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Premessa

15 Il diritto amministrativo ha acquisito in


tempi
recenti una configurazione più stabile, nonostante
l’incessante produzione
legislativa.
Sul versante dell’attività
amministrativa, dopo
trent’anni dall’approvazione della legge 7 agosto
1990, n. 241 sul procedimento amministrativo, che
segnò una cesura nel modello di rapporto tra
cittadino e pubblica amministrazione, molti
istituti
sono ormai consolidati. Il diritto amministrativo
ha dismesso in gran parte
l’incrostazione
autoritaria originaria e ha assunto una
connotazione più garantista ancorata
al principio
di legalità, si è aperto a moduli consensuali, ha
incorporato i principi di
trasparenza,
partecipazione, efficienza, ecc. Con le modifiche
introdotte nel 2005 alla l. n. 241/1990 anche il
provvedimento amministrativo trova ormai una
disciplina generale.
Sul versante dell’organizzazione, anche
in seguito
alla riforma costituzionale del 2001, sono visibili
più coordinate: la
sussidiarietà verticale con
devoluzione di molte competenze dallo Stato alle
regioni e agli
enti locali; la sussidiarietà
orizzontale, con il coinvolgimento dei privati nello
svolgimento di attività d’interesse pubblico in
forme variegate di partenariato pubblico e
privato;
la parabola discendente delle forme organizzative
pubblicistiche e la comparsa di
modelli privatistici
ibridi come le società di diritto singolare in mano
pubblica e le
società in-house; l’assestamento di
nuovi tipi di apparati come le
autorità
amministrative indipendenti.
Sul versante processuale, il Codice del processo
amministrativo del 2010 ha razionalizzato la
disciplina, in precedenza frammentaria, che
richiedeva un ripensamento complessivo.
Infine, il diritto amministrativo è ormai
compenetrato nel diritto europeo e da esso trae
continuamente linfa innovativa. La sua
influenza si
è infatti accresciuta negli ultimi decenni non solo
nei settori di legislazione
amministrativa speciale
(ambiente, contratti pubblici, ecc.), ma anche con
riguardo a
istituti generali. Si pensi, per esempio,
ai principi in materia di regimi autorizzatori, ai
principi di proporzionalità e di tutela del legittimo
affidamento, ai criteri per definire
il perimetro
16 della pubblica amministrazione al fine di applicare
la
disciplina dei contratti pubblici, oppure alle
regole sul Patto di stabilità.
L’evoluzione sin qui tratteggiata sembra
ormai non
reversibile, almeno nel tempo prevedibile, e
costituisce una base sufficientemente
solida sulla
quale costruire le linee portanti del diritto
amministrativo.
Questo manuale si propone dunque di
offrire
un’esposizione organica, anche se relativamente
sintetica, del diritto
amministrativo generale,
tenendo presenti le direttrici di fondo nelle quali
inserire i
singoli istituti e concetti, senza inseguire
tutte le novità legislative o
giurisprudenziali. Non
si prefigge di trattare in modo esauriente le singole
submaterie che
formano il diritto amministrativo
speciale e che sono incluse in trattati più ampi o
esposte
in manuali settoriali.
L’ordine di esposizione non è quello
tradizionale.
Infatti, dopo aver operato nel capitolo I
della parte
prima un inquadramento generale del diritto
amministrativo, il capitolo II
espone quella che
può essere definita come la funzione di
regolazione delle pubbliche
amministrazioni.
Queste ultime hanno ormai a disposizione una
molteplicità di strumenti
formali e informali per
condizionare e indirizzare i comportamenti dei
soggetti privati. La
funzione di regolazione, specie
quella esercitata dalle cosiddette autorità
amministrative
indipendenti, ha assunto un rilievo
crescente nel corso degli anni. Essa è quasi
equiparabile a quella più tradizionale costituita
dalla funzione di amministrazione attiva
volta alla
cura concreta degli interessi pubblici che si
esprime in atti e provvedimenti
amministrativi.
Prima di analizzare i principali strumenti di
regolazione, il capitolo II
riprende sinteticamente
il sistema delle fonti del diritto, che secondo un
indirizzo
metodologico dovrebbe essere invece
pertinenza esclusiva del diritto costituzionale.
Alla funzione di amministrazione attiva
è dedicata
la parte seconda. Si sono ritenuti ormai maturi i
tempi per inquadrare la
relazione potere-interesse
legittimo nel prisma del rapporto giuridico
amministrativo,
nozione che affiora anche nella
giurisprudenza e che non è sovrapponibile in tutto
e per
tutto al rapporto obbligatorio civilistico.
L’esposizione della teoria del provvedimento
precede quella relativa al procedimento, poiché la
struttura e la dinamica di quest’ultimo
possono
essere colte meglio dopo aver chiarito le
caratteristiche del primo.
La parte terza, dedicata ai profili
organizzativi,
segue quella relativa ai profili funzionali. È questa
l’innovazione
espositiva più rilevante che ha più
giustificazioni.
Per un verso, sotto il profilo
didattico, il regime del
potere, dell’atto e del procedimento costituisce la
parte più
caratteristica e formativa del diritto
amministrativo, mentre l’organizzazione, almeno
in
alcune sue parti, ha una valenza più informativa,
dovuta alla necessità di fornire un quadro
completo delle tipologie di apparati pubblici
esistenti e del diritto positivo. Sembra
preferibile
dunque che il lettore si confronti subito con le
strutture fondamentali e le
specificità dell’agire
amministrativo. Per altro verso, ormai anche
soggetti formalmente
privati sono titolari di poteri
amministrativi e sono sottoposti alla disciplina
generale
dell’atto e del procedimento. Pertanto
17 l’esposizione dei principi sull’attività
amministrativa non presuppone più lo studio degli
apparati
amministrativi. Per altro verso ancora,
l’organizzazione deve essere ritagliata sulle
funzioni e sulle attività svolte da ciascun apparato
e queste ultime dunque hanno una
priorità logica.
La parte terza tratta anzitutto dei
principali
modelli di enti e apparati pubblici e dei modelli
organizzativi dei servizi
pubblici (capitoli VIII e
IX). Seguono i capitoli dedicati agli strumenti dei
quali ha
bisogno la pubblica amministrazione, al
pari di ogni tipo di organizzazione, per operare:
personale, beni, contratti, risorse finanziarie.
La parte quarta, condensata in un solo
capitolo,
espone i lineamenti generali della giustizia
amministrativa che, sotto il profilo
didattico,
vengono approfonditi in corsi specialistici. In
realtà, già la parte prima pone
attenzione ai riflessi
processuali del diverso atteggiarsi delle situazioni
giuridiche
sostanziali e ai bisogni di tutela
(annullamento, risarcimento, adempimento) ad
esse
correlati. Questa scelta metodologica si
giustifica anche sul piano storico, dato che gli
istituti sostanziali e processuali del diritto
amministrativo si sono sviluppati sempre in
parallelo. Inoltre non appare possibile cogliere
appieno il significato dei primi senza aver
presenti
i secondi.
Il volume è il risultato di un’attività
di
insegnamento universitario iniziata nel 1988,
attinge ai risultati di un’attività di
ricerca svolta in
occasione di pubblicazioni, di relazioni a convegni
e di periodi di studio
all’estero. Mette altresì a
frutto l’esperienza professionale nella quale si
toccano con
mano i problemi applicativi e molto
spesso le disfunzioni dell’agire amministrativo.
Il manuale è pensato anzitutto per gli
studenti
universitari. Per questo si è cercato di curare la
chiarezza dell’esposizione, pur
nella complessità
delle nozioni esposte. Per illustrare i concetti
principali si è seguito
il criterio didattico di porre
la definizione astratta, indicare i riferimenti
normativi,
offrire uno o più esempi concreti. Si è
cercato di esporre la ricostruzione standard dei
singoli istituti, anche sulla base degli orientamenti
giurisprudenziali (che restano per lo
più sullo
sfondo o sottintesi), prima di dar conto delle
tendenze più innovative. Si è data
per presupposta
soltanto la conoscenza di base del diritto
costituzionale e del diritto
civile. Quest’ultimo in
particolare, per scelta metodologica, è spesso
richiamato «per
differenza», cioè per far risaltare
la specificità del diritto amministrativo.
Il volume ambisce a essere utile anche a
un giurista
già formato, magari su testi più risalenti, che
riflettono ancora il «vecchio»
diritto
amministrativo, tutt’al più con qualche
riverniciatura del «nuovo», e che voglia
ripensare i
fondamenti della disciplina e le tendenze in atto.
Il manuale è ormai alla quinta edizione.
Gli
aggiornamenti operati nelle edizioni precedenti
hanno riguardato principalmente le
riforme
amministrative avviate con la cosiddetta legge
Madia di delega 7 agosto 2015, n. 124
(seconda
edizione); il Testo unico sulle società a
partecipazione pubblica approvato con
d.lgs. 19
agosto 2016, n. 175 approvato in attuazione della l.
n. 125/2015 e il Codice dei
contratti pubblici
approvato con d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 (terza
18 edizione); il Codice
del Terzo settore approvato
con d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117 e il
Codice dei dati
personali reimpostato in attuazione del
regolamento (UE) 2016/679, le
modifiche al
Codice dei contratti pubblici approvate con il d.l.
18 aprile 2019, n. 55
cosiddetto «Sblocca cantieri»
(quarta edizione). Gli aggiornamenti hanno
riguardato anche la
giurisprudenza dando conto
per esempio delle sentenze della Corte europea dei
diritti
dell’uomo del 2014 sul caso Grande Stevens in
tema di sanzioni, della
Corte costituzionale n. 45
del 2019 sulla segnalazione certificata d’inizio
dell’attività,
dell’Adunanza Plenaria del Consiglio
di Stato n. 5 del 2018 sul principio di correttezza e
buona fede. La struttura del manuale è rimasta
sostanzialmente invariata.
Anche per questa edizione il testo
completo è
disponibile su Pandoracampus
(www.pandoracampus.it), piattaforma descritta
nelle prime pagine
del libro, che mette a
disposizione di professori e studenti nuovi
strumenti digitali per la
didattica e
l’apprendimento.
CAPITOLO 1

Introduzione

23
1. Premessa

Il diritto amministrativo può essere


definito, in
prima    Definizione di diritto
  amministrativo
approssimazione,
come la branca del
diritto pubblico interno che ha per oggetto
l’organizzazione e l’attività della pubblica
amministrazione. Esso riguarda in particolare i
rapporti che quest’ultima instaura con i
soggetti
privati nell’esercizio di poteri ad essa conferiti
dalla legge per la cura di
interessi della collettività.
Secondo una delle prime definizioni, proposta da
Vittorio
Emanuele Orlando nei Principii di diritto
amministrativo [1891,
17], il diritto amministrativo è
«il sistema di quei principii giuridici che regolano
l’attività dello Stato per il raggiungimento dei suoi
fini».
I  l diritto amministrativo si compone
di un corpo di
regole e di principi, autonomo dal diritto privato,
che si è andato
formando nell’Europa continentale
nel corso del XIX secolo in parallelo all’evoluzione
dello Stato di diritto.
Rispetto alla tradizione millenaria
del diritto
privato, si tratta dunque di un diritto recente. Le
locuzioni
administration publique e bureaucratie
comparvero per la prima volta in Francia intorno
alla metà del XVIII secolo in relazione
alla nascita
e al consolidarsi di uno strumento organizzativo e
operativo nuovo (gli
apparati burocratici) posto al
servizio del sovrano assoluto. In epoca
napoleonica si
iniziò a utilizzare l’espressione droit
administratif e il primo
trattato di diritto
amministrativo fu pubblicato da Gian Domenico
Romagnosi nel 1814.
Solo verso la fine del XIX
secolo la disciplina trovò un inquadramento più
compiuto.
Del resto la distinzione, già nota
al diritto  romano
(Ulpiano), tra diritto   Diritto pubblico e
  diritto
privato
pubblico
(quod ad
statum rei Romanae
spectat) e
diritto privato (quod ad singulorum
utilitatem) rimase in uno stato
embrionale fino in
epoca moderna.
I  l diritto pubblico si ricollega
infatti culturalmente
al dibattito politico e filosofico settecentesco sul
fondamento e
sulla legittimità del potere del
sovrano. Assunse poi la consistenza di una branca
24 sviluppata del diritto allorché giunse a
maturazione lo Stato
costituzionale di diritto
(Rechtsstaat, État de
droit), con tempistiche e
modalità differenziate nei singoli Stati, a
partire
dalla Rivoluzione francese (1789). Le costituzioni
liberali ottocentesche (in
Piemonte, lo Statuto
albertino del 1848) posero le basi normative a
partire dalle quali la dottrina, soprattutto tedesca
(Georg Jellinek, Paul Laband, Otto
Mayer), elaborò
i concetti fondamentali del diritto pubblico
(sovranità, Stato persona,
diritti pubblici
soggettivi, ecc.).
Il diritto amministrativo può
essere avvicinato
lungo una pluralità di percorsi. In primo luogo,
esso va colto in una
prospettiva storica, dando
conto di due processi: l’emergere di apparati
amministrativi
stabili al servizio del sovrano e
l’evoluzione della struttura della pubblica
amministrazione in relazione alle funzioni assunte
via via dallo Stato; la progressiva
sottoposizione
della pubblica amministrazione ai principi dello
Stato di diritto e la
formazione di un diritto
speciale ad essa applicabile. In secondo luogo, è
utile muovere
dalle scienze sociali che analizzano
con i propri metodi il fenomeno delle
amministrazioni pubbliche e gettano le basi
concettuali della teoria della regolazione
(regulation). In terzo luogo, occorre fissare le
distinzioni e
i nessi del diritto amministrativo con
altre branche del diritto (diritto
costituzionale,
diritto europeo, diritto privato, diritto penale).
Infine, conviene
prendere in considerazione alcuni
caratteri generali e le principali partizioni della
materia.
2. Modelli
di Stato e nascita del
diritto amministrativo
2.1. Stato amministrativo

La presenza di apparati
burocratici organizzati
secondo criteri razionali è una costante nella
storia. Fin
dall’antichità i grandi imperi, in Oriente
e in Occidente, si dotarono di strutture
burocratiche stabili senza le quali nessun sovrano
sarebbe stato in grado di
esercitare il proprio
potere e di dominare territori talora assai estesi.
L’impero
romano fu l’esempio forse più sviluppato
di organizzazione burocratica volta a dare
ordine e
tendenziale uniformità all’azione di governo.
Ma gli esempi antichi non sono
di aiuto per
comprendere il fenomeno amministrativo nella
realtà contemporanea. I
presupposti culturali,
sociali, politici e costituzionali di epoche così
lontane
sono troppo eterogenei rispetto a quelli
dell’epoca moderna. Si pensi soltanto alla
presenza
della schiavitù o alla divisione rigida delle classi
sociali.
Bisogna invece prendere le
mosse dalla formazione
degli Stati nazionali in Europa a partire dal XVI
secolo e
dal graduale superamento
dell’ordinamento feudale. Quest’ultimo era
caratterizzato
da un’organizzazione politica
policentrica e pluralistica, fondata su rapporti
personali di tipo pattizio (vassallaggio) e su ampie
autonomie e privilegi
riconosciuti a ordinamenti
decentrati (comuni e città, ceti e corporazioni).
Caratteristica era l’assenza di un centro di potere
25 unitario effettivo. Tale non fu
mai il sacro romano
imperatore, in lotta perenne per la
sovranità con il
papato e con i feudatari. Per esercitare il suo
potere non
disponeva di un’amministrazione di
tipo professionale al proprio servizio e neppure
di
un esercito.
Considerando come paradigmatico
il caso
francese, la nascita    La nascita dello Stato
  moderno
dello Stato moderno,
con
l’unificazione del
potere politico in capo al re (Stato assoluto), andò
di pari
passo proprio con la formazione di apparati
amministrativi, al centro e in
periferia, posti alle
dirette dipendenze del sovrano (gli intendenti del
re) e
contrapposti ai poteri locali.
 L’accentramento burocratico,
cioè la formazione di
uno Stato amministrativo, costituì un modo per
ricondurre a
unitarietà, in capo al sovrano, il
potere politico e statuale (secondo la nota
affermazione di Luigi XIV «Lo Stato sono io»).
Nell’esperienza francese lo Stato
assoluto dunque
si connotava come Stato amministrativo.
Era inoltre uno Stato che
estendeva il suo raggio di
azione a numerosi campi. In Francia esso ebbe un
ruolo
propulsivo (mercantilismo, colbertismo) che
si esplicò in interventi di direzione,
regolazione e
gestione diretta di attività economiche (per
esempio, le manifatture
reali per la produzione di
porcellane e di altri beni).
Nel corso del XVIII secolo lo
Stato assoluto
assunse i caratteri dell’assolutismo illuminato (per
esempio, in
Austria o in Prussia). Emerse cioè
quello che va sotto il nome di Stato di polizia
(Polizeistaat, ove «polizia» va intesa nel significato
originario di politeia, cioè attinente alla
polis). Lo
Stato di polizia garantiva la convivenza
ordinata e
promuoveva il benessere della collettività
(Wohlfahrtstaat), offrendo, con visione
paternalistica, ai
propri sudditi provvidenze di
vario genere.
Presero anche corpo filoni di
studi, come la
scienza della «polizia» (Polizeiwissenschaft) e
la
cameralistica, assimilabile per molti aspetti alla
scienza dell’amministrazione e
alla scienza delle
finanze. Queste discipline studiavano i metodi di
buona gestione
della cosa pubblica nell’interesse
delle finanze statali e per la soddisfazone dei
bisogni della collettività.
L’espansione dei compiti dello
Stato e
l’attribuzione di poteri  amministrativi ai
funzionari delegati   La funzione
  amministrativa
del sovrano e a
strutture
burocratiche fecero emergere a poco a
poco la
funzione amministrativa come funzione autonoma,
non più inglobata in quella
giudiziaria.
 Infatti in epoca medievale
soltanto la funzione
legislativa (imperium) e la funzione
giudiziaria
(jurisdictio) avevano assunto una fisionomia
definita. In Inghilterra, in particolare, i giudici di
pace (justices of
the peace) assommavano poteri
giurisdizionali e poteri che oggi
definiremmo come
amministrativi (come, per esempio, le
espropriazioni).
Il potere esecutivo acquisì un
profilo più
autonomo solo in seguito alla formulazione della
teoria della
separazione dei poteri. E a lungo la
dottrina fece fatica a porre una definizione di
attività amministrativa. Ci si accontentò di
individuarla, in via negativa e
residuale. Secondo
uno dei padri del diritto amministrativo, Otto
Mayer,
l’amministrazione è infatti «l’attività dello
Stato che non è legislazione o
giustizia» («die
Tätigkeit des Staates, die nicht Gesetzgebung oder
Justiz ist»)
[1914].
Il modello dello Stato assoluto
entrò in crisi con la
Rivoluzione francese del 1789 e con le costituzioni
26
liberali
approvate nei decenni successivi
nell’Europa continentale
che segnarono la nascita
del modello dello Stato di diritto (o Stato
costituzionale).
2.2. Stato di diritto e Stato a regime di
diritto amministrativo
Lo Stato di diritto
(État de droit, Rechtsstaat,
Rule of
law) è oggi uno dei principi fondanti dell’Unione
europea, insieme a quelli della dignità umana, della
libertà, della democrazia,
dell’uguaglianza e del
rispetto dei diritti umani (art. 2 del Trattato
sull’Unione europea). Il Preambolo della Carta di
diritti fondamentali dell’Unione
europea
proclamata a Nizza nel 2000 richiama il principio
dello Stato di
diritto, insieme a quello della
democrazia. A livello internazionale, nel 2005 le
Nazioni Unite affermarono solennemente «the
need for
universal adherence to and
implementation of the Rule of law at both national
and
international levels».
Lo Stato  di diritto si   Gli elementi
  strutturali
dello Stato
regge su alcuni di diritto
pilastri che occorre
richiamare
sinteticamente. Essi costituiscono infatti le
precondizioni necessarie
per sottoporre gli
apparati amministrativi alla signoria della legge e
dunque per la
stessa nascita di un diritto
amministrativo.
 
1. In primo luogo, lo Stato di diritto
presuppone il
trasferimento della titolarità della sovranità dal
rex
legibus solutus (e legittimato in base al
principio
dinastico) a un parlamento eletto da un corpo
elettorale, dapprima
ristretto poi sempre più
esteso (suffragio universale).

2. Inoltre, esso si fonda sul principio


della
tendenziale separazione dei poteri, necessaria per
rompere il
monopolio del potere in capo al
sovrano assoluto, unita alla previsione di
un
sistema di pesi e contrappesi (checks and balances)
volto a evitare abusi a danno dei cittadini. A questi
ultimi le costituzioni
riconoscono e garantiscono
alcuni diritti fondamentali (libertà personale,
proprietà, ecc.). Secondo la tripartizione dei
poteri, teorizzata per la
prima volta nel XVIII
secolo da Montesquieu, il potere legislativo spetta
a
un parlamento elettivo, il potere esecutivo al re e
agli apparati
burocratici da esso dipendenti, il
potere giudiziario a una magistratura
indipendente.
Il potere esecutivo viene così
sottoposto alla legge,
cioè alla supremazia del parlamento, espressione
della volontà popolare. Per i suoi caratteri di
generalità e di astrattezza,
la legge garantisce
l’uguaglianza e i diritti di libertà dei cittadini
contro gli arbitri dell’esecutivo.

3. Un terzo elemento strutturale dello


Stato di
diritto è l’inserimento nelle costituzioni di riserve
di legge.
Queste escludono (riserva di legge
assoluta, come quella in materia penale)
o limitano
(riserva di legge relativa, come quella in materia
tributaria)
anzitutto il potere normativo del
governo.
Il potere regolamentare
dell’esecutivo, come si
vedrà, è infatti ammesso esclusivamente nelle
materie non sottoposte a riserva di legge assoluta.
Nelle materie coperte da
riserva di legge relativa
esso può esplicarsi solo nel rispetto dei limiti e
dei
principi stabiliti dalla legge (regolamenti
esecutivi). Anche i poteri
puntuali
dell’amministrazione che si manifestano in
provvedimenti volti a
incidere sui diritti dei
27 cittadini (espropriazioni,
ordini, sanzioni,
autorizzazioni, licenze, ecc.)
devono trovare un
fondamento nella legge. Il principio di legalità,
come si
vedrà, si pone al centro dell’intera
costruzione del diritto amministrativo.

4. Per rendere effettive la


sottoposizione del
potere esecutivo alla legge e la garanzia dei diritti
di
libertà, lo Stato di diritto richiede un quarto
elemento: che al cittadino
sia riconosciuta la
possibilità di ottenere la tutela dei diritti vantati
nei confronti della pubblica amministrazione
innanzi a un giudice
imparziale, indipendente dal
potere esecutivo.
In Francia  e in altri   Lo Stato a regime di
  diritto
amministrativo
Paesi dell’Europa
continentale, la
giustizia
nell’amministrazione venne realizzata,
come si vedrà, attraverso l’istituzione verso
la fine
del XIX secolo di un giudice speciale, separato dal
giudice ordinario, che
favorì la nascita del diritto
amministrativo. Il Conseil d’État
in Francia e il
Consiglio di Stato in Italia, infatti, fin dalle loro
prime
decisioni elaborarono un corpo di principi,
autonomo rispetto al diritto comune, che
regolava
l’organizzazione e l’attività amministrativa. Lo
Stato di diritto sfociò
dunque nella variante
costituita dallo Stato di diritto a regime di diritto
amministrativo.
  ei Paesi di common
law il principio della Rule of law
N
implicava
invece che all’amministrazione non
fosse riconosciuto alcun privilegio e che il
giudice
al quale il cittadino poteva rivolgersi per far valere
le proprie ragioni
contro il potere esecutivo fosse
quello ordinario. Ciò rallentò la nascita di un
diritto amministrativo che si è sviluppato solo
negli ultimi decenni.
Nel 2016, sotto gli auspici del
Consiglio d’Europa,
una commissione di esperti (la Venice
Commmission)
ha approvato un rapporto (R ule of law – Checklist)
che
individua, sulla base dell’esperienza
comparata, gli   La Rule of
law
 
elementi essenziali
dello Stato
di diritto e i modi per garantirlo:
legalità, inclusa la democraticità del
procedimento
legislativo, certezza del diritto, divieto di arbitrio,
rispetto dei
diritti, uguaglianza di fronte al diritto,
accesso alla giurisdizione davanti a un
giudice
imparziale, ecc.
 Lo Stato di diritto costituisce
a un tempo un
modello, affermatosi progressivamente soprattutto
nel mondo
occidentale, e un ideale al quale
tendere e che sempre si rinnova. Così, per
esempio, come si vedrà, in Italia la Costituzione
del 1948, la legge 7 agosto 1990, n. 241 sul
procedimento
amministrativo e il Codice del
processo amministrativo del 2010 hanno
contribuito ad avvicinarci a tale ideale. Ulteriori
sviluppi sono ancora possibili e
auspicabili.
Peraltro, lo Stato di diritto è
sempre esposto al
rischio di involuzioni. In anni recenti, specie in
alcuni Paesi
dell’est europeo (Ungheria, Polonia),
sono emersi movimenti populisti e sovranisti,
che
hanno messo in discussione, in nome di una
concezione idealizzata di popolo
contrapposto alle
élite tecnocratiche e burocratiche, alcuni dei
presupposti della
democrazia liberale e dello Stato
di diritto (pluralismo dei poteri,
checks and balances,
ecc.). In particolare, nel 2019 la
Corte di giustizia
europea (sentenza 5 novembre 2019 in C-192/18)
ha condannato la
Polonia per violazione delle
regole dello Stato di diritto e del diritto alla
protezione giurisdizionale effettiva con particolare
riferimento a una legge che
mina i principi
dell’irremovibilità e dell’indipendenza dei giudici e
ha emesso
altre condanne nel 2021 (sentenze 15
28 luglio 2021 in C-791/19 e 16
novembre 2021 in C-
748/19 e C-754/19) sempre con riferimento
a una
limitazione alle prerogative dei giudici. Un
regolamento (UE) approvato il 16
dicembre 2020
(2020/2092) ha previsto un regime di
condizionalità che, a protezione
del bilancio
dell’Unione europea, consente di sospendere
l’erogazione di
finanziamenti europei agli Stati che
violino i principi dello Stato di diritto.
2.3. Stato guardiano notturno, Stato
sociale, Stato imprenditore, Stato
regolatore
Il modello teorico dello Stato
di diritto è di per sé
neutrale rispetto alla gamma e all’ampiezza delle
funzioni
assunte come proprie dai poteri pubblici.
Nel corso del XIX e del XX secolo si sono
succeduti, con tempi e modalità diversi nei vari
Paesi, una pluralità di fasi e di
esperienze. Ad esse
corrispondono altrettanti modelli di Stato.
Con la Rivoluzione francese si
fecero strada le
ideologie di impronta liberista in campo
economico (il
laissez-faire), tendenti a ridurre al
minimo le ingerenze
dirette dello Stato nei
rapporti economici e sociali. Ciò come reazione ai
mille
«lacci e lacciuoli» e ai regimi speciali e di
privilegio che avevano ingessato la
società e
frenato lo sviluppo economico nel corso del
Medioevo. L’abolizione dei
corpi intermedi tra
Stato e cittadino, la generalità e l’astrattezza delle
leggi, il
principio di uguaglianza formale dei
cittadini, il riordino e la razionalizzazione
del
diritto comune in codici organici consentirono via
via di superare gli
ordinamenti dell’antico regime.
Emerse  così il   Lo Stato guardiano
  notturno
cosiddetto «Stato
guardiano notturno»,
dominante
per buona parte del XIX secolo. Lo
Stato assunse su di sé principalmente due
compiti:
la tutela dell’ordine pubblico interno e la difesa del
territorio da nemici
esterni. Garantita la sicurezza
interna ed esterna, spettavano dunque alla società
civile e al mercato lo svolgimento delle attività
economiche e la cura di altri
interessi della
collettività (per esempio la sanità). Venivano
considerate con
sfavore le aggregazioni sociali e i
corpi intermedi (associazioni, corporazioni,
autonomie territoriali, ecc.) tra Stato e individuo.
In questo contesto la presenza
di apparati
amministrativi era ridotta al minimo.
 La visione liberista e liberale
dello Stato entrò in
crisi, verso la fine del XIX e l’inizio del XX secolo,
con
l’affermarsi sulla scena politica e istituzionale
di partiti e movimenti ispirati a
nuove ideologie
(socialismo, operaismo, cattolicesimo, ecc.). Lo
Stato monoclasse,
che rispecchiava essenzialmente
gli interessi della borghesia, si trasformò in Stato
pluriclasse, che rappresentava e mediava tra gli
interessi spesso contrapposti di
tutti gli strati
sociali. Furono avanzate istanze di redistribuzione
e
socializzazione della ricchezza nell’interesse
delle classi meno abbienti.
Queste
  Lo Stato
interventista
 trasformazioni  
segnarono il passaggio a un modello di
Stato che va
sotto i nomi in larga misura fungibili di «Stato
interventista», «Stato
sociale» o «Stato del
benessere» (Welfare State). Vari
interventi di
legislazione sociale (previdenza, assistenza, ecc.)
furono promossi,
per esempio, nella Germania
bismarckiana. A livello centrale, l’amministrazione
29 dello Stato fu potenziata quanto a strutture e
organico di
personale. A livello locale, presero
avvio esperimenti di socialismo municipale,
cioè di
assunzione da parte dei poteri locali di servizi
pubblici come
l’illuminazione pubblica, la
costruzione e gestione di acquedotti, l’istituzione
di
farmacie o di macelli comunali, ecc. Lo sforzo
eccezionale di mobilitazione di
risorse e di
conversione e accelerazione della produzione
industriale su impulso
diretto dello Stato, nel
corso della prima guerra mondiale, contribuì al
superamento
definitivo del modello liberista.
 La svolta autoritaria, con
l’avvento del regime
fascista in Italia e del regime nazista in Germania,
favorì,
soprattutto negli anni Trenta, una ulteriore
espansione della presenza dello Stato.
Quest’ultimo, secondo la concezione totalitaria,
estese la sua influenza diretta e
indiretta su tutte
le principali espressioni della società civile e
dell’economia.
La crisi economica degli anni
Trenta, provocata dal
crollo del mercato borsistico del 1929, causò
fallimenti a
catena dei maggiori gruppi finanziari e
imprenditoriali e richiese interventi di
salvataggio
da parte dei pubblici poteri. Si accrebbe così la
presenza diretta dello
Stato nell’economia e si
affermò dunque il modello dello «Stato
imprenditore» o
gestore diretto di aziende di
produzione ed erogazione di un’ampia gamma di
beni e
servizi. Interventi sotto forma di ausili e
contributi finanziari pubblici diretti o
indiretti
volti a sostenere particolari settori di attività
diedero origine alla
variante dello «Stato
finanziatore».
In parallelo , le   Lo Stato
pianificatore
 
ideologie
collettivistiche affermatesi nel secondo
dopoguerra portarono all’approvazione di
programmi di nazionalizzazione di settori
economici strategici. Emerse anche nelle
democrazie occidentali, in forma più o meno
accentuata, lo «Stato pianificatore». Esso si
caratterizza per predisposizione a
livello centrale
di piani e programmi settoriali (trasporti, sanità,
energia
elettrica, rete commerciale, ecc.), volti a
indirizzare risorse pubbliche e private
verso
obiettivi predeterminati. L’iniziativa
imprenditoriale dei privati viene
subordinata al
rilascio di atti autorizzativi in conformità alle
previsioni di
piano.
  a presenza diretta o indiretta
dello Stato nelle
L
attività economiche e sociali determinò una
crescita esponenziale
della spesa pubblica. Nel
lungo periodo ciò provocò una crisi finanziaria
dello
Stato, vista l’impossibilità di aumentare oltre
certi limiti la pressione fiscale e
l’indebitamento.
La ripresa di ideologie
antistataliste (neoliberismo,
mercatismo) a partire dagli anni Ottanta del secolo
scorso segnò un’inversione di rotta.
Prese  così corpo,   Le politiche di
  liberalizzazione e di
dapprima in Gran privatizzazione
Bretagna (con il
governo di
Margaret
Thatcher) e negli Stati Uniti (sotto la presidenza di
Ronald Reagan) e
successivamente in altri Paesi
europei, un movimento nella direzione della
riduzione
del campo d’azione dei pubblici poteri.
Furono avviate politiche di
deregolamentazione
(deregulation) e di privatizzazione di molte
attività
assunte direttamente dai pubblici poteri (cessione
sul mercato di pacchetti
azionari di società in
mano pubblica).
  n siffatto processo venne
promosso in Europa
U
anche da numerose direttive europee di
liberalizzazione
(telecomunicazioni, energia
elettrica, gas, servizi postali, ecc.) volte a favorire
l’apertura dei mercati alla concorrenza
transfrontaliera all’interno del mercato
unico.
30 Inoltre la Commissione europea iniziò ad applicare
in
modo più rigoroso i divieti comunitari in tema
di aiuti di Stato, cioè di forme
dirette o indirette
(finanziamenti diretti, contributi in conto capitale
o
interessi, garanzie, ecc.) di sussidi alle imprese
pubbliche o private tali da
distorcere la
concorrenza.
Lo «Stato imprenditore» si
trasformò così via via
in «Stato regolatore», a  imitazione del modello
affermatosi, come si   Lo Stato regolatore
 
vedrà, negli Stati
Uniti. Quest’ultimo
rinuncia cioè a dirigere e a
gestire direttamente attività economiche e sociali.
Si
limita invece a predisporre la cornice di regole e
gli strumenti di controllo
necessari affinché
l’attività dei privati, svolta in regime di
concorrenza, non leda
interessi pubblici rilevanti
(tutela degli utenti e dei consumatori,
dell’ambiente,
della salute, ecc.).
 I compiti di regolazione, che
non sono peraltro
necessariamente meno complessi di quelli della
gestione diretta
delle attività, sono stati affidati di
norma ad autorità o agenzie indipendenti (o
semi-
indipendenti) dal governo (cioè dall’indirizzo
politico), così da sottolineare
ancor più il ruolo
tecnico, neutrale e non dirigista del regolatore
pubblico.
Il  modello dello   La crisi finanziaria del
  2008
«Stato regolatore»,
con varianti più o
meno pure, ha costituito il
paradigma di
riferimento per un trentennio.
 La crisi finanziaria e la
recessione economica che
colpirono nel 2008 anzitutto gli Stati Uniti, da
dove poi
si propagarono negli altri continenti,
misero in luce le insufficienze teoriche
delle teorie
economiche (il cosiddetto «fondamentalismo di
mercato») sottostanti a
tale modello [Stiglitz
2002].
Di fronte a una crisi
paragonabile, secondo alcuni,
a quella degli anni Trenta del secolo scorso,
vennero
poste in essere, talora in condizioni di
emergenza al fine di evitare il tracollo
del sistema
finanziario internazionale, misure di intervento
pubblico diretto
(nazionalizzazioni di istituzioni
finanziarie) e indiretto (sussidi alle imprese)
con
la mobilitazione di volumi enormi di risorse
pubbliche. Si parlò, a questo
riguardo, della
rinascita dello Stato interventista (nella variante
dello «Stato
salvatore»). Emerse ancor di più la
consapevolezza che i processi di globalizzazione
economica richiedono istituzioni e meccanismi di
regolazione anch’essi globali.
Negli Stati Uniti e in Europa
venne rafforzata ed
estesa la regolamentazione del sistema finanziario
allo scopo di
prevenire e risolvere le crisi bancarie.
In particolare, a livello europeo vennero
istituite
nuove autorità di regolazione nei settori bancario,
assicurativo e dei
mercati finanziari, e furono
attribuiti alla Banca centrale europea poteri di
vigilanza diretta sui maggiori istituti bancari.
La necessità di rafforzare la
presenza attiva dello
Stato  è emersa con   La pandemia da
Covid-
  19
particolare
evidenza
in occasione della
pandemia da Covid-19 esplosa a livello globale nel
2020.
Gli Stati hanno varato misure eccezionali
volte a incidere sulle libertà personali
(divieti di
movimento, obblighi di quarantena, ecc.) e a
mobilitare risorse,
strumenti giuridici e strutture
allo scopo di contenere la diffusione del virus, di
garantire un’assistenza ospedaliera adeguata, di
promuovere e finanziare la
produzione dei vaccini
e la distribuzione degli stessi, di erogare sussidi e
31 altre
forme di sostegno diretto e indiretto di
attività economiche
in grave crisi. Gli Stati, con i
propri apparati, hanno cioè esercitato un’azione a
tutto campo assumendo su di sé la responsabilità
diretta di contrasto alla pandemia
e ai suoi effetti
economici e sociali, assumendo il ruolo di «garanti
di ultima
istanza» di fronte a un’emergenza che ha
colpito l’intera comunità. A livello di
Unione
europea, da un lato, è stata di fatto sospesa la
disciplina degli aiuti di
Stato e consentito il
superamento dei limiti all’indebitamento imposti
agli Stati
membri in modo tale da poter far fronte
all’emergenza sociale ed economica;
dall’altro lato,
è stato avviato il programma Next Generation
EU
che prevede sussidi e finanziamenti agli Stati
maggiormente
colpiti dalla crisi (oltre 200 miliardi
di euro per l’Italia) le cui risorse sono
reperite
attraverso emissioni di titoli europei. I fondi
vengono erogati sulla base
di piani nazionali di
ripresa e resilienza disciplinati da un regolamento
europeo
(regolamento (UE) 2021/241 del 12
febbraio 2021) e approvati dalla Commissione
europea.
 La pandemia  ha   Lo Stato resiliente
 
aperto una nuova
discussione sul ruolo degli Stati
che anche per il
futuro dovranno essere meglio in grado di far
fronte a emergenze
imprevedibili. Per esempio,
dovranno aumentare le scorte di beni essenziali e
la
capacità di produzione di strumenti di volta in
volta necessari. Lo Stato dovrà
essere dunque uno
«Stato resiliente».
I  n definitiva, in uno sguardo
di lungo periodo,
l’impegno o il disimpegno dei poteri pubblici nelle
attività
economiche e sociali – ovvero, con
linguaggio ottocentesco, l’individuazione dei
limiti
dell’attività dello Stato – è soggetto a moti
pendolari in relazione al
mutare delle percezioni
collettive, delle situazioni concrete e delle
ideologie.
2.4. Cenni agli ordinamenti
anglosassoni: l’Inghilterra e gli
Stati Uniti
L’evoluzione sommariamente
descritta nel
paragrafo che precede riguarda soprattutto
l’Europa continentale.
Diverso fu in parte il
percorso degli ordinamenti anglosassoni.
L’Inghilterra anzitutto non
conobbe storicamente
il fenomeno dell’accentramento amministrativo
che connotò
l’esperienza francese. I poteri locali
mantennero ampi spazi di autonomia.
Restò viva inoltre la
tradizione della common law,
cioè di un diritto non codificato
di derivazione
giurisprudenziale. Un solo diritto, l’ordinary law of
the
land, governava i rapporti di tutti i soggetti
dell’ordinamento, a
prescindere dalla loro natura
pubblica o privata. Un unico sistema di corti
giudiziarie era deputato a risolvere tutte le
controversie. Le prerogative
originarie della
Corona, sotto forma di poteri speciali e di
immunità (come
l’immunità dalla responsabilità
secondo il principio «the King can do no wrong»),
erano considerate come un elemento eccezionale.
Secondo Albert Venn Dicey, autore
nel 1885 del
volume Introduction to the Study of the Law of the
Constitution destinato a influire sull’immagine della
Costituzione
inglese per mezzo secolo, la
presenza di un diritto amministrativo sarebbe
ontologicamente incompatibile con la
Costituzione inglese fondata sulla sovranità
del
32 parlamento.
In realtà, anche in
Inghilterra, verso la fine del XIX
secolo,  fu varata
una   La nascita ritardata del
  diritto amministrativo
legislazione di
stampo sociale, che
portò all’istituzione di apparati
burocratici di vario
tipo (commissions,
boards, authorities) per la gestione
dei programmi di intervento. I poteri
dell’esecutivo furono rafforzati e vennero
istituiti,
settore per settore, i cosiddetti Tribunals. Si
trattava di organi amministrativi incaricati di
dirimere in forme
paragiurisdizionali controversie
in particolari materie (istruzione, provvidenze
sociali, edilizia, ecc.). Le loro decisioni furono
sottoposte al controllo
giurisdizionale delle corti
ordinarie.
  olo a partire dalla seconda
metà del XX secolo,
S
con l’ulteriore sviluppo del Welfare State
(teorizzato
da William Beveridge) e l’abbandono del principio
dell’immunità della Corona (nel 1949), le corti
inglesi presero coscienza della
distinzione tra
diritto pubblico e diritto privato e iniziarono a
operare un
sindacato giurisdizionale più intenso
sull’attività dell’esecutivo. Nel 1977 un
regolamento di procedura (Order 53) disciplinò
l’application for judicial review per tutte le questioni
relative ai public law rights. Nel 2007 il Tribunals,
Courts and Enforcement Act
operò un riordino
complessivo del sistema dei
Tribunals, che
svolgono una funzione di filtro e di
deflazione del
contenzioso propriamente giudiziario secondo il
modello delle
alternative dispute resolutions (ADR).
Il diritto amministrativo
nell’ordinamento inglese
peraltro non può essere equiparato, per estensione
e
organicità, a quello degli ordinamenti
continentali. Campi come l’organizzazione e
l’attività contrattuale dell’amministrazione
fuoriescono in gran parte dal perimetro
del diritto
amministrativo che resta limitato al judicial review
of
administrative action, cioè al controllo
giurisdizionale
sull’attività amministrativa.
All’avanzata del
Welfare State fino alla fine degli
anni Settanta del secolo
scorso fece seguito, come
si è accennato, una fase di ritirata dello Stato
dall’intervento nell’economia con le politiche di
liberalizzazione e di
privatizzazione avviate sotto il
governo di Margaret Thatcher. L’organizzazione
dei
dipartimenti ministeriali venne ripensata
secondo il modello delle agenzie
(agencies), cioè
con la costituzione di una serie di unità
operative
autonome o semiautonome dagli apparati centrali
e legate a questi da
relazioni di tipo contrattuale.
Si affermò la scuola del New Public
Management
volta a introdurre elementi di managerialità nel
settore
pubblico prendendo come modello, con gli
adattamenti necessari, l’impresa privata.
Anche negli Stati Uniti lo
sviluppo dello Stato
regolatore (Regulatory State) e del
diritto
amministrativo avvennero in epoca relativamente
recente.
Quanto allo Stato regolatore,
esso rappresentò una
variante originale di intervento pubblico che si
sviluppò
proprio negli Stati Uniti, un Paese che, a
differenza di quanto accadde in Europa,
respinse
sempre interventi diretti dei pubblici poteri nella
gestione o nella
socializzazione o
collettivizzazione di imprese.
La prima  agenzia   Le agenzie
federali
 
federale venne
istituita nel 1887 con il compito
di regolare le
tariffe praticate dai gestori privati delle linee
ferroviarie
(Interstate Commerce Commission) che,
operando in una
situazione di monopolio di fatto,
praticavano prezzi esosi. Nel 1890, per combattere
i cartelli e i monopoli, venne approvato lo Sherman
33 Act, primo esempio di
legge antitrust, alla quale
seguì nel 1918 l’istituzione di un’apposita agenzia
(la Federal Trade Commission).
 Negli anni Trenta (all’epoca
del cosiddetto New
Deal), in reazione alla Grande Crisi del
1929,
vennero istituite numerose autorità di regolazione
come, per esempio, la
Security Exchange Commission,
con funzioni di vigilanza
sulla borsa e sulle società
quotate, la Federal
Communication Commission,
preposta al settore delle
telecomunicazioni, il
National Labour Relations Board, nel
settore delle
relazioni sindacali e della contrattazione collettiva,
la
Tennessee Valley Authority, per la promozione dello
sviluppo economico in quell’area anche attraverso
investimenti in opere pubbliche.
Vennero altresì varati
programmi di intervento
pubblico in campo economico e sociale, una
tendenza
proseguita, fino all’inizio degli anni
Settanta del secolo scorso, in coerenza con
la
visione della Great Society promossa dalle
amministrazioni
democratiche. Vennero istituite
altre agenzie di regolazione come la
Environmental
Protection Agency, la Federal
Energy Regulatory
Commission o la Nuclear Regulatory
Commission.
Questa evoluzione
rappresentava però una
forzatura della Costituzione americana.
Quest’ultima infatti non prevede
che il Congresso
possa delegare poteri normativi e amministrativi
così ampi ad
apparati amministrativi indipendenti
dal presidente (cosiddetta non
delegation doctrine).
Nel periodo del New Deal
la Corte Suprema degli
Stati Uniti dichiarò incostituzionali alcune leggi di
stampo
interventista, e in particolare la legge
istitutiva della National
Recovery Administration con
funzioni di pianificazione economica e di
fissazione autoritativa dei prezzi. Ciò provocò uno
scontro istituzionale con il
presidente degli Stati
Uniti, che riteneva invece indispensabili gli
interventi
pubblici per stimolare la crescita
economica.
Un  compromesso fu   La legge sul
  procedimento
raggiunto nel 1946 amministrativo del
con l’approvazione 1946

dell’Administrative
Procedure Act che, come si
vedrà, costituisce uno
dei modelli principali di legge sul procedimento
amministrativo. Questa legge, per un verso,
legittimò e consolidò il modello delle
agenzie di
regolazione; per altro verso, sottopose la loro
attività a regole
procedurali stringenti e al
controllo giurisdizionale (judicial
review). Essa
costituisce l’ossatura del diritto amministrativo
negli
Stati Uniti.
 A partire dagli anni Ottanta
del secolo scorso, con
la svolta  reaganiana,   La
deregulation
 
il modello
dello Stato
regolatore fu oggetto di un ripensamento. Furono
introdotte misure volte
a controllare e limitare
l’attività delle agenzie e a operare una sostanziale
riduzione della quantità e intrusività della
regolazione esistente
(deregulation). Fu avviata la
semplificazione delle
procedure burocratiche (red
tape) e promosso il ritiro dello
Stato dalle politiche
interventiste (rolling back the State).
In particolare, a
partire dal 1981 le agenzie vennero sottoposte a un
controllo
finanziario centralizzato. Fu resa
obbligatoria l’analisi costi e benefici della
regolazione (cost-benefit analysis), finalizzata a
dimostrare
la necessità e l’opportunità delle
singole misure da adottare in modo da limitarle
al
minimo indispensabile.
I  processi di liberalizzazione
e privatizzazione non
produssero sempre i risultati attesi in termini di
recupero di
efficienza e di qualità delle prestazioni
e dei servizi. Negli Stati Uniti, per
esempio, la
34 gestione dei servizi di sicurezza e controllo
dei
passeggeri negli aeroporti, affidata a gestori privati,
venne ripubblicizzata in
seguito all’attacco
terroristico dell’11 settembre 2001. Anche la
privatizzazione
dei trasporti ferroviari in Gran
Bretagna è oggetto di un ripensamento poiché non
si
è tradotta in un miglioramento significativo del
servizio.
In generale , si   I fallimenti dello
Stato
 
discute, quasi per
simmetria rispetto ai cosiddetti
«fallimenti del
mercato», di «fallimenti dello Stato» e ciò
soprattutto in seguito
alle carenze nel sistema dei
controlli pubblici sul sistema bancario e
finanziario
emerse nel corso della crisi scoppiata a
partire dal 2008. Per rimediare a questi
ultimi,
negli Stati Uniti nel 2010 si è rafforzato il sistema
della vigilanza sulle
attività finanziarie e si sono
introdotte regole più restrittive all’attività delle
banche (soprattutto con il Dodd-Frank Act del
2010).
 Peraltro, in seguito alle
elezioni presidenziali del
2016, l’amministrazione repubblicana promosse la
deregolamentazione (o, come si è detto, la
«deconstruction of the Administrative
State»),
anche se un’inversione di tendenza è in atto con
l’insediamento nel 2021
del presidente
democratico, Joe Biden.
2.5. L’evoluzione della pubblica
amministrazione in Italia
Anche in Italia
l’organizzazione e le funzioni della
pubblica amministrazione hanno subito mutazioni
profonde a partire dall’unificazione nazionale.
In epoca cavouriana, fu
adottato il modello
 dell’amministrazione   Il modello
cavouriano
 
per ministeri,
con la
concentrazione di poche funzioni pubbliche in
capo a un nucleo ristretto di
apparati organizzati
in base al principio gerarchico e rappresentati al
vertice da
un ministro politicamente responsabile
dell’attività complessiva nei confronti del
parlamento.
 Sul finire del XIX secolo il
governo Crispi varò un
primo programma riformatore che portò nel 1890
alla
pubblicizzazione delle cosiddette Opere pie. Si
trattava di enti e strutture private
sorte
spontaneamente dalla società civile o per impulso
delle organizzazioni
religiose e operanti nel campo
dell’assistenza sanitaria e sociale. Le Opere pie
furono riorganizzate e trasformate in enti pubblici
(le cosiddette IPAB, Istituzioni
pubbliche di
assistenza e beneficenza, oggi privatizzate)
sottoposti a controlli
penetranti da parte del
ministero dell’Interno e, per esso, a livello locale
delle
prefetture.
All’inizio  del XX   L’amministrazione per
  enti
secolo, in epoca
giolittiana, furono
potenziate
le strutture ministeriali e istituite le
prime aziende ed enti pubblici nazionali
(Istituto
nazionale delle assicurazioni – INA, Istituto
nazionale per la previdenza
sociale – INPS). A
livello locale, specie in seguito alla legge del 1903
sulla municipalizzazione dei pubblici
servizi, molti
comuni costituirono proprie aziende per la
gestione di
numerose attività (trasporti,
illuminazione pubblica, macelli, farmacie, ecc.).
Nel
periodo bellico l’amministrazione subì una
riorganizzazione allo scopo di rispondere
alle
esigenze eccezionali della mobilitazione e del
coordinamento dell’intero
sistema economico
35 (consorzi obbligatori, ecc.).
  a svolta autoritaria negli
anni Venti e l’ideologia
L
statalista affermatasi negli anni Trenta
innescarono un
processo di pubblicizzazione di
molte attività economiche e sociali con
l’istituzione di numerosi enti pubblici (CONI,
organizzazioni professionali e
sindacali, ecc.). Nel
1927 venne emanata la Carta del lavoro tesa ad
affermare la
dottrina del corporativismo e a
superare il modello dell’economia liberale.
La Grande Crisi determinò
l’estensione della mano
pubblica in numerosi settori economici. Nel 1933
venne
istituito l’IRI (Istituto per la ricostruzione
industriale), ente pubblico economico
al quale
venne attribuita la titolarità delle azioni di
numerose imprese oggetto di
interventi di
salvataggio. Nel 1936 venne approvata una legge
bancaria, rimasta in vigore fino all’inizio degli
anni
Novanta del secolo scorso, che riorganizzò il
sistema bancario secondo una
visione pubblicistica
e pianificatoria dell’attività creditizia. Vennero così
attribuiti ad apparati pubblici (in particolare, alla
Banca d’Italia) funzioni di
controllo monetario e
di vigilanza sugli istituti di credito, molti dei quali
aventi
natura di enti pubblici economici (istituti di
credito di diritto pubblico, casse di
risparmio).
Nel 1939 vennero emanate due
leggi per la tutela
del patrimonio storico-artistico e delle bellezze
naturali che
hanno avuto un forte impatto per
decenni. Nel 1942 venne emanata una legge
urbanistica generale volta a disciplinare in modo
omogeneo e razionale l’assetto del territorio
attraverso la pianificazione comunale
e il rilascio
di titoli abilitativi per l’attività di edificazione.
La  Costituzione del   La Costituzione e gli
1948, che rifondò su   sviluppi successivi
basi democratiche
e
secondo il principio dello Stato di diritto
l’ordinamento italiano, incorporò una
matrice
interventista nei rapporti tra Stato, società ed
economia (funzione sociale
della proprietà, limiti
all’iniziativa economica, provvidenze sociali, ecc.),
ponendo un’enfasi, non soltanto sui diritti di
libertà e di proprietà di stampo
liberale, ma anche
sui diritti sociali.
I  l secondo dopoguerra fu
connotato nei primi
decenni da una sostanziale continuità
nell’organizzazione
amministrativa, improntata a
un forte centralismo. E ciò pur in vigenza di una
Costituzione ispirata ai principi del pluralismo e
del decentramento con
l’istituzione delle regioni e
il rafforzamento delle autonomie locali.
Sul versante dei rapporti tra
Stato ed economia, le
imprese di proprietà pubblica vennero riordinate
nel sistema
delle partecipazioni statali.
Quest’ultimo assunse una configurazione stabile
attraverso l’istituzione di enti pubblici nazionali
con funzioni di holding
finanziaria di controllo
diretto o indiretto delle imprese pubbliche (enti di
gestione delle partecipazioni statali, cioè l’IRI,
l’ENI e l’EFIM). Gli enti di
gestione svolgevano
funzioni di «cerniera» tra la galassia delle società
per azioni
operanti nei settori più vari, delle quali
essi detenevano la totalità o la
maggioranza dei
pacchetti azionari, e l’autorità di governo. Essi
erano infatti
soggetti ai poteri di direttiva e di
indirizzo espressi dal Comitato
interministeriale
per la programmazione economica e dal ministero
delle
Partecipazioni statali. In questo modo
l’attività delle imprese pubbliche veniva
raccordata
agli obiettivi di politica economica e industriale
36 determinati in sede
nazionale.
L’espansione dei pubblici
poteri continuò negli
anni Sessanta e Settanta. Nel 1962 venne
nazionalizzato il
settore dell’energia elettrica e
istituito un ente pubblico economico (ENEL) per
la
gestione in regime di monopolio di tutte le
attività della filiera (produzione,
trasmissione,
distribuzione, importazione, ecc.). Verso la fine
degli anni Sessanta
venne approvato per legge un
programma economico quinquennale che ricalcava
in
qualche modo i modelli pianificatori
sperimentati nelle economie non di mercato e
che
rimase poi in gran parte inattuato. Nel 1978 venne
istituito il Servizio
sanitario nazionale, ispirato a
una logica pianificatoria e di gestione
prevalentemente pubblica dell’assistenza sanitaria.
Negli anni Settanta ,   Il regionalismo
 
con l’attuazione del
disegno costituzionale del
regionalismo, vennero
istituiti nuovi apparati a livello regionale, anch’essi
articolati, secondo il modello ministeriale, in
assessorati con competenze riferite
alle varie
materie di spettanza regionale e in enti pubblici
dipendenti (finanziarie
regionali, ecc.). Trovarono
spazio modelli organizzativi, specie a livello
regionale
e locale, volti a favorire il coinvolgimento
e la partecipazione diretta o indiretta
dei cittadini
e delle organizzazioni sindacali nella gestione della
cosa pubblica. A
livello centrale nel 1986 venne
istituito il ministero dell’Ambiente e negli anni
successivi la legislazione ambientale, in gran parte
di derivazione europea,
acquistò un peso
crescente.
 In conseguenza di questi e di
altri interventi
legislativi, guidati dalla logica dello Stato
interventista,
imprenditore e pianificatore,
l’amministrazione pubblica assunse le sembianze
di una
costellazione multilivello e policentrica di
enti pubblici che affiancano gli
apparati
ministeriali centrali, anch’essi aumentati di
numero nel corso degli anni.
A partire dagli anni Novanta
del secolo scorso
anche in Italia  lo   Le liberalizzazioni e le
  privatizzazioni
Stato imprenditore
entrò in crisi dati i
suoi costi sempre meno sostenibili in una fase di
squilibrio
della finanza pubblica. Vennero così
avviati processi di liberalizzazione, imposti,
come
si è accennato, da direttive europee, e di
privatizzazione di imprese ritenute
non strategiche
(Società Autostrade, Telecom). Si fece strada così
lo Stato
regolatore che comportò un riassetto
complessivo degli apparati amministrativi.
 Furono anzitutto soppressi il
ministero delle
Partecipazioni statali e alcuni comitati
interministeriali. Quasi
tutti gli enti pubblici
economici (preposti alla gestione di banche e di
servizi
pubblici nazionali) furono trasformati in
società per azioni. Si attuò così la
cosiddetta
privatizzazione «fredda», cioè della mera forma
giuridica, un’operazione
propedeutica alla
cosiddetta privatizzazione «calda», cioè alla
dismissione totale o
parziale dei pacchetti azionari
in mano pubblica. Anche a livello di enti locali le
aziende municipalizzate che gestivano servizi
pubblici locali vennero trasformate in
società per
azioni controllate in tutto o in parte (società
miste) da uno o più
azionisti pubblici. Altri enti
pubblici non economici (musei, enti lirici) furono
trasformati in fondazioni private.
I processi di
liberalizzazione, cioè di soppressione
dei regimi di monopolio legale con
conseguente
apertura alla concorrenza di settori economici,
portarono, come si
vedrà, all’istituzione di autorità
di regolazione indipendenti dal potere esecutivo
e
dotate di poteri di regolazione, di vigilanza e
37 sanzionatori assai
estesi.
Gli  anni Novanta del   Le riforme degli anni
  Novanta
XX secolo videro
anche affermarsi una
concezione dello Stato che favorisce processi di
decentramento e valorizza le
autonomie territoriali
e funzionali. In particolare, le regioni e gli enti
locali
acquisirono nuove funzioni e spazi di
autonomia statutaria, organizzativa e
finanziaria e
fu operata una riforma dei ministeri (in attuazione
soprattutto delle
cosiddette leggi Bassanini 15
marzo 1997, n. 59 e 15 maggio 1997, n. 127). Il
processo culminò con la
legge costituzionale 18
ottobre 2001, n. 3 che ridisegnò
l’assetto delle
competenze legislative dello Stato e delle regioni e
delle funzioni
amministrative dei vari livelli di
governo (Stato, regioni, province e comuni) in
base al principio della sussidiarietà verticale.
Quest’ultimo privilegia
nell’allocazione delle
funzioni, per quanto possibile, le unità
organizzative più
vicine ai cittadini destinatari
delle attività e dei servizi. Un’ampia autonomia
statutaria e organizzativa venne attribuita anche a
enti pubblici come le università
e le camere di
commercio. Nell’ambito della riforma degli
apparati pubblici, da un
lato, il rapporto di impiego
dei dipendenti pubblici venne in gran parte
ricondotto
al regime privatistico; dall’altro, la
stessa dirigenza pubblica venne valorizzata
attribuendo ad essa maggiori poteri gestionali e
limitando il ruolo dei vertici
politici alle funzioni
di indirizzo e di controllo.
I  niziò a essere visto con
favore, superando la
visione statalista dominante per molti decenni,
anche il
coinvolgimento di espressioni della
società civile nello svolgimento di attività di
interesse pubblico, secondo il modello della
sussidiarietà orizzontale, anch’esso
recepito nella
legge costituzionale n. 3/2001 (art. 118, ultimo
comma, Cost.) e da ultimo, come si
vedrà, dal
Codice del Terzo settore.
Il processo di riforma  della pubblica
amministrazione   Le riforme recenti
 
sembra comunque
permanente e numerose sono state anche, nella
fase più recente della pandemia, le
leggi approvate.
Tra i testi legislativi di maggior rilievo, al di là di
numerose
disposizioni di legge riferite ad aspetti
specifici, vanno ricordati in particolare:
la legge
anticorruzione (l. 6 novembre 2012, n. 190) che
impone alle
amministrazioni l’adozione di misure
di prevenzione e obblighi di pubblicità e
trasparenza; il d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 di
razionalizzazione e di
riordino delle società a
partecipazione pubblica; sul versante sociale la
legge 28 marzo 2019, n. 26 contenente misure volte
a
contrastare la povertà e rendere più restrittiva la
disciplina dell’immigrazione; il
Codice dei
contratti pubblici approvato con d.lgs. 18 aprile
2016, n. 50; il Codice del Terzo settore approvato
con d.lgs. 3 luglio
2017, n. 117.
 Un attivismo legislativo  si è manifestato da ultimo
in relazione all’azione   Le leggi di contrasto
  alla
pandemia e di
di
contrasto alla attuazione del PNRR
pandemia attuata
attraverso una serie
di decreti legge e di altri
atti normativi e con
l’approvazione del Piano nazionale di ripresa e
resilienza
(PNRR) presentato dall’Italia
nell’ambito del programma Next Generation
EU, al
quale si è fatto cenno. Possono essere richiamati il
d.l.
1 marzo 2021, n. 22 convertito in legge 22 aprile
o

2021, n. 55 che in occasione della formazione del


governo ha operato una
riorganizzazione di alcuni
ministeri e istituito alcuni comitati
interministeriali
allo scopo di favorire la
transizione ecologica e la digitalizzazione, che
costituiscono due obiettivi fondamentali del
PNRR; il d.l. 31 maggio 2021, n. 77
convertito in
legge 29 luglio 2021, n. 108 che predispone una
38 struttura di
governance del PNRR, in particolare
istituendo a livello
centrale una cabina di regia,
una segreteria tecnica e nuovi uffici ministeriali,
rafforzando i poteri del governo nei confronti delle
amministrazioni locali allo
scopo di prevenire
ritardi nell’attuazione del PNRR, e introducendo
misure di
semplificazione procedurale; il decreto
legge 9 giugno 2021, n. 80 convertito in
legge 6
agosto 2021, n. 113 che introduce nuove procedure
di reclutamento di
dipendenti pubblici, da
assumere anche a tempo determinato in relazione
ai tempi
previsti per l’attuazione del PNRR. Lo
stesso PNRR prefigura nei prossimi anni
ulteriori
interventi normativi che avranno un impatto sulle
pubbliche
amministrazioni, come, per esempio,
una nuova disciplina dei contratti pubblici
all’insegna della semplificazione.
 
2.6. Cenni conclusivi

Pur nella varietà dei contesti


e con percorsi legati
alle specificità di ciascuno Stato, lo sviluppo
storico dal
XIX secolo ad oggi è stato
caratterizzato, schematicamente, da due fenomeni:
un
andamento ciclico nell’espansione e nella
contrazione del campo di intervento dei
pubblici
poteri, il consolidarsi degli apparati amministrativi
e l’emergere, anche
nei Paesi di common law, di un
diritto speciale per le
pubbliche amministrazioni.
Come si vedrà, il diritto
amministrativo cerca di
risolvere un problema presente in ogni
ordinamento ispirato
al principio dello Stato di
diritto: conciliare l’esigenza di curare i molteplici
interessi della collettività (interessi pubblici) con
quella di garantire le libertà
dei singoli. Poteri
amministrativi e diritti dei cittadini costituiscono
due poli
spesso in tensione, da far convivere
trovando gli opportuni punti di mediazione e
assicurando le necessarie garanzie. La dialettica
autorità-libertà    La dialettica
autorità-
  libertà
(teorizzata da
Massimo Severo
Giannini [1993, 230] verso
la metà del secolo
scorso) permea ancora la struttura del diritto
amministrativo.
Ciò anche se, come si vedrà, essa è
sempre più integrata da moduli collaborativi e
consensuali tra pubbliche amministrazioni e
soggetti privati. Sono stati anche
introdotti
strumenti di regolazione pubblica più sofisticati
rispetto ai moduli
autoritari tradizionali (soft law).
3. Diritto
amministrativo e
scienze non giuridiche
3.1. Premessa

Per poter inquadrare gli


istituti del diritto
amministrativo è necessaria una conoscenza
adeguata, sotto il
profilo fenomenico, della
pubblica amministrazione.
Lo studio di qualsiasi branca
del diritto
presuppone infatti una percezione esatta degli
oggetti ai quali si
riferisce, cioè dei fatti e degli
interessi che stanno alla base delle regole da
porre
(de jure condendo) e successivamente da applicare e
interpretare (de jure condito). La pubblica
amministrazione, in
particolare, è un concetto che
39 «non si presta a essere definito,
ma soltanto a
essere descritto» [Forsthoff 1938] e la
descrizione
di un fenomeno dipende dai diversi angoli di
visuale dai quali si pone
l’osservatore.
Da qui la necessità di tener
conto dei metodi e dei
contributi di una pluralità di discipline non
giuridiche che
prendono in considerazione la
pubblica amministrazione.
3.2. La sociologia

La sociologia analizza le
relazioni di potere interne
ed esterne agli apparati burocratici e la varietà dei
bisogni e degli interessi della collettività di cui essi
si fanno carico. Il potere
è un fenomeno sociale
prima ancora che giuridico, presente in ogni
gruppo o
collettività un minimo organizzata.
Va  ricordata, in   Il modello
weberiano
 
particolare, l’analisi
di Max Weber [1922; trad. it. 1995, 210-211]
dei tipi
storici di potere (costruiti come modelli o
idealtipi). Secondo il
sociologo tedesco, il potere è
definito come la possibilità per specifici comandi
di
trovare obbedienza da parte di un determinato
gruppo di uomini. Esso si basa su tre
criteri di
legittimazione: il potere tradizionale legato al
carattere sacro delle
tradizioni (monarchie
ereditarie); il potere carismatico fondato sulla
forza eroica
o sul valore esemplare di una persona
(cesarismo, dispotismo); il potere razionale
fondato sulla legalità di ordinamenti statuiti (Stato
di diritto).
  uest’ultimo modello si
connota per la presenza di
Q
un’amministrazione burocratica impersonale che
agisce
entro limiti posti da regole giuridiche certe.
Essa è strutturata in uffici stabili,
ordinati secondo
i principi di competenza e di gerarchia, nei quali
opera un corpo
di funzionari di carriera e
specializzati (selezionati e promossi in base a
criteri
di competenza e di merito). Questo modello
è funzionale all’economia capitalistica
fondata sul
calcolo razionale: la stabilità delle regole, la
certezza del diritto e
la prevedibilità dell’azione
dell’amministrazione costituiscono per le imprese
un
elemento essenziale per poter valutare la
convenienza delle scelte di investimento.
Secondo
Max Weber, «ciò che occorre al capitalismo è un
diritto che possa venir
calcolato al pari di una
macchina» [ibidem, 472].
La sociologia studia anche le
caratteristiche degli
apparati burocratici e del personale che in essi
opera
(estrazione sociale, formazione, cultura,
ecc.).
3.3. Le scienze politiche ed
economiche. Fallimenti del
mercato e
regulation
Le scienze politiche ed
economiche attribuiscono
una crescente importanza alle istituzioni, come
fattore di
freno o di impulso allo sviluppo
economico. Operano per esempio una distinzione
tra
due tipi di istituzioni: «estrattive», tipiche di
ordinamenti chiusi, autoritari,
privi di contrappesi
rispetto al potere politico, che accentrano le
risorse a favore
di una casta o élite ristretta;
«inclusive», tipiche di ordinamenti pluralisti,
democratici, rispettosi della Rule of law, aperti alla
40 mobilità
sociale, allo spirito di iniziativa
individuale e
all’innovazione e dunque, in ultima
analisi, alla crescita economica [Acemoglu e
Robinson 2012; Fukuyama 2011]. In questo tipo di
analisi un ruolo di primo piano
viene attribuito alle
strutture burocratiche e al loro grado di
professionalità ed
efficienza (la cosiddetta capacità
amministrativa).
Le scienze politiche in
particolare analizzano il
ruolo degli apparati burocratici all’interno del
circuito
politico rappresentativo, cioè come
strumenti per realizzare le politiche pubbliche
decise dal parlamento, e più in generale per
inquadrare i rapporti tra classe
politica, burocrazia
e potere economico.
Esse mettono in evidenza come
la burocrazia non
sia in realtà un attore neutrale nei processi
decisionali,
confinato a un ruolo di mera
esecuzione degli indirizzi politici (come una sorta
di
«cinghia di trasmissione» tra la politica e i
cittadini destinatari della
regolazione e dei
servizi). Essa assume spesso un ruolo attivo di
elaborazione e di
condizionamento (e talora di
freno) delle politiche governative.
Le scienze politiche  ed economiche
  Nozioneindividuano
di
regolazione
le
situazioni nelle quali  
è
giustificato
l’intervento dei pubblici poteri. Soprattutto nel
mondo anglosassone ha
avuto impulso, con
approccio interdisciplinare, la teoria della
regolazione pubblica
(o regulation) che studia le
ragioni e le modalità di
intervento dei poteri
pubblici in campo sociale ed economico. Tra le
varie
definizioni di regulation possono essere
richiamate quella di
«controllo prolungato e
focalizzato, esercitato da un’agenzia pubblica su
attività
cui una comunità attribuisce una rilevanza
sociale» [Selznick 1985, 364]; oppure
quella di
«guida, con mezzi amministrativi pubblici, di
un’attività privata secondo
una regola statuita
nell’interesse pubblico» [Mitnick 1980, 10].
  i distinguono due modelli di
regolazione 
S
pubblica: la prima   La regolazione sociale
  ed
economica
indirizzata a
promuovere scopi
sociali come, per esempio, la tutela della salute o le
provvidenze
e le misure di inclusione sociale di
lotta alla povertà (social
regulation); la seconda
indirizzata a massimizzare l’efficienza
economica e
il benessere dei consumatori (economic regulation).
 La regolazione economica mira
a correggere i
cosiddetti «fallimento del mercato» (market
failures) con misure correttive di tipo autoritativo
(o di
command and control).
Quanto ai fallimenti del
mercato, si tratta di
situazioni nelle quali il mercato deregolamentato,
cioè retto
esclusivamente dal diritto privato
(diritto dei contratti e della responsabilità
civile,
tutela giurisdizionale), non è in grado di tutelare in
modo adeguato gli
interessi della collettività. Si
pensi, per esempio, all’inquinamento che non può
essere contrastato in modo efficace facendo
affidamento soltanto sulla
responsabilità civile
dell’inquinatore. Ciò attesa la difficoltà, in molti
casi, di
individuarlo con precisione, di provare il
nesso di causalità, di coordinare e
aggregare le
azioni di un numero spesso elevato di soggetti
danneggiati. Si pensi
ancora allo squilibrio, non
superabile con i normali strumenti negoziali, tra
un’impresa monopolistica in un determinato
mercato e i consumatori.
I principali fallimenti del
mercato che giustificano
 l’intervento dei   I principali fallimenti
  del
mercato
poteri
pubblici sono i
41 seguenti.
 
1. I monopoli naturali, come le
infrastrutture
non facilmente duplicabili (per esempio, le
reti di trasporto
ferroviarie, porti e aeroporti,
reti di distribuzione dell’energia elettrica
e del
gas). Esse pongono chi le gestisce in una
situazione di «potere di
mercato» (market
power) che impedisce o altera lo
sviluppo della
concorrenza e che consente extraprofitti
dovuti alla rendita
di posizione. I rimedi più
frequenti consistono nel sottoporre l’impresa
monopolista (o le imprese dotate comunque
di notevole forza di mercato) a
una serie di
vincoli, tra i quali, per esempio, il controllo
dei prezzi e
tariffe applicate agli utenti,
oppure l’obbligo di consentire l’accesso
delle
proprie strutture (essential facilities) ad altri
operatori concorrenti in base a criteri di non
discriminazione.
2. I cosiddetti beni pubblici, come la
difesa o
l’ordine pubblico, dei quali beneficia l’intera
collettività,
inclusi coloro che non sarebbero
disponibili a farsi carico di una quota
proporzionale di costi (cosiddetti freeriders)
essendo
impossibile o troppo costoso
escluderli dal godimento. Il mercato non è
incentivato a produrli spontaneamente nella
misura adeguata e dunque da
sempre gli Stati
se ne sono fatti carico direttamente traendo
dalla
tassazione le risorse necessarie.
3. Le esternalità negative dovute per
esempio a
produzioni industriali inquinanti i cui benefici
vanno a vantaggio
dell’impresa (e dei suoi
azionisti), ma i cui costi gravano sull’intera
collettività. Da qui l’imposizione di limiti
massimi e di regimi
autorizzatori per le
emissioni inquinanti, la previsione di standard
qualitativi minimi per gli impianti industriali,
l’affermazione del
principio «chi inquina
paga», l’irrogazione di sanzioni in caso di
violazione delle prescrizioni.
4. Le asimmetrie informative tra chi
offre e chi
acquista beni e servizi circa le caratteristiche
qualitative
essenziali di questi ultimi, come
nei rapporti tra istituzioni finanziarie o
imprese quotate in borsa e piccoli
risparmiatori spesso non in grado di
valutare i
rischi degli investimenti proposti. A tutela di
questi ultimi
vengono così istituiti sistemi di
vigilanza sulle imprese che vengono
sottoposte a obblighi informativi e a poteri di
regolazione, autorizzatori,
prescrittivi,
ispettivi e sanzionatori attribuiti ad autorità di
regolazione.
5. Le esigenze di coordinamento per
esempio
relative al sistema dei pesi e misure o al
traffico stradale che
richiedono la fissazione
di standard uniformi e di regole di
comportamento
al cui rispetto sono preposte
autorità pubbliche.

Le  misure   Le misure correttive e


  il
principio di
autoritative proporzionalità
necessarie per
correggere i fallimenti del mercato (di
command
and control), delle quali si sono forniti alcuni
esempi, si prestano a essere classificate secondo il
criterio che muove dalla
maggiore alla minore
intrusività rispetto alla dinamica del mercato:
monopoli legali
e concessione di diritti esclusivi,
proprietà pubblica, pianificazioni settoriali,
regimi
autorizzatori, fissazione di standard qualitativi,
controllo dei prezzi,
sovvenzioni, sanzioni
pecuniarie e non pecuniarie, obblighi informativi,
ecc.
 Il principio che dovrebbe
guidare il legislatore
nella scelta degli strumenti correttivi è quello
secondo il
quale vanno preferiti, tra gli strumenti
astrattamente idonei a tutelare l’interesse
42 pubblico, quelli meno restrittivi della libertà di
impresa
(come si vedrà, in base al principio di
proporzionalità emerso nel diritto
dell’Unione
europea). Per esempio, come si vedrà, se per
tutelare un certo interesse
pubblico è sufficiente
obbligare chi voglia intraprendere un’attività a
comunicarlo
a un’amministrazione che esercita un
controllo ex post, va
evitata l’introduzione di un
regime di controllo ex ante, sotto
forma di
autorizzazione preventiva.
Gli strumenti di
command and control danno corpo
al nucleo più
caratteristico dei poteri attribuiti alle
pubbliche amministrazioni e sottoposti al
regime
del diritto amministrativo.
3.4. Cenni agli indirizzi della public
choice e al modello
principal-agent

Sempre nell’ambito delle


scienze sociali, va
menzionato l’indirizzo della cosiddetta public
choice
affermatosi negli Stati Uniti nella seconda metà del
secolo
scorso. Per spiegare il funzionamento
effettivo degli apparati pubblici è errato
muovere
dall’ipotesi che gli apparati pubblici (e i burocrati
ad essi preposti)
agiscano sempre per il
perseguimento di obiettivi di interesse pubblico
(public interest theory of regulation). È più realistico
invece presupporre che anche il loro
comportamento è guidato, al pari di quello dei
soggetti privati, dal self-interest (potere, livello
retributivo, reputazione, massimizzazione delle
risorse a disposizione del proprio
ufficio, ecc.). Gli
apparati pubblici agiscono cioè come attori in
un’arena pubblica
nella quale le decisioni sono il
frutto di scambi e di negoziazioni tra i vari
gruppi
politici e sociali e i rappresentanti degli interessi
organizzati
(political exchange) che mimano in
qualche modo il mercato
(market exchange).
Questo tipo di approccio  pone in evidenza,
accanto alle   La cosiddetta cattura
  del
regolatore
situazioni di
market
failures, quelle di
government failures
(o regulatory failures), cioè le
inefficienze
strutturali e gli effetti negativi
dell’azione dei pubblici poteri. È sempre
incombente, per esempio, il rischio della «cattura»
del regolatore da parte dei
soggetti regolati
(capture theory). Anche gli apparati
amministrativi,
infatti, al pari degli agenti politici (parlamento e
governo),
tendono a essere influenzati nelle loro
decisioni da interessi soprattutto economici
(le
varie lobby) deviando così dalla loro missione di
cura dell’interesse generale.
Da qui dunque la
necessità di un disegno istituzionale atto a
prevenire o a limitare
questo rischio.
  a microeconomia 
L   Il modello
principal-
  agent
elabora a sua volta
una serie di concetti
utili per
inquadrare il fenomeno burocratico. In
particolare, la teoria del
principal-agent (principale-
agente o delegante-delegato)
studia i meccanismi e
gli incentivi per far sì che l’attività dell’agente,
delegato
dal principale a compiere una certa
attività, venga posta in essere nell’interesse
di
quest’ultimo e non venga piegata all’interesse
egoistico dell’agente. In molti
casi l’agente ha a
disposizione una quantità di informazioni
superiore a quella del
principale circa le
caratteristiche concrete dell’attività da svolgere
(asimmetria
informativa). È pertanto tentato di
svolgere quest’ultima in modo non corrispondente
agli interessi del principale, assumendo
comportamenti opportunistici sui quali il
43 principale non è in grado di esercitare un
controllo
efficace (il problema della cosiddetta
azione nascosta). Questo tipo di analisi
viene
usualmente riferito alle organizzazioni private
(nell’impresa i rapporti tra
azionisti e manager, tra
manager e personale) o a relazioni di tipo
contrattuale.
  nche gli apparati 
A   I rapporti di agenzia
  interni ed esterni agli
burocratici possono apparati burocratici
essere considerati
come agenti del
parlamento che, nella veste di principale,
attribuisce ad essi, per legge, funzioni
e risorse per
la cura di interessi pubblici. Spesso peraltro gli
apparati
burocratici, come si è accennato,
perseguono fini propri (maggior potere, prestigio,
ecc.), che non coincidono con la massimizzazione
dell’interesse pubblico affidato
alle loro cure, e
rappresentano un freno al processo di riforma.
All’interno dei
singoli apparati pubblici, poi, i
dirigenti possono essere considerati come agenti
incaricati di svolgere la propria attività in funzione
degli obiettivi individuati
dai loro principali, cioè i
vertici politici. Gli interessi e gli incentivi dei
dirigenti pubblici peraltro non coincidono sempre
con quelli dei vertici politici:
da qui la perenne
tensione tra politica e amministrazione. A loro
volta i vertici
politici (ministri, sindaci, ecc.), scelti
in base al metodo elettorale, sono in
qualche
misura agenti dei cittadini elettori e occorre
pertanto individuare
strumenti di
responsabilizzazione in modo da evitare
l’autoreferenzialità della
classe politica. Un
problema di agenzia si pone anche nei rapporti tra
dirigenti, ai
vari livelli, degli uffici e i loro
sottoposti. Questi ultimi potrebbero essere
tentati
a sollecitare o accettare compensi non dovuti o
altri favori dai privati con
i quali intrattengono
rapporti in relazione ad atti amministrativi e ad
altri
adempimenti (commettendo reati di
corruzione, concussione, ecc.). La regolazione
pubblica deve dunque individuare gli strumenti
(regole, incentivi, sanzioni) per
allineare gli
interessi dell’agente a quelli del principale.
 La macroeconomia    La macroeconomia
 
considera lo Stato,
nelle sue varie articolazioni, come
un meccanismo
di gestione e redistribuzione delle risorse
alternativo al mercato. La
regolazione pubblica,
con l’imposizione ai privati di obblighi
comportamentali (e
oneri economici) in funzione
del raggiungimento di interessi pubblici, può
costituire uno strumento alternativo alla
tassazione per la realizzazione di
obiettivi di
interesse pubblico. Così, per esempio, in materia
ambientale la
riduzione dei livelli di inquinamento
può essere perseguita imponendo limiti massimi
alle emissioni, oppure introducendo una tassa
ambientale a carico di taluni tipi di
imprese.
 
3.5. Le scienze storiche

Le istituzioni si evolvono nel


tempo e, come si è
già visto, anche gli apparati amministrativi hanno
subito
modifiche in conseguenza della successione
dei modelli di Stato, a partire
dall’esperienza dello
Stato assoluto fino ai giorni nostri.
Una consapevolezza storica è
dunque
indispensabile al giurista del diritto
amministrativo che può acquisire
dunque un
bagaglio conoscitivo importante dai cultori della
storia delle istituzioni
e della storia del diritto che
44 si sono occupati degli apparati
burocratici.
La storia delle istituzioni si
concentra sulle
strutture di organizzazione del potere tipiche nelle
diverse
esperienze giuridiche. Approfondisce lo
sviluppo delle pubbliche amministrazioni
correlato
al progressivo ampliamento delle funzioni assunte
come proprie dagli
Stati. Accanto a una
ricostruzione dei vari modelli organizzativi
(strutture
ministeriali, amministrazioni locali, enti
pubblici, ecc.), oggetto di
approfondimento sono
anche le carriere e la cultura dei funzionari, i
rapporti con i
vertici politici, le riforme
amministrative progettate e realizzate, ecc. [Melis
2020]. Una particolare attenzione è dedicata alle
fonti archivistiche.
La storia del diritto, che
spazia dagli ordinamenti
antichi fino agli Stati contemporanei, ricostruisce
la
«storia dei modi di esercizio dell’autorità»
[Mannori e Sordi 2001, IX] e della
cultura giuridica
chiamata a descrivere le manifestazioni di potere.
Si occupa così,
in particolare, della nascita e dello
sviluppo del diritto amministrativo
indagandone,
con approccio eminentemente giuridico, i profili di
specialità rispetto
al diritto comune, la tutela
giurisdizionale, l’evoluzione della scienza del
diritto
amministrativo, ecc. Tutto ciò nella
consapevolezza che «se il giurista deve essere
storico, lo storico deve essere giurista» [Sandulli
2009].
3.6. La scienza dell’amministrazione

La scienza
dell’amministrazione (Verwaltungslehre)
ha una tradizione che
risale al XIX secolo, in Italia
(Gian Domenico Romagnosi) e in Germania
(Lorenz von
Stein). Essa si ricollega al filone di
studi di finanza pubblica, ragionieristici e
aziendalisti avviati già nel XVIII secolo, cui si è già
fatto cenno, ovvero alla
cameralistica e alla scienza
della polizia
(Polizeiwissenschaft).
La scienza
dell’amministrazione, in auge
soprattutto verso la metà del secolo scorso, non ha
mai assunto uno statuto definito all’interno delle
scienze non giuridiche
(sociologia, scienza politica,
economia aziendale, ecc.) che studiano la pubblica
amministrazione. È stato anzi affermato che i
principi riuniti sotto il titolo di
questa scienza non
costituiscono «un ramo autonomo di conoscenza e
vane sono le
ricerche intese a determinare il
contenuto unitario» [Zanobini
1958, 58]. Si tratta
in ogni caso di una scienza in declino.
3.7. La scienza del diritto
amministrativo
Se le discipline non
giuridiche mirano a ricostruire
la sostanza dei fenomeni e degli interessi, alla
scienza giuridica spettano alcuni compiti specifici.
I fenomeni infatti devono
essere colti nella loro
dimensione giuridica, devono cioè essere
inquadrati nel
contesto delle norme vigenti
(diritto positivo). Compito del giurista è anzitutto
operare una ricognizione delle fonti normative che
disciplinano una determinata
materia. Il materiale
normativo deve essere poi riordinato e organizzato
in modo
sistematico tramite l’elaborazione di
45 categorie e concetti
giuridici.
Storicamente l’applicazione
rigorosa del metodo
giuridico  al diritto   Il metodo
giuridico
 
amministrativo
risale in Italia alla fine del XIX secolo, seguendo
l’esempio tedesco (Otto Mayer
nel 1886 pubblicò la
prima edizione dell’opera fondamentale Deutsches
Verwaltungsrecht). Vittorio Emanuele Orlando
(1860-1952), uomo
politico e giurista, curatore del
primo monumentale trattato di diritto
amministrativo, pose le basi della scienza del
diritto pubblico, all’interno del
quale si colloca,
come si è visto, anche il diritto amministrativo. Il
metodo
proposto fu quello, da un lato, di
espungere ogni elemento filosofico, storico e
politico dall’analisi giuridica; dall’altro, di non
limitarsi alla mera esposizione
ed esegesi della
legislazione amministrativa (secondo la tecnica
invalsa soprattutto
in Francia) elaborando invece,
attraverso classificazioni e successivi processi di
astrazione, i concetti giuridici (secondo la tecnica
inaugurata nel diritto privato
dalla pandettistica).
L’opera di Orlando e dei suoi allievi (Federico
Cammeo, Oreste
Ranelletti, Santi Romano, Guido
Zanobini) dominò la scienza giuspubblicistica
nella
prima metà del secolo scorso. Essa contribuì
alla costruzione di un diritto
amministrativo
coerente con una concezione liberale, statalistica e
con venature
autoritarie dei rapporti Stato-
cittadino.
 In questa prima fase il
diritto amministrativo
concentrò la propria attenzione sull’attività
amministrativa.
Venne posto l’accento soprattutto
sulle prerogative degli apparati pubblici,
attraverso
l’elaborazione della teoria dell’atto
amministrativo come espressione del
potere
unilaterale attribuito dalla legge agli apparati
pubblici e, in ultima
analisi, del rapporto di sovra-
sottordinazione tra Stato e cittadino. L’atto
amministrativo venne inquadrato inizialmente
entro gli schemi del negozio giuridico
di
derivazione privatistica.
Con il mutare dei rapporti
politici e sociali e con
l’espandersi  della   L’ampliamento delle
  prospettive
legislazione
amministrativa
specie a partire dagli anni Trenta del XX secolo, la
scienza del diritto amministrativo estese il proprio
campo di indagine a fenomeni
emergenti come
l’ordinamento del credito, gli enti pubblici e
l’impresa pubblica,
ecc. Si deve soprattutto a
Massimo Severo Giannini (1915-2000)
l’ampliamento della
prospettiva, inclusa una
rinnovata attenzione alle scienze non giuridiche.
Anche la
Costituzione repubblicana del 1948,
aperta a nuovi
valori e che dedica alcune
disposizioni fondamentali all’ordinamento
amministrativo,
e le leggi di riforma dei decenni
successivi (come, per esempio, il decentramento,
l’introduzione del Servizio sanitario nazionale,
ecc.) indussero la dottrina a un
ripensamento
dell’impianto generale del diritto amministrativo.
Maggiore attenzione
venne dedicata, per esempio,
ai profili organizzativi di un’amministrazione
sempre
più multilivello e alle tematiche dei diritti
di cittadinanza amministrativa.
  merse anche una prospettiva
del cosiddetto
E
«diritto    Il diritto
  amministrativo
amministrativo paritario
paritario»
(elaborato
da Feliciano
Benvenuti verso la metà degli anni Settanta del
secolo
scorso [1975]) tesa a operare un riequilibrio
nel rapporto tra Stato e cittadino con
due modalità
principali: il potenziamento delle garanzie formali
(procedimento
amministrativo) e sostanziali a
favore di quest’ultimo; l’impiego di moduli
consensuali (accordi, convenzioni) di disciplina
dei rapporti tra privati e pubblica
46 amministrazione.
  li anni Novanta del secolo
scorso, in particolare
G
con la legge 7 agosto 1990, n. 241 sul procedimento
amministrativo e con la crescente influenza del
diritto europeo, costituiscono
idealmente una
cesura rispetto alla concezione autoritaria del
diritto
amministrativo, che privilegia il punto di
vista dell’amministrazione dotata di ampi
poteri
che sovrastano il cittadino. La l. n. 241/1990 infatti,
come si vedrà, propone un nuovo
paradigma
interpretativo, che valorizza la posizione di
quest’ultimo, titolare ormai
di un’ampia gamma di
diritti e garanzie nei rapporti con la pubblica
amministrazione.
Il diritto amministrativo
resta pur sempre, nel suo
nocciolo essenziale, il diritto dell’autorità del
potere
pubblico per la cura degli interessi della
collettività, ma sta perdendo
progressivamente i
connotati di un diritto autoritario. Nell’epoca
presente lo Stato
è ancora uno Stato a regime
amministrativo, anche se esso «è sempre meno
speciale e
sempre più giustiziale, consensuale,
cooperativo, aperto alle clausole generali del
diritto comune» [Mannori e Sordi 2001].
Pur essendo ancora intimamente
legato allo Stato
nazionale, il diritto amministrativo è sempre più
soggetto agli
influssi europei e derivanti da quello
che viene ormai definito come il diritto
amministrativo globale.
4. Il
diritto amministrativo e i
suoi rapporti con altre
branche del diritto
4.1. Il diritto costituzionale

Il diritto pubblico generale


include le discipline
giuridiche che si occupano dell’ordinamento dello
Stato e del
complesso dei poteri pubblici.
Conviene partire dalla
distinzione tra diritto
costituzionale e diritto amministrativo. Il primo
riguarda i
«rami alti»    I «rami alti» e i «rami
  bassi»
dell’ordinamento dell’ordinamento
(corpo elettorale,
parlamento, governo,
Corte costituzionale, magistratura, regioni e poteri
locali,
ecc.), i diritti dei privati (libertà personale,
religiosa, di manifestazione del
pensiero,
proprietà, ecc.) e le fonti del diritto. Il secondo
riguarda i «rami
bassi», cioè quel complesso
poliedrico di apparati pubblici che si è sviluppato
soprattutto nel corso del XX secolo, ciascuno dei
quali dotato di una gamma più o
meno ampia di
poteri.
 Il primo trova fondamento e
una disciplina
positiva nelle costituzioni scritte. Esso affonda le
radici nella
teoria contrattualistica dello Stato
elaborata dai filosofi politici dei secoli XVII
e
XVIII (John Locke, Jean-Jacques Rousseau) e nella
progressiva considerazione delle
costituzioni non
soltanto come un patto politico tra il sovrano e il
popolo, ma
anche come la fonte suprema
dell’ordinamento giuridico. L’istituzione delle corti
costituzionali in molti Paesi europei (in Italia con
la Costituzione del 1948) ha contribuito a
rafforzare
l’autonomia del diritto costituzionale.
Il secondo è regolato in
prevalenza da fonti
normative subcostituzionali (leggi, regolamenti,
statuti, ecc.)
e dai principi di elaborazione
47 giurisprudenziale.
Il diritto costituzionale e il
diritto amministrativo
sono tuttavia strettamente legati. Almeno due
sono i nessi da
considerare.
In primo luogo, il diritto
amministrativo, per
riprendere   Il diritto
  amministrativo
come
 l’espressione di Fritz diritto costituzionale
Werner, presidente reso concreto

della Corte
amministrativa federale tedesca verso la seconda
metà
del secolo scorso, non è altro che il «diritto
costituzionale reso concreto»
(«Verwaltungsrecht
als konkretisiertes Verfassungsrecht»), cioè colto
nella sua
effettiva realizzazione nella legislazione e
nella vita dell’ordinamento.
  osì, per esempio, il grado di
tutela dei diritti di
C
libertà e dei diritti sociali si misura non solo e non
tanto
sulla Costituzione, quanto piuttosto sulle
leggi amministrative che attuano il
disegno
costituzionale e sulla concreta applicazione che
esse ricevono ad opera
principalmente degli
apparati amministrativi. Il diritto alla salute,
definito
dall’art. 32 come «fondamentale diritto
dell’individuo e interesse della
collettività», trova
poi svolgimento e attuazione nella legislazione
istitutiva del Servizio sanitario nazionale
e più in
generale nella legislazione sanitaria. In modo
ancora più tangibile, il
livello delle prestazioni
garantite dipende anche dalle risorse finanziarie
messe a
disposizione direttamente o
indirettamente in una determinata fase storica. A
questo
riguardo si è parlato anche di «diritti
finanziariamente condizionati» [Merusi 1990,
28
ss.].
Del pari, il diritto a
manifestare liberamente il
proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni
altro
mezzo di diffusione sancito dall’art. 21 Cost. è
condizionato dalla legislazione
amministrativa sul
sistema radio-televisivo e sulla stampa che, come
più volte
stigmatizzato dalla Corte costituzionale,
non ha garantito un sufficiente grado di
pluralismo.
Ancora, la libertà di
iniziativa economica privata
(art. 41, comma 1, Cost.) è stata a lungo
subordinata al
rilascio di concessioni o di altri
titoli abilitativi discrezionali da parte di
autorità
amministrative e ad altre limitazioni poste dalle
leggi di settore. Solo a
partire dagli anni Novanta
del secolo scorso essa ha trovato un’attuazione più
completa in molti settori (telecomunicazioni,
energia elettrica e gas, ecc.) per
effetto del
recepimento di direttive europee di
liberalizzazione.
L’effettività della tutela
giurisdizionale, garantita
in astratto dall’art. 24 Cost., è pregiudicata
soprattutto da carenze
organizzative (limitatezza
delle risorse disponibili, carenze di organico,
inefficienza nell’organizzazione) che non
consentono per esempio la conclusione dei
processi in tempi ragionevolmente contenuti.
In linea generale, il corpo
delle leggi
amministrative, che nel loro impianto risalgono in
molti casi ad epoche
lontane, è rimasto per lungo
tempo poco in linea con la Costituzione. La Corte
costituzionale ha provveduto, specie nei primi anni
della propria attività, a
dichiarare incostituzionali
disposizioni contenute nelle leggi amministrative
di
settore, come per esempio le disposizioni di
matrice illiberale contenute nel Testo unico delle
leggi di pubblica sicurezza di cui al r.d. 18
giugno
1931, n. 773.
Un  secondo nesso
  «Il diritto
tra diritto   costituzionale
passa, il
costituzionale e diritto amministrativo
diritto resta»

amministrativo è riassunto
dall’affermazione di
uno dei maggiori giuristi tedeschi del primo
Novecento (Otto
Mayer), secondo il quale «il
diritto costituzionale passa, il diritto
48 amministrativo
resta» («Verfassungsrecht vergeht,
Verwaltungsrecht
besteht») [Mayer 1924, 18]. Essa
mette in luce la diversa velocità dei mutamenti
costituzionali rispetto alle riforme amministrative.
  roprio perché incidono solo
sui «rami alti»
P
dell’ordinamento, i primi possono verificarsi anche
in modo
repentino in seguito a moti rivoluzionari,
sconfitte militari e, più in generale,
rotture della
Costituzione. In Francia, dalla Rivoluzione del
1789 ad oggi, si sono
succedute numerose
costituzioni, talune rimaste in vigore per pochi
anni. Molti
testi costituzionali hanno richiesto
tempi di redazione assai brevi (come quelli del
1791, del 1793 e del 1795). La legge fondamentale
tedesca del 1948
(Grundgesetz) venne predisposta
nel secondo dopoguerra da
una commissione di
esperti in poche settimane. Il processo costituente
che sfociò
nella Costituzione italiana del 1948 durò
circa due anni.
Le riforme amministrative, al
contrario, mirano a
modificare l’organizzazione e il modo di operare di
apparati
burocratici caratterizzati da strutture,
personale, prassi operative e cultura
istituzionale
formatesi lentamente, per stratificazioni
successive, e
strutturalmente poco permeabili al
cambiamento.
In Italia, le strutture
fondamentali dello Stato
sopravvissero con pochi aggiustamenti a
cambiamenti di
regime politico e costituzionale,
come nel passaggio dallo Stato liberale al regime
autoritario del ventennio fascista. Frequenti
furono all’epoca le lamentele secondo
le quali la
burocrazia costituiva un ostacolo alla realizzazione
delle politiche
perseguite dal nuovo regime. Allo
stesso modo, l’adeguamento dell’organizzazione
amministrativa al disegno della Costituzione del
1948, improntato ai valori del
decentramento e
dell’autonomia richiese decenni. Anche
l’istituzione delle regioni
nel 1970 e il
trasferimento di funzioni amministrative,
personale, strutture e
risorse finanziarie (anche
tramite tributi propri) fu un processo lungo e
tormentato
e che forse non si è ancora concluso. Il
riconoscimento di una maggiore autonomia
agli
enti locali avvenne solo a partire dagli anni
Novanta del secolo scorso.
La piena applicazione da parte
della pubblica
amministrazione di leggi di riforma fondamentali
come la l. n. 241/1990 sul procedimento
amministrativo, che,
come si è già accennato,
esprime un nuovo modello di rapporti tra cittadino
e
pubblica amministrazione, ha richiesto molti
anni e probabilmente non è ancora
completata.
4.2. Il diritto europeo

Il diritto pubblico è la
branca del diritto legata
maggiormente alla storia, alla cultura e alle
tradizioni
nazionali ed è dunque più resistente a
innesti e trapianti di istituti di altri
ordinamenti.
L’adozione di testi costituzionali che ricalcano
costituzioni di altri
Stati spesso produce esiti
talora assai diversi rispetto a quelli attesi.
Anche il processo di
integrazione degli
ordinamenti nazionali all’interno dell’Unione
europea sconta la
maggior resistenza del diritto
pubblico a influenze esterne e a spinte
49 armonizzatrici.
Il diritto amministrativo
italiano ha acquisito
peraltro una dimensione europea sotto cinque
profili
principali: la legislazione amministrativa,
l’attività, l’organizzazione, la
finanza, la tutela
giurisdizionale.

1. In primo luogo, l’art. 117, comma 1, Cost.


 stabilisce che la   La legislazione
  amministrativa
potestà legislativa
dello Stato e
delle
regioni deve essere esercitata nel rispetto, oltre
che della Costituzione,
«dei vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario».
  uesto vincolo condiziona la
legislazione
Q
amministrativa statale e regionale che in molte
materie è ormai
nient’altro che la trasposizione,
con gli adattamenti e le integrazioni necessarie,
delle direttive europee.
Per esempio, il Codice dei
contratti pubblici
(d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50), che disciplina le
procedure per l’aggiudicazione degli appalti di
lavori, forniture e servizi,
recepisce tre direttive
europee che pongono già una regolamentazione
quasi
esaustiva. In materia di tutela dell’ambiente
la legislazione nazionale si è
sviluppata fin
dall’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso con
una forte
impronta europea. I settori delle
comunicazioni elettroniche o dell’energia
elettrica
e del gas e in generale il diritto pubblico
dell’economia sono regolati
anzitutto da fonti
europee.
Un condizionamento nei
confronti del legislatore
nazionale deriva anche dalla direttiva (CE)
2006/123 del
Parlamento europeo e del Consiglio
del 12 dicembre 2006 in tema di libera
circolazione
dei servizi. La direttiva, recepita nell’ordinamento
italiano dal d.lgs. 26 marzo 2010, n. 59, pone, come
si vedrà, una
serie di prescrizioni sui regimi
autorizzatori, allo scopo di evitare che essi
costituiscano ostacoli alla libera circolazione dei
servizi a livello europeo.
Nella materia antitrust, la
legge 10 ottobre 1990, n.
287, che ha istituito
l’Autorità garante della
concorrenza e del mercato e ha posto una
disciplina
organica a tutela della concorrenza,
prevede che l’interpretazione delle norme
contenute nel Titolo I della legge sia effettuata «in
base ai principi
dell’ordinamento delle Comunità
europee in materia di disciplina della concorrenza»
(art. 1, comma 4).
  L’attività
  amministrativa
2. In  secondo luogo,
l’art. 1, comma 1, l. n.
241/1990 include tra i principi
generali dell’attività
amministrativa (economicità, efficacia,
imparzialità,
pubblicità) anche «i principi generali
dell’ordinamento comunitario».
 Questi ultimi sono ricavabili
sia dai Trattati e dalle
altre fonti del diritto europeo, sia dalla
giurisprudenza
della Corte di giustizia dell’Unione
europea (proporzionalità, tutela del legittimo
affidamento, ecc.). L’art. 5 del Trattato sull’Unione
europea enuncia, per
esempio, tra i criteri per
l’allocazione delle funzioni tra l’Unione e gli Stati
membri (e dei livelli di governo interni agli Stati),
il principio di sussidiarietà
e richiama anche il
principio di proporzionalità.
La pubblica amministrazione è
menzionata anche
nella Carta europea dei diritti fondamentali
dell’Unione
europea, ora incorporata come
protocollo allegato al Trattato di Lisbona e avente
valore giuridico equiparato
a quello del Trattato.
L’art. 41, rubricato Diritto ad una buona
amministrazione, garantisce infatti a ogni individuo
nei rapporti con
le istituzioni europee il diritto di
50 essere trattato in modo imparziale ed
equo, di
essere ascoltato prima che venga adottato nei suoi
confronti un provvedimento che gli rechi
pregiudizio, di accedere ai documenti del
fascicolo
che lo riguarda, di ottenere una decisione motivata
adottata entro un
termine ragionevole. Stabilisce
inoltre che ogni persona ha diritto al risarcimento
da parte dell’Unione europea dei danni cagionati
dalle sue istituzioni o dai suoi
agenti nell’esercizio
delle loro funzioni. L’art. 42 garantisce inoltre il
diritto
di accesso ai documenti delle istituzioni
dell’Unione.

3. In terzo luogo il diritto europeo condiziona


l’assetto   L’organizzazione
 
 organizzativo degli
apparati pubblici. Così numerose
agenzie e
autorità indipendenti sono state istituite in Italia
specie nell’ultimo
quarto di secolo in attuazione di
direttive europee. Esse hanno dato origine in
taluni casi a una vera e propria rete integrata di
organismi istituiti in ciascuno
Stato membro che
svolgono in modo coordinato la propria attività in
gran parte allo
scopo di curare l’attuazione del
diritto europeo in particolari materie. Si pensi,
per
esempio, al Sistema europeo delle banche centrali
del quale fanno parte in modo
organico, come si
vedrà, le banche centrali nazionali. Ma anche nel
settore dei
servizi pubblici, le autorità di
regolazione nazionali operano sotto il
coordinamento di agenzie europee.
 A livello governativo è
istituito il dipartimento per
le Politiche europee incardinato presso la
presidenza
del Consiglio dei ministri. La legge 24
dicembre 2012, n. 234 (Norme generali
sulla
partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione
della
normativa e delle politiche dell’Unione europea)
prevede un Comitato
interministeriale per gli
affari europei (CIAE), al fine di coordinare le linee
politiche del governo nel processo di formazione
della posizione italiana nella fase
di
predisposizione degli atti dell’Unione europea,
nonché un comitato tecnico di
valutazione degli
atti dell’Unione europea e nuclei di valutazione
degli atti
dell’Unione europea istituiti dalle
amministrazioni statali. Per l’attuazione
coordinata a livello europeo dei piani nazionali di
ripresa e resilienza, il già
citato regolamento (UE)
2021/241 prevede che in ogni Stato sia istituito un
punto di
contatto nazionale con la Commissione
europea. A questo fine il d.l. n. 77/2021 già
richiamato prevede l’istituzione presso il ministero
dell’Economia e delle Finanze
di un Servizio
centrale per il PNRR (art. 6). Molte regioni si sono
poi dotate di
propri uffici a Bruxelles.
I procedimenti amministrativi
vedono coinvolte
sempre più spesso amministrazioni nazionali ed
europee (per esempio
nella gestione dei fondi
strutturali, cioè di risorse europee destinate ad
aree e
settori economici particolari).
4. In quarto luogo il diritto europeo 
impone agli
Stati membri vincoli   La finanza
pubblica
 
stringenti alla finanza
pubblica che condizionano
in ultima analisi
l’operatività delle pubbliche amministrazioni e
l’attuazione dei
loro programmi di intervento. Un
salto di qualità si è avuto in seguito alla crisi
finanziaria esplosa nel 2008 che, a livello europeo,
ha quasi travolto alcuni Stati
sovrani, incapaci di
far fronte ai costi crescenti dell’indebitamento,
mettendo
anche a repentaglio la stessa moneta
unica europea. Come si vedrà nel capitolo XIII,
nel
2012 gran parte degli Stati europei hanno
sottoscritto il Trattato sulla
stabilità, sul
51 coordinamento e sulla governance dell’Unione
economica e monetaria (Fiscal compact) e il
Trattato istitutivo del meccanismo europeo di
stabilità
(Trattato MES). Sulla base degli impegni
così assunti, è stato riscritto
l’art. 81 Cost.,
introducendo in particolare il principio
del
pareggio di bilancio. Nella fase più recente della
pandemia, alcuni vincoli sono
stati
temporaneamente allentati per consentire agli
Stati di adottare misure di
sostegno dell’economia
anche a costo di aumentare i livelli del debito
pubblico.
    La tutela
  giurisdizionale
5. Infine,  il diritto
europeo esercita
un’influenza sul diritto processuale
amministrativo. Il Codice del processo
amministrativo (d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104)
stabilisce che la
giurisdizione amministrativa
assicura una tutela piena ed effettiva secondo i
principi della Costituzione e «del diritto europeo»
(art. 1). Questa espressione
include i principi
elaborati dalla giurisprudenza della Corte di
giustizia
dell’Unione europea e della Corte
europea dei diritti dell’uomo. Quest’ultima, in
particolare, ha imposto all’ordinamento italiano di
accrescere le garanzie
procedimentali e processuali
in relazione alle sanzioni amministrative irrogate
dalle autorità di regolazione (sentenza sul caso
Grande Stevens
del 30 giugno 2014).
 Nel settore dei contratti
pubblici, le direttive
europee (in particolare la direttiva (CE) 2007/66
dell’11
dicembre 2007) hanno reso necessaria
l’introduzione di un rito speciale che
attribuisce al
giudice amministrativo poteri particolarmente
incisivi (artt. 120-124
del Codice del processo
amministrativo).
Il diritto    Il diritto
  amministrativo
globale
amministrativo sta
assumendo, come si è
accennato, anche
una dimensione ultrastatale (o
globale) [Cassese 2009]. Essa è collegata allo
sviluppo di un numero elevato di organizzazioni
internazionali (Banca mondiale,
Organizzazione
mondiale del commercio, Fondo monetario
internazionale, ecc.), le
quali producono regole e
standard che condizionano direttamente e
indirettamente i
diritti nazionali. La loro attività è
sottoposta a principi tipici del diritto
amministrativo, come, per esempio, quelli della
partecipazione al procedimento e
della
motivazione degli atti. È emersa a livello globale
anche una funzione
giustiziale (devoluta a
commissioni, panels, ecc.) volta a
garantire nei
rapporti internazionali l’applicazione delle regole
poste dai vari
organismi.
 
4.3. Il diritto privato

I nessi tra diritto


amministrativo e diritto privato
possono essere illustrati con tre proposizioni
principali: il diritto amministrativo è un diritto
autonomo dal diritto privato; non
esaurisce tutta la
disciplina dell’attività e dell’organizzazione della
pubblica
amministrazione, che attinge sempre più
a moduli privatistici; ha una capacità
espansiva in
quanto si applica, a certe condizioni, anche a
soggetti privati.

▶ L’autonomia del diritto amministrativo.


Per tradizione, ogni branca
del diritto pone il
problema dell’autonomia disciplinare.
L’autonomia del diritto
amministrativo dal diritto
privato emerge sintomaticamente da un istituto
52 introdotto
dalla l. n. 241/1990 e cioè, come si
vedrà,
dagli accordi stipulati tra amministrazione e
soggetti privati «al fine di
determinare il contenuto
discrezionale del provvedimento finale, ovvero, in
sostituzione di questo» (art. 11, comma 1, l. n.
241/1990).
A questo tipo di accordi di
natura pubblicistica «si
applicano, ove non diversamente previsto, i
principi del
codice civile in materia di obbligazioni
e contratti in quanto compatibili» (comma
2).
Il rinvio al regime del codice
civile è indiretto  e
selettivo: indiretto   Il regime privatistico
  degli
accordi
perché il
rinvio è amministrativi
operato non già alle
disposizioni del
codice civile, bensì ai principi da
esse desumibili in
via di interpretazione, e ciò crea già un primo
filtro; selettivo
perché anche l’applicazione dei
principi così ricavati non è automatica, ma è
subordinata a un giudizio di compatibilità con i
principi del diritto amministrativo
che dunque
prevalgono su quelli del diritto civile. Inoltre,
l’applicazione del
diritto privato può essere esclusa
da norme speciali («ove non diversamente
previsto»).
I  l diritto amministrativo e il
diritto privato non si
pongono dunque in una relazione di regola-
eccezione, nel
senso che in assenza di una regola
speciale di diritto amministrativo, vale
automaticamente la regola generale del diritto
comune. Essi si collocano invece in
una relazione
di giustapposizione e di autonomia reciproca.
Ciascuno dei due diritti
è in sé completo e
tendenzialmente autosufficiente, poiché eventuali
lacune devono
essere colmate facendo
applicazione analogica anzitutto di istituti e
principi
propri di ciascuna disciplina.
Negli ordinamenti
anglosassoni, invece, nei quali il
diritto amministrativo ha avuto uno sviluppo più
recente ed è meno completo, esso si pone rispetto
alla common
law in termini di deroga o eccezione,
piuttosto che di autonomia.
Per tradizione (ma tra gli
storici del diritto vi è una
disputa  sul punto) la   L’arrêt
Blanco
 
nascita del diritto
amministrativo come disciplina autonoma si fa
risalire in
Francia al celebre arrêt Blanco del 1873. Il
Tribunal
des Conflits, in una causa per danni
proposta da un privato, anziché
applicare le regole
civilistiche, statuì che la responsabilità civile
dell’amministrazione «ne peut être régie par les
principes qui sont établis dans le
Code civil pour les
rapports de particulier à particulier».
Aggiunse che
essa non è né generale né assoluta, ma è sottoposta
«à ses règles
spéciales qui varient suivant les
besoins du service et la nécessité de concilier
les
droits de l’État avec les droits privés». La specialità
del diritto
amministrativo si giustifica dunque per
la necessità di curare l’interesse generale
attraverso un opportuno bilanciamento degli
interessi in gioco.
 In materia di responsabilità
civile, anche nel
nostro ordinamento l’applicazione delle regole del
codice civile
(artt. 2043 ss.) è stata oggetto,
soprattutto in passato, di deroghe ed eccezioni
poste dal legislatore e giustificate dall’esigenza di
salvaguardare le prerogative
dell’amministrazione.
Ancora oggi, per esempio, le autorità di
regolazione istituite
nel settore finanziario, i
componenti dei loro organi, nonché i loro
dipendenti sono
responsabili per gli atti e i
comportamenti posti in essere con dolo o colpa
grave e
non anche per colpa lieve (art. 24 legge 28
dicembre 2005, n. 262 modificato
dall’art. 4,
comma 3, lett. d), d.lgs. 29 dicembre 2006, n.
303).
Più in generale, come si avrà modo di chiarire, i
53 principi della
responsabilità civile applicati per
lesione di interessi
legittimi si discostano in alcuni
punti da quelli del diritto comune.
L’autonomia del diritto
amministrativo sostanziale
trova un parallelo nell’autonomia del diritto
amministrativo processuale rispetto al diritto
processuale civile. Il Codice del
processo
amministrativo contiene numerosi rinvii al codice
di procedura civile, ma
l’assenza di una disciplina
espressa non comporta l’applicazione automatica
delle
corrispondenti disposizioni del codice di
procedura civile. Queste ultime si
applicano solo
«in quanto compatibili o espressione di principi
generali» (art. 39,
comma 1, del Codice sul
cosiddetto rinvio esterno).

▶ I
moduli privatistici dell’attività e
dell’organizzazione delle pubbliche
amministrazioni.
L’attività delle pubbliche amministrazioni è
regolata in parte da leggi amministrative e in parte
dal diritto privato.
Le pubbliche amministrazioni
sono dotate
anzitutto di soggettività piena nell’ordinamento
giuridico. Esse godono,
al pari delle persone
giuridiche private, di una capacità giuridica
generale,
quest’ultima intesa come l’attitudine ad
assumere la titolarità di diritti e
obblighi in
conformità alle norme del codice civile e delle
leggi speciali.
Le  pubbliche   La capacità di diritto
  privato delle pubbliche
amministrazioni amministrazioni
dunque possono
instaurare relazioni
giuridiche con altri
soggetti dell’ordinamento
regolate dal diritto comune. L’art. 1, comma
1-bis, l.
n. 241/1990 enuncia infatti il principio secondo il
quale la pubblica amministrazione, «nell’adozione
di atti di natura non
autoritativa, agisce secondo le
norme di diritto privato salvo che la legge non
disponga diversamente».
 Il solo limite generale che
sussiste per esse è
costituito dal fatto che la capacità giuridica
generale è
attribuita alle pubbliche
amministrazioni per realizzare le finalità di
interesse
pubblico affidate alla loro cura. Pertanto
esse non possono stipulare contratti
aleatori,
come, per esempio, certi tipi di contratti di
finanziamento (i cosiddetti
derivati) stipulati dai
comuni con gli istituti di credito (C. cass., Sez.
Un., 18
maggio 2020, n. 8770).
La capacità di diritto privato
delle pubbliche
amministrazioni viene integrata da una sorta di
capacità speciale,
attraverso l’attribuzione per
legge di poteri amministrativi necessari per la cura
di interessi pubblici. Già l’art. 11 cod. civ. riconosce
che le persone giuridiche
pubbliche «godono dei
diritti secondo le leggi e gli usi osservati come
diritto
pubblico», chiarendo così che esse sono
soggette anche a un regime speciale diverso
da
quello comune.
L’esercizio  dei poteri   Gli atti
autoritativi
amministrativi, come  
si evince in negativo
dalla stessa formulazione
dell’art. 1, comma 1-bis, sopra
citato, si sostanzia
nell’adozione di atti aventi natura autoritativa,
caratterizzati, come si vedrà nel capitolo III,
dall’unilateralità nella produzione
degli effetti e
dalla loro sottoposizione al regime del diritto
amministrativo.
 È controverso se sussista una
piena fungibilità tra
il potere amministrativo e la capacità generale di
diritto
privato. Si potrebbe infatti ritenere che se la
legge attribuisce alla pubblica
amministrazione un
potere da esercitare in presenza di situazioni in
essa indicate,
l’amministrazione non possa
scegliere liberamente di esercitare il potere
54 conferitole dalla legge per mezzo di un
provvedimento
autoritativo, oppure di fare uso
della capacità generale di diritto privato. Non
potrebbe cioè ricorrere a un atto negoziale idoneo
a realizzare il medesimo fine
(per esempio, la
stipula di un contratto di locazione temporanea in
alternativa alla
requisizione in uso di edifici per
ospitare degli sfollati). L’amministrazione
sarebbe
cioè tenuta a curare l’interesse pubblico affidatole
privilegiando
l’esercizio dei poteri amministrativi
ad essa conferiti.
La capacità di diritto privato
da parte della
pubblica amministrazione può dar luogo a
intersezioni tra regimi
giuridici.
Così, in materia di contratti
della pubblica
amministrazione  per   I contratti della
  pubblica
la fornitura di beni
e amministrazione
servizi e per
l’esecuzione di lavori (disciplinata dal Codice dei
contratti
pubblici), convivono regole
pubblicistiche e regole privatistiche. Come si vedrà
nel
capitolo XII, le prime riguardano soprattutto la
formazione della volontà della
pubblica
amministrazione, e in particolare la scelta del
contraente, che avviene
attivando un
procedimento amministrativo. Le regole
privatistiche riguardano la fase
dell’esecuzione
degli obblighi contrattuali.
 La capacità di diritto privato
consente, come si
vedrà,  alle pubbliche   Le società
pubbliche
 
amministrazioni
di
ricorrere al modello della società di capitali di
diritto comune per l’esercizio
di servizi pubblici e
di altre attività di rilevanza pubblicistica (d.lgs. 19
agosto 2016, n. 175). Ciò in luogo di moduli
organizzativi pubblicistici come l’ente pubblico
economico e l’azienda-organo (o
azienda speciale).
Per alcuni tipi di società (a controllo pubblico, in
house) le norme vigenti operano peraltro deroghe
alla disciplina del
codice civile e rendono
applicabili alcuni regimi pubblicistici. Si è parlato
così
di società di diritto speciale o singolare (per
esempio la RAI) e di
«quasi-amministrazioni», con
riguardo alle quali la forma giuridica privatistica
non
fa venir meno la sostanza pubblicistica.
I  n seguito alla spinta alla
privatizzazione che ha
caratterizzato l’ultimo ventennio, molti enti
pubblici sono
stati trasformati in enti privati non
profit anch’essi ricondotti al diritto comune,
salvo
le deroghe previste dalle leggi speciali (fondazioni
liriche, museali,
universitarie, ecc.).
Il diritto privato penetra
anche all’interno
dell’organizzazione pubblica sotto più profili.
In primo luogo, non tutta
l’organizzazione delle
pubbliche amministrazioni è disciplinata da fonti
giuridiche
pubblicistiche e dai principi del diritto
pubblico. Il d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Norme
generali
sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni
pubbliche) opera infatti una
distinzione tra «macro-organizzazione» e
«micro-
organizzazione».
La macro-organizzazione, cioè
le linee
fondamentali di organizzazione degli uffici,
l’individuazione degli uffici
di maggiore rilevanza, i
modi di conferimento della titolarità dei medesimi
e le
dotazioni organiche, è definita con atti
organizzativi di tipo pubblicistico
adottati da
ciascun ente secondo il proprio ordinamento (art.
2, comma 1).
La  micro-   La disciplina
  privatistica
della
organizzazione, «micro-
invece, riguardante organizzazione»

l’articolazione degli
uffici e le misure
inerenti alla gestione dei rapporti
di lavoro, è determinata dagli organi preposti
alla
gestione «con la capacità e i poteri del privato
datore di lavoro» (art. 5, comma 2), cioè con atti
55 organizzativi di diritto
privato.
  ’applicazione delle regole di
diritto privato è
L
pressoché integrale nel caso delle aziende sanitarie
locali (ASL)
che costituiscono la struttura di base
del Sistema sanitario nazionale. Le ASL sono
«aziende con personalità giuridica pubblica e
autonomia imprenditoriale». La loro
organizzazione e il loro funzionamento sono
disciplinati «con atto aziendale di
diritto privato»,
approvato dal direttore generale, che individua le
strutture
operative dotate di autonomia gestionale
o tecnico-professionale (art. 3, comma
1-bis, d.lgs.
30 dicembre 1992, n. 502).
In  secondo luogo,
  Il pubblico impiego
negli anni Novanta   privatizzato
del secolo scorso il
rapporto di lavoro dei
dipendenti pubblici, in
precedenza sottoposto a un regime pubblicistico
(leggi,
regolamenti dei singoli enti, atti
amministrativi unilaterali), è stato ricondotto
in
parte al diritto comune.
 Il d.lgs. n. 165/2001 sopra citato, infatti, prevede
che «i
rapporti di lavoro dei dipendenti delle
pubbliche amministrazioni sono disciplinati
dalle
disposizioni del Capo I, Titolo II, del Libro V del
codice civile e dalla
legge sui rapporti di lavoro
subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse
disposizioni contenute nel presente decreto che
costituiscono disposizioni a
carattere imperativo»
(art. 2, comma 2). Di regola, come si vedrà, si
applica
il diritto comune, salvo le eccezioni
previste dalla disciplina speciale contenuta
nello
stesso decreto legislativo o in altre leggi
amministrative. A valle della
normativa di rango
primario, i rapporti individuali di lavoro sono
regolati da
contratti collettivi e contratti
individuali (art. 2, comma 3).

▶ La
tendenza espansiva del diritto
amministrativo.
In presenza di
determinate condizioni, anche
soggetti formalmente privati sono sottoposti,
almeno
in parte, a un regime di diritto
amministrativo.
Ciò accade, in particolare,
per i soggetti privati che
in base a criteri posti dalla normativa europea e
nazionale in materia di contratti pubblici sono
qualificati come «organismi di
diritto pubblico» o
«imprese pubbliche» (art. 3, comma 1, lett. d) e t),
Codice dei contratti
pubblici). Essi, come si vedrà
nel capitolo XII, sono tenuti ad avviare
procedimenti competitivi a evidenza pubblica per
la scelta dell’impresa fornitrice e
i loro atti sono
impugnabili innanzi al giudice amministrativo.
In termini generali, l’art. 1,
comma 1-ter, l. n.
241/1990 (riformulato in parte dall’art. 1 legge 6
novembre 2012, n. 190) stabilisce che «I
soggetti
privati  preposti   I privati preposti
  all’esercizio di attività
all’esercizio di amministrative
attività
amministrative
assicurano il rispetto dei criteri e dei principi di cui
al comma 1
con un livello di garanzia non inferiore
a quello cui sono tenute le pubbliche
amministrazioni in forza delle disposizioni di cui
alla presente legge» (in
particolare quelli di
imparzialità, pubblicità e trasparenza). Inoltre,
l’art. 29, comma 1, l. n. 241/1990 stabilisce che essa
si
applica anche «alle società con totale o
prevalente capitale pubblico, limitatamente
all’esercizio delle funzioni amministrative».
  lcuni atti di soggetti
privati hanno dunque natura
A
di provvedimenti e sono sottoposti al controllo
giurisdizionale da parte del giudice
amministrativo. Il Codice del processo
amministrativo, nel definire l’ambito della
giurisdizione amministrativa, infatti,
fa riferimento
anche ai «soggetti equiparati» alle pubbliche
amministrazioni o a
quelli «comunque tenuti al
rispetto dei principi del procedimento
56 amministrativo»
(art. 7, comma 2).
Anche la normativa sul diritto
di accesso ai
documenti amministrativi ha un campo di
applicazione che va al di là
delle amministrazioni
pubbliche in senso stretto. Infatti, l’art. 22, comma
1, lett. e), l. n. 241/1990 include nella
definizione di
pubblica amministrazione «i soggetti di diritto
privato limitatamente
alla loro attività di pubblico
interesse disciplinata dal diritto nazionale o
comunitario», i quali, almeno per una parte della
loro attività, sono tenuti a
rispettare gli obblighi in
materia di trasparenza.
Infine, la costituzione di
società per azioni da
parte di  soggetti   Le società per azioni-
  ente
pubblico
pubblici
regolate in
linea di principio dal
diritto privato non comporta sempre e
necessariamente che esse siano qualificabili come
persone giuridiche private. La
giurisprudenza più
recente, infatti, in presenza di deroghe al diritto
comune
introdotte da leggi speciali e in
considerazione della rilevanza pubblicistica della
loro attività, attribuisce ad alcune società in mano
pubblica la natura giuridica di
enti pubblici (per
esempio, Poste s.p.a., ENEL s.p.a., RAI). È stata
così riscoperta
la figura, per molti aspetti ibrida,
della società per azioni-ente pubblico, già
emersa
negli anni Trenta del secolo scorso (in particolare
a proposito dell’AGIP
s.p.a.).
I  n ogni caso, la
trasformazione in società di diritto
privato degli enti pubblici (cosiddetta
privatizzazione «fredda»), se non è accompagnata
dalla dismissione del controllo
azionario da parte
dello Stato o di enti pubblici (cosiddetta
privatizzazione
«calda»), non altera la sostanza
pubblicistica delle società, con la conseguente
applicazione di regole pubblicistiche (per esempio,
il controllo della Corte dei
conti esercitato anche
attraverso la presenza di un magistrato nel
consiglio di
amministrazione).
Va segnalato per completezza
che anche il diritto 
privato in qualche   La penetrazione nel
  diritto
privato
caso incorpora
principi propri del
diritto amministrativo, come l’obbligo di
motivazione. Così, per
esempio, nel diritto
societario le società facenti parte di un gruppo
possono
assumere decisioni influenzate
dall’attività di direzione e coordinamento della
società capogruppo anche sacrificando l’interesse
della società a favore di quello
del gruppo. Tuttavia
le decisioni di questo tipo, al pari degli atti
amministrativi
(art. 3 l. n. 241/1990), devono
«essere analiticamente
motivate e recare puntuale
indicazione delle ragioni e degli interessi la cui
valutazione ha inciso sulla decisione» (art. 2497-ter
cod.
civ.). Nel diritto del lavoro privato la
comunicazione del licenziamento deve
contenere
una motivazione (art. 2, comma 2, legge 15 luglio
1966, n. 604,
sostituito dalla legge 28 giugno 2012,
n. 92). Secondo il Codice del Terzo settore, il
rigetto di una domanda di
ammissione a
un’associazione deve contenere una motivazione
(art. 23).
  ei rapporti tra compagnie di
assicurazione
N
private e sottoscrittori di polizze di assicurazione
nel settore della
responsabilità civile obbligatoria,
questi ultimi possono esercitare il diritto di
accesso ai documenti detenuti dalle prime con
modalità ed esiti analoghi a quelli
previsti dalla l.
n. 241/1990 per i rapporti tra cittadini e pubbliche
amministrazioni.
In conclusione, il diritto
amministrativo non
costituisce oggi né l’unico diritto applicabile alle
pubbliche
amministrazioni, né un diritto
applicabile solo ad esse. La distinzione tra attività
di diritto pubblico e di diritto privato non è
sovrapponibile in modo perfetto alla
distinzione
57 tra soggetto pubblico e soggetto privato.
4.4. Il diritto penale

Il diritto amministrativo ha
numerose
connessioni con il diritto penale.
In primo luogo, il codice
penale dedica l’intero
Titolo II del Libro II ai delitti contro la pubblica
amministrazione distinguendo i reati commessi dai
pubblici ufficiali e dagli
incaricati di pubblici
servizi (per esempio, il peculato, l’abuso d’ufficio,
l’interesse privato in atti di ufficio) e i reati
commessi dai privati contro la
pubblica
amministrazione (per esempio, la violenza o
minaccia a un pubblico
ufficiale, l’oltraggio,
l’interruzione di un ufficio o servizio pubblico). Il
codice
penale contiene anche le definizioni di
pubblico ufficiale preposto a una pubblica
funzione e di incaricato di pubblico servizio (artt.
357 e 358) ai fini
dell’applicazione delle norme
penali. Da tali definizioni si possono ricavare
elementi utili anche per la ricostruzione delle
nozioni generali del diritto
amministrativo. In
particolare, la funzione amministrativa è
caratterizzata
dall’esprimersi della volontà
dell’autorità pubblica amministrativa per mezzo di
«poteri autoritativi» (art. 357, comma 2), nozione,
quest’ultima, centrale
nella teoria del
provvedimento amministrativo.
Peraltro, le definizioni
ricavabili dai due ambiti
disciplinari non coincidono in tutto e per tutto.
Anzi,
come ha osservato la giurisprudenza penale a
proposito della nozione di procedimento
amministrativo, «le indicazioni del diritto
amministrativo sono utili […], ma non
esaustive o
vincolanti» per il giudice penale (C. Cass., Sez. VI
penale, 14 aprile
2015).
In secondo luogo, il diritto
penale rafforza
l’effettività di molte discipline amministrative di
settore punendo
comportamenti di singoli
individui o di imprese che ne violino i precetti. Si
pensi
soltanto ai numerosi reati previsti dal Codice
dell’ambiente o quelli che tendono a colpire gli
abusi edilizi. La stessa inosservanza di un
provvedimento legalmente dato da
un’autorità
amministrativa è punita con una contravvenzione,
anche se ciò solo negli
ambiti della giustizia, della
sicurezza o ordine pubblico, dell’igiene (art. 650
cod. pen.).
In terzo luogo, come si vedrà
nel capitolo IV, in
seguito ad alcune pronunce delle corti europee la
distinzione
tra sanzioni amministrative e sanzioni
penali ai fini dell’applicabilità del
principio del
contraddittorio e del principio del ne bis in
idem è
sempre più incerta.
5. I
caratteri generali del
diritto amministrativo
5.1. La natura giurisprudenziale del
diritto amministrativo
In sede introduttiva conviene
dar conto di alcuni
caratteri generali del diritto amministrativo e
delle principali
partizioni della materia.
Come si è già accennato, la
nascita del diritto
amministrativo in Francia e in Italia è legata
all’istituzione
di un giudice speciale per le
controversie tra cittadino e pubblica
amministrazione.
E ciò spiega un suo primo tratto
distintivo originario, vale a dire quello di essere
un
diritto avente natura giurisprudenziale. Vanno
dunque anticipati alcuni temi
esaminati nel
58 capitolo XIV.
In  Francia la   L’esperienza
francese
 
giustizia
amministrativa si sviluppò, senza soluzione di
continuità,
dal sistema del contenzioso
amministrativo all’istituzione nel 1872 di un
giudice
speciale. Come si vedrà, il contenzioso
amministrativo era dato da un sistema di
ricorsi
amministrativi interni al potere esecutivo (una
sorta di giustizia
domestica) già presenti in epoca
antecedente la Rivoluzione del 1789. Nel 1872 al
Conseil d’État venne attribuita in via permanente la
funzione di giudice del contenzioso
amministrativo e con ciò il Conseil
d’État completò
la propria trasformazione in giudice in senso
proprio.
 Quasi in contemporanea, nel
1873, il Tribunal des
Conflits emanò la pronuncia
sull’arrêt Blanco, che,
come si è già accennato, segna
convenzionalmente
la nascita del diritto amministrativo. In seguito,
affermata
l’autonomia del diritto amministrativo
dal diritto comune, fu lo stesso
Conseil d’État a
elaborare e ad adattare via via, con
notevole
creatività, pragmatismo e flessibilità (souplesse), i
principi fondamentali di questo diritto.
In Italia l’esperienza    L’esperienza
italiana
 
è in gran parte simile,
con una sola variante. Lo sbocco
naturale del
sistema del contenzioso amministrativo, già
presente in varie forme da
lungo tempo negli Stati
preunitari, nell’istituzione di un giudice speciale in
senso
proprio subì una cesura in occasione della
riunificazione nazionale. La legge 20 marzo 1865,
n. 2248, All. E, come si vedrà,
abolì il contenzioso
amministrativo, ritenuto non compatibile con una
visione
liberale dello Stato, e attribuì al giudice
ordinario tutte le controversie tra
privati e
pubblica amministrazione relative alla tutela di
diritti soggettivi.
 Nel 1889 venne operata  una correzione del
sistema istituendo un   La funzione «pretoria»
  del
giudice
giudice amministrativo
amministrativo il cui
nucleo originario fu
costituito dalla IV Sezione del Consiglio
di Stato.
  uest’ultima, fin dalle sue
prime decisioni, si
Q
autoattribuì la qualifica di giudice in senso proprio
e
intraprese l’opera di costruzione dei principi
generali del diritto amministrativo.
Così, per
esempio, in assenza di una definizione legislativa
dell’eccesso di potere,
la IV Sezione chiarì che
esso doveva essere inteso come vizio del
provvedimento
relativo alla legalità intrinseca (da
contrapporre alla legalità estrinseca, cioè
essenzialmente legata agli aspetti formali e
procedurali dell’azione amministrativa)
della
funzione amministrativa. Individuò poi
progressivamente, accanto alla figura
principale
dello sviamento di potere, una categoria aperta di
figure sintomatiche
dell’eccesso di potere
(travisamento dei fatti, disparità di trattamento,
contraddittorietà o insufficienza della
motivazione, ecc.). Il Consiglio di Stato
elaborò
via via, in assenza di una disciplina legislativa
compiuta, i principi
generali dell’azione
amministrativa (il contraddittorio, la
ragionevolezza, ecc.),
dell’atto amministrativo
(l’obbligo di motivazione, la revoca,
l’annullamento
d’ufficio, ecc.) e
dell’organizzazione (la prorogatio degli
organi
scaduti volta a garantire la continuità dell’azione
amministrativa).
Il Consiglio di Stato si fece
anche carico di colmare
le lacune contenute nella scarna disciplina
legislativa del
processo amministrativo. Per
esempio elaborò nozioni fondamentali come l’atto
impugnabile, l’interesse legittimo, l’interesse a
ricorrere, il principio della
domanda, ecc. Gli
stessi criteri di riparto di giurisdizione tra giudice
ordinario e
giudice amministrativo diedero origine
a contrasti giurisprudenziali e vennero
fissati in
modo definitivo negli anni Trenta del secolo
59 scorso, non già dal
legislatore, bensì in seguito a un
«concordato giurisprudenziale» informale tra il
presidente
della Corte di cassazione e del
Consiglio di Stato.
In definitiva, come ha
chiarito da tempo lo stesso
Consiglio di Stato, il diritto amministrativo non è
composto soltanto da norme, ma anche da
«principi che dottrina e giurisprudenza
hanno
elevato a dignità di sistema» (Cons. St., Ad. Plen.,
28 gennaio 1961, n. 3).
La natura giurisprudenziale
del diritto
amministrativo non è contraddetta dalla presenza
di un’amplissima
produzione legislativa. Anzi, i
difetti strutturali della legislazione
amministrativa
(molteplicità dei centri di produzione normativa,
frammentazione,
stratificazione temporale,
instabilità, cattiva qualità dei testi) danno origine a
incertezze interpretative.
Per  dirimere i   Il ruolo nomofilattico
  dell’Adunanza Plenaria
contrasti del Consiglio di Stato
giurisprudenziali,
interviene
l’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato, collegio allargato
composto da giudici
provenienti da tutte le sezioni
giudicanti (II, III, IV, V, VI e VII). Essa svolge
una
funzione nomofilattica, cioè di promozione di
un’applicazione del diritto
uniforme, che è stata
rafforzata dal Codice del processo
amministrativo. Infatti,
nel caso in cui una
sezione giudicante ritiene preferibile
un’interpretazione
diversa da quella dell’Adunanza
Plenaria, non può decidere, ma deve rimettere il
caso alla decisione di quest’ultima e deve poi
conformarsi al suo orientamento (art.
99).
Nell’enunciare il principio di diritto l’Adunanza
Plenaria può stabilire, in
casi eccezionali, che esso
si applichi solo per il futuro e non anche al caso
concreto (Ad. Plen., 22 dicembre 2017, n. 13).
  a l. n. 241/1990 , che
L   La legificazione dei
  principi del diritto
contiene una serie di amministrativo
disposizioni generali
sul procedimento e
sul provvedimento
amministrativo, offre una base
legislativa molto più solida agli istituti
fondamentali del diritto amministrativo. Tuttavia
neppure essa supera del tutto la
natura
giurisprudenziale del diritto amministrativo.
  a un lato, infatti, essa in
alcuni casi ha soltanto
D
legificato e precisato istituti e principi già elaborati
dalla giurisprudenza (per esempio, in tema di
motivazione o di revoca e annullamento
d’ufficio);
dall’altro, essa ha posto una disciplina meno
organica e di dettaglio
rispetto a quella posta da
altre leggi sul procedimento amministrativo (per
esempio,
in Germania, il Verwaltungsverfahrensgesetz
del 1976),
lasciando così ampi spazi di integrazione
e di adattamento alla giurisprudenza.
Il diritto amministrativo ha
un’altra caratteristica
che lo avvicina in qualche modo all’esperienza
della
common law e cioè l’elasticità e adattabilità al
variare
delle situazioni e all’emergere di nuove
esigenze. Ciò costituisce per alcuni
aspetti un
vantaggio perché, entro certi limiti, consente al
sistema di evolversi
anche quando il parlamento
ritarda a fornire risposte legislative a problemi
emergenti.
5.2. Il diritto amministrativo generale
e speciale
Il diritto amministrativo si
caratterizza per la
vastità del materiale normativo e per l’ampiezza e
varietà delle
materie. È emersa così la distinzione
60 tra diritto amministrativo speciale e
generale.
Il diritto amministrativo
speciale è costituito dai
filoni legislativi che disciplinano i vari campi di
intervento delle pubbliche amministrazioni
(urbanistica, sanità, ambiente, beni
culturali,
ordinamento scolastico, universitario, militare,
sportivo, ordine
pubblico, previdenza, ecc.). Il
corpo della legislazione di settore di fonte statale
e
regionale, ma spesso anche, come si è detto, di
derivazione europea, è imponente
(qualche
migliaio di leggi). Inoltre si aggiungono via via
ulteriori settori di
legislazione speciale come, per
esempio, quelli sull’amministrazione digitale e
sulla prevenzione della corruzione nelle pubbliche
amministrazioni.
All’interprete è dunque
richiesta la capacità di
operare una ricognizione completa e aggiornata
delle norme
vigenti così come applicate e
interpretate dalla giurisprudenza e la capacità di
inquadrarle nell’ambito del diritto amministrativo
generale.
Il diritto amministrativo
generale ha invece natura
trasversale ed è opera soprattutto della scienza
giuridica. Essa procede anzitutto alla
rielaborazione del materiale giuridico
grezzo,
costituito dalle norme vigenti e dalle sentenze dei
giudici, attraverso
un’attività di classificazione, di
individuazione di strutture portanti e di
costanti.
Interviene poi l’attività di elaborazione dei
concetti giuridici che
costituiscono il nucleo
essenziale della dogmatica del diritto
amministrativo.
Diritto generale e diritto
speciale si condizionano
reciprocamente e si evolvono di pari passo. Il
mutare delle
discipline amministrative di settore
ad opera del legislatore richiede infatti uno
sforzo
di adattamento delle categorie giuridiche e di
ricerca di nuovi paradigmi
interpretativi.
Il diritto amministrativo
generale, dunque, per
propria natura non può aspirare a un
inquadramento completo,
coerente e definitivo del
proprio oggetto. Può mirare soltanto a tracciare le
coordinate principali e le costanti (le cosiddette
invarianti, secondo Giannini
[1981, 3]) volte a
inquadrare nel modo più preciso i fenomeni
analizzati. E questo
nella consapevolezza che i
sistemi giuridici, così come gli organismi viventi,
presentano necessariamente contraddizioni
interne, tensioni tra opposti principi,
tra elementi
caduchi ed elementi in pieno sviluppo, tra forze
che promuovono la
stabilità e spinte che alterano
gli equilibri.
Il diritto amministrativo
generale è comunque il
nucleo costitutivo della materia, in gran parte
codificato
nella l. n. 241/1990, e come tale
rappresenta la parte
principale di ogni
elaborazione manualistica.
Il diritto amministrativo
speciale, talora
incorporato in codici di settore, è invece oggetto di
trattazioni
organiche, per lo più a uso didattico o
indirizzate agli operatori pratici, dedicate
a uno
solo dei subsettori (diritto urbanistico, diritto
dell’ambiente, diritto
sanitario, diritto dei contratti
pubblici). Talvolta è condensato in capitoli o
partizioni interne a trattati di diritto
amministrativo che mirano anche alla
completezza
dell’esposizione. Quest’ultima esula invece dagli
obiettivi di
un’introduzione generale al diritto
amministrativo.
CAPITOLO 2

La funzione di regolazione e le fonti del


diritto

61
1. Premessa

La funzione regolatrice della


pubblica
amministrazione ha assunto un ruolo crescente
negli ultimi decenni in
conseguenza della crisi
della legge come fonte di disciplina dei rapporti
giuridici. A
causa della velocità dei cambiamenti
tecnologici, economici e sociali nel mondo
contemporaneo, il parlamento è sempre meno in
grado di elaborare testi legislativi
completi e di
operare tempestivamente gli aggiornamenti
necessari. Le leggi diventano
così «leggi d’indirizzo
poggianti su incerta prognosi» o meri «programmi
legislativi
aperti» che si limitano ad assumere
«decisioni di metalivello» le quali lasciano spazio
a
un’«amministrazione autoprogrammantesi»
[Habermas 1996, 511].
In molti casi la legge si limita a
porre i principi
generali della disciplina di una determinata
materia e delega agli
apparati amministrativi il
compito di porre in via sublegislativa, con
regolamenti e con
altri tipi di atti (linee guida,
circolari, norme tecniche, ecc.), le regole di
dettaglio volte a disciplinare anche i
comportamenti dei privati.
Secondo  le   La funzione regolatrice
  della
pubblica
definizioni più ampie amministrazione
di regulation viste nel
capitolo I, la
cosiddetta funzione
regolatrice della pubblica
amministrazione include tutti gli strumenti
formali e
informali dei quali essa dispone per
orientare e condizionare l’attività dei privati.
Essa
attenua almeno in parte il principio della
separazione dei poteri. In base a
quest’ultimo,
infatti, come si è detto, la funzione normativa
dovrebbe essere riservata
al parlamento, cioè alla
legge generale e astratta, la funzione esecutiva al
governo e
agli apparati amministrativi e la
funzione giurisdizionale alla magistratura. In molti
ambiti, la pubblica amministrazione ha sia il
62 potere di porre le
regole, pur nei limiti stabiliti
dalla legge, sia di applicarle
nei singoli casi con
provvedimenti di tipo individuale.
  uesto fenomeno è particolarmente
evidente nel
Q
caso delle autorità indipendenti istituite per la
vigilanza su settori particolari
di imprese (servizi
pubblici nazionali, mercati finanziari, ecc.), alle
quali si è già fatto
cenno, titolari di poteri di
regolazione particolarmente ampi.
Le pubbliche amministrazioni,
peraltro, prima
ancora che soggetti regolatori, sono soggetti
regolati sottoposti a un
corpo più o meno esteso di
norme.
Emerge  qui dunque   Le fonti
  sull’amministrazione e
una distinzione – non dell’amministrazione
usuale, ma utile per
cogliere il ruolo
attuale della
pubblica amministrazione – tra «fonti
sull’amministrazione» e «fonti
dell’amministrazione».
  e prime hanno come destinatarie le pubbliche
L
amministrazioni che
diventano così soggetti
eteroregolati, sottoposti ai principi dello Stato di
diritto.
Esse disciplinano l’organizzazione, le
funzioni e i poteri di queste ultime e fungono da
parametro per sindacare la legittimità dei
provvedimenti da esse emanati. Le fonti
sull’amministrazione sono costituite, in base al
principio della riserva di legge
relativa di cui all’art.
97 Cost., anzitutto da fonti normative di rango
primario
e in secondo luogo da fonti normative di
rango secondario (per esempio i regolamenti
governativi).
Le seconde, invece, sono strumenti a
disposizione
delle pubbliche amministrazioni sia per regolare
comportamenti dei privati
sia, nei limiti in cui la
legge riconosca ad esse un ambito di autonomia
organizzativa,
per disciplinare i propri apparati e il
loro funzionamento.
Nella trattazione che segue viene
data per nota la
sistematica generale delle fonti del diritto, cioè del
complesso degli
atti (o fatti) «abilitati
dall’ordinamento a creare diritto oggettivo»
[Crisafulli 1993,
2]. Essa è oggetto di svolgimento
completo da parte del diritto costituzionale specie
per quel che riguarda la tipologia delle fonti di
rango costituzionale e primario,
nonché i criteri
che regolano i rapporti tra fonti (gerarchia,
competenza, criterio
cronologico).
Tuttavia, il tema delle fonti del
diritto va ripreso,
almeno per linee essenziali, anche nell’ambito
dell’esposizione del
diritto
amministrativo.
Maggiore attenzione va dedicata alle «fonti
dell’amministrazione», che includono sia fonti
normative in senso proprio (regolamenti,
statuti),
sia atti di regolazione aventi natura non normativa
(atti amministrativi
generali, direttive, circolari,
ecc.).
2. La
Costituzione

La Costituzione del 1948 è la fonte giuridica di


rango più
elevato. Essa è il parametro in base al
quale la Corte costituzionale esercita il
sindacato
sulle leggi e sugli atti aventi forza di legge.
La revisione della Costituzione e delle altre leggi
costituzionali
richiede un procedimento di
approvazione da parte del parlamento con
maggioranze
qualificate (art. 138 Cost.). La
Costituzione (a differenza dello Statuto albertino
del 1848) rientra dunque nel novero delle
63 costituzioni rigide, per le quali è cioè previsto un
procedimento di modifica aggravato rispetto a
quello delle leggi ordinarie. Ciò al fine
di
coinvolgere in scelte che possono avere un impatto
di lungo periodo per l’intera
comunità una cerchia
di forze parlamentari più ampia di quelle che
sorreggono il
governo.
Da un punto di vista contenutistico, e per i riflessi
che ne derivano
sulla dimensione e sulle
articolazioni della pubblica amministrazione, la
Costituzione del 1948 appartiene alle cosiddette
costituzioni
lunghe, contrapposte a quelle brevi
ottocentesche, introdotte a partire da quella di
Weimar del 1919. Esse seguono il passaggio dallo
Stato liberale allo Stato
interventista a vocazione
sociale.
La Costituzione, infatti, non
definisce soltanto i
diritti di libertà dei cittadini e delinea l’assetto
generale dello
Stato-ordinamento (Stato, regioni,
autonomie locali, Corte costituzionale,
magistratura, ecc.).
Essa individua anche un’ampia
serie di compiti dei quali lo Stato, e per esso la
pubblica amministrazione, deve farsi carico
nell’interesse della collettività (salute,
istruzione
scolastica e superiore, assistenza e previdenza
sociale, tutela del
risparmio, ecc.).
La Costituzione non tratta invece in modo diffuso
l’ assetto della   Costituzione e
  pubblica
pubblica amministrazione
amministrazione,
trascurato dai
costituenti. La Costituzione enuncia i principi
essenziali in tema di organizzazione
(imparzialità e
buon andamento, nonché equilibrio di bilancio
enunciati nell’art. 97),
di raccordi tra politica e
amministrazione (art. 95, che pone il principio
della
strumentalità dell’amministrazione rispetto
alla politica generale del governo e il
principio
della responsabilità politica dei ministri in
relazione all’attività
amministrativa), di assetto
della giustizia
amministrativa (artt. 103, 113, 125).
Lo stesso principio di
legalità è dato per
presupposto e non è esplicitato in disposizioni
specifiche. Sul versante organizzativo la
Costituzione pone l’accento sul principio
autonomistico (art. 5), poi sviluppato
nell’articolazione «ascendente» dei livelli di
governo, a partire dai comuni fino allo Stato (art.
114), ed enuncia il principio di
sussidiarietà (art.
118). Sul versante finanziario, pone il principio del
pareggio di
bilancio (art. 81, ora rafforzato dalla
legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1), che
impegna tutti
i livelli di governo ad osservare i
vincoli economici e finanziari derivanti
dall’ordinamento dell’Unione europea.
 La  Costituzione   I rapporti tra fonti
  statali e
regionali
contiene invece una
disciplina compiuta
delle fonti del diritto
soprattutto di rango
primario. La riforma del Titolo V della Parte II
della Costituzione
ad opera della legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 ha ridefinito i
rapporti tra le fonti statali e regionali sulla base dei
seguenti principi: la
equiordinazione tra
competenze legislative statali e regionali, che
devono essere
esercitate nel rispetto della
Costituzione e, come si è già accennato, dei
«vincoli
derivanti dall’ordinamento comunitario e
dagli obblighi internazionali» (art. 117, comma 1);
l’attribuzione alle regioni di una
competenza
legislativa generale residuale, con indicazione
tassativa delle materie
attribuite alla competenza
legislativa esclusiva e concorrente dello Stato (art.
117, commi 2 e 3).
  el trattare il tema delle fonti del
diritto conviene
N
pertanto muovere dall’analisi delle fonti
64 dell’Unione europea che
condizionano l’attività
normativa dello Stato e delle regioni.
Successivamente vanno prese in considerazione le
fonti statali e le fonti regionali.
Infine, in coerenza
con un ordinamento costituzionale improntato ai
principi di
autonomia, occorre esaminare le fonti
degli enti locali e di altri enti pubblici
autonomi.
3. Fonti
dell’Unione europea

In base 
all’art. 117,   La disapplicazione del
  diritto
nazionale
comma 1, della contrastante con
Costituzione sopra quello europeo

richiamato, le
fonti
dell’Unione europea si pongono su un livello
gerarchicamente più elevato rispetto
alle fonti
primarie. Vige anzi il principio secondo il quale le
norme nazionali
contrastanti con il diritto europeo
devono essere disapplicate.
  uesto principio vale sia per i
giudici nazionali, ai
Q
quali, nell’ambito di una controversia, spetta il
compito di
individuare la norma applicabile al caso
concreto (anche in base al principio
jura novit
curia); sia per le pubbliche amministrazioni,
quando
esercitano un potere
amministrativo ed
emanano un provvedimento. Per esempio, in
materia di
concessioni balneari, secondo la
giurisprudenza (da ultimo, Consiglio di Stato,
Ad.
Plen., 9 novembre 2021, nn. 17 e 18), i comuni sono
tenuti a disapplicare norme nazionali che
ne
prevedono la proroga automatica della durata in
contrasto con la normativa europea
che impone
una procedura di gara per la scelta del
concessionario (direttiva servizi
(CE) 2006/123, già
citata).
Per la pubblica amministrazione, il
vincolo
derivante dal diritto europeo è addirittura più
stringente di quello che
discende dalla
Costituzione. Essa infatti non può disapplicare le
leggi contrarie alla
Costituzione, né ha il potere
attribuito ai giudici di sollevare in via incidentale
la
questione alla Corte costituzionale.
Il primato del diritto europeo si
spinge invece fino
al punto di vietare alle pubbliche amministrazioni
di dare esecuzione
a un provvedimento la cui
legittimità sia stata affermata da una sentenza
passata in
giudicato, allorché esso sia stato
ritenuto contrario al diritto europeo dalla Corte di
giustizia dell’Unione europea (sentenza 13 gennaio
2004, causa C-453/00, Kuhne
& Heitz).
In estrema sintesi, le fonti europee sono costituite
anzitutto  dai Trattati   I Trattati
 
istitutivi delle
Comunità, più volte modificati e
integrati in
particolare con i Trattati di Amsterdam del 1997, di
Nizza del 2001 e di Lisbona del 2007. Il Trattato di
Lisbona entrato in vigore
a fine 2009 si compone
di due testi: il Trattato sull’Unione europea (TUE)
e il Trattato sul funzionamento dell’Unione
europea (TFUE). Il
primo corrisponde all’incirca al
TUE approvato nel 1992 e integrato nel 2004; il
secondo
corrisponde al precedente Trattato CE,
anch’esso integrato nel 2004. In base all’art. 11
Cost. essi hanno consentito limitazioni della
sovranità a favore delle istituzioni europee. I
principi generali in essi contenuti (non
discriminazione, legalità, certezza del diritto,
ecc.), insieme a quelli che la Corte di giustizia
dell’Unione europea ha ricavato dai principi
generali comuni agli ordinamenti giuridici
degli
Stati membri, sono di diretta applicabilità negli
65 ordinamenti
nazionali.
I  n aggiunta ai Trattati vanno
menzionate la Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea e la
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo
(CEDU), richiamate espressamente
dall’art. 6 del Trattato UE. Alla luce della
giurisprudenza della
Corte costituzionale
(sentenze 11 marzo 2011, n. 80, 7
aprile 2011, n. 113,
22
luglio 2011, n. 236) esse hanno sempre più una
rilevanza giuridica anche
all’interno degli Stati
membri.
I regolamenti, disciplinati dagli artt. 288 ss. TFUE,
 hanno portata
generale e sono direttamente
  I regolamenti e le
  direttive
vincolanti per gli
Stati membri e per i
loro cittadini. Non
richiedono alcuna forma di
recepimento da parte degli Stati membri e non
possono essere
derogati da questi ultimi. A
differenza degli atti normativi nazionali, i
regolamenti
europei devono essere motivati (art.
296, comma 2, TFUE). Inoltre costituiscono un
parametro
diretto per sindacare la legittimità degli
atti amministrativi. Molti regolamenti
vigenti
disciplinano materie che fanno parte del diritto
amministrativo speciale.
 Le direttive emanate dal Consiglio e dalla
Commissione hanno per
destinatari gli Stati e sono
vincolanti «per quanto riguarda il risultato da
raggiungere, salva restando la competenza degli
organi nazionali in
merito alla forma e ai mezzi»
(art. 288, comma 3, TFUE). Esse dunque non sono,
di regola,
immediatamente applicabili. Al pari dei
regolamenti, devono contenere una motivazione
(art. 296 TFUE). Impongono agli Stati membri
soltanto un
obbligo di risultato e non incidono
sull’autonomia di questi ultimi nell’individuare le
modalità concrete e il tipo di atti che devono
essere adottati per raggiungere gli
obiettivi. In
base ai principi di sussidiarietà e di
proporzionalità, le direttive
devono essere
preferite ai regolamenti e le direttive quadro a
quelle dettagliate.
Queste ultime, emanate sempre più di
frequente in
settori rilevanti per il diritto amministrativo,
contengono anche
prescrizioni puntuali
(autoapplicative). Una volta scaduto il termine
previsto per il
recepimento da parte degli Stati
membri, esplicano un’efficacia diretta negli Stati
inottemperanti e possono costituire un parametro
che condiziona la legittimità degli
atti della
pubblica amministrazione.
Tra  gli
atti   Le decisioni
 
dell’Unione europea
si collocano infine le decisioni che hanno un
contenuto
puntuale (art. 288, comma 4, TFUE).
Esse applicano a fattispecie
concrete norme
generali e astratte previste da fonti europee. Sono
vincolanti per gli
Stati membri, ma non hanno
un’efficacia diretta.
I  l recepimento delle norme europee (ma anche
delle sentenze della
Corte di giustizia dell’Unione
europea, specie di quelle che accertano
un’infrazione
comunitaria da parte dello Stato
italiano) è disciplinato nel nostro ordinamento
dalla
legge 4 febbraio 2005, n. 11 e dalla legge 24
dicembre 2012, n. 234 (Norme generali
sulla
partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione
della
normativa e delle politiche dell’Unione europea). Lo
strumento specifico
è costituito da due leggi
annuali di iniziativa governativa: la legge europea
che modifica o
abroga le disposizioni statali vigenti
contrastanti con il diritto europeo; la legge di
delegazione europea, che attribuisce deleghe
legislative al governo per il recepimento
delle
direttive europee. Quest’ultima prevede che nelle
materie non coperte da riserva
di legge il
recepimento possa avvenire anche in via
regolamentare e individua i principi
fondamentali
66 ai quali le regioni si devono attenere per dare
attuazione
alle direttive europee nelle materie
attribuite alla loro competenza legislativa
concorrente.
Con la l. n. 234/2012 sono stati rafforzati i
meccanismi di raccordo
tra parlamento e Unione
europea anche con riguardo alla fase per
così dire
ascendente del processo di adozione di tali atti e in
particolare di quelli
normativi. Infatti, già il
Trattato sull’Unione europea prevede che i
parlamenti
nazionali vigilino sul rispetto del
principio di sussidiarietà (art. 5, comma 4). In
attuazione di questa disposizione il
Protocollo n. 1
allegato al TUE precisa che i progetti di atti
legislativi indirizzati
al Parlamento europeo e al
Consiglio devono essere trasmessi ai parlamenti
nazionali i
quali possono esprimere entro un
termine di otto settimane un parere motivato in
ordine
al rispetto del principio di sussidiarietà
(artt. 3 e 4 Protocollo n. 1 e art. 6 Protocollo n. 2).
Secondo la l. n. 234/2012 i progetti di atti
dell’Unione europea devono
essere trasmessi alle
Camere dal presidente del Consiglio dei ministri o
dal ministro
per gli Affari europei, accompagnati,
per gli atti più rilevanti, da una nota
illustrativa
(art. 6). Gli organi parlamentari possono formulare
al governo atti di
indirizzo relativi alla posizione
che deve assumere l’Italia in sede di Unione
europea e
inviare ai presidenti delle istituzioni
europee il parere motivato previsto dal
Protocollo
n. 2 sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e
di proporzionalità
allegato al TUE (art. 8).
4. Fonti
normative statali,
riserva di legge, principio di
legalità
La Costituzione pone una disciplina delle fonti
statali di rango primario
(e subprimario) e cioè in
estrema sintesi: la legge, approvata dalle due
Camere e
promulgata dal presidente della
Repubblica (artt. 71-74); il decreto legge, che può
essere adottato dal
governo in casi straordinari di
necessità e urgenza e che deve essere convertito in
legge dalle Camere entro 60 giorni (art. 77); il
decreto legislativo emanato dal governo
sulla base
di una legge di delegazione che definisce l’oggetto
e determina i principi e
i criteri direttivi e il limite
di tempo entro il quale la delega può essere
esercitata
(art. 76).
In seguito alle modifiche introdotte dalla legge
costituzionale n. 3/2001, come si è accennato, la
potestà
legislativa statale non è più generale, ma
può essere esercitata solo nelle materie
tassativamente indicate nell’art. 117, commi 2 e 3
(potestà legislativa esclusiva e
concorrente).

▶ Le
riserve di
legge. Meritano un
approfondimento, perché concorrono a
definire i
rapporti tra parlamento e potere esecutivo, le
cosiddette riserve di legge
individuate nella
Costituzione che, come si è accennato nel capitolo
precedente, sono uno degli
elementi costitutivi
dello Stato di diritto.
Numerose disposizioni costituzionali
prevedono
che determinate materie debbano essere
disciplinate con legge (o con atti
aventi forza di
legge) escludendo o limitando il ricorso a fonti
secondarie e in particolare a regolamenti
governativi. Viene cioè istituita una riserva
di
67 competenza a favore del parlamento.
Storicamente le riserve di legge
sono state previste
in funzione di garanzia dei diritti di libertà dei
cittadini contro
gli abusi del potere esecutivo.
Infatti, poiché le leggi sono espressione della
volontà
popolare espressa in parlamento dai
rappresentanti eletti dai cittadini, i vincoli e le
limitazioni ai diritti individuali in esse contenute
sono assentiti, in ultima analisi,
dagli stessi
cittadini e non sono invece rimessi all’arbitrio
degli organi del potere
esecutivo. La legge
promuove inoltre l’uguaglianza dei cittadini nella
titolarità di
diritti e doveri attraverso due suoi
caratteri tipici: la generalità, cioè la sua
riferibilità
a classi più o meno ampie di destinatari;
l’astrattezza, cioè la
suscettibilità a
un’applicazione ripetuta a casi presenti e futuri,
anziché
una tantum.
Le riserve di legge sono di tre
tipi: assoluta,
rinforzata e relativa.
La  riserva di legge   La riserva di legge
  assoluta,
rinforzata e
assoluta, come per relativa
esempio quella in
materia penale (art.
25, comma 2), richiede che la legge ponga una
disciplina
completa ed esaustiva della materia ed
esclude l’intervento di fonti sublegislative.
Essa
ammette solo i regolamenti di stretta esecuzione,
cioè di mero svolgimento di
precetti legislativi che
già hanno operato tutte le scelte di una qualche
rilevanza
sostanziale.
  a riserva di legge rinforzata
aggiunge al carattere
L
dell’assolutezza il fatto che la Costituzione pone
direttamente
taluni principi materiali o
procedurali relativi alla disciplina della materia che
costituiscono un vincolo per il legislatore
ordinario. Essa è prevista soprattutto in
relazione
ai diritti di libertà. Per esempio, l’art. 18 in tema di
libertà di
associazione esclude che possano essere
istituiti regimi di autorizzazione
amministrativa.
L’art. 17 garantisce ai cittadini il diritto di riunirsi
pacificamente e
senz’armi e prevede che le autorità
competenti possano vietare le riunioni in luogo
pubblico solo «per comprovati motivi di sicurezza
o di incolumità pubblica».
La riserva di legge relativa, come
per esempio
quelle in materia tributaria (art. 23) e di
organizzazione dei pubblici
uffici (art. 97), richiede
che la legge ponga prescrizioni di principio e
consente
l’emanazione di regolamenti di tipo
esecutivo contenenti le norme più di dettaglio che
completano la disciplina della materia.
La qualificazione di una riserva di
legge come
assoluta o relativa dipende nei singoli casi da
un’interpretazione letterale
e sistematica delle
disposizioni costituzionali che pongono la riserva.
Per esempio, la
formula «nei soli casi e modi
previsti dalla legge» utilizzata in tema di libertà
personale sta a indicare una riserva assoluta; quelle
più generiche «in base alla legge»
in tema di
prestazioni imposte o «secondo disposizioni di
legge» in tema di
organizzazione degli uffici
pubblici connotano invece le riserve relative.
La riserva di legge va distinta,
anche se ha in
comune la funzione di garanzia dei soggetti privati
nei confronti
dell’amministrazione, dal principio
di legalità.

▶ Il principio di legalità.
Il principio  di legalità
costituisce uno dei   Il fondamento
  costituzionale
principi
fondamentali
del diritto
amministrativo. Esso è richiamato dall’art. 1 l. n.
241/1990, secondo il quale l’attività
amministrativa persegue i fini determinati dalla
legge. Il principio di
legalità si ricava
68 indirettamente da disposizioni
costituzionali. In
particolare l’art. 113 Cost. in tema di giustiziabilità
degli atti
amministrativi presuppone che il giudice
trovi nella legge un parametro oggettivo
rispetto al
quale sindacare gli atti impugnati. Il principio di
legalità riceve un
riconoscimento implicito anche
nei Trattati europei (art. 19 TUE e art. 262 TFUE).
È stato definito dalla giurisprudenza europea
come
principio, comune a tutti gli Stati membri, inerente
al sistema europeo quale
«Comunità di diritto».
I  l principio di legalità assolve a
una duplice
funzione: di  garanzia   Legalità-garanzia e
  legalità-indirizzo
delle situazioni
giuridiche soggettive
dei privati che possono essere incise dal potere
amministrativo (legalità-garanzia); di ancoraggio
dell’azione
amministrativa al principio
democratico e agli orientamenti che emergono
all’interno del
circuito politico-rappresentativo
(legalità-indirizzo). Infatti la legge, manifestazione
della sovranità popolare, funge da fattore di
legittimazione e da guida dell’attività
amministrativa.
I  l principio di legalità può essere
inteso in due
accezioni.

1. In un primo senso, esso va inteso come


preferenza della legge: gli
atti emanati dalla
pubblica amministrazione non possono porsi in
contrasto con la legge.
La legge costituisce cioè un
limite negativo all’attività dei poteri pubblici: ove
travalicato, determina l’illegittimità degli atti
emanati (vizio di violazione della
legge).
Il principio  della   Il principio della
  preferenza
della legge
preferenza della legge
risale alla prima fase
dello
Stato di diritto incorporato nelle costituzioni
liberali ottocentesche (come lo Statuto albertino).
Queste ultime erano improntate ancora a
una
concezione dualistica della sovranità, condivisa tra
un parlamento elettivo,
legittimato in base al
principio democratico, e il re, legittimato in base al
principio
dinastico. In questo modello il potere del
re (cioè dell’esecutivo) godeva di una
legittimazione propria (la cosiddetta prerogativa
regia). Non presupponeva cioè
un’attribuzione
espressa in una legge, ma non poteva porsi in
contrasto con le leggi.
I  l principio della preferenza della legge si desume
da varie
disposizioni vigenti. In particolare, l’art. 4,
comma 1, delle disposizioni preliminari al codice
civile prevede che «I regolamenti non possono
contenere norme contrarie alle
disposizioni di
legge». Inoltre, l’art. 5 l. n. 2248/1865, All. E di
abolizione del contenzioso
amministrativo
stabilisce che «le autorità giudiziarie
applicheranno gli
atti amministrativi e i
regolamenti generali e locali in quanto siano
conformi alle
leggi» e impone dunque al giudice
ordinario la disapplicazione di tali atti quando si
pongano in contrasto con la legge.

2. In un secondo senso, quello oggi più rilevante,


il  principio di legalità   La legge come
  fondamento del
potere
richiede che il potere amministrativo
amministrativo
trovi
un riferimento
esplicito in una norma di legge. Quest’ultima
costituisce il
fondamento esclusivo (o limite
positivo) dei poteri dell’amministrazione: essa
deve
attribuire in modo espresso alla pubblica
amministrazione la titolarità del potere,
disciplinandone modalità e contenuti.
  uesta concezione emerse man mano
che si
Q
affermò la concezione monistica della sovranità,
fatta propria ora nella
Costituzione già all’art. 1,
secondo il quale la sovranità appartiene al popolo.
La
pubblica amministrazione non ha dunque una
69 legittimazione propria, ma i poteri
da essa
esercitati devono trovare un ancoraggio nel
circuito
politico-rappresentativo, cioè nella legge
(votata da un parlamento elettivo), che
diventa,
appunto, il fondamento e la misura del potere.
In assenza di una norma di conferimento del
potere, l’amministrazione
può far uso soltanto,
come si è visto, della propria capacità di diritto
privato. Il
potere esercitato in assenza di una
norma di conferimento comporta la nullità
dell’atto
emanato, come si vedrà, per difetto
assoluto di attribuzione
(21-septies
l. n. 241/1990).
Il  principio di   Legalità formale e
  sostanziale
legalità inteso nel
secondo senso ha a
sua volta una duplice dimensione:
la legalità
formale (estrinseca o in senso debole) e la legalità
sostanziale (intrinseca
o in senso forte).
  er soddisfare la prima è
sufficiente la semplice
P
indicazione nella legge (anche con una «norma in
bianco»)
dell’apparato pubblico competente a
esercitare un potere normativo secondario o
amministrativo che risulta dunque indeterminato
nei suoi contenuti. La seconda esige
invece che la
legge ponga, sia pur in termini generali, una
disciplina materiale del
potere amministrativo,
definendone i presupposti per l’esercizio, le
modalità
procedurali e le altre sue caratteristiche
essenziali. Come si vedrà trattando della
distinzione tra poteri discrezionali e vincolati, il
massimo di legalità sostanziale si
raggiunge nel
caso di poteri integralmente vincolati.
La seconda delle due concezioni
appare più
rispondente alla Costituzione e a una visione più
evoluta dello Stato di
diritto. Ciò se non altro
perché l’effettività della tutela giurisdizionale
contro gli
atti dell’amministrazione presuppone
che il giudice disponga di parametri legislativi
che
vadano al di là della mera attribuzione di un potere
indeterminato nei suoi elementi
essenziali.
La Corte costituzionale ha fatto
leva sul principio
di legalità inteso in senso sostanziale (oltre che sul
principio
della riserva di legge relativa) per
dichiarare illegittima, per esempio, una
disposizione che attribuiva al sindaco un potere
assai ampio di emanare ordinanze per
prevenire ed
eliminare gravi pericoli per l’incolumità pubblica e
la sicurezza urbana
(art. 54 del Testo unico degli
enti locali, come sostituito
dall’art. 6 d.l. 23 maggio
2008, n. 92 convertito in legge
dall’art. 1, comma 1,
l. 24 luglio 2008, n. 125). Secondo la
Corte, infatti,
«non è sufficiente che il potere sia finalizzato dalla
legge alla tutela
di un bene o di un valore, ma è
indispensabile che il suo esercizio sia determinato
nel
contenuto e nelle modalità, in modo da
mantenere costantemente una, pur elastica,
copertura legislativa dell’azione amministrativa»
(sentenza 7 aprile 2011, n. 115).
Anche la Corte europea dei diritti
dell’uomo ha
affermato che il principio di legalità si riferisce
«alla qualità della
legge» nel senso che «debba
essere accessibile alle persone interessate e che i
suoi
effetti debbano essere prevedibili» e ha
sottolineato che «una norma non può essere
considerata una “legge” se non è formulata con
sufficiente precisione» (causa
De Tomaso c. Italia 23
febbraio 2018).
Come  anticipato, la   Principio di legalità e
  riserva di
legge
riserva di legge
relativa e il principio
di legalità inteso in senso
sostanziale hanno alcuni
elementi in comune poiché assolvono all’analoga
funzione
garantistica di delimitare il potere
70 esecutivo.
  a riserva di legge relativa
concorre a definire i
L
rapporti per così dire interni al sistema delle fonti
normative.
Infatti, stabilisce condizioni e limiti al
potere regolamentare del governo ed esige che
la
legge disciplini almeno in parte la materia. Da
questo punto di vista, analogamente a
quanto
accade per il principio di legalità in senso
sostanziale, anche per la riserva di
legge si pone la
questione di quanta parte della disciplina di una
determinata materia
debba essere contenuta
direttamente nella fonte primaria e quanto spazio
di intervento
possa essere rimesso invece alla
fonte regolamentare, cioè al potere esecutivo.
Il principio di legalità prescrive
che il potere
dell’amministrazione, anche allorché si esplichi
nell’emanazione di norme
secondarie, trovi un
fondamento nella legge e qui vi è una
sovrapposizione con il
principio della riserva di
legge relativa. Il fondamento legislativo generale
dei
regolamenti governativi, come si vedrà, è
costituito dall’art. 17 legge 23 agosto 1988, n. 400
(Disciplina
dell’attività di governo e ordinamento della
presidenza del Consiglio dei
ministri), che ne individua
le principali tipologie.
Tuttavia il principio di legalità si
riferisce, oltre che
ai poteri normativi, soprattutto ai poteri e ai
provvedimenti
amministrativi puntuali. Esso
postula che il fondamento (e il parametro della
legittimità) dei provvedimenti amministrativi sia
costituito anzitutto da norme di rango
primario.
Inoltre, secondo la giurisprudenza
amministrativa,
le  esigenze   Fonti primarie,
  secondarie e
principi
sottostanti al generali come
principio di
legalità parametri della legalità

possono essere
soddisfatte anche da norme di rango secondario
(regolamenti).
Ciò vale, per esempio, anche nel
caso delle sanzioni
amministrative, assimilabili
per certi aspetti alle sanzioni penali
assoggettate al
principio del nullum crimen sine lege e alla
garanzia
della riserva di legge assoluta. Il carattere di
generalità e astrattezza delle
norme regolamentari
garantisce comunque l’uguale trattamento dei
destinatari dell’azione
amministrativa. In ogni caso
per essere legittimo l’atto amministrativo
deve
essere conforme anche alle norme secondarie.
 Infine, i parametri che integrano il
principio di
legalità sono costituiti, oltre che dalle leggi e dai
regolamenti, anche
dai principi generali del diritto
amministrativo desumibili dalla Costituzione (per
esempio, nell’art. 97) o dal diritto europeo ed
elaborati via via dalla giurisprudenza
amministrativa. I più importanti sono ora
richiamati, come si vedrà, dall’art. 1 l. n. 241/1990.
Il principio  di   La règle de
droit
 
legalità richiede
spesso all’amministrazione, più che la
meccanica
applicazione di una o più disposizioni normative
espresse, una valutazione
articolata delle norme e
dei principi generali riferibili al caso concreto (la
cosiddetta règle de droit). La pubblica
amministrazione per
individuare la règle de droit
deve anche accertare la conformità
delle
disposizioni nazionali con quelle europee e
interpretare delle disposizioni
interne nel modo
più conforme ai principi costituzionali.
 
5. Le leggi
provvedimento

Sintomo di una disfunzione nei


rapporti tra
parlamento e potere esecutivo sono le cosiddette
leggi provvedimento.
Si tratta di leggi (statali, ma
anche regionali) prive dei caratteri della generalità
71 e
astrattezza, che regolano cioè situazioni concrete
e talora
un’unica fattispecie. Come esempi
possono essere menzionate le leggi che rilasciano,
prorogano o revocano concessioni amministrative
riferite a talune imprese, costituiscono
o
disciplinano singole società per azioni di interesse
nazionale introducendo deroghe al
diritto comune
(per esempio, la RAI), erogano finanziamenti a una
o più imprese,
approvano un atto di pianificazione,
sottopongono a vincoli un bene specifico,
sdemanializzano una particolare porzione di
territorio.
La Costituzione non
contiene un principio di
riserva   L’assenza di una
  riserva di
 d’amministrazione amministrazione
(o di
funzione
amministrativa) che
metta al riparo il potere esecutivo per così dire da
invasioni di campo ad opera del legislatore.
 La prassi dell’amministrare per
legge, alla quale il
parlamento indulge di frequente, è stata
stigmatizzata come una
sorta di «legalità
usurpata» [Merusi 2007, 19] perché il parlamento
occupa spazi che in
base al principio della
separazione dei poteri dovrebbero essere riservati
al potere
esecutivo. Infatti, secondo il modello
teorico che risale alle costituzioni liberali, la
fase
della posizione delle norme che definiscono in
astratto i poteri attribuiti
all’amministrazione (il
cosiddetto «previo disporre») va tenuta distinta da
quella
dell’esercizio concreto del potere in
applicazione delle norme (il «concreto
provvedere»): la prima involge valutazioni di tipo
politico e strategico in ordine alla
necessità di
dotare l’amministrazione degli strumenti necessari
per il perseguimento dei
fini pubblici; la seconda
richiede l’accertamento della situazione di fatto e,
se il
potere è discrezionale, la valutazione degli
interessi in gioco allo scopo di
individuare la
soluzione più confacente.
La legge provvedimento scardina  le
garanzie
offerte al privato dal   La tutela
 
regime dell’atto e del
procedimento (soprattutto in base
alla l. n.
241/1990) come, in particolare, il diritto di
partecipare al procedimento, l’obbligo di
motivazione e il diritto di proporre
ricorso
giurisdizionale innanzi al giudice amministrativo
per ottenere l’annullamento dell’atto
illegittimo.
La legge provvedimento infatti può essere
censurata soltanto sotto il
profilo della
costituzionalità con le forme, i limiti e i tempi
propri di questo tipo di
giudizio innanzi alla Corte
costituzionale. Quest’ultima può dichiarare
incostituzionali
le leggi provvedimento solo nei
casi di arbitrarietà e manifesta irragionevolezza.
 
6. I
regolamenti governativi

La  legge   Il principio del


  parallelismo tra
costituzionale n. competenza legislativa
3/2001 ha introdotto e regolamentare

il principio del
parallelismo tra competenza legislativa e
competenza regolamentare dello Stato. Lo Stato
è
cioè titolare di un potere regolamentare
esclusivamente nelle materie che l’art. 117 Cost.
attribuisce alla sua competenza legislativa
esclusiva (art. 117, comma 6). Tale potere può
essere delegato alle
regioni.
Nelle altre materie la
potestà regolamentare spetta alle regioni. Lo Stato
può emanare
regolamenti nelle materie devolute
alla potestà legislativa regionale concorrente o
residuale solo nelle more dell’approvazione da
parte delle regioni delle norme di loro
competenza
e in caso di inerzia di queste ultime. I regolamenti
72 in questione hanno
carattere cedevole, nel senso
che perdono efficacia all’entrata
in vigore della
normativa da parte di ciascuna regione (art. 11,
comma 8, l. n. 11/2005).
I  l potere regolamentare del governo
è richiamato
nell’art. 87 Cost., che attribuisce al presidente della
Repubblica
il potere di emanare i regolamenti.
Una disciplina generale di rango
primario è
contenuta nell’art. 17 l. n. 400/1988, che individua
cinque tipi di
regolamenti governativi: esecutivi,
attuativi-integrativi, indipendenti, di
organizzazione, delegati o autorizzati.

1. I regolamenti esecutivi
pongono norme di
dettaglio  necessarie   Tipologia
 
per l’applicazione
concreta di una legge (ulteriore specificazione
delle fattispecie disciplinate, modalità
procedurali,
termini, adempimenti, ecc.). Non è necessario che
la legge attribuisca di
volta in volta al governo il
potere di approvarli, poiché la l. n. 400/1988
costituisce un fondamento legislativo generale
sufficiente a soddisfare il principio di legalità.
Nelle materie coperte da riserva
di legge assoluta,
come si è già osservato, sono ammessi soltanto
regolamenti di stretta
esecuzione, che non operino
alcuna integrazione o specificazione delle norme
materiali
poste a livello di fonte primaria.
I  regolamenti di questo tipo
possono essere
emanati per dare esecuzione a regolamenti europei
e, nei casi in cui la
legge di delegazione europea lo
autorizzi, anche a direttive.

2. I regolamenti per l’attuazione e l’integrazione


possono essere
emanati nelle materie non coperte
da riserva di legge assoluta nei casi in cui la legge
si
limiti a individuare i principi generali della materia
e autorizzi espressamente il
governo a porre la
disciplina di dettaglio.

3. I regolamenti cosiddetti indipendenti


intervengono nelle materie non
soggette a riserva
di legge là dove manchi una disciplina di rango
primario. Si è
dubitato della compatibilità con la
Costituzione di un potere normativo così ampio e
indeterminato. Di fatto sono poche e marginali le
materie nelle quali è assente oggi una
qualsivoglia
disciplina legislativa.

4. I regolamenti di organizzazione costituiscono


in realtà una
sottospecie di regolamenti esecutivi e
di attuazione. Essi disciplinano l’organizzazione
e
il funzionamento delle pubbliche amministrazioni
«secondo le disposizioni dettate
dalla legge» (lett.
d)). Peraltro, già l’art. 97 Cost. pone una riserva di
legge relativa in materia
di organizzazione degli
uffici e dunque richiede una disciplina di fonte
primaria che ne
delinei in termini generali
l’assetto.
Per l’organizzazione e la disciplina degli uffici dei
ministeri, in
particolare, l’art. 17 l. n. 400/1988
opera una distinzione: gli uffici di
stretta
collaborazione con i ministri e quelli di livello
dirigenziale generale sono
disciplinati con
regolamenti di delegificazione (di cui appresso); le
unità dirigenziali
di livello inferiore agli uffici
dirigenziali generali sono invece disciplinate con
decreti ministeriali aventi natura non
regolamentare (comma 4-bis).

5. I regolamenti delegati o autorizzati sono


previsti nelle materie non
coperte da riserva
assoluta di legge e attuano la cosiddetta
delegificazione.
Sostituiscono cioè la disciplina
posta da una fonte primaria con una disciplina
posta da
una fonte secondaria. La loro entrata in
73 vigore determina
infatti l’abrogazione delle norme
vigenti contenute in fonti anche di rango primario.
L’art. 17, comma 2, l. n. 400/1988 pone alcune
condizioni:
occorre una legge che autorizzi il
governo a emanarli; la stessa legge deve contenere
le
norme generali regolatrici della materia (la
delegificazione della materia non è dunque
mai
totale); essa deve altresì disporre l’abrogazione
delle norme vigenti rinviando il
prodursi
dell’effetto abrogativo al momento dell’entrata in
vigore del regolamento.
La delegificazione, alla quale si è
fatto ricorso
di
frequente in anni recenti, mira a contrastare la
tendenza del parlamento a porre
regole anche di
dettaglio. Le leggi irrigidiscono spesso inutilmente
la disciplina,
visto che possono essere modificate
soltanto da una fonte primaria. Peraltro, la
delegificazione non esclude che leggi successive
possano rilegificare in tutto o in
parte la materia. Il
nostro sistema delle fonti non conosce la
cosiddetta riserva di
regolamento.
I regolamenti sin qui menzionati
sono attribuiti
alla competenza del Consiglio dei ministri.

6. I regolamenti ministeriali e interministeriali


sono previsti
dall’art. 17, comma 3, nelle materie
attribuite alla competenza di
uno o più ministri.
Questi regolamenti possono essere emanati solo
nei casi
espressamente previsti dalla legge e sono
gerarchicamente sottordinati ai regolamenti
governativi. Essi devono essere comunicati prima
della loro emanazione al presidente del
Consiglio
dei ministri ai fini del coordinamento.
Sotto  il profilo   Profili procedurali
 
formale e
procedurale i
regolamenti recano la
denominazione «regolamento», sono adottati
previo il parere del
Consiglio di
Stato (sezione
consultiva per gli atti normativi), sono sottoposti
al
controllo
preventivo di legittimità e alla
registrazione della Corte dei conti e
vengono
pubblicati nella Gazzetta Ufficiale. Il
procedimento per la loro adozione non
prevede la
partecipazione dei privati che anzi è
espressamente esclusa (art. 13, comma 1, l. n.
241/1990). Non è richiesta neppure la
motivazione
(art. 3 l. n. 241/1990).
  ’art. 17 l. n. 400/1988 non esaurisce la tipologia dei
L
regolamenti governativi in quanto numerose leggi
speciali prevedono fattispecie che
derogano alla
disciplina generale. Una specie particolare di fonti
secondarie emersa
nella prassi legislativa consiste
nei regolamenti emanati con decreto del
presidente del
Consiglio dei ministri. I decreti in
questione sono assunti talora previa delibera del
Consiglio dei ministri e senza seguire l’iter
procedurale previsto per gli altri tipi di
regolamenti.
Di essi si è fatto un uso assai
frequente in seguito
alla pandemia da Covid-19 del 2020 (ben 19 in
nove mesi) allo scopo
di imporre regole e limiti
anche alla libertà personale per contrastare la
diffusione
del morbo e da talune parti si è dubitato
della costituzionalità delle disposizioni
legislative
contenenti una delega di poteri così ampia
incidente su diritti
costituzionalmente protetti
(art. 2 del d.l. 25 marzo 2020, n. 19 convertito con
modificazioni dalla legge 22 maggio 2020, n. 35).
Inoltre,  in seguito   I decreti ministeriali
  «non
aventi natura
alla legge regolamentare»
costituzionale n.
3/2001 che, come si è
accennato, ha
limitato l’ambito dei regolamenti
governativi e ministeriali alle materie che
rientrano
nella competenza legislativa esclusiva
74 dello Stato, molte leggi
recenti tendono ad aggirare
il divieto autorizzando l’emanazione di non meglio
precisati
decreti ministeriali «non aventi valore
regolamentare», che però contengono prescrizioni
generali analoghe a quelle proprie dei regolamenti.
Questa tendenza contribuisce a
rendere incerta la
distinzione tra atti di regolazione normativi e non
normativi alla
quale si accennerà in seguito.
I  l regime giuridico dei
regolamenti, che sono atti
formalmente amministrativi anche se
sostanzialmente
normativi, è in parte quello
proprio dei provvedimenti amministrativi (sia pur
con le
deroghe prima richiamate in tema di
partecipazione dei privati e di obbligo di
motivazione), in parte quello proprio delle fonti
del diritto.
In quanto atti formalmente
amministrativi, ove
contengano disposizioni contrarie alla legge i
regolamenti possono
essere impugnati innanzi al
giudice amministrativo e conseguentemente
annullati.
Inoltre, in base al principio della
preferenza della
legge,  come si è   La disapplicazione dei
  regolamenti
accennato, i
regolamenti
sono
suscettibili di disapplicazione da parte del giudice
ordinario (art. 5 l. n. 2248/1865, All. E). Anche il
giudice
amministrativo può disapplicare una
norma regolamentare in almeno due ipotesi:
quando il
provvedimento impugnato viola un
regolamento a sua volta difforme dalla legge,
oppure
quando il provvedimento impugnato è
conforme a un regolamento che però contrasta con
una
legge. In entrambi i casi il giudice esercita il
proprio sindacato valutando la
legittimità del
provvedimento direttamente rispetto alla norma
primaria: esso risulta
nella prima ipotesi legittimo
(disapplicazione in malam partem in
quanto
conduce al rigetto del ricorso); nella seconda
ipotesi illegittimo
(disapplicazione in bonam partem
in quanto conduce all’accoglimento
del ricorso). In
definitiva il giudice può disapplicare il
regolamento e ciò anche
quando quest’ultimo non
sia stato espressamente impugnato (cosiddetta
disapplicazione
normativa).
  al secondo punto di vista, e cioè
in quanto fonti
D
del diritto, ai regolamenti si applicano le norme
generali
sull’interpretazione contenute nell’art. 12
delle disposizioni preliminari al codice civile
(interpretazione letterale e logica, analogia legis e
juris). Inoltre, vale per essi il principio jura
novit
curia e la loro violazione può costituire motivo di
ricorso per
Cassazione (art. 360 cod. proc. civ.). A
differenza delle fonti primarie,
non possono essere
oggetto di sindacato di costituzionalità innanzi alla
Corte
costituzionale.
7. I testi
unici e i codici

Negli ultimi decenni la


legislazione amministrativa
si è estesa e ramificata a mano a mano che i
pubblici poteri
hanno assunto nuovi compiti in
campo sociale ed economico.
La produzione    L’«inflazione
  legislativa» e la
cattiva
normativa ha qualità delle leggi
acquisito una
dimensione
patologica.
L’«inflazione legislativa» e il disordine
normativo sono dovuti anzitutto al cattivo
funzionamento del parlamento riconducibile a
fattori collegati alla forma di governo,
quali
75 l’instabilità politica, la scarsa omogeneità e
coesione
delle maggioranze di governo, l’influenza
degli interessi particolari, la farraginosità
del
procedimento legislativo.
  e leggi amministrative organiche
frutto di un
L
disegno coerente sono poco frequenti. Prevalgono
invece gli interventi
normativi estemporanei,
limitati a modifiche puntuali, spesso mal
coordinate, di testi
legislativi previgenti inserite in
leggi omnibus che spesso
traggono origine da
decreti legge confezionati sotto l’urgenza degli
eventi, come quelli
emanati nel corso della recente
pandemia.
Lo stock di
leggi amministrative vigenti, delle quali
è incerto anche il numero (stimato in svariate
migliaia), si presenta come un insieme frastagliato,
stratificato nel tempo e poco
stabile. Di rado le
leggi successive abrogano in modo espresso le leggi
precedenti.
Utilizzano tutt’al più la formula
generica (e fonte di incertezza) dell’abrogazione
implicita delle norme incompatibili.
A partire dagli anni Novanta del
secolo scorso è
stato promosso un riordino della legislazione
almeno nelle materie più
rilevanti. Si è anzi cercato
di istituzionalizzare questo tipo di attività
prevedendo a
cadenza annuale un disegno di legge
per la semplificazione e il riassetto normativo da
presentare al parlamento entro il 31 maggio (art.
20 legge 15 marzo 1997, n. 59 come riformulato
dall’art. 1 legge 29 luglio 2003, n. 229).
Lo strumento  di   I testi unici innovativi
  e di
mera
riordino più compilazione
tradizionale è
costituito dai testi
unici che
accorpano e razionalizzano in un unico
corpo normativo le disposizioni legislative
vigenti
relative a una determinata materia. Si distinguono
usualmente i testi unici
innovativi e quelli di mera
compilazione.
I  primi sono emanati sulla base di
un’autorizzazione legislativa che stabilisce i criteri
del riordino
(cosiddetti testi unici autorizzati o
delegati). Essi sono fonti del diritto in senso
proprio (di rango primario o secondario, a seconda
del tipo di autorizzazione
legislativa) in quanto
sono atti a innovare il diritto oggettivo e
determinano
l’abrogazione delle fonti legislative
precedenti.
I secondi, rari nella prassi, sono
emanati su
iniziativa autonoma del governo (testi unici
«spontanei») e hanno
soltanto la funzione pratica
di unificare in un unico testo le varie disposizioni
vigenti, rendendo così più semplice il loro
reperimento.
I testi unici hanno interessato varie materie: enti
locali (d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267); edilizia (d.p.r.
6 giugno 2001, n. 380, il quale è in realtà un testo
unico misto, che include cioè anche le disposizioni
di rango regolamentare con
l’indicazione per
ciascun articolo o comma del tipo di fonte cui si
riferisce);
espropriazione per
pubblica utilità
(d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327, anch’esso avente
natura mista);
rapporto di lavoro nelle pubbliche
amministrazioni (d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165);
documentazione amministrativa
(d.p.r. 28
dicembre 2000, n. 445); società a partecipazione
pubblica (d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175); ecc.
Un altro strumento è il codice
previsto ora come
modalità ordinaria di riassetto (art. 1 legge 29
luglio 2003, n. 229, come modificato dalla
legge 28
novembre 2005, n. 246). Al di là della diversità
lessicale, il codice si
differenzia dal testo unico per
76 essere concepito, oltre che per coordinare i
testi
normativi, anche per innovare in modo più esteso
la
disciplina usualmente sulla base di una legge di
delega.
I codici  (detti anche   I codici di settore e la
  norma
Taglia leggi
codici di settore)
hanno riordinato
varie materie: contratti pubblici
(d.lgs. n. 50/2016);
protezione civile (d.lgs. 2 gennaio 2018, n. 1); dati
personali (d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196); beni
culturali (d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 che ha
sostituito il precedente
testo unico approvato con
d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490); amministrazione
digitale
(d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82); ambiente
(d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152); Terzo settore (d.lgs. 3
luglio 2017, n. 117); ecc.
I  l parlamento ha approvato poi una
serie di
disposizioni volte ad abrogare le leggi più risalenti.
In particolare, la
cosiddetta legge Taglia leggi (art.
24 d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge 6
agosto 2008, n. 133) ha abrogato circa 29.000 leggi
approvate in epoche lontane e che avevano
esaurito i loro effetti.
In realtà, le operazioni di
riordino della
legislazione, che pur hanno una loro utilità, non
garantiscono la
stabilità e l’organicità della
disciplina, esposta di frequente al rischio di
interventi
normativi successivi mal coordinati.
8. Cenni
alle fonti normative
regionali, degli enti locali e
di altri enti pubblici
La Costituzione prevede tre fonti normative
regionali: gli statuti, le
leggi e i regolamenti.
Modifiche rilevanti rispetto alle previsioni
originarie del 1948
sono intervenute in seguito alle
leggi costituzionali 22 novembre 1999, n. 1 e 18
ottobre 2001, n. 3, già citata.
Lo statuto delle regioni ordinarie determina la
forma di governo e i
principi fondamentali di
organizzazione e funzionamento (art. 123, comma
1). Per esso è previsto un procedimento
aggravato
sotto forma di duplice approvazione a maggioranza
assoluta da parte del
consiglio regionale, con
possibilità di sottoposizione a referendum
popolare (art. 123, commi 2 e 3). Lo statuto delle
regioni speciali è
approvato con legge
costituzionale (art. 116).
Le leggi regionali sono approvate
dal consiglio
regionale e promulgate dal presidente (art. 121)
nelle materie attribuite
dall’art. 117 Cost. alla
competenza regionale concorrente (comma
3) e
residuale (comma 4, che fa riferimento a «ogni
materia non espressamente riservata
alla
legislazione dello Stato»).
La  giurisprudenza   La chiamata in
  sussidiarietà
costituzionale ha
peraltro ritenuto che
anche nelle materie di
competenza regionale lo
Stato possa, entro certi limiti, legiferare. Da un
lato,
infatti, alcune materie attribuite alla
competenza legislativa esclusiva statale (in
particolare la tutela della concorrenza) hanno
natura trasversale e consentono dunque
alle leggi
statali di introdurre disposizioni che non possono
essere derogate dalle
regioni. Dall’altro lato, in
base al principio di sussidiarietà verticale (art. 118),
ove una funzione richieda di essere esercitata in
modo unitario a livello statale, anche
la funzione
legislativa viene per così dire attratta nell’ambito
della competenza
statale (C. cost., sentenza 1 o

ottobre 2003, n. 303, che ha


posto il principio della
77 cosiddetta «chiamata in sussidiarietà»).
 I regolamenti regionali sono
adottati dalla giunta
regionale (art. 121) e possono essere emanati,
secondo il
principio del parallelismo tra funzioni
legislative e funzioni regolamentari, nelle
materie
attribuite alla competenza legislativa concorrente
e residuale delle regioni.
Una disciplina  più   Gli statuti e i
puntuale dei rapporti   regolamenti
comunali
tra leggi regionali e
regolamenti è
rimessa agli statuti.
  e fonti normative di comuni, province e
città
L
metropolitane sono essenzialmente gli statuti e i
regolamenti.
I primi sono menzionati nell’art. 114, comma 2,
Cost., che qualifica gli enti locali
(insieme alle
regioni) come «enti autonomi con propri statuti,
poteri e funzioni secondo
i principi fissati dalla
Costituzione». Viene valorizzato così il principio
autonomistico già enunciato nell’art. 5 Cost.,
secondo il quale la Repubblica riconosce e
promuove le autonomie locali.
L’art. 6 del Testo unico delle leggi sull’ordinamento
degli enti
locali, approvato con d.lgs. 18 agosto
2000, n. 267, prevede che lo statuto sia
approvato
dal consiglio dell’ente locale a maggioranza di due
terzi, oppure, se una
siffatta maggioranza non
viene ottenuta, con delibera approvata due volte
dalla
maggioranza assoluta dei consiglieri. Esso
deve contenere le norme fondamentali
sull’organizzazione dell’ente (attribuzioni degli
organi,
rappresentanza legale, ecc.), le forme di
garanzia e di partecipazione delle
minoranze, le
forme di partecipazione popolare, il
decentramento, l’accesso dei
cittadini alle
informazioni e ai procedimenti amministrativi.
Nella gerarchia delle fonti lo
statuto ha un rango
subprimario poiché si pone al di sotto delle leggi
statali di
principio. L’art. 117, comma 2, lett. p),
prevede infatti una competenza
legislativa
esclusiva dello Stato limitata agli «organi di
governo e funzioni
fondamentali» degli enti locali
e sembra dunque precludere l’emanazione di una
normativa
legislativa di dettaglio non derogabile
dagli statuti.
I regolamenti degli enti locali
sono richiamati
dall’art. 117, comma 6, Cost. e disciplinati dall’art. 7
del
Testo unico degli enti locali sopra richiamato.
Sono emanati nelle materie di competenza
degli
enti locali nel rispetto dei principi fissati dalla
legge e dallo statuto e
disciplinano
l’organizzazione e il funzionamento degli organi e
degli uffici e
l’esercizio delle funzioni.
I regolamenti comunali, approvati
di regola dal
consiglio comunale, costituiscono una fonte di
utilizzo assai frequente.
In base alle leggi vigenti,
intervengono in materie importanti come
l’urbanistica,
l’edilizia, il traffico, il commercio, le
pubbliche affissioni, i rifiuti urbani, ecc.
A partire dagli anni Novanta del
secolo scorso,
molti altri  enti   Statuti e regolamenti
  degli enti
pubblici
pubblici hanno
acquisito una
maggiore autonomia organizzativa e funzionale
(università, camere di
commercio, ecc.), che
include, di regola, anche la potestà di dotarsi
di un
proprio statuto, nell’ambito dei principi stabiliti
dalla legge, e di regolamenti
di organizzazione e di
disciplina delle funzioni. Anche le cosiddette
autorità
amministrative indipendenti, istituite,
come si vedrà, per la vigilanza e regolazione di
settori economici particolari sono titolari di poteri
78 di autorganizzazione e normativi
assai estesi.
9. Gli atti
di regolazione aventi
natura non normativa
Si è già osservato come la funzione
di regolazione
delle pubbliche amministrazioni si esplica anche
attraverso atti aventi
natura non normativa.
A livello di teoria generale, la
distinzione tra atti
normativi e atti non normativi è fondata su criteri
formali (per
esempio, la denominazione di
«regolamento» prescritta dall’art. 17 l. n. 400/1988
già citata) e sostanziali che in
realtà non sono
univoci o rischiano di essere tautologici.
Propri degli atti   I caratteri degli atti
  normativi
 normativi sarebbero
i caratteri della
generalità,
dell’astrattezza e della novità, intesa
quest’ultima come attitudine della norma a
sostituire, modificare o integrare le norme
preesistenti. Secondo altre impostazioni,
sarebbero rilevanti la connotazione
eminentemente politica dell’atto normativo
(criterio
dello «spessore politico»), anziché il
carattere meramente esecutivo e specificativo di
scelte effettuate da altri atti normativi; oppure la
finalizzazione a regolare in
astratto rapporti
giuridici, più che a far fronte a bisogni pubblici
concreti (criterio
teleologico); la indeterminatezza
dei destinatari sia a priori sia
a posteriori (Cons. St.,
Ad. Plen., 4 maggio 2012, n. 9).
Questi e altri criteri
non sembrano risolutivi nei singoli casi. La
giurisprudenza
appare oscillante e comunque
tende a qualificare come atti normativi atipici (o
extra ordinem), in base a criteri sostanzialistici,
molti atti
che dettano regole di comportamento a
soggetti esterni all’amministrazione (per esempio,
alcuni tipi di circolare).
  eraltro, nell’ambito del
diritto
amministrativo, la
P
distinzione tra atti normativi e non normativi,
riferita soprattutto ai cosiddetti atti
amministrativi generali di cui si dirà nel paragrafo
successivo, ha scarsa
rilevanza pratica poiché il
loro regime giuridico è in massima parte
coincidente.
In  sede di teoria   L’irrilevanza pratica
  della
distinzione tra
generale si ritiene atti normativi e non
infatti che dalla normativi

qualificazione di un
atto come normativo derivino, come si è
accennato, le seguenti conseguenze principali: si
applica il principio jura
novit curia, e pertanto sotto
il profilo probatorio la parte privata è
sottratta
all’onere di allegazione e di prova delle norme
applicabili al caso concreto,
onere che vale
soltanto per i fatti (e anche per gli atti
amministrativi e per le
norme
interne, come
ribadito di recente da Corte di cassazione,
Sez. III
civile, 30 gennaio 2019, n. 2543); è consentito il
ricorso in
Cassazione per «violazione o falsa
applicazione di norme di diritto» ai sensi dell’art.
360, n. 3, cod. proc. civ.; valgono i criteri
interpretativi posti dall’art. 12 delle preleggi.
  bbene, queste particolarità
sfumano se si
E
considera il regime sostanziale e processuale degli
atti amministrativi,
specie di quelli a contenuto
generale.
Infatti, quanto al principio jura novit curia,
nel
processo amministrativo il ricorrente deve
specificare nell’atto introduttivo del
giudizio i
motivi di
ricorso (art. 40, comma 1, lett. c), Codice
del processo
amministrativo), cioè i profili
specifici di vizio sottoposti all’esame del
giudice, e
deve dunque indicare anche «gli articoli di legge o
di regolamento che si
ritengono violati» (così
prevedeva l’art. 6, comma 1, del regolamento di
procedura approvato con r.d. 17
agosto 1907, n.
642, abrogato dal Codice). Il giudice non può
dunque
individuare d’ufficio il parametro
normativo in base al quale operare il proprio
79 sindacato.
Quanto alla ricorribilità in Cassazione per
violazione o falsa
applicazione di norme di diritto,
l’art. 111, ultimo comma, Cost. consente il ricorso
per
Cassazione avverso le sentenze del giudice
amministrativo «per i soli motivi inerenti
alla
giurisdizione». Pertanto sia nel caso di violazione
di una norma giuridica in senso
proprio, sia nel
caso di violazione di una prescrizione contenuta in
un atto amministrativo
generale o in una circolare
da parte del provvedimento impugnato, è
comunque esclusa la
ricorribilità in Cassazione.
La «violazione di legge» è invece elencata, insieme
all’eccesso di potere e
all’incompetenza, tra i vizi
del provvedimento
amministrativo indicati
dall’art. 21-octies
l. n. 241/1990. Tuttavia ciascuno
dei tre vizi, come si
vedrà, assume un’identica
rilevanza ai fini dell’annullabilità del
provvedimento. Così, per esempio, la violazione di
una disposizione contenuta in un
regolamento e la
violazione di un bando di concorso (tipico atto
amministrativo
generale) determinano parimenti
l’illegittimità del provvedimento applicativo.
Quanto infine alle regole
sull’interpretazione, per
gli atti amministrativi vale la disciplina prevista dal
codice
civile per i contratti (artt. 1362 ss.), ma non
tutte le disposizioni codicistiche
sono ritenute
compatibili con il carattere unilaterale e
autoritativo dei provvedimenti.
Per esempio, non
si ritengono applicabili i principi
dell’interpretazione delle clausole
contro il loro
autore (art. 1370), dell’interpretazione del
contratto in modo meno
gravoso per l’obbligato
(art. 1371) incompatibili con il ruolo e la missione
della
pubblica amministrazione. Il regime
dell’interpretazione degli atti amministrativi
finisce così per coincidere in gran parte con quello
delle fonti normative di cui alle
preleggi.
10. Gli
atti amministrativi
generali
Di regola i provvedimenti
amministrativi hanno un
contenuto concreto e si rivolgono a uno o più
destinatari
determinati (per esempio,
l’espropriazione di un terreno o l’autorizzazione
all’apertura di un esercizio commerciale). Fissano
cioè autoritativamente il modo di
essere di un
rapporto giuridico tra pubblica amministrazione e
privato in relazione alla
specifica situazione di
fatto e, nel caso in cui si tratti di un potere
discrezionale, agli interessi pubblici e privati in
gioco.
Tuttavia di frequente la pubblica
amministrazione
ha il potere di emanare atti amministrativi aventi
contenuto generale.
Essi sono propedeutici
all’emanazione di provvedimenti puntuali o
trovano svolgimento in
un’attività organizzativa
degli uffici pubblici. Si rivolgono in modo
indifferenziato a
categorie più o meno ampie di
destinatari non necessariamente determinati nel
provvedimento, ma determinabili sulla base di esso
(Cons. St., Sez. V, 18 febbraio 2015,
n. 823). Talora
sono suscettibili di essere applicati a una ripetuta
serie di casi e
dunque hanno anche il carattere
dell’astrattezza.
La tipologia degli atti amministrativi
generali è
variegata e  le   Tipologia
 
classificazioni
proposte in dottrina hanno per lo più una valenza
descrittiva. Tra gli atti generali
sono fatti rientrare
80 usualmente i piani, i programmi, le
direttive, gli
atti di indirizzo, le linee guida, le autorizzazioni
generali, i bandi militari, i provvedimenti che
fissano in modo autoritativo i prezzi e
le tariffe,
ecc. In alcuni casi è controverso, come si è
accennato, se essi abbiano
natura soltanto
amministrativa o se abbiano un’efficacia
propriamente normativa, ma
comunque la loro
portata regolatoria è indiscussa.
 Alcuni di questi atti esprimono scelte attuative
dell’indirizzo
politico-amministrativo e per questo
motivo sono emanati dagli organi
amministrativi
ancorati in modo più diretto al circuito
rappresentativo. A livello
statale la competenza è
attribuita al governo al quale spetta il compito di
mantenere
l’unità dell’indirizzo politico e
amministrativo e di coordinare l’attività dei
ministri
(art. 95 Cost.) o ai ministri ai quali spetta
definire i
piani, i programmi e le direttive generali
che trovano poi svolgimento nell’attività dei
dirigenti generali (artt. 4, 14 e 16 d.lgs. n. 165/2001).
A livello locale, i consigli
comunali e provinciali
approvano, tra gli altri, i programmi (per esempio
quello
relativo ai lavori pubblici), i piani territoriali
e urbanistici, gli indirizzi alle
aziende pubbliche e
agli enti dipendenti, ecc. (art. 42 d.lgs. n.
267/2000).
Gli atti amministrativi generali sono soggetti a un
regime  giuridico che   Le deroghe alla l. n.
  241/1990
deroga in parte a
quello proprio dei
provvedimenti amministrativi e che ricalca quello
degli atti normativi. Come i
regolamenti, non
richiedono una motivazione (art. 3, comma 2, l. n.
241/1990); il procedimento per la
loro adozione
non prevede la partecipazione dei soggetti privati
(art. 13 l. n. 241/1990); l’attività
dell’amministrazione
diretta alla loro emanazione
è esclusa dal diritto di accesso (art. 24, comma 1,
lett. c), l. n. 241/1990). Per molti atti
amministrativi generali sono previsti obblighi di
pubblicazione e ciò accentua la loro
valenza
regolatoria.
 
