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Introduzione
23
1. Premessa
La presenza di apparati
burocratici organizzati
secondo criteri razionali è una costante nella
storia. Fin
dall’antichità i grandi imperi, in Oriente
e in Occidente, si dotarono di strutture
burocratiche stabili senza le quali nessun sovrano
sarebbe stato in grado di
esercitare il proprio
potere e di dominare territori talora assai estesi.
L’impero
romano fu l’esempio forse più sviluppato
di organizzazione burocratica volta a dare
ordine e
tendenziale uniformità all’azione di governo.
Ma gli esempi antichi non sono
di aiuto per
comprendere il fenomeno amministrativo nella
realtà contemporanea. I
presupposti culturali,
sociali, politici e costituzionali di epoche così
lontane
sono troppo eterogenei rispetto a quelli
dell’epoca moderna. Si pensi soltanto alla
presenza
della schiavitù o alla divisione rigida delle classi
sociali.
Bisogna invece prendere le
mosse dalla formazione
degli Stati nazionali in Europa a partire dal XVI
secolo e
dal graduale superamento
dell’ordinamento feudale. Quest’ultimo era
caratterizzato
da un’organizzazione politica
policentrica e pluralistica, fondata su rapporti
personali di tipo pattizio (vassallaggio) e su ampie
autonomie e privilegi
riconosciuti a ordinamenti
decentrati (comuni e città, ceti e corporazioni).
Caratteristica era l’assenza di un centro di potere
25 unitario effettivo. Tale non fu
mai il sacro romano
imperatore, in lotta perenne per la
sovranità con il
papato e con i feudatari. Per esercitare il suo
potere non
disponeva di un’amministrazione di
tipo professionale al proprio servizio e neppure
di
un esercito.
Considerando come paradigmatico
il caso
francese, la nascita La nascita dello Stato
moderno
dello Stato moderno,
con
l’unificazione del
potere politico in capo al re (Stato assoluto), andò
di pari
passo proprio con la formazione di apparati
amministrativi, al centro e in
periferia, posti alle
dirette dipendenze del sovrano (gli intendenti del
re) e
contrapposti ai poteri locali.
L’accentramento burocratico,
cioè la formazione di
uno Stato amministrativo, costituì un modo per
ricondurre a
unitarietà, in capo al sovrano, il
potere politico e statuale (secondo la nota
affermazione di Luigi XIV «Lo Stato sono io»).
Nell’esperienza francese lo Stato
assoluto dunque
si connotava come Stato amministrativo.
Era inoltre uno Stato che
estendeva il suo raggio di
azione a numerosi campi. In Francia esso ebbe un
ruolo
propulsivo (mercantilismo, colbertismo) che
si esplicò in interventi di direzione,
regolazione e
gestione diretta di attività economiche (per
esempio, le manifatture
reali per la produzione di
porcellane e di altri beni).
Nel corso del XVIII secolo lo
Stato assoluto
assunse i caratteri dell’assolutismo illuminato (per
esempio, in
Austria o in Prussia). Emerse cioè
quello che va sotto il nome di Stato di polizia
(Polizeistaat, ove «polizia» va intesa nel significato
originario di politeia, cioè attinente alla
polis). Lo
Stato di polizia garantiva la convivenza
ordinata e
promuoveva il benessere della collettività
(Wohlfahrtstaat), offrendo, con visione
paternalistica, ai
propri sudditi provvidenze di
vario genere.
Presero anche corpo filoni di
studi, come la
scienza della «polizia» (Polizeiwissenschaft) e
la
cameralistica, assimilabile per molti aspetti alla
scienza dell’amministrazione e
alla scienza delle
finanze. Queste discipline studiavano i metodi di
buona gestione
della cosa pubblica nell’interesse
delle finanze statali e per la soddisfazone dei
bisogni della collettività.
L’espansione dei compiti dello
Stato e
l’attribuzione di poteri amministrativi ai
funzionari delegati La funzione
amministrativa
del sovrano e a
strutture
burocratiche fecero emergere a poco a
poco la
funzione amministrativa come funzione autonoma,
non più inglobata in quella
giudiziaria.
Infatti in epoca medievale
soltanto la funzione
legislativa (imperium) e la funzione
giudiziaria
(jurisdictio) avevano assunto una fisionomia
definita. In Inghilterra, in particolare, i giudici di
pace (justices of
the peace) assommavano poteri
giurisdizionali e poteri che oggi
definiremmo come
amministrativi (come, per esempio, le
espropriazioni).
Il potere esecutivo acquisì un
profilo più
autonomo solo in seguito alla formulazione della
teoria della
separazione dei poteri. E a lungo la
dottrina fece fatica a porre una definizione di
attività amministrativa. Ci si accontentò di
individuarla, in via negativa e
residuale. Secondo
uno dei padri del diritto amministrativo, Otto
Mayer,
l’amministrazione è infatti «l’attività dello
Stato che non è legislazione o
giustizia» («die
Tätigkeit des Staates, die nicht Gesetzgebung oder
Justiz ist»)
[1914].
Il modello dello Stato assoluto
entrò in crisi con la
Rivoluzione francese del 1789 e con le costituzioni
26
liberali
approvate nei decenni successivi
nell’Europa continentale
che segnarono la nascita
del modello dello Stato di diritto (o Stato
costituzionale).
2.2. Stato di diritto e Stato a regime di
diritto amministrativo
Lo Stato di diritto
(État de droit, Rechtsstaat,
Rule of
law) è oggi uno dei principi fondanti dell’Unione
europea, insieme a quelli della dignità umana, della
libertà, della democrazia,
dell’uguaglianza e del
rispetto dei diritti umani (art. 2 del Trattato
sull’Unione europea). Il Preambolo della Carta di
diritti fondamentali dell’Unione
europea
proclamata a Nizza nel 2000 richiama il principio
dello Stato di
diritto, insieme a quello della
democrazia. A livello internazionale, nel 2005 le
Nazioni Unite affermarono solennemente «the
need for
universal adherence to and
implementation of the Rule of law at both national
and
international levels».
Lo Stato di diritto si Gli elementi
strutturali
dello Stato
regge su alcuni di diritto
pilastri che occorre
richiamare
sinteticamente. Essi costituiscono infatti le
precondizioni necessarie
per sottoporre gli
apparati amministrativi alla signoria della legge e
dunque per la
stessa nascita di un diritto
amministrativo.
1. In primo luogo, lo Stato di diritto
presuppone il
trasferimento della titolarità della sovranità dal
rex
legibus solutus (e legittimato in base al
principio
dinastico) a un parlamento eletto da un corpo
elettorale, dapprima
ristretto poi sempre più
esteso (suffragio universale).
dell’Administrative
Procedure Act che, come si
vedrà, costituisce uno
dei modelli principali di legge sul procedimento
amministrativo. Questa legge, per un verso,
legittimò e consolidò il modello delle
agenzie di
regolazione; per altro verso, sottopose la loro
attività a regole
procedurali stringenti e al
controllo giurisdizionale (judicial
review). Essa
costituisce l’ossatura del diritto amministrativo
negli
Stati Uniti.
A partire dagli anni Ottanta
del secolo scorso, con
la svolta reaganiana, La
deregulation
il modello
dello Stato
regolatore fu oggetto di un ripensamento. Furono
introdotte misure volte
a controllare e limitare
l’attività delle agenzie e a operare una sostanziale
riduzione della quantità e intrusività della
regolazione esistente
(deregulation). Fu avviata la
semplificazione delle
procedure burocratiche (red
tape) e promosso il ritiro dello
Stato dalle politiche
interventiste (rolling back the State).
In particolare, a
partire dal 1981 le agenzie vennero sottoposte a un
controllo
finanziario centralizzato. Fu resa
obbligatoria l’analisi costi e benefici della
regolazione (cost-benefit analysis), finalizzata a
dimostrare
la necessità e l’opportunità delle
singole misure da adottare in modo da limitarle
al
minimo indispensabile.
I processi di liberalizzazione
e privatizzazione non
produssero sempre i risultati attesi in termini di
recupero di
efficienza e di qualità delle prestazioni
e dei servizi. Negli Stati Uniti, per
esempio, la
34 gestione dei servizi di sicurezza e controllo
dei
passeggeri negli aeroporti, affidata a gestori privati,
venne ripubblicizzata in
seguito all’attacco
terroristico dell’11 settembre 2001. Anche la
privatizzazione
dei trasporti ferroviari in Gran
Bretagna è oggetto di un ripensamento poiché non
si
è tradotta in un miglioramento significativo del
servizio.
In generale , si I fallimenti dello
Stato
discute, quasi per
simmetria rispetto ai cosiddetti
«fallimenti del
mercato», di «fallimenti dello Stato» e ciò
soprattutto in seguito
alle carenze nel sistema dei
controlli pubblici sul sistema bancario e
finanziario
emerse nel corso della crisi scoppiata a
partire dal 2008. Per rimediare a questi
ultimi,
negli Stati Uniti nel 2010 si è rafforzato il sistema
della vigilanza sulle
attività finanziarie e si sono
introdotte regole più restrittive all’attività delle
banche (soprattutto con il Dodd-Frank Act del
2010).
Peraltro, in seguito alle
elezioni presidenziali del
2016, l’amministrazione repubblicana promosse la
deregolamentazione (o, come si è detto, la
«deconstruction of the Administrative
State»),
anche se un’inversione di tendenza è in atto con
l’insediamento nel 2021
del presidente
democratico, Joe Biden.
2.5. L’evoluzione della pubblica
amministrazione in Italia
Anche in Italia
l’organizzazione e le funzioni della
pubblica amministrazione hanno subito mutazioni
profonde a partire dall’unificazione nazionale.
In epoca cavouriana, fu
adottato il modello
dell’amministrazione Il modello
cavouriano
per ministeri,
con la
concentrazione di poche funzioni pubbliche in
capo a un nucleo ristretto di
apparati organizzati
in base al principio gerarchico e rappresentati al
vertice da
un ministro politicamente responsabile
dell’attività complessiva nei confronti del
parlamento.
Sul finire del XIX secolo il
governo Crispi varò un
primo programma riformatore che portò nel 1890
alla
pubblicizzazione delle cosiddette Opere pie. Si
trattava di enti e strutture private
sorte
spontaneamente dalla società civile o per impulso
delle organizzazioni
religiose e operanti nel campo
dell’assistenza sanitaria e sociale. Le Opere pie
furono riorganizzate e trasformate in enti pubblici
(le cosiddette IPAB, Istituzioni
pubbliche di
assistenza e beneficenza, oggi privatizzate)
sottoposti a controlli
penetranti da parte del
ministero dell’Interno e, per esso, a livello locale
delle
prefetture.
All’inizio del XX L’amministrazione per
enti
secolo, in epoca
giolittiana, furono
potenziate
le strutture ministeriali e istituite le
prime aziende ed enti pubblici nazionali
(Istituto
nazionale delle assicurazioni – INA, Istituto
nazionale per la previdenza
sociale – INPS). A
livello locale, specie in seguito alla legge del 1903
sulla municipalizzazione dei pubblici
servizi, molti
comuni costituirono proprie aziende per la
gestione di
numerose attività (trasporti,
illuminazione pubblica, macelli, farmacie, ecc.).
Nel
periodo bellico l’amministrazione subì una
riorganizzazione allo scopo di rispondere
alle
esigenze eccezionali della mobilitazione e del
coordinamento dell’intero
sistema economico
35 (consorzi obbligatori, ecc.).
a svolta autoritaria negli
anni Venti e l’ideologia
L
statalista affermatasi negli anni Trenta
innescarono un
processo di pubblicizzazione di
molte attività economiche e sociali con
l’istituzione di numerosi enti pubblici (CONI,
organizzazioni professionali e
sindacali, ecc.). Nel
1927 venne emanata la Carta del lavoro tesa ad
affermare la
dottrina del corporativismo e a
superare il modello dell’economia liberale.
La Grande Crisi determinò
l’estensione della mano
pubblica in numerosi settori economici. Nel 1933
venne
istituito l’IRI (Istituto per la ricostruzione
industriale), ente pubblico economico
al quale
venne attribuita la titolarità delle azioni di
numerose imprese oggetto di
interventi di
salvataggio. Nel 1936 venne approvata una legge
bancaria, rimasta in vigore fino all’inizio degli
anni
Novanta del secolo scorso, che riorganizzò il
sistema bancario secondo una
visione pubblicistica
e pianificatoria dell’attività creditizia. Vennero così
attribuiti ad apparati pubblici (in particolare, alla
Banca d’Italia) funzioni di
controllo monetario e
di vigilanza sugli istituti di credito, molti dei quali
aventi
natura di enti pubblici economici (istituti di
credito di diritto pubblico, casse di
risparmio).
Nel 1939 vennero emanate due
leggi per la tutela
del patrimonio storico-artistico e delle bellezze
naturali che
hanno avuto un forte impatto per
decenni. Nel 1942 venne emanata una legge
urbanistica generale volta a disciplinare in modo
omogeneo e razionale l’assetto del territorio
attraverso la pianificazione comunale
e il rilascio
di titoli abilitativi per l’attività di edificazione.
La Costituzione del La Costituzione e gli
1948, che rifondò su sviluppi successivi
basi democratiche
e
secondo il principio dello Stato di diritto
l’ordinamento italiano, incorporò una
matrice
interventista nei rapporti tra Stato, società ed
economia (funzione sociale
della proprietà, limiti
all’iniziativa economica, provvidenze sociali, ecc.),
ponendo un’enfasi, non soltanto sui diritti di
libertà e di proprietà di stampo
liberale, ma anche
sui diritti sociali.
I l secondo dopoguerra fu
connotato nei primi
decenni da una sostanziale continuità
nell’organizzazione
amministrativa, improntata a
un forte centralismo. E ciò pur in vigenza di una
Costituzione ispirata ai principi del pluralismo e
del decentramento con
l’istituzione delle regioni e
il rafforzamento delle autonomie locali.
Sul versante dei rapporti tra
Stato ed economia, le
imprese di proprietà pubblica vennero riordinate
nel sistema
delle partecipazioni statali.
Quest’ultimo assunse una configurazione stabile
attraverso l’istituzione di enti pubblici nazionali
con funzioni di holding
finanziaria di controllo
diretto o indiretto delle imprese pubbliche (enti di
gestione delle partecipazioni statali, cioè l’IRI,
l’ENI e l’EFIM). Gli enti di
gestione svolgevano
funzioni di «cerniera» tra la galassia delle società
per azioni
operanti nei settori più vari, delle quali
essi detenevano la totalità o la
maggioranza dei
pacchetti azionari, e l’autorità di governo. Essi
erano infatti
soggetti ai poteri di direttiva e di
indirizzo espressi dal Comitato
interministeriale
per la programmazione economica e dal ministero
delle
Partecipazioni statali. In questo modo
l’attività delle imprese pubbliche veniva
raccordata
agli obiettivi di politica economica e industriale
36 determinati in sede
nazionale.
L’espansione dei pubblici
poteri continuò negli
anni Sessanta e Settanta. Nel 1962 venne
nazionalizzato il
settore dell’energia elettrica e
istituito un ente pubblico economico (ENEL) per
la
gestione in regime di monopolio di tutte le
attività della filiera (produzione,
trasmissione,
distribuzione, importazione, ecc.). Verso la fine
degli anni Sessanta
venne approvato per legge un
programma economico quinquennale che ricalcava
in
qualche modo i modelli pianificatori
sperimentati nelle economie non di mercato e
che
rimase poi in gran parte inattuato. Nel 1978 venne
istituito il Servizio
sanitario nazionale, ispirato a
una logica pianificatoria e di gestione
prevalentemente pubblica dell’assistenza sanitaria.
Negli anni Settanta , Il regionalismo
con l’attuazione del
disegno costituzionale del
regionalismo, vennero
istituiti nuovi apparati a livello regionale, anch’essi
articolati, secondo il modello ministeriale, in
assessorati con competenze riferite
alle varie
materie di spettanza regionale e in enti pubblici
dipendenti (finanziarie
regionali, ecc.). Trovarono
spazio modelli organizzativi, specie a livello
regionale
e locale, volti a favorire il coinvolgimento
e la partecipazione diretta o indiretta
dei cittadini
e delle organizzazioni sindacali nella gestione della
cosa pubblica. A
livello centrale nel 1986 venne
istituito il ministero dell’Ambiente e negli anni
successivi la legislazione ambientale, in gran parte
di derivazione europea,
acquistò un peso
crescente.
In conseguenza di questi e di
altri interventi
legislativi, guidati dalla logica dello Stato
interventista,
imprenditore e pianificatore,
l’amministrazione pubblica assunse le sembianze
di una
costellazione multilivello e policentrica di
enti pubblici che affiancano gli
apparati
ministeriali centrali, anch’essi aumentati di
numero nel corso degli anni.
A partire dagli anni Novanta
del secolo scorso
anche in Italia lo Le liberalizzazioni e le
privatizzazioni
Stato imprenditore
entrò in crisi dati i
suoi costi sempre meno sostenibili in una fase di
squilibrio
della finanza pubblica. Vennero così
avviati processi di liberalizzazione, imposti,
come
si è accennato, da direttive europee, e di
privatizzazione di imprese ritenute
non strategiche
(Società Autostrade, Telecom). Si fece strada così
lo Stato
regolatore che comportò un riassetto
complessivo degli apparati amministrativi.
Furono anzitutto soppressi il
ministero delle
Partecipazioni statali e alcuni comitati
interministeriali. Quasi
tutti gli enti pubblici
economici (preposti alla gestione di banche e di
servizi
pubblici nazionali) furono trasformati in
società per azioni. Si attuò così la
cosiddetta
privatizzazione «fredda», cioè della mera forma
giuridica, un’operazione
propedeutica alla
cosiddetta privatizzazione «calda», cioè alla
dismissione totale o
parziale dei pacchetti azionari
in mano pubblica. Anche a livello di enti locali le
aziende municipalizzate che gestivano servizi
pubblici locali vennero trasformate in
società per
azioni controllate in tutto o in parte (società
miste) da uno o più
azionisti pubblici. Altri enti
pubblici non economici (musei, enti lirici) furono
trasformati in fondazioni private.
I processi di
liberalizzazione, cioè di soppressione
dei regimi di monopolio legale con
conseguente
apertura alla concorrenza di settori economici,
portarono, come si
vedrà, all’istituzione di autorità
di regolazione indipendenti dal potere esecutivo
e
dotate di poteri di regolazione, di vigilanza e
37 sanzionatori assai
estesi.
Gli anni Novanta del Le riforme degli anni
Novanta
XX secolo videro
anche affermarsi una
concezione dello Stato che favorisce processi di
decentramento e valorizza le
autonomie territoriali
e funzionali. In particolare, le regioni e gli enti
locali
acquisirono nuove funzioni e spazi di
autonomia statutaria, organizzativa e
finanziaria e
fu operata una riforma dei ministeri (in attuazione
soprattutto delle
cosiddette leggi Bassanini 15
marzo 1997, n. 59 e 15 maggio 1997, n. 127). Il
processo culminò con la
legge costituzionale 18
ottobre 2001, n. 3 che ridisegnò
l’assetto delle
competenze legislative dello Stato e delle regioni e
delle funzioni
amministrative dei vari livelli di
governo (Stato, regioni, province e comuni) in
base al principio della sussidiarietà verticale.
Quest’ultimo privilegia
nell’allocazione delle
funzioni, per quanto possibile, le unità
organizzative più
vicine ai cittadini destinatari
delle attività e dei servizi. Un’ampia autonomia
statutaria e organizzativa venne attribuita anche a
enti pubblici come le università
e le camere di
commercio. Nell’ambito della riforma degli
apparati pubblici, da un
lato, il rapporto di impiego
dei dipendenti pubblici venne in gran parte
ricondotto
al regime privatistico; dall’altro, la
stessa dirigenza pubblica venne valorizzata
attribuendo ad essa maggiori poteri gestionali e
limitando il ruolo dei vertici
politici alle funzioni
di indirizzo e di controllo.
I niziò a essere visto con
favore, superando la
visione statalista dominante per molti decenni,
anche il
coinvolgimento di espressioni della
società civile nello svolgimento di attività di
interesse pubblico, secondo il modello della
sussidiarietà orizzontale, anch’esso
recepito nella
legge costituzionale n. 3/2001 (art. 118, ultimo
comma, Cost.) e da ultimo, come si
vedrà, dal
Codice del Terzo settore.
Il processo di riforma della pubblica
amministrazione Le riforme recenti
sembra comunque
permanente e numerose sono state anche, nella
fase più recente della pandemia, le
leggi approvate.
Tra i testi legislativi di maggior rilievo, al di là di
numerose
disposizioni di legge riferite ad aspetti
specifici, vanno ricordati in particolare:
la legge
anticorruzione (l. 6 novembre 2012, n. 190) che
impone alle
amministrazioni l’adozione di misure
di prevenzione e obblighi di pubblicità e
trasparenza; il d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 di
razionalizzazione e di
riordino delle società a
partecipazione pubblica; sul versante sociale la
legge 28 marzo 2019, n. 26 contenente misure volte
a
contrastare la povertà e rendere più restrittiva la
disciplina dell’immigrazione; il
Codice dei
contratti pubblici approvato con d.lgs. 18 aprile
2016, n. 50; il Codice del Terzo settore approvato
con d.lgs. 3 luglio
2017, n. 117.
Un attivismo legislativo si è manifestato da ultimo
in relazione all’azione Le leggi di contrasto
alla
pandemia e di
di
contrasto alla attuazione del PNRR
pandemia attuata
attraverso una serie
di decreti legge e di altri
atti normativi e con
l’approvazione del Piano nazionale di ripresa e
resilienza
(PNRR) presentato dall’Italia
nell’ambito del programma Next Generation
EU, al
quale si è fatto cenno. Possono essere richiamati il
d.l.
1 marzo 2021, n. 22 convertito in legge 22 aprile
o
La sociologia analizza le
relazioni di potere interne
ed esterne agli apparati burocratici e la varietà dei
bisogni e degli interessi della collettività di cui essi
si fanno carico. Il potere
è un fenomeno sociale
prima ancora che giuridico, presente in ogni
gruppo o
collettività un minimo organizzata.
Va ricordata, in Il modello
weberiano
particolare, l’analisi
di Max Weber [1922; trad. it. 1995, 210-211]
dei tipi
storici di potere (costruiti come modelli o
idealtipi). Secondo il
sociologo tedesco, il potere è
definito come la possibilità per specifici comandi
di
trovare obbedienza da parte di un determinato
gruppo di uomini. Esso si basa su tre
criteri di
legittimazione: il potere tradizionale legato al
carattere sacro delle
tradizioni (monarchie
ereditarie); il potere carismatico fondato sulla
forza eroica
o sul valore esemplare di una persona
(cesarismo, dispotismo); il potere razionale
fondato sulla legalità di ordinamenti statuiti (Stato
di diritto).
uest’ultimo modello si
connota per la presenza di
Q
un’amministrazione burocratica impersonale che
agisce
entro limiti posti da regole giuridiche certe.
Essa è strutturata in uffici stabili,
ordinati secondo
i principi di competenza e di gerarchia, nei quali
opera un corpo
di funzionari di carriera e
specializzati (selezionati e promossi in base a
criteri
di competenza e di merito). Questo modello
è funzionale all’economia capitalistica
fondata sul
calcolo razionale: la stabilità delle regole, la
certezza del diritto e
la prevedibilità dell’azione
dell’amministrazione costituiscono per le imprese
un
elemento essenziale per poter valutare la
convenienza delle scelte di investimento.
Secondo
Max Weber, «ciò che occorre al capitalismo è un
diritto che possa venir
calcolato al pari di una
macchina» [ibidem, 472].
La sociologia studia anche le
caratteristiche degli
apparati burocratici e del personale che in essi
opera
(estrazione sociale, formazione, cultura,
ecc.).
3.3. Le scienze politiche ed
economiche. Fallimenti del
mercato e
regulation
Le scienze politiche ed
economiche attribuiscono
una crescente importanza alle istituzioni, come
fattore di
freno o di impulso allo sviluppo
economico. Operano per esempio una distinzione
tra
due tipi di istituzioni: «estrattive», tipiche di
ordinamenti chiusi, autoritari,
privi di contrappesi
rispetto al potere politico, che accentrano le
risorse a favore
di una casta o élite ristretta;
«inclusive», tipiche di ordinamenti pluralisti,
democratici, rispettosi della Rule of law, aperti alla
40 mobilità
sociale, allo spirito di iniziativa
individuale e
all’innovazione e dunque, in ultima
analisi, alla crescita economica [Acemoglu e
Robinson 2012; Fukuyama 2011]. In questo tipo di
analisi un ruolo di primo piano
viene attribuito alle
strutture burocratiche e al loro grado di
professionalità ed
efficienza (la cosiddetta capacità
amministrativa).
Le scienze politiche in
particolare analizzano il
ruolo degli apparati burocratici all’interno del
circuito
politico rappresentativo, cioè come
strumenti per realizzare le politiche pubbliche
decise dal parlamento, e più in generale per
inquadrare i rapporti tra classe
politica, burocrazia
e potere economico.
Esse mettono in evidenza come
la burocrazia non
sia in realtà un attore neutrale nei processi
decisionali,
confinato a un ruolo di mera
esecuzione degli indirizzi politici (come una sorta
di
«cinghia di trasmissione» tra la politica e i
cittadini destinatari della
regolazione e dei
servizi). Essa assume spesso un ruolo attivo di
elaborazione e di
condizionamento (e talora di
freno) delle politiche governative.
Le scienze politiche ed economiche
Nozioneindividuano
di
regolazione
le
situazioni nelle quali
è
giustificato
l’intervento dei pubblici poteri. Soprattutto nel
mondo anglosassone ha
avuto impulso, con
approccio interdisciplinare, la teoria della
regolazione pubblica
(o regulation) che studia le
ragioni e le modalità di
intervento dei poteri
pubblici in campo sociale ed economico. Tra le
varie
definizioni di regulation possono essere
richiamate quella di
«controllo prolungato e
focalizzato, esercitato da un’agenzia pubblica su
attività
cui una comunità attribuisce una rilevanza
sociale» [Selznick 1985, 364]; oppure
quella di
«guida, con mezzi amministrativi pubblici, di
un’attività privata secondo
una regola statuita
nell’interesse pubblico» [Mitnick 1980, 10].
i distinguono due modelli di
regolazione
S
pubblica: la prima La regolazione sociale
ed
economica
indirizzata a
promuovere scopi
sociali come, per esempio, la tutela della salute o le
provvidenze
e le misure di inclusione sociale di
lotta alla povertà (social
regulation); la seconda
indirizzata a massimizzare l’efficienza
economica e
il benessere dei consumatori (economic regulation).
La regolazione economica mira
a correggere i
cosiddetti «fallimento del mercato» (market
failures) con misure correttive di tipo autoritativo
(o di
command and control).
Quanto ai fallimenti del
mercato, si tratta di
situazioni nelle quali il mercato deregolamentato,
cioè retto
esclusivamente dal diritto privato
(diritto dei contratti e della responsabilità
civile,
tutela giurisdizionale), non è in grado di tutelare in
modo adeguato gli
interessi della collettività. Si
pensi, per esempio, all’inquinamento che non può
essere contrastato in modo efficace facendo
affidamento soltanto sulla
responsabilità civile
dell’inquinatore. Ciò attesa la difficoltà, in molti
casi, di
individuarlo con precisione, di provare il
nesso di causalità, di coordinare e
aggregare le
azioni di un numero spesso elevato di soggetti
danneggiati. Si pensi
ancora allo squilibrio, non
superabile con i normali strumenti negoziali, tra
un’impresa monopolistica in un determinato
mercato e i consumatori.
