da ogni sacrificio definito. Non c’è, invece, nulla di più indica-
tivo del nuovo rituale che sorge proprio allora quasi spontanea-
mente e al quale le comunità della speranza messianica - le
caburót, come si dirà più tardi (30) -, daranno un pieno signi-

(29) G iustino , Dialogus cum Tryphone judaeo, 116117‫־‬: PG 6,745‫־‬


746.
(30) Il termine è attestato solo dopo !,inizio delPèra cristiana.

59
ficato. Intendiamo parlare del rituale dei pasti, in particolare
dei pasti in comune, alla sera del sabato o della festa. Per i sa‫־‬
cerdoti di Qumràn o di Damasco, come per gli Esseni o i Te-
rapeuti, di cui ci parlano Filone o Giuseppe Flavio, questo pasto
arriva a costituire non solo un nuovo equivalente degli antichi
sacrifici, ma finisce per essere il solo sacrificio che sussista, nel-
l’attesa della nuova ed eterna alleanza (31). La grande beràkà
pronunciata dal presidente dell’assemblea sull’ultimo calice, con‫־‬
diviso fra tutti, avrebbe invocato la venuta imminente del Mes-
sia e consacrato, in questa attesa, il « resto » fedele al Regno spe‫־‬
rato. Con questo nuovo sacrificio, noi abbiamo raggiunto la Ce‫־‬
na e la preistoria immediata dell’eucaristia cristiana.

(31) Cf G. V ermès, Les manuscrits du désert de Juda, Paris-Tour-


nai 1953, pp. 59ss; K. G. K uhn, Repas cultuel essénien et Cène chrétien-
ne, in Les manuscrits de la Mer Morte, Paris 1957, pp. 75ss.

60
Capitolo IV

Le «berakòt» giudaiche

La trasmissione delle formule tradizionali


Il miglior commento medievale della liturgia giudaica, il
Sefer Abudharam, opera di Rabbi David ben Joseph Abudha-
ram, che viveva a Siviglia intorno al 1340, osserva giustamen-
te che nella tradizione giudaica vi sono due tipi di berakòt (1).
Alcune sono brevi formule, ben presto stereotipate, che compor‫־‬
tano solo una lode-azione di grazie: una « benedizione » nel
senso più stretto. Altre sono formule più sviluppate, in cui la
preghiera di supplica trova il suo posto, ma sempre in un con-
testo di « benedizione ». Le prime sono destinate ad accompa-
gnare ogni azione del pio ebreo, dal suo risveglio al mattino fino
al momento in cui il sonno, alla sera, lo riprenderà. Le seconde
hanno il loro posto sia nel servizio sinagogale (al mattino, a mez-
zogiorno e alla sera), sia nelle preghiere dei pasti, specialmente
quelle che accompagnano Lultimo calice, condiviso tra tutti i
convitati.
A tutte queste berakòt è dedicato un intero capitolo nella
Misna e tutta una sezione corrispondente della Tòseftà (impor‫־‬
tanti fonti talmudiche). Il capitolo Berakòt è il primo della
Misna, e il materiale che cita e discute è incontestabilmente del-
la più remota antichità. Vi si trovano integralmente le formule
per le brevi berakòt. Le formule lunghe, invece, che si suppone
siano conosciute da tutti, generalmente sono citate o rievocate
dal solo richiamo delle prime parole. Tuttavia, molte volte, le di-
scussioni di cui esse sono oggetto ci permettono di farci un'idea
sufficiente del loro contenuto, e persino dei particolari contro‫־‬
versi del loro sviluppo.
Il testo completo di queste formule lunghe è pervenuto fino a

(1) Sefer Abudharam , Praga 1784, 2B e 3A. Esiste una riedizione


moderna, incompleta, ad opera di C. L. E hrenreich, Klausenberg 1927.

61
noi per mezzo dei libri di preghiere, i Siddurim, come seno og-
gi chiamati (2). Queste raccolte hanno però cominciato a costi-
tuirsi solo all’epoca detta dei Gaonìm, cioè dei presidenti delle
accademie ebraiche, che servivano nello stesso tempo da corti
giudiziarie. I Gaonìm e le loro accademie succedono, verso Pi-
nizio del secolo IX della nostra èra, agli ’Amòrà’ìm, commenta-
tori, risalenti al secolo III, dei più antichi detti tradizionali del
giudaismo dei Tannà’ìm, di cui il Talmùd (nelle sue due recen-
sioni, di Gerusalemme e di Babilonia) è la compilazione (3).
Queste raccolte dei Gaonìm tuttavia non sono, né vogliono
essere in alcun modo opere originali. Come dice chiaramente
Pintroduzione della più preziosa di esse, il Seder Rab’ Amram
Gà’òn, sono state compilate solo per fissare una tradizione im-
memorabile, le cui origini erano allora considerate come ispira-
te (4). Questa fissazione, come dimostrano le divergenze tra gli
stessi manoscritti medievali del Seder Amram Gà’òn, non è mai
stata assoluta. Elbogen aveva creduto di poterne trarre la con-
clusione che questo Seder, in origine, non avesse contenuto il
testo delle preghiere, ma solo la loro spiegazione (5). Questa in-
terpretazione è respinta dalla maggioranza degli specialisti con-
temporanei, particolarmente da David Hedegard, che ha curato
Pedizione critica della raccolta in questione (6). Il testo delle
spiegazioni di Rabbi Amram, e più ancora la sua introduzione,
suppone infatti, nel modo più chiaro, che quello che gli era sta-
to chiesto dalle comunità ebraiche (probabilmente spagnole), e
che egli volle accontentare, era prima di tutto un’edizione au-
torizzata di queste preghiere. D’altronde, se ne trova il testo an-
che" in un libro dello stesso genere, di poco posteriore, il Seder
del famoso Saadia Gaon (7).
Le divergenze nel testo delle preghiere sono notevoli dall’uno
all’altro dei tre principali manoscritti del Seder Amram: il Co-

(2) Cf Tintroduzione di DH, pp. XXss.


(3) Ibid., pp. XVIIss.
(4) DH, pp. 3ss.
(5) I. E lbogen, Prayer-Books, in: The Universal Jewish Encyclopae-
dia, London 19011906‫־‬, t. V ili, p. 620.
(6) Cf DH, ρ. XXVI; così pure L. G inzberg, in JQR 33 (1942) 321.
(7) Cf Siddur R. Saadia Gaon, ed. I. D avidson ‫ ־‬S. A ssaf ‫ ־‬B. I.
Joel, Jerusalem 1941.

62
dex 613 del British Museum, della fine del XIV o dell’inizio del
XV secolo, che è servito di base all’edizione di Coronei (1865);
il Codex 1095 della Bodleian Library di Oxford, completato
il 3 gennaio 1426, edito da Frumkin (1912); e il Codex Sulzber-
ger, del Jewish Theological Seminary di New York, completa-
to Γ8 novembre 1516, e edito (con una riedizione degli altri due)
da Hedegard nel 1951. Queste differenze, notiamolo subito, so-
no quasi insignificanti, se non addirittura inesistenti, per i testi
fondamentali che esamineremo il più possibile nei particolari
e che hanno la massima importanza per questo studio: le pre-
ghiere dei pasti e le preghiere centrali dell’ufficio sinagogale. I
testi ancora oggi in uso nelle varie sinagoghe, e che vengono ri-
portati dalle moderne edizioni stampate per l’uso liturgico, come
quella di Singer, seguono anch’essi molto da vicino le formule
del Gà’òn.
La prima cosa da fare, tuttavia, è di spiegare queste varia-
zioni. Di conseguenza verrà chiarito un problema fondamenta-
le per l’esatta comprensione della tradizione liturgica sinagoga-
le, che trova almeno la sua analogia nella tradizione liturgica
del cristianesimo.
Sovente gli storici moderni del culto sinagogale, come quelli
del culto cristiano, immaginano che a una prima libertà delle
formule di preghiera abbia dovuto succedere, più o meno tardi-
vamente, una formulazione fissata per scritto e, di conseguenza,
diventata ne varietur. Questa doppia supposizione ha come uni-
co sostegno il criterio preconcetto in cui si rispecchia il pro-
testantesimo dei primi storici che l’hanno messo in circolazione.
In primo luogo, è una caratteristica costante della tradizione
orale, negli ambienti più disparati, ma particolarmente negli am-
bienti semitici, che essa si trasmetta sotto forma di uno schema
ben definito, per mezzo di formule-aggancio determinate, a par-
tire dalle quali si conserva una certa libertà nelle espressioni
particolari. Ma questa libertà è strettamente orientata dalla con-
sapevolezza di uno schema soggiacente, e mantenuta viva attra-
verso la conservazione, religiosamente osservata, delle espres-
sioni-chiave (8). D’altra parte, quando si giunge a sentire il bi-
sogno di una fissazione completa delle formule con la scrittura,
si conserva sempre, più o meno a lungo, l’impressione che que-

(8) Cf E. N ielsen , Oral Tradition, London 1954, pp. 18ss.

63
sta fissazione riguardi innanzi tutto lo schema e le chiavi. Allo
stesso modo, almeno nel caso di testi giudicati più o meno mar-
ginali, i copisti, certamente fino alPepoca della stampa, non si
faranno mai scrupolo di sostituire, nei formulari che avevano
sotto gli occhi, certe varianti orali che si erano conservate e alle
quali erano più abituati.
Svanisce così di colpo una duplice chimera: quella della
improvvisazione primitiva delle preghiere e quella della loro
sclerosi definitiva in un rigoroso letteralismo. Fissate o no nei
particolari, a partire dalPorigine e fino ai giorni nostri, le pre-
ghiere giudaiche hanno avuto subito un contenuto, una struttu-
ra e dei termini-chiave perfettamente definiti. Perfino nelle loro
forme fisse, è innanzi tutto a questi elementi che si presta at-
tenzione. Naturalmente, il pericolo del formalismo, nel giudai-
smo come in ogni religione, è sempre incombente. È però una
illusione pensare che una perpetua volontà di improvvisazione
permetta di evitarlo più sicuramente che non Fuso ripetuto di
formulari tradizionali. Tutti coloro che sono abituati alle pre-
ghiere « improvvisate », care a certi ambienti protestanti, san-
no con quale facilità esse tendano alla frase fatta, a voltarsi e
rivoltarsi in un gioco fastidioso di luoghi comuni continuamen-
te triti e ritriti. Si deve però riconoscere che forse nessun’altra
religione come quella giudaica ha visto i maestri di spirito co-
stantemente preoccupati di evitare il formalismo che svuota le
preghiere del loro senso. Uno degli insegnamenti più frequenti
dei rabbini, circa la recita delle preghiere prescritte, insiste nel
dire che queste sono prive di ogni valore, anzi, propriamente
parlando, non sono nemmeno più preghiere, quando sono reci-
tate senza essere accompagnate da quello che essi chiamano la
kawannà (9). Questo termine ebraico, usato dai rabbini, corri-
sponde a un verbo la cui radice è kwn e che significa « pre-
stare la propria attenzione»; esprime Patteggiamento interiore
di colui la cui intelligenza e il cui cuore sono tenuti continua-
mente desti con un atto di fede viva, di adesione di tutto Pes-
sere al senso di ciò che dice e, al di là delle parole pronunciate,
alle realtà sacre che esse richiamano.

(9) Cf DH, ρ. XXXIX e le citazioni che riporta. Si aggiunga G.


Sholem, Der Begriff der Kawannà in der alien Kabbala, in MGWJ 78
(1934) 492ss.

64
Per arrivare a questo, i rabbini insegnano a recitare le pre-
ghiere lentamente e accuratamente, osservando le pause indi-
cate, con una pronuncia che sia sforzo per incatenare la prò-
pria attenzione, ma soprattutto a meditare le formule e impre-
gnarsene il più profondamente possibile. A quest’ultimo sco-
po, incoraggiano la pratica di far precedere la recita, in parti-
colare quella delle grandi beràkòt della liturgia sinagogale, da
un momento di meditazione silenziosa, in cui ciascuno ruminerà
per conto proprio ciò che verrà detto pubblicamente. In questo
modo, la kawannà halleb, « l’attenzione del cuore », sarà l’ani-
ma e il frutto della preghiera liturgica.
Tutto l’insegnamento del Discorso della montagna circa la
preghiera, con l’ingresso necessario del « solo a solo » con Dio,
con la concentrazione nella sua esclusiva presenza per fare una
preghiera degna di questo nome, lungi dall’essere una smentita
alla tradizione rabbinica su questo punto, non ne è che la più
pura espressione. Come è stato giustamente notato, l’insegna‫־‬
mento di Gesù contro i farisei, la cui preghiera cade in un for-
malismo senza contenuto, coincide con l’insegnamento degli
stessi dottori farisei più autorevoli (10). D’altra parte, è chiaro
che le critiche di Gesù contro una pratica priva di vita non han-
no mai di mira la preghiera sinagogale: questa, con tutta cer-
tezza, è stata fatta propria da Gesù fino nelle ultime ore della
sua vita terrena, senza alcun’ombra di reticenza.
Mentre, però, i rabbini moltiplicavano gli avvertimenti e i
consigli per fare della preghiera l’atto più personale possibile,
non sono meno attenti a distoglierla da qualsiasi individualismo.
La preghiera collettiva, in mezzo al popolo di Dio radunato a
questo scopo, deve essere preparata dalla preghiera e dalla me-
ditazione personale. Però, è sempre e dovunque in unione con
il popolo che il singolo fedele deve pregare, e la sua preghiera
deve trovare la sua regola nell’aderire col cuore alle espressio-
ni della preghiera collettiva e liturgica. Se mancasse questo,
dicono, l’uomo tenderebbe a chiedere quello che gli suggeri-
scono le sue tendenze egoistiche (11). Egli benedirebbe Dio sol-
tanto con vedute centrate sul proprio tornaconto, chiederebbe

(10) Cf Popera di R. T ravers H erford, citata alla nota 5 del cap. II.
(11) Cf Sefer Ha-Kuzari, ed D. Cassel , Leipzig 1853, pp. 233ss; S.
Krauss , Synagogale Altertumer, Leipzig 1922, p. 95.

65
a Dio solo la propria soddisfazione. Invece, con la sua adesio‫־‬
ne alla preghiera del popolo fedele, arriverà a non chiedere più
nulla che non sia !,adempimento della sola volontà di Dio, e a lo-
dare Dio non in vista di quello che lo riguarda individualmen-
te, ma soltanto in vista della realizzazione del suo Disegno.
Ogni altra preghiera sarebbe semplicemente un'idolatria camuf-
fata. L'unica vera preghiera è quella che fa di noi, nel popolo
di Dio e alla sua scuola, degli adoratori del Dio che ci ha par-
lato, che non cessa di parlarci, degli adoratori che non cessano,
a loro volta, di applicare alla sua Parola il « fiat » della loro
fede esultante.

Le « beràkòt » brevi
Lo studio delle beràkòt brevi enumerate e commentate dalla
Misnà e dalla Tòseftà, soprattutto se si rileggono alla luce delle
sempre nuove interpretazioni della tradizione rabbinica poste-
riore, manifesta effettivamente che esse non tendono a nient'al-
tro (12). Esse contribuiscono a fare di tutta la vita del pio israe-
lita un atto continuamente rinnovato di attenzione a Dio in tutte
le cose, alla sua Parola in tutte le azioni umane. La forma clas-
sica di queste preghiere comincia con una invocazione al Dio
di Israele che praticamente è sempre la stessa: « Benedetto (sei)
tu, Adonai, nostro Dio, re dei secoli (oppure: dell'universo) ».
Dunque, prima di tutto viene invocato il Nome divino rive-
lato a Mosè sull'Oreb con la perifrasi tradizionale di Adonai
(il Signore), dato che il rispetto del nome sacro lo rende im-
pronunciabile. Questo Dio rivelato, che pur rimane il Deus
absconditus, il Dio nascosto, misterioso, fin nella sua rivelazio-
ne, è riconosciuto in ogni circostanza come il padrone della no-
stra vita, come pure di tutto l'universo. Egli è lodato, « benedet-
to », nel riconoscimento esultante dei suoi, come il loro Dio,
colui che ha fatto alleanza con essi in quello scambio di « cono-
scenza » ineffabile che è supposto dalla rivelazione del Nome
sacro e dalla correlativa accettazione del giogo facile, del peso
leggero della Torà. Questo Dio, però, non è confessato dai suoi
come una qualsiasi divinità tribale, uno dei tanti « signori del-

(12) Si possono trovare comodamente nella traduzione di A. L ukyn


W illiams , citata alla nota 16 del cap. III.

66
l’alleanza » dei Cananei: è il Re nascosto di tutte le cose, Colui
che tiene i secoli nella sua mano con la sua Sapienza onnipo-
tente, il Padrone del mondo lungo tutta la sua storia. Si può di-
re che il fedele che lo confessa in questo modo, realizza, per ciò
stesso, la venuta del suo regno hic et nunc.
Il seguito variabile della preghiera proclamerà, infatti -
generalmente con un riferimento esplicito a una parola della
Scrittura - la signoria del Dio d’Israele sulla realtà con la qua-
le si trova confrontata l’azione che in un determinato momento
si compie nel mondo. Così il mondo, oscurato dal peccato, ritro-
va il suo significato originario, e l’azione umana non diventa al-
tro che il compimento del disegno di Dio.
Fin dal risveglio, l’abluzione mattutina viene santificata dal-
la formula:
« Benedetto sei tu, Signore, nostro Dio, re dei secoli, che ci
santifichi coi tuoi comandamenti e ci hai prescritto di lavarci
le mani » (13).

Con la coscienza liberata dal sonno, il fedele aggiunge:


« Benedetto sei tu, ... che restituisci le anime ai loro corpi
mortali associando così il risveglio mattutino alle prospettive
della risurrezione ».

Al canto del gallo, dice:


« Benedetto sei tu, ... che hai dato al gallo Fintelligenza di
discernere il giorno dalla notte ».
Vengono poi le tre benedizioni con le quali l’israelita loda
Dio di non aver fatto di lui né un pagano, né uno schiavo, né
una donna. Il loro senso, come hanno sempre spiegato i rabbini,
non è di insuperbirsi di un merito personale che gli altri non
avrebbero, ma di prendere nuovamente coscienza della grazia
immeritata di conoscere Dio, di poter e di dover adempiere le
prescrizioni della legge (14). La misoginia che un antisemiti-
smo troppo immaginativo ha creduto di trovare nell’ultima di
queste tre formule dimentica semplicemente che alla donna sarà
prescritto di dire:

(13) DH, p. 13. - EEFL n. 33.


(14) Cf la nota di DH, p. 10.

67
<fBenedetto sei tu ,... che mi hai creata secondo la tua vo-
lontà ».
I rabbini spiegano Tuna e l’altra benedizione dicendo che è
una grazia tanto per Tuomo Tessere chiamato a compiere gli
obblighi cerimoniali, come per la donna Tesserne dispensata per
potersi dedicare alle occupazioni della famiglia (15).
Poi il fedele si rialza dicendo:
« Benedetto sei tu ,... che risollevi gli umili ».
Egli rivolge un primo sguardo su quello che lo circonda ed
esclama:
« Benedetto sei tu ,... che apri gli occhi dei ciechi ».
Si veste e dice:
<<Benedetto sei tu ,... che vesti coloro che sono nudi ».
Si alza e, mettendo i piedi a terra, dice:
« Benedetto sei tu ,... che hai steso la terra sulle acque ».
E per tutto il giorno, non vi sarà oggetto o essere che non lo
induca a rivolgere il suo pensiero a Dio e alla sua Parola di
amore che tutto ha creato per i suoi, né azione attraverso la
quale egli non si dedichi, allo stesso modo, alla volontà di Dio
rivelata.
Si capisce, dopo queste cento benedizioni, di cui i rabbini si
compiacciono di commentare il numero simbolico (16), il signi‫־‬
ficato esatto della parola di san Paolo: « Tutto ciò che è stato
creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi, quando lo si pren-
de con rendimento di grazie (ευχαριστία = beràkà), perché esso
viene santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera» (1 Tm
4,45‫)־‬. La pratica costante delle beràkòt diventa infatti una pre-
ghiera che investe tutta la vita delTuomo e del mondo; con essa
ogni cosa è come ricondotta alla Parola creatrice e riportata
alla bontà originale che era stata loro conferita. È così, diran-
no ancora i rabbini, che tutta la fedele vita del popolo di Israe-
le, fin nelle sue occupazioni in apparenza più profane, riveste

(15) ibid.
(16) DH, pp. 16ss.

68
Un carattere non solo sacro ma sacerdotale. Essi costituiscono
così quel popolo-sacerdote di cui parlava il libro dell’Esodo, per
il fatto che tutta la loro vita, presa nella rete delle beràkòt, ri-
consacra, per mezzo della parola di Dio e della preghiera, l’inte-
ro universo al suo autore. Così si comprende come il rabbino
Trifone, nel dialogo con Giustino, spieghi MI 1,11 (sull’offerta
pura presentata in ogni tempo e in ogni luogo tra i pagani) di-
cendo che è quanto fanno gli ebrei della diaspora, che non ces-
sano di benedire Dio in tutte le cose tra coloro che lo igno-
rano (17).
Gli stessi rabbini, che ripetevano che la Sekinà dimora in-
visibilmente in ogni gruppo di ebrei riuniti per meditare laTóra,
non esitano neppure a dire che ogni pio ebreo, pronunciando
1q beràkòt su tutto quello che vede o tocca con le sue mani, ne
fa una dimora consacrata a questa stessa Sekinà (18).

Le « beràkòt » che precedono lo « Sema »


Su questo sfondo generale delle beràkòt che fanno di tutta
resistenza del pio ebreo una universale e costante « benedizio-
ne » sacrificale, trovano significato le grandi beràkòt del servi-
zio sinagogale e dei pasti, specialmente nelle comunità dell’at-
tesa messianica. Esse ci conducono alle fonti della vita sacerdo-
tale del popolo di Dio, in una supplica particolareggiata per la
santificazione del suo Nome, per la venuta del suo regno, per
il compimento di tutta la sua volontà, tra una grande beràkà per
il dono della luce e un’altra per il dono della vita. Sono questi
infatti i tre temi rispettivi delle beràkòt che precedono l’atto
centrale del culto sinagogale: la recita della Sema, della grande
Tefillà, la preghiera per eccellenza delle Diciotto (in realtà, og-
gi, diciannove) benedizioni che lo seguono e, infine, delle be-
ràkòt dei pasti.
L’ufficio sinagogale del mattino, come abbiamo detto, dove-
va essere preceduto da un momento prolungato (un’ora, dice-
vano i rabbini) di meditazione e di preghiera privata, per quan-

(17) Cf nota 29 del cap. Ili, p. 59.


(18) Cf il testo dello Zohar, attribuito a R. Simeon, che L. G illet
ha tradotto e commentato in Communion in the Messiah, London 1942,
p. 138.

69
to possibile, nella sinagoga (19). Fin dalla più remota antichità,
questa preghiera preparatoria si è nutrita della recita del Salte‫־‬
rio. Sembra che certe comunità particolarmente ferventi dell'an-
tichità precristiana abbiano conosciuto la prassi, rinnovata nel-
Fepoca moderna dagli hassidim di Polonia, di far precedere il
servizio pubblico da una recita di tutto il Salterio, almeno in
certi giorni. Ben presto, però, doveva introdursi l'usanza di ri-
servare specialmente a quest'ora di meditazione mattutina i sai-
mi 145-150, cioè la grande lode cosmica con cui termina il Sai-
terio (20). Parallelamente, dopo il pasto della sera, si introdusse
ben presto l'usanza di recitare tutto lo hallel (i salmi 113-118).
È questo « l'inno » che i discepoli, stando alle narrazioni della
Cena, cantarono al termine di essa (21). È superfluo ricordare
che abbiamo qui l'origine delle lodi mattutine e dei vespri cri-
stiani. Baumstark ha giustamente sottolineato che tutti gli anti-
chi riti cristiani, tanto dell'Occidente come dell'Oriente, vi han-
no fissato questi stessi salmi (22).
I Pesuqé di zimra, cioè i « passi di salmi », formano ancora
oggi un preludio d'obbligo nel servizio sinagogale. Ci sono delle
beràkòt che ne precedono la recita: sono come un sommario dei
temi che si incontreranno nei salmi che seguono: la lode di Dio
per la sua creazione e per il modo con cui fa concorrere ogni
cosa al bene degli eletti, di coloro che Dio « conosce » e ama
(23).
Qualunque sia l'interesse di questo ufficio preliminare, limi-
teremo il nostro studio al servizio sinagogale propriamente det-
to e alle sue beràkòt caratteristiche: come, infatti, ci si accor-
gerà molto presto, esse ci avvieranno direttamente verso il ser-
vizio eucaristico della Chiesa cristiana.
II primo gruppo di beràkòt che si incontra ha per scopo, co-
me abbiamo detto, l'atto centrale della pietà giudaica quotidia-
na: la recita dello Sema, cioè quelle famose parole del Deute-
ronomio:

(19) Cf Mistici, trattato Beràkòt, V,1 e DH, p. 32.


(20) DH, pp. 32ss.
(21) Cf Mt 26,30 e paralleli.
(22) A. Baumstark , Liturgie comparée, Chevetogne M953, pp.
118ss.
(23) DH, pp. 27ss.

70
« A scolta, Israele, il Signore nostro Dio,
il Signore è unico.
T u am a il Signore D io tuo
con tutto il tuo cuore,
e con tu tta la tu a anim a
e con tutte le tue forze... » (24).

Infatti nella ripetizione di questa parola, nella sua assimila-


zione mediante la preghiera della fede, il popolo di Dio si rin-
nova in quella conoscenza di Dio che è risposta alla conoscen-
za che egli ha dei suoi e che sta al centro della pietà dTsraele.
Le preghiere che precedono tendono ad esprimere questa co-
noscenza.
Originariamente, nel giorno di sabato, come pure il lunedì e
il giovedì di ogni settimana, esse seguivano la lettura solenne
della legge e dei profeti (25). Verso Tepoca patristica, questa
lettura è stata trasferita dalTinizio alla fine del servizio, di cui
costituisce ora la conclusione. È evidente che questo spostamen-
to è avvenuto come reazione contro i cristiani che, nel frattem-
po, avevano dato questo posto supremo al banchetto eucaristi-
co. È lecito pensare che questa reazione, oltre ai cristiani, pren-
desse di mira in un unico blocco quelle comunità giudaiche che
già erano giunte a fare dei pasti comunitari !,equivalente - e un
equivalente secondo loro superiore - dei sacrifici del Tempio
(26). I minim - che in quella stessa epoca sono presi di mira
dalla XII delle preghiere attuali della Tefilla, introdotta in quel
tempo - sono certamente, senza distinzione alcuna, sia i cristia-
ni sia quegli ebrei di cui ci si accorge che i loro orientamenti
messianici li stanno portando direttamente al cristianesimo (27).
Tuttavia, anche oggi alTinizio del servizio sinagogale sussi-
ste un elemento testimone della lettura che in origine si faceva

(24) Di 6,49‫־‬, a cui si è aggiunto 11,1321‫ ־‬e Nm 15,3741‫( ־‬secondo


la Misnà, trattato Beràkót, 11,2. Cf DH, pp. 52ss. - Testo italiano, in:
Il trattato delle benedizioni (Berakhot) del Talmùd babilonese, a cura di
S. Cavalletti (= Classici delle religioni, 5), UTET, Torino 1968, pp.
439‫־‬440 .
(25) Cf E. W erner, The Sacred Bridge, London-New York. 1959,
pp. 3ss e 50ss.
(26) Cf DH, pp. XXXVIII-XXXIX e 16.
(27) Cf O. C ullmann , Le problème littéraire et historique du Ro-
man pseudo-clémentin, Paris 1930, pp. 170ss.

71
a questo punto. È la preghiera chiamata qaddìs, che era la con-
clusione primitiva del targum, cioè della traduzione parafrasa-
ta in aramaico che seguiva la lettura rituale in ebraico delle Sa-
ere Scritture (28). In realtà, unica in questo blocco delle pre-
ghiere centrali, immutabilmente ebraiche, essa continua, fino ad
oggi, ad essere recitata in aramaico. Conviene citare la sua pri-
ma parte, che è anche la più antica, ed è certamente anteriore
all’óra cristiana. È evidente che è la fonte diretta della prima
parte del « Padre nostro »:
« Sia magnificato e santificato il suo grande Nome, nel mon-
do che egli ha creato secondo la sua volontà; venga il suo
regno, durante la vostra vita e ai vostri giorni e durante la
vita di tutta la casa di Israele, fra breve e nel tempo pros-
simo. Amen ».
Cominciano allora le beràkòt che introducono la recita dello
Sema. Come vedremo ancora nella preghiera finale del pasto, lo
Sheliah sibbur, cioè il membro della comunità designato per re-
citare la preghiera a nome di tutti (oggi, e questo a partire dal
VI secolo, è sempre lo hazzan, Τύπηρέτης di cui parlano i van-
geli, cioè il « ministro », antenato del diacono cristiano), invita
la comunità alla « benedizione »:
« Benedite Adonai che deve essere benedetto ».
Tutti rispondono:
« Benedetto sia Adonai che deve essere benedetto nei seco-
li dei secoli » (29).
Lo Sheliah sibbur dice, o meglio canta, come è di regola per
tutte queste preghiere solenni, questa grande benedizione, det-
ta Yòzèr (30):
« Benedetto sii tu, Signore, nostro Dio, Re delPuniverso, che
formi la luce e crei le tenebre, che fai la pace e crei ogni
cosa; che, nella [tua] misericordia, dài la luce alla terra e a

(28) Testo in: DH, pp. 41ss, con commento a p. 40. Cf D. De Sola
Pool, The Old Jewish Aramaic Prayer, the Kaddish, Leipzig 1909. -
EEFL n. 32; testo italiano, in: Il trattato delle benedizioni..., op. cit., pp.
448‫־‬449.
(29) DH, p. 43.
(30) DH, pp. 46ss. - PE 36-37; EEFL n. 84; LdC 303:304.

72
tutti coloro che vi abitano e, nella tua bontà, rinnovi la
creazione tutti i giorni e continuamente. Quanto sono nu-
merose le tue opere, Signore! Nella Sapienza le hai fatte tut-
te, la terra è piena dei tuoi possessi: Re, che solo sei stato
esaltato prima dei tempi, lodato, glorificato ed esaltato fin
dai giorni antichi; Dio eterno, nell'abbondanza delle tue
misericordie abbi pietà di noi, Signore della nostra forza,
Roccia della nostra protezione, Scudo della nostra salvezza,
tu, nostra protezione! Il Dio benedetto, grande in conoscen-
za, ha preparato e formato i raggi del sole: fu un dono che
egli produsse a gloria del suo Nome. I capi dei suoi eserciti
sono esseri santi, esaltano !Onnipotente, incessantemente
dichiarano la gloria di Dio e la sua santità. Sii benedetto,
Signore, nostro Dio, nei cieli, in alto, e sulla terra, quaggiù.
Sii benedetto, nostra Roccia, nostro Re e nostro Redentore.
Creatore degli esseri santi, lodato sia il tuo Nome per sem-
pre, nostro Re, Creatore degli spiriti che lo servono. E tutti
, questi spiriti che lo servono stanno nelle altezze dell ,uni‫־‬
verso, e con timore, proclamano a piena voce, all'unisono,
le parole del Dio vivente e del Re eterno. Tutti sono predi-
letti, tutti sono puri, tutti sono potenti, tutti compiono tre-
mando la volontà del loro padrone, tutti aprono la bocca
nella santità e nella purezza, e lodano e glorificano e santi-
ficano il Nome del grande Re, il Solo potente e temuto; egli
è santo. Tutti prendono su di sé il giogo del Regno dei eie-
li, l'uno dall'altro, e s'incoraggiano l'un l'altro a santifica-
re il loro Creatore: nella gioia tranquilla dello spirito, in
un linguaggio puro, su una melodia santa, tutti si rispon-
dono all'unisono e dicono con riverenza... ».

Qui, tutti si uniscono allo Sheliah sibbur e cantano con lui


la Qedussà:
« S anto , santo , santo il S ignore S abaoth : la terra inte -
RA È PIENA DELLA SUA GLORIA ».

Lo Sheliah sibbur continua:


« E gli ’Ofanrììm e i santi Hayyót, con un rumore di grandi
acque, alzandosi gli uni di fronte agli altri, lodano e di-
cono... ».

Di nuovo, tutti cantano:


« B enedetta sia la gloria del S ignore , dal su o l u o g o ».

73
Egli prosegue e conclude:
« Al Dio benedetto, essi offrono piacevoli melodie, al Re, al
Dio che vive e dura per sempre, essi fanno sentire i loro can-
ti e le loro lodi, poiché lui solo compie opere potenti e fa
nuove le cose, il Signore delle battaglie: egli semina la giu-
stizia, fa scaturire la salvezza, crea la guarigione, è riverito
nelle lodi, il Signore delle meraviglie, come è detto: [Ren-
dete grazie] a colui che fa i grandi luminari, perché la sua
grazia dura per sempre. Sii benedetto, Signore, creatore
dei luminari ».
Dopo di che aggiunge subito la seconda beràkà:
« Con grande amore tu ci hai amati, Signore nostro Dio, con
benevolenza grande e sovrabbondante hai avuto pietà di
noi, Padre nostro, nostro Re; per il tuo grande Nome e per
merito dei nostri padri che hanno messo la loro fiducia in
te, e ai quali tu hai insegnato i comandamenti di vita, fa’ gra-
zia anche a noi, Padre nostro. Padre misericordioso, abbi
pietà di noi, e rendi i nostri cuori capaci di capire, di ascoi-
tare, di imparare e di insegnare, di essere attenti a compie-
re con amore tutte le parole di ammaestramento della tua
Torah. Illumina i nostri occhi con la tua legge, lega a te i
nostri cuori con i tuoi comandamenti e siano uniti per ama-
re e temere il tuo Nome, in modo che noi non siamo coper-
ti di vergogna né mai abbattuti, perché abbiamo messo la
nostra fiducia nel tuo grande, santo e temibile Nome. Pos-
siamo noi rallegrarci e trovare la felicità nella tua salvez-
za e la tua misericordia e la tua grazia non ci abbandonino
mai. Riconduci noi nella pace dai quattro punti della terra
tutta, e fa' che rientriamo liberi nel nostro paese, perché
tu sei un Dio che salva. Tu ci hai scelti tra tutti i popoli e
tra tutte le lingue e ci hai resi vicini al tuo grande Nome nel-
la fedeltà. Sii benedetto, Signore, tu che hai eletto il tuo
popolo, Israele, nelPamore » (31).
Segue infine la recita collettiva dello Sema...
Questa doppia beràkà si apre, dunque, nella prospettiva gè-
nerale delle preghiere mattutine giudaiche su una lode del Dio
creatore che si precisa subito in un’azione di grazie per la luce.
Ma dalla luce fìsica si passerà alla luce spirituale della conoscen-
za di Dio e, quindi, alPazione di grazie per il dono della Torà,

(31) DH, pp. 50ss. - PE 3738‫ ;־‬EEFL n. 85; LdC 304.

74
la quale porterà direttamente alla recita dello Semà. Di colpo,
dalla lode del Dio creatore si passerà a quella del Dio salvato-
re che interviene nella storia per radunare il popolo dei suoi
eletti.
Il passaggio dalla beràkà per la luce visibile alla beràkà
per la luce invisibile della Torà avviene con la menzione degli
Angeli che continuamente contemplano e lodano la gloria di-
vina. Questo ci fa capire che le due luci, visibile e invisibile,
nella prospettiva giudaica, non sono separate e opposte, come
lo sono invece nelle concezioni ellenistiche. Esse sono soltanto
due aspetti successivi di una sola realtà, nella quale non si fa
che entrare più profondamente (32). Per il giudaismo, fedele
alle concezioni bibliche, il mondo - creazione del Dio unico -
è un mondo unico. Il mondo angelico non è un altro mondo
diverso da quello materiale: è lo stesso visto sotto il suo aspetto
più profondo, o più alto. O, per meglio dire e per mutuare una
bella espressione di Newman, ciò che noi chiamiamo il mondo
visibile è solo la frangia di un mondo il cui resto rimane invisi-
bile (33). Viceversa, come nella visione del c. 6 di Isaia, sog-
giacente a tutto il testo, Dio stesso appare come luminoso, in
un senso che non è soltanto fisico, ma che è anche fisico. La sua
gloria, nel senso biblico ed ebraico, è un irradiamento del suo
essere che si riflette su tutta la creazione, sia visibile che invi-
sibile (34). Gli Angeli superiori, i Serafini, come indica il loro
nome, sono essi stessi fatti di un fuoco misterioso che è quasi
un primo riflesso del braciere della vita divina, che il fuoco
delimitare e delle lampade del santuario si limita a richiamare.
Questo fuoco ricorda Lincendio, la trasfigurazione di ogni cosa
che è frutto della discesa della Sekinà, della presenza divina,
nella nube luminosa in cui essa si avvolge (35). La gloria che i

(32) V l . Lossky, nella sua opera: La visione di Dio (in: La teoio-


già mistica della Chiesa d’Oriente. La visione di Dio, Il Mulino, Eologna
1967, pp. 245ss), mostra molto bene ciò che si è conservato, nella tradi-
zione cristiana orientale, di questa visuale biblica e giudaica.
(33) Cf Parochial and Plain Sermons, voi. II e voi. IV, le due pre-
diche sugli Angeli.
(34) Cf Topera di A. M. R amsey , La Gioire de Dieu et la Transfi-
guration du Christ, Paris 1965.
(35) Abbiamo studiato questa nozione in un articolo apparso in
BVC 5/20 (1957) 7ss.

75
Serafini rendono a Dio cantando la Qedussà è questo riflesso
della gloria divina che ritorna alla sua sorgente. In essi, però,
si tratta di un riflesso cosciente, che si esprime col canto, così
come, in Dio, la luce ignea è quella dello Spirito che si esprime
nella Parola. L'uomo sarà associato sia a questa rivelazione di
gloria sia a questa glorificazione di lode che vi risponde, prima
di tutto, contemplando la luce visibile sul volto della creazio-
ne, e poi facendo proprio, grazie alla Torà ricevuta e accettata,
l'omaggio cosciente della Qedussà angelica.
La seconda beràkà sviluppa questa visione del dono della
Torà e della sua accettazione, come supremo atto di amore divi-
no, suscitando l'amore reciproco delle creature per il solo San-
to, il solo Signore, la cui signoria e santità sono quelle delPamo-
re. Di qui, il posto concesso, in questa preghiera, al cuore, cioè
non alla sensibilità, ma a quel centro di tutto l'essere umano
che è l'intelligenza che ama e si consuma - mediante l'adesio-
ne alla Torà - in quella conoscenza di amore che risponde, nel-
l'uomo, a quella di cui Dio lo ha avvolto (36). Di qui, ancora
di più, il posto concesso da questa stessa preghiera alla paterni-
tà divina nei riguardi di Israele.
Il Dalman afferma, con qualche esagerazione, che nelle pre-
ghiere della Sinagoga l'espressione « Padre nostro » è sovente
applicata a Dio (37). Questo è vero, in una certa misura, per le
formule moderne, ma non si può dire altrettanto per quelle più
antiche. In compenso, è fuori dubbio che è significativa l'insi-
stenza su questo titolo, ripetuto due volte al culmine della pre-
ghiera 'Ahabà, proprio prima di recitare lo Semà. Questi ter-
mini, rivolti a Dio da Israele in un simile contesto, non sono
una formula di fede in una semplice e banale adozione. Essi
esprimono il sorgere di una fede in una vera assimilazione alla
sua vita, mediante il suo amore che crea il nostro, nella Torà
data ai cuori credenti. Ancora una volta, e qui più che mai, sia-
mo per così dire al limite della rivelazione evangelica. È su-
perfluo immaginare un influsso cristiano posteriore per rendere
ragione dell'estensione crescente, nella liturgia giudaica, di que-
sto appellativo: « Padre nostro ». Esso doveva risultare natu-

(36) Cf la voce κ^ρδία, in GLNT, V, 193216‫־‬.


(37) Cf DH, pp. 50ss.

76
Talmente da una ripetizione quotidiana e da una meditazione
costante della preghiera che abbiamo ora analizzato.
La Qedussà dei Serafini, col suo prolungamento nella be-
ràkà degli 'Ofamm e degli Hayyòt, esige un commento partico-
lare.

La « Qedussà »
Bisogna notare, in primo luogo, che la Qedussà, già al tem-
po di Amram Gà’òn e probabilmente molto prima di lui, non
era cantata soltanto a questo punto nel servizio sinagogale, ma
anche in due altre riprese: prima della terza beràkà della Tefillà
(come vedremo più avanti) e dopo la lettura profetica che oggi
si trova alla fine del servizio (38). Di qui, la distinzione classica
tra la qedussà di Yózèr (quella che è inserita nella preghiera
che abbiamo ora studiato), la qedussà della Tefdlà e la qedussà
di Sidrah. Ci si è chiesto se le tre recite siano di uguale antichi-
tà e, se non lo sono, quale sia la più antica. La maggior parte
degli specialisti (specialmente Kohler e Ginzberg) considerano
la qedussà di Yózèr come certamente della più remota antichità.
Elbogen è quasi Punico ad essere di parere diverso e a sostenere
che la qedussà di Sidrah è la più antica. Questa discussione è
abbastanza oziosa. Quello che è certo è che già i Tannà’im co-
noscevano e consideravano come tradizionale la qedussà di Yó-
zèr, mentre non si hanno riferimenti altrettanto espliciti sulle al-
tre due. I libri apocalittici, messi sotto il patrocinio di Enoch,
fanno della qedussà Pelemento centrale del culto celeste, che es-
si si rappresentano visibilmente sul modello del culto sinagogale
come lo conoscevano i loro autori (39). Odeberg ha voluto trar-
ne la conclusione, evidentemente forzata, che lo stesso Semà, in
origine, non avrebbe costituito il vertice del culto sinagogale -
da cui poteva benissimo mancare - dal momento che questo po-
sto apparteneva primitivamente alla qedussà di Yózèr (40). Tut-
tavia, quello che sottolineano i commenti rabbinici di Yózèr è
che questo testo presenta il canto della qedussà da parte degli

(38) Cf la dissertazione di H edegard, in DH, pp. 47ss.


(39) Cf H. O deberg, 3. Enoch or the Hebrew Book of Enoch, edi‫־‬
ted and translated with Introduction, Commentary and critical Notes,
Cambridge 1928, pp. 184ss deirintroduzione.
(40) Ibid.

77
Angeli come !,equivalente celeste dell'accettazione del giogo
della Torà, significata per gli Israeliti dalla recita dello Sema
(41).. In un caso come nell'altro, il Regno di Dio si compie nel
suo riconoscimento, adorante e amante, da parte delle creature,
e il mondo intero diventa armonia armonizzandosi su Dio stesso.
C'è da aggiungere che alla qedussà e alla beràkà angeliche
corrispondono due zone o aspetti del mondo spirituale. La qe-
dussà, associata espressamente ai capi degli eserciti angelici,
rappresenta la glorificazione di Dio nel mondo celeste - tutto
occupato e riempito della sola sua presenza - o da parte dei Se-
rafmi, come nella visione di Isaia, o da parte degli Arcangeli,
come Michele o Gabriele, che la speculazione giudaica posterio-
re tenderà ad assimilare.
Il secondo canto rievoca la visione iniziale di Ezechiele, con
un'allusione agli spiriti che sostengono l'universo visibile: sono
i quattro Cherubini o Hayyòt - i « Viventi » - , spiriti degli eie-
menti del mondo (gli στοιχεία di cui parlerà san Paolo) (42), e
i quattro Ojanriìm - le « Ruote » costellate di occhi -, spiriti
delle sfere astrali. Il canto attribuito a questi altri spiriti angeli-
ci esprime dunque la gloria di Dio considerata non più nella
sua maestà inaccessibile, come nella qedussà, ma nella sua pre-
senza manifestata in questo mondo, specialmente nel Tempio
di Gerusalemme: il « luogo » della sua dimora. Questo canto,
che sarà presentato da Ezechiele come l'inno degli Hayyòt e de-
gli Ofanriìm, è un equivalente del canto liturgico per la collo-
cazione dell'arca nel tabernacolo, citato in Nm 10,36. È lecito
pensare che la stessa qedussà, che Isaia cita come il canto dei Se-
rafmi, doveva già essere, nel Tempio della sua epoca, un canto
che accompagnava il sacrificio dell'incenso, molto prima di es-
sere ripresa nella preghiera sinagogale (43).
In tutte queste preghiere deve essere sottolineata l'impor-
tanza dei temi della luce e della conoscenza (44). A volte si è
voluto opporre la pietà ebraica al cosiddetto misticismo elleni-

(41) Cf, nella nota 39, il commento di H. O deberg su 3 Henoch


35,6.
(42) Cf Gal 4,3.9; Col 2,8.20.
(43) Cf ancora quello che dice H. O deberg, op. cit., p. 184.
(44) Cf gli studi che abbiamo fatto su questi temi nel giudaismo e
nel NT in La spiritualità del Nuovo Testamento, Ed. Dehoniane, Bolo-
gna 1967.

78
co, come una spiritualità della Parola, che nutre la vita, opposta
a una contemplazione luminosa, che sazia solo la conoscenza
(45). È fuor di dubbio che lo sviluppo della Parola divina e la
rivelazione progressiva del Dio di Israele come il Dio vivente,
che interviene nel corso delle cose per far vivere coloro che lo
ascoltano, siano delle caratteristiche della religione biblica ed
ebraica. Ma le preghiere che abbiamo ora esaminato, i temi bi-
blici di cui esse sono intessute attestano che questo sviluppo del-
la Parola del Dio vivente che fa vivere, non dev'essere opposto
a una mistica di luce e di conoscenza: Puna avvolge l'altra, sia
nella pietà giudaica che nella Bibbia.
È vero che, a volte, si è voluto ridurre questi sviluppi biblici
del tema della luce ignea a tardive influenze iraniche. Ma è
dimenticare che gli sviluppi, anche i più tardivi forse dei temi
sacerdotali, particolarmente della presenza divina nella nube lu-
minosa, si riallacciano alle più arcaiche tradizioni di Israele
che riguardano l'alleanza sinaitica (46). Il Signore che si rivela
a Mosè sull'Oreb appare subito come il Dio della montagna sei-
vaggia, dove egli si rivela nel lampo per dare ai suoi la Torà
dell'alleanza. Allo stesso modo, la « conoscenza », tutta di amo-
re, che si esprime in queste beràkòt, non è evidentemente che il
fior fiore della « conoscenza di Dio » dei profeti. Ci troviamo
dunque, con questi temi, nel cuore di una mistica giudaica che
resta necessariamente biblica, anche se è vero che occorre at-
tendere da altri testi, ai quali arriveremo quanto prima, gli aspet-
ti complementari della pietà di Israele in cui la Parola e la vita
si troveranno in primo piano (47).
Un'ultima osservazione, a proposito delle beràkòt che pre-
cedono lo Sema, deve far rilevare il modo con cui l'ultima, ,Aha-
bà, manifesta già la tendenza di passare dall'azione di grazie al-
la supplica, per ritornare poi alla lode in una breve dossologia.
È un movimento che si è osservato fin dal Salterio, e che acqui-
sterà tutta la sua ampiezza nella Tefillà delle Diciotto benedi-
zioni. Seguendo le ultime prospettive della fede di Israele, vi

(45) Ibid.
(46) Cf in L. Bouyer, La Bible et l’Evangile, Paris 21953, il capito-
lo su La mystique juive et les figures de Mdise et d’Elie (VII) e quello su
Le problème cultuel (V).
(47) Cf, più avanti, « le beràkòt della mensa ».

79
possiamo scorgere quasi intero il dono di Dio, cioè il dono del
suo amore. Ciò non toglie che questo dono non attenda la sua
piena realizzazione escatologica, la quale porterà per sempre la
preghiera nella lode pura. La supplica rientra quindi naturai-
mente nella stessa lode, come una preghiera perché si realizzi
pienamente quello che costituisce già !,oggetto della lode, di
modo che questa supplica, in fin dei conti, si completa nella
lode da cui procede.
Non ci dilungheremo qui sullo Sema, poiché era destinato a
scomparire nella liturgia cristiana, dato che il banchetto euca-
ristico, come vedremo, ne avrebbe preso il suo posto focale.
Precisiamo semplicemente che l'attuale formula tripartita dello
Sema che aggiunge a Dt 6,49‫־‬, Dt 11,1321‫ ־‬e Nm 15,3741‫ ־‬deve
essersi sviluppata in tre tappe. Solo la prima citazione, sem-
bra, apparteneva già al servizio del Tempio, e di qui dovette
passare al servizio sinagogale. Le altre due vi si aggiunsero sue-
cessivamente. Uno sviluppo parallelo ha dovuto seguire la pre-
ghiera di conclusione che vi si aggiunge: la Ge’ullà, come la si
chiama oggi, in riferimento alla terza citazione, in quanto ognu-
na delle sue parti corrisponde a ciascuno dei tre testi biblici,
fino al punto di citarne alcune espressioni.
In compenso, Dt 6,4-9 all'origine - e senz'altro nel culto si-
nagogale, se non in quello del Tempio - era preceduto dalla re-
cita dei dieci comandamenti. La loro scomparsa è un altro frut-
to della polemica anticristiana, come viene almeno insinuato
dal trattato Beràkòt (12a) della Misnà. Probabilmente ci si vo-
leva opporre all'affermazione dei cristiani che solo il decalogo,
tra le prescrizioni legali, aveva una portata permanente (48).

La « Tefillà » delle « Semonèh ‫‘ ־‬Essréh »

Dopo lo Sema - e la preghiera che lo segue, che non ha altro


intento se non quello di imprimerne il senso nella mente dei
fedeli - viene la Tefillà delle Diciotto benedizioni (Semonèh‫־‬
'Essréh). Il nome stesso significa che è « la preghiera » per ec-
cellenza. È, infatti, la formula dove si è definito a poco a poco
l'insieme degli oggetti di preghiera che possono esclusivamente

(48) Cf DH, pp. 5253‫־‬.

80
e che devono obbligatoriamente sollecitare !,attenzione dell'israe-
lita.
Quantunque sia fondamentalmente preghiera di supplica (il
sostantivo tefillà, come il verbo hitpalpel, in ebraico rabbinico
sono applicati solo a questo tipo di preghiera), è considerata
come una serie di « benedizioni », perché tre beràkòt propria-
mente dette precedono e tre altre seguono le dodici domande,
ciascuna delle quali, d'altronde, si conclude con una breve be-
ràkà. La Tefillà ci è pervenuta in due recensioni: quella di Ba-
bilonia e quella di Gerusalemme. Noi riporteremo quella di Ba-
bilonia, che è data nel Seder Amram Gà’òn. Quella di Gerusa-
lemme è stata pubblicata per la prima volta da Salomon Schech-
ter (49). Si discute quale delle due corrisponda più da vicino
all'uso che se ne faceva al tempo di Cristo. Questa discussione,
però, non ha forse !,importanza che si potrebbe credere. Già
Abudahram osservava che non vi erano due comunità giudaiche
del suo tempo in cui essa fosse recitata esattamente negli stessi
termini (50). Fra le grandi preghiere della Sinagoga, essa sem-
bra quella che ha conservato più a lungo una maggior malleabili-
tà nei particolari delle sue formule, come capita oggi nelle Chie-
se di rito bizantino con le ectenìe, che sembrano - come ve-
dremo - derivare direttamente da queste. Tuttavia, il contenu-
to di ognuna di queste Diciotto (o, attualmente, 19) preghiere
è stato fissato molto presto, come lo attestano i commenti ab-
bondanti e molteplici ai quali esse hanno dato luogo nella let-
teratura rabbinica (51).
A differenza delle beràkòt prima dello Semà, è sempre allo
hazzan (come al diacono per le ectenìe cristiane) che è toccato
recitarle, in piedi davanti all'arca delle Scritture e rivolto verso
Gerusalemme (52). Ma l'uso vuole, ancora oggi, che lo hazzan,
come ciascuno dei fedeli, le recitino una prima volta mental-
mente in silenzio, prima che lo hazzan da solo le canti dall'ini-
zio alla fine. I fedeli rispondono allora: Amen dopo ogni beràka,
e la qedussa è di nuovo cantata, tra la seconda e la terza beràka,

(49) Cf DH, pp. 7Oss.


(50) Ibid.
(51) Ibid.
(52) DH, p. 6.

81
preceduta da una preghiera di introduzione di cui conosciamo
tre forme differenti (53).
Sembra certo che, originariamente, il tempo di silenzio che
precede la recita a voce alta non fosse occupato da una prima
recita a bassa voce, ma da preghiere individuali in silenzio, ispi-
rate dai temi familiari della preghiera pubblica che stava per
essere recitata; essa però non aveva una formula fissa. La doman-
da dei discepoli a Gesù: « Insegnaci a pregare » (προσεύχεσθαι,
traduzione abituale di hitpalpel), sembra aver di mira proprio
questa tefillà personale, e che il « Padre nostro » ne dia una for-
mulazione sintetica (54). Ritorneremo più avanti su questo pun-
to. Ecco dapprima le tre beràkòt iniziali, come si trovano nel
Seder Amram Gà’òn, secondo la tradizione di Babilonia, con la
qedussà e la sua introduzione più solenne che sembra essere an-
che la più antica.
Esse sono precedute da un versetto introduttivo, che dove-
va poi passare nell ,ufficio cristiano di ogni giorno:
« Signore, apri le mie labbra,
e la mia bocca annuncerà la tua lode ».

Seguono subito le tre beràkòt iniziali:


« 1. CAbòt) Benedetto tu, Signore Dio nostro, e Dio dei no-
stri padri, Dio di Abramo, Dio dTsacco, e Dio di Giacob-
be, Dio grande e forte e venerando, Dio eccelso, che conce-
di la ricompensa e crei ogni cosa; ricordi la pietà dei padri,
e fai venire il redentore per i figli dei loro figli, in grazia del
tuo Nome, con amore. Re liberatore, che aiuti, salvi e di-
fendi. Benedetto tu, Signore, scudo di Abramo.
2. (Geburòt) Tu sei potente in eterno, Signore che risusciti
i morti, che sei grande nel concedere salvezza, che fai seen-
dere la rugiada (che fai spirare il vento e fai scendere la
pioggia). Egli nutre i viventi per grazia, fa risorgere i morti
con grande misericordia, sostiene i cadenti, guarisce i mala-
ti, libera i prigionieri e mantiene la sua fedele promessa a
chi dorme nella polvere. Chi come te, o Potente? Chi ti as-
somiglia, o Re che fa morire e risorgere, che fa sbocciare
per noi la salvezza? Tu sei fedele nel far risorgere i morti.
Benedetto tu, Signore, che risusciti i morti.

(53) D H ,p. 114.


(54) Cf DH, p. 70,

82
(Keter) Una corona ti sarà data dalle moltitudini dell'alto
(55), come dalle assemblee di quaggiù; tutti, in accordo, ti
ripeteranno la lode santa, come è detto dal tuo profeta: ‫ ״‬Pro-
clamavano l'uno all'altro: Santo, santo, santo è il Signore
degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria”. Allo-
ra, con un rumore di grandi acque, potente e forte, fanno
sentire le loro voci, e, innalzandosi verso di te, dicono:
“Benedetta sia la gloria del Signore, dal suo luogo”. Dal
tuo luogo, risplendi, o nostro Re, e regna su di noi, poiché
noi attendiamo dopo di te. Quando regnerai? Regna pre-
sto in Sion, nei giorni nostri, e rimani nelle nostre vite. Pos-
sa tu essere glorificato e santificato in mezzo a Gerusa-
lemme, tua città, attraverso tutte le generazioni e in tutti i
secoli. E i nostri occhi vedano il tuo regno, secondo la pa-
rola detta nei canti della tua potenza da Davide, l'unto del-
la tua giustizia: Il Signore regnerà per sempre, il tuo Dio,
o Sion, in tutte le generazioni. Alleluia”.
3. (Qedussat ha-Sem) Di generazione in generazione pro-
clameranno la regalità di Dio, perché egli solo è eccelso e
santo. La tua lode, o Dio nostro, non venga meno dalle no-
stre labbra in eterno, perché tu sei un Dio re grande e san-
to. Benedetto tu, Signore, Dio santo » (56).

La prima beràkà è dunque una commemorazione dei padri


coi quali fu conclusa Palleanza, essenzialmente di Abramo e dei
patriarchi (di qui il nome ’Abòt: « i padri », che le viene dato);
nello stesso tempo è un'azione di grazie anticipata per la futura
venuta del Messia che riscatterà i loro figli.
La seconda (Geburòt) passa all'azione di grazie per la vita
e la sua fecondità; essa si amplia pure in benedizione per la spe-
rata risurrezione.
La terza, la Qedussat ha-Sem, può essere considerata come
la « benedizione » per eccellenza, perché è la benedizione del
Nome divino, rivelato ai padri e conservato sulle labbra dei fi-
gli. Di qui la solennità della sua introduzione col canto della

(55) Viene da pensare ai « vegliardi» dell'Apocalisse, che gettano


le loro corone davanti a Dio (4,10).
(56) DH, pp. 83ss per le prime tre benedizioni e pp. 114ss per la
Qedussà e la sua introduzione (Keter). - Cf PE 4446‫ ;־‬EEFL nn. 3436‫;־‬
LdC 305306‫ ;־‬cf inoltre II trattato delle benedizioni..., op. cit., pp. 444-
445.

83
Qedussà. Nel Nome divino è infatti Dio in persona che si comu-
nica ai suoi, al di là dei suoi doni.
Dopo di queste entriamo nelle dodici (ora tredici) preghiere:
<<4. (Binai) Tu concedi airuomo la grazia di conoscere,
e insegni l'intendimento alla creatura mortale. Concedici,
per grazia, conoscenza, intendimento e discernimento. Be-
nedetto tu, Signore, che concedi la grazia della conoscenza.
5. (Tesubà) Facci tornare, o Padre nostro, alla tua legge e
fa' che restiamo attaccati ai tuoi precetti. Facci avvicinare,
o nostro Re, al tuo culto, e facci tornare con pentimento per-
fetto alla tua presenza. Benedetto tu, Signore, che gradisci
la penitenza.
6. (Selisà) Perdonaci, Padre nostro, perché abbiamo pec-
cato; assolvici, o nostro Re, perché ci siamo ribellati. Tu
infatti sei un Dio buono e che perdona. Benedetto tu, Signo-
re, che sei pietoso e perdoni con larghezza.
7. (Ge’ullà) Guarda, ti preghiamo, alla nostra miseria, e
difendi la nostra causa, e salvaci, o nostro Re, prontamente
in grazia del tuo Nome, perché tu sei un potente Dio re‫־‬
dentore. Benedetto tu, Signore, redentore dTsraele.
8. (Refnà) Guariscici, Signore Dio nostro, e saremo guariti,
salvaci e saremo salvi, perché tu sei la nostra gloria; ap-
porta guarigione perfetta a tutte le nostre infermità e a tut-
te le nostre malattie; tu infatti sei un Dio che guarisce, una
misericordia ed è fedele. Benedetto tu, Signore, che guari-
sci i malati del tuo popolo, Israele.
9. (Birkat ha-sanim) Benedici per noi questa annata, Si-
gnore Dio nostro, affinché ci sia profìcua (e dona la rugia-
da e la pioggia come una benedizione sulla faccia della ter-
ra, con il vento sul paese, sazia il mondo intero della tua
bontà, riempi le nostre mani delle tue benedizioni e delle
ricchezze dei doni delle tue mani; veglia su questa annata,
liberala da ogni male, da ogni distruzione e da ogni cala-
mità, e falle sperare che la sua fine sia la pace. Risparmia-
ci, abbi pietà di noi, di tutti i suoi prodotti e di tutti i suoi
frutti; benedicila, come le annate buone, con la benedi-
zione della rugiada, della vita, dell'abbondanza e della pa-
ce). Benedetto tu, Signore, che benedici le annate.
10. (Qibbus galuyòt) Fa' che suoni il grande corno per la
nostra libertà, e alza il vessillo per radunare i nostri disper-
si. Radunaci insieme dai quattro angoli della terra (nella
nostra terra). Benedetto tu, Signore, che raduni i dispersi del
tuo popolo, Israele.

84
11. (Birkat mispat) Fa' tornare i nostri giudici come in an-
tico, e i nostri consiglieri come in principio, e si stabilisca
presto il tuo solo regno sopra di noi, con grazia e miseri-
cordia, con carità e giustizia. Benedetto tu, Signore, Re che
ami la carità e la giustizia.
12. (Birkat ha-minim) Per i calunniatori e per gli eretici
non ci sia speranza (se non ritornano alla tua alleanza), e
tutti in un istante periscano; tutti i tuoi nemici prontamen-
te siano distrutti, e tu umiliali prontamente, ai nostri gior-
ni. Benedetto tu, Signore, che spezzi i nemici e umilii i su-
perbi.
13. (.Birkat saddiqim) Sui pii e i giusti e sui proseliti e sul
resto del tuo popolo, la casa d'Israele, si risvegli la tua mise-
ricordia, Signore Dio nostro. Concedi generosa ricompen-
sa a chiunque si affida al tuo Nome con verità, e fa' che
la nostra parte sia con essi in eterno. Fa’ che non restiamo
confusi, perché in te abbiamo confidato, o Re di tutti i
mondi. Benedetto tu, Signore, appoggio e fiducia dei giusti.
14. (Birkat Jerusalem) A Gerusalemme, tua città, ritorna
con misericordia, e facci la tua dimora, come hai detto;
riedificala come edificio eterno, prontamente, nei nostri
giorni. Benedetto tu, Signore, che riedifichi Gerusalemme.
15. (Birkat David) Il germoglio di Davide, tuo servo, fa
prontamente fiorire, ed esalta la sua potenza per mezzo della
tua salvezza, perché nella tua salvezza abbiamo sperato
ogni giorno. Benedetto tu, Signore, che fai prosperare la
potenza della salvezza.
16. (Tefillà) Ascolta la nostra voce, Signore Dio nostro,
abbi pietà, e usaci grazia e misericordia. Accetta con mise-
ricordia e compiacimento la nostra preghiera e la nostra
supplica, perché tu sei un Padre ricco di grande misericor-
dia. Egli è eterno e non torneremo a mani vuote dal suo
cospetto, perché tu sei un Dio che ascolta la preghiera. Be-
nedetto tu, Signore, che ascolti la preghiera » (57).

La prima preghiera (chiamata Bina, « intelligenza », o Dehà,


« conoscenza », o Birkat Hokmà, « benedizione di sapienza »),
come un’eco alla benedizione per il Nome che la precede, è na-
turalmente una preghiera per la « conoscenza di Dio ». Eviden-
temente mira innanzi tutto alla conoscenza della Torà, delle esi-

(57) DH, pp. 87ss. ‫ ־‬PE 4650‫ ;־‬EEFL nn. 3748‫ ;־‬LdC 306308‫ ;־‬Il trai-
tato delle benedizioni..., op. cit., pp. 445447‫־‬.

85
genze divine suiruomo. In questo contesto, però, è chiaro che
la conoscenza della Torà e la conoscenza di Dio stesso sono un
tutt'uno. Si tratta di giungere a quel rapporto di intimità reci-
proca che la sua rivelazione intende produrre, in modo tale che
la Torà imprima su di noi il sigillo del Nome divino, e la san-
tificazione del Nome santifichi noi stessi con la sua santità.
La preghiera che segue (Tesubà) è una preghiera di pentimen-
to, o più precisamente un'implorazione perché Dio stesso ci dia
il pentimento. La tesubà potrebbe anche essere tradotta con:
« ritorno (a Dio), conversione ».
La terza (Selisà, « perdono ») implorerà di conseguenza il
perdono.
La quarta (Ge’ullà, « redenzione ») chiede poi il riscatto,
cioè la liberazione dalle tribolazioni, attirate sul popolo dai suoi
peccati. Il Talmùd vi vede un'allusione alla redenzione escato-
logica, attesa dal Messia (58). Rashi la spiega, invece, nel sen-
so della liberazione attuale dai mali particolari che possono af-
fliggere i fedeli (59). La supposizione di Zunz (60), secondo il
quale si sarebbe introdotta in occasione di un pericolo nazio-
naie, o sotto Antioco IV, o forse più tardi sotto Pompeo, può
essere accettata. Viene, dopo quella, una domanda per le sta-
gioni favorevoli (la Birkat ha-sanìm, « preghiera per le anna-
te », sottinteso « buone » annate), per i raccolti abbondanti, e
più genericamente per la « pace », dato che l'ebraico salóm in-
elude in essa la prosperità materiale.
Segue (Qibbus galuyòt: « raduno dei dispersi ») una pre-
ghiera per il raduno degli esiliati e di tutta la diaspora d'Israele.
Poi è la volta della Birkat mispat: la preghiera per la giu-
stizia; è una preghiera per le autorità e chiede che siano fedeli
alla volontà divina, in modo da assicurare il regno del Signore
sopra i suoi.
Dopo questa, e prima di una preghiera per i proseliti, ven-
ne introdotta la beràkà, aggiunta tardivamente, che ha portato
da Diciotto a Diciannove il numero delle « benedizioni » tradì-
zionali. È la famosa preghiera contro gli apostati e i calunnia-

(58) Misna, trattato Megilla, 17 b.


(59) Ad l o c nel suo Commentaire du Talmud babylonien.
(60) Die gottesdienstlichen Vortràge der Juden, Frankfurt am Main
21892, p. 381.

86
tori del popolo d'Israele. Questi minim sono certamente i cri-
stiani, specialmente i giudeo-cristiani, e tutti quelli del popolo
ebraico che patteggiano con essi o sono giudicati tali. Le formu-
le sono più variabili di quelle di tutte le altre, in parte verosi-
!miniente a causa della censura che le autorità cristiane hanno
potuto esercitare su di essa, o per il solo timore di una simile
censura (61).
La Birkat saddiqim, preghiera « per i giusti », è in realtà
una preghiera pensata per i proseliti che si sono decisi ad ade-
rire al popolo di Dio.
La Birkat Jerusalem che segue è evidentemente applicata,
dopo il 70 della nostra èra, alla ricostruzione di Gerusalemme
distrutta da Tito. Ma, come fa osservare Abrahams (62), le for-
mule primitive dovevano applicarsi non alla ricostruzione, ma
alLedificazione di Gerusalemme e al suo possesso perpetuo della
presenza divina.
Dopo questa, la Birkat David implora formalmente la venu-
ta del Messia davidico.
Un'ultima petizione, particolarmente solenne - e alla quale
si dà, come all'insieme delle Diciotto benedizioni, il nome di
Tefìlla, « preghiera » per eccellenza - domanda che tutte le
preghiere di Israele siano esaudite.
Si passa così alle tre benedizioni finali, in cui il tema della
lode ridiventa dominante:
« 17. CAbòdà) Possa tu compiacerti, Signore Dio nostro,
nel tuo popolo Israele, e accogli la sua preghiera; restaura
il tuo culto nel Santuario della tua casa, e accogli pronta-
mente con amore e benevolenza i sacrifìci di Israele e la
loro preghiera. Sempre ti sia di compiacimento il culto di
Israele, tuo popolo. Possano i nostri occhi vedere il tuo
ritorno a Sion e a Gerusalemme, tua città, con misericor-
dia, come in antico. Benedetto tu, Signore, che fai tornare
con misericordia la tua presenza a Sion.
18. (Hòdà’à) Noi ti ringraziamo perché tu sei il Signore
Dio nostro e il Dio dei nostri padri: tu sei la Roccia delle
nostre vite, lo scudo della nostra salvezza attraverso tutte
le generazioni. (Ti ringraziamo) per la nostra vita affidata
nelle tue mani, e per le nostre anime affidate a te (e per i

(61) Cf DH, p. 94.


(62) I. A brahams, op. cit., p. LXV.

87
prodigi che di giorno in giorno operi con noi, e per le cose
meravigliose e per le opere di bontà che compì in ogni tem-
po, alla sera e al mattino e a mezzogiorno). Tu sei buono,
infatti la tua misericordia non viene meno; tu sei miseri-
cordioso, infatti non si esaurisce la tua carità. Da sempre
abbiamo sperato in te; non ci hai fatto restare delusi, Signore
Dio nostro, non ci hai abbandonato e non hai distolto il tuo
volto da noi. E il tuo Nome sia benedetto ed esaltato, o no-
stro Re, per sempre. Tutto ciò che vive dovrebbe renderti
grazie, Selah, e lodare il tuo Nome, o tutto-buono, nella ve-
rità. Benedetto tu, Signore; il tuo Nome è Pottimo, e a te
conviene rendere lode.
19. (Birkat kohanim) Dona pace, benedizione, grazia, carità
e misericordia a noi e a tutto Israele, tuo popolo. Benedici,
Padre nostro, noi tutti insieme, con la luce del tuo volto,
perché con la luce del tuo volto hai dato a noi, Signore
Dio nostro, la Legge di vita, amore, grazia, carità, benedi-
zione, salvezza e misericordia e vita e pace. Ti piaccia di
benedirci e benedire tutto il tuo popolo Israele, sempre in
ogni tempo e in ogni ora, nella tua pace. Benedetto tu, Si-
gnore, che benedici il tuo popolo Israele nella pace » (63).
Quantunque la prima di queste tre ultime beràkòt non co-
minci con la formula classica: « Benedetto tu... », essa è consi-
derata come una beràkà di lode, perché non ha altro oggetto
che la lode di Dio da parte di Israele. La si chiama 'Abòdà, « ser-
vizio », e si ammette in generale che derivi direttamente dalla
preghiera che era recitata nel Tempio di Gerusalemme per Pof-
ferta quotidiana dell ,olocausto (64). Più tardi sarà ritoccata
per applicarla alla restaurazione dei sacrifici interrotti da Tito.
È seguita da una preghiera chiamata Hódà’à, « azione di gra-
zie » per eccellenza, perché riassume tutti i motivi di benedizio-
ne del Signore in una dossologia finale.
L,ultima beràkà non è che una preparazione alla benedizio-
ne di Aronne, che originariamente doveva concludere il servi-
zio (Nm 6,24-26).
Abbiamo già fatto notare la stretta parentela fra le tre pri-
me domande del « Padre nostro » e il Qaddis che conclude le le-

(63) DH pp. 96ss. - PE 50-54; EEFL nn. 5052‫ ;־‬LdC 308-309; cf


inoltre II trattato delle benedizioni..., op. cit., pp. 447-448.
(64) Cf I. E lbogen, Studien zur Geschichte des judischen Gottes-
dienstes, Berlin 1907, p. 55.

88
zioni scritturistiche (airorigine). Ora si può aggiungere che
l’uno e l'altro sono come uno sviluppo della principale delle
beràkòt iniziali: quella sul Nome. Il seguito del « Padre no-
stro » appare, a sua volta, come un riassunto delle dodici peti-
zioni centrali. Ma bisogna ancora considerare due fatti che
vengono fuori dalle discussioni dei rabbini. Il primo è che la
recita delle Diciotto benedizioni venne imposta a tutti, ogni
giorno, soltanto dalla scuola di Gamaliele (contemporaneo di
Cristo). Il secondo è che, fino allora, solo durante la settimana
ci si serviva di queste Diciotto benedizioni (65). I sabati e i
giorni di festa comportavano soltanto un formulario di sette
benedizioni. Sembra che la versione del « Padre nostro » nel
vangelo di san Matteo, coi suoi sette versetti, abbia voluto te-
ner conto di questo schema (cf Mt 6,913‫)־‬.

Le « beràkòt » della mensa


Ci rimane da esaminare un'altra serie di preghiere giudai-
che, il cui interesse per uno studio dell'antica eucaristia è
particolarmente evidente: la liturgia della mensa. In genere, es-
sa era obbligatoria in ogni pasto ebraico, anche solo per pren-
dere cibo individualmente. Ma prendeva tutto il suo rilievo nel
pasto di famiglia, particolarmente nei pasti delle feste, come
quello della Pasqua. Abbiamo già avuto occasione di dirlo: nel-
le comunità giudaiche, come quella di Qumràn, essa era arri-
vata a prendere il luogo e il significato degli antichi sacrifici.
Il pasto pasquale, alle origini d'Israele - secondo il parere di
molti esegeti moderni, come Pedersen - era stato probabilmente
l'unico sacrificio (66). Allo stesso modo, il pasto comunitario -
che raduna, nell'attesa del banchetto messianico annunciato dai
profeti, il « resto », consapevole di formare il nucleo del fu-
turo ed eterno Israele - diviene il supremo e unico sacrificio. C'è
da notare, d'altra parte, che le preghiere del pasto, e special-
mente il grande rendimento di grazie che lo conclude, sono
sempre state considerate dagli ebrei come degne di particola-
re venerazione. I rabbini hanno attribuito loro un'antichità fa-

(65) Cf DH, p. 67.


(66) Cf J. Pedersen, Passahfeste und Passable gende, in ZAW 52
(1934) 161 ss.

89
volosa (67). Anche se c'è qualche esagerazione, queste preghie-
re sono certamente tra le più antiche dei rituali giudaici perve-
nuti fino a noi. Louis Finkelstein, che ha dedicato loro uno stu-
dio particolarmente suggestivo, fa notare con ragione che que-
sta liturgia familiare non ha avuto meno importanza per la con-
servazione della vita religiosa comunitaria d'Israele di quanta
ne abbia avuto il servizio della sinagoga (68).
Il preludio obbligatorio del pasto era quella rituale lavanda
delle mani con cui gli ebrei cominciavano anche la giornata.
Poi, in un pasto di cerimonia, ognuno, arrivando, beveva un
primo calice di vino ripetendo questa benedizione:
« Benedetto tu, Signore Dio nostro, Re dei secoli, che ci dai
questo frutto della vite » (69).
È il primo calice menzionato da san Luca nel suo racconto
della Cena e che ha messo tanto in imbarazzo quegli esegeti
cristiani che ignoravano i pasti giudaici (cf Le 22,17-18). Le
parole di Gesù che Luca cita a questo riguardo, circa il frutto
della vite di cui non berrà più con i suoi prima che si ritrovino
nel Regno, sono una chiara allusione a questa formula.
Ma il banchetto cominciava ufficialmente solo dopo che il
padre di famiglia, o il presidente della comunità, aveva spez-
zato il pane che sarebbe poi stato distribuito tra i convitati, con
questa benedizione:
« Benedetto tu, Signore Dio nostro, Re dei secoli,
che fai produrre il pane alla terra » (70).
Essa era considerata come una benedizione generale per
tutto il pasto che doveva aver luogo, e chiunque fosse arrivato
più tardi non poteva più parteciparvi.
Si susseguivano poi i cibi e le bevande, mentre ciascuno, da
parte sua, pronunciava una serie di benedizioni appropriate. Il
pasto della Pasqua si distingueva solo per i cibi particolari

(67) Cf DH, p. 139.


(68) L. F inkelstein , The Birkcit Ha-Mazon, in JQR 19 (1928) 21 lss.
(69) Mistici, trattato Beràkòt, VI, 1 e Tòseftà, trattato Beràkót, IV,
8. - PE 6; EEFL n. 53; LdC 312.
(70) Cf la prima citazione della nota 69 e DH, p. 144. - PE 6 7 ‫;־‬
EEFL n. 55; LdC 312313‫־‬.

90
che lo costituivano - erbe amare e agnello -, con le preghiere
speciali corrispondenti, e per la recita dialogata della haggàdà,
cioè di una specie di omelia tradizionale sulTorigine e sul sen-
so sempre attuale della festa (71). Avremo occasione di riparla-
re più avanti di questa haggàdà.
Tuttavia, in ogni caso Tatto rituale essenziale si situava alla
fine del pasto. Verso questo momento, nei banchetti di festa
celebrati alla sera precedente (come i nostri primi vespri), ve-
niva introdotta la lampada, normalmente dalla madre di fami-
glia che Taveva preparata e accesa (72). Essa, a sua volta, ve-
niva benedetta con una benedizione che richiamava la crea-
zione dei luminari per rischiarare la notte. Ecco Torigine del-
Tantico uso cristiano del lucernario, che si è conservato fino a
noi nella benedizione del cero pasquale. Poi, con una benedi-
zione propria, veniva bruciato delTincenso (73). Aveva infine
luogo una seconda lavanda generale delle mani: colui che pre-
siedeva riceveva per primo Tacqua dalle mani di un servo o,
in sua mancanza, dal più giovane dei convitati (74).
Questo ci spiega la scena descritta dal quarto evangelista
(Gv 13,3ss). Molto probabilmente, in questa azione Giovanni
ha portato Tacqua a Gesù che, traducendo in un gesto espres-
sivo Tinsegnamento di umile amore che voleva dare ai suoi, gli
prende la brocca dalle mani e, cominciando da Pietro, supposto
il più degno dopo di lui, lava non le mani, ma i piedi dei suoi
discepoli.
Dopo questi vari preliminari, il presidente, dinanzi al calice
misto di vino e acqua che gli era stato portato, invitava solen-
nemente i presenti ad associarsi al suo rendimento di grazie:
« Benediciamo (il nostro Dio) che ci nutre di quanto è
suo ».
Dicendo questo, sfinchinava quando si trattava di un'as-
semblea con il minimo di convitati sufficienti per formare un’as-

(71) Cf }. Jeremias, Le parole dell’ultima Cena { = Biblioteca di


cultura religiosa, 23), Paideia, Brescia 1973, cap. I.
(72) Misna, trattato Beràkót, V ili, 5 e 6.
(73) Misna, trattato Beràkót, VI, 6.
(74) Cf DH, p. 145.

91
semblea sinagogale: dieci, in linea di principio (75). Gli si ri-
spondeva allo stesso modo:
« Benedetto (il nostro Dio) che ci nutre di quanto è suo e
ci fa vivere della sua bontà ».
Il Talmud di Gerusalemme assicura che questo dialogo ri‫־‬
sale almeno ai tempi di Simone ben Shetah, che visse sotto Ales‫־‬
sandro Ianneo, dal 103 al 67 prima di Cristo (76).
Il presidente canta allora una serie di beràkòt che sono in
numero di quattro in tutti i siddurìm, a cominciare dal Seder
Amram Gà’òn (77). Però la Misnà conosce solo le prime tre, e
i commenti rabbinici datano la quarta dalla rivolta di Bar Kho-
keba. Noi ci limiteremo dunque a studiare le prime tre, certa‫־‬
mente utilizzate da Cristo, e che sembrano molto anteriori al‫־‬
l’èra cristiana. Secondo il trattato Beràkòt della Misnà, la prima
risalirebbe a Mosè, la seconda a Giosuè, la terza a Davide e a
Salomone (78). Come fa notare Dembitz, ciò significa soltanto
che la loro origine, fin d’allora, era immemorabile (79). Il Fin-
kelstein ha stabilito che la terza doveva risalire al II secolo pri‫־‬
ma di Cristo, mentre le prime due potrebbero essere ancora
più antiche (80).
Né la Misnà né la Tòseftà ci danno il loro testo completo,
che non si trova prima del Seder Amram Gà’òn. Moltiplicano,
però, le allusioni al contenuto delle formule fin dalPepoca più
antica, che ci garantiscono la conformità sostanziale del testo
ancor oggi in uso con la prassi antica.
« 1. Benedetto sei tu, Signore nostro Dio, Re delPuniver-
so, che nutri il mondo nella [tua] bontà, nella [tua] grazia
e nella [tua] misericordia, che doni il cibo ad ogni carne,
poiché nutrì e sostieni tutti gli esseri e procuri il nutrimen-
to a tutte le tue creature. Benedetto sei tu, Signore, che doni
a tutti il [loro] cibo.

(75) DH, p. 146. Al di sotto di questo minimo, si sopprime Pespres-


sione « il nostro Dio ».
(76) Misnà, trattato Beràkòt, VII, 2. - PE 9; EEFL n. 56; LdC 328.
(77) Cf DH, p. 139. - PE 9-10; EEFL n. 57.
(78) Ibid.
(79) L. N. D embitz, Jewish Services in Synagogue and Home, Phi-
ladelphia 1898, p. 435.
(80) L. F inkelstein, art. cit., pp. 220ss.‫־‬

92
2. Noi ti rendiamo grazie, Signore nostro Dio, per questa
terra desiderabile, buona e spaziosa, che ti è piaciuto dare
ai nostri padri, e per l'alleanza che hai segnato nella nòstra
carne, la Torà che ci hai insegnato, la vita, la grazia, la ini-
sericordia e il cibo che ci hai concesso in ogni stagione. E
per tutto questo, Signore nostro Dio, noi ti rendiamo grazie
e benediciamo il tuo Nome. Benedetto sia il tuo Nome su
di noi continuamente e per sempre. Benedetto sei tu, Signo-
re, per la terra e per il cibo.
3. Abbi pietà, Signore nostro Dio, di Israele tuo popolo*
di Gerusalemme tua città, di Sion, la dimora della tua glo-
ria, del regno della casa di Davide il tuo Unto, e della gran-
de e santa casa che è stata chiamata con il tuo Nome. Nu-
trici, mantienici, sostienici, abbi cura di noi, sollevaci pre-
sto dalle nostre angosce e fa’ che non abbiamo bisogno dei
doni dei mortali, poiché i loro doni sono mediocri e il loro
rimprovero è grande, mentre noi abbiamo sperato nel tuo
Nome santo, grande e tremendo. Possano Elia e il Messia,
il figlio di Davide, venire durante la nostra vita, possa il
regno della casa di Davide ritornare al suo luogo, e tu stes-
so regnare su di noi, tu solo; voglia tu condurci, rallegrarci
e consolarci in Sion, la tua città. Benedetto sei tu, Signore,
che ricostruisci Gerusalemme » (81).

La prima di queste bewkòt, come fanno notare i commen-


tatori ebrei, è una benedizione per il nutrimento ricevuto che
si allarga in benedizione cosmica, per tutta la creazione, spe-
cialmente per la creazione continua della vita (82).
La seconda, partendo dal fatto che il nutrimento dell’israe-
lita è il frutto della terra promessa, è una benedizione per que-
sto paese della promessa. Parallelamente alla prima, essa si al-
larga in una benedizione per l’alleanza, suggellata dalla circon-
cisione e dal dono della Torà (83). Così diventa una benedizio-
ne per tutta la storia della salvezza. Infatti, nelle formule dei
siddurìm attualmente in uso, alla menzione della terra, dell’al-
leanza e della Torà si unisce quella della liberazione dalPEgit-

(81) DH, pp. 147ss. - PE 1012‫ ;־‬EEFL nn. 5859‫ ;־‬Il trattato delle
benedizioni..., op. cit., pp. 452453‫־‬.
(82) Cf J. H. H ertz, The Authorised Daily Prayer-Book of the
United Hebrew Congregations of the British Empire, voi. Ill, London
1945, pp. 968ss.
(83) Cf DH, p. 147.

93
to (84). Questo non si trova formalmente in Amram Gà’ón, né
nel testo, di poco posteriore, di Saadia Gà’òn, ma lo si vede
già nella Machzor Vitry di Rabbi Semshah ben Samuel (circa
il 1100 della nostra èra) (85).
La terza beràkà è una supplica perché razione creatrice e re-
dentrice di Dio nei tempi antichi continui ancora oggi, si rinno-
vi e trovi il suo compimento ultimo nella venuta del Messia e
nello stabilirsi finale del Regno di Dio. Vi si nota il pieno svi-
luppo della tendenza, notevole in tutte le ampie beràkot, a pro-
lungarsi in una preghiera per il compimento delle opere divine
che sono oggetto della lode, prima del ritorno a quest’ultima
nella dossologia finale. La conclusione della preghiera, con la
sua allusione a Gerusalemme ricostruita, può indicare un giudai-
smo posteriore alla catastrofe del 70. Ma qui va di nuovo appli-
cata l’osservazione fatta a proposito della XIV benedizione del-
la Tefillà: Lidea dell’edificazione di Gerusalemme che deve con-
tinuare fino alla pienezza dei tempi messianici è un’idea giudaica
del tutto tradizionale. L’idea cristiana della Chiesa che si co-
struisce fino alla parusia ne è solo una trasposizione.
Bisogna aggiungere che il Seder Amram Gà’òn, in conformità
con la tradizione rabbinica più antica, prescrive alcune varia-
zioni nella terza beràkà, per il giorno di sabato O.per un giorno
di festa (86).
La forma festiva è particolarmente degna di essere notata,
tanto più che è oggetto di allusioni molto precise nella Tòseftà
(87). Essa introduce, dopo la domanda perché il regno della ca-
sa di Davide ritorni al suo luogo, questo inciso:
« Nostro Dio e Dio dei nostri padri, il memoriale di noi stes-
si e dei nostri padri, il memoriale di Gerusalemme, tua città,
il memoriale del Messia, figlio di Davide, tuo servo, e il
memoriale del tuo popolo, di tutta la casa d'Israele, si al-
zi e venga, arrivi, sia visto, accettato, sentito, ricordato e
menzionato davanti a te, per la liberazione, il bene, la gra-
zia, la compassione e la misericordia, in questo gior-

(84) Cf S. S inger, op. cit., p. 280.


(85) Cf Machzor Vitry, par. 83 (ed. S. H urwitz , Berlin 1923). La
stessa cosa in Maimonide; cf S. Baer, Seder Abodat Israel, Jerusalem
1927, p. 555.
(86) DH, pp. 151ss.
(87) Trattato Beràkot, III, 49 a. Per il testo, cf DH, p. 152.

94
no [ qui si precisa la festa]. R icordati di noi, 0 Signore
nostro D io, a suo riguardo per farci del bene, visitaci a causa
di lui, e salvaci per lui, vivificandoci con una parola di sai-
vezza e di m isericordia: risparm iaci, facci grazia e m ostraci
la tua m isericordia, poiché tu sei u n Dio e un Re am abile
e m isericordioso ».

Degno di nota è fuso così abbondante che il testo fa del


termine «memoriale», in ebraico: zikkàròn. Non è possibile
immaginare una conferma migliore di questo testo alla tesi co-
sì solidamente stabilita da Jeremias nel suo libro: Le parole
delVultima Cena (88). Il « memoriale » infatti, non è qui una
semplice commemorazione. È un pegno sacro, dato da Dio al
suo popolo, e che il popolo conserva come il suo tesoro spiri-
tuale per eccellenza. Questo pegno implica una continuità, una
permanenza misteriosa delle grandi azioni divine, dei mirabilia
Dei commemorati dalle feste. Esso è infatti, per il Signore stes-
so, un attestato permanente della sua fedeltà a se stesso. È dun-
que la base per una supplica fiduciosa affinché la virtù inesau-
ribile della Parola che ha prodotto i mirabilia Dei nel passato
li rinnovi e li accompagni ora. È in questo senso che la « memo-
ria » delle azioni divine, che il popolo custodisce fedelmente,
può incitare Adonai ad avere « memoria » del popolo. La no-
stra commemorazione soggettiva, infatti, non è altro che il ri-
flesso di una commemorazione oggettiva stabilita da Dio, che
innanzi tutto attesta a se stesso la propria fedeltà. Di qui, quel-
la formula di preghiera così caratteristica, e che doveva passa-
re dalla Sinagoga alla Chiesa: « Ricordati di noi, o Signore ».
Le espressioni così dense di significato - le quali chiedono
che « il memoriale del tuo popolo, di tutta la casa d'Israele,
si alzi e venga, arrivi, sia visto, accettato, sentito, ricordato e
menzionato davanti a te, per la liberazione, il bene, la grazia,
la compassione e la misericordia, in questo giorno... » -, sottoli-
neano quel carattere oggettivo attribuito giustamente da Jere-
mias al memoriale così inteso. Pegno dato da Dio ai suoi fede-
li, proprio perché glielo ripresentino come omaggio della loro
fede alla sua fedeltà - divenendo così la base della loro sup-
plica -, il « memoriale » diviene dunque, come ha sottolineato

(88) Cf anche B. S. Ch il d s , Memory and Tradition in Israel, Naper-


ville/Illinois 1962.

95
Max Thurian, una forma superiore di sacrificio: il sacrificio
pienamente integrato con la Parola e il rendimento di grazie
che essa suscita come risposta.
La prova migliore si ha, però, nel fatto che questa formula
del « memoriale » si aggiungeva pure alla preghiera (Abòdà che,
ancora una volta, consacrava, in origine, i sacrifici del Tempio.
Di qui, il carattere sacrificale dato al pasto in comune (89). La
comunità, nel benedire Dio per il suo pasto, nel riconoscervi
con questa beràkà il memoriale dei mirabilia Dei della creazio-
ne e della redenzione, vi riconosce il segno efficace della perpe-
tua attualità di questi mirabilia e, più ancora, del loro compi-
mento escatologico a suo favore. La preghiera per tutto ciò che
tende a questo compimento vi trova un pegno sicuro. « Rico‫־‬
noscendo » la virtù inesauribile della Parola che crea e che sai-
va, si può dire che la fede dTsraele aderisce intimamente al
suo oggetto. Il popolo stesso viene consacrato per il compimen-
to del disegno divino, mentre lo accoglie in una misteriosa e
reale anticipazione (90). Abbiamo qui come la sorgente. della
nozione cristiana del sacrificio eucaristico e, più generalmente,
delPefficacia dei sacramenti, così come la intenderanno le pri-
me generazioni cristiane. Infatti, come vedremo, la virtù sacra-
mentale-sacrificale delPeucaristia troverà lo sviluppo fondamen-
tale della sua espressione in questa terza beràkà, divenuta La-
namnesi eucaristica, con il suo prolungamento ulteriore in ciò
che si chiamerà l’epiclesi.
In stretta correlazione con tutto questo, c’è un’ultima do-
manda che va posta circa le beràkòt della tradizione liturgica
sinagogale.
Ci si è chiesto se l’uso della parola « benedizione » per tra-
durre « beràkà » non comportasse un controsenso, almeno pos-
sibile. Per benedizione (si pensi alle benedizioni del rituale ro-
mano) abbiamo finito per intendere una preghiera che chiede
l’elargizione di una grazia a chi è benedetto, se si tratta di una
persona, o annessa alla cosa di cui si farà uso, se di questa si
tratta. In un caso come nell’altro, benedire ha per oggetto una
creatura. Invece - si fa giustamente osservare - benedire, bàràk

(89) Cf J. H. H ertz, op. cit., pp. 148 e 972.


(90) Cf Max T hurian, L ’Eucaristia. Memoriale del Signore, sacri-
fido di azione di grazia e d’intercessione, Ed. AVE, Roma 21971, pp. 23ss.

96
nelle beràkòt giudaiche, non ha mai altro oggetto alPinfuori di
pio. La benedizione si rivolge a lui, e ciò non perché egli man-
di la sua grazia su di noi o sui nostri beni, ma per rendergli gra-
zie di questi beni, per riferire noi stessi a lui in una prospettiva
fondamentalmente disinteressata.
Si ha qui un'osservazione di una esattezza incontestabile.
Non bisognerebbe però esasperarla, e meno ancora tirarne con-
seguenze troppo sistematiche.
In primo luogo, c'è da notare che esistono numerosi esem-
pi, nell'uso biblico, in cui bàràk, « benedire », ha per compie-
mento oggetto, se non delle cose, almeno degli uomini. Si pen-
si all'esclamazione di Giacobbe nella sua lotta notturna con l'an-
gelo: « Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto » (Gn 32,27);
o anche all'episodio, così caratteristico, dello stesso Giacobbe
che soppianta Esaù per appropriarsi la benedizione paterna (Gn
27). Si potrebbero ricordare molti altri casi analoghi. Il più
importante, però, è quello della benedizione di Aronne (Nm 6,
24‫־‬26(:
« T i benedica il Signore e ti protegga.
Il Signore faccia brillare il suo volto su di te
e ti sia propizio.
Il Signore rivolga su di te il suo volto
e ti conceda pace ».

La sua ripetizione, ricordiamolo, chiude la Tefillà. Non c'è


dubbio che la benedizione è intesa come preghiera di un genere
specialissimo, riservata, sembra, a un uomo di Dio, prete, pa-
dre o maestro spirituale, e con la quale si pensa che egli possa
ottenere da Dio, con un'autorità in qualche modo garantita da
Dio stesso, una grazia speciale per colui che è oggetto della be-
nedizione.
È vero che la benedizione teocentrica conclude, nel senso di
lode e di rendimento di grazie, le dodici beràkòt centrali della
Tefillà: tuttavia esse sono prima di tutto e direttamente pre-
ghiere di benedizione, nel senso che noi diamo oggi a questa
parola. Sono, infatti, preghiere destinate a ottenere qualche gra-
zia particolare per certe persone e, più precisamente, in questo
caso, a benedire determinati elementi della loro esistenza, alcu-
ni dei quali sono puramente temporali: cibo, prosperità, pace; o,
se si preferisce, hanno lo scopo di benedire tali persone in e
mediante queste realtà create.

97
Nelle prospettive in cui il giudaismo più evoluto ha espli-
citato il movimento più profondo della Parola divina, non esiste
una benedizione che non risalga a Dio fin dal suo primo slan-
ciò, e che, in ultima analisi, non ritorni a lui. Le realtà create
sono benedette per il nostro uso; l’uomo, a sua volta, è benedet-
to in tutto quello che fa, soltanto se risale a Dio, principio di
tutte le sue azioni, di tutta la sua vita, per riconoscere che tutto
viene unicamente da lui, e che su tutto egli conserva un potere
sovrano. La benedizione non si svilupperà maggiormente se non
ci sarà una consacrazione dell’uomo tutto intero a Dio, con tutti
gli esseri ai quali la sua vita è associata, completandosi in un
omaggio definitivo in cui tutte le cose si uniranno e si perde-
ranno in qualche modo nella pura dossologia.
Ciò non toglie, però, che questa sarà una linea di sviluppo
caratteristica delle berakòt, proprio per arrivare a svilupparsi
in preghiere di supplica. Tale supplica procede dal rendimento
di grazie, dalla confessione della sola regalità divina. La supplì-
ca, parimenti, non tenderà ad altro che ad invadere tutto e, per
così dire, sommergere tutto mediante questa confessione e que-
sta consacrazione. D’altra parte, non vi è consacrazione del-
l’uomo o del mondo, se non nel libero « riconoscimento », da
parte dell’uomo, della sovranità di Dio che era al principio stes-
so della creazione.
Questo esclude certamente qualsiasi deviazione magica che
tendesse a ridurre la benedizione all’infusione, in un oggetto,
di una virtù di cui l’uomo potrebbe usare o godere da padro-
ne. Esclude pure qualsiasi idea, anche quella apparentemente
più spiritualizzata, di una benedizione dell’uomo che mirasse
solo al proprio bene. Nelle autentiche prospettive bibliche del
miglior giudaismo, questo non comporta alcun « disinteressa-
mento » di sapore quietista. Tutt’altro: è una delle convinzio-
ni più fondamentali della pietà ebraica, come della Bibbia, che
l’uomo troverà la sua piena felicità, e persino la sua felicità fi-
sica, nell’adesione senza riserva alla volontà di Dio, nella con-
sacrazione esclusiva alla sola sua gloria. Non vi è benedizione
dell’uomo e del mondo se non in un’azione di grazie, in un
omaggio di lode e di confessione che prende occasione da tut-
to per risalire a lui solo. Ma è proprio questa la benedizione
più sostanziale che si possa concepire per l’uomo e per il mon-
do in cui Dio lo ha messo.

98
Strutture diverse delPeucaristia cristiana
e origine della loro differenziazione

Prima di concludere questo capitolo, dobbiamo ancora fare


un'osservazione che si rivelerà della più grande importanza per
il seguito del nostro studio. Riguarda la struttura relativa ai
due gruppi di beràkòt che sono stati or ora studiati: quello
del servizio sinagogale e quello dei pasti. In quest'ultimo caso,
abbiamo tre beràkòt: la prima sottolinea il tema della creazio-
ne, specialmente la creazione della vita; la seconda la reden-
zione, evocata dalla terra promessa di cui si sono appena man-
giati i frutti; la terza sviluppa la beràkà, nel senso più preciso
di lode dei mirabilia Dei già compiuti, in una supplica per il
compimento escatologico del popolo di Dio, in quel Regno in
cui sarà lodato per sempre per l'edificazione definitiva di Geru-
salemme.
È evidente che le due beràkòt prima dello Sema, e la Tefillà
che lo segue, presentano uno sviluppo strettamente parallelo a
quest'ultimo. La prima di queste altre beràkòt è anche una « be-
nedizione » per la creazione, in questo caso per la creazione
della luce, sia visibile che invisibile (la « conoscenza »). La se-
conda è pure una « benedizione » per la redenzione, concre-
tizzata questa volta nel dono della Torà. L'insieme delle Diciot-
to benedizioni rappresenterà pure, ma con una serie di inter-
cessioni particolareggiate, un ampliamento della beràkà per i
doni passati in un'implorazione di doni futuri, considerati co-
me la continuazione e il compimento dei mirabilia commemo-
rati nella lode. Anche qui, però, come nella terza beràkà dei
pasti, la preghiera, nonostante la molteplicità di oggetti partico-
lari che ora abbraccia, si unifica sempre sull'idea-guida dell'e-
dificazione di Gerusalemme da perfezionare nel Regno escatolo-
gico. Così, ancora una volta, la preghiera ritorna alla lode nella
dossologia finale.
Possiamo, per semplificare, fare uso di sigle applicate a eia-
scuna di queste preghiere. Sia A la prima beràkà prima dello
Semà, B la seconda, C Pinsieme della Tefillà. Così pure, chiame-
remo rispettivamente le tre beràkòt finali dei pasti D, E, F. La
nostra osservazione verrà dunque a dire che A è parallela a D,
B a E, C a F, mentre lo sviluppo ABC costituisce un insieme
organico anch'esso parallelo a ciò che si sviluppa in DEF.

99
Se, come vedremo, lo sviluppo della liturgia cristiana primi-
tiva sembra essere avvenuto in schemi ereditati dalla liturgia
giudaica, ci si potrà aspettare di trovare, nelle più antiche pre-
ghiere del pasto eucaristico cristiano, uno schema che segue mol-
to da vicino lo schema DEF. Quando il pasto eucaristico cri-
stiano non sarà più una celebrazione staccata da un ufficio di
letture e di preghiere - in cui i primi cristiani continuavano an-
cora ad unirsi con gli ebrei nella Sinagoga, ma anzi in occasio-
ne di questo ufficio, che era più o meno analogo a quello della
Sinagoga, ma ormai proprio della Chiesa - , ci si potrà aspetta-
re ugualmente di veder sorgere una preghiera cristiana in cui
appariranno di seguito lo schema ABC e poi lo schema DEF.
Questo accostamento, però, che non si era mai verificato tra
gli ebrei, in quanto per loro i pasti non erano mai legati imme-
diatamente al servizio sinagogale, susciterà un problema che non
si era ancora posto. Il parallelismo tra ABC e DEF sarà tanto
più accentuato in quanto la scomparsa dello Sema, sostituito
dal pasto eucaristico, porterà ABC in una vicinanza immediata
con DEF. Ci si potrà dunque aspettare di vedere operarsi una
fusione, più o meno riuscita, più o meno spinta, tra ABC e
DEF.
Tutto questo, come avremo occasione di costatare, corrispon-
de esattamente alla storia della liturgia eucaristica. Le più an-
tiche formule eucaristiche che abbiamo comportano esclusiva-
mente una preghiera (o meglio, un seguito di tre preghiere) del
tipo DEF. Quando Lufficio di lettura e di preghiera cristiana
e il pasto eucaristico sono come saldati, vediamo apparire una
preghiera eucaristica in cui uno schema ABC si salda, più o
meno facilmente, allo schema DEF.
Ben presto, però, si possono osservare dei rimaneggiamenti
più o meno importanti per sintetizzare i due gruppi, in modo
da evitare i doppioni o le ripetizioni troppo appariscenti. Là do-
ve questa manipolazione sfocerà in una rifusione completa, si
arriverà alla fine a un nuovo schema che possiamo caratteri^-
zare con la formula AD-BE-CF.
È tempo ora di vedere come, di fatto, la preghiera eucaristi-
ca cristiana doveva nascere dalle beràkòt giudaiche, dapprima
usate semplicemente con leggerissimi ritocchi, e poi progressi-
vamente trasformate.

100
Capitolo V

Dalla «berakà» giudaica


all’eucaristia cristiana

L'uso della « berakà » da parte di Gesù


Il cardinale Schuster diceva che Cristo aveva trovato nel
Salterio come il libro sacerdotale belPe preparato nel quale
non aveva che da leggere la liturgia del suo sacrificio (1). Sa-
rebbe ancora più esatto dirlo della liturgia giudaica e delle sue
beràkòt. È vero però che esse non fanno che mettere in risalto
quanto rimaneva nascosto nel Salterio. Le parole di Cristo, co-
me spesso Fabbiamo fatto notare, suppongono una piena cono-
scenza della Bibbia ebraica - con un senso molto preciso di
ciò che le appartiene a lei sola tocca dire !,ultima parola.
Gesù appare comunque come Perede predestinato della pietà
sinagogale. Si può dire che era stato riservato a lui il compito
di manifestare al mondo intero tutto ciò che essa conteneva in
germe e di farlo fiorire nella sua pietà. È stato, però, attraverso
!,inserimento del Figlio di Maria nella pietà giudaica che la
pietà del Figlio di Dio si è potuta esprimere umanamente.
Come di Gesù di Nazaret si può dire che è la Parola fatta
carne, si potrebbe dire della sua umanità che è !,uomo giunto
a pronunciare la perfetta « benedizione », quella in cui tutto Fu-
mano si dona in una risposta perfetta al Dio che parla. La Pa-
rola divina trova nella vita umana di Gesù la sua perfetta rea-
lizzazione creatrice e salvatrice. La perfetta benedizione che
Gesù pronuncerà si compirà nelFatto supremo della sua esi-
stenza: la Croce.
A parte alcune brevi invocazioni, i vangeli sinottici non ci
hanno citato, come preghiera di Gesù, che una sola preghiera
ampliata, e così pure san Giovanni.
Merita di essere notato il fatto che la preghiera citata da

(1) I. Schuster, Liber Sacramentorum, voi. Ili, Marietti, Torino


1933, pp. 161 e 204.

101
Matteo e Luca dopo la prima missione dei Dodici sia una tipica
beràkà. Lo è più ancora il fatto che il suo tema sia quello che
abbiamo visto affiorare come il tema maggiore, e infine il te-
ma dominante delle beràkót: la « conoscenza di Dio » in noi,
rispondente alla conoscenza che egli ha di noi, nella benedizio-
ne che la sua Parola suscita in risposta.
La beràkà per la conoscenza arriva in questo testo alla sua
completezza perché, in Gesù, Dio si manifesta completamen-
te all’uomo, e immediatamente suscita la risposta perfetta del-
l’uomo. Contemporaneamente, questa beràkà per la conoscen‫־‬
za che il Padre ha del Figlio, e per la conoscenza che il Figlio
ne riceve dal Padre, si sviluppa in una beràkà per la comunica-
zione di questa intimità singolare ai « poveri », nel senso co-
mune in Israele, cioè a coloro che vivono solo della fede.
Ecco il testo, quale ci è stato dato da san Luca, probabilmen-
te nella forma più vicina alle formule che Gesù ha dovuto effet-
tivamente utilizzare:
« In quello stesso istante G esù esultò nello Spirito Santo e
disse: “ Io ti rendo lode, P adre, Signore del cielo e della
terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e
le hai rivelate ai piccoli. Sì, P adre, perché così a te è piaciuto.
O gni cosa m i è stata affidata dal P adre m io e nessuno sa
chi è il Figlio se non il P adre, né chi è il P adre se non il
Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia riv elare‫( » ״‬Le
10,2122‫ ;־‬cf Mt 11,25-27).

In questo testo non c’è particolare che non sia ricco di si-
gnificato. L’esultanza di Gesù, per cominciare, esprime la gio-
ia che è l’anima di ogni beràkà. È l’esultanza di colui che sco-
pre, per divina rivelazione., il senso, di ogni cosa, e persino del-
la vita dell’uomo. Tutto acquista il suo significato, infatti, nel-
la nostra conoscenza di Dio in quanto ci conosce per primo.
Prima che noi abbiamo coscienza di qualsiasi cosa, prima che
noi esistiamo, lui ci conosce. E ci conosce con quella conoscen-
za che è amore, che fa sì, quando la si scopre, che tutto si ri-
solva nel suo amore.
L’esultanza propria di Gesù viene, però, a superare infini-
tamente quella di qualsiasi credente dell’antica alleanza. La sua
preghiera è quella di colui che sa di essere non solo conosciuto
da Dio, ma l’oggetto unico, in qualche modo, della conoscenza
divina: colui nel quale la conoscenza propria di Dio, non solo

102
in quanto Signore sovrano del cielo e della terra, ma in quanto
Padre, si compiace perfettamente. Dio aveva cominciato a ri-
velarsi come Padre a Israele, per Israele. Ora, Gesù appare qui
come il Figlio unico, « prediletto », in cui tutto Israele si com-
pie, si riassume, e anche si supera.
Tuttavia il riconoscimento di questa unicità di « conoscen-
za » di cui Gesù è oggetto, lungi dal rinchiudersi su di lui, si
riversa spontaneamente sul mondo e sugli uomini. Ecco per-
ché, sulle sue labbra, la beràkà è per eccellenza confessione e
proclamazione delle meraviglie divine. Però, essa è soprattut-
to la comunicazione di quella meraviglia unica che costituisce il
fondo e il tutto della conoscenza divina. Reciprocamente, que-
sta comunicazione non è altro che un irradiamento di quella
« eucaristia » permanente che costituisce come il fondo delFani-
ma di Cristo.
Notiamo a questo riguardo come il senso di questa insepara‫־‬
bilità della proclamazione del Vangelo dalla « eucaristia » ri-
marrà vivo nelPantica tradizione liturgica. Presso i Padri siria-
ci, Fomelia prenderà spontaneamente la forma di un inno euca-
ristico (2).
Tuttavia, questa comunicazione della Sapienza suprema sup-
pone !,umiliazione di ogni sapienza umana, come san Paolo do-
veva spiegare nella sua prima lettera ai Corinzi. Essa è acces-
sibile ai piccoli, a coloro che sono stati raggiunti da quello spi-
rito di infanzia soprannaturale che è Punico Spirito del Padre,
in cui solo Gesù può rallegrarsi di conoscere il Padre come il
Padre conosce lui. Sono questi coloro che la pietà degli ultimi
salmisti aveva chiamato i « poveri » per eccellenza (3), colo-
ro che hanno di proprio solo la fede, la quale li dona senza ri-
serva a questo Spirito. È questo il « beneplacito », la ευδοκία,
il disegno di amore gratuito del Padre, il quale, nel e mediante
il Figlio, troverà la sua realizzazione in tutti gli uomini.
Solo al Figlio, infatti, tutto è « trasmesso »: egli è la sorgen-
te per tutti gli altri e, nello stesso tempo, il contenuto della tra-
dizione suprema. In questa, la conoscenza che Dio, eternamen-
te, ha della sua opera, si rivela come condensata in una cono-
scenza unica. La sua ευδοκία, la sua compiacenza poggia tutta

(2) Cf in particolare le omelie di sant'Efrem.


(3) Cf A. Causse , Les pauvres d’Israèl, Strasbourg-Paris 1922.

103
intera sul Figlio, come unico « prediletto » del Padre. Il Padre,
infatti, trova in lui quella conoscenza reciproca che è come il
« riconoscimento » perfetto del suo amore. Ma questa conoscen-
za del Padre che egli è Punico ad avere, il Figlio ce la rivela
secondo lo stesso disegno paterno; egli infatti glorifica il Pa-
dre con la sua « confessione », in cui si compie nello stesso tem-
po la parola di Dio e la risposta delPuomo...
Harnack ha detto molto bene di questo testo che esso appa-
re nei sinottici come un aeròlito giovanneo (4). Non vi si sen-
te soltanto una pregustazione sorprendente delPatmosfera e
del tono che sono propri di san Giovanni: si annuncia già il te-
ma il cui svolgimento sarà al centro del IV vangelo: Fintimità
unica tra il Padre e il Figlio, e il « Vangelo », la « buona no-
velia », che ci introduce in questa intimità (5). C'è però da me-
ravigliarsi che Harnack, e in genere i suoi contemporanei, siano
stati così poco capaci di rendersi conto del rovescio di questa
analogia. Questo testo di Luca e di Matteo manifesta da solo,
meglio di qualsiasi altro argomento, !,errore che si è commesso
per troppo tempo di voler cercare il segreto della cristologia
giovannea in una presunta ellenizzazione del vangelo primitivo.
Non c'è nulla, infatti, di più primitivo, di più semitico, di più
tipicamente giudaico del giudaismo della Sinagoga, come i ter-
mini e perfino la forma di questa preghiera (6). Il tema da essa
sviluppato è forse il più centrale della Bibbia, e giunge al suo
sbocco finale seguendo la sua linea più autonoma: conoscen-
za che è amore, conoscenza che si ha di Dio, la quale non è al-
tro che la conoscenza che Dio ha di noi. I modi di espressione
sono altrettanto biblici, con il parallelismo antitetico, Fafferma-
zione assoluta, subito attenuata con un correttivo che sembra
contraddirla, ma che non fa altro, invece, che prolungarla. In-
fine, Lambito in cui ciò si iscrive rimane esattamente quello di
una preghiera modellata sullo schema delle beràkòt sinagogali.
Ciò che Matteo aggiunge al testo che, sostanzialmente, è co-

(4) È un’ironia della storia che il vangelo giovanneo, ritenuto dalla


critica del secolo XIX il più ellenizzato, ci appaia oggi almeno altrettan-
to ebraico quanto quello di Matteo.
(5) Cf in san Giovanni l’insieme dei colloqui dopo la Cena (cc.
13ss).
(6) È impensabile che un testo del genere possa essere opera di cri-
stiani ellenizzati e che lo abbiano poi attribuito a Cristo.

10 4
nume con quello di Luca, non è meno ebraico sia nella forma
che nel sottofondo:
« V enite a me, voi tu tti che siete affaticati e oppressi, e io
vi ristorerò.
Prendete il m io giogo sopra di v oi...
Il mio giogo infatti è dolce
e il mio carico leggero» (Mt 11,2829‫)־‬.

Questo giogo, che è un carico leggero, è esattamente l’espres-


sione che designava, per i rabbini, l’accettazione della Torà, co-
me abbiamo visto riguardo alla beràkà per la luce e la cono-
scenza (7). Similmente, il riposo sabbatico trovava la sua imma‫־‬
gine nell’ingresso nel paese della promessa, assimilato a un in‫־‬
gresso in quello stesso riposo di Dio che fu il compimento del‫־‬
l’opera creatrice (8). La nuova Torà, l’alleanza eterna che ne
è il seguito, ci farà entrare nel vero sabato: quel riposo pieno
di gioia che terrà dietro all’opera di Dio pienamente compiuta;
quest’opera, come dice san Giovanni, è che noi crediamo (cf
Gv 6,29).
San Giovanni, dal canto suo, mette una grande preghiera
in bocca a Gesù, dopo la Cena, proprio mentre sta per consè‫־‬
gnarsi alla sua Passione (cf Gv 17). Essa non fa che riprendere
ed esplicitare quello che era già più che in germe per i suoi in
quella beràkà di san Matteo e di san Luca, in cui il Cristo espri-
meva il senso della sua missione, quella missione che gli apo‫־‬
stoli avrebbero prolungato.
È vero che nel c. 17 di san Giovanni, seguendo una china
che abbiamo messo in luce nelle beràkót giudaiche, la supplica
ritorna, in qualche modo, sull’azione di grazie; ma l’azione di
grazie, la « confessione » nella lode, si legge in filigrana da un
capo all’altro. Tutta questa « preghiera sacerdotale », come la si
è chiamata (9), è frutto di una contemplazione di quella glorifi‫־‬
cazione di Dio che fu l’opera terrena con cui Gesù chiese la
propria glorificazione nella quale quella del Padre sarà consu‫־‬
mata nella salvezza dei credenti.

(7) Cf sopra, p. 72s.


(8) Cf più avanti le preghiere per il sabato, pp. 138ss.
(9) Il nome le è stato dato dall’esegeta David Chytraeus, nel see.
XVI.

105
Se la preghiera di Matteo e Luca era iscritta in una beràkà
per la « conoscenza » divina comunicata, la comunicazione del-
la vita divina qui è chiesta come la glorificazione suprema di
Dio (cf Gv 17,15‫)־‬. Cristo Gesù sarà glorificato nella sua risur-
rezione, che completerà la gloria divina divenendo sorgente di
vita per i suoi. Ma questa vita è definita fin dalle prime parole:
« Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio,
e colui che hai mandato, Gesù Cristo » (Gv 17,3). Questa vita si
affermerà nell’unità di amore tra i fedeli, derivando dall’unità
tra il Padre e il Figlio: unità di « conoscenza » reciproca radica-
ta nell’unità di vita. Essa sarà, in essi, l’effetto della loro « santi-
ficazione », cioè della loro consacrazione, nella « santificazio-
ne » di Cristo che sta compiendosi, in altre parole, nel suo sa-
crificio (10). Tale santificazione si compirà in essi come si
compie in lui: nella « verità », cioè nella comunicazione della
« conoscenza » di Dio, in una comunione con la sua vita (Gv
17,17).
L’oggetto della conoscenza di vita, così condivisa con i suoi
dal Figlio, è formalmente il Nome divino. Questo Nome è stato
dato al Figlio nella comunicazione sostanziale che il Padre fa di
se stesso al Figlio dandogli l’essere, e che si estenderà agli uomi-
ni attraverso la Croce. Di qui la convergenza finale di tutti que-
sti temi nel tema dominante della gloria divina che si irradia nel-
la glorificazione del Salvatore attraverso la Croce: conoscenza
di Dio, santificazione dei suoi, vita comunicata, unione nell’a-
more in cui si afferma la diffusione di questa vita incomparabile
che è la vita di Dio (Gv 17,22ss).
Sono questi i pensieri che l’ultima Cena avrebbe richiama-
to per i primi cristiani, e che avrebbero impregnato le loro sue-
cessive celebrazioni eucaristiche.

Le « beràkòt » della mensa e !,istituzione dell’eucaristia


La discussione, probabilmente senza una possibile via di
uscita, per sapere se l’ultimo pasto di Gesù con i suoi fu o meno
il banchetto pasquale, non ci deve trattenere molto, perché si
concentra su un punto secondario. Mentre la maggioranza degli
esegeti moderni propendevano a darle una risposta negativa,

(10) Gv 17,1719‫־‬. Cf la voce αγιάζω , in GLNT, I, 298304‫־‬.

106
Jeremias, con una dimostrazione straordinariamente brillante,
sembra, almeno finora, avere rovesciato la situazione (11). Ri-
mane, però, il fatto che san Giovanni ci dice formalmente che
la Pasqua stava per essere celebrata la sera stessa della morte
di Gesù, il che implica, almeno sembra, la risposta negativa (cf
Gv 18,28 e 19,31). I sinottici, a prima vista, sembrano pensa-
re il contrario, dal momento che descrivono il pasto della vigi-
Ha dopo aver insistito sulla preparazione del Cenacolo per la
Pasqua (12). È, però, almeno strano che non ci dicano niente
di quel pasto che permette di concludere che si trattava in real-
tà della Pasqua. La frase riportata da san Luca: « Ho desidera-
to ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi... », sembra,
a prima vista, togliere !,ambiguità (Le 22,15-16). Di fatto, pe-
rò, non fa altro che portarla al suo culmine, poiché può espri-
mere tanto il rimpianto per non poterla mangiare, quanto la
soddisfazione di lasciarli con questa celebrazione. Lo stesso Je-
remias ha riconosciuto benissimo il voto di astinenza (13) nelle
parole che seguono: « Poiché vi dico: non la mangerò più, fin-
ché essa non si compia nel regno di Dio » e un po' più avanti:
« Da questo momento, non berrò più del frutto della vite, fin-
ché non venga il regno di Dio ». Ciò diventa quasi impensabile
se deve implicare un'astensione di Gesù rispetto alla Pasqua...
alla quale, tuttavia, avrebbe presieduto! D'altra parte, tra i par-
ticolari citati dagli stessi sinottici, che sembrano opporsi all'idea
che la festa che teneva dietro al pasto pasquale coincidesse con
lo stesso giorno in cui Gesù moriva (e non col giorno seguen-
te), c'è quello di Simone di Cirene che ritornava dai campi, per
citare solo lui. Questo fatto si oppone alle spiegazioni di Jere-
mias (Me 15,21 e Le 23,26). È assai poco verosimile che gli
evangelisti vogliano dire che ritornasse non dal suo lavoro mat-
tutino, ma da una semplice escursione, permessa anche in gior-
no di festa, in uno dei poderi annessi alla città. Ma è pur vero
che quello che precede il banchetto, se non tutto quello che lo
segue, nei tre primi vangeli, fa pensare a una celebrazione pa-

(11) Cf J. Jeremias, Le parole delVuliima Cena, Paideia, Brescia


1973, cap. I.
(12) Cf Mt 26,17ss e paralleli.
(13) Op. c i t pp. 258ss.

107
squale, sebbene nel banchetto stesso vi sia poco che vada deci-
samente in questo senso.
Lo sforzo della signorina Jaubert (14), per accordare tutte
le divergenze e salvare il carattere pasquale dell’ultima Cena,
è di una ingegnosità che ha entusiasmato molti esegeti in imba-
razzo; ma le conseguenze della sua ipotesi la rendono inverosi-
mile. I discepoli, secondo lei, avrebbero semplicemente seguito
un calendario diverso da quello della massa degli ebrei. Ma sup-
ponendo che abbiano applicato, di fatto, quest’altro calcolo di
cui essa è venuta in possesso, essi avrebbero trascorso la loro
ultima serata col Maestro non al giovedì ma al martedì. Sia ri-
guardo ai racconti evangelici che all’unanime tradizione, que-
sto divario, che non avrebbe lasciato traccia né negli uni né nel-
l’altra, appare impossibile. Non si vede soprattutto come, nella
stessa Gerusalemme in cui tutti gli agnelli della Pasqua doveva-
no essere immolati insieme nel Tempio, uno o alcuni gruppi
dissidenti avrebbero potuto celebrarla in un’altra data senza sol-
levare una sommossa.
Tutte queste discussioni, per quanto interessanti dal punto
di vista della storia dei vangeli, sono senza importanza per l’in-
terpretazione della Cena e dell’eucaristia che doveva derivarne.
A dire il vero, vi si insiste tanto perché si suppone che i rife-
rimenti pasquali della croce e dell’eucaristia siano tutti legati
al carattere pasquale che si può o no attribuire alla Cena. Que-
sto a priori, tuttavia, è del tutto estraneo alla realtà. Infatti, pri-
ma di tutto, la prospettiva della Pasqua, in questo caso l’immo-
lazione degli agnelli, coincidendo con la morte del Salvatore, si
proietta sull’ultima Cena sia che quest’ultima preceda la Pasqua,
sia che faccia una cosa sola con essa. Ma, soprattutto, le remi-
niscenze pasquali sono presenti nelle preghiere non solo del pa-
sto così particolare di questa notte, ma di tutti i pasti. E, di fat-
to, che la Cena sia stata questo banchetto particolare o un al-
tro, non c’è dubbio: non è a nessun dettaglio proprio del ban-
chetto pasquale che Gesù ha collegato l’istituzione eucaristica
della nuova alleanza. Essa si applica solamente a quello che il
banchetto della Pasqua aveva in comune con ogni pasto, cioè il
rito della frazione del pane all’inizio, quello del grande rendi-

(14) A. Jaubert, La date de la Cène. Calendrier biblique et liturgie


chrétienne, Paris 1957.

10 8
mento di grazie sul calice di vino mescolato con acqua alla fi-
ne. E, si può aggiungere, è quello che ha permesso all’eucaristia
cristiana di essere celebrata, senza suscitare alcun problema,
quante volte si volesse, e non solo una volta all’anno.
Per quanto sia interessante il significato dell’agnello pasqua-
le per capire la morte di Cristo (15), non è dunque dal rito della
sua consumazione, né, a maggior ragione, dai riti secondari, co-
me quello degli azzimi o quello delle erbe amare, che bisogna
partire per capire alla sua origine la preghiera eucaristica cri-
stiana. Si comprende invece dal pane spezzato all’inizio del pa-
sto, dal calice bevuto in comune alla fine e dalle benedizioni
che vi erano legate per antica tradizione.
Il pane, secondo i rabbini - la cui benedizione, che accom-
pagnava la frazione, dava inizio al pasto rituale -, rappresen-
tava il nutrimento per eccellenza, la vita data e conservata dal
creatore (16). La benedizione della Didachè, di cui parleremo
quanto prima e la cui origine giudaica non può essere messa in
dubbio, manifesta il fatto che certe comunità giudaiche dell’e-
poca vedevano già nella frazione dell’unico pane e nella sua
consumazione comune l’immagine dei dispersi di Israele e del-
la loro riunione in quel corpo risuscitato richiamato dalla visio-
ne di Ezechiele (17).
Più ricco ancora, soprattutto più esplicito, sembra essere
stato il significato del calice e del vino che lo riempiva. La si-
militudine giovannea svilupperà il significato nuovo che la vite
deve prendere nel clima di un’interpretazione eucaristica della
Passione (Gv 15). Ma già con il profeta Isaia (cf Is 5), e probabil-
mente anche molto prima di lui, essa era stata per Israele il sim-
bolo del popolo di Dio, sradicato dall’Egitto per essere trapian-
tato da Davide in Sion. La vite d’oro che Erode aveva fatto rap-
presentare sul frontone del Tempio ne materializzava il senso
agli occhi di tutti. Il calice condiviso implicava inoltre le idee
di alleanza, come nel salmo 23, di una libazione di rendimento
di grazie, come nel salmo 116, di afflizione accettata dalla ma-
no di Dio, come nel salmo 80 (di cui passa un’eco attraverso
la discussione con i figli di Zebedeo) (cf Mt 20,22-23).

(15) Cf J. Jeremias, op. cit., pp. 273ss.


(16) Cf J. Jeremias, op. cit., pp. 288ss.
(17) Cf più avanti, p. 182.

1 09
Più generalmente, dietro a ogni pasto e alle sue benedizio-
ni, si affacciavano, con il ricordo della Pasqua e dell’esodo, le
promesse profetiche del banchetto messianico (18). Gesù le ave-
va richiamate quando aveva parlato di quel banchetto in cui i
giusti, venuti da tutti i punti dell’orizzonte, sarebbero stati a ta-
vola nel Regno, con Abramo, Isacco e tutti i profeti (cf Mt 8,11
e Le 13,28). Maurice Goguel ha fatto osservare giustamente co-
me i racconti della moltiplicazione dei pani insistano sull’anti-
cipazione del banchetto messianico almeno quanto sul prodigio
stesso (19). Con la moltitudine attirata dalla sua parola, Gesù,
in forza della benedizione sul pane spezzato tra tutti gli udito-
ri, comincerà a costituire la comunità dell’alleanza. Anche se il
discorso riferito dal quarto vangelo dopo uno di questi pasti
vi ha raggruppato e svolto insegnamenti posteriori (20), è alme-
no probabile che si riallacci con una predicazione di Gesù che
fu una prima preparazione per quello che egli avrebbe annun-
ciato nell’ultima Cena.
Tutto questo, con molti altri fatti e parole che certamente
ignoriamo (tutti i pasti già presi con il piccolo gruppo dei suoi
discepoli, oltre a ciò che comunità più o meno simili, come quel-
la di Qumràn, avevano già potuto annettere al pasto), sembra
essersi affacciato fin dai preliminari della Cena. Quando Gesù
prende il primo calice, le sue parole, riportate da san Luca, fan-
no presagire quello che verrà dopo (Le 22,16). Dopo aver ri-
petuto la benedizione che abbiamo citato - la quale ricordava
già la vite di Davide, quella vite che era il popolo d’Israele -
egli proclama, con parole appena velate, la cessazione dello sta-
to di cose antico, soltanto preparatorio, e il rinnovamento immi-
nente di Israele nel Regno che sarà instaurato dalla sua morte:
« Poiché vi dico: da questo momento, non berrò più del frutto
della vite, finché non venga il regno di Dio».
Preparate probabilmente dagli insegnamenti del discorso sul
pane di vita, le sue parole dopo la benedizione e la frazione del
pane annunceranno il senso sacrificale della sua morte e definì-

(18) Cf J. Jeremias, op. cit., pp. 288ss.


(19) M. G oguel, Jésus ei les origines du christianisme. I: La vie
de Jésus, Paris 1932.
(20) Cf C. H. D odd, Uinterprefazione del quarto Vangelo, Paideia,
Brescia 1974, pp. 333ss.

110
ranno in che modo egli darà la sua carne, non solo per la vita
del mondo (sulla croce), ma come cibo di vita per i suoi (nei
loro banchetti eucaristici).
Non è il caso di pensare che Gesù abbia modificato diver-
samente la benedizione tradizionale del pane, come l’abbiamo ci-
tata secondo il Seder di Amram Gà’òn, che la riporta ancora co-
me era nella Mima:
« Benedetto tu, Signore, Re dell'universo, che fai p ro d u rre
il pane alla terra » (21).

Dopo che i discepoli hanno risposto: « Amen », mentre egli


rompe il pane, lo fa passare dicendo con tutta probabilità:
« Prendete, questo è la m ia carne »,

0 forse:
« Prendete, ecco la m ia carne ».

L’analisi di Jeremias, che verte sulle diverse formule del


Nuovo Testamento, sembra infatti positiva per dimostrare che
sono tutte formule liturgiche già consacrate da vari usi locali.
Queste hanno già dietro di sé una formula aramaica o ebraica,
in cui san Giovanni, quasi certamente, è stato l’unico a ritene-
re il termine esatto di cui Gesù ha fatto uso (22). Nel paralleli-
smo con il sangue, per un semita, è carne (bashar-bishra) e non
corpo che sia la tradizione rabbinica sia quella propriamente bi-
blica sembrano imporre. « Questo è il mio corpo » sarà una spe-
eie di targum ellenizzante reso necessario dal passaggio a una
liturgia di lingua greca.
Così pure, alla fine del pasto, prendendo in mano il calice
preparato, Gesù pronuncia le tre benedizioni usuali. Esse do-
vevano comportare fin da allora, come ha stabilito Finkelstein
(23), almeno gli elementi che seguono, quantunque la formula
pronunciata effettivamente sia stata probabilmente ancora più
vicina, se non in tutti i particolari, almeno nella sua tonalità
religiosa, alla eloquenza liturgica dei formulari di Amram Gà’òn:

(21) Cf sopra, p. 90.


(22) Cf J. Jeremias, op. cit., pp. 202ss e 243ss.
(23) Cf L. F inkelstein, The Birkat Ha-Mazon, in JQR 19 (1928)
21 lss.

I li
« 1. Benedetto tu, Signore D io nostro, re dell’universo,
che nutri il m ondo intero nella [tu a ] bontà, nella [tu a]
grazia e nella [tu a ] m isericordia.
2. N oi ti rendiam o grazie, Signore Dio nostro, perché ci
hai fatti entrare nel possesso di un paese buono e vasto.
3. A bbi pietà, Signore D io nostro, d ’Israele tuo popolo,
di G erusalem m e, tua città, di Sion, il luogo dove dim ora
la tua gloria, del tuo A ltare e del tuo Tem pio. Benedetto
tu, Signore, che costruisci G erusalem m e » (24).

Facendo allora passare il calice, Gesù - sempre secondo Je-


remias, alle cui analisi rimandiamo il lettore - avrebbe usato
!,espressione ebraica darri beriti, o aramaica adam keyami (let-
teralmente: « sangue della mia alleanza »), le uniche grammati-
calmente possibili nelle lingue semitiche, ma che il greco ha tra-
dotto correttamente quanto al senso: « Questo è il mio sangue,
delTalleanza, sparso per voi ».
Le parole che seguono, tradotte generalmente:
« Fate questo in m em oria di m e »,

sono state oggetto di discussioni interminabili tra gli esegeti


moderni, a seconda che ammettevano o meno come verosimile
che Gesù avesse potuto istituire in una formula così espressa
una cerimonia da rinnovare. Dom Gregory Dix ha avuto il me-
rito di mettere in evidenza che la questione era posta male (25).
Il rinnovamento del pasto religioso non poteva costituire alcun
problema, in quanto !,eucaristia non era, per gli ebrei, una no-
vità nella sua forma rituale (che essi avrebbero conservata co-
munque, tanto dopo quanto prima di Gesù), bensì nel suo con-
tenuto. L’accento non poggia dunque sulla prescrizione: « fate
questo », bensì sulla precisazione: « Fatelo (sottinteso, ormai),
in memoria di me ». Più esattamente, come dimostra Jeremias,
queste parole devono essere tradotte:
« F a te questo com e m io m e m o riale» ,

e bisogna dare a questa parola il senso ordinario che ha nella


letteratura rabbinica, e specialmente liturgica, dell’epoca (26).

(24) Cf J. Ieremias, op. cit., pp. 233ss.


(25) Cf The Shape of the Liturgy, London 1945, pp. 55ss.
(26) Cf sopra, pp. 94ss.

112
Non significa affatto un atto psicologico, soggettivo, umano, di
ritorno sul passato, ma una realtà oggettiva destinata a rendere
perpetuamente attuale davanti a Dio, per Dio stesso, qualche
cosa o qualcuno. Come ha molto bene dimostrato Max Thurianr
questo concetto del « memoriale » è radicato, anch’esso, nella
Bibbia. Il memoriale non vi si trova solo come un elemento ri‫״‬
tuale essenziale di certi sacrifici, ma come quello che dà il si-
gnificato finale di ogni sacrificio, e, in modo eminente, di quella
della Pasqua (27). È una istituzione, si può dire, stabilita da
Dio, data e imposta da lui al suo popolo, per rendere perenni i
suoi interventi salvifici. Non solo il memoriale assicurerà sog‫״‬
gettivamente i fedeli della loro efficacia permanente, ma anzi-
tutto la renderà sicura quasi per un pegno che essi potranno e
dovranno ripresentargli, il pegno della propria fedeltà.
Abbiamo rilevato come proprio le interpolazioni festive del‫״‬
la terza beràkà della fine del pasto moltiplicano Puso di questa
parola zikkàròn, « memoriale », in un senso che è sicuramente
quello (28). Siamo sicuri che queste interpolazioni, centrate sul
« memoriale », erano già pratica anteriore alPinizio della no-
stra èra. Si è dunque in diritto di pensare che esse hanno diretta-
mente suggerito a Gesù la sua formula. E, nel caso particolare
in cui la Cena non fosse stata il banchetto pasquale, ci si può
anche domandare se Gesù non avesse egli stesso improvvisato,
nella terza beràkà, un memoriale esplicito del suo sangue versa‫״‬
to per la nuova alleanza.
Lo ripetiamo: il fatto che Penunciato di questo « memoria-
le » si trovasse, negli stessi termini, aggiunto sia alla preghiera
‘Abòdà, per la consacrazione dei sacrifici del Tempio, sia alla ter‫״‬
za beràkà dei pasti, ne sottolinea il carattere sacrificale.
È così, prima di tutto, che la croce riceve in modo decisivo
il senso del sacrificio che consumerà in sé, e quindi abolirà tutti
i sacrifici anteriori. Questo senso è dato dalla beràkà del pane e
del vino, come suo corpo e suo sange, che devono costituire per
sempre la sostanza del « memoriale » lasciato da Gesù ai suoi,
per essere ripresentato continuamente a Dio da essi, come il

(27) Max T hurian, L ’Eucaristia. Memoriale del Signore..., op. cit.,


tutto il primo capitolo. Vedi anche N. D ahl, Anamnèsis, mémoire et com-
mémoration dans le christianisme primitif, Lund 1948, pp. 69ss.
(28) Cf sopra, p. 95.

113
pegno definitivo del suo amore redentore. Si può dunque dire
che inseparabilmente, nella Cena, la croce di Cristo e l’euca-
ristia dei cristiani hanno ricevuto da Gesù un carattere sacriti-
cale: la croce di Cristo, perché nella Cena egli vi si è consegna■‫־‬
to in oblazione immolata, come quella dell·Agnello pasquale,
in vista di realizzare la nuova ed eterna alleanza, conforme al
disegno divino « riconosciuto » nella sua eucaristia; !,eucaristia
dei cristiani, perché diviene, per il fatto stesso, il « memoriale »
di Gesù e della sua azione salvifica. Ogni volta che la celebra-
no, come dirà san Paolo, essi « annunceranno » o « proclame-
ranno » non al mondo innanzi tutto, ma a Dio, quella morte il
cui richiamo è per se stesso il pegno della sua fedeltà a salvar-
li (cf 1 Cor 11,26).
Sembra che si debba fare ancora un passo avanti, seguendo
Jeremias, e aggiungere insieme a lui che il frutto sperato di que-
sta ripresentazione a Dio del « memoriale » della morte reden-
trice è, nell’intenzione stessa di Gesù, il compimento finale della
sua opera nella sua parusia (29). L’invocazione, legata nella li-
turgia giudaica al richiamo del memoriale, è sempre, effettiva-
mente, la realizzazione dell’esperienza escatologica (30). San
Paolo ha certamente presente ciò quando dice: « Ogni volta in-
fatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi
annunziate la morte del Signore finché egli venga ». Il « finché
egli venga » implica certamente anche il « perché egli ven-
ga » (51) ;
Si comprende allora come la sovrapposizione della speran-
za tradizionale, che verte sulla realizzazione del definitivo po-
polo di Dio nella definitiva « edificazione » di Gerusalemme,
e della speranza della parusia produrrà, nella Chiesa antica, l’in-
vocazione di un compimento di Cristo in noi. Del resto, questo
compimento appare non solo promesso, ma abbozzato, nella ce-
lebrazione eucaristica, in cui diventiamo il « corpo » di Cristo
nutrendoci della sua « carne » e del suo « sangue », con la fede
nella sua risurrezione.