Di seguito verranno analizzati, in
via
esemplificativa, alcuni tipi di atti amministrativi
generali.
11. a) I bandi di concorso e gli
avvisi di gara
Sono privi del carattere di
astrattezza, e hanno
dunque natura non normativa, i bandi di concorso
per
l’assunzione di dipendenti nelle pubbliche
amministrazioni, e i bandi o avvisi di gara
relativi
ai contratti delle pubbliche amministrazioni.
I bandi di concorso, come si vedrà
meglio nel
capitolo X,
costituiscono l’atto di avvio del
procedimento per la selezione (assunzione o
promozione) di personale delle pubbliche
amministrazioni. Essi specificano, in
applicazione
delle leggi, i requisiti di partecipazione, le
modalità e i termini per la
presentazione delle
domande di partecipazione, lo svolgimento delle
prove scritte e
orali, i criteri per l’attribuzione dei
punteggi. Hanno contenuto concreto poiché
esauriscono i loro effetti al completamento della
procedura, che avviene con
l’approvazione della
graduatoria finale.
Analogamente, i bandi o avvisi di gara disciplinati
dal Codice dei contratti pubblici, come si vedrà
81 meglio nel
capitolo XII, individuano
l’oggetto del
contratto, il tipo di procedura, i criteri per
l’ammissione e per la valutazione delle offerte, le
modalità e i tempi per la
presentazione delle
offerte, ecc. Il bando (insieme agli altri documenti
di gara, come
in particolare la lettera d’invito, i
capitolati tecnici, ecc.) costituisce la lex
specialis
della singola procedura di gara, vincola pertanto la
stazione
appaltante (che non può disapplicarlo) e
condiziona la legittimità degli atti adottati.
12. b) Gli atti di pianificazione e
di
programmazione
Una delle esigenze che presiedono
all’esercizio dei
poteri amministrativi è che esso avvenga in modo
coerente con una
strategia complessiva. Pertanto
in molte materie, a monte dell’emanazione di
provvedimenti puntuali o dell’erogazione di
servizi, la legge prevede un’attività di
pianificazione o programmazione con la quale si
prefigurano obiettivi, priorità, limiti,
contingenti e
altri criteri che presiedono all’esercizio dei poteri
amministrativi e
all’attività degli uffici pubblici.
Così, per esemplificare, il
rilascio dei permessi di
costruzione avviene nel rispetto dei piani
regolatori comunali;
l’allocazione delle frequenze
radiotelevisive avviene sulla base del piano
nazionale
delle frequenze; i permessi per l’accesso
al centro storico sono rilasciati in base al
piano
urbano del traffico.
L’attività di pianificazione e di programmazione
serve anche  a creare   La pianificazione a
  cascata
i raccordi tra i diversi
livelli di governo
(Stato,
regioni,
comuni)
secondo il metodo della
cosiddetta pianificazione a cascata. Così, per
esempio, in
materia sanitaria, l’attività di
programmazione si articola nel piano sanitario
nazionale e, a livello regionale, nei piani sanitari
regionali. In materia di trasporti
pubblici locali lo
Stato predispone il piano generale dei trasporti,
mentre le regioni
emanano i piani regionali di
trasporto e gli indirizzi per i piani di bacino
provinciali, definendo in particolare il livello dei
servizi minimi essenziali e le
modalità per la
determinazione delle tariffe. La legge
anticorruzione (l. n. 190/2012) prevede l’adozione
da parte di ciascuna
pubblica amministrazione di
un piano per la prevenzione della corruzione, ora
incluso
nel Piano integrato di attività e
organizzazione (art. 6 d.l. 9 giugno 2021, n. 80). Il
piano è elaborato sulla base del piano nazionale
approvato dall’Autorità nazionale
anticorruzione.
Alla verifica dell’attuazione del piano è preposto
un
responsabile della prevenzione della corruzione
che è nominato dall’organo di indirizzo
politico di
ciascuna amministrazione e che risponde in sede
disciplinare nel caso di
ripetute violazioni delle
misure previste dal piano.
 Anche in materia ambientale
numerosi sono gli
atti di
pianificazione e programmazione settoriale
statale (piano generale di
difesa del mare e della
costa marina dall’inquinamento, piani di bacino
idrografico
nazionale, ecc.) e regionale (piani di
tutela delle acque, di gestione dei rifiuti, di
bonifica di aree contaminate, di prevenzione e
risanamento dell’aria, ecc.). Un atto di
pianificazione generale richiesto dal diritto
europeo (regolamento (UE) 2018/1999
dell’11
82 dicembre 2018) nel contesto del cosiddetto
Green
Deal, collegato alla transizione ecologica, è il piano
nazionale integrato per l’energia e il clima
approvato nel 2020, nel quale sono fissati
gli
obiettivi nazionali al 2030 sull’efficienza
energetica, sulle fonti rinnovabili e
sulla riduzione
delle emissioni di gas a effetto serra.
Costituisce un tipo a sé il
Piano  nazionale di
ripresa e resilienza   Il PNRR
 
(PNRR) approvato
nel 2021 nell’ambito del programma Next Generation
EU al quale si è
fatto già cenno. Esso è stato
presentato dal governo italiano alla Commissione
europea a
fine aprile 2021 allo scopo di ottenere i
finanziamenti europei (sussidi e prestiti) per
favorire il rilancio economico post pandemia. Il
piano ha una proiezione fino al 2026 ed
è stato
elaborato sulla base di linee guida della
Commissione europea che indicano le
priorità
(transizione ecologica, digitalizzazione, salute,
inclusione sociale, ecc.).
Esso ha due componenti:
un elenco di progetti, le tempistiche per la
realizzazione e gli
importi da stanziare per
ciascuno di essi; le riforme strutturali che
dovranno essere
approvate per legge (riforma della
giustizia, della pubblica amministrazione,
semplificazione amministrativa, apertura dei
mercati alla concorrenza) al fine di creare
condizioni favorevoli alla crescita economica. La
piena attuazione del piano è
monitorata in sede
europea e condiziona l’erogazione delle risorse. Il
già citato Piano
integrato di attività e
organizzazione è adottato e aggiornato ogni anno
dalle
amministrazioni con più di cinquanta
dipendenti.
I  ndica gli obiettivi programmatici,
le strategie di
gestione del personale, gli strumenti per
promuovere la trasparenza e la
lotta alla
corruzione, le misure di semplificazione da
mettere in opera.
Molti atti di pianificazione  e di programmazione
pongono la questione   Valenza interna e
  regolatoria dei
piani
se essi rilevino
solo
all’interno dei
rapporti organizzatori tra i diversi livelli di
governo (Stato,
regioni, enti locali), oppure se, ed
eventualmente entro quali limiti, contengano
prescrizioni direttamente vincolanti i soggetti
privati e dunque assumano una valenza
regolatoria.
I  noltre, come si è già accennato,
dal punto di vista
della teoria della regolazione amministrativa, gli
atti di
pianificazione introdotti frequentemente
nella legislazione nella seconda metà del
secolo
scorso in materia economica (secondo il modello
dello Stato interventista
programmatore) sono
considerati tra gli strumenti di intervento pubblico
più intrusivi
della libertà di iniziativa privata e in
taluni casi con effetti distorsivi della
concorrenza.
Proprio per questo, con l’affermarsi del modello
dello Stato regolatore e
in seguito alle politiche di
liberalizzazione, molti atti di pianificazione sono
stati
soppressi (per esempio, i piani commerciali
comunali che contingentavano il rilascio
delle
autorizzazioni per l’apertura di nuovi esercizi e
costituivano così «barriere
artificiali» all’accesso al
mercato).
Ancora, il modello della
pianificazione a cascata e
delle pianificazioni settoriali si è rivelato spesso
oneroso
in termini di adempimenti e di difficile
attuazione data anche la difficoltà operativa
di
raccogliere e razionalizzare tutte le informazioni
rilevanti necessarie per la
formulazione dei
contenuti del piano. È accaduto così che molti atti
di pianificazione e
programmazione previsti per
legge non siano poi stati mai emanati, oppure si
83 siano
limitati a introdurre prescrizioni generiche.
Merita 
un   Il piano regolatore in
  materia
urbanistica
approfondimento il
piano regolatore
generale, che costituisce lo strumento principale
di
governo del territorio da parte dei comuni. Esso fu
previsto in origine dalla legge urbanistica del 1942.
È disciplinato oggi, insieme
agli altri strumenti
urbanistici, dalle leggi regionali che in questa
materia hanno
adottato talora soluzioni originali e
innovative.
I  l piano regolatore suddivide
anzitutto il territorio
comunale in zone omogenee (cosiddetta
zonizzazione) con
l’indicazione per ciascuna di
esse delle attività insediabili, in base a criteri e
parametri definiti in modo uniforme a livello
nazionale (d.m. 2 aprile 1968, n. 1444): attività
edificatoria a fini
abitativi, industriale, agricola,
ecc.
Il piano individua poi le aree
destinate a edifici e a
infrastrutture pubbliche o a uso pubblico
(cosiddetta
localizzazione). Se la localizzazione
riguarda terreni di proprietà privata, essa
determina un vincolo di inedificabilità di durata
quinquennale che decade se nel
frattempo non
interviene l’espropriazione. Il piano regolatore è
corredato dalle
cosiddette norme tecniche di
attuazione che specificano, in particolare, le
distanze, le
altezze e le destinazioni d’uso degli
edifici.
Il piano regolatore generale si
inserisce in un
sistema articolato di strumenti di pianificazione. È
condizionato a
monte dal piano territoriale di
coordinamento provinciale, dai piani paesistici e
dai
piani urbanistico-territoriali previsti dalla
normativa in materia di valori paesistici
e
ambientali (bellezze naturali).
Costituiscono invece strumenti
attuativi del piano
regolatore il piano particolareggiato di iniziativa
pubblica per la
realizzazione di interventi di
riqualificazione territoriale; i piani di zona per
l’edilizia residenziale pubblica; i piani per gli
insediamenti produttivi; i piani di
lottizzazione di
iniziativa privata e disciplinati da una convenzione
con il comune.
Il  piano regolatore   Il procedimento di
  approvazione
generale è approvato
all’esito di un
procedimento aperto alla
partecipazione dei
privati. Infatti, il piano viene adottato dal comune
(con delibera del consiglio comunale) e pubblicato
per 30 giorni per consentire agli
interessati di
prenderne visione e di presentare osservazioni.
Viene poi sottoposto a
una nuova delibera del
consiglio comunale che deve pronunciarsi sulle
osservazioni
presentate.
I  l piano adottato è soggetto
all’approvazione della
regione. Questa esercita un controllo che non è
limitato alla mera legittimità, poiché può proporre
modifiche al fine di una migliore
tutela degli
interessi ambientali e paesaggistici e di garantire la
conformità al piano
territoriale di coordinamento
provinciale. Le proposte di modifica sono
comunicate al
comune il quale con delibera del
consiglio comunale può approvare
controdeduzioni delle
quali la regione tiene conto
in sede di approvazione definitiva. La notizia
dell’approvazione del piano regolatore viene data
nel Bollettino Ufficiale della
regione. Il piano
regolatore si qualifica, in definitiva, come atto
complesso che
prevede il coinvolgimento del
comune e della regione con poteri propri.
Poiché la procedura di approvazione
richiede
tempi lunghi, il piano regolatore, fin dalla sua
adozione formale, produce
l’effetto di precludere il
rilascio di permessi a costruire non compatibili
con le nuove
prescrizioni (cosiddette misure di
84 salvaguardia).
È controversa la natura giuridica
del piano
regolatore.  Si discute   La natura giuridica del
  piano
regolatore
cioè se abbia natura
essenzialmente
normativa (regolamentare), tale da condizionare
soltanto l’adozione dei
piani attuativi, oppure di
atto amministrativo generale tale da produrre
effetti giuridici
immediati in capo a destinatari ben
individuati (i proprietari dei terreni soggetti ai
vincoli).
 Prevale in giurisprudenza la tesi
intermedia della
natura mista dei piani regolatori che, «da un lato,
dispongono in via
generale ed astratta in ordine al
governo ed all’utilizzazione dell’intero territorio
comunale, e, dall’altro, contengono istruzioni,
norme e prescrizioni di concreta
definizione,
destinazione e sistemazione di singole parti del
comprensorio urbano»
(Cons. St., Ad. Plen., 22
dicembre 1999, n. 24). Ne consegue che occorre
valutare caso
per caso i contenuti del piano allo
scopo di appurare se esso leda in via immediata
posizioni giuridiche di singoli proprietari e
pertanto sia necessario impugnarlo nel
termine
perentorio di 60 giorni; oppure se abbia una
valenza solo programmatoria e che
pertanto solo
l’emanazione dei provvedimenti attuativi
determini una lesione delle
situazioni giuridiche
soggettive tale da rendere necessaria la
proposizione di un
ricorso
giurisdizionale.
In termini generali, la disciplina
legislativa dei
piani regolatori  e dei   Gli effetti
  conformativi
piani attuativi ha
natura
principalmente procedimentale e rimette alle
amministrazioni amplissimi spazi di
discrezionalità. I piani producono una pluralità di
effetti: di disciplina del
potere di
pianificazione a
cascata; di conformazione del territorio, in
particolare in relazione
alla suddivisione del
medesimo in zone a diversa destinazione; di
conformazione del
diritto di proprietà correlato in
particolare alle prescrizioni che limitano le
possibilità di edificazione riferite alle singole
particelle immobiliari. Gli effetti
conformativi
possono sconfinare in effetti sostanzialmente
espropriativi nei casi in
cui, come ha precisato la
giurisprudenza costituzionale e civile, essi
determinino un
vincolo particolare permanente
incidente su beni determinati, facendo così sorgere
il
problema della indennizzabilità.
 
13. c) Le ordinanze contingibili
e
urgenti
Gli Stati devono disporre di
strumenti per far
fronte a emergenze imprevedibili, come da ultimo
con la pandemia da
Covid-19, che possono mettere
a rischio interessi fondamentali della comunità
(incolumità pubblica, sanità, ecc.), ma che non si
prestano a essere classificate e
disciplinate ex ante
in modo puntuale a livello di fonti primarie.
Impostazioni teoriche risalenti consideravano la
necessità addirittura come fonte del
diritto atta a
legittimare l’alterazione delle competenze e
l’adozione di misure
extra ordinem.
Vigente lo Statuto albertino, si ritenne per prassi
che rientrasse nel
potere
regio emanare, nei casi di
urgenza (ma anche nei periodi di chiusura delle
Camere),
ordinanze in deroga alle norme vigenti.
Con l’avvento della Costituzione questo tipo di
potere, che soprattutto nel
ventennio fascista
85 venne esercitato con molta frequenza, venne
assorbito in gran parte dal potere attribuito al
governo, nei
casi straordinari di necessità e
d’urgenza, di emanare decreti legge (art. 77 Cost.)
contenenti disposizioni di rango primario.
A livello subcostituzionale,
numerose disposizioni
di legge attribuiscono ad autorità amministrative il
potere di
emanare ordinanze
contingibili e
urgenti (nei settori dell’ordine pubblico, della
sanità,
dell’ambiente, della protezione civile, ecc.)
delle quali è discussa la natura
amministrativa o
normativa.
Tra  gli
esempi più   Tipologie delle
  ordinanze
risalenti nel tempo vi
è anzitutto il potere
del prefetto «nel caso di
urgenza o per grave
necessità pubblica [...] di adottare i provvedimenti
indispensabili
per la tutela dell’ordine pubblico e
della sicurezza pubblica» (art. 2 Testo unico delle
leggi di pubblica sicurezza, approvato con
r.d. 18
giugno 1931, n. 773).
I  l sindaco, nella sua veste di ufficiale del governo,
può adottare
«provvedimenti contingibili e urgenti
al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli
che
minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza
urbana» (art. 54, comma 4, Testo unico degli enti
locali). Può
adottarli anche in caso di emergenze
sanitarie o di igiene pubblica in ambito locale
(art.
50, comma 5), nonché per ragioni di sicurezza
urbana,
decoro, vivibilità, tranquillità e riposo dei
residenti (ciò in seguito alle modifiche
introdotte
dall’art. 8 d.l. 20 febbraio 2017, n. 8, convertito in
legge 18 aprile 2017, n. 48). Poteri analoghi sono
attribuiti alle regioni e al ministro della Salute nel
caso di situazioni che
interessino territori e
comunità più ampie (art. 32 legge 23 dicembre
1978, n. 833 istitutiva del Servizio
sanitario
nazionale).
Un potere di ordinanza è previsto anche in materia
di protezione
civile. Infatti, nel caso in cui si
verifichino calamità naturali che richiedono
interventi immediati con mezzi e poteri
straordinari, il Consiglio dei ministri può
deliberare lo stato di emergenza fissandone la
durata e l’estensione territoriale
disponendo anche
in ordine all’esercizio del potere di ordinanza.
Quest’ultimo è
esercitato entro 30 giorni dal capo
del dipartimento della Protezione civile nel
rispetto dei limiti e dei criteri indicati nel decreto
che dichiara lo stato di
emergenza e nel rispetto
dei principi generali dell’ordinamento giuridico. Di
regola
deve essere acquisita anche l’intesa delle
regioni territorialmente interessate. Le
ordinanze
sono immediatamente efficaci e vengono attuate a
cura del capo del
dipartimento della Protezione
civile (art. 5 del d.lgs. 2 gennaio 2018, n. 1).
Per contrastare la pandemia da
Covid-19 il d.l. 25
marzo 2020, n. 19 convertito in legge 22 maggio
2020, n. 35 ha
ripartito in modo più chiaro le
competenze statali, regionali e locali in materia di
emanazione di ordinanze contingibili e urgenti,
assegnando il ruolo preminente a quelle
adottate,
come si è già accennato, nella forma del decreto
del presidente del Consiglio
dei ministri e ciò al
fine di evitare misure troppo differenziate a livello
regionale e
locale.
Le leggi attributive di questo tipo
di poteri si
limitano di solito a individuare l’autorità
amministrativa competente ad
adottarli, a
descrivere in termini generali il presupposto che
86 ne legittima l’emanazione
e a specificare il fine
pubblico da perseguire. Pur rispettose
del
principio della legalità formale, esse lasciano
indeterminato il contenuto del
potere e i
destinatari del provvedimento.
L’autorità competente è dunque
titolare di
un’ampia discrezionalità, sia nel momento in cui
apprezza in concreto se la
situazione di fatto
giustifica l’esercizio del potere di ordinanza, sia nel
momento in
cui essa individua le misure specifiche
da adottare.
Le ordinanze in questione operano
in definitiva
una deroga al principio della tipicità degli atti
amministrativi, in base al quale la norma
attributiva del potere deve definirne in modo
sufficientemente preciso presupposti e contenuti,
e sollevano dunque, come si è visto
nel paragrafo 4,
un problema di
compatibilità con il principio di
legalità inteso in senso sostanziale. Esse pongono
inoltre
vari problemi di applicazione e di
qualificazione.
È controverso in primo luogo se ed
entro quali
limiti i poteri  di   Regime giuridico: i
  limiti
costituzionali
ordinanza devono
rispettare
le leggi
vigenti. La giurisprudenza anche costituzionale ha
chiarito da tempo (sentenza 2 luglio 1956, n. 8)
che, quanto meno, le ordinanze non possono
essere emanate in contrasto con i principi generali
dell’ordinamento giuridico e con i
principi
fondamentali della Costituzione. Inoltre devono
avere un’efficacia limitata nel
tempo e devono
essere motivate e adeguatamente pubblicizzate.
  n limite interno è costituito dal
principio di
U
proporzionalità, e pertanto il contenuto delle
ordinanze deve essere
calibrato in funzione
dell’emergenza specifica che deve essere in
concreto fronteggiata.
Da qui anche il carattere
tendenzialmente temporaneo e provvisorio delle
misure
introdotte.
Trattandosi di uno strumento
extra ordinem, il
potere di ordinanza ha
un carattere residuale, nel
senso che non può essere esercitato in luogo di
poteri
tipici previsti dalle norme vigenti già idonei
a far fronte a quel tipo di situazione.
Per esempio,
per far smantellare un’antenna per la telefonia
mobile installata in modo
non conforme alle
prescrizioni urbanistiche e sanitarie il sindaco ha a
disposizione i
poteri di tipo urbanistico e dunque
non può esercitare il potere di ordinanza.
Quanto alla qualificazione
giuridica, le ordinanze
hanno di regola natura non normativa anche
quando si rivolgono a
categorie più o meno ampie
di destinatari. Esse si riferiscono infatti ad
accadimenti
specifici (come per esempio
un’inondazione o un terremoto o un’epidemia) e
dunque hanno
un carattere concreto e un’efficacia
temporalmente circoscritta.
Tuttavia, ove la situazione di
emergenza tenda a
protrarsi, le ordinanze acquistano inevitabilmente
anche un carattere
di astrattezza e perdono quello
della temporaneità. Specie nel caso delle ordinanze
emanate dai sindaci in materia di sicurezza o
decoro urbano (contenenti misure contro il
commercio ambulante abusivo, la prostituzione,
comportamenti contrari al decoro, ecc.)
esse
finiscono così per assumere caratteristiche simili
ai regolamenti comunali.
Le  ordinanze   L’urgenza come
  presupposto di
atti
contingibili e urgenti amministrativi
vanno distinte da
altri atti
amministrativi che hanno
come presupposto
l’urgenza, ma il cui contenuto e i cui effetti sono
predefiniti in
tutto e per tutto dalla norma
87 attributiva del potere (i
cosiddetti atti necessitati).
Così, per esempio, nel caso in cui i lavori relativi
alla
costruzione di un’opera pubblica siano
dichiarati indifferibili e urgenti, l’autorità
competente può disporre l’occupazione d’urgenza
dei terreni interessati prima ancora che
si sia
concluso il procedimento di espropriazione. In
materia di contratti pubblici,
l’urgenza può
consentire una deroga al ricorso a procedure a
evidenza pubblica e legittimare
dunque la
trattativa diretta con un solo fornitore. In altri
casi, l’urgenza può
giustificare l’emanazione di un
atto da parte di un organo diverso da quello
competente
in via ordinaria che poi provvede alla
ratifica. Per esempio, come si dirà anche nel
capitolo IV, la giunta comunale
può adottare in via
d’urgenza alcuni atti di competenza del consiglio
comunale.
 
14. d) Le direttive e gli atti di
indirizzo
Affini agli atti di
pianificazione, in quanto
espressione della funzione di indirizzo
politico-
amministrativo, sono le direttive amministrative.
Caratteristico di questo tipo
di atti è il loro
contenuto. Esso non è costituito, come accade
tipicamente nel caso
delle fonti primarie e
secondarie, da prescrizioni puntuali e vincolanti in
modo
assoluto, ma è limitato all’indicazione di fini
e obiettivi da raggiungere, criteri di
massima,
mezzi per raggiungere i fini. Esse dunque
attribuiscono ai loro destinatari
spazi di
valutazione e di decisione più o meno estesi in
modo tale da poter tener conto
in sede applicativa
di tutte le circostanze del caso concreto. Ove
giustificato, i
destinatari possono anche
disattenderle in tutto o in parte per ragioni che
devono
essere espresse nella motivazione.
Si distinguono generalmente le
direttive che si
inseriscono in rapporti interorganici e le direttive
che attengono a
rapporti intersoggettivi. In questo
secondo ambito esse possono assumere una
rilevanza
regolatoria ove siano indirizzate a una
pluralità di destinatari.
Le prime sono  uno
  Le direttive
strumento attraverso   interorganiche
il quale l’organo
sovraordinato
orienta l’attività dell’organo o degli
organi sottordinati. Laddove il rapporto
interorganico
ha un carattere propriamente
gerarchico (per esempio, il ministro dell’Interno
nei
confronti dei prefetti) la direttiva può essere
utilizzata talvolta in luogo dell’atto
che è più
caratteristico di questo tipo di relazione e cioè
l’ordine gerarchico che ha
un contenuto puntuale
ed è riferito a una situazione concreta.
  addove invece l’organo
sottordinato è investito di
L
una competenza autonoma, cioè non inclusa del
tutto in
quella dell’organo sovraordinato e dunque
il rapporto non può essere qualificato come
propriamente gerarchico, la direttiva acquista
contorni più tipici e connota appunto un
rapporto
definito come rapporto di direzione.
Un esempio tra i più rilevanti è, come si vedrà nel
capitolo X,  il   Il rapporto di
  direzione tra
ministri e
rapporto di direzione dirigenti
che intercorre tra
ministro e dirigenti
generali in base al
principio della distinzione tra
indirizzo politico-amministrativo e attività di
gestione
(d.lgs. n. 165/2001). Al ministro è preclusa
ogni competenza
gestionale e amministrativa
diretta e può soltanto formulare «direttive generali
per
l’attività
amministrativa e per la gestione»
88 (artt.
4, comma 1, lett. b), e 14, comma 1, lett. a))
ed esercitare un controllo
ex post. I dirigenti
generali sono titolari dei poteri di gestione
e di
emanazione di atti e provvedimenti, curano
l’attuazione delle direttive generali
impartite dal
ministro e a loro volta definiscono gli obiettivi che
i dirigenti a loro
sottoposti devono perseguire (art.
16, comma 1, lett. b)). La mancata attuazione delle
direttive può essere sanzionata in sede di
conferma dell’incarico al dirigente.
  e direttive che si inseriscono in
rapporti
L
intersoggettivi   Le direttive
  intersoggettive
 costituiscono uno
strumento
attraverso
il quale, per esempio, il ministro competente o la
regione esercitano il
potere di
indirizzo nei
confronti di enti pubblici strumentali, la cui
attività deve essere
resa coerente con i fini
istituzionali propri del ministero di settore o della
regione.
  toricamente, soprattutto nella
seconda metà del
S
secolo scorso, esse furono previste di frequente dal
legislatore nel
campo del diritto dell’economia.
Interi settori di imprese (per esempio le aziende di
credito) o vari enti pubblici economici (quali l’IRI,
l’ENI e l’EFIM, l’ENEL, ecc.)
furono sottoposti,
come si è accennato nel capitolo I, a poteri di
indirizzo (oltre che di vigilanza)
assai penetranti.
La direttiva, con i suoi caratteri di elasticità,
tentava di
conciliare l’esigenza di mantenere un
legame istituzionale rispetto alla politica
governativa con l’esigenza di assicurare una certa
libertà di azione a soggetti in
massima parte
pubblici ma operanti in regime in gran parte
privatistico.
Con l’affermarsi dello Stato regolatore, lo
strumento  della   Esempi recenti
 
direttiva è stato
utilizzato con minor
frequenza. All’inizio degli
anni Novanta del secolo scorso è stata anzi
smantellata
l’intera struttura di governo delle
partecipazioni statali (comitati ministeriali, enti
di
gestione). I nuovi apparati di regolazione, cioè le
cosiddette autorità
amministrative indipendenti, si
caratterizzano proprio per il fatto di non essere
destinatari di un potere di indirizzo da parte del
governo.
  ono emersi però nella legislazione altri tipi di
S
direttive a valenza
regolatoria. Per esempio, le
autorità indipendenti preposte ai servizi di
pubblica
utilità possono emanare direttive nei
confronti delle imprese erogatrici dei servizi per
definire i livelli generali di qualità di questi ultimi
o la contabilizzazione separata
dei costi delle
singole prestazioni (art. 2, comma 12, lett. f ) e h),
legge 14 novembre 1995, n.
481). La violazione di
queste direttive da parte delle imprese destinatarie
comporta l’applicazione di sanzioni
amministrative.
In occasione della riforma del governo e dei
ministeri operata
con il d.lgs. 30 luglio 1999, n.
300, la direttiva è stata prevista
per creare un
raccordo tra il ministro di settore e le agenzie
istituite per
lo svolgimento di particolari attività a
carattere tecnico-operativo (per esempio le
agenzie fiscali) e dotate di ambiti di autonomia
funzionale e finanziaria (art. 8, commi 2 e 4, lett.
d)) oppure tra ministro vigilante
ed enti pubblici
strumentali.
Una questione discussa attiene alla
cogenza delle
direttive, cioè alle conseguenze nel caso in cui il
destinatario le violi.
Esse infatti tendono a
condizionare l’esercizio della discrezionalità da
parte dei
destinatari i quali mantengono dunque
un ambito di valutazione autonoma. I poteri di
reazione in capo all’organo o al soggetto
89 sovraordinato sono pertanto per lo più
di tipo
indiretto e si possono manifestare in interventi
sull’organo (scioglimento, mancato reincarico dei
suoi titolari, ecc.). Di rado, essi
includono poteri
che incidono sugli atti adottati (revoca,
annullamento
d’ufficio).
15. e) Le norme interne e le
circolari
Le organizzazioni complesse, anche
quelle private,
si dotano di regole interne volte a disciplinare il
funzionamento e i
raccordi tra le varie unità
operative. Così, per esempio, le grandi imprese
approvano
regolamenti aziendali, manuali di
procedura e altri atti organizzativi.
Nel  diritto pubblico,   Gli ordinamenti
  giuridici
sezionali
il tema delle norme
interne si ricollega
storicamente alla
ricostruzione dell’ordinamento
della pubblica amministrazione come ordinamento
giuridico
speciale (sezionale o derivato), in
qualche misura separato (e autonomo)
dall’ordinamento generale statuale. All’interno
dello Stato-ordinamento (o Stato
comunità), che
identifica una comunità di individui (popolo) e ne
include tutte le
manifestazioni organizzative, si
colloca lo Stato-amministrazione, che costituisce
uno
degli ordinamenti derivati dell’ordinamento
statuale.
I  n base alla teoria della pluralità
degli ordinamenti
[Romano 1918], ciò che avviene all’interno di
ciascun ordinamento
speciale non ha sempre una
rilevanza nell’ordinamento generale. Sono
ammesse anche norme
derogatorie rispetto a
quelle applicabili alla generalità dei consociati.
Così, per esempio, gli impiegati
pubblici godono di
uno status particolare. In passato essi
sottostavano
a norme speciali che comportavano anche la
limitazione di diritti
fondamentali (per esempio,
l’iscrizione a partiti politici) e l’imposizione di
obblighi
(fedeltà, decoro, ecc.) che si estendevano
persino a comportamenti assunti al di fuori
delle
attività di servizio. Analogamente, i militari o i
condannati a una pena detentiva
entravano e
ancora oggi entrano a far parte di ordinamenti
speciali (militare o
carcerario) con l’imposizione di
obblighi speciali ed erano soggetti a poteri punitivi
e
coercitivi particolarmente gravosi (non a caso era
invalsa l’espressione di «rapporti di
supremazia
speciale»). Anche l’ordinamento scolastico, il
sistema del credito e del
risparmio, gli ordini
professionali, l’ordinamento sportivo
tradizionalmente vennero
ricostruiti secondo
questo modello.
Gli ordinamenti sezionali si
fondano su alcuni
elementi  costitutivi:   Gli elementi costitutivi
  degli
ordinamenti
la
plurisoggettività, giuridici sezionali
con la
predeterminazione
dei soggetti inseriti nell’ordinamento
settoriale
sulla base di atti di ammissione, di iscrizione o di
attribuzione di
status; un’organizzazione interna
stabile con distribuzione di
ruoli e di competenze;
la presenza di norme interne emanate dagli organi
preposti
all’ordinamento speciale e rese effettive
da un sistema di sanzioni anch’esse interne;
l’istituzione di organi giustiziali speciali
(commissioni di disciplina, corti arbitrali
sportive,
ecc.).
  e norme interne possono assumere
variamente la
L
forma di regolamenti interni, di istruzioni o ordini
di servizio,
direttive
generali, ecc. Come si
accennerà più avanti, la forma usuale di
comunicazione delle
norme interne è costituita
90 dalla circolare.
Il modello  degli   L’ordinamento
  sportivo
ordinamenti giuridici
speciali venne via via
superato in seguito all’entrata in vigore della
Costituzione che non
ammette, se non entro
limiti assai ristretti, la rinuncia o la compressione
dei diritti
fondamentali. Oggi esso è limitato a
pochi settori, il principale dei quali è costituito
da
quello dello sport, la cui normativa prevede
un’organizzazione pubblicistica, che fa
capo a un
ente pubblico (il Comitato olimpico nazionale
italiano – CONI) e alle
federazioni sportive, e
regole speciali per la pratica sportiva da parte degli
iscritti
alle federazioni (d.lgs. 23 luglio 1999, n.
242). Prevede anche un sistema di
giustizia
disciplinare interna innanzi a organi giustiziali
dell’ordinamento sportivo
(legge 17 ottobre 2003,
n. 280).
 Le norme interne e i comportamenti
assunti sulla
base di esse acquisiscono sempre più spesso una
rilevanza nell’ordinamento
generale. Così, per
esempio, l’illecito sportivo può comportare
l’applicazione non
soltanto delle sanzioni speciali
previste dalle norme interne all’ordinamento (per
esempio, nel gioco del calcio, l’ammonizione o
l’espulsione dalla partita in seguito a
un intervento
falloso), ma anche di quelle previste
dall’ordinamento generale (per
esempio, sanzioni
penali relative alle lesioni personali provocate a un
giocatore).
Inoltre, l’organizzazione interna
dell’amministrazione, considerata in origine
irrilevante sotto il profilo giuridico, è
stata fatta
oggetto di interventi legislativi che hanno via via
superato la separatezza
e l’impermeabilità
dell’ordinamento amministrativo rispetto a quello
generale.
Anche la giurisprudenza
amministrativa in una
visione sostanzialistica, come si è già accennato,
tende a
valutare le norme interne sotto il profilo
della loro attitudine a incidere
effettivamente su
situazioni giuridiche individuali, ritenendo così
impugnabili una
serie di atti organizzativi in
precedenza sottratti al sindacato giurisdizionale.
La  distinzione tra norme interne e norme
esterne
  Il regime giuridico
si è venuta così   delle norme
interne
attenuando. A ciò ha
contribuito anche la l.
n. 241/1990, che aveva già introdotto un obbligo
generalizzato di pubblicare, secondo le modalità
previste per le singole
amministrazioni, «le
direttive, i programmi, le istruzioni, le circolari e
ogni atto
che dispone in generale sulla
organizzazione, sulle funzioni, sugli
obiettivi, sui
procedimenti di una pubblica amministrazione
ovvero nel quale si
determina l’interpretazione di
norme giuridiche o si dettano disposizioni per
l’applicazione di esse» (art. 26). Analogamente, in
materia di sovvenzioni, contributi e
altri sussidi
finanziari, le amministrazioni competenti erano
obbligate a predeterminare
e a rendere pubblici i
criteri e le modalità alle quali esse si devono
attenere
nell’individuare i singoli beneficiari (art.
12, ora abrogato). Oggi gli obblighi di
pubblicità
sono stati confermati ed estesi anche per finalità di
prevenzione della
corruzione (d.lgs. 14 marzo 2013,
n. 33).
I  n molti casi le norme interne sono
pubblicate
anche nella Gazzetta Ufficiale. Il Testo unico delle
disposizioni sulla
promulgazione delle leggi,
sull’emanazione dei decreti del presidente della
Repubblica e
sulle pubblicazioni ufficiali della
Repubblica italiana (d.p.r. 28 dicembre 1985, n.
1092) prevede infatti che i
ministri competenti
possano richiedere la pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale delle
circolari esplicative dei
91 provvedimenti legislativi (art. 18, comma 4).
In definitiva, gli obblighi di
pubblicazione rendono
conoscibili le norme interne al di là della cerchia,
talora
ristretta, dei titolari e degli addetti agli uffici
interni a un apparato amministrativo
e
contribuiscono a far assumere a queste ultime una
rilevanza esterna. Esse fanno
sorgere nella
generalità degli amministrati l’aspettativa che esse
costituiranno una
guida dell’azione amministrativa
finalizzata all’adozione di atti che producono
effetti
diretti nei loro confronti.
Una  rilevanza   Le conseguenze della
giuridica esterna   violazione
delle norme
interne
indiretta delle norme
interne è comunque
da tempo
acquisita. Infatti, se l’amministrazione
emana un provvedimento violando una norma
interna, il giudice amministrativo può censurarlo,
come si vedrà nel capitolo IV, sotto il profilo
dell’eccesso di
potere. Inoltre il dipendente che
viola le norme interne può essere
passibile di
sanzioni disciplinari.
 Una specie sui
generis di norme interne è costituita
dalla  prassi   La prassi
  amministrativa
amministrativa, cioè
dalla condotta
uniforme assunta nel tempo dagli uffici in
relazione alle valutazioni compiute e alle decisioni
prese in casi analoghi. Il
principio di coerenza che
presiede all’esercizio dell’attività degli uffici fa sì
che i
precedenti, una volta consolidatisi,
acquistino in un certo senso una forza normativa.
Infatti, essi devono essere tenuti in debito conto in
occasione di successivi casi di
svolgimento
dell’attività e diventano vincolanti ove non
sussistano ragioni particolari
per discostarsene.
  a prassi amministrativa si può
formare nel tempo
L
in modo spontaneo in conseguenza del continuo
ripetersi di un
determinato comportamento, unito
al convincimento diffuso che esso sia conforme a
una
regola operativa tacita. Essa non va comunque
confusa con la consuetudine, che diventa
vera e
propria fonte del diritto allorché si forma un
convincimento generalizzato della
sua
obbligatorietà (cosiddetta opinio juris sive
necessitatis).
Tutt’al più, seguendo la teoria
dell’ordinamento giuridico speciale, essa può
acquisire
una normatività interna. Una volta
formatasi, la prassi viene talora recepita a titolo
ricognitivo, ed è così in qualche modo avallata e
rafforzata dalla stessa
amministrazione, per mezzo
di una circolare.
Secondo alcune ricostruzioni la
prassi potrebbe
anche essere promossa, in relazione
all’applicazione di normative nuove,
da un atto
dell’amministrazione che preannunci quale sarà il
comportamento assunto dagli
uffici, creando così
un legittimo affidamento nei confronti dei soggetti
esterni
all’amministrazione (nell’ordinamento
tedesco si parla di antizipierte
Verwaltungspraxis).
Il mezzo principale di
comunicazione delle norme
interne  è costituito,   Le circolari
 
come si è
accennato,
dalle circolari. Nella vita quotidiana esse sono uno
strumento di
orientamento e di guida degli uffici,
che di fatto ha per questi un grado di cogenza
talora superiore alle norme giuridiche anche di
rango primario.
I  n origine, come ricorda ancora
l’etimo del
vocabolo, le circolari (o lettere circolari) trovarono
impiego nell’ambito
dell’organizzazione militare
nella quale i portaordini consegnavano i dispacci
dei
comandi alle varie unità impiegate nelle
operazioni militari. L’espressione trovò poi
applicazione più generale nell’ambito
dell’organizzazione amministrativa, anch’essa per
lungo tempo ordinata secondo un criterio
92 rigidamente gerarchico.
Secondo una definizione ormai
classica [Cammeo
1920, 1], le circolari sono «atti di un’autorità
superiore che
stabiliscono in via generale ed
astratta regole di condotta di autorità inferiori nel
disbrigo degli affari d’ufficio». Le circolari, dunque,
secondo le elaborazioni teoriche
più risalenti
costituiscono degli atti tipici aventi efficacia
esclusivamente interna.
Le ricostruzioni più recenti
prendono atto
dell’evoluzione della pubblica amministrazione
che ha superato in gran
parte il principio
gerarchico e ha portato alla moltiplicazione dei
livelli di governo e
di apparati amministrativi.
Le circolari acquistano così in
alcuni casi una
dimensione intersoggettiva quando vengono
indirizzate a enti e soggetti
esterni all’apparato che
le emette.
Inoltre, il contenuto delle
circolari può essere
vario. Esse possono riguardare infatti ordini,
direttive,
interpretazioni di leggi e altri atti
normativi, informazioni di ogni genere e tipo. Le
circolari perdono così il carattere di atto
amministrativo tipico e diventano soltanto uno
strumento di comunicazione di atti ciascuno dei
quali aventi una propria configurazione
tipica
[Giannini 1960b, 1 ss.].
Nella prassi sono emersi
almeno  tre tipi di
circolari:   Le circolari
  interpretative,
interpretative, normative e
normative, informative

informative.
  e prime mirano a rendere omogenea
L
l’applicazione di nuove normative da parte delle
pubbliche amministrazioni. Queste
circolari hanno
un maggior grado di vincolatività allorché vengono
emanate nell’ambito
di apparati strutturati in
modo gerarchico: l’inferiore gerarchico si deve
attenere
all’interpretazione indicata dal superiore
gerarchico negli stessi limiti entro i quali
deve
ottemperare alle istruzioni e agli ordini emanati da
quest’ultimo. Al di fuori di
questo ambito, si
ritiene generalmente che la circolare interpretativa
valga soltanto
come un’opinione più o meno
autorevole (in ragione della collocazione
dell’organo che la
emana e dei rapporti di
dipendenza più o meno stretta di chi la riceve) che
però non è
giuridicamente vincolante. Così, per
esempio, una circolare interpretativa del ministero
dell’Interno che ha per oggetto norme applicate da
enti autonomi quali gli enti locali
non impedisce a
questi ultimi, anche se ciò accade di rado, di far
propria una diversa
interpretazione.
È pacifico comunque che le
circolari di questo tipo
non vincolano l’interpretazione dei giudici.
Le circolari normative hanno la
funzione di
orientare l’esercizio del potere discrezionale degli
organi titolari di poteri
amministrativi. Esse
dunque non hanno per oggetto l’interpretazione
delle norme da
applicare, bensì gli spazi di
valutazione discrezionale rimessi dalla legge
all’autorità
amministrativa. Attraverso queste
circolari, che in molti casi non sono altro che
manifestazione del potere di direttiva, l’organo
sovraordinato indirizza l’attività
degli organi
subordinati, specificando le finalità, indicando
priorità, fornendo
criteri, ecc. Il destinatario deve
tenerne conto in modo adeguato, ma può anche
disattenderle purché fornisca una motivazione
congrua.
Le circolari informative sono
emanate per
diffondere all’interno dell’organizzazione notizie,
93 informazioni e messaggi
di varia natura. In questo
senso possono essere assimilate a
bollettini e
newsletter specializzate e a diffusione limitata
previste in molti contesti
anche privati.
Si è anche individuato in dottrina
il modello delle
circolari-regolamento, atti atipici volti a porre
regole generali e
astratte aventi per destinatari
soggetti esterni all’amministrazione. Si tratta
peraltro
di una specie di circolare controversa
quanto ad ammissibilità e legittimità.
In conclusione, le circolari non
danno origine a un
fenomeno unitario. I contenuti, il grado di cogenza
e l’attitudine a
produrre effetti giuridici nei
rapporti interni ed esterni all’amministrazione
vanno
verificati caso per caso in relazione al
contesto organizzativo in cui ciascuna di esse
si
inserisce.
16. La
soft law, le
raccomandazioni e
le linee
guida
Sulla scia dell’esperienza
anglosassone e delle
organizzazioni internazionali, la funzione di
regolazione a livello
europeo e nazionale si è
evoluta lungo direttrici che mettono in crisi le
classificazioni tradizionali in tema di fonti
normative e di atti amministrativi.
La linea direttrice principale è
rappresentata dalla
cosiddetta soft law .   La cosiddetta soft
law
 
Questa consiste
nell’insieme di strumenti, spesso informali
(comunicazioni, inviti,
segnalazioni, note
informative, auspici, messaggi, ecc.), volti a
influenzare i
comportamenti delle autorità
amministrative e dei soggetti amministrati. La
soft
law mette in discussione il principio di tipicità
delle fonti
e degli atti amministrativi con valenza
regolatoria, che costituisce un’esplicazione del
principio di
legalità, nonché la nozione di
vincolatività.
  livello europeo, l’art 288, par.
5, del TFUE
A
prevede le raccomandazioni non vincolanti come
strumento extra
ordinem per esprimere
orientamenti in campi nei quali l’Unione europea
non è titolare di poteri normativi formali.
Inoltre, nell’ambito del Sistema
europeo di
vigilanza finanziaria (SEVIF), le tre autorità
europee di regolazione
preposte ai settori
bancario, finanziario e assicurativo possono
emanare «orientamenti e
raccomandazioni» rivolti
alle corrispondenti autorità nazionali allo scopo di
promuovere
una uniformità di applicazione della
normativa europea e di offrire indicazioni alle
imprese. La European Security Market Authority
(ESMA) utilizza
anche lo strumento delle
«domande e risposte» («questions and answers»)
per offrire alle
autorità nazionali e agli investitori
privati chiarimenti sull’interpretazione della
normativa di settore. Le autorità nazionali in
materia finanziaria, in base al
dodicesimo
considerando della cosiddetta direttiva MIFID
(CE) 2004/39, sono tenute a
«emanare
orientamenti interpretativi sulle disposizioni della
presente direttiva».
In materia di privacy ,   Linee guida,
  raccomandazioni,
il Comitato europeo comunicazioni
per la protezione dei
dati personali,
organismo dell’Unione europea dotato di
personalità giuridica istituito con il
regolamento
(UE) 2016/679 emanato il 27 aprile 2016, al fine di
promuovere
l’applicazione della nuova normativa
94 pubblica può emanare «linee
guida,
raccomandazioni e migliori prassi» dirette alle
autorità nazionali e ai soggetti
privati (art. 70).
Anche il Garante per la protezione dei dati
personali, come si vedrà
nel capitolo VIII, può
adottare linee guida.
 Nella materia degli aiuti di Stato
la Commissione
UE emana «comunicazioni», spesso molto
dettagliate, volte a offrire agli
Stati membri criteri
interpretativi delle misure di sostegno ammissibili
in base alle
norme del Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea. La Corte di giustizia
dell’Unione europea ha chiarito che questo tipo di
comunicazioni autovincola la
discrezionalità della
Commissione ma non obbliga in modo assoluto gli
Stati membri.
Questi ultimi hanno cioè la
possibilità di discostarsi da essi proponendo altri
tipi di
misure che la Commissione ha poi l’obbligo
di valutare caso per caso (sentenza della
Corte di
giustizia dell’Unione europea – Grande Sezione, 19
luglio 2016 in C-526/2016
sul caso Kotnik).
A livello nazionale, in conformità all’esperienza
della Commissione
europea, l’Autorità garante
della concorrenza e del mercato ha pubblicato
linee guida
per la quantificazione delle sanzioni
irrogate alle imprese nel caso di violazione della
normativa sulla concorrenza e ciò per assicurare
agli operatori una maggiore
prevedibilità
dell’ammontare della sanzione all’interno di una
forbice molto ampia
prevista a livello legislativo
(delibera del 22 ottobre 2014). La violazione delle
linee
guida può essere fatta valere innanzi al
giudice amministrativo che in tema di sanzioni
antitrust ha il potere di sindacare nel merito il
provvedimento dell’Autorità
riducendo, se del
caso, l’importo indicato nel provvedimento
impugnato (art. 134 del Codice del processo
amministrativo).
Sempre a livello nazionale, alcune
autorità di
regolazione (CONSOB, Banca d’Italia) pubblicano
nei loro bollettini o nei
loro siti atti denominati
variamente «avvisi» o «messaggi»,
«comunicazioni» o «note
amministrative»,
«richiami di attenzione», «domande e risposte».
Con essi vengono
specificate modalità operative e
applicative di norme, impartiti indirizzi operativi,
fornite risposte a quesiti proposti dalle imprese,
segnalate sentenze rilevanti della
magistratura
ordinaria o amministrativa, ecc.
Anche il ministero dell’Economia e delle Finanze
può fornire
orientamenti e indicazioni in tema di
applicazione della normativa sulle società a
partecipazione pubblica (art. 15 d.lgs. n. 175/2016).
La componente
autoritativo-prescrittiva di questo
tipo di fonti, che pur in taluni casi è stata
riconosciuta (parere del Consiglio di Stato, Sez. I,
24 marzo 2020, n. 615), appare recessiva
rispetto a
quella per così dire persuasivo-sollecitatoria. Il
grado di effettività della
soft law dipende
essenzialmente dall’autorevolezza dell’organo
da
cui essa promana.
Può rientrare  in   Il modello comply or
  explain
questo contesto
anche il modello che
va sotto il nome di
comply or explain. Il regolatore,
anziché imporre regole uguali
per tutti (in base al
principio one size fits all), propone una
soluzione
ritenuta ottimale che il destinatario può seguire,
oppure decidere di non
seguire. In questo caso
deve esplicitare e rendere pubbliche le ragioni per
le quali
ritiene di doversi discostare, assumendosi
così le conseguenti responsabilità. Questo
sistema
95 è stato applicato in molti Paesi e a livello europeo
nei
codici di corporate governance che individuano,
secondo le migliori
prassi, l’assetto organizzativo
di vertice delle società incluso il sistema dei
controlli interni. La singola società può anche
disattendere tali indicazioni
illustrando però nella
documentazione allegata al bilancio annuale le
ragioni per le
quali sono state adottate soluzioni
organizzative diverse, ritenute più adatte alla
situazione aziendale particolare. Come vedremo
nel capitolo XIII, questo sistema è stato introdotto
nel nostro
ordinamento in relazione al
monitoraggio sull’andamento della finanza
pubblica.
17. La
better regulation e altri
modelli di regolazione

1. Molti Stati si sono dotati di strumenti che


promuovono la qualità
della regolazione (better
regulation) e che perseguono una
pluralità di
obiettivi: contenere l’iperregolazione (regulatory
inflation); ridurre gli oneri (finanziari,
organizzativi) che gravano
sulle stesse pubbliche
amministrazioni e sui privati per adeguarsi alle
nuove normative
(compliance costs); evitare che
un’eccessiva quantità di regole
comprometta la
competitività del sistema economico, ingessato da
vincoli con effetti
anticompetitivi che scoraggiano
gli investimenti, e incrementi indirettamente i
costi
sociali (regulatory costs); differenziare le
regole prevedendo
adempimenti semplificati per le
piccole e medie imprese.
Uno degli strumenti, sperimentato da tempo nei
Paesi anglosassoni e a
livello europeo, è la
cosiddetta analisi di impatto della regolazione
(regulatory impact analysis) introdotta nel nostro
ordinamento
alla fine degli anni Novanta con
numerose disposizioni legislative e applicative
(art. 5 legge 8 marzo 1999, n. 50; direttiva del
presidente del Consiglio dei ministri 27 marzo
2000; art. 2 legge 29 luglio 2003, n. 229; art. 14
legge 28 novembre 2005, n. 246; d.p.c.m. 11
settembre 2008, n. 170).
L’analisi  di impatto   L’analisi di impatto
  della
regolazione
della regolazione
(AIR) obbliga le
pubbliche amministrazioni, prima di
approvare un
atto di regolazione, a individuare tutte le soluzioni
astrattamente
possibili (inclusa la cosiddetta
«opzione zero», cioè quella di non introdurre
alcuna
nuova norma) valutando i costi e i benefici
(cost-benefit analysis)
di ciascuna di esse e a
esplicitarle in un documento che correda la
proposta di atto
normativo.
 Una volta approvate, le norme
devono essere
sottoposte anche a una verifica ex post che accerti
in particolare i loro costi, le eventuali difficoltà
applicative e i risultati
effettivamente conseguiti
rispetto alle attese. A questo fine interviene la
cosiddetta
verifica dell’impatto della
regolamentazione (VIR). Essa consiste in una
valutazione,
operata dopo il primo biennio di
applicazione delle norme e periodicamente a
cadenza
biennale (art. 14, comma 4, legge 28
novembre 2005, n. 246 e d.p.c.m. 19 novembre
2009, n. 212), che può sfociare nella
proposta di
perfezionare, modificare o abrogare le norme
emanate. A livello governativo,
nell’ambito del
dipartimento per gli Affari giuridici e legislativi
della presidenza del
Consiglio dei ministri (DAGL)
è stato istituito un ufficio di livello dirigenziale
generale per l’analisi e la verifica dell’impatto della
96 regolamentazione (AVIR). Entro il 30 aprile di ogni
anno il
presidente del Consiglio dei ministri
presenta al parlamento una relazione sullo stato
di
applicazione dell’AIR.
Si tratta di strumenti utilizzati
poco e male e che
solo alcune autorità di regolazione (per esempio,
l’Autorità di
regolazione per energia, reti e
ambiente) hanno applicato in modo puntuale.
In alcuni ordinamenti, per rendere
più cogente
l’attività di valutazione delle norme vigenti, sono
stati sperimentati
modelli di sunset legislation (leggi
«tramonto»), cioè leggi o
altri atti normativi per
così dire a tempo, che perdono efficacia se non
vengono
confermati da un nuovo atto normativo
da emanarsi entro un termine prefissato.
2. In epoca recente sono stati sperimentati in vari
Paesi modelli di
regolazione innovativi.
Va richiamato    Il paternalismo
  libertario
anzitutto un
approccio più
flessibile alla regolazione
proposto da una corrente
di pensiero ispirata al cosiddetto «paternalismo
libertario»
[Sunstein 2008, 294 ss.] che mette a
frutto i risultati delle cosiddette scienze
comportamentali (behavioural sciences). Lo Stato,
anziché obbligare
i soggetti privati a tenere
determinati comportamenti, magari anche con la
minaccia di
sanzioni (per esempio, tipicamente,
l’obbligo per i motociclisti di indossare il casco,
che è una misura qualificabile come «paternalismo
autoritario»), individua l’opzione che
ritiene
preferibile per tutelare i reali interessi degli stessi
soggetti privati, senza
però eliminare la loro libertà
di scelta. L’opzione proposta dai pubblici poteri si
applica per così dire di default, cioè in mancanza di
una diversa
manifestazione di volontà esplicita del
soggetto interessato (cosiddetto opt
out). È stato
dimostrato infatti, anche tramite esperimenti di
psicologia
comportamentale, che spesso i privati
soffrono di deficit o pregiudizi cognitivi
(cognitive
biases) e non sanno valutare correttamente i propri
reali interessi di lungo periodo. Per esempio, nelle
scelte su come impiegare il
reddito, tendono a
sottovalutare i rischi futuri (malattie in età
avanzata) e ad
attribuire un valore maggiore a
esigenze di consumo immediato. Pertanto spetta ai
pubblici poteri promuovere le misure ritenute
migliori sotto il profilo dell’interesse
individuale e
collettivo (cosiddetto nudge o spinta gentile). Così
lo Stato potrebbe stabilire, come regola generale,
una trattenuta dai salari dei
lavoratori finalizzata a
garantire prestazioni previdenziali o sanitarie
future, salva
l’opzione espressa del singolo
lavoratore di far versare subito le somme in
questione in
busta paga (opt out); oppure potrebbe
prevedere come facoltativa la
trattenuta nel senso
che essa è operata solo in seguito a un’adesione
espressa
(opt in). Gli esperimenti effettuati
dimostrano che, in
generale, i sistemi opt out
producono risultati migliori dal punto
di vista
dell’interesse dello stesso soggetto privato, e in
definitiva dell’interesse
pubblico, rispetto ai
sistemi opt in. Negli Stati Uniti le
agenzie
federali
possono utilizzare modelli di regolazione ispirati a
questo approccio
(Executive Order 15 settembre
2015, n. 13707).
  n altro modello 
U   La regolazione
  «cogestita»
innovativo è quello
della regolazione
cogestita dal
regolatore pubblico e da soggetti
privati. Esso supera almeno in parte la
contrapposizione fra eteroregolazione pubblica e
97 autoregolazione privata:
la prima include le fonti
normative e gli altri atti di
regolazione autoritativi;
la seconda si riferisce alle manifestazioni
dell’autonomia
negoziale (si pensi alle regole che
disciplinano i rapporti interni a un’associazione
sportiva). La prassi legislativa ha fatto emergere
una serie di fattispecie nelle quali
gli elementi di
unilateralità (autoritarietà) sono temperati da
elementi di
consensualità (o di coregolazione).
  ome misura minimale di
temperamento
C
dell’unilateralità del potere di regolazione, leggi
recenti, spesso di
derivazione europea, hanno reso
obbligatorie per i poteri normativi sublegislativi
attribuiti alle autorità amministrative
indipendenti, forme di partecipazione al
procedimento dei soggetti interessati. A questi
ultimi è attribuito il diritto di
presentare
osservazioni sugli schemi di atti normativi
predisposti e successivamente
approvati
dall’autorità. Il modello di riferimento è quello
dell’Administrative Procedure Act del 1946, già
richiamato, che
prevede per gli atti normativi
sublegislativi un procedimento di notice and
comment, articolato in una fase di pubblicazione di
uno schema di atto
normativo e in una seconda
fase di raccolta di osservazioni e proposte di
modifiche da
parte dei soggetti interessati da
valutare prima di emanare l’atto.
Negli Stati Uniti dal 1996 è
previsto un modello
avanzato di regulatory    La regulatory
negotiation
 
negotiation. L’agenzia
di regolazione
competente, nei casi in cui ritenga
percorribile utilmente questa via, può istituire un
comitato consultivo, composto da un numero
limitato di esponenti di interessi rilevanti
e
coordinato da un facilitator, che ha il compito di
predisporre un
testo normativo condiviso.
  n ulteriore modello 
U   La
self-regulation e i
  codici deontologici
di regolazione
cogestita emerso
anche in Italia è quello della cosiddetta
autoregolazione
monitorata (audited self-
regulation). Essa è
prevista per esempio nel Testo
unico della finanza, approvato con d.lgs. 24
febbraio 1998,
n. 58 (artt. 61 ss.) per
l’organizzazione e la gestione dei mercati
regolamentati di strumenti finanziari che può
essere svolta da società di gestione del
mercato,
cioè da soggetti privati. Questi hanno, tra gli altri,
il compito di
predisporre un regolamento di
disciplina del mercato. Il regolamento approvato
dalla
società di gestione è poi sottoposto a un
controllo pubblicistico da parte della CONSOB.
Essa
deve accertare, in sede di autorizzazione
all’esercizio del mercato, la conformità del
regolamento
alla disciplina europea e ai criteri di
trasparenza del mercato, dell’ordinato
svolgimento
delle negoziazioni e della tutela degli investitori.
La CONSOB può
richiedere alla società di gestione
di introdurre le modifiche necessarie. Le norme
contenute nel regolamento hanno natura
privatistica e hanno come destinatari non
soltanto
gli operatori professionali, ma anche la generalità
degli utenti.
 Momenti di autoregolazione e di
eteroregolazione
sono presenti anche nei codici di deontologia e
buona condotta in
materia di tutela dei dati
personali (privacy). In particolare, il Codice in
materia di
dati personali (art. 139 d.lgs. 30 giugno
2003, n. 196), prevede che il
Consiglio nazionale
dell’ordine dei giornalisti predisponga un codice
deontologico
relativo a dati personali sensibili,
come lo stato di salute e la vita sessuale, in modo
da evitare il rischio di diffusione di notizie che
ledano il diritto alla riservatezza.
Il codice è
promosso dal Garante per la protezione dei dati
98 personali,
il quale interviene sia in fase di
formazione del codice sia
successivamente, in
cooperazione con il Consiglio nazionale
dell’ordine dei giornalisti.
Il Garante può
prescrivere misure e accorgimenti che il Consiglio
è tenuto a recepire.
Il codice deontologico viene
poi pubblicato nella Gazzetta Ufficiale. La
violazione del
codice legittima il Garante ad
adottare provvedimenti amministrativi che vietano
il
trattamento dei dati personali.
Un altro esempio di regolazione
cogestita è
rappresentato dai cosiddetti codici di rete per la
definizione delle
condizioni tecniche di accesso
alle reti elettriche e del gas: l’Autorità per energia,
reti e ambiente definisce in modo più o meno
dettagliato il modello, che spetta poi ai
titolari di
rete ulteriormente specificare, sottoponendo la
relativa proposta di codice
all’esame dell’Autorità.
  Le autorizzazioni
 
3. Alcuni modelli  di regolazione attenuano
la
generali

distinzione tra
provvedimenti di tipo individuale e atti normativi.
Così, per
esempio, l’autorizzazione, definita, come
si vedrà, come atto amministrativo
che consente
l’esercizio di un’attività rimuovendo un limite
all’esercizio di un diritto
e che è emanata su
istanza della parte interessata, acquista una
dimensione regolatoria
nei casi in cui la legge
preveda l’emanazione da parte dell’autorità
amministrativa
delle cosiddette autorizzazioni
generali.
  el settore delle comunicazioni
elettroniche, la
N
normativa europea (recepita nel Codice delle
comunicazioni elettroniche) impone solo in
pochi
casi a chi voglia offrire sul mercato i servizi in
questione di richiedere
un’autorizzazione
individuale preventiva. Di regola è sufficiente
l’autorizzazione
generale definita come «quadro
normativo», che garantisce i diritti di fornitura di
reti
o di servizi e stabilisce gli obblighi ad essi
applicabili e che viene rilasciata ai
privati sulla
base di una semplice dichiarazione presentata al
ministero competente,
senza necessità di un
provvedimento formale da parte di quest’ultimo.
Anche  i   Gli impegni
 
procedimenti di tipo
sanzionatorio, quelli cioè volti ad accertare la
sussistenza di un
illecito amministrativo e ad
applicare una sanzione nei confronti di un
soggetto
determinato, si aprono in alcuni casi a
una dimensione regolatoria. Così, l’Autorità
garante della concorrenza e del mercato e altre
autorità di regolazione allorché avviano
procedimenti sanzionatori nei confronti di
un’impresa possono concluderli senza
accertare
l’illecito e irrogare la sanzione, accettando
impegni. Questi ultimi sono
proposti dall’impresa
stessa e consistono in obblighi comportamentali
volti a rimuovere
anche per il futuro le ragioni
sottostanti all’apertura del procedimento
sanzionatorio.
In alcuni casi essi sono assunti a
favore di soggetti terzi (per esempio, le imprese
concorrenti alle quali viene garantita la messa a
disposizione permanente di una
infrastruttura) e
pertanto questo tipo di impegni, avallati
dall’Autorità e sentiti in
contraddittorio tutti gli
interessati, possono acquisire una dimensione
regolatoria.
I  n conclusione, la
soft
law e gli altri modelli di
regolazione emersi di recente
finiscono per
sfumare i contorni di nozioni tradizionali come
fonte del diritto (o
hard law, vincolante in modo
assoluto), eteroregolazione
pubblica,
provvedimento individuale. Ma forse nell’epoca
attuale la giuridicità tende a
fondarsi, oltre che su
criteri formali, su criteri sostanziali di effettivo
condizionamento delle condotte dei soggetti
privati.
CAPITOLO 3

Il rapporto giuridico amministrativo

101
1. Gli
interessi pubblici, le
funzioni e l’attività
amministrativa
La funzione  di   La definizione della
  funzione di
amministrazione amministrazione attiva
attiva consiste
nell’esercizio,
attraverso moduli procedimentali,
dei poteri
amministrativi attribuiti dalla legge a un apparato
pubblico al fine di
curare, nella concretezza delle
situazioni e dei rapporti con soggetti privati,
l’interesse pubblico.
 Per avvicinarci al tema, può essere
utile anticipare,
in una visione d’insieme, e raccordare tra di loro
alcune nozioni
generali, approfondite nei capitoli e
nei paragrafi successivi. Tali nozioni, già
incluse
nella definizione sopra riportata, costituiscono la
trama all’interno della
quale possono essere
inseriti i singoli elementi che connotano il regime
della funzione
di amministrazione attiva. Esse
consentono di inquadrare la relazione
fondamentale tra
potere e
interesse
legittimo,
cioè il rapporto giuridico amministrativo.

▶ Gli
interessi pubblici. Il diritto consiste
essenzialmente nella regolazione
di interessi. Gli
interessi sono di più tipi. Vi sono anzitutto
interessi prettamente
privati, come per esempio
quelli del titolare di un diritto di proprietà o di un
diritto
di credito. Altri interessi hanno una
dimensione collettiva, come per esempio quello
della massa dei creditori in una procedura
fallimentare o degli azionisti riuniti in
un’assemblea di una società per azioni, oppure dei
soci di una associazione che persegue
scopi non
lucrativi disciplinata dal Titolo II del codice civile.
Altri interessi hanno
un carattere diffuso
(interessi diffusi o adespoti) come per esempio
l’interesse correlato a
un ambiente salubre.
Gli interessi pubblici (come, per esempio, l’ordine
pubblico, la
difesa nazionale, l’istruzione, la sanità,
ecc.) presuppongono un riconoscimento formale
da parte di una legge dello Stato (o anche da parte
della Costituzione) che li
individui, ponga regole e
102 istituisca apparati che si facciano
istituzionalmente carico della loro cura. Gli
interessi
qualificati come pubblici variano nel
tempo in funzione dell’evoluzione della
consapevolezza sociale e politica. Per esempio gli
interessi correlati alla tutela
dell’ambiente o alla
protezione dei dati personali, considerati oggi
come interessi
pubblici di rango primario, fino a
qualche decennio fa avevano una rilevanza
marginale.
Gli interessi pubblici inoltre possono
porsi talora in contrasto tra loro e richiedono
da
parte del legislatore o da parte delle pubbliche
amministrazioni un bilanciamento e
una
composizione (per esempio l’interesse alla
realizzazione di opere pubbliche può
confliggere
con quello della tutela dell’ambiente o del
paesaggio). In ogni caso
l’ordinamento può
graduare la rilevanza degli interessi pubblici, per
esempio, come si
vedrà, escludendo per alcuni di
essi l’applicazione di istituti di semplificazione
come
il silenzio-assenso (art. 20 l. n. 241/1990). Nel
contesto costituzionale attuale alla cura
degli
interessi pubblici, che di regola è affidata ad
apparati pubblici, possono
concorrere soggetti
privati, in attuazione, come si vedrà, del principio
di
sussidiarietà verticale (art. 118, ultimo comma,
Cost.).

▶ Le
funzioni. Allorché istituisce un apparato
amministrativo, la legge ne delinea anzitutto le
funzioni correlate alle finalità di
interesse
pubblico.
I  fini
pubblici   I fini pubblici
 
concorrono a
definire, con espressione atecnica, la «missione»
(mission) affidata a un soggetto pubblico che
consiste appunto
nella cura di un determinato
interesse pubblico individuato dalla legge.
L’esigenza di
tutelare un interesse pubblico (per
esempio, l’ambiente o la
privacy) si afferma via via
nella coscienza sociale e ciò si
traduce di regola,
come si è già chiarito, in normative che prevedono
anche
l’istituzione di un apparato pubblico (per
esempio, un ministero o un’autorità
indipendente)
per lo svolgimento delle attività necessarie per
curare tale interesse.
 Va anzitutto precisato che il
termine «funzione» ha
una molteplicità di significati (anche atecnici). Per
esempio,
esso può essere riferito ai vari tipi di
attività posti in essere dagli apparati
pubblici, e in
questo senso si distingue tra funzione di
regolazione, di amministrazione
attiva e di
controllo.
Nel  contesto che qui   La definizione di
  funzione
rileva, per funzioni amministrativa
amministrative si
intendono i compiti
che la
legge individua come propri di un
determinato apparato amministrativo. L’apparato è
tenuto a esercitarle per la cura in concreto
dell’interesse pubblico. A tal fine la
legge
conferisce agli apparati amministrativi le risorse e i
poteri necessari
(attribuzioni) e distribuisce la
titolarità di questi ultimi tra gli organi che
compongono l’apparato (competenze).
 Di regola le funzioni amministrative
vengono
individuate dalla legge in modo più o meno
analitico o al momento
dell’istituzione di un
apparato amministrativo, o in sede di riassetto
della
legislazione di settore e degli apparati
amministrativi.
Per esempio, la legge istitutiva
delle autorità di
regolazione dei servizi di pubblica utilità (legge 14
novembre 1995, n. 481), dopo aver individuato le
finalità generali della normativa (concorrenza ed
103 efficienza,
livelli adeguati di qualità nei servizi,
fruibilità e
diffusione omogenea sul territorio
nazionale, tutela degli interessi degli utenti e
consumatori, ecc.) (art. 1), elenca le funzioni
attribuite alle autorità di regolazione
(artt. 2 e 3): il
controllo delle condizioni e delle modalità di
accesso all’attività
per i gestori dei servizi, la
definizione e l’aggiornamento della tariffa base per
i
servizi erogati dai gestori, la definizione dei livelli
generali di qualità e di altre
regole di tipo contabile
e amministrativo, il controllo sullo svolgimento dei
servizi,
la formulazione di osservazioni e proposte
al governo e al parlamento, ecc.
Un esempio di legge di riordino è il d.lgs. 31 marzo
1998, n. 112 che, nell’ambito di una riforma
più
complessiva della pubblica amministrazione,
ridefinì i rapporti tra centro (Stato) e
periferia
(regioni ed enti locali) in una serie ampia di
materie (artigianato,
industria, territorio,
ambiente, protezione civile, servizi alla persona,
ecc.). Per
ciascuna di esse venne individuato un
elenco tassativo di funzioni che continuano ad
essere attribuite allo Stato (in generale, quelle di
indirizzo e programmazione, di
definizione di
standard omogenei, di monitoraggio, di
coordinamento, di raccolta ed
elaborazione di dati,
ecc.). Tutte le funzioni residue, anch’esse talora
specificate in
elenchi non tassativi, vennero
trasferite alle regioni e agli enti locali in base al
principio della
sussidiarietà verticale al quale si
farà cenno in seguito. Il decreto
legislativo
contiene anche elenchi di funzioni soppresse, cioè
ritenute non più utili
(per esempio, come si è visto,
alcuni atti di pianificazione settoriale o di tipo
autorizzativo).


L’attività
amministrativa. L’esercizio delle
funzioni comporta lo
svolgimento da parte
dell’apparato pubblico di una varietà di attività
materiali e
giuridiche. Emerge qui la nozione di
attività amministrativa. Essa consiste appunto
nell’insieme delle azioni e delle decisioni (inclusi i
singoli atti o provvedimenti
amministrativi)
riconducibili a una pubblica amministrazione in
relazione alle funzioni
affidate ad essa da una
legge. L’attività amministrativa è rivolta a uno
scopo o fine
pubblico, cioè alla cura di un interesse
pubblico e, per questo, anch’essa è dotata del
carattere della doverosità . Il mancato esercizio
dell’attività può   Il principio di
  doverosità
essere fonte di
responsabilità. E ciò a
differenza di quanto accade
nell’ambito dei
rapporti di diritto comune, nei quali l’esercizio
della capacità
giuridica da parte dei soggetti privati
è di regola libero.
  ll’attività amministrativa fa
riferimento l’art. 1
A
della legge n. 241/1990 secondo il quale essa
«persegue i fini
determinati dalla legge ed è retta
da criteri di economicità, di efficacia, di
imparzialità, di pubblicità e di trasparenza».
Sotto il profilo giuridico, la
nozione di attività
amministrativa non coincide con quella di atto o
provvedimento. Essa
si riferisce all’operato
complessivo delle singole amministrazioni,
valutato in termini
sia di legalità, sia soprattutto di
efficienza, efficacia ed economicità. Una siffatta
valutazione è effettuata da organi di controllo
come soprattutto la Corte dei conti,
preposta al
controllo successivo sull’attività degli enti
pubblici.
L’atto
amministrativo costituisce invece
un singolo episodio o un frammento
dell’attività
104 posta in essere da un apparato e si presta a
essere
valutato soprattutto sotto i profili della conformità
o
meno all’ordinamento (legittimità) e
dell’attitudine a soddisfare nel caso concreto
l’interesse pubblico (opportunità o merito
amministrativo).
Con riguardo all’attività è invalsa
l’espressione
«amministrazione di risultato», contrapposta
all’«amministrazione per
atti». Si tratta peraltro di
nozione recente e ancora di incerta elaborazione
dottrinale, che tende a cogliere la performance
complessiva di un apparato.
Una questione interpretativa è stabilire dove vada
tracciata la  linea di   L’attività
  amministrativa in
confine tra attività forma
privatistica
amministrativa e
attività di
diritto
privato in senso proprio della pubblica
amministrazione (cui si riferisce, come
si è visto,
l’art. 1, comma 1-bis, l. n. 241/1990). Infatti la
giurisprudenza tende a ritenere
che un apparato
pubblico svolge attività amministrativa «non solo
quando esercita
pubbliche funzioni e poteri
autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti
dall’ordinamento, persegue le proprie finalità
istituzionali mediante un’attività
disciplinata in
tutto o in parte dal diritto privato» (C. cass., Sez.
Un., 22 dicembre
2003, n. 19667 a proposito della
responsabilità erariale di amministratori e
dipendenti
di enti pubblici economici). Si è anche
precisato che, ai fini dell’esercizio del
diritto di
accesso di cui all’art. 22, comma 1, lett. b) della l. n.
241/1990, la nozione di
attività di interesse
pubblico posta in essere da soggetti privati gestori
di servizi pubblici o
di pubbliche funzioni include
l’attività «espressione sia di pubblici poteri, sia di
autonomia negoziale» (Cons. St., Sez. III, 22
dicembre 2014, n. 6352). È emersa così
la
distinzione tra «attività amministrativa in forma
privatistica» riferibile a soggetti
privati che
operano per conto della pubblica amministrazione
e «attività d’impresa di
enti pubblici» (C. cost. 1 o

agosto 2008, n. 326). La tendenza


ad attribuire una
connotazione pubblicistica ad attività svolte con
moduli privatistici
mira in realtà a colpire il
fenomeno, in crescita in anni recenti, che vede le
amministrazioni ricorrere a forme organizzative
privatistiche (in particolare, società
di capitali da
esse controllate) al fine di sottrarsi al regime del
diritto
amministrativo (assunzioni di personale
senza concorsi, stipulazione di
contratti senza il
ricorso a procedure a evidenza pubblica, ecc.).
Anche se può apparire
condivisibile l’intento
antielusivo, questa ricostruzione introduce un
elemento di
ibridazione tra categorie
pubblicistiche e privatistiche che accresce
l’incertezza.
 
2. Il
potere, il provvedimento,
il procedimento
Come si è accennato, l’attività
amministrativa
può esprimersi, oltre che in azioni e
comportamenti
materiali, nell’adozione di atti o
provvedimenti che sono la manifestazione
concreta dei
poteri amministrativi attribuiti dalla
legge a un apparato pubblico.
Più in particolare, in relazione a
ciascuna funzione
e come specificazione della medesima, la legge
individua in modo
puntuale i poteri (ordinatori,
autorizzativi, ablatori, sanzionatori, ecc.) conferiti
105 al
singolo apparato.

▶ Il
potere. La nozione di potere appartiene alla
teoria
generale e può riferirsi, oltre che al potere
amministrativo, al potere legislativo, che
consiste
nel dettare norme generali e astratte che innovano
l’ordinamento giuridico; al
potere giurisdizionale,
che consiste nel risolvere una controversia con una
sentenza
suscettibile di passare in giudicato; e,
secondo alcune ricostruzioni, anche al potere
negoziale, che consiste nella possibilità di disporre
autonomamente dei propri
interessi. Nel diritto
privato è discusso l’inquadramento dogmatico del
potere come
concetto autonomo o come subspecie
del diritto soggettivo.
Peraltro, prima ancora che essere
una categoria 
giuridica, il potere,   La nozione sociologica
 
come si è accennato,
è
una categoria sociologica legata alle dinamiche
dei gruppi organizzati. Taluni
individui, per
proprie virtù o abilità o per altri fattori, sono in
grado di esercitare
un’influenza dominante su altri
individui. Si parla anche di potere sociale che le
collettività e i gruppi esercitano sui singoli
individui.
I  poteri amministrativi conferiscono
agli apparati
che ne assumono la titolarità una capacità
giuridica speciale di diritto
pubblico che si esprime
nella possibilità di produrre, con una
manifestazione di volontà
unilaterale, effetti
giuridici nella sfera dei destinatari. Essa si
aggiunge,
integrandola, alla capacità giuridica
generale di diritto comune, intesa quest’ultima
come attitudine ad assumere la titolarità delle
situazioni giuridiche soggettive attive
e passive
previste dall’ordinamento, di cui essi, al pari delle
persone giuridiche
private, sono dotati. Nel
linguaggio ottocentesco era invalsa l’espressione
poteri
«esorbitanti» (rispetto al diritto comune). Il
potere amministrativo pone il suo
titolare in una
posizione di sovraordinazione rispetto al soggetto
nella cui sfera
giuridica ricadono gli effetti giuridici
prodotti in seguito al suo esercizio.
Occorre distinguere tra  potere in astratto e potere
in concreto.   Il potere in astratto e
  in
concreto

  a legge definisce gli elementi


costitutivi di
L
ciascun potere (potere in astratto). Ove
l’amministrazione agisca in
mancanza di una
norma attributiva del potere, si configura un
difetto assoluto di
attribuzione che, come si vedrà,
determina la nullità del
provvedimento. Il potere
in astratto ha il carattere dell’inesauribilità : fin
tanto che resta in   L’inesauribilità e la
  doverosità
del potere
vigore la norma
attributiva, esso si
presta a essere esercitato in una serie
indeterminata di situazioni concrete.
 Ogni qual volta poi si verifica una
situazione di
fatto conforme alla fattispecie tipizzata nella
norma di conferimento del
potere,
l’amministrazione è legittimata a esercitare il
potere (potere in concreto o
atto di esercizio del
potere) e a provvedere così alla cura dell’interesse
pubblico.
Oltre che legittimata, in virtù del
principio di doverosità che connota, come si è
accennato, l’intera attività amministrativa,
l’amministrazione è tenuta ad avviare un
procedimento che si conclude con l’emanazione di
un atto o provvedimento idoneo a
incidere nella
sfera giuridica del soggetto destinatario e a
disciplinare il rapporto
con l’amministrazione.
Emerge così un elemento dinamico del
potere, che
dalla dimensione statica della norma si traduce in
un atto concreto
produttivo di effetti giuridici.
Con un’immagine, il potere può essere visto come
106 un’energia giuridica che si sprigiona dalla norma,
viene
incanalata nel procedimento ed è diretta a
modificare la sfera giuridica dei soggetti
destinatari del provvedimento.
L’unilateralità del potere non è,
come si vedrà, un
elemento indefettibile di quest’ultimo poiché esso
può essere fatto
oggetto, a certe condizioni, di un
accordo con il destinatario dell’atto e dunque può
acquisire una connotazione consensuale e
bilaterale. Neppure l’inesauribilità del potere
in
concreto è un elemento necessario, come si vedrà,
per esempio, trattando dei termini
perentori di
conclusione del procedimento.


L’atto e il provvedimento. Nel diritto
italiano manca  una   L’assenza di una
  definizione
legislativa
definizione legislativa
di atto o
provvedimento. La legge
sul procedimento
amministrativo tedesca, per esempio, lo definisce
come «ogni
provvedimento, decisione o altra
misura autoritativa che è emanata da un’autorità
amministrativa per regolare un caso singolo nel
campo del diritto pubblico e che è volta
a produrre
un effetto giuridico diretto verso l’esterno» («jede
Verfügung, Entscheidung
oder andere hocheitliche
Maßnahme, die eine Behörde zur Regelung eines
Einzelfalls auf
dem Gebiet des öffentlichen Rechts
trifft und die auf unmittelbare Rechtswirkung nach
außen gerichtet ist», secondo il par. 35 del
Verwaltungsverfahrensgesetz). Nel nostro
ordinamento
l’atto
amministrativo costituisce
invece una nozione elaborata essenzialmente
dalla
dottrina e dalla giurisprudenza.
  lcune indicazioni si possono
peraltro ricavare sia
A
dalla Costituzione sia da alcune leggi generali.
In particolare, l’art. 113 Cost. stabilisce che
«Contro gli atti della pubblica
amministrazione è
sempre ammessa la tutela giurisdizionale»
(comma 1); la legge
determina quali organi
giurisdizionali abbiano il potere di «annullare gli
atti della
pubblica amministrazione nei casi e con
gli effetti previsti dalla legge». Queste
disposizioni
richiamano due aspetti del regime giuridico degli
atti amministrativi: la
loro sottoposizione
necessaria a un controllo giurisdizionale operato
dal giudice
amministrativo e dal giudice ordinario;
la loro annullabilità nei
casi di accertata difformità
dei medesimi rispetto alle norme giuridiche.
Sul piano storico, la nozione di
atto
amministrativo emerse proprio allorché alla fine
del XIX secolo, come si è già
accennato, venne
istituito in Italia un giudice speciale, distinto da
quello ordinario.
La IV Sezione  del Consiglio di
Stato si pose subito il   Gli atti impugnabili
 
problema di quali
caratteristiche dovessero avere gli atti delle
amministrazioni per
poter essere sottoposti al
controllo giurisdizionale e contribuì così, insieme
con la
dottrina, a elaborare la teoria dell’atto
amministrativo.
  questo riguardo, l’art. 26 Testo unico delle leggi
A
sul Consiglio di Stato, approvato con
r.d. 26 giugno
1924, n. 1054, abrogato dal Codice del processo
amministrativo (d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104),
stabiliva che il giudice
amministrativo può
decidere «sui ricorsi per incompetenza, per
eccesso di
potere o per violazione di legge, contro
atti e provvedimenti di
un’autorità amministrativa
[…] che abbiano per oggetto un interesse
d’individui o di
enti morali giuridici». Questa
disposizione processuale, introdotta già nel 1889,
107 definiva così le condizioni minime per poter
accedere alla
tutela giurisdizionale amministrativa
(impugnabilità o giustiziabilità dell’atto
amministrativo). Doveva trattarsi cioè di un atto
emanato da un’autorità amministrativa,
ritenuto
illegittimo (per incompetenza, eccesso di potere o
violazione di legge), che
fosse lesivo di una
situazione giuridica soggettiva del privato (il
cosiddetto
interesse
legittimo).
Altre disposizioni legislative
rilevanti si ritrovano
nella l. n. 241/1990, come integrata dalla legge 11
febbraio 2005, n. 15, che pone una disciplina
generale del procedimento amministrativo e
dell’atto amministrativo.
Anzitutto,  l’art. 1,   Gli atti aventi natura
  non
autoritativa
comma 1-bis, l. n.
241/1990 stabilisce,
come si è visto, che la pubblica
amministrazione
agisce di regola secondo le norme del diritto
privato «nell’adozione di
atti di natura non
autoritativa». Questi ultimi vanno dunque distinti
dagli atti aventi
natura autoritativa, per i quali,
invece, vale il regime pubblicistico proprio degli
atti amministrativi.
I  noltre, secondo l’art. 3 l. n. 241/1990 gli atti
amministrativi devono essere
motivati, e ciò
costituisce un profilo che differenzia dagli atti
privati per i quali
non esiste questo obbligo.
Ancora, l’art. 7 prevede che l’avvio
del
procedimento deve essere comunicato «ai soggetti
nei confronti dei quali il
provvedimento finale è
destinato a produrre effetti diretti» e l’art.
21-bis
specifica che «il provvedimento limitativo della
sfera
giuridica dei privati acquista efficacia nei
confronti di ciascun destinatario con la
comunicazione allo stesso effettuata». Queste 
disposizioni   L’autoritarietà
 
richiamano
implicitamente un’altra caratteristica dei
provvedimenti e cioè l’autoritarietà (o
imperatività) intesa come attitudine a
determinare in modo unilaterale
la produzione
degli effetti giuridici nei confronti dei terzi. Viene
posta, inoltre, la
distinzione tra provvedimenti
ampliativi e provvedimenti limitativi o restrittivi
della
sfera giuridica dei destinatari privati, sulla
quale ci si soffermerà tra breve.
 Infine, l’art. 2, comma 1, l. n. 241/1990 pone in capo
all’amministrazione il dovere di concludere il
procedimento «mediante l’adozione di un
provvedimento espresso».
Come emerge dalle disposizioni
costituzionali e
legislative ora richiamate, i termini «atto» e
«provvedimento
amministrativo» sono utilizzati
come sinonimi. In sede dottrinale, tuttavia, si è
cercato di porre una distinzione tra atto
amministrativo e provvedimento
amministrativo.
Il primo, per riprendere una
definizione classica
[Zanobini 1958, 245], include ogni «dichiarazione
di volontà, di
desiderio, di conoscenza, di giudizio,
compiuta da un soggetto dell’amministrazione
pubblica nell’esercizio di una potestà
amministrativa». Pertanto costituiscono atti
amministrativi, per esempio, quelli
endoprocedimentali come i pareri, le
valutazioni
tecniche, le proposte, le intimazioni, oppure le
certificazioni che
spesso hanno una funzione
strumentale o accessoria rispetto al
provvedimento.
Quest’ultimo costituisce la
subcategoria più
importante  degli atti   La definizione di
  provvedimento
amministrativi, e può amministrativo
essere definito, in
conclusione, come
una manifestazione di volontà, espressa
dall’amministrazione titolare del potere all’esito di
un procedimento, volta alla cura
in concreto di un
interesse pubblico e tesa a produrre in modo
108 unilaterale effetti
giuridici nei rapporti esterni con
i soggetti destinatari del
provvedimento medesimo
(per esempio, un decreto di espropriazione,
un’autorizzazione, una
sanzione amministrativa,
ecc.).
 
▶ Il procedimento. La l. n. 241/1990 richiama
già nel titolo e poi in numerose
disposizioni la
nozione
di procedimento amministrativo. Essa è
stata elaborata dalla dottrina
giuspubblicista
[Sandulli 1964] verso la metà del secolo scorso.
Come si è già menzionato,
l’esercizio del potere
amministrativo avviene secondo il modulo del
procedimento, cioè
attraverso una sequenza,
individuata anch’essa dalla legge, di operazioni e di
atti
strumentali all’emanazione di un
provvedimento produttivo degli effetti giuridici nei
rapporti esterni. Come si vedrà nel capitolo V, il
procedimento assolve a una pluralità di funzioni
(garanzia
dei privati, coordinamento tra apparati,
ecc.).
La l. n. 241/1990  non   La definizione di
  procedimento
fornisce una
definizione di
procedimento. Per esempio, la legge tedesca lo
definisce come
un’«attività di un’autorità
amministrativa avente rilevanza esterna che è
rivolta
all’accertamento delle condizioni, alla
preparazione e all’emanazione di un atto
amministrativo o alla conclusione di un contratto
di diritto pubblico» («die nach außen
wirkende
Tätigkeit der Behörden, die auf die Prüfung der
Voraussetzungen, die
Vorbereitung und den Erlaß
eines öffentlich-rechtlichen Vertrages gerichtet
ist»,
secondo il par. 9 del
Verwaltungsverfahrensgesetz).
 Il procedimento    Il procedimento
  legislativo e il
processo
costituisce, in realtà,
la modalità ordinaria
di esercizio
delle funzioni pubbliche
corrispondenti ai tre poteri dello Stato, in
considerazione
delle esigenze di accentuare la
trasparenza (in funzione di
accountability, cioè di
controllo e di responsabilità) e di
garantire meglio
la tutela dei soggetti interessati di fronte ad atti
che sono
espressione diretta dell’autorità dello
Stato. La funzione legislativa assume la forma
del
procedimento legislativo, disciplinato dalla
Costituzione e dai regolamenti
parlamentari e
finalizzato all’emanazione di atti con «forza o
valore di legge»; la
funzione giurisdizionale assume
quella del processo, disciplinato dai vari codici
processuali, che si conclude con una sentenza
dotata dell’«autorità del giudicato»; la
funzione
amministrativa si manifesta nel procedimento
amministrativo, che si conclude
con un
provvedimento dotato di «autoritarietà» o
«imperatività». Nel diritto privato,
invece, l’attività
che precede l’adozione di atti negoziali è
tendenzialmente
irrilevante per il diritto (anche se
talora può dare origine a responsabilità
precontrattuale ai sensi dell’art. 1337 cod. civ.) e
resta relegata alla sfera interna del
soggetto che la
pone in essere.
 
3. Il
rapporto giuridico
amministrativo
La funzione di amministrazione
attiva pone la
pubblica amministrazione titolare di un potere in
una
situazione di tipo relazionale con i soggetti
privati destinatari del provvedimento.
Peraltro, solo in epoca
relativamente recente ha
trovato un riconoscimento, anche in
109 giurisprudenza (C. cost. 4
maggio 2017, n. 94 e C.
cass., Sez. Un., 28 aprile 2020, n.
8236), la nozione
di rapporto giuridico amministrativo, cioè il
rapporto che intercorre tra
la pubblica
amministrazione che esercita un potere e il
soggetto privato titolare di un
interesse
legittimo.
Nella visione tradizionale, infatti, lo Stato era
concepito
come un’entità collocata in una
posizione di sovraordinazione rispetto ai soggetti
privati relegati nella posizione di amministrati o di
sottoposti
(Untertan), tale da escludere la
configurabilità di vincoli
giuridici bilaterali.
L’ordinamento poteva disciplinare il potere
dell’amministrazione
con norme volte a orientare
l’attività della medesima (norme d’azione), ma
senza che si
instaurasse una relazione giuridica in
senso proprio (come invece nel caso delle norme
di relazione, tipiche dei rapporti privatistici).
In una concezione moderna, più
conforme
all’ideale dello Stato di diritto e che tiene conto
dell’acquisita natura sostanziale
dell’interesse
legittimo (collegato a un bene della vita), potere
amministrativo e interesse legittimo possono
essere ricostruiti come i
termini dialettici
(ciascuno, allo stesso tempo, come si vedrà, attivo
e passivo) di una
relazione giuridica bilaterale.
Questa si sviluppa anzitutto nel procedimento
finalizzato all’adozione di un provvedimento e
continua talora anche dopo l’emanazione
di
quest’ultimo (rapporti di durata come, per
esempio, nel caso di una concessione
pluriennale
per la gestione di un servizio pubblico).
Occorre definire ora con più
precisione i caratteri
della relazione tra potere amministrativo e
interesse legittimo
che, come ogni relazione di vita
riconosciuta dall’ordinamento giuridico,
costituisce,
in un’accezione ancora generica, un
rapporto giuridico [Trabucchi 2004, 705].
Conviene muovere da alcuni concetti
di base
elaborati allo scopo di inquadrare la varietà dei
rapporti giuridici di diritto
comune.
Nel diritto privato la relazione
giuridica di base  è
costituita dalla   La coppia diritto
  soggettivo-obbligo
coppia diritto
soggettivo-obbligo.
Secondo le definizioni tradizionali, il diritto
soggettivo
consiste in un potere di agire (agere
licere), riconosciuto e
garantito dall’ordinamento
giuridico, per soddisfare un proprio interesse. Il
diritto
soggettivo include in sé una serie di facoltà
che ne costituiscono l’estrinsecazione
(godimento
della cosa, jus escludendi alios, ecc.).
 Alla titolarità del diritto
soggettivo corrisponde, in
capo al soggetto passivo del rapporto giuridico, a
seconda
dei casi: un dovere generico e negativo di
astensione, cioè di non interferire o turbare
l’esercizio del diritto (diritti assoluti, come i diritti
reali e della personalità);
oppure un obbligo
giuridico, cioè il dovere positivo di porre in essere
un determinato
comportamento o attività
(prestazione) a favore del titolare del diritto
(diritti
relativi, come i diritti di credito). Ad esso
corrisponde dal lato del soggetto attivo
una
pretesa, cioè il potere di esigere la prestazione.
Accanto alla coppia diritto
soggettivo-obbligo, che
è tipica dei rapporti di tipo paritario tra soggetti
che
agiscono nell’esercizio della loro capacità
negoziale, il diritto privato conosce altri
tipi di
situazioni giuridiche che ci avvicinano alla
dinamica del rapporto
amministrativo,
caratterizzato invece dalla sussistenza di una
relazione non paritaria
(sovra-sottordinazione) tra
la pubblica amministrazione che esercita il potere
110 e il
titolare dell’interesse legittimo.
Per un verso, infatti, viene
individuata una
situazione giuridica   La potestà
 
 soggettiva attiva, la
potestà,
che, a differenza di quanto accade per il
diritto soggettivo, è attribuita al singolo
soggetto
per il soddisfacimento, anziché di un interesse
proprio, di un interesse
altrui. Si tratta cioè di un
potere-dovere, nel senso che il soggetto è tenuto a
esercitarla secondo criteri non già di «pieno»,
bensì di «prudente arbitrio», e nel farlo deve
perseguire la finalità della cura
dell’interesse altrui
(nel diritto di famiglia, tipicamente, la potestà
genitoriale).
Come si è già accennato, anche il
potere amministrativo è finalizzato al
perseguimento
di un fine pubblico imposto dalla
legge, che è diverso e distinto da quello proprio del
soggetto agente. Da qui i caratteri della doverosità
e della non arbitrarietà
dell’esercizio del potere.
 Per  altro verso, una   Il diritto potestativo
 
particolare categoria
di diritti soggettivi è costituita dal
diritto
potestativo, che consiste nel potere attribuito a un
soggetto di
produrre nella sfera giuridica altrui un
effetto giuridico (costitutivo, modificativo o
estintivo) con una propria manifestazione
unilaterale di volontà. Ciò sul presupposto di
una
prevalenza attribuita dalla norma all’interesse del
titolare del potere rispetto a
quello del soggetto
che subisce una modificazione nella propria sfera
giuridica.
Quest’ultimo si trova in uno stato
definito di soggezione. Su di lui infatti ricadono
ineluttabilmente, cioè indipendentemente dalla
propria volontà e senza che gli sia
richiesta alcuna
attività, le conseguenze della dichiarazione di
volontà altrui.
  sempi di diritto potestativo nei rapporti
E
interprivati sono la
prelazione (art. 732 cod. civ.
nei rapporti tra coeredi), il recesso
(art. 1373 cod.
civ.), il riscatto nella compravendita (art. 1500 cod.
civ.), la revoca del mandato
(art. 1723 cod. civ.), la
comunione forzosa di un muro di
confine (art. 874
cod. civ.).
Il diritto potestativo rappresenta
una particolare
tecnica o modalità di produzione degli effetti
giuridici nei rapporti
intersoggettivi che vale, più
in generale, anche per il potere amministrativo.
Conviene
pertanto approfondire il tema tenendo
conto delle elaborazioni di teoria generale,
soprattutto ad opera della dottrina
processualcivilistica [Proto Pisani 2001, 204;
Menchini 1987, 190; Consolo 1991, 247-248].
La  produzione degli   Lo schema norma-
  fatto-effetto
giuridico
effetti giuridici segue
usualmente lo
schema norma-fatto-effetto
giuridico, che è tipico
delle relazioni ricostruibili in termini di diritto
soggettivo-obbligo. La norma definisce in termini
astratti gli elementi della
fattispecie e l’effetto
giuridico che ad essa si ricollega, ponendo
direttamente la
disciplina degli interessi in
conflitto in relazione a un determinato bene. Tutte
le
volte che nella vita economica e sociale si
verifica un fatto concreto sussumibile nella
fattispecie normativa si produce, in modo
automatico, un effetto giuridico.
  osì, per esempio, l’art. 2043 cod. civ. individua gli
C
elementi costitutivi del
fatto illecito dal quale
consegue, come effetto giuridico, il sorgere
dell’obbligo di
risarcire il danno. Se il proprietario
di un appartamento causa un danno a quello
sottostante in seguito alla rottura di un tubo
dell’acqua, questo accadimento, ove
integri tutti gli
elementi della fattispecie dell’illecito
extracontrattuale, fa sorgere
in capo al
proprietario l’obbligo di risarcire il danno.
111 Parimenti, l’art. 922 cod. civ. contempla, tra i modi
tipici di acquisto della proprietà, l’occupazione,
definita a
livello di fattispecie dall’art. 923 cod. civ.:
se una persona si imbatte in una cosa
mobile
abbandonata, il fatto in sé del rinvenimento e
dell’apprensione determina
l’acquisto di un diritto
di proprietà.
Il diritto conosce anche un’altra
tecnica di
produzione degli   Lo schema
norma-
  fatto-potere-effetto
 effetti che segue lo giuridico
schema
norma-fatto-
potere-effetto
giuridico. Questa sequenza si differenzia da
quella
sopra esaminata poiché viene meno l’automatismo
nella produzione dell’effetto
giuridico. Infatti, il
verificarsi di un fatto concreto conforme alla
norma attributiva
del potere determina in capo a
un soggetto (il titolare del potere) la possibilità di
produrre l’effetto giuridico individuato a livello di
fattispecie normativa attraverso
una dichiarazione
di volontà. Tra il fatto e l’effetto giuridico si
interpone un
elemento aggiuntivo, cioè il potere, e
il titolare di quest’ultimo è libero di decidere
se
provocare con una propria manifestazione di
volontà l’effetto giuridico tipizzato
dalla norma
(potere sull’an). Questo è lo schema proprio del
diritto potestativo.
  a dottrina ha elaborato questa
tipologia  di
L
situazione giuridica   I diritti potestativi
  stragiudiziali e a
soggettiva per
inquadrare la tutela necessario esercizio
giudiziale
giurisdizionale di tipo
costitutivo che, come
si vedrà nel capitolo XIV, si distingue da
quella di
accertamento e di condanna. Essa individua due
tipologie di diritti
potestativi: stragiudiziali
(Gestaltungsrechte, detti anche poteri
formativi
stragiudiziali) e a necessario esercizio giudiziale
(Gestaltungsklagerechte, detti anche diritti
potestativi ad
attuazione giudiziaria).
  el primo caso la produzione
dell’effetto giuridico
N
discende in modo diretto dalla manifestazione di
volontà del
titolare del potere. Si tratta dunque di
un potere unilaterale e autosufficiente. Nel
secondo caso il prodursi dell’effetto giuridico
presuppone, in aggiunta alla
dichiarazione di
volontà del titolare del potere, un previo
accertamento giudiziale che
verifichi la sussistenza
nella fattispecie concreta degli elementi previsti in
astratto
a livello di fattispecie normativa.
Un esempio del primo tipo è il
potere del datore di
lavoro di licenziare un dipendente per giusta causa
o per
giustificato motivo (ai sensi della legge 15
luglio 1966, n. 604); esempi del secondo tipo sono
la separazione giudiziale tra coniugi (art. 151 cod.
civ.), il disconoscimento della paternità
(art. 244
cod. civ.), l’annullamento del contratto (art. 1441
cod. civ.).
A queste situazioni si riferisce
l’art. 2908 cod. civ.,
dedicato alla tutela costitutiva,
secondo il quale,
nei casi tassativi previsti dalla legge, l’autorità
giudiziaria può
emanare una sentenza volta a
costituire, modificare o estinguere rapporti
giuridici con
effetto tra le parti.
Anche per i diritti potestativi del
primo tipo è
prevista una fase di verifica giurisdizionale che,
tuttavia, presenta due
caratteristiche: è posticipata
rispetto alla produzione dell’effetto giuridico;
l’iniziativa processuale spetta a colui nella cui
sfera giuridica si è
prodotto l’effetto giuridico.
Questa seconda peculiarità determina
un’inversione tra
posizione sostanziale e posizione
processuale delle parti: il soggetto passivo nel
rapporto sostanziale (che si trova in uno stato di
soggezione) diventa parte attiva
(nella veste di
attore) nel rapporto processuale ed è dunque
gravato dell’onere di
contestare il prodursi
112 dell’effetto giuridico che altrimenti si consolida;
viceversa, il soggetto attivo nel rapporto
sostanziale
(titolare del potere) diventa parte
passiva (nella veste di convenuto) nel rapporto
processuale.
Così, nell’esempio del
licenziamento, il dipendente
può impugnare il licenziamento entro 60 giorni
dalla
ricezione della comunicazione allo scopo di
far accertare l’assenza della giusta causa o
del
giustificato motivo e di ottenere dal giudice
ordinario una pronuncia di condanna
del datore di
lavoro alla sua riassunzione o al risarcimento del
danno (artt. 6 e 8 l. n. 604/1966).
La seconda tipologia di diritti
potestativi, grazie al
preventivo accertamento giurisdizionale in
contraddittorio tra le
parti, tutela di più gli
interessi di colui che subisce in modo passivo il
prodursi
nella propria sfera giuridica dell’effetto
tipico. Ha però come controindicazione la
perdita
di immediatezza nella produzione dell’effetto
giuridico dovuta al tempo
necessario per lo
svolgimento del processo, determinando dunque
un maggiore intralcio
nei traffici giuridici. Spetta al
legislatore stabilire caso per caso quando prevalga
l’uno o l’altro interesse.
Il  potere   Il potere
  amministrativo come
amministrativo può diritto potestativo
essere ricondotto allo stragiudiziale
schema del diritto
potestativo
stragiudiziale. Infatti, la produzione
dell’effetto giuridico discende in modo immediato
dalla dichiarazione di volontà
dell’amministrazione che emana il provvedimento.
Inoltre,
l’accertamento giurisdizionale può
avvenire solo in via posticipata, cioè in seguito
alla
proposizione di un ricorso innanzi al giudice
amministrativo su iniziativa del soggetto
nella cui
sfera giuridica l’atto impugnato ha prodotto
l’effetto.
 Nel caso del potere amministrativo questo schema
trova giustificazione
nell’esigenza, ritenuta
prevalente, di garantire la realizzazione immediata
dell’interesse pubblico la cui cura è affidata
all’amministrazione. Inoltre, poiché
essa, in base
alla l. n. 241/1990, è tenuta a ispirare la propria
attività a
criteri di correttezza, imparzialità e
trasparenza e al principio di partecipazione, la
posizione dei soggetti destinatari del
provvedimento trova già una qualche tutela nella
fase procedimentale, cioè prima che l’effetto
giuridico si sia prodotto.
Sussistono tuttavia alcune
specificità del potere
amministrativo rispetto allo schema del diritto
potestativo e in
particolare di quello stragiudiziale.
In primo luogo nei rapporti
interprivati , il diritto
potestativo   I poteri privati
 
stragiudiziale
trova
usualmente un fondamento consensuale di tipo
pattizio. Così, per esempio, nella
compravendita il
diritto di riscatto può essere esercitato dal
venditore di regola solo
se viene negozialmente
convenuto (art. 1500 cod. civ.). Anche il potere di
licenziamento trova
un fondamento consensuale
nel contratto di lavoro che, almeno da un punto di
vista
strettamente giuridico, entrambe le parti
erano libere di stipulare. In definitiva,
l’unilateralità e l’immediatezza nella produzione
dell’effetto giuridico trovano un
temperamento nel
fondamento in ultima analisi consensuale del
potere.
I  noltre, nei rapporti privati la
fattispecie
normativa che disciplina il diritto potestativo
determina in modo rigido
l’effetto giuridico
prodotto attraverso la dichiarazione di volontà del
titolare del
diritto. Il potere e l’effetto giuridico
sono cioè interamente vincolati. Il solo ambito
di
113 scelta riconosciuto al titolare del diritto attiene al
se
esercitarlo (potere sull’an). È la norma stessa,
pertanto, a porre
in essere, in termini astratti, la
disciplina degli interessi e a operare la
composizione tra i medesimi. Ne consegue,
anticipando questioni che saranno approfondite
nella parte dedicata alla tutela giurisdizionale, che,
in presenza di una contestazione,
il giudice potrà
valutare se nella fattispecie concreta si erano
verificati tutti i
fatti e le altre condizioni che la
norma richiede perché il potere sorga e possa
essere
legittimamente esercitato e accertare in via
definitiva il modo di essere del rapporto.
Il potere amministrativo, invece,
per un verso,
trova  fondamento   La specificità del
  potere
amministrativo
diretto nella legge,
cioè
nella norma di
conferimento del potere, piuttosto che nel
consenso di colui nella cui
sfera giuridica si
produce l’effetto, e senza che sussista, di regola, un
rapporto
giuridico preesistente tra il soggetto
privato e la pubblica amministrazione. Ciò
risulta
chiaro se si pensa, per esempio, al potere di
espropriazione o a quello di
rilasciare una
concessione o altro titolo abilitativo, vicende nelle
quali un primo
contatto con l’amministrazione si
instaura, come si vedrà, rispettivamente con la
comunicazione di avvio
del procedimento o con
la presentazione dell’istanza. In ogni caso, solo
in
senso figurato si può ritenere che la legge abbia un
fondamento in ultima analisi
consensuale, per il
fatto cioè che, nei regimi parlamentari, essa è
approvata dai
rappresentanti degli elettori (tra i
quali rientrano anche i soggetti che subiscono gli
effetti dei provvedimenti amministrativi).
  er altro verso, il potere della
pubblica
P
amministrazione non è sempre integralmente
vincolato. Anzi, di regola, la legge
attribuisce
all’amministrazione margini più o meno ampi di
apprezzamento e valutazione
discrezionale che,
come si vedrà, possono determinare una
modulazione del contenuto e
degli effetti del
provvedimento emanato. La disciplina degli
interessi in conflitto non
è posta, dunque,
integralmente e direttamente dalla norma, ma
quest’ultima rimette
almeno una parte della
determinazione dell’assetto finale degli interessi al
soggetto
titolare del potere. Ne consegue,
anticipando anche qui temi di tipo processuale,
che in
presenza di una contestazione relativa
all’atto di esercizio del potere, il giudice
potrà
operare un sindacato pieno soltanto sugli aspetti
vincolati del potere e non potrà
sostituirsi al
titolare del potere nell’operare la valutazione
discrezionale. Accertato
che il potere è stato
esercitato in modo non corretto, esso dovrà
limitarsi ad annullare
il provvedimento rimettendo
all’amministrazione il compito di emanare un
nuovo atto,
esente dai vizi riscontrati, che rinnovi
la valutazione discrezionale.
4. La norma
attributiva del
potere
Conviene a questo punto trattare in
modo più
specifico il potere amministrativo esaminando
anzitutto la struttura della norma
attributiva del
potere.
Secondo una classificazione  tradizionale
[Guicciardi 1942], le   Norme di azione e
  norme di
relazione
norme che si
riferiscono
alla
pubblica amministrazione sono di due tipi: norme
di azione e norme di relazione. Le
prime
114 disciplinano il potere amministrativo nell’interesse
esclusivo della pubblica amministrazione, hanno
come scopo quello di assicurare che
l’emanazione
degli atti sia conforme a parametri predeterminati
e non hanno una funzione
di protezione
dell’interesse dei soggetti privati. Esse seguono lo
schema norma-fatto-potere-effetto, già
esaminato. Le norme di relazione,
invece, sono
volte a regolare i rapporti intercorrenti tra
l’amministrazione e i
soggetti privati, a garanzia
anche di questi ultimi, definendo direttamente
l’assetto
degli interessi e dirimendo i conflitti
insorgenti tra cittadino e pubblica
amministrazione. Esse seguono l’altro schema
norma-fatto-effetto,
tipico, come si è visto, del
diritto soggettivo.
 La norma di azione segna i limiti
per così dire
interni al potere volti a guidare l’attività
dell’amministrazione, mentre
la norma di
relazione segna i limiti per così dire esterni al
potere tracciando i
confini tra la sfera giuridica dei
soggetti privati rispetto a quella
dell’amministrazione. Ne derivano, a cascata, una
serie di conseguenze: sul piano delle
situazioni
giuridiche soggettive, la distinzione tra interesse
legittimo,
correlato alla prima, e diritto soggettivo,
correlato alla seconda; sul piano delle
qualificazioni giuridiche, l’applicazione della
categoria dell’illegittimità (annullabilità) o
della
illiceità (nullità) agli atti che violano l’uno o
l’altro tipo di
norma; sul piano della giurisdizione,
l’attribuzione delle controversie al giudice
amministrativo o al giudice ordinario e la
definizione dei rispettivi poteri
(annullamento o
disapplicazione). Mentre il giudice ordinario è
chiamato ad accertare la
conformità o meno del
fatto rispetto alla norma di relazione, il giudice
amministrativo
è chiamato ad accertare la
conformità, non solo del fatto, ma anche e
soprattutto
dell’atto rispetto alla norma di azione.
Questa dicotomia delle norme, che
ancora oggi
compare talora in giurisprudenza, appare ormai
datata. Essa è legata, come
si vedrà, a una
concezione dell’interesse legittimo, ormai
superata, come una situazione
giuridica soggettiva
che riceve tutt’al più una tutela indiretta e riflessa
da parte
dell’ordinamento e non è inquadrabile
nello schema del rapporto giuridico. In realtà,
anche le norme che disciplinano l’attività
amministrativa hanno una valenza relazionale e
una funzione di tutela dell’interesse del soggetto
privato al mantenimento o
conseguimento di un
bene della vita, oltre che dell’interesse pubblico.
Appare  dunque   La norma attributiva
  del
potere
preferibile utilizzare
la formula più
generica di
norma attributiva (o di conferimento)
del potere.
I  n attuazione del principio di
legalità che, come si
è già sottolineato, costituisce il principio
cardine
nella teoria dell’atto e del procedimento
amministrativo, la norma attributiva
del potere
individua, in termini astratti, gli elementi
caratterizzanti il particolare
potere (potere in
astratto) attribuito a un apparato pubblico: il
soggetto competente;
il fine pubblico; i
presupposti e i requisiti; le modalità di esercizio
del potere e i
requisiti di forma; gli effetti giuridici.

1.
Quanto al soggetto competente, in un sistema
amministrativo multilivello e articolato in
una
molteplicità e varietà di apparati, ogni potere
amministrativo deve essere
attribuito in modo
specifico dalla norma alla titolarità di uno e un
solo soggetto e,
ove l’organizzazione di questo
prevede una pluralità di organi, a uno e un
solo
115 organo. L’atto emanato da un soggetto o organo
diverso da
quello previsto è affetto, come si vedrà,
da vizio di incompetenza.

2. Il
fine pubblico, correlato a quello che viene
definito come l’interesse pubblico primario
affidato alla cura dell’apparato amministrativo
titolare del potere, costituisce un
elemento
specificato in modo espresso dalla norma di
conferimento del potere o che può
essere ricavato
implicitamente dalla legge che disciplina la
particolare materia.
L’amministrazione non è
dunque libera di esercitare il potere per il
perseguimento di
qualsivoglia finalità
autodeterminata. Il fine pubblico è invece
eteroimposto dalla
norma e orienta le scelte
effettuate in concreto dall’amministrazione. Come
si vedrà, la
violazione del vincolo del fine, cioè il
perseguimento da parte del provvedimento
emanato di un fine (pubblico o privato) diverso da
quello previsto dalla norma,
configura un vizio di
eccesso di potere per sviamento.

3. Un
terzo elemento consiste nei presupposti e
requisiti sostanziali in presenza dei quali il
potere
sorge e può essere esercitato (fatti costitutivi del
potere). La loro sussistenza
in concreto è una delle
condizioni per l’esercizio legittimo del potere.
L’espressione «presupposti e requisiti di legge» è
utilizzata
dall’art. 19 l. n. 241/1990 ed è riferita alle
autorizzazioni
cosiddette vincolate che, come si
vedrà, sono sostituite dalla cosiddetta
segnalazione
certificata d’inizio di attività (SCIA),
cioè da
una semplice comunicazione effettuata dal
privato all’amministrazione. Analogamente
l’art. 6,
comma 1, lett. a), l. n. 241/1990 prevede che il
responsabile del
procedimento valuti a fini
istruttori «le condizioni di ammissibilità, i
requisiti
di legittimazione ed i presupposti che siano
rilevanti per l’emanazione del
provvedimento».
Così, per fare un esempio, il Testo
unico in materia
 edilizia (d.p.r. 6
  Esempi
giugno 2001, n. 380),  
a proposito del permesso di
costruire, indica come
presupposti la conformità del progetto alle
previsioni degli
strumenti urbanistici (in
particolare il piano regolatore), dei regolamenti
edilizi e in
generale della disciplina urbanistico-
edilizia vigente, nonché l’esistenza delle opere
di
urbanizzazione primaria o l’impegno a realizzarle
(art. 12). Inoltre, prevede come
requisito
soggettivo che il permesso possa essere rilasciato a
chi dimostri di essere
proprietario dell’immobile o
di avere un altro titolo giuridico come, in
particolare, un
diritto di superficie (art. 11).
  nalogamente il Codice dei beni culturali e del
A
paesaggio (d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42), a
proposito della
dichiarazione dell’interesse
culturale di cose mobili o immobili appartenenti a
privati
dalla quale consegue un particolare regime
vincolistico (art. 13), elenca i tipi di beni
(raccolte
librarie, archivi, collezioni, ecc.) e per ciascuno di
essi individua le
caratteristiche. In particolare i
beni devono presentare un «interesse artistico,
storico, archeologico o etnoantropologico
particolarmente importante», oppure «un
interesse particolarmente importante a causa del
loro riferimento con la storia
politica, militare,
della letteratura, dell’arte e della cultura in genere,
ovvero quali
testimonianze dell’identità e della
storia delle istituzioni pubbliche, collettive o
116 religiose» (art. 10, comma 3).
In tema di presupposti e requisiti
sostanziali, la
questione più delicata è costituita dal grado di
analiticità, pur nella
necessaria astrattezza della
fattispecie normativa. Infatti, a seconda delle
espressioni
linguistiche utilizzate, il potere può
risultare più o meno ampiamente vincolato o, per
converso, più o meno ampiamente discrezionale.
Ciò lungo una linea continua delimitata
da due
estremi.
Al primo  estremo si   I poteri vincolati e i
  poteri
discrezionali
collocano i poteri
integralmente
vincolati. In relazione ad essi
l’amministrazione
non ha altro compito se non quello di verificare, in
modo quasi
meccanico, se nella fattispecie
concreta siano rinvenibili tutti gli elementi indicati
in modo univoco ed esaustivo dalla norma
attributiva e, nel caso positivo, di emanare il
provvedimento che produce gli effetti anch’essi
rigidamente predeterminati dalla norma
(per
esempio, l’iscrizione a un albo professionale,
oppure il rilascio di un permesso a
costruire in
conformità alle prescrizioni del piano regolatore e
del regolamento
edilizio). Come si vedrà, si è
dubitato in dottrina [Capaccioli 1983, 279; Orsi
Battaglini 1988a, 355] che gli atti emanati
nell’esercizio di poteri integralmente
vincolati
conservino la natura di atti autoritativi in senso
proprio. Essi dunque
sarebbero inidonei a
produrre effetti autonomi, cioè che non siano già
prodotti
direttamente dalla norma applicata al
fatto concreto.
 Al secondo estremo si pongono i
poteri
sostanzialmente «in bianco» (per esempio, le
ordinanze di necessità e di urgenza
già esaminate)
che rimettono al soggetto titolare del potere spazi
molto ampi di
apprezzamento, di valutazione delle
fattispecie concrete e di determinazione delle
misure necessarie per tutelare un determinato
interesse pubblico.
La discrezionalità emerge allorché
la norma
autorizza ma non obbliga l’amministrazione a
emanare un certo provvedimento.
Ciò accade
anzitutto quando il legislatore prevede che
l’amministrazione «può» oppure
«ha la facoltà di»
emanare un determinato atto (per esempio, il
porto d’armi o una
licenza in base al r.d. 18 giugno
1931, n. 773 recante il Testo unico delle
leggi di
pubblica sicurezza); oppure usa aggettivi come
«opportuno», «indispensabile»,
«conveniente»
riferiti a una misura o al contenuto di un
provvedimento, rinviando così a
valutazioni
necessariamente soggettive dell’interesse pubblico.
In  generale, gli spazi   I concetti giuridici
  indeterminati
di valutazione dei
fatti costitutivi del
potere sono tanto più ampi quanto più la norma fa
ricorso ai
cosiddetti «concetti giuridici
indeterminati» (unbestimmte
Rechtsbegriffe),
espressione ripresa anche dalla giurisprudenza. La
norma
definisce cioè i presupposti e i requisiti con
formule linguistiche tali da non
consentire di
accertare in modo univoco il loro verificarsi in
concreto. Come esempi
possono valere alcune
espressioni utilizzate dal legislatore: un interesse
storico-artistico «particolarmente importante»
che, come si è accennato, legittima
l’imposizione
del regime vincolistico (nell’esempio tratto dal
Codice dei beni culturali
sopra citato); oppure
un’intesa tra imprese che falsi il gioco della
concorrenza «in
maniera consistente» il cui
accertamento comporta l’applicazione di una
sanzione (art. 2 legge antitrust n. 287/1990); il
carattere «anomalo»
di un’offerta presentata
nell’ambito di una procedura di gara per
l’aggiudicazione di un
contratto che conduce
117 all’esclusione della medesima.
I  concetti giuridici
indeterminati possono essere 
di due tipi: i
concetti   I concetti empirici e
  normativi
empirici o descrittivi
(empirische Begriffe),
che si
riferiscono al modo di essere di una
situazione di fatto (come, per esempio,
l’«intralcio
alla circolazione», la «pericolosità» di un edificio
lesionato, il
carattere «epidemico» di una malattia,
ecc.); i concetti normativi o di valore
(normative
Begriffe o Wertbegriffe), che
contengono un
elemento di soggettività (come, per esempio, un
film o uno spettacolo
«adatto» al pubblico dei
minori, oppure una persona «in stato di bisogno»,
una condotta
contraria alla «moralità pubblica»). I
primi involgono giudizi a carattere
tecnico-
scientifico e coprono, come si vedrà, l’area delle
valutazioni
tecniche; i secondi involgono giudizi
di valore e coprono, come si vedrà,
l’area della
discrezionalità amministrativa. Con riguardo ai
primi
l’indeterminatezza rende problematica la
sussunzione della fattispecie concreta nel
parametro normativo; con riguardo ai secondi è, a
monte, la stessa interpretazione del
parametro
normativo a presentare margini di opinabilità
elevati essendo legata
inevitabilmente ai valori e
alla sensibilità soggettiva dell’interprete.
 In generale, si ritiene che i
concetti giuridici
indeterminati presentino un «nocciolo» di
certezza, che include i
casi che, secondo ragione e
l’apprezzamento comune, rientrano o meno nel
parametro
normativo, e un «alone» di incertezza,
con riferimento alle situazioni limite nelle
quali la
sussunzione del caso concreto nel parametro
normativo è incerta e opinabile.
Un esempio sul quale si appuntò
l’attenzione di
Walter Jellinek [1929], uno dei maggiori giuristi
giuspubblicisti
tedeschi dell’inizio del XX secolo,
ancora attuale per la sua nitidezza, è quello di un
regolamento di polizia del Baden che vietava agli
zingari di viaggiare «in orde», senza
che la norma
ponesse alcun parametro numerico certo.
L’applicazione di una siffatta
norma si scontra
dunque con la difficoltà di individuare in concreto
i casi che possono
essere in essa sussunti. Se è
certo che un nucleo familiare di tre o quattro
persone non
integra mai la fattispecie (certezza 
negativa), è   Certezza negativa e
  positiva: il
doppio
altrettanto certo che limite
un gruppo di
cinquanta o più
persone la integra sempre (certezza
positiva).
L’opinabilità si accresce man mano che ci si
allontana dai casi più certi. Il
concetto giuridico
indeterminato presenta, quindi, un doppio limite
negativo e positivo.
  a difficoltà sta infatti
nell’individuare con
L
precisione dove tali limiti vadano tracciati e,
dunque, quando si
trapassa dal giudizio certo (di
tipo assertorio) a quello problematico e opinabile
(nell’esempio, un gruppo di una quindicina di
persone).
Sorge così il problema di chi abbia
il «diritto di
ultima  decisione»   Il diritto di ultima
  decisione
(Letztentscheidungsrech
t), e cioè fino a che
punto le
valutazioni compiute
dall’amministrazione in sede di interpretazione e
di applicazione
dei concetti giuridici indeterminati
possano essere sindacate dal giudice. Non è infatti
scontato, come si vedrà, quanto «deferente» deve
essere l’atteggiamento di quest’ultimo
rispetto alla
prima ove si rientri nell’alone di incertezza o del
«dubbio possibile».
 La tecnica normativa dei concetti
giuridici
indeterminati, nei limiti in cui concedono
all’amministrazione spazi di
valutazione e di
118 decisione non sindacabili, comporta una caduta
del
valore della legalità sostanziale. Invero, in un
mondo ideale che realizzi al
massimo grado lo
Stato di
diritto, i poteri amministrativi
dovrebbero essere integralmente
vincolati.
Tuttavia un siffatto ideale è
irraggiungibile perché
presuppone l’onniscienza del legislatore e la sua
capacità di
intervenire in modo tempestivo ad
aggiornare le norme vigenti. In realtà, di fronte alla
complessità dei fenomeni economici e sociali e alla
rapidità dei cambiamenti, il
parlamento, come si è
accennato, è sempre meno in grado di porre un
sistema completo e
preciso di regole che
definiscano per ogni possibile evento futuro
l’assetto degli
interessi. È dunque in qualche
misura costretto a delegare ad apparati pubblici
spazi
più o meno ampi di valutazione di fatti e di
interessi e di composizione dei conflitti
tra questi
ultimi.
Anche  in ambito   Il metodo casistico e le
  clausole
generali
civilistico, del resto, i
codici hanno
abbandonato da tempo il metodo
casistico,
caratterizzato dalla definizione minuziosa delle
fattispecie per adottare
quello delle clausole
generali. Come esempio estremo di metodo
casistico, si pensi, per
esempio, ai 61 articoli sul
regime delle pertinenze e ai 250 articoli in tema di
possesso contenuti nel codice prussiano del 1794.
Un siffatto metodo si è rivelato
comunque
incapace di disciplinare la varietà pressoché
infinita delle fattispecie che si
presentano nella
vita economica e sociale.
 
4. La
norma attributiva del potere prescrive anche
i requisiti formali degli atti (di regola
la forma
scritta) e le modalità di esercizio del potere,
indicando la sequenza degli
atti e degli
adempimenti necessari per l’emanazione del
provvedimento finale che danno
origine, come si è
già accennato, al procedimento amministrativo. La
struttura del
procedimento è individuata,
attraverso sequenze più o meno complesse e
articolate di
atti e di adempimenti, nelle singole
leggi amministrative di settore e nelle normative
attuative, integrate con i principi generali posti
dalla l. n. 241/1990.
Come si vedrà, ai sensi dell’art.
21-octies
l. n.
241/1990, la violazione delle norme sul
procedimento o
sulla forma degli atti non
determina in modo automatico l’annullabilità del
provvedimento.

5. La
norma di conferimento del potere può
disciplinare anche l’elemento temporale
dell’esercizio del potere e ciò sotto più profili.
Può in primo luogo individuare un
termine per
l’avvio dei procedimenti d’ufficio. Così, per
esempio, nei procedimenti
sanzionatori, una volta
accertata una violazione, l’amministrazione entro
90 giorni deve
notificare l’atto di contestazione e il
mancato rispetto del termine determina
l’estinzione dell’obbligazione di pagare la somma
dovuta (art. 14 legge 24 novembre 1981, n. 689).
In secondo luogo deve specificare
il termine
massimo entro il quale, una volta avviato il
procedimento, l’amministrazione
deve emanare il
provvedimento conclusivo. Come si vedrà, l’art. 2 l.
n. 241/1990 pone un sistema di regole completo
volto a stabilire per tutti i tipi di procedimenti il
termine in questione.
In terzo luogo, le leggi amministrative scandiscono
talora anche i
tempi per l’adozione degli atti
endoprocedimentali. Così, per esempio, la l. n.
241/1990 prevede che gli organi consultivi
119 dell’amministrazione debbano rendere i pareri
richiesti
entro un termine di 20 giorni (art. 16) e
che gli organi tecnici debbano esprimere le
valutazioni richieste entro 90 giorni (art. 17).
Anche i tempi della conferenza dei
servizi sono
scanditi con precisione (artt. 14 ss.). Gran parte dei
termini in questione
ha, come si vedrà, natura
ordinatoria: la loro violazione non inficia la
legittimità
degli atti adottati, ma può giustificare
misure, come, per esempio, un intervento
sostitutivo o una sanzione disciplinare. L’art. 17-bis
l. n. 241/1990 prevede un meccanismo di silenzio-
assenso nei
rapporti tra pubbliche amministrazioni
competenti a esprimere concerti, nulla osta o
altri
atti di assenso.

6. Infine la norma attributiva del potere


individua
in termini astratti gli effetti giuridici prodotti
dall’atto amministrativo
emanato all’esito del
procedimento. Così, per esempio, secondo il
decreto di esproprio
«dispone il passaggio del
diritto di proprietà» (art. 23, comma 1, lett. f ),
d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327).
Più in generale, i provvedimenti  in quanto
manifestazione del   Gli effetti costitutivi,
  modificativi ed
potere hanno estintivi
l’attitudine a
produrre effetti costitutivi, cioè possono
costituire, modificare o estinguere
situazioni
giuridiche di cui sono titolari i destinatari dei
provvedimenti. Si tratta
cioè degli stessi tipi di
effetti indicati dall’art. 2908 cod. civ. che disciplina
le sentenze costitutive
correlate ai diritti
potestativi a necessario esercizio giudiziale. Si
tratta anche
degli stessi tipi di effetti che i soggetti
privati possono produrre attraverso un
contratto,
che è appunto uno strumento negoziale volto a
«costituire, regolare o
estinguere […] un rapporto
giuridico patrimoniale» (art. 1321 cod. civ.).
  ono esempi di provvedimenti con
effetti
S
costitutivi in senso stretto le concessioni per l’uso
di un bene demaniale che
attribuiscono in capo a
un soggetto privato un diritto soggettivo a svolgere
una certa
attività (per esempio per l’installazione e
la gestione di uno stabilimento balneare).
Sono esempi di provvedimenti con
effetti
modificativi la sanzione disciplinare di
sospensione dall’iscrizione a un albo
professionale
che impedisce per un tempo determinato lo
svolgimento dell’attività;
oppure il provvedimento
con il quale la Banca d’Italia, dispone la messa in
liquidazione
di una banca in stato di insolvenza.
Un esempio di provvedimento con
effetti estintivi
è il decreto di esproprio.

7. Di
rado invece la norma attributiva del potere
menziona tutti gli interessi privati
qualificabili
come interessi legittimi (Consiglio di Stato, Ad.
Plen. 9 dicembre 2021, n. 22),
rendendo così talora
incerta, come si vedrà, la distinzione con gli
interessi di fatto.
5. Il
potere discrezionale

Nel paragrafo che precede si è introdotta la


distinzione tra potere vincolato e potere
discrezionale.  
La   La discrezionalità del
  giudice e
del
discrezionalità, che legislatore
può essere riferita,
oltre che al potere,
anche all’attività e
al provvedimento
amministrativo, costituisce la nozione forse più
caratteristica del
diritto
amministrativo. Essa si
rinviene in realtà anche in altri ambiti del
diritto
120 pubblico. Si parla infatti comunemente di
discrezionalità del legislatore (rilevante
nell’ambito del giudizio di costituzionalità
delle
leggi in base al parametro della ragionevolezza
delle scelte legislative in
relazione al principio di
uguaglianza) e di discrezionalità del giudice (con
riguardo
soprattutto ai cosiddetti poteri di
giurisdizione volontaria e alla determinazione della
pena da parte del giudice penale).
 
▶ La
discrezionalità. Nel diritto amministrativo
la discrezionalità connota
l’essenza stessa
dell’amministrare, cioè della cura in concreto degli
interessi
pubblici. Tale attività presuppone che
l’apparato titolare del potere abbia la
possibilità di
scegliere la soluzione migliore nel caso concreto.
Un amministratore che,
nella pubblica
amministrazione o anche in un’organizzazione
privata (si pensi
soprattutto a un’impresa), sia
privo di spazi di manovra e di ambiti di decisione
sotto
la propria responsabilità è quasi una
contraddizione in termini. Com’è stato detto in
modo efficace, «gouverner est choisir» [Mendès-
France 1953].
Emerge  qui una   Discrezionalità e
  legalità
tensione quasi
insanabile con il
principio di legalità inteso in senso sostanziale,
che
nella sua accezione più estrema porterebbe ad
attribuire all’amministrazione, come si è
detto,
soltanto poteri vincolati.
  a ciò, oltre ad essere impossibile
per le ragioni
M
illustrate nel paragrafo precedente, sarebbe
inopportuno. Infatti, le situazioni concrete
nelle
quali l’amministrazione deve intervenire hanno un
grado ineliminabile di
contingenza e di
imprevedibilità tale da richiedere nel decisore un
qualche spazio di
adattabilità della misura da
disporre.
Inoltre si finirebbe per negare in radice la stessa
ragion d’essere
della pubblica amministrazione in
quanto appunto «esperta» nella cura dell’interesse
pubblico. Infatti, allorché il potere è integralmente
vincolato, a rigore, anche i
soggetti privati sono in
grado di valutare da soli se una certa attività o un
certo
comportamento sono ad essi consentiti. Si
spiega così perché, come si vedrà, l’art. 19 l. n.
241/1990 abbia introdotto per molte
autorizzazioni
vincolate («il cui rilascio dipenda esclusivamente
dall’accertamento dei
requisiti e presupposti di
legge») un regime di liberalizzazione. La
disposizione
infatti sostituisce il regime del
controllo preventivo operato dall’amministrazione
nell’ambito del procedimento autorizzatorio
avviato su istanza di parte con il regime
della
segnalazione certificata d’inizio attività (SCIA): il
privato valuta da sé se ha titolo per svolgere una
certa
attività, la intraprende sulla base di una
semplice comunicazione all’amministrazione
(corredata di un’autocertificazione), mentre il
controllo da parte di quest’ultima sulla
conformità
dell’attività alla legge può avvenire soltanto a
posteriori.
Infine ,
se il potere è   Poteri vincolati e
  natura
meramente
vincolato, la stessa dichiarativa dell’atto
funzione dell’atto
amministrativo
cambia. Infatti si potrebbe sostenere sulla scorta
della dottrina già citata nel paragrafo precedente
(Capaccioli, Orsi Battaglini) che, se il potere è
vincolato, l’effetto giuridico sorge
automaticamente, cioè senza l’intermediazione di
un atto che accerti la sussumibilità
della fattispecie
concreta nella fattispecie normativa astratta e
determini il prodursi
dell’effetto giuridico. L’atto
avrebbe dunque natura meramente dichiarativa,
cioè
ricognitiva di un effetto già prodottosi, e non
121 costitutiva.
  uesta ricostruzione è accolta nel
settore
Q
tributario nel quale si ritiene che l’obbligazione
tributaria, che la legge
àncora a presupposti
vincolati, sorge a prescindere dall’emanazione di
un atto di
accertamento del tributo da parte
dell’amministrazione finanziaria. Anche con
riferimento alle sanzioni
amministrative
pecuniarie la giurisprudenza della Corte di
cassazione
afferma che l’obbligazione al
pagamento della somma di danaro non nasce per
effetto del
provvedimento che irroga la sanzione
(ordinanza-ingiunzione) e che il giudizio di
opposizione ha per oggetto non già la legittimità
del provvedimento e del procedimento
sanzionatorio, bensì direttamente il rapporto
sanzionatorio e la pretesa creditoria
dell’amministrazione (C. cass., Sez. Un., 28
gennaio 2010, n. 1786).
Se dunque, per le ragioni sin qui
esposte, i veri
poteri sono quelli discrezionali, sorge il problema
teorico e pratico di
come conciliare due esigenze:
attribuire all’amministrazione quel tanto di
discrezionalità che consente la flessibilità
necessaria per gestire i problemi della
collettività;
evitare che la discrezionalità si traduca in arbitrio.
E su questo punto emerge una differenza rispetto
al diritto  privato nel   La differenza tra
  autonomia
negoziale e
quale l’autonomia potere discrezionale
negoziale (art. 1322
cod. civ.) è
espressione della libertà dei privati
di provvedere
alla cura dei propri interessi. Ove si mantengano
nei limiti del lecito,
le scelte dei privati non sono
sottoposte a regole e principi particolari. Basta
cioè
che il soggetto privato sia pienamente capace
(art. 1425 cod. civ.) e che la sua volontà non sia
affetta da
vizi (art. 1427 cod. civ.). Il fine
concretamente perseguito dal
soggetto privato è
relegato alla sfera interna di quest’ultimo ed è
insindacabile. Se la
scelta operata è irragionevole,
arbitraria, o anche contraria ai suoi veri interessi,
ciò non inficia di per sé il negozio posto in essere. I
casi di abuso del diritto
normativamente previsti
sono limitati (per esempio, l’abuso della potestà
genitoriale
disciplinata dall’art. 333 del codice
civile).
  ’amministrazione titolare di un potere invece
L
deve operare la scelta
tra una pluralità di soluzioni,
non solo nel rispetto dei limiti per così dire esterni
posti dalla norma di conferimento del potere e dei
principi generali dell’azione
amministrativa, ma
anche nel rispetto di un vincolo interno
consistente nel dovere di
perseguire il fine
pubblico. Queste regole sono ora enunciate
nell’art. 1 l. n. 241/1990, secondo il quale, come si è
visto,
l’attività
amministrativa «persegue i fini
determinati dalla legge» ed è retta, in
particolare,
dai criteri «di imparzialità, di pubblicità e di
trasparenza».
È dunque superata, ormai da lungo
tempo, la teoria
ottocentesca di origine francese che sottraeva
integralmente l’ambito
della discrezionalità (acte
discretionnaire ou de pure
administration) al controllo
da parte del giudice. Quest’ultimo ha anzi
sviluppato tecniche sofisticate di sindacato (in
particolare, come si vedrà, attraverso
le figure
sintomatiche dell’eccesso di potere) in
applicazione di principi quali la
ragionevolezza, la
proporzionalità, la par condicio, la tutela del
legittimo affidamento.
La discrezionalità amministrativa non trova una
definizione legislativa,
anche se è richiamata
direttamente o indirettamente in alcune
disposizioni generali.
Così, l’art. 11 l. n. 241/1990,
nel disciplinare gli accordi tra
l’amministrazione
122 procedente e i privati, specifica che essi hanno per
oggetto «il contenuto discrezionale del
provvedimento». L’art.
21-octies della medesima
legge pone un limite all’annullabilità del
provvedimento affetto da vizi del procedimento o
della forma allorché esso abbia «natura
vincolata»
(comma 2).
Anche il Codice del processo amministrativo,
come si vedrà, contiene un
riferimento a situazioni
nelle quali «non residuano ulteriori margini di
esercizio della
discrezionalità» (art. 31, comma 3).
L’art. 323, comma 1, del codice
penale, nella
versione modificata nel 2020, disciplina il reato di
abuso d’ufficio
commesso dal pubblico ufficiale o
dall’incaricato di pubblico servizio, prevedendo
che
esso si configuri nel caso di violazione «di
specifiche regole di condotta espressamente
previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e
dalle quali non residuino margini
di
discrezionalità».
Volendo  porre una   La definizione di
  discrezionalità
e la
definizione di ponderazione degli
discrezionalità interessi

amministrativa, essa
consiste, secondo una
delle ricostruzioni più
accreditate [Giannini 1939, 78], nel margine di
scelta che la
norma rimette all’amministrazione
affinché essa possa individuare, tra quelle
consentite, la soluzione migliore per curare nel
caso concreto l’interesse pubblico.
  a scelta avviene all’esito di una
valutazione
L
comparativa (ponderazione) degli interessi
pubblici e privati rilevanti
nella fattispecie,
acquisiti nel corso dell’istruttoria
procedimentale.
Tra di essi vi è anzitutto il cosiddetto interesse
pubblico primario
(corrispondente al fine
pubblico) individuato dalla norma di conferimento
del potere e
affidato alla cura dell’amministrazione
titolare del potere. Compito di quest’ultima è
massimizzare la realizzazione dell’interesse
primario.
Tuttavia, poiché gli interessi non
vivono isolati,
l’interesse primario deve essere messo a confronto
e valutato alla luce
dei cosiddetti interessi
secondari rilevanti.
In alcuni casi essi sono
individuati direttamente
dalle norme che disciplinano il particolare tipo di
procedimento, come, per esempio, quando la legge
prescrive che debba essere acquisito il
parere di
un’amministrazione diversa da quella procedente.
Altri emergono nel corso
dell’istruttoria.
Tra gli interessi secondari si
annoverano non
soltanto gli altri interessi pubblici incisi dal
provvedimento, ma anche
gli interessi dei privati. I
soggetti privati possono partecipare al
procedimento
proprio allo scopo di rappresentare
il proprio punto di vista con la presentazione di
memorie e di documenti che l’amministrazione ha
l’obbligo di valutare (art. 10 l. n. 241/1990).
Così, per esempio, per elaborare e
approvare il
progetto  di   Esempi
 
un’autostrada o di
una tratta
ferroviaria, l’amministrazione deve
tener conto, oltre che dell’interesse primario alla
viabilità, anche di quello relativo alla tutela
dell’ambiente (attraverso la cosiddetta
valutazione
d’impatto ambientale), agli oneri a carico della
finanza pubblica, alla
salvaguardia di attività
industriali già insediate, agli interessi delle
comunità locali
che dalla realizzazione dell’opera
pubblica ritraggono soltanto svantaggi (da
attenuare
con misure compensative), ecc. Nel
rilasciare una concessione demaniale
per
l’installazione di uno stabilimento balneare o di un
porto nautico,
l’amministrazione dovrà tener
conto dell’interesse allo sviluppo del turismo, ma
123 anche
di quello connesso con altre attività come,
per esempio, la
pesca e altre attività ricreative. Nel
disporre la chiusura o limitazioni al traffico in
un
centro storico, il comune deve contemperare
l’interesse alla viabilità con quello dei
residenti, dei
titolari di attività commerciali ivi presenti, della
tutela
dall’inquinamento, ecc. Nell’autorizzare un
corteo o altra manifestazione il prefetto
deve tener
conto, oltre che del diritto di rango costituzionale
di chi promuove
l’iniziativa, di interessi come
l’ordine pubblico, la libertà di
circolazione di chi
non partecipa (i residenti o i lavoratori), la tutela
di beni
culturali contro il rischio di atti vandalici,
ecc.
I  n definitiva, la scelta operata
dall’amministrazione deve contemperare
l’esigenza di massimizzare l’interesse pubblico
primario con quella di causare il minor sacrificio
possibile degli interessi secondari
incisi dal
provvedimento. L’amministrazione deve dar conto
della ponderazione degli
interessi nella
motivazione del provvedimento, e ciò al fine di
garantire la trasparenza
nel processo decisionale.
La discrezionalità    La discrezionalità
  sull’an, sul quid, sul
amministrativa incide quomodo, sul quando
su quattro elementi
logicamente
distinti:
 
1. sull’an, cioè sul se
esercitare il potere in una
determinata situazione concreta ed emanare il
provvedimento. Si pensi, per esempio, alla
decisione se ordinare lo scioglimento
di un
assembramento di persone che mette a
rischio l’ordine pubblico, oppure se
annullare
d’ufficio un provvedimento illegittimo ai sensi
dell’art.
21-nonies
l. n. 241/1990;
2. sul quid, cioè sul
contenuto del
provvedimento. Si pensi, per esempio, alle
condizioni apposte a
un’autorizzazione
ambientale volte a mitigare gli effetti negativi
delle emissioni, imponendo prescrizioni
specifiche; oppure alle indicazioni
relative ai
materiali e ai colori utilizzati per la
ristrutturazione di un bene
di interesse
storico-artistico; oppure, nel caso di
un’ordinanza contingibile e
urgente, alla
misura concreta più adatta per fronteggiare la
situazione;
3. sul quomodo, cioè
sulle modalità da seguire per
l’adozione del provvedimento al di là delle
sequenze di atti imposti dalla legge che
disciplina lo specifico provvedimento.
Si
pensi, per esempio, alla scelta di acquisire un
parere facoltativo, oppure di
procedere a una
determinata indagine istruttoria, pur sempre
nel rispetto del
principio del divieto di
aggravare il procedimento (art. 1, comma 2, l.
n. 241/1990);
4. sul quando, cioè sul
momento più opportuno
per esercitare un potere d’ufficio avviando il
procedimento e, una volta aperto
quest’ultimo, per emanare il provvedimento,
pur
tenendo conto dei termini massimi per la
conclusione del procedimento (stabiliti
in
base all’art. 2 l. n. 241/1990).

In base alla norma di conferimento,


un potere può
essere discrezionale o vincolato in relazione a uno
o più di questi
elementi.
Occorre  ancora   Discrezionalità in
  astratto e
vincolatezza
porre la distinzione in concreto
tra discrezionalità in
astratto e
vincolatezza in
concreto. All’esito dell’attività
istruttoria operata dall’amministrazione per
accertare
i fatti e acquisire gli interessi e gli altri
elementi di giudizio rilevanti e all’esito
della
ponderazione di interessi può darsi infatti che
residui un’unica scelta legittima
tra quelle
consentite in astratto dalla legge. Nel corso del
procedimento, ma anche
entro certi limiti del
processo amministrativo, la discrezionalità può
124 cioè ridursi via
via fino ad annullarsi del tutto
(secondo la dottrina tedesca,
Ermessensreduzierung
auf Null, espressione ripresa talora dalla
giurisprudenza: TAR del Trentino-Alto Adige, Sez.
Trento, 16 dicembre 2009, n. 305,
Cons. St., Sez.
VI, 25 febbraio 2019, n. 1321, confermata da C.
cass., Sez. Un., 7
settembre 2020, n. 18592 in
materia di giudizi di abilitazione di professori
universitari).
I  n questo caso si parla di vincolatezza in concreto,
da contrapporre
alla vincolatezza in astratto che si
verifica, come si è visto, allorché la norma già
predefinisce in modo puntuale tutti gli elementi
che caratterizzano il potere. Questa
distinzione è
posta nel Codice del processo amministrativo.
L’art. 31, comma 3, relativo al giudizio sul silenzio
della
pubblica amministrazione precisa infatti che
il giudice può accertare la fondatezza
della pretesa
dedotta in giudizio (cioè la spettanza o meno di un
atto amministrativo
richiesto dal privato) «solo
quando si tratti di attività vincolata» (vincolatezza
in
astratto) oppure «quando risulta che non
residuano ulteriori margini di esercizio della
discrezionalità» (vincolatezza in concreto,
conseguente agli accertamenti compiuti
nell’ambito dell’istruttoria procedimentale e nel
corso del giudizio).
Una  riduzione   L’autovincolo alla
  discrezionalità
dell’ambito della
discrezionalità può
avvenire anche attraverso il
cosiddetto
autovincolo. Di frequente tra la norma di
conferimento del potere che concede
all’amministrazione spazi di discrezionalità e il
provvedimento emanato si interpone la
predeterminazione da parte della stessa
amministrazione di criteri e parametri che
vincolano l’esercizio della discrezionalità. L’art. 12
l. n. 241/1990 prevede poi che la concessione di
ogni
forma di contributo o ausilio finanziario è
subordinata «alla predeterminazione da parte
delle
amministrazioni procedenti […] dei criteri e delle
modalità cui le amministrazioni
stesse devono
attenersi». I criteri devono essere resi pubblici e,
come prevede da
ultimo la normativa
anticorruzione, deve essere pubblicato anche
l’elenco dei
destinatari di contributi di importo
superiore a mille euro. La pubblicazione è
addirittura condizione di efficacia dell’atto
amministrativo (art. 27 d.lgs. n. 33/2013). Anche
nelle procedure di tipo
concorsuale, la
commissione di valutazione è tenuta a specificare,
prima di esprimere il
proprio giudizio e di
assegnare i punteggi, i parametri già indicati in
termini generali
nella normativa di riferimento e
nel bando.
 Ciò accresce l’oggettività e la
trasparenza delle
decisioni, perché i criteri così stabiliti vincolano
l’attività
dell’amministrazione e la violazione dei
medesimi è sindacabile da parte del giudice
amministrativo in modo non dissimile dalla
violazione di norme giuridiche in senso
proprio.
L’autovincolo
alla discrezionalità costituisce in
definitiva un tentativo di
recuperare in parte, sia
pure in via sublegislativa, le esigenze sottese alla
legalità
sostanziale sacrificate attraverso la tecnica
del conferimento di poteri discrezionali.
In dottrina si è discusso se
l’esercizio della
 discrezionalità
  L’esercizio della
amministrativa   discrezionalità
come
consista in
un’attività attività volitiva
meramente
intellettiva e di giudizio (riconducibile
sostanzialmente a
un’attività di interpretazione,
cioè di concretizzazione della norma contenente i
concetti giuridici
indeterminati) oppure, al
contrario, in un’attività volitiva e creativa.
In
125 realtà, rispetto all’attività di pura interpretazione,
nella
discrezionalità sembra riscontrabile un
elemento aggiuntivo costituito
dall’individuazione
e imposizione della regola per il caso singolo che
rappresenta un
quid novi atto a integrare in qualche
modo, sia pur con effetti
limitati al singolo
rapporto giuridico amministrativo, la norma
attributiva del potere.
 
▶ Il
merito
amministrativo. Individuata la
nozione di discrezionalità
amministrativa, occorre
mettere a fuoco quella speculare di merito
amministrativo. Il
merito ha infatti una
dimensione essenzialmente negativa e residuale:
esso si riferisce
all’eventuale ambito di valutazione
e di scelta spettante all’amministrazione che si
pone al di là dei limiti coperti dall’area della
legalità (cioè dei vincoli giuridici
posti dalle norme
e dai principi dell’azione amministrativa). Se il
potere è
integralmente vincolato (in astratto o,
come si è chiarito, in concreto), lo spazio del
merito risulta nullo. Rientrano di regola nel
merito, per esempio, la valutazione
espressa dalla
commissione su un candidato che partecipa a un
concorso pubblico, la
decisione di chiudere al
traffico veicolare una strada in occasione di una
corsa
ciclistica, la scelta se consentire al titolare di
un bar l’utilizzo di spazi in una
piazza per
posizionare i tavolini e le sedie.
Il merito  connota, in   L’insindacabilità del
  merito
definitiva, l’attività
dell’amministrazione
da considerare essenzialmente
libera. La scelta tra
una pluralità di soluzioni tutte legittime
(ragionevoli,
proporzionate, coerenti con il fine
pubblico) può essere apprezzata cioè solo in
termini
di opportunità o inopportunità (o di altri
parametri e giudizi di valore, comunque non
giuridici). Essa è insindacabile nell’ambito del
giudizio di legittimità nel senso che
il giudice non
può sostituire le proprie valutazioni a quelle
operate
dall’amministrazione. In relazione al
merito la giurisprudenza riconosce in definitiva
una «riserva di amministrazione» (Cons. St., Sez.
IV, 9 aprile 1999, n. 601).
 La distinzione tra legittimità e
merito  rileva in più
contesti.   Gli ambiti di rilevanza
  della
nozione di merito
I  l primo è quello dei controlli
amministrativi.
Questi ultimi si articolano, come si vedrà, in
controlli di legittimità
e di merito, i primi
finalizzati eventualmente ad annullare gli atti
amministrativi
illegittimi, i secondi a modificare o
sostituire l’atto oggetto del controllo.
In secondo luogo, il Codice del processo
amministrativo distingue la
giurisdizione di
legittimità, che è quella di cui è investito in via
ordinaria il giudice
amministrativo, dalla
giurisdizione «con cognizione estesa al merito»,
nell’esercizio
della quale «il giudice
amministrativo può sostituirsi
all’amministrazione» (art. 7, comma 6). Il giudice
amministrativo può cioè
rivalutare le scelte
discrezionali dell’amministrazione e sostituire la
propria
valutazione. Può, per esempio, modificare
l’ammontare di una sanzione pecuniaria
irrogata.
Proprio perché la giurisdizione di merito rompe il
diaframma tra
giurisdizione e amministrazione (il
giudice si fa, per così dire, amministratore), in
deroga al principio della separazione dei poteri,
essa è limitata a pochi casi tassativi
(indicati
nell’art. 134 Codice del processo amministrativo).
In terzo luogo, i confini tra legittimità e merito
rilevano anche in
materia di responsabilità
amministrativa dei funzionari pubblici in
relazione al cosiddetto danno
erariale provocato
126 all’amministrazione che rientra, come si
vedrà,
nella giurisdizione della Corte dei conti. La legge
14 gennaio 1994, n. 20 stabilisce che la
responsabilità
del funzionario possa sorgere per
atti o omissioni commessi con dolo o colpa grave,
ma
prevede l’«insindacabilità nel merito delle
scelte discrezionali» (art. 1, comma 1) da parte
della Corte dei conti.
▶ Le valutazioni
tecniche. La discrezionalità
amministrativa va distinta
dalle valutazioni
tecniche. Queste ultime si riferiscono al caso in
cui la norma
attributiva del potere, nell’utilizzare
concetti giuridici indeterminati di tipo
empirico,
rinvia a nozioni tecniche o scientifiche che in sede
di applicazione alla
fattispecie concreta
presentano margini di opinabilità (o che
consentono giudizi
espressi solo in termini
ipotetici o probabilistici). Spesso le valutazioni
tecniche
sono espresse da organi appositi chiamati
a rendere il loro giudizio nell’ambito del
procedimento. L’art. 17 l. n. 241/1990 regola le
modalità attraverso le quali
il responsabile del
procedimento procede ad acquisirle e i rimedi in
caso di ritardi.
Tra  le
valutazioni   Esempi
 
tecniche rientrano, in
aggiunta agli esempi fatti a proposito dei concetti
giuridici indeterminati, i giudizi medici aventi per
oggetto l’idoneità ad essere
arruolati nelle forze
militari o di polizia o la riconducibilità di una
determinata
malattia alla causa di servizio; quelli
formulati dalle commissioni di concorso o
istituite
per valutare le offerte presentate nell’ambito delle
procedure per
l’aggiudicazione di contratti
pubblici; le valutazioni ingegneristiche
volte ad
appurare la statica di edifici lesionati in occasione
di un terremoto e quelle
veterinarie in ordine al
carattere epidemico di una malattia che ha colpito
dei capi di
bestiame.
 Nell’epoca attuale (nella
cosiddetta società del
rischio) questo genere di giudizi è sempre più
frequente. Si
pensi soltanto ai dibattiti scientifici
sui rischi derivanti dalla diffusione di
organismi
geneticamente modificati (OGM), dall’esposizione
a onde elettromagnetiche
(cosiddetto
inquinamento elettromagnetico), o da ultimo
sull’evoluzione della pandemia
da Covid-19 e sulle
conseguenti misure di contrasto.
Mentre la discrezionalità
amministrativa attiene al
piano della valutazione e comparazione degli
interessi, le
valutazioni tecniche attengono al
piano dell’accertamento e della qualificazione di
fatti alla luce di criteri tecnico-scientifici.
A proposito delle valutazioni
tecniche  è ancora
oggi in uso   La cosiddetta
  discrezionalità
tecnica
l’espressione
«discrezionalità
tecnica», che è in realtà impropria perché nella
discrezionalità
tecnica manca l’elemento volitivo
che connota invece, come si è visto, la
discrezionalità amministrativa. Il Codice del
processo amministrativo ricorre più
correttamente
alla formula «valutazioni che richiedono
particolari competenze tecniche»
(art. 63, comma
4, in tema di istruzione probatoria).
  ’uso 
del medesimo
L   Il sindacato del giudice
  amministrativo nelle
sostantivo valutazioni tecniche
(discrezionalità) si
giustifica
probabilmente per il fatto che,
soprattutto in
passato, il problema dei limiti del sindacato del
giudice amministrativo
sulle valutazioni tecniche
era posto in termini analoghi a quello dei limiti del
sindacato sulla discrezionalità amministrativa.
127 Infatti, in entrambi i casi si riteneva
precluso, a
differenza di quanto accade per i fatti semplici,
un
sindacato pieno che comporti una valutazione
autonoma del giudice che si sovrapponga
(e
sostituisca) a quella dell’amministrazione. La
valutazione del giudice è
necessariamente
altrettanto opinabile rispetto a quella
dell’amministrazione e dunque
non ci sarebbe
ragione per preferirla. Pertanto, il giudice può
soltanto ripercorrere
dall’esterno l’attività
valutativa (sindacato estrinseco non invasivo del
merito) per
verificare se essa è affetta da vizi
logici, incongruenze o da altre carenze utilizzando
le tecniche di rilevamento dell’eccesso di potere.
I  n epoca più recente il giudice
amministrativo ha
intrapreso, pur sempre con una certa prudenza,
un’opera volta a
rendere più intenso il proprio
sindacato sulle valutazioni tecniche (a partire da
Cons. St., Sez. IV, 9 aprile 1999, n. 601, già citata).
Esso
infatti non è più soltanto estrinseco e si
spinge invece a verificare l’attendibilità e
la
correttezza del criterio tecnico utilizzato. In caso
di valutazioni tecniche che
presentano un
oggettivo margine di opinabilità, il giudice può
soltanto accertare che il
provvedimento non abbia
esorbitato da esso (C. cass., Sez. Un., 20 gennaio
2014, n. 1013
e 7 maggio 2019, n. 11929). Nel caso
dei provvedimenti dell’Autorità garante della
concorrenza e del mercato, ciò si deduce in
negativo da una disposizione legislativa
secondo la
quale il sindacato del giudice amministrativo si
estende «anche ai profili
tecnici che non
presentano un oggettivo margine di opinabilità»
(art. 7 d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 3). Peraltro,
l’«attendibilità » non   L’attendibilità della
  valutazione
coincide
necessariamente con
la
«condivisibilità», nel senso che il giudice
potrebbe ben ritenere una valutazione
tecnica
come attendibile, cioè formulata sulla base di
argomentazioni logiche e tecniche
ben strutturate,
e dunque legittima, pur non condividendola
personalmente.
 Nel sindacare le valutazioni tecniche il giudice
amministrativo è
agevolato dal fatto di poter
ricorrere allo strumento della consulenza tecnica
d’ufficio (art. 67 Codice del processo
amministrativo), nominando un
esperto il quale, in
contraddittorio con i consulenti delle parti,
fornisce una risposta
a quesiti su questioni
tecniche posti dal giudice. Secondo un filone
giurisprudenziale
recente, il giudice non deve
limitarsi a sindacare l’attendibilità in sé della
valutazione operata dall’amministrazione, ma può
apprezzare la maggiore o minore
attendibilità di
tale valutazione rispetto a quella operata dalle
parti del giudizio e
dal consulente (Cons. St., Sez.
VI, 15 luglio 2019, n. 4990).
Nell’ordinamento    L’ordinamento tedesco
 
tedesco il giudice
amministrativo ritiene ormai da tempo
pienamente sindacabile l’applicazione nei casi
concreti dei concetti giuridici
indeterminati di tipo
empirico. Vi sono tuttavia alcune eccezioni come i
giudizi su
prove d’esame, le valutazioni demandate
dalla legge a collegi di esperti indipendenti o
a
portatori di interessi, correlate ad attività di
pianificazione o con impatto politico
rilevante,
ecc. Così, per esempio, nel caso di giudizio
espresso da una commissione di
esperti, all’esito di
un esame organolettico, circa la presenza o meno
di difetti
relativi a odore, sapore, colore e ad altri
elementi qualitativi di un vino ai fini
dell’attribuzione dell’etichetta di vino di qualità, il
giudice amministrativo ha
ritenuto di non poter
128 operare un sindacato pieno (sentenza del
Bundesverwaltungsgericht del 16 maggio 2007 – 3C
8.06). Ciò
perché la legge attribuisce alla
commissione di tecnici indipendente
dall’amministrazione, il cui carattere collegiale
garantisce una minore soggettività del
giudizio e la
cui composizione assicura le necessarie
professionalità ed esperienza, uno
spazio di
valutazione che prima l’amministrazione e in
seconda battuta il giudice devono
rispettare. La
valutazione tecnica può essere dunque sindacata
solo se non è stata
effettuata in base a presupposti,
metodi e procedimenti obiettivi, se non abbia
accertato in modo pertinente e completo tutti i
fatti rilevanti, o se siano stati
commessi altri errori
(per esempio la scelta di un campione con un
difetto atipico, come
il retrogusto di tappo).
  egli  Stati Uniti la
N   La deference
doctrine
  negli Stati Uniti
giurisprudenza
mantiene un
atteggiamento di maggior deferenza
(deference
doctrine) nei confronti delle valutazioni tecniche
(al pari delle valutazioni discrezionali)
dell’amministrazione limitandosi a un
sindacato di
ragionevolezza.
  uesto principio è stato posto
dalla Corte
Q
Suprema in un caso del 1984 (caso Chevron) nel
quale la
Environmental Protection Agency era
chiamata a interpretare il
concetto di «fonte fissa»
di inquinamento, definita in modo ambiguo dalla
normativa
federale sui limiti di emissioni
nell’atmosfera (Clean Air Act). La legge non chiariva
infatti
se il concetto di «fonte fissa» dovesse essere
riferito a uno stabilimento industriale
nel suo
complesso, come ritenuto dall’agenzia, oppure a
ciascuno dei dispositivi di
emissione in atmosfera
(ciminiere) in esso presenti, come preferito da
un’organizzazione
ambientalista perché ciò
avrebbe comportato una riduzione dei livelli di
inquinamento.
La scelta tra le due interpretazioni,
entrambe compatibili con la norma e ragionevoli,
operata dall’agenzia federale è stata ritenuta non
sindacabile dal giudice, in base al
principio che le
pubbliche amministrazioni, rispetto ai giudici,
hanno una maggior
esperienza tecnica e hanno un
collegamento più stretto con il circuito
politico-
amministrativo.
Valutazioni  tecniche ed esercizio della
discrezionalità   La discrezionalità
  mista
amministrativa,
proprio perché
riguardano momenti logici diversi (la prima
attiene al momento
dell’accertamento del fatto, la
seconda alla valutazione degli interessi), possono
coesistere in una stessa fattispecie. Al riguardo si
usa talora l’espressione
«discrezionalità mista».
Come esempi si possono ricordare l’accertamento
del carattere
epidemico di una malattia e la
successiva scelta dei rimedi alternativi per
contenere i
rischi di propagazione; oppure la
fattibilità tecnica di un progetto di opera pubblica
proposto di propria iniziativa da un soggetto
privato (il cosiddetto promotore) da
realizzare
attraverso la tecnica della finanza di progetto e la
valutazione di conformità
dell’opera all’interesse
pubblico.
 Le valutazioni   Gli accertamenti
  tecnici
 tecniche vanno
distinte, oltre che
dalla discrezionalità
amministrativa, anche dai
meri accertamenti tecnici. Questi ultimi
riguardano fatti la
cui esistenza o inesistenza è
verificabile in modo univoco, sia pure con
l’impiego di
strumenti tecnici. Non rileva a questo
riguardo che si tratti di strumenti di uso comune
(come un termometro o il misuratore del grado
alcolico di una bevanda) o più sofisticati
(come gli
strumenti per la rilevazione della presenza e della
129 quantità di sostanze
inquinanti in un terreno o per
accertare l’estensione e
l’intensità di un campo
elettromagnetico). A differenza delle valutazioni
tecniche, i
meri accertamenti tecnici possono
essere sindacati in modo pieno dal giudice
amministrativo nell’ambito del giudizio di
legittimità.
 
6. L’interesse legittimo

Esaurita l’analisi del potere


amministrativo,
occorre esaminare il termine passivo del rapporto
giuridico
amministrativo, cioè l’interesse
legittimo.
Questa situazione giuridica
soggettiva costituisce
una delle principali specificità del nostro sistema
giuridico,
non essendo emersa in nessun altro
ordinamento. Essa è stata sempre fonte di
discussioni
in sede dottrinale e di incertezze in
sede applicativa.
Al pari del diritto soggettivo, l’interesse legittimo
trova un
riconoscimento costituzionale nelle
disposizioni dedicate alla tutela giurisdizionale
(artt. 24, 103 e 113 Cost.) ed è dunque una
situazione giuridica soggettiva
dalla quale,
nonostante tutte le critiche, non si può
prescindere.
La distinzione tra le due
categorie  di situazioni
giuridiche ha assunto   Gli ambiti di rilevanza
  della
distinzione tra
tradizionalmente diritto soggettivo e
rilievo sotto due interesse legittimo

profili: è assurta a
criterio di riparto della
giurisdizione tra giudice
ordinario e giudice amministrativo, il primo
investito della
giurisdizione sui diritti soggettivi, il
secondo della giurisdizione sugli interessi
legittimi; è servita a delimitare l’ambito della
responsabilità civile della pubblica
amministrazione.
  uesto secondo profilo è stato
superato dalla
Q
sentenza delle Sezioni Unite della Corte di
cassazione
del 22 luglio 1999, n. 500 che, come si
vedrà, ha aperto la strada alla risarcibilità
del
danno da lesione di interesse legittimo.
Il primo profilo mantiene invece la sua attualità.
La Corte
costituzionale, infatti, in una sentenza
che può essere considerata come la pronuncia
più
importante in materia di assetto della giustizia
amministrativa (sentenza 6 luglio 2004, n. 204) ha
ribadito che la giurisdizione
amministrativa ha per
oggetto gli interessi legittimi. Ad essa può essere
devoluta in
casi tassativi anche la cognizione di
diritti soggettivi (come si vedrà, la cosiddetta
giurisdizione
esclusiva), ma solo quando questi
ultimi sono in qualche modo connessi e
intrecciati
a un rapporto nel quale l’amministrazione si
presenta essenzialmente in
veste di autorità.
Per inquadrare l’interesse
legittimo conviene porsi
in una prospettiva storica.
In origine la legge 20 marzo 1865,
n. 2248 , All. E di
abolizione del   La nascita della
  nozione di
interesse
contenzioso legittimo
amministrativo,
richiamata nel
capitolo I, attribuì al giudice civile la giurisdizione
in
tutte le controversie tra il privato e la pubblica
amministrazione nelle quali si
facesse questione di
un «diritto civile o politico» (art. 2), ossia di un
diritto
soggettivo, ancorché la controversia fosse
correlata all’emanazione di un provvedimento.
 Nella prassi interpretativa il
giudice civile, come si
è accennato, dimostrò timidezza nel sindacare gli
130 atti della
pubblica amministrazione e nel
qualificare la posizione del
privato in termini di
diritto soggettivo. Si creò così un vuoto di tutela di
fronte a
numerosi casi di illegittimità e abusi da
parte dell’amministrazione.
Da qui l’origine della legge del 1889  istitutiva della
IV Sezione del   Il fondamento
  legislativo nella
legge
Consiglio di Stato, del 1889 istitutiva della
che mirava a IV Sezione del
Consiglio
di Stato
integrare la legge del
1865
introducendo un nuovo rimedio per tutelare
tutte le situazioni non qualificabili come
diritto
soggettivo. La IV Sezione venne dunque investita
del potere di decidere
sui ricorsi contro gli atti o
provvedimenti illegittimi aventi per oggetto «un
interesse
d’individui o di enti morali giuridici»
(art. 26 Testo unico delle leggi del Consiglio di
Stato del
1924).
  a giurisprudenza e la dottrina si
dovettero
L
confrontare subito con il problema di riempire di
contenuto la formula
generica di «interesse», posta
dal legislatore come requisito per poter proporre il
ricorso
alla IV Sezione e ottenere l’annullamento
del provvedimento. In buona sostanza, con una
singolare inversione logica, la previsione di una
nuova forma di tutela processuale
precedette
storicamente l’individuazione di una situazione
giuridica soggettiva in
relazione alla quale la tutela
poteva essere accordata.
Dell’interesse legittimo sono state
offerte nel
tempo varie ricostruzioni, ormai superate, che
meritano di essere ricordate
prima di esaminare
quelle più recenti.

▶ Il
diritto fatto valere come interesse.
Inizialmente vi fu chi ritenne che
la situazione
giuridica soggettiva devoluta alla cognizione della
IV Sezione fosse un
normale diritto «fatto valere
come interesse» [Scialoja 1891, 59 ss.]. Si propose
cioè
come criterio per incardinare la competenza
della IV Sezione quello del
petitum, ovvero della
richiesta formulata dal ricorrente di
annullamento
del provvedimento emanato piuttosto che la
richiesta del mero risarcimento
del danno,
riservata al giudice ordinario. Era così rimessa alla
libera scelta del
privato, in funzione del tipo di
tutela che intendeva ottenere, la via giurisdizionale
da perseguire, senza necessità di costruire una
nuova situazione giuridica soggettiva
distinta dal
diritto soggettivo.
Questa concezione fu subito
disattesa dalla
giurisprudenza, che invece ancorò il riparto di
giurisdizione al
criterio più oggettivo della causa
petendi, cioè della situazione
giuridica soggettiva
fatta valere in giudizio.


L’interesse legittimo come interesse di
mero fatto.
Per lungo tempo un
filone dottrinale negò
all’interesse legittimo la consistenza di vera e
propria
situazione giuridica avente natura
sostanziale, ascrivendo ad essa soltanto un
significato processuale [Guicciardi 1937, 57].
L’interesse legittimo fu cioè considerato
come un
interesse di mero fatto, collegato alla norma
d’azione volta a tutelare in modo
esclusivo
l’interesse pubblico. L’interesse di mero fatto fa
però sorgere in capo al
privato un interesse
processuale ad attivare la tutela innanzi al giudice
amministrativo
(l’interesse a
ricorrere) nel
momento in cui l’amministrazione emana un atto
amministrativo
illegittimo.

▶ Il
diritto alla legittimità degli atti. Secondo
un’altra visione risalente,
l’interesse legittimo
131 doveva essere qualificato come un «diritto alla
legittimità degli atti della funzione governativa»
[Mortara
1899, 50, 301-307, 343], cioè un diritto
soggettivo avente per oggetto esclusivamente la
pretesa formale a che l’azione amministrativa sia
conforme alle norme che regolano il
potere
esercitato. In realtà, la legittimità dell’azione
amministrativa non sembra
costituire di per sé un
«bene della vita» suscettibile di essere oggetto di
una
situazione giuridica di diritto soggettivo.
▶ Il
diritto affievolito. Un’altra
interpretazione, che trova ancor oggi
riscontro
talora nella giurisprudenza, consiste nella
cosiddetta teoria della
«degradazione» o
dell’«affievolimento» del diritto soggettivo
[Ranelletti 1892]. Essa
considera l’interesse
legittimo come un «diritto affievolito», cioè come
la risultante
dell’atto di esercizio del potere
amministrativo che incide su un diritto soggettivo.
Il
provvedimento autoritativo (o imperativo),
ancorché illegittimo, è idoneo a intaccare
(appunto
a «degradare») il diritto soggettivo trasformandolo
in interesse legittimo.
Tipico esempio di diritto
affievolito è il diritto di proprietà inciso dal potere
espropriativo.
La categoria dei diritti  soggettivi affievoliti fa
coppia con quella   I diritti in attesa di
  espansione
simmetrica dei
cosiddetti diritti
soggettivi «in attesa di espansione». Si tratta di
diritti, già
attribuiti in astratto alla titolarità di un
soggetto privato, il cui esercizio è però
condizionato all’esercizio di un potere
dell’amministrazione, nei confronti del quale il
titolare del diritto vanta un interesse legittimo.
Tipico esempio è quello
dell’autorizzazione ad
aprire un esercizio commerciale.
  li effetti pratici di questo tipo
di impostazione
G
furono quelli di restringere l’area del diritto
soggettivo, ritenuto
sempre cedevole di fronte al
potere amministrativo, relegando così a un ruolo
marginale
il giudice ordinario. Quest’ultimo
divenne quasi esclusivamente il giudice dei meri
comportamenti della pubblica amministrazione
non collegati all’esercizio del potere
amministrativo (inadempimenti contrattuali,
illeciti extracontrattuali).

L’interesse occasionalmente protetto.
Altre ricostruzioni tradizionali
dell’interesse
legittimo sottolineano il fatto che l’interesse
privato è posto in una
posizione subalterna e
ancillare rispetto all’interesse pubblico. Solo in
presenza di un
diritto soggettivo, infatti,
l’interesse del privato correlato a un bene della vita
è
oggetto di una tutela diretta e immediata da
parte dell’ordinamento (cioè, come si è
visto, da
parte di una norma di relazione).
Questa impostazione è sottesa a
un’altra fortunata
definizione dell’interesse legittimo come interesse
occasionalmente
(indirettamente) protetto da una
norma (la norma d’azione) volta a tutelare in
modo
diretto e immediato l’interesse pubblico
[Sandulli 1980, 107 ss.]. Le norme che
disciplinano
il potere hanno come scopo primario la tutela
dell’interesse pubblico e il
soggetto privato può
trovare in esse una qualche protezione solo in via
riflessa e
indiretta.
L’interesse legittimo si distingue
dunque dal
diritto soggettivo proprio per il fatto che
l’acquisizione o la conservazione
di un
132 determinato bene della vita non è assicurata in
modo
immediato dalla norma, che tutela appunto
in modo diretto solo l’interesse pubblico,
bensì
passa attraverso l’esercizio del potere
amministrativo, senza che peraltro
sussista alcuna
garanzia in ordine alla sua acquisizione o
conservazione. La presenza di
un ambito di
discrezionalità esclude infatti che il soggetto
titolare sia in grado di
prevedere ex ante l’assetto
finale degli interessi posto dal
provvedimento
emanato. Quest’ultimo potrebbe, del tutto
legittimamente, negare o
sacrificare l’utilità (bene
della vita) collegata all’interesse legittimo.
Così ,
per esempio, chi ha partecipato a un
concorso pubblico   Il bene della vita come
svoltosi in modo   mero
«substrato
economico»
regolare e tuttavia
non si è collocato
nella graduatoria tra i vincitori vede comunque
soddisfatto il suo
interesse legittimo. Il bene della
vita (o l’interesse materiale), cioè nell’esempio
l’assunzione nei ruoli dell’amministrazione, è
dunque esterno all’interesse legittimo e
rileva
tutt’al più, come si è osservato [Travi 2010, 165],
alla stregua di un mero
presupposto di fatto o
come «substrato economico».
  ’interesse legittimo fonda,
dunque, in capo al suo
L
titolare soltanto la pretesa a che l’amministrazione
eserciti il
potere in modo legittimo, cioè in
conformità con la norma d’azione. Il titolare
dell’interesse legittimo può cercare di influenzare
l’esercizio del potere in senso a sé
più favorevole
attraverso la partecipazione al procedimento,
fornendo elementi che
possono orientare in tal
senso la valutazione discrezionale.
La  norma attributiva   La tutela strumentale
  dell’interesse legittimo
del potere offre in
definitiva al titolare
dell’interesse legittimo
una tutela strumentale,
mediata attraverso l’esercizio del potere, anziché
finale, come
accade invece per il diritto soggettivo,
nel quale la norma attribuisce al suo titolare
in
modo diretto un certo bene della vita o utilità.
  ve il potere sia stato esercitato
in modo non
O
conforme alla norma attributiva del potere, il
titolare dell’interesse
legittimo può proporre
ricorso al giudice amministrativo al fine di
ottenere
l’annullamento del provvedimento lesivo.
▶ Le
ricostruzioni più recenti dell’interesse
legittimo.
Le definizioni
tradizionali dell’interesse legittimo
sono state variamente criticate dalla dottrina.
Quest’ultima ha messo in luce la loro
connotazione ideologica, collegata a una visione
autoritaria dei rapporti tra Stato e cittadino e
fondata sul «postulato di generale
sovraordinazione della pubblica amministrazione»
[Orsi Battaglini 2005, 163]. Lo Stato,
preposto alla
cura dell’interesse pubblico, si colloca in una
posizione di
sovraordinazione rispetto al cittadino
e ciò esclude, come si è accennato, che tra essi
possa intercorrere un rapporto giuridico in senso
tecnico.
Si è anche criticata la tesi
secondo la quale la
norma d’azione (elaborata, come si è visto, da
Guicciardi [1937])
tutela il privato tutt’al più in via
indiretta e occasionale e si è iniziato ad
attribuire
all’interesse legittimo una connotazione
sostanziale, sottolineando che
l’interesse protetto
è comunque un interesse materiale.
L’impostazione tradizionale è entrata in crisi in
seguito all’emergere   La connotazione
  sostanziale
 di una nuova dell’interesse legittimo
sensibilità, più in
linea con i valori
133 espressi dalla Costituzione, dall’ordinamento
europeo e dalla
l. n. 241/1990. L’interprete deve
muovere, sia dalla
prospettiva dei poteri attribuiti
allo Stato e agli apparati pubblici, sia da quella dei
diritti di libertà del cittadino e dall’esigenza di
offrire una protezione più completa
delle
situazioni giuridiche soggettive. Si è sottolineato,
per esempio, che la
Costituzione attribuisce ai
diritti soggettivi e agli interessi legittimi una pari
dignità e che pertanto a entrambi l’ordinamento
deve assicurare una tutela piena ed
effettiva (art.
24).
  ’interesse legittimo ha acquisito
una valenza
L
sostanziale una volta che è stata aperta la strada
della sua risarcibilità
ad opera della sentenza delle
Sezioni Unite della Corte di cassazione n.
500/1999.
La Corte, come si vedrà meglio nel
capitolo VII, ha
posto
cioè una linea di confine della risarcibilità
tutta all’interno dell’interesse legittimo
in ragione
della rilevabilità, nella situazione concreta, di una
lesione a un bene della
vita già ascrivibile in
qualche modo alla sfera giuridica del soggetto
privato titolare
dell’interesse legittimo.
La connotazione sostanziale
dell’interesse
legittimo emerge anche dal modo nel quale la
giurisprudenza ha inquadrato
la tutela risarcitoria
dell’interesse legittimo devoluta ora alla
giurisdizione del
giudice amministrativo (art. 7
Codice del processo amministrativo).
La  giurisprudenza   L’azione di
  risarcimento come
infatti si è subito tecnica di tutela
posta la questione se dell’interesse legittimo

il risarcimento del
danno
costituisca un diritto soggettivo distinto
dall’interesse legittimo, ancorché a questo
collegato, nel senso che la lesione di quest’ultimo
ad opera del provvedimento
illegittimo fa sorgere
in capo al suo titolare un diritto al risarcimento del
danno. La
Corte costituzionale, nella citata
sentenza n. 204/2004, ha inteso l’azione
risarcitoria non già come volta a
tutelare un diritto
soggettivo autonomo, bensì in funzione
«rimediale» (dall’espressione
remedy), cioè come
tecnica di tutela dell’interesse legittimo
che si
affianca e integra la tecnica di tutela più
tradizionale costituita
dall’annullamento. Se
l’interesse legittimo incorpora anche una pretesa
risarcitoria,
esso ha necessariamente per oggetto
un bene della vita suscettibile di essere leso da un
provvedimento illegittimo.
I  l bene della vita, correlato
all’interesse legittimo,
trova tutela anche attraverso l’azione di
adempimento, introdotta, come si vedrà nel
capitolo XIV, dal Codice del processo
amministrativo. Il giudice può infatti condannare
l’amministrazione, ove
la pretesa risulti fondata, a
emanare il provvedimento richiesto dal privato
attribuendogli così il bene della vita al quale egli
aspira (per esempio,
un’autorizzazione che
consente di intraprendere un’attività economica).
In  definitiva, nella   Il collegamento tra
  interesse
legittimo e
ricostruzione «bene della vita»
dell’interesse
legittimo il
baricentro si sposta dal
collegamento con
l’interesse pubblico a quello con l’utilità finale o
«bene della vita»
che il soggetto titolare
dell’interesse legittimo mira a conservare o ad
acquisire.
  ’interesse legittimo ha dunque una
connotazione
L
sostanziale.
Così, per esempio, la Corte di
cassazione ha
sottolineato che l’interesse legittimo «va perdendo
la sua tradizionale
funzione meramente famulativa
o ancillare rispetto all’interesse pubblico, per
134 assumere
un più marcato connotato sostanziale,
coerentemente del resto
con l’evoluzione della
stessa nozione di interesse pubblico» (C. cass.,
Sez.Un.,
ordinanze 13 giugno 2006, nn. 13659,
13660 e 15 giugno 2006, n. 13911). Sulla stessa
lunghezza d’onda il Consiglio di Stato ha definito
l’interesse legittimo come «la posizione
di
vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad
un bene della vita interessato
dall’esercizio del
potere pubblicistico, che si compendia
nell’attribuzione a tale
soggetto di poteri idonei ad
influire sul corretto esercizio del potere, in modo
da
rendere possibile la realizzazione o la difesa
dell’interesse al bene», e ha
sottolineato che
«l’interesse effettivo che l’ordinamento intende
proteggere è quindi
sempre l’interesse ad un bene
della vita» (Cons. St., Ad. Plen., 23 marzo 2011, n.
3).
All’esito dell’evoluzione  ora tratteggiata – ed è
questa la   Tutela dell’interesse
  pubblico e
tutela del
ricostruzione che si bene della vita
ritiene preferibile – si
può dunque
affermare che la norma di conferimento del potere
abbia lo scopo di tutelare sia l’interesse pubblico
curato dalla pubblica
amministrazione, sia
l’interesse del privato che mira a conservare o ad
acquisire una
utilità finale o bene della vita.
L’interesse pubblico non assorbe quello privato, né
quest’ultimo il primo.
  ell’ambito di un rapporto di
sovra-
N
sottordinazione i vincoli posti dalla norma
attributiva del potere hanno una
doppia funzione:
per un verso, fungono da guida e vincolo per
l’amministrazione nella
realizzazione dell’interesse
pubblico, ponendo per esempio regole
procedimentali che
consentano un miglior
coordinamento tra amministrazioni che curano gli
interessi
rilevanti (parere, intesa, ecc.); per altro
verso, hanno una funzione di garanzia della
situazione giuridica soggettiva del privato.
Nella dinamica del rapporto
giuridico
amministrativo, da un lato, l’amministrazione
titolare del potere cura in via
primaria l’interesse
pubblico (pur dovendo tener conto anche degli
altri interessi
pubblici e privati rilevanti nella
fattispecie); dall’altro, il titolare dell’interesse
legittimo mira esclusivamente al proprio interesse
individuale, con libertà di scegliere
le forme di
tutela da attivare nel processo e prima ancora
nell’ambito del procedimento
amministrativo.
In conclusione, volendo proporre
una definizione
sintetica,  l’interesse   La definizione
  dell’interesse
legittimo
legittimo è una
situazione giuridica
soggettiva, correlata al potere della pubblica
amministrazione e
tutelata in modo diretto dalla
norma di conferimento del potere, che attribuisce
al suo
titolare una serie di poteri e facoltà volti a
influire sull’esercizio del potere
medesimo allo
scopo di conservare o acquisire un bene della vita.
I  poteri e le facoltà in questione
si esplicano
principalmente, come si è accennato e come si
vedrà nel capitolo V, all’interno del procedimento
attraverso l’istituto della partecipazione (artt. 7 ss.
l. n. 241/1990). Quest’ultima consente al privato
di
rappresentare il proprio punto di vista
presentando memorie e documenti e, prima
ancora, mediante l’accesso agli atti del
procedimento. Il privato può persino sottoporre
all’amministrazione proposte che possono
sfociare, ove accolte, in un accordo avente per
oggetto il contenuto discrezionale del
135 provvedimento (art. 11 l. n. 241/1990).
Siffatti poteri e facoltà tendono a
riequilibrare in
parte la  posizione di   La dimensione attiva
  dell’interesse legittimo
soggezione nei
confronti del titolare
del potere. L’interesse legittimo – che pur
costituisce il
termine passivo del rapporto
giuridico che intercorre con l’amministrazione, se
ci si
pone dall’angolo di visuale della produzione
degli effetti giuridici – acquista così una
dimensione attiva.
  d essa corrispondono in capo
all’amministrazione
A
una serie di doveri comportamentali nella fase
procedimentale e
nella fase decisionale (buona
fede, imparzialità, esatta rappresentazione dei
fatti,
acquisizione completa degli interessi
rilevanti, ecc.) che sono finalizzati anche alla
tutela
dell’interesse del soggetto privato.
In ogni caso il titolare
dell’interesse legittimo fa
valere nei confronti dell’amministrazione una
pretesa a che
il potere sia esercitato in modo
legittimo e, per quanto possibile, in senso
conforme
all’interesse sostanziale del privato alla
conservazione o all’acquisizione di un bene
della
vita. La «prestazione» che viene così richiesta
all’amministrazione ha natura
infungibile, in
quanto il titolare dell’interesse legittimo può
conservare o acquisire
una certa utilità
esclusivamente tramite l’esercizio o il mancato
esercizio del potere
da parte dell’unica autorità
competente in base alla norma attributiva del
potere.
Sulla  base di queste   La dissoluzione
  dell’interesse
legittimo
considerazioni, è nel diritto soggettivo
emersa nella dottrina
una visione che
dissolve
l’interesse legittimo nella figura più
generale del diritto soggettivo [Ferrara 2003,
105
ss.]. Infatti, a ben riflettere, il diritto soggettivo,
lungi da essere una
categoria unitaria, include
anche figure di diritti diverse da quelle più tipiche
correlate in modo diretto e immediato a un bene
della vita (diritto di proprietà,
diritto di credito
avente per oggetto una somma di danaro). Si pensi,
per esempio, al
diritto a un comportamento
secondo buona fede nell’ambito delle trattative
finalizzate
alla stipula di un contratto; oppure al
diritto di credito cui corrisponda
un’obbligazione
di mezzi, come nel caso delle prestazioni mediche
(prestazione-comportamento), anziché
un’obbligazione di risultato
(prestazione-
risultato). Il titolare di questo genere di diritti fa
valere nei confronti
dell’obbligato una pretesa a un
comportamento conforme a certi standard, che si
sostanziano anche in quelli che la dottrina
civilistica definisce «doveri di
protezione», senza
che vi sia alcuna garanzia di un risultato
predeterminato (per
esempio, nel caso di
prestazioni mediche, la guarigione).
  uesta categoria di diritti è
strutturalmente
Q
analoga all’interesse legittimo, il quale, dunque,
potrebbe essere
ricondotto a una figura particolare
di diritto (di credito) avente per oggetto una
prestazione-comportamento da parte
dell’amministrazione a favore del soggetto privato.
In definitiva, l’interesse
legittimo presenta sia una
dimensione passiva (soggezione rispetto al potere
esercitato), sia una dimensione attiva (pretesa a un
esercizio corretto del potere alla
quale
corrispondono una serie di poteri e facoltà nei
confronti dell’amministrazione da
far valere nel
procedimento o anche in sede giurisdizionale). A
questa duplice
dimensione corrisponde un’analoga
duplice dimensione del potere: attiva, se riferita
alla produzione unilaterale dell’effetto giuridico;
passiva, se correlata ai doveri di
comportamento
136 che gravano sull’amministrazione.
7. Gli
interessi legittimi
oppositivi e pretensivi
Sotto il profilo funzionale gli
interessi legittimi
possono essere suddivisi in due categorie: interessi
legittimi
oppositivi e pretensivi.
I primi sono correlati a poteri
amministrativi il cui
esercizio determina la produzione di un effetto
giuridico che
incide negativamente e che restringe
la sfera giuridica del destinatario, sacrificando
l’interesse di quest’ultimo. Si pensi, per esempio,
al potere di
espropriazione, di irrogare una
sanzione amministrativa, di imporre un vincolo di
inedificabilità.
I secondi, al contrario, sono
correlati a poteri
amministrativi il cui esercizio determina la
produzione di un effetto
giuridico che incide
positivamente e che amplia la sfera giuridica del
destinatario,
dando soddisfazione all’interesse di
quest’ultimo. Si pensi, per esempio, al potere di
rilasciare una concessione per l’uso di un bene
demaniale o un’autorizzazione per
l’avvio di
un’attività economica, oppure all’iscrizione a un
albo professionale. Come ha
chiarito la
giurisprudenza recente, gli interessi legittimi
pretensivi consistono in una
«pretesa a che
l’amministrazione provveda legittimamente in
vista di un provvedimento
positivo» (C. cass., Sez.
Un., 4 settembre 2015, n. 17586).
Per riprendere una distinzione
classica [Forsthoff
1938], gli interessi legittimi oppositivi si
riferiscono, di regola,
alla cosiddetta
Eingriffsverwaltung, cioè all’amministrazione che
sottrae o sacrifica altrimenti i beni o altre utilità
private. Gli interessi legittimi
pretensivi si
riferiscono, invece, alla cosiddetta
Leistungsverwaltung, cioè all’amministrazione per
prestazioni
che attribuisce beni o altre utilità ai
soggetti privati e che è emersa soprattutto in
seguito all’affermarsi nel corso del XX secolo dello
Stato interventista.
Negli interessi legittimi
oppositivi il rapporto 
giuridico   La diversa dinamica
  del rapporto
giuridico
amministrativo che amministrativo
si sviluppa nel
procedimento ha una
dinamica di contrapposizione, nel senso che il suo
titolare cercherà di intraprendere tutte le iniziative
volte a contrastare l’esercizio
del potere che
sacrifica un bene della vita. Il suo interesse a
evitare che si determini
una compressione della
propria sfera giuridica è soddisfatto nel caso in cui
l’amministrazione, all’esito del procedimento, si
astenga dall’emanare il provvedimento
che
produce l’effetto negativo (pretesa a un non facere
da parte
dell’amministrazione). Non rileva,
peraltro, dal punto di vista del soggetto privato
(ma
non dell’interesse pubblico), se l’omessa
emanazione del provvedimento sia legittima o
illegittima. Al titolare dell’interesse legittimo
oppositivo infatti interessa
soltanto non veder
sacrificata o compressa la propria sfera giuridica,
cioè conservare
il proprio bene della vita.
  egli interessi legittimi
pretensivi il rapporto
N
giuridico amministrativo ha una dinamica più
collaborativa, nel
senso che il titolare
dell’interesse legittimo pretensivo cercherà di
porre in
essere tutte le attività volte a stimolare
l’esercizio del potere e a orientare la
scelta
dell’amministrazione in modo tale da poter
conseguire il bene della vita. Il suo
interesse a far
sì che si determini un ampliamento della propria
sfera giuridica è
soddisfatto nel caso in cui
l’amministrazione, all’esito del procedimento,
emani il
provvedimento che produce l’effetto
137 positivo (pretesa a un facere
specifico da parte
dell’amministrazione). Anche
qui non rileva, dal
punto di vista del privato (ma non dell’interesse
pubblico), se
l’emanazione del provvedimento sia
legittima o illegittima. Al titolare dell’interesse
legittimo
pretensivo infatti interessa soltanto
poter veder ampliata la propria sfera giuridica,
cioè
acquisire un bene della vita.
I due tipi di dinamica si
riflettono sia sulla
struttura del procedimento, sia su quella del
processo
amministrativo.
Nel caso degli interessi legittimi oppositivi il
procedimento si apre
usualmente d’ufficio e la
comunicazione di avvio del procedimento
instaura il rapporto giuridico
amministrativo. Nel
caso degli interessi legittimi pretensivi il
procedimento si apre in
seguito alla presentazione
di un’istanza o domanda di parte che fa sorgere
l’obbligo di procedere
e di provvedere in capo
all’amministrazione titolare del potere (art. 2 l. n.
241/1990) e che instaura il rapporto giuridico
amministrativo.
Anche  il processo   I bisogni di tutela e gli
  strumenti processuali
amministrativo e la per soddisfarli
tipologia di azioni in
esso esperibili
presentano
caratteri propri in funzione del diverso
bisogno di tutela.
  el caso degli interessi legittimi
oppositivi il
N
bisogno di tutela è legato all’interesse alla
conservazione del bene della
vita. L’annullamento
dell’atto impugnato con efficacia ex tunc
soddisfa in
modo specifico tale bisogno (fatti salvi gli obblighi
restitutori
e gli eventuali profili risarcitori). Infatti
il ricorrente viene reintegrato nella
situazione in
cui esso si trovava prima dell’emanazione del
provvedimento. Se dalla
sentenza di annullamento
deriva poi un effetto preclusivo pieno, tale cioè da
impedire
l’emanazione, rebus sic stantibus, di un
nuovo provvedimento
sostitutivo di quello
annullato produttivo dei medesimi effetti,
l’interesse legittimo
oppositivo esce dalla vicenda
procedimentale e processuale addirittura
rafforzato.
Nel caso degli interessi legittimi 
pretensivi il
bisogno di tutela è   L’azione di
  adempimento
legato invece
all’interesse
all’acquisizione del bene
della vita. Rispetto a tale
bisogno l’annullamento del provvedimento di
diniego o, nel
caso di silenzio-inadempimento,
l’accertamento dell’inadempimento dell’obbligo di
concludere il procedimento nel termine stabilito ex
art. 2 l. n. 241/1990 con un provvedimento espresso
si
rivelano insufficienti. Infatti non determinano in
via immediata l’acquisizione del bene
della vita in
capo al titolare dell’interesse legittimo che
richiede invece l’adozione
da parte
dell’amministrazione del provvedimento. Solo una
sentenza che accerti la
spettanza del bene della
vita e che condanni l’amministrazione a emanare il
provvedimento richiesto risulta pienamente
satisfattiva. L’azione che mira a un siffatto
risultato è la cosiddetta azione di adempimento
ammessa da decenni dall’ordinamento processuale
tedesco (Verpflichtungsklage) e ora prevista, come si
vedrà nel
capitolo XIV, dal
Codice del processo
amministrativo.
  nche la tutela risarcitoria, che
può essere attivata
A
per soddisfare  i   La tutela risarcitoria
 
bisogni di tutela non
coperti dalla tutela specifica (di annullamento del
provvedimento illegittimo e di
adempimento), si
atteggia diversamente con riferimento agli
interessi legittimi
oppositivi e agli interessi
138 legittimi pretensivi.
  on riferimento agli interessi
legittimi oppositivi
C
essa ha per oggetto i danni derivanti dalla
privazione o
limitazione nel godimento del bene
della vita nel caso in cui il provvedimento
illegittimo abbia trovato esecuzione. La sentenza
di annullamento con efficacia
retroattiva, infatti,
pur eliminando l’atto e i suoi effetti, non pone
rimedio per il
passato a questo particolare profilo
di danno. Per esempio, se dopo l’emanazione di un
decreto di esproprio si è avuta l’esecuzione con
l’apprensione materiale del terreno,
una volta
annullato il provvedimento, il proprietario deve
essere risarcito del danno
conseguente al mancato
godimento del bene nel periodo intercorrente tra
l’esecuzione del
provvedimento espropriativo e la
restituzione del bene medesimo.
Con riferimento agli interessi
legittimi pretensivi
la tutela risarcitoria ha per oggetto i danni
conseguenti alla
mancata o ritardata acquisizione
del bene della vita nel caso in cui sia stato emanato
un provvedimento di diniego o l’amministrazione
sia rimasta inerte (per esempio, il
mancato o
ritardato avvio di un’attività commerciale
sottoposta a un regime di
autorizzazione). La
sentenza che accoglie l’azione di adempimento,
condannando
l’amministrazione a emanare il
provvedimento richiesto, non riesce infatti a porre
rimedio per il passato a questo particolare profilo
di danno. Per esempio, se a causa di
un diniego
illegittimo di un’autorizzazione un’impresa non ha
intrapreso un’attività
economica deve essere
risarcito il mancato guadagno nel periodo
intercorrente tra il
diniego illegittimo e il rilascio
del provvedimento favorevole (Cons. St., Sez. VI, 6
marzo 2018, n. 1457).
Un cenno va dedicato ai cosiddetti
provvedimenti 
«a doppio effetto»   I provvedimenti a
  doppio
effetto
(Doppelwirkung), che
producono cioè ad un
tempo un effetto
ampliativo e un effetto restrittivo
nella sfera giuridica di due soggetti distinti e che
danno origine a un rapporto giuridico trilaterale. Si
pensi per esempio al rilascio di
un permesso a
costruire un edificio che impedirebbe una vista
panoramica al proprietario
del terreno confinante,
oppure al rilascio di un’autorizzazione ad avviare
un’attività
commerciale in concorrenza con un
esercizio posto nelle immediate vicinanze che
subirebbe una contrazione del proprio giro d’affari.
 In questi casi, la dinamica  dei rapporti tra
l’amministrazione e i   La dinamica
  procedimentale e
soggetti privati processuale
coinvolti diventa più
articolata, sia
nell’ambito del procedimento, sia nell’ambito del
processo, proprio perché si instaura anche una
dialettica che vede contrapposti due
interessi
privati.
  ella fase procedimentale le parti
private
N
tenderanno infatti a sottoporre
all’amministrazione gli elementi istruttori e
valutativi che inducano quest’ultima a provvedere
in senso conforme al proprio interesse
e contrario
all’interesse dell’altra parte privata.
Nella fase processuale successiva
all’emanazione
del provvedimento che determina contestualmente
un effetto ampliativo nei
confronti di un soggetto e
uno restrittivo nei confronti di un altro, invece,
accanto
alla parte
ricorrente che impugna il
provvedimento chiedendone l’annullamento e
all’amministrazione resistente, interviene come
parte processuale necessaria il
controinteressato.
Quest’ultimo, come si vedrà meglio nel capitolo
XIV, è appunto la parte
che ha tratto un’utilità
139 dall’emanazione del provvedimento e
che affianca
l’amministrazione nella difesa della legittimità del
provvedimento emanato.
8. I
criteri di distinzione tra
diritti soggettivi e interessi
legittimi
La distinzione tra diritti
soggettivi e interessi
legittimi, come si è già osservato, ha affaticato da
sempre gli
interpreti.
La dottrina e la giurisprudenza,
specie quella delle
Sezioni Unite della Corte di cassazione, investita
di questioni attinenti
al riparto di giurisdizione tra
giudice ordinario e giudice amministrativo, hanno
individuato alcuni criteri interpretativi.

