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Capitolo 1 – Verso la società di massa

Masse, individui e relazioni sociali

Dalla fine dell’800, col diffondersi dell’industrializzazione e urbanizzazione, nei paesi più
economicamente avanzati dell’Europa Occidentale e America, nascono le cosiddette
“società di massa”: una moltitudine di individui indifferenziati e omogenei, in cui i singoli
tendono a scomparire rispetto al gruppo e il popolo diviene sempre più protagonista della
vita politica ed economica del paese.

Nella società di massa i cittadini vivono in grandi agglomerati urbani ed entrano più
facilmente in contatto tra loro, sebbene siano rapporti anonimi e impersonali ed effettuati
sempre più tramite istituzioni nazionali (come i partiti politici). Il grosso della popolazione
è sia produttore che consumatore di beni e servizi, entrando appieno nel circolo
dell’economia di mercato.

La società di massa è una realtà complessa fatta di mutamenti economici, politici e


culturali che ha segnato l’intera storia del ‘900.

Sviluppo industriale e razionalizzazione produttiva

L’economia del primo decennio del ‘900 fu caratterizzata da una grande fase di
espansione, dovuta alle innovazioni tecnologiche e l’ascesa di nuove potenze industriali
in Europa e America.
Gli anni 1896-1913 furono segnati da un forte sviluppo della produzione che interessò
quasi tutti i settori, facendo crescere anche il livello medio dei salari. Questa crescita
determinò anche un ampliamento del mercato: per soddisfare una grande domanda di
massa si passò dal piccolo artigianato alla produzione in serie.

Queste nuove esigenze di produzione spinsero le imprese a pensare nuovi metodi di


lavoro: Frederick Taylor nel 1911 teorizzò uno studio sistematico del lavoro in fabbrica
e nel 1913 l’industria automobilistica Ford lo applicò con la prima catena di montaggio.

I nuovi ceti

La società di massa rendeva più mobile e complessa la stratificazione sociale.


La classe operaia si faceva sempre più numerosa e stratificata, inoltre l’espansione del
settore terziario e degli apparati burocratici faceva aumentare la consistenza del ceto
medio. Si allargava la categoria dei dipendenti pubblici e crescevano gli addetti al settore
privato: coloro che svolgevano mansioni non manuali (i colletti bianchi).
Da un punto di vista economico i ceti medi (la piccola borghesia) non si discostava molto
dalla classe operaia (il proletariato) ma a livello culturale e sociale la differenza era molto
netta. Nonostante fosse un ceto nuovo e con degli ideali relativamente moderni, la piccola
borghesia era destinata ad avere un ruolo di primo piano nel campo economico e politico
del secolo a venire.



Istruzione, informazione e eserciti di massa

Un ruolo di grande importanza nella nuova società fu svolto dalla scuola. Si cercò
ovunque di dare un’istruzione pubblica. La scolarizzazione diffusa poteva
rappresentare un mezzo per educare il popolo e renderlo più attivo nella società sempre
più crescente.
L’effetto più immediato fu la diminuzione del tasso di analfabetismo, cosa che portò a
una rapida diffusione della stampa quotidiana e periodica, fondamentale per contribuire a
formare ed estendere l’opinione pubblica.

Un contributo allo sviluppo della società di massa venne anche dalle riforme degli
ordinamenti militari. Lo scopo era quello di rendere il servizio militare obbligatorio per
trasformare gli eserciti stabili (composti da professionisti) in eserciti temporanei (formati da
cittadini addestrati). All’attuazione di ciò si opponeva l’ostacolo economico (gli Stati non
avevano abbastanza risorse per armare e addestrare un gran numero di reclute) e politico/
sociale (sarebbe stato un rischio armare masse potenzialmente rivoluzionare contro lo
Stato). Inoltre la maggior parte del ceto borghese si dimostrava riluttante all’arruolamento,
facendo si che le truppe furono per lo più di bassa estrazione popolare.

Nonostante ciò la necessità politico/militare di avere un grande esercito come deterrente


e il grande sviluppo tecnologico, resero possibili la nascita dei moderni eserciti di massa.

Suffragio universale, sindacati e riforme sociali

Società di massa non fu sinonimo di società democratica. Tuttavia tra la fine dell’800 e
l’inizio del ‘900 ci fu una più larga partecipazione alla vita politica.
In quasi tutti i paesi dell’Europa Occidentale fu istituito il suffragio universale maschile,
che allargava il corpo elettorale alla stragrande maggioranza dei cittadini maschi
maggiorenni, indipendentemente dal ceto sociale.

Dall’allargamento del diritto di voto si affermò il nuovo modello del partito di massa,
basato su un organizzazione più strutturata e permanente, facente capo un unico centro
dirigente. Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale la vita pubblica e politica non era più
riservata a una stretta cerchia di persone privilegiate.

Un altro segno delle nuove dimensioni assunte dalla lotta politica e sociale fu la rapida
crescita delle organizzazioni sindacali. In Europa e nel resto del mondo industrializzato,
crebbero molte organizzazioni per i diritti dei lavoratori che fecero quasi ovunque valere i
propri diritti.

Con la crescita delle società di massa lo Stato fu costretto a tener conto a diverse
esigenze sociali. Furono istituiti sistemi di assicurazioni, previdenze e sussidi. Si
stabilirono controlli di sicurezza e igiene. Si cercò di arginare il lavoro minorile, nonché
concedere più diritti ai lavoratori.
Ci fu un estensione dei servizi pubblici e iniziative nel campo dell’istruzione e assistenza.

Per sopperire all’aumento delle spese statali ci fu anche una revisione del sistema
fiscale, per garantire e assicurarsi pagamenti più consoni ed equi all’interno della
popolazione.



La questione femminile

Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 cominciò ad emergere (sebbene in forme ancora
frammentarie e minoritarie) la “questione femminile”.
In quegli anni di profondi cambiamenti, le donne erano ancora escluse dagli ambiti sociali
e politici. Tuttavia la crescente società di massa portò le donne lavoratrici a una più viva
coscienza dei loro diritti.

Solo in Gran Bretagna però il movimento femminile (le suffragette) riuscì a imporsi
all’attenzione dell’opinione pubblica, concentrando la sua attività per il diritto al suffragio,
ottenendolo nel 1918.

I partiti socialisti e la Seconda Internazionale

I movimenti socialisti costituivano inizialmente delle piccole minoranze emarginate. Alla


fine del secolo però la situazione era mutata: in quasi tutta Europa sorsero partiti socialisti
che cercavano di organizzarsi sul piano nazionale, istituendo per primi il nuovo modello
del partito di massa.
Il primo e più importante di questi partiti fu quello socialdemocratico tedesco (Spd) il
quale fece da modello per i successevi partiti che sorsero nell’ultimo ventennio del secolo.

In Gran Bretagna nacque il Partito laburista che si fondava sulle organizzazioni sindacali
dei lavoratori.
Al di là delle diversità organizzative e ideologiche, tutti i partiti socialisti europei si
proponevano il superamento del sistema capitalistico, l’ispirazione a ideali internazionalisti
e pacifisti e l’attiva partecipazione politica del popolo.

