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LA REPUBBLICA DI PLATONE

“La Repubblica” (in greco antico: Πολιτεία) è una delle opere più importanti del filosofo Platone, la
quale ha avuto una grande influenza nel pensiero occidentale. In quest’opera Platone si accinge ad
esporre la sua teoria di “Stato ideale” mostrando ciò di cui c’è bisogno per realizzarlo. Platone,
come in tutte le sue opere, espone le proprie idee per bocca del maestro Socrate, il quale è il
protagonista di tutti i dialoghi. Prima di parlare dello Stato ideale, Platone afferma che nessuna
comunità possa esistere senza la giustizia e che perché uno Stato possa nascere e sopravvivere ci
deve essere la giustizia come condizione fondamentale. His dictis, il filosofo sostiene che lo Stato
ideale è composto da tre classi sociali: i governanti, i guardiani e i lavoratori. Ognuno di essi ha
delle virtù e per fare in modo che lo Stato sia giusto c’è bisogno che essi funzionino. Infatti, ogni
persona, in base alla sua anima (aurea, argentea e bronzea), è predisposta ad una classe sociale.

IL MITO DELLA CAVERNA

La caverna è un luogo angosciante, dove i prigionieri, incatenati fin da fanciulli, scorgono soltanto
alcune ombre proiettate sulla parete che sta loro di fronte. Essi ritengono che le ombre siano l’unica
e vera realtà esistente e non possono immaginare ciò che accade alle loro spalle. Nella seconda
parte del mito, Platone immagina che uno schiavo venga liberato dalle catene e trascinato
all’esterno della caverna. Dopo aver scoperto che né le ombre che vedeva quando era incatenato, né
gli oggetti portati lungo il muro e proiettati sul muro costituiscono la vera realtà, egli sarebbe
abbagliato dalla luce del sole e solo poco per volta imparerebbe dapprima a discernere gli oggetti
del mondo autentico e alla fine a guardare direttamente il sole (l’idea somma del bene). Invece di
rimanere a contemplare in solitudine il sole e il mondo reale, cioè il Bene e la verità, lo schiavo
liberato decide di tornare nella caverna, per comunicare agli altri prigionieri ciò che ha visto e per
aiutarli a liberarsi a loro volta della prigionia. I suoi occhi, però, faticheranno a riadattarsi al buio ed
egli sarà deriso dagli altri schiavi, che si convinceranno che la luce esterna gli abbia rovinato gli
occhi e quindi non gli crederanno. E alla fine, infastiditi dal suo tentativo di scioglierli e di portarli
alla luce del sole, lo uccidono.
IL MITO DI ER