I principali fallimenti del
mercato che giustificano
l’intervento dei I principali fallimenti
del
mercato
poteri
pubblici sono i
41 seguenti.
1. I monopoli naturali, come le
infrastrutture
non facilmente duplicabili (per esempio, le
reti di trasporto
ferroviarie, porti e aeroporti,
reti di distribuzione dell’energia elettrica
e del
gas). Esse pongono chi le gestisce in una
situazione di «potere di
mercato» (market
power) che impedisce o altera lo
sviluppo della
concorrenza e che consente extraprofitti
dovuti alla rendita
di posizione. I rimedi più
frequenti consistono nel sottoporre l’impresa
monopolista (o le imprese dotate comunque
di notevole forza di mercato) a
una serie di
vincoli, tra i quali, per esempio, il controllo
dei prezzi e
tariffe applicate agli utenti,
oppure l’obbligo di consentire l’accesso
delle
proprie strutture (essential facilities) ad altri
operatori concorrenti in base a criteri di non
discriminazione.
2. I cosiddetti beni pubblici, come la
difesa o
l’ordine pubblico, dei quali beneficia l’intera
collettività,
inclusi coloro che non sarebbero
disponibili a farsi carico di una quota
proporzionale di costi (cosiddetti freeriders)
essendo
impossibile o troppo costoso
escluderli dal godimento. Il mercato non è
incentivato a produrli spontaneamente nella
misura adeguata e dunque da
sempre gli Stati
se ne sono fatti carico direttamente traendo
dalla
tassazione le risorse necessarie.
3. Le esternalità negative dovute per
esempio a
produzioni industriali inquinanti i cui benefici
vanno a vantaggio
dell’impresa (e dei suoi
azionisti), ma i cui costi gravano sull’intera
collettività. Da qui l’imposizione di limiti
massimi e di regimi
autorizzatori per le
emissioni inquinanti, la previsione di standard
qualitativi minimi per gli impianti industriali,
l’affermazione del
principio «chi inquina
paga», l’irrogazione di sanzioni in caso di
violazione delle prescrizioni.
4. Le asimmetrie informative tra chi
offre e chi
acquista beni e servizi circa le caratteristiche
qualitative
essenziali di questi ultimi, come
nei rapporti tra istituzioni finanziarie o
imprese quotate in borsa e piccoli
risparmiatori spesso non in grado di
valutare i
rischi degli investimenti proposti. A tutela di
questi ultimi
vengono così istituiti sistemi di
vigilanza sulle imprese che vengono
sottoposte a obblighi informativi e a poteri di
regolazione, autorizzatori,
prescrittivi,
ispettivi e sanzionatori attribuiti ad autorità di
regolazione.
5. Le esigenze di coordinamento per
esempio
relative al sistema dei pesi e misure o al
traffico stradale che
richiedono la fissazione
di standard uniformi e di regole di
comportamento
al cui rispetto sono preposte
autorità pubbliche.
La scienza
dell’amministrazione (Verwaltungslehre)
ha una tradizione che
risale al XIX secolo, in Italia
(Gian Domenico Romagnosi) e in Germania
(Lorenz von
Stein). Essa si ricollega al filone di
studi di finanza pubblica, ragionieristici e
aziendalisti avviati già nel XVIII secolo, cui si è già
fatto cenno, ovvero alla
cameralistica e alla scienza
della polizia
(Polizeiwissenschaft).
La scienza
dell’amministrazione, in auge
soprattutto verso la metà del secolo scorso, non ha
mai assunto uno statuto definito all’interno delle
scienze non giuridiche
(sociologia, scienza politica,
economia aziendale, ecc.) che studiano la pubblica
amministrazione. È stato anzi affermato che i
principi riuniti sotto il titolo di
questa scienza non
costituiscono «un ramo autonomo di conoscenza e
vane sono le
ricerche intese a determinare il
contenuto unitario» [Zanobini
1958, 58]. Si tratta
in ogni caso di una scienza in declino.
3.7. La scienza del diritto
amministrativo
Se le discipline non
giuridiche mirano a ricostruire
la sostanza dei fenomeni e degli interessi, alla
scienza giuridica spettano alcuni compiti specifici.
I fenomeni infatti devono
essere colti nella loro
dimensione giuridica, devono cioè essere
inquadrati nel
contesto delle norme vigenti
(diritto positivo). Compito del giurista è anzitutto
operare una ricognizione delle fonti normative che
disciplinano una determinata
materia. Il materiale
normativo deve essere poi riordinato e organizzato
in modo
sistematico tramite l’elaborazione di
45 categorie e concetti
giuridici.
Storicamente l’applicazione
rigorosa del metodo
giuridico al diritto Il metodo
giuridico
amministrativo
risale in Italia alla fine del XIX secolo, seguendo
l’esempio tedesco (Otto Mayer
nel 1886 pubblicò la
prima edizione dell’opera fondamentale Deutsches
Verwaltungsrecht). Vittorio Emanuele Orlando
(1860-1952), uomo
politico e giurista, curatore del
primo monumentale trattato di diritto
amministrativo, pose le basi della scienza del
diritto pubblico, all’interno del
quale si colloca,
come si è visto, anche il diritto amministrativo. Il
metodo
proposto fu quello, da un lato, di
espungere ogni elemento filosofico, storico e
politico dall’analisi giuridica; dall’altro, di non
limitarsi alla mera esposizione
ed esegesi della
legislazione amministrativa (secondo la tecnica
invalsa soprattutto
in Francia) elaborando invece,
attraverso classificazioni e successivi processi di
astrazione, i concetti giuridici (secondo la tecnica
inaugurata nel diritto privato
dalla pandettistica).
L’opera di Orlando e dei suoi allievi (Federico
Cammeo, Oreste
Ranelletti, Santi Romano, Guido
Zanobini) dominò la scienza giuspubblicistica
nella
prima metà del secolo scorso. Essa contribuì
alla costruzione di un diritto
amministrativo
coerente con una concezione liberale, statalistica e
con venature
autoritarie dei rapporti Stato-
cittadino.
In questa prima fase il
diritto amministrativo
concentrò la propria attenzione sull’attività
amministrativa.
Venne posto l’accento soprattutto
sulle prerogative degli apparati pubblici,
attraverso
l’elaborazione della teoria dell’atto
amministrativo come espressione del
potere
unilaterale attribuito dalla legge agli apparati
pubblici e, in ultima
analisi, del rapporto di sovra-
sottordinazione tra Stato e cittadino. L’atto
amministrativo venne inquadrato inizialmente
entro gli schemi del negozio giuridico
di
derivazione privatistica.
Con il mutare dei rapporti
politici e sociali e con
l’espandersi della L’ampliamento delle
prospettive
legislazione
amministrativa
specie a partire dagli anni Trenta del XX secolo, la
scienza del diritto amministrativo estese il proprio
campo di indagine a fenomeni
emergenti come
l’ordinamento del credito, gli enti pubblici e
l’impresa pubblica,
ecc. Si deve soprattutto a
Massimo Severo Giannini (1915-2000)
l’ampliamento della
prospettiva, inclusa una
rinnovata attenzione alle scienze non giuridiche.
Anche la
Costituzione repubblicana del 1948,
aperta a nuovi
valori e che dedica alcune
disposizioni fondamentali all’ordinamento
amministrativo,
e le leggi di riforma dei decenni
successivi (come, per esempio, il decentramento,
l’introduzione del Servizio sanitario nazionale,
ecc.) indussero la dottrina a un
ripensamento
dell’impianto generale del diritto amministrativo.
Maggiore attenzione
venne dedicata, per esempio,
ai profili organizzativi di un’amministrazione
sempre
più multilivello e alle tematiche dei diritti
di cittadinanza amministrativa.
merse anche una prospettiva
del cosiddetto
E
«diritto Il diritto
amministrativo
amministrativo paritario
paritario»
(elaborato
da Feliciano
Benvenuti verso la metà degli anni Settanta del
secolo
scorso [1975]) tesa a operare un riequilibrio
nel rapporto tra Stato e cittadino con
due modalità
principali: il potenziamento delle garanzie formali
(procedimento
amministrativo) e sostanziali a
favore di quest’ultimo; l’impiego di moduli
consensuali (accordi, convenzioni) di disciplina
dei rapporti tra privati e pubblica
46 amministrazione.
li anni Novanta del secolo
scorso, in particolare
G
con la legge 7 agosto 1990, n. 241 sul procedimento
amministrativo e con la crescente influenza del
diritto europeo, costituiscono
idealmente una
cesura rispetto alla concezione autoritaria del
diritto
amministrativo, che privilegia il punto di
vista dell’amministrazione dotata di ampi
poteri
che sovrastano il cittadino. La l. n. 241/1990 infatti,
come si vedrà, propone un nuovo
paradigma
interpretativo, che valorizza la posizione di
quest’ultimo, titolare ormai
di un’ampia gamma di
diritti e garanzie nei rapporti con la pubblica
amministrazione.
Il diritto amministrativo
resta pur sempre, nel suo
nocciolo essenziale, il diritto dell’autorità del
potere
pubblico per la cura degli interessi della
collettività, ma sta perdendo
progressivamente i
connotati di un diritto autoritario. Nell’epoca
presente lo Stato
è ancora uno Stato a regime
amministrativo, anche se esso «è sempre meno
speciale e
sempre più giustiziale, consensuale,
cooperativo, aperto alle clausole generali del
diritto comune» [Mannori e Sordi 2001].
Pur essendo ancora intimamente
legato allo Stato
nazionale, il diritto amministrativo è sempre più
soggetto agli
influssi europei e derivanti da quello
che viene ormai definito come il diritto
amministrativo globale.
4. Il
diritto amministrativo e i
suoi rapporti con altre
branche del diritto
4.1. Il diritto costituzionale
della Corte
amministrativa federale tedesca verso la seconda
metà
del secolo scorso, non è altro che il «diritto
costituzionale reso concreto»
(«Verwaltungsrecht
als konkretisiertes Verfassungsrecht»), cioè colto
nella sua
effettiva realizzazione nella legislazione e
nella vita dell’ordinamento.
osì, per esempio, il grado di
tutela dei diritti di
C
libertà e dei diritti sociali si misura non solo e non
tanto
sulla Costituzione, quanto piuttosto sulle
leggi amministrative che attuano il
disegno
costituzionale e sulla concreta applicazione che
esse ricevono ad opera
principalmente degli
apparati amministrativi. Il diritto alla salute,
definito
dall’art. 32 come «fondamentale diritto
dell’individuo e interesse della
collettività», trova
poi svolgimento e attuazione nella legislazione
istitutiva del Servizio sanitario nazionale
e più in
generale nella legislazione sanitaria. In modo
ancora più tangibile, il
livello delle prestazioni
garantite dipende anche dalle risorse finanziarie
messe a
disposizione direttamente o
indirettamente in una determinata fase storica. A
questo
riguardo si è parlato anche di «diritti
finanziariamente condizionati» [Merusi 1990,
28
ss.].
Del pari, il diritto a
manifestare liberamente il
proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni
altro
mezzo di diffusione sancito dall’art. 21 Cost. è
condizionato dalla legislazione
amministrativa sul
sistema radio-televisivo e sulla stampa che, come
più volte
stigmatizzato dalla Corte costituzionale,
non ha garantito un sufficiente grado di
pluralismo.
Ancora, la libertà di
iniziativa economica privata
(art. 41, comma 1, Cost.) è stata a lungo
subordinata al
rilascio di concessioni o di altri
titoli abilitativi discrezionali da parte di
autorità
amministrative e ad altre limitazioni poste dalle
leggi di settore. Solo a
partire dagli anni Novanta
del secolo scorso essa ha trovato un’attuazione più
completa in molti settori (telecomunicazioni,
energia elettrica e gas, ecc.) per
effetto del
recepimento di direttive europee di
liberalizzazione.
L’effettività della tutela
giurisdizionale, garantita
in astratto dall’art. 24 Cost., è pregiudicata
soprattutto da carenze
organizzative (limitatezza
delle risorse disponibili, carenze di organico,
inefficienza nell’organizzazione) che non
consentono per esempio la conclusione dei
processi in tempi ragionevolmente contenuti.
In linea generale, il corpo
delle leggi
amministrative, che nel loro impianto risalgono in
molti casi ad epoche
lontane, è rimasto per lungo
tempo poco in linea con la Costituzione. La Corte
costituzionale ha provveduto, specie nei primi anni
della propria attività, a
dichiarare incostituzionali
disposizioni contenute nelle leggi amministrative
di
settore, come per esempio le disposizioni di
matrice illiberale contenute nel Testo unico delle
leggi di pubblica sicurezza di cui al r.d. 18
giugno
1931, n. 773.
Un secondo nesso
«Il diritto
tra diritto costituzionale
passa, il
costituzionale e diritto amministrativo
diritto resta»
amministrativo è riassunto
dall’affermazione di
uno dei maggiori giuristi tedeschi del primo
Novecento (Otto
Mayer), secondo il quale «il
diritto costituzionale passa, il diritto
48 amministrativo
resta» («Verfassungsrecht vergeht,
Verwaltungsrecht
besteht») [Mayer 1924, 18]. Essa
mette in luce la diversa velocità dei mutamenti
costituzionali rispetto alle riforme amministrative.
roprio perché incidono solo
sui «rami alti»
P
dell’ordinamento, i primi possono verificarsi anche
in modo
repentino in seguito a moti rivoluzionari,
sconfitte militari e, più in generale,
rotture della
Costituzione. In Francia, dalla Rivoluzione del
1789 ad oggi, si sono
succedute numerose
costituzioni, talune rimaste in vigore per pochi
anni. Molti
testi costituzionali hanno richiesto
tempi di redazione assai brevi (come quelli del
1791, del 1793 e del 1795). La legge fondamentale
tedesca del 1948
(Grundgesetz) venne predisposta
nel secondo dopoguerra da
una commissione di
esperti in poche settimane. Il processo costituente
che sfociò
nella Costituzione italiana del 1948 durò
circa due anni.
Le riforme amministrative, al
contrario, mirano a
modificare l’organizzazione e il modo di operare di
apparati
burocratici caratterizzati da strutture,
personale, prassi operative e cultura
istituzionale
formatesi lentamente, per stratificazioni
successive, e
strutturalmente poco permeabili al
cambiamento.
In Italia, le strutture
fondamentali dello Stato
sopravvissero con pochi aggiustamenti a
cambiamenti di
regime politico e costituzionale,
come nel passaggio dallo Stato liberale al regime
autoritario del ventennio fascista. Frequenti
furono all’epoca le lamentele secondo
le quali la
burocrazia costituiva un ostacolo alla realizzazione
delle politiche
perseguite dal nuovo regime. Allo
stesso modo, l’adeguamento dell’organizzazione
amministrativa al disegno della Costituzione del
1948, improntato ai valori del
decentramento e
dell’autonomia richiese decenni. Anche
l’istituzione delle regioni
nel 1970 e il
trasferimento di funzioni amministrative,
personale, strutture e
risorse finanziarie (anche
tramite tributi propri) fu un processo lungo e
tormentato
e che forse non si è ancora concluso. Il
riconoscimento di una maggiore autonomia
agli
enti locali avvenne solo a partire dagli anni
Novanta del secolo scorso.
La piena applicazione da parte
della pubblica
amministrazione di leggi di riforma fondamentali
come la l. n. 241/1990 sul procedimento
amministrativo, che,
come si è già accennato,
esprime un nuovo modello di rapporti tra cittadino
e
pubblica amministrazione, ha richiesto molti
anni e probabilmente non è ancora
completata.
4.2. Il diritto europeo
Il diritto pubblico è la
branca del diritto legata
maggiormente alla storia, alla cultura e alle
tradizioni
nazionali ed è dunque più resistente a
innesti e trapianti di istituti di altri
ordinamenti.
L’adozione di testi costituzionali che ricalcano
costituzioni di altri
Stati spesso produce esiti
talora assai diversi rispetto a quelli attesi.
Anche il processo di
integrazione degli
ordinamenti nazionali all’interno dell’Unione
europea sconta la
maggior resistenza del diritto
pubblico a influenze esterne e a spinte
49 armonizzatrici.
Il diritto amministrativo
italiano ha acquisito
peraltro una dimensione europea sotto cinque
profili
principali: la legislazione amministrativa,
l’attività, l’organizzazione, la
finanza, la tutela
giurisdizionale.
▶ I
moduli privatistici dell’attività e
dell’organizzazione delle pubbliche
amministrazioni.
L’attività delle pubbliche amministrazioni è
regolata in parte da leggi amministrative e in parte
dal diritto privato.
Le pubbliche amministrazioni
sono dotate
anzitutto di soggettività piena nell’ordinamento
giuridico. Esse godono,
al pari delle persone
giuridiche private, di una capacità giuridica
generale,
quest’ultima intesa come l’attitudine ad
assumere la titolarità di diritti e
obblighi in
conformità alle norme del codice civile e delle
leggi speciali.
Le pubbliche La capacità di diritto
privato delle pubbliche
amministrazioni amministrazioni
dunque possono
instaurare relazioni
giuridiche con altri
soggetti dell’ordinamento
regolate dal diritto comune. L’art. 1, comma
1-bis, l.
n. 241/1990 enuncia infatti il principio secondo il
quale la pubblica amministrazione, «nell’adozione
di atti di natura non
autoritativa, agisce secondo le
norme di diritto privato salvo che la legge non
disponga diversamente».
Il solo limite generale che
sussiste per esse è
costituito dal fatto che la capacità giuridica
generale è
attribuita alle pubbliche
amministrazioni per realizzare le finalità di
interesse
pubblico affidate alla loro cura. Pertanto
esse non possono stipulare contratti
aleatori,
come, per esempio, certi tipi di contratti di
finanziamento (i cosiddetti
derivati) stipulati dai
comuni con gli istituti di credito (C. cass., Sez.
Un., 18
maggio 2020, n. 8770).
La capacità di diritto privato
delle pubbliche
amministrazioni viene integrata da una sorta di
capacità speciale,
attraverso l’attribuzione per
legge di poteri amministrativi necessari per la cura
di interessi pubblici. Già l’art. 11 cod. civ. riconosce
che le persone giuridiche
pubbliche «godono dei
diritti secondo le leggi e gli usi osservati come
diritto
pubblico», chiarendo così che esse sono
soggette anche a un regime speciale diverso
da
quello comune.
L’esercizio dei poteri Gli atti
autoritativi
amministrativi, come
si evince in negativo
dalla stessa formulazione
dell’art. 1, comma 1-bis, sopra
citato, si sostanzia
nell’adozione di atti aventi natura autoritativa,
caratterizzati, come si vedrà nel capitolo III,
dall’unilateralità nella produzione
degli effetti e
dalla loro sottoposizione al regime del diritto
amministrativo.
È controverso se sussista una
piena fungibilità tra
il potere amministrativo e la capacità generale di
diritto
privato. Si potrebbe infatti ritenere che se la
legge attribuisce alla pubblica
amministrazione un
potere da esercitare in presenza di situazioni in
essa indicate,
l’amministrazione non possa
scegliere liberamente di esercitare il potere
54 conferitole dalla legge per mezzo di un
provvedimento
autoritativo, oppure di fare uso
della capacità generale di diritto privato. Non
potrebbe cioè ricorrere a un atto negoziale idoneo
a realizzare il medesimo fine
(per esempio, la
stipula di un contratto di locazione temporanea in
alternativa alla
requisizione in uso di edifici per
ospitare degli sfollati). L’amministrazione
sarebbe
cioè tenuta a curare l’interesse pubblico affidatole
privilegiando
l’esercizio dei poteri amministrativi
ad essa conferiti.
La capacità di diritto privato
da parte della
pubblica amministrazione può dar luogo a
intersezioni tra regimi
giuridici.
Così, in materia di contratti
della pubblica
amministrazione per I contratti della
pubblica
la fornitura di beni
e amministrazione
servizi e per
l’esecuzione di lavori (disciplinata dal Codice dei
contratti
pubblici), convivono regole
pubblicistiche e regole privatistiche. Come si vedrà
nel
capitolo XII, le prime riguardano soprattutto la
formazione della volontà della
pubblica
amministrazione, e in particolare la scelta del
contraente, che avviene
attivando un
procedimento amministrativo. Le regole
privatistiche riguardano la fase
dell’esecuzione
degli obblighi contrattuali.
La capacità di diritto privato
consente, come si
vedrà, alle pubbliche Le società
pubbliche
amministrazioni
di
ricorrere al modello della società di capitali di
diritto comune per l’esercizio
di servizi pubblici e
di altre attività di rilevanza pubblicistica (d.lgs. 19
agosto 2016, n. 175). Ciò in luogo di moduli
organizzativi pubblicistici come l’ente pubblico
economico e l’azienda-organo (o
azienda speciale).
Per alcuni tipi di società (a controllo pubblico, in
house) le norme vigenti operano peraltro deroghe
alla disciplina del
codice civile e rendono
applicabili alcuni regimi pubblicistici. Si è parlato
così
di società di diritto speciale o singolare (per
esempio la RAI) e di
«quasi-amministrazioni», con
riguardo alle quali la forma giuridica privatistica
non
fa venir meno la sostanza pubblicistica.
I n seguito alla spinta alla
privatizzazione che ha
caratterizzato l’ultimo ventennio, molti enti
pubblici sono
stati trasformati in enti privati non
profit anch’essi ricondotti al diritto comune,
salvo
le deroghe previste dalle leggi speciali (fondazioni
liriche, museali,
universitarie, ecc.).
Il diritto privato penetra
anche all’interno
dell’organizzazione pubblica sotto più profili.
In primo luogo, non tutta
l’organizzazione delle
pubbliche amministrazioni è disciplinata da fonti
giuridiche
pubblicistiche e dai principi del diritto
pubblico. Il d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Norme
generali
sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni
pubbliche) opera infatti una
distinzione tra «macro-organizzazione» e
«micro-
organizzazione».
La macro-organizzazione, cioè
le linee
fondamentali di organizzazione degli uffici,
l’individuazione degli uffici
di maggiore rilevanza, i
modi di conferimento della titolarità dei medesimi
e le
dotazioni organiche, è definita con atti
organizzativi di tipo pubblicistico
adottati da
ciascun ente secondo il proprio ordinamento (art.
2, comma 1).
La micro- La disciplina
privatistica
della
organizzazione, «micro-
invece, riguardante organizzazione»
l’articolazione degli
uffici e le misure
inerenti alla gestione dei rapporti
di lavoro, è determinata dagli organi preposti
alla
gestione «con la capacità e i poteri del privato
datore di lavoro» (art. 5, comma 2), cioè con atti
55 organizzativi di diritto
privato.
’applicazione delle regole di
diritto privato è
L
pressoché integrale nel caso delle aziende sanitarie
locali (ASL)
che costituiscono la struttura di base
del Sistema sanitario nazionale. Le ASL sono
«aziende con personalità giuridica pubblica e
autonomia imprenditoriale». La loro
organizzazione e il loro funzionamento sono
disciplinati «con atto aziendale di
diritto privato»,
approvato dal direttore generale, che individua le
strutture
operative dotate di autonomia gestionale
o tecnico-professionale (art. 3, comma
1-bis, d.lgs.
30 dicembre 1992, n. 502).
In secondo luogo,
Il pubblico impiego
negli anni Novanta privatizzato
del secolo scorso il
rapporto di lavoro dei
dipendenti pubblici, in
precedenza sottoposto a un regime pubblicistico
(leggi,
regolamenti dei singoli enti, atti
amministrativi unilaterali), è stato ricondotto
in
parte al diritto comune.
Il d.lgs. n. 165/2001 sopra citato, infatti, prevede
che «i
rapporti di lavoro dei dipendenti delle
pubbliche amministrazioni sono disciplinati
dalle
disposizioni del Capo I, Titolo II, del Libro V del
codice civile e dalla
legge sui rapporti di lavoro
subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse
disposizioni contenute nel presente decreto che
costituiscono disposizioni a
carattere imperativo»
(art. 2, comma 2). Di regola, come si vedrà, si
applica
il diritto comune, salvo le eccezioni
previste dalla disciplina speciale contenuta
nello
stesso decreto legislativo o in altre leggi
amministrative. A valle della
normativa di rango
primario, i rapporti individuali di lavoro sono
regolati da
contratti collettivi e contratti
individuali (art. 2, comma 3).
▶ La
tendenza espansiva del diritto
amministrativo.
In presenza di
determinate condizioni, anche
soggetti formalmente privati sono sottoposti,
almeno
in parte, a un regime di diritto
amministrativo.
Ciò accade, in particolare,
per i soggetti privati che
in base a criteri posti dalla normativa europea e
nazionale in materia di contratti pubblici sono
qualificati come «organismi di
diritto pubblico» o
«imprese pubbliche» (art. 3, comma 1, lett. d) e t),
Codice dei contratti
pubblici). Essi, come si vedrà
nel capitolo XII, sono tenuti ad avviare
procedimenti competitivi a evidenza pubblica per
la scelta dell’impresa fornitrice e
i loro atti sono
impugnabili innanzi al giudice amministrativo.
In termini generali, l’art. 1,
comma 1-ter, l. n.
241/1990 (riformulato in parte dall’art. 1 legge 6
novembre 2012, n. 190) stabilisce che «I
soggetti
privati preposti I privati preposti
all’esercizio di attività
all’esercizio di amministrative
attività
amministrative
assicurano il rispetto dei criteri e dei principi di cui
al comma 1
con un livello di garanzia non inferiore
a quello cui sono tenute le pubbliche
amministrazioni in forza delle disposizioni di cui
alla presente legge» (in
particolare quelli di
imparzialità, pubblicità e trasparenza). Inoltre,
l’art. 29, comma 1, l. n. 241/1990 stabilisce che essa
si
applica anche «alle società con totale o
prevalente capitale pubblico, limitatamente
all’esercizio delle funzioni amministrative».
lcuni atti di soggetti
privati hanno dunque natura
A
di provvedimenti e sono sottoposti al controllo
giurisdizionale da parte del giudice
amministrativo. Il Codice del processo
amministrativo, nel definire l’ambito della
giurisdizione amministrativa, infatti,
fa riferimento
anche ai «soggetti equiparati» alle pubbliche
amministrazioni o a
quelli «comunque tenuti al
rispetto dei principi del procedimento
56 amministrativo»
(art. 7, comma 2).
Anche la normativa sul diritto
di accesso ai
documenti amministrativi ha un campo di
applicazione che va al di là
delle amministrazioni
pubbliche in senso stretto. Infatti, l’art. 22, comma
1, lett. e), l. n. 241/1990 include nella
definizione di
pubblica amministrazione «i soggetti di diritto
privato limitatamente
alla loro attività di pubblico
interesse disciplinata dal diritto nazionale o
comunitario», i quali, almeno per una parte della
loro attività, sono tenuti a
rispettare gli obblighi in
materia di trasparenza.
Infine, la costituzione di
società per azioni da
parte di soggetti Le società per azioni-
ente
pubblico
pubblici
regolate in
linea di principio dal
diritto privato non comporta sempre e
necessariamente che esse siano qualificabili come
persone giuridiche private. La
giurisprudenza più
recente, infatti, in presenza di deroghe al diritto
comune
introdotte da leggi speciali e in
considerazione della rilevanza pubblicistica della
loro attività, attribuisce ad alcune società in mano
pubblica la natura giuridica di
enti pubblici (per
esempio, Poste s.p.a., ENEL s.p.a., RAI). È stata
così riscoperta
la figura, per molti aspetti ibrida,
della società per azioni-ente pubblico, già
emersa
negli anni Trenta del secolo scorso (in particolare
a proposito dell’AGIP
s.p.a.).