1. Un
primo criterio si incentra sulla struttura
della norma attributiva del potere. Ricorre
ancora
nella giurisprudenza la distinzione tradizionale, già
esaminata in senso critico,
tra norma di relazione e
norma d’azione: la prima volta a regolare il
rapporto giuridico
tra pubblica amministrazione e
cittadino delimitando le rispettive sfere giuridiche
e
alla quale è correlato il diritto soggettivo; la
seconda, volta a disciplinare l’attività
dell’amministrazione ai fini di tutela dell’interesse
pubblico e alla quale è correlato
l’interesse
legittimo.
Nella prima la produzione
dell’effetto giuridico
avviene, come si è visto, in modo automatico sulla
base dello
schema norma-fatto-effetto.
L’eventuale atto dell’amministrazione che accerta
il prodursi dell’effetto giuridico e dei diritti e degli
obblighi posti in capo alle
parti ha un carattere
meramente ricognitivo.
Si pensi, per esempio, nell’ambito
dei rapporti di
impiego  alle   Gli atti paritetici
 
dipendenze della
pubblica
amministrazione esclusi dal regime della
privatizzazione, alla categoria dei cosiddetti
«atti
paritetici» costruita dalla giurisprudenza già negli
anni Trenta del secolo
scorso. Si tratta, come si
vedrà, di atti attraverso i quali l’amministrazione
riconosce
(o disconosce) al dipendente
un’indennità di carica o un altro beneficio
attribuito
direttamente da una norma di rango
legislativo. Gli atti in questione pertanto hanno
un’efficacia meramente ricognitiva, anziché
costitutiva, dei diritti e degli obblighi
del
dipendente pubblico. Si pensi ancora agli atti che
accertano il carattere demaniale
di un bene in base
ai criteri posti dal codice civile (art. 822 cod. civ.).
I  l comportamento assunto in
violazione della
norma di  relazione   L’illiceità del
  comportamento
va qualificato come
illecito e lesivo del
diritto soggettivo. L’accertamento della illiceità (e
l’eventuale condanna) spetta, di regola, al giudice
ordinario.
 Nella norma di azione la produzione
dell’effetto
giuridico avviene secondo lo schema norma-fatto-
potere-effetto. Il provvedimento emanato
dall’amministrazione ha un carattere costitutivo
dell’effetto giuridico nella sfera
giuridica del
destinatario. Il provvedimento assunto in
violazione della norma di azione
va qualificato,
come si vedrà trattando dei vizi dell’atto
amministrativo,
come illegittimo e lesivo di un
interesse legittimo. L’annullamento del
provvedimento
illegittimo spetta di regola al
140 giudice amministrativo.
Come già osservato, la distinzione
tra norma di
relazione e norma di azione non regge una volta
che anche a quest’ultima si
attribuisce una valenza
relazionale, cioè di disciplina del rapporto
giuridico
amministrativo.
2. Un
secondo criterio consiste nella distinzione
tra potere discrezionale e vincolato. In
presenza di
un potere discrezionale la situazione giuridica di
cui è titolare il
soggetto privato è sempre ed
esclusivamente l’interesse legittimo. Ciò perché la
conservazione o l’acquisizione del bene della vita
in capo al soggetto privato, lungi da
essere
garantita in modo diretto dalla norma, è rimessa
alla valutazione
dell’amministrazione titolare del
potere. Di fronte al potere discrezionale il soggetto
privato non è in grado di prevedere con certezza se
la sua pretesa
verrà soddisfatta
dall’amministrazione all’esito del procedimento.
Manca, dunque, la
possibilità di ascrivere in modo
immediato e diretto il vantaggio o bene della vita
alla
sfera giuridica del soggetto privato, ciò che
caratterizza invece la struttura del
diritto
soggettivo.
Diversa è la situazione, invece,
nel caso in cui il
potere sia vincolato. Infatti, il soggetto privato,
valutando
autonomamente la situazione concreta
in cui egli si trova, è in grado di prevedere con
certezza se l’amministrazione, ove agisca in modo
conforme alle norme applicabili,
riconoscerà o
meno il vantaggio o il bene della vita. Il cosiddetto
«giudizio di
spettanza» ha cioè un carattere
univoco, ove la situazione di fatto e di diritto
venga
ricostruita in modo corretto
dall’amministrazione. La situazione in cui versa il
privato
è in questo senso assimilabile a quella in
cui si trova il titolare di un diritto
soggettivo.
In  realtà, mentre una   La correlazione
  biunivoca tra
potere
parte della dottrina vincolato e diritto
già citata [Orsi soggettivo

Battaglini 1988a, 3 ss.;


Marzuoli 1985] instaura una correlazione biunivoca
tra potere vincolato e titolarità di
un diritto
soggettivo, la giurisprudenza, con il conforto di
parte della dottrina, la
spezza introducendo
un’ulteriore variabile. Ammette cioè l’esistenza di
un diritto
soggettivo solo nel caso in cui i vincoli
ricavabili dalla norma che disciplina il
potere
abbiano una funzione di garanzia e di tutela diretta
del soggetto privato. Ove
invece essi siano
finalizzati principalmente alla tutela dell’interesse
pubblico
(secondo la visione tradizionale della
norma d’azione), va riconosciuta, anche a fronte
di
un potere vincolato, l’esistenza di un interesse
legittimo. Secondo questa visione le
norme
attributive del potere impongono vincoli
all’amministrazione anzitutto allo scopo
di
consentire uno svolgimento ordinato e misurabile
in modo oggettivo, cioè sulla base
di parametri
certi, dell’attività amministrativa e non tutelano
in modo diretto il soggetto
privato. Tali vincoli
sono dunque funzionali a un interesse proprio di
un’organizzazione
complessa qual è la pubblica
amministrazione.
 Peraltro, la necessità di stabilire
se i vincoli posti
all’esercizio del potere siano finalizzati alla tutela
dell’interesse
del soggetto privato o dell’interesse
pubblico introduce un elemento di incertezza tale
da compromettere, almeno in parte, l’utilità del
criterio distintivo.
In definitiva, il criterio offre
una soluzione certa
solo quando il potere ha natura discrezionale, che
esclude in radice
la possibilità di qualificare come
141 diritto soggettivo la situazione giuridica
correlata.

3. Un
terzo criterio tradizionale introdotto dalla
Corte di cassazione (C. cass. 4 luglio
1949, n. 1657)
si fonda sulla diversa natura del vizio dedotto dal
soggetto privato nei
confronti dell’atto emanato.
Ove  venga   La carenza di potere in
  astratto
contestata la
cosiddetta carenza di
potere, cioè l’assenza di un fondamento
legislativo
del potere (cosiddetta carenza di potere in
astratto) o una deviazione abnorme
dallo schema
normativo (cosiddetto straripamento di potere),
l’atto emanato è in realtà
una parvenza di
provvedimento, inidoneo a produrre l’effetto
tipico nella sfera
giuridica del destinatario
(provvedimento nullo o addirittura inesistente).
La
situazione giuridica soggettiva di cui
quest’ultimo è titolare, e in particolare il
diritto
soggettivo, resiste, per così dire, di fronte al potere
e non subisce alcun
«affievolimento» (o
«degradazione») tramutandosi in un interesse
legittimo.
  a giurisprudenza 
L   I diritti soggettivi non
  degradabili
della Corte di
cassazione ha
peraltro individuato alcuni
diritti soggettivi, che
ricevono una tutela rafforzata nella Costituzione
(in
particolare il diritto alla salute o all’integrità
dell’ambiente), che di regola non
possono essere
incisi dal potere amministrativo (i cosiddetti
diritti non comprimibili o non
degradabili) e la
cui tutela è rimessa di conseguenza in via esclusiva
al giudice ordinario.
 Ove invece il soggetto privato
lamenti il cattivo
esercizio del potere, senza però contestarne in
radice l’esistenza,
deducendo un vizio di
legittimità del provvedimento (incompetenza,
eccesso di
potere, violazione di legge), la
situazione giuridica fatta valere nei
confronti
dell’amministrazione ha la consistenza di un
interesse legittimo.
La giurisprudenza  ha   La carenza di potere in
  concreto
individuato anche la
cosiddetta carenza di
potere in
concreto. Essa si verifica nei casi in cui
la norma in astratto
attribuisce il potere
all’amministrazione, ma manca nella fattispecie
concreta un
presupposto essenziale per poterlo
esercitare (per esempio nel caso in cui
l’espropriazione non sia stata preceduta dalla
dichiarazione di pubblica utilità, oppure
un atto
amministrativo sia stato emanato quando è già
scaduto un termine perentorio
previsto a pena di
decadenza). La carenza di potere in concreto è
stata oggetto di
contrasti tra il giudice ordinario e
il giudice amministrativo anche in ragione delle
conseguenze che ne derivano in termini di
ampliamento o restrizione dei rispettivi
ambiti di
giurisdizione.
 In epoca più recente è in corso un ripensamento
alla luce dell’art.
21-septies
l. n. 241/1990 che, come
si vedrà, ha disciplinato in termini
generali la
categoria della nullità. Esso elenca le ipotesi
tassative di nullità,
tra le quali figura anche il
difetto assoluto di attribuzione che coincide con la
carenza di potere in astratto. Di conseguenza, per
implicazione negativa, la carenza di
potere in
concreto sarebbe inquadrabile nella categoria
generale della violazione di
legge e determinerebbe
ormai, com’è già affermato da un indirizzo
giurisprudenziale e
dottrinale, soltanto
l’annullabilità del provvedimento emanato.
La nullità di un provvedimento
sembra atteggiarsi
in modo diverso a seconda che il potere miri a
restringere o ad
ampliare la sfera giuridica del
destinatario. Nel primo caso, la nullità priva il
provvedimento della sua forza imperativa e
pertanto della sua idoneità a incidere sulle
situazioni di diritto soggettivo di cui è titolare il
privato, le quali, dunque, non
subiscono alcun
affievolimento. Nel secondo caso, il
142 provvedimento di
diniego, affetto vuoi da un vizio
che comporti la nullità, vuoi
da un vizio che
comporti l’annullabilità, lascia comunque
insoddisfatta la pretesa del
soggetto privato e non
sembra influire sulla configurazione della
situazione giuridica
soggettiva di base di cui
quest’ultimo è titolare.
In molte fattispecie la distinzione tra le due
situazioni giuridiche
soggettive sulla base dei
criteri ora esaminati ha creato incertezze
interpretative,
tanto da indurre il legislatore, come
si vedrà meglio nel capitolo XIV, a risolverle
almeno in parte
devolvendo un numero elevato di
materie alla giurisdizione
esclusiva del giudice
amministrativo (art. 133 Codice del processo
amministrativo) nell’ambito
della quale il giudice
può conoscere delle situazioni giuridiche sia di
interesse
legittimo, sia di diritto soggettivo (art. 7,
comma 5).
9. Il
«diritto» di accesso ai
documenti amministrativi
Un caso paradigmatico di incertezza
nella
qualificazione della situazione giuridica soggettiva
è il diritto di accesso ai documenti
amministrativi
che costituisce uno degli strumenti principali volti
ad
accrescere la trasparenza dell’attività
amministrativa e promuovere l’imparzialità.
L’accesso ai documenti amministrativi consiste nel
«diritto degli
interessati di prendere visione e di
estrarre copia di documenti amministrativi» (art.
22, comma 1, lett. a), l. n. 241/1990). Esso è incluso
dalla l. n. 241/1990 (art. 29, comma 2-bis)
tra i livelli
essenziali delle prestazioni ai quali fa riferimento
l’art. 117, comma 2, lett. m), Cost. e rientra dunque
nella
competenza legislativa esclusiva dello Stato.
È inoltre definito come «principio
generale
dell’attività amministrativa al fine di favorire la
partecipazione e di
assicurare l’imparzialità e la
trasparenza» (art. 22, comma 2).
Si distingue anzitutto tra accesso
procedimentale e
non procedimentale.
Quanto al primo, il diritto di accesso rientra , come
si vedrà, tra quelli   L’accesso
  procedimentale e non
attribuiti ai soggetti procedimentale
che
partecipano a un
determinato
procedimento amministrativo in modo da
consentire ad essi
di tutelare meglio le loro ragioni
avendo cognizione di tutti gli atti e documenti
acquisiti al fascicolo (art. 10 l. n. 241/1990). Si
instaura così un legame
funzionale tra principio
di
trasparenza (accesso ai documenti) e diritto di
partecipazione, che
ne esce così rafforzato
(partecipazione informata).
 
Quanto al secondo, il diritto di
accesso può essere
esercitato in via autonoma da chi ha interesse a
esaminare documenti
detenuti stabilmente da una
pubblica amministrazione (accesso non
procedimentale). Ad
esso la l. n. 241/1990 dedica
l’intero Capo V (artt. 22 ss.).
In entrambe le fattispecie la l. n. 241/1990 sembra
costruire il diritto di accesso
secondo lo schema
del diritto soggettivo. In particolare con riguardo
all’accesso non
procedimentale, esso sorge quando
il soggetto che richiede l’accesso dimostri «un
interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è chiesto
143 l’accesso» (art. 22, lett. b)).
L’accesso non è dunque attribuito a
chiunque. Non
basta, come ha precisato la giurisprudenza, la
semplice curiosità. È
necessario invece che la
richiesta di accesso abbia alla base un interesse in
qualche
modo differenziato e la titolarità di una
posizione giuridicamente rilevante (non
necessariamente un diritto soggettivo o un
interesse legittimo in senso proprio, ma anche
una
situazione giuridica soggettiva ancora allo
stato potenziale).
Sotto il profilo    I casi di esclusione del
  diritto
di accesso
oggettivo, l’accesso
non
procedimentale è
escluso in una serie tassativa di casi e cioè in
relazione ai documenti
coperti dal segreto di Stato,
a quelli relativi a procedimenti tributari o a
procedimenti per l’adozione di atti amministrativi
generali, ai documenti contenenti
informazioni di
carattere psicoattitudinale di terzi (art. 24, comma
1, l. n. 241/1990). Altri casi di esclusione
possono
essere individuati tramite regolamento di
delegificazione là dove sussista il
rischio di una
lesione di interessi pubblici quali, per esempio, la
sicurezza e difesa
nazionale, la politica monetaria e
valutaria, la riservatezza di persone fisiche,
gruppi,
imprese e associazioni, ecc. (l’elenco completo è
previsto dall’art. 24, comma 6, l. n. 241/1990).
  llorché siano presenti esigenze di tutela della
A
 riservatezza   Accesso e riservatezza
 
l’amministrazione
deve dunque compiere una
duplice operazione.
Deve anzitutto comparare l’interesse all’accesso e
il contrapposto
interesse alla riservatezza di terzi
(per esempio, l’interesse di un dipendente
pubblico
che vuol contestare la promozione di un
altro dipendente e che a questo fine ritiene
necessario acquisire copia del libretto di servizio di
quest’ultimo che però potrebbe
contenere dati
riservati). Deve inoltre valutare se l’accesso ha il
carattere della
«necessarietà» (da distinguersi
dalla semplice utilità), poiché la l. n. 241/1990
prescrive che deve essere comunque garantito
ai
richiedenti l’accesso ai documenti «la cui
conoscenza sia necessaria per curare e
difendere i
propri interessi giuridici» (cosiddetto accesso
difensivo di cui all’art. 24, comma 7 i cui limiti
sono stati chiariti dalla
sentenza del Consiglio di
Stato, Ad. Plen., 18 marzo 2021, n. 4). Il criterio
della necessarietà è
reso più stringente nel caso in
cui i documenti contengano dati definiti come
sensibili
dal Codice dei dati personali (soprattutto,
quelli relativi alla
salute e alla sfera sessuale) e per
quelli giudiziari perché l’accesso è consentito solo
«nei limiti in cui sia strettamente indispensabile»
(art. 24, comma 7).
  ’accoglimento dell’istanza di
accesso sembra
L
dunque subordinata, almeno nel caso in cui siano
presenti esigenze di
riservatezza, a valutazioni
dell’amministrazione che sembrano avere natura
in qualche
misura discrezionale.
Il bilanciamento tra esigenza di
pubblicità e tutela
della riservatezza riguarda anche le informazioni
che le pubbliche
amministrazioni sono tenute a
pubblicare sui siti istituzionali ai sensi del d.lgs. n.
33/2013 nei casi in cui si tratti di dati
cosiddetti
sensibili. A questo fine il Garante della protezione
dei dati personali ha
pubblicato alcune linee guida
(provvedimento 15 maggio 2014, n. 243).
Sotto il profilo processuale, il diritto di accesso ai
documenti
amministrativi, come si vedrà meglio
nel capitolo XIV, è incluso tra le materie devolute
alla
giurisdizione
esclusiva del giudice
144 amministrativo (art. 133, comma 1, lett. a), n. 6,
Codice del processo
amministrativo) e ciò
costituisce un sintomo che in questa materia
possono
porsi questioni di diritto soggettivo.
In presenza di questi dati
normativi contrastanti,
si comprende come mai la giurisprudenza sia stata
incerta nel
ricostruire la natura giuridica del diritto
di accesso. In dottrina è stata avanzata
persino
l’ipotesi che si tratti di una situazione giuridica
nuova (o di una nuova forma
di legittimazione
procedimentale e processuale legislativamente
prevista) non
inquadrabile in nessuno dei due
schemi tradizionali.
Più di recente sembra prevalere
l’interpretazione 
che non si tratti di un   L’accesso come
  interesse
legittimo
diritto
soggettivo in
senso proprio, ma
che l’accesso vada inquadrato, al di là del
nomen
utilizzato dalla legge, nella categoria dell’interesse
legittimo. Da ciò è stata tratta la conseguenza che
il diniego di accesso costituisce un
provvedimento
in senso proprio impugnabile nel termine di
decadenza di 30 giorni,
piuttosto che nel termine
più lungo di prescrizione applicabile in via
ordinaria ai
diritti soggettivi (Cons. St., Ad. Plen.,
18 aprile 2006, n. 6 e 20 aprile 2006, n. 7).
  ccanto a questa forma di accesso
introdotta dalla
A
l. n. 241/1990, sono state aggiunte via via altre
fattispecie di accesso qualificabili invece in termini
di diritto soggettivo in senso
proprio.
Anzitutto, in materia di tutela
dell’ambiente,
l’accesso alle informazioni è consentito a chiunque
ne faccia richiesta
senza necessità di dichiarare un
proprio interesse (art. 3 d.lgs. 19 agosto 2005, n.
195 di attuazione della
direttiva (CE) 2003/4.
Inoltre, a livello di
amministrazioni locali, i
consiglieri comunali e provinciali hanno diritto a
ottenere
dagli uffici tutte le informazioni utili
all’espletamento del mandato e sono tenuti al
segreto d’ufficio (art. 43, comma 2, d.lgs. 18 agosto
2000, n. 267).
È qualificabile come diritto soggettivo in senso
proprio anche il
cosiddetto accesso  civico
introdotto   L’accesso civico come
  diritto
soggettivo
nell’ambito della
normativa
anticorruzione (art. 5 d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33,
come sostituito dal
d.lgs. 25 maggio 2016, n. 97).
 La disposizione si ispira al
Freedom of Information
Act (FOIA), introdotto negli Stati Uniti
nel 1966,
secondo il quale il right to know del cittadino
persegue
tre obiettivi: il controllo diffuso sulle
pubbliche amministrazioni
(accountability); la
partecipazione consapevole dei cittadini
alle
decisioni pubbliche (participation); la
legittimazione delle
pubbliche amministrazioni
dovuta alla massima trasparenza
(legitimacy).
Nel nostro ordinamento, l’accesso civico trova un
appiglio negli artt.
1, 2 e 118 della Costituzione che
delinea un modello di
«cittadinanza attiva»
fondato sulla cooperazione spontanea dei cittadini
con le
istituzioni pubbliche mediante la
partecipazione alle decisioni e alle azioni che
riguardano la cura dei beni comuni (Cons. St., Sez.
III, 6 marzo 2019, n. 1546).
L’art. 5 del d.lgs. n. 33/2013 prevede due ipotesi.
La prima ipotesi (accesso
cosiddetto semplice)
riguarda le informazioni e i dati che le
amministrazioni hanno
l’obbligo di pubblicare sui
propri siti o con altre modalità. Se questo
adempimento non
è stato effettuato, chiunque può
145 richiedere l’accesso (comma 1).
La seconda ipotesi (accesso cosiddetto
generalizzato ) tende   L’accesso
  generalizzato
a «favorire forme
diffuse di controllo
sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di
promuovere la partecipazione al dibattito
pubblico» ed è stato definito dalla
giurisprudenza
come un «diritto fondamentale» strumentale
all’esercizio di altri diritti
fondamentali (Cons. St.,
Ad. Plen., 2 aprile 2020, n. 10). Pertanto la
disposizione
attribuisce a chiunque il diritto di
accedere ai dati e documenti detenuti dalle
pubbliche amministrazioni, anche di quelli per i
quali non sussiste un obbligo di
pubblicazione
(comma 2). In realtà, questa forma di accesso
generalizzato non riguarda,
sotto il profilo
oggettivo, tutti i documenti detenuti
dall’amministrazione, in quanto
l’art. 5-bis prevede
una serie tassativa di esclusioni in relazione
alla
necessità di tutelare interessi pubblici e privati
come per esempio la sicurezza
nazionale, la difesa,
le relazioni internazionali, la protezione dei dati
personali, la
libertà e segretezza della
corrispondenza e più in generale tutti i casi di
esclusione
di cui all’art. 24, comma 1 della l. n.
241/1990. Per chiarire meglio
la casistica delle
esclusioni e dei limiti è prevista l’adozione di linee
guida da parte
dell’Autorità
nazionale
anticorruzione, d’intesa con il
Garante della
protezione dei dati personali (comma 6).
I  n ogni caso, sotto il profilo
soggettivo, l’esercizio
del diritto di accesso civico «non è sottoposto ad
alcuna
limitazione quanto alla legittimazione
soggettiva del richiedente» (art. 5, comma 3).
10. Interessi di fatto, diffusi e
collettivi
Le norme che disciplinano la
pubblica
amministrazione possono imporre ad essa doveri
di comportamento, finalizzati
alla tutela di
interessi pubblici. E ciò dunque in modo per così
dire irrelato, cioè
senza che a tali doveri
corrisponda alcuna situazione giuridica o altro tipo
di pretesa
giuridicamente tutelata in capo a
soggetti esterni all’amministrazione.
Ciò si verifica non soltanto nel
caso delle norme
interne, sulle quali ci si è già soffermati nel
capitolo precedente, ma anche nel caso di
norme
poste da fonti normative primarie o secondarie. Si
pensi, per esempio, alle norme
che impongono alle
amministrazioni di adottare atti di
pianificazione
(urbanistici, del traffico, in materia ambientale,
paesaggistica, ecc.), di realizzare determinate
opere infrastrutturali, di contenere i
livelli di
spesa, di raggiungere determinati standard
qualitativi nell’erogazione dei
servizi o di dotarsi di
modelli organizzativi e funzionali particolari. Così,
per
esempio, è stata qualificata come interesse di
mero fatto, anziché interesse legittimo,
la
posizione di chi vuol contestare gli atti con i quali
un’azienda sanitaria locale
organizza al proprio
interno l’attività di prevenzione e gestione dei
rischi sanitari
(risk management) (Cons. St., Sez. III,
21 maggio 2019, n.
3263).
La violazione di siffatti doveri
rileva, di regola,
soltanto all’interno dell’organizzazione degli
apparati pubblici e
può dar origine, a seconda dei
casi, a interventi di tipo propulsivo (diffide) o
146 sostitutivo da parte di organi dotati di
poteri di
vigilanza, all’irrogazione di sanzioni nei confronti
dei dirigenti e dei
funzionari responsabili della
violazione o ad altre forme di penalizzazione
(finanziaria, divieto di assunzione di personale,
ecc.).
I soggetti privati che possono
trarre un beneficio o
un pregiudizio indiretto da siffatte attività sono
portatori, di
regola, di un interesse di mero fatto (o
interesse semplice) a tutela del quale non è
attivabile alcun rimedio giurisdizionale.
Essi possono tutt’al più promuovere
l’osservanza
da parte delle amministrazioni dei doveri, per
esempio con segnalazioni,
petizioni o campagne di
sensibilizzazione dell’opinione pubblica o azioni di
tipo
politico.
Emerge così la necessità di
distinguere gli interessi
di fatto
 dagli   I criteri di distinzione
  tra
interessi di fatto e
interessi legittimi. I interessi legittimi
criteri
giurisprudenziali
sono
essenzialmente due: la differenziazione e la
qualificazione (Consiglio di Stato,
Ad. Plen., 9
dicembre 2021, n. 22).
  uanto al primo criterio, perché
possa configurarsi
Q
un interesse legittimo, occorre anzitutto che la
posizione in cui si
trova il soggetto privato rispetto
all’amministrazione gravata da un dovere di agire
sia
diversa da quella della generalità dei soggetti
dell’ordinamento.
Può essere rilevante a questo
riguardo l’elemento
fisico-spaziale  della   La differenziazione e
  la
vicinitas
vicinanza (o
vicinitas),
che rende più
concreto il pregiudizio in capo a
taluni soggetti.
 Così, per esempio, il proprietario
di un terreno che
confina con il terreno al cui proprietario è stato
rilasciato un
permesso a costruire un edificio che
impedirebbe una vista panoramica o
determinerebbe
un altro tipo di pregiudizio si
trova in una posizione differenziata rispetto al
proprietario di aree non contigue, poste magari a
grande distanza. Allo stesso modo,
rispetto a un
piano comunale del traffico che pone limiti
irragionevolmente restrittivi
all’accesso al centro
storico a veicoli privati, i residenti o i titolari di
esercizi
commerciali delle zone interessate si
trovano in una situazione differenziata, per
esempio, rispetto ai residenti dei comuni limitrofi.
Quello della
vicinitas è un criterio elastico e
flessibile che lascia al
giudice un notevole spazio di
valutazione.
Una volta appurato  il   La qualificazione
  giuridica
dell’interesse
carattere
differenziato di un
interesse rispetto a quello
della generalità dei
soggetti, occorre accertare se tale interesse rientri
in qualche
modo nel perimetro della tutela offerta
dalle norme attributive del potere (criterio
della
qualificazione giuridica dell’interesse), che
peraltro, come si dirà, di rado
individuano in modo
esplicito i titolari di un interesse legittimo.
 Nella casistica giurisprudenziale i
due criteri
appaiono collegati nel senso che quanto più
differenziato in base a criteri
materiali risulta un
interesse, tanto è più probabile che esso venga
ritenuto anche
oggetto di una tutela giuridica da
parte dell’ordinamento.
Gli interessi di mero fatto possono
avere una
dimensione individuale o superindividuale. È così
emersa in dottrina e in
giurisprudenza la nozione
di interesse diffuso. E ciò soprattutto a partire
dagli anni
Settanta del secolo scorso, con il
maturare di una nuova consapevolezza sociale e
con il
moltiplicarsi dei bisogni e delle aspettative
dei cittadini anche nei confronti di beni
riferibili
147 all’intera collettività.
Gli interessi diffusi
sono stati definiti variamente
come interessi non personalizzati (o adespoti),
senza
struttura, riferibili in modo indistinto alla
generalità della collettività o a
categorie più o
meno ampie di soggetti (consumatori, utenti,
risparmiatori, fruitori
dell’ambiente, ecc.).
Il  carattere diffuso   Gli interessi diffusi
  come
interessi riferiti
dell’interesse deriva a beni «non rivali» e
dalla caratteristica «non escludibili»

del bene materiale o


immateriale ad esso correlato che non è
suscettibile di appropriazione e di godimento
esclusivi (ambiente, paesaggio, patrimonio storico-
artistico, sicurezza stradale, ecc.).
Con il
linguaggio degli economisti, si tratta, come si
vedrà nel capitolo XI, in genere di beni pubblici
«non
rivali» e «non escludibili»: non rivali, perché
il loro consumo o utilizzo da parte di
uno non ne
impedisce la fruizione da parte di un altro; non
escludibili, perché, una
volta fornito il bene,
nessuno può esserne escluso dalla fruizione.
 Gli interessi diffusi costituiscono
una categoria dai
confini incerti. Essi, infatti, superano la
dimensione individuale in
quanto sono riferibili
agli individui non in sé, ma in relazione al loro
status di consumatore, utente, ecc. Essi finiscono
dunque per
sovrapporsi almeno in parte alla
nozione di interesse pubblico. Essi, inoltre,
oscillano, nelle varie ricostruzioni dottrinali, tra
l’irrilevanza giuridica (e sono
dunque qualificati
come interessi di mero fatto) e la riconducibilità a
una situazione
giuridica soggettiva tipizzata (una
sorta di tertium genus rispetto
al diritto
soggettivo
e all’interesse legittimo).
L’ordinamento giuridico, tuttavia,
ha iniziato a
prendere in considerazione gli interessi diffusi
attribuendo ad essi una
certa rilevanza sia in sede
procedimentale, sia in sede processuale.
Quanto al primo    La tutela
  procedimentale
ambito, l’art. 9 l. n.
241/1990 attribuisce
la facoltà di intervenire
nel procedimento a
qualsiasi soggetto portatore di interessi pubblici o
privati nonché
ai «portatori di interessi diffusi
costituiti in associazioni o comitati» ai quali possa
derivare un pregiudizio dal provvedimento. Il
diritto di partecipazione
consente dunque di
immettere nel procedimento interessi riferibili alla
collettività
(per esempio quello alla tutela
dell’ambiente nell’ambito del procedimento per la
localizzazione di un’opera pubblica) che non
coincidono necessariamente con quello
curato in
via istituzionale e dall’amministrazione titolare del
potere (per esempio
l’amministrazione preposta
alla realizzazione dell’opera pubblica).
Quest’ultima dovrà,
quindi, tenerne conto in sede
di valutazione e ponderazione degli interessi
rilevanti e
di decisione finale.
  iù  complessa è la
P   La tutela
  giurisdizionale
questione della tutela
giurisdizionale degli
interessi diffusi. I
criteri elaborati per aprire la
strada alla tutela giurisdizionale sono
essenzialmente
tre: il collegamento con la
partecipazione procedimentale; l’elaborazione
della nozione
di interesse collettivo, quale specie
particolare di interesse legittimo; la
legittimazione
ex lege.

 
1. Una
prima strada proposta in dottrina  ma non
accolta dalla   La partecipazione al
  procedimento
giurisprudenza è
quella di individuare
nella partecipazione al procedimento ai sensi
della
l. n. 241/1990 un elemento di differenziazione e
qualificazione tale da consentire l’impugnazione
innanzi al giudice amministrativo del
148 provvedimento conclusivo del procedimento.
  uttavia, a ben considerare, diritto di
T
partecipazione al procedimento e legittimazione
processuale hanno funzioni diverse. La
partecipazione al procedimento assolve, come si
vedrà, non soltanto alla funzione di
tutela
preventiva degli interessi dei soggetti suscettibili
di essere incisi dal
provvedimento, ma anche a
quella di fornire all’amministrazione una gamma
più ampia di
informazioni utili per esercitare
meglio il potere. Essa ha dunque un ambito più
ampio
della legittimazione processuale che può
essere riconosciuta soltanto al titolare di una
situazione giuridica soggettiva in senso proprio
che ha subito una lesione alla quale
occorre porre
rimedio.

2.
Un’altra via è stata quella di ampliare le maglie
dell’interesse legittimo fino a
includervi, anche a
costo di qualche forzatura, alcune situazioni nelle
quali il
ricorrente agisce in giudizio per tutelare in
realtà un interesse superindividuale.
È stata posta in proposito la distinzione tra
interessi   Gli interessi
collettivi
 
 propriamente diffusi
e interessi
collettivi, cioè interessi riferibili a
specifiche categorie o gruppi
organizzati
(associazioni sindacali dei lavoratori o
imprenditoriali, partiti politici,
ordini e collegi
professionali, ecc.). A questi organismi
rappresentativi della
categoria o del gruppo è stata
riconosciuta in giurisprudenza una legittimazione
processuale autonoma, collegata a una situazione
di interesse legittimo, allo scopo di
tutelare gli
interessi non già dei singoli appartenenti alla
categoria (legittimati ad
agire in giudizio solo nel
caso in cui subiscano una lesione diretta nella loro
sfera
giuridica individuale), bensì della categoria in
quanto tale. Così un ordine
professionale è
legittimato a impugnare i provvedimenti
amministrativi che consentono a
soggetti diversi
dai propri iscritti di svolgere un’attività ritenuta
rientrante nelle
prerogative riservate alla categoria.
Nel 2010, per esempio, gli organismi
rappresentativi degli avvocati impugnarono un
regolamento governativo in tema di
mediazione
delle controversie civili perché non prevedeva
l’obbligo delle parti di farsi
assistere da un
avvocato iscritto all’albo.
 
3. In
settori particolari il legislatore ha  attribuito
a
determinati   La legittimazione ex
  lege
soggetti istituiti per
la cura di interessi
diffusi una legittimazione
speciale a ricorrere
(legittimazione ex lege). Così, per esempio,
in
materia ambientale, secondo l’art. 18 legge 8 luglio
1986, n. 349, le associazioni che
abbiano ottenuto
un riconoscimento dal ministero dell’Ambiente in
base a certe
caratteristiche minime (dimensione
nazionale o ultraregionale, finalità statutarie,
ordinamento interno democratico, continuità di
azione) possono ricorrere al giudice
amministrativo a tutela degli interessi ambientali.
 Questa e altre analoghe previsioni
legislative non
trasformano gli interessi diffusi in situazioni
giuridiche soggettive di
interesse legittimo o di
diritto soggettivo in senso proprio, ma hanno una
rilevanza
prettamente processuale.
Occorre dedicare un cenno ai
cosiddetti interessi 
individuali   Gli interessi
  individuali
«isomorfi»
«omogenei» o
«isomorfi». Essi
vanno distinti dagli interessi diffusi e collettivi, che
hanno una dimensione
superindividuale in senso
proprio. Essi infatti mantengono il carattere di
situazioni
giuridiche soggettive individuali, e
acquistano una dimensione collettiva solo per il
149 fatto di essere comuni a una pluralità di soggetti.
Si pensi,
per esempio, agli utenti del servizio
elettrico di una città nella quale si verifica una
situazione di interruzione della fornitura di
energia elettrica protratta nel tempo.
 In questi casi l’interesse leso
resta un interesse
individuale e l’elemento di omogeneità e
comunanza consiste nel fatto
che la lesione deriva
da un’attività illecita o illegittima plurioffensiva.
Ciascuno dei soggetti potrebbe
dunque agire in
giudizio autonomamente. Peraltro, molto spesso,
come, per esempio, nel
settore dei rapporti di
utenza nei servizi pubblici, il danno individuale è
di entità
modesta, tale da scoraggiare, in base a
un’analisi costi-benefici, l’esperimento di
un’azione in sede giurisdizionale (cosiddetti small
claims).
Per questi interessi l’ordinamento
prevede forme
di tutela non giurisdizionale semplificate, meno
formalizzate e costose,
innanzi a organismi di
mediazione o conciliazione, oppure innanzi alle
stesse autorità
amministrative di regolazione
(cosiddette ADR, alternative dispute
resolutions, che
includono vari tipi di reclami, ricorsi, ormai
disciplinate da numerose disposizioni legislative
settoriali).
Di  recente, il   Le azioni di classe e il
  ricorso
per l’efficienza
legislatore ha delle amministrazioni
introdotto per essi
rimedi processuali
particolari
definiti, forse impropriamente, «azioni
di classe» (class actions),
secondo i modelli adottati
specie negli Stati Uniti.
 
In particolare, l’art.
840-bis del codice di procedura
civile introdotto dalla legge 12 aprile 2019, n. 31,
«Disposizioni in materia di
azione di classe»
prevede che «i diritti individuali omogenei»
possono essere azionati
da organizzazioni e
associazioni senza scopo di lucro.
Inoltre, il d.lgs. 20 dicembre 2009, n. 198 ha
previsto un ricorso per
l’efficienza delle
amministrazioni e dei concessionari di servizi
pubblici da esperire
innanzi al giudice
amministrativo. Esso consente ai «titolari di
interessi
giuridicamente rilevanti e omogenei per
una pluralità di utenti e consumatori» di adire
il
giudice amministrativo in caso di accertata
violazione di livelli e standard di
qualità
predefiniti, per esempio, nelle carte dei servizi, o di
ritardo nell’adozione di
atti amministrativi
generali. Il ricorso mira a ottenere una pronuncia
del giudice che
ripristini il corretto svolgimento
della funzione o la corretta erogazione di un
servizio pubblico. Esso può essere proposto, oltre
che dai singoli interessati, anche da
associazioni o
comitati costituiti ad hoc. Si pensi per esempio
all’azione proposta da un’associazione dei
consumatori per far rispettare
all’organizzazione
scolastica lo standard normativo rappresentato dal
numero massimo di
alunni che possono comporre
una classe.
Entrambi i testi legislativi da
ultimo citati, in
realtà, introducono uno strumento per aggregare
azioni che i singoli
titolari delle situazioni
giuridiche omogenee sarebbero legittimati a
proporre
individualmente.
11. I
principi generali

Nel primo paragrafo sono state anticipate, in una


visione
d’insieme, le nozioni di funzione, attività,
potere,
provvedimento e procedimento. Conviene
ora in sede conclusiva riprenderle individuando i
150 principi giuridici ad esse correlati. Anche qui
l’obiettivo è
di fornirne una panoramica
complessiva da sviluppare in modo più puntuale
nei capitoli
successivi.
Vanno anzitutto distinti, da un
lato, i principi che
presiedono alla distribuzione delle funzioni tra i
vari
livelli di governo e che sono rivolti al
legislatore (statale e regionale); dall’altro,
i
principi che hanno come destinatarie dirette le
amministrazioni. Caratteristica di
alcuni di questi
ultimi principi  è la   La circolarità dei
  principi
generali
loro interdipendenza
e
circolarità, nel
senso che, come si vedrà, pur essendo ciascuno
dotato di un’autonomia
concettuale, sul piano
funzionale essi operano in modo sinergico con un
effetto di
rafforzamento reciproco. Alcuni principi
hanno una valenza trasversale.
I  principi generali si ricavano da più fonti: la
Costituzione, che,
per esempio, all’art. 97 enuncia
in particolare il principio di
imparzialità e di buon
andamento della pubblica amministrazione; la
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
che all’art. 41 disciplina il
diritto ad una buona
amministrazione; i Trattati europei, dai quali si
ricavano, per esempio, i
principi di sussidiarietà, di
proporzionalità, di precauzione; la l. n. 241/1990,
che pone i principi generali del
procedimento e del
provvedimento.
I principi europei e nazionali sono ormai
strettamente intrecciati in
virtù dei richiami ai
vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario
contenuti sia
nell’art. 117, comma 1, Cost., in tema
di potestà legislativa
statale e regionale, sia
nell’art. 1, comma 1, l. n. 241/1990, in tema di
attività
amministrativa.
In questa parte verranno trattati
soltanto i principi
relativi alle funzioni e al rapporto giuridico
amministrativo, rinviando alla parte terza l’analisi
dei principi sull’organizzazione della
pubblica
amministrazione.

▶ I
principi sulle funzioni. Il principio
fondamentale che presiede
all’allocazione delle
funzioni è il principio di sussidiarietà, menzionato
nei Trattati europei e, in seguito alla legge
costituzionale n. 3/2001, nella Costituzione.
In  particolare, l’art. 5   I principi di
  sussidiarietà e di
TUE enuncia il proporzionalità
principio di
sussidiarietà verticale
con riguardo ai rapporti tra Stati membri e
istituzioni dell’Unione al fine di contenere
le
spinte all’accentramento di funzioni in capo a
queste ultime. Dal principio di
sussidiarietà deriva
anzitutto che l’Unione europea agisce
esclusivamente nei limiti
delle competenze
assegnate (tassatività delle competenze) e che, per
contro, gli Stati
membri sono titolari della
generalità delle competenze residue. Inoltre, le
competenze
attribuite all’Unione europea non
devono eccedere quelle necessarie per conseguire
gli
scopi dell’Unione che non possono essere curati
meglio dagli Stati membri, né a livello
centrale né a
livello locale.
  ’art. 5 menziona anche il
principio di
L
proporzionalità in base al quale il contenuto e la
forma dell’azione
dell’Unione non devono
eccedere quanto necessario per il conseguimento
degli obiettivi
dei Trattati (comma 4).
I parlamenti nazionali, come si è
accennato,
vigilano sul rispetto del principio di
proporzionalità con le modalità
stabilite in un
151 Protocollo allegato al Trattato che prevede un
coinvolgimento preventivo degli Stati membri
nella fase preparatoria degli atti
normativi europei.
Nel diritto interno, l’art. 118 Cost. richiama i
principi di sussidiarietà,
differenziazione e
adeguatezza che vanno a integrare e a rafforzare il
principio
autonomistico posto dall’art. 5.
L’art. 118  prevede che   La sussidiarietà
  verticale
la generalità delle
funzioni sia attribuita
al
livello di governo più vicino al cittadino e cioè al
comune. Solo le funzioni delle
quali è necessario
assicurare un esercizio unitario che supera la
dimensione
territoriale dei comuni possono essere
attribuite ai livelli di governo via via più
elevati e
cioè alle province, alle città metropolitane, alle
regioni e allo
Stato. Le funzioni amministrative
vanno dunque allocate tra gli enti territoriali
secondo il criterio della dimensione degli interessi
(locale, regionale o nazionale). Da
qui
l’espressione sussidiarietà verticale.
 I principi posti dall’art. 118 Cost. trovano
svolgimento con riferimento alle
singole materie di
legislazione amministrativa nel d.lgs. 31 marzo
1998, n. 112, già richiamato all’inizio di
questo
capitolo, che ha operato un riordino organico delle
funzioni amministrative. Il
decreto legislativo,
emanato sulla base della legge di delega 15 marzo
1997, n. 59 per il conferimento
delle funzioni ai vari
livelli di governo, specifica e sviluppa i principi
enunciati
nella disposizione costituzionale.
Oltre a richiamare il principio di
sussidiarietà, la l.
n. 59/1997 definisce il principio di adeguatezza, che
attiene
«all’idoneità organizzativa
dell’amministrazione ricevente [le funzioni,
N.d.A.]», e il
principio di differenziazione, che
mira a tener conto «delle diverse caratteristiche,
anche associative, demografiche, territoriali e
strutturali degli enti riceventi» (art. 4, comma 3,
lett. g) e h)). Questi due principi sono
volti in
particolare a salvaguardare le specificità di oltre
8.000 comuni e a
sollecitare l’attivazione di forme
di collaborazione tra enti territoriali per
l’esercizio
in forma associata di talune funzioni.
La l. n. 59/1997 menziona altresì i
principi di
efficienza e di economicità, di responsabilità e
unicità
dell’amministrazione (con l’attribuzione a
un unico soggetto delle funzioni e dei
compiti
connessi, strumentali e complementari), di
omogeneità, di copertura finanziaria
e
patrimoniale dei costi per l’esercizio delle
funzioni, di autonomia organizzativa e
regolamentare (art. 4, comma 3).
La Costituzione    La sussidiarietà
  orizzontale
richiama anche la
cosiddetta
sussidiarietà orizzontale, che serve invece a
definire i rapporti tra poteri
pubblici e società
civile. L’art. 118, comma 4, stabilisce, infatti, che lo
Stato e gli
enti territoriali «favoriscono l’autonoma
iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo
svolgimento di attività di interesse generale, sulla
base del principio di
sussidiarietà». Questa
disposizione ha il valore simbolico, da un lato, di
escludere che
i poteri pubblici detengano il
monopolio nella cura degli interessi della
collettività,
e, dall’altro, di valorizzare le forme di
autorganizzazione della società civile. Sul
piano
logico la dimensione orizzontale della sussidiarietà
precede quella verticale. Si
ispira al principio di
sussidiarietà orizzontale il recente Codice del
Terzo settore che
lo richiama sin dal primo
articolo (d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117). Come ha
chiarito la Corte
costituzionale, il Codice delinea il
152 Terzo settore come il «complesso dei
soggetti di
diritto privato che esercitano […] una o più
attività
di interesse generale per il perseguimento, senza
scopo di lucro, di finalità
civiche, solidaristiche e di
utilità sociale […] in attuazione del principio di
sussidiarietà» (sentenza n. 185 del 2018).
 Anche il principio di
proporzionalità , posto come
si è accennato   Il principio di
  proporzionalità
dall’art. 5 TUE, è
enunciato in varie
disposizioni legislative
europee recepite nel diritto
nazionale come criterio per la disciplina delle
funzioni e
dei poteri.
  sso è richiamato, per esempio, come si è
E
accennato, nella direttiva
(CE) 2006/123 relativa al
mercato interno dei servizi, recepita nel d.lgs. 26
marzo 2010, n. 59. Infatti, la scelta del
legislatore
se istituire o mantenere un regime di
autorizzazione
preventiva piuttosto che di
semplice comunicazione all’amministrazione
dell’avvio di
un’attività deve avvenire nel rispetto
del principio di proporzionalità (oltre che di
non
discriminazione) (art. 14 d.lgs. n. 59/2010),
valutando, come specifica la
direttiva, se
«l’obiettivo perseguito non può essere conseguito
tramite una misura meno
restrittiva» (art. 9,
comma 1, lett. c)).
I principi in questione, essendo
rivolti al
legislatore, sono soprattutto principi e criteri di
policy da far valere nelle sedi politiche, più che
principi
giuridici che fondano pretese azionabili in
sede giurisdizionale.
▶ I
principi sull’attività. Secondo l’art. 1 l. n.
241/1990 «l’attività amministrativa persegue i
fini
determinati dalla legge ed è retta da criteri di
economicità, di efficacia, di
imparzialità, di
pubblicità e di trasparenza […] nonché dai principi
dell’ordinamento
comunitario». Tali criteri o
principi, sebbene riferiti testualmente all’attività,
possono valere in realtà anche per l’atto e il
procedimento amministrativo.
Poiché, come si è accennato,
l’attività
amministrativa riguarda in modo unitario il
complesso delle operazioni, dei
comportamenti e
degli atti posti in essere da un apparato
amministrativo, anche
l’applicazione dei criteri
enunciati nell’art. 1 consente di formulare un
giudizio
globale sull’operato dell’amministrazione.
Un siffatto giudizio verte, da un lato, sulla
coerenza complessiva dell’attività rispetto alla
«missione» affidata dal legislatore e
sulla sua
conformità (al di là della legittimità dei singoli
atti) alle norme
giuridiche; dall’altro lato, sul buon
andamento, cioè sui risultati più o meno positivi
effettivamente conseguiti mediante l’uso efficiente
delle risorse disponibili.
A  tal
proposito, è   Il principio del buon
  andamento e
stata di recente l’amministrazione di
elaborata, come si è risultato

accennato, la nozione
di
«amministrazione di risultato» che si aggancia al
principio più tradizionale di buon
andamento di
cui all’art. 97 Cost. Si tratta di una nozione dai
contorni sfumati
che, però, tende a mettere in luce
come nell’attuale fase evolutiva dell’ordinamento
sia
cresciuta l’attenzione nei confronti
dell’efficienza, efficacia ed economicità
dell’azione
amministrativa. Diventa invece recessiva
l’impostazione tradizionale che
considerava
l’azione amministrativa principalmente nel prisma
della legalità formale ed
era incline a ritenere che il
rispetto della legalità fosse di per sé garanzia del
buon
andamento della pubblica amministrazione.
Come si vedrà, la l. n. 241/1990 ha attenuato il
153 rigore della legalità formale
limitando la possibilità
di annullare atti affetti da vizi che
non inficiano la
sostanza della decisione (art. 21-octies).
 L’amministrazione di risultato
richiama la nozione
di performance degli apparati amministrativi.
Nel contesto di una riforma tesa a
promuovere
l’efficienza della pubblica amministrazione, il
legislatore ha disciplinato
il cosiddetto «ciclo delle
performance» che si applica agli apparati
amministrativi nel
loro complesso (d.lgs. 27
ottobre 2009, n. 150). Le fasi del ciclo delle
performance sono principalmente le seguenti: la
definizione di obiettivi, l’allocazione
delle risorse,
il monitoraggio in corso di esercizio, la
misurazione e valutazione della
performance
organizzativa e dei singoli dipendenti, l’utilizzo di
sistemi premianti. La
performance organizzativa si
riferisce, in particolare, al grado di soddisfazione
dei
cittadini e degli utenti, all’efficienza
nell’impiego delle risorse, alla quantità e
qualità
dei servizi erogati (art. 8). Ad essa si collega poi la
performance individuale
dei dipendenti pubblici.
Più  precisamente,   I principi di efficienza,
  efficacia ed
secondo le scienze economicità
aziendali, il principio
di efficienza,
richiamato dall’art. 1 l. n. 241/1990 attraverso il
riferimento
all’economicità, mette in rapporto la
quantità di risorse impiegate con il risultato
dell’azione amministrativa e focalizza l’attenzione
sull’uso ottimale dei fattori
produttivi. È efficiente
l’attività amministrativa che raggiunge un certo
livello di
performance utilizzando in maniera
oculata le risorse disponibili e scegliendo tra le
alternative possibili quella che produce il massimo
dei risultati con il minor impiego
di mezzi.
 Il principio di
efficacia misura invece i risultati
effettivamente ottenuti rispetto
agli obiettivi
prefissati (livelli qualitativi di un servizio,
soddisfazione
dell’utenza, ecc.) in un piano o un
programma.
I due principi operano in modo
indipendente,
perché può darsi il caso di un livello elevato di
efficacia, raggiunto
però con un impiego
inefficiente delle risorse. Inversamente può anche
darsi il caso di
un’azione efficiente, perché non dà
luogo a sprechi, ma inefficace perché non
raggiunge
gli obiettivi prefissati.
L’economicità si riferisce alla
capacità di lungo
periodo di un’organizzazione di utilizzare in modo
efficiente le
proprie risorse raggiungendo in modo
efficace i propri obiettivi e, in qualche modo,
condensa gli altri due principi.
Il principio  di   Il principio di
  pubblicità e
pubblicità e di trasparenza
trasparenza è
enunciato a
livello
europeo. Infatti, il Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea precisa che
«Al fine di
promuovere il buon governo e garantire la
partecipazione della
società civile, le istituzioni,
gli organi e gli organismi dell’Unione operano nel
modo più
trasparente possibile» (art. 15). Viene
altresì stabilito che le istituzioni, gli organi
e
organismi dell’Unione si basano su
«un’amministrazione europea aperta» (oltre che
«efficace e indipendente»: art. 298), ispirandosi
così al principio dell’open
government in base al
quale le determinazioni assunte devono essere rese
accessibili a chi vi ha interesse.
  a Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione
L
europea attribuisce a ogni individuo il diritto «di
154 accedere al fascicolo
che lo riguarda, nel rispetto
dei legittimi interessi della
riservatezza e del
segreto professionale» (art. 41, comma 2).
Il principio di pubblicità e
trasparenza rileva
principalmente in due ambiti.
Il primo ambito si riferisce all’organizzazione  e
all’attività della   La trasparenza come
  accessibilità
totale
pubblica delle informazioni
amministrazione che
è tenuta a
mettere a
disposizione della generalità degli interessati, con
modalità di pubblicazione
predeterminate da parte
dell’amministrazione (albi, bollettini, siti, ecc.),
un’ampia
serie di informazioni. La normativa
anticorruzione enuncia il principio generale di
trasparenza «intesa come accessibilità totale delle
informazioni concernenti
l’organizzazione e
l’attività delle pubbliche amministrazioni, allo
scopo di favorire
forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull’utilizzo delle risorse pubbliche» (art. 1 d.lgs. 14
marzo 2013, n. 33, che ha riordinato
l’intera
materia). Come specificazione del principio di
trasparenza, il d.lgs. n. 33/2013 prevede obblighi di
pubblicità per
un’amplissima serie di informazioni
relative ai dati patrimoniali di chi ricopre cariche
elettive e incarichi in enti pubblici e società
pubbliche, agli incarichi di consulenza
esterna, ai
contratti pubblici, ai bandi di concorso, ecc.
 Il secondo ambito, più specifico, si riferisce al
diritto di
accesso ai documenti
amministrativi
che, come si è già visto, la l. n. 241/1990 definisce
«principio generale dell’attività
amministrativa al
fine di favorire partecipazione e di assicurarne
l’imparzialità e la
trasparenza» (art. 22, comma 2).
Il diritto di accesso è stato ampliato, come si è
visto, con
l’introduzione dell’accesso
civico. È
stata anche prevista, sotto il profilo organizzativo,
la
nomina all’interno di ogni pubblica
amministrazione di un responsabile per la
trasparenza (che di norma coincide con il
responsabile per la prevenzione della
corruzione).
Quest’ultimo deve monitorare il rispetto degli
obblighi di pubblicazione
segnalando le
inadempienze all’organo di indirizzo politico,
all’organismo indipendente
di valutazione e
all’Autorità nazionale anticorruzione (art. 43
d.lgs. n. 33/2013).
La pubblicità e la trasparenza così
intese si
ricollegano alla concezione dell’amministrazione
come «casa di vetro» [Turati
1908], e sono un
fattore volto a promuovere la verificabilità ex
post
dell’attività e dunque, in definitiva, l’imparzialità
anche in
funzione di prevenzione della corruzione.
Inoltre, poiché consentono un controllo
diffuso
dell’attività per così dire dal basso, esse fungono
anche da fattore di
legittimazione degli apparati
amministrativi.

▶ I
principi sull’esercizio del potere
discrezionale.
I principi che
presiedono all’esercizio del potere
discrezionale sono essenzialmente il principio di
imparzialità, di proporzionalità, di ragionevolezza,
di tutela del legittimo
affidamento, di precauzione.
Il principio di imparzialità è richiamato dall’art. 97
 Cost. e dall’art. 41   Il principio di
  imparzialità
della Carta dei diritti
fondamentali
dell’Unione
europea. Riferito all’esercizio della
discrezionalità, esso consiste
essenzialmente nel
155 «divieto di favoritismi» [Giannini 1988,
91]:
l’amministrazione non può essere influenzata nelle
sue decisioni da interessi
politici, da gruppi di
pressione privati (lobby) o da singoli individui o
imprese,
favoriti per ragioni di amicizia o di
parentela. Il principio di imparzialità (o di non
discriminazione, secondo il linguaggio europeo),
così inteso, è posto a garanzia della
parità di
trattamento (par condicio) e, in definitiva,
dell’uguaglianza dei cittadini di fronte
all’amministrazione.
I  l principio di imparzialità impone
alle
amministrazioni un vincolo giuridico che è assente
nel caso dell’agire dei soggetti
privati. Questi ben
possono orientare le proprie scelte favorendo
alcuni e penalizzando
altri, purché non vengano
superati i limiti generali o speciali dell’autonomia
negoziale
(per esempio, in materia successoria,
con riguardo alla quota di legittima riservata ai
familiari più stretti). Il principio di imparzialità
permea invece l’attività e, come si
vedrà, anche
l’organizzazione della pubblica amministrazione.
Ad essa sono funzionali
altri principi e tra di essi,
in particolare la pubblicità e trasparenza, la
motivazione
e il principio di concorsualità nei
contratti pubblici o nell’accesso agli impieghi
nelle
pubbliche amministrazioni.
Il principio di imparzialità può entrare in tensione
con il principio
della responsabilità politica delle
amministrazioni volto a inserirle nel circuito
politico amministrativo (art. 95 Cost.). I vertici
delle pubbliche amministrazioni
(ministri,
presidenti di regioni, sindaci), che costituiscono il
punto di raccordo tra
politica e amministrazione,
sono portati a perseguire obiettivi coerenti con le
priorità
della propria base elettorale. E siccome gli
apparati amministrativi sono i principali
erogatori
di risorse e di altri benefici diretti o indiretti
(assunzioni di dipendenti,
contratti, atti
autorizzativi, ecc.) utili al fine dell’accrescimento
del consenso
elettorale, i vertici politici sono
tentati talora a ingerirsi nella gestione e, dunque,
a
condizionare a fini di parte le scelte
amministrative. Come si vedrà trattando della
dirigenza
pubblica, la riforma del pubblico
impiego degli anni Novanta del secolo scorso
ha
introdotto il principio della distinzione tra
indirizzo politico amministrativo e
gestione.
Un  secondo   Il principio di
  proporzionalità
principio che
presiede all’esercizio
della discrezionalità è il principio di
proporzionalità. Esso trae origine dalla
giurisprudenza costituzionale e amministrativa
tedesca (Verhältnismässigkeit) ed è stato poi fatto
proprio dalla
Corte di giustizia dell’Unione
europea soprattutto in materia di sanzioni, di aiuti
di
Stato, di deroghe alle regole della concorrenza,
assurgendo così a principio generale
dell’ordinamento europeo. Il principio di
proporzionalità, che assume particolare
rilievo nel
caso di poteri che incidono negativamente nella
sfera giuridica del
destinatario, richiede
all’amministrazione di applicare in sequenza tre
criteri:
idoneità, necessarietà e adeguatezza della
misura prescelta.
 L’idoneità
(Geeignetheit) mette in relazione il mezzo
adoperato con
l’obiettivo da perseguire. In base a
tale criterio vanno scartate tutte le misure che
non
sono in grado di raggiungere il fine. La
necessarietà
(Erforderlichkeit), detta anche la
«regola del mezzo più mite»
(Gebot des mildesten
Mittels), mette a confronto le misure
ritenute
idonee e orienta la scelta su quella che comporta il
156 minor sacrificio possibile
degli interessi incisi dal
provvedimento. L’adeguatezza
(Angemessenheit)
consiste nella valutazione
(Abwägung) della scelta
finale in termini di tollerabilità
della restrizione o
incisione nella sfera giuridica del destinatario del
provvedimento:
gli inconvenienti causati non
devono essere eccessivi rispetto agli scopi
perseguiti e
se essi superano un determinato
livello va rimessa in discussione la scelta
medesima.
In definitiva, per riprendere una
nota immagine
[Fleiner 1912], la proporzionalità consiste
«nell’accertare se per sparare
ai passeri si è
impiegato un cannone».
Il  principio di   Il principio di
  ragionevolezza
proporzionalità
costituisce una
specificazione di un principio ancora più
generale,
di natura in realtà pregiuridica, costituito dal
principio di
ragionevolezza. In base alla teoria
delle scelte razionali, infatti,
anche la pubblica
amministrazione, al pari degli operatori economici
(il cosiddetto
homo oeconomicus), è un agente in
grado di perseguire
determinati obiettivi ponendo
in essere azioni logiche, coerenti e ad essi
funzionali.
Si può ritenere infatti illogico, prima
ancora che sproporzionato, l’impiego di un mezzo
che eccede per dimensione o intensità quello
strettamente necessario per raggiungere
l’obiettivo. Il principio di ragionevolezza ha però,
come si vedrà, un’estensione più
ampia rispetto a
quello di proporzionalità e assume rilievo generale
nell’ambito del
sindacato di legittimità dei
provvedimenti amministrativi come figura
sintomatica
dell’eccesso di
potere.
 Il principio di proporzionalità,
oltre ad essere
criterio di esercizio della discrezionalità
amministrativa, è, come si è visto, un parametro
che deve guidare il
legislatore nel momento in cui
alloca e disciplina i poteri dei vari livelli di
governo.
Anche il principio di ragionevolezza
vincola la discrezionalità del legislatore, come
più
volte chiarito dalla Corte costituzionale.
Un altro principio che presiede all’esercizio della
 discrezionalità,   Il principio del
  legittimo
affidamento
anch’esso di
derivazione europea
ed
elaborato prima ancora nella giurisprudenza
tedesca, è il principio del legittimo
affidamento
(Vertrauensschutz). Esso mira a
tutelare le
aspettative ingenerate dalla pubblica
amministrazione con un suo atto o
comportamento. Nel diritto europeo il principio ha
trovato applicazione, per esempio,
nella materia
degli aiuti di Stato. La giurisprudenza anche
nazionale ha chiarito che le
imprese che ne siano
state beneficiarie non possono contrastare l’azione
di recupero in
base al principio del legittimo
affidamento ove gli aiuti siano stati concessi senza
che
il regime sia stato notificato preventivamente
alla Commissione europea (Corte di
cassazione,
ordinanza 29 ottobre 2018, n. 27401).
 Nel diritto interno il principio del legittimo
affidamento interviene,
per esempio, a proposito
del potere di annullamento d’ufficio del
provvedimento illegittimo,
per l’esercizio del quale
è richiesta all’amministrazione una valutazione
degli
interessi dei destinatari del provvedimento e
una considerazione del tempo ormai
trascorso
(art. 21-nonies
l. n. 241/1990).
Il principio della tutela del
legittimo affidamento si
ricollega  al principio   Il principio della
  certezza del
diritto
ancor più
generale di
diritto europeo della
157 certezza del diritto,
enunciato anch’esso dalla
Corte di giustizia dell’Unione
europea, che mira a
garantire un quadro giuridico stabile e chiaro. Tale
principio ha
come destinatario anzitutto il
legislatore (non retroattività, stabilità e coerenza
delle norme), ma implica che anche l’agire
dell’amministrazione deve essere prevedibile
e
coerente nel suo svolgimento.
 Va menzionato, da ultimo, il principio di
precauzione,   Il principio di
  precauzione
 enunciato in materia
ambientale nel
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea
(art. 191, comma 2) ed elevato dalla giurisprudenza
comunitaria a principio di carattere generale
applicabile nei campi di azione che
involgono
interessi pubblici come la salute e la sicurezza dei
consumatori. Il principio
di precauzione comporta
che, quando sussistono incertezze in ordine
all’esistenza o al
livello di rischi per la salute delle
persone, le autorità competenti possono adottare
misure protettive senza dover attendere che sia
dimostrata in modo compiuto la realtà e
la gravità
di tali rischi. La giurisprudenza italiana ha iniziato
a utilizzarlo, per
esempio, in materia di
autorizzazione alla messa in coltura di sementi
geneticamente
modificate (OGM) o in materia di
inquinamento da elettromagnetismo.
  ul principio di precauzione è intervenuta la
S
comunicazione della Commissione del 2 febbraio
2000 (COM(2000)
1) che illustra i fattori che
giustificano il ricorso al principio
(identificazione
degli effetti potenzialmente negativi, valutazione
scientifica,
incertezza scientifica) e le misure da
adottare (decisione di agire o di non agire,
adozione di misure proporzionate, non
discriminatorie, coerenti, che esaminano in modo
comparato vantaggi e oneri, ecc.).
Il principio di precauzione
costituisce soprattutto
un principio guida per il legislatore. Esso può
trovare
applicazione, entro certi limiti, anche come
regola di esercizio della discrezionalità.
▶ I
principi sul provvedimento. I principi che
si riferiscono specificamente
al provvedimento
amministrativo, in aggiunta al principio di
legalità già esaminato nel capitolo II, sono il
principio della motivazione e il
principio di
sindacabilità degli atti.
Il primo è desumibile dalla Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione
europea laddove
sancisce «l’obbligo per l’amministrazione di
motivare le proprie
decisioni» (art. 41, comma 2) e,
come si vedrà, dalla l. n. 241/1990 (art. 3). Secondo
la giurisprudenza
amministrativa e costituzionale,
l’obbligo di motivazione è «il presupposto, il
fondamento, il baricentro e l’essenza stessa del
legittimo esercizio del potere
amministrativo e,
per questo, un presidio di legalità sostanziale» (da
ultimo, Cons. St., Sez. III, 15 febbraio 2019, n.
1085).
Poiché attraverso la motivazione il
destinatario del
provvedimento e il giudice amministrativo sono
messi in grado di
ricostruire le ragioni poste a
fondamento della decisione, il principio della
motivazione può essere messo in relazione con il
principio di trasparenza e, in ultima
analisi, con
quello dell’imparzialità della decisione.
Il principio di sindacabilità degli atti
amministrativi (o anche di
azionabilità delle
situazioni giuridiche soggettive nei confronti della
158 pubblica
amministrazione) è sancito dagli artt. 24 e
113 Cost.: gli atti amministrativi che ledono i diritti
soggettivi e gli interessi legittimi sono sempre
sottoposti al controllo giurisdizionale
del giudice
ordinario o del giudice amministrativo.

▶ I
principi sul procedimento. I principi
relativi al procedimento
amministrativo sono il
principio del contraddittorio, il principio di
certezza dei tempi, il
principio di efficienza, il
principio di correttezza e buona fede.
Il  principio del   Il principio del
  contraddittorio
contraddittorio non
trova un fondamento
diretto nella Costituzione, ma è
richiamato nella
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
secondo la quale
ogni individuo ha diritto «di
essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga
adottato un provvedimento individuale che gli
rechi pregiudizio» (art. 41, comma 2). Esso è stato
poi sviluppato, come si
vedrà, nella l. n. 241/1990,
che disciplina la partecipazione al
procedimento
amministrativo (artt. 7 ss.).
 La Corte di giustizia dell’Unione europea lo ha
qualificato come
«principio di diritto
amministrativo ammesso in tutti gli Stati membri
della Comunità e che
risponde alle esigenze della
giustizia e della sana amministrazione» (C. giust. 4
luglio 1963, in causa C-32/62). Del resto anche
il
Consiglio di
Stato, nel silenzio della legge, fin
dalle sue prime decisioni lo
fece proprio in quanto
«principio di eterna giustizia» che trova un
fondamento ultimo
nella legge di natura (Cons. St.,
Sez. IV, 29 novembre 1895, n. 423).
Talora, il diritto  dei   Il principio del giusto
  procedimento
privati di esporre
le
proprie ragioni prima
che venga emanato un provvedimento limitativo
dei loro diritti
viene assimilato al principio del
giusto processo (due process)
elaborato negli
ordinamenti anglosassoni e ora inserito nella
Costituzione (art. 111, comma 1). In realtà, come ha
chiarito più volte la
Corte costituzionale (da
ultimo sentenza n. 71/2015 in materia di
espropriazione), il principio del giusto
procedimento non ha fondamento costituzionale.
  n  altro principio è
U   Il principio di certezza
  del
tempo dell’agire
costituito dal amministrativo e di
principio di certezza celerità
del tempo dell’agire
amministrativo e di celerità. La Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea attribuisce a
ogni individuo anche il diritto a «che le
questioni
che lo riguardano siano trattate […] entro un
termine ragionevole» (art. 41, comma 1). La l. n.
241/1990 lo rende concreto nella disciplina volta a
individuare per ciascun tipo di procedimento un
termine massimo entro il quale
l’amministrazione
deve emanare il provvedimento finale che
conclude il procedimento
amministrativo (art. 2).
 La durata ragionevole del
procedimento e il
rispetto dei termini massimi perseguono due
obiettivi. In primo luogo,
tutelano gli interessi dei
soggetti coinvolti, per i quali, in particolare, la
certezza
del tempo dell’agire dell’amministrazione
costituisce un fattore essenziale per poter
programmare le proprie attività. In secondo luogo,
tendono a promuovere l’efficienza e
l’efficacia
dell’azione amministrativa: l’ottimizzazione dei
tempi dei procedimenti
amministrativi costituisce
uno degli indicatori della performance
organizzativa (art. 8, lett. f ), d.lgs. n. 150/2009) e il
rispetto del
termine un elemento di valutazione
159 dell’operato dei responsabili degli
uffici.
La l. n. 241/1990 richiama anche il principio di
efficienza ,   Il principio di
  efficienza
prevedendo, in
particolare, che
l’amministrazione «non può aggravare il
procedimento se non per straordinarie e motivate
esigenze imposte dallo svolgimento
dell’istruttoria» (art. 1, comma 2).
  na modifica recente  alla l. n. 241/1990 ha
U
aggiunto all’art. 1 il comma
2-bis secondo il quale i
rapporti tra il   Il principio di
  correttezza e
buona
cittadino e la fede
pubblica
amministrazione
sono improntati al principio di buona fede (oltre
che a quello
di collaborazione). Entrambe le parti
del rapporto giuridico amministrativo sono tenute
al rispetto del principio in questione: da un lato, la
pubblica amministrazione non deve
disattendere
gli affidamenti incolpevoli ingenerati nei privati;
dall’altro lato, questi
ultimi sono gravati da «oneri
di diligenza e leale collaborazione verso
l’amministrazione» (Cons. St., Ad. Plen., 4 aprile
2018, n. 5 e 30 novembre 2021, nn. 19
e 20). Per
esempio, il privato che partecipa al procedimento
non deve trarre in inganno
l’amministrazione, per
esempio omettendo informazioni rilevanti o
producendo
documentazione falsa. Il
procedimento amministrativo deve svolgersi in
definitiva
all’insegna della fiducia reciproca.
 
CAPITOLO 4

Il provvedimento

161
1. Premessa

Nel capitolo III il provvedimento è stato


definito
come la manifestazione di volontà
dell’amministrazione tesa a produrre in modo
unilaterale effetti giuridici nei confronti del
soggetto destinatario.
Nel capitolo I, nel trattare dei «fallimenti
del
mercato», sono stati fatti vari esempi di misure di
command and
control, cioè di provvedimenti
amministrativi la cui adozione è
necessaria per
supplire alle carenze degli strumenti privatistici
(fallimenti del
mercato).
Per realizzare    Esempi di
  provvedimenti
un’infrastruttura
pubblica, come una
tratta ferroviaria o
autostradale, l’acquisizione dei
terreni potrebbe certamente avvenire tramite
contratti
di compravendita. Ma in mancanza del
consenso dei proprietari lo Stato ha a disposizione
lo strumento coattivo dell’espropriazione per
pubblica utilità.
 In materia ambientale, lo Stato ben
potrebbe
avviare una campagna di sensibilizzazione o
concedere agevolazioni fiscali alle
imprese che
utilizzano impianti meno inquinanti. Ma di regola
si rivelano più efficaci
misure prescrittive (per
esempio, tetti alle emissioni inquinanti), strumenti
di
controllo
preventivo (autorizzazioni
all’installazione di fonti inquinanti) e repressivi
(sanzioni
pecuniarie).
Ancora, i proprietari dei terreni
di un comune
potrebbero raggiungere un accordo per edificare il
territorio in modo
ordinato. Ma poiché all’atto
pratico ciò è impossibile, a questo fine provvedono
i piani
regolatori e i permessi a costruire rilasciati
162 ai singoli
proprietari.
L’espropriazione, l’autorizzazione, la
sanzione
pecuniaria, il piano regolatore, il permesso a
costruire costituiscono esempi
di provvedimenti
per mezzo dei quali l’autorità amministrativa
provvede alla cura in
concreto dell’interesse
pubblico alla quale è tenuta in base alla legge.
Il provvedimento    Il provvedimento, la
  legge, la
sentenza
costituisce dunque come espressioni
una manifestazione dell’autorità dello
Stato
dell’autorità dello
Stato. In un sistema
costituzionale improntato al principio della
tendenziale
separazione dei poteri il
provvedimento, espressione del potere esecutivo,
si colloca a fianco di due atti tipici riconducibili
agli altri due poteri dello Stato:
la legge,
espressione del potere legislativo, che innova
l’ordinamento giuridico,
definendo in via generale
e astratta i diritti e gli obblighi dei cittadini (la
cosiddetta forza di legge); la sentenza, espressione
del potere giurisdizionale, che
risolve la
controversia imponendo alle parti, in modo
definitivo e non più discutibile
(la cosiddetta
autorità del giudicato), la regola concreta del
rapporto giuridico
intercorrente tra esse.
  ome si è già accennato, il
provvedimento, così
C
come la legge e la sentenza, è assunto all’esito di
un procedimento
atto a garantire trasparenza e
tutela degli interessi coinvolti.
La disciplina del provvedimento è
contenuta nella
l. n. 241/1990 (il Capo IV-bis, aggiunto
dalla legge 11
febbraio 2005, n. 15).
2. Il
regime del provvedimento:
a) la
tipicità
Tra i caratteri del provvedimento, va richiamata
anzitutto la
tipicità. Essa si contrappone
all’atipicità dei negozi giuridici privati
enunciata
dall’art. 1322, comma 2, cod. civ., in base al quale le
parti
possono concludere contratti non
appartenenti ai tipi disciplinati dallo stesso codice
civile, purché siano diretti a realizzare interessi
meritevoli di tutela secondo
l’ordinamento
giuridico. L’atipicità riguarda dunque sia i fini
perseguiti correlati
agli interessi delle parti, sia gli
strumenti giuridici per perseguirli.
La pubblica amministrazione, al
contrario, è
tenuta, come si è visto nel capitolo II, a perseguire
esclusivamente il fine stabilito
dalla norma di
conferimento del potere e può utilizzare soltanto
lo strumento
giuridico definito dalla stessa norma.
In questo senso, si può affermare
che la tipicità dei
poteri e dei provvedimenti amministrativi è un
corollario del
principio di
legalità inteso in senso
sostanziale.
Costituiscono un’attenuazione del
principio di
tipicità le cosiddette ordinanze contingibili e
urgenti che, come si è visto
nel capitolo II,
possono
essere emanate nei casi e per i fini previsti
dalla legge, ma che non sono tipizzate. La
legge
rimette infatti all’organo competente la
determinazione del contenuto e degli
effetti del
provvedimento.
Si fa riferimento talora anche alla
nominatività 
dei provvedimenti   La nominatività
 
per indicare
che, in
omaggio al principio di legalità inteso in senso
formale, l’amministrazione può
emanare soltanto
gli atti ai quali la legge fa espresso riferimento. In
questo senso si
può dire che anche le ordinanze
contingibili e urgenti, pur essendo atipiche, sono
163 nominate.
 Il 
principio di   I poteri impliciti
 
tipicità e la
nominatività escludono che si possano riconoscere
in capo
all’amministrazione poteri impliciti, cioè
poteri non espressamente previsti dalla
legge. La
giurisprudenza, tuttavia, specie nel caso delle
autorità amministrative
indipendenti, tende a
offrire un’interpretazione estensiva ed elastica
delle norme
attributive del potere, anche nel
tentativo di colmare lacune presenti nelle leggi di
settore. I poteri impliciti infatti sono quelli
ricavabili «dal complesso della
disciplina della
materia, perché strumentali all’esercizio di altri
poteri» (Cons. St.,
Sez. VI, 14 dicembre 2020, n.
7972).
3. b) La cosiddetta imperatività

Dagli esempi fatti nel primo paragrafo si può già


ricavare che l’atto
amministrativo si differenzia
dai negozi di diritto privato perché è
dotato di una
particolare forza giuridica atta a far prevalere, ove
occorra, l’interesse
pubblico sugli interessi dei
soggetti privati.
Si manifesta così un secondo carattere del
provvedimento e cioè la
cosiddetta imperatività o
autoritarietà, secondo l’espressione deducibile,
come
si è visto, dall’art. 1, comma 1-bis, l. n.
241/1990.
Essa consiste nel fatto che la
pubblica
amministrazione titolare di un potere attribuito
dalla legge può imporre al soggetto
privato
destinatario del provvedimento le proprie
determinazioni operando in modo
unilaterale una
modifica nella sua sfera giuridica. Così,
nell’esempio già ricordato, il
decreto di esproprio
produce lo stesso effetto traslativo del diritto di
proprietà che
potrebbe essere realizzato attraverso
il contratto di compravendita. Nell’imperatività
si
manifesta la dimensione verticale (di
sovraordinazione) dei rapporti tra Stato e
cittadino che si contrappone a quella orizzontale
(di equiordinazione) delle relazioni
giuridiche
privatistiche.
La nozione di imperatività emerse
in
giurisprudenza nella seconda metà del XIX secolo
per individuare l’ambito della
giurisdizione del
giudice ordinario nei confronti della pubblica
amministrazione. Esso
venne limitato cioè ai
cosiddetti «atti di gestione» (espressione della
capacità di
diritto privato), distinti appunto dagli
«atti di imperio ».   Gli atti d’imperio
 
  ’imperatività servì anche a
giustificare la
L
«degradazione» (o affievolimento) del diritto
soggettivo
in interesse
legittimo ad opera del
provvedimento radicando così la giurisdizione del
giudice amministrativo.
In realtà, a ben considerare,
l’imperatività non è
nient’altro che una formula lessicale che esprime
la particolare
modalità di produzione degli effetti
nei rapporti tra l’amministrazione titolare del
potere e il soggetto privato titolare di un interesse
legittimo (secondo lo schema del
diritto
potestativo stragiudiziale già esaminato nel
capitolo II). Infatti, il provvedimento è
imperativo
nel senso che ha l’attitudine a modificare la sfera
giuridica del soggetto
destinatario senza che sia
necessario acquisire il suo consenso.
L’imperatività coincide dunque con
l’unilateralità 
nella produzione di   L’unilateralità nella
  produzione
degli
un effetto giuridico effetti giuridici
che accomuna ogni
atto di esercizio di un
potere in senso proprio [Mattarella 2000, 11
ss.].
Del resto, come si è già accennato e come si vedrà
nel capitolo V, la stessa unilateralità non è
un
164 carattere indefettibile del provvedimento. Infatti
l’esercizio del potere può avvenire con modalità
consensuale, cioè con un accordo tra
l’amministrazione e il soggetto privato avente per
oggetto il contenuto discrezionale
del
provvedimento (art. 11 l. n. 241/1990).
  ’efficacia  del
L   Il principio di
  equiparazione
provvedimento non dell’atto invalido
dipende
dalla validità all’atto valido
del medesimo, cioè
dalla sua conformità alla norma attributiva del
potere. Anche l’atto illegittimo è in grado di
produrre gli effetti tipici al pari
dell’atto valido.
Tuttavia gli effetti possono essere rimossi con
efficacia retroattiva,
insieme al provvedimento
viziato, in seguito a una sentenza di annullamento
del giudice
amministrativo oppure in seguito
all’annullamento pronunciato dalla stessa
amministrazione (per esempio, in sede di
autotutela). Vale cioè quello che è stato
definito il
principio dell’equiparazione dell’atto invalido
all’atto valido [Giannini
1993, 304]. Solo il
provvedimento affetto da nullità ai sensi
dell’art.
21-septies
l. n. 241/1990 non ha carattere imperativo
e dunque le
situazioni giuridiche soggettive di cui è
titolare il soggetto privato destinatario non
sono
intaccate e «resistono» di fronte alla pretesa
dell’amministrazione.
  ’imperatività emerge con più
evidenza negli atti
L
amministrativi che determinano effetti ablatori o
comunque
restrittivi della sfera giuridica del
destinatario. La volontà eventualmente contraria
del soggetto privato non preclude il prodursi
dell’effetto giuridico. Il destinatario
del
provvedimento si trova dunque in una posizione di
pura passività (più tecnicamente
di soggezione).
La relazione giuridica con
l’amministrazione non è
paritaria e consensuale neppure nel caso degli atti
amministrativi emanati su domanda o istanza
dell’interessato e che determinano
un effetto
ampliativo della sfera giuridica di quest’ultimo
attribuendogli un diritto,
una facoltà o altra utilità.
Infatti, la domanda o istanza  del privato fa sorgere
in capo   I provvedimenti su
  istanza di
parte
all’amministrazione
(ex art. 2 l. n.
241/1990) un dovere di avviare il procedimento
(dovere di procedere) e di emanare all’esito di
quest’ultimo, ove il soggetto privato
risulti in
possesso dei presupposti e dei requisiti di legge, il
provvedimento richiesto
(dovere di provvedere).
La volontà del privato espressa nell’istanza
costituisce il
fatto presupposto che legittima
l’esercizio del potere. Essa però non si fonde con
quella dell’amministrazione che emana il
provvedimento, a differenza di quanto accade
nel
caso dei negozi giuridici privati. L’effetto giuridico
ampliativo viene cioè
prodotto in via unilaterale
dal provvedimento emanato.
I  noltre, in molte fattispecie di
provvedimenti
ampliativi (per esempio le autorizzazioni in
materia ambientale),
l’amministrazione può
imporre discrezionalmente prescrizioni e
condizioni volte a
conformare l’esercizio del
diritto all’interesse pubblico che talvolta possono
risultare
molto gravose (per esempio, le misure di
mitigazione dell’impatto ambientale imposte a
un’impresa). Il soggetto privato, che pur ha
presentato la domanda di autorizzazione, non
ha
prestato alcun consenso e anzi ha spesso tutto
l’interesse a contrastarne
l’imposizione. Questo
tipo di prescrizioni e di condizioni, costituenti,
sulla falsariga
del negozio giuridico, elementi
accidentali del provvedimento, fa acquisire alle
autorizzazioni anche una valenza prescrittiva
165 autoritativa.
4. c) L’esecutorietà e l’efficacia

Una terza caratteristica  di molti


provvedimenti è
la cosiddetta   Definizione di
  esecutorietà
esecutorietà (art. 21-
ter
l. n. 241/1990).
Essa può essere definita come il potere
dell’amministrazione di procedere all’esecuzione
coattiva del provvedimento in caso di
mancata
cooperazione da parte del privato obbligato, senza
doversi rivolgere a un
giudice allo scopo di
ottenere l’esecuzione forzata.
 Se l’imperatività
introduce una deroga al principio
generale che collega, nei rapporti paritari, il
prodursi dell’effetto giuridico negoziale al
consenso delle parti, l’esecutorietà deroga
al
principio civilistico del divieto di autotutela, cioè
di farsi giustizia da sé.
Nei rapporti interprivati,
l’autotutela  è ammessa
infatti solo in casi   Il divieto di autotutela
  privata
eccezionali
(diritto di
ritenzione ex
art.
2756, comma 3, cod. civ., eccezione di
inadempimento
ex
art. 1460 cod. civ.). La regola è
invece che chi vuol far
valere le proprie ragioni
deve rivolgersi al giudice civile che accerti
l’inadempimento
degli obblighi nascenti dal
negozio ed emani una sentenza di condanna, e che
disponga le
misure coattive necessarie per
l’esecuzione della sentenza. Queste ultime
vengono poste
in essere, secondo procedure
formalizzate, da un ufficiale giudiziario. Così, per
esempio, se il venditore non consegna il bene
immobile oggetto della compravendita,
l’acquirente non potrà impossessarsene, ma dovrà
far valere la sua pretesa esecutiva in
sede
giurisdizionale. La pubblica amministrazione ha
invece la possibilità di portare a
esecuzione i
provvedimenti con propri uomini e mezzi. Così, se
il proprietario di un
bene non coopera
all’esecuzione del provvedimento di esproprio con
la consegna spontanea
del bene, l’amministrazione
può procedere direttamente ad apprenderlo, se
necessario,
anche con l’uso della forza.
  n ulteriore esempio di
esecutorietà (o, secondo
U
altra espressione, di autotutela esecutiva) è
l’ordine di
abbattimento di un edificio abusivo. Se
il proprietario dell’immobile non provvede
spontaneamente alla riduzione in pristino,
possono essere gli stessi dipendenti del
comune o,
come avviene frequentemente, di un’impresa
privata all’uopo incaricata, a
porre in essere le
attività necessarie. Il privato destinatario non è
tenuto a
collaborare, ma non può opporsi alle
attività esecutive, comportamento che potrebbe
rilevare addirittura in sede penale.
Anche l’ordine di polizia volto a sciogliere una
manifestazione non
autorizzata in un luogo
pubblico può sfociare, in caso di inottemperanza,
nello sgombero
coatto delle persone coinvolte.
Infatti, secondo il Testo unico delle leggi di
pubblica sicurezza, tutti i
provvedimenti
dell’autorità di pubblica sicurezza «sono eseguiti in
via amministrativa»
e, ove gli interessati non
ottemperino, «sono adottati, previa diffida […] i
provvedimenti necessari per l’esecuzione
d’ufficio» incluso «l’impiego della forza
pubblica»
(art. 5 r.d. 18 giugno 1931, n. 773).
In definitiva, mentre
l’imperatività  opera sul piano
della produzione   Il rapporto tra
  imperatività ed
degli
effetti giuridici, esecutorietà
l’esecutorietà opera
su quello, da tenere
ben distinto, delle
attività materiali necessarie per
conformare la realtà di fatto alla situazione di
166 diritto così come modificata dal provvedimento.
Entrambe, come
si è visto, connotano il regime del
provvedimento in modo antitetico rispetto a
quello
dei negozi privati.
  rima dell’introduzione  dell’art.
21-ter
l. n.
P
241/1990, il   La presunzione di
  legittimità del
fondamento provvedimento
dell’esecutorietà è amministrativo

stato
rinvenuto nella
cosiddetta presunzione di legittimità del
provvedimento
amministrativo.
 La giustificazione teorica di
quest’ultima venne
variamente individuata nella provenienza dell’atto
da organi espressione
della sovranità; nell’esigenza
di assicurare un andamento regolare e sollecito
dell’attività dell’amministrazione; nelle garanzie
offerte dai metodi concorsuali di
selezione dei
funzionari pubblici (i quali non perseguono
interessi personali) e dal
sistema dei controlli
amministrativi. Questi e altri elementi portano a
ritenere che, di
norma, i provvedimenti siano
emanati in modo legittimo e dunque possano
essere portati a
esecuzione dall’amministrazione
immediatamente. In realtà, la presunzione di
legittimità
aveva una connotazione ideologica e si
ricollegava a una visione autoritaria dei
rapporti
tra Stato e cittadino. La dottrina [Giannini 1959,
160 ss.] ha dimostrato da
tempo l’inconsistenza
teorica di questo principio che però continua
talora a essere
richiamato dalla giurisprudenza.
L’art. 21-ter
l. n. 241/1990 pone una disciplina
embrionale
dell’esecuzione coattiva dei
provvedimenti, confermando anzitutto, come
ritiene la
dottrina prevalente, che l’esecutorietà
non è una caratteristica propria di tutti i
provvedimenti amministrativi, ma deve essere di
volta in volta prevista dalla legge.
Il comma 1 precisa infatti che il
potere di imporre
coattivamente l’adempimento degli obblighi è
attribuito
all’amministrazione solo «nei casi e con
le modalità stabiliti dalla legge» (espressione
che
viene ripresa, forse in modo ridondante, anche nel
secondo periodo del medesimo
comma).
Così, per fare un altro esempio,
l’amministrazione
ha la facoltà di procedere in via amministrativa alla
tutela dei beni
demaniali (art. 823 cod. civ.).
Questa disposizione peraltro ha dato
origine al
dubbio se essa fondi in via generale un siffatto
potere, oppure se essa si
limiti a operare un rinvio
alle norme che prevedono in modo più specifico
l’esecuzione
forzata amministrativa.
L’esecutorietà è riferibile non
soltanto agli obblighi
nascenti dal provvedimento, ma anche a quelli
aventi fonte
negoziale. Infatti, il comma 1 dell’art.
21-ter richiama in termini
generali l’adempimento
coattivo degli «obblighi nei loro confronti» (nei
confronti cioè
delle pubbliche amministrazioni),
includendo così implicitamente anche gli obblighi
che
sorgono nell’ambito dei rapporti paritari. In
proposito, il r.d. 14 aprile 1910, n. 639 sulla
riscossione delle entrate
patrimoniali dello Stato
attribuisce all’amministrazione il potere di
procedere
all’esecuzione forzata, previa
ingiunzione al pagamento delle somme dovute,
oltre che
per i crediti di fonte tributaria, anche per
i crediti di diritto privato.
In relazione agli obblighi nascenti
da un
 provvedimento   Gli aspetti procedurali
 
amministrativo,
quest’ultimo deve
indicare il termine e le modalità
dell’esecuzione da parte del soggetto obbligato.
Inoltre, l’esecuzione coattiva può avvenire solo
previa adozione di un atto di diffida
con il quale
167 l’amministrazione intima al privato di porre in
essere le attività esecutive già indicate nell’atto,
concedendo così al privato
un’ultima chance.
  ’esecutorietà dà dunque luogo a un
procedimento
L
d’ufficio in contraddittorio con il soggetto privato.
Il comma 2, infine, menziona l’esecuzione delle
obbligazioni aventi a
oggetto somme di danaro,
precisando che ad esse si applicano le disposizioni
per
l’esecuzione coattiva dei crediti dello Stato.
Anche questa disposizione opera più che
altro un
rinvio alla normativa vigente, cioè principalmente
alla disciplina della
riscossione esattoriale di cui al
d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46. Quest’ultimo,
peraltro,
precisa già che la riscossione mediante
ruolo riguarda non solo le entrate dello Stato
ma
anche quelle di enti
pubblici diversi dallo Stato
(art. 17).
L’esecutorietà presuppone che il  provvedimento
emanato sia efficace   L’efficacia e
  l’esecutività
ed esecutivo. La l. n.
241/1990 dedica due
articoli all’efficacia e
all’esecutività (o forse, più
correttamente, eseguibilità) del
provvedimento.
  econdo l’art. 21-bis il provvedimento  limitativo
S
della sfera giuridica   Gli atti recettizi
 
dei privati acquista
efficacia con la comunicazione al destinatario e ha
dunque natura di atto recettizio.
Prima della l. n.
241/1990 si riteneva invece che anche i
provvedimenti
di questo tipo (per esempio la
revoca di una concessione) fossero
in grado di
produrre immediatamente gli effetti.
 Sono peraltro esclusi dall’obbligo
di
comunicazione i provvedimenti aventi carattere
«cautelare e urgente» che sono
immediatamente
efficaci. Inoltre, l’art. 21-bis stabilisce che i
provvedimenti limitativi non aventi carattere
sanzionatorio possono contenere una
clausola
motivata di immediata efficacia.
L’art. 21-bis
detta alcune disposizioni minute sulla
modalità da seguire per la comunicazione del
provvedimento.
L’esecutività  è   L’esecutività
 
disciplinata dall’art.
21-quater,
secondo il quale i provvedimenti
amministrativi efficaci sono eseguiti
immediatamente,
salvo che sia diversamente
stabilito dalla legge o dal provvedimento.
 All’efficacia del
provvedimento consegue dunque
la necessità che esso, in linea di
principio, venga
portato subito a esecuzione, a seconda dei casi,
dalla stessa
amministrazione che ha emanato l’atto
o dal destinatario del medesimo, là dove il
provvedimento faccia sorgere in capo a
quest’ultimo un obbligo di dare o di fare. Si
pensi,
per esempio, all’abbattimento di una costruzione
abusiva, al pagamento di una
sanzione pecuniaria,
all’espulsione di uno straniero clandestino. La
tutela degli
interessi pubblici richiede
tempestività.
In realtà, non tutti i
provvedimenti pongono un
problema di esecutività (o eseguibilità). Spesso
infatti la
produzione dell’effetto giuridico realizza
di per sé l’interesse pubblico alla cui cura
è
finalizzato il provvedimento emanato, senza
bisogno di ulteriori attività di tipo
esecutivo
(provvedimenti autorizzatori o di attribuzione di
uno
status, ecc.).
In base all’art.
21-quater l’esecuzione del
provvedimento può essere differita o
sospesa
discrezionalmente dall’amministrazione.
Nel complesso, le disposizioni in
tema di
esecutorietà e di efficacia del provvedimento
contenute nella l. n. 241/1990 hanno accresciuto il
168 livello delle garanzie
per il privato.
5. d) L’inoppugnabilità

Un’ultima caratteristica del provvedimento


consiste nella cosiddetta
inoppugnabilità (o, come
sarebbe meglio dire oggi, incontestabilità),
che si
ha allorché decorrono i termini previsti per
l’esperimento dei rimedi
giurisdizionali innanzi al
giudice amministrativo. In particolare, l’azione di
annullamento va proposta, di regola, nel termine
di decadenza di 60
giorni (art. 29 Codice del
processo amministrativo); l’azione di nullità è
soggetta a un termine di 180 giorni; l’azione
risarcitoria può essere proposta in via
autonoma
(cioè senza la parallela azione di annullamento)
nel termine di 120 giorni
(rispettivamente artt. 31,
comma 4, e 30, comma 3).
Esigenze di certezza e di stabilità
dell’assetto dei
rapporti giuridici conseguenti all’emanazione di un
provvedimento
giustificano la previsione di
termini decadenziali brevi per l’esperimento dei
mezzi di
tutela giurisdizionale.
Nei rapporti di diritto privato,
invece, la tutela
giurisdizionale può essere attivata, di regola (ma vi
sono varie
eccezioni), entro termini di
prescrizione più lunghi (per esempio, cinque anni
per
l’azione di annullamento di un contratto ex
art.
1442 cod. civ.; dieci anni per i casi di prescrizione
ordinaria ex
art. 2946 cod. civ.).
L’inoppugnabilità non esclude
peraltro che
l’amministrazione   L’autotutela
 
 possa rimettere in
discussione il rapporto giuridico esercitando, come
si vedrà, il potere di
autotutela (annullamento
d’ufficio o revoca). Emerge qui un’ulteriore
asimmetria tra le
parti del rapporto giuridico
amministrativo: l’inoppugnabilità garantisce infatti
la
stabilità del rapporto
giuridico amministrativo
solo sul versante delle possibili contestazioni
da
parte del soggetto privato.
  ’atto amministrativo
può diventare
L
inoppugnabile anche in  seguito ad acquiescenza
da parte
del   L’acquiescenza
 
destinatario, che
consiste in una dichiarazione espressa o tacita (per
facta concludentia) di assenso all’effetto prodotto
dal provvedimento. Si
discute se l’acquiescenza
abbia una rilevanza sostanziale, nel senso che
provochi
l’estinzione della situazione giuridica di
cui è titolare il destinatario del
provvedimento,
oppure se essa rilevi soltanto sotto il profilo
processuale, nel senso di
rendere inammissibile il
ricorso giurisdizionale eventualmente proposto.
Una cautela spesso
adottata dal destinatario del
provvedimento, che assuma un comportamento o
renda una
dichiarazione che potrebbero essere
considerati come incompatibili con la volontà di
contestare l’illegittimità del provvedimento,
consiste nel precisare espressamente che
essi non
possono essere interpretati come acquiescenza al
provvedimento.
 
6. Gli
elementi strutturali
dell’atto amministrativo.
L’obbligo di motivazione
Come per tutti gli atti giuridici,
anche per il
provvedimento amministrativo possono essere
individuati alcuni elementi
strutturali che
consentono, di volta in volta, di identificarlo e di
qualificarlo. Essi
si ricavano dalle nozioni elaborate
169 in sede di teoria generale e sono
essenzialmente il
soggetto, la volontà, l’oggetto, il
contenuto, i
motivi, la motivazione e la forma. Occorre
soffermarsi sulle
caratteristiche fisiologiche di
ciascuno di essi, mentre i loro aspetti patologici
verranno trattati nel paragrafo
12.

1. Il soggetto si individua
in base alle norme sulla
competenza. Di regola, si tratta di pubbliche
amministrazioni,
ma in casi particolari, come si è
accennato, anche soggetti privati sono titolari di
poteri amministrativi e i loro atti sono qualificabili
come amministrativi. Si pensi,
per esempio, al caso
di un’impresa privata concessionaria di un
pubblico servizio che,
in base al Codice dei
contratti pubblici, è tenuta a esperire procedure a
evidenza pubblica
per l’acquisto di beni e servizi
(art. 1, comma 1-ter, l. n. 241/1990).

2. Un secondo elemento è
costituito dalla
volontà. Il provvedimento è manifestazione della
volontà
dell’amministrazione. Essa va intesa non
già in senso psicologico (stato psichico del
dirigente o del titolare dell’organo che emana
l’atto), bensì in senso oggettivato
(volontà
procedimentale). I vizi della volontà non
determinano, come accade invece per
il negozio
privato (art. 1427 cod. civ.), in via diretta
l’annullabilità del
provvedimento, bensì rilevano
tutt’al più, come si vedrà, in via indiretta
(indiziaria)
come figura sintomatica dell’eccesso
di potere.

3. Quanto all’oggetto del provvedimento, si tratta


della cosa, attività
o situazione soggettiva cui il
provvedimento si riferisce (come per esempio il
bene
demaniale dato in concessione o il terreno
espropriato). L’oggetto deve essere
determinato o
quanto meno determinabile.

4. Il contenuto si ricava dalla parte dispositiva


dell’atto e consiste
in «ciò che con esso l’autorità
intende disporre, ordinare, permettere, attestare,
certificare» [Zanobini 1958]. In proposito, rileva
soprattutto
la distinzione tra contenuto vincolato
e discrezionale del provvedimento.
Il  contenuto dell’atto   Clausole accessorie e
  condizioni
del
può essere
integrato provvedimento
con clausole
accessorie che, come
si è già accennato, fissano prescrizioni e
condizioni
particolari (cosiddetti elementi accidentali). Esse
non possono snaturare il
contenuto tipico del
provvedimento e devono essere coerenti con il fine
pubblico
previsto dalla legge attributiva del potere.
Si è già fatto l’esempio delle autorizzazioni
in
materia ambientale che contengono spesso
prescrizioni volte a mitigare l’impatto
delle attività
che il privato intende svolgere. In alcuni casi, come
in quello dei
titoli autorizzatori in materia di
comunicazioni elettroniche, la legge stessa
individua
in modo tassativo le condizioni che
possono essere apposte, sempre che esse siano
obiettivamente giustificate, proporzionate e non
discriminatorie (art. 28, comma 1, Codice delle
comunicazioni elettroniche).
 
Tra gli elementi dell’atto amministrativo, a
differenza di quanto accade per
i negozi giuridici
privati, non assume rilievo autonomo la causa,
intesa come funzione
economico-sociale del
negozio (art. 1343 cod. civ.). Ciò essenzialmente
perché i poteri
amministrativi sono tutti
riconducibili a schemi tipici individuati per legge.
Con
riferimento all’atto amministrativo ricorre
invece più frequentemente la nozione di
motivi,
cioè le ragioni di interesse pubblico poste alla base
del provvedimento, che si
deducono dalla
170 motivazione.

5. La motivazione è la  parte del provvedimento


che, secondo la   La motivazione
 
definizione
contenuta
nell’art. 3 l. n. 241/1990, enuncia i
presupposti di fatto e le
ragioni giuridiche che
hanno determinato la decisione
dell’amministrazione in relazione
alle risultanze
dell’istruttoria.
  ’obbligo di
motivazione, la cui violazione può
L
essere una causa di annullabilità,
costituisce, come
si è già anticipato nel capitolo precedente, uno dei
principi generali del regime
degli atti
amministrativi, che lo differenzia da quello sia
degli atti legislativi, sia
degli atti negoziali.
Infatti, fin dall’epoca della
Rivoluzione francese,
per gli atti legislativi non è richiesta una
motivazione: la
compenetrazione tra legge, volontà
generale e sovranità esclude una necessità di
giustificazione delle scelte. La motivazione è
peraltro prevista, come si è accennato,
per gli atti
normativi dell’Unione europea (sotto forma di
considerando, enunciati prima
dell’articolato). Per
gli atti dei privati, i motivi del negozio sono
irrilevanti e
attengono alla sfera interna del
soggetto e, come si è accennato nel capitolo I, solo
in casi del tutto
eccezionali è richiesta una
motivazione.
Per un altro verso, la motivazione avvicina il
regime del
provvedimento a quello degli atti
giudiziari per i quali vi è addirittura una garanzia
costituzionale (art. 111, comma 6, Cost., ripreso
anche dall’art. 3, comma 1, Codice del processo
amministrativo). Le
pubbliche amministrazioni
soffrono, anche se in misura minore rispetto ai
giudici, di un
deficit di legittimazione democratica
che richiede di essere compensato attraverso un
onere di giustificazione. La motivazione, insieme
ad altri istituti come la partecipazione al
procedimento, concorre dunque a promuovere
l’«accettabilità dell’attività
amministrativa»
(Akzeptabilität des Verwaltungshandelns) da parte
dei
soggetti amministrati.
La motivazione adempie a tre
funzioni
principali:
promuove  la
  Le funzioni della
trasparenza   motivazione
dell’azione
amministrativa perché rende palesi le ragioni
sottostanti le scelte amministrative;
agevola
l’interpretazione del provvedimento; costituisce
una garanzia per il soggetto
privato che subisce dal
provvedimento un pregiudizio perché consente un
controllo
giurisdizionale più incisivo sull’operato
dell’amministrazione. Nella letteratura
anglosassone si sottolinea inoltre che la
motivazione è anche un segno di rispetto
dell’amministrazione nei confronti del cittadino.
 La motivazione deve dar conto di
tutti gli elementi
rilevanti, acquisiti nel corso dell’istruttoria
procedimentale, che
hanno indotto
l’amministrazione a operare una determinata
scelta. In particolare, nella
motivazione devono
emergere le valutazioni operate
dall’amministrazione sugli apporti
partecipativi dei
privati (art. 10, lett. b), l. n. 241/1990), anche se
non è richiesta
una loro disamina analitica. In ogni
caso, dalla motivazione deve essere possibile
ricostruire in modo puntuale l’iter logico seguito
dall’amministrazione per pervenire a
una certa
determinazione. La motivazione può essere anche
per  relationem, cioè   La motivazione per
  relationem
con un rinvio ad altro
atto acquisito al
procedimento del quale si fanno proprie le
ragioni
(art. 3, comma 3, l. n. 241/1990). La motivazione
può essere
sintetica nel caso di domande
presentate all’amministrazione volte al rilascio di
un
provvedimento che risultino manifestamente
inammissibili o infondate (art. 2, comma 1, l. n.
171 241/1990 così come integrato
dall’art. 1 legge 6
novembre 2012, n. 190). In giurisprudenza è
emersa una concezione non formalistica della
motivazione e si è ritenuto che le ragioni
sottese
alla scelta non devono risultare necessariamente
dal provvedimento, nei casi in
cui esse «possano
essere agevolmente colte dalla lettura degli atti
afferenti alle varie
fasi in cui si articola il
procedimento» (Cons. St., Sez. VI, 6 dicembre
2016, n. 5150).
  a motivazione assume particolare
importanza nel
L
caso di provvedimenti discrezionali, mentre in
quelli vincolati essa può
essere limitata
all’enunciazione dei presupposti di fatto e di
diritto che giustificano
l’esercizio del potere. Essa
è infatti lo strumento principale per sindacare la
legittimità, in particolare in termini di
ragionevolezza e di proporzionalità, delle
scelte
operate dall’amministrazione. Come si vedrà più
avanti, la giurisprudenza ha
individuato come
figure sintomatiche dell’eccesso di potere la
insufficienza, contraddittorietà,
perplessità, non
congruità della motivazione. In generale, quanto
più ampio è l’ambito
della discrezionalità tanto più
stringente è da ritenere l’obbligo di
motivazione.
L’art. 3, comma 2, l. n. 241/1990 esclude dall’obbligo
di
motivazione gli atti normativi e quelli a
contenuto generale. Tuttavia, la legislazione
recente, in particolare con riferimento alle autorità
amministrative indipendenti
preposte alla
vigilanza sui mercati finanziari, ha previsto un
obbligo di motivazione
«con riferimento alle scelte
di regolazione e di vigilanza» (art. 23 legge sul
risparmio 28 dicembre 2005, n. 262).
Sulla motivazione del
provvedimento si è riacceso
il dibattito in seguito ad alcune disposizioni
contenute
nella l. n. 15/2005 di riforma della l. n.
241/1990 e nella l. n. 190/2012 citata, che sembrano
indicare direttrici
contrastanti, l’una tesa a
rafforzarla, l’altra a dequotarla.
Quanto alla prima direttrice , infatti,
l’art. 10-bis
sulla comunicazione   Tendenze legislative
  recenti:
rafforzamento
dei motivi ostativi e dequotazione
dell’accoglimento
dell’istanza valorizza
l’istituto della motivazione. In primo luogo,
infatti,
prima di poter rigettare l’istanza di un privato
volta ad ottenere un
provvedimento favorevole,
l’amministrazione deve comunicare all’interessato
i motivi per
i quali la domanda non può essere
accolta. Chi ha presentato l’istanza può formulare
le
proprie osservazioni; di queste
l’amministrazione dovrà dar conto nella
motivazione del
provvedimento finale nei casi in
cui esse siano disattese. In secondo luogo, l’art. 6,
comma 1, lett. e), l. n. 241/1990 prevede che
l’organo competente ad adottare un
provvedimento, ove si discosti dalle risultanze
dell’istruttoria condotta dal responsabile del
procedimento, deve indicare nella
motivazione le
ragioni. Infine, un obbligo di motivazione è stato
introdotto anche per
gli accordi tra
amministrazione e privati aventi per oggetto il
contenuto discrezionale
del procedimento (art. 11,
comma 2, l. n. 241/1990, come integrato dall’art. 1 l.
n. 190/2012), equiparando così ancor più il loro
regime a quello ordinario dell’atto amministrativo.
 Quanto alla seconda direttrice, l’art. 21-octies,
comma 2, l. n. 241/1990 esclude che il
provvedimento possa essere
annullato per vizi
formali o procedurali ove il contenuto dispositivo
del medesimo in
ogni caso non avrebbe potuto
essere diverso. Si discute dunque se la motivazione
abbia
perso almeno in parte la sua rilevanza e
172 possa essere per così dire «dequotata» a vizio
meramente formale. Ciò che importa, in una
visione più
sostanzialista, è che la decisione sia
sorretta da ragioni valide, che potrebbero
emergere magari anche nel corso del giudizio
amministrativo instaurato per sindacare la
legittimità dell’atto, più che il fatto che esse siano
esternate nella motivazione. Si
pone così la
questione del se ed entro quali limiti sia superato il
divieto tradizionale
dell’integrazione della
motivazione  nel   La motivazione
  postuma
corso del giudizio,
enunciato dalla
giurisprudenza amministrativa, e dunque
dell’ammissibilità della
cosiddetta motivazione
successiva (o postuma). Il tema è complesso
perché involge la
ricostruzione del processo
amministrativo come un giudizio che si incentra o
sul
sindacato della legittimità di un atto
amministrativo così come è stato emanato oppure
sull’accertamento del modo di essere dell’intero
rapporto giuridico
amministrativo, anche a
prescindere dall’atto impugnato e dunque dalle
eventuali carenze della motivazione.
 
Comunque bisogna essere
realisticamente
consapevoli del fatto che in casi patologici la
motivazione viene
confezionata «ad arte» al fine di
giustificare ex post scelte
operate per ragioni non
esplicitabili nell’atto (per esempio, per favorire
qualcuno).

6. L’atto amministrativo
richiede di regola la
forma scritta (per gli atti degli organi collegiali è
prevista la verbalizzazione). In taluni casi l’atto
può essere esternato oralmente.
Accanto agli
ordini di polizia o impartiti dal superiore
gerarchico e alla proclamazione
del risultato di una
votazione, forma orale ha per esempio
l’ammonimento del questore a
tenere determinati
comportamenti rivolto a chi ha compiuto atti
molesti o persecutori
che potrebbero integrare il
reato di stalking di cui all’art.
612-bis del codice
penale (art. 8 d.l. 23 febbraio 2009, n.
11). In
seguito al processo di informatizzazione in corso
negli ultimi anni, l’atto può
essere sottoscritto con
la firma digitale e comunicato utilizzando le
tecnologie
informatiche, in base alle regole poste
dal Codice dell’amministrazione digitale (d.lgs. 7
marzo 2005, n. 82) che tendono a limitare al
minimo
la corrispondenza cartacea.
Il provvedimento può assumere, a determinate
condizioni, come si vedrà
nel capitolo V, la veste
formale di un accordo tra l’amministrazione
titolare del potere e il privato
destinatario degli
effetti volto a determinare il contenuto
discrezionale del
provvedimento. L’art. 11 l. n.
241/1990 prevede, a pena di nullità, la forma
scritta.
In giurisprudenza emerge talora
anche la nozione
 di provvedimento   Il provvedimento
  implicito
implicito.
Quest’ultimo
si
configura allorché la volontà in esso espressa sia
desumibile da un comportamento
concludente
dell’organo o da un precedente atto del quale l’atto
implicito si imponga
«quale unica conseguenza
possibile» (Cons. St., 2 novembre 2020, n. 6734).
Così, per
esempio, può essere ritenuto implicito il
provvedimento di nomina di un dipendente
pubblico vincitore di un concorso che, senza
l’adozione di un atto formale, venga
inserito
nell’organizzazione, gli siano conferiti compiti
specifici e riceva in modo
regolare la retribuzione.
 L’ art. 21-septies
l. n.   Gli elementi essenziali
  del
provvedimento
241/1990 contiene un
richiamo agli
«elementi
essenziali» del provvedimento, la
mancanza dei quali costituisce una delle cause di
nullità, analogamente a quanto prevede per il
contratto l’art. 1418, comma 2, cod. civ. Gli
elementi essenziali
dell’atto amministrativo non
sono elencati in modo puntuale dalla legge (come
173 fa invece
l’art. 1325 cod. civ. per i requisiti del
contratto). Essi
vanno dunque individuati in via di
interpretazione, tenendo presente, come si vedrà,
che
nel diritto
amministrativo le ipotesi di nullità
tendono a essere limitate al
minimo.
  er i provvedimenti amministrativi
valgono le
P
regole    Le regole
  sull’interpretazione
sull’interpretazione
previste in via
generale dal codice civile per l’interpretazione dei
contratti (artt. 1362 ss. cod.
civ.). La
giurisprudenza ritiene peraltro che alcune di esse
non possano essere
applicate ai provvedimenti. È
questo il caso dell’art. 1370 sull’interpretazione
contro l’autore della
clausola, che finirebbe per
penalizzare sempre l’amministrazione che emana
in modo
unilaterale l’atto. Non può trovare
applicazione neppure l’art. 1371, secondo il quale
nel caso di oscurità l’atto deve
essere inteso nel
senso meno gravoso per l’obbligato, poiché prevale
l’esigenza di
garantire il perseguimento
dell’interesse pubblico.
  u un piano della redazione
formale, l’atto
S
amministrativo    Intestazione,
  preambolo,
dispositivo
indica e altri elementi formali
nell’intestazione
l’autorità emanante,
contiene nel preambolo i riferimenti alle norme
legislative e
regolamentari che fondano il potere
esercitato («Visto l’art. x della legge n. …»),
richiama gli atti endoprocedimentali e altri atti
ritenuti rilevanti («Visto il
parere…») e sviluppa la
motivazione («Considerato che…» oppure
«Rilevato che…»), enuncia
nel dispositivo la
determinazione o statuizione finale. Reca anche la
data e la
sottoscrizione e menziona i destinatari e
l’organo giurisdizionale cui è possibile
ricorrere
contro l’atto e il termine entro il quale il ricorso va
proposto.
 
7. I
provvedimenti ablatori
reali, i provvedimenti
ordinatori e le sanzioni
amministrative
Conviene ora dar conto della
tipologia dei
provvedimenti, con l’avvertenza che le
classificazioni hanno più che altro
un valore
descrittivo di una realtà che nella legislazione si
presenta variegata.
Inoltre, i provvedimenti si
prestano a essere ordinati secondo una pluralità di
criteri
che possono essere usati anche in modo
concorrente (contenuto, oggetto, funzione,
destinatari, ecc.). Un’ulteriore avvertenza è che le
categorie di provvedimenti si
prestano a essere
riferite, con poche varianti, anche ai poteri (ove si
focalizzi
l’attenzione sulla norma attributiva del
potere) e ai procedimenti (ove si focalizzi
l’attenzione sulle sequenze degli atti e
adempimenti relative all’esercizio dei poteri).
Così,
per esempio, è frequente parlare, in modo
pressoché fungibile, di poteri,
procedimenti e
provvedimenti ablatori, concessori o autorizzatori.
La scelta espositiva
qui operata è di individuare le
principali categorie di provvedimenti, mettendone
in
luce i profili sostanziali, e di riprendere le
medesime classificazioni nel capitolo V, per i
profili
procedimentali.
È opportuno riprendere la
distinzione, posta nel
capitolo
III, da un lato, tra provvedimenti aventi
effetti limitativi della sfera
giuridica del
destinatario e, dall’altro lato, provvedimenti aventi
effetti ampliativi
della sfera giuridica del
destinatario.
Le principali subcategorie dei
primi sono i
provvedimenti ablatori reali e personali, gli ordini
174 e le diffide, i
provvedimenti sanzionatori.
▶ I provvedimenti ablatori
reali. Tra i
provvedimenti    L’espropriazione per
  pubblica
utilità
ablatori reali va
ricordata soprattutto
l’espropriazione per pubblica utilità, nella quale
si manifesta al
massimo grado il conflitto tra
l’interesse pubblico e gli interessi privati. Esso
trova
un punto di composizione, da un lato, nel
consentire alla pubblica amministrazione,
all’esito
di un procedimento in contraddittorio, di
trasferire coattivamente il diritto
di proprietà dal
privato all’amministrazione o al soggetto
beneficiario
dell’espropriazione; dall’altro,
attribuendo al privato il diritto a un indennizzo
(art. 42, comma 3, Cost.).
  a disciplina sostanziale
(tipologia di beni,
L
indennizzo) e procedimentale in materia è
contenuta nel Testo unico
delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica
utilità (emanato con
d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327) che raccoglie tutte le
disposizioni legislative (in primo luogo la legge 25
giugno 1865, n. 2359) e regolamentari previgenti.
L’indennizzo non coincide
necessariamente con il
 valore di mercato,   L’ammontare
  dell’indennizzo
ma non deve
essere
neppure irrisorio. Su
questo aspetto è intervenuta più volte la Corte
costituzionale che ha posto il principio del «serio
ristoro». In base ad esso, occorre
far riferimento
«al valore del bene in relazione alle sue
caratteristiche essenziali,
fatte palesi dalla
potenziale utilizzazione economica di esso,
secondo legge» (C. cost.
30 gennaio 1980, n. 5). La
stessa Corte europea dei diritti dell’uomo ha
censurato
alcuni parametri legislativi che
riducevano l’indennità a un ammontare
eccessivamente
basso rispetto al valore di mercato
(C. EDU,
Grande Camera, 29 marzo 2006, nel caso
Scordino c. Italia). Anche a
seguito di due pronunce
della Corte costituzionale (C. cost. 24 ottobre
2007, nn. 348 e
349), è stato previsto che
l’indennità di espropriazione di un’area edificabile
sia
determinata, di regola, nella misura pari al
valore venale del bene.
 Tra i provvedimenti ablatori reali si annoverano
anche l’occupazione
temporanea preordinata
all’espropriazione di opere dichiarate indifferibili e
urgenti,
che consente così la presa in possesso e
l’avvio immediato dei lavori nelle more della
conclusione del procedimento espropriativo; la
requisizione in uso di beni mobili e
immobili per
periodi di tempo limitati, che può essere disposta
per gravi e urgenti
necessità pubbliche militari o
civili (per esempio, in occasione di un’inondazione
o di
un terremoto la requisizione di strutture
alberghiere per ospitare temporaneamente gli
sfollati) (art. 7 l. n. 2248/1865, All. E e art. 835 cod.
civ.); le servitù pubbliche (militari, di
elettrodotto,
di acquedotto, di attraversamento di fiumi, ecc.)
disciplinate da leggi
speciali e dal codice civile, che
annovera tra i modi di costituzione delle
servitù
coattive, oltre che la sentenza pronunciata a favore
del privato titolare del
diritto, un «atto
dell’autorità amministrativa nei casi specialmente
determinati dalla
legge» (art. 1032, comma 1, cod.
civ.).

▶ I
provvedimenti ordinatori. Tra i
provvedimenti ablatori personali
rientrano gli
ordini amministrativi  e i provvedimenti che
impongono ai   Gli ordini
  amministrativi
destinatari obblighi
di fare o di non fare
(divieti) puntuali.
  ’ordine è un provvedimento che
prescrive un
L
comportamento specifico da adottare in una
situazione determinata. Nelle
organizzazioni
improntate al principio gerarchico (per esempio,
l’esercito e le forze di
polizia e, entro certi limiti, i
ministeri) esso è lo strumento con il quale il
175 titolare dell’organo o dell’ufficio sovraordinato
impone la
propria volontà e guida l’attività
dell’organo o dell’ufficio sottordinato. Esso
presuppone che l’ambito della competenza
attribuito a quest’ultimo sia incluso
nell’ambito
della competenza del primo.
Come precisa in termini generali
il Testo unico 
degli impiegati civili   L’ordine illegittimo
 
dello Stato (d.p.r. 10
gennaio 1957, n. 3), l’impiegato deve eseguire gli
ordini impartiti dal superiore gerarchico (art. 16).
Se l’ordine appare palesemente
illegittimo,
l’impiegato è tenuto a farne rimostranza motivata
al superiore, il quale ha
sempre il potere di
rinnovarlo per iscritto. In questo caso, l’impiegato
deve darvi
esecuzione, a meno che non si tratti di
un atto vietato dalla legge penale (art. 17).
Non si
può infatti imporre a qualcuno di commettere un
reato. La mancata osservanza
dell’ordine impartito
può comportare l’adozione di sanzioni disciplinari
in capo al
titolare dell’organo o dell’ufficio
sottordinato e può indurre il superiore gerarchico
ad avocare a sé la competenza.
 Gli ordini amministrativi possono
riguardare i
rapporti non solo interorganici ma anche
intersoggettivi tra
l’amministrazione e soggetti
privati.
Gli  ordini di polizia,   Gli ordini di polizia
 
in particolare,
sono
emanati dalle autorità di pubblica sicurezza in base
al Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (r.d.
18 giugno 1931, n. 773). Tra di essi vi è l’invito a
comparire dinanzi all’autorità di pubblica
sicurezza entro un termine assegnato, la cui
inosservanza è sanzionata anche penalmente (art.
15), oppure l’ordine di sciogliere una
riunione o un
assembramento che metta in pericolo l’ordine
pubblico preceduto da un
invito e da tre
intimazioni formali (artt. 20-24). Esempi di ordini
aventi contenuto negativo
(divieti) sono il divieto
di svolgimento di riunioni per ragioni di ordine
pubblico, di
moralità o di sanità pubblica (art. 18) o
di detenzione di armi, munizioni ed esplosivi
impartito a persone ritenute capaci di abusarne
(art. 39). Gli ordini di polizia, al
pari degli altri
provvedimenti dell’autorità di pubblica sicurezza,
sono dotati di
esecutorietà, cioè possono essere
eseguiti in via amministrativa (art.
5).
 L’effettività di questo genere di
provvedimenti è
rafforzata, sotto il profilo penale, da una figura di
reato che punisce
chiunque non osservi un
provvedimento legalmente dato da un’autorità
amministrativa per
ragioni di sicurezza pubblica o
di ordine pubblico (ma anche, con riferimento ad
altri
provvedimenti ordinatori, per ragioni di igiene
e di giustizia) (art. 650 cod. pen.).
Anche altri tipi di atti che,
 al di là della
denominazione,   Altri esempi di
  provvedimenti
hanno contenuto ordinatori
prescrittivo
ordinatorio sono
previsti in numerose leggi, specie nell’ambito di
rapporti
con autorità preposte alla vigilanza di
categorie di imprese o a controlli su attività
private. Così, per esempio, in materia bancaria e
creditizia, la Banca d’Italia può
imporre alle
banche vigilate misure riguardanti l’adeguatezza
patrimoniale, il
contenimento dei rischi,
l’organizzazione aziendale, inclusi il divieto di
effettuare
determinate operazioni o di distribuire
utili (art. 53, comma 3, lett. d), d.lgs.
1 settembre
o

1993, n. 385). Essa può anche disporre


misure
inibitorie nei confronti dei soggetti vigilati nel caso
in cui nell’esercizio dei
controlli emergano
176 irregolarità (art.
128-ter).
I  n base al Codice del consumo
(d.lgs. 6 settembre
2005, n. 206) l’Autorità garante della
concorrenza
e del mercato può vietare, d’ufficio o su istanza di
chi abbia interesse, la
continuazione di pratiche
commerciali scorrette eliminandone gli effetti (art.
27, comma 2). Le autorità di regolazione dei servizi
di
pubblica utilità possono ordinare alle imprese
esercenti il servizio la cessazione di
comportamenti lesivi dei diritti degli utenti (art. 2,
comma 20, lett. d), l. n. 481/1995).
In materia edilizia, nel caso di
interventi di
ristrutturazione e costruttivi non ricadenti nel
regime del permesso a
costruire ma soltanto in
quello della segnalazione certificata d’inizio di
attività, il
responsabile dell’ufficio comunale
competente, ove riscontri la mancanza delle
condizioni previste, impartisce all’interessato un
ordine di non effettuare il previsto
intervento (art.
23, comma 6, Testo unico delle disposizioni
legislative e
regolamentari in materia edilizia
approvato con d.p.r. 6 giugno 2001, n.
380).
Più in generale, nei casi di
provvedimenti
autorizzatori sostituiti dalla segnalazione
certificata d’inizio di
attività, l’autorità
competente, ove accerti che l’attività avviata non è
conforme ai
requisiti di legge, adotta
provvedimenti di divieto di prosecuzione
dell’attività e di
rimozione degli effetti (art. 19 l. n.
241/1990).
Questi esempi già introducono  una sottospecie di
provvedimenti   La diffida
 
ordinatori costituita
dalla
diffida,
che consiste nell’ordine di cessare da
un determinato comportamento posto in essere in
violazione di norme amministrative, talora anche
con la fissazione di un termine per
eliminare gli
effetti dell’infrazione. La diffida può comportare,
in caso di
inottemperanza, l’applicazione di
sanzioni di tipo amministrativo.
  n altro esempio di diffida è il potere attribuito
U
all’autorità
competente al controllo degli scarichi
di acque inquinanti di ordinare al titolare
dell’autorizzazione che non rispetta le condizioni
in essa contenute di
cessare dal comportamento
entro un termine determinato. In più, nel caso in
cui si
manifesti una situazione di pericolo per la
salute pubblica e per l’ambiente, la
medesima
autorità può sospendere l’autorizzazione (art. 130
Codice dell’ambiente approvato con d.lgs. 3 aprile
2006,
n. 152). In materia antitrust l’Autorità
garante della concorrenza e del
mercato, ove
accerti una fattispecie di intesa restrittiva della
concorrenza o di abuso
di posizione dominante,
«fissa alle imprese e agli enti interessati il termine
per
l’eliminazione delle infrazioni» e nei casi più
gravi irroga una sanzione pecuniaria
(art. 15 l. 10
ottobre 1990, n. 287). Con riguardo agli abusi
di
informazioni privilegiate e di manipolazione del
mercato, la CONSOB può ordinare in
via cautelare
di porre termine a condotte che facciano
presumere l’esistenza di
violazioni della normativa
(art. 187-octies, comma 6, Testo unico
dell’intermediazione finanziaria).
In alcuni casi la diffida può
essere preceduta da un
invito informale a desistere dalla condotta illecita.
Così in
materia di tutela del consumatore,
l’Autorità garante della concorrenza e del mercato,
all’esito di una valutazione preistruttoria, può
invitare il professionista che abbia
posto in essere
una condotta che potrebbe configurare una pratica
commerciale scorretta
o una pubblicità
ingannevole a rimuovere i profili illeciti di tale
condotta. In questo
caso la pratica viene archiviata
177 senza l’apertura di un procedimento
formale di
contestazione dell’illecito e di applicazione di una
sanzione (intervento di moral suasion, come
definito dall’art. 5
del regolamento approvato
dall’Autorità garante della concorrenza e del
mercato con
delibera 1 aprile 2015, n. 25411).
o

Anche l’ammonimento del


questore in relazione a
un possibile reato di stalking già citato
ha questa
natura.

▶ Le
sanzioni amministrative. Le sanzioni
amministrative sono volte a reprimere
illeciti di
tipo amministrativo e hanno dunque una funzione
afflittiva e una valenza
dissuasiva. In base alla
teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici, le
sanzioni
amministrative garantiscono l’effettività e
l’autosufficienza degli ordinamenti speciali
rispetto all’ordinamento generale. Esse fungono
infatti, insieme agli strumenti di
giustizia
«domestica» (reclami e ricorsi amministrativi), da
elemento di chiusura
dell’ordinamento sezionale.
Le sanzioni    Le sanzioni per
  violazione di
leggi o di
amministrative sono provvedimenti
previste dalle leggi
amministrative sia
in
caso di violazione dei precetti in esse contenuti,
sia nel caso di violazione dei
provvedimenti
prescrittivi emanati sulla base di tali leggi.
  olte sanzioni del primo tipo,
pecuniarie e non
M
pecuniarie, sono disciplinate, per esempio, nel
Codice della strada (per esempio, per il divieto di
sorpasso
in presenza di una linea continua) o nel
già citato Testo unico dell’edilizia (d.p.r. n.
380/2001). Di recente, anche le sanzioni previste
per violazione delle restrizioni e dei divieti
introdotti dalla normativa di contrasto
al Covid-19
rientrano in questa tipologia.
Sanzioni amministrative per la violazione di
provvedimenti
amministrativi sono invece previste
dal Testo unico degli enti locali (art.
7-bis d.lgs. 18
agosto 2000, n. 267) nel caso di violazione di
regolamenti degli enti locali o delle ordinanze
contingibili e urgenti emanate dal sindaco o
dal
presidente della provincia. Anche le autorità di
regolazione dei servizi di pubblica
utilità possono
irrogare sanzioni pecuniarie di importo assai
elevato (fino a 150
milioni di euro) nel caso di
inottemperanza ai provvedimenti regolatori e di
tipo
individuale da esse emanati (art. 2, comma 18,
lett. c), l. n. 481/1995 citata).
In molti casi, la deterrenza delle
sanzioni
amministrative, come si è accennato nel capitolo I,
è accresciuta dalla previsione in parallelo,
per gli
stessi comportamenti, di sanzioni di tipo penale.
Così, per esempio, nel settore
del mercato
mobiliare, l’abuso di informazioni privilegiate
costituisce, a seconda della
gravità dei
comportamenti tipizzati, un illecito penale o un
illecito amministrativo
(artt. 184 e 187-bis Testo
unico della finanza approvato con d.lgs.
24
febbraio 1998, n. 58).
In realtà, sussiste un certo grado
di fungibilità tra
sanzioni  penali e   La fungibilità tra
  sanzioni
sanzioni amministrative e
amministrative e la penali

dottrina ha dibattuto
a lungo se e quale possa essere il criterio
sostanziale di distinzione. Entrambi i tipi di
sanzione hanno infatti l’analoga finalità
di
prevenzione generale e speciale di illeciti e ciò
spiega una certa affinità di
regime. Il legislatore
italiano, per tradizione, ha impostato la distinzione
sulla base
di criteri formali (qualificazioni
legislative dell’illecito come penale o
amministrativo) con piena libertà di scegliere il
tipo di sanzione da applicare a
seconda dei
mutevoli indirizzi della politica legislativa volti a
178 criminalizzare o a
depenalizzare gli illeciti.
I  n ogni caso, la legge 24 novembre 1981, n. 689
(anch’essa una legge di
depenalizzazione) detta
una disciplina generale delle sanzioni
amministrative,
richiamando una serie di principi
tipicamente penalistici. Tra di essi vi è anzitutto il
principio di
legalità, in base al quale nessuno può
essere sottoposto a sanzioni
amministrative se non
in forza di una legge entrata in vigore prima della
commissione
della violazione e secondo il quale
leggi che prevedono sanzioni amministrative si
applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse
considerati (art. 1). Un altro
principio penalistico è
quello della personalità, che si manifesta nelle
regole relative
alla capacità di intendere e di volere
(art. 2), al concorso di persone (art. 5), alla
non
trasmissibilità agli eredi (art. 7), alla
quantificazione in base a criteri che
fanno
riferimento anche alla personalità del trasgressore
(art. 11).
Da qualche anno, come già
anticipato nel capitolo
I,
la distinzione tra sanzioni amministrative e
sanzioni penali è stata messa in dubbio
dalla Corte
europea dei diritti dell’uomo (sentenza sul caso
Grande Stevens e
altri pubblicata il 4 marzo 2014).
Secondo la Corte di Strasburgo,
infatti, ai sensi
dell’art. 6 della Carta europea dei diritti dell’uomo
(CEDU) sul
diritto a un equo processo e ai fini
dell’applicazione delle garanzie previste da tale
disposizione, le sanzioni amministrative possono
avere natura sostanzialmente penale.
Tale natura è riconosciuta in base
ai cosiddetti
criteri Engel , dal   I criteri
Engel
 
nome
della sentenza
capostipite (sentenza 8 giugno 1976, ric. n. 5100/71
Engel e a.
c. Paesi Bassi, serie A, n. 22, par. 22):
qualificazione giuridica
formale attribuita dalla
legge alla sanzione; natura della sanzione
ricavabile
principalmente dallo scopo punitivo,
deterrente e repressivo; grado di severità della
sanzione (afflittività). Ove tali criteri vengano
riconosciuti, scattano garanzie come
per esempio
il principio secondo il quale nessuno può essere
obbligato ad affermare la
propria responsabilità
(autoincriminazione).
 Anche la Corte di giustizia
dell’Unione europea
segue il medesimo approccio sostanzialistico in
applicazione
dell’art. 50 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione
europea che, in analogia
con la CEDU, pone il principio del ne bis
in idem. In
realtà, l’avvio in sequenza di due procedimenti
sanzionatori
qualificati dal diritto interno, l’uno
come penale l’altro come amministrativo, è stato
ritenuto compatibile con tale principio nel caso in
cui «la severità dell’insieme delle
sanzioni inflitte
non ecceda la gravità del reato accertato»
(sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione,
20 marzo 2018 in
causa C-537/16 pronunciata in
relazione a una domanda pregiudiziale
nell’ambito
di una controversia innanzi a un giudice civile
relativa a una sanzione
irrogata dalla CONSOB). In
attuazione di questo principio, il legislatore
italiano ha
modificato le norme in tema di
procedimenti sanzionatori della CONSOB
prevedendo che
«l’autorità giudiziaria o la
CONSOB tengono conto, al momento
dell’irrogazione delle
sanzioni di propria
competenza, delle misure punitive già irrogate»
(art. 6, comma 17,
d.lgs. 10 agosto 2018, n. 107).
La materia è comunque ancora in
evoluzione.
Le sanzioni    Tipi di sanzioni
 
amministrative sono
riconducibili a più tipi: le sanzioni
pecuniarie,
consistenti nell’obbligo di pagare una somma di
danaro determinata entro un
minimo e un
179 massimo stabilito dalla norma; le sanzioni
interdittive, che incidono sull’attività posta in
essere dal
soggetto destinatario del provvedimento
(ritiro della patente, decadenza da una
concessione); le sanzioni disciplinari. Talora
l’irrogazione di una
sanzione può comportare
anche l’applicazione di sanzioni cosiddette
accessorie, come,
per esempio, la confisca
amministrativa di cose la cui fabbricazione, uso,
detenzione o
alienazione costituisce un illecito
amministrativo (art. 20).
 Le  sanzioni   Le sanzioni pecuniarie
  e
l’oblazione
pecuniarie
presentano alcune
specificità. Anzitutto, l’obbligazione
pecuniaria
grava a titolo di solidarietà in capo a soggetti
diversi da colui che pone in
essere il
comportamento illecito (per esempio l’ente del
quale è dipendente o
rappresentante l’autore
dell’illecito: art. 6). Inoltre l’obbligazione può
essere
estinta tramite il pagamento di una somma
in misura ridotta (oblazione) entro 60 giorni
dalla
contestazione della violazione, cioè prima che
abbia corso il procedimento in
contraddittorio per
l’accertamento dell’illecito (art. 16). L’oblazione
evita dunque che
si arrivi a un accertamento
definitivo dell’illecito, sgravando così gli uffici di
un’attività istruttoria talora onerosa.
 Le  sanzioni   Le sanzioni
  disciplinari
disciplinari si
applicano a soggetti
che intrattengono una relazione
particolare con le
pubbliche amministrazioni (dipendenti pubblici,
professionisti
iscritti ad albi, ecc.) e sono volte a
colpire comportamenti posti in violazione di
obblighi speciali collegati allo status particolare
(doveri di
servizio, codici deontologici, ecc.). Esse
consistono, a seconda della gravità
dell’illecito,
nell’ammonizione (o censura), nella sospensione
dal servizio o dall’albo
per un periodo di tempo
determinato, nella radiazione da un albo o nella
destituzione.
Le sanzioni disciplinari sono regolate
sotto il profilo sostanziale e procedimentale da
leggi speciali e sono dunque escluse dal campo di
applicazione della disciplina generale
delle
sanzioni amministrative posta dalla l. n. 689/1981
(art. 12). Si ritornerà sul
tema nel capitolo X a
proposito del regime giuridico dei dipendenti
pubblici.
  ul piano funzionale, va posta
anche la distinzione 
S
tra sanzioni in senso   Le sanzioni
  ripristinatorie
proprio, che
hanno
una valenza
essenzialmente repressiva e punitiva del colpevole,
e sanzioni
cosiddette ripristinatorie, che hanno
come scopo principale quello di reintegrare
l’interesse pubblico leso da un comportamento
illecito.
  ueste ultime, secondo molte
ricostruzioni, non
Q
vanno considerate come sanzioni amministrative
in senso stretto. Per
esempio, in materia edilizia,
nel caso di esecuzione di interventi in assenza o in
totale difformità dal permesso a costruire,
l’amministrazione comunale ingiunge al
proprietario e al responsabile dell’abuso la
rimozione o la demolizione assegnando un
termine
decorso inutilmente il quale l’area è acquisita di
diritto al comune (art. 31 d.p.r. n. 380/2001).
Le sanzioni amministrative sono applicate, di
regola, soltanto nei
confronti del trasgressore e ciò
in coerenza con il carattere personale delle
responsabilità (art. 3 l. n. 689/1981). La persona
giuridica
può essere chiamata a rispondere solo a
titolo di responsabilità solidale e, in ogni
caso,
l’ente che paghi la sanzione può esercitare l’azione
di regresso nei confronti
dell’autore dell’illecito
(art. 6, comma 3). In materia bancaria, nel 2010
sono state
introdotte in attuazione di norme
europee sanzioni pecuniarie irrogabili
direttamente in
capo agli istituti di credito (art. 144
180 Testo unico bancario).
Una particolare forma di  responsabilità
amministrativa è   La responsabilità
  amministrativa
degli
prevista a carico delle enti
imprese e degli enti
«per gli
illeciti
amministrativi dipendenti da reato» (art. 1, comma
1, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231). Questa
responsabilità sorge direttamente in capo all’ente
«per reati commessi nel suo interesse
o a suo
vantaggio» (art. 5) dagli amministratori e
dipendenti. Tra questi reati
figurano, per esempio,
la truffa in danno dello Stato, la concussione o il
riciclaggio
di danaro sporco (artt. 24 ss.).
 La responsabilità amministrativa degli enti
(escluso lo Stato e gli
enti
pubblici non economici,
ex art. 1, comma 3)
comporta l’applicazione di
sanzioni pecuniarie e interdittive come, per
esempio, la
sospensione e la revoca di
autorizzazioni e licenze, l’esclusione da
agevolazioni e
finanziamenti pubblici, il divieto di
contrattare con la pubblica amministrazione (art.
9). All’applicazione di questo particolare tipo di
sanzione provvede il giudice penale
competente a
conoscere dei reati corrispondenti. L’ente può
sottrarsi alla
responsabilità amministrativa solo se
dimostra di aver adottato modelli di
organizzazione, gestione e controllo idonei a
prevenire la commissione da parte degli
amministratori e dipendenti dei reati,
introducendo regole e procedure interne adeguate
(obblighi informativi, protocolli per l’adozione e
attuazione delle decisioni e per la
gestione delle
risorse finanziarie, sanzioni interne, istituzione di
organi ai quali sia
affidata la funzione di vigilare
sull’osservanza di tali modelli) (artt. 6 e 7 d.lgs. n.
231/2001). In questo modo i vertici degli enti
sono
sollecitati a dotarsi di un’organizzazione atta a
minimizzare il rischio della
commissione di reati.
La responsabilità amministrativa
degli enti si
iscrive nella tendenza del diritto, in espansione
nella fase storica
attuale, a incidere più in
profondità nell’organizzazione interna degli enti
privati.
8. Le
attività libere sottoposte
a regime di comunicazione
preventiva. La segnalazione
certificata d’inizio di attività
I provvedimenti con effetti
ampliativi della sfera
giuridica del destinatario sono essenzialmente
quelli di tipo
autorizzativo.
Occorre muovere da una premessa
generale. Negli
ordinamenti giuridici di matrice liberal-
democratica (e tra questi
rientra l’ordinamento
europeo) l’attività dei privati, in linea di principio,
è libera,
nel senso che essa è sottoposta
esclusivamente al diritto comune. Vale cioè la
regola
che è permesso tutto ciò che non è
espressamente vietato, salvi i limiti generali posti
dall’ordinamento civile e dai principi come quello
del neminem
laedere.
Tuttavia, nei casi in cui
l’attività dei privati può
interferire o mettere a rischio un interesse della
collettività (nelle ipotesi esaminate nel capitolo I,
dei «fallimenti del mercato»), si giustificano
prescrizioni e vincoli particolari. Nel conformare le
attività dei privati all’interesse
pubblico le leggi
amministrative, come prevede anche il diritto
europeo e in particolare
la direttiva servizi (CE)
2006/123 richiamata più avanti, devono rispettare
il
principio di
proporzionalità. Quest’ultimo,
come si è visto, impone un onere di
giustificare la
misura introdotta che deve comportare il minor
181 sacrificio possibile
dell’interesse privato.
Così il  rispetto delle   Le attività libere
  sottoposte a
vigilanza
leggi amministrative
è assicurato in un
primo
gruppo di casi da un semplice regime di
vigilanza, che può portare all’esercizio di
poteri
repressivi e sanzionatori nei casi in cui vengono
accertate violazioni. Si pensi,
per esempio, al
pedone o al ciclista che non rispettino il Codice
della strada, oppure a un cittadino che deposita i
rifiuti domestici in luoghi non consentiti, ai quali
può essere irrogata una sanzione
pecuniaria.
L’attività non richiede alcuna interlocuzione
preventiva con una pubblica
amministrazione e
può essere considerata ancora come libera, anche
se è condizionata e
conformata da norme di tipo
amministrativo.
  er agevolare  i
P   L’obbligo di
  comunicazione
controlli effettuati preventiva
dall’amministrazione,
in un secondo
gruppo
di casi di attività libere nel senso ora precisato, la
legge grava i privati di
un obbligo di comunicare a
una pubblica amministrazione l’intenzione di
intraprendere
un’attività. Talvolta la
comunicazione è contestuale all’avvio dell’attività;
altre
volte tra la comunicazione e l’avvio
dell’attività è previsto un termine minimo. Così,
per esempio, l’agricoltore che voglia vendere
direttamente al dettaglio i propri
prodotti deve
darne comunicazione preventiva al comune (art. 4
d.lgs. 18 maggio 2001, n. 228). Anche chi
intraprende
un’attività di affittacamere, in base
alle normative regionali, deve comunicarlo al
comune. I promotori di una riunione in luogo
pubblico o aperto al pubblico devono darne
avviso
al questore almeno tre giorni prima (art. 18 Testo
unico delle leggi di pubblica sicurezza).
 Un regime  generale   La segnalazione
  certificata
d’inizio di
di comunicazione attività
preventiva, cioè della
segnalazione
certificata d’inizio di attività (cosiddetta SCIA) è
posto dall’art. 19 l. n. 241/1990.
 
Le attività sottoposte al regime della SCIA, come
chiarito dalla
giurisprudenza (da ultimo Corte
costituzionale 6 febbraio 2019, n. 45), sono libere,
anche se conformate da un regime amministrativo.
Il decreto legislativo di recepimento
della direttiva
servizi (CE) 2006/123, nel porre una definizione di
autorizzazione,
specifica che la SCIA «non
costituisce regime autorizzatorio» (art. 8, comma
1, lett. f ), d.lgs. 26 marzo 2010, n. 59).
La SCIA riconduce una serie di attività, per le quali
in precedenza
era previsto un regime di controllo
preventivo (ex ante) sotto forma di
«autorizzazione, licenza, concessione non
costitutiva, permesso o nullaosta comunque
denominato»
(comma 1), a un regime meno
intrusivo di controllo successivo (ex
post),
effettuato cioè dall’amministrazione una volta
ricevuta la
comunicazione di avvio dell’attività. La
SCIA non è qualificabile come istanza
ex
art. 2 l. n.
241/1990 che dà avvio a un procedimento
amministrativo volto al rilascio di un titolo
abilitativo. Essa ha soltanto la funzione
di
consentire all’amministrazione di verificare se
l’attività in questione è conforme
alle norme
amministrative.
L’avvio dell’attività può essere contestuale alla
presentazione della
SCIA allo sportello
unico
indicato sul sito istituzionale di ciascuna
amministrazione (art.
19-bis). Il privato deve
corredare la segnalazione con
un’autocertificazione del possesso dei presupposti
e requisiti previsti dalla legge per
lo svolgimento
dell’attività (anche con il ricorso ad asseverazioni
e attestazioni di tecnici
abilitati). In caso di
dichiarazioni mendaci scattano sanzioni
amministrative e penali (art. 19, commi 3 e 6).
L’attività viene cioè intrapresa
sulla base di
un’autovalutazione della conformità dell’attività
182 alla legge.
In caso di «accertata carenza dei
requisiti e dei
presupposti»  previsti   Il divieto di
  prosecuzione
dalla legge, nel dell’attività
termine di 60 giorni,
l’amministrazione
emana un provvedimento motivato di divieto di
prosecuzione dell’attività e di rimozione dei suoi
effetti. Se emanato dopo la scadenza
del termine,
l’atto è inefficace (art. 8, comma 2-bis, della l. n.
241/1990 aggiunto nel 2020). In alternativa, ove
possibile, può invitare il privato a conformare
l’attività alla normativa vigente entro
un termine
non inferiore a 30 giorni prescrivendo le misure
necessarie.
 Nel caso della SCIA, dunque,
l’amministrazione
esercita un potere d’ufficio di verifica che può
sfociare in un
provvedimento di tipo ordinatorio. Il
rapporto giuridico amministrativo si struttura
così
secondo lo schema del potere e dell’interesse
legittimo oppositivo. Ciò a differenza del
regime
autorizzatorio tradizionale nel quale, come si è
visto, il rapporto giuridico
amministrativo segue lo
schema del potere e dell’interesse legittimo
pretensivo.
Peraltro anche dopo la scadenza  del
termine di 60
giorni per l’attività di   I poteri esercitabili
  dopo la
scadenza del
controllo, termine di 60 giorni
l’amministrazione
può esercitare i
poteri di vigilanza, prevenzione e controllo previsti
da leggi vigenti (art. 21, comma 2-bis). Può persino
attivare
il potere interdittivo sopra esaminato ove
sussistano i presupposti previsti dalla l. n. 241/1990
per l’annullamento
d’ufficio dei provvedimenti
illegittimi (art. 19, comma 4) che, come si vedrà,
richiede una serie di
apprezzamenti discrezionali e
prevede un termine di 18 mesi nel caso di
provvedimenti
autorizzativi (termine ritenuto
applicabile anche al potere interdittivo). Il rinvio al
regime dell’annullamento d’ufficio introduce
peraltro un elemento di ambiguità perché
questo
potere (di autotutela) ha per oggetto
provvedimenti in senso proprio, mentre nel
modello della SCIA non vi è alcun atto di assenso
esplicito da parte
dell’amministrazione e l’attività
resta libera.
I  l  campo di   Il campo di
  applicazione della
applicazione della SCIA
SCIA è definito
dall’art. 19 della l. n.
241/1990. Essa sostituisce di diritto
ogni atto di
tipo autorizzativo «il cui rilascio dipenda
esclusivamente
dall’accertamento di requisiti e
presupposti richiesti dalla legge», cioè, come si è
accennato, ogni atto di tipo vincolato. In presenza
di discrezionalità, infatti, non è
concepibile che il
soggetto privato possa farsi carico, in luogo
dell’amministrazione,
di una valutazione e
ponderazione degli interessi in gioco. Deve
trattarsi inoltre di
atti autorizzativi per i quali non
sia previsto alcun limite o contingente complessivo
o
altri strumenti di programmazione di settore. In
questi casi occorre infatti individuare
qualche
parametro per selezionare gli aspiranti a svolgere
l’attività e attivare di
conseguenza un
procedimento comparativo incompatibile con
l’avvio della stessa sulla
base di una semplice
comunicazione.
  ’art. 19 prevede peraltro alcune
esclusioni
L
allorché entrino in gioco interessi pubblici
particolarmente rilevanti
(ambiente, difesa
nazionale, pubblica sicurezza, giustizia, finanze,
ecc.), oppure si
tratti di atti autorizzativi imposti
dalla normativa europea.
Per ridurre i margini di
incertezza il d.lgs. 25
novembre 2016, n. 222 ha individuato un elenco di
fattispecie sottoposte al regime della SCIA (e del
183 silenzio-assenso).
La SCIA ha dato origine a un
dibattito dottrinale
che si è incentrato soprattutto sulla questione se la
SCIA attui
una liberalizzazione effettiva delle
attività in precedenza soggette a un regime
autorizzatorio tradizionale, oppure se rientri
ancora in qualche modo all’interno di
tale schema
sia pur rivisitato.
Per esempio, secondo alcune
ricostruzioni ormai
superate, la SCIA    La SCIA come
  autoamministrazione
sarebbe una forma di
«autoamministrazion
e» dei privati, resa possibile proprio dal fatto che
lo svolgimento
dell’attività è subordinato dalle
leggi amministrative alla presenza di presupposti e
requisiti vincolati. La sussistenza di questi ultimi
in un caso concreto può essere
accertata in modo
agevole dal soggetto interessato che valuta
autonomamente la propria
situazione e, per così
dire, emana l’atto autorizzativo «in luogo»
dell’amministrazione.
Così ricostruita, la
dichiarazione presentata dal privato avrebbe
natura
provvedimentale. Come tale potrebbe
essere impugnata innanzi al giudice
amministrativo
da un soggetto terzo che abbia
interesse a contrastare l’avvio dell’attività (per
esempio, il titolare di un esercizio commerciale
contrario all’apertura nelle vicinanze
di un altro
esercizio in concorrenza).
  e ricostruzioni più recenti, che
hanno avuto,
L
come si è accennato, anche l’avallo della
giurisprudenza costituzionale e
già da tempo di
quella amministrativa (Cons. St., Ad. Plen., 29
luglio 2011, n. 15),
riconducono la SCIA all’ambito
delle attività libere, anche se conformate dalle
leggi
amministrative, sottoposte a vigilanza da
parte delle autorità pubbliche.
Un problema delicato è quello
della tutela  del
terzo che vuole   La tutela del terzo
 
opporsi all’avvio
dell’attività. Infatti, mentre l’autorizzazione
espressa costituisce un atto impugnabile
da parte
del terzo, nel caso della SCIA manca un
provvedimento che gli consenta il
ricorso al
giudice amministrativo.
  econdo una prima interpretazione,
il terzo
S
potrebbe proporre un’azione di accertamento
atipica volta a far dichiarare
che l’attività avviata
non è conforme alle norme amministrative e a
indurre, di
conseguenza, l’amministrazione ad
esercitare i poteri repressivi e interdittivi.
Il legislatore ha cercato di chiarire la questione
oggetto di
soluzioni giurisprudenziali oscillanti. Ha
precisato anzitutto che la SCIA, la denuncia
e la
dichiarazione di inizio di attività «non
costituiscono provvedimenti taciti
direttamente
impugnabili» (art. 19, comma
6-ter, l. n. 241/1990).
Ha stabilito poi che «gli interessati
possono
sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti
all’amministrazione e, in caso
di inerzia, esperire
esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2
e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n.
104»
(cioè, come si vedrà nel capitolo XIV, l’azione
contro il silenzio).
In pratica, il terzo che desideri contrastare l’avvio
dell’attività
deve invitare l’amministrazione a
emanare un provvedimento che vieti la
prosecuzione
dell’attività e se l’amministrazione
non provvede può rivolgersi al giudice
amministrativo per far accertare l’obbligo di
provvedere. Tuttavia, secondo la Corte
costituzionale    L’interpretazione della
  Corte
costituzionale
(sentenza 6 febbraio
2019, n. 45), anche in presenza di un siffatto invito,
vale per l’amministrazione il termine perentorio di
184 60 giorni e di 18 mesi prima
richiamati, termine
che tende a tutelare l’affidamento
ingenerato in chi
ha presentato la SCIA. Pertanto, dopo la scadenza
di questi termini,
secondo la Corte costituzionale,
il terzo può sollecitare solo i poteri di verifica di
eventuali dichiarazioni mendaci o false e i poteri
generali di vigilanza e repressivi,
nonché far valere
la responsabilità per i danni a carico dei funzionari
che non hanno
agito tempestivamente (art. 21 l. n.
241/1990). In realtà, la stessa Corte
costituzionale,
rendendosi conto che le norme vigenti sono
insoddisfacenti, ha invitato
il parlamento a
introdurre alcune modifiche specifiche. Il
problema della tutela del
terzo non è dunque
risolto.
 
9. Le
autorizzazioni e le
concessioni
Come si è visto, il regime della
SCIA resta ancora
all’interno del modello dell’amministrazione
titolare di poteri il cui
esercizio determina effetti
limitativi della sfera giuridica del destinatario.
Con i regimi autorizzatori, che
introducono un
controllo
ex ante, subordinando l’avvio dell’attività
a un provvedimento di
assenso, si passa invece al
modello dell’amministrazione titolare di poteri il
cui
esercizio determina effetti ampliativi della
sfera giuridica del privato. Secondo la
teoria della
regolazione amministrativa esso è considerato
come maggiormente intrusivo
nelle libertà dei
privati (Ogus [1994, 214], a proposito del modello
del prior
approval).
La scelta  da parte del   La scelta tra controllo
  ex ante ed ex post
legislatore tra il
controllo ex post o ex
ante richiede una
valutazione caso per caso. In base
al d.lgs. n. 59/2010 di recepimento della direttiva
servizi
(CE) 2006/123, come già accennato, «i
regimi autorizzatori possono essere istituiti o
mantenuti solo se giustificati da motivi imperativi
di interesse generale» (art. 14)
indicati in un
elenco tassativo piuttosto esteso (art. 8, comma 1,
lett. h)). L’autorizzazione
preventiva è ammessa
quando l’obiettivo della tutela dell’interesse
pubblico «non può
essere conseguito tramite una
misura meno restrittiva, in particolare in quanto
un
controllo a posteriori interverrebbe troppo
tardi per avere reale efficacia» (art. 9, comma 1,
lett. c)).
 Del resto, la Costituzione, per evitare limitazioni
arbitrarie
nell’esercizio di alcuni diritti
fondamentali, come accadde nel ventennio
autoritario,
pone, in particolare, il divieto di
introdurre regimi autorizzatori che condizionano il
diritto di associazione e di stampa (artt. 18, comma
1, e 21, comma 2) o prevede, nel caso delle riunioni
in luogo
pubblico, che possa essere imposto solo
un obbligo di preavviso (art. 17, comma 3).
Nell’ambito del modello del
controllo ex ante sulle
attività dei privati vanno considerate
principalmente le autorizzazioni e le concessioni.
Conviene anzitutto dar conto del
loro
inquadramento tradizionale, per poi introdurre
qualche elemento di critica.
  L’autorizzazione come
  rimozione
di un limite
1. Secondo  una
all’esercizio di un
definizione classica diritto
[Ranelletti 1894, 7
ss.],
l’autorizzazione
è l’atto con il quale l’amministrazione rimuove un
limite all’esercizio
di un diritto
soggettivo del
185 quale è già titolare il soggetto
che presenta la
domanda. Il suo rilascio presuppone una
verifica
della conformità dell’attività ai parametri
normativi posti a tutela
dell’interesse pubblico
(funzione di controllo). Le autorizzazioni danno
dunque origine,
come si è accennato, al fenomeno
dei diritti soggettivi in attesa di espansione, il cui
esercizio è appunto subordinato a un controllo
preventivo da parte di una pubblica
amministrazione. Rispetto a un siffatto potere
«conformativo» dell’amministrazione, il
soggetto
privato vanta una posizione di interesse legittimo
(pretensivo) che fa coppia con il
diritto soggettivo
preesistente. Esempi possono essere
l’autorizzazione all’apertura di
un esercizio
commerciale, oppure le cosiddette autorizzazioni
di polizia di cui
all’art. 14 del Testo unico delle
leggi di pubblica sicurezza.
  a  concessione è
L   La concessione come
  atto
costitutivo o
invece l’atto con il
quale traslativo di un diritto

l’amministrazione
attribuisce
ex novo o trasferisce la titolarità di un
diritto soggettivo in capo a un soggetto privato.
Nel rapporto giuridico
amministrativo che si
instaura tra il soggetto privato che presenta
l’istanza di concessione e l’amministrazione, il
primo si presenta titolare di un
interesse legittimo
(pretensivo), per così dire, allo stato puro. Solo in
seguito
all’emanazione del provvedimento
concessorio sorge in capo al privato un diritto
soggettivo pieno (utilizzo di un bene demaniale,
esercizio in regime di monopolio di
un’impresa,
ecc.) che può essere fatto valere anche nei
confronti dei terzi.
  ul piano funzionale
l’autorizzazione, come si è
S
visto, è uno strumento di controllo da parte
dell’amministrazione sullo svolgimento
dell’attività allo scopo di verificare
preventivamente che essa non si ponga in
contrasto con le norme che definiscono i
presupposti e i requisiti. L’autorizzazione spesso si
esaurisce uno
actu, senza cioè che si instauri una
relazione con l’amministrazione che
vada al di là di
una generica attività di vigilanza da parte di
quest’ultima sulla
permanenza in capo al soggetto
privato delle condizioni previste dalla legge. La
concessione instaura invece in molti casi un
rapporto di lunga durata con il
concessionario.
Tale rapporto è caratterizzato da diritti e obblighi
reciproci e da
poteri di vigilanza continuativi e
talora anche di indirizzo delle attività poste in
essere in base alla concessione (come nel caso dei
servizi pubblici o
della costruzione e gestione di
opere pubbliche). La concessione costituisce
spesso uno
strumento attraverso il quale
l’amministrazione, anziché provvedere con le
proprie
strutture alla gestione di beni e servizi,
l’affida a soggetti privati (realizzando così
una
esternalizzazione). La concessione può avere
dunque una valenza di tipo
organizzativo e
realizza, come si vedrà meglio nel capitolo XII sui
contratti, una forma di partenariato
pubblico-
privato. Il concessionario può essere tenuto, a
certe condizioni, a rispettare
regole pubblicistiche,
per esempio per l’acquisto di beni e servizi.
Le concessioni  si   Le concessioni
  traslative e
costitutive
suddividono
descrittivamente in
due subcategorie:
concessioni traslative e
costitutive. Le prime trasferiscono in capo a un
soggetto
privato un diritto o un potere del quale è
titolare l’amministrazione. Un esempio è la
concessione dell’uso di un bene demaniale per
l’installazione di uno stabilimento
balneare o di un
186 pontile per l’attracco di imbarcazioni, oppure
la
concessione per l’esercizio dell’attività di
distribuzione dell’energia elettrica o
del gas a
livello comunale. Le seconde attribuiscono al
soggetto privato un nuovo
diritto (per esempio
un’onorificenza).
  uanto all’oggetto, invece, le
concessioni sono di
Q
più specie.
Vi sono in primo luogo le
concessioni di beni
pubblici,  come in   La concessione di beni,
  di
servizi pubblici, di
particolare i beni lavori o servizi
demaniali sui quali
possono essere
attribuiti diritti d’uso esclusivo. Esempi sono
l’installazione di un chiosco di giornali sulla
pubblica via, l’estrazione di cave,
l’assegnazione di
radiofrequenze, la derivazione di acque pubbliche
per alimentare una
centrale elettrica.
  na seconda specie è data dalle concessioni di
U
servizi pubblici o di
attività ancor oggi sottoposte,
ai sensi dell’art. 43 Cost., a un regime di monopolio
legale o di riserva
di attività a favore dello Stato o
di enti pubblici, come, per esempio, la
trasmissione e
distribuzione dell’energia elettrica, i
giochi e le scommesse.
Una terza specie è data dalle concessioni di
lavori
(per costruire per esempio una tratta autostradale
o un
inceneritore) o di servizi assimilate dal
Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016) a
normali contratti. Infatti, la sola
differenza
rispetto ai contratti di appalto di lavori e di servizi,
aggiudicati
all’esito di una procedura ad evidenza
pubblica, come si vedrà meglio nel capitolo XII,
consiste nel
fatto che nelle concessioni di questo
tipo il corrispettivo non è a carico
dell’amministrazione appaltante. Esso è invece
costituito esclusivamente dal diritto a
gestire
l’opera o il servizio applicando un prezzo o una
tariffa agli utenti (pedaggi
autostradali, tariffe per
l’uso di un parcheggio comunale, ecc.) (art. 3,
comma 1, uu) e vv), d.lgs. n. 50/2016) che
consentono il recupero dei costi per la
realizzazione e la gestione dell’infrastruttura
e il
conseguimento di un utile d’impresa. Esse
perseguono l’obiettivo di evitare esborsi
diretti in
capo all’amministrazione committente.
Rientrano infine nel fenomeno
concessorio alcuni
tipi di sovvenzioni, sussidi e contributi di danaro
pubblico erogati,
spesso con criteri discrezionali,
per il perseguimento di interessi pubblici (sociali,
economici, culturali) alle quali fa riferimento l’art.
12 l. n. 241/1990.

2. Dopo aver dato conto della ricostruzione


dogmatica tradizionale delle
autorizzazioni e delle
concessioni, è possibile ora svolgere alcune
osservazioni
critiche da due punti di vista.
In primo luogo, come emerge dalle
definizioni e
classificazioni sopra riportate, la visione
tradizionale è stata
condizionata in modo
preponderante dal dibattito in tema di situazioni
giuridiche
soggettive.
In realtà, la bipartizione delle
autorizzazioni e
delle concessioni apparve fin dall’inizio troppo
rigida e inadatta a
inquadrare una realtà molto più
variegata. Vennero così individuate, all’interno di
ciascuna categoria, alcune fattispecie intermedie,
di incerta consistenza.
In  particolare, fu   Figure intermedie di
  atti
autorizzativi
posta [Giannini
1970b, 1118] la
distinzione tra autorizzazioni
costitutive, talune
connotate da un’ampia discrezionalità e in
relazione alle quali è
dubbia la preesistenza di un
diritto soggettivo in capo al privato (per esempio,
in
passato, le autorizzazioni previste per le banche,
le assicurazioni, le attività
commerciali, o in
187 materia di diritti reali, come, all’epoca,
l’attività
edilizia); autorizzazioni permissive, più vicine al
modello classico, che
operano come condiciones
juris, cioè come fatti permissivi o
ostativi
all’esercizio di una determinata attività con
funzione talora di mero controllo
di quest’ultima,
talaltra anche di programmazione e direzione
(panifici, vendita di
alcolici e superalcolici);
autorizzazioni ricognitive volte in prevalenza a
valutare
l’idoneità tecnica di persone o di cose (le
cosiddette abilitazioni, previste per i
professionisti, gli insegnanti, i comandanti di nave,
ecc.).
  e categorie ibride includono
anche le licenze
L
(caccia, pesca, ecc.) che hanno due caratteristiche:
riguardano attività nelle quali non sono rinvenibili
preesistenti diritti soggettivi dei soggetti privati,
come accade invece nel caso delle
autorizzazioni
classiche, né settori «in dominio»
dell’amministrazione, come nel caso
delle
concessioni; il loro rilascio è subordinato a
valutazioni di tipo tecnico o
discrezionale o di
coerenza con un quadro programmatorio che ne
comporti il
contingentamento, previsto per
esempio nei piani commerciali [Sandulli 1989,
624].
In definitiva, le incertezze che
hanno da sempre
pesato sul dibattito in tema di situazioni giuridiche
soggettive si sono
scaricate anche sulla
ricostruzione del fenomeno degli atti autorizzativi.
In secondo luogo, storicamente, le
autorizzazioni e
le concessioni vennero qualificate come atti
autoritativi. Ciò in
seguito all’affermarsi della
visione panpubblicistica dei rapporti tra Stato e
cittadino
che negava la possibilità di ricostruire le
relazioni giuridiche nel diritto pubblico in
base a
schemi privatistici.
In origine , invece,   Le concessioni come
  atti
autoritativi
nella seconda metà
del XIX secolo, le
concessioni
amministrative, che erano un
fenomeno all’epoca in piena espansione (si pensi
alle
concessioni ferroviarie, di sfruttamento delle
miniere, di illuminazione pubblica,
ecc.), vennero
considerate normali contratti a prestazioni
corrispettive disciplinati
dalle norme civilistiche.
Qualche decennio dopo, per effetto della
«pubblicizzazione
dottrinale dei rapporti
amministrativi» [D’Alberti 1981, 49], le concessioni
vennero
considerate provvedimenti
eminentemente discrezionali, modificabili e
revocabili
ad nutum senza alcun obbligo di
indennizzo. Venne così
enfatizzato in qualche
modo il significato originario settecentesco della
concessione,
come atto di un sovrano benevolente
che accorda un privilegio o una prerogativa
(un’onorificenza, il monopolio di una determinata
attività, o, all’epoca, anche
l’incorporazione di una
società commerciale con il beneficio della
responsabilità
limitata).
  lle autorizzazioni e alle
concessioni venne
A
dunque riconosciuto il carattere unilaterale e
autoritativo:
unilaterale, pur in presenza di una
volontà del privato espressa attraverso la
presentazione dell’istanza; autoritativo anche nei
casi di autorizzazioni integralmente
vincolate,
nelle quali l’atto sembra avere, come si è visto, una
valenza meramente
ricognitiva di un effetto che
scaturisce direttamente dalla legge.
Il tentativo di depurare le
concessioni da ogni
elemento privatistico apparve ben presto una
forzatura.
La dottrina e la giurisprudenza
elaborarono infatti
la nozione  di   Le
concessioni-
  contratto
concessione-
contratto (o
di
188 contratto accessivo al provvedimento) volta ad
attenuare il
carattere unilateral-pubblicistico
dell’atto concessorio. Ci si rese conto cioè che,
soprattutto nei casi di affidamento della gestione
di servizi pubblici per periodi di
tempo prolungati
e richiedenti la realizzazione di infrastrutture
complesse e onerose,
l’unilateralità della
concessione era poco più che una finzione. Nella
realtà, i privati
concessionari pretendevano
garanzie per investimenti di lunga durata e altri
impegni da
parte del concedente incompatibili con
la concezione autoritaria tipica del provvedimento
amministrativo discrezionale.
  on la concessione-contratto il
fenomeno
C
concessorio si sdoppia così in due componenti: un
provvedimento (inteso come
«atto di sovranità»)
volto ad attribuire al concessionario il diritto a
svolgere una
certa attività; un contratto o una
convenzione volti a regolare su base paritaria i
diritti e gli obblighi delle parti nell’ambito di un
rapporto di durata. Tra questi
rientrano
tipicamente l’obbligo in capo al concessionario di
corrispondere un canone
concessorio (con i criteri
per il suo aggiornamento), di effettuare
investimenti, di
assicurare agli utenti determinati
livelli di prestazione, di informazione. Tra i poteri
in capo al concedente vi sono, per esempio, quelli
di verifica sull’andamento della
gestione, di
approvazione delle tariffe praticate dal
concessionario agli utenti. Il
contratto regola
anche il diritto del concedente di recesso e di
riscatto subordinandoli
a una serie di garanzie,
incluso il pagamento di un indennizzo secondo
criteri
predefiniti, e superando in questo modo il
principio della revocabilità ad
nutum. Nei casi più
complessi il momento contrattuale è
preponderante
rispetto al momento autoritativo,
ridotto spesso a un mero atto di approvazione del
contratto.
Di fatto, poi, nonostante la
posizione formale di
sovraordinazione dell’amministrazione che rilascia
la concessione,
la parte contrattualmente più forte
finisce spesso per essere l’impresa privata che
gestisce il servizio.
  Gli atti autorizzativi
  nel
diritto europeo
3. La  distinzione tra
autorizzazioni e
concessioni ha richiesto un ripensamento sia alla
luce del diritto europeo, che ignora
la distinzione
tra diritti soggettivi e interessi legittimi. Esso
tende inoltre a
considerare in modo unitario gli
atti che realizzano forme di controllo ex
ante, sia
alla luce del diritto interno. Quel che conta per
entrambi i
tipi di atti è, alla fin fine, che in
mancanza di assenso preventivo
dell’amministrazione l’attività non può essere
intrapresa.
  a direttiva servizi 
L   La definizione europea
  di
autorizzazione
(CE) 2006/123
recepita con d.lgs. n.
59/2010, più volte citata, dà una definizione
ampia
di «regime autorizzatorio» che include «qualsiasi
procedura che obbliga un
prestatore o un
destinatario a rivolgersi a un’autorità competente
allo scopo di
ottenere una decisione formale o una
decisione implicita relativa all’accesso ad
un’attività di servizio o al suo esercizio» (art. 4, n.
6). Come precisa il considerando
n. 39, il regime di
autorizzazione include tutte le procedure per il
rilascio di
«autorizzazioni, licenze, approvazioni o
concessioni», oltre che l’obbligo «di essere
iscritto
in un albo professionale, in un registro ruolo o in
una banca dati, di essere
convenzionato con un
organismo o di ottenere una tessera
professionale».
I  noltre, specie quando si tratti
di attività
economiche, il diritto europeo guarda con sfavore
la discrezionalità.
Infatti, subordinare l’esercizio di
un’attività imprenditoriale a una valutazione
189 discrezionale dell’amministrazione può costituire
una «barriera
all’entrata» artificiale in un
determinato mercato.
Proprio  per questa   Le autorizzazioni
  conformi al
diritto
ragione numerose europeo
direttive europee
emanate nell’ultima
parte del secolo scorso hanno trasformato i regimi
di concessione
discrezionale in regimi di
autorizzazione vincolata (o anche, con espressione
ricorrente, di autorizzazione conforme al diritto
europeo).
 
Uno dei primi casi riguardò il sistema creditizio. La
legge bancaria del 1936 subordinava l’apertura di
un
istituto di credito al rilascio di una concessione
discrezionale della Banca d’Italia.
La stessa attività
bancaria era definita come attività di interesse
pubblico e
sottoposta a un sistema di regole
speciali, molte delle quali emanate e applicate dagli
organi
di vertice del sistema (Comitato
interministeriale per il credito e il risparmio,
ministero del Tesoro, Banca d’Italia). Esse erano
finalizzate non solo a garantire la
stabilità del
sistema bancario contro il rischio di fallimenti a
catena, ma anche a
dirigere l’attività degli istituti
orientando le scelte di investimento in funzione di
obiettivi di politica economica e industriale
secondo una logica programmatoria. In
questo
contesto la concessione valeva come atto di
ammissione dell’istituto richiedente
a un vero e
proprio ordinamento giuridico speciale [Giannini
1959, 350 ss.].
Negli anni Settanta del secolo
scorso, allo scopo di
aprire il mercato dei servizi bancari a un maggior
grado di
concorrenza, una direttiva europea (n.
780 del 12 dicembre 1977 recepita con il d.p.r. 27
giugno 1985, n. 350) pose il divieto di
subordinare
l’avvio dell’attività bancaria a valutazioni
discrezionali e in particolare
al criterio del
cosiddetto «bisogno di mercato». Quest’ultimo
consente
all’amministrazione di valutare in
termini di sufficienza o insufficienza la presenza di
un numero adeguato di istituti di credito secondo
un criterio di equilibrio tra domanda
e offerta di
servizi bancari e una logica programmatoria e
pianificatoria. Il regime
concessorio venne così
trasformato in regime autorizzatorio espungendo
ogni elemento di
discrezionalità propriamente
amministrativa.
Oggi il Testo unico delle leggi in
materia bancaria e
creditizia (d.lgs. n. 385/1993), per un verso, precisa
che l’attività
bancaria «ha carattere d’impresa»
(art. 10); per altro verso, subordina il rilascio
dell’autorizzazione a una serie di condizioni
oggettive (forma societaria, capitale
sociale
minimo, requisiti di professionalità, onorabilità e
indipendenza degli
amministratori, ecc.) che
attribuiscono alla Banca d’Italia (e alla Banca
centrale
europea che dal novembre 2014 è titolare
anche di competenze in materia di vigilanza)
solo
spazi di valutazione tecnica.
Le direttive di liberalizzazione
emanate verso la
fine del  secolo   Le direttive europee di
  liberalizzazione
scorso, volte a
eliminare
i regimi di
monopolio legale (o di riserva di attività) hanno
interessato i grandi
servizi pubblici (energia
elettrica e gas, comunicazioni elettroniche, poste,
trasporti
ferroviari). Da qui la sostituzione dei
regimi concessori con regimi di autorizzazioni
vincolate.
  osì, per esempio, il Codice delle
comunicazioni
C
elettroniche stabilisce che l’attività di fornitura di
190 reti o servizi «è
di preminente interesse generale»
ed è «libera» (artt. 3, comma 2, e 25), mentre in
precedenza era
sottoposta a un regime
concessorio. Per l’avvio è previsto, come si è
accennato, un
regime di autorizzazione generale
che richiede all’impresa una semplice
comunicazione
preventiva al ministero delle
Comunicazioni (art. 14). Solo per l’utilizzo delle
frequenze radio, che costituiscono una risorsa
scarsa, il Codice prevede un piano
nazionale di
ripartizione, in modo da ridurre il rischio di
interferenze, e la
concessione dei diritti d’uso alle
imprese richiedenti, ma nel contesto di «procedure
pubbliche, trasparenti e non discriminatorie» (art.
27).
In termini più generali, il d.lgs. n. 59/2010 di
recepimento della direttiva servizi
già citato, che si
applica a un ambito assai esteso di attività
economiche, nel porre
alcuni criteri guida in
materia di regimi autorizzatori rivolti soprattutto
al
legislatore, enuncia il principio che l’accesso e
l’esercizio delle attività di servizi
«costituiscono
espressione della libertà di iniziativa
economica e
non possono essere sottoposti a limitazioni non
giustificate o
discriminatorie» (art. 10, comma 1) e
impone l’applicazione del principio di
proporzionalità.
Il d.lgs.  n. 59/2010   I requisiti vietati e i
  requisiti ammessi
individua una serie di
requisiti di accesso
all’attività vietati in modo assoluto perché non
giustificati o discriminatori (art.
11). Sono
discriminatori, per esempio, i requisiti che
richiedono al prestatore di
servizi la cittadinanza o
la residenza italiana. Non giustificata è invece
«l’applicazione caso per caso di una verifica di
natura economica che subordina il
rilascio del
titolo autorizzatorio alla prova dell’esistenza di un
bisogno economico o
di una domanda di mercato,
o alla valutazione degli effetti economici potenziali
o
effettivi dell’attività o alla valutazione
dell’adeguatezza dell’attività rispetto agli
obiettivi
di programmazione economica stabiliti» (art. 1,
comma 1, lett. e)). L’economia
di mercato aperta e
in libera concorrenza che ispira i Trattati europei è
incompatibile,
come si è detto, con ogni logica
dirigistica e pianificatoria.
 Accanto ai requisiti vietati, il
d.lgs. n. 59/2010
enumera una serie di requisiti che sono
ammessi
solo in presenza di un motivo imperativo di
interesse generale, così come
definito dallo stesso
decreto in un elenco tassativo (ordine e sicurezza
pubblica,
sanità, tutela dei lavoratori, ambiente,
ecc.), e previa notifica alla Commissione
europea
(artt. 12 e 13). Tra questi rientra, per esempio, la
previsione di tariffe
obbligatorie minime o
massime, di restrizioni quantitative o territoriali, o
di un
numero minimo di dipendenti.
Nei  casi in cui il   Le procedure
  competitive per il
numero delle rilascio delle
autorizzazioni deve autorizzazioni

essere limitato «per


ragioni correlate
alla scarsità delle risorse naturali
o delle capacità tecniche
disponibili» o per altri
motivi imperativi di interesse
generale, il loro
rilascio deve avvenire attraverso una procedura di
selezione atta ad
assicurare l’imparzialità (art. 16).
Essa realizza, come si vedrà, una forma di
concorrenza «per il mercato», che surroga la
concorrenza «nel mercato», appunto nei casi
in cui
non è possibile la compresenza di più operatori in
competizione tra loro.
 In definitiva, le condizioni alle
quali i regimi
autorizzatori subordinano l’esercizio di un’attività
191 di servizi devono
essere, oltre che non
discriminatorie e giustificate da un
motivo di
interesse generale, «chiare e inequivocabili»,
«oggettive», «rese pubbliche
preventivamente»
(art. 15).
Un ripensamento    L’evoluzione del
  diritto
interno
nella ricostruzione
dogmatica degli atti
autorizzativi è
imposto anche dall’evoluzione
interna al nostro ordinamento.
  i è già visto che, in seguito alla sentenza delle
S
Sezioni Unite della
Corte di
cassazione n.
500/1990, la distinzione tra diritti soggettivi e
interessi legittimi non segna più la linea di confine
della risarcibilità del danno
conseguente a
un’attività
amministrativa illegittima. Perde così
di significato, a fini
risarcitori, in particolare nel
caso di diniego illegittimo del rilascio del
provvedimento richiesto, la distinzione tra
concessioni e autorizzazioni fondata sulla
preesistenza o meno della titolarità in capo al
soggetto privato di una situazione
giuridica di
diritto soggettivo. Ai fini della risarcibilità entra in
gioco, come si
vedrà nel capitolo VII
esaminando
la sentenza n. 500/1999, soltanto il cosiddetto
giudizio
prognostico.
In conclusione, alla luce
dell’evoluzione del diritto
europeo  e del diritto   Autorizzazioni
  discrezionali e
interno,
la vincolate
distinzione più
rilevante, al di là della
terminologia utilizzata dal legislatore e
delle
classificazioni dottrinali, è tra atti autorizzativi
discrezionali e vincolati o,
com’è stato detto [Orsi
Battaglini 1988b, 73], tra «autorizzazioni
discrezionali
costitutive» e «autorizzazioni
vincolate ricognitive».
  econdo questa dottrina, ancora
oggi peraltro
S
minoritaria, nelle prime l’atto amministrativo è la
fonte diretta dell’effetto
giuridico prodotto,
secondo lo schema già visto della norma
attributiva del potere (cioè
secondo lo schema
norma-fatto-potere-effetto); nelle seconde
l’effetto giuridico, come si
è accennato, si ricollega
direttamente alla legge, cioè al verificarsi in
concreto di un
fatto sussumibile nella norma.
All’autorità che emana l’atto è riservato in via
esclusiva il compito di accertare la produzione
dell’effetto giuridico (cosiddetta
competenza
esclusiva, nell’impostazione, già esaminata, di
Capaccioli [1975, 349 ss.]).
L’avvio dell’attività nel
secondo tipo di autorizzazioni è dunque precluso
in assenza
dell’atto amministrativo, non tanto
perché il soggetto privato non abbia già acquisito
nella sua sfera giuridica il diritto a esercitarla,
quanto perché, per ragioni di
certezza delle
relazioni giuridiche, l’ordinamento riserva, almeno
in prima battuta,
all’amministrazione il compito di
verificare se sussistono in concreto i presupposti e
i
requisiti richiesti dalla norma.
Comunque sia, la presenza o meno
della
discrezionalità assume un rilievo determinante, in
caso di diniego illegittimo
dell’atto autorizzativo,
ai fini della tutela giurisdizionale (oltre che, come
si è
visto, ai fini del risarcimento del danno).
Infatti, come si è già accennato e come si
vedrà
meglio nei capitoli VII
e XIV, la natura vincolata o
discrezionale del potere condiziona la possibilità
di veder accolta da parte del giudice
amministrativo la cosiddetta azione di
adempimento, cioè l’azione di condanna al
rilascio
192 del provvedimento richiesto.
10. Gli
atti dichiarativi

Occorre dar conto di altre


tipologie di atti
amministrativi elaborate dalla dottrina e dalla
giurisprudenza.
Una prima tipologia è quella degli
atti dichiarativi,
nei quali cioè il momento volitivo tipico dei
provvedimenti è assente
e ai quali va invece
riconosciuta una funzione meramente ricognitiva e
dichiarativa
finalizzata alla produzione di certezze
giuridiche. In un certo senso, già le
autorizzazioni
vincolate da ultimo esaminate potrebbero essere
incluse in questa
categoria, ove si acceda alla tesi
che l’effetto giuridico abilitativo discende
direttamente dalla legge.
Più  tipicamente,   Le certificazioni
 
nella categoria degli
atti dichiarativi rientrano le certificazioni, d’uso
frequente nella vita pratica,
che sono dichiarazioni
di scienza effettuate da una pubblica
amministrazione in
relazione ad «atti, fatti,
qualità, e stati soggettivi» (art. 18 l. n. 241/1990).
 L’amministrazione pubblica
organizza, elabora,
verifica e detiene stabilmente una gran massa di
dati e informazioni
in registri, elenchi, albi, ecc. Si
pensi, per esempio, ai registri dello stato civile
dei
comuni
contenenti i dati anagrafici (data di
nascita, cittadinanza, stato civile), alle liste
elettorali, ai registri immobiliari, agli elenchi di
acque pubbliche, al pubblico
registro
automobilistico, ai registri giudiziari, ecc.
Le certificazioni relative a
questo tipo di dati sono
espressione di una funzione che i pubblici poteri
hanno assunto
da sempre come propria, perché
indispensabile per il funzionamento di un
ordinamento
sociale evoluto, quella cioè di
certezza pubblica. Si pensi, per esempio, alla
disciplina dei pesi e delle misure, della moneta, del
computo del tempo, indispensabili
per l’ordinato
svolgimento delle relazioni giuridiche.
La funzione di certezza pubblica
si realizza con
due modalità: la tenuta e l’aggiornamento di
registri, albi, elenchi
pubblici nei quali certe
categorie di soggetti o di beni possono essere
iscritti in base
a procedimenti tipizzati e in
relazione al possesso di determinati requisiti; la
messa a
disposizione ai soggetti interessati dei dati
in essi contenuti per mezzo di
attestazioni e
certificazioni che costituiscono la modalità
tradizionale per dimostrare
il possesso di
presupposti e requisiti richiesti ai privati per poter
svolgere molte
attività. Esse vengono usualmente
presentate, insieme alle altre documentazioni
necessarie, nell’ambito dei procedimenti
autorizzatori.
La l. n. 241/1990 (art. 18) e il Testo unico sulla
documentazione amministrativa (d.p.r. n.
445/2000) prevedono però due modalità
alternative
alle certificazioni che dovrebbero
essere preferite. Da un lato, le pubbliche
amministrazioni sono tenute a scambiarsi d’ufficio
le informazioni rilevanti senza
gravare i soggetti
privati dell’onere di ottenere il rilascio dei
certificati (artt. 18, commi 2 e 3, e 43 d.p.r. n.
445/2000). Di recente, proprio per obbligare
le
amministrazioni a fornirsi reciprocamente i dati di
cui sono in possesso, è stato
introdotto il principio
secondo il quale i certificati non hanno alcun
valore giuridico
nei rapporti con le pubbliche
amministrazioni. Dall’altro, in molti casi le
certificazioni possono essere sostituite con
l’autocertificazione, cioè tramite una
dichiarazione
formale assunta sotto propria responsabilità dal
193 soggetto.
Una fattispecie recente di
certificazione  alla quale
merita dedicare un   Il green
pass
 
cenno è il
certificato
verde Covid-19 (cosiddetto green pass) introdotto a
partire dal 2021 come misura di contrasto alla
pandemia. In base alla definizione
legislativa, si
tratta di una certificazione che comprova
l’avvenuta vaccinazione, la
guarigione dalla
malattia oppure l’effettuazione nei due giorni
precedenti di un test
molecolare o antigenico con
risultato negativo (art. 9 d.l. 22 aprile 2021, n. 52
convertito in legge 17 giugno 2021, n. 87). Il
possesso del certificato è stato reso
obbligatorio
per usufruire di una serie di servizi (trasporti,
musei, ristoranti, ecc.)
e per accedere ai luoghi di
lavoro, ecc. Il green pass costituisce
un incentivo
alla vaccinazione. Essa non è resa obbligatoria, ma
è soltanto indicata
come l’opzione preferibile (di
default), secondo il modello di regolazione della
cosiddetta spinta gentile (o nudge). Il regime è
stato reso più
stringente dal d.l. 26 novembre 2021,
n. 172, che prevede l’obbligatorietà della
vaccinazione per alcune attività (cosiddetto super
green pass).

  e cosiddette dichiarazioni sostitutive di


L
certificazione   Le autocertificazioni
 
 possono avere a
oggetto la data, il luogo di nascita, la
residenza, la
cittadinanza, l’iscrizione in albi, la qualità di
studente o di
pensionato, ecc. (art. 46 d.p.r. n.
445/2000). Così, per esempio, la domanda
di
partecipazione a un concorso pubblico o l’istanza
per poter ottenere un
sussidio prevedono
usualmente l’autocertificazione del possesso dei
requisiti richiesti
dal bando e dalle norme vigenti.
Le dichiarazioni sostitutive di atti di notorietà
sono
relative invece a stati, qualità personali e fatti
dei quali l’interessato sia a
conoscenza e che si
riferiscono anche ad altri soggetti (art. 47 d.p.r. n.
445/2000).
  ’amministrazione che utilizza il
dato
L
autocertificato nell’ambito di un procedimento
può verificarne, almeno a campione,
la correttezza
e deve farlo nei casi in cui sorgono dubbi sulla
veridicità delle
dichiarazioni (art. 71, comma 1). Se
l’autocertificazione è falsa possono
essere irrogate
sanzioni anche di tipo penale.
Inoltre, in caso di dichiarazioni
mendaci e di false
attestazioni, sempre con funzione sanzionatoria,
all’interessato è
negata la possibilità di conformare
l’attività alla legge sanando la propria posizione
(art. 21 l. n. 241/1990). Viene altresì disposta nei
suoi
confronti la decadenza dai benefici
eventualmente conseguiti dal provvedimento
emanato
in base alla dichiarazione non veritiera
(art. 75 d.p.r. n. 445/2000).
L’autocertificazione, introdotta
già da molto
tempo (legge 4 gennaio 1968, n. 15, cui fa rinvio
l’art. 18, comma 1, l. n. 241/1990), stenta a farsi
strada
nella pratica, perché lo scambio delle
informazioni tra pubbliche amministrazioni, a
causa di carenze organizzative e nonostante i
tentativi del legislatore di promuovere la
cosiddetta amministrazione digitale, è ancora
difficoltoso. Inoltre è piuttosto diffusa
l’assenza di
remore a dichiarare il falso, data anche la
sporadicità dei controlli.
Tra gli atti dichiarativi
rientrano i cosiddetti atti
paritetici,  ai quali si   Gli atti paritetici
 
è già fatto
cenno. Si
tratta di una categoria di atti elaborata dalla
giurisprudenza allorché negli
anni Trenta del
secolo scorso il legislatore attribuì al giudice
amministrativo in
particolari materie (anzitutto il
pubblico impiego) la cognizione di diritti
194
soggettivi
in aggiunta ai tradizionali interessi
legittimi (cosiddetta
giurisdizione
esclusiva). La
figura dell’atto paritetico, cioè di un atto
meramente
ricognitivo di un assetto già definito in
tutti i suoi elementi dalla norma attributiva
di un
diritto
soggettivo, serviva in quel contesto a
superare la regola della
necessità di impugnare
l’atto nel termine di 60 giorni, con la conseguenza
che la
pretesa del privato poteva essere fatta valere
in sede giudiziale nel normale termine di
prescrizione. Così, per esempio, se
l’amministrazione nega un compenso o
un’indennità
spettante a un dipendente pubblico
non privatizzato o erra nella quantificazione degli
oneri di urbanizzazione correlati al rilascio di un
permesso a costruire, la
comunicazione formale
dell’amministrazione non vale come
provvedimento in senso proprio.
  n’altra  specie di
U   Le verbalizzazioni
 
atti dichiarativi è
costituita dalle verbalizzazioni,
che consistono
nella «narrazione storico-giuridica» [Giannini
1960a, 1102] da parte di
un ufficio pubblico di atti,
fatti e operazioni avvenuti in sua presenza. Così,
per
esempio, la polizia municipale, nell’ambito
dell’attività di vigilanza, può recarsi in
un cantiere
e constatare in un processo verbale la difformità
delle opere già realizzate
rispetto al permesso a
costruire, oppure constatare il mancato rispetto
degli orari di
apertura di un esercizio commerciale.
Analogamente, i funzionari della Banca d’Italia,
in
occasione delle ispezioni periodiche condotte
presso le banche vigilate, fanno
constatare in un
verbale le operazioni compiute, i fatti accertati e le
eventuali
dichiarazioni delle parti interessate.
I  l processo verbale così redatto
può essere poi
incluso tra gli atti di un procedimento in senso
proprio volto, per
esempio, a sanzionare il
comportamento illecito sul piano amministrativo.
La verbalizzazione assume un
rilievo particolare in
relazione alle attività deliberative degli organi
collegiali
(consiglio o giunta comunale, consiglio di
amministrazione di un ente pubblico, ecc.).
Di
regola essa è affidata a un segretario non
componente del collegio che dà atto della
presenza
dei membri del collegio al fine della verifica del
quorum costitutivo,
dell’andamento della
discussione sui punti all’ordine del giorno, riporta
le eventuali
dichiarazioni di voto e l’esito delle
votazioni. Il verbale viene approvato dall’organo
collegiale nella seduta successiva.
Ove redatto da un pubblico
ufficiale il verbale fa
fede delle operazioni compiute e delle
dichiarazioni ricevute
(art. 155 cod. proc. civ.) e i
suoi contenuti possono essere
contestati solo
attraverso l’esperimento di procedimenti
particolari (la querela di
falso).
Tra  gli atti non   I pareri e le valutazioni
  tecniche
provvedimentali
rientrano i pareri e le
valutazioni tecniche. Esse sono manifestazioni di
giudizio da parte di organi o enti pubblici
contenenti valutazioni e apprezzamenti
in ordine a
interessi pubblici secondari o a elementi di
carattere tecnico (valutazioni
tecniche) che
l’amministrazione titolare del potere
amministrativo e competente a emanare un
provvedimento
amministrativo deve tenere in
considerazione (artt. 16 e 17 l. n. 241/1990). La sede
più appropriata per darne conto
è quella relativa al
195 procedimento amministrativo.
 
11. Altre
classificazioni: atti
collegiali, atti collettivi, atti
plurimi, atti di alta
amministrazione
I provvedimenti possono essere
classificati in base
a ulteriori criteri.

1. Un primo criterio riguarda la provenienza


soggettiva del
provvedimento. Accanto ai casi nei
quali il provvedimento è emanato da un organo di
tipo
monocratico (un decreto del ministro o
un’ordinanza del sindaco di un comune), si
pongono i casi nei quali il provvedimento è
riconducibile alla volontà di più organi o soggetti e
ha  dunque natura di   Gli atti complessi e gli
  atti
collegiali
atto complesso. Un
esempio può essere
il
decreto interministeriale, espressione della
volontà paritaria e convergente (con
funzione di
coordinamento) di più ministri, oppure un decreto
del presidente della
Repubblica che controfirma
l’atto del ministro proponente.
  anno menzionati anche gli
atti
collegiali emanati
V
da organi formati da una pluralità di componenti
designati con vari criteri (elezione, nomina da
parte di organi politici o in
rappresentanza di enti
pubblici o privati o di organizzazioni di categoria).
Le delibere
assunte dagli organi collegiali
avvengono con modalità procedurali definite negli
statuti o nei regolamenti dei singoli enti e
amministrazioni. Anzitutto, la riunione del
collegio
viene convocata di regola dal presidente e a
ciascuno dei componenti è
comunicato in anticipo
l’ordine del giorno. Prima di procedere alla
discussione e
all’assunzione della delibera va
verificata la sussistenza del numero legale
(quorum
costitutivo). La delibera è validamente
assunta ove sia approvata dalla maggioranza (a
seconda dei casi semplice o qualificata) dei
presenti (quorum deliberativo). La delibera
è
riferibile unitariamente all’organo collegiale, ma le
eventuali responsabilità che
possano sorgere non
ricadono sui componenti dell’organo assenti o
dissenzienti. Di tutte
le operazioni, inclusa la
votazione, dà conto il verbale della seduta.

2. Un secondo criterio è quello dei destinatari del


provvedimento. Esso
consente di individuare
anzitutto la categoria degli atti amministrativi
generali già esaminata nel capitolo precedente.
Questi atti si rivolgono, anziché a
singoli
destinatari, a classi omogenee più o meno ampie di
soggetti (determinabili in
concreto solo in un
momento successivo all’emanazione dell’atto).
Dagli atti generali vanno tenuti
distinti gli atti
collettivi e gli  atti   Gli atti collettivi e gli
  atti
plurimi
plurimi. Anche
i
primi si indirizzano a
categorie, generalmente ristrette, di soggetti
considerati in
modo unitario, i quali, però, a
differenza degli atti generali, sono già individuati
singolarmente con precisione. Si pensi, per
esempio, allo scioglimento di un consiglio
comunale che produce effetti nei confronti dei
singoli componenti dell’organo
collegiale.
  nche gli atti plurimi (o a contenuto
plurimo)
A
sono rivolti a una pluralità di soggetti, ma i loro
effetti, a
differenza di quanto accade per gli atti
collettivi, sono scindibili in relazione a
ciascun
destinatario. Si pensi, per esempio, al decreto che
approva una graduatoria di
un concorso, oppure, a
un decreto che dispone nei confronti di una
pluralità di
proprietari l’espropriazione di una
serie di terreni. La distinzione tra i due tipi di
atti
rileva soprattutto in sede di tutela giurisdizionale
poiché l’impugnazione proposta
da uno dei
196 destinatari dell’atto plurimo, proprio in virtù
della
scindibilità degli effetti, non può andare a
beneficio né intaccare la situazione
giuridica
soggettiva degli altri destinatari.
  Gli atti di alta
  amministrazione
e gli
3. Un terzo criterio 
atti politici
prende in
considerazione la
natura della funzione esercitata
e l’ampiezza della
discrezionalità. In base ad esso è stata elaborata la
categoria degli
atti di alta
amministrazione,
distinta da quella degli atti politici non
sottoposti
al regime del provvedimento amministrativo.
Infatti, il Codice del processo amministrativo, in
linea con le norme
precedenti (art. 31 Testo unico
delle leggi sul Consiglio di Stato),
esclude
l’impugnabilità degli «atti o provvedimenti
emanati dal governo nell’esercizio
del potere
politico» (art. 7, comma 1).
 La linea di confine tra atti
politici e atti
amministrativi è sempre stata dibattuta. Il giudice
amministrativo ha
via via ristretto la nozione di
atto politico, abbandonando la teoria di origine
francese del movente o dei motivi soggettivi
dell’atto che allargava troppo l’area della
insindacabilità. Ha accolto invece una nozione
oggettiva di atto politico. In essa
rientrano gli atti
che, a differenza di quelli amministrativi, sono
liberi nel fine e
sono emanati da un organo
costituzionale (in particolare il governo)
nell’esercizio di
una funzione di governo. È questo
il caso, per esempio, delle deliberazioni del
Consiglio dei ministri che approvano un decreto
legge o un decreto legislativo, degli
atti che
dispongono l’invio di un contingente militare
all’estero nell’ambito di una
missione
internazionale, che pongono la questione di fiducia
al parlamento su un disegno
di legge, che
provvedono alla nomina di un sottosegretario di
Stato, ecc.
Altri atti del   La discrezionalità e il
  sindacato del giudice
governo , definiti atti
di alta
amministrazione, hanno invece una
natura
amministrativa, anche se sono caratterizzati da
un’amplissima discrezionalità.
Tra di essi rientrano
i provvedimenti di nomina e revoca dei vertici
militari o dei ministeri (prefetti, capi di
dipartimento) o dei direttori generali
delle aziende
sanitarie locali, i decreti che autorizzano
l’estradizione, oppure il
decreto di scioglimento e
commissariamento di un comune o di un altro ente
pubblico.
Questi atti operano un raccordo tra la
funzione di indirizzo politico e la funzione
amministrativa. Essi devono essere motivati e sono
impugnabili innanzi al giudice
amministrativo, il
quale però esercita su di essi un sindacato meno
intenso, limitandosi
a rilevare le violazioni più
macroscopiche dei principi che presiedono
all’esercizio del
potere discrezionale.
 
