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ARTE INFORMALE

Nel secondo dopoguerra nel mondo dell’arte avviene una sorta di passaggio di testimone. A
seguito delle enormi devastazioni e sofferenze portate dalla seconda guerra mondiale, alla
fine degli anni 40 e 60 si crea in europa una nuova corrette artistico e pittorica chiamata arte
informale, nata in linea con l’espressionismo astratto americano. Questo termine viene
coniato nel 1951 da Michel Tapié e designa una tendenza artistica variegata volta al
dissolvimento di uno schema formale precostituito in nome di una libera espressione. Nasce
nutrendosi dal surrealismo, dalle teorie psicanalitiche di Freud e gli artisti tendono a
sviluppare un concetto rivoluzionario di pittura che l’indice ad abbandonare il tradizionale
linguaggio artistico per dare libero sfogo alle pulsioni interiori che si manifestano sulla tela
sotto forma di impulsi automatici, slanci emotivi ed azioni improvvisate riprende l'action
painting, le opere saranno un insieme caotico di tracce da danno vita a contrasti e colori che
sono i protagonisti dell’opera di cui materia bruta, segno spontaneo e gesto impulsivo sono i
fondamenti della nuova espressività, sono espressioni dell’io e manifestazioni dei moti
dell’anima. L’informatore come il dadaismo ha una concezione ribelle dell’arte questo perché
rifiuta la forma per intervenire direttamente sulla materia con il segno e con il gesto e questo
rifiuto non va inteso come non forma.
Nel filone materico il più importante artista è Alberto Burri 1915-95 che costituisce una felice
anomalia all’interno dell’informale perché si rivela originale che vive dall’esterno le dispute e
i dibattiti di quegli anni. Si avvicina alla pittura durante un periodo di prigionia in Texas e fino
dagli esordi dimostra interesse per i materiali extra pittorici e di recupero, stracci, legno
bruciati, frammenti di lamiera e plastica. Nella sua carriera artistica possiamo suddividere le
opere in 5 grandi serie. Abbiamo la serie dei Catrami 1948-49, delle Muffe 1950-51 e poi le
ultime tre sono quelle che lo hanno fatto conoscere al mondo, dei Sacchi 1952-56, delle
Combustioni dei ferri dei legni e del cellotex 1954-73 e infine dal 73 al 95 la serie dei Cretti.
Lui inizia a dipingere nel 44 durante la prigionia in Texas ed è spinto verso un rapporto
diretto con la materia intesa come elemento primigenio, naturale che determina la forma
dell’opera d’arte. Qualunque materia può servire allo scopo anche quella più considerata
umile e di scarto, sappia pomice iuta catrame ferro. Danno origine dal 1948 al 51 alla serie
dei Catrami e delle Muffe in cui i materiali sono ancora assimilabili per consistenza agli
impasti pittorici. In queste due serie vi è un’attenta ricerca dei rapporti tra materia, colore
forma e spazio. Dal 1952 inaugura la serie dei Sacchi considerati i capolavori di Burri con il
passaggio definitivo all’uso di materiali diversi o oggetti usati per suggerire la bellezza della
pittura. In queste opere vi è un forte senso geometrico e plastico derivanti dalle opere di
Mondrian e lui impagina i suoi lacerti sporchi e usurati dentro un rigoroso ordine di linee
verticali ed orizzontali di figure quadrate e rettangolari per fare origine ad una forma plastica.
Utilizzo di materiali di recupero ha origini neo dadaiste però il risultato è espressivo perché
questi tacchi di iuta che sono cuciti cuciti rattoppati, slabbrati bucati e bruciati evocano
l’esperienza della prigionia ma fanno riferimento alle ferite, ai drammi esistenziali della
società sopravvissuta alla catastrofe della guerra. Ogni composizione presenta ritmi diversi,
differenti in base al colore del tessuto della iuta, della trama e del disegno.
SACCO 5P 1953
A differenza dei dipinti tradizionali, la tela non fa da supporto ma diventa essa stessa
elemento pittorico. Abbiamo pezzi di tela rattoppati, cuciti secondo una sostanziale
simmetria e gli effetti cromatici, plastici e materici sono affidati alle tonalità della iuta e i
diversi spessori. Sulla destra compare una vistosa lacerazione verticale che richiama per un
certo verso i tagli di Fontana, che sono varchi e aperture frutto di un’azione meditata e
costruttiva, quelli di Burri sono squarci, lacerazioni dovute ad un atto di forza o di violenza.