La Seconda Internazionale fu fondata nel 1889 quando i rappresentanti di numerosi


partiti europei di ispirazione marxista si riunirono approvando alcune importanti linee di
azione, tra cui la proclamazione della giornata del lavoro del primo maggio.
In quegli anni i movimenti socialisti si ispiravano alla dottrina ufficiale del marxismo,
elaborata e divulgata da Engels e Kautsky, trovando l’appoggio della maggioranza dei
leader socialisti.

Col passare del tempo però presero corpo due opposti schieramenti:

• Quello in cui si doveva prendere atto dei vari mutamenti politici e sociali avvenuti
dopo Marx e rivalorizzare l’aspetto democratico/riformistico del socialismo. Secondo
Bernstein la società socialista non sarebbe nata da una rivoluzione ma da una
trasformazione graduale.

• L’altro che voleva recuperare l’originaria impostazione rivoluzionaria del marxismo,


come teorizzato dai gruppi di estrema sinistra di Liebknecht e Luxemburg.
Un opposizione tutta particolare fu quella della socialdemocrazia russa, capeggiata
da Nikolaj Lenin. Egli contestava il modello della socialdemocrazia tedesca e
proponeva il progetto di un partito votato alla lotta, guidato da “rivoluzionari di
professione”. Nel 1903 la tesi di Lenin ottenne la maggioranza e il partito si spaccò



in due correnti: quella bolscevica guidata da Lenin e quella menscevica guidata


da Martov.

I cattolici e la Rerum Novarum


Di fronte ai repentini cambiamenti politico/sociali di inizio secolo, la Chiesa si ritrovò
inizialmente spiazzata e reagì in modo complesso e articolato.
Riforme sociali ebbero grande impulso sotto il pontificato di Leone XIII. Si dimostrò
politicamente duttile: favorì il riavvicinamento tra Stato e Chiesa nei paesi dove erano
maggiori le tensioni e incoraggiò la nascita di nuovi partiti cattolici. Il documento più
importante fu l’enciclica Rerum novarum (1891) dedicata ai problemi della condizione
operaia.
Parallelamente venne emergendo una nuova tendenza politica definita democrazia
cristiana, che mirava a conciliare la dottrina cattolica con l’impegno politico, e una
corrente di riforma religiosa (il modernismo) che si proponeva di reinterpretare la dottrina
cattolica con una visione più progressista e moderna. Nel 1903 però, il nuovo papa più
tradizionalista Pio X vietò la partecipazione ai partiti democristiani e scomunicò il
modernismo.

Il nuovo nazionalismo
Nell’Europa delle società di massa l’importanza della nazione costituiva un fattore
centrale, sebbene gli ideali nazionali si modificarono profondamente.
Nell’800 il nazionalismo era stato fautore di movimenti di liberazione contro governi
autoritari e oppressivi ma le cose cambiarono quando i paesi più potenti d’Europa
legarono la grandezza nazionale alle guerre coloniali, con la presunta superiorità rispetto
a popoli ritenuti “inferiori”. Inoltre la crescita del socialismo (ch era internazionale e
pacifista) suscitò un ritorno di spiriti patriottici e guerrieri.

Il nazionalismo cominciò a tendere verso idee politiche di destra, collegandosi alle teorie
razziste allora in voga, come un forte tendenza all’antisemitismo.
In Germania queste idee conobbero un ampia diffusione, tanto da creare il mito della
“razza ariana”. Il nazionalismo tedesco era rivolto al passato e al mito del popolo (Volk)
tanto da fornire le basi a movimenti pangermanisti.

Anche nell’Impero russo le ideologie tradizionaliste erano legate a un forte antisemitismo,


dove gli ebrei erano discriminati e vittime di violenze (pogrom).
Di contro, una reazione all’antisemitismo e al risveglio nazionalistico ebreo, fu la nascita
del sionismo che si proponeva di restituire un identità nazionale al popolo ebraico,
fondando un loro Stato in Palestina.

La crisi del positivismo

I decenni precedenti alla Prima Guerra Mondiale coincisero con un età di decisivi
cambiamenti. Dalla metà dell’800 il panorama culturale europeo era stato dominato dal
positivismo, il quale divenne sempre meno adatto a spiegare i numerosi cambiamenti







politici, economici e sociali.
Si assisté alla nascita di nuove correnti irrazionalistiche e vitalistiche, dando molta
importanza alla realtà psicologica, diversa da quella fisica delle scienze esatte.

Primo e principale critico del positivismo fu Friedrich Nietzsche. Le sue teorie,


contrapposte alla società e tradizioni ormai in decadenza, conobbero una larga popolarità
a fine secolo.
In Germania la reazione al positivismo si espresse con una ripresa della filosofia
kantiana; in Italia vi fu una rinascita idealistica da parte di Benedetto Croce e Giovanni
Gentile; in Francia con Bergson e dagli Stati Uniti si diffuse in tutta Europa il pensiero del
pragmatismo che rivalutò filosoficamente scienze “pratiche” come psicologia e
pedagogia.

L’elemento comune a queste principali correnti filosofiche era un approccio più complesso
nei confronti delle “scienze esatte”, non più oggetto di quella fiducia illimitata che aveva
caratterizzato il positivismo.
Gli stessi sviluppi scientifici contribuivano a mettere in crisi le certezze su cui quella cultura
si era fondata: dalla fisica quantistica di Plank fino alla teoria della relatività di Albert
Einstein, la quale metteva in discussione la fisica classica.

Un altro elemento comune alle nuove principali correnti di pensiero fu l’attenzione alle
motivazioni non razionali, trovando un riscontro molto importante negli studi di Sigmund
Freud, ponendo le basi di un pensiero “inconscio”, che influenzarono profondamente la
mentalità delle

società occidentali, portando a rivalutare le scienze umane e sociali, anche grazie agli
studi di Max Weber.
Questi nuovi pensieri furono applicati inevitabilmente alla frenetica vita politica di allora,
contribuendo a determinare quel clima di sfiducia verso la democrazia, che portarono a
profondi e irreversibili cambiamenti in tutta Europa.

Capitolo 2 – L’Europa nella Belle Époque

Un quadro contradditorio

Negli anni a cavallo fra ‘800 e ‘900 l’Europa visse un periodo di forti contraddizioni, tra
sviluppo economico e inasprimento di tensioni sociali.
Questa realtà era costruita da due visioni contrapposte: da un lato quella idilliaca di un
epoca di progresso e benessere (la belle époque), dall’altro quella dominata dal
militarismo e imperialismo che porteranno allo scoppio della Grande Guerra.

In realtà la guerra non fu né un fatto scontato e inevitabile né una catastrofe accidentale e


imprevedibile: fu il prodotto sia di eventi casuali che di cause profonde tra contrasti
preesistenti.