I n ogni caso, la
trasformazione in società di diritto
privato degli enti pubblici (cosiddetta
privatizzazione «fredda»), se non è accompagnata
dalla dismissione del controllo
azionario da parte
dello Stato o di enti pubblici (cosiddetta
privatizzazione
«calda»), non altera la sostanza
pubblicistica delle società, con la conseguente
applicazione di regole pubblicistiche (per esempio,
il controllo della Corte dei
conti esercitato anche
attraverso la presenza di un magistrato nel
consiglio di
amministrazione).
Va segnalato per completezza
che anche il diritto
privato in qualche La penetrazione nel
diritto
privato
caso incorpora
principi propri del
diritto amministrativo, come l’obbligo di
motivazione. Così, per
esempio, nel diritto
societario le società facenti parte di un gruppo
possono
assumere decisioni influenzate
dall’attività di direzione e coordinamento della
società capogruppo anche sacrificando l’interesse
della società a favore di quello
del gruppo. Tuttavia
le decisioni di questo tipo, al pari degli atti
amministrativi
(art. 3 l. n. 241/1990), devono
«essere analiticamente
motivate e recare puntuale
indicazione delle ragioni e degli interessi la cui
valutazione ha inciso sulla decisione» (art. 2497-ter
cod.
civ.). Nel diritto del lavoro privato la
comunicazione del licenziamento deve
contenere
una motivazione (art. 2, comma 2, legge 15 luglio
1966, n. 604,
sostituito dalla legge 28 giugno 2012,
n. 92). Secondo il Codice del Terzo settore, il
rigetto di una domanda di
ammissione a
un’associazione deve contenere una motivazione
(art. 23).
ei rapporti tra compagnie di
assicurazione
N
private e sottoscrittori di polizze di assicurazione
nel settore della
responsabilità civile obbligatoria,
questi ultimi possono esercitare il diritto di
accesso ai documenti detenuti dalle prime con
modalità ed esiti analoghi a quelli
previsti dalla l.
n. 241/1990 per i rapporti tra cittadini e pubbliche
amministrazioni.
In conclusione, il diritto
amministrativo non
costituisce oggi né l’unico diritto applicabile alle
pubbliche
amministrazioni, né un diritto
applicabile solo ad esse. La distinzione tra attività
di diritto pubblico e di diritto privato non è
sovrapponibile in modo perfetto alla
distinzione
57 tra soggetto pubblico e soggetto privato.
4.4. Il diritto penale
Il diritto amministrativo ha
numerose
connessioni con il diritto penale.
In primo luogo, il codice
penale dedica l’intero
Titolo II del Libro II ai delitti contro la pubblica
amministrazione distinguendo i reati commessi dai
pubblici ufficiali e dagli
incaricati di pubblici
servizi (per esempio, il peculato, l’abuso d’ufficio,
l’interesse privato in atti di ufficio) e i reati
commessi dai privati contro la
pubblica
amministrazione (per esempio, la violenza o
minaccia a un pubblico
ufficiale, l’oltraggio,
l’interruzione di un ufficio o servizio pubblico). Il
codice
penale contiene anche le definizioni di
pubblico ufficiale preposto a una pubblica
funzione e di incaricato di pubblico servizio (artt.
357 e 358) ai fini
dell’applicazione delle norme
penali. Da tali definizioni si possono ricavare
elementi utili anche per la ricostruzione delle
nozioni generali del diritto
amministrativo. In
particolare, la funzione amministrativa è
caratterizzata
dall’esprimersi della volontà
dell’autorità pubblica amministrativa per mezzo di
«poteri autoritativi» (art. 357, comma 2), nozione,
quest’ultima, centrale
nella teoria del
provvedimento amministrativo.
Peraltro, le definizioni
ricavabili dai due ambiti
disciplinari non coincidono in tutto e per tutto.
Anzi,
come ha osservato la giurisprudenza penale a
proposito della nozione di procedimento
amministrativo, «le indicazioni del diritto
amministrativo sono utili […], ma non
esaustive o
vincolanti» per il giudice penale (C. Cass., Sez. VI
penale, 14 aprile
2015).
In secondo luogo, il diritto
penale rafforza
l’effettività di molte discipline amministrative di
settore punendo
comportamenti di singoli
individui o di imprese che ne violino i precetti. Si
pensi
soltanto ai numerosi reati previsti dal Codice
dell’ambiente o quelli che tendono a colpire gli
abusi edilizi. La stessa inosservanza di un
provvedimento legalmente dato da
un’autorità
amministrativa è punita con una contravvenzione,
anche se ciò solo negli
ambiti della giustizia, della
sicurezza o ordine pubblico, dell’igiene (art. 650
cod. pen.).
In terzo luogo, come si vedrà
nel capitolo IV, in
seguito ad alcune pronunce delle corti europee la
distinzione
tra sanzioni amministrative e sanzioni
penali ai fini dell’applicabilità del
principio del
contraddittorio e del principio del ne bis in
idem è
sempre più incerta.
5. I
caratteri generali del
diritto amministrativo
5.1. La natura giurisprudenziale del
diritto amministrativo
In sede introduttiva conviene
dar conto di alcuni
caratteri generali del diritto amministrativo e
delle principali
partizioni della materia.
Come si è già accennato, la
nascita del diritto
amministrativo in Francia e in Italia è legata
all’istituzione
di un giudice speciale per le
controversie tra cittadino e pubblica
amministrazione.
E ciò spiega un suo primo tratto
distintivo originario, vale a dire quello di essere
un
diritto avente natura giurisprudenziale. Vanno
dunque anticipati alcuni temi
esaminati nel
58 capitolo XIV.
In Francia la L’esperienza
francese
giustizia
amministrativa si sviluppò, senza soluzione di
continuità,
dal sistema del contenzioso
amministrativo all’istituzione nel 1872 di un
giudice
speciale. Come si vedrà, il contenzioso
amministrativo era dato da un sistema di
ricorsi
amministrativi interni al potere esecutivo (una
sorta di giustizia
domestica) già presenti in epoca
antecedente la Rivoluzione del 1789. Nel 1872 al
Conseil d’État venne attribuita in via permanente la
funzione di giudice del contenzioso
amministrativo e con ciò il Conseil
d’État completò
la propria trasformazione in giudice in senso
proprio.
Quasi in contemporanea, nel
1873, il Tribunal des
Conflits emanò la pronuncia
sull’arrêt Blanco, che,
come si è già accennato, segna
convenzionalmente
la nascita del diritto amministrativo. In seguito,
affermata
l’autonomia del diritto amministrativo
dal diritto comune, fu lo stesso
Conseil d’État a
elaborare e ad adattare via via, con
notevole
creatività, pragmatismo e flessibilità (souplesse), i
principi fondamentali di questo diritto.
In Italia l’esperienza L’esperienza
italiana
è in gran parte simile,
con una sola variante. Lo sbocco
naturale del
sistema del contenzioso amministrativo, già
presente in varie forme da
lungo tempo negli Stati
preunitari, nell’istituzione di un giudice speciale in
senso
proprio subì una cesura in occasione della
riunificazione nazionale. La legge 20 marzo 1865,
n. 2248, All. E, come si vedrà,
abolì il contenzioso
amministrativo, ritenuto non compatibile con una
visione
liberale dello Stato, e attribuì al giudice
ordinario tutte le controversie tra
privati e
pubblica amministrazione relative alla tutela di
diritti soggettivi.
Nel 1889 venne operata una correzione del
sistema istituendo un La funzione «pretoria»
del
giudice
giudice amministrativo
amministrativo il cui
nucleo originario fu
costituito dalla IV Sezione del Consiglio
di Stato.
uest’ultima, fin dalle sue
prime decisioni, si
Q
autoattribuì la qualifica di giudice in senso proprio
e
intraprese l’opera di costruzione dei principi
generali del diritto amministrativo.
Così, per
esempio, in assenza di una definizione legislativa
dell’eccesso di potere,
la IV Sezione chiarì che
esso doveva essere inteso come vizio del
provvedimento
relativo alla legalità intrinseca (da
contrapporre alla legalità estrinseca, cioè
essenzialmente legata agli aspetti formali e
procedurali dell’azione amministrativa)
della
funzione amministrativa. Individuò poi
progressivamente, accanto alla figura
principale
dello sviamento di potere, una categoria aperta di
figure sintomatiche
dell’eccesso di potere
(travisamento dei fatti, disparità di trattamento,
contraddittorietà o insufficienza della
motivazione, ecc.). Il Consiglio di Stato
elaborò
via via, in assenza di una disciplina legislativa
compiuta, i principi
generali dell’azione
amministrativa (il contraddittorio, la
ragionevolezza, ecc.),
dell’atto amministrativo
(l’obbligo di motivazione, la revoca,
l’annullamento
d’ufficio, ecc.) e
dell’organizzazione (la prorogatio degli
organi
scaduti volta a garantire la continuità dell’azione
amministrativa).
Il Consiglio di Stato si fece
anche carico di colmare
le lacune contenute nella scarna disciplina
legislativa del
processo amministrativo. Per
esempio elaborò nozioni fondamentali come l’atto
impugnabile, l’interesse legittimo, l’interesse a
ricorrere, il principio della
domanda, ecc. Gli
stessi criteri di riparto di giurisdizione tra giudice
ordinario e
giudice amministrativo diedero origine
a contrasti giurisprudenziali e vennero
fissati in
modo definitivo negli anni Trenta del secolo
59 scorso, non già dal
legislatore, bensì in seguito a un
«concordato giurisprudenziale» informale tra il
presidente
della Corte di cassazione e del
Consiglio di Stato.
In definitiva, come ha
chiarito da tempo lo stesso
Consiglio di Stato, il diritto amministrativo non è
composto soltanto da norme, ma anche da
«principi che dottrina e giurisprudenza
hanno
elevato a dignità di sistema» (Cons. St., Ad. Plen.,
28 gennaio 1961, n. 3).
La natura giurisprudenziale
del diritto
amministrativo non è contraddetta dalla presenza
di un’amplissima
produzione legislativa. Anzi, i
difetti strutturali della legislazione
amministrativa
(molteplicità dei centri di produzione normativa,
frammentazione,
stratificazione temporale,
instabilità, cattiva qualità dei testi) danno origine a
incertezze interpretative.
Per dirimere i Il ruolo nomofilattico
dell’Adunanza Plenaria
contrasti del Consiglio di Stato
giurisprudenziali,
interviene
l’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato, collegio allargato
composto da giudici
provenienti da tutte le sezioni
giudicanti (II, III, IV, V, VI e VII). Essa svolge
una
funzione nomofilattica, cioè di promozione di
un’applicazione del diritto
uniforme, che è stata
rafforzata dal Codice del processo
amministrativo. Infatti,
nel caso in cui una
sezione giudicante ritiene preferibile
un’interpretazione
diversa da quella dell’Adunanza
Plenaria, non può decidere, ma deve rimettere il
caso alla decisione di quest’ultima e deve poi
conformarsi al suo orientamento (art.
99).
Nell’enunciare il principio di diritto l’Adunanza
Plenaria può stabilire, in
casi eccezionali, che esso
si applichi solo per il futuro e non anche al caso
concreto (Ad. Plen., 22 dicembre 2017, n. 13).
a l. n. 241/1990 , che
L La legificazione dei
principi del diritto
contiene una serie di amministrativo
disposizioni generali
sul procedimento e
sul provvedimento
amministrativo, offre una base
legislativa molto più solida agli istituti
fondamentali del diritto amministrativo. Tuttavia
neppure essa supera del tutto la
natura
giurisprudenziale del diritto amministrativo.
a un lato, infatti, essa in
alcuni casi ha soltanto
D
legificato e precisato istituti e principi già elaborati
dalla giurisprudenza (per esempio, in tema di
motivazione o di revoca e annullamento
d’ufficio);
dall’altro, essa ha posto una disciplina meno
organica e di dettaglio
rispetto a quella posta da
altre leggi sul procedimento amministrativo (per
esempio,
in Germania, il Verwaltungsverfahrensgesetz
del 1976),
lasciando così ampi spazi di integrazione
e di adattamento alla giurisprudenza.
Il diritto amministrativo ha
un’altra caratteristica
che lo avvicina in qualche modo all’esperienza
della
common law e cioè l’elasticità e adattabilità al
variare
delle situazioni e all’emergere di nuove
esigenze. Ciò costituisce per alcuni
aspetti un
vantaggio perché, entro certi limiti, consente al
sistema di evolversi
anche quando il parlamento
ritarda a fornire risposte legislative a problemi
emergenti.
5.2. Il diritto amministrativo generale
e speciale
Il diritto amministrativo si
caratterizza per la
vastità del materiale normativo e per l’ampiezza e
varietà delle
materie. È emersa così la distinzione
60 tra diritto amministrativo speciale e
generale.
Il diritto amministrativo
speciale è costituito dai
filoni legislativi che disciplinano i vari campi di
intervento delle pubbliche amministrazioni
(urbanistica, sanità, ambiente, beni
culturali,
ordinamento scolastico, universitario, militare,
sportivo, ordine
pubblico, previdenza, ecc.). Il
corpo della legislazione di settore di fonte statale
e
regionale, ma spesso anche, come si è detto, di
derivazione europea, è imponente
(qualche
migliaio di leggi). Inoltre si aggiungono via via
ulteriori settori di
legislazione speciale come, per
esempio, quelli sull’amministrazione digitale e
sulla prevenzione della corruzione nelle pubbliche
amministrazioni.
All’interprete è dunque
richiesta la capacità di
operare una ricognizione completa e aggiornata
delle norme
vigenti così come applicate e
interpretate dalla giurisprudenza e la capacità di
inquadrarle nell’ambito del diritto amministrativo
generale.
Il diritto amministrativo
generale ha invece natura
trasversale ed è opera soprattutto della scienza
giuridica. Essa procede anzitutto alla
rielaborazione del materiale giuridico
grezzo,
costituito dalle norme vigenti e dalle sentenze dei
giudici, attraverso
un’attività di classificazione, di
individuazione di strutture portanti e di
costanti.
Interviene poi l’attività di elaborazione dei
concetti giuridici che
costituiscono il nucleo
essenziale della dogmatica del diritto
amministrativo.
Diritto generale e diritto
speciale si condizionano
reciprocamente e si evolvono di pari passo. Il
mutare delle
discipline amministrative di settore
ad opera del legislatore richiede infatti uno
sforzo
di adattamento delle categorie giuridiche e di
ricerca di nuovi paradigmi
interpretativi.
Il diritto amministrativo
generale, dunque, per
propria natura non può aspirare a un
inquadramento completo,
coerente e definitivo del
proprio oggetto. Può mirare soltanto a tracciare le
coordinate principali e le costanti (le cosiddette
invarianti, secondo Giannini
[1981, 3]) volte a
inquadrare nel modo più preciso i fenomeni
analizzati. E questo
nella consapevolezza che i
sistemi giuridici, così come gli organismi viventi,
presentano necessariamente contraddizioni
interne, tensioni tra opposti principi,
tra elementi
caduchi ed elementi in pieno sviluppo, tra forze
che promuovono la
stabilità e spinte che alterano
gli equilibri.
Il diritto amministrativo
generale è comunque il
nucleo costitutivo della materia, in gran parte
codificato
nella l. n. 241/1990, e come tale
rappresenta la parte
principale di ogni
elaborazione manualistica.
Il diritto amministrativo
speciale, talora
incorporato in codici di settore, è invece oggetto di
trattazioni
organiche, per lo più a uso didattico o
indirizzate agli operatori pratici, dedicate
a uno
solo dei subsettori (diritto urbanistico, diritto
dell’ambiente, diritto
sanitario, diritto dei contratti
pubblici). Talvolta è condensato in capitoli o
partizioni interne a trattati di diritto
amministrativo che mirano anche alla
completezza
dell’esposizione. Quest’ultima esula invece dagli
obiettivi di
un’introduzione generale al diritto
amministrativo.
CAPITOLO 2
61
1. Premessa
In base
all’art. 117, La disapplicazione del
diritto
nazionale
comma 1, della contrastante con
Costituzione sopra quello europeo
richiamato, le
fonti
dell’Unione europea si pongono su un livello
gerarchicamente più elevato rispetto
alle fonti
primarie. Vige anzi il principio secondo il quale le
norme nazionali
contrastanti con il diritto europeo
devono essere disapplicate.
uesto principio vale sia per i
giudici nazionali, ai
Q
quali, nell’ambito di una controversia, spetta il
compito di
individuare la norma applicabile al caso
concreto (anche in base al principio
jura novit
curia); sia per le pubbliche amministrazioni,
quando
esercitano un potere
amministrativo ed
emanano un provvedimento. Per esempio, in
materia di
concessioni balneari, secondo la
giurisprudenza (da ultimo, Consiglio di Stato,
Ad.
Plen., 9 novembre 2021, nn. 17 e 18), i comuni sono
tenuti a disapplicare norme nazionali che
ne
prevedono la proroga automatica della durata in
contrasto con la normativa europea
che impone
una procedura di gara per la scelta del
concessionario (direttiva servizi
(CE) 2006/123, già
citata).
Per la pubblica amministrazione, il
vincolo
derivante dal diritto europeo è addirittura più
stringente di quello che
discende dalla
Costituzione. Essa infatti non può disapplicare le
leggi contrarie alla
Costituzione, né ha il potere
attribuito ai giudici di sollevare in via incidentale
la
questione alla Corte costituzionale.
Il primato del diritto europeo si
spinge invece fino
al punto di vietare alle pubbliche amministrazioni
di dare esecuzione
a un provvedimento la cui
legittimità sia stata affermata da una sentenza
passata in
giudicato, allorché esso sia stato
ritenuto contrario al diritto europeo dalla Corte di
giustizia dell’Unione europea (sentenza 13 gennaio
2004, causa C-453/00, Kuhne
& Heitz).
In estrema sintesi, le fonti europee sono costituite
anzitutto dai Trattati I Trattati
istitutivi delle
Comunità, più volte modificati e
integrati in
particolare con i Trattati di Amsterdam del 1997, di
Nizza del 2001 e di Lisbona del 2007. Il Trattato di
Lisbona entrato in vigore
a fine 2009 si compone
di due testi: il Trattato sull’Unione europea (TUE)
e il Trattato sul funzionamento dell’Unione
europea (TFUE). Il
primo corrisponde all’incirca al
TUE approvato nel 1992 e integrato nel 2004; il
secondo
corrisponde al precedente Trattato CE,
anch’esso integrato nel 2004. In base all’art. 11
Cost. essi hanno consentito limitazioni della
sovranità a favore delle istituzioni europee. I
principi generali in essi contenuti (non
discriminazione, legalità, certezza del diritto,
ecc.), insieme a quelli che la Corte di giustizia
dell’Unione europea ha ricavato dai principi
generali comuni agli ordinamenti giuridici
degli
Stati membri, sono di diretta applicabilità negli
65 ordinamenti
nazionali.
I n aggiunta ai Trattati vanno
menzionate la Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea e la
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo
(CEDU), richiamate espressamente
dall’art. 6 del Trattato UE. Alla luce della
giurisprudenza della
Corte costituzionale
(sentenze 11 marzo 2011, n. 80, 7
aprile 2011, n. 113,
22
luglio 2011, n. 236) esse hanno sempre più una
rilevanza giuridica anche
all’interno degli Stati
membri.
I regolamenti, disciplinati dagli artt. 288 ss. TFUE,
hanno portata
generale e sono direttamente
I regolamenti e le
direttive
vincolanti per gli
Stati membri e per i
loro cittadini. Non
richiedono alcuna forma di
recepimento da parte degli Stati membri e non
possono essere
derogati da questi ultimi. A
differenza degli atti normativi nazionali, i
regolamenti
europei devono essere motivati (art.
296, comma 2, TFUE). Inoltre costituiscono un
parametro
diretto per sindacare la legittimità degli
atti amministrativi. Molti regolamenti
vigenti
disciplinano materie che fanno parte del diritto
amministrativo speciale.
Le direttive emanate dal Consiglio e dalla
Commissione hanno per
destinatari gli Stati e sono
vincolanti «per quanto riguarda il risultato da
raggiungere, salva restando la competenza degli
organi nazionali in
merito alla forma e ai mezzi»
(art. 288, comma 3, TFUE). Esse dunque non sono,
di regola,
immediatamente applicabili. Al pari dei
regolamenti, devono contenere una motivazione
(art. 296 TFUE). Impongono agli Stati membri
soltanto un
obbligo di risultato e non incidono
sull’autonomia di questi ultimi nell’individuare le
modalità concrete e il tipo di atti che devono
essere adottati per raggiungere gli
obiettivi. In
base ai principi di sussidiarietà e di
proporzionalità, le direttive
devono essere
preferite ai regolamenti e le direttive quadro a
quelle dettagliate.
Queste ultime, emanate sempre più di
frequente in
settori rilevanti per il diritto amministrativo,
contengono anche
prescrizioni puntuali
(autoapplicative). Una volta scaduto il termine
previsto per il
recepimento da parte degli Stati
membri, esplicano un’efficacia diretta negli Stati
inottemperanti e possono costituire un parametro
che condiziona la legittimità degli
atti della
pubblica amministrazione.
Tra gli
atti Le decisioni
dell’Unione europea
si collocano infine le decisioni che hanno un
contenuto
puntuale (art. 288, comma 4, TFUE).
Esse applicano a fattispecie
concrete norme
generali e astratte previste da fonti europee. Sono
vincolanti per gli
Stati membri, ma non hanno
un’efficacia diretta.
I l recepimento delle norme europee (ma anche
delle sentenze della
Corte di giustizia dell’Unione
europea, specie di quelle che accertano
un’infrazione
comunitaria da parte dello Stato
italiano) è disciplinato nel nostro ordinamento
dalla
legge 4 febbraio 2005, n. 11 e dalla legge 24
dicembre 2012, n. 234 (Norme generali
sulla
partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione
della
normativa e delle politiche dell’Unione europea). Lo
strumento specifico
è costituito da due leggi
annuali di iniziativa governativa: la legge europea
che modifica o
abroga le disposizioni statali vigenti
contrastanti con il diritto europeo; la legge di
delegazione europea, che attribuisce deleghe
legislative al governo per il recepimento
delle
direttive europee. Quest’ultima prevede che nelle
materie non coperte da riserva
di legge il
recepimento possa avvenire anche in via
regolamentare e individua i principi
fondamentali
66 ai quali le regioni si devono attenere per dare
attuazione
alle direttive europee nelle materie
attribuite alla loro competenza legislativa
concorrente.
Con la l. n. 234/2012 sono stati rafforzati i
meccanismi di raccordo
tra parlamento e Unione
europea anche con riguardo alla fase per
così dire
ascendente del processo di adozione di tali atti e in
particolare di quelli
normativi. Infatti, già il
Trattato sull’Unione europea prevede che i
parlamenti
nazionali vigilino sul rispetto del
principio di sussidiarietà (art. 5, comma 4). In
attuazione di questa disposizione il
Protocollo n. 1
allegato al TUE precisa che i progetti di atti
legislativi indirizzati
al Parlamento europeo e al
Consiglio devono essere trasmessi ai parlamenti
nazionali i
quali possono esprimere entro un
termine di otto settimane un parere motivato in
ordine
al rispetto del principio di sussidiarietà
(artt. 3 e 4 Protocollo n. 1 e art. 6 Protocollo n. 2).
Secondo la l. n. 234/2012 i progetti di atti
dell’Unione europea devono
essere trasmessi alle
Camere dal presidente del Consiglio dei ministri o
dal ministro
per gli Affari europei, accompagnati,
per gli atti più rilevanti, da una nota
illustrativa
(art. 6). Gli organi parlamentari possono formulare
al governo atti di
indirizzo relativi alla posizione
che deve assumere l’Italia in sede di Unione
europea e
inviare ai presidenti delle istituzioni
europee il parere motivato previsto dal
Protocollo
n. 2 sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e
di proporzionalità
allegato al TUE (art. 8).
4. Fonti
normative statali,
riserva di legge, principio di
legalità
La Costituzione pone una disciplina delle fonti
statali di rango primario
(e subprimario) e cioè in
estrema sintesi: la legge, approvata dalle due
Camere e
promulgata dal presidente della
Repubblica (artt. 71-74); il decreto legge, che può
essere adottato dal
governo in casi straordinari di
necessità e urgenza e che deve essere convertito in
legge dalle Camere entro 60 giorni (art. 77); il
decreto legislativo emanato dal governo
sulla base
di una legge di delegazione che definisce l’oggetto
e determina i principi e
i criteri direttivi e il limite
di tempo entro il quale la delega può essere
esercitata
(art. 76).
In seguito alle modifiche introdotte dalla legge
costituzionale n. 3/2001, come si è accennato, la
potestà
legislativa statale non è più generale, ma
può essere esercitata solo nelle materie
tassativamente indicate nell’art. 117, commi 2 e 3
(potestà legislativa esclusiva e
concorrente).
▶ Le
riserve di
legge. Meritano un
approfondimento, perché concorrono a
definire i
rapporti tra parlamento e potere esecutivo, le
cosiddette riserve di legge
individuate nella
Costituzione che, come si è accennato nel capitolo
precedente, sono uno degli
elementi costitutivi
dello Stato di diritto.
Numerose disposizioni costituzionali
prevedono
che determinate materie debbano essere
disciplinate con legge (o con atti
aventi forza di
legge) escludendo o limitando il ricorso a fonti
secondarie e in particolare a regolamenti
governativi. Viene cioè istituita una riserva
di
67 competenza a favore del parlamento.
Storicamente le riserve di legge
sono state previste
in funzione di garanzia dei diritti di libertà dei
cittadini contro
gli abusi del potere esecutivo.
Infatti, poiché le leggi sono espressione della
volontà
popolare espressa in parlamento dai
rappresentanti eletti dai cittadini, i vincoli e le
limitazioni ai diritti individuali in esse contenute
sono assentiti, in ultima analisi,
dagli stessi
cittadini e non sono invece rimessi all’arbitrio
degli organi del potere
esecutivo. La legge
promuove inoltre l’uguaglianza dei cittadini nella
titolarità di
diritti e doveri attraverso due suoi
caratteri tipici: la generalità, cioè la sua
riferibilità
a classi più o meno ampie di destinatari;
l’astrattezza, cioè la
suscettibilità a
un’applicazione ripetuta a casi presenti e futuri,
anziché
una tantum.
Le riserve di legge sono di tre
tipi: assoluta,
rinforzata e relativa.
La riserva di legge La riserva di legge
assoluta,
rinforzata e
assoluta, come per relativa
esempio quella in
materia penale (art.
25, comma 2), richiede che la legge ponga una
disciplina
completa ed esaustiva della materia ed
esclude l’intervento di fonti sublegislative.
Essa
ammette solo i regolamenti di stretta esecuzione,
cioè di mero svolgimento di
precetti legislativi che
già hanno operato tutte le scelte di una qualche
rilevanza
sostanziale.
a riserva di legge rinforzata
aggiunge al carattere
L
dell’assolutezza il fatto che la Costituzione pone
direttamente
taluni principi materiali o
procedurali relativi alla disciplina della materia che
costituiscono un vincolo per il legislatore
ordinario. Essa è prevista soprattutto in
relazione
ai diritti di libertà. Per esempio, l’art. 18 in tema di
libertà di
associazione esclude che possano essere
istituiti regimi di autorizzazione
amministrativa.