12. L’invalidità dell’atto
amministrativo
Completata l’analisi della
fisiologia del
provvedimento, è ora possibile trattare la
patologia, cioè la teoria
dell’invalidità.
Anzitutto , non tutti i   Nozione di invalidità
 
casi di difformità tra
il provvedimento e le
norme che lo disciplinano
danno origine a invalidità. Le conseguenze di tale
difformità
infatti possono essere graduate dal
diritto positivo. Nei casi di imperfezioni minori,
come si dirà, l’atto è semplicemente irregolare ed è
suscettibile di rettifica o
regolarizzazione. Si ha
invalidità allorché la difformità tra atto e norme
197 determina una
lesione di interessi tutelati da
queste ultime e incide
sull’efficacia del primo in
modo più o meno radicale, sotto forma di nullità o
di
annullabilità.
 L’invalidità trova una disciplina
compiuta nella l. n.
241/1990 in seguito alle modifiche introdotte dalla
l. n. 15/2005 e, per i risvolti processuali, nel Codice
del processo amministrativo. Conviene muovere
da
alcune nozioni generali.
La teoria generale opera una
distinzione tra norme
che regolano una condotta e norme che
conferiscono poteri. Le
prime impongono obblighi
comportamentali o attribuiscono diritti; le
seconde
conferiscono poteri, come per esempio
quello di fare testamento, di contrarre un
matrimonio o di porre in essere un contratto, e
regolano le procedure, i presupposti e i
limiti
all’esercizio di poteri (privati o anche
amministrativi) volti alla produzione di
effetti
giuridici. Esse sono state variamente etichettate
come norme primarie e norme
secondarie [Hart
1965], norme di condotta e norme sulla produzione
giuridica [Bobbio
1993], norme di relazione e
norme di azione [Guicciardi 1957].
I comportamenti che violano il
primo tipo di
norme sono   Illiceità e invalidità
 
 qualificabili come
illeciti e
contro di essi l’ordinamento reagisce in
vario modo (sanzioni penali, obbligo di
risarcimento, ecc.). Gli atti posti in essere in
violazione delle norme del secondo tipo
sono
qualificabili come invalidi e contro di essi
l’ordinamento reagisce disconoscendone
gli effetti.
 L’invalidità può essere definita
più precisamente
come la difformità di un negozio o di un atto dal
suo modello legale.
Come si è già anticipato, essa
può essere sanzionata, in funzione della gravità
della
violazione, secondo due modalità:
l’inidoneità dell’atto a produrre gli effetti
giuridici
tipici, cioè a creare diritti e obblighi o altre
modificazioni nella sfera
giuridica dei soggetti
dell’ordinamento (nullità); l’idoneità a produrli in
via
precaria, cioè fin tanto che non intervenga un
giudice (o un altro organo) che,
accertata
l’invalidità, rimuova con efficacia retroattiva gli
effetti prodotti
medio tempore (annullamento).
Il regime dell’invalidità del provvedimento
amministrativo si ispira a (ma non coincide con)
quello accolto dal
codice civile, che, nell’ambito
della disciplina del contratto, distingue la nullità e
l’annullabilità (artt. 1418 ss. e 1425 ss. cod. civ.).
In primo luogo, nel   Nullità testuale e
  virtuale nel
diritto
 diritto civile la civile
nullità ha carattere
atipico. Infatti, il
codice civile del 1942 ha abbandonato la logica
della tassatività delle ipotesi nelle
quali essa è
comminata (cosiddetta nullità «testuale», cioè
limitata ai casi in cui essa
è espressamente prevista
da una norma). Delinea invece uno schema atipico
sanzionando
con la nullità tutti i casi di contrarietà
del contratto a norme imperative (art. 1418,
comma 1). Questa disposizione rimette
all’interprete la valutazione caso per caso in ordine
al carattere imperativo o meno
della norma violata
(cosiddetta nullità «virtuale»).
  a nullità  del
L   La tassatività dei casi
  di
nullità nel diritto
provvedimento è amministrativo
invece prevista, come
si vedrà, solo in
relazione a poche ipotesi tassative, mentre la
violazione delle norme attributive del
potere
viene
attratta nel regime ordinario dell’annullabilità
(sotto il profilo della
violazione di
legge).
  uesta differenza si spiega per il
fatto che le
Q
norme in materia di contratti hanno di regola
198 carattere dispositivo,
possono cioè essere derogate
dalle parti. Le norme imperative,
un fenomeno
quantitativamente limitato, segnano invece in
negativo i limiti
all’autonomia negoziale a tutela di
interessi generali.
Nel diritto amministrativo, invece, in coerenza
con la logica della
legalità e della tipicità, le norme
attributive del potere, in quanto finalizzate a
tutelare un interesse pubblico e a garantire i
soggetti destinatari del provvedimento,
hanno di
regola carattere cogente (imperativo). Esse non
possono essere cioè derogate o
disapplicate
dall’amministrazione. Sanzionare con la nullità
ogni difformità tra
provvedimento e norma
attributiva del potere costituirebbe una reazione
sproporzionata
da parte dell’ordinamento. Nel
corso dell’iter parlamentare, che portò alle
modifiche
alla l. n. 241/1990 operate dalla l. n.
15/2005, fu ipotizzato di sostituire la formulazione
classica del vizio di violazione di legge con la
contrarietà a norme imperative, ma la
proposta
venne accantonata proprio per la difficoltà di
applicare questa nozione a un
contesto
pubblicistico.
Tutto ciò  spiega   L’equiparazione tra
  provvedimento
perché storicamente, invalido e quello valido
come si è accennato,
si affermò
il principio
che equipara il provvedimento amministrativo
invalido a quello valido ai
fini della produzione
dell’effetto giuridico tipico (salvo suo successivo
annullamento).
Questo principio appare infatti più
rispettoso delle prerogative dell’amministrazione e
dell’esigenza di consentire la realizzazione
immediata della cura in concreto
dell’interesse
pubblico. Non venne accolto invece il principio,
seguito nell’ordinamento
inglese, della inidoneità
dell’atto non conforme al modello legale a
produrre l’effetto
(dottrina dell’ultra vires). Un
siffatto principio è improntato a
una visione più
rigorosa del principio di legalità e all’esigenza di
garantire al
massimo grado la protezione dei
soggetti nella cui sfera giuridica ricadono gli effetti
del provvedimento.
I  n secondo luogo, mentre nel
diritto privato
l’annullabilità è confinata a ipotesi tassative
(incapacità della parte
e vizi del consenso nonché
altri casi previsti da leggi speciali), nel diritto
amministrativo le cosiddette figure sintomatiche
dell’eccesso di potere,
frutto dell’elaborazione
giurisprudenziale, sono, come si vedrà, una sorta di
catalogo
tendenzialmente aperto e non tipizzato.
In definitiva, l’annullabilità
costituisce il regime
ordinario del provvedimento amministrativo
invalido (Cons. St.,
Ad. Plen., 16 ottobre 2020, n.
22), mentre la nullità è «categoria residuale del
diritto
amministrativo» (Cons. St., Sez. III, 2
settembre 2013, n. 4364).
 L’invalidità può essere totale o parziale: la prima
  Invalidità totale e
investe l’intero atto,   parziale
la seconda
una parte
di questo, lasciando
inalterata la validità e l’efficacia della parte non
affetta dal vizio. Anche il provvedimento può
essere colpito da invalidità totale o
parziale.
Quest’ultima evenienza si può avere nel caso di
provvedimenti con effetti
scindibili, come in
quello, già esaminato, degli atti plurimi. Un
esempio è l’atto di nomina di una pluralità di
vincitori di un concorso o di un giudizio
di
idoneità: l’esclusione dalla graduatoria di un
partecipante per assenza di requisiti
non comporta
la caducazione dell’intero atto di approvazione
della medesima. Ha effetti
scindibili anche il piano
regolatore con riferimento alle destinazioni
199 edificatorie
delle singole aree: l’illegittimità delle
prescrizioni che si
riferiscono a una determinata
area non si estende alle prescrizioni riferite ad
altre
aree. Un esempio di nullità parziale è
l’inserimento in un bando di gara per
l’aggiudicazione di un contratto di casi di
esclusione dei concorrenti
ulteriori rispetto a
quelle stabilite in modo tassativo dal Codice dei
contratti
pubblici (art. 46, comma 1-bis, come
chiarito dal
Cons. St., Ad. Plen., n. 9/2014).
I  n genere si ritiene applicabile al provvedimento il
principio
enunciato dall’art. 159 cod. proc. civ.,
secondo il quale l’invalidità di
una parte dell’atto si
estende alle altre parti solo ove esse siano
strettamente
dipendenti da quella viziata. Può
assumere rilievo anche il principio civilistico in
base al quale la nullità di una parte o di una
clausola del contratto comporta la
nullità del
contratto solo quando risulta che i contraenti non
lo avrebbero concluso
senza quella parte (art. 1419
cod. civ.). Nel caso degli atti amministrativi il
problema si può porre, per esempio, per le clausole
accessorie apposte a un’autorizzazione o a
una
concessione.
L’invalidità  di un   Invalidità propria e
  derivata
provvedimento può
essere propria o
derivata, originaria o sopravvenuta.
 
1. Nel caso di invalidità propria assumono rilievo
diretto i vizi dei
quali è affetto l’atto. Nel caso di
invalidità derivata, l’invalidità dell’atto
discende,
per così dire, per propagazione dall’invalidità di un
atto presupposto. Per
esempio, l’illegittimità di un
bando di gara determina a valle l’invalidità
dell’atto di
aggiudicazione o di approvazione della
graduatoria dei vincitori. Anche l’atto
applicativo
di un regolamento illegittimo è affetto da invalidità
derivata.
L’invalidità derivata può essere
di due tipi: a
effetto caducante,   L’invalidità derivata a
  effetto
caducante e
 quando travolge in invalidante
modo
automatico
l’atto assunto sulla
base dell’atto invalido; a effetto invalidante,
quando
l’atto affetto da invalidità derivata, per
quanto a sua volta invalido, conserva i suoi
effetti
fin tanto che non venga annullato. L’effetto
caducante si verifica in presenza
di un rapporto di
stretta causalità (o consequenzialità diretta e
necessaria) tra i due
atti: il secondo costituisce una
mera esecuzione del primo. Se invece l’atto
successivo
non costituisce una conseguenza
inevitabile del primo, ma presuppone nuovi e
ulteriori
apprezzamenti che segnano una
discontinuità fra due atti, l’invalidità derivata ha
soltanto un effetto viziante, con la conseguenza
che essa deve essere fatta valere
attraverso
l’impugnazione autonoma di quest’ultimo. Così,
per esempio, l’invalidità
dell’atto di ammissione di
un candidato a una prova concorsuale si propaga
agli atti
successivi della procedura fino
all’approvazione della graduatoria, ma quest’ultima
è
affetta da un’invalidità derivata viziante e non
caducante. Ciò perché la formazione
della
graduatoria richiede valutazioni più ampie riferite
anche agli altri candidati.
    Il principio del
tempus
  regit actum
2. Passando  a
considerare
l’invalidità
originaria e sopravvenuta, va premesso
che in linea di principio trova applicazione
anche
nel diritto amministrativo il principio del tempus
regit
actum, secondo il quale la validità di un
provvedimento
si determina in base alle norme in
vigore al momento della sua adozione.
 Peraltro, poiché l’esercizio del
potere avviene nella
forma del procedimento, cioè attraverso una
200 pluralità di atti
funzionalmente collegati e
strumentali all’adozione del
provvedimento finale,
si pone talora la questione delle conseguenze del
mutamento delle
norme vigenti sui procedimenti
avviati, ma non ancora conclusi (Consiglio di
Stato,
Sez. VI, 27 agosto 2020, n. 5260). Così, per
esempio, se dopo la presentazione di una
domanda
di concessione e l’avvio dell’istruttoria interviene
una normativa più restrittiva,
la concessione non
può essere più rilasciata. In altri casi il mutamento
normativo non
incide sulle procedure già avviate.
Un esempio è un concorso pubblico in
relazione al
quale sia già stato emanato il bando (che
costituisce la lex
specialis del procedimento e che
non può essere disapplicato
dall’amministrazione).
Si  parla di invalidità   L’invalidità
  sopravvenuta
sopravvenuta dei
provvedimenti (ma
questa nozione è dibattuta in
dottrina) nei casi di
legge retroattiva, di legge di interpretazione
autentica e di
dichiarazione di illegittimità
costituzionale. Nelle prime due ipotesi, la
retroattività
della nuova legge rende, ora per
allora, viziato il provvedimento emanato in base
alla
norma abrogata. Nella terza ipotesi, poiché le
sentenze di accoglimento della Corte
costituzionale hanno efficacia retroattiva, esse
rendono invalidi i provvedimenti
assunti sulla base
delle norme dichiarate illegittime e dei rapporti
giuridici sorti
anteriormente, a meno che non si
tratti di rapporti esauriti, cioè di fattispecie ormai
interamente realizzate.
  onviene svolgere ancora due
considerazioni
C
generali sull’invalidità del provvedimento.
La  prima è che la l. n.   Il contributo della
  giurisprudenza
241/1990 ha
razionalizzato le
acquisizioni
giurisprudenziali. Come si è già
accennato nel capitolo I, infatti, la teoria dei vizi
dell’atto amministrativo
è il frutto in gran parte
dell’elaborazione della IV Sezione del Consiglio di
Stato. Il giudice amministrativo dovette cioè
riempire di contenuto le
scarne disposizioni della
legge del 1889 che attribuivano alla sua
competenza i ricorsi
«per incompetenza, per
eccesso di potere o per violazione di legge» (art. 26
Testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato).
  osì, in primo luogo, la
giurisprudenza interpretò
C
la formula «eccesso di potere» (che riprendeva
quella francese
di excès de pouvoir), non già come
«straripamento di potere»
(débordement de pouvoir,
riferito in origine agli sconfinamenti
dell’autorità
giudiziaria nella sfera riservata di altra autorità
giudiziaria), bensì
come «sviamento di potere»
(détournement de pouvoir). Il primo
riguarda i casi di
sconfinamento macroscopico dall’ambito di
competenza da parte di
un’autorità amministrativa
(carenza di potere o incompetenza assoluta e ora,
nell’art.
21-septies, come «difetto assoluto di
attribuzione»); il
secondo i casi nei quali il potere
viene esercitato per un fine diverso da quello posto
dalla norma attributiva del potere (deviazione
dell’atto dalla sua destination
légale).
La IV Sezione del Consiglio di Stato  fece
cioè
ricorso
all’eccesso di   La legalità
«intrinseca»
 
potere per sindacare
la legalità «intrinseca» dei provvedimenti
discrezionali e non soltanto la legalità
«estrinseca», cioè la loro conformità formale a
disposizioni di legge. Così, in una controversia
relativa a un decreto governativo
discrezionale di
scioglimento di un’opera pia, il Consiglio di Stato
si spinse sino a
verificare che l’atto impugnato, pur
rispettoso delle norme applicabili, non contenesse
201 «nulla di illogico e d’irrazionale o di contrario allo
spirito
della legge» (decisione del 7 gennaio 1892,
n. 3), aprendo pertanto la
strada a un controllo
sulle scelte discrezionali dell’amministrazione. In
seguito,
il giudice amministrativo elaborò, come si
vedrà, le cosiddette figure sintomatiche
dell’eccesso di potere, rendendo così sempre più
penetrante il sindacato sulla
discrezionalità
amministrativa.
 In secondo luogo, nel silenzio della
legge, la
giurisprudenza   La carenza di potere
 
 individuò ipotesi
nelle quali il
provvedimento è affetto da deviazioni
abnormi dalla norma attributiva del potere o è
addirittura emanato in assenza di una base
legislativa. Emerse così una tipologia di
vizi più
gravi sussunti nella categoria della carenza di
potere (in astratto e in
concreto) o anche della
nullità (o talora inesistenza). In presenza di tali
vizi, come
si è già accennato nel capitolo
precedente, il provvedimento perde il carattere
imperativo e dunque non è in
grado di travolgere
(degradare o affievolire) i diritti soggettivi. Gli atti
assunti in
carenza di potere vennero pertanto
attribuiti alla cognizione del giudice ordinario,
mentre gli atti con riferimento ai quali veniva
contestato soltanto il cattivo esercizio
del potere
restarono affidati alla cognizione del giudice
amministrativo.
 Una seconda osservazione generale,
già introdotta
da quest’ultima considerazione, è che la teoria dei
vizi del
provvedimento nel nostro ordinamento è
stata condizionata dalla questione del riparto di
giurisdizione tra giudice ordinario e giudice
amministrativo fondato sulla distinzione
tra
diritto
soggettivo e interesse legittimo.
La prospettiva in cui si sono
poste la
giurisprudenza e la dottrina è stata dunque quella
dell’incidenza del
provvedimento invalido sulle
situazioni giuridiche soggettive.
In questo contesto è stata
elaborata anche la
distinzione tra due tipi di comportamenti
patologici
dell’amministrazione.
Da un lato vi sono i «meri comportamenti» (o
«comportamenti   I comportamenti senza
  potere
 senza potere»)
assunti in violazione
di una norma di
relazione, cioè lesivi di un diritto
soggettivo, e ascrivibili alla categoria della
illiceità.
Essi sono equiparabili ai comportamenti posti in
essere da
un soggetto privato non conformi alle
norme civilistiche (in particolare
ex
art. 2043 cod.
civ.). Si pensi, per esempio, a un incidente
stradale
provocato da un mezzo dell’amministrazione,
oppure al danno subito da un
autoveicolo privato a
causa della cattiva manutenzione di una strada
pubblica (la
cosiddetta insidia o trabocchetto),
oppure a un’operazione chirurgica mal riuscita per
l’imperizia dell’operatore medico di una struttura
sanitaria pubblica. Dall’altro vi
sono i
comportamenti nei quali il collegamento
funzionale tra provvedimento invalido e
l’attività
materiale esecutiva posta in essere
dall’amministrazione integra una
violazione della
norma attributiva del potere e lede un interesse
legittimo, facendo
confluire, in definitiva, l’intera
fattispecie nell’ambito della giurisdizione del
giudice amministrativo.
 La questione è sorta   Occupazione
  usurpativa e
a proposito appropriativa
dell’espropriazione
per pubblica utilità,
dove è emersa la distinzione tra «occupazione
usurpativa» e «occupazione appropriativa». La
prima si ha allorché il terreno viene
occupato in
carenza di qualsivoglia titolo (in «via di fatto» o in
carenza di potere);
la seconda allorché
202 l’occupazione avviene nell’ambito di una
procedura di espropriazione (a seguito della
dichiarazione di pubblica utilità) ancorché
illegittima. In quest’ultimo caso, secondo la Corte
costituzionale (sentenza 11 maggio
2006, n. 191), i
comportamenti costituiscono «esercizio, ancorché
viziato da
illegittimità, della funzione pubblica
della pubblica amministrazione» e pertanto sono
inclusi nella giurisdizione del giudice
amministrativo. Al contrario, i comportamenti
che
danno origine a un’occupazione usurpativa vanno
qualificati come illeciti e sono
attribuiti alla
giurisdizione del giudice ordinario. La Corte ha
dunque dichiarato
l’illegittimità costituzionale
dell’art. 53, comma 1, Testo unico sulle
espropriazioni approvato con
d.p.r. 8 giugno 2001,
n. 327, che attribuisce alla giurisdizione
esclusiva
del giudice amministrativo le controversie in
materia
espropriativa, nella parte in cui vi
includeva anche le controversie relative a
«comportamenti non riconducibili, nemmeno
mediatamente, all’esercizio del potere».
Pertanto,
l’art. 7 Codice del processo amministrativo fa
rientrare nel
perimetro della giurisdizione
amministrativa, accanto ai provvedimenti, solo i
«comportamenti riconducibili anche
mediatamente all’esercizio del potere».
 In definitiva, la questione del
riparto di
giurisdizione ha reso necessario, anche a costo di
qualche forzatura, sfumare
la distinzione tra
comportamento e atto di esercizio del potere
amministrativo, attraendo la fattispecie dei
comportamenti riconducibili
all’esercizio del
potere nella categoria della illegittimità piuttosto
che in quella
della illiceità.
Un nesso tra illiceità    Illegittimità dell’atto e
  illiceità ex
art. 2043
del comportamento cod. civ.
dell’amministrazione
e illegittimità del
provvedimento è emerso in seguito alla sentenza
delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n.
500/1999 che ha affermato il principio della
risarcibilità del danno da
lesione di interesse
legittimo. L’illegittimità del provvedimento, infatti,
è uno degli
elementi costitutivi (insieme al danno,
al nesso di causalità e all’elemento soggettivo)
dell’illecito extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043
cod. civ. Come ha chiarito anche la
giurisprudenza
amministrativa, il danno non è cagionato «dal
provvedimento in sé stesso,
ma da un fatto, ossia
da un comportamento» e assume dunque rilievo
non già «una mera
illegittimità del provvedimento
in sé ma un’illiceità della condotta
complessiva»
(Cons. St., Ad. Plen., 23 marzo 2011, n. 3).
  saurite le osservazioni
preliminari, conviene
E
individuare anzitutto le disposizioni rilevanti in
tema di
invalidità contenute nella l. n. 241/1990 e
nel Codice del processo amministrativo. I due testi
normativi
instaurano una corrispondenza tra
disciplina sostanziale e disciplina processuale
dell’invalidità. Ciò costituisce una novità sotto il
profilo sistematico rispetto alla
situazione
precedente nella quale, in assenza di un corpo di
disposizioni generali sul
provvedimento, il regime
dei vizi veniva estrapolato da norme processuali (il
Testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato del
1924) o
dalle elaborazioni giurisprudenziali.
L’annullabilità  è   Le disposizioni
  legislative
disciplinata dall’art sull’annullabilità e
21-octies
l. n. 241/1990 sulla nullità

e dall’art. 29 Codice
del processo amministrativo. Entrambe le
disposizioni riprendono la tripartizione
tradizionale dei vizi di legittimità, e cioè
l’incompetenza, l’eccesso di potere e la violazione
203 di legge. Rispetto al regime
precedente, il primo,
come si vedrà, riduce l’area
dell’annullabilità
operando la cosiddetta dequotazione dei vizi
formali. Il secondo
conferma l’impianto
tradizionale dell’azione di annullamento.
 La nullità è disciplinata invece dall’art.
21-septies
l.
n. 241/1990, che individua quattro ipotesi tassative,
e
dall’art. 31, comma 4, del Codice che tipizza
l’azione di nullità.
A livello euro peo,   Cenni al diritto
  europeo
l’art. 263 TFUE, nel
disciplinare il ricorso
alla Corte di
giustizia dell’Unione europea, prevede
che ove esso sia fondato il giudice «dichiara
nullo e
non avvenuto l’atto impugnato». Questa
disposizione viene però interpretata nel
senso che
l’atto è annullabile e l’azione promossa ha natura
costitutiva e non meramente
dichiarativa. Del
resto, secondo la giurisprudenza europea, gli atti
dell’Unione europea
si presumono validi finché
non vengono annullati o revocati dall’istituzione
che li
emana o dal giudice. Quanto alla tipologia
dei vizi l’art. 263, comma 2, TFUE prevede quattro
ipotesi:
l’incompetenza, la violazione delle forme
sostanziali, la violazione dei trattati e di
qualsiasi
regola di diritto relativa alla loro applicazione, lo
sviamento di potere. In
definitiva, anche nel diritto
europeo il regime ordinario dell’invalidità è quello
dell’annullabilità.
 
13. L’annullabilità

Per tradizione, l’atto amministrativo affetto da


incompetenza,
eccesso di
potere e violazione di
legge è qualificato come illegittimo (e pertanto
suscettibile di annullamento). La l. n. 241/1990
ricalca invece la distinzione civilistica
tra nullità
e
annullabilità. L’art. 21-octies, sia nella rubrica
sia
nel comma 1, infatti, fa riferimento soltanto a
quest’ultima. L’art.
21-nonies usa invece ancora la
terminologia «provvedimento
amministrativo
illegittimo», prevedendo che esso possa essere
annullato d’ufficio.
In realtà, annullabilità e
illegittimità sono
sostantivi usati in modo intercambiabile. Tuttavia,
come si è già
anticipato e come si vedrà, poiché il
comma 2 dell’art. 21-octies
opera una dequotazione
dei vizi formali, non si può più ritenere che tutti gli
atti
illegittimi siano annullabili.
La stessa tripartizione dei vizi che determinano
l’annullabilità ha
una rilevanza minore dopo che la
Costituzione ha sancito che la tutela
giurisdizionale
non può essere esclusa o limitata a
particolari mezzi di impugnazione o per
determinate
categorie di atti (art. 113, comma 2).
Vennero dichiarate così
incostituzionali le leggi
amministrative, emanate soprattutto nel ventennio
autoritario,
che sottraevano al sindacato del
giudice amministrativo alcune tipologie di vizi (in
particolare l’eccesso di potere) o addirittura alcuni
tipi di provvedimenti. Una limitazione
alla
deduzione di singoli vizi avveniva, per esempio, nei
ricorsi in materia di dispensa
di insegnanti per
ragioni di servizio, oppure in materia doganale e di
leva militare.
Inoltre, le conseguenze
dell’annullamento, cioè il
venir meno degli effetti del provvedimento con
efficacia
retroattiva (ex tunc), non cambiano in
relazione al tipo di vizio
accertato (secondo
204 Guarino [1994], la cosiddetta teoria della
uguale
rilevanza dei vizi). L’annullamento elimina
comunque l’atto e i suoi effetti in
modo retroattivo
e l’amministrazione ha l’obbligo di porre in essere
tutte le attività
necessarie per ripristinare, per
quanto possibile, la situazione di fatto e di diritto
in cui si sarebbe trovato il destinatario dell’atto
ove quest’ultimo non fosse stato
emanato
(cosiddetto effetto ripristinatorio).
Ciò che varia in funzione del tipo
di vizio è invece,
come si vedrà meglio nel capitolo XIV, il
cosiddetto effetto conformativo
dell’annullamento, cioè il vincolo che sorge in capo
all’amministrazione nel momento in
cui essa
emana un nuovo provvedimento sostitutivo di
quello annullato. Da questo punto
di vista la
distinzione più rilevante è tra vizi formali (non
dequotabili) e vizi
sostanziali.
Infatti,  se il vizio   Vizi formali e vizi
  sostanziali
accertato ha natura
formale o
procedurale
(error in procedendo), come per
esempio la mancata acquisizione
di un parere
obbligatorio, non è da escludere che
l’amministrazione, acquisito il
parere, possa
emanare un nuovo atto dal contenuto identico
rispetto a quello dell’atto
annullato. Se, al
contrario, il vizio ha natura sostanziale (error in
judicando), come per esempio la mancanza di un
presupposto o di un
requisito posto dalla norma
attributiva del potere o un eccesso di potere per
travisamento dei
fatti, l’amministrazione non
potrà reiterare, rebus sic
stantibus, l’atto annullato.
  a retroattività dell’annullamento, che costituiva
L
fino  a poco tempo fa   La retroattività
  dell’annullamento
un principio
consolidato, è
oggetto di un
ripensamento nella giurisprudenza.
In una controversia relativa alla legittimità di un
piano faunistico venatorio, il Consiglio di Stato,
nell’accogliere il ricorso proposto da
un’associazione ambientalista, ha stabilito che
l’atto viziato continui a produrre i
propri effetti fin
tanto che l’amministrazione non provveda a
modificarlo o a
sostituirlo entro un termine
assegnato (Cons. St., Sez. VI, 10 maggio 2011, n.
2755). E ciò per
evitare la conseguenza paradossale,
certamente non conforme agli interessi della
ricorrente, che, eliminati gli effetti del piano,
ritenuto dalla sentenza illegittimo a
causa di un
vizio procedurale, riprendesse vigore il piano
precedente ancor meno
protettivo. Del resto,
l’ordinamento europeo già prevede che la Corte di
giustizia, «ove
reputi necessario, precisa gli effetti
dell’atto annullato che devono essere considerati
definitivi» (art. 264, comma 2, TFUE). Il principio
è stato ribadito in
termini analoghi con riferimento
all’annullamento di un piano antincendio boschivo
allo
scopo di dare il tempo alla Regione di
approvare un nuovo piano (Cons. St., Sez. I, 30
giugno 2020, n. 1233).
  ul versante processuale, l’art.
29 Codice del
S
 processo   Profili processuali
 
amministrativo
conferma il regime
tradizionale secondo cui contro
il provvedimento affetto da violazione di legge,
incompetenza ed eccesso di potere può essere
proposta l’azione di
annullamento innanzi al
giudice amministrativo nel termine di decadenza
di 60 giorni. L’annullabilità non può essere rilevata
d’ufficio dal giudice, ma, in base
al principio
dispositivo, può essere pronunciata solo in seguito
alla domanda
proposta nel ricorso, il quale deve
indicare anche in modo specifico i profili di vizio
205 denunciati (motivi di
ricorso).
  ’art. 30 Codice stabilisce inoltre che insieme
L
all’azione di
annullamento può essere proposta,
come si vedrà meglio nel capitolo XIV, anche
l’azione risarcitoria.
14. a) L’incompetenza

L’incompetenza è un
vizio del provvedimento
adottato da un organo o da un soggetto diverso da
quello
indicato dalla norma attributiva del potere.
Si tratta dunque di un vizio che attiene
all’elemento soggettivo dell’atto. A ben
considerare, l’incompetenza è una sottospecie
della violazione di
legge, poiché la distribuzione
delle competenze tra i soggetti pubblici
e tra gli
organi interni è operata da leggi, regolamenti e
altre fonti normative
pubblicistiche (statuti). Il
rispetto di queste norme è funzionale allo
svolgimento
ordinato delle attività amministrative
e costituisce una garanzia per i destinatari dei
provvedimenti, specie nei casi in cui questi ultimi
producono effetti limitativi o
restrittivi della sfera
giuridica. Si spiega così perché l’incompetenza si
connota
tradizionalmente per un maggior
disvalore rispetto ad altri vizi formali o
procedurali.
Si distingue generalmente tra incompetenza 
relativa e assoluta. La   Incompetenza relativa
  e
assoluta
prima si ha quando
l’atto è emanato da
un organo che
appartiene alla stessa branca,
settore o plesso organizzativo dell’organo titolare
del
potere; la seconda, che determina nullità o
carenza di potere (difetto di attribuzione),
si ha
invece allorché sussiste un’assoluta estraneità
sotto il profilo soggettivo e
funzionale tra l’organo
che ha emanato l’atto e quello competente.
Secondo la
giurisprudenza, l’incompetenza relativa
riguarda appunto «solo la ripartizione dei
compiti
e di funzioni nell’ambito di un unitario plesso
amministrativo (sia pure
spesso inteso, in senso
ampio, come organizzazione anche di più soggetti
o enti diversi,
preposti ad una unitaria funzione)»
(Cons. St., Sez. V, 11 dicembre 2007, n. 6408). Al di
là dei
casi di scuola, la linea di confine tra le due
figure è spesso incerta. Il problema si è
posto, per
esempio, nel caso del decreto di espropriazione
emanato dal presidente della
regione anziché dal
prefetto. Comunque sia, dalla casistica emerge che
il vizio viene
qualificato usualmente come
incompetenza relativa, mentre l’incompetenza
assoluta è un
fenomeno raro.
  ul  piano meramente
S   L’incompetenza per
  materia, per
grado, per
descrittivo il vizio di territorio
incompetenza può
essere per materia,
per
grado, per territorio.
  ’incompetenza per materia attiene
alla titolarità
L
della funzione (per esempio, le materie urbanistica
e commerciale hanno
ambiti di disciplina
contigui); quella per grado all’articolazione interna
degli organi
negli apparati organizzati secondo il
criterio gerarchico (organizzazioni militari o di
polizia); quella per territorio agli ambiti nei quali
gli enti territoriali o le
articolazioni periferiche
degli apparati statali possono operare (per
esempio le
prefetture di due province contigue).
Si fa riferimento talora anche
alla competenza per
valore, che assume rilievo per lo più all’interno di
apparati
pubblici con riguardo alla ripartizione tra
i vari organi del potere di emanare
provvedimenti
206 che comportino esborsi di spesa.
La  specificità del   Il regime giuridico
 
regime giuridico
dell’incompetenza rispetto a quello della
violazione di legge sta venendo meno
progressivamente. In primo luogo, la
giurisprudenza più recente ritiene applicabile
anche al vizio di incompetenza l’art. 21-octies,
comma 2, cioè il
principio della dequotazione dei
vizi formali volto a limitare l’annullabilità degli
atti vincolati. Inoltre, a differenza di quanto accade
per i vizi formali, si riteneva
ammessa la convalida
dell’atto da parte dell’organo competente anche in
corso di
giudizio. Tuttavia, l’art. 21-nonies, comma
2, l. n. 241/1990 prevede in via generale la
possibilità della
convalida del provvedimento
annullabile ed è dunque dubbio se sopravviva
ancora questa
specificità del regime
dell’incompetenza.
 Peraltro, almeno sotto il profilo
logico, il vizio di
incompetenza assume una priorità rispetto ad altri
motivi formulati
nel ricorso,
nel senso che il
giudice deve prenderlo in esame per primo e, nel
caso in cui accerti il
vizio, deve annullare il
provvedimento, senza esaminare ulteriori motivi
di ricorso,
e rimettere l’affare all’autorità
competente (Cons. St., Ad. Plen., 27 aprile 2015, n.
5).
15. b) La violazione di legge

La violazione di legge
è considerata una categoria
generale residuale, perché in essa confluiscono i
vizi che
non sono qualificabili come incompetenza
o eccesso di potere.
Essa raggruppa tutte le ipotesi di
contrasto tra il
provvedimento e le disposizioni normative
contenute in fonti di rango
primario o secondario
(leggi, regolamenti, statuti, ecc.) che definiscono i
profili
vincolati, formali e sostanziali, del potere.
Si discute se la nozione di violazione di legge
includa anche  la   La violazione dei
  principi
generali
violazione dei
principi generali
dell’azione
amministrativa ai quali fa
esplicitamente o implicitamente rinvio l’art. 1 l. n.
241/1990 (imparzialità, proporzionalità,
irretroattività del provvedimento) in passato
sussunti nella categoria dell’eccesso di
potere. Per
esempio, la disparità di trattamento può essere
qualificata come una violazione
degli artt. 3 e 97
Cost., oppure come una figura sintomatica
dell’eccesso
di potere. Allo stesso modo, il difetto
di motivazione può essere considerato come una
violazione dell’art. 3 l. n. 241/1990. In ogni caso, il
sindacato sulla
discrezionalità
amministrativa in
applicazione di un principio generale (per
esempio, la
proporzionalità, il legittimo
affidamento) comporta un’operazione
ermeneutica più
complessa rispetto
all’accertamento di una difformità tra l’atto e una
prescrizione
normativa che pone un vincolo
puntuale e dunque appare preferibile non operare
una
siffatta inclusione.
 La principale distinzione interna alla violazione di
legge è  quella, già vista, tra vizi formali (errores in
procedendo) e vizi   La dequotazione dei
  vizi
formali
sostanziali (errores in
judicando). L’art. 21-
octies, comma 2, l. n. 241/1990 enuclea tra le ipotesi
di violazione di
legge la «violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti», cioè una
subcategoria di vizi formali (errores in procedendo)
che, a certe
condizioni, come si è accennato più
volte, sono dequotati a vizi che non determinano
207 l’annullabilità del provvedimento.
 La disposizione pone due
condizioni: che il
provvedimento abbia «natura vincolata»; che
pertanto «sia palese che
il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto
adottato».
La prima condizione rinvia alle
nozioni, già
esaminate, di discrezionalità o vincolatezza in
astratto.
Se si accerta che il potere è integralmente
vincolato, ne discende,
come conseguenza
automatica, anche l’altra condizione, e cioè che
risulta «palese» (cioè
evidente) che, anche in
assenza del vizio formale o procedurale rilevato
(per esempio,
la mancanza del preavviso di rigetto
di una istanza o un vizio nella convocazione di un
organo collegiale), il contenuto del provvedimento
sarebbe rimasto invariato. In questo
caso il
provvedimento non può essere annullato né dal
giudice amministrativo nell’ambito
di un giudizio
di impugnazione, né dalla stessa amministrazione
in sede di esercizio del
potere di autotutela. Infatti
l’art. 21-nonies
l. n. 241/1990 prevede che
l’amministrazione può annullare
il provvedimento
illegittimo ai sensi dell’art. 21-octies «esclusi
i casi
di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2».
Il secondo  periodo   L’omessa
  comunicazione di
dell’art. 21-octies, avvio
del
procedimento
comma 2,
l. n.
241/1990 individua
una fattispecie particolare
costituita dall’omessa
comunicazione dell’avvio del procedimento
disciplinata dagli
artt. 7 ss. della stessa legge per la
quale è previsto un
regime in parte uguale e in
parte diverso da quello del primo periodo, già
esaminato.
Uguale è l’operazione richiesta
all’interprete e cioè la ricostruzione di quello che
sarebbe stato l’esito del procedimento ove tutte le
norme sul procedimento e sulla forma
fossero
state rispettate. Se la conclusione di questa sorta
di simulazione è che il
contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso
da quello in concreto
adottato, l’atto non può
essere annullato.
 La disposizione presenta però due
specificità:
manca il riferimento alla natura vincolata del
potere; si richiede
all’amministrazione che ha
emanato l’atto di dimostrare «in giudizio» che il
vizio
procedurale o formale accertato non ha avuto
alcuna influenza sul contenuto del
provvedimento.
Quanto al primo aspetto, la
disposizione include
nel suo campo di applicazione anche i poteri
discrezionali (in
astratto). Solo qualora risulti ex
post, tenuto conto di tutte le
circostanze, che
l’amministrazione non aveva altra scelta legittima
se non quella di
emanare un atto con quel
contenuto (vincolatezza in concreto), può operare
il principio
della non annullabilità per violazione
delle norme formali e procedurali.
Quanto al secondo aspetto, l’onere
della prova 
grava   La prova in giudizio
 
sull’amministrazione
nei confronti della
quale sia stato proposto un
ricorso per l’annullamento del provvedimento. Ciò
comporta una deroga al principio che vieta
all’amministrazione di integrare la
motivazione nel
corso del giudizio. Infatti, in questa particolare
fattispecie si ha un
ampliamento dell’oggetto del
giudizio agli elementi forniti dall’amministrazione
per
dimostrare che il vizio formale non ha inciso
sul contenuto del provvedimento impugnato.
Poiché, tuttavia, la prova richiesta dalla
disposizione è una prova negativa (cioè una
probatio diabolica), la giurisprudenza addossa sul
ricorrente
l’onere di allegare in giudizio gli
208 elementi che sarebbero stati prodotti
nell’ambito
del procedimento ove la comunicazione di avvio
del
medesimo procedimento fosse stata effettuata.
  ’art. 21-octies, comma 2, si inserisce nella
tendenza
L
del nostro ordinamento a valorizzare il principio
di
efficienza ed efficacia dell’azione
amministrativa (amministrazione di
risultato) a
scapito, entro una certa misura, di quello del
rispetto della forma e
dunque della funzione di
garanzia assolta dalle norme relative al
procedimento e alla
forma. Il regime della
legittimità degli atti amministrativi si avvicina così
a quello
degli atti processuali per i quali vale il
principio che «la nullità non può mai
essere
pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è
destinato» (art. 156, comma 3, cod. proc. civ.).
L’art.  21-octies,   L’esperienza di altri
  ordinamenti
comma 2, si colloca
peraltro
nella scia di
altri ordinamenti. Così in quello tedesco la legge
sul procedimento
amministrativo non consente
l’annullamento di un atto assunto in violazione
delle
disposizioni sul procedimento, sulla forma e
sulla competenza territoriale «ove risulti
in
maniera palese che la violazione non abbia influito
sul contenuto della decisione»
(art. 46 del
Verwaltungsverfahrensgesetz dal quale ha tratto
ispirazione, come risulta dai lavori preparatori, la l.
n. 15/2005).
  ell’ordinamento francese il Conseil d’État ha
N
operato una distinzione tra formalités substantielles e
formalités non substantielles, emersa anche nel diritto
europeo. Infatti, l’art. 263, comma 3, TFUE già
citato assegna alla Corte di
giustizia il potere di
pronunciarsi sui ricorsi per «violazione delle forme
sostanziali»
(oltre che per incompetenza,
sviamento di potere e per violazioni del trattato o
di
altra regola di diritto). Tra le forme sostanziali,
la giurisprudenza europea ha incluso
le procedure
di autenticazione di atti, l’assunzione di pareri
obbligatori,
la partecipazione al procedimento
degli interessati.
L’art.
21-octies, comma 2, ha dato origine a dispute
in dottrina e a
una cospicua giurisprudenza non
ancora consolidata. Per esempio, la giurisprudenza
ha
chiarito che la mancanza della motivazione in
un provvedimento integralmente vincolato
non
può giustificare l’annullamento di quest’ultimo, e
ciò vale anche per i
provvedimenti che presentano
margini di discrezionalità allorché dagli atti del
procedimento risultino già in qualche modo le
ragioni sottostanti. Sembra peraltro
prevalente
l’orientamento secondo il quale il difetto di
motivazione non può essere
assimilato alla
violazione di norme procedimentali o ai vizi di
forma e non può essere
dunque considerato un
vizio non invalidante (Consiglio di Stato, Sez. III, 7
aprile 2014, n. 1629).
La disposizione pone varie
questioni
interpretative.
È dubbio anzitutto se essa abbia
rilevanza
sostanziale , se   Rilevanza sostanziale o
  processuale
attenga cioè al regime
giuridico
del
provvedimento, o soltanto processuale.
 
In questa seconda visione, l’art. 21-octies,
comma 2,
rileva solo ai fini dell’accertamento della
sussistenza dell’interesse
processuale a ricorrere.
Quest’ultimo manca appunto nei casi in cui il
ricorrente, in
seguito all’annullamento e alla
rinnovazione del procedimento, non possa
attendersi una
decisione diversa da quella già
emanata. L’atto non può essere dunque annullato
dal
giudice, ma, sotto il profilo sostanziale,
continua a essere affetto da illegittimità
che
209 potrebbe portare l’amministrazione a esercitare il
potere
di annullamento
d’ufficio. Questa tesi
sembra oggi smentita dalla modifica dell’art.
21-
nonies
l. n. 241/1990 che, come si è accennato,
esclude
espressamente l’annullamento d’ufficio in
presenza di vizi formali ai sensi dell’art.
21-octies,
comma 2.
Secondo un’altra interpretazione,
la disposizione
avrebbe tipizzato una fattispecie di irregolarità
non invalidante del
provvedimento.
L’irregolarità del provvedimento,
ammessa da
sempre  dalla   L’irregolarità e la
  rettifica
giurisprudenza, è
un’imperfezione
minore del provvedimento che non determina la
lesione di interessi tutelati dalla norma
d’azione.
Danno origine a irregolarità, per esempio, l’erronea
indicazione di un testo
di legge o di una data, un
errore nell’intestazione del provvedimento,
l’omessa
indicazione nell’atto dell’autorità alla
quale può essere proposto il ricorso e del
relativo
termine, la sottoscrizione illeggibile o anche la
mancanza di una firma, un
errore riconoscibile
nell’individuazione dell’oggetto del
provvedimento, ecc.
L’irregolarità non rende
invalido il provvedimento che è suscettibile di
regolarizzazione, attraverso la rettifica del
provvedimento.
I  n realtà, il disvalore della
violazione delle norme
sulla forma dell’atto e sul procedimento previsto
dall’art.
21-octies, comma 2, sembra essere maggiore
rispetto a quello di
una mera irregolarità non
lesiva di alcun interesse pubblico apprezzabile,
proprio per
la funzione di garanzia che può essere
riconosciuta agli aspetti formali. Sembra dunque
preferibile una terza interpretazione che qualifica
come illegittimi anche i
provvedimenti non
annullabili ai sensi della disposizione (al riguardo
si è parlato di
«atto meramente illegittimo » per
differenziarlo da   L’atto meramente
  illegittimo
quello
anche
annullabile). Del
resto, potrebbe sembrare contraddittorio che la
dequotazione dei
vizi formali sia stata prevista
proprio da una legge (l. n. 15/2005) che, come si è
visto, per altri aspetti
introduce nuove garanzie
procedurali (come, in particolare, il cosiddetto
preavviso di
rigetto di un’istanza disciplinato
dall’art. 10-bis).
 L’art.
21-octies, comma 2, in definitiva, seguendo
quest’ultima
interpretazione, ha stabilito soltanto
che per taluni atti illegittimi l’annullamento,
vuoi
da parte del giudice vuoi d’ufficio, costituisce una
reazione dell’ordinamento non
proporzionata,
visto che il provvedimento risulta sostanzialmente
legittimo.
Resta  peraltro da   Altre conseguenze dei
  vizi
formali e
appurare quali altre procedurali
conseguenze possano
essere ricollegate ai
vizi
formali e procedurali. La tutela risarcitoria non
sembra percorribile poiché è difficile
configurare
un danno in capo al privato da un atto il cui
contenuto non sarebbe stato
comunque diverso.
Ipotizzabile è invece, a certe condizioni, una
responsabilità di tipo
disciplinare nei confronti del
funzionario al quale sia imputabile la violazione
formale
o procedurale riscontrata.
  e jure
condendo, potrebbe essere valutata
D
l’opportunità di introdurre una
sanzione di tipo
pecuniario a carico dell’amministrazione,
analogamente a quanto già
dispone il Codice del
processo amministrativo in materia di contratti
pubblici. In quest’ultimo ambito, il giudice
amministrativo che accerta una violazione
procedurale definita grave dal diritto europeo (per
esempio, la mancata pubblicazione
del bando di
gara) non può disporre sempre e automaticamente
anche l’inefficacia del
contratto. Quest’ultima
possibilità gli è preclusa quando sussistono
210 esigenze
imperative connesse a un interesse
generale che rendono
preferibile mantenere in vita
il contratto aggiudicato illegittimamente. Il giudice
deve
però irrogare alla stazione appaltante una
sanzione pecuniaria (art. 123). Anche nel
caso dei
vizi formali non invalidanti, al giudice
amministrativo potrebbe essere
consentito di
applicare un’analoga sanzione in luogo
dell’annullamento.
16. c) L’eccesso di potere

L’eccesso di potere è
il vizio di legittimità tipico
dei provvedimenti discrezionali. Esso mette in
condizione
il giudice di operare un sindacato che
va oltre la verifica del rispetto dei vincoli
puntuali
posti in modo esplicito dalla norma attributiva del
potere (aspetti
vincolati del potere) e che può
spingersi invece fino alle soglie del merito
amministrativo.
Secondo la ricostruzione più
diffusa, l’eccesso di
potere riguarda l’aspetto funzionale del potere,
cioè il
perseguimento in concreto dell’interesse
pubblico affidato alla cura
dell’amministrazione. Si
spiega così perché si tratta di un vizio sconosciuto
nel
diritto privato. Salvi i casi marginali di abuso
del diritto, nei negozi privati i fini
e i motivi ad essi
sottostanti sono confinati alla sfera interna al
soggetto agente e
sono considerati giuridicamente
irrilevanti. Il regime civilistico dell’invalidità
ammette infatti solo un controllo di tipo
estrinseco sulla capacità del soggetto agente, sugli
aspetti formali e procedurali, sul rispetto delle
norme imperative.
L’eccesso  di potere è   L’eccesso di potere
  come vizio
della
stato ricostruito in funzione
dottrina variamente
come
un vizio della
causa, della volontà, dei motivi, del contenuto del
provvedimento.
L’elaborazione oggi prevalente
[Benvenuti 1950, 3 ss.] lo definisce come vizio della
funzione, intesa come la dimensione dinamica del
potere che attualizza e concretizza la
norma
astratta attributiva del potere in un provvedimento
produttivo di effetti. In tale
passaggio, all’interno
cioè delle fasi del procedimento (istruttoria, fase
decisionale), possono emergere anomalie,
incongruenze e disfunzioni che danno origine
appunto all’eccesso di potere.
  i è già ricordato come la figura
primigenia
S
dell’eccesso di potere  è lo sviamento di potere
che
consiste nella   Lo sviamento di potere
 
violazione del vincolo
del fine pubblico posto, come si è visto nel
capitolo
III, dalla norma
attributiva del potere. Una siffatta
violazione si ha allorché il provvedimento emanato
persegue un fine diverso (non importa se pubblico
o privato) da quello in relazione al
quale il potere è
conferito dalla legge all’amministrazione. Talvolta
il fine pubblico
non è posto in modo espresso dalla
legge, ma va ricavato in via interpretativa.
 Esempi di sviamento di potere sono
il
trasferimento d’ufficio di un dipendente pubblico
non privatizzato, motivato da
esigenze di servizio
(riordino degli uffici), che in realtà ha una finalità
punitiva;
l’ordinanza di un sindaco che impone un
divieto di fermata degli autoveicoli in alcune
strade
motivato con l’esigenza di evitare intralci alla
circolazione, che persegue in
realtà il fine di
disincentivare la prostituzione; lo scioglimento
governativo di un
consiglio comunale per ripetute
violazioni di legge, che sottende però una finalità
211 politica; il provvedimento comunale che nega
l’installazione di
un’antenna di telefonia mobile
per ragioni di tipo urbanistico-edilizio, che in
realtà
persegue il fine sanitario di minimizzare
l’esposizione dei residenti all’inquinamento
elettromagnetico.
Lo sviamento  di   Le figure sintomatiche
  dell’eccesso di potere
potere è peraltro
difficile da provare,
in quanto il
provvedimento, all’apparenza, si
presenta come perfettamente conforme alle
disposizioni
normative che regolano quel
particolare potere. Ciò ha indotto la
giurisprudenza, come
si è accennato, a rilevare il
vizio in via indiretta, attraverso elementi indiziari
del
cattivo esercizio del potere discrezionale
costituiti dalle cosiddette figure
sintomatiche. Con
una metafora, se l’eccesso di potere può essere
visto come una
malattia del provvedimento
discrezionale, la diagnosi va operata
essenzialmente
attraverso i sintomi, cioè le
manifestazioni caratteristiche dell’affezione
rilevabili
dall’osservatore.
  e figure sintomatiche
dell’eccesso di potere
L
costituiscono una categoria aperta, non tipizzata
dal
legislatore. Alcune sono ormai consolidate in
dottrina e nella prassi applicativa e si
prestano a
essere classificate secondo vari criteri. Uno di essi
può essere di
riferirle, in ordine logico, alle fasi del
procedimento, distinguendo quelle che
riguardano
la fase istruttoria e quelle che riguardano la fase
decisionale. Un altro
criterio è quello di
distinguere tra figure sintomatiche intrinseche,
che emergono
direttamente dall’analisi del
provvedimento e degli atti procedimentali (per
esempio la
contraddittorietà della motivazione), e
figure sintomatiche
estrinseche, che invece
emergono dal confronto tra il provvedimento ed
elementi di
contesto esterno (direttive, circolari,
criteri fissati in sede di autovincolo
della
discrezionalità, ecc.). Prima di addentrarci nella
ricostruzione teorica delle
figure sintomatiche
conviene analizzarne più da vicino le principali
fattispecie.

c1)
Errore o travisamento dei
fatti. Se il
provvedimento  è   Le principali figure
  sintomatiche
emanato sul
presupposto,
richiamato nell’atto medesimo, dell’esistenza di un
fatto o di una circostanza che
risulta invece
inesistente o, viceversa, della non esistenza di un
fatto o di una
circostanza che invece risulta
esistente emerge la figura dell’eccesso di potere
per
errore di fatto (o anche travisamento dei fatti
o falso supposto in fatto).
  i pensi, per esempio,
all’imposizione di un
S
obbligo di bonifica ambientale di un terreno nel
quale invece si
dimostra che non sono presenti
sostanze inquinanti, o comunque che esse non
superano i
valori massimi consentiti dalle norme
vigenti; al diniego di un permesso di costruire a
causa di un vincolo paesaggistico giustificato dalla
natura boschiva del terreno che
invece, ormai da
molti anni, è in gran parte privo di alberi; a un
piano regolatore che
non indichi nelle planimetrie
un edificio del quale è certa la preesistenza.
L’errore di fatto, che spesso
consegue a un’altra
figura sintomatica costituita dal difetto di
istruttoria, può emergere in sede processuale sia
in seguito alla
produzione di prove da parte del
ricorrente, sia in seguito all’esercizio dei poteri
istruttori da parte del giudice amministrativo.
Quest’ultimo non incontra più , come si riteneva in
passato, alcun limite   L’accertamento dei
  fatti da
parte del
giuridico a un giudice amministrativo
accertamento pieno
dei fatti autonomo
rispetto a quello operato nel provvedimento
212 impugnato.
 Non rileva se l’errore è
inconsapevole o volontario.
Inoltre, l’errore di fatto riguarda esclusivamente la
percezione oggettiva della realtà materiale e non
anche il momento, logicamente
successivo, della
valutazione dei fatti da parte dell’amministrazione
rimessa al suo
apprezzamento.

c2)
Difetto di istruttoria. Nella fase istruttoria del
procedimento
l’amministrazione è tenuta ad
accertare in modo completo i fatti, ad acquisire gli
interessi rilevanti e ogni altro elemento utile per
operare una scelta consapevole e
ponderata.
Ove questa attività svolta dal
responsabile del
procedimento manchi del tutto o sia effettuata in
modo frettoloso,
incompleto o poco approfondito,
il provvedimento è viziato sotto il profilo
dell’eccesso
di potere per difetto di istruttoria.
L’amministrazione, per esempio, non può prendere
per buona la ricostruzione di fatti operata dalla
parte privata intervenuta nel
procedimento, ma
deve condurre le opportune verifiche.
Così è illegittima la decadenza da
una concessione
di uso di un bene demaniale ove non risulti
appurato in
modo univoco che l’attività del
concessionario sia posta in essere in violazione
delle
condizioni e dei limiti apposti nel
provvedimento. Un piano urbano del traffico
comunale
non può porre limiti di accesso al centro
storico ove i flussi di traffico non
dimostrino una
situazione di congestione. Non può essere imposto
un vincolo
storico-artistico su un’area nella quale
non sono state condotte indagini sufficienti
che
provino l’esistenza di reperti archeologici
significativi.
A differenza dell’errore di fatto,
nel caso del
difetto di istruttoria non si può escludere che il
quadro fattuale posto
alla base del provvedimento
risulti in effetti esistente e che dunque la scelta
operata
sia corretta, ma l’analisi del
provvedimento e degli atti procedimentali lascia
dubbi in
proposito. Annullato l’atto e posta in
essere una nuova istruttoria, questa volta in
modo
corretto, l’amministrazione ben potrebbe adottare
un atto con il medesimo
contenuto.

c3)
Difetto di
motivazione. Nella motivazione del
provvedimento
l’amministrazione, come si è già
detto, deve dar conto, in sede di decisione, delle
ragioni che sono alla base della scelta operata. Per
quanto sintetica, essa deve
consentire una verifica
del corretto esercizio del potere, cioè dell’iter
logico seguito
per pervenire alla determinazione
contenuta nel provvedimento, traendo le fila degli
elementi istruttori rilevanti e operando la
ponderazione degli interessi.
Il difetto di motivazione ha varie
sfaccettature. La
 motivazione può   La motivazione
  insufficiente
essere in primo luogo
insufficiente,
incompleta o generica, se da essa non traspare in
modo percepibile l’iter
logico seguito
dall’amministrazione e non emergono le ragioni
sottostanti la scelta
operata. Così, per esempio,
per poter imporre un vincolo paesaggistico su un
bene
l’amministrazione deve illustrare perché esso
abbia le caratteristiche che consentano
l’applicazione del regime protettivo e non può
limitarsi ad affermazioni generiche e
apodittiche.
L’insufficienza della motivazione non è solo un
fatto di quantità, ma anche
di qualità, come, per
esempio, nel caso di omessa considerazione
specifica di un
interesse acquisito al procedimento.
213
  a l. n. 241/1990 contiene alcune disposizioni che
L
specificano
il contenuto minimo della
motivazione. Così, per esempio, come già visto,
l’amministrazione deve dar conto delle ragioni per
le quali non accoglie le osservazioni
presentate
dall’interessato al quale sia comunicato il
preavviso di
rigetto di un’istanza (art. 10-bis). Un
obbligo di
motivazione analitico è previsto, come
si vedrà nel capitolo VIII, per alcune delibere in
materia di società a partecipazione pubblica.
La motivazione può consistere
soltanto in «un
sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto
ritenuto
risolutivo» nel caso in cui
l’amministrazione ritenga un’istanza
manifestamente
inammissibile o infondata (art. 1,
comma 2, l. n. 241/1990 aggiunto dall’art. 1, comma
38, l. n. 190/2012).
In realtà, non esiste un criterio
univoco per
determinare se una motivazione sia sufficiente. Si
può peraltro ritenere che
quanto più ampia è la
discrezionalità dell’amministrazione e quanto più
gravosi sono gli
effetti del provvedimento nella
sfera soggettiva dei destinatari, tanto più elevato è
lo
standard quantitativo e qualitativo imposto alla
motivazione. Per prassi, per esempio, i
provvedimenti delle autorità amministrative
indipendenti, che spesso hanno un impatto
sui
mercati regolati assai rilevante, sono emanati con
una motivazione particolarmente
ampia, talora con
rinvio a documenti illustrativi degli aspetti tecnici
e di mercato.
Nel caso in cui la
motivazione  espliciti una
pluralità di ragioni   La prova di resistenza
 
autonome poste alla
base del provvedimento (per esempio, un
permesso a costruire viene
negato sia perché chi
ha presentato l’istanza non è legittimato, sia
perché il progetto
non è conforme al regolamento
edilizio), è sufficiente che una sola ragione sia
legittima per escludere l’annullabilità dell’atto
(cosiddetta prova di resistenza).
 La  motivazione può   Illogicità,
  contraddittorietà,
essere inoltre illogica perplessità della
e contraddittoria, motivazione

allorché essa
contenga
proposizioni o riferimenti a elementi
incompatibili tra loro. Può essere perplessa o
dubbiosa là dove non consenta di individuare con
precisione il potere che
l’amministrazione ha
inteso esercitare. Per esempio, allorché essa
enunci motivi
disparati, riconducibili a norme
attributive di poteri diversi da esercitare ciascuno
per un proprio fine. Può essere questo il caso di un
provvedimento che ordina di
abbattere una
costruzione ove non risulti chiaro se esso è
emanato nell’esercizio del
potere di sanzionare un
abuso edilizio o del potere di prevenire pericoli
all’incolumità
pubblica.
 Anche nel caso del difetto di
motivazione, non è da
escludere che, una volta annullato il
provvedimento,
l’amministrazione possa emanarne
uno di contenuto identico, emendato dal vizio
rilevato.
Peraltro, come già accennato, non è
consentito all’amministrazione di integrare o
emendare la motivazione del provvedimento in
sede di giudizio.
Nel caso in cui la motivazione manchi del tutto, il
vizio può essere
qualificato come violazione di
legge, in quanto l’obbligo di
motivazione è ora
previsto espressamente dall’art. 3 l. n. 241/1990.
Una  questione   La motivazione in
  forma
numerica
dibattuta è se nel
caso dei concorsi o
delle procedure di aggiudicazione di
contratti
pubblici l’attribuzione dei punteggi (per esempio,
quelli per la valutazione
delle pubblicazioni o dei
titoli di carriera nei concorsi o per i singoli
214 elementi
qualitativi dell’offerta presentata dalle
imprese che
partecipano alla gara) assolva di per sé
all’obbligo di motivazione oppure se essa debba
essere ulteriormente sviluppata in forma
discorsiva. La giurisprudenza tende a ritenere
legittima la motivazione in forma numerica
qualora siano stati definiti a monte
parametri per
l’attribuzione del punteggio molto analitici,
suddivisi magari anche in
subparametri, con
l’indicazione per ciascun parametro e
subparametro di un numero
massimo di punti
attribuibili.
 
c4)
Illogicità, irragionevolezza, contraddittorietà. Si
è
già osservato trattando dei principi che presiedono
all’esercizio della
discrezionalità, che il diritto
amministrativo assume, come principio logico
prima ancora che
giuridico, che la pubblica
amministrazione agisca come un soggetto
razionale. Pertanto,
emerge un vizio di eccesso di
potere tutte le volte che il contenuto del
provvedimento e
le statuizioni del medesimo
(enunciate nel dispositivo) fanno emergere profili
di
illogicità o irragionevolezza, apprezzabili in
modo oggettivo in base a canoni di
esperienza.
Per esempio, un provvedimento di
diffida
a
cessare e a porre rimedio a una violazione di una
norma amministrativa non può
assegnare al
diffidato un termine così breve da non poter essere
rispettato. Un bando di
concorso per l’assunzione
di dipendenti pubblici non può richiedere il
possesso di
titoli che non siano correlati alle
mansioni che i vincitori saranno poi chiamati a
svolgere.
Costituisce una sottospecie
dell’illogicità  e
irragionevolezza la   La contraddittorietà
  interna ed
esterna
contraddittorietà
interna (intrinseca)
al provvedimento. Questa emerge, in particolare,
se non vi è
coerenza tra le premesse del
provvedimento e le conclusioni tratte nel
dispositivo. Si
pensi a un piano regolatore che
prevede la destinazione a servizi pubblici di
un’area in cui insistono attività industriali,
contraddicendo la relazione illustrativa
che
enuncia invece l’obiettivo di difendere e
incrementare le attività produttive. Più
in
generale, tutti i passaggi dell’iter argomentativo
seguito dall’amministrazione (ed
esplicitato nella
motivazione) devono essere legati da un rapporto
di consequenzialità
logica.
 La contraddittorietà può essere
anche esterna
(estrinseca) al provvedimento, quando è rilevabile
dal raffronto tra
provvedimento impugnato e altri
provvedimenti precedenti dell’amministrazione
che
riguardano lo stesso soggetto. Si pensi per
esempio al provvedimento che esprime una
valutazione non positiva ai fini dell’avanzamento
di carriera di un militare di alto
grado che però ha
ottenuto una serie continua di giudizi encomiastici
in relazione ai
servizi prestati nel corso della
carriera. Se la contraddittorietà riguarda
provvedimenti emanati nei confronti di soggetti
diversi, si ha la figura sintomatica
della disparità
di
trattamento esaminata qui di seguito.
La contraddittorietà intrinseca o
estrinseca
costituisce una violazione del principio di
coerenza che deve presiedere
all’agire della
pubblica amministrazione.

c5)
Disparità di trattamento. I principi di coerenza e
di uguaglianza
impongono all’amministrazione di
trattare in modo uguale casi
uguali.
Il vizio può emergere sia allorché
casi uguali siano
trattati in modo disuguale, sia allorché casi
disuguali siano trattati
in modo uguale. Per
stabilire in concreto se le situazioni da confrontare
215 siano
identiche o differenziate va utilizzato il
criterio della
ragionevolezza. Il vizio in questione
emerge di frequente nei giudizi comparativi, nelle
progressioni di carriera o nel riconoscimento di
altri benefici ai dipendenti pubblici,
oppure nelle
classificazioni dei terreni contenute nei piani
regolatori ai fini di
individuarne le destinazioni
d’uso.
Perché possa essere censurata la
disparità di
trattamento è necessario che il provvedimento sia
discrezionale (il vizio
non è deducibile nel caso di
atti vincolati). Inoltre la comparazione deve
riferirsi a
provvedimenti legittimi. L’emanazione di
un atto illegittimo a favore di uno o più
soggetti
non può cioè fondare la pretesa di un altro
soggetto a vedersi riconoscere,
sempre
illegittimamente, la stessa utilità. Per esempio, il
fatto che una sanzione
amministrativa non venga
irrogata, per negligenza, lassismo o per altre
ragioni, nei
confronti di alcuni soggetti in
relazione a un divieto di sosta, a un abuso edilizio
o
all’occupazione non autorizzata del suolo
pubblico non può essere invocato a
giustificazione
da altri soggetti ai quali sia contestata un’analoga
violazione e
pertanto non è viziato da disparità di
trattamento il provvedimento sanzionatorio
emanato.

c6)
Violazione
delle circolari e delle norme interne,
della
prassi amministrativa. Come si è visto, l’attività della
pubblica
amministrazione deve essere posta in
essere non solo in conformità con le disposizioni
contenute in leggi, regolamenti e in altre fonti
normative (rispetto alle quali può
insorgere, come
si è visto, il vizio di violazione di legge). Essa deve
essere conforme
anche alle norme interne
contenute in circolari, direttive, atti di
pianificazione o altri atti contenenti criteri e
parametri di vario tipo
(anche posti in sede di
autovincolo alla discrezionalità) che hanno come
scopo quello di
orientare l’esercizio della
discrezionalità da parte dell’organo competente a
emanare il
provvedimento.
I principi di coerenza e di
rispetto dell’assetto
organizzativo dell’amministrazione (articolazione
in organi e uffici
sovraordinati e sottordinati)
richiedono che l’organo titolare di un potere
discrezionale, nel momento in cui emana un
provvedimento, tenga conto delle norme
interne.
Se ciò non accade emerge un sintomo dell’eccesso
di potere. Per evitare di
cadere in questo vizio il
titolare del potere deve esplicitare nella
motivazione le
ragioni per le quali ha ritenuto di
disattendere nel caso concreto le prescrizioni
poste
dalle norme interne.
Una particolare specie di norma
interna è
costituita dalla prassi amministrativa che, come si
è accennato, si forma
all’interno delle
amministrazioni attraverso una serie di
comportamenti e decisioni
assunte in situazioni
similari. Anch’essa crea un vincolo di coerenza e di
parità di
trattamento. Pertanto, se
l’amministrazione disattende in un caso
particolare la prassi seguita in precedenza senza
motivare le ragioni che giustificano
una siffatta
deviazione, l’atto è affetto da eccesso di potere.

c7)
Ingiustizia grave e manifesta. In qualche rara
occasione la
giurisprudenza, per ragioni
essenzialmente equitative, si spinge fino al punto
di
censurare provvedimenti discrezionali il cui
contenuto appaia manifestamente ingiusto.
Il caso dal quale trae origine
questa figura
sintomatica risale agli anni Venti del secolo scorso
216 e riguarda l’esonero
dal servizio per scarso
rendimento di un dipendente delle
ferrovie (Cons.
St., Sez. IV, 5 giugno 1925, n. 565). Quest’ultimo
aveva subito un
incidente sul lavoro con effetti
disabilitanti permanenti e ciò aveva indotto in un
primo momento l’amministrazione ad adibirlo a
mansioni meno impegnative, piuttosto che
collocarlo subito a riposo per inabilità dovuta a
causa di servizio. A breve distanza di
tempo il
dipendente veniva però esonerato per scarso
rendimento. Il vizio è stato
rilevato anche in casi di
richiesta di restituzione di emolumenti erogati a
un
dipendente pubblico dall’amministrazione sulla
base di un’interpretazione erronea delle
norme
vigenti, senza tener conto della sua situazione
patrimoniale di impossibilità di
soddisfare i
bisogni essenziali della vita.
L’ingiustizia
manifesta è una figura sintomatica
che si colloca al confine tra il
sindacato di
legittimità e il sindacato di merito. Perché non si
debordi nel merito il
carattere ingiusto del
provvedimento deve essere «manifesto», cioè di
immediata evidenza
per qualsiasi persona di
sensibilità media. Del resto, com’è stato osservato
[Capaccioli
1983, 289], anche nel diritto privato il
giudice può dichiarare nulla la determinazione
dell’oggetto del contratto rimessa dalle parti a un
terzo arbitratore ove essa sia
«manifestamente
iniqua o erronea» (art. 1349 cod. civ.).
Altre figure    Altre figure
  sintomatiche
sintomatiche hanno
una
configurazione
più dubbia. Talora in esse vengono infatti inclusi
anche i vizi della
volontà, la violazione dei principi
di proporzionalità e del legittimo affidamento. In
particolare, il principio di proporzionalità può
essere ricondotto, come si è
accennato, al
principio più generale di ragionevolezza. Pertanto
la violazione del
principio di proporzionalità si
presta a essere sussunta nella categoria
dell’eccesso di
potere. Anche il disconoscimento
del legittimo affidamento ingenerato
dall’amministrazione può essere visto come una
violazione del principio di coerenza
dell’azione
amministrativa, a sua volta riconducibile al canone
della logicità. Questi
principi generali peraltro,
come si è visto, hanno ormai un fondamento
legislativo
tramite il rinvio all’ordinamento
europeo contenuto nell’art. 1 l. n. 241/1990 e
pertanto la loro violazione può
essere qualificata
come violazione di legge.
 In passato, veniva annoverata tra le figure
sintomatiche dell’eccesso
di potere anche la
violazione o elusione del giudicato amministrativo,
ora attratta
dalla l. n. 241/1990 nella categoria della
nullità. Non è da
escludere che possano emergere
anche nuove figure, come per esempio, sulla scia
dell’ordinamento francese, l’eccesso di potere in
relazione all’errata analisi
costi-benefici della
scelta operata nel provvedimento, cioè a una scelta
discrezionale
onerosa per l’amministrazione e i
destinatari del provvedimento senza che essa sia
suscettibile di portare a risultati significativi in
termini di conseguimento
dell’interesse pubblico.
La giustificazione teorica delle
figure sintomatiche
dell’eccesso di potere è controversa.

1. Secondo alcune teorie, esse rilevano  come


prove indirette dello   Le figure sintomatiche
  come
presunzioni
sviamento di potere e
hanno una valenza
essenzialmente
processuale. Possono cioè essere
ricondotte allo schema civilistico delle
presunzioni.
Queste, secondo la definizione del
217 codice civile (art. 2727), sono le conseguenze
(nel
caso di specie, l’illegittimità dell’atto) che il
giudice ritrae da un fatto noto
(nel caso di specie,
la figura sintomatica, il cui accertamento risulta
più semplice)
per risalire a un fatto ignoto (nel
caso di specie l’eccesso di potere). Le singole
figure sintomatiche sono costituite cioè da
situazioni che, sulla base dell’esperienza,
consentono «di dubitare che si sia attuata la
divergenza dell’atto dalla sua finalità»
[Sandulli
1995]. Si discute se, una volta appurata l’esistenza
di una figura
sintomatica, sia ammessa in giudizio
la prova contraria, se cioè l’amministrazione possa
dimostrare che, nonostante il sintomo, non
sussiste uno sviamento. In realtà, una
siffatta
prova contraria non è compatibile con la struttura
attuale del processo
amministrativo, che è ancora
ispirato, come si è visto, al principio del divieto di
integrazione della motivazione del provvedimento
in corso di giudizio.
    Le figure sintomatiche
  come
violazione di
2. Secondo  altre
principi generali
teorie, le figure
sintomatiche hanno
ormai raggiunto una completa autonomia dallo
sviamento di potere e
hanno una valenza
sostanziale, prima ancora che processuale. Esse
cioè sono
riconducibili alla violazione dei principi
generali dell’azione amministrativa che
presiedono
all’esercizio della discrezionalità. Rilevano in
particolare i principi di
logicità, di ragionevolezza
(proporzionalità, coerenza, congruità), di
completezza
dell’istruttoria, di parità di
trattamento e imparzialità, di giustizia sostanziale,
di
accettabilità, ecc.
I  n applicazione di tali canoni, il
giudice analizza
tutte le fasi dell’esercizio del potere discrezionale
ripercorrendo
l’iter seguito e verificando la
ricostruzione della situazione di fatto e
l’acquisizione
di tutti gli elementi rilevanti per la
decisione (nella fase istruttoria), la
valutazione e
ponderazione degli interessi acquisiti (come
espressa nella motivazione
del provvedimento), la
coerenza tra le premesse e il dispositivo del
provvedimento, gli
altri elementi di contesto
(norme interne e prassi amministrativa,
provvedimenti su casi
analoghi, ecc.).
In una siffatta verifica il
giudice non entra nel
merito delle scelte discrezionali sostituendo la
propria
valutazione a quella effettuata
dall’amministrazione, ma «riesamina l’iter logico
di
formazione del provvedimento amministrativo»
[Merusi 2004, 973 ss.] cogliendone le
contraddizioni e le incongruenze. Il sindacato può
essere anche molto penetrante, ma
resta pur
sempre esterno e indiretto e pertanto non deborda
dai limiti del sindacato di
legittimità.
  Le figure sintomatiche
  come
clausole generali
3. Nell’ambito  di
una rivisitazione
critica più generale dell’eccesso di potere [Cudia
2008, 21], le figure sintomatiche
sono state
ricondotte alle clausole generali (buona fede,
imparzialità) che,
analogamente a quanto accade
nelle relazioni giuridiche privatistiche, fanno
sorgere
obblighi comportamentali nell’ambito del
rapporto giuridico amministrativo intercorrente
tra la
pubblica amministrazione e il cittadino,
operando così una decostruzione completa della
categoria.
 In definitiva, le figure
sintomatiche dell’eccesso di
potere, pur essendo consolidate nella prassi della
giurisprudenza, hanno ancora uno statuto teorico
incerto. Alla fin fine, esse potrebbero
essere
considerate, più semplicemente, come figure
retoriche ormai convenzionalmente
accettate nella
218 pratica argomentativa giudiziaria.
17. La
nullità

Si è già anticipato che la


nullità,
introdotta in via
giurisprudenziale, ha ormai un fondamento
legislativo e una rilevanza
teorica equiparata
all’annullabilità, anche se nella pratica costituisce
un fenomeno
quantitativamente marginale.
L’art.
21-septies
l. n. 241/1990 individua anzitutto
quattro  ipotesi   Le ipotesi tassative di
  nullità
tassative: la
mancanza degli
elementi essenziali; il
difetto assoluto di
attribuzione; la violazione o elusione del giudicato;
gli altri casi
espressamente previsti dalla legge.
 
1. La mancanza degli elementi
essenziali
accomuna la nullità del provvedimento a quella del
contratto (art. 1418, comma 2, cod. civ.), anche se,
come si è
accennato, la l. n. 241/1990 non li elenca
in modo preciso, rimettendo
così all’interprete il
compito di individuare le singole fattispecie. Gli
esempi che
vengono talora fatti, come
l’espropriazione di un edificio distrutto o di un
bene
demaniale, costituiscono casi di scuola. Un
esempio giurisprudenziale è la concessione di un
bene demaniale che non individua in modo preciso
l’area o la superficie oggetto
dell’atto (TAR
Piemonte, Sez. II, 26 febbraio 2015, n. 381).

2. Il difetto assoluto di attribuzione è già stato


esaminato trattando
della carenza di potere (in
astratto e in concreto) e dell’incompetenza
assoluta e non richiede ulteriori svolgimenti.

3. La violazione o elusione del giudicato è


un’ipotesi particolare che
riprende e legifica gli
orientamenti giurisprudenziali. Si ha elusione del
giudicato
allorché l’amministrazione, in sede di
nuovo esercizio del potere in seguito
all’annullamento pronunciato con sentenza
passata in giudicato, emana un nuovo atto
«ignora
e palesemente trascura il sostanziale contenuto del
giudicato […] e manifesta il
reale intendimento
dell’amministrazione di sottrarsi al giudicato»
(Cons. St., Sez. IV,
10 gennaio 1961, n. 4).
Uno dei casi emblematici di questo
filone
giurisprudenziale riguarda un concorso pubblico: il
giudice amministrativo aveva
riconosciuto a un
partecipante il diritto a ottenere un certo
punteggio più alto e aveva
annullato pertanto il
provvedimento dell’amministrazione, la quale
successivamente aveva
confermato in un nuovo
provvedimento lo stesso punteggio inferiore
(Cons. St., Ad.
Plen., 19 marzo 1984, n. 6).
In un primo periodo la
giurisprudenza riteneva che
l’elusione del giudicato fosse causa di nullità e
potesse
essere dedotta nell’ambito del giudizio di
ottemperanza (cioè in sede di giudizio di
esecuzione). Al contrario, la semplice violazione
del giudicato, che si ha quando il
nuovo atto è
affetto da vizi non riconducibili in modo
immediato al giudicato e non
appalesa un intento
elusivo, rendeva l’atto annullabile e il vizio andava
fatto valere
in un normale giudizio di
impugnazione.
Questa distinzione, che dava
origine a incertezze,
venne superata sul finire del secolo scorso dalla
giurisprudenza,
che ha ritenuto esperibile il
giudizio di ottemperanza tutte le volte che il
ricorrente
faccia valere una difformità tra atto
emanato in sostituzione di quello annullato e
accertamento contenuto nella sentenza da
eseguire. È questa la soluzione accolta
dall’art. 21-
219 septies.
4. La quarta ipotesi di nullità si riferisce ai casi in
cui la legge
qualifica espressamente come nullo un
atto amministrativo (nullità testuale).
Di frequente, per esempio, leggi di contenimento
della spesa prevedono
la nullità di atti di
assunzione di dipendenti pubblici in violazione di
divieti o
contingenti in esse previsti. Il Codice dei
contratti pubblici sancisce la nullità
delle clausole
dei bandi
di gara che introducono casi di
esclusione dei concorrenti ulteriori
rispetto a
quelle contenute in un elenco stabilito dalla legge
(art. 83, comma 8). La nullità è talora disposta per
legge
con riguardo ai termini di conclusione di
procedimenti amministrativi qualificati
espressamente dalla legge come termini posti a
pena di decadenza (termini perentori).
Un’ipotesi di nullità    La
prorogatio degli
  organi scaduti
prevista per legge
riguarda gli atti
adottati da organi collegiali scaduti, decorso il
periodo di
prorogatio di 45 giorni durante il quale
possono comunque
essere posti in essere solo gli
atti di ordinaria amministrazione (legge 15 luglio
1994, n. 444). Un regime così rigoroso mira
a
contrastare l’inerzia da parte degli organi titolari
del potere di nomina che
ritardavano il rinnovo
delle cariche per periodi molto lunghi eludendo
così le
disposizioni sulla durata in carica degli
organi.
 La nullità viene talora
contrapposta all’inesistenza
(nei casi nei quali manchino gli elementi minimi
per
identificare l’atto come atto amministrativo),
ma si tratta di una distinzione
controversa in sede
di teoria generale e priva di effetti pratici.
Si è  discusso se   Gli atti emanati in
  violazione
del diritto
un’ipotesi di nullità europeo
sia costituita dagli
atti adottati
dall’amministrazione in applicazione di norme
nazionali contrastanti con il diritto
europeo. In un
primo periodo la giurisprudenza sembrava
orientata, per un verso, a
ritenere disapplicabile la
norma nazionale e, per altro verso, a qualificare
come nullo
o inesistente il provvedimento
contrastante con il diritto europeo.
Successivamente è
prevalso l’orientamento, fatto
proprio anche dalla dottrina prevalente, che lo
qualifica
invece soltanto come annullabile, e ciò in
ragione dell’esigenza di certezza dei
rapporti
giuridici di diritto pubblico. Del resto, a livello
europeo, gli atti emanati
in violazione del Trattato
o di altre norme europee ricadono, di regola, nel
regime
dell’annullabilità.
 Sul  versante   L’azione di nullità
 
processuale, l’art. 31,
comma 4, del Codice del processo amministrativo
disciplina l’azione per la declaratoria della nullità
(azione di
accertamento) che può essere proposta
innanzi al giudice amministrativo
entro un termine
di decadenza breve (180 giorni) e ciò in relazione,
come si è visto,
all’esigenza di garantire stabilità
all’assetto dei rapporti di diritto pubblico. A
differenza di quanto accade per l’annullabilità, la
nullità può essere rilevata
d’ufficio dal giudice o
opposta dalla parte resistente (pubblica
amministrazione).
 Inoltre, l’art. 133, comma 1, lett. a), n. 5 attribuisce
alla
giurisdizione
esclusiva del giudice
amministrativo (nell’ambito della quale il giudice
conosce anche delle situazioni di diritto
soggettivo) le controversie relative alla
nullità
dell’atto adottato in violazione o elusione del
giudicato. Il vizio va fatto
valere, come si è detto,
nella sede del giudizio dell’ottemperanza, cioè del
rito
speciale previsto nel caso di mancata
220 esecuzione da parte della
pubblica
amministrazione delle sentenze del giudice
amministrativo e del giudice
ordinario. Il ricorso
può essere proposto nel termine di dieci anni dal
passaggio in
giudicato della sentenza e il giudice,
ove accolga il ricorso, emana una sentenza che
dichiara la nullità del provvedimento (art. 114,
commi 1 e 4, lett. c)).
18. L’annullamento d’ufficio, la
convalida, la ratifica, la
sanatoria, la conferma, la
conversione, la revoca, il
recesso
Conviene ora esaminare i
provvedimenti che
l’amministrazione può emanare per porre rimedio
all’invalidità o alla
non conformità all’interesse
pubblico di un provvedimento
amministrativo. I
provvedimenti in questione sono assunti
nell’ambito
dei procedimenti definiti di secondo
grado proprio perché hanno per oggetto atti già
emanati che l’amministrazione sottopone a un
riesame.


L’annullamento
d’ufficio. Come si è più
volte sottolineato, la misura
specifica per reagire
all’illegittimità del provvedimento è costituita
dall’annullamento
con efficacia ex tunc dell’atto
emanato.
L’annullamento del provvedimento
illegittimo può
essere  pronunciato,   Le tipologie di
  annullamento
sotto il profilo doveroso
soggettivo, dal
giudice
amministrativo, dalla stessa amministrazione in
sede di esame
dei ricorsi
amministrativi (in
particolare i ricorsi gerarchici), dagli organi
amministrativi preposti al controllo di legittimità
di alcune categorie di
provvedimenti. In queste
ipotesi l’annullamento è doveroso, nel senso che
deve essere
necessariamente pronunciato ove sia
accertato un vizio.
  ’annullamento d’ufficio ha invece
carattere
L
discrezionale e costituisce una delle
manifestazioni del potere di
autotutela della
pubblica amministrazione.
Il potere in questione può essere
esercitato dallo
stesso organo che ha emanato l’atto (cosiddetto
autoannullamento) o da
altro organo al quale sia
attribuito per legge (per esempio l’annullamento
gerarchico)
o, a livello statale, dal ministro nei
confronti degli atti adottati dai dirigenti
ex
art. 14,
comma 3, d.lgs. n. 165/2001.
Una specie particolare di annullamento d’ufficio è
quello attribuito
al Consiglio dei ministri nei
confronti di tutti gli atti degli apparati statali e
locali (art. 2, comma 3, lett. p), l. n. 400/1988 e art.
138 d.lgs. n. 267/2000). Si tratta del cosiddetto
annullamento straordinario del governo a «tutela
dell’unità dell’ordinamento» in
particolare contro
il rischio che gli enti locali assumano
determinazioni aberranti.
Proprio per la sua
particolare delicatezza, esso richiede l’acquisizione
preventiva di
un parere del Consiglio
di Stato.
Come esempi si possono ricordare l’annullamento
dello statuto
del Comune di Genova che attribuiva
l’elettorato attivo agli stranieri residenti,
oppure,
nella fase iniziale della pandemia da Covid-19,
l’annullamento di un’ordinanza
del sindaco di
Messina che subordinava a un nullaosta del
comune gli ingressi in Sicilia
attraverso il proprio
porto (recependo il parere del Cons. St., Sez. I, 7
221 aprile 2020,
n. 260).
Il potere di annullamento  d’ufficio può essere
esercitato in quattro   I presupposti
  dell’annullamento
presupposti d’ufficio
esplicitati dall’art. 21-
nonies
l. n. 241/1990.
 
1. Il primo è che il provvedimento sia
«illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies», e
dunque,
come si è visto, sia affetto da un vizio
di violazione di
legge, di incompetenza o di
eccesso di
potere. Non si deve però ricadere
in una delle ipotesi di vizi
formali di cui al
comma 2 dell’articolo in questione.
2. Devono inoltre
sussistere «ragioni di interesse
pubblico», rimesse
alla valutazione
discrezionale dell’amministrazione, che
rendano preferibile la
rimozione dell’atto e
dei suoi effetti piuttosto che la loro
conservazione, pur
in presenza di
un’illegittimità accertata. L’interesse astratto
al ripristino
della legalità violata non è
sufficiente, ma l’amministrazione deve porre a
fondamento un altro interesse pubblico che
deve essere presente al momento in
cui è
disposto l’annullamento d’ufficio. Tale è, per
esempio, l’interesse alla
concorrenza nel caso
di affidamento di un contratto pubblico senza
esperire la
procedura di gara (cioè fuori dai
casi tassativi nei quali ciò è consentito),
oppure l’interesse dello Stato a evitare
l’irrogazione di sanzioni per
violazioni del
diritto europeo.
3. È richiesta in terzo luogo una
ponderazione di
tutti gli interessi in gioco da esplicitare nella
motivazione.
Devono essere valutati,
specificamente, oltre all’interesse pubblico
all’annullamento, da un lato, quello del
destinatario del provvedimento, che per
esempio ha ottenuto un provvedimento
favorevole (come un’autorizzazione o una
concessione)
tale da ingenerare una
situazione di affidamento; dall’altro quello
degli
eventuali controinteressati, come, per
esempio, i proprietari di terreni
confinanti
con quello in relazione al quale è stato
rilasciato un permesso a
costruire illegittimo.
4. Infine, la valutazione discrezionale
deve tener
conto del fattore temporale. L’annullamento
può essere disposto
«entro un termine
ragionevole», principio espresso dalla
giurisprudenza europea
e previsto anche in
altri ordinamenti. Se infatti è trascorso un
lungo lasso di
tempo dall’emanazione del
provvedimento illegittimo, prevale
tendenzialmente
l’interesse a mantenere
inalterato lo status quo e a
tutelare
l’affidamento creato. Se invece
l’amministrazione rileva immediatamente
l’illegittimità del provvedimento emanato,
magari prima ancora che esso sia
portato a
esecuzione, essa può procedere
all’annullamento d’ufficio senza dover
valutare in modo approfondito interessi
diversi dal mero ripristino della
legalità.
Rientra nella discrezionalità
dell’amministrazione stabilire se il
termine è
«ragionevole» e ciò introduce un elemento di
incertezza sulla
stabilità dei rapporti giuridici
amministrativi. Proprio per ovviare a ciò,
almeno per alcuni tipi di provvedimenti (di
autorizzazione e di attribuzione di
vantaggi
economici), il termine decorso il quale
l’amministrazione decade dal
potere è stato
ridotto a dodici mesi (art. 63, comma 1, della
legge 29 luglio
2021, n. 108).

Nel caso di provvedimenti che


comportano esborsi
di danaro da parte dell’amministrazione,
l’interesse pubblico
all’annullamento d’ufficio
sussiste in re ipsa, nel senso che non
richiede una
particolare motivazione, data la preminenza
222 dell’interesse
erariale.
Il potere di annullamento d’ufficio deve essere
esercitato nel
rispetto delle regole generali della l.
n. 241/1990 in tema di comunicazione di avvio del
procedimento e di partecipazione dei soggetti
interessati. Rimangono
peraltro ferme «le
responsabilità connesse all’adozione e al mancato
annullamento del
provvedimento illegittimo»
(comma 1).
Attesa la natura discrezionale
dell’annullamento
d’ufficio,   Le segnalazioni e gli
  esposti
 l’amministrazione
non è
tenuta a dar
seguito a segnalazioni ed esposti da parte di
soggetti privati che
denunciano l’illegittimità di un
atto amministrativo (Cons. St., Sez. IV, 11 ottobre
2019, n. 6923).
 
▶ La convalida. In alternativa all’annullamento
d’ufficio, l’art.
21-nonies, comma 2, prevede che
l’amministrazione possa
procedere alla convalida
del provvedimento illegittimo, sempre in presenza
di ragioni di
interesse pubblico ed entro un
termine ragionevole. Il potere in questione è
espressione
del principio generale della
conservazione dei valori giuridici, che permea il
diritto
amministrativo così come il diritto privato,
attraverso l’eliminazione
del vizio del quale è
affetto il provvedimento. A differenza di quanto
avviene nei
rapporti interprivati, nei quali la
convalida del negozio costituisce una facoltà del
soggetto leso al quale spetta l’azione di
annullamento (art. 1444 cod. civ.), la convalida del
provvedimento è
disposta dalla stessa
amministrazione cui è imputabile il vizio rilevato e
opera
retroattivamente (Cons. St., Sez. VI, 22
aprile 2021, n. 3385). Si tratta di un istituto
di
applicazione poco frequente, che ha comunque
uno spazio limitato, anche in
conseguenza del
principio della dequotazione dei vizi formali di cui
all’art.
21-octies l. n. 241/1990.
Ove la convalida riguardi il vizio di incompetenza è
ricorrente  nell’uso   La ratifica
l’espressione di  
ratifica. Peraltro,
la ratifica si riferisce, più
propriamente, alle ipotesi nelle quali all’interno di
un’amministrazione pubblica un organo può, in
base alla legge, esercitare in caso
d’urgenza una
competenza attribuita in via ordinaria a un altro
organo, che poi è
chiamato a far proprio l’atto
emanato. Negli enti locali, per esempio, in caso
d’urgenza
molti atti attribuiti alla competenza del
consiglio comunale possono essere emanati
dalla
giunta, salvo ratifica (art. 42, comma 4, d.lgs. n.
267/2000 Testo unico degli enti
locali). Si tratta
dunque di un fenomeno che non attiene alla
patologia del
provvedimento.
 
▶ La
sanatoria. Si parla talora anche di
sanatoria nei casi
in cui l’atto è emanato in
carenza di un presupposto e quest’ultimo si
materializza in
un momento successivo, oppure
nei casi in cui un atto della sequenza
procedimentale
viene posto in essere dopo il
provvedimento conclusivo (per esempio una
proposta o un
accertamento tecnico successivi
all’emanazione dell’atto).


La conferma e
l’atto confermativo.
All’esito di un procedimento di
riesame aperto su
sollecitazione di un privato o anche d’ufficio e
dell’istruttoria,
l’amministrazione può convincersi
che il provvedimento non è affetto da alcun vizio.
In
questi casi l’amministrazione emana un
223 provvedimento di conferma.
In giurisprudenza si distingue tra
conferma, che
costituisce un provvedimento autonomo dal
contenuto identico rispetto a
quello oggetto del
riesame, e atto meramente confermativo. Con
quest’ultimo
l’amministrazione si limita a
comunicare al privato che chiede il riesame
(magari perché
non può più proporre un ricorso
giurisdizionale contro il medesimo atto a causa
dell’avvenuta
scadenza del termine perentorio di
60 giorni) che non vi sono motivi per riaprire il
procedimento e procedere a una nuova istruttoria.
L’atto meramente confermativo non ha
valenza
provvedimentale e dunque non è suscettibile di
impugnazione.

▶ La
conversione. Ai provvedimenti nulli e
annullabili si ritiene generalmente
applicabile,
anche in assenza di una disposizione legislativa
espressa, la conversione
(ma anche in questo caso
si tratta di un istituto controverso), sulla falsariga
del
modello civilistico (art. 1424 cod. civ.).

▶ La
revoca. Gli atti ai quali si è fatto sin qui
cenno sono
assunti all’esito di procedimenti di
secondo grado aventi per oggetto provvedimenti
affetti da invalidità. Ma anche i provvedimenti
validi sono passibili di un riesame che
ha invece
per oggetto il merito (opportunità), cioè la loro
conformità all’interesse
pubblico. Interviene qui
uno degli istituti più caratteristici del diritto
amministrativo, cioè la revoca del provvedimento.
Il diritto privato infatti non
ammette, di regola,
uno jus poenitendi relativo ad atti che abbiano
già
prodotto effetti nella sfera giuridica di terzi e ciò
in relazione al principio
della stabilità e della
certezza dei rapporti giuridici. Un caso eccezionale
è quello
della revoca della donazione per
ingratitudine o per sopravvenienza di figli (art. 800
cod. civ.). Diversa è invece la revoca del
testamento, che si riferisce a un atto che non ha
ancora prodotto effetti nella sfera
degli eredi e
degli altri beneficati (artt. 679 ss. cod. civ.), oppure
quella della proposta
contrattuale che è ammessa
fin tanto che il contratto non è concluso (art. 1328,
comma 2, cod. civ.).
Nel diritto amministrativo,
invece, la revoca è
 considerata come   La revoca come
  espressione del
potere
una manifestazione di autotutela
del potere di
autotutela della
pubblica amministrazione ed è ammessa da
sempre dalla
giurisprudenza. Tra i casi più risalenti
può essere ricordato quello delle concessioni
di
illuminazione a gas rilasciate a livello comunale,
revocate in seguito alla
possibilità d’impiego di
lampade elettriche, oppure quello delle
concessioni per il
trasporto locale con carrozze a
cavallo revocate in seguito alla diffusione dei
mezzi
meccanici.
I  l potere di revoca, che ha
carattere discrezionale,
è giustificato dall’esigenza di garantire nel tempo
la
conformità all’interesse pubblico dell’assetto
giuridico derivante da un provvedimento,
esigenza
che è ritenuta prevalente rispetto a quella di tutela
degli affidamenti creati.
Esso dà una connotazione
di precarietà e instabilità al rapporto giuridico
amministrativo.
L’art.
21-quinquies
l. n. 241/1990 pone una disciplina
generale della revoca
precisandone i presupposti e
gli effetti.
La disposizione distingue
anzitutto due fattispecie:
la  revoca per   La revoca per
  sopravvenienza
sopravvenienza e
la
revoca espressione
224 dello jus
poenitendi.
  a revoca per sopravvenienza si ha
in due ipotesi
L
tipizzate. La prima ipotesi è la revoca per
«sopravvenuti motivi di
pubblico interesse», che
interviene allorché l’amministrazione opera una
rivalutazione
dell’assetto degli interessi alla luce di
fattori ed esigenze sopravvenuti, cioè non
presenti
al momento in cui l’atto era stato emanato. Un
esempio può essere la
destinazione di un tratto di
spiaggia o di uno spazio acqueo non più a
balneazione o a
coltivazione di mitili, ma a riserva
naturale che giustifica la revoca delle concessioni
già rilasciate. È riconducibile alla revoca per
sopravvenuti motivi di interesse
pubblico il
recesso dagli accordi integrativi o sostitutivi del
provvedimento previsto
dall’art. 11, comma 4, l. n.
241/1990.
Una seconda ipotesi di revoca per
sopravvenienza
è quella per «mutamento della situazione di fatto»
non prevedibile al
momento dell’adozione del
provvedimento, ipotesi peraltro sovrapponibile
all’altra.
Infatti, l’esigenza di rivalutare l’interesse
pubblico dipende spesso da mutamenti della
situazione di fatto, quali, per esempio, l’emersione
di nuove tecnologie (come nel caso
già ricordato
della revoca della concessione di illuminazione a
gas), un incremento
demografico, una modifica
della situazione di mercato, ecc.
Passando a considerare la seconda fattispecie della
 revoca jus poenitendi,   La revoca jus
poenitendi
 
essa riguarda
l’ipotesi
di «nuova valutazione dell’interesse pubblico
originario», nei casi in cui
l’amministrazione si
rende conto di aver compiuto una ponderazione
errata degli
interessi nel momento in cui ha
emanato il provvedimento. Si tratta di un’ipotesi
controversa, che legifica quasi un «diritto
all’arbitrio o al capriccio» in contrasto
con il
principio del
legittimo affidamento [Corso 2010,
437], e di dubbia compatibilità con
il diritto
europeo. Nel 2014 l’art. 21-quinquies
l. n. 241/1990 è
stato modificato nel senso di vietare
questo tipo di
revoca in relazione ai provvedimenti di
autorizzazione o attribuzione di
vantaggi
economici e ciò al fine di attribuire almeno in
alcuni ambiti maggiore
stabilità e certezza al
rapporto giuridico amministrativo.
  otto il profilo soggettivo la
revoca può essere
S
disposta «dallo stesso organo che ha emanato
l’atto ovvero da altro
organo previsto dalla legge».
Nell’equilibrio dei poteri spettanti al ministro e ai
dirigenti, che verrà esaminato nel capitolo X, il
d.lgs. n. 165/2001 esclude espressamente che il
primo possa
revocare gli atti emanati dai secondi,
mentre prevede, come già visto, che possa
annullarli d’ufficio (art. 14, comma 3).
A  differenza   L’efficacia ex
nunc della
  revoca
dell’annullamento
d’ufficio, che ha
efficacia retroattiva (ex
tunc), la revoca «determina
l’inidoneità del provvedimento revocato a
produrre ulteriori effetti» (opera cioè ex nunc).
  a revoca ha tipicamente per
oggetto
L
provvedimenti «a efficacia durevole», come per
esempio le concessioni di
servizi
pubblici. Ma il
comma 1-bis, nel disciplinare
l’indennizzo, fa
riferimento anche ad atti aventi «efficacia […]
istantanea» nei casi in
cui incidano su rapporti
negoziali. Peraltro, si ritiene generalmente che non
sono
suscettibili di revoca i provvedimenti che
hanno già esaurito gli effetti o siano stati
interamente eseguiti. Per esempio, per ragioni
logiche prima ancora che giuridiche non
può
essere revocato un ordine già interamente
225 eseguito. Del pari, non
sono suscettibili di revoca
gli atti vincolati (per i quali non
si può porre, per
definizione, un problema di valutazione
dell’interesse pubblico) e più
in generale le
certificazioni e le valutazioni tecniche. Non è
revocabile neppure il
permesso a costruire (art. 11,
comma 2, d.lgs. n. 380/2001).
 L’art. 21-quinquies   L’obbligo
  dell’indennizzo
prevede un obbligo di
indennizzo nei casi in
cui la revoca «comporta pregiudizi in danno dei
soggetti direttamente interessati».
  rima dell’introduzione di questo articolo nel
P
2005, l’indennizzo era
previsto dalla legge solo in
rare fattispecie. Per esempio, il r.d. 15 ottobre 1925,
n. 2578 in materia di servizi pubblici
locali già
imponeva l’obbligo di corrispondere al gestore un
equo
indennizzo e dettava alcuni criteri per la
quantificazione (art. 24) in caso di revoca
della
concessione. Anche in materia di accordi
integrativi e sostitutivi del provvedimento,
come
si è già accennato, l’art. 11 l. n. 241/1990 stabilisce
l’obbligo di indennizzo
in caso di recesso.
I commi 1-bis
e 1-ter dell’art. 21-quinquies pongono
alcuni
criteri  per   I criteri di
  quantificazione
quantificare
l’indennizzo in caso
di
revoca di atti che incidono su rapporti negoziali.
L’indennizzo è limitato al danno
emergente,
escludendo così il lucro cessante. Inoltre è
suscettibile di una riduzione
anzitutto in relazione
alla «conoscenza o conoscibilità da parte dei
contraenti della
contrarietà dell’atto oggetto di
revoca all’interesse pubblico». Si tratta di una
disposizione di dubbia opportunità perché
presuppone che sia onere anche del soggetto
privato operare una valutazione dell’interesse
pubblico che invece, nella dinamica del
rapporto
giuridico amministrativo, spetta esclusivamente
alla pubblica amministrazione.
Una riduzione è
stabilita inoltre nel caso di «concorso dei
contraenti o di altri
soggetti all’erronea
valutazione della compatibilità di tale atto con
l’interesse
pubblico». Anche questa disposizione è
criticabile, perché non si vede per quale ragione
il
comportamento di soggetti terzi possa incidere
sulle vicende di un rapporto giuridico
amministrativo del quale non sono parte.
 Sotto il profilo procedimentale,
la revoca è un
procedimento di secondo grado che si apre con la
comunicazione di avvio
ed è aperto alla
partecipazione dei soggetti interessati. Il
provvedimento deve essere
motivato.
La revoca di cui all’art.
21-quinquies va  distinta
dalla
cosiddetta   La revoca
  sanzionatoria e il
mero
revoca sanzionatoria ritiro
(o anche decadenza)
e dal mero ritiro.
 La prima può essere disposta
dall’amministrazione
nel caso in cui il privato, destinatario di un
provvedimento
favorevole, non rispetti le
condizioni e i limiti in esso previsti (come per
esempio il
ritiro di un porto d’armi in caso di
abuso), oppure non intraprenda l’attività oggetto
del provvedimento entro il termine previsto (come
nel caso dell’autorizzazione
commerciale o del
permesso a costruire). Usualmente nelle
concessioni-contratto la
convenzione definisce le
tipologie di violazioni che possono dar origine alla
revoca
sanzionatoria che in taluni casi costituisce
addirittura un atto vincolato.
Il mero ritiro ha per oggetto atti
amministrativi
non ancora efficaci. Può avvenire per ragioni di
legittimità o anche di
merito e non necessita di
una valutazione specifica dell’interesse pubblico e
226 degli
interessi dei destinatari del provvedimento, e
ciò proprio
perché non ha ancora inciso in modo
diretto su situazioni giuridiche soggettive di
soggetti terzi. In questo senso il mero ritiro è
assimilabile alla revoca del testamento
o della
proposta contrattuale.
▶ Il recesso dai
contratti. L’art. 21-sexies l. n.
241/1990 disciplina anche il recesso dai contratti
della pubblica amministrazione prevedendo che
esso sia ammesso solo «nei casi previsti
dalla legge
o dal contratto». Si tratta di una disposizione che
riguarda l’attività
negoziale di diritto privato della
pubblica amministrazione ed è impropria pertanto
la
sua collocazione nella l. n. 241/1990, atteso che il
recesso non ha di regola
natura provvedimentale.
Una fattispecie particolare di recesso dai contratti
è prevista dalla
normativa antimafia nei casi in cui
emergano, anche in seguito all’assunzione di
informazioni da parte della pubblica
amministrazione, tentativi di infiltrazione da
parte
della criminalità organizzata (art. 4 d.lgs. 8 agosto
1994, n. 490). Nel settore delle
opere pubbliche,
come si vedrà meglio nel capitolo XII, la stazione
appaltante ha il diritto di
recedere in qualsiasi
tempo dal contratto previo pagamento dei lavori
eseguiti, del
valore dei materiali utili esistenti in
cantiere e di un utile di impresa determinato in
modo forfettario nel 10% delle opere non più
eseguite (art. 109, comma 1, Codice dei contratti
pubblici che
riprende l’antica disposizione
contenuta nell’art. 345 l. n. 2248/1865, All. F sui
lavori pubblici).
Questa disposizione è richiamata
dalla giurisprudenza anche ai fini della
quantificazione forfettaria del danno subito dalle
imprese nell’ambito delle procedure
di
aggiudicazione dei contratti.
CAPITOLO 5

Il procedimento

227
1. Nozione e
funzioni del
procedimento
Come si è visto nel capitolo III, il procedimento
amministrativo
è dato dalla sequenza di atti e
operazioni posti in essere in vista dell’emanazione
di
un provvedimento produttivo di effetti nella
sfera giuridica di un soggetto privato.
Il procedimento è una nozione  di teoria
generale
collegata alle   Fatti semplici e fatti
  complessi
modalità di
produzione di un
effetto giuridico. Nello schema già
esaminato
norma-fatto-effetto, l’effetto giuridico si produce
alcune volte al
verificarsi di un singolo
accadimento (fatto giuridico semplice); altre volte
al
verificarsi di una pluralità di accadimenti (fatti
complessi). Così la conclusione di un
contratto
richiede una duplice manifestazione di volontà
(proposta e accettazione,
secondo l’art. 1326 cod.
civ.). Il compimento di un atto negoziale da
parte
di chi è sottoposto a regime di tutela richiede, oltre
alla dichiarazione di
volontà del tutore, il parere
del giudice tutelare e l’autorizzazione del
tribunale (art. 375 cod. civ.).
 Nel caso di fatti complessi
l’effetto giuridico deriva
dunque da una combinazione di eventi,
comportamenti o atti
che devono verificarsi o
essere posti in essere in parallelo o in sequenza
(fattispecie
a formazione successiva).
Nella  fattispecie a   La fattispecie
  complessa a
formazione formazione successiva
successiva l’effetto
giuridico si produce
solo allorché la
sequenza si è integralmente
realizzata secondo l’ordine normativamente dato.
Prima di
tale momento possono sorgere tutt’al più
effetti prodromici. Così, per esempio, nel
contratto sottoposto a condizione (sospensiva o
risolutiva), già in pendenza di
quest’ultima sorge
in capo alle parti il dovere di comportarsi secondo
buona fede in
modo tale da conservare integre le
228 ragioni dell’altra parte (art. 1358 cod. civ.). Nella
vendita
di cosa futura, l’effetto traslativo si
realizza allorché la cosa viene ad esistenza
(art.
1472 cod. civ.), ma in capo al venditore sorge subito
l’obbligo di non impedire che la cosa venga in
essere.
  estano invece esterni alla
fattispecie i cosiddetti
R
presupposti , cioè   I presupposti
 
fatti che non
concorrono direttamente alla produzione
dell’effetto giuridico, ma che si collocano per
così
dire a monte della fattispecie e ne condizionano
l’operatività. Così, per esempio,
lo stato di
abbandono di una cosa mobile è il presupposto per
l’acquisto della proprietà
tramite occupazione (art.
923 cod. civ.); la morte di una persona è il
presupposto
per l’apertura della successione (artt.
456 ss. cod. civ.).
  a fattispecie complessa a
formazione successiva,
L
secondo alcuni, costituisce la matrice unificante
del negozio
giuridico privato e dell’atto
amministrativo. In realtà, nel diritto privato il
procedimento ha
avuto uno sviluppo limitato. Nel
diritto pubblico, al contrario, come si è visto, il
procedimento è la modalità ordinaria di esercizio
dei poteri dello Stato (legislativo,
esecutivo,
giurisdizionale) proprio in relazione alle esigenze
di trasparenza e di
garanzia dei soggetti interessati.
Nel  diritto   La genesi storica della
  nozione
amministrativo,
dopo una fase nella
quale la nozione di
procedimento fu ignorata, a
partire dalla seconda metà del secolo scorso
essa
assunse un rilievo crescente in dottrina e
giurisprudenza. Con la l. n. 241/1990 il
procedimento è assurto al rango di istituto
cardine
del sistema.
 In origine, dopo la legge del 1889 istitutiva della IV
Sezione del Consiglio di
Stato, l’attenzione della
giurisprudenza e della dottrina si concentrò
esclusivamente sull’atto amministrativo. Il
problema più immediato, dovuto alla
necessità di
definire le caratteristiche del nuovo rimedio
processuale, fu infatti
quello di distinguere gli atti
impugnabili da quelli non impugnabili (come per
esempio
un semplice parere o una proposta).
Inoltre, i tempi non erano maturi
per far emergere
la rilevanza giuridica degli atti e delle operazioni
prodromici
all’emanazione del provvedimento. In
primo luogo, infatti, l’organizzazione delle
amministrazioni era ritenuta irrilevante per il
diritto, e pertanto tutto ciò che
accadeva a monte
del provvedimento (gli atti prodromici di
competenza dei vari uffici)
era relegato alla sfera
interna dell’amministrazione: il solo punto di
contatto tra gli
apparati pubblici e la sfera giuridica
dei soggetti privati era rappresentato dall’atto
produttivo di effetti autoritativi. In secondo luogo,
la procedimentalizzazione
dell’attività ai fini di
coordinamento tra apparati e organi non era
un’esigenza avvertita in un’epoca in cui la struttura
dell’amministrazione era compatta
e ruotava
intorno al modello ministeriale: il criterio
gerarchico garantiva di per sé il
coordinamento e
l’unitarietà dell’azione amministrativa. Infine, la
concezione
autoritaria dei rapporti tra Stato e
cittadino poneva in secondo piano le garanzie a
favore di quest’ultimo, sotto forma di
partecipazione alla formazione dell’atto
imperativo.
Il procedimento trovò ingresso nel
diritto
amministrativo  negli   L’atto complesso
 
anni Trenta del
secolo scorso
come sviluppo delle acquisizioni
della teoria generale in tema di fattispecie. Venne
così elaborata anzitutto la nozione di atto
complesso, cioè del provvedimento che è il
frutto
229 della confluenza di manifestazioni di volontà
provenienti da più soggetti, tutte necessarie ai fini
della produzione dell’effetto
giuridico. Si pensi per
esempio a un decreto reale assunto su proposta di
un ministro,
oppure all’atto emanato da un organo
collegiale. Emersero via via distinzioni più
sofisticate (atto composto, continuato, ecc.),
anche in relazione all’omogeneità o
disomogeneità
e al carattere servente o primario delle
manifestazioni di volontà
[Ranelletti 1894]. Fu
proposto anche il concetto ambiguo di atto-
procedimento.
  el procedimento 
D   Le principali
  ricostruzioni
amministrativo sono
state offerte in
dottrina varie
ricostruzioni.
 
1. La prima elaborazione organica, che risale al
1940 [Sandulli 1940],
operò un’analisi formale e
strutturale degli atti e delle operazioni della
sequenza
procedimentale e delle fasi in cui questa
è articolata (fase preparatoria, costitutiva,
integrativa dell’efficacia).
2. Un’altra ricostruzione collocò invece il
procedimento all’interno
della dinamica del potere
(considerato come funzione), cioè come
«momento della
concretizzazione del potere in un
atto» [Benvenuti 1950, 1 ss.; 1952, 112], ovvero della
trasformazione del potere (in astratto) in un atto
produttivo di effetti nella sfera
giuridica di un
determinato soggetto (potere in concreto). Se, per
usare un’immagine, il
potere è una fonte che
sprigiona energia giuridica, quest’ultima viene
incanalata in
sequenze procedimentali tipiche. Il
procedimento, cioè «la storia causale dell’atto»,
non è altro che la forma o «manifestazione
sensibile della funzione».

3. Come sviluppo e integrazione dell’approccio


formale e strutturale
emerse in dottrina [Giannini
1993, 155-156, 160] una ricostruzione volta a
mettere in
luce soprattutto la connessione con la
discrezionalità amministrativa. Per poter operare
una
scelta corretta, tutti i fatti e gli interessi
rilevanti devono essere, prima ancora che
valutati
e ponderati, acquisiti all’interno del procedimento
dall’organo decidente. La
sequenza delle
operazioni e degli atti (pareri, valutazioni
tecniche, intese, partecipazione, ecc.)
previsti
dalle singole leggi serve dunque soprattutto a
immettere in modo strutturato
nel processo
decisionale gli interessi più rilevanti (come si è
visto, i cosiddetti
interessi secondari). Ma anche al
di là delle sequenze normativamente prescritte, il
responsabile del
procedimento può valutare caso
per caso, nel corso dell’istruttoria, se sia
necessario acquisire qualche altro interesse
potenzialmente inciso dall’atto da emanare
(per
esempio, attraverso la richiesta di un parere
facoltativo).
Il procedimento, come si è
accennato , assolve a
una pluralità di   Le funzioni del
  procedimento
funzioni.

 
1. Una prima funzione, che emerge già nelle prime
due ricostruzioni del
procedimento sopra
esaminate, è consentire un controllo
sull’esercizio
del potere (soprattutto ad opera del giudice),
attraverso una verifica
del rispetto della sequenza
degli atti e operazioni normativamente predefinita.
La
legalità assume così una dimensione
procedurale, oltre che sostanziale.

2. Una seconda funzione, presente soprattutto


nella terza ricostruzione
del procedimento sopra
indicata, è quella di far emergere e dar voce agli
interessi
incisi dal provvedimento. Ciò sia
nell’interesse dell’amministrazione che può così
230 colmare le asimmetrie informative che spesso
sussistono nei
rapporti con i soggetti privati, sia
nell’interesse di questi ultimi che hanno la
possibilità di rappresentare il proprio punto di
vista. La partecipazione acquista così
una
dimensione collaborativa.
Questa dimensione è presente in
particolare nei
procedimenti di tipo individuale nei quali il
provvedimento determina
effetti ampliativi nella
sfera giuridica del destinatario. La partecipazione
del privato
al procedimento è utile infatti sia
all’amministrazione in relazione alle esigenze di
completezza dell’istruttoria, sia al privato che ha
così la possibilità di sottoporre
all’amministrazione gli elementi necessari per
indurla a emanare il provvedimento
favorevole.
La  dimensione   La dimensione
  collaborativa e la
collaborativa è «cattura» dei
presente
anche nei regolatori

procedimenti di
regolazione. Ad essi non si applicano di regola,
come si è
accennato, le disposizioni sulla
partecipazione previste dalla l. n. 241/1990 (art. 13,
comma 1), ma sempre più spesso la partecipazione
è
imposta dal diritto europeo specie con riguardo
agli atti di regolazione delle
autorità
indipendenti.
Per i procedimenti di regolazione di competenza
delle
autorità preposte ai mercati finanziari, per
esempio, la legge sul risparmio prevede che
esse
debbano consultare preventivamente gli organismi
rappresentativi dei soggetti
vigilati, dei prestatori
di servizi finanziari e dei consumatori (art. 23 l. n.
262/2005).
  ’amministrazione deve appurare che
tutti gli
L
interessi coinvolti siano adeguatamente
rappresentati e deve vagliare
criticamente gli
apporti partecipativi dei privati. Questi ultimi sono
necessariamente
di parte e vanno messi a
confronto con gli apporti partecipativi dei
portatori di
interessi di segno contrario. Spesso la
voce degli interessi più organizzati (le
cosiddette
lobby) tende a sovrastare quella degli altri
interessi, con il rischio di
condizionare e
influenzare le valutazioni dell’amministrazione (la
cosiddetta «cattura»
dei regolatori).

3. Una terza funzione del procedimento è quella


di garanzia del
contraddittorio. Essa emerge
soprattutto nei procedimenti di tipo individuale,
nei quali
la pubblica amministrazione esercita un
potere che determina effetti restrittivi della
sfera
giuridica del destinatario (in particolare le
sanzioni) e il rapporto giuridico si
connota, come
si è visto, in termini di contrapposizione, più che
di collaborazione. Fu
la IV Sezione del Consiglio
di Stato che, nel silenzio della
legge, applicò ai
poteri di tipo sanzionatorio la regola di diritto
naturale
audi et alteram partem.
Il contraddittorio connota in senso
 giustiziale il
procedimento e   Il contraddittorio
  verticale e
orizzontale
talora ricorre anche
nella
giurisprudenza
l’espressione «giusto procedimento» (due process of
law), che riecheggia quella di giusto processo. Il
contraddittorio può
assumere una dimensione
verticale o orizzontale.
 La prima si riferisce ai casi in
cui il rapporto
giuridico ha carattere bilaterale e coinvolge
l’amministrazione titolare
del potere e il
destinatario diretto dell’effetto giuridico
restrittivo (provvedimenti
sanzionatori, di
imposizione di vincoli, ecc.). Nel contraddittorio
verticale
l’amministrazione deve essere, con un
ossimoro, parte imparziale. Deve cioè a un tempo
curare l’interesse pubblico di cui essa è portatrice
e garantire la posizione della
parte privata
portatrice di un interesse contrapposto. Vi è però il
rischio che
un’amministrazione troppo zelante
231 tenda a considerare il
contraddittorio come un
impaccio alla propria azione. Una soluzione
organizzativa per
assicurare una maggiore terzietà
dell’amministrazione, prevista, come si vedrà nel
capitolo VIII, per le autorità
indipendenti, consiste
nell’attribuire le funzioni decisionali a un organo
distinto
dall’ufficio preposto all’attività istruttoria
e pertanto in grado di valutare con più
distacco il
punto di vista di quest’ultimo, mettendolo a
confronto con quello del
privato che interviene nel
procedimento.
La dimensione orizzontale del
contraddittorio
emerge nei procedimenti nei quali i privati sono
portatori di interessi
contrapposti (nel capitolo III
si è fatto cenno ai provvedimenti «a doppio
effetto») e nei quali pertanto l’organo
decidente è
chiamato a garantire «la parità delle armi».
In alcuni casi il contraddittorio
orizzontale è
perfettamente paritario,  come per esempio nei
procedimenti di tipo   Il contraddittorio
  paritario e
non
contenzioso attribuiti paritario
alla competenza delle
autorità di
regolazione chiamate a risolvere controversie tra
gli utenti e le imprese che erogano il
servizio;
oppure nei procedimenti di tipo concorsuale
(procedure di aggiudicazione di
contratti pubblici
o di concessioni) nei quali gli aspiranti a una
medesima utilità o
bene hanno una uguale pretesa
a conseguirli.
I  n altri casi il contraddittorio
orizzontale non è del
tutto paritario, come per esempio nei
procedimenti sanzionatori
antitrust nei quali
all’impresa accusata di aver compiuto un illecito
anticoncorrenziale
(in particolare, un abuso di
posizione dominante) si contrappone l’impresa
che lo ha
segnalato all’Autorità garante della
concorrenza e del mercato. All’impresa
denunciante
sono riconosciuti alcuni poteri, ma
prevale l’esigenza di assicurare all’impresa oggetto
del procedimento sanzionatorio la possibilità di
tutelare pienamente la propria
posizione anzitutto
nei confronti dell’autorità procedente (rispetto
alla quale il
contraddittorio ha una dimensione
verticale).
Nel contraddittorio orizzontale di
tipo paritario
risulta più naturale per l’amministrazione
mantenere una posizione di
terzietà.

4. Una quarta funzione del procedimento  è


quella
di fungere da fattore   La democrazia
  procedimentale
di legittimazione del
potere
dell’amministrazione e di
promuovere pertanto la
democraticità dell’ordinamento amministrativo. A
questo riguardo
si è già osservato come la caduta
della legalità sostanziale, dovuta all’impossibilità
del legislatore di prefigurare in modo preciso tutte
le situazioni che richiedono
l’esercizio del potere,
può essere compensata, almeno in parte (e in
modo certamente
imperfetto), dalla legalità
procedurale. Il procedimento, aperto alla
partecipazione di
tutti i soggetti interessati,
diviene la sede nella quale si individua la regola per
il
caso concreto (che la legge lascia in qualche
misura indeterminata) dettata dal
provvedimento.
La democrazia procedimentale completa, anche se
non soppianta, la
democrazia rappresentativa («il
vincolo procedimentale integra il comando della
norma
legislativa» [Mannori e Sordi 2001, 469]).
Questa funzione del contraddittorio è
essenziale
nei procedimenti gestiti dalle autorità
indipendenti che sono affette, come
si vedrà
meglio nel capitolo
VIII, da un deficit di
legittimazione democratica.
 
5. Una quinta funzione del procedimento è quella
di promuovere il
coordinamento tra più
232 amministrazioni nei casi in cui un provvedimento
vada a incidere su una pluralità di interessi
pubblici curati
da ciascuna di esse. In un modello
di organizzazione dei pubblici poteri improntato al
pluralismo (amministrazioni statali, regionali,
locali, enti pubblici
istituzionali, ecc.) questa
funzione ha assunto un peso crescente.
Accanto  a modelli di   Il coordinamento
  debole e
forte
coordinamento
debole (tipicamente,
il parere obbligatorio, ma non
vincolante), la
legislazione prevede modelli di coordinamento
forte (il parere
vincolante, l’intesa, il concerto, il
decreto interministeriale, ecc.).
Allorché l’avvio di
un’attività da parte di un privato sia subordinato al
rilascio di
una pluralità di atti autorizzativi all’esito
di una pluralità di procedimenti
paralleli, il
coordinamento può avvenire, come si vedrà, con
altre modalità (la
conferenza dei servizi,
l’autorizzazione unica).
I  l procedimento assolve dunque a più funzioni,
spesso compresenti
nella singola fattispecie. Di
volta in volta, a seconda del tipo di procedimento,
può
prevalere l’una o l’altra funzione. Così, nei
procedimenti di tipo regolatorio, nelle
ipotesi in
cui è ammessa la partecipazione al procedimento
(la l. n. 241/1990 però, va ribadito, la esclude
ancora in
generale per i regolamenti e gli atti
amministrativi generali), ha un ruolo primario la
funzione di rappresentanza degli interessi e quella
conoscitiva. Nei procedimenti di
tipo individuale
rileva soprattutto quella di garanzia del soggetto
nella cui sfera
giuridica ricadono gli effetti del
provvedimento. Nei procedimenti di tipo
contenzioso
(per esempio, la risoluzione
stragiudiziale di controversie tra operatori
economici o
tra questi e gli utenti o clienti) prevale
la funzione di garanzia del contraddittorio
paritario. Nei procedimenti di tipo pianificatorio e
progammatorio che coinvolgono più
livelli di
governo (statale, regionale, locale), è presente
soprattutto la funzione di
coordinamento.
2. Le leggi
generali sul
procedimento e la l. n.
241/1990
Il procedimento amministrativo in
molti
ordinamenti ha trovato una disciplina organica in
leggi generali, dalle quali ha
tratto ispirazione la l.
n. 241/1990.
In una prospettiva di comparazione,
conviene
accennare soprattutto alle leggi austriaca e
statunitense che rappresentano due
modelli di
riferimento.
L’esperienza austriaca  fu per molti aspetti
pionieristica. Già nel   L’esperienza austriaca
 
1875, la legge
istitutiva del Tribunale amministrativo supremo
attribuì a quest’ultimo il potere di annullare
gli
atti dell’amministrazione adottati all’esito di una
procedura difettosa
(mangelhaften Verfahrens). In
mancanza di ulteriori
specificazioni legislative, la
giurisprudenza stabilì i casi nei quali essa può
essere
considerata difettosa. Ciò accade, per
esempio, quando l’amministrazione pone in essere
gli atti della sequenza senza rispettare l’ordine
cronologico (come nel caso di un
parere postumo,
acquisito cioè dopo aver assunto la decisione). Nel
1925 venne emanata
una legge generale sul
procedimento, la prima del genere nel panorama
degli ordinamenti
occidentali, che sviluppava il
233 cosiddetto modello processuale del procedimento.
 Quest’ultimo venne infatti
concepito come uno
strumento per tutelare la posizione del privato, in
un’ottica
giustiziale (o paragiurisdizionale), cioè
per garantire gli interessi del cittadino nei
confronti di una pubblica amministrazione che
incorporava in sé, oltre che il valore
della legalità,
anche quello della giustizia, in conformità al
principio della
«sicurezza del diritto»
(Rechtssicherheit). L’articolazione del
procedimento
in atti formali volti a garantire la partecipazione
(Mitwirkung) e il contraddittorio mimava le forme
processuali e
anzi aveva come funzione quella di
anticipare la tutela offerta in sede giurisdizionale.
Non a caso, ancor oggi,
nell’ordinamento austriaco
il livello elevato delle garanzie procedimentali
consente di
semplificare i rimedi propriamente
giurisdizionali. In generale, quanto più completa
ed
efficace è la tutela degli interessi dei privati
nell’ambito del procedimento, tanto
minore è
l’esigenza di un sistema articolato di garanzie
giurisdizionali. In Italia una
discussione di questo
tipo è sorta a proposito delle autorità
indipendenti che esercitano i propri poteri con
modalità
paragiurisdizionali particolarmente
garantiste e per le quali si potrebbe ritenere non
necessaria la previsione di un doppio grado di
giudizio (cioè l’appello al Consiglio di Stato).
Negli Stati Uniti, in un sistema costituzionale
improntato a  una   L’Administrative
  Procedure Act del 1946
separazione più negli Stati Uniti
rigida dei poteri,
l’attribuzione
massiccia di poteri regolatori e amministrativi alle
agenzie federali
negli anni Trenta (all’epoca del
New Deal) determinò, come si è
accennato nel
capitolo I, un
conflitto istituzionale tra presidente
e Corte Suprema. Quest’ultima infatti dichiarò
incostituzionali una serie di leggi interventiste
emanate per superare la crisi
economica
rilanciando gli investimenti. Il conflitto si
ricompose anche in seguito
all’emanazione nel
1946 dell’Administrative Procedure Act che legittimò il
ruolo delle agenzie federali, ma le sottopose a
regole e a controlli stringenti.
 
La legge statunitense configura
anzitutto un
procedimento aperto a un’ampia partecipazione
dei soggetti interessati
secondo il modello della
public interest representation [Stewart
1975, 1715]. Nei
procedimenti di regolazione (rulemaking) la
rappresentanza degli interessi viene assicurata,
come si è accennato nel capitolo II, attraverso il
modello del notice and comment.
Nei  procedimenti di   Rulemaking e
  adjudication
tipo individuale
(adjudication), per
attuare il
principio del giusto
procedimento (due
process of law) vengono
introdotte garanzie del
contraddittorio di tipo paraprocessuale
(trial-type).
Sul piano organizzativo la legge prescrive una
distinzione netta all’interno delle agenzie federali
tra i funzionari che curano
l’istruttoria e l’organo
collegiale che assume la decisione. Così anche
nei
procedimenti in cui il contraddittorio ha una
dimensione verticale si creano le
premesse per una
decisione assunta da un organo, composto da
membri definiti come
administrative law judges, in
qualche misura terzo rispetto
agli uffici istruttori e
alle parti private.
I  l rispetto delle regole
procedurali è assicurato
dalle corti ordinarie (judicial review of
administrative
action) che accertano se l’esercizio del potere sia
avvenuto «without observance of procedure
234 required by law».
Verificano inoltre se le decisioni
siano state «arbitrary,
capricious, an abuse of
discretion», uno standard, quest’ultimo, simile
all’eccesso di potere.
Altri  ordinamenti   Altre esperienze
 
europei come quello
tedesco (nel 1976) e quello spagnolo (nel 1958 e
poi nel 1992) si sono dotati di leggi
generali sul
procedimento molto analitiche. La legge tedesca,
che include anche una disciplina generale
dell’atto
amministrativo e del contratto di diritto pubblico,
contiene, come si è
visto nel capitolo III, una
definizione di procedimento che per il suo
carattere generale può servire a inquadrare
il
concetto in termini di teoria generale.
Nell’ordinamento francese solo nel 2015 è
stato
emanato un Code des relations entre le public e
l’administration
(ordinanza n. 2015-1341 23 ottobre
2015) che prescrive norme
generali sul
procedimento. Nell’ordinamento inglese le regole
sullo svolgimento del
procedimento continuano a
essere di derivazione prevalentemente
giurisprudenziale.
 In Italia, un progetto di legge  fu
elaborato tra il
1944 e il 1947 da una   La genesi della l. n.
  241/1990
commissione
presieduta da Ugo
Forti, eminente
studioso di diritto
amministrativo. Il progetto fu riproposto e
rielaborato in varie
legislature senza però essere
approvato. All’inizio degli anni Ottanta del secolo
scorso
fu intrapreso un nuovo tentativo ad opera
di una commissione presieduta da un altro
illustre
studioso, Mario Nigro. La commissione elaborò un
testo che, arricchito anche di
una parte sulla
disciplina del diritto di accesso ai documenti
amministrativi, ispirò la legge 7 agosto 1990, n. 241
(Nuove norme in
materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti
amministrativi). Il testo è stato più volte
modificato
e integrato anche negli ultimissimi anni (da ultimo
con il d.l. 16 luglio
2020, n. 76) con il risultato di
appesantirne la linearità. La l. n. 15/2005 ha
inserito nel suo corpo, come si è visto,
una
disciplina del provvedimento (Capo IV-bis).
 Rispetto a leggi omologhe, la l. n. 241/1990 è una
legge soprattutto di principi, molti
dei quali già
affermati dalla giurisprudenza amministrativa,
senza la pretesa di porre
una disciplina esaustiva di
tutti gli istituti. Già all’interno della commissione
Nigro
era prevalsa infatti l’idea di non ingessare il
procedimento in schemi generali troppo
rigidi.
La l. n. 241/1990, come si è accennato, non
contiene né una
definizione di procedimento, né
una disciplina organica delle singole fasi in cui
esso
si articola. Disciplina alcuni istituti
fondamentali come il termine del
procedimento,
il responsabile del procedimento, la
partecipazione,
alcuni istituti di semplificazione, il
diritto di accesso, ecc. La l. n. 241/1990 fornisce
però una cornice generale che
integra tutte le leggi
amministrative settoriali che disciplinano, in modo
più o meno
articolato, anche con norme
derogatorie o speciali, i singoli procedimenti.
Il campo di applicazione della l. n. 241/1990 è
individuato  sulla   Il campo di
  applicazione della
l. n.
base di un criterio 241/1990
soggettivo e
oggettivo. Sotto il
profilo soggettivo essa si
applica alle
amministrazioni statali, agli enti pubblici
nazionali e anche alle società con
totale o
prevalente capitale pubblico, limitatamente alle
attività che si sostanziano
nell’esercizio delle
funzioni amministrative (art. 29). Le disposizioni
sul diritto di
accesso hanno un campo di
applicazione che include anche i gestori di pubblici
235 servizi
(art. 23).
I  noltre, le regioni e gli enti locali possono dotarsi
di una
propria disciplina sulla base dei principi
stabiliti dalla l. n. 241/1990. Peraltro, le disposizioni
che regolano i
principali istituti (partecipazione,
responsabile del procedimento, durata, accesso,
conferenza dei servizi, ecc.) sono qualificate come
attinenti ai livelli essenziali
delle prestazioni di cui
all’art. 117, comma 2, lett. m), Cost., rientranti nella
competenza legislativa esclusiva dello Stato (art.
29, commi 2-bis
e 2-ter). Pertanto gli spazi per una
disciplina
regionale difforme sono limitati e, in
ogni caso, questa deve prevedere garanzie non
inferiori a quelle assicurate ai privati dalle
disposizioni statali e se mai può
«prevedere livelli
ulteriori di tutela» (comma 2-quater). Ben
potrebbe, per esempio, una regione introdurre
ipotesi di contraddittorio orale non
previste, come
si vedrà, dalla l. n. 241/1990.
Sotto il profilo oggettivo, la l. n. 241/1990 si applica
nella sua interezza ai
procedimenti di tipo
individuale. Invece, come si è detto più volte, le
disposizioni
sull’obbligo di
motivazione (art. 3,
comma 2), sulla partecipazione al procedimento
(art. 13, comma 1) e sul diritto di accesso (art. 24,
comma 1, lett. c)) non si applicano agli atti
normativi e agli atti
amministrativi generali.
Alcune categorie di procedimenti come quelli
tributari non sono sottoposte alla l. n. 241/1990,
bensì alle regole contenute nelle discipline
speciali
(art. 13, comma 2).
La l. n. 241/1990 delinea un nuovo modello  di
rapporto tra pubblica   Il nuovo modello di
  rapporto tra
cittadino
amministrazione e e amministrazione
cittadini.
 
1. In primo luogo, la l. n. 241/1990 colma la
distanza e la separatezza
tradizionali tra
amministrazione e soggetti privati, i quali avevano
come unico punto di
contatto con essa il
provvedimento emanato in modo unilaterale.
Per un verso, infatti, i soggetti
privati fanno per
così dire ingresso nel procedimento attraverso gli
strumenti di
partecipazione. La partecipazione,
come si è chiarito, è utile anche alla stessa
pubblica
amministrazione in una visione di tipo
collaborativo, oltre che di garanzia del
contraddittorio.
Per altro verso, la l. n. 241/1990 favorisce, per
quanto possibile, il
ricorso
a strumenti
consensuali in luogo dell’esercizio unilaterale per
così dire dall’alto di
poteri autoritativi. Prevede
infatti che l’amministrazione possa stipulare
accordi con
gli interessati, anche su proposta di
questi ultimi, per la determinazione del contenuto
discrezionale del provvedimento (art. 11).
Il dialogo tra pubblica
amministrazione e cittadino
e la ricerca di soluzioni consensuali danno
sostanza alla
concezione del diritto amministrativo
«paritario» teorizzata negli anni Settanta del
secolo scorso [Benvenuti 1975, 807 ss.]. Il soggetto
privato si fa in qualche modo
«coamministratore».

2. In secondo luogo viene


attenuata la concezione
individualistica e atomistica dei rapporti tra Stato
e cittadino
propria della concezione liberale
ottocentesca. Infatti, al procedimento possono
partecipare non solo i singoli individui, ma anche i
portatori di interessi diffusi
costituiti in
associazioni o comitati (art. 9 l. n. 241/1990).
L’amministrazione si apre cioè alle
espressioni
della società civile. Soprattutto nei procedimenti
di tipo pianificatorio e
di programmazione ed
esecuzione di grandi opere pubbliche, che
impattano sulle comunità
locali e su interessi
236 come quello ambientale, un ampio
confronto
promosso dall’amministrazione diventa un fattore
di legittimazione e di
accettazione sociale delle
scelte amministrative.
  La residualità del
  segreto
d’ufficio
3. In terzo luogo , la
l. n. 241/1990 supera
in gran parte il principio del segreto
d’ufficio sulle
attività interne che rendeva imperscrutabile
l’operato
dell’amministrazione. La l. n. 241/1990
enuncia infatti il principio di
pubblicità e
trasparenza (art. 1) e pone una disciplina del
diritto di
accesso ai documenti amministrativi
(Capo VI). Essa, come si vedrà, tutela la
riservatezza di
soggetti terzi, ma non riconosce
una riservatezza dell’amministrazione. L’obbligo in
capo ai dipendenti pubblici di mantenere il segreto
d’ufficio, cioè di non divulgare
informazioni
riguardanti l’attività amministrativa di cui
l’impiegato è in
possesso, opera in via residuale,
cioè «al di fuori delle ipotesi e delle modalità
previste dalle norme sul diritto di accesso» (art.
28). Per garantire l’accessibilità
«totale» delle
informazioni concernenti l’organizzazione e
l’attività delle pubbliche
amministrazioni è
previsto inoltre l’obbligo di rendere pubblici molti
atti e documenti
(d.lgs. n. 33/2013) ed è stato
introdotto, come si è visto,
l’accesso
civico.
 
4. In quarto luogo, la l. n. 241/1990 fa cadere
l’anonimato tra il cittadino e gli
apparati
amministrativi visti dall’esterno come un tutto
indistinto spersonalizzato. La
figura del
responsabile del procedimento (artt. 5 ss.)
personalizza infatti il rapporto con i soggetti
privati e consente di attribuire in modo più certo
le responsabilità interne a ciascun
apparato.

5. In quinto luogo, la l. n. 241/1990 cerca di


contrastare la tradizionale
separatezza tra le stesse
pubbliche amministrazioni, ciascuna titolare di
poteri
autonomi, con scarsi canali di
comunicazione reciproca. Sono invece privilegiati
strumenti di collaborazione paritaria per lo
svolgimento di attività di interesse comune
(accordi ex art. 15) e di coordinamento tra
procedimenti paralleli
(conferenza dei servizi ex
artt. 14 ss.). Inoltre esse devono scambiarsi
reciprocamente
gli atti e i documenti da acquisire
ai procedimenti di loro pertinenza. Si sgrava così
il
privato dall’onere di procurarseli autonomamente
e si richiede a quest’ultimo
soltanto
un’autocertificazione (art. 18).
In definitiva , la l. n.   I diritti di cittadinanza
  amministrativa
241/1990, in linea con
i valori espressi dalla
Costituzione, supera il modello autoritario dei
rapporti tra Stato e
cittadino a favore di un
modello che pone l’accento sui «nuovi diritti» di
cittadinanza
amministrativa [Arena 2006], come
quello a un termine certo per il rilascio di un atto
amministrativo, di interazione con il responsabile
del procedimento, di partecipazione,
di accesso ai
documenti amministrativi, di autocertificare il
possesso di determinati
stati e qualità, di
motivazione delle decisioni, ecc. Dopo la l. n.
241/1990, accolta all’epoca come una sorta di
«rivoluzione copernicana», il diritto
amministrativo si presta così a essere ricostruito
attraverso il prisma dei nuovi diritti, oltre che
attraverso quello tradizionale del
potere.
 La l. n. 241/1990 si ispira in definitiva al modello
della
società aperta (open society). Al tempo in cui
fu approvata, essa
fu addirittura culturalmente in
anticipo sui tempi. Ciò spiega le resistenze in sede
attuativa o lo scarso impiego degli strumenti più
237 innovativi (come per esempio gli
accordi) che si
registrano ancor oggi. Un ruolo importante è
stato
svolto dal giudice amministrativo che ha reso
effettivo, per esempio, il diritto
di accesso ai
documenti amministrativi.
2. Le leggi
generali sul
procedimento e la l. n.
241/1990
Il procedimento amministrativo in
molti
ordinamenti ha trovato una disciplina organica in
leggi generali, dalle quali ha
tratto ispirazione la l.
n. 241/1990.
In una prospettiva di comparazione,
conviene
accennare soprattutto alle leggi austriaca e
statunitense che rappresentano due
modelli di
riferimento.
L’esperienza austriaca  fu per molti aspetti
pionieristica. Già nel   L’esperienza austriaca
 
1875, la legge
istitutiva del Tribunale amministrativo supremo
attribuì a quest’ultimo il potere di annullare
gli
atti dell’amministrazione adottati all’esito di una
procedura difettosa
(mangelhaften Verfahrens). In
mancanza di ulteriori
specificazioni legislative, la
giurisprudenza stabilì i casi nei quali essa può
essere
considerata difettosa. Ciò accade, per
esempio, quando l’amministrazione pone in essere
gli atti della sequenza senza rispettare l’ordine
cronologico (come nel caso di un
parere postumo,
acquisito cioè dopo aver assunto la decisione). Nel
1925 venne emanata
una legge generale sul
procedimento, la prima del genere nel panorama
degli ordinamenti
occidentali, che sviluppava il
233 cosiddetto modello processuale del procedimento.
 Quest’ultimo venne infatti
concepito come uno
strumento per tutelare la posizione del privato, in
un’ottica
giustiziale (o paragiurisdizionale), cioè
per garantire gli interessi del cittadino nei
confronti di una pubblica amministrazione che
incorporava in sé, oltre che il valore
della legalità,
anche quello della giustizia, in conformità al
principio della
«sicurezza del diritto»
(Rechtssicherheit). L’articolazione del
procedimento
in atti formali volti a garantire la partecipazione
(Mitwirkung) e il contraddittorio mimava le forme
processuali e
anzi aveva come funzione quella di
anticipare la tutela offerta in sede giurisdizionale.
Non a caso, ancor oggi,
nell’ordinamento austriaco
il livello elevato delle garanzie procedimentali
consente di
semplificare i rimedi propriamente
giurisdizionali. In generale, quanto più completa
ed
efficace è la tutela degli interessi dei privati
nell’ambito del procedimento, tanto
minore è
l’esigenza di un sistema articolato di garanzie
giurisdizionali. In Italia una
discussione di questo
tipo è sorta a proposito delle autorità
indipendenti che esercitano i propri poteri con
modalità
paragiurisdizionali particolarmente
garantiste e per le quali si potrebbe ritenere non
necessaria la previsione di un doppio grado di
giudizio (cioè l’appello al Consiglio di Stato).
Negli Stati Uniti, in un sistema costituzionale
improntato a  una   L’Administrative
  Procedure Act del 1946
separazione più negli Stati Uniti
rigida dei poteri,
l’attribuzione
massiccia di poteri regolatori e amministrativi alle
agenzie federali
negli anni Trenta (all’epoca del
New Deal) determinò, come si è
accennato nel
capitolo I, un
conflitto istituzionale tra presidente
e Corte Suprema. Quest’ultima infatti dichiarò
incostituzionali una serie di leggi interventiste
emanate per superare la crisi
economica
rilanciando gli investimenti. Il conflitto si
ricompose anche in seguito
all’emanazione nel
1946 dell’Administrative Procedure Act che legittimò il
ruolo delle agenzie federali, ma le sottopose a
regole e a controlli stringenti.
 
La legge statunitense configura
anzitutto un
procedimento aperto a un’ampia partecipazione
dei soggetti interessati
secondo il modello della
public interest representation [Stewart
1975, 1715]. Nei
procedimenti di regolazione (rulemaking) la
rappresentanza degli interessi viene assicurata,
come si è accennato nel capitolo II, attraverso il
modello del notice and comment.
Nei  procedimenti di   Rulemaking e
  adjudication
tipo individuale
(adjudication), per
attuare il
principio del giusto
procedimento (due
process of law) vengono
introdotte garanzie del
contraddittorio di tipo paraprocessuale
(trial-type).
Sul piano organizzativo la legge prescrive una
distinzione netta all’interno delle agenzie federali
tra i funzionari che curano
l’istruttoria e l’organo
collegiale che assume la decisione. Così anche
nei
procedimenti in cui il contraddittorio ha una
dimensione verticale si creano le
premesse per una
decisione assunta da un organo, composto da
membri definiti come
administrative law judges, in
qualche misura terzo rispetto
agli uffici istruttori e
alle parti private.
I  l rispetto delle regole
procedurali è assicurato
dalle corti ordinarie (judicial review of
administrative
action) che accertano se l’esercizio del potere sia
avvenuto «without observance of procedure
234 required by law».
Verificano inoltre se le decisioni
siano state «arbitrary,
capricious, an abuse of
discretion», uno standard, quest’ultimo, simile
all’eccesso di potere.
Altri  ordinamenti   Altre esperienze
 
europei come quello
tedesco (nel 1976) e quello spagnolo (nel 1958 e
poi nel 1992) si sono dotati di leggi
generali sul
procedimento molto analitiche. La legge tedesca,
che include anche una disciplina generale
dell’atto
amministrativo e del contratto di diritto pubblico,
contiene, come si è
visto nel capitolo III, una
definizione di procedimento che per il suo
carattere generale può servire a inquadrare
il
concetto in termini di teoria generale.
Nell’ordinamento francese solo nel 2015 è
stato
emanato un Code des relations entre le public e
l’administration
(ordinanza n. 2015-1341 23 ottobre
2015) che prescrive norme
generali sul
procedimento. Nell’ordinamento inglese le regole
sullo svolgimento del
procedimento continuano a
essere di derivazione prevalentemente
giurisprudenziale.
 In Italia, un progetto di legge  fu
elaborato tra il
1944 e il 1947 da una   La genesi della l. n.
  241/1990
commissione
presieduta da Ugo
Forti, eminente
studioso di diritto
amministrativo. Il progetto fu riproposto e
rielaborato in varie
legislature senza però essere
approvato. All’inizio degli anni Ottanta del secolo
scorso
fu intrapreso un nuovo tentativo ad opera
di una commissione presieduta da un altro
illustre
studioso, Mario Nigro. La commissione elaborò un
testo che, arricchito anche di
una parte sulla
disciplina del diritto di accesso ai documenti
amministrativi, ispirò la legge 7 agosto 1990, n. 241
(Nuove norme in
materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti
amministrativi). Il testo è stato più volte
modificato
e integrato anche negli ultimissimi anni (da ultimo
con il d.l. 16 luglio
2020, n. 76) con il risultato di
appesantirne la linearità. La l. n. 15/2005 ha
inserito nel suo corpo, come si è visto,
una
disciplina del provvedimento (Capo IV-bis).
 Rispetto a leggi omologhe, la l. n. 241/1990 è una
legge soprattutto di principi, molti
dei quali già
affermati dalla giurisprudenza amministrativa,
senza la pretesa di porre
una disciplina esaustiva di
tutti gli istituti. Già all’interno della commissione
Nigro
era prevalsa infatti l’idea di non ingessare il
procedimento in schemi generali troppo
rigidi.
La l. n. 241/1990, come si è accennato, non
contiene né una
definizione di procedimento, né
una disciplina organica delle singole fasi in cui
esso
si articola. Disciplina alcuni istituti
fondamentali come il termine del
procedimento,
il responsabile del procedimento, la
partecipazione,
alcuni istituti di semplificazione, il
diritto di accesso, ecc. La l. n. 241/1990 fornisce
però una cornice generale che
integra tutte le leggi
amministrative settoriali che disciplinano, in modo
più o meno
articolato, anche con norme
derogatorie o speciali, i singoli procedimenti.
Il campo di applicazione della l. n. 241/1990 è
individuato  sulla   Il campo di
  applicazione della
l. n.
base di un criterio 241/1990
soggettivo e
oggettivo. Sotto il
profilo soggettivo essa si
applica alle
amministrazioni statali, agli enti pubblici
nazionali e anche alle società con
totale o
prevalente capitale pubblico, limitatamente alle
attività che si sostanziano
nell’esercizio delle
funzioni amministrative (art. 29). Le disposizioni
sul diritto di
accesso hanno un campo di
applicazione che include anche i gestori di pubblici
235 servizi
(art. 23).
I  noltre, le regioni e gli enti locali possono dotarsi
di una
propria disciplina sulla base dei principi
stabiliti dalla l. n. 241/1990. Peraltro, le disposizioni
che regolano i
principali istituti (partecipazione,
responsabile del procedimento, durata, accesso,
conferenza dei servizi, ecc.) sono qualificate come
attinenti ai livelli essenziali
delle prestazioni di cui
all’art. 117, comma 2, lett. m), Cost., rientranti nella
competenza legislativa esclusiva dello Stato (art.
29, commi 2-bis
e 2-ter). Pertanto gli spazi per una
disciplina
regionale difforme sono limitati e, in
ogni caso, questa deve prevedere garanzie non
inferiori a quelle assicurate ai privati dalle
disposizioni statali e se mai può
«prevedere livelli
ulteriori di tutela» (comma 2-quater). Ben
potrebbe, per esempio, una regione introdurre
ipotesi di contraddittorio orale non
previste, come
si vedrà, dalla l. n. 241/1990.
Sotto il profilo oggettivo, la l. n. 241/1990 si applica
nella sua interezza ai
procedimenti di tipo
individuale. Invece, come si è detto più volte, le
disposizioni
sull’obbligo di
motivazione (art. 3,
comma 2), sulla partecipazione al procedimento
(art. 13, comma 1) e sul diritto di accesso (art. 24,
comma 1, lett. c)) non si applicano agli atti
normativi e agli atti
amministrativi generali.
Alcune categorie di procedimenti come quelli
tributari non sono sottoposte alla l. n. 241/1990,
bensì alle regole contenute nelle discipline
speciali
(art. 13, comma 2).
La l. n. 241/1990 delinea un nuovo modello  di
rapporto tra pubblica   Il nuovo modello di
  rapporto tra
cittadino
amministrazione e e amministrazione
cittadini.
 
1. In primo luogo, la l. n. 241/1990 colma la
distanza e la separatezza
tradizionali tra
amministrazione e soggetti privati, i quali avevano
come unico punto di
contatto con essa il
provvedimento emanato in modo unilaterale.
Per un verso, infatti, i soggetti
privati fanno per
così dire ingresso nel procedimento attraverso gli
strumenti di
partecipazione. La partecipazione,
come si è chiarito, è utile anche alla stessa
pubblica
amministrazione in una visione di tipo
collaborativo, oltre che di garanzia del
contraddittorio.
Per altro verso, la l. n. 241/1990 favorisce, per
quanto possibile, il
ricorso
a strumenti
consensuali in luogo dell’esercizio unilaterale per
così dire dall’alto di
poteri autoritativi. Prevede
infatti che l’amministrazione possa stipulare
accordi con
gli interessati, anche su proposta di
questi ultimi, per la determinazione del contenuto
discrezionale del provvedimento (art. 11).
Il dialogo tra pubblica
amministrazione e cittadino
e la ricerca di soluzioni consensuali danno
sostanza alla
concezione del diritto amministrativo
«paritario» teorizzata negli anni Settanta del
secolo scorso [Benvenuti 1975, 807 ss.]. Il soggetto
privato si fa in qualche modo
«coamministratore».

2. In secondo luogo viene


attenuata la concezione
individualistica e atomistica dei rapporti tra Stato
e cittadino
propria della concezione liberale
ottocentesca. Infatti, al procedimento possono
partecipare non solo i singoli individui, ma anche i
portatori di interessi diffusi
costituiti in
associazioni o comitati (art. 9 l. n. 241/1990).
L’amministrazione si apre cioè alle
espressioni
della società civile. Soprattutto nei procedimenti
di tipo pianificatorio e
di programmazione ed
esecuzione di grandi opere pubbliche, che
impattano sulle comunità
locali e su interessi
236 come quello ambientale, un ampio
confronto
promosso dall’amministrazione diventa un fattore
di legittimazione e di
accettazione sociale delle
scelte amministrative.
  La residualità del
  segreto
d’ufficio
3. In terzo luogo , la
l. n. 241/1990 supera
in gran parte il principio del segreto
d’ufficio sulle
attività interne che rendeva imperscrutabile
l’operato
dell’amministrazione. La l. n. 241/1990
enuncia infatti il principio di
pubblicità e
trasparenza (art. 1) e pone una disciplina del
diritto di
accesso ai documenti amministrativi
(Capo VI). Essa, come si vedrà, tutela la
riservatezza di
soggetti terzi, ma non riconosce
una riservatezza dell’amministrazione. L’obbligo in
capo ai dipendenti pubblici di mantenere il segreto
d’ufficio, cioè di non divulgare
informazioni
riguardanti l’attività amministrativa di cui
l’impiegato è in
possesso, opera in via residuale,
cioè «al di fuori delle ipotesi e delle modalità
previste dalle norme sul diritto di accesso» (art.
28). Per garantire l’accessibilità
«totale» delle
informazioni concernenti l’organizzazione e
l’attività delle pubbliche
amministrazioni è
previsto inoltre l’obbligo di rendere pubblici molti
atti e documenti
(d.lgs. n. 33/2013) ed è stato
introdotto, come si è visto,
l’accesso
civico.
 
4. In quarto luogo, la l. n. 241/1990 fa cadere
l’anonimato tra il cittadino e gli
apparati
amministrativi visti dall’esterno come un tutto
indistinto spersonalizzato. La
figura del
responsabile del procedimento (artt. 5 ss.)
personalizza infatti il rapporto con i soggetti
privati e consente di attribuire in modo più certo
le responsabilità interne a ciascun
apparato.

5. In quinto luogo, la l. n. 241/1990 cerca di


contrastare la tradizionale
separatezza tra le stesse
pubbliche amministrazioni, ciascuna titolare di
poteri
autonomi, con scarsi canali di
comunicazione reciproca. Sono invece privilegiati
strumenti di collaborazione paritaria per lo
svolgimento di attività di interesse comune
(accordi ex art. 15) e di coordinamento tra
procedimenti paralleli
(conferenza dei servizi ex
artt. 14 ss.). Inoltre esse devono scambiarsi
reciprocamente
gli atti e i documenti da acquisire
ai procedimenti di loro pertinenza. Si sgrava così
il
privato dall’onere di procurarseli autonomamente
e si richiede a quest’ultimo
soltanto
un’autocertificazione (art. 18).
In definitiva , la l. n.   I diritti di cittadinanza
  amministrativa
241/1990, in linea con
i valori espressi dalla
Costituzione, supera il modello autoritario dei
rapporti tra Stato e
cittadino a favore di un
modello che pone l’accento sui «nuovi diritti» di
cittadinanza
amministrativa [Arena 2006], come
quello a un termine certo per il rilascio di un atto
amministrativo, di interazione con il responsabile
del procedimento, di partecipazione,
di accesso ai
documenti amministrativi, di autocertificare il
possesso di determinati
stati e qualità, di
motivazione delle decisioni, ecc. Dopo la l. n.
241/1990, accolta all’epoca come una sorta di
«rivoluzione copernicana», il diritto
amministrativo si presta così a essere ricostruito
attraverso il prisma dei nuovi diritti, oltre che
attraverso quello tradizionale del
potere.
 La l. n. 241/1990 si ispira in definitiva al modello
della
società aperta (open society). Al tempo in cui
fu approvata, essa
fu addirittura culturalmente in
anticipo sui tempi. Ciò spiega le resistenze in sede
attuativa o lo scarso impiego degli strumenti più
237 innovativi (come per esempio gli
accordi) che si
registrano ancor oggi. Un ruolo importante è
stato
svolto dal giudice amministrativo che ha reso
effettivo, per esempio, il diritto
di accesso ai
documenti amministrativi.
3. Le fasi
del procedimento

Il procedimento si articola in tre


fasi: l’iniziativa,
l’istruttoria e la conclusione.
4. a) L’iniziativa

La prima fase è quella


dell’iniziativa, cioè
dell’avvio del procedimento destinato a sfociare
nel
provvedimento finale produttivo di effetti nella
sfera giuridica del destinatario.
Va posta anzitutto la
distinzione  tra obbligo di
procedere e obbligo   L’obbligo di procedere
  e di
provvedere
di provvedere,
entrambi espressione
del
principio generale della doverosità
dell’esercizio del potere
amministrativo. In base
al primo, l’amministrazione competente è tenuta
ad aprire il procedimento su istanza di parte o
d’ufficio e a porre in essere le
attività previste nella
sequenza procedimentale. Il secondo pone in capo
all’amministrazione il dovere di portarlo a
conclusione, una volta aperto, attraverso
l’emanazione di un provvedimento espresso.
I  due obblighi si deducono
dall’art. 2 l. n. 241/1990.
Infatti, da un lato, il comma 1 fa
riferimento
all’ipotesi in cui il procedimento «consegua
obbligatoriamente a un’istanza»
e a quella in cui
esso «debba essere iniziato d’ufficio». Dall’altro il
medesimo comma
pone il dovere di concludere il
procedimento mediante l’adozione di un
provvedimento
espresso.
Nei  procedimenti su   La domanda o istanza
 
istanza di parte, l’atto
di iniziativa consiste in una domanda o istanza
presentata all’amministrazione da un soggetto
privato interessato al rilascio di un
provvedimento
favorevole (e titolare, come si è visto, di un
interesse legittimo
pretensivo).
  uttavia non ogni istanza del
privato fa sorgere
T
l’obbligo di procedere. Infatti, quest’ultimo sorge
solo in relazione
a sequenze procedimentali
tipiche, cioè in relazione ai procedimenti
amministrativi
disciplinati nelle leggi
amministrative di settore. Si pensi, per esempio, ai
procedimenti autorizzativi previsti dalle leggi che
regolano le attività economiche. Al
di fuori di essi,
lettere, richieste, istanze variamente formulate dai
privati possono
restare senza alcun seguito o
tutt’al più ad esse può esser dato riscontro con le
cosiddette lettere di cortesia, prive di efficacia
provvedimentale.
In alcuni casi il procedimento è
aperto su impulso
di pubbliche amministrazioni che formulano
proposte
all’amministrazione competente. Così,
per esempio, l’amministrazione straordinaria o la
liquidazione coatta amministrativa di un istituto di
credito viene disposta dal
ministero dell’Economia
e delle Finanze su proposta della Banca d’Italia
(artt. 70 e
80 Testo unico delle leggi in materia
238 bancaria e
creditizia).
Nei procedimenti d’ufficio,
l’apertura del
procedimento avviene su iniziativa della stessa
amministrazione
competente a emanare il
provvedimento finale. Essi riguardano per lo più
poteri il cui
esercizio determina un effetto
restrittivo nella sfera giuridica del soggetto privato
destinatario (titolare di un interesse legittimo
oppositivo). Si pensi per esempio
al procedimento
espropriativo o a quello di irrogazione di una
sanzione.
Nei procedimenti d’ufficio si pone
il problema di
individuare con precisione il momento in cui sorge
l’obbligo di
procedere.
Infatti, in molte situazioni
l’apertura del
procedimento avviene all’esito di una serie di
attività cosiddette
preistruttorie , condotte sempre
d’ufficio, dalle quali   Le attività
  preistruttorie
possono emergere
fatti che rendono necessario l’esercizio di un
potere (in
relazione al principio
di doverosità, più
volte ricordato).
  ra le attività preistruttorie
vanno annoverate le
T
ispezioni . Il potere   Le ispezioni
 
di ispezione
attribuito dalla legge ad autorità di vigilanza (come
le soprintendenze dei beni
culturali, la Banca
d’Italia, la CONSOB o l’IVASS) è esercitato nei
confronti di
soggetti privati allo scopo di verificare
il rispetto delle normative di settore.
L’ispezione
(che però può essere disposta anche nella fase
propriamente istruttoria del
procedimento)
consiste in una serie di operazioni di verifica
effettuate presso un
soggetto privato, in
contraddittorio con quest’ultimo, delle quali si dà
atto in un
verbale. L’ispezione può concludersi con
la constatazione che l’attività è conforme alle
norme, oppure può far emergere fatti suscettibili
di integrare una o più violazioni. In
quest’ultimo
caso, sorge in capo all’amministrazione l’obbligo di
aprire un procedimento
volto a contestare la
violazione e che può concludersi con l’adozione di
provvedimenti
ordinatori o sanzionatori. Le
ispezioni possono essere condotte anche
all’interno delle
pubbliche amministrazioni e
spesso la funzione è affidata ad appositi uffici.
  ltre attività preistruttorie includono, variamente
A
in base alle
singole leggi amministrative, accessi a
luoghi, richieste di documenti, assunzione di
informazioni, rilievi segnaletici e fotografici,
analisi di campioni e altre verifiche
tecniche. Così,
per esempio, la legge 24 novembre 1981, n. 689 in
materia di sanzioni
pecuniarie attribuisce agli
organi addetti al controllo
sull’osservanza delle
discipline di settore il potere di compiere una serie
di atti di
accertamento (art. 13) propedeutici
all’apertura del procedimento sanzionatorio con la
contestazione dell’addebito al soggetto che ha
commesso l’infrazione.
Lo svolgimento delle attività
preistruttorie e
l’avvio dei procedimenti d’ufficio possono avvenire
anche in seguito a
denunce , istanze o esposti di
soggetti
privati.   Le denunce e gli
  esposti
Questi atti tuttavia
non fanno sorgere in
modo automatico il dovere
dell’amministrazione
di aprire il procedimento nei confronti del
soggetto denunciato.
Rientra infatti nella
discrezionalità dell’amministrazione valutarne la
serietà e la
fondatezza. Solo in rari casi la
giurisprudenza, in relazione a esigenze di giustizia
sostanziale e facendo leva sul dovere di correttezza
e di buona amministrazione,
riconosce una pretesa
giuridicamente qualificata in capo al soggetto
privato a che
l’amministrazione eserciti un potere
d’ufficio nei confronti di un terzo (Cons. St.,
Sez.
239 VI, 28 aprile 2021, n. 3430).
 Per esempio, in materia di tutela
del consumatore,
riferita in particolare alla pubblicità ingannevole e
alle pratiche
commerciali scorrette, i privati
possono presentare all’Autorità garante della
concorrenza e del mercato un’istanza di intervento
affinché essa eserciti i poteri
inibitori. L’Autorità,
prima di aprire il procedimento formale
contestando la violazione
della normativa in
materia, svolge indagini preistruttorie che si
possono concludere con
provvedimenti
preistruttori (irricevibilità, archiviazione
dell’istanza) e la eventuale
loro comunicazione ai
soggetti interessati (artt. 4 e 5 del regolamento
approvato
dall’Autorità garante della concorrenza
e del mercato con delibera
1 aprile 2015, n. 25411).
o

Nel diritto europeo della


concorrenza trova una
protezione particolare l’impresa che denuncia un
illecito. La
Commissione UE deve infatti valutare
se aprire d’ufficio un procedimento sanzionatorio
nei confronti dell’impresa o delle imprese
concorrenti. La Commissione deve motivare nel
caso in cui ritenga di non dar seguito all’esposto e,
se il procedimento viene avviato,
il denunciante ha
diritto a parteciparvi.
L’amministrazione   La comunicazione di
  avvio del
 deve dare procedimento
comunicazione
dell’avvio del
procedimento anzitutto
al soggetto o ai soggetti
destinatari diretti del provvedimento, cioè a coloro
«nei
confronti dei quali il provvedimento finale è
destinato a produrre effetti diretti»
(art. 7 l. n.
241/1990). La comunicazione viene inviata anche
a
eventuali altri soggetti che per legge devono
intervenire nel procedimento e, più in
generale, a
soggetti individuati o facilmente individuabili che
possono subire un
pregiudizio (da intendersi in
senso generico come pregiudizio anche di fatto)
dal
provvedimento, sempre che non sussistano
ragioni particolari di impedimento. Per
quest’ultimo gruppo di soggetti, la l. n. 241/1990
individua criteri piuttosto elastici.
  a comunicazione deve indicare
l’amministrazione
L
competente (incluso il suo domicilio digitale),
l’oggetto del
procedimento, il nome del
responsabile del procedimento, il termine di
conclusione del procedimento, l’ufficio in cui si
può prendere visione degli atti (art.
8).
Nei procedimenti d’ufficio la comunicazione di
avvio del
procedimento è funzionale a garantire il
contraddittorio. L’omessa
comunicazione rende
annullabile il provvedimento finale, ma, come si è
già sottolineato,
l’art. 21-octies, comma 2, l. n.
241/1990 ha ristretto i casi in cui ciò può avvenire.
Peraltro, secondo parte della
giurisprudenza,
l’omessa comunicazione rende illegittimi anche i
provvedimenti vincolati
poiché la partecipazione
può essere utile per l’accertamento e la
valutazione dei
presupposti sui quali si basa il
provvedimento finale (Cons. St., Sez. III, 14
settembre
2021, n. 6288).
5. b) L’istruttoria

L’istruttoria del
procedimento ha lo scopo di
accertare i fatti e di acquisire gli interessi rilevanti
ai
fini della determinazione finale.
I fatti da accertare riguardano i presupposti e i
requisiti richiesti
dalla norma di conferimento del
240 potere ovvero, secondo la l. n. 241/1990, «le
condizioni di
ammissibilità, i requisiti di
legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti
per
l’emanazione del provvedimento» valutati dal
responsabile del
procedimento (art. 6, comma 1,
lett. a)).
Gli interessi da acquisire entrano
in gioco
esclusivamente nei procedimenti relativi a poteri
propriamente discrezionali,
nei quali, come si è
visto, l’interesse pubblico cosiddetto primario,
desumibile dalla
norma di conferimento del
potere, deve essere valutato e ponderato
unitamente agli
interessi secondari, pubblici e
privati.
L’istruttoria è retta dal principio inquisitorio.
Infatti,  secondo l’art.   Il principio
  inquisitorio
6, comma 1, lett. b), l.
n. 241/1990 il
responsabile
del procedimento «accerta d’ufficio i
fatti, disponendo il compimento degli atti
all’uopo
necessari». Quest’ultimo effettua dunque di
propria iniziativa le
indagini necessarie, senza
essere vincolato alle allegazioni dei soggetti privati
e ciò
perché l’esercizio dei poteri avviene per
curare interessi pubblici.
 Al contrario di quanto accade nell’istruttoria
processuale,
caratterizzata da una tipizzazione per
legge dei mezzi istruttori,
nel procedimento
amministrativo l’amministrazione può compiere
tutti gli accertamenti
necessari con le modalità
ritenute più idonee. L’art. 6, comma 1, lett. b)
menziona tra gli atti istruttori
il rilascio di
dichiarazioni, l’esperimento di accertamenti
tecnici,
le ispezioni
e l’ordine di esibizioni
documentali. Il responsabile del procedimento
deve anche
compiere le verifiche della
documentazione prodotta dalle parti e, in
particolare, della
veridicità dei dati autocertificati
dall’interessato.
Nella scelta dei mezzi istruttori
l’amministrazione
deve attenersi ai principi di efficienza e di
economicità, evitando,
come si è accennato, di
aggravare il procedimento al di là di quanto
necessario (art. 1, comma 2, l. n. 241/1990).
Peraltro, alcuni atti istruttori sono richiesti
talvolta dalle leggi
che disciplinano i singoli
procedimenti. Questo è il caso dei pareri
obbligatori
(art. 16 l. n. 241/1990) e delle
valutazioni
tecniche (art. 17) di competenza di
amministrazioni diverse da quella
procedente.
I  pareri, espressione   I tipi di parere
 
della funzione
consultiva, possono essere obbligatori o
facoltativi.
I primi sono previsti dalla legge in relazione a
specifici procedimenti e
l’omessa acquisizione
rende illegittimo il provvedimento finale.
L’amministrazione
competente a esprimere il
parere deve rilasciarlo entro un termine di 20
giorni. In caso
di ritardo, l’amministrazione
titolare della competenza decisionale può
procedere
indipendentemente dall’espressione del
parere (art. 18, comma 2, ma il comma 3 prevede
una serie di eccezioni). I pareri facoltativi, invece,
sono richiesti ove
l’amministrazione procedente
ritenga possano essere utili ai fini della decisione.
 
In casi non frequenti, i pareri
possono essere, oltre
che obbligatori, anche vincolanti:
l’amministrazione che li riceve
non può assumere
una decisione difforme dal contenuto del parere,
neppure motivando le
ragioni in relazione alle
quali essa ritiene di discostarsi (come può avvenire
invece
nel caso di pareri soltanto obbligatori). Il
solo potere che residua talora in capo
all’amministrazione procedente è quello di
rinunciare a emanare l’atto finale.
Come già osservato, i pareri
obbligatori
costituiscono una modalità di coordinamento tra
amministrazioni che curano
interessi pubblici
distinti, ma con ambiti di interferenza. Le
241 valutazioni tecniche
richieste a organismi dotati di
particolari competenze non
giuridiche sono
soggette a un regime che ricalca in parte quello dei
pareri (art. 17).
L’art. 17-bis  della
l. n.   Il silenzio-assenso tra
  amministrazioni
241/1990, introdotto
dall’art. 3 della l. n.
124/2015, allo scopo di accelerare i
tempi di
conclusione dei procedimenti, introduce un
meccanismo inedito di
silenzio-assenso tra
amministrazioni. Stabilisce termini stringenti per
il rilascio di
assensi, concerti e nullaosta di
amministrazioni statali (di regola 30 giorni),
decorsi
i quali l’atto «si intende acquisito» (comma
3) e in ogni caso se l’atto è emanato in
ritardo esso
è inefficace (art. 2, comma 8-bis). Il termine può
essere interrotto nel caso in cui l’amministrazione
che deve rendere l’assenso, il
concerto
o nullaosta
rappresenti esigenze istruttorie o richieste di
modifica motivate. Il
termine è di 90 giorni nel
caso in cui l’amministrazione sia preposta alla
tutela
ambientale, paesaggistico-territoriale, dei
beni culturali e della salute dei cittadini
(comma
3).
I  noltre, in caso di mancato
accordo tra
amministrazioni statali la questione viene rimessa
al presidente del
Consiglio dei ministri «che decide
sulle modifiche da apportare allo schema di
provvedimento» (comma 2). Il silenzio-assenso tra
amministrazioni non vale nel caso in
cui il diritto
dell’Unione europea richieda l’adozione di
provvedimenti espressi (comma
4). L’art. 17-bis
non chiarisce peraltro se questo tipo di
silenzio-
assenso può essere annullato d’ufficio o revocato.
La  tendenza più   L’acquisizione d’ufficio
  di atti
e documenti
recente in tema di
adempimenti
istruttori è di sgravare per quanto
possibile i
soggetti privati da oneri di documentazione,
imponendo all’amministrazione
di acquisire
d’ufficio i documenti attestanti atti, fatti, qualità e
stati soggettivi
necessari per l’istruttoria (art. 18,
comma 2, l. n. 241/1990). Ai privati può essere
richiesta soltanto l’autocertificazione, che, come si
è accennato, consiste nella
possibilità per i soggetti
privati di dichiarare sotto propria responsabilità il
possesso di determinati stati e qualità. Si è
addirittura stabilito per legge che i
certificati
rilasciati da un’amministrazione non hanno valore
se prodotti presso altre
amministrazioni e ciò al
fine di costringerle allo scambio reciproco delle
informazioni
necessarie.
  ’attività istruttoria può essere effettuata anche
L
con modalità
informali. L’art. 11 l. n. 241/1990
prevede, per esempio, che per
favorire la
conclusione di accordi integrativi o sostitutivi del
provvedimento può
essere predisposto un
calendario di incontri ai quali sono invitati,
separatamente o
contestualmente, il destinatario
del provvedimento ed eventuali controinteressati
(comma
1-bis). Inoltre, qualora sia opportuno un
esame contestuale dei
vari interessi pubblici
coinvolti in un procedimento, l’amministrazione
procedente può
indire una conferenza di
servizi
istruttoria (art. 14, comma 1) nella quale ciascuna
amministrazione
interessata può esprimere le
proprie valutazioni. Emerge da queste disposizioni
una
visione di un’amministrazione aperta a un
confronto informale anche orale con i privati
e con
altre amministrazioni.
Le attività istruttorie compiute e
le risultanze delle
medesime vengono verbalizzate. In quanto
provenienti da un’autorità
amministrativa i verbali
fanno piena prova fino a querela di falso dei fatti
242 che in essi
risultino menzionati.
L’istruttoria è aperta alla partecipazione dei
soggetti che abbiano   La partecipazione
 
 diritto di intervenire
e partecipare
al procedimento (art. 10 l. n.
241/1990). Ad essi l’amministrazione è tenuta
a
comunicare l’avvio del procedimento. Hanno
facoltà di intervenire anche i portatori di
interessi
pubblici o privati, nonché i portatori di interessi
diffusi
costituiti in associazioni o comitati, ai quali
possa derivare un pregiudizio dal
provvedimento
(art. 9).
 La partecipazione si sostanzia in
due diritti. Il
primo è quello di prendere visione degli atti del
procedimento
(cosiddetto accesso
procedimentale) non esclusi dal diritto di accesso
ai sensi delle
norme generali che saranno
esaminate più avanti (art. 10, comma 1, lett. a)). Il
secondo consiste nella
possibilità di presentare
memorie scritte che illustrano il punto di vista del
soggetto
interessato e documenti (lett. b)). Nel
loro insieme essi concorrono a fondare il
diritto
alla partecipazione informata.
L’amministrazione ha l’obbligo di
valutare i
documenti e le memorie presentate, ove pertinenti
all’oggetto del
procedimento (lett. b)), facendone
menzione nella motivazione del provvedimento.
Quest’ultimo, come già visto, deve comunque dar
conto delle «risultanze
dell’istruttoria» (art. 3 l. n.
241/1990).
Sotto il profilo organizzativo
l’istruttoria è affidata
al responsabile  del   Il responsabile del
  procedimento
procedimento,
assegnato di volta in
volta dal dirigente responsabile della struttura
subito dopo
l’apertura del procedimento. Il suo
nominativo viene comunicato o reso disponibile su
richiesta a tutti i soggetti interessati (art. 5 l. n.
241/1990).
 Come già anticipato, il
responsabile del
procedimento consente al cittadino di avere un
interlocutore certo con
il quale confrontarsi e
rende meno spersonalizzato il rapporto con gli
uffici.
I compiti del responsabile del
procedimento sono
indicati nell’art. 6 l. n. 241/1990 e includono tutte
le attività
propedeutiche all’emanazione del
provvedimento finale e l’adozione «di ogni misura
per
l’adeguato e sollecito svolgimento
dell’istruttoria» (lett. b)).
Il responsabile del procedimento
ha anche il
potere di chiedere la rettifica di dichiarazioni o
istanze erronee o
incomplete (lett. b)). Emerge qui
una funzione di supporto nei confronti del
soggetto
privato che è spesso sfornito delle
conoscenze e dell’esperienza necessaria. Ciò in
linea con la visione collaborativa dei rapporti tra
amministrazione e cittadino.
Inoltre, allo scopo di prevenire
fenomeni di
corruzione, il responsabile del procedimento (così
come i titolari degli
uffici competenti ad adottare i
pareri, le valutazioni tecniche, gli atti
endoprocedimentali e il provvedimento finale)
deve astenersi quando si trovi in
«conflitto di
interessi», anche potenziale (art. 6-bis, introdotto
dalla l. n. 190/2012).
Nei  procedimenti a   Il preavviso di
rigetto
 
istanza di parte il
responsabile del procedimento (o l’autorità
competente a emanare il provvedimento) è tenuto
ad attivare una fase istruttoria
supplementare nei
casi in cui, come si è accennato, sulla base degli
elementi già
acquisiti sia orientato a proporre o ad
adottare un provvedimento di rigetto
dell’istanza
(art. 10-bis
l. n. 241/1990). Al soggetto che l’ha
proposta, e che dunque
ha dato avvio al
procedimento, deve essere data comunicazione dei
motivi ostativi
all’accoglimento della domanda.
Entro 10 giorni l’interessato può presentare
243 osservazioni scritte, eventualmente corredate da
altri
documenti, nel tentativo di superare le
obiezioni formulate dall’amministrazione.
L’eventuale provvedimento finale negativo che
rigetta l’istanza deve dar conto, come si
è
accennato, delle ragioni del mancato accoglimento
delle osservazioni eventualmente
presentate.
I  n caso di annullamento del
provvedimento
negativo l’amministrazione in sede di emanazione
di un nuovo atto
sostitutivo di quello annullato
«non può addurre per la prima volta motivi
ostativi già
emergenti dall’istruttoria del
provvedimento annullato» (comma 1, come
modificato
dall’art. 12, comma 1, lett. e), della legge
11 settembre 2020, n. 120). Una siffatta
preclusione
dovrebbe costituire un incentivo a riversare nel
provvedimento tutte le
risultanze istruttorie e ciò
a garanzia del privato di fronte a rischio di dinieghi
ripetuti di provvedimenti favorevoli fondati su
ragioni ostative non esplicitate in
precedenza.
Il preavviso di
rigetto si iscrive nella tendenza del
legislatore a favorire l’avvio di
attività da parte dei
privati. Il diniego di un atto autorizzativo è infatti
concepito
per così dire come extrema ratio.
Di norma il   Gli esiti
dell’istruttoria
 
res ponsabile del
procedimento non adotta il provvedimento
finale,
ma trasmette tutti gli atti, corredati da una
relazione istruttoria, all’organo
competente a
emanare il provvedimento finale. Quest’ultimo si
deve attenere alle
risultanze dell’istruttoria. Può
eccezionalmente discostarsene, ma, come si è
anticipato, deve indicarne le ragioni nel
provvedimento finale (art. 6, comma 1, lett. e)).
Queste regole tendono a
valorizzare la figura del
responsabile del procedimento. Il suo operato non
può essere
infatti sconfessato senza che la
dialettica interna all’amministrazione emerga in
modo
formale nella motivazione dell’atto.
 
6. c) La conclusione: il termine,
il
silenzio, gli accordi
Conclusa l’istruttoria,
l’organo competente a
emanare il provvedimento assume la decisione
sulla base del
materiale acquisito al procedimento
e, se il potere ha natura
discrezionale, della
ponderazione degli interessi.
L’art. 2 l. n. 241/1990, come si è detto, pone in capo
all’amministrazione l’obbligo di concludere il
procedimento mediante l’adozione di un
provvedimento espresso. Volendo ricorrere a
un’immagine, se il procedimento è una sorta
di
catena di montaggio, il provvedimento è il
prodotto finito. Né il procedimento può
essere
indebitamente sospeso, rallentato o deviato dalla
sua meta naturale, cioè il
provvedimento
amministrativo. Il cosiddetto arresto
procedimentale è legittimo solo in
casi eccezionali.
Il provvedimento può essere
emanato, a seconda
dei casi, dal titolare di un organo individuale
(come il sindaco o il
ministro), oppure da un
organo collegiale (giunta comunale o provinciale,
consiglio di
amministrazione di un ente pubblico,
ecc.).
Accanto agli atti semplici  (o monostrutturati)
sono frequenti gli atti   Gli atti
  pluristrutturati: il
complessi (o concerto
pluristrutturati). Tale
è, per esempio, specie
nei rapporti tra ministeri, il
decreto
interministeriale nel quale converge la volontà
paritaria di una pluralità di
amministrazioni. Si
244 parla di concerto allorché il
ministero competente
a emanare il provvedimento (autorità
concertata)
deve prima inviare al ministero concertante lo
schema di provvedimento per
ottenerne l’assenso
o proposte di modifica. L’atto finale è sottoscritto
da entrambe le
autorità.
  n’altra decisione
pluristrutturata è l’intesa  che
U
interviene   L’intesa «debole» e
  «forte»
soprattutto nei
rapporti tra Stato e
regioni. Essa può essere di tipo debole, quando il
dissenso regionale
può essere motivatamente
superato dallo Stato all’esito del confronto e ciò al
fine di
evitare effetti paralizzanti, oppure in senso
forte, nei casi in cui sia indispensabile
il doppio
consenso. Anche in questo caso la mancata intesa
può essere talora superata
investendo il Consiglio
dei ministri. Ciò accade per esempio con riguardo
all’intesa
regionale in merito alla localizzazione
delle reti energetiche nazionali (art. 1, comma
8-
bis, della legge 23 agosto 2004, n. 239).

  a determinazione finale, così


come ogni atto della
L
sequenza procedimentale, è assunta sulla base
delle regole vigenti
al momento in cui essa è
adottata. Al procedimento si applica infatti il
principio, già
richiamato, del tempus regit actum: le
modifiche legislative
intervenute a procedimento
avviato trovano immediata applicazione, a meno
che non si sia
in presenza di situazioni giuridiche
ormai consolidate o di fasi procedimentali già del
tutto esaurite.
Con riferimento alla fase
decisionale, i temi
principali da approfondire sono il termine del
procedimento e i rimedi in caso di mancato
rispetto del termine; il
silenzio
della pubblica
amministrazione; l’accordo come modalità
consensuale alternativa al
provvedimento
unilaterale.

c1) Il provvedimento deve essere emanato entro


il
termine  stabilito per   Il termine del
  procedimento
lo specifico
procedimento. L’art.
2 pone una disciplina dei termini di conclusione
dei procedimenti che è generale e
completa:
generale, perché essa si applica là dove manchino
disposizioni legislative
speciali in tema di termini
di conclusione del procedimento; completa, perché
l’applicazione della medesima vale per tutte le
fattispecie di procedimenti.
 L’art. 2 rimette anzitutto a
ciascuna pubblica
amministrazione, nei casi in cui i termini dei
procedimenti da essa
curati non siano già stabiliti
per legge, l’obbligo di individuarli per ciascun tipo
di
procedimento con propri atti di regolazione e di
renderli pubblici. Di regola la durata
massima non
deve superare i 90 giorni, in ragione della
sostenibilità sotto il profilo
organizzativo, della
natura degli interessi pubblici coinvolti e della
complessità del
procedimento (commi 3 e 4). Le
amministrazioni godono dunque di una certa
discrezionalità.
Se le amministrazioni non
provvedono a porre una
propria disciplina, si applica un termine generale
residuale di
30 giorni (comma 2). La sua brevità
funge da stimolo per le amministrazioni a
individuare con le modalità sopra viste termini di
durata più congrua.
Le amministrazioni sono tenute a
pubblicare sul
sito istituzionale anche i tempi effettivi di
conclusione dei
procedimenti di maggior impatto
comparandoli con i termini previsti dalla
normativa
vigente (comma 4-bis introdotto dalla l.
n. 120/2020), ma
l’attuazione della disposizione
(forse un po’ velleitaria) richiede l’emanazione di
245 un
provvedimento attutivo non ancora emanato.
In  definitiva, l’art. 2   Il principio di certezza
  del
tempo dell’agire
l. n. 241/1990 dà amministrativo
corpo al principio
della certezza
del tempo dell’agire amministrativo.
Questo principio risponde sia all’esigenza
dell’amministrazione alla cura sollecita
dell’interesse pubblico di cui è portatrice,
sia a
quella dei soggetti privati che dovrebbero poter
programmare le proprie attività
facendo
affidamento sulla tempestività nell’adozione degli
atti amministrativi necessari
per intraprenderla.
 Il termine può essere sospeso per
un periodo non
superiore a 30 giorni in caso di necessità di
acquisire informazioni o
certificazioni (comma 7).
Accanto ai termini relativi alla conclusione del
procedimento
individuati in base ai criteri posti
dall’art. 2 l. n. 241/1990 (termini finali), le leggi e i
regolamenti che disciplinano i singoli
precedimenti prevedono talora termini
endoprocedimentali relativi ad adempimenti posti
a carico dei soggetti privati o
relativi ad atti
attribuiti alla competenza di altre amministrazioni
(termini
endoprocedimentali). Per esempio, i
termini per l’acquisizione di pareri e valutazioni
tecniche sono fissati in via generale
rispettivamente in 20 e 90 giorni
dalla stessa l. n.
241/1990 (artt. 16 e 17).
I  termini finali ed   Termini ordinatori e
  perentori
endoprocedimentali
hanno di regola
natura ordinatoria, perché la
loro scadenza non fa
venir meno il potere di provvedere, né rende
illegittimo (o nullo)
il provvedimento finale
emanato in ritardo. Solo nei casi in cui la legge
qualifichi in
modo espresso il termine come
perentorio e a pena di decadenza il provvedimento
tardivo
è considerato viziato. Così, per esempio,
l’Autorità garante della concorrenza e del
mercato
può vietare un’operazione di concentrazione tra
imprese entro un termine di 45
giorni dalla
comunicazione, definito espressamente come
perentorio (art. 16, comma 4, legge 10 ottobre
1990, n. 287). In materia
di espropriazione, la
dichiarazione di pubblica utilità, che costituisce il
presupposto
del decreto di espropriazione, indica
un termine entro il quale quest’ultimo deve essere
emanato (in mancanza di indicazione il termine è
di cinque anni): il suo decorso
determina
l’inefficacia della dichiarazione con effetti
caducanti su eventuali atti del
procedimento
emanati successivamente (art. 13, comma 6, d.p.r. 8
giugno 2001, n. 327).
 Peraltro, in alcune fattispecie di
poteri che
incidono negativamente su diritti di soggetti
privati, la natura perentoria
del termine si ricava in
via interpretativa. È questo per esempio il caso, in
materia di
beni culturali, del potere dello Stato di
esercitare la prelazione allorché un privato
intenda
vendere un bene culturale a un altro privato.
Questo potere deve essere
esercitato entro 60
giorni dalla denuncia dell’atto di trasferimento del
bene tra
privati (art. 61 d.lgs. 22 gennaio 2004, n.
42).
I termini previsti per gli
adempimenti a carico dei
soggetti privati nell’ambito del procedimento
(come per esempio
quello di 10 giorni previsto
dall’art. 10-bis per controdedurre ai
motivi ostativi)
hanno invece di regola natura più cogente: il loro
decorso fa decadere
il soggetto privato dalla
facoltà di porli in essere o in caso di adempimento
tardivo
consente all’amministrazione di non
tenerne conto. Ciò è soprattutto vero per i
procedimenti di tipo concorsuale nei quali deve
essere garantita la par
condicio.
Da ultimo, allo scopo di
incentivare il rispetto dei
termini previsti per una serie di provvedimenti e di
atti
procedimentali è stato previsto che se essi
sono adottati dopo la scadenza sono
inefficaci
246 (comma 8-bis, dell’art. 2 della
l. n. 241/1990,
introdotto dall’art. 12, comma 1, lett. a)
della l. n.
120/2020). Questo regime vale, per esempio, per il
divieto di prosecuzione
di attività di cui all’art. 19,
comma 3, e per i provvedimenti sottoposti al
regime del
silenzio-assenso ex art. 20.
Oltre all’inefficacia prevista
dalla disposizione  da
ultimo citata, il   Le conseguenze del
  ritardo
mancato rispetto
del
termine di
conclusione del procedimento può provocare
conseguenze di vario tipo. Può
far sorgere una
responsabilità di tipo disciplinare nei confronti del
funzionario o una
responsabilità di tipo
dirigenziale nei confronti del vertice della
struttura (art. 2, comma 9, l. n. 241/1990). Può
costituire un elemento
di valutazione al fine di
attribuire la retribuzione di risultato. Nei casi più
patologici il ritardo può essere fonte di
responsabilità penale (art. 328 cod. pen. che
disciplina il reato di rifiuto o
omissione di atti
d’ufficio).
 Il mancato rispetto del termine
può costituire
anche motivo  per   Il potere sostitutivo
 
l’esercizio del potere
sostitutivo da parte del dirigente sovraordinato
(artt. 16, comma 1, lett. e), e 17, comma 1, lett. d),
d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165).
I  l potere sostitutivo è disciplinato anche dall’art. 2
l. n. 241/1990. In primo luogo, l’organo di governo
di ciascuna amministrazione individua tra le figure
apicali il soggetto (di regola un
dirigente) titolare
del potere sostitutivo (comma 9-bis). In
secondo
luogo, in caso di ritardo, il privato può rivolgersi al
titolare del potere
sostitutivo che deve concludere
il procedimento entro un termine pari alla metà di
quello originariamente previsto attraverso le
strutture competenti o nominando un
commissario
ad acta (comma 9-ter). Il
potere
sostitutivo può essere esercitato anche d’ufficio
(comma
9-ter come modificato dalla l. n. 108/2021).
In terzo luogo,
entro il 30 gennaio di ogni anno il
titolare del potere sostitutivo comunica all’organo
di governo i procedimenti nei quali non è stato
rispettato il termine (comma
9-quater) e ciò al fine
di sensibilizzarlo e indurlo a
intraprendere le
iniziative necessarie per risolvere questo tipo di
problema. Infine, i
provvedimenti su istanza di
parte rilasciati in ritardo devono indicare sia il
termine
previsto dalla legge, sia il termine
effettivamente impiegato (comma
9-quinquies).
L’inosservanza dolosa o colposa del termine di
conclusione  del   Il danno da ritardo e
  l’indennizzo
procedimento può
anche far sorgere,
come si vedrà meglio
nel capitolo VII, l’obbligo
di
risarcire il danno cagionato al privato (art. 2-bis
l.
n. 241/1990). Il danno da ritardo è
stato definito
dalla giurisprudenza come «comportamento che
genera incertezza» che
prescinde del tutto dalla
spettanza o meno del bene della vita sotteso
all’interesse legittimo
(Cons. St., Ad. Plen., 4
maggio 2018, n. 5). Il tempo dell’agire
amministrativo
costituisce dunque un «bene della
vita» autonomo da quello correlato all’esercizio del
potere. Per esempio, anche un’autorizzazione
legittima ma rilasciata in ritardo può
provocare
all’impresa un danno causato dal mancato utilizzo
delle attrezzature e
maestranze per il periodo di
tempo intercorrente dalla data di scadenza del
termine per
l’emanazione dell’atto a quella della
sua effettiva emanazione.
 Il comma
1-bis dell’art. 2-bis prevede, anche a
prescindere dalla sussistenza dei presupposti per il
risarcimento, il riconoscimento di
un indennizzo
automatico
per il ritardo alle condizioni e con le
modalità stabilite da un
regolamento (peraltro mai
247 emanato).
La monetizzazione del ritardo
nella conclusione
dei procedimenti potrebbe costituire un incentivo
al rispetto dei
termini specie se l’amministrazione
si rivalesse sui dipendenti a titolo di
responsabilità
amministrativa.

c2) La conclusione del procedimento con


l’emanazione di un provvedimento espresso è
l’evenienza prevista come fisiologica dalla
l. n.
241/1990. Tuttavia può accadere che
l’amministrazione
non concluda il procedimento
entro il termine previsto e la situazione di inerzia
si
protragga nel tempo. Si pone così la questione
del silenzio della pubblica
amministrazione.
Fino  ad anni recenti   Il
silenzio-
  inadempimento
il regime ordinario
del silenzio della
pubblica amministrazione di
fronte a istanze o
domande presentate da soggetti privati è stato
quello del cosiddetto
silenzio-inadempimento (o
con terminologia più risalente ed equivoca
silenzio-rifiuto).
In questi casi l’inerzia mantenuta
oltre il termine assume solo il significato di
inadempimento dell’obbligo posto dall’art. 2 l. n.
241/1990 di concludere il procedimento con un
provvedimento espresso di accoglimento o di
rigetto dell’istanza.
  ’inadempimento di tale obbligo
non fa venir
L
meno il potere-dovere di provvedere, considerata,
come si è visto, la
natura di regola ordinatoria dei
termini. Ciò significa che l’amministrazione può
emanare il provvedimento anche in ritardo, ferma
restando l’eventuale responsabilità per
il danno
cagionato al privato che aveva confidato nel
rispetto del termine.
Se il termine non è rispettato il privato interessato
può proporre al
giudice amministrativo, come si
vedrà meglio nel capitolo XIV, l’azione avverso il
silenzio (art. 31 Codice del processo
amministrativo) e l’azione di
adempimento (art.
34, comma 1, lett. c)).
In realtà, per reagire ai ritardi
e al silenzio
dell’amministrazione il privato ha a disposizione,
come si è già visto,
una serie di rimedi spesso
macchinosi e poco efficaci.
Per  risolvere il   Il silenzio-diniego e il
  silenzio-assenso
problema, la l. n.
241/1990 (e altre leggi
amministrative) prevede due
regimi di silenzio
cosiddetto significativo: il silenzio-diniego (o
rigetto) e il
silenzio-assenso (o accoglimento)(art.
20).
I  l decorso del termine di
conclusione del
procedimento produce un effetto giuridico ex lege,
nel primo caso di diniego dell’istanza, nel secondo
caso di accoglimento della medesima.
In entrambi
i casi il procedimento si conclude cioè, come si
dice talora, con un
provvedimento tacito. L’atto di
assenso eventualmente emanato dopo la scadenza
del
termine è affetto da inefficacia (art. 2, comma
8-bis, l. n. 241/1990).
Le fattispecie (non frequenti) di silenzio avente
valore di diniego
sono tassativamente stabilite
dalla legge. Per esempio, la l. n. 241/1990 ne
prevede una a proposito del diritto di
accesso ai
documenti
amministrativi. Infatti, «decorsi
inutilmente 30 giorni dalla richiesta,
questa si
intende respinta» (art. 25, comma 4). Contro il
diniego tacito può essere
proposto ricorso
secondo le normali regole vigenti per il processo
amministrativo.
Le ipotesi legislative di
silenzio-assenso sono
molto più numerose, in linea con la tendenza a
rimuovere gli
ostacoli alle attività dei privati.
Il campo di applicazione del
silenzio-assenso
definito  dall’art. 20,   Il campo di
  applicazione del
commi 1 e 3, è silenzio-assenso
individuato in base
ad alcuni
criteri di
tipo negativo. Il regime non vale anzitutto nei casi
di provvedimenti
autorizzatori (di tipo vincolato)
sostituiti dalla segnalazione certificata d’inizio di
248 attività di cui all’art. 19, soggetti, come si è visto, a
un
regime di liberalizzazione. Non vale inoltre per
i procedimenti che riguardano un elenco
piuttosto
lungo di interessi pubblici (comma 4): patrimonio
culturale e paesaggistico,
ambiente, difesa
nazionale, pubblica sicurezza, ecc. Non vale in
terzo luogo neppure nei
casi in cui la normativa
europea impone l’adozione di un provvedimento
formale. Il
diritto europeo, infatti, come ha avuto
occasione di chiarire anche la giurisprudenza
europea, è contrario a un’applicazione troppo
estesa del meccanismo del
silenzio-assenso,
soprattutto là dove entrano in gioco interessi
pubblici ritenuti
prioritari (come per esempio
l’ambiente) che potrebbero subire pregiudizi a
causa
dell’effetto automatico abilitante derivante
dal mero decorso del termine. Non vale in
quarto
luogo nei casi tassativamente previsti per legge di
silenzio-rigetto. Non vale
infine per i procedimenti
individuati con decreto del presidente del
Consiglio dei
ministri.
  er ridurre le incertezze
applicative, un elenco di
P
casi di silenzio-assenso è ora contenuto nel d.lgs.
25 novembre 2016, n. 222 nel quale, come già
accennato, sono individuati anche i casi di
segnalazione certificata d’inizio di
attività (SCIA).
I casi di esclusione del regime
del silenzio-assenso
riguardano in definitiva molti procedimenti che
continuano dunque a
ricadere nel regime del
silenzio-inadempimento.
L’amministrazione può evitare che
si formi il
silenzio-assenso non soltanto provvedendo nel
termine previsto, ma anche
indicendo entro 30
giorni dalla presentazione dell’istanza una
conferenza di
servizi (comma 2). Può essere
questo un modo agevole per
l’amministrazione di
guadagnare tempo.
Il silenzio-assenso    Il valore
  provvedimentale del
ha, come si è
chiarito, silenzio-assenso
valore
provvedimentale. Ciò
determina due conseguenze: il silenzio può essere
oggetto di provvedimenti di autotutela sotto forma
di revoca e di
annullamento
d’ufficio (art. 20,
comma 3, che richiama gli artt.
21-quinquies e 21-
nonies); può essere
impugnato innanzi al giudice
amministrativo, per esempio da un soggetto terzo
che vuol
contrastare l’avvio dell’attività da parte
del soggetto che ha presentato l’istanza.
 Sotto il profilo procedurale,
quest’ultimo deve
dichiarare sotto propria responsabilità la
sussistenza dei presupposti
e dei requisiti di legge
(art. 21, che si applica anche alla segnalazione
certificata
d’inizio di attività). In caso di
dichiarazioni mendaci possono essere irrogate
sanzioni
anche penali e comunque rimangono
fermi i poteri di vigilanza e di controllo anche
dopo
l’avvio dell’attività.
In conclusione, il regime del silenzio-assenso non
fa venir meno
l’obbligo di
provvedere in capo
all’amministrazione (di cui all’art. 2 l. n. 241/1990),
non altera la struttura del
procedimento, ma incide
solo sulla fase decisionale, introducendo un
incentivo al
rispetto del termine. A differenza di
quanto accade con la segnalazione certificata
d’inizio di attività, resta fermo il modello del
controllo ex ante
sulle attività private.
Il  regime del   I difetti del
silenzio-
  assenso
silenzio-assenso ha
alcuni difetti.
I  n primo luogo, poiché esso può
applicarsi anche a
provvedimenti discrezionali (quelli vincolati sono
sostituiti di
regola dalla segnalazione certificata
d’inizio di attività), la valutazione di interessi
249 pubblici, di fatto, nei casi di inerzia assoluta
dell’amministrazione, non viene operata. Né essa
può essere ovviamente demandata al
soggetto
privato che presenta l’istanza il quale, come si è
visto, deve autocertificare
i presupposti e i
requisiti vincolati. L’amministrazione abdica così
al proprio ruolo di
cura dell’interesse pubblico.
In secondo luogo, dal punto di
vista del soggetto
privato che ha presentato l’istanza, il silenzio-
assenso non soddisfa
l’esigenza di certezza in
relazione allo svolgimento di attività sottoposte a
controllo
pubblico. Infatti, formatosi il silenzio-
assenso, il privato non è in grado di sapere se
dietro l’atteggiamento silenzioso
dell’amministrazione si celi un’inerzia assoluta
degli
uffici (magari, ipotizzando un caso limite,
perché il fascicolo si è perso), oppure se
una
qualche istruttoria sia stata in realtà compiuta,
anche se l’amministrazione non è
stata in grado di
provvedere nel termine. Pertanto il rischio che
l’amministrazione
intervenga in autotutela è molto
maggiore nel caso del silenzio-assenso di quanto
non
sia in quello dell’annullamento d’ufficio di un
provvedimento positivo espresso.
Né sembra costituire un rimedio
efficace il comma
2-bis aggiunto di recente all’art. 20 l. n. 241/1990
dalla l. n. 120/2020 secondo il
quale, formatosi il
silenzio-assenso, il privato può richiedere
all’amministrazione
un’attestazione circa il
decorso del termine e pertanto dell’accoglimento
della domanda.
Se l’amministrazione non provvede
entro dieci giorni, il privato può autocertificare
l’accoglimento della domanda.
Un altro profilo di incertezza
deriva
dall’orientamento giurisprudenziale secondo il
quale il silenzio-assenso non si
forma se non sono
presenti tutte le condizioni, i requisiti e i
presupposti richiesti
dalla legge (Consiglio di
Stato, Sez. IV, 7 gennaio 2019, n. 113).
In definitiva, il silenzio-assenso
è una scorciatoia
non risolutiva del problema del mancato rispetto
dei termini che non
giova né all’interesse pubblico
né a quello privato.

c3) Gli accordi integrativi e


sostitutivi.