Questa ipotesi è rafforzata dal fatto che dentro allo squarcio vi è una pennellata materica di
colore rosso che allude al sangue della carne ferita e trasforma lo strappo in una lesione.
L’opera si configura come una testimonianza di un corpo dilaniato e sanguinante.
SACCO 1953
È ottenuta incollando brandelli di iuta su un fondo di satain nero. Non presentan
un’operazione provocatoria ironica dadaista ma è una composizione studiata nei rapporti
strutturali perché gli strappi, le cuciture e la iuta sono tra loro armonizzati secondo delle
regole geometriche allo stesso tempo fa cambiare il concetto di quadro che per lui diventa
un piano di lavoro dove l’artista agisce e sperimenta nuovi procedimenti tecnici e nuovi
materiali per conseguire maggiore espressione.
SACCO E BIANCO 1953
È una monumentale composizione costruita utilizzando dei lacerti sacchi di iuta combinati
con un frammento di tela bianca macchiata di rosso uniti da suture di spago, fili di spago e
nodi. La povertà ed il carattere anonimo sono messi in contrasto con due ampie camputure
di colore nero e bianco che in basso a destra ricoprono la tela di supporto. I pezzi di iuta
presentano caratteristiche singolari e diverse in base al colore, al tipo di texture,
all’andamento della superficie che è tesa e liscia, corrugata e increspata e con strappi e
buchi di diverse grandezze. Di fronte ad un materiale tanto grezzo come la iuta l’opera
acquista un respiro solenne ed un equilibrio classico derivante giustapponendo i diversi
elementi quindi forme colore segni luce e ombre con una sensibilità compositiva.
SACCO E ROSSO 1954
Un’opera monumentale caratterizzata da uno sfondo rosso brillante dove incolla su questo
fondo dei sacchi di iuta riempiendo la parte centrale e da qua pendono due striscioline
verticali. La composizione è equilibrata e i sacchi compongono un insieme plastico che
contrasta con il piano di fondo rosso. Questo contrasto nasce dalla diversa superficie dei
sacchi non sempre regolare per la sovrapposizione per gli strappi e i rilievi. L’effetto finale è
un’opera equilibrata considerando la distribuzione dei due colori che nonostante la netta
differenza a livello visivo e tattile l’opera si presenta liscia e armonica, ruvida disuguale e
irregolare. Questa
materia nel Circolo dei Sacchi racconta una storia vissuta di cui le stoffe ne sono portatrici.

Dal 1954 al 73 Burri inaugura la serie delle combustioni dove il suo linguaggio artistico si
arricchisce ancora di più di valori espressivi e formali perché introduce per la prima volta
l’elemento del fuoco che ustiona, brucia, torce e modella i materiali modificando la struttura,
la forma ed il colore. All’interno delle combustioni andiamo a prendere il Ciclo delle Plastiche
che Burri considera uno splendore fittizio in quanto portatore di immagini ottenute
aggredendo la superficie con la fiamma ossidrica e la materia sotto l’azione del fuoco e
liquefandosi assumeva forme che stimolano l’immaginazione dandone interpretazioni
differenti. La plastica sottoposta all’intervento del fuoco, torcendosi e liquefandosi crea figure
arcane, bolle, ferite e tagli. Questo nuovo modo di lavorare la materia provoca la rottura del
sistema tradizionale di pittura creando una nuova opera d’arte.
ROSSO PLASTICA 74
All’elegante ordito dei Sacchi subentra questo ritmo convulso e magmatico della plastica.
Aggredendo e quasi dipingendo con la fiamma ossidativa più fogli di plastica rossa applicati
su Sarin Nero. La combustione è controllata con un controllo assoluto sulla forma, la
reazione della plastica al fuoco genera lacerazioni, grinze, torcimenti e bubboni che affiorano
sulla superficie rotta, slabbrata addensata dai colpi di calore e accentuando la drammaticità
e la simbologia dell’immagine mentre questo color rosso intenso è associato al sangue. Si
ha l’immagine di una pelle ustionata della pittura e del corpo offeso e ferito dell’umanità
contemporanea. Il grande cratere rivela la tela nera sottostante che rimanda per certi versi ai
concetti spaziali di fontana.