Le nuove alleanze

Dopo le dimissioni del cancelliere tedesco Bismarck nel 1890, i rapporti fra le grandi
potenze europee si ruppero, dando luogo a un assetto bipolare fondato sulla
contrapposizione fra due blocchi di potenze.
L’imperatore tedesco Guglielmo II trovava difficoltà a tenere uniti i suoi due più grandi




alleati (L’impero austro-ungarico e l’Impero russo) e decise di rinnovare l’alleanza solo con
l’Austria.

Di contro la Russia, trovandosi esclusa, strinse un inaspettata alleanza militare con la


Francia.
In quegli anni il governo tedesco attuò una corsa agli armamenti navali con il conseguente
inasprimento dei rapporti con l’Inghilterra, mentre quest’ultima si riavvicinò alla Francia,
risolvendo alcuni contrasti coloniali (Intesa cordiale), e lo stesso fece con la Russia.

L’intesa tra queste tre potenze fu un duro colpo diplomatico per la Germania, la quale
continuava ad avere rapporti elusivamente con l’Austria e occasionalmente con l’Italia.
Così facendo nel primo decennio del ‘900 l’Europa era schierata nella Triplice Alleanza
(Germania, Austria, Italia) e Triplice Intesa (Inghilterra, Francia, Russia).

I conflitti di nazionalità in Austria - Ungheria

Nei decenni precedenti la Prima guerra mondiale, l’Impero asburgico vide aggravarsi un
declino economico e sociale.
Dal punto di visto economico l’Impero era povero ed essenzialmente agricolo. Lo sviluppo
interessò soltanto pochi centri urbani (come la capitale Vienna) mentre nel resto del paese
vigeva un sostanziale immobilismo politico di riforme economiche.

Principali motivi di crisi erano i conflitti nazionali interni. L’Austria - Ungheria non era un
paese socialmente e culturalmente compatto, con continui scontri politici e armati tra i
popoli slavi: serbi, croati e magiari.
Da queste pericolose tensioni sarebbe scoccata la scintilla che portò alla scoppio della
Grande Guerra nel 1914.

La Russia e la rivoluzione del 1905

Fra le grandi potenze europee la Russia era la sola che, alla fine dell’800, si reggesse
ancora su un sistema autocratico.

In questo clima di immobilismo politico, il paese compì il suo primo tentativo di decollo
industriale, aiutata dall’afflusso di capitali stranieri alleati, soprattutto dalla Francia.
L’industrializzazione fu però concentrata solo in poche zone, facendo rimanere isolate e
arretrate molte aree del paese ancora dominate dall’agricoltura. Per questo il decollo
industriale non cambiò né elevò il tenore della società russa.

In queste condizioni nacque una crescente tensione politica/sociale e, mentre nel


proletariato cresceva l’influenza del Partito socialdemocratico, fra i contadini aumentò la
popolarità del Partito socialista rivoluzionario.
La protesta sfociò ben presto in un enorme moto rivoluzionario. Nel 1904 la guerra col
Giappone fece salire la tensione sociale e nel 1905, a Pietroburgo, una manifestazione
davanti al Palazzo d’Inverno, residenza dello zar, venne repressa violentemente
(domenica di sangue), cosa che non fece altro che aumentare l’ondata di agitazioni.

Di fronte alla crisi dei poteri costituiti (gran parte delle forze armate era impegnata in
Giappone) sorsero nuovi organismi rivoluzionari, i soviet: rappresentanze popolari ispirati
a principi democratici. Il più importante di questi soviet, quello di Pietroburgo, assunse la
guida del movimento rivoluzionario in tutta la Russia.


Lo zar (Nicola II Romanov) parve disposto a cedere le libertà politiche e istituzionali
richieste. Nello stesso tempo però incoraggiava segretamente spedizioni punitive
(Centurie nere) contro i rivoluzionari. Infine, dopo che la guerra con Giappone finì e le
truppe rientrarono, il governo arrestò quasi tutti i membri del soviet, schiacciando le rivolte.

Una volta ristabilito l’ordine, restava, nel tentativo di calmare la popolazione, l’impegno
dello zar di convocare un’assemblea rappresentativa (Duma) nella speranza di aprire
nuovi spazi di libertà nella politica russa.
Ma, a causa di complicati sistemi politici che continuavano a favorire l’aristocrazia e
limitati poteri esecutivi, sia la prima che la seconda Duma furono sciolte nel 1907.

Mesi dopo l’inizio dell’esperimento parlamentare nel paese, il governo modificò la legge
elettorale favorendo sempre più gli aristocratici, facendo definitivamente tramontare gli
ultimi sforzi democratici della rivoluzione del 1905, con la Russia che tornava ad essere un
regime assolutista.

Artefice della restaurazione e repressione di ogni opposizione politica fu Stolypin che


successivamente avviò una riforma agraria nel 1911, nel tentativo di creare una piccola
borghesia rurale che però fallì.

Verso la guerra

Nel decennio precedente la Prima guerra mondiale i due blocchi di potenze, che si erano
venuti a formare in Europa, si fronteggiavano in un contesto internazionale sempre più
inquieto, dove ai vecchi contrasti si sommavano le nuove tensioni dell’aggressiva politica
estera tedesca.

Due furono i più pericolosi punti di scontro: l’ormai incontenibile focolaio balcanico e le
crisi del Marocco.
Tra il 1905 e il 1911 il territorio marocchino era conteso tra Germania e Francia.
Quest’ultima riuscì a spuntarla in modo diplomatico, grazie all’aiuto dei suoi alleati, e alla
Germania fu concessa una parte del territorio del Congo.

Diversa fu la situazione nei Balcani, dove difficilmente si sarebbe potuta raggiungere una
soluzione diplomatica, insieme alla crisi dell’Impero Ottomano che creava un’area di
continua turbolenza. Nel 1908 l’Impero Ottomano fu sconvolto dalla rivoluzione dei
Giovani turchi, i quali proponevano la trasformazione e modernizzazione dell’arretrato
Stato turco, la quale non solo non riuscì ma aggravò una situazione politica già
compromessa.

Dalla crisi interna dell’Impero Ottomano approfittò subito l’Austria - Ungheria con
l’annessione della Bosnia e dell’Erzegovina. Ci furono immediate tensioni con la Serbia
(la quale mirava a unire sotto il suo regno tutto il popolo slavo) e della Russia (protettrice
della Serbia). Ma l’Austria, appoggiata dalla Germania, riuscì a far accettare il fatto
compiuto, ottenendo un successo diplomatico ma anche un inasprimento nei rapporti.

Nel 1911 fu l’Italia a riportare alla ribalta l’intricato nodo balcanico. L’occupazione italiana
della Libia provocò una guerra con la Turchia, che venne sconfitta.
La disfatta turca stimolò le mire dei piccoli Stati balcanici. Serbia, Montenegro e Bulgaria
mossero guerra contro l‘Impero Ottomano, sconfiggendolo (Prima guerra balcanica). La
Turchia perse tutti i territori che aveva in Europa, mentre sulla costa meridionale
dell’Adriatico nasceva il principato di Albania, voluto da Austria e Italia per limitare il
potere della Serbia sul mare.