L’art. 17 garantisce ai cittadini il diritto di riunirsi
pacificamente e
senz’armi e prevede che le autorità
competenti possano vietare le riunioni in luogo
pubblico solo «per comprovati motivi di sicurezza
o di incolumità pubblica».
La riserva di legge relativa, come
per esempio
quelle in materia tributaria (art. 23) e di
organizzazione dei pubblici
uffici (art. 97), richiede
che la legge ponga prescrizioni di principio e
consente
l’emanazione di regolamenti di tipo
esecutivo contenenti le norme più di dettaglio che
completano la disciplina della materia.
La qualificazione di una riserva di
legge come
assoluta o relativa dipende nei singoli casi da
un’interpretazione letterale
e sistematica delle
disposizioni costituzionali che pongono la riserva.
Per esempio, la
formula «nei soli casi e modi
previsti dalla legge» utilizzata in tema di libertà
personale sta a indicare una riserva assoluta; quelle
più generiche «in base alla legge»
in tema di
prestazioni imposte o «secondo disposizioni di
legge» in tema di
organizzazione degli uffici
pubblici connotano invece le riserve relative.
La riserva di legge va distinta,
anche se ha in
comune la funzione di garanzia dei soggetti privati
nei confronti
dell’amministrazione, dal principio
di legalità.
▶ Il principio di legalità.
Il principio di legalità
costituisce uno dei Il fondamento
costituzionale
principi
fondamentali
del diritto
amministrativo. Esso è richiamato dall’art. 1 l. n.
241/1990, secondo il quale l’attività
amministrativa persegue i fini determinati dalla
legge. Il principio di
legalità si ricava
68 indirettamente da disposizioni
costituzionali. In
particolare l’art. 113 Cost. in tema di giustiziabilità
degli atti
amministrativi presuppone che il giudice
trovi nella legge un parametro oggettivo
rispetto al
quale sindacare gli atti impugnati. Il principio di
legalità riceve un
riconoscimento implicito anche
nei Trattati europei (art. 19 TUE e art. 262 TFUE).
È stato definito dalla giurisprudenza europea
come
principio, comune a tutti gli Stati membri, inerente
al sistema europeo quale
«Comunità di diritto».
I l principio di legalità assolve a
una duplice
funzione: di garanzia Legalità-garanzia e
legalità-indirizzo
delle situazioni
giuridiche soggettive
dei privati che possono essere incise dal potere
amministrativo (legalità-garanzia); di ancoraggio
dell’azione
amministrativa al principio
democratico e agli orientamenti che emergono
all’interno del
circuito politico-rappresentativo
(legalità-indirizzo). Infatti la legge, manifestazione
della sovranità popolare, funge da fattore di
legittimazione e da guida dell’attività
amministrativa.
I l principio di legalità può essere
inteso in due
accezioni.
possono essere
soddisfatte anche da norme di rango secondario
(regolamenti).
Ciò vale, per esempio, anche nel
caso delle sanzioni
amministrative, assimilabili
per certi aspetti alle sanzioni penali
assoggettate al
principio del nullum crimen sine lege e alla
garanzia
della riserva di legge assoluta. Il carattere di
generalità e astrattezza delle
norme regolamentari
garantisce comunque l’uguale trattamento dei
destinatari dell’azione
amministrativa. In ogni caso
per essere legittimo l’atto amministrativo
deve
essere conforme anche alle norme secondarie.
Infine, i parametri che integrano il
principio di
legalità sono costituiti, oltre che dalle leggi e dai
regolamenti, anche
dai principi generali del diritto
amministrativo desumibili dalla Costituzione (per
esempio, nell’art. 97) o dal diritto europeo ed
elaborati via via dalla giurisprudenza
amministrativa. I più importanti sono ora
richiamati, come si vedrà, dall’art. 1 l. n. 241/1990.
Il principio di La règle de
droit
legalità richiede
spesso all’amministrazione, più che la
meccanica
applicazione di una o più disposizioni normative
espresse, una valutazione
articolata delle norme e
dei principi generali riferibili al caso concreto (la
cosiddetta règle de droit). La pubblica
amministrazione per
individuare la règle de droit
deve anche accertare la conformità
delle
disposizioni nazionali con quelle europee e
interpretare delle disposizioni
interne nel modo
più conforme ai principi costituzionali.
5. Le leggi
provvedimento
il principio del
parallelismo tra competenza legislativa e
competenza regolamentare dello Stato. Lo Stato
è
cioè titolare di un potere regolamentare
esclusivamente nelle materie che l’art. 117 Cost.
attribuisce alla sua competenza legislativa
esclusiva (art. 117, comma 6). Tale potere può
essere delegato alle
regioni.
Nelle altre materie la
potestà regolamentare spetta alle regioni. Lo Stato
può emanare
regolamenti nelle materie devolute
alla potestà legislativa regionale concorrente o
residuale solo nelle more dell’approvazione da
parte delle regioni delle norme di loro
competenza
e in caso di inerzia di queste ultime. I regolamenti
72 in questione hanno
carattere cedevole, nel senso
che perdono efficacia all’entrata
in vigore della
normativa da parte di ciascuna regione (art. 11,
comma 8, l. n. 11/2005).
I l potere regolamentare del governo
è richiamato
nell’art. 87 Cost., che attribuisce al presidente della
Repubblica
il potere di emanare i regolamenti.
Una disciplina generale di rango
primario è
contenuta nell’art. 17 l. n. 400/1988, che individua
cinque tipi di
regolamenti governativi: esecutivi,
attuativi-integrativi, indipendenti, di
organizzazione, delegati o autorizzati.
1. I regolamenti esecutivi
pongono norme di
dettaglio necessarie Tipologia
per l’applicazione
concreta di una legge (ulteriore specificazione
delle fattispecie disciplinate, modalità
procedurali,
termini, adempimenti, ecc.). Non è necessario che
la legge attribuisca di
volta in volta al governo il
potere di approvarli, poiché la l. n. 400/1988
costituisce un fondamento legislativo generale
sufficiente a soddisfare il principio di legalità.
Nelle materie coperte da riserva
di legge assoluta,
come si è già osservato, sono ammessi soltanto
regolamenti di stretta
esecuzione, che non operino
alcuna integrazione o specificazione delle norme
materiali
poste a livello di fonte primaria.
I regolamenti di questo tipo
possono essere
emanati per dare esecuzione a regolamenti europei
e, nei casi in cui la
legge di delegazione europea lo
autorizzi, anche a direttive.
qualificazione di un
atto come normativo derivino, come si è
accennato, le seguenti conseguenze principali: si
applica il principio jura
novit curia, e pertanto sotto
il profilo probatorio la parte privata è
sottratta
all’onere di allegazione e di prova delle norme
applicabili al caso concreto,
onere che vale
soltanto per i fatti (e anche per gli atti
amministrativi e per le
norme
interne, come
ribadito di recente da Corte di cassazione,
Sez. III
civile, 30 gennaio 2019, n. 2543); è consentito il
ricorso in
Cassazione per «violazione o falsa
applicazione di norme di diritto» ai sensi dell’art.
360, n. 3, cod. proc. civ.; valgono i criteri
interpretativi posti dall’art. 12 delle preleggi.
bbene, queste particolarità
sfumano se si
E
considera il regime sostanziale e processuale degli
atti amministrativi,
specie di quelli a contenuto
generale.
Infatti, quanto al principio jura novit curia,
nel
processo amministrativo il ricorrente deve
specificare nell’atto introduttivo del
giudizio i
motivi di
ricorso (art. 40, comma 1, lett. c), Codice
del processo
amministrativo), cioè i profili
specifici di vizio sottoposti all’esame del
giudice, e
deve dunque indicare anche «gli articoli di legge o
di regolamento che si
ritengono violati» (così
prevedeva l’art. 6, comma 1, del regolamento di
procedura approvato con r.d. 17
agosto 1907, n.
642, abrogato dal Codice). Il giudice non può
dunque
individuare d’ufficio il parametro
normativo in base al quale operare il proprio
79 sindacato.
Quanto alla ricorribilità in Cassazione per
violazione o falsa
applicazione di norme di diritto,
l’art. 111, ultimo comma, Cost. consente il ricorso
per
Cassazione avverso le sentenze del giudice
amministrativo «per i soli motivi inerenti
alla
giurisdizione». Pertanto sia nel caso di violazione
di una norma giuridica in senso
proprio, sia nel
caso di violazione di una prescrizione contenuta in
un atto amministrativo
generale o in una circolare
da parte del provvedimento impugnato, è
comunque esclusa la
ricorribilità in Cassazione.
La «violazione di legge» è invece elencata, insieme
all’eccesso di potere e
all’incompetenza, tra i vizi
del provvedimento
amministrativo indicati
dall’art. 21-octies
l. n. 241/1990. Tuttavia ciascuno
dei tre vizi, come si
vedrà, assume un’identica
rilevanza ai fini dell’annullabilità del
provvedimento. Così, per esempio, la violazione di
una disposizione contenuta in un
regolamento e la
violazione di un bando di concorso (tipico atto
amministrativo
generale) determinano parimenti
l’illegittimità del provvedimento applicativo.
Quanto infine alle regole
sull’interpretazione, per
gli atti amministrativi vale la disciplina prevista dal
codice
civile per i contratti (artt. 1362 ss.), ma non
tutte le disposizioni codicistiche
sono ritenute
compatibili con il carattere unilaterale e
autoritativo dei provvedimenti.
Per esempio, non
si ritengono applicabili i principi
dell’interpretazione delle clausole
contro il loro
autore (art. 1370), dell’interpretazione del
contratto in modo meno
gravoso per l’obbligato
(art. 1371) incompatibili con il ruolo e la missione
della
pubblica amministrazione. Il regime
dell’interpretazione degli atti amministrativi
finisce così per coincidere in gran parte con quello
delle fonti normative di cui alle
preleggi.
10. Gli
atti amministrativi
generali
Di regola i provvedimenti
amministrativi hanno un
contenuto concreto e si rivolgono a uno o più
destinatari
determinati (per esempio,
l’espropriazione di un terreno o l’autorizzazione
all’apertura di un esercizio commerciale). Fissano
cioè autoritativamente il modo di
essere di un
rapporto giuridico tra pubblica amministrazione e
privato in relazione alla
specifica situazione di
fatto e, nel caso in cui si tratti di un potere
discrezionale, agli interessi pubblici e privati in
gioco.
Tuttavia di frequente la pubblica
amministrazione
ha il potere di emanare atti amministrativi aventi
contenuto generale.
Essi sono propedeutici
all’emanazione di provvedimenti puntuali o
trovano svolgimento in
un’attività organizzativa
degli uffici pubblici. Si rivolgono in modo
indifferenziato a
categorie più o meno ampie di
destinatari non necessariamente determinati nel
provvedimento, ma determinabili sulla base di esso
(Cons. St., Sez. V, 18 febbraio 2015,
n. 823). Talora
sono suscettibili di essere applicati a una ripetuta
serie di casi e
dunque hanno anche il carattere
dell’astrattezza.
La tipologia degli atti amministrativi
generali è
variegata e le Tipologia
classificazioni
proposte in dottrina hanno per lo più una valenza
descrittiva. Tra gli atti generali
sono fatti rientrare
80 usualmente i piani, i programmi, le
direttive, gli
atti di indirizzo, le linee guida, le autorizzazioni
generali, i bandi militari, i provvedimenti che
fissano in modo autoritativo i prezzi e
le tariffe,
ecc. In alcuni casi è controverso, come si è
accennato, se essi abbiano
natura soltanto
amministrativa o se abbiano un’efficacia
propriamente normativa, ma
comunque la loro
portata regolatoria è indiscussa.
Alcuni di questi atti esprimono scelte attuative
dell’indirizzo
politico-amministrativo e per questo
motivo sono emanati dagli organi
amministrativi
ancorati in modo più diretto al circuito
rappresentativo. A livello
statale la competenza è
attribuita al governo al quale spetta il compito di
mantenere
l’unità dell’indirizzo politico e
amministrativo e di coordinare l’attività dei
ministri
(art. 95 Cost.) o ai ministri ai quali spetta
definire i
piani, i programmi e le direttive generali
che trovano poi svolgimento nell’attività dei
dirigenti generali (artt. 4, 14 e 16 d.lgs. n. 165/2001).
A livello locale, i consigli
comunali e provinciali
approvano, tra gli altri, i programmi (per esempio
quello
relativo ai lavori pubblici), i piani territoriali
e urbanistici, gli indirizzi alle
aziende pubbliche e
agli enti dipendenti, ecc. (art. 42 d.lgs. n.
267/2000).
Gli atti amministrativi generali sono soggetti a un
regime giuridico che Le deroghe alla l. n.
241/1990
deroga in parte a
quello proprio dei
provvedimenti amministrativi e che ricalca quello
degli atti normativi. Come i
regolamenti, non
richiedono una motivazione (art. 3, comma 2, l. n.
241/1990); il procedimento per la
loro adozione
non prevede la partecipazione dei soggetti privati
(art. 13 l. n. 241/1990); l’attività
dell’amministrazione
diretta alla loro emanazione
è esclusa dal diritto di accesso (art. 24, comma 1,
lett. c), l. n. 241/1990). Per molti atti
amministrativi generali sono previsti obblighi di
pubblicazione e ciò accentua la loro
valenza
regolatoria.
Di seguito verranno analizzati, in
via
esemplificativa, alcuni tipi di atti amministrativi
generali.
11. a) I bandi di concorso e gli
avvisi di gara
Sono privi del carattere di
astrattezza, e hanno
dunque natura non normativa, i bandi di concorso
per
l’assunzione di dipendenti nelle pubbliche
amministrazioni, e i bandi o avvisi di gara
relativi
ai contratti delle pubbliche amministrazioni.
I bandi di concorso, come si vedrà
meglio nel
capitolo X,
costituiscono l’atto di avvio del
procedimento per la selezione (assunzione o
promozione) di personale delle pubbliche
amministrazioni. Essi specificano, in
applicazione
delle leggi, i requisiti di partecipazione, le
modalità e i termini per la
presentazione delle
domande di partecipazione, lo svolgimento delle
prove scritte e
orali, i criteri per l’attribuzione dei
punteggi. Hanno contenuto concreto poiché
esauriscono i loro effetti al completamento della
procedura, che avviene con
l’approvazione della
graduatoria finale.
Analogamente, i bandi o avvisi di gara disciplinati
dal Codice dei contratti pubblici, come si vedrà
81 meglio nel
capitolo XII, individuano
l’oggetto del
contratto, il tipo di procedura, i criteri per
l’ammissione e per la valutazione delle offerte, le
modalità e i tempi per la
presentazione delle
offerte, ecc. Il bando (insieme agli altri documenti
di gara, come
in particolare la lettera d’invito, i
capitolati tecnici, ecc.) costituisce la lex
specialis
della singola procedura di gara, vincola pertanto la
stazione
appaltante (che non può disapplicarlo) e
condiziona la legittimità degli atti adottati.
12. b) Gli atti di pianificazione e
di
programmazione
Una delle esigenze che presiedono
all’esercizio dei
poteri amministrativi è che esso avvenga in modo
coerente con una
strategia complessiva. Pertanto
in molte materie, a monte dell’emanazione di
provvedimenti puntuali o dell’erogazione di
servizi, la legge prevede un’attività di
pianificazione o programmazione con la quale si
prefigurano obiettivi, priorità, limiti,
contingenti e
altri criteri che presiedono all’esercizio dei poteri
amministrativi e
all’attività degli uffici pubblici.
Così, per esemplificare, il
rilascio dei permessi di
costruzione avviene nel rispetto dei piani
regolatori comunali;
l’allocazione delle frequenze
radiotelevisive avviene sulla base del piano
nazionale
delle frequenze; i permessi per l’accesso
al centro storico sono rilasciati in base al
piano
urbano del traffico.
L’attività di pianificazione e di programmazione
serve anche a creare La pianificazione a
cascata
i raccordi tra i diversi
livelli di governo
(Stato,
regioni,
comuni)
secondo il metodo della
cosiddetta pianificazione a cascata. Così, per
esempio, in
materia sanitaria, l’attività di
programmazione si articola nel piano sanitario
nazionale e, a livello regionale, nei piani sanitari
regionali. In materia di trasporti
pubblici locali lo
Stato predispone il piano generale dei trasporti,
mentre le regioni
emanano i piani regionali di
trasporto e gli indirizzi per i piani di bacino
provinciali, definendo in particolare il livello dei
servizi minimi essenziali e le
modalità per la
determinazione delle tariffe. La legge
anticorruzione (l. n. 190/2012) prevede l’adozione
da parte di ciascuna
pubblica amministrazione di
un piano per la prevenzione della corruzione, ora
incluso
nel Piano integrato di attività e
organizzazione (art. 6 d.l. 9 giugno 2021, n. 80). Il
piano è elaborato sulla base del piano nazionale
approvato dall’Autorità nazionale
anticorruzione.
Alla verifica dell’attuazione del piano è preposto
un
responsabile della prevenzione della corruzione
che è nominato dall’organo di indirizzo
politico di
ciascuna amministrazione e che risponde in sede
disciplinare nel caso di
ripetute violazioni delle
misure previste dal piano.
Anche in materia ambientale
numerosi sono gli
atti di
pianificazione e programmazione settoriale
statale (piano generale di
difesa del mare e della
costa marina dall’inquinamento, piani di bacino
idrografico
nazionale, ecc.) e regionale (piani di
tutela delle acque, di gestione dei rifiuti, di
bonifica di aree contaminate, di prevenzione e
risanamento dell’aria, ecc.). Un atto di
pianificazione generale richiesto dal diritto
europeo (regolamento (UE) 2018/1999
dell’11
82 dicembre 2018) nel contesto del cosiddetto
Green
Deal, collegato alla transizione ecologica, è il piano
nazionale integrato per l’energia e il clima
approvato nel 2020, nel quale sono fissati
gli
obiettivi nazionali al 2030 sull’efficienza
energetica, sulle fonti rinnovabili e
sulla riduzione
delle emissioni di gas a effetto serra.
Costituisce un tipo a sé il
Piano nazionale di
ripresa e resilienza Il PNRR
(PNRR) approvato
nel 2021 nell’ambito del programma Next Generation
EU al quale si è
fatto già cenno. Esso è stato
presentato dal governo italiano alla Commissione
europea a
fine aprile 2021 allo scopo di ottenere i
finanziamenti europei (sussidi e prestiti) per
favorire il rilancio economico post pandemia. Il
piano ha una proiezione fino al 2026 ed
è stato
elaborato sulla base di linee guida della
Commissione europea che indicano le
priorità
(transizione ecologica, digitalizzazione, salute,
inclusione sociale, ecc.).
Esso ha due componenti:
un elenco di progetti, le tempistiche per la
realizzazione e gli
importi da stanziare per
ciascuno di essi; le riforme strutturali che
dovranno essere
approvate per legge (riforma della
giustizia, della pubblica amministrazione,
semplificazione amministrativa, apertura dei
mercati alla concorrenza) al fine di creare
condizioni favorevoli alla crescita economica. La
piena attuazione del piano è
monitorata in sede
europea e condiziona l’erogazione delle risorse. Il
già citato Piano
integrato di attività e
organizzazione è adottato e aggiornato ogni anno
dalle
amministrazioni con più di cinquanta
dipendenti.
I ndica gli obiettivi programmatici,
le strategie di
gestione del personale, gli strumenti per
promuovere la trasparenza e la
lotta alla
corruzione, le misure di semplificazione da
mettere in opera.
Molti atti di pianificazione e di programmazione
pongono la questione Valenza interna e
regolatoria dei
piani
se essi rilevino
solo
all’interno dei
rapporti organizzatori tra i diversi livelli di
governo (Stato,
regioni, enti locali), oppure se, ed
eventualmente entro quali limiti, contengano
prescrizioni direttamente vincolanti i soggetti
privati e dunque assumano una valenza
regolatoria.
I noltre, come si è già accennato,
dal punto di vista
della teoria della regolazione amministrativa, gli
atti di
pianificazione introdotti frequentemente
nella legislazione nella seconda metà del
secolo
scorso in materia economica (secondo il modello
dello Stato interventista
programmatore) sono
considerati tra gli strumenti di intervento pubblico
più intrusivi
della libertà di iniziativa privata e in
taluni casi con effetti distorsivi della
concorrenza.
Proprio per questo, con l’affermarsi del modello
dello Stato regolatore e
in seguito alle politiche di
liberalizzazione, molti atti di pianificazione sono
stati
soppressi (per esempio, i piani commerciali
comunali che contingentavano il rilascio
delle
autorizzazioni per l’apertura di nuovi esercizi e
costituivano così «barriere
artificiali» all’accesso al
mercato).
Ancora, il modello della
pianificazione a cascata e
delle pianificazioni settoriali si è rivelato spesso
oneroso
in termini di adempimenti e di difficile
attuazione data anche la difficoltà operativa
di
raccogliere e razionalizzare tutte le informazioni
rilevanti necessarie per la
formulazione dei
contenuti del piano. È accaduto così che molti atti
di pianificazione e
programmazione previsti per
legge non siano poi stati mai emanati, oppure si
83 siano
limitati a introdurre prescrizioni generiche.
Merita
un Il piano regolatore in
materia
urbanistica
approfondimento il
piano regolatore
generale, che costituisce lo strumento principale
di
governo del territorio da parte dei comuni. Esso fu
previsto in origine dalla legge urbanistica del 1942.
È disciplinato oggi, insieme
agli altri strumenti
urbanistici, dalle leggi regionali che in questa
materia hanno
adottato talora soluzioni originali e
innovative.
I l piano regolatore suddivide
anzitutto il territorio
comunale in zone omogenee (cosiddetta
zonizzazione) con
l’indicazione per ciascuna di
esse delle attività insediabili, in base a criteri e
parametri definiti in modo uniforme a livello
nazionale (d.m. 2 aprile 1968, n. 1444): attività
edificatoria a fini
abitativi, industriale, agricola,
ecc.
Il piano individua poi le aree
destinate a edifici e a
infrastrutture pubbliche o a uso pubblico
(cosiddetta
localizzazione). Se la localizzazione
riguarda terreni di proprietà privata, essa
determina un vincolo di inedificabilità di durata
quinquennale che decade se nel
frattempo non
interviene l’espropriazione. Il piano regolatore è
corredato dalle
cosiddette norme tecniche di
attuazione che specificano, in particolare, le
distanze, le
altezze e le destinazioni d’uso degli
edifici.
Il piano regolatore generale si
inserisce in un
sistema articolato di strumenti di pianificazione. È
condizionato a
monte dal piano territoriale di
coordinamento provinciale, dai piani paesistici e
dai
piani urbanistico-territoriali previsti dalla
normativa in materia di valori paesistici
e
ambientali (bellezze naturali).
Costituiscono invece strumenti
attuativi del piano
regolatore il piano particolareggiato di iniziativa
pubblica per la
realizzazione di interventi di
riqualificazione territoriale; i piani di zona per
l’edilizia residenziale pubblica; i piani per gli
insediamenti produttivi; i piani di
lottizzazione di
iniziativa privata e disciplinati da una convenzione
con il comune.
Il piano regolatore Il procedimento di
approvazione
generale è approvato
all’esito di un
procedimento aperto alla
partecipazione dei
privati. Infatti, il piano viene adottato dal comune
(con delibera del consiglio comunale) e pubblicato
per 30 giorni per consentire agli
interessati di
prenderne visione e di presentare osservazioni.
Viene poi sottoposto a
una nuova delibera del
consiglio comunale che deve pronunciarsi sulle
osservazioni
presentate.
I l piano adottato è soggetto
all’approvazione della
regione. Questa esercita un controllo che non è
limitato alla mera legittimità, poiché può proporre
modifiche al fine di una migliore
tutela degli
interessi ambientali e paesaggistici e di garantire la
conformità al piano
territoriale di coordinamento
provinciale. Le proposte di modifica sono
comunicate al
comune il quale con delibera del
consiglio comunale può approvare
controdeduzioni delle
quali la regione tiene conto
in sede di approvazione definitiva. La notizia
dell’approvazione del piano regolatore viene data
nel Bollettino Ufficiale della
regione. Il piano
regolatore si qualifica, in definitiva, come atto
complesso che
prevede il coinvolgimento del
comune e della regione con poteri propri.
Poiché la procedura di approvazione
richiede
tempi lunghi, il piano regolatore, fin dalla sua
adozione formale, produce
l’effetto di precludere il
rilascio di permessi a costruire non compatibili
con le nuove
prescrizioni (cosiddette misure di
84 salvaguardia).
È controversa la natura giuridica
del piano
regolatore. Si discute La natura giuridica del
piano
regolatore
cioè se abbia natura
essenzialmente
normativa (regolamentare), tale da condizionare
soltanto l’adozione dei
piani attuativi, oppure di
atto amministrativo generale tale da produrre
effetti giuridici
immediati in capo a destinatari ben
individuati (i proprietari dei terreni soggetti ai
vincoli).
Prevale in giurisprudenza la tesi
intermedia della
natura mista dei piani regolatori che, «da un lato,
dispongono in via
generale ed astratta in ordine al
governo ed all’utilizzazione dell’intero territorio
comunale, e, dall’altro, contengono istruzioni,
norme e prescrizioni di concreta
definizione,
destinazione e sistemazione di singole parti del
comprensorio urbano»
(Cons. St., Ad. Plen., 22
dicembre 1999, n. 24). Ne consegue che occorre
valutare caso
per caso i contenuti del piano allo
scopo di appurare se esso leda in via immediata
posizioni giuridiche di singoli proprietari e
pertanto sia necessario impugnarlo nel
termine
perentorio di 60 giorni; oppure se abbia una
valenza solo programmatoria e che
pertanto solo
l’emanazione dei provvedimenti attuativi
determini una lesione delle
situazioni giuridiche
soggettive tale da rendere necessaria la
proposizione di un
ricorso
giurisdizionale.
In termini generali, la disciplina
legislativa dei
piani regolatori e dei Gli effetti
conformativi
piani attuativi ha
natura
principalmente procedimentale e rimette alle
amministrazioni amplissimi spazi di
discrezionalità. I piani producono una pluralità di
effetti: di disciplina del
potere di
pianificazione a
cascata; di conformazione del territorio, in
particolare in relazione
alla suddivisione del
medesimo in zone a diversa destinazione; di
conformazione del
diritto di proprietà correlato in
particolare alle prescrizioni che limitano le
possibilità di edificazione riferite alle singole
particelle immobiliari. Gli effetti
conformativi
possono sconfinare in effetti sostanzialmente
espropriativi nei casi in
cui, come ha precisato la
giurisprudenza costituzionale e civile, essi
determinino un
vincolo particolare permanente
incidente su beni determinati, facendo così sorgere
il
problema della indennizzabilità.
13. c) Le ordinanze contingibili
e
urgenti
Gli Stati devono disporre di
strumenti per far
fronte a emergenze imprevedibili, come da ultimo
con la pandemia da
Covid-19, che possono mettere
a rischio interessi fondamentali della comunità
(incolumità pubblica, sanità, ecc.), ma che non si
prestano a essere classificate e
disciplinate ex ante
in modo puntuale a livello di fonti primarie.
Impostazioni teoriche risalenti consideravano la
necessità addirittura come fonte del
diritto atta a
legittimare l’alterazione delle competenze e
l’adozione di misure
extra ordinem.