Il provvedimento unilaterale
costituisce l’esito
normale e più frequente del procedimento
amministrativo. Esiste
tuttavia una modalità
alternativa di conclusione del procedimento che la
l. n. 241/1990 tende a favorire e cioè l’accordo
integrativo o sostitutivo del provvedimento al
quale si è già fatto cenno nel capitolo I (art. 11).
Infatti,
là dove occorra valutare e ponderare più
interessi di regola «è preferibile la
composizione
negoziata a quella imposta» [Giannini 1970b, 867],
anche perché si riducono
i rischi di possibili
contenziosi.
Gli accordi erano emersi nella
prassi e
successivamente nella legislazione speciale in
contesti particolari. Si pensi
per esempio alle
convenzioni urbanistiche, nelle quali l’interesse
perseguito
dall’amministrazione all’ordinato
assetto del territorio e quello dei privati che
realizzano progetti di ampia portata (le cosiddette
lottizzazioni per l’edificazione di
parti significative
del territorio) hanno molti punti di convergenza e
sussistono dunque
ampi spazi per ricercare
soluzioni condivise. In materia espropriativa la
normativa
prevede, come si vedrà, in alternativa
all’emanazione del provvedimento unilaterale,
l’accordo di cessione volontaria del bene che
250 garantisce al proprietario
un corrispettivo di
importo superiore all’indennità di
esproprio (art.
45 d.p.r. n. 327/2001). In ogni caso, non è raro che
il
provvedimento unilaterale sia il frutto di un
qualche contatto o negoziazione
informale
preventiva.
In base alla l. n. 241/1990, l’accordo ha per oggetto
il  contenuto   L’oggetto dell’accordo
 
discrezionale del
provvedimento ed è finalizzato a
ricercare un
miglior contemperamento tra l’interesse pubblico
perseguito
dall’amministrazione procedente e
l’interesse del privato. I poteri vincolati, invece,
non si prestano a essere oggetto di accordi in
quanto in essi manca il presupposto per
una
negoziazione e cioè un ventaglio più o meno ampio
di scelte.
  ’accordo può essere promosso dal privato, il quale
L
può presentare a
questo fine osservazioni e
proposte in sede di partecipazione al
procedimento. L’accordo fa salvi i diritti dei terzi
che ben potrebbero contestarne i
contenuti
proponendo un’azione di annullamento innanzi al
giudice amministrativo (art. 11, comma 1). Come si
è accennato, il responsabile del
procedimento,
per favorire l’accordo, può organizzare anche
incontri
informali con i soggetti privati interessati
(comma 1-bis) avviando
veri e propri tavoli di
trattativa.
L’amministrazione non è tuttavia
obbligata a
concludere accordi integrativi o sostitutivi con i
privati e può sempre
optare per il provvedimento
unilaterale non negoziato. La possibilità di
stipulare
accordi dunque attenua ma non elide del
tutto il carattere asimmetrico del rapporto tra
pubblica amministrazione e soggetti privati.
Sotto il profilo formale, gli
accordi devono essere
stipulati per atto scritto, a pena di nullità, salvo
che
la legge disponga altrimenti e devono essere
motivati (comma 2). Quest’ultima
prescrizione,
come già osservato, rende il regime dell’accordo
più simile a quello del
provvedimento unilaterale.
Ad essi si applicano, come si è già sottolineato nel
capitolo I, i principi del codice civile
in materia di
obbligazioni e contratti in quanto compatibili.
Data la matrice
pubblicistica degli accordi, le
controversie relative alla loro conclusione ed
esecuzione rientrano nella giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo
(art. 133, comma 1, lett.
a), n. 2, Codice del processo
amministrativo).
Gli accordi possono essere
integrativi o sostitutivi
 del provvedimento. I   Gli accordi integrativi
  e
sostitutivi
primi
servono solo a
concordare il
contenuto del provvedimento finale che viene
emanato in
attuazione dell’accordo. Sul piano
formale il provvedimento mantiene la sua
configurazione di atto unilaterale produttivo di
effetti (secondo la sequenza
accordo-
provvedimento-effetti). Gli accordi integrativi
pongono la questione se il
mancato o parziale
recepimento dei suoi contenuti nel provvedimento
finale renda
quest’ultimo illegittimo.
 Negli accordi sostitutivi gli
effetti giuridici si
producono in via diretta con la conclusione
dell’accordo, senza
necessità di un atto formale di
recepimento. Tuttavia, a garanzia dell’imparzialità
e
del buon andamento dell’azione amministrativa,
gli accordi devono essere preceduti da
una
determinazione dell’organo competente per
l’adozione del provvedimento la quale
autorizza e
stabilisce i limiti della negoziazione. In questo
modo si recupera
indirettamente, a monte
dell’accordo, un momento di unilateralità (comma
4-bis) (secondo la sequenza determinazione
251 unilaterale,
accordo, effetti).
Un altro momento  di
  Il recesso
dell’accordo
unilateralità può  
emergere anche dopo la conclusione dell’accordo.
Infatti, l’amministrazione, per
sopravvenuti motivi
di interesse pubblico, può recedere dall’accordo
(comma 4), e ciò
anche se il recesso non sia
espressamente previsto in quest’ultimo. Il recesso
ha cioè
fonte legale ed è dunque espressione di un
potere in senso proprio. Non va pertanto
confuso
con il recesso
dai contratti già esaminato (art. 21-
sexies
l. n. 241/1990).
 Il potere di recesso è invece
riconducibile alla
revoca per sopravvenuti motivi di pubblico
interesse
ex art. 21-quinquies
l. n. 241/1990. Ad esso
si accompagna l’obbligo di
liquidare un indennizzo
per gli eventuali danni subiti dal privato (comma
4).
Si discute in dottrina se gli
accordi disciplinati
dalla l. n. 241/1990 possano essere qualificati, sulla
scia
dell’ordinamento tedesco, come contratti di
diritto pubblico, accentuando così la
peculiarità
del loro regime rispetto a quello dei contratti di
diritto comune. In
alternativa essi possono essere
considerati come contratti aventi un oggetto
pubblico,
nei quali cioè la specialità discende
soprattutto dal fatto che si riferiscono al potere
discrezionale, cioè a un oggetto di per sé
indisponibile. In realtà, soprattutto in
seguito alle
modifiche apportate all’art. 11 che, come si è visto,
prevede ora che gli
accordi siano motivati, il loro
regime è sempre più assimilabile a quello di un
normale
provvedimento amministrativo.
La disciplina degli accordi ha,
come si è già
osservato, il valore simbolico di proporre
l’immagine di
un’amministrazione più aperta al
dialogo e ai contributi propositivi dei privati. Nella
pratica, peraltro, gli accordi sono ancora poco
utilizzati.
7. Procedimenti semplici,
complessi, collegati. Il
subprocedimento
I procedimenti possono avere una
struttura
semplice o complessa a seconda del loro oggetto,
del numero e della natura
degli interessi pubblici e
privati incisi e dunque della necessità di
coinvolgere una
pluralità di amministrazioni.
Si spazia tra due estremi:
procedimenti
autorizzatori semplici nei quali la sequenza
procedimentale consiste
soltanto in una domanda
o istanza, in un’istruttoria limitata a poche
verifiche documentali e
in una decisione affidata a
un’unica autorità; procedimenti complessi che
richiedono
accertamenti fattuali, momenti
partecipativi, acquisizione di pareri o di
valutazioni
tecniche con il coinvolgimento anche
nella fase decisionale di una
molteplicità di
amministrazioni statali, regionali e locali (per
esempio la
localizzazione e l’approvazione di un
progetto di un’opera pubblica).
I procedimenti  a   Il subprocedimento
 
struttura complessa
sono spesso articolati al loro interno
in
subprocedimenti sequenziali, ciascuno avente una
unità funzionale autonoma. Talvolta
i
subprocedimenti si concludono con atti
suscettibili di incidere in via immediata su
situazioni giuridiche soggettive. Producono cioè
effetti esterni diversi e indipendenti
rispetto
all’effetto giuridico primario riferibile al
provvedimento assunto a
conclusione del
252 procedimento.
  osì, per esempio, come si vedrà
nel capitolo XII,
C
il
procedimento per la conclusione di un contratto
pubblico prevede nelle procedure
cosiddette
ristrette, cioè su invito della stazione appaltante,
un subprocedimento,
detto di prequalifica. Questa
fase è volta a individuare, in applicazione di
requisiti
minimi di capacità tecnica e finanziaria
definiti dal bando di gara, le imprese ammesse
alle
fasi successive di presentazione e valutazione delle
offerte che si concludono con
l’aggiudicazione.
Inoltre, dopo la conclusione della fase di
valutazione
delle offerte vi è una fase di verifica
delle eventuali offerte anomale (per esempio
perché troppo basse) che dà origine a un
subprocedimento in contraddittorio che può
concludersi anche in questo caso con l’esclusione
dall’impresa. La non ammissione alla
presentazione di un’offerta al termine della fase di
prequalifica e l’esclusione
dell’impresa che ha
presentato un’offerta anomala a conclusione del
subprocedimento di
verifica sono ad un tempo atti
endoprocedimentali o provvedimenti autonomi:
endoprocedimentali, perché fanno parte della
sequenza che dal bando di gara si sviluppa
fino al
provvedimento finale di aggiudicazione; autonomi,
in quanto producono effetti
giuridici negativi nella
sfera giuridica del loro destinatario e sono dunque
suscettibili di impugnazione immediata.
Nei procedimenti    Gli impegni nel diritto
  antitrust
sanzionatori di
competenza
dell’Autorità garante della
concorrenza e del
mercato (art. 14-ter legge 10 ottobre 1990, n.
287)
l’impresa inquisita ha, come si è già accennato, la
possibilità di proporre
all’Autorità che ha avviato il
procedimento impegni formali atti a rimuovere
l’illecito
concorrenziale. Se l’Autorità approva gli
impegni, all’esito di un subprocedimento in
contraddittorio aperto anche ad altre imprese
concorrenti e ai terzi interessati
(cosiddetto market
test), il procedimento si conclude senza
ulteriori
accertamenti istruttori e senza l’assunzione di un
provvedimento
sanzionatorio. Se l’Autorità
conclude il subprocedimento rigettando gli
impegni, il
procedimento prosegue fino
all’emanazione di un provvedimento che accerta o
meno
l’esistenza dell’illecito e irroga, se del caso,
la sanzione. Il provvedimento di
rigetto degli
impegni ha una rilevanza meramente interna e non
è suscettibile di
impugnazione autonoma da parte
dell’impresa che li ha presentati. Essa potrà se mai
censurare innanzi al giudice amministrativo tale
provvedimento unitamente al
provvedimento
sanzionatorio eventualmente irrogato. Il
provvedimento di accoglimento
degli impegni è
invece impugnabile da parte di imprese
concorrenti che ritengano, per
esempio, che le
misure non siano in grado di rimuovere la
situazione anticoncorrenziale
che le danneggia. Il
meccanismo degli impegni è ora previsto anche per
altre autorità
indipendenti.
I  n realtà, la distinzione tra
procedimento e
subprocedimento ha carattere relativo e non va
enfatizzata. Un punto
fermo è che l’unitarietà del
procedimento si ha solo nel caso in cui nessuno
degli atti
endoprocedimentali è suscettibile di
produrre effetti giuridici esterni. In caso
contrario
potrebbe essere più corretto ricorrere alla nozione
di procedimenti autonomi
ancorché collegati.
In  termini generali,   I procedimenti
  collegati in
sequenza e
si parla di in parallelo
procedimenti
collegati (o connessi)
nelle ipotesi in cui
una pluralità di procedimenti,
da avviare in sequenza o in parallelo, sono
253 funzionali a
un risultato unitario.
  n esempio di procedimenti collegati, avviati in
U
sequenza, è
l’espropriazione per
pubblica utilità
che si articola in una pluralità di procedimenti
connessi sotto il profilo teleologico: la conclusione
di quello antecedente con un
provvedimento
autonomo è condizione per l’avvio di quello
successivo in vista del
risultato finale consistente
nel trasferimento coattivo del diritto di proprietà
da un
soggetto privato all’amministrazione o a un
altro soggetto privato. Il Testo unico in
materia di
espropriazioni (d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327)
distingue nettamente, come si
vedrà, le fasi.
Un esempio di procedimenti
collegati, avviati in
parallelo, è la realizzazione e la messa in opera di
un impianto
industriale (come un impianto
chimico o una centrale elettrica) che presuppone il
rilascio di una molteplicità di atti autorizzativi
previsti per garantire la conformità
alle norme
urbanistiche, di sicurezza, sanitarie, ambientali,
paesaggistiche, ecc. Il
collegamento tra questo tipo
di procedimenti non è sequenziale ma funzionale,
nel senso
che la conclusione positiva di ciascuno di
essi è necessaria per l’avvio di una
determinata
attività o l’ottenimento di un certo risultato. Sotto
il profilo
organizzativo, è previsto a livello
comunale il cosiddetto sportello unico
delle
imprese, che fa da tramite con tutti gli uffici
coinvolti.
In aggiunta alle distinzioni sin
qui fatte che si
riferiscono ai profili strutturali, anche per i
procedimenti, così come
per i provvedimenti, sono
state elaborate varie classificazioni, aventi per lo
più
valore descrittivo.
Così, per esempio, si possono
distinguere, come si
è già  accennato nel   I procedimenti di
  primo e di
secondo
capitolo IV, i grado
procedimenti di
primo
grado e di
secondo grado. Gli uni sono finalizzati
all’emanazione di provvedimenti
amministrativi
con effetti esterni e alla cura di un interesse
pubblico (come una
licenza, un’autorizzazione,
una sanzione). Gli altri hanno invece per oggetto
provvedimenti già emanati e per scopo la verifica
della loro legittimità e compatibilità
con l’interesse
pubblico.
  ientrano tra questi ultimi i
procedimenti di
R
autotutela, come l’annullamento d’ufficio o la
revoca, e i
ricorsi
amministrativi (per esempio, il
ricorso
gerarchico).
Possono essere inclusi tra i
procedimenti di
secondo grado anche i controlli sugli atti
amministrativi (di
legittimità e di merito) affidati a
organi esterni all’amministrazione (in particolare
la
Corte dei
conti). In pochi casi, come si vedrà
nel capitolo VI, i controlli hanno carattere
preventivo, se il loro esito positivo è condizione di
efficacia del
provvedimento oggetto del
controllo. Con riferimento a questo tipo di
controlli
preventivi, in dottrina era frequente
enucleare nella sequenza del procedimento una
fase
eventuale, successiva a quella decisoria,
definita come fase di integrazione
dell’efficacia del
provvedimento adottato.
Un’altra distinzione è tra
procedimenti  finali e
strumentali. Mentre i   I procedimenti finali e
  strumentali
primi sono
funzionali
alla cura immediata
di interessi pubblici nei rapporti esterni con i
soggetti
privati, i secondi hanno una funzione
prevalentemente organizzatoria e riguardano
principalmente la gestione del personale e delle
risorse finanziarie (per esempio, i
procedimenti di
254 programmazione o di pianificazione).
  n’ulteriore distinzione è tra
procedimento in
U
senso proprio  e   La procedura interna
 
procedura interna
all’amministrazione. Il primo si riferisce agli atti
della sequenza procedimentale che
trovano
disciplina nella legge o in una fonte normativa in
senso proprio (regolamenti).
La procedura interna
riguarda invece gli atti e adempimenti interni
all’amministrazione
che sono previsti da regole di
tipo organizzativo. Così, per esempio, le istanze e
domande presentate dai privati vanno registrate in
un protocollo interno (tenuto in
genere dall’ufficio
corrispondenza) che dà certezza alla data di
ricezione. La pratica
viene poi smistata all’ufficio
competente che cura gli adempimenti istruttori. I
vari
uffici interessati, in base alle specifiche
mansioni e al livello gerarchico, danno il
proprio
apporto sotto forma di visto, benestare, o
annotazione interna, che sono
propedeutici
all’assunzione del provvedimento finale. Laddove
quest’ultimo comporta
oneri finanziari è previsto
in genere un visto da parte dell’ufficio di ragioneria
o di
bilancio.
 
8. La
conferenza di servizi e
altre forme di
coordinamento
I procedimenti esaminati nel paragrafo che
precede pongono
il problema del coordinamento
degli adempimenti e delle tempistiche relative
all’adozione dei vari atti da parte degli uffici o delle
amministrazioni competenti.
La l. n. 241/1990 individua come strumento
principale di
coordinamento e di accelerazione dei
tempi delle decisioni la conferenza di
servizi
(Capo IV rubricato Semplificazione
amministrativa
contenente disposizioni più volte modificate).
Alcune
fattispecie di conferenza di servizi sono
disciplinate da leggi speciali (specie in
materia di
opere pubbliche).
Da un punto di vista descrittivo,
la conferenza di
servizi consiste in una o più riunioni dei
rappresentanti degli uffici
o delle amministrazioni
di volta in volta interessate che sono chiamate a
confrontarsi e
a esprimere il proprio punto di vista
e, nel caso di conferenza decisoria, anche a
deliberare.
Con la conferenza di servizi viene
meno la
sequenzialità degli atti endoprocedimentali
attribuiti alla competenza di
ciascuna
amministrazione. I rappresentanti delle
amministrazioni sono chiamati a un
confronto e a
operare una valutazione dell’interesse pubblico
affidato alla cura di
ciascuna di esse, non più in
modo isolato, ma in connessione con gli altri
interessi
pubblici curati dalle altre
amministrazioni che partecipano alla conferenza.
La l. n. 241/1990 distingue tre tipi di conferenza di
servizi:
istruttoria, decisoria, preliminare.
  La conferenza di
  servizi
istruttoria
1. La  conferenza di
servizi istruttoria è
sempre facoltativa e ha la funzione di promuovere
un esame contestuale dei vari
interessi pubblici
coinvolti in un procedimento singolo o in più
procedimenti
amministrativi connessi riguardanti
medesime attività o risultati (conferenza di servizi
interprocedimentale) (art. 14, comma 1).
 Nel caso di procedimento
attribuito alla
competenza di una sola amministrazione, la
conferenza di servizi
istruttoria serve a raccogliere
in un unico contesto, e con il confronto di tutti gli
255 uffici interni interessati, gli elementi istruttori utili
che
saranno posti poi alla base della decisione
finale adottata dall’organo competente a
emanare
il provvedimento finale.
Nel caso di conferenza di servizi
interprocedimentale la convocazione è operata di
regola dall’amministrazione che cura
l’interesse
pubblico prevalente. Anche questa conferenza
funge da sede per un confronto
tra le
amministrazioni preliminare all’assunzione da
parte di queste ultime delle
proprie
determinazioni. È da ritenere peraltro che le
posizioni espresse in sede di
conferenza non
possano essere poi disattese, almeno di regola, in
base a un principio di
coerenza, in sede di
emanazione dei singoli atti.

2. La conferenza di servizi decisoria è un modulo


 procedimentale   La conferenza di
  servizi
decisoria
volto a sostituire i
singoli atti volitivi e
valutativi delle amministrazioni competenti a
emanare «intese, concerti, nullaosta o
assensi
comunque denominati», che devono essere
acquisiti per legge da parte
dell’amministrazione
procedente (art. 14, comma 2). La conferenza è
convocata
dall’amministrazione procedente, anche
su richiesta del soggetto privato interessato,
nei
casi in cui la conferenza abbia per oggetto atti di
tipo autorizzativo che
condizionano l’avvio di
un’attività (comma 4).
 La conferenza di servizi si
conclude con un verbale
nel quale sono riportate le posizioni espresse da
ciascuna
amministrazione partecipante. Sulla base
del verbale, che, come ha chiarito la
giurisprudenza, è ancora un atto a rilevanza
interna non impugnabile, l’amministrazione
procedente assume una determinazione motivata
di conclusione del procedimento che
«sostituisce a
tutti gli effetti ogni autorizzazione, concessione,
nullaosta o atto di assenso comunque denominato
di competenza delle amministrazioni
partecipanti»
(art. 14-quater, comma 1).
La conferenza di servizi non può
essere qualificata
come un organo collegiale competente a emanare
una determinazione
unitaria, ma ogni atto di
assenso mantiene la propria autonomia quanto a
imputazione
all’amministrazione di riferimento.
Essa non è inquadrabile neppure nella figura
dell’accordo tra pubbliche amministrazioni ex
art.
15 l. n. 241/1990 di cui si dirà tra breve.
I lavori della conferenza di
servizi decisoria sono
disciplinati da una serie minuta di regole sulle
modalità di
convocazione e di svolgimento, sulla
tempistica e sull’assunzione della decisione (artt.
14-ter e 14-quater).
Di regola la conferenza  si svolge in forma
semplificata, cioè in   Conferenza
  semplificata e
modalità asincrona simultanea
(art. 14-bis). In
pratica,
l’amministrazione
procedente acquisisce entro
termini stabiliti (decorsi i quali opera il silenzio-
assenso
tra amministrazioni e gli atti tardivi
eventualmente emanati sono inefficaci ai sensi
dell’art. 2, comma 8-bis, della l. n. 241/1990) le
determinazioni motivate (assenso,
dissenso,
proposta di modifica) di competenza delle altre
amministrazioni. La conferenza
si conclude con
una determinazione motivata. Se gli atti di
dissenso pervenuti non
possono essere superati, la
conferenza si chiude nei procedimenti a istanza di
parte con
il rigetto della domanda (comma 5). La
modalità asincrona, introdotta dal d.lgs. n.
127/2016 con finalità acceleratorie, contraddice
in
parte la logica di questo istituto, il cui pregio
principale è quello dell’esame
contestuale delle
256 questioni.
 Nel caso di determinazioni di
particolare
complessità, la conferenza di servizi è convocata in
forma simultanea e con
modalità sincrona,
convocando cioè una riunione alla quale sono
invitate tutte le
amministrazioni interessate (art.
14-ter).
Gli aspetti più rilevanti della
disciplina della
conferenza decisoria, che deve concludersi entro
45 giorni dalla data
della riunione, sono due.
Il primo riguarda la partecipazione
obbligatoria di
tutte le amministrazioni invitate i cui
rappresentanti devono essere
muniti dei poteri
necessari per assumere determinazioni vincolanti.
L’assenza alla
conferenza dei servizi regolarmente
convocata determina un effetto di silenzio-assenso
(art. 14-ter, comma 7) in relazione all’atto
attribuito alla
competenza dell’amministrazione
non partecipante. Può far sorgere però
responsabilità di
vario tipo e altre conseguenze
negative a carico dei responsabili.
Il secondo attiene al dissenso manifestato da una o
 più amministrazioni partecipanti alla conferenza
  Il dissenso dei
di servizi.
Nella   partecipanti
alla
formulazione conferenza di servizi
originaria la l. n.
241/1990 richiedeva
l’unanimità dei consensi, che è
stata poi superata
dati i suoi effetti paralizzanti atteso che ogni
decisore ha un
potere
di veto.
  a regola ora vigente è che la
determinazione
L
finale motivata all’esito della conferenza di servizi
adottata
dall’amministrazione procedente è
formulata sulla base delle «posizioni prevalenti
espresse dalle amministrazioni partecipanti» (art.
14-ter, comma
7). Quest’ultima espressione va
intesa in senso qualitativo, anziché in quello
quantitativo di voto a maggioranza dei
partecipanti, e consente dunque di superare il
dissenso espresso da singole amministrazioni.
In caso di approvazione unanime la
determinazione è immediatamente efficace (art.
14-quater, comma 3).
Contro quest’ultima i
rappresentanti di
amministrazioni che curano interessi pubblici
ritenuti di rango
prioritario (ambientale,
paesaggistico, storico-artistico, salute, incolumità)
e che
abbiano espresso in sede di conferenza un
motivato dissenso possono proporre entro dieci
giorni una opposizione al presidente del Consiglio
dei ministri il quale convoca una
riunione per
cercare di trovare una soluzione condivisa (art.
14-
quinquies). Se il dissenso non è superato, la
determinazione
finale viene rimessa al Consiglio
dei ministri (comma 6).
La conferenza di servizi è
soprattutto uno
strumento di coordinamento tra pubbliche
amministrazioni, ma in alcuni
casi anche i soggetti
privati possono partecipare, ma senza diritto di
voto (art.
14-ter, comma 6). Si tratta di un’altra
tendenza che si iscrive
nella visione collaborativa
dei rapporti tra privati e pubblica
amministrazione.
La conferenza di servizi decisoria
incrina il
principio dell’esclusività delle competenze
attribuite alle singole
amministrazioni, nessuna
delle quali è dunque in grado di opporre veti
assoluti. Si pone
così la questione se le
amministrazioni dissenzienti siano legittimate a
tutelare le
proprie prerogative impugnando
innanzi al giudice amministrativo il provvedimento
che
non tiene conto del loro dissenso. Ad ogni
buon conto, molte difficoltà che ha
incontrato in
257 questi anni la conferenza di servizi decisoria
dipendono dalla poca disponibilità di tante
amministrazioni a
cogestire con altre
amministrazioni le proprie competenze.
  La conferenza di
  servizi
preliminare
3. Il  terzo tipo di
conferenza di servizi
è quella preliminare
(art. 14, comma 3) che può
essere convocata su richiesta
motivata di soggetti
privati interessati a realizzare progetti di
particolare
complessità o di insediamenti
produttivi. Il privato sottopone uno studio di
fattibilità
alle amministrazioni competenti a
rilasciare gli atti autorizzativi, i pareri e le intese
ancor prima di presentare formalmente le istanze
necessarie.
  ccanto alla conferenza di servizi
l’ordinamento
A
prevede altre forme di coordinamento.
  Gli accordi tra
  amministrazioni
1. Il  Testo unico
sull’ordinamento
degli
enti locali disciplina uno strumento di
coordinamento analogo alla conferenza di servizi
decisoria costituito dall’accordo di programma
(art. 34 d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267) promosso, a
seconda
dei casi, dal presidente della regione, della
provincia o dal sindaco. L’accordo in
questione,
finalizzato alla definizione e attuazione di opere, di
interventi o di
programmi di intervento che
coinvolgono una pluralità di amministrazioni, è
però retto
ancora dal principio del consenso
unanime dei partecipanti (comma 4).
 
2. La l. n. 241/1990 prevede, in termini ancor più
generali, gli
accordi tra pubbliche amministrazioni
come strumenti «per disciplinare lo svolgimento in
collaborazione di attività di interesse comune»
(art. 15). A questi accordi si applicano
alcune delle
regole previste per gli accordi tra privati e pubblica
amministrazione di
cui all’art. 11 l. n. 241/1990
(forma scritta, rinvio al codice
civile, ecc.). Da
ultimo è stato introdotto l’obbligo di
sottoscrizione con firma
digitale, la cui violazione
comporta addirittura la nullità
dell’accordo
(comma 2-bis). L’oggetto di questo tipo di accordi è
definito in modo generico («attività di interesse
comune») e consente dunque di coprire
un’amplissima gamma di situazioni nelle quali le
amministrazioni si trovino a
interagire.
Molti tipi di accordi (o
protocolli d’intesa) più
specifici sono previsti nella legislazione
amministrativa come
strumento di coordinamento
bilaterale o plurilaterale paritario. Così, per
esempio, le
autorità di regolazione nel settore
finanziario (Banca d’Italia, CONSOB, ecc.)
individuano forme di coordinamento sia attraverso
protocolli d’intesa, sia attraverso
l’istituzione di
comitati di coordinamento stabili, sia attraverso
una riunione annuale
di tutte le autorità (art. 20
legge 28 dicembre 2005, n. 262).
3. Un altro
  L’autorizzazione unica
 strumento di  
coordinamento è la
cosiddetta autorizzazione
unica, nella quale confluiscono una pluralità di atti
di assenso
attribuiti alla competenza di più
amministrazioni.
 Un esempio di autorizzazione unica
è quella
prevista per la costruzione e l’esercizio di impianti
di produzione di energia
elettrica alimentati da
fonti rinnovabili (art. 12 d.lgs. 29 dicembre 2003, n.
387). Essa è attribuita
alla competenza della
regione (o della provincia su delega), la quale
convoca una
conferenza di servizi entro 30 giorni
dal ricevimento della domanda di autorizzazione.
L’autorizzazione deve essere rilasciata nel rispetto
delle normative vigenti in materia
di tutela
dell’ambiente, del paesaggio, del patrimonio
258 storico-artistico e può
costituire anche una
variante allo strumento urbanistico. Essa
è
rilasciata «a seguito di un procedimento unico al
quale partecipano tutte le
amministrazioni
interessate» (comma 4). Un esempio recente è
l’autorizzazione unica per
la realizzazione di
interventi edilizi nelle strutture turistiche (art. 24
d.l. n.
77/2021).
Un altro esempio è il
provvedimento unico statale
o regionale in materia ambientale assunto all’esito
di una
conferenza di servizi che include il
provvedimento di valutazione di impatto
ambientale
(VIA) e tutte le altre autorizzazioni,
nulla osta, concerti e atti di assenso necessari
per
realizzare il progetto sottoposto al procedimento
di VIA (artt. 27 e
27-bis del Codice dell’ambiente
approvato con d.lgs. 3 aprile
2006, n. 152).

4. Uno strumento organizzativo concepito per


rendere più  agevole   Lo sportello unico
 
il coordinamento e
semplificare i rapporti tra
amministrazioni e
soggetti privati è il cosiddetto sportello unico,
cioè un ufficio istituito con la funzione di far da
tramite tra questi ultimi e i vari
uffici e
amministrazioni competenti a emanare gli atti di
assenso, i pareri e le
valutazioni di volta in volta
necessari.
 Così, per esempio, lo sportello unico per l’edilizia
si rapporta con
tutti gli uffici comunali e con le
altre amministrazioni competenti per l’intervento
edilizio in relazione al quale il privato ha proposto
la richiesta di permesso a
costruire o presentato
una segnalazione certificata d’inizio di attività (art.
5 d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380). L’ufficio in
questione, istituito a livello comunale, provvede
alla ricezione della domanda del
privato, fornisce
informazioni in ordine agli adempimenti richiesti,
esamina le
eventuali istanze di accesso ai
documenti amministrativi, cura i rapporti con
altre
amministrazioni, rilascia il certificato di
agibilità, previa acquisizione del parere
dell’azienda sanitaria locale e dei vigili del fuoco,
convoca la conferenza di servizi.
Un altro esempio,
al quale si è fatto già cenno, è lo sportello unico
per le attività
produttive che ha la funzione di
agevolare l’impresa nell’ottenimento di tutte le
autorizzazioni necessarie (art. 25 d.lgs. 31 marzo
1998, n. 112 e d.p.r. 20 ottobre 1998, n. 447).
Lo sportello unico è previsto
anche dalla direttiva
(CE) 2006/123 relativa ai servizi nel mercato
interno come punto
di contatto mediante il quale i
prestatori di servizi possono presentare le
domande di
autorizzazione e svolgere le altre
formalità necessarie (inserimento in registri, ruoli
banche dati, ecc.) per poter intraprendere
un’attività (art. 6).
Secondo la l. n. 241/1990 presso lo sportello unico
(di regola
telematico) va presentata in particolare
la segnalazione certificata d’inizio attività
(SCIA) e
nel caso in cui per avviare l’attività siano
necessarie altre SCIA, la
cosiddetta SCIA unica
(art. 19-bis). Sarà poi cura
dell’amministrazione che
riceve la SCIA trasmetterla alle amministrazioni
interessate
per i controlli e le valutazioni di
competenza.
Per poter operare in modo
efficace, lo sportello
unico presuppone una riorganizzazione
complessiva degli uffici e
delle
amministrazioni.Nella prassi, molti sportelli unici
si limitano a fare da mero
tramite con gli uffici
259 competenti senza esercitare un ruolo
propulsivo.
9. Tipi di
procedimento: a)
l’espropriazione
per
pubblica utilità
Nel capitolo IV è stata posta una distinzione
tra
provvedimenti produttivi di effetti restrittivi e
ampliativi della sfera giuridica
del destinatario.
Conviene ora analizzare alcuni
esempi di
procedimenti finalizzati all’emanazione di
provvedimenti rientranti nelle due
macrocategorie.
I procedimenti prescelti corrispondono ai tipi di
provvedimenti
esaminati nel capitolo IV
dove ci si
è soffermati soltanto sui profili sostanziali del
potere esercitato,
rinviando a questo capitolo
l’analisi delle sequenze procedimentali.
Conviene iniziare dai procedimenti
relativi a
provvedimenti che producono effetti restrittivi
nella sfera giuridica del
destinatario.
Il procedimento espropriativo è
uno dei primi a
essere stato oggetto di una disciplina legislativa.
Ciò attesa la sua
incidenza su uno dei diritti
considerati più rilevanti, come quello di proprietà,
e la
conseguente necessità di circondare l’esercizio
del potere di una serie di garanzie a
favore del
soggetto privato.
Inizialmente la disciplina
generale venne posta
nella legge  25 giugno   Le fonti normative
 
1865, n. 2359
(Espropriazioni forzate per causa di utilità pubblica)
emanata
all’indomani dell’unificazione nazionale.
L’espropriazione per motivi di interesse
generale è
richiamata anche nell’art. 42, comma 3, Cost.
  ggi la fonte principale è il Testo unico in materia
O
di espropriazioni
(d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327).
Esso enuncia anzitutto il
principio di
legalità
precisando che l’espropriazione «può essere
disposta nei soli
casi previsti dalle leggi o dai
regolamenti» (art. 2, comma 1).
Il potere espropriativo è
attribuito a tutte le
amministrazioni (Stato, regioni, comuni)
competenti a
realizzare un’opera pubblica (art. 6).
Il potere in questione è dunque un potere per
così
dire «diffuso» (mentre in passato esso era
attribuito in termini generali al
prefetto e al
presidente della giunta regionale) e accessorio
(cioè funzionale alla
realizzazione dell’opera
pubblica). In alcuni casi l’iniziativa può
partire
anche da un soggetto privato a favore del quale
viene emesso il decreto di
esproprio e che, proprio
per questo, è tenuto al pagamento dell’indennità.
Il procedimento è articolato in
quattro fasi:
l’apposizione del vincolo finalizzato all’esproprio;
la dichiarazione di
pubblica utilità; l’emanazione
del decreto di esproprio; la determinazione
dell’indennità di esproprio.

1. Il vincolo preordinato  all’esproprio


instaura un
raccordo tra l’attività   Il vincolo preordinato
  all’esproprio
di pianificazione del
territorio e il
procedimento
espropriativo. Il vincolo può essere
posto all’esito delle procedure di pianificazione
urbanistica ordinarie o speciali (per esempio una
variante al piano urbanistico) o in
seguito
all’approvazione di un progetto preliminare o
definitivo di un’opera pubblica.
 L’apposizione del vincolo è
circondata da alcune
garanzie. È infatti prevista la partecipazione dei
proprietari ai quali deve essere inviato con un
congruo anticipo un avviso di avvio del
procedimento affinché essi possano formulare nei
30 giorni successivi le proprie
osservazioni (art.
11). L’avviso deve essere comunicato
personalmente agli interessati
o, allorché il
numero dei destinatari sia superiore a cinquanta,
la comunicazione deve
essere fatta mediante
260 avviso pubblico. Quest’ultimo deve essere
affisso
all’albo pretorio dei comuni e pubblicato su uno o
più
quotidiani a diffusione nazionale e locale e su
siti informatici della regione allo
scopo di garantire
il massimo di pubblicità.
Il vincolo ha la durata di cinque
anni ed entro
questo termine deve intervenire la dichiarazione di
pubblica utilità
(art. 9, comma 2). Esso costituisce
un atto impugnabile
innanzi al giudice
amministrativo in quanto già produttivo di effetti
giuridici nei
confronti dei proprietari.
  La dichiarazione di
  pubblica
utilità
2. La  dichiarazione
di pubblica utilità
costituiva in passato una fase essenziale del
procedimento di esproprio essendo volta ad
accertare la conformità dell’opera da realizzare
all’interesse pubblico, così da
giustificare il
trasferimento coattivo del diritto di proprietà dei
terreni sui quali è
prevista la costruzione
dell’opera. Molte leggi speciali hanno tuttavia
dequotato questa
fase ritenendola per così dire
assorbita in altri atti. In molti casi infatti la
dichiarazione di pubblica utilità è implicita, perché
costituisce uno degli effetti
automatici prodotti da
alcuni atti come l’approvazione del progetto
definitivo di
un’opera pubblica, oppure
l’approvazione di un piano particolareggiato o di
lottizzazione (art. 12). Si ritiene infatti che con
questi atti risulti accertato
in re ipsa l’interesse
pubblico alla realizzazione dell’opera.
La
dichiarazione di pubblica utilità ha a sua volta
un’efficacia temporalmente limitata
(cinque anni,
suscettibili di proroga, oppure il diverso termine
apposto nella
dichiarazione) (art. 13) e prima della
scadenza del termine deve intervenire il decreto
di
esproprio. La scadenza del termine ha natura
perentoria e comporta l’inefficacia
della
dichiarazione di pubblica utilità.
    Il decreto di
esproprio
 
3. Il  decreto di
esproprio determina
il trasferimento del diritto
di proprietà dal
soggetto espropriato al soggetto nel cui interesse il
procedimento è
stato avviato. A questo effetto si
aggiunge anche l’estinzione automatica dei diritti
reali o personali gravanti sul bene espropriato,
salvo quelli compatibili con i fini cui
l’espropriazione è preordinata (art. 24). In base al
Testo unico, che sul punto innova
rispetto al
regime precedente, l’efficacia del provvedimento
non è immediata, ma è
subordinata a due
condizioni sospensive. Infatti, l’effetto traslativo si
produce in
seguito alla notifica e all’esecuzione del
decreto, che deve avvenire nel termine
perentorio
di due anni mediante l’immissione in possesso del
beneficiario dell’esproprio
(artt. 23, lett. f ), e 24).
    L’indennità di
  esproprio
provvisoria
4. Il  decreto di
esproprio deve
indicare
l’importo dell’indennità che è quantificato
all’esito di una fase in contraddittorio con
gli
interessati. Infatti, non appena è divenuta efficace
la dichiarazione di pubblica
utilità, il promotore
della procedura espropriativa formula ai
proprietari un’offerta
(art. 20). Questi ultimi,
assistiti eventualmente anche da propri tecnici di
fiducia,
possono indicare il valore da attribuire al
bene ai fini della determinazione
dell’indennità.
L’autorità procedente, valutate le osservazioni
degli interessati,
determina in via provvisoria la
misura dell’indennità. Nei 30 giorni successivi i
privati possono comunicare all’autorità
espropriante una dichiarazione irrevocabile di
assenso rispetto alla proposta. In questa ipotesi il
beneficiario dell’espropriazione e
il proprietario
possono stipulare la cessione volontaria del bene,
con il pagamento
immediato dell’indennità
concordata. Se il privato non accetta la proposta, o
261 comunque
decorsi inutilmente 30 giorni dalla
notifica dell’atto che
determina l’indennità
provvisoria, l’autorità competente emana il decreto
di esproprio e
deposita l’indennità provvisoria
rifiutata presso la Cassa depositi e prestiti.
  a questo momento in poi il
procedimento per la
D
 determinazione in   L’indennità definitiva
 
via definitiva
dell’indennità ha uno svolgimento autonomo, con
un’ulteriore fase di contraddittorio con
il privato,
che può nominare anche un tecnico di fiducia. Il
procedimento prevede, in
ultima battuta,
l’intervento di una commissione provinciale
istituita presso l’ufficio
tecnico erariale che
procede alla determinazione definitiva
dell’importo (art. 21). A
questo punto il
proprietario che intenda contestare quest’ultima
può avviare un
procedimento innanzi alla Corte
d’appello per ottenere una determinazione in via
giudiziale dell’indennità. Il giudizio deve essere
instaurato entro 30 giorni dalla
notifica del decreto
di esproprio o della stima peritale (art. 54).
I  l procedimento di esproprio è
espressione di un
potere  tipicamente   La cessione volontaria
  del
bene
unilaterale. Tuttavia
l’ordinamento tende
a favorire soluzioni consensuali attraverso
l’istituto della
cessione volontaria del bene.
Quest’ultima è configurata come un diritto
soggettivo
dell’espropriando nei confronti del
beneficiario dell’espropriazione che può essere
esercitato fino alla data in cui è eseguito il decreto
di esproprio (art. 45). I
vantaggi per l’espropriando
sono essenzialmente di tipo pecuniario, visto che il
prezzo
di cessione è commisurato all’indennità di
esproprio con alcune maggiorazioni. L’accordo
di
cessione produce gli effetti del decreto di
esproprio.
I  n definitiva, il procedimento di
espropriazione si
caratterizza per la presenza in tutte le fasi di
garanzie del
contraddittorio particolarmente
rigorose.
La vicenda espropriativa può dar
luogo al
fenomeno, cui si è fatto cenno in precedenza, dei
procedimenti collegati in
parallelo. Infatti, una
volta avviato il procedimento di espropriazione e,
più
precisamente, subito dopo che sia intervenuta
la dichiarazione di pubblica utilità e
prima
dell’emanazione del decreto di esproprio,
l’amministrazione può avviare il
procedimento di
occupazione d’urgenza al fine di acquisire
immediatamente la
disponibilità materiale del
bene e di intraprendere i lavori per la realizzazione
dell’opera pubblica (art. 22-bis).
Ciò può avvenire in tre ipotesi:
allorché
l’amministrazione   L’occupazione
  d’urgenza
 ritenga che l’avvio
dei lavori
rivesta
carattere di urgenza tale da non consentire il
perfezionamento del procedimento
ordinario; in
relazione ai progetti delle grandi opere pubbliche
previste dalla
cosiddetta legge obiettivo (legge 21
dicembre 2001, n. 443) per le quali l’urgenza è
già
accertata per legge; allorché la procedura
espropriativa riguardi più di cinquanta
proprietari.
Anche il procedimento di occupazione d’urgenza
prevede un contraddittorio
con i proprietari nella
fase di immissione nel possesso dei loro beni.
  n accenno va fatto alla  retrocessione
dei beni
U
espropriati prevista   La retrocessione
 
sin dall’origine dalla legge del 1865 come
un’ulteriore garanzia del diritto di
proprietà. Il
fondamento dell’istituto è che il diritto di
proprietà può essere
sacrificato solo nella misura
strettamente necessaria per conseguire le finalità
di
pubblico interesse (principio di
262 proporzionalità).
  a retrocessione consiste infatti
nel diritto del
L
soggetto espropriato di riacquistare la proprietà
del bene nei casi in
cui l’opera pubblica non viene
realizzata o non tutto il bene espropriato viene
utilizzato (retrocessione totale o parziale). La
retrocessione totale può essere
richiesta di regola
dopo dieci anni dall’esecuzione del decreto di
espropriazione (art.
46) ed è previsto il pagamento
di una somma a titolo di indennità. La
retrocessione
parziale ha per oggetto le parti del
bene espropriato che non siano state utilizzate una
volta completata l’opera pubblica (art. 47). Il
comune ha tuttavia un diritto di
prelazione
sull’area inutilizzata che può essere così acquisita
al patrimonio
indisponibile dell’ente territoriale
(art. 48, comma 3).
Il corrispettivo a carico del
soggetto che richiede la
retrocessione è determinato tra le parti e in caso di
mancato
accordo può essere avviata la stessa
procedura prevista per la determinazione
dell’indennità di esproprio innanzi alla
commissione provinciale.
Conviene infine menzionare la
 cosiddetta
acquisizione sanante   L’acquisizione sanante
 
(art.
42-bis), oggetto
di interventi normativi e di pronunce della
Corte
costituzionale (sentenza n. 293/2010 che ha
dichiarato incostituzionale l’originario art. 43
Testo unico). L’istituto in questione consente
all’amministrazione che ha occupato sine titulo un
bene per scopi
di pubblica utilità, che ha visto
annullati dal giudice amministrativo o che abbia
annullato d’ufficio in pendenza di giudizio i
provvedimenti emanati (per esempio, la
dichiarazione di pubblica utilità) di disporne
l’acquisizione, non retroattiva, al suo
patrimonio
indisponibile. Il provvedimento deve prevedere un
indennizzo corrispondente
al valore venale del
bene e un risarcimento del danno per il periodo di
occupazione
senza titolo. Il provvedimento di
acquisizione richiede una motivazione puntuale in
particolare «in riferimento alle attuali ed
eccezionali ragioni di interesse pubblico
che ne
giustificano l’emanazione, valutate
comparativamente con i contrapposti interessi
privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli
alternative alla sua adozione» (comma
4). In
definitiva, una siffatta compressione del diritto di
proprietà, che ha superato
il vaglio di
costituzionalità (sentenza n. 71/2015), deve
costituire una sorta di extrema
ratio.
 
10. b) Le sanzioni pecuniarie e
disciplinari
Nel capitolo III tra i provvedimenti
restrittivi della
sfera giuridica dei destinatari sono già stati
individuati i
provvedimenti sanzionatori. Il
procedimento per l’irrogazione delle sanzioni, al
pari di
quello espropriativo, è strutturato in modo
da garantire il rispetto del principio del
contraddittorio.

▶ Il procedimento per l’irrogazione delle sanzioni


di tipo pecuniario è
disciplinato in termini generali
dalla legge 24 novembre 1981, n. 689 che distingue
più fasi:
l’accertamento; la contestazione degli
addebiti; l’ordinanza-ingiunzione. Quest’ultima
può essere oggetto di un’opposizione, cioè di una
263 fase di verifica
giurisdizionale.

1. Prima dell’apertura del procedimento , vi


è
anzitutto la fase   L’accertamento della
  violazione
dell’accertamento
che consiste in
un’attività di raccolta e di prima
valutazione di
elementi di fatto suscettibili di integrare una
fattispecie di illecito
amministrativo. L’attività
preprocedimentale, come si è visto, consiste
nell’assunzione
di informazioni, in rilievi
segnaletici, descrittivi e fotografici, in ispezioni di
cose e
luoghi (diversi dalla dimora privata) e in
altre operazioni tecniche. Queste attività
sono
effettuate dagli agenti accertatori individuati nelle
normative di settore, come
gli agenti e gli ufficiali
di polizia giudiziaria e gli organi
amministrativi
addetti al controllo sull’osservanza delle
disposizioni per la cui violazione è
prevista una
sanzione pecuniaria (art. 13).
 
In alcuni casi le attività di
accertamento
avvengono in contraddittorio. Così, in particolare,
nel caso di analisi
tecniche di campioni
l’interessato può chiedere la revisione dell’analisi
effettuata dal
dirigente del laboratorio indicando
anche un proprio consulente tecnico (art. 15).
Le attività poste in essere e le
risultanze delle
medesime confluiscono in un processo verbale
redatto dall’agente
accertatore. Il verbale fa piena
prova fino a querela di falso in relazione agli
elementi fattuali oggettivi (non invece in relazione
alle valutazioni preliminari
operate dall’agente).

2. Se l’accertamento fa emergere la  violazione di


norme   La contestazione
  dell’illecito e
amministrative, l’oblazione
l’ufficio competente
procede alla
contestazione
dell’illecito al trasgressore. Ove
possibile essa deve essere immediata e in ogni caso
deve essere notificata nel termine di 90 giorni
dall’accertamento (art. 14). Questo
termine ha
natura perentoria in quanto il suo decorso
determina l’estinzione
dell’obbligazione del
pagamento della somma dovuta (ultimo comma).
L’immediatezza o il
termine breve per la
contestazione costituiscono una prima garanzia
per l’interessato,
perché il decorso di un lungo
lasso di tempo può rendergli più difficoltosa la
ricostruzione dei fatti e l’individuazione di
elementi a difesa.
  a contestazione deve indicare con
sufficiente
L
precisione gli elementi di fatto suscettibili di
essere sussunti in una
fattispecie sanzionatoria, in
modo tale che il contraddittorio risulti ben
focalizzato.
Entro 30 giorni dalla data della
contestazione o
notificazione della violazione, gli interessati
possono presentare
scritti difensivi e documenti.
Possono anche chiedere di essere sentiti
personalmente
dall’autorità amministrativa (art.
18, comma 1). La garanzia del contraddittorio orale
non è invece prevista in termini generali, come si è
visto, dalla l. n. 241/1990.
Come già ricordato, entro 60
giorni dalla
notificazione della contestazione l’interessato può
procedere
all’oblazione, cioè al pagamento di una
somma ridotta, che estingue l’obbligazione
pecuniaria senza che si proceda a un accertamento
definitivo dell’illecito.

3. Ove ritenga provata la violazione  all’esito della


valutazione degli   L’ordinanza-
  ingiunzione
elementi istruttori e
dell’eventuale
audizione
orale, l’autorità procedente emana
l’ordinanza-ingiunzione che determina
l’ammontare
della sanzione pecuniaria e ingiunge
al trasgressore il pagamento della medesima,
insieme con le spese, entro un termine di 30 giorni.
In caso contrario l’autorità
dispone l’archiviazione
con ordinanza motivata comunicata all’organo che
264 ha redatto il
rapporto (art. 18).
 L’ordinanza-ingiunzione può
irrogare, a seconda
dei casi, anche sanzioni accessorie come, per
esempio, la confisca
di cose il cui uso, porto,
detenzione o alienazione costituisce violazione
amministrativa (art. 20) oppure la sospensione di
una licenza (art. 21, ultimo comma).
Il pagamento deve avvenire entro
30 giorni dalla
notificazione del provvedimento. L’ordinanza-
ingiunzione vale come
titolo esecutivo.
La l. n. 689/1981 non prevede alcun termine per
l’emanazione
dell’ordinanza-ingiunzione e la Corte
costituzionale ha sollecitato il legislatore a
introdurlo, visto che il termine quinquennale di
prescrizione della pretesa
sanzionatoria (art. 28)
non soddisfa le esigenze di certezza della posizione
giuridica
dell’incolpato (C. cost. 12 luglio 2021, n.
151).
  Il giudizio di
  opposizione
4. Contro
 l’ordinanza-
ingiunzione può
essere proposta opposizione
innanzi al giudice ordinario (giudice di pace o
tribunale)
entro un termine di 30 giorni dalla
notificazione del provvedimento. La giurisdizione
del giudice ordinario si giustifica in quanto, come
ritiene la giurisprudenza più
recente già citata (C.
cass., Sez. Un., 28 gennaio 2010, n. 1786), la
situazione
giuridica soggettiva del soggetto nei cui
confronti viene irrogata la sanzione ha la
consistenza di un diritto soggettivo. Come si è
visto, infatti, la vicenda sanzionatoria,
attesa la
natura vincolata del potere, può essere sussunta
nella categoria delle
obbligazioni pubbliche ex lege,
cioè, per riprendere le distinzioni
operate nel
capitolo III,
secondo lo schema norma-fatto-
effetto giuridico. Di conseguenza l’oggetto del
giudizio
innanzi al giudice ordinario non consiste
nell’accertamento della legittimità
dell’ordinanza-
ingiunzione, bensì nell’accertamento dei
presupposti di fatto e di
diritto della violazione e,
di conseguenza, della sussistenza della pretesa
creditoria
dell’amministrazione e del correlato
obbligo al pagamento della somma di danaro in
capo
al trasgressore. Tale obbligo sorge nel
momento in cui è commesso l’illecito e non anche
quando è emanata l’ordinanza-ingiunzione e ciò si
ricava indirettamente dalla
disposizione secondo
la quale l’obbligazione si estingue in caso di
omessa notificazione
della contestazione nel
termine prescritto (art. 14, ultimo comma). Non
potrebbe infatti
estinguersi un obbligo non ancora
sorto.
  a l. n. 689/1981 si pone in una relazione di
L
specialità
rispetto alla l. n. 241/1990. Essa contiene
cioè un sistema organico e
compiuto di norme
sostanziali e procedurali che è autosufficiente, tale
da non
richiedere integrazioni esterne da parte
della l. n. 241/1990.
La  l. n. 689/1981 è la   Le discipline speciali
 
legge generale in
tema di sanzioni
amministrative. Essa però
subisce di frequente deroghe nelle discipline
di
settore. Per esempio, molte leggi amministrative
modificano la durata dei termini,
oppure non
prevedono il contraddittorio orale, escludono
l’applicazione dell’istituto
dell’oblazione, affidano
le controversie alla giurisdizione del giudice
amministrativo.
  ra le norme speciali contenute nelle discipline di
T
settore, merita di
essere richiamata la regola
secondo la quale le funzioni
istruttorie devono
essere affidate a uffici o organi distinti dall’organo
collegiale che
assume la determinazione finale.
Questa regola, che costituisce un’ulteriore
garanzia
del contraddittorio, è stata introdotta,
265 come si è anticipato, per le
autorità amministrative
indipendenti operanti in particolare
nel settore
finanziario (art. 24 legge sul risparmio 28 dicembre
2005, n. 262) ed è
stata attuata in una disciplina di
dettaglio nei regolamenti approvati da ciascuna
autorità. Essa si ispira, come si è visto, al modello
dell’Administrative Procedure Act
statunitense.
Più in generale, le discipline di settore riguardanti 
le autorità   Il contraddittorio
  rinforzato
indipendenti
rafforzano il
principio del
contraddittorio. Per esempio, per
quanto riguarda la CONSOB, il Testo unico
dell’intermediazione finanziaria, oltre a
ribadire il
principio della distinzione tra funzioni istruttorie e
funzioni decisorie,
richiama «i principi del
contraddittorio, della conoscenza degli atti
istruttori e delle
verbalizzazioni» (artt. 187-septies e
195). La giurisprudenza ha
così dedotto che le
garanzie del contraddittorio stabilite nei
regolamenti attuativi
delle norme primarie devono
essere rafforzate rispetto alla soglia minima
stabilita
dalla l. n. 241/1990 (Cons. St., Sez. VI, 26
marzo 2015, n. 1596). Di conseguenza
la CONSOB
ha modificato il proprio regolamento
sull’applicazione delle sanzioni
prevedendo che il
soggetto nei cui confronti è avviato il
procedimento possa non solo
esercitare il diritto
di difesa nella fase istruttoria gestita dall’ufficio
sanzioni
amministrative, ma anche presentare,
come già previsto per i procedimenti innanzi
all’Autorità garante della concorrenza e del
mercato, controdeduzioni scritte in replica
alla
relazione finale inviata da tale ufficio al collegio
che assume la decisione finale
(art. 8 della delibera
CONSOB 19 dicembre 2013, n. 18750 modificata
nel 2016).
  orme speciali relative ai
procedimenti
N
sanzionatori  di   Gli impegni
 
competenza
dell’Autorità
garante della concorrenza e del
mercato e di altre autorità di regolazione
prevedono che
il procedimento sanzionatorio
possa concludersi, come si è già accennato,
anziché con
l’accertamento dell’illecito e
l’irrogazione della sanzione, con l’approvazione di
impegni proposti dall’impresa alla quale è stato
contestato l’illecito volti a porre
rimedio alle
distorsioni concorrenziali (art. 14-ter legge 10
ottobre 1990, n. 287). In caso di mancata
ottemperanza il procedimento sanzionatorio può
essere riaperto.
I  noltre, nel caso di violazioni di
scarsa offensività
o pericolosità, la Banca d’Italia e la CONSOB
possono decidere
discrezionalmente di non
applicare la sanzione pecuniaria, limitandosi a
ordinare
l’eliminazione delle infrazioni contestate
(art. 144-bis del d.lgs.
1 settembre 1993, n. 385, e
o

art.
194-quater del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58).
La specialità di tali regimi si manifesta anche nel
fatto che in molti
casi i ricorsi avverso i
provvedimenti sanzionatori sono devoluti alla
giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo
(art. 133, comma 1, lett. l), Codice del processo
amministrativo) che può anche sindacare nel
merito (e dunque modificare)
l’entità della
sanzione pecuniaria irrogata (art. 134, comma 1,
lett. c)).

▶ Una specie di sanzioni amministrative è


costituita, come si  è   Le sanzioni
  disciplinari
accennato nel
capitolo IV, dalle
sanzioni disciplinari previste per i
dipendenti delle
pubbliche amministrazioni, ma anche per altri
soggetti sottoposti a
regimi speciali e poteri di
vigilanza attribuiti ad apparati pubblici (per
266 esempio,
i promotori finanziari vigilati dalla
CONSOB, oppure i
professionisti iscritti ad albi o
registri pubblici). Anche i procedimenti per
l’irrogazione delle sanzioni disciplinari prevedono
ampie garanzie del contraddittorio.
 Così, in particolare, secondo il
d.lgs. 30 marzo
2001, n. 165 (Norme generali
sull’ordinamento del
lavoro alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni),
il dirigente dell’ufficio o, per le sanzioni più gravi,
l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari
che venga a conoscenza di
comportamenti illeciti
di un dipendente pubblico deve contestare per
iscritto l’addebito
«senza indugio e comunque non
oltre 20 giorni» (art. 55-bis, comma
2). Il
dipendente è convocato con un preavviso di 10
giorni per esercitare il proprio
diritto di difesa con
l’eventuale assistenza di un procuratore o di un
rappresentante di
un’associazione sindacale (art.
55-bis, comma 2). Il dipendente può
decidere di
non presentarsi, limitandosi a inviare una memoria
scritta.
L’amministrazione compie, ove necessario,
un’ulteriore attività istruttoria, per esempio
assumendo informazioni anche presso altre
pubbliche amministrazioni o acquisendo
documenti.
Il procedimento si conclude con
l’archiviazione o
con l’irrogazione della sanzione (rimprovero
scritto, sospensione
temporanea dal servizio,
licenziamento), entro 60 giorni dalla
contestazione
dell’addebito.
I termini sopra indicati hanno
carattere
perentorio: il loro superamento determina la
decadenza dall’azione
disciplinare e per il
dipendente dall’esercizio del diritto di difesa.
Le sanzioni disciplinari possono
essere impugnate
dal dipendente davanti al giudice ordinario previo
esperimento di un
tentativo obbligatorio di
conciliazione presso un collegio di conciliazione
istituito
presso la Direzione provinciale del lavoro
o attraverso altre procedure eventualmente
previste nei contratti collettivi nazionali (artt. 63
ss.). Nel caso di sanzioni irrogate a dipendenti
esclusi dal regime di privatizzazione, la
giurisdizione è del giudice amministrativo.
11. c) Le autorizzazioni. Il
permesso
a costruire e la
valutazione di impatto
ambientale
Passando a considerare i
procedimenti che si
concludono con provvedimenti che producono
effetti ampliativi della
sfera giuridica del
destinatario, conviene partire dalle autorizzazioni
che ricadono nel
campo di applicazione della
direttiva (CE) 2006/123 relativa ai servizi nel
mercato
interno, alla quale si è già fatto
riferimento.
La direttiva pone anzitutto il
principio secondo il
quale le  procedure e   La disciplina europea
 
le formalità per
l’accesso a un’attività di servizi devono essere
«sufficientemente semplici» (art. 5).
La
Commissione europea può anche stabilire
formulari armonizzati a livello comunitario.
Gli
Stati membri devono istituire, come si è
accennato, sportelli unici presso i quali
gli
interessati possono espletare tutte le procedure
(art. 6) e acquisire le
informazioni (art. 7). Deve
essere garantita la possibilità di effettuare gli
adempimenti a distanza e per via elettronica (art.
267 8).
  e procedure e le formalità
«devono essere chiare,
L
rese pubbliche preventivamente e tali da garantire
ai richiedenti
che la loro domanda sarà trattata con
obiettività e imparzialità» (art. 13). Non devono
essere dissuasive e tali da complicare o ritardare la
prestazione del servizio. Gli
oneri per i richiedenti
devono essere ragionevoli e commisurati ai costi
delle procedure
di autorizzazione.
La domanda di autorizzazione deve
essere trattata
con la massima sollecitudine e comunque entro
«un termine di risposta
ragionevole prestabilito e
reso pubblico preventivamente» (art. 13, comma
3). La mancata
risposta entro il termine stabilito fa
scattare il silenzio-assenso (art. 13, comma 4).
Solo
in presenza di un motivo imperativo di interesse
generale le leggi di settore
possono escluderlo
introducendo un regime del silenzio-
inadempimento.
Ogni domanda di autorizzazione
deve essere
riscontrata con una ricevuta inviata al richiedente.
Essa deve contenere
informazioni relative al
termine di conclusione del procedimento, ai mezzi
di ricorso esperibili,
all’eventuale applicazione
della regola del silenzio-assenso. Se una domanda
è
incompleta, i richiedenti sono informati quanto
prima della necessità di presentare
ulteriori
documenti.
Le istanze, segnalazioni e
comunicazioni devono
essere protocollate e deve essere rilasciata una
ricevuta, anche in
via telematica (art. 18-bis).
Le singole leggi amministrative
che individuano
regimi autorizzatori prevedono, a seconda della
complessità della
materia, sequenze
procedimentali più o meno articolate.
Un  esempio di   Il permesso a
costruire
 
procedimento
autorizzatorio disciplinato dal diritto interno che
merita di
essere preso in esame in modo più
puntuale è quello relativo al rilascio del permesso
a
costruire disciplinato dal Testo unico in materia
edilizia approvato con d.p.r. 6 giugno
2001, n. 380
(art. 20). Le leggi regionali contengono discipline
particolari.
I  l procedimento si apre con la
presentazione allo
sportello unico per l’edilizia del comune di una
domanda sottoscritta,
di regola, dal proprietario.
La domanda deve essere corredata da
un’attestazione
concernente il titolo di
legittimazione, dagli elaborati progettuali e da
altra
documentazione tecnica (per esempio, la
relazione relativa alle strutture in cemento
armato). Nel caso in cui si tratti di un intervento di
edilizia residenziale è richiesta
anche
un’autocertificazione circa la conformità del
progetto alle norme
igienico-sanitarie.
Entro 10 giorni lo sportello unico comunica al
richiedente il
nominativo del responsabile del
procedimento. Quest’ultimo cura l’istruttoria
acquisendo i pareri interni degli uffici comunali,
nonché altri pareri come quello
dell’azienda
sanitaria locale e dei vigili del fuoco. Se sono
richiesti altri atti di
assenso a cura di
amministrazioni diverse, il responsabile del
procedimento convoca una
conferenza dei servizi.
Gli atti di assenso includono variamente, a
seconda dei casi,
l’autorizzazione e certificazione
regionale per le costruzioni in zone sismiche,
l’assenso dell’amministrazione militare per le
costruzioni contigue a zone di
salvaguardia o a
opere di difesa dello Stato, l’autorizzazione del
ministero dei Beni
culturali per gli interventi su
immobili vincolati (per esso la soprintendenza
268 territorialmente competente), il parere
dell’autorità
competente in materia di vincolo
idrogeologico, ecc. (art. 5, comma 4).
All’esito dell’istruttoria, entro
60 giorni dalla
presentazione della domanda, il responsabile del
procedimento, valutata
la conformità del progetto
alla normativa applicabile (anzitutto agli strumenti
di
pianificazione urbanistica e al regolamento
edilizio), formula una proposta al dirigente
del
servizio il quale nei successivi 30 giorni rilascia il
permesso a costruire.
Trascorso tale termine si
forma, di regola, il silenzio-assenso (in precedenza
il regime
era quello del silenzio-rifiuto) e lo
sportello unico rilascia su richiesta
un’attestazione
circa il decorso dei termini (comma 8, come
modificato dalla l. n.
120/2020). Della
determinazione è dato avviso pubblico mediante
affissione all’albo
pretorio.
In materia edilizia, molti
interventi di minor
impatto sono sottoposti a regimi semplificati di
segnalazione
certificata d’inizio di attività (artt. 22
ss.).
Un altro procedimento , a struttura complessa, con
effetti ampliativi è la   La valutazione di
  impatto
ambientale
valutazione di
impatto ambientale
(VIA). Esso deve essere avviato da chi intende
realizzare progetti con impatto elevato sul
territorio (artt. 19 ss. d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152,
come sostituiti
dal d.lgs. 16 giugno 2017, n. 104). La
valutazione di impatto
ambientale è stata
introdotta nel nostro ordinamento riprendendo i
modelli statunitensi
e di alcuni Paesi europei che
fin dagli anni Settanta del secolo scorso avevano
previsto
procedure di Environmental Impact
Assessment.
 Il procedimento, che si articola
in una pluralità di
fasi, si apre con una prima istanza all’autorità
competente a
valutare uno studio preliminare
ambientale che viene pubblicata sul sito web in
modo
tale che tutti gli interessati possano
presentare osservazioni. Di tale pubblicazione
devono essere informate tutte le amministrazioni e
tutti gli enti territoriali
potenzialmente interessati.
All’esito di questa prima fase (di verifica
preliminare o di
screening), che prevede anche la
richiesta eventuale di
chiarimenti e integrazioni al
proponente, l’autorità stabilisce con un
provvedimento
pubblicato sul sito web se il
progetto debba essere o meno assoggettato alla
VIA. A
questo punto, il proponente presenta
un’altra istanza corredata di tutta la
documentazione necessaria della quale viene dato
un avviso pubblicato anch’esso sul sito
web (art.
23). Prima di presentare l’istanza il proponente ha
la facoltà di richiedere
un parere sulla completezza
e sul livello di dettaglio dello studio di fattibilità da
sottoporre alla valutazione di impatto ambientale
(art. 21 sulla fase eventuale di
scoping). Entro 60
giorni dalla presentazione dell’istanza
chiunque
può prendere visione della documentazione e
presentare osservazioni e nei 30
giorni successivi il
proponente può presentare le proprie
controdeduzioni. L’autorità
competente può indire
una consultazione nella forma di inchiesta
pubblica (art.
24-bis) e, valutati tutti gli apporti
partecipativi, può
richiedere al proponente
modifiche e integrazioni progettuali. Entro 60
giorni dalla
conclusione della fase di
consultazione, nel caso di provvedimenti di
competenza
statale, l’autorità competente propone
al ministero dell’Ambiente e della Tutela del
territorio l’adozione del provvedimento di VIA.
269 Quest’ultimo
deve essere analiticamente motivato
e può prevedere misure e
condizioni volte a
mitigare e a compensare gli impatti ambientali
(art. 25). Una
variante del procedimento prevede
che il proponente possa richiedere che il
provvedimento di VIA sia rilasciato nell’ambito di
un procedimento unico che includa
ogni
autorizzazione, nulla osta, intesa o altro atto di
assenso e che preveda
l’indizione di una
conferenza di servizi decisoria (art. 27 e art.
27-
bis). Nell’ambito delle misure di semplificazione
procedimentale introdotte in connessione con la
predisposizione del Piano nazionale di
ripresa e
resilienza il regime della VIA è stato ritoccato in
più punti a fini
acceleratori (artt. 17 ss. d.l. n.
77/2021).
12. d) I procedimenti
concorsuali
Le pubbliche amministrazioni
erogano danaro e
altre utilità a favore di soggetti privati. Si tratta di
beni che,
riprendendo il lessico degli economisti,
hanno il carattere della scarsità: coloro che
ambiscono ad acquisirli sono in numero superiore
rispetto alle quantità disponibili.
Si pensi, per esempio,
all’assegnazione di alloggi di
edilizia economica popolare, alla concessione di
uso
esclusivo di un bene demaniale (un tratto di
lido su cui costruire un porto nautico,
un’area
pubblica su cui insediare un chiosco),
all’attribuzione di bande di
radiofrequenze,
all’accesso agli impieghi pubblici, alle commesse
pubbliche sotto forma
di contratti di acquisto di
beni o servizi o per l’esecuzione di lavori pubblici
stipulati dall’amministrazione.
Si  pone allora per   La disciplina
  costituzionale ed
l’amministrazione il europea
problema di come
scegliere tra più
aspiranti.
Alcune indicazioni provengono già dalla
Costituzione e dal diritto europeo.
  er l’accesso agli impieghi nelle pubbliche
P
amministrazioni e più in
generale agli uffici
pubblici, gli artt. 51, comma 1, e 97, comma 3,
pongono rispettivamente il principio di
uguaglianza e il principio del concorso pubblico.
Del resto, già all’epoca della
Rivoluzione francese,
l’art. 6 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e
del cittadino approvata
dall’Assemblea costituente
nel 1789 enunciava il principio di uguaglianza e del
merito
per l’accesso agli impieghi pubblici.
La direttiva (CE) 2006/123
relativa ai servizi nel
mercato interno più volte citata dispone che
quando il numero di
autorizzazioni disponibili per
una determinata attività sia limitato a causa della
scarsità delle risorse naturali o delle capacità
tecniche utilizzabili, gli Stati membri
«applicano
una procedura di selezione tra i candidati
potenziali, che presenti garanzie
di imparzialità e
di trasparenza e preveda, in particolare,
un’adeguata pubblicità
dell’avvio della procedura e
del suo svolgimento e completamento» (art. 12).
L’autorizzazione così rilasciata deve avere una
durata limitata e deve
escludere il rinnovo
automatico, ciò affinché possa essere avviata una
nuova procedura
selettiva.
Sempre in termini generali, la
l. n. 241/1990, come
si è visto, prevede che la concessione
di
sovvenzioni, contributi, sussidi e ausili finanziari e
l’attribuzione di vantaggi
economici di qualsiasi
270 genere siano subordinate alla
predeterminazione e
alla pubblicazione da parte delle amministrazioni
procedenti dei
criteri e delle modalità cui esse
devono attenersi (art. 12).
In  definitiva, nei   I principi comuni alle
  procedure
concorsuali
procedimenti di tipo
competitivo o
concorsuale valgono alcuni principi
generali: la
pubblicità, che consente a tutti i potenziali
interessati di aver notizia
della procedura; la parità
di trattamento (la non discriminazione o la par
condicio), che mira a porre sullo stesso piano tutti
gli aspiranti; la
trasparenza della procedura, che
consente un controllo sulla
corretta applicazione
dei criteri di selezione; l’oggettività dei criteri, che
richiede,
là dove possibile, parametri e criteri che
limitino la discrezionalità.
 Uno dei principali esempi di
questa tipologia di
procedimenti è il concorso per l’accesso agli
impieghi pubblici
previsto dall’art. 97 della
Costituzione. La disciplina generale è contenuta
nell’art. 35 d.lgs. n. 165/2001 citato e per quanto
riguarda i
concorsi statali nel regolamento
approvato con d.p.r. 9 maggio 1994, n. 487. La
struttura di questo
procedimento verrà analizzata
nel capitolo X.
Un secondo esempio di procedimenti
di tipo
concorsuale è quello dell’affidamento dei contratti
pubblici, disciplinato dal
Codice dei contratti
pubblici. Esso verrà analizzato nel capitolo XII.
13. e) L’accesso ai documenti
amministrativi
Nel capitolo III si è già esaminata la
disciplina
sostanziale del diritto di accesso ai documenti
amministrativi.
In questa sede interessa
soffermarci sui profili
procedimentali disciplinati, oltre che dalla l. n.
241/1990, dal regolamento attuativo approvato con
d.p.r. 12 aprile 2006, n. 184.
La richiesta di accesso
ex
artt. 22 ss. della l. n.
241/1990 va presentata a una
pubblica
amministrazione e può riferirsi soltanto a
documenti individuati e già formati:
individuati,
perché il diritto di accesso non è uno strumento di
«controllo
generalizzato dell’operato delle
pubbliche amministrazioni» (art. 24, comma 4, l. n.
241/1990); già formati, perché
l’amministrazione
«non è tenuta ad elaborare dati in suo possesso al
fine di soddisfare
le richieste» (art. 3, comma 2,
d.p.r. n. 184/2006).
Il d.p.r. n. 184/2006 citato distingue due modalità
di
accesso:  formale e   L’accesso informale e
  formale
informale. L’accesso
informale si può
avere quando non vi siano soggetti
controinteressati per i quali si ponga un problema
di
riservatezza. La richiesta può essere anche
verbale (art. 5), è esaminata immediatamente
e
senza formalità ed è accolta senza l’adozione di un
particolare atto, ma, più
semplicemente, mediante
l’esibizione del documento o l’estrazione di copia.
 L’accesso formale è necessario nei
casi in cui
l’amministrazione riscontri l’esistenza di
potenziali controinteressati, o
quando sorgano
dubbi sulla legittimazione del richiedente sotto il
profilo
dell’interesse o sulla accessibilità di un
documento in relazione alle norme
sull’esclusione
e in altre ipotesi che richiedono una valutazione
più approfondita
(art. 6, comma 1). La richiesta va
presentata anche in via
telematica e deve indicare
271 gli estremi del documento o gli
elementi che
consentano di individuarlo. Essa deve inoltre
essere motivata sotto il
profilo dell’interesse
diretto, concreto e attuale connesso all’oggetto
della richiesta.
Il procedimento prevede una fase
di
contraddittorio con i soggetti controinteressati ai
quali l’amministrazione deve dar
comunicazione
della richiesta presentata con l’assegnazione di un
termine di 10 giorni
per l’eventuale presentazione
di un’opposizione motivata (art. 3).
L’accesso è gratuito e consiste
nell’esame dei
documenti presso l’ufficio con la presenza, ove
ritenuta necessaria, di
personale addetto. L’accesso
è effettuato dal richiedente o da persona da lui
incaricata. È consentito prendere appunti oppure
trascrivere in tutto o in parte i
documenti presi in
visione. La copia dei documenti è rilasciata dietro
il pagamento, di
regola, del solo rimborso del costo
di riproduzione (art. 25, comma 1, l. n. 241/1990 e
art. 7 d.p.r. n. 184/2006).
Il procedimento di accesso deve
concludersi entro
30 giorni dalla richiesta. Decorso il termine la
richiesta «si intende
respinta» (art. 25, comma 4, l.
n. 241/1990), si forma, cioè, come si
è già
accennato, il silenzio-diniego.
Il provvedimento che rifiuta,
limita o differisce
l’accesso deve essere motivato (art. 25, comma 3, l.
n. 241/1990). L’atto di accoglimento
della richiesta
indica l’ufficio e il periodo di tempo (almeno 15
giorni) concesso per
prendere visione o per
ottenere copia dei documenti (art. 7 d.p.r. n.
184/2006).
Il  procedimento può concludersi, oltre
che con un
  Il differimento
provvedimento che   dell’accesso
concede o nega
l’accesso, anche con
un provvedimento che
dispone il differimento.
Infatti, l’accesso non può essere negato quando è
sufficiente
fare ricorso
al potere di
differimento.
Quest’ultimo si giustifica nei casi in cui l’accesso
possa compromettere,
specie nella fase
preparatoria dei provvedimenti, il buon
andamento dell’azione
amministrativa (art. 24,
comma 4, l. n. 241/1990 e art. 9, comma 2, d.p.r. n.
184/2006), fermo restando che
una volta concluso
il procedimento non vi è alcuna ragione per non
rendere disponibile
agli interessati l’intera
documentazione. Anche qui, nella scelta tra
diniego e
differimento, sembra esservi spazio per
una qualche valutazione discrezionale.
  n caso di differimento previsto
per legge riguarda
U
l’accesso ai documenti nei procedimenti per
l’affidamento di
contratti pubblici. Per non
compromettere la regolarità della procedura di
fronte al
rischio di accordi collusivi, l’art. 53 Codice
dei contratti pubblici infatti vieta
l’accesso
all’elenco dei soggetti che hanno presentato
l’offerta fino alla scadenza del
termine per la
presentazione delle offerte.
Contro il diniego espresso o
tacito (ma anche
contro il differimento) può essere proposto un
ricorso giurisdizionale
entro 30 giorni innanzi al
giudice amministrativo. Il processo si può
concludere con una
sentenza di condanna che
ordina l’esibizione dei documenti richiesti (art. 25,
comma 4, l. n. 241/1990, artt. 116 e 133, comma 1,
lett. a), n. 6, Codice del processo
amministrativo).
In alternativa al ricorso
giurisdizionale, la l. n.
241/1990
 prevede, in   I rimedi non
  giurisdizionali
prima battuta, un
ricorso
272 amministrativo
esperibile, a seconda dei casi,
innanzi al difensore civico o
alla Commissione per
l’accesso ai documenti amministrativi istituita
presso la
presidenza del Consiglio dei ministri
(artt. 25, comma 4, e 27) che si devono pronunciare
entro 30
giorni. Decorso inutilmente questo
termine, il ricorso si intende respinto e può essere
proposto ricorso in sede giurisdizionale. Se
ritengono illegittimi il diniego o il
differimento
dell’accesso, il difensore civico o la Commissione
lo comunicano
all’autorità amministrativa. Se
quest’ultima non emana un provvedimento
confermativo
motivato entro 30 giorni, «l’accesso
è consentito», cioè si forma un silenzio-assenso.
  ’accesso civico  è
L   L’accesso civico
 
disciplinato dal d.lgs.
n. 33/2013 (art. 5) e si caratterizza per il fatto
di
non richiedere la titolarità di una situazione
giuridica soggettiva in capo al
richiedente. La
richiesta di accesso civico non riguardante
documenti la cui
pubblicazione è obbligatoria deve
essere comunicata dall’amministrazione a
eventuali
controinteressati che possono presentare
una opposizione motivata (comma 5). Il
procedimento deve concludersi con
provvedimento espresso e motivato nel termine di
30
giorni (comma 6). Nel caso di diniego il
richiedente può presentare una richiesta di
riesame al responsabile della prevenzione della
corruzione e della trasparenza (comma
7).
 
CAPITOLO 6

I controlli

273
1. Premessa

In qualsiasi organizzazione,
superato un certo
stadio di sviluppo, emerge la funzione di controllo
che consiste nel
monitoraggio dell’attività posta in
essere dalle strutture operative. Si tratta di una
funzione accessoria e strumentale rispetto alle
funzioni principali.
In termini generalissimi i sistemi
di controllo,
artificiali o naturali, volti a garantire la conformità
di un certo
elemento a uno standard prescritto,
sono presenti anzitutto nel mondo fisico. Si pensi
ai congegni per verificare che un processo di
produzione rispetti certi criteri
qualitativi o, negli
organismi viventi, ai sistemi di stabilizzazione
(temperatura,
pressione sanguigna, ecc.).
Il diritto, che è di per sé uno
strumento di
controllo della vita consociata, conosce numerosi
modelli di controllo.
Così, secondo il codice civile, la
società per azioni
annovera  tra gli   I controlli in ambito
  privatistico
organi essenziali,
accanto all’assemblea
e al consiglio di amministrazione, un organo di
controllo interno,
cioè il collegio sindacale, che
vigila sull’osservanza della legge e dello statuto e
sul
rispetto dei principi di corretta
amministrazione (art. 2403 cod. civ.). Inoltre il
controllo contabile sulla
società è affidato a un
revisore contabile o a una società di revisione
esterna iscritta
nel registro presso il ministero
della Giustizia, con il compito di verificare la
regolare tenuta della contabilità sociale e la
corrispondenza tra bilancio di esercizio
e bilancio
consolidato alle risultanze delle scritture contabili
e di esprimere in una
relazione un giudizio sul
bilancio (art. 2409-bis cod. civ. e art. 155 d.lgs. 24
febbraio 1998, n. 58). Un organo di
controllo con
funzioni di vigilanza sul rispetto delle norme di
legge e di statuto
nonché dei principi di corretta
amministrazione è previsto anche per gli enti del
Terzo
settore (art. 30 d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117).
Leggi settoriali
impongono l’istituzione di organi
preposti a controlli specifici come, per esempio,
l’organismo per la prevenzione di reati compiuti da
amministratori e dipendenti che
possono far
sorgere una responsabilità amministrativa
dell’ente (art. 6 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231); il
responsabile della
protezione dei dati personali
274 (art. 37 ss. regolamento (UE)
2016/679); il
responsabile per la sicurezza sui luoghi di
lavoro
(d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626); da ultimo il
referente
unico Covid (o Covid manager) preposto
al rispetto delle norme in materia.
 Nel settore del non profit,
l’amministrazione delle
fondazioni è sottoposta al controllo e alla vigilanza
dell’autorità governativa. Quest’ultima ha il potere
di annullare le delibere contrarie
a norme
imperative, all’atto di fondazione, all’ordine
pubblico o al buon costume e di
nominare un
commissario straordinario (art. 25 cod. civ.). Gli
enti del Terzo settore sono ora
sottoposti alla
vigilanza del ministero del Lavoro e delle Politiche
sociali (art. 95 d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117).
Anche le pubbliche amministrazioni
sono
sottoposte a un sistema articolato di controlli e
sono titolari esse stesse, in
base alle normative di
settore, anche di funzioni di vigilanza e di
controllo nei
confronti di soggetti privati. Si pensi,
per esempio, alle autorità di regolazione
preposte a
settori particolari di imprese, ai nuclei
antisofisticazione dell’arma dei
carabinieri,
oppure, a livello locale, alla polizia municipale.
Procedendo  in modo   La definizione di
  controllo
più sistematico,
anzitutto, il
«controllo» nel
linguaggio comune ha molti
significati talvolta generici. In ambito giuridico il
controllo può essere definito come «verificazione
di regolarità di una funzione propria
o aliena» o
come «un giudizio di conformità a regole, che
comporta in caso di difformità
una misura
repressiva o preventiva o rettificativa» [Giannini
1974, 1264].
 Questa accezione abbraccia vari
tipi di controlli:
costituzionali (per esempio nei rapporti tra Stato e
regioni aventi
per oggetto anzitutto l’attività
legislativa), parlamentari, giurisdizionali, i
controlli attribuiti ad autorità di vigilanza,
controlli amministrativi.
I principali criteri per inquadrare
le tipologie dei
controlli sono: il soggetto titolare del potere di
controllo; il
destinatario del controllo; l’oggetto
del controllo; il parametro o standard di
valutazione; le misure che possono venire adottate
all’esito del controllo.

1.
Quanto al soggetto titolare del potere di
controllo è principio generale che esso sia
posto in
una posizione di indipendenza e terzietà rispetto al
destinatario del
controllo. Spesso è richiesta anche
una particolare qualificazione tecnico-
professionale
in funzione dello standard del
controllo che in molti casi presuppone conoscenze
specialistiche.
Secondo la Costituzione , la Corte dei conti
«esercita il controllo   La Corte dei conti
 
preventivo di
legittimità sugli atti del governo e anche quello
successivo sulla gestione del bilancio
dello Stato e
partecipa al controllo sulla gestione finanziaria
degli enti a cui lo
Stato contribuisce in via
ordinaria» (art. 100, comma 2, Cost.). La Corte dei
conti, che è
titolare, come si vedrà, anche di
funzioni giurisdizionali nelle materie di contabilità
pubblica (art. 103, comma 2), è inserita dalla
Costituzione tra gli
organi ausiliari del governo
(Parte II, Titolo III, Sezione III) ed è composta da
magistrati assunti in massima parte per concorso.
In anni recenti (come si vedrà nel
capitolo XIII) il
suo ruolo di controllore dei conti pubblici e del
rispetto dei vincoli
finanziari derivanti dal Patto di
stabilità anche da parte delle amministrazioni
locali
è stato rafforzato. La Corte riferisce
direttamente alle Camere sul risultato del
275 riscontro eseguito.
 Talvolta il soggetto titolare del
potere di controllo
è posto in una posizione di sovraordinazione
rispetto al
destinatario del controllo. La funzione
di controllo rientra, per esempio, tra quelle
proprie
del superiore gerarchico. Di regola però l’organo
titolare della funzione di
controllo si colloca al di
fuori della catena di comando in senso proprio ed
è
considerato, per alcuni tipi di controllo interno,
titolare di una funzione di supporto
ausiliaria
all’organo decisionale.

2.
I destinatari del controllo possono far parte
della medesima organizzazione nella quale
è
incardinato l’organo di controllo e in questo caso
si parla di controllo interno (per
esempio, il
collegio dei revisori di un ente pubblico), oppure
possono appartenere a un
soggetto diverso e in
questo caso si parla di controllo esterno (la Corte
dei conti nei
confronti delle amministrazioni
statali, la CONSOB nei confronti delle società
quotate
in borsa).
Destinatari dei controlli esterni
di tipo
amministrativo possono  essere sia soggetti
pubblici
sia soggetti   La vigilanza
 
privati che svolgono
determinate attività. Si parla spesso in proposito in
senso più generico, come si è accennato, di
funzione di vigilanza che è attribuita a
organi e
apparati appositamente istituiti (aziende sanitarie
locali, vigili del fuoco,
Agenzia regionale per la
protezione dell’ambiente, Ispettorato del lavoro,
autorità
indipendenti, ecc.). La funzione di
vigilanza include una serie più o meno ampia di
poteri istruttori (accessi, ispezioni, richiesta di
documenti e informazioni) e decisori
(ordini,
sanzioni, commissariamento degli organi,
scioglimento e messa in liquidazione
dell’ente). In
qualche caso alla funzione di controllo può
cumularsi anche una funzione
di indirizzo e di
direzione.
 
3.
L’oggetto del controllo, come si vedrà meglio
nei paragrafi successivi, può essere
costituito da
singoli atti emanati dall’amministrazione
(controllo sugli atti), oppure
dal complesso
dell’attività posta in essere da un apparato e dai
risultati conseguiti
(controllo sull’attività o sulla
gestione).

4.
Il parametro o standard di valutazione può
avere natura tecnica (controlli tecnici) o
natura
giuridica (controlli di legittimità). Come esempi
del primo tipo possono essere
considerati il
controllo sulle scritture contabili di un ente che
deve essere effettuato
in conformità con regole,
spesso di livello internazionale, elaborate dalle
scienze
ragionieristiche e aziendali, oppure i
controlli sulla sicurezza di impianti produttivi.
Nel
diritto amministrativo la distinzione forse più
rilevante è quella già incontrata
fra controllo di
legittimità e controllo di merito: il primo ha come
riferimento norme e
principi giuridici che
presiedono all’attività delle amministrazioni
pubbliche; il
secondo, ormai recessivo, come si
dirà, involge un apprezzamento diretto del grado
di
soddisfazione dell’interesse pubblico.

5.
Le misure che possono essere emanate all’esito
del controllo sono di vario tipo: ordini
di
adeguamento o di ripristino dello standard violato,
annullamento o riforma di atti,
sanzioni, esercizio
del potere sostitutivo, scioglimento dell’organo,
ecc.
Il potere sostitutivo è previsto in
termini generali,
come si è visto, nel caso di mancato rispetto del
termine di
conclusione del procedimento che può
essere esercitato anche d’ufficio (art. 2, commi
9-
bis e 8-ter della l. n. 241/1990). Un
esempio di
276 scioglimento e sospensione di organi è il potere
attribuito al ministro dell’Interno di rimuovere e
sospendere
il sindaco, il presidente della provincia
e altri amministratori locali, nel caso in cui
compiano atti contrari alla Costituzione o per
gravi e persistenti violazioni di legge o
per gravi
motivi di ordine pubblico (art. 142 Testo unico
degli enti locali approvato con d.lgs. 18
agosto
2000, n. 267).
I controlli nei quali è presente
una funzione
collaborativa possono concludersi con
suggerimenti e indicazioni per
migliorare l’attività.
I controlli amministrativi danno
origine a un
sistema assai articolato del quale ci si limiterà a
trattare solo alcuni
aspetti essenziali.
2. I
controlli sugli atti e
sull’attività
Nel paragrafo precedente si è già
fatto cenno alla
distinzione tra controllo sugli atti e sull’attività.
Il controllo sugli atti rappresenta
una forma di
verifica che limita l’autonomia dell’ente o organo
competente.
Esso può essere preventivo o
successivo a seconda
che venga esercitato prima o dopo che l’atto abbia
prodotto i suoi
effetti. Può essere di legittimità o
di merito, a seconda che l’organo di controllo
faccia riferimento a parametri normativi e a
principi giuridici, oppure a canoni più
generali di
opportunità e convenienza.
In passato il controllo di merito
era previsto in
modo esteso a livello locale. Si pensi, per esempio,
al controllo del
prefetto, cioè del massimo
esponente del governo in sede locale, nei confronti
delle
cosiddette Opere pie (o Istituzioni pubbliche
di assistenza e beneficenza, IPAB), cioè
le
associazioni e fondazioni promosse da soggetti
privati, spesso di ispirazione
religiosa, sottoposte a
fine Ottocento, in epoca crispina, a una disciplina
pubblicistica. Le IPAB erano assoggettate a un
regime di «tutela», proprio per alludere
al ruolo
subalterno dell’ente controllato, e non di semplice
«vigilanza», il cui
parametro di riferimento è
esclusivamente la legittimità degli atti.
In caso di esito negativo il
controllo di legittimità
preclude all’atto di produrre i suoi effetti, se si
tratta di
controllo preventivo; determina
l’annullamento dell’atto con la rimozione degli
effetti
ex tunc, se si tratta di controllo successivo.
Se il controllo
è di merito l’autorità che lo esercita
può riformare direttamente l’atto oppure
indirizzare all’autorità emanante una richiesta di
riesame. Così, per esempio, gli
statuti approvati
dalle università sono soggetti a un controllo del
ministero competente
il quale può operare rilievi,
oltre che di legittimità, di merito. In quest’ultimo
caso
formula una richiesta di riesame, ma
l’università può confermare la norma statutaria
con
una maggioranza qualificata (maggioranza
assoluta) (art. 6, comma 10, legge 9 maggio 1989, n.
168).
Il controllo preventivo di
legittimità sugli atti delle
amministrazioni statali e locali è stato in auge fino
ad
anni relativamente recenti.
La stessa Costituzione prevedeva,
accanto ai
controlli sugli  atti   I controlli preventivi
  di
legittimità
del governo affidati
alla
Corte dei conti
ai quali si è fatto cenno (art. 100, comma 2), un
controllo di legittimità sugli atti
delle regioni
277 esercitato in forma decentrata da un organo dello
Stato (art. 125 Cost.) e sugli atti delle province e
dei comuni
attribuito a un organo regionale (art.
130 Cost.).
  n siffatto sistema era poco
compatibile con
U
un’impostazione autonomistica dell’ordinamento
che valorizza il
principio di autoresponsabilità.
Inoltre, la mole degli atti da scrutinare (milioni
solo
a livello statale) rallentava l’attività
amministrativa.
Ancora, il controllo sugli atti,
adottato nell’ambito
del modello tradizionale di «amministrazione per
atti», nel quale
ciò che conta è essenzialmente la
conformità alla legge piuttosto che la capacità di
erogare in modo efficiente prestazioni e servizi di
elevata qualità ai cittadini e
utenti, ha subito in
epoca recente un ripensamento. Si è infatti
affermata la cosiddetta
«amministrazione di
risultato», nella quale, come si è già accennato, è
più avvertita
l’esigenza di assicurare i valori
dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità.
In occasione della riforma del
Titolo V della
Costituzione attuata con la legge costituzionale n.
3/2001, il controllo preventivo di
legittimità degli
atti è stato in gran parte soppresso e ad esso sono
subentrate altre
forme di controllo di tipo
soprattutto finanziario e gestionale.
A livello statale, il controllo
preventivo di
legittimità attribuito alla Corte dei conti è ormai
limitato a un elenco
tassativo di atti (art. 3 legge 14
gennaio 1994, n. 20). Tra di essi figurano,
per
esemplificare, i provvedimenti emanati con
delibera del Consiglio dei ministri, le
piante
organiche, il conferimento degli incarichi
dirigenziali, gli atti normativi a
rilevanza esterna,
gli atti di disposizione del demanio e del
patrimonio immobiliare. Il
procedimento di
controllo deve concludersi entro 60 giorni dalla
ricezione dell’atto
(salvo sospensione nell’ipotesi
di richieste istruttorie). In caso di esito negativo
del
controllo, e dunque di diniego del visto e della
registrazione dell’atto, il ministro
può chiedere al
Consiglio dei ministri che l’atto abbia comunque
corso e che venga
ammesso alla registrazione con
riserva: l’atto acquista così efficacia nonostante
l’illegittimità rilevata dalla Corte dei conti che
però ne dà comunicazione al
parlamento.
Anche il controllo successivo su
singoli atti è
ormai quasi del tutto superato. A livello statale, la
Corte dei conti può
però deliberare motivatamente
che «singoli atti di notevole rilievo finanziario»
siano
sottoposti al suo esame per un determinato
periodo di tempo. La Corte può richiedere
all’amministrazione entro 15 giorni il riesame degli
atti adottati, richiesta che non
sospende però
l’esecutività dei medesimi (art. 3, comma 3, l. n.
20/1994).
Il  controllo   I controlli
sull’attività
 
sull’attività ha per
oggetto la gestione di un apparato considerata nel
suo
complesso e mira a valutarne i risultati globali.
Per sua natura si tratta di un
controllo di tipo
successivo (o ex post) che riguarda, in
particolare,
la regolarità contabile e finanziaria della gestione e
l’efficienza,
l’efficacia e l’economicità.
 A livello centrale, in attuazione
dell’art. 100,
comma 2, Cost. già citato, la Corte  dei conti
esercita il controllo   La Corte dei conti
 
successivo sulla
gestione del
bilancio e del patrimonio delle
amministrazioni pubbliche. Verifica cioè la
legittimità
e la regolarità delle gestioni, accertando
la rispondenza dei risultati dell’attività
amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge e
valuta comparativamente costi,
modi e tempi dello
278 svolgimento dell’attività amministrativa
(art. 3,
comma 4, l. n. 20/1994). La Corte verifica anche il
funzionamento dei controlli interni a ciascuna
amministrazione, creando così un legame
tra
controlli interni e controlli esterni.
  iù in particolare, come si vedrà
meglio nel
P
capitolo XIII, il controllo successivo sulla gestione
del bilancio dello
Stato ha per oggetto gli
andamenti generali della finanza pubblica e
consiste nell’esame
del rendiconto generale dello
Stato presentato dal governo alla Corte di conti
entro il
31 maggio successivo a quello di chiusura
dell’anno finanziario. Il rendiconto viene
messo a
raffronto con la legge di bilancio e, nel caso di
accertata concordanza, viene
emanato un «giudizio
di parificazione» inviato, insieme a una relazione,
al parlamento
entro il 30 giugno di ogni anno.
La Corte dei conti esercita anche
il cosiddetto
controllo concomitante che si svolge, cioè, nel
corso della gestione
dell’ente e ha per oggetto
l’intera gestione finanziaria e amministrativa allo
scopo di
verificare il rispetto dei parametri di
legittimità e dei criteri di efficacia ed
economicità
(art. 11 l. n. 15/2009). La Corte individua in
contraddittorio le cause e
comunica le proprie
valutazioni al ministro competente. Questo tipo di
controllo è stato
valorizzato in occasione delle
misure adottate in seguito alla pandemia da Covid-
19 al
fine di favorire l’attuazione dei piani e dei
progetti di rilancio dell’economia e di
ritardi
nell’erogazione di contributi finanziari (art. 22 l. n.
120/2020). Le
irregolarità segnalate dalla Corte
possono dar origine a una responsabilità
dirigenziale, analizzata nel capitolo X.
A livello decentrato, la Corte dei
conti, tramite le
sezioni regionali, esercita un controllo successivo
sul rispetto da
parte di regioni ed enti locali del
cosiddetto Patto di stabilità e dei vincoli
derivanti
dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea.
Verifica anche la sana
gestione finanziaria e il
funzionamento dei controlli interni. I revisori degli
enti
locali, che costituiscono il principale organo di
controllo interno, inviano alle
sezioni regionali
della Corte una relazione sul bilancio di previsione
e sul conto
consuntivo di ciascun ente, redatta
secondo criteri e linee guida predisposte a livello
nazionale dalla Corte stessa. All’esito del controllo
le sezioni regionali riferiscono
agli organi
rappresentativi dell’ente e vigilano sull’adozione
da parte dell’ente locale
delle misure correttive per
assicurare il rispetto dei vincoli e degli obiettivi.
Analoghi controlli sono previsti nei confronti delle
aziende sanitarie locali, che
gestiscono la maggior
parte delle risorse disponibili a livello regionale.
All’esito di
questo controllo le sezioni regionali
della Corte inviano una segnalazione alla regione
per l’assunzione di provvedimenti conseguenti. La
Corte esercita un controllo esterno,
mediante un
esame dei rendiconti, anche nei confronti di enti
pubblici e privati ai
quali lo Stato contribuisce in
via ordinaria, e in particolare, delle università.
Il controllo della Corte dei conti
ha una valenza
essenzialmente collaborativa nei confronti delle
amministrazioni
interessate. L’estensione del
controllo dalle amministrazioni statali in senso
stretto
alle amministrazioni regionali e locali ha
comportato un riposizionamento della Corte
dei
conti che è sempre più un apparato al servizio, non
279 solo del governo, bensì dello
Stato-comunità.
3. I
controlli gestionali

I controlli gestionali, introdotti


da molto tempo
nelle organizzazioni private, costituiscono la
specie principale di
controlli interni alle pubbliche
amministrazioni. Essi hanno acquistato un peso
crescente in parallelo al declino del controllo
preventivo sugli atti e in linea con la
concezione
più moderna dell’amministrazione di risultato.
Il d.lgs. 30 luglio 1999, n. 286 individua quattro tipi
di
controllo interno obbligatori per tutte le
pubbliche amministrazioni statali e non
statali: di
regolarità amministrativa e contabile, di gestione,
la valutazione della
dirigenza pubblica, la
valutazione e il controllo strategico.

1.
Il controllo di regolarità amministrativa e
contabile è volto a «garantire la
legittimità,
regolarità e correttezza dell’azione
amministrativa» (art. 1, comma 1, lett. a)). Esso è
affidato, a seconda del
tipo di amministrazione,
agli uffici di ragioneria (ministeri), agli organi di
revisione
(enti locali), ai servizi ispettivi di
finanza.
Esso prevede verifiche condotte
sulla base dei
principi della revisione aziendale asseverati dagli
ordini e collegi
professionali.

2.
Il controllo di gestione è volto a «verificare
l’efficacia, efficienza ed economicità
dell’azione
amministrativa al fine di ottimizzare, anche
attraverso tempestivi
interventi di correzione, il
rapporto tra costi e risultati» (art. 1, comma 1, lett.
b)). Questo controllo è effettuato da
un organismo
istituito a supporto dei dirigenti che dall’esito delle
verifiche possono
trarre indicazioni per
organizzare meglio l’attività.
Ciascuna amministrazione deve
pertanto definire
le unità organizzative da sottoporre al tipo di
controllo menzionato;
stabilire le procedure per la
determinazione degli obiettivi gestionali con
l’individuazione dei soggetti responsabili;
individuare l’insieme dei prodotti e delle
finalità
dell’azione amministrativa riferiti all’intera
organizzazione o a singole unità
organizzative;
definire le modalità di rilevazione e ripartizione
dei costi tra le unità
organizzative e di
individuazione degli obiettivi per cui i costi sono
sostenuti;
elaborare gli indicatori specifici per
misurare efficacia, efficienza ed economicità;
stabilire la frequenza di rilevazione delle
informazioni (art. 4).

3.
La valutazione della dirigenza pubblica (art. 1,
comma 1, lett. c)) è operata con periodicità
annuale
e consiste nella valutazione delle
prestazioni dei dirigenti e delle competenze
organizzative, anche sulla base dei risultati del
controllo di gestione. Questo tipo di
controllo è
funzionale anche a far valere la responsabilità
dirigenziale, che verrà
analizzata nel capitolo X.
Essa può determinare, a seconda dei casi, il
mancato rinnovo
dell’incarico, la revoca del
medesimo collocando il dirigente a disposizione, il
recesso
dal rapporto di lavoro (art. 21 d.lgs. 30
marzo 2001, n. 165).

4.
La valutazione e il controllo strategico sono
preordinati a «valutare l’adeguatezza
delle scelte
compiute in sede di attuazione dei piani,
programmi e altri strumenti di
determinazione
dell’indirizzo politico, in termini di congruenza tra
risultati
conseguiti e obiettivi predefiniti» (art. 1,
comma 1, lett. d)). Il controllo mira a verificare
l’effettiva attuazione delle scelte indicate in questo
280
tipo di atti e si concretizza
nell’analisi della
congruenza o degli eventuali scostamenti tra
le
missioni affidate, le scelte operative effettuate, le
risorse umane, finanziarie e
materiali assegnate,
identificando gli eventuali fattori ostativi, le
responsabilità e i
possibili rimedi (art. 6).
Per gli enti locali, la disciplina
contenuta nel d.lgs.
18 agosto 2000, n. 267 ricalca quella generale di cui
al d.lgs. n. 286/1999 ma è più dettagliata e completa
(d.l. 10 ottobre 2012, n. 174 convertito in legge 7
dicembre 2012, n. 213 con l’introduzione dei nuovi
artt. 147, 147-bis,
147-ter, 147-quater,
147-quinquies). In
particolare, in relazione all’obbligo
costituzionale
del pareggio di bilancio previsto, come si vedrà nel
capitolo XIII,
dall’art. 81, comma 1, Cost., è stato
introdotto anche un
controllo sugli equilibri
finanziari finalizzato al rispetto degli obiettivi di
finanza
pubblica previsti per gli enti locali che
responsabilizza anche i loro organi di governo
(art.
147-quinquies).
I controlli interni, che operano in
modo integrato,
perseguono l’obiettivo di migliorare l’azione
amministrativa e hanno
prevalentemente una
funzione collaborativa. Introducono all’interno
delle pubbliche
amministrazioni una visione
aziendalistica della gestione. Stentano però talora
a
prendere piede in concreto perché prevale
ancora nelle pubbliche amministrazioni una
cultura che privilegia la legalità formale degli atti.
CAPITOLO 7

La responsabilità

281
1. Premessa

Da un punto di vista storico, la


responsabilità 
dello Stato per   L’immunità del
  sovrano
comportamenti o atti
illeciti dei suoi agenti
costituisce l’esito di un’evoluzione il cui punto
iniziale è il
principio dell’immunità del sovrano
sancito in tutti gli ordinamenti in epoca
antecedente allo Stato di diritto. Secondo il detto
inglese «The King can do no wrong».
  ncora a fine Ottocento la dottrina
italiana
A
[Mantellini 1883] sosteneva che la responsabilità
dello Stato fosse
incompatibile con il carattere
etico dello Stato e con l’esigenza di tutelare gli
interessi pubblici che giustificavano il sacrificio
imposto ai soggetti privati. Tutt’al
più chiamato a
rispondere poteva essere il funzionario.
Con l’affermarsi dello Stato di
diritto l’immunità
della pubblica amministrazione venne via via
erosa. Così, nel nostro
ordinamento, già prima
della Costituzione, si affermò la tesi secondo la
quale la
pubblica amministrazione è responsabile
nei confronti di terzi in relazione ai
cosiddetti atti
di gestione (da contrapporre, come si è detto, agli
atti di imperio) in
quanto in questo ambito essa
opera su un piano di parità con i soggetti privati.
Il punto di arrivo del percorso
delineato, con
varianti significative nei singoli Stati europei, è
enunciato
indirettamente nell’art. 340 del Trattato
sul funzionamento dell’Unione europea.
Il comma
2 stabilisce che in materia di responsabilità
extracontrattuale l’Unione deve
risarcire i danni
cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti
nell’esercizio delle
loro funzioni «conformemente
ai principi generali comuni ai diritti degli Stati
membri».
Questa disposizione dà dunque per
assodato che in base ai diritti nazionali la pubblica
amministrazione risponda per danni cagionati a
terzi.
Due sono i modelli    I modelli di
  responsabilità nel
prevalenti di diritto europeo
responsabilità della
pubblica
amministrazione
affermatisi a livello europeo. Il
primo, adottato in Gran Bretagna, si fonda sul
principio della responsabilità personale del
dipendente pubblico nei confronti dei terzi
danneggiati. Essa, entro certi limiti, può essere
estesa dalla legge agli apparati al
servizio dei quali
282 opera il dipendente. Il secondo modello,
adottato
in Germania, si fonda sul principio opposto della
responsabilità oggettiva
indiretta dell’apparato,
nella sua veste di datore di lavoro del dipendente
che ha posto
in essere l’illecito (sul modello
dell’art. 2049 cod. civ. sulla responsabilità dei
padroni e
committenti).
  uale che sia il modello, la
responsabilità
Q
dell’amministrazione e dei suoi funzionari richiede
un bilanciamento tra
esigenze in parte
contrapposte: rifondere pienamente i privati dei
danni subiti;
scoraggiare comportamenti illeciti da
parte dei dipendenti pubblici; evitare il rischio
di
un eccesso di deterrenza (overdeterrence ), atteso
che il timore della   Il rischio di
  overdeterrence e la
responsabilità burocrazia difensiva
personale del
dipendente può
costituire un freno all’attività delle
amministrazioni posta in essere
per perseguire
interessi pubblici compromettendone dunque
l’efficacia. Quest’ultima
esigenza muove nella
direzione di erigere una qualche «rete di
contenimento» della
responsabilità. L’esposizione
ad azioni risarcitorie induce infatti a
comportamenti
opportunistici (la cosiddetta
burocrazia difensiva) come, per esempio,
procrastinare le
decisioni, scegliere la soluzione
più sicura anziché quella che massimizza
l’interesse
pubblico, coinvolgere nella decisione
altri funzionari o apparati in modo da rendere più
difficile l’accertamento della responsabilità.
L’analisi economica del diritto ha
analizzato gli
incentivi e i disincentivi collegati ai vari modelli di
responsabilità
della pubblica amministrazione e
dei funzionari, in modo da trovare soluzioni volte a
massimizzare il benessere collettivo.
 
2. L’art. 28
della Costituzione e
gli sviluppi successivi
La responsabilità della pubblica
amministrazione
in Italia trova fondamento nell’art. 28 Cost. La
disposizione stabilisce che «i funzionari e i
dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono
direttamente responsabili secondo le
leggi penali,
civili e amministrative degli atti compiuti in
violazione di diritti. In
tali casi la responsabilità
civile si estende allo Stato e agli enti pubblici». Il
richiamo alle leggi civili rinvia alle norme
codicistiche sulla responsabilità
contrattuale,
extracontrattuale e precontrattuale.
A prima vista, l’art. 28 sembra
porre in primo piano
la responsabilità personale del dipendente e solo in
via
subordinata (per estensione) la responsabilità
dell’apparato.
Più precisamente quest’ultima sembra
avere
carattere sussidiario e parallelo: sussidiario, perché
il danneggiato deve
proporre l’azione per danni in
prima battuta nei confronti del dipendente
pubblico e può
agire contro l’amministrazione solo
nei casi in cui quest’ultimo non abbia un
patrimonio
capiente; parallelo, perché può sorgere
solo a condizione che sussista una
responsabilità
personale del dipendente. L’interpretazione
dell’art. 28, come si vedrà
di seguito, è stata invece
nel senso di ritenere che la responsabilità del
dipendente e
quella dell’amministrazione abbiano
natura solidale e non siano necessariamente
parallele.
In realtà, l’art. 28 fu il frutto
della riformulazione
non felice di una disposizione concepita dai
costituenti per
rafforzare la tutela dei diritti di
libertà sanciti dalla Costituzione. L’idea
originaria
283 era cioè di istituire una nuova responsabilità di
rango costituzionale per lesione di diritti
fondamentali e non a caso l’articolo chiude
il
Titolo I della Parte I della Costituzione. Gli
emendamenti introdotti snaturarono
l’articolo, la
cui formulazione finale diede subito adito a dubbi
interpretativi. La
giurisprudenza ricondusse la
portata della disposizione al modello di
responsabilità già
affermatosi nei decenni
precedenti. Esso pone in primo piano la
responsabilità della
pubblica amministrazione che
risponde immediatamente e direttamente per i
fatti illeciti
dei dipendenti (da ultimo C. cass., Sez.
III, ordinanza 5 novembre 2018, n. 28079).
Già prima della Costituzione,
infatti, la
responsabilità  degli   La responsabilità
  diretta delle
apparati pubblici amministrazioni
derivante
da
comportamenti
illeciti veniva ricostruita come responsabilità
diretta che sorge in
base al cosiddetto rapporto
organico (o di immedesimazione organica)
intercorrente tra
l’agente e l’amministrazione di
appartenenza. A quest’ultima, come si vedrà
meglio nel
capitolo VIII, si imputa direttamente
l’attività dell’agente, sia che essa si esprima in
provvedimenti amministrativi, sia che essa si
esprima in comportamenti. Ciò perché, in
base alla
ricostruzione richiamata, da un punto di vista
formale, non è il dipendente
pubblico che opera,
ma è per suo tramite l’ente di appartenenza.
Pertanto, anche in caso
di attività illecita posta in
essere dal dipendente nell’ambito delle mansioni
alle
quali è adibito, la responsabilità sorge
esclusivamente in capo all’amministrazione.
Quest’ultima peraltro, come si vedrà, può rivalersi
in via di regresso sul dipendente.
  olo per alcune categorie di
dipendenti pubblici
S
(giudici, cancellieri, ufficiali giudiziari,
conservatori dei
registri immobiliari, ecc.) leggi
speciali antecedenti alla Costituzione avevano
previsto una responsabilità personale del
dipendente con esclusione della responsabilità
dell’apparato.
L’applicazione alla pubblica
amministrazione dei
principi  di diritto   Le deroghe al diritto
  comune
comune subì peraltro
inizialmente
numerose deroghe. Da un lato, leggi speciali
riferite a particolari tipi di
attività connesse a
servizi pubblici ponevano limiti alla responsabilità
del gestore.
Per esempio, esse esentavano da ogni
responsabilità l’amministrazione postale in caso di
perdita o di manomissione di lettere raccomandate
o il gestore dei servizi telefonici in
caso di
interruzione colposa del servizio. Dall’altro lato, la
giurisprudenza ritenne
incompatibile
l’applicazione di alcune regole civilistiche alla
pubblica
amministrazione.
 Così, per esempio, per lungo tempo
si ritenne che
all’amministrazione non si applicasse l’art. 2050
cod. civ., secondo il quale chi provoca un danno
nello svolgimento di attività pericolosa è
responsabile se non prova di aver adottato
tutte le
misure idonee a evitare il danno. Infatti, mentre i
privati svolgono tali
attività a scopo di lucro,
l’amministrazione agisce nell’interesse della
collettività
(si pensi alle esercitazioni militari).
Inoltre, il controllo da parte del giudice
sull’idoneità delle misure adottate per evitare il
danno comporterebbe un’intromissione
inammissibile nelle scelte discrezionali
dell’amministrazione.
Anche l’applicazione ai beni
demaniali dell’art.
2051 cod. civ. in materia di responsabilità da cose
in
custodia venne a lungo esclusa. Lo stesso art.
1337 cod. civ. in tema di responsabilità
284 precontrattuale
non venne ritenuto riferibile ai
contratti della pubblica
amministrazione. Ciò
perché l’indagine sulla lealtà del comportamento
dell’amministrazione nella fase delle trattative con
il privato comporterebbe un
sindacato
sull’esercizio del potere discrezionale.
La  giurisprudenza ha   Gli sviluppi
  giurisprudenziali
via via ridotto le aree
di immunità. Ha per
esempio applicato
l’art. 2050 cod. civ. all’attività di
gestione di linee
elettriche ad alta tensione. Ha
affermato che la responsabilità ai sensi dell’art.
2051 cod. civ. per danni da omessa o insufficiente
manutenzione delle strade pubbliche è esclusa solo
quando vi è un’oggettiva
impossibilità di esercizio
di un potere di controllo a causa della notevole
estensione
del bene e dell’uso generalizzato da
parte di terzi. Ha ritenuto che viola l’art. 1337 cod.
civ. la condotta dell’amministrazione che ha
avviato e concluso una procedura a evidenza
pubblica, ma che abbia poi revocato
l’aggiudicazione per mancanza di copertura
finanziaria, cioè della disponibilità delle
somme
necessarie per far fronte agli impegni contrattuali.
  nche la Corte costituzionale ha
dichiarato
A
incostituzionali varie leggi (come quelle sopra
richiamate) che riconoscevano
esenzioni dalla
responsabilità a favore dell’amministrazione.
In definitiva, l’evoluzione
normativa e
giurisprudenziale nel nostro ordinamento ha fatto
confluire sempre di più la
responsabilità della
pubblica amministrazione nel diritto comune.
3. La
responsabilità civile da
comportamento illecito
La responsabilità della pubblica
amministrazione
e dei suoi agenti riferita a meri comportamenti,
cioè a condotte non
ricollegabili all’esercizio di un
potere e all’emanazione di un provvedimento, va
analizzata tenendo distinti tre rapporti: il rapporto
tra il danneggiato e il dipendente
pubblico che ha
commesso l’illecito; il rapporto tra il danneggiato e
la pubblica
amministrazione nella quale è
incardinato il dipendente; il rapporto per così dire
interno tra dipendente e amministrazione di
appartenenza.
Quanto ai primi due rapporti , anzitutto la
responsabilità del   Il carattere diretto e
  solidale
della
funzionario e responsabilità del
dell’amministrazione dipendente

per danni provocati a


terzi è una responsabilità diretta di tipo
solidale. Il
danneggiato può scegliere liberamente se agire
contro il dipendente, contro
l’amministrazione o
contro entrambi. L’art. 22 Testo unico sugli
impiegati civili dello Stato (d.p.r. 10
gennaio 1957,
n. 3) prevede infatti, da un lato, che l’impiegato che
cagioni
ad altri un danno ingiusto «è
personalmente obbligato a risarcirlo»; dall’altro
lato che
l’azione di risarcimento nei suoi confronti
«può essere esercitata congiuntamente con
l’azione diretta nei confronti
dell’amministrazione». Per prassi, tenuto conto
che
l’amministrazione è un debitore
patrimonialmente molto più capiente del
dipendente,
l’azione risarcitoria viene esperita
soltanto nei confronti dell’amministrazione, salvo
che sussistano nei confronti del dipendente ragioni
285 di acrimonia personale particolari.
 
Inoltre, la responsabilità della
 pubblica
amministrazione,   Il presupposto del dolo
come si è già   o della
colpa grave

anticipato, è più
ampia di quella del dipendente. Infatti, la
responsabilità personale di quest’ultimo per
danni
provocati nell’esercizio delle funzioni alle quali è
preposto è limitata ai casi
di dolo e colpa grave
(art. 23 Testo unico). In caso di colpa lieve, l’azione
risarcitoria può essere proposta solo nei confronti
dell’amministrazione e viene dunque
meno il
principio del parallelismo. Inoltre, l’impossibilità
pratica di identificare il
dipendente pubblico che
ha posto in essere il comportamento dannoso non
esclude la
responsabilità della pubblica
amministrazione, purché sia accertato che la
condotta sia
riferibile a un dipendente di
quell’amministrazione. Anche questa ipotesi
spezza il
parallelismo delle responsabilità.
 Quanto al rapporto interno,
l’amministrazione che
abbia risarcito il terzo  del danno
cagionato dal
dipendente può   L’azione di regresso
 
esercitare, come si
vedrà, un’azione di regresso contro
quest’ultimo
secondo i principi della responsabilità
amministrativa (art. 22 Testo unico).
 Occorre ora prendere in
considerazione gli
elementi strutturali dell’illecito civile ex
art. 2043
cod. civ. Va posta anzitutto la distinzione tra
illecito causato da meri comportamenti degli
agenti della pubblica amministrazione e
illecito
conseguente all’emanazione di provvedimenti
amministrativi illegittimi ritenuto
risarcibile in
seguito alla svolta operata dalla sentenza della
Corte di cassazione
(Sez. Un., n. 500/1999).
Rientrano nel primo ambito , tipicamente, per
esempio, i danni   La responsabilità da
  meri
comportamenti
conseguenti a un
incidente
stradale
che coinvolge un automezzo militare; o subiti da
uno scolaro non sorvegliato
adeguatamente
dall’insegnante; o provocati a un autoveicolo a
causa della difettosa
manutenzione di una strada
(la cosiddetta insidia o trabocchetto).
 In base all’art. 2043 cod. civ., per essere risarcibile,
il danno deve
essere riconducibile a una condotta
colposa o dolosa dell’agente; deve essere
qualificato come «ingiusto»; deve sussistere un
nesso di causalità tra condotta ed
evento
pregiudizievole.
Per quanto riguarda la condotta, la
responsabilità
del dipendente e della pubblica amministrazione
può sorgere sia quando
l’illecito consegua al
compimento di atti o operazioni, sia quando esso
consista
«nell’omissione o nel ritardo
ingiustificato di atti o operazioni al cui
compimento
l’impiegato è obbligato per legge o
per regolamento» (art. 23, comma 2, Testo unico).
La proposizione dell’azione
deve essere preceduta
in questo caso da un atto formale di diffida (art. 25
Testo unico).
Rientra nella fattispecie della
responsabilità da
meri comportamenti anche il caso della condotta
contraria al principio
di correttezza e buona fede
tenuta dall’amministrazione nel corso di un
procedimento
amministrativo o a valle
dell’adozione di un provvedimento. Così, per
esempio, essa
potrebbe essere chiamata a
rispondere dei danni provocati per aver ingenerato
in capo a
un soggetto privato l’aspettativa (per
esempio con rassicurazioni informali o
comunicazione da parte di qualche ufficio) circa
l’esito favorevole di un procedimento
autorizzatorio poi disattesa (C. cass., Sez. Un., 28
aprile 2020, n. 8236), oppure dal
rilascio di
un’autorizzazione risultata illegittima e annullata
286 in sede giurisdizionale
che abbia ingenerato nel
destinatario dell’atto «un’aspettativa
alla stabilità
del bene della vita con esso acquisito» (Cons. St.,
Ad. Plen., 29
novembre 2021, nn. 19 e 20).
Se la condotta consiste in atti o
operazioni
compiuti da un organo collegiale, i membri del
collegio sono responsabili in
solido. La
responsabilità è esclusa solo per coloro che
abbiano fatto verbalizzare il
proprio dissenso (art.
24 Testo unico).
Infine, la condotta illecita deve
essere
riconducibile all’agente in base all’art. 2046 cod.
civ., che esclude l’imputabilità in caso di
incapacità
di intendere e volere al momento in cui la
condotta è stata posta in essere.
Deve essere
inoltre riferibile all’amministrazione in base al
rapporto organico.
Quest’ultimo può spezzarsi
(cosiddetta frattura del rapporto organico) solo
nei casi in
cui il dipendente agisce per finalità
personali ed egoistiche al di fuori delle proprie
incombenze.
Affinché  sorga la   Il nesso di
  «occasionalità
responsabilità necessaria»
occorre cioè un nesso
di «occasionalità
necessaria» tra
attività illecita e mansioni del
dipendente. La giurisprudenza ha chiarito che tale
nesso può sussistere anche quando il dipendente
«abbia approfittato delle sue
attribuzioni ed agito
per finalità esclusivamente personali ed
egoistiche» con condotta
anche penalmente
illecita, allorché essa non sarebbe stata possibile
senza l’esercizio
delle funzioni o poteri
attribuitigli. Deve trattarsi cioè di condotte in
qualche modo
«raffigurabili o prevenibili
oggettivamente» da parte dell’amministrazione
«rientrando
nella normalità statistica che il potere
possa essere impiegato per finalità diverse da
quelle istituzionali» (C. cass., Sez. Un., 16 maggio
2020, n. 13246 in un caso
riguardante un
cancelliere di tribunale appropriatosi di somme
giacenti su un libretto
di deposito giudiziario
affidato alla sua custodia e condannato per
peculato).
 Passando a considerare il requisito
della colpa, un
aspetto  particolare   Colpa e discrezionalità
 
riguarda il rapporto
tra
colpa e discrezionalità. In passato la
giurisprudenza riteneva che fosse precluso al
giudice l’accertamento della colpa perché esso si
sarebbe risolto in un giudizio sulla
discrezionalità
della pubblica amministrazione precluso dalla
legge 20 marzo 1865, n.
2278, All. E che, come si è
accennato, individua l’ambito della giurisdizione
del
giudice ordinario. Progressivamente la
giurisprudenza ha superato questa chiusura
affermando invece il principio, oggi pacifico,
secondo il quale il potere discrezionale
incontra un
limite, non soltanto nelle disposizioni di legge e di
regolamento che
prescrivono determinate
modalità di comportamento, ma anche nelle
comuni regole di
diligenza e prudenza. In altre
parole, l’amministrazione nell’operare le scelte
discrezionali è tenuta al rispetto del principio
generale del neminem
laedere.
  ileva a questo fine la distinzione
tra scelta
R
discrezionale dei mezzi più idonei per soddisfare
gli interessi pubblici (per
esempio, le modalità
organizzative di un servizio pubblico) e
realizzazione e messa in
opera dei mezzi prescelti.
Con riguardo a quest’ultima non sorge tanto un
problema di
sindacato sulla discrezionalità, quanto
un problema di valutazione di un comportamento
287 del dipendente che abbia attuato in modo
difettoso, con
negligenza, imperizia o imprudenza,
la scelta. Così, per esempio, il giudice non può
censurare la scelta organizzativa del proprietario e
del gestore di una strada pubblica
di non installare
un semaforo a un incrocio. Può invece sindacare se
l’incidente è
dovuto al malfunzionamento del
semaforo per difetto di manutenzione.
Quanto al requisito dell’ingiustizia
del danno,
come già  più volte   L’ingiustizia del danno
 
accennato, la
giurisprudenza
costante, prima della svolta operata
dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con
la
sentenza n. 500/1999, riteneva che potesse essere
definito
come ingiusto ai sensi dell’art. 2043 cod.
civ. il danno conseguente alla lesione di un
diritto
soggettivo e non anche di un interesse legittimo.
La responsabilità della
pubblica amministrazione
era dunque confinata all’area dei meri
comportamenti dei propri
agenti.
  eraltro, già in precedenza la
giurisprudenza aveva
P
esteso l’ambito della responsabilità della pubblica
amministrazione
a fattispecie nelle quali emergeva
un collegamento almeno indiretto con l’esercizio
di
poteri amministrativi correlati agli interessi
legittimi oppositivi.
L’esempio  più   Il risarcimento
  conseguente
significativo era all’annullamento di un
quello atto illegittimo

dell’occupazione di
un terreno in esecuzione di un
provvedimento di
espropriazione illegittimo. Infatti il proprietario
leso in un suo
interesse legittimo poteva proporre
un’azione di annullamento innanzi al giudice
amministrativo. In caso di accoglimento del
ricorso, la retroattività dell’annullamento
del
provvedimento ripristinava e faceva riespandere il
diritto soggettivo in capo al
proprietario privato.
Pertanto l’avvenuta occupazione del terreno,
valutata a
posteriori, diventava illecita, cioè priva
di titolo. La posizione dell’amministrazione
era
dunque assimilabile a quella di un privato che si
fosse impossessato di un terreno
altrui senza
averne titolo, commettendo un illecito ai sensi
dell’art. 2043 cod. civ.
  nalogamente, la revoca illegittima
di una
A
concessione amministrativa attributiva a un
soggetto privato del diritto
soggettivo a svolgere
una determinata attività poteva costituire un
illecito
risarcibile. Una volta annullata la revoca
all’esito di un giudizio innanzi al giudice
amministrativo, il danno da risarcire era quello
conseguente alla lesione del diritto
soggettivo a
svolgere l’attività e all’interruzione della medesima
nell’intervallo
intercorrente dalla revoca
all’emanazione della sentenza di annullamento.
Questo meccanismo comportava
peraltro la
necessità di instaurare due giudizi, dapprima
innanzi al giudice
amministrativo per tutelare
l’interesse legittimo leso da un provvedimento
illegittimo,
successivamente innanzi al giudice
ordinario per tutelare il diritto soggettivo. In base
ad esso, però, l’area degli interessi legittimi
oppositivi (o con altra terminologia già
menzionata, dei diritti affievoliti) era in grado di
far sorgere una responsabilità a
carico
dell’amministrazione.
La giurisprudenza aveva invece
negato la
responsabilità nel caso di diniego illegittimo di un
provvedimento favorevole,
lesivo di un interesse
legittimo pretensivo. Ed è proprio su questo
versante che la
sentenza delle Sezioni Unite della
Corte di cassazione n.
500/1999 ha introdotto le
288 innovazioni maggiori.
3. La
responsabilità civile da
comportamento illecito
La responsabilità della pubblica
amministrazione
e dei suoi agenti riferita a meri comportamenti,
cioè a condotte non
ricollegabili all’esercizio di un
potere e all’emanazione di un provvedimento, va
analizzata tenendo distinti tre rapporti: il rapporto
tra il danneggiato e il dipendente
pubblico che ha
commesso l’illecito; il rapporto tra il danneggiato e
la pubblica
amministrazione nella quale è
incardinato il dipendente; il rapporto per così dire
interno tra dipendente e amministrazione di
appartenenza.
Quanto ai primi due rapporti , anzitutto la
responsabilità del   Il carattere diretto e
  solidale
della
funzionario e responsabilità del
dell’amministrazione dipendente

per danni provocati a


terzi è una responsabilità diretta di tipo
solidale. Il
danneggiato può scegliere liberamente se agire
contro il dipendente, contro
l’amministrazione o
contro entrambi. L’art. 22 Testo unico sugli
impiegati civili dello Stato (d.p.r. 10
gennaio 1957,
n. 3) prevede infatti, da un lato, che l’impiegato che
cagioni
ad altri un danno ingiusto «è
personalmente obbligato a risarcirlo»; dall’altro
lato che
l’azione di risarcimento nei suoi confronti
«può essere esercitata congiuntamente con
l’azione diretta nei confronti
dell’amministrazione». Per prassi, tenuto conto
che
l’amministrazione è un debitore
patrimonialmente molto più capiente del
dipendente,
l’azione risarcitoria viene esperita
soltanto nei confronti dell’amministrazione, salvo
che sussistano nei confronti del dipendente ragioni
285 di acrimonia personale particolari.
 
Inoltre, la responsabilità della
 pubblica
amministrazione,   Il presupposto del dolo
come si è già   o della
colpa grave

anticipato, è più
ampia di quella del dipendente. Infatti, la
responsabilità personale di quest’ultimo per
danni
provocati nell’esercizio delle funzioni alle quali è
preposto è limitata ai casi
di dolo e colpa grave
(art. 23 Testo unico). In caso di colpa lieve, l’azione
risarcitoria può essere proposta solo nei confronti
dell’amministrazione e viene dunque
meno il
principio del parallelismo. Inoltre, l’impossibilità
pratica di identificare il
dipendente pubblico che
ha posto in essere il comportamento dannoso non
esclude la
responsabilità della pubblica
amministrazione, purché sia accertato che la
condotta sia
riferibile a un dipendente di
quell’amministrazione. Anche questa ipotesi
spezza il
parallelismo delle responsabilità.
 Quanto al rapporto interno,
l’amministrazione che
abbia risarcito il terzo  del danno
cagionato dal
dipendente può   L’azione di regresso
 
esercitare, come si
vedrà, un’azione di regresso contro
quest’ultimo
secondo i principi della responsabilità
amministrativa (art. 22 Testo unico).
 Occorre ora prendere in
considerazione gli
elementi strutturali dell’illecito civile ex
art. 2043
cod. civ. Va posta anzitutto la distinzione tra
illecito causato da meri comportamenti degli
agenti della pubblica amministrazione e
illecito
conseguente all’emanazione di provvedimenti
amministrativi illegittimi ritenuto
risarcibile in
seguito alla svolta operata dalla sentenza della
Corte di cassazione
(Sez. Un., n. 500/1999).
Rientrano nel primo ambito , tipicamente, per
esempio, i danni   La responsabilità da
  meri
comportamenti
conseguenti a un
incidente
stradale
che coinvolge un automezzo militare; o subiti da
uno scolaro non sorvegliato
adeguatamente
dall’insegnante; o provocati a un autoveicolo a
causa della difettosa
manutenzione di una strada
(la cosiddetta insidia o trabocchetto).
 In base all’art. 2043 cod. civ., per essere risarcibile,
il danno deve
essere riconducibile a una condotta
colposa o dolosa dell’agente; deve essere
qualificato come «ingiusto»; deve sussistere un
nesso di causalità tra condotta ed
evento
pregiudizievole.
Per quanto riguarda la condotta, la
responsabilità
del dipendente e della pubblica amministrazione
può sorgere sia quando
l’illecito consegua al
compimento di atti o operazioni, sia quando esso
consista
«nell’omissione o nel ritardo
ingiustificato di atti o operazioni al cui
compimento
l’impiegato è obbligato per legge o
per regolamento» (art. 23, comma 2, Testo unico).
La proposizione dell’azione
deve essere preceduta
in questo caso da un atto formale di diffida (art. 25
Testo unico).
Rientra nella fattispecie della
responsabilità da
meri comportamenti anche il caso della condotta
contraria al principio
di correttezza e buona fede
tenuta dall’amministrazione nel corso di un
procedimento
amministrativo o a valle
dell’adozione di un provvedimento. Così, per
esempio, essa
potrebbe essere chiamata a
rispondere dei danni provocati per aver ingenerato
in capo a
un soggetto privato l’aspettativa (per
esempio con rassicurazioni informali o
comunicazione da parte di qualche ufficio) circa
l’esito favorevole di un procedimento
autorizzatorio poi disattesa (C. cass., Sez. Un., 28
aprile 2020, n. 8236), oppure dal
rilascio di
un’autorizzazione risultata illegittima e annullata
286 in sede giurisdizionale
che abbia ingenerato nel
destinatario dell’atto «un’aspettativa
alla stabilità
del bene della vita con esso acquisito» (Cons. St.,
Ad. Plen., 29
novembre 2021, nn. 19 e 20).
Se la condotta consiste in atti o
operazioni
compiuti da un organo collegiale, i membri del
collegio sono responsabili in
solido. La
responsabilità è esclusa solo per coloro che
abbiano fatto verbalizzare il
proprio dissenso (art.
24 Testo unico).
Infine, la condotta illecita deve
essere
riconducibile all’agente in base all’art. 2046 cod.
civ., che esclude l’imputabilità in caso di
incapacità
di intendere e volere al momento in cui la
condotta è stata posta in essere.
Deve essere
inoltre riferibile all’amministrazione in base al
rapporto organico.
Quest’ultimo può spezzarsi
(cosiddetta frattura del rapporto organico) solo
nei casi in
cui il dipendente agisce per finalità
personali ed egoistiche al di fuori delle proprie
incombenze.
Affinché  sorga la   Il nesso di
  «occasionalità
responsabilità necessaria»
occorre cioè un nesso
di «occasionalità
necessaria» tra
attività illecita e mansioni del
dipendente. La giurisprudenza ha chiarito che tale
nesso può sussistere anche quando il dipendente
«abbia approfittato delle sue
attribuzioni ed agito
per finalità esclusivamente personali ed
egoistiche» con condotta
anche penalmente
illecita, allorché essa non sarebbe stata possibile
senza l’esercizio
delle funzioni o poteri
attribuitigli. Deve trattarsi cioè di condotte in
qualche modo
«raffigurabili o prevenibili
oggettivamente» da parte dell’amministrazione
«rientrando
nella normalità statistica che il potere
possa essere impiegato per finalità diverse da
quelle istituzionali» (C. cass., Sez. Un., 16 maggio
2020, n. 13246 in un caso
riguardante un
cancelliere di tribunale appropriatosi di somme
giacenti su un libretto
di deposito giudiziario
affidato alla sua custodia e condannato per
peculato).
 Passando a considerare il requisito
della colpa, un
aspetto  particolare   Colpa e discrezionalità
 
riguarda il rapporto
tra
colpa e discrezionalità. In passato la
giurisprudenza riteneva che fosse precluso al
giudice l’accertamento della colpa perché esso si
sarebbe risolto in un giudizio sulla
discrezionalità
della pubblica amministrazione precluso dalla
legge 20 marzo 1865, n.
2278, All. E che, come si è
accennato, individua l’ambito della giurisdizione
del
giudice ordinario. Progressivamente la
giurisprudenza ha superato questa chiusura
affermando invece il principio, oggi pacifico,
secondo il quale il potere discrezionale
incontra un
limite, non soltanto nelle disposizioni di legge e di
regolamento che
prescrivono determinate
modalità di comportamento, ma anche nelle
comuni regole di
diligenza e prudenza. In altre
parole, l’amministrazione nell’operare le scelte
discrezionali è tenuta al rispetto del principio
generale del neminem
laedere.
  ileva a questo fine la distinzione
tra scelta
R
discrezionale dei mezzi più idonei per soddisfare
gli interessi pubblici (per
esempio, le modalità
organizzative di un servizio pubblico) e
realizzazione e messa in
opera dei mezzi prescelti.
Con riguardo a quest’ultima non sorge tanto un
problema di
sindacato sulla discrezionalità, quanto
un problema di valutazione di un comportamento
287 del dipendente che abbia attuato in modo
difettoso, con
negligenza, imperizia o imprudenza,
la scelta. Così, per esempio, il giudice non può
censurare la scelta organizzativa del proprietario e
del gestore di una strada pubblica
di non installare
un semaforo a un incrocio. Può invece sindacare se
l’incidente è
dovuto al malfunzionamento del
semaforo per difetto di manutenzione.
Quanto al requisito dell’ingiustizia
del danno,
come già  più volte   L’ingiustizia del danno
 
accennato, la
giurisprudenza
costante, prima della svolta operata
dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con
la
sentenza n. 500/1999, riteneva che potesse essere
definito
come ingiusto ai sensi dell’art. 2043 cod.
civ. il danno conseguente alla lesione di un
diritto
soggettivo e non anche di un interesse legittimo.
La responsabilità della
pubblica amministrazione
era dunque confinata all’area dei meri
comportamenti dei propri
agenti.
  eraltro, già in precedenza la
giurisprudenza aveva
P
esteso l’ambito della responsabilità della pubblica
amministrazione
a fattispecie nelle quali emergeva
un collegamento almeno indiretto con l’esercizio
di
poteri amministrativi correlati agli interessi
legittimi oppositivi.
L’esempio  più   Il risarcimento
  conseguente
significativo era all’annullamento di un
quello atto illegittimo

dell’occupazione di
un terreno in esecuzione di un
provvedimento di
espropriazione illegittimo. Infatti il proprietario
leso in un suo
interesse legittimo poteva proporre
un’azione di annullamento innanzi al giudice
amministrativo. In caso di accoglimento del
ricorso, la retroattività dell’annullamento
del
provvedimento ripristinava e faceva riespandere il
diritto soggettivo in capo al
proprietario privato.
Pertanto l’avvenuta occupazione del terreno,
valutata a
posteriori, diventava illecita, cioè priva
di titolo. La posizione dell’amministrazione
era
dunque assimilabile a quella di un privato che si
fosse impossessato di un terreno
altrui senza
averne titolo, commettendo un illecito ai sensi
dell’art. 2043 cod. civ.
  nalogamente, la revoca illegittima
di una
A
concessione amministrativa attributiva a un
soggetto privato del diritto
soggettivo a svolgere
una determinata attività poteva costituire un
illecito
risarcibile. Una volta annullata la revoca
all’esito di un giudizio innanzi al giudice
amministrativo, il danno da risarcire era quello
conseguente alla lesione del diritto
soggettivo a
svolgere l’attività e all’interruzione della medesima
nell’intervallo
intercorrente dalla revoca
all’emanazione della sentenza di annullamento.
Questo meccanismo comportava
peraltro la
necessità di instaurare due giudizi, dapprima
innanzi al giudice
amministrativo per tutelare
l’interesse legittimo leso da un provvedimento
illegittimo,
successivamente innanzi al giudice
ordinario per tutelare il diritto soggettivo. In base
ad esso, però, l’area degli interessi legittimi
oppositivi (o con altra terminologia già
menzionata, dei diritti affievoliti) era in grado di
far sorgere una responsabilità a
carico
dell’amministrazione.
La giurisprudenza aveva invece
negato la
responsabilità nel caso di diniego illegittimo di un
provvedimento favorevole,
lesivo di un interesse
legittimo pretensivo. Ed è proprio su questo
versante che la
sentenza delle Sezioni Unite della
Corte di cassazione n.
500/1999 ha introdotto le
288 innovazioni maggiori.
4. La
risarcibilità del danno da
lesione di interessi legittimi
La sentenza n. 500/1999 ha abbattuto la barriera
della
irrisarcibilità del danno da provvedimento
illegittimo, dimostrandosi sensibile alle
critiche
della dottrina e cogliendo le indicazioni del diritto
europeo che non conosce
la distinzione tra diritti
soggettivi e interessi legittimi.
La  Corte
ha operato   La nuova
  interpretazione
una nuova dell’art. 2043 cod. civ.
interpretazione della
nozione di «danno
ingiusto»
ex
art. 2043 cod. civ. A questo fine ha
anzitutto qualificato
questo articolo non più
«come norma (secondaria), volta a sanzionare una
condotta
vietata da altre norme (primarie), bensì
come norma (primaria) volta ad apportare una
riparazione del danno ingiustamente sofferto da
un soggetto per effetto dell’attività
altrui».
I  n altre parole, per la sua
applicazione l’art. 2043
cod. civ. non richiede che si rinvengano altre
norme primarie recanti divieti o costitutive di
diritti, ma pone direttamente il
criterio giuridico
per stabilire se il danno possa essere qualificato
come «ingiusto».
Non ha più rilievo la
qualificazione formale della situazione giuridica
del danneggiato
in termini di diritto soggettivo,
ma è sufficiente che sia riscontrabile «la lesione di
un interesse giuridicamente rilevante». Ingiusto è
cioè il danno che lede un interesse
giuridicamente
rilevante e ciò a prescindere dalla qualificazione di
quest’ultimo in
termini di diritto soggettivo o di
interesse legittimo.
Diventa allora cruciale stabilire in
quali casi un
interesse è giuridicamente rilevante. A questo fine
secondo la Corte
occorre operare una valutazione
e comparazione tra interessi in conflitto alla
stregua
del diritto positivo, accertando con quale
consistenza e intensità l’ordinamento
assicura
tutela all’interesse del danneggiato.
In base a questo criterio non tutti
gli interessi
legittimi sono risarcibili. Bisogna infatti appurare
se per effetto del
provvedimento illegittimo risulti
leso «l’interesse al bene della vita al quale
l’interesse legittimo si correla». Nel caso degli
interessi legittimi oppositivi la
connessione con un
bene della vita, cioè la conservazione del bene o
della situazione di
vantaggio di fronte a un
provvedimento che mira a sacrificarlo o a limitarlo,
è per così
dire in re ipsa.

1.
Nel caso degli interessi legittimi pretensivi, la
 cui
lesione può   Interessi legittimi
  pretensivi e
giudizio
derivare sia dal prognostico
diniego illegittimo
del provvedimento
favorevole richiesto,
sia dal ritardo ingiustificato
nell’adozione di quest’ultimo, il collegamento con
il
bene della vita richiede «un giudizio prognostico
da condurre in riferimento alla
normativa di
settore, sulla fondatezza o meno della istanza onde
stabilire se il
pretendente fosse titolare non già di
una mera aspettativa, come tale non tutelabile,
bensì di una situazione suscettiva di determinare
un oggettivo affidamento circa la sua
conclusione
positiva, e cioè di una situazione che, secondo la
disciplina applicabile,
era destinata, secondo un
criterio di normalità, ad un esito favorevole, e
risultava
quindi giuridicamente protetta».
 Scomponendo questo passaggio
centrale della
sentenza n. 500/1999 nei suoi elementi logici, ne
deriva che:
a) il giudizio prognostico ha per
oggetto la fondatezza o meno
dell’istanza del
privato volta a ottenere il provvedimento
favorevole e dunque tende ad
appurare se all’esito
289 del procedimento il bene della vita o
l’utilità che il
privato mira a conseguire gli deve essere
riconosciuto;
b) il giudizio richiede un esame della
normativa di settore che
disciplina quel particolare
tipo di procedimento e ciò soprattutto per stabilire
se e
quali margini di discrezionalità sono
riconosciuti all’amministrazione, atteso che la
sussistenza della discrezionalità esclude la
spettanza del bene della vita;
c) il giudizio va
condotto secondo un criterio di normalità,
cioè
prefigurando, anche alla luce della situazione
concreta di fatto, l’esito del
procedimento; d) una
volta operato questo giudizio può risultare,
in caso
di prognosi negativa, che il privato è titolare di una
semplice aspettativa non
tutelata (la mera
speranza a ottenere il provvedimento favorevole)
oppure, in caso di
prognosi positiva, che egli si
trovi in una situazione di oggettivo affidamento,
giuridicamente protetto, a conseguire il bene della
vita ad opera di un provvedimento
favorevole.
Solo in quest’ultimo caso, che
coincide
tendenzialmente con i provvedimenti vincolati,
negli interessi legittimi
pretensivi sussiste un
collegamento diretto con il bene della vita tale da
renderli
risarcibili.
Il  risarcimento è   La perdita di
chance
 
commisurato
soltanto alla cosiddetta perdita di
chance nei casi in
cui non sia possibile accertare in termini
di
certezza assoluta, ma soltanto di probabilità,
l’acquisizione o la conservazione del
bene della
vita in capo al titolare dell’interesse legittimo ove
il potere fosse stato
esercitato in modo legittimo.
Così, per esempio, in materia di procedure di gara
per
l’aggiudicazione di un contratto, l’impresa
seconda classificata, che all’esito del
processo
ottiene una sentenza di annullamento
dell’ammissione alla procedura
dell’impresa prima
classificata, vede accertata in modo univoco la
pretesa a conseguire
il «bene della vita» (il
contratto oggetto della procedura) per effetto
dell’esclusione
dalla graduatoria dell’impresa
prima classificata. Se, invece, la medesima impresa
contesta l’erronea valutazione tecnico-
discrezionale della commissione giudicatrice
nell’attribuzione dei punteggi riferiti ad elementi
qualitativi dell’offerta e ottiene
una sentenza che
annulla la graduatoria finale, la pretesa a
conseguire il bene della
vita può essere apprezzata
solo in termini di chance, visto che non
è possibile
prefigurare in modo univoco l’esito di una nuova
valutazione delle offerte
da parte della
commissione giudicatrice. In ogni caso la chance
perduta, per poter essere risarcibile, pur non
richiedendo di
essere espressa in percentuali di
probabilità (per esempio, oltre il 50%), deve
presentare un carattere di «serietà» escludendo
chance «del tutto accidentali» o di «livello del tutto
infimo»
(Cons. St., Sez. VI, 13 settembre 2021, n.
6268).
I  n definitiva, secondo la
giurisprudenza, la linea di
confine tra risarcibilità e irrisarcibilità non è più
tracciata dalla distinzione tra diritto soggettivo e
interesse legittimo, ma è
costituita dall’esistenza o
meno della lesione di un bene della vita accertata
attraverso il giudizio prognostico.

2.
La sentenza n. 500/1999 fornisce altri criteri
per stabilire se
un provvedimento illegittimo della
pubblica amministrazione sia o meno riconducibile
allo schema dell’art. 2043 cod. civ.
In  primo
luogo,   L’accertamento della
  colpa
precisa che
l’accertamento
dell’illegittimità del provvedimento non integra in
modo automatico (in re ipsa) il requisito della
colpa. È richiesta
invece un’indagine ulteriore che
290 verifichi se l’illegittimità
riscontrata derivi dalla
violazione delle regole di imparzialità, di
correttezza e di
buona amministrazione alle quali
deve ispirarsi l’esercizio della funzione
amministrativa e che si pongono come limiti
esterni alla discrezionalità. Il giudice
deve cioè
valutare le ragioni che hanno determinato
l’illegittimità.
I  n secondo luogo, la colpa va
riferita, non già al
funzionario agente, bensì all’apparato nel suo
complesso, andando a
sindacare se vi sia stata una
disfunzione che ha determinato l’illegittimità, per
esempio a causa di una cattiva organizzazione del
personale, dei mezzi e delle risorse
dell’ufficio.
Sul requisito della colpa, la
giurisprudenza ha
cercato di semplificare l’onere probatorio in capo
al danneggiato
utilizzando a favore di quest’ultimo
le presunzioni semplici di cui agli artt. 2727 e 2729
cod. civ., secondo i quali esse sono rimesse al
prudente
apprezzamento del giudice e devono
essere «gravi, precise e concordanti».
In pratica, per assolvere al proprio
onere
probatorio, il   L’onere probatorio
 
 danneggiato può
invocare la stessa
illegittimità come indice
presuntivo della colpa, allegando anche altre
circostanze
idonee a dimostrare che si è trattato di
un errore inescusabile. Tra queste rilevano,
per
esempio, la chiarezza e univocità della norma da
applicare, il carattere vincolato
del potere, la
mancata considerazione da parte
dell’amministrazione dell’apporto
partecipativo
del privato. A questo punto, per superare la
presunzione di colpa,
l’amministrazione deve
produrre elementi indiziari che viceversa
consentano di
qualificare l’errore come scusabile.
Tra questi rientrano la novità assoluta o la
formulazione incerta della norma applicata, i
contrasti giurisprudenziali in ordine alla
sua
interpretazione, il comportamento non corretto
del danneggiato che abbia tenuto
nascoste
circostanze rilevanti o abbia prodotto nel
procedimento dichiarazioni inesatte,
ecc. In
presenza di una illegittimità macroscopica il
danneggiato, per far scattare la
presunzione di
colpa, può limitarsi ad allegare l’illegittimità,
gravando poi
sull’amministrazione il compito di
fornire elementi volti a dimostrare l’assenza di
colpa.
  i tratta di un tipo di verifica
molto simile, come si
S
vedrà, a quella operata dalla giurisprudenza
europea per valutare
la gravità della violazione
commessa dall’amministrazione.
Un caso a sé è il danno arrecato
dall’illegittima
aggiudicazione di un contratto di lavori, servizi o
forniture. Infatti,
la giurisprudenza nazionale, sulla
scorta di quella della Corte di giustizia dell’Unione
europea (Sez. II, 30 settembre 2010 in C-314/09),
ritiene che il
risarcimento sia dovuto a prescindere
dall’accertamento dell’elemento soggettivo e
dunque a titolo di responsabilità oggettiva.

3.
La giurisprudenza  amministrativa prevalente
inquadra la   La natura
  extracontrattuale delle
responsabilità per responsabilità
danno da lesione di
interessi legittimi
all’interno degli schemi
della responsabilità
extracontrattuale ex
art. 2043 cod. civ. (Cons. St.,
Ad. Plen., 23 aprile 2021, n.
7).
  uttavia sono emerse in dottrina e
in
T
giurisprudenza ricostruzioni che adottano gli
schemi della responsabilità
contrattuale o
precontrattuale.
Si è osservato infatti che nella
vicenda
procedimentale conclusasi con l’emanazione di un
291 provvedimento illegittimo, il
privato danneggiato
non può essere equiparato al «chiunque» o
al
semplice «passante» con il quale il danneggiante
non ha alcuna relazione
preesistente, che è il
contesto nel quale può sorgere tipicamente la
responsabilità
extracontrattuale. Viceversa il
contatto procedimentale tra il privato e la pubblica
amministrazione si presta a essere inquadrato più
propriamente nello schema del rapporto
obbligatorio (di fonte non contrattuale, ma da
«contatto sociale») al quale si applicano
i principi
della responsabilità contrattuale (C. cass., Sez.
Un., 28 aprile 2020, n.
8236). Ciò perché si tratta di
un rapporto che, lungi dall’essere sottratto a
qualsivoglia regolamentazione, impone alle parti
obblighi comportamentali di correttezza
e buona
fede.
Riconoscere natura contrattuale o
precontrattuale
alla responsabilità per danno da provvedimento
illegittimo ha come
conseguenza l’applicazione del
relativo regime (termini di prescrizione, onere
probatorio, danno risarcibile, ecc.).
In realtà, la questione rimane
aperta e in ogni caso
qualche adattamento rispetto agli schemi civilistici
puri sembra
reso più agevole dal fatto che, secondo
il Codice del processo amministrativo (art. 7,
comma 4), la giurisdizione in tema di azioni
risarcitorie per lesione di interessi legittimi è
affidata al giudice amministrativo.
Quest’ultimo è
in grado dunque di elaborare con maggior
autonomia il regime della
responsabilità perché la
Corte di cassazione non può esercitare la
funzione
nomofilattica sulla interpretazione delle
norme civilistiche. Ciò perché il sindacato
della
Corte sulle sentenze del Consiglio di Stato è
limitato alle questioni di
giurisdizione (art. 111,
comma 8, Cost.). Il rischio, segnalato in dottrina
[Travi 2010], è peraltro che giudice ordinario e
giudice amministrativo sviluppino i
principi in
materia di responsabilità in direzioni divergenti.
Così, per esempio, pur
attribuendo natura
extracontrattuale alla responsabilità da lesione di
interessi
legittimi, la giurisprudenza tende a
ritenere risarcibili solo i danni prevedibili,
limitazione che il codice civile applica invece solo
alla responsabilità contrattuale
(art. 1225 cod. civ.
non richiamato dall’art. 2056 cod. civ.).
  Il danno da ritardo
 
4.
Un’ipotesi
 particolare di
responsabilità si ha nei casi nei
quali
l’amministrazione non conclude il procedimento
entro il termine previsto (danno da
ritardo di cui
si è già parlato nel capitolo V).
  ’art. 2-bis
stabilisce che le pubbliche
L
amministrazioni sono tenute al risarcimento del
danno
ingiusto «in conseguenza dell’inosservanza
dolosa o colposa del termine di conclusione
del
procedimento» fissato ai sensi dell’art. 2 l. n.
241/1990. Questa disposizione rafforza il
principio
della certezza del tempo dell’agire amministrativo,
che costituisce, come si è
detto, un «bene della
vita» autonomo suscettibile di risarcimento a
prescindere dalla
legittimità o illegittimità del
provvedimento emanato (in senso contrario però
Cons.
St., Sez. IV, 27 febbraio 2020, n. 1437).
Possono infatti darsi in astratto
tre situazioni. La
prima è che l’amministrazione abbia emanato nel
termine un
provvedimento di diniego illegittimo
(per esempio, un diniego di autorizzazione)
annullato dal giudice amministrativo e che essa
abbia poi rilasciato il provvedimento
favorevole in
esecuzione della sentenza. In questo caso il ritardo
nell’avvio di
attività è causato in modo diretto dal
primo provvedimento di diniego e si tratta dunque
di responsabilità da provvedimento illegittimo. La
292 seconda è che
l’amministrazione abbia rilasciato il
provvedimento favorevole
in ritardo, mentre la
terza è che l’amministrazione abbia negato
legittimamente il
provvedimento richiesto, pur
sempre in ritardo. In queste due ipotesi il danno da
ritardo emerge per così dire allo stato puro (mero
ritardo) perché non è causato dal
provvedimento,
che anzi in entrambe risulta legittimo, ma dal
comportamento inerte (o
non solerte)
dell’amministrazione.
L’art. 2-bis,
comma 1-bis, pone, come si è già
accennato, il principio che il
ritardo nella
conclusione del procedimento ad istanza di parte
possa essere anche fonte
di indennizzo, il cui
importo va detratto da quello eventualmente
riconosciuto a titolo
di risarcimento.

5.
Sotto il profilo processuale, l’azione per il
risarcimento del   L’azione risarcitoria
 
 danno da lesione di
interesse legittimo, diversamente da
quanto aveva
statuito la sentenza n. 500/1999, rientra ormai,
come si è già detto,
nella giurisdizione del giudice
amministrativo (art. 7, comma 4, Codice del
processo amministrativo). Inoltre
essa può essere
proposta, come si vedrà nel capitolo XIV, insieme
all’azione di
annullamento o anche, diversamente
da quanto aveva ritenuto inizialmente la
giurisprudenza amministrativa, in modo autonomo
(art. 30 Codice). Il danno da ritardo rientra tra le
materie
attribuite alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo (art. 133, comma 1, lett. a),
n. 1).
 
6.
Un ultimo cenno va dedicato alla
 responsabilità   La responsabilità
  contrattuale e
contrattuale
della precontrattuale

pubblica
amministrazione in base agli artt. 1218 ss. cod. civ.,
da sempre ammessa nei casi in cui
l’amministrazione agisce nella sua capacità di
diritto privato nei rapporti con i terzi.
In passato si
riteneva peraltro che essa fosse retta da alcuni
principi speciali. Per
esempio, si affermava che la
normativa sulla liquidazione delle somme dovute
dallo Stato
ai creditori contenuta nella legge sulla
contabilità prevalesse sul codice civile. Così,
fin
tanto che la stessa amministrazione non emetteva
il mandato di pagamento, il credito
non poteva
essere considerato liquido ed esigibile, non
decorrevano gli interessi di
mora e non poteva
essere intrapresa la procedura esecutiva. A partire
dalla fine degli
anni Settanta del secolo scorso è
prevalsa la tesi che le norme di contabilità hanno
un
carattere essenzialmente organizzativo interno
e che pertanto lo Stato è equiparato in
tutto e per
tutto a un debitore comune.
 Anche i principi della
responsabilità
precontrattuale di cui all’art. 1337 cod. civ., come si
è già accennato, trovano ormai
applicazione nei
confronti delle amministrazioni pubbliche. Più in
generale, come si è
visto, il principio di correttezza
e buona fede ormai sancito dall’art. 1, comma
2-bis,
della l. n. 241/1990, deve informare il
comportamento
della pubblica amministrazione,
oltre che del soggetto privato, all’interno del
procedimento amministrativo. Per esempio, se
l’amministrazione rassicura informalmente o
con
scambi di informazioni un soggetto privato circa
l’esito positivo di un
procedimento, l’affidamento
ingenerato può essere fonte di responsabilità (C.
cass.,
Sez. Un., 28 aprile 2020, n. 8236). Anche
l’annullamento in autotutela di un
provvedimento
favorevole al privato può far sorgere una
responsabilità
dell’amministrazione ove l’atto
annullato abbia ingenerato nel soggetto privato un
affidamento incolpevole (C. cass., Sez. Un., 21
settembre 2020, n. 19677). L’azione va
proposta
293 innanzi al giudice ordinario perché finalizzata a
risarcire un diritto soggettivo, cioè il diritto
all’integrità del patrimonio
pregiudicata dalla
impossibilità di continuare a godere del beneficio
acquisito sulla
base del provvedimento annullato
(C. cass., Sez. Un., 4 settembre 2015, n. 17586).
5. La
responsabilità nel diritto
europeo
La responsabilità nel diritto
europeo può essere
analizzata sotto due profili principali: la
responsabilità degli
organi dell’Unione europea in
relazione all’attività giuridica posta in essere dai
propri agenti in contrasto con il diritto europeo; la
responsabilità degli Stati membri
per violazione
del diritto europeo.
Il primo profilo trova una
regolamentazione nel
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea; il
secondo ha
origine essenzialmente
giurisprudenziale.
  La responsabilità degli
  organi
dell’Unione
1.
Iniziando  dal
europea
primo profilo, la
disposizione
rilevante è
l’art. 340 TFUE già citato. Il comma 1
disciplina la
responsabilità contrattuale della
Comunità e si limita a operare un rinvio alla legge
nazionale applicabile al contratto in causa. Il
comma 2 regola invece la responsabilità
extracontrattuale della Comunità e prevede, come
si è già accennato, che «l’Unione deve
risarcire,
conformemente ai principi generali comuni ai
diritti degli Stati membri, i
danni cagionati dalle
sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle
loro
funzioni». Questa disposizione ha avuto una
forza espansiva tale da costituire il
fondamento
della responsabilità degli Stati membri.
I  l comma 4 stabilisce infine che la
responsabilità
personale dei dipendenti dell’Unione nei confronti
di quest’ultima è
regolata dalle disposizioni sul
loro stato giuridico.
Quanto ai profili processuali,
l’art. 268 TFUE
attribuisce alla Corte di giustizia dell’Unione
europea la competenza a conoscere le controversie
relative alla responsabilità
extracontrattuale della
Comunità di cui all’art. 340, comma 2, sopra citato.
In seguito all’istituzione
del Tribunale di primo
grado, quest’ultimo conosce le domande
risarcitorie proposte da
persone fisiche e
giuridiche.
I presupposti sostanziali della
responsabilità delle
 istituzioni europee   I presupposti della
  responsabilità delle
sono essenzialmente istituzioni europee
tre: un
comportamento
contra jus; l’esistenza di un danno; il nesso
di
causalità. Ciascuno di essi richiede un
approfondimento.
 In primo luogo, nella nozione di
comportamento
contra jus imputabile a un’istituzione europea
rientra sia quella di comportamento o fatto
materiale (omissivo o commissivo), sia
quella di
atto giuridico, normativo o amministrativo.
La violazione deve avere un
carattere grave e
manifesto. Questo presupposto non è facile da
provare nei settori nei
quali il potere esercitato
assume connotati di ampia discrezionalità
(sentenza 25 maggio
1978, in cause riunite C-83 e
94/76, C-4, 15 e 40/77,
Bayerische HNL e altri c.
Consiglio e Commissione e sentenza 19
maggio 1992,
in cause riunite C-104/89 e C-37/90, Mulder e altri c.
294 Consiglio
e Commissione).
Il carattere grave e manifesto
della violazione può
essere ricavato in via sintomatica da alcuni indici:
il grado di
chiarezza e di precisione della norma
violata; il carattere intenzionale o involontario
della trasgressione commessa o del danno causato;
la scusabilità di un eventuale errore
di diritto;
l’accertamento dell’inadempimento contestato da
parte di una pronuncia
giudiziale (cfr. sentenza 5
marzo 1996, in cause riunite C-46/93 e C-48/93,
punto 56,
Brasserie du pêcheur-Factortame).
Affinché sorga la responsabilità
extracontrattuale
non è richiesto invece che la violazione della
norma derivi da una
condotta dolosa o colposa,
elemento soggettivo invece richiesto in molti
ordinamenti
nazionali come quello italiano. Il
danno risarcibile deve essere effettivo, cioè certo e
attuale. Può trattarsi di danni presenti o futuri, ma
non meramente ipotetici. Il danno
risarcibile è non
solo il danno emergente, ma anche il lucro
cessante, peraltro
raramente riconosciuto in
concreto (sentenza 3 febbraio 1994, in causa C-
308/87,
Grifoni).
Ai fini della quantificazione del
danno, la
giurisprudenza applica il principio generale
comune agli ordinamenti giuridici
degli Stati
membri secondo il quale la persona lesa, per
evitare di doversi accollare il
pregiudizio, deve
dimostrare di aver agito con ragionevole diligenza
onde limitare
l’entità del danno (cfr. sentenza 19
maggio 1992, citata, punto 33, Mulder e
altri c.
Consiglio e Commissione).

2.
Passando ora a considerare la responsabilità
degli Stati  membri,   La responsabilità degli
  Stati
membri
la sentenza
capostipite è la
sentenza Francovich (19
novembre 1991, in cause
riunite C-6 e 9/90).
I  l caso riguardava il mancato
recepimento da parte
della Repubblica italiana di una direttiva europea
((CEE) 1980/987)
entro il termine prescritto. Due
giudici nazionali, richiesti di pronunciarsi sul
diritto di alcuni lavoratori a ottenere direttamente
dallo Stato italiano i benefici
previsti dalla
direttiva, sottoponevano alla Corte di giustizia
dell’Unione europea in
via pregiudiziale alcune
questioni interpretative. Chiedevano cioè a
quest’ultima di
chiarire se i singoli possano far
valere direttamente nei confronti dello Stato i
benefici previsti dalla direttiva risultanti da
disposizioni sufficientemente precise e
incondizionate e comunque richiedere allo Stato il
risarcimento del danno subito in
relazione alle
disposizioni della direttiva che non abbiano tali
caratteristiche.
Appurato che la direttiva in
questione non era
sufficientemente precisa e incondizionata e
dunque non consentiva agli
interessati di far valere
i diritti da essa attribuiti ai lavoratori direttamente
nei
confronti dello Stato membro, la Corte di
giustizia ha esaminato la questione della
responsabilità dello Stato per danni derivanti dalla
violazione degli obblighi sorti in
forza del diritto
comunitario.
La motivazione della sentenza
dapprima si
sofferma sul fondamento della responsabilità dello
Stato, passa poi a
definire le condizioni in presenza
delle quali può sorgere una siffatta responsabilità.
Sul primo punto, afferma che «il
principio della
responsabilità dello Stato per danni causati ai
singoli da violazioni
del diritto comunitario ad
esso imputabili è inerente al sistema del Trattato»
(punto
35). Un fondamento può essere ritrovato,
295 secondo la Corte, già nell’obbligo degli Stati
membri di adottare tutte le misure atte ad
assicurare
l’esecuzione degli obblighi comunitari
(oggi art. 4, comma 3, TUE), compreso quello di
eliminare le
conseguenze illecite di una violazione
del diritto europeo.
La  sentenza enuncia   I presupposti della
  responsabilità degli
tre presupposti in Stati membri
presenza dei quali
può sorgere la
responsabilità:
che la direttiva attribuisca diritti a
favore dei singoli; che il contenuto di tali
diritti
possa essere individuato sulla base della direttiva
stessa; che esista un nesso
di causalità tra la
violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il
danno subito dai
soggetti lesi.
 Secondo gran parte dei
commentatori, la sentenza
Francovich segna una tappa fondamentale
nella
costruzione del sistema europeo come
ordinamento autonomo, un ordinamento cioè che
costruisce al proprio interno i propri principi e che
è in grado di imporli anche agli
Stati membri. Nel
caso di specie, la responsabilità degli Stati membri
non è più retta
solo dal diritto nazionale, ma anche
dai principi autonomamente formatisi (anche in
via
giurisprudenziale) nel diritto europeo.
La giurisprudenza europea ha
ripreso e sviluppato i
principi enunciati nella sentenza
Francovich.
La sentenza Brasserie du
pêcheur-Factortame del 5
marzo 1996, già richiamata, stabilisce che gli
Stati
membri possono essere tenuti a risarcire i danni
cagionati da violazioni del
diritto europeo da parte
del legislatore nazionale. I casi sottoposti alla
Corte
riguardavano, per un verso, un divieto di
importazione in Germania di birra francese
prodotta in modo non conforme ai requisiti di
genuinità prescritti dalla legge fiscale
tedesca, in
violazione dell’art. 34 TFUE; per altro verso, la
previsione contenuta nella
legge inglese sulla
navigazione mercantile di taluni requisiti restrittivi
di
nazionalità, residenza e domicilio per i
proprietari e gli esercenti di pescherecci
prescritti
ai fini dell’iscrizione in un apposito registro e ciò
in violazione
dell’art. 49 TFUE. Le disposizioni
europee violate dal legislatore
nazionale in
entrambi i casi erano tali da conferire direttamente
ai singoli diritti in
senso proprio.
La sentenza Lomas
del 23 maggio 1996, in causa C-
5/94,  sancisce il   La responsabilità da
  atto
amministrativo in
principio secondo il violazione del diritto
quale la europeo

responsabilità dello
Stato può sorgere non solo in
relazione a un atto
normativo, bensì anche a un atto amministrativo
adottato in
violazione del diritto europeo. Il caso
riguardava il diniego di una licenza di
esportazione
di animali da macello destinati alla Spagna da parte
del ministero
dell’Agricoltura, della Pesca e
dell’Alimentazione britannico, giustificato dal fatto
che i mattatoi spagnoli utilizzavano tecniche di
macellazione contrastanti con la
direttiva (CEE)
1974/577 relativa allo stordimento degli animali
prima della macellazione. La Corte ha sottolineato
che nel caso di diniego della licenza
di
esportazione, diversamente da quanto accade
normalmente nel caso di attività
normativa, il
ministero inglese non dispone di margini di
discrezionalità significativi
e pertanto «la semplice
trasgressione del diritto comunitario può essere
sufficiente per
accertare l’esistenza di una
violazione sufficientemente grave e manifesta»
(punto
28).
  a Corte ha poi precisato che la
responsabilità
L
dello Stato membro per violazione del diritto
europeo sorge qualunque sia
l’organo di
quest’ultimo la cui azione o omissione ha dato
296 origine alla trasgressione.
I casi più rilevanti hanno
riguardato il Land del Tirolo
(sentenza 1 giugno
o

1999, in causa C-302/97,


Konle) e un ente
previdenziale pubblico (la Cassa di malattia
dei
dentisti tedesca) (sentenza 7 aprile 2000, in causa
C-424/97,
Haim). Nel primo caso è stato chiarito
che uno Stato membro non
può sottrarsi alla
responsabilità invocando la ripartizione interna
delle competenze
derivante dalla sua struttura
federale.
Un ulteriore sviluppo è costituito
dal principio che
la responsabilità dello Stato può sorgere anche in
conseguenza di
pronunce di organi giurisdizionali
(sentenze 30 settembre 2003, in causa C-224/01,
Koebler, 13 giugno 2006, in causa C-173/03, Traghetti
del Mediterraneo, 4 marzo 2020, in causa C-34/19,
Telecom
Italia Spa). Non possono essere di
impedimento a riconoscere questo tipo
di
responsabilità, come rileva la sentenza Koebler, né
il principio
dell’autorità del giudicato, poiché il
giudizio «inteso a far dichiarare la
responsabilità
dello Stato non ha lo stesso oggetto e non implica
necessariamente le
stesse parti del procedimento
che ha dato luogo alla decisione che ha acquisito
l’autorità della cosa definitivamente giudicata»
(punto 39); né il principio
dell’indipendenza del
giudice, poiché assume rilievo «non la
responsabilità personale
del giudice, ma quella
dello Stato» (punto 42).
6. La
responsabilità erariale

La responsabilità    Il danno erariale


  diretto
erariale (detta anche
amministrativa), il
cui accertamento,
come si vedrà, avviene da parte
della Corte dei conti, trova fondamento nel Testo
unico
degli impiegati civili dello Stato (art. 18 d.p.r.
10 gennaio 1957, n. 3) secondo il quale
l’impiegato è
tenuto a risarcire l’amministrazione e «i danni
derivanti da violazioni di
obblighi di servizio»
(danno erariale diretto). Un caso particolare è
quello, già
esaminato, dell’amministrazione
condannata a risarcire il danno provocato a terzi
da un
proprio dipendente e che agisce in via di
regresso nei confronti di quest’ultimo (danno
erariale cosiddetto indiretto).
 Esempi di danno    Esempi di danno
  erariale
erariale sono la
distruzione di
attrezzature e macchinari
dell’amministrazione, le
consulenze superflue affidate a professionisti
esterni, i
contratti stipulati a condizioni
sfavorevoli per l’amministrazione, le spese
voluttuarie
degli amministratori di enti o non
legate all’attività di servizio, ecc. Le condotte del
dipendente che possono dar origine a danno
erariale sono atipiche, anche se il
legislatore,
sempre più di frequente, individua alcuni
comportamenti suscettibili di far
sorgere la
responsabilità erariale. Così, per esempio, la legge
anticorruzione prevede
che in caso di
commissione di un reato di corruzione all’interno
dell’amministrazione,
il dirigente responsabile
della prevenzione possa rispondere per danno
erariale e per
danno all’immagine della pubblica
amministrazione se non ha vigilato sull’osservanza
del
piano anticorruzione approvato
dall’amministrazione (art. 1, comma 12, l. n.
190/2012).
 La responsabilità erariale inerisce
al rapporto
interno tra dipendente pubblico e amministrazione
di appartenenza. In questo
senso costituisce,
concettualmente, una sottospecie della
297 responsabilità del lavoratore
subordinato nei
confronti del proprio datore di lavoro che
nasce in
conseguenza della violazione dei doveri di
diligenza (art. 2104 cod. civ.).
Tuttavia il regime della
responsabilità erariale si
distacca dal diritto comune e si caratterizza per
avere un
carattere ibrido, a metà strada tra la
responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.
Essa ha una finalità essenzialmente risarcitoria, ma
in alcune fattispecie particolari
emerge anche una
finalità sanzionatoria.
Le fonti normative della
responsabilità erariale
sono costituite dal Testo unico delle leggi sulla
Corte dei conti approvato con r.d. 12
luglio 1934, n.
1214, che risale, quanto a impostazione, alla
legislazione di
contabilità approvata all’epoca
dell’Unità d’Italia, e soprattutto dalla legge 14
gennaio 1994, n. 20, più volte modificata.
Quanto  al campo di   L’agente pubblico e il
  rapporto
di servizio
applicazione, sotto il
profilo soggettivo,
questo tipo di responsabilità
vale per funzionari,
impiegati, agenti pubblici e amministratori delle
amministrazioni
pubbliche statali e non statali e di
enti pubblici (aziende sanitarie locali, enti
parastatali, ecc.). Nel corso del tempo la
giurisprudenza ha ampliato il novero delle
figure
rientranti nella nozione di agente pubblico fino ad
abbracciare anche gli
amministratori di enti
pubblici economici. Possono essere chiamati a
rispondere anche
soggetti esterni
all’amministrazione legati ad essa da un «rapporto
di servizio» di tipo
funzionale. Si pensi, per
esempio, in materia di lavori pubblici finanziati
con fondi
erariali, al progettista, al direttore dei
lavori e al collaudatore che sono liberi
professionisti non dipendenti di una pubblica
amministrazione. Infatti queste figure
sono in
qualche modo compartecipi nei processi
decisionali e nella gestione delle
risorse pubbliche
e dunque nella produzione del danno. Esse sono
inserite, sia pure solo
temporaneamente e
funzionalmente, nell’apparato organizzativo della
pubblica
amministrazione.
 In anni recenti la giurisprudenza
della Corte dei
conti  aveva esteso   Le società pubbliche
 
l’ambito della
responsabilità erariale anche agli amministratori e
dirigenti delle società per azioni
in mano pubblica,
sottoponendo così questi ultimi a un doppio
regime di responsabilità,
cioè alla responsabilità in
base al diritto societario (artt. 2393 ss. cod. civ.) e a
quella per danno erariale. La
preoccupazione della
Corte era che attraverso il ricorso allo strumento
della società
per azioni in mano pubblica si
volessero eludere i vincoli pubblicistici. Peraltro, la
Corte di cassazione (Sez. Un., 19 dicembre 2009,
n. 26806) ha posto un limite a questo
tipo di
estensione, affermando che in linea di principio le
società pubbliche non
rientrano nel perimetro
della responsabilità erariale. Se mai, per le perdite
derivanti
dalla cattiva gestione societaria possono
rispondere per danno erariale i responsabili
dei
ministeri e delle amministrazioni pubbliche
titolari delle azioni per aver svolto in
modo poco
diligente il loro ruolo di azionista. Solo le società
in-house e quelle che in virtù delle numerose
deroghe
legislative all’assetto di diritto comune
sono assimilabili a pubbliche amministrazioni
(per
esempio la RAI) rientrano pienamente nel regime
della responsabilità
amministrativa.
 Questi principi sono stati recepiti
dal Testo unico
sulle società partecipate (art. 12 d.lgs. n. 175/2016),
anche se la formulazione delle
disposizioni
298 presenta alcune ambiguità.
La responsabilità ha natura
personale. Quando il
fatto dannoso è causato da più persone, ciascuna
risponde solo per
la parte di sua competenza.
Tuttavia in caso di dolo o quando le persone
coinvolte hanno
conseguito un illecito
arricchimento la responsabilità è solidale (art. 1,
commi
1-quater e 1-quinquies, l. n. 20/1994).
Inoltre,
nelle deliberazioni degli organi collegiali la
responsabilità si imputa
esclusivamente a coloro
che hanno espresso il voto favorevole (art. 1,
comma
1-ter, l. n. 20/1994). Nel caso di atti che
rientrano nella
competenza di uffici tecnici o
amministrativi, la responsabilità non si estende ai
titolari degli organi politici che li abbiano
approvati in buona fede, ovvero abbiano
autorizzato o consentito l’esecuzione, e ciò atteso
che essi non siano necessariamente
in possesso di
una professionalità giuridica o tecnica adeguata.
Sotto il profilo oggettivo, la
responsabilità sorge in
relazione  «ai fatti ed   La responsabilità per
  dolo o
colpa grave
alle
omissioni
commessi con dolo e
colpa grave» (art. 1, comma 1, l. n. 20/1994).
L’esclusione della
responsabilità nel caso di colpa
lieve evita di sovraccaricare i dipendenti pubblici
del
rischio di essere chiamati a rispondere di
attività che comunque perseguono l’interesse
pubblico, anche se, in realtà, nei singoli casi la
linea di confine tra colpa lieve e
colpa grave risulta
spesso incerta. Come già accennato, in via
sperimentale il
legislatore ha alleggerito il regime
della responsabilità dei funzionari pubblici nel
momento in cui adottano i provvedimenti di loro
competenza nella fase di ripresa post
Covid-19 e di
attuazione del Piano nazionale di ripresa e
resilienza. Il legislatore ha
previsto cioè che per le
condotte «attive» sia necessario il requisito del
dolo, mentre
per quelle «omissive» (inerzia) sia
sufficiente il requisito della colpa grave (art. 21
l. n.
120/2020). Si tratta di una misura di contrasto alla
cosiddetta «burocrazia
difensiva», timorosa di
esercitare le proprie competenze per non incorrere
in
responsabilità.
  e il danno deriva da un
provvedimento, resta
S
ferma comunque «l’insindacabilità nel merito delle
scelte
discrezionali» (art. 1, comma 1, l. n.
20/2004). Ciò significa che se il
provvedimento è
legittimo, la Corte dei conti non può sostituire le
proprie valutazioni
in ordine alla opportunità e
convenienza di una determinata scelta
amministrativa.
Altrimenti ne verrebbe
penalizzata, con effetti paralizzanti, la
managerialità degli
amministratori pubblici che
devono assumere decisioni spesso in condizioni di
incertezza
in ordine agli esiti delle medesime. Il
sindacato della Corte dei conti, al pari di
quello del
giudice amministrativo, può riguardare tutti i
profili di legittimità,
incluso l’eccesso di potere
nella molteplicità delle sue figure sintomatiche.
Anche i
canoni di efficienza ed efficacia posti
dall’art. 1 della l. n. 241/1990 come corollari del
principio di
buon andamento di cui all’art. 97
della Costituzione rilevano sul piano della
legittimità e non della opportunità e pertanto
possono essere posti alla base del
sindacato della
Corte dei conti (C. cass., Sez. Un., 24 dicembre
2018, n. 33365 e 1º
febbraio 2021, n. 2157).
È risarcibile non soltanto il
danno  provocato
all’amministrazione in cui è incardinato
il
dipendente, ma più in   Il danno obliquo
 
generale il danno
cagionato «ad amministrazioni o enti diversi
da
quelli di appartenenza» (art. 1, comma 4, l. n.
20/1994). In quest’ultimo caso si ha
il cosiddetto
danno obliquo che può emergere nel caso di un
dipendente pubblico
distaccato o comandato
299 presso un’altra amministrazione, oppure
nel caso
del componente di un consiglio di
amministrazione di un ente pubblico nominato
da
un ministero o altro ente. Il danno obliquo non si
presta a essere inquadrato nello
schema della
responsabilità contrattuale tra dipendente e
proprio datore di lavoro, ma è
coerente con una
visione che tende a tutelare l’interesse erariale
considerando, sotto
questo profilo, il settore
pubblico come un unico comparto.
I  l diritto al risarcimento si
prescrive in cinque anni
dalla data in cui il fatto si è verificato, ovvero, in
caso di
occultamento doloso del danno, dalla data
della sua scoperta (art. 1, comma 2, l. n. 20/1994).
Ciò avvicina il regime della
responsabilità erariale
a quello extracontrattuale per il quale il termine di
prescrizione è quinquennale (art. 2947 cod. civ.).
Ai  fini
della   La quantificazione del
  danno
quantificazione del
danno, vanno valutati
anzitutto il decremento patrimoniale o
la mancata
entrata da parte dell’amministrazione. Al danno
patrimoniale si aggiunge in
alcuni casi il danno
all’immagine dell’amministrazione, per esempio
nel caso di
percezione di tangenti da parte di
amministratori per il compimento di atti in
violazione dei doveri d’ufficio. Il danno va
liquidato scomputando i «vantaggi comunque
conseguiti dall’amministrazione di provenienza o
da altra amministrazione, o dalla
comunità
amministrata» (art. 1, comma 1-bis, l. n. 20/1994).
Così,
per esempio, se un amministratore di un ente
assume un dipendente a tempo indeterminato
al di
fuori dalla pianta organica, al danno commisurato
alle retribuzioni versate vanno
sottratte le utilità
che l’ente e gli amministrati hanno ricavato grazie
all’attività
posta in essere dal dipendente. Nel caso
di realizzazione di lavori non previsti dal
capitolato, ma comunque utili per
l’amministrazione, occorre tener conto di questo
beneficio. Questa sorta di compensatio lucri cum
damno, operata con
criteri sostanzialmente
equitativi, non può tuttavia portare a un
azzeramento del
risarcimento.
 Una particolarità del regime della
responsabilità
erariale consiste nel cosiddetto potere riduttivo in
base al quale la
Corte «può porre a carico dei
responsabili tutto o parte del danno accertato o del
valore perduto» (art. 52, comma 2, Testo unico
delle leggi sulla Corte dei
conti). Questo potere
consente di modulare la somma a carico delle
finanze
personali del dipendente rispetto
all’enormità dei danni potenziali
all’amministrazione.
Si pensi al caso di un militare
che per imperizia distrugga un aereo o un mezzo
blindato. Secondo alcuni [Corso 2010, 437], questo
potere risente di una concezione
paternalistica del
rapporto dello Stato con i propri dipendenti, nei
confronti dei quali
vengono usati «il bastone» della
responsabilità erariale e «la carota» del potere
riduttivo.
Sotto il profilo processuale, come
si è accennato e
come si vedrà meglio nel capitolo XIV, la
responsabilità erariale viene
accertata in un
giudizio innanzi alla Corte dei conti.
Complessivamente la responsabilità
erariale è
retta da un regime non omologabile ai modelli del
codice civile. Essa
costituisce un fattore di
deterrenza che spesso ha effetti paralizzanti
sull’azione
amministrativa (la «burocrazia
difensiva» di cui abbiamo detto). Non è certo che
la già
richiamata limitazione della responsabilità al
dolo nel caso di condotte attive
introdotta in via
sperimentale nel contesto delle misure volte a
favorire la ripresa
post Covid-19 verrà confermata
come soluzione a regime.
CAPITOLO 8

L’organizzazione

303
1. Nozione,
fonti normative e
principi generali
In termini generalissimi
l’organizzazione può
essere definita come una unità di persone,
strutturata e operante
su base continuativa al fine
di perseguire scopi comuni che i singoli non
sarebbero in
grado di raggiungere individualmente.
Ogni organizzazione ha una propria struttura
gestionale (di management) che stabilisce
funzioni e ruoli e attribuisce compiti e
responsabilità ai singoli appartenenti. Una
distinzione elementare è tra organizzazioni
informali o di fatto (clan, gruppo sportivo,
coordinamento di genitori di una scuola,
mafia,
ecc.) e organizzazioni formali o di diritto (partito
politico, fondazione,
società per azioni, ente
pubblico).
L’organizzazione è oggetto di studio
anzitutto da
parte  della sociologia   L’approccio
  sociologico e
e delle scienze aziendalistico
aziendali. Risale,
come si è accennato
nel capitolo I, a Max Weber un’analisi
sistematica
dei tipi di organizzazione riguardanti sia le attività
dei privati, sia le
comunità di tipo statuale. Così,
quanto alle prime, nella fase nascente del
capitalismo
occidentale si passò dalla comunità
domestica all’impresa organizzata secondo criteri
razionali. In quest’ultima la figura dell’impiegato
professionale è distinta da quella
del servitore
personale del capofamiglia e i debiti dell’esercizio
commerciale si
separano da quelli domestici.
  uanto alle comunità di tipo
statuale, il moderno
Q
Stato di diritto, conforme al modello del potere
legale-razionale,
come si è visto, presuppone
almeno due elementi: un sistema di regole
oggettive
precostituite e l’istituzione di apparati
burocratici stabili, ordinati in modo
gerarchico,
con un’attribuzione precisa di competenze ai
singoli uffici. A questi ultimi
sono assegnati
funzionari di carriera dotati di qualificazioni
specializzate.
Le teorie dell’organizzazione
elaborate dalle
scienze sociali e aziendali seguono una pluralità di
approcci
(razionalistico, organicistico,
organizzazione come sistema sociale, ecc.). Esse
costituiscono il retroterra dell’analisi più
304 propriamente
giuridica.
Il diritto pubblico, come si è
detto, per lungo
tempo ignorò i fatti organizzativi e in particolare le
articolazioni
interne dello Stato. Limitò invece la
propria attenzione ai provvedimenti formali e alla
loro incidenza nella sfera giuridica dei loro
destinatari. La stessa definizione dello
Stato come
persona giuridica servì più che altro a individuare
un centro di imputazione
unitario al quale riferire
sotto il profilo soggettivo i poteri, i provvedimenti
e i
rapporti giuridici con i cittadini. Da qui la
centralità della teoria della persona
giuridica e
dell’organo.
Tutto ciò che stava a monte dei
poteri dello Stato e
dei diritti dei singoli, e cioè sia il procedimento sia
l’organizzazione (articolazione degli uffici,
personale, ecc.), veniva considerato
irrilevante per
il diritto e relegato alla sfera interna
dell’amministrazione. Lo studio
dell’organizzazione rientrava invece tra i compiti
della scienza dell’amministrazione.
Il fenomeno organizzativo  iniziò a destare
interesse nella fase in   Le fonti normative
 
cui, per un verso,
si
ruppe la struttura monolitica dello Stato e si
affermò il pluralismo dei livelli di
governo e degli
apparati pubblici con la conseguente necessità di
inquadrare
giuridicamente le relazioni tra essi; per
altro verso, iniziarono a farsi sentire le
istanze di
una maggior democraticità, con l’esigenza
connessa di sottoporre almeno in
parte
l’organizzazione a un corpo di norme giuridiche
(anzitutto di fonte legislativa).
 L’organizzazione pubblica è
disciplinata nel nostro
ordinamento da una pluralità di fonti che,
assommate, regolano
la struttura degli apparati
amministrativi in modo molto minuzioso.
Al livello più alto si colloca la
Costituzione . Essa
enuncia anzitutto i   La Costituzione
 
principi generali
dell’imparzialità e del buon andamento (art. 97), ai
quali devono ispirarsi sia
l’attività sia
l’organizzazione degli apparati pubblici, e il
principio autonomistico
(art. 5).
I  ndividua poi i livelli di governo
chiarendo che la
Repubblica è costituita dai comuni, dalle province,
dalle città
metropolitane, dalle regioni e dallo
Stato (art. 114). Prevede in particolare, come
articolazioni fondamentali dello Stato, i ministeri,
demandando alla legge statale il
compito di
determinarne il numero, le attribuzioni e
l’organizzazione e di disciplinare
gli enti pubblici
nazionali (artt. 95, comma 3, e 117, comma 2, lett.
g) e f )).
Dedica l’intero Titolo V
all’organizzazione e ai
poteri di regioni, province e comuni. Enumera in
particolare gli
organi delle regioni (consiglio,
giunta, presidente) precisandone le funzioni (art.
121). Demanda invece alla legge statale il compito
di individuare gli organi di governo
e le funzioni
fondamentali di comuni, province e città
metropolitane (art. 117, comma 2, lett. p)).
La Costituzione stabilisce ancora
che
nell’ordinamento degli uffici sono determinate le
sfere di competenza, le
attribuzioni e le
responsabilità proprie dei funzionari (art. 97,
comma 2).
A livello europeo, l’art. 298 del Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea
pone il
principio di un’amministrazione «aperta, efficace e
indipendente».
In attuazione della Costituzione,
numerose fonti
legislative primarie disciplinano l’organizzazione
305 dei ministeri e della
presidenza del Consiglio dei
ministri (d.lgs. 30 luglio 1999, nn. 300 e 303), degli
enti locali
(d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267) e degli
apparati ed enti
pubblici di più antica o recente
istituzione.
In  attuazione delle   La disciplina
  sublegislativa
disposizioni di rango dell’organizzazione
legislativo,
l’organizzazione e il
funzionamento delle amministrazioni pubbliche è
rimessa sia a fonti normative
sublegislative, sia a
fonti aventi natura non normativa.
 L’organizzazione statale è
disciplinata anzitutto
con regolamenti governativi (art. 17, comma 1, lett.
d), l. n. 400/1988). Inoltre, le
amministrazioni
pubbliche, mediante atti organizzativi emanati
secondo i rispettivi
ordinamenti (statuti,
regolamenti di organizzazione, ecc.), individuano
le linee
fondamentali dell’organizzazione degli
uffici, nonché gli uffici di maggiore rilevanza e
determinano le dotazioni organiche complessive
(art. 2 d.lgs. n. 165/2001). Gli atti organizzativi in
questione sono pubblicati, insieme alle direttive,
ai programmi, alle istruzioni e alle
circolari,
secondo le modalità previste dai singoli
ordinamenti. In attuazione delle
fonti normative
pubblicistiche che disciplinano la macro-
organizzazione, le
determinazioni per
l’organizzazione degli uffici, nonché le misure
inerenti alla
gestione dei rapporti di lavoro sono
assunte, come si è accennato nel capitolo I, dagli
organi preposti alla gestione con la capacità e i
poteri del privato datore di lavoro
(art. 5, comma 2,
d.lgs. n. 165/2001).
A livello statale, in particolare,
l’organizzazione dei
ministeri è disciplinata in parte dal d.lgs. n.
300/1999, che elenca i ministeri, individua le
strutture di primo livello (dipartimenti, direzioni
generali), disciplina le agenzie,
stabilisce le
attribuzioni dei singoli ministri; in parte da
regolamenti di
delegificazione che individuano gli
uffici di livello dirigenziale, centrali e
periferici e
definiscono la consistenza delle piante organiche
(art. 17, comma
4-bis, l. n. 400/1988); in parte da
decreti ministeriali di
natura non regolamentare
che definiscono i compiti delle unità dirigenziali
nell’ambito
degli uffici dirigenziali generali (lett. e)
del comma 4-bis). Una
fonte  di disciplina
dell’organizzazione   Il codice
  dell’amministrazione
amministrativa,
da digitale
considerare anche
per gli sviluppi
sull’operatività delle pubbliche amministrazioni,
è
costituita dal Codice dell’amministrazione digitale
(CAD) approvato con il d.lgs. 7
marzo 2005, n. 82,
modificato più volte, da ultimo con il d.l. 16 luglio
2020, n. 76
(decreto semplificazioni). Il Codice si
compone di nove Capi, il primo dei quali è
dedicato ai principi generali, prevedendo in
particolare il diritto all’uso della
tecnologia nei
rapporti con le pubbliche amministrazioni, nonché
alla disciplina del
domicilio digitale dei privati e
delle amministrazioni. Gli altri Capi contengono,
tra
l’altro, la disciplina del documento informatico
e della firma elettronica (Capo II),
della
trasmissione informatica dei documenti e dei dati,
nonché le norme sull’identità
digitale e
sull’accesso ai servizi online delle pubbliche
amministrazioni (Capi IV e V).
Vanno richiamati
anche il Piano triennale per l’informatica nella
pubblica
amministrazione approvato dal
presidente del Consiglio dei ministri (art. 16 del
CAD),
nonché il Piano nazionale di ripresa e
resilienza che mira ad accelerare i processi di
digitalizzazione della pubblica amministrazione.
   livello substatale
A   Le fonti regionali e
  degli enti
locali
gli statuti e le leggi
regionali contengono
una disciplina
dell’organizzazione delle regioni e
306 dei loro apparati.
  uanto ai comuni e alle province,
in attuazione
Q
delle disposizioni legislative statali (soprattutto il
Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti
locali
approvato con d.lgs. n. 267/2000), spetta allo
statuto stabilire le norme
fondamentali
dell’organizzazione dell’ente specificando le
attribuzioni degli organi
(art. 6 d.lgs. n. 267/2000
citato). Le disposizioni
statutarie in materia di
organizzazione a loro volta trovano attuazione e
specificazione
in un regolamento che disciplina
l’ordinamento generale degli uffici e dei servizi e in
altri regolamenti dell’ente (artt. 7 e 89).
Per effetto di questo complesso di
fonti normative
l’organizzazione delle pubbliche amministrazioni è
disciplinata, come si
è anticipato, da una trama
molto fitta di norme giuridiche. Ciò a differenza di
quanto
accade, come si dirà, per le persone
giuridiche private, per le quali l’organizzazione
interna è rimessa in gran parte a determinazioni
assunte dagli organi amministrativi
(organigrammi) nel rispetto di una cornice minima
di norme contenute nel codice civile e
negli statuti.
Dalle fonti costituzionali e
legislative si possono
ricavare alcuni principi generali in materia di
organizzazione.
  Il principio del buon
  andamento
1.
Il  principio del
buon andamento ha
risvolti non solo, come
si è accennato, in tema di
attività della pubblica amministrazione, ma anche
di
organizzazione. Questa seconda dimensione
emerge in disposizioni legislative come
quelle, per
esempio, che prevedono il reclutamento del
personale in base a concorso
(cioè in base al
merito) e secondo le esigenze effettive
rappresentate nelle piante
organiche; che
disciplinano la valutazione del personale; che
prevedono un sistema
completo di controllo di
gestione; che sottopongono le spese degli apparati
a controlli
rigorosi; che mirano all’accorpamento o
alla soppressione di enti pubblici e strutture
inefficienti o addirittura inutili.
    Il principio di
  imparzialità
2.
Il  principio di
imparzialità,
anch’esso riferibile
all’organizzazione oltre che
all’attività, si esprime anzitutto nelle regole volte a
far
sì che la politica non si ingerisca
nell’amministrazione e in particolare, come si
vedrà
nel capitolo X, nel principio organizzativo
della distinzione tra funzioni di indirizzo
e di
controllo proprie dei vertici politici delle
amministrazioni e funzioni di gestione
riservate ai
dirigenti. Esso inoltre sta alla base dell’obbligo del
responsabile del
procedimento e dei titolari degli
uffici di dichiarare situazioni di conflitto di
interessi e pertanto di astenersi dall’esercizio dei
propri poteri (art.
6-bis
l. n. 241/1990). È sotteso
poi al principio della rotazione
degli incarichi
dirigenziali anche a fini di anticorruzione (art. 1,
comma 4, lett. e), l. 6 novembre 2012, n. 190).
Anche la regola del concorso per l’accesso agli
impieghi nelle pubbliche amministrazioni
(art. 97,
comma 3) mira a garantire l’imparzialità, oltre che
il buon andamento.
 
3.
Si è già fatto cenno al  principio di pubblicità e
di
trasparenza riferito   Il principio di
  trasparenza
al procedimento
amministrativo. La
normativa anticorruzione (l. n. 190/2012 e il d.lgs.
n. 33/2013 emanato sulla base di una delega
contenuta
in tale legge) sviluppa anche una
dimensione organizzativa del principio di
trasparenza.
I  l d.lgs. n. 33/2013 impone infatti alle pubbliche
amministrazioni di pubblicare sui propri siti e di
aggiornare le informazioni e i dati
concernenti la
propria organizzazione, come, per esempio,
307 l’articolazione degli
uffici, le competenze e le
risorse a disposizione di ciascuno
di essi; gli atti di
nomina o di conferimento degli incarichi dei
componenti degli
organi di indirizzo politico e dei
dirigenti, i curricula e i compensi da essi percepiti
(artt. 13 ss.); i documenti e gli allegati del bilancio
preventivo e del conto consuntivo (art. 29).
La dimensione organizzativa del
principio di
trasparenza si esprime poi nella già ricordata figura
del responsabile
della trasparenza, di norma
coincidente con il responsabile per la prevenzione
della
corruzione. Quest’organo deve vigilare sul
rispetto degli obblighi di pubblicazione
segnalando
all’organo di indirizzo politico, all’organismo
indipendente di valutazione e
all’Autorità
nazionale anticorruzione le inadempienze (art. 43
d.lgs. n. 33/2013). È stato introdotto inoltre il
programma triennale per la trasparenza e
l’integrità che definisce le misure, i modi e
le
iniziative volti all’attuazione dei molteplici
obblighi di pubblicazione introdotti
(art. 10).
Come misura organizzativa è stato anche reso
obbligatorio l’inserimento nei
siti istituzionali
delle pubbliche amministrazioni di una sezione
denominata
Amministrazione trasparente articolata in
sottosezioni
individuate in modo omogeneo così
da rendere più agevole la consultazione e la
comparazione (All. 1 d.lgs. n. 33/2013).

4.
La Costituzione enuncia il principio
 autonomistico (art.   Il principio
  autonomistico
5)
che ispira i
rapporti tra Stato ed
enti territoriali. Esso supera la visione
tradizionale
del centralismo amministrativo e della preminenza
dello Stato su ogni altro
apparato amministrativo.
Come chiarisce meglio l’art. 114, la Repubblica è
composta,
oltre che dallo Stato, dai comuni, dalle
province, dalle città metropolitane, dalle
regioni,
definiti come «enti autonomi» (comma 2). Il
principio autonomistico ha
implicazioni su diversi
versanti: autonomia statutaria, titolarità di
funzioni proprie
distribuite in base al già
menzionato principio di sussidiarietà verticale
(art. 118),
autonomia finanziaria di entrata e di
spesa (art. 119), potestà legislativa e
regolamentare
(art. 117).
 
5.
Il principio autonomistico trova un
bilanciamento nel   Il principio di leale
  collaborazione
 principio di leale
collaborazione tra i diversi livelli di governo, dal
quale derivano
obblighi di consultazione e
informazione reciproci, doveri di coordinamento,
ecc. Pur
non trovando un riferimento espresso
nella Costituzione, il principio di leale
collaborazione è ormai consolidato nella
giurisprudenza della Corte costituzionale
(sentenza 25 ottobre 2000, n. 437) la quale lo ha
estrapolato dall’art. 4, comma 3, TUE che lo
enuncia con riferimento ai
rapporti tra l’Unione e
gli Stati membri.
 
6.
In seguito alle modifiche all’art. 97 della
Costituzione introdotte nel 2012, come si
vedrà nel
capitolo XIII, le pubbliche amministrazioni devono
assicurare, in coerenza con
l’ordinamento europeo,
l’ equilibrio dei   Il principio
  dell’equilibrio di
bilanci e la bilancio
sostenibilità del
debito pubblico.
 
2. Persone
giuridiche, organi e
uffici
La teoria dell’organizzazione
pubblica si avvale in
gran parte della nomenclatura e dei concetti
elaborati per le
persone giuridiche private
308 disciplinate dal codice civile (Libro I, Titolo
II).
Il codice antepone alla disciplina
delle persone
giuridiche private una disposizione sulle persone
giuridiche pubbliche.
L’art. 11 stabilisce infatti che
le province, i comuni e gli enti pubblici
riconosciuti
come persone giuridiche godono dei
diritti secondo le leggi e gli usi osservati come
diritto pubblico. Le persone giuridiche pubbliche,
come già accennato nel capitolo I,
hanno dunque
la medesima capacità giuridica delle persone
giuridiche private, salvo il
regime derogatorio che
può derivare da norme speciali. Si pensi, per
esempio, ai divieti
imposti agli enti locali relativi
alla stipula di particolari tipi di contratti
finanziari,
come i cosiddetti derivati, ritenuti troppo
rischiosi. Lo Stato costituisce
poi, come è stato
detto, la persona giuridica per eccellenza o l’ente
pubblico per
antonomasia.
La teoria dell’organizzazione ruota
attorno a tre
concetti: persona giuridica, organo (e ufficio),
persona fisica titolare
dell’organo.

1.
Personalità significa attitudine riconosciuta
dall’ordinamento a diventare soggetto di
diritti,
cioè titolare di diritti e doveri giuridici. La
personalità giuridica viene
riconosciuta sia alle
persone fisiche, sia alle persone giuridiche. Una
soggettività
parziale e una qualche autonomia
patrimoniale sono garantite anche alle associazioni
non
riconosciute e ai comitati (artt. 36 ss.).
La persona giuridica è dunque
un’organizzazione
formale (nel senso prima visto) considerata
dall’ordinamento giuridico
come un soggetto di
diritto separato dalle persone fisiche che la
compongono e dotato di
una propria capacità
giuridica.
Le persone giuridiche private si
distinguono a
seconda che  abbiano   Gli enti a struttura
  associativa
e
una struttura fondazionale
associativa, ove
prevale l’elemento
personale, o di fondazione, ove prevale l’elemento
patrimoniale. Anche tra le persone giuridiche
pubbliche alcune hanno struttura
prevalentemente
associativa (gli ordini e collegi professionali, le
federazioni
sportive, le camere di commercio,
industria e artigianato, ecc.), altre natura
patrimoniale (enti previdenziali, aziende sanitarie
locali).
  a costituzione della persona
giuridica privata
L
avviene su base negoziale, cioè con un atto
costitutivo sotto forma di
accordo associativo
oppure, nel caso delle fondazioni, di atto
unilaterale.
L’attribuzione della personalità
giuridica consegue al riconoscimento determinato
dall’iscrizione nel registro delle persone giuridiche
istituito presso le prefetture,
una volta soddisfatte
le condizioni stabilite dalla legge. Da tempo essa
non dipende più
da un atto discrezionale
governativo, come prevedeva il codice civile in
un’epoca in cui
le espressioni della società civile
erano viste con sfavore e sottoposte a controlli
stringenti (art. 12 cod. civ. ora abrogato e sostituito
con la
disciplina contenuta nel d.p.r. 10 febbraio
2000, n. 361). Nel caso delle società per
azioni la
personalità giuridica si acquista automaticamente
con l’iscrizione nel
registro delle imprese (art. 2331
cod. civ.).
L’istituzione degli enti pubblici
invece avviene
direttamente per legge nel caso di enti a statuto
singolare (cioè
disciplinati da una legge ad hoc
come per esempio il CONI o l’ISTAT),
oppure
sulla base di delibere amministrative nel caso di
categorie di enti previste da
una legge generale
(università, camere di commercio, ecc.). L’art. 4
legge 20 marzo 1975, n. 70 stabilisce che nessun
309 nuovo ente pubblico può essere istituito o
riconosciuto se non
per legge. La legge istitutiva di
un singolo ente o di categorie di enti ne individua
le
finalità, l’assetto organizzativo, i poteri, la
vigilanza, ecc.

2.
Per poter instaurare rapporti  giuridici con
soggetti
esterni le   Il rapporto di
  immedesimazione
persone giuridiche si organica e di
avvalgono di organi rappresentazione

che possono essere


definiti come
centri di imputazione giuridica (o di
competenza): la persona fisica titolare
dell’organo
ha il potere di esprimere la volontà della persona
giuridica imputando
direttamente in capo a
quest’ultima l’atto e gli effetti da esso prodotti. Tra
persona
fisica e persona giuridica intercorre un
rapporto di immedesimazione (organica), nel
senso che per mezzo della persona fisica preposta
all’organo è la stessa persona
giuridica che vuole e
agisce. La persona giuridica è infatti un’entità
puramente
astratta e non può avere una volontà
propria autonoma. Già secondo Santi Romano
[1909],
senza i suoi funzionari «lo Stato non
potrebbe possedere, e tanto meno dichiarare ed
attuare una sua propria volontà».
 Un modello  di   La rappresentanza
 
imputazione giuridica
alternativo, elaborato in origine
in dottrina per
offrire una spiegazione del modo di agire delle
persone giuridiche e poi
abbandonato, è la
rappresentanza. Il rappresentante, in base a una
procura rilasciata
dal rappresentato
(rappresentanza volontaria) o per conferimento ex
lege, ha il potere di porre in essere atti i cui effetti
si producono
direttamente nei confronti del
rappresentato (artt. 1387 e 1388 cod. civ.).
 Rispetto all’immedesimazione
organica, la
rappresentanza instaura un legame meno intenso
poiché l’atto in quanto tale
è riferibile solo al
rappresentante, mentre gli effetti dell’atto, sempre
che esso
rientri nei limiti delle facoltà conferite dal
rappresentato, si imputano direttamente a
quest’ultimo. Se il rappresentante agisce senza
averne i poteri o eccedendo i limiti
della procura,
l’atto e i suoi effetti non si imputano al
rappresentato, salva
l’eventuale ratifica (artt. 1398
e 1399 cod. civ.).
Il modello della rappresentanza si
confà ai rapporti
che coinvolgono persone fisiche poiché
presuppone, nel caso di
rappresentanza volontaria,
una duplice volontà (quella del rappresentato che
conferisce
il potere al rappresentante e quella di
quest’ultimo che pone in essere l’atto). Il
codice,
non a caso, nel disciplinare i vizi della volontà e gli
stati soggettivi
rilevanti (buona o malafede,
scienza o ignoranza) dà rilievo sia alla volontà del
rappresentante, ma anche, entro certi limiti, a
quella del rappresentato (artt. 1390 e 1391 cod.
civ.). Il modello della rappresentanza è invece
meno adatto a spiegare il modo di operare delle
persone giuridiche nel quale è assente
per
definizione, come si è detto, una volontà di queste
ultime autonoma e distinta dalla
volontà della
persona fisica che agisce.
Il modello dell’immedesimazione
organica è
preferibile perché riesce a dar conto
dell’imputazione in capo alla persona
giuridica
anche dell’attività illecita posta in essere dalla
persona fisica titolare
dell’organo (o dell’ufficio)
nell’interesse della prima (salvi i casi della
cosiddetta
frattura del rapporto organico ai quali si
è fatto cenno nel capitolo VII).
L’individuazione degli organi delle
persone
giuridiche (per esempio, l’assemblea dei soci, il
consiglio di amministrazione,
il presidente), con la
specificazione delle relative competenze, è operata
310 dalla legge e
dagli statuti dei singoli enti.
Nelle persone giuridiche a
struttura più complessa
(società commerciali di grandi dimensioni) il
rappresentante
legale può comunque conferire,
sulla base del codice civile, la rappresentanza,
entro
limiti di oggetto e di valore definiti nella
procura speciale (per esempio per gli
acquisti di
beni e servizi o per altri negozi), a funzionari e
dipendenti.
Oltre che di organi, le persone
giuridiche, specie
quelle di maggior dimensione, si avvalgono per la
propria attività di
uffici  (o servizi), cioè di unità
operative interne   Gli uffici o servizi
 
definite da
organigrammi, alle quali sono addette una o più
persone fisiche. In realtà,
gli stessi organi possono
essere considerati come una specie particolare di
uffici il
cui titolare ha anche il potere di emanare
atti giuridici che impegnano l’ente nei
rapporti
esterni (uffici-organo).
  differenza degli organi, gli
uffici svolgono
A
un’attività che ha rilevanza meramente interna e
natura strumentale
rispetto a quella degli organi in
senso proprio. Si pensi, per esempio, all’ufficio
contabilità, all’ufficio del personale, all’ufficio
contratti, ecc. Gli uffici (o
servizi) sono individuati
in organigrammi predisposti dal management con
delibere o
ordini di servizio interno. A ciascun
ufficio sono poi assegnati i dipendenti adibiti,
con
diversi livelli di responsabilità, alle varie mansioni.
L’organizzazione interna delle
persone giuridiche
private è, come si è detto, tendenzialmente libera.
Di recente,
peraltro, leggi settoriali prevedono
come obbligatori alcuni uffici. Si pensi per
esempio
all’organismo di vigilanza sul funzionamento e
l’osservanza dei modelli
organizzativi idonei a
prevenire alcuni tipi di reato che possono dar
origine a
responsabilità amministrativa delle
persone giuridiche (art. 6 d.lgs. 8 giugno 2001, n.
231).
Nelle amministrazioni pubbliche,
invece, come si è
visto nel paragrafo precedente, l’organizzazione
dei pubblici uffici è
sottoposta a una riserva di
legge relativa (art. 97 Cost.) ed è disciplinata da
fonti legislative e da
atti organizzativi emanati dai
singoli enti (regolamenti di organizzazione, piante
organiche). Alcune strutture o uffici, come per
esempio quelli deputati ai controlli
interni (d.lgs.
30 luglio 1999, n. 286) o del responsabile della
prevenzione della corruzione e della trasparenza,
sono obbligatori per tutte le
pubbliche
amministrazioni.