Al momento della spartizione dei territori conquistati però, nel 1913 la Bulgaria,
insoddisfatta dagli accordi, attaccò Grecia e Serbia. Alla Serbia vennero in loro soccorso
la Romania e la stessa Turchia (Seconda guerra balcanica). La Bulgaria sconfitta
dovette restituire parte dei territori.
Il bilancio finale delle due guerre balcaniche risultava sfavorevole per il resto degli Imperi
centrali: il loro maggiore alleato, l’Impero turco, era stato indebolito ed estromesso
dall’Europa; né una sorte migliore toccò alla Bulgaria; mentre la Serbia, vera spina nel
fianco dell’Austria - Ungheria, si era considerevolmente rafforzata.

In queste condizioni si faceva sempre più forte nei confronti dell’Austria la tentazione di
chiudere una volta per tutte i conti con la Serbia.
Ma tra districate alleanze politiche e militari, che muovevano i delicati equilibri europei, le
sorti della pace in Europa e nel mondo erano legate a un filo sottile.

Capitolo 3 – Le nuove sfide all’egemonia europea

Il ridimensionamento dell’Europa

Nei primi decenni del ‘900 si cominciarono ad avvertire i sintomi di un ridimensionamento


europeo nei confronti del resto del mondo.
L’idea di minaccia non giungeva tanto dall’ascesa degli Stati Uniti (considerati pur sempre
un’appendice e alleati europei) ma dai popoli dell’Estremo Oriente: dal Giappone che si
lanciò in una forte politica imperiale e dalla Cina, sempre più insofferente della gestione
delle colonie dei regimi europei.

L’incessante sviluppo democratico ed economico dei paesi asiatici fu sentito come una
minaccia all’egemonia europea che la definì come “pericolo giallo”.

La guerra russo-giapponese

Già alla fine dell’800 il Giappone diede inizio alle sue mire espansionistiche in Asia.
Nel 1984 puntarono sulla Corea (facente parte dell’Impero cinese) e la conquistarono
militarmente.
Le ulteriori mire espansionistiche verso Cina si scontrarono con la Russia, anch’essa
interessata a quei territori. Nel 1903 il Giappone propose un accorto sulla spartizione della
Manciuria, ma i russi, sottovalutando i rivali, rifiutarono ogni negoziato. L’anno seguente la
flotta nipponica attaccò quella russa finché non la sconfissero. Alla Russia non restò che
accettare la mediazione firmando il trattato di Portsmouth nel 1905.
Per l’impero zarista la sfortunata guerra contro il Giappone portò a un aggravamento delle
tensioni interne che sfociarono nella rivoluzione del 1905, ma anche in un
ridimensionamento della propria posizione internazionale.
Per l’Europa intera la sconfitta russa fu un trauma non da poco: per la prima volta nell’età
moderna un paese asiatico batteva una potenza europea.

La rivoluzione in Cina

Da inizio secolo l’Impero cinese era oggetto della pressione commerciale e militare delle
potenze europee e la sconfitta col Giappone in Corea non fece che accelerare varie crisi
interne. Ciò provocò la nascita di un movimento rivoluzionario conservatore (i boxers).
In seguito a una serie di violenze compiute dai boxers contro le presenze straniere, Stati
Uniti e Giappone si accordarono per un intervento militare che sedò le insurrezioni.





Tutto ciò mostrò da un lato la persistenza di un nazionalismo cinese che rendeva
impraticabile una spartizione dell’Impero, dall’altro la volontà del popolo di un
cambiamento di governo, più democratico e moderno.
L’intellettuale Sun Yat-sen fondò un organizzazione segreta (Lega di alleanza giurata)
basata sui principi fondamentali della democrazia, indipendenza e benessere del popolo.

Nel frattempo, la corte imperiale Manciù cercò di mettere in atto, senza successo, un
programma di modernizzazione, finché nel 1912 un’assemblea rivoluzionaria dichiarò
decaduta la dinastia ed elesse Sun Yat-sen presidente della Repubblica.
Il più antico impero del mondo crollò in poco tempo, ma la nuova Repubblica era destinata
a una vita travagliata. Il fragile compromesso tra le forze democratiche e conservatrici si
ruppe dopo poco. Nel 1913 Sun Yat-sen venne costretto all’esilio e fu instaurata una
dittatura che portò a una lunga stagione di guerre civili.

Imperialismo e riforme negli Stati Uniti

Negli Stati Uniti si andava rafforzando uno sviluppo economico industriale e agricolo che
non aveva paragoni in tutto il resto del mondo.
Questo grande incremento economico non fu privo di tensioni. Si affermarono
organizzazioni operaie e sindacali (il Partito laburista americano) per il riconoscimento
dei diritti sociali e limitare il potere delle corporation, che monopolizzavano il mercato.

A cavallo fra i due secoli vi fu una forte mira espansionistica dal punto di vista economico.
Sebbene agli Stati Uniti non interessava fondare direttamente un impero coloniale, si
assicurarono il controllo di territori lontani con un’egemonia commerciale sul Pacifico e
America Latina.
La prima manifestazione della nuova politica di potenza degli Usa si ebbe con l’intervento
di Cuba dove, nel 1985, era in atto una rivolta contro i dominatori spagnoli. Temendo la
fine dei rapporti commerciali con l’isola, gli Stati Uniti mossero guerra con la Spagna e la
sconfissero.

Cuba passò sotto tutela degli Usa e la Spagna dovette concedere parte dei territori nel
Pacifico, ampliando di gran lunga l’egemonia americana che divenne a tutti gli effetti una
nuova potenza mondiale.
La nuova vocazione imperiale degli Stati Uniti, unita a una componente riformista, si
manifestò appieno nella presidenza di Theodore Roosevelt, esponente progressista del
Partito Repubblicano.

L’occasione per mettere in atto entrambe le politiche di Roosevelt fu durante la questione


del

Canale di Panama. Inizialmente gli Stati Uniti ottennero l’autorizzazione dal governo
colombiano

di costruire il canale per collegare l’Oceano Pacifico a quello Atlantico. Quando


successivamente si rifiutarono, gli Stati Uniti minacciarono un intervento armato, finché
Panama non passò sotto la tutela degli Stati Uniti e il canale venne realizzato.
Imperialista e aggressiva all’estero, la politica interna di Roosevelt fu invece aperta ai
problemi e riforme sociali. Pur senza mai mettere in discussione i principi del capitalismo
americano, cercò anche di limitare il potere delle corporation.

Ma una volta che il mandato di Roosevelt finì, il Partito repubblicano si spaccò e alle
elezioni vinse il candidato Democratico Woodrow Wilson.





Nella politica estera Wilson si dimostrò più prudente e cauto, anche se non meno attento
alla tutela degli interessi statunitensi nel mondo.

Paradossalmente fu proprio questo che avrebbe condotto Wilson a intervenire in Europa


durante il primo confitto mondiale.