Vigente lo Statuto albertino, si ritenne per prassi
che rientrasse nel
potere
regio emanare, nei casi di
urgenza (ma anche nei periodi di chiusura delle
Camere),
ordinanze in deroga alle norme vigenti.
Con l’avvento della Costituzione questo tipo di
potere, che soprattutto nel
ventennio fascista
85 venne esercitato con molta frequenza, venne
assorbito in gran parte dal potere attribuito al
governo, nei
casi straordinari di necessità e
d’urgenza, di emanare decreti legge (art. 77 Cost.)
contenenti disposizioni di rango primario.
A livello subcostituzionale,
numerose disposizioni
di legge attribuiscono ad autorità amministrative il
potere di
emanare ordinanze
contingibili e
urgenti (nei settori dell’ordine pubblico, della
sanità,
dell’ambiente, della protezione civile, ecc.)
delle quali è discussa la natura
amministrativa o
normativa.
Tra gli
esempi più Tipologie delle
ordinanze
risalenti nel tempo vi
è anzitutto il potere
del prefetto «nel caso di
urgenza o per grave
necessità pubblica [...] di adottare i provvedimenti
indispensabili
per la tutela dell’ordine pubblico e
della sicurezza pubblica» (art. 2 Testo unico delle
leggi di pubblica sicurezza, approvato con
r.d. 18
giugno 1931, n. 773).
I l sindaco, nella sua veste di ufficiale del governo,
può adottare
«provvedimenti contingibili e urgenti
al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli
che
minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza
urbana» (art. 54, comma 4, Testo unico degli enti
locali). Può
adottarli anche in caso di emergenze
sanitarie o di igiene pubblica in ambito locale
(art.
50, comma 5), nonché per ragioni di sicurezza
urbana,
decoro, vivibilità, tranquillità e riposo dei
residenti (ciò in seguito alle modifiche
introdotte
dall’art. 8 d.l. 20 febbraio 2017, n. 8, convertito in
legge 18 aprile 2017, n. 48). Poteri analoghi sono
attribuiti alle regioni e al ministro della Salute nel
caso di situazioni che
interessino territori e
comunità più ampie (art. 32 legge 23 dicembre
1978, n. 833 istitutiva del Servizio
sanitario
nazionale).
Un potere di ordinanza è previsto anche in materia
di protezione
civile. Infatti, nel caso in cui si
verifichino calamità naturali che richiedono
interventi immediati con mezzi e poteri
straordinari, il Consiglio dei ministri può
deliberare lo stato di emergenza fissandone la
durata e l’estensione territoriale
disponendo anche
in ordine all’esercizio del potere di ordinanza.
Quest’ultimo è
esercitato entro 30 giorni dal capo
del dipartimento della Protezione civile nel
rispetto dei limiti e dei criteri indicati nel decreto
che dichiara lo stato di
emergenza e nel rispetto
dei principi generali dell’ordinamento giuridico. Di
regola
deve essere acquisita anche l’intesa delle
regioni territorialmente interessate. Le
ordinanze
sono immediatamente efficaci e vengono attuate a
cura del capo del
dipartimento della Protezione
civile (art. 5 del d.lgs. 2 gennaio 2018, n. 1).
Per contrastare la pandemia da
Covid-19 il d.l. 25
marzo 2020, n. 19 convertito in legge 22 maggio
2020, n. 35 ha
ripartito in modo più chiaro le
competenze statali, regionali e locali in materia di
emanazione di ordinanze contingibili e urgenti,
assegnando il ruolo preminente a quelle
adottate,
come si è già accennato, nella forma del decreto
del presidente del Consiglio
dei ministri e ciò al
fine di evitare misure troppo differenziate a livello
regionale e
locale.
Le leggi attributive di questo tipo
di poteri si
limitano di solito a individuare l’autorità
amministrativa competente ad
adottarli, a
descrivere in termini generali il presupposto che
86 ne legittima l’emanazione
e a specificare il fine
pubblico da perseguire. Pur rispettose
del
principio della legalità formale, esse lasciano
indeterminato il contenuto del
potere e i
destinatari del provvedimento.
L’autorità competente è dunque
titolare di
un’ampia discrezionalità, sia nel momento in cui
apprezza in concreto se la
situazione di fatto
giustifica l’esercizio del potere di ordinanza, sia nel
momento in
cui essa individua le misure specifiche
da adottare.
Le ordinanze in questione operano
in definitiva
una deroga al principio della tipicità degli atti
amministrativi, in base al quale la norma
attributiva del potere deve definirne in modo
sufficientemente preciso presupposti e contenuti,
e sollevano dunque, come si è visto
nel paragrafo 4,
un problema di
compatibilità con il principio di
legalità inteso in senso sostanziale. Esse pongono
inoltre
vari problemi di applicazione e di
qualificazione.
È controverso in primo luogo se ed
entro quali
limiti i poteri di Regime giuridico: i
limiti
costituzionali
ordinanza devono
rispettare
le leggi
vigenti. La giurisprudenza anche costituzionale ha
chiarito da tempo (sentenza 2 luglio 1956, n. 8)
che, quanto meno, le ordinanze non possono
essere emanate in contrasto con i principi generali
dell’ordinamento giuridico e con i
principi
fondamentali della Costituzione. Inoltre devono
avere un’efficacia limitata nel
tempo e devono
essere motivate e adeguatamente pubblicizzate.
n limite interno è costituito dal
principio di
U
proporzionalità, e pertanto il contenuto delle
ordinanze deve essere
calibrato in funzione
dell’emergenza specifica che deve essere in
concreto fronteggiata.
Da qui anche il carattere
tendenzialmente temporaneo e provvisorio delle
misure
introdotte.
Trattandosi di uno strumento
extra ordinem, il
potere di ordinanza ha
un carattere residuale, nel
senso che non può essere esercitato in luogo di
poteri
tipici previsti dalle norme vigenti già idonei
a far fronte a quel tipo di situazione.
Per esempio,
per far smantellare un’antenna per la telefonia
mobile installata in modo
non conforme alle
prescrizioni urbanistiche e sanitarie il sindaco ha a
disposizione i
poteri di tipo urbanistico e dunque
non può esercitare il potere di ordinanza.
Quanto alla qualificazione
giuridica, le ordinanze
hanno di regola natura non normativa anche
quando si rivolgono a
categorie più o meno ampie
di destinatari. Esse si riferiscono infatti ad
accadimenti
specifici (come per esempio
un’inondazione o un terremoto o un’epidemia) e
dunque hanno
un carattere concreto e un’efficacia
temporalmente circoscritta.
Tuttavia, ove la situazione di
emergenza tenda a
protrarsi, le ordinanze acquistano inevitabilmente
anche un carattere
di astrattezza e perdono quello
della temporaneità. Specie nel caso delle ordinanze
emanate dai sindaci in materia di sicurezza o
decoro urbano (contenenti misure contro il
commercio ambulante abusivo, la prostituzione,
comportamenti contrari al decoro, ecc.)
esse
finiscono così per assumere caratteristiche simili
ai regolamenti comunali.
Le ordinanze L’urgenza come
presupposto di
atti
contingibili e urgenti amministrativi
vanno distinte da
altri atti
amministrativi che hanno
come presupposto
l’urgenza, ma il cui contenuto e i cui effetti sono
predefiniti in
tutto e per tutto dalla norma
87 attributiva del potere (i
cosiddetti atti necessitati).
Così, per esempio, nel caso in cui i lavori relativi
alla
costruzione di un’opera pubblica siano
dichiarati indifferibili e urgenti, l’autorità
competente può disporre l’occupazione d’urgenza
dei terreni interessati prima ancora che
si sia
concluso il procedimento di espropriazione. In
materia di contratti pubblici,
l’urgenza può
consentire una deroga al ricorso a procedure a
evidenza pubblica e legittimare
dunque la
trattativa diretta con un solo fornitore. In altri
casi, l’urgenza può
giustificare l’emanazione di un
atto da parte di un organo diverso da quello
competente
in via ordinaria che poi provvede alla
ratifica. Per esempio, come si dirà anche nel
capitolo IV, la giunta comunale
può adottare in via
d’urgenza alcuni atti di competenza del consiglio
comunale.
14. d) Le direttive e gli atti di
indirizzo
Affini agli atti di
pianificazione, in quanto
espressione della funzione di indirizzo
politico-
amministrativo, sono le direttive amministrative.
Caratteristico di questo tipo
di atti è il loro
contenuto. Esso non è costituito, come accade
tipicamente nel caso
delle fonti primarie e
secondarie, da prescrizioni puntuali e vincolanti in
modo
assoluto, ma è limitato all’indicazione di fini
e obiettivi da raggiungere, criteri di
massima,
mezzi per raggiungere i fini. Esse dunque
attribuiscono ai loro destinatari
spazi di
valutazione e di decisione più o meno estesi in
modo tale da poter tener conto
in sede applicativa
di tutte le circostanze del caso concreto. Ove
giustificato, i
destinatari possono anche
disattenderle in tutto o in parte per ragioni che
devono
essere espresse nella motivazione.
Si distinguono generalmente le
direttive che si
inseriscono in rapporti interorganici e le direttive
che attengono a
rapporti intersoggettivi. In questo
secondo ambito esse possono assumere una
rilevanza
regolatoria ove siano indirizzate a una
pluralità di destinatari.
Le prime sono uno
Le direttive
strumento attraverso interorganiche
il quale l’organo
sovraordinato
orienta l’attività dell’organo o degli
organi sottordinati. Laddove il rapporto
interorganico
ha un carattere propriamente
gerarchico (per esempio, il ministro dell’Interno
nei
confronti dei prefetti) la direttiva può essere
utilizzata talvolta in luogo dell’atto
che è più
caratteristico di questo tipo di relazione e cioè
l’ordine gerarchico che ha
un contenuto puntuale
ed è riferito a una situazione concreta.
addove invece l’organo
sottordinato è investito di
L
una competenza autonoma, cioè non inclusa del
tutto in
quella dell’organo sovraordinato e dunque
il rapporto non può essere qualificato come
propriamente gerarchico, la direttiva acquista
contorni più tipici e connota appunto un
rapporto
definito come rapporto di direzione.
Un esempio tra i più rilevanti è, come si vedrà nel
capitolo X, il Il rapporto di
direzione tra
ministri e
rapporto di direzione dirigenti
che intercorre tra
ministro e dirigenti
generali in base al
principio della distinzione tra
indirizzo politico-amministrativo e attività di
gestione
(d.lgs. n. 165/2001). Al ministro è preclusa
ogni competenza
gestionale e amministrativa
diretta e può soltanto formulare «direttive generali
per
l’attività
amministrativa e per la gestione»
88 (artt.
4, comma 1, lett. b), e 14, comma 1, lett. a))
ed esercitare un controllo
ex post. I dirigenti
generali sono titolari dei poteri di gestione
e di
emanazione di atti e provvedimenti, curano
l’attuazione delle direttive generali
impartite dal
ministro e a loro volta definiscono gli obiettivi che
i dirigenti a loro
sottoposti devono perseguire (art.
16, comma 1, lett. b)). La mancata attuazione delle
direttive può essere sanzionata in sede di
conferma dell’incarico al dirigente.
e direttive che si inseriscono in
rapporti
L
intersoggettivi Le direttive
intersoggettive
costituiscono uno
strumento
attraverso
il quale, per esempio, il ministro competente o la
regione esercitano il
potere di
indirizzo nei
confronti di enti pubblici strumentali, la cui
attività deve essere
resa coerente con i fini
istituzionali propri del ministero di settore o della
regione.
toricamente, soprattutto nella
seconda metà del
S
secolo scorso, esse furono previste di frequente dal
legislatore nel
campo del diritto dell’economia.
Interi settori di imprese (per esempio le aziende di
credito) o vari enti pubblici economici (quali l’IRI,
l’ENI e l’EFIM, l’ENEL, ecc.)
furono sottoposti,
come si è accennato nel capitolo I, a poteri di
indirizzo (oltre che di vigilanza)
assai penetranti.
La direttiva, con i suoi caratteri di elasticità,
tentava di
conciliare l’esigenza di mantenere un
legame istituzionale rispetto alla politica
governativa con l’esigenza di assicurare una certa
libertà di azione a soggetti in
massima parte
pubblici ma operanti in regime in gran parte
privatistico.
Con l’affermarsi dello Stato regolatore, lo
strumento della Esempi recenti
direttiva è stato
utilizzato con minor
frequenza. All’inizio degli
anni Novanta del secolo scorso è stata anzi
smantellata
l’intera struttura di governo delle
partecipazioni statali (comitati ministeriali, enti
di
gestione). I nuovi apparati di regolazione, cioè le
cosiddette autorità
amministrative indipendenti, si
caratterizzano proprio per il fatto di non essere
destinatari di un potere di indirizzo da parte del
governo.
ono emersi però nella legislazione altri tipi di
S
direttive a valenza
regolatoria. Per esempio, le
autorità indipendenti preposte ai servizi di
pubblica
utilità possono emanare direttive nei
confronti delle imprese erogatrici dei servizi per
definire i livelli generali di qualità di questi ultimi
o la contabilizzazione separata
dei costi delle
singole prestazioni (art. 2, comma 12, lett. f ) e h),
legge 14 novembre 1995, n.
481). La violazione di
queste direttive da parte delle imprese destinatarie
comporta l’applicazione di sanzioni
amministrative.
In occasione della riforma del governo e dei
ministeri operata
con il d.lgs. 30 luglio 1999, n.
300, la direttiva è stata prevista
per creare un
raccordo tra il ministro di settore e le agenzie
istituite per
lo svolgimento di particolari attività a
carattere tecnico-operativo (per esempio le
agenzie fiscali) e dotate di ambiti di autonomia
funzionale e finanziaria (art. 8, commi 2 e 4, lett.
d)) oppure tra ministro vigilante
ed enti pubblici
strumentali.
Una questione discussa attiene alla
cogenza delle
direttive, cioè alle conseguenze nel caso in cui il
destinatario le violi.
Esse infatti tendono a
condizionare l’esercizio della discrezionalità da
parte dei
destinatari i quali mantengono dunque
un ambito di valutazione autonoma. I poteri di
reazione in capo all’organo o al soggetto
89 sovraordinato sono pertanto per lo più
di tipo
indiretto e si possono manifestare in interventi
sull’organo (scioglimento, mancato reincarico dei
suoi titolari, ecc.). Di rado, essi
includono poteri
che incidono sugli atti adottati (revoca,
annullamento
d’ufficio).
15. e) Le norme interne e le
circolari
Le organizzazioni complesse, anche
quelle private,
si dotano di regole interne volte a disciplinare il
funzionamento e i
raccordi tra le varie unità
operative. Così, per esempio, le grandi imprese
approvano
regolamenti aziendali, manuali di
procedura e altri atti organizzativi.
Nel diritto pubblico, Gli ordinamenti
giuridici
sezionali
il tema delle norme
interne si ricollega
storicamente alla
ricostruzione dell’ordinamento
della pubblica amministrazione come ordinamento
giuridico
speciale (sezionale o derivato), in
qualche misura separato (e autonomo)
dall’ordinamento generale statuale. All’interno
dello Stato-ordinamento (o Stato
comunità), che
identifica una comunità di individui (popolo) e ne
include tutte le
manifestazioni organizzative, si
colloca lo Stato-amministrazione, che costituisce
uno
degli ordinamenti derivati dell’ordinamento
statuale.
I n base alla teoria della pluralità
degli ordinamenti
[Romano 1918], ciò che avviene all’interno di
ciascun ordinamento
speciale non ha sempre una
rilevanza nell’ordinamento generale. Sono
ammesse anche norme
derogatorie rispetto a
quelle applicabili alla generalità dei consociati.
Così, per esempio, gli impiegati
pubblici godono di
uno status particolare. In passato essi
sottostavano
a norme speciali che comportavano anche la
limitazione di diritti
fondamentali (per esempio,
l’iscrizione a partiti politici) e l’imposizione di
obblighi
(fedeltà, decoro, ecc.) che si estendevano
persino a comportamenti assunti al di fuori
delle
attività di servizio. Analogamente, i militari o i
condannati a una pena detentiva
entravano e
ancora oggi entrano a far parte di ordinamenti
speciali (militare o
carcerario) con l’imposizione di
obblighi speciali ed erano soggetti a poteri punitivi
e
coercitivi particolarmente gravosi (non a caso era
invalsa l’espressione di «rapporti di
supremazia
speciale»). Anche l’ordinamento scolastico, il
sistema del credito e del
risparmio, gli ordini
professionali, l’ordinamento sportivo
tradizionalmente vennero
ricostruiti secondo
questo modello.
Gli ordinamenti sezionali si
fondano su alcuni
elementi costitutivi: Gli elementi costitutivi
degli
ordinamenti
la
plurisoggettività, giuridici sezionali
con la
predeterminazione
dei soggetti inseriti nell’ordinamento
settoriale
sulla base di atti di ammissione, di iscrizione o di
attribuzione di
status; un’organizzazione interna
stabile con distribuzione di
ruoli e di competenze;
la presenza di norme interne emanate dagli organi
preposti
all’ordinamento speciale e rese effettive
da un sistema di sanzioni anch’esse interne;
l’istituzione di organi giustiziali speciali
(commissioni di disciplina, corti arbitrali
sportive,
ecc.).
e norme interne possono assumere
variamente la
L
forma di regolamenti interni, di istruzioni o ordini
di servizio,
direttive
generali, ecc. Come si
accennerà più avanti, la forma usuale di
comunicazione delle
norme interne è costituita
90 dalla circolare.
Il modello degli L’ordinamento
sportivo
ordinamenti giuridici
speciali venne via via
superato in seguito all’entrata in vigore della
Costituzione che non
ammette, se non entro
limiti assai ristretti, la rinuncia o la compressione
dei diritti
fondamentali. Oggi esso è limitato a
pochi settori, il principale dei quali è costituito
da
quello dello sport, la cui normativa prevede
un’organizzazione pubblicistica, che fa
capo a un
ente pubblico (il Comitato olimpico nazionale
italiano – CONI) e alle
federazioni sportive, e
regole speciali per la pratica sportiva da parte degli
iscritti
alle federazioni (d.lgs. 23 luglio 1999, n.
242). Prevede anche un sistema di
giustizia
disciplinare interna innanzi a organi giustiziali
dell’ordinamento sportivo
(legge 17 ottobre 2003,
n. 280).
Le norme interne e i comportamenti
assunti sulla
base di esse acquisiscono sempre più spesso una
rilevanza nell’ordinamento
generale. Così, per
esempio, l’illecito sportivo può comportare
l’applicazione non
soltanto delle sanzioni speciali
previste dalle norme interne all’ordinamento (per
esempio, nel gioco del calcio, l’ammonizione o
l’espulsione dalla partita in seguito a
un intervento
falloso), ma anche di quelle previste
dall’ordinamento generale (per
esempio, sanzioni
penali relative alle lesioni personali provocate a un
giocatore).
Inoltre, l’organizzazione interna
dell’amministrazione, considerata in origine
irrilevante sotto il profilo giuridico, è
stata fatta
oggetto di interventi legislativi che hanno via via
superato la separatezza
e l’impermeabilità
dell’ordinamento amministrativo rispetto a quello
generale.
Anche la giurisprudenza
amministrativa in una
visione sostanzialistica, come si è già accennato,
tende a
valutare le norme interne sotto il profilo
della loro attitudine a incidere
effettivamente su
situazioni giuridiche individuali, ritenendo così
impugnabili una
serie di atti organizzativi in
precedenza sottratti al sindacato giurisdizionale.
La distinzione tra norme interne e norme
esterne
Il regime giuridico
si è venuta così delle norme
interne
attenuando. A ciò ha
contribuito anche la l.
n. 241/1990, che aveva già introdotto un obbligo
generalizzato di pubblicare, secondo le modalità
previste per le singole
amministrazioni, «le
direttive, i programmi, le istruzioni, le circolari e
ogni atto
che dispone in generale sulla
organizzazione, sulle funzioni, sugli
obiettivi, sui
procedimenti di una pubblica amministrazione
ovvero nel quale si
determina l’interpretazione di
norme giuridiche o si dettano disposizioni per
l’applicazione di esse» (art. 26). Analogamente, in
materia di sovvenzioni, contributi e
altri sussidi
finanziari, le amministrazioni competenti erano
obbligate a predeterminare
e a rendere pubblici i
criteri e le modalità alle quali esse si devono
attenere
nell’individuare i singoli beneficiari (art.
12, ora abrogato). Oggi gli obblighi di
pubblicità
sono stati confermati ed estesi anche per finalità di
prevenzione della
corruzione (d.lgs. 14 marzo 2013,
n. 33).
I n molti casi le norme interne sono
pubblicate
anche nella Gazzetta Ufficiale. Il Testo unico delle
disposizioni sulla
promulgazione delle leggi,
sull’emanazione dei decreti del presidente della
Repubblica e
sulle pubblicazioni ufficiali della
Repubblica italiana (d.p.r. 28 dicembre 1985, n.
1092) prevede infatti che i
ministri competenti
possano richiedere la pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale delle
circolari esplicative dei
91 provvedimenti legislativi (art. 18, comma 4).
In definitiva, gli obblighi di
pubblicazione rendono
conoscibili le norme interne al di là della cerchia,
talora
ristretta, dei titolari e degli addetti agli uffici
interni a un apparato amministrativo
e
contribuiscono a far assumere a queste ultime una
rilevanza esterna. Esse fanno
sorgere nella
generalità degli amministrati l’aspettativa che esse
costituiranno una
guida dell’azione amministrativa
finalizzata all’adozione di atti che producono
effetti
diretti nei loro confronti.
Una rilevanza Le conseguenze della
giuridica esterna violazione
delle norme
interne
indiretta delle norme
interne è comunque
da tempo
acquisita. Infatti, se l’amministrazione
emana un provvedimento violando una norma
interna, il giudice amministrativo può censurarlo,
come si vedrà nel capitolo IV, sotto il profilo
dell’eccesso di
potere. Inoltre il dipendente che
viola le norme interne può essere
passibile di
sanzioni disciplinari.
Una specie sui
generis di norme interne è costituita
dalla prassi La prassi
amministrativa
amministrativa, cioè
dalla condotta
uniforme assunta nel tempo dagli uffici in
relazione alle valutazioni compiute e alle decisioni
prese in casi analoghi. Il
principio di coerenza che
presiede all’esercizio dell’attività degli uffici fa sì
che i
precedenti, una volta consolidatisi,
acquistino in un certo senso una forza normativa.
Infatti, essi devono essere tenuti in debito conto in
occasione di successivi casi di
svolgimento
dell’attività e diventano vincolanti ove non
sussistano ragioni particolari
per discostarsene.
a prassi amministrativa si può
formare nel tempo
L
in modo spontaneo in conseguenza del continuo
ripetersi di un
determinato comportamento, unito
al convincimento diffuso che esso sia conforme a
una
regola operativa tacita. Essa non va comunque
confusa con la consuetudine, che diventa
vera e
propria fonte del diritto allorché si forma un
convincimento generalizzato della
sua
obbligatorietà (cosiddetta opinio juris sive
necessitatis).
Tutt’al più, seguendo la teoria
dell’ordinamento giuridico speciale, essa può
acquisire
una normatività interna. Una volta
formatasi, la prassi viene talora recepita a titolo
ricognitivo, ed è così in qualche modo avallata e
rafforzata dalla stessa
amministrazione, per mezzo
di una circolare.
Secondo alcune ricostruzioni la
prassi potrebbe
anche essere promossa, in relazione
all’applicazione di normative nuove,
da un atto
dell’amministrazione che preannunci quale sarà il
comportamento assunto dagli
uffici, creando così
un legittimo affidamento nei confronti dei soggetti
esterni
all’amministrazione (nell’ordinamento
tedesco si parla di antizipierte
Verwaltungspraxis).
Il mezzo principale di
comunicazione delle norme
interne è costituito, Le circolari
come si è
accennato,
dalle circolari. Nella vita quotidiana esse sono uno
strumento di
orientamento e di guida degli uffici,
che di fatto ha per questi un grado di cogenza
talora superiore alle norme giuridiche anche di
rango primario.
I n origine, come ricorda ancora
l’etimo del
vocabolo, le circolari (o lettere circolari) trovarono
impiego nell’ambito
dell’organizzazione militare
nella quale i portaordini consegnavano i dispacci
dei
comandi alle varie unità impiegate nelle
operazioni militari. L’espressione trovò poi
applicazione più generale nell’ambito
dell’organizzazione amministrativa, anch’essa per
lungo tempo ordinata secondo un criterio
92 rigidamente gerarchico.
Secondo una definizione ormai
classica [Cammeo
1920, 1], le circolari sono «atti di un’autorità
superiore che
stabiliscono in via generale ed
astratta regole di condotta di autorità inferiori nel
disbrigo degli affari d’ufficio». Le circolari, dunque,
secondo le elaborazioni teoriche
più risalenti
costituiscono degli atti tipici aventi efficacia
esclusivamente interna.
Le ricostruzioni più recenti
prendono atto
dell’evoluzione della pubblica amministrazione
che ha superato in gran
parte il principio
gerarchico e ha portato alla moltiplicazione dei
livelli di governo e
di apparati amministrativi.
Le circolari acquistano così in
alcuni casi una
dimensione intersoggettiva quando vengono
indirizzate a enti e soggetti
esterni all’apparato che
le emette.
Inoltre, il contenuto delle
circolari può essere
vario. Esse possono riguardare infatti ordini,
direttive,
interpretazioni di leggi e altri atti
normativi, informazioni di ogni genere e tipo. Le
circolari perdono così il carattere di atto
amministrativo tipico e diventano soltanto uno
strumento di comunicazione di atti ciascuno dei
quali aventi una propria configurazione
tipica
[Giannini 1960b, 1 ss.].
Nella prassi sono emersi
almeno tre tipi di
circolari: Le circolari
interpretative,
interpretative, normative e
normative, informative
informative.
e prime mirano a rendere omogenea
L
l’applicazione di nuove normative da parte delle
pubbliche amministrazioni. Queste
circolari hanno
un maggior grado di vincolatività allorché vengono
emanate nell’ambito
di apparati strutturati in
modo gerarchico: l’inferiore gerarchico si deve
attenere
all’interpretazione indicata dal superiore
gerarchico negli stessi limiti entro i quali
deve
ottemperare alle istruzioni e agli ordini emanati da
quest’ultimo. Al di fuori di
questo ambito, si
ritiene generalmente che la circolare interpretativa
valga soltanto
come un’opinione più o meno
autorevole (in ragione della collocazione
dell’organo che la
emana e dei rapporti di
dipendenza più o meno stretta di chi la riceve) che
però non è
giuridicamente vincolante. Così, per
esempio, una circolare interpretativa del ministero
dell’Interno che ha per oggetto norme applicate da
enti autonomi quali gli enti locali
non impedisce a
questi ultimi, anche se ciò accade di rado, di far
propria una diversa
interpretazione.
È pacifico comunque che le
circolari di questo tipo
non vincolano l’interpretazione dei giudici.
Le circolari normative hanno la
funzione di
orientare l’esercizio del potere discrezionale degli
organi titolari di poteri
amministrativi. Esse
dunque non hanno per oggetto l’interpretazione
delle norme da
applicare, bensì gli spazi di
valutazione discrezionale rimessi dalla legge
all’autorità
amministrativa. Attraverso queste
circolari, che in molti casi non sono altro che
manifestazione del potere di direttiva, l’organo
sovraordinato indirizza l’attività
degli organi
subordinati, specificando le finalità, indicando
priorità, fornendo
criteri, ecc. Il destinatario deve
tenerne conto in modo adeguato, ma può anche
disattenderle purché fornisca una motivazione
congrua.