3.
Gli organi e gli uffici agiscono per mezzo di
persone fisiche. Alcune di esse, poste in
posizione
apicale, ne assumono la titolarità; altre, con varietà
di qualifiche e di
funzioni, fanno parte del
personale addetto che svolge l’attività di supporto
al
titolare dell’organo o dell’ufficio.
Nel caso delle organizzazioni
pubbliche la
 preposizione o   L’atto di investitura o
  di
assegnazione
l’assegnazione di una
persona
fisica a un
organo o a un ufficio richiede un atto formale: la
cosiddetta investitura
nel caso del titolare, o
l’assegnazione negli altri casi. L’atto in questione è
emanato
talora dai vertici dell’apparato (per
esempio il conferimento di un incarico
dirigenziale
generale o di direttore di dipartimento da parte del
ministro) o anche, a
livelli meno elevati, dal
dirigente dell’ufficio del personale. Per alcuni
organi, come
si vedrà nel capitolo X, la
preposizione avviene in seguito a un procedimento
elettivo
(per esempio il consiglio comunale o il
consiglio di un ordine professionale) o con un
atto
di nomina da parte di soggetti esterni all’apparato
(i componenti del consiglio di
amministrazione di
311 un ente pubblico designati dai ministeri vigilanti).
  ’atto formale di investitura o di
assegnazione
L
instaura il rapporto di immedesimazione organica
tra la persona fisica e
l’organo o ufficio. La persona
fisica viene così, per usare un’altra espressione
ricorrente, incardinata nell’organo o nell’ufficio e
la sua attività è imputabile
direttamente a questi
ultimi e di conseguenza alla persona giuridica.
Il r apporto di   Il rapporto di servizio
  o
d’impiego
immedesimazione
organica tra persona
fisica, organo o ufficio e persona
giuridica è un
rapporto interno di tipo organizzatorio. La persona
fisica è però legata
alla persona giuridica anche da
un rapporto per così dire esterno, cioè dal
cosiddetto
rapporto di servizio (o d’impiego).
Quest’ultimo è un rapporto giuridico bilaterale che
ha per contenuto il complesso dei diritti
(compenso, ferie, ecc.) e degli obblighi
assunti dal
dipendente nei confronti del datore di lavoro. Al
rapporto di servizio è
dedicato il capitolo X.
I  l rapporto di servizio  è il presupposto affinché il
dipendente possa   Il funzionario di fatto
 
essere poi
assegnato
a un ufficio e possa così instaurarsi il rapporto di
immedesimazione organica.
Può darsi tuttavia che
il rapporto di servizio sia sorto in seguito a una
procedura o a
un atto di investitura annullati o
dichiarati nulli. In questi casi si pone per le
persone giuridiche pubbliche il problema di quale
sia la sorte degli atti posti in
essere dalla persona
fisica titolare dell’organo. Questi ultimi, infatti,
almeno in
astratto, dovrebbero essere ritenuti
anch’essi invalidi in quanto non riferibili, sia
pure
ex post, all’amministrazione. Per evitare gli
inconvenienti di
una siffatta eventualità è stata
elaborata la figura del funzionario di fatto, cioè di
colui che pur in assenza di un’investitura formale
esercita di fatto funzioni pubbliche
(per esempio,
nel caso di eventi bellici o rivoluzionari o in altre
situazioni
eccezionali). In base al principio di
effettività, unito a una qualche apparenza, agli
occhi della collettività, della legittimità del ruolo
assunto, si instaura un rapporto
organico di fatto
tale da rendere legittimi gli atti adottati. Talora
queste situazioni
eccezionali vengono poi
regolarizzate ex post con atto legislativo
(per
esempio, nel caso degli atti emanati dai funzionari
della Repubblica di Salò
nell’ultima fase della
seconda guerra mondiale).
 Dato conto della teoria giuridica
dell’organizzazione, conviene ora analizzare la
struttura degli apparati pubblici e le
relazioni che
insorgono tra questi.
In primo luogo vanno richiamate
alcune
classificazioni, qualcuna a valenza solo descrittiva.

1. Anzitutto gli organi possono essere esterni o


interni.  Gli organi   Organi esterni o
  interni
esterni, come si è
detto, sono gli
strumenti
attraverso i quali la persona giuridica
opera nei rapporti con altri soggetti
dell’ordinamento. Gli organi interni (o uffici)
svolgono attività giuridiche
propedeutiche alla
formazione della volontà dell’amministrazione
formalizzate in un atto
emanato da un organo
esterno. Si pensi per esempio ad atti
endoprocedimentali come un
parere dell’ufficio
tecnico, un visto di regolarità contabile della
ragioneria, un atto
istruttorio del responsabile del
procedimento.
 
2. In secondo luogo gli organi e uffici possono
essere necessari  o   Organi e uffici
  necessari e non
non necessari, a necessari
seconda che la loro
istituzione sia
prevista come obbligatoria dalle norme che
disciplinano l’organizzazione dell’ente. Per
esempio, rientrano nella prima tipologia gli organi
312 individuati direttamente dalla legge
come, nel caso
dei comuni, il sindaco, la giunta e il consiglio
comunale; nella seconda tipologia rientrano i
cosiddetti ministeri senza portafoglio che
possono
essere istituiti all’atto della costituzione del
governo su proposta del
presidente del Consiglio
dei ministri che delega a essi proprie funzioni (art.
9 l. n. 400/1988) oppure gli uffici di supporto agli
organi di direzione politica degli enti locali (art. 90
d.lgs. n. 267/2000 citato).
 
3. In terzo luogo gli organi possono essere
monocratici o   Organi monocratici e
  collegiali
 collegiali. Nel primo
caso all’organo è
preposta una sola
persona fisica che ne assume la
titolarità (per esempio, il ministro, il sindaco, il
presidente di camera di commercio, ecc.). Nel
secondo caso, ad esso è preposta una
pluralità di
persone fisiche che esprimono la volontà
dell’apparato attraverso delibere
assunte sulla base
di regole già esaminate nel capitolo IV a proposito
degli atti
collegiali.
 
Gli  organi collegiali   I collegi perfetti (o
  reali)
sono collegi perfetti
(o reali) ove sia
stabilito che essi possano
deliberare solo se sono
presenti tutti i componenti (per esempio, le
commissioni di
concorso), anziché, com’è regola
generale, la metà più uno dei componenti (quorum
costitutivo).
 Le modalità previste per la nomina
dei componenti
dell’organo collegiale variano a seconda dei casi.
Ove prevale l’esigenza
di assicurare la
rappresentanza di una pluralità di interessi
pubblici o privati, le
norme individuano i soggetti
(ciascuno presposto alla cura di un particolare
interesse)
che possono designare uno o più
componenti (per esempio, i ministeri vigilanti che
nominano uno o più componenti del consiglio di
amministrazione di un ente pubblico). In
altri casi
i componenti sono scelti su base elettiva (consigli
comunali). In altri casi
ancora i componenti sono
nominati in ragione di specifiche competenze
tecniche
(commissioni di concorso). In qualche
caso sono previsti meccanismi di cooptazione, cioè
la sostituzione dei componenti cessati dall’incarico
da parte dei componenti rimasti in
carica.
Anche la nomina dei titolari degli
organi
monocratici in alcuni casi è elettiva (sindaco,
presidente di camera di
commercio, rettore di
università); in altri casi è affidata a uno o più
soggetti esterni
(i ministeri preposti alla vigilanza
di un ente pubblico che ne designano il
presidente); in altri casi ancora agli stessi organi
collegiali (il consiglio di
amministrazione di un
ente pubblico che nomina al proprio interno il
presidente).
  Organi attivi,
  consultivi, di
controllo
4. In  quarto luogo,
in base al tipo di
funzioni, gli organi e uffici possono essere attivi,
allorché emanano gli atti
amministrativi correlati
alle funzioni dell’ente o svolgono le attività
materiali
(vigili del fuoco, agenti forestali, ecc.);
consultivi, allorché esprimono pareri
tecnici o
giuridici (come quelli rilasciati dalla commissione
edilizia di un comune); di
controllo (come le
strutture preposte ai controlli di gestione).
 Ricorrenti sono anche altre
distinzioni: organi
ordinari e straordinari, questi ultimi istituiti per
svolgere
funzioni particolari per un tempo
determinato (come gli alti commissari governativi
per
la lotta alla criminalità o per far fronte ad altri
tipi di emergenze, i commissari che
subentrano
alla gestione di un ente pubblico nel quale siano
riscontrate irregolarità e,
da ultimo, i commissari
straordinari nominati per accelerare la
realizzazione di opere
pubbliche, ecc.); uffici
semplici e complessi, i secondi composti da una
pluralità di
uffici semplici (a livello di ministeri,
313 per esempio, i
dipartimenti suddivisi al loro
interno in direzioni generali, a
loro volta composte
da più direzioni semplici); uffici centrali e
periferici (per
esempio, il ministero dell’Interno e
le prefetture istituite a livello provinciale);
organi e
uffici amministrativi e tecnici a seconda che
svolgano attività che richiedano
o meno particolari
cognizioni tecniche (come il Consiglio superiore di
sanità, la
Protezione civile, ecc.).
3. Le
amministrazioni
pubbliche
Nel capitolo I si è sottolineato
che nel corso del XX
secolo la pubblica amministrazione italiana ha
assunto le sembianze
di una costellazione di
apparati multilivello e policentrica. Accanto alle
amministrazioni di tipo più tradizionale (Stato,
enti territoriali) sono stati istituiti
enti pubblici di
vario tipo e, in epoca più recente, soggetti
formalmente privati, ma
sottoposti almeno in
parte a regimi pubblicistici. Sotto il profilo
quantitativo, in
base ai dati dell’ISTAT, le
amministrazioni italiane sono circa 10.000 (delle
quali
oltre 8.000 sono comuni).
In realtà, il perimetro della
pubblica
amministrazione non è tracciato in modo univoco,
né rispetto agli organi di
livello costituzionale, né
rispetto ai soggetti privati.
Quanto al primo versante, in
particolare, il
Consiglio dei ministri si pone sul crinale tra
politica e
amministrazione. È infatti ad un tempo
organo costituzionale, dato il suo ancoraggio al
circuito politico rappresentativo garantito dal
meccanismo della fiducia del parlamento
(art. 94
Cost.), e organo di vertice e di chiusura del
sistema
della pubblica amministrazione. Nella prima veste
adotta atti politici (per
esempio, la questione di
fiducia o la nomina dei sottosegretari), nella
seconda esercita
funzioni di indirizzo e di
amministrazione attiva (piani, programmi,
nomine, poteri
sostitutivi, ecc.).
Quanto al secondo versante, come
si vedrà, i criteri
per distinguere gli enti pubblici dagli enti privati
individuati
dalla dottrina e dalla giurisprudenza
non sono univoci. È ormai acclarato infatti che
«uno stesso soggetto possa avere la natura
pubblica a certi fini e rispetto a certi
istituti e
possa, invece, non averla ad altri fini, consentendo,
rispetto ad altri
istituti, regimi normativi di natura
privatistica» (Cons. St., Sez. VI, 11 luglio 2016, n.
3043). Si è affermata
cioè, come si vedrà, una
nozione funzionale di ente pubblico.
Inoltre, come si è osservato nel
capitolo I a
proposito della tendenza espansiva del diritto
amministrativo, anche a
soggetti formalmente
privati (in particolare talune società per azioni in
mano pubblica)
si applicano alcune normative di
tipo pubblicistico (procedure a evidenza pubblica
in
materia di acquisti, diritto di accesso ai
documenti amministrativi
ex
art. 22 l. n. 241/1990,
ecc.).
Man ca
in ogni caso   La mancanza di una
nel nostro   definizione
legislativa
di pubblica
ordinamento una
amministrazione
definizione legislativa
di pubblica
amministrazione alla quale si ricolleghi
l’applicazione di un corpo di regole e principi
omogeneo. Molte leggi amministrative settoriali
individuano il proprio campo di
applicazione
attraverso un elenco tassativo di enti. Alcune leggi
invece prevedono che
esse si applichino alle
pubbliche amministrazioni senza darne una
314 definizione precisa.
 Così, per esempio, il Testo unico
delle disposizioni
in tema di documentazione amministrativa, nel
definire il campo di
applicazione oggettivo e
soggettivo della disciplina, fa riferimento alle
«pubbliche
amministrazioni» (artt. 2 e 3 d.p.r. 28
dicembre 2000, n. 445), senza che di esse venga
fatta menzione nel pur lungo elenco di definizioni
contenute nell’art. 1 (documento
informatico,
firma elettronica, ecc.). Analogamente, il Codice
del processo
amministrativo devolve alla
giurisdizione amministrativa le controversie
riguardanti
«provvedimenti […] posti in essere da
pubbliche amministrazioni» (art. 7, comma 1).
Da qui dunque la necessità di
costruire in via
interpretativa, secondo un approccio funzionale, la
nozione di pubblica
amministrazione.
Essa può essere desunta
induttivamente dalle leggi
amministrative settoriali che pongono definizioni
o elenchi
di enti e soggetti che rientrano nel loro
campo di applicazione. Così può accadere che
alcuni enti o soggetti ricadano in più definizioni
legislative e che pertanto ad essi si
applichino
cumulativamente i regimi speciali pubblicistici
posti dalle leggi settoriali.
Prendendo  a prestito   Le pubbliche
  amministrazioni in
nozioni della teoria senso stretto e in
degli insiemi, si senso lato

potrebbe
affermare
che l’insieme degli enti che sono inclusi in tutti i
regimi speciali in base
alle definizioni previste
dalle singole leggi amministrative di settore
costituiscono la
pubblica amministrazione in
senso stretto. In esso rientrano principalmente,
come si
vedrà, le amministrazioni statali
(ministeri, agenzie), le regioni, gli enti locali, gli
enti pubblici non economici (enti previdenziali,
università, enti portuali, ecc.), le
autorità
indipendenti.
  ’insieme degli enti che sono
inclusi in uno solo o
L
in pochi regimi speciali pubblicistici (in genere,
soggetti
privati titolari di funzioni amministrative
o che ricevono finanziamenti pubblici) vanno
considerati invece come casi eccezionali di
espansione del diritto amministrativo a
soggetti
privati o, tutt’al più, come pubbliche
amministrazioni in senso lato.
I principali regimi speciali da
considerare sono
principalmente quelli relativi al pubblico impiego,
al procedimento
amministrativo, ai contratti
pubblici, alla finanza pubblica (in particolare, al
Patto
di stabilità).

1. Un primo gruppo di norme speciali


pubblicistiche è contenuto nel
citato d.lgs. n.
165/2001 che pone la disciplina generale
dell’organizzazione degli uffici pubblici e dei
rapporti di lavoro.
L’art. 1, comma 2, definisce l’ambito di
applicazione delle
norme attraverso un elenco
tassativo di enti: le amministrazioni e agenzie dello
Stato,
gli enti territoriali (regioni, province,
comuni), una serie di enti pubblici
nominativamente citati (università, aziende ed
enti del Servizio sanitario nazionale,
camere di
commercio, industria, artigianato e agricoltura,
istituti autonomi per le case
popolari – IACP) o
comunque rientranti nella categoria generale degli
enti pubblici non
economici (da distinguere, come
si vedrà, dagli enti pubblici economici, per i quali
dunque non vale la disciplina speciale).
Questa definizione viene
richiamata in molte altre
leggi settoriali per definire il loro ambito di
applicazione.

2. Un secondo gruppo di norme pubblicistiche è


costituito dalla
disciplina del procedimento
amministrativo contenuta nella l. n. 241/1990. Il
suo campo di applicazione sotto il
profilo
soggettivo è definito, come si è visto più nei
particolari nel capitolo V, dagli
artt. 1 e 29. In
315 estrema sintesi l’art. 29 menziona le
amministrazioni statali, gli enti pubblici nazionali,
le regioni e gli enti locali.
Inoltre rende applicabili
in modo inderogabile alcune disposizioni della
legge
genericamente «a tutte le amministrazioni
pubbliche» (art. 29, comma 1, ultimo periodo).
Quest’ultima espressione,
che è richiamata ma non
definita in modo preciso da altri articoli (artt.
2-bis,
4, 15 e 30, comma 2), resta quindi in qualche
misura indeterminata.
Ancora, la l. n. 241/1990 si
applica anche ai soggetti privati preposti
all’esercizio di attività amministrative (art. 1,
comma 1-ter).
Inoltre, ai fini dell’applicazione del
diritto di accesso, la l. n. 241/1990 intende per
pubblica amministrazione tutti i
soggetti di diritto
pubblico e i soggetti di diritto privato
limitatamente alla loro
attività di pubblico
interesse disciplinata dal diritto nazionale o dal
diritto
comunitario (art. 22, comma 1, lett. e)).

3. Un terzo gruppo di norme pubblicistiche


riguarda i contratti per
l’acquisto di beni, servizi e
lavori. Esse sono contenute, sulla scorta delle
direttive
europee, nel Codice dei contratti
pubblici approvato con d.lgs. n. 50/2016. Il Codice
pone una serie di definizioni
riferite sia a tipologie
di contratti sia, per quel che qui rileva, di soggetti
(«soggetti aggiudicatori», «enti aggiudicatori»,
«amministrazioni aggiudicatrici»,
«organismi di
diritto pubblico», «imprese pubbliche», «stazione
appaltante», elencati
nell’art. 3) volta a individuare
in modo specifico le parti del Codice e le
procedure di
volta in volta applicabili. Queste
definizioni e la logica ad esse sottesa verranno
esaminate nel capitolo XII.

4. Un quarto gruppo di regole speciali attiene al


cosiddetto Patto di
stabilità e crescita concordato
in sede europea (nel Consiglio europeo di
Amsterdam del 17 giugno 1997, in
occasione della
firma del Trattato omonimo) che impegna gli Stati
aderenti a porsi
obiettivi di pareggio di bilancio nel
medio termine. A questo fine in Italia è stato
approvato il cosiddetto Patto di stabilità interno
(legge 23 dicembre 1998, n. 448) che attribuisce al
governo
strumenti per vincolare al rispetto degli
obiettivi di finanza pubblica anche le regioni
e gli
enti locali. Le pubbliche amministrazioni alle quali
si applicano le norme sul
controllo della spesa
sono individuate dall’ISTAT sulla base delle norme
classificatorie
e definitorie del sistema statistico
nazionale e comunitario stabilite a livello europeo
dal regolamento del Consiglio europeo del 25
giugno 1996, n.
2223. Questo contiene alcune
definizioni generali di amministrazioni
pubbliche
suddivise in amministrazioni centrali,
amministrazioni di Stati federati,
amministrazioni
locali, enti di previdenza e assistenza sociale.
I criteri principali per
individuare le
amministrazioni pubbliche e per distinguerle dal
settore delle imprese
sono i seguenti: deve
trattarsi di enti che producono beni e servizi che
non siano
destinati alla vendita sul libero mercato;
i beni e servizi devono essere invece messi a
disposizione della collettività gratuitamente (o
sulla base di prezzi economicamente non
significativi); l’attività dell’ente deve essere
finanziata in prevalenza a carico delle
finanze
pubbliche.
L’elenco  dell’ISTAT,   L’elenco dell’ISTAT
 
formato sulla base di
questi criteri, pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale e
aggiornato periodicamente, suddivide le
amministrazioni
pubbliche in tipologie: enti di
regolazione dell’attività economica, agenzie, enti a
316 struttura associativa, autorità amministrative
indipendenti,
enti produttori di servizi
assistenziali, ricreativi e culturali, enti di ricerca,
amministrazioni locali, ecc. L’elenco fornisce
dunque una ricognizione tendenzialmente
completa delle pubbliche amministrazioni che è
utile per ricostruire la nozione
generale. I ricorsi
contro l’inserimento in tale elenco sono devoluti
alla giurisdizione
della Corte dei conti (art. 1,
comma 169, legge 24 dicembre 2012, n. 228).
L’elenco
dell’ISTAT è richiamato anche da molte
leggi amministrative allo scopo di definirne il
campo di applicazione.
 Volendo provare a sintetizzare i
tratti
caratterizzanti  delle   La nozione di pubblica
  amministrazione
pubbliche
amministrazioni,
ricavandoli induttivamente dagli elenchi e dai
criteri posti dalle principali normative
speciali, si
può anzitutto dire, in negativo, che esse si
collocano al di fuori del
mercato, nel senso che
esse non producono beni e servizi resi sulla base di
prezzi che
consentano di realizzare i ricavi atti a
coprire i costi e a produrre utili. In
positivo, la
caratteristica propria delle pubbliche
amministrazioni è quella di produrre
beni pubblici
materiali o immateriali, quelli che cioè il mercato
non è in grado di
garantire in modo adeguato
(ordine pubblico, sicurezza, difesa, giustizia,
pubblica
istruzione, salute, ecc.) con finalità anche
redistributive. Il finanziamento di tali
attività è
posto in prevalenza a carico della collettività
attraverso il ricorso alla
tassazione. Tali attività
possono consistere, a seconda delle funzioni
attribuite alla
singola amministrazione, sia (ma
non in tutti i casi) nell’emanazione di atti o
provvedimenti amministrativi, sia in attività
materiali (prestazioni sanitarie o
assistenziali,
istruzione scolastica, ecc.), sia in erogazione di
danaro (trattamenti
pensionistici, contributi
finanziari alle imprese, ecc.).
 Concluso l’inquadramento generale
delle
pubbliche amministrazioni, è possibile ora dar
conto delle principali tipologie di
enti e apparati,
senza peraltro la pretesa di fornire un quadro
esaustivo. Alcune
tipologie di enti (enti locali, enti
del servizio sanitario, ecc.) sono esaminate
usualmente in modo più approfondito in
trattazioni specialistiche (diritto degli enti
locali,
diritto sanitario, ecc.).
Una definizione di pubblica
amministrazione  è
posta a livello   La nozione europea di
  pubblica
europeo a proposito amministrazione
del principio di libera
circolazione dei
lavoratori. L’art. 45 comma 4, TFUE esclude
l’applicazione di questa
libertà «agli impieghi nella
pubblica amministrazione». Quest’ultima nozione
è
interpretata dalla Corte di giustizia dell’Unione
europea in modo restrittivo e
prescindendo da
ogni definizione nazionale; ciò al fine di non
restringere
eccessivamente questa libertà e di
evitare differenziazioni tra gli Stati membri. In
pratica, la nozione europea si riferisce soltanto al
nucleo ristretto di incarichi e di
figure
professionali che partecipano in modo diretto o
indiretto all’esercizio dei
poteri pubblici e alla
tutela degli interessi generali dello Stato. Così, per
esempio,
non hanno queste caratteristiche gli
infermieri delle aziende ospedaliere, gli
insegnanti
delle scuole, i direttori dei musei (come chiarito da
Cons. St., Ad. Plen.,
25 giugno 2018, n. 9) anche se
si tratta di dipendenti di pubbliche
amministrazioni in
base al d.lgs. n. 165/2001 sopra
317 citato.
 
4. Lo
Stato

Fin dalla legge Cavour (legge 23 marzo 1853, n. 1483


e r.d. 23 ottobre 1853, n.
1611) la struttura
amministrativa portante dello Stato è costituita dai
ministeri.
Il modello originario di
ministero, al cui vertice si
colloca il  ministro,   I ministeri
 
punto di
raccordo tra
politica e amministrazione e di collegamento con il
circuito politico
rappresentativo, si connotava per
la sua compattezza e unitarietà, secondo il
principio
gerarchico. Gli uffici e le strutture
operative di ciascun ministero, preposte alle
singole funzioni, erano inclusi in unità di livello
via via superiore (servizi,
divisioni, direzioni
generali), fino al vertice della piramide, costituito
dal ministro
responsabile dell’intera attività e
centro di imputazione unitario delle competenze
(poteri amministrativi) rilevanti nei rapporti con i
soggetti esterni.
  el corso dei decenni, i ministeri
hanno mutato
N
fisionomia. Infatti, come si dirà qui di seguito, il
loro numero è
aumentato e molte loro funzioni
sono state trasferite, in base al principio di
sussidiarietà verticale, alle regioni e agli enti locali;
la loro organizzazione è
divenuta meno compatta e
omogenea, sia per tener conto della diversità di
funzioni, sia
in seguito all’istituzione delle
agenzie; il principio gerarchico è stato sostituito,
come si vedrà nel capitolo X, dal principio della
distinzione tra politica e
amministrazione.
Il numero, l’articolazione e la
denominazione dei
ministeri hanno subito numerose modifiche in
seguito ad accorpamenti e
spacchettamenti. I più
tradizionali hanno mantenuto una configurazione
stabile
(ministeri dell’Interno, degli Esteri, della
Giustizia). Altri sono stati istituiti e
poi soppressi
(per esempio, il ministero delle Partecipazioni
statali). Nel 1978 fu
istituito il ministero
dell’Ambiente (poi denominato ministero
dell’Ambiente e della
Tutela del territorio e del
mare). Di recente il d.l. 1
marzo 2021, n. 22 ha
o

istituito il ministero della Transizione ecologica


(già ministero
dell’Ambiente e della Tutela del
territorio e del mare) e il ministero delle
Infrastrutture e della Mobilità sostenibile (già
ministero delle Infrastrutture e dei
Trasporti). Ha
inoltre ridenominato il ministero per i Beni e le
Attività culturali in
ministero della Cultura.
Come già accennato, in base
all’art. 95, comma 4,
Cost. spetta alla legge determinare il
numero, le
attribuzioni e l’organizzazione dei ministeri. La
disciplina generale dei
ministeri è contenuta nel
d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300 emanato nell’esercizio
di una
delega legislativa disposta dalla legge 15
marzo 1997, n. 59. Questa legge, come si è
accennato, ha devoluto molte funzioni
amministrative statali alle regioni e agli enti
locali
(cosiddetto federalismo amministrativo).
Il d.lgs. n. 300/1999 contiene l’elenco completo dei
ministeri
(art. 2), pone una disciplina generale
della loro organizzazione centrale e periferica
(incluse le agenzie), specifica le attribuzioni e le
principali aree funzionali dei
singoli ministeri.
Ciascun ministero è disciplinato poi da un
regolamento governativo
(art. 17, comma 4-bis, l. n.
400/1988) che ne specifica
l’organizzazione,
prevede la dotazione organica, individua gli uffici
318 di livello
dirigenziale generale.
Accanto  ai ministeri   I ministri senza
  portafoglio
indicati dal d.lgs. n.
300/1999 possono
essere preposti a singoli uffici
o dipartimenti della
presidenza del Consiglio dei ministri, i cosiddetti
ministri senza
portafoglio, che non sono a capo di
un dicastero ma di dipartimenti e che esercitano
solo funzioni delegate dal presidente del Consiglio
dei ministri (per esempio, il
dipartimento per la
Funzione pubblica e l’Innovazione oggi
ridenominato ministero per la
Pubblica
amministrazione o il dipartimento per le Pari
opportunità) (art. 9 l. n. 400/1988). Da ultimo il d.l.
1 marzo 2021, n. 22 ha istituito la figura del
o

ministro
delegato per l’Innovazione tecnologica e
la Transizione digitale.
 A livello di governo ,   I Comitati
  interministeriali
sono istituiti con
funzioni di
coordinamento i Comitati
interministeriali, tra i
quali possono essere menzionati il CIPE
(Comitato
interministeriale per la
programmazione economica), il CICR (Comitato
interministeriale
per il credito e il risparmio), che
si occupa della vigilanza in materia di credito e di
tutela del risparmio, il CISR (Comitato
interministeriale per la sicurezza della
Repubblica), il CIAE (Comitato interministeriale
per gli affari europei). Da ultimo il
d.l. 1 marzo
o

2021, n. 22 ha infine istituito il CITE


(Comitato
interministeriale per la transizione ecologica) e il
CITD (Comitato
interministeriale per la
transizione digitale).
  ’organizzazione dei ministeri è
di due tipi a
L
seconda che le strutture di primo livello siano
formate da dipartimenti o
da direzioni generali
(art. 3 d.lgs. n. 300/1999). Il modello
dipartimentale è
previsto per i ministeri preposti a
una pluralità di ambiti di intervento (per esempio,
il ministero dell’Economia e delle Finanze o il
ministero dell’Interno), mentre quello
per
direzioni generali riguarda ministeri con
competenze più omogenee e circoscritte.
I dipartimenti assicurano
l’esercizio organico e
integrato  di funzioni   I dipartimenti
 
e «compiti
finali
riguardanti grandi aree di materie omogenee» (art.
5 d.lgs. n. 300/1999). Ad essi è preposto un capo di
dipartimento che, in attuazione degli indirizzi del
ministro, coordina gli uffici di
livello dirigenziale
generale afferenti al singolo dipartimento.
L’incarico di capo di
dipartimento ha una
connotazione marcatamente fiduciaria ed è
conferito con un
procedimento che coinvolge i
vertici istituzionali dell’ordinamento (decreto del
presidente della Repubblica, previa deliberazione
del Consiglio dei ministri, su
proposta del ministro
competente, art. 19, comma 3, d.lgs. n. 165/2001).
I  ministeri strutturati in
direzioni generali possono
prevedere come figura di coordinamento un
segretario generale
(art. 6 d.lgs. n. 300/1999),
nominato con le stesse modalità
dei capi di
dipartimento, che funge da raccordo tra ministro e
i dirigenti preposti alle
direzioni generali.
In tutti i ministeri sono
istituiti uffici di diretta
collaborazione con il ministro (gabinetto,
segreteria
tecnica, ufficio legislativo) (art. 7 d.lgs.
n. 300/1999). Alcuni compiti dei ministri
possono
essere delegati ai sottosegretari di Stato (alcuni dei
quali con il titolo di
viceministro), usualmente
nominati all’atto di insediamento di un nuovo
governo (art. 10 l. n. 400/1988).
In aggiunta a quelle centrali,
fanno parte
 dell’organizzazione   Le strutture
  periferiche dei
di alcuni ministeri ministeri. Le
anche
strutture prefetture

periferiche, di regola
a livello provinciale (ma in alcuni casi anche
regionale, come le direzioni regionali delle entrate)
che realizzano il cosiddetto
decentramento
319 burocratico. Così, per esempio, i provveditorati
agli studi, la direzione provinciale del tesoro,
l’intendenza delle finanze sono
articolazioni
periferiche, il primo, del ministero dell’Istruzione,
le seconde, del
ministero dell’Economia e delle
Finanze.
  a principale struttura periferica
è la Prefettura –
L
Ufficio territoriale del governo. Istituita sin
dall’epoca cavouriana,
e sull’esempio napoleonico,
la prefettura costituiva «l’occhio del governo» (e
per esso
del ministero dell’Interno) in sede locale.
A quest’ufficio, che ha il compito di
assicurare
l’esercizio coordinato dell’attività amministrativa
degli uffici periferici
dello Stato e la leale
collaborazione con gli enti locali, è preposto il
prefetto
sottoposto alle direttive del presidente
del Consiglio dei ministri e dei singoli
ministri
(art. 11 d.lgs. n. 300/1999).
A livello regionale, il raccordo
con lo Stato è
assicurato dal commissario del governo, con sede
in ciascun capoluogo
regionale, che dipende
funzionalmente dalla presidenza del Consiglio dei
ministri.
Tradizionalmente, su un piano
descrittivo, si
distinguono i ministeri con funzioni di ordine
(Interno, Difesa,
Giustizia, Esteri), con funzioni
economiche e finanziarie (Economia e Finanze,
Politiche
agricole, alimentari e forestali, ecc.), con
funzioni di servizio sociale e culturale
(Salute e
Istruzione, Università e Ricerca scientifica), con
funzioni relative alle
infrastrutture e ai servizi
collettivi (Infrastrutture e Mobilità sostenibile).
Rispetto allo Stato, dotato di
personalità giuridica,
i singoli ministeri possono essere definiti come
organi. Ciò
anche se ad essi è riconosciuta, per
consuetudine, una legittimazione sostanziale e
processuale autonoma (riferibilità degli atti
emanati, capacità negoziale, capacità di
stare in
giudizio sia pur tramite la rappresentanza legale
dell’avvocatura di Stato) che
assimila il loro regime
a quello degli enti in senso proprio. Inoltre,
ciascun ministero
ha una propria pianta organica, è
titolare di fondi propri nell’ambito del bilancio
dello Stato, gode di autonomia di spesa, è
assegnatario di una dotazione di beni mobili
e
immobili. In ciascun ministero opera un ufficio
particolare, la ragioneria centrale
che dipende
organizzativamente e funzionalmente dalla
ragioneria generale dello Stato,
collocata presso il
ministero dell’Economia e delle Finanze e che
funge da raccordo per
le questioni relative alla
regolarità della gestione dei fondi di bilancio.
Afferiscono   Le agenzie
 
 all’organizzazione
dei ministeri le agenzie, definite dal
d.lgs. n.
300/1999 come strutture preposte allo svolgimento
di attività a carattere tecnico-operativo di
interesse nazionale (art. 8). Esse godono
di
autonomia operativa, ma sono sottoposte ai poteri
di indirizzo e di vigilanza di un
ministro.
Dispongono di un organico e di un bilancio propri.
Sono disciplinate da uno
statuto approvato con
regolamento governativo che definisce, in
particolare, le
attribuzioni del direttore generale e
i poteri di vigilanza del ministro, prevede
l’istituzione di un collegio dei revisori e di un
organismo preposto al controllo di
gestione. I
rapporti tra direttore generale dell’agenzia e
ministro sono regolati da una
convenzione che
specifica gli obiettivi dell’agenzia, i risultati attesi,
stabilisce
l’entità dei finanziamenti, individua le
modalità di verifica dei risultati di gestione.
Tra gli
esempi di agenzia disciplinati dal d.lgs. n. 300/1999
possono essere ricordate l’Agenzia per la
protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici (art.
38) e l’Agenzia dei trasporti
terrestri e delle
320 infrastrutture (art. 44). Altri esempi di
agenzia
sono l’Agenzia per la coesione territoriale (art. 10 l.
n. 101/2013) e da ultimo
l’Agenzia per la
cybersicurezza nazionale (art. 4 d.l. n. 82/2021),
per la tutela degli
interessi nazionali in questo
campo.
 Una specie particolare di agenzia
è costituita dalle
agenzie fiscali , cioè   Le agenzie fiscali
 
l’Agenzia delle
Entrate, l’Agenzia del Demanio, l’Agenzia delle
Dogane e dei Monopoli, l’Agenzia delle
Entrate-
Riscossione. A differenza delle altre, le agenzie
fiscali hanno personalità
giuridica di diritto
pubblico autonoma. L’Agenzia del demanio ha
natura di ente pubblico
economico, atteso che ad
essa spetta la gestione e la valorizzazione di beni
immobili
suscettibili di essere fonte di ricavi. Alle
agenzie fiscali è preposto un comitato di
gestione
composto da quattro membri e dal direttore
generale (che ha la rappresentanza
legale
dell’ente).
 Il modello dell’agenzia si ispira
alle esperienze dei
Paesi anglosassoni, e in particolare dell’Inghilterra.
In
applicazione dei principi del New Public
Management, già negli anni
Ottanta del secolo
scorso i principali ministeri furono scorporati in
una pluralità di
agencies, dotate di ampia
autonomia, affidate alla
responsabilità di un
singolo manager e legate all’amministrazione
centrale da rapporti
di tipo convenzionale volti a
definire obiettivi, risorse e strumenti.
Il modello dell’agenzia, con
deroghe più o meno
marcate rispetto a quello generale del d.lgs. n.
300/1999, è stato utilizzato negli ultimi anni per
organismi di natura e funzioni diverse, come, per
esempio, l’Agenzia spaziale italiana
(ASI),
l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle
pubbliche amministrazioni (ARAN),
controparte
delle organizzazioni sindacali in sede di
contrattazione collettiva,
l’Agenzia per i servizi
sanitari regionali (ASSR), l’Agenzia italiana per il
farmaco
(AIFA), quest’ultima istituita nel 2003
scorporando dal ministero della Salute la
Commissione unica del farmaco e alcune funzioni
della direzione generale di farmaci e
dei dispositivi
medici (art. 48 legge 24 novembre 2003, n. 326 di
conversione del
d.l. n. 269/2003), l’Agenzia
nazionale per le politiche del
lavoro istituita con
d.lgs. 14 settembre 2015, n. 150.
Le agenzie non costituiscono  un modello inedito.
Infatti, come già   Le aziende
 
accennato nel
capitolo I, alcuni ministeri già dall’inizio del secolo
scorso istituirono al proprio interno
strutture,
definite aziende, per l’erogazione di servizi
pubblici nazionali (per
esempio, l’Azienda di Stato
per i servizi telefonici, l’Azienda autonoma delle
ferrovie
dello Stato, ecc.). Anche i comuni
istituirono aziende municipalizzate per la gestione
dei servizi pubblici locali. Le aziende avevano
natura di aziende-organo, essendo prive
di
personalità giuridica piena. Quasi tutte furono
trasformate dapprima in enti pubblici
economici e
poi in società per azioni.
 Le agenzie dell’ultima generazione
si differenziano
dalle aziende speciali perché sono titolari
soprattutto di funzioni di
regolazione e
amministrative in ambiti particolari, piuttosto che
di gestione di
attività di tipo economico.
Un cenno specifico va fatto alle
strutture afferenti
alla  presidenza del   La presidenza del
  Consiglio dei
ministri
Consiglio dei
ministri, disciplinata
dal d.lgs. n. 303/1999, che può essere assimilata
solo in parte
alle strutture ministeriali in quanto
dotata di autonomia e flessibilità organizzative
più
321 accentuate. Ad essa afferiscono una serie di
dipartimenti
(il dipartimento per gli Affari giuridici
e legislativi, il dipartimento per gli Affari
regionali,
ecc.) e uffici posti alle dipendenze di un
segretariato generale preposto
alla gestione delle
risorse umane e strumentali (art. 7 d.lgs. n.
303/1999). Le strutture della presidenza
curano, in
particolare, i rapporti con il parlamento, con gli
organi costituzionali, con
le istituzioni europee e
con il sistema delle autonomie, il coordinamento
dell’attività
amministrativa del governo, la
promozione delle pari opportunità (art. 2 d.lgs. n.
303/1999).
  resso la presidenza del Consiglio
dei ministri
P
operano anche la Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le
regioni e le province
autonome di Trento e Bolzano (Conferenza Stato-
regioni) e la
Conferenza Stato, città e autonomie
locali, che talora si riuniscono come Conferenza
unificata, presiedute dal presidente del Consiglio
dei ministri (o da un ministro
delegato). Le
Conferenze hanno ruoli prevalentemente di
coordinamento e consultivi.
Talora adottano atti
vincolanti (in particolare le intese tra lo Stato e le
regioni
previste da numerose leggi
amministrative).
Alla  presidenza del   L’avvocatura dello
  Stato
Consiglio dei ministri
e, in particolare, al
segretariato generale,
afferisce, per gli aspetti
organizzativi, l’avvocatura dello Stato. Si tratta di
un
organo ausiliario di rango non costituzionale
che ha una duplice funzione: di consulenza
generale, in taluni casi obbligatoria (per esempio,
in relazione alle transazioni), e di
rappresentanza
legale in giudizio delle amministrazioni statali.
Essa è articolata
nell’avvocatura generale, situata a
Roma, e nelle avvocature distrettuali, situate nei
capoluoghi regionali ove hanno sede le Corti
d’appello. Anche le regioni e altri enti
pubblici
possono (e in alcuni casi devono) avvalersi del
patrocinio dell’avvocatura
dello Stato. Sul piano
funzionale l’avvocatura dello Stato opera in modo
indipendente e
a questo fine è istituito, come
organo di autogoverno, un consiglio.
  ’attuazione del Piano
nazionale  di ripresa e
L
resilienza approvato   Le strutture del Piano
  nazionale
di ripresa e
nel 2021 ha
reso resilienza
necessaria
un’organizzazione
dedicata, destinata a operare fino al 2026. A questo
fine il d.l. n. 77/2021 prevede che ciascun ministero
istituisca una unità organizzativa
interna a livello
di direzione generale per il coordinamento, il
monitoraggio, la
rendicontazione e il controllo
delle attività di competenza. Il coordinamento è
affidato
a una cabina di regia, presieduta dal
presidente del Consiglio dei ministri, a
composizione variabile in relazione ai temi trattati.
A supporto della cabina di regia
operano una
segreteria tecnica e una unità di missione per la
razionalizzazione e il
miglioramento della
regolazione. All’interno della Ragioneria generale
dello Stato è
istituito un Servizio centrale per il
PNRR che rappresenta il punto di contatto unico
con l’Unione europea (che eroga i fondi) e ha la
gestione di tutti i flussi finanziari
con funzioni di
monitoraggio e di rendicontazione. Il d.l. n.
77/2021 istituisce una
Commissione tecnica
speciale interna al ministero della Transizione
ecologica per lo
svolgimento di tutte le procedure
di valutazione di impatto ambientale di
competenza
statale, nonché una Soprintendenza
speciale interna al ministero della Cultura al fine
di garantire una maggiore coerenza e speditezza
322 dell’azione
amministrativa. Il coordinamento con
le regioni è assicurato
dal Nucleo PNRR Stato-
regioni, istituito dall’art. 33 del d.l. 6 novembre
2021, n. 152.
 
5. Gli
enti territoriali: i comuni,
le province, le regioni
Secondo l’art. 114 Cost., riformulato dalla legge
costituzionale n. 3/2001 di modifica del Titolo V
come
sviluppo del principio autonomistico
enunciato dall’art. 5 Cost., la Repubblica è
costituita, oltre che dallo
Stato, dai comuni, dalle
province, dalle città metropolitane e dalle
regioni, definiti
come enti autonomi con propri
statuti, poteri e funzioni. La Costituzione
recepisce così
«un disegno di tendenziale pari
dignità istituzionale a tutti i livelli territoriali»
[Vandelli 2011].
Come si è accennato, lo Stato ha
potestà
legislativa esclusiva in tema di legislazione
elettorale, di organi di governo e
di funzioni
fondamentali di comuni, province e città
metropolitane (art. 117, comma 2, lett. p), Cost.).
La Costituzione
individua inoltre gli organi
fondamentali delle regioni (consiglio regionale,
giunta,
presidente), definendone le funzioni
principali (art. 121).
I principi fondamentali per
l’allocazione delle
funzioni tra i vari livelli di governo sono, come si è
già visto nel
capitolo III, la sussidiarietà
(verticale), la differenziazione e l’adeguatezza (art.
118 Cost.). È garantita inoltre autonomia
finanziaria
di entrata e di spesa, inclusa
l’applicazione di tributi propri (art. 119).
Lo studio dell’organizzazione
delle regioni e degli
enti locali appartiene anzitutto al diritto
costituzionale (e, in
modo più specialistico, al
diritto regionale e al diritto degli enti locali).
Infatti, l’equilibrio
istituzionale tra «centro» e
«periferia» delineato dalla Costituzione rileva ai
fini
della qualificazione della forma di Stato
(unitario, federale, o com’è stato detto,
Stato ad
autonomie regionali e locali).
Conviene sottolineare una
peculiarità di un
 siffatto equilibrio   I rapporti tra Stato,
  regioni ed
enti locali
nell’ordinamento
italiano. L’assetto
ordinamentale dei rapporti tra Stato, regioni ed
enti locali non
segue, come potrebbe apparire più
razionale, il modello per così dire a cascata: lo
Stato si relaziona esclusivamente con le regioni e
queste ultime, a loro volta, con gli
enti locali.
Piuttosto, il modello recepito anche dalla
Costituzione è quello per così
dire triangolare,
visto che anche i comuni intrattengono rapporti
istituzionali diretti
con lo Stato, non mediati dalle
regioni. Così, per esempio, gli organi di governo e
le
funzioni fondamentali dei comuni (ma anche
delle province e delle città metropolitane)
sono
disciplinati con legge statale (art. 117, comma 2,
lett. p), Cost.). Ciò si spiega per il
fatto che i
comuni hanno un radicamento storico che risale
addirittura al Medioevo. Le
regioni, invece, sono
state introdotte nella Costituzione del 1948 e sono
state istituite solo negli anni
Settanta del secolo
scorso. I comuni, che hanno avuto fin dal XIX
secolo un legame
diretto con il ministero
dell’Interno, continuano in molti casi a privilegiare
un’interazione con lo Stato. A questo fine i comuni
hanno dato origine all’Associazione
nazionale dei
323 comuni italiani (ANCI).
I  nvolgono profili prevalentemente
costituzionali,
da un lato, i metodi per la scelta dei componenti
del consiglio
comunale, provinciale e regionale e
per la scelta del sindaco e dei presidenti della
regione (elezione diretta); dall’altro, gli stessi
rapporti interni tra consiglio,
giunta e organo
monocratico che si prestano a essere analizzati più
correttamente nel
contesto dello studio dei sistemi
elettorali e della forma di governo. Così, in
particolare, l’elezione diretta del sindaco e del
presidente della provincia ad opera
della legge 25
marzo 1993, n. 81 ha segnato il passaggio da una
forma di governo di tipo parlamentare a una forma
di governo di tipo presidenziale,
temperata dal
fatto che l’organo consigliare può approvare a
maggioranza assoluta una
mozione di sfiducia nei
confronti del sindaco e della giunta (art. 52 d.lgs. n.
267/2000).
Dal punto di vista del diritto
amministrativo, gli
enti locali e  le   Caratteristiche
  generali degli
enti
regioni costituiscono locali e delle regioni
una particolare
categoria di enti
pubblici.
 Si tratta in primo luogo di enti
necessari, essendo
istituiti obbligatoriamente in tutto il territorio
nazionale. In
secondo luogo, sono enti ad
appartenenza necessaria, poiché ogni cittadino, in
base al
criterio della residenza, trova un
riferimento stabile in ciascuno di essi (per
esempio,
per l’esercizio del diritto di voto alle
elezioni amministrative o per il versamento dei
tributi locali). In terzo luogo, sono enti a
competenza generale, perché possono curare
gli
interessi della popolazione di riferimento con una
certa libertà, in base agli
indirizzi politici espressi
dal corpo elettorale locale e agli indirizzi
politico-
amministrativi dell’organo consiliare. Hanno cioè
il potere di individuare le
proprie priorità
nell’ambito delle funzioni ad essi assegnate e di
mettere in opera gli
strumenti necessari per il
raggiungimento dei propri fini.
In quarto luogo, si tratta di enti
inseriti
integralmente nell’ordinamento amministrativo
poiché tutti i loro atti
normativi (regolamenti) e
non normativi sono sempre e necessariamente atti
formalmente
amministrativi. La sola eccezione è
costituita dalle leggi regionali, nelle materie e
nei
limiti definiti dall’art. 117 Cost.
Conviene soffermarsi  più da vicino
sull’ordinamento   Gli enti locali
 
degli enti locali
disciplinato principalmente dal Testo unico
approvato con d.lgs. n. 267/2000.
 I comuni, come si è già accennato,
sono oggi circa
8.000. Le 107 province sono un ente intermedio
tra i comuni e le
regioni. Esse si riallacciano
concettualmente alla riorganizzazione dello Stato
francese
in epoca rivoluzionaria ispirata al
centralismo e all’istituzione dei dipartimenti con a
capo i prefetti dipendenti direttamente dal
governo centrale. Le province costituiscono
un
livello di governo che sembrava destinato a essere
superato nell’ambito di una
riforma costituzionale
non validata nel 2016 da una consultazione
referendaria, essendo
ritenuto oneroso e poco
funzionale. Peraltro, nelle more della
soppressione, la legge 7 aprile 2014, n. 56 ha
modificato le regole di
elezione del consiglio
provinciale e del presidente della provincia
prevedendo che essi
siano nominati dai sindaci e
dai consiglieri comunali dei comuni della
provincia.
Sotto il profilo
storico-istituzionale, la disciplina
degli enti locali risale all’epoca
dell’unificazione
nazionale e in particolare alla legge comunale e
provinciale (All. A legge 20 marzo 1865, n. 2248,
324 che ricalcava
essenzialmente la legge Rattazzi del
Regno di Sardegna approvata nel 1859). I
comuni e
le province vennero disciplinati secondo il
principio, anch’esso di derivazione
francese,
dell’uniformità giuridica. Vennero sottoposti a
controlli di legittimità e di
merito penetranti da
parte dello Stato (e per esso del prefetto). Fu
scartato cioè il
modello alternativo di derivazione
austriaca ispirato al principio della
differenziazione, più rispettoso della loro
autonomia.
In epoca fascista i comuni e le
province vennero
privati di rappresentatività politica con la
soppressione dei consigli
elettivi e vennero
ricondotti a mere articolazioni dello Stato alle
quali furono
preposti organi monocratici di
nomina governativa (nei comuni il podestà). Ai
segretari
comunali e provinciali, organi di vertice
degli apparati amministrativi degli enti
locali,
venne attribuita la qualifica di funzionari dello
Stato.
La Costituzione definisce gli enti
locali come enti
autonomi, «nell’ambito dei principi fissati da leggi
generali della
Repubblica, che ne determinano le
funzioni» (come recitava l’art. 128 Cost. abrogato
nel 2001), cioè, in pratica, nei
limiti stabiliti dallo
Stato. Il disegno costituzionale autonomistico ha
trovato
attuazione solo a partire dagli anni
Novanta del secolo scorso con il riconoscimento in
particolare di un’autonomia statutaria (legge 8
giugno 1990, n. 142 poi confluita nel Testo unico
del 2001) e con l’attribuzione ad essi di un maggior
numero di funzioni in conformità al
principio di
sussidiarietà verticale (enunciato già dalle
cosiddette leggi Bassanini 15 marzo 1997, n. 59 e 15
maggio 1997, n. 127).

1. Passando a trattare l’assetto dei  comuni, il


comune è l’ente   I comuni
 
locale che
rappresenta la comunità, ne cura gli interessi e
ne
promuove lo sviluppo (art. 2 Testo unico del d.lgs.
n. 267/2000). Il carattere di ente a finalità
generali
discende dal principio secondo il quale spettano al
comune «tutte le funzioni
amministrative che
riguardano la popolazione e il territorio comunale,
precipuamente nei
settori organici dei servizi alla
persona e alla comunità, dell’assetto ed
utilizzazione
del territorio e dello sviluppo
economico» (art. 13 d.lgs. n. 267/2000).
  l di là della generica 
A   Il sindaco come
  ufficiale del
governo
attribuzione agli enti
locali di «funzioni
proprie» (art. 118, comma 4, Cost.), le funzioni dei
comuni (così
come quelle delle province) sono
conferite nelle varie materie con legge statale o
con
legge regionale (art. 3, comma 5, d.lgs. n.
167/2000). Una peculiarità è che
i comuni
esercitano anche alcune funzioni propriamente
statali (anagrafe, stato civile,
servizi elettorali, leva
militare, statistica, ordinanze contingibili e
urgenti a tutela
dell’incolumità della popolazione)
(artt. 14 e 54). In relazione ad esse al sindaco è
attribuita la qualifica di ufficiale di governo. Le
funzioni fondamentali dei comuni ai
sensi dell’art.
117, comma 2, lett. p), Cost. sono elencate nell’art.
19 d.l. 6 luglio 2012, n. 95 convertito in legge 7
agosto 2012, n. 135 (pianificazione urbanistica,
servizi sociali, polizia municipale, anagrafe, ecc.).
 L’autonomia dei comuni si esprime
anzitutto nella
potestà statutaria, ora riconosciuta anche dalla
Costituzione (art. 114, comma 1, già richiamato).
Lo statuto ,   Lo statuto
 
approvato dal
consiglio comunale a maggioranza qualificata,
stabilisce le norme fondamentali
dell’organizzazione dell’ente e in particolare
specifica le attribuzioni degli organi, le forme di
325 collaborazione
tra comuni e province, la
partecipazione popolare, l’accesso
dei cittadini
alle informazioni e ai procedimenti amministrativi
(art. 6, comma 2, Testo unico). In aggiunta al
contenuto
obbligatorio (per esempio le forme di
partecipazione popolare previste dall’art. 8), lo
statuto può avere un contenuto facoltativo (per
esempio, secondo l’art. 16,
l’istituzione dei
municipi nei comuni risultanti da fusioni) e un
contenuto eventuale
(cioè praeter legem).
L’autonomia statutaria segna il superamento
del
principio dell’uniformità giuridica mantenuto in
epoca postunitaria anche se, in
realtà, essa si può
esprimere entro un perimetro ristretto.
  i comuni è riconosciuta, come si
è già accennato
A
nel capitolo II, anche un’ampia autonomia
regolamentare nelle materie di
propria
competenza e in particolare per ciò che riguarda
l’organizzazione e il
funzionamento degli organi e
degli uffici e per l’esercizio delle funzioni (art. 7
Testo unico), sia pur nel rispetto dei requisiti
minimi di uniformità definiti a seconda delle
materie dalla legislazione statale o
regionale (art.
4, comma 4, legge 5 giugno 2003, n. 131).
Tra le funzioni dei comuni
rientrano i servizi alla
persona e alla comunità (anziani,
tossicodipendenti, disabili,
assistenza scolastica,
ecc.), la polizia locale (vigilanza in materia di
commercio,
edilizia, ambiente, traffico, ecc.),
l’assetto e l’utilizzazione del territorio
(pianificazione urbanistica, regolamenti edilizi,
ecc.), le infrastrutture (asili,
strade, fognature,
depuratori, ecc.), la circolazione stradale (piano
urbano del
traffico), l’ambiente (inquinamento,
smaltimento rifiuti, ecc.), lo sviluppo economico
(commercio, sportelli per le attività produttive,
ecc.), i servizi pubblici locali.
Gli organi  di governo   Gli organi di governo
sono il consiglio, la   del
comune
giunta e il sindaco
(art. 36 d.lgs. n. 267/2000). I loro rapporti sono
stati
ridefiniti all’inizio degli anni Novanta del
secolo scorso potenziando la figura del
sindaco.
I  l consiglio comunale è composto
da un numero
variabile di consiglieri (in funzione del numero di
abitanti del comune)
eletti con un sistema
proporzionale (nei comuni maggiori). È stato
superato il modello
assembleare che attribuiva
all’organo elettivo molte competenze di
amministrazione
attiva trasformandolo in un
organo prevalentemente di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo. Le sue competenze sono
limitate a un elenco tassativo di atti
fondamentali
(statuto, atti di programmazione, organizzazione
dei servizi pubblici,
tributi locali, acquisti e
alienazioni immobiliari, ecc.) (art. 42 Testo unico).
Il sindaco è eletto direttamente
dal corpo
elettorale (nei comuni più grandi con un sistema a
doppio turno con eventuale
ballottaggio tra i due
candidati maggiormente votati) per non più di due
mandati
quinquennali (art. 51). È responsabile
dell’amministrazione comunale, rappresenta
l’ente, nomina e revoca gli assessori che
compongono la giunta, convoca e presiede
quest’ultima, sovrintende al funzionamento dei
servizi e degli uffici e all’esecuzione
degli atti,
nomina i rappresentanti del comune presso
aziende, enti e istituzioni. Come
si è accennato, ha
la qualifica di ufficiale del governo, in relazione
alle funzioni
statali delegate.
La giunta è composta dal sindaco e
da un numero
variabile di assessori nominati da quest’ultimo
anche al di fuori dei
componenti del consiglio (art.
46). La giunta è titolare di una serie di competenze
326 individuate dalla legge (per esempio, l’adozione
dei
regolamenti sull’ordinamento degli uffici e dei
servizi), dallo statuto o dai
regolamenti, nonché di
tutte le competenze non attribuite espressamente
al consiglio e
al sindaco (cosiddetta competenza
generale residuale) (art. 48). La giunta riferisce
annualmente al consiglio sulla propria attività e
collabora con il sindaco
nell’attuazione degli
indirizzi del consiglio.
In tutti i comuni è istituita la
figura del segretario 
comunale con   Il segretario comunale
 
compiti di
collaborazione e di assistenza giuridico-
amministrativa in ordine alla conformità
dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto e
ai regolamenti (art. 97, comma 2). In particolare, il
segretario
sovrintende e coordina i dirigenti,
partecipa con funzioni consultive e di
verbalizzazione alle sedute del consiglio e della
giunta, esprime pareri, possono
essergli attribuite
anche le funzioni di direttore generale, ove
quest’ultima figura non
sia istituita (art. 97,
comma 4).
 In epoca fascista, come accennato,
al segretario
venne attribuita la qualifica di funzionario statale,
dipendente dal
ministero dell’Interno che lo
nominava e destinava presso il singolo comune. A
partire
dal 1997, in conformità con la visione
autonomistica, i segretari comunali afferiscono a
un’agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei
segretari comunali e provinciali
(art. 97, comma 1).
A questo albo attinge il sindaco per la
nomina del
segretario, la cui durata in carica coincide con
quella del sindaco.
Il  direttore generale   Il direttore generale
 
è una figura
introdotta negli anni Novanta del secolo scorso a
imitazione del cosiddetto city manager (art. 108). Il
direttore
generale è previsto solo per comuni con
popolazione superiore ai 15.000 abitanti, è
nominato con delibera della giunta ed è assunto
con contratto a tempo determinato al di
fuori della
pianta organica. Funge da raccordo tra gli organi di
governo dell’ente e la
dirigenza. A questo fine il
direttore generale attua gli indirizzi di questi
ultimi;
sovrintende alla gestione del comune
perseguendo l’obiettivo di migliorarne l’efficienza
e l’efficacia; predispone il piano esecutivo di
gestione dell’ente sulla base del
bilancio annuale di
previsione deliberato dal consiglio comunale;
elabora il piano
dettagliato degli obiettivi ai fini del
controllo di gestione. I dirigenti, ad eccezione
del
segretario comunale, rispondono al direttore
generale.
I  dirigenti degli enti locali sono
preposti agli uffici
e ai servizi  e sono   I dirigenti
 
responsabili della
gestione amministrativa, finanziaria e tecnica, con
autonomi poteri di spesa, di
organizzazione delle
risorse umane, strumentali e di controllo.
Adottano tutti gli atti
e i provvedimenti che
impegnano l’amministrazione verso l’esterno,
esclusi quelli
espressamente riservati ad altri
organi (art. 107). Agli organi di governo del
comune
spettano invece solo poteri di indirizzo e
di controllo politico-amministrativo. I
dirigenti
sono nominati dal sindaco e assegnati ai vari
incarichi secondo criteri di
competenza e
professionalità. Possono essere revocati
dall’incarico per inosservanza
delle direttive del
sindaco o per mancato raggiungimento degli
obiettivi previsti dal
piano esecutivo di gestione
(art. 109).
  rima della legge costituzionale n. 3/2001 il
P
sistema dei controlli
sugli enti locali prevedeva,
come si è accennato nel capitolo VI, che gli atti
amministrativi dei comuni fossero sottoposti al
327 controllo preventivo
di legittimità da parte dei
comitati regionali di controllo.
Esso è stato
sostituito con un sistema che privilegia i controlli
interni (art. 147 Testo unico).
A quest’ultimo tipo di controlli
si aggiunge quello
della Corte dei conti, sotto forma di controllo
successivo sulla
gestione del bilancio e del
patrimonio (art. 148) volto a verificare la
legittimità e la
regolarità delle gestioni, il
funzionamento corretto dei controlli interni e la
rispondenza dei risultati dell’attività
amministrativa rispetto agli obiettivi. Esso
include
anche la verifica del rispetto dei vincoli del Patto
di stabilità interno.
Il sistema dei controlli sugli
enti locali prevede
anche un controllo sugli organi. I consigli
comunali possono essere
sciolti con decreto del
presidente della Repubblica, su proposta del
ministero
dell’Interno, in una serie di casi tassativi,
per esempio in seguito al compimento di
atti
contrari alla Costituzione, per gravi e persistenti
violazioni di legge, per gravi
motivi di ordine
pubblico, per impossibilità di assicurare il normale
funzionamento
degli organi e dei servizi (artt. 141 e
143). Un commissario straordinario è preposto
all’amministrazione fino al rinnovo del consiglio in
occasione del primo turno
elettorale utile previsto
per legge. Anche il sindaco può essere rimosso con
decreto del
ministro dell’Interno per gravi e
persistenti violazioni di legge o per gravi motivi di
ordine pubblico (art. 142).
Per  favorire la   Le forme di
  cooperazione tra
cooperazione tra comuni
comuni, il Testo
unico prevede le
convenzioni aventi per
oggetto l’esercizio
coordinato di funzioni e servizi (art. 30); i
consorzi, istituti per
l’esercizio associato di
funzioni e amministrati da un’assemblea
rappresentativa degli
enti associati e da un
consiglio di amministrazione (art. 31); le unioni di
comuni (con
statuto o atto costitutivo e organi
propri) per l’esercizio in comune di una pluralità
di funzioni (art. 32). Si tratta di strumenti,
potenziati e resi obbligatori (artt. 19 e
20 l. n.
135/2012 e art. 1, commi 104 ss., l. n. 56/2014), volti
a risolvere
almeno in parte le disfunzioni derivanti
dalla frammentazione eccessiva dei comuni
(specie
per i cosiddetti comuni «polvere»). Sono stati
introdotti incentivi economici
per favorire la
fusione tra comuni (art. 1, commi 118-bis ss.,
l. n.
56/2014).
 Un particolare tipo di unioni di
comuni è
costituito dalle comunità montane che possono
essere istituite fra comuni
appartenenti anche a
province diverse per la valorizzazione delle zone
montane (art.
27). Esse esercitano varie funzioni
delegate dai comuni, dalla provincia e dalla regione
e in particolare adottano piani pluriennali di opere
e interventi volti anche a
perseguire obiettivi di
sviluppo socioeconomico.
La cooperazione anche con altri
livelli di governo
può essere attuata con gli accordi di programma
promossi dal sindaco
per la realizzazione di opere
e interventi che richiedono l’azione integrata di
una
pluralità di enti locali, regioni e
amministrazioni statali (art. 34).
  Le province
 
2. Passando  a
considerare le
province, enti
intermedi tra i comuni e le regioni,
ci si può limitare a pochi cenni, visto che il
Testo
unico applica ad esse gran parte delle disposizioni
previste per i comuni.
 Le province sono titolari di
funzioni
amministrative (definite dalla legge
«fondamentali») soprattutto di
programmazione
(ridefiniti dall’art. 17 l. n. 135/2012 e dall’art. 1,
328 commi 85 ss., l. n. 56/2014). In particolare
esercitano le funzioni di pianificazione territoriale
provinciale di coordinamento, nonché di tutela e di
valorizzazione dell’ambiente, per
gli aspetti di
competenza; di pianificazione dei servizi di
trasporto in ambito
provinciale e di regolazione
della circolazione nell’ambito delle strade
provinciali; di
programmazione provinciale della
rete scolastica. Le province si attengono alla
programmazione di livello superiore di livello
regionale.
Sono titolari anche di alcune
competenze
gestionali: autorizzazione e controllo in materia di
trasporto privato;
costruzione e gestione delle
strade provinciali; raccolta ed elaborazione di dati;
assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali;
gestione dell’edilizia scolastica;
controllo dei
fenomeni discriminatori in ambito occupazionale;
promozione delle pari
opportunità sul territorio
provinciale. Oltre alle funzioni fondamentali
attribuite
dalla legge, lo Stato e le regioni, secondo
le rispettive competenze, possono delegare
alle
province ulteriori funzioni, in attuazione dell’art.
118 Cost. (principi di sussidiarietà verticale,
differenziazione e adeguatezza), nonché tenendo
conto dei seguenti criteri:
individuazione
dell’ambito territoriale ottimale di esercizio per
ciascuna funzione;
efficacia nello svolgimento
delle funzioni fondamentali da parte dei comuni e
delle
unioni di comuni; sussistenza di riconosciute
esigenze unitarie; adozione di forme di
avvalimento e deleghe di esercizio tra gli enti
territoriali coinvolti nel processo di
riordino,
mediante intese o convenzioni (art. 1, comma 89, l.
n. 56/2014). Per una serie di funzioni
attribuite alle
province è stato previsto il trasferimento ad altri
enti territoriali
(art. 1, comma 89, l. n. 56/2014).
Gli organi di governo delle
province, analogamente
a quelli dei comuni, sono costituiti dall’assemblea
dei sindaci,
che ha poteri propositivi, consultivi e
di controllo, dal consiglio provinciale, che è
l’organo di indirizzo politico-amministrativo, e dal
presidente della provincia (art. 1, commi 55 ss., l. n.
56/2014).
Il territorio delle province funge
in molti casi,
come già accennato, anche da perimetro delle
competenze esercitate dagli
uffici periferici delle
amministrazioni statali, come, per esempio, le
prefetture e le
questure, gli uffici provinciali del
lavoro. Le articolazioni periferiche dei ministeri
attuano, come si è visto, una forma di
decentramento burocratico. In passato le camere
di commercio erano istituite una per provincia ma
in seguito a un riordino funzionale
sono state
accorpate e ridotte a 60.
Infine, le  città   Le città metropolitane
 
metropolitane sono
menzionate dalla Costituzione (art.
114) e sono
disciplinate nel Testo unico degli enti locali (artt.
22 ss.). Esse assorbono le funzioni della provincia
in aree caratterizzate dalla presenza dei comuni
italiani più popolosi (comuni
capoluogo) uniti a
contiguità territoriale e con rapporti di stretta
integrazione in
ordine all’attività economica, ai
servizi essenziali, ai caratteri ambientali e alle
relazioni sociali e culturali. La loro istituzione è
stata disposta in concreto (art. 18 l. n. 135/2012 e l.
n. 56/2014) in parallelo al processo di riforma delle
province. Sono organi della città metropolitana il
sindaco metropolitano, il consiglio
metropolitano,
che è l’organo di indirizzo e controllo, e la
conferenza metropolitana,
che ha poteri
propositivi e consultivi, nonché il potere di
approvare lo statuto (art. 1, commi 7 ss., l. n.
329 56/2014). Sono
state individuate come città
metropolitane Torino, Milano,
Venezia, Genova,
Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria
(art. 1, comma 5, l. n. 56/2014).
  ltre alle funzioni fondamentali
delle province, le
O
città metropolitane esercitano ulteriori funzioni
stabilite
direttamente dalla legge e necessarie per
gestire le grandi conurbazioni anche al fine
di
promuoverne lo sviluppo economico: adozione di
un piano strategico triennale del
territorio
metropolitano; pianificazione territoriale generale,
ivi comprese le
strutture di comunicazione, le reti
di servizi e delle infrastrutture appartenenti alla
competenza della comunità metropolitana;
strutturazione di sistemi coordinati di
gestione dei
servizi pubblici; organizzazione dei servizi pubblici
di interesse generale
di ambito metropolitano;
mobilità e viabilità; promozione e coordinamento
dello sviluppo
economico e sociale (art. 1, comma
44, l. n. 56/2014). Lo Stato e le regioni,
ciascuno per
le proprie competenze, possono attribuire ulteriori
funzioni alle città
metropolitane in attuazione dei
principi di sussidiarietà verticale, differenziazione
e
adeguatezza di cui all’art. 118 Cost. (art. 1, comma
46, l. n. 56/2014).

3. Pochi cenni sono sufficienti anche per


l’organizzazione   Le regioni
 
 delle regioni che
ricalca in qualche misura quella degli enti
locali. La
Costituzione, come già messo in evidenza,
individua come organi di governo il
consiglio
regionale, la giunta, il presidente (art. 121),
quest’ultimo eletto
direttamente dalla
popolazione. Le regioni possono disciplinare con
legge regionale il
sistema di elezione, sia pur nei
limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge
statale (art. 122), e individuare nello statuto la
forma di governo e i principi
fondamentali di
organizzazione e di funzionamento (art. 123).
  rima della legge costituzionale n. 3/2001, a livello
P
regionale vigeva,
da un lato, il principio del
parallelismo tra funzioni amministrative e funzioni
legislative (art. 118 testo originario) in virtù del
quale le prime
riguardavano esclusivamente le
materie attribuite dalla Costituzione alla
competenza
legislativa regionale; dall’altro, il
principio della delega agli enti locali con legge
statale (e dunque non per scelta delle regioni)
delle funzioni di interesse locale;
dall’altro ancora,
il principio secondo il quale la regione esercita le
proprie funzioni
di regola delegandole agli enti
locali o valendosi dei loro uffici (cosiddetta
amministrazione indiretta).
In attuazione di questo disegno,
lo Stato trasferì le
funzioni amministrative di interesse
esclusivamente locale
direttamente agli enti locali
in occasione delle due principali operazioni
sistematiche
di devoluzione di funzioni statali alle
regioni negli anni Settanta e Novanta del secolo
scorso (d.p.r. n. 616/1977 e d.lgs. n. 112/1998). Le
regioni sono state invece talora
restie a delegare
proprie funzioni agli enti locali (prestandosi così
alla critica di
neocentralismo regionale).
Il disegno originario, fondato
sull’attribuzione
della maggior parte delle funzioni agli enti locali,
mirava dunque a
contenere allo stretto necessario
le strutture organizzative delle regioni. La giunta
regionale era concepita come organo collegiale di
governo al quale imputare in modo
unitario
l’attività amministrativa. Di fatto, invece, le regioni
hanno adottato, ad
imitazione dell’organizzazione
330 ministeriale, il modello
dell’amministrazione per
assessorati, attribuiti alla
responsabilità politico-
amministrativa di un singolo membro della giunta,
ciascuno
responsabile di una o più materie.
Con la riforma    La riforma
  costituzionale del
2001
costituzionale del
2001, è venuto meno
il principio del
parallelismo e il riparto delle
funzioni amministrative tra i vari livelli di governo
è
stato reimpostato in base ai principi di
sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza
(art.
118). Inoltre, anche per le regioni, come si è
accennato, è stato soppresso il
controllo
governativo incentrato sulla figura del
commissario del governo presso la
regione con
poteri di intervento sia sugli atti legislativi sia sugli
atti
amministrativi delle regioni (previsto in
attuazione dell’art. 125 Cost. ora abrogato). È stata
invece mantenuta solo
una figura istituzionale di
raccordo costituita dal rappresentante del governo
presso le
autonomie.
 Un controllo sugli organi di
governo regionale è
previsto direttamente dalla Costituzione. Infatti,
l’art. 126, comma 1, Cost. prevede che con decreto
motivato
del presidente della Repubblica possa
essere sciolto il consiglio regionale e rimosso il
presidente della giunta per atti contrari alla
Costituzione, per gravi violazioni di
legge, o per
motivi di sicurezza nazionale. Di recente, sono
stati rafforzati i poteri
di controllo della Corte dei
conti sulla gestione finanziaria degli organi
regionali. Si
tratta, comunque, di controlli
eccezionali che funzionano come strumenti di
chiusura
dell’ordinamento in presenza di
situazioni di particolare gravità.
Più  in generale, in   Il potere sostitutivo
  del
governo
base all’art. 120,
comma 2, Cost. il
governo è titolare di un potere
sostitutivo nei
confronti di organi delle regioni, ma anche degli
enti locali, nel caso
di mancato rispetto di norme e
trattati internazionali o della normativa
comunitaria
oppure di pericolo grave per
l’incolumità e la sicurezza pubblica o quando lo
richiedono
la tutela dell’unità giuridica
dell’ordinamento. Si è già sottolineato inoltre che
il
governo può annullare d’ufficio gli atti
amministrativi di tutte le amministrazioni
pubbliche, inclusi gli enti territoriali, a tutela
dell’unità dell’ordinamento (art. 2, comma 3, lett.
p), l. n. 400/1988). Il potere
sostitutivo del governo
è stato rafforzato nel 2021 allo scopo di porre
rimedio a
possibili ritardi nell’attuazione del Piano
nazionale di ripresa e resilienza.
 La riforma costituzionale del 2001
ha aperto la
strada anche al cosiddetto regionalismo
differenziato o asimmetrico. Le
singole regioni
possono cioè richiedere «ulteriori forme e
condizioni di autonomia»
nelle materie di
legislazione concorrente che possono essere
attribuite con legge
approvata dalle Camere a
maggioranza assoluta (art. 116, comma 3). Le
iniziative intraprese a fine 2017
dalla Lombardia,
dall’Emilia-Romagna e dal Veneto per attuare la
disposizione
costituzionale non hanno avuto
seguito.
Per concludere l’analisi degli
enti territoriali
occorre far cenno agli strumenti di raccordo
istituzionale tra i vari
livelli. Infatti, già prima della
riforma costituzionale del 2001, sono state
istituite,
come si è accennato, la Conferenza 
permanente per i   Le Conferenze Stato,
  regioni,
città
rapporti tra lo Stato,
le regioni e le
province autonome di Trento e Bolzano
(cosiddetta
Conferenza Stato-regioni) e la
Conferenza Stato, città e autonomie locali. I due
organi
si riuniscono in Conferenza unificata in
relazione a materie di interesse comune (d.lgs. 28
agosto 1997, n. 281). Molte leggi amministrative
331 affidano a questi organi, presieduti dal presidente
del
Consiglio dei ministri o da un suo delegato, il
compito di esprimere un parere o
un’intesa.
Quest’ultima è rilevante soprattutto nei rapporti
tra Stato e regioni poiché
consente loro di
assumere un ruolo di codecisione. La mancata
intesa può essere superata
con una delibera
motivata del Consiglio dei ministri (art. 3, comma
3, d.lgs. n. 281/1997). La Corte
costituzionale
(sentenza n. 251/2016) ha valorizzato l’intesa nella
sua versione «forte»,
cioè vincolante, anziché nella
versione «debole», cioè con valore di parere non
vincolante. In definitiva, le Conferenze realizzano
la funzione di raccordo tra Stato
centrale e
autonomie territoriali, in una logica di equilibrio di
poteri improntato al
principio di leale
cooperazione.
 
6. Gli
enti pubblici

A partire dall’inizio del XX


secolo vennero istituiti,
come si è accennato nel capitolo I, numerosi enti
pubblici,
diversi per struttura, funzioni, e ambiti
di autonomia (dal 1919 al 1943 ben 352). La
«fuga
dallo Stato», dettata dall’esigenza di superare le
rigidità delle strutture
ministeriali, diede origine a
quella che venne definita l’«amministrazione
parallela»
[Melis 2020].
Occorre dar conto anzitutto di
alcune distinzioni e
classificazioni che hanno un valore
prevalentemente descrittivo.

1. Una prima distinzione è tra enti pubblici


disciplinati da leggi
generali ed enti pubblici di tipo
singolare, istituiti con una legge ad
hoc. Tra i primi
rientrano, per esempio, le camere di commercio,
industria e artigianato, le aziende sanitarie locali,
le università, le autorità di
sistema portuale, ecc.
La legge generale assicura un’omogeneità di
struttura ad enti che
insistono su tutto il territorio
nazionale.
Tra gli enti a statuto singolare
rientrano, per
esempio, l’Ente   Gli enti a statuto
  singolare
 nazionale di
assistenza al
volo
(ENAC), il Comitato olimpico nazionale
italiano
(CONI), l’Istituto nazionale di
statistica (ISTAT),
l’ICE – Agenzia per la promozione all’estero e
l’internazionalizzazione delle imprese italiane,
l’Agenzia nazionale per la protezione
dell’ambiente
(ANPA), ecc. Le leggi istitutive di singoli enti ne
configurano le
funzioni e l’organizzazione.
I  n generale, considerato il regime
giuridico
diversificato delle varie tipologie di enti pubblici,
nel nostro ordinamento
vige il principio di
atipicità degli enti pubblici.
  Gli enti nazionali e
  regionali
2. Una  seconda
distinzione è tra enti
pubblici nazionali e regionali, a seconda che si
tratti di enti istituiti a livello
statale o inseriti
nell’ambito dell’ordinamento regionale. Sono, per
esempio, enti
dipendenti dalla regione le aziende
sanitarie locali che, come si vedrà, costituiscono
l’unità organizzativa di base del Sistema sanitario
nazionale.
    Gli enti associativi e
  non
associativi
3. Un’altra
 distinzione, alla
quale si è
già fatto cenno all’inizio del capitolo, è
tra enti di tipo associativo e non
associativo. I
primi sono enti esponenziali di categorie o di
gruppi (gli ordini e
collegi professionali, le camere
di commercio, industria e artigianato, ecc.). In
molti
di essi sono previsti organi di tipo
332 rappresentativo. Così, per esempio, nelle camere
di
commercio, industria, agricoltura e artigianato
(ridotte da
105 a 60 ad opera del d.lgs. 25
novembre 2016, n. 219) è istituito, in aggiunta agli
organi amministrativi (giunta e presidente), un
organo di tipo assembleare con funzioni
di
indirizzo costituito dal consiglio. In esso sono
rappresentati, tramite un meccanismo
elettorale,
tutti i settori economici rilevanti (con l’aggiunta
anche di due
rappresentanti designati dalle
organizzazioni dei consumatori e dei lavoratori).
Anche
gli ordini e i collegi professionali sono
amministrati da organi collegiali i cui
componenti
sono eletti dagli iscritti all’albo. Gli enti non
associativi (numericamente
prevalenti) hanno
natura patrimoniale e sono gestiti generalmente da
un consiglio di
amministrazione con componenti
nominati, a seconda dei casi, da ministeri ed enti
di
riferimento individuati dalla legge o dallo
statuto. Gli enti di tipo associativo hanno
riconosciuti generalmente ambiti di autonomia
maggiori.
    Gli enti pubblici non
  economici
4. Un’ulteriore
 distinzione è tra enti
pubblici non economici ed economici, richiamata
in vari testi legislativi. Tra gli enti
del primo tipo
possono essere menzionate le Autorità di sistema
portuale istituite dal
d.lgs. 4 agosto 2016, n. 169 di
riordino della normativa
sui porti che le qualifica
come enti pubblici non economici di rilevanza
nazionale; tra
quelli del secondo tipo la Società
italiana degli autori ed editori (SIAE) definita ente
pubblico economico a base associativa (art. 1 della
legge 9 gennaio 2008, n. 2) e che ha
come scopo la
protezione e l’intermediazione del diritto d’autore.
Un elenco di enti
pubblici economici è contenuto
in una tabella allegata alla legge 20 marzo 1975, n.
70 che li classifica per categorie
omogenee (enti
previdenziali e assistenziali, enti di promozione
economica, enti
preposti ad attività sportive e
turistiche, enti di ricerca, ecc.). La l. n. 70/1975,
come anticipato, pone la regola secondo la quale
«nessun nuovo ente pubblico può essere
istituito o
riconosciuto se non per legge» (art. 4).
  uanto a regime giuridico, gli
enti pubblici non
Q
economici si connotano anzitutto per essere
istituiti per realizzare
uno scopo specifico e in
questo si differenziano dagli enti territoriali a
vocazione
generale. Inoltre, sono sottoposti a
poteri di vigilanza e di indirizzo più o meno
penetranti da parte dei ministeri o delle regioni.
Da qui l’espressione di enti
strumentali per
distinguerli dagli enti ad autonomia funzionale,
come per esempio le
università. Le risorse
finanziarie di cui dispongono provengono in modo
diretto o
indiretto da fonti erariali, e pertanto, a
differenza di molti enti pubblici economici,
non
operano nel mercato. Infine, esercitano la propria
attività prevalentemente con
moduli autoritativi
(cioè con atti amministrativi).
Gli enti pubblici economici  hanno come
particolarità il fatto   Gli enti pubblici
  economici
che, mentre la loro
organizzazione segue
moduli pubblicistici, la loro attività ha natura
imprenditoriale ed
è retta dal diritto privato
(tramite atti negoziali). Ai dipendenti non si
applica, come
si vedrà nel capitolo X, la disciplina
generale dell’impiego pubblico. Sono sottoposti a
poteri di indirizzo e di controllo (anche attraverso
la nomina dei componenti degli
organi
amministrativi) da parte dei ministeri e di altri
soggetti pubblici. Ricadono nel
campo di
applicazione della disciplina sulla responsabilità
amministrativa degli enti,
dal quale sono invece
esclusi gli enti pubblici economici, oltre che lo
Stato e gli enti
territoriali (art. 1, comma 3, legge 8
333 giugno 2001, n.
231).
 Nella seconda parte del secolo
scorso ,
caratterizzata, come   Le privatizzazioni
 
si è visto, dallo
sviluppo
dello Stato imprenditore, questa categoria
era molto ampia. Essa annoverava infatti i
grandi
gestori di servizi pubblici nazionali (Ferrovie dello
Stato, ENEL, Poste italiane, Istituto nazionale
delle
assicurazioni, ecc.), gran parte del sistema
bancario (casse di risparmio, istituti di
credito di
diritto pubblico), gli enti di gestione delle
partecipazioni statali
(IRI, ENI, EFIM). In seguito
ai processi
di liberalizzazione e di privatizzazione
ai quali si è fatto più volte cenno, quasi
tutti sono
stati o soppressi o trasformati in società per azioni
e oggi costituiscono
una categoria marginale. Un
esempio è l’Agenzia delle entrate-Riscossione, ente
strumentale dell’Agenzia delle entrate istituita nel
2017, che svolge l’attività di
riscossione delle
imposte.
  nche alcune categorie di enti
pubblici non
A
economici in anni recenti sono state privatizzate
pur mantenendo funzioni
di tipo pubblicistico.
Così, in particolare le istituzioni di assistenza e
beneficenza
(le cosiddette IPAB, trasformate per
legge in enti pubblici alla fine del XIX secolo)
hanno riacquistato la loro natura privatistica. Ciò
in seguito a una sentenza della
Corte
costituzionale (sentenza 7 marzo 1988, n. 396) che
ha ritenuto incostituzionale l’attrazione
nell’orbita
dei poteri pubblici di organismi di tipo associativo
o fondazionale di
antica tradizione promossi da
soggetti privati (benefattori, organizzazioni
religiose,
ecc.). In attuazione dell’art. 2 Cost.
questa pronuncia tutela le formazioni sociali,
impone al legislatore ordinario limiti costituzionali
alla pubblicizzazione di soggetti
privati, istituiti
per iniziativa spontanea di soci o promotori
privati, la cui attività
sia finanziata con mezzi
privati (contributi, atti di liberalità) e sia svolta in
prevalenza tramite prestazioni personali volontarie
dei soci.
Simile è la vicenda delle
fondazioni bancarie ,
istituite in seguito al   Le fondazioni bancarie
 
processo di
privatizzazione delle banche pubbliche (ad opera
della cosiddetta legge Amato 30 luglio 1990, n.
218). Queste ultime furono
trasformate in società
per azioni e i loro pacchetti azionari vennero
attribuiti appunto
alle fondazioni bancarie che la
legge qualificò come enti pubblici. La loro finalità
principale consiste nel finanziare o gestire
iniziative nel campo del non profit
(cultura, sanità,
assistenza sociale, ecc.). In seguito a due sentenze
della Corte
costituzionale (29 settembre 2003, nn.
300 e 301), alle fondazioni bancarie è stata
riconosciuta la natura privata e un’ampia
autonomia. La Corte ha pertanto dichiarato
incostituzionali le disposizioni della l. n. 218/1990
che attribuivano loro natura pubblicistica e
prevedevano poteri di ingerenza eccessiva in capo
al ministero dell’Economia e delle
Finanze.
  er scelta legislativa alcuni enti
pubblici  non
P
economici, come, per   Gli enti privati di
  interesse
pubblico
esempio, la Croce
rossa italiana e gli
enti lirici, sono stati trasformati in enti non profit
di natura
privata (fondazioni). Inoltre,
nell’esercizio di una delega concessa nell’ambito
delle
riforme amministrative degli anni Novanta,
vari enti pubblici operanti in gran parte nel
settore
della cultura (per esempio, la Biennale di Venezia,
l’Istituto nazionale per il
dramma antico) sono
stati trasformati in enti privati privi di scopo di
lucro. Essi
possono continuare a svolgere i compiti
e le funzioni pubbliche sulla base di
concessioni o
334 convenzioni con le autorità ministeriali
competenti (art. 3 d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 419
emanato
nell’esercizio della delega contenuta negli
artt. 11 e 13 legge 15 marzo 1997, n. 59). Anche molti
enti
previdenziali alimentati da contribuzioni
obbligatorie a carico degli appartenenti a
categorie
professionali (notai, commercialisti, avvocati, ecc.)
sono stati trasformati
in associazioni e fondazioni
di natura privata. È invalsa nell’uso, in proposito,
l’espressione «enti privati di interesse pubblico».
  a parabola degli enti pubblici,
dopo decenni di
L
ascesa, sembra dunque aver imboccato una fase
discendente con il
recupero di modelli
organizzativi privatistici, talora riadattati, con
regole speciali,
alle funzioni pubblicistiche
mantenute pressoché inalterate.
Un  ultimo tema da   La distinzione tra enti
  pubblici
ed enti privati
considerare è la
distinzione tra enti
pubblici ed enti privati. In
proposito, si è dubitato
dell’utilità non solo di ricostruire una nozione
unitaria di
ente pubblico [Cassese 1996], ma anche
di individuare i tratti distintivi dell’ente
pubblico
rispetto all’ente privato. La giurisprudenza più
recente, come si è accennato,
ha precisato che si
tratta di una «nozione funzionale e cangiante» tale
da escludere che
il riconoscimento a un
determinato ente della natura pubblica implica
automaticamente
l’applicazione integrale della
disciplina valevole in generale per la pubblica
amministrazione (Cons. St., Sez. VI, 26 maggio
2015, n. 2660, C. cass., Sez.
Un., 19 aprile 2021, n.
10244). Del resto, come si è sottolineato nel
paragrafo 3, molte
leggi amministrative prediligono
il metodo dell’elencazione tassativa delle
amministrazioni pubbliche che ricadono nel loro
ambito di applicazione e in esso
rientrano talora
anche soggetti formalmente privati. In realtà, gli
enti si prestano a
essere collocati lungo una linea
ideale che ha a un estremo le amministrazioni
pubbliche
per eccellenza (Stato ed enti
territoriali), nella parte mediana, gli enti pubblici
non
economici, gli enti pubblici economici, e
all’altro estremo gli enti pubblici economici
disciplinati quasi esclusivamente dal diritto
comune. Via via che ci si sposta verso il
primo
estremo prevalgono gli aspetti pubblicistici. Ciò
accade, come si vedrà, anche per
le varie tipologie
di società a partecipazione pubblica individuate
dal d.lgs. n. 175/2016.
  uttavia, la distinzione tra ente
pubblico ed ente
T
privato, che ha affannato la dottrina soprattutto
verso la metà del
secolo scorso [Miele 1987, 408
ss.; Ottaviano 1965, 963 ss.], non può essere
trascurata
del tutto.
Essa ha acquisito anzi nuova
rilevanza in relazione
a una tendenza giurisprudenziale recente che
tende a qualificare
come enti pubblici anche talune
società per azioni a partecipazione pubblica,
soprattutto al fine di stabilire se gli atti da esse
emanati ricadano nella
giurisdizione del giudice
amministrativo. Ciò è accaduto per società che
svolgono
attività di rilevante interesse pubblico,
istituite e disciplinate da leggi speciali.
Queste
ultime prevedono deroghe così marcate rispetto al
regime delle società di diritto
comune e sono
legate alle strutture ministeriali da rapporti di
dipendenza così stretti
da attrarle in qualche modo
nell’orbita pubblicistica, nonostante la veste
formale
privatistica (Poste italiane s.p.a., Gestore
dei servizi elettrici, ecc.). Del resto lo
stesso
legislatore, sia pur sporadicamente, nell’istituire
335 alcune società a statuto
singolare le ha definite
«società per azioni con personalità
giuridica di
diritto pubblico» (AGE Control s.p.a., così definita
dall’art. 18 legge 22 dicembre 1984, n. 887).
Per risolvere le questioni
relative alla
qualificazione pubblica  o privata di un ente,
è
stata elaborata la   Gli indici della
  pubblicità
teoria degli indici
della pubblicità (o dei
criteri di
riconoscimento). In assenza di un criterio
univoco (non è ritenuto tale neppure la
qualificazione espressa pubblicistica o privatistica
da parte di una legge), si ricorre
a un metodo
induttivo che pone l’accento su una pluralità di
caratteristiche, nessuna
delle quali, presa
singolarmente, appare risolutiva.
  ra i vari indici o sintomi (di
carattere sostanziale
T
o formale) della pubblicità possono essere
richiamati i seguenti:
l’istituzione per legge; il fine
pubblico che l’ente deve perseguire; il rapporto di
strumentalità (o di servizio) con lo Stato o un ente
territoriale, in ragione del quale
l’ente è sottoposto
a poteri di indirizzo e di controllo (per esempio,
sui bilanci e
sull’organizzazione); l’attribuzione
per legge di poteri pubblicistici; il finanziamento
a
carico dell’erario; il carattere necessario dell’ente,
cioè il fatto che la sua
esistenza è per legge
obbligatoria (l’ente non ha la possibilità di
autosciogliersi).
Questi indici coincidono in gran
parte con quelli individuati, muovendo da un altro
criterio, a conclusione del paragrafo 3 per
individuare, più in generale, i tratti
caratterizzanti
delle pubbliche amministrazioni.
7. Le
autorità indipendenti

Le autorità amministrative
indipendenti (o anche
autorità indipendenti) costituiscono una tipologia
di enti
pubblici che, come si è accennato nel
capitolo I, ha avuto diffusione soprattutto a
partire
dagli anni Novanta del secolo scorso, con
l’affermarsi dello Stato regolatore.
Esse si ispirano
al modello anglosassone delle independent regulatory
agencies.

Rispetto alle amministrazioni  di tipo tradizionale,


le autorità   L’indipendenza dal
  governo e
dalle lobby
indipendenti si
connotano,
oltre che
per un elevato tasso di tecnicità e di
professionalità, per un marcato grado
di
indipendenza dal potere esecutivo.
 L’indipendenza è garantita anche
nei confronti
degli interessi privati, contro il rischio, già
menzionato nel capitolo I,
della «cattura» del
regolatore da parte dei regolati, spesso organizzati
in lobby con
capacità di influenza notevole.
Per inquadrare il modello delle
autorità
indipendenti conviene soffermarsi su quattro
aspetti: le ragioni
dell’indipendenza, gli strumenti
per garantirla, i tratti più caratteristici del loro
regime, le categorie principali.
  I poteri neutri
 
1. Una  prima
ragione
dell’indipendenza si
riallaccia al dibattito politico-
costituzionale sui cosiddetti poteri neutri,
concepiti
come elementi temperanti e moderatori
nei sistemi politici caratterizzati da forti
contrapposizioni politiche e da fazioni (B.
Constant, al quale si deve la prima analisi
del
336 pouvoir neutre modérateur [1991]).
  a tesi è che non tutti gli
apparati pubblici devono
L
mantenere un collegamento stretto con il circuito
politico
rappresentativo che risente spesso di
logiche di breve periodo legate ai cicli
elettorali. Si
pensi, per esempio, al prototipo delle autorità
indipendenti, cioè alle
banche centrali. Se si
ammette che la stabilità della moneta costituisce
un interesse di
lungo periodo della collettività,
allora può essere giustificato garantirla tramite un
apparato pubblico non dipendente dai governi.
Questi ultimi, specie nella fase finale
della
legislatura, tendono infatti, per ragioni di consenso
elettorale, a promuovere
politiche espansive che
innescano spinte inflazionistiche dannose.
Isolare la regolazione di settore
dalle influenze
ondivaghe della politica e dalla pressione degli
interessi privati
assicura inoltre maggior stabilità e
coerenza alle regole che disciplinano i singoli
mercati. Ciò consente agli operatori di progettare e
realizzare in un quadro di maggior
certezza
investimenti che hanno ritorni economici solo nel
lungo o lunghissimo termine
(si pensi agli impianti
di produzione di energia elettrica o di reti a banda
larga di
nuova generazione).
Una  seconda ragione   La tutela dei valori
  costituzionali
si riallaccia
all’esigenza di
garanzie rafforzate per taluni valori
costituzionali
nei settori cosiddetti sensibili (pluralismo
dell’informazione, privacy,
diritto di sciopero,
ecc.). Alcune autorità indipendenti hanno anche
un fondamento nei
Trattati UE (Sistema europeo
delle banche centrali, garanti della privacy) e nel
diritto
derivato (regolamenti, direttive).
 L’indipendenza  si   I conflitti tra Stato
  regolatore
e Stato
giustifica in terzo imprenditore
luogo per la necessità
di prevenire
conflitti
di interessi tra Stato regolatore, che deve fungere
da arbitro neutrale tra le
imprese concorrenti, e
Stato imprenditore, proprietario di imprese
pubbliche, che ha
invece interesse a favorire il loro
sviluppo anche a scapito di quelle concorrenti.
Così, per esempio, nel 2001 la Commissione UE
censurò la legislazione francese in
materia di
servizi postali che assegnava al ministero delle
Poste la competenza a
vigilare sulla corretta
applicazione delle tariffe che una propria impresa
controllata
(La Poste) applicava a imprese private
concorrenti nel medesimo segmento di mercato
(decisione 2002/344/CE del 23 ottobre 2001). La
normativa
francese violava infatti il principio della
regolazione indipendente.
 
2. Gli strumenti che tendono a garantire
l’indipendenza si desumono, sia
pur con qualche
variazione, dalle leggi istitutive delle singole
autorità.
In primo luogo, le autorità
indipendenti
intrattengono  un   I rapporti con il
  parlamento
legame privilegiato
con il
parlamento
piuttosto che con il governo. A quest’ultimo è
invece precluso ogni potere di
direttiva e di
indirizzo. La nomina dei componenti dell’organo
collegiale delle autorità
è attribuita, non già al
governo, come accade di regola per gli enti
pubblici nazionali,
bensì ai presidenti dei due rami
del parlamento o comunque prevede un parere
vincolante
adottato a maggioranza qualificata dalle
commissioni parlamentari competenti (ciò
consente anche alle minoranze di essere
rappresentate). Le autorità svolgono un ruolo
attivo di consulenza nei confronti del parlamento
(ma anche del governo) attraverso il
potere di
segnalazione e di proposta finalizzato a sollecitare
337 gli interventi
legislativi ritenuti necessari nelle
materie di competenza
(cosiddetta advocacy). Le
autorità inviano infine al parlamento una
relazione
annuale.
  n secondo presidio deriva dalla
disciplina degli
U
organi.  Anzitutto il   La disciplina degli
  organi
carattere collegiale
(tre o cinque
componenti) assicura una minor influenzabilità
delle decisioni. In secondo
luogo, i componenti
sono scelti in base a requisiti di professionalità,
competenza e di
indipendenza (la prassi delle
nomine, in verità, ha spesso disatteso questi
criteri). In
terzo luogo, la durata in carica
dell’organo è particolarmente lunga (in genere
sette
anni) e ciò garantisce un disallineamento
rispetto al ciclo elettorale (cinque anni) e
dunque
un distacco maggiore dagli equilibri politici del
momento. Vige per le autorità
la regola secondo la
quale i componenti del collegio non possono
essere confermati per
un secondo mandato e ciò li
rende meno influenzabili, perché immuni dalla
tentazione di
esercitare i poteri in modo
compiacente, cioè nella speranza di essere
rinnovati
nell’incarico. Infine, per i componenti di
alcune autorità scattano incompatibilità
successive, sotto forma di divieto di assumere
incarichi in imprese regolate per un
numero
minimo di anni dalla fine del mandato.
Quest’ultima regola tende a garantire
soprattutto
l’indipendenza sul versante degli interessi privati.
 Un terzo presidio è dato
dall’ampia autonomia,
 organizzativa,   L’autonomia
  organizzativa,
funzionale e funzionale e
finanziaria delle finanziaria

autorità. Le leggi
istitutive prevedono che esse operino «in piena
autonomia e con indipendenza di giudizio e di
valutazione» (così per esempio l’art. 10, comma 2,
legge 10 ottobre 1990, n. 287 in materia
antitrust).
Esse possono inoltre disciplinare le proprie
strutture interne con
regolamenti di
organizzazione. Possono dotarsi del personale di
cui necessitano, entro i
limiti numerici della pianta
organica stabilita dalle leggi, sulla base di concorsi
gestiti autonomamente. Alcune di esse sono
autosufficienti sotto il profilo finanziario,
in
quanto hanno il potere di richiedere alle imprese
regolate contributi per le spese di
funzionamento.
 Un  quarto presidio è,   La rete europea delle
  autorità
come si vedrà,
l’inserimento in un
circuito di autorità nazionali
che fa capo a un
regolatore europeo previsto nei Trattati o nel
diritto derivato. Se
l’attività di regolazione svolta
dalle autorità indipendenti è coordinata a livello
sovranazionale, essa è meno suscettibile di essere
influenzata dai governi nazionali.
    La deroga al principio
  della
separazione dei
3. Passando  a
poteri
considerare i tratti
più
caratteristici del
regime delle autorità indipendenti, il primo è che
esse derogano,
entro certi limiti, al principio della
separazione dei poteri. Assommano infatti poteri
di regolazione, poteri amministrativi puntuali
esercitabili in applicazione delle regole
da esse
stesse poste (per esempio una sanzione irrogata
per violazione di un atto di
regolazione emanato
dall’autorità) e poteri di risoluzione in via
stragiudiziale di
controversie.
  ’attribuzione di poteri di
regolazione molto estesi
L
è resa necessaria in considerazione della già
segnalata crisi
della legge come strumento di
disciplina di attività soggette a rapidi mutamenti
tecnologici e di mercato e di complessità tecnica
elevata (si veda il capitolo II). Alla
delega di poteri
quasi «in bianco» da parte del parlamento, sia pur
in molti casi
all’interno di coordinate poste da
direttive europee, corrisponde un’amplissima
potestà
normativa secondaria (tramite
regolamenti o atti amministrativi generali). Per
esempio,
i regolamenti della CONSOB o le
338 istruzioni della Banca d’Italia
formano un corpo
normativo molto articolato al quale si devono
conformare le imprese
regolate.
Le autorità sono dotate inoltre di
poteri
amministrativi (prescrittivi, autorizzatori,
sanzionatori) che hanno per
destinatarie singole
imprese. Essi presuppongono valutazioni tecniche
(e talora anche
propriamente discrezionali)
effettuate in base a parametri elastici (per
esempio, il
criterio della «sana e prudente
gestione» per le autorità istituite nei settori
finanziari).
Infine, le autorità indipendenti
svolgono funzioni
di tipo giustiziale. I consumatori o gli utenti
possono infatti
proporre reclami e attivare altre
forme di risoluzione delle controversie alternative
alla giurisdizione (ADR, alternative dispute
resolutions) nei
confronti delle imprese regolate. In
alcuni casi le autorità intervengono a dirimere
anche le controversie insorte tra le stesse imprese
regolate (per esempio, in materia di
accesso e di
interconnessione delle reti nel settore della
telefonia mobile, quelle
attribuite alla competenza
dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni).
Un secondo tratto distintivo è che
esse esercitano i
loro ampi  poteri in   La cosiddetta
  paragiurisdizionalità
forme
paragiurisdizionali,
espressione controversa che denota una certa
assimilazione con il
modo di operare degli organi
giurisdizionali. Le leggi istitutive prevedono
infatti,
come si è già accennato, garanzie del
contraddittorio rinforzate, cioè eccedenti la
soglia
minima posta dalla l. n. 241/1990. Ciò vale
anzitutto per i procedimenti di
tipo individuale,
per i quali sono previsti in molti casi la
verbalizzazione, il
contraddittorio orale, la
separazione tra funzioni istruttorie e funzioni
decisorie con
possibilità per le imprese di
contestare le conclusioni degli organi istruttori
prima
che l’organo decisionale emani il
provvedimento, il tutto a garanzia di una maggiore
terzietà del decisore. Anche per i procedimenti di
regolazione è ormai generalizzato il
modello
partecipativo, già menzionato, del notice and
comment, cioè
la pubblicazione della proposta di
atto di regolazione con la previsione di un termine
entro il quale gli interessati possono presentare le
proprie osservazioni.
 Le garanzie del contraddittorio
costituiscono per
le autorità indipendenti un fattore di
legittimazione (la cosiddetta
democrazia
procedurale) atto a bilanciare, sia pur in modo
imperfetto, la mancanza di un
collegamento
diretto delle autorità al circuito politico-
rappresentativo (democrazia
rappresentativa). A
tali garanzie, si aggiungono quelle di un controllo
giurisdizionale
pieno (full jurisdiction) sui
provvedimenti da esse emanati.

4. Le autorità indipendenti possono essere


suddivise in tre categorie:
a) di tipo generalista; b)
di vigilanza
sulle imprese operanti in particolari
mercati; c) le autorità
preposte alla regolazione dei
servizi pubblici (queste ultime, che in realtà sono
una
sottospecie delle seconde, verranno trattate
nel capitolo sui servizi pubblici, capitolo IX).
  L’Autorità garante
  della
concorrenza e del
1. Le autorità  di tipo
mercato
generalista
esercitano
i loro poteri in modo
trasversale nei confronti di tutte le imprese o di
altri soggetti pubblici o privati. Le due principali
sono l’Autorità garante della
concorrenza e del
mercato e il Garante per la protezione dei dati
339 personali.
 La prima fu istituita nel 1990
(l. n. 287/1990 citata),
in ritardo rispetto ai principali
Paesi europei nei
quali si era affermata da tempo l’idea che il
mercato richiede non
solo una disciplina adeguata
in materia di contratti, responsabilità e tutela
giurisdizionale dei diritti, ma anche regole volte a
sanzionare comportamenti
anticoncorrenziali e a
prevenire la formazione di monopoli.
Le funzioni principali
dell’Autorità  antitrust, che
hanno un aggancio   La tutela della
  concorrenza
costituzionale
nell’art. 41 Cost.
(richiamato dall’art. 1 l. n. 287/1990), sono quelle
relative
all’applicazione della disciplina della
concorrenza (intese restrittive, abuso di
posizione
dominante, controllo sulle operazioni di
concentrazione di cui agli artt. 2, 3
e 6) nei
confronti delle imprese, private ma anche
pubbliche, operanti in tutti i
mercati (la funzione
di tutela della concorrenza).
  ome già sottolineato nel capitolo
I, l’Autorità
C
applica in modo decentrato (per così dire come
braccio esecutivo della
Commissione UE) anche le
regole del Trattato sul funzionamento dell’Unione
europea in
materia di concorrenza (regolamento
(CE) 2003/1).
L’Autorità è investita di poteri
di accertamento e di
repressione delle violazioni (adjudication).
Essi
sono esercitati dall’Autorità di propria iniziativa o
su denuncia dei soggetti
interessati, e si
sostanziano nella emanazione di provvedimenti
inibitori (diffide),
ordinatori e sanzionatori molto
incisivi (artt. 15 e 19). I suoi atti sono impugnabili
innanzi al giudice amministrativo. In seguito al
recepimento di una direttiva europea
sul
risarcimento del danno antitrust, i provvedimenti
dell’Autorità che accertano una
violazione del
diritto della concorrenza fanno stato nel giudizio
civile instaurato
dalla parte danneggiata per
quanto riguarda la natura della violazione e la sua
portata
materiale, personale, temporale e
territoriale (anche se non per quanto riguarda il
nesso di causalità e l’esistenza del danno, rimessi
invece all’apprezzamento del giudice
civile) (art. 7
d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 3).
I poteri dell’Autorità sono in
gran parte riferiti a
comportamenti illeciti già posti in essere dalle
imprese
(cosiddetta regolazione ex post). Ciò a
differenza delle autorità
di settore alle quali invece
la legge attribuisce anche poteri di regolazione
ex
ante (rulemaking), cioè volti a
condizionare i
comportamenti delle imprese vigilate.
L’Autorità è titolare anche di
poteri di advocacy ,
cioè di
segnalazione   I poteri di
advocacy
 
al parlamento e al
governo di distorsioni della concorrenza causate
da
leggi, regolamenti o atti amministrativi generali
e di emanazione, di propria
iniziativa, di pareri
sulle misure necessarie per rimuoverle o prevenirle
(artt. 21 e
22).
 Nel corso degli anni, il
legislatore ha esteso il
campo d’azione dell’Autorità. In primo luogo, le
sono state
attribuite funzioni di tutela dei
consumatori in relazione alle pratiche commerciali
scorrette con potere di inibire, sospendere e
sanzionare tali pratiche (art. 27 del
Codice del
consumo approvato con d.lgs. 6 settembre 2005, n.
206). In secondo luogo, le sono
stati attribuiti
poteri di verifica dei conflitti di interessi relativi ai
titolari di
cariche di governo (legge 20 luglio 2004,
n. 215).
In materia di concorrenza,
l’Autorità ha acquisito
nuovi strumenti di azione: poteri di tipo cautelare
340 (cioè di
intervento immediato nel caso di urgenza);
la facoltà di
concludere i procedimenti volti ad
accertare illeciti della concorrenza, anziché con
una
sanzione, con impegni assunti dall’impresa
inquisita volti a ripristinare e a garantire
per il
futuro condizioni di mercato concorrenziale; i
cosiddetti programmi di clemenza
(leniency
programmes) volti a favorire le denunce anche
anonime
di imprese aderenti a un cartello in
cambio di una esenzione o una riduzione delle
sanzioni a carico del denunciante
(rispettivamente, artt. 14-bis,
14-ter e da art. 15 ad
art. 15-septies,
l. n. 287/1990).
All’Autorità è stato attribuito
anche il potere di
impugnare innanzi al giudice amministrativo tutti i
provvedimenti
generali (inclusi i regolamenti) e
individuali assunti in violazione delle norme a
tutela della concorrenza (art. 21-bis
l. n. 287/1990
aggiunto dall’art. 35 d.l. 6 dicembre 2011, n. 201). Si
pensi per esempio
a un bando di gara per
l’aggiudicazione di un contratto che contiene
clausole
discriminatorie, oppure all’affidamento
diretto senza gara di un servizio pubblico.
Questo
potere integra quello di advocacy nei confronti del
governo
e di altre pubbliche amministrazioni.
I poteri istruttori e decisori (in
particolare
sanzionatori) dell’Autorità sono stati
ulteriormente rafforzati dal d.lgs. 8
novembre
2021, n. 185 di recepimento della direttiva (UE)
2019/1 dell’11 dicembre 2018
che ha anche
accresciuto le garanzie di indipendenza
dell’istituzione.
Il Garante per la protezione dei
dati personali,
istituito nel  1996 in   Il Garante per la
  protezione dei
dati
attuazione della personali
direttiva (CE)
1995/46, è preposto
all’applicazione del Codice in materia di
protezione
dei dati personali (d.lgs. 30 giugno
2003, n. 196). Il Codice è stato
interamente
rivisitato, in seguito all’emanazione del
regolamento (UE) 2016/679 del 27
aprile 2016, con
d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101 che ha accresciuto il
livello
di protezione dei dati personali e rafforzato
i poteri delle autorità nazionali. Il
Garante opera in
stretto coordinamento con il Comitato europeo
per la protezione dei
dati istituzionali, un nuovo
organismo dell’Unione composto da un
rappresentante di
vertice di ciascuna autorità
nazionale, e con le altre nazionali.
I  l Garante è titolare di poteri
normativi e di poteri
amministrativi. I primi consistono principalmente
nella facoltà di
emanare linee guida che indicano le
misure organizzative e tecniche di attuazione dei
principi del regolamento europeo (art. 154-bis, lett.
a) del
Codice). Inoltre, come si è già accennato nel
capitolo II, il Garante promuove
l’adozione di
codici di deontologia da parte di varie categorie di
operatori chiamati a
confrontarsi con questioni
relative alla privacy (per esempio, i
giornalisti o gli
operatori sanitari) e ne approva i contenuti
all’esito di un
procedimento che prevede anche
una fase di consultazione pubblica (art.
2-quater e
art. 154-bis, comma 12, lett.
b) del Codice).
I poteri amministrativi
individuali sono previsti in
gran parte direttamente dal regolamento (artt. 57
ss.) e includono, esemplificativamente, il potere
di
ordinare la rettifica, la cancellazione di dati
personali o la limitazione del
trattamento dei dati;
di rivolgere ammonimenti o di ingiungere al
titolare del
trattamento o al responsabile del
trattamento di conformare i trattamenti alle
disposizioni del regolamento; di effettuare
l’accreditamento degli organismi per il
controllo
dei codici di condotta; di irrogare sanzioni
341 amministrative.
Il Garante è anche titolare di
poteri di indagine.
Può per esempio ordinare al titolare del
trattamento e al
responsabile del trattamento di
fornire ogni informazione e documento necessari
per lo
svolgimento dei suoi compiti; può disporre
accessi a banche dati e ad archivi; può
accedere a
tutti i locali del titolare del trattamento e del
responsabile del
trattamento.
Il Garante ha anche compiti di
consulenza alle
istituzioni e di promozione della consapevolezza e
della comprensione
nel pubblico in materia di
privacy. Può fornire informazioni agli
interessati in
merito all’esercizio dei loro diritti.
Il Garante gestisce un sistema di
reclami proposti
da chi si ritiene leso in un proprio diritto, sistema
che si pone in
alternativa all’azione innanzi
all’autorità giudiziaria ordinaria (artt.
140-bis ss.
del Codice). Contro la decisione sul reclamo è
esperibile un’azione innanzi a quest’ultima (art.
152). Il Garante costituisce l’esempio
significativo
di tutela amministrativa dei diritti soggettivi.
Infine, il Garante è legittimato
ad agire in giudizio
nei confronti del titolare o del responsabile del
trattamento in
caso di violazione della normativa
in materia.

2. Passando a considerare le autorità di vigilanza


su imprese operanti
in particolari mercati, vanno
menzionate soprattutto quelle preposte alla
vigilanza e
alla regolazione dei mercati finanziari
(Banca d’Italia, CONSOB, IVASS). Esse trovano
una disciplina minima unitaria nella cosiddetta
legge sul risparmio (28 dicembre 2005, n. 262).
Inoltre
esse operano in modo integrato all’interno
del Sistema europeo di vigilanza finanziaria
(SEVIF) istituito nel 2010. Al vertice di
quest’ultimo sono poste tre autorità europee
nei
settori bancario, finanziario e assicurativo con
poteri di impulso e di indirizzo
delle autorità
nazionali.
L’esigenza di istituire autorità
di regolazione in
questi settori discende dalla presenza di alcuni
«fallimenti di
mercato». Il rapporto tra i
risparmiatori e le imprese che offrono varie forme
di
investimento (depositi, azioni, obbligazioni,
polizze, ecc.) è affetto in particolare da
«asimmetrie informative». I primi non sono spesso
in grado di valutare né il rischio
delle operazioni
proposte, né la solvibilità delle imprese cui si
rivolgono. Da qui, la
necessità di una regolazione
pubblica.
La  Banca d’Italia,   La Banca d’Italia
 
istituita in forma
privatistica a fine Ottocento (legge 10 agosto 1893,
n. 449) come istituto di emissione e
come banca
commerciale ordinaria, acquisì progressivamente i
caratteri di istituzione
pubblica (consolidati dalla
legge bancaria del 1936) con due tipi di funzioni: di
banca
centrale preposta al governo della moneta ai
fini di garantirne la stabilità; di
autorità di
vigilanza sugli istituti di credito al fine di
garantirne la solvibilità.
 La prima funzione  è   La funzione monetaria
 
oggi attratta a livello
europeo, come si è accennato, nel
Sistema europeo
delle banche centrali (SEBC) istituito nel 1992 con
il Trattato di Maastricht. Le singole banche
centrali
nazionali, secondo lo statuto della Banca
centrale europea (BCE), «costituiscono parte
integrante del SEBC e agiscono secondo gli
indirizzi e le istruzioni della BCE» (art.
14, comma
3). Al SEBC il Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea devolve le
funzioni di definire
e attuare la politica monetaria con l’obiettivo del
mantenimento
della stabilità dei prezzi e con il
342 potere in via esclusiva di
autorizzare l’emissione di
banconote all’interno della Comunità e di definire
e attuare
la politica monetaria della Comunità
(artt. 127 e 128). Alla Banca centrale europea,
così
come alle banche centrali nazionali, il Trattato
garantisce l’indipendenza dai
governi nazionali che
non possono impartire istruzioni o influenzare
altrimenti le loro
decisioni (art. 130).
 La seconda funzione è disciplinata
oggi dal Testo
unico delle  leggi   La funzione di
  vigilanza
bancarie e creditizie
(d.lgs. 1 settembre
o

1993, n. 385) e da un corpo di norme


europee. Il
Testo unico attribuisce alla Banca d’Italia
un’amplissima gamma di poteri:
normativi, volti a
disciplinare l’attività delle banche sotto il profilo,
per esempio,
dell’adeguatezza del patrimonio, del
contenimento dei rischi, dei limiti all’acquisto di
partecipazioni, dell’organizzazione amministrativa
e contabile (art. 53); amministrativi
come, per
esempio, l’autorizzazione all’esercizio dell’attività
bancaria (art. 14) o
all’acquisto di partecipazioni in
banche (art. 19), poteri ispettivi (art. 54);
prescrittivi, come il divieto di distribuire utili o di
effettuare particolari
operazioni (art. 53, comma
3); sanzionatori (art. 144). Nell’esercizio
di questa
funzione la Banca d’Italia agisce in modo integrato
e sotto la supervisione
della European Banking
Authority operante dal 2010 e soprattutto
della
Banca centrale europea. Infatti nel 2013 i governi
dei Paesi dell’area euro, in
una fase di crisi
finanziaria e di rischi connessi alla stabilità del
sistema bancario,
hanno avviato un processo
normativo (la cosiddetta banking union)
che, come
si è accennato, ha portato nel 2014 all’attribuzione
alla Banca centrale
europea di poteri di vigilanza
sui principali gruppi bancari nazionali
(regolamento (UE)
2013/1024). Sono state
introdotte regole comuni per la prevenzione e la
risoluzione
delle crisi bancarie (direttiva (UE)
2014/59 del 15 maggio 2014). Il cosiddetto
meccanismo di vigilanza unico (single supervisory
mechanism)
costituisce la punta più avanzata di
integrazione tra apparati pubblici nazionali ed
europei e di cogestione di poteri amministrativi.
Molti poteri amministrativi della
Banca d’Italia
(autorizzazioni, sanzioni, ecc.) sono infatti
cogestiti o trasferiti alla
Banca centrale europea.
 La CONSOB, istituita dalla legge 7 giugno 1974, n.
216,  svolge funzioni   La CONSOB
 
di vigilanza e di
regolazione e di controllo sulla trasparenza e
correttezza dei comportamenti degli intermediari,
sui mercati e sui prodotti finanziari.
Nel corso
degli anni ha visto accrescere i propri poteri ora
disciplinati in gran parte
dal Testo unico delle
disposizioni in materia di intermediazione
finanziaria (TUF)
(d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58).
 Anche la CONSOB è titolare di
poteri normativi e
amministrativi (autorizzatori, prescrittivi,
sanzionatori, ispettivi,
di acquisizione di dati e
informazioni, ecc.). Questi ultimi includono anche
forme di
soft law e di moral suasion (come gli
orientamenti interpretativi previsti dalla
cosiddetta direttiva MIFID (CE) 2004/39 e la
cosiddetta audited self-regulation, già menzionata nel
capitolo II,
relativa ai mercati di strumenti
finanziari organizzati da società di gestione private
(art. 61 TUF).
La CONSOB opera in coordinamento
stretto con
le autorità finanziarie dei Paesi europei e in
particolare partecipa
attivamente ai processi di
regolazione comunitaria del CERS (Committee of
European Securities Regulators) e dell’ESC (European
343 Securities
Committee), del quale fanno parte
rappresentanti
dei ministeri delle Finanze. Dal
2010 essa agisce sotto la supervisione e l’indirizzo
dell’Autorità europea degli strumenti finanziari e
dei mercati, la cosiddetta ESMA
(European Securities
and Markets Authority).

L’Istituto  per la   L’IVASS


 
vigilanza sulle
assicurazioni (IVASS) è sorto nel 2012 in seguito
alla riconfigurazione
dell’Istituto per la vigilanza
sulle assicurazioni private e di interesse collettivo
(ISVAP) istituito nel 1982 (art. 13 l. n. 135/2012).
Una peculiarità è che l’IVASS è presieduto dal
direttore generale della Banca
d’Italia e ha come
organo di indirizzo il direttorio della Banca d’Italia
integrato con
i due componenti del consiglio
dell’istituto esperti in materia assicurativa e
previdenziale. Questa soluzione mira a rendere
sinergiche la vigilanza assicurativa e la
vigilanza
bancaria nei confronti di gruppi di imprese
operanti su entrambi i mercati.
L’IVASS opera in
coordinamento con l’Autorità
europea delle
assicurazioni e delle pensioni aziendali e
professionali.
  a un ruolo a parte l’Istituto
nazionale di
H
statistica  (ISTAT),   L’ISTAT
 
fondato nel 1926, che
è
l’ente produttore di statistica ufficiale in Italia,
realizzando indagini, studi e
analisi. Esso è inserito
nel Sistema statistico europeo per la produzione di
informazioni imparziali e affidabili e ispira la
propria attività a un Codice delle
statistiche
europee elaborato nel 2005. L’ISTAT, al pari degli
omologhi istituti
europei, gode di garanzie di
indipendenza professionale dell’organo di vertice e
dei
funzionari da parte del governo (art. 5-bis
regolamento (UE)
2015/759).
 
8. Le
società a partecipazione
pubblica
Storicamente il fenomeno delle
società a
partecipazione pubblica è legato a tre cause
principali: l’affermarsi dello
Stato imprenditore
soprattutto a partire dagli anni Trenta del secolo
scorso; la
privatizzazione formale di enti pubblici
negli anni Novanta del secolo scorso;
l’esternalizzazione di attività svolte da apparati
amministrativi.

1. Quanto alla prima causa, come già anticipato


nel capitolo I, a
partire dagli anni Trenta si affermò
il cosiddetto Stato imprenditore, che ebbe il suo
apice negli anni Sessanta-Settanta del secolo
scorso con l’acquisizione di imprese anche
in
settori aperti alla concorrenza (automobili,
cantieristica, industria dolciaria,
ecc.), nei quali
non emergono situazioni di fallimenti del mercato
propriamente detti.
L’obiettivo fu spesso quello di
salvare aziende private in crisi, tutelando i livelli
occupazionali, e di promuovere politiche di
programmazione economica e di sostegno delle
aree meno sviluppate del Paese.
Nel secondo dopoguerra  le imprese pubbliche
vennero inserite,   Il sistema delle
  partecipazioni
statali
come già visto, nel
sistema delle
partecipazioni statali. Al vertice si ponevano due
comitati
interministeriali (Comitato
interministeriale per la programmazione
economica –
CIPE – e Comitato interministeriale
per la
politica industriale – CIPI) e il ministero
delle
Partecipazioni statali. Quest’ultimo venne
istituito nel 1956 con funzioni di vigilanza
e poteri
di direttiva nei confronti degli enti di gestione
344 delle partecipazioni
statali, cioè di enti pubblici
economici con funzione di
holding finanziaria (IRI,
ENI, EFIM). Detti enti erano titolari
in modo
diretto o indiretto delle azioni delle società
pubbliche e fungevano da
«cerniera» tra gli
impulsi politici e amministrativi, nelle forme
del
diritto pubblico (atti di indirizzo e direttive), e
l’attività di impresa esercitata
da società di diritto
comune.
 Il sistema delle partecipazioni
statali venne
smantellato verso la fine degli anni Ottanta del
secolo scorso, come si è
accennato, perché
divenuto troppo oneroso per le finanze pubbliche a
causa delle perdite
accumulate e in seguito a
un’applicazione più rigorosa delle regole europee
in tema di
aiuti di Stato che ne impedirono il
rifinanziamento. Molte imprese pubbliche vennero
liquidate o privatizzate (per esempio, la Telecom o
la Società Autostrade per l’Italia).

2. La seconda causa si è manifestata soprattutto


in  connessione con i   Le privatizzazioni
  «fredde» e
«calde»
processi di
liberalizzazione dei
mercati
negli anni Novanta del secolo scorso in
seguito al recepimento di direttive europee
(telecomunicazioni, energia elettrica e gas, servizi
postali, ecc.). Come si è già
accennato, gli enti
pubblici economici che gestivano servizi pubblici
in regime di
monopolio legale vennero trasformati
per legge in società per azioni (privatizzazione
«fredda») con l’attribuzione della titolarità delle
azioni allo Stato. In molti casi
queste ultime
vennero cedute in tutto o in parte ad azionisti
privati (privatizzazione
«calda») e talvolta quotate
in borsa (ENEL,
ENI). Anche a livello locale le
aziende
speciali operanti nel settore dei servizi
pubblici vennero trasformate in società di
capitali.
Le stesse banche pubbliche, come si è visto,
acquisirono la veste giuridica di
società per azioni
(l. n. 218/1990) partecipate dalle fondazioni
bancarie.
 
3. La terza causa si ricollega ai processi  di
razionalizzazione   Le esternalizzazioni
 
degli apparati
pubblici. In molti casi, per ragioni di efficienza
e di
snellezza operativa, alcune pubbliche
amministrazioni hanno ritenuto preferibile,
anziché organizzare al proprio interno alcune
attività strumentali all’esercizio delle
funzioni
amministrative, esternalizzarle, cioè affidarle a
società da esse costituite
che svolgono la propria
attività in prevalenza per conto delle
amministrazioni e degli
enti pubblici di
riferimento (le cosiddette società strumentali). Si
pensi, a livello
statale, alla SOGEI, che cura per
conto del
ministero dell’Economia e delle Finanze
la riscossione delle imposte o, a livello
regionale,
alle società per la gestione dei servizi informatici.
I  n anni recenti il fenomeno delle
società a
partecipazione pubblica è esploso, soprattutto a
livello di enti locali, per
ragioni patologiche (sono
oggi circa 5.000): moltiplicazione di cariche da
attribuire
con criteri politici, elusione delle norme
pubblicistiche in tema di assunzioni di
personale e
di procedure di gara per l’affidamento dei
contratti, e dei vincoli
finanziari legati al patto di
stabilità; estensione del campo di azione in settori
economici esposti alla concorrenza e che non
presentano situazioni di fallimento del
mercato.
Per contrastare gli abusi sono
state così introdotte
leggi ispirate a quattro obiettivi: liquidare o
accorpare le
società inutili o poco vitali; rendere
applicabili le norme pubblicistiche delle
pubbliche
345 amministrazioni anche ad alcuni tipi di società a
partecipazione pubblica; ridurre i costi e
«moralizzare» il settore (tetti ai compensi
degli
amministratori, numero massimo dei componenti
degli organi, regole di trasparenza,
ecc.); prevenire
distorsioni della concorrenza vietando alle
pubbliche amministrazioni
di operare con proprie
società in ambiti propriamente di mercato.
Un riordino  della   Le tipologie di società
  a
partecipazione
disciplina in tema di pubblica
società a
partecipazione
pubblica è stato operato dal d.lgs. 19 agosto 2016,
n. 175.
  a chiarito preliminarmente che
l’ordinamento
V
europeo ha un atteggiamento di neutralità rispetto
alla proprietà pubblica
o privata delle imprese,
sempre che siano assicurate condizioni di parità
concorrenziale. L’art. 106 TFUE vieta agli Stati
membri soltanto di prevedere
per le imprese
pubbliche misure contrarie alle norme dei Trattati
e in particolare a
quelle in materia di concorrenza
(artt. 101 ss.). La scelta di incentivare o meno il
fenomeno
delle società in mano pubblica dipende
dunque da scelte prettamente nazionali.
Inoltre, secondo le indicazioni
dell’Organizzazione
per la cooperazione e lo sviluppo economico
(OCSE) contenute in un
rapporto del 2005 sulla
governance delle State
owned enterprises, in linea di
principio, le società pubbliche devono
essere
sottoposte alle regole comuni del diritto
societario. Sono ammesse solo le
deroghe
necessarie per il perseguimento degli interessi
pubblici, cioè in base a una
valutazione di stretta
proporzionalità. Gli Stati devono essere in grado di
monitorare e
gestire le loro partecipazioni
societarie in modo da salvaguardarne e
accrescerne il
valore.
Il d.lgs. n. 175/2016 si ispira, più che al principio
europeo
di neutralità, a quello di contenimento del
fenomeno delle società a partecipazione
pubblica.
Ad esse infatti è imposto un divieto generale di
costituire società, acquisire
o mantenere azioni
anche di minoranza in società commerciali aventi
per oggetto «la
produzione di beni e servizi non
strettamente necessarie per il perseguimento delle
proprie finalità istituzionali» (art. 4, comma 1).
Inoltre, sempre nel rispetto di questo
vincolo
finalistico, il d.lgs. n. 175/2016 elenca in modo
tassativo le attività che
possono essere svolte dalle
società a partecipazione pubblica: servizi di
interesse
generale, progettazione o realizzazione di
un’opera pubblica, autoproduzione di beni o
servizi strumentali agli enti partecipanti, servizi di
committenza, ecc. (art. 4, comma 2).
Da questa impostazione derivano
due
conseguenze: obbligo per le amministrazioni di
approvare piani di riassetto annuali
delle proprie
partecipazioni azionarie per verificare il rispetto di
una serie di
parametri normativi (fatturato non
inferiore a una soglia minima, bilanci non in
perdita, numero di dipendenti non inferiore a
quelli degli amministratori, ecc.) e per
procedere a
liquidazioni, cessioni e accorpamenti (art. 20);
obbligo di motivazione
analitica delle delibere
relative alla costituzione e all’acquisto di
partecipazioni
societarie (art. 5).
Più in generale, il d.lgs. n. 175/2016 pone una
disciplina    La disciplina
  pubblicistica
dello
pubblicistica dello Stato azionista
Stato azionista, cioè
dei principi e
delle
modalità procedimentali che le pubbliche
amministrazioni devono rispettare per
acquisire,
346 mantenere e alienare le partecipazioni societarie.
Il
d.lgs. n. 175/2016 si attiene al principio
raccomandato
dall’OCSE secondo il quale, come
già accennato, le società a partecipazione pubblica
sono sottoposte al regime di diritto comune,
prevedendo poche deroghe espresse al codice
civile. Per esempio, nel caso di costituzione di una
società mista pubblico-privato per
la gestione di
un servizio pubblico, i patti parasociali tra azionisti
possono avere una
durata superiore ai 5 anni (in
deroga all’art. 2341-bis del codice
civile), in modo
tale che essi possano mantenere la loro validità per
tutta la durata
della concessione rilasciata
dall’amministrazione per l’affidamento del servizio
(art. 17, comma 4, lett. d)).
 Le società a partecipazione
pubblica  sono
sottoposte a vincoli   I tipi di società
  pubbliche
pubblicistici via
via
più intensi in base
alla seguente graduazione: le società quotate, alle
quali il
d.lgs. n. 175/2016 si applica solo nei casi
(sporadici) nei
quali esso le richiama
espressamente e ciò al fine di non penalizzarle
rispetto alle
società quotate private (art. 18); le
società meramente partecipate, nelle quali cioè le
amministrazioni pubbliche detengono solo
pacchetti azionari di minoranza, anch’esse
sottoposte in massima parte al diritto comune; le
società in controllo pubblico, nelle
quali le
amministrazioni pubbliche detengono
direttamente o indirettamente la
maggioranza
delle azioni, alle quali si applicano gran parte dei
vincoli pubblicistici
(art. 6); le società in-house (art.
16) il cui regime è equiparato
in gran parte a quello
delle pubbliche amministrazioni (inclusa la
responsabilità per
danno erariale in base all’art.
12); le società a partecipazione pubblica di diritto
singolare (come per esempio la RAI o l’Ente
nazionale per l’assistenza al volo – ENAV)
le cui
disposizioni speciali continuano a trovare
applicazione anche dopo il d.lgs. n. 175/2016 in
aggiunta a quelle previste dalla
nuova disciplina.
  erita soffermarsi
sull’obbligo  di motivazione
M
analitica che   L’obbligo di
  motivazione
analitica
costituisce
il fulcro
della nuova
disciplina. In base all’art. 5, comma 1, le
amministrazioni pubbliche che intendano
costituire o acquisire partecipazioni societarie
devono adottare un atto deliberativo
che espliciti
«le ragioni e le finalità che giustificano tale scelta
anche sul piano
della convenienza economica e
della sostenibilità finanziaria». La motivazione
deve
anche considerare la «possibilità di
destinazione alternativa delle risorse pubbliche
impegnate, nonché di gestione diretta o
esternalizzata del servizio affidato» e dar
conto
della compatibilità con «i principi di efficienza, di
efficacia e di economicità
dell’azione
amministrativa» nonché con la disciplina degli
aiuti di Stato (comma 2). Gli
enti locali devono
sottoporre lo schema di delibera a una
consultazione pubblica (comma
2). Inoltre, le
delibere devono essere inviate alla Corte dei conti
e all’Autorità
garante della concorrenza e del
mercato. Quest’ultima dovrà valutare se sussistano
profili di distorsione del mercato e potrà, se del
caso, attivare i poteri di diffida e
di impugnazione
innanzi al giudice amministrativo (ex art.
21-bis
l. n.
287/1990).
  nche l’alienazione 
A   L’alienazione delle
  partecipazioni
delle partecipazioni
deve avvenire con
una procedura che
rispetti principi di pubblicità,
trasparenza e non discriminazione. Solo in via
eccezionale, l’alienazione può avvenire mediante
una negoziazione diretta con un singolo
acquirente
347 (art. 10, comma 2).
I  l d.lgs. n. 175/2016 introduce infine un sistema di
monitoraggio, indirizzo e coordinamento sulle
società a partecipazione pubblica
prevedendo
l’istituzione nell’ambito del ministero
dell’Economia e delle Finanze di una
struttura
interna, con poteri ispettivi sulle società, di
emanazione di orientamenti e
indicazioni
sull’applicazione delle nuove norme, nonché di
individuazione delle migliori
pratiche (art. 15).
Il d.lgs. n. 175/2016 impone alle società  a controllo
pubblico l’obbligo di   Le società a controllo
  pubblico
dotarsi di
regolamenti
interni
volti a garantire la conformità dell’attività della
società alle norme a tutela
della concorrenza, un
ufficio di controllo interno, codici di condotta,
programmi di
responsabilità sociale d’impresa (art.
6). Prevede anche una serie di prescrizioni
minute,
quali, per esempio, limiti al numero dei
componenti degli organi di
amministrazione e
controllo, tetti ai compensi, divieti alla
corresponsione di gettoni
di presenza, ecc. (art.
11). Richiama inoltre le disposizioni in materia di
trasparenza
con finalità di anticorruzione previste
dal d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33 (art. 22). Il personale
deve
essere assunto nel rispetto dei principi di
trasparenza, pubblicità e imparzialità e dei
principi
previsti dal d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 per i
dipendenti delle
pubbliche amministrazioni (art.
19, comma 2).
  eritano un approfondimento le
società 
in-house
M
(art. 16), le quali sono   Le società
in-house
 
così
intimamente
legate sul piano organizzativo e operativo a una
pubblica amministrazione da
poter essere
equiparate, in definitiva, a un ufficio interno
(in-
house, appunto) della medesima.

 
La nozione di società
in-house è stata elaborata
dalla giurisprudenza della Corte di
giustizia
dell’Unione europea a proposito dell’applicazione
dei principi europei in
materia di affidamento di
contratti pubblici e di concessioni. In particolare,
la
questione è se queste società possono essere
affidatarie dirette di attività da parte
delle
amministrazioni di contratti pubblici remunerati
da queste ultime, oppure se
l’affidamento deve
avvenire all’esito di una gara a evidenza pubblica.
Per poter essere
destinatarie di affidamenti diretti,
in deroga al regime della concorsualità, secondo la
Corte di giustizia (a partire dalla sentenza Teckal
del 18 novembre
1995, causa C-107/98), le società
in-house devono possedere due
requisiti: il
«controllo analogo» e lo svolgimento della parte
più rilevante della loro
attività a favore delle
amministrazioni pubbliche.
Il primo requisito tende ad
assicurare che tra
 amministrazione   Il controllo analogo
 
pubblica titolare delle
partecipazioni nella società in-house e quest’ultima
intercorra un
rapporto così stretto da assimilarla a
un organo interno della prima. Questa
compenetrazione esclude che gli atti o i contratti
con i quali l’amministrazione affida
alla società il
compito di realizzare un’opera o di fornire un bene
o un servizio siano,
al di là del nomen, dei veri
contratti, almeno ai fini
dell’applicazione delle
norme europee.
 Per ottemperare al requisito del
controllo analogo,
in primo luogo, la partecipazione deve essere
totalitaria, nel senso
che la presenza anche
minoritaria nel capitale sociale di soggetti privati
per così dire
«inquina» la partecipazione pubblica.
Sotto questo profilo, però, le direttive europee
in
materia di appalti e concessioni (art. 12 della
direttiva (UE) 2014/24 del 26
febbraio 2014; art. 28
348 della direttiva (UE) 2014/25 e art. 17 della
direttiva
(UE) 2014/23) pongono una disciplina meno rigida
che
consente partecipazioni private minoritarie,
senza controllo o potere di veto e che non
esercitano un’influenza determinante sulla società.
Anche il d.lgs. n. 175/2016 ammette la presenza di
capitali privati
nelle società in-house, ma solo nei
casi espressamente previsti
dalla legge e comunque
senza la possibilità di esercitare un’influenza
determinante
(art. 16, comma 1).
In secondo luogo, lo statuto della
società o i patti
parasociali devono garantire al socio pubblico un
potere di influire
sulle strategie e decisioni
fondamentali della società e di controllarne
l’attività.
Questo obiettivo può essere raggiunto,
per esempio, prevedendo che le delibere più
rilevanti del consiglio di amministrazione siano
sottoposte ad approvazione da parte del
socio
pubblico, oppure istituendo presso la società uffici
per il controllo analogo con
la presenza di
funzionari dell’amministrazione.
Il controllo analogo può essere
congiunto e
indiretto. È congiunto nel caso in cui più
amministrazioni affidino a
un’unica società
partecipata la gestione unitaria di un servizio
pubblico, ma anche in
questo caso esse sono in
grado di influire sulle
decisioni strategiche della
società. È indiretto nel caso in cui
un’amministrazione
detenga la partecipazione
totalitaria in una società che a sua volta detenga, a
cascata,
una partecipazione societaria totalitaria in
un’altra società.
Il  secondo requisito   L’attività svolta per
  conto
tende a escludere che dell’amministrazione
la società in-house di riferimento

operi
sul mercato e
alteri la concorrenza sfruttando il vantaggio di aver
ricevuto un
affidamento diretto da parte di
un’amministrazione pubblica. La giurisprudenza
peraltro
non ha indicato una percentuale del
fatturato che deve essere conseguito per conto
dell’amministrazione pubblica, ma generalmente si
ritiene che esso debba essere
superiore all’80-90%.
Il d.lgs. n. 175/2016 (art. 16, comma 3) stabilisce il
limite
minimo dell’80%.
  e società
in-house sono sottoposte a regole
L
pubblicistiche ulteriori
rispetto alle società a
controllo pubblico. In particolare, sono tenute
all’applicazione
integrale del Codice dei contratti
pubblici (art. 16, comma 7) e ricadono nel regime
della
responsabilità amministrativa per danno
erariale (art. 12). Questa forma di
responsabilità
non vale invece per gli altri tipi di società a
partecipazione pubblica.
Del danno erariale dovuto
alla loro cattiva gestione rispondono comunque le
pubbliche
amministrazioni titolari delle azioni
poiché su di esse grava un obbligo di monitorare
in
modo continuativo le proprie partecipazioni
azionarie (art. 12). Gli amministratori
possono
rivestire la qualifica penalistica di incaricati di
pubblico servizio (C. cass.,
Sez. VI penale, 30
giugno 2021 n. 37076).
Alle società
in-house si applica peraltro il diritto
comune per tutti gli
aspetti non espressamente
derogati dal d.lgs. n. 175/2016. Per esempio, sono
soggette alle
ordinarie procedure fallimentari (C.
cass., Sez. I civile, 7 febbraio 2017, n. 3196).
Merita un cenno specifico la
cosiddetta golden
share . Essa   La golden
share
 
consisteva in un
complesso di poteri speciali riservati dalla legge
allo Stato e
inseriti negli statuti delle società in
occasione della privatizzazione formale delle
grandi imprese pubbliche statali operanti in settori
strategici (energia,
telecomunicazioni, difesa,
349 trasporti, ecc.), allo scopo di tutelare l’interesse
nazionale (d.l. 31 maggio 1994, n. 332 convertito in
legge 30 luglio 1994, n. 474). La finalità era di
impedire
che le imprese strategiche potessero
finire sotto il controllo per esempio di fondi
sovrani di Stati autoritari o di azionisti legati a
organizzazioni terroristiche.
 In applicazione dei principi
europei in tema di
libertà di stabilimento e di libera circolazione dei
capitali (artt.
49 e 63 TFUE), strumentali
all’apertura dei mercati alla
concorrenza, la Corte
di giustizia dell’Unione europea (Sez. III, 26 marzo
2009, in causa C-326/07) ha tuttavia
censurato le
norme italiane perché accordavano al ministero
dell’Economia e delle
Finanze un ambito di
valutazione discrezionale eccessivo.
Una nuova disciplina è stata
introdotta dal d.l. 15
marzo 2012, n. 21 convertito in legge 11 maggio
2012, n. 56. Essa prevede che, in caso di
minaccia di
grave pregiudizio per gli interessi essenziali della
difesa e della
sicurezza nazionale, il governo possa
esercitare una serie di poteri speciali
(golden
power ) molto ampi,   Il golden
power
 
non
più collegati solo
alla titolarità di azioni (come invece accadeva per
la
golden share). Tra di essi rientrano, per esempio,
l’imposizione di condizioni relative alla sicurezza
degli approvvigionamenti o ai
trasferimenti
tecnologici in caso di acquisto di partecipazioni in
società che svolgono
attività di rilevanza strategica
in tali settori; poteri di veto nei confronti di
delibere assembleari o degli organi di
amministrazione relativi al trasferimento
all’estero
della sede sociale, al mutamento dell’oggetto
sociale o ai trasferimenti di
azienda; poteri di
opposizione agli acquisti di partecipazioni da parte
di soggetti
diversi dallo Stato, da enti pubblici
italiani o da soggetti da essi controllati.
 
La legge pone alcune regole
procedimentali
(obbligo di notifica preventiva delle operazioni
societarie,
silenzio-assenso scaduto un termine di
15 giorni, ecc.) e commina la nullità delle
delibere
e degli atti adottati in violazione di queste
prescrizioni. Per tener conto dei
rilievi della Corte
di giustizia, la legge specifica i criteri per
l’esercizio dei
poteri speciali e stabilisce che
comunque devono essere rispettati i principi di
proporzionalità e di ragionevolezza.
Da ultimo, anche in seguito a
talune
preoccupazioni emerse in Europa e negli Stati
Uniti, la disciplina dei poteri
speciali è stata
rafforzata al fine di garantire anche la sicurezza
delle reti e dei
servizi di comunicazione elettronica
a banda larga basati sulla tecnologia 5G contro i
rischi di vulnerabilità derivanti dal coinvolgimento
in tali attività (anche come
semplici fornitori di
componenti) di imprese con sede in Stati non
facenti parte
dell’Unione europea (art. 1 d.l. 25
marzo 2019, n. 22). Gli artt. 15 ss. d.l. 8
aprile 2020,
n. 23 hanno ulteriormente esteso il campo di
applicazione (in particolare
al settore finanziario e
sanitario) e reso più stringente la disciplina.
Il riordino operato    Tendenze recenti
 
con il d.lgs. n.
175/2015 ha arginato l’espansione delle
società in
mano pubblica, ma non ha conseguito gli obiettivi
originari di una riduzione
drastica.
 Si registra anzi una tendenza
recente al ritorno
dello Stato imprenditore. Per esempio, la società
Autostrade per
l’Italia è stata riacquisita alla mano
pubblica nel 2021, come reazione politica al
crollo
del ponte Morandi di Genova nell’agosto del 2018.
350 Nel 2021 anche un nuovo vettore
aereo nazionale
(ITA, subentrato ad Alitalia in stato di
dissesto) è
stato istituito con capitali statali. Lo Stato è
entrato nel capitale della
più importante acciaieria
italiana (l’ILVA di Taranto). Più in generale la
Cassa
depositi e prestiti, società controllata
all’83% dal ministero dell’Economia e delle
Finanze, detiene pacchetti azionari rilevanti in
numerose società (ENEL, ENI, SNAM,
SACE,
Fintecna, ecc.). In realtà, il ritiro e la rinascita
dello Stato imprenditore
sembrano segnati quasi
da un moto pendolare.
9. Cenni
all’integrazione
europea
Come  rilevato già nel   L’amministrazione
  indiretta e
composita
capitolo I, l’assetto
organizzativo e
funzionale delle pubbliche
amministrazioni
nazionali è condizionato in molti ambiti dal diritto
europeo. Il modello
originario di integrazione
europea era quello della cosiddetta
amministrazione indiretta
sperimentato
dall’Inghilterra per l’amministrazione dell’impero
coloniale. Questo
modello è fondato su una
scissione tra disciplina della funzione, attribuita
alla
competenza dell’Unione europea, e
organizzazione della medesima, rimessa in via
esclusiva ai singoli Stati membri. Progressivamente
esso è stato superato dal modello
della cosiddetta
amministrazione composita, caratterizzata da
strutture operative in
parte europee e in parte
nazionali. Queste ultime sono complementari e
integrate con le
prime e sono chiamate a gestire
procedimenti o fasi di essi anch’essi di natura
composita.
 L’influenza del diritto europeo
sull’organizzazione
amministrativa nazionale si manifesta in varie
forme.
In primo luogo, poiché molte
politiche pubbliche
sono ormai decise a livello europeo, le
amministrazioni nazionali si
sono attrezzate per
svolgere un ruolo attivo nell’ambito dei processi di
emanazione
degli atti giuridici europei (specie i
regolamenti e le direttive).
Così alcuni ministeri si sono
dotati di uffici che
hanno come compito principale quello di curare i
rapporti con
l’Unione europea. Presso la
presidenza del Consiglio dei ministri è istituito il
dipartimento  per le Politiche europee del quale si
avvale il presidente   Il dipartimento per le
  Politiche
europee
del Consiglio dei
ministri per
promuovere l’azione del governo
volta «ad
assicurare la piena partecipazione dell’Italia
all’Unione europea» e per
coordinare le
amministrazioni statali, regionali, i soggetti privati
«ai fini della
definizione della posizione italiana da
sostenere, di intesa con il ministero degli
Affari
esteri, in sede europea» (art. 3 d.lgs. n. 303/1999).
Come già ricordato nel capitolo
I, la legge 24
dicembre 2012, n. 234 ha istituito un Comitato
interministeriale per gli affari europei (CIAE), un
Comitato tecnico di valutazione
degli atti
dell’Unione europea e ha previsto presso le
amministrazioni statali nuclei di
valutazione degli
atti dell’Unione europea.
  empre a livello centrale, il
Comitato
S
interministeriale per la programmazione
economica (CIPE) ha anche la responsabilità della
programmazione e dell’impulso
delle politiche
comunitarie (l. n. 86/1989 e l. n. 183/1987). A livello
periferico, le regioni,
soprattutto in seguito alle
modifiche all’art. 117 Cost. operate dalla legge
costituzionale n. 3/2001, sono coinvolte in modo
351 più
diretto nei rapporti con l’Unione europea. Ciò
sia nella fase
ascendente della formazione sia in
quella discendente dell’attuazione degli atti
normativi europei (art. 117, commi 2 e 4). Alcune di
esse si sono dotate di
sedi di rappresentanza a
Bruxelles.
Inoltre funzionari di
amministrazioni nazionali
contribuiscono alla preparazione degli atti
comunitari anche
attraverso la partecipazione a
comitati tecnici composti da rappresentanti di
amministrazioni nazionali e da esponenti della
Commissione UE (la cosiddetta
«comitologia»).
In secondo luogo, in base a
numerosi atti
normativi europei,  le amministrazioni
nazionali
  La coamministrazione e
 
regionali sono talora
coinvolte nello svolgimento di attività
amministrative
delle quali esse sono contitolari
con la Commissione europea (la cosiddetta
coamministrazione). A questo fine organismi
nazionali, la cui istituzione è prevista
come
obbligatoria dalle norme europee, sono incaricati
di svolgere attività che
costituiscono segmenti di
procedimenti comunitari (procedimenti composti,
in parte
europei in parte nazionali).
  iò accade per esempio negli
interventi di
C
sostegno della produzione agricola da parte
dell’Unione europea. La
normativa prevede infatti
che i fondi europei vengano gestiti dagli Stati
membri per
mezzo di un «organismo di
coordinamento» e di «organismi pagatori» (art. 4
regolamento
(CEE) 1970/729 del 21 aprile 1970).
Lo Stato italiano ha istituito a questo fine
l’Agenzia  per le   L’Agenzia per le
  erogazioni in
erogazioni in agricoltura
agricoltura (AGEA)
che
agisce come
unico rappresentante dello Stato italiano nei
confronti della Commissione
europea per tutte le
questioni relative a questo tipo di fondi; è
responsabile nei
confronti dell’Unione europea
degli adempimenti connessi alla gestione degli
aiuti
all’agricoltura; esercita funzioni di
coordinamento e di vigilanza sugli organismi
pagatori istituiti dalle regioni; promuove
l’applicazione armonizzata della normativa
comunitaria in materia; effettua un monitoraggio
sulle procedure istruttorie e di
controllo; provvede
alla rendicontazione dell’attività all’Unione
europea (d.lgs. 27 maggio 1999, n. 165).
 
Anche la gestione dei cosiddetti
Fondi  strutturali
europei finalizzati a   La gestione dei Fondi
ridurre il
divario tra   strutturali europei

regioni più e meno


ricche avviene a livello nazionale attraverso
«autorità
di gestione» costituite da organismi
pubblici o privati designati dallo Stato membro per
la gestione degli interventi. Le autorità in
questione sono responsabili dell’efficacia
e della
regolarità della gestione e dell’attuazione degli
interventi sotto la vigilanza
della Commissione.
Quest’ultima riceve un rapporto annuale
sull’attività da esse svolta
e può formulare
osservazioni e raccomandazioni in caso di carenze
riscontrate (art. 34
regolamento (CE) 1999/1260
del 21 giugno 1999). In aggiunta alle autorità di
gestione,
per ogni quadro comunitario di sostegno
è istituito a livello nazionale un comitato di
sorveglianza del quale fa parte anche un
rappresentante della Commissione (art. 35). La
Commissione vigila sull’intero sistema e può anche
chiedere allo Stato di effettuare
controlli specifici
in loco per verificare la regolarità delle
operazioni.
Esamina il rapporto annuale predisposto
dall’autorità di gestione e può
formulare
osservazioni e raccomandazioni. Anche
l’attuazione del già citato Piano
nazionale di
ripresa e resilienza in base al regolamento (UE)
2021/241 è vigilata dalla
Commissione europea che
in caso di ritardi o di cattiva gestione può
sospendere e
addirittura revocare i finanziamenti
352 erogati dallo Stato
membro.
I  n base al già citato meccanismo
di vigilanza unico
nel settore bancario che ha preso avvio alla fine del
2014, la Banca
centrale europea e le autorità
nazionali cogestiscono numerosi poteri. In
particolare i
provvedimenti di autorizzazione
all’esercizio dell’attività bancaria sono rilasciati
all’esito di un procedimento composito che
prevede una prima valutazione positiva da
parte
dell’autorità nazionale sulla base del diritto
interno e una seconda valutazione
positiva
successiva da parte della Banca centrale europea
sulla base del diritto
europeo. La Banca centrale
europea si può avvalere delle strutture
organizzative delle
autorità di vigilanza nazionali.
La vigilanza sulle maggiori banche europee è
esercitata
da squadre miste di funzionari delle
autorità dei vari Stati membri.
In terzo luogo, le autorità
amministrative
indipendenti, come si è visto nel paragrafo 7, sono
inserite in modo
sempre più stretto in una rete di
regolatori che fa capo ad agenzie e autorità
europee
istituite per promuovere l’elaborazione e
l’applicazione uniforme delle regole europee.
Nel
gestire i propri poteri le singole autorità nazionali
devono spesso tenere conto
delle osservazioni e
dei rilievi dell’Agenzia europea e delle autorità di
altri Stati
membri.
In quarto luogo, le normative
europee settoriali
impongono agli Stati membri di istituire apparati
come, per esempio,
le autorità nazionali di
regolazione già esaminate. Da ultimo, la proposta
di
regolamento europeo elaborata dalla
Commissione che introduce regole armonizzate
sull’intelligenza artificiale presentata il 21 aprile
2021 (COM(2021) 206 final) prevede
che ogni
Stato membro istituisca o designi un’autorità
nazionale competente a garantire
l’applicazione
del nuovo complesso sistema normativo e pone il
principio che deve essere
salvaguardata
l’obiettività e l’imparzialità della loro attività e che
devono disporre
di risorse finanziare e di
personale sufficiente (art. 59).
10. Le
relazioni interorganiche e
intersoggettive
Nei paragrafi che precedono si è
trattato
dell’organizzazione da un punto di vista, per così
dire, statico, cioè di
descrizione dell’assetto
interno degli apparati pubblici (organi, uffici) e
delle
diverse tipologie di enti che compongono la
pubblica amministrazione. Occorre ora porci
da un
punto di vista, per così dire, dinamico, analizzando
le relazioni organizzative
interne ed esterne alle
amministrazioni pubbliche.
Le  relazioni interne   Il rapporto di
gerarchia
 
o interorganiche ed
esterne o intersoggettive sono principalmente le
seguenti: gerarchia, direzione, controllo,
coordinamento, delega di funzioni,
avvalimento.
 
1. La nozione di gerarchia è già stata introdotta
nel capitolo IV
trattando degli ordini
amministrativi.
Storicamente, la nozione di
gerarchia nasce
nell’ambito dell’ordinamento della Chiesa cattolica
e venne poi
applicata anzitutto agli apparati
militari. Essa connota sia il rapporto tra persone
incardinate nella medesima struttura (gradi e
qualifiche del singolo dipendente), ma
anche il
rapporto tra uffici (e tra titolari dei medesimi). Il
353 rapporto di gerarchia
presuppone che le
competenze dell’organo o ufficio sottordinato
siano tutte incluse in quelle dell’organo o ufficio
sovraordinato. Ciò spiega perché
l’organo o ufficio
gerarchicamente sovraordinato, oltre a emanare
ordini puntuali, può
esercitare anche il potere di
avocare a sé un singolo affare usualmente rimesso
alla
competenza dell’organo o ufficio sottordinato;
di sostituirsi a quest’ultimo in caso di
inerzia; di
risolvere conflitti insorgenti tra uffici sottordinati;
di decidere sui
ricorsi gerarchici proposti da
soggetti terzi nei confronti degli atti emanati
dall’organo subordinato; di annullare d’ufficio
questi ultimi e di revocarli.
Il rapporto di gerarchia non può
sussistere invece
nelle relazioni intersoggettive tra enti pubblici.
Esso costituisce
oggi un modello ad applicazione
limitata (organizzazione militare, forze di polizia)
essendo stato sostituito da modelli più rispettosi
dell’autonomia e delle prerogative
degli organi
subordinati.

2. Il rapporto di direzione  è meno intenso


di
quello di gerarchia.   Il rapporto di
  direzione
Esso è stato trattato
nel capitolo II là dove
si è analizzata la
distinzione tra direttive che si
inseriscono in rapporti interorganici e direttive
che
attengono a rapporti intersoggettivi.
    Il rapporto di
controllo
 
3. Anche il
controllo , come già
visto nel
capitolo VI, può avere natura
interorganica (controlli interni) o intersoggettiva
(controlli esterni) e dà origine a un rapporto di
sovraordinazione tra l’organo o
l’ufficio titolare del
potere di controllo e il destinatario di
quest’ultimo. Al
titolare del potere di controllo è
riconosciuta generalmente una posizione di
indipendenza all’interno dell’organizzazione e ciò
in considerazione della neutralità
della funzione.
 
4. Occorre ora dedicare un cenno ai rapporti  di
equiparazione relativi   Il coordinamento
 
a organi, uffici ed enti
che non dipendono l’uno
dall’altro, ma che sono
chiamati a cooperare tra loro. Il coordinamento è
un’esigenza
primaria in un sistema amministrativo
che ha acquisito una dimensione multilivello e di
specializzazione delle funzioni.
  el modello gerarchico, il
coordinamento è
N
assicurato dalla presenza di un vertice unitario che
assomma tutte le
competenze. Anche nei rapporti
di direzione, lo strumento della direttiva tende a
promuovere, sia pur con minore intensità, la
coerenza dell’attività amministrativa. Al
di fuori
di questi ambiti il coordinamento diventa più
problematico.
Si discute se anche il
coordinamento debba essere
ricondotto a una figura di sovraordinazione
(sovrapponibile
in parte a quella della direzione)
più che di equiordinazione, o se esso abbracci una
pluralità di situazioni e di strumenti non riducibili
a unità [Bachelet 1962; Piga
1988].
In proposito, è utile distinguere
tra coordinamento
politico-amministrativo, che attiene al livello
costituzionale, e
coordinamento amministrativo in
senso stretto.
Il livello    Il coordinamento
  politico-
costituzionale amministrativo
involge i rapporti
interni al governo e
quelli tra lo Stato, le regioni e il sistema delle
autonomie locali. Nel primo ambito
spetta al
Consiglio dei ministri il compito di dirigere la
politica generale, di
mantenere l’unità di indirizzo
politico e amministrativo, promuovendo e
coordinando
l’attività dei ministri (art. 95 Cost. e
art. 5 l. n. 400/1988). In contesti settoriali, il
354 coordinamento tra una pluralità di ministeri è
assicurato anche
da comitati interministeriali
previsti da varie leggi o istituiti ad
hoc. Nel secondo
ambito il coordinamento è garantito da strutture
di
raccordo quali, come si è accennato, la
Conferenza permanente per i rapporti tra lo
Stato,
le regioni e le province autonome di Trento e
Bolzano (cosiddetta Conferenza
Stato-regioni), la
Conferenza Stato, città e autonomie locali, la
Conferenza unificata
in relazione a materie di
interesse comune (d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281). Da
ultimo è stato
istituito, come accennato, il Nucleo
PNRR Stato-regioni.
  livello più propriamente  amministrativo,
A
numerosi strumenti,   Il coordinamento
  amministrativo
già individuati nel
capitolo V, mirano a
coordinare le attività relative a uno o più
procedimenti: le
intese, i pareri, le conferenze di
servizi, gli accordi tra le amministrazioni,
l’autorizzazione unica, gli sportelli unici, ecc.
Anche gli organi di tipo collegiale,
nei quali sia
rappresentata una pluralità di amministrazioni,
possono costituire una
sede istituzionale stabile
per il coordinamento. Talvolta la funzione di
coordinamento è
affidata a un organo in
particolare, che, pur non potendo esercitare poteri
di
direttiva, promuove il raccordo tra le attività, lo
scambio di informazioni, la
valutazione congiunta
dei risultati.
 Nel caso delle autorità
indipendenti, per le ragioni
già viste, il coordinamento non può avere altra
dimensione
se non quella paritaria. Esso è
assicurato in particolare attraverso accordi o
protocolli di intesa finalizzati a regolare gli scambi
di informazioni, a ripartire le
attività istruttorie nei
confronti delle imprese regolate al fine di evitare
duplicazioni, ecc. Per esempio, i rapporti tra Banca
d’Italia e CONSOB sono disciplinati
da un
protocollo d’intesa (art. 5, comma 5-bis, Testo
unico
dell’intermediazione finanziaria). In termini
più generali, la legge sul risparmio
individua come
strumenti di coordinamento tra le autorità di
settore e l’Autorità
garante della concorrenza e del
mercato sia i protocolli d’intesa, sia l’istituzione di
comitati di coordinamento, sia la convocazione di
riunioni con cadenza almeno annuale
(art. 21 l. n.
262/2005).
Proprio a proposito delle autorità
indipendenti è
stata elaborata la nozione di relazione  di
indipendenza, da   La relazione di
  indipendenza
porre accanto a
quelle di gerarchia e
di direzione. In realtà, quella
di indipendenza è,
per così dire, una «non relazione», perché, al di
fuori delle forme
consensuali di coordinamento, la
singola autorità può esercitare i propri poteri
senza
dover interagire con altri soggetti.
 Talvolta  un ente o   La delega di funzioni e
  l’avvalimento
ufficio si mette a
disposizione di un
altro ente
o ufficio per lo svolgimento di compiti e
funzioni propri di quest’ultimo. Così, nei
casi
previsti dalla legge, è ammessa la delega di
funzioni da parte di un ente nei
confronti di un
altro, che le svolge in proprio nome ma per conto e
nell’interesse
dell’ente delegante. Per esempio,
funzioni amministrative per servizi di competenza
statale possono essere affidate per legge ai comuni
(art. 14, comma 2, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267).
Un’altra
modalità è l’avvalimento che è una figura
organizzativa in base alla quale un ente o
ufficio di
un ente mette a disposizione la propria
organizzazione a supporto
dell’esercizio di
funzioni o attività proprie di un altro ente che
esercita poteri di
direzione e di controllo nei
confronti dell’ente o ufficio in relazione alle
355 attività
svolte a titolo ausiliario. Così, per esempio,
l’Autorità di
regolazione per energia, reti e
ambiente si avvale del Gestore dei servizi
energetici
s.p.a. e dell’Acquirente unico s.p.a., due
società a partecipazione pubblica
totalitaria, per
l’espletamento di attività tecniche e per il
rafforzamento delle
attività di tutela dei
consumatori (art. 27, comma 2, della legge 23 luglio
1999, n.
99).
 
11. Il
disegno organizzativo
degli enti pubblici e lo spazio
regolatorio
Conviene ora accennare, in sede
conclusiva, a due
nozioni, meno tradizionali, che possono essere
utili per lo studio
degli apparati amministrativi: il
disegno organizzativo degli enti pubblici e il
cosiddetto spazio regolatorio.

1. Il primo consiste in una griglia di parametri e di


indicatori che
consentono di inquadrare
comparativamente qualsiasi tipo di apparato
pubblico. In questa
sede basta indicarne quelli
principali.
Un primo indicatore si riferisce
alle fonti che
disciplinano   Le fonti di disciplina
 
 l’apparato. Alcuni
enti
trovano nella legge istitutiva o in fonti di tipo
regolamentare la fonte principale; per
altri invece
la fonte primaria riconosce margini assai ampi di
conformazione
dell’assetto organizzativo allo
statuto, elaborato dallo stesso ente e approvato
dall’autorità di vigilanza. Si è già segnalata in
proposito la tendenza ad attribuire a
molti enti
una maggior autonomia organizzativa che si
esprime anche nella possibilità di
disciplinare, a
valle dello statuto, con propri regolamenti o atti
organizzativi
l’articolazione degli uffici, i
procedimenti, la gestione finanziaria e contabile, i
contratti, ecc. L’analisi delle fonti consente dunque
di valutare anzitutto i margini di
autonomia.
  n  secondo
U   Gli organi
 
parametro riguarda la
tipologia di organi previsti per ciascun ente, le
modalità di nomina dei titolari dei medesimi e la
ripartizione tra essi delle
competenze. I modelli
possono essere i più vari e si è già fatto riferimento
ad alcune
classificazioni degli organi. Può essere
dunque sufficiente osservare, per esempio, che
fino ad anni relativamente recenti erano prevalenti
i modelli che attribuivano gran
parte dei poteri a
organi assembleari o comunque a organi
amministrativi collegiali
volti ad assicurare una
maggiore partecipazione e condivisione delle
decisioni. Hanno
preso poi piede modelli che
tendono a concentrare i poteri gestionali in organi
monocratici o a composizione ristretta, secondo
una visione manageriale tesa a rendere
le decisioni
più rapide e meno influenzabili dalla politica. Per
esempio, secondo la
legge istitutiva del Servizio
sanitario nazionale del 1978 (l. n. 833/1978) le
aziende sanitarie locali erano
amministrate da un
comitato di gestione, di nomina essenzialmente
politica, sostituito
dalle leggi successive con un
direttore generale che accentra su di sé tutti i
poteri e
risponde direttamente alla regione che lo
nomina. Leggi recenti, con funzione anche di
contenimento della spesa, hanno poi ridotto il
numero massimo dei componenti degli
organi
collegiali (per esempio il d.lgs. n. 175/2016 sulle
società a partecipazione
pubblica). Inoltre il
principio organizzativo che presiede alla
ripartizione delle
competenze è quello della
distinzione tra indirizzo e gestione: sempre più
356 spesso
all’organo preposto alla gestione è
attribuita una competenza
generale, riservando
all’organo di indirizzo solo un elenco tassativo di
competenze
(approvazione del bilancio, di atti di
indirizzo, di nomina degli organi gestionali,
ecc.).
Sempre con riguardo agli organi, altri indicatori
sono la previsione o meno di
requisiti di
professionalità ed esperienza dei loro componenti
e le modalità attraverso
le quali essi vengono
selezionati.
 
Un  terzo criterio   Le funzioni e i poteri
 
prende in
considerazione le funzioni e i poteri attribuiti
all’ente
dalla legge. Si spazia da apparati preposti
all’esercizio di funzioni propriamente
amministrative, che agiscono soprattutto
attraverso l’emanazione di atti autoritativi,
ad
apparati preposti soprattutto all’erogazione di
servizi che operano prevalentemente
con
strumenti contrattuali o attraverso l’erogazione di
prestazioni (scolastiche,
sanitarie, ecc.).
 Un  quarto criterio   I controlli e le risorse
  finanziarie
analizza i controlli e
la vigilanza ai quali è
sottoposto l’ente. La
casistica è variegata e include
enti sottoposti a poteri penetranti di controllo
(sugli
organi, sugli atti, ecc.) e di ingerenza da
parte del soggetto vigilante alle autorità
indipendenti, già esaminate.
 Un quinto indicatore è costituito
dalle risorse
finanziarie sulle quali può far affidamento l’ente.
Alcuni apparati
dipendono totalmente da fondi
trasferiti dall’erario. Altri apparati, come alcune
autorità indipendenti, sono autosufficienti, in
quanto possono imporre, come si è visto,
un
contributo ai soggetti vigilati. Attraverso il
controllo dei volumi delle risorse
messe a
disposizione l’autorità centrale, come si è già
accennato, è in grado di
condizionare l’operatività
concreta degli enti. A livello di enti territoriali,
l’art. 119 Cost. che prevede per essi risorse
autonome e
tributi ed entrate propri, è rimasto in
larga parte inattuato, nonostante i tentativi di
introdurre il cosiddetto «federalismo fiscale»
(legge 5 maggio 2009, n. 42).
 
2. Il disegno organizzativo tende a fornire
un’immagine  statica per così dire fotografica di
ciascun apparato. La   Lo spazio regolatorio e
  l’arena
pubblica
sua collocazione nel
cosiddetto «spazio
regolatorio» [Hancher e Moran 1989] tende invece
a coglierne l’aspetto dinamico all’interno di un
sistema di relazioni in qualche misura
mobili tra
apparati pubblici. Infatti, nessun attore,
protagonista o comprimario, della
cosiddetta
«arena  pubblica»   L’«arena pubblica»
 
[Cassese 2001, 611-
650] agisce
in modo isolato. Anzi in molti casi le
competenze di ciascuno di essi si sovrappongono e
talora entrano in conflitto con quelle di altri
apparati. Inoltre gli attori pubblici
operano in
contesti nei quali interessi privati contrapposti
cercano di influenzare i
processi decisionali. Lo
spazio regolatorio inoltre non ammette vuoti, e
pertanto la
debolezza strutturale o contingente di
taluni apparati fa acquisire spesso ad altri un
ruolo
di supplenza.
  utile dunque cercare di cogliere
la posizione che,
È
al di là dei vincoli normativi, concretamente
ciascuno di essi è in
grado di occupare. Lo spazio
regolatorio richiede una mappatura delle relazioni
formali
e informali di ciascun apparato con gli altri
apparati e attori istituzionali
(stakeholders) in modo
da coglierne i legami e le influenze
reciproche.
L’analisi giuridica richiede di
essere integrata a
questo fine con considerazioni di tipo politologico
e sociologico.
Infatti, la collocazione di un
apparato all’interno dello spazio regolatorio
357 dipende
anche da elementi fattuali, come il
prestigio acquisito nel
tempo, l’autorevolezza dei
suoi vertici, le alleanze occasionali o durevoli, le
relazioni personali tra i titolari delle funzioni, i
condizionamenti dell’opinione
pubblica, la crisi o
la reviviscenza della politica e altri fattori
contingenti.
Così, per fare un solo esempio, le
autorità
indipendenti, affermatesi in una fase di crisi della
politica partitica, hanno
fatto fatica ad affermare il
loro ruolo nel panorama istituzionale, suscitando
spesso
anche reazioni di insofferenza da parte di
attori più tradizionali. Il governo e il
parlamento
hanno considerato talora come ingerenze indebite
le segnalazioni e i pareri
delle autorità volti a
criticare provvedimenti normativi in corso di
approvazione.
Talvolta un eccesso di attivismo da
parte delle autorità nei confronti delle imprese è
stato stigmatizzato come sintomo di un «ardore
regolatorio»; altre volte un’eccessiva
timidezza
degli interventi è stata vista come un esempio di
«cattura» del regolatore da
parte delle imprese
regolate.
In definitiva, lo spazio
regolatorio, più che un
concetto giuridico, è la rappresentazione di un
universo di
apparati interdipendenti e in continua
evoluzione.
CAPITOLO 9

I servizi pubblici

359
1. Premessa

Fino agli anni Ottanta del secolo


scorso il tema dei
servizi pubblici trovava la sua collocazione
naturale nel capitolo
sull’organizzazione
amministrativa. Infatti, prima delle liberalizzazioni
e
privatizzazioni dell’ultimo quarto di secolo,
l’erogazione dei servizi pubblici alla
collettività era
assicurata in gran parte da apparati pubblici. Oggi
invece il tema
merita una trattazione a sé stante.
Conviene prendere le mosse
dall’evoluzione
storica .   L’evoluzione storica
 

 In una fase iniziale del secolo


scorso, come si è
anticipato, lo Stato sociale o interventista (Welfare
State) assunse su di sé il compito di gestire con
proprie strutture
organizzative, per esempio, i
servizi di trasporto o i servizi postali e telefonici. A
livello locale, come si è accennato nel capitolo I, i
comuni già sul finire del XIX
secolo furono attivi
in questo campo (cosiddetto socialismo
municipale). La legge
Giolitti prese atto di questa
evoluzione individuando una serie di servizi che i
comuni
potevano gestire con proprie strutture
interne, cioè con le cosiddette aziende
municipalizzate (legge 29 marzo 1903, n. 103).
Si trattava di servizi necessari per
il benessere
della collettività che il mercato (cioè l’iniziativa
privata) non era in
grado di offrire in quantità e
qualità ritenute adeguate. E ciò per più ragioni:
erano
economicamente non profittevoli;
richiedevano capitali ingenti per effettuare gli
investimenti necessari (si pensi, per esempio, alla
costruzione delle reti ferroviarie);
presentavano il
rischio di dar origine a monopoli privati dannosi
per gli utenti.
Soltanto l’intervento diretto dei
pubblici poteri,
almeno in una prima fase, poteva risolvere questi
problemi, con
l’assunzione di un ruolo di
supplenza rispetto alle insufficienze del mercato.
Il modello originario di
organizzazione dei servizi
pubblici aveva due caratteristiche.
La  prima
è   Il regime di riserva
  originaria
l’introduzione per
legge di un regime di
riserva originaria dell’attività a favore
dello Stato,
tale da escluderne lo svolgimento da parte dei
privati in regime di
concorrenza (i monopoli legali
360 ai quali fa riferimento anche
l’art. 43 Cost.). Per
esempio la gestione delle linee
ferroviarie e dei
servizi telefonici venne riservata allo Stato
rispettivamente nel 1905
e nel 1907. Nel 1962 si
ebbe la nazionalizzazione del servizio elettrico
affidato in
gestione a un ente pubblico economico
(l’ENEL). A
livello locale vennero introdotte le
cosiddette «privative» comunali, come quelle
relative allo smaltimento dei rifiuti urbani o ai
servizi cimiteriali ancor oggi
vigenti.
  a  seconda
L   La gestione diretta e
  indiretta
caratteristica è la
gestione diretta del
servizio (tramite aziende speciali
interne allo Stato
o al comune) o indiretta (per mezzo di enti
pubblici economici) da
parte dei pubblici poteri.
In alcuni casi per la gestione del servizio era
consentito
l’affidamento a soggetti privati terzi
sulla base di una concessione amministrativa,
che,
come si è osservato nel capitolo IV, ha una valenza
organizzatoria. Secondo alcune
ricostruzioni il
concessionario, infatti, è qualificabile come organo
indiretto dello
Stato e dunque attratto in qualche
misura nell’orbita dei poteri pubblici.
I  n  coerenza con una   La concezione
  soggettiva di
servizio
visione del diritto pubblico
pubblico improntata
alla centralità dello
Stato
(secondo Ranelletti, «è pubblico tutto ciò e
solo ciò che direttamente o indirettamente
è di
Stato» [1905, 268]), la dottrina elaborò
inizialmente la concezione soggettiva di
servizio
pubblico, secondo la quale quest’ultimo si riferisce
alle attività svolte dallo
Stato a fini sociali in forme
non autoritative. Più precisamente, anche sulla
scorta
dell’esperienza francese del service public, per
servizio pubblico si intendeva un’attività: a)
tesa a
soddisfare un bisogno di interesse generale della
collettività (elemento
materiale); b) assunta come
compito proprio e svolta da un soggetto
formalmente pubblico (elemento organico); c)
sottoposta a un regime
giuridico speciale
(elemento formale).
I  l servizio pubblico finiva per
includere gran parte
delle attività dello Stato che non avessero natura di
pubblica
funzione. Questa concezione per così dire
residuale del servizio pubblico emerge nel
codice
penale che, come si è accennato, distingue, ai fini
dell’individuazione di una
serie di reati propri
(abuso d’ufficio, rivelazione di segreti d’ufficio,
ecc.), il
pubblico ufficiale, preposto a una pubblica
funzione, e la persona incaricata di
pubblico
servizio (artt. 357 e 358). Il pubblico ufficiale
esercita «una pubblica
funzione legislativa,
giurisdizionale o amministrativa», quest’ultima
«disciplinata da
norme di diritto pubblico e da atti
autoritativi»; la persona incaricata di un pubblico
servizio svolge «un’attività disciplinata nelle stesse
forme della pubblica funzione, ma
caratterizzata
dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima».
I servizi pubblici sono menzionati
in vari articoli
della Costituzione che attribuisce allo Stato
compiti come, per
esempio, quello di tutelare la
salute, non solo come diritto dell’individuo, ma
anche
come interesse della collettività (art. 32); di
garantire l’istruzione pubblica
istituendo scuole
statali per tutti gli ordini e gradi, pur riconoscendo
anche ai
privati il diritto di erogare questo tipo di
servizio (art. 33); di provvedere
all’assistenza
sociale con organi e istituti preposti o integrati
dallo Stato (art. 38);
di riservare o trasferire allo
Stato imprese o categorie di imprese che si
riferiscono a
servizi pubblici essenziali, a fonti di
energia o a situazioni di monopolio (art. 43).
Inoltre, nel definire le materie attribuite alla
potestà legislativa concorrente delle
regioni, l’art.
361 117, comma 3, menziona i servizi
pubblici in settori
quali le comunicazioni elettroniche, l’energia
elettrica, i porti,
gli aeroporti civili, le reti di
trasporto.
Progressivamente, con il superamento
dell’impostazione   La concezione
  oggettiva di
servizio
 statalista, la pubblico
concezione
soggettiva del
servizio pubblico divenne recessiva rispetto alla
concezione oggettiva oggi prevalente
sia in
dottrina sia in giurisprudenza (Cons. St., Sez. VI, 13
settembre 2012, n. 4870).
La concezione oggettiva
è più in linea con il già richiamato principio di
sussidiarietà
orizzontale volto a favorire il
coinvolgimento dei privati nello svolgimento di
attività
di interesse generale (art. 118, ultimo
comma, Cost.). Essa pone l’accento sul tipo
di
attività, connotata per la sua finalizzazione al
benessere della collettività, a
prescindere dal fatto
che essa sia svolta da un soggetto pubblico o da
soggetti privati,
che anzi assumono un ruolo
sempre più rilevante come fornitori dei servizi.
  a nozione di servizio pubblico, i
cui confini
L
peraltro restano ancor oggi in qualche misura
indefiniti, ebbe una forza
espansiva nella seconda
metà del secolo scorso fino a diventare «un istituto
cardine
dell’intero diritto pubblico» [Merusi 1970,
215]. Negli anni Ottanta venne considerata
servizio
pubblico persino l’attività bancaria, oggi qualificata
come una normale
attività d’impresa (sia pur
sottoposta, come si è visto, a controlli pubblici).
Con l’avvio dei processi di
liberalizzazione e di
privatizzazione, il compito dello Stato non è più
quello di
erogare direttamente i servizi pubblici
(Stato gestore), ma garantire attraverso gli
strumenti della regolazione che essi siano resi alla
collettività, secondo livelli
qualitativi e quantitativi
adeguati, di regola da parte di gestori privati (Stato
regolatore).
Prima di procedere all’esposizione
della disciplina
dei servizi pubblici conviene dar conto di due
classificazioni
generali.
In primo luogo, i servizi pubblici
possono essere
suddivisi,  come si   I servizi a rilevanza
  economica e
non
vedrà nel prossimo economica
paragrafo, già in base
al diritto europeo, in
servizi aventi una rilevanza economica
(trasporti,
energia elettrica, telecomunicazioni) e in servizi
non economici (scuola,
sanità, assistenza sociale).
I primi sono suscettibili di essere esercitati in
forma
imprenditoriale e si prestano più
naturalmente a essere gestiti, come si vedrà, da
soggetti privati in regime di concorrenza. Dei
secondi si fanno carico, in genere,
direttamente le
pubbliche amministrazioni con oneri a carico della
fiscalità generale e,
in ogni caso, il coinvolgimento
dei privati è possibile solo se ai gestori vengono
erogati finanziamenti pubblici.
  na  seconda
U   Servizi a fruizione
  collettiva e
individuale
distinzione è tra
servizi a fruizione
collettiva necessaria e servizi a
fruizione
individuale. I primi si riferiscono a quelli che con il
linguaggio degli
economisti sono definiti come
beni non escludibili, cioè beni che se sono
disponibili
per uno, lo sono necessariamente per
tutti. Questi servizi sono erogati sulla base di
atti
che instaurano una relazione bilaterale tra
pubblica amministrazione e gestore del
servizio
(per esempio, nel caso dell’illuminazione pubblica
delle strade il comune e
l’impresa concessionaria)
e vengono erogati alla collettività gratuitamente.
Nei
secondi, invece, il gestore del servizio
intrattiene una relazione giuridica (sulla base
di un
contratto) anche con gli utenti del servizio, ai quali
viene richiesto usualmente
un corrispettivo
commisurato alle prestazioni effettivamente rese
(il biglietto
dell’autobus, la bolletta telefonica,
362 ecc.).
I  servizi a rete  sono   I servizi a rete
 
quelli erogati agli
utenti attraverso infrastrutture
fisse, spesso
interconnesse, come per esempio le reti ferroviarie
e autostradali, le
reti di trasmissione e di
distribuzione dell’energia elettrica, le reti idriche,
ecc. In
passato, le reti e i servizi erano gestiti da
operatori monopolisti verticalmente
integrati che
erogavano anche i servizi. In un contesto
liberalizzato, di regola, gli
operatori di rete sono
distinti dalle imprese che erogano i servizi. Poiché
non avrebbe
senso economico duplicare le reti e le
infrastrutture di base (nel linguaggio del
diritto
antitrust, essential facilities), il gestore deve renderle
accessibili in condizioni non discriminatorie a tutti
gli interessati (per esempio, i
grossisti di energia
elettrica che desiderino immetterla nella rete
nazionale di
trasmissione, o le imprese ferroviarie
che abbiano necessità di far transitare i propri
treni sulla rete). Nella disciplina delle
comunicazioni elettroniche vale il principio
della
neutralità della rete (net neutrality) in base al quale
qualsiasi forma di comunicazione veicolata sulla
rete (in particolare internet) deve
essere trattata
in modo paritario, indipendentemente dal
contenuto, dal servizio,
dall’applicazione, dal tipo
di terminale, ecc.
 
2. I servizi
di interesse generale
nel diritto europeo
La disciplina europea in materia di
servizi
pubblici, che ha inciso profondamente sulla
disciplina nazionale, si fonda su
alcuni principi
posti dal Trattato sul funzionamento dell’Unione
europea e su numerose
direttive di
liberalizzazione riferite ai singoli servizi. Essa ha
due direttrici
principali. L’una pone l’accento sulla
loro rilevanza anzitutto sociale. L’altra prevede
che
si debbano rispettare per quanto possibile le regole
della concorrenza e del mercato
che valgono per le
normali attività economiche.
  I servizi come fattore
  di coesione
sociale e
1.
Secondo  la prima
territoriale
direttrice i servizi di
interesse generale
(espressione coincidente con quella nazionale di
servizi pubblici) costituiscono
anzitutto «elementi
essenziali per garantire la coesione sociale e
territoriale e
salvaguardare la competitività
dell’economia europea» (Libro bianco sui servizi di
interesse generale del 12 maggio 2004,
COM(2004)
374). Essi sono una componente della cittadinanza
europea,
indispensabile per beneficiare appieno
dei diritti fondamentali. Per le imprese che li
utilizzano, invece, i servizi di alta qualità e a prezzi
accessibili sono condizioni per
creare un contesto
competitivo (per esempio un sistema di trasporti
efficiente agevola
l’immissione sul mercato dei
prodotti). I servizi sono menzionati dalla Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea che
richiama specificamente il diritto ad
accedere
all’assistenza sociale (art. 34), alla prevenzione
sanitaria e alle cure
mediche (art. 35) e ai servizi
d’interesse economico generale (art. 36). Anche il
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea
riconosce «l’importanza dei servizi di
interesse
economico generale nell’ambito dei valori comuni
dell’Unione, nonché del loro
ruolo nella
promozione della coesione sociale e territoriale».
A questo fine l’Unione e
gli Stati membri
provvedono affinché tali servizi «funzionino in
base a principi e
condizioni, in particolare
economiche e finanziarie, che consentano loro di
363 assolvere i
propri compiti» (art. 14 TFUE).
  differenza di quanto accade in
altri ordinamenti,
A
i servizi pubblici sono dunque un elemento
caratterizzante del
modello europeo di società. Si
pensi, per differenza, agli Stati Uniti dove persino
l’assistenza sanitaria è considerata da molti un
fatto privato del quale ciascun
individuo deve
preoccuparsi. Non a caso, la riforma sanitaria
approvata nel 2010 su
impulso
dell’amministrazione democratica (Patient
Protection and Affordable Care Act,
detto anche
Obamacare), fondata su un obbligo imposto ai
privati di
stipulare un’assicurazione, pena
l’imposizione di una multa, è stata contestata,
anche
se la Corte Suprema l’ha dichiarata
conforme alla Costituzione. L’amministrazione
repubblicana insediatasi nel 2017 ha tentato di
ridimensionare la riforma.

2.
La seconda direttrice è scolpita nel Trattato
che contiene  una   Servizi pubblici e
  concorrenza
disposizione secondo
la quale «Le imprese
incaricate della gestione di servizi di
interesse
economico generale […] sono sottoposte alle
norme dei Trattati e in
particolare alle regole di
concorrenza nei limiti in cui l’applicazione di tali
norme
non osti all’adempimento, in linea di diritto
e di fatto, della specifica missione loro
affidata»
(art. 106, comma 2, TFUE). Questa disposizione,
ripresa
nell’art. 8, comma 2, legge 10 ottobre 1990,
n. 287, prevede
l’applicazione delle regole comuni
in materia di concorrenza. Essa consente peraltro
deroghe, in base al principio di proporzionalità,
cioè solo nei limiti dello stretto
necessario per il
conseguimento degli scopi di interesse pubblico
che gli Stati membri
si prefiggono.
  osì, in particolare, le imprese
incaricate di
C
svolgere un servizio pubblico di interesse
economico generale possono
ricevere
finanziamenti pubblici, in deroga alla disciplina
degli aiuti di Stato, a
titolo di compensazione,
secondo criteri di stretta proporzionalità, in
relazione alla
necessità di coprire i costi correlati
all’adempimento degli obblighi di servizio
pubblico. Ciò nei casi in cui, in assenza del
finanziamento, verrebbe compromesso
l’equilibrio
economico dell’impresa (Corte di giustizia
dell’Unione europea 24 luglio
2003, C-280/00, caso
Altmark).

Gli Stati membri sono peraltro


liberi di individuare
le attività da annoverare tra i servizi pubblici e le
modalità di
erogazione dei medesimi.
Il diritto europeo pone anzitutto
una distinzione
tra servizi di   I servizi economici e
  non
economici di
 interesse economico interesse generale
generale,
che
riguardano beni o
servizi offerti in un determinato mercato (per
esempio, i
trasporti, l’energia elettrica, le poste,
ecc.), e servizi non economici di interesse
generale, che invece si collocano fuori dal mercato
(servizi sociali, istruzione,
sanità, ecc.) e ai quali
non si applicano le regole della concorrenza.
 I primi rientrano nel
genus dei servizi, definiti
come «prestazioni fornite
normalmente dietro
retribuzione» (art. 57, comma 1, TFUE), e sono
inclusi, sia pur con varie
eccezioni, anche nel
campo di applicazione della direttiva (CE)
2006/123, già
richiamata, sulla libertà di
stabilimento dei prestatori e sulla libera
circolazione dei
servizi. I servizi non economici
d’interesse generale, invece, sono esclusi dal suo
campo di applicazione (art. 2, comma 2, lett. a))
proprio perché di regola vengono
svolti in forme
non imprenditoriali. Ad essi non si applica neppure
364 l’art. 106, comma 2, TFUE sopra
richiamato.
Il diritto europeo ha sempre evitato
di fornire un
elenco esaustivo dei servizi che ricadono nella
prima o nella seconda
categoria. Ciò perché
l’esistenza o inesistenza di un mercato dipende in
alcuni casi da
scelte organizzative dei singoli Stati
membri. Così, per esempio, l’assistenza sanitaria
può essere gestita, come accade in Italia e in
Spagna, all’interno di un Servizio
sanitario
nazionale basato sul principio di solidarietà, con
oneri in massima parte a
carico della finanza
pubblica e in questo caso il servizio non è offerto
su un mercato.
In altri Paesi, invece, l’assistenza
sanitaria viene erogata dietro il pagamento di un
prezzo o direttamente da parte del paziente
oppure a carico di istituti di
assicurazione. In
questo secondo caso si apre uno spazio di mercato
e di concorrenza tra
fornitori tale da far assumere
ai servizi offerti una rilevanza economica.
Comunque sia,
«gli Stati membri dispongono di un
ampio margine di discrezionalità nel definire un
determinato servizio come servizio di interesse
economico generale», sindacabile solo in
presenza
di errori manifesti (comunicazione della
Commissione in tema di aiuti di Stato per la
prestazione di servizi di interesse economico
generale 2012/C 8/02 dell’11 gennaio
2012).
La classificazione europea coincide
sostanzialmente con alcune distinzioni di diritto
interno, come quella tra servizi di
rilevanza
economica e non economica, emersa, in
particolare, nella legislazione sui
servizi pubblici
locali (C. cost. 17 novembre 2010, n. 325).
A  valle
dei Trattati,   Le direttive di
  liberalizzazione
negli anni Novanta
del secolo scorso,
come si è già accennato, sono
intervenute direttive
europee di settore volte a liberalizzare i servizi di
interesse
economico generale (comunicazioni
elettroniche, energia elettrica, gas, poste, ecc.).
Esse hanno così superato la prima delle due
caratteristiche del modello originario di
organizzazione, e cioè la riserva originaria di
attività (nel linguaggio europeo, i
diritti speciali o
di esclusiva). Esse tendono ad assicurare che il
raggiungimento degli
obiettivi del servizio
pubblico avvenga nel rispetto, per quanto
possibile, dei principi
del mercato aperto alla
libera concorrenza tra gli operatori (principio della
regolazione proconcorrenziale).
 A questo fine, le direttive
prevedono che le
autorità nazionali di regolazione (rientranti nel
genus delle autorità indipendenti) siano dotate di
poteri
adeguati che includono, per esempio, come
si vedrà meglio nel paragrafo 4, la
determinazione
di standard minimi relativi ai servizi, la fissazione
di tariffe, sistemi
di autorizzazione o di
concessione, contratti di servizio, obblighi a
contrarre a carico
dei gestori, carte di servizi, ecc.
In termini generali, le direttive di
liberalizzazione
operano una distinzione tra concorrenza «nel
mercato» e concorrenza
«per il mercato»,
attribuendo alla prima una priorità rispetto alla
seconda.
  La concorrenza «nel
  mercato» e
«per il
1.
La  concorrenza
mercato»
«nel mercato»
riguarda i servizi
pubblici per
i quali, date le caratteristiche
particolari dell’attività, la fornitura del servizio
può essere svolta da una pluralità di operatori in
concorrenza. E ciò sulla base di un
semplice
provvedimento di autorizzazione non
discrezionale, volto a verificare il
possesso dei
requisiti tecnici ed economici minimi necessari per
365 intraprenderla posti
dalla regolazione di settore.
Tra gli esempi principali,
possono essere presi i
trasporti aerei e più di recente quelli ferroviari, i
servizi di
telefonia, ecc.
 
2.
La concorrenza «per il mercato » si riferisce
alle situazioni
nelle   La concorrenza «per il
  mercato»
quali per ragioni
tecniche o
economiche (monopolio naturale, costi eccessivi
di
duplicazione delle reti e delle infrastrutture) il
servizio pubblico può essere svolto
in modo
efficiente da un solo operatore. L’attribuzione del
servizio, come richiede
anche la direttiva (CE)
2006/123 più volte richiamata, avviene in seguito a
una
procedura competitiva di affidamento della
concessione (cioè di un diritto speciale o di
esclusiva) alla quale possono partecipare tutti i
potenziali interessati. In questo modo
la
regolazione crea una sorta di mercato artificiale,
limitato alla fase di scelta del
gestore chiamato a
svolgere il servizio avendo acquisito un diritto
speciale o di
esclusiva. Ciò accade, per esempio,
nei casi della distribuzione dell’energia elettrica
a
livello locale, della gestione delle reti e delle
infrastrutture (ferrovie,
autostrade, aeroporti,
ecc.).
 I servizi di interesse economico
generale possono
essere gestiti sia da imprese private, sia da imprese
pubbliche poste
su un piano di parità
concorrenziale. Come si è già accennato, il diritto
europeo non
esprime alcuna preferenza tra
proprietà pubblica o privata delle imprese. Inoltre,
nei
casi in cui sia possibile soltanto la concorrenza
«per il mercato», gli Stati membri
sono comunque
liberi di scegliere il modello della gestione diretta
(tramite strutture
pubbliche o anche società in-
house) o di affidare il servizio a
soggetti terzi
tramite procedure competitive.
In definitiva, le direttive europee
relative ai singoli
servizi di interesse economico generale hanno
superato entrambe le
caratteristiche originarie dei
servizi pubblici prima ricordate e cioè la riserva di
attività e la gestione diretta o indiretta da parte dei
pubblici poteri.
3. La
regolazione e le forme di
gestione dei servizi pubblici
La disciplina dei servizi pubblici
ha per oggetto tre
fasi: l’assunzione; la regolazione; la gestione.
  L’assunzione del
  servizio
pubblico
1.
L’assunzione  di
un’attività come
servizio pubblico è il
frutto di una decisione
politica (di solito per legge o con atti
amministrativi emanati
sulla base della legge) che,
constatata l’insufficienza del mercato nell’offrire
alla
collettività determinati beni e servizi, mette in
opera interventi di regolazione volti
a garantire
livelli minimi qualitativi e quantitativi delle
prestazioni. Se necessario,
vengono messe a
disposizione anche risorse pubbliche (per
esempio, i contributi per il
mantenimento in
attività di tratte ferroviarie secondarie o di
collegamenti su gomma
strutturalmente in
perdita). Riemerge dunque una colorazione
soggettiva del servizio
pubblico, nel senso che
l’atto di assunzione del servizio costituisce una
responsabilità
esclusiva dello Stato (e degli enti
locali).
 Rilevano a questo riguardo due
caratteri della
nozione di servizio pubblico che rendono difficile
offrirne una
definizione precisa: la storicità e la
366 relatività.
Quanto  alla storicità,   La storicità e la
  relatività della
nozione
i beni e servizi di servizio pubblico
essenziali per il
benessere della
collettività da
considerare come servizi pubblici
variano nel tempo in base alle esigenze della
società
e alla situazione di mercato concreta.
Alcuni beni primari, come per esempio i generi
alimentari, sono offerti sul mercato libero in
quantità più che sufficienti, tanto da
non
richiedere alcun intervento o regolazione pubblica,
al di là di quella necessaria
per garantirne la qualità
(regolazione della sicurezza alimentare, oggi
promossa anche
da un’agenzia europea). Altri beni,
che un tempo avevano una forte componente di
servizio pubblico (per esempio, la distribuzione
dei farmaci anche in località
periferiche assicurata
dalle farmacie comunali) hanno acquisito col
tempo una valenza
prevalentemente commerciale.
L’elenco dei servizi (19 in tutto) che la legge
Giolitti del 1903 considerava suscettibili di essere
assunti dai comuni rivela la storicità della nozione.
Mentre alcuni sono ancora attuali
(per esempio,
l’illuminazione delle strade pubbliche, la
distribuzione dell’acqua,
ecc.), altri non lo sono
più (per esempio, gli essiccatoi e depositi di
granoturco o la
vendita del ghiaccio). Altri servizi,
oggi considerati essenziali a livello nazionale
(telefonia mobile, accesso a internet, ecc.),
all’epoca non esistevano.
 Quanto alla relatività, muta il
perimetro del
servizio pubblico a seconda del contesto locale e
delle specificità
territoriali. Il Testo unico degli
enti locali fornisce pertanto una definizione di
servizio pubblico locale a maglie larghe. Per servizi
pubblici locali si intendono
infatti quelli «che
abbiano per oggetto la produzione di beni ed
attività rivolte a
realizzare fini sociali e a
promuovere lo sviluppo economico e civile delle
comunità
locali» (art. 112, comma 1, d.lgs. 18 agosto
2000, n. 267). I consigli
comunali, che hanno la
competenza in materia di organizzazione dei
servizi locali,
godono dunque, almeno in astratto,
di un’amplissima discrezionalità circa l’assumere o
meno una determinata attività come servizio
pubblico. Ciò anche se i servizi
fondamentali sono
in realtà i medesimi (trasporti, raccolta rifiuti,
illuminazione
pubblica, ecc.).
Non esiste in definitiva una nozione
univoca di
servizio pubblico tale da distinguerla nettamente
dalla normale attività
d’impresa.

2.
Una volta che una determinata attività viene
assunta  dai
pubblici   La regolazione dei
  servizi
pubblici
poteri come servizio
pubblico, si pone il
problema della regolazione.
  ssa è funzionale al raggiungimento
degli obiettivi
E
di interesse pubblico e all’attuazione in concreto
dei principi
giuridici in materia di servizi pubblici.
Questi ultimi sono diversi e aggiuntivi
rispetto a
quelli propri delle attività private e si ricavano,
oltre che dalla
giurisprudenza europea, anche dalla
legge 14 novembre 1995, n. 481 che, come si vedrà,
pone
alcune norme generali riferite alle autorità di
settore.

2a) Interviene in primo luogo il principio di


doverosità.  Una   I principi in materia di
  servizi
pubblici
volta presa la
decisione politica di
assumere una determinata attività come servizio
pubblico, i pubblici poteri si
fanno carico del
compito di garantire direttamente o
indirettamente alla
collettività l’erogazione del
servizio secondo i criteri quantitativi e
qualitativi
predeterminati. A questo fine i fornitori dei servizi
sono
sottoposti a obblighi di servizio stabiliti in
modo puntuale in atti di
regolazione o, nel caso dei
concessionari, nelle convenzioni accessive alla
367 concessione.
 
2b) Un secondo principio, correlato alla
doverosità, è quello della continuità: l’erogazione
del servizio non può essere
interrotta
arbitrariamente. Il codice penale prevede anzi una
specifica figura
di reato (artt. 331 e 340 cod. pen.).
Lo stesso diritto di sciopero dei
lavoratori del
settore subisce limitazioni in modo da garantire
comunque livelli
minimi indispensabili di
erogazione del servizio. La legge 12 giugno 1990, n.
146 che regola il diritto di
sciopero nei servizi
pubblici prevede anche l’istituzione di un’autorità
indipendente costituita dalla Commissione di
garanzia dell’attuazione della
legge sullo sciopero
nei servizi pubblici essenziali. Inoltre, per esempio
nel
settore elettrico, le interruzioni del servizio
dovute a guasti comportano, nei
casi di violazione
degli standard qualitativi, penalità a carico del
distributore locale. Nei casi più gravi e persistenti,
possono portare alla
decadenza della concessione
disposta dall’autorità di regolazione.

2c) Un terzo principio è quello della parità


di
trattamento. Tutti gli utenti hanno cioè pari
diritto ad accedere al servizio
e a ottenere
prestazioni di uguale qualità. Mentre il fornitore di
beni e
servizi non costituenti servizio pubblico può
selezionare la propria clientela e
negoziare con
essa liberamente, il gestore del servizio deve
applicare
condizioni tendenzialmente omogenee.
Il principio dell’obbligo a contrarre
osservando la
parità di trattamento è contenuto già nel codice
civile a carico
dell’impresa che opera in condizione
di monopolio legale (art. 2597 cod. civ.).

2d) Un quarto principio è quello della


universalità. Di regola, le prestazioni correlate al
servizio pubblico devono
essere garantite
tendenzialmente a tutti, a prescindere dalla
localizzazione,
dalla fascia sociale o di reddito.
Così, per esempio, i distributori del
servizio
elettrico o del gas o il gestore dei servizi di
trasporto non possono
rifiutarsi di erogare il
servizio in località isolate con un numero limitato
di
utenti tanto da rendere strutturalmente in
perdita l’attività. Le imprese che
gestiscono servizi
pubblici, a differenza delle altre, non possono cioè
operare
«scremature» (cream skimming), offrendo le
loro prestazioni
solo a favore delle fasce di clienti
o delle aree territoriali più profittevoli.
All’interno del perimetro del servizio
pubblico in
alcuni settori (per esempio, in quello della
telefonia o del
servizio postale) il regolatore
individua un nucleo più ristretto di prestazioni
minime che costituiscono il cosiddetto « servizio
universale» e che   Il servizio universale
 
devono essere
erogate anche se producono perdite (per esempio,
nel settore delle comunicazioni elettroniche il
servizio di telefonia fissa, ma
anche internet a
banda larga; o in quello postale l’invio di plichi fino
a 2 kg,
incluse le raccomandate e le assicurate, e di
pacchi fino a 20 kg). Il costo
della fornitura del
servizio universale viene usualmente ripartito tra
tutti i
gestori secondo criteri predeterminati. Le
prestazioni più sofisticate non
incluse nel
perimetro del servizio universale, ma pur sempre
facenti parte del
servizio pubblico (per esempio, la
banda larga), non devono essere invece
fornite a
tutti i richiedenti se ritenute non remunerative.
 
2e) Un quinto principio è quello
dell’«abbordabilità». Il servizio deve essere cioè
fornito agli utenti a prezzi
accessibili. La
regolazione prevede talora agevolazioni a favore di
368 categorie di
utenti meno abbienti o altrimenti
svantaggiate. In ogni
caso, uno degli obiettivi della
regolazione è quello di sviluppare la
concorrenza
tra gli operatori, proprio come strumento per
ridurre al minimo i
prezzi del servizio.