(29) Cf J. Jeremias, op. cit., pp. 310ss.


(30) Cf sopra, p. 96.
(31) Cf J. Jeremias, op. cit., pp. 316ss.

114
Le « beràkòt » giudaiche
e la preghiera dei primi cristiani
Ci si può rendere conto fin d’ora che bisognava ricollocare
quello che chiamiamo oggi « il racconto dell’istituzione » del-
!,eucaristia in quel contesto che è il suo, quello delle beràkòt
rituali del pasto giudaico, per percepire il senso e tutta la por-
tata delle sue espressioni. La parola annunciatrice di tutto ciò
che seguirà la Cena, che san Luca ci ha conservato, si ricolle-
ga con la beràkà preparatoria sul primo calice. Quella sul corpo
(o la carne) di Cristo, con la beràkà iniziale della frazione del
pane. Quella sul sangue della nuova alleanza, con la seconda
delle beràkòt finali e con la terza. Infine, la parola sul « me-
moriale » suppone tutto ciò che era richiamato dagli incisi festi-
vi, sempre nella terza.
Bisogna dire di più: le parole di Cristo che stavano per gè-
nerare l’eucaristia cristiana sono come le sporgenze di tutta una
struttura sotterranea ai vangeli, quella della liturgia giudaica in
cui si sono inserite. Se si separano, viene frainteso tutto il movi-
mento che le sosteneva. Viceversa, il loro senso esatto rischia
di perdersi quando non si percepisce più tutto ciò che esse com-
pletano e coronano. Il cristianesimo primitivo è stato preser-
vato dal commettere un simile errore, per il fatto che la pre-
ghiera cristiana ha continuato a inserirsi nelle forme della be-
ràkà giudaica e della tefillà, cioè della preghiera di domanda che
ne emana, ma senza mai staccarsene. Le prime formule dell’eu-
caristia cristiana, su imitazione di ciò che Cristo stesso aveva
fatto, non saranno altro che formule giudaiche, applicate, con
l’aggiunta di alcune parole, a un contenuto nuovo che, d’altron-
de, tutto in esse preparava.
Il fatto che l’espressione delle prime preghiere cristiane si
sia modellata spontaneamente su quella delle beràkòt giudaiche
e dei loro sviluppi viene attestato in modo particolarmente im-
pressionante dalle lettere paoline. Quasi tutte si aprono in una
beràkà, per passare poi alla tefillà, alla supplica perché si com-
pia perfettamente il dono che costituisce l’oggetto del rendimen-
to di grazie. L’insegnamento, l’esortazione che occupano il cor-
po della lettera resteranno dominati da questo preambolo. Essi
non sono che l’esplicitazione di quanto il preambolo contiene.
Restano dunque caratterizzati dalla contemplazione esultante,

1 15
permeati dairaspirazione supplicante perché si compia il miste-
ro riconosciuto e proclamato‫־‬
Queste introduzioni sono generalmente costruite sui due ter-
mini di ευχαριστία (ο ευλογία) e di προσευχή, che già nel giu-
daismo di lingua greca traducevano i due termini ebraici di be-
ràkà e di tefillà.
Nella prima lettera ai Tessalonicesi, si ha:
« Ringraziamo sempre Dio (εύχαριστουμεν) per tutti voi,
ricordandovi nelle nostre preghiere (προσευχών), continua-
mente memori davanti a Dio e Padre nostro del vostro
impegno nella fede, della vostra operosità nella carità e
della vostra costante speranza nel Signore nostro Gesù
Cristo... » (lTs 1,23‫)־‬.
Nella seconda, abbiamo:
« Dobbiamo sempre ringraziare (εύχαριστεΐν) Dio per voi,
fratelli, ed è ben giusto. La vostra fede infatti cresce rigo-
gliosamente e abbonda la vostra carità vicendevole... Per
questo preghiamo (προσευχόμενα) di continuo per voi, perché
il nostro Dio vi renda degni della sua chiamata e porti a
compimento, con la sua potenza, ogni vostra volontà di
bene e Popera della vostra fede; perché sia glorificato il
nome del Signore nostro Gesù in voi e voi in lui, secondo
la grazia del nostro Dio e del Signore Gesù Cristo... »
(2Ts 1,3.11-12).
Questa formula iniziale, sincopata nel caso della lettera ai
Galati, indica abbastanza la veemenza della preoccupazione
e dell’indignazione che hanno spinto Paolo a scrivere loro. Ma
ne rimane il movimento spontaneo come in filigrana dietro al
suo augurio iniziale:
« Grazia (χάρις) a voi e pace da parte di Dio Padre nostro,
e del Signore Gesù Cristo, che ha dato se stesso per i
nostri peccati, per strapparci da questo mondo perverso,
secondo la volontà di Dio e Padre nostro, al quale sia
gloria nei secoli dei secoli. Amen» (Gal 1,3-5).
Ai Romani, quantunque non conosca ancora coloro ai qua-
li si rivolge, e questo indirizzo vi perda qualcosa del suo calore
abituale, egli dirà formalmente:
« Anzitutto rendo grazie (ευχαριστώ) al mio Dio per mezzo
di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché la fama della

116
vostra fede si espande a tutto il mondo. Quel Dio, al quale
rendo culto (λατρεύω: termine cultuale per eccellenza) nel
mio spirito annunziando il Vangelo del Figlio suo, mi è
testimone che io mi ricordo sempre di voi, chiedendo sem-
pre nelle mie preghiere (προσευχών) che per volontà di
Dio mi si apra una strada per venire fino a voi » (Rm 1,810‫)־‬.
Nelle introduzioni alle due lettere ai Corinzi, solo Ι’εύχα-
ρ ισ τία è formalmente espressa, sebbene la προσευχή sia soggia-
cente, almeno nella fine della prima.
« Ringrazio (ευχαριστώ) continuamente il mio Dio per voi,
a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo
Gesù, perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli
della parola e quelli della scienza. La testimonianza di
Cristo si è infatti stabilita tra voi così saldamente, che
nessun dono di grazia più vi manca, mentre aspettate la
manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo. Egli vi
confermerà sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Si-
gnore nostro Gesù Cristo: fedele è Dio, dal quale siete
stati chiamati alla comunione del Figlio suo Gesù Cristo,
Signore nostro » (1 Cor 1,49‫)־‬.
Nella seconda, si ha:
« Sia benedetto (ευλογητός) Dio, Padre del Signore nostro
Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consola-
zione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché
possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in
qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui
siamo consolati noi stessi da Dio » (2 Cor 1,34‫)־‬.
Ai Filippesi dirà con quella nota di fiducia placida e gioiosa
che è così caratteristica nei suoi rapporti con quella Chiesa:
« Ringrazio (ευχαριστώ) il mio Dio ogni volta ch'io mi
ricordo di voi, pregando sempre con gioia per voi in ogni
mia preghiera (δεήσει), a motivo della vostra cooperazione
alla diffusione del Vangelo dal primo giorno fino al pre-
sente, e sono persuaso che colui che ha iniziato in voi
quest'opera buona, la porterà a compimento fino al giorno
di Cristo Gesù... E perciò prego (τούτο προσεύχομαι) che la
vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in
ogni genere di discernimento, perché possiate distinguere
sempre il meglio ed essere integri e irreprensibili per il
giorno di Cristo, ricolmi di quei frutti di giustizia che si

117
ottengono per mezzo di Gesù Cristo, a \ gloria e lode di
Dio» (Fil 1 , 3 1 1 ‫־‬6.9‫)־‬.
!
Nella lettera ai Colossesi, la benedizione e la preghiera che
la segue irrompono in una vasta esposizione di tutto il disegno
di Dio e della sua realizzazione, non solo nel caso deppostolo
e dei suoi lettori, ma nel mondo intero:
« Noi rendiamo continuamente grazie (εύχαριστουμεν) a Dio,
Padre del Signore nostro Gesù Cristo, nelle nostre pre-
ghiere (προσευχόμενοι) per voi, per le notizie ricevute circa
la vostra fede in Cristo Gesù, e la carità che avete verso
tutti i santi, in vista della speranza che vi attende nei cieli.
Di questa speranza voi avete già udito Pannunzio della
parola di verità del Vangelo il quale è giunto a voi, come
pure in tutto il mondo fruttifica e si sviluppa; così anche
fra voi dal giorno in cui avete ascoltato e conosciuto la
grazia di Dio nella verità, che avete appreso da Epafra,
nostro caro compagno nel ministero; egli ci supplisce come
un fedele ministro di Cristo, e ci ha pure manifestato il
vostro amore nello Spirito.
Perciò anche noi, da quando abbiamo saputo vostre no-
tizie, non cessiamo di pregare (προσευχόμενοι) per voi e
di chiedere che abbiate una piena conoscenza della sua
volontà con ogni sapienza e intelligenza spirituale, perché
possiate comportarvi in maniera degna del Signore, per
piacergli in tutto, portando frutto in ogni opera buona e
crescendo nella conoscenza di Dio; rafforzandovi con ogni
energia secondo la sua gloriosa potenza per essere forti e
pazienti in tutto; ringraziando (εύχαριστοΰντες) con gioia
il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte
dei santi nella luce. È lui infatti che ci ha liberati dal pò-
tere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio
diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la re-
missione dei peccati. Egli è immagine del Dio invisibile,
generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui
sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle
sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Domina-
zioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create
per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte
le cose e tutte sussistono in lui. Egli è anche il capo del
corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di
coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su
tutte le cose. Perché piacque a Dio di fare abitare in

118
lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé
tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce,
cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e
quelle nei cieli. E anche voi un tempo eravate stranieri e
nemici con la mente intenta alle opere cattive che facevate,
ma ora egli vi ha riconciliati per mezzo della morte del
suo corpo di carne, per presentarvi santi, immacolati e irre‫־‬
prensibili al suo cospetto; purché restiate fondati e fermi
nella fede e non vi lasciate allontanare dalla speranza
promessa nel Vangelo che avete ascoltato, il quale è stato
annunziato ad ogni creatura sotto il cielo e di cui io,
Paolo, sono diventato ministro » (Col 1,323‫)־‬.
Infine, nella lettera agli Efesini, questa stessa « eucaristia »
si troverà ripresa e ordinata nella prospettiva dell’edificazione
della Chiesa come pienezza di Cristo, in modo da costituire un
inno a tutto il disegno divino e alla sua realizzazione in noi, su
un tono particolarmente liturgico.
« Benedetto (ευλογητός) sia Dio, Padre del Signore nostro
Gesù Cristo, che ci ha benedetti (εύλογήσας) con ogni bene-
dizione (ευλογία) spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha
scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e
immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a
essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo
il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria
della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto; nel
quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la
remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua
grazia. Egli Fha abbondantemente riversata su di noi con
ogni sapienza e intelligenza, poiché egli ci ha fatto cono-
scere il mistero della sua volontà, secondo quanto, nella
sua benevolenza, aveva in lui prestabilito per realizzarlo
nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in
Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della
terra. In lui siamo stati fatti anche eredi, essendo stati
predestinati secondo il piano di colui che tutto opera effi-
cacemente, conforme alla sua volontà, perché noi fossimo
a lode della sua gloria, noi, che per primi abbiamo sperato
in Cristo. In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola
della verità, il Vangelo della vostra salvezza e avere in esso
creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo che
era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità,
in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si
è acquistato, a lode della sua gloria.

119
Perciò anch'io, avendo avuto notizia della vostra fede nel
Signore Gesù e dell'amore che avete verso tutti i santi, non
cesso di render grazie (ευχαριστών) per voi, ricordandovi
nelle mie preghiere, perché il Dio del Signore nostro Gesù
Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza
e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui.
Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente
per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati,
quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e
qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso
di noi credenti secondo l'efficacia della sua forza che egli
manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo
fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni
principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di
ogni altro nome che si possa nominare non solo nel secolo
presente ma anche in quello futuro. Tutto infatti ha sotto-
messo ai suoi piedi e lo ha costituito su tutte le cose a
capo della Chiesa, la quale è il suo corpo, la pienezza di
colui che si realizza interamente in tutte le cose.
Anche voi eravate morti per le vostre colpe e i vostri pec-
cati, nei quali un tempo viveste alla maniera di questo
mondo, seguendo il principe delle potenze dell'aria, quello
spirito che ora opera negli uomini ribelli. Nel numero di
quei ribelli, del resto, siamo vissuti anche tutti noi, un tem-
po, con i desideri della nostra carne, seguendo le voglie della
carne e i desideri cattivi; ed eravamo per natura merite-
voli d'ira, come gli altri. Ma Dio, ricco di misericordia, per
il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che
eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per
grazia infatti siete stati salvati. Con lui ci ha anche risu-
scitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per
mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della
sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo
Gesù. Per questa grazia infatti siete salvati mediante la
fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene
dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo in-
fatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buo-
ne che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo »
(Ef 1,3-2,10).
Qui più che mai, le istruzioni e le esortazioni che stanno per
seguire fanno talmente corpo con la beràkà che le sue risonan-
ze si prolungano praticamente fino al termine della lettera. I/e-
sposizione del mistero di Cristo appare come portata dalfon-

120
da dell'eucaristia che sembra essersi sviluppata solo per con-
centrarsi su di lui.
L’accostamento di questi testi, con la progressione che por-
ta all'espansione finale delle grandi lettere cristologiche, è rive-
latore tanto della teologia quanto della preghiera di san Paolo.
Risulta palese che questa teologia è fondamentalmente eucari-
stica, nel senso che non è altro che una meditazione di ciò che
costituisce la materia dell’eucaristia cristiana. A questo titolo,
procedendo dal rendimento di grazie, nella preghiera per il com-
pimento del mistero, essa non tende ad altro che alla dossologia,
alla glorificazione finale di Dio tutto in tutti. È una theologia,
nel senso che questa parola aveva nell’antichità ellenistica: un
elogio, una glorificazione nella lode di quel Dio di cui si parla.
Si può dire che i Padri greci, soprattutto i Cappadoci - e in
particolare san Gregorio Nazianzeno, al quale si darà per an-
tonomasia il nome di « teologo » - giunti al vertice dei loro ra-
gionamenti speculativi, non perderanno mai di vista questo sen-
so, questo orientamento primo della teologia. È lecito pensare
che l’elaborazione, che si stava terminando allora, delle ana-
fore destinate a rimanere classiche, ha contribuito non poco, in
coloro che ne furono gli autori, a conservare così vivo il senso
di una « ortodossia » che fosse tanto retta glorificazione quanto
retta dottrina (32).
Ma, per ritornare ai testi paolini, si vede come essi sono so-
lo una ripresa della beràkà per la conoscenza di Dio, sotto il
duplice aspetto di tale conoscenza che è fede e amore. Nella let-
tera ai Colossesi, all’interno della προσευχή, della tefillà per il
pieno completamento di questa conoscenza, la definizione del
suo oggetto passerà in primo piano. Nel contesto proprio della
lettera, in opposizione alle gnosi giudaiche aberranti, sarà dun-
que affermata l’unità tra creazione e redenzione. Unico, infatti,
è il creatore e il redentore: Cristo, nel quale il mondo, come era
stato creato all’origine, deve essere riconciliato con il suo auto-
re, nel mistero della Croce. Questo mistero è anche quello del-
la Chiesa radunata nel suo corpo crocifisso, per diventare la pie-
nezza del suo corpo risuscitato.

(32) Questo tema, familiare agli autori ortodossi moderni, poggia su


un gioco di parole tra δόξα nel senso biblico di « gloria », e δόξα nel sen-
so classico di « opinione ».

121
Questa visione terminale, nella lettera agli Efesini, occupa
tutto !,orizzonte. Essa è presente fin dalla beràkà propriamente
detta, il rendimento di grazie. La creazione non è più menzio-
nata esplicitamente. Di colpo, è ricordato il disegno di Dio che
tutto abbraccia, disegno col quale, nella άναπεφαλαιωσις, la
« ricapitolazione » finale, riprenderà, secondo il piano primitivo,
la sua opera alterata e divisa. La pienezza del disegno originale,
sempre implicita in Cristo, sarà resa esplicita alla fine dei tem-
pi nella Chiesa, nella quale egli stesso si completa. Così, la co-
noscenza alla quale tutti sono predestinati, e che il Vangelo por-
ta loro, sarà la scoperta e la realizzazione di quelLunico « uomo
perfetto » nel quale Cristo morto, risuscitato, salito al cielo si
completa tutto in tutti.
Si sarebbe tentati di dire che qui scopriamo Listanza prò-
gressiva della visione cristiana che le formule giudaiche aveva-
no preparato, ma che essa, di riflesso, penetrerà impregnandole
al punto da rimodellarle. Il nuovo orientamento è decisivo: dal-
la Torà verso Cristo, dalla prima alleanza verso il mistero della
nuova alleanza, mistero della Croce, che è anche il mistero di
Cristo in noi, speranza della gloria, per riprendere una parola-
chiave della lettera ai Colossesi (C o/1,27).
Fin dalle prime generazioni cristiane, si può notare questa
permanenza e questa metamorfosi in preghiere in cui si è con-
servata la più incandescente testimonianza resa a Cristo: quella
dei martiri. Attraverso gli atti autentici di essi, al momento in
cui la loro offerta si consuma in quella di Cristo stesso, è sor-
prendente che sia sempre la beràkà giudaica che continua ad
esprimerla.
A Pergamo, sotto Marco Aurelio, è Carpo che esclama sul
rogo:
« B enedetto sei tu, Signore G esù Cristo, figlio di D io, che
anche m e peccatore hai stim ato degno della tua ere-
d ità » (33).

È la beràkà di Teodoto di Ancira, sotto Diocleziano, che si


amplia in tefillà, come quella di molti altri:
« Signore G esù Cristo, creatore del cielo e della terra, tu
non abbandoni coloro che sperano in te.

(33) Acta Martyrum, ed. Knopf-Kruger, Tubingen 1929, pp. 12‫־‬


13. - Testo italiano, in: H amman , 70.

122
Ti ringrazio, perché mi hai reso degno di essere cittadino
della tua città celeste e partecipe del tuo regno.
Ti ringrazio perché hai concesso di vincere il dragone e
di schiacciargli il capo.
Da' la pace ai tuoi servi e riversa su di me la violenza dei
nemici.
Da' la pace alla tua Chiesa e strappala alla tirannia del
diavolo» (34).
La stessa cosa con Ireneo di Sirmium, sempre sotto Diode-
ziano:
« Ti ringrazio, Signore Gesù Cristo, che mi fai sopportare
tante pene e tanti tormenti e ti sei degnato di rendermi
partecipe della gloria eterna.
Signore Gesù Cristo, che ti sei degnato di soffrire per la
salvezza del mondo, apri il tuo cielo affinché gli angeli
accolgano Fanima del tuo servo Ireneo che soffre nella tua
Chiesa cattolica di Sirmium. Ti prego e imploro la tua
misericordia, perché ti degni di accogliere me e di confer-
mare costoro nella fede » (35).
Ma di tutte queste preghiere, la più interessante è la più
antica: quella di Policarpo di Smime, morto verso la metà del
II secolo. Il racconto del suo martirio ci mostra questo vesco-
vo che si butta nel fuoco esattamente come se stesse per cele-
brare, un’ultima volta, l’eucaristia. E in questa suprema celebra-
zione, in cui egli si identifica con l’ostia che è Cristo, si può pen-
sare che la sua preghiera ricalchi l’eucaristia che era solito of-
frire. Essa, però, adotta tutto lo sviluppo della beràkà giudaica:
lode del creatore e poi del redentore, presentazione del « me-
moriale » e supplica affinché l’offerta sia gradita, dossologia fi-
naie:
« Signore, Dio onnipotente, Padre del tuo Figliolo amato
e benedetto (ευλογητού) Gesù Cristo, per il quale ti abbia-
mo conosciuto, Dio degli angeli, delle potenze, di tutta la
creazione e della stirpe dei giusti che vivono alla tua
presenza.

(34) R u inart, Acta primorum martyrum sincera, Paris 1689 (riediz.


1859), p. 384. - EEFL n. 371; testo italiano, in: H amman, 7374‫־‬.
(35) Ibid., p. 313. - EEFL nn. 373-374; testo italiano, in: H amman ,
75.

123
Ti benedico (εύλογώ), perché m i hai giudicato degno di
questo giorno e di questa ora, degno di entrare nel num ero
dei m artiri, nel calice del tuo Cristo, per risorgere alla vita
eterna dell'anim a e del corpo nell'incorruttibilità dello Spi-
rito Santo.
Con loro possa io oggi essere am messo alla tu a presenza
in sacrificio (δνσί%) prezioso e gradito: tu mi hai pre-
parato, tu me l'h ai m ostrato, tu l'h ai com piuto, D io della
fedeltà e della verità. Per questa grazia e per tu tte le
altre ti lodo (αινώ), ti benedico (ευλογώ), ti glorifico (δοξάζω)
per mezzo del sacerdote eterno e celeste G esù Cristo, tuo
figlio diletto.
Per lui, a te, a lui stesso e allo Spirito Santo sia gloria (δόξα)
ora e nei secoli che verranno! A m en » (36).

Le prime liturgie eucaristiche


A) La Didachè: cc. 9 e 10
Sembra, tuttavia, che sia stata la Didachè a conservarci il
più antico esempio di queste formulazioni dell'eucaristia in cui
la Chiesa, come il Cristo nella Cena, si serviva ancora di formu-
le giudaiche, dando semplicemente, con qualche inciso, un sen‫־‬
so nuovo alle loro espressioni.
Non è il caso qui di discutere la questione dell'origine della
Didachè: c'è chi l'ha situata agli inizi della Chiesa e c'è chi l'ha
fatta scendere fin dopo il 180, al momento della crisi montani‫־‬
sta (37).
Lo ripetiamo ancora una volta, e non sarà l'ultima: la data
e l’origine di una preghiera liturgica non vanno confuse con
quelle delle raccolte in cui si trova. Ora, ciò che ci interessa
nella Didachè, per il nostro studio, sono unicamente queste pre‫־‬
ghiere. Che siano di origine giudaica - come Dibelius, primo
tra i moderni, ha riconosciuto (38) - appare con evidenza appe‫־‬
na vengono accostate alle preghiere giudaiche tradizionali per
i pasti. Bisogna, però, andare ancora più avanti di quanto fa-

(36) Martyrium Polycarpi, 14: PG 5, 1040. - F. X. F unk , Patres


Apostolici, voi. I, Tubingae 1901, pp. 330333‫ ;־‬EEFL n. 175. Testo ita-
liano, in: H amman , 6970‫־‬.
(37) Cf J. P. A udet, La Didachè, Paris 1958, pp. 187206‫־‬.
(38) Cf ibid., pp. XIII e 377s.

124
ceva Dibelius: egli pensava di trovarvi una preghiera di ebrei
ellenisti. La sinagoga di Dura-Europos, ricordiamolo, ci ha tra-
mandato un frammento di papiro in cui leggiamo una preghie‫״‬
ra ebraica che è !,elemento centrale della beràkà della Dida-
chè (39).
E chiaro, però, che nella Didachè la preghiera utilizzata dai
cristiani ha subito alcune aggiunte, non sempre azzeccate, ma
che intendono comunque precisare il nuovo senso che le danno.
« Per !,eucaristia rendete grazie così. Anzitutto per il calice:
Ti rendiamo grazie, o Padre nostro, per la santa vigna di
David, tuo servo; tu ce l’hai fatta conoscere per mezzo di
Gesù, tuo figlio (παΐς).
Gloria a te nei secoli!
Poi per il pane spezzato:
Ti rendiamo grazie, o Padre nostro, per la vita e la
conoscenza che ci hai concesso per mezzo di Gesù, tuo
figlio.
Gloria a te nei secoli‫׳‬
Come questo pane spazzato, prima sparso sui monti, è
stato raccolto per farne uno solo, così raccogli la tua
Chiesa dalle estremità della terra nel tuo regno.
Perché a te è la gloria e la potenza per Gesù Cristo nei
secoli!
Dopo la comunione, ringraziate così:
Ti rendiamo grazie, o Padre santo, per il tuo santo Nome
che tu hai posto nei nostri cuori, per la conoscenza, la fede
e !,immortalità che ci hai concesso per mezzo di Gesù,
tuo figlio.
Gloria a te nei secoli!
Tu, o Signore onnipotente, hai creato Puniverso, a gloria
del tuo Nome; tu hai dato agli uomini il cibo e la bevanda
per la loro gioia affinché ti rendano grazie; ma a noi tu
hai donato un cibo e una bevanda spirituale e la vita eterna
per mezzo del tuo Figlio. Anzitutto, ti rendiamo grazie
perché sei potente:
Gloria a te nei secoli!
Ricordati, o Signore, di liberare la tua Chiesa da ogni
male e di renderla perfetta nel tuo amore. Raccogli dai
quattro venti la Chiesa che tu hai santificato, nel regno

(39) Cf sopra, p. 39.

125
che le hai preparato. Poiché tue sono la potenza e la
gloria nei secoli!
Venga la tua grazia e passi questo mondo!
Osanna al Dio di David!
Se qualcuno è santo, venga;
se non lo è, faccia penitenza;
Marana tha!
Amen » (40).
Abbiamo sottolineato le aggiunte evidentemente cristiane.
Si noti il loro piccolo numero e la laconicità. Si noti ancora che
non abbiamo sottolineato le menzioni della Chiesa. Il testo ebrai-
co ritrovato lo dimostra: έκκλησία, nel nostro testo greco, cor-
risponde semplicemente all’ebraico qahal che, per i primi redat-
tori e utilizzatori della preghiera, designava esattamente il ra-
duno atteso dalla diaspora di Israele.
Le discussioni che continuano ancora tra i critici cristiani
che ignorano (volontariamente o no) i testi giudaici paralleli, per
sapere se noi abbiamo qui una preghiera eucaristica nel senso
stretto, o una preghiera per l’agape, già separata - si suppone
- dall’eucaristia, o ancora due gruppi di testi da applicare a ce-
lebrazioni differenti, sono rese inutili non appena ci si rende
conto di questi parallelismi. L’insieme è unitario, secondo la
successione tradizionale delle beràkòt del banchetto (benedizio-
ne sul calice iniziale, benedizione sul pane spezzato, triplice
benedizione sull’ultima coppa). Nel loro stadio finale, evidente-
mente esse sono applicate a un banchetto sacro di una cristianità
ancora molto vicina al giudaismo, banchetto che non poteva
essere se non l’eucaristia. Si capisce ancor meglio come i cri-
stiani abbiano conservato integralmente queste preghiere giu-
daiche in quanto esse ne rappresentavano certamente una for-
ma particolare per le comunità dominate dall’attesa messianica.
Quale determinata comunità diede loro origine? Sarebbe cosa
inutile volerlo precisare. Ma, con questi testi, possiamo farci
un’idea del come potevano servirsi di preghiere giudaiche tradi-
zionali, ancora prima dei cristiani, ebrei come quelli di Qumràn
o della comunità zadochita di Damasco.
La menzione delle colline su cui il grano era disperso in-

(40) Didachè, 9 e 10. Cf J.-P. A udet, op. cit., pp. 234-237. - Cf PE


6669‫ ;־‬EEFL nn. 98-99; LdC 353-359; H amman , 128129‫־‬.

126
dica un’origine palestinese, o almeno siriaca. Il legame tra la
vita e la conoscenza, la stessa menzione del cibo e della bevan-
da spirituale possono già appartenere benissimo sia a questo
giudaismo messianico, come pure al cristianesimo primitivo;
così pure !’insistenza sul Nome divino rivelato e anche il titolo
di « Padre nostro » dato a Dio. Ma tutto questo, per i cristiani,
acquistava facilmente un contenuto più preciso per cui poteva-
no quasi non sentire, sul momento, il bisogno di specificarlo
di più. Il Daniélou ha fatto rilevare bene che, per i cristiani,
Gesù era questo Nome rivelato (41), era il cibo e la bevanda
spirituale, la vita e la conoscenza, trovate nella fede in lui e in
grado di procurare l’immortalità con la partecipazione alla sua
risurrezione.
Perfino l’invocazione finale: « Venga la tua grazia e passi
questo mondo! », è stata senz’altro giudaica prima di essere sta-
ta fatta propria dai cristiani. « Osanna al Dio di David! », in
compenso, è un’espressione velata, tipica del cristianesimo pri-
mitivo, per esprimere la fede nella divinità di Gesù. La correzio-
ne della formula ripetuta dai vangeli: « Osanna al figlio di Da-
vid », sembra essere un’eco della discussione di Gesù con gli
scribi riguardo al salmo 110 (42).
Le parole che seguono sono un invito alla comunione; pro-
babilmente sono la più antica espressione che abbiamo circa la
necessità della penitenza per quei cristiani che vogliono acco-
starsi alla sacra mensa dopo aver peccato. Ci si può chiedere,
però, se i discepoli del Battista, per esempio, non abbiano potu-
to farne uso anch’essi.
Marana tha, l’espressione dell’attesa della parusia che san
Paolo ci ha conservato (cf 1 Cor 16,22), per essere stata posta a
conclusione della preghiera, conferma quello che lui stesso ci
lasciava intravedere dell’orientamento escatologico di quelle pri-
me eucaristie, in cui si « annunciava » la morte del Signore,
« finché egli venga ». Siccome molte apparizioni del Risorto de-
vono essere state in relazione con le prime celebrazioni, queste
si sono continuate nell’attesa del suo ritorno. Soprattutto se si

(41) Cf J. D aniélou, Théologie du judéo-christianisme, Paris 1958,


pp. 199ss - (trad, it.: La Teologia del giudeo-cristianesimo, Il Mulino, Bo-
logna 1974).
(42) Cf Mt 22,41-45 e paralleli.

127
tiene presente che l’implorazione della venuta del Messia appar-
teneva già, almeno nei giorni di festa, alla conclusione della
beràka giudaica sul calice, ci si può chiedere se la formula Ma-
rana tha non sia stata mutuata, da parte dei primi cristiani, da
altri gruppi anteriori di pii ebrei.

B) Le Costituzioni apostoliche: libro VII


Abbiamo la fortuna di poter cogliere in altri testi, quasi
altrettanto antichi, il passaggio da questo primo stadio delle pre-
ghiere liturgiche cristiane a una forma più matura e destinata
a sussistere. Da una preghiera giudaica cristianizzata con alcu-
ni leggeri ritocchi, si passa a una preghiera interamente ricompo-
sta nella visuale cristiana. Questa, però, conserverà sempre, con
10 schema giudaico tradizionale, certe utilizzazioni letterali di
formule precristiane. Abbiamo un’altra raccolta, arcaica o ar-
caizzante, altrettanto difficile da datarsi e da localizzarsi, che ce
11 fa conoscere: le Costituzioni apostoliche (43).
I secoli XVII e XVIII, specialmente certi ambienti angli-
cani e soprattutto quelli che non avevano prestato giuramento
di fedeltà (« non jourors »), ne sono stati entusiasmati. In se-
guito all’attribuzione (sostenuta dal testo, ma storicamente in-
sostenibile) a san Clemente di Roma, si è creduto ritrovare nel-
la liturgia del libro V ili (la liturgia clementina, come verrà
chiamata) una falsariga quasi immediata della liturgia degli
apostoli. Di fatto, come vedremo, questo testo, per quanto ri-
manga interessante, tradisce non solo una elaborazione molto
avanzata, ma anche un rimaneggiamento sistematico, e rappre-
senta più una fase finale che uno stadio primitivo nell’evoluzio-
ne della preghiera eucaristica. L’insieme della compilazione
sembra essere stato sistemato verso la fine del IV secolo, cer-
tamente da un siriano, come dimostra la stretta affinità di que-
sta liturgia del libro V ili con la liturgia gerosolimitana detta
di san Giacomo. Però alcune divergenze su certi particolari del-
la liturgia pseudo-clementina rimarranno tipiche della liturgia
antiochena. L’autore doveva appartenere, stando alle sue for-
mule cristologiche e trinitarie, all’ambiente semi-ariano di quel-
la regione. Ritorneremo più a lungo su tutto ciò.

(43) F. X. F unk , Didascalia et Constitutiones apostolorum, voi. I, Pa-


derborn 1905. - Ristampa anastatica: Bottega d’Erasmo, Torino 1964.

128
C'è poi un'altra parte di questa raccolta che presenta un in-
teresse innegabile, anzi eccezionale, per la nostra conoscenza
deireucaristia primitiva, anche se c'è voluto molto tempo per
accorgersene. Si tratta del libro VII. Vi si trova una serie di
preghiere che ci forniscono non solo materiale cristiano primi-
tivo, ma indubbiamente anche materiale giudaico usato da cri-
stiani in un'epoca molto antica. Il modo con cui alcuni di que-
sti elementi saranno ripresi nella sintesi assai posteriore della
liturgia del libro V ili ci permette di cogliere sul vivo il prò-
cesso di strutturazione dell'eucaristia cristiana concepita più si-
stematicamente, a partire da elementi non solo di un cristia-
nesimo arcaico, ma di un giudaismo cristianizzato.
Il merito di aver attirato l'attenzione su queste preghiere,
e di essere stato il primo a riconoscervi preghiere giudaiche usa-
te da cristiani spetta a Wilhelm Bousset (44). Goodenough ha
precisato, in un modo quasi definitivo, le trasformazioni (del
tutto analoghe a quelle che si possono osservare nella Didachè)
che questa utilizzazione ha comportato (45). L'ipotesi fantasti-
ca di questo grande erudito, che una immaginazione intempe-
rante ha tratto per una volta in errore - questi testi sarebbero
stati composti da ebrei alessandrini, i quali calavano il loro giu-
daismo nella forma di una « religione misterica » di cui Filone
si sarebbe fatto il gerofante - , è assolutamente insostenibile
(46). Il linguaggio « misterico » che Filone ha in comune con i
suoi contemporanei, e non solo con quelli interessati di questio-
ni religiose, non è nulla più di un linguaggio. È chimerico cer-
care un qualsiasi rituale cui lo si dovrebbe applicare (47). Di
fatto, come si vedrà, questi testi rappresentano solo una forma
locale di preghiere della sinagoga, già studiate. È una forma
sviluppatasi evidentemente in ambiente di lingua greca, ma non
deve all'ellenismo altro che la lingua, e tale lingua non com-
porta nemmeno una traccia apprezzabile del gergo « misterico »
caro a Filone.

(4 4 ) W . Bousset , Eine Judische Gebetsammlung im siebeten Buck


der apostolischen Konstitutionen..., c it a to a lla n o ta 2 0 di p . 3 9 .
(4 5 ) E . R. G oodenough, By Light Light. The Mystic Gospel of Hel-
lenistic Judaism, N e w H a v e n 1 9 3 5 .
(4 6 ) Ibid., p p . 2 3 5 s s .
(4 7 ) V e d i L . Bouyer, Il rito e Vuomo, M o r c e llia n a , B r e sc ia 1 9 6 4 ,
cap. V III.

1 29
Dall'esame di questi testi risulta chiaro che sono stati redat-
ti in greco da qualcuno che aveva deirebraico una conoscenza
abbastanza rudimentale. Il modo con cui incespica su espressio-
ni come Phelmoni è sintomatico. Questo rivela pure che gli ebrei
ellenizzati che hanno lavorato su questi testi prima dei cristiani
- i quali li avrebbero ripresi più tardi per rimaneggiarli (in ve-
rità molto leggermente) -, lavoravano su fonti ebraiche. Tanto
è vero che non vi è mai stato un giudaismo alessandrino, per
quanto ellenizzato potesse essere, che sia realmente diventato
indipendente dalle tradizioni palestinesi.
Basta leggere queste preghiere, quando si conosce il testo
della Tefillà palestinese o babilonese, per accorgersi subito che
le prime tre sono un equivalente soltanto più prolisso delle sue
prime tre benedizioni. La seguente è una preghiera per il sa-
bato, che è stata adattata più tardi (e in modo piuttosto malde-
stro) come preghiera per la domenica cristiana. Le ultime due
della serie sono rispettivamente una preghiera che sunteggia
le beràkòt 14, 15, 16 e 17 della stessa Tefillà e un'amplifìca-
zione della 18. È quindi molto probabile che dietro al loro in-
sieme si trovasse in origine una Tefillà per il sabato, formata
da sette preghiere, secondo uno schema di cui, come abbiamo
visto, è attestata l'esistenza all'epoca delle origini cristiane. La
settima, legata alla benedizione di Aronne, ha dovuto sem-
plicemente scomparire dalla liturgia una volta che questa è stata
cristianizzata, con questa stessa benedizione.
Ecco la prima di queste preghiere, che evidentemente non è
altro che una forma targumizzante della benedizione 'Abòt, la
prima delle Diciotto. Si noti che certi cristiani hanno potuto
usarla senza avere avuto, almeno sembra, da cambiare o da
aggiungere una sola parola. L'idea, che appare al termine, che
Giacobbe, nella visione della scala celeste, aveva visto il Mes-
sia in anticipo, si trova infatti già nella tradizione giudaica (48).
« 2. Salvatore eterno, Re del cielo , tu solo sei onnipotente
e Signore, D io di tutto il creato, D io dei nostri Padri
santi e senza m acchia, che vissero prim a di noi, D io di
A bram o, di Isacco e di G iacobb e, pien o di pietà e di

(48) Cf L. Cerfaux, La teologia della Chiesa secondo san Paolo { =


Teologia oggi, 3), Ed. AVE, Roma 1968, pp. 340ss, circa la visione del
Messia e della Gerusalemme escatologica da parte dei patriarchi.

130
com passione, di p ietà e di longanim ità. O gni cuore è nudo
davanti a te e il pensiero più segreto non ti sfugge. Le
anim e dei giusti invocano te e ripongono in te la loro
fiducia. P adre dei giusti, tu ascolti coloro che ti pregano
con rettitudine, tu odi anche gli appelli taciti; la tua prov-
videnza penetra fino nelle viscere delPuom o, la tu a co-
scienza fruga la volontà di ciascuno di noi. D a tu tte le
regioni della terra sale a te Pincenso delle preghiere e
delle suppliche.
3. T u hai fatto del nostro tem po uno stadio, dove tu tti
corrono per raggiungere la santità; a tu tti apri le porte
della tua m isericordia; hai m ostrato a tu tti gli uom ini con
la conoscenza innata di te, con il giudizio naturale, con
la luce della legge, che le ricchezze non sono eterne, che
la bellezza è effimera, e che le forze più solide si dissol-
vono; che tutto è fum o e vanità: resta solo la coscienza
di una fede pura; essa sola cam m ina con la verità sulla
via del cielo e trova a po rtata di m ano le gioie future.
Prim a che si realizzi la prom essa della nuova nascita nel-
la risurrezione, Panim a trabocca di gioia nella speranza.
4. Fin dal principio, tu hai guidato A bram o, nostro pa-
dre, sulla via della verità, m ostrandoti a lui; tu gli h ai
fatto capire il senso della vita presente. La conoscenza
ha preceduto la sua fede, la fede ha seguito la conoscenza,
Palleanza ha seguito la fede. T u hai detto infatti: ‫ ״‬Molti-
plicherò la tua discendenza come le stelle del cielo, e
come la sabbia che è sulla spiaggia del m a re ” .
5. Così pure concedendogli Isacco, che sapevi che sa-
rebbe stato simile al pad re - sarai chiam ato il Dio dTsacco
- gli dicesti: ‫ ״‬Sarò il tuo D io e il Dio della tu a discen-
denza dopo di t e ” (cf Gn 22,17 e 17,7). Q uando nostro
padre G iacobbe partì per la M esopotam ia, tu gli dicesti,
m anifestandogli il Cristo: ‫ ״‬Io sono con te, accrescerò e
m oltiplicherò la tua p o ste rità ” (cf Gn 26,24 e 48,4).
6. E a Mosè, tuo fedele e santo servitore, hai detto,
nella visione del roveto: “ Io sono colui che sono. Il mio
nom e è eterno e sarà nella m em oria di tutte le genera-
zio n i” (cf Es 3 ,1 4 1 5 ‫)־‬.
7. D ifensore della discendenza (γένους) di A bram o, tu
sei benedetto nei secoli» (49).

(4 9 ) Costituzioni apostoliche, V I I , 3 3 ; F. X . F unk , Didascalia et


Constitutiones apostolorum, v o i. I , P a d e r b o r n 1905, pp. 4 2 4 -4 2 6 . -
E E FL n. 593; H amman, 1 5 3 -1 5 4 .

131
Limitiamoci a confrontare il testo condensato della pri-
ma delle Diciotto benedizioni, come lo si legge nel Seder Amram
Gà’ón. Si noti che tutti i termini si ritrovano nella nostra pre-
ghiera, che non ne è altro che un'amplificazione, in quanto si
serve di quelle formule di stoicismo popolare che si trovano già
nei libri sapienziali di lingua greca per interpretare le nozioni
più autenticamente giudaiche.
« Benedetto tu, Signore D io nostro, e D io dei nostri padri,
D io di A bram o, D io d T sacco, e D io di G iacobbe, D io
grande e forte e venerand o, D io eccelso, che con cedi la
ricom pensa e crei ogni cosa; ricordi la pietà dei padri,
e fai venire il redentore per i figli dei loro figli, in grazia
del tuo N om e, con am ore. Re liberatore, che aiuti, salvi e
difendi. B enedetto tu, Signore, scudo di Abram o » (50).

La seconda delle nostre preghiere è parimenti un'amplifica-


zione della seconda « benedizione », Gebùròt. Si noti come il
suo sviluppo si ispiri al salmo 104. Come nella preghiera giu-
daica rimasta tradizionale, vi si trova, da una parte, l'insisten-
za sulla benedizione delle stagioni, dei tempi favorevoli che as-
sicurino ai fedeli il loro sostentamento e, d'altra parte, il passag-
gio dalla vita presente a quella della risurrezione. Questo parti-
colare, che i commentatori ebrei di Gebùròt attribuiscono con
ragione a un influsso farisaico (51), ha fornito un aggancio
tutto naturale agli sviluppi cristiani che sottolineeremo. Questa
volta, però, citeremo per prima la preghiera giudaica rimasta
nella tradizione ebraica, per mettere in evidenza tutto ciò che
appartiene già alla tradizione del giudaismo, mentre si potrebbe
essere ^entati, ma a torto, di non vedervi altro che interpolazio-
ni cristiane.
La seconda preghiera del Gà’òn dice infatti:
« Tu sei potente in eterno, Signore che risusciti i morti,
che sei grande nel con cedere salvezza, che fai scendere la
rugiada (che fai spirare il ven to e fai scendere la pioggia).
Egli nutre i viven ti per grazia, fa risorgere i m orti con
grande m isericordia, sostiene i cadenti, guarisce i m alati,
libera i prigionieri e m antiene la sua fed ele prom essa a
chi dorm e nella polvere. Chi com e te, o P otente? Chi ti

(50) Cf sopra, p. 82
(5 1 ) Cf D H , p . 8 5 .

132
assomiglia, o Re che fa morire e risorgere, che fa sbocciare
per noi la salvezza? Tu sei fedele nel far risorgere i morti.
Benedetto tu, Signore, che risusciti i morti » (52).
Ecco cos’era divenuta questa preghiera nella tradizione
sfruttata dal libro VII delle Costituzioni apostoliche:
« 1. Sei benedetto, Signore, Re dei secoli. Per il Cristo
tu hai creato l’universo, per lui hai ordinato il mondo in-
forme; hai separato le acque inferiori dalle acque del fìr-
mamento, hai immesso in loro un soffio vitale, hai conso‫־‬
lidato la terra e hai steso il cielo; ad ogni creatura hai
dato un posto determinato.
2. Col tuo potere, o sovrano, il mondo è stato fissato nel
suo splendore, il cielo è come una volta illuminata di stel-
le, per confortarci nella notte; il sole e la luce sono apparsi
per rischiarare il giorno e preparare i raccolti, la luna ere-
scente e decrescente per dare un ritmo al tempo. Sono stati
chiamati giorno e notte e il firmamento sorse dagli abissi.
Tu hai detto alle acque di radunarsi per lasciare emergere
la terra ferma.
3. E il mare, chi potrà celebrarlo? Arriva scatenato dal-
l’oceano e vi ritorna, quando gli impedisci di riversarsi
sulla spiaggia. Tu hai detto infatti: in essa si infrange-
ranno i flutti. Nel mare hai tracciato la via per i pesci,
piccoli e grandi, e per i naviganti.
4. E la terra ha germogliato nei suoi fiori multicolori e
nella varietà dei suoi alberi. E gli astri luminosi che li
illuminano seguono la loro orbita invariabile, senza tra-
sgredire mai i tuoi ordini: quali che siano i tuoi decreti,
essi sorgono e tramontano per segnare i tempi e gli anni,
dando un ritmo al lavoro degli uomini.
5. Poi apparvero le diverse specie di animali: terrestri,
acquatici, anfibi, la sapienza industre della tua provvidenza
dà a ciascuno secondo il suo bisogno: la stessa potenza
che presiede alla loro creazione così varia, veglia ancora
sulle necessità di tutti.
6. Alla fine della creazione e secondo gli ordini della tua
Sapienza, tu hai plasmato Panimale dotato di ragione per-
ché abitasse la terra, dicendo: “Facciamo Puomo a nostra
immagine e somiglianza‫״‬. Di lui hai fatto il mondo del

(52) Cf sopra, p. 82.

133
m ondo e lo splendore degli splendori. H ai creato il suo
corpo con i quattro elem enti già esistenti; m a l'anim a,
Thai tratta dal nulla, Thai dotata dei cinque sensi e dello
spirito (νουν) che li governa.
7. E lassù, o Signore sovrano? Chi può p arlare in ma-
niera adeguata del m oto delle nubi che portan o la pioggia,
del bagliore del fulm ine, del fragore del tuono? T utto è
ordinato in m odo che sia dato a ciascuno secondo il suo
bisogno con la più grande v arietà di tem peratura.
8. Poiché l'uom o h a peccato, gli hai tolto la vita prom essa
come prem io: non l'h a i del tutto annientato, m a l'hai
prostrato per u n m om ento. Con u n a prom essa solenne l'hai
chiam ato alla nuova nascita. H ai strappato il decreto di
m orte. T u che ridai la vita ai m orti, per Gesù Cristo,
nostra speranza » (53).
Si notino di nuovo in questa formula le espressioni mutuate
dai filosofi. Se ne troveranno altre in quelle che seguiranno. An-
cora una volta, costituiscono un particolare già notevole negli
scritti sapienziali della Bibbia greca, con i quali le preghiere
che seguono si mostreranno ancora più strettamente apparenta-
te. Però le mutuazioni di questo genere, in particolare quelle
che provengono dallo stoicismo volgarizzato, non mancano nem-
meno in san Paolo, per quanto palestinese sia il suo giudai-
smo (54).
Per il nostro studio la terza preghiera è la più interessan-
te della serie. Alla terza beràkà delle Semonèh-Essréh - pre-
ceduta nella recita pubblica, come già abbiamo detto, dalla Pe-
chissà - incorpora la sostanza della preghiera che introduceva
quest'ultima (Keter, « corona »), con un'insistenza marcata sul
Regno divino. Per la prima volta, troviamo qui, nella Qedussà,
la formula « i cieli e la terra » (e non la terra sola), che passe-
rà in tutte le liturgie cristiane. Viene evidentemente dalla pre-
ghiera Yòzèr e si trova già nei targum liturgici. Si deve pensare
che gli ebrei alessandrini l'avessero già incorporata nel te-
sto (55).

(5 3 ) Costituzioni apostoliche, VII, 3 4 ; F . X . F unk , op. cit., p p . 4 2 6 ‫־‬


4 2 9 . - E E F L n. 5 9 4 ; H amman , 1 5 5 -1 5 6 .
(5 4 ) C f s o p r a , p . 3 4 .
(5 5 ) C f E . W erner, The Sacred Bridge, L o n d o n - N e w Y o r k 1 9 5 9 ,
p p . 2 8 4 ss.

13 4
Un altro aspetto significativo di questa terza preghiera del
libro VII è il modo con cui include anche la recita, se non del-
lo Sema, almeno di un testo che è il suo equivalente, preso nel-
lo stesso libro del Deuteronomio. Sembra che si abbia qui un’ul-
teriore conferma per la tesi comune dei commentatori ebrei, se-
condo i quali il posto originario della Qedussà sarebbe stato
prima dello Sema: così la Qedussà della Tefdlà verrebbe da
una trasposizione ulteriore della Qedussà di Yòzèr. Infatti, co-
me vediamo qui, ha attirato con sé lo Semà, e questo sta a di-
mostrare che in origine vi era legata (56).
Ecco, ancora una volta, per facilitare il confronto, la pre-
ghiera Keter, la Qedussà che porta con sé, e la terza beràkà, co-
me le abbiamo nel Seder Amram Gà’ón per essere recitate di
seguito dallo hazzan.
« (Keter) Una corona ti sarà data dalle moltitudini del-
Paltò, come dalle assemblee di quaggiù; tutti, in accordo,
ti ripeteranno la lode santa, come è detto dal tuo profeta:
“Proclamavano Puno alPaltro: Santo, santo, santo è il
Signore Sabaoth. Tutta la terra è piena della sua gloria”.
Allora, con un rumore di grandi acque, potente e forte,
fanno sentire le loro voci, e, innalzandosi verso di te, di-
cono: “Benedetta sia la gloria del Signore, dal suo luogo”.
Dal tuo luogo risplendi, o nostro Re, e regna su di noi,
poiché noi attendiamo dopo di te. Quando regnerai? Regna
presto in Sion, nei giorni nostri, e rimani nelle nostre vite.
Possa tu essere glorificato e santificato in mezzo a Geru-
salemme, tua città, attraverso tutte le generazioni e in tutti
i secoli. E i nostri occhi vedano il tuo regno, secondo
la parola detta nei canti della tua potenza da Davide,
Punto della tua giustizia: “Il Signore regnerà per sempre,
il tuo Dio, o Sion, in tutte le generazioni. Alleluia”.
(Qedussàt ha-Sem) Di generazione in generazione proda-
meremo la regalità di Dio, perché egli solo è eccelso e
santo. La tua lode, o Dio nostro, non venga meno dalle
nostre labbra in eterno, perché tu sei un Dio re grande e
santo. Benedetto tu, Signore, Dio santo » (57).
Ed ecco ora il testo sintetico delle Costituzioni apostoliche.
Vi si noteranno, precedendo Pentrata dei temi che sono stati

(5 6 ) C f so p r a , p . 7 7 .
(5 7 ) C f so p r a , p p . 8 2 -8 3 .

135
sentiti di nuovo, anche altri temi di cui cercheremo poi di sco-
prire la provenienza.
« 1. Tu sei grande, o Signore onnipotente, e grande è la
tua forza, e la tua intelligenza non si può calcolare: crea-
tore, salvatore, ricco di grazia, paziente, datore (χορηγέ)
(58) di misericordia, tu che non trascuri la salvezza delle
tue creature; poiché sei buono per natura, ma risparmi i
peccatori, invitandoli alla penitenza, poiché la tua corre-
zione è compassionevole. Come potremmo, infatti, sussi-
stere se ci chiamassi improvvisamente in giudizio, mentre
stentiamo a riprendere fiato nella nostra infermità quando
tu pazienti con noi?
2. I cieli hanno annunciato la tua potenza, e la terra,
scossa nella sua sicurezza, è sospesa sul nulla. Il mare agi-
tato dai flutti, che nutre un gregge innumerevole di viventi,
è trattenuto dalla sabbia, temendo la tua volontà, e co-
stringe tutti ad esclamare: ‫ ״‬Quanto sono meravigliose le
tue opere, Signore, le hai fatte tutte nella [tua] Sapienza;
la terra è piena della tua creazione!‫״‬.
3. E ^esercito ardente degli angeli, con gli spiriti intei-
ligibili, dice: ‫״‬Uno solo è santo [per chiunque]59) ‫ ;)״‬e
i santi serafini dalle sei ali, con i cherubini, cantando a te
Tinno di vittoria, gridano con le [loro] voci che non tac-
ciono mai: “Santo, santo, santo il Signore Sabaoth; i cieli
e la terra sono pieni della tua gloria”. E la moltitudine
degli altri ordini, gli angeli, gli arcangeli, i troni, le domi-
nazioni, i principati, le autorità, le potenze dicono ad alta
voce: “Benedetta la gloria del Signore, dal suo luogo!”.
4. Intanto Israele, la tua Chiesa terrestre tratta dalle na-
zioni, rivaleggiando con le potenze celesti, notte e giorno,
con tutto il suo cuore e con tutto il desiderio delPanima
sua, canta: ‫ ״‬Il carro di Dio, a miriadi e migliaia si ralle-
gra, il Signore è in essi, nel Sinai, nel santuario”.
5. Il cielo conosce colui che ha disteso la sua tenda senza
fondarla su nulla, come un cubo di pietra, che ha riunito
la terra e le acque, che ha diffuso Paria per mantenere
la vita e che Pha circondata di fuoco per riscaldarla e
consolarci dalle tenebre. Il coro delle stelle [ci] sbalordisce
esprimendo colui che le ha contate e manifestando colui

(58) Il corègo, nel greco classico, era propriamente colui che era in-
caricato dallo Stato di assumersi le spese per reclutare, mantenere, istruì-
re e vestire il coro, lirico o tragico (*).

136
che le ha nominate, come i viventi manifestano colui che
li ha animati e gli alberi manifestano colui che li ha
piantati. Tutti, pertanto, fatti dalla tua Parola, rappresen-
tano la forza della tua potenza,
6. ed ecco perché ogni uomo, come dominatore di tutto
ciò a causa di te, deve, dal fondo del cuore, rimandarti
per mezzo di Cristo Pinno di tutto ciò.
7. Tu, infatti, sei buono nei tuoi benefìci e munifico nelle
tue compassioni, Punico onnipotente, poiché, appena tu
lo vuoi, ne hai il potere, e la tua potenza eterna raffredda
la fiamma, chiude la fauce dei leoni, mitiga i mostri marini,
solleva i malati, e abbatte le potenze: abbatte, quando si
inorgogliscono, un esercito di nemici, un popolo numeroso.
8. Tu sei colui che, nel cielo, in terra o in mare, non sei
mai limitato da nessun limite. E ciò non viene da noi,
Padrone, ma è stato Poracolo del tuo servitore a dire: ‫״‬Sappi
dunque oggi e conserva bene nel tuo cuore che il Signore
è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra; e non ve n’è
altro60) ‫)״‬.
9. Non vi è, infatti, altro Dio che te solo; non vi è
altro santo che te, Signore Dio di [ogni] conoscenza, Dio
dei santi, santo al di sopra di tutti i santi, poiché i
santificati lo sono per le tue mani. Glorioso e sovraesaltato,
invisibile per natura, insondabile nei tuoi giudizi, tu là cui
vita non ha bisogno di nulla, immutabile e indefettibile
nella [tua] durata, instancabile nel [tuo] operare, inde-
scrivibile nella [tua] grandezza, eterno nella [tua] bellezza,
inaccessibile nella [tua] dimora, stabilito per sempre nel
tuo tabernacolo, tu la cui conoscenza è senza inizio, la
verità senza cambiamenti, Popera senza intermediari, la
potenza incontestabile, la monarchia inseparabile, il Regno
senza fine, la forza senza rivali, Pesercito innumerevole.
10. Tu sei, infatti, il Padre della Sapienza, il demiurgo

(59) Il traduttore greco non ha capito il senso delPebraico Phelmon,


e lo ha riportato tale e quale; così hanno fatto anche i Settanta, Aquila
e Teodozione.
(60) Dt 4,39. Come Baumstark ha sottolineato, è notevole che pro-
prio questo versetto e non 6,4ss sia stato utilizzato dalla liturgia dei
samaritani. Questo lascia supporre che doveva essere così nelle forme
arcaiche della liturgia sinagogale e che ad esse, e non a un ritocco cri-
stiano, sia dovuta la presenza in questa preghiera di un testo diverso
dallo Sema, ma di significato equivalente.

1 37
della creazione, fatta da un mediatore, ma di cui tu sei
il principio, corègo della p rovvidenza, donatore delle leggi,
appagam ento n eirin d igen za; [tu sei] colui che castiga
gli em pi e ricom pensa i giusti, il Dio e Padre di Cristo e
il Signore di coloro che lo venerano, lui la cui promessa è
senza menzogna, il giudizio incorruttibile, la sentenza inap-
pellabile, la pietà incessante, Veucaristia eterna, per mezzo
del quale ti si deve un'adorazione degna di te, da parte di
ogni natura razionale e santa » (61).
Ci si può chiedere da dove vengano qui gli sviluppi inizia-
li sulla penitenza, che non si trovano nella terza benedizione,
né come !,abbiamo nel Gà’ón, né negli altri libri di preghiera
medievali e moderni. C'è da sottolineare che corrispondono ai
contenuti rispettivi della quarta, e soprattutto della quinta, della
sesta, della settima e anche della ottava delle benedizioni
delle Semonèh-Essréh: sulla conoscenza di Dio, sul pentimen-
to, sul perdono, sulla redenzione, e infine sulla guarigione di
tuti i mali, in particolare le malattie, visti come una conseguen-
za del peccato.
La quarta delle nostre preghiere non ha corrispondenze tra
le beràkòt delle Semonèh-'Essréh. Ciò nonostante, con la sua
insistenza sul sabato, è il brano più giudaico di tutto Tinsieme,
fino al punto che le aggiunte cristiane, particolarmente notevoli,
non hanno potuto applicarlo così bene alla domenica da far di-
menticare la sua destinazione primitiva. Dobbiamo qui ricorda-
re che le Diciotto benedizioni, nell'uso più antico, non erano re-
citate nel giorno di sabato, ma sostituite da una formula in set-
te beràkòt, come doveva essere il modello giudaico delle no-
stre preghiere. Il nostro testo sembra averci conservato il nu-
eleo di questo formulario speciale per il sabato, caduto presto
in disuso. Il seguito delle preghiere del libro VII delle Costi-

(61) Costituzioni apostoliche, VII, 35; F unk , op. cit., pp. 428-433;
- LdC 368369‫( ־‬nn. 13.8‫)־‬. - Questo testo ci spiega come il Sanctus face-
va parte della liturgia cristiana fin dalle origini, prima di figurare nello
stesso pasto eucaristico. Il fatto è attestato da Clemente di Roma, Lette‫־‬
ra ai Corinzi, 34 (cf F. X. F unk , Patres Apostolici, op. cit., pp. 142143‫)־‬,
e da T ertulliano, De Oratione, 3; PL 1,11561157‫־‬. Però solo il nostro
testo ci permette di affermare che la sua recita apparteneva ancora, co-
me nella sinagoga, alle preghiere dell’ufficio delle letture. Origene, alme-
no sembra, ci presenta la prima testimonianza del suo passaggio nella
preghiera eucaristica del banchetto sacramentale: De Principiis, IV, 3, 14.

13 8
tuzioni apostoliche ci dà un’idea di ciò che poteva essere que-
sta formula contratta, e il testo che riportiamo ci aiuta a com-
prendere come la lode del sabato dovesse esserne il perno.
« 1. Signore onnipotente, tu hai creato il mondo per mezzo
del Cristo e, a ricordo di quella creazione, hai istituito il
sabato affinché l'uomo, libero dal lavoro, possa meditare
la tua legge. Hai istituito dei giorni di festa per allietare
l'anima nostra, per ricordarci la sapienza che viene da te.
2. Per noi, la Sapienza (increata) ha voluto nascere da
una donna. Egli è apparso nella nostra vita mortale e al
momento del battesimo ha mostrato che era Dio e uo-
mo; ha sofferto per noi con il tuo consenso; è morto ed è
risuscitato con potenza. Per questo, celebrando la risurre-
zione, nel giorno del Signore, ci rallegriamo perché egli ha
vinto la morte, ha portato la luce della vita e delVimmor-
talità. Per lui, tu hai condotto a te le genti; per costituire
il popolo scelto, il vero Israele, popolo diletto che vede
Dio. 3. Un tempo, o Signore, hai fatto uscire i nostri
padri dalla terra d'Egitto, li hai strappati alla fornace di
ferro, alla fabbrica di stoviglie e di mattoni. Li hai liberati
dalla mano del faraone e dei suoi satelliti; hai fatto loro
attraversare il mare come terraferma e nel deserto hai fatto
loro molti doni. 4. Hai dato loro la legge, cioè il deca-
logo, promulgato dalla tua bocca e scritto dalla tua mano.
Hai istituito il sabato non perché fosse occasione di ozio,
ma incoraggiamento alla pietà; per impedire loro, chiuden-
doli in un recinto sacro, di fare il male, per istruirli e
dar loro la gioia della settimana. È la ragione di essere
della settimana, delle sette settimane, del settimo mese,
del settimo anno e del suo ritorno periodico, del giubi-
leo, il cinquantesimo anno, l'anno del perdono. 5. Perché
gli uomini non abbiano nessuna scusa alla loro ignoranza,
Dio istituì il riposo sabbatico, affinché in quel giorno non
proferiscano neanche una parola di collera. Il sabato è
il riposo dopo la creazione, il compimento del mondo, la
ricerca della legge, il ringraziamento a Dio per i doni
che ha fatto all'uomo. 6. Ma il giorno del Signore è su-
periore a tutti gli altri. Esso evoca il mediatore, il datore,
il legislatore, fautore della risurrezione, il primo nato di
tutta la creazione, il Verbo-Dio e Vuomo nato da Maria
senza concorso umano, che è vissuto nella giustizia, fu ero-
cifisso sotto Ponzio Pilato, è morto, è risuscitato da morte.
Per tutti (πάντων) questi doni, il giorno del Signore ci

139
esorta, o Signore sovrano, ad offrirti le nostre lodi. 7. Per-
ché ci fu data la grazia di scoprire nella loro grandezza tutti
i tuoi benefizi » (62).
In mancanza di un termine di confronto più diretto, pos-
siamo accostare a questa preghiera Linciso introdotto nella ter-
za beràkà per la fine dei pasti nel giorno di sabato. Vi si os-
serverà, infatti, la stessa teologia sabbatica:
« Consolaci, Signore, nostro Dio, in Sion, la tua città,
rendendo stabile il tuo Tempio, e sii misericordioso, Si-
gnore, nostro Dio, verso il tuo popolo, la città di Geni-
salemme e Sion, la dimora della tua gloria... Ti piaccia,
Signore, nostro Dio, fortificarci con i tuoi comandamenti, e
[specialmente] con il comandamento del settimo giorno.
Questo giorno è grande e santo a causa della tua santità
e del tuo riposo, e noi ci riposeremo conforme al coman-
damento della tua volontà: non ci sia nessun turbamento
né danno nel nostro riposo. E il regno della casa di Davide
torni presto al suo posto... » (63).
La quinta delle nostre preghiere comincia col combinare
insieme il contenuto della quattordicesima e della quindicesima
beràkà: la Birkat Jerusalem e la Birkat David. Ricordiamole:
« (Birkat Jerusalem) A Gerusalemme, tua città, ritorna con
misericordia, e facci la tua dimora, come hai detto; riedi-
ficaia come edificio eterno, prontamente, nei nostri giorni.
Benedetto tu, Signore, che riedifichi Gerusalemme.
(Birkat David) Il germoglio di Davide, tuo servo, fa pron-
tamente fiorire, ed esalta la sua potenza per mezzo della
tua salvezza, perché nella tua salvezza abbiamo sperato
ogni giorno. Benedetto tu, Signore, che fai prosperare la
potenza della salvezza » (64).
Ecco ora quello che si trova nel primo paragrafo della quin-
ta preghiera data dalle Costituzioni:
« Tu che hai compiuto le promesse dei profeti, che hai
avuto pietà di Sion, che hai fatto misericordia a Gerusa-

(62) Costituzioni apostoliche, VII, 36; F unk , op. cit., pp. 432437‫־‬. -
EEFL n. 595; H amman , 156158‫־‬.
(63) DH, p. 151.
(64) Cf sopra, p. 85.

14 0
lemme, esaltando il trono di Davide tuo servo in mezzo ad
essa con la nascita di Cristo: il quale è nato secondo la
carne dal seme di Davide, da colei che, sola, è rimasta
vergine... » (65).

Il seguito combinerà allo stesso modo la sedicesima beràkà


(Tefillà), per !,esaudimento delle preghiere, con la diciassette-
sima CAbódà), quella che riprende, ci dicono i rabbini, la pre-
ghiera che al Tempio accompagnava Tofferta dei sacrifici.
Esse sono così formulate in Amram Gà’òn\
« (Tefillà) Ascolta la nostra voce, Signore Dio nostro, abbi
pietà, e usaci grazia e misericordia. Accetta con miseri-
cordia e compiacimento la nostra preghiera e la nostra
supplica, perché tu sei un Padre ricco di grande mise-
ricordia. Egli è eterno e non torneremo a mani vuote dal
suo cospetto, perché tu sei un Dio che ascolta la pre-
ghiera. Benedetto tu, Signore, che ascolti la preghiera.
(Abòdà) Possa tu compiacerti, Signore Dio nostro, nel tuo
popolo Israele, e accogli la sua preghiera; restaura il tuo
culto nel Santuario della tua casa, e accogli prontamente
con amore e benevolenza i sacrifici di Israele e la loro
preghiera. Sempre ti sia di compiacimento il culto di
Israele, tuo popolo. Possano i nostri occhi vedere il tuo
ritorno a Sion e a Gerusalemme, tua città, con misericordia,
come in antico. Benedetto tu, Signore, che fai tornare con
misericordia la tua presenza a Sion » (66).

La preghiera delle Costituzioni apostoliche sintetizzerà fa-


cilmente queste due preghiere in una sola. Vi introdurrà di nuo-
vo un'evocazione dettagliata dei padri, questa volta in funzione
dei sacrifici che la Bibbia ci riferisce.
« ... Adesso, o Signore Dio, accetta le preghiere che sono
sulle labbra del tuo popolo riunito dalle nazioni che ti invo-
cano nella verità, come hai accettato i doni dei giusti nelle
loro generazioni. 2. Tu hai guardato, in primo luogo, il
sacrificio di Abele e hai accettato il sacrifìcio di Noè uscente
dall’arca e di Abramo quando uscì dalla terra dei Caldei,
quello di Isacco al pozzo del giuramento e di Giacobbe a

(65) Costituzioni apostoliche, VII, 37, 1; F unk , op. cit., pp. 436437‫־‬.
- EEFL n. 596.
(66) Cf sopra, pp. 85 e 8788‫־‬.

141
Betel (67), quello di Mosè nel deserto e di Aronne tra i
vivi e i morti, quello di Giosuè in Gaigaia e di Gedeone
sulle pietre e il vello prima del suo peccato, quello di
Manoak e di sua moglie sulla pianura, quello di Sansone
assetato prima della sua trasgressione, quello di Iefte
nel combattimento, prima della sua promessa temeraria,
quello di Barak e di Debora a riguardo di Sisara, quello
di Samuele a Masfa, 3. quello di Davide sull'aia di Oman
il Gebuseo, quelli di Salomone a Gabaon e in Gerusalem-
me, quello di Elia sul monte Carmelo, quello di Eliseo
presso la sorgente asciutta, quello di Giosafat durante la
guerra, quelli di Ezechia nella sua malattia e a riguardo
di Sennacherib, quello di Manasse nel paese dei Caldei
dopo la sua trasgressione, quello di Giosia per la Pasqua,
quello di Esdra nel ritorno [dall'esilio], 4. quello di Da-
niele nella fossa dei leoni, quello di Giona nel ventre del
mostro marino, quello dei tre fanciulli nella fornace acce-
sa, quello di Anna nel tabernacolo, dinanzi all'arca, quello
di Neemia e di Zorobabele in occasione della ricostru-
zione delle mura, quello di Mattatia e dei suoi figli nel
loro zelo verso di te, quello di Giaele nelle sue bene-
dizioni. 5. Adesso, ricevi dunque anche le preghiere che
il tuo popolo ti offre, con la [sua] conoscenza, per mezzo
di Cristo, nello Spirito » (68).
P a recch i di q u esti n o m i so n o d a rico rd a re. D i n u o v o , in-
fa tti, e p iù d i u n a v o lta , ritro v erem o sp e c ia lm e n te A b e le e A bra-
m o m e n z io n a ti in u n a p reg h iera e u ca r istic a cristia n a , n e l m o-
m en to in cu i si im p lo ra l'a c c e tta z io n e d e l sa crificio .
L 'u ltim a d e lle n o str e p reg h ie re , in fin e, co r risp o n d e alla di-
cio tte sim a d e lle « b e n e d iz io n i »: Hòdà’à, q u e lla ch e c o n clu d e,
n el ritorn o cla ssic o al re n d im en to d i g ra zie in iz ia le , l'in siem e
d ella Tefillà.
E c c o le d i seg u ito , u n a d o p o l'altra:
« (Hòdà’à) Noi ti ringraziamo perché tu sei il Signore Dio
nostro e il Dio dei nostri padri: tu sei la Roccia delle nostre
vite, lo scudo della nostra salvezza attraverso tutte le ge-
nerazioni. (Ti ringraziamo) per la nostra vita affidata alle

(67) Il testo, probabilmente per un errore del copista, porta Be-


tlemme.
(68) Costituzioni apostoliche, V II, 37; F unk , op. cit., pp. 436439‫־‬. -
EEFL n. 596.

142
tue mani, e per le nostre anime affidate a te (e per i
prodigi che di giorno in giorno operi con noi, e per le
cose meravigliose e per le opere di bontà che compì in
ogni tempo, alla sera e al mattino e a mezzogiorno). Tu
sei buono, infatti la tua misericordia non viene meno: tu
sei misericordioso, infatti non si esaurisce la tua carità.
Da sempre abbiamo sperato in te; non ci hai fatto restare
delusi, Signore Dio nostro, non ci hai abbandonato e
non hai distolto il tuo volto da noi. E il tuo Nome sia
benedetto ed esaltato, o nostro Re, per sempre. Tutto ciò
che vive dovrebbe renderti grazie, Selah, e lodare il tuo
Nome, o tutto-buono, nella verità. Benedetto tu, Signore;
il tuo nome è Pottimo, e a te conviene rendere lode » (69).
« 1. Noi ti rendiamo grazie per ogni cosa, Signore onni-
potente, perché non ci hai tolto le tue misericordie e le
tue compassioni, ma in ogni generazione tu salvi, liberi,
soccorri, proteggi. 2. Sei stato, infatti, di aiuto nei giorni
di Enos e di Enoch, nei giorni di Mosè e di Giosuè, nei
giorni dei Giudici, nei giorni di Davide e dei re, nei
giorni di Samuele, di Elia e dei profeti, nei giorni di
Ester e di Mardocheo, nei giorni di Giuditta, nei giorni
di Giuda Maccabeo e dei suoi fratelli. 3. Anche ai giorni
nostri soccorrici, per mezzo del tuo grande pontefice Gesù
Cristo, tuo servitore. Infatti, egli [ci] ha liberati dalla
spada, egli ci ha strappati dalla fame col nutrirci, dalla
malattia egli [ci] ha guariti, dalle male lingue egli [ci]
ha protetti (70). 4. Per tutto [ciò], per mezzo di Cristo,
noi rendiamo grazie a te che ci hai dato una voce disposta
alla confessione, avendoci dotati di una lingua armoniosa,
come di un plettro. [Tu ci hai forniti parimenti] del gusto
per apprezzare, del tatto per distinguere, degli occhi per
vedere, delle orecchie per udire, delPodorato per sentire,
delle mani per lavorare, dei piedi per camminare. 5. E
tutto questo, lo formi da una particella nel seno materno,
dopo che questa ha preso forma, tu le dài Panima immor-
tale e la fai venire alla luce. Questo animale razionale,
Puomo, lo hai istruito con le [tue] leggi, lo hai illuminato
con i [tuoi] giudizi, e, portandolo per un po' di tempo
alla decomposizione, gli hai promesso la risurrezione. 6.
Quale vita basterà dunque, quale lunghezza di secoli sarà

(69) Cf sopra, pp. 87-88.


(70) Va sottolineato egli, perché è messo lì per riferire a Cristo tut-
to quello che, nella preghiera primitiva, doveva essere riferito a Dio.

143
sufficiente perché l’uomo possa renderti grazie? Quello che
non ci riesce compiere come si dovrebbe, tuttavia dobbiamo
cercare di farlo nel modo migliore possibile. 7. Tu, infatti,
ci hai liberati dall’empietà del politeismo, ci hai strappati
dalla setta degli uccisori di Cristo, ci hai liberati dall’igno-
ranza in cui ci eravamo smarriti. Tu hai mandato il Cristo
come un uomo fra gli uomini, lui che è il Dio Figlio
unico; tu hai fatto abitare in noi il Paraclito, tu ci hai
messi sotto la custodia degli Angeli, hai ridotto il diavolo
alla vergogna; avevi fatto essere ciò che non era, conservi
ciò che esiste, doni alla vita la sua misura, [le‫ [־‬procuri il
suo cibo, hai promesso la penitenza. 8. Per tutto questo,
a te la gloria e la venerazione, per mezzo di Gesù Cristo,
ora e sempre e nei secoli. Amen» (71).
Ancora una volta, le differenze consistono soprattutto in enu-
merazioni particolareggiate, sostituite alle formule globali delle
preghiere giudaiche che hanno prevalso. Ogni volta - come si
è potuto costatare nelle precedenti preghiere - questi elogi esau-
rienti, tradizionali negli scritti della Sapienza, con i quali è evi-
dente !,affinità delle nostre formule col giudaismo alessandrino
- elogi che si trovano anche nella lettera agli Ebrei -, forni-
scono ai cristiani che ne fanno uso un punto di inserzione finale
belPe pronto per menzionare Cristo e Topera sua.
Per quanto giudaiche rimangano ancora sotto la loro verni-
ce cristiana, intere parti di queste preghiere entreranno in bloc-
co nella preghiera eucaristica del libro V ili, di fattura decisa-
mente cristiana, come vedremo ben presto. Scorgiamo così che
la preghiera cristiana si forma quasi alPinterno della preghiera
giudaica. Quando se ne staccherà, apparirà evidente che la sua
composizione riflette non solo la struttura, ma anche il conte-
nuto della stessa preghiera giudaica.

(71) Costituzioni apostoliche, V II, 38; F unk , op. cit., pp. 438441‫־‬.
- EEFL n. 597; LdC 369-370.

144
Capitolo VI

L’eucaristia al tempo dei Padri


e vestigia di quella primitiva:
liturgie di Addai e Mari e di Ippolito

Formazione dei formulari tradizionali

La fissazione per iscritto delle preghiere liturgiche, nel cri-


stianesimo come nel giudaismo, è un fenomeno relativamente
tardivo. In un caso come nell’altro, si è imposto solo a partire
dal momento in cui si è avuta coscienza che la tradizione ri-
schiava di alterarsi se non si rivestiva di formule fisse nei parti-
colari. Le eresie, con la reazione che hanno provocato, sono sta-
te un fattore particolarmente importante di questa evoluzione.
Ecco perché non vediamo generalizzarsi testi cristiani di que-
sto tipo se non dopo la grande crisi dell’arianesimo, cioè a par-
tire dalla seconda metà del IV secolo.
Tuttavia, un documento come la Tradizione apostolica di
santTppolito attesta che, prima di questo fatto, si è cominciato
a redigere modelli-tipo. Lo stesso documento attesta che prima
questi si sono imposti più come esempi destinati a guidare
i celebranti che non come formule ne varietur (1). Al contra-
rio, molto tempo dopo l’apparizione e la generalizzazione di
formulari relativamente fissi, hanno potuto ripetersi, quasi fino
ai nostri giorni, variazioni sui temi fondamentali. Nella stessa
liturgia romana, per quanto conservatrice possa apparire, la
redazione di prefazi eucaristici variabili praticamente non è
mai cessata. La liturgia mozarabica, per tutto il tempo che è sta-
ta in uso, ha conosciuto questa elasticità per tutte le parti del-
l’eucaristia (2). Le liturgie orientali, dal canto loro, specialmen-
te presso i copti, gli etiopi, i maroniti, hanno continuato fino alla
fine del medioevo ad elaborare formule più o meno nuove.

(1) B. Botte, La Tradition apostolique de saint Hippolyte. Essai de


reconstitution ( = Liturgiewissenschaftliche Quellen und Forschungen,
39), Miinster Westfalen 41972, n. 9 (fine).
(2) Cf più avanti, pp. 323ss.

145
Sta comunque il fatto che il grande sviluppo dei formulari
eucaristici coincide con Tapogeo della patristica, quel periodo,
cioè, che si estende approssimativamente dalla metà del seco-
lo IV alla metà del VI : dai Padri cappadoci a san Gregorio Ma-
gno. Siccome i manoscritti liturgici, destinati all’uso liturgico,
venivano distrutti o scartati quando non servivano più, abbiamo
solo pochi preziosi frammenti di un’epoca più antica. Poiché,
invece, le composizioni di quell’epoca sono riuscite ad impor-
si e a permanere, siamo sommersi dall’abbondanza dei testi pro-
dotti. Si può dire che è stato allora che l’eucaristia ha trovato
le sue espressioni classiche. Non bisogna rimpiangere troppo che
esse abbiano ben presto scoraggiato poco o tanto l’improvvi-
sazione. Bisogna infatti riconoscere che i secoli successivi non
produrranno altro che variazioni, più o meno indovinate, sui
temi che riescono allora a definirsi e a organizzarsi. Oppure si
perderanno di vista, e si finirà per smarrirsi nelle chiacchiere
e nella fantasia. Quando quello che noi chiamiamo, per sem-
plificare, il medioevo non si atterrà più ai testi patristici, la pre-
ghiera eucaristica sarà nel pericolo continuo di alterarsi o di
dissolversi (3).
Quando, invece, si percorrono le produzioni di questa gran-
de epoca, si è colpiti dal loro vigore e dalla loro ricchezza. Pe-
rò, a prima vista, si è anche sconcertati dalla loro varietà. Al-
cune costanti si possono percepire, ma la molteplicità delle for-
me che le avvolgono è tale che si è imbarazzati a classificare
questi documenti, e più ancora a stabilirne la genealogia. Pro-
gressivamente, però, si è raggiunto un consensus tra i litur-
gisti che usano il metodo della comparazione per riallacciare
questa vasta proliferazione a cinque grandi centri principali, o,
per dire meglio, a cinque aree di composizione e di diffusio-
ne iniziale. Tre vengono situate in Oriente e due in Occiden-
te. Così, grosso modo, si può parlare, riguardo alla preghiera
eucaristica, di cinque schemi fondamentali che si ritrovano an-
cor oggi nei testi più venerabili che siano rimasti in uso. Sono,
per enumerarli da est a ovest, il tipo siriaco orientale, il tipo si-
riaco occidentale, il tipo alessandrino, il tipo romano e il tipo
gallicano e mozarabico.
Bisogna riconoscere che in questa divisione comunemente3

(3) Cf più avanti, pp. 342ss.

146
accettata c'è una certa semplificazione. Per esempio, si deve
ammettere che il tipo cosiddetto siriaco occidentale ha conta-
minato più o meno sia il tipo siriaco orientale che il tipo ales-
sandrino, praticamente in tutti i formulari di questi due tipi
che ci siano direttamente accessibili. Di più, se si osserva da
vicino, lo stesso tipo siriaco occidentale comporta due varietà
profondamente differenti, che forse si possono collegare rispet-
tivamente con Antiochia e con Gerusalemme (4).
Così pure, in Occidente, il tipo romano è accompagnato da
una serie di tipi secondari, come quello lionese e soprattutto
quello milanese (detto ambrosiano) (5). È molto difficile stabi-
lire se siano tipi romani gallicanizzati o se non abbiano piutto-
sto conservato forme romane arcaiche. È così diffìcile che molti
sono giunti a sostenere che il tipo romano, in origine, non si di-
stingueva nettamente da un miscuglio di forme locali, tutte più
0 meno analoghe a quelle forme che noi chiamiamo gallicane o
mozarabiche, e che altrove avrebbero semplicemente continuato
ad evolversi, mentre a Roma sarebbero rimaste fisse (6).
È certo, comunque, che bisogna tener conto di esportazioni
inattese e di metamorfosi locali, non sempre facili da spiegare.
Non è a Bisanzio che si possono ritrovare nel modo migliore
le caratteristiche dell'antico rito bizantino - nonostante i ri-
vestimenti originali e particolarmente proliferanti che esse vi
hanno subito - bensì nella lontana Armenia (7). Sul luogo, certi
influssi, specialmente palestinesi, hanno alterato radicalmente,
anzi abolito, molti antichi usi locali (8). Così pure, non è in
Cappadocia, né nella vicina Siria, né tanto meno a Costantino-
poli, ma solo in Egitto che ritroviamo !,eucaristia di san Basilio
sotto la forma che sembra originale (9).
Al di fuori di queste trasposizioni, più o meno globali, ci so-456789

(4) Cf più avanti, pp. 254ss.


(5) Cf A. A. K ing, Liturgies of the Primatial Sees, London 1957, ρρ.
lss e 286ss.
(6) Cf per esempio G. Dix, The Shape of the Liturgy, London 1945,
pp. 563ss. - Per uno sguardo d ’insieme su Riti e famiglie liturgiche (B.
Botte, si veda: A. G. M artimort, La Chiesa in preghiera, Desclée, Ro-
ma 21966, pp. 16-56 (con bibliografìa).
(7) Cf A. Baumstark , Liturgie comparée, Chevetogne 31953, p. 35.
(8) Ibid., p. 6.
(9) Ibid., p. 59.

147
no elementi erratici che riusciamo a spiegare ancora meno attra-
verso quale filone abbiano potuto giungere dove li troviamo.
Per citare un solo esempio: come mai ci imbattiamo, proprio
nel cuore del canone ambrosiano, in una frase che sembra pro-
venire direttamente da un'anafora siriaca occidentale? (10).
Attraverso tutti questi scambi, due fatti sono così evidenti
che troppe volte si è stati tentati di spiegare con essi tutte le
assimilazioni apparenti. Si tratta dell'imperialismo di Roma e di
quello di Bisanzio. Al contrario di quanto molti moderni tende-
rebbero a pensare, secondo una concezione romantica del libe-
ralismo (o dell'anarchia) ortodosso e dell'autoritarismo romano,
l'imperialismo bizantino, particolarmente nel nostro campo, sem-
bra essere stato molto più sistematico (e molto più rigoroso)
dell'imperialismo romano. Per molto tempo, la liturgia romana
si è allargata a macchia d'olio assai più con tutto un procedimen-
to di mutuazioni spontanee, o di adozioni volute (o incoraggia-
te) dalle autorità civili, che non per uno sforzo dell'autorità
ecclesiastica. Il liberalismo della lettera di san Gregorio Ma-
gno, in cui consiglia a sant'Agostino di Canterbury di fabbri-
care per gli anglosassoni una liturgia adattata e attinta da quel-
le fonti che gli sembrassero le migliori, ha causato così lungo
e grave sconcerto che si è voluto vedervi un falso (11). Oggi,
invece, tutti, o quasi tutti sono d'accordo nel ritenerla auten-
tica. È vero che si trovano alcuni esempi in senso opposto, co-
me una lettera particolarmente gretta e acrimoniosa di papa
Innocenzo I al vescovo Decenzio di Gubbio (12). Essa, però,
rivela molto più il temperamento personale dell'autore che non
una politica coerente della sede romana a quell'epoca. L'an-
tica Roma ecclesiastica, di fatto, sembra essere rimasta per mol-
to tempo indifferente all'espansione della propria tradizione
liturgica. E si è poi dimostrata, in modo sorprendente, acco-
gliente verso tradizioni - gallicane o altre - ritornate a lei con
edizioni di suoi stessi libri che i « barbari » avevano abbondan-

(10) Cf PE 450; EEFL n. 2129.


(11) Cf Epist. 64; PL 77, 1187.
(12) Cf G. Dix, op. cit., p. 564. - Cf R. Cabié, La Lettre du Pape
Innocent Ier à Décentius de Gubbio (19 mars 416). Texte critique, traduc-
tion et commentaire ( = Bibliothèque de la Revue d ’Histoire Ecclésiasti-
que, 58), Louvain 1973.

148
temente interpolate per il proprio uso (13). Bisogna attendere
Gregorio VII per vedere modificarsi tale politica (o tale man-
canza di politica). Questo papa, infatti, provocherà in pochi an-
ni la quasi totale eliminazione del rito mozarabico e la sua so-
stituzione in Spagna con il rito romano (14). Non bisogna inol-
tre dimenticare, da una parte, che il rito mozarabico era stato
screditato, dal punto di vista dogmatico, dal sostegno che una
teologia adozionista aveva creduto di trovare nelle sue formule,
né, d'altra parte, che i re spagnoli, spinti poco o tanto dalla pro-
paganda dei monaci di Cluny, avevano già accelerato il movi-
mento, più o meno spontaneo, che tendeva a questa sostituzione.
Bisanzio, invece, fin dal V secolo, ha perseguito una politica
di soppressione vera e propria delle tradizioni locali e la loro
sostituzione con la liturgia cosiddetta bizantina, la quale, a dire
il vero, non era altro che la forma particolare che la liturgia si-
riaca occidentale era riuscita a prendere nella nuova Roma sul
Bosforo. Le defezioni che seguiranno sono state attribuite al-
l’eresia nestoriana o a quella monofisita; ma oggi si è propensi
a credere che, in realtà, siano state dovute soprattutto a reazioni
di nazionalismo culturale, esacerbato da questa volontà impe-
riale di unificazione ad ogni costo (15). L'assolutismo a cui
questa volontà doveva sfociare nel secolo XII si esprimerà sen-
za reticenze in una consultazione famosa del grande canonista
Teodoro Balsamone. Il patriarca alessandrino ortodosso di quel-
l'epoca gli aveva chiesto che cosa si dovesse pensare e che cosa
si dovesse fare della liturgia di san Giacomo: egli rispose, con
la sua grande autorità, che non c’erano altre liturgie ortodosse
all'infuori di quelle dette di san Giovanni Crisostomo e di san
Basilio, naturalmente, nella forma in cui erano conosciute e pra-
ticate nella città imperiale. Questa risposta è tanto più caratte-
ristica in quanto lo stesso Balsamone era antiocheno di origine,
ma non sembrava sfiorato dall'idea, pur tuttavia incontestabile,
che le liturgie della nuova Roma erano solo dei sottoprodotti
della liturgia della sua provincia di origine (16).

(13) Cf più avanti, pp. 323.


(14) Cf più avanti, pp. 322ss.
(15) Il metropolita Séraphin, nel suo libro L ’Église orthodoxe, Paris
1952, mette in evidenza molto bene questo punto.
(16) Cf PG 119,1033ss. La liturgia di san Marco, ben inteso, è an-
ch’essa condannata da Balsamone.

149
In compenso, non bisogna dimenticare che le vittorie di que-
sti due imperialismi si sono rivelate, molte volte, vittorie di
Pirro. Abbiamo già parlato abbastanza sull’evoluzione della li-
turgia romana e sulle stesse origini della liturgia bizantina per-
ché ciò si capisca facilmente. La liturgia detta romana si è im-
posta a tutto lOccidente sotto una forma composita in cui non
rimane di romano che un certo schema e certe formule, abba-
stanza soffocati da un afflusso di formule estranee e sommer-
si da tutto un rivestimento di riti, ornamenti, canti che non ha
nulla di romano. Così pure la liturgia bizantina - che non è
nata a Bisanzio ma ad Antiochia, e che è stata rimaneggiata
ad Antiochia o altrove prima di esservi impiantata - doveva già
essere rivestita da un primo e considerevole apporto monastico,
venuto da Gerusalemme, più precisamente dalla laura di san
Sabba. Il monastero di Studios, nella capitale, sarà il centro
(per lo meno principale) di questo vero rimaneggiamento. E
questi elementi allogeni sono ben lontani dall’essere gli ultimi
che la città dei basileis avrebbe continuato a ricevere, prima di
riesportarli sotto il sigillo imperiale con quanto restava del suo
più antico fondo.
Questi pochi richiami erano probabilmente necessari, per-
ché non ci si illuda sulla chiarezza o sull’autonomia dei cinque
grandi tipi di liturgia eucaristica generalmente riconosciuti. Non
si tratta, a dir vero, che di famiglie, tra le quali le affinità sono
numerose, e in cui si rimane, in ogni caso, nell’interno di una
stessa stirpe.
Indipendentemente dagli incroci ulteriori che hanno potuto
più o meno cancellare le differenze originali tra i tipi enumerati,
sembra che si debbano riconoscere certe analogie originali. Ma
queste, ancora una volta, sfidano i pregiudizi più radicati. Noi
siamo abituati a vedere la cristianità divisa da lunga data in
due blocchi: lOriente intorno a Bisanzio, e lOccidente intorno
a Roma. Che vi sia una gran parte di convenzionale in questa
divisione si rivela particolarmente, sebbene non unicamente,
nel campo liturgico. Infatti, se ci si limita agli elementi essen-
ziali, la liturgia siriaca occidentale (cioè, in questo caso, di An-
tiochia) sembra più direttamente apparentata alle liturgie galli-
cana e mozarabica che non alle sue vicine di Oriente. E, molto
più chiaramente ancora, la liturgia romana e la liturgia alessan-
drina sembrano, se non sorelle, almeno cugine prossime. In

150
altre parole, se si vuol tracciare una linea di demarcazione tra
le diverse vie della tradizione liturgica, e specialmente eucaristi-
ca, tra i diversi modelli di preghiera che si sono costituiti per
primi, questa linea non può essere verticale. Essa ignora la di-
visione abituale tra Oriente e Occidente; tende a rivelarne
un'altra che taglia in due tanto lOriente che lOccidente.
Ci affrettiamo ad aggiungere che il fatto è così poco con-
forme ai nostri criteri mentali che molti studiosi stentano anco-
ra ad accettarlo liberamente. Essi non possono negare le sor-
prendenti analogie, né le differenze comuni, perché sono evi-
denti. Ma cercheranno di spiegarle con influenze più o meno tar-
dive, piuttosto che con qualche comunanza di origine. Per
quanto riguarda i riti, è il caso di quello che possiamo chia-
mare l'estremo Occidente (gallicano e mozarabico) paragonato
alla Siria occidentale (17). Molti ammettono che le analogie
sono un fatto secondario, e non primitivo. Vedremo più avanti
alcuni motivi che sembrano militare contro tale opinione. Essa
rimane sostenibile, tuttavia, vista la data relativamente tardiva
di tutti i nostri documenti dettagliati sui riti dell'estremo Occi-
dente. Diventa molto più difficile, in compenso, sostenere la tesi
delle influenze tardive per spiegare le analogie tra Roma e
Alessandria. È chiaro infatti che più antichi sono i testi ai
quali si può risalire - e che siano testimoni sicuri di un uso
locale - e più le analogie diventano sorprendenti.
Comunque sia, nei testi quali si presentano a noi e comun-
que si voglia rendere conto di essi, le analogie ci sono. Prima
di tutto si tratta di analogie di struttura, ma queste si accom-
pagnano sovente ad analogie forse ancora più sorprendenti (il
che non vuol dire necessariamente più probanti di per sé) nel
dettaglio delle formule.

Le quattro forme principali della tradizione


Per limitarci alla struttura dell'eucaristia, vediamo come si
presenta, innanzi tutto, nelle quattro famiglie prese a due a due,
tra le quali osserviamo delle somiglianze.

(17) Cf A. A. K ing, o p . c i t pp. 457ss.

151
A) Siro-occidentale e Gallicano-mozarabica
Nel rito siriaco occidentale (o siro-occidentale) - per comin-
dare da questo e la cui struttura sembra di una chiarezza tutta
particolare - si viene ad avere:
1) una prima parte di rendimento di grazie, che avvia
verso l'inno che in Occidente chiamiamo il Sanctus;
2) una seconda parte di rendimento di grazie, che avvia
verso il racconto deiristituzione eucaristica;
3) una preghiera di tipo particolare, ma praticamente uni-
versale, che si chiama « anamnesi », e che sembra una ripre-
sa e un ampliamento delle parole: « Fate questo in memoria
(o in memoriale) di me »;
4) un'altra preghiera, di tipo parimenti ben definito, ma
che, a dire il vero, si stenta a trovare nella sua pienezza al di
fuori del rito siriaco occidentale e di quei riti che sono stati
da esso influenzati: si tratta dell'« epiclesi », cioè di un'invo-
cazione che chiede la discesa dello Spirito Santo per consa‫־‬
crare il pane e il vino e farne il corpo e il sangue del Salva-
tore, e, secondariamente, per l’accettazione, da parte di Dio,
del sacrificio offerto e la comunicazione della sua grazia ai
partecipanti;
5) una serie di intercessioni particolareggiate, per tutte
le necessità della Chiesa e del mondo, e di commemorazio-
ni dei santi;
6) una dossologia finale, di forma trinitaria.
Aggiungiamo, come una caratteristica propria della liturgia
siro-occidentale, che il contenuto del η. 1 è dominato dalla per-
sona divina del Padre, e più o meno chiaramente da un rendi-
mento di grazie per la creazione; 2) è dominato dal Figlio e
rende grazie per la redenzione, come pure 3), 4) e, in una certa
misura, 5), che introduce lo Spirito, e sviluppa il tema della
santificazione della Chiesa e di tutto l'universo, in una prospet-
tiva nettamente escatologica.
Si può ritrovare tutto questo, nello stesso ordine, almeno in
un certo numero di formulari gallicani o mozarabici, ad ec-
cezione di 5) che non vi figura mai. Il contenuto delle varie
parti però, nell'estremo Occidente è spesso molto più fluido nei

152
suoi particolari, e non è raro il caso che sia più o meno compie-
tamente diverso da questo schema. Però vi è sempre:
a) un rendimento di grazie iniziale che va a sfociare nel
Sanctus;
b) la sua ripresa (più o meno netta) che termina con le pa-
role deiristituzione;
c) un seguito, in cui c’è da riconoscere che !,anamnesi e
!,epiclesi spesso si intrecciano, e, più spesso ancora, si assotti-
gliano, anzi si sfilacciano quasi in una preghiera qualsiasi;
d) una dossologia, generalmente contratta.

B) Alessandrina e Romana
Se passiamo a Roma, vi troviamo un ordine completamen-
te diverso che, dopo la semplicità e l’armonia del precedente,
può apparire sconcertante. Si ha innanzi tutto:
1) un rendimento di grazie che porta al Sanctus, ma in
cui la redenzione e la creazione sono mescolate (il più delle
volte la creazione è appena accennata);
2) una prima preghiera che ricorda il sacrifìcio;
3) una prima serie di intercessioni per i vivi e di com-
memorazione dei santi;
4) una preghiera - in due formule distinte, ma legate -
che chiede l’accettazione del sacrifìcio, e un’invocazione for-
male per la consacrazione degli elementi eucaristici;
5) il racconto dell’istituzione;
6) un’anamnesi, abbastanza simile a quella della Siria
occidentale, ma più sobria;
7) un’ultima invocazione - anche attualmente in due pre-
ghiere unite - affinché il sacrifìcio offerto sia accetto, e più
precisamente, ora abbia in noi tutto il suo effetto di grazia;
8) una nuova intercessione: prima per i defunti, poi an-
cora per i vivi, accompagnata - quest’ultima - da un’altra
commemorazione dei santi;
9) la dossologia finale.
Ad Alessandria, soprattutto se ci riferiamo ai documenti
più antichi, ritroviamo un ordine analogo, eccetto che tutte

153
le intercessioni sono state raggruppate all’inizio, come le com-
memorazioni, e questo blocco, con la preghiera che nel rito
romano precede, è riportato persino prima del Sanctus. Si ha
dunque il seguente ordine:
1) rendimento di grazie iniziale;
2) prima preghiera che rievoca il sacrificio;
3) prolisse intercessioni e commemorazioni concluse da
una preghiera per il gradimento del sacrificio;
4) ripresa del rendimento di grazie che porta al Sanctus;
5) nuova preghiera, che chiede l’accettazione del sacri-
ficio con una formale invocazione per la consacrazione de-
gli elementi;
6) racconto dell’istituzione;
7) anamnesi;
8) un’ultima invocazione perché il sacrifìcio offerto sia
accettato, e più precisamente perché abbia in noi tutti i suoi
effetti di grazia;
9) dossologia finale.
A questo conviene aggiungere che, né a Roma nel testo che
è pervenuto fino a noi, né ad Alessandria nelle più antiche for-
me dei testi da noi conosciute, vi è traccia di un’attribuzione
particolare delle grandi sezioni dell’anafora a ciascuna delle
tre persone divine singolarmente considerate. In particolare, è
solo in formule visibilmente influenzate dalla Siria occidenta-
le che si trova in Egitto un’invocazione speciale di una discesa
dello Spirito Santo, o nella seconda o nella terza delle preghie‫־‬
re nelle quali, tanto ad Alessandria come a Roma, sembra a
prima vista sia stato disseminato tutto il contenuto dell’epiclesi
siriaca. In altri termini, « l’epiclesi » - quale la si intende ordì-
nanamente - non sembra più primitiva ad Alessandria che a
Roma, dove essa sembra del tutto assente. Se si preferisce, ad
Alessandria come a Roma, non vi è una, ma almeno due epi-
desi (se si prende la parola epiclesi in senso largo): una prima
e l’altra dopo il racconto dell’istituzione, senza parlare di quella
che si potrebbe chiamare una pre-epiclesi, e che viene molto pri-
ma. Ma nessuna di queste preghiere a Roma, oggi, né, sembra,
in origine ad Alessandria, fa intervenire lo Spirito Santo.

154
Sopravvivenza di un tipo più antico
nella tradizione siro-orientale: la liturgia di Addai e Mari
Prima di cercare di dipanare quella che sembra una matas-
sa ingarbugliata, nonostante le analogie parziali che possono
suggerire una prima pista su cui avviare le ricerche, è bene
esaminare il quinto tipo di eucaristia del tempo dei Padri: quel-
lo della Siria orientale. Finora lo abbiamo lasciato da parte,
perché era evidentemente impossibile farlo entrare in qualcu-
no dei due gruppi precedenti. Per la sua struttura globale, al-
meno a prima vista, si avvicinerebbe piuttosto alPaltro tipo si-
riaco, ma non per il suo schema dal quale differisce su un pun-
to capitale: le intercessioni e commemorazioni - tutte raggrup-
paté in un solo blocco, come nella Siria occidentale - invece
di venire dopo Pepiclesi, si inseriscono, in un modo che non si
trova assolutamente in nessun'altra parte, tra Panamnesi e Pe-
piclesi. Si ha dunque lo schema che abbiamo presentato per
primo, ma in cui 4) e 5) sono invertiti:
1) primo rendimento di grazie che porta al Sanctus;
2) secondo rendimento di grazie che porta al racconto
delPistituzione;
3) anamnesi;
4) intercessioni e commemorazioni;
5) epiclesi;
6) dossologia finale.
Quando, tuttavia, si esamina il più antico testimone di que-
sto schema, Peucaristia detta degli Apostoli, o anche di Addai
e Mari, balza agli occhi che lo schema in questione è fittizio
(18). È stato ottenuto, e d'altronde molto imperfettamente, con
Paggiunta di elementi che sono visibilmente di epoche differen-
ti, a prezzo del frazionamento di una preghiera o di un segui-
to di preghiere più antiche. Queste, però, a motivo probabil-
mente della loro remota antichità, sono state quasi interamente
rispettate nel loro tenore originale. Si può dire che le due par-
ti, separate artificialmente, tendono sempre a ricongiungersi al

(18) Cf E. C. Ratcliff, The Original Form of the Anaphora of Ad-


dai et Mari. A suggestion, in JThS 30 (1929) 23ss.

155
di là degli elementi avventizi. Basta far cadere questi ultimi/ per
veder rispuntare una preghiera che innegabilmente è di una so-
la origine. E tutto fa pensare che questa preghiera sia la più
antica composizione eucaristica cristiana che possiamo oggi
avere a nostra disposizione. Essa rappresenta un modello ben
diverso da quello delle preghiere dell'epoca patristica. In com-
penso, quantunque tutte le sue espressioni siano cristiane, ri-
mane modellata esattamente sullo schema delle preghiere giu-
daiche per l'ultimo calice del pasto.
Vediamo innanzi tutto come l'anafora primitiva incastonata
nella liturgia di Addai e Mari sorge, con tutta probabilità, dalla
composizione alterata che porta attualmente questo nome nei
libri liturgici dei nestoriani, dei caldei cattolici e di tutti coloro
che ne sono stati influenzati, nel Malabar e altrove.
Ecco il testo dato dal Messale nestoriano di Urmia:
« I. È cosa degna che tutte le bocche glorifichino, che
tutte le voci confessino, che tutte le creature venerino e
celebrino il Nome adorabile e glorioso della Santissima
Trinità, del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, che
ha creato il mondo con la sua grazia e i suoi abitanti con
la sua clemenza, che nella sua misericordia ha salvato gli
uomini e ha concesso ai mortali un immenso beneficio.
II. Migliaia e migliaia di spiriti celesti ti benedicono e ti
adorano, miriadi e miriadi delFesercito dei servi del fuoco
e dello spirito cantano il tuo Nome. Con i Cherubini e i
Serafini, essi glorificano e adorano la tua grandezza, pro-
clamano incessantemente, rispondendosi !,un Paltro: ‫״‬San-
to, santo, santo è il Signore Sabaoth; cieli e terra sono
pieni della sua magnificenza, della sua presenza, dello
splendore della sua grandezza. Osanna nell'alto dei cieli,
Osanna al Figlio di David! Benedetto colui che viene e
verrà nel nome del Signore. Osanna nell'alto dei cieli!‫״‬.
III. [E con le sue potenze celesti] noi ti lodiamo, Signore,
noi, tuoi servi fragili, deboli e infermi, perché tu ci hai
fatto una grazia immensa che non possiamo ripagare. Ti
sei rivestito della nostra umanità, sei sceso con la tua di‫־‬
vinità, hai elevato la nostra bassezza, rialzato la nostra
prostrazione, risuscitato la nostra carne mortale, perdonato
le nostre colpe, cancellato il nostro peccato; hai giustifi‫־‬
cato la colpevolezza dei nostri peccati; hai illuminato la
nostra intelligenza, hai vinto i nostri nemici, hai onorato
la nostra piccolezza. Signore, Dio nostro, per la sovrab-

156
bondanza della tua grazia ti rispondiamo col canto, la
gloria, la confessione e !,adorazione, ora e sempre e nei
secoli dei secoli. Amen.
IV. Signore, Dio potente, ricevi questa oblazione per tutta
la santa Chiesa cattolica, e per tutti i padri pii e giusti che
sono stati graditi ai tuoi occhi, e per tutti i profeti e
apostoli, per tutti i martiri e confessori, per tutti quelli
che piangono e sono afflitti, per tutti coloro che sono poveri
e maltrattati, deboli e perseguitati, e per tutti i defunti che
se ne sono andati e ci hanno lasciati, per questo popolo
che attende e spera la tua misericordia, e per la mia inco‫־‬
stanza e la mia debolezza.
V. Tu, o Signore, a causa delle tue numerose misericordie
ineffabili, fai buona e favorevole memoria di tutti i padri
pii e giusti che sono stati graditi ai tuoi occhi, nella com-
memorazione del corpo e del sangue del tuo Cristo, che
noi ti offriamo sul tuo altare puro e santo, come tu ce
l'hai insegnato, e donaci la tua tranquillità e la tua pace,
tutti i giorni del secolo.
VI. Signore, nostro Dio, donaci la tua tranquillità e la
tua pace tutti i giorni del secolo, affinché tutti gli abitanti
della terra sappiano che tu sei il solo vero Dio Padre, e
che tu hai mandato Gesù Cristo, tuo Figlio prediletto. E
lui stesso, Signore e Dio, è venuto e ci ha istruiti in ogni
purezza e santità.
VII. [Fa’ memoria] dei profeti, apostoli, martiri, confes‫־‬
sori, vescovi, dottori, sacerdoti, diaconi e di tutti i figli
della santa Chiesa cattolica che sono stati contrassegnati
col segno di vita del santo battesimo.
Vili. E anche noi, Signore, tuoi servi fragili, deboli e
infermi, uniti nel tuo Nome, stiamo in quest'ora alla tua
presenza, riceviamo dalla tradizione l'esempio (il sacra‫־‬
mento) che viene da te. Con gioia, glorifichiamo, esaltia‫־‬
mo, commemoriamo e compiamo questo grande, temibile,
santo, vivo e divino mistero della passione, della morte,
della sepoltura e della risurrezione di nostro Signore e
Salvatore Gesù Cristo.
IX. Venga, Signore, il tuo Spirito Santo, riposi su questa
offerta dei tuoi servi, la benedica e la santifichi, ci ottenga
il perdono delle offese, la remissione dei peccati, e la
grande speranza della risurrezione dai morti, la vita nuova
nel regno dei cieli, insieme con tutti quelli che ti furono
graditi.

157
X. Per la grande opera immensa e meravigliosa, com«
piuta tra di noi, con voce spiegata, con viso scoperto, ti
rendiamo grazie e ti lodiamo incessantemente nella tua
Chiesa, riscattata dal sangue prezioso del tuo Cristo. Rj.
spondiamo col canto, la gloria, la confessione e Padora«
zione al tuo Nome vivo, santo, vivificante, ora e sempre
e nei secoli dei secoli. Amen » (19).
Il grande liturgista anglicano E. C. Ratcliff, che ha consacra-
to a questo testo uno degli studi più approfonditi che siano sta-
ti fatti su di esso, sottolinea innanzi tutto l’assenza del raccon-
to delPistituzione. Che ci sia qui un esempio unico di soprav-
vivenza di un tipo primitivo di preghiera eucaristica in cui
queste parole non figuravano, come nella Didachè? Inoltre, tut-
to il paragrafo II, con il Sanctus e le prime parole del paragra-
fo III (messe tra parentesi, e che d’altronde non si trovano
nelPanafora maronita di san Pietro, detta Sharar, che incorpora
una buona parte del nostro testo), interrompe il seguito dello
svolgimento. Ridiventa continuo invece, se si accosta il para-
grafo III al paragrafo I.
La stessa cosa va detta per il paragrafo IX, che si può con-
siderare come un’epiclesi (almeno in senso largo): notiamo in-
fatti che, se chiede la discesa dello Spirito Santo sull’offerta, non
chiede esplicitamente la consacrazione del pane e del vino nel
corpo e sangue di Cristo. Se lo si conserva, l’inizio del para-
grafo X rimane come sospeso per aria. Se invece lo si soppri-
me, ci si accorge che questo paragrafo X si connette diretta-
mente con la fine del paragrafo V ili, che costituisce l’anam-
nesi.
Risulta così che il Sanctus e ciò che vi si connette, da una
parte, e l’epiclesi, dall’altra, probabilmente devono essere con-
siderati come aggiunte posteriori.
La stessa cosa sembra vera per i paragrafi IV-VII. Le in-
tercessioni non solo vi appaiono sotto una forma che, secondo
tutti i testi paralleli che abbiamo, pare tardiva, ma risultano an-
che non coerenti. Specialmente il paragrafo VII rimane sospe-

(19) B. Botte, Problèmes de Vanaphore syrienne des apòtres Addai


et Mari, in OrSyr 10/1 (1965) 89ss. Il testo è tradotto alle pp. 91ss, se-
condo il Missale Urmiense, Roma 1906. - PE 375380‫ ;־‬EEFL nn. 509515‫;־‬
LdC 415ss; testo italiano dei paragrafi I-III e VIII-X, in H amman, 144‫־‬
145.

158
s0 per aria, nonostante l’aggiunta di parole che Renaudot sup-
pone mancanti e che abbiamo messo tra parentesi: « Fa’ me-
moria ».
Una volta compiute queste soppressioni, ci si trova di fron-
te a una preghiera con uno sviluppo abbastanza bello, in tre
paragrafi. Dio vi è celebrato: 1) per la sua opera creatrice; 2)
per la sua opera redentrice compiuta nel Cristo; 3) gli è pre-
sentato il memoriale di questa redenzione, e su questa base gli
è resa gloria.
Dom Botte però ha fatto su questa ricostruzione una serie di
osservazioni critiche che non si possono trascurare (20).
Egli è pienamente d'accordo con Ratcliff per la soppressio-
ne di tutto il paragrafo II, incluso il Sanctus. Dubita, però, che
la mancanza delle parole dell'istituzione sia un fatto origina-
rio. La sua obiezione poggia sul fatto che l'inizio dell'anam-
nesi - paragrafo V ili: «E anche noi, Signore, tuoi servi fra-
gili, deboli e infermi, uniti nel tuo Nome... » - rimane pur sem-
pre per aria come prima, anche dopo le soppressioni suggerite
da Ratcliff. Questo inizio sembra dover essere postulato da una
frase precedente, ma non lo è dalla conclusione del paragrafo
III, come non lo è da quella del paragrafo VII.
Gli stessi nestoriani che fanno sempre uso dell'anafora di
Addai e Mari, ne conoscono pure altre due, che attribuiscono
rispettivamente a Nestorio e a Teodoro di Mopsuestia. Ora, l'ul-
tima comporta un'anamnesi che presenta strette analogie con
quella di Addai e Mari (proprio come per le preghiere di in-
tercessione che oggi comunque si trovano tanto nell'una come
nell'altra, sotto forme evidentemente affini). L'anafora di Teo-
doro ha, però, le parole dell’istituzione, in un testo abbastan-
za particolare che bisogna citare:
« ... Lui che, con i suoi apostoli, nella notte in cui fu
tradito, celebrò questo mistero (in sirìaco: rozo) grande,
tremendo, santo e divino: prendendo del pane, lo bene-
disse e lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli e disse: Questo
è il mio corpo che è spezzato per voi, in remissione dei
peccati. Allo stesso modo, il calice: rese grazie e lo diede
loro e disse: Questo è il mio sangue del Nuovo Testa-
mento, che è sparso per molti in remissione dei peccati.

(20) Si aggiunga airarticolo citato nella nota precedente, L ’anaphore


chaldéenne des Apótres, in OrChrP 15 (1949) 259ss.

159
Prendete dunque, voi tutti, mangiate di questo pane e
bevete di questo calice e fate così tutte le volte che sarete
radunati in memoria di me» (21).
Se accostiamo questo testo all'anamnesi di Addai e Mari, il
suo inizio: « E anche noi..., uniti nel tuo Nome... », appare co‫״‬
me un'eco diretta a concludere le parole dell'istituzione espres-
se in una forma simile a quella riportata da Teodoro di Mop>
suestia. Questa impressione è confermata quando si osserva
più avanti, nell'anamnesi, quest'altra frase: « Compiamo questo
grande, temibile, santo, vivo e divino mistero ». Esse sembra-
no un'altra eco dello stesso racconto, questa volta della sua
prima frase. La coincidenza diventa indiscutibile quando si no-
ta, sempre stando a Dom Botte, che i commentatori antichi del-
la liturgia siriaca sono a conoscenza di una formulazione delle
parole dell'istituzione che doveva terminare, non come in Teo-
doro con: « tutte le volte che sarete radunati in memoria di
me », bensì con: « tutte le volte che sarete radunati nel mio
Nome »; il che si ricollega esattamente con la formula d'anam-
nesi di Addai e Mari.
Bisogna riconoscere che questa dimostrazione sembra così
luminosa che è quasi irrefutabile. Di fatto, dopo un buon nu-
mero di anni che Dom Botte l'ha presentata, nessuno si è ar-
rischiato di contestarla. Si dirà forse: ma se in origine le parole
dell'istituzione erano nel nostro testo, come hanno potuto scom-
parire in seguito? Dom Botte replica, con ragione, che i mano-
scritti liturgici in cui queste parole non figurano sono innume‫־‬
revoli, anche nei casi in cui non vi sia il minimo dubbio, se-
condo i commentatori contemporanei, sulla loro presenza ob-
bligata nella celebrazione. Infatti è il caso, in Occidente, di tutti
i testimoni della liturgia gallicana, di tutti i testimoni più anti-
chi della liturgia mozarabica e, in Oriente, di numerosi mano-
scritti siriaci, in particolare presso i maroniti. Si doveva sem-
plicemente supporre che ogni officiante, in un determinato ri-
to, sapesse a memoria la formula abituale.
Ma passiamo all'epiclesi. Senza negare l'esattezza dell'os-
servazione fatta dal Ratcliff - che la sua introduzione spezze‫־‬

(21) Cf E. Renaudot, Liturgiarum orientalium collectio, t. II, Paris


1712, p. 6 1 9 . - PE 383.

160
rebbe cioè una connessione evidente tra la fine dell·VI II e Tini-
zio del X paragrafo -, Dom Botte fa osservare, a buon diritto,
che anch’essa è di fattura arcaica, e d’altra parte i parallelismi
della sua struttura attestano che è stata composta direttamente
in siriaco e non può essere una traduzione posterióre di qualche
originale greco. Ci si permetta di far osservare, da parte nostra,
che la soppressione totale del paragrafo IX farebbe scomparire
dal testo primitivo un elemento che si trova nelle preghiere giu-
daiche del pasto, precisamente tra !,anamnesi nel senso più
stretto (il richiamo del memoriale) e la dossologia finale. Si
tratta cioè dello scopo per cui il memoriale è presentato a Dio:
perché dia il compimento finale, nel suo popolo, ai magnalia
commemorati. Ora, è proprio ciò che si ritrova, se lasciamo sem-
plicemente cadere l’inizio del paragrafo IX, cioè !,invocazione
esplicita della discesa dello Spirito.
Abbiamo allora un testo in cui lo svolgimento dei temi è
esattamente quello della parte corrispondente alle beràkót del
pasto:
«... Commemoriamo e compiamo questo grande, temibile,
santo, vivo e divino mistero della passione, della morte,
della sepoltura e della risurrezione di nostro Signore e
Salvatore Gesù Cristo; ci ottenga il perdono delle offese,
la remissione dei peccati e la grande speranza della risur-
rezione dai morti, la vita nuova nel regno dei cieli, insie-
me con tutti quelli che ti furono graditi ».
In queste condizioni, il pensiero del memoriale non è in-
terrotto dall’invocazione dello Spirito, anzi è come sot-
teso a tutta la conclusione del discorso. Ponendo la speranza
escatologica in rapporto diretto con la passione e la glorificazio-
ne del Salvatore, il paragrafo X non dà più !,impressione di
essere staccato: « per la grande opera » si applica perfetta-
mente all’insieme della preghiera precedente.
Questo, nello stesso tempo, risponde a un’ultima obiezione
di Dom Botte a Ratcliff: la mancanza di ogni elemento di in-
tercessione in un’anafora antica sarebbe un fatto unico, diffi-
cile da spiegare. Una volta, però, che sia restituita la conclu-
sione del paragrafo IX al testo originale, non è più il caso di
lasciarvi qualcosa delle altre intercessioni. Ne riparleremo
quando arriveremo agli sviluppi dell’eucaristia nel IV secolo,
per riconoscere, d’altronde - ancora una volta seguendo Dom

161
Botte - la relativa antichità di questo stesso elemento così co»
me si presenta nello stato attuale della nostra anafora.
Sembra che si debba fare un'ultima osservazione prima di
proporre la ricostruzione del testo primitivo alla quale si arri-
va. AlPinizio del paragrafo I, « il Nome adorabile e glorioso
della Santissima Trinità, del Padre, del Figlio e dello Spirito
Santo... » sembra un'aggiunta che non può essere anteriore di
molto alla fine del IV secolo. L'espressione « Nome della Tri-
nità » è d'altra parte priva di senso. Il parallelismo con la con-
clusione (paragrafo X) lascia supporre che il testo originale,
all'inizio come alla fine, menzionasse senz'altro: « il Nome ado-
rabile e glorioso che ha creato il mondo con la sua grazia, ecc. ».
Compiuta quest'ultima soppressione, l’inizio e la fine della pre-
ghiera diventano pienamente coerenti. Essi forniscono, sem-
bra, un esempio in più dell'uso familiare ai primi cristiani di
questa espressione: « il Nome divino » per indicare la perso-
na stessa di Gesù (22). Il passaggio immediato dalla preghiera
eucaristica a un'invocazione diretta di Gesù si comprende allo-
ra molto meglio.
Ora possiamo cercare di presentare una ricostruzione della
forma originale della preghiera eucaristica di Addai e Mari. Met-
teremo in corsivo le parole dell'istituzione, la cui presenza, do-
po la dimostrazione di Dom Botte, sembra imporsi, ma la cui for-
ma esatta rimane materia di congettura:
« 1. È cosa degna che tutte le bocche glorifichino, che
tutte le voci confessino, che tutte le creature venerino e
celebrino il Nome adorabile e glorioso che con la sua
grazia ha creato il mondo e con la sua clemenza isuoi
abitanti, che nella sua misericordia ha salvato gli uomini
e ha concesso ai mortali un immenso beneficio.
2. Noi ti lodiamo, Signore, noi, tuoi servi fragili, deboli
e infermi, perché tu ci hai fatto una grazia immensa che
non possiamo ripagare. Ti sei rivestito della nostra urna-
nità, sei sceso con la tua divinità, hai elevato la nostra
bassezza, rialzato la nostra prostrazione, risuscitato la no-
stra carne mortale, perdonato le nostre colpe, cancellato
il nostro peccato; hai giustificato la colpevolezza dei nostri
peccati; hai illuminato la nostra intelligenza, hai vinto i
nostri nemici, hai onorato la nostra piccolezza. Signore,

(22) Cf sopra, pp. 126127‫־‬.

162
Dio nostro, per la sovrabbondanza della tua grazia ti
rispondiamo col canto, la gloria, la confessione e l'adora-
zione, ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen.
3. Nostro Signore Gesù Cristo, con i suoi apostoli, nella
notte in cui fu tradito, celebrò questo mistero grande, tre-
mendo, santo e divino: prendendo del pane, lo benedisse
e lo spezzò, lo diede ai suoi apostoli e disse: Questo è il
mio corpo che è spezzato per voi, in remissione dei pec-
cati. Allo stesso modo, [prendendo] il calice: rese grazie
e lo diede loro e disse: Questo è il mio sangue del Nuovo
Testamento, che è sparso per molti in remissione dei pec-
cati. Prendete dunque, voi tutti, mangiate di questo pane e
bevete di questo calice e fate così tutte le volte che sarete
radunati nel mio Nome. E anche noi, Signore, tuoi servi
fragili, deboli e infermi, uniti nel tuo Nome, stiamo in
quest'ora alla tua presenza, riceviamo dalla tradizione l'esem-
pio (il sacramento) che viene da te. Con gioia, glori-
fichiamo, esaltiamo, commemoriamo e compiamo questo
grande, temibile, santo, vivo e divino mistero della pas-
sione, della morte, della sepoltura e della risurrezione di
nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo; ci ottenga il per-
dono delle offese, la remissione dei peccati e la grande spe-
ranza della risurrezione dai morti, la vita nuova nel regno
dei cieli, insieme con tutti quelli che ti furono graditi. Per
la grande opera (in siriaco: indabrànuthà) immensa e me-
ravigliosa, compiuta tra di noi, con voce spiegata, con
viso scoperto, ti rendiamo grazie e ti lodiamo incessante-
mente nella tua Chiesa, riscattata dal sangue prezioso del
tuo Cristo. Rispondiamo col canto, la gloria, la confessione
e l'adorazione al tuo Nome vivo, santo, vivificante, ora e
sempre e nei secoli dei secoli. Amen ».
Ristabilita così in quella che doveva essere approssimati-
vamente la sua forma originale, questa preghiera si manifesta
chiaramente con un carattere ancora del tutto semitico. Non
porta alcuna traccia degli sviluppi teologici, anche anteriori
alParianesimo, che dovevano manifestarsi nel cristianesimo del-
le Chiese ellenizzate. Il modo con cui la dominano le nozioni
associate del Nome divino, identificato, sembra, col Cristo, e
dell'economia, cioè del disegno che ha trovato in lui la sua
realizzazione, ci riporta a quello che il p. Daniélou ha descritto
come la teologia giudeo-cristiana, la quale non è sopravvissuta
molto allo sviluppo della missione negli ambienti ellenistici.

163
Il modo con cui avviene il passaggio, a parecchie ripre-
se, dal Padre al Figlio, intorno a questa nozione del Nome di-
vino, costituisce una ulteriore prova di una teologia assai poco
sviluppata, come quella espressa dai discorsi e dalle preghiere
degli Atti degli Apostoli.
Le ridondanze che si osservano, il cumulo dei sinonimi ri-
chiamati dal parallelismo sono elementi già caratteristici della
preghiera giudaica. Il calco dei temi di quesfultima è impres-
stonante da un capo alFaltro. I due primi paragrafi, che sono an-
cora due preghiere ben distinte, trattano di volta in volta, nella
lode, della creazione e della preservazione, e poi della reden‫־‬
zione. Nel secondo, la menzione della « intelligenza » corrisponde
a quella della Torà e della « conoscenza ». Così pure, nella ter-
za preghiera, come proponiamo di ricostituirla, la presentazione
del « memoriale » da parte dei fedeli richiama in Dio il ricordo
inseparabile del Messia e di loro stessi; da lui si attende il com-
pimento definitivo in essi di ciò che costituisce Foggetto del me-
moriale, esattamente come nella preghiera giudaica. E, allo stes-
so modo, questa supplica ritorna alla lode nella dossologia fi-
naie.
Questa traduzione del memoriale appare molto primitiva
anche per il « typos », « Fesempio » come abbiamo tradotto
seguendo Dom Botte, ma si potrebbe benissimo dire anche « il
sacramento », poiché, dato da Dio e trasmesso dalla tradizione,
ci comunica evidentemente il « mistero » del Cristo che « glori-
fichiamo, esaltiamo, commemoriamo e celebriamo » (quesful-
tima parola si tradurrebbe forse più esattamente con « compia-
mo »).
L'aspetto però più primitivo di questa preghiera eucaristica
è che non vi si trova ancora nessuna formula sacrificale in sen-
so tecnico. Non si parla né di sacrificio, né di offerta. In com-
penso, è chiaro che la nozione di « memoriale », che ne è il
cuore, identificato esplicitamente sia col « mistero » del Christus
passus, sia con il « sacramento » che egli ci ha dato, conserva
tutto il ricco significato, così tipicamente giudaico, che Jeremias
ha messo bene in evidenza. Con questo « memoriale » possia-
mo invocare Dio affinché le sue gesta trovino in noi il loro com-
pimento, proprio come il memoriale, in quanto dato da Dio, le
mantiene per noi in attualità permanente. Così, il memoriale
eucaristico appare come !,equivalente del sacrificio, preso nel

16 4
senso più alto che aveva potuto darne l’Antico Testamento, in
quanto appare come il sacramento cristiano per eccellenza. Bi-
sognerà dunque aspettarsi di veder sorgere nell’anamnesi, come
costateremo presto, le prime formule esplicitamente sacrificali
deireucaristia. Esse non saranno altro che la traduzione, in un
linguaggio più immediatamente accessibile per i non-ebrei, di
tutto ciò che il memoriale giudaico implicava. Soprattutto a que-
sto punto della preghiera eucaristica la loro esplicitazione an-
drà di pari passo con una espressione sempre più formale della
celebrazione eucaristica in senso sacrificale come attualmente
la intendiamo; del resto, essa ci unisce alla Croce di Cristo, che
fin dairinizio ha imposto alla celebrazione questo carattere sa-
crificaie.
Conviene, a questo riguardo, chiarire il legame che esiste
tra l’anamnesi e il racconto dell’istituzione. In questa eucari-
stia di Addai e Mari - se Dom Botte, come crediamo, ha ra-
gione - vediamo già incorporato nella preghiera eucaristica
questo racconto, il quale, con la sua conclusione, dà il via alla
formulazione dell’anamnesi. Lo stesso Dom Botte non esita a
fare proprio il principio di Lietzmann (23): «Niente anamnesi
senza racconto dell’istituzione ». Per parte nostra, saremmo piut-
tosto portati a dire: « Niente racconto dell’istituzione senza
anamnesi ». Abbiamo visto, infatti - e lo possiamo ora verifi-
care - che l’anamnesi cristiana ha la sua preistoria e la sua sor-
gente nel « memoriale », formulato nella prima parte della ter‫־‬
za delle beràkòt finali dei pasti giudaici nei giorni di festa. È
chiaro, però, che questo « memoriale », nelle preghiere giudai-
che, non si collegava direttamente con nessun racconto di que-
sto genere. E come le formule della Bidachè sembrano dimo-
strarlo molto bene, non vi si trovava neppure alle origini dell’eu-
caristia cristiana, almeno in questo posto. Non c’è da meravi‫־‬
gliarsene, poiché sembra che nemmeno Gesù abbia cercato di
incorporare nelle beràkòt ciò che noi chiamiamo le parole del-
l’istituzione: egli deve aver lasciato immutate le beràkòt. Tutta-
via pare che Jeremias abbia ragione quando spiega le diver-
genze di particolari nei racconti dell’istituzione che il Nuovo
Testamento ci ha trasmesso con il fatto che si trattava già di

(23) Cf B. Botte, Problèmes de Vanamnèse, in JEH 5 (1954) 16ls;


H. Lietzmann, Messe und Herrenmahl, Berlin 31955, p. 50.

165
formulazioni liturgiche locali differenti. Però, in origine - al-
meno sembra - quando !,eucaristia costituiva ancora un tut-
funo con il pasto completo di comunità, tali formulazioni han-
no dovuto essere recitate, come lo era prima di ciò la haggàdà
della Pasqua, durante il pasto e come sua spiegazione. Quando
poi !,eucaristia si è staccata dal pasto, la benedizione iniziale
del pane è venuta a trovarsi confusa con la prima delle tre
beràkòt sulPultimo calice, perché tutte e due avevano lo stesso
oggetto: una benedizione per il cibo, che dava !,occasione per
una benedizione più generale per la creazione e per la preser‫־‬
vazione della vita. Allora, pensiamo, la nuova haggàdà del pa-
sto sacro rinnovato si è trovata incorporata nella preghiera eu-
caristica. È venuta con tutta naturalezza a saldarsi con le pa-
role delPanamnesi, nella terza benedizione, perché ne forniva
la giustificazione e perché le parole: « Fate questo in memoria-
le di me » vi erano direttamente postulate dalla formulazione
di tale memoriale in questa parte della preghiera. Di ciò si può
trovare una duplice testimonianza nella tradizione liturgica.
Proprio dove si organizzerà e si ridistribuirà sistematicamente
tutta la preghiera eucaristica, sussisteranno molti esempi in cui
il racconto delPultima Cena non sarà incorporato al ricordo
dettagliato, nella lode per la redenzione, dei mirabilia di Cristo,
ma sarà ripreso dopo la menzione della sua morte e della sua
glorificazione, come aggancio per !,anamnesi. E altrove, parti-
colarmente in Egitto, il racconto sorgerà non prima che comin-
ci !,anamnèsi propriamente detta, ma alFinterno di essa. Anche
questo può spiegare il fatto, a prima vista così sconcertante,
che c'è una liturgia eucaristica (quella di san Giovanni Criso-
storno) in cui le parole: « Fate questo... », sono semplicemen-
te scomparse dal racconto. È il caso più che mai di riconoscere
!,esattezza delFosservazione del de Vaux: « Non c'è bisogno
di recitare una rubrica quando la si esegue ».

Sopravvivenza del medesimo tipo arcaico


nella « Tradizione apostolica » di Ippolito
La testimonianza della liturgia di Addai e Mari circa un ti-
po primitivo di eucaristia - direttamente ed esclusivamente ri-
calcato sulle preghiere dei pasti giudaici - , si trova corroborata
da un gruppo di altri testi. Nessuno di essi sembra così antico.

166
Tutti però sono testimoni della sussistenza, prolungata per un
tempo più o meno lungo a seconda dei luoghi, di una preghiera
eucaristica il cui schema si era elaborato nelTepoca in cui Leu-
caristia si celebrava durante un pasto comunitario, senza alcun
legame diretto con Tufficio di letture e preghiere della Sinago-
ga o della Chiesa primitiva.
Il più interessante di questi testi è la preghiera eucaristica
che il documento generalmente noto come La Tradizione apo-
stolica, e attribuito a sant’Ippolito, consiglia a un vescovo neo-
consacrato di utilizzare.
I problemi posti da questo documento e dal suo autore sono
terribilmente ingarbugliati e particolarmente spinosi. Qui di-
remo solo quanto è necessario per una lettura intelligente del
testo che ci interessa, riservandoci di ritornare in seguito sul
suo influsso ulteriore e soprattutto sul suo rapporto con la tra-
dizione liturgica propriamente romana.
Se non si vuol cadere - riguardo al testo e alla sua interpre-
tazione - in ragionamenti di circolo vizioso, nati da inconsce
petizioni di principio, bisogna cominciare col distinguere quat-
tro questioni che si pongono nei suoi riguardi. Per quanto sia-
no legate fra di loro, e tanto più perché lo sono, è importante
non confonderle.
La prima è la costituzione del testo, sia di tutto il docu-
mento, sia - ed è quello che qui ci interessa primariamente -
della preghiera eucaristica che vi si trova. Di questo testo che
dovette essere redatto in greco, abbiamo soltanto traduzioni, e
queste traduzioni sono tutte incorporate in altri documenti, in
cui non è sempre facile distinguere ciò che è citazione da ciò
che è adattamento. Di qui il titolo di prudente modestia che
Dom Botte ha dato ancora nell ,ultima edizione che ha fatto:
« Saggio di ricostruzione » (24).
La seconda questione è quella del titolo. Cosa strana: la
maggior parte dei commentatori moderni, per non dire tutti,
sembrano dimenticare che anch’esso non è altro che un’ipote-
si, dipendente dalla risposta da darsi alla terza questione.
Questa riguarda Tautore del nostro testo. Anche qui tutti so-
no d’accordo: si tratta di un certo Ippolito, su cui la tradizione
è sufficientemente unanime per ritenere irragionevole qualsiasi

(24) Cf nota 1 di questo capitolo.

167
dubbio. A questo punto, però, non abbiamo fatto altri passi in
avanti: infatti, né i moderni, né gli antichi sono d’accordo sulla
identificazione di questo Ippolito e, più in particolare, sulle ope‫־‬
re che gli si debbano attribuire.
Infine, anche se questo problema venisse risolto in modo in-
discutibile, rimarrebbe ancora l’ultima questione, che è forse
la più importante: fino a che punto ci troviamo di fronte a
un’opera personale? In quale misura essa riflette una tradizio-
ne locale particolare? E di quale tradizione si tratta?
Cerchiamo, se non di rispondere a ognuna di queste do-
mande, almeno di districare gli elementi principali che abbiamo
tra mano in vista di una soluzione.
Vediamo innanzi tutto come il nostro testo possa essere rico‫־‬
struito. Esso compare per la prima volta nell’edizione londine-
se del 1848, ad opera di H. Tattam, di una raccolta in lingua
copta boairica, che egli ebbe la malaugurata idea di intitolare
The Apostolical Constitutions (25). In realtà, si trattava sem-
plicemente di una testimonianza particolarmente interessante
della raccolta canonica del patriarcato di Alessandria, chiamata
Sinodos. Solo la terza parte era in rapporto con la raccolta de‫־‬
nominata Costituzioni apostoliche, di cui riportava in sintesi le
preghiere del libro V ili. La seconda parte conteneva un docu‫־‬
mento analogo, ma differente, che si ignorava ancora, e che si
chiamò Costituzione della Chiesa egiziana. Nel 1870, B. de
Haneberg, dal canto suo, pubblicava, a Monaco di Baviera, con
il titolo Canones S. Hippolyti Arabice e codicibus Romanis, un
testo arabo di quest’ultimo. Lo si doveva ritrovare anche in un
nuovo testo, questa volta in copto saidico, del Sinodos ales-
sandrino, edito da P. de Lagarde nel 1878; e poi in un testo
arabo e in uno etiopico, editi da G. Horner nel 1904. Nel frat-
tempo, nel 1899, I. Rahmani aveva pubblicato a Magonza un
testo siriaco - traduzione di un originale greco smarrito - del
Testamentum Domini nostri Jesu Christi, in cui vari frammenti
dello stesso documento (e specialmente della sua preghiera eu‫־‬
caristica) talvolta si trovavano riprodotti letteralmente, tal altra
erano oggetto di sviluppi personali abbondanti (26).
(25) H. T attam, The Apostolical Constitutions or Canons of the
Apostles in Coptic with an English Translation, London 1848.
(26) D ’altra parte, F. X. F unk , nel 1905, aveva unito alla sua edi-
zione delle Costituzioni apostoliche (voi. II, pp. 72ss) un altro testo gre-

168
Infine, nel 1900, E. Hauler pubblicava un palinsesto latino
di Verona, decifrato sotto un manoscritto delle Sentenze di Isi-
doro di Siviglia (27). Questo palinsesto riproduceva, insieme
ad altre raccolte canoniche antiche, una versione latina di que-
sto stesso testo di cui si avevano già varie versioni: boairica, sai-
dica, araba e etiopica, in diverse recensioni del Sinodos ales-
sandrino. C’è però da notare che in questo nuovo testimone il
testo più prezioso di tutti gli altri, risalente al secolo V, era ri‫־‬
ferito con un titolo oggi completamente cancellato e illeggibile.
Questo fatto ci porta direttamente alla nostra seconda que-
stione, cioè al titolo originale della raccolta, fino allora gene‫־‬
Talmente chiamata Costituzione della Chiesa egiziana per il so‫־‬
lo fatto che la si era trovata prima in diverse versioni del Sino-
dos alessandrino. Due studi, uno di E. Schwartz, pubblicato nel
1910, e l’altro di R. H. Connolly, nel 1916, hanno convinto
rinsieme degli studiosi moderni che tale raccolta era, in realtà,
la Tradizione apostolica ([,A]ποστολική παράδοσις), titolo che
figura in una lista di opere riprodotta sul piedestallo di una
statua anonima trovata a Roma nel secolo XVI (1551) e che,
dopo essere stata a lungo al Museo del Laterano, si trova oggi
ai piedi della scala che conduce alla Biblioteca vaticana (28).
Questa identificazione è resa probabile dal fatto che un prò-
logo della composizione in questione (che si trova sia nella
versione latina che in quella etiopica, e ha un parallelo nel li-
bro V ili delle Costituzioni apostoliche) annuncia che l’autore,

co che si è chiamato talvolta Costituzioni di Ippolito (Διατάξεις... διά


,Ιππολύτου), quantunque questo titolo sia dato, nel testo stesso, solo al-
la sua seconda parte (p. 77), che ora si chiama piuttosto Epitome (cioè
« riassunto ») delle Costituzioni apostoliche. In realtà, nella seconda
parte di questa raccolta, come preghiera per la consacrazione episcopa-
le, è riportato non il testo delle Costituzioni apostoliche, ma quello del-
!,ipotetica Costituzione della Chiesa egiziana, come Tabbiamo nella ver-
sione etiopica, corroborata dal palinsesto di Verona. Inoltre non fa che
prescrivere, come le altre fonti, per !,ordinazione del lettore, la conse-
gna del libro.
(27) E. H auler, Didascaliae apostolorum fragmenta Veronensia La-
tina. Accedunt Canonum qui dicuntur Apostolorum et Aegyptiorum re-
liquiae, Leipzig 1900.
(28) Cf E. Schwartz, Ueber die pseudoapostolischen Kirchenord-
nungen, Strasbourg 1910; R. H. Connolly, The So-Called Egyptian
Church Order and Derived Documents ( = Texts and Studies, VIII, 4),
Cambridge 1916.