Le circolari informative sono
emanate per
diffondere all’interno dell’organizzazione notizie,
93 informazioni e messaggi
di varia natura. In questo
senso possono essere assimilate a
bollettini e
newsletter specializzate e a diffusione limitata
previste in molti contesti
anche privati.
Si è anche individuato in dottrina
il modello delle
circolari-regolamento, atti atipici volti a porre
regole generali e
astratte aventi per destinatari
soggetti esterni all’amministrazione. Si tratta
peraltro
di una specie di circolare controversa
quanto ad ammissibilità e legittimità.
In conclusione, le circolari non
danno origine a un
fenomeno unitario. I contenuti, il grado di cogenza
e l’attitudine a
produrre effetti giuridici nei
rapporti interni ed esterni all’amministrazione
vanno
verificati caso per caso in relazione al
contesto organizzativo in cui ciascuna di esse
si
inserisce.
16. La
soft law, le
raccomandazioni e
le linee
guida
Sulla scia dell’esperienza
anglosassone e delle
organizzazioni internazionali, la funzione di
regolazione a livello
europeo e nazionale si è
evoluta lungo direttrici che mettono in crisi le
classificazioni tradizionali in tema di fonti
normative e di atti amministrativi.
La linea direttrice principale è
rappresentata dalla
cosiddetta soft law . La cosiddetta soft
law
Questa consiste
nell’insieme di strumenti, spesso informali
(comunicazioni, inviti,
segnalazioni, note
informative, auspici, messaggi, ecc.), volti a
influenzare i
comportamenti delle autorità
amministrative e dei soggetti amministrati. La
soft
law mette in discussione il principio di tipicità
delle fonti
e degli atti amministrativi con valenza
regolatoria, che costituisce un’esplicazione del
principio di
legalità, nonché la nozione di
vincolatività.
livello europeo, l’art 288, par.
5, del TFUE
A
prevede le raccomandazioni non vincolanti come
strumento extra
ordinem per esprimere
orientamenti in campi nei quali l’Unione europea
non è titolare di poteri normativi formali.
Inoltre, nell’ambito del Sistema
europeo di
vigilanza finanziaria (SEVIF), le tre autorità
europee di regolazione
preposte ai settori
bancario, finanziario e assicurativo possono
emanare «orientamenti e
raccomandazioni» rivolti
alle corrispondenti autorità nazionali allo scopo di
promuovere
una uniformità di applicazione della
normativa europea e di offrire indicazioni alle
imprese. La European Security Market Authority
(ESMA) utilizza
anche lo strumento delle
«domande e risposte» («questions and answers»)
per offrire alle
autorità nazionali e agli investitori
privati chiarimenti sull’interpretazione della
normativa di settore. Le autorità nazionali in
materia finanziaria, in base al
dodicesimo
considerando della cosiddetta direttiva MIFID
(CE) 2004/39, sono tenute a
«emanare
orientamenti interpretativi sulle disposizioni della
presente direttiva».
In materia di privacy , Linee guida,
raccomandazioni,
il Comitato europeo comunicazioni
per la protezione dei
dati personali,
organismo dell’Unione europea dotato di
personalità giuridica istituito con il
regolamento
(UE) 2016/679 emanato il 27 aprile 2016, al fine di
promuovere
l’applicazione della nuova normativa
94 pubblica può emanare «linee
guida,
raccomandazioni e migliori prassi» dirette alle
autorità nazionali e ai soggetti
privati (art. 70).
Anche il Garante per la protezione dei dati
personali, come si vedrà
nel capitolo VIII, può
adottare linee guida.
Nella materia degli aiuti di Stato
la Commissione
UE emana «comunicazioni», spesso molto
dettagliate, volte a offrire agli
Stati membri criteri
interpretativi delle misure di sostegno ammissibili
in base alle
norme del Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea. La Corte di giustizia
dell’Unione europea ha chiarito che questo tipo di
comunicazioni autovincola la
discrezionalità della
Commissione ma non obbliga in modo assoluto gli
Stati membri.
Questi ultimi hanno cioè la
possibilità di discostarsi da essi proponendo altri
tipi di
misure che la Commissione ha poi l’obbligo
di valutare caso per caso (sentenza della
Corte di
giustizia dell’Unione europea – Grande Sezione, 19
luglio 2016 in C-526/2016
sul caso Kotnik).
A livello nazionale, in conformità all’esperienza
della Commissione
europea, l’Autorità garante
della concorrenza e del mercato ha pubblicato
linee guida
per la quantificazione delle sanzioni
irrogate alle imprese nel caso di violazione della
normativa sulla concorrenza e ciò per assicurare
agli operatori una maggiore
prevedibilità
dell’ammontare della sanzione all’interno di una
forbice molto ampia
prevista a livello legislativo
(delibera del 22 ottobre 2014). La violazione delle
linee
guida può essere fatta valere innanzi al
giudice amministrativo che in tema di sanzioni
antitrust ha il potere di sindacare nel merito il
provvedimento dell’Autorità
riducendo, se del
caso, l’importo indicato nel provvedimento
impugnato (art. 134 del Codice del processo
amministrativo).
Sempre a livello nazionale, alcune
autorità di
regolazione (CONSOB, Banca d’Italia) pubblicano
nei loro bollettini o nei
loro siti atti denominati
variamente «avvisi» o «messaggi»,
«comunicazioni» o «note
amministrative»,
«richiami di attenzione», «domande e risposte».
Con essi vengono
specificate modalità operative e
applicative di norme, impartiti indirizzi operativi,
fornite risposte a quesiti proposti dalle imprese,
segnalate sentenze rilevanti della
magistratura
ordinaria o amministrativa, ecc.
Anche il ministero dell’Economia e delle Finanze
può fornire
orientamenti e indicazioni in tema di
applicazione della normativa sulle società a
partecipazione pubblica (art. 15 d.lgs. n. 175/2016).
La componente
autoritativo-prescrittiva di questo
tipo di fonti, che pur in taluni casi è stata
riconosciuta (parere del Consiglio di Stato, Sez. I,
24 marzo 2020, n. 615), appare recessiva
rispetto a
quella per così dire persuasivo-sollecitatoria. Il
grado di effettività della
soft law dipende
essenzialmente dall’autorevolezza dell’organo
da
cui essa promana.
Può rientrare in Il modello comply or
explain
questo contesto
anche il modello che
va sotto il nome di
comply or explain. Il regolatore,
anziché imporre regole uguali
per tutti (in base al
principio one size fits all), propone una
soluzione
ritenuta ottimale che il destinatario può seguire,
oppure decidere di non
seguire. In questo caso
deve esplicitare e rendere pubbliche le ragioni per
le quali
ritiene di doversi discostare, assumendosi
così le conseguenti responsabilità. Questo
sistema
95 è stato applicato in molti Paesi e a livello europeo
nei
codici di corporate governance che individuano,
secondo le migliori
prassi, l’assetto organizzativo
di vertice delle società incluso il sistema dei
controlli interni. La singola società può anche
disattendere tali indicazioni
illustrando però nella
documentazione allegata al bilancio annuale le
ragioni per le
quali sono state adottate soluzioni
organizzative diverse, ritenute più adatte alla
situazione aziendale particolare. Come vedremo
nel capitolo XIII, questo sistema è stato introdotto
nel nostro
ordinamento in relazione al
monitoraggio sull’andamento della finanza
pubblica.
17. La
better regulation e altri
modelli di regolazione
distinzione tra
provvedimenti di tipo individuale e atti normativi.
Così, per
esempio, l’autorizzazione, definita, come
si vedrà, come atto amministrativo
che consente
l’esercizio di un’attività rimuovendo un limite
all’esercizio di un diritto
e che è emanata su
istanza della parte interessata, acquista una
dimensione regolatoria
nei casi in cui la legge
preveda l’emanazione da parte dell’autorità
amministrativa
delle cosiddette autorizzazioni
generali.
el settore delle comunicazioni
elettroniche, la
N
normativa europea (recepita nel Codice delle
comunicazioni elettroniche) impone solo in
pochi
casi a chi voglia offrire sul mercato i servizi in
questione di richiedere
un’autorizzazione
individuale preventiva. Di regola è sufficiente
l’autorizzazione
generale definita come «quadro
normativo», che garantisce i diritti di fornitura di
reti
o di servizi e stabilisce gli obblighi ad essi
applicabili e che viene rilasciata ai
privati sulla
base di una semplice dichiarazione presentata al
ministero competente,
senza necessità di un
provvedimento formale da parte di quest’ultimo.
Anche i Gli impegni
procedimenti di tipo
sanzionatorio, quelli cioè volti ad accertare la
sussistenza di un
illecito amministrativo e ad
applicare una sanzione nei confronti di un
soggetto
determinato, si aprono in alcuni casi a
una dimensione regolatoria. Così, l’Autorità
garante della concorrenza e del mercato e altre
autorità di regolazione allorché avviano
procedimenti sanzionatori nei confronti di
un’impresa possono concluderli senza
accertare
l’illecito e irrogare la sanzione, accettando
impegni. Questi ultimi sono
proposti dall’impresa
stessa e consistono in obblighi comportamentali
volti a rimuovere
anche per il futuro le ragioni
sottostanti all’apertura del procedimento
sanzionatorio.
In alcuni casi essi sono assunti a
favore di soggetti terzi (per esempio, le imprese
concorrenti alle quali viene garantita la messa a
disposizione permanente di una
infrastruttura) e
pertanto questo tipo di impegni, avallati
dall’Autorità e sentiti in
contraddittorio tutti gli
interessati, possono acquisire una dimensione
regolatoria.
I n conclusione, la
soft
law e gli altri modelli di
regolazione emersi di recente
finiscono per
sfumare i contorni di nozioni tradizionali come
fonte del diritto (o
hard law, vincolante in modo
assoluto), eteroregolazione
pubblica,
provvedimento individuale. Ma forse nell’epoca
attuale la giuridicità tende a
fondarsi, oltre che su
criteri formali, su criteri sostanziali di effettivo
condizionamento delle condotte dei soggetti
privati.
CAPITOLO 3
101
1. Gli
interessi pubblici, le
funzioni e l’attività
amministrativa
La funzione di La definizione della
funzione di
amministrazione amministrazione attiva
attiva consiste
nell’esercizio,
attraverso moduli procedimentali,
dei poteri
amministrativi attribuiti dalla legge a un apparato
pubblico al fine di
curare, nella concretezza delle
situazioni e dei rapporti con soggetti privati,
l’interesse pubblico.
Per avvicinarci al tema, può essere
utile anticipare,
in una visione d’insieme, e raccordare tra di loro
alcune nozioni
generali, approfondite nei capitoli e
nei paragrafi successivi. Tali nozioni, già
incluse
nella definizione sopra riportata, costituiscono la
trama all’interno della
quale possono essere
inseriti i singoli elementi che connotano il regime
della funzione
di amministrazione attiva. Esse
consentono di inquadrare la relazione
fondamentale tra
potere e
interesse
legittimo,
cioè il rapporto giuridico amministrativo.
▶ Gli
interessi pubblici. Il diritto consiste
essenzialmente nella regolazione
di interessi. Gli
interessi sono di più tipi. Vi sono anzitutto
interessi prettamente
privati, come per esempio
quelli del titolare di un diritto di proprietà o di un
diritto
di credito. Altri interessi hanno una
dimensione collettiva, come per esempio quello
della massa dei creditori in una procedura
fallimentare o degli azionisti riuniti in
un’assemblea di una società per azioni, oppure dei
soci di una associazione che persegue
scopi non
lucrativi disciplinata dal Titolo II del codice civile.
Altri interessi hanno
un carattere diffuso
(interessi diffusi o adespoti) come per esempio
l’interesse correlato a
un ambiente salubre.
Gli interessi pubblici (come, per esempio, l’ordine
pubblico, la
difesa nazionale, l’istruzione, la sanità,
ecc.) presuppongono un riconoscimento formale
da parte di una legge dello Stato (o anche da parte
della Costituzione) che li
individui, ponga regole e
102 istituisca apparati che si facciano
istituzionalmente carico della loro cura. Gli
interessi
qualificati come pubblici variano nel
tempo in funzione dell’evoluzione della
consapevolezza sociale e politica. Per esempio gli
interessi correlati alla tutela
dell’ambiente o alla
protezione dei dati personali, considerati oggi
come interessi
pubblici di rango primario, fino a
qualche decennio fa avevano una rilevanza
marginale.
Gli interessi pubblici inoltre possono
porsi talora in contrasto tra loro e richiedono
da
parte del legislatore o da parte delle pubbliche
amministrazioni un bilanciamento e
una
composizione (per esempio l’interesse alla
realizzazione di opere pubbliche può
confliggere
con quello della tutela dell’ambiente o del
paesaggio). In ogni caso
l’ordinamento può
graduare la rilevanza degli interessi pubblici, per
esempio, come si
vedrà, escludendo per alcuni di
essi l’applicazione di istituti di semplificazione
come
il silenzio-assenso (art. 20 l. n. 241/1990). Nel
contesto costituzionale attuale alla cura
degli
interessi pubblici, che di regola è affidata ad
apparati pubblici, possono
concorrere soggetti
privati, in attuazione, come si vedrà, del principio
di
sussidiarietà verticale (art. 118, ultimo comma,
Cost.).
▶ Le
funzioni. Allorché istituisce un apparato
amministrativo, la legge ne delinea anzitutto le
funzioni correlate alle finalità di
interesse
pubblico.
I fini
pubblici I fini pubblici
concorrono a
definire, con espressione atecnica, la «missione»
(mission) affidata a un soggetto pubblico che
consiste appunto
nella cura di un determinato
interesse pubblico individuato dalla legge.
L’esigenza di
tutelare un interesse pubblico (per
esempio, l’ambiente o la
privacy) si afferma via via
nella coscienza sociale e ciò si
traduce di regola,
come si è già chiarito, in normative che prevedono
anche
l’istituzione di un apparato pubblico (per
esempio, un ministero o un’autorità
indipendente)
per lo svolgimento delle attività necessarie per
curare tale interesse.
Va anzitutto precisato che il
termine «funzione» ha
una molteplicità di significati (anche atecnici). Per
esempio,
esso può essere riferito ai vari tipi di
attività posti in essere dagli apparati
pubblici, e in
questo senso si distingue tra funzione di
regolazione, di amministrazione
attiva e di
controllo.
Nel contesto che qui La definizione di
funzione
rileva, per funzioni amministrativa
amministrative si
intendono i compiti
che la
legge individua come propri di un
determinato apparato amministrativo. L’apparato è
tenuto a esercitarle per la cura in concreto
dell’interesse pubblico. A tal fine la
legge
conferisce agli apparati amministrativi le risorse e i
poteri necessari
(attribuzioni) e distribuisce la
titolarità di questi ultimi tra gli organi che
compongono l’apparato (competenze).
Di regola le funzioni amministrative
vengono
individuate dalla legge in modo più o meno
analitico o al momento
dell’istituzione di un
apparato amministrativo, o in sede di riassetto
della
legislazione di settore e degli apparati
amministrativi.
Per esempio, la legge istitutiva
delle autorità di
regolazione dei servizi di pubblica utilità (legge 14
novembre 1995, n. 481), dopo aver individuato le
finalità generali della normativa (concorrenza ed
103 efficienza,
livelli adeguati di qualità nei servizi,
fruibilità e
diffusione omogenea sul territorio
nazionale, tutela degli interessi degli utenti e
consumatori, ecc.) (art. 1), elenca le funzioni
attribuite alle autorità di regolazione
(artt. 2 e 3): il
controllo delle condizioni e delle modalità di
accesso all’attività
per i gestori dei servizi, la
definizione e l’aggiornamento della tariffa base per
i
servizi erogati dai gestori, la definizione dei livelli
generali di qualità e di altre
regole di tipo contabile
e amministrativo, il controllo sullo svolgimento dei
servizi,
la formulazione di osservazioni e proposte
al governo e al parlamento, ecc.
Un esempio di legge di riordino è il d.lgs. 31 marzo
1998, n. 112 che, nell’ambito di una riforma
più
complessiva della pubblica amministrazione,
ridefinì i rapporti tra centro (Stato) e
periferia
(regioni ed enti locali) in una serie ampia di
materie (artigianato,
industria, territorio,
ambiente, protezione civile, servizi alla persona,
ecc.). Per
ciascuna di esse venne individuato un
elenco tassativo di funzioni che continuano ad
essere attribuite allo Stato (in generale, quelle di
indirizzo e programmazione, di
definizione di
standard omogenei, di monitoraggio, di
coordinamento, di raccolta ed
elaborazione di dati,
ecc.). Tutte le funzioni residue, anch’esse talora
specificate in
elenchi non tassativi, vennero
trasferite alle regioni e agli enti locali in base al
principio della
sussidiarietà verticale al quale si
farà cenno in seguito. Il decreto
legislativo
contiene anche elenchi di funzioni soppresse, cioè
ritenute non più utili
(per esempio, come si è visto,
alcuni atti di pianificazione settoriale o di tipo
autorizzativo).
▶
L’attività
amministrativa. L’esercizio delle
funzioni comporta lo
svolgimento da parte
dell’apparato pubblico di una varietà di attività
materiali e
giuridiche. Emerge qui la nozione di
attività amministrativa. Essa consiste appunto
nell’insieme delle azioni e delle decisioni (inclusi i
singoli atti o provvedimenti
amministrativi)
riconducibili a una pubblica amministrazione in
relazione alle funzioni
affidate ad essa da una
legge. L’attività amministrativa è rivolta a uno
scopo o fine
pubblico, cioè alla cura di un interesse
pubblico e, per questo, anch’essa è dotata del
carattere della doverosità . Il mancato esercizio
dell’attività può Il principio di
doverosità
essere fonte di
responsabilità. E ciò a
differenza di quanto accade
nell’ambito dei
rapporti di diritto comune, nei quali l’esercizio
della capacità
giuridica da parte dei soggetti privati
è di regola libero.
ll’attività amministrativa fa
riferimento l’art. 1
A
della legge n. 241/1990 secondo il quale essa
«persegue i fini
determinati dalla legge ed è retta
da criteri di economicità, di efficacia, di
imparzialità, di pubblicità e di trasparenza».
Sotto il profilo giuridico, la
nozione di attività
amministrativa non coincide con quella di atto o
provvedimento. Essa
si riferisce all’operato
complessivo delle singole amministrazioni,
valutato in termini
sia di legalità, sia soprattutto di
efficienza, efficacia ed economicità. Una siffatta
valutazione è effettuata da organi di controllo
come soprattutto la Corte dei conti,
preposta al
controllo successivo sull’attività degli enti
pubblici.
L’atto
amministrativo costituisce invece
un singolo episodio o un frammento
dell’attività
104 posta in essere da un apparato e si presta a
essere
valutato soprattutto sotto i profili della conformità
o
meno all’ordinamento (legittimità) e
dell’attitudine a soddisfare nel caso concreto
l’interesse pubblico (opportunità o merito
amministrativo).
Con riguardo all’attività è invalsa
l’espressione
«amministrazione di risultato», contrapposta
all’«amministrazione per
atti». Si tratta peraltro di
nozione recente e ancora di incerta elaborazione
dottrinale, che tende a cogliere la performance
complessiva di un apparato.
Una questione interpretativa è stabilire dove vada
tracciata la linea di L’attività
amministrativa in
confine tra attività forma
privatistica
amministrativa e
attività di
diritto
privato in senso proprio della pubblica
amministrazione (cui si riferisce, come
si è visto,
l’art. 1, comma 1-bis, l. n. 241/1990). Infatti la
giurisprudenza tende a ritenere
che un apparato
pubblico svolge attività amministrativa «non solo
quando esercita
pubbliche funzioni e poteri
autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti
dall’ordinamento, persegue le proprie finalità
istituzionali mediante un’attività
disciplinata in
tutto o in parte dal diritto privato» (C. cass., Sez.
Un., 22 dicembre
2003, n. 19667 a proposito della
responsabilità erariale di amministratori e
dipendenti
di enti pubblici economici). Si è anche
precisato che, ai fini dell’esercizio del
diritto di
accesso di cui all’art. 22, comma 1, lett. b) della l. n.
241/1990, la nozione di
attività di interesse
pubblico posta in essere da soggetti privati gestori
di servizi pubblici o
di pubbliche funzioni include
l’attività «espressione sia di pubblici poteri, sia di
autonomia negoziale» (Cons. St., Sez. III, 22
dicembre 2014, n. 6352). È emersa così
la
distinzione tra «attività amministrativa in forma
privatistica» riferibile a soggetti
privati che
operano per conto della pubblica amministrazione
e «attività d’impresa di
enti pubblici» (C. cost. 1 o
▶ Il
potere. La nozione di potere appartiene alla
teoria
generale e può riferirsi, oltre che al potere
amministrativo, al potere legislativo, che
consiste
nel dettare norme generali e astratte che innovano
l’ordinamento giuridico; al
potere giurisdizionale,
che consiste nel risolvere una controversia con una
sentenza
suscettibile di passare in giudicato; e,
secondo alcune ricostruzioni, anche al potere
negoziale, che consiste nella possibilità di disporre
autonomamente dei propri
interessi. Nel diritto
privato è discusso l’inquadramento dogmatico del
potere come
concetto autonomo o come subspecie
del diritto soggettivo.
Peraltro, prima ancora che essere
una categoria
giuridica, il potere, La nozione sociologica
come si è accennato,
è
una categoria sociologica legata alle dinamiche
dei gruppi organizzati. Taluni
individui, per
proprie virtù o abilità o per altri fattori, sono in
grado di esercitare
un’influenza dominante su altri
individui. Si parla anche di potere sociale che le
collettività e i gruppi esercitano sui singoli
individui.
I poteri amministrativi conferiscono
agli apparati
che ne assumono la titolarità una capacità
giuridica speciale di diritto
pubblico che si esprime
nella possibilità di produrre, con una
manifestazione di volontà
unilaterale, effetti
giuridici nella sfera dei destinatari. Essa si
aggiunge,
integrandola, alla capacità giuridica
generale di diritto comune, intesa quest’ultima
come attitudine ad assumere la titolarità delle
situazioni giuridiche soggettive attive
e passive
previste dall’ordinamento, di cui essi, al pari delle
persone giuridiche
private, sono dotati. Nel
linguaggio ottocentesco era invalsa l’espressione
poteri
«esorbitanti» (rispetto al diritto comune). Il
potere amministrativo pone il suo
titolare in una
posizione di sovraordinazione rispetto al soggetto
nella cui sfera
giuridica ricadono gli effetti giuridici
prodotti in seguito al suo esercizio.
Occorre distinguere tra potere in astratto e potere
in concreto. Il potere in astratto e
in
concreto
▶
L’atto e il provvedimento. Nel diritto
italiano manca una L’assenza di una
definizione
legislativa
definizione legislativa
di atto o
provvedimento. La legge
sul procedimento
amministrativo tedesca, per esempio, lo definisce
come «ogni
provvedimento, decisione o altra
misura autoritativa che è emanata da un’autorità
amministrativa per regolare un caso singolo nel
campo del diritto pubblico e che è volta
a produrre
un effetto giuridico diretto verso l’esterno» («jede
Verfügung, Entscheidung
oder andere hocheitliche
Maßnahme, die eine Behörde zur Regelung eines
Einzelfalls auf
dem Gebiet des öffentlichen Rechts
trifft und die auf unmittelbare Rechtswirkung nach
außen gerichtet ist», secondo il par. 35 del
Verwaltungsverfahrensgesetz). Nel nostro
ordinamento
l’atto
amministrativo costituisce
invece una nozione elaborata essenzialmente
dalla
dottrina e dalla giurisprudenza.
lcune indicazioni si possono
peraltro ricavare sia
A
dalla Costituzione sia da alcune leggi generali.
In particolare, l’art. 113 Cost. stabilisce che
«Contro gli atti della pubblica
amministrazione è
sempre ammessa la tutela giurisdizionale»
(comma 1); la legge
determina quali organi
giurisdizionali abbiano il potere di «annullare gli
atti della
pubblica amministrazione nei casi e con
gli effetti previsti dalla legge». Queste
disposizioni
richiamano due aspetti del regime giuridico degli
atti amministrativi: la
loro sottoposizione
necessaria a un controllo giurisdizionale operato
dal giudice
amministrativo e dal giudice ordinario;
la loro annullabilità nei
casi di accertata difformità
dei medesimi rispetto alle norme giuridiche.
Sul piano storico, la nozione di
atto
amministrativo emerse proprio allorché alla fine
del XIX secolo, come si è già
accennato, venne
istituito in Italia un giudice speciale, distinto da
quello ordinario.
La IV Sezione del Consiglio di
Stato si pose subito il Gli atti impugnabili
problema di quali
caratteristiche dovessero avere gli atti delle
amministrazioni per
poter essere sottoposti al
controllo giurisdizionale e contribuì così, insieme
con la
dottrina, a elaborare la teoria dell’atto
amministrativo.
questo riguardo, l’art. 26 Testo unico delle leggi
A
sul Consiglio di Stato, approvato con
r.d. 26 giugno
1924, n. 1054, abrogato dal Codice del processo
amministrativo (d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104),
stabiliva che il giudice
amministrativo può
decidere «sui ricorsi per incompetenza, per
eccesso di
potere o per violazione di legge, contro
atti e provvedimenti di
un’autorità amministrativa
[…] che abbiano per oggetto un interesse
d’individui o di
enti morali giuridici». Questa
disposizione processuale, introdotta già nel 1889,
107 definiva così le condizioni minime per poter
accedere alla
tutela giurisdizionale amministrativa
(impugnabilità o giustiziabilità dell’atto
amministrativo). Doveva trattarsi cioè di un atto
emanato da un’autorità amministrativa,
ritenuto
illegittimo (per incompetenza, eccesso di potere o
violazione di legge), che
fosse lesivo di una
situazione giuridica soggettiva del privato (il
cosiddetto
interesse
legittimo).
Altre disposizioni legislative
rilevanti si ritrovano
nella l. n. 241/1990, come integrata dalla legge 11
febbraio 2005, n. 15, che pone una disciplina
generale del procedimento amministrativo e
dell’atto amministrativo.
Anzitutto, l’art. 1, Gli atti aventi natura
non
autoritativa
comma 1-bis, l. n.
241/1990 stabilisce,
come si è visto, che la pubblica
amministrazione
agisce di regola secondo le norme del diritto
privato «nell’adozione di
atti di natura non
autoritativa». Questi ultimi vanno dunque distinti
dagli atti aventi
natura autoritativa, per i quali,
invece, vale il regime pubblicistico proprio degli
atti amministrativi.
I noltre, secondo l’art. 3 l. n. 241/1990 gli atti
amministrativi devono essere
motivati, e ciò
costituisce un profilo che differenzia dagli atti
privati per i quali
non esiste questo obbligo.
Ancora, l’art. 7 prevede che l’avvio
del
procedimento deve essere comunicato «ai soggetti
nei confronti dei quali il
provvedimento finale è
destinato a produrre effetti diretti» e l’art.