Capitolo 4 - L’Italia giolittiana

La politica estera, nazionalismo e guerra in Libia

Dalla caduta di Crispi (1896) la politica estera italiana fu più attenuata e, senza rinnegare il
vincolo della Triplice Alleanza, ci fu un riavvicinamento dei rapporti con la Francia.
Oltre a firmare nuovi trattati commerciali, nel 1902 l’Italia ottenne il riconoscimento dei suoi
diritti di proprietà sulla Libia, lasciando alla Francia il Marocco.

Alla Triplice Alleanza non piacquero gli accordi che l’Italia strinse con la Francia, di contro
anche all’Italia non piacque non essere presa in considerazione su alcune importanti
scelte politiche (come l’annessione della Bosnia-Erzegovina all’Austria), facendola
apparire come il partner più debole.

Nonostante le prime sfortunate imprese africane, si fece sempre più forte l’idea di non
rassegnarsi a una potenza coloniale di secondo piano rispetto al resto delle altre nazioni
europee. In questo clima si affermò un movimento nazionalista (Associazione
nazionalista italiana) che diede il via a una campagna in favore della conquista della
Libia.

Nel 1911 il governo italiano ritenne il momento giusto di far valere i precedenti accordi con
la Francia e inviò sulle coste libiche un contingente di uomini, scontrandosi con la reazione
del governo Turco.

Capitolo 5 - La prima Guerra Mondiale

Dall’attentato di Sarajevo alla guerra europea

Il 28 giugno 1914 l’anarchico serbo Gavrilo Princip uccise l’erede al trono d’Austria,
l’arciduca Francesco Ferdinando, a Sarajevo capitale della Bosnia.
Questo attentato terroristico si trasformò in un caso internazionale, mettendo in moto una
catena di eventi che fece precipitare l’Europa in un enorme conflitto.

Nell’intenzione di impartire una dura lezione alla Serbia infatti, l’Austria gli lanciò un
durissimo ultimatum. Forte dell’appoggio russo, il governo serbo ne accettò solo in parte
e il 28 luglio l’Austria dichiarò guerra alla Serbia.

Immediata fu la reazione del governo russo che ordinò la mobilitazione delle forze armate,
atto che sanciva la premessa di una guerra imminente.
La mobilitazione militare fu estesa all’intero confine occidentale, cosa che fu interpretata
dal governo tedesco come un atto di ostilità.

Il 31 luglio la Germania inviò un ultimatum alla Russia, che lo ignorò, e fu seguito dalla
dichiarazione di guerra.
Il giorno stesso la Francia, legata alla Russia da un alleanza militare, mobilitò anch’essa
le forze armate e la Germania rispose con un nuovo ultimatum e successiva dichiarazione
di guerra.



Fu dunque la Germania a far precipitare la situazione di una crisi che in fondo non la
riguardava direttamente. La Germania infatti da tempo si sentiva minacciata dalle due
potenze dell’Intesa e i suoi piani militari (elaborati già molto prima) si basavano sulla
rapidità e aggressività (piano Schliffen).

Presupposto essenziale per la riuscita del piano era la rapidità dell’attacco alla Francia,
così ad agosto i primi contingenti tedeschi invasero il neutrale Belgio per raggiungere
Parigi.
La violazione della neutralità belga scosse l’opinione pubblica e la Gran Bretagna, già in
cattivi rapporti con l’Impero tedesco, non poteva tollerare l’aggressione di un paese
neutrale a lei vicino e dichiarò guerra alla Germania. Per i governanti tedeschi l’intervento
dell’Inghilterra fu un inaspettato duro colpo.

In questa fase iniziale tutti i governi sottovalutarono la gravità del futuro scontro. Era
diffusa la convinzione che la guerra sarebbe stata breve e avrebbe contribuito al rafforzo
dei governi e classi dirigenti. Le previsioni si dimostreranno tutte sbagliate.
Nemmeno i partiti socialisti (internazionalisti e pacifisti) seppero sottrarsi al clima
patriottico dei molteplici governi e partiti a favore della guerra (“unione sacra”).

1914-1915: dalla guerra di movimento alla guerra di usura

Le accresciute possibilità di mezzi e di uomini consentirono ai belligeranti di mettere in


campo rapidamente truppe di proporzioni mai viste prima, meglio armati di qualsiasi altro
precedente esercito.
Furono soprattutto i tedeschi a puntare su una guerra di movimento nel fronte
occidentale contro la Francia, con la quale ottennero clamorosi successi iniziali lungo la
Marna.

Anche sul fronte orientale, le truppe tedesche ebbero la meglio sui russi, nelle battaglie
del Tannenberg e dei Laghi Masuri.

A settembre però, i francesi lanciarono un improvviso contrattacco che dovette far


retrocedere i tedeschi, costringendo gli eserciti ad attestarsi nelle trincee. Fallì così il
piano originale tedesco e cominciò una non prevista guerra di logoramento, o di usura.
In una guerra di questo genere, l’iniziale superiorità militare degli Imperi centrali della
Triplice Alleanza (Germania, Austria - Ungheria) passava in secondo piano, diventando
invece essenziali le numerose risorse degli Imperi dell’Intesa (Inghilterra, Francia,
Russia).

Un problema per entrambi gli schieramenti era costituito dall’atteggiamento di paesi rimasti
inizialmente estranei al conflitto. Molte potenze minori temevano di restare in disparte nel
futuro assetto politico che si sarebbe andato a creare, mentre altre cercarono di
approfittare della guerra per le loro ambizioni territoriali.

Così nell’agosto del 1914 il Giappone dichiara guerra alla Germania, per impadronirsi dei
suoi possedimenti in Asia; Turchia e Bulgaria intervengono a favore degli Imperi centrali;
nel 1915 l’Italia entra in guerra contro l’Austria - Ungheria per riottenere alcuni territori
contesi. Decisivo sarebbe risultato l’intervento degli Stati Uniti a favore dell’Intesa,
insieme ad altri paesi extraeuropei.

Sebbene gli scontri principali rimasero in Europa, la guerra era ormai diventata mondiale.

Triplice Intesa (e successivi alleati): Gran Bretagna, Francia, Russia, Serbia,


Giappone, Italia, Stati Uniti, Portogallo, Romania, Grecia, Brasile (e altre colonie in
Sud America e Pacifico).

Triplice Alleanza (o Imperi Centrali): Germania, Austria - Ungheria, Turchia, Bulgaria


(e altri stati minori in Europa dell’Est e del Nord)

L’intervento dell’Italia

A guerra scoppiata il governo Salandra aveva dichiarato la neutralità dell’Italia,


giustificata col carattere difensivo della Triplice Alleanza (l’Austria non era stata attaccata).
Ma una volta scartata l’ipotesi di un intervento a fianco degli Imperi centrali, si affacciò
l’eventualità di una guerra contro l’Austria, per riottenere quei territori persi durante il
movimento risorgimentale (Trento e Trieste).

Portavoce della linea interventista furono i partiti della sinistra democratica, frange
rivoluzionarie dei movimenti operai e i nazionalisti. Più moderati furono i liberal-
conservatori, di cui facevano capo il presidente del Consiglio Salandra e il ministro degli
Esteri Sonino.