169
dopo aver parlato dei carismi, esporrà ora la tradizione (non
precisa però: la tradizione apostolica). Ora per questo titolo,
sul piedestallo della statua, che segue immediatamente la men-
zione di un [π]ερί χαρισμάτων, la coincidenza è evidentemen-
te sorprendente. Non è tuttavia assolutamente dimostrativa se
non a partire dal momento in cui si ammette che il personaggio
anonimo rappresentato dalla statua, è questo Ippolito al quale
viene attribuito il nostro testo nella versione araba del Sinodos.
Quest'ultimo punto, d'altra parte, era prima generalmente
ammesso sia perché la statua era stata scoperta sulla via Tibur-
tina, in un luogo dove era stato sepolto e onorato un martire
di questo nome, sia perché si pensava di poter mettere in rela-
zione diverse altre opere pervenute fino a noi sotto lo stesso no-
me di Ippolito con l'uno o l'altro dei titoli che figurano sul
piedestallo.
Ma quand'anche si fosse arrivati qui, bisogna confessare
che si rimane ancora imbarazzati. Eusebio, che attribuisce set-
te opere ad Ippolito, e in particolare un computo sulla Pasqua,
che potrebbe corrispondere a quello menzionato sul piedestal-
lo della statua, sa soltanto che era vescovo, ma non sa dove
(29). San Girolamo, quantunque nel suo De viris illustribus
allunghi la lista di Eusebio e vi menzioni in particolare un
commento dei salmi e un trattato sulla risurrezione - che po-
irebbero corrispondere ad altri due titoli della statua - non ne
sa di più, se non che, secondo il contenuto di un'altra opera
che gli attribuisce, Ippolito avrebbe parlato una volta alla pre-
senza di Origene (30). Altrove, in una lettera al papa Damaso,
gli dà la qualifica di martire (31). Teodoreto, che cita Ippolito
parecchie volte, lo dice senz'altro vescovo e martire (32). Però
nessuno di questi autori sembra crederlo romano.
A partire dalla fine del secolo V, alcuni di coloro che men-
zionano ancora Ippolito gli attribuiscono invece una localizza-
zione ben determinata. Purtroppo, essi non sono d'accordo. Non
è il caso di dare molta importanza a quello che dice Gelasio,
secondo il quale sarebbe stato vescovo in Arabia: probabilmen-

(29) E usebio , Storia ecclesiastica, VI, 20-22.


(30) G irolamo, De viris illustribus, 61.
(31) Epistulae, 36,16; CSEL, I, ρ. 283, 7.
(32) T eodoreto, Eranistes, I, II, III; PG 83,85D.172C.284D.

170
te questa affermazione si fonda su una lettura di Eusebio troppo
rapida, da cui risulta un controsenso (33). Altri, a partire da
quel momento, lo dicono vescovo di Roma; mentre altri ancora
gli attribuiscono la sede di Porto, che non sembra essere esi-
stita se non in un'epoca molto più tardiva (34). Fozio invece,
che ne farà un discepolo di Ireneo, si astiene sempre dall'attri-
buirgli una localizzazione (35).
Nel secolo XIX, la scoperta dei Philosophumena (o Elen-
chos), attribuiti ad Ippolito (36) prima da Jacobi, poi da Bun-
sen, e infine da studiosi autorevoli come Doellinger, Volkmar
e Harnack, comporterà una revisione di tutte le ipotesi su Ip-
polito. Secondo il contenuto di quel testo, si farà di questo per-
sonaggio un sacerdote romano, in difficoltà col papa Zefirino,
e poi per qualche tempo antipapa contro Callisto, suo successo-
re. Si suppone poi riconciliato con Ponziano, il secondo sue-
cessore di Callisto, prima del loro comune martirio, poiché, mal-
grado tutto, doveva finire per figurare nella lista dei martiri ve-
nerati a Roma.
Tutta questa delicata costruzione, in cui molti elementi resta-
no allo stato di semplici congetture, è stata vigorosamente scos-
sa da una tesi sostenuta da P. Nautin nel 1947 (37). Secondo
lui, il Frammento contro Noeto, che sembra sicuramente di Ip-
polito su testimonianza di Teodoreto, avrebbe ripreso alcuni
elementi delYElenchos. Ma questa stessa utilizzazione atteste-
rebbe che le due opere hanno due autori diversi, sia per la teo-
logia, il metodo eresiologico, la formazione mentale, come pure
per lo stile. D'altra parte, siccome YElenchos attesta che il suo
autore è anche quello di un trattato Su VUniverso - titolo anco-
ra menzionato nel catalogo della statua - , si dovrebbe conclu-
dere che questa statua non sarebbe quella di Ippolito, ma di

(33) E. Schwartz, Publizistische Sammlungen zum acacianischen


Schisma ( = Abhandlungen der bayerischen Akademie der Wissen-
schaften. Philosophisch-historische Abteilung, 10), Mimchen 1934, p.
96, 28.
(34) Cf P. N autin , Hippolyte et Josipe, Paris 1947, p. 16.
(35) Fozio, Bibliotheca, 121; PG 103,401.
(36) Origenis Philosophumena sive omnium haeresium refutatio. E
codice Pansino primum edit B. M iller, Oxford 1851 (cf B. Botte,
La Tradition apostolique..., op. cit., p. XII).
(37) Si veda nota 34.

171
un altro personaggio cui spetterebbero le qualifiche di romano
e di antipapa. Il Nautin, basandosi in particolare su una notizia
di Fozio che attribuisce un Su l’Universo a « Giuseppe », pen‫־‬
sa che si tratti di una confusione di nomi e che l’antipapa ro-
mano fosse di fatto un certo Giosippo (Ίώσιπος, nome che Fozio
dichiara di trovare nei manoscritti, ma che attribuisce a un er-
rore del copista).
In questo caso, Ippolito resterebbe Fautore della nostra rac‫־‬
colta, come pure di tutta una serie di opere che Fantichità gli
attribuisce e che presentano, con questa raccolta, delle evidenti
parentele di stile e di idee. Ma non vi sarebbe più alcuna ra-
gione di farne un romano, e bisognerebbe rassegnarsi a vedere
in lui qualche vescovo, probabilmente orientale, non meglio de-
finibile. Il punto più debole di questa nuova teoria è che biso-
gnerebbe comunque attribuire a questo Ippolito almeno due trat-
tati che recano i titoli: Sui carismi e Tradizione apostolica che
si susseguono proprio sul piedestallo della statua delFipotetico
Giosippo, per non dir nulla degli altri scritti che possono cor-
rispondere alla stessa lista. Semplice coincidenza, replica il
Nautin. Ma Dom B. Capelle, da una parte, per lo stile delYElen-
chos e del Frammento che il Nautin separa, Dom Botte dalFal-
tra, per il loro contenuto, sembrano aver dimostrato che gli ar-
gomenti di Nautin non sono poi così apodittici come potrebbero
sembrare a prima vista (38). La coincidenza, almeno sconcertan-
te, tra i due titoli consecutivi e il contenuto di due opere col-
legate, che lo stesso Nautin attribuisce senza alcuna esitazio-
ne ad Ippolito, a cui si aggiunge il luogo in cui la statua fu
scoperta, non sembrano dunque, soprattutto a Dom Botte, affai-
to privi di forza probante a favore delFunicità di autore. Per-
ciò sostiene:
« 1) L'autore della Tradizione apostolica [intendiamo
qui: la nostra raccolta] è veramente il titolare della statua
romana.
2) Questo autore viveva a Roma e godeva di una certa
considerazione, poiché gli avevano eretto una statua.

(38) Cf B. Botte, Note sur Vauteur du « De Universo » attribué à


saint Hippolyte, in RThAM 18 (1951) 5ss; e B. Capelle, Hippolyte de
Rome, ibid. 17 (1950) 145ss; 19 (1952) 193ss.

172
3) Questo autore si chiamava Ippolito: gli indizi della
tradizione letteraria (Epitome, Canoni di Ippolito) sono con-
cordi con i dati archeologici concernenti la statua.
4) La posizione equivoca di Ippolito, capo di uria comu-
nità dissidente, spiega le fluttuazioni della tradizione; ma si
tratta proprio del martire romano festeggiato il 13 agosto
insieme a papa Ponziano » (39).
Ci pare che tutto questo poggi ancora su troppe congettu-
re, probabili o semplicemente possibili, e che sollevi troppe dif-
ficoltà risolte solo imperfettamente perché si possa ritenere co-
me dimostrato. Ci sembra, tuttavia, che sia almeno Pipotesi più
verosimile che si possa fare finora.
Questo però anche se lo si ammette, non basta, per risolve-
re la questione che qui ci interessa di più. Il documento, al qua-
le continueremo a dare il titolo di Tradizione apostolica e che
siamo ancora disposti ad attribuire a un certo Ippolito, prete ro-
mano e, per qualche tempo, antipapa, dev'essere ritenuto perciò
come un semplice riflesso della liturgia romana dell'epoca? O
rappresenta piuttosto concezioni proprie del suo autore? E, in
questo caso, da dove le avrebbe attinte? Dom Botte, nella prima
edizione che aveva preparato a suo tempo per la collana « Sour-
ces chrétiennes », si dimostrava propenso per la risposta affer-
mativa. Il nostro documento sarebbe tipicamente romano per il
suo contenuto e per il suo stile, e attesterebbe pertanto la ro-
manità pura del suo autore riconosciuto (40).
Nella sua nuova edizione, usa termini che appaiono più sfu-
mati. Dopo le righe che abbiamo già citato, egli scrive: « Pos-
siamo dunque considerare la Tradizione apostolica come uno
scritto romano. Ciò significa allora che rappresenta esattamen-
te la disciplina e la liturgia di Roma nel III secolo? Bisogna
guardarsi dalle posizioni troppo rigide e dal commettere un
anacronismo. Non si può fare della Tradizione l'equivalente, nel
III secolo, di ciò che sarà il Sacramentario gregoriano alla fine
del VI. Al tempo di san Gregorio, la liturgia romana ha preso
la sua forma quasi definitiva. Nel III secolo, si è ancora nel
momento in cui le prime liturgie si organizzano. Non si è anco-

(39) B. Botte, La Tradition apostolique..., op. cit., ρ. XIV.


(40) H ippolyte de R ome, La Tradition apostolique { = Sources
chrétiennes, 11), Paris 1946, pp. 9 e 24.

173
ra superato lo stadio dell’impiOvvisazione, e Ippolito dà le sue
preghiere come modelli e non come formule fisse. D’altra parte,
non è possibile che, scrivendo a Roma, presenti come vera tra-
dizione elementi che non avrebbero nulla a vedere con gli usi
romani. Probabilmente, ha precisato certi punti di sua auto-
rità. Però, nell’insieme, si ha il diritto di pensare che la Tradì-
zione rappresenti davvero la disciplina romana all’inizio del se-
colo III » (41).
È inutile sottolineare che, in questo contesto, « lo stadio
dell’improvvisazione », il « momento in cui si organizzano le
prime liturgie », sono espressioni che non bisogna prendere
troppo alla lettera: altrimenti, come si potrebbe ritrovare, in un
simile momento, in un simile stadio, « gli usi romani », « la di-
sciplina romana dell’inizio del secolo III »?
La questione che invece non si può evitare è di sapere in
quale misura Ippolito, effettivamente, per il fatto che scriveva
a Roma - ammesso che sia così - non poteva presentarvi « co-
me vera tradizione certe cose che non avrebbero nulla a vede-
re con gli usi romani ». Precisamente, se l’autore di ciò che noi
crediamo essere la Tradizione apostolica è anche quello del-
YElenchos - come sostiene Dom Botte - sembra certo che egli
non si faceva scrupoli del genere in altri campi, e che proprio
per questo ha potuto divenire un antipapa. La teologia trinità-
ria comune a Roma, e che i papi del suo tempo non avevano
certamente inventato, gli sembrava una grossolana eresia (42).
Che, con l’approvazione della Chiesa, si potessero contrarre ma-
trimoni tra liberi e schiavi, gli sembrava una cosa abominevo-
le: era uno scandalo incomprensibile per un romano, fosse egli
cristiano o pagano (43). Infine, che la penitenza vi fosse prati-
caia con certe mitigazioni che sembrano proprie di una tradi-
zione locale pressoché costante, era per lui praticamente inam-
missibile (44). Dopo di ciò, non ci sarebbe molto da meravi-
gliarsi se la liturgia del posto gli dava l’impressione di essere
altrettanto intollerabile. Siccome le liturgie che vedeva cele-
brare dove si trovava gli dispiacevano quanto il resto, sembra

(41) B. Botte, La Tradition apostolique ..., op. cit., ρ. XIV.


(42) Cf Philosophumena, 9, 12.
(43) Ibid.
(44) Ibid.

174
che proprio per questo abbia creduto necessario produrne una
a suo modo.
Che cosa ci dice, infatti, su questo punto?
« Ora, mossi dalla carità verso tutti i santi, siamo giunti
a)!,essenziale della tradizione che conviene alle Chiese,
affinché coloro che sono bene istruiti conservino la tra-
dizione che è rimasta fino ad ora, seguendo !,esposizione
che ne facciamo, e che, prendendone conoscenza, siano
rinsaldati - a causa della caduta o dell'errore che è avve-
nuto recentemente per ignoranza, e [a causa] degli igno-
ranti - dato che lo Spirito Santo conferisce a coloro che
hanno una fede retta la grazia perfetta, affinché sappiano
come devono insegnare e conservare tutte [queste] cose
coloro che sono a capo della Chiesa » (45).
È probabile che prenda qui di mira quegli stessi (Zefìrino,
Callisto e i loro fedeli) che attacca nominatamente altrove. E di
conseguenza sembra altrettanto chiaro, in questo caso come negli
altri, che i veri usi romani non sono i suoi, ma proprio quelli
dei suoi avversari.
Ciò vuol dire, allora, che egli inventa ciò che pretende im-
porre? È molto poco probabile, in questo conservatore ad 01‫־‬
tranza. Bisogna piuttosto credere che ritenga come soli legitti-
mi quegli usi - diversi da quelli che vede a Roma (e altrove) -
che ha conosciuto in un'altra regione meno evoluta, di cui egli
deve essere originario, e che cercherà di imporre, con la par-
venza di restaurazione, lì dove si trova. Quanti romani, in ge-
nere, particolarmente in quest'epoca, quanti cristiani e anche
ecclesiastici romani lo erano solo di adozione? Si può pensare
che Ippolito appartenesse a quest'ultima categoria.
Possiamo precisare la sua origine? Hanssens ha creduto di
sì e ha pensato che si dovesse vedere in lui un alessandrino di-
ventato sacerdote romano, che cercava di trasportare da Ales-
sandria a Roma le forme che giudicava ideali. Dom Botte, non
senza motivo, in questa ipotesi non vede che un romanzo (46).
Infatti, è esatto che in Ippolito non si può assolutamente trova-

(45) B. Botte, La Tradition apostolique..., op. cit., η. 1, ρρ. 2 5 ‫־‬.


(46) J. Μ. H anssens , La liturgie d’Hippolyte, Roma 21965. Cf il
giudizio di Dom Botte neirintroduzione a La Tradition apostolique..., op.
cit., p. XVI.

1 75
re nulla delle particolarità della liturgia alessandrina, o, più ge-
nericamente, del cristianesimo alessandrino. Se poi il Sinodos
dei patriarchi alessandrini ha accettato così facilmente le sue
elucubrazioni, questo non prova niente, perché tale raccolta,
come tutta la legislazione canonica e liturgica di Alessandria,
ammette ogni sorta di novità che sappiamo estranee, e soprattut-
to un’abbondanza di elementi siriaci.
Se fosse necessario propendere per una localizzazione par-
ticolare delle origini di Ippolito, forse è proprio la Siria che
presenterebbe maggiori titoli per rivendicarlo, come pensava
già Tillemont (47). I suoi pregiudizi di classe, il suo rigorismo
penitenziale, la sua teologia che subodora ovunque il sabellia-
nesimo, a cui bisogna aggiungere il suo sospetto sistematico a
riguardo dei filosofi, sono altrettante caratteristiche che lo op-
pongono ad Alessandria e che lo avvicinano alla Siria, e spe-
cialmente a certi suoi elementi più semitici. Ora, è esattamente
qui che dovevano sopravvivere più a lungo, come ci ha già di-
mostrato la liturgia di Addai e Mari, le forme liturgiche cristia-
ne più arcaiche...
Anche se si accettasse quello che rimane una semplice ipo-
tesi, non bisognerebbe comunque concludere che Ippolito, a Ro-
ma, abbia tentato di adattare una liturgia completamente estra-
nea. Ovunque il cristianesimo si era introdotto fin dalla prima
generazione cristiana, e più particolarmente negli ambienti lo-
cali giudaici, una liturgia di questo genere è certamente esistita
e, anche più di un secolo dopo, non se n’era potuto perdere com-
pletamente il ricordo. Vedremo che, di fatto, in Italia e altrove
se ne ritrova più di una traccia. È lecito, però, pensare che Ip-
polito, su questo punto come sugli altri, sia dovuto entrare in
conflitto con le autorità romane, praticando una politica decisa-
mente arcaizzante, ma che rimaneva innanzi tutto quella di un
provinciale arretrato. La sua liturgia non è una semplice « so-
pravvivenza », come quella di Addai e Mari. Vedremo che es-
sa tradisce Tartificio delle sue pretese originarie. Rimane, però,
probabile che queste stesse pretese siano state sostenute dal
provincialismo: attaccato a un passato che difendeva senza es-
sere pienamente capace di conservarlo intatto, ecco come ci ap-

(47) L. S. Lenain de T illemont, Mémoires pour servir à Uhistoire


ecclésiastique, t. Ili, Paris 1701, p. 674.

176
pare Ippolito, e come lo sono molti provinciali e come lo sa‫־‬
rebbero stati per eccellenza molti siriani.
Questa lunga introduzione era difficilmente evitabile. Forse
ci aiuterà a leggere !,eucaristia di Ippolito senza proiettarvi una
luce che non è la sua. È probabile che questa eucaristia ci inse-
gni poco su ciò che era divenuta la liturgia eucaristica, a Roma
e in molte altre parti, verso la metà del secolo III. Ci fa comun‫־‬
que vedere come questa liturgia poteva ancora rimanere in cer‫־‬
te regioni remote, che cosa era ancora possibile tentare di re‫־‬
staurare e conservare altrove in fatto di forme che stavano scom-
parendo. Seguiremo il testo ricostituito in precedenza da Dom
Botte:
« I diaconi presentino l'offerta [al vescovo] ed egli, im*
ponendo le mani su di essa con tutto il collegio dei sacer‫־‬
doti esprimerà questa azione di grazie:
- Il Signore è con voi.
E tutti risponderanno:
E con il tuo spirito.
- Eleviamo i cuori.
Sono vicini al Signore.
- Rendiamo grazie al Signore.
È giusto e necessario.
E continuerà così:
Ti rendiamo grazie, o Dio, per mezzo del tuo Figlio (pue-
rum) diletto, Gesù Cristo, che nella pienezza dei tempi ci
hai mandato [come] salvatore, redentore e messaggero (an-
gelum) della tua volontà. Egli è il tuo Verbo inseparabile,
per mezzo del quale tu hai creato tutto, nel quale tu hai
riposto le tue compiacenze. L'hai mandato dal cielo nel
seno di una Vergine, nel suo ventre egli si è incarnato;
si è manifestato come tuo figlio, nato dallo Spirito Santo
e dalla Vergine. Ha fatto la tua volontà e per acquistarti
un popolo santo, ha steso le mani, mentre soffriva: per li‫־‬
berare dalla sofferenza coloro che hanno creduto in te.
E allora abbandonandosi a una sofferenza liberamente ac-
cettata, per distruggere la morte e rompere le catene del
diavolo, calpestare l'inferno, illuminare i giusti, confer-
mare il testamento (terminum) e manifestare la sua risur‫־‬
rezione, egli prese del pane, rese grazie e disse: Prendete,
mangiate, questo è il mio corpo che sarà spezzato per voi.
Così pure per il calice, disse: Questo è il mio sangue che
è sparso per voi. Quando fate ciò, fatelo in memoria
di me.

177
Ricordandoci dunque della sua morte e della sua risur-
rezione, ti offriamo il pane e il calice, rendendoti grazie
perché ci hai giudicati degni di stare davanti a te e di
servirti come sacerdoti.
Ti chiediamo di mandare il tuo Spirito sull'offerta della
santa Chiesa, di raccogliere nelTunità tutti coloro che si
comunicano, di colmarli dello Spirito Santo, per rafforzare
la [loro] fede nella verità. Così vogliamo lodarti e gl0-
rifìcarti per mezzo del tuo figlio (puerum) Gesù Cristo.
Per lui ti siano resi gloria e onore con lo Spirito Santo
nella santa Chiesa, ora e nei secoli dei secoli. Amen » (48).
Questo testo non presenta quasi nessuna corrispondenza ver-
baie con quello di Addai e Mari, ma l'analogia della loro strut-
tura e la comunanza dei loro temi sono molto impressionanti,
in una aderenza comune allo schema giudaico delle preghiere
della mensa. Si ha lo stesso passaggio dal rendimento di gra-
zie per la creazione al rendimento di grazie per la redenzione;
la stessa concezione dell’anamnesi, cioè come evocazione del
memoriale dato da Dio, per chiedergli il raduno finale dei suoi
eletti nella Chiesa, in vista della sua glorificazione. Nel paragra‫־‬
fo che precede l’anamnesi e il racconto dell’istituzione che l’in-
troduce, si noterà la presenza insistente dei temi della forma-
zione del popolo di Dio e dell’alleanza (terminum) (49), già te-
mi-chiave dello sviluppo della preghiera giudaica.
D’altra parte, se qui il racconto dell’istituzione innegabil-
mente fa parte del testo, sono sempre assenti il Sanctus e suoi
annessi, le intercessioni e le commemorazioni ampliate.
Bisogna anche notare gli arcaismi della teologia, specialmen-
te della cristologia, che ci riporta non solo alla teologia giudeo-
cristiana, con il Cristo considerato come « Angelo », ma ai di-
scorsi degli Atti, con l’espressione puer (παϊς) che gli viene at-
tribuita in due riprese.
Nel testo, come abbiamo riferito, figura una epiclesi: « Ti
chiediamo di mandare il tuo Spirito sull’offerta della santa Chie-

(48) B. Botte, La Tradition apostolique..., op. cit., n. 4, pp. 1017‫־‬. -


Cf anche PE 80-81; EEFL n. 281; C. V agaggini, Il Canone della Messa
e la riforma liturgica, LDC, Torino-Leumann 1966, pp. 1517‫־‬. Testo ita-
liano, in H amman , pp. 133134‫ ;־‬LdC 376377‫־‬.
(49) L'etiopico ha ser(et che significa testamento. È probabile (cf
Botte, p. 15, nota 4) che il greco avesse ορος.

178
sa ». È sorprendente che concordi quasi esattamente con quel-
la inserita neireucaristia di Addai e Mari. Come quella, è delle
più rudimentali, nel senso che non chiede né il gradimento del
sacrificio e meno ancora la sua consacrazione con la conversio-
ne degli elementi. Anche qui si mira direttamente al raduno dei
fedeli nella Chiesa.
Ci si può pure domandare se questa formula di epiclesi ap-
parteneva al testo primitivo. Dom Gregory Dix, nella sua edi-
zione della Tradizione, lo ha messo in dubbio (50). Egli ha fat-
to notare prima di tutto, a questo punto, l’incoerenza del testo
latino, che sembra tradire un rimaneggiamento non riuscito. Per
cui, suggerisce, il testo primitivo potrebbe proprio essere quello
riportato dal Testamentum Domini. Vi si parla dello Spirito
Santo, ma non si potrebbe qualificare il testo come epiclesi, an-
che prendendo la parola nel senso larghissimo, perché non vi è
chiesta la sua venuta nel sacramento (o su di esso). Citiamo que-
sta formula nella traduzione latina del Rahmani:
Da deinde, Deus, ut tibi uniantur omnes, qui participando
accipiunt ex sacris (mysteriis) in tuis, ut Spiritu Sancto
repleantur ad confirmationem fidei in veritate... » (51).
Richardson ha mosso alcune piccole difficoltà all’idea che
questo testo abbia potuto prestarsi alla trasformazione finale
attestata dalle versioni latina ed etiopica (52). Dom Botte aveva
prima sostenuto che, anche se la forma data dal Testamentum
Domini fosse originaria, sarebbe comunque l’equivalente di una
epiclesi (il che, ancora una volta, sembra un abuso di linguag-
gio); ma poi si è ricreduto, pensando di scoprire la traccia del-
l’epiclesi della Tradizione, non in questa frase finale della pre-
ghiera del Testamentum, ma in una formula anteriore (53). A

(50) G. Dix, *Αποστολιπή παράδοσις. The Treatise on the Apostolic


Tradition of St. Hippolytus of Rome, Bishop and Martyr, London 1937,
pp. 75ss.
(51) « Concedi infine, o Dio, che ti siano uniti tutti coloro che, par-
tecipando ai tuoi santi (misteri), ne ricavano frutto: siano riempiti del-
lo Spirito Santo per il consolidamento della loro fede nella verità...»:
I. Rahmani, op. cit., p. 45.
(52) Cf C. R ichardson, The So-called Epiclesis in Hippolytus, in
HThR 40 (1947) lOlss.
(53) B. Botte, La Tradition apostolique..., op. cit., ρ. 23, e Uépiclèse
de Vanaphore d’Hippolyte, in RThAM 14 (1947) 241 ss.

179
prima vista, bisogna riconoscere che questa non offre nulla
che vi assomigli. Bisogna però seguire Dom Botte passo passo
in una dimostrazione che è forse il capolavoro deiringegnosità
di questo studioso così perspicace.
Ecco innanzi tutto il testo al quale si è rivolta la sua ana-
lisi e la sua ricostruzione; esso segue immediatamente l’anamne-
si, e Rahmani lo traduce in questo modo:
« Offerimus tibi hanc gratiarum actionem, aeterna Trinitas,
Domine Jesu Christe, Domine Pater, a quo omnis creatura
et omnis natura contremiscit in se confugiens, Domine
Spiritus Sancte, adfer potum hunc et escam hanc sanctita-
tis tuae, fac ut nobis sint non in judicium, neque in igno-
miniam vel in perditionem, sed in sanationem et in robur
spiritus nostri » (54).

Dom Botte non ha nessuna difficoltà a sottolineare il carat-


tere apparentemente slegato e contorto di questo testo. Questa
formula trinitaria in cui il Figlio è nominato per primo gli sem-
bra strana. Si attacca allora alla frase: Domine Spiritus Sane-
te, adfer potum hunc et escam hanc sanctitatis tuae, particolar-
mente pesante e incoerente, e si chiede che cosa otterremmo ope-
rando la retroversione dal siriaco in greco (lingua originale del
Testamentum come pure della Tradizione). Ecco la sua risposta:
« Domine Spiritus Sancte: la retroversione non può fare
difficoltà: κύριε πνεύμα άγιον. Notiamo tuttavia che πνεύ-
μα άγιον può essere sia un accusativo che un nominativo-vo-
cativo. Ma il siriaco lo ha preso per un nominativo-vocativo,
altrimenti non Tavrebbe conservato a questo posto oppure
Tavrebbe fatto precedere da una particella.
Adfer: in siriaco è !,imperativo della forma afel del ver-
bo étò, venire, forma causativa [aytòy], che significa dunque:
fa' venire. Ma quello che si deve notare è che lo yod che ter-
mina questa forma indica che il soggetto è femminile: spi-
rito, in siriaco, è femminile.
Altrettanto è del verbo tradotto con fac. Se traduciamo in
greco, ci sarà necessario un imperativo della seconda perso-
na del singolare; ma in greco il genere del soggetto non ha

(54) I. Rahmani, op. cit., p. 43.

180
importanza. Potremo tradurre con πέμψον o con un composto
di πέμψον.
Potum hunc et escam hanc: siccome in siriaco non vi
è caso, il complemento determinato dal verbo è preceduto
dalla particella /; ma questa medesima particella ha anche
valore di preposizione indicante movimento. Il testo siriaco
equivale dunque a un accusativo, preceduto o no da έπι.
Questo ci dà: [έπι] τούτον τον πάτον καί ταϋτην την βρω-
σιν.
Sanctitatis: questo è ancora un idiotismo. Il nome pre-
ceduto dalla particella d, indice del genitivo, è l'equivalen-
te dell'aggettivo. Dobbiamo dunque supporre άγιος, che s'ac-
corda naturalmente con l'ultima parola: ταύτην την βρώσιν
την αγίαν.
Tuae: in siriaco è di nuovo presente la particella d, col
pronome personale della seconda persona, sempre con la for-
ma femminile. È !,equivalente di σου, che si riferisce a po-
tum ed escam e non a sanctitatis.
Se raduniamo gli elementi analizzati, otteniamo: κύριε
πνεύμα άγιον πέμψον [έπι] τούτον τον πάτον καί [έπι]
ταύτην τήν βρώσιν την αγίαν σου » (55).

Questo passo non è sufficiente per formare una epiclesi, e


soprattutto l'inizio della frase rimane per aria. Ricordiamo, però,
che questa formula trinitaria, in cui il Figlio era invocato per
primo, sembrava sospetta. Mettiamo dunque un punto dopo
Trinitas, e supponiamo che poi ci fosse: Domine Pater Domini
Jesu Christi, ecc. - forma che si ritrova in una anafora etiopica,
anch'essa dipendente da Ippolito -. Ammettiamo che il tra-
duttore siriaco, ancora una volta, si sia confuso, avremo infine
un'epiclesi pienamente soddisfacente:
« Signore, Padre del nostro Signore G esù Cristo,... m anda
lo Spirito Santo su questa bevanda e su questo cibo
santi... » (56).

Tutto ciò è talmente meraviglioso che si chiede solo di


esserne convinti. Lo si sarebbe indubbiamente se non si rileg-

(55) B. Botte, L ’épiclèse de Vanaphore d’Hippolyte, art. cit., p. 246.


(56) Ibid., p. 247.

181
gessero, nello stesso articolo di Dom Botte, due saggi consigli
che egli rivolge agli studiosi di questo testo. Il primo è di non
isolare mai un passaggio dal suo insieme. Il secondo è di non
lavorare su traduzioni, ma sempre sugli stessi testi, il che esige
che uno sia un buon orientalista. Non si può non essere d’ac-
cordo... Si rimane però molto sorpresi nel costatare che Dom
Botte, all’occorrenza, sembra trasgredire facilmente il primo di
questi consigli, in quanto isola la clausola Domine Spiritus
Sancte, adfer potum hunc et escam hanc sanctitatis tuae. Se egli
si dimostra un orientalista senza pari operandone la retrover-
sione in greco, si è però anche lasciato impressionare dal latino
goffo di Rahmani, facile conseguenza di un eccessivo lettera-
lismo. Prima, dunque, di operare isolatamente la retroversione
di questo membro di frase, sarebbe forse stato meglio rileggere
tutta la frase in siriaco e chiedersi se presentasse tali difficoltà
da dover imputare al traduttore tutta una serie di controsensi.
Dobbiamo riconoscere che nel leggerla da un capo all’altro,
prescindendo dalla traduzione, non sembra esigere questo. Sicco-
me non abbiamo la competenza di orientalista che possiede
Dom Botte, abbiamo sottoposto il testo a specialisti indiscussi
del siriaco, i quali per di più usano quotidianamente questa lin-
gua nella loro liturgia. Nessuno di loro vi ha visto più diffìcol-
tà di quante ne abbiamo viste noi, e tutti hanno compreso co-
me noi:
« Noi ti offriamo questo rendimento di grazie, Trinità
eterna: Signore Gesù Cristo, Signore Padre dinanzi al
quale ogni creatura trema e si allontana, Signore Spirito
Santo, procuraci questo nutrimento della tua santità, co-
sicché non torni a nostro giudizio, né a nostra vergogna
o a nostra perdizione, bensì a guarigione e a conforto
del nostro spirito » (57).
Notiamo semplicemente che il femminile del verbo si spie-

(57) Se si vuole una retroversione in greco, questa non presenta


grandi difficoltà: προσφέρομέν σοι τη ν ευχαριστίαν ταύτην, αίωνία
Τριάς, Κύριε Ίήσου Χρίστε, Κύριε Πάτερ, άφ' οΰ πάσα κτίσις καί πάσα
φύσις σύμφρίττει, εις έαυτήν άποφυγούσα, Κύριε Πνεύμα άγιον, έπένεγκε
(oppure: έπιχωρήγησον) τούτον τον πότον καί ταύτην την βρώσιν τού
αγιασμού σου, ϊνα μη γενηθη εις κρίσιν ή αισχύνην ή ζημίαν άλλα εις
ύγίειαν καί στερέωσιν τού νού ημών.

18 2
ga con !,invocazione alla Trinità. Si potrebbe ammettere la cor-
rezione di Dom Botte « nutrimento della tua santità » in « tuo
nutrimento santo »; ma, probabilmente, sarebbe meglio in-
tendere « nutrimento della tua santificazione ». A parte questo,
il secondo principio, per cui non bisogna correggere un testo se
non quando appare necessario farlo, deve trattenerci dal modi-
ficare una formula che resta coerente: esempio tipico di que-
ste apologie che, lo vedremo quanto prima, si sono introdotte
molto presto nella liturgia siriaca, prima di invadere le nostre
liturgie medievali di Occidente. Senza sottomettere il testo a
manipolazioni non necessarie, non ci sembra dunque possibile
far sorgere qui una qualsiasi epiclesi. Bisogna concludere che
l’autore del Testamentum, che non Pavrebbe certamente sop-
pressa se Pavesse trovata in santTppolito, non ve Pha trovata.
Il che significa che Pepiclesi, nella Tradizione apostolica come
nelPeucaristia di Addai e Mari, non è verosimilmente primiti-
va. L’impressionante somiglianza tra la formula che si trova
nella maggior parte dei testi della liturgia di Ippolito pervenuti
fino a noi e quella che figura in tutti i testi di Addai e Mari por-
terebbe a far credere che si trattava di una formula di epiclesi
che fu per qualche tempo popolare in Oriente. È sicuramente
una formula molto arcaica poiché, ancora una volta, non chiede
né la consacrazione degli elementi e nemmeno la semplice ac-
cettazione del sacrificio, ma solo una discesa dello Spirito, nel e
col sacramento, che deve terminare nella santificazione di colo-
ro che vi partecipano, e più particolarmente nel loro completa-
mento nell’unità del corpo di Cristo che è la Chiesa.
Il testo del Testamentum - Gregory Dix aveva dunque ra-
gione, ci sembra, di ritenerlo come un vestigio del testo primiti-
vo di Ippolito - ci permette di comprendere in che modo Pepi-
desi dello Spirito si è introdotta a questo punto nelle liturgie
eucaristiche delPOriente. Ricordiamo infatti la formula che egli
riporta a conclusione del lungo sviluppo in forma di apologia
che aggiunge alPanamnesi:
« Da deinde, Deus, ut tibi uniantur omnes, qui participando
accipiunt ex sacris (mysteriis) tuis, ut Spiritu Sancto re-
pleantur ad confirmationem fidei in veritate, ut tribuant
tibi semper doxologiam et Filio tuo dilecto fesu Christo,
per quem tibi gloria et imperium cum Spiritu Sancto in
saeculum saeculorum » (58).

183
Si può anche ammettere che qui il redattore del Testamen-
tum, avendo separato la fine della frase di Ippolito dal suo ini-
zio, abbia di nuovo aggiunto !,invocazione (Deus), modificato
!,ordine delle parole, e sostituito un passivo (uniantur, che sup-
pone ένουσθαι) all'attivo che è supposto dalla traduzione lati-
na di Verona in unum congregans, confermata dairetiopica, e
che doveva essere εις έν συνάγων. Su tutti questi punti il Rj_
chardson ha, verosimilmente, ragione.
Il testo che questo redattore leggeva doveva dunque essere
qualcosa di simile:
«... radunandoli, concedi a tutti coloro che partecipano ai
tuoi santi misteri per la pienezza dello Spirito Santo, il
consolidamento della fede nella verità, e di lodarti e di
glorificarti per mezzo del tuo Figlio Gesù Cristo, per
mezzo del quale [sia] a te onore e gloria con lo Spirito
Santo, nella santa Chiesa, ora e nei secoli dei secoli.
Amen » (59).
Dom Botte fa osservare che nel testo riportato dal palinse-
sto di Verona, confermato dalla versione etiopica, questa men-
zione dello Spirito, che i comunicandi devono ricevere in pie-
nezza, si spiega, e può spiegarsi solo come una conseguenza
della precedente invocazione della venuta dello stesso Spirito
(60). In accordo con Aidan Kavanagh (61), crederemmo piut-
tosto il contrario. Perché si è giunti ad inserire, dopo l'anamne-
si, o più esattamente nella sua conclusione, prima di ritornare
alla lode nella dossologia finale, un'invocazione allo Spirito,
senza precedenti sia nelle preghiere giudaiche, sia nelle più an-
tiche preghiere eucaristiche cristiane, come prova comunque il
testo primitivo di Addai e Mari? Sembra che ciò sia avvenuto
in due tappe. La menzione dello Spirito Santo è stata introdotta
qui sia dall'idea del raduno di tutti, nel corpo di Cristo nella sua
pienezza, sia dalla loro unanimità nel glorificare il Padre per
mezzo del Figlio. Questo compimento escatologico della Chie-

(58) I. R ahmani, op. cit., p. 45.


(59) In questo caso la parola « concedi », che altrimenti resta per
aria, non crea più difficoltà per la sua costruzione.
(60) Op. cit., p. 247.
(61) A. Kavanagh, Thoughts on the Roman Anaphora, in « Wor-
ship » 39/9 (1965) 515ss.

184
sa perfezionata nell’unità e questa consacrazione dell’umanità
alla gloria del Padre per mezzo del Figlio sono, infatti, nella
pneumatologia cristiana primitiva, i due aspetti inseparabili
dell’opera dello Spirito: egli è il sigillo dell’unità nel corpo
di Cristo, ed è « lo Spirito della gloria » colui che glorifica il
piglio e che porta così a compimento la glorificazione del Padre.
Presto o tardi, a conclusione dell’anamnesi cristiana, nel punto
preciso in cui sfociava nella dossologia, doveva dunque awe-
‫״‬ire la menzione dello Spirito. Vediamo affiorare questa men-
zione per la prima volta, ci sembra, dietro il testo primitivo di
Ippolito, come lo doveva leggere l’autore del Testamentum Do‫־‬
mini. Un po’ più tardi, quando la teologia si prenderà a cuore
di precisare il compito dello Spirito, sarà naturale - lì dove si
era già introdotta la sua menzione - che si chieda più formai-
mente la sua venuta. Però in questo primo stadio di una epicle-
si propriamente detta, sarà anche naturale che la si chieda uni-
camente per produrre nei comunicandi il frutto della loro co-
munione. È esattamente quanto troviamo nell’epiclesi che si
introdurrà, certamente presto, in Addai e Mari, come in Ip-
polito.
C’è da notare che non si chiede ancora che egli consacri l’eu-
caristia facendone gradire il sacrificio; ancor meno si tratta
della trasformazione degli elementi. Però si chiede che venga
« nell’offerta ». Questa formula è molto preziosa, poiché, asso-
ciando per la prima volta lo Spirito e 1’« offerta », prepara la
via agli sviluppi successivi.
Questo ci porta a una caratteristica di terminologia, che ri-
vela un primo sviluppo dottrinale, con il quale il testo della
Tradizione apostolica, perfino nella sua forma prima e non ri-
toccata, si mostra nettamente più tardivo di quello di Addai e
Mari. Ed è una prima introduzione (e unica, a parte quella
dell’epiclesi, che ci pare sovrapposta), in un testo di preghiera
eucaristica, di termini tecnicamente sacrificali. Il testo dell’anam-
nesi di Ippolito, ricordiamolo, dice infatti:
« Ricordandoci dunque della sua morte e della sua risur-
rezione, ti offriamo il pane e il calice, rendendoti grazie,
perché ci hai giudicati degni di stare davanti a te e di
servirti come sacerdoti».
Nell’anamnesi di Addai e Mari non trovavamo ancora nulla

185
di simile. Però era chiaro che l’anamnesi vi esprimeva tutto il
contenuto, specificamente semitico, del « memoriale » giudai-
co: un pegno dato da Dio della sua azione salvatrice, che noi
possiamo ripresentargli con rassicurazione che la nostra pre-
ghiera, che chiede il compimento in noi di questa azione, sarà
esaudita, poiché questo pegno significa anche per noi l’attuali-
tà permanente. Questo, ancora una volta, già per il giudaismo
contemporaneo alle origini cristiane, faceva della beràkà del pa-
sto, nelle comunità della speranza messianica, non solo Pequi-
valente di un sacrificio, ma il sacrificio in tutta la sua purezza.
Era quello che un cristianesimo ancora semita, come quello
dell’anafora di Addai e Mari, poteva continuare ad esprimere
nella stessa terminologia. Però, passando a cristiani di lingua
greca, un’anafora di questo tipo doveva spiegare che la « me‫־‬
moria » che noi facciamo di Cristo nelPeucaristia non è un
semplice ricordo psicologico, soggettivo, ma innanzi tutto una
ripresentazione a Dio del suo dono. Era allora inevitabile che
le espressioni sacrificali facessero la loro comparsa, ed è a que-
sto punto dell’eucaristia che dovevano sorgere, per tradurre il
contenuto del « memoriale » giudaico in un’anamnesi elleniz-
zata.
Dopo la comparsa del termine « offerta », nella stessa anam-
nesi e come una semplice rivelazione del suo senso più profon-
do, altri termini, associati a questo, non potevano tardare a
fare il loro ingresso. In particolare, si faceva strada la consape-
volezza che celebrare l’eucaristia voleva dire compiere il mini-
stero sacerdotale per eccellenza. Però il sacrificio eucaristico, la
cui sostanza sta nel « memoriale » dei propri benefici che Dio
consegna nelle nostre mani perché noi glielo ripresentiamo, ap-
pare come il dono di Dio per eccellenza; così pure, questo ca-
ratiere sacerdotale dell’azione in cui il suo popolo glielo ripre-
senta non è altro che l’effetto della consacrazione a Dio che è
anch’essa la sua grazia suprema. Di qui, l’altra aggiunta: noi
rendiamo grazie, finalmente e soprattutto, di essere diventati
questo popolo di sacerdoti che può pienamente « rendere gra-
zie ». È quanto i Padri di quest’epoca, come Giustino nel suo
Contro Trifone, non si stancano di spiegare: gli ebrei dicevano
che avevano realizzato la loro vocazione di popolo-sacerdote
riempiendo la loro esistenza di beràkòt tradizionali; in realtà
soltanto i cristiani possono rispondere pienamente a tale vo­

186
cazione per m ezzo deireucaristia di Cristo G esù (62).
Si direbbe che qui abbiamo già fatto un passo in avanti.
Senza escludere un riferimento a tutto il popolo di Dio che ce-
lebra unanimemente !,eucaristia, sembra proprio che in queste
parole si debba vedere già un’allusione più precisa al ministero
di colui che pronuncia la preghiera eucaristica, a nome di tutti,
ma in virtù di una missione, di una consacrazione particolare,
che viene dal Capo di tutto il corpo. In altre parole, in questa
preghiera che, ricordiamolo, viene suggerita a un vescovo neo-
consacrato per !,eucaristia che celebra a conclusione della sua
consacrazione, il « servirti come sacerdoti » si applica proba-
bilmente - ancora una volta in senso non esclusivo ma emi-
nente - alPinterno del « corpo » e per tutto il « corpo », a co-
lui che, presiedendo !,eucaristia, vi appare come il rappresentan-
te del « Capo » in mezzo ai suoi.
Vi è un’altra caratteristica nell’eucaristia di Ippolito che
la oppone a quella di Addai e Mari, a dispetto del loro stretto
parallelismo. A prima vista questa differenza può sembrare pu-
ramente letteraria. Ma, in realtà, essa annuncia una mutazione
nell’eucaristia che doveva rivelarsi molto più sostanziale della
comparsa di una terminologia sacrificale, la quale non faceva
che tradurre delle realtà già presenti sotto un’altra espressione,
e già portatrici del significato che questa terminologia rende
semplicemente più esplicita. Come Dom Botte ha fatto notare,
l’eucaristia di Addai e Mari è fondamentalmente semitica, nel
senso che è evidente che la sua formula non è una traduzione
dal greco in siriaco, ma una composizione realizzata diretta-
mente in un idioma semitico. Infatti vi regna un gioco costan-
te di parallelismi, di cui non troviamo alcun equivalente nel
testo proposto dalla Tradizione apostolica. Non basta. L’euca-
ristia di Addai e Mari è sulla falsariga delle beràkòt giudaiche
dei pasti, fino al punto da formare ancora, come esse, non una,
ma tre preghiere, ciascuna con una sua conclusione (la seconda
è pure caratterizzata da un primo Amen). Invece l’eucaristia
di Ippolito, per quanto fedele sia allo schema di Addai e Mari,
con lo svolgimento dei temi che si succedevano già nelle tre
beràkòt dei pasti giudaici, forma una sola preghiera continua.
Questo particolare, sul quale dovremo ritornare a lungo, invece

(62) Cf sopra, p. 59.

187
di manifestare il suo carattere primitivo - come pensano ancora
molti liturgisti cristiani - rivela la sua fattura relativamente
tardiva. Quella di Addai e Mari è una formula arcaica, di un'au-
tenticità indiscutibile. La Tradizione apostolica, invece, è ope-
ra di un arcaizzante. Non c'è dubbio che Ippolito sapesse molto
bene tutto - e solo - quello che ci doveva essere in un'eucari‫■־‬
stia primitiva, e in quale ordine questi elementi dovevano com
catenarsi. Ciò non toglie, però, che egli non fosse più in grado
di formularlo come avrebbero fatto i « santi » a cui gelosamen-
te si appellava: semplicemente perché la sua lingua abituale, e,
con la sua lingua, i suoi modi di comporre e perfino di pensa-
re, non erano più quelli di un semita, ma di un cittadino del·
l'impero ellenistico (63). La bella unità di svolgimento della
sua preghiera, probabilmente, non sarebbe stata possibile se
non ci fosse stato alla base un progresso organico già presente
nei modelli antichi che egli voleva conservare. Essa, però, viene
a tradursi nell'unità logica e retorica della sua redazione soltan-
to grazie a un ideale formale e concettuale che il cristianesimo
primitivo, in quanto era rimasto semitico, aveva ignorato. La
sua eucaristia non è più un susseguirsi di beràkòt giudaiche che
procedono le une dalle altre: è un solo periodo ellenistico che
le fonde in un tutto continuo. Tra ciò che voleva produrre, pro‫־‬
babilmente, e ciò che ha fatto - come attesta il confronto con
la liturgia di Addai e Mari - c'è la stessa differenza che esiste
tra un mobile Luigi XIV autentico e la sua imitazione da parte
di un buon falegname. A prima vista, è la stessa cosa. Basta
però guardare un po' più da vicino per trovarvi la colla e i chio-
di che invece non dovrebbero esserci.
Si può aggiungere, d'altronde, che la sua mano si tradisce
ancora di più in quanto ha cosparso la sua combinazione di
arcaismi voluti; ma in lui sono talmente voluti che si riconosco‫־‬
no a prima vista. Riportandoli infatti a ogni occasione, non
può fare a meno di mescolarvi le sue elucubrazioni personali.
Egli ostenta di chiamare ancora il Cristo, come facevano i primi
cristiani, il Figlio (puer, che traduce παΐς), o il Servo del Padre,
il Messaggero, o, più esattamente, « l'Angelo » della sua volontà,
il che - e ci ritorneremo sopra - è una sopravvivenza, che si

(63) È quello che intende dire quando, nel suo Commento di Da-
niele, IV,9, chiama !'impero romano « nostro regno ».

188
ritroverà in altri testi, di un’antichissima cristologia giudeo-cri-
stiana. Nello stesso tempo sottolinea però, in un modo che è
proprio della sua teologia, molto più riflessiva di quella dei pri-
jni cristiani, la libertà di Cristo nel consegnarsi alla morte. Se
poi rimmagine di questo stesso Cristo che stende le braccia
(sulla croce), come per attirarci tutti a sé, si riferisce pure a
un’antica immagine apocalittica, forse anteriore a san Paolo,
egli la elabora e la sistema nel suo testo.
Prima di lasciarlo, dobbiamo osservare la forma con la qua-
le ci dà il dialogo introduttivo all’eucaristia cristiana. Ne è cer-
tamente la più antica testimonianza, poiché la liturgia di Addai
e Mari ci è giunta munita soltanto di un dialogo che rimarrà
comune alle anafore siriache, ma che non sembra così primiti-
yo. Il saluto: « Il Signore è con voi. - E con il tuo Spirito »,
quantunque non sia attestato dalle forme della liturgia giudai-
ca che conosciamo, non può essere altro che di origine semiti-
ca: in greco, doveva già produrre l’effetto un po’ strano ed
enigmatico che produce sui moderni. L’insistenza: « Sursum
corda. - Habemus ad Dominum », semitica anch’essa (il « cuo-
re » per i greci e per i latini ha un senso puramente fisiologico),
sembra essere una creazione propriamente cristiana, sottolinean-
do - come l’orientamento simbolico sostituito alla preghiera di-
retta verso il santuario di Gerusalemme - il carattere a un tem-
po trascendente ed escatologico della preghiera eucaristica cri-
stiana: tende verso quella Gerusalemme celeste come viene in-
tesa la Gerusalemme futura. L’ultimo brano del dialogo: « Gra-
tias agamus Domino. - Dignum et justum est » proviene direi-
tamente dalla formula giudaica che precede le tre beràkòt della
fine dei pasti. Bisogna anzi essere più precisi e sottolineare che
proviene dalla formula che doveva essere usata per un pasto
che comprendeva meno di dieci convitati, cioè che non forma-
vano l’assemblea minima per il culto sinagogale. Questo sem-
bra attestare il fatto che Ippolito cerca di riportare l’eucari-
stia cristiana - che, ormai quasi dappertutto, nell’epoca sua, era
uscita dal suo schema primitivo - alle forme che le erano prò-
prie quando radunava soltanto un piccolo gruppo di cristiani
ebrei, i quali in precedenza avevano compiuto il loro servizio
di letture e di preghiere con gli altri ebrei nella sinagoga. Que-
sto concorda con il fatto che egli ignora sistematicamente il
legame diretto avvenuto tra un servizio di questo genere, ormai

189
da molto tempo proprio dei cristiani della sua epoca, e l'eucari-
stia. La testimonianza di Giustino ci assicura, infatti, che questo
legame era un fatto comune già un secolo prima (64). Non si
potrebbe immaginare nulla che descriva meglio quanto vi è di
fittizio e di pervicace nell'arcaismo di Ippolito. Egli non ci de-
scrive affatto la liturgia in uso al suo tempo, né a Roma, né al-
trove. Tenta disperatamente di richiamare in vita, per quanto
ne sia capace, la liturgia di epoche tramontate, di cui, quando
scriveva, c'erano probabilmente soltanto rare sopravvivenze
in luoghi più o meno isolati.

Trasformazione dell'anamnesi e origine dell'epiclesi


Addai e Mari, per il loro arcaismo incontestabile, Ippolito,
per il suo arcaismo deliberato, ci danno dunque due testimo-
manze convergenti sulla natura della preghiera eucaristica nel
suo primissimo stadio. Questa convergenza, poi, è tanto più no-
tevole in quanto le fonti sono molto differenti. Non soltanto è
una preghiera ancora ricalcata interamente sulle preghiere giu-
daiche, di cui rispetta integralmente il contenuto e la progres‫־‬
sione, ma è una preghiera ricalcata esclusivamente sulle tre be-
rakòt finali dei pasti. In Addai e Mari la loro separazione sus-
siste. In Ippolito si è cancellata, ma i temi rimangono al loro
posto primitivo (tutt'al più, il primo rendimento di grazie,
per la creazione, ha già la tendenza a ridursi, sotto la pressio-
ne degli sviluppi cristiani del secondo, per la redenzione). Na-
turalmente, sia da una parte che dall'altra, non c'è il Sanctus, né
la menzione degli Angeli e del loro culto, come non si trova
neppure lo svolgimento del tema della luce e della conoscenza
divine, e nemmeno si vedono lunghe intercessioni e commemo-
razioni dei « santi ». Tutti questi temi appariranno solo quando
l'eucaristia si sarà saldata con il servizio delle preghiere e delle
letture: allora, le preghiere che procedevano da preghiere giu-
daiche e che ne facevano menzione, verranno a combinarsi o
a fondersi con le preghiere che procedevano dalle beràkòt del
pasto.
Sarebbe, però, sbagliato trarre la conclusione che l'antica
eucaristia non fosse altro che una semplice lode del creatore e

(64) Cf G iustino , Apologia /, 67.

190
del redentore. Con il suo terzo paragrafo, che procedeva dalla
terza e ultima beràkà dei pasti giudaici, questa eucaristia di for-
ma primitiva, ricordando il « memoriale » de/ mirabilia Dei, pas-
sava già dalla lode alla preghiera. Faceva ciò nella logica stessa
di questo « memoriale »: affinché le grandi azioni di Dio, ripre-
sentate dinanzi a lui, avessero in noi tutto il loro compimento
escatologico, cioè giungessimo tutti all'unità perfetta del popolo
di Dio definitivo, nel Cristo totale, Capo e membra perfetta-
mente uniti. In questo modo, proprio come con la terza beràkà
giudaica, la preghiera, sgorgata dalla lode, poteva fare ritorno
alla lode, nella dossologia finale: Dio sia glorificato per mezzo
di Cristo, in tutto il suo corpo, la Chiesa, animata dal suo Spi-
rito.
Di qui vediamo il duplice sviluppo che ne doveva seguire,
e che questo studio ci ha permesso di riafferrare allo stato na-
scente.
Da una parte, la necessità di tradurre - diciamo la parola,
di « targumizzare » - per i « greci » il senso pregnante del « me-
moriale » giudaico avrebbe portato, nella stessa anamnesi, for-
mule esplicitamente sacrificali: è F« offerta » di cui parla, per
la prima volta, l'anamnesi di Ippolito. Questa offerta non è al-
tro che la ripresentazione a Dio del pegno di salvezza che egli
ha dato al suo popolo nel « memoriale ». Questo pegno forni-
see alla preghiera la sua base affinché il « mistero » di Cristo,
che è l'anima di questo memoriale, abbia in noi il suo compi-
mento: e questo significherà pure la nostra consacrazione in
un popolo di sacerdoti, votati alla sola lode del Padre, median-
te il Figlio, nella potenza dello Spirito.
Di qui anche, non più tanto nel cuore dell'anamnesi quanto
nella sua conclusione, il secondo sviluppo: quello che doveva
sfociare in ciò che noi chiamiamo l'epiclesi. Questo raduno nel
Cristo - nel suo corpo, per formare la Chiesa - di tutti i suoi,
e la loro consacrazione alla gloria di Dio, era, per i cristiani,
l'opera propria dello Spirito. A questo punto era dunque
naturale un'amplificazione della preghiera conglobante la men-
zione dello Spirito. In quello che saremmo indotti a ritenere
come la forma originale dell'eucaristia di Ippolito - ancora vi-
sibile dietro la conclusione dell'eucaristia del Testamentum -,
diremmo che vediamo spuntare questa menzione, in questo con-
testo e per questo motivo.

191
Si comprende allora facilmente che all'epoca in cui si ere-
derà necessario insistere sull'eguale divinità e personalità dello
Spirito, cioè nella seconda metà del secolo IV, e, verosimilmen-
te, in Siria, come diremo, si sia sviluppato quello che, sulle
prime, era solo un inciso, per farne la prima epiclesi: una in-
vocazione formale della discesa dello Spirito, oggi, sulla cele-
brazione eucaristica, parallela a quella del Figlio nell'incarnazio-
ne, per completarne l'effetto in noi. Di qui la forma precisa di
questa epiclesi originaria, quale troviamo tanto nella modifi-
cazione di Addai e Mari come in quella che sembra pure una
modificazione di Ippolito: non si invoca ancora la venuta dello
Spirito per consacrare il sacrifìcio (benché sia implorata in pros-
simità immediata delle prime formule sacrificali); non la si in-
voca nemmeno per trasformare gli elementi, ma per far sì che
la nostra celebrazione dell'eucaristia produca in noi il suo frut-
to: il completamento della Chiesa nell'unità, per glorificare per
sempre il Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito (o con lo
Spirito). A questo primo stadio, l'epiclesi tradirà inevitabil-
mente il suo carattere tardivo, sia per l'interruzione che essa
opera, come nel caso di Addai e Mari, sia con l'effetto di ri-
dondanza che essa produce, come nel caso di Ippolito, aggiun-
gendosi a un'altra menzione, probabilmente anteriore, dello Spi-
rito, senza arrivare ancora ad assorbirla.

Altre testimonianze dello stesso tipo arcaico


Abbiamo qualche indizio, sembra, di una sopravvivenza di
questo tipo primitivo dell'eucaristia, almeno fino al secolo IV
e forse fino al V, in liturgie locali: senza il Sanctus e la pre-
ghiera che segue e certamente anche senza le intercessioni e le
commemorazioni che, tuttavia, si trovano dappertutto in quest'e-
poca. Il primo è in un testo citato a favore delle proprie idee
da un ariano d’Occidente, che l'aveva forse trovato in una rac-
colta liturgica del Nord Italia, alla fine del IV o all'inizio del
V secolo - il Mai ha ritrovato questa testimonianza in un ma-
noscritto milanese (65).

(65) A. Mai , S c r ip to r u m v e te r u m n o v a c o l l e c t i o , t. Ili, parte II,


Roma 1827, pp. 208ss. G. Dix, o p . c it., p. 540, ha giustamente attirato
!'attenzione su questo testo. Cf inoltre L. C. Mohlberg, S a c r a m e n ta r iu m
V e r o n e n s e , Roma 1966, η. 15446, p. 202. - EEFL n. 667.

192
Ecco il testo, purtroppo incompleto, ma che sembra prò-
prio condurci fino a un’anamnesi in cui il racconto dell’istitu-
zione pare vicino a sorgere, in mezzo a termini sacrificali che
si applicano direttamente al « rendimento di grazie »:
« È cosa degna e giusta, equa e giusta, che noi ti rendia-
mo grazie per ogni cosa, Signore, Padre santo, Dio onni-
potente ed eterno, che [mediante la luce] della tua in-
comparabile bontà ti sei degnato di risplendere nelle te-
nebre, inviandoci Gesù Cristo come Salvatore delle nostre
anime, il quale, umiliandosi per la nostra salvezza, si è
sottoposto fino alla morte, di modo che, ridonandoci la
immortalità che Adamo aveva perduto, ha fatto di noi i
suoi eredi e i suoi figli. Noi non possiamo degnamente
rendere grazie alla tua grande misericordia, né lodarti per
tanta bontà, ma chiediamo dal tuo amore grande e com-
passionevole di accettare questo sacrificio che ti offriamo,
tenendoci dinanzi al tuo divino amore, per Gesù Cristo,
nostro Signore e nostro Dio, per mezzo del quale chie-
diamo e supplichiamo... ».
È una formula certamente interessante sia per l’arcaismo
del suo schema, sia per le espressioni particolari, molto vicine
allo stile del Canone romano. Essa permette, probabilmente, di
farci una qualche idea delle forme realmente arcaiche della li-
turgia romana o di liturgie apparentate, meglio che con un ri-
corso incerto a Ippolito.
Più recentemente è stato riscoperto un frammento di un’al-
tra anafora, attribuita a sant’Epifanio, e che presenta queste
stesse particolarità: assenza del Sanctus e della menzione del
culto degli angeli, assenza di qualsiasi commemorazione dei san-
ti e di qualsiasi intercessione. Dom Botte l’ha studiato in un ar-
ticolo della rivista « Muséon » (66). È un’altra testimonianza
della sopravvivenza fino alla stessa epoca - questa volta nel
mondo greco - di eucaristie sviluppate sul modello che trovia-
mo a un tempo nella liturgia di Addai e Mari e dietro a quella
di Ippolito. Per quanto rare siano, queste preziose reliquie ba-
sterebbero ad assicurarci, se sussistesse ancora qualche dubbio,

(66) B. Botte, F r a g m e n ts d ’u n e a n a p h o r e in c o n n u e a ttr ib u é e à s a in t


in «M uséon» 73 (1960) 311ss. Nella forma in cui Gabbiamo,
É p ip h a n e ,
il testo non può essere anteriore al concilio di Calcedonia. Cf H. Eng-
berding, Z u r g r ie c h is c h e E p ip h a n iu s L itu r g ie , ibid. 74 (1961) 135ss.

193
che la nostra ricostruzione della formula primitiva di Addai e
Mari non è per nulla campata in aria; come !,arcaismo di Ippo-
lito, per quanto fittizio potesse già essere, non era tuttavia ilhi-
sorio.
Comunque, questo è il fatto: siccome siamo in presenza di
testi fìssi - di uso ampiamente attestato e che in forma più o me‫־‬
no completa si è mantenuto fino a noi - i modelli che ci appa-
iono sono ben differenti. E quali che siano le differenze che pre-
sentano tra di loro, questi modelli - schematizzati all’inizio del
presente capitolo - contengono tutti, oltre gli elementi già pre-
senti nel tipo di eucaristia che possiamo considerare come pri-
mitivo, la stessa serie di elementi addizionali, nonostante le va-
riazioni che si possono notare nella loro sistemazione. È tempo
ora di passare a questi altri tipi, gli unici che dovevano soprav-
vivere attraverso la tradizione cattolica e ortodossa. La prima
questione che si porrà, evidentemente, sarà quella di spiegare
come abbia potuto avvenire la loro sostituzione, diventata così
in fretta praticamente universale, al tipo antico che non cono-
sciamo più se non attraversò qualche traccia.

19 4
Nota alla seconda edizione

Dom B. Botte, in RThAM 33 (1966) 183ss, ha scalzato, con massic-


ci argomenti, quanto avevamo scritto riguardo all’epiclesi nella T r a d iz io -
n e a p o s to lic a . In primo luogo, fa notare tre errori grossolani nel nostro
saggio di retroversione in greco del testo-chiave del T e s ta m e n tu m D o m in i.
(Leggendo il testo della nostra prima edizione, stampata dopo insuffi-
cienti correzioni di bozze, ne abbiamo corretti noi pure una buona doz-
zina!). Sui primo punto: γενηθήτω invece di γενηθη, riconosciamo la
sbadataggine che ci ha fatto scrivere un imperativo invece di un con-
giuntivo. Ma non riusciamo più a capire bene quello che Dom Botte
avrebbe voluto al posto dell’aberrante άποφύγεις. Evidentemente ci vo-
leva il participio aoristo secondo attivo: άποφυγουσα. E quando arrivia-
mo a quanto gli suggerisce il nostro έπένεγκε, certamente esatto, sten-
tiamo a credere che un filologo possa, come risulta, non solo correggere
così male le proprie bozze, come un teologo ignorante, ma anche lasciar-
si non meno grossolanamente fuorviare. Basterà, speriamo, un'occhiata
al Liddell a convincerlo.
D ’altra parte, comunque sia la questione del significato del T e s ta -
m e n tu m D o m i n i , Dom Botte ci assicura che la questione è risolta dal
semplice fatto che le versioni latina ed etiopica di Ippolito riportano
tutte e due l’epiclesi, pur essendo indipendenti. L’argomento sarebbe
perentorio se L ed E riportassero la stessa epiclesi. Ma non è proprio co-
sì. È vero che la prima proposizione è identica nei due casi, ma questo
non prova gran che dato che si trova quasi identica (e non senza moti-
vo!) in tutte le epiclesi, o poco ci manca. Ma il seguito è diverso nei due
testi, pur essendo molto contorto, tanto nell’uno come nell’altro. Quindi
continuiamo a credere che sia difficile sfuggire all’impressione che, a par-
tire dall’epoca in cui un’eucaristia senza epiclesi era diventata impensa-
bile per gli orientali, si sia rimaneggiato diversamente, in parecchi pun-
ti, il testo primitivo per cercare di farvela comparire.
Per quanto riguarda poi A d d a i e M a r i, è stata pubblicata e com-
mentata da W. F. Macomber una forma più antica del testo, in OrChrP
32/2 (1966) 336ss. Forse essa non intacca il lavoro di Dom Botte, ma sa-
rebbe augurabile di vederlo riprendere tutta la questione partendo da
un testo più sicuro.

195
Capitolo VII

Eucaristia alessandrina e romana

Ippolito è un testimone delle origini della liturgia romana?


Nel VI secolo, con san Gregorio Magno, fa la sua compar‫־‬
sa il Canone della messa romana, press'a poco tale e quale Tu-
siamo oggi, eccettuato qualche particolare secondario (1).
Questo canone presenta una struttura ben diversa dall'euca-
ristia di Ippolito, una fattura differente (come nel caso della li-
turgia di Addai e Mari, siamo di nuovo in presenza non di una
preghiera continua, ma di un seguito di preghiere concatenate),
e non c'è una sola espressione che presenti una parentela rico‫־‬
noscibile con una qualsiasi formula di Ippolito. Per coloro se‫־‬
condo i quali la Tradizione apostolica rappresenta l'uso roma-
no del suo tempo, non vi è dunque che una conclusione possi-
bile: il Canone della messa romana attuale è il prodotto di un'in‫־‬
verosimile dislocazione, e tutto vi è stato rotto, disorganizzato,
sfigurato dall'introduzione di elementi avventizi, i quali hanno
rovinato l'unità che si suppone essere stata all'origine dell'eu‫־‬
caristia romana. Questa concezione catastrofica dell'evoluzione
dell'eucaristia a Roma, fin dal periodo patristico, è stata lan‫־‬
ciata specialmente da Anton Baumstark (2).
È bene ricordare che P. Drews e lo stesso Baumstark, quan-
do era ancora affascinato dalle liturgie siro-occidentali (per non
parlare di W. C. Bishop), l'avevano ammessa sulla base presun-
ta di una origine del Canone romano che più nessuno oggi ose-
rebbe cercare da quella parte (3). Certi studiosi anglicani, come123

(1) Cf B. Botte, L e C a n o n d e la M e s s e r o m a in e , Louvain 1935.


(2) Cf A. Baumstark , D a s « P r o b le m » d e s r ò m is c h e n M e s s k a n o n s ,
in EL 53 (1939) 204ss. - Vedere anche il cap. II di C. V agaggini, I l C a -
n o n e d e lla M e s s a e la r if o r m a litu r g ic a ( = Quaderni di Rivista Liturgica,
4), LDC, Torino-Leumann 1966.
(3) Si veda, su tutto questo, Tarticolo di F. Cabrol, C a n o n r o m a in ,
in DACL II/2, 18471905‫־‬.

196
Walter Frere (4), Favevano già accettata con gioia, trovandovi
un'insperata giustificazione delFabbandono della tradizione li-
turgica romana delFeucaristia nella loro Chiesa. A. Jungmann
(5) e Th. Klauser (6) l’hanno divulgata. E, ai giorni nostri, co-
me era da aspettarsi, certi riformatori coraggiosi se ne impa-
droniscono, per intimare all’autorità di liberarci da questo mo-
stro e di riportarci infine alla vera tradizione cattolica e roma-
na, perduta da almeno quindici secoli (7).
Ci sembra che in tutto questo si traggano conclusioni trop-
po affrettate, sulla base di elementi quanto mai fragili. Dal solo
esame della personalità di Ippolito e dalla sua opera in genera-
le, sono già emersi i motivi positivi in base ai quali dubitiamo
che abbia rappresentato la vera tradizione romana nella sua
epoca, anche se è stato membro del clero romano. Se veniamo,
però, a confrontare la sua eucaristia con tutto quello che sappia-
mo di certo da altre fonti sull’eucaristia romana dopo di lui,
diviene non semplicemente dubbio, ma, bisogna dirlo, propria-
mente inverosimile che la liturgia di Ippolito, anche dopo tutte
le alterazioni che si possano immaginare, abbia potuto genera-
re l’attuale liturgia romana. Infatti, data l’assenza completa di
comunanza sia di struttura, sia di fattura, sia di espressioni par-
ticolari, il parlare di dislocazione - dovuta all’introduzione di
corpi estranei nel modello primitivo - sarebbe notoriamente in-
sufficiente. Il Canone romano, almeno da san Gregorio in poi,
è tipico della liturgia romana. Se la liturgia romana, due secoli
e mezzo o tre secoli prima, fosse stata quella di Ippolito, biso-
gnerebbe dire allora che successe alla liturgia romana quello che
successe al coltello di Giannino: era sempre lo stesso coltello,
anche se si era cambiato successivamente il manico e la lama.4567

(4) W. H. Frere, T h e A n a p h o r a o r g r e a t E u c h a r is tic P r a y e r , Lon-


don 1938.
(5) A. Jungmann, M is s a r u m S o lle m n ia , 2 voli., Torino 21961.
(6) T h. Klauser, L a litu r g ia n e lla C h ie s a o c c id e n ta le , LDC, Tori-
no-Leumann 1971.
(7) Citiamo solamente, come un esempio fra tanti altri, un arti-
colo di Leo Mahon, comparso in « Commonweal» (1965) 590ss, che qua-
lifìca sprezzantemente il Canone romano di « zibaldone gallicano », di
«arrivato tardi nella messa rom ana», e propone che sia puramente e
semplicemente messo da parte. Il suo smontaggio e rimontaggio sullo
schema siro-occidentale non sarebbero una fantasticheria minore.

197
Non si tratta, infatti, di una o più modifiche che sarebbero in-
tervenute tra Tuna e l’altra, ma della sostituzione totale di un
testo a un altro.
Quando, come, perché sarebbe avvenuta questa sostituzio-
ne? Su questo punto, non abbiamo nessuna documentazione.
Dobbiamo accettare il fatto, se ammettiamo che Ippolito rap-
presenti !5eucaristia romana della metà del secolo III, senza pò-
terlo né situare, né spiegare. Bisogna riconoscere che ammettere
un simile cambiamento, di cui nulla né alcuno sembra aver
conservato il minimo ricordo - e questo in una Chiesa che fra
tutte le altre si è sempre distinta per il suo conservatorismo -,
costituisce una difficoltà enorme. Basterebbe questo solo per
farci dubitare che Ippolito ci descriva davvero la liturgia ro-
mana del secolo III. Siccome, d'altra parte, come abbiamo vi-
sto, i motivi intrinseci che si hanno per ritenere questo - quelli
cioè che possono risultare dalla conoscenza della sua opera e
della sua personalità - sono minimi (per non dire nulli), sem-
bra che ciò dovrebbe bastare per dissipare lo strano miraggio
al quale hanno ceduto la maggior parte degli studiosi recenti.
Spiegare !5evoluzione che ha potuto dare origine al Canone della
messa romana di san Gregorio partendo da quella di sant’Ip‫־‬
polito, significa proporsi un compito che non ha nessuna spe-
ranza di riuscita, poiché vuol dire impegnarsi, senza alcuna ra-
gione sufficiente, senza nemmeno una qualche verosimiglianza,
in una via impossibile. A perseverarvi, si sfocerà fatalmente nel-
la conclusione che il Canone della messa romana è inspiega‫־‬
bile, ingiustificabile, inaccettabile; ma questo solo perché si sarà
voluto a tutti i costi imporgli una spiegazione che non si regge.
Non basta, però. Per quanto inverosimile sia a priori la to-
tale mutazione - e non solo l’alterazione più o meno profonda
- che avrebbe dovuto prodursi nella messa romana per pas-
sare da sant’Ippolito a san Gregorio, non ci si può rifugiare
dietro ai due secoli e mezzo o tre che le separano, per imma‫־‬
ginare una lenta decomposizione, poi una ricomposizione, la
quale, in mancanza di qualsiasi testimonianza storica precisa,
rimarrebbe comunque immaginaria. Anche se non abbiamo un
testo completo del Canone prima di san Gregorio, abbiamo dei
punti di riferimento su quello che era già molto tempo prima:
esattamente nella seconda metà del secolo IV. Il De Sacramen-
tis, generalmente riconosciuto oggi come opera di sant’Ambro­

198
gio, contiene infatti una serie di allusioni all’eucaristia che egli
usava, e queste, per tutta la parte centrale, vanno fino alla ci-
tazione esplicita, più o meno letterale. Questa verifica, che un
caso fortunato ci permette di fare, ci assicura comunque che
prima del racconto dell’istituzione e dopo l’anamnesi, si tro-
vavano allora delle formule che dovevano essere, se non pa-
rola per parola, almeno press’a poco le stesse del tempo di
san Gregorio. Di più, già a suo tempo, alla lode iniziale se-
guiva una serie di intercessioni. Questo basta per dire che
sant'Ambrogio conosceva già un Canone il cui intero svolgi-
mento coincideva praticamente con quello di san Gregorio,
mentre non ci dice nulla che potrebbe, più di quest’ultimo te-
sto, riallacciarsi con sant’Ippolito.
Non si tratterebbe dunque di una lenta disgregazione, ma
di un cataclisma sopraggiunto nello spazio di appena un se-
colo, che avrebbe sostituito un'eucaristia a un'altra.
Una sola teoria, che è stata sostenuta qualche volta, per-
metterebbe di spiegare la faccenda. Bisognerebbe che il Ca-
none, che oggi chiamiamo romano, non fosse affatto romano,
ma ambrosiano, o comunque milanese, e che il prestigio del
grande vescovo Ambrogio avesse potuto indurre Roma a si-
lurare il proprio rito per adottare quest'altro (8). La cosa
sembra talmente enorme da diventare inverosimile. Bisogna
aggiungere che andrebbe direttamente contro quanto sappiamo
di più sicuro sulle relazioni intercorrenti tra la liturgia di Mi-
lano e quella di Roma, al tempo di Ambrogio. Per molto tem-
po è sembrato impossibile attribuirgli il De Sacramentis, per-
ché il De mysteriis (che è indubbiamente opera sua) segue,
per il battesimo, una liturgia diversa da quella del De Sacra-
mentis. E la liturgia del De Sacramentis si oppone all'altra,
esplicitamente come alla liturgia romana. Ora, un esame mi-
nuzioso del pensiero e dello stile di questi due scritti, come
ha fatto in particolare Dom Botte, ha convinto praticamente
tutti che essi non possono avere altro che un solo autore (9).
La conclusione si impone: tra la redazione del De Sacramentis

(8 ) C f T h . K lauser , op. cit., p p . 3 4 -3 5 .


(9) C f l ’in tr o d u z io n e d i B . B o t t e a lla su a e d iz io n e e t r a d u z io n e d e l
De mysteriis e d e l De Sacramentis ( = S o u r c e s c h r é t ie n n e s , 25 b is ) , P a r is
1961.

199
e quella del De mysteriis, Milano ha dovuto adottare la liturgia
di Roma, su punti in cui differiva. In altre parole: le cose
hanno dovuto avvenire esattamente all'opposto della supposi-
zione precedente: non è Roma che, al tempo di Ambrogio, ten-
de a prendere la liturgia milanese (per quanto differivano al-
lora), ma è Milano che tende a prendere la liturgia romana.
È dunque meglio abbandonare tutte queste ipotesi, rinun-
dare puramente e semplicemente alle idee di dislocazione, di
smembramento, di metamorfosi deireucaristia romana, rinun-
ciare alla supposizione infondata che sta airorigine di tutto ciò.
Se Ippolito ci può informare su certe caratteristiche di un'eu-
caristia arcaica, la quale, nella sua epoca, doveva essere già
da molto tempo scomparsa da Roma, e certamente anche in
molte altre parti, non bisogna chiedergli, però, !,origine del-
!,eucaristia romana - come l'abbiamo almeno da san Gregorio
Magno in poi - dato che la sua formazione era già molto avan-
zata al tempo di sant’Ambrogio.

La liturgia alessandrina
Dobbiamo per questo rinunciare a capire la genesi del
Canone romano? Certamente no. Se Ippolito non ci può es-
sere di nessun aiuto per questo, e rischia anzi di portarci fuori
strada, abbiamo però altri testimoni - e alcuni anteriori allupo-
ca di Ambrogio - di un rito apparentato con quello romano,
così come lo conosciamo, e la cui evoluzione ci è un po’ più
nota. Ci sono molte ragioni per pensare che sarebbe più pro-
ficuo avviarsi su quest'altra pista.
Il rito di cui parliamo adesso è quello d'Egitto, e più par-
ticolarmente della metropoli di Alessandria. Ancora una voi-
ta, tra le forme solidamente attestate dell'eucaristia romana e
quelle dell'eucaristia alessandrina, le analogie di contenuto, di
struttura e perfino le somiglianze di espressione sono molte-
plici. Se vogliamo, perciò, riunire tutti gli elementi capaci di
illustrare la genesi dell'eucaristia romana attuale, conviene stu-
diaria in relazione con l'eucaristia alessandrina. Qui siamo su
un terreno solido, e l'adozione del principio di spiegazione,
anziché moltiplicare i problemi insolubili e rendere, in ulti-
ma analisi, inspiegabile l'evoluzione che bisogna cercare di rin-
tracciare con il suo risultato finale che abbiamo sotto gli occhi,

200
darà al confronto la possibilità di aumentare i chiarimenti.
Contribuirà, come vedremo, a rendere perfettamente compren-
sibile ciò che troppa gente si accanisce a proclamare assurdo.
È vero tuttavia, che a prima vista il rito alessandrino, più
ancora di quello romano, ci propone un’eucaristia la cui com-
plessità potrebbe passare per incoerenza. Quando lo si con-
fronta con il suo vicino, il siriaco occidentale, che molto pre-
sto lo ha influenzato fino al punto, in definitiva, di sosti-
tuirsi praticamente ad esso, il rito alessandrino sembra pre-
sentare, proprio come quello romano, esattamente gli stessi eie-
menti, ma in un ordine stranamente sparso. Non c’è però bi-
sogno di continuare a lungo il confronto per comprendere che
sarebbe un avviarsi di nuovo su una falsa pista se si volesse
spiegare l’eucaristia alessandrina partendo da un’eucaristia si-
riaca occidentale in cui tutto sarebbe stato sparpagliato disor-
dinatamente. L’ordine dell’eucaristia siriaca occidentale, come
vedremo presto, per quanto sia stupendo, è infatti, evidente-
mente, un ordine voluto, sistematico, ottenuto con i proce-
dimenti di una retorica elaborata. Non solo, ma è stato
concepito nell’ambito di una teologia trinitaria anch’essa mol-
to evoluta. È stato dunque quest’ordine ad essere visibilmente
introdotto, in seguito, tra gli elementi che .abbiamo la fortuna
di trovare nell’eucaristia alessandrina in uno stadio anterio-
re, se non addirittura primitivo. Si comprende benissimo con
quali procedimenti e a partire da quali princìpi sia stato pos-
sibile passare da uno stadio dell’eucaristia, come quello che è
durato a lungo in Egitto, a quello che si è instaurato innanzi
tutto nella Siria occidentale, prima di imporsi nello stesso Egit-
to. Non si comprenderebbe assolutamente come possa essere
sorta l’idea di smembrare l’ordine siriaco, se fosse stato pri-
mitivo (ancora una volta, pare impossibile che lo sia stato), per
giungere all’ordine egiziano. E, proprio in Egitto, possiamo ve-
dere il passaggio che si opera nel senso inverso.
Perciò se vogliamo avere qualche possibilità di cogliere
allo stato nascente quei nuovi tipi di liturgie eucaristiche che
il secolo IV avrebbe diffuso ovunque per inserirle definitiva-
mente nella tradizione, dobbiamo partire dalla liturgia ales-
sandrina per accostarla poi alla liturgia romana; tuttavia le
sue origini sono abbastanza anteriori.
Nella liturgia greca, detta di san Marco, classica per mol-

201
to tempo nella Chiesa di Alessandria, e di cui la liturgia copta,
detta di san Cirillo, è soltanto una traduzione (10), l’euca-
ristia segue uno schema che abbiamo già abbozzato e che ri-
cordiamo:
1) rendimento di grazie iniziale;
2) prima preghiera che richiama il sacrificio (la chiame-
remo pre-epiclesi);
3) abbondanti intercessioni e commemorazioni, che ter-
minano con una preghiera perché il sacrificio sia gradito
(inizio della prima epiclesi);
4) ripresa del rendimento di grazie che porta al
Sanctus;
5) nuova preghiera che chiede, con maggiore insistenza,
Faccettazione del sacrificio, con una invocazione formale per
la consacrazione degli elementi (prima epiclesi in questo
rito);
6) racconto dell’istituzione;
7) anamnesi;
8) ultima invocazione perché il sacrificio offerto sia ac-
cetto e perché abbia in tutti noi i suoi effetti di grazia (se-
conda epiclesi);
9) dossologia finale.
Il blocco che va da 6) a 9) corrisponde evidentemente a
tutta la finale della preghiera eucaristica come era fin dalle
origini e non ci pone dunque problemi nuovi. È la struttura
e Porigine del blocco che va da 1) a 5) che deve richiamare
ora la nostra attenzione.
Notiamo prima di tutto che il dialogo introduttivo è lo
stesso di quello che si ha nelFeucaristia di Ippolito, con que-
sta sola differenza: invece di avere « Il Signore sia con voi »,
si ha, alFinizio: « Il Signore sia con tutti».
Dopo questo, 1) sviluppa un rendimento di grazie che è
interrotto dal seguito delle preghiere e delle commemorazioni,

(10) Cf, per queste liturgie, I. M. H ans sens , I n s t i t u t i o n e s litu r g ic a e


de ritib u s tomus III, pars altera, Roma 1932, pp. 632ss.
o r ie n ta lib u s ,
La bibliografìa va completata con J. M. Sauget, B ib lio g r a p h ic d e s litu r-
g ie s o r ie n ta le s , Roma 1962, pp. 32ss e 82ss.

202
ma che poi viene ripreso nel punto 4), per sfociare nel Sanctus.
Questo rendimento di grazie passa, come siamo abituati, dal
tema della creazione a quello della redenzione. L’uomo fatto
a immagine di Dio, decaduto ma rialzato dall’incarnazione re-
dentrice di Cristo, qualificato di Sapienza e di luce, è al cen-
tro delle prospettive (il che è molto alessandrino, prolungamen-
to nel cristianesimo della linea sapienziale che abbiamo osser-
vato nelle preghiere giudaiche del libro VII delle Costituzioni
apostoliche). Quando il rendimento di grazie riprende, si con-
centra sul Nome divino - secondo un altro tema al quale sia-
mo già familiarizzati - glorificato al di sopra di tutte le « po-
tenze », nel secolo presente e nel secolo futuro. Esso porta al-
revocazione del culto angelico e al Sanctus.
Ecco il testo della liturgia di san Marco, come lo riporta
il Brightman:
« È veramente degno e giusto, santo, equo e salutare alle
nostre anime, rendere lode a te che sei Padrone, Signore,
Dio, Padre onnipotente, inneggiare a te, renderti grazie e
narrare i tuoi grandi prodigi (άνθομολογεΐσθαι) notte e gior-
no, con bocca che non si stanca, con labbra che non sanno
tacere, con un cuore che non si appaga: a te, dico, che
hai fatto il cielo e quello che si trova nel cielo, la terra
e quanto è sulla terra, i mari, le sorgenti, i fiumi, i laghi
e tutto quanto in essi si trova; a te, che hai creato Puomo
a tua immagine e somiglianza e gli hai dato la gioia del
paradiso. Ma quando egli ha disubbidito alla tua volontà,
tu non Phai disprezzato né abbandonato, ma nella tua bontà
Phai richiamato con la legge, Phai istruito coi profeti, e
infine Phai riformato e rinnovato con questo terribile, vi-
vificante e celeste mistero. Tu hai fatto tutto questo con
la tua Sapienza, la vera Luce, Punigenito tuo Figlio, Si-
gnore, Dio e nostro Salvatore Gesù Cristo, per mezzo del
quale, a te, con lui medesimo e lo Spirito Santo rendendo
grazie, noi offriamo questo culto spirituale (λογικήν...
λατρείαν) e incruento: [culto] che ti offrono, Signore, tut-
te le nazioni dal levar del sole fino al tramonto, da set-
tentrione a mezzogiorno perché grande è il tuo Nome fra
tutte le nazioni e in ogni luogo viene offerto al tuo santo
Nome Pincenso e il sacrifìcio (puro) e Poblazione... » (11).

(11) F. E. Brightman, L itu r g ie s E a s te r n a n d W e s te r n I: E a s te r n


L itu r g ie s , Oxford 1896 (è uscito solo questo volume), pp. 125ss. Questo

203
«... Perché tu stai al di sopra di ogni principato, di ogni
autorità, di ogni potenza e dominazione, e di ogni nome
che viene proclamato, non solo in questo secolo ma anche
in quello che deve venire. Davanti a te stanno migliaia e
migliaia e infinite miriadi di santi Angeli ed eserciti di
Arcangeli. Davanti a te stanno i tuoi due venerabilissimi
viventi, come pure i Cherubini dai molteplici occhi e i
Serafini dalle sei ali, i quali con due si coprono il volto,
con due i piedi e con le altre due volano, e gridano l’un
l'altro con voce incessante e con inni divini (θεολογίαις)
che non tacciono mai; cantano, acclamano, glorificano, gri-
dano Pinno della vittoria e il trisagio, dicendo alla tua
gloria sovra-eminente: S a n t o , s a n t o , s a n t o , il S i g n o r e S a -
b a o th . Il c ie lo e la te r r a so n o p ie n i d e lla tu a s a n ta
‫ן‬ g lo r ia » (12).

Ancora una volta questo testo, con i suoi richiami sapien-


ziali, è particolarmente vicino alle preghiere giudaiche del
libro VII delle Costituzioni apostoliche, mentre il suo umane-
simo « logico » è caratteristico del cristianesimo alessandrino,
come è anche tipicamente egiziano, nel ricordo della creazio-
ne, l'insistere sulle acque delle sorgenti, dei fiumi e dei laghi.
Ma la prima origine è indiscutibile: è un rimaneggiamento cri-
stiano delle beràkòt sinagogali associate al Sanctus. Vi si
noterà che la Qedussà è riferita senza il versetto di Ezechiele
che benedice la presenza divina invece della sua dimora. Que-
sta omissione, probabilmente, viene dal fatto che i cristiani
che hanno utilizzato questa preghiera capivano ancora che qui
si trattava di una benedizione per la presenza divina nel san-
tuario gerosolimitano, ormai priva di oggetto. Più tardi, vi
sostituiranno un'altra benedizione indicante che la Sekinà, per
essi, è ora stabilita nelPumanità del Salvatore.
Molto interessante - e tipico del cristianesimo patristico -
è anche l'accenno al « sacrificio puro » offerto a Dio in tutti
i luoghi tra le nazioni. Come abbiamo già fatto osservare, que-
sta citazione di Ml 1, secondo Giustino, era invocata dai rab-
bini in quanto si applicava alle beràkòt rivolte a Dio dagli ebrei
della diaspora. Ma lo stesso testo oppone a questa interpreta-

testo è stabilito sul C o d e x R o s s a n e n s is , del secolo XII. - Cf PE 102103‫;־‬


LdC 425-426.
(12) F. E. Brightman, o p . c i t ., pp. 131ss. - Cf PE 110-111; LdC 426.

204
zione quella dei cristiani: il « sacrificio puro » offerto tra le
nazioni è certamente !,eucaristia cristiana (13).
Passiamo alle intercessioni e commemorazioni. Questi te-
sti, in tutte le liturgie orientali, hanno sempre avuto la tendenza
a svilupparsi, addirittura a « gonfiarsi » progressivamente. Nel
caso presente della liturgia di san Marco, lo vedremo tra poco,
abbiamo le prove che il testo, anche se ha subito amplifica-
zioni progressive, rimane, in questa parte, sostanzialmente fe-
dele a uno schema molto antico.
Tra le due invocazioni del Nome divino in cui è inserita
la supplica nel rendimento di grazie, noi troviamo successi-
vamente preghiere per la Chiesa in genere, per la pace in cielo
e in questa vita, per la guarigione da ogni male, dalla morte
e dal peccato, per i cristiani assenti da casa loro, per la piog-
già, le stagioni favorevoli, la fecondità della terra, per le au-
torità. Viene poi una commemorazione dei defunti, in cui i
santi e Pinsieme dei fedeli defunti sono oggetto di una sola
preghiera (indizio di remota antichità), a cui, nella finale, so-
no associati i vivi, perché tutti insieme abbiano « la loro parte
e la loro eredità con i santi ».
Qui si sono introdotti i dittici, cioè Pelenco dei nomi di
coloro che si voleva ricordare in modo particolare (14).
Segue poi una raccomandazione delle offerte e unfinvoca-
zione per Taccettazione del sacrificio, che comporta una se-
rie di invocazioni particolareggiate per gli offerenti, o per co-
loro secondo le cui intenzioni lo si offre: innanzi tutto i ve-
scovi, i presbiteri e tutto il clero, il popolo cristiano, e infine
una supplica contro i nemici della Chiesa. Dopo una specie
di ricapitolazione generale di tutte le intenzioni di intercessio-
ne elencate, si ritorna, con !,invocazione ripetuta del Nome di-
vino, al rendimento di grazie (15).

(13) G iustino , D ia lo g o c o n T r if o n e , c, 41.


(14) Non possiamo qui entrare in tutti i problemi posti dai dittici.
Cf la dissertazione di E. B ishop, stampata con Pedizione delle H o m ilie s
o f N a r s a i , a cura di R. H. Connolly ( = Texts and Studies, V ili), Cam-
bridge 1909, pp. 97ss.
(15) Cf F. E. Brightman, o p . c it ., pp. 128ss. Daremo più avanti
quello che si possiede di certo delle forme primitive delle intercessioni
e commemorazioni egiziane. Siccome tutte queste preghiere spesso variano
molto da un manoscritto alPaltro della stessa liturgia, riporteremo il

205
Notiamo qui che la preghiera che verrà dopo il Sanctus
non farà altro che riprendere anch’essa il tema della raccoman-
dazione del sacrificio, per chiedere di nuovo, e più formalmente,
che Dio stesso lo consacri. Così si può dire che, come Pin-
sieme delle intercessioni è inserito nel rendimento di grazie, la
finale, di questo, con il Sanctus, è inserita a sua volta nella do-
manda finale di accettazione del sacrificio eucaristico, di cui un
primo ricordo nel rendimento di grazie iniziale aveva richiamato
le intercessioni.
Se adesso teniamo presente il contenuto e Lordine delle be-
nedizioni della Tefillà, saremo colpiti nel vedere come i temi
della preghiera si corrispondano esattamente, tenendo conto
delle trasposizioni inevitabili. Soltanto il loro ordine è un po'
alterato, ma non completamente.
Nella Tefillà, la prima benedizione ricordava le azioni sante
dei « padri » del popolo di Dio e la loro attesa di un redentore.
La seconda rendeva grazie per la vita, per la sua conservazione
e per la risurrezione. La terza benediceva il Nome divino. Qual-
cosa di questo sembra proprio essere passato già nella finale
della prima parte del nostro rendimento di grazie, con il ri-
chiamo del culto definitivo offerto oggi grazie al Redentore che
ci rende i doni perduti col peccato, e poi con la benedizione
del Nome divino.
Le benedizioni impetratone della Tefillà pregavano sue-
cessivamente per la penitenza, il perdono, la redenzione, la gua-
rigione, la pioggia e le stagioni favorevoli che portano pace e
prosperità, la liberazione dei prigionieri e dei dispersi, le au-
torità, contro i minim, per i fedeli, e infine Ledificazione esca-
tologica della città santa e la venuta del Messia.
Seguivano le benedizioni Tefillà e ‘Abòdà, che chiedevano
!,esaudimento delle preghiere e il gradimento dei sacrifici di
Israele. Infine, la benedizione Hòdà’à lodava di nuovo il Nome
divino, mentre la Birkat ha-kohanim ricapitolava i temi delle
intercessioni.
La corrispondenza dei temi è impressionante, come pure
^analogia, se non di tutto il seguito dello sviluppo, almeno del
suo schema: tra un richiamo del culto reso a Dio da parte del

testo integrale solo per le C o s t i t u z i o n i a p o s to lic h e e per quella parte


della liturgia di san Giacomo che sembra primitiva.

206
popolo fedele (nell'attesa, e ora grazie alla venuta, del Reden-
tore) e una supplica finale per Paccettazione delle preghiere e
dei sacrifici di questo popolo, e parimenti con !'invocazione, nel-
le due successioni di preghiere, del Nome divino che apre e
conclude le intercessioni e le commemorazioni.
Ma la somiglianza diventa ancora più stretta se, invece di
prendere come termine di paragone la formula delle Semonèh-
‘Esréh che si è finalmente imposta all'uso sinagogale (mentre
rimaneva più fluttuante al tempo delle origini cristiane), noi
prendiamo la formula particolare della Tefillà che abbiamo ri-
trovato nel libro VII delle Costituzioni apostoliche. Qui essa
porta già i segni della sua utilizzazione da parte dei cristiani,
e abbiamo già tutte le ragioni di credere che anch’essa sia
alessandrina.
In questa, come nella liturgia di san Marco, non solo la
Qedussà, ma anche le benedizioni che precedevano la sua re-
cita, prima dello Sema, sono venute a inserirsi in mezzo alla Te-
fillà. Allo stesso modo, questa formula crea, prima del nucleo
della Qedussà, un processo di attrazione del contenuto delle
preghiere che lo seguono nella Tefilla divenuta classica. La IV,
V, VI, VII e V ili sono così come incorporate alla III: la be-
nedizione del Nome. Allo stesso modo, questa Tefillà alessan-
drina raggruppava la XIV, XV, XVI e XVII benedizione (per
l'edificazione di Gerusalemme, la venuta del Messia, l'accetta-
zione delle preghiere e dei sacrifici di Israele) in una sola grande
invocazione finale. Di più, essa introduceva in quest'ultima sup-
plica un elenco dei sacrifici del passato che erano stati ac-
cettati da Dio. Abbiamo la stessa cosa nell'eucaristia di san
Marco, e i due giusti dell'Antico Testamento che vi sono men-
zionati sono Abele e Abramo, che erano pure all'inizio della
lista nella preghiera data dalle Costituzioni apostoliche.
Questa analisi, sembra, ci permette fin d'ora di concludere
che la presenza universale, nei testi dell'eucaristia che appaiono
fissi a partire dal IV secolo, del Sanctus e del rendimento di
grazie che lo precede, delle intercessioni particolareggiate e
delle commemorazioni dei santi proviene dalla congiunzione, di-
venuta abituale, del servizio di letture e di preghiere con il
banchetto eucaristico. Nel primo di questi servizi, tutti questi
elementi del servizio sinagogale avevano potuto sussistere pur,
ben inteso, evolvendosi. Quando questo servizio si è unito al

207
banchetto eucaristico, le preghiere che lo terminavano, come
nell’antico uso giudaico, si sono combinate in un tutt’uno con
la preghiera eucaristica del banchetto sacro. Il loro carattere
già « eucaristico », nel senso etimologico della parola, rendeva
questa fusione del tutto naturale. Era anche inevitabile che
comportasse certi ingorghi, per il fatto che i due blocchi com-
prendevano gli stessi elementi di rendimento di grazie per la
creazione e la redenzione, e di preghiera per il compimento del-
le gesta di Dio, oggetto della beràkà-eucharistia.
È quanto ci resta da vedere studiando ora che cosa siano
divenuti, nella liturgia alessandrina, gli elementi della pre-
ghiera eucaristica propri del pasto sacro.
Prima, però, conviene citare alcune testimonianze antiche
circa !,eucaristia egiziana. Esse ci assicureranno, da una parte,
l’antichità sostanziale dello schema delle intercessioni e com-
memorazioni conservate nelle forme più tardive della liturgia
di san Marco. Permetteranno inoltre di distinguere, nella sua
ultima parte, le forme antiche da quelle evolute che il testo per-
venuto ci fa conoscere.

L’anafora di Dèr‫־‬Balizèh e il papiro Andrieu-Collomp

L’anafora di Dèr-Balizèh, che ci è stata trasmessa da un pa-


piro del secolo VI, è purtroppo incompleta. Il testo comincia con
la fine delle intercessioni, e comporta una lacuna di almeno se-
dici righe tra la fine dell’anamnesi e l’inizio dell’epiclesi che se-
gue. Però un altro papiro, questo del secolo IV, pubblicato da
Andrieu e Collomp, ci dà, in compenso, un inizio di anafora
dello stesso tipo, che, accostato al testo precedente, ci permei-
te di verificare la continuità della tradizione alessandrina per
questa prima parte.
Ecco innanzi tutto questo ultimo testo, in cui è chiaro che
mancano proprio le prime parole:
« ... [È degno e giusto]... di celebrare, giorno e notte, te
che hai fatto il cielo e tutto quello che vi si trova, la terra
e tutto quello che essa contiene, il m are e i fiumi e gli
esseri che li popolano. T u hai creato l ’uom o a tua imma-
gine e som iglianza, hai disposto ogni cosa con la tua
sapienza e con la sola vera luce, quella di tuo Figlio,
nostro Signore e Salvatore, G esù Cristo.

208
Per questo ti rendiamo grazie, con lui e con lo Spirito
Santo; ti offriamo quest'oblazione spirituale, questo sacri-
fìcio incruento con tutti i popoli, dall'oriente all'occidente,
dal nord al sud, perché il tuo Nome è santo tra tutte le
nazioni. In ogni luogo si offre incenso al tuo santo Nome,
un'offerta pura, un sacrificio, un'oblazione.
Ti preghiamo e ti supplichiamo: ricordati della santa e
unica Chiesa cattolica, di tutti i popoli e di tutte le greggi.
Concedi la pace, che è del cielo, a tutti i nostri cuori, e
facci la grazia della pace durante tutta la vita.
E per il re della terra: che i suoi disegni siano disegni di
pace per noi e per il tuo santo nome... » (16).
Tutto questo concorda, quasi parola’ per parola, eccetto al-
cune abbreviazioni, col testo di san Marco diventato classico.
Non bisogna concludere da queste differenze che esse suppon-
gano ogni volta delle amplificazioni posteriori, perché parec-
chie formule più sviluppate della liturgia di san Marco seguono
più da vicino il testo della beràkà giudaica precedente la Qe-
chissà.
Ed ecco ora il frammento di anafora di Dèr-Balizèh. È chia-
ro che riproduce una formula dello stesso tipo, a partire dal-
l'ultima petizione contro gli infedeli e per i fedeli.
«... quelli che ti odiano. La tua benedizione sia sul tuo
popolo che compie la tua volontà! Solleva quelli che sono
caduti, riconduci gli smarriti nella dritta via, rendi forti
quelli che mancano di coraggio.
Perché tu sei al di sopra di ogni principato, potenza, forza,
signoria, al di sopra di ogni nome pronunziato, non solo
nel secolo presente, ma nel secolo futuro. Accanto a te
stanno le migliaia di Angeli santi e gli eserciti innumerevoli
degli Arcangeli, e con loro i Cherubini che hanno molti
occhi; accanto a te stanno in cerchio i Serafini dalle sei
ali: due nascondono loro il viso, due i piedi, con due
volano. Tutti proclamano in ogni luogo che tu sei santo.
Con tutti quelli che ti acclamano, ricevi la nostra obla-
zione di oggi, mentre ripetiamo: Santo, santo, santo, il Si-
gnore Sabaoth! Cielo e terra sono pieni della tua gloria.
Riempi anche noi della tua gloria. E degnati di mandare

(16) Cf M. A n d r i e u ‫ ־‬P. C o l l o m p , Fragments sur papyrus de Vana-


phore de saint Marc, in RevSR 8 (1928) 500. - PE 116-Π9; EEFL n. 542;
LdC 425; H am m an 327328‫־‬.

209
il tuo Spirito Santo su queste offerte che hai create, e fa*
di questo pane il corpo del nostro Signore e Salvatore
G esù Cristo, e del calice il sangue della nuova alleanza
del nostro stesso Signore e Salvatore G esù Cristo. E come
questo pane è stato disperso sulle m ontagne, sulle colline
e nelle valli, e riunito è diventato un corpo; come pure
questo vino zam pillato dalla santa vite di D avid e questa
acqua, scaturita dall'A gnello im m acolato, sono divenuti,
m escolati, un solo m istero, così riunisci la Chiesa cattolica
di G esù Cristo.
Perché nostro Signore, G esù Cristo, la notte in cui fu
tradito, prese del pane nelle sue m ani sante, rese grazie,
10 benedisse, lo consacrò, lo spezzò e lo diede ai suoi
discepoli e apostoli dicendo: Prendete, m angiatene tutti: que-
sto è il mio Corpo, dato per voi, in rem issione dei pec-
cati. Sim ilm ente dopo il pasto, prese il calice e rese gra-
zie, ne bevve, lo diede loro dicendo: Prendete, bevetene
tutti: questo è il mio Sangue versato per voi, in remis-
sione dei peccati. O gniqualvolta voi m angiate questo pane
e bevete questo calice, annunciate la m ia m orte, p ro d a-
m ate la m ia risurrezione, ricordate me.
11 popolo:
La tua m orte annunciam o, la tu a risurrezione proclamia-
mo. E preghiam o...
... concedi a noi tuoi servi, la forza dello Spirito Santo, il
consolidam ento e l'accrescim ento della fede, la speranza
dell'eterna vita fu tu ra per nostro Signore G esù Cristo: a
lui e a te, Padre, appartiene la gloria, e allo Spirito Santo,
nei secoli! A m en » (17).

Questa lacuna sottopone evidentemente gli storici della li-


turgia al supplizio di Tantalo. Avevamo qui, dopo Panamnesi,
una seconda epiclesi rivolta allo Spirito, e, posto che fosse così,
che cosa gli chiedeva di realizzare? Oppure, al contrario, qui
come nello stadio primitivo del testo di Ippolito, avevamo sem-
plicemente una domanda di unione dei cristiani per !,edifica-
zione del corpo di Cristo, che includeva la menzione dello Spi-
rito come a sigillo di questa unità? Probabilmente non potremo
mai rispondere a queste domande, a meno che un caso fortuito

(17) Cf C. H. Roberts - B. Capelle, A n e a r ly E u c h o lo g iu m . T h e


D è r -B a liz è h P a p y r u s e n la r g e d a n d r e e d i t e d , Louvain 1949. - Vedere an-
che PE 124-127; LdC 426-427; H amman , 326-327.

210
non faccia sorgere dalle sabbie dell’Egitto un secondo mano-
scritto, completo, della stessa preghiera.

!,,anafora di Serapione
Nell’attesa di questa fortuna improbabile, abbiamo forse
qualche possibilità di congetturare una forma ancora più anti-
ca della, o meglio, delle epiclesi egiziane. L’indizio più interes-
sante che abbiamo a questo riguardo ci è fornito da un docu-
mento della metà del secolo IV. È l’eucologio di Serapione di
Thmuis, quel vescovo che fu amico e corrispondente di sant’Ata-
nasio. I commentatori della preghiera eucaristica che esso con-
tiene sottolineano giustamente tutto ciò che vi è di molto perso-
naie nella redazione di questa preghiera. Vi si ritrova uno stra-
no miscuglio di immagini giovannee, tendenti verso una specie
di gnosticismo innocuo e di gergo filosofico, vagamente mista-
gogico, già presente in Clemente di Alessandria nel secolo pre-
cedente, e che fiorirà maggiormente, in seguito, con Sinesio di
Cirene (18). Ne risulta che certi temi essenziali all’eucaristia tra-
dizionale si sono più o meno volatilizzati. Nondimeno, lo sche-
ma dell’eucaristia alessandrina vi si ritrova dovunque, anche
se il più delle volte soltanto in filigrana. E, come vedremo, non
è così sicuro che tutte le particolarità di Serapione siano soltan-
to un riflesso della sua fantasia teologica o retorica.
« 1. È degno e necessario lodare, cantare, glorificare te,
Padre increato del Figlio unico Gesù Cristo. 2. Ti lodia-
mo, Dio increato, imperscrutabile, ineffabile, incomprensi-
bile ad ogni natura creata. 3. Lodiamo te che sei cono-
sciuto dal Figlio unico, te che da lui sei annunziato, inter-
pretato e rivelato alla natura creata. 4. Lodiamo te che
conosci il Figlio e riveli ai santi le glorie che lo riguar-
dano, te che sei conosciuto dal Verbo che hai generato, te
che sei rivelato ai santi. 5. Ti lodiamo, Padre invisibile,
Ordinatore immortale. Tu sei la sorgente della vita, la
sorgente della luce, la sorgente di ogni grazia e di ogni
verità. Amico degli uomini, amico dei poveri, benigno ver-
so tutti, li attiri tutti a te con la venuta del tuo Figlio
diletto. 6. Ti preghiamo, fa’ di noi degli uomini vivi.

(18) Cf gli In n i di quest’ultimo, nell’edizione di N. T erzaghi, Roma


21949.

211
Dacci lo spirito di luce, affinché conosciamo te, il Vero, e
colui che hai mandato, Gesù Cristo. Dacci lo Spirito
Santo, affinché possiamo dire e raccontare i tuoi misteri
ineffabili. 7. Parli in noi il Signore Gesù con lo Spirito
Santo; ti celebri per mezzo di noi.
8. Perché tu sei al di sopra di ogni principato, potenza, for-
za, signoria, al di sopra di ogni nome pronunziato, non
solo nel secolo presente ma nel secolo da venire. 9. Mi-
boni e miliardi di Angeli, di Arcangeli, di Troni, di Domi-
nazioni, di Principati, di Potenze, sono vicini a te e
soprattutto i due venerabili Serafini dalle sei ali: con due
si velano la faccia, con due i piedi, con due volano; essi
cantano la tua santità. 10. Ricevi la nostra acclamazione
insieme con la loro quando diciamo: Santo, santo, santo il
Signore Sabaoth! Pieno il cielo e la terra della tua gloria
meravigliosal
11. [...] Signore delle potenze, riempi questo sacrificio con
la tua possente partecipazione. Perché a te offriamo que-
sto sacrificio vivente, questa oblazione incruenta. 12. A te
offriamo questo pane, figura del corpo del tuo Figlio
unico. Questo pane è la figura del santo Corpo, perché
il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del
pane, lo spezzò e lo diede ai discepoli, dicendo: Prendete
e mangiate tutti: questo è il mio corpo spezzato per voi
in remissione dei peccati. 13. Per questo noi, celebrando
la memoria della sua morte, offriamo questo pane e pre-
ghiamo: per questo sacrifìcio sii propizio a noi tutti, sii
a noi propizio, o Dio di verità. E come questo pane, una
volta disseminato sui monti, è stato raccolto per divenire
uno, così riunisci la tua santa Chiesa da ogni razza, da
ogni paese, da ogni città, da ogni borgo, da ogni casa e fa'
di essa la Chiesa una, vivente, cattolica. 14. E noi offria-
mo questo calice, figura del Sangue, perché il Signore Gesù
Cristo, preso un calice dopo il pasto, disse ai discepoli:
Prendete, bevete, questa è la nuova alleanza, questo è
il mio sangue, versato per voi in remissione dei peccati.
Per questo offriamo il calice, figura del Signore.
15. Dio di verità, venga il tuo santo Verbo su questo pane,
perché il pane diventi il corpo del Verbo; e su questo
calice, perché il calice diventi il sangue della Verità. E
fa' che tutti coloro che si comunicano ricevano il rimedio
di vita, per la guarigione da ogni infermità, per il consoli-
damento di ogni progresso e di ogni virtù, e non perché

212
sia loro di condanna, Dio di verità, né di peso o di con-
fusione.
16. Abbiamo invocato te, Flncreato, per il Figlio unico,
nello Spirito Santo. Questo popolo sia oggetto della tua
pietà, sia degno di progresso. Gli angeli che assistono il
popolo vincano il Maligno e consolidino la Chiesa. 17. Ti
preghiamo anche per quelli che riposano e di cui noi
facciamo memoria. 18. (Qui il ricordo dei nomi) Santifica
queste anime, perché tu le conosci tutte. Santifica tutti
quelli che si sono addormentati nel Signore. Mettili nel
numero delle tue potenze sante. Da' loro un posto e una
dimora nel tuo Regno. 19. Ricevi anche Fazione di grazie
del popolo. Benedici coloro che ti hanno portato le obla-
zioni e le eucaristie, concedi la salute, Fintegrità e la gioia
e ogni progresso delFanima e del corpo a tutto questo
popolo, per il tuo Figlio unico, Gesù Cristo, nello Spirito
Santo. Come era, è e sarà, di età in età in tutti i secoli dei
secoli. Amen » (19).
Si può attribuire al filosofismo alessandrino, anzi clementi-
no, di Serapione, Fassorbimento di quasi tutta la preghiera
nella conoscenza e nella vita, anche se questi sono temi biblici
già centrali nelle beràkòt giudaiche e lo sviluppo che dà ad es-
si è tutto giovanneo. Più caratteristica di questa « gnosi », per
quanto ortodossa sia nel suo fondo, è forse la scomparsa del
culto spirituale (λογική λατρεία) e delFofferta non cruenta la
cui menzione, al termine della prima parte del rendimento di
grazie, sembra tradizionale in Egitto. Ritroveremo tutto questo,
in Serapione, dopo il Sanctus, ma non vi troveremo la prima rac-
comandazione delFofferta, che viene di solito al termine del-
Fintercessione inserita. Probabilmente, nella sua mente, « dire e
raccontare i tuoi misteri ineffabili » (evidentemente: nella pre-
ghiera eucaristica) era un equivalente sufficiente.

(19) Edito prima da A. D imitriewsky , a Kiev nel 1894, e poi da G.


W0BBERM1N, nel 1898, come secondo volume della collana « Texte und
Untersuchungen » diretta da Gebhardt e Harnack, Y E u c o lo g io d i S e ra -
p i o n e è stato ristampato da F. X. F unk in un secondo volume (T e s t i m o -
n ia e t S c r ip tu r a e p r o p i n q u a e , Paderborn 1905) della sua edizione delle
C o s titu z io n i a p o s to lic h e . Il testo delFanafora si trova alle pp. 172ss. Cf
B. Capelle, U a n a p h o r e d e S é r a p io n . E s s a i d ’e x é g è s e , in « Muséon » 59
(1946) 425443‫־‬. - PE 128133‫ ;־‬EEFL nn. 563569‫־‬. Testo italiano in:
H amman , 168171‫ ;־‬LdC 424ss.

213
Si deve invece credere che anche la riduzione di tutta la pre-
ghiera d'intercessione al solo paragrafo che chiede la vita e la
conoscenza, prima stranezza apparente di questa eucaristia, prò-
venga dalla teologia particolare del suo autore? È forse vero
per la formulazione che le dà. Più avanti, però, vedremo che
non manca un motivo valido per supporre che potesse credersi
autorizzato, da una tradizione che conosceva, a condensare in
questo modo le intercessioni dell'inizio in una sola preghiera.
Che dire allora delle particolarità delle due epiclesi: quella
che precede il racconto dell'istituzione e quella che lo segue?
Vedremo tra poco, riprendendo la lettura dell'anafora di san
Marco, che questa duplice epiclesi è un tratto caratteristico del-
la tradizione alessandrina. Però, nel testo di Dèr-Balizèh, la pri-
ma chiedeva già la trasformazione degli elementi nel corpo e
sangue di Cristo e chiedeva che ciò avvenisse con una discesa
dello Spirito. Ancora una volta il carattere lacunoso del testo
ci permette forse di supporre, anche in questo testo - vista la
lunghezza della lacuna - una seconda epiclesi, ma non ci per-
mette di indovinarne il contenuto. Comunque sia, in Serapione,
né la prima né la seconda epiclesi contengono una menzione
dello Spirito, e solo nella seconda è chiesta la trasformazione,
ma la si attende da una discesa del Logos.
Si deve ancora una volta attribuire quest'ultima particolari-
tà alla fantasia di Serapione? Molti commentatori lo affermano,
ma sembra poco probabile. In primo luogo, stando alla sola
lettura del suo testo, è evidente che tende a introdurre dovun-
que lo Spirito Santo. La sua preghiera, quantunque relativa-
mente breve, lo menziona quattro volte in punti dove nessun'al-
tra liturgia eucaristica conosciuta lo introduce. Sarebbe già mol-
to strano, in queste condizioni, che lo avesse cancellato proprio
là dove la tradizione lo avrebbe messo, se, a metà del IV se-
colo, in Egitto, fosse esistita una simile tradizione. Se poi si tie-
ne presente quello che sappiamo da altre fonti sulla personalità
di Serapione, ciò diviene più che mai inverosimile (20). A par-

(20) Cf Tintroduzione di J. Lebon alla sua edizione e traduzione


delle L e t tr e s à S é r a p io n s u r la d i v i n i t é d u S a in t- E s p r it di sant'ATANASio,
nella collana « Sources chrétiennes » (voi. 15, Paris 1947). B. Botte, L ’E u -
c o lo g e d e S é r a p io n e s t-il a u th e n tiq u e ? (in OrChr 48 [1964] 50ss) pensa
infatti che !,autore potrebbe essere un pneumatomaco della fine del se­

214
te infatti questo eucologio, ciò che conosciamo di certo su di
lui, è che si preoccupava di combattere ariani, o arianizzanti,
che mettevano in dubbio la divinità dello Spirito Santo. È stato
appunto per rispondere alla sua richiesta su questo punto che
Atanasio ha composto le lettere dottrinali che gli ha indirizzato.
Come è possibile, allora, che Serapione abbia potuto commet-
tere quella mossa falsa che gli si attribuisce, dal momento che
è direttamente opposta alle sue preoccupazioni? Se ci fosse già
stata, nella tradizione dell'eucaristia, una preghiera che chiede
allo Spirito di operarne la consacrazione, egli sarebbe stato l'ul-
timo a manipolarla per attribuire al solo Logos questo inter-
vento propriamente divino!
Ciò che si può supporre è che le epiclesi alessandrine, nella
sua epoca, non menzionassero nessuna persona divina in parti-
colare (vedremo presto che ciò non è inverosimile) e che sia stato
lui ad avere l'idea di attribuirne almeno una al Logos.
Un'altra particolarità dell'eucaristia di Serapione sta in quel-
lo che segue quest'ultima epiclesi: menzione degli Angeli, ricor-
do dei defunti, e ultimo sviluppo di una preghiera per gli offe-
renti e per tutto il popolo di Dio. Anche questo lo ritroveremo
presto altrove, ed è proprio il caso di pensare che l'inventore
non sia Serapione.
Però la particolarità più importante del suo testo è che il
racconto dell'istituzione non precede l'anamnesi, ma vi è come
innestato. Si ritrovano, nella liturgia etiopica e altrove, altri
esempi di questa particolarità che ci sembra abbastanza strana.
Manifesta, comunque, lo stretto legame sentito nell'antichità tra
l'anamnesi e l'introduzione del racconto nella stessa preghiera
eucaristica. Ci si può chiedere se una sistemazione del genere
non sia altrettanto antica, anzi forse più antica di quella che è
infine prevalsa e che consiste nel coordinare il racconto all'anam-
nesi, pur lasciandoli distinti.
Va sottolineata un'ultima particolarità di questa eucaristia:
proprio come la liturgia di Addai e Mari, proprio come le gran-
di preghiere giudaiche - fonte delle nostre preghiere cristiane -
non è veramente una preghiera, ma un seguito di preghiere bre-
vi, concatenate dal loro senso, ma completamente discontinue

colo IV. È difficile però pensare che un pneumatomaco abbia moltipli-


cato fino a questo punto le menzioni dello Spirito!

215
per la loro composizione. D’altronde, questo resterà vero, al-
meno in una certa misura, anche per le forme più tardive del-
!,eucaristia egiziana. È però molto interessante osservare que-
sto fatto nella penna di uno scrittore come Serapione, evidente-
mente imbevuto di cultura ellenica. Se, nonostante ciò, si è atte-
nuto a una forma di composizione così evidentemente semitica,
bisogna credere davvero che i modelli deireucaristia ritenuti
regolari, nella sua epoca, o comunque dove egli viveva, rimane-
vano tutti fedeli a questo schema.
Aggiungiamo ancora qualcosa che non riguarda soltanto Se-
rapione, ma anche l’anafora di Dèr-Balizèh, che egli non sembra
però avere influenzato: l’uso che l’uno e l’altra fanno, quantum
que in punti differenti, delle formule della Didachè. Si è qual-
che volta voluto concluderne che la Didachè sia di origine egi-
ziana. Ciò è del tutto inverosimile: mai un egiziano avrebbe
avuto l’idea di parlare di pane « disseminato sui monti »; ciò si
comprende benissimo, invece, in bocca a un palestinese o a un
siriano. È talmente vero che il redattore di Dèr-Balizèh ha ere-
duto dover aggiungere alle colline la menzione delle valli!
D’altra parte, ci si può anche chiedere se, proprio come Se-
rapione, egli abbia conosciuto il testo della preghiera della Dida-
chè di prima mano. L’uso che ne fanno farebbe pensare che il
testo sia giunto fino ad essi attraverso il rimaneggiamento che
si trova nel libro VII delle Costituzioni apostoliche, facendo pas-
sare la preghiera per il primo calice dopo quella per il pane, e
introducendola così nella eucaristia propriamente detta, che
suppone il pasto rituale già separato dal pasto reale.
Possiamo, dopo questa panoramica che ci è stata offerta dalle
forme più antiche dell’eucaristia egiziana, passare infine allo
stato in cui si presenta l’ultima parte dell’eucaristia, nel testo
divenuto classico di san Marco.

Anamnesi ed epiclesi nella liturgia egiziana


Quella che chiamiamo la prima epiclesi segue il Sanctus.
Vi è collegata da un richiamo che si trova in tutti i testimoni
della tradizione egiziana: la ripresa dell’idea di pienezza, tratta
dalle ultime parole del Sanctus in questa tradizione: « i cieli e
la terra sono pieni della tua gloria ». La presenza di tale richia-
mo significa che a questo punto vi è stata una interruzione. Co­

216
me abbiamo detto, l’epiclesi si trova già agganciata prima del
Sanctus e delle intenzioni per cui si offre il sacrificio, nella pri-
ma formula della sua raccomandazione a Dio:
« Accetta, o Dio, i sacrifici di coloro che offrono [le loro]
offerte, [le loro] eucaristie al tuo altare santo, celeste e
spirituale (νοερόν) nelle altezze dei cieli, mediante la litur-
già arcangelica, di coloro che hanno offerto molto o molto
poco, di nascosto o in pubblico, di coloro che vorrebbero
ma non hanno nulla da offrire, le offerte di oggi come hai
accettato i doni del giusto Abele, il sacrificio del nostro
padre Abramo, ^incenso di Zaccaria, le elemosine di
Cornelio e i due oboli della vedova, accetta parimenti le
loro eucaristie e rendi loro, in contraccambio delle [realtà]
corruttibili quelle incorruttibili, delle [realtà] terrestri quel-
le celesti, delle [realtà] temporali quelle eterne... » (21).

Evidentemente l’idea di questo scambio porta a una preghie-


ra per la trasformazione dei doni; ecco perché la presenza di
questa idea, nell’anafora di Dèr-Balizèh, come in un altro testo
che vedremo presto, si trova nella seconda parte di questa pri-
ma epiclesi, ed è probabilmente questo il suo posto originario.
Nel testo di san Marco, però, questa domanda è stata rimanda-
ta dopo l’anamnesi, nella seconda epiclesi. Ci si può chiedere
se questa trasposizione, e forse anche l’attribuzione allo Spi-
rito Santo della trasformazione richiesta, non siano i primi se-
gni di un influsso siro-occidentale sulla liturgia di Alessandria.
È vero che Serapione è già un testimone di questo spostamento,
quantunque ignori l’epiclesi che chiede la discesa dello Spirito;
però l’uso che egli fa della Didachè dimostra che è già influen-
zato dai formulari siriani.
L’attuale prima epiclesi di san Marco menziona, sì, lo Spi-
rito Santo, ma questi sembra essere invocato mediante l’idea di
pienezza: non si attende da lui la trasformazione degli elementi,
ma il compimento del sacrificio:
« Il cielo e la terra, in verità, sono pieni della tua santa
gloria grazie alla manifestazione di nostro Signore, Dio e
Salvatore Gesù Cristo: riempi ugualmente, o Dio, questo
sacrifìcio della benedizione che viene da te, mediante la
visitazione (έπκροιτήσεως) del tuo santissimo Spirito. In-

(21) F. E. Brightman, o p . c it., p. 129. - Cf PE 108109‫־‬.

217
fatti, nostro Signore e Dio e grande re (παμβασιλεύς) Qe
sù, il Cristo, nella notte in cui consegnò se stesso per ‫־‬
nostri peccati e subì la morte per tutti nella carne, esseri
do a tavola coi suoi santi discepoli e apostoli, prese del
pane nelle sue mani sante, pure e senza macchia, e alzando
gli occhi al cielo, verso di te, suo Padre, Dio nostro e di
tutte le cose, rese grazie, [lo] benedisse, lo santificò e spez-
zandolo lo distribuì tra i suoi santi e beati discepoli e
apostoli dicendo: Prendete, mangiate. Questo è il
corpo spezzato per voi e dato in remissione dei peccati
(Il popolo risponde: Amen).
Allo stesso modo, prendendo il calice dopo aver cenato, e
mescolandovi vino e acqua, alzò gli occhi verso di te, suo
Padre, Dio nostro e di tutte le cose, rese grazie, lo bene-
disse, lo santificò riempiendolo dello Spirito Santo, lo passò
ai suoi santi e beati discepoli e apostoli dicendo: Bevetene
tutti. Questo è il mio sangue della nuova alleanza, sparso
per voi e per molti e offerto in remissione dei peccati.
(Il popolo risponde: Amen).
Fate questo in memoria (ανάμνησήν) di me, perché tutte
le volte che mangiate di questo pane e bevete di questo
calice, voi annunciate la mia morte e proclamate la mia
risurrezione e la mia ascensione fino a che io venga.
Signore Dio onnipotente, Re celeste, noi annunciamo la
morte del tuo unico Figlio, Dio e nostro Salvatore Gesù
Cristo, e proclamiamo la sua beata risurrezione dai morti
al terzo giorno, come pure la sua ascensione nei cieli e
la sua presenza alla tua destra, Dio Padre, e attendiamo
la sua seconda, temibile e terribile parusia, nella quale egli
verrà a giudicare i vivi e i morti nella giustizia e rendere a
ciascuno secondo le sue opere - risparmiaci, o Signore Dio
nostro! -. Noi abbiamo presentato davanti a te, tra i doni
che ci hai dato, quelli che a te appartengono.
Noi ti preghiamo e ti supplichiamo, [Dio] amico degli
uomini e buono: manda dalla tua santa altezza, dal luogo
dove è stabilita la tua dimora, dal tuo infinito seno, lo
stesso Paraclito, lo Spirito di verità, il Signore, il vivifica-
tore, che ha parlato nei profeti e negli apostoli; lui che
è ovunque presente e tutto riempie: lui che, da se stesso
e non come un servo, compie in chi vuole la santificazione
secondo il tuo beneplacito; lui che è semplice per natura,
multiforme nella sua attività, sorgente dei doni divini, a
te consustanziale, da te procede, che condivide il trono del tuo
Regno e con il nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo. Volgi il

218
[tuo] sguardo sopra di noi e m anda su questi pani e su
questi calici il tuo Santo Spirito, affinché li santifichi e li
perfezioni in quanto D io onnipotente e faccia di questo
pane il corpo (Am en d e l p o p o l o ) e di questo calice il san-
gue della nuova alleanza del nostro Signore e Dio e Sai-
vatore e grande re G esù Cristo, affinché siano, per tu tti
noi che vi partecipiam o, [sorgente di] fede, di vigilanza,
di guarigione, di prudenza, di santificazione, di rinnova-
mento delfanim a, del corpo e dello spirito, per la comu-
nicazione della beata vita eterna e incorruttibile, per la
glorificazione del tuo N om e santissim o, per la rem issione
dei peccati, affinché, in questo e in tutto il tuo Nom e, san-
tissimo, prezioso e glorificato, sia glorificato, cantato da
inni e santificato, con G esù Cristo e lo Spirito Santo,
come era ed è e sarà di generazione in generazione e in
tutti i secoli dei secoli. A m en » (22).

Questo testo, evidentemente sovraccarico nella sua ultima


parte, non sembra che possa essere anteriore al Concilio di Co-
stantinopoli del 381, né posteriore a quello di Calcedonia del
451, poiché i copti monofisiti lo hanno tradotto pressi poco ta-
le e quale nella liturgia di san Cirillo, mentre la sua litania dei
titoli dello Spirito Santo è evidentemente mutuata in gran par-
te dal simbolo costantinopolitano.
Sta comunque il fatto che !,epiclesi, per quanto sia stata
sviluppata, rimane strettamente saldata con l’anamnesi, e per-
fino incorporata all’ultima sua parte. Si può però supporre che
sia stata sviluppata partendo da una formula che doveva esse-
re molto vicina a questa che segue, in quanto la trasformazione
è stata richiesta molto presto:
« N oi abbiam o presentato davanti a te, tra i doni che ci
hai dato, quelli che a te appartengono. Noi ti preghiam o
e ti supplichiam o, [D io ] am ico degli uom ini e buono, voi-
gi il tuo sguardo sopra di noi e m anda su questi pani
e su questi calici il tuo Santo Spirito affinché siano per
noi che vi partecipiam o [sorgente di] fede e di rinnova-
m ento delfan im a, del corpo e dello spirito, per la comu-
nicazione della vita eterna e la glorificazione del tuo santo
Nome, ecc. ».

(2 2 ) F. E . Brightman, op. cit., p p . 1 3 2 ss. D a n o ta r e c h e il te sto


c o p t o s u p p o n e n e lla a n a m n e s i: davanti alla tua santa gloria... (ibid., p .
178). - P er il te sto g r e c o -la tin o , c f. a n c h e P E 1 1 2 -1 1 5 .

219
Più avanti, ci chiederemo se non possiamo addirittura risa-
lire a uno stadio anteriore a questa epiclesi. Per adesso, accon-
tentiamoci di osservare come !,anamnesi che porta ad essa in-
eluda, dopo la risurrezione, non solo !,ascensione, ma la stessa
parusia: è una esplicitazione importante delTunità fortemente
sentita del mistero « commemorato », di cui si chiederà il com-
pimento, non come qualcosa di aggiunto, ma come lo sviluppo
logico delle virtualità della morte e della risurrezione di Cristo.
È degna di nota anche questa formula di presentazione del
sacrificio: « Noi abbiamo presentato davanti a te, tra i doni che
ci hai dato, quelli che a te appartengono »; verrà conservata
più o meno alla lettera da tutte le liturgie dOriente. Non si
poteva descrivere più felicemente come il « memoriale » sia un
sacrificio: così come il dono che Dio stesso ci fa del pegno del
suo mistero salvifico, affinché noi glielo ripresentiamo nel ren-
dimento di grazie, e ci abbandoniamo a tutto !,effetto pernia-
nente di questo mistero che tende al proprio compimento, alla
gloria di Dio.
Per la prima volta, parimenti, troviamo qui la formula: « Fa-
te questo in memoria di me », sviluppata dalle parole di san
Paolo, messe in bocca a Cristo e provviste di uno sviluppo che
sottolineiamo:
« ... T utte le volte che m angiate di questo pane e bevete
di questo calice, voi annunciate la m ia m orte e p r o c l a m a t e
l a m i a risurrezione e l a m i a a s c e n s i o n e , fino a che io
venga ».

Anche questo si ritroverà in Oriente in molte altre parti, e


possiamo pensare che sia ancora dalla Siria che questa formula,
come !,epiclesi ampliata, è passata in Egitto (23).
L'influsso del racconto paolino delTistituzione - altra carat-
teristica comune a tutto lOriente - è chiaro anche nel racconto
riportato dalTeucaristia di san Marco. Però, come in tutte le li-
turgie classiche, vi si scorgono tre fattori di evoluzione: una
tendenza ad accentuare il parallelismo tra ciò che è detto sul
pane e ciò che è detto sul calice; una tendenza ad armonizzare i
quattro racconti del Nuovo Testamento; una tendenza, infine,
ad accompagnare la descrizione delle azioni di Cristo con agget-

(23) Cf più avanti, pp. 278279‫ ־‬e 316ss. Il testo di san Giacomo ha
già il cambiamento di persona, ma aggiunge solo la risurrezione.

220
tivi e altre formule che esprimono devozione (« alzando gli oc-
chi al cielo, verso di te, suo Padre... », « ... nelle sue mani san-
te, pare e senza macchia », ecc.).
Però la grande questione che si presenta è sapere come sia
stato possibile giungere a introdurre (specialmente nella pre-
ghiera proveniente dalla beràkà 'Abòdà, per Paccettazione dei
sacrifici di Israele) una menzione - assente da tutte le liturgie
più antiche - della trasformazione degli elementi nel corpo e
nel sangue di Cristo.
Nelle formule di san Marco, questa domanda sembra richia-
mata, o almeno preparata, dalla fine della prima parte della pre-
ghiera di raccomandazione del sacrificio, che introduce l’idea di
uno scambio tra i doni materiali, terrestri, temporali che noi
presentiamo e i doni spirituali, celesti, eterni che attendiamo
da Dio. Questo non fa che rimandare il problema, perché non
c’era nulla, nelle fonti giudaiche, che orientasse verso questa
idea. Saremmo tentati di credere che, per capire la sua presen‫־‬
za a questo punto, bisogna essere attenti a una prima sovrap-
posizione causata dall’accostamento delle preghiere derivate dal-
le beràkòt prima dello Sema (già combinate con quelle derivate
dalla Tefillà) con le preghiere provenienti dalle beràkòt della fine
del pasto. Può essere sembrato possibile conservare, all’inizio
dell’eucaristia, una intercessione generale e dettagliata e, alla
fine, una supplica più breve, più immediatamente centrata sul-
l’edificazione della Chiesa corpo di Cristo, soggiacente già a
tutte le domande dell’inizio. Ma la ripetizione, a breve distan-
za, di una benedizione per la creazione prima e per la reden-
zione poi, la prima volta centrata sulla luce e sulla « conoscen-
za », la seconda volta centrata sulla vita e sull’alleanza, dovette
apparire ben presto un doppione insopportabile.
Le stesse preghiere giudaiche, d’altra parte, specialmente
quelle della Didachè, tendevano già a mescolare i temi della vi-
ta e della conoscenza, proprio come l’alleanza si concretizza-
va nella Torà. Molto naturalmente, specie sotto l’influenza di
una teologia fortemente ispirata dal IV vangelo - come vediamo
nel caso di Serapione - il tema della vita sarà trasportato alla
prima parte del rendimento di grazie, vicino a quello della luce
di verità, e in una sola evocazione della redenzione sarà fusa
la nostra liberazione sia dall’ignoranza idolatrica sia dalla mor-
te. Ma allora, che cosa si sarebbe sostituito alla doppia benedi­

221
zione che, nel pasto sacro ancora autonomo, precedeva imme-
diatamente l'anamnesi? Ci voleva un legame tra l'insieme finale
delle preghiere ricavate dalla Tefillà sull'accettazione da parte
di Dio delle nostre preghiere e dei nostri sacrifici, e revocazione
del memoriale. Il raffronto della prima epiclesi alessandrina
con la preghiera *Abódà sembra indicarci in che modo si è sta-
bilito questo legame. La preghiera *Abòdà si concludeva invo-
cando un ritorno palese della Sekina in Sion. Allo stesso modo,
la prima epiclesi egiziana chiede che la gloria di Dio ci riempia
(Dèr-Balizèh), o che la sua potente partecipazione (Serapione),
o la sua benedizione e la sua visitazione (Marco classico) riem-
piano il nostro sacrificio. È stata dunque questa richiesta del
ritorno della Sekina - la quale, per i primi cristiani, dimora or-
mai nel Cristo risorto - che ha dovuto suscitare la domanda fi-
naie della consacrazione degli elementi nel corpo e sangue di
Cristo.