21-bis
specifica che «il provvedimento limitativo della
sfera
giuridica dei privati acquista efficacia nei
confronti di ciascun destinatario con la
comunicazione allo stesso effettuata». Queste
disposizioni L’autoritarietà
richiamano
implicitamente un’altra caratteristica dei
provvedimenti e cioè l’autoritarietà (o
imperatività) intesa come attitudine a
determinare in modo unilaterale
la produzione
degli effetti giuridici nei confronti dei terzi. Viene
posta, inoltre, la
distinzione tra provvedimenti
ampliativi e provvedimenti limitativi o restrittivi
della
sfera giuridica dei destinatari privati, sulla
quale ci si soffermerà tra breve.
Infine, l’art. 2, comma 1, l. n. 241/1990 pone in capo
all’amministrazione il dovere di concludere il
procedimento «mediante l’adozione di un
provvedimento espresso».
Come emerge dalle disposizioni
costituzionali e
legislative ora richiamate, i termini «atto» e
«provvedimento
amministrativo» sono utilizzati
come sinonimi. In sede dottrinale, tuttavia, si è
cercato di porre una distinzione tra atto
amministrativo e provvedimento
amministrativo.
Il primo, per riprendere una
definizione classica
[Zanobini 1958, 245], include ogni «dichiarazione
di volontà, di
desiderio, di conoscenza, di giudizio,
compiuta da un soggetto dell’amministrazione
pubblica nell’esercizio di una potestà
amministrativa». Pertanto costituiscono atti
amministrativi, per esempio, quelli
endoprocedimentali come i pareri, le
valutazioni
tecniche, le proposte, le intimazioni, oppure le
certificazioni che
spesso hanno una funzione
strumentale o accessoria rispetto al
provvedimento.
Quest’ultimo costituisce la
subcategoria più
importante degli atti La definizione di
provvedimento
amministrativi, e può amministrativo
essere definito, in
conclusione, come
una manifestazione di volontà, espressa
dall’amministrazione titolare del potere all’esito di
un procedimento, volta alla cura
in concreto di un
interesse pubblico e tesa a produrre in modo
108 unilaterale effetti
giuridici nei rapporti esterni con
i soggetti destinatari del
provvedimento medesimo
(per esempio, un decreto di espropriazione,
un’autorizzazione, una
sanzione amministrativa,
ecc.).
▶ Il procedimento. La l. n. 241/1990 richiama
già nel titolo e poi in numerose
disposizioni la
nozione
di procedimento amministrativo. Essa è
stata elaborata dalla dottrina
giuspubblicista
[Sandulli 1964] verso la metà del secolo scorso.
Come si è già menzionato,
l’esercizio del potere
amministrativo avviene secondo il modulo del
procedimento, cioè
attraverso una sequenza,
individuata anch’essa dalla legge, di operazioni e di
atti
strumentali all’emanazione di un
provvedimento produttivo degli effetti giuridici nei
rapporti esterni. Come si vedrà nel capitolo V, il
procedimento assolve a una pluralità di funzioni
(garanzia
dei privati, coordinamento tra apparati,
ecc.).
La l. n. 241/1990 non La definizione di
procedimento
fornisce una
definizione di
procedimento. Per esempio, la legge tedesca lo
definisce come
un’«attività di un’autorità
amministrativa avente rilevanza esterna che è
rivolta
all’accertamento delle condizioni, alla
preparazione e all’emanazione di un atto
amministrativo o alla conclusione di un contratto
di diritto pubblico» («die nach außen
wirkende
Tätigkeit der Behörden, die auf die Prüfung der
Voraussetzungen, die
Vorbereitung und den Erlaß
eines öffentlich-rechtlichen Vertrages gerichtet
ist»,
secondo il par. 9 del
Verwaltungsverfahrensgesetz).
Il procedimento Il procedimento
legislativo e il
processo
costituisce, in realtà,
la modalità ordinaria
di esercizio
delle funzioni pubbliche
corrispondenti ai tre poteri dello Stato, in
considerazione
delle esigenze di accentuare la
trasparenza (in funzione di
accountability, cioè di
controllo e di responsabilità) e di
garantire meglio
la tutela dei soggetti interessati di fronte ad atti
che sono
espressione diretta dell’autorità dello
Stato. La funzione legislativa assume la forma
del
procedimento legislativo, disciplinato dalla
Costituzione e dai regolamenti
parlamentari e
finalizzato all’emanazione di atti con «forza o
valore di legge»; la
funzione giurisdizionale assume
quella del processo, disciplinato dai vari codici
processuali, che si conclude con una sentenza
dotata dell’«autorità del giudicato»; la
funzione
amministrativa si manifesta nel procedimento
amministrativo, che si conclude
con un
provvedimento dotato di «autoritarietà» o
«imperatività». Nel diritto privato,
invece, l’attività
che precede l’adozione di atti negoziali è
tendenzialmente
irrilevante per il diritto (anche se
talora può dare origine a responsabilità
precontrattuale ai sensi dell’art. 1337 cod. civ.) e
resta relegata alla sfera interna del
soggetto che la
pone in essere.
3. Il
rapporto giuridico
amministrativo
La funzione di amministrazione
attiva pone la
pubblica amministrazione titolare di un potere in
una
situazione di tipo relazionale con i soggetti
privati destinatari del provvedimento.
Peraltro, solo in epoca
relativamente recente ha
trovato un riconoscimento, anche in
109 giurisprudenza (C. cost. 4
maggio 2017, n. 94 e C.
cass., Sez. Un., 28 aprile 2020, n.
8236), la nozione
di rapporto giuridico amministrativo, cioè il
rapporto che intercorre tra
la pubblica
amministrazione che esercita un potere e il
soggetto privato titolare di un
interesse
legittimo.
Nella visione tradizionale, infatti, lo Stato era
concepito
come un’entità collocata in una
posizione di sovraordinazione rispetto ai soggetti
privati relegati nella posizione di amministrati o di
sottoposti
(Untertan), tale da escludere la
configurabilità di vincoli
giuridici bilaterali.
L’ordinamento poteva disciplinare il potere
dell’amministrazione
con norme volte a orientare
l’attività della medesima (norme d’azione), ma
senza che si
instaurasse una relazione giuridica in
senso proprio (come invece nel caso delle norme
di relazione, tipiche dei rapporti privatistici).
In una concezione moderna, più
conforme
all’ideale dello Stato di diritto e che tiene conto
dell’acquisita natura sostanziale
dell’interesse
legittimo (collegato a un bene della vita), potere
amministrativo e interesse legittimo possono
essere ricostruiti come i
termini dialettici
(ciascuno, allo stesso tempo, come si vedrà, attivo
e passivo) di una
relazione giuridica bilaterale.
Questa si sviluppa anzitutto nel procedimento
finalizzato all’adozione di un provvedimento e
continua talora anche dopo l’emanazione
di
quest’ultimo (rapporti di durata come, per
esempio, nel caso di una concessione
pluriennale
per la gestione di un servizio pubblico).
Occorre definire ora con più
precisione i caratteri
della relazione tra potere amministrativo e
interesse legittimo
che, come ogni relazione di vita
riconosciuta dall’ordinamento giuridico,
costituisce,
in un’accezione ancora generica, un
rapporto giuridico [Trabucchi 2004, 705].
Conviene muovere da alcuni concetti
di base
elaborati allo scopo di inquadrare la varietà dei
rapporti giuridici di diritto
comune.
Nel diritto privato la relazione
giuridica di base è
costituita dalla La coppia diritto
soggettivo-obbligo
coppia diritto
soggettivo-obbligo.
Secondo le definizioni tradizionali, il diritto
soggettivo
consiste in un potere di agire (agere
licere), riconosciuto e
garantito dall’ordinamento
giuridico, per soddisfare un proprio interesse. Il
diritto
soggettivo include in sé una serie di facoltà
che ne costituiscono l’estrinsecazione
(godimento
della cosa, jus escludendi alios, ecc.).
Alla titolarità del diritto
soggettivo corrisponde, in
capo al soggetto passivo del rapporto giuridico, a
seconda
dei casi: un dovere generico e negativo di
astensione, cioè di non interferire o turbare
l’esercizio del diritto (diritti assoluti, come i diritti
reali e della personalità);
oppure un obbligo
giuridico, cioè il dovere positivo di porre in essere
un determinato
comportamento o attività
(prestazione) a favore del titolare del diritto
(diritti
relativi, come i diritti di credito). Ad esso
corrisponde dal lato del soggetto attivo
una
pretesa, cioè il potere di esigere la prestazione.
Accanto alla coppia diritto
soggettivo-obbligo, che
è tipica dei rapporti di tipo paritario tra soggetti
che
agiscono nell’esercizio della loro capacità
negoziale, il diritto privato conosce altri
tipi di
situazioni giuridiche che ci avvicinano alla
dinamica del rapporto
amministrativo,
caratterizzato invece dalla sussistenza di una
relazione non paritaria
(sovra-sottordinazione) tra
la pubblica amministrazione che esercita il potere
110 e il
titolare dell’interesse legittimo.
Per un verso, infatti, viene
individuata una
situazione giuridica La potestà
soggettiva attiva, la
potestà,
che, a differenza di quanto accade per il
diritto soggettivo, è attribuita al singolo
soggetto
per il soddisfacimento, anziché di un interesse
proprio, di un interesse
altrui. Si tratta cioè di un
potere-dovere, nel senso che il soggetto è tenuto a
esercitarla secondo criteri non già di «pieno»,
bensì di «prudente arbitrio», e nel farlo deve
perseguire la finalità della cura
dell’interesse altrui
(nel diritto di famiglia, tipicamente, la potestà
genitoriale).
Come si è già accennato, anche il
potere amministrativo è finalizzato al
perseguimento
di un fine pubblico imposto dalla
legge, che è diverso e distinto da quello proprio del
soggetto agente. Da qui i caratteri della doverosità
e della non arbitrarietà
dell’esercizio del potere.
Per altro verso, una Il diritto potestativo
particolare categoria
di diritti soggettivi è costituita dal
diritto
potestativo, che consiste nel potere attribuito a un
soggetto di
produrre nella sfera giuridica altrui un
effetto giuridico (costitutivo, modificativo o
estintivo) con una propria manifestazione
unilaterale di volontà. Ciò sul presupposto di
una
prevalenza attribuita dalla norma all’interesse del
titolare del potere rispetto a
quello del soggetto
che subisce una modificazione nella propria sfera
giuridica.
Quest’ultimo si trova in uno stato
definito di soggezione. Su di lui infatti ricadono
ineluttabilmente, cioè indipendentemente dalla
propria volontà e senza che gli sia
richiesta alcuna
attività, le conseguenze della dichiarazione di
volontà altrui.
sempi di diritto potestativo nei rapporti
E
interprivati sono la
prelazione (art. 732 cod. civ.
nei rapporti tra coeredi), il recesso
(art. 1373 cod.
civ.), il riscatto nella compravendita (art. 1500 cod.
civ.), la revoca del mandato
(art. 1723 cod. civ.), la
comunione forzosa di un muro di
confine (art. 874
cod. civ.).
Il diritto potestativo rappresenta
una particolare
tecnica o modalità di produzione degli effetti
giuridici nei rapporti
intersoggettivi che vale, più
in generale, anche per il potere amministrativo.
Conviene
pertanto approfondire il tema tenendo
conto delle elaborazioni di teoria generale,
soprattutto ad opera della dottrina
processualcivilistica [Proto Pisani 2001, 204;
Menchini 1987, 190; Consolo 1991, 247-248].
La produzione degli Lo schema norma-
fatto-effetto
giuridico
effetti giuridici segue
usualmente lo
schema norma-fatto-effetto
giuridico, che è tipico
delle relazioni ricostruibili in termini di diritto
soggettivo-obbligo. La norma definisce in termini
astratti gli elementi della
fattispecie e l’effetto
giuridico che ad essa si ricollega, ponendo
direttamente la
disciplina degli interessi in
conflitto in relazione a un determinato bene. Tutte
le
volte che nella vita economica e sociale si
verifica un fatto concreto sussumibile nella
fattispecie normativa si produce, in modo
automatico, un effetto giuridico.
osì, per esempio, l’art. 2043 cod. civ. individua gli
C
elementi costitutivi del
fatto illecito dal quale
consegue, come effetto giuridico, il sorgere
dell’obbligo di
risarcire il danno. Se il proprietario
di un appartamento causa un danno a quello
sottostante in seguito alla rottura di un tubo
dell’acqua, questo accadimento, ove
integri tutti gli
elementi della fattispecie dell’illecito
extracontrattuale, fa sorgere
in capo al
proprietario l’obbligo di risarcire il danno.
111 Parimenti, l’art. 922 cod. civ. contempla, tra i modi
tipici di acquisto della proprietà, l’occupazione,
definita a
livello di fattispecie dall’art. 923 cod. civ.:
se una persona si imbatte in una cosa
mobile
abbandonata, il fatto in sé del rinvenimento e
dell’apprensione determina
l’acquisto di un diritto
di proprietà.
Il diritto conosce anche un’altra
tecnica di
produzione degli Lo schema
norma-
fatto-potere-effetto
effetti che segue lo giuridico
schema
norma-fatto-
potere-effetto
giuridico. Questa sequenza si differenzia da
quella
sopra esaminata poiché viene meno l’automatismo
nella produzione dell’effetto
giuridico. Infatti, il
verificarsi di un fatto concreto conforme alla
norma attributiva
del potere determina in capo a
un soggetto (il titolare del potere) la possibilità di
produrre l’effetto giuridico individuato a livello di
fattispecie normativa attraverso
una dichiarazione
di volontà. Tra il fatto e l’effetto giuridico si
interpone un
elemento aggiuntivo, cioè il potere, e
il titolare di quest’ultimo è libero di decidere
se
provocare con una propria manifestazione di
volontà l’effetto giuridico tipizzato
dalla norma
(potere sull’an). Questo è lo schema proprio del
diritto potestativo.
a dottrina ha elaborato questa
tipologia di
L
situazione giuridica I diritti potestativi
stragiudiziali e a
soggettiva per
inquadrare la tutela necessario esercizio
giudiziale
giurisdizionale di tipo
costitutivo che, come
si vedrà nel capitolo XIV, si distingue da
quella di
accertamento e di condanna. Essa individua due
tipologie di diritti
potestativi: stragiudiziali
(Gestaltungsrechte, detti anche poteri
formativi
stragiudiziali) e a necessario esercizio giudiziale
(Gestaltungsklagerechte, detti anche diritti
potestativi ad
attuazione giudiziaria).
el primo caso la produzione
dell’effetto giuridico
N
discende in modo diretto dalla manifestazione di
volontà del
titolare del potere. Si tratta dunque di
un potere unilaterale e autosufficiente. Nel
secondo caso il prodursi dell’effetto giuridico
presuppone, in aggiunta alla
dichiarazione di
volontà del titolare del potere, un previo
accertamento giudiziale che
verifichi la sussistenza
nella fattispecie concreta degli elementi previsti in
astratto
a livello di fattispecie normativa.
Un esempio del primo tipo è il
potere del datore di
lavoro di licenziare un dipendente per giusta causa
o per
giustificato motivo (ai sensi della legge 15
luglio 1966, n. 604); esempi del secondo tipo sono
la separazione giudiziale tra coniugi (art. 151 cod.
civ.), il disconoscimento della paternità
(art. 244
cod. civ.), l’annullamento del contratto (art. 1441
cod. civ.).
A queste situazioni si riferisce
l’art. 2908 cod. civ.,
dedicato alla tutela costitutiva,
secondo il quale,
nei casi tassativi previsti dalla legge, l’autorità
giudiziaria può
emanare una sentenza volta a
costituire, modificare o estinguere rapporti
giuridici con
effetto tra le parti.
Anche per i diritti potestativi del
primo tipo è
prevista una fase di verifica giurisdizionale che,
tuttavia, presenta due
caratteristiche: è posticipata
rispetto alla produzione dell’effetto giuridico;
l’iniziativa processuale spetta a colui nella cui
sfera giuridica si è
prodotto l’effetto giuridico.
Questa seconda peculiarità determina
un’inversione tra
posizione sostanziale e posizione
processuale delle parti: il soggetto passivo nel
rapporto sostanziale (che si trova in uno stato di
soggezione) diventa parte attiva
(nella veste di
attore) nel rapporto processuale ed è dunque
gravato dell’onere di
contestare il prodursi
112 dell’effetto giuridico che altrimenti si consolida;
viceversa, il soggetto attivo nel rapporto
sostanziale
(titolare del potere) diventa parte
passiva (nella veste di convenuto) nel rapporto
processuale.
Così, nell’esempio del
licenziamento, il dipendente
può impugnare il licenziamento entro 60 giorni
dalla
ricezione della comunicazione allo scopo di
far accertare l’assenza della giusta causa o
del
giustificato motivo e di ottenere dal giudice
ordinario una pronuncia di condanna
del datore di
lavoro alla sua riassunzione o al risarcimento del
danno (artt. 6 e 8 l. n. 604/1966).
La seconda tipologia di diritti
potestativi, grazie al
preventivo accertamento giurisdizionale in
contraddittorio tra le
parti, tutela di più gli
interessi di colui che subisce in modo passivo il
prodursi
nella propria sfera giuridica dell’effetto
tipico. Ha però come controindicazione la
perdita
di immediatezza nella produzione dell’effetto
giuridico dovuta al tempo
necessario per lo
svolgimento del processo, determinando dunque
un maggiore intralcio
nei traffici giuridici. Spetta al
legislatore stabilire caso per caso quando prevalga
l’uno o l’altro interesse.
Il potere Il potere
amministrativo come
amministrativo può diritto potestativo
essere ricondotto allo stragiudiziale
schema del diritto
potestativo
stragiudiziale. Infatti, la produzione
dell’effetto giuridico discende in modo immediato
dalla dichiarazione di volontà
dell’amministrazione che emana il provvedimento.
Inoltre,
l’accertamento giurisdizionale può
avvenire solo in via posticipata, cioè in seguito
alla
proposizione di un ricorso innanzi al giudice
amministrativo su iniziativa del soggetto
nella cui
sfera giuridica l’atto impugnato ha prodotto
l’effetto.
Nel caso del potere amministrativo questo schema
trova giustificazione
nell’esigenza, ritenuta
prevalente, di garantire la realizzazione immediata
dell’interesse pubblico la cui cura è affidata
all’amministrazione. Inoltre, poiché
essa, in base
alla l. n. 241/1990, è tenuta a ispirare la propria
attività a
criteri di correttezza, imparzialità e
trasparenza e al principio di partecipazione, la
posizione dei soggetti destinatari del
provvedimento trova già una qualche tutela nella
fase procedimentale, cioè prima che l’effetto
giuridico si sia prodotto.
Sussistono tuttavia alcune
specificità del potere
amministrativo rispetto allo schema del diritto
potestativo e in
particolare di quello stragiudiziale.
In primo luogo nei rapporti
interprivati , il diritto
potestativo I poteri privati
stragiudiziale
trova
usualmente un fondamento consensuale di tipo
pattizio. Così, per esempio, nella
compravendita il
diritto di riscatto può essere esercitato dal
venditore di regola solo
se viene negozialmente
convenuto (art. 1500 cod. civ.). Anche il potere di
licenziamento trova
un fondamento consensuale
nel contratto di lavoro che, almeno da un punto di
vista
strettamente giuridico, entrambe le parti
erano libere di stipulare. In definitiva,
l’unilateralità e l’immediatezza nella produzione
dell’effetto giuridico trovano un
temperamento nel
fondamento in ultima analisi consensuale del
potere.
I noltre, nei rapporti privati la
fattispecie
normativa che disciplina il diritto potestativo
determina in modo rigido
l’effetto giuridico
prodotto attraverso la dichiarazione di volontà del
titolare del
diritto. Il potere e l’effetto giuridico
sono cioè interamente vincolati. Il solo ambito
di
113 scelta riconosciuto al titolare del diritto attiene al
se
esercitarlo (potere sull’an). È la norma stessa,
pertanto, a porre
in essere, in termini astratti, la
disciplina degli interessi e a operare la
composizione tra i medesimi. Ne consegue,
anticipando questioni che saranno approfondite
nella parte dedicata alla tutela giurisdizionale, che,
in presenza di una contestazione,
il giudice potrà
valutare se nella fattispecie concreta si erano
verificati tutti i
fatti e le altre condizioni che la
norma richiede perché il potere sorga e possa
essere
legittimamente esercitato e accertare in via
definitiva il modo di essere del rapporto.
Il potere amministrativo, invece,
per un verso,
trova fondamento La specificità del
potere
amministrativo
diretto nella legge,
cioè
nella norma di
conferimento del potere, piuttosto che nel
consenso di colui nella cui
sfera giuridica si
produce l’effetto, e senza che sussista, di regola, un
rapporto
giuridico preesistente tra il soggetto
privato e la pubblica amministrazione. Ciò
risulta
chiaro se si pensa, per esempio, al potere di
espropriazione o a quello di
rilasciare una
concessione o altro titolo abilitativo, vicende nelle
quali un primo
contatto con l’amministrazione si
instaura, come si vedrà, rispettivamente con la
comunicazione di avvio
del procedimento o con
la presentazione dell’istanza. In ogni caso, solo
in
senso figurato si può ritenere che la legge abbia un
fondamento in ultima analisi
consensuale, per il
fatto cioè che, nei regimi parlamentari, essa è
approvata dai
rappresentanti degli elettori (tra i
quali rientrano anche i soggetti che subiscono gli
effetti dei provvedimenti amministrativi).
er altro verso, il potere della
pubblica
P
amministrazione non è sempre integralmente
vincolato. Anzi, di regola, la legge
attribuisce
all’amministrazione margini più o meno ampi di
apprezzamento e valutazione
discrezionale che,
come si vedrà, possono determinare una
modulazione del contenuto e
degli effetti del
provvedimento emanato. La disciplina degli
interessi in conflitto non
è posta, dunque,
integralmente e direttamente dalla norma, ma
quest’ultima rimette
almeno una parte della
determinazione dell’assetto finale degli interessi al
soggetto
titolare del potere. Ne consegue,
anticipando anche qui temi di tipo processuale,
che in
presenza di una contestazione relativa
all’atto di esercizio del potere, il giudice
potrà
operare un sindacato pieno soltanto sugli aspetti
vincolati del potere e non potrà
sostituirsi al
titolare del potere nell’operare la valutazione
discrezionale. Accertato
che il potere è stato
esercitato in modo non corretto, esso dovrà
limitarsi ad annullare
il provvedimento rimettendo
all’amministrazione il compito di emanare un
nuovo atto,
esente dai vizi riscontrati, che rinnovi
la valutazione discrezionale.
4. La norma
attributiva del
potere
Conviene a questo punto trattare in
modo più
specifico il potere amministrativo esaminando
anzitutto la struttura della norma
attributiva del
potere.
Secondo una classificazione tradizionale
[Guicciardi 1942], le Norme di azione e
norme di
relazione
norme che si
riferiscono
alla
pubblica amministrazione sono di due tipi: norme
di azione e norme di relazione. Le
prime
114 disciplinano il potere amministrativo nell’interesse
esclusivo della pubblica amministrazione, hanno
come scopo quello di assicurare che
l’emanazione
degli atti sia conforme a parametri predeterminati
e non hanno una funzione
di protezione
dell’interesse dei soggetti privati. Esse seguono lo
schema norma-fatto-potere-effetto, già
esaminato. Le norme di relazione,
invece, sono
volte a regolare i rapporti intercorrenti tra
l’amministrazione e i
soggetti privati, a garanzia
anche di questi ultimi, definendo direttamente
l’assetto
degli interessi e dirimendo i conflitti
insorgenti tra cittadino e pubblica
amministrazione. Esse seguono l’altro schema
norma-fatto-effetto,
tipico, come si è visto, del
diritto soggettivo.
La norma di azione segna i limiti
per così dire
interni al potere volti a guidare l’attività
dell’amministrazione, mentre
la norma di
relazione segna i limiti per così dire esterni al
potere tracciando i
confini tra la sfera giuridica dei
soggetti privati rispetto a quella
dell’amministrazione. Ne derivano, a cascata, una
serie di conseguenze: sul piano delle
situazioni
giuridiche soggettive, la distinzione tra interesse
legittimo,
correlato alla prima, e diritto soggettivo,
correlato alla seconda; sul piano delle
qualificazioni giuridiche, l’applicazione della
categoria dell’illegittimità (annullabilità) o
della
illiceità (nullità) agli atti che violano l’uno o
l’altro tipo di
norma; sul piano della giurisdizione,
l’attribuzione delle controversie al giudice
amministrativo o al giudice ordinario e la
definizione dei rispettivi poteri
(annullamento o
disapplicazione). Mentre il giudice ordinario è
chiamato ad accertare la
conformità o meno del
fatto rispetto alla norma di relazione, il giudice
amministrativo
è chiamato ad accertare la
conformità, non solo del fatto, ma anche e
soprattutto
dell’atto rispetto alla norma di azione.
Questa dicotomia delle norme, che
ancora oggi
compare talora in giurisprudenza, appare ormai
datata. Essa è legata, come
si vedrà, a una
concezione dell’interesse legittimo, ormai
superata, come una situazione
giuridica soggettiva
che riceve tutt’al più una tutela indiretta e riflessa
da parte
dell’ordinamento e non è inquadrabile
nello schema del rapporto giuridico. In realtà,
anche le norme che disciplinano l’attività
amministrativa hanno una valenza relazionale e
una funzione di tutela dell’interesse del soggetto
privato al mantenimento o
conseguimento di un
bene della vita, oltre che dell’interesse pubblico.
Appare dunque La norma attributiva
del
potere
preferibile utilizzare
la formula più
generica di
norma attributiva (o di conferimento)
del potere.
I n attuazione del principio di
legalità che, come si
è già sottolineato, costituisce il principio
cardine
nella teoria dell’atto e del procedimento
amministrativo, la norma attributiva
del potere
individua, in termini astratti, gli elementi
caratterizzanti il particolare
potere (potere in
astratto) attribuito a un apparato pubblico: il
soggetto competente;
il fine pubblico; i
presupposti e i requisiti; le modalità di esercizio
del potere e i
requisiti di forma; gli effetti giuridici.
1.
Quanto al soggetto competente, in un sistema
amministrativo multilivello e articolato in
una
molteplicità e varietà di apparati, ogni potere
amministrativo deve essere
attribuito in modo
specifico dalla norma alla titolarità di uno e un
solo soggetto e,
ove l’organizzazione di questo
prevede una pluralità di organi, a uno e un
solo
115 organo. L’atto emanato da un soggetto o organo
diverso da
quello previsto è affetto, come si vedrà,
da vizio di incompetenza.
2. Il
fine pubblico, correlato a quello che viene
definito come l’interesse pubblico primario
affidato alla cura dell’apparato amministrativo
titolare del potere, costituisce un
elemento
specificato in modo espresso dalla norma di
conferimento del potere o che può
essere ricavato
implicitamente dalla legge che disciplina la
particolare materia.
L’amministrazione non è
dunque libera di esercitare il potere per il
perseguimento di
qualsivoglia finalità
autodeterminata. Il fine pubblico è invece
eteroimposto dalla
norma e orienta le scelte
effettuate in concreto dall’amministrazione. Come
si vedrà, la
violazione del vincolo del fine, cioè il
perseguimento da parte del provvedimento
emanato di un fine (pubblico o privato) diverso da
quello previsto dalla norma,
configura un vizio di
eccesso di potere per sviamento.
3. Un
terzo elemento consiste nei presupposti e
requisiti sostanziali in presenza dei quali il
potere
sorge e può essere esercitato (fatti costitutivi del
potere). La loro sussistenza
in concreto è una delle
condizioni per l’esercizio legittimo del potere.