La linea neutralista fu sostenuta dai liberali, cui faceva capo Giolitti, non ritenendo il
paese preparato a una guerra. Ostile all’intervento fu il mondo cattolico italiano, con il
nuovo papa dagli atteggiamenti pacifisti Benedetto XV. Il Partito socialista e la Cgl
condannarono la guerra, con la sola eccezione di Mussolini che, espulso dal partito,
fondò “Il Popolo d’Italia”.

In termini di forza parlamentare i neutralisti avevano la maggioranza, ma non costituivano


uno schieramento omogeneo. Di contro il fronte interventista era più coeso, dando il via a
una serie di moti popolari molto decisi.
Fin da subito Salandra e Sonnino allacciarono segretissimi contatti con l’Intesa, pur
continuando a trattare con gli Imperi centrali, per decidere da quale parte sarebbe più
convenuto schierarsi. Infine nell’aprile 1915 decisero, con la sola approvazione del re, di
accettare le proposte dell’Intesa (patto di Londra).

La maggioranza neutralista della Camera però (non a conoscenza del patto di Londra) si
schierava sempre di più sul non intervenire nel conflitto. Salandra rassegnato diede le
dimissioni, ma la volontà del Parlamento fu di fatto scavallata: non solo il re respinse le
dimissioni (mostrandosi così favorevole alla guerra) ma le crescenti manifestazioni
interventiste di piazza (le radiose giornate) imprimevano sempre più la loro volontà sui
parlamentari.

Per evitare un conflitto interno e andare contro lo stesso sovrano, la Camera approvò la
decisione del governo. Il 23 maggio 1915 l’Italia dichiarava guerra all’Austria.

1915-1916: la grande strage

Al momento dell’entrata in guerra, era diffusa in Italia la convinzione che una rapida
campagna militare sarebbe bastata per far volgere le sorti del conflitto a favore
dell’intensa. Non fu così.
Sul confine orientale le forze austro-ungariche rimanevano ben difese lungo l’Isonzo e le
alture del Carso. Contro queste linee nemiche, gli attacchi guidati dal generale Luigi
Cadorna non ebbero alcun successo.


Una situazione analoga si era creata sul fronte francese. All’inizio del 1916 i tedeschi
attaccarono Verdun, ma fu una carneficina da entrambe le parti. Lo stesso accadde
quando gli inglesi tentarono una controffensiva sul fiume Somme: ingenti perdite senza
nessuna vera importante vittoria.

Nel 1916 l’esercito austriaco sferrò un violento attacco nel Trentino, che colse di sorpresa
gli italiani. L’offensiva fu chiamata Strafexpedition, ossia “spedizione punitiva” contro l’ex
alleato. Dopo l’ennesimo insuccesso militare, Salandra fu costretto alle dimissioni e
sostituito da Paolo Boselli.

In realtà, fra il 1915 e 1916 i soli successi militari di qualche importanza furono conseguiti
dagli Imperi centrali: nell’estate del ’15 una grande offensiva tedesca cacciò i russi dalla
Polonia; in autunno gli austriaci invasero e misero fuori gioco la Serbia, mentre fallì
miseramente l’attacco della Francia alla Turchia nello stretto dei Dardanelli. Anche la
Romania, intervenuta a fianco dell’Intesa, venne sottomessa in breve dagli austro-
tedeschi.

Nonostante questi risultati, gli Imperi centrali restavano sempre inferiori all’Intesa per
risorse economiche e umane, subendo anche le conseguenze del blocco navale attuato
dagli Inglesi, dopo che riuscirono a sconfiggere la flotta tedesca nel Mare del Nord
(battaglia dello Jutland).

La guerra nelle trincee e la nuova tecnologia militare

Più di due anni di guerra non avevano risolto la situazione di stallo creatasi nell’estate del
‘14. Un’usura dovuta alla micidiale combinazione tra la vecchia dottrina militare e le nuovi
armi belliche.
Protagonista della guerra fu la trincea, fortificazione difensiva concepita all’inizio come
rifugio provvisorio, per poi diventare sempre più permanente e difficilmente espugnabile.

Pochi mesi di guerra nelle trincee furono sufficienti a far svanire l’entusiasmo patriottico
con cui si era iniziato il conflitto.
L’aumento del malcontento favorì sempre più numerosi “scioperi militari”, diserzioni e
ammutinamenti.

Scoppiato al termine di un periodo di grandi progressi scientifici ed economici, il Primo


conflitto mondiale si caratterizzò per l’applicazione dei nuovi ritrovati tecnologici: artiglierie
pesanti, mitragliatrici e armi chimiche. Ma sollecitò anche lo sviluppo di settori
relativamente giovani: l’aereonautica, la radiofonia, i carri armati e il sottomarino.

Furono i tedeschi ad attuare una feroce guerra sottomarina, attaccando non solo navi da
guerra nemiche ma anche navi mercantili neutrali, che portavano rifornimenti all’Intesa.
Queste offensive tedesche però sollevavano gravi problemi politici e morali, urtando in
particolar modo gli interessi commerciali degli Stati Uniti i quali, dopo l’affondamento del
transatlantico Lusitania, furono vicini a intervenire nel conflitto, cosa che convinse i
tedeschi a sospendere gli attacchi.

La mobilitazione totale e il “fronte interno”

Durante il conflitto anche le popolazioni civili furono investite dagli eventi bellici.

Caso estremo fu quello del popolo degli armeni, abitanti della regione turca del Caucaso,
diviso tra l’Impero russo e ottomano.

Già alla fine dell’800 gli armeni erano stati perseguitati, ma nell’estate del ’15, mentre
Russia Francia combattevano contro i turchi, furono deportati e sterminati.

La guerra condusse una serie di profonde trasformazioni economiche, politiche e sociali:


le industrie vennero riorganizzate per favorire un enorme intervento statale; i capi
maggiori militari avevano un potere quasi assoluto sul governo; tutti i mezzi dello Stato
erano indirizzati sulla guerra, anche per combattere i “nemici interni” e mobilitare la
popolazione con una forte propaganda.

Le uniche opposizioni al conflitto venivano pochi partiti socialisti, tra cui gli spartachisti
tedeschi e i bolscevichi russi, guidati da Lenin.
Anche papa Benedetto XV invitò più volte i governi a prendere in considerazione una
pace senza annessioni, per una guerra che definì un “inutile strage”.