2f) Un sesto principio è quello


dell’economicità,
in base al quale il gestore del servizio deve essere
posto
nella condizione di svolgere l’attività in
modo imprenditoriale, con la
possibilità di
conseguire un margine ragionevole di utile. Questo
principio
vincola il regolatore, nei casi in cui il
servizio è erogato all’utenza in base
a tariffe, a
definire parametri per la loro determinazione che
siano congrui
(copertura dei costi e un margine
ragionevole di profitto). Nel caso in cui i
servizi
siano strutturalmente in perdita,
l’amministrazione deve farsi carico
degli oneri
attraverso compensazioni e contribuzioni.
L’intera architettura della
regolazione è funzionale
a dar corpo e a rendere concreti questi principi. Gli
strumenti
della regolazione sono i più vari e sono
individuati nelle leggi che disciplinano i
singoli
settori e che istituiscono le autorità di regolazione.
Essi includono atti di
pianificazione (piano per il
riparto delle frequenze), regolamenti e atti
amministrativi
generali, concessioni e
autorizzazioni, fissazione di prezzi e di tariffe,
ordini e
diffide, sanzioni amministrative, ecc.
Rientra tra i compiti della
regolazione anche
l’individuazione delle forme di gestione del
servizio. Esse sono
individuate generalmente dalla
legge che disciplina il singolo servizio o una
categoria
di servizi (come per esempio i servizi
pubblici locali).
  Le forme di gestione
  dei servizi
pubblici
3.
Le forme  di
gestione dei servizi
pubblici aventi rilevanza
economica, classificate in
base al criterio della maggiore o minore afferenza
del
gestore all’organizzazione della pubblica
amministrazione, sono le seguenti.
  e prime, più tradizionali e ancora
interne al
L
perimetro della pubblica amministrazione, come si
è detto, sono la gestione
diretta e la gestione
indiretta.

3a) Si ha
gestione diretta allorché l’attività è
svolta da strutture dell’ente titolare del
servizio (le
aziende speciali e, a livello locale, anche i servizi di
modesta rilevanza
gestiti «in economia»).

3b) Si ha
gestione indiretta allorché essa è affidata
a un ente pubblico incaricato dello
svolgimento del
servizio. Gran parte dei servizi pubblici nazionali
(poste,
telecomunicazioni, energia,
radiotelevisione) per decenni, come si è detto,
vennero
gestiti da enti pubblici economici sulla
base di una concessione amministrativa (talora
attribuita ex lege). Si tratta di forme ormai
recessive.

3c) La terza
forma, che, come si è chiarito nel
capitolo precedente, è ancora sostanzialmente
interna
all’organizzazione della pubblica
amministrazione, è la cosiddetta società
in-house.
Quest’ultima, come si è visto, ove rispetti i
parametri già illustrati, può ricevere in
affidamento il servizio attraverso una
concessione
o convenzione senza il previo espletamento di una
gara.

3d) Una quarta


forma, scelta di frequente nel
campo dei servizi locali, è la cosiddetta società
mista,
a partecipazione pubblica e privata, che
opera una prima esternalizzazione, ancora
parziale
del servizio. Il modello della società mista, ora
disciplinato dal d.lgs. n. 175/2016 sulle società a
369 partecipazione pubblica (art. 17) richiede, secondo
i principi
del diritto europeo, l’avvio di una
procedura competitiva che ha un doppio oggetto:
la
scelta del socio che, in relazione al servizio
specifico da gestire, abbia le
caratteristiche
tecniche ed economiche migliori; l’affidamento
della gestione del
servizio alla società tramite il
rilascio di una concessione. Il socio privato è
selezionato allo scopo di apportare alla società
competenza ed esperienza
(know how) utili per la
gestione del servizio. La quota di
partecipazione
del soggetto privato può essere minoritaria (non
inferiore al 30%,
secondo l’art. 17, comma 1, del
d.lgs. n. 175/2016) o anche
maggioritaria. Alla
scadenza della concessione il socio privato è
tenuto a cedere la
partecipazione a condizioni
prestabilite al soggetto risultato eventualmente
aggiudicatario di una nuova procedura
competitiva.
La società mista è una forma di
partenariato
 pubblico-privato che   Il partenariato
  pubblico-privato
realizza una
istituzionale e
collaborazione stabile contrattuale
e di lunga durata
attraverso l’istituzione di un’organizzazione
comune.
 Secondo una classificazione emersa
a livello
europeo, il partenariato pubblico-privato può
assumere infatti due forme:
partenariato di tipo
istituzionale; partenariato di tipo contrattuale.
La prima si caratterizza per il
fatto di instaurare
una relazione di tipo organizzativo tra soggetti
pubblici e privati
che interagiscono all’interno
della società mista sia in sede assembleare, sia
esprimendo propri rappresentanti negli organi
amministrativi. La seconda si riferisce
invece ai
casi in cui un’amministrazione stipula con
un’impresa un contratto, per
acquisire un bene o
un servizio, operando così una esternalizzazione
completa.
Il partenariato di tipo
contrattuale avente per
oggetto la realizzazione e gestione di un’opera o la
fornitura
di un servizio connesso all’utilizzo
dell’opera è disciplinato dal Codice dei contratti
pubblici (art. 180) e si caratterizza per il fatto che
il partner privato si assume ogni
rischio
economico.

3e) Un caso di
partenariato di tipo contrattuale è
la quinta forma di gestione dei servizi pubblici,
costituita dalla concessione del servizio a soggetti
terzi selezionati sulla base di
procedure
competitive nei casi in cui per ragioni tecniche o
economiche il servizio si
presta a essere erogato da
un solo gestore (concorrenza per il mercato). La
concessione
a terzi dà vita, anche in questo caso, a
una relazione di lunga durata tra concedente e
concessionario (spesso pluridecennale, in
relazione alla necessità di ammortamento degli
investimenti). A differenza della società mista, la
concessione a terzi non prevede
dunque un
coinvolgimento organizzativo diretto del soggetto
pubblico nella gestione del
servizio. Proprio per
questo è essenziale che il contratto di servizio, che
rappresenta
per così dire l’unico punto di contatto
tra l’ente affidante e il gestore, preveda
strumenti
efficaci di controllo sulla qualità del servizio.

3f) Un’ultima
forma di gestione del servizio è
costituita, come si è già accennato, da una
semplice
autorizzazione rilasciata a più gestori
che erogano il servizio in concorrenza tra loro
nel
rispetto degli obblighi di servizio pubblico stabiliti
dal regolatore (concorrenza
nel mercato).
Una volta scelta la forma di
gestione del servizio e
individuato il gestore, quest’ultimo provvede a
svolgere tutte
le attività giuridiche (contratti con i
fornitori, con i dipendenti, ecc.) e materiali
370 necessarie.
L’erogazione del servizio da parte
del
concessionario agli utenti deve avvenire nel
rispetto del contratto di servizio,
delle carte dei
servizi e dei contratti di utenza.
Il  contratto di   Il contratto di
servizio
 
servizio regola i
rapporti tra la pubblica amministrazione titolare
del
servizio e il gestore. Ove il gestore venga scelto
tramite gara, lo schema di contratto
di servizio
viene allegato al bando e agli altri atti della
procedura. Il contratto di
servizio disciplina
anzitutto i rapporti economici finanziari: talvolta il
gestore paga
un canone all’amministrazione; nel
caso di servizi in perdita, invece, è
l’amministrazione a erogare contributi finanziari.
Il contratto individua inoltre gli
investimenti da
effettuare per migliorare le infrastrutture, i
controlli esercitabili
dall’amministrazione e le
sanzioni in caso di inadempimento, le cause di
scioglimento
del rapporto e di decadenza nel caso
di gravi inadempienze (art. 2, comma 36, l. n.
481/1995 citata).
I   livelli quantitativi e   Le carte dei servizi
 
qualitativi di
erogazione del servizio sono stabiliti in
termini
generali con direttive dell’autorità di regolazione
di settore che poi vigila
sulla loro osservanza
effettiva (art. 2, comma 12, lett. h), l. n. 481/1995). I
gestori del
servizio devono dotarsi di carte dei
servizi che specificano i livelli qualitativi e
quantitativi dei servizi, prevedendo sistemi di
indennizzo a favore dell’utente in caso
di
inadempimenti da parte del gestore (art. 11 d.lgs.
30 luglio 1999, n. 286, d.p.c.m. 27 gennaio 1994, art.
2, comma 12, lett. p), e comma 37, l. n. 481/1995). Le
carte dei servizi fanno sorgere in capo al gestore
obblighi unilaterali nei confronti
dell’utente e
vanno a integrare dall’esterno i contratti di utenza.
Se adottati da un
gestore privato hanno natura
negoziale, se adottati da un gestore ente pubblico
hanno
natura provvedimentale o regolamentare.
 I  rapporti tra il   I contratti di utenza
 
gestore e gli utenti
sono disciplinati su base privatistica per mezzo
di
contratti di utenza stipulati spesso in conformità a
contratti tipo stabiliti dal
regolatore. Le tariffe
applicate agli utenti (e i criteri di aggiornamento)
sono
stabilite nel contratto di servizio e sono
definite in base a parametri di base
stabiliti
dall’autorità di regolazione (art. 2, comma 12, lett.
e), l. n. 481/1995).
 
4. Le
autorità di regolazione

Nel capitolo precedente, a


proposito delle autorità
indipendenti, si è posta la distinzione tra autorità
di tipo
generalista e autorità di vigilanza settoriale.
Una sottospecie di queste ultime è
costituita dalle
autorità di regolazione dei servizi pubblici aventi
rilevanza economica
istituite in concomitanza con
i processi di liberalizzazione avviati negli anni
Novanta
del secolo scorso.
Il passaggio dal regime di
monopolio legale alla
concorrenza, infatti, pone un problema in
precedenza meno
avvertito e cioè quello della
regolazione e dei soggetti ai quali affidare questo
compito.
Fin tanto che il servizio era
gestito da una sola
impresa monopolista, organizzata in forma di
azienda speciale o di
ente pubblico economico, la
necessità della regolazione era limitata. Da un lato,
371 i
rapporti tra gestore e amministrazione statale o
locale di
riferimento inerivano alla sfera interna
dell’organizzazione anche nei casi in cui la
gestione fosse affidata a un’azienda speciale
(azienda organo); oppure erano definiti
nell’atto di
concessione nel caso in cui la gestione fosse
affidata a un ente pubblico
economico. Per i servizi
pubblici nazionali erano previsti atti di indirizzo e
direttive
ministeriali all’ente gestore in modo tale
da orientare l’attività di quest’ultimo a
fini
economici e sociali predeterminati, in coerenza
con il quadro della programmazione
economica
generale. Spesso, tuttavia, nei fatti, le direttive in
questione erano
negoziate o addirittura elaborate
dall’ente gestore. Dall’altro lato, l’unicità del
gestore del servizio in regime di monopolio
escludeva, per definizione, la necessità di
regolare i
rapporti con altri gestori operanti nel medesimo
mercato. Infine, la tutela
degli utenti in caso di
disfunzioni del servizio era affidata ai normali
strumenti del
diritto comune dei contratti.
In un contesto di liberalizzazione
dei mercati
l’architettura  della   La maggior
  complessità e gli
regolazione è più ambiti della
complessa
e ha per regolazione

oggetto più ambiti: i


rapporti tra gestori dei servizi e autorità di
regolazione; i rapporti reciproci tra gestori in
concorrenza; i rapporti tra gestori e
utenti.
 
1.
Nel primo ambito, infatti, i regolatori devono
predisporre una cornice di regole tali da
consentire
sia lo sviluppo di un mercato concorrenziale in un
ambiente caratterizzato da
elementi di monopolio
naturale (reti e infrastrutture non duplicabili), sia
il
raggiungimento degli obiettivi propri del servizio
pubblico (continuità, uguaglianza,
ecc.).
La regolazione è volta a creare in
modo artificiale i
presupposti del mercato concorrenziale e ha
dunque i caratteri di una
regolazione ex ante.
Ad essa si aggiunge l’applicazione
dei principi
generali in materia di concorrenza il cui rispetto è
assicurato
dall’Autorità garante della concorrenza
e del mercato (regolazione ex
post). Le deroghe al
principio della concorrenza, come si è visto, sono
ammesse solo «per tutto quanto strettamente
connesso all’adempimento degli specifici
compiti
loro affidati» (art. 8, comma 2, legge 10 ottobre
1990, n. 287).
A valle dell’attività normativa le
autorità di
regolazione devono assicurare l’osservanza delle
norme da parte dei gestori
del servizio, esercitando
poteri di vigilanza, avviando, se del caso,
procedimenti
sanzionatori o dichiarando, nei casi
di infrazioni più gravi, la decadenza dalla
concessione.

2.
Passando a considerare il secondo ambito, i
gestori del servizio in concorrenza sono
sottoposti
a una serie di obblighi reciproci, come per
esempio, nel settore della
telefonia mobile,
consentire l’interconnessione della propria rete
con quella di altri
operatori in modo tale che i
clienti di un gestore possano comunicare con i
clienti
degli altri gestori, oppure garantire la
portabilità del numero nel caso in cui il
cliente
voglia cambiare gestore, ecc. Le relazioni tra
gestori in concorrenza sono
rimesse in prima
battuta a strumenti negoziali e, in caso di
impossibilità di un
accordo, a provvedimenti
unilaterali delle autorità di settore.

3.
Quanto al terzo ambito, il rapporto tra gestore
e utenti del servizio è, come si è già
accennato,
disciplinato da un complesso di regole poste dalle
autorità di settore e
dalle carte dei servizi. In caso
372 di violazione, l’utente può
proporre un reclamo
anzitutto al gestore del servizio in base a
procedure da questo
stabilite e, in seconda battuta,
innanzi all’autorità di settore che risolve la
controversia in via stragiudiziale. L’utente ha
anche diritto a ottenere forme di
indennizzo a
carico del gestore in caso di disservizi.
Le principali autorità di
regolazione settoriali
istituite a livello nazionale sono l’Autorità di
regolazione per
energia, reti e ambiente (ARERA),
l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni
(AGCOM), l’Autorità di regolazione dei trasporti
(ART).
Un  nucleo minimo di   I principi della l. n.
  481/1995
disposizioni comuni
alle autorità è
contenuto nella l. n. 481/1995, alle quali si
aggiungono per ciascuna
autorità altre disposizioni
contenute nelle singole leggi istitutive e nella
disciplina
di settore.
  a l. n. 481/1995 individua anzitutto, come si è già
L
anticipato,
le finalità della regolazione (art. 1):
promozione della concorrenza e dell’efficienza
nei
settori dei servizi di pubblica utilità;
raggiungimento di livelli di qualità in
condizioni di
economicità e di redditività; fruibilità e diffusione
dei servizi in modo
omogeneo sull’intero territorio
nazionale; definizione di un sistema tariffario
certo,
trasparente e basato su criteri predefiniti,
armonizzando gli obiettivi
economico-finanziari
dei gestori con gli obiettivi generali di carattere
sociale, di
tutela ambientale e di uso efficiente
delle risorse; promozione della tutela degli
interessi degli utenti e dei consumatori.
La l. n. 481/1995 pone inoltre alcune regole volte a
garantire
l’indipendenza delle autorità in linea con
quelle proprie del modello delle autorità
indipendenti già esaminato nel capitolo
precedente: requisiti di competenza e
professionalità per i componenti dell’autorità,
durata dell’incarico di sette anni senza
possibilità
di rinnovo, composizione collegiale dell’organo,
ecc. (art. 2).
La l. n. 481/1995 delinea in termini generali le
funzioni e i
poteri delle autorità, specificati poi
nella disciplina di settore (art. 2, comma 12) quali
in particolare: formulare
osservazioni e proposte al
governo e al parlamento in modo da migliorare
l’assetto della
regolazione (funzione di advocacy);
predisporre e aggiornare gli
schemi delle
concessioni e delle autorizzazioni; controllare le
condizioni e le modalità
di accesso ai servizi resi
agli utenti in modo tale che siano rispettati i
principi
della concorrenza, della trasparenza,
dell’uguaglianza, garantendo anche il rispetto
dell’ambiente, la sicurezza degli impianti e la
salute degli addetti; stabilire e
aggiornare la tariffa
base e gli altri elementi di riferimento per
determinare le
tariffe del servizio applicate agli
utenti; controllare lo svolgimento dei servizi con
poteri di ispezione, di accesso, di acquisizione
della documentazione; emanare direttive
concernenti la produzione e l’erogazione dei
servizi definendo in particolare i livelli
generali e
specifici di qualità; emanare direttive ai gestori in
modo da consentire la
rilevazione nella loro
contabilità dei costi connessi alla fornitura del
servizio
universale; controllare il rispetto da parte
dei gestori della carta dei servizi e la
correttezza
dei loro comportamenti nei confronti degli utenti;
valutare reclami, istanze
e segnalazioni degli utenti
373 e dei consumatori.
 
1. L’Autorità di regolazione  per energia, reti e
ambiente   Le principali autorità
  di
regolazione
(ARERA),
disciplinata
dalla
l. n. 481/1995 (art. 3), è preposta alla
regolazione
dei settori dell’energia elettrica,
del gas, del servizio idrico e dei rifiuti.
L’Autorità opera in modo integrato con le
corrispondenti autorità europee. In
particolare, per quanto riguarda l’energia, è
membro dell’Agenzia europea per la
cooperazione dei regolatori dell’energia
(ACER) e del Consiglio dei regolatori
europei
dell’energia (CEER).
2. L’Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni,
istituita nel 1997 (legge 31 luglio 1997, n. 249),
è preposta sia al
settore delle comunicazioni
elettroniche (telefonia fissa e mobile,
internet,
ecc.), sia al settore dei media (radio,
televisione, stampa), sia, da ultimo, al
settore
postale. Nel settore dei media l’Autorità opera
anche allo scopo di
garantire il pluralismo
dell’informazione, la tutela dei minori e la
par
condicio nelle campagne elettorali. Sul piano
organizzativo in aggiunta a un organo
collegiale (il consiglio), sono previsti
due
sotto organi (la commissione per le
infrastrutture e la commissione per i
servizi e
i prodotti) con competenze specializzate nei
due ambiti sopra
indicati. A livello europeo
essa agisce in modo coordinato con
l’Organismo dei
regolatori europei delle
comunicazioni elettroniche (BEREC) istituito
nel 2009
con lo scopo di assistere la
Commissione europea nello sviluppo di
questo
mercato e di creare un legame tra
quest’ultima e le autorità nazionali di
regolamentazione (regolamento (CE)
2009/1211).
3. L’Autorità di regolazione dei trasporti
istituita
nel 2012 (art. 36 legge 24 marzo 2012, n. 27) è
preposta ai
settori ferroviario, portuale,
aeroportuale e autostradale. L’Autorità ha in
particolare il potere di stabilire i criteri per la
fissazione delle tariffe,
dei pedaggi e dei
canoni applicati agli utenti, di regolare
l’accesso alle
infrastrutture di rete da parte
dei gestori del servizio in concorrenza, di
definire i diritti degli utenti, di definire gli
schemi dei bandi delle gare per
l’assegnazione
dei servizi di trasporto in esclusiva e delle
relative
convenzioni. Ha inoltre poteri di
intervento in materia di servizio taxi, che
ricade nella competenza primaria dei comuni
e delle regioni, allo scopo di
migliorare la
qualità del servizio anche attraverso la
promozione
dell’incremento del numero delle
licenze rilasciate e una maggior libertà
tariffaria. All’Autorità è attribuito il potere
eccezionale di impugnare innanzi
al giudice
amministrativo i provvedimenti dei comuni
relativi alla disciplina
del servizio taxi. I poteri
dell’Autorità sui concessionari autostradali
sono
stati rafforzati in seguito alla vicenda del
crollo del ponte Morandi di Genova
nel 2018
(d.l. 28 settembre 2018, n. 109, convertito in
legge 16 novembre 2018, n. 130).
5. I
servizi pubblici locali

La disciplina dei servizi pubblici


locali è oggi
contenuta nel Testo unico degli enti locali (artt.
112 ss. d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267), in leggi
settoriali che regolano servizi specifici come la
distribuzione dell’energia elettrica e
del gas o i
trasporti locali, nonché per quanto riguarda i
servizi erogati da società a
partecipazione
374 pubblica, nel d.lgs. n. 175/2016 già esaminato.
Essa subì nel corso degli anni vari
tentativi di
riforma tesi ad aprire il settore a un maggior grado
di concorrenza (in
particolare art. 23-bis d.l. 25
giugno 2008, n. 112 e successive
modificazioni).
Nell’ambito delle riforme previste nel Piano
nazionale di ripresa e
resilienza, il 4 novembre
2021 il governo ha approvato un disegno di legge
che contiene
una delega per la riforma dei servizi
pubblici locali (A.S. 2469).
In termini generali, i servizi
pubblici locali sono
definiti, come si è già ricordato, con una
formulazione normativa
molto ampia (art. 112
Testo unico).
Data l’importanza e la sensibilità
politica del tema,
le delibere in tema di organizzazione dei servizi
(assunzione e forme
di gestione) sono attribuite
alla competenza del consiglio comunale o
provinciale (art. 42, comma 2, lett. e)).
Le forme di gestione dei servizi
aventi rilevanza
economica previste nella legislazione in vigore fino
all’inizio degli
anni Novanta del secolo scorso
erano essenzialmente le aziende speciali (dotate di
autonomia organizzativa, di bilancio e gestionale
rispetto all’ente locale) o, per i
servizi di minor
dimensione, la gestione in economia (cioè
direttamente da parte delle
strutture dell’ente
locale).
Oggi, in base alle
disposizioni  legislative del Testo
unico (art. 113) le   Le forme di gestione
 
forme di gestione
sono essenzialmente tre: le società di capitali
individuate mediante
una procedura a evidenza
pubblica, le società a capitale misto pubblico-
privato con
selezione del socio privato attraverso
procedure a evidenza pubblica, le società
in-house.
  eggi recenti avevano cercato di
privilegiare le
L
prime due forme di gestione in modo tale da aprire
il settore alla
concorrenza, ponendo una serie di
regole relative al procedimento concorsuale e
fissando
scadenze anticipate per le concessioni
affidate senza gara per periodi prolungati; per
converso, di limitare gli affidamenti a società in-
house.
Questi indirizzi legislativi sono
stati sconfessati
nel 2011 in seguito a un referendum e attualmente
la scelta tra
l’affidamento in-house e l’esperimento
di procedure a evidenza
pubblica è condizionata
soltanto dai principi del diritto europeo. Il disegno
di legge
sopra citato mira nuovamente a
privilegiare quest’ultimo.
I servizi locali privi di rilevanza
economica (alcuni
servizi  sociali, i   I servizi privi di
  rilevanza
economica
musei e le
biblioteche,
i servizi
culturali e del tempo libero, ecc.) erano disciplinati
dall’art.
113-bis del Testo unico degli enti locali che
prevedeva che
essi potessero essere gestiti
mediante affidamenti diretti ad aziende speciali
(definite
come enti strumentali dell’ente locale,
dotate di personalità giuridica e di autonomia
imprenditoriale), a istituzioni (definite come
organismi strumentali dell’ente locale
dotati di
autonomia gestionale), a società in-house oppure,
per i
servizi di più modeste dimensioni, anche in
economia (cioè direttamente dall’ente
locale).
 La disposizione è stata ritenuta
incostituzionale
perché invasiva delle competenze legislative delle
regioni alle quali
spetta dunque individuare i
modelli di gestione (C. cost. 13 luglio 2004, n. 272).
In definitiva, il settore dei
servizi pubblici locali,
nonostante i ripetuti tentativi di riforma, resta in
375 attesa di
una razionalizzazione complessiva.
6. Il
Servizio sanitario
nazionale, il servizio
scolastico, i servizi sociali, la
protezione
civile
Occorre ora dedicare qualche cenno
ad alcuni
servizi pubblici privi di rilevanza economica che
incarnano ancor più il
modello dello Stato sociale
o del benessere. Si tratta di servizi erogati in gran
parte
attraverso moduli organizzativi pubblicistici.

▶ Il Servizio
sanitario nazionale. Uno dei più
importanti, com’è emerso in particolare
nelle fasi
più acute della pandemia da Covid-19, è il Servizio
sanitario nazionale
istituito in attuazione dell’art.
32 Cost., secondo il quale «la Repubblica tutela la
salute come diritto fondamentale dell’individuo e
interesse della collettività e
garantisce cure
gratuite agli indigenti». L’art. 117, comma 3, devolve
questa materia alla competenza
legislativa
concorrente dello Stato e delle regioni. A livello
europeo, il Trattato sul
funzionamento dell’Unione
europea attribuisce a quest’ultima la competenza a
svolgere
azioni intese a sostenere, coordinare o
completare l’azione degli Stati membri in vari
settori, tra i quali la «tutela e miglioramento della
salute umana» (art. 6, lett. a), TFUE). Prevede
inoltre che nell’attuazione
di tutte le politiche e
attività sia garantito «un livello elevato di
protezione della
salute umana» (art. 168 TFUE).
Almeno fino alla fine del XIX
secolo l’intervento
dei pubblici poteri a difesa della salute pubblica era
mirato
soprattutto a evitare il propagarsi di
malattie epidemiche nell’interesse della
collettività
(segregazione dei contagiati, quarantene, ecc.), più
che a tutelare un
diritto individuale. L’assistenza ai
malati, invece, era rimessa in gran parte a
iniziative
private, soprattutto a istituzioni
religiose. In epoca
crispina, come già accennato, lo Stato italiano
sottopose a
controlli penetranti gli istituti di tipo
ospedaliero e assistenziale trasformati in
Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza
(IPAB , di
cui alla   Le IPAB e gli enti
  ospedalieri
legge 17 luglio 1890,
n. 6972). Negli anni
Sessanta del
secolo scorso, in occasione di una
riorganizzazione del sistema, furono istituiti gli
enti ospedalieri aventi natura giuridica pubblica e
negli anni Settanta, anche in
seguito all’attuazione
delle regioni, vennero poste le basi del modello
attuale del
Servizio sanitario nazionale (legge 23
dicembre 1978, n. 833).
 La legge istitutiva n. 833/1978
trae ispirazione da
una concezione universalistica, ugualitaria e
onnicomprensiva del
servizio sanitario. Il servizio
sanitario nazionale è definito come il «complesso
delle
funzioni, delle strutture, dei servizi e delle
attività destinati alla promozione, al
mantenimento e al recupero della salute fisica e
psichica di tutta la popolazione senza
distinzione
di condizioni individuali o sociali e secondo
modalità che assicurino
l’uguaglianza dei cittadini
nei confronti del servizio» (art. 1, comma 3). L’art.
1 d.lgs. n. 502/1992 lo definisce come il «complesso
delle funzioni e delle attività assistenziali dei
Servizi sanitari regionali».
Le prestazioni offerte dal Servizio
sanitario
nazionale includono sia servizi di tipo erogativo,
come l’assistenza
medico-generica (medicina di
base), l’assistenza specialistica, l’assistenza
376 ospedaliera, l’assistenza farmaceutica, l’assistenza
infermieristica; sia attività amministrative in
materia di igiene, sicurezza sul lavoro
e
ambientale.
Il finanziamento è posto a carico
della collettività
(obblighi contributivi) e della fiscalità generale.
Negli anni più
recenti sono state peraltro
introdotte forme di partecipazione della spesa da
parte dei
singoli utenti (tickets) e forme di
autofinanziamento regionale.
L’organizzazione del servizio dà
origine a
 un’amministrazione   Il servizio sanitario
  come
amministrazione
nazionale composita. nazionale composita
Ad essa
concorrono
infatti lo Stato (in
particolare con il ministero della Salute), al quale
sono riservate competenze programmatorie; le
regioni, che hanno la responsabilità
primaria di
organizzazione del servizio e alle quali sono
attribuite «tutte le funzioni
e i compiti
amministrativi in tema di salute umana e sanità
veterinaria, salvo quelli
espressamente mantenuti
allo Stato» (art. 114, comma 1, d.lgs. n. 112/1998); gli
enti locali, che
hanno un ruolo più limitato. Allo
Stato compete in particolare la definizione dei
livelli essenziali di assistenza (cosiddetti LEA) in
attuazione dell’art. 117, comma 2, lett. m), Cost.
volti a garantire un
minimo di omogeneità su tutto
il territorio nazionale in tre aree fondamentali:
prevenzione collettiva (vaccini, sicurezza
alimentare, ecc.); assistenza distrettuale
tramite
presidi sanitari e sociosanitari diffusi sul territorio;
assistenza ospedaliera
(come definite nel d.p.c.m.
12 gennaio 2017). Le funzioni programmatorie si
concretizzano nell’adozione di un piano sanitario
nazionale, alla cui formazione
partecipano le
regioni, che fa da cornice ai piani sanitari regionali.
Allo Stato
compete anche l’elaborazione di uno
schema generale di riferimento per la redazione
della carta dei servizi sanitari adottata dalle
singole strutture sanitarie e che mira a
garantire i
diritti degli utenti (art. 14 d.lgs. n. 502/1992).
 Alle regioni, per le quali il
servizio sanitario
costituisce la principale voce di spesa, spettano le
funzioni
legislative e amministrative in materia di
assistenza sanitaria e ospedaliera. In
particolare, le
regioni determinano l’articolazione del territorio
regionale in unità
sanitarie locali, che
costituiscono la «maglia» organizzativa di base del
sistema a rete
(art. 2 d.lgs. n. 502/1992), ed
esercitano poteri di indirizzo
e di vigilanza su
queste ultime e provvedono al loro finanziamento.
 Le unità (o aziende) sanitarie
locali sono definite
come  «aziende con   Le aziende sanitarie
  locali
personalità giuridica
pubblica e autonomia
imprenditoriale» (art. 3, comma
1-bis, d.lgs. n.
502/1992) i cui organi
sono il direttore generale e il
collegio sindacale. Il direttore generale è nominato
dalla regione con una procedura selettiva tra
candidati iscritti in un albo nazionale in
possesso
di requisiti di professionalità ed esperienza
specifici (d.lgs. 4 agosto 2016, n. 171). Il direttore
generale  è   Il direttore generale
 
responsabile della
gestione complessiva dell’azienda e, in
particolare,
nomina il direttore amministrativo, il direttore
sanitario e i responsabili
di tutte le strutture
operative. Rispetto al modello organizzativo
previsto in origine
dalla l. n. 833/1978, che affidava
la gestione a un’assemblea
generale (che poteva
coincidere con il consiglio comunale) e a un
comitato di gestione
eletto dall’assemblea generale
(con voto limitato, in modo tale da garantire una
presenza anche alle forze politiche di
opposizione), il modello attuale si ispira a
criteri
377 più prettamente aziendalistici e attenua il legame
con
gli enti locali. L’organizzazione è disciplinata
da un atto aziendale di diritto
privato, approvato
dal direttore generale, che individua le strutture
operative dotate
di autonomia gestionale o
tecnico-professionale.
  e aziende sanitarie locali (ASL)
assicurano
L
«l’assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita
e di lavoro,
l’assistenza distrettuale e l’assistenza
ospedaliera» (art. 2, comma
2-sexies, lett. a)).
L’erogazione delle prestazioni
sanitarie,
corrispondenti ai livelli essenziali e uniformi
garantiti dalla regione, è
affidata, oltre che a
presidi gestiti direttamente dalle ASL, anche ad
altre strutture
quali le aziende ospedaliere di
rilievo nazionale e interregionale, le aziende
ospedaliere universitarie e gli istituti di ricovero e
cura a carattere scientifico
(IRCCS) (art. 8-bis).
Le  strutture private   Le strutture private
  accreditate
possono concorrere a
erogare le prestazioni
sanitarie per conto del
servizio pubblico sulla base
di un sistema di autorizzazione, di accreditamento
e di
accordi contrattuali (le cosiddette «tre A»).
 È necessaria anzitutto
un’autorizzazione alla
realizzazione delle strutture sanitarie e
sociosanitarie
(ambulatori, ospedali, ecc.) e
all’esercizio delle attività, che ha la funzione di
verifica del possesso di requisiti tecnici minimi. Le
strutture autorizzate interessate
a essere inserite
nel sistema pubblico devono poi ottenere un
accreditamento che la
regione può rilasciare sulla
base di valutazioni discrezionali correlate alla
«funzionalità rispetto agli indirizzi della
programmazione regionale», cioè al
fabbisogno dei
servizi definito in base al piano sanitario regionale
(art.
8-quater). Ove tale fabbisogno, definito dalla
regione sulla
base di criteri generali uniformi
definiti con atto di indirizzo e coordinamento
statale, risulti soddisfatto, la regione può rifiutare
ulteriori accreditamenti. Una
volta ottenuto
l’accreditamento, le strutture definiscono con la
regione accordi
contrattuali che individuano
programmi di attività (tipologie e quantità
massime delle
prestazioni) che esse si impegnano
a erogare per conto del servizio sanitario e che
sono
remunerate a carico di quest’ultimo (secondo
un sistema tariffario definito in base a
criteri
generali stabiliti dal ministero della Salute) (art.
8-
quinquies).
All’esito di questa sequenza
procedimentale
complessa, le strutture private sono inserite nel
Servizio sanitario
regionale e acquistano la
qualifica di gestori del servizio pubblico, sottoposti
alla
vigilanza regionale anche in ordine alla verifica
dell’attività svolta e dei risultati
conseguiti.
Un sistema di accordi con il
servizio sanitario
riguarda anche la rete dei medici di base e le
farmacie.

▶ Il servizio
scolastico. Il servizio scolastico
può essere definito come un servizio
pubblico
sociale a fruizione individuale coattiva e a
erogazione gratuita. Anch’esso dà
origine a
un’organizzazione a rete, alla quale concorrono il
livello amministrativo
statale, regionale e locale,
nonché, in base al principio di sussidiarietà
orizzontale,
istituzioni private.
I principi del servizio scolastico
sono fissati  nella
Costituzione che   I principi
  costituzionali
tutela la libertà di
insegnamento (art.
33, comma 1) e garantisce il diritto all’istruzione
(art. 34, comma 1). Anche la Carta dei diritti
378 fondamentali
UE menziona il diritto all’istruzione
che comporta in
particolare la facoltà di accedere
gratuitamente all’istruzione obbligatoria (art. 14).
  ’obbligatorietà e la gratuità sono
enunciate, in
L
coerenza con una concezione universalistica del
servizio, dalla
Costituzione per l’istruzione
inferiore (scuola dell’obbligo) che non può avere
una
durata inferiore a otto anni (art. 34, comma 2).
L’istruzione è definita a livello
legislativo sia come
diritto soggettivo riconosciuto a tutti, anche ai
minori stranieri
presenti nel territorio dello Stato,
sia come dovere sociale ai sensi dell’art. 4, comma
2, Cost. (ne costituisce attuazione l’art. 1, comma
5, d.lgs. n. 76/2005). Inoltre, i capaci e
meritevoli,
anche se privi di mezzi, hanno diritto di
raggiungere i gradi più alti degli
studi e a questo
fine deve essere previsto un sistema di borse di
studio, di assegni
alle famiglie e altre provvidenze
(art. 34, commi 3 e 4).
Il servizio scolastico    Il servizio scolastico
  come
compito
costituisce, per un obbligatorio dello
verso, un compito Stato

obbligatorio per lo
Stato che deve organizzarlo e gestirlo con proprie
strutture istituendo scuole statali
per tutti gli
ordini e gradi (art. 33, comma 2, Cost.). Per altro
verso, il legislatore non
potrebbe, sempre per
vincolo costituzionale, creare un
regime di
monopolio pubblico. Infatti i privati hanno il
diritto di istituire scuole e
istituti di educazione
(senza oneri per lo Stato) e di ottenere un
riconoscimento
statale (art. 33, commi 3 e 4). È
richiesto inoltre un esame di Stato
per
l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole e per la
conclusione di essi, nonché
per l’abilitazione
all’esercizio professionale (art. 33, comma 5).
I  n seguito alla legge costituzionale n. 3/2001,
l’istruzione è una materia
attribuita alla
competenza legislativa concorrente dello Stato e
delle regioni, le quali
invece hanno competenza
legislativa piena in materia di formazione
professionale (art. 117, comma 3, Cost.).
Lo Stato ha il compito di
determinare le norme
generali sull’istruzione e sui livelli essenziali delle
prestazioni, nonché di effettuare il monitoraggio e
la valutazione del servizio reso
(tramite il
ministero dell’Istruzione e l’Istituto nazionale di
valutazione). Il
ministero esercita le proprie
funzioni a livello periferico attraverso gli uffici
scolastici regionali. Spetta in particolare al
dirigente di questi ultimi nominare il
dirigente
scolastico della scuola (nel linguaggio corrente, il
preside). Alle regioni
spetta la programmazione
della rete scolastica, inclusa la distribuzione del
personale
tra le scuole, mentre gli enti locali
svolgono attività di supporto alle istituzioni
scolastiche.
Le istituzioni scolastiche
pubbliche, articolate in
cicli di istruzione (scuola primaria, scuola
secondaria di
primo grado e sistema dei licei e
dell’istruzione e formazione professionale), hanno
personalità giuridica e autonomia organizzativa,
didattica e finanziaria (art. 21 l. n. 59/1997).
Ciascuna scuola elabora un piano per
l’offerta
formativa, definito come «documento
fondamentale costitutivo dell’identità
culturale e
progettuale delle istituzioni scolastiche» (art. 3,
comma 1, d.p.r. n. 275/1999), che peraltro, in
pratica, è stato reso omogeneo da una serie di
circolari ministeriali.
Gli organi dell’istituzione
scolastica pubblica sono
il dirigente scolastico, responsabile della gestione
379 manageriale; il collegio dei docenti, composto dai
docenti
della scuola e responsabile del
funzionamento didattico; il consiglio di istituto,
presieduto dal dirigente scolastico e aperto alla
partecipazione di una rappresentanza
di genitori e
di studenti. La scuola, oltre che come ente di
servizi, può essere vista
come una comunità o
formazione sociale, nella quale sono coinvolti i
principali
stakeholders.
Per le scuole private è previsto
 un sistema di
riconoscimento, cioè   Le scuole private
  parificate
di accertamento della
idoneità sulla base di
requisiti di qualità e di efficacia, nonché di
corrispondenza
agli ordinamenti generali
dell’istruzione e di coerenza con la domanda
formativa delle
famiglie (art. 1, comma 2, l. n.
62/2000). Esse sono sottoposte alla
vigilanza
statale allo scopo di verificare la permanenza del
possesso dei requisiti e il
rispetto degli obblighi di
servizio pubblico. Anche le scuole private
parificate possono
rilasciare titoli di studio aventi
valore legale.
 La legge 13 luglio 2015, n. 107 ha operato una
riforma del
sistema scolastico nazionale, in
particolare allo scopo di aggiornare il curriculum
scolastico, accrescere l’autonomia delle istituzioni
scolastiche, rafforzare i poteri
del dirigente
scolastico (preside).

▶ I servizi
sociali. I servizi sociali riguardano
«tutte le attività relative alla
predisposizione e alla
erogazione di servizi, gratuiti e a pagamento, o di
prestazioni
economiche destinati a rimuovere e
superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che
la persona umana incontra nel corso della sua vita»
(art. 128 d.lgs. n. 112/1998 richiamato dall’art. 1,
comma 2, legge quadro in materia di servizi sociali
8
novembre 2000, n. 328).
Essi non includono    Il sistema
  previdenziale
però le prestazioni
garantite dal sistema
previdenziale per
il quale la disposizione
costituzionale di riferimento è l’art. 38, che
prevede il
diritto dei lavoratori a veder assicurati
mezzi adeguati in caso di infortunio,
malattia,
invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria.
Peraltro, l’evoluzione
legislativa ha esteso l’ambito
di applicazione delle provvidenze sociali, secondo
una
concezione universalistica del sistema
integrato di interventi sociali, anche a
categorie
diverse dai lavoratori fino a includere tutti i
cittadini italiani e anche,
sia pur entro certi limiti,
gli stranieri (art. 2 l. n. 328/2000). È peraltro
attribuita una priorità di
accesso ai servizi e alle
provvidenze alle persone in condizioni di povertà o
con
reddito limitato e ai soggetti affetti da inabilità
di ordine fisico e psichico (art. 2, comma 3). Il
sistema della previdenza si fonda su
contribuzioni
obbligatorie richieste ai lavoratori e fa capo
principalmente a enti
pubblici nazionali, come
l’Istituto nazionale della previdenza sociale
(INPS), e alle
casse di previdenza (in particolare,
per i professionisti).
 Quanto ai servizi    I servizi sociali
 
sociali, con la riforma
del Titolo V della Costituzione
operata dalla legge
costituzionale n. 3/2001, essi sono attribuiti alla
competenza residuale esclusiva delle regioni,
mentre alla legge statale compete soltanto
la
determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni (art. 117, comma 2, lett. m), Cost.).
Molte regioni si sono
dotate di leggi che
disciplinano la materia in coerenza con le linee
generali poste
dalla l. n. 328/2000, che ormai non
380 può fungere più da legge
quadro.
 Il sistema integrato degli
interventi e dei servizi
sociali  (assistenza   Le funzioni delle
  regioni, delle
province
agli anziani,
ai e dei comuni
portatori di handicap,
agli orfani, ai
tossicodipendenti, ecc.) coinvolge tutti i
livelli di
governo locale, in base al principio di sussidiarietà
verticale. In
particolare, le regioni esercitano
funzioni di programmazione, coordinamento e
indirizzo, anche attraverso la predisposizione di
piani, la determinazione degli ambiti
territoriali,
l’individuazione degli strumenti per la gestione dei
servizi, le forme di
integrazione tra servizi sociali e
altri interventi regionali in materia di sanità,
istruzione e lavoro; le province svolgono
principalmente attività di raccolta di dati e
di
analisi dell’offerta dei servizi; i comuni, che hanno
una posizione di centralità in
questa materia, sono
titolari delle funzioni amministrative in materia e
provvedono
all’erogazione dei servizi (artt. 6, 7 e 8
l. n. 328/2000) e su di essi grava anche l’onere
economico.
I  servizi sociali sono un settore
nel quale trova
applicazione anche il principio di sussidiarietà
orizzontale. La l. n. 328/2000 lo enuncia
espressamente promuovendo e
valorizzando il più
possibile il cosiddetto Terzo settore con azioni di
sostegno e di
qualificazione da parte degli enti
locali, delle regioni e dello Stato (art. 5).
In concreto, spetta ai comuni
rilasciare
l’autorizzazione e   I soggetti privati
  accreditati
 provvedere
all’accreditamento
dei soggetti privati (art. 11) in modo tale da
garantire che tali soggetti abbiano i
requisiti
strutturali necessari previsti dalla legislazione
regionale e che siano in
grado di erogare le
prestazioni richieste dalla programmazione
regionale (acquisendo
così il titolo a ottenere dai
comuni tariffe correlate alle prestazioni erogate).
Uno
dei requisiti per ottenere l’accreditamento è
l’adozione della carta dei servizi
sociali, sulla base
di uno schema generale di riferimento approvato a
livello statale
(art. 13, comma 3). I comuni
esercitano anche funzioni di
vigilanza sui soggetti
privati autorizzati e accreditati.
  ra i soggetti privati che operano
nel settore dei
T
servizi sociali rientrano le Istituzioni pubbliche di
assistenza e
beneficenza (IPAB). Come già
accennato, esse vennero pubblicizzate in epoca
crispina
(legge 17 luglio 1890, n. 6972) in modo tale
da sottoporre a
controlli statali una serie di
istituzioni in origine private, in gran parte di
derivazione religiosa. La pubblicizzazione delle
IPAB è stata poi dichiarata
incostituzionale
(sentenza della Corte costituzionale n. 386/1988).
Le IPAB operanti nel
campo socioassistenziale
sono inserite nella programmazione regionale del
sistema
integrato di interventi e servizi sociali
(d.lgs. 4 maggio 2001, n. 207 emanato in base alla
delega
legislativa contenuta nell’art. 10 l. n.
328/2000).
Di recente il Terzo settore  è stato oggetto di una
riforma organica   Il Codice del Terzo
  settore
accorpata in un
Codice (d.lgs. 3 luglio
2017, n. 117, modificato con d.lgs. 3 agosto 2018, n.
105). Rientrano nel Terzo settore
«le
organizzazioni di volontariato, le associazioni di
promozione sociale, gli enti
filantropici, le imprese
sociali (incluse le cooperative) le associazioni e le
fondazioni» (art. 4). Il Codice contiene un elenco
molto ampio di attività di interesse
generale che gli
enti del Terzo settore possono esercitare, in via
esclusiva o
principale, «per il perseguimento, senza
381 scopo di lucro, di finalità civiche,
solidaristiche e di
utilità sociale» (art. 5). È previsto un
sistema di
iscrizione in un registro unico nazionale presso il
ministero del Lavoro e
delle Politiche sociali
gestito su base territoriale in collaborazione con le
regioni
(artt. 11 e 45). Presso il ministero è istituito
un Consiglio nazionale per il Terzo
settore ad
ampia rappresentatività (art. 59). Per ottenere
l’iscrizione gli enti devono
rispettare una serie di
regole organizzative minime da inserire negli
statuti. Gli enti
del Terzo settore possono
collaborare con le pubbliche amministrazioni
attraverso
convenzioni, anche con un ruolo attivo
di coprogrammazione e coprogettazione (art. 55).
  n assetto particolare è previsto per le
U
organizzazioni di volontariato (settore che
mobilita in Italia oltre sei milioni di persone) che
svolgono attività di supporto
tecnico, formativo e
informativo al fine di promuovere il volontariato
(artt. 61 ss.). Esse possono essere accreditate come
centri di
servizio per il volontariato (CSV) su base
territoriale e sono finanziate da un fondo
unico
nazionale (FUN). Esse fanno capo a un organismo
nazionale di controllo, cioè a una
fondazione di
diritto privato costituita dal ministero del Lavoro e
delle Politiche
sociali (artt. 64 ss.), articolata in
uffici territoriali (gli
organismi territoriali di
controllo, OTC) (art. 65). L’organismo nazionale di
controllo
amministra il fondo unico nazionale e
coordina l’intero sistema.

▶ La
protezione civile. Un cenno va dedicato al
Servizio nazionale della
protezione civile
disciplinato dal d.lgs. 2 gennaio 2018, n. 1. La
protezione civile è
costituita dalle «attività volte a
tutelare la vita, l’integrità fisica, i beni, gli
insediamenti, gli animali e l’ambiente dai danni o
dal pericolo di danni derivanti da
eventi calamitosi
di origine naturale o derivanti dall’attività
dell’uomo» (art. 1). A
livello nazionale è istituito il
dipartimento della protezione civile presso la
presidenza del Consiglio dei ministri e del sistema
fanno parte anche i presidenti delle
regioni e i
sindaci. Il dipartimento, che è affiancato da un
comitato operativo
nazionale della protezione
civile, è titolare in particolare di un potere di
emanare
ordinanze contingibili e urgenti per far
fronte alle emergenze. Spetta al Consiglio dei
ministri deliberare lo stato di emergenza di rilievo
nazionale (art. 24). Sono strutture
operative del
servizio, in particolare, il corpo nazionale dei vigili
del fuoco, le
forze armate e di polizia, le strutture
del servizio sanitario nazionale. Fanno parte
del
sistema anche le organizzazioni di volontariato
organizzato, costituite da enti del
Terzo Settore,
iscritte in un elenco nazionale. Quest’ultimo è
articolato in un elenco
nazionale e in elenchi
territoriali (art. 34) e alle organizzazioni di
volontariato
della protezione civile possono essere
erogati contributi finanziari (art.
37).
CAPITOLO 10

Il personale

383
1. Premessa

Come tutte le organizzazioni, anche


le pubbliche
amministrazioni per svolgere le proprie attività
hanno necessità di dotarsi
di personale. Sotto il
profilo quantitativo, sono circa 3.500.000 i
dipendenti legati da
un rapporto professionale alle
pubbliche amministrazioni, ai quali vanno aggiunti
i
funzionari cosiddetti onorari, chiamati a ricoprire
incarichi pubblici di regola su base
elettiva per
periodi predefiniti (consiglieri comunali, regionali,
ecc.). Il rapporto di
lavoro dei dipendenti delle
pubbliche amministrazioni è disciplinato da un
complesso di
regole speciali, diverse almeno in
parte da quelle del diritto del lavoro privato, oggi
riordinate nel d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Norme
generali
sull’ordinamento del lavoro nelle pubbliche
amministrazioni).

Storicamente il rapporto di lavoro


dei dipendenti
delle  pubbliche   La concezione
amministrazioni, che   privatistica

come si
è visto nel
capitolo VIII può essere definito come un rapporto
giuridico bilaterale
avente per contenuto il
complesso dei diritti e degli obblighi del
dipendente nei
confronti del datore di lavoro, ha
oscillato tra una concezione privatistica e una
pubblicistica.
  ino alla fine del XIX secolo la
prima fu di gran
F
lunga prevalente. Il rapporto giuridico con
l’amministrazione di
appartenenza, secondo la
giurisprudenza dell’epoca, aveva «indole civile»,
cioè era
retto tendenzialmente dai principi del
diritto privato (relativi alla locatio
operis). Le
controversie rientravano nell’ambito della
giurisdizione del
giudice ordinario.
La concezione pubblicistica si fece
strada verso la
fine del XIX secolo per una pluralità di ragioni.
In primo luogo, emerse la
consapevolezza che ai
dipendenti pubblici dovessero essere riconosciute
alcune garanzie,
soprattutto allo scopo di arginare
le ingerenze della politica nell’amministrazione e
di
assicurare dunque una maggior imparzialità
dell’attività amministrativa. Inoltre, uno
statuto
speciale dei dipendenti pubblici poteva giustificare
limiti al diritto di
sciopero e alla sindacalizzazione
del settore, nel tentativo di isolare il pubblico
impiego dalle tendenze in atto, soprattutto a
partire dall’inizio del XX secolo, nel
lavoro privato.
384
I  nfine,  la sottrazione   La concezione
  pubblicistica
del rapporto di lavoro
alle regole del diritto
comune era anche
coerente con la concezione
panpubblicistica non paritaria dei rapporti tra
Stato e
cittadino che, come si è accennato, si stava
affermando in quegli anni. Poiché i
dipendenti
pubblici sono titolari o partecipano all’esercizio di
funzioni pubbliche,
anche il rapporto di lavoro può
essere attratto nel regime pubblicistico
dell’organizzazione amministrativa. Attraverso il
provvedimento unilaterale di nomina,
il
dipendente pubblico acquista uno status che lo
differenzia da
quello del comune cittadino. L’atto
di accettazione della nomina non instaura però
una
relazione contrattuale con l’amministrazione,
ma vale come riconoscimento del dovere di
prestare il servizio richiesto. Il dipendente
pubblico è sottoposto a un rapporto di
supremazia 
speciale rispetto   Il rapporto di
  supremazia
speciale
all’amministrazione
di
appartenenza
connotato da particolari doveri (fedeltà,
obbedienza, segreto d’ufficio) e
da limiti
all’esercizio di taluni diritti (appartenenza a
organizzazioni politiche e
sindacali, libertà di
espressione, ecc.). Lo stipendio non costituisce un
corrispettivo,
ma un credito di diritto pubblico
assimilabile a una prestazione alimentare (come
tale
anche impignorabile). Regole minuziose
disciplinano lo svolgimento del rapporto
(retribuzione, carriera, sanzioni disciplinari,
cessazione del rapporto, ecc.).
  a prima legislazione organica,
improntata alla
L
concezione pubblicistica, risale all’epoca di Giolitti
(Testo unico 22 novembre 1908, n. 693) e fu via via
perfezionata (in particolare la riforma De Stefani
del 1923) fino a trovare una
disciplina più stabile
nel Testo unico approvato con d.p.r. 10 gennaio
1957, n. 3 (Statuto degli
impiegati civili dello Stato)
rimasto in vigore fino agli anni Novanta
del secolo
scorso.
La concezione pubblicistica esclude
che il rapporto
di impiego possa essere disciplinato con strumenti
contrattuali
(contratto collettivo, contratto
individuale). Esso è invece regolato da due tipi di
atti: per gli aspetti generali, da atti normativi (leggi
e regolamenti emanati dalle
singole
amministrazioni); per gli aspetti relativi alla
posizione del singolo
dipendente, da
provvedimenti amministrativi unilaterali incidenti
sia sulla costituzione
del rapporto (selezione
tramite concorso pubblico, atto di nomina), sia
sullo
svolgimento del medesimo (assegnazione a
un particolare ufficio, promozione,
aspettativa,
ecc.). Le controversie nascenti dal rapporto di
impiego sono attribuite
alla cognizione del giudice
amministrativo (a partire dal 1923 come materia di
giurisdizione esclusiva).
Peraltro già negli anni Trenta del
secolo scorso i
dipendenti degli enti pubblici economici vennero
sottratti al regime
pubblicistico in considerazione
della natura essenzialmente imprenditoriale
dell’attività (legge 16 giugno 1938, n. 1303).
La Costituzione riflette in parte
questa
concezione. Essa   I principi
  costituzionali
 stabilisce anzitutto
che i pubblici
impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione
(art. 98, comma 1). Sono cioè investiti di una
funzione
neutrale e non possono essere asserviti
agli interessi della politica. Essi sono visti
come
garanti, oltre che del buon andamento,
385 dell’imparzialità dell’amministrazione (art.
97).
I  n funzione di questo obiettivo,
l’accesso ai
pubblici impieghi avviene di regola mediante
concorso (art. 97, comma 3). La Corte
costituzionale ha così dichiarato
incostituzionali
leggi statali e regionali volte a stabilizzare il
personale precario
assunto senza concorso o a
privilegiare le selezioni riservate al personale in
servizio.
Del resto già la Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino del 1789 stabiliva che
il
concorso consente a tutti i cittadini di accedere ai
pubblici uffici «senza altra
distinzione che quella
delle loro virtù e dei propri talenti» e ciò in
contrasto con le
prassi precedenti che riservavano
invece questo tipo di incarichi alla nobiltà.
L’accesso agli uffici pubblici deve
essere garantito
a tutti i cittadini in condizione di uguaglianza (art.
51). I cittadini
titolari di funzioni pubbliche devono
adempierle con disciplina e onore, prestando
anche
giuramento (art. 54, comma 2).
Da queste disposizioni inserite nel
Titolo IV
dedicato ai  Rapporti   Status di
cittadino e
  status di dipendente
politici
emerge anche pubblico
una connessione tra
status di cittadino e
status di dipendente pubblico. Infatti, quest’ultimo
status costituisce una proiezione del primo. Il
cittadino è
titolare di una pretesa a partecipare alla
vita pubblica, su base paritaria e cioè
soltanto in
base al merito, assumendo la veste di componente
di un apparato burocratico
[Giannini 1970a, 293 ss.;
Battini 2000, 350 ss.]. Ciò giustifica di per sé un
regime
giuridico speciale rispetto al rapporto di
lavoro privato.
  nche il Trattato sul funzionamento
dell’Unione
A
europea esclude, come si è accennato, gli impieghi
nella pubblica
amministrazione dall’applicazione
del principio della libera circolazione dei lavoratori
all’interno dell’Unione (art. 45, comma 4, TFUE). E
questo proprio perché a coloro che
svolgono
funzioni pubbliche può essere richiesto uno spirito
di identificazione e di
appartenenza nei confronti
dello Stato che solo un cittadino può avere. Si
riconosce
pertanto che gli Stati membri possano
prevedere il requisito della nazionalità per
l’accesso agli impieghi pubblici che «implicano
esercizio diretto o indiretto di poteri
pubblici,
ovvero attengono alla tutela dell’interesse
nazionale» (art. 38 d.lgs. n. 165/2001 che si ispira
agli orientamenti
della Corte di giustizia).
La Costituzione pone peraltro
limiti al rapporto di
supremazia speciale in cui può essere posto il
dipendente
pubblico. Prevede in particolare che
restrizioni al diritto d’iscriversi ai partiti
politici
possano essere introdotte per legge solo per alcune
figure particolari
(magistrati, militari, personale
diplomatico, funzionari e agenti di polizia) (art. 98,
comma 3).
Nel complesso la Costituzione
prefigura un assetto
del pubblico impiego con caratteri di specialità
rispetto
all’impiego privato, ma non impone uno
statuto integralmente pubblicistico. Essa
consente,
cioè, come ha chiarito la Corte costituzionale, un
dosaggio equilibrato di
fonti regolatrici
pubblicistiche unilaterali e di fonti contrattuali (C.
cost. 25 luglio
1996, n. 313 e 16 ottobre 1997, n.
309).
In epoca successiva alla
Costituzione, la
concezione pubblicistica, recepita nel Testo unico
del 1957 già citato, entrò in crisi per almeno
due
ragioni: il riconoscimento pieno dei diritti
sindacali e l’introduzione di
meccanismi di
contrattazione collettiva; l’esigenza di promuovere
386 flessibilità
ed efficienza nella gestione degli
apparati amministrativi in
coerenza con una
visione aziendalistica della pubblica
amministrazione.
Già sul finire degli anni Sessanta
del secolo scorso
la  contrattazione   La contrattazione
  collettiva
collettiva venne
ammessa
per gli enti
ospedalieri. La cosiddetta legge quadro sul
pubblico impiego (legge 29 marzo 1983, n. 93)
prefigurò poi il primo modello
generale di
contrattazione collettiva. Esso cercava di
conciliare il momento
privatistico della
negoziazione del contenuto dell’accordo tra le
rappresentanze
sindacali e le amministrazioni con
il momento pubblicistico del recepimento formale
dell’accordo in fonti normative unilaterali
(regolamenti). Si trattava dunque di un
modello
ibrido che coniugava la paritarietà e consensualità
sostanziale dell’accordo con
l’unilateralità e con
l’autoritarietà della sua trasposizione in norme e
atti
amministrativi vincolanti. Nel 1988, il
cosiddetto Rapporto Giannini sui principali
problemi dell’amministrazione pubblica
avanzava,
tra le altre, la proposta di ricondurre al regime
privatistico la disciplina
del rapporto di impiego
nelle pubbliche amministrazioni.
  ll’inizio  degli anni
A   La privatizzazione
  dell’impiego
pubblico
Novanta del secolo
scorso venne avviato
il processo
di riforma legislativa che portò
all’assetto normativo attuale recepito nel d.lgs. 30
marzo 2001, n. 165. La riforma si ispirava alla
concezione privatistica e si inseriva all’interno di
un disegno più ampio di riassetto
della pubblica
amministrazione volto ad accrescerne l’efficienza e
a contenere la spesa
pubblica.
 Il processo in questione si è
articolato in due fasi.
La prima si aprì con il d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29
che operò una privatizzazione
del rapporto di
impiego dei dipendenti pubblici, escludendo però
alcune categorie di
essi tra le quali i dirigenti
generali. La fase successiva, definita di «seconda
privatizzazione» [D’Antona 1998, 35] incluse nel
regime privatistico anche questi ultimi
(d.lgs. 31
marzo 1998, n. 80). Le disposizioni legislative
vennero poi riordinate nel d.lgs. n. 165/2001.
Successivamente, il d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150,
come si dirà, introdusse
numerose modifiche al
d.lgs. n. 165/2001 nel tentativo di stimolare,
attraverso un
sistema di incentivi e di sanzioni,
una maggiore produttività ed efficienza nel
pubblico
impiego.
2. Le fonti
di disciplina del
rapporto di lavoro
Il campo di applicazione delle
norme generali
sull’impiego pubblico privatizzato, che valgono
oggi per la maggior parte
dei dipendenti delle
pubbliche amministrazioni, è definito nell’art. 1 del
d.lgs. n. 165/2001 che, come si è già visto,
individua
un elenco di amministrazioni pubbliche (Stato,
enti territoriali, camere di
commercio, industria,
artigianato e agricoltura, aziende ed enti del
Servizio sanitario
nazionale, enti pubblici non
economici, ecc.) i cui dipendenti ricadono nel
regime
privatistico (art. 2, comma 2).
In via di deroga, alcune categorie
di personale
restano  sottoposte al   Le categorie di
  dipendenti non
regime di diritto privatizzati
pubblico (circa
630.000 dipendenti).
Esse sono il personale militare e delle forze di
polizia, i magistrati, gli avvocati dello Stato, il
personale della carriera
prefettizia, il personale
387 diplomatico, il personale delle
autorità
indipendenti, i professori universitari, i vigili del
fuoco, le guardie
penitenziarie (art. 3). Per queste
categorie continuano a essere applicate le regole
pubblicistiche stabilite nei rispettivi ordinamenti.
 Per alcune di esse (per esempio i
magistrati che
godono di garanzie rafforzate di stabilità del
rapporto e di
inamovibilità) il regime è
integralmente pubblicistico; per altre alcuni
aspetti del
rapporto sono disciplinati da accordi
collettivi (per esempio il personale diplomatico e
prefettizio) o sono previste procedure di
concertazione con rappresentanze del personale
(personale militare). Per entrambe le categorie,
sotto il profilo formale, la disciplina
viene adottata
con provvedimenti unilaterali (decreti del
presidente della Repubblica).
In coerenza con la
natura pubblicistica del rapporto, tutte le
controversie, incluse
quelle meramente
patrimoniali, sono attribuite alla giurisdizione
esclusiva del giudice
amministrativo (art. 63,
comma 4).
Per il personale ricadente nel
regime privatistico  il
sistema delle fonti dà   La specialità del
  regime
privatistico
origine, in
realtà, a un
«diritto privato
differenziato» [D’Auria 2010, 6]. Infatti, il rapporto
di
lavoro è disciplinato dalle disposizioni del
codice civile e dalla legge sui rapporti di
lavoro
subordinato dell’impresa, «fatte salve le
disposizioni contenute nel presente
decreto, che
costituiscono disposizioni a carattere imperativo»
(art. 2, comma 2). Poiché il d.lgs. n. 165/2001
contiene molte disposizioni derogatorie
rispetto a
quelle del diritto comune, il rapporto di lavoro dei
dipendenti pubblici si
connota per molteplici
profili di specialità che si è andata accentuando nel
corso degli
anni (in particolare con il d.lgs. n.
150/2009).
  no  degli esempi più
U   Esempi di specialità
 
significativi di
specialità è costituito dalla regola secondo la
quale
l’esercizio di fatto di mansioni superiori alla
qualifica di appartenenza non dà
diritto, come
accade invece in ambito privatistico,
all’inquadramento del lavoratore
nella qualifica
superiore (art. 52, comma 1, che deroga
implicitamente all’art. 2103 cod. civ.). Si tratta di
una disposizione
giustificata dall’esigenza di
salvaguardare il principio del concorso pubblico
che vale
anche per la progressione nelle qualifiche.
Il medesimo principio giustifica anche
un’altra
deroga e cioè l’inapplicabilità del principio della
conversione automatica dei
rapporti di lavoro a
termine costituiti in modo illegittimo in rapporti a
tempo
indeterminato (art. 36, comma 5).
I  l carattere imperativo delle
disposizioni speciali,
ribadito più volte dal d.lgs. n. 165/2001 (per
esempio dall’art. 55 in materia di
sanzioni
disciplinari, come sostituito dal d.lgs. n. 150/2009),
fa sì che esse non possano essere
derogate in sede
di contrattazione collettiva. Ove ciò si verifichi le
clausole
contrattuali sono sostituite di diritto da
quelle legislative (ex
art. 1339 cod. civ.) oppure
sono nulle
(ex
art. 1419, comma 2, cod. civ.,
richiamati in termini
generali dall’art. 2, comma 3-
bis, del d.lgs. n. 150/2009).
In aggiunta alle disposizioni
legislative generali e
speciali di rango primario, il rapporto di lavoro dei
dipendenti
pubblici è regolato dai contratti
collettivi e dai contratti individuali (art. 2, comma
3).
La  contrattazione   I contratti collettivi e
  individuali
collettiva «determina
i diritti e gli obblighi
direttamente pertinenti
al rapporto di lavoro,
nonché le materie relative alle relazioni sindacali»
(art. 40, comma 1).
I  contratti individuali, che
instaurano il rapporto
di lavoro tra dipendente e amministrazione di
388 regola all’esito di
un concorso pubblico, devono
garantire la parità di
trattamento, in particolare
per quanto riguarda gli aspetti retributivi previsti
nei
contratti collettivi (art. 2, comma 3, che
richiama l’art. 45, comma 2). In virtù di questa
previsione i contratti
collettivi assumono
un’efficacia sostanzialmente erga omnes, cioè
anche
nei confronti dei dipendenti non iscritti ai
sindacati che hanno sottoscritto il
contratto
collettivo.
In tema di contrattazione
collettiva occorre
approfondire due temi: l’ambito in cui essa opera;
le modalità
organizzative e procedurali.
  L’ambito della
  contrattazione
1.
Quanto  al primo
collettiva
tema, la
contrattazione
collettiva è
ammessa entro uno spazio delimitato
in modo rigoroso dal d.lgs. n. 165/2001 il quale, in
seguito alle modifiche
introdotte con il d.lgs. n.
150/2009, ha operato una significativa
rilegificazione della materia (per esempio in
materia di sanzioni disciplinari). In
particolare,
sono escluse da essa le materie attinenti
all’organizzazione degli uffici
che sono disciplinate
da ciascuna amministrazione, secondo i principi
generali stabiliti
dalla legge, con atti organizzativi
di tipo pubblicistico (regolamenti, atti
amministrativi) (artt. 2, comma 1, e 40, comma 1).
Sono inoltre escluse le
materie afferenti alle
prerogative dei dirigenti degli uffici i quali sono
preposti
all’organizzazione dei medesimi e alla
gestione dei rapporti di lavoro «con la capacità
e i
poteri del privato datore di lavoro» (art. 5, comma
2, al quale rinvia l’art. 40, comma 1). In pratica, la
contrattazione collettiva
non può limitare il
potere manageriale della dirigenza, ma può
soltanto prevedere, come
accade anche nel settore
privato, che alcune decisioni siano assunte previa
informazione
o esame congiunto con le
organizzazioni sindacali (artt. 5, comma 2, e 9).
Sono escluse anche le materie
relative al
conferimento e alla revoca degli incarichi
dirigenziali, alla determinazione
dei ruoli e
dotazioni organiche, ai procedimenti di selezione
per l’accesso al lavoro,
alle incompatibilità, ecc.
(art. 40, comma 1, e disposizioni da esso
richiamate). Anche
in materia di sanzioni
disciplinari, la contrattazione collettiva incontra
limiti nelle
disposizioni analitiche contenute nel
d.lgs. n. 165/2001 come modificato dal d.lgs. n.
150/2009 (art. 40, comma 1).
  omplessivamente, la tendenza
legislativa recente
C
è dunque nella direzione di ridurre gli spazi della
contrattazione
collettiva. Ciò in seguito a un
ripensamento dovuto anche all’esperienza non
positiva di
quest’ultima in relazione agli obiettivi
di garantire maggior efficienza, flessibilità e
valorizzazione del merito.

2.
Passando a considerare le modalità
organizzative e procedurali, rilevano soprattutto
due
aspetti: i livelli della contrattazione collettiva;
i soggetti della contrattazione.

2a) Quanto al
primo aspetto la legislazione
vigente delinea un sistema a cascata flessibile, in
quanto
spetta alla contrattazione collettiva
disciplinare, come accade nel settore privato, «la
struttura contrattuale, i rapporti tra i diversi livelli
e la durata dei contratti
collettivi nazionali e
integrativi» (art. 40, comma 3).
Più in particolare, il d.lgs. n. 165/2001 prevede tre
livelli  di   I livelli della
  contrattazione
contrattazione. Il collettiva
primo livello serve a
individuare i
comparti (non più di quattro, ai quali
corrispondono anche non più di quattro aree
389 separate per la dirigenza) che includono categorie
di personale
dipendente da amministrazioni
tendenzialmente omogenee (per esempio, il
comparto degli
enti locali) (art. 40, comma 2).
All’interno di ciascun comparto possono
essere
costituite sezioni contrattuali per specifiche
professionalità.
  valle degli accordi sui comparti
opera il secondo
A
livello costituito, per ciascun comparto, dai
contratti collettivi
nazionali. Essi, oltre a
disciplinare gli aspetti economici e giuridici
fondamentali del
rapporto di lavoro, determinano
le materie, i vincoli, i limiti finanziari e le
procedure relative ai contratti collettivi decentrati.
A valle dei contratti collettivi
nazionali si
collocano i contratti collettivi integrativi che
riguardano il personale di
una singola
amministrazione (art. 40, comma 3-bis). Essi
hanno lo
scopo di assicurare livelli adeguati di
efficienza e produttività e di valorizzazione,
sotto
il profilo del trattamento economico accessorio,
della performance individuale.
Nell’ipotesi in cui
non sia raggiunto l’accordo sul contratto collettivo
integrativo
l’amministrazione può provvedere
unilateralmente, in via provvisoria fino alla stipula
del medesimo, in ordine alle materie oggetto del
mancato accordo (art. 40, comma 3-ter, introdotto
dal
d.lgs. n. 150/2009). In questo modo viene
recuperato, in
ultima istanza, un momento di
unilateralità nella disciplina.
  L’Agenzia per la
  rappresentanza
2b) Quanto
 ai
negoziale delle
soggetti della pubbliche
contrattazione amministrazioni

collettiva, per la
parte
pubblica, è stato istituito un organismo tecnico,
cioè l’Agenzia per la
rappresentanza negoziale
delle pubbliche amministrazioni (ARAN). Essa ha
la rappresentanza negoziale di queste ultime in
sede di
negoziazione dei contratti collettivi
nazionali (art. 46, comma 1) e può assistere le
singole amministrazioni
in sede di contrattazione
integrativa (comma 2). L’Agenzia ha personalità
giuridica di
diritto pubblico. Ha come organi un
presidente e un collegio di indirizzo e controllo
costituito da quattro esperti in materia di relazioni
sindacali designati in modo tale
che in esso siano
rappresentate le amministrazioni statali, le regioni
e gli enti locali
(commi 7 e 10). L’ARAN negozia
con le
rappresentanze sindacali nel rispetto degli
indirizzi impartiti da tre comitati di
settore. Questi
sono costituiti con riferimento al comparto del
personale regionale,
degli enti locali e delle
amministrazioni statali, rispettivamente
nell’ambito della
Conferenza delle regioni e delle
province autonome, delle associazioni degli enti
locali
(Associazione nazionale dei comuni italiani,
Unione delle province d’Italia,
Unioncamere),
delle amministrazioni statali (tramite il ministro
per la Pubblica
amministrazione di concerto con il
ministro dell’Economia e delle Finanze e, di volta
in
volta, con il parere di altri ministeri) (art. 41).
I  n sede di contrattazione,
l’ARAN  deve
rispettare
il vincolo delle   L’ARAN
 
risorse finanziarie
stanziate per il rinnovo dei contratti
nell’ambito
dei procedimenti di programmazione della spesa
pubblica. I contratti
stipulati sono corredati da
prospetti contenenti la quantificazione degli oneri
e
l’indicazione della copertura complessiva per
l’intero periodo di validità contrattuale
(art. 48).
L’ARAN sottopone l’ipotesi di accordo
al parere dei
comitati di settore e al governo (art. 47, comma 4).
Una volta acquisito il parere,
l’ARAN trasmette la
390 quantificazione dei costi
contrattuali alla Corte
dei conti ai fini della certificazione
di
compatibilità con gli strumenti di programmazione
e di bilancio e procede alla
sottoscrizione
definitiva del contratto collettivo solo se la
certificazione è positiva
(comma 5). Un sistema di
controllo sulla compatibilità dei costi è previsto
anche per la
contrattazione integrativa (art. 40-
bis).
  ella prassi l’ARAN non ha potuto svolgere un
N
ruolo di negoziatore
«forte» analogo a quello delle
rappresentanze dei datori di lavoro privati e ciò
per
almeno due ragioni: la contrattazione è in
qualche modo falsata dal fatto che le
controparti
sindacali sono a conoscenza dell’ammontare
massimo delle risorse finanziarie
messe a
disposizione; l’ARAN è stata talvolta
scavalcata da
accordi informali raggiunti in sede di
concertazione politico-sindacale a
livello
governativo che essa si è limitata poco più che a
ratificare.
La  controparte   Le controparti
  sindacali
dell’ARAN in sede di
contrattazione
collettiva è costituita dalle organizzazioni sindacali
dei dipendenti pubblici.
  uelle ammesse alla negoziazione
sono
Q
individuate in base a un criterio di
rappresentatività che per ciascuna
organizzazione
non deve essere inferiore al 5%. Questa
percentuale si computa in base
alla media tra il
dato associativo (cioè al numero delle deleghe dei
dipendenti per il
versamento dei contributi
sindacali) e il dato elettorale (cioè alle percentuali
ottenute nelle elezioni delle rappresentanze
sindacali) (art. 43). A fini di certezza e
obiettività, è
previsto un sistema di rilevazione e di
certificazione dei dati relativi
alle deleghe e ai voti
che fa capo all’ARAN e che
vede coinvolto un
comitato paritetico al quale partecipano le stesse
organizzazioni
sindacali (commi 7 ss.).
L’ARAN può sottoscrivere i contratti collettivi solo
se le organizzazioni
sindacali che aderiscono
all’ipotesi di accordo rappresentano nel loro
complesso almeno
il 51%, come media tra il dato
associativo e il dato elettorale nel comparto, o
almeno
il 60% del dato elettorale (comma 3).
Queste soglie si giustificano anche
per il fatto che,
come si è accennato, i contratti collettivi nel
pubblico impiego hanno
efficacia erga omnes
indiretta poiché le amministrazioni sono
tenute a
garantire ai propri dipendenti la parità di
trattamento contrattuale (art. 45, comma 2).
3. La
costituzione e lo
svolgimento del rapporto di
lavoro
I procedimenti di selezione e di
avviamento al
lavoro nelle pubbliche amministrazioni
propedeutici alla costituzione del
rapporto sono
regolati esclusivamente dalla legge o con altri atti
normativi o
amministrativi (art. 2, comma 1, lett.
c), n. 4, legge 23 ottobre 1992, n.
421).
In particolare, il concorso
pubblico  costituisce,
come si è   Il concorso pubblico
 
sottolineato più
volte,
la regola generale (art. 97, comma 3, Cost.)
volta a favorire il merito e a
contrastare il political
patronage, cioè il reclutamento secondo
criteri di
affiliazione politica e partitica.
 Il reclutamento del personale
tramite procedure
selettive che rispettino i principi di pubblicità,
391 trasparenza,
oggettività, pari opportunità è
obbligatorio per tutte le
amministrazioni
pubbliche e per tutto il personale (art. 35, comma
1, lett. a), d.lgs. n. 165/2001). Le sole
eccezioni
riguardano il personale con le qualifiche più basse
(cioè quelle per le quali
è richiesto solo il requisito
della scuola dell’obbligo) che può essere acquisito
mediante l’avviamento degli iscritti nelle liste di
collocamento (art. 35, comma 1, lett. b)) e le
assunzioni obbligatorie
degli invalidi che avviene
per chiamata numerica degli iscritti nelle apposite
liste
(art. 35, comma 2).
Il concorso pubblico costituisce la
regola generale
anche  per l’accesso   Il corso-concorso per
  l’accesso
alla dirigenza
alla qualifica di
dirigente di prima e
di seconda fascia (artt. 28 e 28-bis). Per la
selezione
dei dirigenti di seconda fascia (cioè di livello meno
elevato) in alternativa
al concorso è previsto il
corso-concorso selettivo di formazione bandito
dalla Scuola
superiore della pubblica
amministrazione. Quest’ultimo ha una durata di
dodici mesi, dà
diritto a una borsa di studio, si
conclude con un esame ed è seguito da un
semestre di
applicazione presso amministrazioni
pubbliche o private al termine del quale i candidati
sono sottoposti a un esame-concorso finale (art.
28, comma 4). Gli incarichi di dirigente di prima
fascia che richiedano una specifica esperienza e
una peculiare professionalità possono
essere
attribuiti per una quota non superiore alla metà
dei posti messi a concorso con
contratti a termine
di diritto privato di durata non superiore a tre
anni, sempre
all’esito di una procedura
concorsuale (art. 28-bis).
  a legge anticorruzione annovera i
concorsi e le
L
prove selettive tra i settori a maggior rischio e
richiede misure
specifiche di monitoraggio.
Le  fasi del   Le fasi del
  procedimento
procedimento concorsuale
concorsuale sono
quattro: l’avvio della
procedura; l’ammissione
delle domande di
partecipazione; la fase istruttoria-valutativa; la
fase decisionale. A
valle del procedimento vi è
l’assunzione in servizio.
 
1.
L’avvio della procedura è deliberato
dall’amministrazione che indice il concorso in base
a una programmazione triennale (art. 35, comma
4) di copertura dei posti previsti dalle
piante
organiche determinate da ciascuna
amministrazione in relazione ai fabbisogni
(art. 2,
comma 1, d.lgs. n. 165/2001).
Il bando di concorso contiene una
serie di
prescrizioni aventi per oggetto i requisiti per la
partecipazione, il termine e
le modalità di
presentazione delle domande, la tipologia delle
prove scritte, orali ed
eventualmente pratiche, il
calendario delle prove, il punteggio minimo per
l’ammissione
alle prove orali, i titoli di studio e
professionali che danno diritto a un punteggio o
alla precedenza o preferenza in caso di parità di
punteggio ove si tratti di un concorso
per titoli ed
esami (art. 3 d.p.r. n. 487/1994 citato). Il bando è
pubblicato di
regola nella Gazzetta Ufficiale e con
altre modalità atte a garantirne la massima
diffusione. Esso costituisce la lex specialis della
procedura, che
vincola l’amministrazione nelle fasi
di svolgimento delle prove e della valutazione e la
cui violazione rende illegittimi gli atti adottati.

2.
Le domande di partecipazione, redatte in carta
semplice, di frequente sulla base di
moduli allegati
392 al bando, devono essere inviate o presentate
entro
30 giorni dalla pubblicazione del bando (art. 4),
ormai anche in via
esclusivamente telematica. Le
domande vengono esaminate dall’amministrazione
che ha
indetto il concorso allo scopo di valutarne
l’ammissibilità in relazione ai requisiti
generali e
speciali richiesti dalla normativa e dal bando (per
esempio, i titoli di
studio, i requisiti di età, ecc.).
La mancata ammissione alla procedura
concorsuale
costituisce provvedimento
impugnabile innanzi al giudice amministrativo.
Ove venga
accolta la domanda cautelare, il
candidato escluso viene ammesso alle prove con
riserva.

3.
Allo scopo di garantire imparzialità  e
competenza,   La commissione
  esaminatrice
l’amministrazione
affida la fase
istruttoria-valutativa a una commissione
esaminatrice
composta «da tecnici esperti nelle
materie oggetto del concorso, scelti fra funzionari
delle amministrazioni, docenti ed estranei alle
medesime». Non possono comunque farne
parte
gli organi di direzione politica
dell’amministrazione o chi ricopra cariche
politiche o sindacali (art. 9). La commissione può
essere suddivisa in più
sottocommissioni nel caso
di concorsi con numero elevato di candidati (oltre
i mille).
  a commissione è preposta allo
svolgimento delle
L
prove scritte e orali e alla valutazione dei titoli (se
si tratta di
concorso per titoli ed esami). Prima
delle prove essa deve stabilire i criteri e le
modalità
di valutazione al fine di assegnare i punteggi (art.
12), ciò allo scopo di
autovincolare e rendere più
oggettivo possibile il giudizio valutativo. Le prove
si
svolgono con modalità volte a garantirne la
regolarità: segretezza delle tracce
stabilite dalla
commissione per la prova scritta, sorteggio tra le
buste chiuse
contenenti le tre tracce, divieto di
comunicazione tra i candidati, inserimento degli
elaborati in buste chiuse anonime, ecc. (artt. 11-14).
Talvolta, in presenza di un
numero di candidati
molto elevato, la procedura prevede una
preselezione sulla base di
prove a risposte multiple
a correzione automatica.
La commissione dà conto delle
operazioni
compiute in un verbale che riporta in particolare i
giudizi valutativi
(espressi in numeri o in forma
discorsiva). A conclusione delle attività valutative
la
commissione formula una graduatoria di merito
in base ai punteggi ottenuti nelle singole
prove
(art. 15).

4. La fase decisionale a cura dell’amministrazione


che ha indetto il
concorso consiste in un esame
della regolarità della procedura e
nell’approvazione della
graduatoria di merito con
l’indicazione dei candidati vincitori o comunque
idonei. La
graduatoria, che deve considerare
eventuali riserve di posti a favore di particolari
categorie di soggetti partecipanti e dei criteri di
priorità in caso di parità, è
pubblicata nel
bollettino dell’amministrazione interessata e di
essa viene data notizia
nella Gazzetta Ufficiale
(art. 15). Il provvedimento che approva la
graduatoria conclude
il procedimento ed è
suscettibile di impugnazione innanzi al giudice
amministrativo.

5. I vincitori vengono assunti in servizio con un


contratto di lavoro
individuale o, nel caso dei
dipendenti pubblici non sottoposti al regime
privatistico,
con un provvedimento di nomina.
Il contratto individuale non
lascia spazio alle parti
per modulare il contenuto dei diritti e degli
obblighi rispetto
a quanto previsto nei contratti
collettivi. All’atto dell’assunzione viene
393 consegnato al
dipendente il Codice di
comportamento etico definito dal
dipartimento
della Funzione pubblica sentite le confederazioni
sindacali, recepito come
allegato nei contratti
collettivi (art. 54 come riformulato dalla l. n.
190/2012). Il Codice specifica e applica gli obblighi
di diligenza, lealtà e imparzialità a una molteplicità
di situazioni in cui si può
trovare il dipendente
(rapporti con il pubblico, conflitti di interesse,
regali e altre
utilità, comportamenti in servizio e
nella vita sociale) (d.p.c.m. 28 novembre 2000).
Nell’ambito dell’azione di
contrasto alla pandemia
da Covid-19 , sono   I reclutamenti nella
  fase post
Covid-19
state introdotte
misure per accelerare
i tempi per il reclutamento del personale, in
particolare
riducendo il numero di prove scritte,
prevedendo l’utilizzo di mezzi informatici e
digitali, la possibilità di svolgimento della prova
orale, nonché una fase di
valutazione dei titoli
preliminare all’ammissione alle prove per i profili a
elevata
specializzazione tecnica (art. 10 d.l. 1 o

aprile 2021, n.
44). Inoltre, per agevolare
l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e
resilienza, il
d.l. 9 giugno 2021, n. 80 ha previsto
modalità particolari di assunzione di personale
dedicato mediante contratti di lavoro a tempo
determinato e con il conferimento di
incarichi di
collaborazione autonoma e ha ampliato la
possibilità di affidare incarichi
dirigenziali a
soggetti esterni all’amministrazione.
 Le regole relative allo
svolgimento del rapporto di
lavoro sono dettate in parte da fonti legislative, in
parte
dai contratti collettivi. Un’analisi completa
della disciplina non può essere operata
all’interno
di una trattazione manualistica. Interessa invece
soffermarsi su alcuni
aspetti caratteristici del
regime giuridico dei dipendenti pubblici che, da un
lato, li
sottopone a obblighi speciali, dall’altro,
prevede garanzie aggiuntive rispetto a quelle
dei
lavoratori privati.
Un  primo profilo   Lo stato giuridico
 
riguarda l’obbligo di
esclusività che impegna il dipendente pubblico a
dedicare tutte le energie lavorative
all’amministrazione di appartenenza. Secondo il
Testo unico n. 3/1957 l’impiegato «non può
esercitare il commercio, l’industria, né
alcuna
professione o assumere impieghi alle dipendenze
di privati» (art. 60 Testo unico, richiamato dall’art.
53 d.lgs. n. 165/2001). L’obbligo
di esclusività, la cui
inosservanza comporta l’applicazione di sanzioni
disciplinari e
può determinare anche la risoluzione
del rapporto di impiego, si ricollega idealmente al
dovere di fedeltà alla Nazione previsto, come si è
visto, dall’art. 98 Cost. e, più in generale, alla
natura professionale
della burocrazia, secondo la
concezione weberiana.
 Il regime delle incompatibilità è
sottratto alla
contrattazione collettiva ed è minuziosamente
disciplinato per legge
(art. 53). La legge
anticorruzione ha previsto per i dipendenti
pubblici che hanno
esercitato poteri
amministrativi o negoziali per conto delle
pubbliche amministrazioni
anche il divieto di
svolgere attività lavorativa o professionale presso i
soggetti
privati destinatari della loro attività per
un periodo di tre anni successivi alla
cessazione
dal servizio (art. 53, comma
16-ter, l. n. 190/2012).
In  via di deroga al   Il part
time e gli
  incarichi retribuiti
principio di
esclusività, per
alcune categorie di dipendenti è
ammesso, entro
certi limiti, il regime part time (docenti
universitari
e delle scuole, medici del Servizio sanitario
nazionale, ecc.). Non
rientrano nel regime
dell’incompatibilità alcune attività retribuite,
come, per esempio,
le collaborazioni a giornali e
394 riviste, la partecipazione a
convegni e seminari, gli
incarichi conferiti dalle
organizzazioni sindacali
(art. 53, comma 6). Ogni incarico retribuito deve
essere
autorizzato dall’amministrazione di
appartenenza anche se conferito da altra pubblica
amministrazione (comma 7). A fini di
monitoraggio, tutti gli incarichi conferiti o
autorizzati da un’amministrazione pubblica
devono essere comunicati annualmente al
ministro
per la Pubblica amministrazione che poi riferisce
al parlamento (commi 12 e 16). In base alla legge
anticorruzione essi
devono essere pubblicati sui
siti delle amministrazioni in tabelle riassuntive
secondo
un formato standard aperto tale da
agevolare la ricerca (art. 1, comma 42, lett. i), l. n.
190/2012).
  n altro profilo già richiamato
riguarda le
U
mansioni . Il   Le mansioni
 
prestatore di lavoro
deve essere
adibito alle mansioni per le quali è
stato assunto o a mansioni equivalenti (art. 52,
comma 1). Può essere adibito a mansioni proprie
della qualifica immediatamente superiore solo in
caso di vacanza di posto in organico
(per un
periodo non superiore di regola a sei mesi) e in
caso di sostituzione di altro
dipendente in
aspettativa (comma 2) e gli deve essere
riconosciuto il trattamento
economico
corrispondente (comma 4).
I  dipendenti sono inquadrati in
almeno tre aree
funzionali e le progressioni all’interno della stessa
area avvengono
secondo principi di selettività e di
rispetto del principio del merito. La progressione
fra le aree avviene in base a concorsi pubblici e
l’amministrazione può riservare ai
dipendenti già
in servizio un numero di posti non superiori a
quelli messi a concorso
(art. 52, comma 1-bis).
Il trattamento economico è
definito nei  contratti
collettivi. Esso si   Il trattamento
  economico
distingue in
trattamento
fondamentale e accessorio (art. 45, comma 1).
Quest’ultimo viene attribuito in modo non
automatico, ma in base a una valutazione della
performance individuale del dipendente,
alla
performance organizzativa relativa
all’amministrazione nel suo complesso e alle
singole unità organizzative, allo svolgimento di
attività particolarmente disagiate,
pericolose o
dannose per la salute (comma 3). Per premiare il
merito e il miglioramento
delle performance il
contratto collettivo nazionale di lavoro può
prevedere risorse
specifiche e spetta ai dirigenti la
responsabilità di stabilire a chi attribuirle (commi
3-bis e 4).
 Sempre al fine di valorizzare il
criterio del merito,
il d.lgs. n. 150/2009 ha introdotto un sistema di
misurazione,
valutazione e trasparenza delle
performance che fa capo a un organismo
indipendente di
valutazione istituito presso
ciascuna pubblica amministrazione e nominato
dall’organo di
indirizzo politico-amministrativo
(art. 14). Inoltre, a livello nazionale, l’Autorità
nazionale anticorruzione (che in seguito al d.l. n.
90/2014 ha preso il posto della Commissione per la
valutazione, la trasparenza e l’integrità delle
amministrazioni pubbliche) esercita
funzioni di
indirizzo e di coordinamento degli organismi
indipendenti e delle altre
agenzie di valutazione
(art. 13).
Nel tentativo di superare la
prassi della
distribuzione «a pioggia» delle risorse economiche,
il d.lgs. n. 150/2009 pone il divieto di distribuire
incentivi
e premi in maniera indifferenziata o sulla
base di automatismi (art. 18, comma 2). Prevede
inoltre un sistema premiale
composto da vari
strumenti: bonus annuali delle eccellenze, il
395 premio annuale per
l’innovazione, progressioni
economiche e di carriera in base ai
risultati
individuali e collettivi rilevati dal sistema di
valutazione, attribuzione di
incarichi e di
responsabilità che favoriscono la crescita
professionale, l’accesso
privilegiato a percorsi di
alta formazione, premi di efficienza (artt. 17 ss.).
Un istituto sottoposto a regole
particolari è la
 mobilità individuale   La mobilità
 
e collettiva, che il
d.lgs. n. 150/2009 ha promosso superando le
rigidità che
tradizionalmente hanno reso poco
equilibrata la distribuzione del personale
all’interno
delle amministrazioni. In primo luogo,
per rendere più fluida la mobilità tra i diversi
comparti della contrattazione collettiva, è prevista
l’elaborazione di una tabella di
equiparazione tra i
livelli di inquadramento previsti dai diversi
contratti collettivi
(art. 29-bis
d.lgs. n. 165/2001). In
secondo luogo, le amministrazioni
prima di
procedere all’espletamento di procedure
concorsuali finalizzate alla copertura
di posti
vacanti in organico devono attivare la procedura di
mobilità (art. 30, comma
2-bis). Essa prevede che le
amministrazioni rendano pubbliche
le
disponibilità di posti in organico da ricoprire
fissando i criteri di scelta. I
dipendenti interessati
possono presentare domanda di trasferimento
senza che sia più
richiesto il consenso
dell’amministrazione di appartenenza che in
passato veniva
concesso di rado (art. 30, comma 1).
I contratti collettivi nazionali possono
definire
procedure e criteri attuativi (comma 2) e il
ministro per la Pubblica
amministrazione può
disporre misure per agevolare i processi di
mobilità (comma
1-bis).
 La mobilità collettiva in caso di
eccedenze di
personale avviene attraverso un procedimento che
prevede un’informazione
preventiva alle
rappresentanze unitarie del personale e alle
organizzazioni sindacali e
favorisce il reimpiego
presso altre amministrazioni, il ricorso a forme
flessibili di
gestione del tempo di lavoro e ai
contratti di solidarietà (art. 33). Il personale in
eccedenza per il quale non sia possibile un diverso
impiego viene collocato in
disponibilità, cioè in
uno stato in cui resta sospeso il rapporto di lavoro
con
riconoscimento al lavoratore di un’indennità
pari all’80% della retribuzione per la
durata
massima di due anni (comma 8). Il personale in
disponibilità viene iscritto in
elenchi nazionali e
regionali ai fini, per quanto possibile, della
ricollocazione anche
presso altre amministrazioni
che abbiano necessità di altro personale (artt. 34 e
34-bis).
Un  aspetto del   Le sanzioni
  disciplinari
rapporto di lavoro dei
dipendenti pubblici
nel quale emergono forti
profili di specialità è
quello delle sanzioni disciplinari. La disciplina,
come si è
accennato, è stata in gran parte
rilegificata dal d.lgs. n. 150/2009, riducendo gli
spazi della contrattazione
collettiva, nel tentativo
di rendere più effettivo il principio di
responsabilità.
  ’individuazione della tipologia
delle infrazioni e
L
delle relative sanzioni (censura verbale,
sospensione dal servizio,
licenziamento
disciplinare) è ancora rimessa in via di principio
alla contrattazione
collettiva (art. 55, comma 2).
Tuttavia la legge individua direttamente
molte
fattispecie che fanno sorgere la responsabilità
disciplinare. Così, per esempio,
il dipendente che
non fornisce le informazioni di cui è in possesso,
rilevanti
nell’ambito di un procedimento
disciplinare che riguarda un altro dipendente, può
essere
sospeso dal servizio e privato della
396 retribuzione fino a 15 giorni (art.
55-bis, comma 7).
Altre sanzioni disciplinari  specifiche sono state
introdotte nella legge   Le fattispecie previste
  per
legge
anticorruzione
(l. n.
190/2012). Essa
prevede, in particolare, che la
violazione dei doveri
contenuti nel Codice di comportamento etico dei
dipendenti
pubblici, incluso il dovere di attuare il
piano di prevenzione della corruzione
approvato
dall’amministrazione di appartenenza, è fonte di
responsabilità disciplinare
(art. 54, comma 3, d.lgs.
n. 165/2001 come modificato dalla
l. n. 190/2012).
La medesima legge pone anche un divieto
espresso
di irrogazione di sanzioni disciplinari a carico del
dipendente che segnali al
proprio superiore
condotte illecite di altri dipendenti delle quali sia
venuto a
conoscenza in ragione del rapporto di
lavoro (art. 54-bis
d.lgs. n. 165/2001 che introduce
un sistema di
whistleblowing).
  n’altra fattispecie è prevista
dall’art. 55-sexies,
U
secondo il quale è irrogata la sanzione
disciplinare
della sospensione dal servizio da tre giorni a tre
mesi nei confronti del
dipendente il cui
comportamento in violazione di obblighi di
servizio abbia cagionato
danni a terzi e sia stato
fonte di responsabilità civile a carico
dell’amministrazione
di appartenenza. Il
lavoratore che per inefficienza o incompetenza
professionale abbia
causato un danno al normale
funzionamento dell’ufficio è sanzionato
disciplinarmente con
il collocamento in
disponibilità (art. 55-sexies, comma 2).
Molte ipotesi di licenziamento
disciplinare sono
individuate direttamente per legge (art.
55-quater):
falsa attestazione della presenza in servizio o
assenza giustificata da una certificazione medica
falsa (per la quale è prevista la
sospensione
cautelare immediata dal servizio ai sensi del
comma
3-bis aggiunto dal d.lgs. 20 giugno 2016, n.
116); assenza ingiustificata dal
servizio per un
numero di giorni superiore a tre nell’arco di un
biennio o a sette negli
ultimi dieci anni; rifiuto
ingiustificato del trasferimento disposto per
motivate
esigenze di servizio; falsità documentali o
dichiarative commesse ai fini
dell’assunzione o
della progressione di carriera; reiterate condotte
aggressive,
moleste, minacciose, ingiuriose o
comunque lesive della dignità personale altrui;
condanna penale definitiva per la quale è prevista
l’interdizione perpetua dai pubblici
uffici;
valutazione negativa della performance per ciascun
anno dell’ultimo triennio.
Anche il procedimento per
l’irrogazione delle
sanzioni  è regolato   Il procedimento per
  l’irrogazione delle
per legge (art.
55-bis sanzioni
d.lgs. n. 165/2001
inserito dal d.lgs. n.
150/2009). Per le sanzioni di minore gravità come
il rimprovero verbale, il procedimento è avviato dal
dirigente attraverso la
contestazione degli addebiti
formulata entro non oltre 20 giorni. Il
procedimento
prevede una fase di contraddittorio
orale o scritto e si conclude con l’archiviazione o
l’irrogazione della sanzione entro 60 giorni dalla
contestazione (commi 1 e 2). Per le
sanzioni più
gravi, il procedimento è promosso da un ufficio
competente per i
procedimenti disciplinari
istituito da ciascuna amministrazione e il
procedimento
prevede termini più lunghi (comma
4). In caso di avvio di un procedimento penale in
relazione alla stessa condotta è prevista per le
sanzioni più gravi, nei casi di
particolare
complessità degli accertamenti, la sospensione
facoltativa del procedimento
disciplinare fino al
termine di quello penale (art. 55-ter).
I  n aggiunta alla responsabilità
disciplinare (e a
quella civile  già   La responsabilità
  amministrativa
esaminata nel
capitolo
VII), i
dipendenti pubblici sono sottoposti anche a un
tipo di responsabilità
sconosciuta nell’ambito del
397 lavoro privato, cioè la
responsabilità per danno
erariale accertata dalla Corte dei
conti (esaminata
nel capitolo VII). Leggi recenti hanno individuato
numerose condotte
specifiche dei dipendenti
pubblici suscettibili di dar origine a questo tipo di
responsabilità. Così, per esempio, risponde per
danno erariale e all’immagine, in
aggiunta alla
responsabilità disciplinare, il responsabile del
piano di prevenzione
della corruzione che non
abbia vigilato sull’osservanza del piano (art. 1,
comma 12, l. n. 190/2012). Quest’ultima legge ha
anche precisato che l’entità del danno
all’immagine derivante dalla commissione di un
reato contro la pubblica amministrazione è
determinata dalla Corte dei conti nella
misura pari
al doppio della somma di danaro o di altra utilità
illecitamente percepita
dal dipendente (art. 1,
comma 1-sexies, legge 14 gennaio 1994, n.
20).
 Anche  la   La responsabilità
  penale
responsabilità penale
dei dipendenti
pubblici presenta profili di specialità
rispetto a
quella dei dipendenti privati. Il codice penale,
infatti, individua come si è
accennato nel capitolo
I, una serie di reati cosiddetti propri, riferiti cioè a
coloro
che abbiano la qualifica di pubblico ufficiale
(per esempio, la concussione di cui
all’art. 317 cod.
pen.) o di incaricato di pubblico servizio.
 Le  controversie   La tutela
  giurisdizionale
relative ai rapporti di
lavoro dei dipendenti
pubblici che ricadono nel
regime di privatizzazione
sono devolute, come si è accennato, al giudice
ordinario
(art. 63 d.lgs. n. 165/2001). Restano
tuttavia devolute al
giudice amministrativo le
controversie in materia di procedure concorsuali
per
l’assunzione dei dipendenti pubblici (comma
4) perché esse involgono esclusivamente
situazioni
giuridiche qualificabili come interessi legittimi. Il
giudice ordinario può
emanare tutti i tipi di
sentenze di accertamento, costitutive e di
condanna previste in
sede civile per la tutela dei
diritti soggettivi tutelati (comma 2). Emerge qui
un
profilo di specialità del regime poiché, in caso
di licenziamento illegittimo, il
giudice può
reintegrare il dipendente nel posto di lavoro: è la
cosiddetta tutela reale.
Quest’ultima è ora limitata
a pochi casi nel settore del lavoro privato nel
quale, in
seguito alla cosiddetta riforma Fornero
(legge 28 giugno 2012, n. 92) e al cosiddetto Jobs
Act
(d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23) prevale ormai il
modello della
tutela meramente risarcitoria.
 
4. La
dirigenza pubblica

La dirigenza pubblica richiede


qualche
considerazione a parte.
In origine e per lungo tempo,
secondo il modello
cavouriano di organizzazione piramidale dei
ministeri, tutti i poteri
decisionali erano attribuiti
all’organo di vertice, cioè al ministro in carica,
politicamente responsabile di fronte al
parlamento. Il personale, a prescindere dal
grado,
afferiva a uffici aventi rilevanza meramente
interna, anche se il ministro poteva
delegare
alcune proprie funzioni a taluni collaboratori più
diretti. In ogni caso vigeva
un rapporto di rigida
gerarchia.
Con l’estendersi e il
differenziarsi delle pubbliche
amministrazioni e dei loro compiti il modello
gerarchico
mostrò i suoi limiti, attesa la difficoltà
pratica di accentrare in un unico organo ogni
398 potere decisionale formale. All’inizio degli anni
Settanta del
secolo scorso, prese forma a livello
statale un modello che prevedeva l’istituzione di
una nuova categoria di personale costituita dalla
dirigenza articolata in tre qualifiche
(dirigente
generale, dirigente superiore, primo dirigente)
(d.lgs. 30 giugno 1972, n.
748). Alcune funzioni,
inclusa l’adozione di taluni provvedimenti
amministrativi,
vennero devolute ad essi come
competenza propria. Da preposti a meri uffici
interni, i
dirigenti si trasformarono così in titolari
di organi in senso proprio con capacità di
esprimere la volontà dell’amministrazione nei
rapporti esterni. Il ministro restava
tuttavia
titolare, non soltanto di poteri di direttiva, ma
anche di poteri di avocazione
della competenza in
casi singoli, di sostituzione in caso di inerzia e di
annullamento
d’ufficio degli atti del dirigente. Si
trattava di un modello ancora ibrido che
attenuava,
ma non superava del tutto, il modello gerarchico.
Nei fatti, per una
pluralità di ragioni, inclusa la
scarsa propensione della dirigenza ad assumersi
maggiori responsabilità, esso stentò a prendere
piede.
La riforma volta a privatizzare il
rapporto di lavoro
dei dipendenti pubblici avviata all’inizio degli anni
Novanta del
secolo scorso (ora d.lgs. n. 165/2001)
aveva tra i suoi capisaldi la
valorizzazione della
dirigenza. Ciò nella duplice prospettiva, da un lato,
di accrescere
l’efficienza della pubblica
amministrazione, istituendo figure assimilabili ai
manager
privati, dall’altro, di garantire
l’imparzialità dell’azione amministrativa, limitando
le ingerenze dei politici sulle decisioni dei
dirigenti.
Nella prima prospettiva , ispirata all’indirizzo del
New Public   Il dirigente pubblico
  come
manager
Management al quale
si è già fatto cenno, la
dirigenza deve essere
infatti dotata di poteri
autonomi e di risorse adeguate, gestite senza
vincoli e
rigidità eccessive per poter raggiungere
gli obiettivi prefissati. A questo fine, come
si è già
accennato, il d.lgs. n. 165/2001 procede alla
privatizzazione parziale
dell’organizzazione
amministrativa e prevede che «l’organizzazione
degli uffici e le
misure inerenti alla gestione dei
rapporti di lavoro sono assunte in via esclusiva
dagli
organi preposti alla gestione con la capacità e
i poteri del privato datore di lavoro».
Il dirigente
pubblico assume dunque una fisionomia
tendenzialmente analoga a quella del
manager
privato anche se gli spazi di manovra effettivi sono
molto più ridotti date le
regole minute previste per
l’attività delle amministrazioni.
 
Nella seconda prospettiva , il nuovo modello si
fonda sul principio   La distinzione tra
  politica e
della separazione
(o
amministrazione
meglio della
distinzione) tra
politica e amministrazione. Esso cerca di
conciliare
due principi in tensione tra loro: il
principio democratico, in base al quale nessun
potere pubblico può essere sottratto al circuito
politico rappresentativo; il principio
di
imparzialità di cui all’art. 97 Cost.
 Il principio democratico esclude
che la burocrazia
possa essere autoreferenziale, che si possa cioè
autolegittimare, in
nome del principio
tecnocratico, e le attribuisce un ruolo di
esecuzione fedele degli
indirizzi politici del
governo di volta in volta in carica e di garanzia di
continuità,
a prescindere dai periodici
avvicendamenti dovuti agli esiti della
competizione
elettorale. Il rapporto tra vertice
politico e dirigenza assume un carattere fiduciario.
Il principio di imparzialità spinge invece nella
399 direzione di
istituire presidi e limiti all’ingerenza
della politica nell’amministrazione, isolando e
rendendo per quanto possibile oggettivo e neutrale
il momento della decisione
amministrativa
riservata a una burocrazia professionale.
Nel contesto dell’impresa privata
un analogo
problema non si pone perché il potere gestionale
deriva dalla titolarità
dell’azienda (proprietà delle
azioni) e non opera il principio di imparzialità.
Nel d.lgs. n. 165/2001 il punto di equilibrio tra i due
principi involge due questioni principali: la
ripartizione delle competenze; il
conferimento
degli incarichi dirigenziali.

1. Quanto alla prima questione, il d.lgs. n.


165/2001 attribuisce ai vertici politici delle
amministrazioni soltanto funzioni di indirizzo
politico-amministrativo e di controllo
ex post e
riserva ai dirigenti la responsabilità della
gestione,
inclusa l’emanazione di provvedimenti
amministrativi di tipo discrezionale.
Più  in particolare, gli   Le funzioni dei vertici
  politici
organi politici
esercitano l’indirizzo
politico-amministrativo
«definendo gli obiettivi e i
programmi da attuare» e verificando «la
rispondenza dei
risultati dell’attività
amministrativa e della gestione agli indirizzi
politici» (art. 4, comma 1). Spettano così agli
organi di governo le
deliberazioni di materia di atti
normativi e di indirizzo interpretativo e
applicativo
(circolari), la definizione di obiettivi,
priorità, piani, programmi e direttive
generali,
l’individuazione delle risorse umane, materiali ed
economico-finanziarie da
destinare ai diversi
uffici, la fissazione dei criteri generali in materia di
ausili
finanziari a terzi e alla determinazione di
tariffe e canoni a carico di terzi, le
nomine e
designazioni, le richieste di pareri al Consiglio di
Stato (comma 1). In
particolare, ogni anno i vertici
politici definiscono gli obiettivi e le priorità in
direttive generali assegnando ai dirigenti preposti
ai centri di responsabilità le
risorse necessarie (art.
14). La funzione di indirizzo è esercitata dai vertici
politici
con l’ausilio di uffici particolari, cioè gli
uffici cosiddetti di diretta
collaborazione, con
funzioni di supporto e di raccordo con
l’amministrazione, con
dotazione di personale
legato a un rapporto strettamente fiduciario (art.
14, comma 2).
 Ai  dirigenti compete   Le funzioni dei
  dirigenti
invece «l’adozione
degli atti e
provvedimenti amministrativi […]
nonché la
gestione finanziaria, tecnica e amministrativa
mediante autonomi poteri di
spesa, di
organizzazione delle risorse umane, strumentali e
di controllo». Essi hanno in
via esclusiva la
responsabilità «dell’attività amministrativa, della
gestione e dei
relativi risultati» (art. 4, comma 2).
 Le attribuzioni dei dirigenti
possono essere
derogate solo in modo espresso da specifiche
disposizioni legislative che
devolvono la
competenza all’adozione di alcuni atti al vertice
politico (art. 4, comma 3). Inoltre, il vertice
politico «non può
revocare, riformare, riservare o
avocare a sé o altrimenti adottare provvedimenti o
atti
di competenza dei dirigenti» (art. 14, comma
3). Ciò esclude dunque che il rapporto con i
dirigenti possa essere qualificato in termini di
gerarchia. In caso di inerzia o di
ritardo il vertice
politico può fissare un termine entro il quale il
dirigente deve
adottare l’atto. Se il dirigente non
provvede o in caso di grave inosservanza delle
direttive generali il vertice politico può nominare
un commissario ad
acta che si sostituisce al
400 dirigente (art. 14, comma 3).
Le funzioni della   I dirigenti generali e di
  primo
livello
 dirigenza si
differenziano a
seconda che si tratti di
dirigenti di uffici
dirigenziali generali e dirigenti preposti a unità
organizzative di
livello inferiore. I primi hanno
funzioni di impulso generale degli uffici, di
coordinamento e controllo dei dirigenti (art. 16).
Hanno anche il compito di formulare
proposte e di
esprimere pareri al vertice politico anche in
relazione alle direttive
generali adottate
annualmente da quest’ultimo (artt. 16, comma 1,
lett. a), e 14, comma 1).
 Queste disposizioni attribuiscono
ai dirigenti
generali un ruolo in qualche modo attivo anche
nella definizione
dell’indirizzo politico-
amministrativo. Quest’ultimo, per essere più
efficace, deve
essere aderente alla realtà
amministrativa sulla quale va a incidere e, per
quanto
possibile, condiviso. Il rapporto tra politica
e amministrazione diviene così, in
qualche misura,
circolare e non è soltanto, come da tempo ha
rilevato la scienza
politica, top-down. Ciò anche
perché il vertice politico soffre di
un’asimmetria
informativa rispetto alla dirigenza che conosce
molto meglio gli
ingranaggi della macchina
amministrativa e i problemi operativi. Senza la
piena
cooperazione dei dirigenti, i vertici politici
non sono in grado di realizzare i
programmi in
relazione ai quali sono stati eletti.
I dirigenti di primo livello
curano l’attuazione dei
progetti e degli obiettivi assegnati dai dirigenti
generali,
svolgono i compiti da questi delegati,
dirigono, coordinano e controllano l’attività
degli
uffici, adottano i provvedimenti amministrativi ed
esercitano poteri di spesa,
provvedono alla
gestione del personale, ecc. (art. 17). Anch’essi
hanno il potere di
formulare proposte e pareri ai
dirigenti generali.

2. La seconda questione da analizzare è il


conferimento degli incarichi
dirigenziali e, a valle,
della valutazione dei dirigenti.
Prima delle riforme degli anni
Novanta del secolo
scorso gli incarichi non avevano alcun limite
temporale e di fatto i
dirigenti erano pressoché
inamovibili. I ministri erano invece soggetti ad
avvicendamenti a causa delle frequenti crisi
politiche ed erano dunque poco in grado di
imprimere indirizzi efficaci all’amministrazione.
Il nuovo modello di rapporto tra
politica e
amministrazione prevede, quasi come
compensazione rispetto all’attribuzione
di ampie
competenze gestionali alla dirigenza, una durata
temporalmente limitata degli
incarichi dirigenziali
che, per quelli di livello più elevato, sono attribuiti
dal
vertice politico dell’amministrazione.
Anzitutto, il conferimento degli
incarichi ai singoli
dirigenti avviene tenendo conto «delle attitudini e
delle capacità
professionali del singolo dirigente»,
dei risultati conseguiti negli incarichi
precedenti,
delle specifiche competenze organizzative, nonché
di altre esperienze di
direzione anche presso il
settore privato o all’estero (art. 19, comma 1, d.lgs.
n. 165/2001). Il numero e la
tipologia degli incarichi
da assegnare sono resi conoscibili anche con la
pubblicazione
sul sito istituzionale
dell’amministrazione (comma 1-bis). La
scelta ha
dunque natura comparativa e, secondo la
giurisprudenza più recente, richiede
una
motivazione adeguata. Ciò anche se l’atto di
conferimento dell’incarico ha natura
privatistica in
quanto adottato con la capacità e i poteri del
privato datore di lavoro
ed è sindacabile innanzi al
401 giudice ordinario. La scelta deve
rispettare i
principi di correttezza e buona fede. Questi
elementi attenuano il
carattere fiduciario del
rapporto tra vertice politico e alta dirigenza.
Gli atti di conferimento degli
incarichi dirigenziali
devono essere resi pubblici insieme ai curricula e
agli
emolumenti (art. 15 d.lgs. n. 33/2014).
La  durata degli   La durata degli
  incarichi
dirigenziali
incarichi dirigenziali
costituisce un
aspetto critico. Se troppo breve,
rende i dirigenti
maggiormente influenzabili dai vertici politici dai
quali dipende la
conferma dell’incarico; se troppo
lunga, può consentire ai dirigenti comportamenti
ostruzionistici nei confronti degli indirizzi del
vertice politico. Essa è stata
modificata più volte
negli anni. Gli incarichi sono rinnovabili, previa
verifica
positiva dei risultati ottenuti.
  ’atto di incarico individua
l’oggetto del
L
medesimo, gli obiettivi da conseguire, la durata e a
esso è correlato il
contratto individuale che
definisce il trattamento economico sulla base dei
contratti
collettivi nazionali. Il contratto
determina in particolare il trattamento accessorio
legato alle funzioni e ai risultati conseguiti che
deve costituire almeno il 30% della
retribuzione
complessiva (art. 19, comma 2, che rinvia all’art.
24).
Gli incarichi di livello più
elevato (segretario
generale del ministero e quelli di direzione di
strutture articolare
al loro interno in uffici
dirigenziali generali, come i capi di dipartimento)
sono
conferiti a livello di vertice, cioè con decreto
del presidente della Repubblica, previa
delibera del
Consiglio dei ministri, su proposta del ministro
competente (art. 19, comma 3). Gli incarichi di
dirigente generale sono
conferiti con decreto del
presidente del Consiglio dei ministri, su proposta
del
ministro competente, di regola a dirigenti di
prima fascia (comma 4). Gli altri
incarichi
dirigenziali sono attribuiti dal dirigente dell’ufficio
di livello
dirigenziale generale (art. 19, comma 5).
Gli incarichi dirigenziali possono
essere conferiti
in una percentuale limitata (10% della dotazione
organica dei dirigenti
di prima fascia e 8% di quelli
di seconda fascia) a soggetti esterni
all’amministrazione
«di particolare e comprovata
qualificazione professionale. Essi devono aver
svolto
attività in organismi ed enti pubblici o
privati ovvero in aziende pubbliche o private»,
e
avere un’esperienza almeno quinquennale in
incarichi dirigenziali e specializzazioni
professionale, culturale e scientifica di tipo
principalmente accademico (art. 19, comma 6). Ciò
garantisce un margine di
flessibilità ai vertici
politici e consente innesti di esperienze e
competenze utili
all’amministrazione. Tuttavia, se
il ricorso ai dirigenti esterni è troppo esteso, i
dirigenti interni vengono frustrati nelle aspettative
di crescita professionale.
I  dirigenti pubblici   La responsabilità
  dirigenziale
sono soggetti a
verifica periodica
della rispondenza di risultati
dell’attività
amministrativa e della gestione agli indirizzi
impartiti dai vertici
politici (art. 4, comma 1).
I  n caso di mancato raggiungimento
degli obiettivi,
accertato attraverso il sistema di valutazione delle
performance, opera
una particolare forma di
responsabilità aggiuntiva rispetto alla
responsabilità
disciplinare prevista anche per i
dirigenti in caso di violazione di doveri di servizio
(art. 21 come modificato dal d.lgs. n. 150/2009): la
402 responsabilità dirigenziale. Si
discute se essa
abbia natura oggettiva, prescinda cioè
dall’accertamento dell’elemento soggettivo della
colpa, o se, come sembra preferibile,
costituisca
una forma speciale di responsabilità disciplinare.
La responsabilità può sorgere,
oltre che per il
mancato raggiungimento degli obiettivi, anche in
altre due ipotesi:
l’inosservanza delle direttive
impartite dal vertice politico; la violazione del
dovere
di vigilanza sul rispetto da parte del
personale sottoposto degli standard quantitativi
e
qualitativi di performance fissati
dall’amministrazione (art. 21, comma
1-bis).
La responsabilità dirigenziale è
accertata in
contraddittorio con l’interessato, previa
contestazione degli addebiti e
previa acquisizione
di un parere di un comitato di garanti nominato
dal presidente del
Consiglio dei ministri (art. 22).
Essa può comportare, a seconda dei casi, il
mancato
rinnovo dell’incarico dirigenziale, la
decurtazione della retribuzione di risultato, la
revoca dell’incarico con conseguente collocazione
del dirigente nei ruoli a
disposizione, il recesso dal
rapporto di lavoro.
La cessazione dagli incarichi
apicali di segretario
generale di ministeri e di direzione delle strutture
articolate al
loro interno in uffici dirigenziali
generali opera in modo automatico in occasione
dell’insediamento di un nuovo governo e più
precisamente al novantesimo giorno dal voto
sulla
fiducia (art. 19, comma 8, che richiama gli incarichi
dirigenziali
di cui al comma 3).
Si tratta del cosiddetto
spoil system  (sistema dello
spoglio o del   Lo spoil
system
 
«bottino»), che si
ispira alla prassi invalsa negli Stati Uniti nel XIX
secolo per cui all’esito della contesa elettorale «to
the victor belongs the spoils»
(secondo il motto
coniato nel 1832 da W. Marcey, uomo politico
sostenitore del
presidente Jackson). Questo
sistema accentua il carattere fiduciario dell’alta
dirigenza, ma favorisce forme di clientelismo
(political patronage)
e di scambio politico,
incompatibili con il sistema del merito (merit
system). Quest’ultimo presuppone una burocrazia
professionale, garante
dell’imparzialità e della
continuità dell’azione amministrativa. Anche negli
Stati Uniti
esso è ormai limitato a 200-300 posti
chiave dell’esecutivo.
 Nel nostro ordinamento il
legislatore, sia statale
sia regionale, è intervenuto più volte in questi anni
ad
allargare l’ambito di applicazione dello spoil
system (per esempio,
agli incarichi di direttore
generale delle ASL e a
fasce più ampie di dirigenti).
Questi tentativi sono stati censurati dalla Corte
costituzionale che in numerose pronunce ha
ribadito come un siffatto sistema, se
applicato in
modo troppo esteso, comporta una
precarizzazione del ruolo della dirigenza.
Esso
contrasta con i principi di imparzialità e di buon
andamento e con il principio del
giusto
procedimento (due process) poiché la cessazione
dall’incarico avviene senza alcun contraddittorio
con l’interessato (in particolare, C.
cost. 23 marzo
2007, nn. 103 e 104 e 22 luglio 2011, n. 228). La
Corte ha peraltro ritenuto costituzionale la
cessazione automatica dall’incarico dei segretari
comunali in seguito all’elezione di un
nuovo
sindaco considerata la stretta contiguità della
figura con il vertice politico del
comune (sentenza
403 n. 23/2019).
5. Cenni
conclusivi

Nonostante i tentativi ripetuti


del legislatore di
introdurre nel pubblico impiego regole volte a
promuovere la
competenza, il merito, la
flessibilità, l’imparzialità e l’efficienza, la
situazione
reale è, per opinione pressoché
unanime, assai insoddisfacente. Il sistema di
reclutamento non garantisce l’assunzione di
personale di livello adeguato. I vertici
politici non
esercitano la funzione di indirizzo assegnando
risorse e obiettivi precisi
ai dirigenti e valutando il
loro operato. La dirigenza dal canto suo stenta ad
affermare
il proprio ruolo autonomo e non applica
con rigore nei confronti degli addetti la
funzione di
supervisione e direzione. La distribuzione del
personale tra gli uffici è
spesso irrazionale e gli
istituti volti ad assicurare la flessibilità e la
mobilità non
vengono applicati. Il personale, pur
con le dovute eccezioni, non ha la formazione
richiesta (mancano i profili tecnici e informatici),
è spesso poco motivato e rifugge
per quanto
possibile all’assunzione di responsabilità
(cosiddetta burocrazia difensiva).
Il sistema degli
incentivi (stipendiali e di carriera) e delle sanzioni
disciplinari non
funziona.
Eppure la «capacità
amministrativa» di uno Stato,
fatta di regole, mezzi e risorse umane, è
considerata
dagli studiosi delle scienze sociali
come uno dei principali fattori di successo o
insuccesso ai fini della realizzazione delle politiche
pubbliche e della crescita
economica. Questa
consapevolezza è stata particolarmente avvertita,
da ultimo, in
relazione all’attuazione del Piano
nazionale di ripresa e resilienza e ciò ha già
prodotto, come accennato, i primi interventi
legislativi per migliorare il sistema delle
regole sul
personale delle pubbliche amministrazioni.
CAPITOLO 11

I beni

405
1. La
disciplina pubblicistica
dei beni
Per svolgere le loro attività, le
organizzazioni
hanno necessità, oltre che di personale, di beni
strumentali. Del resto,
in ambito privatistico,
l’azienda è un «complesso di beni organizzati
dall’imprenditore
per l’esercizio dell’impresa» (art.
2555 cod. civ.). Anche le pubbliche
amministrazioni, per
realizzare i propri scopi,
devono procurarsi beni immobili (da adibire a
uffici) e beni
mobili (arredi, strumenti informatici,
ecc.). Si tratta di beni che esse possono
possedere
a titolo di proprietà privata o ad altro titolo
civilistico (per esempio, un
contratto di locazione
o di leasing) e che devono acquisire, in molti casi,
seguendo le
procedure a evidenza pubblica
analizzate nel capitolo XII.
In aggiunta le pubbliche
amministrazioni, a
differenza dei privati, sono titolari e gestiscono
alcuni tipi di beni, non già
per necessità funzionali
proprie, bensì per metterli a disposizione della
collettività.
Si pensi alle strade, ai musei, al lido del
mare, alle foreste.
In linea di principio, non sembra
sussistere una
ragione per così dire ontologica perché per i beni
della pubblica
amministrazione debba valere un
regime diverso da quello del diritto comune. In
effetti,
come si vedrà di seguito, alcuni beni ad essa
appartenenti sono pubblici solo in senso
soggettivo perché il regime del bene è
integralmente privatistico (i cosiddetti beni
patrimoniali disponibili).
Il regime speciale dei beni pubblici trova un
fondamento, più che nella
Costituzione, nel
codice civile (artt. 822 ss.). Peraltro, già il diritto
romano conosceva la
distinzione tra res in
commercio e res extra
commercio tra le quali si
annoveravano le res
publicae, destinate all’uso della
generalità dei cittadini.
La Costituzione stabilisce in primo luogo che «la
proprietà  è pubblica   Il regime speciale dei
  beni
pubblici
o privata» (art. 42,
comma 1). Questa
disposizione viene usualmente
intesa nel
senso di
giustificare (o, secondo alcuni, addirittura
richiedere) un regime speciale per
la prima. In
secondo luogo, precisa che «i beni economici
appartengono allo Stato, ad
enti o a privati»
406 (comma 1, secondo periodo), con ciò
legittimando
lo Stato e le pubbliche amministrazioni ad
assumere la veste di proprietari
(e gestori) dei
medesimi, al pari dei privati, senza alcun limite
particolare.
 A livello europeo, il Trattato sul
funzionamento
dell’Unione europea (art. 345), come si è visto,
mantiene un atteggiamento
di neutralità in tema di
proprietà privata.
Il codice civile dedica il Capo II del Titolo I del
Libro III ai beni
appartenenti allo Stato, agli enti
pubblici e agli enti ecclesiastici (artt. 822 ss.).
Esso, come si vedrà meglio più avanti, pone la
distinzione tra beni demaniali, disciplinati
esclusivamente da regole pubblicistiche, e
beni
patrimoniali (disponibili e indisponibili). Questi
ultimi in base al principio di
specialità sono
sottoposti «alle regole particolari che li
concernono e, in quanto non
diversamente
disposto, alle regole del presente codice» (art. 828,
comma 1). Nell’individuare i beni che ricadono
nelle
due categorie, il codice segue un criterio
formale (inclusione in elenchi), più che
sostanziale, legato cioè alle caratteristiche
intrinseche dei beni.
Anche  i beni privati   Il regime pubblicistico
  dei beni
privati
peraltro possono
essere oggetto, per
profili particolari, di un regime pubblicistico. La
proprietà
privata, pur essendo «riconosciuta e
garantita dalla legge», può essere infatti
conformata dal potere pubblico «allo scopo di
assicurarne la funzione sociale e di
renderla
accessibile a tutti» (art. 42, comma 2). La Carta dei
diritti fondamentali
dell’Unione europea
garantisce il diritto di proprietà, ma prevede allo
stesso tempo che
«l’uso dei beni può essere
regolato dalla legge nei limiti imposti dall’interesse
generale» (art. 17).
I  l codice civile contiene varie
disposizioni che
conformano la proprietà privata a scopi di
interesse pubblico. Così,
per esempio, la proprietà
fondiaria «è soggetta a regole particolari per il
conseguimento di scopi di pubblico interesse nei
casi previsti dalle leggi speciali e
dalle disposizioni
contenute nelle seguenti sezioni» (art. 845). Il
codice disciplina
anche i consorzi obbligatori che
raggruppano i terreni contigui inferiori alla minima
utilità colturale (art. 850) o i vincoli idrogeologici
che vengono apposti dall’autorità
amministrativa
al fine di evitare «che possano con danno pubblico
subire denudazioni,
perdere la stabilità o turbare il
regime delle acque» (art. 866). Le servitù coattive
includono anche quelle costituite «con atto
dell’autorità amministrativa nei casi
specialmente
determinati dalla legge» (art. 1032). Molte leggi
amministrative
settoriali, come si vedrà nel
prossimo
paragrafo, introducono limiti al diritto di
proprietà allo scopo di tutelare
interessi pubblici.
Dalle considerazioni s in qui svolte, emerge che
anche rispetto ai beni   Stato proprietario e
  Stato
regolatore dei
i pubblici
poteri beni
possono assumere
una duplice veste di
Stato proprietario (e gestore) e di
Stato
regolatore. La prima si riferisce ai beni dei quali le
amministrazioni
hanno la titolarità sulla base delle
norme di diritto pubblico (beni demaniali) e del
diritto privato (beni patrimoniali). La seconda si
riferisce invece ai poteri di
conformazione del
diritto di proprietà dei privati che sono attribuiti
dalla legge a
varie pubbliche amministrazioni al
fine di tutelare interessi pubblici.
 La disciplina pubblicistica dei beni
si connota oggi,
come si vedrà, per due elementi: la varietà di
407 regimi, in parte
privatistici e in parte pubblicistici;
un maggior rilievo
attribuito, più che all’aspetto
soggettivo della proprietà pubblica o privata,
all’aspetto oggettivo della loro inerenza, più o
meno intensa, all’interesse pubblico.
Anche in questo campo, per effetto
dei processi di
privatizzazione e alienazione del patrimonio
pubblico avviati negli
ultimi anni, lo Stato ha
dismesso in parte la veste di Stato proprietario,
ancora in
primo piano nella disciplina codicistica, a
favore di quella di Stato regolatore. In
quest’ultima
veste lo Stato, nel porre una disciplina dei beni,
finisce talvolta per
regolare anche indirettamente
l’attività di chi li utilizza a fini privati (residenza in
un palazzo storico soggetto a diritti di visita a
favore della collettività) o per
l’esercizio di
un’attività di impresa (regimi tariffari dei pedaggi
autostradali o
dell’utilizzo delle reti da parte di
soggetti terzi).
In base al criterio della minore o
maggiore
specialità del regime,  i beni di proprietà privata e
pubblica si prestano a   La classificazione dei
  beni in
funzione della
essere collocati lungo specialità del regime
una linea che, come si
vedrà, pone a un
estremo i beni privati sottoposti a un regime
essenzialmente di diritto comune e
all’estremo
opposto i beni pubblici sottoposti a un regime
essenzialmente pubblicistico
(il cosiddetto
demanio necessario). Tra i due estremi si
collocano i beni privati di
interesse pubblico e i
beni patrimoniali indisponibili.
  ’applicazione di un regime via via
più speciale si
L
giustifica, anche nel caso della disciplina
pubblicistica dei beni, in
relazione alla presenza di
«fallimenti del mercato» che richiedono un
intervento
pubblico di intensità crescente.
Il criterio che dovrebbe ispirare il
legislatore nel
dettare il regime pubblicistico dei beni dovrebbe
essere il principio di
proporzionalità che richiede,
come si è visto, che le deroghe al diritto
comune
siano limitate ai casi in cui esse siano
indispensabili per il conseguimento
delle finalità di
interesse pubblico. A tale principio si aggiunge
quello della
sussidiarietà verticale e orizzontale:
verticale attraverso il cosiddetto «federalismo
demaniale», cioè un processo avviato nel nostro
ordinamento di devoluzione della
titolarità di
molti beni dello Stato alle regioni e agli enti locali;
orizzontale, che si realizza
mediante il
coinvolgimento di soggetti privati, anche non
profit, soprattutto nella
gestione di taluni tipi di
beni (in particolare di quelli definiti come beni
comuni).
Conviene anteporre all’analisi
giuridica la
classificazione dei beni operata dalla scienza
economica, che li suddivide
in beni privati, beni
pubblici, beni di club e beni collettivi
(commons).
Una siffatta classificazione, che, si badi bene, non
coincide con quella meramente giuridico-formale
posta dal codice civile, si fonda su
alcune
caratteristiche sostanziali dei beni.
Le quattro categorie sono
individuate in base a due
criteri: l’«escludibilità» e la «rivalità». I beni sono
escludibili (un terreno recintabile) o non
escludibili (l’atmosfera, i fari), a seconda
che, una
volta prodotti, sia o non sia possibile escludere
alcuni soggetti dal loro uso
o consumo. I beni
possono essere rivali (una bibita) o non rivali (una
strada, una
piscina) a seconda che l’uso o il
consumo di essi da parte di un soggetto limiti o
escluda la possibilità di uso o consumo da parte di
408 altri.

1. I beni privati sono sia escludibili sia


rivali. Si
pensi per esempio agli alimenti o al vestiario.
2. I beni pubblici puri, ai quali si è fatto
già
riferimento nel capitolo
I come caso di
fallimento del mercato, non sono né
escludibili né
rivali. Si pensi, per esempio,
all’illuminazione pubblica, alla difesa
nazionale
o all’ordine pubblico. I privati non
hanno incentivo a produrli poiché è
ineliminabile il rischio dei freeriders, cioè di
soggetti
che ne traggono beneficio senza
sopportarne gli oneri. Per queste ragioni, il
mercato non è in grado di fornirli in quantità
e qualità sufficienti. È dunque
richiesto
l’intervento dei pubblici poteri sotto forma, a
seconda dei casi, di
proprietà pubblica, di
istituzione di apparati amministrativi
(l’esercito, le
forze di polizia) o di
regolamentazione amministrativa. Il
finanziamento avviene
a carico dell’intera
collettività attraverso la fiscalità generale.
3. Tra i beni pubblici puri e i beni privati
si
collocano i cosiddetti «beni di club», che
hanno natura non rivale, ma sono
escludibili.
Essi dunque si prestano a essere prodotti e
gestiti anche dal
mercato, cioè da soggetti
privati che li producono dietro il pagamento
di una
tariffa o di un canone (televisione via
cavo, autostrade a pedaggio) oppure da
enti
non profit (per esempio, le associazioni che
gestiscono un circolo di
tennis o un campo da
golf ).
4. L’altra categoria intermedia è data dai
beni
comuni (commons) che non sono escludibili
e
hanno natura rivale (le risorse ittiche o
faunistiche, i pascoli, i fiumi,
ecc.). Per essi si
pone sempre più il problema del
sovraconsumo da parte della
collettività tale
da mettere a rischio nel lungo periodo la
stessa esistenza del
bene (la cosiddetta
«tragedia dei beni comuni», dal titolo di un
saggio di
Hardin [1968, 1243-1248]). Per
evitarlo, si possono introdurre regole
pubblicistiche volte a limitarne l’uso (si pensi,
per esempio, all’attività
venatoria consentita
solo in periodi dell’anno predeterminati). In
presenza di
certe condizioni, alcune risorse di
tipo collettivo si prestano a essere
regolate e
autogestite direttamente dagli interessati
(Ostrom [2006] cita tra
gli altri l’esempio dei
pascoli e dei boschi nelle montagne svizzere).

La  regolazione   I monopoli naturali e


  l’esternalità negativa
pubblica di alcuni
beni privati è
giustificata talora dal carattere di
monopoli
naturali. Si pensi, come si è accennato e come si
vedrà di seguito, alle reti
(per esempio di
distribuzione dell’energia elettrica o quelle
ferroviarie) o alle altre
essential facilities non
facilmente duplicabili (per esempio i
porti e gli
aeroporti) il cui accesso o utilizzo deve essere
garantito in modo non
discriminatorio e a un
prezzo ragionevole.
  n ulteriore fallimento del mercato
è l’esternalità
U
negativa, che sta alla base, per esempio, della
regolazione dei beni
privati a fini di tutela
dell’ambiente.
La teoria economica conferma dunque
la necessità
di una disciplina pubblicistica dei beni, inclusa in
alcuni casi la
produzione e la proprietà pubblica.
Anche il diritto dà rilevanza ad
alcune
caratteristiche   Classificazioni
  giuridiche
generali
 sostanziali dei beni
differenziandone
il
regime. Si pensi in particolare alla distinzione tra
beni mobili e immobili (art. 812 cod. civ.) ai quali il
codice civile e le leggi
amministrative applicano
regole diverse (per esempio in tema di
circolazione, di
registrazione in registri pubblici o
409 di tassazione). Si pensi
ancora alla distinzione tra
beni naturali (acqua, aria,
foreste, laghi, ecc.) e
artificiali (difesa pubblica, fari, illuminazione
pubblica,
strade, ecc.). Con riguardo ai primi,
l’intervento dei pubblici poteri è rivolto
principalmente alla conservazione e alla
regolamentazione della fruizione; con riguardo
ai
secondi, esso è anzitutto rivolto alla produzione
dei medesimi (in molti casi a
carico delle finanze
pubbliche) e alla definizione di un quadro di regole
che consenta
almeno in alcuni casi una gestione
affidata a soggetti privati (per esempio, i
concessionari autostradali). Si pensi infine alla
distinzione tra beni materiali e beni
immateriali
(per esempio, le radiofrequenze).
 
2. I beni di
interesse privato e i
beni di interesse pubblico
Si è già detto che, sotto il profilo
giuridico, i beni
possono essere classificati in base al criterio della
minore o
maggiore incidenza dei regimi
pubblicistici aggiuntivi o derogatori rispetto al
diritto
comune.
Può essere posta anzitutto una
distinzione di tipo
oggettivo tra beni di interesse privato e beni di
interesse
pubblico.

1. I primi sono disciplinati


integralmente dal
codice civile.  I   I beni di interesse
  privato
proprietari dei beni
di
interesse privato
hanno diritto «di godere e disporre delle cose in
modo pieno ed
esclusivo», sia pure entro i limiti e
con l’osservanza degli obblighi stabiliti
dall’ordinamento giuridico (art. 832 cod. civ.). Il
proprietario può così decidere
liberamente, per
esempio, se farne un uso proprio oppure metterlo
a reddito (per esempio
con un contratto di
locazione). Lo jus alios excludendi, che
connota da
sempre il diritto di proprietà, distingue
nettamente questi beni dai
beni
pubblici destinati
alla fruizione della collettività.
  uttavia anche a questi beni disciplinati dal codice
T
civile, come si è
accennato nel paragrafo
precedente, possono essere applicati regimi
pubblicistici che attribuiscono
poteri  conformativi
ad apparati pubblici.   I poteri conformativi
 
Si pensi alla
disciplina urbanistica ed edilizia che persegue la
finalità di assicurare un ordinato
assetto del
territorio con una molteplicità di strumenti (per
esempio i piani regolatori
e i permessi a costruire).
Si pensi ancora al già citato vincolo
idrogeologico
che grava su molti terreni e che comporta, per
esempio, il divieto di
taglio degli alberi, salva
autorizzazione dell’autorità forestale (r.d. 30
dicembre 1923, n. 3267).
  i pensi ancora ai vincoli che
gravano sui beni
S
privati a fini di tutela dell’ambiente e
dell’ecosistema che giustifica
anche numerose
misure conformative previste dal Codice
dell’ambiente (d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152). Per
esempio, gli scarichi di
acque reflue domestiche e
industriali richiedono un’autorizzazione (artt. 124
ss.); ai detentori di rifiuti domestici e
industriali
sono imposti divieti di abbandono, obblighi di
autosmaltimento o di
conferimento a soggetti
autorizzati alla raccolta, ecc.
Molte tipologie di prodotti immessi
sul mercato
sono inoltre oggetto di una regolazione pubblica,
molto spesso di origine
europea, volta a garantire
la qualità, la sicurezza, l’igiene (per esempio, la
sicurezza
degli alimenti e dei farmaci, o gli
standard tecnici degli elettrodomestici o dei
giocattoli). Questo tipo di regolamentazione, ove
410 si spinga oltre certi
limiti di dettaglio, può
costituire una barriera al commercio
internazionale, limitando gli scambi tra Stati e può
essere oggetto di controversie
nelle sedi
internazionali (per esempio, l’Organizzazione
mondiale del commercio).
Nella  categoria dei   I beni patrimoniali
  disponibili
beni di interesse
privato rientrano,
come si è già accennato, anche alcuni beni che
possono essere
definiti come beni pubblici in
senso soggettivo, e cioè i beni patrimoniali
disponibili
appartenenti allo Stato e agli enti
territoriali regolati dal diritto comune (art. 826
cod. civ.). Essi sono sottoposti al diritto privato
e
pertanto sono commerciabili, alienabili,
usucapibili e soggetti a esecuzione forzata.
In
realtà, anche a questi beni si applicano alcune
regole speciali pubblicistiche,
relative non tanto al
regime del bene in sé, quanto alle modalità di
acquisto e vendita
da parte della pubblica
amministrazione, cioè alle procedure a evidenza
pubblica
disciplinate dal Codice dei
contratti
pubblici volte a tutelare la concorrenza, e quelle
relative
alla contabilizzazione nel bilancio.
    I beni di interesse
  pubblico
2. I  beni di interesse
pubblico sono beni
che sotto il profilo oggettivo hanno una rilevanza
pubblicistica. Nei beni di interesse
privato
l’interesse pubblico, là dove sussista, è per così
dire esterno al bene, anche
se l’interferenza tra uso
del bene da parte del proprietario e tale interesse
pubblico
giustifica la previsione di un regime
speciale e l’attribuzione all’amministrazione di
poteri conformativi. Nei beni di interesse pubblico
l’interesse pubblico è invece
immanente al bene. Si
pensi, per esempio, a un reperto archeologico, a
una statua o a un
dipinto antichi.
  uesta particolarità emerge nella
stessa
Q
definizione della categoria più importante di beni
di interesse pubblico e cioè i
beni culturali e i beni
paesaggistici. I primi sono costituiti dalle «cose
immobili e
mobili che […] presentano interesse
artistico, storico, archeologico, etnoantropologico,
archivistico e bibliografico e le altre cose
individuate dalla legge o in base alla
legge quali
testimonianze aventi valore di civiltà» (art. 2,
comma 2, Codice dei beni culturali e del paesaggio
approvato
con d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42). I
secondi sono costituiti dagli immobili
e dalle aree
«costituenti espressione dei valori storici,
culturali, naturali,
morfologici ed estetici del
territorio» (comma 3).
Conviene soffermarsi più da vicino
sul regime
giuridico di questi beni, per poi passare a
considerare quello delle aree
naturali protette e
delle reti.
  Il regime dei beni
  culturali
2a) Il  regime dei
beni culturali e dei
beni paesaggistici è molto articolato sia per quanto
riguarda la
loro individuazione, sia per quanto
riguarda il regime giuridico (tutela, circolazione,
fruizione, valorizzazione). La materia è oggetto di
convenzioni internazionali (la Convenzione
UNESCO del 1972) e normative europee. In
particolare, l’art. 167 TFUE incoraggia la
cooperazione tra Stati membri e
prevede la
«conservazione e salvaguardia del patrimonio
culturale di importanza
europea». A livello
nazionale la disciplina legislativa di base è
contenuta nel Codice dei beni culturali e del
paesaggio. (DECRETO LEGISLATIVO 22 gennaio 2004, n. 42)
 A monte del Codice, la Costituzione affida alla
Repubblica la tutela del
patrimonio storico e
artistico della Nazione (art. 9) e nella ripartizione
delle
competenze legislative tra Stato e regioni
annovera la tutela dei beni culturali tra le
materie
411 attribuite alla competenza esclusiva dello Stato
(art. 117, comma 2, lett. s)), mentre la
valorizzazione dei
beni culturali è inclusa tra le
materie attribuite alla competenza concorrente
(comma
3).
I beni culturali sono individuati  con una
duplice
modalità: attraverso   L’individuazione dei
  beni
culturali
elenchi tassativi di
beni culturali ex
lege,
cioè dichiarati tali dalla legge (art. 10, comma 2),
come per esempio i musei, le pinacoteche,
gli
archivi di documenti pubblici, le biblioteche dello
Stato, degli enti territoriali e
degli enti
pubblici;
attraverso un procedimento amministrativo in
contraddittorio
con i proprietari titolari di alcune
tipologie di beni inclusi indicate dalla legge,
come,
per esempio, le raccolte librarie appartenenti a
privati, le cose mobili e
immobili che presentano
interesse artistico, storico, archeologico o
etnoantropologico
particolarmente importante
(art. 10, comma 3). Il procedimento è aperto
d’ufficio e si
conclude con un provvedimento di
dichiarazione dell’interesse culturale del bene
notificato e trascritto nei registri immobiliari ove
si tratti di beni immobili (artt.
13-15).
I  beni  culturali   La tutela, la
  circolazione, la
individuati sono fruizione, la
inseriti in un catalogo valorizzazione

nazionale (art. 15) e


sono soggetti
a un regime speciale di vigilanza e
ispezione (artt. 18 e 19) relativo alla tutela, alla
circolazione, alla fruizione e alla valorizzazione.
 La tutela consiste in una serie di
misure di
protezione e conservazione. In particolare, per
ogni intervento di rimozione,
demolizione, di
esecuzione di lavori è necessaria un’autorizzazione
del ministero dei
Beni culturali (art. 21). Nel caso
in cui il bene richieda interventi per la sua
conservazione, il ministero può imporli con
proprio provvedimento ai soggetti privati
con
oneri a carico di questi ultimi e, a certe condizioni,
con contributi finanziari
pubblici (artt. 31 ss.).
La circolazione dei beni culturali  è
gravata da una
serie di vincoli. I beni   La prelazione
 
culturali appartenenti
allo Stato e agli enti
pubblici sono qualificati come
beni demaniali ove rientrino nelle tipologie
indicate
dall’art. 822 cod. civ. (art. 53), come, per
esempio, le raccolte
dei musei e le pinacoteche
(art. 54). Alcuni di essi sono inalienabili in senso
assoluto; per altri l’alienazione è subordinata a
un’autorizzazione preventiva (artt.
55-56). I beni
culturali di proprietà privata possono essere
alienati, ma lo Stato e gli
enti pubblici possono
esercitare un diritto di prelazione (art. 60). A
questo fine gli
atti di alienazione devono essere
denunciati entro 30 giorni alla soprintendenza
territorialmente competente (art. 59). Entro il
termine perentorio di 60 giorni dalla
ricezione
della denuncia (che deve contenere tutti i dati per
identificare il bene e il
prezzo di cessione) lo Stato
o altro ente territoriale interessato possono
esercitare la
prelazione (art. 61). I beni culturali
sono inoltre suscettibili di espropriazione per
pubblica
utilità (artt. 95 ss.). Anche l’uscita
temporanea dal territorio
nazionale di beni
culturali, per esempio per poter essere esposti in
mostre, è soggetta
a un regime di autorizzazione
(art. 66).
  a fruizione dei beni culturali è
disciplinata
L
distinguendo i beni appartenenti agli enti pubblici
e i beni appartenenti
ai privati. Per i primi sono
previste regole volte ad assicurare il massimo
grado di
fruizione pubblica, talora a titolo gratuito,
talora a pagamento (artt. 102 e 103). Dei
secondi
deve essere consentita la visita da parte del
pubblico, ma solo nei casi in cui
i beni siano
dichiarati di «interesse eccezionale» con atto del
412 ministero emanato in contraddittorio con il
proprietario (art.
104). Le modalità devono essere
concordate tra il proprietario e il soprintendente.
In
ogni caso, proprio per favorire la fruizione
pubblica, là dove lo Stato contribuisca
alle spese di
restauro, la concessione del contributo finanziario
è subordinata a una convenzione
con il
proprietario che si impegni a rendere il bene
accessibile con modalità concordate
(art. 38).
La valorizzazione consiste
nell’attività di
promozione della conoscenza del patrimonio
culturale, assicurandone le
migliori condizioni di
fruizione per promuovere lo sviluppo della cultura
(art. 6). La
valorizzazione può essere a iniziativa
pubblica o a iniziativa privata (art. 111) e
la
gestione delle relative attività può essere affidata
anche a soggetti terzi
attraverso lo strumento della
concessione (art. 115). Il Codice ammette, entro
certi
limiti, la sponsorizzazione dei beni culturali,
in base alla quale soggetti pubblici o
privati
possono promuovere il loro marchio e la loro
immagine attraverso erogazioni di
contributi in
danaro o in natura (art. 120). Una disciplina dei
contratti di
sponsorizzazione e più in generale dei
lavori aventi per oggetto i beni culturali è
contenuta nel Codice dei contratti pubblici (artt.
135 ss.).
Anche la tutela e la valorizzazione
dei beni
paesaggistici (bellezze panoramiche, ville, giardini,
ecc.) sono disciplinate
dal Codice con strumenti in
parte analoghi a quelli previsti per i beni culturali
(artt. 131 ss.).
  Il regime delle aree
  naturali
protette
2b) Un’altra
 tipologia di beni di
interesse pubblico è costituita dalle aree naturali
protette
dalla legge quadro sulle aree protette
(legge 6 dicembre 1991, n. 394). Il regime speciale è
volto
alla conservazione delle specie animali o
vegetali, degli equilibri ecologici, alla
promozione
di un’integrazione tra uomo e ambiente naturale,
nonché alla promozione di
attività educative, di
ricerca e ricreative (art. 1, comma 3).
 Le aree naturali protette sono
suddivise in più
categorie: parchi nazionali, parchi naturali
regionali, riserve naturali
protette. I parchi
nazionali sono costituiti in enti aventi personalità
giuridica di
diritto pubblico (enti parco) e propri
organi (presidente, consiglio direttivo, giunta).
L’ente
parco disciplina i beni in esso inclusi con un
regolamento e un piano, emanati dopo aver
acquisito un parere della comunità del parco,
costituita dai presidenti delle regioni,
province,
comuni e
comunità montane i cui territori
ricadono nell’area del parco (art. 10).
Il regolamento disciplina le
attività costruttive,
economiche,   Il regolamento e il
  piano del
parco
 ricreative, sportive,
di
soggiorno e
circolazione imponendo una serie di divieti per
quelle che possono
compromettere i valori
ambientali e paesaggistici (art. 11). Il piano del
parco
suddivide il territorio in base al diverso
grado di protezione ritenuto necessario
distinguendolo in riserve integrali, nelle quali
l’ambiente è conservato nella sua
integrità; riserve
generali orientate, nelle quali sono vietate le nuove
costruzioni e
gli ampliamenti; aree di protezione,
nelle quali sono ammesse attività agricole e
silvo-
pastorali; aree di promozione economica e sociale,
nelle quali può essere svolta
una gamma più ampia
di attività compatibili con le finalità pubblicistiche
(art. 12).
 Il perimetro del parco può
includere, oltre a beni
demaniali, anche terreni ed edifici di proprietà
privata che
sono gravati da vincoli speciali. Infatti
tutti gli interventi, impianti e opere
all’interno del
413 parco richiedono, in aggiunta alle
autorizzazioni
previste dalle normative generali (per esempio, il
permesso a costruire),
un nullaosta dell’ente parco
volto a verificare la conformità con le disposizioni
del
regolamento e del piano (art. 13). Il nullaosta
deve essere rilasciato entro 60 giorni
decorsi i
quali si forma il silenzio-assenso. Inoltre, nel caso
di cessione del diritto
di proprietà o di altro diritto
reale dei terreni inclusi nelle riserve integrali e
nelle riserve generali orientate, l’ente parco può
esercitare un diritto di prelazione
entro tre mesi
dalla notifica della proposta di alienazione (art. 15,
commi 5 e 6). Infine, i vincoli imposti dal piano
alle attività agrosilvopastorali e i danni provocati
dalla fauna selvatica del parco
danno diritto a
indennizzi a favore dei privati (art. 15, commi 2
ss.).

2c) Una
specie di beni privati  che ha acquistato il
carattere di
beni di   La disciplina delle reti
 
interesse pubblico è
costituita dalle reti, cioè dalle infrastrutture fisiche
(reti di trasmissione e di distribuzione dell’energia
elettrica e del gas, reti di
telecomunicazioni, binari
ferroviari, ecc.) necessarie per l’erogazione di
alcuni
servizi
pubblici. Mentre questi ultimi si
prestano ormai a essere offerti sul
mercato da una
pluralità di operatori in concorrenza, le reti
costituiscono elementi di
monopolio naturale
(essential facilities), che, come si è già
accennato,
richiedono una regolazione pubblica ex ante
almeno sotto
due profili: il diritto di accesso alla
rete da parte di una pluralità di erogatori di
servizi
in base a criteri di uguaglianza (per esempio, i
produttori privati di energia
elettrica che hanno
necessità di immetterla nella rete nazionale di
trasmissione per
consegnarla agli acquirenti); la
definizione delle tariffe per l’uso della rete in
modo
tale da evitare che il monopolista possa
abusare del suo potere di mercato. La
regolazione
ex ante integra quella generale ex
post tramite
l’applicazione dei principi del diritto antitrust in
tema di
abuso di posizione dominante (art. 102
TFUE).
 Peraltro, già il codice civile, come si è visto, pone il
principio
dell’obbligo di contrattare osservando la
parità di trattamento, ma solo nel caso di
monopolio
legale (art. 2597 cod. civ.). Numerose
leggi di settore prevedono
regole specifiche per le
reti. Per esempio, il Codice delle comunicazioni
elettroniche
attribuisce all’autorità di settore
poteri finalizzati a garantire che gli operatori di
reti pubbliche di comunicazione (specie con
riguardo alla telefonia mobile) consentano
l’accesso e l’interconnessione della propria rete e
l’interoperabilità dei servizi a
favore di altri
operatori concorrenti in modo tale che tutti gli
utenti siano in grado
di comunicare tra loro a
prescindere dal fornitore del servizio prescelto
(artt. 40 ss.
d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259).
o

Inoltre, molte reti sono gestite da società


controllate direttamente o
indirettamente dallo
Stato (per esempio, la rete elettrica di Terna
s.p.a.). Le norme in
materia di servizi
pubblici
locali vietano agli enti locali proprietari delle reti e
degli
impianti di cedere la proprietà, consentendo
soltanto il conferimento delle medesime in
società
a capitale interamente pubblico (art. 113, commi 2
e 13, d.lgs. n. 267/2000).
I beni sin qui considerati sono
riferibili sotto il
profilo soggettivo, a seconda dei casi, sia a soggetti
privati, sia
allo Stato e agli enti pubblici. Alcune
categorie di beni, come si vedrà nel paragrafo che
segue, possono
invece appartenere esclusivamente
allo Stato e agli enti pubblici soprattutto
414 territoriali.
3. I beni
patrimoniali
indisponibili e i beni
demaniali
Come già accennato, il codice civile
distingue tra
demanio pubblico (artt. 822 ss.) e beni
patrimoniali (art. 826). I beni
patrimoniali
disponibili, come si è detto, sono beni di interesse
privato (in senso
oggettivo).

1. I beni patrimoniali indisponibili, come si è già


accennato, sono
sottoposti a regole speciali e, per
quanto non diversamente disposto da esse, alle
regole del codice civile (art. 828). Il codice fornisce
un elenco tassativo: foreste,
miniere, caserme,
armamenti, cose d’interesse storico, ecc. Anche i
beni degli
enti
pubblici destinati a un pubblico
servizio (per esempio un edificio
scolastico)
rientrano in questa categoria (art. 830).
Il carattere indisponibile  dei beni si
manifesta nel
fatto che essi, per   Il vincolo di
  destinazione
quanto siano
suscettibili di
alienazione, non possono
essere sottratti alla loro
destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi
che li
riguardano (art. 829 cod. civ.). Il vincolo di
destinazione può essere
rimosso usualmente con
un atto amministrativo, analogamente a quanto
accade, come si dirà, per la
sdemanializzazione. Si
pensi al caso di una caserma dismessa. Inoltre, essi
non possono
essere oggetto di procedure di
espropriazione in quanto necessari
all’«adempimento di un
pubblico servizio» (art.
514, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. riferito ai beni
mobili, ma ritenuto in giurisprudenza di portata
generale).
  nche le somme di danaro nella
disponibilità delle
A
pubbliche amministrazioni, che la giurisprudenza
ritiene ormai in
linea di principio aggredibili dai
creditori privati, in alcuni casi non possono essere
oggetto di procedure di espropriazione. Ciò in
particolare ove si tratti di somme che
leggi speciali
vincolano a una particolare destinazione o che
l’ente utilizza per
servizi
pubblici essenziali (come
previsto da una serie minuta di disposizioni
legislative speciali applicabili a varie tipologie di
enti e amministrazioni pubbliche).

2. I beni demaniali ineriscono al demanio


necessario o al demanio
eventuale (o accidentale).
I beni del demanio necessario possono
appartenere soltanto allo Stato
e sono elencati in
modo tassativo dall’art. 822, comma 1 del codice
civile: il lido del mare, la
spiaggia, le rade e i porti, i
fiumi, i laghi, ecc. I beni del demanio eventuale
fanno
parte del demanio solo nel caso in cui
appartengono allo Stato, alle regioni, alle
province
o
ai comuni (art.
824) e sono elencati dall’art. 822,
comma 2: le strade e le autostrade, gli aerodromi,
gli acquedotti, i musei, le biblioteche, ecc.
In aggiunta ai beni indicati dal
codice civile molte
leggi speciali qualificano taluni beni come
demaniali. Così, per
esempio, il Codice
dell’ambiente qualifica come beni appartenenti al
demanio necessario
dello Stato tutte le acque
superficiali e sotterranee (art. 144) e come beni
appartenenti al demanio eventuale gli acquedotti,
le fognature, gli impianti di
depurazione e le altre
infrastrutture idriche di proprietà pubblica (art.
143). Il Codice dei beni culturali e del paesaggio
qualifica come
demanio culturale i beni culturali
appartenenti allo Stato e agli enti territoriali che
rientrano nelle tipologie di cui all’art. 822 del
codice civile (archivi, musei, pinacoteche,
ecc.)
415 (artt. 53 ss.).
I beni demaniali sono inalienabili
e non possono
formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non
nei modi e nei limiti
stabiliti dalle leggi (art. 823,
comma 1). Si tratta dunque di beni
incommerciabili,
non aggredibili dai creditori
dell’ente secondo le regole ordinarie del codice
civile
(espropriazione forzata), non usucapibili (né
assoggettati al regime della
prescrizione).
Inoltre, ai fini di tutela dei beni
 demaniali
l’autorità   L’autotutela
 
amministrativa può
ricorrere sia ai
mezzi ordinari stabiliti dal codice
civile a tutela della proprietà, sia all’autotutela
(art.
823, comma 2). Si discute, come già accennato, se il
principio dell’autotutela posto dalla disposizione
codicistica sia, come afferma la
giurisprudenza,
autoapplicativo, oppure se possa operare solo se
attribuito e
disciplinato in modo più puntuale nelle
leggi speciali. Così, per esempio, il Codice
della
navigazione prevede che in caso di occupazione
abusiva di zone del demanio
marittimo o di
esecuzione di innovazioni non autorizzate,
l’autorità marittima ingiunga
al contravventore di
rimettere le cose in pristino entro un termine
stabilito e che in
caso di mancata esecuzione
dell’ordine l’autorità possa provvedere d’ufficio a
spese
dell’interessato (art. 54 Codice della
navigazione approvato con r.d. 30 marzo 1942,
n.
327).
 I beni demaniali sono in gran parte
destinati alla
fruizione  pubblica   Le concessioni di beni
  demaniali
(uso generale, per
esempio
del lido del
mare). Tuttavia essi possono essere attribuiti in
uso e godimento a singoli
utilizzatori (uso
particolare) attraverso lo strumento della
concessione
amministrativa. Così, per esempio,
secondo il Codice della navigazione,
l’amministrazione marittima, compatibilmente con
l’uso pubblico, può concedere
l’occupazione e
l’uso, anche esclusivo, di beni del demanio
marittimo e di zone di mare
territoriale (per
esempio per realizzare un porto nautico o uno
stabilimento balneare)
per un tempo determinato
(art. 36). In presenza di più domande di
concessione che si
riferiscono allo stesso bene, il
Codice pone una serie di criteri per stabilire quale
debba essere preferita (art. 37). La concessione
prevede generalmente la corresponsione
di un
canone o corrispettivo da parte del concessionario.
  li elenchi dei beni demaniali
contenuti nel codice
G
civile includono sia beni naturali, sia beni artificiali
(per
esempio le strade o i porti). La distinzione
rileva soprattutto sotto il profilo
dell’acquisto e
della perdita della demanialità dovuta, di regola,
nel primo caso, a
mutamenti della situazione di
fatto (per esempio, l’erosione di una spiaggia o il
prosciugarsi di un lago), nel secondo caso, a
determinazioni di tipo amministrativo. Il
codice
civile prevede in particolare che il passaggio dei
beni del demanio pubblico al
patrimonio dello
Stato sia dichiarato dall’autorità amministrativa
con un atto del quale
deve essere data notizia nella
Gazzetta Ufficiale (art. 829). In seguito alla
sdemanializzazione il bene è soggetto al regime di
diritto privato e può essere
alienato. Gli elenchi dei
beni demaniali naturali compilati dalle
amministrazioni hanno
natura meramente
dichiarativa e non costitutiva.
Leggi  recenti hanno   Le deroghe al principio
  di
inalienabilità
attenuato il principio
dell’inalienabilità dei
beni demaniali. Così in
particolare, alcune leggi
speciali hanno consentito il conferimento o il
trasferimento
di beni demaniali a società
pubbliche (ANAS s.p.a., le società di
trasformazione urbana,
Patrimonio dello Stato
s.p.a., ora soppressa, e, da ultimo, Società di
416 gestione del
risparmio) allo scopo di consentirne
l’utilizzazione e la
valorizzazione economica. Di
regola le leggi speciali sono volte a operare una
privatizzazione formale dei beni, visto che le
società conferitarie sono società
pubbliche, e
comunque prevedono che il trasferimento della
titolarità dei beni non
modifichi il regime giuridico
previsto dal codice civile dei beni demaniali
trasferiti.
 In anni relativamente recenti , come si è
accennato, è stato   Il federalismo
  demaniale
avviato un processo
di trasferimento di
molti beni immobili dello
Stato a favore delle
regioni, delle province e dei comuni (cosiddetto
federalismo
demaniale, disciplinato dal d.lgs. 28
maggio 2010, n. 85) che prevede anche la vendita di
una parte del patrimonio a fini di riequilibrio della
finanza pubblica.
 Sfugge  alle   Gli usi civici
 
classificazioni del
codice civile una categoria residuale di beni
caratterizzati
da regimi di proprietà collettiva. Si
pensi in particolare ai beni sui quali insistono i
cosiddetti usi civici, taluni dei quali di antichissima
tradizione, attribuiti a
componenti di collettività
(che ne usufruiscono appunto uti cives).
Alcuni
esempi sono i diritti attribuiti a collettività rurali
(come i diritti di
pascolo, di legnatico, di caccia, di
pesca, ecc.) esercitati su terreni di proprietà dei
comuni o anche di privati ora disciplinati in gran
parte da leggi regionali.
 
4. I beni
comuni e le
prospettive di riforma
Conviene dedicare un cenno ai
cosiddetti beni
comuni e alle prospettive di riforma del codice
civile.
Tradizionalmente i beni comuni sono le
res
communes ommium,   Le res communes
  ommium
 come l’aria,
il mare o
gli astri. Si tratta di
«cose» che, per riprendere la definizione del
codice
civile, non «possono formare oggetto di
diritti» perché non hanno la caratteristica
dell’appropriabilità (o escludibilità) da parte dei
singoli e dunque non sono
qualificabili come
«beni» in senso giuridico. Del resto, lo stesso
codice civile
annovera tra i beni soltanto «le
energie naturali che hanno valore economico» (art.
814). Non sono beni, perché non possono essere
sfruttate economicamente in base alle
tecnologie
oggi disponibili, per esempio le energie prodotte
dai raggi solari o dalle
maree, diversamente
dall’energia elettrica generata per esempio da una
centrale
idroelettrica.
 I beni comuni sono regolati da
convenzioni
internazionali e da norme europee soprattutto per
i profili di tutela
ambientale che ha assunto una
dimensione transnazionale. Essi non trovano una
disciplina
autonoma nel codice civile che li include
variamente tra i beni demaniali o
patrimoniali.
In seguito al progresso tecnologico
uno di questi
beni, l’etere  (lo   L’etere
 
spettro delle
frequenze
radio), ha assunto la natura di un bene
in senso proprio (patrimoniale indisponibile),
in
quanto costituisce una risorsa che può essere
attribuita in uso esclusivo a
determinati soggetti
per svolgere attività aventi anche rilevanza
economica (telefonia
mobile, trasmissioni radio e
televisive). Sono state così introdotte regole volte
a
disciplinarne la ripartizione e l’uso efficiente in
relazione alle varie finalità
pubbliche (difesa
militare, traffico aereo, ecc.) e private, anche al
fine di evitare
interferenze. Il Codice delle
comunicazioni elettroniche prevede l’elaborazione
417 di un piano nazionale per la ripartizione delle
frequenze dello
spettro radio. Inoltre impone
procedure concorsuali per l’attribuzione del diritto
all’uso delle frequenze a singoli operatori nei
settori della televisione o della
telefonia mobile
(bandite nel 2018 per lo sviluppo del 5G)
attraverso una concessione
amministrativa (art.
27). Stabilisce anche che i diritti d’uso dello
spettro radio
possono, a certe condizioni e previo
nullaosta del ministero competente, essere oggetto
di alienazione tra soggetti privati (cosiddetto
trading delle
frequenze) (art. 14).

  a qualche anno i beni comuni sono


al centro di
D
un dibattito  che si è   Il dibattito recente sui
  beni
comuni
focalizzato
principalmente su
due temi. Da un lato, alcuni beni stanno
acquisendo la caratteristica
della scarsità (si pensi
all’acqua, divenuto ormai un problema di
dimensione planetaria)
e richiedono dunque una
disciplina di tipo pubblicistico che ne impedisca il
sovraconsumo e il depauperamento; dall’altro, si è
prospettata l’esigenza di garantire
l’accesso e la
fruizione da parte della collettività su base
tendenzialmente paritaria.
  uest’ultima è emersa in
particolare con
Q
riferimento a una nuova gamma di beni cosiddetti
comuni («beni primari»)
collegati alla dimensione
dei diritti della cittadinanza (libertà di accesso al
cibo,
all’acqua, a internet, ecc.) [Rodotà 2012;
Arena e Iaione 2012]. Si tratta di beni «a
titolarità
diffusa» che, secondo alcune ricostruzioni [Mattei
2012], dovrebbero essere
gestiti in base ai principi
di solidarietà e di uguaglianza, anche in una
prospettiva
intergenerazionale di lungo periodo.
Essi dovrebbero cioè sfuggire alla dimensione
prettamente proprietaria, pubblica o privata,
recepita, come si è visto, dalla
Costituzione e dal
codice civile. Richiederebbero invece l’apertura
anche a prospettive comunitariste e a forme
gestionali caratterizzate da istituti di
democrazia
partecipativa (a cura per esempio di comunità di
utenti e di lavoratori). Si
tratta di prospettive per
lo più de jure condendo e che comunque
appaiono
difficili da formalizzare in una strumentazione
giuridica adeguata.
Vari comuni italiani (Bologna,
Siena, ecc.) hanno
approvato negli ultimi anni regolamenti sui beni
comuni che prevedono
forme di collaborazione tra
cittadini e amministrazione comunale per la cura e
la
rigenerazione di beni urbani (aree verdi, piazze,
edifici dismessi, ecc.).
Il regime dei beni delineato  dal codice
civile è
oggetto di discussioni   Il dibattito sul regime
  dei
beni
anche per altre
ragioni. Sono state
messe in rilievo le
incoerenze interne alla
disciplina codicistica e la disomogeneità dei beni
contenuti nei
vari elenchi. Per esempio, le foreste
che per legge costituiscono demanio forestale sono
incluse nel patrimonio indisponibile (art. 826,
comma 2). Inoltre gli elenchi si sono rivelati
incompleti e obsoleti alla luce dell’evoluzione
successiva. In essi non compaiono per
esempio
beni divenuti molto importanti come i beni
immateriali, le reti destinate a
servizi
pubblici, i
beni finanziari, ecc. Infine, come sottolineato in
realtà
già da tempo, la classificazione codicistica
ha natura soltanto formale poiché
«stabilisce il
regime delle diverse categorie di beni,
indipendentemente da quella che
ne è
l’utilizzazione sostanziale» [Giannini 1963, 29].
Dovrebbe invece essere preferita,
come si è visto,
una tassonomia che muova dalla rilevanza
economica e sociale e dagli
usi possibili dei singoli
beni e che configuri un regime giuridico
418 corrispondente alla
«sostanza» del bene.
 Queste e altre considerazioni
furono alla base
dell’istituzione  nel   Le proposte della
  commissione
Rodotà
2007 da parte del
ministero della
Giustizia di una commissione (presieduta da uno
dei maggiori giuristi
privatisti, Stefano Rodotà)
incaricata di elaborare uno schema di legge di
delega per la
modifica delle disposizioni del codice
civile in materia di beni pubblici.
L’articolato
rimasto senza seguito proponeva di superare la
distinzione tra beni
demaniali e patrimoniali e di
introdurre una nuova classificazione (beni comuni,
beni
pubblici e beni privati) in funzione delle
utilità sostanziali intrinseche ai beni e
includendo
anche i beni immateriali. I beni comuni erano
definiti in senso molto ampio
come «le cose che
esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti
fondamentali
nonché al libero sviluppo della
persona».
I  n giurisprudenza ,   Aperture
  giurisprudenziali
recependo questo recenti
tipo di sollecitazioni,
è emerso un
orientamento volto a superare la classificazione
rigida dei beni operata dal codice
civile attraverso
una lettura che fa leva su alcune disposizioni
costituzionali (artt.
2, 9, 42). Si è affermato in
particolare che ove un bene immobile, in virtù
delle sue
connotazioni intrinseche di tipo
ambientale e paesaggistico, possa essere
considerato
funzionale a interessi della comunità,
esso va qualificato come bene «comune». E ciò in
relazione all’esigenza interpretativa di «guardare al
tema dei beni pubblici oltre una
visione
prettamente patrimoniale-proprietaria per
approdare a una prospettiva
personale-
collettivistica» (C. cass., Sez. Un., 14 febbraio 2011,
n. 3665 e 16 febbraio
2011, n. 3811 in casi
riguardanti le valli da pesca nella laguna di
Venezia).
 
CAPITOLO 12

I contratti

419
1. Premessa

Come si è già accennato, le


amministrazioni
pubbliche  godono di   La capacità generale di
  diritto
privato delle
una capacità generale pubbliche
di
diritto privato. In amministrazioni

particolare esse
possono stipulare contratti per l’acquisto di beni
e
servizi e per l’esecuzione di lavori strumentali alle
loro attività e necessari per il
perseguimento delle
finalità di interesse pubblico. I contratti pubblici
rappresentano
una delle voci principali della spesa
pubblica (oltre il 15% del prodotto interno lordo
degli Stati europei) e costituiscono per molte
imprese una fonte rilevante di fatturato.
 Le amministrazioni esercitano
peraltro la loro
capacità generale di diritto privato non solo nel
public
procurement, cioè del settore delle commesse
pubbliche, ma anche in altri ambiti. Si pensi, per
esempio, a quelli, già esaminati, dei
contratti
collettivi e individuali disciplinanti i rapporti di
lavoro dei dipendenti
pubblici, delle convenzioni
tra il Servizio sanitario nazionale e le cliniche
private
accreditate, dei contratti di servizio
stipulati tra l’amministrazione titolare di un
servizio pubblico e gestori privati.
Allorché stipulano un contratto, le
amministrazioni, a differenza dei privati che sono
pienamente liberi di scegliere le
proprie
controparti contrattuali, sono soggette a regole di
natura pubblicistica volte a
tutelare gli interessi
delle stesse amministrazioni e a garantire la par
condicio tra i potenziali contraenti. Esse sono
contenute nel Codice dei
contratti pubblici
approvato con d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50.
La formazione della volontà
negoziale
dell’amministrazione e la scelta del contraente
avvengono cioè, come si è già
accennato nel
capitolo V, attraverso un procedimento
amministrativo a evidenza pubblica
di tipo
competitivo. Tale procedimento va a integrare le
regole del diritto privato
relative allo schema
proposta-accettazione di cui all’art. 1326 cod. civ.
Più  precisamente, la   Pubblico e privato nei
  contratti
pubblici
fase di formazione
del vincolo
contrattuale è retta da regole di
diritto pubblico e
si sviluppa in una sequenza procedimentale che
culmina
nell’emanazione di un provvedimento di
420 aggiudicazione; la fase
di esecuzione del contratto
è invece retta essenzialmente dalle regole del
diritto
privato.
I  l Codice dei contratti pubblici
riflette questa
impostazione ponendo due criteri di integrazione
della disciplina. Da un
lato, stabilisce che alle
procedure di affidamento dei contratti pubblici
(fase di
formazione del vincolo contrattuale) si
applicano, per quanto non espressamente previsto
dal Codice, le disposizioni sul procedimento
amministrativo di cui alla legge 7 agosto 1990, n.
241 (art. 30, comma 8); dall’altro, prevede che,
sempre per quanto
non espressamente previsto dal
Codice, «alla stipula del contratto e alla fase di
esecuzione si applicano le disposizioni del codice
civile» (art. 30, comma 8). Così, per esempio, da
tempo la
giurisprudenza ha affermato che alle
pubbliche amministrazioni si applica il principio
di
correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1337 cod. civ.)
che pertanto possono essere chiamate a
rispondere
a titolo di responsabilità precontrattuale.
In origine e per lungo tempo, la
disciplina dei
contratti della pubblica amministrazione è stata
contenuta nella
normativa sulla contabilità dello
Stato (r.d. 18 novembre 1923, n. 2440 e
regolamento approvato con
r.d. 23 maggio 1924, n.
824). Essa prevedeva procedure a evidenza
pubblica (il pubblico
incanto, nel linguaggio
dell’epoca) sia per i contratti attivi dello Stato, dai
quali
cioè deriva un’entrata (per esempio la
vendita di un immobile non più utilizzato per
finalità pubbliche), sia per i contratti passivi, che
comportano cioè un’uscita (per
esempio l’acquisto
di arredi).
La  collocazione della   La matrice
  «contabilistica» della
disciplina del disciplina
procedimento a
evidenza pubblica tra
le norme sulla
contabilità trovava spiegazione nel
fatto che essa mirava a garantire una gestione
corretta ed efficiente del danaro pubblico. Essa era
diretta principalmente ad
assicurare le condizioni
economiche più favorevoli all’amministrazione
mettendo in
concorrenza le imprese e a proteggere
l’amministrazione dal rischio di collusione tra
queste ultime. Da qui anche l’inserimento nel
codice penale di figure di reato come la
turbativa
d’asta e l’astensione dagli incanti (artt. 353 e 354
cod. pen.). Solo di riflesso le norme di contabilità
garantivano la par condicio dei partecipanti ed era
persino dubbio
se esse avessero natura esterna e
non meramente interna.
  uesti obiettivi venivano
perseguiti per mezzo di
Q
una serie minuta di regole formali e procedurali
relative alla
gara pubblica (per esempio, la
presentazione delle offerte in buste sigillate, la
tempistica dell’asta, le modalità di apertura delle
buste, ecc.) volte a escludere o
limitare il più
possibile la discrezionalità dell’amministrazione.
Una discrezionalità
eccessiva infatti poteva aprire
più facilmente la strada a fenomeni collusivi e
corruttivi tra imprese e funzionari infedeli. Non a
caso le due principali modalità di
selezione del
contraente erano l’asta pubblica aperta a tutti i
potenziali offerenti,
oppure la licitazione privata,
con la partecipazione delle imprese invitate dalla
stazione appaltante e la selezione dell’offerta
migliore sulla base di un solo parametro
vincolato,
e cioè il prezzo offerto.
A partire dagli anni Settanta e
Ottanta del secolo
scorso,  soprattutto   L’impostazione
  proconcorrenziale
in seguito al della disciplina
recepimento di una
serie di direttive
europee (da ultimo con il Codice), cambia
l’impostazione della disciplina. Essa pone ora
l’accento soprattutto sull’esigenza di
aprire il
421 mercato degli appalti pubblici alla concorrenza a
livello europeo in attuazione del principio di libera
circolazione intracomunitaria
delle merci e dei
servizi. Pertanto vengono introdotte regole volte a
promuovere la
pubblicità dei bandi di gara, la
trasparenza della procedura e la par
condicio.
L’apertura del mercato degli appalti pubblici alla
concorrenza
è vista come funzionale anche alla
crescita dimensionale delle imprese europee, così
da
renderle più competitive a livello globale.
I  noltre, le direttive europee
privilegiano un
approccio meno formalistico, flessibile e aperto a
momenti di confronto
tra l’amministrazione e le
imprese (in particolare, come si vedrà, con il
cosiddetto
dialogo competitivo e con altre forme
di partenariato pubblico-privato), che attribuisce
a
quest’ultima maggiori spazi di discrezionalità.
Nella visione europea un qualche
margine di
discrezionalità, lungi da essere considerato con
sospetto, consente
all’amministrazione di invitare
alla contrattazione le imprese ritenute più
affidabili e
di valutare meglio in concreto le offerte
valorizzando gli elementi qualitativi delle
medesime.
Il recepimento delle direttive
europee nel nostro
ordinamento si è scontrato con la difficoltà delle
stazioni
appaltanti (troppo numerose e poco
attrezzate sul piano tecnico e giuridico) e delle
imprese (spesso di piccole dimensioni) di gestire o
prendere parte a procedure più
flessibili, ma che
richiedono comunque la capacità di garantire la par
condicio e la trasparenza. Ciò spiega perché le
procedure più innovative
come il già richiamato
dialogo competitivo e le altre forme di
partenariato sono state
utilizzate di rado. Inoltre, il
settore degli appalti pubblici è particolarmente
esposto
in Italia a fenomeni corruttivi e di
infiltrazione mafiosa e ciò richiede norme speciali
volte a prevenirli.
Il nuovo Codice, come si vedrà,
cerca di
intervenire sulla struttura del mercato degli appalti
su più versanti:
rafforzando i poteri di vigilanza e
di regolazione dell’Autorità nazionale
anticorruzione; introducendo sia un sistema di
qualificazione delle stazioni appaltanti
volto a
valutare la loro capacità tecnica ad avviare e a
gestire le procedure di gara,
sia un sistema di rating
di impresa basato su requisiti
reputazionali e di
capacità strutturale ai fini della qualificazione
necessaria per la
partecipazione alle procedure;
istituendo un albo dei commissari per la
valutazione
delle offerte gestito dall’Autorità
nazionale anticorruzione. Si tratta di norme di tipo
organizzativo, che non sono di diretta applicazione
delle direttive europee le quali
disciplinano
soprattutto le procedure. Esse sono il frutto di una
scelta del legislatore
nazionale di voler tentare di
porre rimedio a una situazione non ottimale.
I contratti a evidenza
pubblica  sono un settore
della legislazione   Le fonti normative
 
amministrativa che,
come si è già accennato, ha subito maggiormente
l’influsso del
diritto europeo. Il Codice dei
contratti pubblici recepisce le direttive (UE)
2014/24
(appalti), (UE) 2014/25 (settori speciali) e
(UE) 2014/23 (che disciplina in modo
organico i
contratti di concessione di lavori e di servizi).
 Il Codice del 2016 ha sostituito il
precedente
approvato con d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 che già
aveva riordinato la
materia unificando in un solo
corpo normativo la disciplina delle forniture, dei
servizi
e dei lavori pubblici, recependo due
direttive europee ((CE) 2004/17 e (CE) 2004/18). Il
nuovo Codice è stato più volte modificato negli
422 ultimi anni (d.l. n. 32/2019
convertito in l. n.
55/2019; d.l. n. 76/2020, convertito nella l. n.
120/2020, dettato dall’emergenza sanitaria causata
dalla pandemia da Covid-19; d.l. n.
77/2021
convertito con l. n. 108/2021). Il Piano nazionale di
ripresa e resilienza
prevede una riforma organica
del Codice, da avviare con una legge di delega, al
fine di
semplificare il sistema normativo.
Al Codice si aggiungeva un
ponderoso regolamento
di esecuzione e attuazione, ora abrogato, che
disciplinava
soprattutto la progettazione,
l’aggiudicazione e l’esecuzione dei lavori pubblici
(d.p.r. 5 ottobre 2010, n. 207). Il regolamento,
sostituito
dal Codice, da una disciplina più
flessibile sottoforma di linee guida approvate
dall’Autorità nazionale anticorruzione, è stato
reintrodotto dal d.l. n. 32/2019, vista la preferenza
delle stazioni
appaltanti e degli operatori nei
confronti di una fonte più tradizionale, ma non è
stato
ancora emanato.
La disciplina generale stabilita a
livello statale è
adottata nell’esercizio della competenza legislativa
esclusiva statale
in materia di tutela della
concorrenza, ordinamento civile, nonché nelle
altre materie
cui è riconducibile lo specifico
contratto (art. 2, comma 1). Essa può essere
integrata dalle leggi
regionali che però, come ha
chiarito la Corte costituzionale (sentenza n.
401/2007), hanno spazi molto limitati di
adattamento. Ciò allo
scopo di evitare che il
mercato dei contratti pubblici sia regolato da
norme troppo
differenziate a livello locale tali da
distorcere la concorrenza.
Tra le fonti di disciplina dei
contratti pubblici
rientrano  anche i   I capitolati generali e
  speciali
cosiddetti capitolati
generali e speciali,
previsti già dalla normativa sulla contabilità dello
Stato, dei
quali è stata oggetto di discussione la
natura propriamente normativa (capitolati
generali) o contrattuale (capitolati speciali). Essi
possono contenere la disciplina di
dettaglio e
tecnica della generalità dei contratti o di specifici
contratti stipulati
dalle amministrazioni. Nei casi
in cui siano menzionati nel bando o in altri atti di
gara, i capitolati costituiscono parte integrante del
contratto. Per agevolare il
compito delle
amministrazioni l’Autorità nazionale
anticorruzione può predisporre
capitolati-tipo,
oltre che contratti-tipo (art. 213, comma 2).
I   contratti pubblici   Le fonti esterne al
  Codice
sono disciplinati per
aspetti specifici
anche da fonti esterne al
Codice. Può essere
sufficiente richiamarne alcune.
 
1. In primo luogo, la legge anticorruzione
(legge 6
novembre 2012, n. 190) individua tra i settori più a
rischio le
modalità per l’affidamento dei contratti
pubblici (art. 1, comma 16, lett. b)). Obbliga
pertanto le
stazioni appaltanti a pubblicare anche
sui propri siti internet istituzionali
una serie di
informazioni relative ai bandi pubblicati, agli
operatori invitati
a presentare l’offerta,
all’aggiudicatario, all’importo dell’aggiudicazione e
a
trasmetterle in formato digitale all’Autorità
nazionale anticorruzione (comma
32). Obblighi di
trasparenza di questo tipo sono ritenuti utili per
combattere i
fenomeni corruttivi. Il Codice
richiama anche la disciplina generale della
trasparenza contenuta nel d.lgs. 14 marzo 2013, n.
33.
Altre misure sono i cosiddetti patti di
integrità e i
protocolli di legalità sottoscritti dalla stazione
appaltante con
le imprese, contenenti impegni
finalizzati a garantire l’integrità dell’appalto.
Il
mancato rispetto delle clausole contenute nei
protocolli di legalità o nei
patti di integrità
costituisce causa di esclusione dalla gara (art. 1,
423 comma 17, l. n. 190/2012). Sono state
previste,
inoltre, le cosiddette white
lists, ossia degli elenchi,
da istituire presso le prefetture, di
imprese non
soggette a tentativi di infiltrazione mafiosa,
operanti in settori
di attività particolarmente
esposti all’azione della malavita organizzata, da
sottoporre a controlli periodici (art. 1, commi 52,
52-bis,
53, 54, 55 e 56).

2. In secondo luogo, il codice penale, come


si è già
accennato, contiene disposizioni che individuano
alcune figure
specifiche di reato (artt. 353 ss.). Esse
sono state integrate, in
particolare, con il reato di
turbata libertà del procedimento di scelta del
contraente (art. 353-bis). Questo reato è commesso
da chi
cerca di condizionare a proprio favore con
mezzi fraudolenti il contenuto del
bando di gara
che invece dovrebbe essere predisposto in modo
tale da favorire la
partecipazione su un piano di
parità di una molteplicità di imprese.

3. In terzo luogo, le imprese che


partecipano alle
gare pubbliche devono rispettare la normativa
antimafia e sono
soggette a obblighi di tracciabilità
dei flussi finanziari derivanti dalle
commesse
pubbliche anche nei rapporti con i subappaltatori e
i subcontraenti
(con l’apertura di conti correnti
bancari o postali dedicati alla singola
commessa)
così da prevenire infiltrazioni criminali (art. 3
legge 13 agosto 2010, n. 136).

4. Infine, il Codice del processo


amministrativo
dedica alcuni articoli alle controversie in materia
di contratti
pubblici (artt. 120 ss.) che, in
conformità alla direttiva
(CE) 2007/66 in materia
di procedure di ricorso, configurano un rito
speciale
accelerato volto a rendere più rapida ed
effettiva la tutela delle imprese che
partecipano
alle gare.
Nel complesso la disciplina dei
contratti pubblici,
da integrare con una casistica giurisprudenziale
molto copiosa, è
molto articolata e dettagliata e
costituisce ormai una branca specialistica del
diritto
amministrativo oggetto di corsi e di
trattazioni monografiche settoriali.
Sotto  il profilo   L’Autorità nazionale
  anticorruzione
organizzativo, al
mercato dei contratti
pubblici è preposta l’Autorità
nazionale
anticorruzione (ANAC) con funzioni di vigilanza,
controllo e regolazione dei
contratti pubblici (art.
213 Codice). L’ANAC ha assorbito le funzioni della
precedente Autorità di vigilanza sui contratti
pubblici (d.l. 24 giugno 2014, n. 90 convertito in
legge 11 agosto
2014, n. 14).
  ’Autorità è preposta alla
vigilanza e al controllo
L
sui contratti pubblici e svolge «attività di
regolazione degli
stessi» (art. 213, comma 1)
attraverso l’emanazione di «linee guida,
bandi-
tipo, capitolati-tipo, contratti-tipo e altri strumenti
di regolazione flessibile»
(comma 2).
L’attribuzione all’Autorità di
poteri di regolazione
molto ampi, ora peraltro ridimensionati dalla l. n.
55/2019, costituiva una delle principali novità del
nuovo Codice. Su di essa si era aperta una
discussione in dottrina e in giurisprudenza
in
ordine alla qualificazione giuridica delle singole
tipologie di atti (regolamenti,
atti amministrativi
generali, soft law?), anche atteso che il
Codice
prevede in termini generali la loro impugnabilità
innanzi al giudice
amministrativo. In particolare le
linee-guida, richiamate da vari articoli del Codice e
che sono adottate previa consultazione con le
categorie e i soggetti interessati e
l’analisi e la
verifica di impatto della regolazione, sono definite
in alcuni casi come
vincolanti, in altri casi come
non vincolanti. L’Autorità è anche titolare di poteri
424 ispettivi, può richiedere informazioni e documenti,
può
supportare le stazioni appaltanti nella
predisposizione degli atti e nella gestione
delle
procedure di particolare importanza (cosiddetta
vigilanza collaborativa), può
irrogare sanzioni
amministrative. L’Autorità gestisce una banca dati
nazionale dei
contratti pubblici, avvalendosi anche
di un apposito Osservatorio. In analogia con il
modello delle autorità indipendenti, formula
proposte e invia segnalazioni al governo e
al
parlamento.
L’Autorità gestisce un nuovo
sistema di
qualificazione  delle   La qualificazione delle
  stazioni
appaltanti
stazioni appaltanti e
delle
centrali di
committenza (art. 38), suddivise per ambiti di
attività, bacini
territoriali, fasce di importo, per le
quali è prevista l’iscrizione in un elenco. Ai
fini
della qualificazione, che ha una durata
quinquennale, ciascuna stazione appaltante
deve
dimostrare il possesso di una serie di requisiti, tra i
quali una capacità adeguata
di progettazione, di
gestire le procedure e di verificare l’esecuzione dei
contratti
attraverso una struttura organizzativa
dotata di personale professionalmente preparato,
ecc. Le stazioni appaltanti possono gestire le
procedure entro i limiti della
qualificazione
ottenuta. Il nuovo sistema, rimasto peraltro
inattuato, tende a
contrastare il fenomeno
dell’eccessivo numero di stazioni appaltanti che
spesso non sono
attrezzate in modo adeguato per
condurre procedure complesse e favorire forme di
aggregazione e di centralizzazione degli acquisti.
  ’Autorità gestisce anche il
sistema del rating  di
L
impresa applicabile ai   Il rating di
impresa
 
fini della
qualificazione delle
imprese (cioè dell’ammissione
alla partecipazione alle singole gare) attraverso il
rilascio di una certificazione ad opera della stessa
Autorità (art. 83, comma 10). Il sistema tende a
valutare i requisiti
reputazionali in base a indici
quantitativi e qualitativi (incluso il
rating di
legalità). Anche questo sistema mira a far sì che
siano ammesse a partecipare alle gare, a seconda
delle tipologie di attività e degli
importi, soltanto
le imprese affidabili, e ciò a garanzia dell’interesse
alla corretta
gestione dei contratti pubblici.
 L’Autorità gestisce e aggiorna
anche l’albo dei
componenti delle commissioni giudicatrici (art.
78) che devono essere
nominate per valutare le
offerte relative a contratti aggiudicati in base al
criterio
del miglior rapporto qualità/prezzo che,
come si vedrà, richiede valutazioni di tipo
qualitativo relative ai contenuti delle offerte. A
garanzia di una maggior imparzialità,
il Codice
introduce il principio del sorteggio dei commissari
(per ciascuna procedura di
gara) tra gli iscritti
all’albo (art. 77). Ai fini dell’iscrizione l’Autorità
accerta il
possesso di requisiti di moralità,
competenza e professionalità da essa stessa
definiti
in un atto di regolazione.
Un potere eccezionale attribuito
all’Autorità è
quello di impugnare innanzi al giudice
amministrativo gli atti emanati in
violazione della
normativa in materia di contratti pubblici (art. 211,
commi da
1-bis a 1-quater). Prima di agire in
giudizio l’Autorità invia alla stazione appaltante un
parere motivato che indica le
violazioni affinché
essa entro 60 giorni adotti le misure correttive
(per esempio,
annullando in autotutela il bando o
l’aggiudicazione).
In definitiva, l’Autorità nazionale
anticorruzione è
preposta alla regolazione e alla vigilanza sull’intero
425 sistema degli
appalti pubblici. Si tratta di una
scelta del legislatore
nazionale, non imposta dalle
direttive europee, giustificata dall’obiettivo di
rendere
più efficiente, più concorrenziale e meno
esposto a fenomeni corruttivi, ancora
piuttosto
diffusi, il sistema dei contratti pubblici. Sul ruolo
dell’Autorità è peraltro
in corso una discussione
che potrebbe determinare un ripensamento del
modello.
La disciplina dei contratti
pubblici  contenuta nel
Codice è stata   Modifiche legislative
  recenti
oggetto di
numerose
critiche rivolte
contro la sua complessità, le difficoltà
organizzative delle
stazioni appaltanti, le
incertezze applicative all’origine di un vasto
contenzioso, i
conseguenti ritardi nella
realizzazione degli investimenti. Così, nelle more
di
un’annunciata rivisitazione integrale del Codice,
il d.l. 14 dicembre 2018, n. 145 e la
legge di bilancio
30 dicembre 2018, n. 145 (art. 1, comma
912) hanno
introdotto alcune misure di semplificazione,
talune a carattere
transitorio. Numerose deroghe e
modifiche puntuali al Codice sono previste dalla l.
n. 55/2019, in particolare in materia di subappalto,
di
soglie numeriche per il ricorso a procedure
semplificate, di nomina di commissione di
gara,
ecc. Il d.l. n. 76/2020 ha ancora elevato le soglie
per il ricorso alle procedure
semplificate; ha
introdotto un regime derogatorio per gli
affidamenti sopra soglia in
taluni settori; ha
previsto norme temporanee per l’esecuzione dei
contratti, ha
introdotto alcune modifiche alla
disciplina generale. Il d.l. n. 77/2021 ha previsto
ulteriori misure di semplificazione, intervenendo
per esempio ancora sul subappalto, e
ha dettato
disposizioni specifiche per gli interventi finanziati
con i fondi del Piano
nazionale di ripresa e
resilienza. In realtà, al di là del nomen
«Codice», la
disciplina in materia di contratti pubblici continua
a essere instabile.
 
2. I
principi generali e il campo
di applicazione del Codice
dei contratti pubblici
La logica proconcorrenziale della
regolazione del
mercato dei contratti pubblici emerge dai principi
generali enunciati
dal Codice dei contratti
pubblici.
L’art. 30, comma 1, stabilisce 
che l’affidamento dei
contratti pubblici   I principi del Codice
 
deve garantire la
qualità delle prestazioni e
deve svolgersi nel
rispetto dei «principi di economicità, efficacia,
tempestività e
correttezza» e «dei principi di libera
concorrenza, non discriminazione, trasparenza,
proporzionalità, nonché quello di pubblicità».
  ertanto, le stazioni appaltanti
«non possono
P
limitare in alcun modo artificiosamente la
concorrenza allo scopo di
favorire o svantaggiare
indebitamente taluni operatori economici»
(comma 2).
Il Codice, tuttavia, tiene conto
anche di altri
interessi pubblici richiedendo il rispetto degli
obblighi in materia
ambientale, sociale e del lavoro
previsti dalla normativa vigente (comma 3) e
prevedendo
che i criteri di partecipazione alle gare
devono essere tali da non escludere le
microimprese, le piccole e le medie imprese
(comma 7).
Un temperamento    Gli «appalti verdi»
 
del principio di
economicità è costituito dai cosiddetti
«appalti
verdi». Le stazioni appaltanti possono infatti
individuare nel bando di gara o
nel capitolato
426 criteri tecnici volti a favorire le offerte di
beni e
servizi che presentino soluzioni (materiali,
tecnologie, ecc.) ecocompatibili.
Più
specificamente, il metodo di aggiudicazione del
miglior rapporto qualità/prezzo, che
verrà
analizzato nel prossimo paragrafo, annovera tra i
possibili criteri di valutazione
dell’offerta e dunque
di attribuzione dei punteggi «le caratteristiche
ambientali e il
contenimento dei consumi
energetici e delle risorse ambientali» (art. 95,
comma 6, lett. a)).
 Un altro esempio di uso cosiddetto
strategico degli
appalti per il perseguimento di finalità
pubblicistiche è costituito
dai cosiddetti «appalti
sociali», nei quali all’appaltatore è richiesto di
avvalersi di
particolari categorie svantaggiate di
lavoratori.
In buona sostanza la stazione
appaltante in sede di
definizione delle regole della procedura gode di
un’ampia
discrezionalità per orientare la propria
politica degli acquisti tenendo conto di una
pluralità di interessi.
Il Codice  modula le   Il campo di
  applicazione del
procedure di Codice
affidamento dei
contratti in funzione
del livello di rischio di distorsione della
concorrenza dal lato della domanda di beni,
servizi
e lavori.
 Quanto più i soggetti committenti
operano in
contesti non concorrenziali e possono essere
dunque influenzati nel loro
agire da ragioni
extraeconomiche, tanto più elevato è il rischio che
la scelta dei
propri fornitori tenda a favorire
determinate imprese, per esempio a causa di
contiguità
politiche, complicità affaristiche o altri
interessi privati, alterando così la
concorrenza.
Pertanto il Codice impone procedure rigorose per
la scelta del contraente.
Viceversa, quanto più
forte è la pressione concorrenziale nei mercati in
cui operano i
committenti, tanto minore è il
rischio che la scelta dei propri fornitori sia dettata
da
ragioni extraeconomiche e che venga alterata la
concorrenza. Pertanto il Codice prevede
procedure
meno formalizzate.
A questo criterio si attiene il
Codice nel definire
l’ambito soggettivo e oggettivo di applicazione
delle norme in esso
contenute.
  L’ambito soggettivo di
  applicazione del
1. Alcuni 
Codice
committenti operano
per
definizione fuori
dal mercato. Essi sono anzitutto le pubbliche
amministrazioni di tipo
tradizionale incluse nella
definizione di «amministrazioni aggiudicatrici».
Questa
include infatti «le amministrazioni dello
Stato; gli enti pubblici territoriali; gli
altri enti
pubblici non economici» (art. 3, comma 1, lett. a))
ai quali si applica, come si è
già accennato nel
capitolo VIII, il regime più garantista e
formalizzato previsto per le
procedure di scelta del
contraente. Questi soggetti, lungi dall’esercitare le
proprie
funzioni in base a una logica economica,
agiscono per il perseguimento di interessi
pubblici
senza subire alcuna pressione concorrenziale.
 Ma la definizione di
«amministrazioni
aggiudicatrici» include, come si è accennato nel
capitolo VIII, anche
gli «organismi di diritto
pubblico» (comma 1, lett. d)), cioè soggetti
pubblici o anche privati
che, in ragione della loro
missione e dei collegamenti organizzativi con
pubbliche
amministrazioni, possono essere
condizionati nella politica degli acquisti da ragioni
extraeconomiche.
L’organismo  di   L’organismo di diritto
  pubblico
diritto pubblico
viene individuato
sulla base di tre
parametri che devono essere
compresenti. In primo luogo, deve trattarsi di un
soggetto
con personalità giuridica, pubblica o
privata. In secondo luogo, deve essere istituito
427 «per soddisfare specificamente esigenze di
interesse generale,
aventi carattere non industriale
o commerciale». Deve cioè trattarsi di un soggetto
che
non persegue fini di lucro, non opera in
normali condizioni di mercato, non sopporta i
rischi connessi alla propria attività (in particolare
in caso di perdite). In terzo
luogo, deve trattarsi di
un soggetto sottoposto a un’influenza dominante
da parte di una
pubblica amministrazione o di un
ente pubblico che può manifestarsi in base a uno o
più
dei seguenti parametri: a) finanziamento
maggioritario
dell’attività da parte di un soggetto
pubblico, sotto forma di erogazioni concesse senza
che ad esse corrisponda, in modo sinallagmatico,
una controprestazione;
b) controllo sulla gestione,
inteso come titolarità della
maggioranza delle
azioni o quote della società; c) designazione da
parte di un soggetto pubblico della maggioranza
dei componenti dell’organo di
amministrazione,
direzione o vigilanza.
 In applicazione dei tre parametri,
la
giurisprudenza ha qualificato come organismo di
diritto pubblico anche alcune imprese
formalmente private (come, per esempio, la
Società autostrade, le Ferrovie dello Stato,
le Poste
italiane, la RAI, la Cassa depositi e
prestiti, ecc.).
Il Codice  menziona   Le imprese pubbliche e
  le imprese
titolari di
inoltre le «imprese diritti speciali o
pubbliche» (operanti, esclusivi

come
chiarito qui di
seguito, nei cosiddetti settori speciali), che sono
sottoposte però a
regole meno stringenti in quanto
si assume che esse, rispetto alle amministrazioni
aggiudicatrici, ispirino la loro azione a una logica
essenzialmente economica (art. 3, comma 1, lett.
t)). Le imprese pubbliche sono quelle
sulle quali le
amministrazioni aggiudicatrici «possono
esercitare, direttamente o
indirettamente,
un’influenza dominante». Quest’ultima si desume
induttivamente dal fatto
che le amministrazioni
aggiudicatrici siano proprietarie o abbiano una
partecipazione
finanziaria nell’impresa pubblica o
comunque dal regime giuridico di quest’ultima.
L’influenza dominante è comunque presunta se le
amministrazioni aggiudicatrici detengono
la
maggioranza del capitale, controllano la
maggioranza dei voti o hanno il diritto di
nominare
la maggioranza dei membri del consiglio di
amministrazione, di direzione o di
vigilanza
dell’impresa.
  lcune disposizioni del Codice si
applicano infine
A
alle imprese private che «operano in virtù di diritti
speciali o
esclusivi» concessi per legge o sulla base
di un provvedimento di una pubblica
amministrazione e che sono incluse nella categoria
più generale di «enti aggiudicatori»
(art. 3, comma
1, lett. e)). Si pensi per esempio a una
società
petrolifera privata concessionaria del diritto di
effettuare ricerche e di
estrarre minerali o
idrocarburi. Proprio in virtù dei privilegi concessi,
che si
sostanziano nel fatto che l’esercizio di
un’attività è riservata a uno o pochi soggetti,
queste imprese sono meno sensibili alla pressione
concorrenziale.
Le imprese pubbliche e quelle
titolari di diritti
 speciali o esclusivi   I cosiddetti settori
  speciali
rientrano nel
campo
di applicazione del
Codice solo ove operino nei cosiddetti «settori
speciali» che
sono principalmente i seguenti:
energia elettrica e gas, acqua, servizi postali, porti
e
aeroporti (artt. 114 ss.). Si tratta di settori non
ancora aperti a una
concorrenza piena, che
rientrano tradizionalmente nella nozione di
servizio pubblico e
nei quali gli operatori agiscono
secondo moduli imprenditoriali. Per essi appare
428 meno
giustificata l’applicazione integrale delle
regole procedurali
previste per i «settori ordinari».
Pertanto il Codice attenua la rigidità delle
procedure individuando come modalità ordinaria
di scelta del contraente la procedura
negoziata
previa pubblicazione di un bando (art. 123), più
flessibile rispetto alle
procedure aperte o ristrette,
che invece è ammessa nei «settori ordinari» solo in
pochi
casi tassativi (art. 62).
  uttavia, una volta che in uno
Stato membro
T
l’attività posta in essere nell’ambito dei «settori
speciali», in seguito
ai processi di liberalizzazione,
«è direttamente esposta alla concorrenza su
mercati
liberamente accessibili» (art. 8), può
essere attivato un procedimento per esentarli
dall’applicazione del Codice. Il procedimento di
esenzione è promosso dal ministro delle
Politiche
comunitarie di concerto con il ministro
competente per il settore oppure da un
ente
aggiudicatore attraverso una notifica alla
Commissione europea la quale, accertate
le
condizioni di concorrenza effettiva, adotta una
decisione (per esempio, nel 2011
l’esenzione
disposta per l’estrazione di petrolio e gas
naturale).