Analogia tra eucaristia egiziana e romana


Questo studio dell'eucaristia egiziana ci ha messo in mano,
almeno pensiamo, la maggior parte degli elementi necessari per
delucidare il Canone della Messa romana. Anche solo la loro
analogia generale di struttura invita a fare il confronto. Se in-
fatti confrontiamo lo schema dell'eucaristia di san Marco con
quello della eucaristia romana, togliendovi il memento dei de-
funti e il Nobis quoque, costatiamo che concorda esattamente,
con la sola differenza che il gruppo delle intercessioni e com-
memorazioni invece di venire prima del Sanctus, lo segue im-
mediatamente. Di questo stesso gruppo, lo schema è esattamen-
te uguale a quello del rito alessandrino: innanzi tutto ciò che
abbiamo chiamato la pre-epiclesi (Te igitur), poi le intercessioni
(Memento dei vivi), poi le commemorazioni dei santi (Com-
municantes), e infine la prima epiclesi. Questa, proprio come
ad Alessandria, è formata da due preghiere (Hanc igitur e
Quam oblationem). Evidentemente, però, siccome il Sanctus è
già stato recitato, si susseguono immediatamente.
A questa analogia di struttura c'è da aggiungere tutta una
serie di parallelismi verbali che non permettono di supporre che
possa essere un incontro fortuito. Solo in Egitto e a Roma il
dialogo introduttivo incomincia con: « Il Signore sia con voi »
(o, in Egitto: « con tutti »). Così pure dopo, in questi due riti

222
si ha semplicemente: « In alto i cuori ». L'eucaristia comincia
con: « È veramente degno e giusto, equo e salutare », a Roma;
e ad Alessandria: « È veramente degno e giusto, santo, equo e
salutare... ». Soltanto in questi due casi si passa immediatamen-
te dai motivi di rendimento di grazie all'espressione del culto
reso a Dio con la frase: « Gesù Cristo, per mezzo del quale... ».
La stessa cosa per la menzione dei cori degli Angeli citati di se-
guito, senza legame, e l'introduzione del Sanctus con una sup-
plica perché la nostra lode sia accettata insieme alla loro. Allo
stesso modo - solo in questi due casi - nell'intercessione che
precede la consacrazione, i doni dei fedeli sono fin da questo
momento qualificati come doni santificati (qui tibi offerunt hoc
sacrificium laudis... των προσφερόντων τάς θυσίας, τα εύχα-
ριστήρια).
Nel racconto romano dell’istituzione, la menzione di Gesù
che alza gli occhi ad te Deum patrem suum ha un esatto paralie-
10 nel racconto della liturgia di san Marco. Nell'anamnesi, la
formula offerimus praeclarae majestati tuae de tuis donis ac
datis corrisponde al testo di cui si ha testimonianza nella ver-
sione copta: τα σα εκ των σών δώρων προεθήκαμεν ένώπιον τής
άγιας σου δόξης.
Ma il parallelismo che colpisce di più è che la prima parte
della prima epiclesi egiziana chiede la presentazione sull'altare
celeste, « mediante la liturgia (servizio) arcangelica », del sa-
crificio offerto sulla terra, e continua: « come hai accettato i doni
del giusto Abele, il sacrificio del nostro padre Abramo », espres-
sioni che si trovano esattamente nel Supra quae e nel Supplices
(di cui vedremo che, al IV secolo, dovevano comunque formare
una sola preghiera) della messa romana, in cui costituiscono l'e-
quivalente della seconda epiclesi.
Tuttavia, a parte il posto speciale delle intercessioni nel Ca-
none romano, sembra proprio che le altre differenze apparenti
tra Roma e Alessandria siano soltanto differenze tra due varian-
ti della stessa tradizione, e che la « romana » sia esistita ad Ales-
sandria in un'epoca arcaica come a Roma. Infatti, se paragonia-
mo non più l'eucaristia di san Marco ma quella di Serapione con
11 Canone romano, costatiamo che 1) ad Alessandria si sono
dovute conoscere due epiclesi di cui nessuna invocava espres-
samente lo Spirito Santo, come a Roma; esse però non furono

223
conservate dopo il secolo IV; 2) Alessandria ha conosciuto an-
che una menzione degli Angeli alla fine della seconda epiclesi·
3) Alessandria ha posseduto anche un Memento dei morti, con
lettura dei loro dittici, dopo questa epiclesi; 4) Alessandria
infine collegava questo Memento alla conclusione per mezzo di
una formula che combaciava con la preghiera per coloro che
offrono il sacrificio, in un modo molto simile a quanto abbiamo
ancora nel Nobis quoque. Rileggiamo infatti l’ultima parte del-
!,eucaristia di Serapione:
«... Gli angeli che assistono il popolo vincano il Maligno
e consolidino la Chiesa.
Ti preghiamo anche per quelli che riposano e di cui noi
facciamo memoria. (Qui il ricordo dei nomi) Santifica que-
ste anime, perché tu le conosci tutte. Santifica tutti quelli
che si sono addormentati nel Signore. Mettili nel numero
delle tue potenze sante. Dà loro un posto e una dimora
nel tuo Regno.
Ricevi anche dazione di grazie del popolo. Benedici coloro
che ti hanno portato le oblazioni e le eucaristie, concedi
la salute, !,integrità e la gioia e ogni progresso dell’anima
e del corpo a tutto questo popolo, per il tuo Figlio unico,
Gesù Cristo, nello Spirito Santo. Come era, è e sarà,
di età in età in tutti i secoli dei secoli. Amen ».

Non solo è impressionante il parallelismo nella successione


delle idee, ma nelle espressioni troviamo anche varie analo-
gie, se non addirittura elementi uguali. I morti sono « quelli
che riposano », « quelli che si sono addormentati » o qui dor‫־‬
miunt in somno pacis. La loro ammissione alla beatitudine è,
nei due casi, espressa come un trasferimento spaziale: si chiede
a Dio « un posto » per essi nel suo Regno, o di metterli « in loco
lucis, refrigerii et pacis ».
Quell'« anche » che collega un’ultima evocazione degli offe-
renti a quella dei morti ha il suo parallelo nel quoque del nobis
quoque peccatoribus. Allo stesso modo, più sopra, la domanda
delle grazie attese dalla comunione era legata, in Serapione, a
un κοινωνοϋντες, al quale sembra fare eco l’ex hac altaris par‫־‬
ticipatione romano; così pure, forse la menzione di haec plebs
tua sancta nell’anamnesi romana corrisponde alle due menzioni
di « questo popolo » che vengono un po’ più oltre in Serapio‫־‬

224
ne (24). E persino il fatto del Memento dei morti, ora inserito a
questo punto, ora assente nei documenti che testimoniano il te-
sto romano, sembra abbia avuto un parallelo ad Alessandria, co-
me dimostra la variante tra l’uso di Serapione e quello di san
Marco.
Dal canto suo, il confronto con l’anafora di Dèr-Balizèh in-
dica che anche ad Alessandria la domanda della trasformazione
degli elementi poteva essere collegata con la prima epiclesi, prò-
prio come a Roma, o anche con la seconda.
Infine, c’è forse un’ultima differenza apparente tra Roma e
Alessandria; Serapione ci permette di supporre che corrisponda
a ciò che Alessandria, in un’epoca più remota, poteva anche pra-
ticare. Le intercessioni per i vivi, a Roma, sono tutte raccolte
in una sola preghiera, d’altronde molto densa, mentre ad Ales-
sandria - come in tutto l’Oriente - sono scaglionate in una lun-
ga serie di petizioni che andrà sempre più sviluppandosi. Ora,
in Serapione, come nel Canone romano, le troviamo condensate
in una sola preghiera; anzi, in Serapione, questa preghiera è
ancora più breve del Memento romano.
L’unica differenza importante che rimane è dunque quella
che riguarda il posto delle intercessioni e commemorazioni. Il
problema del posto primitivo e dell’esatta interpretazione della
preghiera che invoca la presentazione delle offerte sull’altare
celeste per mezzo degli Angeli verrà preso in considerazione,
ma fin d’ora possiamo notare che la menzione degli Angeli fat-
ta da Serapione al termine dell’ultima epiclesi, fa pensare che
potesse trovarsi in quel posto sia in Egitto che a Roma.
La differenza tra le rispettive posizioni del Sanctus e del
gruppo di intercessioni e commemorazioni, a Roma o ad Ales-
sandria, sembra doversi spiegare semplicemente con i due posti
differenti in cui era recitata la Qedussà nel rituale della sinago-
ga: o con lo Sema, prima della Tefillà, o in collegamento con
questa. Abbiamo visto, riguardo al libro VII delle Costituzioni
apostoliche, i motivi che ci portano a pensare che già gli ebrei
di Alessandria lo recitassero una sola volta, nella Tefillà, ma
trasportandovi insieme lo Sema. Questo, d’altronde, sembra dar
ragione agli specialisti di liturgia giudaica, i quali ritengono che

(24) Queste analogie sono già state rilevate, specialmente da Baum-


starle e Jungmann.

225
la sua recita in collegamento con lo Sema sia la più antica. A
Roma, in cui doveva esserci una forte presenza di ebrei ales-
sandrini, è probabile che le sinagoghe usassero, come in Egitto
con la versione dei Settanta, una liturgia tradotta in greco. I cri‫־‬
stiani, che vi avrebbero adottato la versione dei Settanta prima
che servisse di base alle vecchie versioni latine, avrebbero dun-
que costruito la loro liturgia a partire dalla stessa versione dei
testi liturgici ebraici, come quella di Alessandria. Si spiega co‫־‬
sì la comunanza originaria delle liturgie cristiane alessandrina
e romana, che le relazioni costanti tra le due capitali dovevano
conservare attraverso tutto il loro sviluppo fino al secolo IV,
quando la liturgia romana (come le altre liturgie di Occidente)
sarebbe passata dal greco al latino.
La presenza a Roma di un buon numero di ebrei orientali,
e particolarmente palestinesi, vi aveva mantenuto probabilmen-
te un conservatorismo più grande che non ad Alessandria. Vi
si conservava dunque, al suo posto primitivo, la Qedussà con
lo Sema che segue, prima della Tefillà e non nel bel mezzo di es-
sa. Da una tale usanza è dovuta risultare Tunica differenza no-
tevole nella struttura delTeucaristia tra Roma e TEgitto.

Forma primitiva delle epiclesi egiziana e romana


Ci rimane da esaminare il problema rappresentato dal posto
primitivo delle menzioni delimitare celeste - con gli Angeli che
sono chiamati a trasportarvi il nostro sacrificio - e il conseguente
ricordo dei sacrifici anteriormente accettati di « Abele il giusto »
e del « nostro padre » o « patriarca » Abramo. Tale questione,
minima in apparenza, solleva il grosso problema del senso e
del contenuto delTepiclesi, o meglio delle epiclesi primitive.
La testimonianza di Alessandria coincide con quelle ricava-
te dai più antichi rimaneggiamenti delle eucaristie più arcaiche
per mostrare che vi è proprio un'epiclesi, se non primitiva al-
meno relativamente antica, a seguito delTanamnesi. Ma questa
epiclesi, anche quando la vediamo già rivolta allo Spirito Santo,
rappresenta solo uno sviluppo apportato alla conclusione delTa-
namnesi che, già nel giudaismo, aveva sempre chiesto che Tog-
getto del « memoriale » avesse il suo completamento in coloro
che lo celebrano: tanto la costruzione escatologica della Gerusa-
lemme eterna, quanto Tedificazione della Chiesa come corpo di
Cristo. Abbiamo fatto vedere le buone ragioni che ci inducono

226
a pensare che è questa idea dell’unità del corpo di Cristo - che
si completa nella glorificazione finale del Padre per mezzo del
Figlio, nello Spirito - che ha richiamato a questo punto una pri-
ma menzione dello Spirito, la quale, in un secondo tempo, si
sarà sviluppata in un’invocazione formale della sua discesa su
di noi e sulla nostra celebrazione. Come mostrano le epiclesi che
sono oggi nella liturgia di Addai e Mari e in quella di Ippolito,
all’origine di questa epiclesi non si trattava di nient’altro: non
c’era una sola parola che accennasse alla trasformazione degli
elementi.
Sembra che questa idea sia sorta altrove, nella prima epi-
desi, come l’abbiamo sia nella liturgia di Dèr-Balizèh, sia nel
Canone romano, con il Quam oblationem. Questa, come abbia-
mo visto, non è altro che il prodotto di un’evoluzione della pre-
ghiera 'Abòdà (combinata con la preghiera precedente, Tefitta)
che concludeva la parte impetratoria delle Semonèh- Essréh, e
che, in origine, era una preghiera per l’accettazione dei sacrifici
d’Israele, ricavata anch’essa, dicono i rabbini, dalla liturgia del
Tempio. Notiamo qui l’affiorare di una seconda fonte delle
espressioni sacrificali nella liturgia eucaristica cristiana, a partire
dal momento in cui acquista tutto il suo sviluppo. Già nelTanam-
nesi, quando si era dovuto tradurne il « memoriale » per cri-
stiani non semiti, le espressioni sacrificali avevano fatto la loro
comparsa, per spiegarne il senso. Qui sono presenti fin dalTori-
gine della preghiera in questione. Però già nell’uso della sina-
goga la tendenza - incoraggiata dal fatto che questa preghiera
segue la benedizione Tefillà che raccomanda le preghiere d’Israe-
le - era stata quella di intendere per accettazione dei suoi sacri-
fici, non unicamente i sacrifici rituali del Tempio, ma anche,
e forse più ancora, le molteplici beràkòt che facevano dell’intera
vita del popolo ebraico un’unica azione sacerdotale (25). Ripresa
e adattata all’uso cristiano, come vediamo molto bene nella li-
turgia di san Marco, per non parlare di quella di Serapione, que-
sta raccomandazione dei sacrifici sarà intesa come una racco-
mandazione dell’eucaristia, ancora vista innanzi tutto come una
preghiera consacratoria non solo degli elementi del pasto sacro,
ma, con essi e per mezzo di essi, di tutta la vita della Chiesa.
Tuttavia, sembra che in questa prima epiclesi (abbiamo cer-

(25) Cf quanto abbiamo detto sopra, p. 68.

227
cato di spiegare con quale procedimento) si giungerà a precisa-
re la domanda di accettazione del sacrificio in una domanda
per la trasformazione degli elementi. Questa idea, come si è vi-
sto nella prima epiclesi egiziana, è preparata da quella di uno
scambio tra i doni materiali, terrestri, temporali, che portiamo,
e i doni spirituali, celesti, eterni che attendiamo da Dio. Questa
prima idea si formula a questo punto in termini che proven-
gono da san Paolo, non a proposito dell'eucaristia, ma a pro-
posito delle offerte della carità (cf Rm 15,27). Il fatto che lui
stesso interpreti queste offerte in un senso liturgico, e che inoltre
presso i cristiani la celebrazione eucaristica sia stata legata fin
dalle origini a un pasto in comune, realizzazione della carità
mediante la comune donazione delle offerte dei fedeli, spiega
perfettamente la trasposizione.
Ma la prima parte, che precede il Sanctus nella liturgia di
san Marco, della preghiera di raccomandazione del sacrificio eu-
caristico, recante ben chiara questa idea fondamentale, esprime
parallelamente un altro concetto con radici molto antiche, giac-
ché risalgono direttamente al giudaismo. È l'idea che le nostre
offerte sono accettate da Dio se sono unite al culto angelico: per
questo s'invoca Dio affinché mandi un Angelo a portare dalla
terra al cielo le nostre preghiere e i nostri sacrifici. Nell'Apoca-
lisse, i Vegliardi (che sono dei sacerdoti celesti, in altre parole
degli Angeli) offrono a Dio coppe d'oro piene di profumo, che
sono le preghiere dei santi (Ap 5,8; 8,4). Peterson ha visto mol-
to bene l'importanza, per i primi cristiani nutriti di ebraismo,
del concetto secondo il quale il culto terrestre, a Dio gradito, ci
unisce al culto celeste delle potenze angeliche (26). È eviden-
temente quello che si cela nelle visioni di Is 6 di Ez 1, legate,
nel culto ebraico, alla Qedussà e alle benedizioni che Tacconi-
pagnano. Prima ancora abbiamo l'antica tradizione sacerdotale,
consegnata nel Pentateuco, secondo la quale il culto mosaico,
con il suo altare e i suoi sacrifici, non era che la riproduzione
del culto celeste, e quindi un'associazione degli uomini a tale
culto (cf Es 25,9 e 40).
Anzi, sembra diffìcilmente contestabile che l'idea secondo la
quale gli stessi Angeli presentano a Dio le nostre preghiere e i

(26) Cf E. Peterson, L e li v r e d e s A n g e s , Paris 1954.

228
sacrifìci sia solo un’idea cristiana, ignorata dal giudaismo (27).
£ vero che non è menzionata nelle più antiche preghiere giudai-
che, ma si trova già in termini precisi nel libro di Tobia. Raffae-
le dice infatti: « Quando tu e Sara eravate in preghiera, io pre-
sentavo l’attestato [il memoriale] della vostra preghiera davanti
alla gloria del Signore » (12,12), e aggiunge un po’ più avanti:
« Io sono Raffaele, uno dei sette angeli che sono sempre pronti
ad entrare alla presenza della maestà del Signore » (12,15). Nel
testo di san Marco, questo richiamo è molto probabilmente por-
tato direttamente dalla citazione di MI 1,11, sul sacrificio puro
offerto in ogni luogo a Dio dalle nazioni. Il seguito, infatti, mo-
stra che non è così per i sacrifici attuali di Israele, contaminati
dalle infedeltà del popolo. Però, il c. 3 aggiunge: « Ecco, io
manderò un mio messaggero [angelo] a preparare la via davan-
ti a me e subito entrerà nel suo tempio... Sederà (il soggetto è
sempre l’angelo, il messaggero) per fondere e purificare; puri-
ficherà i figli di Levi, li affinerà come oro e argento, perché pos-
sano offrire al Signore un’oblazione secondo giustizia. Allora
l’offerta di Giuda e di Gerusalemme sarà gradita al Signore co-
me nei giorni antichi, come negli anni lontani » (3,14‫)־‬.
Qui sta evidentemente la fonte del riferimento al « servi-
zio » degli Angeli e all’altare celeste in cui devono presentare
le nostre offerte. Il modo, però, con cui ciò è formulato nel testo
del Canone romano ha molte probabilità di essere il più primi-
tivo: si chiede, cioè, che un Angelo (o gli Angeli) siano mandati
da Dio per effettuare questo trasporto dalla terra al cielo. Pri-
ma di pensare a chiedere l’invio speciale di una persona divina
per questo - sia che si tratti del Logos o dello Spirito -, era nella
linea più naturale del pensiero cristiano primitivo, come anche
del pensiero giudaico da cui proveniva, invocare per tale scopo
il ministero « angelico », cioè spiriti la cui caratteristica è pre-
cisamente quella di essere « inviati » per fare il collegamento
tra il cielo e la terra, e viceversa. Si comprende molto bene come
a una teologia più evoluta sia parso necessario assegnare a que-
sta consacrazione dell’eucaristia un intervento direttamente di-
vino, e che alla richiesta di un invio di Angeli si sia sostituita
quella di una missione del Logos o dello Spirito. Sarebbe inve-

(27) È la stessa cosa della glorificazione di Dio sulla terra e n e i c ie li


(cf p. 134).

229
ce del tutto incomprensibile, se una simile domanda fosse sta-
ta primitiva, che si fosse tolta la sua menzione dalla liturgia ro-
mana per sostituirvi quella di una missione angelica.
Questo ci porta a dire una parola su una vivace discussione
tra gli studiosi alcuni anni fa. Dom Cagin, e poi il p. de la Tail-
le, hanno sostenuto che l'Angelo delTepiclesi romana, in realtà,
non era che una figura per indicare lo Spirito Santo o il Verbo
(28). Dom Botte ha giustamente replicato che il testo conosciuto
di sant'Ambrogio doveva menzionare non un « Inviato » parti-
colare, ma gli Angeli in generale (29). Ad ogni modo, il fatto
che parli a questo punto degli Angeli mostra chiaramente, per
lui, che in questo testo si trattava di un « ministero » angelico,
né più né meno come nel testo della liturgia di san Marco.
Tuttavia non bisogna semplicemente opporre Tidea, che
sembra essersi fatta strada nel secolo IV, di invocare special-
mente il Logos e ben presto lo Spirito Santo, all'idea ben più
antica, forse vicinissima alle origini, di invocare la missione de-
gli Angeli. Come si vede nel testo di MI 3 che abbiamo citato,
e in genere dalla Bibbia quando vi si parla dell'« Angelo del
Signore », né l'Antico Testamento né il giudaismo antico han-
no mai stabilito la distinzione precisa, diventata nostra, tra
presenza degli Angeli e presenza di Dio. L'« Angelo » rende Dio
presente localmente mentre ne salvaguarda la trascendenza.
Questo concetto può sembrare strano alla teologia moderna, ma
la teologia del cristianesimo primitivo non era certamente, in
questo senso, più moderna del giudaismo da cui proveniva. L'A-
pocalisse cristiana ci descrive il Logos esattamente come descri-
ve gli Angeli (cf Ap 19,1 lss). Cosa forse più curiosa ancora,
enumera una trinità singolare in cui il terzo termine è « i sette
spiriti che stanno alla presenza di Dio » (Ap 1,4-5 e 4,5). È ve-
ro che menziona altrove « lo Spirito » al singolare (cf Ap 5,2;
22,17), ma se ci si domanda quale possa essere la sua relazione
con questi « sette spiriti », Tunica risposta possibile è che per
il veggente o è uno di essi, oppure essi non sono che una sola
realtà con lui.
Per presentare le cose in altro modo, tanto agli occhi dei

(28) Cf P. Cagin, T e D eum ou I lla tio , Solesmes 1906, pp. 215ss;


M. de la T aille, M y s te r iu m F id e i, Paris 1931, pp. 27lss.
(29) Cf B. Botte, L e C a n o n d e la M e s s e r o m a in e , p. 66.

230
primi cristiani come degli ebrei il mondo celeste costituisce un
tutt'uno inseparabile. Quando gli Angeli discendono sulla ter-
ra, con essi vi discende anche la presenza della Sekinà, portata
sulle ali dei Cherubini, sulle « ruote » di fuoco che sono gli
’Ofannìm, e glorificata dal volo e dal canto dei Serafini. Così
pure, nei racconti evangelici, il Figlio di Dio, scendendo sulla
terra nella natività, vi è accompagnato da tutte le schiere ange-
fiche (cf Le 2,8ss). Il suo corpo nel sepolcro è tra due Angeli
che devono essere gli stessi Cherubini del Tempio che stende-
vano le loro ali da ambo le parti del propiziatorio (cf Gv 20,12;
Le 24,4). E, nelTascensione, è ancora con gli Angeli che risale
al cielo {At l,10ss).
Richiamando il ministero angelico per portare la nostra of-
ferta alFAltare del cielo, gli antichi erano dunque ben persuasi
che quanto chiedevano era non solo Γanalogo della salita di
Cristo in cielo e della discesa correlativa dello Spirito, ma che,
in un certo modo, era la stessa cosa. Lo Spirito, come Paraclito
inviato alla Chiesa tra !,ascensione e la parusia, lungi dall'es-
sere in opposizione con la discesa degli Angeli, era ai loro oc-
chi « FAngelo del Signore » per eccellenza, inseparabile del re-
sto da tutti « coloro che stanno dinanzi al volto di Dio » e che
vi presentano le nostre preghiere e i nostri sacrifici, proprio co-
me ci confortano anche da parte sua. Gesù stesso, come ha mo-
strato Barbel in un libro molto profondo, secondo certe forme
della cristologia primitiva è concepito come un « Angelo », cioè
« rinviato » del Signore nel quale lo stesso Signore avrebbe
purificato il suo tempio e ristabilito !,identità tra i sacrifici della
terra e il culto dalFalto, come nella visione di Malachia (30).
Ippolito, antiquario accanito, non esitava a designare Gesù con
questo titolo in cui una ortodossia sospettosa come la sua non
vedeva dunque nulla di reprensibile (31).
Simili espressioni diventeranno sospette soltanto dopo le lot-
te contro !,arianesimo. In questa confusione apparente tra gli
Angeli e il loro ministero, tra Cristo o lo Spirito e le loro ri-
spettive missioni, si scoprirà un'ambiguità che rischiava di fa-
vorire gli eretici. È stato allora, nella prima fase del conflitto
ariano, come vediamo con Serapione, che si dovette introdurre

(30) Cf J. Barbel, Christos Angelos, Bonn 1941.


(31) Cf sopra, pp. 178179‫־‬.

231
nell’epiclesi il Logos come colui nel quale soltanto il sacrifìcio
terrestre può diventare unico col sacrificio celeste. Quando la
controversia si sposterà da lui per rivolgersi alla divinità dello
Spirito, si arriverà di preferenza a chiedere che lo Spirito sia
mandato sugli elementi, come era stato mandato nel seno della
Vergine (cf Le 1,35), perché essi « manifestino », come diranno
molte epiclesi, la presenza del corpo stesso e del sangue del Lo-
gos redentore.
In questo momento, ad Alessandria, gli Angeli saranno man-
tenuti soltanto in una formula generale, nell’introduzione alla
prima epiclesi, dato che la sua parte centrale era riservata a una
persona divina, la sola suscettibile, si penserà ormai, di effet-
tuare, nella trasformazione dei doni offerti, il passaggio dal sa-
crificio terrestre a quello celeste.
A Roma, il conservatorismo locale resisterà sempre a que-
sta modifica delle formule. Vi si ammetterà, è vero, l’espressio-
ne formale della trasformazione degli elementi nella prima epi-
desi in cui si è formata, ma si conserverà l’invocazione degli
Angeli, o dell’Angelo, per operare il trasferimento del sacrificio
dal nostro mondo al mondo celeste. La concessione maggiore
sarà di lasciare anonima la trasformazione richiesta, considera-
ta evidentemente come un’opera specificamente divina, che non
può essere attribuita a nessuna creatura. Quindi si trasferiran-
no dalla prima alla seconda epiclesi gli Angeli insieme alle re-
miniscenze dei sacrifici accettati nel passato che avevano dovuto
causarne la presenza. L’esame delle varie forme della liturgia
alessandrina ci ha mostrato quanto frequenti siano stati tali scam-
bi dall’una all’altra epiclesi: il che doveva portare, sembra pri-
ma in Siria, alla concentrazione di tutti i temi delle varie epi-
desi in una sola, l’ultima. Ma che il posto primitivo di questa
raccomandazione del sacrificio eucaristico, in riferimento ai sa-
crifici antichi, sia proprio la prima e non la seconda epiclesi,
risulta dall’origine della prima epiclesi nella benedizione *Abò-
dà, a conclusione della Tefillà. Dato il carattere non solo primiti-
vo nel cristianesimo, ma pre-cristiano delle idee sugli Angeli
che vi si sono affermate, si può anche pensare che essa procede
verosimilmente da una formula giudaica che non è pervenuta
fino a noi, in cui l’Angelo (o gli Angeli) accompagnavano già
Abele e Abramo (il sacrificio di quest’ultimo non bastava forse
a evocare l’Angelo?).

232
Neirantica liturgia romana, con tutta probabilità, non c’era
nessuna epiclesi dopo Γanamnesi; questa terminava semplice-
niente con la domanda che, dopo che il nostro sacrificio fosse
stato accettato, in quanto ripresentazione a Dio di ciò che prò-
viene da lui, noi fossimo, a nostra volta, « riempiti di ogni gra-
zia e benedizione celeste ». Lo spostamento in questo punto di
Abramo e dell’Angelo, che comporta anche Abele, può aver
provocato le fluttuazioni nella redazione definitiva della for-
mula di cui danno testimonianza le divergenze tra il testo di
sant’Ambrogio e quello che ci è stato trasmesso dal Canone
nella sua forma definitiva. Avendo il Quam oblationem ormai
precisato la preghiera primitiva per l’accettazione del sacrificio
come preghiera per la trasformazione degli elementi, la traspo-
sizione in cielo del sacrificio terrestre verrà a presentarsi feli-
cernente come la contropartita della « benedizione » che ci
« riempie », nella prospettiva dello scambio tra il dono ricevu-
to da Dio e quello che noi gli facciamo, che è poi sempre il suo.
La liturgia di Serapione ci lascia supporre che si siano po-
tuti trasferire gli Angeli dalla prima alla seconda epiclesi anche
in Egitto, poiché egli, che li omette nella prima, li fa apparire
al seguito della seconda, ma per dare loro soltanto il ruolo di
respingere le incursioni demoniache nel popolo di Dio.
E Melchisedech? Appare nel Canone romano, così sembra,
ancora una volta « senza padre né madre », nel senso che non
ci è possibile, al contrario di quanto avviene per Abele, Abra-
mo e l’Angelo, fare la genealogia della sua presenza in questo
testo partendo da testi apparentati e anteriori. Possiamo pensare
che già, come induce a credere la lettera agli Ebrei, fosse og-
getto di riflessione per certi ambienti giudaici contemporanei al-
le origini cristiane. Così dunque, forse si è già introdotto co-
me gli altri nomi di patriarchi, in certe forme della « benedi-
zione » 'Abòdà. Se invece è dalla stessa lettera agli Ebrei che
proviene la sua introduzione nella preghiera cristiana, non sap-
piamo se l’epiclesi romana sia stata preceduta da altre a questo
riguardo: finora, con l’eucaristia delle Costituzioni apostoliche
(32), è la sola preghiera di questo genere veramente antica in
cui lo vediamo figurare (33).

(32) Cf più avanti, p. 262.


(33) Cf G. Bardy, M e lc h is é d e c d a n s la tr a d itio n p a t r is tiq u e , in RB

233
Questi diversi raffronti e i chiarimenti che essi hanno porta-
to aprono ora la via per una lettura del Canone romano che esi-
gerà soltanto un minimo di commento. La sistemazione della
sua struttura e il significato esatto delle sue formule sono ormai
pronti per apparirci nella loro antichità particolarmente vene-
randa.

Struttura del Canone romano e sua spiegazione (34)


« Il Signore sia con voi.
- E con il tuo spirito.
In alto i nostri cuori.
- Sono rivolti al Signore.
Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio.
- È cosa buona e giusta ».
Questa forma del dialogo introduttivo, i cui primi due ver-
setti, con le loro risposte, sono così genuinamente semiti e si
trovano tali e quali soltanto in Ippolito e nella liturgia egiziana
(quesfultima ha una parola differente: « tutti », anziché
« voi »), deve essere considerata come la forma più primitiva
che ci sia giunta. È molto significativo, però, che il terzo versetto
ci dia la forma « al Signore, nostro Dio », e non « al Signore »
come in Ippolito. Avevamo ricordato che quest’ultima formula
appariva come una sopravvivenza dell’eucaristia primitiva che,
secondo la felice formula di Dom Gregory Dix, rimaneva un
pasto privato dei cristiani (35), con il quale essi completavano
il culto sinagogale a cui partecipavano ancora con gli ebrei.
Questa formula conveniva, infatti, secondo fuso ebraico, al pa-

35 (1926) 416ss.; 36 (1927) 25ss. Bardy ha fatto notare come certi antichi
hanno voluto vedere in Melchisedech lo Spirito Santo; cf G. Bardy, Mei-
chisédéciens, in DThC, X /l, 513516‫־‬. - Cf anche P. Ma ssi , Abele, Abra-
mo e Melchisedech nel Canone, in RivLit 53 (1966) 593608‫־‬.
(34) Il testo italiano è tratto dall'edizione ufficiale: Conferenza
E piscopale Italiana, Messale Romano riformato a norma dei Decreti
del Concilio Ecumenico Vaticano II e promulgato da papa Paolo VI, Ro-
ma 1973, pp. 362372‫־‬. Cf anche C. V agaggini, Il Canone della messa e
la riforma liturgica. Problemi e progetti ( = Quaderni di « Rivista Litur-
gica », 4), LDC, Torino-Leumann 1966; S. Marsili, Il Canone romano.
Nuovi formulari e saggio di traduzione, in RivLit 54 (1967) 513543‫)*( ־‬.
(35) G. Dix, The Shape of the Liturgy, London 1945, cap. I.

234
sto di una piccola assemblea, inferiore come numero al minimo
di partecipanti richiesti per un'assemblea sinagogale (dieci, di-
cevano i rabbini). La formula romana, invece, è quella prescrit-
ta fin dal tempo del giudaismo per un’assemblea equivalente a
quella della sinagoga. Il fatto che sia stata preferita questa in-
dica, forse, che l’unione del pasto sacro con il servizio di lettu-
re e preghiere è avvenuta a Roma abbastanza presto in modo
che si conosceva ancora il senso primitivo dell’uso di una for-
mula anziché dell’altra.
Per l’inizio dell’eucaristia, citeremo il testo del « prefazio »
I del tempo pasquale.
« È veramente cosa buona e giusta,
nostro dovere e fonte di salvezza,
proclamare sempre la tua gloria, o Signore,
e soprattutto esaltarti in questo tempo
nel quale Cristo, nostra Pasqua, si è immolato.
È lui il vero Agnello che ha tolto i peccati del mondo,
è lui che morendo ha distrutto la morte
e risorgendo ha ridato a noi la vita.
Per questo mistero, nella pienezza della gioia pasquale,
Pumanità esulta su tutta la terra,
e con l'assemblea degli Angeli e dei Santi
canta in coro Pinno della tua gloria:
Santo, Santo, Santo il Signore Dio delPuniverso.
I cieli e la terra sono pieni della tua gloria.
Osanna nelPalto dei cieli.
Benedetto colui che viene nel nome del Signore.
Osanna nelPalto dei cieli ».
Il prefazio (36), come siamo abituati a chiamarlo nella li-
turgia romana, è rimasto un testo variabile come, in una certa
misura, il Communicantes, e sappiamo che lo stesso Hanc igitur

(36) L'origine di questo termine è oscura. È certo che la lingua la-


tina antica poteva prendere p r a e f a r i nel senso di « proclamare a voce al-
ta » e che, in questo senso, il termine ha dunque potuto applicarsi pri-
ma di tutto al canto dell'eucaristia. Ma, lo si vedrà più avanti, il termine
p r a e f a tio , nella liturgia gallicana, indicava una specie di commento ini-
ziale di una celebrazione che sarebbe subito seguita. È probabile che
questo senso sia scivolato al nostro « prefazio » romano quando è pas-
sato, con la liturgia di cui faceva parte, nelle regioni gallicane, e che
questo spieghi che si sia giunti a considerarlo come un semplice pre-
ludio del Canone.

235
ha presentato per molto tempo questa caratteristica. Ritornere-
mo più a lungo su questa variabilità delle preghiere eucaristi-
che parlando delle liturgie gallicana e ispanica, dove si è con-
servata in tutto l'insieme e non soltanto in alcune preghiere
deireucaristia. Certi liturgisti suppongono, in una maniera del
tutto gratuita, che ci sarebbe stata innanzi tutto, a Roma come
altrove, una fissazione dell'intero testo deireucaristia, che sa-
rebbe succeduta al periodo delle improvvisazioni, e poi, appena
compiuta questa fissazione, si sarebbe introdotta una nuova va-
riabilità, in funzione dell'anno liturgico (37). Nei testi che ab-
biamo delle liturgie occidentali, non si può in nessuna parte
trovare questa fase intermedia di una fissazione dell'insieme,
tra due periodi distinti di variabilità. Sembra che si debba dire
piuttosto che la variabilità - che si è mantenuta integralmente
fino ai nostri giorni per il prefazio, e di cui abbiamo ancora
alcune tracce nei Communicantes, come anche in certi Hanc igi-
tur che per la maggior parte sono fuori uso - non è che una so-
pravvivenza dell'antica improvvisazione.
Naturalmente, a partire dal momento in cui l'anno liturgico
si è sviluppato, le nuove composizioni hanno avuto la tenden-
za a modellarsi sulle sue varie fasi. Gli antichi sacramentari ro-
mani ci offrono, però, una quantità di pezzi di ricambio che
certamente non provengono tutti dal desiderio di esprimere le
caratteristiche proprie dei vari tempi dell'anno liturgico più o
meno pienamente elaborato. Bisogna, anzi, andare oltre e dire
che molte preghiere classificate nelle nostre raccolte in funzio-
ne dell'anno liturgico non vi sono legate se non con un legame
così tenue che è il caso di credere che vi sono state piuttosto in-
serite senza grandi modifiche - o addirittura nessuna - a cose
fatte. Il prefazio che abbiamo citato, se si toglie la clausola sot-
tolineata che dà l'impressione di esservi stata aggiunta, potreb-
be benissimo essere applicato, in origine, a qualsiasi celebrazio-
ne domenicale dell'eucaristia, prima di essere stato riservato al
tempo pasquale.
Come regola generale, quanto più i prefazi romani sono an-
tichi, tanto più la pienezza compatta delle loro espressioni li

(37) Questa tesi è stata particolarmente sviluppata da G. Dix, The


London 1945.
S h a p e o f th e L itu r g y ,

236
rende interscambiabili. Citiamo ancora gli attuali prefazi di Na-
tale I e dell'Epifania:
« È veramente cosa buona e giusta,
nostro dovere e fonte di salvezza,
rendere grazie sempre e in ogni luogo
a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno.
Nel mistero del Verbo incarnato
è apparsa agli occhi della nostra mente
una nuova luce del tuo fulgore,
perché conoscendo Dio visibilmente,
per mezzo suo siamo rapiti
all'amore delle cose invisibili.
E noi, uniti agli Angeli e agli Arcangeli,
ai Troni e alle Dominazioni
e alla moltitudine dei Cori celesti,
cantiamo con voce incessante Pinno della tua gloria:
Santo, Santo, Santo... ».
Il prefazio delPEpifania, dopo lo stesso « protocollo », prò-
segue:
«... Oggi in Cristo luce del mondo
tu hai rivelato ai popoli il mistero della salvezza,
e in lui apparso nella nostra carne “mortale
ci hai rinnovati con la gloria delPimmortalità divina... ».
Se non fossimo abituati ad usare il primo per Natale e il
secondo per PEpifania, non vi sarebbe alcun inconveniente a
invertire Puso di questi due prefazi. Tanto Puno che Paltro
esprimono la restaurazione della creazione con Pincarnazione
redentrice mediante Puso di termini in cui Pincontro della luce
della gloria divina con la « conoscenza » di Dio, che è un tutt'u-
no con !,immortalità, è un'eco diretta delle preghiere ebraiche
di uso quotidiano.
Sembra che da questi esempi si possa cogliere il motivo pri-
mo per il quale la liturgia romana, anche quando ebbe fissato le
preghiere successive del Canone, ha lasciato ai celebranti la li-
bertà di improvvisarne Pinizio. Probabilmente si voleva rimane-
re vicini alla brevità delle antiche preghiere trasmesse dalla si-
nagoga, e ai loro temi (che si ritrovano tali e quali negli esem-
pi che abbiamo citato), pur desiderando conservare la facoltà
di esprimere volta per volta i molteplici aspetti dell'unico mi-
stero salvifico. La complessità dell'anno liturgico non è stata

237
affatto la causa della variabilità di queste preghiere: essa deriva
piuttosto dal motivo che ha mantenuto tale variabilità. Ecco
perché, in seguito, questa variabilità è giunta ad adattarsi ai
temi successivamente distinti nel succedersi dei tempi e delle
feste. Però, come diremo, questo procedimento non si è attuato
senza indebolire, in molti prefazi relativamente tardivi, quella
espressione unica e totale del mistero cristiano che si trova nei
più antichi, con grande danno dell’eucaristia romana posteriore.
Lo stesso Sanctus ci appare qui per la prima volta nella for-
ma, press’a poco uguale, che è divenuta praticamente universa-
le. Già nella liturgia alessandrina abbiamo visto scomparire la
benedizione tratta da Ez 1, e abbiamo spiegato questa scomparsa
con il fatto che i primi cristiani erano ancora abbastanza vicini
agli ebrei per comprendere che essa era, nella liturgia giudaica,
una benedizione per la presenza divina nel santuario di Geru-
salemme. Ad Alessandria, quando questa benedizione sarà ca-
duta, non si potrà più sostituirgliene un’altra, perché ciò era im-
pedito dall’aggancio dell’epiclesi alla fine del Sanctus mediante
l’idea di pienezza. Dove invece questo aggancio non esisteva -
a Roma o in Siria - vediamo introdursi molto presto il « Bene-
detto colui che viene nel nome del Signore », intercalato tra i
due Osanna. Naturalmente, questa formula è stata suggerita
dall’uso che ne hanno fatto i discepoli per salutare l’ingresso di
Gesù in Gerusalemme. Bisogna però, per comprenderne tutto il
senso e specialmente il senso che assumerà nell’eucaristia cri-
stiana, risalire al salmo 118 da cui è tratta. Esso è divenuto per
i cristiani il salmo pasquale per eccellenza. Per gli ebrei, inve-
ce, era innanzi tutto un salmo di intronizzazione, che glorifica-
va nell’entrata dell’arca nel Tempio l’entrata del Signore stesso
nel suo santuario (38). Viene dunque ad essere, in bocca ai ce-
lebranti dell’eucaristia, una confessione della divina Sekina che
entra nel santuario escatologico della Chiesa. La consacrazio-
ne eucaristica non solo ci dona, sotto le specie del pane e del
vino, il corpo e il sangue glorificati di Cristo, ma, per ciò stes-
so, la presenza definitiva di Dio con i suoi nella Chiesa, corpo
di Cristo.
« Padre clementissimo,

(38) S. Mowinckel, T h e P s a lm s in I s r a e l's , voi. I, Oxford 1962, pp.


170ss.

238
noi ti supplichiamo e ti chiediamo
per Gesù Cristo, tuo Figlio e nostro Signore,
di accettare questi doni,
di benedire queste offerte,
questo santo e immacolato sacrifìcio.
Noi te Goffriamo
anzitutto per la tua Chiesa santa e cattolica,
perché tu le dia pace e la protegga,
la raccolga nell’unità
e la governi su tutta la terra,
con il tuo servo il nostro Papa N.,
il nostro Vescovo N.
e con tutti quelli che custodiscono la fede cattolica,
trasmessa dagli Apostoli.
Ricordati, Signore, dei tuoi fedeli N. e N.
Ricordati di tutti i presenti,
dei quali conosci la fede e la devozione:
[per loro ti offriamo], e anch’essi ti offrono
questo sacrificio di lode,
e innalzano la preghiera a te,
Dio eterno, vivo e vero,
per ottenere a sé e ai loro cari
redenzione, sicurezza di vita e salute.
In comunione con tutta la Chiesa,
mentre celebriamo il giorno santissimo
della risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo
nel suo vero corpo,
ricordiamo e veneriamo
anzitutto la gloriosa e sempre vergine Maria,
Madre del nostro Dio e Signore Gesù Cristo,
[San Giuseppe, suo sposo],
i santi apostoli e martiri:
Pietro e Paolo, Andrea, Giacomo, Giovanni, Tommaso,
Giacomo, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Simone e Taddeo,
Lino, Cleto, Clemente, Sisto, Cornelio e Cipriano,
Lorenzo, Crisogono, Giovanni e Paolo, Cosma e Damiano
e tutti i santi;
per i loro meriti e le loro preghiere
donaci sempre aiuto e protezione.
Per Cristo nostro Signore. [Amen].
Accetta con benevolenza, o Signore,
Pofferta che ti presentiamo
noi tuoi ministri e questa tua famiglia:
te Voffriamo anche per coloro

239
che ti sei degnato di far rinascere
dallacqua e dallo Spirito Santo,
accordando loro il perdono di tutti i peccati.
Disponi nella tua pace i nostri giorni,
salvaci dalla dannazione eterna,
e accoglici nel gregge degli eletti.
Per Cristo nostro Signore. [Amen].
Santifica, o Dio, questa offerta
con la potenza della tua benedizione,
e degnati di accettarla a nostro favore,
in sacrifìcio spirituale (rationabilem) e perfetto,
perché diventi per noi
il corpo e il sangue del tuo amatissimo Figlio,
il Signore nostro Gesù Cristo».
L’insieme di queste cinque preghiere forma un tutto che rap-
presenta, nella tradizione romana, la Tefillà. Bisogna riferirsi
al testo più sviluppato della pre-epiclesi nella liturgia di san Mar-
co e, dietro a questo, alla prima preghiera del libro VII delle
Costituzioni apostoliche, per capire come l’evocazione dei « pa-
dri » e delle loro pie azioni, nell’attesa del Messia sperato dai
loro figli, ha portato prima di tutto all’evocazione del culto puro
e senza macchia offerto in ogni luogo dagli ebrei fedeli nelle
loro beràkòt, e poi dai cristiani nell’eucaristia. Si è venuti così a
supplicare il Padre « clementissimo » (qualificativo che gli si ap-
plicava già nella preghiera giudaica a questo punto) di gradire
l’offerta attuale, per mezzo di questo Messia adesso dato, come
l’oblazione « pura e senza macchia ». Nella preghiera di san
Marco, l’idea del rinnovamento dell’uomo operato da Cristo por-
tava poi alla glorificazione del Nome divino, come nella Tefillà
giudaica l’evocazione della risurrezione sperata dai padri por-
tava a questa stessa glorificazione. Qui il passaggio è scomparso
(benché se ne possa trovare un ricordo nel raduno della Chiesa
che sarà subito evocato), e sembra anche assente l’invocazione
del Nome.
In realtà, non è così. Infatti, ciò che questa invocazione si-
gnificava per i primi cristiani - la rivelazione di Dio come Pa-
dre, nel suo Figlio Gesù dato al mondo -, si ritrova all’inizio
della preghiera nella solenne invocazione a Dio, come Padre, per
Gesù Cristo suo Figlio. Il senso di questa offerta dell’eucaristia,
qui materializzata negli elementi, ma che possono essere qua-
lificati come offerte « sante e senza macchia » solo in riferimen-

240
to all’eucaristia di cui sono !,oggetto, ci è dato dal fine che le
è assegnato: la pace, la protezione, il raduno finale di tutta la
Chiesa cattolica nel mondo intero, e non più del solo Israele.
Il Papa è nominato come il primo di coloro ai quali la preghie‫־‬
ra si estenderà esplicitamente. Il nome del vescovo gli fu asso-
ciato quando questa liturgia fu celebrata fuori di Roma. Dopo
di loro, fu menzionato per molto tempo il nome dell’imperatore
e, in sua mancanza, quello del re (39). La finale della formula
indica non tutti i fedeli, come si interpreta talvolta, ma tutti gli
altri capi della Chiesa che partecipano a questo compito di ra-
duno dell’unico popolo di Dio nelP« ortodossia » della fede apo-
stolica (40). Si può dire che qui !,episcopato (e il principato cri-
stiano associato con lui alla funzione di reggere il popolo di Dio
nell’unità) in quanto succede agli apostoli prende il posto dei
« padri » nelle prospettive che erano proprie del popolo ebreo.
Il Memento ci fa passare dal popolo, preso nella sua totalità
e unità, a tutti i suoi membri e alle loro necessità individuali.
Di qui l’introduzione, a questo punto, dei dittici che menzionano
quei vivi per i quali si vuole pregare in modo speciale. Abbia-
mo messo tra parentesi la menzione: « per loro ti offriamo »,
poiché non appare prima del secolo IX (41). Essa manifesta il
passaggio da una nozione dell’offerta comune dell’eucaristia, il
« sacrificio di lode », da parte di tutti coloro che attorniano
l’altare, a quella di un’offerta che i ministri fanno per gli « of-
ferenti » che si suppongono assenti o semplici testimoni pas-
sivi dell’eucaristia. Ciò che si chiede per i membri del popolo
di Dio è molto interessante: è la redenzione, che riassume la
penitenza, il perdono e il riscatto chiesti successivamente dalla
V, VI e VII benedizione della Tefillà. La « salute » che viene
dopo corrisponde parimenti alla guarigione, oggetto dell ,VI II, e
1,incolumitas (« sicurezza di vita ») alla pace e alla prosperità,
che sono oggetto della IX. Se si osserva il riferimento alla fede
e alla devozione degli offerenti, si vede che la « conoscenza » di
Dio, oggetto della IV, ha pure lasciato la sua traccia. I « di-

(39) Ci le varianti date da B. Botte, Le Canon de la Messe romaine,


P· 32.
(40) Cf B. Botte - Ch. Mohrmann, Uordinaire de la messe. Texte
critique, traduction et etudes (= Études liturgiques, 2), Paris-Louvain
1953.
(41) Cf le note di B. Botte, op. cit., p. 34.

241
spersi », che venivano dopo, e che la preghiera egiziana menzio-
nava ancora, sono scomparsi, come anche i persecutori che pu-
re vi si trovavano, e i fedeli, contrapposti ad essi. Le autorità
(che figuravano nella XI benedizione), essendo già state men-
zionate, non avevano più motivo di esserlo ancora.
Il Communicantes, con le commemorazioni dei santi, segue
qui le intercessioni, come nella preghiera egiziana. Ci si potreb-
be chiedere perché queste commemorazioni non siano state in-
trodotte all’inizio, per corrispondere alla menzione dettagliata
dei « padri » che ci è stata trasmessa dalla Tefillà, con Abramo,
Isacco, Giacobbe e tutti gli altri nomi che forme sviluppate, co-
me quelle del libro VII delle Costituzioni apostoliche, potevano
aggiungervi. Non bisogna però dimenticare che queste stesse for-
me ellenistiche della Tefillà giudaica introducevano una seconda
lista di santi personaggi dopo le intercessioni, in collegamento
con la preghiera per Taccettazione del sacrificio. Di qui probabil-
mente, nella liturgia romana come in quella egiziana, viene la
commemorazione dei santi posta nello stesso punto. La men-
zione degli apostoli deve essere quella più antica, e quella della
Vergine dovette unirvisi molto presto. I martiri che seguono so-
no o martiri romani, o martiri venerati a Roma. Abbiamo inse-
rito il richiamo della commemorazione del giorno di Pasqua,
corrispondente al prefazio citato.
Negli antichi sacramentari, erano molto più numerose di
oggi le enunciazioni dell’aspetto del mistero cristiano celebrato
in quel giorno, prima della menzione dei santi. Esse corrispon-
dono in una certa misura alle formule variabili del « memoria-
le » che l’ultima delle « benedizioni » della fine del pasto intro-
duceva ugualmente alle feste giudaiche. Forse tali richiami, mes-
si a questo punto, prima della « memoria » dei santi, ci posso-
no aiutare a interpretare questo enigmatico Communicantes usa-
to in modo assoluto all’inizio della preghiera (42). Ciò che fa sì
che il popolo di Dio tutto intero viva in una sola comunione
con i morti e con i vivi (come inculcava già tanto fortemente
tutta la prima parte della Tefillà), è che tutti insieme sono uniti
nella « memoria » eucaristica del mistero salvifico, su cui si in-
nesta, per così dire, la « memoria » degli apostoli e dei martiri.
Così, per gli ebrei, la « memoria » delle grandi azioni di Dio nel

(42) Cf la nota di B. Botte, o p . c it . , pp. 55ss.

242
passato, la « memoria » dei « padri » che ne erano stati testimoni
e la « memoria » anticipata del Messia atteso non facevano che
un solo « memoriale » presentato a Dio nella beràkà.
Le due ultime preghiere che abbiamo citato, Hanc igitur e
Quam oblationem, formano insieme la prima epiclesi della li-
turgia romana. La prima epiclesi della liturgia egiziana, come
abbiamo visto, era anch’essa formata da due preghiere distin-
te: la prima, come YHanc igitur, si sviluppava in una enumera-
zione delle intenzioni speciali per le quali si offriva il sacrifìcio.
In Egitto, però, il Sanctus e la sua introduzione si inserivano tra
le due, comportando la necessità dell’aggancio, mediante l’idea
di pienezza, per concatenare la seconda. Qui, le due preghiere
rimangono ancora distinte, ma sono unite immediatamente, come
lo erano nella Tefillà la XVI benedizione - in cui tutte le do-
mande d’Israele erano come raccolte per essere raccomandate a
Dio - e la benedizione 1Abódà che gli raccomandava i suoi stes-
si sacrifici.
Abbiamo anche riportato la formula speciale, sempre con-
servata, per l’eucaristia offerta secondo l’intenzione dei neofiti
che erano stati battezzati a Pasqua. Nell’antichità e perfino mol-
to avanti nel medioevo, essa era solo un esempio, fra moltissi-
mi altri, delle intenzioni speciali che potevano essere formulate
a questo punto (43). Il « disponi nella tua pace i nostri giorni »
sembra essere stato, in principio, una semplice intenzione parti-
colare di questo tipo, che san Gregorio Magno vi stabilì poi in
permanenza (44).
Il Quam oblationem è propriamente la presentazione del sa-
orificio eucaristico all’accettazione di Dio. Fra gli aggettivi con
cui viene qualificata l’offerta, rationabilem è evidentemente la
traduzione di λογικήν... λατρείαν, cioè del culto offerto nel Lo-
gos che è la Parola fatta carne. Però richiama anche la « pa-
rola » mediante la quale l’uomo, nello stesso Cristo, dà la sua
risposta, identificata qui con l’eucaristia. Ricordiamo che ad
Alessandria, questo culto « nel Logos » era richiamato fin dalla
pre-epiclesi.
Sant’Ambrogio, nel dirci che alla lode iniziale dell’eucaristia

(43) Cf a questo riguardo B. Botte, op. cit., pp. 58ss.


(44) Cf A. I ungmann, Missarum Sollemnia, voi. II, Torino 1961,
p. 144.

243
seguivano le intercessioni, attesta - verso la seconda metà del
IV secolo - questo inizio del canone romano, almeno nelle sue
grandi linee.
Con quest’ultima preghiera, però, raggiungiamo quella par-
te del Canone che egli cita quasi integralmente e più o meno ah
la lettera. Sembra, infatti, che non si accontenti più di darne
una parafrasi esplicativa, ma che citi testualmente, in mezzo al-
le sue spiegazioni, le stesse parole che usava nella preghiera
eucaristica a partire da questo punto.
La forma che dà della preghiera corrispondente al nostro
Quam oblationem è questa:
« Rendi per noi questa offerta regolare (scriptam), spiri-
tuale (rationabilem), degna di piacerti, essa che è (o: per-
ché è) la figura del corpo e del sangue del nostro Signore
Gesù Cristo... » (45).
Il seguito del commento, che dimostra un realismo sacra-
mentario molto marcato, fa vedere molto bene che qui figura -
come τύπος nelle liturgie greche -, lungi dall’opporsi alla realtà
della presenza, significa che gli elementi sensibili ne diventano
il segno efficace. A questo riguardo, la nostra formula: « Que-
sta offerta... diventi per noi il corpo e il sangue del tuo ama-
tissimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo », significa solo la
stessa cosa in una forma che per noi è più chiara, mentre non
era così per gli antichi.
Se, come abbiamo suggerito, il posto originale dei riferimen-
ti alFaltare celeste, all’Angelo e ai patriarchi doveva essere lo
stesso, a Roma come ad Alessandria, questi riferimenti doveva-
no sorgere fin dalle prime parole delYHanc igitur oblationem
(d’altronde, il testo di sant’Ambrogio, pur mettendoli dopo Fa-
namnesi, li fa dipendere da una ripresa dell’espressione Hanc
oblationem). In questo caso, appare chiaro che la domanda di
accettazione del sacrificio, come pure quella della trasformazio-
ne degli elementi, ne derivava direttamente.
Passiamo ora al racconto dell’istituzione, all’anamnesi e al-

(45) D e S a c r a m e n tis , IV, 5-6, ed. B. Botte (= Sources chrétiennes,


25), Paris 1950, pp. 84-86. Si veda prima che cosa dice delle intercessio-
ni di inizio (IV, 4, p. 81), che vengono dopo la lode di Dio. - Cf an-
che: A. Paredi, C a te c h e s i d e lla M e s s a in s a n t ’A m b r o g i o , in RivLit 53
(1966) 562-569.

244
la seconda epiclesi, che fanno un tutt'uno strettamente legato
(in sant’Ambrogio, il legame è così continuo che l'ultima frase,
che include l'epiclesi nell'anamnesi, diventa molto pesante, il
che spiega come si sia poi preferita la redazione attuale che
smembra in due frasi l'epiclesi e la separa dall'anamnesi).
« La vigilia della sua passione,
egli prese il pane
nelle sue mani sante e venerabili,
e alzando gli occhi al cielo,
a te Dio Padre onnipotente,
rese grazie con la preghiera di benedizione,
spezzò il pane, lo diede ai suoi discepoli, e disse:
Prendete, e mangiatene tutti:
questo è il mio corpo offerto in sacrifìcio per voi.
Dopo la cena, allo stesso modo,
prese questo glorioso calice
nelle sue mani sante e venerabili,
ti rese grazie con la preghiera di benedizione,
10 diede ai suoi discepoli, e disse:
Prendete, e bevetene tutti:
questo è il calice del mio sangue
per la nuova ed eterna alleanza,
versato per voi e per tutti
in remissione dei peccati.
Fate questo in memoria di me.
Mistero della fede.
In questo sacrifìcio, o Padre,
noi tuoi ministri e il tuo popolo santo
celebriamo il memoriale della beata passione,
della risurrezione dai morti
e della gloriosa ascensione al cielo
del Cristo tuo Figlio e nostro Signore;
e offriamo alla tua maestà divina (praeclarae),
tra i doni che ci hai dato (de tuis donis ac datis),
la vittima pura, santa e immacolata,
pane santo (sanctum) della vita eterna
e calice dell'eterna salvezza.
Volgi sulla nostra offerta
11 tuo sguardo sereno e benigno,
come hai voluto accettare i doni di Abele, il giusto,
il sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede,
e Foblazione pura e santa
di Melchisedech, tuo sommo sacerdote,

245
Ti supplichiamo, Dio onnipotente:
fa' che questa offerta, per le mani del tuo angelo santo,
sia portata sull'altare del cielo
davanti alla tua maestà divina,
perché su tutti noi che partecipiamo di questo altare,
comunicando al santo mistero
del corpo e sangue del tuo Figlio,
scenda la pienezza di ogni grazia e benedizione del cielo.
Per Cristo nostro Signore. [Amen] ».
Abbiamo già segnalato le particolarità del racconto delTisti-
tuzione nella liturgia egiziana, in cui le amplificazioni e armo-
nizzazioni abituali nelle formule di quest'epoca si avvicinano
molto a quelle del nostro testo. L'inciso Mysterium fidei è una
particolarità unica del rito romano. Si sono escogitate molte ipo-
tesi, non verificabili, sul modo con cui ha potuto inserirsi nella
formula che riguarda il calice (46). Il suo senso è chiaro: qui
si trova evocato il mistero paolino che fa una sola cosa con la
nuova alleanza nel Cristo.
!/anamnesi si ferma all'ascensione, segno della sua antichità.
La menzione « noi tuoi ministri », opposta a « il tuo popolo san-
to », evidentemente ha di mira i celebranti, ai quali sono con-
giunti tutti i fedeli nella presentazione del sacrificio a Dio. La
formula che esprime il « memoriale » in termini sacrificali è,
press'a poco, parola per parola, quella che abbiamo spiegato
nella liturgia di san Marco. Le due formule unite che sviluppa-
no la seconda epiclesi sono già state abbondantemente commen-
tate. Basta aggiungere a ciò che è stato detto precedentemente
che le ultime parole della prima: sanctum sacrificium, immacu-
latam hostiam - aggiunte da san Leone, e che sono un'ultima
allusione all'offerta pura delle nazioni - in Malachia si applica-
no, nella loro prima intenzione, al sacrificio di Melchisedech
menzionato per ultimo (47).
Viene quindi, prima della grande conclusione dossologica,
un insieme di preghiere che, dopo la menzione degli Angeli, pre-
senta un parallelismo evidente con la fine dell'eucaristia di Se-
rapione, come anche con la fine delle commemorazioni in quel-
la di san Marco.

(46) Cf B. Botte, L e C a n o n d e la M e s s e r o m a in e , p. 62.


(47) Cf U O r d in a ir e d e la M e s s e r o m a in e , p. 82, n. f.

246
« Ricordati, o Signore, dei tuoi fedeli
che ci hanno preceduto con il segno della fede
e dormono il sonno della pace.
Dona loro, o Signore,
e a tutti quelli che riposano in Cristo,
la beatitudine, la luce e la pace.
Per Cristo nostro Signore. [Amen].
Anche a noi, tuoi ministri, peccatori,
ma fiduciosi nella tua infinita misericordia,
concedi, o Signore, di aver parte nella comunità
dei tuoi santi apostoli e martiri:
Giovanni, Stefano, Mattia, Barnaba,
Ignazio, Alessandro, Marcellino e Pietro,
Felicita, Perpetua, Agata, Lucia,
Agnese, Cecilia, Anastasia e tutti i santi:
ammettici a godere della loro sorte beata,
non per i nostri meriti,
ma per la ricchezza del tuo perdono.
Per Cristo nostro Signore
tu, o Dio, crei e santifichi sempre,
fai vivere, benedici e doni al mondo ogni bene.
Per Cristo, con Cristo e in Cristo,
a te, Dio Padre onnipotente,
nelPunità dello Spirito Santo,
ogni onore e gloria
per tutti i secoli dei secoli. Amen ».
Siccome il Memento dei morti è assente in molti manoscrit-
ti tra i più antichi, alcuni ne hanno tratto la conclusione che
non era altro che un’aggiunta tardiva (48). È poco probabile:
il Nobis quoque, infatti, che non manca mai, gli è evidente-
mente collegato. Questa omissione deve spiegarsi con il fatto che
a una certa epoca, come sappiamo, non era recitato nelle messe
domenicali. La successione delle idee, sorprendente a questo
punto in cui sono inusitate, è la medesima che si trova, dalla fi-
ne dell’epiclesi alla conclusione della preghiera eucaristica, in
quella di Serapione. E la fine delle commemorazioni della litur-

(48) Cf B. Botte, o p . c i t pp. 67ss.


(49) Καί τούτων πάντων τά ς ψυχάς άνάπαυσον,... ημών δέ τά
τέλη τή ς ζωής χριστι,ανά καί ευάρεστα καί ά';αμάρτητα δώρησαι καί
δός ήμΐν μερίδα καί κλήρον έχειν μετά πάντω ν των αγίων σου (Bright-
man , o p . c it., p. 129).

247
già di san Marco, in cui si passa anche da una preghiera per
i defunti a un’ultima supplica per gli stessi offerenti, presen-
ta col nostro testo delle coincidenze verbali ancora più marca-
te (49). Come Dom Botte, tra gli altri, ha sottolineato, la fattura
di questo Memento è d’altra parte in una lingua particolarmen-
te arcaica, con la sua menzione del « segno della fede » (il sj_
gillo del battesimo), del refrigerium e del passaggio alla vita
eterna descritto come il trasferimento da un luogo a un altro.
Il Nobis quoque, con la sua felice formula finale sulla gra-
tuità della nostra ammissione nella società dei santi - questa
Gerusalemme celeste sulla visione della quale terminavano le
beràkòt giudaiche prima di ritornare alla lode in una dossologia
di conclusione - si è prestato a un’ultima enumerazione di santi.
Essa è molto varia nei manoscritti medievali, dato che raccoglie
tutti coloro ai quali la devozione locale poteva essere più par-
ticolarmente affezionata (50).
Nel testo romano, Ignazio è il martire di Antiochia; Ales-
sandro, Marcellino e Pietro sono martiri sui quali sappiamo ben
poco; Felicita e Perpetua, le due celebri martiri africane; Agata
e Lucia due martiri siciliane; Agnese e Cecilia due martiri
romane; e Anastasia la titolare, forse leggendaria, della basilica
ai piedi dell’Aventino (51).
Le benedizioni che seguono, prima della dossologia, sembra-
no rivolte, in origine, all’insieme dei doni dai quali era stata
prelevata la materia dell’eucaristia, e il cui rimanente avrebbe
servito alle distribuzioni di carità, sempre legate nell’antichità
alla sua celebrazione (52). C’è da notare che in certi formulari
ispanici questa benedizione è giunta ad assorbire in sé la dos-
sologia finale (53).
Se ci si chiede perché il Memento dei morti abbia potuto a
Roma, come ad Alessandria, almeno in certi casi antichi, situar-
si tra la fine dell’epiclesi e la dossologia, sembra che la risposta

(50) San Martino - ad esempio - sarà ordinariamente invocato so-


prattutto nei paesi franchi.
(51) Cf B. Botte, o p . c it., p. 12; R. van D oren, L e s S a in ts clu C a n o n
d e la M e s s e , in QL 16 (1931) 57ss.
(52) Il primo a sostenere questa tesi è stato Duchesne. Cf B. Botte,
o p . c it., p. 69.
(53) Cf più avanti, p. 333.

248
vada trovata nel carattere fortemente escatologico fin dall'ori-
gine di questa conclusione. Siccome i morti nella fede, come di-
ce la preghiera, ci hanno preceduto nella Gerusalemme celeste,
era logico che un'ultima preghiera li tenesse presenti, prima di
chiedere anche per noi la nostra introduzione anticipata, me-
diante !'eucaristia, nel coro della glorificazione eterna.
Infine, si è potuto notare che abbiamo messo tra parentesi
gli Amen interni del Canone, perché appaiono solo molto tardi
nei manoscritti (54). Di fatto, ciò significa semplicemente che
fin dall'alto medioevo non era più possibile che i fedeli rispon-
dessero a preghiere dette ormai sottovoce, mentre non si era
ancora introdotto l'uso strano che il celebrante rispondesse a
se stesso. Ancora una volta, però, la distinzione delle preghiere,
con le loro conclusioni separate, è forse l'indice migliore della
remota antichità del Canone romano. E quando tutti potevano
sentire tutto, è proprio il caso di pensare che i fedeli punteggias-
sero di « Amen » queste conclusioni, esattamente come nella li-
turgia di Addai e Mari.
Rimesso così nel suo vero contesto, il Canone romano (55)
appare dunque come uno dei testimoni più venerandi della più
antica tradizione della preghiera eucaristica, almeno contem-
poraneo, nel suo insieme, alle forme più arcaiche dell’eucaristia
alessandrina. Si può pensare benissimo che la successione delle
sue preghiere e il loro contenuto, con molte espressioni chiave,
risalgano direttamente all'epoca - certo molto antica - in cui
l'eucaristia, a Roma come dovunque, venne legata definitiva-
mente al servizio di letture e di preghiere. Ciò vuol dire che
Ippolito lungi dall’esserne il padre, proprio lui che voleva anco-
ra ignorare questo collegamento, deve aver diffuso a Roma il
proprio rito, seppur lo ha fatto, unicamente nel vano tentativo
di sloggiarvi un rito che doveva già rassomigliare molto (con la
differenza che si faceva ancora uso del greco anziché del latino)
a quello che ci è stato trasmesso e che usiamo tuttora.

(54) Il più antico manoscritto che li contiene è quello di Reims del


secolo IX; cf B. Botte, op. cit., p. 57.
(55) Per uno studio critico del testo latino, cf L. E izenhòfer, Ca-
non Missae Romanae. Pars prior: Traditio textus; Pars altera: Textus
propinqui, Herder, Roma 1954 e 1966; PE 422-447; EEFL p. 1829 (sub
voce) (* ).

249
Capitolo V ili

L’eucaristia siro ‫ ־‬occidentale :


« Costituzioni apostoliche »
e liturgia di san Giacomo

Carattere tardivo deireucaristia siro-occidentale


e fattori della sua elaborazione

Il tipo di liturgia che è sopravvissuto a Roma e ad Alessan-


dria, tolte alcune particolarità locali, ha dovuto essere pratica-
mente universale nella Chiesa a partire dal momento in cui il
servizio di letture e di preghiere - oggi diciamo la liturgia della
Parola - e il banchetto eucaristico vennero uniti in un solo
rito. Ma nel IV secolo vediamo apparire nella Siria occidentale,
nell'ambito di Antiochia, una liturgia eucaristica di tipo profon‫־‬
damente differente, sebbene vi si trovino gli stessi elementi. Gli
studiosi che l'hanno scoperta, alla fine del Rinascimento, prima
nella liturgia del libro V ili delle Costituzioni apostoliche e poi
poco dopo, nella liturgia gerosolimitana detta di san Giacomo,
ne sono stati letteralmente incantati. Presso gli anglicani, so-
prattutto, nel XVII e XVIII secolo, si ispira ad essa tutta una
serie di tentativi di restaurazione di un'eucaristia tradiziona-
le (1). Il motivo è che l'eucaristia delle Costituzioni apostoliche,
attribuita a Clemente di Roma (di qui il nome di liturgia eie-
mentina, sotto il quale sarà a lungo conosciuta), si ammantava
del prestigio dell'autorità apostolica, proprio come quella di
san Giacomo, attribuita al fratello del Signore. Altra ragione
è che questi testi sono composizioni di un ordine ammirevole,
di una grande ricchezza di pensiero e di espressione, sostenuta
dall'eloquenza di una retorica consumata.
Da molto tempo, ormai, le pretese di apostolicità di questi
testi non sono più prese alla lettera da nessuno. Non per que-
sto, però, hanno perduto tutto il loro prestigio. Ancora nel se-

(1) Cf W. Jardine - A. G risbrooke, A n g lic a n L itu r g ie s o f th e s e v e n -


te e n th a n d e ig h te e n th C e n tu r ie s , London 1958. Cf più avanti, ρρ. 429.

250
colo XX si sono trovati dei teorici, come Drews (2), che vi han-
no visto la forma più antica e più pura deireucaristia, e hanno
cercato di dimostrare attraverso quale ipotetica evoluzione avreb-
be potuto venir fuori la liturgia romana. Con maggiori sfu-
mature, e con una prudenza più accorta, uno dei maggiori li-
turgisti anglicani deirultima generazione, il vescovo Walter Ho-
ward Frere, nel suo libro The Anaphora (3), ha ancora soste-
nuto che si ha qui !,eucaristia ideale, concepita e sviluppata su
uno schema che rimane sostanzialmente originario, anche se
per metterla in atto è stata necessaria un'evoluzione innegabil-
mente avanzata. La continuità dello sviluppo, l'unità logica
della struttura trinitaria in cui esso si inserisce, sembrano a lui
i garanti dell'antichità quasi-apostolica di questo schema euca-
ristico, comunque siano i particolari variabili delle formule che
lo possono rivestire. Da questa persuasione sono sorti, e non
cessano di sorgere, nella Chiesa anglicana, ma anche in molte
altre Chiese, saggi più o meno concordanti di ricostruzione di
una preghiera eucaristica ideale, presentata come fondamental-
mente primitiva.
Non neghiamo che !'eucaristia siro-occidentale possa essere
considerata come ideale, almeno nel senso che tutto il contenu-
to tradizionale dell'eucaristia cristiana non è stato mai espresso
con tanta ampiezza né in uno schema così soddisfacente per una
certa mentalità logica. Che però questa eucaristia possa essere
considerata come primitiva - pur con tutte le riserve possibili
sui particolari di espressione di cui la troviamo rivestita, sia
nelle Costituzioni apostoliche sia nella liturgia di san Giacomo
- bisogna dirlo francamente, è la più strana aberrazione che si
possa immaginare. Questa unità logica senza incrinature, questa
continuità di sviluppo e lo schema trinitario impeccabile nel
quale si innestano meravigliosamente sono altrettanti segni in-
discutibili non solo di una data tardiva, ma di un'elaborazione
studiata che ha rimaneggiato con un'audacia appena credibile
gli elementi tradizionali. Se mai l'eucaristia primitiva si è trova-
ta completamente smontata per essere poi rimontata pezzo per
pezzo su un modello assai poco tradizionale, è proprio l'euca-
(2) P. D rews, Z u r E n ts te h u n g s g e s c h ic h te des K an on s, Tiibingen
1902.
(3) W. H. Frere, T h e A n a p h o r a o r g r e a t E u c h a r is tic P r a y e r , Lon-
don 1938.

251
ristia siro-occidentale. Tutto questo lavoro porta su di sé la
data e il sigillo di origine. Suppone a un tempo l'evoluzione
molto avanzata a cui la teologia trinitaria giunge solo nel IV
secolo, e Tultima retorica greca, di cui Antiochia, come per ca-
so, doveva essere il nucleo. Non si tratta di mettere in dubbio
la legittimità e nemmeno !,eccellenza della teologia dei Padri
greci del IV secolo. Non ci sogniamo neppure di sottovalutare
le realizzazioni letterarie dell'ellenismo della loro epoca. Come
ha detto molto bene Aimé Puech, si può pensare che Libanio,
il maestro antiocheno di Basilio e dei due Gregorio, avesse mes‫־‬
so a punto un tipo notevole di cultura e preparato forme let‫־‬
terarie di una scioltezza e di una ricchezza sbalorditive, a cui
non mancava più che il contenuto di un pensiero sostanziale
che questi autori cristiani vi avrebbero appunto infuso (4). Pe-
rò, bisogna pur dirlo, tutto questo ci porta molto lontano dal
pensiero e dalle forme di espressione che avevano conosciuto i
primi cristiani.
Le prime preghiere cristiane, per il loro contenuto, pur rin-
novato dalla « novità » evangelica, come anche per la loro for-
ma spontanea, rimangono profondamente semite, anche quando
sono formulate in greco. Ora, in questo ambito, la stessa pos-
sibilità di una preghiera lunga ed eloquente, sviluppata siste‫־‬
maticamente, è impossibile. Il pensiero che anima le preghiere
giudaiche e le prime preghiere cristiane non si muove affatto se-
condo i procedimenti della logica greca. Ed esso non avrebbe
avuto a sua disposizione, per essere in grado di farlo, i modelli
letterari senza i quali un pensiero di quest'altro tipo non avreb-
be nemmeno potuto formularsi.
Nella Bibbia, o nella liturgia sinagogale antica, non ci sono
lunghe preghiere. E se non ce ne sono, è perché non ci potevano
essere. Le lingue semite - come l'ebraico, che ha solo alcune
preposizioni, due o tre congiunzioni, niente pronomi relativi -
non lo consentono. Vi si possono comporre rosari di preghiere
concatenate dai temi che le attraversano, ma non preghiere svi-
luppate lungamente e logicamente, che richiedono il sostegno
di una sintassi complessa, provvista di un'abbondanza variata
di termini di collegamento.
(4) Cf A. P uech, H is to ir e d e la l i tté r a tu r e g r e c q u e c h r é tie n n e , voi.
Ili, Paris 1930, il capitolo sui Cappadoci; A. E. J. Festugière, A n tio -
c h e p a ìe n n e e t c h r é t ie n n e , Paris 1959.

252
Le eccezioni sono soltanto apparenti. Lasciamo stare le pre-
ghiere del libro di Ester: infatti sono state aggiunte in un se-
condo tempo, nella sua versione greca. La maggior parte dei sai-
mi non sono affatto preghiere lunghe, ma - come ha dimostrato
la scuola esegetica scandinava - liturgie che collegano insieme
preghiere differenti, corrispondenti alle fasi successive di un
sacrificio, di una processione o di qualsiasi altro genere di uf‫־‬
fìcio complesso (5). Di qui, le incongruenze apparenti, i passag‫־‬
gi improvvisi da un tema a un altro, che hanno costituito la
disperazione degli esegeti finché si sono ostinati a volerli ana-
lizzare come si farebbe per un inno di Cleante o anche per un
inno di Omero.
Gli unici salmi lunghi che non possono rientrare in questa
categoria sono i salmi sapienziali, che sono meditazioni tardive
sulla storia sacra. Si può accostare ad essi la grande preghiera
di Neemia, che abbiamo sunteggiato (6). Vi troviamo una fonte
delle eucaristie sviluppate, ma non si tratta di un vero antece-
dente. Tutti questi testi, infatti, rimangono profondamente dif-
ferenti dalle forme che queste eucaristie avrebbero ricevuto nel
mondo ellenico. Le loro meditazioni, infatti, rimangono su un
piano puramente narrativo. La storia non vi è ricostruita se-
guendo una sintesi razionale. Finché la meditazione sapienziale
rimane in ambiente semitico, si limita a presentare una serie
di fatti, considerati come tipici nella loro diversità, con uno
stesso ritornello, come: « Perché eterna è la sua misericordia »,
del salmo 136, o: « Ringrazino il Signore per la sua misericor-
dia, per i suoi prodigi a favore degli uomini », del salmo 107. Il
più delle volte non va così avanti nell’organizzazione, ma accu-
mula semplicemente sia le successive testimonianze della co-
stante misericordia divina (salmo 105), sia gli esempi ripetuti
dell’infedeltà umana (salmo 106). Oppure, se abbozza una
struttura, sarà con un artificio letterario squisitamente orienta-
le, come la composizione dei salmi alfabetici.
Bisognerà arrivare a una forma di pensiero decisamente gre-
co, in un mondo letterario ereditato dall’ellenismo, per vedere
la meditazione sapienziale, nel quadro eucaristico, sintetizzarsi

(5) Cf A. Bentzen, In tr o d u c tio n to th e O l d T e s ta m e n t, voi. I, Co-


penhagen 1948.
(6) Cf sopra, pp. 58.

253
seguendo le linee articolate di una teologia sistematica. QUj
meno che mai, sembra, il fondo non si può separare dalla for-
ma: questo fondo di una visione della storia della salvezza or-
ganizzata a partire da una teologia sintetica non poteva appa-
rire se non in una forma greca.
Fin dal Nuovo Testamento, tuttavia, noi vediamo, naturai-
mente in san Luca, un primo segno del passaggio che stava per
effettuarsi da una forma stilistica (e insieme da una forma di
pensiero) a un'altra. Il cantico di Zaccaria, a prima vista, è
ancora un salmo. Ma quando lo si legge attentamente in gre-
co, si vede che non lo è più. Per quanto rudimentale sia, il gio-
co delle particelle, Fuso delle congiunzioni variate ne ha fatto
un periodare greco che prende e fonde insieme i membri indi-
pendenti di un salmo semitico.
È quanto si osserva, e Fabbiamo segnalato, quando si pas-
sa dalFeucaristia di Addai e Mari a quella di Ippolito. Come
a buon diritto nota Dom Botte, è evidente che la prima è stata
composta in una lingua semitica. Non è meno evidente che Ip-
polito, malgrado la sua vigilante preoccupazione di conservare
ne varietur lo schema più antico della preghiera eucaristica, ha
composto la sua in greco e come un greco, almeno di adozione.
Le grandi preghiere eucaristiche siro-occidentali dimostrano
più chiaramente ancora quello che avrebbe potuto realizzare
Fultima retorica greca, applicandosi a dare delFeucaristia una
formula conforme ai suoi canoni e, per questo, cominciando
col ripensarla da cima a fondo per riscriverla. Ancora una voi-
ta, non per caso, queste preghiere sono state scritte ad Antio-
chia o nelle vicinanze. Non si sarebbero mai potute comporre al-
trove, né in un'epoca diversa da quella in cui Libanio vi in-
segnava.
L'ultima retorica greca, infatti, non è soltanto una retorica
« asiatica », ma una retorica siriaca. Per quanto pensasse di
costituire soltanto la perfezione somma dell'arte di un Demo-
stene o di un Eschine, in realtà era diventata qualche cosa di
molto diverso (7). Essa conservava la preoccupazione di uno
svolgimento razionale, deduttivo, del pensiero, in una forma
grammaticale rigorosa, usando a fondo, ma con discernimento,
tutte le risorse del vocabolario e della sintassi greca. Vi aveva

(7) Cf E. N orden, D i e A n t i k e K u n s tp r o s a , Leipzig-Berlin 41923.

254
però aggiunto un gusto orientale per la profusione e lo sfarzo
delle immagini, per !,equilibrio delle idee e delle sonorità, e
soprattutto per !,amplificazione del ritmo. La monodia greca
vi si trasponeva in una specie di sinfonia tutta ellenistica, che
sarebbe sembrata il colmo del cattivo gusto e del guazzabuglio
non solo a Demostene, ma anche a Cicerone. Ne risulta che la
frase, stiracchiandosi a lungo e con compiacenza, non riesce più
a contenere tutto il periodo. Questo, assumendo così un eie-
mento orientale e più specificamente semitico, rimbalza in una
serie di frasi successive. Però !,insieme rimane greco, non solo
per la struttura di ciascuna di queste frasi, ma perché si con-
catenano, se non con legami sintattici espressi, almeno per la
continuità di un ritmo, che, controbilanciando le parole e le
immagini, mantiene sempre il filo di uno stesso pensiero direi-
tivo.
Per i greci formati alla scuola del IV ο V secolo prima di
Cristo, la letteratura semitica sarebbe sembrata non solo intra-
ducibile, ma inassimilabile. A questi pseudo-greci, invece, essa
offriva un cibo pregiato per Pamplificazione che era Pultima pa-
rola della loro retorica evoluta, che possiamo chiamare deca-
dente se la giudichiamo secondo i canoni classici. Evidentemen-
te, però, affinché la sua vernice ellenica non andasse in frantumi,
occorreva che assimilassero questa letteratura a prezzo di una
digestione che Pavrebbe resa irriconoscibile.
La prima condizione sine qua non sarebbe stata una ridi-
stribuzione della materia che la adattasse allo sviluppo del pen-
siero e della lingua greca, analizzando ogni idea nelle sue parti,
per ricostituire un insieme in cui le idee particolari e parziali si
sarebbero sintetizzate da sé sotto un'idea generale.
Lo schema trinitario, come è elaborato nel secolo IV dalla
teologia cristiana di lingua greca, procura così il quadro ideale
in cui svolgere la più sontuosa orchestrazione retorica dei temi
eucaristici tradizionali. Il prodotto sarà la liturgia di Antiochia
e di Gerusalemme. Era fatale che incantasse tutta la Chiesa bi-
zantina, nella misura stessa in cui Bisanzio avrebbe adottato
la retorica (e più generalmente Pestetica) di Antiochia insieme
alla teologia di Basilio e dei due Gregorio (8).
Con tutta probabilità, sembra che ad Antiochia stessa tro-

(8 ) Cf G . M athew , Byzantine Aesthetics, L o n d o n 1963, ρ . 23.

255
v iam o il p rim o p ro d o tto , e il p iù esu b eran te , di q u esto lavorio
n e lla litu rg ia e u c aristica del lib ro V i l i delle C o s t i t u z i o n i a p 0_
s t o l i c h e . U n p o ' p iù ta rd i, a G eru salem m e, con la litu rg ia detta
d i san G iacom o, a p p a re u n a com p o sizio n e analoga, m a di una
s tr u ttu r a p iù so b ria e p iù rifin ita. Le litu rg ie a ttrib u ite a san Ba-
silio e a san G io v an n i C risostom o sa ra n n o po i rim aneggiam enti
e d ec an taz io n i che p o rte ra n n o q u esto tip o alla sua fo rm a clas‫־‬
sica.

Struttura e fonti delLeucaristia delle « Costituzioni apostoliche »


I commentatori delLeucaristia del libro V i l i delle Costitu‫־‬
zioni apostoliche, sogliono affermare che si tratta di una liturgia
teorica che non ha mai potuto essere utilizzata tale e quale, a
causa della sua prolissità (9). Ciò significa dimenticare quello
che ci dice san Giustino degli antichi celebranti, che rendevano
grazie « quanto più potevano » (10). Ci sono validi motivi per
credere che ad Antiochia nel IV secolo, più che in qualsiasi al-
tro luogo e in qualsiasi altra epoca, ce n'erano che « potevano »
moltissimo. Pronunciata da un celebrante dalla lingua ben sciol-
ta, !,eucaristia del libro V i l i delle Costituzioni apostoliche non
avrebbe occupato più di un quarto d'ora. Se i liturgisti moder-
ni non fossero in generale ecclesiastici appartenenti alle Chiese
in cui Limprowisazione liturgica è soltanto un ricordo, sapreb-
bero per esperienza che una preghiera di tale lunghezza non
ha nulla di inusitato nelle Chiese in cui si pratica ancora la pre-
ghiera ex tempore. I fedeli vi sono troppo abituati perché osino
lamentarsi e i pastori non si sognerebbero di domandare il loro
parere, sebbene queste Chiese generalmente pretendano di esse-
re tra le più democratiche. Possiamo pensare che sia stato così
nella Chiesa antica, finché Limprowisazione rimase la regola.
È anche legittimo pensare che il sordo malumore dei fedeli nei
riguardi delLintemperanza verbale di certi ecclesiastici non sia

(9) D i f a tt o , le c a t e c h e s i d i s a n C ir illo d i G e r u s a le m m e c i fa n n o ve-


d e r e c h e si tr a tta d i u n a fo r m a d i litu r g ia c h e h a d o v u t o e s s e r e u tiliz z a -
ta , se n o n ta le e q u a le , a lm e n o n e lle s u e g r a n d i lin e e , p r im a d i q u e lla
d e t ta d i s a n G ia c o m o ( c f s p e c ia lm e n t e la 5 a M y s ta g o g ic a ) . B ib lio g r a fia
in J. M. S auget, B ib lio g r a p h ie d e s litu r g ie s o r ie n t a l e s , R o m a 1962, p.
3 4 ss.
(10) G iustino , A p o l o g i a /, 67.

256
stato estraneo alla scomparsa progressiva di questa libertà di pa-
rola. Questo fattore dovette perlomeno aggiungersi ai timori sen-
titi dall'autorità, di fronte a molte improvvisazioni in cui la prò-
lissità delle formule poteva andare di pari passo con l'inconsi-
stenza del pensiero. La liturgia del libro V ili delle Costituzioni
apostoliche sembra il frutto di uno sforzo per delimitare già nel
modo più esatto, quantunque il più largo possibile, la progres‫־‬
sione e il contenuto ritenuti ideali dal suo autore per una buona
eucaristia. Usufruisce per questo di un'abbondanza che doveva
cominciare a stancare, ma che non doveva sembrare così in-
sopportabile come potremmo pensare.
Nonostante la sua prolissità, essa rimane uno dei più bei testi
eucaristici dell'antichità, certamente quello che esprime nel mo-
do più completo possibile tutto ciò che gli antichi cristiani pò-
tevano trovare o mettere in una preghiera eucaristica. Si am-
mette generalmente che il suo autore doveva essere un ariano,
o almeno un semi-ariano. Non bisogna dimenticare, però, che
molte espressioni che oggi possono apparire come il prodotto
di questa scuola si trovano presso molti padri pre-niceni, come
ha notato per primo Petavio. È difficile che una teologia em-
brionale non sia anche una teologia difettosa. Perciò i semi-aria-
ni furono numerosi solo perché gli ariani, quando il loro lin-
guaggio era prudente, si limitavano a fare uso di espressioni che
erano state in circolazione per molto tempo senza che nessuno
ci vedesse qualcosa di sbagliato. Questi semi-ariani, attorno a
Basilio di Ancira, non avrebbero avuto grandi difficoltà ad ac-
cettare l'ortodossia nicena quando la consostanzialità del Figlio
fosse stata accompagnata da una dichiarazione altrettanto ferma
sulla distinzione delle ipostasi, perdendo così qualsiasi parven-
za di sabellianesimo.
È chiaro che l'autore si è sforzato di raccogliere tutti gli eie-
menti tradizionali che potevano capitargli sotto mano per in-
corporarli nel suo testo. Vi ritroveremo di sfuggita certe espres-
sioni che sono reminiscenze di Ippolito (del resto, molte sue
prescrizioni sono state incorporate nelle altre parti delle Costi-
tuzioni). Però la sua fonte principale sta nelle antiche preghiere
giudaiche alessandrine, cristianizzate da alcune interpolazioni,
che lui stesso ci ha conservato nel suo libro VII. Siamo così in
grado di apprezzare a un tempo la fedeltà con la quale si è
preoccupato di inserire nella sua costruzione quanto trovava

257
nelle sue fonti, e la libertà con la quale ha ridistribuito e ri-
composto tutto in un insieme che gli è personale.
Quando confrontiamo il risultato finale con le liturgie che
abbiamo trovato in Egitto o a Roma, si impongono già due co-
statazioni. La prima è che questa liturgia pseudo-clementina è
fatta degli stessi elementi della liturgia romana o alessandrina.
Vi si ritrova tutto ciò, e questo solo, che abbiamo trovato in
esse, sia pure sotto una forma generalmente (ma non sempre)
più dettagliata, come se il compilatore non avesse voluto lascia-
re nulla di implicito. La seconda costatazione è che risulta im-
possibile supporre che il tipo egiziano o romano possa procedere
da questo tipo antiocheno. Questo rappresenta una sintesi pon-
deratamente concepita e deliberatamente applicata; è inconce-
pibile che si sia potuto pensare di smembrarla per ricostituirla
seguendo l’altro ordine. Quest’ultimo, come abbiamo visto, si
spiega storicamente molto bene se si parte dagli antecedenti for-
niti dalle preghiere giudaiche della sinagoga e della mensa. Però
non si vede, in compenso, come sarebbe potuto risultare da una
dissociazione dell’eucaristia delle Costituzioni apostoliche. Sem-
bra incontestabile, invece, che questa liturgia siriaca sia un nuo-
vo ordinamento intenzionale di una liturgia locale anteriore, che
doveva essere molto analoga alla liturgia romana ed egiziana.
Ne faremo più tardi la verifica, ritornando sulla forma lunga
di Addai e Mari, in cui sembra che troviamo una liturgia siriaca
completa, ma poco o niente riordinata.
Riporteremo e commenteremo il testo della liturgia del li-
bro V ili delle Costituzioni apostoliche in tre brani successivi:
questa divisione corrisponde allo schema trinitario di tutta la
composizione. Conviene, però, che ci fermiamo ancora una voi-
ta sul dialogo introduttivo:
« 4. La grazia di Dio onnipotente, l'am ore del Signore
nostro G esù Cristo e la com unione (κοινωνία) dello Spi-
rito Santo siano con tu tti voi.
- E con il tuo spirito.
5. In alto la m ente (τον νουν).
- L 'abbiam o rivolta al Signore.
R endiam o grazie al Signore.
- È cosa degna e giusta ».

Qui, come in Ippolito, e forse sotto il suo influsso, ritrovia-

25S
mo la formula breve: « Rendiamo grazie al Signore », di cui
abbiamo visto la genesi e il significato originario. Però i due
versetti precedenti sono stati completamente ellenizzati. La so-
stituzione del saluto: « Il Signore sia con voi », con la benedi-
zione tratta da 2 Cor 13,13 diverrà universale nellOriente si-
riaco e in tutti i paesi in cui si affermerà la sua liturgia. Non è
stata però adottata senza una trasformazione significativa. Ci si
è preoccupati di stabilirvi Lordine gerarchico trinitario, facendo
passare il « Dio onnipotente » nel primo membro e attribuen-
dogli la grazia, mentre Cristo prende il suo posto nel secondo
e, conseguentemente, si vede attribuire Γαγάπη (il che è una
trasgressione palese dell'uso costante di san Paolo). Così pure,
non sono più « i cuori » che devono essere innalzati a Dio (per
la gente di mentalità greca, il cuore non è altro che la sede
delle emozioni): è il νους, la parte più spirituale dell'anima, se-
condo l'antropologia ellenica.
Viene allora la prima parte dell'eucaristia, che ci porterà
fino al Sanctus:
« 6. È veram ente (11) degno e giusto prim a di tu tto can-
tarti con inni, D io che sei per essenza prim a di tu tto ciò
che è venuto all'esistenza, dal quale ogni patria nei cieli
e sulla terra trae il suo nom e, il solo ingenito, senza prin-
cipio, senza re, senza padrone, senza necessità, il datore
di ogni bene, superiore a ogni cosa e a ogni genesi, colui
che è sem pre quello che è e lo stesso, dal quale tu tte le
cose m utevoli sono venute all'esistenza!
7. T u sei la conoscenza senza principio, la visione eterna,
l'udito ingenito, la Sapienza innata, il prim o per la n atu ra
e il solo che è l'essere e al di sopra di ogni num ero, colui
che ha fatto venire all'esistenza tutte le cose dal nulla
m ediante il tuo Figlio unico, che tu hai generato prim a di
tutti i secoli, senza interm ediario, m ediante la tu a volontà,
la tua potenza e la tua bontà, Figlio unico, Dio Logos,
Sapienza vivente, Prim ogenito di tutto il creato, Angelo
del tuo grande disegno, tuo sommo Sacerdote, Re e Si-
gnore di ogni n atu ra spirituale (νοητής) e cosciente, lui
che è prim a di tutto e per mezzo del quale tutto [esiste].
8. Infatti, Dio eterno, tu hai fatto tutto per mezzo di lui,
e per mezzo di lui estendi a ogni cosa la tua provvidenza

(1 1 ) Ώ ς αληθώ ς e non α λ η θ ώ ς s e m p lic e m e n te , c o m e a d A le s s a n -


d ria e a R o m a (Vere).

259
attenta, poiché per mezzo di lui hai fatto la grazia delPes-
sere, e hai dato di essere nel bene: Dio e Padre del tuo
Figlio unico, che per mezzo di lui hai fatto prima di tutto
i Cherubini e i Serafini, gli Eoni e le Schiere, le Potenze e
le Autorità, i Principati e i Troni, gli Arcangeli e gli
Angeli, e dopo ciò hai creato per mezzo di lui tutto il mondo
visibile e tutto ciò che vi si trova.
9. Poiché tu sei colui che ha stabilito il cielo come una
stanza e lo ha disteso come una tenda, e hai posto la
terra sul vuoto, con la tua sola decisione, hai fissato il
firmamento e hai stabilito la notte e il giorno; tu che
trai la luce dai tuoi tesori e, quando si ritira, riporti le
tenebre per il riposo dei viventi che si muovono in questo
mondo, hai stabilito il sole perché governi il giorno nel
cielo e la luna per governare la notte, e il coro delle stelle
lo hai iscritto nel cielo per la lode della tua maestà; 10. sei
tu che hai fatto Pacqua, per bevanda e purificazione, Paria
vivificante per Pinspirazione e !,espirazione e per Pemis-
sione della voce, per mezzo della lingua che batte Paria e
delPorecchio che mette in movimento perché afferri il
linguaggio che lo colpisce in questo modo; 11. sei tu che
hai fatto il fuoco per consolarci nelle tenebre, per Pap-
pagamento delle nostre necessità, per scaldarci e illumi‫־‬
narci; 12. sei tu che hai separato il grande mare dalla
terra e che hai reso Puno navigabile e Paltra ferma sotto
i nostri piedi, che hai riempito Puno di animali piccoli e
grandi, Paltra di bestie domestiche e selvatiche; Phai orna-
ta di alberi vari, coronata di piante, abbellita di fiori, ar-
ricchita di semi; 13. sei tu che hai stabilito Pabisso e hai
messo tutto attorno una grande diga, il mare che solleva
le onde delle sue acque saline e che hai contenuto dalle
coste con le porte di sabbia; sotto i venti, tu Pinnalzi fino
alPaltezza delle montagne, poi lo distendi come una pia-
nura; ora lo rendi furioso d'inverno, ora lo calmi e lo
plachi fino al punto che la sua traversata diviene facile
ai naviganti; 14. sei tu che hai solcato di fiumi il mondo
che hai creato per mezzo di Cristo, che lo hai irrigato con
ruscelli e inebriato con sorgenti perpetue, riempiendo tutto
attorno di colline perché la terra sia ferma e non tremi.
15. Tu, infatti, hai riempito Vii mondo che ti appartiene di
piante profumate e benefiche, di animali numerosi e vari,
potenti e deboli, da cibo e da lavoro, domestici e selvatici,
di serpenti che sibilano, di uccelli canori; [tutto hai di-
sposto secondo] il ciclo degli anni, con le variazioni dei

260
mesi e dei giorni, il succedersi delle stagioni, !,avvicendarsi
delle nubi che spandono le piogge per generare i frutti e
alimentare i viventi, per regolare il soffio dei venti quando
essi agitano, come tu hai loro prescritto, la moltitudine dei
vegetali e delle piante.
16. E non solo tu hai creato il mondo, ma vi hai posto
l’uomo come cittadino del mondo e l’hai costituito come
un [altro] mondo nel mondo. Perché tu hai detto alla
tua Sapienza: Facciamo l’uomo a nostra immagine e somi-
glianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del
cielo. 17. Per questo Fhai fatto con un’anima immortale
e un corpo distruttibile, Puna fatta dal nulla e l’altro dai
quattro elementi; e gli hai dato nell’anima il discernimento
razionale, la facoltà di distinguere tra la pietà e l’empietà,
di riconoscere il giusto e l’ingiusto, e nel corpo gli hai dato
i cinque sensi e il movimento.
18. Infatti, tu, o Dio onnipotente, per mezzo di Cristo
hai piantato nell’Eden, all’Oriente, il paradiso adorno di
tutti i vegetali di cui ci si può nutrire, e vi hai introdotto
come in un ambiente ben provvisto l’uomo in cui, nel
plasmarlo, avevi immesso la legge naturale di modo che
avesse in se stesso e da se stesso i principi della cono-
scenza divina (σπέρματα τής θεογνωσίας). 19. Introducendo-
lo in questo giardino di delizie, tu gli avevi dato il potere
perché se ne servisse liberamente, proibendogli però di gu-
stare di una sola cosa nella speranza di beni migliori, in
modo che, se avesse osservato questo precetto, avrebbe
avuto l’immortalità come ricompensa di quel [comando]
rispettato. 20. Avendo egli disprezzato questo precetto e
gustato del frutto proibito per la seduzione del serpente
e per consiglio della donna, tu lo hai giustamente cacciato
dal paradiso, ma, nella tua bontà, non lo hai completa-
mente abbandonato nella sua perdizione - egli era opera
tua avendogli sottomesso la creazione, tu gliela hai
data perché ne ricavasse il nutrimento coi suoi sudori e
col suo lavoro, venendo da te la germinazione, la crescita
e la maturazione; con giuramento, tu l’hai chiamato a rivi-
vere dopo che si sarebbe per breve [tempo] addormentato,
e gli hai promesso di sciogliere i legami della morte per
[dargli] la vita della risurrezione.
21. Non contento di questo, tu hai sparso in una moltitudi-
ne innumerevole i suoi discendenti e hai glorificato coloro
che aderivano a te, mentre castigavi coloro che si allon-
tanavano da te: hai accettato il sacrificio di Abele, come

261
di un giusto, mentre respingevi il dono di Caino, l'uccisore,
come empio, e, dopo di essi, sei venuto in aiuto a Set e a
Enos e hai trasportato Enoch.
22. Perché tu sei il creatore degli uomini, il datore della
vita, colui che soddisfa al loro bisogno, il legislatore, il
rimuneratore di coloro che osservano le [tue] leggi e il
vendicatore della loro trasgressione; tu hai portato il grande
diluvio sul mondo a causa della moltitudine degli empi
e hai salvato dal diluvio nell'arca il giusto Noè con otto
anime viventi, termine degli uomini (che erano) passati e
principio di quelli che sarebbero nati; tu hai acceso il
fuoco terribile contro la pentapoli di Sodoma e hai fatto
di una terra fertile una salina a causa della malizia dei
suoi abitanti, mentre strappavi all'incendio Lot il giusto.
23. Tu hai liberato Abramo dall’empietà dei suoi antenati,
lo hai stabilito erede del mondo e gli hai fatto vedere il
tuo Cristo in anticipo; hai consacrato Melchisedech come
sommo sacerdote del tuo culto; hai reso il tuo servo Giob-
be, nella sua grande prova, vincitore del serpente, principe
del male; hai fatto di Isacco il figlio della promessa, di
Giacobbe il padre di dodici figli e di una moltitudine sorta
da essi e li hai condotti in Egitto, in numero di settanta-
cinque anime. 24. Tu, o Signore, non hai disprezzato Giu-
seppe, ma in ricompensa della purezza che gli avevi ac-
cordata, gli hai dato il governo degli Egiziani. Tu, o Si-
gnore, non hai trascurato gli Ebrei oppressi dagli Egiziani
a motivo delle promesse fatte ai loro padri: anzi li hai
liberati, e hai punito gli Egiziani. 25. E siccome gli uomini
avevano corrotto la legge di natura e pensavano che la
creazione si era fatta da sola o la onoravano più di quanto
si dovesse opponendola a te, Dio di tutti, tu non hai la-
sciato che si ingannassero, ma hai presentato il tuo santo
servo Mosè e per mezzo di lui hai dato la legge scritta
per venire in aiuto alla legge di natura e hai manifestato
che la creazione è opera tua, hai distrutto l'errore del poli-
teismo, hai glorificato Aronne e i suoi discendenti con il
Sacerdozio, hai castigato gli Ebrei nel loro peccato, li hai
accolti nella loro conversione. 26. Hai colpito gli Egiziani
con le dieci piaghe; separando il mare, hai fatto passare
in mezzo gli Israeliti, hai castigato, sommergendoli, gli
Egiziani che li inseguivano, hai addolcito col legno l'acqua
amara, dalla pietra spaccata hai fatto sgorgare l'acqua, hai
fatto piovere la manna dal cielo, dall'aria hai dato le
quaglie per nutrimento, hai disposto una colonna di fuoco

262
nella notte per illum inarlo e un a colonna di nube per
risparm iare loro il calore. Indicando G esù [ = G iosuè]
come capo, hai annientato per mezzo di lui i sette popoli
di C anaan, hai separato il G iordano, seccato i fiumi di
E tan, e hai fatto crollare le m ura senza m acchine e senza
m ano d'uom o.
27. Per tutto ciò a te la gloria, Signore onnipotente. Te
adorano le innum erevoli schiere degli Angeli, degli A rcan-
geli, dei T roni, delle D om inazioni, dei Principati, delle Au-
torità, delle Potenze, delle Schiere eterne. Te adorano i
Cherubini e i Serafini che hanno sei ali: con due si co-
prono i piedi, con due la faccia e con due volano, e frat-
tanto, insiem e con m ilioni di A rcangeli e con diecim ila
m iriadi di Angeli, senza posa e con perenne acclam azione
ripetono: Santo, santo, santo, il Signore Sabaoth. I cieli
e la terra sono pieni della sua gloria, (egli è) benedetto
nei secoli. Amen » (12).
Questa prima parte è centrata sul Padre, ma afferma fin dalle
prime parole che è per mezzo di Cristo che il Padre ha creato
tutto, e specialmente Tuomo, poiché l'antica alleanza, con Abra-
mo, è stata fondata in una visione anticipata di Cristo che sa-
rebbe venuto (13). La conclusione del racconto delTantica al-
leanza, con l'ingresso in Canaan, a seguito della Pasqua e del-
l'Esodo, e l'insediamento in Palestina, sottolinea che è stata
opera di « Gesù », forma equivalente di Giosuè: questo, nella
mente del redattore, è evidentemente pieno di significato.
Louis Duchesne ha fatto un'osservazione, che può sembrare
abbastanza naturale: c'è da meravigliarsi nel vedere un ricordo
così dettagliato dell'Antico Testamento troncato a questo pun-
to (14). Non sembra però che si debba supporre, insieme a lui,
che una parte del testo sia andata smarrita. Nella seconda par-
te, le vicende ulteriori della storia d'Israele, con gli interventi
dei profeti, saranno richiamate a loro volta. Tutto questo sem-
bra, nell'interpretazione dell'autore della preghiera, non tanto

(1 2 ) F . E . Brightman, L itu r g ie s E a s te r n a n d W e s t e r n , v o i. I, O x f o r d
1 8 9 6 , p p . 1 4 ss. C f F . X . F unk , C o n s t i tu t i o n e s a p o s to lic a e , v o i. I, p p . 4 9 6 ‫־‬
5 0 7 . - P E 8 2 -9 1 ; E E F L n n . 6 1 2 -6 1 6 ; L d C 4 1 7 -4 2 1 .
(1 3 ) C f s o p r a , p p . 1 3 0 -1 3 1 .
(1 4 ) C f L. D uchesne, O r ig in e s d u c u lte c h r é tie n , P a r is 51 9 2 0 , p .
6 1 , n . 1.

263
il seguito dell’antica alleanza quanto piuttosto l’abbozzo pro-
gressivo, all’interno del quadro che essa ha stabilito, della nuova
alleanza che avrebbe avuto il suo compimento nell’incarnazio-
ne redentrice.
Il tema della. conoscenza rimane predominante, come nella
beràkà giudaica che portava alla Qedussà. In questo testo, però,
esso è sviluppato in un ambito nettamente sapienziale, come
già nelle preghiere giudaiche del libro VII. Come avviene anche
in queste preghiere, Cristo è introdotto nel seguente contesto:
il « Figlio unico », il « Dio Logos » è identificato con la « Sa-
pienza vivente », nel medesimo tempo che viene proclamato
« Primogenito di tutto il creato, Angelo del grande disegno,
Sommo Sacerdote, Re e Signore ». Si ravvisa in questo passo,
nell’espressione « Angelo del disegno », un’influenza di Ippo-
lito.
Il tema della creazione, sempre come nelle preghiere giu-
daiche, resta inseparabile da quello della provvidenza attiva
che mantiene nell’essere e concede di essere nel bene (εύ είναι).
Di qui una grande visione di tutta la creazione, descritta fin
dall’inizio come tendente all’uomo e che termina con la com-
parsa di lui, creato a immagine divina, in un dialogo tra il Pa-
dre e la Sapienza, e introdotto nel paradiso « piantato per mez-
zo di Cristo, nell’Eden, all’Oriente ».
Questa descrizione, con la sua fusione di reminiscenze dei
primi capitoli della Genesi e del salmo 104, segue da vicino e
combina le prime tre preghiere della Tefillà giudaica ellenistica
che abbiamo ritrovato nel libro VII. Essa resta molto giudaica,
sebbene di un giudaismo evidentemente ellenizzato, con Finsi-
stenza sulla distinzione radicale del creatore e della creatura,
sulla gratuità della creazione. La conclusione del racconto nella
menzione dell’albero del bene e del male fornirà l’occasione di
un passaggio dal tema della conoscenza a quello della vita, e
più precisamente dell’immortalità, che l’affermazione della crea-
zione dell’uomo come anima immortale in un corpo perituro
aveva preparato.
Così dalla creazione passiamo alla storia del peccato e della
prima redenzione, nell’antica alleanza. Fin dall’inizio della sto-
ria sacra, cioè subito dopo il peccato, l’autore dell’eucaristia
crede d’intravedere la chiamata alla nuova nascita, alla vita della
risurrezione. Giunge persino a dichiarare che la condanna della

26 4
morte è già annullata da questa promessa fatta alPinizio della
salvezza. Di questa storia della salvezza egli considera il giusto
Abele e il suo sacrificio come il principio delPumanità salvata,
opposta alla discendenza di Caino, e che si perpetua attraverso
Set, Enos, Enoch rapito in cielo. La storia del diluvio e di Noè,
del fuoco caduto su Sodoma e Gomorra diventa una prima
realizzazione della separazione, giudizio e liberazione insieme,
tra le due posterità adamitiche. Allora viene introdotto Abramo,
come colui che è stato liberato dalPempietà degli antenati, sta-
bilito erede delPuniverso e ammesso a una prima visione di
Cristo. Melchisedech e il suo sacrifìcio vi sono accostati, come
pure Giobbe, proclamato vincitore del serpente antico. In Isac-
co, Giacobbe e i dodici patriarchi vediamo costituirsi il popolo
promesso, introdotto in Egitto da Giuseppe. La liberazione ope-
rata da Mosè, dopo che questo popolo era stato ridotto in schia-
vitù dagli egiziani, appare come la vittoria iniziale sull’idola-
tria del politeismo, nella rivelazione della « legge scritta per
venire in aiuto alla legge di natura ».
Con Mosè entra Aronne, principio del sacerdozio levitico.
Tutto il racconto dell’Esodo (quantunque la Pasqua non vi sia
espressamente menzionata) viene poi ricordato, dalle dieci pia-
ghe fino al crollo di Gerico, dinanzi a « Gesù, capo dell’eser-
cito »; il cambiamento delle acque amare in acque dolci, Γac-
qua dalla roccia, la manna e le quaglie: tutto questo viene ri-
cordato, insieme alla colonna di fuoco e alla nube. Anche qui,
quantunque la dipendenza sia meno stretta di prima, i punti
salienti sono press’a poco gli stessi che si trovano in un’altra
preghiera giudaica del VII libro, quella che corrisponde alle
ultime domande della Tefillà. Il Ligier ha messo in evidenza
la somiglianza sorprendente tra questo riassunto della storia sa-
era e quelli che si trovano nelle amplificazioni delle benedizioni
Tefillà e 'Abòdà proprie della festa dell’Espiazione (15).
Si noti che questo ricordo della creazione e della redenzio-
ne iniziale è incluso in un ricordo dell’universo angelico. Gli
Angeli appaiono, subito dopo il Primogenito, il Figlio unico, il
Logos e la Sapienza, come i primi esseri creati, seguiti dalla

(1 5 ) L . L igier, Anaphores orientales et prières juives, in P O C 13


(1 9 6 3 ) 3 ss e 9 9 s s . C f a n c h e il s u o lib r o : Péché d’Adam et péché du mon-
de, v o i. I I , P a r is 1 9 6 1 , p p . 2 8 9 s s .

265
creazione del mondo visibile e da tutto ciò che esso contiene.
Simmetricamente, dopo Topera redentrice, quando Gerico è croi-
lata e « Gesù » ha introdotto il popolo redento nella sua ere-
dità, gli Angeli ricompaiono: « Per tutto ciò, a te la gloria, Si-
gnore onnipotente. Te adorano le innumerevoli schiere degli
Angeli, degli Arcangeli, ecc. ».
Nella prima enumerazione angelica sono da notare, dopo i
Cherubini e i Serafini, gli Eoni e le Schiere, cioè gli Angeli che
reggono le vicende successive e in conflitto. La seconda introdu-
ce il Sanctus, di cui si può osservare la forma arcaica, per certi
aspetti intermediaria tra la versione egiziana, che è la versione
giudaica amputata della benedizione di Ezechiele, e le forme
posteriori. Qui non abbiamo ancora la benedizione e gli Osan-
na del salmo 118, ma si è introdotta una benedizione genera-
le: « Benedetto [sia] nei secoli ». C'è ancora da notare che la
citazione di Isaia, quantunque comporti raggiunta « i cieli »,
conserva ancora « pieni della sua gloria », invece di « pieni della
tua gloria », che avrà più tardi il sopravvento.
Dopo il Sanctus, !,eucaristia si concentrerà sul Figlio e sul
compimento della storia salvifica nella sua passione-glorifica-
zione:
« 29. Santo, quanto lo sei davvero! E tutto santo, altis-
simo, esaltato nei secoli. 30. Santo anche il tuo Figlio
unigenito, nostro Signore e Dio, Gesù Cristo, lui che ser-
vendo in tutto, te, suo Dio e suo Padre, ammirabile nella
creazione e degno di essere celebrato per la sua provvi-
denza, non ha disdegnato la razza perduta degli uomini, ma
dopo la legge naturale, dopo !,esortazione della Torà, dopo
i richiami dei profeti, dopo gli interventi degli Angeli, una
volta che ebbero corrotto con la legge positiva anche la
legge naturale, cacciato il diluvio dalla loro memoria, Fin-
cendio [delle città peccatrici], le piaghe d'Egitto, i mas-
sacri di Palestina, e mentre stavano per perire coloro che
ancora sopravvivevano, gli è piaciuto, dietro tuo suggeri-
mento, lui che era il creatore degli uomini, divenire uomo;
il legislatore sottomettersi alle leggi; il sommo sacerdote
farsi vittima; il pastore agnello, 31. e ha propiziato (έξευ-
μενίσατο), te, suo Dio e Padre, ti ha riconciliato con il mondo
e ha liberato tutti gli uomini dall'ira sospesa su di essi,
nascendo da una Vergine, nascendo nella carne, lui il Dio
Logos, il Figlio prediletto, il Primogenito di tutto il creato,
secondo le profezie nei suoi riguardi che lui stesso aveva

266
ispirato (ύπ’αύτου προρρηθείσας), della stirpe di D avide e
di A bram o, della trib ù di G iuda; è stato generato nel seno
della V ergine colui che m odella tutti gli esseri generati; si
è fatto carne colui che non è carnale; colui che è nato fuori
del tem po è nato nel tem po. 32. Essendo vissuto santa-
m ente (πολιτευσάμενος όσίως) essendo stato educato secon-
do i precetti (ένθέσμως), avendo cacciato dagli uom ini ogni
m alattia e ogni languore, avendo fatto segni e prodigi in
mezzo al popolo, avendo preso parte al nostro cibo, alla
nostra bevanda, al nostro sonno, lui che nutre tu tti coloro
che hanno bisogno di cibo e che sazia a volontà tu tto ciò
che vive, ha m anifestato il tuo N om e a coloro che lo
ignoravano, ha messo in fuga ?ignoranza, h a eccitato di
nuovo la pietà, h a com piuto la tua volontà, h a p ortato a
term ine ?opera che gli avevi dato da fare. 33. A vendo
com piuto perfettam ente tutte queste cose, consegnato nelle
m ani degli em pi per il tradim ento di sacerdoti e di sommi
sacerdoti indegni di questo nom e e di u n popolo infedele
alla legge e pervertito, e soffrendo abbondantem ente da
parte loro, sopportando ogni sorta di ingiurie con il tuo
consenso, consegnato al governatore Pilato, il giudice giu-
dicato, il Salvatore condannato è stato inchiodato alla ero-
ce, lui che è al di sopra di ogni passione (απαθής), ed è
m orto, lui che per n atu ra è im m ortale, è stato sepolto, lui,
il vivificatore, per sciogliere le passioni e strappare alla
m orte coloro per colpa dei quali [tu tto ciò] gli era sue-
cesso, per spezzare i vincoli del diavolo e liberare gli uo-
m ini dalla sua seduzione. 34. È risorto dai m orti il terzo
giorno e, dopo aver passato q uaranta giorni con i suoi
discepoli, è salito al cielo e si è seduto alla destra di te,
Dio e P adre suo » (16).

Si vede che questa eucaristia di Antiochia, come quella di


Alessandria, collega la sua seconda parte al Sanctus con un ag-
gancio che si ritroverà uguale in tutti i testi che ne derivano. Ad
Antiochia, però, non è più ?idea di pienezza che lo fornisce, ma
quella di santità. Lodata nel Padre, questa santità è proclamata
anche nel Figlio, il che porta a ricordare una seconda volta la
sua associazione al Padre nella conservazione e preservazione di
ogni creatura. Il richiamo della storia sacra è allora ripreso; il

(16) F. E. Brightman, o p . c it., pp. 19ss. Cf F. X. F unk , C o n s titu -


tio n e s a p o s t o l i c a e ,
voi. I, pp. 506509‫־‬. - PE 9091‫ ;־‬EEFL n. 617.

267
dono della legge naturale, di quella scritta, la predicazione dei
profeti, le gesta di Dio per il suo popolo, attribuite a interventi
angelici, sono presentati come altrettanti preludi delTincarna-
zione. Seguendo una linea di pensiero che si ritroverà presso i
Padri cappadoci, specialmente in san Gregorio Nazianzeno, que-
sta viene descritta con una serie di paradossi: il creatore del-
l'uomo diviene uomo, il legislatore si sottomette alla legge, il
sacerdote si fa vittima, il pastore agnello, il Dio Verbo si fa
carne, l'autore di tutto nasce da una Vergine, l'incorporeo pren-
de un corpo, l'eterno è generato nel tempo (17). L'incarnazione
è redentrice innanzi tutto in quanto opera la riconciliazione con
il Padre.
Si passa allora a un racconto succinto della vita terrena di
Cristo: vive nella santità e insegna con autorità, liberando gli
uomini da ogni infermità, mentre si sottopone alle stesse nostre
necessità, lui che nutre tutto ciò che vive. In tutto questo, me-
diante tutto questo, Cristo rivela il Nome divino a coloro che
lo ignoravano, mettendo in fuga l'ignoranza, riportando la pie-
tà e compiendo la volontà divina.
Questo compimento culmina nella contraddizione suprema
dell'empietà dei sacerdoti, dell'infedeltà del popolo che lo tra-
disce, dell'ingiustizia subita dal Giudice per eccellenza, il Sai-
vatore condannato, l'impassibile inchiodato sulla croce, l'im-
mortale che subisce la morte. Però la sepoltura dell'autore della
vita libera dalla sofferenza e dalla morte, rompe le catene del
diavolo e libera gli uomini dalla sua malizia (un'altra espressio-
ne che sembra tradire l'influsso di Ippolito). Risuscita infine
e, dopo i quaranta giorni con i suoi, sale al cielo e siede alla de-
stra del Padre.
Il rendimento di grazie per la storia redentrice è ora com-
piuto, nel e mediante il rendimento di grazie per la storia del
Logos fatto carne per riconciliarci e liberarci. Seguirà l'anam-
nesi, che abbraccerà ancora in sé, come abbiamo visto nell'anti-
ca tradizione egiziana rappresentata da Serapione, il racconto
dell'istituzione. L'applicazione della redenzione a noi stessi, me-
diante lo Spirito Santo, sta per emergere.

(1 7 ) C f T o r n e lla s u lla N a t iv it à d i s a n G r e g o r io N a z ia n z e n o (n . 3 8 ):
P G 3 6 ,3 1 2 s s .

268
« Ricordandoci di quello che ha sofferto per noi, ti ren-
diamo grazie, Dio onnipotente, non come dovremmo, ma
come possiamo, e compiamo il precetto dato da lui. 36. Perché
nella notte in cui fu tradito, prese del pane nelle sue mani
sante e immacolate, alzò gli occhi a te, Dio e Padre, lo
spezzò, lo diede ai suoi discepoli dicendo: Questo [è] il
mistero della nuova alleanza; prendetene, mangiate, questo
è il mio corpo, spezzato (θρυπτόμενον) per la moltitudine,
in remissione dei peccati. 37. Nello stesso modo riempì il
calice di vino e d'acqua, lo benedisse e lo diede loro
dicendo: Bevetene tutti: questo è il mio sangue, versato
per la moltitudine, in remissione dei peccati. Fate questo
in memoriale di me. Ogni volta infatti che mangiate que-
sto pane e bevete questo calice, voi annunziate la mia
morte, fino al mio ritorno.
38. Ricordandoci dunque della sua passione, della sua
morte, della sua risurrezione da morte, del suo ritorno
(έπανόδου) al cielo e del suo secondo avvento futuro, quan-
do verrà con gloria e potenza a giudicare i vivi e i morti
e a rendere a ciascuno secondo le sue opere, noi offriamo
a te, Re e Dio, secondo il suo comando, questo pane e
questo calice; noi ti rendiamo grazie per mezzo di lui
perché ci hai giudicati degni di stare davanti a te e di
esercitare il sacerdozio (ίερατεύειν).
39. E ti chiediamo di guardare con benevolenza questi
doni posti davanti a te, o Dio che non hai bisogno di
nulla, e ti preghiamo di gradirli in onore (εις τιμήν) del tuo
Cristo. Manda su questo sacrificio il tuo Spirito Santo, te-
stimone delle sofferenze del Signore Gesù, affinché riveli
(άποφήνγ!) in questo pane il corpo del tuo Cristo, e in
questo calice il sangue del tuo Cristo, in modo che tutti
coloro che vi partecipano siano confermati nella pietà, ab-
biano la remissione dei loro peccati, siano liberati dal de-
monio e dal suo traviamento, siano pieni dello Spirito San-
to, diventino degni del tuo Cristo, ottengano la vita eterna
con la tua riconciliazione, o Signore onnipotente.
40. Ti preghiamo ancora, Signore, per la tua santa Chie-
sa che si estende dall'uno all'altro capo del mondo; tu
l'hai conquistata col sangue prezioso del tuo Cristo: con-
servala incrollabile, al riparo delle tempeste, fino alla con-
sumazione dei tempi. Ti preghiamo per l'episcopato uni-
versale, che trasmette fedelmente (όρθοτομούσης) la parola
di verità. 41. Ti preghiamo per la miseria (ούδενίας) del
tuo celebrante e per tutti i presbiteri, per i diaconi e

269
per il clero, affinché tutti siano pieni della sapienza del
tuo Spirito. 42. Ti preghiamo per il re e per quelli che
detengono !,autorità, per tutto Tesercito; conservaci nella
pace, in modo che passiamo tutto il tempo della vita nella
tranquillità e nella concordia, a glorificarti, per Gesù Cri-
sto, speranza nostra. 43. Ti presentiamo Sofferta per tutti
i santi che fin dalle origini ti hanno allietato, per i pa-
triarchi, i profeti, i giusti, i martiri, i confessori, i vescovi,
i sacerdoti, i diaconi, i suddiaconi, i lettori, i cantori, le
vergini, le vedove, i laici, e tutti coloro di cui tu conosci
il nome. 44. Ti presentiamo l'offerta per questo popolo, per-
ché esso diventi la lode del Cristo, un sacerdozio regale,
una nazione santa; per coloro [che vivono] nella verginità
e nella castità, per le vedove della Chiesa, per quelle che
vivono in caste nozze e ti danno figli; per i più piccoli del
tuo popolo, affinché tu non respinga nessuno di noi. 45. Ti
preghiamo per questa città e per tutti i suoi abitanti, per
gli ammalati, per i miseri schiavi, gli esiliati, i proscritti,
per i naviganti e i viaggiatori; sostienili tutti, sii per tutti
asilo e scudo. 46. Ti preghiamo per coloro che ci odiano
e ci fanno soffrire persecuzione a causa del tuo Nome; per
quelli fuori [della Chiesa] e per quelli che si smarriscono,
perché tu li riconduca al bene e plachi il loro furore. 47. Ti
preghiamo per i catecumeni della Chiesa, per quelli che
sono provati dalTavversario e per i nostri fratelli che
fanno penitenza; conferma i primi nella fede, libera i
secondi dalle vessazioni del maligno; accetta la penitenza
degli altri e perdona loro, come a noi, i peccati. 48. Ti pre-
sentiamo Tofferta perché il tempo sia sereno e il raccolto
abbondante; continuamente riceviamo i benefici della tua
mano: senza tregua lodiamo te che concedi ad ogni essere
il nutrimento. 49. Ti preghiamo infine per quelli che per
un motivo legittimo sono assenti, affinché tu ci conservi
tutti nella pietà e ci raduni nel regno del tuo Cristo, Dio
di ogni creatura visibile e intelligibile, nostro Re; conser-
vaci incrollabili, senza colpa e senza macchia.
50. Perché a te [appartiene] ogni gloria, venerazione, rin-
graziamento, onore e adorazione, Padre, Figlio e Spirito
Santo, ora e sempre, nelFinfinità e nell'eternità dei secoli!
51. Amen» (18).
(18) F. E. Brightman, o p . c it., pp. 20ss. Cf F. X. F unk , C o n s titu tio -
n e s a p o s to lic a e ,
voi. I, ρρ. 508515‫־‬. - PE 92-95; EEFL nn. 617622‫־‬. Te-
sto italiano in H amman , 147150‫( ־‬con alcune varianti); LdC 433.441.
444.464466.472‫־‬.

270
Come si vede, è alla terza parte della preghiera, quella che
porta al compimento attuale e futuro del mistero in noi, che ap-
partiene - in questa eucaristia - il racconto dell’istituzione. Co-
nae nell’anafora di Serapione, l’anamnesi non segue, ma vi è
inclusa. È il « memoriale » che ci ha prescritto di celebrare nel
rendimento di grazie che ricorda le sue azioni, le sue parole
nell’ultima Cena.
Alle parole « fate questo in memoriale di me », si unisce la
frase paolina « ogni volta infatti che mangiate questo pane e be-
vete questo calice, voi annunziate la mia morte, fino al mio ri-
torno » (cf 1 Cor 11,26), proprio come abbiamo visto nell’euca-
ristia di san Marco. Di qui lo sviluppo dell’anamnesi che com-
memorerà come un solo mistero la passione, la morte, la ri-
surrezione e l’ascensione di Cristo, e perfino il suo ritorno fi-
naie per il giudizio. Notiamo anche la forma molto particolare
delle parole dell’istituzione che mette all’inizio, in bocca a Cri-
sto, la proclamazione del mistero.
Nella conclusione di questa anamnesi fanno la loro com-
parsa le formule sacrificali: « Noi offriamo a te, Re e Dio, se-
condo il suo comando, questo pane e questo calice; noi ti ren-
diamo grazie per mezzo di lui perché ci hai giudicati degni di
stare davanti a te e di esercitare il sacerdozio » (formula che
potrebbe benissimo derivare dal testo greco di Ippolito). Si
passa così subito alla prima parte dell’epiclesi: « E ti chiediamo
di guardare con benevolenza questi doni posti davanti a te, o
Dio che non hai bisogno di nulla, e ti preghiamo di gradirli in
onore del tuo Cristo... ». Notiamo la sobrietà come anche l’e-
sattezza con la quale queste espressioni traducono, per un am-
biente ellenistico, il senso preciso del memoriale. È il comando
divino di Cristo che ci permette di presentare il memoriale, sta-
bilito da lui, davanti a Dio, e anche di presentare noi stessi nel
rendimento di grazie. Questi doni sono dunque un riconosci-
mento che noi riceviamo tutto da colui che non ha bisogno di
nulla, e soltanto sul suo dono fondiamo la speranza che il nostro
sacrificio possa essergli gradito, e noi insieme ad esso.
Segue la seconda parte dell’epiclesi, in cui interviene la men-
zione dello Spirito Santo. È chiesto il suo invio su questo sa-
crificio in modo che egli manifesti (άποφήνη) che è il corpo e il
sangue di Cristo. Il fondamento di questa invocazione è una for-
mula curiosa, con la quale lo Spirito Santo è qualificato « co­

271
me testimone delle sofferenze del Signore Gesù ». C'è qui una
reminiscenza della lettera agli Ebrei (9,14) che parla di Cristo
che si è offerto « per virtù di Spirito eterno », fusa in una cita-
zione implicita della prima lettera di san Pietro (5,1), che quali-
fica se stesso come « testimone delle sofferenze del Cristo ».
La terza parte dell'epiclesi chiede infine che tutti i parted-
panti a questa eucaristia « siano confermati nella pietà, abbiano
la remissione dei loro peccati, siano liberati dal demonio e dal
suo traviamento, siano ripieni dello Spirito Santo, diventino de-
gni del tuo Cristo, ottengano la vita eterna con la tua riconci-
liazione, o Signore onnipotente ».
Vediamo così che l'antica e primitiva invocazione per il com-
pimento in noi del mistero commemorato attira a sé la preghiera
per il gradimento del sacrificio, fusa molto abilmente con l'e-
spressione di tale sacrificio sgorgata dal memoriale. Il legame
tra le due epiclesi primitive viene fatto con la domanda che lo
Spirito - che compirà in noi il mistero - manifesti (naturalmen-
te proprio per mezzo di questo) che il memoriale è davvero il
corpo e il sangue di Cristo.
La preghiera quindi si dispiega in una litania di intercessio-
ni che abbraccia, nella sua sollecitudine, la Chiesa e il mondo
intero: Chiesa universale, episcopato, presbiterato e clero, re e
detentori dell'autorità o della forza armata in vista della pace
e della tranquillità; commemora i patriarchi, i profeti, i giusti,
i martiri, i confessori, i vescovi, i sacerdoti e i diaconi e tutti i
fedeli defunti, la comunità particolare radunata e la città in cui
tale assemblea ha luogo, tutti gli uomini, compresi coloro che
ci odiano o si smarriscono, i catecumeni, gli indemoniati, i pe-
nitenti, invocando alla fine tempo favorevole e raccolti abbon-
danti. Questi sono i temi compresi in questa nuova Tefillà
in cui è costante il riferimento di ogni domanda alla realizza-
zione di una lode universale. Si noterà che qui la preghiera con-
tro i persecutori non solo è stata omessa, come a Roma, ma è
sostituita da una preghiera per essi, e la preghiera giudaica per
i proseliti, che seguiva, si è trasformata in una preghiera per i
catecumeni.
Se occorre riassumere l'eccellenza di questa preghiera, dire-
mo che, nella sua trascrizione in ambiente ellenistico di un'eu-
caristia il cui quadro primitivo era sostanzialmente giudaico,
manifesta un senso ancora pienamente avvertito di tutto il con­

272
tenuto delle nozioni-chiave di questa eucaristia originale. In
questa traduzione e in questo riordinamento suggeriti da una
teologia e da una estetica letteraria così profondamente elleniz-
zate, la sostanza deireucaristia giudeo-cristiana è stata conser-
vata, quasi senza decadimento o alterazione. È uno sforzo cer-
tamente notevole. Ma per far questo, i dati primitivi deireuca-
ristia sono stati frazionati, e poi con ingegnosità sorprendente
radunati di nuovo in un mosaico così ben unito che sembra di
un solo pezzo. I temi della creazione e della redenzione conca-
tenati dalPidea-madre del Dio provvidente e saggio, di cui il
Logos è la Sapienza eterna che si inserisce nel tempo; la storia
della salvezza abbozzata nell'antica alleanza e attuata nella
nuova; l'anamnesi del mistero salvifico riconosciuto come il
sacrificio perfetto, il cui gradimento viene chiesto a colui che
Pha procurato; la discesa dello Spirito su questi doni che ci ha
fatto, perché noi stessi, e tutto Puniverso con noi, gli siamo pre-
sentati a lode della sua gloria - tutto questo viene espresso con
una padronanza e una delicatezza che è veramente uno dei più
grandi trionfi della chiarezza della mente ellenica applicata al
mistero di un cristianesimo interamente biblico e giudaico nel-
le sue origini.

Sintesi finale dell'eucaristia di san Giacomo


Questo successo conoscerà un ultimo perfezionamento in un
altro testo, probabilmente di poco posteriore: è quello della co-
siddetta liturgia di san Giacomo. Si può pensare, quando la si
confronta con quella che abbiamo studiato, che quest'ultima sia
stata felicemente liberata da tutti gli elementi secondari che ri-
schiavano di ingolfarne lo svolgimento nelPaneddotico e di ri-
durre la ricapitolazione dei misteri divini a una semplice enu-
merazione. Però anche la stilizzazione e la fusione degli elemen-
ti primitivi diventeranno tali che più di un elemento sarà ormai
irriconoscibile. Certi fattori irriducibili saranno ridotti per for-
za alPunità di uno sviluppo senza falle e irreversibile, con il ri-
schio di un'evaporazione almeno parziale del loro contenuto.
L'eucaristia di san Giacomo rimane comunque il monumen-
to letterario forse più completo di tutta la letteratura liturgica,
nella disposizione e nell'equilibrio della sua redazione.
Questa liturgia, anche se san Giacomo non ne è certamente

273
l’autore, rappresenta una tradizione gerosolimitana, come dimo-
strano le numerose allusioni ai luoghi santi che essa comporta
e il ruolo che vi esercita costantemente il ricordo della Gerusa-
lemme celeste. Si è diffusa dovunque molto rapidamente, pro-
babilmente per opera di pellegrini accorsi da ogni parte nella
città santa per visitare le basiliche costantiniane. Non solo la Si-
ria, l’Arabia, ma anche la Grecia, l’Etiopia, l’Armenia, la Geor-
già e i paesi slavi attestano, con i manoscritti e le traduzioni che
sono stati ritrovati, la sua diffusione straordinaria. Ben presto
però doveva essere soppiantata dai due formulari abbreviati
che sono attribuiti comunemente a san Basilio e a san Giovanni
Crisostomo. La loro adozione da parte di Bisanzio li introdusse
al suo posto in tutto l’Oriente. Non era più celebrata in greco,
recentemente, se non in via eccezionale a Gerusalemme e in al-
cuni altri luoghi, come nell’isola di Zante. Vari prelati ortodossi
hanno però autorizzato e incoraggiato, in questi ultimi anni, la
sua rimessa in vigore. I siriani, sia « giacobiti » sia cattolici, so-
no tuttavia i soli ad usarla ancora abitualmente, in una versione
siriaca antica (19).
Ecco l’eucaristia, tradotta dalla preziosissima edizione cri-
tica del testo greco curata da B. Mercier:
« L’amore di Dio e Padre, la grazia del Signore e Dio e
Salvatore nostro Gesù Cristo, e la comunione e il dono
dello Spirito Santo siano con tutti voi.
- E con il tuo spirito.
In alto la mente e i cuori (τον νουν καί τας καρδίας).
- Sono rivolti al Signore.
Rendiamo grazie al Signore.
- È cosa degna e giusta » (20).

(19) Cf I, M. H anssens , I n s titu tio n e s litu r g ic a e d e r itib u s o r ie n ta -


lib u s , to m u s I I I , p a r s a lte r a , R o m a 1932, p p . 5 8 7 s s . D a c o m p le ta r e c o n
r in t r o d u z io n e d e l la v o r o d i B . M ercier, c it a to n e lla n o ta s e g u e n te .
(2 0 ) B .-C h . M ercier, L a litu r g ie d e s a in t J a c q u e s . E d itio n c r itiq u e
d u t e x t e g r e c a v e c tr a d u c tio n la tin e , in P O 2 6 , p p . 1 9 8 -2 2 3 . N o t ia m o c h e
il p iù a n tic o m a n o s c r itto g r e c o è d e l s e c o lo IX (V a t. gr. 2 2 8 2 ). E g e r ia ,
fin d a l 4 1 4 -4 1 6 , m e n z io n a u n a v e r s io n e « a r a m a i c a » . U n a v e r s io n e siria-
c a f u c e r ta m e n te p r o d o tta a E d e s s a fin d a l V I s e c o lo . Il te x tu s r e c e p tu s
s ir ia c o a t tu a lm e n te in u s o è d e l s e c o lo X I I I . B ib lio g r a fia in J. M . Sau -
get, o p . c it., p p . 5 2 e 1 1 2 -1 1 3 . - C f P E 2 4 4 -2 6 1 ; E E F L n n . 5 1 6 -5 2 1 ; par-
te d e l te s t o ita lia n o in H amman , 2 9 8 -3 0 6 e in L d C 4 3 6 .4 4 2 .4 4 4 .