1917: la svolta del conflitto

Nei primi mesi del ’17 due novità mutarono profondamente il corso della guerra.
A marzo uno sciopero generale a Pietrogrado sfociò in una sommossa contro il regime
zarista. Quando i soldati si unirono ai dimostranti, lo zar fu arrestato, mettendo in moto il
collasso militare russo.
Ad aprile gli Stati Uniti, per salvaguardare gli interessi economici minacciati dalla
Germania con la sua indiscriminata guerra sottomarina, intervennero militarmente a
fianco dell’Intesa. L’entrata in guerra degli Usa sarebbe risultata decisiva, compensando la
grave perdita dell’esercito russo.
Negli Imperi centrali si andavano moltiplicando i segni di stanchezza, dovuti a scioperi e
crisi interne, soprattutto nell’Impero austro-ungarico, dove l’andamento non brillante della
guerra aveva ridato forza a movimenti indipendentisti interni. Serbi, croati e slavi si
accordarono per la costituzione di un nuovo stato unitario (la futura Jugoslavia).
Consapevole del pericolo di disgregazione dell’Impero, il nuovo imperatore Carlo I avviò i
negoziati per una pace segreta, che fu respinta dall’Intesa.

L’Italia e il disastro di Caporetto

Anche per l’Italia il 1917 fu l’anno più difficile della guerra.

Cadorna ordinò una nuova serie di offensive sull’Isonzo, con risultati modesti. Inoltre fra la
popolazione civile si moltiplicavano i segni di malcontento per i disagi causati dal conflitto,
con manifestazioni e scioperi.
Fu in questa situazione che i comandi austriaci decisero di sfruttare la ritirata delle truppe
russe per infliggere un colpo decisivo all’Italia.

Il 24 ottobre 1917, un’armata austro-tedesca sfondò nei pressi di Caporetto, mettendo in


atto la tattica dell’infiltrazione: penetrare più rapidamente possibile in territorio nemico.
La manovra fu così efficace che buona parte delle truppe italiane furono costrette ad
abbandonare posizioni che tenevano dall’inizio della guerra.

L’esercito, praticamente dimezzato, dovette assestarsi sulla nuova linea difensiva del
Piave, perdendo moltissimo terreno e risorse.
Il generale Cadorna fu sostituito da Armando Diaz il quale, anche se con l’esercito
sconvolto dalla disfatta, riuscì a resistere sul Piave e sul Monte Grappa.





Da questo momento in poi l’Italia, con l’appoggio del nuovo governo guidato da Vittorio
Emanuele Orlando, affrontò una ben più gestibile guerra difensiva contro il popolo
austriaco.

1917-1918: l’ultimo anno della guerra

Fra il 6 e 7 novembre 1917 i bolscevichi presero il potere in Russia. Il governo


rivoluzionario presieduto da Lenin decise di porre fine alla guerra, firmando il 3 marzo
1918 l’armistizio con gli Imperi centrali (pace di Brest-Litovsk).
Per rispondere alla minaccia di un ulteriore “disfattismo rivoluzionario” e peggioramento
della guerra, il presidente americano Woodrow Wilson stilò un programma di pace in
quattordici punti. Oltre a invocare un periodo di pace e autonomia tra i popoli di tutta
Europa, propose l’istituzione di un nuovo organismo internazionale (la Società delle
nazioni) per assicurare il rispetto delle norme di convivenza fra i popoli.

In realtà i governanti dell’Intesa non condividevano del tutto il programma wilsoniano, ma


dovettero ugualmente far mostra di accettarlo, avendo bisogno dell’aiuto americano e
temendo una diffusione rivoluzionaria dalla Russia.
Nonostante i grandi mutamenti del ’17 e ’18, i due schieramenti erano ancora in una
situazione di stallo. Fu sul fronte francese che l’esercito tedesco tentò un ultimo disperato
attacco sulla Marna, mentre gli austriaci attaccarono in Italia sul Piave. Entrambi furono
respinti.

Alla fine di luglio le forze dell’Intesa, ormai totalmente appoggiate dagli Stati Uniti,
contrattaccarono ad Amiens, sconfiggendo definitivamente i tedeschi e facendoli ritirare.

La Germania capì di star perdendo la guerra e il nuovo governo di coalizione


democratica cercò il prima possibile di aprire le trattative per un armistizio, mentre i suoi
alleati crollavano militarmente. La prima a cedere fu la Bulgaria, poi l’Impero turco e infine
in Austria - Ungheria si consumò una crisi interna che portò all’indipendenza del popolo
degli slavi. Gli austriaci il 3 novembre 1918 firmarono l’armistizio con l’Italia a Villa Giusti.

In Germania la situazione precipitò. Dopo una serie di moti rivoluzionari, ai quali


parteciparono anche i socialdemocratici, fu proclamato un nuovo governo provvisorio che
l’11 novembre firmò l’armistizio con la Francia a Rethondes.
La Germania perdeva così una guerra che più degli altri aveva contribuito a far scoppiare.
Gli Stati dell’Intesa, grazie al supporto di una potenza extraeuropea, uscivano dal conflitto
vincitori, ma scossi per l’immane sforzo sostenuto.

La guerra, nata da una contesa locale e poi trasfromatasi in uno scontro totale in tutta
Europa, si chiudeva non solo con un tragico bilancio di perdite umane ed economiche ma
anche con drastiche conseguenze per tutto il continente europeo.

I trattati di pace e la nuova carta d’Europa

Una lunga e difficile conferenza di pace si aprì a Versailles il 18 gennaio 1919.


Si doveva ridisegnare la carta politica del vecchio continente, sconvolta dal crollo degli
Imperi centrali, garantendo quei principi di democrazia per cui i governi dell’Intesa
avevano combattuto. Questi problemi si manifestarono fra i capi delle forze vincitrici:
l’americano Wilson, il francese Clemenceau, l’inglese Lloyd George e l’italiano Orlando.
Secondo il programma indicato da Wilson, nei suoi “quattordici punti”, si sarebbe dovuto
tener conto del principio di nazionalità e volontà delle popolazioni interessate, atto in
pratica molto difficile da realizzare, con un’Europa popolata da molteplici gruppi etnici.






Il trattato di Versailles, firmato il 28 giugno 1919, fu una vera e propria pace punitiva per
la Germania (chiamata Diktat, ossia imposizione).
Dovette restituire l’Alsazia - Lorena alla Francia e molteplici territori per la ricostituzione
della Polonia. Venne inoltre privata delle sue colonie, spartite tra Francia, Gran Bretagna
e Giappone. Indicata nel trattato come responsabile della guerra, la Germania dovette
riparare economicamente agli altri Stati i danni subiti, costretta ad abolire il servizio di
leva e diminuire di molto l’esercito.
Erano condizioni umilianti per la Germania, che si vide enormemente ridimensionata tra le
maggiori potenze europee.

Anche la nuova Repubblica di Austria si trovò ridotta di moltissimi territori. A trarre


vantaggio dal crollo dell’Impero asburgico, oltre all’Italia, furono soprattutto i popoli slavi,
dichiarando l’indipendenza e insediandosi in nuovi Stati: Polonia, Cecoslovacchia e
Jugoslavia.
Gli Stati vincitori non riconobbero in Russia la nuova Repubblica socialista ma furono
dichiarati indipendenti i nuovi Stati di Finlandia, Estonia, Lettonia e Lituania. Una serie
di Stati cuscinetto (cordone sanitario) voluti per distanziare sempre più l’avanzata e
influenza russa in tutta Europa. Ad assicurare il rispetto del nuovo assetto territoriale e la
salvaguardia della pace avrebbe dovuto provvedere la Società delle nazioni.