2. Il Codice dedica alcune disposizioni anche


 all’ambito oggettivo   L’ambito oggettivo di
  applicazione del
di applicazione delle Codice
norme,
individuando
in un elenco alcune
tipologie dei contratti esclusi in tutto o in parte
dalla disciplina generale (artt. 5 ss.). In tale elenco
figurano, per esempio, i
contratti di acquisto e
vendita di strumenti finanziari, i contratti di
acquisto o
locazione di beni immobili, i contratti
relativi a produzioni televisive e ai settori
delle
comunicazioni elettroniche, i contratti per
l’acquisto di acqua o di energia
elettrica, ecc. Per
ciascuno di essi la direttiva (UE) 2014/24 specifica
nei
considerando le ragioni particolari che ne
giustificano l’esclusione totale o parziale.
  ’affidamento dei contratti
esclusi , pur non
L
dovendo rispettare le   I contratti esclusi ed
  «estranei»
regole
procedurali
poste dal Codice,
deve comunque avvenire nel rispetto dei principi
generali
di «economicità, efficacia, imparzialità,
parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità, pubblicità, tutela dell’ambiente ed
efficienza energetica» (art. 4).
Infatti, anche se per
i contratti esclusi la disciplina del Codice appare
troppo rigida,
non di meno devono valere i principi
desumibili dall’ordinamento giuridico dell’Unione
europea e in particolare quelli posti dai Trattati,
come la libertà di circolazione dei
beni e dei
servizi. Dai contratti esclusi vanno tenuti distinti i
contratti «estranei»
che hanno per oggetto attività
del tutto al di fuori dei settori di intervento delle
direttive europee – per esempio il servizio di
vigilanza di immobili da parte di
un’impresa
pubblica operante in uno dei settori speciali, come
chiarito dal Consiglio di
Stato (Cons. St., Ad.
Plen., 1 agosto 2011, n. 16) – e ai
quali pertanto si
o

applica esclusivamente la disciplina privatistica.


I  n aggiunta alle disposizioni
relative all’ambito
soggettivo e oggettivo, il Codice indica anche altri
criteri per
individuare la disciplina di volta in volta
applicabile: l’importo e l’oggetto del
contratto.

1. Sulla scia del diritto europeo, il Codice delinea


infatti un  regime   I contratti «sopra
  soglia» e
«sotto soglia»
diversificato per i
cosiddetti contratti
«sopra
soglia», cioè quelli di rilevanza europea
(art. 3, comma 1, lett. e)), e per quelli «sotto
soglia»,
cioè che non superano l’importo minimo
stabilito dalle direttive europee per i contratti
aventi per oggetto forniture, servizi o lavori (art. 35
429 che indica
rispettivamente per i contratti dei
settori ordinari gli
importi di 135.000 euro,
209.000 euro, 5.225.000 euro, soggetti a un
aggiornamento
periodico da parte della
Commissione europea). Per i contratti «sopra
soglia» si
applicano integralmente le procedure
stabilite dalle direttive europee e trasfuse nel
Codice. Per i contratti «sotto soglia» il diritto
europeo ritiene sufficiente
l’applicazione dei
principi generali desumibili dai trattati. L’opzione
fatta propria
dal Codice è però quella di prevedere
anche per questi appalti procedure tipizzate sia
pur semplificate. Per esempio il Codice non
impone oneri di pubblicità a livello
sovranazionale,
rende facoltativo il cosiddetto avviso di
preinformazione, consente in
certi casi
l’esclusione automatica delle offerte anomale, ecc.
(artt. 36 ss.). Per i contratti di importo minore
(40.000
euro per i lavori) consente l’affidamento
diretto senza alcun confronto competitivo
(art.
36). Tale importo è stato, peraltro, elevato
temporaneamente dal d.l. n. 32/2019 dal d.l. n.
76/2020 e da ultimo dal d.l. n.
77/2021 per finalità
acceleratorie.
 
2. Un ulteriore criterio per individuare il regime
applicabile si
riferisce all’oggetto del contratto.
Come  già anticipato,   I contratti di lavori, di
  fornitura di beni, di
i contratti pubblici servizi
possono avere per
oggetto la
realizzazione di
lavori (progettazione ed
esecuzione), la fornitura di beni (acquisto di
prodotti), la
prestazione di servizi (art. 3, comma 1,
lett. ll), ss), tt)). Il Codice li
sottopone a una
disciplina tendenzialmente unitaria, anche se
prevede ancora una
disciplina speciale piuttosto
articolata per i lavori.
 Per questi ultimi, in passato
disciplinati da corpi
legislativi separati (in particolare la cosiddetta
legge Merloni n. 109/1994 approvata in reazione
agli
scandali di Tangentopoli e più volte
modificata), il Codice contiene molte regole
speciali riferite soprattutto alla programmazione,
alla progettazione e all’esecuzione
dei lavori, al
coordinamento tra amministrazioni nell’ambito di
conferenze di servizi
(artt. 126 ss.).
  La concessione di
  lavori e
servizi
2a) Il
Codice 
prevede infatti che i
lavori e i servizi possano
essere affidati anche
attraverso lo strumento della concessione (artt. 3,
comma 1, lett. uu), e 164 ss.) che costituisce una
tipologia contrattuale autonoma rispetto a quella
dell’appalto pubblico (art. 3, comma 1, lett. ii)).
  a concessione di lavori o di
servizi è un contratto
L
avente per oggetto non soltanto la realizzazione
dei lavori ma
anche la gestione dell’opera o del
servizio. Da quest’ultima derivano ricavi che
mettono
in condizione il concessionario di
recuperare nel tempo i costi e di realizzare un utile
d’impresa (si pensi, per esempio, alla costruzione
di un parcheggio a pagamento o di
un’autostrada a
pedaggio). In pratica, l’istituto della concessione
consente alla
stazione appaltante di evitare o di
limitare gli esborsi finanziari a proprio carico.
L’affidamento delle concessioni avviene in modo
meno formalizzato e anzi il Codice
attribuisce alle
stazioni appaltanti un’ampia libertà di organizzare
la procedura per la
scelta del concessionario (art.
166), sempre nel rispetto dei principi generali già
esaminati (art. 173, comma 1, che richiama l’art.
30).

2b) La
cosiddetta finanza di progetto (project
financing)  (artt. 183   La finanza di progetto
 
ss. Codice) è una
tecnica particolare di
realizzazione dei lavori
pubblici, alternativa allo strumento della
concessione,
sperimentata con successo
soprattutto nei Paesi anglosassoni e che mira ad
430 azzerare o a
ridurre al minimo gli oneri economici
a carico dello Stato.
Essa prevede il
coinvolgimento di una pluralità di soggetti privati
e, in particolare,
di un promotore privato che
propone all’amministrazione il progetto da
realizzare e di
soggetti finanziatori (banche e altri
investitori). Al promotore è attribuito un diritto
di
prelazione nel caso in cui non risulti aggiudicatario
all’esito della procedura
competitiva per
l’affidamento della concessione. Al termine della
procedura di gara
l’aggiudicatario costituisce una
società di progetto per realizzare ed
eventualmente
gestire l’infrastruttura. La società
di progetto può finanziarsi sul mercato anche
emettendo obbligazioni.
  ella finanza di progetto, così
come nelle altre
N
forme di partenariato pubblico-privato, emerge la
dimensione
collaborativa del rapporto tra pubblica
amministrazione e soggetti privati che
costituisce,
come già accennato, una delle tendenze più
significative degli ultimi anni.
Le proposte,
contenenti il progetto di fattibilità, la bozza di
convenzione e il piano
economico-finanziario, ove
valutate positivamente dall’amministrazione sotto
il profilo
della coerenza con l’interesse pubblico,
possono essere oggetto di una procedura
competitiva a evidenza pubblica per la scelta
dell’impresa che realizza l’opera.
L’amministrazione può chiedere al promotore le
modifiche progettuali ritenute
necessarie. Il
promotore che non viene scelto all’esito della
procedura ha comunque
diritto al rimborso delle
spese sostenute, entro un massimale
predeterminato, e ciò come
riconoscimento del
contributo fattivo dato all’amministrazione.
La finanza di progetto costituisce
una delle forme
di partenariato pubblico-privato alle quali fa
riferimento il Codice
(art. 3, comma 1, lett. eee) e
artt. 180 ss.). Come si è già anticipato, questa
forma di
collaborazione tra soggetti pubblici e
privati per la realizzazione e la gestione di
opere o
servizi prevede che l’operatore economico privato
prescelto all’esito della
procedura si assuma
l’intero rischio. Per garantire l’equilibrio
economico-finanziario
l’amministrazione in sede
di gara può prevedere un contributo finanziario
pubblico
diretto o indiretto (per esempio, la
cessione di un immobile) (art. 180, comma 6).
Altre specie di partenariato previste
dal Codice
sono per esempio la locazione finanziaria di opere
pubbliche (art. 187), il
contratto di disponibilità
(art. 188), il coinvolgimento di privati e
associazioni non
profit nella gestione di spazi verdi
urbani, piazze o strade o altri beni immobili
inutilizzati (interventi di sussidiarietà orizzontale
e baratto amministrativo di cui
agli artt. 189 e 190).
Per le infrastrutture di importo
superiore a cento
milioni di euro qualificate dal governo come
strategiche l’affidamento
può avvenire a favore del
cosiddetto contraente generale ( general
contractor), cioè di un   Il general
contractor
 
soggetto dotato di
adeguate
capacità organizzative, di esperienza e di
qualificazione che si fa carico della
realizzazione
dell’intera opera, incluso lo sviluppo del progetto
definitivo e le
attività tecnico-amministrative
(espropriazione delle aree, valutazione di impatto
ambientale, ecc.) in luogo dell’amministrazione
(art. 194). Quest’ultima in pratica
commissiona
431 l’opera «chiavi in mano».
 
3. Le
procedure di affidamento

L’affidamento dei contratti


pubblici avviene
tramite un procedimento articolato in più fasi (art.
32).
Esso è avviato sulla base di atti
di programmazione
volti a individuare le priorità anche in relazione
alle risorse
finanziarie disponibili (per esempio,
secondo l’art. 21, il programma triennale per i
lavori pubblici o il programma biennale degli
acquisti di beni e servizi). In vista
della
preparazione dell’appalto e dello svolgimento della
procedura le stazioni
appaltanti possono svolgere
consultazioni preliminari di mercato e acquisire
consulenze
o relazioni di esperti allo scopo di
disporre di tutte le informazioni utili (art. 66).
Per
le grandi opere infrastrutturali, il Codice prevede,
come forma di trasparenza e di
partecipazione, il
dibattito pubblico (art. 22). Quest’ultimo è indetto
dalla stazione
appaltante, che pubblica un dossier
di progetto dell’opera, ed è condotto da un
coordinatore che dà conto in una relazione finale,
in modo imparziale, delle posizioni
delle parti che
partecipano al dibattito (d.p.c.m. 10 maggio 2018,
n. 76).

1. L’avvio del procedimento  da parte delle


amministrazioni   La delibera a contrarre
  e il
bando di gara
aggiudicatrici è
disposto dalla
cosiddetta delibera a contrarre. Essa
consiste in
un atto interno dell’amministrazione che individua
gli elementi essenziali
del contratto e i sistemi di
selezione dei contraenti. Segue di regola la
predisposizione e pubblicazione di un bando di
gara, che deve essere redatto in
conformità ai
bandi-tipo predisposti dall’Autorità nazionale
anticorruzione volti a
migliorare la qualità dei
documenti di gara e a diffondere le best practices
(art. 71). Le stazioni appaltanti possono discostarsi
dai bandi-tipo, ma
devono fornire nella delibera a
contrarre un’adeguata motivazione (art. 71, ultimo
periodo, che si ispira così al modello di
regolazione
definito come comply or explain al quale si è fatto
riferimento nel capitolo II). Il bando deve essere
redatto secondo i modelli uniformati
a livello
europeo e deve contenere le informazioni relative
allo svolgimento della
procedura (requisiti di
idoneità tecnica e finanziaria richiesti alle imprese
per la
partecipazione, documentazione da
produrre, termini, criteri di selezione, punteggi,
ecc.) e all’oggetto del contratto. Ad esso è
usualmente allegato uno schema di
contratto, un
capitolato tecnico e, nel caso di lavori pubblici, il
progetto (a seconda
del tipo di procedura, il
progetto preliminare, definitivo o esecutivo). Le
modalità di
pubblicazione del bando sono oggetto
di una disciplina particolareggiata volta a
favorire
la massima diffusione delle informazioni e ad
assicurare termini minimi per la
presentazione
della domanda da parte delle imprese che
intendano partecipare alla
procedura (artt. 72-73).
  ella redazione del bando, che
insieme agli altri
N
 documenti   La discrezionalità della
  lex specialis
predisposti dalla
stazione
appaltante
costituisce la lex specialis della gara,
l’amministrazione gode di ampia discrezionalità
soprattutto per quanto riguarda
l’individuazione
dell’oggetto del contratto, dei requisiti minimi di
partecipazione, dei
criteri di valutazione delle
offerte. La discrezionalità deve essere esercitata
secondo
criteri di ragionevolezza e di
proporzionalità in modo tale da garantire la
par
condicio e una concorrenza effettiva. In particolare i
432 requisiti di idoneità tecnica e finanziaria (che
servono a
precludere la partecipazione alla
procedura di imprese non idonee) devono essere
proporzionati rispetto all’oggetto del contratto. Se,
per esempio, il valore di
quest’ultimo è di un
milione di euro, sarebbe illegittimo il bando che
richiedesse alle
imprese un fatturato annuo medio
negli anni precedenti relativo a contratti similari di
cinquanta milioni di euro. Inoltre prescrizioni
tecniche riferite al bene oggetto di
fornitura non
devono restringere in modo irragionevole la
partecipazione a uno solo o a
un numero
ristrettissimo di produttori di quel tipo di bene (i
cosiddetti «bandi
fotografia»), escludendo i
produttori di beni sostanzialmente analoghi.
I  l bando di gara non costituisce
un atto
immediatamente lesivo e può essere impugnato
insieme all’atto conclusivo del
procedimento cioè
all’aggiudicazione. Ciò a meno che esso abbia un
carattere
immediatamente escludente, allorché
dalla lettura delle sue clausole emerge una
discriminazione evidente a danno di potenziali
partecipanti tale da precludere la
partecipazione.
In questo caso il bando deve essere impugnato
subito (Cons. St., Ad.
Plen., 26 aprile 2018, n. 4).
Per consentire la partecipazione
alle gare anche di
imprese di   I consorzi, i
  raggruppamenti
 dimensioni inferiori temporanei d’imprese,
o prive
di tutti i l’avvalimento

requisiti richiesti dal


bando, intervengono alcuni istituti come i
consorzi
stabili, i raggruppamenti temporanei di
imprese, l’avvalimento.
I  consorzi stabili devono essere
formati da almeno
tre imprese che si impegnino a operare in modo
congiunto nel settore
dei contratti pubblici per
almeno cinque anni (art. 45, comma 2, lett. c)).
I raggruppamenti temporanei
d’imprese sono
invece istituiti con riferimento a una singola
procedura di gara e non
richiedono la costituzione
di un’entità giuridica separata. È sufficiente infatti
una
regolamentazione pattizia con l’attribuzione
di un mandato all’impresa «capofila»
(mandatario)
che assume la rappresentanza delle altre imprese
(mandanti) e la
responsabilità principale nei
confronti della stazione appaltante (art. 48). I
raggruppamenti possono essere verticali, quando
le imprese si impegnano a svolgere
prestazioni
qualitativamente distinte individuate nel bando
come principali o
secondarie, o orizzontali,
quando le imprese si suddividono il medesimo tipo
di
prestazione richiesta in percentuali
predeterminate e specificate nell’offerta (commi 1
e 2).
L’avvalimento è un istituto che
consente a
un’impresa che partecipa alla procedura di
usufruire dei requisiti di
carattere economico,
finanziario, tecnico o organizzativo richiesti dal
bando e che essa
non possiede rivolgendosi a
un’impresa (ausiliaria) che si impegna
contrattualmente a
metterli a disposizione
dell’impresa che presenta l’offerta (art. 89).
  Le procedure aperte,
  ristrette e
negoziate
2. La  seconda fase
del procedimento è
quella di selezione dei partecipanti con uno dei
sistemi indicati nel bando tra quelli
previsti dal
Codice (artt. 59 ss.). Quest’ultimo individua tre
tipi principali di
procedure: procedure aperte,
ristrette e negoziate.
  e procedure aperte
(corrispondenti al sistema
L
tradizionale dell’asta pubblica) sono quelle nelle
quali
ciascun operatore economico interessato può
presentare un’offerta; le procedure
ristrette
(corrispondenti al sistema tradizionale della
licitazione privata e
dell’appalto concorso) sono
433 quelle alle quali ogni operatore
economico può
chiedere di partecipare, ma possono presentare
un’offerta soltanto coloro
che vengono invitati
dalle stazioni appaltanti; le procedure negoziate,
ammesse in via
eccezionale nei casi tassativamente
indicati dal Codice, sono quelle nelle quali
l’amministrazione consulta, con modalità meno
formalizzate, gli operatori economici da
essa
prescelti e negozia con uno o più di essi le
condizioni del contratto.
Le procedure negoziate sono a loro
volta di due
tipi a seconda che sia richiesta o meno la
pubblicazione di un bando (artt.
62 e 63). Per
esempio, essa non è richiesta quando per ragioni di
natura tecnica o
artistica vi sia un solo fornitore
sul mercato, oppure in casi di estrema urgenza,
dovuta a eventi imprevedibili per le stazioni
appaltanti. Le procedure negoziate si
svolgono in
modo meno formalizzato e attribuiscono alle
stazioni appaltanti una
discrezionalità più ampia.
In particolare nelle procedure competitive con
pubblicazione
di un bando esse possono articolare
la negoziazione in fasi successive per ridurre il
numero delle offerte iniziali o per richiedere
offerte migliorative, rispettando sempre
il
principio della par condicio (art. 62, commi 7 e 11).
Nelle  procedure   La prequalifica
 
ristrette e in quelle
negoziate la fase della valutazione delle offerte è
preceduta da una fase cosiddetta di prequalifica,
nella quale le stazioni appaltanti
selezionano le
imprese da invitare a presentare l’offerta che siano
in possesso di
requisiti minimi predeterminati tali
da garantire la serietà del potenziale contraente
chiamato a partecipare alla gara. I criteri di questa
selezione preliminare sono
indicati nel bando e
devono essere oggettivi (per esempio, aver svolto
negli anni
precedenti attività analoghe per un
ammontare di fatturato non inferiore a una certa
somma), non discriminatori e proporzionati (art.
91). In ogni caso il Codice prevede un
numero
minimo di candidati da invitare in modo da
assicurare una concorrenza effettiva
(art. 92).
 L’art. 83, comma 8, del Codice prevede  che i casi di
esclusione dalle   Tassatività delle
  clausole di
esclusione
procedure per e soccorso istruttorio
irregolarità o
carenza
di requisiti sono solo
ed esclusivamente quelli espressamente previsti
dal
Codice. I bandi e le lettere di invito non
possono aggiungerne altri e ciò al fine di
favorire la
massima partecipazione. Inoltre, sempre allo
stesso fine, il Codice limita
la possibilità di
escludere le offerte per carenze formali
imponendo alle stazioni
appaltanti di operare il
cosiddetto soccorso istruttorio (art. 83, comma 9).
È stata cioè posta una distinzione tra
irregolarità
«essenziali» e «non essenziali» della
documentazione prodotta dai
concorrenti: le
prime sono comunque di regola sanabili; le
seconde non danno luogo a
doveri di
regolarizzazione (art. 83, comma 9). Si attenua così
il tradizionale
formalismo nelle procedure di gara.
 
3. La terza fase è quella della valutazione delle
offerte che  serve a   La valutazione delle
  offerte
individuare, tra i
partecipanti alla
procedura,
l’impresa con la quale
l’amministrazione stipulerà il contratto. A questo
fine l’art. 95 del Codice individua due criteri per
individuare
l’offerta economicamente più
vantaggiosa: il prezzo più basso, che assicura la
massima
oggettività nella valutazione con
esclusione di ogni discrezionalità; il miglior
rapporto qualità/prezzo, che invece richiede una
valutazione discrezionale degli
elementi di tipo
qualitativo. Il criterio del minor prezzo è previsto
434 solo in casi
tassativi nei contratti soprasoglia
(comma 4). Nei contratti
sottosoglia il criterio del
prezzo più basso costituisce invece ora la regola
(art. 36,
comma 9-bis, aggiunto dalla l. n. 55/2019).
I  n realtà, il criterio del
rapporto qualità/prezzo 
costituisce il criterio   Il criterio del rapporto
  qualità/prezzo
privilegiato dalle
direttive europee
che, come detto, non vedono con sfavore la
discrezionalità. Gli aspetti qualitativi possono
riguardare per esempio il pregio
tecnico, le
caratteristiche estetiche e funzionali, le
caratteristiche ambientali, il
contenimento dei
consumi energetici e delle risorse ambientali,
l’assistenza tecnica,
ecc. (art. 95, comma 6), che
richiedono una valutazione
tecnico-discrezionale.
Il bando di gara deve indicare gli elementi
qualitativi e per
ciascuno di essi deve precisarne la
ponderazione relativa espressa in un numero di
punti
da attribuire. Ove necessario i criteri relativi
agli elementi qualitativi possono
essere
disarticolati in subcriteri con l’indicazione di
subpunteggi (comma 8). Quanto
più analitica è la
suddivisione in criteri e subcriteri e l’indicazione
dei punteggi,
tanto più oggettiva diventa la
valutazione tecnico-discrezionale.
 Quest’ultima è affidata a una
commissione
giudicatrice, composta da funzionari della stazione
appaltante o da esperti
esterni, nominata dalla
stazione appaltante, di regola, all’esito di un
pubblico
sorteggio da una lista di candidati iscritti
al già citato albo, costituita da un numero
di
nominativi almeno doppio rispetto a quello dei
componenti da nominare e comunque nel
rispetto
del principio di rotazione. La lista viene
comunicata dall’Autorità nazionale
anticorruzione
entro cinque giorni dalla richiesta da parte della
stazione appaltante
(art. 77). La commissione
procede all’esame di ciascuna offerta e
all’attribuzione dei
punteggi. Valuta dapprima gli
elementi qualitativi dell’offerta (contenuti in una
busta
separata) e apre da ultimo, in seduta
pubblica, la busta contenente l’offerta economica
(cioè il prezzo). Questo per evitare che la
commissione possa essere influenzata nel suo
giudizio sugli elementi qualitativi dall’esito della
comparazione relativa alla
componente del prezzo.

4. La quarta fase è quella dell’aggiudicazione. A


 conclusione dei   L’aggiudicazione
 
lavori, la
commissione giudicatrice formula
una graduatoria
e viene quindi dichiarata l’aggiudicazione a favore
del miglior
offerente (art. 32, comma 5). Prima
dell’aggiudicazione viene espletato
un controllo
sulla regolarità delle operazioni di gara, risultanti
dai verbali redatti
dalla stazione appaltante e dalla
commissione. Esso si conclude con un atto di
approvazione della stazione appaltante che deve
intervenire, di regola, entro 30 giorni
superati i
quali si forma il silenzio-assenso (art. 33, comma
1).
 L’aggiudicazione non equivale
ancora ad
accettazione dell’offerta risultata prima nella
graduatoria (art. 32, comma 6). Dal punto di vista
civilistico l’offerta
ha il valore di proposta
contrattuale irrevocabile per un termine
predeterminato (mentre
il bando di gara ha il
valore di un mero invito a offrire). L’efficacia
dell’aggiudicazione (cioè, in termini civilistici,
dell’accettazione dell’offerta) è
subordinata a un
ulteriore controllo (art. 32, comma 7), avente per
oggetto non più la correttezza
della procedura,
bensì il possesso effettivo da parte dell’impresa
selezionata dei
requisiti di partecipazione
autodichiarati in sede di presentazione della
domanda (in
particolare i cosiddetti requisiti di
435 ordine generale elencati
nell’art. 80, come per
esempio non trovarsi in stato di fallimento o non
aver riportato
determinate condanne penali).
Divenuta efficace
l’aggiudicazione,
l’amministrazione procede alla stipula del
contratto entro un termine
(di regola 60 giorni)
decorso inutilmente il quale l’aggiudicatario può
sciogliersi dal
vincolo contrattuale (art. 32, comma
8). La stipula non può avvenire comunque
prima di
35 giorni dalla comunicazione alle imprese del
provvedimento di aggiudicazione,
in modo tale da
consentire a queste ultime, come si vedrà meglio
più avanti, di
eventualmente impugnare gli atti
della procedura (art. 32, comma 11).
  La verifica delle offerte
  anomale
5. Il  procedimento
di aggiudicazione
richiede talvolta l’attivazione di un
subprocedimento di verifica allorché la stazione
appaltante, nell’esaminare comparativamente le
offerte pervenute, individui, applicando
alcuni
criteri aritmetici indicati dal Codice, una o più
offerte anormalmente basse. La
stazione
appaltante ha infatti interesse a selezionare offerte
che abbiano il carattere
della serietà, cioè che
abbiano un senso economico minimo per l’impresa
contraente
(anche in termini di un minimo di utile
atteso).
 Il subprocedimento di verifica
avviene in
contraddittorio con l’impresa sospettata di aver
presentato un’offerta fuori
mercato o in perdita.
L’impresa è infatti invitata a presentare
giustificazioni scritte
relative alle voci di prezzo o
altri elementi incongrui presenti nell’offerta (art.
97).
Le giustificazioni devono cercare di
dimostrare che, nonostante l’apparente anomalia,
l’offerta presentata ha una congruità complessiva,
per esempio perché l’impresa è in
grado di
utilizzare soluzioni tecniche o procedimenti di
fabbricazione del prodotto o di
prestazione del
servizio particolarmente efficienti. La valutazione
delle
giustificazioni può essere deferita a una
commissione appositamente istituita. Ove esse
non risultino convincenti la stazione appaltante,
prima di escludere l’offerta, convoca
l’offerente in
un’audizione invitandolo a indicare ogni elemento
utile. Il provvedimento
di esclusione deve essere
congruamente motivato e costituisce un atto che
può essere
impugnato immediatamente
dall’offerente escluso.
Un cenno finale meritano alcune
procedure
flessibili previste dal Codice: il dialogo
competitivo, le aste elettroniche,
gli accordi
quadro.
  Il dialogo competitivo
 
1. Il  dialogo
competitivo è una
procedura
che può essere utilizzata in caso di
appalti nei quali la stazione appaltante non ha le
conoscenze necessarie per individuare le soluzioni
tecniche, giuridiche o finanziarie di
un progetto e
ha dunque necessità di un confronto preliminare
con le imprese per
individuare le soluzioni migliori
da mettere poi a gara (art. 3, comma 1, lett. vvv)).
Si pensi, per esempio, a una
stazione appaltante
che si propone di creare un collegamento tra le
sponde di un fiume,
ma non è in grado di stabilire
se la soluzione migliore sia costituita da un ponte
o da
un tunnel.
 La procedura presenta alcune
specificità. Il bando
di gara si limita a individuare in modo ancora
generico le
necessità e gli obiettivi che si propone
la stazione appaltante e i criteri di
valutazione
delle offerte (art. 64, comma 4). Successivamente
436 la stazione appaltante
invita le imprese ammesse
alla procedura a un dialogo nel quale
ciascuna di
esse discute con la stazione appaltante tutti gli
aspetti dell’appalto e le
soluzioni individuate
(comma 5). Il dialogo avviene separatamente per
ciascuna impresa e
devono essere garantite sia la
parità di trattamento (in particolare alle imprese
devono
essere fornite le stesse informazioni), sia la
riservatezza delle informazioni
comunicate da
ciascuna impresa (commi 6 e 7). La fase del
dialogo si svolge in modo
informale (ma è prevista
la verbalizzazione), può richiedere più sessioni per
ridurre
via via il numero delle soluzioni da
discutere con le imprese (comma 8) e si conclude
allorché la stazione appaltante ha individuato la
soluzione o le soluzioni meglio in
grado di
soddisfare le proprie esigenze (comma 9). In
definitiva, nella fase del dialogo
l’amministrazione
si avvale del confronto con i privati per acquisire le
informazioni
necessarie per curare al meglio il
proprio interesse e, per incoraggiare le imprese a
partecipare alla procedura, può essere previsto un
premio o un incentivo (comma 13).
Conclusa la fase del dialogo, la
stazione appaltante
invita le imprese a presentare l’offerta finale in
base alla
soluzione o alle soluzioni individuate nel
corso della procedura. Le offerte sono poi
valutate
sulla base dei criteri fissati nel bando e all’esito
della valutazione si
procede all’aggiudicazione
(commi 10 e 11).
Il dialogo competitivo concede
alla stazione
appaltante la massima flessibilità e informalità e
presuppone che tra
stazione appaltante e imprese
si instauri un clima di fiducia reciproca e di
disponibilità a un confronto. Anche in questa
procedura emerge la dimensione
collaborativa del
rapporto tra amministrazione e privati alla quale si
è fatto più volte
riferimento. Introdotta dal diritto
europeo (art. 29 direttiva (CE) 2004/18, tuttavia
essa stenta a prendere piede nella prassi delle
stazioni appaltanti italiane.
Il partenariato per
l’innovazione  è una procedura
introdotta dal nuovo   Il partenariato per
  l’innovazione
Codice (art. 65) che
può essere esperita
nelle ipotesi in cui la stazione appaltante
abbia
l’esigenza di sviluppare prodotti, servizi o lavori
innovativi, cioè non
disponibili già sul mercato. La
procedura è strutturata per fasi successive con una
pluralità di operatori economici, prevedendo
obiettivi intermedi, riducendo via via il
numero
degli operatori e negoziando offerte migliorative.
 
2. Le aste elettroniche 
(e-procurement) sono
previste per i casi in   Le aste elettroniche
 
cui
l’aggiudicazione
può avvenire sulla base di elementi espressi in
valori numerici precisi
(prezzo, tempi di
realizzazione e consegna, ecc.) tali da poter essere
computati e
raffrontati in modo automatico con
mezzi informatici (art. 56, comma 1). Il bando di
gara deve contenere le
informazioni riguardanti lo
svolgimento dell’asta elettronica, tra le quali, per
esempio, le condizioni per poter effettuare i rilanci
ed eventuali limiti minimi e
massimi dei valori che
possono essere indicati nell’offerta (comma 4).
L’asta è
preceduta da una fase nella quale la
stazione appaltante opera una prima valutazione
delle offerte (comma 5). Nel corso dell’asta le
imprese invitate inviano con mezzi
elettronici
prezzi o valori via via migliorativi e ricevono in
tempo reale la rispettiva
posizione in graduatoria
437 (comma 13). L’asta si conclude alla
data e all’ora
preventivamente comunicata e l’aggiudicazione
avviene a favore
dell’offerta migliore (commi 14 e
16).
    L’accordo quadro
 
3. Una  procedura
particolare, che si
riferisce soprattutto alle forniture e ai servizi, è
prevista per gli accordi quadro.
L’accordo quadro è
un contratto il cui scopo è quello di stabilire le
condizioni e le
clausole relative a singoli appalti da
aggiudicare in un determinato periodo di tempo
(non superiore a quattro anni) (artt. 3, comma 1,
lett. iii), e 54). L’accordo quadro è
aggiudicato
all’esito di una procedura che si svolge con le
modalità ordinarie a seguito
della quale vengono
individuate una o più imprese. Se l’impresa
aggiudicataria è una
sola, a valle dell’accordo
quadro la stazione appaltante può poi stipulare i
singoli
contratti direttamente con quest’ultima, a
seconda delle necessità ed entro i massimali
di
importo predeterminati, senza ulteriori formalità.
Se le imprese aggiudicatarie, in
base a quanto
prevede il bando, sono più d’una (di regola, almeno
tre), i singoli
contratti a valle sono conclusi tra
queste ultime senza un ulteriore confronto
competitivo in base a un ordine di priorità stabilito
nel bando, privilegiando il
criterio della rotazione.
Può essere previsto però un ulteriore confronto
competitivo
per precisare e integrare le condizioni
dell’accordo quadro.
  li  accordi quadro
G   Le centrali di
  committenza
sono stipulati dalle
centrali di
committenza che sono definite come
amministrazioni aggiudicatrici che acquistano
forniture o servizi, aggiudicano appalti
di lavori o,
appunto, accordi quadro destinati ad altre
amministrazioni (art. 3, comma 34). In pratica si
tratta di organismi (il
principale a livello nazionale
è la Consip s.p.a. controllata dallo Stato) che
hanno
come funzione quella di rendere più
efficiente la politica degli acquisti delle
pubbliche
amministrazioni superando la frammentazione
dovuta a un numero elevato di
stazioni appaltanti
che aggiudicano contratti di importo modesto. Le
centrali di
committenza istituite anche a livello
regionale sono tenute all’osservanza delle
disposizioni del Codice (art. 33, comma 2).
  a questione più delicata in
materia, che ha subito
L
oscillazioni normative, è l’obbligo per le
amministrazioni
pubbliche di procedere agli
acquisti tramite le centrali di committenza e gli
accordi
quadro in quanto un siffatto obbligo può
essere ritenuto una violazione dell’autonomia
organizzativa dell’ente. Una soluzione di
compromesso può essere quella di stabilire che
le
singole amministrazioni, in alternativa all’utilizzo
delle centrali di committenza,
possono avviare
procedure di aggiudicazione autonome, ma
possono stipulare i contratti
solo a condizioni più
convenienti di quelle previste negli accordi quadro.
È prevista anche la figura dei
«soggetti
aggregatori» (art. 9 l. n. 89/2014). Concentrando le
gare pubbliche in
capo a pochi enti specializzati si
può ottenere un miglioramento dell’efficienza, una
riduzione della spesa e un miglior controllo a fini
anticorruzione.
Un primo tentativo di ridurre il
numero delle
stazioni appaltanti è stato attuato di recente
prevedendo che i comuni non
capoluogo di
provincia non possano attivare autonomamente le
procedure, ma devono farlo
attraverso i comuni
capoluogo ed enti sovracomunali (art. 52 d.l. n.
438 77/2021).
4. L’esecuzione del contratto

Come già osservato, una volta


stipulato il
contratto, la sua esecuzione avviene secondo i
principi generali del
diritto privato. Il Codice
contiene una disciplina speciale, anch’essa molto
analitica,
soprattutto per quanto riguarda i lavori
pubblici (Titolo V, artt. 100-113). Questi ultimi
presentano infatti
aspetti di complessità dovuti
all’insorgenza nella fase realizzativa di problemi
tecnici
non sempre prevedibili nella progettazione.
Si tratta di una disciplina essenzialmente
nazionale, dal momento che le direttive europee si
occupano solo marginalmente delle
vicende a valle
del contratto aggiudicato, vicende che, a differenza
della fase di gara,
non pongono problemi
concorrenziali.
L’esatto adempimento da parte
dell’impresa
aggiudicataria è garantito anzitutto da idonee
garanzie fideiussorie e
assicurative (artt. 103 e
104).
Vige poi il principio
dell’invariabilità del contratto.
Infatti, modifiche sostanziali di quest’ultimo nella
fase dell’esecuzione, oltre certi limiti, potrebbero
alterare il senso complessivo della
procedura di
gara che finirebbe, sia pure ex post, per essersi
svolta in relazione a un oggetto diverso, tale da
rendere appetibile la partecipazione a
un numero
maggiore di imprese.
A questo fine il Codice pone in
primo luogo la
 regola della   Le varianti in corso
  d’opera
tassatività delle
cosiddette
varianti in
corso d’opera (art. 106), cioè delle modifiche alle
prestazioni previste nel
contratto. Esse sono
ammesse, in particolare nei lavori pubblici, solo in
pochi casi
(cause impreviste e imprevedibili,
mutamenti normativi, errori progettuali, ecc.).
Comunque non possono determinare un aumento
del valore del contratto superiore a un
quinto,
limite oltre il quale il soggetto aggiudicatore deve
risolvere il contratto e
procedere a una nuova gara
(art. 106, comma 12).
 Per finalità di lotta alla
corruzione le varianti sono
sottoposte al controllo dell’Autorità nazionale
anticorruzione (art. 37 d.l. n. 90/2014).
In secondo luogo, regole
particolari sono previste
anche  per un’altra   La revisione dei
prezzi
 
modifica delle
condizioni contrattuali originarie, cioè
l’adeguamento dei prezzi, che cerca di
contemperare l’esigenza di evitare l’aumento
incontrollato degli oneri a carico
dell’amministrazione con quello di non
compromettere per l’impresa la remuneratività del
contratto. Le clausole di revisione dei prezzi
devono essere previste nei documenti di
gara
iniziali in modo chiaro, preciso e inequivocabile.
Per i contratti relativi ai
lavori le variazioni
possono essere valutate sulla base di prezzari
ufficiali solo per
la parte eccedente il 10% rispetto
al prezzo originario e comunque in misura pari alla
metà (art. 106, comma 1).
 In terzo luogo, il contratto  non può essere ceduto,
a pena di nullità,   Il subappalto
 
dall’impresa
affidataria a soggetti terzi (determinando un
mutamento soggettivo del contratto). Il
subappalto è circondato da una serie di cautele
volte a tutelare la stazione appaltante
dal rischio
del coinvolgimento nella fase esecutiva di imprese
poco affidabili o
addirittura riconducibili a
organizzazioni mafiose. In particolare, la facoltà di
procedere al subappalto deve essere dichiarata
dall’impresa già nel momento in cui
presenta
l’offerta, il contratto di subappalto deve essere
consegnato
all’amministrazione almeno 20 giorni
prima della sua esecuzione, l’impresa deve
dimostrare il possesso dei requisiti richiesti per lo
439 svolgimento delle attività
subappaltate (art. 105).
In passato il Codice prevedeva
percentuali
massime delle prestazioni che potevano essere
subappaltate, ma in seguito a
una procedura
d’infrazione avviata dalla Commissione europea, il
Codice prevede ora
soltanto che le stazioni
appaltanti possano stabilire discrezionalmente
caso per caso
che alcune prestazioni o lavorazioni
debbano essere eseguite necessariamente
dall’aggiudicatario (art. 105, comma 2, come
sostituito dall’art. 49 del d.l. n.
77/2021).
  lla  fase di
A   Il direttore dei
lavori
 
esecuzione è
preposto, per conto della stazione appaltante, un
direttore che,
per i contratti di importo minore,
può coincidere con il responsabile del
procedimento
(artt. 101 e 111).
 Questa figura è particolarmente
importante nel
settore dei lavori pubblici. Il direttore dei lavori
costituisce infatti
l’interlocutore principale
dell’impresa aggiudicataria dal momento della
consegna dei
lavori dopo che il contratto è
diventato efficace fino alla completa esecuzione
dei
medesimi.
Il direttore dei lavori esercita
funzioni di controllo
tecnico, contabile e amministrativo
dell’esecuzione e per i lavori
più complessi può
essere coadiuvato da direttori operativi e da
ispettori di cantiere.
Agisce in base alle istruzioni
impartite dal responsabile del procedimento tese a
garantire la regolarità dei lavori e può emanare
ordini di servizio all’esecutore dei
lavori su aspetti
tecnici ed economici dell’appalto e ai quali
quest’ultimo è tenuto a
uniformarsi. Può anche
ordinare la sospensione temporanea dei lavori ove
si verifichino
circostanze eccezionali che
impediscano che essi si svolgano a regola d’arte.
L’andamento  dei   Le riserve
 
lavori è riportato in
un giornale dei lavori compilato
ogni giorno da un
assistente del direttore dei lavori ed è previsto
anche un registro di
contabilità, tenuto dal
direttore dei lavori e firmato dall’esecutore. In
questo
registro l’esecutore dei lavori può iscrivere
le cosiddette riserve, cioè eccezioni e
contestazioni relative all’andamento dei lavori e
alle richieste del direttore dei
lavori (per esempio,
la prescrizione di eseguire una lavorazione con una
tecnica più
costosa) che possono determinare il
riconoscimento a favore dell’esecutore di importi
aggiuntivi che l’esecutore deve quantificare nella
riserva. Norme recenti hanno teso a
contenere
entro tetti massimi le riserve, in modo tale da
evitare il rischio, assai
frequente, che il costo
dell’opera risulti più elevato di quanto previsto in
origine.
I  l direttore dei lavori certifica
l’ultimazione dei
lavori e predispone un conto finale in una
relazione da sottoporre al
responsabile del
procedimento, che a sua volta predispone una
relazione finale.
La  verifica finale   Il collaudo
 
della conformità
delle prestazioni eseguite a quelle pattuite avviene
attraverso il collaudo (art. 102). Le operazioni di
collaudo sono affidate
dall’amministrazione a un
proprio funzionario dotato di specifica esperienza
o a una
commissione e possono essere in taluni
casi affidate anche a professionisti esterni. In
ogni
caso deve essere garantita la terzietà, perché i
collaudatori non devono aver
partecipato in alcun
modo alle attività procedimentali e di verifica
relative ai lavori
in questione.
  el corso dell’esecuzione del
contratto possono
N
verificarsi  situazioni   Il recesso e la
  risoluzione
che determinano lo
scioglimento dal
vincolo contrattuale, sotto forma di recesso e di
risoluzione. Quanto
al recesso, la stazione
appaltante può sciogliersi in ogni momento dal
440 vincolo
contrattuale, previo pagamento dei lavori
eseguiti e dei
materiali utili esistenti nel cantiere, e
di un indennizzo (art. 109). Quest’ultimo è
commisurato al decimo dell’importo delle opere
non eseguite, mentre nel caso di recesso
ad nutum
negli appalti privati il codice civile prevede il
riconoscimento all’appaltatore del mancato
guadagno, cioè dell’intero lucro cessante
(art.
1671). Questo elemento di specialità tende a
tutelare la stazione appaltante dal
rischio di
richieste di indennizzo non prevedibili. Si è
discusso in passato se il
potere di recesso abbia
natura pubblicistica, ma oggi prevale la tesi che si
tratti di
un atto avente natura privata.
  a risoluzione del contratto da
parte della stazione
L
appaltante è prevista dal Codice in alcune ipotesi e
in particolare
in caso di grave inadempimento,
irregolarità o ritardi nell’esecuzione dei lavori (art.
108). In caso di risoluzione sono posti a carico
dell’appaltatore inadempiente gli oneri
relativi alla
maggior spesa sostenuta per affidare i lavori ad
altra impresa (art. 108, comma 8).
5. I mezzi
di tutela

Le direttive europee hanno inciso


anche sugli
strumenti di tutela delle imprese che partecipano
alle procedure. In
particolare, la direttiva (CE)
2007/66 recepita dal d.lgs. 20 marzo 2010, n. 53,
con disposizioni poi confluite
in parte nel Codice
dei contratti pubblici e in parte nel Codice del
processo
amministrativo, prevede strumenti per
garantire una tutela efficace e rapida nel settore
dei contratti pubblici.
I principali sono i seguenti.

1. In primo luogo, il diritto europeo impone alle


stazioni  appaltanti il   Lo standstill
period
 
divieto di stipulare il
contratto prima di 35
giorni dalla comunicazione
alle imprese del provvedimento di aggiudicazione
(cosiddetto
standstill period, art. 32, comma 9) in
modo da dar tempo alle imprese di
esperire i mezzi
di tutela. Inoltre nel caso in cui un’impresa
proponga ricorso
giurisdizionale contro il
provvedimento di aggiudicazione definitiva,
presentando anche
la domanda cautelare volta a
ottenere da parte del giudice in tempi rapidi una
prima
pronuncia sulla legittimità degli atti adottati
al fine di porvi immediato rimedio, il
contratto non
può essere stipulato per un termine ulteriore di 20
giorni o comunque fino
all’emanazione della
pronuncia del giudice amministrativo in sede
cautelare (art. 32, comma 11). Queste disposizioni
mirano a garantire
le imprese non aggiudicatarie.
Infatti, in molti ordinamenti europei, una volta
stipulato il contratto, esse non possono ottenere
più la tutela specifica, cioè
l’aggiudicazione a
proprio favore, ma soltanto la tutela per
equivalente (risarcimento
del danno). A quel
punto prevale cioè l’interesse all’esecuzione del
contratto stipulato
anche se sulla base di una
procedura illegittima.
    Il rito speciale e i
  poteri del
giudice
2. In secondo luogo ,
in materia di
contratti pubblici è previsto un rito speciale
accelerato, con termini processuali
ridotti, incluso
quello per la proposizione del ricorso (30 giorni,
anziché 60 giorni in
base all’art. 120, comma 2,
Codice del processo amministrativo).
I  noltre, il giudice amministrativo
(al quale è
attribuita giurisdizione esclusiva in base all’art.
441 133, comma 1, lett. e),
1), Codice del processo
amministrativo) è titolare di poteri
decisionali che
comportano valutazioni relative all’assetto degli
interessi
determinatosi con la stipula del contratto
all’esito di una procedura della quale è
stata
accertata in sede di giudizio l’illegittimità. Infatti,
ove tale illegittimità
dipenda da tre tipi di vizi
qualificati dal Codice come gravi (aggiudicazione
senza
previa pubblicazione di un bando, stipula del
contratto prima della scadenza dei termini
dilatori
di 35 e di 30 giorni sopra esaminati), il giudice,
oltre ad annullare
l’aggiudicazione, dichiara
l’inefficacia del contratto. Può anche stabilire
discrezionalmente se la declaratoria di inefficacia
opera in via retroattiva o è
limitata alle prestazioni
da eseguire (art. 121). Il giudice può decidere che il
contratto resti efficace quando sussistano
«esigenze imperative connesse a un interesse
generale», cioè fattori di carattere tecnico o di
altro tipo che rendono evidente che
gli obblighi
contrattuali residui possono essere rispettati solo
dall’impresa che sta
eseguendo il contratto. Se il
giudice opta per il mantenimento dell’efficacia del
contratto, è tenuto a irrogare sanzioni pecuniarie
nei confronti della stazione
appaltante o a imporre
una riduzione della durata del contratto (art. 123).
In
definitiva il giudice amministrativo diventa per
così dire un «gestore del contratto»
stipulato
all’esito di una procedura illegittima, un ruolo
ritenuto da molti come non
appropriato per un
organo giurisdizionale. Inoltre la possibilità di
applicare sanzioni
di tipo sostanzialmente
amministrativo, nel rispetto del principio del
contraddittorio
con la stazione appaltante (art.
123, comma 2), inserisce nel processo una
sequenza e
una dialettica anomala, rispetto alla
quale le parti private (ricorrente ed eventuali
controinteressati) sono tendenzialmente estranee.
Inoltre, come già accennato,
l’Autorità nazionale
anticorruzione ha una legittimazione
straordinaria a impugnare
innanzi al giudice
amministrativo provvedimenti assunti in
violazione del Codice (art.
211, commi da 1-bis a 1-
quater).

3. In aggiunta ai mezzi di tutela previsti dal diritto


europeo,  il Codice   Gli strumenti di tutela
  non
giurisdizionale
dei contratti pubblici
prevede altri
strumenti di
risoluzione delle controversie
alternativi alla giurisdizione: la transazione,
l’accordo
bonario, l’arbitrato, il parere
dell’Autorità nazionale anticorruzione (Titolo I
della
Parte VI, rubricato Contenzioso).
 
3a) In primo
luogo, è ammessa, sia pur entro certi
limiti e con certe garanzie, la transazione.
Quest’ultima è limitata però alle controversie che
involgono diritti soggettivi
derivanti
dall’esecuzione del contratto (art. 208),
escludendo così, in conformità ai
principi generali
(art. 1966 cod. civ.), che essa possa riguardare
situazioni
giuridiche di interesse legittimo, che
hanno per definizione carattere indisponibile.

3b) In
secondo luogo, nel settore dei lavori
pubblici, nel caso in cui l’impresa abbia inserito
riserve nei documenti contabili che siano tali da
determinare una variazione del prezzo
superiore al
10% dell’importo contrattuale va attivato l’accordo
bonario. Si tratta di
una procedura di tipo arbitrale
promossa dal direttore dei lavori e dal
responsabile del
procedimento. Quest’ultimo
procede alla costituzione di una commissione di
tre
componenti, uno dei quali indicato
dall’impresa che ha iscritto le riserve (art. 205).
Le
parti possono attribuire alla commissione il potere
442 di
assumere una decisione vincolante, oppure
soltanto di formulare una proposta di accordo
che
può essere accettata o meno dalle parti.

3c) In terzo
luogo è ammesso, entro certi limiti e
con particolari garanzie, l’arbitrato, sempre
limitato a questioni che involgono diritti soggettivi
derivanti dall’esecuzione del
contratto. La stazione
appaltante deve però indicare già nel bando che il
contratto
conterrà la clausola compromissoria
(art. 209). Presso l’Autorità nazionale
anticorruzione è istituita a questo fine una camera
arbitrale per i contratti pubblici
per la quale sono
previste regole particolari (art. 210).

3d) Infine,
come già accennato, la stessa Autorità
svolge un’attività di «precontenzioso» sotto
forma
di emanazione di un parere sulle questioni insorte
durante lo svolgimento delle
procedure di gara
(art. 211, comma 1). Il procedimento può essere
attivato
dalla stazione appaltante o dalle imprese e
prevede un contraddittorio sia scritto sia
orale
sotto forma di audizione. Il parere ha natura
vincolante per le parti che abbiano
preventivamente acconsentito ad attenersi a
quanto in esso stabilito ed è impugnabile
innanzi
al giudice amministrativo. La casistica è ampia e si
riferisce principalmente a
contestazioni in ordine a
clausole dei bandi di gara che prevedono requisiti
di
partecipazione sproporzionati e dunque lesivi
della concorrenza e a provvedimenti di
esclusione
dalla procedura.
CAPITOLO 13

La finanza

443
1. Premessa

Per svolgere le proprie attività, le


organizzazioni
hanno bisogno di risorse finanziarie.
Ciò è vero anche per le pubbliche
amministrazioni
in  relazione a due   Finanza funzionale e
  strumentale
compiti: esercitare
nell’interesse della
collettività le funzioni pubbliche ed erogare servizi
(finanza
funzionale); garantire il funzionamento
dei propri apparati (finanza strumentale).
  li esborsi possono avvenire in forma
diretta
G
attraverso sovvenzioni, incentivi, premi e
contributi ai singoli aventi diritto;
oppure in forma
indiretta attraverso la realizzazione di opere
(strade e altre
infrastrutture) e l’erogazione di
servizi in natura (cure mediche, istruzione, ecc.).
Le attività delle pubbliche
amministrazioni,
finalizzate alla cura di interessi pubblici, non sono
poste in essere,
di regola, dietro il pagamento di
corrispettivi da parte dei singoli cittadini e utenti,
ma sono a carico della fiscalità generale.
E qui emergono alcune differenze
rispetto alle
imprese. L’attività di queste ultime è volta a
generare ricavi attraverso
la produzione e lo
scambio di beni e servizi (art. 2082 cod. civ.) dietro
il pagamento di un prezzo. Se i
ricavi superano i
costi (fissi, come gli stipendi e i canoni di
locazione, o variabili,
come il consumo di energia
elettrica o l’acquisto di materie prime) l’impresa
consegue
un utile che può essere distribuito ai
titolari dell’impresa; se i costi superano i
ricavi si
generano perdite, che, ove si protraggano nel
tempo, possono determinare il
fallimento
dell’impresa.
Gli enti non profit (del Terzo
settore) si procurano
i fondi necessari principalmente tramite i
contributi degli
iscritti (quote di iscrizione nel
caso di associazioni), oppure per mezzo di
conferimenti al fondo di dotazione (nel caso delle
fondazioni), o per mezzo dei proventi
derivanti
dagli investimenti del patrimonio, oppure, più in
generale, sollecitando
contributi e liberalità da
terzi finanziatori. Queste ultime sono spesso
incentivate da
deduzioni o detrazioni fiscali.
444 Inoltre, molte attività vengono
svolte direttamente
su base gratuita da volontari.
Nelle  pubbliche   Le entrate delle
  pubbliche
amministrazioni le amministrazioni
entrate hanno oggi in
gran parte natura
tributaria e solo
in minima parte derivano da
proventi patrimoniali (canoni di concessione,
biglietti dei
musei, ecc.). Anche nei servizi
pubblici erogati dietro il pagamento di una tariffa
o di
un canone, come si è visto nel capitolo VIII,
questi spesso non coprono tutti i costi ed
è
pertanto necessario attingere alla fiscalità generale
per garantire i livelli
qualitativi e quantitativi
ritenuti necessari.
  on l’avvento delle costituzioni
moderne, il
C
prelievo fiscale è sottoposto alla riserva di legge,
espressione del
principio del no taxation without
representation, in base alla
quale solo il parlamento
può istituire e disciplinare i tributi. La
Costituzione
italiana prevede al riguardo una
riserva di legge relativa (art. 23); impone un
obbligo
di contribuire alle spese pubbliche in
ragione della propria capacità contributiva
(art. 53,
comma 1); prevede che il sistema tributario sia
informato a criteri di progressività (art. 53, comma
2); attribuisce alle regioni e agli enti
territoriali
autonomia finanziaria di entrata e di spesa, inclusa
la potestà di
istituire, entro certi limiti, tributi
propri (art. 119).
Secondo le costituzioni  moderne, così come il
livello delle entrate è   Le politiche di spesa
  redistributive
rimesso alla
decisione del
parlamento, allo stesso modo spetta a quest’ultimo
determinare l’ammontare
e la destinazione dei
flussi di spesa. Infatti, soltanto il decisore politico
è
legittimato a stabilire le priorità tra gli
innumerevoli bisogni della collettività da
soddisfare attraverso la messa a disposizione di
risorse. Poiché queste ultime non sono
mai
illimitate (la pressione fiscale non può superare
certi livelli), il parlamento,
aumentando o
riducendo gli stanziamenti da destinare alle
molteplici funzioni e servizi,
attua politiche
redistributive in conformità al mandato ricevuto
dagli elettori.
 All’allocazione delle risorse ai
vari ministeri ed
enti e al sistema delle autonomie territoriali
provvede ogni anno il
parlamento approvando il
bilancio di previsione presentato dal governo nel
rispetto dei
vincoli europei (art. 81 Cost.).
In sede di premessa, conviene
mettere in rilievo la
diversa funzione alla quale assolve il bilancio di
previsione
dello Stato (ma anche dei singoli enti)
rispetto ai bilanci aziendali.
Secondo  il codice   Il bilancio aziendale
 
civile il bilancio
aziendale, composto dallo stato patrimoniale, dal
conto
economico e dalla nota integrativa,
rappresenta la situazione patrimoniale e
finanziaria
della società e il risultato economico
dell’esercizio (art. 2423 cod. civ.). Esso è redatto a
consuntivo
dell’attività svolta in un certo anno,
ponendo a raffronto l’attivo e il passivo e altri
elementi individuati in modo analitico dal codice
sia per lo stato patrimoniale, sia per
il conto
economico. Il primo tende a offrire una
«fotografia» statica della situazione
aziendale (per
esempio, gli immobili posseduti, le partecipazioni
in altre imprese,
ecc.) (art. 2424); il secondo mette
in evidenza i flussi di entrate
(ricavi e proventi) e
di uscite (costi e oneri) dell’anno (art. 2425).
I  l bilancio aziendale assolve
principalmente alla
funzione di stabilire se l’attività è in utile o in
perdita. Gli
utili vengono distribuiti o accantonati
445 a riserva. Se le
perdite superano il terzo del
capitale, esso va reintegrato (artt. 2446 e 2447 cod.
civ.). Proprio per questo, il bilancio aziendale è
redatto e approvato ogni anno a consuntivo della
gestione. Molte aziende, specie quelle
di
dimensione maggiore, tuttavia si dotano
comunque, per prassi, anche di strumenti
previsionali (sotto forma di budget che fissano gli
obiettivi
gestionali nell’anno successivo).
Il bilancio di previsione delle
pubbliche
amministrazioni  ha   Il bilancio di
  previsione delle
una funzione diversa. pubbliche
Serve sia
ad allocare amministrazioni
le risorse tra le
diverse destinazioni, sia a stabilire i tetti di spesa,
nel senso che le amministrazioni possono
impiegare le somme solo entro i limiti degli
importi stanziati. Ciò anche al fine di garantire il
rispetto dell’equilibrio tra uscite
ed entrate
(vincolo del pareggio di bilancio). Se le spese
previste per un determinato
anno (esercizio
finanziario) sono maggiori delle entrate, il governo
può proporre di
coprire la differenza attraverso
l’accensione di un prestito (per esempio emissioni
di
buoni del Tesoro, a scadenza annuale o
pluriennale). Alla scadenza il valore dei buoni
sarà
restituito dallo Stato maggiorato degli interessi.
Queste scelte vanno determinate
ex ante, al
momento della programmazione finanziaria e della
redazione del bilancio annuale di previsione,
mentre il rendiconto o conto consuntivo,
anch’esso annuale (art. 81, comma 4, Cost. così
come modificato dalla legge costituzionale 20
aprile 2012, n. 1), serve a
verificare ex post se
l’andamento della gestione sia avvenuto in
linea
con le previsioni o abbia registrato scostamenti da
correggere.
  ’approvazione annuale del bilancio
da parte del
L
parlamento è obbligatoria in base alla Costituzione
e rende possibile
l’erogazione della spesa. Senza di
essa non possono essere pagati gli stipendi, le
pensioni o altre spese e questo spiega perché la
Costituzione prevede il ricorso
all’esercizio
provvisorio di bilancio per un periodo non
superiore a quattro mesi (art. 81, comma 5).
In passato, l’approvazione del
bilancio autorizzava
anche la riscossione delle entrate. Oggi, secondo le
costituzioni
moderne, è sufficiente una legge
ordinaria e nel nostro ordinamento la riscossione
avviene in applicazione dell’art. 23 Cost. che
prevede una riserva relativa di legge per
l’imposizione di prestazioni personali e
patrimoniali.
La disciplina della finanza pubblica
ha due
dimensioni : una   Le dimensioni
  «macro» e «micro»
dimensione per così della finanza pubblica
dire «macro» e una
dimensione per così
dire «micro». La prima tratta delle entrate e delle
uscite dello
Stato in un’ottica di equilibrio generale
economico e finanziario; la seconda riguarda
soprattutto la gestione delle risorse e i
procedimenti di spesa da parte delle singole
pubbliche amministrazioni.
  a dimensione «macro» ha assunto un
ruolo
L
centrale a livello di Unione europea in
conseguenza della crisi finanziaria
scoppiata nel
2008 e aggravatasi negli anni successivi. La crisi
che ha fatto emergere,
oltre al rischio di fallimento
delle banche e di altre istituzioni, il rischio di
insolvenza degli Stati sovrani (Grecia, Cipro, ma
anche Spagna, Irlanda e Italia),
eccessivamente
indebitati e oberati di interessi elevati (cosiddetto
spread) per il reperimento della liquidità necessaria
sui
mercati finanziari. Da qui la necessità di
manovre finanziarie e di bilancio e di
riforme
446 economiche strutturali da parte dei singoli Stati
volte
a ristabilire una situazione di maggior
equilibrio. Da qui anche l’esigenza di un forte
coordinamento e di regole comuni a livello
europeo per prevenire le crisi con effetti a
cascata
anche sugli Stati più virtuosi.
Le due dimensioni «macro» e «micro»
sono
strettamente correlate. Da un lato, infatti, i vincoli
macroeconomici incidono
sull’operatività concreta
delle singole amministrazioni, sottoposte, non a
caso, negli
ultimi anni a riduzione degli
stanziamenti e a misure di contenimento delle
spese (la
cosiddetta spending review). Dall’altro lato,
l’equilibrio
finanziario complessivo dipende dalla
sommatoria dei comportamenti (virtuosi o meno
virtuosi) delle singole pubbliche amministrazioni
(Stato, regioni, province, comuni e
altri enti
pubblici). Da qui anche l’esigenza di riportare in
qualche modo all’interno
di un quadro ricognitivo
e decisionale unitario i mille rivoli della spesa
pubblica.
Lo studio sistematico della materia
è oggetto di
corsi specialistici di finanza pubblica. Essi hanno
per oggetto non solo la
contabilità pubblica, ma
anche i risultati dell’attività, le procedure, il Patto
di
stabilità e crescita, ecc. Il sistema delle entrate
fiscali è oggetto del diritto
tributario.
2. I
principi costituzionali

Come già accennato, l’art. 81 Cost. contiene le


regole fondamentali in materia di
finanza pubblica.
La legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 ha
sostituito
integralmente il testo originario
dell’articolo.
La  legge   Il principio del
  pareggio di
bilancio
costituzionale è stata
approvata in
esecuzione dell’impegno assunto dall’Italia di
introdurre, di preferenza a livello costituzionale, il
principio del pareggio di
bilancio. Questo
impegno è previsto per gli Stati aderenti al
Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla
governance
dell’Unione economica e monetaria
(TSCG, il quale contiene al suo interno il
cosiddetto Fiscal compact) firmato a Bruxelles il 2
marzo 2012 da
venticinque Stati membri aderenti
all’area euro ed entrato in vigore il
1 gennaio 2013.
o

Secondo il Trattato, i cui contenuti


verranno
analizzati più avanti, il pareggio di bilancio va
collegato a un vincolo di
sostenibilità del debito
pubblico nel rispetto delle regole in materia
economico-finanziaria derivanti dall’ordinamento
europeo.
I  l nuovo comma 1 dell’art. 81 contiene, dunque, in
attuazione del
Trattato, l’impegno dello Stato ad
assicurare «l’equilibrio tra le entrate e le spese
del
proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e
delle fasi favorevoli del ciclo
economico». L’ultima
parte della disposizione, come si vedrà, rende
meno rigido il
principio, da un lato, consentendo
che nelle fasi avverse del ciclo economico esso
possa
essere derogato, dall’altro, però, imponendo
che nelle fasi favorevoli siano adottate
misure tese
a ripristinarlo.
Il nuovo comma 2 fissa alcuni limiti
all’indebitamento pubblico precisando che esso è
consentito «al solo fine di considerare
gli effetti
del ciclo economico», cioè in fase anticiclica per
periodi di tempo limitati
(secondo la visione
keynesiana della spesa pubblica come fattore di
rilancio
dell’economia), e ove si verifichino «eventi
447 eccezionali» (per esempio, calamità
naturali). In
quest’ultimo caso, però, l’autorizzazione deve
essere adottata a maggioranza assoluta delle due
Camere, proprio per sottolineare la
gravità di una
siffatta decisione.
L’art. 81 pone poi il principio
secondo il quale il
bilancio di previsione e il rendiconto consuntivo
presentati dal
governo devono essere approvati
dalle Camere e stabilisce che l’esercizio
provvisorio
del bilancio può essere concesso per
legge per un periodo non superiore a quattro mesi
(commi 4 e 5).
Il nuovo comma 6 rinvia a una legge
quadro di
contabilità,   La legge quadro di
  contabilità
 approvata anch’essa
a maggioranza
assoluta, volta a stabilire i criteri per assicurare
l’equilibrio tra le spese dei
bilanci e la sostenibilità
del debito del complesso delle pubbliche
amministrazioni. I
contenuti minimi della legge
sono specificati, recependo le indicazioni del
Trattato,
nell’art. 5 legge costituzionale n. 1/2012.
Essi sono
principalmente i seguenti: le verifiche
preventive e consuntive sugli andamenti di
finanza
pubblica; l’accertamento delle cause degli
scostamenti rispetto alle previsioni
e i limiti
massimi dei medesimi; la definizione più precisa
delle gravi recessioni
economiche, delle crisi
finanziarie e delle gravi calamità che consentono il
ricorso
all’indebitamento; l’istituzione presso le
Camere di un organismo indipendente con
funzioni di analisi e di verifica dell’andamento
finanziario; i limiti entro i quali le
regioni, le
province e i comuni possono ricorrere
all’indebitamento e l’obbligo di
concorrere alla
sostenibilità del debito del complesso delle
pubbliche amministrazioni;
le modalità attraverso
le quali lo Stato, anche nelle fasi avverse del ciclo
economico,
concorre al finanziamento dei livelli
essenziali delle prestazioni e delle funzioni
fondamentali inerenti ai diritti civili e sociali. La
legge in questione (legge 24 dicembre 2012, n. 243)
è stata approvata dopo pochi
mesi dalla legge
costituzionale n. 1/2012.
  uest’ultima introduce anche altre
modifiche
Q
correlate.
In particolare , l’art. 2   L’equilibrio di bilancio
 
antepone al comma 1
dell’art. 97 una disposizione
secondo la quale le
pubbliche amministrazioni, in coerenza con
l’ordinamento dell’Unione
europea, «assicurano
l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito
pubblico».
Come già accennato, ai fini del rispetto
dei vincoli europei, tutte le pubbliche
amministrazioni, così come individuate
annualmente dall’ISTAT, vanno considerate come
un
plesso unitario e lo Stato in quanto tale
risponde per esse nelle sedi europee e
internazionali. Proprio a questo fine l’art. 4 della
legge costituzionale n. 1/2012 modifica l’art. 119,
comma 1, prevedendo che le regioni, le province e i
comuni, oltre ad assicurare l’equilibrio dei
rispettivi bilanci, «concorrono ad
assicurare
l’osservanza dei vincoli economici e finanziari
derivanti dall’ordinamento
dell’Unione europea».
Viene integrato anche l’art. 119, comma 6, secondo
il quale gli enti territoriali
possono ricorrere
all’indebitamento esclusivamente per finanziare
spese di investimento,
ma solo «con la contestuale
definizione di piani di ammortamento e a
condizione che per
il complesso degli enti di
ciascuna regione sia rispettato l’equilibrio di
bilancio». In
questo modo le regioni vengono
maggiormente responsabilizzate in quanto si fanno
garanti
dell’equilibrio di bilancio a livello
448 regionale.
I  nfine, anche per favorire il
consolidamento dei
conti pubblici, l’art. 3 della legge costituzionale n.
1/2012 modifica l’art. 117 Cost., attribuendo alla
competenza legislativa
esclusiva dello Stato
l’«armonizzazione dei bilanci pubblici», in
precedenza rientrante
nella competenza legislativa
concorrente dello Stato e delle regioni.
Quest’ultima resta
invece confermata per gli
aspetti relativi al «coordinamento della finanza
pubblica e
del sistema tributario» (incluso ancora
nell’elenco delle materie di cui all’art. 117, comma
3).
3. I vincoli
di derivazione
europea
Le politiche di bilancio degli Stati
membri
dell’Unione europea sono ormai condizionate dal
diritto europeo. Sebbene
formalmente gli Stati
mantengano intatta la loro sovranità nell’ambito
delle politiche
economiche e di bilancio, la
disciplina sovranazionale contenuta nei Trattati e
nel
diritto derivato limita notevolmente la potestà
decisionale degli ordinamenti nazionali
in materia.
L’incidenza del diritto europeo si è
manifestata già
con il Trattato di Maastricht del 1992 che ha
gettato le basi del
sistema monetario europeo
facente capo alla Banca centrale europea. Una
moneta sana,
infatti, presuppone anche un
equilibrio della finanza pubblica. Gli Stati, in
particolare, in base alle norme del Trattato, sono
tenuti a raggiungere condizioni
finanziarie stabili
al fine di evitare che eventuali squilibri dei conti
pubblici
distorcano l’allocazione delle risorse
all’interno del mercato comune. Tali condizioni
derivano, secondo la disciplina europea, dal
conseguimento, da parte degli Stati membri,
di una
situazione di bilancio caratterizzata da un
disavanzo e da un debito non
eccessivi rispetto al
prodotto interno lordo.
Al fine di misurare l’entità del
debito e qualificare
il disavanzo come eccessivo, un protocollo allegato
al Trattato
stabilisce che il rapporto tra l’entità
complessiva del disavanzo annuale, cioè il
deficit
degli Stati, e il prodotto interno lordo non debba
superare il 3%, mentre quello
tra il debito pubblico
e il prodotto interno lordo non possa superare il
60%.
Le disposizioni contenute nel
Trattato sono state
confermate  e   Il Patto di stabilità e
  crescita
specificate dal
cosiddetto
Patto di
stabilità e crescita (composto da una risoluzione
adottata dal Consiglio europeo di Amsterdam del
16-17
giugno 1997 e dai regolamenti (CE) 1997/1466
e 1997/1467).
I  l Patto di stabilità e crescita,
successivamente
emendato al fine di superare alcune rigidità e
imperfezioni (regolamenti
(CE) 2005/1055 e
2005/1056), conferma anzitutto i valori
quantitativi di cui sopra,
rendendoli permanenti, e
impone agli Stati membri aderenti all’euro di
raggiungere nel
medio termine l’obiettivo del
pareggio di bilancio. Il regolamento (CE) 1997/1466
(anche
noto come «braccio dissuasivo» del Patto),
in particolare, disciplina una procedura di
controllo volta a prevenire il determinarsi di
disavanzi pubblici eccessivi e a
promuovere la
sorveglianza e il coordinamento delle politiche
449 economiche.
A tal fine, ogni Stato membro è
tenuto a fornire
alla  Commissione e   Il Programma di
  stabilità
al Consiglio le
informazioni
necessarie da includere in un Programma di
stabilità relativo all’anno in
corso e ai tre anni
successivi che indica gli interventi programmati
per conseguire un
saldo di bilancio prossimo al
pareggio. Il monitoraggio sulle posizioni di
bilancio
degli Stati e sull’attuazione degli indirizzi
in materia di politiche economiche è
affidato alla
Commissione e al Consiglio.
 La Commissione, in particolare, nel
caso in cui
ritenga che uno Stato membro presenti un
disavanzo pubblico eccessivo
informa, sulla base di
un parere del Comitato economico e finanziario, il
Consiglio
(art. 126 TFUE e regolamento (CE)
1997/1467). Quest’ultimo, su
proposta della
Commissione e considerate le osservazioni dello
Stato membro interessato,
ove accerti che il
disavanzo è eccessivo formula una
raccomandazione allo Stato affinché
faccia cessare
la situazione di disavanzo entro un termine
determinato. Nel caso in cui
lo Stato persista nel
disattendere le raccomandazioni, il Consiglio può
applicare una
delle misure a carattere
sanzionatorio previste dal Trattato e dal Patto di
stabilità e
crescita. Tra di esse vi è anche la
costituzione di un deposito infruttifero presso
l’Unione europea e l’irrogazione di ammende.
La crisi finanziaria che ha
investito anche l’Europa
a partire dal 2008 e intensificatasi nel 2011 ha reso
necessarie misure ancor più rigorose in materia di
politiche di bilancio.
Pertanto, nel settembre del 2011, su
proposta della
Commissione, il Parlamento europeo e il Consiglio
hanno adottato un
pacchetto di sei misure
legislative in materia economico-finanziaria
(cosiddetto Six-pack composto da cinque
regolamenti e da una
direttiva del Consiglio) per
riformare la governance economica europea e
introdurre
norme più rigorose in materia di
politiche di bilancio. Le norme adottate rafforzano
sia
i meccanismi preventivi (la cosiddetta
sorveglianza multilaterale), sia i meccanismi
correttivi (ovvero la procedura per i disavanzi
eccessivi, sopra richiamata) del Patto
di stabilità e
crescita.
Più in particolare, i Paesi che
hanno un rapporto
debito/PIL superiore al 60% sono tenuti a ridurre
progressivamente la
parte eccedente nella misura
di un ventesimo all’anno. Le sanzioni per il
mancato
rispetto delle raccomandazioni formulate
dal Consiglio agli Stati membri diventano
semiautomatiche e consistono nel trasferimento
dello 0,1% del prodotto interno lordo
annuo in un
deposito infruttifero. Le procedure di bilancio, i
sistemi contabili, i
metodi statistici vengono
armonizzati.
La capacità decisionale degli Stati
membri
dell’Unione in materia di politiche economiche e
di bilancio è stata
ulteriormente limitata nel 2012
in seguito all’aggravarsi della crisi. Ciò soprattutto
ad opera del già citato Trattato sulla stabilità, sul
coordinamento e sulla
governance nell’Unione
economica e monetaria.
Il Trattato, che recepisce
prevalentemente le
novità già contenute nel citato Six-pack, si
pone
come obiettivo quello di «rafforzare il pilastro
economico dell’unione economica e
monetaria
adottando una serie di regole intese a rinsaldare la
disciplina di bilancio
attraverso un patto di
bilancio, a potenziare il coordinamento delle loro
politiche
economiche e a migliorare la governance
450 della zona euro, sostenendo in tal modo il
conseguimento degli obiettivi dell’Unione europea
in materia di
crescita sostenibile, occupazione,
competitività e coesione sociale» (art. 1).
Accanto  alle norme   Il c.d. Fiscal
compact
 
in materia di
coordinamento delle politiche economiche e di
governance
dell’area euro, il Trattato disciplina il
cosiddetto Fiscal
compact, il quale mira a rafforzare
la disciplina di bilancio degli Stati
firmatari.
Impone loro, da un lato, il mantenimento del
bilancio in pareggio o in avanzo
e, dall’altro,
l’attivazione di meccanismi automatici di
correzione nel caso di
deviazioni significative dagli
obiettivi di medio termine concordati a livello
europeo.
 Le norme sul Fiscal
compact contenute nel Trattato
confermano, in particolare, che, in caso
di
superamento del rapporto tra il debito pubblico e
il prodotto interno lordo del 60%,
la parte
contraente dovrà procedere alla riduzione del
disavanzo a un ritmo medio di un
ventesimo
all’anno. È inoltre prevista la comunicazione ex
ante al
Consiglio e alla Commissione dei piani di
emissione del debito pubblico; il sostegno
alle
proposte o alle raccomandazioni della
Commissione, nel caso in cui questa ritenga
che un
altro Stato membro abbia violato il criterio del
disavanzo; l’istituzione di un
organismo
indipendente di sorveglianza, responsabile a livello
nazionale del rispetto
dei vincoli comunitari.
Il Trattato concede agli Stati
membri alcuni
margini di flessibilità in presenza di circostanze
eccezionali e prevede
anche che nel caso in cui uno
Stato si trovi in una situazione di disavanzo
eccessivo
esso debba predisporre un programma di
partenariato economico e di bilancio, con una
descrizione dettagliata delle riforme strutturali da
definire e attuare per una
correzione effettiva e
duratura del disavanzo. Il programma in questione
è approvato dal
Consiglio e dalla Commissione ed
è sottoposto a un monitoraggio nella fase attuativa
(art. 5). In caso di non ottemperanza agli impegni
da parte di uno Stato, gli altri
Stati possono adire
la Corte di giustizia che emana una sentenza
vincolante. Ove
quest’ultima resti inattuata, la
Corte, adita da parte di uno Stato membro, può
irrogare
sanzioni finanziarie a titolo di penalità
fino allo 0,1% del PIL.
Il Trattato, pur confermando (e anzi
rafforzando)
la disciplina sovranazionale in materia di politiche
economiche e di
bilancio, si pone al di fuori della
cornice istituzionale dell’Unione europea e poggia,
al contrario, principalmente, sul metodo
intergovernativo caratterizzato dall’operare di
accordi tra Stati. Ad oggi, infatti, non tutti gli Stati
membri dell’Unione hanno
aderito.
Gli Stati che ratificano il
Fiscal compact possono
beneficiare 
del fondo   Il trattato MES
 
salva-Stati previsto
dal Trattato istitutivo del meccanismo europeo di
stabilità (MES), un fondo di 780 miliardi di euro
istituito nel febbraio 2012 a seguito
di una modifica
dell’art. 136 TFUE, a favore degli Stati membri
dell’Unione che si
trovino in stato di grave crisi
finanziaria.
I  n attuazione del Trattato sulla
stabilità e sul
coordinamento, la Commissione europea ha, poi,
emanato una comunicazione
(COM(2012) 342 final
del 20 giugno 2012) che detta
Principi comuni per i
meccanismi nazionali di correzione di
bilancio relativi,
in particolare, all’attivazione di tali meccanismi,
alla loro coerenza con il quadro dell’Unione, alle
451 dimensioni e
alla tempistica delle correzioni, agli
strumenti operativi e
all’indipendenza degli
organismi nazionali di sorveglianza.
A livello nazionale, invece, il
recepimento delle
disposizioni del Trattato sulla stabilità, sul
coordinamento e sulla governance
dell’Unione
economica e monetaria ha determinato le
modifiche costituzionali,
in precedenza analizzate,
e l’approvazione della sopra citata l. n. 243/2012
attuativa dell’art. 81, comma 6, Cost.
Una novità di tipo organizzativo,
richiesta,  come
si è accennato, dal   L’Ufficio parlamentare
  di
bilancio
Trattato, è
l’istituzione negli
Stati membri di un organismo indipendente
responsabile a livello
nazionale dell’osservanza dei
vincoli comunitari al quale la legge costituzionale
n. 1/2012 (art. 5) ha attribuito un
rango
costituzionale. In attuazione di queste
disposizioni, la l. n. 243/2012 attuativa dell’art. 81,
comma 6, Cost. ha istituito presso le Camere
l’Ufficio parlamentare di bilancio «per l’analisi e la
verifica degli andamenti di
finanza pubblica e per
la valutazione dell’osservanza delle regole di
bilancio» (art. 16 l. n. 243/2012).
 Si tratta di un ufficio concepito
sul modello delle
autorità indipendenti, costituito da un consiglio
di tre membri
nominati a maggioranza di due terzi
dai presidenti della Camera e del Senato
nell’ambito
di un elenco di dieci soggetti indicati
dalle commissioni parlamentari competenti in
materia di finanza pubblica a maggioranza di due
terzi (così da garantire una
rappresentanza delle
minoranze parlamentari). I componenti sono scelti
tra persone di
riconosciuta indipendenza e
comprovata competenza ed esperienza e durano in
carica sei
anni, senza possibilità di essere
rinnovati.
Tra i poteri dell’Ufficio, che gode
di ampia
autonomia organizzativa, vi è quello di fornire le
proprie valutazioni in
merito agli scostamenti
negativi del saldo strutturale rispetto alle
previsioni tali da
richiedere l’attivazione dei
meccanismi di correzione richiesti
dall’ordinamento europeo
(art. 18).
Come chiarisce la comunicazione
della
Commissione europea attuativa del Trattato sopra
citata, gli Stati hanno
«l’obbligo di rispettare le
valutazioni delle suddette istituzioni [in Italia,
dell’Ufficio, N.d.A.], o in alternativa di spiegare
pubblicamente perché non le stanno
osservando»
(cosiddetto modello del comply or explain, già
definito
nel capitolo II). In concreto, qualora
l’Ufficio «esprima valutazioni significativamente
divergenti rispetto a quelle del governo […],
quest’ultimo illustra i motivi per i quali
ritiene di
confermare le proprie valutazioni ovvero ritiene di
conformarle a quelle
dell’Ufficio» (art. 18, comma
3).
4. Il
Documento di economia e
finanza, la legge di bilancio
A livello subcostituzionale, la
materia della finanza
pubblica è disciplinata in parte da testi legislativi
approvati
negli anni Venti del secolo scorso (r.d. 18
novembre 1923, n. 2440 e r.d. 23 maggio 1924, n.
827), che contengono i principi
generali di finanza
pubblica valevoli per tutti i soggetti pubblici; in
parte dalla
legge 31 dicembre 2009, n. 196 (legge di
contabilità e finanza
pubblica), modificata per
tener conto dell’evoluzione europea, dalla legge 7
452 aprile 2011, n. 39 e dalla legge 4 agosto 2016, n. 163.
La disciplina della finanza pubblica
introduce
anzitutto due strumenti principali di
programmazione finanziaria e di bilancio
(art. 7): il
Documento di economia e finanza (DEF)
presentato dal governo alle Camere
entro il 10
aprile di ogni anno (al quale va aggiunta la nota di
aggiornamento
presentata entro il 27 settembre); il
disegno di legge del bilancio dello Stato
presentato
alle Camere entro il 20 ottobre.
L’esame di questi provvedimenti è
svolto dal
parlamento in apposite sessioni di bilancio
disciplinate nei regolamenti
parlamentari che
prevedono norme procedurali tali da garantire
tempi certi per
l’approvazione della manovra, con
limiti rigidi alla possibilità di presentare
emendamenti, in modo da evitare l’esercizio
provvisorio.
  Le sezioni del
  Documento di
1.
Il DEF  si
economia e finanza
compone di tre (DEF)
sezioni (art. 10). La
prima sezione
è
costituita dallo schema del Programma di stabilità
che contiene le informazioni
richieste dalla
normativa dell’Unione europea in attuazione del
Patto di stabilità e
crescita, in particolare con
riferimento agli obiettivi di politica economica e il
quadro delle previsioni economiche e di finanza
pubblica per almeno il triennio
successivo.
  a seconda sezione contiene
l’analisi del conto
L
economico e del conto di cassa delle
amministrazioni pubbliche
nell’anno precedente,
con l’indicazione degli eventuali scostamenti
rispetto agli
obiettivi programmatici, nonché le
previsioni tendenziali almeno per il triennio
successivo.
La terza sezione è costituita dallo
schema del
Programma nazionale di riforma anch’esso
contenente le informazioni richieste
dalla
normativa europea in particolare riguardanti lo
stato di avanzamento delle riforme
avviate
(priorità, tempistiche, ecc.), i fattori
macroeconomici nazionali che incidono
sulla
competitività, i prevedibili effetti delle riforme in
termini di crescita
dell’economia, di rafforzamento
della competitività del sistema economico e di
aumento
dell’occupazione. In allegato al DEF sono
indicati eventuali disegni di legge collegati
alla
manovra di finanza pubblica (art. 10 l. n.
196/2009).
Il Programma  di   Il semestre europeo
 
stabilità e il
Programma nazionale di riforma sono
presentati al
Consiglio dell’Unione europea e alla Commissione
europea entro il 30
aprile nell’ambito del
cosiddetto semestre europeo, cioè il periodo
iniziale di ciascun
anno nel quale avviene un
confronto e coordinamento ex ante a
livello
europeo relativo alle politiche economiche e alla
programmazione
economico-finanziaria. Il
Consiglio elabora anche linee guida di politica
economica e di
bilancio, delle quali devono tener
conto i governi e i parlamenti nazionali (art. 9). Il
Consiglio, su proposta della Commissione
europea, invia agli Stati membri
raccomandazioni
specifiche (che includono anche le riforme
legislative ritenute
necessarie) delle quali i governi
e i parlamenti nazionali devono tener conto, in
particolare, da ultimo, nei Piani nazionali di
ripresa e resilienza presentati per
attingere a
finanziamenti previsti nel programma Next
Generation
EU.

I  l DEF individua anche gli obiettivi


programmatici
che le regioni e gli enti locali devono tenere in
considerazione allorché
determinano gli obiettivi
dei propri bilanci annuali e pluriennali (art. 8).
La legge di stabilità e la legge di
bilancio
compongono la manovra triennale di finanza
453 pubblica che, per il triennio di
riferimento, indica
le misure qualitative e quantitative
necessarie per
realizzare gli obiettivi programmatici indicati nel
DEF (art. 11).

2.
Il disegno di legge  del bilancio annuale di
previsione, in
base al   La legge di bilancio
 
quale si svolge la
gestione finanziaria dello Stato, è redatto sia in
termini di
competenza (riferita alle obbligazioni
attive e passive giuridicamente assunte dalle
amministrazioni, cioè ai crediti derivanti dalle
entrate che si prevede di accertare e
ai debiti
correlati alle spese che si prevede di impegnare),
sia in termini di cassa
(cioè di somme
effettivamente incassate e pagate) (art. 20).
  toricamente la legge di bilancio
aveva un
S
significato fondamentale nei rapporti tra
parlamento e sovrano, perché
costituiva uno
strumento di controllo politico che condizionava
la possibilità di
quest’ultimo di riscuotere le
entrate e di procedere alle spese.
Il disegno di legge di bilancio si
compone di due
sezioni  (art. 21).   Le sezioni del disegno
  di legge
di bilancio

  a prima sezione dispone


annualmente il quadro
L
di riferimento finanziario e provvede alla
regolazione annuale
delle grandezze previste dalla
legislazione vigente al fine di adeguarne gli effetti
finanziari agli obiettivi. Contiene inoltre, per
ciascun anno del triennio di
riferimento, le misure
quantitative necessarie a realizzare gli obiettivi
programmatici
da conseguire per accelerare la
riduzione del debito pubblico. Indica in particolare
il
livello massimo del ricorso al mercato
finanziario e del saldo netto da finanziare in
termini di competenza e di cassa per ciascun anno
del triennio di riferimento, le
variazioni di
aliquote, detrazioni, scaglioni e altri parametri che
incidono sulla
determinazione di imposte, tasse,
tariffe, canoni e contributi, norme volte a
contrastare l’evasione fiscale e contributiva,
l’importo complessivo destinato al
rinnovo dei
contratti del pubblico impiego, ecc.
Non può includere norme di delega o
di carattere
ordinamentale o organizzativo, o interventi di
natura localistica o
microsettoriale. La legge di
bilancio, in altri termini, non può diventare una
legge
omnibus, cioè con contenuti innovativi
eterogenei, spesso
onerosi, tali da compromettere
l’organicità e la trasparenza della manovra di
bilancio.
Ciò come reazione all’esperienza non
positiva dei primi anni di applicazione della
cosiddetta legge finanziaria introdotta alla fine
degli anni Settanta del secolo scorso
(l. n.
468/1978) per adeguare le entrate e le uscite del
bilancio dello Stato agli obiettivi di politica
economica indicati nei bilanci
pluriennale e
annuale, ma divenuta col tempo una legge omnibus.
La seconda sezione del disegno di
legge di bilancio
è costituita dallo stato di previsione dell’entrata,
dallo stato di
previsione della spesa distinta per
ministeri e dal quadro generale riassuntivo con
riferimento al triennio. Questa sezione è formata
sulla base della legislazione vigente
ed evidenzia
gli effetti finanziari derivanti dalle disposizioni
contenute nella prima
sezione. Essa espone per
l’entrata, e distintamente per ciascun ministero,
per la spesa
le cosiddette unità di voto
parlamentare. Queste ultime sono costituite, per la
spesa,
dai programmi affidati a un unico centro di
responsabilità amministrativa, cioè dagli
aggregati con finalità omogenee diretti al
perseguimento degli obiettivi stabiliti
nell’ambito
delle missioni. Queste rappresentano le funzioni
principali e gli obiettivi
strategici perseguiti per la
454 spesa.
Gli stati di previsione relativi ai
singoli ministeri
sono accompagnati da una nota integrativa e da
una scheda
illustrativa. La prima contiene i criteri
per la previsione relativa alle principali
imposte e
tasse e, per quanto riguarda le spese, gli obiettivi,
le priorità, gli
indicatori di risultato correlati a
ciascun programma di spesa, nonché i criteri di
formulazione delle previsioni di spesa. La seconda
riporta una serie di informazioni
relative a ogni
programma di spesa e alle leggi che lo finanziano,
con particolare
riguardo ai dati relativi alle spese di
funzionamento (incluse quelle del personale), le
spese correnti e in conto capitale (art. 21, comma
11).
Le entrate sono ripartite in
titoli, a seconda che
esse abbiano natura tributaria, extratributaria o
che derivino da
altre fonti (alienazione di beni,
prestiti, ecc.) tipologie, categorie, unità elementare
di bilancio (art. 25). Le spese sono invece ripartite
in missioni, programmi e unità
elementari di
bilancio. Le dotazioni finanziarie previste per
ciascun programma sono
distinte in spese correnti,
con indicazione delle spese del personale, e in
spese
d’investimento, nonché in spese non
rimodulabili (oneri inderogabili, come gli stipendi,
gli ammortamenti dei mutui, ecc.) e rimodulabili
(cioè sulle quali l’amministrazione può
esercitare
un controllo effettivo). Le unità elementari del
bilancio sono costituite dai
capitoli nei quali le
spese dello Stato sono ripartite secondo l’oggetto
della spesa e
sono ripartite secondo il contenuto
economico e funzionale delle spese ivi iscritte
(art.
25, comma 2-bis).
I principi generali in   I principi in materia di
  bilancio
 materia di bilancio in
attuazione dell’art. 81
Cost. (art. 24 l. n. 196/2009 e, per gli enti locali, art.
162 d.lgs. n. 267/2000) sono principalmente
l’integrità,
l’universalità, l’unità del bilancio, la
pubblicità, la veridicità. In particolare,
l’integrità
richiede che tutte le entrate e le spese siano
iscritte nel bilancio nella
loro esatta entità.
L’universalità e l’unità vietano alle
amministrazioni di gestire
fondi al di fuori del
bilancio. Le amministrazioni possono impegnare i
fondi stanziati e
ordinare le spese nei limiti delle
risorse assegnate in bilancio (art. 34).
  el caso in cui il bilancio  non venga approvato
N
entro l’anno, il   L’esercizio provvisorio
  del
bilancio
parlamento può
concedere, come si è
accennato, l’esercizio provvisorio per un periodo
non superiore a
quattro mesi. In tale periodo la
gestione del bilancio è consentita per tanti
dodicesimi
della spesa prevista quanti sono i mesi
dell’esercizio provvisorio (art. 32).
 Entro il mese di giugno di ciascun
anno, il ministro
dell’Economia e delle Finanze presenta un disegno
di legge ai fini di
assestamento delle previsioni di
bilancio, provvedendo alle opportune variazioni,
anche
in relazione ai provvedimenti legislativi
approvati successivamente alla presentazione
del
bilancio di previsione (art. 33).
Entro il mese di giugno di ogni
anno, il ministro
dell’Economia  e   Il rendiconto generale
 
delle Finanze
presenta
alle Camere il rendiconto generale
dell’esercizio dell’anno precedente con allegata
una
nota integrativa (art. 36). Il rendiconto si
compone di due parti: il conto del
bilancio, che
espone le entrate e le uscite di competenza
dell’anno precedente (inclusi
i cosiddetti residui
attivi e passivi); il conto generale del patrimonio
che dà una
rappresentazione della composizione e
455 della variazione delle consistenze patrimoniali
nell’anno precedente. La nota integrativa ha due
sezioni: la
prima illustra i risultati, analizzando il
grado di realizzazione degli obiettivi; la
seconda
illustra i risultati finanziari ed espone i principali
fatti di gestione
motivando gli eventuali
scostamenti tra le previsioni iniziali di spesa e
quelle finali.
 Il rendiconto generale
dell’esercizio scaduto,
prima dell’invio al parlamento, viene trasmesso
entro il 31
maggio alla Corte dei conti che procede
alla cosiddetta parificazione dei conti, cioè a
un
giudizio sulla conformità o difformità tra le
previsioni di bilancio e i risultati
della gestione
(art. 37). La Corte dei conti, parificato il
rendiconto generale, lo
trasmette al ministro
dell’Economia e delle Finanze che lo presenta alle
Camere in forma
di disegno di legge per
l’approvazione prescritta dall’art. 81 Cost. Il ciclo
del bilancio, in definitiva, si apre e
si chiude nella
sede parlamentare.
Qualche  cenno va
dedicato alla finanza   La finanza regionale e
  degli enti
locali
delle regioni, delle
province e dei comuni rispetto
alla quale è stato
avviato un processo riformatore volto ad attuare il
cosiddetto
«federalismo fiscale». Le linee
fondamentali erano state poste dalla legge delega 5
maggio 2009, n. 42 in attuazione dell’art. 119 Cost.
che, nella versione introdotta dalla legge
costituzionale n. 3/2001, rafforzava l’autonomia
finanziaria di entrata e di spesa degli enti
territoriali. Questo processo, data anche
la
sopravvenuta situazione di emergenza finanziaria
che ha richiesto tagli nei
trasferimenti finanziari e
tetti di spesa anche nei confronti degli enti
territoriali,
ha subito una battuta d’arresto.
 Il modello delineato dall’art. 119 Cost. è quello del
passaggio da un sistema di
finanza derivata, cioè
impostato sul trasferimento di risorse finanziarie
dallo Stato
agli enti territoriali nel quadro della
manovra di bilancio sopra descritta, a un
sistema
nel quale le entrate proprie degli enti territoriali
(inclusa anche la
compartecipazione al gettito di
tributi statali) garantiscono la copertura integrale
delle funzioni e nel quale sono previste comunque
forme di perequazione a favore dei
territori con
minor capacità fiscale.
Un  passaggio   Il criterio dei costi
  standard
cruciale nel modello
di finanziamento
degli enti territoriali previsto dalla
l. n. 42/2009 è
costituito dai livelli essenziali delle
prestazioni che
devono essere garantiti in base all’art. 117 Cost. in
modo uniforme sull’intero territorio
nazionale
anche con finanziamenti dal centro. Il criterio di
allocazione delle risorse è
quello dei costi standard
(determinati in astratto per tipologie di funzioni e
di
attività), piuttosto che quello tradizionale della
spesa storica di ciascun ente. Il
tentativo è cioè
quello di promuovere il confronto tra enti
territoriali e di favorire
comportamenti virtuosi.
Infatti un’amministrazione che abbia costi
superiori a quelli
standard per una determinata
funzione è tenuta a varare misure organizzative e
gestionali volte ad allinearli. La determinazione dei
costi standard è un’operazione
complessa data la
quantità di variabili delle quali si deve tener conto.
I  n ogni caso, come già accennato,
anche la finanza 
degli enti territoriali   Il Patto di stabilità
  interno
è condizionata dai
vincoli europei
imposti dal Patto di stabilità. Essi si traducono nel
cosiddetto Patto
di stabilità interno, già
richiamato, che è stato introdotto nel nostro
ordinamento a
partire dal 1999 (legge 23 dicembre
1998, n. 448) soprattutto al fine di
sottoporre a
controllo l’indebitamento netto degli enti
456 territoriali.
  e regole del Patto di stabilità
interno vengono
L
specificate nell’ambito della predisposizione e
approvazione della
manovra di finanza pubblica. In
particolare, gli obiettivi dei bilanci annuali e
pluriennali degli enti territoriali devono essere
coerenti con gli obiettivi
programmatici fissati dal
DEF, nella sezione contenente il Programma di
stabilità (art. 8, l. n. 196/2009). A questo fine il
coordinamento viene
operato all’interno della
Conferenza permanente per il coordinamento
della finanza
pubblica istituita all’interno della
Conferenza unificata Stato, regioni ed enti locali
(art. 5 l. n. 42/2009). Per gli enti territoriali meno
virtuosi, che non rispettano cioè gli obiettivi di
finanza pubblica, è previsto un
sistema di sanzioni
sotto forma, in particolare, di divieto di procedere
a nuove
assunzioni di personale, di divieto di
iscrivere in bilancio spese per attività
discrezionali,
di ineleggibilità degli organi di governo e
amministrativi dell’ente per
i quali sia stato
dichiarato lo stato di dissesto finanziario (art. 18 l.
n. 42/2009).
Inoltre alla Corte dei conti sono
stati attribuiti
poteri di verifica dei bilanci preventivi e consuntivi
degli enti
locali ai fini del rispetto degli obiettivi
del Patto di stabilità interno, nonché dei
limiti e
della sostenibilità dell’indebitamento (art. 148-bis
Testo
unico degli enti locali, aggiunto dal d.l. 1 o

ottobre 2012,
n. 174, convertito in legge 7 dicembre
2012, n. 213). Ove la verifica si concluda
con un
accertamento da parte della Corte dei conti di
squilibri economico-finanziari,
della mancata
copertura di spese e più in generale di violazione
dei vincoli derivanti
dal Patto di stabilità interno,
gli organi di governo dell’ente locale sono obbligati
ad
adottare entro 60 giorni i provvedimenti idonei
a rimuovere le irregolarità e a
ripristinare gli
equilibri di bilancio.
La normativa contabile delle
regioni è contenuta
nel d.lgs. 12 aprile 2006, n. 170 che opera una
ricognizione dei
principi per l’armonizzazione dei
bilanci regionali, mentre quella degli enti locali è
contenuta nel Testo unico approvato con d.lgs. n.
267/2000.
La pandemia da Covid-19 , con la chiusura di molte
attività nella fase del   La fase post pandemia
  da
Covid-19
cosiddetto
lockdown,
ha provocato uno
shock economico di enorme impatto
sulle imprese
(con una caduta rilevante del prodotto interno
lordo) e sulla popolazione.
Con la comunicazione
del 20 marzo 2020 (COM(2020) 123 final) la
Commissione europea, con
l’avallo dei ministri
delle Finanze dell’Unione europea del 23 marzo
2020, ha ritenuto
necessario attivare la cosiddetta
clausola di salvaguardia prevista dalla normativa
per
le situazioni di grave recessione economica
(regolamenti (CE) 1997/1466 e 1997/1467). La
clausola consente agli Stati membri di allontanarsi
temporaneamente dagli obiettivi di
sostenibilità
del bilancio a medio termine. Ciò ha permesso agli
Stati membri e in
particolare all’Italia di
aumentare i livelli di spesa e del debito pubblico
allo scopo
di erogare finanziamenti e sussidi alle
imprese e di mettere in opera altri interventi a
sostegno della cittadinanza. In parallelo, il 19
marzo 2020 la Commissione europea ha
approvato
il Temporary Framework, modificato più volte, allo
scopo
di utilizzare la massima flessibilità nel
regime di aiuti di Stato alle imprese, in modo
da
consentire misure di sostegno d’emergenza. Il
regime di sostanziale sospensione delle
regole
europee è previsto fino alla fine del 2022. La
Commissione europea ha anche
avviato un
dibattito pubblico per la revisione dell’intero
457 sistema di
governance economica europea che
potrebbe preludere a modifiche
delle regole vigenti
ritenute da molti come eccessivamente rigide.
 
5. La
gestione delle risorse e il
procedimento di spesa
Occorre ora trattare la dimensione
«micro» della
finanza pubblica, cioè l’attività e le procedure di
spesa delle pubbliche
amministrazioni che
condizionano l’utilizzo delle risorse finanziarie
stanziate nel
bilancio di previsione.
In primo luogo, le risorse
assegnate a un
determinato apparato amministrativo (per
esempio un ministero) vengono
ripartite
dall’organo di indirizzo politico-amministrativo tra
gli uffici di livello
dirigenziale generale (art. 4,
comma 1, lett. c), d.lgs. n. 165/2001), i quali a
loro
volta le attribuiscono ai propri dirigenti (art. 16,
comma 1, lett. b)). I dirigenti di entrambi i
livelli,
nell’ambito delle rispettive competenze,
«esercitano i poteri di spesa» (artt. 16, comma 1,
lett. d), e 17, comma 1, lett. b)) in modo autonomo.
Le obbligazioni assunte dalle
pubbliche
amministrazioni che comportano spese a carico
del bilancio derivano talvolta
direttamente dalle
leggi o da sentenze (che, per esempio, condannano
un’amministrazione
a inquadrare a un livello più
elevato alcune categorie di personale), oppure, più
frequentemente, da provvedimenti amministrativi
(assunzione di dipendenti a conclusione
di un
procedimento concorsuale, erogazioni di
contributi finanziari, ecc.) e da
contratti stipulati
all’esito di una procedura a evidenza pubblica.
La decisione sostanziale relativa
alla spesa  operata
da un   Le fasi del
  procedimento di
spesa
provvedimento
amministrativo va
tuttavia distinta dall’erogazione materiale delle
somme. Quest’ultima avviene in base a
un
procedimento di spesa articolato in quattro fasi:
l’impegno, la liquidazione,
l’ordinazione e il
pagamento. Esse coinvolgono una pluralità di uffici
interni (artt. 270 ss. r.d. 23 maggio 1924, n. 827 e,
per gli enti
locali, artt. 178 ss. d.lgs. n. 267/2000) e
mirano a garantire il
rispetto dei vincoli derivanti
dal bilancio di previsione e la regolarità dei
pagamenti.
 
1.
L’impegno di spesa è volto a imprimere alle
somme iscritte a bilancio una destinazione
specifica, cioè quella di soddisfare l’obbligazione
validamente assunta
dall’amministrazione nei
confronti di un creditore. L’atto di impegno
stabilisce
l’importo da pagare su un determinato
capitolo di bilancio, il soggetto creditore e la
ragione e costituisce un vincolo sulle previsioni di
bilancio nel senso che, alle somme
in questione,
non può essere data altra destinazione (art. 183
d.lgs. n. 267/2000). L’atto di impegno, che ha una
rilevanza essenzialmente interna
all’amministrazione, ha dunque come presupposto
l’atto
che fa sorgere l’obbligazione, anche se spesso
vi è contestualità tra i due atti. Ciò è
chiarito dalla
disposizione secondo la quale «formano impegni
sugli stanziamenti di
competenza le sole somme
dovute dallo Stato a seguito di obbligazioni
giuridicamente
perfezionate» (art. 20, comma 3,
legge 5 agosto 1978, n. 468 e art. 183, comma 1,
458 d.lgs. n.
267/2000).
Come regola generale gli impegni
«possono
riferirsi soltanto all’esercizio in corso» (art. 272
r.d. n. 827/1923 e art. 20, comma 4, l. n. 468/1978),
ma sono ammesse numerose
eccezioni, per
esempio per le spese in conto capitale, per le spese
correnti necessarie
per assicurare la continuità dei
servizi o per le spese relative agli affitti. Gli enti
locali possono assumere impegni di spesa sugli
esercizi successivi, compresi nel
bilancio
pluriennale, nel limite delle somme in questo
comprese (art. 183, comma 7, d.lgs. n. 267/2000).

2.
La liquidazione della spesa è un atto interno
che verifica i titoli e i documenti
comprovanti i
diritti dei creditori (per esempio le ricevute della
consegna dei beni
forniti all’amministrazione in
esecuzione di un contratto) e determina così la
somma
certa e liquida da pagare (art. 184 d.lgs. n.
267/2000).

3.
L’ordinazione della spesa, alla quale provvede
l’ufficio di ragioneria, è l’atto con il
quale
l’amministrazione impartisce al tesoriere la
disposizione di provvedere al
pagamento delle
somme liquidate mediante il mandato o
l’ordinativo di pagamento. Il
tesoriere o cassiere è
in molti casi un ufficio o un soggetto distinto
dall’ufficio
dell’amministrazione che ordina il
pagamento e ciò costituisce una garanzia in più per
il regolare maneggio del danaro pubblico.

4.
Il pagamento, cioè l’erogazione materiale della
somma, che può avvenire in varie forme
incluso
l’accreditamento su conti correnti bancari o
postali, è effettuato dal tesoriere
in seguito alla
ricezione del mandato di pagamento e previo
riscontro della regolarità
formale.
CAPITOLO 14

Le linee generali del sistema

461
1. Nozione

Nei capitoli precedenti si è


accennato
all’istituzione del giudice amministrativo nel 1889,
ai bisogni di tutela
correlati agli interessi legittimi
e agli strumenti per soddisfarli.
È ora necessario trattare in modo più
organico il
tema della giustizia amministrativa. Si limiterà
l’analisi alle strutture
portanti, rinviando
l’esposizione più compiuta dei singoli istituti a
Clarich [2021],
che costituisce un completamento
di questo manuale.
L’espressione «giustizia
amministrativa»,
nell’accezione più   L’accezione lata e
  ristretta di
giustizia
 ampia, include tutti i amministrativa
mezzi predisposti da
un ordinamento
giuridico per assicurare la conformità dell’azione
amministrativa alla legge e al miglior
perseguimento dell’interesse pubblico nel caso
concreto. Questa accezione abbraccia anche le
garanzie procedimentali, l’autotutela
cosiddetta
decisoria (annullamento d’ufficio, revoca, ecc.), il
difensore civico, i
controlli amministrativi di
legittimità e di merito, ecc. Essa riflette la
cosiddetta
concezione oggettiva della tutela, più
risalente nel tempo, che pone in primo piano
l’interesse pubblico a garantire con ogni mezzo il
rispetto dei limiti giuridici e non
giuridici imposti
all’azione amministrativa.
  ’accezione più ristretta
corrisponde invece alla
L
 concezione   La concezione
  soggettiva
soggettiva sottesa già
agli artt. 24 e 113
Cost., che pongono in primo piano l’esigenza di
una tutela
piena ed effettiva dei diritti soggettivi e
degli interessi legittimi.
  ’accezione più ristretta include
dunque soltanto
L
gli istituti volti ad assicurare la giustiziabilità delle
situazioni
giuridiche dei soggetti che entrano in
contatto con la pubblica amministrazione allorché
questa pone in essere atti e comportamenti non
conformi alle leggi e ai principi
generali
462 dell’attività amministrativa.
Essi consistono in rimedi
propriamente
giurisdizionali, da esperire innanzi al giudice
ordinario o al giudice
amministrativo, e in rimedi
non giurisdizionali (ricorso gerarchico, ricorso in
opposizione, ricorso straordinario al presidente
della Repubblica e altri rimedi
giustiziali
alternativi alla giurisdizione).
La concezione soggettiva è ora
sviluppata nel
Codice del processo amministrativo approvato con
d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 ed è accolta dalla
giurisprudenza
(Cons. St., Ad. Plen., 7 aprile 2011,
n. 4).
Sotto il profilo storico e culturale
gli istituti della
giustizia amministrativa, e in particolare i rimedi
di tipo
giurisdizionale, vanno collocati nel contesto
del costituzionalismo moderno e
dell’affermarsi
progressivo dello Stato di diritto nei secoli XVIII e
XIX. Come si è già
osservato nel capitolo I,
quest’ultimo infatti richiede una tutela
giurisdizionale
completa ed effettiva del cittadino
nei confronti della pubblica amministrazione.
In Italia il sistema della giustizia
amministrativa è
evoluto – a partire dalla seconda metà del XIX
secolo fino al Codice del processo amministrativo
– in modo graduale ad opera
del legislatore e della
giurisprudenza amministrativa.
2. La legge
del 1865 abolitiva
del contenzioso
amministrativo
Le tappe essenziali possono essere
così
schematizzate: il contenzioso amministrativo
negli Stati italiani preunitari; il
sistema del giudice
unico tra il 1865 e il 1889; l’istituzione del giudice
amministrativo nel 1889 e gli assestamenti fino alla
Costituzione del 1948; l’attuazione
del disegno
costituzionale e le riforme più recenti culminate
nel Codice del processo amministrativo.
Il  contenzioso   Il contenzioso
  amministrativo
amministrativo
abbracciava un
complesso di organi, commissioni e tribunali
speciali separati dai tribunali ordinari competenti
a dirimere le liti tra i privati
(consiglio del re,
intendenti di finanza, camera dei conti,
giurisdizione delle acque e
delle foreste, comitato
contenzioso delle finanze, ecc.). Essi furono
istituiti nei vari
Stati per risolvere, in relazione a
determinate materie, le controversie in cui fosse
interessato il potere esecutivo. Si trattava di
organismi dipendenti dal sovrano
(amministrazione contenziosa), per quanto
distinti in qualche misura dagli organi di
amministrazione attiva. Essi dunque non potevano
essere considerati giudici in senso
proprio.
I  n Francia questo sistema venne
introdotto in
epoca antecedente alla Rivoluzione del 1789 e da
questa confermato e
perfezionato. Il Conseil de Roi
(organo di alta consulenza del re
per gli affari
politici e giuridici, poi trasformato in epoca
napoleonica in
Conseil d’État), in particolare,
formulava i pareri sui ricorsi
amministrativi
rivolti al sovrano, il quale emanava la propria
decisione recependo,
nella quasi totalità dei casi, le
indicazioni dell’organo consultivo (cosiddetta
giustizia ritenuta, cioè imputata formalmente in
capo al sovrano). Nel 1872 al
Conseil d’État venne
attribuita in via permanente (cosiddetta
giustizia
delegata, cioè esercitata in proprio sulla base di
463 un’attribuzione
legislativa) la funzione di giudice
del contenzioso
amministrativo. Così il Conseil
d’État completò la propria
trasformazione in
giudice in senso proprio.
Quasi in contemporanea, nel 1873, il
Tribunal des
Conflits emanò la pronuncia sull’arrêt
Blanco, che,
come si è già accennato, segna convenzionalmente
la nascita
del diritto amministrativo. Stabilita
l’autonomia del diritto amministrativo dal diritto
comune, fu lo stesso Conseil d’État a elaborare e ad
adattare via
via, con notevole libertà, pragmatismo
e flessibilità (souplesse),
i principi fondamentali di
questo diritto che dunque ha assunto e mantenuto
per molto
tempo il carattere di un diritto non
codificato di natura essenzialmente
giurisprudenziale.
Il contenzioso amministrativo fu
adottato in
numerosi Stati europei (Spagna, Portogallo,
Grecia, Romania, ecc.). In
Italia, dove peraltro
erano già state sperimentate forme già evolute di
tutela
giustiziale (in particolare la Regia camera
della sommaria operante da oltre tre secoli
nel
Regno di Napoli), il sistema del contenzioso
amministrativo prese piede in seguito
all’occupazione napoleonica.
Con l’unificazione nazionale
avvenuta nel 1861, si
pose il problema di riordinare la materia della
giustizia
amministrativa organizzata in modi
diversi negli Stati preunitari. Il contenzioso
amministrativo non sembrava in linea con la nuova
visione dello Stato liberale. La
giustizia infatti non
può essere elargita, per così dire, per grazia del
sovrano, ma
deve essere assicurata da un giudice in
senso proprio. La soluzone ritenuta più conforme
ai principi dello Stato liberale fu quella di
devolvere al giudice ordinario le
controversie tra
cittadino e pubblica amministrazione, già previsto
dalla Costituzione
belga del 1831. Quest’ultima si
ispirava a sua volta all’esperienza inglese del
giudice
unico. Una delle implicazioni della rule of
law era anche quella
secondo la quale il giudice
della common law era competente a
conoscere tutti
i tipi di liti, senza alcun privilegio particolare per la
corona e i
suoi funzionari.
La legge fondamentale 20 marzo 1865,
n. 2248, All.
E, già  richiamata nel   La legge 20 marzo
  1865, n. 2248,
All. E
capitolo I, che
definisce
ancor oggi il
fondamento e i limiti della giurisdizione del
giudice ordinario nei
confronti della pubblica
amministrazione, abolì i precedenti sistemi del
contenzioso
amministrativo. Attribuì per contro la
tutela dei «diritti civili e politici» dei
cittadini al
giudice ordinario (art. 2), ponendo limiti rigidi ai
poteri decisori di
quest’ultimo in ossequio al
principio della separazione dei poteri.
 L’art. 4, comma 2, prevede infatti che «l’atto
amministrativo
non potrà essere revocato o
modificato se non sovra ricorso alle competenti
autorità
amministrative». Il giudice ordinario non
può emanare in particolare sentenze di
annullamento di un atto amministrativo e, più in
generale, di sostituzione diretta o
indiretta della
volontà espressa dall’amministrazione con l’atto
amministrativo (per
esempio, di condanna a
emanare un determinato provvedimento).
L’art. 5 prevede invece che «le
autorità giudiziarie
applicheranno gli atti amministrativi ed i
regolamenti generali e
locali in quanto siano
conformi alle leggi». Attribuisce cioè al giudice la
possibilità
di emanare soltanto sentenze
dichiarative (o di mero accertamento) che
determinano la
disapplicazione del provvedimento
464 illegittimo lesivo del diritto
soggettivo. La
disapplicazione è limitata alla singola
controversia
della quale il giudice è investito e lascia in vita il
provvedimento.
La  legge
del 1865   Le carenze della legge
  del
1865
segnò dunque una
svolta che portò però,
nell’applicazione pratica, a una
situazione
paradossale nella quale il cittadino si trovò ancor
meno tutelato nei suoi
rapporti con
l’amministrazione. Ciò a causa di una pluralità di
fattori: l’incerta
determinazione dell’ambito di
cognizione del giudice ordinario, unita a una certa
timidezza di quest’ultimo nei confronti
dell’amministrazione; la mancanza di strumenti
efficaci per indurre l’amministrazione a
conformarsi al giudicato del giudice ordinario;
l’assenza di rimedi giurisdizionali per gli interessi
individuali diversi dai diritti
soggettivi che in
precedenza potevano essere tutelati, almeno in
parte, all’interno del
sistema del contenzioso
amministrativo.
 Decisiva fu soprattutto la
ricostruzione dei
rapporti tra atto amministrativo e diritto
soggettivo. Infatti, la
giurisprudenza ritenne che
l’atto amministrativo, ancorché illegittimo, fosse
comunque
imperativo, cioè idoneo a produrre gli
effetti nella sfera giuridica del destinatario e
in
particolare a incidere sul diritto soggettivo. E se
quest’ultimo era destinato a
cedere di fronte al
potere amministrativo, al privato era con ciò
stesso preclusa la
possibilità di rivolgersi al giudice
civile non potendo più affermare la titolarità di
un
diritto soggettivo. In definitiva, secondo la
giurisprudenza civile, solo per i
cosiddetti «atti di
gestione», cioè gli atti emanati nell’esercizio della
capacità di
diritto privato, poteva incardinarsi la
giurisdizione del giudice ordinario. Al
contrario, i
cosiddetti «atti di imperio», espressione di un
potere dell’amministrazione
in senso proprio,
restavano sprovvisti di una tutela.
3. La
nascita del giudice
amministrativo
Si  aprì
così un   La IV Sezione del
  Consiglio di
Stato
dibattito politico e
dottrinale [Mantellini
1878; Minghetti 1881; Spaventa 1880]
che sfociò
nella legge 31 marzo 1889, n. 5992 istitutiva della IV
Sezione del
Consiglio di Stato. La IV Sezione si
aggiungeva a quelle già istituite e svolgenti
funzioni consultive nei confronti del governo. Essa
fu investita della competenza a
«decidere sui
ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o
per violazione di legge
contro atti e
provvedimenti di un’autorità amministrativa o di
un corpo amministrativo
deliberante, che abbiano
per oggetto un interesse d’individui o di enti
morali
giuridici» (art. 3).
  uesta formulazione delineò i
caratteri essenziali
Q
del nuovo rimedio del quale peraltro rimase
incerta, in origine, la
natura propriamente
giurisdizionale. Si trattava di un ricorso volto a
contestare la
legittimità di un provvedimento
lesivo di un interesse del ricorrente (l’interesse
legittimo) e finalizzato a rimuovere l’atto e i suoi
effetti (annullamento con effetto
retroattivo).
Peraltro, la legge del 1889  operò un’integrazione
del sistema di tutela   Il dualismo del sistema
  di
giustizia
giurisdizionale amministrativa
delineato dalla legge
del 1865, che non
venne abrogata. Si diede così origine a un
sistema
dualistico, che permane tutt’oggi: il giudice
ordinario, preposto alla tutela
dei diritti soggettivi;
il giudice amministrativo, preposto alla tutela degli
465 interessi
legittimi.
  olte disposizioni della legge del
1889 vennero
M
riprese, con poche variazioni, nel Testo unico delle
leggi sul Consiglio di
Stato del 1924 (r.d. 26 giugno
1924, n. 1054) e nella legge 6 dicembre 1971, n. 1034
istitutiva dei Tribunali
amministrativi regionali
(TAR).
La legge 7 marzo 1907, n. 42 sancì
in modo
definitivo la natura giurisdizionale del
procedimento innanzi al giudice
amministrativo e
istituì la V Sezione del Consiglio di Stato, alla
quale venne deferita
per alcune materie
tassativamente individuate la cosiddetta
giurisdizione di merito. Va
ricordato anche il
«regolamento per la procedura dinanzi al
Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale» 17
agosto 1907, n. 642 rimasto in vigore fino al Codice.
Il r.d. 30 dicembre 1923, n. 2840 istituì la
cosiddetta
giurisdizione esclusiva in alcune
materie (impiego pubblico, riconoscimento e
trasformazione di enti pubblici, recupero delle
spese di spedalità, ecc.) nelle quali
l’intreccio tra
diritti soggettivi e interessi legittimi creava una
situazione di
incertezza e consigliava dunque la
loro devoluzione al giudice amministrativo. La
tutela
di alcuni diritti soggettivi veniva cioè
affidata al giudice amministrativo, creando
però
problemi di adattamento delle regole processuali
(mezzi di prova, tipologia di
azioni, termini per
proporre il ricorso) a una situazione giuridica
strutturalmente
diversa dall’interesse legittimo. Le
disposizioni sul processo amministrativo furono
accorpate e riordinate nel citato Testo unico delle
leggi sul Consiglio di Stato
approvato con r.d. 26
giugno 1924, n. 1054.
4. La
giustizia amministrativa
nella Costituzione
La giustizia amministrativa non fu
oggetto di
particolare attenzione in sede di Assemblea
costituente. La Costituzione si
limita a
«confermare il sistema già vigente limitandosi ad
elevare i suoi principi a
norme di ordine
costituzionale» [Zanobini 1958] e «ha consolidato i
lineamenti del
sistema quali risultano dalle leggi
del 1865 e del 1889» [Nigro 2002, 229].
La Costituzione conferma infatti il
dualismo dei
giudici e delle situazioni giuridiche delle quali
possono essere titolari i
soggetti privati nei
rapporti con le amministrazioni. I diritti soggettivi
e gli
interessi legittimi trovano infatti una
collocazione parallela e paritaria negli artt. 24,
comma 1, e 113, comma 1, Cost.
L’art. 103, comma 1, stabilisce poi che «Il Consiglio
di Stato
e gli altri organi di giustizia
amministrativa hanno giurisdizione per la tutela
nei
confronti della pubblica amministrazione degli
interessi legittimi». Il giudice
amministrativo è
pertanto il giudice per così dire naturale degli
interessi legittimi.
Il giudice amministrativo può
conoscere anche
situazioni  giuridiche   La sentenza della
  Corte
costituzionale 6
di diritto soggettivo luglio 2004, n. 204
(giurisdizione
esclusiva), ma, come
prevede l’art. 103 sopra riportato, solo «in
particolari materie indicate dalla legge». La Corte
costituzionale, nella sentenza 6 luglio 2004, n. 204
già citata, ha chiarito come debba essere
interpretata la formula «particolari materie»: deve
trattarsi di materie nelle quali la
pubblica
466 amministrazione agisce comunque come
«autorità», cioè
come titolare di un potere
amministrativo in senso proprio, e nelle quali
dunque la
tutela dei diritti soggettivi è ancillare
rispetto a quella degli interessi legittimi.
 La Corte ha dunque escluso che per
radicare la
giurisdizione amministrativa sia sufficiente che la
controversia coinvolga
una parte pubblica, cioè
una pubblica amministrazione (criterio soggettivo
seguito per
esempio in Germania). Non conforme
alla Costituzione è anche la devoluzione all’uno o
all’altro giudice di «blocchi di materie» (criterio
oggettivo, come in Francia quello
del servizio
pubblico). La Corte fonda invece il riparto della
giurisdizione tra giudice
ordinario e
amministrativo sul criterio di titolarità della
situazione giuridica
soggettiva lesa e riafferma
nello stesso tempo la connotazione della
giurisdizione
amministrativa come giurisdizione
sul potere amministrativo.
L’art. 113, comma 2, prevede che la tutela
giurisdizionale  «non   La Costituzione
 
può essere esclusa o
limitata a particolari mezzi di
impugnazione o per
determinate categorie di atti». Ciò per evitare che,
com’era accaduto
nel precedente regime
autoritario, possano essere sottratte per legge
intere materie o
tipologie di atti al controllo
giurisdizionale.
  ’art. 113, comma 3, infine stabilisce che «La legge
L
determina
quali organi di giurisdizione possono
annullare gli atti della pubblica amministrazione
nei casi e con gli effetti previsti dalla legge».
Questa disposizione evita cioè di
costituzionalizzare il divieto di annullamento degli
atti amministrativi previsto
dall’art. 4, comma 2, l.
n. 2248/1865, All. E. Anche il giudice
ordinario in
alcune materie, come per esempio quelle delle
sanzioni amministrative
pecuniarie e della
privacy, è investito di questo potere.
La  Costituzione   Il Consiglio di Stato
 
regola alcuni aspetti
organizzativi della giustizia amministrativa.
Anzitutto definisce il Consiglio di Stato come
«organo di consulenza
giuridico-amministrativa e
di tutela della giustizia nell’amministrazione» (art.
100).
Questa disposizione consolida il duplice
ruolo del Consiglio di Stato come organo di
alta
consulenza del governo e come organo di vertice
(cioè come giudice d’appello) della
giurisdizione
amministrativa. Attualmente, sei sezioni del
Consiglio di Stato svolgono
le funzioni
giurisdizionali (II, III, IV, V, VI, VII), mentre le
altre (I Sezione e la
Sezione consultiva atti
normativi) svolgono le funzioni consultive.
  ’art. 125, comma 2, Cost. prevede l’istituzione in
L
ciascuna
regione di organi di giustizia
amministrativa di primo grado.
Infine, l’art. 111, ultimo comma, Cost. precisa che
contro le pronunce
del Consiglio di Stato può
essere proposto ricorso in Cassazione «per i soli
motivi
inerenti alla giurisdizione». Questa
disposizione assegna alla Corte di cassazione (a
Sezioni Unite) il compito di definire i limiti della
giurisdizione amministrativa
soprattutto rispetto a
quella ordinaria.
La Costituzione non determinò
nell’immediato
mutamenti significativi del quadro legislativo in
materia di giustizia
amministrativa. Furono
soltanto istituiti nel 1948 la VI Sezione del
Consiglio di Stato
con funzioni giurisdizionali e,
come riconoscimento dell’autonomia speciale
della
Regione siciliana, il Consiglio di giustizia
amministrativa. Quest’ultimo è un organo
distaccato del Consiglio di Stato con funzioni
consultive nei confronti del governo
regionale e
467 funzioni giurisdizionali.
5. L’istituzione dei Tribunali
amministrativi regionali e le
riforme successive
La l. n. 1034/1971 istituì i Tribunali amministrativi
regionali
(insediati effettivamente nel 1974) e
diede attuazione all’art. 125, comma 2, Cost. Non
fu colta peraltro l’occasione
per porre una
disciplina organica e compiuta del processo
amministrativo.
La novità più rilevante fu aver
qualificato i TAR
come organi generali di
giustizia amministrativa
di primo grado, attribuendo al Consiglio di Stato
la natura di
giudice d’appello (art. 28, comma 2).
Inoltre la l. n. 1034/1971 ampliò le materie devolute
alla giurisdizione
esclusiva del giudice
amministrativo includendo quella relativa ai
rapporti di
concessione di beni o di servizi
pubblici, ad eccezione delle controversie
concernenti
le indennità e i canoni di concessione
che restavano attribuite alla competenza del
giudice ordinario e quelle dei tribunali delle acque
pubbliche (art. 5 l. n. 1034/1971). Attribuì al giudice
amministrativo,
nelle materie devolute alla propria
competenza esclusiva e di merito, il potere di
emanare sentenze di condanna, limitate peraltro al
pagamento delle somme delle quali
l’amministrazione fosse debitrice (art. 26, comma
3, l. n. 1034/1971).
Infine, reimpostò i rapporti tra
ricorso
giurisdizionale e ricorsi  amministrativi, oggetto
di
una disciplina   La facoltatività del
  ricorso
generale ad opera del amministrativo
quasi coevo d.p.r. 24
novembre 1971, n.
1199 (emanato sulla base
dell’art. 6, legge delega 28
ottobre 1970, n. 775). L’art. 20 pose cioè il principio
della facoltatività del previo esperimento del
ricorso gerarchico, cioè della non
necessarietà
dell’attivazione degli strumenti di tutela
amministrativa come condizione
per instaurare il
processo amministrativo. In precedenza il ricorso
giurisdizionale era
ammesso solo contro gli atti
definitivi, quelli cioè già oggetto del ricorso
gerarchico.
L’accesso alla tutela giurisdizionale
divenne così più diretto.
 La legge 27 aprile 1982, n. 186, tuttora vigente,
contiene
disposizioni organizzative e di
funzionamento del Consiglio di Stato e dei TAR
(articolazione dei TAR in più sezioni anche
distaccate, composizione dei collegi
giudicanti,
istituzione del Consiglio di presidenza come
organo di autogoverno, nomina,
status e carriera
dei magistrati e del personale di segreteria,
ecc.).
Negli anni successivi alla l. n. 1034/1971 il
legislatore operò una serie di interventi
minori.
Estese la giurisdizione esclusiva ad altre materie e
introdusse riti speciali
accelerati. Il d.lgs. n.
80/1998 trasferì al giudice ordinario la cognizione
delle controversie relative ai rapporti di lavoro con
le pubbliche amministrazioni
privatizzati all’inizio
degli anni Novanta, controversie devolute in
precedenza alla
giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo. In parallelo, il d.lgs. n. 80/1998
ampliò i casi di giurisdizione esclusiva a
interi
blocchi di materie (urbanistica, edilizia, servizi
pubblici), un ampliamento che
la Corte
costituzionale con la sentenza n. 204/2004 già
citata ritenne non compatibile con l’art. 103 Cost.
Una riforma strutturale del processo
amministrativo venne operata con la legge 21 luglio
2000, n. 205 con due obiettivi principali:
disciplinare l’azione risarcitoria per danni da
lesione di interessi legittimi prendendo
atto della
svolta operata dalle Sezioni Unite della Corte di
468 cassazione con la più
volte citata sentenza n.
500/1999; accrescere l’effettività della tutela
prevedendo alcuni riti accelerati, ridisegnando la
tutela cautelare, disciplinando il
giudizio sul
silenzio, rafforzando i poteri istruttori e decisori
del giudice
amministrativo e ampliando le materie
devolute alla giurisdizione esclusiva. Le novità
introdotte dalla l. n. 205/2000 sono state poi
trasfuse nel Codice del processo amministrativo.
Conviene   L’azione risarcitoria
 
 soffermarsi su un
solo aspetto della l. n. 205/2000 e cioè quello
relativo all’azione
risarcitoria. La sentenza delle
Sezioni Unite della Corte di cassazione n.
500/1999
affermò la giurisdizione del giudice ordinario per
le controversie
risarcitorie, qualificando la pretesa
risarcitoria come un diritto soggettivo sia pur
nascente da un provvedimento illegittimo. Il
giudice ordinario poteva conoscere
dell’illegittimità del provvedimento in via
incidentale, cioè nell’ambito
dell’accertamento
degli elementi costitutivi dell’art. 2043 cod. civ. e ai
soli fini risarcitori. In questo
modo il giudice
amministrativo perdeva per così dire il monopolio
della cognizione della
legittimità del
provvedimento amministrativo e si alterava
l’equilibrio con il giudice
ordinario. L’art. 7, comma
4, l. n. 205/2000 stabilì invece che l’azione
risarcitoria relativa alla lesione di interessi
legittimi rientra nella giurisdizione
del giudice
amministrativo aggiungendosi così e integrando la
tradizionale azione di
annullamento. L’azione
risarcitoria include anche la reintegrazione in
forma specifica.
La l. n. 205/2000 sancì dunque la
trasformazione del giudice
amministrativo da
giudice dell’annullamento degli atti amministrativi
illegittimi a
giudice anche del risarcimento del
danno da lesione di interessi legittimi.
 
Il Codice del processo  amministrativo del 2010
unifica per la prima   Il Codice del processo
volta in un solo
corpo   amministrativo
normativo la
disciplina del processo amministrativo abrogando
tutte le norme
precedenti (All. 4, recante Norme di
coordinamento e abrogazione).
Il Codice ha una
struttura snella (137 articoli) e contiene molti
rinvii espressi a
singole disposizioni del codice di
procedura civile. Inoltre, come si è già anticipato
nel capitolo I, rinvia, per quanto non disciplinato
dal Codice, alle disposizioni del
codice di
procedura civile «compatibili o espressione di
principi generali» (art. 39
rubricato Rinvio esterno).
 
6. Il
dualismo del sistema
italiano e il riparto di
giurisdizione
L’art. 7 , comma 1,   La tutela dei diritti
  soggettivi e
degli
Codice, riprendendo interessi legittimi
in ciò l’art. 103,
comma 1, Cost.,
attribuisce in termini generali
alla giurisdizione
amministrativa tutte le controversie «nelle quali si
faccia questione
di interessi legittimi», escludendo
così implicitamente che esse possano essere
attribuite al giudice ordinario. Questa
formulazione è simmetrica a quella contenuta
nell’art. 2 della legge del 1865 che attribuisce al
giudice
ordinario le controversie «nelle quali si
faccia questione d’un diritto civile o
politico» (cioè
di un diritto soggettivo).
 Inoltre, deve trattarsi di
controversie riguardanti
«provvedimenti, atti, accordi o comportamenti
riconducibili
anche mediatamente all’esercizio del
potere». Questa formulazione si ispira al criterio
469 indicato dalla sentenza della Corte costituzionale
n. 204/2004
già citata che connota, come si è visto,
la giurisdizione amministrativa come una
giurisdizione che ha per oggetto il potere
dell’amministrazione, ovvero
l’amministrazione-
autorità.
L’art. 7, comma 1, esclude peraltro dal perimetro
della  giurisdizione   L’esclusione degli atti
  politici
amministrativa «gli
atti o provvedimenti
emanati
dal governo nell’esercizio del potere
politico». Questa disposizione già contenuta nella
legge del 1889 pone all’interprete la necessità di
distinguere tra atti politici e atti
amministrativi, in
base ai criteri già esaminati nel capitolo IV.
 
Il riparto di giurisdizione ha
creato incertezze
proprio perché la distinzione tra diritti soggettivi e
interessi
legittimi appare spesso dubbia. Come si è
accennato nel capitolo III, la giurisprudenza
della
Corte di cassazione ha elaborato nel corso del
tempo tre criteri empirici: la
distinzione tra norma
di relazione e norma di azione; quella tra potere
vincolato e
potere discrezionale; quella tra carenza
di potere e cattivo esercizio del potere.
La giurisprudenza ha inoltre
individuato
all’interno dei diritti costituzionalmente garantiti
una categoria di
diritti soggettivi incomprimibili
(o non degradabili) da parte del potere
amministrativo, la cui tutela resta comunque
attribuita al giudice ordinario anche in
presenza di
provvedimenti amministrativi (diritto alla salute,
all’ambiente salubre,
diritti elettorali).
Fino ad anni recenti le due
giurisdizioni ordinaria
e amministrativa venivano ritenute incomunicabili
e l’errore
sulla giurisdizione era in molti casi fatale.
Il  Codice del   La translatio
judicii
 
processo
amministrativo introduce invece il
principio della
translatio judicii. Infatti, se la giurisdizione è
declinata dal giudice amministrativo in favore del
giudice ordinario e viceversa, «sono
fatti salvi gli
effetti processuali e sostanziali della domanda se il
processo è
riproposto innanzi al giudice indicato
nella pronuncia che declina la giurisdizione
entro
il termine di tre mesi dal suo passaggio in
giudicato» (art. 11, comma 2).
 Sul  riparto di   La Corte di cassazione
  come
giudice della
giurisdizione tra giurisdizione
giudice ordinario e
giudice
amministrativo decide in
ultima istanza la Corte di
cassazione (a Sezioni Unite), in base all’art. 111,
ultimo comma, Cost. Poiché la Corte di cassazione
rappresenta la struttura di vertice dell’ordine
giudiziario ordinario, il dualismo del
sistema di
giustizia amministrativa italiano, come si è
accennato, non può definirsi
perfettamente
paritario, ma a prevalenza istituzionale del giudice
ordinario. Ciò a
differenza del sistema francese nel
quale la parità istituzionale tra giudice ordinario
e
giudice amministrativo è garantita dal fatto che sul
riparto di giurisdizione si
pronuncia il Tribunal des
Conflits, composto in misura uguale da
giudici
ordinari e giudici amministrativi.
 Sulla portata dell’art. 111, ultimo
comma, Cost . che
ammette il ricorso in   L’interpretazione della
  Corte
costituzionale
Cassazione «per i
soli
motivi inerenti alla
giurisdizione» è intervenuta una sentenza della
Corte
costituzionale che ha optato per
un’interpretazione restrittiva (sentenza 18 gennaio
2018, n. 6). L’eccesso di potere giudiziario
denunciabile in Cassazione è configurabile solo in
tre ipotesi: quando il giudice
amministrativo (ma
anche la Corte dei conti) affermi la propria
giurisdizione nella
sfera riservata al legislatore o
all’amministrazione (invasione o sconfinamento);
quando
la neghi sull’erroneo presupposto che la
materia non può essere oggetto, in via
assoluta, di
cognizione giurisdizionale (arretramento); quando
affermi la propria
giurisdizione su materia
attribuita ad altra giurisdizione o, al contrario, la
470 neghi
sull’erroneo presupposto che appartenga ad
altri giudici
(difetto relativo di giurisdizione). Non
è dunque consentito censurare in Cassazione
errori, anche abnormi, nell’interpretazione delle
norme processuali o sostanziali.
 Il ricorso in Cassazione non può
essere dunque
proposto per la violazione o falsa applicazione
delle norme di diritto
(come prevede invece l’art.
360 cod. proc. civ. per le sentenze del giudice
ordinario) escludendo così che la Corte di
cassazione possa svolgere la cosiddetta
funzione
nomofilattica sul giudice amministrativo. Così, per
esempio, in tema di
risarcimento del danno ex
art.
2043 cod. civ., come si è visto, quest’ultimo sta
facendo proprie interpretazioni non del tutto in
linea con quelle della giurisdizione
ordinaria. La
funzione nomofilattica, come si è visto nel capitolo
I, è esercitata
invece dall’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato.
Il dualismo che caratterizza
l’ordinamento italiano
rappresenta un unicum nell’esperienza
occidentale,
che registra invece la prevalenza di sistemi
monistici, di sistemi cioè nei
quali le liti tra
cittadino e pubblica amministrazione vengono
devolute tendenzialmente
a un solo giudice:
giudice ordinario, nel Regno Unito, negli Stati
Uniti, in Belgio;
giudice amministrativo, in Francia,
in Germania, nella gran parte dei Paesi dell’Europa
continentale.
La giurisdizione del giudice
ordinario nei confronti
della  pubblica   La giurisdizione del
  giudice
ordinario
amministrazione
include anche una
serie di fattispecie nelle quali il legislatore gli
attribuisce
espressamente la giurisdizione sul
presupposto che si tratti di materie che involgono
soltanto diritti soggettivi. Tra i casi più importanti
va ricordato il giudizio di
opposizione alle sanzioni
amministrative pecuniarie (legge 24 novembre
1981, n. 689), le controversie di lavoro
riguardanti i
dipendenti pubblici privatizzati (d.lgs. n.
165/2001), gli accertamenti e trattamenti sanitari
obbligatori, i provvedimenti di espulsione di
stranieri, i provvedimenti del Garante per
la tutela
dei dati personali.
 Nelle controversie attribuite alla
sua giurisdizione
il giudice ordinario può emanare in linea di
principio tutte le
pronunce previste dal codice di
procedura civile.
Nel corso del tempo il giudice
ordinario ha
superato alcune restrizioni ritenendo, per esempio,
di poter emanare
sentenze costitutive ex
art. 2932
cod. civ. nel caso in cui l’amministrazione si sia
obbligata a concludere un contratto e non abbia
provveduto a farlo, ammettendo azioni di
condanna e possessorie in un numero più ampio di
casi, consentendo l’esecuzione forzata
su somme
di danaro della pubblica amministrazione.
7. La
giurisdizione di
legittimità, esclusiva e di
merito
Prima di procedere all’analisi
della giurisdizione
amministrativa conviene premettere alcune
classificazioni elaborate
dalla teoria generale del
processo.
In primo luogo, vanno richiamate le
nozioni di
tutela  dichiarativa,   La tutela dichiarativa,
  cautelare
ed esecutiva
cautelare ed
esecutiva.
Nella
prima viene sottoposto alla cognizione del giudice
un determinato rapporto
giuridico intercorrente
tra le parti (processo di cognizione); la tutela
cautelare
consente alla parte che promuove il
giudizio di ottenere dal giudice misure urgenti
471 volte a impedire che, nelle more del giudizio di
cognizione, si
verifichino danni gravi e irreparabili
tali da vanificare o da ridurre l’utilità della
sentenza che conclude il giudizio (processo
cautelare); la tutela esecutiva interviene a
valle
della pronuncia emanata in sede di cognizione e
mira a conformare la situazione di
fatto a quella di
diritto nei casi in cui la parte soccombente non
provveda
spontaneamente a porre in essere le
attività esecutive (processo di esecuzione).
I  n  secondo luogo, le   Le azioni di
  accertamento, di
azioni proponibili nel condanna, costitutiva
processo di
cognizione sono
riconducibili a
tre tipi: di accertamento, di
condanna e costitutiva.
 
1. L’azione di accertamento (o dichiarativa)
mira a stabilire, in presenza di una
contestazione, il modo di essere di un
determinato rapporto giuridico e si conclude,
in caso di accoglimento, con una
sentenza che
si limita a constatare la conformità della
situazione di fatto alla
situazione di diritto.
Un esempio può essere la sentenza che in una
lite tra
proprietari confinanti stabilisce che il
limite delle rispettive proprietà
coincide con
la recinzione esistente. Nessuna attività
esecutiva è richiesta a
valle della sentenza.
2. L’azione di condanna accerta invece una
difformità tra situazione di fatto e situazione
di diritto e impone alla parte
soccombente di
porre in essere un’attività volta a rimuovere
tale difformità.
Riprendendo l’esempio della
lite tra proprietari confinanti, la sentenza di
condanna, stabilito il limite delle rispettive
proprietà in base ai titoli di
acquisto, ordina
alla parte soccombente di rimuovere l’attuale
recinzione che
sconfina in una porzione di
terreno di proprietà della parte vincitrice. La
sentenza di condanna include un momento di
accertamento, ma a questo si aggiunge
anche
un elemento di tipo ordinatorio. La condanna
può avere a oggetto un
facere specifico (per
esempio il pagamento del
corrispettivo
dovuto in base a un contratto) o il
risarcimento del danno.
3. L’azione costitutiva è volta a
costituire,
modificare o estinguere una situazione
giuridica soggettiva. Essa è
prevista per i
cosiddetti diritti potestativi a necessario
esercizio giudiziale
dei quali si è parlato nel
capitolo III. A differenza delle sentenze di
accertamento e di condanna, la sentenza
costitutiva opera anzitutto una modifica
nella
configurazione del rapporto giuridico
intercorrente tra le parti. A valle
di tale
modifica, ove necessario, richiede un
adeguamento della situazione di
fatto al
nuovo modo di essere del rapporto giuridico.
La sentenza di
annullamento di un atto
amministrativo rientra in questo schema.

Passando  ora a   La giurisdizione


  generale di
legittimità,
esaminare la esclusiva e di merito
giurisdizione del
giudice
amministrativo e in particolare il
processo di
cognizione, il Codice del processo amministrativo,
in continuità con
l’assetto precedente, distingue
tre tipi di giurisdizione (art. 7): generale di
legittimità; esclusiva; di merito.
 
1.
La prima, certamente ancora oggi la più
importante, ha natura generale, perché si
incardina
direttamente in base all’art. 7, comma 4, Codice già
citato senza necessità di
un’ulteriore previsione
legislativa caso per caso. Essa interviene cioè
ogniqualvolta
sorge una controversia avente per
oggetto atti, provvedimenti o omissioni delle
pubbliche amministrazioni lesivi di interessi
legittimi.
La generalità della competenza fa
sì che la
competenza attribuita alle altre giurisdizioni
amministrative (Corte dei
conti, Tribunale
superiore delle acque pubbliche) va considerata
472 speciale.
Gli altri due tipi di giurisdizione
(esclusiva e di
merito) hanno carattere speciale,  aggiuntivo
e
parallelo: speciale,   Il carattere speciale e
  aggiuntivo della
perché si riferiscono giurisdizione esclusiva
solo alle fattispecie e di merito

tassativamente
individuate dal legislatore; aggiuntivo, in quanto
l’ambito di cognizione e i poteri
decisori vanno a
cumularsi e a integrare quelli caratteristici della
competenza generale
di legittimità; parallelo,
perché esse possono cumularsi (ipotesi di
competenza
esclusiva e di merito).
 
2.
La giurisdizione esclusiva, cui fa riferimento,
come si è visto, anche l’art. 103, comma 1, Cost.,
consente al giudice amministrativo
di conoscere
«anche delle controversie nelle quali si faccia
questione di diritti
soggettivi» (così l’art. 7, comma
5, Codice). L’elenco è contenuto nell’art. 133
Codice e in altre leggi speciali.
La cognizione dei diritti
soggettivi nell’ambito
della competenza esclusiva non è integrale. Sono
infatti
riservate all’autorità giudiziaria ordinaria le
questioni pregiudiziali concernenti lo
stato e la
capacità dei privati e la risoluzione dell’incidente
di falso (art. 8, comma 2, Codice).
Inoltre, poiché la cognizione dei
diritti soggettivi è
aggiuntiva (o per sommatoria) rispetto a quella
degli interessi
legittimi, la giurisdizione esclusiva
ha un carattere composito. Infatti, se il
ricorrente
fa valere nel ricorso solo un interesse legittimo, il
processo segue le
regole proprie della competenza
generale di legittimità. Se invece il ricorrente fa
valere un diritto soggettivo cambia, oltre che la
causa petendi, il
petitum (accertamento o condanna)
e viene meno la necessità di
impugnare entro il
termine decadenziale di 60 giorni gli atti cosiddetti
paritetici.

3.
La giurisdizione di merito, nella quale il
giudice può operare un sindacato diretto
sulle
scelte discrezionali dell’amministratore, è
richiamata dall’art. 7, comma 6, Codice che rinvia
all’art. 134 per
l’individuazione dei cinque casi
tassativi in cui essa è prevista. Nella giurisdizione
di merito, come si è anticipato nel capitolo III, «il
giudice amministrativo può
sostituirsi
all’amministrazione», riformando il
provvedimento impugnato. Il caso più
importante
è costituito dal giudizio di ottemperanza,  cioè
dal
giudizio di   Il giudizio di
  ottemperanza come
esecuzione (art. 112 caso di giurisdizione di
Codice). Rilevante è merito
anche il caso delle
sanzioni
pecuniarie, che consente al giudice, oltre
che di annullare, anche di modificare
l’entità della
sanzione irrogata.
  a giurisdizione di merito appare
recessiva perché
L
rischia di sovrapporre il ruolo del giudice a quello
dell’amministrazione.
8. Le
azioni nel processo di
cognizione, le azioni
cautelare ed esecutiva
Nel processo di cognizione possono
essere
proposte più tipi di azioni: di annullamento, di
condanna al risarcimento del
danno, di
adempimento, avverso il silenzio, di nullità, di
accertamento, per
l’efficienza della pubblica
amministrazione.

1.
L’azione di annullamento del provvedimento
illegittimo (art. 29) ha natura costitutiva e
storicamente, come si è detto più volte, è l’azione
principale per la tutela degli
interessi legittimi lesi
473 da un provvedimento amministrativo
illegittimo.
Essa va proposta entro 60 giorni e
ha lo scopo di
verificare se l’atto amministrativo impugnato sia
viziato per «violazione
di legge, incompetenza ed
eccesso di potere». Se l’azione viene accolta il
giudice
«annulla in tutto o in parte il
provvedimento impugnato» (art. 34, comma 1, lett.
a)).
La sentenza di annullamento,
nell’interpretazione
giurisprudenziale che ha recepito l’elaborazione
della dottrina
[Nigro 2002], produce tre tipi di
effetti: di annullamento, ripristinatorio e
conformativo.
L’effetto di   L’effetto di
  annullamento
 annullamento
rimuove l’atto
impugnato e i suoi effetti
retroattivamente. Esso,
per così dire, ripristina la situazione di diritto
preesistente
all’emanazione dell’atto. Dal punto di
vista giuridico è come se l’atto non fosse mai
stato
emanato. L’effetto di annullamento esprime il
carattere propriamente costitutivo
della sentenza.
  na deroga alla retroattività è
ammessa entro certi
U
limiti per le sentenze dell’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato
(Cons. St., Ad. Plen., 22
dicembre 2017, n. 13).
L’effetto   L’effetto
ripristinatorio
 
 ripristinatorio mira a
ricostruire per quanto possibile la
situazione di
fatto e di diritto nella quale si sarebbe trovato il
ricorrente al momento
dell’emanazione della
sentenza in assenza dell’atto amministrativo
illegittimo. Si
pensi, per esempio, alla restituzione
di un bene occupato illegittimamente o alla
ricostruzione della carriera di un dipendente
dichiarato decaduto. L’effetto
ripristinatorio va a
integrare quello di annullamento e tende a elidere
il pregiudizio
subito dal soggetto privato nel
periodo in cui l’atto ha prodotto i suoi effetti. Ove
non sia possibile raggiungere questo risultato in
presenza di situazioni irreversibili,
può trovare
spazio la tutela risarcitoria.
  ’effetto
L   L’effetto conformativo
 
 conformativo,
particolarmente rilevante nel caso degli
interessi
legittimi pretensivi, crea un vincolo in capo
all’amministrazione nel momento
in cui essa
emana un nuovo provvedimento in sostituzione di
quello annullato. In
ossequio al principio della
doverosità dell’esercizio dei poteri,
l’amministrazione è
tenuta, di regola, ove
permangano le esigenze di tutela dell’interesse
pubblico che
stavano alla base del provvedimento
impugnato, a emanare un nuovo provvedimento.
  ’ampiezza dell’effetto
conformativo si determina
L
in funzione dei motivi di ricorso dedotti in
giudizio e posti
alla base della sentenza di
annullamento. In generale, l’accertamento di un
vizio di
natura sostanziale (assenza di un
presupposto di legge necessario per l’emanazione
dell’atto, sviamento di potere) può determinare
una preclusione assoluta alla
reiterazione del
provvedimento emanato (effetto preclusivo). Per
esempio, se viene
annullata una sanzione
amministrativa perché il soggetto nei cui confronti
essa è stata
irrogata non ha commesso il fatto, la
sanzione non può essere reiterata. L’accertamento
di un vizio di natura formale o procedurale
(mancata acquisizione di un parere
obbligatorio,
incompletezza o carenza di motivazione) lascia
invece aperta la
possibilità per l’amministrazione
di emanare un nuovo atto avente il medesimo
contenuto
di quello annullato.

2.
L’azione di condanna al  risarcimento del
danno provocato da   L’azione di condanna
  al
risarcimento del
un atto danno
amministrativo
illegittimo che lede
un interesse legittimo è proposta di regola
in
474 collegamento con l’azione di annullamento.
  uò essere esperita anche in modo
autonomo. Il
P
Codice ha infatti superato il cosiddetto principio
della pregiudizialità
amministrativa secondo il
quale l’azione risarcitoria può essere proposta solo
se è
presentata e accolta l’azione di annullamento
del provvedimento illegittimo.
L’azione di risarcimento autonoma
va notificata
entro 120 giorni dal fatto o dalla conoscenza del
provvedimento che ha
provocato il danno (art. 30,
comma 3). Pur essendo un termine molto più
breve
rispetto al termine quinquennale di
prescrizione per l’azione risarcitoria innanzi al
giudice ordinario, la Corte costituzionale ha
ritenuto conforme alla Costituzione la
disposizione in questione (sentenza n. 94/2017).
Inoltre, il Codice disincentiva
l’azione di
risarcimento autonomo. Infatti, in sede di
determinazione dell’ammontare del
risarcimento,
il giudice amministrativo deve escludere i danni
«che si sarebbero potuti
evitare usando l’ordinaria
diligenza, anche attraverso l’esperimento dei
mezzi di tutela
previsti» (art. 30, comma 3, ultimo
periodo). Quest’ultima dizione, che
rinvia
implicitamente all’art. 1227, comma 2, cod. civ.,
secondo la giurisprudenza si
riferisce anche alla
mancata richiesta dell’annullamento dell’atto
illegittimo (Cons.
St., Ad. Plen., 23 marzo 2011, n.
3).
In definitiva, l’art. 30, comma 3, assegna una
preferenza all’azione di
annullamento, mentre
l’azione di risarcimento è vista come un’azione
complementare alla
prima, cioè riguardante solo i
danni ai quali, come si è visto, l’annullamento del
provvedimento non può porre rimedio.

3.
L’art. 34, comma 1, lett. c), del Codice  tipizza la
cosiddetta azione di   L’azione di
  adempimento
adempimento, cioè
«l’azione
di condanna
al rilascio di un provvedimento richiesto». Essa
deve essere proposta
contestualmente all’azione di
annullamento del provvedimento di diniego o
all’azione
avverso il silenzio. Inoltre essa è
ammessa nei limiti posti dall’art. 31, comma 3,
Codice con riguardo all’azione avverso il
silenzio,
esaminati qui di seguito, cioè in presenza di poteri
vincolati.
    L’azione avverso il
  silenzio e
4.
L’azione  contro il
l’accertamento della
silenzio può essere fondatezza della
esperita fintanto
che pretesa

perdura l’inerzia
dell’amministrazione e comunque entro il termine
di un anno dalla
scadenza del termine di
conclusione del procedimento. Se nel frattempo
l’amministrazione
emana un atto che nega la
richiesta, esso può essere impugnato con la
normale azione di
annullamento.
 L’azione è volta anzitutto ad
accertare
l’inadempimento dell’obbligo di provvedere
enunciato dall’art. 2 l. n. 241/1990, un obbligo,
come si è visto, di natura
meramente formale
avente per oggetto l’emanazione entro il termine
di un provvedimento
espresso, di accoglimento o
di diniego dell’istanza del privato.
Ove richiesto il giudice può anche
pronunciare
«sulla fondatezza della pretesa dedotta in
giudizio» (art. 31, comma 3). Può cioè verificare se
il provvedimento
oggetto dell’istanza del privato
debba essere rilasciato dall’amministrazione, ma
ciò
«solo quando si tratti di attività vincolata o
quando risulta che non residuano
ulteriori margini
di discrezionalità». Il giudice non può conoscere la
fondatezza della
pretesa neppure nei casi in cui
siano necessari «adempimenti istruttori che
debbano
essere compiuti dall’amministrazione».
Se il giudice accerta che l’amministrazione non
ha
discrezionalità e che dunque l’emanazione
475 dell’atto richiesto è dovuta,
può, se richiesto con
l’azione di adempimento, condannare
l’amministrazione ad adottare l’atto in questione.

5.
L’azione per la declaratoria della nullità del
 provvedimento
in   L’azione di nullità
 
relazione ai vizi di cui
all’art. 21-septies
l. n. 241/1990 può essere proposta
entro 180 giorni. Scaduto
questo termine, il giudice
può comunque dichiarare la nullità dell’atto anche
ex officio, cioè, per esempio, nel corso di un giudizio
nel
quale la parte privata ponga alla base della sua
azione un atto amministrativo. Ciò
potrebbe
accadere, volendo fare un esempio quasi di scuola,
nel caso del concessionario
di un servizio pubblico
che si rivolga al giudice amministrativo per
ottenere un
aggiornamento del canone corrisposto
dagli utenti del servizio. Di fronte a questa
pretesa
fondata sul contratto di servizio accessivo alla
concessione, l’amministrazione
potrebbe eccepire
la nullità della concessione. In realtà i casi di
nullità dell’atto,
come si è detto, sono poco
frequenti nella prassi.
    L’azione di
  accertamento
6.
Il  Codice non
contiene, al di là del
riferimento all’azione
di nullità, un articolo
dedicato all’azione di accertamento, incluso
invece nel progetto
di codice predisposto dalla
commissione istituita presso il Consiglio di Stato.
Stabilisce soltanto che «In nessun caso il giudice
può pronunciare con riferimento a
poteri
amministrativi non ancora esercitati» e che
neppure «può conoscere della
legittimità degli atti
che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con
l’azione di
annullamento» (art. 34, comma 2). È
così esclusa la possibilità di esperire
sia un’azione,
diversa da quella contro il silenzio, tesa ad
accertare in astratto come
un potere debba essere
esercitato, sia un’azione che accerti l’illegittimità
di un
provvedimento con finalità diverse da quelle
del suo annullamento.
 Tuttavia, al di là di questa
esclusione, il principio
di atipicità delle azioni, affermato dalla
giurisprudenza,
consente di esperire un’azione di
accertamento ove essa corrisponda al bisogno di
tutela
correlato a una situazione giuridica
soggettiva. In ogni caso, ove sia proposta
un’azione
di annullamento, ma nel corso del giudizio
l’annullamento non risulti più
utile per il
ricorrente, «il giudice accerta l’illegittimità
dell’atto se sussiste
l’interesse a fini risarcitori»
(art. 34, comma 3).
  L’azione per
7.
Un’azione  particolare,  peraltro non della
l’efficienza inclusa nel
Codice, è
l’azione per pubblica
amministrazione
l’efficienza della
pubblica
amministrazione, alla quale si è fatto cenno
nel
capitolo III, esperibile nel caso di violazione di
livelli e standard di qualità
previsti per le
prestazioni agli utenti (d.lgs. 20 dicembre 2009, n.
198). Essa mira a costringere
l’amministrazione a
raggiungere o a ripristinare i livelli delle
prestazioni stabiliti
in atti amministrativi
generali. La casistica è molto limitata.
  ompletata l’analisi delle azioni
esperibili nel
C
processo amministrativo, occorre soffermarsi
brevemente sull’oggetto di
quest’ultimo.
Il tema  è stato   L’oggetto del processo
  amministrativo
sempre dibattuto. In
origine e per lungo
tempo, il processo amministrativo è
stato
ricostruito come «processo sull’atto», visto che la
sola azione esperibile era
quella di annullamento.
L’oggetto del processo veniva variamente
individuato nel potere
di provocare l’annullamento
dell’atto, nella questione di legittimità dell’atto
impugnato, nell’interesse alla legittimità dell’atto,
476 ecc. In ogni caso, al centro del
processo si
collocavano l’atto impugnato e i motivi di ricorso.
Minoritaria era la ricostruzione del processo
amministrativo come «processo sul
rapporto»
[Piras 1962], cioè direttamente sul rapporto
giuridico amministrativo,
prescindendo dunque
dal provvedimento.
  a concezione originaria del
processo
L
amministrativo è entrata in crisi per una pluralità
di ragioni. Il processo
amministrativo si è
anzitutto aperto a una gamma di azioni diverse
dall’azione di
annullamento necessarie per offrire
una risposta ai nuovi bisogni di tutela.
La giurisprudenza è giunta così ad
affermare che
nei casi di provvedimenti vincolati il giudizio ha
per oggetto
direttamente il rapporto
amministrativo controverso (Cons. St., Ad. Plen.,
n. 3/2011
citata).
Questa concezione sembra essere
fatta propria
anche dal Codice che contempla almeno due
azioni, cioè quella risarcitoria
pura e quella avverso
il silenzio, nelle quali il ricorrente non impugna e
non richiede
l’annullamento di alcun
provvedimento amministrativo. L’azione
risarcitoria pura ha come
oggetto l’accertamento di
un illecito ex
art. 2043 cod. civ., mentre l’azione
avverso il silenzio ha
come oggetto l’accertamento
dell’inadempimento dell’obbligo di provvedere ed
eventualmente l’accertamento della fondatezza
della pretesa. Anche l’azione di
adempimento ha
per oggetto l’accertamento della fondatezza della
pretesa come
presupposto logico per la pronuncia
di condanna dell’amministrazione al rilascio del
provvedimento richiesto.
Queste ultime due azioni sono anche
slegate dalla
deduzione specifica di vizi del provvedimento che
caratterizza invece
l’azione di annullamento e
hanno invece per oggetto direttamente la
spettanza o meno di
un determinato bene della
vita.
In definitiva, volendo proporre una
definizione 
più aderente   Definizione di oggetto
  del
processo
all’attuale disciplina amministrativo
processuale, l’oggetto
del processo
amministrativo può essere individuato
nell’affermazione della titolarità di un interesse
legittimo, volto a conservare o ad
acquisire un
bene della vita che è stato leso da un atto o un
comportamento della
pubblica amministrazione
non conformi alla norma attributiva del potere.
 L’annullamento del provvedimento
non si colloca
più necessariamente al centro del processo
amministrativo, ma esso è solo
strumentale, in
conformità alla concezione soggettiva della
giustizia amministrativa,
alla tutela di una
situazione giuridica e all’accertamento della
spettanza o meno di un
bene della vita. E ciò sia
nel caso in cui l’amministrazione abbia emanato
un
provvedimento di diniego su un’istanza, in
quanto, come si è detto, l’annullamento di
tale atto
costituisce il presupposto logico per poter
accertare la fondatezza della
pretesa; sia, più in
generale, in quanto anche nella sentenza di
annullamento rileva,
come si è accennato, più che
l’effetto demolitorio, il contenuto di accertamento
e
l’effetto conformativo o preclusivo.
L’art. 40 Codice prende atto di questa evoluzione
prevedendo
che il ricorso debba contenere
«l’indicazione dell’oggetto della domanda, ivi
compreso
l’atto o il provvedimento eventualmente
impugnato». L’avverbio «eventualmente» sta
proprio a indicare che ormai il processo non ruota
necessariamente attorno al
provvedimento
477 amministrativo.
Due altri tipi di azione (e di
processi) completano
le tutele sin qui esaminate relative al processo di
cognizione:
l’azione cautelare e l’azione
esecutiva.
  L’azione cautelare
 
1.
L’azione
 cautelare, che dà
origine a una fase autonoma del
processo di
cognizione, consente di richiedere al giudice
provvedimenti interinali nei casi in cui vi è la
necessità di evitare danni gravi e
irreparabili che
potrebbero prodursi nelle more della sentenza
definitiva. Questo tipo
di azione era già
contemplato dalla legge del 1889 e fu rafforzata in
via
giurisprudenziale e poi ad opera della l. n.
205/2000 e ora del Codice (artt. da 55 a 62).
  nzitutto le misure cautelari
possono essere
A
richieste già nel ricorso principale o in qualsiasi
momento successivo
all’instaurazione del giudizio.
Esse spaziano, per esempio, dalla sospensione
degli
effetti dell’atto impugnato (per esempio, di
un ordine di demolizione di un edificio) al
pagamento in via provvisoria di una somma di
danaro. Il Codice attribuisce cioè ampia
discrezionalità al giudice nell’individuare il
rimedio più efficace per prevenire il
danno
(principio dell’atipicità delle misure cautelari).
Nella prassi sono emerse per
esempio fattispecie
di ordinanze cosiddette «propulsive» (che
ordinano
all’amministrazione il riesame di un
provvedimento di diniego) o che ammettono con
riserva a un concorso un candidato ritenuto privo
dei requisiti di partecipazione.
L’accoglimento  della   Il fumus boni
juris e il
  periculum in mora
domanda cautelare è
legato
all’accertamento di due
presupposti: il fumus boni
juris, interpretato dalla giurisprudenza
in modo
non uniforme, talora come probabilità di
accoglimento del ricorso, talaltra, in
modo meno
rigoroso, come minimo di attendibilità o non
manifesta infondatezza del
ricorso; il periculum in
mora, cioè il pregiudizio grave e
irreparabile che
deriverebbe in capo al ricorrente nelle more della
conclusione del
grado di giudizio, danno che va
valutato, bilanciandolo anche con l’interesse
dell’amministrazione. L’ordinanza deve essere
motivata sia in ordine al pregiudizio
allegato, sia in
ordine ai profili che a un sommario esame
inducono a una ragionevole
previsione sull’esito
positivo del ricorso.
I  n presenza di fatti sopravvenuti
la domanda
cautelare respinta può essere riproposta e può
essere presentata domanda di
revoca o
modificazione della misura concessa. La fase
cautelare può concludersi, se il
giudice ritenga di
avvalersi di questa possibilità, anziché con
un’ordinanza, con una
sentenza in forma
semplificata, nei casi in cui siano accertate la
completezza del
contraddittorio e dell’istruttoria
(art. 60).
In caso di inottemperanza da parte
dell’amministrazione alle misure cautelari
disposte, la parte interessata può chiedere
al
giudice, investito dei poteri previsti nell’ambito del
giudizio di ottemperanza, le
opportune
disposizioni attuative (art. 59). È ammesso il
ricorso in appello innanzi al
Consiglio di Stato
entro 30 giorni dalla notificazione dell’ordinanza
ovvero 60 giorni
dalla pubblicazione della
medesima (art. 62).
La richiesta  di tali   Il decreto cautelare
  monocratico
misure viene rivolta
al collegio che poi
decide la
causa nel merito (art. 55). Nei casi di
estrema gravità e urgenza le misure cautelari
possono essere richieste al presidente del collegio
o a un suo delegato che provvede
immediatamente,
478 anche inaudita altera parte,
con una pronuncia
provvisoria (decreto cautelare). Questa deve
essere confermata (o non confermata) in
occasione della prima riunione del collegio
(art.
56). Le misure cautelari possono essere richieste,
in casi eccezionali di urgenza,
anche prima che sia
proposto il ricorso principale (tutela cautelare ante
causam) (art. 61). Quest’ultimo deve essere
proposto entro 15 giorni
dalla concessione delle
misure che altrimenti decadono automaticamente.
Dopo la
proposizione del ricorso le misure devono
essere confermate dal collegio.
 
2.
L’azione esecutiva, che dà origine al cosiddetto
giudizio  di   Il giudizio di
  ottemperanza
ottemperanza, può
essere proposta a
valle del processo di cognizione nei casi in cui
l’amministrazione non esegua una sentenza del
giudice amministrativo (ma anche, in base
all’art.
112, una sentenza del giudice civile o un lodo
arbitrale emessi nei confronti
di una pubblica
amministrazione).
  alvolta la sentenza di
annullamento è
T
autoesecutiva (per esempio, l’annullamento di un
ordine di demolizione di
un edificio). Altre volte,
specie se il provvedimento annullato è già stato
eseguito,
l’amministrazione è tenuta a compiere
un’attività materiale e giuridica tesa, per quanto
possibile, a ripristinare la situazione di fatto e di
diritto così come essa si
presentava al momento
dell’emanazione del provvedimento impugnato e
ad adeguarsi al
contenuto ordinatorio della
sentenza (si tratta dei più volte menzionati effetti
ripristinatorio e conformativo).
Nel caso di mancata esecuzione
della sentenza, il
ricorrente può esperire il cosiddetto giudizio di
ottemperanza.
Oggetto del giudizio è la verifica
se la pubblica
amministrazione abbia o meno adempiuto
all’obbligo nascente dal
giudicato.
L’inadempimento può consistere, oltre che
nell’inerzia totale o parziale,
nell’adozione di atti
amministrativi elusivi del giudicato che, come si è
visto, sono
affetti da nullità.
Il giudizio di ottemperanza, che
consente al
giudice di sostituirsi all’amministrazione rimasta
inadempiente, rientra nei
casi di giurisdizione di
merito. Così, per esempio, se in seguito alla
sentenza
l’amministrazione è tenuta a emanare
un’autorizzazione o a riconsegnare un terreno
espropriato, il giudice può prescrivere
all’amministrazione le modalità esecutive o
addirittura provvedere direttamente o tramite un
delegato (il cosiddetto commissario
ad acta) (art.
112).  L’azione può   Il commissario ad
acta
 
essere proposta entro
dieci anni dal giorno in cui si è formato il giudicato
(art. 114, comma 1). Il giudice può anche
condannare
l’amministrazione al risarcimento dei
danni derivanti dalla mancata esecuzione della
sentenza e al pagamento di una penalità di mora,
cioè di una ulteriore somma di danaro
per ogni
giorno di ritardo da parte dell’amministrazione (le
cosiddette
astreintes).
  discussa la natura del giudizio
di ottemperanza,
È
cioè se esso sia un giudizio di pura esecuzione o se
esso abbia natura
mista di cognizione e di
esecuzione e cioè vada inteso come una
prosecuzione del
giudizio amministrativo, in
quanto solo all’esito del giudizio di ottemperanza
479 si
perviene a un assetto definitivo degli interessi.
9. Lo
svolgimento del processo
amministrativo. I principi
informatori
Come si è accennato, il Codice
accoglie la
concezione soggettiva della tutela giurisdizionale:
il processo serve ad
assicurare al ricorrente una
tutela piena ed effettiva delle situazioni giuridiche
soggettive (cosiddetta strumentalità del processo,
già teorizzata da Chiovenda [1960,
40]).
  Il principio della
  domanda
1.
In  coerenza con
questa impostazione,
il processo
amministrativo è retto in primo luogo
dal principio della domanda formulato in termini
generali dall’art. 99 cod. proc. civ. e richiamato in
varie disposizioni
del Codice. In particolare, l’art.
34, comma 1, stabilisce che in caso di accoglimento
del
ricorso il giudice emana la sentenza, tra quelle
elencate nella disposizione
(annullamento,
condanna, ecc.), «nei limiti della domanda».
 Rientra tra le prerogative del
ricorrente, non solo
l’impulso processuale (proposizione del ricorso),
ma anche
l’individuazione dell’oggetto della
domanda (art. 40, comma 1, lett. b)) attraverso
l’indicazione del
provvedimento eventualmente
impugnato, l’esposizione sommaria dei fatti, la
formulazione
dei motivi, l’indicazione dei mezzi di
prova e dei provvedimenti chiesti al giudice
(lett.
c), d) e f )).
I  motivi sono i profili   I motivi di ricorso
 
di illegittimità
dedotti nel ricorso e devono essere enunciati
in
modo specifico, cioè con il riferimento preciso alla
norma o al principio violato e
al tipo di vizio
(«motivi specifici», lett. d)). I motivi formulati in
modo generico
sono dichiarati inammissibili. In
base al principio della corrispondenza tra chiesto e
pronunciato (art. 112 cod. proc. civ.), il giudice, da
un lato, non può
pronunciarsi d’ufficio su motivi
non specificamente dedotti; dall’altro, ha il dovere
di
pronunciarsi, di regola, su tutti i motivi
formulati nel ricorso di modo che la sentenza
abbia un contenuto di accertamento il più ampio
possibile e vincoli in modo più puntuale
l’azione
amministrativa successiva al giudicato (in
relazione all’effetto conformativo
al quale si è fatto
cenno).
  caduto il termine per la
presentazione del ricorso
S
(60 giorni per l’azione di annullamento), il
ricorrente può
proporre soltanto i cosiddetti
motivi aggiunti, cioè «nuove ragioni a sostegno
delle
domande già proposte, ovvero domande
nuove purché connesse a quelle già proposte» (art.
43). Per esempio, può dedurre vizi del
provvedimento impugnato che il ricorrente non
era
in grado di enucleare nel ricorso originario
perché rilevabili solo in seguito al
deposito di
documenti in giudizio da parte
dell’amministrazione. Oppure può dedurre vizi
legati all’emanazione da parte
dell’amministrazione di un ulteriore atto connesso
con
quello già impugnato. I motivi aggiunti
determinano un ampliamento dell’oggetto del
processo e della cognizione del giudice.
  Il principio della parità
  delle
parti
2.
Il  processo
amministrativo si
ispira ai «principi della
parità delle parti, del
contraddittorio e del giusto processo» (art. 2
Codice).
  uesti principi sono
particolarmente rilevanti se si
Q
considera che, sul versante sostanziale, cioè del
rapporto giuridico amministrativo, le parti non
sono poste su un piano di parità, e anzi
il rapporto
giuridico amministrativo colloca l’amministrazione
480 titolare del potere in
una posizione di
sovraordinazione rispetto al soggetto privato
titolare dell’interesse legittimo. Tuttavia,
all’interno del processo, alle parti sono
riconosciute le medesime garanzie.
Nel processo amministrativo trovano
ingresso le
parti necessarie e le parti eventuali.

2a) Le parti
necessarie, che devono essere evocate
in giudizio  in modo   La parte ricorrente
 
tale che la sentenza
sia emanata a contraddittorio integro, sono, in
aggiunta al
ricorrente, l’amministrazione resistente
e il controinteressato.
  uovendo dal ricorrente, spetta a
questa parte,
M
come si è detto, proporre l’azione formulando le
domande e delimitando
l’oggetto del giudizio.
Per presentare ricorso il titolare
della situazione
giuridica soggettiva deve dimostrare la
legittimazione e l’interesse a
ricorrere. Si tratta di
due «filtri processuali», elaborati dalla dottrina
processualcivilista, che, a seconda delle varie
classificazioni, sono riconducibili ai
cosiddetti
presupposti processuali o alle condizioni generali
dell’azione, la cui
sussistenza è necessaria per
proporre l’azione. La loro assenza preclude al
giudice di
pronunciarsi sul merito del ricorso e il
processo si conclude con una sentenza di rito
(inammissibilità o improcedibilità secondo l’art.
35, comma 1, lett. b) e c)).
La legittimazione a ricorrere
(legitimatio ad causam
attiva)  individua il   La legittimazione a
  ricorrere
soggetto legittimato a
far valere in giudizio
una determinata situazione
giuridica soggettiva.
Essa serve cioè a stabilire quale debba essere la
posizione di un
soggetto affinché questi possa
chiedere, in nome proprio, al giudice la tutela di
una
situazione giuridica soggettiva. Questa
posizione consiste nell’affermazione da parte
del
ricorrente della titolarità di un interesse legittimo
o di un diritto soggettivo del
quale si chiede
tutela. Essa sancisce la normale corrispondenza tra
titolarità di una
situazione giuridica soggettiva e
titolarità del diritto d’azione. Nessuno può agire in
giudizio per la tutela di situazioni giuridiche altrui.
In giurisprudenza, peraltro, la
legittimazione è
spesso ricondotta, non già all’affermazione, bensì
alla titolarità
effettiva di un interesse legittimo.
  a questione della legittimazione a
ricorrere si è
L
posta nel processo amministrativo, soprattutto,
come si è già accennato,
per gli interessi
superindividuali (diffusi e collettivi). In relazione a
questi, in
ambiti particolari (ambiente, tutela del
consumatore, ecc.), è stata riconosciuta per
legge
la legittimazione a ricorrere a favore di
associazioni ed enti privati.
Da ultimo, essa è stata attribuita,
come si è
accennato, anche ad autorità indipendenti quali,
per esempio, l’Autorità
garante della concorrenza e
del mercato e l’Autorità nazionale anticorruzione
relativamente alle materie rientranti nella loro
competenza (rispettivamente art.
21-bis della l. n.
287/1990 e art. 211, commi da
1-bis a 1-quater d.lgs.
n. 50/2016). Si
tratta di azioni a tutela di un
interesse pubblico che sembrano essere sganciate
dalla
titolarità di una situazione giuridica
soggettiva e che fanno dunque riemergere una
colorazione oggettiva del processo.
L’interesse  a   L’interesse a ricorrere
 
ricorrere, che
corrisponde nel processo civile all’interesse
ad
agire (art. 100 cod. proc. civ.), ha nel processo
amministrativo
molta rilevanza. Esso consiste nel
beneficio o utilità effettiva che il ricorrente
potrebbe conseguire ove il ricorso fosse accolto.
481 L’interesse deve avere
i requisiti della personalità,
della concretezza e
dell’attualità (non basta, per
esempio, il mero pericolo di una lesione). Deve
inoltre
permanere per tutta la durata del processo:
se esso viene meno il processo si conclude
con una
sentenza che dichiara la carenza sopravvenuta di
interesse (art. 35, comma 1, lett. c)).
 In base a questi criteri, manca
l’interesse a
ricorrere, per esempio, nel caso di un candidato a
un concorso pubblico
non incluso nella
graduatoria dei vincitori il quale lamenta
un’attribuzione errata dei
punteggi dovuta
all’omessa considerazione di un titolo di studio
che però, quand’anche
fosse stato correttamente
valutato, non avrebbe comportato un incremento
di punteggio
tale da modificare la graduatoria.
Nel caso dei regolamenti e degli
atti
amministrativi generali l’interesse al ricorso di
regola sorge (e acquista
attualità) solo nel
momento in cui vengono emanati gli atti
applicativi. Il ricorrente
può dunque rinviare
l’impugnazione dell’atto generale al momento in
cui propone ricorso
contro questi ultimi. Così, per
esempio, i criteri generali per l’erogazione di
contributi finanziari possono essere impugnati
insieme al provvedimento che respinge la
domanda di contributo: solo in questo caso diventa
attuale, di regola, l’interesse a
contestare la
legittimità dei criteri generali. Un altro esempio
può essere il bando di
gara per l’aggiudicazione di
un contratto pubblico che può essere impugnato
insieme al
provvedimento di esclusione di
un’impresa concorrente. Solo in pochi casi, come
per
esempio quello di un bando di gara che
prevede requisiti di ammissione arbitrari con
effetti escludenti immediati, l’atto generale, come
si è già accennato, può essere
impugnato senza
attendere l’emanazione degli atti applicativi.
Il ricorrente deve notificare il
ricorso, a pena di
inammissibilità, all’amministrazione resistente e
ad almeno uno dei
controinteressati (art. 41), e
deve depositare il ricorso notificato entro 30 giorni
presso la segreteria del giudice (art. 45). Il giudice
può ordinare l’integrazione del
contraddittorio nel
caso in cui individui ulteriori controinteressati
(art. 49).
L’amministrazione   L’amministrazione
  resistente e il
 resistente e i controinteressato
controinteressati ai
quali è stato
notificato
il ricorso si possono costituire in
giudizio presentando memorie, formulando
istanze,
indicando i mezzi di prova e i documenti a
sostegno della loro posizione (art. 46). Il
processo
amministrativo, peraltro, non conosce l’istituto
della contumacia, cioè
quell’insieme di regole che
trovano applicazione nel giudizio civile nel caso in
cui la
parte intimata non si costituisca in giudizio.
  arte resistente è
l’amministrazione che ha
P
emanato il provvedimento o nei cui confronti
viene avanzata la
pretesa. Controinteressato è il
soggetto la cui posizione giuridica soggettiva
sarebbe
intaccata dall’accoglimento del ricorso e si
individua in base a un’analisi degli
effetti del
provvedimento impugnato. Così, per esempio, se
viene impugnato un permesso a
costruire,
controinteressato è il soggetto che ha chiesto e
ottenuto il provvedimento
che lo abilita a
edificare; se viene impugnata l’aggiudicazione di
una procedura per
l’affidamento di un contratto
pubblico, controinteressata è l’impresa risultata
prima
nella graduatoria. Non sempre, peraltro, la
controversia involge controinteressati, ben
potendo il rapporto giuridico avere natura
squisitamente bilaterale (per esempio, in
materia
482 di espropriazione).
In definitiva, il controinteressato
interviene in
giudizio a fianco dell’amministrazione per
difendere la legittimità del
provvedimento e
l’infondatezza delle domande. A questo fine
l’amministrazione e il
controinteressato possono
esporre nelle proprie memorie e nell’udienza di
discussione le
ragioni per le quali il ricorso deve
essere respinto per ragioni di rito o ragioni di
merito.
Il controinteressato può proporre
anche un
ricorso  incidentale   Il ricorso incidentale
 
impugnando lo stesso
provvedimento (o anche altro provvedimento) e
proponendo motivi che, ove accolti,
farebbero
venir meno l’interesse del ricorrente a ottenere
una pronuncia sul ricorso
principale. Così, per
esempio, il primo classificato in un concorso
pubblico, di fronte
a un ricorso del secondo
classificato che lamenta il mancato riconoscimento
di un
punteggio aggiuntivo che gli consentirebbe di
scavalcarlo nella graduatoria, può
proporre ricorso
incidentale per far dichiarare illegittima
l’ammissione al concorso del
secondo classificato
per mancanza dei requisiti richiesti.
L’accoglimento del ricorso
incidentale rende
spesso superfluo l’esame di quello principale.
 
2b) In
aggiunta alle parti necessarie, nel processo
 amministrativo   Le parti eventuali
 
possono trovare
ingresso parti cosiddette eventuali, cioè gli
intervenienti volontari
ad adiuvandum e ad
opponendum (art. 50). I
primi affiancano il
ricorrente e possono integrare le difese di
quest’ultimo, ma non
proporre motivi di ricorso
ulteriori tali da ampliare l’oggetto del processo.
Per
esempio un’associazione di categoria può
intervenire a supporto del ricorso proposto da
uno
dei suoi iscritti. Non può peraltro proporre un
intervento ad
adiuvandum colui che avrebbe potuto
proporre ricorso autonomo in quanto
titolare di
una situazione giuridica identica. L’interventore ad
opponendum affianca l’amministrazione resistente.
    Il principio
dispositivo
 
3.
L’istruzione 
probatoria è retta dal
principio
dispositivo che però subisce nel
processo amministrativo alcune attenuazioni
(principio
dispositivo con metodo acquisitivo,
secondo la definizione di Benvenuti [1953]).
 Infatti, da un lato, vige la regola
generale propria
del processo civile secondo la quale le parti devono
individuare e
allegare i fatti rilevanti e fornire la
prova dei medesimi (principio dell’onere della
prova di cui all’art. 2697 cod. civ. richiamato anche
dall’art. 63, comma 1, Codice). Secondo l’art. 64
Codice, infatti, «Spetta alle parti l’onere di
fornire
gli elementi di prova che siano nella loro
disponibilità riguardanti i fatti
posti a fondamento
delle domande e delle eccezioni». Dall’altro lato, il
giudice può
anche disporre d’ufficio i mezzi
istruttori ritenuti necessari (il cosiddetto metodo
acquisitivo). Occorre tuttavia che il ricorrente
fornisca almeno un «principio di
prova».
Quanto  ai mezzi   I mezzi istruttori
 
istruttori, il giudice
può anzitutto chiedere alle parti chiarimenti o
documenti, può ordinare anche a terzi di esibire in
giudizio documenti, può disporre
ispezioni, può
ammettere la prova testimoniale (solo in forma
scritta) e può assumere
tutti i mezzi di prova
previsti dal codice di procedura civile esclusi
l’interrogatorio
formale e il giuramento (art. 63).
 
Nel  caso in cui l’accertamento dei fatti richieda
particolari   La verificazione e la
  consulenza
tecnica
competenze tecniche,
il
giudice può
ordinare l’esecuzione di una verificazione o, se
indispensabile, può
disporre una consulenza
483 tecnica (art. 63, comma 4). La
verificazione
(attraverso accessi, misurazioni, esperimenti,
accertamenti, ecc.) è
effettuata a cura di un
organismo verificatore individuato dal giudice (in
genere una
pubblica amministrazione dotata delle
necessarie competenze tecniche), il quale
definisce
i quesiti e fissa un termine per il deposito della
relazione conclusiva (art.
66). La consulenza
tecnica ha una funzione sostanzialmente analoga e
si connota
soprattutto per la previsione di
maggiori garanzie di contraddittorio. Infatti le
parti
possono nominare propri consulenti che
assistono a tutte le operazioni del consulente
tecnico d’ufficio (nominato dal giudice) e possono
formulare osservazioni allo schema di
relazione
predisposto da quest’ultimo (art. 67).
I  l giudice amministrativo ha dunque
un accesso
autonomo e diretto al fatto e può sindacare se esso
sia stato ricostruito in
modo corretto nel
provvedimento. Inoltre, soprattutto attraverso la
consulenza tecnica
il controllo del giudice
amministrativo sulle valutazioni tecniche è
divenuto più
penetrante. Il giudice infatti può
verificare, come si è accennato nel capitolo III,
l’attendibilità delle valutazioni tecniche effettuate
dall’amministrazione.
  Altri principi
 
4.
Altri  principi del
processo
amministrativo sono quelli della
concentrazione,
della collegialità e dell’oralità.
 
L’articolazione del processo
amministrativo è più
semplice rispetto a quella del processo civile e
consiste
generalmente in una fase cautelare e in
una fase di merito. Quest’ultima è incentrata
sull’udienza collegiale pubblica di discussione
orale in vista della quale possono
essere depositate
memorie e repliche scritte. Essa può essere
preceduta da un’udienza in
camera di consiglio
(con la presenza soltanto dei difensori), nel caso in
cui il
ricorrente proponga anche l’istanza
cautelare. Non è prevista una fase istruttoria
necessaria, visto che in molti casi (in relazione
soprattutto all’azione di
annullamento) il deposito
del provvedimento impugnato unitamente agli atti
procedimentali a cura dell’amministrazione (art.
46, comma 2) è sufficiente per poter appurare
l’esistenza dei vizi dedotti nel ricorso. La massima
concentrazione si ha allorché il
giudice ritenga di
procedere alla definizione del giudizio con
sentenza in forma
semplificata assunta all’esito
della fase cautelare (art. 60). La collegialità vale sia
per la fase di merito, sia per la fase cautelare, visto
che qualora sia stata concessa
una misura
cautelare monocratica, il decreto cautelare perde
efficacia se non è
confermato dal collegio in
camera di consiglio (art. 56, comma 4).

5.
Un altro principio è quello del doppio grado di
giudizio  enunciato   Il doppio grado di
  giudizio
già dall’art. 125,
comma 2, Cost.,
attuato compiutamente, come si è
detto, dalla
legge del 1971 istitutiva dei Tribunali
amministrativi regionali e previsto
ora dall’art.
100 Codice.
 Si è discusso in dottrina e in
giurisprudenza se
l’appello nel processo amministrativo sia da
considerare un mezzo di
gravame in senso proprio
(rinnovatorio o sostitutivo della sentenza di primo
grado),
oppure un mezzo di impugnazione
meramente eliminatorio (cassatorio) della
sentenza di
primo grado.
Sembra preferibile la prima
concezione. Infatti
l’appello può essere proposto senza alcuna
484 limitazione di motivi e
il Consiglio di Stato, di
regola, se accoglie il ricorso decide
della
controversia nel merito senza rimettere la
questione al TAR competente (art. 105 Codice che
prevede la rimessione solo in casi
eccezionali
tassativi come nel caso in cui sia mancato il
contraddittorio).
La parte appellante (soccombente
nel giudizio di
primo grado) individua nel ricorso in appello i capi
di sentenza oggetto
di impugnazione e con
riferimento ad essi deve dedurre specifiche
censure (art. 101, comma 1, Codice). Deve inoltre
riproporre
espressamente le domande e le
eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate
nella
sentenza di primo grado che altrimenti si
intendono rinunciate (art. 101, comma 2). Un
onere analogo grava sulle altre
parti. La parte
vincitrice in primo grado può anche proporre
l’appello incidentale
contro i capi di sentenza
sfavorevoli.
Nel giudizio d’appello non possono
essere
proposte nuove domande, né nuove eccezioni non
rilevabili d’ufficio. Non sono
ammessi nuovi mezzi
di prova o nuovi documenti, salvo che il collegio li
ritenga
indispensabili o la parte dimostri di non
averli potuti proporre o produrre nel giudizio
di
primo grado per causa ad essa non imputabile (art.
104). Il cosiddetto effetto
devolutivo dell’appello
consiste nella riemersione in sede di appello del
materiale di
cognizione e probatorio del giudizio di
primo grado in modo tale che il giudice
d’appello
possa conoscere della controversia con la stessa
pienezza del giudice di primo
grado. Esso subisce
tuttavia molte limitazioni.
Anche nel giudizio d’appello è
prevista una fase
cautelare. L’appellante può chiedere infatti la
sospensione
dell’esecutività della sentenza ove
dalla sua esecuzione derivi un danno grave e
irreparabile (art. 98).
In virtù del cosiddetto rinvio
interno, il processo si
svolge, salvo deroghe espresse, secondo le regole
del giudizio
di primo grado (art. 38).
Oltre  all’appello il   Gli altri mezzi di
  impugnazione
processo
amministrativo
prevede altri mezzi di impugnazione e cioè la
revocazione, l’opposizione di terzo e il ricorso per
Cassazione (artt. 106-111).
 Per quest’ultimo il Codice riprende
il principio
costituzionale, già ricordato, per cui il ricorso è
ammesso, come si è
detto, «per soli motivi inerenti
alla giurisdizione» (art. 100). La sospensione
cautelare della sentenza oggetto del ricorso in
Cassazione può essere disposta, in caso
di
eccezionale gravità e urgenza, dallo stesso
Consiglio di Stato (art. 111).
Il Codice  dedica   Altri istituti
  processuali
alcuni articoli alle
questioni di
giurisdizione, disciplinando in particolare
il
cosiddetto regolamento preventivo di
giurisdizione (art. 10); pone alcuni criteri per
individuare il Tribunale amministrativo regionale
fornito di competenza (artt. 13 ss.); regola
numerosi altri istituti processuali
(astensione,
ricusazione, patrocinio, ecc.). Prevede inoltre,
accanto al rito ordinario
(al quale è dedicato il
Libro II, Titolo I), una serie di riti speciali. Essi
sono
previsti, in particolare, in materia di accesso
ai documenti amministrativi (art. 116),
per alcune
controversie per le quali il legislatore ritiene che
sussistano esigenze
particolari di una definizione
più rapida dei giudizi (artt. 119 ss.), per le
procedure di affidamento di lavori
pubblici, servizi
e forniture (artt. 120 ss.), per il contenzioso
485 elettorale (artt. 126 ss.).
  al 2017 è in vigore il cosiddetto
processo
D
amministrativo telematico: tutti gli atti e
documenti prodotti dalle parti sono
depositati con
modalità telematiche e con analoga modalità sono
sottoscritti tutti gli
atti del giudice, dei suoi
ausiliari e delle parti (art. 136, commi 2 e
2-bis,
Codice del processo amministrativo). Nella fase
iniziale
della pandemia da Covid-19 anche le
udienze si sono svolte in remoto su piattaforme
informatiche.
10. I
ricorsi amministrativi

I ricorsi amministrativi possono


essere
annoverati tra i cosiddetti procedimenti di
secondo grado, cioè tra quei
procedimenti che
hanno a oggetto altri procedimenti. Essi hanno
natura di procedimenti
di riesame a iniziativa di
parte (contrapposti a quelli d’ufficio, come per
esempio la
revoca) con funzione giustiziale.
La disciplina dei ricorsi
amministrativi è contenuta
nel d.p.r. n. 1199/1971 che individua tre tipi di
ricorso: in
opposizione, gerarchico e straordinario
al presidente della Repubblica.
Il ricorso in opposizione è
presentato allo stesso
organo che ha emanato l’atto. L’art. 7 pone il
principio della
tassatività e rinvia alle disposizioni
del Capo I che disciplinano il ricorso
gerarchico.
Carattere tassativo ha anche il
cosiddetto ricorso
gerarchico improprio, che può essere cioè
proposto al di fuori di un
rapporto di gerarchia, in
particolare avverso gli atti di organi collegiali (art.
1, comma 2).
Carattere generale hanno invece i
due tipi
principali di ricorso, cioè il ricorso gerarchico,
esperibile nei confronti
degli atti non definitivi
(art. 1, comma 1), e il ricorso straordinario al
presidente
della Repubblica, esperibile nei
confronti degli atti definitivi (art. 8, comma 1).
Il ricorso gerarchico va proposto
entro 30 giorni
innanzi al superiore gerarchico, il quale cura
l’istruttoria e assume la
decisione (art. 2). Può
essere proposto anche per motivi di merito (art. 1,
comma 1). Il superiore gerarchico può annullare o
riformare l’atto impugnato e la sua decisione deve
essere motivata (art. 5). Se la
decisione non
interviene entro 90 giorni il ricorso si intende
respinto (art. 6).
Il ricorso straordinario, da
presentare entro 120
giorni, è  costruito   Il ricorso straordinario
  al
presidente della
come un rimedio Repubblica
parallelo e alternativo
rispetto al ricorso
giurisdizionale: parallelo, perché offre una
tutela
simile a quella giurisdizionale; alternativo, perché
al ricorrente, una volta
proposto il ricorso
giurisdizionale, non è ammesso il ricorso
straordinario e viceversa.
I  l ricorso straordinario può essere
proposto solo
per motivi di legittimità (art. 8, comma 1). Può
essere formulata una domanda cautelare
ed è
garantito il contraddittorio (sia pur soltanto in
forma scritta).
Il ministero competente cura
l’istruttoria e
trasmette tutti gli atti al Consiglio di Stato che
esprime il suo
parere. Il parere del Consiglio di
Stato è vincolante, non può essere cioè superato,
come accadeva in passato, con una delibera
motivata del Consiglio dei ministri. La
decisione
finale è adottata con decreto del presidente della
486 Repubblica su proposta del
ministro competente.
I controinteressati possono
proporre opposizione
al ricorso straordinario chiedendo che il ricorso sia
trasposto
nella sede giurisdizionale, innanzi al TAR
competente (art. 10). Il Codice disciplina il
procedimento per la riassunzione
conseguente
all’opposizione (art. 48).
A seguito di alcune modifiche
legislative, il ricorso
straordinario al presidente della Repubblica è
ormai
assimilabile sostanzialmente a un ricorso
giurisdizionale (Cons. St., Ad. Plen., 6
maggio 2013,
n. 9). I suoi pregi consistono nel fatto di poter
essere presentato entro
un termine più lungo di
quello di 60 giorni previsto per il ricorso
giurisdizionale e
nel fatto di essere meno costoso,
non essendo richiesta la difesa tecnica di un
avvocato.
In epoca recente, il legislatore ha
cercato di
introdurre rimedi di tipo non giurisdizionale in
modo da deflazionare il
contenzioso
giurisdizionale (le cosiddette ADR, alternative
dispute
resolutions) che oggi registra gravi problemi
di arretrato e di lunghezza
dei processi. Per
esempio, in materia di diritto di accesso ai
documenti amministrativi,
l’art. 25 l. n. 241/1990
prevede la possibilità di un ricorso
al difensore
civico o alla commissione per l’accesso ai
documenti amministrativi in
alternativa al ricorso
in sede giurisdizionale (disciplinato dall’art. 116
Codice come rito speciale che può concludersi con
l’ordine di esibizione dei documenti richiesti).
Molte autorità indipendenti annoverano
tra i
propri compiti, come visto, la risoluzione in via
stragiudiziale di controversie
tra gli utenti e gli
operatori. In materia bancaria, è istituito un
sistema di
risoluzione delle controversie tra clienti
e istituti di credito che fa capo all’Arbitro
bancario
finanziario, organismo imparziale, operante con
sette collegi giudicanti
distribuiti sul territorio
nazionale, istituito nel 2005 in attuazione dell’art.
128-bis del Testo unico bancario.
11. Cenni
alle giurisdizioni
amministrative speciali

1.
L’art. 100, comma 2, Cost. include la Corte dei
conti tra gli
organi ausiliari dello Stato e le
attribuisce funzioni di controllo preventivo di
legittimità sugli atti del governo, di controllo
successivo sulla gestione del bilancio
dello Stato e
di controllo sulla gestione finanziaria degli enti ai
quali lo Stato
contribuisce in via ordinaria.
Accanto alle funzioni di controllo,
la Corte dei
conti esercita funzioni propriamente
giurisdizionali «nelle materie di
contabilità
pubblica e nelle altre specificate dalla legge» (art.
103 Cost.).
La giurisdizione della Corte dei
conti riguarda i
seguenti settori: a) la responsabilità erariale e
contabile dei pubblici funzionari, che rappresenta
la funzione giurisdizionale più
rilevante sul piano
politico-istituzionale; b) il contenzioso in
materia
pensionistica; c) i giudizi di conto;
d) i giudizi a
istanza di parte in materia contabile
(essenzialmente ricorsi proposti da esattori,
tesorieri e agenti contabili). Le
disposizioni sul
processo innanzi alla Corte dei conti sono ora
contenute nel Codice
della giustizia contabile
487 approvato con d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174.
Merita qualche considerazione più
specifica il
giudizio  in materia di   Il giudizio di
  responsabilità
responsabilità amministrativa
erariale
e contabile
che sorge, come si è
visto nel capitolo VII, a carico dei dipendenti
pubblici per i danni causati all’erario nell’esercizio
delle loro funzioni.
I  l giudizio è promosso dalla
procura regionale nel
termine di prescrizione di cinque anni (art. 66,
comma 1, Codice) all’esito di un’istruttoria aperta
d’ufficio o in seguito a esposti e denunce
(obbligatorie per i dirigenti e i
responsabili delle
strutture di vertice delle amministrazioni) che
devono essere
circostanziate (artt. 51 ss. sulla
notizia di danno erariale). La procura è
titolare di
ampi poteri istruttori, potendo disporre
l’esibizione di documenti,
audizioni personali,
ispezioni e accertamenti, consulenze tecniche
(artt. 55 ss.).
Prima di emettere il decreto di
citazione in
giudizio, il procuratore notifica al presunto
responsabile un invito a
dedurre nel quale sono
esplicitati gli elementi essenziali del fatto illecito.
Deduzioni
scritte difensive e documenti possono
essere presentati entro un termine non inferiore a
45 giorni (art. 67). Il presunto responsabile può
chiedere di essere sentito
personalmente,
facendosi anche assistere da un avvocato. Il
procuratore è titolare di
poteri istruttori d’ufficio
molto estesi (esibizione e sequestro di documenti,
ispezioni, audizioni personali, accertamenti,
perizie, consulenze). Scaduto il termine
per le
deduzioni a difesa, il procuratore entro un termine
perentorio di 45 giorni
emette l’atto di citazione
oppure dispone l’archiviazione (artt. 86 e 69). Tra
invito a
dedurre e citazione deve sussistere, a pena
di nullità di quest’ultima, una piena
corrispondenza (art. 87). L’atto di citazione è
notificato al convenuto dopo che il
presidente ha
fissato l’udienza pubblica e assegnato il termine
per il deposito di
scritti difensivi. La fase
dibattimentale in udienza pubblica (art. 91)
avviene davanti
alla sezione regionale della Corte
dei conti, la quale può disporre l’acquisizione di
ulteriori elementi probatori (art. 94). Contro le
decisioni delle sezioni regionali è
ammesso
l’appello alle sezioni giurisdizionali centrali (art.
189). La proposizione
dell’appello sospende
l’esecuzione della sentenza impugnata (art. 190,
ultimo comma).
I mezzi di impugnazione contro le
sentenze sono,
oltre all’appello, l’opposizione di terzo, la
revocazione e il ricorso
per Cassazione per i soli
motivi inerenti alla giurisdizione (art. 117).
Alla riscossione dei crediti
relativi alle somme
liquidate a carico dei responsabili per danno
erariale con la
sentenza definitiva provvede, sotto
la vigilanza del pubblico ministero, la stessa
amministrazione che ha l’obbligo di avviare
immediatamente l’azione di recupero del
credito
(in via amministrativa, mediante esecuzione
forzata o iscrizione a ruolo) (artt. 214 ss.).
Il giudizio di responsabilità
innanzi alla Corte dei
conti costituisce una specificità del nostro
ordinamento.
Infatti, in altri ordinamenti sono le
stesse pubbliche amministrazioni danneggiate che
si attivano per la rifusione del danno subito da
parte dei propri dipendenti.
  Le commissioni
  tributarie
2.
Sono giudici 
amministrativi
speciali le commissioni
tributarie provinciali e
regionali disciplinate dal d.lgs. 31 dicembre 1992, n.
545. Le commissioni in questione
sono composte
488 da magistrati e da altre figure professionali
(avvocati, dipendenti pubblici laureati, ufficiali
della guardia di finanza cessati dal
servizio,
ragionieri e periti con esperienza specifica, ecc.)
iscritti in appositi
elenchi (art. 9).
 Le controversie devolute alla
cognizione delle
commissioni tributarie sono individuate in modo
tassativo dall’art. 2,
d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546
(imposta sui redditi, imposta sul valore aggiunto,
imposta comunale sull’incremento di valore degli
immobili, imposta di registro, ecc.).
Le
controversie non incluse nell’elenco rientrano
invece, in base ai criteri generali,
nell’ambito della
competenza del giudice amministrativo o del
giudice ordinario.

3.
Va qualificato come giudice amministrativo
speciale  il
Tribunale   Il Tribunale superiore
  delle
acque pubbliche
superiore delle
acque pubbliche
composto da magistrati amministrativi e
ordinari e
da tecnici. Questo giudice è titolare di una
competenza generale sui ricorsi
giurisdizionali
contro i provvedimenti amministrativi in materia
di acque pubbliche e di
una competenza speciale di
merito in materia di contravvenzioni e di altri
provvedimenti
di polizia demaniale (art. 143 r.d. 11
dicembre 1933, n. 1775 contenente il Testo
unico
delle leggi sulle acque e sugli impianti elettrici).
I  l Testo unico contiene un elenco
delle
controversie devolute in primo grado ai Tribunali
regionali (artt. 140 e 141):
demanialità delle acque,
limiti dei corsi d’acqua e bacini; diritti relativi alle
derivazioni e all’utilizzo delle acque pubbliche;
indennità e risarcimenti per
occupazioni ed
espropriazioni di fondi per l’esecuzione e
manutenzione di opere
idrauliche; risarcimento
dei danni derivanti da opere idrauliche eseguite
dalla pubblica
amministrazione; ricorsi in materia
di indennità di espropriazione dei diritti esclusivi
di pesca nelle acque demaniali; appello contro le
sentenze relative alle azioni
possessorie.

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