274
Questo dialogo presenta una nuova modifica significativa
della formula paolina, per adattarla allo schema della teologia
trinitaria del IV secolo. Però in questo caso gli attributi del Pa-
dre e del Figlio (rispettivamente amore e grazia), non sono stati
scambiati, pur modificandovi Pordine delle persone. Si possono
notare altri leggeri ritocchi, di cui il più importante è il « do-
no » dello Spirito, posto in endiadi con la sua « comunione ».
Lo stesso atteggiamento di compromesso ha introdotto nella
seconda formula anche νους, come aveva fatto il testo delle Co-
stituzioni apostoliche, ma conservando « i cuori », che invece
tale testo aveva eliminato.
Anche qui è prevalsa la formula breve per Pinvito al rendi-
mento di grazie.
« È degno e giusto, conveniente e necessario lodarti, can-
tarti, benedirti, adorarti, glorificarti, rendere grazie a te,
autore di tutte le creature visibili e invisibili, tesoro dei
beni eterni, fonte di vita e d'immortalità, Signore e Dio di
tutte le cose; a te che cantano i cieli e i cieli dei cieli e
tutte le loro potenze, il sole e la luna e tutto il corteo delle
stélle, la terra, il mare e tutto ciò che esso contiene; la
Gerusalemme celeste, l'assemblea degli eletti, la Chiesa dei
primogeniti che sono iscritti nel cielo, gli spiriti dei giusti
e dei profeti, le anime dei martiri e degli apostoli; gli
Angeli, gli Arcangeli, i Troni, le Dominazioni, i Principati,
le Autorità e le Potenze; le Virtù temibili, i Cherubini da-
gli occhi numerosi e i Serafini dalle sei ali, di cui due
velano il volto, due coprono i piedi, le altre due servono
a volare. Tutti acclamano, rispondendosi gli uni gli altri
senza mai cessare, in teologie senza fine. Cantano l'inno
trionfale della tua gloria meravigliosa; con voce chiara,
cantano, gridano, celebrano, proclamano e dicono: Santo,
santo, santo, il Signore Sabaoth! Cielo e terra sono pieni
della tua gloria. Osanna nelValto dei cieli! Benedetto [sia]
colui che è venuto e che viene in nome del Signore! Osanna
nelValto dei cieli! ».

Questa prima parte, che menziona soltanto il Padre, si è


unificata in una ricapitolazione delPintero creato, invitato a
unirsi unanimemente alPinno dei Serafini. Tutto il creato vi è
come riassunto nella Gerusalemme celeste, la panegyria, cioè
Passemblea di festa, la Chiesa dei primogeniti, i cui nomi sono
scritti nei cieli (si riconoscono i termini della lettera agli Ebrei),

275
gli spiriti dei giusti e dei profeti, a cui si sono aggiunte le ani-
me dei martiri e degli apostoli. Vi si ritrova il Sanctus in quella
stessa forma completata che ci è stata trasmessa dalla liturgia
romana e che abbiamo commentato a proposito di essa (notiamo
però raggiunta: che è venuto, al biblico: che viene).
La seconda parte, come sempre in Siria, si collega con la
prima parte mediante l’idea di santità, evocata dal Sanctus:
« Santo sei tu, Re dei ‫ י‬secoli, Signore e autore di ogni
santità. Santo [è] il tuo Figlio unico, Signore nostro Gesù
Cristo, per il quale tutto è stato fatto. Santo è anche il
tuo Spirito santissimo, che scruta ogni cosa e le tue prò-
fondità, o Dio e Padre.
Santo sei tu, onnipotente, temibile, benevolo e misericor-
dioso (εϋσπλαγχνε); tu hai avuto grande pietà del creato,
hai plasmato Puomo con la terra, a tua immagine e somi-
glianza, gli hai dato il godimento del paradiso. Dopo che
egli trasgredì il tuo comando e cadde, non Phai disprezza‫־‬
to, non Phai abbandonato, Dio di bontà; Phai castigato
come un Padre pietoso; Phai richiamato con la legge, Phai
guidato con i profeti.
Finalmente hai mandato nel mondo il tuo Figlio unico
Signore nostro, Gesù Cristo, affinché venisse a restaurare e
a ravvivare la tua immagine. È disceso dai cieli, ha preso
carne dallo Spirito Santo e da Maria santissima sempre Ver-
gine e Madre di Dio; è vissuto con gli uomini e ha di-
sposto tutte le cose per la salvezza del mondo. Accettando
la morte libera e vivificante della croce per noi, peccatori,
egli che fu senza peccato, nella notte in cui fu tradito 0
meglio in cui si offrì per la vita e la salvezza del mondo.
Prese il pane nelle sue mani sante, immacolate, immortali
e senza macchia, alzò gli occhi al cielo, Poffrì (άναδείξας) a
te, Dio e Padre, rese grazie, lo benedisse, lo consacrò, lo
spezzò, lo distribuì ai santi e beati discepoli e apostoli,
dicendo: Prendete, mangiate: questo è il mio corpo che
per voi è spezzato e distribuito in remissione dei peccati.
[Amen del popolo'].
Nello stesso modo, dopo il pasto, prese il calice, mescolò
il vino e l’acqua, levò gli occhi al cielo, Poffrì a te, Dio e
Padre, rese grazie, lo benedisse, lo consacrò, lo riempì di
Spirito Santo, lo distribuì ai santi e beati discepoli e apo-
stoli, dicendo: Bevetene tutti: questo è il mio sangue, quel-
lo della nuova alleanza, che per voi e per la moltitudine'

276
è versato e distribuito in remissione dei peccati. [Amen
del popolo] .
Fate questo in memoriale di me; ogniqualvolta mangerete
questo pane e berrete questo calice, annunzierete la morte
del Figlio delFuomo, proclamerete la sua risurrezione, fino
al suo ritorno ».

Il riferimento iniziale alla santità divina passa alla mise-


ricordia, mediante la quale Dio, avendo creato Fuorno a sua
immagine e avendolo introdotto nel paradiso, dopo la sua ca-
duta non lo ha abbandonato, ma, come un padre compassione-
vole, lo ha chiamato mediante la legge, istruito mediante i pro-
feti, inviando alla fine il suo Figlio unigenito perché restauras-
se e rianimasse questa immagine perduta. Il racconto delFeco-
nomia redentrice continua tutto d’un fiato. Per fare questo, il
racconto delFistituzione eucaristica è stato staccato dalFanamne-
si, a cui doveva essere in un primo tempo incorporato, e inse-
rito al suo posto nelFevocazione della passione. Così Fanam-
nesi diventerà semplicemente la conclusione della esposizione
dei mirabilia Dei. Notiamo, di passaggio, la duplice insisten-
za sul carattere volontario della passione, e Fimmortalità di co-
lui che si offre alla morte (perfino le sue mani, in questo testo,
sono qualificate come immortali). Notiamo, inoltre, che se la
conclusione paolina del racconto della Cena è legata allo stesso
racconto, tuttavia è lasciata in terza persona.
I diaconi collegano Fanamnesi dicendo: « Lo crediamo e lo
confessiamo », e tutto il popolo (come nelFeucaristia di Sera-
pione) interviene per dire con il sacerdote:
« Annunziamo la tua morte, Signore, e proclamiamo la tua
risurrezione ».

Quindi, il sacerdote prosegue da solo:


« Ricordiamo dunque anche noi peccatori, la sua passione
vivificante, la croce e la morte salutare, la sua sepoltura,
la sua risurrezione da morte il terzo giorno, la sua ascen-
sione (ανόδου) al cielo, la sua presenza alla tua destra, Dio
e Padre, il secondo avvento nella gloria e nel timore, quan-
do verrà con gloria a giudicare i vivi e i morti e a rendere
a ciascuno secondo le sue opere - perdonaci, Signore, Dio
nostro - o piuttosto secondo la sua grande misericordia
(εύσπλαγχνίαν) : ti offriamo, Signore, questo terribile sacri­

277
fido incruento; ti preghiamo, non trattarci secondo i nostri
peccati, e non ripagarci secondo le nostre offese, ma se-
condo la tua bontà (επιείκειαν) e la tua grande clemenza
straccia Tatto della nostra condanna, te ne supplichiamo·
concedici i beni celesti e eterni, che nessuno sguardo ha
visto, nessun orecchio ha sentito, di cui nessun cuore urna-
no fu testimone e che tu hai preparato per quelli che ti
amano. Non respingere, Dio di bontà, il tuo popolo, per
causa mia e dei miei peccati perché il tuo popolo e la
tua Chiesa ti supplicano.
[Il popolo: Abbi pietà di noi, Signore, Dio, Padre on-
nipotente].
Abbi pietà di noi, Dio, Padre onnipotente. Abbi pietà,
Dio, Salvatore nostro. Abbi pietà di noi, secondo la tua
grande misericordia. Manda in noi, su queste offerte poste
davanti a me, il tuo Spirito Santo. Il Signore vivificante
che regna con te, Dio e Padre, e con il tuo Figlio unico,
regna consustanziale e coeterno: egli che ha parlato nella
legge, nei profeti e nella nuova alleanza, che è sceso sotto
forma di colomba su nostro Signore Gesù Cristo nel Gior-
dano, e si è fermato sopra di lui; è sceso sui santi apo-
stoli, sotto forma di lingue di fuoco, nel cenacolo della santa
e gloriosa Sion, il giorno della Pentecoste. Manda questo
stesso Spirito Santo, Signore, su noi e sulle nostre offerte,
affinché la sua venuta (παρουσία) santa, benefica e gloriosa,
santifichi questo pane e ne faccia il corpo del Cristo
[Amen del popolo] e di questo calice faccia il sangue
prezioso del Cristo. [Amen del popolo].
[Questi doni] siano, per tutti coloro che vi partecipano, a
remissione dei peccati e per la vita eterna, per la santifi-
cazione delle anime e dei corpi, per la realizzazione delle
opere buone, per la confermazione della tua santa Chiesa
cattolica e apostolica che hai fondato sulla pietra della
fede, affinché le porte delTinferno mai prevalgano su di
essa, liberandola da ogni eresia e scandalo degli operatori
di iniquità, conservandola fino alla consumazione dei secoli.
Ti offriamo ancora, Signore, il sacrificio per i santi luoghi
che hai reso celebri con la presenza del tuo Cristo e con
la venuta del tuo Spirito santissimo: in primo luogo per
la santa e gloriosa Sion, la madre di tutte le chiese, e per
la tua Chiesa santa, cattolica e apostolica che è sparsa in
tutto il mondo: concedile oggi con larghezza, Signore, i
doni del tuo Spirito santissimo ».

278
Si noti il passaggio dalTanamnesi alTepiclesi, che avviene
con una transizione che è nello stile patetico di tutta questa pre-
ghiera. Il richiamo del giudizio suscita una fervida supplica al-
la misericordia divina. Ne deriva, innanzi tutto, la sola frase
esplicitamente sacrificale di tutto questo testo: « Ti offriamo,
Signore, questo terribile sacrificio incruento ». Sarà però com-
mentata ampiamente da un appello alla grazia divina, da cui si
attende che strappi e cancelli Tatto della nostra condanna (al-
lusione a Col 2,14) e ci conceda i doni celesti. Di qui Tepiclesi,
particolarmente sviluppata, che diviene un elogio dello Spirito,
parallelo a quelli che sono stati fatti riguardo al Padre e al Fi-
glio nelle prime due parti. Esso ha visibilmente influenzato il
testo della liturgia di san Marco, nella forma relativamente tar-
diva in cui questa si è conservata. Qui è chiesto non soltanto
che lo Spirito manifesti che il pane e il vino sacramentali sono
il corpo e il sangue di Cristo, ma che egli li faccia essere questo
corpo e questo sangue. Il seguito si amplia in una preghiera per
tutta la Chiesa, che si concretizzerà dapprima in una supplica
speciale per i luoghi santi. Come nella liturgia delle Costituzioni
apostoliche, ma in una forma già più sviluppata, vi farà seguito
tutta una Tefillà cristiana in cui ogni domanda è riallacciata al
memoriale con le parole « ricordati » ripetute continuamente.
« Ricordati, Signore, dei nostri santi padri e di tutti i
vescovi che nel mondo intero trasmettono fedelmente la
parola di verità; e in particolare del nostro santo padre...,
di tutto il clero e del suo presbiterio; concedigli una degna
vecchiaia, proteggilo affinché possa ancora a lungo dirigere
il tuo popolo, nella pietà e nella dignità.
Ricordati, Signore, dei sacerdoti di qui e di ogni parte,
dei diaconi, di tutti gli altri ministri, di tutta la gerarchia
ecclesiastica, di tutti i fratelli cristiani e di tutto il popolo
che ama il Cristo.
Ricordati, Signore, dei sacerdoti che ci circondano in que-
sto momento, intorno a questo altare, per offrire il sacri-
fido santo e incruento: concedi a loro e a noi la parola,
per parlare in gloria e in lode del tuo santissimo nome.
Ricordati, Signore, nelTabbondanza della tua misericordia
e delle tue compassioni, di me, umile peccatore e servo
indegno; vieni in mio aiuto nella tua clemenza e liberami
da coloro che mi perseguitano; Signore, Signore delle virtù:
dove il peccato abbonda, sovrabbondi la tua grazia.

279
Ricordati pure, Signore, dei diaconi che circondano i!
tuo altare, concedi loro una vita senza macchia; adem-
piano bene il loro ufficio e acquistino un posto onorevole.
Ricordati, Signore, della tua santa città, che è la città di
Dio, del regno, di tutte le città e regioni, di tutti quelli
che vi abitano, con una fede retta in te e con devozione:
dà loro pace e protezione.
Ricordati, Signore, del nostro re e della nostra regina, che
sono molto pii e amano il Cristo, di tutta la corte e del
loro esercito: porta loro aiuto e vittoria; prendi le armi e
scendi e levati in loro aiuto; sottometti loro le nazioni
ostili o barbare che desiderano la guerra; dirigi i loro piani
affinché conduciamo una vita serena e tranquilla nella pietà
e nella dignità.
Ricordati, Signore, dei naviganti, di coloro che sono in
viaggio, dei cristiani lontani da casa; dei nostri padri e
fratelli che sono nei ceppi e nelle carceri, prigionieri ed esi-
liati, condannati alle miniere, alle torture e alla dura schia-
Vitù: ciascuno possa raggiungere in pace il proprio fo-
colare.
Ricordati, Signore, di coloro che sono vecchi e infermi,
di coloro che soffrono e di coloro che sono provati dagli
spiriti impuri: da' loro pronta guarigione e salute.
Ricordati, Signore, di ogni anima cristiana sofferente e
afflitta, che aspetta la tua misericordia e il tuo aiuto, 0
Dio: fa' tornare chi è smarrito.
Ricordati, Signore, dei nostri padri e fratelli venerati, che
vivono nella verginità, nella religione e nella continenza,
che abitano montagne, caverne e antri della terra; delle
comunità ortodosse sparse dappertutto, e della nostra co-
munità radunata qui nel Cristo.
Ricordati, Signore, dei nostri padri e fratelli oppressi che
ci servono, per il tuo santo nome.
Ricordati, Signore, di tutti per il loro bene, abbi pietà
di tutti, Signore; riconciliaci tutti; concedi lo spirito di
pace al tuo popolo immenso; allontana gli scandali, abolì-
sci le guerre, metti fine ai contrasti delle chiese, dissipa ra-
pidamente le eresie che sopraggiungono; abbassa barro-
ganza delle nazioni, moltiplica la forza dei cristiani, concedi
a noi tutti la tua pace e la tua carità, Dio e Salvatore
nostro, speranza di tutti i popoli della terra.
Ricordati, Signore, di darci un tempo buono, piogge fa-
vorevoli, dolci rugiade, raccolti abbondanti, una annata
fruttuosa; corona !,anno con la tua bontà; gli occhi di

280
tutti sperano in te, e tu dai loro il nutrimento al tempo
opportuno; tu apri la mano e sazi a piacere ogni vivente.
Ricordati, Signore, di coloro che hanno offerto i frutti e
che fanno offerte nelle tue sante chiese; ricordati, o Dio,
di quelli che non si dimenticano dei poveri e di coloro
che ci hanno chiesto di ricordarli nelle nostre preghiere.
Degnati anche di ricordarti, Signore, di coloro che oggi
hanno portato le offerte al tuo santo altare, di ciascuno di
loro e di quelli a cui essi pensano, e di quelli che ora ti
riconoscono.
Ricordati, Signore, dei nostri genitori, amici e parenti; dei
fratelli...
Ricordati, Signore, di tutti coloro che abbiamo ricordato
e dei fedeli che abbiamo dimenticato; concedi loro, in
cambio dei beni terrestri, i beni celesti; in cambio delle
ricchezze periture, quelle imperiture; in cambio delle cose
temporali, ciò che è eterno: secondo la promessa del Cristo.
Perché tu comandi alla vita e alla morte.
Degnati ancora di ricordarti, Signore, anche di coloro che
lungo i secoli ti sono stati graditi, generazione dopo gene-
razione, dei santi padri, patriarchi, profeti, apostoli, mar-
tiri, confessori, santi dottori e di ogni spirito giusto, per-
fetto nella fede del tuo Cristo.
[Qui si introduce una lista di commemorazioni, comincian-
do con la Vergine, il Battista, gli Apostoli; essa non ha
cessato di allungarsi nel tempo. Dopo di che, il celebrante
continua].
Di tutti costoro ricordati, Signore, Dio dei puri spiriti e
di ogni carne, di coloro che noi abbiamo commemorato e
degli ortodossi che non abbiamo ricordato: tu stesso fa'
che riposino nella terra dei viventi, nel tuo Regno, nelle
delizie del paradiso, nel seno di Abramo, di Isacco e di
Giacobbe, dei nostri santi padri; da dove il dolore, la
tristezza e i gemiti si sono allontanati; là dove brilla la
luce del tuo volto che splende ovunque. E per noi, Si-
gnore, disponi cristianamente la fine della nostra vita: essa
ti sia gradita, sia senza peccato e tranquilla; radunaci ai
piedi dei tuoi eletti, quando tu vorrai e come tu vorrai,
purché sia senza vergogna e senza peccato, per il tuo uni-
genito Figlio, nostro Signore e Dio e Salvatore Gesù Cri-
sto, perché egli è il solo senza peccato che sia apparso
sulla terra (21),... col quale tu sei benedetto e glorificato

(21) Qui, come alla fine delfintercessione della liturgia di san Mar-

2 81
col tuo santissimo, ottimo e vivificante Spirito, ora e sem-
pre nei secoli dei secoli. Amen ».
Questa forma di intercessione finale è la più sviluppata che
troviamo in qualsiasi liturgia dell'epoca patristica. Come ab-
biamo già detto riguardo aireucaristia egiziana - di cui Leu-
caristia siro-occidentale ha certamente influenzato le forme tar-
dive (particolarmente neirepiclesi e in quelle intercessioni e
commemorazioni che, in Siria, le fanno seguito) - , queste in-
tercessioni sono l'elemento rimasto per lungo tempo il più mal-
leabile nelle preghiere eucaristiche (come nella liturgia giu-
daica). Lo stadio però in cui ci è stata trasmessa la liturgia di
san Giacomo, compresa questa parte, era già stato raggiunto a
metà secolo V, poiché le traduzioni siriache utilizzate dai « già-
cobiti » monofisiti di Siria lo attestano press'a poco in tutti i
suoi particolari. Questa grande supplica, ben più sviluppata an-
cora di quella delle Costituzioni apostoliche, per l'influsso della
Siria su tutti i pellegrini (ai quali, come abbiamo visto, questa
preghiera allude), sembra aver influito quasi dovunque sulle
litanie d'intercessione che lo stesso Occidente romano doveva in
seguito mutuare dallOriente. Però la formula gerosolimitana,
in quest'ultima parte come in quelle precedenti, conserva il suo
colore particolare, fatto di una retorica quanto mai calda e di
un tono molto biblico.
Se tuttavia consideriamo l'eucaristia di san Giacomo nel
suo insieme, siamo soprattutto colpiti dalla chiarezza della sua
teologia trinitaria, favorita da uno schema di un rigore molto
più esigente di quello che si poteva osservare nella liturgia del
libro V ili delle Costituzioni apostoliche. Tutti i doppioni, tutte
le ripetizioni di concetti sono stati eliminati senza pietà. Il Pa-
dre vi è lodato per tutto il creato, radunato in quella « Chiesa
dei primogeniti » che è designata come la Gerusalemme celeste.
Il Figlio vi è celebrato come colui nel quale e per mezzo del
quale la divina economia della misericordia infinita ha realizzato
il disegno di radunare e restaurare ogni cosa in vista di tale
glorificazione. Lo Spirito vi è invocato come colui per mezzo

c o , è s ta ta in tr o d o tta u n a c o m m e m o r a z io n e d e i v e s c o v i in c o m u n io n e c o n
i q u a li si c e le b r a (n e l te s to d i sa n G ia c o m o d a to d a B . M e r c ie r , s o n o no-
m in a ti i c in q u e p a tr ia r c h i); e s s a in te r r o m p e v is ib ilm e n te il c o r s o d ella
p r e g h ie r a .

282
del quale l'opera del Figlio trova in noi, adesso e per Feter-
nità, il suo compimento definitivo.
Bisogna però vedere a quale prezzo è pagata questa sin-
tesi. L'anamnesi, cuore dell'eucaristia cristiana primitiva, ha
dovuto per questo sciogliersi e fondersi nel rendimento di gra-
zie per la storia della salvezza, che in origine ne costituiva Fin-
troduzione. Di conseguenza, l'epiclesi, che in un primo tempo
era soltanto uno sviluppo dell'anamnesi, se ne è distaccata per
acquistare un'ampiezza e un'indipendenza che la mettono in
parallelo completo con l'evocazione del Padre come creatore
e del Figlio come redentore. Viene da pensare alla formula di
san Gregorio Nazianzeno, il quale dice che la rivelazione del
Padre era l'avvenimento dell'Antico Testamento; quella del
Figlio, del Nuovo; quella dello Spirito, della Chiesa. L'idea è
bella, ma nonostante tutto è un po' fittizia. Di fatto, le persone
divine si rivelano soltanto insieme. Il Padre è rivelato come
Padre solo nel Nuovo Testamento e nella storia della Chiesa.
In compenso, una volta compiuta l'opera divina, lo Spirito
si scopre all'opera fin dall'inizio della creazione e della reden-
zione, in cui il Figlio era già latente in ogni cosa, come un'om-
bra proiettata in avanti, prima di prendervi carne e di tra-
sfigurare tutto con la sua presenza. Simili dicotomie, o in
seguito tricotomie, per quanto soddisfacenti possano essere per
una mente logica, sono pericolose per una teologia e per una
spiritualità viva. Ciò si applica già in una certa misura alla
liturgia delle Costituzioni apostoliche. Questo difetto, però, è
ancora più marcato nel caso della liturgia di san Giacomo,
che spinge lo schematismo fino a riservare al Padre la sola
creazione, al Figlio la sola redenzione, allo Spirito la sola
santificazione.
Rimane comunque vero che quest'ultima eucaristia, nono-
stante l'ellenizzazione molto spinta della sua forma come del
pensiero che la sottende, rimane straordinariamente vicina al-
l'eucaristia primitiva. È interamente attraversata, fino all'espan-
sione della preghiera di intercessione nella terza parte, dallo
slancio dossologico, così fondamentale in ogni eucaristia. In
nessuna parte il tema della glorificazione universale di Dio è
espresso così potentemente fin dall'inizio, e sostenuto così co-
stantemente attraverso tutto il suo sviluppo. Non meno degno
di nota, da questo punto di vista della fedeltà alle origini, è

283
anche il modo con il quale tutto rimane centrato sulla confes-
sione esultante della misericordia divina, fino agli sviluppi del»
!,epiclesi e delle intercessioni. Gli echi della preghiera giudaica
« Con grande amore », che seguiva la Qedussà, sembrano tro»
vare qui una rinascita sorprendente. Questo amore, questa mi-
sericordia, che culmina nella manifestazione della paternità di
Dio verso i suoi eletti, diventano come la chiave che introduce
il Salvatore e la sua opera nel cuore deireucaristia cristiana.
Bisogna anche sottolineare un fatto paradossale, che mo-
stra mirabilmente come l'ellenizzazione più innegabile della
forma e del contenuto essenziale di un testo tradizionale non si-
gnifichi affatto la conseguente vanificazione o la trasmutazione
del suo contenuto originale. Troppo facilmente si contrappone
alla spiritualità giudaica, centrata sulla vita, la spiritualità el-
lenistica o ellenizzata, centrata sulla conoscenza. È una osser-
vazione acuta, ma richiede molta prudenza prima di concludere
con generalizzazioni di questo tipo: tutte le più antiche pre-
ghiere cristiane deireucaristia, al seguito delle preghiere giu-
daiche, sono, nella lode prima del Sanctus, rendimenti di grazie
per la conoscenza e riportano ancora questo tema nella lode
prima dell'anamnesi - quantunque questo secondo rendimento
di grazie sia dominato dalla vita - , collegandovi i temi della
conoscenza della legge e del Nome divino. Invece, per quanto
sia ellenizzata, !,eucaristia di san Giacomo è da un capo al-
l'altro, e fin dalla sua prima parte, un rendimento di grazie per
la vita, in cui la conoscenza appare solo attraverso fugaci al-
lusioni, e solamente nella seconda parte.
Nonostante questo, però, essa si scosta, molto più profon‫־‬
damente ancora di quanto non lo facesse già !,eucaristia delle
Costituzioni apostoliche, dai modelli giudaici o giudeo-cristiani
che hanno loro fornito la sostanza, L'eucaristia pseudo-clemen-
tina, nella sua prima parte, conservava ancora, con il predo-
minio dei temi della luce e della conoscenza, un rendimento di
grazie per la storia della salvezza, nell·Antico Testamento, legato
al rendimento di grazie per la creazione. Allo stesso modo, la
sua seconda parte, rendendo grazie per la vita rinnovata nel
compimento della salvezza che termina nell'incarnazione reden-
trice, evitava ancora di attirare a sé il racconto dell'istituzione
eucaristica. Questo rimaneva incorporato nell'anamnesi, di cui
!,epiclesi, per quanto già elaborata, era pur sempre solo un'ap­

284
pendice. Neireucaristia di san Giacomo, invece, il racconto del-
!,istituzione è stato assorbito nel rendimento di grazie per Tin-
carnazione redentrice; l’anamnesi è soltanto un’appendice in
cui termina il rendimento di grazie, e l’aggancio di una epiclesi
diventata praticamente indipendente. In compenso, qui come
nel libro V ili delle Costituzioni apostoliche, l’attrazione a se-
guito dell’anamnesi di tutte le formule sacrificali, ricondotte e-
splicitamente a un’espressione del « memoriale » primitivo, re-
stituisce l’unità della prospettiva originale dell’eucaristia: non
sacrificio e memoriale, ma sacrificio in quanto memoriale.

285
Capitolo IX

Forma classica dell’eucaristia bizantina:


le anafore di san Giovanni Crisostomo
e di san Basilio

La liturgia antiochena dei Dodici apostoli


La liturgia di san Giacomo, malgrado la sua popolarità per
un po' di tempo universale in Oriente, doveva essere molto ra-
pidamente soppiantata da liturgie apparentate. Queste sembra-
no essere solo riduzioni e rimaneggiamenti, se non di questa
stessa liturgia, almeno di liturgie analoghe, di cui quella del
libro V ili delle Costituzioni apostoliche può darci qualche
idea. Sono le liturgie attribuite rispettivamente a san Giovanni
Crisostomo e a San Basilio (1). L'una e Laltra sarebbero state
adottate dalla grande Chiesa di Costantinopoli e, in modo par-
ticolare sotto la sua influenza ben presto preponderante, avreb-
bero preso quasi ovunque il posto della liturgia di san Già-
corno, e in Egitto quello della liturgia di san Marco.
La liturgia detta di san Giovanni Crisostomo sembra esse-
re stata, in principio, semplicemente la liturgia utilizzata ad
Antiochia, quando il santo vi esercitava il suo ministero sa-
cerdotale e poi episcopale. È possibile che egli Labbia portata
con sé a Costantinopoli, da dove essa doveva irradiarsi in tutto
il mondo di lingua greca. Non sembra che ne sia Fautore, ma
solo il revisore. Questa revisione si manifesta attraverso un
certo numero di formule che portano !,impronta delle sue
preoccupazioni teologiche personali. È possibile che con queste
aggiunte vi abbia anche praticato alcune abbreviazioni. Ci in-
duce a pensarlo resistenza di una liturgia conservata oggi in
siriaco, sia dai siro-giacobiti - uniti a Roma -, sia dai maroniti,
sotto il nome di liturgia dei Dodici apostoli. Questa sembra
procedere da un testo greco anteriore alla liturgia cosiddetta di
san Giovanni Crisostomo, in cui non figuravano queste ag-

(1) Cf I. H anssens , I n s t i t u t i o n e s litu r g ic a e ..., tomus III, pars altera,


Roma 1932, pp. 569ss. Bibliografìa in J. M. Sauget, o p . c it., pp. 5152‫־‬.

286
giunte che portano la sua impronta, mentre, in compenso, vi
si trovano alcune formule, certamente molto antiche, che sono
scomparse nel testo attribuito a questo santo (2).
Questa liturgia dei Dodici apostoli ci permette di raggiun-
gere il testo di una liturgia breve di Antiochia, innegabilmente
imparentata con il testo attribuito a san Giacomo, ma che
in vari punti si avvicina di più alla liturgia delle Costituzioni
apostoliche (3).
Ecco innanzi tutto la parte che va fino al Sanctus:
« L'amore di Dio Padre, la grazia del Figlio unico e la
comunione dello Spirito Santo siano con voi tutti.
- E con il tuo spirito.
Eleviamo i cuori.
- Sono rivolti al Signore.
Rendiamo grazie al Signore.
- È giusto e necessario.
È giusto e necessario adorarti, glorificarti, perché tu sei il
Dio vero, col tuo Figlio unico e il tuo Spirito Santo. Ci
hai tratti dal nulla all'esistenza; dalla caduta ci hai risol‫־‬
levati e non hai avuto posa, finché non ci hai fatto salire
fino al cielo, per ottenere il regno futuro. Per tutto ciò
rendiamo grazie, a te, al tuo Figlio unico e allo Spirito
Santo. Davanti e intorno a te stanno i Cherubini dai molti
occhi e i Serafini dalle sei ali. Glorificano e lodano con
tutte le altre potenze celesti la tua maestà, con una voce
che non tace mai e con accenti che non si esauriscono.
Proclamano e cantano: Santo, santo, santo, il Dio Sabaoth!
Cielo e terra sono pieni della tua gloria! Osanna nel più
alto dei cieli! Benedetto colui che viene e verrà in nome
del Signore, Dio nostro! Osanna nel più alto dei cieli!».
Questa parte sembra la formula breve di un testo analogo
a quello di san Giacomo, in cui però la menzione centrale della
Gerusalemme celeste è sostituita da quella del Regno celeste

(2) Cf H. E ngberding, Die syrische Anaphora der zwólf Apostel, in


OrChr 34 [12] (1937) 213247‫־‬.
(3) Seguiremo l’edizione di A. Raes, Anaphorae syriacae, Roma
1940, voi. I, fase. 2, pp. 212ss. Il testo base di questa edizione è un ma-
noscritto del secolo X (British Museum 286). - Cf anche PE 264268‫;־‬
EEFL nn. 522-530; LdC 421.433.436.444445.452.458.466.472‫־‬. Testo italia-
no in H AMMAN, 318322‫־‬.

287
ed escatologico. A dire il vero, ci si può chiedere se questo
testo sia un'abbreviazione di san Giacomo, o se non sia piut-
tosto una forma breve di un testo analogo, ma anteriore, il quale
doveva prendere, a Gerusalemme, certe caratteristiche locali.
Il seguito, lo vedremo, conferma questa impressione.
Passiamo ora alla seconda parte, fino all'anamnesi:
« Tu sei santo e santissimo, col tuo Figlio unico e con
10 Spirito Santo. Tu sei santo e santissimo, nella magnifi-
cenza della tua gloria. Hai amato il mondo fino a dargli
11 tuo Figlio unico, affinché coloro che credono in lui non
periscano, ma abbiano la vita eterna.
Lui che venne, e, dopo aver condotto a termine tutto il
piano stabilito per noi, la notte in cui fu tradito, prese del pa-
ne nelle sue mani sante e senza macchia, e alzatolo al cielo,
lo benedisse, lo consacrò e lo spezzò, poi lo diede ai
discepoli e agli apostoli, dicendo: Prendete, mangiatene voi
tutti. Questo è il mio corpo, spezzato e dato per voi e per
la moltitudine in remissione dei peccati e per la vita eterna.
Così pure per il calice, dopo il pasto, mescolò il vino e
Facqua, rese grazie, lo benedisse, lo consacrò e dopo averlo
assaggiato, lo diede ai discepoli e agli apostoli e disse:
Prendete, bevetene tutti. Questo è il sangue della nuova al-
leanza, versato per voi e per la moltitudine e dato in re-
missione dei peccati e per la vita eterna. Fate questo in
memoria di me. Ogniqualvolta mangerete questo pane e
berrete questo calice, voi annunzierete la mia morte e con-
fesserete la mia risurrezione, fino al mio ritorno.
[77 popolo risponde: ] Ricordiamo la tua morte, Signore!
Proclamiamo la tua risurrezione e attendiamo il tuo ritorno.
[Il celebrante prosegue: ] Quando ricordiamo, Signore, il tuo
comandamento salutare e tutto il piano stabilito per noi:
la tua croce, la risurrezione da morte il terzo giorno, Tascen-
sione al cielo, la tua presenza alla destra della maestà del
padre, il tuo avvento, quando verrai con gloria a giudicare
i vivi e i morti e a rendere a tutti gli uomini, secondo le
loro opere con amore; la tua Chiesa e il tuo gregge ti sup-
plicano e per te supplicano il Padre, dicendo: abbi pietà di
me. [// popolo ripete: Abbi pietà di noi].
Anche noi, Signore, che abbiamo ricevuto le tue grazie, ti
ringraziamo per tutto e per tutti. [// popolo: Ti lodiamo] ».
Il fatto più notevole è che questa parte è centrata, come
nell'eucaristia di san Giacomo, sul richiamo dell'amore mise­

288
ricordioso che ci ha salvati. Qui però, come nei testi posteriori,
questo ricordo assume la forma di una citazione, messa alla
seconda persona, del vangelo di Giovanni (3,16). Questo ricordo
ormai, in linea con la tradizione, assorbe tutto il rendimento
di grazie per la redenzione. Subito dopo, con una sola frase
di legamento, passiamo al racconto deiristituzione. L'anamnesi
vi è provocata dalla stessa amplificazione, di origine paolina,
del « Fate questo in memoriale di me », che abbiamo trovato
in san Giacomo, ma messa alla prima persona, in bocca a
Cristo. L'anamnesi, così come in quell'altra liturgia, si orienta
verso l'epiclesi con un'invocazione della misericordia divina.
Qui però c'è da notare una particolarità che sembra molto an-
fica. Come nell'eucaristia di Addai e Mari, l'anamnesi si
rivolge non al Padre, ma al Figlio. Forse più impressionante è
il fatto che non appare ancora nessuna forma esplicitamente
sacrificale.
Veniamo all'epiclesi e alle preghiere che seguono:
« [Il diacono dice: ] In silenzio e con timore!
[// celebrante continua: ] Ti preghiamo, Signore onnipotente
e Dio delle virtù, prosternandoci davanti a te, di mandare il
tuo Spirito sulle offerte che sono davanti a noi. E di mo-
strarci che questo pane è il corpo venerato di nostro Signore
Gesù Cristo, questo calice il sangue di quello stesso Gesù
Cristo, Signore nostro. Affinché tutti coloro che lo assag-
giano, ne ottengano la vita e la risurrezione, la remissione
dei peccati, la guarigione dell’anima e del corpo, Fillumi-
nazione della mente e la sicurezza davanti al terribile tri-
bunale del tuo Cristo. Nessuno del tuo popolo si perda,
Signore, ma rendici tutti degni di servirti senza turbamento,
di restare al tuo servizio tutto il tempo della nostra vita,
di godere dei tuoi misteri celesti, immortali e vivificanti,
per la tua grazia, per la tua misericordia e benevolenza,
ora, in ogni tempo e nei secoli dei secoli. [Amen del
popolo‫]־‬.
Ti offriamo, Signore onnipotente, questo sacrificio spiri-
tuale per tutti gli uomini, per la tua Chiesa universale, per
i vescovi che dispensano la parola di verità, per la mia
indegnità, per i sacerdoti e i diaconi, per tutti i credenti
della regione, per tutto il popolo dei fedeli, per un tempo
favorevole e per i frutti della terra, per i nostri fratelli nella
fede che si trovano nelle difficoltà; per coloro che hanno
fatto queste offerte, per coloro che generalmente sono no­

289
minati nelle chiese sante. A tutti concedi l'aiuto di cui
hanno bisogno.
Ai nostri padri e fratelli che sono morti nella vera fede
concedi la gloria divina, nel giorno del giudizio; non entrare
in giudizio con loro, perché nessun vivo è innocente di-
nanzi a te. Un solo essere fu trovato senza peccato sulla
terra, il tuo Figlio unico, nostro Signore Gesù Cristo, il
grande purificatore della nostra stirpe: per lui speriamo di
trovare la misericordia’e la remissione dei peccati per noi
e per loro.
[Il popolo risponde: ] Perdona, cancella i nostri peccati.
Ricordiamo specialmente la santa Madre di Dio, Maria
sempre Vergine, i santi apostoli, i santi profeti, i martiri
che risplendono della loro vittoria e tutti i santi che ti
furono graditi. Per la loro preghiera e la loro intercessione,
proteggici dal male e la tua misericordia sia su di noi, in
questo mondo e nelfaltro, affinché glorifichiamo il tuo no-
me benedetto, per Gesù Cristo e lo Spirito Santo.
[Il popolo conclude: ] Come era in ogni tempo e nei secoli
dei secoli ».
Qui ci troviamo nuovamente di fronte a particolari molto
antichi. Il termine di offerta e quello di sacrificio appaiono, eia-
scuno, una sola volta: il primo nelFepiclesi e il secondo al-
Tinizio delle intercessioni. La discesa dello Spirito viene chie-
sta non, come in san Giacomo, perché tramuti gli elementi
nel corpo e nel sangue di Cristo, ma, come nelle Costituzioni
apostoliche, perché manifesti che essi lo sono, producendo nei
partecipanti tutti gli effetti del mistero. Così pure Fepiclesi, in-
vece di agganciare direttamente le preghiere che seguono (e
che sono di una notevole concisione), ha conservato la propria
conclusione.

Dalla liturgia dei Dodici apostoli alla liturgia di san Gio‫־‬


vanni Crisostomo

Il confronto di questo testo con il testo oggi diffuso sotto


il nome di san Giovanni Crisostomo è tra i più interessanti.
Notiamo che la prima formula del dialogo è stata ricondotta
(eccetto alcune differenze quasi insignificanti) alla lettera del
testo paolino, il che sembra un primo segno di una preoccu-
pazione teologica di ritornare alla lettera delle citazioni scrit-

290
turistiche, piuttosto che un arcaismo. Ne vedremo una mani-
festazione ben più splendida in tutta !,eucaristia di san Ba-
silio e in altre analoghe.
A parte questo, ecco la forma che ha preso la prima parte
della preghiera eucaristica:
« E’ degno e giusto cantarti, renderti grazie, adorarti dap-
pertutto dove si estende il tuo dominio, perché tu sei
[il] Dio, ineffabile, incomprensibile, invisibile, inaccessibi‫־‬
le, esistente da sempre e sempre lo stesso; tu e il tuo Figlio
unico e il tuo Spirito Santo. Dal nulla ci hai condotto al-
l'essere, dopo la caduta ci hai risollevati, non hai avuto
posa finché non ci hai ricondotto al cielo e restituito il
regno futuro. Per tutti questi benefici, rendiamo grazie a
te, al tuo Figlio unico e allo Spirito Santo, per tutti i bene-
fici che conosciamo, come quelli che ignoriamo, per quelli
visibili e quelli invisibili. Noi ti rendiamo grazie pure per
questa oblazione (λειτουργίας) che ti degni di ricevere dalle
mani nostre. Te servono migliaia di Arcangeli e miriadi
di Angeli, i Cherubini e i Serafini dalle sei ali, dagli occhi
innumerevoli, che volano nei cieli, cantano, gridano e in-
tonano l'inno trionfale: Santo, santo, santo è il Dio Sa-
baoth! Cielo e terra sono pieni della tua gloria. Osanna nel
più alto dei cieli. Benedetto colui che viene in nome del
Signore! Osanna nel più alto dei cieli » (4).
È chiaro che il testo siriaco precedente traduce un testo
greco praticamente identico a quello che abbiamo appena pre-
sentato, a parte la serie di aggettivi che abbiamo messo in
corsivo alFinizio, e !,altro sviluppo della fine, in cui si noterà
particolarmente Fintroduzione, abbastanza curiosa a questo pun-
to, di una formula sacrificale sulla quale ritorneremo.
« Noi pure, con loro, o Signore delle potenze, amico degli
uomini, ti gridiamo: tu sei santo, infinitamente santo, santo
è il tuo Figlio, santo è lo Spirito. Tu sei santo, infinita-
mente santo, e la tua gloria è immensa. Hai amato il mon-
do al punto di dare il tuo Figlio, FUnico, affinché chiunque
crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna.
Lui che venne e compì tutte le tue disposizioni a nostro

(4) E. F. Brightman, o p . c it., pp. 321 ss. Il testo seguito è quello del
C o d e x B a r b e r in i ,
dell’inizio del IX secolo. - Cf PE 223-229; EEFL nn.
28972898‫־‬g; LdC 22.433-434.436.442.445.452-453.458.466-468.472. Testo i-
taliano in H amman , 313ss.

291
riguardo; poi la notte in cui fu tradito, prese del pane
con le sue mani sante, rese grazie, lo benedisse, lo
spezzò, lo diede ai discepoli e agli apostoli, dicendo:
Prendete, mangiate: questo è il mio corpo, dato per voi.
Lo stesso fece per il calice, alla fine del pasto, dicendo:
Bevetene tutti: questo è il mio Sangue, quello della nuova
alleanza che è sparso per voi e per la moltitudine in re-
missione dei peccati [Il popolo risponde: Amen].
Ricordandoci dunque del comandamento salutare e di tutto
quello che è stato compiuto per noi: della croce, della
sepoltura, della risurrezione il terzo giorno, deirascensioiie
al cielo, della sua presenza alla destra del Padre, del se-
condo e glorioso avvento, noi offriamo queste cose che
vengono da te.
[Il popolo continua: ] Ti cantiamo, ti benediciamo, ti ren-
diamo grazie, Signore, e ti preghiamo, Dio nostro».
Questa volta, con la scomparsa del passaggio dalla prima
alla seconda persona della Trinità nell'indirizzo della preghie‫־‬
ra, notiamo ancora la sostituzione della semplice invocazione
della pietà divina con una formula sacrificale (simile a quelle
trovate a Roma e ad Alessandria), d'altra parte perfettamente
espressiva del significato originale del memoriale. Però è fuori
dell'ordinario - e costituisce un fatto unico nella storia della
liturgia - che l'anamnesi non si appoggi più sulla parola di
Cristo: « Fate questo in memoriale di me ». Mentre questa
parola, nella liturgia siriaca dei Dodici apostoli come pure in
quella di san Giacomo, si trovava ampliata e precisata per con-
taminazione con la parola di san Paolo (1 Cor 11,26) citata già
dalla liturgia delle Costituzioni apostoliche, qui è completa-
mente scomparsa.
« Ti offriamo ancora questo sacrificio spirituale (λογικήν)
e incruento e ti invochiamo, ti preghiamo e ti supplichiamo,
manda il tuo Spirito Santo su di noi e sui doni qui pre-
senti, e fa' di questo pane il prezioso corpo del Cristo,
cambiandolo per opera del tuo Spirito Santo [Amen], e
di questo calice, il sangue del Cristo, cambiandolo per ope-
ra del tuo Spirito Santo [Amen], affinché siano, per coloro
che vi partecipano, purificazione (νήψιν) delfanima, remis-
sione dei peccati, comunione dello Spirito Santo, pienezza
del regno di Dio, sicurezza (παρρησίαν) davanti a te, e non
giudizio e condanna.
Ti offriamo ancora questo sacrifìcio spirituale, per tutti co­

292
loro che riposano nella fede: gli antichi padri, i patriarchi,
i profeti, gli apostoli, i predicatori, gli evangelisti, i mar-
tiri, i confessori, gli asceti e coloro che sono morti nella
fede. Soprattutto per la nostra santa, purissima, benedetta e
gloriosa Madonna, Madre di Dio e sempre Vergine Maria,
san Giovanni profeta, precursore e battista, i santi gloriosi
e illustri (πανευφήμων) apostoli, il santo... di cui celebria-
mo la memoria, e tutti i santi: per le loro preghiere, visi-
taci, o Dio, e ricordati di tutti coloro che si sono addor-
mentati con la speranza di risuscitare per la vita eterna:
dà loro riposo nel luogo in cui risplende (επισκοπεί) la luce
del tuo volto.
Ti preghiamo ancora, Signore, ricordati di tutto Tepiscopato
ortodosso, di coloro che annunziano con rettitudine la tua
parola di verità, di tutti i presbiteri, dei diaconi nel Cristo,
e di tutto il sacerdozio.
Ti offriamo ancora questo sacrificio spirituale per tutto
^universo, per la Chiesa santa, cattolica e apostolica, per
quelli che vivono una vita casta e dignitosa, per coloro che
sono sulle montagne, nelle grotte e negli anfratti della
terra; per i nostri sovrani fedelissimi e amici del Cristo,
per la loro corte e il loro esercito. Da' loro Signore, un
regno pacifico, affinché, nella pace che ci assicurano, noi
viviamo una vita tranquilla in pietà e in santità.
Ricordati, Signore, della città in cui viviamo, di ogni città
o paese e di coloro che vi dimorano nella fede.
In primo luogo ricordati, Signore, del nostro arcivescovo N.
Ricordati, Signore, di coloro che sono sul mare o per le
strade, degli ammalati, di coloro che soffrono, dei prigio-
nieri e della loro salvezza.
Ricordati, Signore, dei donatori e dei benefattori delle
tue sante chiese, di quelli che pensano ai poveri, e su
noi tutti manda le tue misericordie.
E concedici di glorificare e di acclamare con una sola voce
e con un solo cuore il tuo nome mirabile e magnifico Pa-
dre, Figlio e Spirito Santo, ora e sempre e nei secoli
dei secoli! Amen ».
L'epiclesi comincia con una terza formula sacrificale as-
sente dall'anafora siriaca, ma che sembra ripresa dall'anamnesi
di san Giacomo. Come l'epiclesi di quest'ultima, chiede non
solo che lo Spirito manifesti che il pane e il vino sono il corpo
e il sangue di Cristo, ma che ne faccia questo corpo e questo
sangue. Per la prima volta vediamo introdursi questa precisa­

293
zione supplementare: « cambiandoli (μεταβάλλων) per opera
del tuo Spirito Santo ». Questo costituisce la prima introduzione
in una preghiera eucaristica di una formula teologica tecnica.
La si ritrova parimenti nel testo divenuto classico di san
Basilio.
Ancora come in san Giacomo, l’epiclesi si prolunga senza
una soluzione di continuità nelle intercessioni, per sfociare in-
fine nella dossologia del Nome divino.
Le aggiunte che abbiamo messo in corsivo all’inizio pon-
gono vari problemi. La serie degli aggettivi che sottolineano la
trascendenza divina è in accordo troppo perfetto con le preoc‫־‬
cupazioni di san Giovanni Crisostomo nel suo De incognosci‫־‬
bilitate Dei per non provenire dalla sua penna. Non bisogna
vedervi, come troppi commentatori moderni hanno immaginato,
un influsso dei misteri pagani o del neo-platonismo, quanto piut-
tosto una reazione molto forte, inaugurata dai Cappadoci, con-
tro il razionalismo degli ariani anomei - come Eunomio - che
pretendevano di poter ridurre a un concetto adeguato l'essenza
divina. È stata la stessa preoccupazione biblica che ha potuto
suscitare !,insistenza sui benefici invisibili di Dio e la nuova
introduzione di una menzione più ampia degli esseri angelici.
Quanto alla formula sacrificale aggiunta prima del Sanctus,
essa non ha, in questo posto preciso, un antecedente tradì-
zionale. Nella sua sostanza, può venire sia da sant’Ippolito, sia
da una tradizione raccolta da lui medesimo.

La liturgia di san Basilio: sua composizione ed evoluzione


C’è un’altra anafora utilizzata ancora oggi nel mondo bizan-
tino, o che Bisanzio ha influenzato, probabilmente posteriore a
quella dei Dodici apostoli, ma certamente anteriore al rima-
neggiamento dell’ultima che abbiamo studiato. Essa viene at-
tribuita a san Basilio di Cesarea.
Il suo testo attuale, confrontato con diversi stadi anteriori
che si possono individuare attraverso una versione siriaca antica,
una versione armena probabilmente del V secolo, e infine
la redazione ancora più antica di tutti questi altri documenti e
che ci è stata conservata in Egitto, sia in greco che in copto e in
etiopico, pone un problema critico delicato. Dom Engberding
che vi si è dedicato, seguito specialmente dal Baumstark, pensa

29 4
che il testo egiziano debba essere quello di un’antica anafora
cappadoce che Basilio avrebbe rimaneggiato ulteriormente, e
che sarebbe stata poi ancora sviluppata in seguito (5). Il
p. Hanssens mette in dubbio questa teoria, pensando che l’at-
tribuzione a san Basilio del testo che gli egiziani hanno cono-
scinto molto presto sarebbe incomprensibile se si trattasse sem-
plicemente di un testo che avesse servito di base alla sua com-
posizione (6). Da parte nostra, propenderemmo a pensare che
questa forma più antica a noi accessibile sia già il prodotto di
una sintesi molto personale che Basilio stesso ha potuto, un po’
più tardi, arricchire maggiormente, e che sarebbe stata ancora
completata, senza essere sostanzialmente alterata o trasformata,
dopo di lui.
Comunque sia ‫ ־־‬portata molto presto in Egitto (forse prò-
prio da lui, in occasione di un suo viaggio) - nella sua prima
forma, l’anafora che porta il suo nome doveva poco dopo, già
probabilmente in una forma più lunga, essere trasportata a
Costantinopoli, verosimilmente da un vescovo, anch’egli origi-
nario della Cappadocia e che potrebbe benissimo essere stato
il suo amico Gregorio Nazianzeno. Ad ogni modo è sicuro che
vi si sarebbe stabilita molto prima dell’altra anafora attribuita
a san Giovanni Crisostomo. Di lì doveva divulgarsi in tutto
l’Oriente, prima di essere a poco a poco soppiantata da que-
st’ultima.
È probabile che l’eucaristia di Basilio, proprio come quella
dei Dodici apostoli, sia stata in un primo tempo il condensato
di un testo più abbondante e più vicino, pare, a quello del libro
V ili delle Costituzioni apostoliche che non a quello di san
Giacomo. Esattamente come è accaduto con il testo detto dei
Dodici apostoli, questa formula breve ha subito a sua volta un
processo di amplificazione, che doveva sfociare nella forma re-
cepita oggi nella liturgia bizantina. Però, fin dalla sua forma
breve e attraverso le sue amplificazioni successive, sembra aver
risposto a un disegno consapevole di produrre un’eucaristia il
più possibile di fattura biblica. Già l’eucaristia del libro V ili

(5) Cf H. Engberding, D a s e u c h a r is iis c h e H o c h g e b e t d e r B a s iliu s li-


Miinster-in-Westf. 1931; A. Baumstark , L itu r g ie c o m p a r é e , Che-
tu r g ie ,
vetogne 31953, pp. 58ss.
(6) I. H anssens , I n s t i t u t i o n e s litu r g ic a e ..., t. Ili, pars altera, p. 578.

295
delle Costituzioni apostoliche e ancora più quella di san Già-
corno avevano incorporato nel loro testo varie citazioni bi-
bliche. Sembra però che san Basilio sia stato il primo redattore
di una preghiera eucaristica cristiana che abbia cercato di fare
uso esclusivo di formule letteralmente bibliche. Non si potrebbe
trovare una migliore conferma alla legge, paradossale solo ap-
parentemente, posta da Baumstark: quando un testo liturgico
riproduce testualmente formule bibliche, è un segno non di an-
tichità, ma di elaborazione tardiva (7).
È un fatto che tutti i testi liturgici antichi, nella misura in cui
rimangono contemporanei se non alla redazione, almeno alla ca-
nonizzazione dei testi del Nuovo Testamento, non manifestano
alcuna tendenza a fissarsi nelle loro espressioni, e nemmeno a
citarle occasionalmente. Solo con le prime grandi liturgie si-
riache occidentali - e ciò è la conferma della loro data relati-
vamente recente - si profila il primo sforzo per ispirarsi parola
per parola a testi biblici. Bisogna però arrivare a san Basilio,
di cui si conosce l’attaccamento appassionato a uno studio bi-
blico minuzioso, ispirato da Origene, per trovare un’eucaristia
che non è altro che un centone biblico.
Gli esercizi di questo tipo, in cui saremmo tentati di ve-
dere solo giochi laboriosi ma di una ingenua puerilità, costi-
tuivano la delizia dei letterati dell’epoca. Dopo aver composto
racconti evangelici in forma di centoni omerici o virgiliani,
quando la Bibbia greca si fosse, a sua volta, imposta come il
primo monumento letterario di una cristianità ellenizzata, si
doveva arrivare a fabbricare nuovi testi sistemando, con lo
stesso procedimento, le formule prese dagli scritti ispirati (8).
Malgrado il carattere particolarmente artificiale che un tale
metodo di composizione rischiava di dare all’eucaristia di san
Basilio, la familiarità con la Scrittura che gli era propria, e che
arrivava fino al contenuto e non solo alla scorza delle parole,
unita alla potenza sintetica del suo pensiero, ha fatto del suo
testo uno dei più bei formulari eucaristici della tradizione. Pro-
prio come in san Giacomo, il piano trinitario è impeccabile, ma
l’abbondanza del materiale biblico utilizzato in modo così sa-

(7) A. Baumstark , o p . c it., p. 65.


(8) Cf P. de Labriolle, H i s t o i r e d e la lit t é r a t u r e la tin e c h r é tie n n e ,
t. II, Paris T947, pp. 480-481.

296
gace gli dà una più viva malleabilità, contrariamente a quanto
ci si sarebbe atteso. Il risultato è una magnifica litania di tutti
i titoli e di tutte le attribuzioni delle persone divine nella Bib-
bia, attraverso la quale traspare la grande visuale origenista,
corretta da sant’Atanasio e dai suoi successori sull’« economia »
della salvezza.
Riporteremo questo testo nella sua forma completa, da
tempo in uso nel rito bizantino, pur mettendo in corsivo le
espressioni aggiunte al testo di san Basilio, quale Dom Engber-
ding crede di poter ricostituire, e invece in grassetto lo stadio
primitivo che le formule egiziane ci fanno conoscere.
« È veramente degno e giusto e conveniente alla maestà
della tua santità, lodare te che sei Padrone, Signore, Dio,
Padre onnipotente, adorabile; cantare a te con inni, bene‫־‬
dire, adorare te, renderti grazie, glorificare te solo che sei
realmente Dio (όντως όντα θεόν); offrire a te con cuore con-
trito e in spirito di umiltà questo nostro culto ragionevole,
perché tu ci hai dato di conoscere la tua verità. Chi dun-
que è capace di esprimere la potenza (δυναστείας) delle
tue opere, di far sentire tutte le tue lodi o di narrare in
ogni tempo le tue meraviglie? Padrone di tutte le cose,
Signore del cielo e della terra, di ogni creatura visibile e
invisibile, tu sei assiso su un trono di gloria, e penetri con
il tuo sguardo negli abissi; senza principio, invisibile,
incomprensibile, indescrivibile, immutabile, Padre del no-
stro Signore Gesù Cristo, del grande Dio e Salvatore
della nostra speranza, lTmmagine della tua bontà, il Si-
gillo (σφραγίς) uguale al suo modello, che ti fai vedere in
lui, o Padre, il Logos vivente, Dio vero prima dei secoli,
Sapienza, Vita, Santificazione e Potenza. Egli è la Luce
vera, dal quale (παρ’ου) lo Spirito Santo è stato manifestato,
lo Spirito di Verità, il dono della adozione, il pegno della
nostra futura eredità, primizia dei beni eterni; egli è for-
za che dona la vita, la fonte della santificazione; da lui
(παρ’οΰ) ogni creatura razionale (λογική) e spirituale è resa
capace di renderti un culto e ti eleva una gloria eterna,
essendo tutte le cose a tuo servizio.
Gli Angeli, gli Arcangeli, i Troni, le Dominazioni, i Prin-
cipati, le Potestà, le Virtù e i Cherubini dagli occhi mol-
teplici lodano te. Intorno a te stanno i Serafini aventi eia-
scuno sei ali, con due si velano il volto, con due i piedi e
con due volano; si gridano gli uni agli altri con voce in­

297
stancabile, in dossologie senza fine, cantando, proclamando
gridando l’inno di vittoria e dicendo: Santo, santo, san-
to, il Signore Sabaoth. Il cielo e la terra sono pieni della
tua gloria. Osanna nel più alto dei cieli. Benedetto [sia]
colui che viene in Nome del Signore. Osanna nel più al‫־‬
to dei cieli.
Insieme a queste potenze beate, Signore benigno e eie-
mente, anche noi peccatori gridiamo e diciamo: Santo
(άγιος), santo tu sei veramente, e non c’è limite alla gran-
dezza della tua santità: [tu sei] santo (δσιος) in tutte le tue
opere, perché hai disposto ogni cosa per noi (έπήγαγες
ήμΐν) con sapienza e giustizia.
Infatti, avendo fatto l’uomo con la polvere della terra, e
avendolo, o Dio, onorato della tua immagine, tu l’avevi
messo nel paradiso di delizie, promettendogli l’immorta-
lità della vita e la gioia dei beni eterni nell’osservanza dei
tuoi precetti. Ma quando egli ebbe disubbidito a te, Dio
vero che Vavevi creato, e fu sedotto dall’astuzia del ser-
pente e per il suo peccato fu assoggettato alla morte, nella
tua giustizia, o Dio, tu l’hai cacciato dal paradiso in que‫־‬
sto mondo e l’hai fatto ritornare alla terra, da dove era
stato tratto, disponendo (οίκονομών) per lui la salvezza
[che sarebbe venuta] mediante la rigenerazione (παλιγγε-
νεσίας) nel tuo Cristo. Perché tu non hai rigettato per sem-
pre la tua creatura che avevi fatto nella tua bontà: e non
hai dimenticato l'opera delle tue mani, ma l’hai visitata
in molti modi e di lei hai avuto cura per la grandezza del-
la tua misericordia. Le hai inviato [i] profeti, hai com-
piuto miracoli per mezzo dei santi che ti furono graditi
in ogni generazione, ci hai parlato per bocca dei tuoi ser-
vi, i profeti, annunciandoci in precedenza la futura sai-
vezza, hai dato la legge per soccorrerci, e ci hai posto
accanto gli Angeli per custodirci. E quando venne la pie-
nezza dei tempi, tu ci hai parlato per mezzo del tuo stes-
so Figlio, per mezzo del quale avevi creato i secoli: egli
è lo splendore della tua gloria e l’immagine della tua so-
stanza; sostiene tutte le cose con la parola della sua po-
tenza. Egli non ha considerato come una rapina l’egua-
glianza con te, Dio e Padre, ma, essendo Dio prima dei
secoli, è stato visto sulla terra, è vissuto (συνανεστράφη)
tra gli uomini, e, avendo preso carne da Maria Vergine,
ha annientato (έπένωσεν) se stesso prendendo la forma di
servo, ha assunto il nostro corpo di miseria per renderci
conformi all’immagine della sua gloria.

298
Perché, dal momento che a causa di un uomo il peccato
era entrato nel mondo e per il peccato la morte, è pia-
ciuto al tuo unico Figlio, a lui che è nel tuo seno, o Dio
e Padre, ma che è nato da una donna, la santa Madre di
Dio e sempre Vergine Maria, nato sotto la legge, di con-
dannare il peccato nella sua carne, affinché noi, che era-
vamo morti in Adamo, avessimo la vita in lui stesso, il
tuo Cristo. Essendo vissuto come un cittadino di questo
mondo (έμπολιτευσάμενος τφ κόο‫־‬μω τούτω), ci ha dato dei
precetti di salvezza, ci ha distolti dalPerrore degli idoli,
ci ha introdotti nella conoscenza di te, vero Dio e Padre.
Così ci ha acquistati per sé come un popolo scelto, un sa-
cerdozio regale, una nazione santa; dopo averci purificati
nelPacqua e santificati con lo Spirito Santo, egli ha dato
se stesso in riscatto alla morte nella quale eravamo trat-
tenuti, venduti per il peccato. È disceso agli inferi (εις τον
άδην) per mezzo della croce, per riempire tutte le cose di
se stesso [per portare a compimento tutte le cose per
mezzo di se stesso]; ha sciolto i legami della morte,
è risuscitato al terzo giorno: e avendo aperto alla carne
la via della risurrezione dai morti (non era possibile che
fosse dominato dalla corruzione il dispensatore della vi-
ta), è diventato primizia di coloro che si sono addormen-
tati, primogenito tra i morti, affinché in tutte le cose egli
abbia il primato. È salito al cielo, si è assiso alla destra
della tua maestà, nel più alto dei cieli donde ritornerà
per rendere a ciascuno secondo le sue opere.
Egli ci ha pure lasciato della sua passione salutare come
un memoriale (υπομνήματα), quello che ti abbiamo pre-
sentato secondo il suo comando. Nel momento in cui egli
se ne andava alla morte volontaria, irreprensibile (αοίδιμον)
e vivificante, nella notte in cui si consegnò per la vita del
mondo, prese del pane nelle sue mani sante e senza mac-
chia, avendolo presentato (άναδείξας) a te, Dio e Padre,
lo benedisse, lo santificò, lo spezzò e lo diede ai suoi san-
ti discepoli e apostoli dicendo: Prendete, mangiate, questo
è il mio corpo spezzato per voi in remissione dei peccati.
Nello stesso modo, prese pure il calice del frutto della vi-
te, avendolo mescolato, rese grazie, lo benedisse, lo santi-
fico e lo diede ai suoi santi discepoli e apostoli dicendo:
Bevetene tutti, questo è il mio sangue della nuova allean-
za, sparso per voi e per la moltitudine, in remissione dei
peccati. Fate questo in memoriale di me. Ogni qualvolta

299
mangiate questo pane e bevete di questo calice, voi annun-
ciate la mia morte e proclamate la mia risurrezione.
Facendo dunque memoria, Signore, anche noi delle sue
sofferenze salutari, della sua croce vivificante, della sua
sepoltura per tre giorni, della sua risurrezione dai morti
del suo ritorno al cielo, della sua sessione alla tua destra
0 Dio e Padre, e della sua seconda venuta gloriosa e te-
mibile, ti offriamo, di quanto ti appartiene, queste cose
che sono tue, in tutto e per tutto. Per questo, Signore tre
volte santo, anche noi peccatori e indegni tuoi servi che
tu hai reso degni di servire (λειτουργεΐν) al tuo santo alta-
re, non per i nostri meriti, perché non abbiamo fatto nul-
la di buono sulla terra, ma per la tua bontà e la tua mise-
ricordia, che hai sparso su di noi in abbondanza, fiducio-
si ci avviciniamo al tuo santo altare e, presentando i sim-
boli (προσθέντες τα αντίτυπα) del santo corpo e del sangue
del tuo Cristo, ti supplichiamo e ti preghiamo, o Santo dei
Santi, per la tua bontà e benevolenza, di far venire il tuo
Santo Spirito su di noi e su questi doni che ti presentiamo:
li benedica, li santifichi e ci presenti (άναδεΐξαι) [in] que-
sto pane lo stesso prezioso corpo del nostro Signore, Dio
e Salvatore Gesù Cristo, e [in] questo calice lo stesso pre‫־‬
zioso sangue del nostro Signore, Dio e Salvatore Gesù
Cristo, versato per la vita del mondo, c a m b i a n d o l i p e r o p e -
ra del tu o S a n to S p ir ito .
Possiamo noi tutti, che partecipiamo all'unico pane e al [fu-
nico] calice, essere uniti gli uni agli altri nella comunione
delfunico Spirito, e fa' che nessuno di noi partecipi al san-
to corpo e sangue del tuo Cristo per suo giudizio e con-
danna; ma fa' che trioviamo misericordia e grazia con tut-
ti i santi che ti sono graditi nei secoli, c o n g l i a n t e n a t i , i
p a tr ia r c h i, i p r o fe ti, g li a p o s to li, g li a ra ld i, g li e v a n g e lis ti,
1 m a r tir i. i c o n fe s s o r i, i d o tto r i e con o g n i sp ir ito g iu s to e
p e r fe tto n e lla f e d e ... » (9).

(9) Per il testo, vedi F. E. Brightman, op. cit., pp. 321ss. - PE 230-
239; EEFL nn. 531-538; LdC 422-423.434.436.442.445-446.453.458-459.
Cf H. Engberding, op. cit., per la separazione delle differenti fon-
ti, come il testo greco alessandrino riportato da E. R enaudot, Liturgia-
rum orientalium collectio, t. I, Paris 1712, pp. 64ss. Sul testo alessandri-
no di san Basilio, cf la bibliografìa di J. M. Sauget, op. cit., pp. 8283‫־‬.
I riferimenti biblici sono fondamentalmente (per i salmi riportiamo
la numerazione dei LXX): Sai 50,19; Rm 12,1; cf Rm 2,20; Sai 25,7; Dn
3,55; 1 Tm 1,11; Eb 1,3; Gv 14,8; 1 Gv 1,1; Gv 1,9; Rm 8,15; Ef 1,14;
Sai 118,91; Sai 144,17; cf Sai 88,15; Gn 2; Gn 3; Rm 8,10; Gn 3,23; Gn

300
Se si osservano le varianti tipografiche che abbiamo prati-
cato, si vede subito che le aggiunte posteriori airultimo testo di
san Basilio sono di scarsa importanza. Si tratta solo di alcune
amplificazioni retoriche, di brevi formule esplicative, o di un
prolungamento delle citazioni bibliche. Non abbiamo dato qui,
come già nel caso dell'anafora di san Giovanni Crisostomo,' le
sovrapposizioni tardive portate airepiclesi. C'è però da notare
che !,inciso « cambiandoli per opera del tuo Santo Spirito »,
che abbiamo riportato, appare già come un'interpolazione (pro-
babilmente mutuata dal testo precedente) che, nel nostro testo,
urta con la grammatica.
Se, viceversa, ci riportiamo alla forma più antica del testo,
essa colpisce per la sua sobrietà (notevole specialmente nella
parte che precede il Sanctus), ma anche per la ricchezza biblica
che c'è già nel suo schema. Tutto il dramma del peccato e della
redenzione è riassunto neiralienazione dell'uomo prodotta dal
peccato, che la morte viene a confermare, e, grazie allo « scam-
bio » al quale Cristo acconsente, nella ricostituzione dell'urna-
nità in un popolo che sia il suo e che ritrovi la vita con questa
riunificazione. Il battesimo si trova così richiamato in collega-
mento con l'opera redentrice, e lo Spirito è presentato come
colui che, nel mistero sacramentale, ci comunica l'effetto di
quanto si è compiuto nel Cristo stesso. L'epiclesi, nella sua for-
ma elementare, introdurrà dunque di nuovo lo Spirito come
colui che, « presentandoci » il corpo e il sangue stesso di Cristo
sotto gli « antitipi » del pane e del vino, ci unirà fra di noi in
un solo Spirito (il testo egiziano precisava: « in un solo corpo e
in un solo Spirito »).
Questa continuità così notevole dello sviluppo, già tutta bi-
blica, e particolarmente paolina, non sarà per nulla attenuata
dalle amplificazioni che san Basilio vi apporterà. L'antologia di
citazioni bibliche che vi innesterà darà il più ampio rilievo a
ciascuna delle persone divine. Ne risulterà un'eucaristia non
meno espressamente trinitaria di quella di san Giacomo, ma che
sfuggirà al semplicismo esageratamente logico di essa: Padre-
creazione, Figlio-redenzione, Spirito-santificazione. Al contrario,

3,19; E b 1,1; G a l 4,4; E b 1,13‫ ;־‬F il 2,6; B a r 3,38; F il 2,7 e 3,21; R m


8,29; R m 5,12; G v 1,18; R m 8,3; G v 17,3; 1 P t 2,9; R m 7,14; A t 2,24;
A t 3,15; 1 C o r 15,20; C o l 1,18; E b 1,3; ecc.

301
la principale amplificazione di Basilio sarà presente fin dalla
prima parte, cioè il rendimento di grazie per la creazione, sì da
far vedere in che modo, al principio di tutte le cose, il Padre
e il Figlio con lo Spirito Santo sono inseparabilmente uniti, pur
nella loro stessa distinzione. Unendo la lettera agli Ebrei, fi
prologo di san Giovanni e i grandi testi cristologici di san Paolo
vi si loda il Figlio come la viva immagine del Padre, il Logos
nel quale egli si esprime interamente, la Sapienza vivificante
che ci santificherà e ci illuminerà. Secondo Finsegnamento dei
due grandi testi complementari sullo Spirito delle lettere ai
Romani e ai Galati, attraverso a lui viene a noi lo Spirito Santo
che realizza in noi tale santificazione, il cui frutto è per noi
Fentrare a far parte della filiazione del Figlio. Di qui la glo-
rificazione del Padre - nella quale fin d'ora possiamo entrare -
come inaugurazione anticipata, nello Spirito della vita eterna
di cui Cristo costituisce la promessa.
Dopo il ‫״‬Sanctus, Fazione di grazie per la redenzione si ar-
ricchirà di una visione dell'« economia » salvifica dominata dal
testo dei Filippesi sull'annientamento del Figlio (cf Fil 2,5ss),
compensatore della brama sregolata di Adamo, e da quello dei
Galati, sullo stesso Figlio che si assoggetta, per liberarcene, alle
limitazioni e alle costrizioni dell'umanità peccatrice (cf Gal 4,4).
Si passa dall'uno all'altro con l'evocazione, ripresa dalla lettera
ai Romani, di Cristo che accetta la morte per liberarci dal pec-
cato, proprio come Adamo, acconsentendo al peccato, ci aveva
chiusi nella morte (cf Rm 5,12ss).
Le amplificazioni apportate prima all'evocazione dell'Antico
Testamento mirano tutte a prepararci alla visione di fede di
questa opposizione tra peccato-morte e vita-redenzione nel-
Ι'άγάπη, in cui Gesù appare come il secondo Adamo che ri-
para la colpa e l'errore del primo. Si noterà anche, nella stessa
prospettiva, come san Basilio, al tema della vita creata e re-
staurata, che prima era l'unico espresso in dettaglio, ha con-
giunto, in ciascuna delle due parti del rendimento di grazie,
quello della « conoscenza », e della Luce di verità che questa
ci porta nel Cristo. È una conferma notevole del fatto che Ba-
silio non ha arricchito il testo sul quale lavorava semplicemente
per svilupparlo, ma con la preoccupazione di riportarlo alla
pienezza dell'eucaristia primitiva. Vedremo più avanti altre te-

302
stirnonianze dell’esistenza incontestabile di questa sua preoccu-
pazione.
Se passiamo all’anamnesi, notiamo, sia nella forma svilup-
pata sia nella forma più antica del nostro testo, che essa vi con-
serva tutta la sua consistenza originaria, come nella liturgia
pseudo-clementina. Contrariamente alla liturgia di san Giacomo,
in cui il racconto dell’istituzione è stato distaccato per essere
introdotto al suo posto cronologico nel rendimento di grazie
per la redenzione, qui, come nel libro V ili delle Costituzioni
apostoliche (e come nell’anafora di Serapione), il racconto ri-
mane non solo legato all’anamnesi, ma incluso in essa. Notiamo
ancora la sobrietà delle espressioni sacrificali. Gli sviluppi ulte-
riori di san Basilio non fanno che sottolineare il fatto che si
« propone » a Dio semplicemente ciò che lui stesso ci « pre-
senta », mediante il Cristo. Noi non ri-presentiamo a Dio nulla
di ciò che potremmo offrire da noi stessi, ma soltanto ciò che
Cristo stesso gli ha « presentato » per primo e che ci ordina di
ri‫־‬porre dinanzi a lui: il « memoriale » della sua passione
salvifica.
Questo ci porta a precisare il senso di quel verbo άναδεΐξαι
che il nostro testo usa innanzi tutto nel ricordare l’azione di
Cristo nella Cena, e che ritornerà poi nell’epiclesi - tanto stret-
tamente legata all’anamnesi da non esserne che il compimento
- per esprimere quello che attendiamo dalla venuta dello Spi-
rito. La stessa parola usata nei due casi mostra bene il signi-
ficato consacratorio che le viene attribuito. Come Cristo ha ri-
presentato e significato efficacemente al Padre il suo sacrificio
che si sarebbe compiuto sulla Croce, celebrando una prima volta
l’eucaristia del pane e del vino trasformati nel suo corpo e nel
suo sangue, così noi attendiamo dallo Spirito che ce li ripre-
senti come lo stesso corpo e lo stesso sangue, con i quali ve-
niamo associati al nuovo Adamo e alla sua opera redentrice.
Così gli αντίτυπα della sua morte redentrice, che noi stessi
proponiamo ora al Padre, non saranno simboli vuoti del loro
contenuto, ma espressione della presenza, misteriosa ma reale
ed efficace, di quanto esprimono. Però la consacrazione del pane
e del vino, in questa prospettiva, non è isolata dalla consacra-
zione di noi stessi, mediante la quale lo Spirito farà di noi tutti
un solo corpo nel Cristo. Reciprocamente, però, questo com-
pimento ultimo dell’eucaristia in noi stessi poggia sulla convin­

303
zione che il potere dello Spirito di Cristo assicura il suo conte-
nuto permanente, per la Chiesa che ha fede nella parola del
Salvatore, al memoriale che egli ha stabilito una volta per seni-
pre. È superfluo sottolineare, dopo di ciò, quanto intimo sia
il nesso, in questa epiclesi, tra l'accettazione del memoriale sa-
crificale, la consacrazione degli elementi e l'effetto della nostra
partecipazione: fare di noi tutti il corpo del Cristo nella sua
pienezza.
Non esistono altri esempi, in un testo liturgico elaborato, di
una fusione così perfetta tra gli sviluppi teologici della fine del
IV secolo e una visione dell'eucaristia pienamente fedele alla
sostanza e all'unità originale del suo contenuto. Così, questa
composizione, lungi dall'essere un semplice mosaico di testi
biblici accostati artificiosamente, diventa un'esplicitazione, at-
traverso questi avvicinamenti che regge e organizza, del fondo
più primitivo dell'eucaristia. La riflessione non si distacca dal
movimento primo della Parola divina, anzi, vi rimane così prò-
fondamente, così completamente radicata da adottarne con na-
turalezza le espressioni più varie. Essa le raccoglie, dunque, in
un ordine che non è fittizio, ma che mette semplicemente in
chiaro le loro connessioni di fondo.
L'abbondantissima intercessione che, a sua volta, si lega
strettamente alle ultime parole dell'epiclesi è altrettanto degna
della nostra attenzione. L'epiclesi terminava con il richiamo di
tutti i santi, nella cui comunione l'eucaristia ci fa entrare. Il
sacerdote prosegue allora:
«... principalmente con la santissima, immacolata, benedet-
ta per eccellenza, nostra gloriosa Signora, la Madre di Dio
e sempre Vergine Maria.
[Ricordati] di san Giovanni il profeta, precursore e bat-
tista, dei santi apostoli degni di ogni lode (πανευφήμων),
del santo... di cui celebriamo la memoria, e di tutti i santi
per le preghiere dei quali voglia tu proteggerci (έπισκέψαι),
o Dio.
Ricordati ancora di tutti coloro che si sono addormentati
prima [di noi] nella speranza della risurrezione della vita
eterna;
[Memento dei vivi] per la salvezza, la protezione, la re-
missione dei peccati del servo di Dio...;
[Memento dei morti] per il riposo e il perdono delfanima
del tuo servo...: in un luogo di luce, da dove il dolore e

304
i gemiti sono fuggiti, donagli il riposo, o nostro Dio. Do-
na loro il riposo là dove regna la luce del tuo volto.
Ancora ti preghiamo: ricordati, Signore, della tua santa
Chiesa cattolica e apostolica che si estende dall'una al-
l'altra estremità della terra abitata: dona la pace a lei
che ti sei guadagnata col prezioso sangue del tuo Cristo,
e rendi stabile questa santa casa fino alla consumazione
dei secoli.
Ricordati, Signore, di coloro che ti hanno portato questi
doni, e di quelli per i quali e nell'intenzione dei quali essi
li hanno portati.
Ricordati, Signore, di coloro che portano frutto e che
compiono opere buone nelle tue sante Chiese col ricor‫־‬
darsi dei poveri: dona loro in cambio le tue ricchezze e
i tuoi doni celesti: dona in cambio delle cose della terra
le celesti, invece delle temporali le eterne, al posto delle
corruttibili le incorruttibili.
Ricordati, Signore, di coloro che sono nei deserti, sulle
montagne, nei sepolcri e nelle cavità della terra.
Ricordati, Signore, di coloro che vivono nella verginità, nel-
la pietà, nel-Pascesi e che passano la loro vita nella santità.
Ricordati, Signore, dei nostri re, religiosissimi e fedelissi-
mi, che hai giudicato degni di regnare sulla terra; dà loro
la corona di verità e di benevolenza; stendi la tua ombra
sul loro capo nel giorno del combattimento; fortifica il
loro braccio; esalta la loro destra; fortifica il loro regno;
sottometti loro le nazioni barbare che vogliono le guerre;
accorda loro una pace profonda e immutabile; suggerisci
al loro cuore cose buone per la tua Chiesa e per tutto il
tuo popolo, affinché nella serenità che essi ci procureranno
noi possiamo condurre una vita pacifica e tranquilla, nella
pietà e nella santità.
Ricordati, Signore, di ogni magistrato e autorità, dei nostri
fratelli che sono nel palazzo e di tutto l'esercito; conserva
i buoni nella loro bontà, rendi i cattivi buoni nella tua
bontà.
Ricordati, Signore, del popolo che ci circonda, e di coloro
che sono assenti per un motivo giusto: abbi pietà di essi
e di noi, nella tua grande bontà. Riempi i loro granai di
ogni bene, conserva le loro unioni nella pace e nella con-
cordia, alleva i loro figli, istruisci i loro giovani, fortifica
i loro vegliardi, rendi il coraggio a coloro che vengono me-
no, raduna i dispersi, riconduci gli smarriti, e uniscili alla
tua santa Chiesa cattolica e apostolica. Libera coloro che

305
sono afflitti dagli spiriti impuri; naviga con coloro che
navigano; cammina con coloro che viaggiano; prendi cura
delle vedove; proteggi gli orfani; libera i prigionieri; gUa_
risei gli ammalati.
Ricordati, o Dio, di tutti coloro che sono in giudizio, in
esilio, in ogni tribolazione o necessità, o nel turbamento, e
di tutti coloro che hanno bisogno della tua grande compas-
sione, e di coloro che ci amano o ci odiano e di coloro
che ci hanno chiesto, nella nostra indegnità, di pregare
per essi.
Ricordati, o Signore nostro Dio, di tutto il tuo popolo ed
effondi su tutti la ricchezza della tua pietà, accordando a
tutti quello che essi [ti] chiedono per la loro salvezza.
E di coloro di cui non abbiamo fatto memoria, per igno-
ranza, per dimenticanza, o per il loro troppo grande nu-
mero, ricordati tu, o Dio, che conosci la vita e il nome
di ciascuno, che conosci ciascuno fin dal seno di sua
madre. Perché tu sei, o Signore, il soccorso di coloro che
sono senza soccorso, la speranza dei disperati, il salvatore
dei provati, il porto dei naviganti, il medico degli anima-
lati: sii tutto per tutti, tu che conosci ciascuno, che co-
nosci la sua necessità, la sua casa e le sue esigenze. Libera,
o Signore, questa città e ogni città e borgata dalla ca-
restia, dalla fame, dai terremoti, dai naufragi, dal fuoco,
dalla spada, dall'invasione straniera, dalla guerra civile.
In primo luogo ricordati, o Signore, del nostro arcivesco-
vo...: [che egli rimanga] nella pace, sicurezza, onore, salute,
longevità, che distribuisca fedelmente la parola della tua ve-
rità alle tue sante Chiese...
Ricordati, o Signore, di tutto l'episcopato degli ortodossi,
che distribuisca fedelmente la parola della tua verità.
Ricordati, o Signore, nella tua grande misericordia, anche
della mia indegnità: perdonami ogni trasgressione volon-
taria o involontaria, e non ritirare dai doni presentati, a
causa del mio peccato, la grazia del tuo Santo Spirito.
Ricordati, o Signore, del presbiterato, del diaconato in Cri-
sto, e di ogni ordine sacro, e non confondere alcuno di
noi che stiamo attorno al tuo santo altare.
Guardaci nella tua bontà, o Signore; manifestati a noi nel-
la ricchezza delle tue misericordie; accordaci stagioni fa-
vorevoli e fruttuose; dona piogge alla terra perché frut-
tifichi; benedici la fine dell'anno della tua bontà; fa' ces-
sare gli scismi delle Chiese; metti fine agli attacchi dei
pagani; disperdi prontamente le sollevazioni delle eresie

306
con la potenza del tuo Santo Spirito; accogli noi tutti nel
tuo Regno, consacrandoci come figli della luce e figli del
giorno; accordaci la tua pace e il tuo amore, o Signore, no-
stro Dio, perché tu ci hai fatto dono di tutto.
E concedi a noi di glorificare e di cantare con inni, con
una sola voce e con un solo cuore, il tuo Nome di in-
comparabile maestà (πάντιμον καί μεγαλοπρεπές), del Pa-
dre, del Figlio e dello Spirito Santo, ora e sempre e in
tutti i secoli dei secoli » (10).
Meno patetica, più sobria di quella della liturgia di san Già-
corno, questa intercessione è certamente una delle più belle e
delle più armoniose formule di questo genere che !,antichità cri-
stiana ci abbia tramandato. Ancora una volta si deve notare la
sua singolarissima vicinanza con le espressioni più antiche della
preghiera cristiana, di quelle che dipendono ancora strettamente
dalla preghiera giudaica. Non lo attesta semplicemente il raccor-
do diretto di ogni domanda al memoriale mediante la formula
« Ricordati » : lo sviluppo della preghiera raduna, più esatta-
mente di qualsiasi altro formulario cristiano citato preceden-
temente, tutto il contenuto delle Diciotto benedizioni. Non solo,
ma ne segue la progressione più da vicino di qualsiasi altro testo.
Particolarmente degno di nota è il fatto che la commemora-
zione dei santi, e prima di tutto di quelli delFAntico Testa-
mento, della Vergine Maria, del Battista e degli apostoli che
appaiono come il termine della loro discendenza, costituisce la
base di tutta la preghiera, come nella Tefillà giudaica. Notiamo
a questo riguardo che il ricordo dei fedeli defunti continua d'un
solo getto quello dei santi (segno di arcaismo che va notato). Il
ritorno finale della preghiera su coloro che celebrano Feuca-
ristia, con la ricapitolazione consecutiva delle intenzioni di que-
sta celebrazione, è altrettanto interessante. Mentre nella ridi-
stribuzione sistematica degli elementi delFeucaristia, nella li-
turgia siro-occidentale, tutto quello che proveniva dalle « bene-
dizioni » giudaiche *Abòdà e Tefillà tendeva generalmente a fon-

(10) Per quest’ultima parte della preghiera, seguiamo il testo di


Brightman (secondo il C o d e x B a r b e r in i) . - La versione latina è stata
adattata dal Goar sul medesimo testo: J. Goar, E u c h o lo g io n s i v e R itu a -
le G r a e c o r u m ,
Venetiis 21730 (ripr. anastatica, Graz 1960), pp. 144-147.
Testo greco e latino con varianti anche in PE 238243‫ ;־‬EEFL nn. 539-
540; parte del testo italiano in H amman 315-316 e in LdC 468470‫־‬.

307
dersi nelPepiclesi sintetica, qui se ne ritrova il contenuto origi-
nario al suo posto primitivo.
Queste ultime particolarità dell'eucaristia di san Basilio
confermano l'impressione che, rimaneggiando l’eucaristia siro-
occidentale, abbia avuto l'intenzione consapevole di restaurarvi
molti elementi primitivi che tendevano già a scomparire nella
liturgia pseudo-clementina e che il compimento della nuova sin-
tesi cancellava completamente nella liturgia di san Giacomo.
Pare innegabile che componendo il suo formulario avesse sotto
gli occhi, proprio come l'autore delle Costituzioni apostoliche,
certi modelli liturgici particolarmente arcaici. Sembra però che
si sia preoccupato ancora più di quest'ultimo di rispettarne il
disegno primitivo. Ci si può chiedere perfino se non abbia fatto
ricorso direttamente ai formulari giudaici. In un simile disce-
polo dell'esegesi origeniana, il ricorso agli judaica, insieme ai
testi biblici, per quanto eccezionale possa sembrare per la sua
epoca, non sarebbe impossibile. Il Ligier pare aver dimostrato
simili mutuazioni nelle preghiere proprie dell'anafora basiliana
per la preparazione alla comunione (11). È certo, comunque, che
nessuna riformulazione così tardiva dell'eucaristia cristiana sem-
bra informata tanto esattamente sulle sue origini, né così attenta
a conservarne lo spirito e perfino la lettera.

Sopravvivenza di un tipo siro-orientale


nella forma lunga di Addai e Mari
Queste osservazioni sui voluti arcaismi dell'eucaristia di san
Basilio - in particolare riguardo alle sue commemorazioni e
intercessioni - ci esortano a ritornare sulla tradizione liturgica
siro-orientale, di cui abbiamo già parlato a proposito dell'euca‫־‬
ristia di Addai e Mari. Essa ci è conservata oggi dai nestoriani,
come pure dai caldei uniti a Roma e dalla Chiesa indiana (an-,
ch'essa cattolica) detta siro-malabarica. Queste tre Chiese uti-
lizzano l'eucaristia detta degli Apostoli o di Addai e Mari, ma,
come abbiamo visto, in una forma ulteriormente sviluppata che,
comunque, ha conservato intatti gli elementi più antichi. I ne-
storiani utilizzano inoltre due altri testi, attribuiti rispettivamen-

(11) Cf L. Ligier, A n a p h o re s o rie n ta le s et p r iè r e s ju iv e s, in POC


13 (1963) 3ss e 99ss.

308
te a Nestorio e a Teodoro di Mopsuestia. Questi due ultimi, so-
prattutto il primo, tradiscono innegabilmente Pinfluenza dei for-
mulari evoluti della Siria occidentale. Ma presentano alcune par-
ticolarità che denotano la persistenza e la riapparizione, dopo
la separazione dalla Siria orientale, di una tradizione semitica
anteriore che nessuna ellenizzazione è arrivata a cancellare. Un
particolare significativo di questo fatto è il posto che l'epiclesi
vi conserverà sempre, cioè non prima ma dopo le intercessioni
finali. I siro-orientali hanno adottato l'epiclesi sintetica di An-
tiochia e di Gerusalemme, la sua combinazione della preghiera
per l'accettazione del sacrificio e, di conseguenza, per la consa-
orazione degli elementi, con la preghiera perché la celebrazione
del memoriale eucaristico abbia in noi tutto il suo effetto. Ma
sembra che non abbiano potuto rassegnarsi al capovolgimento
dell'antica preghiera venuta fuori dalla Tefillà, rappresentato
dalla trasposizione della domanda di accettazione dei sacrifici
e delle preghiere del popolo di Dio dalla fine all'inizio delle sup-
pliche. Persino nella liturgia di Nestorio sopravvivranno altre
particolarità ugualmente semitiche.
La prima riguarda il dialogo introduttivo. In questa tradì-
zione si ha sempre, alPinizio, la formula mutuata dalla 2a lettera
ai Corinzi, ma Lordine biblico delle persone divine e le loro ori-
ginarie attribuzioni (la grazia al Cristo, 1'άγάπη al Padre) non
vi sono modificate. Così pure, sono sempre i « cuori » che sono
invitati ad elevarsi verso Dio. Ma la terza clausola del dialogo,
nella Siria orientale, si presenta sotto una forma che non ha
!,equivalente in nessun'altra tradizione. Al « Rendiamo gra-
zie... » iniziale è sempre sostituita !,espressione « L'oblazione
(<qorban) è offerta... ». Questa formula si trova usata anche con
!,eucaristia di Addai e Mari che, tanto nella sua forma svilup-
paia, quanto nella sua forma originale, non comporta, a parte
questo, espressioni tecnicamente sacrificali. Abbiamo qui, sem-
bra, un'antichissima attestazione del senso sacrificale dato al-
L« eucaristia » fin dall'epoca in cui essa si esprimeva ancora sem-
plicemente nella terminologia delle preghiere sinagogali.
Un'altra somiglianza di questo genere, che non è meno
interessante, sta nell'uso frequente, da parte di queste liturgie,
della parola rozo (equivalente, in siriaco, a « mistero »). Abbia-
mo già osservato la stessa cosa nel testo di Addàj e Mari. Più
singolare è il fatto che sia usato nel testo di Teodoro. L'anamne­

309
si invece di riprendere, nella conclusione del racconto eucari*
stico, la parola « memoriale », nell'uno e nell'altro testo y!
sostituisce l’espressione « noi celebriamo il mistero... col quale
la salvezza è venuta a tutta la nostra stirpe », precisa Teodoro
Ma Teodoro, un po' oltre, nella parte dell'anamnesi che di-
venta, in lui, esplicitamente sacrificale, la ripete ancora una
volta in una frase molto rivelatrice:
« Noi offriamo in presenza della tua Trinità gloriosa, con
cuore contrito e in spirito di umiltà, questo sacrifìcio vivo
santo e gradito: è il mistero dell'Agnello di Dio che toglie
i peccati del mondo; pregando e supplicando che piaccia
[a te], o Signore, divinità adorabile, e che sia accettata dalla
tua misericordia questa oblazione pura e santa con la quale
sei stato placato e riconciliato per i peccati del mondo » (12).
La finale di questo testo prende tutto il suo rilievo quando
lo si avvicina a quello che il rendimento di grazie per la re-
denzione diceva, un po’ sopra, della croce:
« ... l'unigenito Dio, il Verbo, benché fosse l'immagine di
Dio, non ha considerato come una rapina l'eguaglianza
con Dio, ma ha annientato se stesso e ha preso le sem-
bianze di schiavo, è disceso dal cielo, ha rivestito la nostra
umanità, un corpo mortale e un'anima razionale, intelli-
gente e immortale dalla Vergine Santa, per opera dello Spi-
rito Santo; e così ha portato a termine tutta questa grande
e ammirevole economia che era stata preparata dalla tua
prescienza fin da prima della creazione del mondo. Tu stesso
l'hai poi terminata in questi ultimi tempi per mezzo del tuo
unico Figlio, nostro Signore Gesù Cristo, nel quale abita
corporalmente tutta la pienezza della divinità; egli è anche
il Capo della Chiesa e il primogenito tra i morti, ed è
il compimento di tutte le cose, le quali trovano la loro
premessa in lui. Egli stesso, per opera dello Spirito eterno,
si è offerto senza macchia a Dio e ci ha santificati con
l'offerta del suo corpo compiuta una sola volta, e ha pa-
cifìcato col sangue della sua croce ogni cosa che è nel
cielo e sulla terra, lui che è stato consegnato per i nostri
peccati ed è risuscitato per la nostra giustificazione... » (13).

(12) E. Renaudot, o p . c it . , t. II, p. 619. Cf anche PE 384.


(13) I b i d . , p. 618. - Cf PE 383.

310
Segue poi il racconto deiristituzione che abbiamo già ci-
tato, quando abbiamo parlato della sua presenza originale nel-
!,eucaristia di Addai e Mari.
Il confronto di questi testi sul rendimento di grazie con
!,anamnesi di Teodoro mostra con perfetta chiarezza che il
« mistero », in questa tradizione, è la presenza sacramentale del-
!,offerta compiuta una volta sulla croce, secondo !,espressione
della lettera agli Ebrei. Tuttavia questa presenza, nel mistero
delhofferta unica, è così reale che il mistero liturgico celebrato
può benissimo essere chiamato il nostro sacrifìcio vivo e san-
to, sacrificio che, a sua volta, è in ultima analisi ri-identificato
con Tofferta della croce. È quanto mai evidente, per Teodoro e
per il suo ambiente, che il mistero sacramentale deireucaristia
è !,equivalente esatto del memoriale giudaico, concepito come
contenente ciò che evoca e applicato alla croce del Salvatore.
Qui non citeremo più a lungo !,eucaristia di Teodoro, se
non per precisare che !,epiclesi chiede formalmente, come quella
di san Giacomo e di san Giovanni Crisostomo, che lo Spirito
« faccia » del pane e del vino (« in virtù del tuo nome » precisa)
il corpo e il sangue di Cristo. A parte questo, come si è già po-
tuto notare con ciò che abbiamo detto, è molto vicina a quella
di san Basilio per il suo ricorso abbondante alle formule bi-
bliche. Il ruolo centrale che dà anche al testo di Fil 2 porterebbe
a pensare che ne sia direttamente ispirata. Però il cumulo delle
citazioni non molto ben fuse e una certa ridondanza di linguag-
gio, nonostante certe formule particolarmente felici, la mette,
diremmo noi, a un livello inferiore, in una classe di composi-
zioni che ha dovuto comprenderne molte altre. Quella di Ne-
storio ne è un altro esempio, un po' più tardivo, che studieremo
in un altro capitolo e che ci farà quasi toccare con mano Pipertro-
fia e la decomposizione che avrebbero ben presto minacciato le
eucaristie dalla teologia troppo didattica, insieme a un biblici-
smo il cui sovraccarico tradisce !,artificiosità.
In compenso, !,eucaristia di Addai e Mari, che abbiamo già
citato integralmente nella sua recensione lunga, ma solo per
ricavarne gli elementi più arcaici, è quella che studieremo ora,
così come si presenta a noi ancora oggi.
Riferendoci dunque a questo testo (14), si può costatare che

(14) Cf sopra, pp. 155ss.

311
esso non rientra nello schema evoluto che la stessa Siria orien-
tale avrebbe accettato dalla Siria occidentale, a costo di mante-
nere !,epiclesi, anche sviluppata sinteticamente, come la con-
clusione della Tefillà cristiana. Proprio come la sua anamnesi
le intercessioni e commemorazioni presentano molte analogie con
quelle che si trovano nel testo attribuito a Teodoro. Però, a
prima vista, Pordine in cui quesfultima serie di preghiere si
sviluppa in Teodoro, vicino a quello che si trova nelle eucari-
stie del libro V ili delle Costituzioni apostoliche o di san Già-
corno, sembra essere stato capovolto nella liturgia di Addai e
Mari per qualche motivo incomprensibile. Tuttavia Dom Botte
- pur ammettendo che qui come nelle altre parti del testo svi-
luppato siano stati possibili certi rimaneggiamenti maldestri -
fa osservare come sia impensabile che Pordine apparentemente
più logico di Teodoro sia stato sistematicamente distrutto per
giungere a questo. Il solo confronto del testo lungo di Addai e
Mari con il nucleo più antico che contiene, ci ha già mostrato
Peccessivo conservatorismo che ha, di fatto, dominato il suo
sviluppo. Abbiamo visto come Pepiclesi, quando si è introdotta,
nonostante lo iato che ha prodotto nelPanamnesi, non ha com-
portato nessuna modifica del testo antico di questa, mentre ciò
avrebbe potuto permettere di ristabilire la continuità. È molto
probabile che Paggiunta delle intercessioni, proprio come quel-
la del Sanctus, sia avvenuta in condizioni analoghe. Se infatti
riprendiamo il seguito del testo sviluppato, come si presenta a
noi nella liturgia ancora in uso, ecco in che modo lo si può rias-
sumere. La prima parte, di rendimento di grazie per la creazio-
ne, ha sostituito la formula che si trovava nella liturgia del ban-
chetto eucaristico a quella che doveva, in origine, essere legata
al Sanctus nella liturgia delPufficio di letture e di preghiere. La
stessa cosa avvenne per il rendimento di grazie per la redenzio-
ne che segue e che, evidentemente, doveva essere originariamente
legata alla precedente. Dopo di che, la IV e V preghiera costi-
tuiscono una vera pre‫־‬epiclesi, come quella che abbiamo osser-
vato nei riti di Roma e delPEgitto, ma che resta particolarmente
vicina alla prima «benedizione» della Tefillà, perché è ancora
sostanzialmente una commemorazione dei padri nella fede (ai
profeti sono stati semplicemente aggiunti i martiri). Segue, con
la VI, la preghiera per la sicurezza e la pace, seguita da quella
per la conversione degli infedeli. La VII è una preghiera per la

312
gerarchia che nel testo scritto porta bruscamente all'anamnesi,
ma che doveva essere legata per mezzo di un racconto dell'isti-
tuzione eucaristica molto simile a quello che si è mantenuto nel-
!,eucaristia di Teodoro. Non è il caso di ripetere qui quello che
abbiamo già spiegato e che abbiamo ricordato or ora circa lo svi-
luppo delPepiclesi a partire dall'anamnesi, ma nel suo interno.
La prima osservazione che s'impone è che qui, come in san
Basilio, ritroviamo un ordine che si avvicina singolarmente a
quello della Tefilla, a partire dalla IV fino alla VI inclusa. La
commemorazione dei santi è all'inizio, ed è associata a una pri-
ma evocazione del sacrificio eucaristico che, nei testi più evo-
luti come quello del Te igitur romano, ne ha preso il posto. La
sicurezza e la pace portano all'estensione della « conoscenza »
di Dio, e tutto termina con una preghiera per il ministero sacro
che, in questo testo, come alla fine dell'intercessione di san Ba-
silio, è l'equivalente della preghiera per la raccomandazione dei
sacrifici di Israele nella Tefilla, e che pertanto corrisponde alla
prima epiclesi di Roma e di Alessandria. Si capisce, dopo que-
sto, perché l'epiclesi finale, se invoca lo Spirito Santo, non lo
faccia per ottenere l'accettazione del sacrificio (già evocata nella
IV e nella VI), ma semplicemente perché la celebrazione abbia
tutto il suo effetto in noi.
Questo piano si ricollega quasi esattamente - a partire da
quella che abbiamo chiamato la pre-epiclesi - al piano fonda-
mentale del Canone romano. Ma è di un grado più arcaico, anzi-
tutto perché ha lasciato le commemorazioni dei santi prima (e
non dopo) l'intercessione per i vivi; inoltre, mentre di solito
tutto il rendimento di grazie è situato all'inizio, prima del Sane-
tus, ora questo, come nelle preghiere giudaiche, resta ancora
inquadrato da un rendimento di grazie per la sola creazione che
lo precede e da un rendimento di grazie per la sola redenzione
che lo segue.
In altre parole: la forma sviluppata dell'anafora di Addai e
Mari attesta l'esistenza anteriore, in Siria come a Roma e in
Egitto, di una eucaristia in cui ci si limitava ancora a recitare
di seguito le forme cristiane della Qedussà e delle benedizioni
che !'inquadravano, poi della Tefilla e infine delle preghiere pro-
prie al banchetto sacro, con pochi adattamenti molto semplici.
Qui, di fatto, il solo adattamento consiste nel costituire la « bene-
dizione » dell'ufficio sinagogale per la creazione, centrata sulla lu­

313
ce, con quella del pasto, centrata sulla vita, e, allo stesso modo
la benedizione per la Torà con quella per ?alleanza. Questo non
lasciava più ormai, dopo ?equivalente della Tefillà, altro che
?equivalente della preghiera giudaica per il « memoriale » e il
suo effetto in coloro che lo celebrano.
Si può aggiungere che quest'ordine, in quanto differisce da
quello di Alessandria, attesta certamente ?influsso, nella Siria
cristiana, dell'ordine sinagogale palestinese, in cui la Qedussà
rimane al suo posto primitivo prima della Tefillà. Ancora una
volta lo stesso influsso, anche a Roma, ha dovuto determinare
lo stesso ordinamento. Si può dire che abbiamo qui una prova
palpabile del fatto che l'ordine sintetico delle liturgie siro-occi-
dentali, a partire dalla liturgia pseudo-clementina, è, nella stes-
sa Siria dove fa la sua comparsa, il prodotto di un rimaneggia-
mento. Gli schemi vicini all'eucaristia romana, alessandrina o
siriaca arcaica (se non primitiva) non sono altro che varianti 10‫־‬
cali di un ordine che dovette essere universale a partire dal
momento in cui l'ufficio di letture e di preghiere si è saldato
insieme al pasto eucaristico. La forma primitiva di Addai e Ma-
ri, attestando uno stato di cose in cui questa saldatura era an-
cora sconosciuta, ci fa risalire ancora più indietro. Reciproca-
mente, però, la logica come la retorica ellenizzante dell'ordine
siro-occidentale sono incontestabilmente posteriori.

Genealogia e genesi dell'epiclesi


La conclusione di questo capitolo che ci ha permesso di ve-
dere l'eucaristia siro-occidentale raggiungere quella forma che
doveva rimanere classica, e, nello stesso tempo, di verificare la
sua genesi, confrontandola con le testimonianze di uno stadio
anteriore conservate nella Siria orientale, ci sarà fornita da uno
studio riassuntivo dello sviluppo dell'epiclesi. Infatti, ora ne di-
sponiamo di tutti i dati e ?abbiamo visto raggiungere con le eu-
caristie di san Giovanni Crisostomo e di san Basilio, lo stadio
finale.
Se per epiclesi s'intende un'invocazione esplicita dello Spi-
rito Santo, che prende posto subito dopo l'anamnesi o, in ogni
caso, nell'ultima parte della preghiera eucaristica, notiamo la
sua prima comparsa, in termini quasi identici, nella liturgia di
Addai e Mari come in quella della Tradizione apostolica. In

314
Addai e Mari sembra incontestabile che essa non appartenga al
testo primitivo, ma sia verosimilmente il rimaneggiamento più
antico che vi si possa scoprire (15). Sembra proprio che lo Spi-
rito e la sua discesa sulle offerte, a questo stadio non siano in
relazione con Taccettazione celeste del sacrificio, e meno anco-
ra con la consacrazione del pane e del vino che fa di essi il
corpo e il sangue del Salvatore. Lo Spirito vi è invocato a que-
sto punto semplicemente perché vi si chiede, come già nelle pre-
ghiere giudaiche, che la celebrazione del « memoriale » tenda
efficacemente all'edificazione della Gerusalemme futura nella
sua unità definitiva, e insieme alla glorificazione finale di Dio.
Questa unità, che per i cristiani sarà quella del « corpo » di
Cristo che raggiunge la sua pienezza nella Chiesa, e questa glo-
rificazione del Padre per mezzo del Cristo « totale » sono, anche
per essi, l'opera propria dello Spirito. La sua menzione doveva
dunque, presto o tardi, introdursi naturalmente a questo punto.
E quando !,attenzione fosse stata portata sulla sua divinità dalle
controversie teologiche della seconda metà del IV secolo, sa*
rebbe stato del tutto naturale che a questo punto non solo fosse
menzionato, ma formalmente invocato.
Se malgrado le obiezioni fatte da Dom Botte a Dom Dix, sia-
mo autorizzati a pensare che il Testamentum Domini ci permei-
te di risalire a uno stadio anteriore della liturgia di sant'Ippo-
lito in cui vi era solo la menzione e non ancora !,invocazione di
una discesa speciale dello Spirito, noi possiamo cogliere sul vi-
vo, in questi due stadi successivi dello stesso testo, come si sia
passati dalPuna alPaltra (16).
Tale fatto ci permette forse di affermare che questa prima
forma, non consacratoria, delPepiclesi sia già una caratteristica
siriaca, cioè che sia apparsa in Siria prima di diffondersi altro-
ve? Si sarebbe tentati di crederlo, anche se rimane in parte una
congettura. La testimonianza concorde di Roma e di quello che
sembra proprio lo stadio più antico dei testi egiziani porta a
pensare che né Roma, né Alessandria e le sue vicinanze, prima
della fine del IV secolo, abbiano conosciuto qualcosa del genere.
È una supposizione totalmente priva di fondamento serio pen-
sare che !,antica liturgia romana abbia conosciuto un'epiclesi

(15) Vedi pp. 160ss.


(16) Vedi pp. 179ss.

315
di questo tipo, che poi sarebbe scomparsa, per ragioni impene‫־‬
trabili, senza lasciarvi traccia (17). In Egitto, vediamo questa
epiclesi dello Spirito introdursi - sembra - progressivamente
dopo un periodo di tentennamenti, sia che essa figuri fuori del
suo posto normale e certamente originale, sia che venga rivolta
non allo Spirito ma al Verbo, e ciò proprio da uno dei teologi
più appassionati della divinità dello Spirito Santo (18). D’altra
parte, le altre mutuazioni che sembrano accompagnare la sua
accettazione finale non possono provenire, pare, che dalla Siria.
È stato in Siria, innegabilmente, che fu composta !,epiclesi di
Addai e Mari (e precisamente in siriaco). Infine, ancora una voi-
ta, potrebbe darsi benissimo che lo stesso sanf Ippolito fosse di
origine siriaca, !/arcaismo generale della sua teologia trinitaria,
come anche dei suoi gusti liturgici, il suo rigorismo penitenziale,
la sua coscienza di classe, quasi tanto estranea al mondo equivo-
co di Alessandria quanto alle vecchie usanze romane, sono al-
trettante probabilità convergenti (19). Però non si può dire di
più.
In compenso, la preghiera per Taccettazione del sacrificio,
che si svilupperà in una domanda formale di consacrazione de-
gli elementi, prima di combinarsi con Pepiclesi dello Spirito
Santo, proveniente dalfanamnesi e che, in origine, non aveva
questo oggetto, non ha nulla di specificamente siriaco. Essa
proviene, infatti, non dal « memoriale » sviluppato nella terza
parte della beraka dopo i pasti, ma dalla preghiera *Abòdà che
conclude la Tefillà giudaica (20). È dunque al suo posto norma-
le; ivi la troviamo ancora nel Canone romano, ivi ha figurato
dapprima nella liturgia egiziana, e ivi resterà sempre nella li-
turgia siro-occidentale: alla fine delle intercessioni e commemo-
razioni. In rapporto al racconto delfistituzione, il suo posto pri-
mitivo è prima e non dopo. È solo la sintesi teologica operata

(17) Cf sopra, pp. 223ss. L'idea, sostenuta da W. C. B ishop, The


Primitive Form of Consecration of the Holy Eucharist, in CQR 36
(1908) 385ss, è un puro a priori privo di fondamento.
(18) Cf sopra, pp. 210ss.
(19) Cf sopra, pp. 173ss.
(20) Cf sopra, pp. 205ss. Come abbiamo già notato, il giudaismo
introducendo il richiamo del « memoriale » negli stessi termini, tanto
nella preghiera ,Abòdà che nella terza beraka del pasto, stabiliva un’e-
quivalenza tra di esse e preparava la loro fusione.

316
nella Siria occidentale insieme con una dislocazione e un rima-
neggiamento sistematico delle antiche preghiere eucaristiche che
porterà quest'altra preghiera a fondersi con l'epiclesi dello Spi-
rito Santo, a conclusione dell'anamnesi. A partire da questo mo-
mento l'epiclesi chiederà, in una sola volta, tre cose: il gradi-
mento del sacrifìcio (esplicitamente identificato con la presenta-
zione a Dio del memoriale del Salvatore), la consacrazione con-
secutiva del pane e del vino come corpo e sangue di Cristo e fi-
nalmente (runico aspetto primitivo) che questa discesa dello
Spirito che ci unisce tutti nel corpo di Cristo che è la Chiesa,
permetta a tutti - in questa unità - di glorificare il Padre eterna-
mente (21).
Questa sintesi è certamente siriaca, e più precisamente siro-
occidentale. Noi vediamo l'elemento centrale (benché il più tar-
divo) prendervi progressivamente sempre più spazio. L'anafora
pseudo-clementina si limita ancora a chiedere che lo Spirito
manifesti (άποφήνγ)) che il pane e il vino sono il corpo e il san-
gue di Cristo, rendendoci pienamente associati a lui e alla sua
redenzione (22). Quella di san Giacomo, che sarà seguita da
quella di san Giovanni Crisostomo (23), chiede più chiaramen-
te che lo Spirito faccia del pane e del vino il corpo e il sangue
di Cristo, e può darsi che già lo stesso Crisostomo abbia aggiun-
to: « cambiandoli per opera del tuo Santo Spirito », ancorché
l'aggiunta possa essere più tardiva.
Il formulario siriaco dei Dodici apostoli sul cui testo primi-
tivo greco il Crisostomo ha lavorato, riportava a questo punto
una parola che ha tradotto con « mostrava » (24) e che molto
probabilmente era Ι'άποφήνχ! della liturgia pseudo-clementina.
Non è tuttavia impossibile che sia già άναδεΐξαι, al quale Basilio
si atterrà. ,Αναδειξαι può anche essere tradotto con « mostra-
re ». Ma, come abbiamo visto, l'uso particolare che ne fa Basi-
fio, applicandolo dapprima alla presentazione della sua offerta
al Padre per mezzo del Figlio, dà a questa parola un senso si-
curamente equivalente a quello della parola italiana « consa-
crare » quando diciamo « consacrare il pane nel corpo » e « il

(21) Cf sopra, 271273‫־‬.


(22) Cf sopra, 268-270.
(23) Cf sopra, 280-281 e 292-293.
(24) Cf sopra, p. 291.

317
vino nel sangue di Cristo » (25). Tutto quello che lOriente bi-
zantino potrà in seguito raccogliere su questo punto non farà
che sottolineare la forza di questa espressione, senza aggiungere
nulla che non sia già contenuto in essa in fatto di realismo sa-
cramentale. Da questo punto di vista, il ποιεΐν di san Giacomo e
di san Giovanni Crisostomo conferisce solo una chiarezza de-
cisiva alla forza di un pensiero che san Basilio preferiva lascia-
re il più a lungo possibile sotto il velo di formule assai discre-
te allorquando la sua espressione appariva nuova.

(25) Cf sopra, p. 310.

318
Capitolo X

Eucaristia gallicana e mozarabica

Loro affinità con il tipo siro-occidentale


Ci rimane da studiare un ultimo filone della tradizione li-
turgica nel periodo del suo sviluppo: quello rappresentato dalla
liturgia gallicana (1) e dalla liturgia mozarabica (2), alle quali
si possono avvicinare le liturgie celtiche e i frammenti che ci
sono pervenuti di liturgie italiche non romane (3). L,apparenta-
mento tra lOriente siriaco e quello che si può chiamare l’estre-
mo Occidente è manifesto nella preghiera eucaristica, ma si
estende a molti altri elementi, non solo delle loro rispettive litur-
gie, ma di tutto il loro cristianesimo.
Per esempio, la disposizione dei luoghi di culto, in Gallia co-
me in Spagna, fino ai giorni nostri è rimasta sostanzialmente
estranea agli usi romani. Anche quando la liturgia romana si è
diffusa in quelle regioni, non Pha modificata, almeno fino al Ri-
nascimento (e in Spagna anche molto dopo questo periodo). La
Chiesa occidentale, come quella siriaca, situa l’altare nella con-
ca dell’abside, rivolta verso oriente. Un secondo punto della ce­

(1) Sulla liturgia gallicana, si veda W. S. Porter, The Gallican Rite,


London 1958, e in particolare la bibliografìa aggiunta da F. L. Cross,
pp. 57ss. La si completerà col capitolo di A. A. K ing, in Liturgies of
the Past, London 1959, pp. 77ss e con il volume di E. Kowalevsky, Le
Canon eucharistique de Vancien rite des Gaules, Paris 1957.
(2) Cf il capitolo di A. A. K ing, in Liturgies of the primatial Sees,
London 1957, e la bibliografìa data da A. Baumstark , Liturgie compa-
rèe, Chevetogne 31953, pp. 234ss.
(3) Bibliografìa sul rito ambrosiano in R. Baumstark , Liturgie
comparée, pp. 235237‫ ;־‬A. A. K ing, Liturgies of the primatial Sees, pp.
286ss. - Per uno sguardo d’insieme sulle liturgie gallicana, mozarabica
e ambrosiana, si veda anche: M. R ighetti, Manuale di storia liturgica,
voi. I, Milano 31964, al cap. Ili, Le Liturgie occidentali, pp. 142185‫ ;־‬B.
Botte, Riti e famiglie liturgiche: § 2. Liturgie dell Occidente, in: A.-G.
Martimort, La Chiesa in preghiera, Desclée, Roma 1 231966, pp. 2836‫;־‬
P. Borella, Il rito ambrosiano, Morcelliana, Brescia 1964, pp. 1934‫־‬.

319
lebrazione è costituito dall'ambone, situato verso il centro del-
l'edificio, e in prossimità del quale stanno i seggi dove i cele-
branti prendono posto per l’ufficio delle letture che precede il
banchetto eucaristico, e non in un santuario inaccessibile ai
fedeli, al di là delFaltare.
La stessa cosa avviene per i paramenti e le insegne portati
dagli officianti. L’omoforo episcopale, il pastorale a forma di tau,
la casula molto ampia portata solo dai sacerdoti, la dalmatica e
l'orarion del diacono, fino alla paterissa usata dai prelati fuori
della Chiesa: sono tutte particolarità sussistite più o meno a
lungo nell'estremo Occidente, anche dopo l'introduzione dei li-
bri romani, e alcune di esse sono poi rifluite fino a Roma.
Tutto questo viene dall'Oriente siriaco, come il gusto per
un rituale e un'arte sacra carica di simbolismo, una poesia ec-
clesiastica invadente, senza parlare del monacheSimo celtico.
Ma la vecchia Roma cristiana ha continuato a ignorare tutto
ciò fino a molto tempo dopo l'epoca patristica.
In che modo queste tradizioni sono passate da un'estremità
all'altra del Mediterraneo? Lo ignoriamo, poiché non sappia-
mo quasi niente sulle origini del cristianesimo occidentale. I ro-
mani, durante il medioevo, affermeranno spesso che è merito
loro l'evangelizzazione dei Celti e dei loro successivi conquista-
tori germanici; e questi, a loro volta, non saranno meno catego-
rici. I primi lo faranno per imporre i propri usi; i secondi per
difendere i loro. Non c'è nulla da ricavare da leggende che so-
no argomenti ad hominem, senza fondamento nei fatti storica-
mente conosciuti. In realtà, i mercanti siriani che solcavano tut-
ti i mari, una volta divenuti cristiani, sono stati molto probabil-
mente i primi veicoli della loro fede fino in quelle regioni ri-
tenute remotissime. Ad ogni modo, è certo che non appena ap-
paiono delle cristianità costituite la loro eredità sembra prin-
cipalmente siriaca. La liturgia delle Gallie, rimaste celtiche 0
variamente germanizzate, ne è l'attestazione più chiara, ma non
l'unica.
Conosciamo solo alcuni frammenti delle liturgie propria-
mente celtiche, in particolare per l'eucaristia, attraverso il Mes-
sale di Stowe (4). Esse rappresentano un miscuglio di usanze4

(4) Cf G. F. W arner, T h e S t o w e M is s a l, 2 voli., London 1906 e


1915.

320
e di testi di origini varie, risultato caratteristico di gente che
amava soltanto girovagare un po’ dovunque. Però il fondo ori-
ginario è uguale a quello che si ritrova nelle liturgie gallicana
e mozarabica. Queste ultime due, a dire il vero, non rappre-
sentano propriamente parlando due liturgie, ma una sola, che
fu caratterizzata per tutto il tempo in cui fu in uso da una prò-
liferazione incessante di formulari variabili, su uno schema tra-
dizionale. I libri gallicani o mozarabici sono poco più di rac-
colte differenti di formulari di questo genere. A parte ciò, diffe-
riscono solo su particolari relativamente insignificanti. Per quan-
to riguarda lo schema della grande preghiera eucaristica, il 10‫־‬
ro accordo è praticamente completo, nonostante la variabilità
dei formulari, illimitata sia in uno stesso luogo che da un luogo
all’altro. Non è raro, d’altronde, che si ritrovi tutto o una parte
di uno stesso formulario particolare sia in libri gallicani che in
libri mozarabici.
Questa liturgia, che possiamo chiamare gallicano-ispanica,
con le sue parentele celtiche o italiche, sarebbe stata destinata
a scomparire quasi completamente, almeno a prima vista, poco
tempo dopo la fine dell’èra patristica. In Inghilterra, nel sinodo
di Whitby, la vecchia cristianità celtica capitolerà dinanzi all’im-
perialismo dei nuovi cristiani, reclutati dalla missione romana di
sant’Agostino di Canterbury (nonostante le prescrizioni così li-
berali di san Gregorio Magno a quest’ultimo). In Gallia, la
pretesa di Pipino e di Carlomagno di restaurare l’impero romano
ispirerà loro l’idea di sostituire di autorità la tradizione liturgi-
ca locale con quella di Roma che aveva già conquistato tutta
l’Italia settentrionale. In Spagna, infine, la malaugurata vicen-
da dell’adozionismo di Elipando di Siviglia, che cercava di
fondarsi sui libri liturgici della Spagna visigotica, compromet-
terà agli occhi della Santa Sede quella liturgia che noi chiamia-
mo mozarabica. Basterà un papa energico come Gregorio VII,
aiutato dall’espansione dei suoi ex-confratelli di Cluny nella
penisola, per abolirla quasi di colpo. Al tempo del Rinascimen-
to, un cardinale corifeo dell’umanesimo cristiano, Jiménez de
Cisneros, riuscirà a salvare e a consolidare quello che rimane-
va. Conservata fino a noi più che altro come curiosità archeolo-
gica, la celebrazione effettiva di questa liturgia è stata ridotta
quasi a nulla dopo l’ultima rivoluzione spagnola, al punto che
dell’antica tradizione cultuale di tutto l’Occidente cristiano oggi

321
sussiste soltanto una celebrazione galoppante svolta da alcuni
ecclesiastici in una cappella isolata della cattedrale di Toledo.
Bisogna rendere omaggio agli sforzi dei benedettini di san Do-
menico di Silos per lo studio e la pubblicazione degli antichi te-
sti mozarabici; quando se ne è presentata !,occasione, ne hanno
risuscitato il contenuto in celebrazioni purtroppo eccezionali, sia
per la loro rarità che per la loro solennità. Fin qui, però, i loro
sforzi non hanno potuto far altro che prolungare resistenza di
un fantasma moribondo.
Vi è però una contropartita a questa triste storia. Quando
Carlomagno e i suoi successori ebbero ottenuto i libri romani,
ne furono create nuove edizioni per il risorto impero germa-
nico. Coloro che se ne occuparono non poterono rassegnarsi a
veder perire tesori tradizionali di cui i loro padroni avrebbero
forse fatto poco conto. Ne risultarono libri teoricamente romani,
ma in realtà pieni di elementi gallicani. Per un curioso ri-
flusso di cose, questi libri ritorneranno poi a Roma in un'epoca
in cui essa non brillava né per facoltà critiche, né per genio
creatore, e vi saranno accolti apparentemente senza difficoltà.
Cosicché la liturgia che noi ancora celebriamo e diciamo roma-
na, non è in realtà che un quadro romano, sovraccarico di eie-
menti estranei, in cui sono venuti a inserirsi preghiere e riti
gallicani almeno per il cinquanta per cento. Insieme a un certo
numero di preghiere, il principale elemento che vi rimane del
tutto romano è il canone, ad eccezione dei prefazi più o meno
recenti che sono generalmente ancora del genere gallicano (0
anche mozarabico) più o meno rielaborato.
Tuttavia, insieme ai libri mozarabici moderni o antichi (5),
c'è una serie di libri gallicani che ci permette, almeno sulla carta,
di ricostruire le antiche preghiere eucaristiche dei nostri padri.
Sono il Missale gothicum, il Missale gallicanum vetus, il Mis-
sale Francorum (6), il Messale di Bobbio (7), le Messe pubbli-
(5) Si tratta del M is s a le M i x t u m ( = MM), del L ib e r O r d in u m ( =
M 0L0) e del L ib e r M o z a r a b ic u s S a c r a m e n to r u m ( = M 0LS).
(6) Pubblicati per la prima volta dal cardinal T ommasi , C o d ic e s
S a c r a m e n to r u m n o n g e n tis a n n is v e t u s ti o r e s , Roma 1680 (riprodotti spe-
cialmente nel M igne, PL 72). Edizioni critiche moderne del M is s a le go-
t h ic u m ( = MG 0): L. C. M ohlberg (Roma 1961); dei M is s a le g a llic a n u m
v e t u s (= MGaV): L. C. Mohlberg, L. E izenhòfer e P. S iffrin (Roma
1958) e dei M is s a le F r a n c o r u m ( = MFr) degli stessi (Roma 1957).
(7) Pubblicato per la prima volta da J. Mabillon, nel suo M u s a e u m

322
cate nel secolo scorso dal Mone (8), a cui bisogna aggiungere
alcuni libri celtici, come il Messale di Stowe, senza dimenticare
gli elementi che sono sopravvissuti nel Messale ambrosiano mo-
derno, specialmente al giovedì e al sabato santo. Questi docu-
menti, relativamente tardivi, pervenuti fino a noi sono di una
ricchezza sconcertante: non solo vi troviamo le eucaristie ap-
propriate a tutte le domeniche e feste deiranno e a numerose
ferie, con innumerevoli messe votive, ma anche molteplici for-
mulari di ricambio per lo stesso giorno o per la stessa messa
Abbiamo qui un tesoro, eccezionalmente fissato per iscritto, di
improvvisazioni liturgiche su un canovaccio stabilito, che si sono
continuate per tutto il tempo in cui questa liturgia è rimasta
viva.
La sua anafora eucaristica è costituita da cinque preghiere
distinte, di cui solo due restavano più o meno invariabili. La
prima, corrispondente al prefazio romano, è chiamata nei libri
ispanici illatio (che è la traduzione esatta del greco αναφορά)
e nei libri gallicani immolatio o contestatio. Segue il Sanctus,
in cui le formule greche sembrano essere state generalmente
conservate in mezzo a formule latine. Quest'ultimo è seguito, a
sua volta, da una preghiera chiamata post-sanctus, che si ricol‫־‬
lega ordinariamente con lo stesso aggancio come in Siria: la ri-
presa della parola « santo ». Come in molti manoscritti liturgici,
sia dOriente che dOccidente, le parole dell'istituzione non figu-
rano nei libri gallicani propriamente detti, se non con il richia-
mo di alcune parole. Dopo di esse viene un'ultima preghiera,
chiamata post-pridie nei libri mozarabici, post-secreta o post‫־‬
mysterium nei libri gallicani.
La diversità che si incontra in queste differenti rubriche è
enorme. Percorrendo questi libri, si ha l'impressione che qualsia-
si schema di preghiera eucaristica strutturata o anche solo ab-
bozzata, si sia sciolto nelle sorti di un'improvvisazione sfrenata.
In particolare, ma non esclusivamente, i libri mozarabici sono
sovrabbondanti di formulari dove ci si perde in un fiume di

I t a l i c u m , Paris 1687, t. I, voi. 2, pp. 287ss. Edizione critica ( = MBo) di


A. W1LMART, E. A. L owe , H. A. W ilson .
(8) Prima edizione a Frankfurt a.R., nel 1850, riprodotta nel M igne,
PL 138, 862ss. Edizione critica di Mohlberg, E izenhófer e S iffrin , nel
loro MGaV pp. 7491‫( ־‬nn. 267341‫)־‬.

323
parole di cui ci si chiede che relazione possano ancora
avere con !,eucaristia. Alcuni di essi, per la loro pr0.
fusione, possono gareggiare con il libro V ili delle Costitu -

zioni apostoliche. Però il disordine del pensiero troppo spesso


è in pieno contrasto con la composizione, che invece è forse
troppo studiata, degli autori siriaci occidentali. L’influsso di
sant’Agostino è particolarmente visibile in molti di questi testi.
Gli autori ne hanno saccheggiato non solo i pensieri e le espres-
sioni, ma intere pagine di seguito. Talvolta, il carattere del tut-
to incongruo di questa o di quella preghiera potrebbe spie-
garsi perché sono state classificate per errore sotto una rubrica
a cui, di fatto, non corrispondono. In modo più generale, non
bisogna esitare a riconoscere, con Walter Frere, che si tocca con
mano il pericolo che può comportare la facoltà di improvvisazio-
ne lasciata ai celebranti, quando una tradizione non è più vis-
suta con sufficiente consapevolezza (9).
Ciò non vuol dire, però, che i testi pienamente conformi alla
tradizione che abbiamo visto elaborarsi nellOriente siriaco non
siano molti: parecchi sono probabilmente tra i più antichi, ma
certuni possono anche essere stati prodotti in un’epoca rela-
tivamente tardiva. In compenso, nonostante il parere di certi
commentatori come Walter Frere o Eugraf Kowalevsky, non è
certo che tutti i testi che si allontanano dal canone, che abbia-
mo visto elaborarsi nella Siria occidentale verso la fine del IV
secolo, siano aberrazioni posteriori. Ce ne possono essere e, co-
me costateremo, molto probabilmente ce ne sono che attesta-
no uno stadio anteriore, in cui la tradizione di origine siriaca
non si era ancora modellata nella forma in cui si sarebbe im-
prigionata ad Antiochia e nei dintorni.
Comunque sia, è quanto mai difficile stabilire una data per
queste preghiere. I manoscritti gallicani ci tramandano testi ri-
copiati nel secolo V ili, e perfino nel VII; questi poi, quando
non ci si trovi ancora nessuna influenza di testi romani, potreb-
bero essere anche anteriori. I più antichi manoscritti mozarabici
non risalgono al di là del secolo X. Però, ancora una volta, non
è la data di un manoscritto, e nemmeno quella di una raccolta,
che decide dell’età di una preghiera liturgica che vi si trova
per la prima volta.

(9) W. H. Frere, T h e A n a p h o r a ..., London 1938, p. 106.

324
L'influsso dei due fratelli san Leandro e sant'Isidoro, sue-
cessivamente vescovi di Siviglia nel secolo VII, sembra che sia
stato sensibile sull'organizzazione e sull'espansione della litur-
già mozarabica. Non è facile però determinare che cosa abbiano
potuto mettere di proprio nei testi che sono giunti fino a noi.
D'altronde, bisogna riconoscere che l'analisi della celebrazione
eucaristica a cui si dedica sant'Isidoro nel suo De ecclesiasticis
officiis è tale da lasciarci perplessi su quello che capiva della
tradizione che avrebbe contribuito a propagare (10). Dividendo
l'insieme della messa in sette preghiere, quello che ci dice della
V e della VI - che sembrano corrispondere all'insieme dell'a‫־‬
nafora - non è né molto chiaro né molto convincente. La V,
che egli chiama già illatio, produrrebbe la « santificazione del-
l'offerta » - stando a lui - e la VI la « conformatio sacramenti »,
che sarebbe il frutto della « santificazione dello Spirito ». A pri-
ma vista, si sarebbe tentati di credere che la V non sia altro
che la illatio attuale (con il Sanctus), mentre la VI abbracce-
rebbe tutto ciò che va dal post-sanctus alla conclusione. Oppu-
re, nella sua terminologia, la conformatio sacramenti sarebbe
forse soltanto il post-pridie, in quanto la illatio, nel suo modo
di esprimersi, indica tutto ciò che va fino al racconto dell'isti-
tuzione? Mancando ogni citazione di qualsiasi testo è impossi‫־‬
bile dirimere la questione. Anche se la conformatio sacramenti
viene ad essere il solo post-pridie, è forse prematuro concludere,
come fa Walter Frere senza esitare, che questo testo, secondo
Isidoro, dev'essere un equivalente dell'epiclesi siriaca pienamen-
te sviluppata, per il solo fatto che vi vede una « santificazione »
dello Spirito Santo. L'uso ripetuto della parola « santificazio-
ne » rende incerto il significato che bisogna darle.
Malgrado queste incertezze, è incontestabile che si possono
trovare, tanto nei libri gallicani che mozarabici, formulari mol-
to vicini, nel loro sviluppo, alle ultime eucaristie orientali che
abbiamo studiato. Si prenda, per esempio, la terza delle messe
domenicali del Missale gothicum. La sua immolatio è così re-
datta:
« È cosa degna e giusta, veramente degna e giusta, o Dio
ineffabile, incomprensibile, eterno, che noi ti rendiamo
grazie sempre: tu che non cessi di sostenerci (fovere)

(10) D e e c c le s ia s tic is o f fic iis , lib. I, XV; PL 83,752.

325
con la tua immensa misericordia. Chi, in realtà, potrebbe
lodare degnamente la tua potenza, della quale non si può
guardare con occhio mortale la divinità, né si può espri-
mere con parole ?immensità? Basta che noi ti amiamo co-
me Padre, ti adoriamo come Signore, ti riceviamo come
Creatore, ti accogliamo come Redentore. Accordaci, Signo-
re onnipotente, di percorrere verso di te il cammino di
questa via stretta che ci hai prescritto, attraverso la qua-
le possiamo pervenire alla beatitudine eterna; né siamo
trattenuti da alcun ostacolo, ma sia per noi la via del
nostro cammino alFetemità salutare, per Cristo nostro Si-
gnore, per mezzo del quale gli Angeli, ecc. ».
Il post-sanctus, con il suo aggancio classico, continua:
« Veramente santo, veramente benedetto nel più alto dei
cieli è il Signore nostro Gesù Cristo, il tuo Figlio, Re di
Israele: il quale, condotto come una pecora al macello e
come un agnello muto davanti al tosatore, non ha nem-
meno aperto bocca. Egli, infatti, la vigilia di soffrire...».
Il post-mysterium concluderà:
« Grande è questo dono di misericordia dal quale noi sia-
mo stati istruiti a celebrare i sacrifìci della nostra reden-
zione, come il nostro Signore Gesù Cristo li ha offerti sulla
terra: per mezzo di lui, Padre onnipotente, noi ti pre-
ghiamo di guardare con favore i doni posti sul tuo altare
e di coprirli tutti con ?ombra del santo Spirito del tuo
Figlio, affinché otteniamo, da quello che abbiamo ricevuto
da questa tua benedizione, la gloria delFeternità, per Gesù
Cristo... » (11).
Si possono anche notare, nei libri gallicani o mozarabici, dei
post-pridie o dei post-mysterium in cui la similitudine verbale
con le epiclesi sviluppate nella Siria occidentale è ancora più
sorprendente. Ne è un esempio la seguente preghiera di una
messa mozarabica per la festa di santa Cristina, che si ritrova,
quasi parola per parola, nel Missale gothicum per la festa della
Cattedra di san Pietro:
« Osservando dunque questo comando, noi offriamo i santi
doni (munera) della nostra salvezza, e ti supplichiamo, Dio
clementissimo e onnipotente: dégnati di far scendere il

(11) MGo 503-505. - PE 490.505.

326
tuo santo Spirito su queste offerte (solemnia) perché, nel
nome tuo e del tuo Figlio e dello Spirito Santo, diventino
per noi, che ne mangiamo per la vita eterna e per il
regno senza fine, un’eucaristia legittima, benedetta con la
trasformazione nel corpo e nel sangue del Signore nostro
Gesù Cristo, [tuo] figlio unigenito » (12).
Se tali espressioni fossero più frequenti, basterebbero a ren-
dere incontestabile Forigine siriaca di queste liturgie. Ma quelli
che, come Dom Gregory Dix, la mettono in dubbio, vogliono
vedere nelle preghiere di questo genere solo delle attestazioni
di un’influenza siriaca tardiva. A questa teoria si oppone una
duplice obiezione. In primo luogo, non si vede altra traccia pos-
sibile di un’influenza orientale tardiva sugli autori gallicano-ispa-
nici. Gli sviluppi della teologia greca, posteriori a sant’Agostino,
sembrano essere loro sconosciuti. D’altra parte, benché pa-
recchi testi patristici orientali siano passati da est a ovest du-
rante tutto il medioevo (sebbene il movimento sia poco sensi-
bile prima dell’epoca carolingia, e soprattutto prima del XII
secolo), tuttavia non vi è traccia di trasmissione di testi liturgici
in questa stessa epoca. Chi, d’altra parte, in Spagna o in Gal-
lia, tra il V e il IX secolo, sarebbe stato capace di leggerli e di
tradurli?
Occorrerebbe ammettere che vi sia stato tardivamente il pas-
saggio in Occidente di un sacerdote o di un vescovo di Siria,
capace di adattarvi le formule che egli conosceva. Ma noi non
conosciamo alcun altro caso di questo genere all’infuori di quel-
lo di Eusebio, vescovo di Milano dal 451 al 465/466 (13). Ve-
nuto effettivamente dalla Siria, Eusebio potrebbe benissimo
avere introdotto nella liturgia milanese certe parti, come lo svi-
luppo così caratteristico di « Fate questo in memoriale di me »
che riproduce, parola per parola, il testo della liturgia di san
Giacomo. Tuttavia, data la mancanza di qualsiasi testimonianza
storica, nulla ci permette di attribuire ad altri ipotetici transfu-
ghi quello che troviamo di apparentemente siriaco nelle rac-
colte gallicane e mozarabiche.
Certi indizi positivi ci portano invece a pensare che formule
come quelle che abbiamo citato appartengano ai loro elementi

(12) M0LS 854; MGo 154. ‫ ־‬PE 492; EEFL 2408.2731.