GRANDE ROSSO P numero 18 del 64
C’è un supporto di legno con satin nero rivestito con fogli rossi che Burri brucia, manipola e
dilata con il fuoco. Questa azione è assertiva e distruttiva giacché consuma, liquefa,
cicatrizza la materia ma allo stesso tempo crea forme nuove, una nuova spazialità, un nuovo
spessore ed un nuovo colore non è più il rosso acceso di prima, ma è molto più scuro. La
plastica sostituisce la tavolozza e la tela del pittore perché il colore plastica e il grande rosso
diventano patetica filante, plasmabile nelle mani di Burri che controlla altamente il processo
di combustione e crea quello che un tempo era il quadro bidimensionale mentre ora
abbiamo un rilievo e mostra persino un’altra dimensione oltre il supporto. Come nell’opera
prevendite abbiamo un piccolo cratere nero in alto a destra vusto come un occhio o una
cavità che chiama lo spettatore all’interno e tutti intorno abbiamo questi elaborati e subitosi
drappeggi barocchi, ferite, bruciature, stirature, creste e avvallamenti dove si nasconde
l’ombra mentre i raggi di luce scivolano nella superficie. Anche qui l’opera viene percuote
come un frammento di un corpo o la trasfigurazione di un paesaggio, come qualcosa di vivo,
di organico che fa riferimento ad una vita palpitante.

A partire dal 1973 Burri abbandona i sacchi, i legni e la plastica per tornare agli strumenti del
pittore uniti a materiali terrosi che danno origine all’ultima serie quindi il Ciclo dei Cretti che
costruiscono un’importanza fondamentale nell’evoluzione artistica di Burri in quanto
attraverso la crepatura della superficie della materia, l’artista ottiene due risultati il primo
ovvero lo scorrere il tempo ed il secondo affida alla crettatura superficiale tutta l’efficacia
espressiva e decorativa dell’opera senza l’ausilio dei contrasti cromatici. I cretti sono
superfici quadrate e rettangolari spesse di colore bianco o nero su cui si dipana un fitto
intreccio di crepe e screpolature e l’aspetto finale è quello di terreni argillosi crepati dalla
siccità. Per ottenere questo effetto lui inizialmente impiega un impasto di bianco di zinco e
colli viniliche a chi aggiunge terre nel caso di quelli colorati, successivamente con il passare
del tempo a questo impasto viene applicato un supporto si cellotex a cui sottopone la
materia al processo di asciugatura ed essiccamento. Negli anni successivi con l’aumentare
delle opere usa un impasto di zinco, caolino e terre che dopo le essiccatore ricopre con il
vinavil.

Al periodo dei Cretti appartiene Cretto G1 del 1975 che è creato da un miscuglio di caolino,
bianco di zinco e vinavil spalmato su un pannello di cellotex. Il risultato è una superficie
irregolare, casualmente crettata in relazione allo spessore del materiale. Nell’opera sono
presenti suggestioni antiche legate alla terra natale e al texas e entrambe sono idealizzate e
purificate con il colore bianco. Le ragnatele di solchi danno alla materia una consistenza e
un significato autonomi che suggeriscono profondi stati d’animo, tensioni interiori e
lacerazioni e come nel Ciclo delle Combustioni la materia non è simbolica ma è la
protagonista unica dell’opera e assume un valore di testimonianza di vita, vita spezzata da
mille cretti, dalla solitudine, indifferenza e dolore e proprio per questo ricca di speranza e
valori. La compostezza e la severità dei curetti offre a Burri la possibilità di realizzare dal
punto di vista sociale un’opera chiamata GRANDE CRETTO o Cretto di Gibellina che è uno
dei più grandi e austeri monumenti alla sofferenza umana.
Siamo negli 80 e lui riprendendo l’idea di realizzare un grande cretto che coprisse l’intera
città di Gibellina distrutta dal terremoto del 1968 e la voglia di questa rinascita nasce dalla
mente del sindaco Ludovico Corrao che vide nell’arte di Burri un riscatto sociale della città.
L’opera venne realizzata tra il 1984-89 e Burri progetto questo gigante sto cretto che
percorre le vie e i vicoli della vecchia città e sorge sullo stesso luogo dove una volta vi erano
le macerie ora cementificate. Si compone di 22 cubi di cemento armato bianco realizzati
accumulando e ingabbiando le macerie degli stessi edifici. Dall’alto l’opera appare come una
serie di fratture di cemento sul terreno il cui valore artistico risiede nel congelamento della
memoria del paese. Ogni fenditura è larga dai 2 ai 3 metri e i blocchi sono alti 1,60 e il
cretto raggiunge una superficie complessiva di 80 mila metri cubi. Si configura come un
monumento di grande importanza per ricordare un territorio ferito che oggi si mostra come
una suggestiva e abbagliante distesa bianca circondata da campi, boschi, prati facendo una
delle opere d’arte contemporanee più estese al mondo.