Il nuovo organismo sovranazionale però, privo di un’efficiente organizzazione e di un reale


potere decisionale, non riuscì a far fronte alla future crisi internazionali fra le due guerre
mondiali.

Capitolo 6 – La rivoluzione russa

Da febbraio a ottobre

Quando nel marzo del 1917 il regime zarista fu abbattuto dalla rivolta di Pietrogrado, il
comando fu assunto da un governo provvisorio.
Obiettivo dichiarato del governo era continuare la guerra e modernizzare il paese
politicamente ed economicamente. Condividevano questa prospettiva il partito dei
cadetti, i menscevichi e i socialrivoluzionari.

Tutti e tre i partiti entrarono nel governo provvisorio, gli unici a rifiutare furono i
bolscevichi.
Il consenso di tutte le forze politiche non furono sufficienti per fondare su solide basi il
potere del governo provvisorio e, come accadde già nella rivoluzione del 1905, il potere
dei soviet (consigli di organismi rivoluzionari) si sovraespose a quello del governo. Quello
che la rivoluzione aveva ormai messo in moto era infatti un movimento di massa che
respingeva ogni forma di autorità centrale. In questo clima, nell’aprile del ’17, Lenin, capo
dei bolscevichi, rientrò in Russia e diffuse le sue tesi di aprile, in cui poneva le basi della
presa del potere, la necessità di conquistare la maggioranza nei soviet e di uscire dalla
guerra.
Questo programma portò molti consensi al Partito bolscevico ma lo allontanò ulteriormente
dal governo provvisorio. Ma, dopo che i bolscevichi si opposero e sventarono un colpo di
Stato, conquistarono la maggioranza nei soviet.

La rivoluzione d’ottobre

A ottobre i bolscevichi decisero di rovesciare con forza il governo. Organizzatore


dell’insurrezione fu Trotzkij, presidente del soviet di Pietrogrado.






Il 25 ottobre 1917, soldati rivoluzionari e milizie operaie (guardie rosse) si impadronirono


del Palazzo d’Inverno, incontrando scarsa resistenza.

Poco dopo si riuniva a Pietrogrado il Congresso panrusso dei soviet (l’assemblea soviet
di tutte le province russe) e approvarono due decreti proposti da Lenin: la fine della guerra
e la ridistribuzione della terra ai contadini.
Veniva frattanto costituito un nuovo governo rivoluzionario, composto solo da bolscevichi
di cui Lenin era presidente, chiamato Consiglio dei commissari del popolo.

La maggioranza dei partiti risiedenti nel governo provvisorio protestarono contro l’atto di
forza e convocarono l’Assemblea costituente per le elezioni. I risultati sfavorirono
enormemente i bolscevichi e i socialrivoluzionari ebbero la maggioranza assoluta.
Non intenzionati a rinunciare al potere appena conquistato, i bolscevichi sciolsero
militarmente l’Assemblea. Lenin non credeva nella “democrazia borghese” e riconosceva
solo al proletariato di guidare il paese, attraverso l’espressione diretta dei soviet.

Cosi facendo però, poneva le premesse per una dittatura di partito.

Dittatura e guerra civile

Se era stato facile per i bolscevichi impadronirsi del potere, difficile si presentava il
compito di gestirlo in un paese immenso come la Russia. Soprattutto per il fatto di non
poter contare sull’appoggio di altre forze politiche, estromesse con la forza o fuggite
(emigrazione politica).
I leader bolscevichi speravano di poter subito procedere alla costruzione di un nuovo
Stato proletariato, secondo un modello di autogoverno delineato da Lenin, in cui lo Stato
stesso avrebbe cessato di esistere e le masse si sarebbero autogovernate.

Per la guerra i bolscevichi puntavano a una pace equa e democratica, ma al contrario la


pace di Brest-Litovsk con la Germania fu un duro trattato in cui persero molti territori.
Gravissime furono le conseguenze coi rapporti dell’Intesa, che considerò il trattato di pace
un atto di tradimento e appoggiarono forze antibolsceviche (Armate bianche).

I “bianchi”, rafforzati da truppe dell’Intesa, cominciarono una dura opposizione verso il


nuovo governo, dando il via a una guerra civile.
Frattanto il regime rivoluzionario accentuò i suoi tratti autoritari: istituì una polizia politica
(Ceka), un Tribunale rivoluzionario e riorganizzò l’esercito (Armata rossa).

Capitolo 7 – L’eredità della Grande Guerra

Mutamenti sociali, nuove attese e il ruolo della donna

La Grande Guerra fu la prima grande esperienza di massa della Storia, accelerando


enormemente mutamenti sociali, politici ed economici di interi paesi.
Uno dei primi problemi fu il reinserimento dei reduci in una società lavorativa totalmente
diversa da come l’avevano lasciata. Le associazioni di ex combattenti agivano in difesa
dei valori e interessi di chi aveva rischiato la propria vita nel conflitto, ma le provvidenze a
loro offerte dagli Stati (in gravi problemi finanziari) furono modeste.

La guerra aveva dimostrato il principio di organizzazione applicato alle masse,


portando associazioni e partiti a organizzarsi in gruppi sempre più numerosi
(massificazione della politica), alla ricerca di un ordine nuovo in tutta Europa.



L’invio di milioni di uomini al fronte travolse il tradizionale ordine sociale e familiare,
aprendo nuovi spazi alle donne, soprattutto nel mondo del lavoro.

Questo processo di emancipazione ebbe un riscontro anche nel riconoscimento di alcuni


diritti, come il diritto di voto, nella maggior parte degli Stati Europei e America.

Le conseguenze economiche

Con la sola eccezione degli Stati Uniti, tutti i paesi belligeranti uscirono dalla guerra in
condizioni di gravissimo dissesto economico.
Per far fronte alle enormi spese, i governi aumentarono le tasse e il debito pubblico, fino
a indebitarsi massicciamente con i paesi amici, in primo luogo gli Stati Uniti.

Tutto ciò non fu sufficiente a coprire le spese di guerra, mettendo in moto un rapido
processo di inflazione. L’enorme aumento di prezzi e lo sconvolgimento della
distribuzione della ricchezza, rendeva sempre più problematico il raggiungimento della
pace sociale.
Quattro anni di conflitto avevano inferto un durissimo colpo alla supremazia commerciale
europea e gli altri paesi del mondo (in particolare Stati Uniti e Giappone) aumentarono le
esportazioni, diventando sempre più indipendenti dal vecchio continente.

La nascita di nuovi Stati in Europa non aiutò e nel dopoguerra si ebbe una ripresa del
nazionalismo economico e protezionismo doganale.
Grazie all’aiuto dello Stato, l’industria europea riuscì inizialmente a risollevarsi. Ma la
ripresa poggiava su basi fragili e nel giro di pochi anni, insieme a una serie di intense lotte
sociali, si ritornò a una fase depressiva che, negli anni ’20, portò alla crisi di molte
imprese.






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