(13) Cf G. Dix, T h e S h a p e o f th e L itu r g y , London 1945, p. 541.

327
più antichi. Di fatto, sono apparse molto presto come arcaismi
così marcati che non si è più osato né usarli senza rimaneggia-
menti che tradiscono lo stato anteriore del testo, né prendere
la decisione di eliminarli. Così si trova un post-mysterium galli-
cano per la vigilia di Natale, in un frammento manoscritto con-
servato nella biblioteca del Caius College a Cambridge, in cui
!,espressione eucharistia legitima è stata visibilmente sostituita
a verum corpus. Infatti, il correttore maldestro ha omesso poi
di cancellare verus sanguis, che non poteva non corrispondergli,
di modo che si ha questa strana frase: « Col mistero della tua
azione, essi [i doni] diventino per noi un'eucaristia legittima
e il vero sangue del tuo Figlio... » (14).
Trasformazioni di questo tipo sono potute avvenire in mol-
ti altri casi, ma, compiute con maggior destrezza, non hanno
probabilmente lasciato traccia. Per ammetterlo basta confronta-
re quello che ci dice santTsidoro, che cioè la conformatio sa-
cramenti si compie mediante la santificazione dello Spirito, qua-
lunque sia il senso preciso che dà a queste parole, con quello
che dirà lo pseudo-Isidoro alcuni secoli dopo. Questi, ormai,
conosce solo la teoria latina posteriore di una consacrazione
mediante le sole parole del racconto dell'istituzione. È compren-
sibile, a partire dal punto in cui si è arrivati a questo momen-
to, che si correggano, come abbiamo visto, certe formule anti-
che, come sarebbe altrettanto inverosimile che le formule di que-
sto tipo abbiano potuto introdursi allora.
In senso inverso, non bisogna affrettarsi a concludere, con
Walter Frere, che eccettuate le circa venticinque preghiere del
sacramentario di Toledo e i loro equivalenti gallicani, poco più
numerosi, che contengono un'epiclesi in cui lo Spirito Santo è
invocato più o meno esattamente nel senso dell'epiclesi siriaca
sviluppata, tutte le altre formule per questa parte dell'eucari-
stia sono o assai tardive o rimaneggiate. Molte possono esserlo,
ma parecchie altre hanno altrettanta se non maggiore probabili-
tà di essere arcaiche. In primo luogo, a volte lo Spirito è sem-
plicemente invocato, come nella Tradizione apostolica o nella
liturgia di Addai e Mari, perché produca nei partecipanti tutto
il frutto dell'eucaristia. Ciò avviene nella messa domenicale del
Missale gothicum, che abbiamo citato, come nella VI delle mes-

(14) Caius Coll. Cambr. ms 153.

328
se di Mone. Altre volte è invocato semplicemente per far sì che
!,eucaristia sia « legittima », senz’altra precisazione. Notiamo,
a questo riguardo, che la frequenza di questa espressione nelle
nostre raccolte, anche se forse è stata introdotta tardivamente
qua e là per sostituire altre espressioni diventate inopportune
per la teologia che si insegnava, rende inverosimile che non ap-
partenesse al loro più antico vocabolario. D’altronde è una for-
mula del latino cristiano più arcaico, già attestata da san Cipria-
no (nel senso di un’eucaristia pienamente conforme al disegno
della sua istituzione da parte di Cristo) (15).
Ma vi sono ancora altri casi in cui la trasformazione degli
elementi è chiesta formalmente, senza essere per questo attribui-
ta allo Spirito. Sarà attribuita, per esempio, alla « discesa della
pienezza della maestà divina » (16), o alla « discesa della be-
nedizione » (17), oppure della « virtù » divina (18). Si hanno
anche dei casi in cui è attesa espressamente da una discesa del
Verbo. Un esempio sorprendente è fornito dal post-pridie della
terza feria post Vigesima del sacramentario di Toledo:
« Manda il tuo Verbo dal cielo, o Signore; per mezzo suo
siano cancellati i nostri peccati e santificate le nostre
offerte... » (19).

Infine non sono neppure rare le invocazioni agli Angeli, an-


che se si fa astrazione dai testi che possono aver subito un’in-
fluenza del Canone romano. Nessuna influenza di questo gene-
re sembra visibile nel post-pridie per le feste di santa Cecilia,
il 22 novembre, o di santa Eugenia, il 16 settembre (20). Un
testo particolarmente curioso, per l’Ascensione, invoca lo Spi-
rito come l’Angelo del sacrificio apparso a Manoah, il padre
di Sansone (21).

(15) E p is t. 63, 9; CSEL 3 (M I), p. 708.


(16) MoLS 1022 bis.
(17) MoLS 627.
(18) MoLS 387.
(19) MoLS 452.
(20) MoLS 52 e 935.
(21) MoLS 754 (allusione a G d c 13,23). Cf il p o s t- p r id ie della fé-
ria II di Pasqua, in cui l'Angelo e lo Spirito appaiono a turno (MoLS
627).

329
La maggior parte di queste formule non può spiegarsi diver-
samente che come arcaismi. Se ne ricava !,impressione di uno
stato di cose che manifesta come potessero essere simili pre-
ghiere, in Siria e altrove, alla vigilia o all’inizio di quel movi-
mento di sistematizzazione e, nello stesso tempo, di riassesta-
mento della liturgia eucaristica che si è operato ad Antiochia
verso la fine del IV secolo. L’invocazione finale, che si è stac-
caia dall’anamnesi, rimane fondamentalmente una preghiera
perché il mistero commemorato abbia tutto il suo effetto in co-
loro che lo celebrano. Tende tuttavia a fissarsi in un’invocazio-
ne dello Spirito, senza che per questo l’invocazione - sia del
Verbo, sia degli spiriti celesti, sia della semplice benedizione
divina - possa ancora venire esclusa. Tende anche ad attirare a
sé la domanda di gradimento del sacrificio offerto e a preci-
sarla in una domanda esplicita di trasformazione degli elementi.
Tutto questo, però, rimane fluido e trova ancora solo eccezio-
nalmente quel genere di formulazioni che diverrà definitivo nel-
la Siria occidentale.
Sembra, in queste condizioni, che una conclusione si impon-
ga: la liturgia gallicano-ispanica rappresenta un trapianto, in
Occidente, della liturgia siriaca che ha dovuto acquisire la sua
autonomia nel momento preciso in cui quest’ultima era entrata
nella sua fase finale di riorganizzazione sistematica, ma prima
che fosse giunta alla sua stabilizzazione finale. In altre parole:
il fondo originario della liturgia dell’estremo Occidente, come
è giunta fino a noi, in particolare nei libri gallicani e mozarabi-
ci, deve corrispondere approssimativamente alla metà del seco-
lo IV. È superfluo sottolineare che l’opera di sant’Ilario di Poi-
tiers, che rappresenta l’ultima fase di una teologia occidentale
pienamente associata agli sviluppi orientali, è esattamente di
questo periodo.
Questo trova una conferma nel fatto che non mancano i
post-sanctus gallicani o mozarabici in cui riconosciamo tracce
- e anche qualcosa di più di semplici tracce - della presenza
primitiva dell’epiclesi consacratoria, e più precisamente dell’epi-
desi per l’accettazione del sacrificio, prima delle parole dell’i-
stituzione. Naturalmente, anche qui non teniamo conto dei post-
sanctus in cui un’influenza diretta della liturgia romana si fa
sentire, come quelli della messa delle Rogazioni o della quinta

330
jxiessa domenicale del Missale gothicum (22). Però il post-sanc-
tus della stessa raccolta per la festa di san Maurizio non mani-
festa alcun influsso di questo genere. Chiede, tuttavia, che « il
nostro Signore e Dio santifichi con !,ispirazione della [sua] gra-
zia celeste queste specie (speciem istam), da consacrare median-
te il suo ministero, e aggiunga alla benedizione umana la pie-
nezza del favore divino » (23). La stessa cosa si ha nel post-
sanctus della vigilia di Pasqua:
« Per tuo comando, o Signore, tutte le cose sono state
create, nel cielo e sulla terra, nel mare e in tutti gli abissi.
I Patriarchi, i Profeti, gli Apostoli, i Martiri, i Confessori
e tutti i santi ti rendono grazie. Questo anche noi faccia-
mo: e ti preghiamo di accettare favorevolmente queste
ostie spirituali, queste offerte pure. Noi ti preghiamo di
benedire questo sacrifìcio con la tua benedizione e di span-
dervi la rugiada del tuo santo Spirito, perché sia per tutti
un'eucaristia legittima: per Cristo, nostro Signore, il quale,
alla vigilia di soffrire... » (24).
La stessa cosa anche nel giorno di Pasqua:
«... Santifica i sacrifìci che tu hai istituito; non i nostri
meriti ti possono invitare su di essi, ma noi li dobbiamo
santificare sul tuo esempio: in modo che, compiuta come
si conviene ogni cosa, ritornato dagli inferi il nostro Sai-
vatore, la morte sappia che è stata vinta e la vita ria-
nimata (revocatam)... » (25).
È diffìcile non pensare che simili preghiere, così collocate,
siano una testimonianza di un tempo in cui, anche in Siria, era
ancora a questo punto che si faceva tradizionalmente la racco-
mandazione del sacrificio.
Ma bisogna confessarlo, si trovano anche, in particolare nei
libri mozarabici più tardivi, diverse preghiere o molto brevi
(come è il caso di numerosi post-sanctus e di un certo numero
di post-pridie o post-mysterium) oppure, al contrario, più o
meno prolisse, nelle quali manca completamente qualsiasi evoca-

(22) MGo 342 e 526. ‫ ־‬PE 479.


(23) MGo 424 (*).
(24) MGo 271. ‫ ־‬PE 476; EEFL 2395.
(25) MGo 281. ‫ ־‬PE 477; EEFL 2396.2723.

331
zione del sacrificio, qualsiasi invocazione (consacratoria o no),
persino qualsiasi anamnesi. È chiaro che molte di esse sono com-
posizioni tardive, di un'epoca in cui si erano persi di vista i te-
mi primitivi, e a volte i più essenziali, delPeucaristia. Ma ve ne
sono anche (specialmente tra quelle assegnate alle feste più
antiche) in cui queste assenze sconcertanti si avvicinano a for-
mule che sembrano di un'epoca antica. La loro irregolarità de-
ve essere messa sul conto delle omissioni e delle incongruenze
alle quali, in ogni tempo, è esposta l'improvvisazione.
Un esempio è questo post-mysterium per l'Epifania (passato
press'a poco tale e quale dal Missale gothicum al Messale ro-
mano gallicanizzato, in cui è diventato una « preghiera sopra le
offerte »):
« Guarda benigno, o Signore, questi sacrifici posti davanti
a te, con i quali ormai non ti è offerto oro, incenso e
mirra, ma quello che in questi medesimi doni è presente
come figura, vittima e cibo... » (26).
Qui, l'unica idea del sacrificio ha come assorbito l'anamne-
si e ridotto l'epiclesi a una invocazione molto generica. Ma an-
che il tema sacrificale, insieme a tutto il contenuto dell'anam-
nesi, per non parlare dell'epiclesi, può scomparire a sua volta
in preghiere la cui fattura non sembra tuttavia recente. È il ca-
so della seconda messa domenicale del Missale gothicum, in cui
il post-sanctus si riduce a queste parole:
« Veramente santo, veramente nel più alto dei cieli è il
Signore, Dio nostro, Figlio tuo, Re di Israele, il quale alla
vigilia di soffrire... »,
mentre il post-secreta non è meno laconico:
« Per mezzo di lui, o Dio, Padre onnipotente, noi ti pre-
ghiamo; come conserviamo Fobbedienza del santo miste-
ro, così la sua forza celeste sia efficace per la nostra
protezione... » (27).
Deve essere particolarmente sottolineata un'ultima lacuna,
perché diventerà universale nell'uso mozarabico tardivo: l'eu-
caristia, invece di terminare con un ritorno al rendimento di

(26) MGo 88. - PE 473.


(27) MGo 493-494.

332
grazie nella dossologia finale, si concluderà semplicemente con
!,ultima benedizione delle offerte, che si trova parimenti alla
fine del Canone romano, ma che non ha mai cessato di intro-
durvi la dossologia (28).

Dairimprovvisazione ai formulari fissi.


Il problema deiranno liturgico
Queste incongruenze, che ci sembrano il prezzo di un'im-
provvisazione liturgica lasciata sempre, e probabilmente per
troppo tempo, alle sorti della sua antica libertà, ci portano a
ritornare un'ultima volta su questo problema. Lo possiamo fare,
ora che abbiamo sotto gli occhi testimonianze tanto evidenti
non solo della varietà indefinita, ma anche della confusione qua-
si illimitata alle quali doveva condurre.
Dom Gregory Dix è uno dei rari autori che si siano interes-
sati di questo problema. Ma il suo punto di vista sembra poco
soddisfacente. Secondo lui, rimprovvisazione, in particolare per
la preghiera eucaristica, sarebbe rimasta la regola quasi univer-
sale fino al passaggio dal IV al V secolo. Allora, quasi simulta-
neamente, in Occidente come in Oriente, si sarebbe prodotta
una fissazione dei formulari. Ma in Occidente, quasi subito, una
nuova proliferazione avrebbe annullato questo risultato appena
acquisito. Non si tratterebbe più, tuttavia, di una ripresa delle
improvvisazioni, ma della composizione di nuovi formulari, su-
bito fissati per iscritto, in modo da adattarsi alle differenti feste
e periodi dell'anno liturgico. In Oriente vedremmo così succe-
dersi due fasi: improvvisazione e fissazione; in Occidente tre:
improvvisazione, fissazione, nuova varietà, derivata questa voi-
ta non più dalla libertà di improvvisazione, ma dalla volontà
di adattare i formulari ai tempi liturgici (29).
Una prima obiezione è che non si vede, specialmente in Oc-
cidente, né quando né dove questa fissazione effimera abbia avu-
to luogo. Una seconda è che sarebbe molto inverosimile, anche
supponendo che le autorità l'avessero voluta e ottenuta, che
proprio esse abbiano distrutto quasi subito l'uniformità imposta
con una nuova variabilità.

(28) Cf MM 562 (PL 85,554).


(29) Cf G. Dix, T h e S h a p e o f th e L it u r g y , pp. 527ss.

333
Di fatto, i documenti danno un’impressione del tutto diver-
sa. La stessa improvvisazione, molto prima del secolo V, e per-
fino prima del IV, ha dato luogo ben presto a testi scritti, in-
nanzi tutto per l’uso di quelli stessi che li scrivevano. Poi, mes-
si in circolazione, sono stati adoperati da coloro che erano ap-
parentemente meno dotati per questo genere di composizione.
Inoltre questa utilizzazione, come abbiamo visto, andrà per mol-
to tempo di pari passo con rimaneggiamenti successivi. Quan-
do l’autorità, in particolare per reagire contro l’eresia ariana e
contro le sue conseguenze, si preoccuperà di dare testi sicuri, si
limiterà il più delle volte, così almeno sembra, a canonizzare
composizioni che già per il prestigio dei loro autori (veri o pre-
sunti) e forse ancora di più per il loro interesse intrinseco, ten-
devano, se non a imporsi, almeno a generalizzarsi. Però, nono-
stante molte prescrizioni ripetute di prelati singoli o di concili,
l’accettazione tale e quale delle raccolte così composte e teori‫־‬
camente imposte riuscirà solo molto tardi - e solo parzialmente
- ad avere il sopravvento. La stessa ripetizione delle prescrizioni
in questo senso è un riconoscimento dei rimaneggiamenti, delle
combinazioni, delle aggiunte che si continuerà a praticare a
lungo, senza scrupolo. L’Oriente bizantino, nonostante il suo
cesaropapismo, non riuscirà mai ad imporre dappertutto, nella
propria cerchia, i due formulari (di san Giovanni Crisostomo
e di san Basilio) che pretenderà di canonizzare esclusivamente.
Non riuscirà nemmeno a fissarne il testo in modo definitivo.
L’Oriente sfuggito a Bisanzio, divenuto nestoriano o monofisita,
cesserà di crearsi nuovi formulari solo quando l’Islam vi avrà
soffocato progressivamente la cultura cristiana. Dove non avver-
rà questo soffocamento, come in Etiopia o presso i maroniti, la
creazione di nuovi formulari continuerà lungo tutto il medioevo.
In Occidente, Roma e le Chiese della sua cerchia adottaro-
no presto una forma fissa per la maggior parte degli elementi
della preghiera eucaristica che seguiva il Sanctus. Per il Com-
municantes e VHanc igitur, questa fissazione sarà molto tardiva
e mai completa. La prima parte, il rendimento di grazie prò-
priamente detto, non vi sarà inclusa neanche al giorno d’oggi.
Altrove, finché sopravvivranno i riti locali, questi non conosce-
ranno mai nulla di simile. È vero, sarà una caratteristica del-
l’Occidente che questa molteplicità delle formule, conservata
più a lungo, giungerà fino a noi in un quadro che le ha lasciato,

334
più profondamente che altrove, l’impronta delTanno liturgico.
]Via questo dipende prima di tutto dal fatto che la creazione del-
le nuove formule ha continuato fin dopo l’epoca in cui Tanno li-
turgico si è suddiviso. Nella proporzione in cui, anche in Orien-
te, come è il caso specialmente delTEtiopia, Timprovvisazione,
0 almeno la facoltà di nuove composizioni, è stata conservata in
concorrenza con una diversificazione più marcata dei tempi ec-
clesiastici, i risultati della prima vi riflettono anche Tevoluzione
della seconda.
Ma nelTOccidente medesimo, non bisogna aver fretta di
concludere che tutto quello che sarà finalmente messo in rap-
porto con un dato giorno sia stato composto proprio per questo
scopo. Quello che prima di tutto costatiamo nelle più antiche
raccolte è una classificazione di formulari di ricambio, che ten-
de a imporsi in funzione della loro possibilità di adattarsi a un
giorno piuttosto che a un altro. In molti casi resta una parte
considerevole di arbitrario: lo dimostra il fatto che, da una rac-
colta a un’altra, vediamo i medesimi testi ricevere assegnazioni
del tutto differenti. Sembra che solo molto adagio e gradatamen-
te si passerà dalTattribuzione immediata assegnata a formulari
più o meno omnibus (con o senza ritocco) alla composizione
deliberata di formulari con un oggetto particolare, determinato
sia dall’anno liturgico sia da un qualsiasi ufficio votivo. Abbia-
mo già fatto notare, per esempio, come i più antichi prefazi che
si sono mantenuti nel Messale romano, come per Pasqua, Natale
0 l’Epifania, avevano potuto essere, in principio, di uso gene-
rale, e potrebbero ancora oggi, senza grandi inconvenienti, es-
sere interscambiati. A maggior ragione, sono innumerevoli gli
esempi di super oblata o di post communionem che non hanno
motivi del tutto precisi di essere assegnati a una messa piutto-
sto che a un’altra. In realtà, tutte queste preghiere sono state
così sovente scambiate da una messa all’altra che, a volte, è
molto diffìcile dire per quale messa siano state composte in ori-
gine, e se lo siano state per uno scopo ben preciso.
Lo stesso fenomeno è più visibile nei libri gallicani 0 moza-
rabici. Non solo messe di ricambio domenicali o feriali non
hanno mai avuto alcuna attribuzione precisa, ma si può ritenere
che una buona metà di quelle parti che ne hanno avuto una non
siano mai state composte chiaramente per questo scopo, mentre

335
altre hanno potuto esservi applicate piuttosto per un felice in-
contro che per un disegno prestabilito.
Il post-secreta della messa di Natale del Missale gothicum
sembra proprio rientrare in quest’ultima categoria:
« Noi crediamo, o Signore, alla tua venuta (adventum) e
ricordiamo la tua passione. Il tuo corpo è stato spezzato
per la remissione dei nostri peccati, il tuo sangue è stato
sparso come prezzo della nostra redenzione... » (30).
Molto probabilmente è stata la presenza della parola adven‫־‬
tum a situare qui questa preghiera. Sembra poco probabile che
sia stata composta, di fatto, in vista del Natale. Molte parti, an‫־‬
che messe sotto la rubrica di una festa con un oggetto ben pre-
cisato, non hanno nemmeno un simile pretesto per giustificare
la loro presenza in quel posto anziché in un altro. Basti citare
il post-mysterium che si legge nella stessa raccolta per l’Assun‫־‬
zione della Vergine Maria. Non ha, evidentemente, nulla a che
fare né con questo mistero, e nemmeno con Maria:
« Scenda, o Signore, su questi sacrifìci lo Spirito Paraclito,
cooperatore eterno della tua benedizione: e riavremo, per
mezzo del [tuo] dono celeste, che santifica, Tofferta che
ti presentiamo del frutto della tua terra. Concedi, o Dio
onnipotente, per questo frutto trasformato nel tuo corpo
e per questo calice nel tuo sangue: diventi per noi un
merito ciò che abbiamo offerto per i nostri peccati... » (31).
Quando si è preso coscienza di questi fatti, la questione
dell’improvvisazione e della fissazione di autorità delle formule
liturgiche, specialmente delle formule eucaristiche, appare sotto
una nuova luce. In primo luogo, non è stata l’introduzione di
un anno liturgico abbondantemente ramificato a mantenere in
Occidente una certa variabilità dei formulari. È stata, invece,
la persistenza deirimprovvisazione, più o meno controllata, più
o meno contenuta dall'autorità, a produrre a poco a poco una
conformazione (a dire il vero, in gran parte artificiale, realizza-
ta a cose fatte) delle formule della preghiera eucaristica al di-
segno particolareggiato di tale anno. Se, d’altra parte, lo stes-
so Oriente bizantino ha potuto imporre, più o meno bene, l’uso

(30) MGo 19. - PE 472; EEFL 2403.


(31) MGo 100.- P E 492.

336
esclusivo di due soli formulari, e Roma quello di uno solo, ma
per una parte soltanto deireucaristia, ciò è stato innanzi tutto
perché si sono trovati alcuni esempi di composizioni così riu-
scite che !,autorità non ha avuto che da appoggiare, o tutt’al
più da sollecitare, un movimento spontaneo verso l’unificazio-
ne. Nell ,estremo Occidente, esattamente come in Etiopia o
presso i siriani sfuggiti all’orbita di Bisanzio, la continuazione
deirimprovvisazione fino a una data così avanzata dipende dal-
la molteplicità di formulari che erano passabili, ma in cui non
s’imponeva !,autorità di un grande nome, né qualche valore ec-
cezionale, almeno in proporzione della mancanza di sforzi cen-
tralizzatori da parte di un’autorità imperiale o pontificia. Se
Roma stessa, fino ad oggi, ha permesso una molteplicità e per-
fino una moltiplicazione continua almeno dei prefazi nell’euca-
ristia, è stato semplicemente perché non si è mai avuto un te-
sto di una pienezza o di un’autorità tale da imporsi su tutti,
ma soltanto una varietà di testi, che si prestano più ad essere
complementari nella loro alternanza che a determinare l’esclusi-
va predominanza di uno di essi.
Rimane tuttavia da chiarire una questione che viene posta
inevitabilmente dai sacramentari gallicani e mozarabici. In es-
si vi sono molte messe in cui mancano certe parti. Si trova,
per esempio, una immolatio-contestatio, o una illatio, senza post-
sanctus, o senza post-prìdie o post-mysterium, o addirittura sen-
za nessuno dei due. In questo caso, che cosa faceva il cele-
brante? Sono possibili tre ipotesi. O prendeva a caso un brano
sufficientemente neutro da un altro punto della raccolta, o im-
provvisava ancora per completare quello che mancava, oppure,
come pensa mons. Eugraf Kowalevsky, ricorreva a un ipotetico
omnibus: a un formulario per tutti gli usi, destinato a colmare
le lacune del proprio. L’unico fondamento possibile per quest’ul-
tima supposizione è il Missale omnium offerentium. Esiste pe-
rò solo in manoscritti molto tardivi, e la Missa omnimoda del
Liber ordinum di Silos, che vi si avvicina, non sembra essere
anteriore al secolo XI (32). È da questo Missale che Jiménez de
Cisneros avrebbe ricavato le formule fisse del Sanctus e delle
parole dell’istituzione (sempre assenti dagli antichi libri) per in-
serirle nel Missale mixtum che avrebbe stampato nel 1500. Ma

(32) M0LO 229243‫־‬.

337
la formula del racconto della Cena comincia con In qua nocte
tradebatur, malgrado il fatto che le preghiere che lo seguono
nella tradizione ispanica, siano sempre chiamate post-pridie.
Sembra dubbia l’ipotesi di un’influenza delle liturgie orientali
che avrebbe potuto ancora farsi sentire nel secolo XI. Questa
deroga all’antico uso sembra attestare semplicemente che, anco-
ra a quest’epoca, la libertà di improvvisazione, in Spagna, ri-
maneva sufficientemente viva perché il redattore di una messa
si credesse in diritto di utilizzare la formula paolina piuttosto
che la formula dei sinottici, anche contro una vecchia usanza lo-
cale. Se è così, a fortiori si sarà indotti a credere che gli offlcian-
ti del rito mozarabico, finché restò vivo, erano liberi sia di im-
provvisare per tutte le parti non fìsse in una data messa, sia di
ricorrere alle formule di un’altra messa.

ΙΛ< oratio fidelium » e le intercessioni del Canone


Ci rimane ancora un altro problema generale che l’esame del-
le liturgie gallicane e mozarabiche può permetterci di chiari-
re. È quello del rapporto tra le preghiere che accompagnano
l’offertorio, nella tradizione latina dette orationes (o oratio) fi-
delium, e le intercessioni e commemorazioni dell’anafora. I li-
turgisti che ignorano la tradizione giudaica e sono più o meno
affascinati dalla Tradizione apostolica tendono a spiegare la
presenza di tali preghiere nel canone eucaristico come un dop-
pione tardivo della oratio fidelium. C’è tuttavia un fatto gene-
rale che avrebbe dovuto metterli in guardia contro questa ipo-
tesi, ed è che in tutte le liturgie più o meno tardive i doppioni
che si osservano tra le preghiere del canone e quelle dell’offer-
torio manifestano più la tendenza ad anticipare i temi defl’eu‫־‬
caristia fin daH’offertorio, che non a trasportare nell’eucaristia
propriamente detta quanto abbia avuto il suo posto primitivo
tra essa e le letture. A prima vista, la liturgia gallicana e quella
mozarabica ~ le uniche liturgie evolute in cui queste invocazioni
e intercessioni sono assenti dall’eucaristia - sembrerebbero giu-
stifìcare l’ipotesi in questione. Anche qui, tuttavia, vi sono com-
posizioni che comportano queste intercessioni e commemora-
zioni, come il Baumstark ha già osservato (33), e che non si

(33) Cf A. Baumstark , L itu r g ie com parée, pp. 55, n. 3.

338
possono spiegare tutte per un'influenza del Canone romano. Es-
se inducono piuttosto a supporre uno stadio più antico che avreb-
be lasciato solo qualche sopravvivenza.
La soluzione di questo problema non può essere ottenuta
che da un esame più attento della stessa oratio fidelium. Il suo
studio completo richiederebbe un intero volume (34), per cui
ci limiteremo qui a darne un abbozzo che sia sufficiente per
quanto ci proponiamo. Nelle liturgie orientali, Yoratio fidelium
ha ovunque rivestito la forma di una ectenìa, cioè di una sue-
cessione di motivi di preghiere enunciati dal diacono, ai quali
il popolo risponde con una formula stereotipa (generalmente:
Κύριε έλέησον). Troviamo la stessa cosa nelle messe quaresima-
li ambrosiane, e sembra che sotto questa forma sia stata poi
praticata dalle liturgie dell'estremo Occidente.
La liturgia romana sembra però averci conservato una for-
ma più antica. È quella delle orationes sollemnes attualmente
recitate ancora il venerdì santo. Fino alla fine del medioevo
erano recitate anche nella messa del mercoledì santo, e Doni
Ma'ieul Cappuyns ha provato che si tratta proprio della forma
antica àt\Y oratio fidelium di ogni messa romana (35). Ad ogni
monizione (oggi detta dal sacerdote, ma che doveva in origine
essere enunciata dal diacono, dopo Voremus del sacerdote) fa
seguito un momento di preghiera in silenzio di tutti i fedeli, che
a questo scopo si inginocchiano. Dopo breve silenzio, il diacono
dà il segnale di rialzarsi e l'officiante conclude riassumendo, con
una colletta, quello che ha dovuto essere l'essenziale delle pre-
ghiere di tutti sul tema precedentemente indicato.
Questo è già sufficiente per sottolineare che Yoratio fidelium
deve essere interpretata strettamente. È la preghiera dei fedeli,
nel senso che è una preghiera che i fedeli sono invitati a fare
essi stessi, ciascuno per parte sua, con parole proprie. L'inter-
vento sia del diacono prima, sia del sacerdote dopo la preghiera,
non ha altro scopo che di guidarli, e non di sostituirsi ad essi.
Sembra che la liturgia del battesimo degli adulti ci permei-
ta di risalire a uno stadio ancora anteriore di questa oratio fi-

(34) Cf P. D e Clerck, L e « p r iè r e u n iv e r s e lle » d a n s le s litu r g ie s la-


tin e s a n c ie n n e s . T é m o ig n a g e s p a t r i s t i q u e s e t t e x te s litu r g iq u e s , Aschen-
dori!, Miinster 1977 (*).
(35) M. Cappuyns , L e s o r a tio n e s s o lle m n e s du V e n d r e d i- S a in t, in
QL 29 (1938) 18ss.

339
delium. A ogni scrutinio, infatti, al quale sono sottoposti, i Ca-
tecumeni vengono invitati a pregare. Si inginocchiano allora,
e pregano in silenzio per un istante. Poi Pofficiante li invita a
« completare » la loro preghiera. Si alzano e aggiungono YAmen
senza che Pofficiante pronunci nessuna formula.
Questo ci induce a supporre che in origine ci fosse sol-
tanto Pinvito a una preghiera silenziosa e personale, senza col-
letta conclusiva, e forse anche senza monizione iniziale alPin-
fuori di un invito generico alla preghiera.
Se adesso accostiamo tutto questo alla liturgia giudaica, non
possiamo fare altro che richiamare la prassi antichissima, man-
tenuta ancor oggi dalla Sinagoga, di far precedere la recita del-
le diciotto benedizioni della Tefitta, cantata solennemente dal-
Pofficiante, da una recita silenziosa da parte di ciascuno. Però
sappiamo dagli stessi rabbini che ciascuno, in origine, invece
di recitare per conto suo la Tefillà, si limitava a pregare libera-
mente in silenzio sui temi ben noti che sarebbero poi stati enun-
ciati ad alta voce nella preghiera dello Sheliah sibbur.
Così ritroviamo esattamente quello che in origine sembra
essere stato il rapporto tra Yoratio fidelium e le preghiere del-
Pofficiante, cantate in connessione con il Sanctus e i rendimen-
ti di grazie che gli sono collegati. È quindi proprio dalla recita,
da parte delPofficiante, di quella grande preghiera che fu in un
primo tempo la conclusione delPufficio delle letture, prima di
divenire Pinizio della preghiera eucaristica, che procedono le
ulteriori formulazioni àùYoratio fidelium, come mPanticipazio-
ne della preghiera sacerdotale e pubblica mediante una pre-
ghiera, che in origine era silenziosa e privata, di ogni fedele.
La preoccupazione di guidare questa preghiera ha creato tale
doppione, prima che la preghiera silenziosa - a cui la monizione
del diacono e Porazione del sacerdote davano una inquadratura
- venisse schiacciata tra queste due formule clericali sovrap-
poste.
La conclusione si impone: se la restaurazione àùYoratio fi-
delium è quanto mai auspicabile, non basta, per restaurarla dav-
vero, aggiungere preghiere diaconali o sacerdotali alPoffer-
torio (36), ma bisogna crearvi di nuovo quella preghiera per-

(36) Così è stato fatto (cf Istruzione I n t e r ()e c u m e n ic i, 26 sett. 1964,


n. 56) in ossequio alla Costituzione conciliare sulla sacra Liturgia, S a c ro -

340
sonale che la costituisce e che queste formule, anch’esse seconda-
rie, avevano come unico scopo di suscitare. A maggior ragione
sarebbe assurdo sottrarre aireucaristia, sotto la vana illusione
di ritornare allo stato originario, una preghiera sacerdotale che
si trova nel suo posto primitivo, per trasferirla dove è venuta
solo in un secondo tempo, per un semplice doppione pedagogi-
co, che rimarrà privo del suo senso originario finché occuperà
il posto della vera preghiera dei fedeli che doveva semplice-
mente ispirare: preghiera personale e silenziosa.

sanctum Concilium 53. Si veda anche De oratione communi seu fidelium.


Natura, momentum ac structura..., Libreria Editrice Vaticana 1966, pp.
182 (cf recensione in RivLit 55/4 [1968] 607608‫ ;)־‬A. N ocent, L’oratio
fidelium, in: G. Barauna, La sacra Liturgia rinnovata dal Concilio, Elle
Di Ci, Torino-Leumann 1965, pp. 437462‫)*( ־‬.

341
Capitolo XI

Il medioevo: sviluppo e deformazione

Abbondanza di formulari tardivi e loro sfasature


La nozione di « medioevo » è una delle più fluide. Abbrac-
eia una successione di epoche molto varie; è difficile dire quan-
do comincia, ed è altrettanto difficile precisare il momento in
cui termina. Dal nostro punto di vista si potrebbe dire che le
Chiese divenute nestoriane o monofisite dellOriente siriaco,
copto o armeno, sono entrate nel medioevo fin dall’istante in cui
hanno lasciato, sia spiritualmente che materialmente, l’orbita
bizantina. Nemmeno oggi si può dire che ne siano uscite. A
Bisanzio invece, se c’è un medioevo, esso è veramente separabile
dall’antichità patristica solo all’epoca della caduta di Costanti-
nopoli... cioè al tempo in cui siamo portati a credere che il me-
dioevo finisce in Occidente. Nella stessa Roma, si può far co-
minciare il medioevo subito dopo san Gregorio. Però, la maggior
parte del mondo occidentale vi era entrata da tempo.
Si comprende già che in questo studio noi chiamiamo « me-
dioevo » tutto ciò che cerca ancora di trattenere più o meno
bene la tradizione patristica, pur cominciando a non capirla
più. In seguito, essa vi si prolunga più per una vegetazione pa-
rassitaria di pratiche e di formule che per sviluppi coerenti.
C’è inoltre da aggiungere che questi non si spengono tutto d’un
tratto. E soprattutto quando si pensa in particolare all’Occi-
dente latino, non bisogna mai dimenticare che il medio-
evo non è tanto seguito da un rinascimento unico quanto
attraversato da « rinascimenti » successivi: nel IX, nel XII e
XIII secolo. Soprattutto il rinascimento del secolo XIII avrà po-
co meno importanza di quello che nei secoli XV e XVI sembre-
rà (ma sembrerà soltanto) spazzare via il medioevo.
Studiando qui solo la preghiera eucaristica, dovremo par-
lare innanzi tutto degli ultimi sviluppi - in realtà più deforma-
zioni che sviluppi - che l’eucaristia, in questo senso ristretto ma

342
originario, ha potuto conoscere. Poi arriveremo al problema del
« silenzio del canone », silenzio nel quale la preghiera eucari-
stica, in un modo molto significativo, è caduta quasi dovun-
que fin dall’inizio del periodo che stiamo studiando. Infine giun-
geremo alle nuovissime creazioni che hanno tentato quasi su-
bito di colmare questo silenzio. Esse avranno di mira prima di
tutto i fedeli, o i semplici chierici, che seguono la messa
del sacerdote, invece di prendere ancora parte alla messa con
lui. Ben presto però, lo stesso sacerdote avendo cominciato, per
forza di cose, ad essere anch’egli un semplice chierico, e prima
di tutto un laico più o meno pio, non riuscirà più ad entrare
nel silenzio del canone, che si suppone gli sia riservato, se non
introducendovi tutte le cianfrusaglie estranee di una pietà eu-
caristica di surrogato. In quel momento, nonostante sforzi spo-
radici di rinascenza, o di semplice reazione, la preghiera euca-
ristica non sopravvivrà più se non come un’autentica mummia,
rispettosamente imbalsamata e circondata da bende protettrici.
Potranno allora sopraggiungere dei « riformatori », ancora più
impazienti dei loro predecessori. Crederanno di dover soltanto
rimuovere quella vecchia reliquia disseccata per ritrovare l’eu-
caristia originale. Però, dopo questo ultimo colpo, non resterà
più niente.
La Chiesa bizantina, come abbiamo già detto, dopo aver
adottato successivamente le liturgie di san Basilio e di san Gio-
vanni Crisostomo, si è attenuta invariabilmente a questi due
testi, eliminando a poco a poco tutti coloro che avevano fatto
loro concorrenza. Se le generazioni successive dovevano svilup-
parvi considerevolmente le parti secondarie della liturgia eu-
caristica, non vi avrebbero quasi più modificato la preghiera
eucaristica, salvo varianti di scarsa importanza (1). La sola
eccezione su questo punto è un sovraccarico dell’epiclesi, par-
ticolarmente presso gli slavi: essa è stata raddoppiata con l’in-
troduzione di una preghiera rivolta direttamente allo Spirito
Santo, trasportata dall’ufficio divino all’eucaristia (2).
In fatto di preghiera eucaristica gli armeni sono stati quasi

(1) Cf il testo del C o d e x B a r b e r in i dato da E. F. Brightman e il te-


sto moderno che lo segue, nella sua edizione. Si veda a questo riguardo
P. N. T rembelas, Al τρεις Λειτουργίαι κατά τούς έν Αθήναις κώδικας,
Atene 1935.
(2) Cf J. Η. D almais , L e litu r g ie o r ie n ta li, Ed. Paoline, Roma 121982.

343
altrettanto conservatori, nonostante la ricchezza delle loro com-
posizioni in genere e la libertà delle loro mutuazioni da altre
tradizioni, dalla vecchia tradizione bizantina alle forme medie-
vali più evolute della liturgia romana. Dopo avere utilizzato
anch'essi san Giacomo, san Basilio e san Giovanni Crisostomo
si sono fìssati su una sola preghiera eucaristica, che attribui-
scono a sant'Atanasio di Alessandria, ma che sembra un rima-
neggiamento armeno di san Basilio o di san Giacomo, difficile
da datare. Nel passato hanno pure utilizzato versioni nella loro
lingua di liturgie siriache o egiziane più o meno tardive, come
quelle dette di sant'Ignazio o di san Gregorio Nazianzeno da
una parte, di san Cirillo dall·altra, come pure una misteriosa
liturgia di sant'Isacco (si tratta forse del vescovo nestoriano
Isacco di Ninive?) e un'altra liturgia, più o meno autoctona, at-
tribuita al loro grande missionario Gregorio l'Illuminatore (3).
Questa riduzione progressiva della varietà delle preghiere
eucaristiche a uno o a pochi modelli relativamente antichi non
è avvenuta nelle altre Chiese separate da Bisanzio, fatta ecce-
zione, in una certa misura, della Chiesa dei nestoriani. Non so-
lo !,antichissima liturgia di Addai e Mari, che hanno conserva-
to incastonata in uno sviluppo anch'esso molto antico, ma an-
che le altre due preghiere liturgiche di cui fanno uso, attribuen-
dole rispettivamente a Nestorio e a Teodoro di Mopsuestia, so-
no incontestabilmente di un'epoca antica (a parte alcune inter-
polazioni) (4).
I giacobiti di Siria, invece, pur conservando l'anafora di san
Giacomo, le hanno aggiunto numerose preghiere eucaristiche,
molte delle quali sono state conservate in uso anche dai maro-
niti. Brightman, alla fine del secolo scorso, segnalava 43 formu-
lari conosciuti, di cui soltanto 19 sono stati pubblicati nell'o-
riginale siriaco; gli altri sono accessibili attraverso le traduzio-
ni latine di Renaudot o di Assemani. Egli notava ancora 21
altre anafore conosciute, mai però pubblicate. Basta un'occhia-
ta ai dati più recenti del p. Hanssens per costatare fino a che34

(3) Cf I. H anssens , I n s t i t u t i o n e s litu r g ic a e : .., t. Ili, pars altera, Ro-


ma 1932, pp. 584ss. Cf J. M. Sauget, B i b lio g r a p h ie d e s litu r g ie s orien-
t a l e s , Roma 1962, pp. 44-45.
(4) Cf I. H anssens , o p . c i t . } pp. 622ss; J. M. Sauget, o p . c it., pp.
123-124.

344
punto queste cifre sono cresciute in mezzo secolo, e le nuove
scoperte non sono ancora finite (5).
Lo stesso è avvenuto presso i copti di Egitto. L'antica Chie-
sa d'Egitto, al di fuori della liturgia di san Marco - più o meno
influenzata nelle sue forme evolute dalle liturgie siriache - uti-
lizzava una forma arcaica della liturgia di san Basilio e un'ana-
fora attribuita a san Gregorio Nazianzeno, che è comunque un'a-
nafora siriaca recata nel deserto di Scete da monaci di tale
nazionalità. I documenti copti riportano delle versioni di que-
ste tre anafore (attribuendo generalmente quella di san Marco
a san Cirillo), che ci permettono sovente di risalire a uno sta-
dio dei testi greci più antico di quello che ci è direttamente ac-
cessibile. Ma essi comprendono un gran numero di altre pre-
ghiere eucaristiche posteriori, come la serie di anafore pubbli-
caie recentemente da Dom Emmanuel Lanne (6).
Dal canto loro gli etiopi, pur mutuando il loro fondo anti-
co dai copti e molte altre anafore dai siri e persino dagli armeni,
non hanno mancato di aggiungervi delle composizioni di loro
produzione, come l'anafora di Nostro Signore o quella di No-
stra Signora, o i testi attribuiti ai « 318 ortodossi » (i Padri del
Concilio di Nicea), a sant'Atanasio, a sant'Epifanio, ecc. Si tro-
va pure presso di loro, sotto il nome di Anafora degli Apostoli,
una combinazione dell'eucaristia di Ippolito con schema ed
elementi complementari improntati a san Marco-san Cirillo (7).
In Occidente, il Canone romano, una volta che si è impo-
sto dovunque, non varia quasi più, eccetto i prefazi. Molto
vari già fin dall'epoca patristica, arricchiti ancora con apporti
gallicani o mozarabici, non cesseranno di proliferare lungo tut-
to il medioevo.
Non si può pensare di esaminare nei particolari questa let-
teratura enorme, di cui una parte soltanto è stata pubblicata
(8). Ci accontenteremo di alcuni sondaggi. Essi ci riveleranno

(5) I. H anssens , op. cit., pp. 596ss; J. M. Sauget, op. cit., pp. llls s
e 104ss.
(6) I. H anssens , op. cit., pp. 635ss; J. M. Sauget, op. cit., pp. 82ss.
Cf E. Lanne, Le grand Euchologe du monastère blanc, in PO 28,2.
(7) I. H anssens , op. cit., pp. 638ss; J. M. Sauget, op. cit., pp. 94ss.
(8) Per una conoscenza più approfondita di questi testi tardivi,
dellOriente e dellOccidente, segnaliamo l’opera già più volte citata:
PE, specialmente la parte III e IV, e TEEFL (passim) (*).

345
ben presto che !,originalità consiste ormai soltanto in variazioni
più o meno felici, su temi già incontrati, quando non sia nega-
tiva. Di fatto, questa enorme produzione è dominata da una
tendenza generale a seppellire, se non già a disintegrare, i temi
primitivi e fondamentali dell’eucaristia sotto vegetazioni paras-
site. La tradizione che tenta di prolungarvisi riconosce che rie-
see a sostenersi solo molto imperfettamente. Quando non si è
fissata, tende soltanto a dissolversi.

L'eucaristia di Nestorio: teologia di scuola e biblicismo applicato


L,eucaristia che i nestoriani attribuiscono a Nestorio è sta-
ta per qualche tempo considerata da Baumstark come l’antica li-
turgia costantinopolitana, di cui quella di san Giovanni Cri-
sostomo non sarebbe che un’abbreviazione. Schermami ha vi-
sto molto bene l’insostenibilità di questa ipotesi, e Dom Engber-
ding l’ha dimostrato così chiaramente che Baumstark, con una
disponibilità poco comune nei critici, ha riconosciuto franca-
mente il suo errore (9). È stato invece proprio il formulario
attribuito a san Giovanni Crisostomo, o forse il suo vecchio an-
tecedente antiocheno, che ha dovuto subire numerose iniezioni
scritturistiche e teologiche per dare il formulario detto di Ne-
storio. Bisogna anche ammettere che, fra queste aggiunte, vi è
perlomeno un brano che sembra difficilmente attribuibile a un
redattore del V secolo (10).
Ecco prima di tutto la parte della preghiera che va fino al
racconto dell’istituzione compreso:
« È cosa degna, conveniente e giusta che noi ti lodiamo,
ti glorifichiamo, ti adoriamo, ti esaltiamo sempre e in ogni
tempo, o Signore, forte, eterno, Dio Padre onnipotente,
immutabile. Infatti tu sei il Dio vero, incomprensibile, in-
finito, inspiegabile, invisibile, semplice, non percepibile dai
sensi, immortale, sublime, e al di sopra del pensiero e
delPintelligenza di tutte le creature; tu sei in ogni luogo e

(9) Cf A. Baumstark , Liturgie comparée, pp. 6263‫־‬.


(10) Per il testo siriaco, cf Tedizione anglicana: Liturgia sanctorum
Apostolorum..., Urmia 1890, pp. 40ss; traduzione latina in: E. Renau-
dot, Liturgiarum orientalium collectio, t. II, Paris 1712, pp. 627ss. - PE
387-396.

34 6
non sei contenuto in alcun luogo: tu e il tuo unico Figlio
e il tuo Spirito Santo.
Donaci tu stesso, o Signore, la parola, perché noi apriamo
la bocca alla tua presenza e ti offriamo, con cuore con-
trito e con spirito umiliato, il frutto spirituale delle nostre
labbra, [il nostro] culto ragionevole. Tu sei il nostro Dio
e il Padre del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, no-
stra speranza, nel quale sono stati nascosti tutti i tesori
della sapienza e della scienza, e per mezzo del quale ab-
biamo ricevuto la conoscenza dello Spirito santo: lo Spi-
rito di verità che procede da te, 0 Padre, ed è della stessa
natura misteriosa della tua divinità. Per mezzo di lui
tutte le nature razionali, visibili o invisibili, sono fortifì-
cate e santificate e perfezionate: e a te, al tuo unico Figlio
e al tuo santo Spirito esse offrono in ogni tempo una lode
senza fine.
Tutto è opera tua e tu ci hai fatti e tratti dal nulla al-
resistenza. Noi abbiamo peccato e siamo decaduti, ma,
quando stavamo per perire nella nostra miseria, tu ci hai
rinnovati, rialzati e riscattati; non hai smesso di visitarci
nella tua grande sollecitudine, per farci risalire al cielo e
per darci, con la tua misericordia, il tuo Regno futuro.
Per tutti questi benefici, noi ti rendiamo grazie in verità,
Dio Padre, come pure al tuo unico Figlio e al tuo Spirito
vivo e santo; noi ti adoriamo per tutti questi benefici che
ci hai accordato, tanto per quelli che conosciamo come per
quelli che ignoriamo, per i manifesti e per gli occulti. Ti
rendiamo grazie anche per questo ministero, supplicandoti
di riceverlo dalle nostre mani: chi, infatti, sarebbe in grado
di raccontare le meraviglie della tua potenza e celebrare
tutte le tue lodi? Se anche tutte le creature non fossero
che una sola bocca e una sola lingua, esse non basterebbe-
ro, o Signore, a parlare della tua maestà. Perché, davanti
alla tua Trinità, o Signore, stanno milioni e miriadi di
Angeli: tutti insieme volando senza posa e per sempre, ad
alta voce e incessantemente lodano, esultano, gridano uno
all'altro, dicendo e rispondendosi:
Santo, Santo, Santo, o Signore, forte, di cui i cieli e la
terra sono pieni!
E insieme a queste potenze celesti, anche noi, o Signore
buono e Dio misericordioso, gridiamo e diciamo: tu sei
veramente santo, veramente degno di essere glorificato,
esaltato, celebrato; tu hai reso degni i tuoi adoratori che
sono sulla terra di essere fatti simili a quelli che ti glori-

347
fìcano nei cieli. Santo è anche il tuo unico Figlio, nostro
Signore Gesù Cristo, con lo Spirito santo. Egli [cioè questo
Figlio] coesiste con te da tutta !,eternità, avendo in comune
con te la stessa natura, ed è Fautore di tutte le creature
Noi benediciamo, o Signore, il Dio Verbo, il Figlio na-
scosto, che procede dal tuo seno, il quale, pur essendo
simile a te e immagine della tua sostanza, non ha consi‫־‬
derato come una rapina !,uguaglianza con te, ma ha an■
nientato se stesso e ha preso la forma di schiavo, uomo
perfetto con un’anima razionale, intelligente e immortale
e con un corpo umano mortale, che ha congiunto a se stesso
unendoselo nella gloria, nella potenza e nell’onore, mentre
era passibile per natura: lui che è stato formato per virtù
di Spirito santo per la salvezza di tutti, fatto da una donna,
fatto sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto
la legge e per vivificare tutti coloro che erano morti in
Adamo,
Egli ha distrutto il peccato nella sua carne e ha distrutto
la legge dei precetti coi suoi precetti; ha aperto gli occhi
della nostra mente accecata, ha appianato per noi la via
della salvezza e ci ha illuminati con la luce della cono‫־‬
scenza divina. A coloro infatti che l’hanno ricevuto, ha
dato il potere di diventare figli di Dio; ci ha purificati, ha
espiato per noi col battesimo di acqua santa e ci ha santi-
ficati con la sua grazia nel dono dello Spirito santo. Ha
risuscitato coloro che sono stati sepolti con lui mediante
il battesimo, li ha innalzati, li ha portati in cielo con sé,
secondo la sua promessa.
Siccome aveva amato i suoi in questo mondo, li amò fino
in fondo; essendosi offerto al nostro posto alla pena dovuta
per il peccato della nostra stirpe, per la vita di tutti, ha
dato se stesso alla morte che regnava su di noi e al cui
potere eravamo sottomessi: essendo stato venduto per i
nostri peccati, col suo sangue prezioso ci ha riscattati e
salvati, è disceso agli inferi e ha sciolto i nodi della morte
che ci divorava. Ma, siccome era giusto che non fosse
trattenuto negli inferi dalla morte il principe della nostra
salvezza, il terzo giorno è risuscitato dai morti, primizia
di coloro che si sono addormentati, in modo che fosse il
primo in tutte le cose; è salito al cielo e si è assiso alla
destra della tua maestà, o Dio. Egli ci ha lasciato il memo-
riale della nostra salvezza, questo mistero che abbiamo
offerto alla tua presenza.
Perché, quando giunse il tempo in cui veniva consegnato

348
per la vita del mondo, dopo aver cenato, nella Pasqua della
legge di Mosè, egli prese del pane nelle sue mani sante,
immacolate e senza macchia, lo benedisse, lo spezzò, ne
mangiò e ne diede ai suoi discepoli dicendo: Prendete, man-
giatene tutti, questo è il mio corpo che è spezzato per voi
in remissione dei peccati. Così pure mescolò nel calice il
vino e Pacqua, lo benedisse, ne bevette, ne diede ai suoi
discepoli e disse: Bevetene tutti, questo è il mio sangue
della nuova alleanza, sparso per un gran numero in re-
missione dei peccati: fate questo in memoriale di me fino
a che io venga. Tutte le volte, infatti, che voi mangerete
di questo pane e berrete di questo calice, annuncerete la
mia morte fino alla mia parusìa. Chiunque, con vera
fede, vi si accosterà per parteciparne, siano per lui, o Si-
gnore, a remissione dei peccati, a grande speranza della
■J risurrezione dai morti, e per la nuova vita nel Regno
dei cieli ».
Questa preghiera ha senza dubbio degli aspetti molto belli,
come quello di cominciare la seconda parte del rendimento di
grazie col glorificare Dio per il fatto stesso di averci permesso
di ubirci alla glorificazione che gli tributano gli spiriti celesti.
Tuttavia si può trovare anche qui come una prima radice degli
sviluppi soggettivi che dovevano portare a quelle apologie con
le quali il sacerdote, prima di compiere la sua funzione col pro-
clamare i mirabilia Dei, avrebbe mescolato suppliche e ren-
dimenìi di grazie per il favore tremendo che gli è concesso di
stare alTaltare. Soprattutto poi Tinsieme del testo, se richiama
evidentemente Taltro grande esempio di anafora teologica e bi-
blica dovuto a san Basilio, e dal quale mutua molti elementi,
non regge però al confronto. Si potrebbe dire delTeucaristia di
Nestorio che fa Teffetto di una anafora basiliana doppiamente
mancata. Non meno dottrinale e non meno scritturistica, non
riesce tuttavia a fondere le reminiscenze bibliche in un tutto
organico, né a imprimere alla sua teologia la grande linea con-
tinua della storia della salvezza. Le citazioni dei libri sacri non
sono che una successione di riferimenti, come in un mediocre
trattato scolastico. Non poteva essere diversamente, dal mo-
mento che la stessa teologia non era più lo sviluppo di una con-
templazione della Parola divina, ma un semplice accumularsi
di digressioni scolastiche.
Ritroveremo le stesse carenze, ancora più numerose se è

349
possibile, neiranamnesi. Come altre preghiere più o meno tar-
dive che abbiamo già incontrato, essa tende verso la professio-
ne di fede in perfetta regola. Inoltre, non sa resistere alla ten-
tazione sia di accumulare riferimenti, sia di perdersi in divaga-
zioni altrettanto inutili. !/intercessione che segue, anch’essa pro-
lissa, è meglio riuscita.
« Anche noi, Signore Dio, Padre forte, commemoriamo
questo comando e la salvezza che è stata compiuta per noi.
Prima di ogni cosa, noi ti crediamo e proclamiamo te, Dio
il Padre vero, e il Figlio eterno, unico, della [tua] divinità
che procede da te, unito a te con la sua consostanzialità;
proclamiamo la sua ammirabile economia che si è rea-
lizzata mediante la nostra umanità e che ci è stata di-
spensata per la nostra salvezza; proclamiamo la croce e la
passione, la morte, la sepoltura, la risurrezione al terzo
giorno, !,ascensione al cielo, Passidersi alla destra e la
seconda venuta nella gloria del nostro Signore Gesù Cristo,
nella quale egli deve giudicare i vivi e i morti, e rendere
a ciascuno secondo le sue opere. Così noi proclamiamo lo
Spirito santo, che è della sostanza gloriosa della tua divi-
nità, il quale con te e con il tuo [Figlio] unigenito, è
adorato e glorificato. Noi ti offriamo questo sacrificio vi-
vente, santo, gradito, glorioso e incruento, per tutte le
creature; per la Chiesa santa, apostolica e cattolica, da
un'estremità all'altra della terra, affinché tu la conservi
nella tranquillità e al riparo da ogni scandalo: non vi sia
in lei né macchia, né sozzura, né ruga, né altra bruttura.
Tu infatti hai detto per mezzo del tuo unico Figlio, nostro
Signore Gesù Cristo, che le porte dell'inferno non avreb-
bero prevalso contro di essa.
[Noi ti offriamo questo sacrificio] per tutti i Vescovi
di ogni luogo e di ogni regione, che annunciano la parola
ortodossa della vera fede. E per tutti i Sacerdoti, che com-
piono il loro sacerdozio alla tua presenza, nella giustizia
e nella santità della verità. E per tutti i Diaconi, che con-
servano il mistero della tua fede in una coscienza pura. E
per tutti i ceti del tuo popolo pio e santo in ogni luogo. E
per tutti coloro che scientemente o nell'ignoranza hanno
peccato e ti hanno offeso. E per me, tuo servo indegno e
colpevole, che con la tua grazia hai reso degno di offrire
davanti a te questa oblazione. E per tutti coloro che danno
lustro alla tua santa Chiesa con opere di giustizia in
modo lodevole. E per tutti coloro che effondono le loro

350
elemosine sui poveri. E per tutti i re fedeli e per la sta-
bilità del loro regno. E per tutti i principi e i potenti di
questo secolo; noi ti preghiamo e ti supplichiamo, o Si-
gnore: confermali nel timore, imprimi in essi la tua verità
e sottometti loro tutte le nazioni barbare.
Noi invochiamo la tua divinità, o Signore, perché tu re-
spinga le guerre alle estremità della terra e disperda le
nazioni che vogliono la guerra, affinché noi dimoriamo
nella tranquillità e nella serenità, in ogni temperanza e
timore di Dio. E per i frutti della terra, la salubrità del-
l’aria, affinché tu benedica la fine dell’anno con la tua
grazia.
[Noi ti offriamo questo sacrifìcio] per questa località e
per coloro che vi abitano, perché tu abbia pietà di essi,
li benedica, li conservi e li protegga con la tua clemenza.
E per tutti coloro che viaggiano, in mare o per le strade.
E per tutti coloro che sono in catene, nell’angoscia, nelle
persecuzioni, sono oppressi e nel turbamento a causa del
tuo nome. E per tutti coloro che sono in esilio, nelle tri-
bolazioni e nelle prigioni, mandati in isole lontane e a un
supplizio senza fine, o sottomessi a una dura schiavitù. E
per tutti i nostri fratelli prigionieri; noi ti supplichiamo, o
Signore, soccorri anche tutti coloro che sono afflitti da
dolori e da penose infermità.
Noi invochiamo infine la tua misericordia, o Signore, dalla
tua grazia, per tutti i nostri nemici, per coloro che ci
odiano, e per tutti coloro che pensano male di noi; non
per il giudizio, né per la vendetta, o Signore, Dio forte,
ma per le misericordie, la salvezza e la remissione dei pec-
cati, perché tu vuoi che tutti gli uomini vivano e si con-
vertano per riconoscere la verità. Tu, infatti, ci hai ordì-
nato, per mezzo del tuo Figlio prediletto, nostro Signore
Gesù Cristo, di pregarti per i nostri nemici, per coloro che
ci odiano e ci dominano violentemente e ingiustamente...
... Signore Dio potente, noi ti supplichiamo, benedicendoti
e adorando alla tua presenza: converti gli erranti, illumina
coloro che sono nelle tenebre, conferma i deboli, rialza
coloro che sono caduti, sostieni coloro che sono in piedi,
e tutto quello che può essere conveniente e utile, procu-
ralo a tutti con le tue misericordie.
Noi ti preghiamo e ancora ti supplichiamo, Signore, di ri-
cordarti, in questa oblazione, dei Padri, dei Patriarchi, dei
Profeti, degli Apostoli, dei Martiri, dei Confessori, dei
Dottori, dei Vescovi, dei Sacerdoti, dei Diaconi, e di tutti

3 51
coloro che hanno partecipato al nostro ministero e hanno
lasciato questo secolo, e di tutti i nostri fratelli in Cristo
che sono partiti da questo secolo nella vera fede, i cui
nomi ti sono noti: sciogliendo e rimettendo tutti i loro pec-
cati, tutto quello in cui essi ti hanno offeso, come a uomini
esposti all’errore e alle passioni, per la preghiera e l’inter-
cessione di coloro che sono stati trovati graditi davanti a te.
Guarda a noi e abbi pietà di tutti, dei tuoi servi e delle
tue serve, che stanno davanti al tuo altare. Rendici degni
di aver parte aH’eredità dei santi nella luce e donaci, nel-
l’abbondanza della carità e nella purezza dei pensieri, di
vivere davanti a te, in questo secolo in cui siamo pelle-
grini, nel possesso di una conoscenza precisa della vera
fede in te, e col comunicare ai tuoi misteri temibili e santi,
in modo da non essere confusi e condannati, quando sa-
remo davanti al trono terribile della tua maestà. E come
in questo secolo ci hai resi degni di trattare i tuoi misteri
temibili e santi, accordaci, nel secolo futuro, di parteci-
pare, a volto scoperto, a tutti i beni che non passano e non
periscono. Quando tu completerai quello che noi raggiun-
giamo qui in figure e in enigmi, possiamo noi possedere
laggiù chiaramente il santo dei santi nel cielo ».

Abbiamo omesso un’apologià prolissa del celebrante, che


viene a interrompere, per una pagina, la preghiera per la Chie-
sa. Sembra difficile attribuirla al testo primitivo, malgrado la sua
tendenza alle digressioni. L’epiclesi, che viene al termine della
preghiera, secondo l’ordine proprio delle liturgie siro-orientali,
tanto qui come nella forma lunga dell’eucaristia di Addai e Ma-
ri, è introdotta da una ripresa del tema dell’anamnesi, che nel-
la liturgia di Teodoro si trova invece tutta intera all’inizio delle
intercessioni.
« Noi, dunque, o Signore, tuoi servi inutili, deboli e in-
fermi, che eravamo lontano da te, e tuttavia tu per Γίηίί-
nita tua misericordia hai reso degni di stare e di com-
piere alla tua presenza questo ministero temibile, glo-
rioso ed eccellente, supplichiamo la tua divinità adorabile,
che restaura tutte le creature: venga, o Signore, la grazia
dello Spirito Santo, rimanga e riposi su questa oblazione
che abbiamo offerto alla tua presenza; la santifichi e faccia
di questo pane e di questo calice il corpo e il sangue del
nostro Signore Gesù Cristo, trasformandoli tu stesso e
santificandoli con l’operazione dello Spirito Santo in modo

352
che la recezione di questi santi misteri sia per tutti
coloro che vi parteciperanno [sorgente di] vita eterna, di
risurrezione dai morti, di espiazione dei corpi e delle
anime, di illuminazione della conoscenza, di fiducia da-
vanti a te e della salvezza eterna di cui tu ci hai parlato
per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore: perché tutti in-
sieme siamo resi unanimi da uno stesso legame di carità
e di pace, e diventiamo un solo corpo e un solo spirito,
come siamo stati chiamati in una sola speranza della nostra
vocazione.
Nessuno ne mangi e ne beva per la condanna del suo
corpo e della sua anima: e non ne derivi per lui malattia
o infermità a causa dei suoi peccati per aver mangiato
di questo pane e bevuto di questo calice indegnamente.
Sia piuttosto costui fortificato e confermato da tutto ciò
che ti è gradito, in modo che noi siamo degni di comuni-
care con buona coscienza al corpo e al sangue del tuo
Cristo.
Quando saremo davanti a te, a quel tribunale tremendo e
glorioso, alla presenza del trono della tua maestà, pos-
siamo noi ottenere misericordia e grazia, godere dei beni
futuri che non passeranno affatto, con tutti coloro che in
tutti i secoli ti sono stati graditi, per la grazia e le mise-
ricordie del tuo unico Figlio con il quale, Signore, siano
a te gloria, onore, potenza ed esaltazione, come pure al
tuo Spirito vivo, santo e santificante, ora e sempre e nei
secoli dei secoli» (11).
Anche qui, come si vede, le intuizioni felici sono purtroppo
soffocate da abbondanti dissertazioni che sanno più di cattedra
professorale che di altare. Va comunque sottolineata, nell’epi-
desi che chiude le intercessioni, come pure nel loro aggancio
a partire dall’anamnesi, la profonda visione dottrinale che met-
te la Chiesa e il suo compimento prima di tutto nella santità
e poi nell’unità, al principio e alla fine della supplica inclusa
nell’eucaristia.
Abbiamo voluto citare ancora integralmente questo testo no-
nostante le sue lungaggini pesanti, o meglio, a causa di esse.
Vi si vede infatti come l’eucaristia, fin dalla fine del periodo
patristico, tende a gonfiarsi in una retorica dapprima sempli-
cernente pedante, ma che diventerà presto un pio cicaleccio.

(Il) E. Renaudot, o p . c it., pp. 633ss. - PE 395-396.

353
!/eucaristia armena: fedeltà alla tradizione con sviluppi nuovi
Tuttavia, tra questa letteratura eucaristica tardiva, possia-
mo ancora trovare esempi meglio riusciti di una nuova espressio-
ne dei soliti temi. Il migliore è forse quello deireucaristia ar-
mena, nella forma che doveva prevalere e che i suoi libri attri-
buiscono (senz'ombra di verosimiglianza) a sant'Atanasio di
Alessandria. Abbiamo già detto che la liturgia armena è una
delle più eclettiche nelle sue fonti, e insieme anche delle più
creatrici di brani o di particolari rituali originali. Essa possie-
de inoltre il raro privilegio di sintetizzare tutto questo in unità
organiche che mantengono, nella sovrabbondanza orientale, una
bellezza fastosa ma sempre ordinata. L'emozione pia vi può ar-
rivare al colmo, senza che il sentimento del sacro ne sia mai
turbato. Basterebbe un nulla perché questa liturgia super-bizan-
tina cadesse nel teatrale e nel patetico, ma un senso estetico e
religioso che non manca mai ve la preserva sempre. In nessun
altro punto si trovano più evidenti questi caratteri come in que-
st'ultima delle antiche preghiere eucaristiche che citeremo in‫־‬
tegralmente.
Generalmente è considerata come un rimaneggiamento del-
l'anafora di san Basilio, però, malgrado analogie con questo te-
sto, ci pare che segua piuttosto lo sviluppo di san Giacomo.
Gli interventi, da una parte, dei fedeli (in realtà ora sostituiti
dal coro) e, dall'altra, del diacono, che a poco a poco hanno in-
vaso tutte le liturgie orientali, non finiscono quasi più di in-
terrompere la preghiera del celebrante per parafrasarla. Questo
commento arriva già a ricoprire il suo oggetto. Ma è interessan-
te vedere in questa liturgia il raro esempio di un'evoluzione che
ha saputo, malgrado ciò, fermarsi proprio al punto in cui l'e-
quilibrio tra la tradizione e la novità minacciava di rompersi
( 12).

(12) Seguiamo il testo dato n e l l ’O r c io d i v i n a e M is s a e A r m e n o r u m ,


pubblicato a Roma nel 1644. Traduzione latina e ,francese in P. Lebrun,
nel tomo III (della nuova edizione del 1843) della sua E x p lic a tio n ... d e s
p r iè r e s e t c é r é m o n ie s d e la M e s s e , pp. 156ss. - Una versione latina, più
significativa, secondo il M is s a le A r m e n o r u m (Gerusalemme 1873) e la
M is s a a r m o n ic a (R i t u s M is s a e E c c le s ia r u m O r ie n ta liu m ..., Ratisbona
1908) delLeucaristia di sant'Atanasio di Alessandria, in PE 319-326.

354
Il sacerdote dice:
« La grazia, Lamore e la divina potenza del Padre e del
Figlio e dello Spirito Santo siano con voi e con tutti.
Il coro: E con il tuo spirito ».
Il diacono (invece del sacerdote) continua:
« Le porte! Le porte! Con saggezza e attenzione! Alzate
le vostre menti nel timore di Dio.
Il coro: Sono rivolte verso di te, onnipotente.
Il diacono: Rendete grazie al Signore con tutto il vostro
cuore.
Il coro: È cosa degna e giusta e salutare [rendergli gra-
zie], perché in ogni luogo è sacrificato il Cristo di Dio. I
Serafini fremono, i Cherubini tremano, e tutte le potenze
celesti esclamano e dicono... ».

Durante quest’ultima risposta, il sacerdote dice a voce som-


messa tutto l’inizio dell’eucaristia:
« È veramente cosa degna e giusta glorificarti e con tutte
le nostre forze adorarti sempre, o Padre onnipotente: tu
hai spezzato il legame della maledizione per mezzo del tuo
Verbo ineffabile e con te creatore, il quale si è formato la
sua Chiesa dai popoli che credono in te, e si è compiaciu-
to di abitare tra noi nelPumiltà della nostra natura, secon-
do l'economia che si è realizzata nella Vergine, e ha fatto
così della terra un cielo, mediante un'opera nuova, crea-
zione tutta divina. [Il tuo Verbo] di cui gli eserciti ce-
lesti, pieni di timore per la sfolgorante e inaccessibile luce
della divinità, non potevano sopportare lo splendore, si è
fatto uomo per la nostra salvezza e ci ha permesso di
unire le nostre voci ai cori celesti...».

Prosegue poi ad alta voce:


« e di osare unanimemente, coi Serafini e i Cherubini,
acclamare con sicurezza, ed esclamare dicendo: Santo, san-
to, santo, o Signore Dio delle Potenze».

Allora il coro canta:


« Santo, santo, santo, o Signore Dio delle Potenze. I cieli
sono pieni della tua gloria: benedizione nell'alto dei cieli.
Benedetto tu, che sei venuto e che verrai nel nome del
Signore. Osanna nell'alto dei cieli».

355
Per ora lasciamo da parte questo esempio sorprendente
il primo che incontriamo - di uno sviluppo tardivo dei canti
del coro che soffocano nel silenzio un elemento fondamentale
della preghiera eucaristica pronunciata dal celebrante. Sembra
che tocchiamo qui la prima se non la sola origine di questo « si-
lenzio del canone » che sarebbe ben presto diventato univer-
sale. Ci ritorneremo. Notiamo piuttosto, per ora, l’introduzione
fin dalle prime parole dell’eucaristia sacerdotale, dopo la men-
zione della creazione e della caduta, del tema della Chiesa. Si
svilupperà magnificamente nell’idea, presente anche nel testo
di Nestoiio, dell’unione della terra al culto angelico. Ma non
vediamo alcuna tendenza a ridurre per questo l’eucaristia a
qualche soggettivismo: al contrario si apre davanti a noi la vi-
sione più oggettiva del mistero, la terra diventando il cielo e
l’umanità integrandosi ai cori celesti.
Una conseguenza curiosa di questa visione sembra rispec-
chiata nella formula del Sanctus. Mentre l’antica Qedussà giu-
daica parlava solo della terra, piena della gloria di Dio, e i primi
Sanctus cristiani (d’altronde ispirati, come abbiamo detto, dai
targum) vi univano il cielo, nel Sanctus armeno rimane soltanto
il cielo. La benedizione, seguita ma non preceduta dall’Osanna,
si apre anch’essa alla visione apocalittica di colui « che è venuto
e che verrà ».
Il sacerdote continua di nuovo a voce sommessa, mentre il
coro canta il Sanctus :
« Santo, santo, santo, tu sei veram ente santo: chi pò-
irebbe pretendere di esprim ere con parole le tenere effu-
sioni della tu a im m ensa bontà per noi? Fin dall'inizio,
rialzando in tanti m odi l'uom o decaduto, tu l'h ai consola-
to coi profeti, col dono della legge, con un sacerdozio in
cui le vittim e offerte erano figurative: m a, negli ultim i
tem pi, stracciando interam ente la carta di condanna ri-
guardo ai nostri debiti, tu ci hai dato il tuo unico Figlio,
per pagare p er noi, per essere il nostro riscatto, p er essere
la vittim a, l'u n to , l'agnello, il pane celeste, il sommo sa-
cerdote e il sacrificio che, sebbene distribuito perennem en-
te tra di noi, non può essere consum ato. Poiché, essen-
dosi fatto veram ente uom o, e avendo preso carne con una
unione senza m escolanza dalla divina e santa Vergine Ma-
ria, è passato nei giorni della sua carne attraverso tutte
le sofferenze della vita um ana, eccetto il peccato, e, per

356
salvare il m ondo e per la nostra salvezza, si è consegnato
volontariam ente alla croce.
Egli, prendendo il pane nelle sue m ani sante, divine, im-
m ortali, im m acolate e creatrici, lo benedisse, rese grazie,
10 spezzò e lo diede ai suoi discepoli eletti e santi, m entre
essi erano a tavola con lui, dicendo:
11 d i a c o n o i n t e r r o m p e : Benedici! S ignore».

Il sacerdote co n tin u a a v o c e alta:

« P rendetene, m angiatene tutti: Q uesto è il m io corpo


che è distribuito p er voi in espiazione dei peccati.
I l d i a c o n o : A m en. Benedici! S ignore».

Il sacerdote, di nuovo a voce sommessa:


« Allo stesso m odo prendendo il calice, lo benedisse, rese
grazie, ne bevve e lo diede ai suoi discepoli eletti e santi,
m entre essi erano a tavola con lui, dicendo ( i l s e g u i t o a
v o c e a l t a ) : P rendete, bevetene tutti, questo è il m io san-
gue della nuova alleanza che è sparso per voi e p er u n a
m oltitudine in espiazione e rem issione dei peccati ».

Il diacono aggiunge un duplice Amen, e il coro canta:


« Padre celeste, che hai consegnato per noi alla m orte il
tuo Figlio carico dei nostri peccati, ti supplichiam o: p er
!’effusione del suo sangue, abbi pietà del tuo gregge
um ano ».

Si noterà l'analogia con l'anafora di san Basilio, in quanto


una litania delle espressioni bibliche che definiscono il compì-
to redentore di Cristo si trova centrata su un testo paolino di
importanza capitale (ma qui è Col 2, come in san Giacomo):
quello che evoca il chirografo dei nostri peccati inchiodato alla
croce. Tutto è stato ora unificato in una visione della redenzio-
ne specificamente sacerdotale, sebbene alle immagini sacrificali
si sovrapponga incessantemente l'immagine del debito pagato.
Nello stesso tempo, tutta la preghiera spira un'atmosfera par-
ticolarissima di devozione affettiva (vicina a san Giacomo), ma
anche di penitenza. È un bell'esempio di quanto l'antica ascesi
monastica compendiava nella parola compunzione (κατάνυξις).
Si trova la più ampia espressione di questa caratteristica della
tradizione armena nel bel libro di preghiere di Gregorio di

357
Narek, che doveva rimanere, fino ai giorni nostri, il manuale
favorito della pietà popolare presso gli armeni.
Ecco allora !,anamnesi, continuata sottovoce durante il can-
to del coro. Solo qui, come nella liturgia di san Giacomo, termi-
nerà il rendimento di grazie per i grandi .eventi della redenzio-
ne. Come in Nestorio, è molto sviluppata, senza tuttavia per-
dersi mai, come quella, in un commento scolastico.
« Il tuo unico Figlio, nostro benefattore, ci ha prescritto
di fare sempre questo in memoriale di te, e discendendo
nella terra dei morti, secondo la carne che ha preso da
noi, e spezzando le porte dell'inferno nella sua potenza,
egli ci ha fatto conoscere che tu sei il solo vero Dio, il
Dio dei vivi e dei morti.
Noi dunque, o Signore, seguendo questo comando, pre-
sentando qui questo sacramento salutare del corpo e del
sangue del tuo unico Figlio, facciamo il memoriale della
sua passione salvatrice per noi, della sua crocifissione vivi-
ficante, della sua sepoltura per tre giorni, della sua beata
risurrezione, della sua divina ascensione, della sua presen-
za alla tua destra, o Padre; noi proclamiamo la sua se-
conda venuta, temibile e gloriosa».
Il diacono: Benedici! Signore.
Il sacerdote riprende a voce alta (la rubrica armena aggiunge:
« versando lacrime ») :
« Noi ti offriamo quello che è tuo fra i tuoi doni, per
tutto e per tutti ».
Il coro riprende subito:
« Tu sei benedetto in tutte le cose, Signore: noi ti be-
nediciamo, ti lodiamo, ti rendiamo grazie, ti supplichiamo,
o Signore nostro Dio ».
Durante questo canto, il sacerdote inserisce un'àpologìà sa-
cerdotale, analoga a quella che si trova in Nestorio, ma più bre-
ve, e che fa corpo col resto della preghiera.
« È a giusto titolo, Signore, Dio nostro, che noi ti lodiamo
e rendiamo continue azioni di grazie; tu, senza aver ri-
guardo alla nostra indegnità, ci hai stabiliti ministri di
questo temibile e ineffabile sacramento, non a causa dei
nostri meriti, perché siamo troppo poveri e sprovvisti di
ogni bene: ma, ricorrendo sempre alla tua grande miseri­

358
cordia, noi osiamo esercitare il ministero del corpo e del
sangue del tuo unico Figlio, nostro Signore e Salvatore Gè-
sù Cristo, al quale convengono la gloria, il principato, Tono-
re, ora e sempre e nei secoli dei secoli ».

Il coro riprende:
« Figlio di Dio che ti sei immolato al Padre per la nostra
riconciliazione e vieni distribuito tra noi come pane di
vita: per !,effusione del tuo sangue, noi ti supplichiamo:
abbi pietà di noi, del gregge che tu hai riscattato».

Il sacerdote, nel frattempo, passa alPepiclesi, sempre a vo-


: sommessa:
« O Dio benefico, ti adoriamo, ti supplichiamo e ti pre-
ghiamo; manda su di noi e su questi doni presentati il tuo
santo Spirito coeterno e consubstanziale, per fare di que-
sto pane benedetto per opera sua il corpo del nostro Si-
gnore e Salvatore Gesù Cristo (il diacono dice: Amen) e
di questo calice benedetto il sangue del nostro Signore e
Salvatore Gesù Cristo (ancora Amen del diacono); affinché
per mezzo di lui tu faccia di questo pane e di questo vino
benedetti il vero corpo nella sua propria carne e realmente
il sangue del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, cam-
biandoli ad opera del tuo santo Spirito; affinché sia per
tutti coloro che vi si accosteranno non a loro condanna,
ma in propiziazione e remissione dei peccati (ultimo Amen
del diacono) ».
Segue Fintercessione, anch'essa continuamente intercalata da
onizioni diaconali e da canti del coro che ometteremo:
« Per lui, concedi la carità, la costanza e la pace desiderata
al mondo intero, alla santa Chiesa, e a tutti i vescovi
ortodossi, ai sacerdoti, ai diaconi, ai re del mondo intero,
ai principi, ai popoli, ai viandanti, ai naviganti, ai prigio-
nieri, ai condannati, agli afflitti e a coloro che lottano con-
tro i barbari. Per lui, donaci la salubrità delParia, i frutti
della terra e una pronta guarigione a coloro che soffrono
diversi mali.
Per lui, dona il riposo a tutti coloro che si sono addor-
mentati in Cristo, ai santi padri, ai pontefici, agli apostoli,
ai profeti, ai martiri, ai vescovi, ai sacerdoti, ai diaconi, a
tutto il clero della tua santa Chiesa, come a tutti i laici,
uomini e donne, che ci hanno lasciati nella fede (e prose­

359
gue a voce alta: ) coi quali noi ti preghiamo di visitarci
o Dio benefico.
Della Madre di Dio, la santa Vergine Maria, di Giovanni
Battista, di Stefano il primo martire e di tutti i santi, sia
fatta memoria in questo sacrifìcio, noi ti supplichiamo... ».

Di nuovo a voce bassa, prosegue:


« Ricordati, o Signore, nella tua bontà, di benedire la tua
santa Chiesa cattolica e apostolica che hai riscattato col
sangue prezioso del tuo unico Figlio e liberato con la
santa ,Croce; accordale una pace stabile; ricordati, o
Signore, nella tua bontà, di benedire tutti i vescovi orto-
dossi che ci distribuiscono nella sana dottrina la parola
della verità (a voce alta) e particolarmente il nostro arci-
vescovo, il venerabile patriarca degli Armeni N.; conser-
vacelo a lungo nella sana dottrina ».

Continua a voce sommessa:


« Ricordati, o Signore, nella tua bontà di benedire il
popolo qui presente e coloro che offrono questo sacrificio:
accorda loro quello che è necessario e utile.
Ricordati, o Signore, di benedire coloro che ti offrono voti
e portano frutti nella tua santa Chiesa e hanno compassio-
ne per i poveri: rendi loro il centuplo, secondo la tua con-
sueta liberalità, qui e nel secolo futuro.
Ricordati, o Signore, nella tua bontà di essere propizio alle
anime dei defunti, e a quella per la quale noi ti abbiamo
offerto questo sacrifìcio... Dona loro il riposo, la luce e
accoglile tra i santi del tuo Regno celeste, e rendile degne
della tua misericordia.
Ricordati, o Signore, e abbi pietà dell’anima del tuo servo...
secondo la tua grande misericordia: (se è in vita) libera
da tutte le insidie la sua anima e il suo corpo.
Ricordati, o Signore, di tutti coloro che si sono racco-
mandati alle nostre preghiere, vivi e defunti; dirigi secon-
do il tuo beneplacito le nostre e le loro preghiere, e ac-
corda a tutti la ricompensa, non con beni passeggeri e
perituri: purificando i nostri pensieri, fa’ di noi templi
degni di ricevere il corpo e il sangue del nostro Signore
e Salvatore Gesù Cristo (a voce alta) al quale, con te,
Padre onnipotente, come al tuo Spirito vivificante e libe-
ratore, convengono la gloria, il principato e l’onore, ora e
sempre e nei secoli dei secoli. (Il coro): Amen».

360
Si è notato !,esplicito legame, fin dall'inizio delfanamnesi,
tra la presenza sull'altare di Cristo stesso, come eterna vittima
propiziatoria, e le intercessioni.
Questa preghiera eucaristica può essere considerata come
unica per !,equilibrio che ha saputo conservare nel puro disegno
dell'eucaristia antica, pur introducendovi una devozione all'u-
inanità del Salvatore e una pietà penitenziale già medievali. Que-
sti sentimenti, che diventeranno prevalenti nellOccidente latino,
non oscurano ancora per nulla, in questo venerabile testo, la vi-
sione gloriosa della redenzione compiuta.

Anafore siriache tardive e anafore etiopiche

A questo riguardo, si potrebbe avvicinare !,eucaristia cara


ai monaci di Scete, e che essi attribuivano a san Gregorio Na-
zianzeno, se non presentasse quel carattere assolutamente in-
solito di essere interamente rivolta al Figlio. Baumstark propen-
deva tuttavia a prendere sul serio la loro attribuzione, poiché
questa eucaristia richiama innegabilmente le formule di pre-
ghiere rivolte a Cristo che abbondano nei sermoni e nei poemi
di Gregorio. Da parte nostra, penseremmo che sia stata compo-
sta da un lettore della sua opera, imbevuto della sua pietà cri-
stocentrica e saturo del ricordo delle sue espressioni.
Però se passiamo, per esempio, alle anafore maronite, anche
a quella più tradizionale nel suo sviluppo, quella detta Sharar
o anafora di san Pietro, che ha utilizzato molti elementi di Addai
e Mari, siamo sconcertati dall'amplificazione esuberante di tutte
le formule, dalla sovrabbondanza delle apologie che le interrom-
pono a ogni istante e da tutto un tono di supplica patetica che
ci trasporta decisamente in un mondo diverso da quello del-
!,eucaristia tradizionale (13).
Cosa dire delle anafore etiopiche, in cui ogni continuità di

(13) La liturgia di san Gregorio Nazianzeno si trova in: E. Renau-


dot, o p . c it., t. I, pp. 99ss. Sulla liturgia maronita si veda M. H ayek, L i-
tu r g ie m a r o n ite . H i s to ir e e t te x t e s e u c h a r is tiq u e s , Tours 1964, che dà la
traduzione di numerosi testi (S h a r a r , pp. 258ss). - Cf anche PE 310‫־‬
314; 327-331.

361
pensiero viene a perdersi in una successione di esclamazioni e
digressioni senza limiti? (14).
L'anafora di Nostro Signore, dopo alcune parole rivolte al
Padre, si volge al Figlio:
« N oi ti rendiam o grazie, D io santo, fine *delle nostre ani-
me, datore della nostra vita, tesoro incorruttibile, Padre
del tuo unigenito Figlio e nostro Salvatore che ci ha an-
nunciato la tua volontà, perché hai voluto che fossimo
salvati da te stesso; il nostro cuore, o Signore, ti rende
grazie.
T u sei la potenza del P adre, la grazia delle nazioni, la
conoscenza della rettitudine, la saggezza degli sm arriti, il
m edico delle anim e, la grandezza degli um ili. T u sei il
nostro riparo, lo scudo dei giusti, la speranza degli esi-
!iati, il porto tranquillo di coloro che sono come shallot-
tati sul m are, la luce dei perfetti, il Figlio del Dio vivente.
Irrad ia su di noi, con la tua grazia im m utabile, la fer-
m ezza e il conforto, la fiducia, la saggezza e la forza di
una fede indeclinabile e di u na speranza incrollabile. Ac-
corda alla nostra um iltà Fintelligenza dello Spirito, perché
noi ti serviam o sem pre nella purezza e nella rettitudine, 0
Signore, e tu tti i popoli ti lo d in o !...» .

Di qui si ritorna al Padre, fin dopo le parole sul pane. Poi bru-
scamente si ricomincia a rivolgersi al Figlio; ciò fa sì che le
parole sul calice siano riferite solo in forma indiretta. La stessa
anamnesi continua a interpellare il Figlio, ma Tepiclesi invoca il
Padre. Poi, come in certe preghiere siro-orientali, Foblazione
viene presentata a tutta la Trinità, prima che la fine della
preghiera ritorni al Padre. Da un capo alPaltro, la sconnessione
che si è osservata alPinizio della preghiera è ancora rafforzata
da questi continui andirivieni.
Più stravagante ancora sarà !,eucaristia di Nostra Signora,
in cui gran parte della preghiera è rivolta non a una persona
divina, ma alla Vergine. Oltre a questo, il disordine del pen-
siero (?) è totale, con digressioni così lontane dal soggetto che
Fautore stesso arriva ad esclamare con una semplicità che ce lo

(14) Citeremo la liturgia di Nostro Signore e quella di Nostra Signo-


ra secondo le versioni inglesi di J. M. H arden, in OSCU 17 (1917) 61ss;
19 (1919) 67ss. La prima si ispira chiaramente al T e s ta m e n tu m D o m in i. -
Versione latina, in PE 150-152.160167‫־‬.

362
rende più simpatico della sua composizione: « ma ritorniamo a
quello che dicevo! »...
E cco n e alcu n i saggi, ch e ce rta m en te c i b asteran n o:
«...Alziamoci nel timore di Dio per glorificare e celebrare
colei che è piena di grazia, piena di lode, esprimendo un
saluto di gioia a colei che è piena di grazia. La maestà del
tuo aspetto è più grande della maestà dei Cherubini dai
molteplici occhi e dei Serafini dalle otto (?) ali... ».
A questo punto la preghiera ritorna al Figlio per dichiarare
ineffabile la sua concezione verginale, e si passa al Sanctus,
inteso come lode del Figlio incarnato.
Si ritorna allora alla Vergine:
« O Vergine, o donna feconda di cui mangiamo il frutto,
fontana zampillante a cui ci dissetiamo! Oh il pane che
viene da te!... Oh il calice che deriva da te!... E ora noi
offriremo la nostra lode al tuo Figlio... ».
Si ritorna dunque al Figlio, e poi al Padre, in un rendimento
di grazie per Fincarnazione redentrice che sfocerà nel racconto
delFistituzione...
Bisogna dirlo: tutto questo non ha né capo né coda, e tutta
!,eucaristia si è come disciolta in un guazzabuglio sentimentale
in cui stanno a galla soltanto dei rimasugli slegati.
Perderemmo tempo se volessimo accumulare esempi di que-
sto genere. È chiaro che in Oriente, proprio come nellOccidente
gallicano e mozarabico, Fimprovvisazione eucaristica, senza mai
cessare completamente di realizzare successi parziali, si è ben
presto smarrita in un'abbondanza sregolata, affogata in un pio
sproloquio.

Prefazio, « Communicantes » e « Hanc igitur » nei sacramentari


In Occidente, Fadozione del Canone romano - che diviene
a poco a poco universale tra il IX e FXI secolo, per le decisioni
di Carlo Magno e Fabolizione pratica del rito mozarabico, pro-
prio come nellOriente bizantino quella delle liturgie di san
Basilio e di san Giovanni Crisostomo - opporrà un argine a
questa dissoluzione della preghiera eucaristica. Però non la pro-
teggerà completamente, dato che lo stesso Canone romano am-
metteva una certa persistenza delFimprowisazione, o almeno

363
della variabilità, nel suo « prefazio ». Ora, come abbiamo visto
tutto !,elemento fondamentale del rendimento di grazie per la
creazione e per la redenzione si è concentrato ben presto in
questo prefazio; perciò sarebbe stato questo elemento-base a
rimanere soggetto ai rischi deirimprovvisazione.
Si possono misurare i rischi inevitabili di questa malleabilità
conservata così a lungo (non meno che la sua possibile fecon-
dità) fin dai più antichi sacramentari latini.
Senza poter entrare qui in tutti i problemi storici sollevati
da queste raccolte, dobbiamo almeno ricordare quanto oggi sem-
bra sufficientemente acquisito sulla loro origine e sulla loro for-
mazione (15). Quello che si chiama il sacramentario Leoniano
non è certamente il sacramentario di san Leone, come per qual-
che tempo si immaginò, quando fu scoperto nel XVIII secolo
nella biblioteca di Verona. Questa raccolta mutila (quello che
rimane comincia col mese di aprile) sembra un frammento di
una copia eclettica di libelli utilizzati dai papi del VII secolo,
fatta per Fuso di un vescovo sconosciuto. Bourque, Capelle e
Chavasse hanno creduto di potervi distinguere la presenza di
un fascicolo che risale a Gelasio I (492-496) e di un altro do-
vuto a Vigilio (fine della prima metà del VI secolo). Un certo
numero di brani possono tuttavia, se non essere attribuiti con
tutta sicurezza allo stesso san Leone, almeno riflettere un in-
flusso visibile del suo pensiero e del suo stile. È il caso, fra
gli altri, di un certo numero di messe del fascicolo che dovette
essere compilato da Gelasio (16).
Il sacramentario detto Gelasiano antico, che conosciamo at-

(15) A.-G. Martimort, L a C h ie s a in p r e g h ie r a , Desclée, Roma 21966,


pp. 314324‫( ־‬l’articolo è di N. M. D enis -Boulet). - Un quadro generale
sui sacramentari romani antichi è dato da C. V ogel, I n tr o d u c tio n a u x
s o u r c e s d e V h is to ir e d u c u lte c h r é tie n a u m o y e n - à g e ( — Biblioteca degli
« Studi medievali », 1), Spoleto 1975, pp. 28-29. Per una sintesi più ac-
cessibile, vedi: M. R ighetti, M a n u a le d i S to r ia l itu r g ic a , voi. I, Mila-
no 31964, pp. 276-295.
(16) Cod. Bibi. Capit. Veron. LXXXV (80). Prima edizione ad ope-
ra di F. B ianchini, C o d e x S a c r a m e n to r u m v e tu s R o m a n a e E c c le s ia e ,
Roma 1735. Altra edizione dei fratelli Ballerini a Venezia nel 1754, che
il M igne ha riprodotto in PL 55,21ss. Edizioni moderne di C. L. Feltoe,
S a c r a m e n ta r iu m L e o n ia n u m , Cambridge 1896 e di L. C. Mohlberg -
L. E izenhofer - P. S1FFR1N, S a c r a m e n ta r iu m V e r o n e n s e , Roma 31978
( = Ve).

364
traverso un manoscritto della Biblioteca Vaticana, e che dovette
essere copiato nelle vicinanze di Parigi all’inizio del secolo V ili,
non è affatto il sacramentario di Gelasio, come il Leoniano non
è quello di Leone (17). Chavasse ha dimostrato che il suo fondo
principale è costituito da un sacramentario presbiterale, cioè
utilizzato non dal papa, ma dai presbiteri dei tituli romani, del-
la fine del secolo VII (18).
Quello che si chiama il Gelasiano del secolo V ili è una
sintesi tra questo Gelasiano antico, una recensione del sacra-
mentario Gregoriano anteriore di circa un mezzo secolo, e fonti
gallicane. Questa compilazione dovette essere elaborata in Bor-
gogna, probabilmente nell’abbazia di Flavigny. Essa sarebbe la
fonte di molti altri sacramentari ricopiati in territorio franco
fino al secolo XI (19).
Il sacramentario detto Gregoriano sembra avere effettiva-
mente alla sua base una raccolta composta da san Gregorio per
il suo uso personale. Ma la copia più antica che abbiamo è il
manoscritto conservato a Cambrai, chiamato YHadrianum, che
sembra essere quello che fu mandato a Carlo Magno dietro sua
richiesta. Rispecchia l’usanza papale contemporanea (20).
Un manoscritto conservato a Padova, ma che dovette esse-
re copiato in Belgio nel IX secolo, rappresenta a sua volta un
adattamento alPuso presbiterale romano della stessa raccolta di
base, che probabilmente risale a dopo il 650 (21).
Non bisogna dimenticare, inoltre, che tutti i libri gallicani
pervenuti fino a noi, salvo le Messe di Mone, comportano certa-

(17) Cod. Vat. Regin. 316. Pubblicato per la prima volta dal T om-
masi nei suoi C o d ic e s s a c r a m e n to r u m n o n g e n tis a n n is v e tu s tio r e s , Romae
1680. Altra edizione del M uratori, riprodotta dal M igne in PL 74,
1055ss. Edizioni moderne di H. A. W ilson, T h e G e la s ia n S a c r a m e n ta r y ,
Oxford 1894 e di L. C. Mohlberg - L. E izenhòfer - P. S iffrin , L ib e r
S a c r a m e n to r u m R o m a n a e A e c le s ia e o r d in is a n n i c ir c u li, Roma 21968.
(18) A. Chavasse, L e S a c r a m e n ta ir e g é la s ie n , Tournai 1958.
(19) Cf E. Bourque, É tu d e s u r le s s a c r a m e n ta ir e s r o m a in s , t. II, L e s
te x t e s r e m a n ié s . L e g é la s ie n d u V i I T s iè c le , Québec 1952; A. Chavasse,
L e S a c r a m e n ta ir e g é la s ie n d u V I I T s iè c le , in EL 73 (1959) 249ss.
(20) Edito da H. L ietzmann, D a s S a c r a m e n ta r iu m g r e g o r ia n u m ,
Munster-im-W. 1921 (il manoscritto è il Cambrai 159).
(21) Biblioteca Capitolare, M. D. 47. Edito da L. C. Mohlberg, D ie
à lte s te e r r e ic h b a r e G e s t a l t d e s L ib e r s a c r a m e n to r u m , Miinster‫־‬im‫־‬W.
1927.

365
mente un buon numero di composizioni romane. In tutte queste
raccolte, che ci hanno conservato il fondo più antico di compo-
sizioni romane che ci sia accessibile, si vede dunque che esse
si trovano già mescolate a composizioni posteriori. Nell’edi-
zione che sarebbe stata preparata per buso delle Gallie franche
sulla base doli’Hadrianum, si sarebbe aggiunto un ricco
Supplemento, contenente la vigilia pasquale, con elementi in-
negabilmente gallicani, come la benedizione del cero, e alcuni
propri per le domeniche ordinarie (assenti dal sacramentario pa-
pale). In questa ultima parte, un buon numero di preghiere sono
state riunite in altre raccolte di origine romana, del genere del
Gelasiano o del Paduense (22). Sarà questo Gregoriano arricchì-
to a servire di base ai sacramentari medievali, insieme al Gela-
siano del secolo V ili il cui influsso continuerà a persistere.
Tra le più antiche di queste raccolte, il Leoniano (sebbene
mutilo) si distingue per il numero dei suoi prefazi (2ó7). Come
i libri gallicani, d’altronde, tutti questi libri presentano, chi più
chi meno, pezzi di ricambio, lasciando ampia facoltà di scelta
all’officiante. È così che il Leoniano ha 8 Messe per Natale, 28
per i santi Pietro e Paolo, ecc.
Il Gelasiano antico è già assai meno ricco, poiché dà soltan-
to 54 prefazi. Però le differenti recensioni del Gelasiano recente
fanno salire questo numero fino a circa 200. V Hadrianum, in-
vece, comprende solo 14 prefazi, mentre il Paduense ne ha 46.
Il Supplemento aggiunto nella Gallia franca aWHadrianum
vi introdurrà un miscuglio di prefazi di origine sia romana che
gallicana.
Verso la fine del secolo X, il canonista Burchardo di Worms
tentò di ridurre a 9 i prefazi autorizzati, pubblicando una de-
cretale attribuita a Pelagio li (morto nel 590), ma che con tutta
probabilità aveva fabbricato di sana pianta. Si tratta dei pre-
fazi di Natale, della Epifania, della Quaresima, della Croce, di
Pasqua, della Ascensione, della Pentecoste, della Trinità e degli
Apostoli (senza parlare del prefazio comune), che si trovano an-

(22) Questo Supplemento è generalmente attribuito ad Alcuino. Ri-


cerche recenti sembrano dimostrare che è piuttosto dovuto a san Bene-
detto d’Aniano. - Cf J. D eshusses , L e S u p p l é m e n t a u s a c r a m e n ta ir e
g r é g o r ie n . A lc u in o u s a in t B e n o it d ’A n ie n ? , in ALW IX/1 (1965) 4871‫;־‬
J. D eshusses - H. Barre, A la r e c h e r c h e d u M is s e l d ’A lc u in , in EL 82
) 1968( 3‫־‬44 .

36 6
cora oggi nel Messale romano [di Pio V ]. Tutti provengono dal-
I’Hadrianum, eccetto quelli della Croce (che appare solo nel
secolo IX), della Trinità (che figura già nel Gelasiano antico, ma
che deve provenire dai libri mozarabici) e di Quaresima (cornu-
ne al Paduense e al Gelasiano recente). Il prefazio della Ver-
gine, come lo usiamo ancora oggi, compare solo nel secolo
IX, ma proviene dalla elaborazione di una formula del Gela-
siano recente (23).
Tuttavia, la pseudo-decretale di Pelagio non avrà molto
effetto nel medioevo. Il sacramentario di Saint-Amand (IX se-
colo) contiene 2S3 prefazi, quello di Chartres (X secolo) 220,
quello di Moissac (XI secolo) 342. La stessa cosa avviene in
Italia. Il Messale di Pio V riporta solo i prefazi di Burchardo,
più quello della Vergine; ma per i propri locali numerosi pre-
fazi più o meno antichi dovevano di nuovo farsi strada nella
liturgia romana, senza parlare delle composizioni moderne, su-
scitate dal culto di san Giuseppe, del Sacro Cuore o di Cristo
Re. Il Messale ambrosiano, da parte sua, comporta ancora oggi
un prefazio distinto per ogni messa (24).
Tuttavia, bisogna riconoscerlo, la reazione di Burchardo e,
più tardi, quella dei riformatori tridentini si spiegano molto be-
ne: già molto presto, infatti, troviamo nei libri romani o romano-
franchi (come pure nei libri gallicani e mozarabici di cui ab-
biamo già parlato) formule che hanno poco o nulla da fare con
!,eucaristia tradizionale. Probabilmente Jungmann ha ragione
di vedere nella « proclamazione » delPsuxccQuma la risposta al-
Γεύαγγέλιον proclamato prima. Poteva dunque sembrare nor-
male il dare nel prefazio di ogni messa quasi un’eco della nota
particolare sottolineata nel vangelo del giorno all’interno della
grande armonia del mistero cristiano. Ma anche in molte tra le
composizioni più riuscite da questo punto di vista, notiamo una
tendenza fatale a non ritenere del mistero che un aspetto se-
condario. E troppo sovente ne risulta un appiattimento dell’eu-
caristia in una pesante didattica moraleggiante. Cosa dire allora
di quei prefazi che sono stati chiaramente composti non tanto

(23) Cf A. Jungmann, M is s a r u m S o lle m n ia , voi. II, Torino 1954,


pp. 9495‫־‬. A. Chavasse, o p . c it., pensa tuttavia che il prefazio della Tri-
nità sia proprio romano.
(24) I b i d . , pp. 95ss.

367
per corrispondere al vangelo quanto per ripetere, all’indirizzo
deirOnnipotente, un tema dell’omelia che stava a cuore al suo
autore? Ci si domanda attraverso quale aberrazione egli abbia
potuto ridurvi la materia della sua eucaristia! Già papi come
Gelasio e Vigilio cadono in questo difetto. Di qui prefazi euca-
risiici che sono soltanto diatribe contro questo o quell’av-
versano! (25).
Più tardi, non sarà tanto la polemica, ma piuttosto un’agio-
grafia più o meno fantastica che snaturerà !,eucaristia. Oppure,
nei prefazi domenicali, si sostituirà all’evocazione del mistero
un semplice moralismo.
I prefazi dei martiri, tuttavia, particolarmente nel vecchio
fondo del sacramentario Leoniano, si sono prestati sovente a
un’evocazione soddisfacente del mistero redentore. Per esem-
pio, questo testo:
«... Per Gesù Cristo, nostro Signore, il quale, per trion-
fare più pienamente sul nemico del genere umano, oltre a
quella gloria singolare [che si è acquistato] calpestandolo
sotto i piedi in una maniera ineffabilmente divina, lo ha
sottomesso anche ai santi martiri, di modo che questa
stessa vittoria che era stata dapprima riportata nel Capo
passasse anche nelle membra... » (26).

La stessa cosa, e meglio ancora, si troverà più di una volta


nei prefazi domenicali del Gelasiano tardivo. Così questo pre-
fazio dell’ultima domenica di Avvento, che dice:
« È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte
di salvezza, rendere grazie sempre e in ogni luogo a te,
Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, santifi-
catore e creatore del genere umano: per mezzo del tuo
Figlio regnante con te nella luce eterna, all’inizio, animasti
l’uomo ricavato dal fango della terra a immagine della tua
gloria; e quando egli fu ingannato cedendo alla tenta-
zione, hai voluto ricrearlo con il soccorso eterno della gra-

(25) Cf G élase I, L e t tr e c o n tr e le s L u p e r c a le s e t X V I I I m e s s e s d u
S a c r a m e n ta ir e lé o n ie n , ed. G. Pomarès ( = Sources chrétiennes, 65), Pa-
ris 1959; A. Chavasse, M e s s e s d u P a p e V ig ile d a n s le S a c r a m e n ta ir e léo -
n ie n fin EL 64 (1950) 161ss.
(26) Ve 159 e 262.

368
zia dello Spirito, mandandoci Gesù Cristo nostro Signore,
per mezzo del quale... » (27).
Bisogna però riconoscere che la scelta di Burchardo non è
stata cattiva, e che i prefazi che ha conservato, se si accostano
gli uni agli altri, danno probabilmente la migliore espressione
globale mai raccolta in Occidente sul mistero eucaristico. Si
può deplorare, in compenso, che non si sia trovato di meglio
del prefazio detto comune per sostituire gli antichi prefazi do-
menicali. Certamente questo formulario è antico, poiché lo si
vede annesso al Canone romano fin dalle più antiche testimo-
nianze. Però non è altro che lo schema più comune dei prefazi
antichi, semplicemente amputato della loro specifica applicazio-
ne. Ne risulta che né la creazione né la redenzione vi sono
espresse come motivo delLeucaristia: è una lacuna sicuramente
disastrosa! Il prefazio mozarabico (?) della Trinità che vi si è
sostituito nelle domeniche « verdi » presenta la stessa carenza
che il seguito di formule astratte non potrebbe in nessun modo
compensare.
Non dobbiamo tuttavia dimenticare che il prefazio non è il
solo elemento che sia rimasto variabile nel Canone romano.
Anche il Communicantes e YHanc igitur lo sono rimasti per
molto tempo, e le varianti del Communicantes hanno avuto il
prezioso vantaggio di mantenere, almeno nelle grandi feste, un
ricordo esplicito del mistero redentore nel Canone stesso. Il me-
dioevo, invece di profittare delle possibilità che gli erano lasciate,
ha semplicemente visto deperire la ricchezza degli antichi sacra-
mentari. Dei sei Communicantes che si trovano nelle più antiche
di queste raccolte, abbiamo perso quello della vigilia della Pen-
tecoste, come pure due formule differenti, rispettivamente per
!,Ascensione e la Pentecoste, che si trovavano anche nel Leo-
niano (28).
La varietà ancora più grande degli Hanc igitur sembra es-
sersi ridotta fin da san Gregorio, non senza alcuni ritorni al
fondo tradizionale attestato a Roma dalYHadrianum, prima del
Supplemento romano-franco. Il medioevo conoscerà, per que-
st’ultima preghiera, una nuova proliferazione di formule che

(27) Nell’ed. di L. C. Mohlberg, D a s f r à n k is c h e S a c r a m e n ta r iu m ge-


Munster-im-W. 21939, n. 1454.
la s ia n u m ,
(28) Cf A. Jungmann, M is s a r u m S o lle m n ia , voi. II, ρρ. 140-141.

369
precisano le intenzioni particolari delLofferta. La si può seguire
attraverso i sacramentari o i messali franchi, irlandesi o italiani.
Anche qui si sfocia più di una volta in una prolissità vuota,
quando non si tratti di considerazioni del tutto estranee al
soggetto (29).

Il Canone in silenzio e aggiunte posteriori


Mentre lo sviluppo della preghiera eucaristica si esaurisce,
!,evoluzione liturgica fa apparire altri fattori che tenderanno a
seppellire quanto poteva sussistere di più tradizionale in questa
eucaristia. Il primo di questi fattori è quello che chiamiamo « il
silenzio del canone » o, per servirci di una formula più antica,
« il silenzio dei misteri ».
Bisogna riconoscere che questo è forse il mistero più oscuro
di tutta la storia della liturgia. Non si ha questa impressione
quando si legge la maggior parte degli studi che si sono accu-
mulati sulLargomento dopo il XVII secolo. Qualunque sia la
posizione degli autori: che essi credano questa pratica primi-
tiva e essenziale, o che la condannino come tardiva e malaugu-
rata, si crederebbe, a leggerli, che la cosa sia chiara e possa
essere risolta senza esitazione attraverso alcuni testi indiscu-
tibili. Ma quando ci si rifà alle fonti senza idee preconcette, dif-
ficilmente si può condividere tale ottimismo. Non neghiamo che
si possa arrivare a certe conclusioni sicure dal loro esame. Tut-
tavia come si vedrà, non sono né così facilmente accessibili, né
di tale natura da dissipare tutte le oscurità di una storia molto
complicata.
Un punto di partenza sembra sicuro: le grandi beràkót della
liturgia giudaica erano certamente recitate a voce alta dalLoffi-
dante, o più esattamente cantate su una cantilena del genere
del nostro tonus praefationis (30). È dunque verosimile che la
pratica sia stata la stessa presso i primi cristiani. Alcuni indizi
permettono effettivamente di pensarlo, ma bisogna riconoscere
che sono soprattutto negativi. Se non vi fosse il legame di con-
tinuità che abbiamo stabilito tra le beràkót giudaiche e Leuca-

(29) I b i d . , pp. 142-145.


(30) Si veda E. W erner, T h e S a c r e d B r id g e , London-New York 1959,
p. 182.

370
ristia cristiana, questi indizi, per se stessi, non potrebbero of-
frire che una probabilità limitata.
Non abbiamo infatti alcuna dichiarazione netta sulla que-
stione all’epoca patristica. Gli argomenti che si vogliono proba-
tivi, sul fatto della recitazione a voce alta dell’eucaristia nel-
!,antichità, non sono in generale che deduzioni ricavate dall’im-
portanza attribuita dai Padri oXYAmen finale dei fedeli (31). In
realtà, dopo dodici secoli, almeno in Occidente, e più ancora
in certe regioni dell’Oriente, i fedeli hanno detto questo Amen
in risposta ad alcune parole di conclusione proferite a voce alta
dal sacerdote, e sembra che non si siano mai preoccupati di sen-
tire e nemmeno di sapere esattamente che cosa egli avesse detto
prima in modo del tutto impercettibile per loro. La supposizione
che dovevano essere più esigenti, per essere sostenibile ha bi-
sogno della previa conferma delle preghiere giudaiche.
Assicurato così il primo punto, bisogna ricordare che fin
dal secolo V ili nella liturgia romana, e dall’inizio del VI in
certe liturgie orientali, ci sono rubriche espresse e commenti for-
mali che certificano che il sacerdote dice sottovoce la maggior
parte del canone o dell’anafora. In Occidente, questo si applica
alla parte che segue il Sanctus, fino al Per omnia saecula saecu-
lorum (ad eccezione delle sole parole Nobis quoque peccatori-
bus). In Oriente, ciò che corrisponde al nostro prefazio (ec-
cetto le sue ultime parole) e tutto il seguito del Sanctus è pari-
menti silenzioso, eccezion fatta generalmente per le parole di
Cristo nel racconto dell’istituzione e per due o tre frasi del-
l’anamnesi, dell’epiclesi e delle intercessioni, con la conclusione
della dossologia finale.
Che questo stato di cose, divenuto praticamente universale,
non sia esistito molto tempo prima di presentarsi così a noi nei
documenti è confermato da alcuni indizi che sembrano solidi.
Essi però non ci permettono di determinare esattamente la data
del cambiamento e ancor meno di afferrarne perfettamente le
ragioni.
La XVII omelia del nestoriano Narsai, che può essere datata
all’inizio del secolo VI, ci porta una testimonianza molto netta
del fatto che la pratica attuale era già abituale nella sua Chiesa,

(31) Si cita sempre a questo proposito san G iustino , A p o lo g ia I,


65.

371
e che nessuno, verosimilmente, la contestava (32). La troviamo
attestata altrettanto decisamente nella Chiesa bizantina due se-
coli dopo. Un documento intermedio, però, ci permette forse
di chiarire il modo con cui essa si è andata stabilendo. Ma bi-
sogna riconoscere che la sua interpretazione, innanzi tutto te-
stuale e poi anche storica, è delicata.
Si tratta della « novella » n. 137 di Giustiniano. Ne abbiamo
il testo greco autentico, ma nessun testo latino corrispondente.
Porta la data del 26 marzo 565.
Fino a poco tempo fa essa è stata chiamata in causa in questo
dibattito solo attraverso un testo latino posteriore, il cui conte-
nuto si trova amalgamato con quello della « novella » n. 123 del
1° maggio 546. Il fatto più grave è che ci si è limitati, generai-
mente, a citarne solo alcune righe. Lette così, fuori del loro
contesto originale, come le troviamo nel secolo XVIII presso
Lebrun o Robbe, e poi presso tutti coloro che si sono accon-
tentati di citarle attraverso questi ultimi, è chiaro che danno
!,impressione che !,imperatore voglia stabilire una novità. Questa
novità, però, non è la recita sottovoce, ma la recita ad alta voce.
Sembra che !,imperatore, per motivi pedagogici, fondati soltanto
su una citazione fortemente accentuata di san Paolo, voglia in-
trodurre una prassi contraddittoria a quella che trova stabilita.
Bishop è stato il primo a mostrare che !,impressione si capo-
volge quando ci si prende la briga di leggere la « novella » in
questione nel suo testo primitivo e da cima a fondo. Ciò non si-
gnifica, però, che così scompaiano all'improvviso tutte le oscu-
rità (33).
L,imperatore comincia infatti con raffermare che intende
assicurare il rispetto di alcuni canoni trasgrediti da ecclesiastici,
monaci, e perfino da alcuni vescovi, in risposta a lamentele che
gli sono state rivolte. Tutto ciò, spiega, dipende dalla negli-
genza che ha fatto abbandonare la convocazione regolare dei
sinodi. Di qui una trascuratezza che ha portato a ordinare gente
che non sa nemmeno le preghiere dell'anafora né quelle del

(32) R. H. Connolly, T h e L itu r g ic a l H o m ilie s o f N a r s a i , Cambridge


1909, pp. 12ss.
(33) Si veda E. B ishop, S ile n t R e c ita ls in th e M a s s o f th e F a ith fu l,
Appendice V del volume citato nella nota precedente, pp. 121ss. Cf P.
T rembelas, U a u d i t i o n d e V a n a p h o r e e u c h a r is tiq u e p a r le p e u p l e , in:
L ’É g lis e e t le s É g lis e s , Chevetogne 1955, pp. 207ss.

372
battesimo. Non si dovranno dunque più ordinare persone che
prima non abbiano steso per iscritto « la professione che devono
dire ad alta voce, proprio come la divina anafora nel servizio
della santa comunione, le preghiere nel santo battesimo e le
altre preghiere ». Dopo di che vengono prescrizioni dettagliate
per lo svolgimento annuale dei sinodi. Infine abbiamo la dichia-
razione formale: « Ordiniamo inoltre a tutti i vescovi e presbi-
teri di dire le preghiere utilizzate nella divina anafora e nel
santo battesimo, non in modo che non si senta, ma con voce
che possa essere sentita dal popolo fedele, affinché la mente di
coloro che ascoltano possa essere eccitata a una più grande com-
punzione... ». Seguono le citazioni paoline, e la conclusione:
« Conviene dunque che le preghiere rivolte al Signore Gesù Cri-
sto nostro Dio, come pure al Padre e allo Spirito, nella santa
anafora e altrove, siano dette μετά φωνής: coloro che vi si
rifiutano dovranno risponderne davanti al tribunale di Dio e,
quando incontreremo questo caso, non lo lasceremo impunito ».
Il primo dei due paragrafi lascia più di un'ambiguità. Giusti-
niano vuol dire che il candidato all'ordinazione deve mettere
per iscritto una professione di fede che dovrà recitare a voce
alta per essere ordinato, proprio come dovrà mettere per scritto,
nello stesso esame, le preghiere rituali? Oppure vuol dire che
deve mettere per iscritto la sola professione di fede, prima di
pronunciarla, per essere ordinato, proprio come dovrà (nell'eser-
cizio del suo ministero) pronunciare a voce alta le preghiere
rituali? O infine vuole che metta semplicemente per iscritto l'in-
sieme di questi testi (professione di fede e preghiera) che dovrà
più tardi dire a voce alta? Grammaticalmente, queste tre inter-
pretazioni sono tutte possibili. Ma il parallelismo col paragrafo
finale induce a pensare che è la seconda, più probabilmente, o
forse la terza, che si impone.
L'intera conclusione della « novella » infatti, non lascia al-
curi dubbio su questo punto: l'imperatore vede nella pratica del-
la recita a voce bassa della preghiera solo una negligenza intol-
lerabile e intende assolutamente estirparla. Ma la sua insistenza
tradisce il fatto che la pratica deve già essere abbastanza diffusa.
Tanto che l'imperatore, come appare, non pensa a invocare una
usanza immemorabile contraria, ma ricorre piuttosto a consi‫־‬
derazioni esegetiche non del tutto convincenti e a motivi peda-
gogici rispettabili, ma che non ci dicono nulla per se stessi

373
sullo statu quo ante. Il solo indizio sicuro che stabilisce, o vuol
stabilire, una tradizione in via di estinzione, e non crearne una
nuova, è il richiamo delhinizio della « novella » sulla violazione
dei canoni. Se è evidente che !,ignoranza dei sacerdoti troppo
facilmente ordinati rientra sotto questa rubrica, non è altret-
tanto chiaro che il fatto di dire le preghiere a voce bassa, in se
stesso, vi cada direttamente. Non si possono dedurre con cer-
tezza delle conclusioni se non si è già sicuri che la prescrizione
finale mira a rimettere in vigore una tradizione anteriore... Pur-
troppo è proprio quello che non è chiaramente detto. Il dubbio
rimane, dunque. Tutto quello che si può ritenere di questo testo,
è che sembra essere piuttosto a favore delPantichità della recita
ad alta voce anziché del contrario. Però non si può affermare che
la provi.
Qualunque possa essere stato il suo effetto immediato, che
noi ignoriamo, almeno a partire dalla fine del secolo V ili (come
attesta il Codex Barberini, dell'anno 800 circa) la maggior parte
dell'« eucaristia » bizantina, nonostante le prescrizioni e le mi-
nacce imperiali, era detta μυστιπώς, « in segreto », stando alle
stesse rubriche che ci vengono riferite (34).
Se però si considerano da un lato le parti ad alta voce e
dall'altro quelle in cui il celebrante si inoltra in una preghiera
sottovoce, diviene diffìcile evitare !,impressione che questa di-
stinzione si sia stabilita solo a poco a poco, e che la sua origine
sia dovuta semplicemente alla trascuratezza dei celebranti. Per
essere più precisi: la tesi sostenuta già da Dom Claude de Vert
nel XVIII secolo, e ripresa ai giorni nostri dal p. Hanssens, sem-
bra la più attendibile (35). Sembra che si sia giunti alla situa-
zione odierna, quasi universale, semplicemente perché uno svi-
luppo dei canti collettivi ha spinto i celebranti a proseguire la
preghiera sottovoce ogni volta che il coro cantava, per riprende-
re a voce alta solo quelle parole che do\'evano determinare un
nuovo intervento corale. Si tratterebbe dunque di una pura e
semplice negligenza: un'impazienza - molto clericale, bisogna
riconoscerlo - di veder finire al più presto gli uffici sempre più
sovraccarichi avrebbe creato il « silenzio dei misteri ».

(34) Cf il testo dato da E. F. Brightman, o p . c i t . y pp. 32ss.


(35) I. H a n ssen s , I n s t i t u t i o n e s litu r g ic a e ..., tomus III, pars altera,
p. 484.

374
Per essere esatti, è probabile che si sia iniziato abbastanza
presto un processo di causalità reciproca, sebbene siamo nel-
!,impossibilità di dire esattamente in quale epoca. I canti co-
rali, sviluppandosi, hanno fornito il primo pretesto a una recita
sbrigativa a mezza voce da parte del celebrante. Questa, a sua
volta, ha però favorito un’estensione dei canti del coro, cosicché
alla fine dovevano rimanere soltanto alcune brevi « ecfonesi »
del celebrante, destinate a punteggiare un seguito di canti. A
questo si deve aggiungere uno sviluppo delle « monizioni » del
diacono, che colmavano, se era necessario, tutti quei vuoti che
potevano sussistere tra i canti del coro e quelli del sacerdote.
Alcune osservazioni sembrano portare una conferma quasi
decisiva a questa spiegazione. La più interessante concerne Pini-
zio dell’anafora. Come abbiamo detto, mentre nel rito romano il
prefazio è sempre rimasto cantato (o almeno detto a voce alta),
nel rito bizantino ciò che gli corrisponde è diventato silenzioso.
In quest’ultimo, però, osserviamo che la risposta: « È cosa
degna e giusta », si è sviluppata in: « È cosa degna e giusta ado-
rare il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, Trinità consostanziale
e indivisibile ». Si comprende, in questo caso, come i sacerdoti
bizantini siano stati portati, a differenza dei loro colleghi romani,
a recitare sottovoce questa prima parte della loro eucaristia. È
interessante costatare che il manoscritto Barberini, che non com-
porta ancora l’aggiunta alla risposta, non comporta nemmeno
la rubrica (che si troverà più tardi) di recitare μυστιπώς la pri-
ma parte dell’eucaristia. Che la cosa abbia dovuto, tuttavia, co-
minciare a verificarsi fin d’allora, è provato dal seguito del testo
il quale introduce appunto la prescrizione di dire ad alta voce
le parole che precedono immediatamente il Sanctus...
In Occidente siamo informati ancor meno chiaramente sulla
data decisiva dell’evoluzione. Molti autori contemporanei, con
Jungmann, affermano che la si può situare tra YOrdo romanus I
e YOrdo romanus IL A dire il vero, i testi non sono così chiari.
VOrdo romanus II (36) suppone certamente un canone detto
sottovoce (almeno relativamente). Però né YOrdo romanus I ci
permette di concludere con certezza che, comunque, nella sua
epoca, il canone si dicesse ancora a voce alta da cima a fondo;
né gli Ordines posteriori ci permettono, a loro volta, di ritenere

(36) Cf À . I ungmann, M is s a r u m S o lle m n ia , voi. II, ρ. 82.

375
che ΓOrdo romanus II abbia messo fine di colpo a questa prassi.
Quest'ultimo testo è certamente categorico sul silenzio che
deve seguire il Sanctus: Surgit solus pontifex et tacite intrat in
canonem. In altre parole, mentre tutti si erano inchinati per
cantare il Sanctus, « il pontefice solo si rialza ed entra in silenzio
nel canone ». Che questo debba intendersi di una recita sotto-
voce, lo indica la prescrizione seguente, secondo cui egli deve
dire le parole Nobis quoque peccatoribus « aperta clamans
voce », perché i suddiaconi riprendano la posizione eretta e
comincino la frazione.
L’Ordo romanus I è stato scritto, evidentemente, da qualcu-
no che non poteva conoscere YOrdo II, ma questo non ci auto-
rizza a concludere affrettatamente che tutto quello che esso non
menziona e che si troverà in quello successivo gli sia necessa-
riamente sconosciuto. Dopo il Sanctus, cantato da tutti, dice
semplicemente: Quem dum expleverint, surgit pontifex solus
[et intrat] in canone. Allo stesso modo, al Nobis quoque, si ac-
contenta di dire che i suddiaconi si rialzano per la frazione. Con
la nostra recita, divenuta silenziosa fino al punto che nemmeno
i ministri vicini all'altare sentono quello che dice il sacerdote,
potrebbe sembrare ragionevole concludere che YOrdo I esclude
implicitamente il silenzio supposto dalYOrdo IL Però quando si
sa, come si vedrà in seguito, che il « silenzio del canone », nel
medioevo, non significava un silenzio tale che i ministri non sen-
fissero niente, ma un silenzio tale che fossero i soli a poter in-
tendere, il confronto dei due testi non sembra più così dimo-
strativo. Tutto quello che si può dire è che il redattore dell'Ordo
/ riteneva inutile prescrivere una recita sottovoce. Che poi la
ignorasse, è solo una deduzione probabile. L’Ordo III, invece,
sembra attestarci che una recita a voce alta abbia potuto sussi-
stere dopo YOrdo IL Considerando, infatti, il caso di una con-
celebrazione, prescrive ai concelebranti che circondano il ve-
scovo a destra e a sinistra di « dire il canone insieme a lui... in
modo che la voce del vescovo domini ». Quando però ci si
ricorda del carattere relativo del silenzio medievale del canone
- sul quale ritorneremo - bisogna riconoscere che questo testo
può significare semplicemente che essi devono parlare ancora più
sottovoce del pontefice, e non che egli dovesse parlare a voce
ancora più alta di loro.
L'Ordo XV, detto di Giovanni Arcicantore, un rifacimento

376
franco della metà del secolo V ili dell’Onfo romano, ci permette
di vedere meglio sia lo stabilirsi fuori di Roma del silenzio del
canone, sia il suo definirsi. Dopo il Sanctus, esso prescrive al
celebrante: Et incipit canere dissimili voce et melodia, ita ut a
circumstantibus altari tantum audiatur. Questo canto, su un
tono di voce e con una melodia diversi (da quelli del Sanctus,
anzi perfino del prefazio precedente), non implica evidentemente
altro che un « silenzio » mitigato. Che nel XIII secolo lo si
intendesse ancora in questo modo, ci è attestato dal canone 36
del sinodo di Sarum del 1217, che prescrive: ut verba canonis
in missa rotunde et distincte dicantur.
Tuttavia, alla fine del secolo V ili, nel leggere le Exposi-
tiones Missae - come quelle che cominciano con Quotiens contra
se, Introitus Missae quare, quella di Remigio di Auxerre e di
altri - diviene certo che in terra franca, come anche a Roma,
a partire dal Sanctus i fedeli non potevano più sentire nulla di
quello che diceva il sacerdote.
Quanto a quello che si poteva praticare nel rito gallicano, o
nelbantico rito mozarabico, non sappiamo proprio nulla. La
supposizione, a volte formulata, che i post-mysterium o post-
secreta, a causa dei loro titoli, sarebbero stati detti a voce alta,
ma dopo le parole deiristituzione dette sottovoce, non è che
una deduzione in verificabile.
È certo, ir compenso, che le Expositiones Missae spiegano
che il canone si dice sottovoce a causa del mistero sacro che vi
si compie e del rispetto che ci deve ispirare. La stessa cosa si
trova già, quantunque meno decisamente, presso Narsai, nel se-
colo VI. C'è chi ha voluto concludere che il « silenzio del ca-
none » o « silenzio dei misteri », proverrebbe dunque da un’in-
tenzione deliberata di sottrarre a possibili profanazioni la pre-
ghiera eucaristica, e che si avrebbe qui un esempio tipico di
influsso dei misteri pagani deirantichità ellenistica sulla liturgia
cristiana. È una conclusione troppo affrettata, e che provoca tutta
una serie di chiusure non sufficientemente giustificate.
In primo luogo, gli autori più antichi nei quali i temi del
timore rispettoso e del mistero tremendo e sacro fanno la loro
comparsa, in rapporto con l’eucaristia, non manifestano nessun
sospetto di una convenienza qualsiasi tra questa visuale « miste-
rica » e una recita sottovoce delle preghiere. Generalmente, sem-
brano perfino ignorare quest’uso. È il caso di san Giovanni Cri­

377
sostomo, nelle sue omelie sulla ineffabilità divina o nel suo
trattato Sul sacerdozio, come pure dello Pseudo-Dionigi e dei
suoi commentatori, come san Massimo, in pieno secolo VII.
Non si vede, d’altronde, come gente che poteva conoscere an-
cora qualcosa dei misteri ellenistici avrebbe potuto associare le
due cose. Se infatti questi misteri erano così chiamati, era prò-
prio per il contrario: perché gli iniziati avevano potuto vedervi
e sentirvi quello che non doveva essere conosciuto dai non-
iniziati. Se non avessero visto e sentito senza difficoltà, sarebbe
stato superfluo prescrivere loro così severamente di non rive-
lare nulla. La spiegazione del « silenzio del canone » con argo-
menti di questo genere tradisce dunque un carattere posticcio e
sovrapposto. Si è potuto arrivare tardivamente a giustificare
così un dato di fatto di cui si erano dimenticate le vere ragioni;
ma a questo stato di fatto non si sarebbe potuto arrivare per
tale via.
Presso lo stesso Narsai, come si può osservare, le espres-
sioni di timore rispettoso davanti all’ineffabilità del mistero co-
prono, più di quanto non pretendano di spiegare, la pronuncia
segreta delle parole. Questa spiegazione ha dunque potuto con-
solidare l’evoluzione, ma non l’ha determinata. D’altra parte,
l’estensione delle risposte corali, in Oriente, contraddice questa
spiegazione. Infatti esse spiegano minutamente, a loro modo, il
significato di quanto si compie in quello stesso momento per
mezzo delle parole del sacerdote. La stessa cosa, a maggior ra-
gione, deve essere detta delle spiegazioni sempre più prolisse del
diacono che vengono a poco a poco (specialmente nel rito ar-
meno) a colmare i rari istanti in cui i cantori non si fanno sen-
tire tra le « ecfonesi » sacerdotali.
Sembra dunque proprio necessario risalire a questa estensio-
ne progressiva degli elementi corali o diaconali per arrivare
all’origine del nostro problema. Ancora una volta, il silenzio
progressivamente esteso della preghiera sacerdotale vi trova ve-
rosimilmente la sua prima origine, proprio come questo silenzio,
di riflesso, ha favorito il loro sviluppo. Ma perché si sono in-
tradotti questi nuovi canti del coro e queste monizioni del
diacono?
In origine, non c’erano altri interventi corali se non le ri-
sposte introduttive, il Sanctus e YAmen finale. Il diacono, al
massimo, si limitava a brevissime monizioni, le quali all’inizio

378
indicavano il contegno da osservare più che dare spiegazioni:
« Stiamo attenti » o, in Egitto, alla ripresa del rendimento di
grazie dopo le intercessioni: « Verso lOriente », ecc.
In quell'epoca, è chiaro che i canti o le risposte, ancora così
semplici, erano propri di tutta l'assemblea. ‘Ma già nei più an-
tichi manoscritti greci della liturgia di san Giacomo, i diaconi,
alle prime parole del racconto dell'istituzione, esclamano: « Per
la remissione dei peccati e per la vita eterna ». I fedeli, tuttavia,
rispondono Amen non più soltanto alla fine di tutta !,eucaristia,
ma già dopo le parole sul pane, e poi dopo quelle sul calice.
Subito dopo il primo sviluppo delle parole: « Fate questo in
memoriale di me », i diaconi, di nuovo, esclamano: « Noi ere-
diamo e proclamiamo », e il popolo prosegue: « Noi annunciamo
la tua morte, Signore, e proclamiamo la tua risurrezione ».
Prima delPepiclesi, quando il sacerdote dice: « Il tuo pò-
polo e la tua Chiesa ti supplicano », il popolo risponde: « Abbi
pietà di noi, Signore Dio, Padre onnipotente », e intercala an-
cora due suoi Amen nella conclusione delPepiclesi. Dopo altri
interventi diaconali che invitano alla preghiera durante la gran-
de intercessione finale, il popolo esclama: « E di tutti e di
tutte! », e interromperà ancora la dossologia, dopo le prime pa-
role del sacerdote, per dire: « Togli, rimetti, perdona, o Dio, le
nostre offese volontarie e involontarie, conosciute e non co-
nosciute ».
La maggior parte di queste risposte devono essere antiche,
poiché si trovano anche nei manoscritti siriaci, e ce ne sono
che hanno perfino il loro equivalente già in Serapione.
Allo stesso modo, la liturgia di san Giovanni Crisòstomo,
già nella forma che ci viene rivelata dal Codex Barberini, con-
tiene i quattro Amen delle parole delPistituzione e delPepiclesi,
con la risposta: « Noi ti cantiamo » dopo P« ecfonesi » che chiù-
de Panamnesi.
Si può pensare che questi interventi dei fedeli siano stati
introdotti per rianimare un'attenzione vacillante durante un'eu-
caristia prolungata. Già san Basilio allude al fatto che, anche
presso i monaci, molte menti si divagavano durante la pre-
ghiera eucaristica.
Però lo sviluppo e la complicazione crescente di questi in-
terventi, specialmente del popolo, li hanno fatti ben presto at-
tribuire a un coro di cantori. Questo, dopo aver trascinato la

579
folla, ha finito per sostituirsi ad essa più o meno completamente
I canti, sempre più ornati dal punto di vista melodico, sono di-
ventati ben presto possibili soltanto a specialisti. La loro esten-
sione, di conseguenza, ha ridotto le formule del sacerdote pro-
nunciate ad alta voce ad alcune « ecfonesi » che sono tutto quel-
10 che rimane in Oriente. Invece le monizioni diaconali, come
vediamo in particolare nella liturgia armena, hanno avuto la
tendenza a svilupparsi fino al punto di riempire tutti gli inter‫־‬
valli che rimanevano. Si arriva a un commento deireucaristia
che la segue passo passo; ma con la scusa di facilitarne la com-
prensione per i fedeli, le sostituisce un doppione posteriore, d'un
parallelismo solo approssimativo. Lo stesso fenomeno si è prò-
dotto nella nostra epoca con i « commentatori », che doppia-
vano in lingua viva un'antica preghiera latina, ma che tende-
vano a diventare indipendenti. A questo stadio, si può dire che
una preghiera eucaristica diventata esclusivamente sacerdotale
mantiene soltanto una sopravvivenza dell'antica preghiera euca-
ristica, ormai priva di contatto diretto coi fedeli. Su di essa si è
innestata una liturgia didattica a loro uso, che in realtà non
11 fa più partecipare all'azione, perché i fedeli l'ascoltano passi-
vamente. Essa ricopre così la vera liturgia, in cui essi non hanno
più parte attiva, con una sovrastruttura posticcia da cui la
mente è sempre più estranea. Narsai può ancora dire che il
sacerdote è la voce di tutti; una voce che parla in loro nome,
senza dubbio. Tuttavia, non esprime più la loro preghiera co-
mune, ma una preghiera alla quale la loro tende a diventare
ormai parallela.
In Occidente, sarà ancora peggio. Le monizioni diaconali
vi sono sconosciute e i canti del coro si svilupperanno senza più
nessun legame diretto con la preghiera del sacerdote. Nel XI-
XII secolo, col pretesto di pregare per il sacerdote che prega
per noi, il coro arriva, in molte chiese, a occupare tutto il tempo
del canone con la recita di salmi e di preghiere che non hanno
più alcun rapporto con esso. La Missa Myrica, per esempio, pre-
scrive la recita dei salmi 19, 24, 50, 89 e 90, seguiti da versetti
e preghiere secondo l’intenzione del sacerdote e dei fedeli (37).
Negli ordini religiosi, si insegnerà ai conversi, durante questo

(37) Cf A. Jungmann, M is s a r u m S o l l e m n ia , voi. II, ρρ. 108-109 e no-


ta 9.