Oltre a Burri l’altro personaggio chiave della scena italiana ed europea nel secondo 900 è
Lucio Fontana 1899-1968 che ha incarnato in oltre 40 anni di attività il mito del genio
naturale capace di spaziare da una ricerca all’altra contribuendo ogni volta a rinnovare la
nozione di arte. Fontana si avvicina agli artisti informali per la forza del gesto e l’importanza
della materia ma nonostante questo ne fu alieno dal loro atteggiamento ideologico in quanto
la sua arte voleva essere uno strumento di studio e scoperta di uno spazio fisico e ideale.
Nasce nel 1899 a Rosario Di Santa Fe in Argentina da genitori lombardi e proprio qua lui
iniziò a lavorare nello studio del padre che era uno scultore e nel 1928 arrivo a milano dove
frequentò i corsi di Adolfo Wildt all’accademia delle belle arti di Brera mettendo appunto una
certa plastica di matrice figurativa ma che già tradiva l’imminente nascita del suo linguaggio
informale. Nel 1940 tornò a Buenos Aires dove divenne professore di modellato alla scuola
delle belle arti e nel 1946 fondò l’accademia di alta mira che era un luogo di sperimentazione
culturale che vide la nascita del manifesto blanco che era un manifesto dove all’interno era
possibile trovare la sintesi delle riflessioni sulla poetica delle avanguardie storiche con un
occhio di riguardo al surrealismo. Questo manifesto era la premessa per la fondazione del
primo manifesto dello spazialismo pubblicato nel 47 dove Fontana sosteneva l’abolizione
della forma nel suo significato tradizionale e dichiarava le nuove finalità di una pittura
scultura in grado appropriarsi dello spazio circostante superando i limiti dello spazio
bidimensionale. Fontana arriva alla pittura partendo dalla scultura e ciò spiega la sua forte
attenzione per gli effetti che muovono la superficie ma soprattutto per la disinvoltura con cui
riuscì a manipolarla con disinvoltura. Le opere sono definite concetti spaziali e sono
raggruppate per serie. La serie dei Buchi 1949-68; La serie degli olii 1957-68;La serie dei
tagli 1958-68; la serie dei quanta 1959-60; la serie dei metalli 1961-68 e la serie la fine di
Dio 1963-64.
SERIE DEI BUCHI 1949-68
Nasce dalla ricerca di un rapporto tra lo sfondo monocromatico della materia ed il nero del
vuoto creati da questa costellazione di buchi effettuati sulla superficie. I primi lavori
presentano una serie di vortici di buchi e questi poi dal 1950 lasciano spazio a buchi ben
organizzati in base a sequenze ritmiche più regolari. I buchi hanno un ordine prettamente
spaziale e il loro significato va ben oltre l'essere elementi puramente grafici sulla tela in
quanto sono considerati vere e proprie aperture verso uno spazio ulteriore. Dalle teorie
sull’opera intesa come pretesto per una esplorazione dello spazio nacquero lavori come
struttura al neon del 1951 che è una decorazione astratta costituita da 100 m di tubo
luminoso appeso al soffitto come un lampadario a dominare li scalone d’ingresso del
Palazzo della Triennale di Milano. L’opera si impose all’attenzione del pubblico in quanto
primo esempio di utilizzo di luce elettrica come forma d’arte.
SERIE DEGLI OLII 1957-1968
Fanno parte opere distinte dall’uso corposo del colore ad olio da rendere semplici i gesti di
incidere, lacerare e bucare. Queste tele talvolta erano arricchite da frammenti di vetro
colorato e a questa sezione appartengono molte opere definite venezie che erano tele di
grandi dimensioni in cui Fontana si spinge in una interpretazione fantastica della città di
venezia.
SERIE DEI TAGLI 1958-68
Questo è il nome volgare della serie in quanto il vero nome è Concetti Spaziali denominati
Attese ed è il certo più ampio e significativo della produzione di Fontana. Si presentano
come tele monocromo a colori forti e puri quindi rosso blu giallo e verde utilizzando la
tecnica dell'idropittura sulle quali lui opera degli squarci verticali per mezzo di un gesto
energico e risoluto. Sul retro di ogni tela lui ha posto l’intitolazione Attesa quando è un unico
taglio invece Attese nel caso di più tagli in sequenza. Il termine Attesa intende alludere
all’indole avveneristica dell’opera e allo stesso tempo al suo carattere metafisico di
sospensione spazio temporale. Concetto Spaziale 1965 : su una tela monocromo di colore
rosso che è un colore puro astratto non rappresentativo.

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