Il mito narra di Er, figlio di Armenio, un soldato valoroso originario della Panfilia[2], morto in
battaglia che, mentre stava per essere arso sul rogo funebre, si ridestò dal sonno mortale e
raccontò quello che aveva visto nell'aldilà. La sua anima appena uscita dal corpo si era unita a
molte altre e camminando era arrivata in un luogo divino dove i giudici delle anime sedevano tra
quattro aperture, due per chi andava e veniva dal cielo e le altre due dalle profondità della terra. I
giudici esaminavano le anime e ponevano sul petto dei giusti e sulle spalle dei malvagi la sentenza
ordinando ai primi di salire al cielo e agli altri di andare sotterra. Avevano quindi ordinato a Er di
ascoltare e guardare ciò che avveniva in quel luogo per poi raccontarlo [3]. Dalle voragini intanto
uscivano delle anime sporche e lacere che avevano viaggiato per 1000 anni, in cielo o sottoterra,
per espiare le loro colpe. Chi in vita aveva commesso ingiustizie veniva punito con una pena 10
volte superiore al male commesso, mentre le buone azioni venivano premiate nella stessa
misura[4]. Tutti i castighi inflitti erano temporanei, meno quelli riservati ai tiranni come Ardieo,
despota di una città della Panfilia che aveva ucciso il vecchio padre e il fratello maggiore e aveva
compiuto molte altre nefandezze. Quando i più malvagi, come i tiranni, tentavano di uscire dalla
voragine questa emetteva una sorta di muggito e allora venivano presi, scorticati e rigettati negli
Inferi. Le anime rimaste per sette giorni in quel luogo venivano poi costrette a camminare per
quattro giorni fino a quando giungevano in vista di una specie di arcobaleno dove a un capo
pendeva il fuso, simbolo del destino, posato sulle ginocchia della dea Ananke (Necessità). Il fuso
aveva come peso otto vasi concentrici rotanti disposti uno dentro l'altro. Su ogni cerchio vi era una
Sirena che emetteva il suono di una sola nota che unendosi alle altre formava un'armonia[5]. Le
figlie di Ananke, le tre Moire, sedevano in cerchio poco distanti dalla madre: Cloto, filava e cantava
il presente, Lachesi, il passato, e Atropo, "colei che non può essere dissuasa", il futuro [6]. Un araldo
presentava le anime disposte in fila a Lachesi e dopo aver preso dalle sue ginocchia un gran
numero di sorti e modelli di vita procedeva al sorteggio avvertendo che ognuno sarebbe stato
responsabile della sua scelta e che nessuno sarebbe stato favorito, poiché anche chi avesse scelto
dopo il primo avrebbe avuto dei modelli di vita sempre più numerosi di coloro che dovevano
ancora scegliere. Er raccontava poi come le anime sceglievano, oltre che in base alla fortuna del
sorteggio, secondo le abitudini contratte nella vita precedente. Un'anima che era venuta dall'alto
dei cieli e che era stata virtuosa solo per abitudine e che aveva vissuto in una città ben governata,
per desiderio di novità aveva scelto frettolosamente la vita di un tiranno per accorgersi poi,
rimproverando la sua cattiva sorte, come questa fosse carica di dolori. Le anime provenienti dal
basso invece avevano imparato dalle loro esperienze terrene e avevano scelto con maggiore
giudizio. Ad esempio, Agamennone, per ostilità verso il genere umano dovuta alle sofferenze
patite aveva scelto di vivere come un'aquila; Orfeo, che non voleva nascere da grembo di donna
per l’odio che nutriva verso il sesso femminile che aveva cagionato la sua morte, aveva preferito la
vita di un cigno; Odisseo, stanco di rischiose avventure, aveva preferito la vita di un qualsiasi uomo
tranquillo[7]. Dopo aver compiuto la scelta, ogni anima riceveva da Lachesi il daimon, il genio
tutelare, che avrebbe sorvegliato che si compisse la vita prescelta; quindi l'anima doveva andare
da Cloto a confermare il suo destino e infine da Atropo che lo rendeva immutabile. Le anime poi
s'incamminavano attraverso la deserta e calda pianura del Lete e, fermatesi per riposare sulle
sponde del fiume Amelete[8], tutte, tranne Er, furono obbligate a bere l'acqua che dà l'oblio, e chi
non era saggio ne beveva smodatamente. Giunta la notte, le anime stavano dormendo quando a
mezzanotte un terremoto le gettò nella nuova vita assieme a Er, che, svegliatosi sulla pira funebre,
poté raccontare come, conservando la memoria dell'esperienza passata, si può vivere
serenamente una vita giusta e saggia in questo e nell'altro mondo[9].
PLATONE E L’ARTE
Nasce con Platone la problematica sull’arte. Egli la condanna, ritenendo che essa
allontani l’uomo dalla realtà, in quanto essa si limita a riprodurre l’immagine di cose e di
eventi naturali che, a loro volta, sono riproduzione delle Idee. Essa, quindi non è altro
per Platone un’imitazione delle imitazioni. Inoltre il Filosofo ritiene che la poiesis possa
corrompere gli animi. L’arte “non disvela ma vela il vero”, in quanto – non essendo una
forma di conoscenza – non migliora l’uomo. Stimola invece la parte emotiva e i
sentimenti, a scapito della parte razionale. Le facoltà arazionali dell’anima sono infatti,
secondo Platone, le parti inferiori di noi stessi: quelle che sviluppano i desideri e gli
attaccamenti irragionevoli verso il mondo della materia limitata e sofferente. Egli arriva
per questo motivo ad affermare che il poeta è “fuori di sé”, inconsapevole di capire ciò
che fa e incapace di insegnare la verità sull’Essere, sulla Natura, sulla Vita e sul ruolo
dell’Uomo in essa. Già nei primi scritti Platone assume un atteggiamento negativo nei
confronti della poesia, considerandola inferiore alla filosofia. Non solo. Egli sentiva la
necessità di eliminarla dalla vita sociale, dato che – prima della nascita della filosofia –
proprio la poesia aveva improntato l’educazione giovanile e avrebbe continuato a
rivendicare il proprio ruolo formativo… ma de-formativo secondo Platone, in quanto
foriero di passionalità scomposte piuttosto che di razionale dominio di sé e ricerca di
padronanza sul proprio destino. Inoltre Platone considera l’arte pericolosa poiché
allontana l’uomo dalla politica; e politica significa preoccuparsi delle cose che realmente
sono importanti.  Il che va contemporaneamente a delineare proprio il ruolo del vero
filosofo: atto al Governo proprio perché si preoccupa delle cose intellegibili e –
trascurando i piaceri sensibili e le ricchezze atte a procurarli – può “permettersi il lusso”
di essere integralmente onesto e votato al bene comune. L’ arte, che è immaginazione,
allontana l’uomo dalla vera visione. Perciò l’artista per Platone è considerato pericoloso.
Malgrado ciò esiste una via di salvezza an che per l’arte, quand’essa si mette al servizio
del vero sforzandosi di veicolarlo con parabole e storie immaginate, o figurazioni che
inducono alla virtù, o musiche che sprigionano nobili commozioni. Platone oltre a
criticare l’arte, critica anche la retorica. Come l’arte, essa crea un’imitazione di
un’imitazione così la retorica pretende di persuadere e di convincere tutti su tutto senza
avere alcuna vera “conoscenza”. In realtà la vera arte della comunicazione, per Platone,
è quella che si basa sulla piena conoscenza della verità e delle persone.

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