380
tempo, a recitare una serie di « Pater ». Si può dire che il sa-
cerdote si è così ben chiuso nel silenzio del canone da sembrare,
agli occhi dei fedeli, di esservisi smarrito. Dal canto loro, pre-
gano anch’essi, ma senza più preoccuparsi di alcuna concordanza
tra la loro preghiera e la sua.
Ma il distacco nei confronti dell’eucaristia tradizionale do-
veva andare ancora oltre. Il sacerdote stesso che la celebrava,
già formato a seguirla in modo così estrinseco, avrebbe creduto
ben presto di non potervisi più impegnare pienamente senza in-
trodurvi ogni sorta di preghiere personali. Evidentemente, que-
ste rispondevano molto meglio alla sua devozione che non il
testo ufficiale, che egli si limitava a seguire in modo funzionale.
Si hanno allora le « apologie » e le preghiere apparentate. Dopo
essersi moltiplicate come preludio all’insieme della messa, alla
lettura evangelica, alla stessa preghiera eucaristica, arriveranno
a invadere quest’ultima come una vegetazione estranea. Non ri-
marrà più nulla di intatto dell’antica liturgia che sarà considerata
soltanto più come il sostegno di una devozione privata che si
ispira ad altre fonti.
Lo stesso fenomeno appare abbastanza presto anche in
Oriente, ma non vi conoscerà mai un simile sviluppo. La li-
turgia di Teodoro di Mopsuestia, nella forma in cui ci è
giunta, comporta già un’« apologia » di questo genere, chiara-
mente aggiunta, tra il Sanctus e la preghiera destinata a seguirlo.
Prima ancora, si può scorgere la prima radice di questa prassi
nei formulari di intercessione delle grandi preghiere eucaristiche
siriache in cui abbondano le invocazioni per gli stessi ministri
che offrono il sacrificio. Si trova già qualcosa di simile nei più
antichi manoscritti greci o siriaci della liturgia di san Giacomo,
e perfino nella forma evoluta della liturgia di Addai e Mari.
Abbiamo segnalato l’intrusione di una formula di questo ge-
nere, particolarmente sviluppata, nella liturgia di Nestorio, tra
l’anamnesi e le intercessioni. Vale la pena di citarla, per il suo
individualismo come anche per il suo carattere penitenziale, che
preannunciano le caratteristiche più significative della devozione
medievale, tanto in Oriente che in Occidente.
« Signore, Dio m isericordioso, com passionevole e clemen-
te: ecco, ho com inciato a p arlare davanti a te, io che
non sono che polvere, peccatore, im potente e povero, col-
pevole dinanzi a te fin dal seno di m ia m adre, in esilio

381
da quando ho lasciato le sue viscere, trasgressore fin d'ai‫־‬
lora. Abbi pietà di me, o Signore, secondo la tua miseri‫־‬
cordia, e strappami all'oceano delle mie colpe per la tua
clemenza; fammi uscire dall'abisso dei .miei peccati per la
tua bontà; guarisci le piaghe dei miei vizi e le ferite delle
mie offese, tu, consolatore e medico.
Concedimi di aprire la mia bocca alla tua presenza e
rendimi degno di muovere le mie labbra davanti a te. Ac‫־‬
cordami di renderti propizio verso le mie offese, perché
10 ottenga la remissione dei peccati, il perdono delle col-
pe, l'abolizione delle mie sozzure e dei peccati dei miei
familiari e dei miei compagni; possa io chiederti quello
che conviene alla tua divinità e che ti si deve domandare,
perché tu sei ricco e il tuo tesoro non è mai esaurito; ti
si presentano in ogni tempo petizioni diverse e un'abbon-
danza di doni senza numero è distribuita da te per ri-
spondervi.
Nella tua bontà e nella tua longanimità, non irritarti verso
di me, perché io non ho una tale sicurezza alla tua pre-
senza da poter dire queste cose con buona coscienza
davanti alla tua maestà; tuttavia accetta da me questa au-
dacia, perché il tuo grande nome è stato invocato su di
me. Ricevi questo sacrifìcio dalle mie mani impotenti, per
11 tuo popolo e per le pecore del tuo pascolo: per cui io
rendo grazie al tuo nome, e offro l'adorazione alla tua
maestà, ora e sempre e nei secoli dei secoli » (38).
Formule di questo genere, in Occidente, arriveranno a in-
trodursi ovunque. La celebre Missa illyrica ne è l’esempio più
noto. Ma non è un esempio unico, tutt’altro! Essa ha ricevuto
il suo nome dal riformatore Flacio Illirico, che la pubblicò nel
1557 credendo di vedervi una liturgia del secolo V ili, senza al-
cuna menzione né della presenza né del sacrificio eucaristico. In
realtà, data dal secolo XI (39). È un insieme di 35 formule de-
vozionali, che il sacerdote è invitato a dire durante tutti i canti
della messa, e in occasione di tutti i riti che compie, fin dopo
il Sanctus e durante la comunione. In realtà non riflette più nulla
dello spirito delFantica eucaristia, è un'interpretazione del ri-
tuale eucaristico popolarizzato dalle Expositiones Missae, so-

(38) F. R enaudot, o p . c it., t. II, p. 632. - Si veda anche PE 391.


(39) Cf A. Jung m ann , o p . c i t ., voi. I, p. 69. - Per il testo cf EEFL
nn. 3270-3275.

382
prattutto a partire da Amalario (40). Di queste spiegazioni, i
primi abbozzi si trovano tuttavia già in Teodoro di Mopsuestia
e Narsai. Tutti i riti vi ricevono un'interpretazione simbolica,
dominata da una concezione drammatica del rituale, evidente-
mente del tutto chimerica. Riti e formulari, secondo essa, non
sono che un'imitazione teatrale di tutti i gesti e di tutte le parole
di Gesù durante la sua passione. Su questo canovaccio, le nuove
preghiere non esprimono più che un'enfasi di indegnità perso-
naie, con un misto di tenerezza di fronte alle sofferenze del
Salvatore.
A questo livello, anche se l'eucaristia tradizionale è sempre
presente, si può dire che una spiritualità, anzi una teologia eu-
caristica senza radici serie nella tradizione l'ha seppellita e quasi
totalmente soffocata sotto escrescenze parassitane.

(40) I b id ., pp. 76ss.

383
Capitolo XII

I tempi moderni:
deterioramento e riforma

Formulari e interpretazioni non tradizionali


A partire dal secolo XII, in Occidente scompaiono gli uf-
fici recitati dal coro durante la preghiera eucaristica e pratica-
mente indipendenti dal suo contenuto. Sono progressivamente
sostituiti da un altro sviluppo, che non è senza analogia con
quello dei canti del coro in Oriente, ma la cui qualità è ancora
più incerta. Non si aggiungono canti o responsori inter amen-
te nuovi, ma si arriva a imbottire il Sanctus e il Benedictus (con
tutti gli altri canti deirordinario) con i cosiddetti tropi. Sembra
che la loro origine sia germanica, ma ben presto si vedono proli-
ferare attraverso tutta !,Europa « gotica », ad eccezione della
sola Italia. In concorrenza con gli sviluppi melodici, e ben pre-
sto polifonici, degli antichi canti si introdurranno, sui vocalizzi
che avevano incominciato col prolungarne indefinitamente le sii-
labe, delle parole intercalari. Sia in latino, sia in lingua viva,
esse sono prima di tutto una parafrasi del testo di fondo. Ma
dalla parafrasi si passa in fretta a una libera amplificazione che
si distacca sempre più dal testo originale (1).
In questi tropi si riflette la sensibilità religiosa dell'epoca:
i temi migliori sono !,adorazione dell'umanità del Salvatore pre-
sente nell'eucaristia, !,evocazione affettiva della sua passione,
!,espressione del sentimento di indegnità di coloro che si avvici-
nano all'augusto mistero. Ma si arriverà ben presto a farvi en-
trare qualsiasi argomento. Alla fine del medioevo, nelle compo-
sizioni a parti multiple, non sarà raro sentire Tuna o l'altra vo-
ce cantare con tutta semplicità le parole di un'aria profana, allo-
ra in voga, adattate all'uso liturgico e mescolate alle frasi latine
del Sanctus.

(1) Cf A. Jungmann, M is s a r u m S o l l e m n ia . voi. I, Torino 1954, pp.


106ss.

384
Quanto al sacerdote, le apologie e gli atti di pietà affettiva
nei riguardi del Salvatore presente e sacrificato continuano ad
ampliare la recita del canone (2).
Un nuovo fattore interverrà a partire dal XIII secolo e gra-
verà pesantemente suirevoluzione delPeucaristia. Si tratta del-
la nuova elevazione delle specie che si introduce subito dopo il
racconto dell’istituzione, e dell’ostensione dell’ostia che ne è la
ragion d’essere. Salutata con mottetti composti ad hoc, per ado-
rare la presenza del Salvatore, questa cerimonia concentrerà su
di sé tutta la devozione popolare durante la messa. È il risultato
della teologia sviluppata contro Berengario e contro la negazio-
ne, da parte sua, della presenza reale del vero corpo di Cristo:
tutta la messa tenderà, per reazione, a concentrarsi sulla realiz-
zazione di questa presenza, vista come il risultato della ripeti-
zione delle parole di Cristo sul pane e sul vino (3).
Nello stesso tempo, al calo delle comunioni, si sovrapporrà
lo sviluppo delle cosiddette messe « private ». Vengono offerte
per le intenzioni più varie, spesso mescolate con superstizioni
innegabilmente più magiche che religiose. Perlomeno, si tende
con questo a vedere nella messa la rinnovazione del Calvario,
destinata a ottenerci ogni volta tutto quello che possiamo desi-
derare di più. La Confessione di Augusta affermerà che si era
giunti a credere che la Croce avesse espiato soltanto il peccato
originale, mentre ogni messa era destinata a espiare i nostri pec-
cati attuali. Tale precisazione è forse esagerata, ma è diffìcile
negare che denuncia una tendenza che era perlomeno nell’aria,
e che non era nemmeno la peggiore delle deformazioni dell’e-
poca (4).
Senza arrivare a questi casi estremi, bisogna riconoscere che
nei migliori commenti della messa, fatti a uso dei sacerdoti du-
rante il medioevo, come quello di Innocenzo III (5) o, più
tardi, quello di Gabriel Biel (6), in cui Lutero si formerà alla

(2) Cf A. Jungmann, o p . c it., voi. II, pp. 165ss.


(3) I b i d . , pp. 156ss.
(4) I b i d . , pp. 164ss.
(5) D e s a c r o a lta r is m y s te r i o , PL 217, 763916‫־‬.
(6) G a b r ie lis B ie l C a n o n is M is s a e e x p o s i ti o , ispirata dal suo maestro
Egeling Becker, e che ebbe una grande diffusione quando la sua pub-
blicazione passò sotto il nome di Biel nel 1488. È stata ripubblicata da
H. O berman e W. Courtenay, Wiesbaden 1965.

385
pietà eucaristica, si trovano soltanto più tracce del senso primi-
tivo delFeucaristia, come rendimento di grazie per i mirabilia
Dei, o deiranamnesi, come presenza sacramentale del mistero
redentore. Il « rendimento di grazie » si riduce a un ringrazia-
mento per il dono di Dio ricevuto nella comunione, o atteso
dalla celebrazione. L'attualità sacramentale del sacrificio lascia il
posto alla considerazione dei « frutti » che ci si attendono e
che non ci si stanca di enumerare. Il più sovente, però, non
hanno più gran che di comune con l'antica visione, cosi magnifi-
camente espressa da sant'Agostino, della Chiesa intera che si
completa nella sua partecipazione comune all'unico sacrificio
redentore.
Nella pietà dei migliori, la messa appare come una « ripre-
sentazione » del sacrificio, non nel senso sacramentale che la
parola poteva prendere per esempio presso Tertulliano, ma nel
senso di una pia drammaturgia. Essa deve eccitare, con la sua
evocazione figurativa del Calvario, i sentimenti di compassione
e di compunzione che la presenza immediata, tangibile di que-
sto avrebbe potuto suscitare in anime pie. Tra le formule del
canone, la spiritualità, come anche la teologia, ritiene soltanto
le parole dell'istituzione, che le sembrano risuscitare questo
spettacolo, per Tanima che le medita, nell'istante in cui rinno-
vano la presenza reale del corpo spezzato e del sangue versato
per i nostri peccati.
Francis Clark ha cercato recentemente di convincere di
errore gli storici protestanti o anglicani (o... anche cattolici) col-
pevoli di aver segnalato queste deformazioni. Ha spigolato,
a questo scopo, alcune belle formule in cui sopravvive, fin nel-
l'ultimo medioevo, qualcosa dell'antica tradizione (7). Va da
sé che essa non poteva morire del tutto nella Chiesa, ma la que-
stione è di sapere in quale misura queste formule appaiono real-
mente come caratteristiche della pietà media, sia del clero sia dei
semplici fedeli. Un confratello del p. Clark, il p. Stephenson,
non ha avuto difficoltà a confutarlo (8). Egli è perfino giunto a
sostenere che la repraesentatio della Croce, nell'eucaristia, per
lo stesso san Tommaso, deve intendersi nel senso puramente

(7) F. Clark, E u c h a r is tic S a c r if ic e and th e R e f o r m a ti o n , London


1960.
(8) Si veda TS 22 (1961) 588ss.

38 6
immaginativo in cui prendiamo la parola « rappresentazione »
nell’uso moderno. Senza essere pienamente convinti da questa
controdimostrazione, bisogna riconoscere che alcune formule del
santo dottore riflettono qualcosa di una simile concezione. Il
meno che si possa dire è che era già una delle più diffuse attor-
no a lui.
La parte migliore dei teologi e degli spirituali era convinta
che tutto ciò richiedesse una « riforma » energica, insieme a
molte altre cose nella pratica, e perfino nella teoria della Chiesa
all’inizio del XVI secolo. Anche il meglio dell’umanesimo cri-
‫״‬stiano, preconizzando il ritorno alle fonti, poteva lasciar spera-
re in una riscoperta dell’essenziale nell’originario ritrovato, re-
stituito alla sua vera interpretazione, che tante sovrastrutture
e commenti aberranti avevano dimenticato o pervertito. Il gua-
io della Riforma protestante, su questo punto come su molti al-
tri, fu che una precipitazione più entusiasta che illuminata,
lungi dal ricondurre sempre alle fonti più autentiche, fece so-
vente rigettare alla rinfusa il meglio insieme al peggio. In cam-
bio si ritenne, invece dell’originario e dell’essenziale, il più se-
condario e il più recente.
La storia della Missa Myrica, già ricordata, è un’illustrazio-
ne così perfetta di questo scacco da sembrare quasi incredibi-
le (9). Flacio Illirico, nel momento culminante delle controver-
sie sull’eucaristia tra protestanti e cattolici, s’imbatté in un ma-
noscritto del secolo XI che riportava una serie di devozioni sa-
cerdotali con una preghiera per ogni rito o formula della mes-
sa tradizionale. Però non vi s’incontrava nessuna espressione
chiara della presenza reale, mentre questa diventò ossessionan-
te nei secoli successivi, per reazione contro Ratramno e Beren-
gario. Non vi si trovava neppure l’espressione del sacrificio eu-
caristico, come i Padri lo avevano concepito. Tutto si riduceva
a una spiegazione infantile del rituale, interpretato come un’evo-
cazione dettagliata di ogni particolare della passione. Su questo
canovaccio, si collegava un seguito di preghiere di penitenza e
di meditazioni emotive sulle sofferenze del Signore. Flacio Illiri-
co credette di aver riportato alla luce una liturgia primitiva,
indenne dalle corruzioni medievali, e pubblicò la sua scoperta
come una giustificazione delle tesi e delle pratiche protestanti

(9) Cf sopra, p. 382.

387
riguardanti !,eucaristia. In realtà, come doveva ben presto rico-
noscere, non aveva riesumato che una compilazione di formule
tardive, destinate a rimpinzare con le loro aggiunte la liturgia
tradizionale. Ma, senza volerlo, aveva dimostrato con ciò che
le liturgie e le teologie che pretendevano di essere le più « rifor-
mate », lungi dal ritornare all'eucaristia primitiva, ritenevano
dell'eucaristia medievale soltanto gli sviluppi privi di base nel-
!,antichità cristiana.

La « Formula Missae » e la « Deutsche Messe » di Lutero:


ultima fase di deviazioni medievali
La costatazione è tanto più impressionante in quanto Lute-
ro poteva sembrare relativamente ben provveduto per ritorna-
re attraverso la foresta delle sovrastrutture medievali, alla vera
natura primitiva dell'eucaristia. In primo luogo, come Gustai
Aulén ha dimostrato nel suo bel libro Christus Victor, Lutero
aveva certamente ritrovato presto qualche cosa della concezione
patristica della Croce, come vittoria di Dio nel Cristo che scon-
fìgge tutte le potenze di inimicizia tra l'uomo e Dio e che re-
staura l'uomo in una relazione filiale con il Padre celeste (10).
D'altra parte, Yngve Brilioth ha giustamente sottolineato
le ricchezze spirituali, anch'esse tutte patristiche, del sermone
Von dem hochwiirdigen Sakrament des heiligen wahren Leich-
nams Christi und von den Bruderschajten, del 1519. È un'e-
spressione rinnovata della concezione agostiniana secondo la
quale, nell'eucaristia, il Cristo è presente con tutto il suo corpo
mistico, per incorporarvici e farci vivere ormai di una vita che
non sia altro che lo sviluppo in noi del suo mistero salvifico.
Brilioth ha pure ragione quando afferma che Lutero è rimasto
attaccato alle forme dell'eucaristia tradizionale, non per sempli-
ce conservatorismo, ma per un'impressione incancellabile del-
l'incontro dell'uomo con il mistero divino che il pio uso di que-
ste forme aveva lasciato in lui (11).

(10) Cf G. A ulén , C h r is tu s V i c t o r , Paris 1949, tutto il capitolo su


Lutero.
(11) Cf Y. Brilioth, E u c h a r is tic F a ith a n d P r a c tic e , E v a n g e lic a l a n d
C a th o lic , London 1930, pp. 94ss.

388
Tutto questo, però, si è trovato non solo falsificato, ma an-
che svitalizzato quando, a partire dal 1523, sotto la spinta di
quanti lo circondavano, volle tradurlo in innovazioni liturgi-
che. Volendo cercarne i motivi, diventa subito evidente che le
sue preoccupazioni polemiche, per quanto pesanti siano state,
lo sono state tuttavia molto meno delPinerzia di concezioni e
di pratiche medievali da cui non era riuscito a liberarsi, come
non ci riusciranno gli altri protestanti dopo di lui. Probabil-
mente, fin d’allora, era ossessionato da un’idea fissa: togliere
qualsiasi pretesto alle concezioni deviate del sacrificio della
Messa che tendevano a farne un sacrificio diverso da quello del-
la Croce, e che l’uomo potesse offrire con nuove finalità. Per
raggiungere questo scopo, non vedrà altra possibilità all’infuori
di bandire qualsiasi idea di una presenza del sacrificio di Cri-
sto nella messa, e per questo riterrà necessario asportare dal
Canone della messa tutto ciò che esprime tale idea. Così, però,
non farà che tirare la conclusione logica dell’idea medievale
latina secondo cui le sole parole dell’istituzione, isolate dal lo-
ro contesto tradizionale, sono essenziali alla consacrazione eu-
caristica. E cederà, senza più alcuna resistenza, alla devozio-
ne concentrata di conseguenza sull’ostensione e sull’adorazio-
ne dell’ostia consacrata.
Altri fattori, probabilmente, tenderanno a compensare in
una certa misura questi due principali difetti ereditati dal medio-
evo e spinti fino alle loro ultime conseguenze. La reazione di
Lutero contro la moltiplicazione abusiva delle messe private,
con la reintegrazione della comunione dei fedeli e non del solo
sacerdote, considerata come una parte essenziale della celebra-
zione, avrà un effetto positivo. Sarà tuttavia molto attenuato dal
fatto che Lutero, sempre nella linea medievale, vedrà nella co-
munione innanzi tutto l’occasione per eccellenza di atti peniten-
ziali innestati sull’adorazione del Christus passus. Il solo « ren-
dimento di grazie » che conserverà non sarà altro che il rendi-
mento di grazie medievale per la sicurezza del perdono che
viene così rinnovata.
La sua idea che la messa è prima di tutto il « testamento »
di Cristo, che ci consegna il suo corpo e il suo sangue come
perpetua testimonianza della remissione dei nostri peccati, con
la ricchezza che la visione della redenzione dava a questa espres-
sione, avrebbe forse potuto permettergli di raggiungere l’idea

389
primitiva del «memoriale» eucaristico (12). In realtà, il m0_
do polemico con cui Popporrà puramente e semplicemente al-
Tidea di una presenza del sacrificio di Cristo, gli impedirà di
ricavarne le conclusioni più positive. Vedrà, sì, che !,eucaristia
deve portarci a un puro « sacrificio di rendimento di grazie »
per il dono ricevuto dal Salvatore; ma già in lui, e più rigorosa-
mente ancora nei suoi discepoli, questo dono tende a ridursi
alla coscienza soggettiva del perdono. Si arriverà così al più gran-
de paradosso delPeucaristia protestante: volendo impedire che
la messa appaia come un nuovo sacrificio distinto da quello di
Cristo - che i sacerdoti potrebbero far scattare a volontà - si
ammetterà come sacrificio solo Pofferta soggettiva di se stesso,
che il credente deve fare impegnandosi a servire Dio nella rico‫־‬
noscenza suscitata dal senso del suo perdono che rinnova. Pres-
so i luterani stretti, per i quali questo non sarà possibile che sul-
la base di una comunione effettiva con Cristo morto e risuscita-
to, doveva essere tuttavia !,aggancio virtuale di una ripresa, al-
meno embrionale, delle visuali patristiche sulla nostra parted-
pazione alPunico sacrificio salvifico. Come Eric Mascall ha giu-
stamente osservato, gli altri protestanti, rigettando più o meno
decisamente la presenza reale, non potranno più vedere nelPeu-
caristia altro sacrificio che quello, del tutto pelagiano, che Può-
mo e solo lui offre a Dio in riconoscenza dei suoi benefici (13).
Come potrebbe essere altrimenti dal momento che si è esclusa
ogni idea di partecipazione alPunico e divino sacrificio, rifiutan-
do la comunicazione sacramentale della sua realtà?
La Formula Missae che Lutero introdusse nel 1523 è come .
il monumento del suo errore fondamentale, benché il meglio
delle liturgie luterane, fino a questi ultimi tempi, sia stato at-
tinto di lì. A parte il ristabilimento della comunione generale,
essa non rappresenta neppur lontanamente un ritorno alPeuca-
ristia primitiva. È invece Pultimo risultato di certe tendenze
aberranti che minavano sia la prassi che la teoria medievali del-
!,eucaristia. Bisogna però riconoscerle un merito letterario in-
negabile: ma è soltanto quello di avere adattato, molto più abil-
mente e arditamente di quanto si fosse tentato di fare fino allo-
ra, !,eucaristia antica alla pietà e alla teologia eucaristiche del

(12) Cf Y. Brilioth, op. c it., p. 98.


(13) Cf. E. Mascall, C o r p u s C h risti , London 21965, pp. 106ss.

390
medioevo, in ciò che avevano di più estraneo alla tradizione pri-
mitiva. Per questo, bisognava, come avrebbe poi fatto Lutero,
eliminare tutti gli elementi di questa tradizione di cui, già mol-
to prima di lui, si tendeva a perdere il senso, e rimodellare gli
altri in un senso che non era più il loro.
Lutero conserva il prefazio comune, ma solo fino al Per
Christum Dominum nostrum. A questo punto, con una trovata
ingegnosa, introduce immediatamente il Qui pridie quam pate-
retur e il seguito del racconto dell’istituzione. Allora soltanto
viene il Sanctus. Durante il Benedictus, il sacerdote alza insie-
me Lostia e il calice. A questo punto, !,eucaristia propriamente
detta, nel senso primo della parola, è terminata. Si passa subi‫־‬
to al Patér, poi al Pax Domini, e la comunione viene distribuita
durante VAgnus Dei, dopo che il sacerdote ha detto ad alta voce,
ma al plurale, una delle preghiere preparatorie del Messale ro-
mano: Domine Jesu Christe, Fili Dei vivi, qui ex voluntate Pa-
tris, ecc.
Il canto dell’antifona segue la comunione (come già nella
prassi medievale), anziché accompagnarla. La celebrazione si
conclude con un postcommunio immutabile, fatto dalle due pre-
ghiere di devozione medievale: Quod ore sumpsimus e Corpus
tuum (il plurale è introdotto anche in quest’ultima) (14).
Questo servizio è certamente di una composizione molto abi-
le e pienamente armoniosa. Ma non è affatto una riforma della
pratica medievale, se per riforma si vuole intendere un ritorno
all’eucaristia dei Padri e del Nuovo Testamento. È piuttosto
un’ulteriore deformazione di quel tipo che ha portato a ridurre
tutto all’adorazione della presenza reale, consacrata dalle sole
parole dell’istituzione, prima di una comunione in cui il per-
dono dei peccati assorbe tutte le altre prospettive dell’unione
del credente con il Salvatore crocifisso. Di contraccolpo, il « ren-
dimento di grazie » si riduce a un ringraziamento anticipato per
la testimonianza che si riceverà di questo perdono.

(14) Cf L. D. R eed, T h e L u th e r a n L itu r g y , Philadelphia 2I960, ρρ.


7lss e Y. Brilioth, o p . c i t ., ρρ. 114ss. Quello che dice Lutero nella F o r ‫־‬
m u la M is s a e sulla conservazione delfielevazione, soprattutto dove i fede-
li sono stati istruiti sul suo significato, indica che non bisogna più le-
garla al sacrifìcio, ma alla sola adorazione della presenza. Si può dire
che ha ridotto la messa a una « benedizione col Santissimo » un secolo
prima che gli stessi cattolici inventassero questa cerimonia!

391
Due anni dopo (1526), Lutero presentò un’altra liturgia,
non più in latino, come la Formula Missae, ma in tedesco: la
Deutsche Messe. Essa spingeva ancora oltre l’eliminazione degli
elementi più originari della messa. Può essere considerata come
la prima di quelle innumerevoli liturgie protestanti dell’eucari-
stia che, a rigore di termini, non contengono più nulla di euca-
ristico. Il prefazio infatti è scomparso, e non è nemmeno sosti-
tuito da un’altra preghiera, ma da un’esortazione rivolta ai fede-
li che porta alle Verba Christi. Queste sono comunque qualifica-
te formalmente come « consacratone » (dermunge). La comu-
nione è distribuita subito, in linea di principio, con l’ostia dopo
le parole sul pane e col calice dopo quelle sul vino, al canto del
Sanctus e àùYAgnus in parafrasi tedesche. Però Lutero sotto-
linea ancora la convenienza dell’elevazione, salutata subito con
il Sanctus-Benedictus, come nella Formula Missae. Questa volta
si può dire che la logica irresistibile dell’eredità medievale era
riuscita ad avere definitivamente ragione di tutto ciò che, nell’eu-
caristia autenticamente tradizionale, rifiutava ancora di lasciar-
visi ridurre (15).
Non bisogna però dimenticare che questa « Messa tedesca »,
stando al suo prefazio, non era, nella mente di Lutero, che un
ripiego provvisorio, destinato alla formazione delle popolazioni
meno istruite. Attraverso le sue spiegazioni, si intravede l’im-
pressione confusa che vi si perdono effettivamente elementi del-
la tradizione di cui Lutero persisteva a riconoscere il valore, ben-
ché non sapesse più quale posto assegnare loro nel suo inse-
gnamento. Egli confessa senza mezzi termini di non essere fa-
vorevole all’uso esclusivo della lingua viva nella liturgia, ad ec-
cezione delle letture bibliche e dei corali che parafrasano più
o meno direttamente gli inni tradizionali. Teme che una litur-
già tutta in tedesco diventi l’origine di un provincialismo reli-
gioso e di un taglio netto con la tradizione della Chiesa univer-
sale. In sostanza, si augurerebbe che si ritenessero il più possi-
bile le forme tradizionali dell’eucaristia. Desidera dunque espres-
samente che il tipo della Formula Missae resti, per questo, di
uso abituale particolarmente delle scuole e delle università.
Di fatto, la Deutsche Messe del 1526 servirà di modello solo

(15) Cf L. D. R e e d , op. cit., pp. 74ss e Y. B r i l i o t h , op. cit., pp.


120ss. - Per il testo in lingua tedesca, cf EEFL nn. 3426-3432.

592
alle liturgie dei paesi renani, in cui il luteranesimo sarà presto
influenzato da un'altra forma di protestantesimo ben più radicale
nella sua rottura con la tradizione: quella delle Chiese dette
« riformate », influenzate sia da Zuinglio sia da Calvino. Tali sa-
ranno gli Ordines del Wurttemberg (composti dal Brenz), di
Strasburgo (dal Butzer), di Baden, di Worms, di Rhein-Pfalz
(Palatinato), ecc.
Come nelle liturgie zuingliane o calviniste, la preghiera eu-
caristica vi è semplicemente e puramente scomparsa. Ma, al con-
trario di quello che è capitato in queste ultime, le parole delPi-
stituzione continuano a esservi concepite come operanti la pre-
senza reale del corpo e del sangue di Cristo negli elementi del
pane e del vino, sebbene queste parole non abbiano più posto
in una preghiera ma in un'esortazione rivolta ai fedeli.
Nella maggior parte delle altre Chiese luterane ci si atterrà
a traduzioni e adattamenti della Formula Missae che, sovente, la
avvicineranno di più alla forma tradizionale. Per esempio, vi si
ristabilirà la connessione immediata tra il prefazio e il Sanctus,
oppure vi si conserveranno i vari prefazi propri.
Sovente vi si farà anche sentire l'influenza della Deutsche
Messe. Per esempio, come in questa, si farà pronunciare il Padre
nostro non dopo ma prima della consacrazione. È quello che si
trova nella liturgia composta nel 1528 da Bugenhagen per Bruns-
wick, e che sarà utilizzata, quasi tale e quale, ad Amburgo e a
Lubecca, e poi in Danimarca. Si trova la stessa cosa nella li-
turgia di Sassonia, composta da Jonas nel 1539, per le feste (ma
vi si conserva la Deutsche Messe per le domeniche ordinarie).
Invece la liturgia di Brandeburgo-Norimberga, del 1553, non
conosce che lo schema della Deutsche Messe, pur riportando il
Padre nostro al suo posto tradizionale e conservando un buon
numero di preghiere e di canti latini.
Nell'elettorato di Brandeburgo, in compenso, la liturgia com-
posta sotto l'influsso dell'elettore Joachim II, da Stratner, Buch-
holzer e Mathias von Jagow, andrà molto più indietro della For-
mula Missae. Sono conservati i prefazi latini seguiti dal Sanctus
e, durante il canto di quest'ultimo, Toffìciante dice a voce bassa
quattro preghiere in tedesco: per l'imperatore e le autorità, per
il clero, per l'unità della Chiesa, per la remissione dei peccati;
dopo di che dice o canta, in tedesco, le parole di consacrazione,
seguite dall'elevazione e da un mottetto latino o da un canto in

393
tedesco. Seguono il Padre nostro e VAgnus Dei. Poi si intercala
un'esortazione ispirata dalla Deutsche Messe (ripresa tale e qua-
le dallOrdo di Norimberga), prima della comunione. Nel 15 7 !
ancora, David Chytraeus, per i luterani d'Austria, comporrà una
liturgia di ispirazione analoga. Le stesse tendenze si fanno stra-
da a Riga (1530) e a Pfalz Neubourg (1543). Ma, in genere,
il modello della Formula Missae avrà il sopravvento, più o me-
no completamente, nella Germania luterana (16).
È interessante, e anche divertente, vedere la reazione di Lu-
tero di fronte a queste tendenze divergenti. Interrogato con qual-
che ansietà da Buchholzer, il cappellano di Joachim, sul conser-
vatorismo liturgico del suo padrone, non vi farà nessuna obie-
zione. La sua risposta traduce in modo buffonesco un'ironia che
non risparmia il ritualismo dell'elettore più che gli scrupoli
dei riformatori più « avanzati »:
« Se il vostro signore, il margravio ed elettore, lascia pre-
dicare il vangelo di Gesù Cristo apertamente, chiaramente e
senza mescolanze, e amministrare e dare secondo il suo co-
mandamento i due sacramenti del battesimo e della carne e
del sangue di Cristo... allora, nel nome di Dio, andate in prò-
cessione, portate una croce d'argento o d'oro, e pianeta e ca-
mice di velluto, di seta o di lino! E se una pianeta o un ca-
mice non bastano per il vostro signore elettore, mettetene tre,
una sull'altra, come Aronne!... Tali cose, infatti, se non vi si
mescolano abusi, non tolgono e non aggiungono niente al van-
gelo... E se il papa volesse lasciarci liberi su questo punto,
purché il vangelo fosse predicato, potrebbe benissimo coman-
darmi di portare i pantaloni attorno al collo, io farei come
gli piace! » (17).

L'eucaristia non eucaristica dei riformati: Zuinglio, Ecolampadio,


Farei e Calvino
Questa mescolanza, non del tutto antipatica, di spirito tradì-
zionale e di libertà non sarebbe stata però secondo il gusto degli
altri riformatori, e soprattutto di coloro che si sarebbero chia-
mati « riformati », in opposizione sia ai luterani che ai cattoli-

(16) Su tutto questo, cf L. D. Reed, o p . c i t ., pp. 88ss.


(17) E. L. Enders, M a r tin L u th e r s B r i e f w e c h s e l, voi. XII, pp. 316ss.

394
ci, come Zuinglio e Calvino. Per costoro, non si trattava di ri-
formare la messa, ma semplicemente di abolirla.
Ciò che si metterà al suo posto, sotto il nome di « Santa Ce-
na », pur pretendendo di ritornare alPeucaristia primitiva, con-
serverà soltanto il racconto delPistituzione, affogato in esorta-
zioni sempre più prolisse e sempre meno religiose. Tuttavia, le
preghiere che vi si potranno aggiungere si svilupperanno sem-
pre sulla linea pienamente medievale delle apologie e delle me-
ditazioni affettive della passione. Così questa rottura con la tra-
dizione, in nome del « solo vangelo », finirà di fatto per ritenere
soltanto gli elementi più scarni di una tradizione posteriore al
secolo IX. Raramente si è vista una riforma sfociare, in pratica,
in una contraddizione così totale col suo principio teorico.
Zuinglio a Zurigo, come Ecolampadio a Basilea, negheranno
radicalmente non solo il carattere sacrificale della messa, ma
qualsiasi idea di una presenza reale nelPeucaristia. Per Zuinglio,
in particolare, « mangiare la carne e bere il sangue del Figlio
dell’uomo » significa esclusivamente nutrirsi, mediante la fede,
della parola del vangelo, !/eucaristia non è altro che un ban-
chetto comunitario in cui i fedeli proclamano, nella riconoscen-
za verso Dio, la loro fede comune, imitando e ricordando Pul-
timo pasto preso da Cristo con i suoi. Però non si deve affatto
credere che il sacramento, in se stesso, comunque lo si intenda,
li unisca a Cristo. Questi rimane in cielo, e si afferma esplicita-
mente che nella celebrazione della Santa Cena la sua presen-
za non è né maggiore né diversa da quella di qualsiasi riunione
in cui si ascolta insieme la sua parola (18).
Tuttavia, in una prima fase, Zuinglio a Zurigo — proprio
come Ecolampadio a Basilea - si guarderà bene dalPintrodurre
un servizio così visibilmente differente dalla messa come do-
veva diventare la Santa Cena riformata. Il suo De canone Missae
epicheiresis del 1523 accetta di conservare la messa press’a poco
tale e quale fino al Sanctus incluso. A questo punto, però, so-
stituisce al Canone romano quattro preghiere latine, che porta-
no al racconto della istituzione, completato dalla parola di san
Paolo sulP« annuncio » della morte di Cristo nelPeucaristia. Vie-
ne poi la comunione, introdotta dalPinvito di Cristo: « Venite
a me, voi tutti che siete travagliati e oppressi e io vi libererò »,

(1 8 ) C f Y . B r il io th , o p . c it . , p p . 1 53ss.

395
e seguita dal Nunc dimittis. La prima delle quattro preghiere
(seguita dal Padre nostro) è una commemorazione della storia
della salvezza in forma di rendimento di grazie che richiama le
antiche anafore. Però la seconda, pregando Dio di nutrirci col
pane celeste, precisa che questo pane è la sola parola di Cristo
La terza, nonostante ciò, parla non solo di Cristo che si dà in
cibo alle nostre anime sotto le forme del pane e del vino, ma
anche della nostra partecipazione al suo corpo e al suo sangue.
Se la si leggesse prescindendo dalla precedente, si potrebbe ere-
dere che lasci all’eucaristia il suo senso tradizionale:
«... Egli si è dato a noi in cibo, di modo che, proprio come
ha vinto il mondo, noi, nutriti di lui, possiamo sperare, a
nostra volta, di vincere il mondo... Concedici dunque, 0
Padre misericordioso, per mezzo di Cristo, tuo Figlio, nostro
Signore, per mezzo del quale tu dai la vita a tutti e rinnovi
e sostieni ogni cosa, che noi possiamo manifestarlo nella
nostra vita, cosicché sia riacquistata quella somiglianza che
abbiamo perduto in Adamo. E, perché sia così, concedi ef-
fettivamente a noi tutti che partecipiamo al corpo e al san-
gue del tuo Figlio di avere una sola mente e un solo scopo e
di essere noi stessi uno in lui che è uno con te ».
L’ultima preghiera, infine, chiede che i comunicanti, me-
diante il lume della grazia, partecipino degnamente al banchet-
to del Figlio, « in cui egli stesso è a un tempo nostro ospite e no-
stro cibo »; e questo avvia direttamente verso il racconto del-
l’istituzione. Bisogna riconoscere il fatto paradossale che questa
preghiera eucaristica, più di qualsiasi antica formula luterana, si
avvicina ai formulari tradizionali. Letta da un lettore pio, ma
poco critico, poteva certamente eccitare una devozione eucari-
stica di buona qualità, nonostante il carattere vago delle sue al-
lusioni al sacrificio, anche a quello della croce. Letta però con
discernimento, rivela un’arte quasi renaniana di esprimere solo
banalità razionalizzanti sotto formule tradizionali e con il tono
di unzione che meglio si presta a ingannare.
Lo stesso anno abbiamo, a Basilea, un tentativo analogo,
con il Das Testament ]esu Christi di Ecolampadio; le preghiere
vi utilizzano più nettamente i temi sacrificali, ma esclusivamen-
te per applicarli all’offerta di sé fatta dal cristiano nella fede (19).

(19) Cf Y. B r il io th , op. c i t pp. 159ss.

396
Zuinglio, meno di qualsiasi altro, doveva prendere sul serio
la sua prima composizione liturgica, che aveva concepito solo
come una transizione destinata a preparare le menti a quello che
voleva di fatto ottenere. Fin dall’aprile del 1525, sentendosi più
sicuro di sé nella città, pubblica il suo Action oder Bruch des
]Slachtmals. Un aspetto caratteristico della dottrina sviluppata
da Zuinglio è che viene bandito ogni canto. Qui il diacono, e
non il celebrante, legge un’esortazione. Dopo di che si recita il
Padre nostro. Poi il celebrante legge il solo racconto dell’istitu-
zione, e si passa alla distribuzione del pane e del vino che si ri-
cevono seduti.
Il servizio comincia, prima del pasto propriamente detto, con
una preghiera che chiede la grazia di sdebitarsi come si deve
della « lode e del rendimento di grazie che il tuo Figlio, nostro
Signore e Salvatore Gesù Cristo ha ordinato a noi, suoi fedeli, di
fare in memoria della sua morte »; ma questa lode e questo
rendimento di grazie sono realizzati concretamente solo nella
recita del Gloria in excelsis, intercalata tra la lettura di 1 Cor
11,20-29 e quella di Gv 6,4763‫־‬, prima del pasto, e quella del
salmo 113 (stando alla numerazione ebraica), dopo il pasto. Non
c’è più la minima traccia di preghiera propriamente eucaristi-
ca (20). D’altronde questa liturgia eucaristica senza eucaristia,
è prevista solo per quattro celebrazioni annuali (Natale, Pa-
squa, Pentecoste e una volta in autunno). Ed è completamente
concepita come una festa della comunità cristiana che si af-
ferma in questo banchetto eccezionale. È certamente un atto
religioso sociale, ma tende a diventare soltanto sociale. Si è giu-
stamente sottolineato che a Zurigo persisterà a lungo, di conse-
guenza, il fatto sconcertante che la comunione riunirà ben più
partecipanti che l’assistenza regolare agli uffici domenicali.
Calvino, in parte sotto l’influenza subita a Strasburgo di
quello che Butzer aveva conservato di luterano, si sforzerà di
ridare un contenuto religioso e sacramentale a questa « Cena ».
Senza insegnare la presenza reale negli stessi elementi, come i
luterani continuavano a fare, sosterrà che la manducazione non
è un semplice segno della nostra fede comune nella parola del
vangelo, ma un segno dato da Dio di una comunione reale al
corpo e al sangue del suo Figlio crocifisso per noi. Tuttavia, co‫״‬

(20) Cf i b id ., pp. 160ss.

397
me Zuinglio, sostiene che il corpo di Cristo esiste soltanto in
cielo e non potrebbe ridiscenderne. Ma non afferma meno ener-
gicamente che i segni dati da Dio ci elevano fino al cielo, pur-
ché noi li riceviamo con fede, e ci incorporano a Cristo glori-
ficato, in modo che la Chiesa diventa, misticamente ma real-
mente, il suo stesso corpo (21). Tuttavia egli non cambierà gran
che, in sostanza, alla Cena di Zuinglio, recepita a Ginevra sotto
una forma ben più prolissa, ma non per questo migliorata, do-
vuta a Guillaume Farei.
Il servizio del Farei comprendeva, dopo una prima esorta-
zione, una formula di confessione dei peccati, la preghiera
domenicale, il simbolo degli apostoli, una seconda esortazione
che portava al racconto delPistituzione, una terza esortazione,
la distribuzione della comunione, infine una quarta e ultima
esortazione prima della benedizione e il congedo. Qui il più os-
sessionante didascalismo ha preso il posto non solo della pre-
ghiera eucaristica, ma di qualsiasi altra preghiera che non sia
la confessione dei peccati (22).
Il servizio di Calvino, dopo una preghiera per la Chiesa, la
lettura del racconto delFistituzione (secondo san Paolo), intro-
duce una scomunica contro una lunga serie di peccatori ritenuti
particolarmente scandalosi, mutuata dal rituale di Strasbur-
go composto dal Butzer; viene poi una lunghissima esortazio-
ne in cui Calvino ha cercato di esporre completamente la sua
dottrina sulla Cena, così come ?abbiamo riassunta sopra, pre-
cisamente secondo questo testo. Segue subito la distribuzione
della comunione, accompagnata o dal canto di un salmo, o da
versetti biblici recitati dal ministro. Una preghiera di « rendi-
mento di grazie », nel senso stretto di ringraziamento per i doni
ricevuti e di impegno per una fedeltà rinnovata, fa da conclusio-
ne, insieme al Nunc dimittis e alla benedizione (23).

(21) Cf ib i d ., pp. 175ss e soprattutto J. Cadier , L a d o c tr in e c a lv i-


n is te d e la S a in te -C è n e , in: É tu d e s th é o lo g iq u e s e t r e lig ie u s e s , Montpel-
lier 1951.
(22) Cf Y. Brilioth, o p . c it., pp. 172ss. La M a n iè r e e t f a s s o n , attri-
buita a Farei, fu stampata a Serrières (vicino a Neuchàtel) nel 1533.
(23) Cf B. T hompson, L itu r g ie s o f th e W e s t e r n C h u r c h , Cleveland-
New York 1961, pp. 185ss. Prima edizione della liturgia calvinista a
Ginevra nel 1542 { L a f o r m e d e p r iè r e s , ecc.). - Per il testo in lingua fran-
cese della F o r m a M is s a e C a lv in i, cf EEFL nn. 34333438‫־‬.

39 8
Calvino avrebbe voluto che questa Cena venisse celebrata
ogni domenica, dopo l'ufficio di letture e di preghiere. Nono-
stante il suo sforzo dottrinale per infondervi un contenuto di
cui la Cena zuingliana era totalmente sprovvista, si comprende
come questo ufficio, quasi altrettanto pesante didatticamente
di quello di Farei, non sia mai riuscito ad essere celebrato mol-
to più spesso di quello di Zuinglio. Il realismo sacramentale teo-
rico di Calvino non cambiava niente alla realtà scarna del pasto
rituale al quale lo si applicava: si rimaneva in un’« eucaristia »
non eucaristica.

Sopravvivenze e primi tentativi di ricupero presso i luterani: la


liturgia svedese da Olaus Petri a Giovanni III
Invece, durante tutto il secolo XVII e fino al XVIII molto
inoltrato, la messa luterana rimarrà il focolare vivente della pie-
tà dei luterani: una pietà che il rinnovamento teologico della
grande tradizione venuta da Johann Gerhard nutrirà di una vera
mistica del Cristo in noi, attinta particolarmente dai Padri gre-
ci. I suoi difetti sono, ancora una volta, i difetti medievali spinti
fino alle ultime conseguenze; tuttavia questa messa luterana con-
serverà per i fedeli tutto ciò che essi trovavano di meglio nella
messa del medioevo. L'assenza di certi elementi del canone, come
l'anamnesi, per quanto sconcertante potesse essere, passava pra-
ticamente inosservata. Questi elementi, da molto tempo, non
solo non erano sentiti, ma non erano nemmeno conosciuti dai
laici: infatti non se ne teneva nessun conto nell'insegnamento
sull'eucaristia che veniva impartito da secoli. In compenso, ve-
nendo dopo un sostanzioso ufficio di letture e di canti in cui
nulla era cambiato della messa prima della riforma, ma in cui
tutto era ridivenuto comprensibile, il prefazio, le parole della
consacrazione pronunciate ad alta voce, l'adorazione — in gì-
nocchio, al suono del campanello — della santa presenza, sa-
lutata con il Sanctus e il Benedictus, non solamente conservava-
no, ma, grazie alla lingua viva e all’istruzione catechistica, ren-
devano popolare quanto era rimasto di propriamente eucari-
stico nella liturgia del medioevo. Inoltre, liberata dal sovracca-
rico invadente dei tropi e delle devozioni avventizie, arricchita
dalla pietà tenera e virile dei corali, questa liturgia, pur con-
servando il meglio della devozione affettiva al Salvatore morente

399
per noi in un'implorazione di perdono atteso dalla sua grazia
salvatrice, la centrava di nuovo sulla comunione frequente ripor‫־‬
tata al suo posto logico nella celebrazione eucaristica. Con il ce‫־‬
rimoniale, il canto liturgico, i sacri paramenti, il crocifisso e le
immagini sacre, l'incenso e le luci, la massa dei luterani poi tro‫־‬
vava sempre nel proprio culto tutta quell'atmosfera di adorazio-
ne che vi avevano ancora trovato, attorno alla presenza e al ri‫־‬
cordo della croce salvatrice, i migliori cristiani del medioevo.
Però, senza rendersene conto - a parte il fatto, certamente irti-
portantissimo, che non si accontentavano più di assistere alla
messa, ma vi si comunicavano - avevano certamente continua-
to a scendere più che risalire sulla china fatale che non aveva
cessato di allontanare i loro predecessori dalla tradizione della
Chiesa antica e primitiva: per quanto sovente fosse ricca, la
loro pietà eucaristica si ricollegava soltanto a un moncone di
eucaristia (24).
Tuttavia questa situazione, in Germania, sopravvivrà solo
a stento ai tumulti della guerra dei Trent’anni, per decomporsi
sotto l'influenza ufficiale negli Stati in cui l'unione di Prussia
avrebbe imposto una conformità alle pratiche « riformate » più
devitalizzate. Questa stessa abolizione avrebbe suscitato, per
reazione, una rinascita cosciente del vecchio luteranesimo, che
ai nostri giorni doveva portarlo a volte quasi a raggiungere il
cattolicesimo dei primi secoli.
Questa rinascita si sarebbe sviluppata solo tre secoli dopo la
Riforma. Tuttavia era stata almeno abbozzata fin dalla fine del
secolo XVI, in circostanze che meritano la nostra attenzione. È
la prima delle rinascite liturgiche nel protestantesimo, che avreb-
be segnato fino ai giorni nostri la Chiesa di Svezia (25).
Il protestantesimo si era introdotto in Svezia, come in molte
altre parti, principalmente per ragioni politiche. Però era sta-
to molto moderato nel trasformare le forme tradizionali della
vita ecclesiastica, e specialmente il culto. Il suo principale pro-

(24) Cf L. D. Reed, o p . c it., pp. 105ss e Y. Brilioth, o p . c it., pp.


126ss.
(25) Cf Y. Brilioth, o p . c i t . y pp. 228ss. Si veda anche P. Lebrun,
E x p lic a tio n litté r a le , h i s to r iq u e e t d o g m a tiq u e , d e s p r iè r e s e t d e s cé ré -
m o n ie s d e la M e s s e , s u iv a n t le s a n c ie n s a u te u r s , e t le s m o n u m e n ts d e
t o u te s le s é g lis e s d u m o n d e c h r é tie n , t. IV, nella riedizione del 1843,
pp. lOOss.

400
motore era stato il predicatore Olaus Petri (Olaf Petersson),
formatosi a Wittemberg. Egli è Fautore della prima messa sve-
dese, pubblicata fin dal 1531.
Essa si avvicina molto alla Formula Missae di Lutero, nel
senso che lega direttamente le parole delPistituzione al Per Chri-
stum del prefazio. Il Sanctus e il Benedictus servono a salutare
!,elevazione. Differisce però su un punto capitale: introduce
qualcosa delPanafora tradizionale, non sotto forma di preghiere
di intercessione, ispirate più o meno direttamente a quelle del
canone, come nella liturgia di Brandeburgo del 1540, ma con
uno sviluppo dello stesso prefazio.
Questo sviluppo unisce insieme in modo inatteso, ma tutto
sommato molto felice',Nla preoccupazione medievale e prote-
stante per il perdono dei peccati dei partecipanti con un richia-
mo della storia della salvezza. Brilioth, probabilmente con ra-
gione, pensa che questo sviluppo sia stato ispirato dal prefa‫־‬
zio pasquale. Ma non si può assolutamente escludere la suppo-
sizione di una prima influenza percettibile su una liturgia prò-
testante, se non delle liturgie orientali, almeno dei Padri greci.
Ecco il testo:
« È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di
salvezza, rendere grazie sempre e in ogni luogo a te, Signore
santo, Padre onnipotente, Dio eterno, per tutti i tuoi benefici:
ma in modo del tutto speciale, perché dopo che il peccato
ci aveva resi in uno stato in cui non ci rimaneva più che
attendere la perdizione e la morte senza che alcuna creatura,
né in cielo né sulla terra, potesse venirci in aiuto, tu hai in-
viato il tuo unico Figlio, Gesù Cristo, con te uno nelPunità
di una sola natura divina, il quale, essendosi fatto uomo
per noi, distrusse i nostri peccati e subì la morte mentre noi
avremmo dovuto morire per sempre; lui, invece, avendo
vinto la morte è risuscitato per la vita e ormai non morirà
più, in modo che tutti coloro che credono in lui sono stati
stabiliti da lui vincitori del peccato e della morte ed eredi
della vita eterna. Egli stesso, affinché non dimenticassimo
mai i suoi benefìci, nella notte in cui fu tradito, ecc. ».

Dopo il Sanctus-Benedictus si passa alla comunione, con il


Pater noster, il Pax Domini e VAgnus Dei. Subito prima della
distribuzione si introduce una esortazione, presa a prestito dal­

401
la liturgia di Norimberga, come il canto del Nunc dimittis che
accompagna la stessa comunione (26).
D’altra parte, l’aspetto soggettivo e penitenziale è presen-
te anche nella formula di confessione collettiva che precede
tutto il servizio, prima dell’introito (uno dei primi esempi di
tali composizioni nelle liturgie protestanti). Invece è assente
dal postcommunio fisso che termina il servizio e che è di uno
spirito del tutto tradizionale, con un notevole richiamo escato-
logico.
Questa messa svedese non era destinata, sembra, a sostituì-
re la messa solenne, ma piuttosto a costituire quella che noi
chiameremmo una « messa letta » di comunione. Quarantanni
dopo, !,arcivescovo Laurentius Petri, fratello di Olaus, avrebbe
adottato nella stessa messa solenne il formulario di suo fratello.
Avrebbe però mantenuto, con l’insieme dei canti latini tradizio-
nali, la possibilità di conservare e di cantare sempre in latino i
prefazi propri, prescrivendo, in questo caso, di farli seguire im-
mediatamente dal Sanctus, prima delle parole della consacrazio-
ne. Questa precisazione era accompagnata da una prescrizione
dettagliata che ha permesso alla Chiesa di Svezia di conservare
fino ai giorni nostri l’insieme del cerimoniale e del fasto liturgi-
co della tradizione cattolica. Tale prescrizione però, nei suoi
insegnamenti dottrinali, è ancora più interessante. Fondandosi
sulle stesse formule di Olaus, l’arcivescovo Laurentius, per la
prima volta nel protestantesimo, tenta di sviluppare una dottri-
na positiva del sacrificio eucaristico, che è molto vicina agli
insegnamenti patristici.
Non solo ammette il « sacrificio di lode e di rendimento di
grazie », con termini che dimostrano molto bene che egli vi at-
tribuisce un significato assai più profondo dei riformatori, i qua-
li vi scorgevano soltanto un’espressione metaforica della nostra
gratitudine per i doni ricevuti; non solo vi aggiunge quel sacri-
fido che consiste nell’offerta di noi stessi a Dio, ma aggiunge
una frase di importanza capitale, che non ha quasi parallelo
negli altri autori luterani dell’epoca:

(26) Testo svedese e traduzione inglese in E. E. Y elverton, The


( = Henry Bradshaw Society, 57), London 1919, pp.
M a s s in S w e d e n
37-38; commento in L. D. R eed , o p . c i t . y pp. 113ss. Si noterà che la for-
mula finale: « Ecco perché, con gli Angeli e gli Arcangeli, ecc. » sarà
nuovamente introdotta da Giovanni III prima del S a n c tu s .

402
« Ma, se voi volete anche chiamare la messa un sacrificio,
perché essa significa o rappresenta il sacrificio che Cristo
ha fatto sulla croce, e non come se voi stessi, o i sacerdoti
che lo offrono, come si dice, vi appropriaste ?ufficio di Cri-
sto, lo si può accettare ».
Egli arriverà fino ad aggiungere, in una formula molto me-
dievale e molto luterana insieme, che la messa è di fatto un sa-
crificio « perché il sacerdote e il popolo la mettono tra i loro pec-
cati e Tira di Dio come un pegno di pace » (27).
Cera qui come il germe di un recupero della tradizione li-
turgica e insieme di quella teologica. Questo movimento sareb-
be continuato sotto ?episcopato di suo genero e successore, l’ar-
civescovo Laurentius Petri Gothus, sotto ?impulso del re Gio-
vanni III, aiutato dal suo segretario Petrus Fecht, ex-allievo
dell'umanista e principale collaboratore di Lutero, Melantone.
Questo « ritorno alle fonti » portò i suoi frutti in una litur-
già riveduta che il re Giovanni riuscì a imporre per alcuni anni
e che rappresenta certamente la reazione tradizionale più ar-
dita che si fosse mai vista attuare in paese luterano (28). Non
era, però, un puro e semplice ritorno al Canone romano, ma un
tentativo, forse più ingegnoso che riuscito, di reinserire molti
elementi lasciati da parte nello schema della messa di Olaus Pe-
tri, senza modificarne per questo la struttura ereditata dalla
Formula Missae di Lutero. Bisogna ancora aggiungervi uno sfor-
zo, questa volta indubitabile, di ispirarsi alle liturgie orientali.
Una frase del nuovo formulario, ripresa alla lettera dalla litur-
già di san Giovanni Crisostomo, basta ad attestarlo. Del resto,
lo stesso re aveva giustificato in anticipo la sua riforma liturgi-
ca, di fronte all'assemblea del clero a Stoccolma, nel 1574, con
la necessità di ritornare ai modelli antichi delle liturgie di san
Giacomo, di san Basilio, di san Giovanni Crisostomo, di sant'Am-
brogio e di san Gregorio. La lettura del nuovo testo convince
facilmente che se le liturgie orientali, che Olaus Petri aveva in-
vocato già in favore della sua composizione, avevano potuto

(27) Cf Y. Brilioth, o p . c it., pp. 249ss.


(28) P. Lebrun ha riprodotto tutto il testo di questa liturgia nel t.
IV della sua opera, pp. 115ss: L itu r g ia S u e c a n a e E c c le s ia e , c a th o lic a e e t
o r th o d o x a e c o n f o r m is , Stoccolma 1576. Cf pure E. E. Y elverton, o p . c it.,
pp. 78ss, il quale crede, erroneamente, di essere il primo a riportare que-
sto testo.

403
godere della sua fiducia, ora non era certamente più la stessa
cosa.
Come nella liturgia di Laurentius Petri (il suocero di Lau‫־‬
rentius Petri Gothus), agli antichi prefazi propri come al prefa‫־‬
zio di Olaus, o al prefazio comune (dato come formula di ri‫־‬
cambio aggiunta a quest'ultimo per le domeniche e i giorni or‫־‬
dinari) si legano le parole della consacrazione, per mezzo della
formula: « Egli stesso, affinché non dimenticassimo mai i suoi
benefici, nella notte in cui fu tradito, ecc. ». Dopo la conclusio‫־‬
ne tradizionale degli antichi prefazi, il Sanctus viene allora can‫־‬
tato o recitato. Però, mentre è cantato nella messa solenne, 0
dopo che è stato recitato nella messa letta, il sacerdote aggiun-
ge un'anamnesi e una epiclesi di cui nessuna liturgia luterana,
nemmeno tra le più conservatrici, aveva avuto fino allora l'equi‫־‬
valente. Esse parafrasano in modo molto interessante YUnde et
memores, il Supra quae e il Supplices del Canone romano:
« Ricordandoci, dunque, anche noi, o Signore, di questo
comando salutare, della beata passione, della morte come
pure della risurrezione dai morti e dell'ascensione nei cieli
del medesimo tuo Figlio, nostro Signore Gesù Cristo, che,
nella tua immensa bontà, ci hai accordato e dato, perché
fosse la vittima dei nostri peccati e, con la sua unica obla-
zione sulla croce, pagasse per noi presso di te il prezzo della
nostra redenzione, soddisfacesse alla tua giustizia e compisse
un sacrificio profittevole agli eletti fino alla fine del mondo:
noi ci impossessiamo per mezzo della fede di questo tuo
Figlio medesimo, che ci è così proposto, e della sua morte
e della sua oblazione, come delFostia pura, delFostia santa,
delFostia immacolata, nostra propiziazione, nostro scudo e
nostra protezione contro la tua collera, contro il terrore del
peccato e della morte. Noi Poffriamo alla tua gloriosa maestà
con le nostre umilissime preghiere, rendendoti grazie per
tanti benefìci di cui tu ci hai colmati, dal fondo del cuore,
e a piena voce, non quanto lo dobbiamo, ma quanto ne
siamo capaci.
E ti preghiamo, supplicando, per il tuo stesso unico Figlio,
che nelFimperscrutabile disegno della tua divinità è stato
stabilito nostro intercessore, di volgere uno sguardo propizio
e favorevole su di noi e sulle nostre preghiere, di riceverle
presso il tuo altare celeste come gradevoli e accette, nella
tua clemenza; fa' che ogniqualvolta noi, con la partecipazione
a questo altare, riceveremo il nutrimento e la bevanda be-

404
nedetta e santificata, il pane sacro della vita eterna e il
calice della salvezza perpetua, il corpo santissimo del tuo
Figlio e il suo sangue prezioso, noi siamo ripieni di ogni
grazia e benedizione celeste» (29).
Segue un Nobis quoque, dal quale sono tolti semplicemen-
te i nomi dei santi (ma non la loro menzione generale), che
porta alla conclusione del Canone romano: Per quem haec om-
nia, ecc. La fine del servizio corrisponde a quella della liturgia
del precedente arcivescovo, se non che vengono proposti parec-
chi postcommunio di ricambio.
È pure interessante notare quello che l’anamnesi conserva
àùYUnde et memores romano e quello che vi aggiunge. Essa
comincia col ricollegare il memoriale al precetto (mandatum) di
Cristo. A prima vista ciò sembra tradizionale, ma in realtà non
lo è il fatto che qui il memoriale diventa una commemorazio-
ne soggettiva dell’ultima Cena, prima di evocare come di ri-
flesso la passione e tutta l’opera salvifica. Siamo di colpo situati
nel concetto medievale e protestante. Ma tutto il seguito si sfor-
zerà di portarla, per quanto possibile, a ricuperare il concetto
antico. Il secondo sviluppo, sottolineando la misericordia divi-
na ed esaltando l’unicità del sacrificio della croce, può avere
l’appoggio non solo della lettera agli Ebrei, ma di formulari
vicini all’era patristica, come quello di Teodoro. Non c’è dub-
bio, tuttavia, che queste formule intervengono per soddisfa-
re una teologia protestante in cui l’unicità del sacrifìcio reden-
tore è confusa con l’impossibilità non solo di ripeterlo, ma di
perpetuarne la presenza sacramentale. La spiegazione data
questo sacrificio, come se si riducesse alla concezione anselmia-
na della soddisfazione penale, è del tutto tipica non di Lutero,
ma della scolastica luterana, la quale si era impossessata di que-
sta spiegazione per rinchiudere strettamente nel passato tutta
la redenzione. La ripresa poi delle espressioni hostiam puram,
hostiam sanctam, hostiam immaculatam, effettivamente è appli-
cata alla sola croce, e in nessun modo al sacramento del sa-
crificio.
Ma il contesto prepara un reinserimento abilissimo di tutto
quello che sembra essere stato escluso. La svolta si opererà con

(29) P. Lebrun , op. cit., pp. 142143‫ ;־‬cf E. E. Y elverton, op. cit.,
pp. 106ss.

40 5
un accumularsi di espressioni riprese direttamente da Lutero, ma
che, come Aulén ha fatto notare, riavvicinano strettamente il suo
pensiero a quello dei Padri greci. Il Cristo crocifìsso, infatti, vi
è qualificato come propitiationem, scutum et umbraculum no-
strum contra iram tuam, contra terrorem peccati et mortis. La
presentazione di Cristo morto al Padre, per proteggerci dalla
sua collera, è un’espressione familiare a Lutero per descrivere
il modo con cui egli concepisce la nostra giustificazione per mez-
zo della fede. L’idea che noi vi troviamo la liberazione dai ter-
rori della morte e del peccato è pure sua, ma è una ripresa di-
retta del testo biblico più sovente citato dai Padri (i greci in par-
ticolare), per esprimere l’effetto della redenzione (Eb 11,1415‫)־‬.
Di qui la preghiera ricaverà, in termini ancora del tutto luterani,
la sua reintegrazione dell’idea di una presenza oggettiva della
Croce nella messa e di un’offerta consecutiva dell’unico sacri-
ficio che noi possiamo fare nostro: eumdem Filium tuum, eius-
dem mortem et oblationem... nobis propositum fide amplectimur,
tuaeque praeclarae maiestati humillimis nostris precibus offerì-
mus. Non c’è nulla di più luterano, in un certo senso, che que-
sto « appropriarsi » dell’unica oblazione di Cristo da parte dei
credenti, nella preghiera della fede. Il fatto però che il Cristo e
la sua offerta, inseparabilmente, siano considerati come un nobis
propositum nella celebrazione eucaristica, e che si dica che « noi
l’offriamo » con questa stessa preghiera che lo fa proprio me-
diante la fede, viene ad introdurre nel centro della visione della
salvezza più marcatamente luterana quella visione tradizionale
della messa che Lutero, di fatto, non era mai riuscito a inte-
grarvi. Come l’avrebbe potuto, infatti, dal momento che il sa-
crificio eucaristico, per lui, aveva sempre significato un sacri-
ficio diverso da quello della croce - senz’altro da rifiutare -, op-
pure una semplice espressione della nostra riconoscenza per il
perdono concesso alla nostra fede? Qui, invece, l’eucaristia ridi-
venta l’incontro sacramentale in cui la nostra fede può effetti-
vamente impossessarsi della Croce, ma perché il Cristo morto
e risorto le è oggettivamente « proposto », di modo che noi di-
ventiamo associati alla sua offerta unica nella preghiera che si
appropria questo dono celeste. Si può dire che è conservato tutto
quello che la concezione luterana della salvezza comportava di
positivo, ma tutto è reintegrato nella concezione antica dell’eu-

406
caristia a cui Lutero stesso si era a volte avvicinato, ma senza
essere riuscito a liberarla dalle contraffazioni posteriori.
Sta comunque il fatto che questa composizione, tanto inge-
gnosa da riuscire a riprendere tutte le formule a partire dalle
quali il sacrificio era stato espulso daireucaristia, per poi, in fin
dei conti, reintrodurvelo, rimane una delle più artificiose. La
reintegrazione auspicata, infatti, per non essere fittizia, avrebbe
richiesto !'abbandono iniziale della falsa evidenza secondo cui
il « memoriale » non è altro che una commemorazione sogget-
tiva dell'ultimo pasto di Gesù con i suoi. Fino a quando i pro-
testanti non fossero giunti a liberarsi da questa concezione
strettamente psicologica e aneddotica, eredità purtroppo indi-
scussa del medioevo, tutti gli sforzi per uscire dalPalternativa -
sacrificio unico della croce o moltiplicazione di sacrifici aggiun-
ti alla croce - avrebbero sempre dato !,impressione di voler con-
ciliare rinconciliabiie.
L'epiclesi riflette un procedimento esattamente simile a
quello dell'anamnesi. Essa fonde insieme i Supra quae e il Sup-
plices in un modo che potrebbe essere stato suggerito dal De
Sacramentis (ricordiamo che Giovanni III citava espressamen-
te sant'Ambrogio tra i testimoni dell'eucaristia antica ai quali
bisognava ritornare). Omette però, con la menzione dei sacri-
fici antichi, quella dell'Angelo, per sostituirvi il ricordo (ispira-
to ancora una volta dalla lettera agli Ebrei) di Cristo che inter-
cede per noi nel santuario celeste. La finale riprende quella del
Supplices, pur inserendovi due formule scomparse àall’Unde et
memores (panem sanctum vitae aeternae et calicem salutis per-
petuae). È evidente però che non si è osato prolungarvi l'idea,
abbozzata nella preghiera precedente, del sacrificio unico che
diventa il nostro nell'eucaristia, cosicché ci si limita a chiedere
l'accettazione all'altare celeste, non di questo sacrificio, ma uni-
camente delle nostre preghiere. Tuttavia, siccome queste stesse
preghiere avevano, un po' sopra, riacquistato un significato sa-
crificaie, non è impossibile riversare in questa epiclesi il conte-
nuto antico delle formule romane che l'hanno ispirata.
Non c'è nulla da dire sul Nobis quoque, salvo notare che
non si è osato reintrodurre né il Memento dei morti, né alcuna
preghiera formale per essi, per paura di suscitare direttamente
il sospetto che qualsiasi preghiera per i morti, nella messa, im­

407
plicasse una ripetizione, e non una semplice attualizzazione sa‫־‬
cramentale, deirunico sacrificio.
C’è da aggiungere la particolarità più curiosa di tutta que-
sta liturgia: non solo si è introdotto di nuovo un’epiclesi pro‫־‬
priamente consacratoria prima del racconto dell’istituzione e
nell’averla, ad imitazione delle liturgie orientali, rivolta allo
Spirito Santo, ma è stata messa prima dell’inizio dell’eucari‫־‬
stia propriamente detta. Il motivo di questa strana innnovazio‫־‬
ne è semplice: dal momento che si voleva conservare intatto
lo schema della Formula Missae adottato da Olaus Petri, non
si poteva più trovarle un altro posto. Così l’offertorio si conclu-
de con una successione di tre preghiere: la prima è una specie
di secreta fissa; la seconda è un ricupero del Te igitur, in cui,
ancora una volta, la menzione del sacrificio è sostituita da quella
delle nostre preghiere; la terza è il testo che riportiamo:
« Signore Dio, tu hai voluto che la santissima e venerabile
Cena del tuo Figlio fosse il pegno più certo della tua mise-
ricordia verso di noi: desta le nostre menti, mentre la cele-
briamo, a ricordarsi in modo salutare dei tuoi benefici e a
esserti veramente e per sempre riconoscenti; aiuta noi tuoi
ministri e il tuo popolo a compiere degnamente il così grande
mistero del nuovo testamento e dell'eterna alleanza, ram-
mentandoci questa ostia santa, pura, immacolata e salutare
che il tuo stesso Figlio ha compiuto per noi sull'altare della
croce. Benedici e santifica con la virtù del tuo santo Spirito
il pane e il vino presentati e destinati a un santo uso, perché
utilizzati in questo modo siano per noi il corpo e il sangue
del tuo Figlio prediletto, gli alimenti della vita eterna che
noi attendiamo e cerchiamo con tutto il nostro desiderio, per
mezzo di Gesù Cristo medesimo... » (30).
Qui, più che mai, si è tentato l’impossibile: dopo la formu-
lazione più intensamente soggettiva del « memoriale », l’euca-
ristia viene tuttavia designata con l’espressione mysterium pe-
ragere, arricchita dal suo parallelismo con 1’hostia... in ara cru-
cis peracta. La finale costituisce comunque un’epiclesi consa‫־‬

(30) P. L ebrun , o p . c it., ρρ. 137139‫ ;־‬cf E. E. Y elverton, o p . c it.,


pp. lOlss. È probabile che il V e n i S a n c tif ic a to r , introdotto già nell'of-
fertorio della messa romana medievale, abbia incoraggiato ad inserire
questa vera epiclesi a questo punto. Di qui, ancora una volta, l'accentua-
zione di una deviazione del medioevo ad opera della Riforma: qui l'of-
fertorio tende a diventare un doppione anticipato del canone.

408
oratoria che non potrebbe essere più chiara, e tuttavia riprende
quelle espressioni sacro usui destinatae e in vero usu, che erano
così familiari alle orecchie protestanti.
Per la scolastica luterana, influenzata da Melantone e preoc‫־‬
cupata di avvicinarsi il più possibile ai calvinisti, esse signifi-
cavano che la presenza eucaristica si riduce alla celebrazione,
o addirittura alla sola manducazione delle specie. Sembra evi-
dente che non si intende nulla di simile con queste parole, ma
soltanto, tutt’al più, che la messa è salutare a coloro che vi par-
tecipano solo in quanto ci vengono con le disposizioni conve-
nienti. In altre parole: in questa preghiera, forse più che in qual-
siasi altra, si coglie la duplice ambiguità di tutta questa liturgia:
tutte le formule luterane diventano certamente suscettibili di
un senso perfettamente cattolico, ma tutte le formule cattoli-
che, dal canto loro, si presentano disarticolate in modo che pos-
sono sembrare non avere più che un significato luterano. Di fat-
to, !,intenzione sincera del re sembra proprio essere stata quella
di ritornare alla tradizione antica senza per questo perdere nul-
la degli elementi positivi del luteranesimo. Bisogna riconoscere
che il procedimento seguito per camuffare una dottrina cattoli-
ca sotto formule luterane, sembrava far finta di adattare le for-
mule cattoliche alla dottrina luterana. Il desiderio indiscutibi-
le del re di riportare la Svezia affinità cattolica in un momento
in cui gli animi non vi erano affatto preparati, e più ancora le
manovre occulte di negoziatori troppo abili che attorno a lui si
agitavano, avrebbero ben presto persuaso tutti, o quasi, che quel-
lo era il vero carattere del testo. Come aveva previsto Farci ve-
scovo Laurentius Petri Gothus nel momento stesso in cui Lave-
va avallato, il « libro rosso » di Giovanni III non potè dunque
soddisfare veramente né i protestanti né i cattolici. Fin dalla
morte del re, infatti, la sua liturgia fornì solo un eccellente pre-
testo al piccolo partito dei teologi « riformati » radicali che era-
no sostenuti dal duca Carlo, reggente, per cercare di far pende-
re la Svezia dalla loro parte. Ma i loro sforzi non erano destina-
ti a maggior successo di quelli del re, e la Svezia ritornerà ben
presto alla liturgia di Olaus Petri, come era stata fissata da
Laurentius Petri nel 1571. Essa doveva conservarla quasi intat-
ta fino ai giorni nostri (31).

(31) Cf Y. B rilioth , o p . c i t pp. 254ss.

409
Cranmer e !*eucaristia anglicana

Un esempio molto diverso di liturgia protestante suscetti-


bile di un senso cattolico era stato offerto, fin dalla metà del
secolo, dalla prima liturgia eucaristica anglicana. Ma qui, ben
lungi dal voler introdurre nuovamente un senso cattolico in for‫־‬
mule luterane, si aveva avuto di mira solo la possibile introdu-
zione di un senso zuingliano in formule cattoliche (ciò che
Zuinglio aveva già tentato nella sua prima liturgia provvisoria).
Vogliamo parlare naturalmente del testo composto da Cranmer
e pubblicato nel 1549 nel suo primo Prayer Book.
Anche questo libro proviene da una liturgia nata morta:
quella che era stata patrocinata dalParcivescovo di Colonia,
Hermann von Wied, e che era stata redatta dal Butzer in col-
laborazione con Melantone. Essa rifletteva qualche cosa della
maggior parte degli ordines luterani già pubblicati, specialmen-
te dei due ordines divergenti del Brandeburgo, pur sforzandosi,
come le liturgie di Svezia, di avvicinarsi a quelle antiche. L’op-
posizione energica del capitolo, appoggiato dairuniversità, im-
pedi a questa composizione, pubblicata nel 1543, qualsiasi ap-
plicazione locale. Carlo V ne proibì fuso, e von Wied, scoimi-
nicato da Paolo III nel 1546, morì, privato della sua sede, nel
1552. Mai utilizzato a Colonia, il libro al quale era legato il suo
nome avrebbe avuto, tuttavia, qualche successo fra i luterani
delPAssia e della Saar e in alcune località dell*Alsazia (32).
Cranmer, per la sua liturgia della messa inglese, prenderà
da questo libro soltanto la formula di confessione generale dei
peccati alPinizio e i versetti biblici (i « comfortable words »)
che accompagnano poi !,assoluzione. Non si ispirerà, però, al
suo prefazio eucaristico, in cui sembrano essersi combinati in-
flussi gallicani e orientali, e in cui il racconto delPistituzione se-
gue subito dopo il Sanctus. Cranmer, infatti, se per gusto let-
terario personale era portato a conservare il maggior numero
possibile di formule tradizionali a cui Enrico V ili era rimasto

(32) Cf L. D. R eed , o p . c it., pp. 102ss; Y. Brilioth , o p . c it., p. 202.


Da notare che una traduzione inglese dell ’o r d o di Colonia era appai*‫־‬
sa nel 1548. Vedere Pintroduzione di T h e F ir s t a n d s e c o n d P r a y e r B o o k s
o f E d w a r d V I , nelPedizione à z \Y E v e r y m a n ’s L ib r a r y (nuova edizione,
London 1952, con una notizia storica e bibliografica di E. C. R atcliff),
p. V ili,

410
fermamente attaccato - come egli, da parte sua, alle dottrine
cattoliche sui sacramenti -, non era e non era mai stato più
luterano del suo padrone. Aveva tuttavia abbandonato le dottri-
ne medievali sull’eucaristia, pur badando accuratamente di
non lasciarlo trapelare ad Enrico, per adottare subito uno zuin-
glianesimo radicale. Avrebbe cercato, con la stessa prudenza
di cui Zuinglio aveva dato prova a Zurigo, prima di tutto di in-
sinuarlo sotto una fraseologia ancora cattolica in apparenza, fin
dalla fine del regno di Enrico V ili, e poi, grazie al protestante-
simo del governo di Edoardo VI, di esprimerlo senza mezzi ter-
mini.
Dom Gregory Dix, infatti, ha dimostrato in modo inconfu-
tabile che Tinterpretazione data per molto tempo dagli anglica-
ni cattolicizzanti circa la differenza tra la sua eucaristia del 1549
e quella che avrebbe composto nel 1552 non è sostenibile. La
prima, ben lungi dall’essere cattolica, o tutt’al più « luteraniz-
zata », è cattolica solo in apparenza, e ricopre semplicemente,
sotto un velo di ambiguità, la stessa dottrina, non solo « rifor-
mata », ma propriamente zuingliana; la seconda non fa che
esprimerla con tutta franchezza. Però, come la prima liturgia
di Zuinglio, e più abilmente ancora, la prima liturgia di Cran-
mer mantiene tutto quello che si poteva conservare delle for-
mule antiche, rendendole suscettibili di un senso totalmente dif-
ferente. La prudenza stessa lo invitava a questo, non solo nei
riguardi del re, ma anche nei riguardi della massa del popolo e
di una buona parte del clero inglese, i cui sentimenti erano ri-
masti fondamentalmente cattolici. Bisogna solo aggiungere che
il suo umanesimo raffinato gli faceva certamente sentire in que-
sto gioco un gusto di antiquario e di artista, senza il quale sa-
rebbe incomprensibile la sorprendente riuscita e il successo du-
raturo di questa composizione equivoca (33).
Ecco questo testo, fondamentale per tutta la storia della li-
turgia anglicana:
« È veramente cosa degna e giusta, nostro dovere rendere
grazie in ogni tempo e in ogni luogo a te, Signore, Padre
santo, Dio onnipotente ed eterno. Per questo, con gli Angeli
e gli Arcangeli, e con tutta la santa compagnia dei cieli,
noi lodiamo ed esaltiamo il tuo nome glorioso, lodandoti

(33) Cf G. Dix, T h e S h a p e o f th e L itu r g y , London 1945, pp. 648ss;


S. B room, T h e L a n g u a g e o f th e B o o k o f C o m m o n P r a y e r , London 1965.

411
senza posa e dicendo: Santo, santo, santo, il Signore Dio
degli eserciti. Il cielo e la terra sono pieni della tua gloria!
Osanna nel più alto dei cieli. Benedetto è colui che viene
nel nome del Signore: Gloria a te, b Signore, nei cieli
altissimi.
Dio onnipotente e da sempre vivente, che, per mezzo dei
tuoi santi Apostoli, ci hai insegnato a rivolgerti preghiere e
suppliche e a rendere a te grazie per tutti gli uomini: noi
umilmente ti supplichiamo di ricevere nella tua grande mi-
sericordia queste preghiere che offriamo alla tua divina
maestà, supplicandoti di ispirare continuamente la Chiesa
universale con lo Spirito di verità, di unità e di concordia;
concedi a tutti coloro che confessano il tuo santo nome di
intendersi nella verità della tua parola e di vivere nelPunità
e nell'amore divino. Ti preghiamo specialmente di salvare e
di difendere il tuo servo Edoardo nostro Re, in modo che
sotto di lui possiamo essere governati nella pietà (godly) e
nella tranquillità. Accorda a tutto il suo consiglio e a tutti
coloro che egli ha provvisto di autorità sotto di sé di ammi-
nistrare la giustizia vera ed equa, per punire la malvagità
e il vizio e mantenere la divina religione e la virtù.
O Padre celeste, dona a tutti i vescovi, pastori e parroci,
la grazia, sia per la loro vita sia per la loro dottrina, di
esporre la tua parola vivente e veritiera e di amministrare
degnamente e fedelmente (rightely and duely) i tuoi sacra‫־‬
menti; e a tutto il popolo dona la tua grazia celeste perché,
con cuore umile e conveniente riverenza, esso ascolti e
riceva la santa parola, servendoti veramente nella santità e
nella giustizia per tutti i giorni della vita. Noi ti supplichia-
mo molto umilmente, o Signore, di consolare e soccorrere
nella tua bontà tutti coloro che, in questa vita passeggera,
sono nel turbamento, nelle preoccupazioni, nelle necessità,
nella malattia o in qualsiasi altra avversità. Specialmente rac-
comandiamo alla tua bontà misericordiosa questa comunità,
qui radunata nel tuo nome per celebrare la commemorazione
della gloriosissima morte del tuo Figlio. E ti rendiamo la
più alta lode e le più sincere azioni di grazie per la grazia
e la virtù meravigliosa che hai fatto risplendere nei tuoi
santi fin dall'inizio del mondo; prima di tutto nella gloriosa
e sovranamente beata Vergine Maria, Madre del tuo Figlio
Gesù Cristo, nostro Signore e Dio, e nei santi Patriarchi,
Profeti, Apostoli, e Martiri: sia tua volontà, o Signore, ac-
cordarci di seguire i loro esempi, la loro fermezza nella tua
fede, e di osservare i tuoi santi comandamenti.

412
Raccomandiamo alla tua misericordia, o Signore, tutti gli
altri tuoi servitori, che ci hanno lasciati con il segno della
fede e ora riposano nel sonno della pace: accorda loro, te
ne supplichiamo, la tua misericordia e la pace eterna; e che
nel giorno della risurrezione generale noi e tutti coloro che
appartengono al corpo mistico del tuo Figlio, possiamo es-
sere messi insieme alla tua destra e sentire la sua gioiosa
parola: Venite a me, o voi, benedetti del Padre mio: posse-
dete il Regno che vi è stato preparato fin dalfinizio del
mondo; accordacelo, o Padre, per Pamore di Gesù Cristo,
nostro unico mediatore e avvocato.
O Dio, Padre celeste, nella tua commovente misericordia,
[ci] hai dato il tuo unico Figlio Gesù Cristo perché soffrisse
la morte sulla croce per la nostra redenzione: egli vi ha
compiuto (con la sua unica oblazione offerta una sola volta)
un pieno, perfetto e sufficiente sacrifìcio, oblazione e soddi-
sfazione per i peccati del mondo intero; ha istituito e ci ha
comandato nel suo santo Vangelo di celebrare una perenne
memoria della sua preziosa morte fino a che egli ritorni;
ascoltaci, o Padre misericordioso, te ne supplichiamo e, con
il tuo santo Spirito e con la tua parola, sia tua volontà
benedire e santificare i tuoi doni qui presenti, queste crea-
ture di pane e di vino, in modo che siano per noi il corpo
e il sangue del tuo dilettissimo Figlio Gesù Cristo.
Egli, nella notte in cui fu tradito, prese del pane e, avendolo
benedetto e reso grazie, lo spezzò e lo diede ai suoi disce-
poli dicendo: Prendete, mangiate, questo è il mio corpo dato
per voi, fate questo in memoria di me. Allo stesso modo, dopo
aver cenato, prese il calice e, avendo reso grazie, lo diede
loro dicendo: Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue
del nuovo testamento, sparso per voi e per molti in remis-
sione dei peccati: fate questo, tutte le volte che ne berrete,
in memoria di me ».
A questo punto, una rubrica prescrive al sacerdote, mentre
prende in mano successivamente il pane e il vino, di rimanere
rivolto verso Faltare, senza elevazione né ostensione del sacra-
mento per i fedeli. La preghiera continua:
« Per questo, o Signore e Padre celeste, secondo !,istituzione
del tuo dilettissimo Figlio, Salvatore nostro Gesù Cristo, noi,
tuoi umili servi, celebriamo e facciamo, alla presenza della
tua divina maestà, con questi santi doni che vengono da
te, il memoriale che il tuo Figlio ha voluto che noi compis-
simo, ricordando la sua beata passione, la sua possente ri­

413
surrezione e la sua gloriosa ascensione, rendendo a te le
nostre più sincere azioni di grazie, per i benefìci innumerevoli
che ci ha così procurati, desiderando solamente dalla tua
bontà paterna che voglia accettare misericordiosamente que-
sto nostro sacrifìcio di lode e di rendimento di grazie: sup-
plicandoti molto umilmente di accordare, per i meriti e la
morte del tuo Figlio Gesù Cristo, e per la fede nel suo
sangue, che noi e la tua Chiesa intera possiamo ottenere la
remissione di tutti i nostri peccati e tutti gli altri benefici
della sua passione.
E noi, o Signore, qui ti offriamo e ti presentiamo noi stessi,
le nostre anime, i nostri corpi come sacrificio conveniente,
santo e vivente ai tuoi occhi, supplicandoti umilmente che
tutti coloro che parteciperanno alla tua santa comunione
possano ricevere degnamente il preziosissimo corpo e sangue
del tuo Figlio Gesù Cristo, possano essere ripieni della tua
grazia e della [tua] benedizione celeste, ed essere fatti un
sol corpo con il tuo Figlio Gesù Cristo, in modo che egli
dimori in essi ed essi in lui.
E sebbene noi siamo indegni (per i nostri numerosi peccati)
di offrirti qualsiasi sacrificio, tuttavia ti supplichiamo di ac-
cettare questo nostro doveroso servizio e di comandare che
queste preghiere e suppliche, per il ministero dei tuoi santi
Angeli, siano portate fino al tuo santo Tabernacolo, davanti
alla tua divina maestà, non avendo riguardo ai nostri meriti,
ma perdonandoci le nostre offese: per Cristo nostro Signore,
per il quale e con il quale siano a te, o Padre onnipotente,
nelPunità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria, nei secoli
dei secoli. Amen » (34).

Pare che questa eucaristia inglese sia stata accolta molto ma-
le dai laici, la maggior parte dei quali non desiderava allora
un abbandono della liturgia latina che era sempre stata loro fa-
miliare. È innegabile, però, che la massa del clero impregnato
di umanesimo, per quanto fosse attaccato alle dottrine cattoli-
che, non trovò difficoltà a servirsi di queste formule angliciz-
zate al posto del Canone della Messa romana. Il vescovo Gar-

(34) Nella traduzione seguiamo il testo à e \V E v e r y m a n ’s L ib r a r y , pp.


221ss, citato alla nota 32. Da notare che i prefazi propri di Natale, Pa-
squa, Ascensione, Pentecoste e Trinità sono conservati da Cranmer, ma
in un testo parafrasato (a volte ridotto, come per Tultimo, a volte am-
pliato, come per quello di Pentecoste). - Testo originale completo in
EEFL nn. 34393457‫ ;־‬parte della traduzione italiana in LdC 534537‫־‬.

414
diner, un po’ più tardi, si baserà su due passi di questo testo
per sostenere, contro lo stesso Cranmer, la legittimità perma-
nente, nella Chiesa anglicana, deirinsegnamento che era sempre
stato quello della Chiesa cattolica. In primo luogo, citerà que-
ste parole del canone di Cranmer, subito prima del racconto
deiristituzione:
« Ascoltaci, o Padre misericordioso, te ne supplichiamo e,
con il tuo santo Spirito e con la tua parola, sia tua volontà
benedire e santificare i tuoi doni qui presenti, queste creatu-
re di pane e di vino, in modo che siano per noi il corpo e il
sangue del tuo dilettissimo Figlio Gesù Cristo ».
Egli vi accosterà le parole che seguono lo stesso racconto:
« Supplicandoti umilmente che tutti coloro che parted‫־‬
peranno alla tua santa comunione possano ricevere degnamen-
te il preziosissimo corpo e sangue del tuo Figlio... ».
A ciò, aggiungeva ancora questa formula della preghiera
preparatoria alla comunione:
« Concedici di mangiare la carne del tuo diletto Figlio
Gesù Cristo e di bere il suo sangue in questi santi misteri in
modo che possiamo continuamente dimorare in lui ».
Cranmer gli replicherà seccamente che Finterpretare questi
testi come faceva il vescovo di Winchester era « del tutto con-
tro verità {a plain untruth) ».
Infatti bisogna essere attenti al senso che Cranmer, al se-
guito di Zuinglio, dà costantemente alle formule evangeliche
sulla manducazione del corpo (o della carne) di Cristo, e sul suo
sangue che diventa la nostra bevanda. La sua Defence ripete
instancabilmente che Punico senso possibile di queste espres-
sioni è « di credere nei nostri cuori che la sua carne è stata
spezzata e lacerata per noi sulla croce e il suo sangue versato
per la nostra salvezza ». Insiste nel dire che questa manduca-
zione non è assolutamente caratteristica delFeucaristia, ma « si
mangia e si beve il Cristo e ci si nutre di lui fmtanto che si ap-
partiene al suo corpo [evidentemente al suo corpo mistico] ; in
questo senso lo si poteva mangiare e bere sia nelPAntico Testa-
mento che oggi ». La Cena, in queste condizioni, è stata istituì-
ta « perché ogni uomo che ne mangia e ne beve si ricordi che
Cristo è morto per lui ed eserciti così la sua fede e si consoli

415
col ricordo dei benefici di Cristo ». Non solo egli respinge espres-
samente ogni idea di santificazione degli elementi, oltre al fatto
materiale della loro messa a parte per la celebrazione, ma gli è
pure estranea !,idea di Calvino di una manducazione spirituale
e però reale del corpo e del sangue di Cristo presenti in cielo.
Per lui, « mangiare la carne e bere il sangue » non è che una
metafora per credere (alla vista del pane e del vino, ma anche
senza questo) ai benefici della croce che la sola parola del van-
gelo ci fa conoscere. Non si potrebbe essere più chiari di quan-
to lo sia lui su questo punto.
La stessa cosa, e a maggior ragione, va detta per le espres-
sioni sacrificali di cui egli si può servire nella sua preghiera
eucaristica. Il « sacrificio di lode e di rendimento di grazie », sem-
pre nella sua Defence, è contrapposto al sacrificio propiziatorio
col quale Cristo ci ha riconciliati con Dio; è
« un’altra specie di sacrificio, che non ci riconcilia con Dio,
ma che compiono coloro i quali sono riconciliati con Dio,
per testimoniare i nostri doveri verso Dio e dimostrarci ri-
conoscenti a suo riguardo; ecco perché tali sacrifici sono
chiamati di lode e di rendimento di grazie. La prima specie di
sacrificio è stata offerta da Cristo a Dio per noi; la seconda
siamo noi che l’offriamo a Dio attraverso Cristo. Con la pri-
ma specie di sacrificio Cristo ha anche offerto noi a suo Pa-
dre, e con la seconda noi offriamo noi stessi e tutto quello
che abbiamo a lui e a suo Padre. E questo sacrificio in gene-
re è tutta la nostra obbedienza a Dio, con l’osservanza delle
sue leggi e dei suoi comandamenti ».
Dunque, non solamente il sacrificio propiziatorio, offerto
dal solo Cristo, e il nostro sacrificio, di pura riconoscenza e di
obbedienza, sono completamente distinti, ma non si può nem-
meno dire che Cranmer lasci la via aperta a una presenza qual-
siasi nell’eucaristia del sacrificio del Salvatore, affinché vi di-
venti la sorgente del nostro rendimento di grazie obbediente. Per
lui, nell’eucaristia, non vi è presente alcun altro sacrificio, se
non quest’ultimo.
« In questa manducazione, in questa azione di bere, in
questo uso della Cena del Signore, noi non facciamo di Cri-
sto un nuovo sacrificio propiziatorio per la remissione dei
peccati. Però l’umile confessione di tutti i cuori penitenti, la

416
loro conoscenza dei benefici di Cristo, il loro rendimento di
grazie per questo, la loro fede e la loro consolazione nel
Cristo, la loro umile sottomissione alla volontà di Dio e ai
suoi comandamenti costituiscono un sacrificio di lode (laud
and praise) accettato e gradito da Dio non meno che il sa-
crificio del sacerdote ».
In altre parole: secondo lui non vi sono - e la sua liturgia
non vuole esprimere altro - in fatto di sacrificio, che i soli sen-
timenti di riconoscenza dei fedeli e la loro disposizione a ubbi-
dire a Dio in ogni cosa (35).
Evidentemente, il fatto che non si presenti né a lui, né a
tanti altri protestanti, altra alternativa se non o un ripetersi del-
la Croce o un « sacrificio » puramente soggettivo, rivela fino a
che punto, nella mentalità religiosa della fine del medioevo, la
nozione di memoriale sacrificale e sacramentale aveva potuto al-
terarsi. In simili condizioni, che cosa diventa questo « sacrifi-
ciò » che è il solo di cui si voglia ancora riconoscere la presen-
za nelEeucaristia? Isolato in questo modo da qualsiasi rappor-
to attuale con il sacrificio di Cristo sulla base di una presenza
sacramentale, questo sacrificio della nostra lode, della nostra
riconoscenza, della nostra ubbidienza diventa, come sottolinea
Eric Mascall, un sacrificio del tutto pelagiano: !,uomo l'offre,
sì, dopo Cristo, e in risposta al suo, ma non più mediante la sola
virtù del suo sacrificio.
Quando si è capita questa trasposizione di tutte le nozioni
tradizionali, si può ammirare !,arte, ben più consumata di quel-
la dello stesso Zuinglio nella sua prima eucaristia, con la quale
Cranmer, nella sua, è riuscito a conservare lo schema e persino
i particolari dell'antica eucaristia romana. Adattando questa
non solo alle sue idee ma anche alla lingua e alla retorica del
suo tempo, ha realizzato un'opera che, dal punto di vista lettera-
rio, non è priva di analogie con il rifacimento delle antiche euca-
ristie che abbiamo visto operarsi in Siria nel IV secolo. Tutta-
via, in questo rifacimento non è stato così ardito come lo si era

(3 5 ) S u tu tto q u e s t o , c f G . D i x , o p . c i t ., p p . 6 4 8 -6 5 8 , c h e q u i rias-
s u m ia m o . I l la v o r o p iù r e c e n t e d i A . K avanagh, T h e C o n c e p t o f E u c h a -
r is tie M e m o r ia l in th e C a n o n r e v i s e d b y T h o m a s C r a n m e r a r c h b is h o p o f
C a n te r b u r y , S t. M e in r a d /I n d ia n a ( U S A ) 1 9 4 9 , d im o s tr a il c a r a tte r e pu -
r a m e n te s o g g e tt iv o d e l « m e m o r ia le » c o m e lo in te n d e C r a n m e r .

417
stati allora: si è limitato a raggruppare in una sola serie le varie
intercessioni e commemorazioni che nel Canone romano sembra‫־‬
vano sparpagliate. Invece di radunarle alla fine, le ha sistema-
te tutte nella prima parte, attorno al Te igitur, al Memento dei
vivi, e poi attorno al Communicantes e alYHanc igitur. Ha pe-
rò lasciato sussistere al loro posto originario quella che noi ab-
biamo chiamato la pre-epiclesi del Te igitur, l'epiclesi consacra-
toria del Quam oblationem che precede immediatamente il rac-
conto deiristituzione e la seconda epiclesi che sgorga dall'anam-
nesi nel Supra quae e nel Supplices e che chiede che !,eucaristia
abbia tutto il suo effetto in coloro che la celebrano.
Se si sta attenti alle interpretazioni date dallo stesso Cranmer
alle formule da lui usate, si vede come tutte queste preghiere, e
la stessa anamnesi, appaiono come svuotate del loro contenuto
primitivo. Siccome però conservano quasi tutte le espressioni
antiche, con il minimo di ritocchi necessari per poter essere
adattate al senso devitalizzato con cui egli le prende, chi non
ha la chiave del suo *linguaggio continuamente metaforico si
sbaglia facilmente: potrà credere di ripetere semplicemente il
vecchio canone, in un ordine evidentemente più coerente e sot-
to un involucro di pia retorica umanistica. È vero che i termini
più diffìcili da allegorizzare in questo modo, come oblazione
o sacrificio, sono scomparsi surrettiziamente dai luoghi dove non
potevano avere altro che un senso ovvio, che non si voleva da-
re loro. Si ritrovano però altrove, applicati sia alla sola croce di
Cristo, sia alla sola offerta personale dei cristiani, e bisogna
stare bene attenti per rendersi conto che la celebrazione euca-
ristica non è mai considerata espressamente come un legame og■
gettivo tra le due. Se uno avesse qualche vago sospetto dei true-
chi che si sono compiuti, tutti i particolari secondari delle pre-
ghiere antiche rimasti al loro posto originario - dall'appello
iniziale alla clemenza paterna di Dio fino ai riferimenti all·alta-
re celeste e all'Angelo del sacrificio, per finire con la contrappo-
sizione tra l'insufficienza dei nostri meriti e la liberalità senza
limiti della grazia divina - dovrebbero bastare per rassicurare
sulle buone intenzioni dell'autore. Se una formula troppo chia-
ra si trova parafrasata, lo è sempre sotto il velo di un'allusione
biblica scelta con abilità infallibile, e il tutto è fuso insieme con
un'unzione così costante e in un'espressione così melodiosa che
si stenta, anche dopo le dichiarazioni perentorie della Defence,

41 8
a persuadersi che tanta arte, e così pia, in fin dei conti non è
che un'arte di parlare pietisticamente senza dire nulla.
Lo si dimentica tanto più facilmente e tanto più volentieri
in quanto Cranmer, quando non ha la preoccupazione di svuo-
tare del loro contenuto le formule propriaménte sacrificali o sa-
cramentali, si rivela un liturgista pari ai più grandi dell'antichi-
tà. La caratteristica più felice della sua arte è la delicatezza di
tatto con la quale, dall'inizio alla fine della preghiera, ha saputo
continuamente richiamare, con una parola o con un'espressio-
ne, il tema fondamentale del rendimento di grazie, cosicché es-
so corre attraverso questa lunga preghiera ovunque presente co-
me il filo d'oro che la collega. La stessa cosa deve essere detta
per il tema della Chiesa e della sua unità: dal principio alla fi-
ne dell'eucaristia, agganciato fin dall'inizio delle intercessioni
come il nesso che le unisce, esso non cesserà di essere richiama-
to, con un seguito di infallibili colpi d'archetto, prima della sua
splendida emergenza finale. Infatti, il richiamo della « grazia
e benedizione celeste » del Canone romano si precisa allora
nell'indimenticabile invocazione ultima, affinché diventiamo un
solo corpo con il Cristo ed egli rimanga in noi e noi in lui.
Particolarmente riuscita è ancora la « retractatio » del Quam
oblationem, con la quale Cranmer vi ha introdotto la menzio-
ne congiunta dello Spirito e della Parola per « benedire e san-
tificare » gli elementi eucaristici. Avrà forse inteso con questa
aggiunta di portare una preghiera che rimane tipicamente ro-
mana a un accordo sintonico, non solo con l'epiclesi siriaca ma
con le antiche epiclesi alessandrine, come quella di Serapione?
Sembra che non avesse una conoscenza sufficiente delle litur-
gie orientali per concepire esplicitamente una tale sintesi e che
essa proceda solamente dal suo gusto istintivo. Dom Gregory
Dix è probabilmente nel vero quando suppone che in questo
caso non ha fatto che inserire una spiegazione della consacra-
zione eucaristica che viene da Pascasio Radberto (36), ma che
tutto il medioevo aveva riprodotto attribuendola a sant'Ago-
stino.
La liturgia eucaristica di Cranmer è dunque un capolavoro
indiscutibile. La perfezione ritmica della sua lingua e del suo
stile arriva a renderla così attraente che coloro i quali l'hanno

(36) D e c o r p o r e e t s a n g u in e D o m in i, 12; PL 120,1310C.

419
praticata, in buona fede, come liturgia pienamente cattolica, prò-
veranno sempre grandissima fatica a disilludersi. Ma quando
ci si accorge delle continue ambiguità che permettono di trave-
stire sotto le espressioni più tradizionali la negazione più rigida
di tutto il loro contenuto, bisogna riconoscere che è, in fin dei
conti, un capolavoro di equivoci. È giusto ammettere che Cran‫־‬
mer aveva una troppo cattiva coscienza del suo sforzo per de-
siderare di perpetuarlo. Erano passati tre anni appena e il prò-
gresso in Inghilterra delle idee protestanti, almeno nelle classi
dominanti, gli avrebbe permesso di parlar chiaro. La sua euca-
ristia del 1552, quella del secondo Prayer Book, non è affatto
un infelice deterioramento di una prima liturgia, ancora catto-
lica, soccombente alla pressione dei riformatori continentali, co-
me gli anglicani conservatori hanno voluto credere per molto
tempo; è l’opera pienamente deliberata in cui egli ha potuto
infine dire francamente quello che aveva solo potuto insinuare
nella precedente. Se vi ha ripreso molti elementi del suo primo
testo, ciò prova unicamente fino a qual punto tale testo fosse
già impregnato delle idee che erano sue da molto tempo. Ba-
stava far saltare lo schema del Canone romano, imposto in mo-
do fittizio, perché la parafrasi che ne aveva data si riorganizzas-
se seguendo la sua propria logica e lasciasse infine apparire allo
scoperto il suo vero senso.
Nella liturgia del 1552 tutte le intercessioni, e anche le men-
zioni del sacrificio ancora legate all’anamnesi, si trovano espul-
se dalla preghiera eucaristica, come era naturale dal momento
che ogni carattere propiziatorio e impetratorio era stato respin-
to. Le intercessioni prendono semplicemente il posto dell’antica
oratio fidelium, dopo l’omelia. Pertanto, le menzioni del « sa-
crificio », rimesse nel loro vero posto, ne esprimono la vera na-
tura: si trovano solo ormai nella preghiera di « rendimento di
grazie », nel senso di ringraziamento, che segue la comunione.
Inoltre, lo stesso Cranmer era così consapevole del fatto che il
suo « sacrificio di rendimento di grazie », nel senso in cui lo in-
tendeva, non aveva nessun legame necessario con la comunio-
ne, che conservò queste formule solo in una preghiera ad libi-
tum. Si poteva sostituirvi a piacimento il postcommunio del
1549, che non parlava affatto di una cosa del genere. Anzi, giun-
se perfino a modificarlo, per fargli dire non più: « Noi ti ren-
diamo grazie... perché ci hai nutriti in questi santi misteri con

420
il corpo e il sangue del nostro Salvatore... », ma unicamente:
« Noi ti rendiamo grazie perché tu consenti a nutrirci, noi che
abbiamo ricevuto questi santi misteri, con il corpo e il sangue
del nostro Salvatore... ». In altre parole: non è neanche nella
comunione che si è nutriti del corpo e del sangue di Cristo (nel
senso particolarissimo in cui egli prende questa espressione), ma
nel solo ricordo della sua passione, ravvivato tutt'al più dalla
celebrazione della Cena.
D'altra parte, in questo rimaneggiamento non solamente è
stato asportato tutto quello che sussisteva delle antiche epiclesi,
ma anche l'anamnesi, proprio come nelle liturgie luterane. Così
non si ha più, a parte un'àpologìà intercalata dopo il prefazio
eucaristico e il Sanctus, che il solo racconto dell'istituzione. So-
no state conservate soltanto alcune parole di legamento per in-
trodurlo. Staccate dal loro contesto antico, è chiaro che queste
parole hanno come scopo non solo di escludere qualsiasi nozione
di presenza sacramentale del sacrificio, che i luterani avevano re-
spinto per primi, ma di escludere anche l'idea della presenza rea-
le del corpo e del sangue di Cristo, che essi conservavano an-
cora:
« Dio onnipotente, nostro P adre celeste, nella tu a commo-
vente m isericordia [ci] hai dato il tuo unico Figlio G esù
Cristo perché soffrisse la m orte sulla croce per la nostra
redenzione: egli vi h a com piuto (con Punica oblazione di se
stesso offerta un a sola volta) u n pieno, perfetto e sufficiente
sacrifìcio, oblazione e soddisfazione per i peccati del m ondo
intero; ha istituito e ci h a com andato nel suo santo Vangelo
di conservare u na perenne m em oria della sua preziosa m orte
fino a che egli ritorni; ascoltaci, o P adre m isericordioso, te
ne supplichiam o, e concedi che, ricevendo queste tue creature
di pane e di vino, secondo la santa istituzione del nostro Sai-
vatore Gesù Cristo, in ricordo (remembrance) della sua
morte e della sua passione, possiam o partecipare al suo pre-
ziosissimo corpo e [al suo] sangue: a lui che, nella notte
in cui fu consegnato... » (37).

Basta confrontare questo testo con il precedente, e partico-


larmente le modificazioni dei passi riportati in corsivo, per con-

(3 7 ) N e l l ’e d iz io n e àe\VEveryman’s Library, si tr o v e r à il t e s to a lle


p p . 3 8 9 s s . - C f L d C 5 3 5 5 3 6 ‫־‬.

421
vincersi deirintenzione che ha guidato sia questi cambiamenti,
sia il mantenimento della formula introduttiva così messa a pun-
to: si tratta di escludere, con ogni idea di presenza sacramenta-
le del sacrificio, l’idea stessa di una qualsiasi presenza reale del
corpo e del sangue di Cristo nel sacramento.
Nel periodo del ristabilimento dell’anglicanesimo, dapprima
dopo !,intermezzo cattolico di Maria Tudor, sotto Elisabetta, e
poi dopo Cromwell, non si oserà più far ritorno al testo del
1549. Si conserverà solo la preghiera corretta del 1552, ma qua-
lificata, nel 1662, come « Preghiera di consacrazione ». Cran-
mer, da parte sua, si era ben guardato dal darle questo titolo,
sapendo meglio di chiunque che non poteva convenirle se la si
prendeva nel suo senso ovvio. Non diceva forse che non vi po-
irebbe essere altra consacrazione del pane e del vino nell’eu-
caristia che la separazione che li riserva, fin dall’offertorio, a
un uso liturgico, escludendo quindi ogni altro cambiamento?
(38).

Prima riscoperta della tradizione presso i calvinisti anglosassoni


Tuttavia, già con Elisabetta, e più ancora sotto gli Stuart,
i teologi anglicani saranno generalmente insoddisfatti della teo-
logia eucaristica di Cranmer, così manifestamente contraria a
ogni tradizione. I trentanove articoli introdurranno di nuovo una
dottrina della presenza reale che non è del tutto cattolica né
propriamente luterana, ma che si può chiamare, secondo la for-
mula di Jardine Grisbrooke, un « virtualismo dinamico » (39).
Questo però avverrà inizialmente più per influsso puritano che
per influssi cattolici. I puritani inglesi e scozzesi, lo si dimentica
troppo spesso, sotto l’effetto del loro calvinismo, esaltato da una
devozione a Cristo molto medievale di colore e di calore, sotto-
lineavano al massimo le espressioni di Calvino circa la presen-
za reale (40).
In compenso, i grandi teologi anglicani del XVII secolo, i
Caroline Divines, a cominciare dall’arcivescovo Laud, se fa-

(3 8 ) C f G . D i x , op. cit., p . 650.


(3 9 ) C f W. Jardine - A . G risbrooke, Anglican Liturgies of the
XVIIth Centuries, L on d on 1958, p. X V .
(4 0 ) Ibid., p p . ls s .

422
ranno i primi passi nel senso di una riscoperta del significato del
sacrificio eucaristico presso i Padri e nelle antiche liturgie, ri-
marranno attaccati a una visuale simbolista della presenza di
Cristo nel sacramento. Non si può dire che sfuggissero com-
pletamente a una interpretazione razionalizzante del simboli-
smo alessandrino e agostiniano, che i calvinisti, invece, supera-
vano. Nel 1637, sotto Carlo I, quando si cercherà di introdurre
in Scozia un Prayer Book riveduto, i calvinisti scozzesi lo ri-
getteranno con orrore, non tanto per quello che conservava an-
cora di cattolico, quanto piuttosto perché era opera di prelati
inglesi che aborrivano. Se poi, nel 1661, nella stessa Inghilter-
ra, i puritani rifiuteranno ancora !,eucaristia di Cranmer, il mo-
tivo esplicito sarà perché non vi trovavano un'affermazione co-
sì netta della presenza reale quale essi, sotto !,influenza scozze-
se, avevano nel loro Book of Common Order. « Il modo di con-
sacrare gli elementi », diranno, « non è abbastanza esplicito o
distinto » (41).
Già la Form of Prayers di John Knox, il grande riformatore
di Scozia, apparsa nel 1556, contiene una preghiera eucaristica
di cui non abbiamo nessun equivalente nelle liturgie calviniste
francesi:
« O Padre di m isericordia e Dio di ogni consolazione, poiché
tutte le creature ti conoscono e ti acclam ano come [lo ro ]
governatore e Signore, conviene che noi, opera delle tue
m ani, riveriam o e magnifichiam o in ogni tem po la tu a divina
m aestà, prim a di tutto perché ci hai creati a tu a im m agine e
som iglianza, m a soprattutto perché ci hai liberati da quella
m orte e dannazione eterna alla quale Satana aveva attirato
F um anità per mezzo del peccato. D a questa schiavitù, né
uom o né Angelo poteva liberarci, m a tu, Signore, ricco di
m isericordia e di bo n tà infinita, hai provveduto alla nostra
redenzione nel tuo Figlio unico e prediletto. N el tuo am ore
vero tu ce Fhai dato perché egli divenisse uom o, simile a
noi in tutto, eccetto nel peccato, in m odo che nel suo corpo
potesse ricevere la punizione delle nostre trasgressioni, con
la sua m orte soddisfare alla tua giustizia e con la sua risur-
rezione distruggere F autore della m orte: e così ricondurre
e rendere al m ondo quella vita da cui tu tta la discendenza di
A dam o era stata m olto giustam ente esiliata.

(4 1 ) Ibid., p 6.

423
0 Signore, noi riconosciamo che nessuna creatura è capace
di comprendere la lunghezza, la larghezza, l'altezza e la
profondità di questo amore così meraviglioso, che ti ha
spinto a manifestare una misericordia assolutamente imme-
ritata, a promettere e dare la vita quando la morte aveva
riportato la vittoria, a riceverci nella tua grazia quando non
eravamo capaci che di ribellarci contro la tua giustizia. O
Signore, !,accecamento della nostra natura corrotta non ci
permette di esprimere come bisognerebbe i tuoi grandi be‫־‬
nefìci; tuttavia, per il comando di Gesù Cristo, nostro Si-
gnore, noi ci presentiamo davanti a te, a questa tavola che
egli ci ha lasciato perché ne usassimo in ricordo della sua
morte fino a che ritorni, per dichiarare e testimoniare in
faccia al mondo che solo per mezzo di lui abbiamo ricevuto
la libertà e la vita, e tu ci riconosci come tuoi figli e tuoi
eredi, che solo per mezzo di lui abbiamo accesso al trono
della tua grazia, siamo messi in possesso del nostro regno
spirituale, per mangiare e bere alla tavola di colui con il
quale conversiamo ormai nei cieli e per mezzo del quale
1 nostri corpi saranno risuscitati dalla polvere e posti con
lui in quella gloria senza fine che tu hai preparato, o Padre
di misericordia, per i tuoi eletti, prima della fondazione del
mondo.
E riconosciamo e proclamiamo che abbiamo ricevuto questi
benefìci così inestimabili dalla tua libera misericordia e gra-
zia, per mezzo del tuo Figlio unico e prediletto, Gesù Cristo,
per cui, noi, tuo popolo adunato (we thy congregation),
mossi dal tuo Santo Spirito, ti rendiamo ogni azione di
grazie, lode e gloria per sempre » (42).
Si noterà che il racconto dell'istituzione non si trova in que-
sta preghiera. I calvinisti, infatti, sostenevano che esso doveva,
come qualsiasi parola evangelica, rivolgersi agli stessi creden-
ti. Perciò, anche in liturgie che, come questa, introducono di nuo-
vo un'« eucaristia » che sembra un'eco diretta di quelle dell'an‫־‬
tichità cristiana, il racconto viene collocato prima della pre-
ghiera eucaristica, in un'esortazione ai fedeli.
Tuttavia la cosiddetta liturgia del Savoy, che Baxter oppor-
rà, nel 1661, al Prayer Book di Cranmer, permetterà di ricollo-
care questo racconto dopo la preghiera eucaristica, e li unirà
insieme con una vera epiclesi, la cui nozione e il cui contenuto

(4 2 ) T e s t o in B . T hompson, Liturgies of the Western Church, ρ . 3 0 3 .

424
erano già stati vigorosamente difesi da teologi calvinisti scoz-
zesi, come Row, fin dalla prima metà del secolo.
Ecco il formulario di Baxter:
« Dio onnipotente, tu sei il creatore e il Signore di tutte
le cose. Tu sei la maestà sovrana che noi abbiamo offeso.
Tu sei il nostro Padre amantissimo e misericordiosissimo, che
ci hai dato il Figlio tuo per riconciliarci con te, il quale ha
ratificato il Nuovo Testamento e PAlleanza di grazia con il
suo preziosissimo sangue, e ha istituito questo santo sacra-
mento per essere celebrato in suo ricordo fino a che egli
venga. Santifica queste tue creature di pane e di vino,
perché diventino sacramentalmente il corpo e il Sangue del
Figlio tuo Gesù Cristo. Amen ».
Il ministro dice allora (se non Fha già fatto prima della pre-
ghiera che precede) :
« Ascoltate che cosa dice Fapostolo san Paolo ».
Segue il racconto delPistituzione eucaristica secondo la pri-
ma lettera ai Corinzi: Poi il ministro aggiunge:
« Questo pane e questo vino, messi a parte e consacrati
per questo santo uso per ordine di Dio, non sono più pane
e vino comuni, ma sono sacramentalmente il corpo e il
sangue di Cristo ».
Egli riprende allora la sua preghiera:
« Misericordiosissimo Salvatore, poiché ci hai amati fino alla
morte e hai sofferto per i nostri peccati, giusto per gli
ingiusti, e hai istituito questo santo sacramento per essere
usato in ricordo di te fino alla tua venuta, noi ti supplì-
chiamo, per la tua intercessione presso il Padre, in virtù del
sacrificio del tuo corpo e del tuo sangue: donaci il perdono
dei nostri peccati e il tuo spirito vivificante, senza il quale
la carne non serve a nulla. Riconciliaci con il Padre, nutrici
come tue membra per la vita eterna. Amen ».
Il ministro compie la frazione del pane dicendo:
« Il corpo di Cristo è stato spezzato per noi e offerto una
volta per sempre per santificarci: ecco PAgnello di Dio sa-
crificato, che toglie i peccati del mondo ».
« Egli versa il vino alla presenza delPassemblea », prescri-
ve la rubrica, e dice:

425
« Noi siamo stati riscattati dal prezioso sangue di Cristo
come da un Agnello senza difetto e senza macchia ».
Dopo essersi rivolto al Padre e poi al Figlio, conclude la
sua preghiera rivolgendosi allo Spirito:
« Spirito Santissimo, che procedi dal Padre e dal Figlio, per
opera del quale il Figlio fu concepito, i profeti e gli apo-
stoli furono ispirati, e i ministri di Cristo sono qualificati e
chiamati: tu che rimani e operi in tutte le membra di Cristo,
che santifichi a immagine e per il servizio del loro Capo,
e che consoli perché possano proclamare le sue lodi: illu-
minaci affinché, con la fede, noi possiamo vedere colui
che qui ci è rappresentato. Sciogli i nostri cuori e umiliaci
per i nostri peccati. Santificaci e vivificaci, perché possia-
mo gustare il nutrimento spirituale e nutrircene per ali-
mentarci e crescere nella grazia. Diffondi nei nostri cuori
Famore di Dio e attirali ad amarlo. Riempici di ricono-
scenza e di santa gioia, e di amore gli uni verso gli altri.
Consolaci testimoniando che noi siamo i figli di Dio. Con-
fermaci per un’obbedienza rinnovata. Sii il pegno della
nostra eredità e il suggello per la vita eterna. Amen » (43).
Si procede allora alla distribuzione della comunione.
È innegabile che queste preghiere, di Knox e di Baxter,
quantunque non abbiano lo stile inimitabile di quella di Cran-
mer, sono, sia per la loro dottrina sia per il loro spirito, molto
più vicine alle preghiere eucaristiche antiche di qualsiasi altro
testo protestante o anglicano incontrato finora.

Restaurazione delFeucaristia anglicana in Scozia e presso i


« non‫־‬jurors »
Il Prayer Book, composto per la Scozia nel 1637, tendeva
a riavvicinarsi alla tradizione della Chiesa antica sulla base del-
le formule di Cranmer, ma a dispetto delle tempeste che dove-
va sollevare presso i calvinisti scozzesi, non suggeriva loro cer-
tamente una formula delFeucaristia sostanzialmente più cattoli-
ca delle loro (44).
La sistemazione di questo libro era dovuta principalmente

(4 3 ) T e s t o in B . T hompson, o p . c it . , p p . 3 9 9 4 0 0 ‫־‬.
(44) J. G risbrooke, o p . c it . , p p . lss.

426
a un vescovo scozzese, Wedderburn. Come la maggioranza dei
suoi colleghi, professava una teologia eucaristica vicina a quella
del Laud. Essi cioè, con una concezione della presenza più at-
taccata agli elementi di quella dei calvinisti, ma meno realisti-
ca - ciò che Jardine Grisbrooke ha qualificato di « virtualismo
dinamico » -, concertavano una nozione di sacrificio sensibil-
mente più tradizionale. Laud Pha espressa in questo modo:
« Perché, alla e nelPeucaristia, noi offriamo a Dio tre sa-
crifici. Il primo [è offerto] dal solo sacerdote: è il sacrifi-
ciò commemorativo della morte di Cristo, rappresentata nel
pane spezzato e nel vino versato. Il secondo lo è per mez-
zo del sacerdote e del popolo insieme; ed è il sacrificio di lo-
de e di rendimento di grazie per tutti i benefici e le grazie
che riceviamo dalla preziosa morte di Cristo. Il terzo, da
ogni uomo in particolare e per se stesso soltanto; ed è il sa-
orificio che ognuno fa del suo corpo e della sua anima, per
servirlo nelPuno e nelPaltra per tutto il rimanente della sua
vita, per la benedizione che egli ci ha così conferito » (45).
Evidentemente il problema rimane: in quale misura questa
« commemorazione » e « ripresentazione » delPunico sacrificio
è oggettiva e non soltanto figurativa, atta a suscitare una com-
memorazione puramente soggettiva? Sembra che gli autori di
questa liturgia del 1637, come lo stesso Laud, sarebbero stati
propensi a sostenerne Poggettività, pur rimanendo dominati dal
timore di introdurre qualcosa di nuovo che supponesse un'at-
tualità rinnovata della Croce. Il loro testo, a ogni modo, benché
conservasse immutate quasi tutte le formule di Cranmer, potè-
va, almeno come la sua prima versione, prestarsi a un senso
pienamente tradizionale.
Dopo il prefazio e il Sanctus di Cranmer, immutati, la pre-
ghiera riprende in questi termini:
« Dio onnipotente, Padre nostro celeste, nella tua com-
movente misericordia [ci] hai dato il tuo unico Figlio
Gesù Cristo perché soffrisse la morte sulla croce per la
nostra redenzione; egli vi ha compiuto (con Punica obla-
zione di se stesso offerta una sola volta) un pieno, perfetto

(4 5 ) A Relation of a Conference between William Laud... and Mr.


Fisher the Jesuit, in : W. Laud, Works, v o i. I I , p p . 3 3 9 s s .

427
e sufficiente sacrifìcio, oblazione e soddisfazione per i pec-
cati del m ondo intero; h a istituito e ci ha com andato nel
suo santo V angelo di continuare u n a m em oria perenne
della sua preziosa m orte e del suo sacrifìcio fino a che egli
ritorni; ascoltaci, o P adre m isericordioso, te ne supplichia-
mo m olto um ilm ente, e, nella tu a b o n tà onnipotente, de-
gnati di benedire e di santificare con la tua paro la e il tuo
Santo Spirito questi tuoi doni, queste creature di pane e di
vino, in m odo che siano per noi il corpo e il sangue del
tuo dilettissim o Figlio, cosicché, ricevendoli secondo la
santa istituzione del tuo Figlio nostro Salvatore G esù Cri-
sto, in ricordo della sua m orte e della sua passione, pos-
siamo p artecipare allo stesso m odo al suo preziosissimo
corpo e sangue, a lui che, nella notte in cui fu tra-
dito, ecc. » (46).

Il seguito riproduce fedelmente il testo del 1549, se non che


le parole: « E di comandare che queste preghiere e suppliche,
per il ministero dei tuoi santi Angeli, siano portate fin nel tuo
santo Tabernacolo, davanti alla tua divina maestà » sono state
omesse; inoltre la frase centrale è stata alleggerita sostituendo
con le parole: « And we entirely desire » (« e noi desideriamo
pienamente ») il participio di Cranmer: « Entirely desiring »
(« desiderando pienamente »).
La prima differenza che balza agli occhi, a parte ciò, è Fab-
breviazione operata dalla disgiunzione delFeucaristia dalle pre-
ghiere per la Chiesa (Finsieme delle intercessioni riprese dal Ca-
none romano), che sono ora collocate alFoffertorio. Inoltre, è
stata modificata la prima epiclesi: non solo la Parola è stata an-
teposta allo Spirito Santo (per una preoccupazione di logica),
ma il testo è stato appesantito da una prolessi massiccia delFa-
namnesi, destinata, sembra, ad accentuare a un tempo il rea-
lismo della consacrazione e a precisare che la presenza è richie-
sta solo in vista della comunione e per la commemorazione ef-
fettiva del Salvatore.
Questo testo rimaneggiato riveste una grande importanza
storica. Se il Prayer Book inglese, infatti, non conosce ufficiai-
mente ancora oggi che il secondo formulario di Cranmer, que-
sta ripresa del suo primo formulario, modificata nel 1637, è ri-

(4 6 ) T e s t o in J. G risbrooice, o p . c it . , pp. 1 1 7 ss.

42 8
masta da allora la base di tutti i progetti di ritorno, neirangli-
canesimo, a una preghiera eucaristica più tradizionale.
I non-jurors, eredi dei teologi carolini che, dopo la caduta
degli Stuart, saranno esclusi dalla Chiesa ufficiale per aver ri-
fiutato di prestare giuramento a Guglielmo di Orange e alla re-
gina Mary, spingeranno ancora oltre la tendenza a ricuperare
l’antica tradizione. Essi produrranno o ispireranno tutta una se-
rie di liturgie emendate in questo senso. Sono tutte caratteriz-
zate dallo stesso sforzo per ispirarsi alle formule dell’eucaristia
siro-occidentale, sia alla liturgia del libro V ili delle Costituzioni
apostoliche, sia a quella di san Giacomo. La prima è quella del
1718. Secondo le spiegazioni dell’autore principale, Thomas
Brett, essa ritornava al testo di Cranmer del 1549 per l’anam-
nesi come pure per l’epiclesi consacratoria e le intercessioni
(compresa la commemorazione dei defunti), ma spostava i due
ultimi elementi per metterli dopo l’anamnesi. Al loro posto, la
prima parte dell’eucaristia dopo il Sanctus, abbandonando com-
pletamente Cranmer e il Canone romano, riproduceva la parte
corrispondente del testo di san Giacomo (47).
Nel 1734, tuttavia, uno dei non-jurors più arcaicizzanti,
Thomas Deacon, produrrà una liturgia più radicale ancora nel
suo ritorno a un modello giudicato apostolico, poiché segue, per
il canone, quasi parola per parola la liturgia del libro V ili del-
le Costituzioni apostoliche (48).
Ma un vescovo scozzese (della piccola Chiesa episcopalia-
na, messa fuori legge, che era giunta a mantenersi a fianco del-
la Chiesa ufficiale di Scozia, presbiteriana), Thomas Ratteray,
molto influenzato anche lui dai non-jurors, crederà di ritrova-
re la forma più antica della liturgia di Gerusalemme con un
confronto tra la liturgia di san Giacomo e quella delle Costitu-
zioni apostoliche. Egli proporrà come eucaristia ideale questa
liturgia di san Giacomo, sfrondata non senza una certa perspi-
cacia (49). Pubblicata nel 1744, dopo la sua morte, la liturgia
di Ratteray avrebbe influenzato un nuovo rifacimento della li-
turgia di Cranmer nella Chiesa episcopaliana di Scozia. È sta-

(4 7 ) S i v e d a J. G risbrooke, op. cit., p p . 2 7 5 s s p e r il t e s to e p . 71


p e r il c o m m e n t o .
(4 8 ) Ibid., p p . 2 9 9 s s e 1 1 3 ss.
(4 9 ) Ibid., p p . 3 1 9 s s e 1 3 6 ss.

42 9
to quest’ultimo, pubblicato nel 1764, a offrire il punto di par-
tenza per la maggior parte delle revisioni moderne dell’eucari-
stia anglicana, da quella della Chiesa protestante episcopaliana
degli Stati Uniti fino al progetto di revisione del Prayer Book
inglese che il Parlamento britannico respingerà due volte, nel
1927 e nel 1928 (50).
In questo testo scozzese del 1764, l’aggancio della seconda
parte della preghiera eucaristica è stato ristabilito, secondo
l’antica usanza. Però viene riallacciata non con la parola Santo,
ma con la parola Gloria, con la quale Cranmer aveva tradotto
il secondo Osanna:
« O gni gloria sia a te, D io onnipotente, nostro P adre ce-
leste, perché nella tu a com m ovente m isericordia, [ci] hai
dato il tuo unico Figlio G esù Cristo, affinché soffrisse la
m orte sulla croce per la nostra redenzione... ».

Subito dopo interviene un’altra modifica. Cranmer aveva


scritto, per scartare dall’eucaristia qualsiasi oblazione del sacri-
fido di Cristo: « Egli che, con la sua sola oblazione di se stes-
so che vi fu offerta una volta... ». Il testo nuovo sostituisce own
(propria) a one (una), e lascia perdere there (vi). Si legge così:
« Egli che, con la propria oblazione di se stesso offerta una voi-
ta... ». Così, in un solo colpo, è stato attenuato il carattere stret-
tamente protestante della formula, ed è stata seguita l’idea cara
ai non-jurors secondo i quali l’oblazione che fa della Croce
un sacrificio aveva avuto luogo alla Cena.
L’epiclesi di Cranmer, con la sua menzione della Parola e
dello Spirito, è conservata tale e quale, se non che la parola è
menzionata per prima, come nel 1637, ma questa epiclesi è tra-
sportata dopo l’anamnesi. La grande preghiera per la Chiesa è
rimessa nel canone, ma posta ora dopo ciò che vi corrisponde-
va nella seconda epiclesi, che sviluppa l’idea del sacrificio di
lode e dell’offerta di noi stessi a Dio, conservata anch’essa (ec-
cetto due avverbi) come nel 1637. È evidente che tutti questi
spostamenti non hanno altro scopo che di riprodurre lo schema
siro-occidentale, reso popolare dalle liturgie dei non-jurors e
specialmente da quella di Ratteray.
Si può dire che le revisioni dell’eucaristia anglicana, fino

(5 0 ) Ibid., p p . 3 3 5 s s e 1 5 0 ss.

430
ai giorni nostri, saranno tutte dominate da questa eucaristia
scozzese del 1764.
Gli americani ne hanno ripreso il testo press’a poco ugua-
le, ma anch’essi hanno riportato airoffertorio la preghiera per
la Chiesa.
Nel 1927, Walter Frere e gli altri revisori del Prayer Book
inglese rimetteranno one al posto di own, sostituiranno Testa-
meni con Covenant (alleanza) nel racconto delFistituzione, mo-
dificheranno qua e là Fordine delle parole, specialmente nell’a-
namnesi, e rimanderanno anch’essi le intercessioni all’offerto‫־‬
rio. A parte questo, si limiteranno a espellere la Parola dall’epi-
desi, per fare di essa quello che giudicheranno, ben a torto, una
più pura epiclesi primitiva (51).
Quando si leggono i sarcasmi del Frere sul Canone romano,
secondo lui spezzettato e alterato al punto che l’antica preghie‫־‬
ra eucaristica romana (ben inteso, si tratta di quella di Ippoli‫־‬
to!) vi sarebbe diventata irriconoscibile (52), bisogna confes-
sare che si stenta a trattenere qualche ironia davanti al risulta-
to dei suoi sforzi. Volendo fornire alla Chiesa anglicana un’eu-
caristia ideale, non ha trovato nulla di meglio che proporle un’eu‫־‬
caristia neo o pseudo-siriaca, fabbricata con gli elementi previa-
mente staccati dal Canone romano passato al laminatoio zuin-
gliano di Cranmer, poi riattaccati a questo scopo con un ordine
ben diverso... Ogni commento sarebbe di un’inutile crudeltà.
Per quanto poco soddisfacenti siano questi mosaici cranme-
riani di cui gli anglicani non sono riusciti ancora a disfarsi, e
per quanto illusoria possa essere l’idea secondo la quale l’euca‫־‬
ristia siro-occidentale rappresenterebbe il tipo dell’eucaristia
primitiva, o comunque il solo tipo ideale dell’eucaristia, biso-
gna riconoscere che l’evoluzione delle loro liturgie è giunta,
attraverso a questa via tortuosa, a raggiungere e a ricostituire
bene o male un’eucaristia certamente tradizionale nelle inten-
zioni. Tali testi, quando si dimentica la loro genealogia, sono
certamente suscettibili di esprimere il mistero eucaristico per co-
loro che ne hanno ricuperato la nozione. Ma bisogna applaudì-
re agli sforzi coraggiosi di liturgisti anglicani contemporanei, fé-
deli al meglio dell’ispirazione dei non-jurors, per rompere una

(5 1 ) C f B . W igan, The Liturgy in English, L o n d o n 21 9 6 4 , p p . 6 8 s s .


(5 2 ) C f W . Frere, The Anaphora..., L o n d o n 1 9 3 8 , p p . 1 3 5 ss.

431
buona volta il giogo di Cranmer e comporre direttamente una
preghiera eucaristica attinta alle migliori fonti. È vero che non
si sfugge facilmente airattrattiva della prosa sacra di questo
grande umanista che fu un teologo deludente e un politico trop-
po abile. Ma si può sperare che essi arrivino - forse conservan-
do molte formule felici scaturite dalla sua penna e santificate
da un lungo uso che ha restituito loro quello che egli desidera-
va togliere ‫ ־־‬a produrre un’eucaristia anglicizzata che sia vera-
mente cattolica senza essere per questo meno evangelica.

Ricupero della tradizione presso i riformati di lingua francese:


da Osterwald a Taizé
Questa evoluzione, così simpatica malgrado le sue debolez-
ze, che ha a poco a poco ricondotto Panglicanesimo nelle vie
tradizionali, si è pure verificata, più lentamente e più penosa-
mente, nella maggior parte delle grandi Chiese protestanti.
Abbiamo già segnalato il caso, così interessante, dei calvini-
sti anglosassoni. Sotto Tinfluenza del Prayer Book, e anche gra-
zie alla loro conoscenza deirantichità patristica, sono stati i pri-
mi « riformati » a introdurre nuovamente qualche cosa di un’eu-
caristia propriamente detta nella liturgia della Cena. Sotto la
stessa influenza anglicana, il primo esempio analogo che si in-
contra in una liturgia riformata del continente è quello della
Chiesa di Neuchàtel, alfinizio del secolo XVIII.
Nel 1713, Osterwald riuscì a sostituire la Manière et fasson
di Farei (forse, come abbiamo visto, la più povera di tutte le li-
turgie della Cena) con un testo di sua composizione. Egli in-
troduceva di nuovo il prefazio, il Sanctus e una « consacrazio-
ne » che compendia il racconto delPistituzione in un abbozzo
di canone, a dire il vero abbastanza scialbo, in cui le suppliche
e i rendimenti di grazie sono strettamente uniti. Il fatto è tanto
più singolare in quanto Osterwald rimane uno zuingliano puro
e non si può trovare nulla nella sua liturgia che richiami il rea-
lismo sacramentale di Calvino. Però qualcosa dello spirito del-
Pantica preghiera eucaristica, in quanto glorificazione nel ren-
dimento di grazie per i mirabilia Dei, fa in questa occasione una
prima nuova comparsa nella liturgia riformata continentale
(53).

(5 3 P u b b lic a t a a B a s ile a , n e l 1 7 1 3 , q u e s t a litu r g ia è sta ta r ip r o d o t-

432
Osterwald conserva le esortazioni e le preghiere penitenzia-
li, pur restringendone sensibilmente la quantità. Continua a far
figurare il racconto deiristituzione innanzi tutto come una for-
mula di annuncio evangelico, ma lo ripete più avanti nella pre-
ghiera. Il ministro, stando ancora al pulpito, passa dall’esorta-
zione alla preghiera, dopo un Sursum corda e un Gratias aga-
mus senza risposte. Pronuncia allora un prefazio (la maggior
parte di quelli del Prayer Book sono ripresi press’a poco tali e
quali), poi egli stesso dice il Sanctus (senza il Benedictus). Pro-
segue con una preghiera che introduce, come la prima liturgia
di Cranmer, un’intercessione universale nell’eucaristia. Qui av-
viene un’interruzione penitenziale ed esortativa. Dopo il Padre
nostro, si passa a una breve confessione dei peccati e a un’asso-
luzione abbastanza vaga. Però, dopo questo, il ministro arri-
va, come dice il testo, alla « consacrazione, che ha luogo alla
mensa ». Eccola:
« O Dio onnipotente e nostro Padre celeste, per la tua
grande misericordia hai consegnato tuo Figlio alla morte
della croce per la nostra redenzione; egli ha offerto se
stesso in sacrificio per i peccati di tutti, e ha ordinato che
la perenne commemorazione della sua morte si facesse
nella sua Chiesa fino a che egli venga nelFultimo giorno:
ricevi le preghiere e le lodi, o Dio misericordioso, che ti
presentiamo per mezzo di Gesù Cristo, il quale, nella notte
in cui fu tradito, prese del pane, e avendoti reso grazie,
o Padre eterno, lo spezzò e disse: Prendete, mangiate, que-
sto è il mio corpo che è spezzato per voi; fate questo in
memoria di me. Allo stesso modo dopo aver cenato, prese
il calice e rese grazie e lo diede, dicendo: Bevetene tutti,
perché questo è il mio sangue, il sangue della nuova allean-
za, che è versato per molti in remissione dei peccati; tutte
le volte che ne berrete, fate questo in memoria di me ».
Segue subito la comunione.
All’inizio del XIX secolo si vedrà pure introdursi almeno un
abbozzo di preghiera eucaristica nelle Chiese riformate tedesche.
A dire il vero, dapprima sarà quasi solo un fattore diplomatico
di compromesso per cercar di acclimatare i luterani nell’unio-

ta e c o m m e n t a t a d a P . Lebrun n e l v o i. I V d e lla s u a Explication... de la


Messe (p p . 1 6 7 ss d e lla n u o v a e d iz io n e d e l 184.3). C f Y . Brilioth, op. cit.t
p p . 1 7 9 ss .

433
ne « evangelica » di Prussia in cui gli Hohenzollern, nel 1817, li
obbligheranno a entrare coi riformati. Così Federico-Guglielmo
III, nel 1821, introdurrà il prefazio seguito dal Sanctus nella sua
Agenda. Ma l’assenza di ogni ricupero vero dell’eucaristia dietro
questa riforma liturgica, quasi puramente decorativa, si tradisce
nel fatto che si dicono prefazio e Sanctus, vi sia o no celebra-
zione della santa Cena! È cosa singolare vedere il protestante-
simo germanico, evidentemente senza averne la minima inten-
zione, far regredire queste preghiere press’a poco a quello che
erano nel culto della sinagoga: un semplice rendimento di gra-
zie per la Parola ascoltata, senza riferimento essenziale né alla
croce, né alla nostra unione al Salvatore crocifisso (54).
Un passo in più sarà fatto, verso la fine del secolo XIX, dal-
la liturgia francese di Eugène Bersier, da lui composta per la
sua parrocchia parigina riformata dell’Étoile. Bersier era stato
per un po’ di tempo influenzato da Irving, un celebre predica-
tore presbiteriano scozzese. Costui si era lanciato nella fonda-
zione di una Chiesa assai bizzarra, in cui le speculazioni apo-
calittiche, la glossolalia e altre stranezze si combinavano con
una restaurazione liturgica di un romanticismo scapigliato. Ber-
sier non sarà il solo protestante molto serio a trovare in questo
ambiente un’inattesa iniziazione alla tradizione liturgica. Per
conto suo, ne caverà l’ispirazione per una liturgia eucaristica
che non è una ripetizione ma un equivalente di quella di Cran-
mer, cioè anch’essa una traduzione parafrasata e leggermente
accomodata del Canone romano. La sua prosa ridondante e fio-
scia è purtroppo molto lontana dalla magica descrizione di
Cranmer. Ma è come un primo passo, nel protestantesimo di lin-
gua francese, verso una riscoperta che si presenterà lunga e fa-
ticosa (55).
L’esempio di Bersier doveva incoraggiare il pastore Schaff-
ner, nella sua parrocchia luterana dell’Ascensione, rue Dulong,
a Parigi, a riportare il luteranesimo francese (molto poco luterà-
no fino allora nella sua liturgia) verso le tradizioni del luterane-

(54) C f Y. Brilioth, op. cit., pp. 146ss.


(55) Y. Brilioth, op. cit., p p . 181ss, n o n r is p a r m ia lo d i a q u e s ta eu-
c a r is tia d i B e r sie r , e n o n s e m b r a n e m m e n o a c c o r g e r s i c h e s e g u e p a ss o
p a s s o il C a n o n e d e lla m e s s a r o m a n a d i c u i h a d e n u n c ia to T in c o e r e n z a
a lla p . 7 6 d e llo s t e s s o lib r o . L a litu r g ia d i B e r sie r è sta ta p u b b lic a t a a
P a r ig i n e l 1874.

434
simo tedesco del secolo XVII, che Lòhe, in Germania, aveva
appena fatto risorgere. Però, nelle Chiese riformate di lingua
francese bisognerà aspettare fino a dopo la guerra del 1914 per
vedere Fesempio di Bersier portare frutti.
Un gruppo di pastori di Losanna e dei dintorni, riuniti at-
torno al pastore Paquier, si impegna allora in un movimento
chiamato Église et Liturgie, da cui usciranno alcune delle ini-
ziative ecumeniche più interessanti del protestantesimo, come il
monastero di Taizé. La liturgia eucaristica composta dai
fratelli di Taizé, e che ha influito profondamente su molti
saggi di restaurazione delPeucaristia nel mondo riformato, sarà
Pultimo risultato di tutto questo. Riportiamo questa eucaristia,
di cui il libro di Max Thurian è come la spiegazione e la giusti-
ficazione.
Dopo il prefazio e il Sanctus, la preghiera eucaristica comin-
eia con P« invocazione dello Spirito Santo sulla santa Cena »:
« O Padre nostro, Dio delle potenze celesti,
riempi della tua gloria questo nostro sacrificio di lode.
Benedici, rendi perfetta e accetta questa offerta
come figura del sacrificio unico del nostro Signore.
Manda il tuo Spirito Santo
sopra di noi e sulla nostra eucaristia:
consacra questo pane nel Corpo di Cristo
e questa coppa nel Sangue di Cristo;
compia lo Spirito Santo creatore
la parola del tuo diletto Figlio ».

Dopo di ciò, P« istituzione della santa Cena per opera di


Cristo » riporta il racconto paolino. Al « fate questo in memo-
riale di me » si aggiungono subito queste altre parole di san
Paolo:
« Così, tutte le volte che noi mangiamo questo pane
e beviamo questa coppa,
noi proclamiamo la morte del Signore
fino a che egli ritorni ».

Segue Panamnesi, qualificata come « memoriale dei misteri


di Cristo»:
« Per questo, o Signore, noi compiamo davanti a te
il memoriale delPincarnazione e della passione del tuo Figlio,
della sua risurrezione dai morti,

435
della sua ascensione nella gloria dei cieli
e della sua perpetua intercessione in nostro favore;
noi aspettiamo e imploriamo il suo ritorno.
Tutto viene da te e la nostra sola offerta
è di ricordare le tue meraviglie e i tuoi doni.
Così noi ti presentiamo, Signore di gloria,
in azione di grazie e in intercessione,
i segni deireterno sacrifìcio di Cristo,
unico e perfetto, vivo e santo,
il pane di vita che viene dal cielo
e la coppa del banchetto nel tuo Regno.
Accogli, nel tuo amore e nella tua misericordia,
la nostra lode e la nostra preghiera in Cristo,
come hai gradito
i doni del tuo servo Abele il giusto,
il sacrifìcio di Abramo nostro padre
e quello di Melchisedech, tuo sommo sacerdote ».
Viene poi P« invocazione dello Spirito per la comunione »:
« [Accordaci la forza dello Spirito Santo
per discernere il corpo e il sangue del tuo Cristo] (56).
Te ne supplichiamo, Dio onnipotente,
fa' portare questa preghiera, per le mani del tuo santo angelo,
lassù sul tuo altare, alla tua presenza.
E quando riceveremo, comunicandoci a questa mensa,
il Corpo e il Sangue del tuo Figlio,
fa’ che possiamo venire riempiti dello Spirito Santo,
colmati di grazie e di benedizioni celesti,
per Gesù Cristo, nostro Salvatore ».
Di qui, si passa alla « conclusione mediante la lode al Si-
gnore »:
« Per lui, Signore, sempre tu crei, santifichi, vivifichi,
benedici e ci dai tutti i tuoi beni.
Per lui, con lui, e in lui,
ti è reso, o Dio Padre onnipotente,
nelFunità dello Spirito Santo,
ogni onore e gloria,
nei secoli dei secoli. Amen » (57).

(56) Questa invocazione non si trova nella 2a ediz. francese del


1963 (*)·
(57) Testo riportato in: Max T hurian , L ’E u c a r is tia . M e m o r ia le d e l

436
Bisogna riconoscere che per un teologo cattolico che ha pas-
sato molti anni a dipanare la matassa della storia e delle tra-
sformazioni della preghiera eucaristica, attraverso il cattolice-
simo, l’ortodossia orientale e il protestantesimo, è molto diffi-
cile leggere questa preghiera senza una profonda commozione.
Si possono fare certe critiche, deplorare in particolare che ab-
bia ceduto all’infelice semplificazione, già presente, d’altronde,
nella vecchia tradizione gallicana e ispanica, di relegare le in-
tercessioni all’offertorio. Ma a parte questo, sembra che sia
riuscita meravigliosamente a salvaguardare il contenuto essen-
ziale del Canone romano, pur esprimendolo in termini assai ap-
propriati a farne risaltare tutto il senso per i moderni e, nello
stesso tempo, a dissipare le prevenzioni dei protestanti a riguar-
do delle sue espressioni.
Il primo paragrafo è evidentemente costruito sul Quam obici-
tionem. Però viene collegato molto felicemente con il Sanctus
mediante un aggancio in cui il tema eucaristico è riassunto in
un’evocazione della gloria divina, tema centrale dell’inno dei
serafini. La gloria di Dio, infatti, nel senso biblico - come il
dott. Ramsey, nel suo importante libro su La gioire de Dieu et
la transfiguration du Christ, ha messo in luce molto bene - è a
un tempo la manifestazione e la comunicazione essenziale della
vita di Dio alle sue creature, realizzate in pienezza nell’incar-
nazione redentrice. L’eucaristia, che ci fa partecipare al suo mi-
stero, costituisce la realizzazione suprema di questa gloria nella
Chiesa e nel mondo.
Il modo poi con cui la Parola e lo Spirito sono introdotti in
questa epiclesi consacratoria esplicita magnificamente gli aspetti
complementari della tradizione cattolica, sia d’Oriente che d’Oc-
cidente. È lo Spirito comunicato dal mistero redentore che com-
pie l’effetto della Parola creatrice e salvatrice, annunciata me-
diante e nel Cristo. Ed è nella preghiera in cui la Chiesa fa
proprio, mediante la fede, il « memoriale » del Salvatore che
si compie questo mistero dello Spirito, precisamente come com-
pimento del mistero della Parola.
L’anamnesi, dal canto suo, sviluppata con il richiamo di
Cristo che è salito al cielo e intercede per noi nel santuario ce-

Signore, sacrificio di azione di grazia e d'intercessione, Ed. A V E , R om a


21971, pp. 330-335.

4 37
leste in cui è entrato come nostro precursore, fino alla parusia,
esprime la realizzazione della nostra eucaristia, inseparabilmen-
te lode e supplica, nel presentare a Dio il « memoriale » che
viene da lui mediante il Figlio suo.
La seconda epiclesi, affinché la celebrazione del mistero ab-
bia in noi tutto il suo effetto, esplicita a sua volta il senso del
Supra quae. La congiunzione del culto terrestre con il culto cele-
ste avviene mediante la discesa in noi dello Spirito, il quale ci
riempie di quella grazia e di quella benedizione di cui il Chri-
stus passus et glorificata è Tunica fonte. Di qui, deriva la bene-
dizione di tutto il creato e la glorificazione inseparabile, median-
te questo creato santificato, del Dio trinitario.
Non bisogna certo illudersi sul numero di fedeli delle Chie-
se riformate che possono fin d’ora, anche sotto una forma messa
così bene alla loro portata, accettare questa eucaristia e assi-
milarne tutto il senso. Il fatto però che siano già tanto numerosi
coloro che, a Taizé o altrove, hanno potuto unirvisi senza difficol-
tà né scandalo, è un indizio incoraggiante. Un altro indizio è dato
dalle revisioni già fatte delle liturgie riformate ufficiali, france-
si o altre: tutte, più o meno timidamente, riflettono qualcosa
di questo testo.

L’eucaristia della Chiesa unita dell’India del Sud

Passiamo ora a un altro esempio di preghiera eucaristica prò-


testante moderna, abbastanza differente nelle sue origini, ma
non meno degna di attenzione. Si tratta delTeucaristia che è sta-
ta elaborata dalla Chiesa unita dell’India del Sud. Come si sa,
questa Chiesa ha radunato recentemente varie Chiese missiona-
rie di origine anglicana, metodista, presbiteriana o congregazio-
nalista. La sua costituzione ha dato luogo, specialmente nella
Chiesa anglicana, a vivacissime discussioni. Bisogna riconosce-
re che a fianco di tendenze reali verso un ecumenismo in pro-
fondità, c’era pure molto di quell’ecumenismo diplomatico, fat-
to di semplici compromessi, che ha caratterizzato tante « unio-
ni » fallaci nel passato, come la famosa « unione di Prussia »
parecchie volte menzionata. Si potrebbe credere, perciò, che
quello che vi è di tradizionale in questa liturgia sia quasi solo
una superficiale concessione al tradizionalismo anglicano, ma

438
senza contenuto dottrinale. In realtà, tale valutazione sarebbe
profondamente ingiusta e gravemente erronea.
Nel presbiterianesimo scozzese in particolare, e fin nel con-
gregazionalismo moderno, senza parlare del metodismo in cui
la nostalgia delle forme anglicane non si è mai spenta, la
riscoperta dell’eucaristia tradizionale, iniziata fin dall’antico
Book of Common Order, ha certamente fatto grandi progressi
in questi ultimi anni. La coalescenza di questi diversi gruppi
cristiani nell’India del Sud ha dunque potuto essere efficace
per determinare un vero ricupero della tradizione, che l’uso
della liturgia nuova sembra dover arricchire di giorno in giorno.
« È cosa veramente degna e giusta e nostro dovere ren-
dere grazie a te in ogni tempo e in ogni luogo, o Signore,
Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Gesù Cristo,
tuo Figlio e nostro Signore: per mezzo del quale hai creato
i cieli e la terra e tutto quello che vi si trova, hai fatto
l’uomo a tua immagine e, quando egli cadde nel peccato,
ti sei ricordato di lui per farne le primizie di una nuova
creazione.
Per questo, con gli Angeli e gli Arcangeli, e con tutte le
schiere celesti, noi lodiamo e magnifìchiamo il tuo nome
glorioso, lodandoti senza posa e dicendo: Santo, santo,
santo, il Signore Dio degli eserciti; il cielo e la terra
sono pieni della tua gloria; Osanna nei cieli altissimi; sia
gloria a te, o Signore altissimo. Benedetto colui che viene,
che è venuto, e che deve venire nel nome del Signore.
Osanna nei cieli altissimi ».
Il « presbitero » prosegue da solo:
« Veramente santo, veramente benedetto sei tu, o Padre
celeste, che nel tuo commovente amore per l’umanità hai
dato il tuo unico Figlio Gesù Cristo, perché prendesse su
di sé la nostra natura e soffrisse la morte sulla croce per
la nostra redenzione; egli compie così, con la sola oblazione
di se stesso offerta una sola volta, un pieno, perfetto e
sufficiente sacrifìcio, oblazione e soddisfazione per i pec-
cati del mondo intero, e ha istituito e ci ha comandato nel
suo santo Vangelo di continuare una memoria perenne
della sua preziosa morte, fino a che egli ritorni.
Egli, nella notte in cui fu tradito, prese del pane e, quando
ebbe reso grazie, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli
dicendo: Prendete, mangiate, questo è il mio corpo che è

439
dato per voi: fate questo in ricordo di me. Allo stesso
modo, dopo la cena, prese il calice e, quando ebbe reso
grazie, lo diede loro dicendo: Bevetene tutti, perché questo
è il mio sangue della nuova alleanza, che è sparso per
voi e per un gran numero per la remissione dei peccati:
tutte le volte che voi ne berrete, fate questo in ricordo
di me ».
Il popolo risponde:
« Amen. Noi commemoriamo la tua morte, o Signore, noi
proclamiamo la tua risurrezione e attendiamo la tua se-
conda venuta. Gloria a te, o Cristo ».
Il « presbitero » prosegue:
« Per questo, o Padre, ricordando la preziosa morte e la
passione, e la gloriosa risurrezione e ascensione del tuo
Figlio, nostro Signore, noi tuoi servi facciamo questo in
memoria di lui, come egli ha comandato, fino al suo ri-
torno, rendendoti grazie per la perfetta redenzione che
hai compiuto per noi in lui ».

Il popolo:
« Noi ti rendiamo grazie: noi ti lodiamo, ti glorifichiamo,
o Signore nostro Dio ».

Il « presbitero »:
« E noi umilmente ti supplichiamo, o Padre misericordioso,
di santificare col tuo Spirito Santo noi e questi tuoi doni di
pane e di vino, in modo che il pane che noi spezziamo sia
la comunione al corpo di Cristo e il calice che noi bene-
diciamo la comunione al sangue di Cristo. Concedi che
riuniti insieme a lui, arriviamo alPunità della fede e ere-
sciamo in ogni cosa verso di lui: egli è il Capo, il Cristo,
nostro Signore, per il quale, con il quale, siano a te, o
Padre onnipotente, nelPunità dello Spirito Santo, ogni ono-
re e gloria nei secoli dei secoli. Amen » (58).

Qui, nuovamente, abbiamo il discutibile rinvio delle inter-


cessioni alPoffertorio. D’altra parte, si riconoscono facilmente
le formule di Cranmer nelPintroduzione del racconto delPistitu-

(58) Testo in B. W igan, T h e L itu r g y in E n g lis h , pp. 218ss.

440
zione e nelPanamnesi. Sono state però alleggerite di qualche ri-
dondanza e inserite in un contesto di formule riprese dalle an-
tiche eucaristie, che tende a dare loro una maggiore chiarezza
e un contenuto più certo. Tutte le obiezioni protestanti al senso
tradizionale deireucaristia sono tacitate con !,affermazione del-
Punicità del sacrificio della croce. Però, quantunque molto di-
screte, le formule delPanamnesi e delPepiclesi si prestano ad
esprimere la fede nella nostra unione effettiva al sacrificio della
croce per mezzo delPeucaristia e alla nostra comunione reale
al corpo e al sangue di Cristo, facendo di tutti noi un solo corpo
in lui. Tutto dipende, evidentemente, dal contesto ecclesiolo-
gico e teologico nel quale verranno collocate. Se questo si svi-
lupperà nella linea del libro sulla Chiesa del vescovo Newbigin,
The Household of God, si potrà considerare questa eucaristia
molto sobria (e questo non è un piccolo merito) come soddisfa-
cente dal punto di vista tradizionale.
L,epiclesi, pienamente nello spirito delle epiclesi siro-occi-
dentali, è particolarmente riuscita per il modo con il quale con-
giunge la santificazione dei doni e di coloro che li ricevono,
nella Chiesa corpo di Cristo, in vista del suo compimento.
In una Chiesa come questa, composta di orientali, il colle-
gamento di tutta la preghiera con questa tradizione sembra mol-
to naturale. La stessa cosa va detta per quei pochi interventi del
popolo con i quali esso afferma la sua adesione alPeucaristia
del ministro.

La nuova liturgia eucaristica della Chiesa luterana d'America


Termineremo questa rassegna sulPeucaristia nel protestante-
simo esaminando la nuova liturgia luterana che è stata composta
per Puso di otto gruppi di Chiese americane radunate nella nuo-
va Chiesa luterana unita degli Stati Uniti.
Questa riunione è un fatto ecumenico completamente diver-
so da quello delPunione delle Chiese dellTndia del Sud. Qui
non si tratta di una riunione di Chiese tutte differenti, addirit-
tura opposte, per le loro origini: si ha un rafforzamento di le-
gami mai completamente spezzati tra Chiese provenienti dalla
stessa tradizione particolare e che sono riuscite a riunirsi per
un ritorno comune alla loro origine. È comunque un ritorno alle
fonti di ciò che vi era di più positivo nella forma prima del prò-

441
testantesimo. Queste Chiese luterane americane, infatti, devono
molto al movimento di rinascita del luteranesimo che ha preso
il suo avvio, nella Germania del secolo XIX, da una saggia
resistenza agli sforzi di unione basati sulla politica e sul lassi-
smo dottrinale, del tipo delPunione di Prussia. Un nome sim-
boleggia da solo tutto questo movimento: il pastore bavarese
Wilhelm Lohe, di Neuendettelsau. È avvenuto di nuovo, con lui
e attorno a lui, quello che aveva cominciato a verificarsi nel se-
colo XVII attorno a Johann Arndt, Johann Gerhardt e Paul
Gerhardt. Cioè: la persecuzione riformata ha ravvivato, presso
i luterani, la coscienza del fatto che erano quasi gli unici, tra i
protestanti, a conservare vari elementi della tradizione cattoli-
ca, e ha destato presso di loro un senso di ringiovanimento.
Il libro sulla Chiesa che sarà composto nel 1845 da Wil-
helm Lohe, Drei Biicher von der Kirche, è come il monumento
teologico di questa rinascita. Essa si concretizzerà in un risorge-
re della vita religiosa: la fondazione delle diaconesse, che, nel-
la mente di Lohe, dovevano essere nella Chiesa luterana ciò che
erano state le vergini consacrate nella Chiesa primitiva; e in una
restaurazione della liturgia e della spiritualità. Le Chiese Iute-
rane dell'America del Nord, dove emigrarono molti luterani te-
deschi cacciati dal loro paese dall'intolleranza riformata, saran-
no forse più attive ancora di quelle di Germania nello sviluppa-
re questi semi di vita e di pensiero. Perciò non c'è da meravi-
gliarsi se proprio in questo paese una grande Chiesa luterana
è riuscita per prima a produrre una liturgia che non si acconten-
ta di ritrovare tutto ciò che la riforma primitiva aveva conser-
vaio della tradizione, ma risale coraggiosamente fino alle fonti
patristiche per riallacciarsi con la sua corrente più fondamenta-
le. La liturgia eucaristica adottata nel 1958 dalla Chiesa luterà-
na unita d'America è la prima che rompe decisamente con la
Formula Missae, per ritrovare lo schema e il contenuto delle
antiche anafore, senza arrestarsi ai raggiri contorti della liturgia
svedese di Giovanni III.
Dopo il prefazio e il Sanctus, prosegue:
« Santo sei tu, o Dio onnipotente e misericordioso. Santo
sei tu, e grande è la maestà della tua gloria. Tu hai tanto
amato il mondo che hai dato il tuo unico Figlio, affinché
chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna.
Egli fattosi uomo per eseguire per noi la tua santa volontà

442
e compiere quanto era necessario per la nostra salvezza,
nella notte in cui fu tradito, prese del pane, e, avendo
reso grazie, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli dicendo:
Prendete, mangiate, questo è il mio corpo dato per voi.
Allo stesso modo, dopo la cena, prese il calice e, avendo
reso grazie, lo diede loro dicendo: Bevetene tutti, questo
calice è il Nuovo Testamento nel mio sangue che è sparso
per voi e per un gran numero, per la remissione dei pecca-
ti. Tutte le volte che voi ne berrete, fate questo in memoria
di me.
Ricordandoci dunque del suo comando salutare, della sua
vivificante passione e della sua morte, e della promessa
del suo ritorno, noi ti rendiamo grazie, non quanto lo
dobbiamo, ma !quanto ne siamo capaci: e umilmente ti
preghiamo di accettare nella tua misericordia la nostra
lode, il nostro rendimento di grazie e di benedire e san-
tifìcare con la tua Parola e col tuo Spirito Santo i tuoi doni
di pane e di vino, in modo che noi, e tutti quelli che vi
parteciperanno, siamo ripieni di ogni grazia e benedizione
celeste, e, ricevendo la remissione dei nostri peccati, sia-
mo santificati nell'anima e nel corpo, e abbiamo la nostra
parte con tutti i tuoi santi. E a te, o Dio, Padre, Figlio
e Spirito Santo, sia ogni onore e gloria nella Chiesa, nei
secoli dei secoli. Amen » (59).
Luther D. Reed, che è Fautore principale di questo testo, ne
ha spiegato la composizione e il contenuto nella sua opera The
Lutheran Liturgy. Siamo ancora alla presenza di una liturgia
che risale deliberatamente al modello siro-occidentale, ma sen-
za intercessioni. La prima frase è una combinazione delle litur-
gie di san Giacomo e di san Giovanni Crisostomo, che raggiun-
ge, con la ripresa di Gv 3,16, il tema centrale della beràkà
giudaica: « Con un amore abbondante tu ci hai amati ». Il pas-
saggio dall'evocazione dell'incarnazione redentrice al racconto
dell'istituzione avviene per mezzo di una formula di san Basi-
lio, sul compimento perfetto nella croce della volontà divina,
ispirata da Gv 19,28. L'anamnesi riprende i termini di san Già-
corno, ispirandosi a un adattamento trovato nell’edizione del
1940 del Book of Common Order dei presbiteriani scozzesi.
L’espressione rinnovata del rendimento di grazie, con la quale

(59) Testo in L. D. Reed, o p . c it ., pp. 356357‫־‬.

443
termina, risale alle Costituzioni apostoliche. L'epiclesi, con la
sua menzione della Parola e dello Spirito, riprende quella del
primo Prayer Book di Cranmer (con il ritocco scozzese, facen-
do passare prima la Parola). La sua conclusione combina quel-
la del Supplices te rogamus con le liturgie di san Giacomo (la
santificazione dell'anima e del corpo) e di san Basilio (la no-
stra parte coi santi).
Sarebbe difficile essere più ecumenici! E tutti questi elemen-
ti, scelti con grande discernimento, sono stati fusi in una reda-
zione tanto sobria quanto scorrevole. Nella sua sobria sempli-
cità, questa preghiera è di una completezza concisa che non si è
abituati a trovare altrove, se non nell'antichità cristiana. Qui,
come nella liturgia della Chiesa dell'India del Sud, !'orienta-
mento escatologico fa poi risuonare una nota del tutto primitiva.
Una volta ancora questa liturgia dovrà essere giudicata catto-
lica e ortodossa nella misura in cui le formule tradizionali che
riprende, senza ridestare l'eco delle polemiche della Riforma,
saranno di fatto prese nel loro senso pieno e primo dalla Chiesa
che le usa.
Tali testi manifestano la profondità delle riscoperte che si
stanno facendo o che sono già state fatte nelle parti più vive
delle Chiese della Riforma. Se le comunità cristiane che usano
questi formulari dovessero un giorno riprendere il loro posto
originale nell'unità cattolica, nulla potrebbe loro proibire di
continuare a servirsene. Tali testi, la cui elaborazione è stata il
risultato di tante ricerche oneste e coraggiose, sono una testimo‫־‬
manza così sorprendente dell'opera dello Spirito presso questi
cristiani di buona fede, che sembrerebbe un peccato se, integran-
dosi nell'unica Chiesa, non li portassero con sé.

444
Capitolo XIII

Rinnovamento

Riscoperta della tradizione eucaristica nella Chiesa cattolica dopo


il Rinascimento
Durante tutto il tempo in cui questo lento lavoro di risco-
perta si svolgeva nelle Chiese della Riforma, che ne era dell'eu-
caristia nella Chiesa cattolica?
Qui, evidentemente, col canone eucaristico e l'insieme dei
prefazi, !,eucaristia antica era sempre presente. Ma se non do-
veva essere ricuperata, aveva certamente bisogno di essere li-
berata da una grande quantità di aggiunte incongruenti e re-
stituita a un'intelligente utilizzazione.
Sul primo punto, l'opera del Concilio di Trento e di san Pio
V, malgrado una relativa timidezza, operò le riforme più neces-
sarie. Il Messale romano moderno, senza escludere interamente
le apologie e le altre preghiere di devozione medievali, da una
parte le ridurrà alla preparazione del celebrante e dei ministri,
all'offertorio e alla comunione; dall'altra, manterrà soltanto il
meglio. Quanto ai tropi, spariranno definitivamente... per ricom-
parire, purtroppo, sotto una forma ancora più abusiva nell'epo-
ca in cui siamo, in troppe parafrasi inammissibili dei canti del-
l'ordinario o del proprio e di commenti inutili.
Per quanto riguarda la comprensione della preghiera eucari-
stica, a leggere i commenti del sacrificio della messa come quelli
del Lessius, del Lugo e di molti altri, si potrebbe avere l'impres-
sione che la teologia della Controriforma, lungi dall'escludere le
concezioni medievali erronee, si sia soprattutto preoccupata di
difenderne e di ordinare sistematicamente alcune delle più in-
sostenibili. Tuttavia, pur senza misconoscere l'apporto molto pò-
sitivo di Tallhofer, de La Taille, Lepin, Vonier, Masure, bisogna
riconoscere che questi hanno messo un po' in caricatura le teo-
rie che intendevano giustamente superare. La consacrazione
eucaristica del pane spezzato e del calice implica un riferimen-

445
to immediato alla passione di Cristo di cui nemmeno queste
teorie più moderne, per quanto seducenti possano essere, ten-
gono sempre un conto sufficiente. Potrebbe dunque darsi che
i nostri successori non siano poi tanto teneri verso i sistemi oggi
in voga, come non lo siamo noi nei riguardi dei nostri prede-
cessori.
Soprattutto poi non bisogna dimenticare che la Controri-
forma non è altro che una parte della Riforma cattolica scatu-
rita dalla sostanza più solida dell ,umanesimo cristiano dei se-
coli XV e XVI. Nel campo liturgico, l’opera dei grandi eruditi
della fine del Rinascimento e del secolo XVÌI è ancora lungi
dall’essere apprezzata come dovrebbe. Il De sacrificio Missae
del cardinale Bona è una prima rinascita del senso tradizionale
dell’eucaristia fondata su un primo approccio degli antichi sa-
cramentari. La loro pubblicazione per opera del cardinale Tom-
masi, e poi quella degli Ordines romani, ritrovati da Dom Ma-
billon, farà fare un passo decisivo nella riscoperta delPeucari-
stia antica e del suo significato. Quella delle liturgie orientali
per opera di Renaudot e di Assemani non avrà un’importanza
minore. Se ci si vuole rendere conto delle ricchezze dottrinali
che questi lavori avrebbero ridato alla teologia come anche alla
spiritualità eucaristica fin dall’inizio del secolo XVIII, basta
leggere U explication... des prières de la Messe, del p. Le-
brun. Il meno che si possa dire è che i lavori moderni sono an-
cora ben lontani dal renderne superflua la lettura.
I messali per i fedeli, con buone traduzioni e con commenti
spesso ottimi, fin dalla seconda metà del secolo XVII hanno di-
vulgato tutto questo tra un vasto pubblico. Nonostante certe
precipitazioni e certi errori (da cui non siamo ancora usciti), la
riforma dei libri e della pratica liturgica, particolarmente in
Francia, ma non esclusivamente, nei secoli XVII e XVIII, sa-
ranno il frutto delle stesse ricerche. Si può dire senza esagera-
re che non c’è nessuna delle riforme essenziali decise dal Con-
cilio Vaticano II che non vi sia stata anticipata.
È innegabile che quello che si può chiamare il primo movi-
mento liturgico, in quell’epoca, è riuscito a produrre, per la
prima volta nella Chiesa di Occidente dopo l’alto medioevo,
una sufficiente comprensione dell’eucaristia da parte dei sacer-
doti e dei fedeli, e una pratica viva da cui potremmo attingere
ancora molte ispirazioni. L’indice migliore di questo fatto si

446
trova forse nei nuovi prefazi composti allora, e che sono ancora
in uso, soprattutto in Francia. Redatti da persone pienamente
familiarizzate con i tesori dei sacramentari antichi e dei messa-
li medievali, esse ne hanno ricavato e conservato quanto aveva-
no di più duraturo, in preghiere degne molto spesso di gareg-
giare con i più bei formulari dell’antichità cristiana.
Il prefazio della Dedicazione, con la sua lode a Dio per
Fedificazione della Chiesa, come Tempio, Corpo e Sposa di
Cristo, è forse il capolavoro di questi liturgisti moderni. Il pre-
fazio di Tutti i Santi, il cui agostinianesimo così paolino irri-
tava il compianto Doni Guéranger, non è né meno bello né me-
no sostanzioso, con il richiamo della nube di testimoni, lavati
e glorificati nel sangue di Cristo (1).
Quando si confrontano queste eucaristie stupende con le mi-
sere produzioni entrate di recente nel Messale romano, si cade
dalle nuvole. Alcune espressioni paoline riscattano quella del
Sacro Cuore, ma non possono salvare quella di Cristo Re. Che
dire poi della povertà di quella che è stata assegnata al povero
san Giuseppe? È il livello più basso a cui sia mai giunta la pra-
tica della liturgia romana! Il prefazio che è stato destinato, sot-
to Benedetto XV, alle messe per i defunti, è una sorprendente
eccezione. Dimostra che sopravvive la possibilità di espressioni
dell’eucaristia degne dei periodi più gloriosi della Chiesa an-
tica. Il tatto con il quale un 'illatio mozarabica vi è stata rita-
gliata e ritoccata ne ha fatto, per un anonimo colpo di genio,
l’equivalente di una tra le più belle composizioni antiche in cui
parrebbe di ritrovare la mano di san Leone.
Ma l’eredità più preziosa di questa Riforma cattolica del
XVII e XVIII secolo rimane l’immenso sforzo di ricerche, di
analisi, di interpretazione della tradizione liturgica che ha ini-
ziato. Tutto il nostro studio non ha potuto far di meglio che cer-
care di assimilare i risultati a cui, dopo un’eclissi di oltre un se-
colo, doveva arrivare la ripresa di questo sforzo. È un pensiero
che dovrebbe ispirarci una grande riconoscenza verso i nostri
predecessori e un po’ di modestia.

(1) Sono due prefazi ancora in uso, con altri, nel Proprio francese.
Si veda J. P oilly , L e s p r é f a c e s p a r is ie n n e s ..., in EL 77 (1963) 101108‫;־‬
A. Len tin i , R i l i e v i s u a lc u n i p r e f a z i r e c e n te m e n te a p p r o v a t i, ibid., 78
(1964) 15-32; P. Jounel , L e n o u v e a u P r o p r e d e F r a n c e , in MD n. 72
) 1963( 154‫־‬164 )«(.

447
Restaurazione della liturgia dopo il Concilio Vaticano II

Il rinnovamento liturgico del XX secolo, inaugurato dal-


l’opera profetica di Dom Lambert Beauduin in Belgio, prose-
guito in Germania e in Austria da Dom Odo Casel a Maria-Laach
e da Pius Parsch a Klosterneuburg, ripreso e sviluppato dopo
la seconda guerra mondiale dal Centro di Pastorale liturgica
fondato a Parigi dai pp. Roguet e Buployé, è l’erede attuale di
questi precursori«
L’enciclica Mediator Dei di Pio XII (1947) e soprattutto la
Costituzione sulla sacra Liturgia (1963) del Concilio Vatica-
no II dovevano farne una realtà per tutta la Chiesa (2). Sotto
l’impulso del Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sa-
era Liturgia (1964), un rinnovamento di tutta la liturgia occi-
dentale promette di esserne il risultato. I lavori riguardanti la
celebrazione della messa stanno per giungere al termine e si può
fin d’ora apprezzarne la portata.
In un primo tempo, la restaurazione della prima parte della
celebrazione eucaristica come proclamazione e ascolto della Pa-
rola di Dio nella Chiesa ha fornito le condizioni necessarie per
ogni altra restaurazione propriamente eucaristica, poiché l’euca-
ristia non si può comprendere se non come la risposta a quella
Parola che essa sola può suscitare.
Il Consilium ha naturalmente incontrato sulla sua strada
quelle interpretazioni pseudo-critiche del Canone romano che
tenderebbero sia a eliminarlo, sia a rimaneggiarlo in modo cer-
vellotico. Ne abbiamo già dimostrato la vuotaggine, e il Consi-

(2 ) Per una panoramica - che non sia a volo d’uccello - del mo-
vimento liturgico e del suo contributo alla riforma voluta dal Vatica-
no II, si veda O. R o u s se a u , S to r ia d e l m o v i m e n t o litu r g ic o , Ediz. Pao-
line 1961; in appendice S. M a rsili , S to r ia d e l m o v i m e n t o litu r g ic o ita-
lia n o d a lle o r ig in i a lV e n c ic lic a « M e d i a to r D e i » . Si veda anche: I l rin -
n o v a m e n to litu r g ic o ( = Enciclopedia cattolica dell’uomo d’oggi, 110),
Ediz. Paoline 1962.
Per il momento attuale, cf, tra l’altro, M. M organte, L a r if o r m a
d e lla L itu r g ia p r o m o s s a d a l V a tic a n o I I ( = Magisterium, 20), Ediz. Pao-
line 1965; G. Barauna, L a L itu r g ia r i n n o v a ta d a l C o n c ilio , Elle Di Ci,
Torino-Leumann 1965; A a.Vv., L a C o s t i t u z i o n e s u lla s a c r a L itu r g ia ,
completata dalle N o r m e d i a p p l i c a z i o n e e dalla R if o r m a litu r g ic a n e l
m o n d o ( = Collana Magistero conciliare, 14), Elle Di Ci, Torino-Leu-
mann 1968 (*).

448
Hum ha giustamente rifiutato di incamminarsi per un vicolo eie-
co così disastroso. In compenso, si è studiato di ridare al ren-
dimento di grazie iniziale, nei prefazi, tutta la sua ampiezza
e ricchezza sostanziale. Ha dunque deciso di scartare il cosid-
detto prefazio comune, di cui abbiamo detto che non è altro
che un quadro vuoto del suo contenuto essenziale: il tema del
rendimento di grazie; vi ha sostituito altri prefazi propri, ag-
giunti a quelli che erano già in uso, e una varietà di prefazi co-
munì che contengono tutti una glorificazione esplicita dell’o-
pera creatrice e della storia della salvezza. Questi prefazi rimet-
tono in uso, a volte con qualche modifica o adattamento, il me-
glio del tesoro dei sacramentari antichi. Qualche composizione
nuova che vi è stata aggiunta non sembrerà indegna di tale in-
serimento, come questo prefazio feriale, tutto intessuto di for-
mule neotestamentarie:
« È veramente cosa buona e giusta
renderti grazie e innalzare a te
Pinno di benedizione e di lode,
Dio onnipotente ed eterno,
per Cristo nostro Signore.
In lui hai voluto rinnovare !,universo,
perché noi tutti fossimo partecipi della sua pienezza.
Egli che era Dio annientò se stesso,
e col sangue versato sulla croce
pacificò il cielo e la terra.
Perciò fu innalzato sopra ogni creatura
ed è causa di salvezza eterna
per coloro che ascoltano la sua parola.
Per questo mistero di salvezza,
uniti agli Angeli e ai Santi,
cantiamo con gioia Pinno della tua lode:
Santo, Santo, Santo... » (3).
Se a questa riforma, che s’imponeva, s’aggiungeranno i nuo-
vi (o antichi!) Communicantes e Hanc igitur che riporteranno

(3) Cf C o l l,16ss; G v 1,16; F il 2,6.7; C o l 1,20; FU 2,9; E b 5,9. -


La nuova raccolta di prefazi, preparati dal C o n s iliu m e promulgati dalla
Congregazione dei Riti (23 maggio 1968), comprende: due Prefazi per
PAvvento, uno per le domeniche di Quaresima, due per le domeniche
« per annum », due feriali e uno in onore della SS. Eucaristia. La rac-
colta verrà ampliata, sembra, in un secondo tempo. Testo latino, in P re -
c e s e u c h a r is tic a e e t P r a e f a tio n e s , Poliglotta Vaticana 1968 (*).

449
nel Canone romano, con la pienezza della commemorazione
dei magnalia Dei, un'espressione diversificata delle intenzioni
della Chiesa che" presenta al Padre Punico sacrificio del Figlio
eterno, si può sperare che si ristabilirà tutta la bellezza impe-
ritura di questo gioiello della tradizione eucaristica in Occiden-
te, rappresentato dal Canone romano.
Inoltre, bisogna rallegrarsi che, accanto a questa restaurazio-
ne, si sia voluto arricchire la liturgia latina moderna con testi-
monianze complementari delle ricchezze della tradizione catto-
lica. Nello stesso tempo si è mirato a un rinnovamento tra i fe-
deli del senso pieno delPeucaristia, proponendo loro dei for-
mulari il più possibile espliciti e direttamente accessibili, tanto
per la loro struttura che per il loro linguaggio. Si è esitato a
lungo prima di mettersi per una simile via. Però la moltiplica-
zione, in questi ultimi tempi, non solo in Olanda, ma anche
altrove, di formule improvvisate a casaccio rendeva necessa-
rio restituire, nei testi liturgici ufficiali, gli elementi fondamen-
tali della tradizione, pur nella loro diversità, come pure la loro
presentazione ai fedeli sotto una forma facilmente assimilabile.
Oltre a questa necessità pastorale immediata, militavano a
favore di tale iniziativa alcune considerazioni di maggior im-
portanza. Quella che noi continuiamo a chiamare « liturgia ro-
mana », in realtà è praticamente diventata da Gregorio VII
in poi la liturgia di quasi tutta la Chiesa latina. Nell'epoca mo-
derna, l'espansione missionaria del cattolicesimo l'ha impian-
tata nel mondo intero. Certo, come abbiamo detto, questo non
è avvenuto senza che essa abbia assorbito, a sua volta, vari eie-
menti delle antiche liturgie gallicane. Bisogna però precisare che
il Canone, a parte alcuni prefazi, è uno dei pochi elementi che
sia rimasto esclusivamente romano.
Era dunque quanto mai desiderabile, innanzi tutto, intro-
durvi nuovamente il meglio del tesoro tradizionale delle euca-
ristie celtiche, ispaniche e gallicane. Era parimenti auspicabile
che questa liturgia, universalizzata di fatto nel suo uso, si
aprisse anche a quello che ci rimane delle forme dell'eucaristia
dei primi secoli e agli sviluppi più fruttuosi della tradizione
orientale.
Tuttavia si è creduto bene, per non sconcertare i fedeli, di
conservare, in queste eucaristie rinnovate, alcuni dei caratteri
più salienti della struttura del Canone romano, in particolare

450
la distinzione (d'altronde originaria, come abbiamo già costa-
tato) tra un'epiclesi propriamente consacratoria, corrispondente
alla preghiera 'Abòdà della sinagoga, conservata prima del rac-
conto dell'istituzione, e l'epiclesi di comunione, a conclusione
dell'anamnesi. A parte questa riserva, si è ritenuto poi più peda-
gogico raggruppare, in queste nuove preghiere, tutte le interces-
sioni e commemorazioni nell'ultima parte, come aveva fatto la
tradizione siriaca.
Su questo schema, sono stati dunque stabiliti tre formulari.
Il primo (A) utilizza in massima parte l'eucaristia della Tradizio‫־‬
ne apostolica. Il secondo (B) adotta lo svolgimento e alcune del‫־‬
le formule più felici della tradizione gallicana e mozarabica.
Il terzo (C) si ispira direttamente ai grandi formulari siriaci,
particolarmente a quelli del libro V ili delle Costituzioni apo-
stoliche, di san Giacomo e di san Basilio.

Tre nuovi formulari di eucaristia


A) Preghiera eucaristica II (4)
Nell'eucaristia che si ispira a sant'Ippolito sono stati in‫־‬
trodotti il Sanctus, le intercessioni e le commemorazioni, quan-
tunque queste ultime vi conservino una forma molto concisa.
Infatti, fin dal momento in cui il tipo di formulario conservato
dalla Tradizione apostolica doveva applicarsi a un banchetto eu-
caristico che seguiva immediatamente, come avviene oggi, l'uffi-
ciò delle letture, era necessario che gli elementi di preghiera eu-
caristica che derivano, come abbiamo visto, da quest'altro ufficio,
e che l'hanno sempre accompagnato, tanto presso i cristiani che
presso gli ebrei, fossero incorporati all'eucaristia del banchet-
to. Il grande rendimento di grazie per la creazione e per la re‫־‬
denzione è così diventato molto naturalmente una specie di pre-
fazio, di un'ampiezza eccezionale:
« È veramente cosa buona e giusta,
nostro dovere e fonte di salvezza,
rendere grazie sempre e in ogni luogo
a te, Padre santo,
per Gesù Cristo, tuo dilettissimo Figlio.
Per mezzo di lui, tua Parola vivente,

(4) La Preghiera eucaristica I è il Canone romano del messale (*).

451
hai creato tutte le cose
e lo hai mandato a noi salvatore e redentore,
fatto uomo per opera dello Spirito Santo
e nato dalla Vergine Maria.
Per compiere la tua volontà
e acquistarti un popolo santo,
egli stese le braccia sulla croce,
morendo distrusse la morte
e proclamò la risurrezione.
Per questo mistero di salvezza,
uniti agli Angeli e ai Santi
cantiamo a una sola voce la tua gloria:
Santo, Santo, Santo... ».
Basta riferirsi al testo di Ippolito per osservare che in que-
sto prefazio è stato condensato tutto quello che esso evocava
dell’opera creatrice, lasciando cadere alcune espressioni arcai-
che, capaci solo di stupire i fedeli senza alcun vantaggio (5).
Il Sanctus-Benedictus porta all’epiclesi consacratoria con un
Vere Sanctus secondo la tradizione gallicana, il cui nucleo è
stato ripreso dal Post-Sanctus del Missale gothicum per la Ve-
glia pasquale (6). Questo testo è stato scelto per la semplicità
della sua formula che si armonizza spontaneamente con quel-
le di Ippolito.
Il racconto dell’istituzione conserva l’introduzione della
Tradizione apostolica, ma sono stati ripresi con alcuni ritocchi,
per questa preghiera come per quelle seguenti, i verba Christi
nella forma del Canone romano. Alla menzione del corpo si
sono soltanto aggiunte le parole: « Offerto in sacrificio per voi ».
Si era pensato, in un primo tempo, di sopprimere l’aggiunta
mysterium fidei, di difficile interpretazione. Poi si è preferito
conservarla, rimandandola però alla fine.
« Padre veramente santo, fonte di ogni santità,
santifica questi doni con l'effusione del tuo Spirito
perché diventino per noi il corpo e il sangue
di Gesù Cristo nostro Signore.
Egli, offrendosi liberamente alla sua passione,
prese il pane e rese grazie,

(5) Avviene così dell'espressione p u e r , applicata a Cristo, e della sua


designazione come Verbo in s e p a r a b ile .
(6) MGo 271. - PE 476; EEFL n. 2395.

452
lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli, e disse:
Prendete, e mangiatene tutti:
questo è il mio corpo
offerto in sacrificio per voi.
Dopo la cena, allo stesso modo,
prese il calice e rese grazie,
10 diede ai suoi discepoli, e disse:
Prendete, e bevetene tutti:
questo è il calice del mio sangue
per la nuova ed eterna alleanza,
versato per voi e per tutti
in remissione dei peccati.
Fate questo in memoria di me ».

A questo punto, è stata introdotta un'acclamazione del po-


polo, come in molte liturgie orientali. Riprende gli stessi ter-
mini, ispirati dal racconto paolino, in cui la si trova nell'ana-
fora di san Giacomo e da cui era già passata, come abbiamo vi-
sto, nel Canone ambrosiano:
« Annunziamo la tua morte, Signore,
proclamiamo la tua risurrezione,
nell'attesa della tua venuta ».

Segue allora l'anamnesi, che si prolunga direttamente nella


seconda epiclesi, la quale conserva di nuovo le espressioni che
sembrano le più sicure nel testo di Ippolito. Esse sono potente-
mente espressive, nelle parole più semplici, dell'opera dello Spi-
rito nella Chiesa, frutto di unità della celebrazione eucaristica.
« Celebrando il memoriale
della morte e risurrezione del tuo Figlio,
ti offriamo, Padre,
11 pane della vita e il calice della salvezza,
e ti rendiamo grazie
per averci ammessi alla tua presenza
a compiere il servizio sacerdotale.
Ti preghiamo umilmente:
per la comunione al corpo e al sangue di Cristo,
lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo ».

Segue naturalmente l'intercessione per tutta la Chiesa, cen-


trata sull'allusione finale a questa dello stesso testo di Ippolito:

453
« Ricordati, Padre, della tua Chiesa
diffusa su tutta la terra:
rendila perfetta nell’amore
in unione con il nostro papa N.,
il nostro vescovo N., e tutto Lordine sacerdotale ».
A una breve preghiera per i vivi, segue la supplica per i de-
funti:
« Ricordati dei nostri fratelli,
che si sono addormentati
nella speranza della risurrezione,
e di tutti i defunti che si affidano alla tua clemenza:
ammettili a godere la luce del tuo volto ».
L'evocazione dei santi si ricollega direttamente a queste in-
tercessioni e ci riporta alla prospettiva escatologica della dosso-
logia finale:
« Di noi tutti abbi misericordia:
donaci di aver parte alla vita eterna,
insieme con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio,
con gli apostoli e tutti i santi
che in ogni tempo ti furono graditi:
e in Gesù Cristo tuo Figlio
canteremo la tua gloria.
Per Cristo, con Cristo e in Cristo,
a te, Dio Padre onnipotente,
nell’unità dello Spirito Santo,
ogni onore e gloria
per tutti i secoli dei secoli. Amen».
La chiarezza e la semplicità delle espressioni bibliche fanno
di questa preghiera una vera catechesi eucaristica in atto, appro-
priata tanto alle celebrazioni quotidiane quanto alle messe per
fanciulli o per neofiti.

B) Preghiera eucaristica III


La seconda delle nuove preghiere eucaristiche, ancora una
volta, mutua il suo schema e le sue espressioni più caratteristi-
che dagli elementi migliori dell’antica tradizione gallicana e
mozarabica. Essa conviene particolarmente, alla pari del Ca-
none romano, per tutte le celebrazioni domenicali e festive. La
sua prima parte è costituita da uno dei prefazi variabili che vi

45 4
si adatteranno tanto facilmente quanto all’antica eucaristia ro-
mana.
Il Sanctus è seguito da un Post-Sanctus in due parti stret-
tamente legate. La prima comincia con una formula mozarabica
(assegnata al giorno della Circoncisione) che associa l’intero
creato alla lode degli spiriti angelici e della Chiesa (7). Di qui, si
passa a una menzione dello Spirito all’opera nella creazione per
radunarvi la Chiesa di Cristo, di modo che il termine della sto-
ria sia la costituzione di questo popolo di Dio che gli offrirà
la stessa unica e pura offerta da un capo all’altro del mondo.
Queste prospettive sono quelle della più costante tradizione pa-
tristica, innestata da san Giustino sulla tradizione giudaica. La
loro ampiezza cosmica e universalista dà alla Chiesa, e nello
stesso tempo all’eucaristia, tutte le dimensioni delle grandi berà-
kòt paoline con le quali si aprono le lettere della prigionia:
« Padre veramente santo,
a te la lode da ogni creatura.
Per mezzo di Gesù Cristo,
tuo Figlio e nostro Signore,
nella potenza dello Spirito Santo
fai vivere e santifichi Funiverso,
e continui a radunare intorno a te un popolo,
che da un confine alFaltro della terra
offra al tuo nome il sacrificio perfetto ».
In queste ultime parole, si sarà notata l’allusione a MI 1,11,
familiare alle liturgie orientali e specialmente all’egiziana. Offre
un passaggio naturale all’epiclesi consacratoria.
« Ora ti preghiamo umilmente:
manda il tuo Spirito
a santificare i doni che ti offriamo,
perché diventino il corpo e il sangue
di Gesù Cristo, tuo Figlio e nostro Signore,
che ci ha comandato di celebrare questi misteri ».
Quest’ultima frase è una reminiscenza delle formule di Ad-
dai e Mari come pure della liturgia di Teodoro di Mopsuestia.
Esse ci portano al racconto dell’istituzione. Vi ritroviamo le
parole di Cristo nella stessa forma della liturgia precedente, ma
con varianti significative nelle formule narrative:

(7) Cf MM 136.-M 0L S 178.

455
« Nella notte in cui fu tradito,
egli prese il pane,
ti rese grazie con la preghiera di benedizione,
lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli, e disse:
Prendete, e mangiatene tutti:
questo è il mio corpo
offerto in sacrificio per voi.
Dopo la cena,
allo stesso modo, prese il calice,
ti rese grazie con la preghiera di benedizione,
lo diede ai suoi discepoli, e disse:
Prendete, e bevetene tutti:
questo è il calice del mio sangue
per la nuova ed eterna alleanza,
versato per voi e per tutti
in remissione dei peccati.
Fate questo in memoria di me».
Nel testo latino è stata introdotta qui la formula « benedi-
xit », esplicitazione del senso consacratorio incluso nel rendi-
mento di grazie; nella versione italiana è stata giustamente in-
terpretata così: « Rese grazie con la preghiera di benedizione ».
Inoltre, ci si è serviti della formula paolina: « Nella notte in cui
fu tradito », generalmente conservata dalle eucaristie orientali,
né più né meno che dall’antica liturgia dell’estremo Occidente.
La menzione dell’unico sacrificio in cui trovano il loro compi-
mento le preparazioni dei sacrifici figurativi, la quale esprimeva
il legame delPantica con la nuova alleanza in termini che face-
vano eco alla grande visione della storia della salvezza svilup-
pata nel Post-Sanctus è purtroppo caduta dal testo primitivo.
Ci auguriamo che venga ripresa!
Alla consacrazione risponde la stessa acclamazione del pò-
polo precedentemente ricordata. Segue allora l’anamnesi, che in-
troduce, come in molte liturgie orientali, un legame esplicito
tra la celebrazione del memoriale e l’attesa della parusia.
« Celebrando il memoriale del tuo Figlio,
morto per la nostra salvezza,
gloriosamente risorto e asceso al cielo,
nell'attesa della sua venuta
ti offriamo, Padre, in rendimento di grazie
questo sacrificio vivo e santo ».
La seconda epiclesi - che qui ha un particolare sviluppo -

45 6
insiste sulPunicità del sacrificio della croce. La sua bellissima
formula, ripresa dal Post-pridie mozarabico della IV feria di
Pasqua, esprime felicemente l'essenza del sacrificio eucaristico
(8). È la presentazione da parte della Chiesa al Padre del sacri-
fido della croce, nel pegno sacramentale che egli stesso ci ha
dato. Si raggiunge esattamente il senso del « memoriale » quale
lo interpreta Jeremias. Il valore ecumenico di questa formula è
evidente. Si può dire che scarta i malintesi e le obiezioni più
gravi che rendono i protestanti diffidenti di fronte alla dottrina
tradizionale.
« Guarda con amore
e riconosci nelPofferta della tua Chiesa,
la vittima (Hostiam) immolata per la nostra redenzione;
e a noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio,
dona la pienezza dello Spirito Santo
perché diventiamo in Cristo
un solo corpo e un solo spirito.
Egli [lo Spirito Santo] faccia di noi
un sacrificio perenne a te gradito... ».
L’accostamento, in questo testo, delPaccettazione della no-
stra offerta congiunta con quella di Cristo, e di cui egli stesso
rimane Punico offerente, in noi come in se stesso, con la nostra
incorporazione al suo corpo e la nostra partecipazione allo Spi-
rito, accentua ancora il carattere ecumenico di tutta questa pre-
ghiera. Essa unifica tutta la nostra visuale delPeucaristia, sacra-
mento e sacrificio, sacramento del sacrificio, fondendo i termini
di san Basilio nella recensione alessandrina con quelli di una
delle più belle preghiere sopra le offerte della tradizione romana.
La frase continua senza rottura in una commemorazione dei
santi, di modo che si raggiunge la grande visione agostiniana
della Chiesa intera offerta al Padre con e nel Cristo.
«... perché possiamo ottenere il regno promesso
insieme con i tuoi eletti:
con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio,
con i tuoi santi apostoli,
i gloriosi martiri,
(san N.: santo del giorno o patrono)
e tutti i santi,
nostri intercessori presso di te ».

(8) Cf MM 499. - M0LS 645.

457
Le intercessioni, qui come nella liturgia di san Basilio, non
fanno che prolungare questa commemorazione dei santi, essa
stessa associata direttamente, come già nella tradizione giudaica,
al « memoriale » dei mirabilia Dei. Si noti ^apertura cosmica
universale, che corrisponde a quella che caratterizzava già il
Post-Sanctus.
« Per questo sacrificio di riconciliazione
dona, Padre, pace e salvezza al mondo intero.
Conferma nella fede e nell'amore
la tua Chiesa pellegrina sulla terra:
il tuo servo e nostro Papa N.,
il nostro vescovo N., il collegio episcopale,
tutto il clero e il popolo che tu hai redento.
Ascolta la preghiera di questa famiglia
che hai convocato alla tua presenza.
Ricongiungi a te, Padre misericordioso,
tutti i tuoi figli ovunque dispersi.
Accogli nel tuo regno i nostri fratelli defunti
e tutti i giusti
che, in pace con te, hanno lasciato questo mondo;
concedi anche a noi di ritrovarci insieme
a godere per sempre della tua gloria,
in Cristo, nostro Signore,
per mezzo del quale tu, o Dio, doni al mondo ogni bene ».

Due pause, in mezzo e alla fine di questa frase, si prestano


alla menzione dettagliata dei vivi e dei morti per i quali si in-
tende pregare in modo particolare.
La stessa conclusione dossologica, come nel Canone romano,
viene a completare questa eucaristia:
« Per Cristo, con Cristo e in Cristo
a te, Dio Padre onnipotente,
nell'unità dello Spirito Santo,
ogni onore e gloria
per tutti i secoli dei secoli. Amen ».

C) Preghiera eucaristica IV
La terza e ultima di queste eucaristie è notevolmente più
dettagliata. Come la prima, possiede un prefazio proprio, o me-
glio una prima parte del rendimento di grazie, che porta al
Sanctus e dà tutto il posto dovuto al richiamo del disegno crea-

45 8
tore. Si è voluto, infatti, dare un'espressione piena alla lode del
Dio creatore e redentore, nello spirito e spesso negli stessi ter-
mini delle grandi eucaristie orientali, specialmente quella del li-
bro V ili delle Costituzioni apostoliche e quella di san Giacomo.
Così il rendimento di grazie iniziale vi conosce uno svilup-
po insolito in Occidente, eccettuati alcuni testi mozarabici o
gallicani. Dopo il Sanctus, si passerà dal disegno creatore origi-
nario alla sua realizzazione finale nella storia della salvezza, che
raggiunge il suo compimento nel mistero pasquale. Se la prima
di queste tre nuove eucaristie presentava lo schema completo
deireucaristia cristiana nella sua forma più chiara e più sinte-
tica, questa ne esplicita tutte le implicanze, ma sempre attenen-
dosi, alla maniera di san Basilio, a espressioni il più possibile
sobrie e scritturistiche. Dovrebbe aprire la via a un approfondi-
mento da parte dei fedeli d'oggi di tutte le ricchezze tradiziona-
li dell'eucaristia cristiana, messe alla loro portata in un linguag-
gio che possano perfettamente capire.
« È veramente giusto renderti grazie,
è bello cantare la tua gloria,
Padre santo, unico Dio vivo e vero:
prima del tempo e in eterno tu sei,
nel tuo regno di luce infinita.
Tu solo sei buono e fonte della vita,
e hai dato origine all'universo,
per effondere il tuo amore su tutte le creature
e allietarle con gli splendori della tua luce.
Schiere innumerevoli di Angeli
stanno davanti a te per servirti,
contemplano la gloria del tuo volto,
e giorno e notte cantano la tua lode.
Insieme con loro anche noi,
fatti voce di ogni creatura, esultanti cantiamo:
S a n to , S a n to , S a n to ...» .

Questo testo avvicina e unisce la glorificazione di Dio nella


sua trascendente maestà e nell'economia creatrice, in cui si ri-
flette e si comunica la bontà senza limiti del tre volte Santo. Si
osserverà fin dalle prime parole, con l'invocazione « Padre san-
to », il colore giovanneo che sarà quello di tutta la preghiera.
I due temi tradizionali già del rendimento di grazie giudaico so-
no introdotti subito: la luce e la vita. La luce inaccessibile di
quella gloria divina che appartiene solo a Dio è una cosa sola

459
con la vita che egli ha voluto dare al mondo. La più perfetta
realizzazione di questa vita nelle creature coscienti sarà di ve-
der Dio nella sua propria luce e di riflettere la sua gloria glori-
ficando la sua bontà.
La seconda parte del rendimento di grazie, dopo il Sanctus,
evocherà dunque la storia della salvezza che, malgrado la cadu-
ta originale in cui la creazione dell’uomo e del suo universo era
parsa sprofondare, ha realizzato, nel mistero redentore del Fi-
glio incarnato, il disegno primordiale.
« Noi ti lodiamo, Padre santo, per la tua grandezza:
tu hai fatto ogni cosa con sapienza e amore,
a tua immagine hai formato l'uomo,
alle sue mani operose hai affidato Puniverso
perché nelPobbedienza a te, suo creatore,
esercitasse il dominio su tutto il creato.
E quando, per la sua disobbedienza,
Puomo perse la tua amicizia,
tu non Phai abbandonato in potere della morte,
ma nella tua misericordia a tutti sei venuto incontro,
perché coloro che ti cercano ti possano trovare.
Molte volte hai offerto agli uomini la tua alleanza,
e per mezzo dei profeti
hai insegnato a sperare nella salvezza.
Padre santo, hai tanto amato il mondo
da mandare a noi, nella pienezza dei tempi,
il tuo unico Figlio come salvatore.
Egli si è fatto uomo per opera dello Spirito Santo
ed è nato dalla Vergine Maria;
ha condiviso in tutto, eccetto il peccato,
la nostra condizione umana.
Ai poveri annunciò il vangelo di salvezza,
la libertà ai prigionieri,
agli afflitti la gioia.
Per attuare il suo disegno di redenzione
si consegnò volontariamente alla morte,
e risorgendo distrusse la morte e rinnovò la vita.
E perché non viviamo più per noi stessi
ma per lui che è morto e risorto per noi,
ha mandato, o Padre, lo Spirito Santo,
primo dono ai credenti,
a perfezionare la sua opera nel mondo
e compiere ogni santificazione ».

460
Questa seconda parte sottolinea la continuità senza interru-
zione del disegno divino, che malgrado la caduta assicura la pre-
destinazione dell’uomo a dominare su tutta la creazione visibi-
le, servendo il suo creatore, nel Figlio di Dio fatto uomo. La
chiamata universale alla salvezza, la forza d’attrazione di tutti
gli uomini peccatori per ritrovare Dio, che li sollecita con la sua
grazia preveniente, introducendo le alleanze successive (di Noè,
Abramo, Mosè) e gli insegnamenti profetici, preparano questa
pienezza dei tempi in cui l’incarnazione redentrice doveva av-
venire.
Come nella liturgia di san Giovanni Crisostomo, è la cita-
zione del passo giovanneo sull’immenso amore di Dio per il
mondo che illumina la venuta nella carne del Figlio unigenito.
Fatto simile a noi in tutto, fuorché nel peccato - secondo i ter-
mini della lettera agli Ebrei - la sua vita terrena è descritta
con le espressioni della profezia di Isaia che Cristo ha applicato
a sé nella sinagoga di Nazaret. La menzione del compimento
del disegno divino, sempre in termini giovannei, ci porta al ri-
chiamo della sua passione salvifica, descritta come la vittoria
sulla morte, in un succedersi di espressioni bibliche e patristi-
che raggianti di gioia. L’invio dello Spirito per opera del Cristo
risorto, salito presso il Padre, secondo un’ultima formula ri-
presa dai colloqui dopo la Cena, chiude il racconto dell’opera
redentrice. Essa mostra nello Spirito colui che compie in noi l’o-
pera stessa di Gesù, « santificandoci » come egli stesso si è « san-
tificato » per noi.
Il richiamo finale della Pentecoste sarà il passaggio per l’e-
piclesi consacratoria:
« Ora ti preghiamo, Padre:
lo Spirito Santo santifichi questi doni
perché diventino il corpo e il sangue
di Gesù Cristo, nostro Signore,
nella celebrazione di questo grande mistero,
che ci ha lasciato in segno di eterna alleanza ».
Dopo la menzione delle successive alleanze, l’invocazione
allo Spirito fa dunque, con la sua discesa sui doni eucaristici, la
consacrazione in essi dell’alleanza eterna, nella nostra celebra-
zione del mistero salutare, grazie al « memoriale » che Cristo
stesso ci ha lasciato. Ancora una volta si raggiungono qui le
espressioni antiche della liturgia siro-occidentale, nelle prospetti­

461
ve della nuova ed eterna alleanza tracciate da Geremia e da Eze-
chiele. Il precetto di Cristo ricordato introduce al racconto del-
!,istituzione, che completerà la raccolta dei temi giovannei del-
l'ultimo colloquio.
« Egli, venuta l'ora d'essere glorificato da te, Padre santo,
avendo amato i suoi che erano nel mondo,
li amò sino alla fine;
e mentre cenava con loro,
prese il pane e rese grazie,
lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli, e disse:
Prendete, e mangiatene tutti:
questo è il mio corpo
offerto in sacrificio per voi.
Allo stesso modo
prese il calice del vino e rese grazie,
lo diede ai suoi discepoli, e disse:
Prendete, e bevetene tutti:
questo è il calice del mio sangue
per la nuova ed eterna alleanza,
versato per voi e per tutti
in remissione dei peccati.
Fate questo in memoria di me ».

Bisogna osservare in questo racconto il parallelismo, nel te-


sto latino, tra benedixit, la prima volta, e gratias egit, la seconda,
come pure l'espressione, frequente nelle liturgie orientali, ex
genimine vitis. Abbiamo già spiegato il senso di questo testo di
san Luca, al quale questa formula allude.
Dopo l'acclamazione del popolo, viene l'anamnesi che, esat-
tamente come il rendimento di grazie, riveste qui la forma più
completa possibile.
« In questo memoriale della nostra redenzione
celebriamo, Padre, la morte di Cristo,
la sua discesa agli inferi,
proclamiamo la sua risurrezione e ascensione al cielo,
dove siede alla tua destra,
e, in attesa della sua venuta nella gloria,
ti offriamo il suo corpo e il suo sangue,
sacrificio a te gradito, per la salvezza del mondo ».

Ancora una volta, ritroviamo dunque, con l'insistenza sul-


l'unicità del sacrificio salvifico, il legame formale tra la ripresen­

462
tazione al Padre del « memoriale » della passione salvifica e la
supplica di attesa del ritorno nella gloria.
La seconda epiclesi sottolineerà ancora di più Punicità della
vittima salutare, perché la Chiesa, con la sua offerta, non fa che
ripresentare al Padre ciò che egli stesso ha dato.
« Guarda con amore, o Dio,
la vittima che tu stesso hai preparato per la tua Chiesa;
e a tutti coloro che mangeranno di quest'unico pane
e berranno di quest'unico calice,
concedi che, riuniti in un solo corpo dallo Spirito Santo,
diventino offerta viva in Cristo,
a lode della tua gloria ».

L'accettazione del sacrificio eucaristico si trova quindi con-


giunta per mezzo di questa preghiera alla nostra accettazione
da parte del Padre, in sacrificio vivente (secondo la parola di san
Paolo), nel corpo stesso del suo Figlio e in virtù del suo Spirito.
Una nuova acclamazione del popolo potrebbe salutare la
conclusione di questa epiclesi:
« Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti glorifichiamo.
Ascoltaci, Signore, abbi pietà di noi »,

sempre nello spirito delle liturgie orientali.


La seconda epiclesi si prolungherà ora nelle intercessioni,
poi nelle commemorazioni che questa volta, venendo dopo, ci
porteranno all'orientamento escatologico della dossologia finale.
« Ora, Padre, ricordati di tutti quelli
per i quali noi ti offriamo questo sacrificio:
del tuo servo e nostro papa N.
del nostro vescovo N., del collegio episcopale,
di tutto il clero
e di coloro che si uniscono alla nostra offerta,
dei presenti e del tuo popolo
e di tutti gli uomini che ti cercano con cuore sincero ».

Qui si può introdurre un memento particolareggiato dei vivi.


Poi viene il memento dei defunti.
« Ricordati anche dei nostri fratelli
che sono morti nella pace del tuo Cristo,
e di tutti i defunti,
dei quali tu solo hai conosciuto la fede ».

463
Dopo un secondo ricordo nominale, si passa alla commemo-
razione dei santi e alla dossologia.
« Padre misericordioso,
concedi a noi, tuoi figli,
di ottenere con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio,
con gli apostoli e i santi,
l'eredità eterna del tuo regno,
dove con tutte le creature,
liberate dalla corruzione del peccato e della morte,
canteremo la tua gloria,
in Cristo nostro Signore,
per mezzo del quale doni al mondo ogni bene.
Per Cristo, con Cristo e in Cristo,
a te, Dio Padre onnipotente,
nell'unità dello Spirito Santo,
ogni onore e gloria
per tutti i secoli dei secoli. Amen ».
A conclusione bisogna sottolineare una caratteristica sa-
liente di questa terza eucaristia: la sua conformazione al piano
trinitario, che è una caratteristica così notevole dell'eucaristia
siro-occidentale. Tuttavia si è fatto attenzione ad evitare qualsia-
si schematismo fittizio nella distinzione delle tre parti fondamen-
tali, corrispondenti alle tre persone trinitarie. La persona del Pa-
dre dairinizio alla fine non è solo quella alla quale si rivolge
la preghiera, ma anche il principio di tutte le missioni divine
e il termine esplicito al quale esse risalgono. Anche l'opera san-
tificatrice dello Spirito appare ovunque come correlativa del-
l'opera redentrice del Figlio.
Si poteva forse desiderare che, fin dalla prima parte, il Fi-
glio apparisse come il primogenito e il principio di tutta la crea-
zione, e lo Spirito come il soffio della vita divina che attraversa
tutta l'opera della Parola creatrice e salvatrice. Ma è parso piu
conforme alla progressione della rivelazione biblica introdurre
esplicitamente il Figlio solo alla fine delle alleanze preparatorie,
e lo Spirito al termine della sua opera salvifica.

Convergenze anglicane e protestanti


Se confrontiamo queste tre preghiere poste una accanto al-
Paltra, saremo colpiti dalla insistenza con cui danno allo Spirito
Santo, sia a proposito della consacrazione che della comunione,

464
la stessa ampiezza che progressivamente gli hanno dato le euca-
ristie orientali. È un nuovo fattore ecumenico nella presenta-
zione di questi testi alla Chiesa latina, dopo le loro espressioni
così bibliche e patristiche del sacrificio. Contribuirà senza dub-
bio al riavvicinamento con lOriente, come pure alla riunione
delFOccidente cristiano.
Bisogna ancora aggiungere il fatto che questi testi mettono
in evidenza che la consacrazione dell’eucaristia, se trae origine
dalle stesse parole di Cristo - come attestano in Oriente san
Cirillo di Gerusalemme o san Giovanni Crisostomo — diventa
effettiva in ogni celebrazione all’interno della preghiera della
Chiesa, in cui essa stessa riprende queste parole per invocarne
dal Padre il compimento, per la sola virtù del suo Spirito. Così
si può sperare che contribuiscano a riconciliare i punti di vista,
più complementari che opposti, che per troppo tempo hanno di-
viso le rispettive teologie dellOriente e dellOccidente.
La novità più radicale e, a prima vista, insolita dei nuovi
testi è che la loro struttura si modella fino a un certo punto sul
rifacimento dei più antichi schemi eucaristici elaborati dalla li-
turgia siro-occidentale, pur conservando l’antica e più primitiva
distinzione tra le due epiclesi, come nella tradizione egiziana
e romana. E questo punto forse non ha solo un interesse peda-
gogico, di permettere cioè ai cristiani, familiari con quest’ultima
tradizione, di aprirsi alle ricchezze complementari della tradì-
zione orientale. Questa forma particolare, che non è priva di cer-
ti antecedenti attestati ancor oggi da forme di transizione del-
l’antica liturgia dell’estremo Occidente, può essere interpretata
giustamente, nella sua canonizzazione da parte della Chiesa ro-
mana, come un riconoscimento dell’armonia soggiacente alle
due tradizioni che fino ad oggi sembravano separate.
Nello stesso tempo, la conservazione del Canone romano -
restituito però al suo pieno significato con il reinserimento di
un rendimento di grazie più esplicito, grazie ai prefazi, ma an-
che ai Communicantes e Hanc igitur rinnovati - attesterà la
continuità degli sviluppi più fecondi della tradizione cattolica
con le sue fonti primitive.
Vale la pena far notare che nel momento stesso in cui si sta
compiendo questa riforma della liturgia eucaristica in seno alla
Chiesa cattolica, le varie province della Chiesa anglicana, nu-
merose Chiese luterane e perfino molte Chiese protestanti che

465
avevano perduto quasi interamente Tantica tradizione stanno
intraprendendo la revisione delle loro eucaristie, e la loro con-
vergenza con questo rinnovamento cattolico è sorprendente. Uno
dei migliori esempi è quello della nuova preghiera eucaristica
che è stata messa in uso ad experimentum nella Chiesa episco-
paliana degli Stati Uniti. A questo proposito, non è soltanto un
entusiasmo superficiale quello che si è manifestato nell’osserva-
zione di parecchi studiosi anglicani o protestanti: le nuove eu-
caristie cattoliche potrebbero benissimo prestarsi ad essere usa-
te anche in molte Chiese oggi separate da Roma.
Oscar Cullmann ha fatto notare più volte che la Bibbia, il
cui studio nel secolo XVI aveva separato i cattolici e i prote-
stanti, è invece oggi ciò che più li avvicina. Lo stesso ritorno
alle fonti, critico, ma nella fede, potrebbe ben presto dare ori-
gine a un riavvicinamento ancora più inatteso nelLeucaristia.
Nulla di più promettente di una possibile reintegrazione nelLu-
nità della Chiesa voluta da Cristo delle comunità cristiane oggi
disunite.

466
Conclusione

I risultati di questo studio devono venir fuori da soli. Ma può


essere cosa buona, concludendo, raccoglierli e radunarli insieme.
Non cercheremo in queste pagine di costruire una nuova teo-
logia deireucaristia. Ci limiteremo a tracciare in sintesi lo svi-
luppo teologico che abbiamo potuto seguire in quello della pre-
ghiera eucaristica stessa, e a suggerire alcune conseguenze.
Una conclusione che si impone prima di ogni altra è che lo
schema deirufficio liturgico per eccellenza, la messa come noi
lo chiamiamo in Occidente - con le sue due parti distinte che,
in origine, erano anche separate: Fufficio delle letture, il ban‫״‬
chetto eucaristico -, non è per nulla una congiunzione fortuita
di due elementi senza intimi rapporti, !/eucaristia è proprio Top-
posto: non può essere capita se non come un seguito e una con-
seguenza delFascolto della parola di Dio. È la risposta, in parole
e in atti, suscitata nell’uomo da una Parola divina che è creatrice
e salvatrice.
La Parola ci manifesta un disegno divino: trarre dairumani-
tà decaduta un popolo secondo il cuore di Dio. Di conseguenza
essa ci rivela il Nome divino, perché questo disegno viene ad
imprimere questo Nome su tutto Tessere delPuomo. Nel Nuovo
Testamento, il Nome sacro si scoprirà finalmente come il Nome
del Padre, e il popolo di Dio definitivo sarà un popolo di figli.
Tuttavia la Parola, esprimendosi, realizza quello che dice.
Perché attraverso ad essa, Dio stesso viene a noi, discende nella
nostra storia e la riempie della sua presenza. Il Vangelo sarà
Pannuncio definitivo della Parola creatrice e salvatrice, nella ve-
nuta della Parola fatta carne, che è il proprio e unico Figlio
di Dio. Così noi saremo fatti figli nel Figlio.
Fin dalFAntico Testamento, di conseguenza, la Parola suscita
una risposta che si riconosce nella fede, e che ne accoglie la
venuta sottoponendosi ad essa senza riserve. Questa risposta sa­

467
rà formulata nella beràkà. La beràkà è una lode contemplativa
dei mirabilia Dei. Nella beràkà Israele si apre al compimento
in sé del disegno di Dio e viene ad essere consacrato dall’impo-
sizione del Nome di Dio su tutta la sua vita.
Le beràkòt sinagogali del servizio di letture, prima della re-
cita dello Sema, glorificano il creatore della luce, visibile e in-
visibile, che ci ha dato la conoscenza della Legge, mediante la
quale noi siamo segnati del suo sigillo personale.
Le Diciotto benedizioni della Tefillà, dopo di ciò, implorano
il compimento perfetto in Israele di questo disegno, in vista
della perfetta glorificazione del Nome divino pienamente ri-
velato.
Tutte le beràkòt che accompagnano passo passo il pio israe-
lita nella sua esistenza estendono questa consacrazione a tutta
la sua vita nel mondo e, per il fatto stesso, al mondo medesimo.
Israele è così stabilito come il sacerdote dell’intero creato. Me-
diante la Parola divina e la preghiera che l’accoglie, tutte le
cose sono ristabilite, con l’uomo, nella purezza e nella traspa-
renza della loro origine; e l’universo diventa, attraverso la vita
dell’uomo consacrato, un unico coro della glorificazione divina.
Le beràkòt della mensa, in particolare, glorificano Dio come
il creatore della vita, che la nutre, la conserva incessantemente
e, nei frutti della terra promessa, ne rifà un paradiso in cui
tutte le cose rinnovate narrano la gloria di Dio. La supplica che
ne sgorga invoca il raduno finale degli eletti, nel banchetto esca-
tologico in cui tutti i redenti celebreranno in eterno questa gloria
eternamente trionfante.
Così il pasto di comunità, nell’attesa messianica, esprime de-
finitivamente il senso di tutti i sacrifici di Israele. Tende a di-
venire esso stesso il sacrificio per eccellenza, cioè l’offerta di
tutta la vita umana e del mondo intero insieme ad essa alla vo-
lontà di Dio riconosciuta.
Ogni sacrificio, come mette in luce la storia comparata delle
religioni, non è forse, in origine, un banchetto sacro, in cui
l’uomo riconosce che la sua vita procede da Dio e si sviluppa
solo in uno scambio incessantemente rinnovato con lui? Questo
era il senso primo della Pasqua, un banchetto che consacrava
le primizie della mietitura. Però la Pasqua ebraica si era arric-
chita di un senso rinnovato, divenendo il memoriale della libe-
razione con la quale Dio aveva strappato i suoi dalla schiavitù

46 8
deirignoranza e della morte, per trasportarli nel paese della prò-
messa, dove lo avrebbero conosciuto come erano da lui cono-
sciuti e sarebbero vissuti alla sua presenza.
Il memoriale costituito da questo pasto attestava la realtà
permanente, per Israele, delle gesta divine, come un pegno dato
da Dio della sua presenza salvifica, sempre fedele. Ripresentan-
doglielo nella loro beràkà - fedeli a loro volta al suo precetto -
gli israeliti potevano ricordargli con fiducia le sue promesse e
chiederne efficacemente il compimento: venga il Messia a por-
tare a termine Popera divina e a stabilire il Regno divino, nella
Gerusalemme ricostruita in cui Dio sarebbe stato lodato senza
fine dal suo popolo giunto alla perfezione.
È quello che avviene, la sera delPultima Cena, quando Gesù,
consegnandosi alla Croce come al compimento supremo della Pa-
squa, pronuncia le beràkòt sul pane e sul vino come una con-
sacrazione del suo corpo spezzato, del suo sangue versato, per
riconciliare nel proprio corpo « i figli di Dio dispersi » e rinno-
varli nelPeterna alleanza del suo amore.
Nello stesso tempo fa ormai di questo pasto il memoriale del
mistero della Croce. Rendendo grazie con lui, per mezzo di lui,
per il suo corpo spezzato e il suo sangue versato, che ci sono
dati come la sostanza del Regno, noi ripresentiamo a Dio questo
mistero compiuto ora nel nostro Capo, affinché abbia il suo com-
pimento ultimo in tutto il suo corpo. Ciò vuol dire che accon-
sentiamo al compimento, nella nostra carne, delle sofferenze di
Gesù per il suo corpo che è la Chiesa, nella ferma speranza della
sua parusia in cui parteciperemo tutti insieme alla sua risurre‫־‬
zione. Inauguriamo perciò Teterna glorificazione di Dio creatore
e salvatore che farà della Chiesa, nell’ultimo giorno, la « pane-
giria », l’assemblea di festa, in cui !,umanità tutta si unirà al
culto celeste, trascinata dinanzi al trono, al seguito dell·Agnello
che è stato immolato, ma che ormai vive e regna per sempre.
Di questo sacrificio cristiano, tutta la sostanza sta neirunico
atto salvifico della Croce, posto una volta per sempre al vertice
della storia umana per opera del Figlio di Dio fatto uomo. Però
la Croce ha preso il suo significato soltanto mediante Fofferta di
se stesso che Cristo ha accettato nell’ultima Cena e che ha prò-
clamato, facendo della bercikà sul pane e sul vino Γ« eucaristia »
del suo corpo spezzato e del suo sangue versato « per la re-
missione dei peccati ». La Croce è effettivamente redentrice per

469
!,umanità solo in quanto gli uomini vi sono associati con la man-
ducazione eucaristica della sua carne e del suo sangue; lo Spi-
rito che li vivifica diventa loro solo in quanto essi aderiscono
mediante la fede alla Parola che viene loro proposta, cioè in
quanto fanno propria F« eucaristia » stessa del Figlio.
Nella Cena e nella Croce, infatti, la Parola di Dio che ci si-
gnifica efficacemente il suo amore si è realizzata in pienezza, e
nello stesso tempo la perfetta beràkà, la perfetta « eucaristia »
di Cristo vi ha dato la risposta che essa sollecitava e suscitava.
Noi quindi non possiamo più ricevere questa unica Parola di sai-
vezza se non facendo nostra, a nostra volta, questa unica ri-
sposta.
Questo ci è possibile solo grazie alFonnipotente volontà del
Messia di darci, nelFeucaristia che rifaremo dopo di lui, se-
guendo la sua, il memoriale del suo mistero. Di questo memo-
riale, la realtà è attestata perpetuamente dal pane che rompiamo
come comunione al suo corpo e dal calice di benedizione che
benediciamo come comunione al suo sangue.
Nella celebrazione eucaristica di questo memoriale, il pane
e il vino del nostro banchetto comunitario, della cena déll’agàpe,
diventano sacrificali in quanto divengono, per la nostra fede, ciò
che rappresentano, secondo la virtù della Parola e dello Spirito
di Dio. Allora, in quanto noi stessi, in questa fede, siamo così
associati alFunica offerta salvifica, diveniamo, con Cristo, una
sola offerta. Così possiamo offrire i nostri corpi con il suo, nel
suo, in sacrificio vivo e vero, rendendo al Padre, mediante la
grazia del Figlio, nella comunicazione del suo Spirito, il culto
« razionale » che attende da noi.
Tutto ciò non è altro che il compimento in noi della Parola
di salvezza che si è fatta carne per noi nel Cristo; egli ci ha
detto come Fultima parola del Cuore paterno nella Cena, sigilla-
ta di fatto sulla Croce, e noi non cessiamo di proclamarla tutte
le volte che celebriamo !,eucaristia, fino alla parusia. Questa Pa-
rola si compie nella nostra unione - mediante la fede - alla
preghiera sacerdotale del Salvatore che va alla Croce; in tale
preghiera noi glorifichiamo, al suo seguito, il Padre come nostro
creatore e salvatore, in questo stesso Figlio per mezzo del quale
siamo stati creati e nel quale siamo stati redenti.
Come questa preghiera, sulle labbra di Cristo, si è attuata
nelFaccettazione effettiva della Croce, così si attua per noi nella

470
nostra comunione al corpo spezzato e al sangue versato. Sgorga
così anche in noi lo Spirito del Figlio. Il Padre lo diffonde nei
nostri cuori perché viviamo e moriamo ormai nel suo amore,
quelFamore che il Figlio ci ha rivelato perfettamente invitali-
doci a camminare sulle sue orme. Ripetere questa preghiera eu-
caristica senza comunicare al sacrificio che esprime non avrebbe
senso, come non avrebbe senso comunicare senza fare nostri,
con la stessa preghiera, i sentimenti che erano in Cristo quando
si è consegnato alla Croce. Si sono espressi, infatti, nel suo su-
premo rendimento di grazie e nella sua supplica suprema al Pa-
dre per la venuta del suo Regno.
Rendimento di grazie per i mirabilia Dei che giungono alla
loro pienezza, supplica per il compimento della Chiesa che ne
sarà il frutto al tempo della parusia, memoriale della Croce, co-
munione al sacrificio nella comunione alla vittima che è un tut-
Funo con il sacerdote: Funità delFeucaristia appare infrangi-
bile. In queste prospettive, i problemi non risolti che avevamo
ricordato nelle prime pagine di questo libro trovano la loro
unica soluzione accettabile.
!/Oriente e lOccidente si sono trovati in opposizione per
molto tempo su questo punto: se !,eucaristia veniva consacrata
dalla recita delle parole delFistituzione, sul pane e sul calice, o
dalPinvocazione - Fepiclesi - che implora su di essi la discesa
dello Spirito. Bisogna certamente rispondere che tutta la realtà
delFeucaristia procede dalla sola Parola divina, proferita nel Fi-
glio che ci dà la sua carne come cibo e il suo sangue come be-
vanda. Però questa realtà è data alla Chiesa come la realtà pro-
messa alla sua « eucaristia », alla preghiera mediante la quale
essa aderisce nella fede alla Parola salvifica. Ora Foggetto ul-
timo di questa preghiera è certamente che lo Spirito di Cristo
renda viva in noi la Parola di Cristo.
In altre parole: il consacratore di tutte le eucaristie rimane
sempre il solo Cristo, Parola fatta carne, in quanto è il dispen-
satore dello Spirito, perché si è consegnato alla morte ed è ri-
sorto, per la potenza di questo stesso Spirito. Però, nelFinsieme
inseparabile delFeucaristia, questa Parola, richiamata dalla Chie-
sa, e la sua preghiera, che invoca la realizzazione della Parola
mediante la potenza dello Spirito, si congiungono per realizzare
misteriosamente le promesse divine.
Il protestantesimo, poi, si è opposto al cattolicesimo tradì-

471
zionale in un momento in cui questo non dava più altro che una
espressione balbettante della tradizione eucaristica. Ha allora af-
fermato che la Croce non doveva essere ripetuta, ma si doveva
soltanto celebrare tra di noi il suo memoriale. Questo è vero, ma
appunto questo memoriale, nella pienezza del suo senso biblico,
implica a un tempo una misteriosa presenza continuata deiruni-
co sacrificio offerto una volta e la nostra associazione sacramen-
tale ad esso. In questo modo diventiamo offerenti con e nel-
Tunica vittima. Così soltanto la Croce del Salvatore può diveni-
re la sorgente di quel culto « razionale » in cui offriamo i no-
stri corpi, tutto il nostro essere, in sacrificio vivo e vero, alla
volontà del Padre, riconosciuta, accettata, glorificata.
Infine, soprattutto, la presenza eucaristica di Cristo negli
elementi, e del suo sacrificio nelle celebrazioni rinnovate, divie-
ne comprensibile.
Come Dom Casel e la sua scuola hanno capito, il mistero
eucaristico è inseparabilmente il mistero della presenza del Re-
dentore e del suo atto redentore. La spiegazione va però ricer-
cata non in un’analogia forzata e deludente con i misteri pa-
gani, bensì nella nozione, pienamente biblica ed ebraica, di
memoriale.
Il memoriale è un pegno simbolico, dato dalla Parola divina
che compie nella storia i mirabilia Dei, pegno della loro presenza
continuata, sempre attiva in noi e per noi che li facciamo nostri
mediante la fede. Nell’antica alleanza, la Pasqua era presente in
ognuna delle sue celebrazioni liturgiche rinnovate, perché la di-
scesa e l’intervento divini, impossessandosi del popolo per strap-
parlo all’ignoranza e alla morte, vi si perpetuavano in vista del
pieno compimento di questo popolo.
Nella Cena, in cui si è decisa la Croce e in cui essa ha rice-
vuto il suo significato salvifico dall’atto libero e sovrano con il
quale Cristo l’ha accettata, nella visuale proclamata del disegno
paterno e della sua realizzazione, la Pasqua dell’antica alleanza
ha trovato il suo compimento. Ormai tutto il popolo di Dio, tutta
l’umanità redenta che vi entrerà, si troverà « ricapitolata », se-
condo l’espressione della lettera agli Efesini, nel corpo di Cristo,
cioè nella realtà totale della sua umanità, che si realizza in grado
sommo in questa offerta suprema alla volontà del Padre. Ormai
l’umanità salvata, il popolo di Dio definitivo, non ha valore se
non in questa umanità di Cristo, che la sua morte volontaria con­

472
segna alla potenza di risurrezione dello Spirito. Il pane e il
calice, oggetti deireucaristia, diventano dunque il memoriale, in-
separabilmente, del Salvatore e deiratto salvifico.
Rifacendo per suo comando, e per la virtù della sua Parola
accettata mediante la fede della Chiesa, la sua eucaristia sul
pane e sul calice, noi vi riconosciamo nella fede il pegno effi-
cace del suo corpo e del suo sangue che, dati per noi sulla Croce,
ci sono dati effettivamente hic et nunc. Diventiamo dunque un
solo corpo con lui, per la potenza del suo Spirito. Nello stesso
tempo Patto salvatore, immortalato nel corpo glorificato, con la
risposta umana perfetta che ne è inseparabile, diviene nostro,
diviene, mediante lo Spirito, il principio della nostra vita rinno-
vata: vita di figli nel Figlio. Questo è presente, oggettivamente,
nella celebrazione eucaristica in quanto essa non fa che attua-
lizzare in noi Punica offerta realizzata nella Cena, come negli
elementi sacramentali; il corpo e il sangue ci sono oggettivamen-
te presentati perché noi non facciamo più che un tutt’uno con
PUnico. Ed Egli è presente in questo modo solo per divenire
nostro, mediante la fede: una fede in cui tutto Pessere si ab-
bandona alla volontà del Padre rivelata nella sua Parola, proprio
come nella Parola fatta carne questa volontà si è realizzata nel
nostro mondo.
I protestanti, particolarmente quelli che seguono Calvino,
non hanno dunque torto nel vedere nelPeucaristia soltanto un
dialogo tra la Parola divina e la fede delPuomo nuovo in Cristo.
Però questo dialogo ha tutta la realtà della Parola creatrice e
salvatrice, divenuta sulla Croce il fatto dominante della storia.
In questo modo, se il pane e il vino, per i sensi, rimangono pane
e vino, la fede, che riconosce il loro significato attestato dalla
Parola, coglie la realtà che questa Parola, nello Spirito, comuni-
ca loro. Perciò la fede consegna anche noi, con la stessa realtà
dello Spirito che s'impossessa di noi, alla conformazione del no-
stro essere all'essere di Cristo, della nostra vita alla sua croce.
Noi riceviamo il corpo di Cristo, e diventiamo questo corpo. Noi
annunciamo la morte salvatrice di Cristo e la portiamo in noi,
crocifissi con lui per risuscitare con lui.
Questo vuol dire che le realtà oggettive del mistero sacra-
mentale non ci sono date così realmente, se non per essere l'og-
getto di un'adesione non meno reale nella fede. Ecco perché non
ci sono date negli elementi sacramentali che in unione con la

473
preghiera eucaristica: la preghiera che riconosce, nella lode
esultante, Tatto salvifico, ricreatore, e che vi si affida nelTinvo-
cazione del suo compimento in noi, invocazione resa sicura di
essere esaudita, tutta basata conTè sul pegno, il memoriale og-
gettivo che Dio, in Cristo, ci ha dato solo perché noi glielo ri-
presentiamo con questa piena sicurezza nella fede.
Siamo così condotti dalla meditazione sul mistero eucaristico
alla sua realizzazione concreta nella celebrazione liturgica.
Questo mistero è il « mistero della fede ». Non può essere
celebrato se non nella fede. La sua celebrazione è propriamente
Tatto di fede per eccellenza di tutta la Chiesa. Alla presenza del-
Toggetto della sua fede, totale e uno, il « mistero », la Chiesa,
nella Messa, lo fa proprio, o meglio, si dà a lui.
Il nutrimento della fede è la Parola di Dio. E' stata dunque
un'evoluzione del tutto naturale quella che ha condotto la Chie-
sa a celebrare il banchetto eucaristico a conclusione delTufficio
di letture bibliche fin dal momento, o quasi, in cui i cristiani
non hanno più frequentato le sinagoghe. Sarebbe non solo un
arcaismo gratuito ma un assurdo regresso il volerlo separare di
nuovo. Lo scopo delTomelia, alla fine delTufficio delle letture
che culmina nel Vangelo, dev'essere quello di fare la transizione
dalla Parola annunciata alla Parola che si realizza in noi stessi
col sacramento del sacrificio. Gesù per primo, secondo san Gio-
vanni, ha celebrato l'eucaristia generatrice di tutte le altre
accompagnandola con i suoi insegnamenti supremi, al mo-
mento preciso in cui tutto quello che aveva annunciato stava per
compiersi nell'atto unico della Croce.
Ma perché il mistero eucaristico sia celebrato come il « mi-
stero della fede », bisogna ancora che lo sia in un atto di fede
della Chiesa il più effettivo possibile, in tutti i suoi membri. Di
qui l'importanza di una preghiera eucaristica in cui si esprima,
in modo pieno, diretto, comprensibile, questa fede viva che si
apre al mistero. Abbiamo visto come la tradizione giudaica ha
progressivamente preparato la forma in cui doveva essere calata
questa preghiera, proprio come la Parola dell'Antico Testa-
mento preparava la Parola del Vangelo. Abbiamo anche visto
come, a poco a poco, sono venute fuori le grandi formule di-
ventate classiche dell'eucaristia della Chiesa. Si può dire che
esse la esprimono perfettamente, in tutta la sua importanza, sol­

474
tanto tutte insieme, proprio come i quattro vangeli esprimono il
« Vangelo ».
L'idea, a volte proposta, di ritornare a forme arcaiche, come
quella dell'eucaristia di Ippolito o quella di Addai e Mari, nella
sua forma originale, senza il Sanctus né le intercessioni e com‫־‬
memorazioni, è ancora un arcaismo regressivo insostenibile.
Queste forme primitive deireucaristia, per quanto venerabili,
non acquistano tutto il loro senso, come le beràkòt della mensa
da cui derivano, che aggiunte alle altre grandi beràkòt che se-
guivano immediatamente le letture della Sacra Scrittura. In real-
tà, l'abbiamo visto, quando la Chiesa primitiva usava solo que-
sta eucaristia rudimentale, la sua celebrazione supponeva sem-
pre la recita antecedente, nell'ufficio delle letture allora distinto,
di queste altre beràkòt, con il Sanctus, le intercessioni e le com-
memorazioni.
Non appena i due uffici si sono ravvicinati, si è
costituita un'eucaristia sintetica e totale, con la congiunzione
di queste differenti « eucaristie » elementari. E dobbiamo ag-
giungere, come gli ebrei capivano già, che le beràkòt liturgiche,
nel loro insieme, non acquistano tutto il loro senso se non si
prolungano, nella vita del pio ebreo o del cristiano fedele, in
un atteggiamento costantemente rinnovato di preghiera e di sa-
crifìcio eucaristico. È tutta la nostra vita, infatti, sono tutte le cose
che con noi devono essere consacrate, per mezzo dell'eucaristia,
alla gloria di Dio, in Cristo, attraverso la potenza dello Spirito.
L'eucaristia ideale non ha una forma unica nella tradizione,
ma varie forme complementari che si illuminano a vicenda. Il
modello siriaco è più sistematico del modello romano e ales-
sandrino: mette in chiaro l'unità profonda della preghiera eu-
caristica, ma ne smorza un poco gli elementi primi che sovrappo-
ne e fonde insieme, col rischio di dimenticare l'aspetto origina-
rio. Invece a Roma e ad Alessandria questo resta intatto.
L'eucaristia completa è sempre una glorificazione di Dio co-
me creatore e redentore, per opera di Cristo, e più particolar-
mente una glorificazione di Dio che ci illumina con la sua
conoscenza, ci vivifica con la sua stessa vita, nel dono supremo
del suo Spirito. Essa è nello stesso tempo e inseparabilmente
una supplica affinché il mistero celebrato abbia in noi, nella
Chiesa perfetta in tutti i suoi membri, tutto il suo compimento.
Si conclude, con la ripresentazione a Dio del memoriale di

475
questo mistero sacro, nelFinvocazione che gli è rivolta conse-
guentemente perché consacri la nostra unione col sacrificio del
Figlio suo e la porti alla sua perfezione escatologica, per virtù
dello Spirito. Così, tutti insieme, uniti nell’Unico, glorifìchere-
mo eternamente il Padre con le potenze angeliche. Questa in-
vocazione suprema condensa in sé tutte le nostre suppliche per
la crescita della Chiesa corpo di Cristo e per la salvezza del
mondo, e corona la supplica che le riassumeva tutte: che il
Padre gradisca, nel memoriale del Figlio suo, tutte le preghiere
e tutti i sacrifici che il popolo suo gli presenta, divenuti una sola
preghiera, un solo sacrificio, la eucaristia propria di Cristo e
la sua Croce.
È una preghiera interamente sacerdotale, nel senso che non
può essere pronunciata se non in nome del Capo, da colui che
lo rappresenta in mezzo a noi, vescovo o presbitero. È però
pronunciata per tutti noi e deve trascinare tutti i membri al se-
guito del Capo alla presenza immediata del Padre, nel santuario
celeste. Ciò suppone logicamente che i fedeli vi si associno nel
modo più perfetto possibile. Bisogna dunque rallegrarsi che
sia stata rimessa in vigore la norma secondo cui il celebrante
la deve pronunciare in modo pienamente udibile da tutti. Così
pure tutti sono invitati a parteciparvi con le risposte iniziali,
con il canto del Sanctus e del Benedictus e, almeno, con YAmen
finale.
Staccare le preghiere per ]a Chiesa da questa eucaristia, col
pretesto di rimandarle alPoffertorio, sarebbe, come abbiamo
già spiegato, una mutilazione. Se il rendimento di grazie per il
mistero ne è il motivo basilare, la supplica per il suo pieno com-
pimento nella Chiesa non è meno essenziale. San Giovanni, an-
cora una volta, non ci mostra forse Gesù che nella Cena innalza
al Padre la sua preghiera sacerdotale per la piena realizzazione
dei suoi in lui?
Ristabilito nella sua pienezza, reso più vivo per i fedeli
con una spiegazione che si nutre della tradizione che lo ha pro-
dotto, il Canone romano, a dispetto di certe teorie fantasiose di
cui pensiamo di aver dimostrato la vuotaggine, rimane una delle
più ricche e più pure formulazioni di questa preghiera.
L’autore di questo libro, insieme ad altri liturgisti, primo
fra tutti Dom Bernard Botte, aveva suggerito non molto tempo
fa che, oltre al Canone romano e a formulari ripresi dal meglio

476
deirantica tradizione gallicana, si estendesse alla Chiesa dOc-
cidente l’uso di almeno un formulario tra i più tipici della tra-
dizione orientale, come !,eucaristia di san Basilio, preferibil-
mente nella sua forma più antica, che è quella conservata dalla
Chiesa di Alessandria.
Quanto alla ripresa deireucaristia del tipo gallicano antico,
il secondo dei nuovi formulari eucaristici romani risponde pie-
namente alla nostra attesa. L’altra proposta è stata sostenuta col
massimo vigore dal Segretariato per l’unità dei cristiani. Non c’è
dubbio, infatti, che nessun passo più decisivo potrebbe essere
fatto dalla Chiesa latina per un riavvicinamento con gli orien-
tali. Oltre poi ad essere utilizzata per le celebrazioni ecumeniche
più o meno eccezionali, l’eucaristia di san Basilio potrebbe es-
sere usata in tempo di Quaresima, come nella Chiesa bizantina,
e costituire così una preparazione ideale per le celebrazioni
pasquali.
Senza respingere questa possibilità per l’avvenire, è tuttavia
sembrato bene alle autorità romane di aspettare, per attuarla, che
i cattolici di rito latino si siano familiarizzati con i nuovi for-
mulari di cui abbiamo parlato nel nostro ultimo capitolo e che
sono, certamente, tra i più adatti per allargare e approfondire la
loro viva comprensione di tutta la tradizione cattolica riguar-
dante l’eucaristia.
Questo rinnovamento sarà naturalmente facilitato molto dal-
la facoltà, concessa con molta larghezza, di celebrare queste eu-
caristie - come il Canone romano restaurato - nella lingua del
popolo.
Si è pure cercato con molta cura di redigere le nuove euca-
ristie in un latino fedele alle espressioni e allo stile della grande
tradizione romana, col rispetto dovuto per il cursus che permette
di cantarle solennemente, proprio come il Canone romano.
Quanto più questi formulari, e con essi il Canone romano, sa-
ranno conosciuti e profondamente compresi, tanto più sarà fa-
cile, in varie occasioni, per fedeli formati, come per tutte le
riunioni cattoliche internazionali, fare uso di tutti questi testi
nella loro lingua originale. Certe formule che successive genera-
zioni hanno ripetuto prima di noi, o che rimarranno comuni a
tutti i cattolici d’Occidente, sono troppo preziose perché ne per-
diamo il beneficio. Non dimentichiamolo: l’eucaristia non uni-
see soltanto quelli che sono materialmente attorno all’altare, ma

477
insieme ad essi anche quelli di tutti i tempi e di tutti i luoghi.
Un conservatorismo morto si opporrebbe alla sua vitalità, ma
una frenesia di attualizzazione e di localizzazione ristrette sa-
rebbe altrettanto contraria alla cattolicità in cui ci deve, invece,
introdurre. Come ha dichiarato fortemente il Concilio nella sua
Costituzione sulla Liturgia, e come ricordava Paolo VI in una
seduta plenaria del Consilium, non si tratta di scegliere tra i
vantaggi della lingua volgare e quelli di una lingua tradizionale,
ricca di valori imperituri dovuti al lungo uso: gli uni e gli
altri devono completarsi armoniosamente nella pratica.
Quello che importa soprattutto, sia con la lingua volgare sia
col latino, per una celebrazione attiva, consapevole e fruttuosa di
tutta la liturgia, e specialmente dell’eucaristia, è di comprendere
che anche le migliori riforme dei testi non serviranno a nulla
se saranno applicate come un semplice cambiamento delle ru-
briche. Questi cambiamenti devono suscitare un rinnovamento
in profondità: una riscoperta viva del senso dell’eucaristia, delle
sue preghiere costitutive, dei suoi temi fondamentali, della loro
soggiacente unità. Se mancherà questo, anche i testi migliori,
per la loro fedeltà alla tradizione come per Labilità del loro
adattamento alla comprensione dei nostri contemporanei, rimar-
ranno formule vuote. Il rinnovamento eucaristico si ridurrà a
nulla se non sarà un rinnovamento in Spirito e Verità.

University of Notre Dame,


Indiana, U.S.A.,
festa di san Patrizio, 1966.
Brown University, Providence,
Rhode Island, U.S.A.,
festa dell’Epifania, 1968.

478
INDIGI
Indice dei nomi

Abrahams I., 36, 87. Bishop E., 7, 15, 205, 372.


Alcuino, 366. Bishop W.C., 196, 316.
Amalario, 383. Bona, 15, 446.
Ambrogio (sant’), 198ss, 243ss. Borella P.,319.
Andrieu M., 209. Botte B., 7, 145, 1 5 8 1 6 4 ,162‫־‬,
Arndt J., 442. 165, 167, 1 7 1 1 7 8 - 1 8 2 ,175‫־‬,
Assai S., 62. 184, 187, 193, 195, 196, 199,
Assemani, 446. 214, 230, 241-244, 246-249,
Atanasio (sant'), 211, 214, 354. 254,312,319, 476.
Audet J.-P., 41, 124, 126. Bourque E., 364, 365.
Aulén G., 388, 406. Bousset W., 39, 129.
Bouyer L., 79, 129.
Baer S., 94. Brenz, 393.
Ballerini fratelli, 364. Brett Th., 429.
Balsamone, 149. Brightman F.E., 203-205, 217,
Balthasar H., 44. 219, 247, 263, 267, 270, 291,
Baraùna G., 341, 448. 294, 300, 307, 343, 374.
Barbel J., 231. Brilioth Y., 388, 390-392, 395,
Bard Th., 398, 424, 426. 396, 398, 400, 401, 403, 409,
Bardy G., 233234‫־‬. 410, 433, 434.
Barré H., 366. Broom S., 411.
Basilio di Cesarea, 149, 274, Brown, 8.
286ss, 294ss, 301, 303, 314, Buber Μ., 44.
343ss, 379. Buchholzer, 394.
Baumstark A., 7, 15, 28s, 70, Bugenhagen, 393.
137, 147, 196, 225, 294-296, Bultmann R., 25.
319, 338, 346, 361. Bunsen, 171.
Baxter, 424, 425. Burchardo di Worms, 366, 367.
Beauduin L., 24, 448. Butzer, 393, 397-399, 410.
Benedetto di Amano, 366.
Bentzen A., 54, 253. Cabié R., 148.
Berengario, 385. Cabrol F., 9, 196.
Bersier E., 434. Cadier J., 398.
Bianchini F., 364. Cagin, 25, 229, 230.
Biel G., 385. Calvino, 393, 394ss.

481
Capelle B., 172,210,213,364. Dionigi (pseudo), 378.
Cappuyns M., 339. Dix G., 112, 147, 148, 179, 183,
Casel O., 28, 448. 192, 234, 236, 327, 333, 411,
Cassel D., 65. 417,419,422.
Causse A., 103. DoddC.H., 34, 110.
Cavalletti S., 71. Doellinger, 171.
Cerfaux L., 130. Doren R. van, 248.
Chadwick O., 35. Drews P., 196, 251.
Chavasse A., 364, 365, 367, 368. Duchesne L., 263.
Childs B.S., 95. Duesberg H., 50.
Chytraeus D., 105, 394. Dupont J., 46.
Cipriano (san), 329. Dupont-Sommer A., 32.
Cirillo di Alessandria, 202.
Cirillo di Gerusalemme, 15, 465.
Clark F., 386. Ecolampadio, 394ss.
Claude de Vert, 374. Efrem, 103.
Clemente di Roma, 138, 250. Ehrenreich C.L., 61.
Clerk P. de, 339. Eizenhòfer L., 10, 11, 249, 322,
Cohen A., 58. 323, 364, 365.
Collomp P., 209. Elbogen I., 62, 88.
Connolly R.H., 169, 205, 372. Elipando di Siviglia, 321.
Costituzioni apostoliche, 15, 25, Enders E.L., 394.
39, 127ss, 250ss, 275, 279ss. Engberding H., 193, 287, 295,
Courtenay W.J., 385. 297, 300, 346.
Epifanio (sant*), 193.
Cranmer Th., 410, 4 1 4 4 1 9 ,416‫־‬,
420, 4 2 8 4 4 4 ,440 ,432‫־‬. Eusebio di Cesarea, 170.
Cross F.L., 319. Eusebio di Milano, 327.
CullmannO., 31,71,466. Expositiones Missae, 377ss.

Dahl N., 113. Farei G., 394ss., 398.


Dalmais J.H., 343. Fecht P., 403ss.
Daniélou J., 34, 127, 163. Feltoe C.L., 364.
Davidson I., 62. Férotin M., 10.
Davies W.D., 32. Festugière A.E.J., 252.
Deacon Th., 429. Finch R.G., 36.
Deden D., 51. Finkelstein L., 90, 92, 111.
De Lorenzana F., 10. Flacio Illirico, 382, 387.
Dembitz L.N., 92. Fozio, 171.
Denis-Boulet N.M., 364. Frere W.H., 197, 251, 324s, 328,
Deshusses J., 366. 431.
De Sola Pool D., 72. Friedrich G., 9.
Dibelius, 124. Funk F.X., 124, 128, 131, 134,
Didachè, 39, 124ss. 137‫־‬141, 142, 144, 168, 213,
Dimitriewsky A., 213. 263, 267, 270.

482
Gabriel A., 8. Hardouin-Mansart, 35.
Gardiner, 414s. Harnack, 104, 171, 213.
Gebhardt, 213. Hauler E., 169.
Gelasio I., 170, 568. Hayek M., 361.
Gerhard J., 399, 442. Hedegard D., 9, 35, 62, 77.
Gerhardt P., 442. Hertz J.H., 93, 96.
Gillet L., 69. Horner G., 168.
Ginzberg L., 62, 77. Hurwitz S., 94.
Giovanni Arcicantore, 376.
Giovanni Crisostomo, 29, 149, Ilario di Poitiers, 330.
166, 274, 286-292, 301, 314, Innocenzo I, 148.
343-345, 377, 465. Innocenzo III, 385.
Giovanni III di Svezia, 399-401, Ippolito di Roma, 25, 145, 170,
407. 171, 173, 174, 189-192, 198,
Girolamo (san), 170. 200, 258, 268, 271.
Giustiniano, 372. Isacco di Ninive, 344.
Giustino (san), 15, 59, 69, 190, Isidoro di Siviglia, 325, 328.
256,371,455. Isidoro (pseudo), 328.
Goar J., 307.
Goguel Μ., 110. Jacob E., 49.
Goodenough E.R., 33, 39, 129. Jacobi, 171.
Graffin R., 11. Jagow M. von, 393.
Gregorio di Narek, 357. Jaubert A., 108.
Gregorio Pllluminatore, 344. Jeremias J., 18, 91, 95, 107, 109,
Gregorio Magno, 146, 148, 196- 110, 111, 112, 114, 457.
198,321,342, 369. Jiménez de Cisneros, 321, 337.
Gregorio Nazianzeno, 15, 121, Joel B.I., 62.
268, 283,344-346,361. Jounel P., 447.
Gregorio VII, 149, 321. Jungmann A., 197, 225, 243,
Grelot P., 43. 367, 369, 375, 380, 382, 385.
Grisbrooke A. (W. Jardine), 16,
250, 422, 426-429. Kavanagh A., 184, 417.
Guéranger P., 447. King A.A., 147, 151, 319.
Kittei G., 9.
Haidar A., 56. Klauser Th., 197, 199.
Hamman A., 122-126, 131, 134, Knopf, 122.
140, 158, 178, 209, 210, 213, Knox J., 423.
270, 287, 291,307. Kohler, 77.
Hammond C.E., 14. Kowalevsky E., 319, 324, 337.
Haneberg D.B. de, 168. Krauss S., 65.
Hànggi A., 10. Kruger, 122.
Hanssens J.M., 175, 202, 274, Kuhn K.G., 60.
286, 295, 344, 345, 374.
Harden J.M., 362. Labriolle P. de, 296.

483
Lagarde P. de, 168. Morgante Μ., 448.
Lanne E., 345. Mowinckel S., 55, 238.
Laud W., 427. Muratori L.A., 365.
Leandro di Siviglia, 325.
Lebon J., 214. Narsai, 371, 377, 378, 380, 383.
Lebrun P., 354, 372, 400, 403, Nau F., 11.
405, 408, 432, 446. Nautin P., 171, 172.
Leclerq H., 9. Neher A., 46.
Lenain de Tillemont L.S., 176. Nestorio, 159, 308, 346ss, 358,
Lentini A., 447. 381.
Leone Magno, 15, 364. Newbigin, 441.
Lepin M., 18, 445. Nielsen E., 63.
Lessius, 18, 445. Nocent A., 341.
Liddell, 195. Norden E., 254.
Lietzmann H., 165, 365:
Ligier L., 8, 265, 308. Oberman H.A., 385.
Lodi E., 9, 10. Odeberg H., 77, 78.
Lods A., 45. Origene, 138.
Lòhe W., 435, 442. Osterwald, 432.
Lossky VI., 75.
Lowe E.A., 10, 323. Pahl J., 10.
Lugo, 18, 445. Paredi A., 244.
Lukyn W.A., 29, 49, 66. Parsch P., 448.
Lutero, 388ss, 404ss. Pascasio Radberto, 419.
Pedersen J., 56, 89.
Mabillon J., 322, 446. Pelagio, 367.
Macomber W.F., 195. Peterson E., 228.
Mahon L., 197. Petri Gothus (Laurentius), 403ss.
Mai A., 192. Petri (Laurentius), 402ss.
Marron H., 9. Petri Olaus, 399ss, 408s.
Marsili S., 234, 448. Pio XI, 17.
Martimort A.G., 147, 319, 364. Pio XII, 448.
Mascall E., 390, 417. Poilly J., 447.
Massi P., 234. Pomarès G., 368.
Massimo il Confessore, 15, 338. Porter W.S., 319.
Masure E., 18, 445. Puech A., 252.
Mathew G., 255.
Max Thurian, 95, 96, 113, 435ss. Raes A., 287.
Melantone, 403, 409, 410. Rahmani L, 168, 179, 180, 184.
Mercier B., 274, 282. Ramsey A.M., 75, 437.
Miller B., 171. Rashi, 86.
Mohlberg L.C., 10, 11, 192, 322, Ratcliff E.C., 155, 158, 159, 410.
323, 364, 365, 369. Ratramno, 387.
Mohrmann Ch., 241. Ratteray Th., 429.

484
Reed L.D., 391, 392, 394, 400, Tallhofer, 445.
402, 410, 443. Tanenbaum M.H., 8.
Remigio di Auxerre, 377. Tattam H., 168.
Renaudot E., 160, 300, 310, 346, Teodoreto, 170.
353,361,382. Teodoro di Mopsuestia, 159, 160,
Richardson C., 179. 171, 308ss, 381, 383, 455.
Righetti M., 319, 364. Tertulliano, 138.
Robbe, 372. Terzaghi N., 211.
Robert A., 47. Tommasi card., 322, 365, 446.
Roberts C.H., 210. Travers Herford R., 32, 65.
Rousseau O., 448. Trembelas P.N., 343, 372.
Row, 425. Vagaggini C., 178, 196, 234.
Rowley Η.Η., 46. Vaux de, 166.
Ruinart, 123. Vermès G., 60.
Vigilio, 368.
Sauget J.M., 202, 256, 274, 286, Vogel C., 8, 364.
300, 344, 345. Volkmar, 171.
Schaffner, 434. Vonier A., 18, 445.
Schechter S., 81.
Schermann, 346.
Schuster I., 101. Warner G.H., 320.
Schwartz E., 169, 171. Wedderburn, 427.
Séraphin, 149. Werner E., 71, 134, 370.
Serapione di Thmuis, 211, 213, Wied H. von, 410.
214,215, 225. Wigan B., 431,440.
Sholem G., 64. Wilmart A., 10, 323.
Siffrin P., 10, 11, 322s, 364, Wilson H.A., 10, 323, 364.
365. Wobbermin G., 213.
Simeon R., 69. Wolfson H.A., 33.
Sinesio di Cirene, 211.
Singer S., 36, 94. Yelverton E.E., 402, 403, 405,
Stephenson, 386. 408.
Sukenik E.L., 37, 38.

Taille M. de la, 18, 229, 230, Zuinglio, 393, 394ss, 410.


445. Zunz, 86.

485
Indice dei testi rabbinici
e della liturgia sinagogale

‘Abòdà, 87ss, 140ss, 221, 222, Hódà'à, 87ss, 142ss.


227, 232, 243, 265, 307, 316. Keter, 82, 134.
,Abòt, 82ss, 130ss. Machzor Vitry, 94.
Abudharam (Sefer), 61. Maimonide, 94 .
,Ahàbà, 76ss. Misnà, trattato Beràkót, 36, 49,
‘Amìdà, vedi Tefìllà. 71,90,91,92, 94.
Amram Gà'on (Seder R.), 35, Misnà, trattato Megillà, 86.
62, 82. Pesuqué di zimra, 70.
Beràkót da dire durante il gior‫ ־‬Qaddìs, 72, 88.
no, 6768‫־‬. Qedussà, 73, 77ss, 134ss, 225,
Beràkót precedenti lo Semà, 313.
69ss, 72, 79, 204, 209, 221, Qedussà ha‫§־‬em, 83ss, 135ss.
264. Qibbus galuyòt, 84ss.
Beràkót dei banchetti, 69, 99ss, Refnà, 84ss.
109ss, 126ss, 165ss, 184ss, Saadia Gà’on (Siddur R.), 62.
187ss. Semà, 69, 70, 76, 77, 137.
Binà, 84ss. Semonèh‫‘־‬Essréh, vedi Tefillà.
Birkat David, 85ss, 136.
Birkat ha-samm, 84ss. Selisà, 84ss.
Birkat ha‫־‬minim, 71, 85ss. Tefillà, o Semonèh‫‘־‬Essréh, o
Birkat hokmà, 85ss. ‘Amìdà, 71, 80ss, 130ss, 206
Birkat Jerusalem, 85ss, 140. ss, 221, 240ss, 264, 307ss.
Birkat Kohanim, 88. Tefìllà (16a preghiera delle Se-
Birkat mispat, 84ss. monèh‫‘־‬Essréh), 85ss, 141ss,
Birkat saddiqim, 85ss. 227, 264, 265,307.
Dehà, 85ss. Tesubà, 84ss.
Enoch, 3, 77. Tòseftà, 36, 90 .
Geburót, 82ss, 129ss. Yòzer, 72ss.
Ge'ullà, dello Semà, 80. Zikkàròn (nella 3a beràkà sulla
Ge’ullà, della Tefìllà, 84ss. coppa finale e sulla preghiera
Haggàdà della Pasqua, 90, 166. ‘Abòdà), 109ss.
Ha-Kuzari (Sefer), 65. Zohar, 69.

487
Indice delle liturgie cristiane

Addai e Mari (liturgia di), 155ss, Basilio (liturgia di S.), 274, 286
176ss, 184ss, 195, 215, 308 ss, 294ss, 311, 314, 343, 349,
ss, 314, 328, 352, 455. 363, 444, 451, 476.
Alessandrina (liturgia), 153s, Baxter (liturgia di), vedi Savoy.
196ss, 315. Bersier (liturgia riformata di
Ambrosiana (liturgia), 319, 367. E.), 434.
Amburgo (liturgia luterana di), Bobbio (messale di), 322.
393. Brandeburgo (liturgia luterana
Americana (liturgia anglicana), deirelettorato di), 393ss.
429s, 443. Brandeburgo-Norimberga (litur-
Americana (liturgia luterana), già luterana di), 394.
442. Brunswick (liturgia luterana
Andrieu-Collomp (papiro), 208. di), 393.
Anglicana dei Non-jurors (litur- Caius College (frammento di
già), 426ss. una preghiera mozarabica in
Anglicana in Inghilterra( litur- un manoscritto del), 328.
già), 410ss, 443. Calvino (liturgia di), vedi Gi-
Anglicana in Scozia (liturgia), nevra.
426ss. Celtiche (liturgie), 319ss.
Apostoli (liturgia etiopica de- Cirillo (liturgia di S.), vedi
gli), 345. Marco.
Apostoli (liturgia siriaca dei Do- Clementina (liturgia pseudo‫)־‬,
dici), 286ss, 316. vedi Costituzioni apostoliche.
Apostoli (liturgia siriaca degli), Colonia (liturgia luterana di),
vedi Addai e Mari. 410.
Atanasio (liturgia armena di Common Order (Book of), 423,
S.), 353ss. 439, 443.
Atanasio (liturgia etiopica di S.), Common Prayer (Book of), ve-
344. di Anglicana.
Baden (liturgia luterana di), Costituzioni apostoliche (litur-
393. già dell'VI II libro delle), 15s,
Barberini (Codex), 291 ss, 307, 25, 168, 250ss, 282ss, 290, 295,
374, 379. 303, 308, 312, 324, 443, 451.
Basilea (liturgia riformata di), Costituzioni apostoliche (pre-
395. ghiere giudaiche cristianizza­

489
te del VII libro delle), 39, Gregorio Nazianzeno (liturgia
128ss, 240. di S.), 344ss.
Cranmer (liturgia di), vedi An- Hadrianum (ms.), 365ss, 369.
glicana. Ignazio (liturgia siriaca e arme-
Danimarca (liturgia luterana na di S.), 344.
della), 393. Illirica (Messa), 382, 387.
Dèr Balizèh (frammento d'ana- Ippolito (liturgia di S.), 23, 25,
fora trovato a), 208ss, 225ss. 145, 166ss, 196ss, 257, 264,
Didachè (liturgia della), 39, 109, 268, 271, 315ss, 451.
124ss, 165, 221. Isacco (liturgia armena di S.),
Ecolampadio (liturgia di), vedi 344.
Basilea. Knox (liturgia di J.), vedi Form
Epifanio (liturgia etiopica di of Prayers.
S.), 345. Leoniano (sacramentario), 364.
Epifanio (liturgia greca di S.), Liber Ordinum di Silos, 337.
193. Liber sacramentorum mozara-
Etiopiche (liturgie), 345ss. bicus, 322, 327.
Farei (liturgia di), vedi Neu- Lubecca (liturgia luterana di),
chàtel. 393.
Form of Prayers di J. Knox, 423. Lutero (liturgie di), 388ss {For-
Gallicana (liturgia g. antica), mula Missae), 392ss {Deut-
152s, 319ss, 451, 476. sche Messe).
Gallicane (liturgie - del XVIII Mai (preghiera eucaristica lati-
sec.), 446s. na arcaica edita da A.), 192.
Gelasiano antico (sacramenta- Marco (liturgia di S.), 201ss,
rio), 364ss. 220ss, 240, 246ss, 279, 345ss.
Gelasiano delPVIII secolo (sa- Maronita (liturgia), 286ss.
cramentario), 364ss. Missale Francorum, 322.
Giacomo (liturgia di S.), 16, Missale gallicanum vetus, 322.
250ss, 273ss, 290, 292, 294, Missale gothicum, 322, 325ss,
303ss, 311, 344, 354, 443, 336ss, 452.
451. Missale mixtum, 322, 337.
Ginevra (liturgia riformata di), Moissac (sacramentario di), 367.
398ss. Mone (messe di), 323, 329, 365.
Giovanni Crisostomo (liturgia Mozarabica (liturgia), 152s, 319
di S.), 274, 286ss, 290ss, 314, ss, 455, 457.
344, 363, 443. Nestorio (liturgia di), 156ss, 308,
Giovanni III (liturgia di), vedi 346ss, 358, 381.
Svezia. Neuchàtel (liturgie riformate di),
Gregoriano (sacramentario), 398 (Farei), 432 (Osterwald).
365. Non-jurors (liturgie dei), 426ss.
Gregorio Pllluminatore (liturgia Norimberga (liturgia luterana
di S.), 344. di), 393.

490
Nostra Signora (liturgia etiopi- ss, 201, 250ss, 324ss, 331ss,
ca di), 345, 362ss. 461.
Ordo romanus I, 375ss. Siro-orientale (liturgia), 155ss,
Ordo romanus II, 375ss. 308ss.
Ordo romanus III, 376. Stowe (messale di), 320, 323.
Ordo romanus XV, 376. Strasburgo (liturgia luterana
Osterwald (liturgia di), vedi di), 393.
Neuchàtel. Supplemento franco al sacra-
Paduense (sacramentario), 365. mentario gregoriano, 366ss.
Petri (liturgia di Olaus), vedi Svezia (liturgia luterana di),
Svezia. 399ss.
Pfalz Neubourg (liturgia luterà- Taizé (liturgia di), 432ss.
na di), 394. Teodoro di Mopsuestia (liturgia
Prussia (Agende di), 434. di), 159, 308ss, 352, 455.
Rhein-Pfalz (liturgia luterana Testamentum Domini (liturgia
di), 393. del), 168, 179ss, 315.
Riga (liturgia luterana di), 394.
Trecentodiciotto ortodossi (li-
Romana (liturgia), 153s, 196ss,
222ss, 314ss (nuovi formula- turgia etiopica dei), 345.
ri), 448ss. Verona (sacramentario di), ve-
Schaffner (restaurazione della di Leoniano.
liturgia luterana di A.), 434. Wied (liturgia di H. von), vedi
Scozia (liturgia anglicana di), Colonia.
vedi Anglicana. Worms (liturgia luterana di),
Scozia (liturgia presbiteriana) 393.
di), vedi Common Order e Wiirttemberg (liturgia luterana
Form of Prayers. del), 393.
Serapione (liturgia di), 211ss, Zuinglio (liturgia di), vedi Zu-
222ss, 233, 303. rigo.
Sharar (anafora maronita), 361. Zurigo (liturgia riformata di),
Siro-occidentale (liturgia), 152 394ss, 411.

491
INDICE GENERALE

Premessa . pag. 5
Abbreviazioni » 7

Capitolo I. Teologie sull’eucaristia e teologia del-


!,e u c a r i s t i a .................................................. » 13
Alla scoperta dei temi comuni e fondamentali della
« eucaristia » c r i s t i a n a ............................... » 13
Uno studio che ci restituisce la teologia dell’eucaristia » 17
È necessario ritornare alle fonti ................................. » 24

Capitolo II. Liturgia giudaica e liturgia cristiana » 27


Genesi dell’eucaristia cristiana . . . » 27
Dalla liturgia giudaica alla liturgia cristiana » 29

Capitolo III. Parola di Dio e « beràkà » » 41


Parola di Dio e conoscenza di Dio » 41
Le « beràkòt », risposta alla Parola » 51

Capitolo IV. Le «beràkòt» giudaiche » 61


La trasmissione delle formule tradizionali . . . » 61
Le « beràkòt » b r e v i ......................................» 66
Le « beràkòt » che precedono lo « Sema » . . . » 69
La « Qedussà » ...................................................» 77
La « Tefillà » delle « Semonèh‫‘־‬Essréh » . » 80
Le « beràkòt » della m e n s a ............................... » 89
Strutture diverse dell’eucaristia cristiana e origine del-
la loro differenziazione............................... » 99

Capitolo V. Dalla « beràkà » giudaica all’eucaristia


cristiana............................................................... » 101

493
L'uso della « beràkà » da parte di Gesù . . . pag. 101
Le « beràkót » della mensa e l'istituzione dell'eucaristia » 106
Le « beràkòt » giudaiche e la preghiera dei primi cri-
stiani ........................................................................ » 115
Le prime liturgie e u ca ristic h e ............................... » 124
A. La Didachè: cc. 9 e 1 0 ............................... » 124
B. Le « Costituzioni apostoliche »: libro VII . . » 128

Capitolo VI. L'eucaristia al tempo dei Padri e vesti-


già dell'eucaristia primitiva: liturgie di Addai e Mari e
di I p p o lito ........................................................................» 145
Formazione dei formulari tradizionali . . . . » 145
Le quattro forme principali della tradizione . . » 151
A. Siro-occidentale e Gallicano-mozarabica . . » 152
B. Alessandrina e R o m a n a ........................................» 153
Sopravvivenza di un tipo più antico nella tradizione
siro-orientale : la liturgia di Addai e Mari . . . » 155
Sopravvivenza del medesimo tipo arcaico nella « Tra-
dizione apostolica » di I p p o lito ................................. » 166
Trasformazione dell'anamnesi e origine dell'epiclesi » 190
Altre testimonianze dello stesso tipo arcaico . . . » 192

Capitolo VII. Eucaristia alessandrina e romana . » 196


Ippolito è un testimone delle origini della liturgia ro-
m a n a ? ........................................................................» 196
La liturgia alessandrina.....................................................» 200
L'anafora di Dèr-Balizèh e il papiro Andrieu-Collomp » 208
L'anafora di S erap io n e.....................................................» 211
Anamnesi ed epiclesi nella liturgia egiziana . . . » 216
Analogia tra eucaristia egiziana e romana . . . » 222
Forma primitiva delle epiclesi egiziana e romana . . » 226
Struttura del Canone romano e sua spiegazione . . » 234

Capitolo Vili. L'eucaristia siro-occidentale: « Costi-


tuzioni apostoliche» e liturgia di san Giacomo » 250
Carattere tardivo dell'eucaristia siro-occidentale e fat-
tori della sua elab o razio n e........................................» 250
Struttura e fonti dell'eucaristia delle « Costituzioni apo-
stoliche » » 256
Sintesi finale dell'eucaristia di san Giacomo . . . » 273

49 4
Capitolo IX. Forma classica delPeucaristia bizantina:
le anafore di san Giovanni Crisostomo e di san Basilio pag. 286
La liturgia antiochena dei Dodici apostoli . . . » 286
Dalla liturgia dei Dodici apostoli alla liturgia di san
Giovanni C riso sto m o .............................. » 290
La liturgia di san Basilio: sua composizione ed evo-
l u z i o n e ........................................................ » 294
Sopravvivenza di un tipo siro-orientale nella forma
lunga di Addai e M a r i ...............................» 308
Genealogia e genesi dell’ep iclesi........................ » 314

Capitolo X. Eucaristia gallicana e mozarabica » 319


Loro affinità con il tipo siro-occidentale . . . . » 319
Dall’improvvisazione ai formulari fìssi. Il problema
dell’anno l i t u r g i c o ..................................... » 333
L’« oratio fidelium » e le intercessioni del Canone » 338

Capitolo XI. Il Medioevo: sviluppo e deformazione » 342


Abbondanza dei formulari tardivi e loro sfasature » 342
L’eucaristia di Nestorio: teologia di scuola e biblici-
smo a p p l i c a t o ............................................» 346
L’eucaristia armena: fedeltà alla tradizione con svi-
luppi n u o v i .................................................. » 354
Anafore siriache tardive e anafore etiopiche . . . » 361
Prefazio, « Communicantes » e « Hanc igitur » nei Sa-
cra m e n t a r i .................................................. » 363
Il Canone in silenzio e aggiunte posteriori . . . » 370

Capitolo XII. I tempi moderni: deterioramento e ri-


f o r m a ............................................................... » 384
Formulari e interpretazioni non tradizionali . . . » 384
La « Formula Missae » e la « Deutsche Messe » di Lu-
ro: ultima fase di deviazioni medievali . . » 388
L’eucaristia non eucaristica dei riformati: Zuinglio,
Ecolampadio, Farei e C a l v i n o .................. » 394
Sopravvivenze e primi tentativi di ricupero presso i
luterani: la liturgia svedese da Olaus Petri a Gio-
vanni I I I ...................................................» 399
Cranmer e l’eucaristia anglicana.........................» 410

495
Prima riscoperta della tradizione presso i calvinisti an-
g l o s a s s o n i ................................................................pag. 422
Restaurazione dell'eucaristia anglicana in Scozia e pres-
so i « non-jurors » .....................................................» 426
Ricupero della tradizione presso i riformati di lingua
francese: da Osterwald a T a i z é ................................. » 432
L'eucaristia della Chiesa unita dell'India del Sud . . » 438
La nuova liturgia eucaristica della Chiesa luterana
d 'A m e r i c a ................................................................. » 441

Capitolo XIII. Rinnovamento » 445


Riscoperta della tradizione eucaristica nella Chiesa cat-
tolica dopo il Rinascim ento........................................ » 445
Restaurazione della liturgia dopo il Concilio Vatica-
no I I ........................................................................» 448
Tre nuovi formulari di e u c a r is tia ................................. » 451
A. Preghiera eucaristica I I ........................................» 451
B. Preghiera eucaristica I I I ........................................» 454
C. Preghiera eucaristica I V ........................................» 458
Convergenze anglicane e protestanti . . . . » 464

Conclusione » 467
Indice dei n o m i..................................................................» 479
Indice dei testi rabbinici e della liturgia sinagogale
Indice delle liturgie cristiane

Finito di stampare nel mese di gennaio 1992


con i tipi dell’Istituto Grafico Bertello
Borgo San Dalmazzo (Cuneo)
EUCARISTIA
Teologia e spiritualità della Preghiera eucaristica

V e n ti a n n i o r s o n o il C o n c ilio V a tic a n o II a p p ro v a v a il p rim o


d o c u m e n to : la C o s titu z io n e S acrosanctum C oncilium . C o n e s s a i
P a d ri c o n c ilia r i p o n e v a n o le b a s i p e r u n a r ifo r m a g e n e ra le d e lla
litu r g ia p e rc h é la /e x ora n d i to r n a s s e a d e s s e re d a v v e ro
l’e s p re s s io n e d e l p o p o lo d i D io , e l’a z io n e lit u r g ic a c o m e il
c u lm in e e la fo n te d e lla v ita d e lla C h ie s a .
Il la v o ro c h e è s c a tu r it o d a q u e i p r in c ip i si è tr a d o tt o n e lla
e la b o r a z io n e d e i n u o v i lib ri litu r g ic i: il P o n tific a le , il R itu a le e
s o p r a t tu t to il M e s s a le .
R is tr u ttu r a ti i riti e rie la b o r a ti i te s ti, n o n si è p e rò e s a u r ito
l’im p e g n o d i s tu d io , d i rifle s s io n e e d i a p p r o fo n d im e n to d i q u e lle
fo r m e c h e c o s titu is c o n o - in s ie m e a lla litu r g ia d e lla P a ro la - la
p a rte e s s e n z ia le d i o g n i E u c a ris tia : le P re g h ie re e u c a r is tic h e .
D e fin ite u n c a n tic o n u o v o c h e ris u o n a n e lla v ita d e lle s in g o le
c o m u n ità e c c le s ia li, le a n a fo r e r a c c h iu d o n o u n p a tr im o n io d i
ric c h e z z a d i o rd in e b ib lic o , te o lo g ic o , litu r g ic o , c a te c h e tic o ,
s p iritu a le ,... c h e n o n e s a u ris c e m a i la ric e rc a e la c o n te m p la z io n e
d e lla C h ie s a d i o g n i te m p o e lu o g o c h e c e le b ra i d iv in i m is te r i.
È la in e s a u r ib ilità d e llo s te s s o m is te r o e u c a r is tic o c h e rim a n d a
c o n tin u a m e n te a lla s u a o rig in e , al m o m e n to in c u i il S ig n o r e G e s ù
p re s e il p a n e , re s e g ra z ie , lo s p e z z ò e lo d ie d e ...; e a ltr e t ta n t o fe c e
c o n la c o p p a d e l v in o ... C o sì, n e l c o n te s to d e l g ra n d e r e n d im e n to
d i g ra z ie p ro p r io d e lla C e n a p a s q u a le e b ra ic a , il S ig n o r e G e s ù
a n tic ip a n e l s e g n o d e l c o n v ito il s a c r ific io c h e a v re b b e p o r ta to a
c o m p im e n t o s u lla C ro c e , e a ff id a a lla C h ie s a il c o m a n d o d i
p e rp e tu a re il m e m o ria le d e lla s u a m o r te e ris u rre z io n e .
In q u e s to c o n te s t o si in s e ris c e l’o p e ra d e l Bouyer: q u a le p re z io s o
s tr u m e n to p e r a p p r o fo n d ir e u n a s p e tto p a r tic o la r e d e l p a sch ale
m yste riu m , e s s a h a lo s c o p o d i re c u p e ra re l’o rig in e , la e v o lu z io n e ,
la s tr u tt u r a d e lla beràkà-euloghia d a c u i h a p re s o fo r m a la
p re g h ie ra e u c a r is tic a c r is tia n a .

IS B N 8 8 7 ‫־‬0 1 ‫־‬1 1 9 7 4 ‫־‬ L. 33.000

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