L’espressione «presupposti e requisiti di legge» è
utilizzata
dall’art. 19 l. n. 241/1990 ed è riferita alle
autorizzazioni
cosiddette vincolate che, come si
vedrà, sono sostituite dalla cosiddetta
segnalazione
certificata d’inizio di attività (SCIA),
cioè da
una semplice comunicazione effettuata dal
privato all’amministrazione. Analogamente
l’art. 6,
comma 1, lett. a), l. n. 241/1990 prevede che il
responsabile del
procedimento valuti a fini
istruttori «le condizioni di ammissibilità, i
requisiti
di legittimazione ed i presupposti che siano
rilevanti per l’emanazione del
provvedimento».
Così, per fare un esempio, il Testo
unico in materia
edilizia (d.p.r. 6
Esempi
giugno 2001, n. 380),
a proposito del permesso di
costruire, indica come
presupposti la conformità del progetto alle
previsioni degli
strumenti urbanistici (in
particolare il piano regolatore), dei regolamenti
edilizi e in
generale della disciplina urbanistico-
edilizia vigente, nonché l’esistenza delle opere
di
urbanizzazione primaria o l’impegno a realizzarle
(art. 12). Inoltre, prevede come
requisito
soggettivo che il permesso possa essere rilasciato a
chi dimostri di essere
proprietario dell’immobile o
di avere un altro titolo giuridico come, in
particolare, un
diritto di superficie (art. 11).
nalogamente il Codice dei beni culturali e del
A
paesaggio (d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42), a
proposito della
dichiarazione dell’interesse
culturale di cose mobili o immobili appartenenti a
privati
dalla quale consegue un particolare regime
vincolistico (art. 13), elenca i tipi di beni
(raccolte
librarie, archivi, collezioni, ecc.) e per ciascuno di
essi individua le
caratteristiche. In particolare i
beni devono presentare un «interesse artistico,
storico, archeologico o etnoantropologico
particolarmente importante», oppure «un
interesse particolarmente importante a causa del
loro riferimento con la storia
politica, militare,
della letteratura, dell’arte e della cultura in genere,
ovvero quali
testimonianze dell’identità e della
storia delle istituzioni pubbliche, collettive o
116 religiose» (art. 10, comma 3).
In tema di presupposti e requisiti
sostanziali, la
questione più delicata è costituita dal grado di
analiticità, pur nella
necessaria astrattezza della
fattispecie normativa. Infatti, a seconda delle
espressioni
linguistiche utilizzate, il potere può
risultare più o meno ampiamente vincolato o, per
converso, più o meno ampiamente discrezionale.
Ciò lungo una linea continua delimitata
da due
estremi.
Al primo estremo si I poteri vincolati e i
poteri
discrezionali
collocano i poteri
integralmente
vincolati. In relazione ad essi
l’amministrazione
non ha altro compito se non quello di verificare, in
modo quasi
meccanico, se nella fattispecie
concreta siano rinvenibili tutti gli elementi indicati
in modo univoco ed esaustivo dalla norma
attributiva e, nel caso positivo, di emanare il
provvedimento che produce gli effetti anch’essi
rigidamente predeterminati dalla norma
(per
esempio, l’iscrizione a un albo professionale,
oppure il rilascio di un permesso a
costruire in
conformità alle prescrizioni del piano regolatore e
del regolamento
edilizio). Come si vedrà, si è
dubitato in dottrina [Capaccioli 1983, 279; Orsi
Battaglini 1988a, 355] che gli atti emanati
nell’esercizio di poteri integralmente
vincolati
conservino la natura di atti autoritativi in senso
proprio. Essi dunque
sarebbero inidonei a
produrre effetti autonomi, cioè che non siano già
prodotti
direttamente dalla norma applicata al
fatto concreto.
Al secondo estremo si pongono i
poteri
sostanzialmente «in bianco» (per esempio, le
ordinanze di necessità e di urgenza
già esaminate)
che rimettono al soggetto titolare del potere spazi
molto ampi di
apprezzamento, di valutazione delle
fattispecie concrete e di determinazione delle
misure necessarie per tutelare un determinato
interesse pubblico.
La discrezionalità emerge allorché
la norma
autorizza ma non obbliga l’amministrazione a
emanare un certo provvedimento.
Ciò accade
anzitutto quando il legislatore prevede che
l’amministrazione «può» oppure
«ha la facoltà di»
emanare un determinato atto (per esempio, il
porto d’armi o una
licenza in base al r.d. 18 giugno
1931, n. 773 recante il Testo unico delle
leggi di
pubblica sicurezza); oppure usa aggettivi come
«opportuno», «indispensabile»,
«conveniente»
riferiti a una misura o al contenuto di un
provvedimento, rinviando così a
valutazioni
necessariamente soggettive dell’interesse pubblico.
In generale, gli spazi I concetti giuridici
indeterminati
di valutazione dei
fatti costitutivi del
potere sono tanto più ampi quanto più la norma fa
ricorso ai
cosiddetti «concetti giuridici
indeterminati» (unbestimmte
Rechtsbegriffe),
espressione ripresa anche dalla giurisprudenza. La
norma
definisce cioè i presupposti e i requisiti con
formule linguistiche tali da non
consentire di
accertare in modo univoco il loro verificarsi in
concreto. Come esempi
possono valere alcune
espressioni utilizzate dal legislatore: un interesse
storico-artistico «particolarmente importante»
che, come si è accennato, legittima
l’imposizione
del regime vincolistico (nell’esempio tratto dal
Codice dei beni culturali
sopra citato); oppure
un’intesa tra imprese che falsi il gioco della
concorrenza «in
maniera consistente» il cui
accertamento comporta l’applicazione di una
sanzione (art. 2 legge antitrust n. 287/1990); il
carattere «anomalo»
di un’offerta presentata
nell’ambito di una procedura di gara per
l’aggiudicazione di un
contratto che conduce
117 all’esclusione della medesima.
I concetti giuridici
indeterminati possono essere
di due tipi: i
concetti I concetti empirici e
normativi
empirici o descrittivi
(empirische Begriffe),
che si
riferiscono al modo di essere di una
situazione di fatto (come, per esempio,
l’«intralcio
alla circolazione», la «pericolosità» di un edificio
lesionato, il
carattere «epidemico» di una malattia,
ecc.); i concetti normativi o di valore
(normative
Begriffe o Wertbegriffe), che
contengono un
elemento di soggettività (come, per esempio, un
film o uno spettacolo
«adatto» al pubblico dei
minori, oppure una persona «in stato di bisogno»,
una condotta
contraria alla «moralità pubblica»). I
primi involgono giudizi a carattere
tecnico-
scientifico e coprono, come si vedrà, l’area delle
valutazioni
tecniche; i secondi involgono giudizi
di valore e coprono, come si vedrà,
l’area della
discrezionalità amministrativa. Con riguardo ai
primi
l’indeterminatezza rende problematica la
sussunzione della fattispecie concreta nel
parametro normativo; con riguardo ai secondi è, a
monte, la stessa interpretazione del
parametro
normativo a presentare margini di opinabilità
elevati essendo legata
inevitabilmente ai valori e
alla sensibilità soggettiva dell’interprete.
In generale, si ritiene che i
concetti giuridici
indeterminati presentino un «nocciolo» di
certezza, che include i
casi che, secondo ragione e
l’apprezzamento comune, rientrano o meno nel
parametro
normativo, e un «alone» di incertezza,
con riferimento alle situazioni limite nelle
quali la
sussunzione del caso concreto nel parametro
normativo è incerta e opinabile.
Un esempio sul quale si appuntò
l’attenzione di
Walter Jellinek [1929], uno dei maggiori giuristi
giuspubblicisti
tedeschi dell’inizio del XX secolo,
ancora attuale per la sua nitidezza, è quello di un
regolamento di polizia del Baden che vietava agli
zingari di viaggiare «in orde», senza
che la norma
ponesse alcun parametro numerico certo.
L’applicazione di una siffatta
norma si scontra
dunque con la difficoltà di individuare in concreto
i casi che possono
essere in essa sussunti. Se è
certo che un nucleo familiare di tre o quattro
persone non
integra mai la fattispecie (certezza
negativa), è Certezza negativa e
positiva: il
doppio
altrettanto certo che limite
un gruppo di
cinquanta o più
persone la integra sempre (certezza
positiva).
L’opinabilità si accresce man mano che ci si
allontana dai casi più certi. Il
concetto giuridico
indeterminato presenta, quindi, un doppio limite
negativo e positivo.
a difficoltà sta infatti
nell’individuare con
L
precisione dove tali limiti vadano tracciati e,
dunque, quando si
trapassa dal giudizio certo (di
tipo assertorio) a quello problematico e opinabile
(nell’esempio, un gruppo di una quindicina di
persone).
Sorge così il problema di chi abbia
il «diritto di
ultima decisione» Il diritto di ultima
decisione
(Letztentscheidungsrech
t), e cioè fino a che
punto le
valutazioni compiute
dall’amministrazione in sede di interpretazione e
di applicazione
dei concetti giuridici indeterminati
possano essere sindacate dal giudice. Non è infatti
scontato, come si vedrà, quanto «deferente» deve
essere l’atteggiamento di quest’ultimo
rispetto alla
prima ove si rientri nell’alone di incertezza o del
«dubbio possibile».
La tecnica normativa dei concetti
giuridici
indeterminati, nei limiti in cui concedono
all’amministrazione spazi di
valutazione e di
118 decisione non sindacabili, comporta una caduta
del
valore della legalità sostanziale. Invero, in un
mondo ideale che realizzi al
massimo grado lo
Stato di
diritto, i poteri amministrativi
dovrebbero essere integralmente
vincolati.
Tuttavia un siffatto ideale è
irraggiungibile perché
presuppone l’onniscienza del legislatore e la sua
capacità di
intervenire in modo tempestivo ad
aggiornare le norme vigenti. In realtà, di fronte alla
complessità dei fenomeni economici e sociali e alla
rapidità dei cambiamenti, il
parlamento, come si è
accennato, è sempre meno in grado di porre un
sistema completo e
preciso di regole che
definiscano per ogni possibile evento futuro
l’assetto degli
interessi. È dunque in qualche
misura costretto a delegare ad apparati pubblici
spazi
più o meno ampi di valutazione di fatti e di
interessi e di composizione dei conflitti
tra questi
ultimi.
Anche in ambito Il metodo casistico e le
clausole
generali
civilistico, del resto, i
codici hanno
abbandonato da tempo il metodo
casistico,
caratterizzato dalla definizione minuziosa delle
fattispecie per adottare
quello delle clausole
generali. Come esempio estremo di metodo
casistico, si pensi, per
esempio, ai 61 articoli sul
regime delle pertinenze e ai 250 articoli in tema di
possesso contenuti nel codice prussiano del 1794.
Un siffatto metodo si è rivelato
comunque
incapace di disciplinare la varietà pressoché
infinita delle fattispecie che si
presentano nella
vita economica e sociale.
4. La
norma attributiva del potere prescrive anche
i requisiti formali degli atti (di regola
la forma
scritta) e le modalità di esercizio del potere,
indicando la sequenza degli
atti e degli
adempimenti necessari per l’emanazione del
provvedimento finale che danno
origine, come si è
già accennato, al procedimento amministrativo. La
struttura del
procedimento è individuata,
attraverso sequenze più o meno complesse e
articolate di
atti e di adempimenti, nelle singole
leggi amministrative di settore e nelle normative
attuative, integrate con i principi generali posti
dalla l. n. 241/1990.
Come si vedrà, ai sensi dell’art.
21-octies
l. n.
241/1990, la violazione delle norme sul
procedimento o
sulla forma degli atti non
determina in modo automatico l’annullabilità del
provvedimento.
5. La
norma di conferimento del potere può
disciplinare anche l’elemento temporale
dell’esercizio del potere e ciò sotto più profili.
Può in primo luogo individuare un
termine per
l’avvio dei procedimenti d’ufficio. Così, per
esempio, nei procedimenti
sanzionatori, una volta
accertata una violazione, l’amministrazione entro
90 giorni deve
notificare l’atto di contestazione e il
mancato rispetto del termine determina
l’estinzione dell’obbligazione di pagare la somma
dovuta (art. 14 legge 24 novembre 1981, n. 689).
In secondo luogo deve specificare
il termine
massimo entro il quale, una volta avviato il
procedimento, l’amministrazione
deve emanare il
provvedimento conclusivo. Come si vedrà, l’art. 2 l.
n. 241/1990 pone un sistema di regole completo
volto a stabilire per tutti i tipi di procedimenti il
termine in questione.
In terzo luogo, le leggi amministrative scandiscono
talora anche i
tempi per l’adozione degli atti
endoprocedimentali. Così, per esempio, la l. n.
241/1990 prevede che gli organi consultivi
119 dell’amministrazione debbano rendere i pareri
richiesti
entro un termine di 20 giorni (art. 16) e
che gli organi tecnici debbano esprimere le
valutazioni richieste entro 90 giorni (art. 17).
Anche i tempi della conferenza dei
servizi sono
scanditi con precisione (artt. 14 ss.). Gran parte dei
termini in questione
ha, come si vedrà, natura
ordinatoria: la loro violazione non inficia la
legittimità
degli atti adottati, ma può giustificare
misure, come, per esempio, un intervento
sostitutivo o una sanzione disciplinare. L’art. 17-bis
l. n. 241/1990 prevede un meccanismo di silenzio-
assenso nei
rapporti tra pubbliche amministrazioni
competenti a esprimere concerti, nulla osta o
altri
atti di assenso.
7. Di
rado invece la norma attributiva del potere
menziona tutti gli interessi privati
qualificabili
come interessi legittimi (Consiglio di Stato, Ad.
Plen. 9 dicembre 2021, n. 22),
rendendo così talora
incerta, come si vedrà, la distinzione con gli
interessi di fatto.
5. Il
potere discrezionale
amministrativa, essa
consiste, secondo una
delle ricostruzioni più
accreditate [Giannini 1939, 78], nel margine di
scelta che la
norma rimette all’amministrazione
affinché essa possa individuare, tra quelle
consentite, la soluzione migliore per curare nel
caso concreto l’interesse pubblico.
a scelta avviene all’esito di una
valutazione
L
comparativa (ponderazione) degli interessi
pubblici e privati rilevanti
nella fattispecie,
acquisiti nel corso dell’istruttoria
procedimentale.
Tra di essi vi è anzitutto il cosiddetto interesse
pubblico primario
(corrispondente al fine
pubblico) individuato dalla norma di conferimento
del potere e
affidato alla cura dell’amministrazione
titolare del potere. Compito di quest’ultima è
massimizzare la realizzazione dell’interesse
primario.
Tuttavia, poiché gli interessi non
vivono isolati,
l’interesse primario deve essere messo a confronto
e valutato alla luce
dei cosiddetti interessi
secondari rilevanti.
In alcuni casi essi sono
individuati direttamente
dalle norme che disciplinano il particolare tipo di
procedimento, come, per esempio, quando la legge
prescrive che debba essere acquisito il
parere di
un’amministrazione diversa da quella procedente.
Altri emergono nel corso
dell’istruttoria.
Tra gli interessi secondari si
annoverano non
soltanto gli altri interessi pubblici incisi dal
provvedimento, ma anche
gli interessi dei privati. I
soggetti privati possono partecipare al
procedimento
proprio allo scopo di rappresentare
il proprio punto di vista con la presentazione di
memorie e di documenti che l’amministrazione ha
l’obbligo di valutare (art. 10 l. n. 241/1990).
Così, per esempio, per elaborare e
approvare il
progetto di Esempi
un’autostrada o di
una tratta
ferroviaria, l’amministrazione deve
tener conto, oltre che dell’interesse primario alla
viabilità, anche di quello relativo alla tutela
dell’ambiente (attraverso la cosiddetta
valutazione
d’impatto ambientale), agli oneri a carico della
finanza pubblica, alla
salvaguardia di attività
industriali già insediate, agli interessi delle
comunità locali
che dalla realizzazione dell’opera
pubblica ritraggono soltanto svantaggi (da
attenuare
con misure compensative), ecc. Nel
rilasciare una concessione demaniale
per
l’installazione di uno stabilimento balneare o di un
porto nautico,
l’amministrazione dovrà tener
conto dell’interesse allo sviluppo del turismo, ma
123 anche
di quello connesso con altre attività come,
per esempio, la
pesca e altre attività ricreative. Nel
disporre la chiusura o limitazioni al traffico in
un
centro storico, il comune deve contemperare
l’interesse alla viabilità con quello dei
residenti, dei
titolari di attività commerciali ivi presenti, della
tutela
dall’inquinamento, ecc. Nell’autorizzare un
corteo o altra manifestazione il prefetto
deve tener
conto, oltre che del diritto di rango costituzionale
di chi promuove
l’iniziativa, di interessi come
l’ordine pubblico, la libertà di
circolazione di chi
non partecipa (i residenti o i lavoratori), la tutela
di beni
culturali contro il rischio di atti vandalici,
ecc.
I n definitiva, la scelta operata
dall’amministrazione deve contemperare
l’esigenza di massimizzare l’interesse pubblico
primario con quella di causare il minor sacrificio
possibile degli interessi secondari
incisi dal
provvedimento. L’amministrazione deve dar conto
della ponderazione degli
interessi nella
motivazione del provvedimento, e ciò al fine di
garantire la trasparenza
nel processo decisionale.
La discrezionalità La discrezionalità
sull’an, sul quid, sul
amministrativa incide quomodo, sul quando
su quattro elementi
logicamente
distinti:
1. sull’an, cioè sul se
esercitare il potere in una
determinata situazione concreta ed emanare il
provvedimento. Si pensi, per esempio, alla
decisione se ordinare lo scioglimento
di un
assembramento di persone che mette a
rischio l’ordine pubblico, oppure se
annullare
d’ufficio un provvedimento illegittimo ai sensi
dell’art.
21-nonies
l. n. 241/1990;
2. sul quid, cioè sul
contenuto del
provvedimento. Si pensi, per esempio, alle
condizioni apposte a
un’autorizzazione
ambientale volte a mitigare gli effetti negativi
delle emissioni, imponendo prescrizioni
specifiche; oppure alle indicazioni
relative ai
materiali e ai colori utilizzati per la
ristrutturazione di un bene
di interesse
storico-artistico; oppure, nel caso di
un’ordinanza contingibile e
urgente, alla
misura concreta più adatta per fronteggiare la
situazione;
3. sul quomodo, cioè
sulle modalità da seguire per
l’adozione del provvedimento al di là delle
sequenze di atti imposti dalla legge che
disciplina lo specifico provvedimento.
Si
pensi, per esempio, alla scelta di acquisire un
parere facoltativo, oppure di
procedere a una
determinata indagine istruttoria, pur sempre
nel rispetto del
principio del divieto di
aggravare il procedimento (art. 1, comma 2, l.
n. 241/1990);
4. sul quando, cioè sul
momento più opportuno
per esercitare un potere d’ufficio avviando il
procedimento e, una volta aperto
quest’ultimo, per emanare il provvedimento,
pur
tenendo conto dei termini massimi per la
conclusione del procedimento (stabiliti
in
base all’art. 2 l. n. 241/1990).
profili: è assurta a
criterio di riparto della
giurisdizione tra giudice
ordinario e giudice amministrativo, il primo
investito della
giurisdizione sui diritti soggettivi, il
secondo della giurisdizione sugli interessi
legittimi; è servita a delimitare l’ambito della
responsabilità civile della pubblica
amministrazione.
uesto secondo profilo è stato
superato dalla
Q
sentenza delle Sezioni Unite della Corte di
cassazione
del 22 luglio 1999, n. 500 che, come si
vedrà, ha aperto la strada alla risarcibilità
del
danno da lesione di interesse legittimo.
Il primo profilo mantiene invece la sua attualità.
La Corte
costituzionale, infatti, in una sentenza
che può essere considerata come la pronuncia
più
importante in materia di assetto della giustizia
amministrativa (sentenza 6 luglio 2004, n. 204) ha
ribadito che la giurisdizione
amministrativa ha per
oggetto gli interessi legittimi. Ad essa può essere
devoluta in
casi tassativi anche la cognizione di
diritti soggettivi (come si vedrà, la cosiddetta
giurisdizione
esclusiva), ma solo quando questi
ultimi sono in qualche modo connessi e
intrecciati
a un rapporto nel quale l’amministrazione si
presenta essenzialmente in
veste di autorità.
Per inquadrare l’interesse
legittimo conviene porsi
in una prospettiva storica.
In origine la legge 20 marzo 1865,
n. 2248 , All. E di
abolizione del La nascita della
nozione di
interesse
contenzioso legittimo
amministrativo,
richiamata nel
capitolo I, attribuì al giudice civile la giurisdizione
in
tutte le controversie tra il privato e la pubblica
amministrazione nelle quali si
facesse questione di
un «diritto civile o politico» (art. 2), ossia di un
diritto
soggettivo, ancorché la controversia fosse
correlata all’emanazione di un provvedimento.
Nella prassi interpretativa il
giudice civile, come si
è accennato, dimostrò timidezza nel sindacare gli
130 atti della
pubblica amministrazione e nel
qualificare la posizione del
privato in termini di
diritto soggettivo. Si creò così un vuoto di tutela di
fronte a
numerosi casi di illegittimità e abusi da
parte dell’amministrazione.
Da qui l’origine della legge del 1889 istitutiva della
IV Sezione del Il fondamento
legislativo nella
legge
Consiglio di Stato, del 1889 istitutiva della
che mirava a IV Sezione del
Consiglio
di Stato
integrare la legge del
1865
introducendo un nuovo rimedio per tutelare
tutte le situazioni non qualificabili come
diritto
soggettivo. La IV Sezione venne dunque investita
del potere di decidere
sui ricorsi contro gli atti o
provvedimenti illegittimi aventi per oggetto «un
interesse
d’individui o di enti morali giuridici»
(art. 26 Testo unico delle leggi del Consiglio di
Stato del
1924).
a giurisprudenza e la dottrina si
dovettero
L
confrontare subito con il problema di riempire di
contenuto la formula
generica di «interesse», posta
dal legislatore come requisito per poter proporre il
ricorso
alla IV Sezione e ottenere l’annullamento
del provvedimento. In buona sostanza, con una
singolare inversione logica, la previsione di una
nuova forma di tutela processuale
precedette
storicamente l’individuazione di una situazione
giuridica soggettiva in
relazione alla quale la tutela
poteva essere accordata.
Dell’interesse legittimo sono state
offerte nel
tempo varie ricostruzioni, ormai superate, che
meritano di essere ricordate
prima di esaminare
quelle più recenti.
▶ Il
diritto fatto valere come interesse.
Inizialmente vi fu chi ritenne che
la situazione
giuridica soggettiva devoluta alla cognizione della
IV Sezione fosse un
normale diritto «fatto valere
come interesse» [Scialoja 1891, 59 ss.]. Si propose
cioè
come criterio per incardinare la competenza
della IV Sezione quello del
petitum, ovvero della
richiesta formulata dal ricorrente di
annullamento
del provvedimento emanato piuttosto che la
richiesta del mero risarcimento
del danno,
riservata al giudice ordinario. Era così rimessa alla
libera scelta del
privato, in funzione del tipo di
tutela che intendeva ottenere, la via giurisdizionale
da perseguire, senza necessità di costruire una
nuova situazione giuridica soggettiva
distinta dal
diritto soggettivo.
Questa concezione fu subito
disattesa dalla
giurisprudenza, che invece ancorò il riparto di
giurisdizione al
criterio più oggettivo della causa
petendi, cioè della situazione
giuridica soggettiva
fatta valere in giudizio.
▶
L’interesse legittimo come interesse di
mero fatto.
Per lungo tempo un
filone dottrinale negò
all’interesse legittimo la consistenza di vera e
propria
situazione giuridica avente natura
sostanziale, ascrivendo ad essa soltanto un
significato processuale [Guicciardi 1937, 57].
L’interesse legittimo fu cioè considerato
come un
interesse di mero fatto, collegato alla norma
d’azione volta a tutelare in modo
esclusivo
l’interesse pubblico. L’interesse di mero fatto fa
però sorgere in capo al
privato un interesse
processuale ad attivare la tutela innanzi al giudice
amministrativo
(l’interesse a
ricorrere) nel
momento in cui l’amministrazione emana un atto
amministrativo
illegittimo.
▶ Il
diritto alla legittimità degli atti. Secondo
un’altra visione risalente,
l’interesse legittimo
131 doveva essere qualificato come un «diritto alla
legittimità degli atti della funzione governativa»
[Mortara
1899, 50, 301-307, 343], cioè un diritto
soggettivo avente per oggetto esclusivamente la
pretesa formale a che l’azione amministrativa sia
conforme alle norme che regolano il
potere
esercitato. In realtà, la legittimità dell’azione
amministrativa non sembra
costituire di per sé un
«bene della vita» suscettibile di essere oggetto di
una
situazione giuridica di diritto soggettivo.
▶ Il
diritto affievolito. Un’altra
interpretazione, che trova ancor oggi
riscontro
talora nella giurisprudenza, consiste nella
cosiddetta teoria della
«degradazione» o
dell’«affievolimento» del diritto soggettivo
[Ranelletti 1892]. Essa
considera l’interesse
legittimo come un «diritto affievolito», cioè come
la risultante
dell’atto di esercizio del potere
amministrativo che incide su un diritto soggettivo.
Il
provvedimento autoritativo (o imperativo),
ancorché illegittimo, è idoneo a intaccare
(appunto
a «degradare») il diritto soggettivo trasformandolo
in interesse legittimo.
Tipico esempio di diritto
affievolito è il diritto di proprietà inciso dal potere
espropriativo.
La categoria dei diritti soggettivi affievoliti fa
coppia con quella I diritti in attesa di
espansione
simmetrica dei
cosiddetti diritti
soggettivi «in attesa di espansione». Si tratta di
diritti, già
attribuiti in astratto alla titolarità di un
soggetto privato, il cui esercizio è però
condizionato all’esercizio di un potere
dell’amministrazione, nei confronti del quale il
titolare del diritto vanta un interesse legittimo.
Tipico esempio è quello
dell’autorizzazione ad
aprire un esercizio commerciale.
li effetti pratici di questo tipo
di impostazione
G
furono quelli di restringere l’area del diritto
soggettivo, ritenuto
sempre cedevole di fronte al
potere amministrativo, relegando così a un ruolo
marginale
il giudice ordinario. Quest’ultimo
divenne quasi esclusivamente il giudice dei meri
comportamenti della pubblica amministrazione
non collegati all’esercizio del potere
amministrativo (inadempimenti contrattuali,
illeciti extracontrattuali).
▶
L’interesse occasionalmente protetto.
Altre ricostruzioni tradizionali
dell’interesse
legittimo sottolineano il fatto che l’interesse
privato è posto in una
posizione subalterna e
ancillare rispetto all’interesse pubblico. Solo in
presenza di un
diritto soggettivo, infatti,
l’interesse del privato correlato a un bene della vita
è
oggetto di una tutela diretta e immediata da
parte dell’ordinamento (cioè, come si è
visto, da
parte di una norma di relazione).
Questa impostazione è sottesa a
un’altra fortunata
definizione dell’interesse legittimo come interesse
occasionalmente
(indirettamente) protetto da una
norma (la norma d’azione) volta a tutelare in
modo
diretto e immediato l’interesse pubblico
[Sandulli 1980, 107 ss.]. Le norme che
disciplinano
il potere hanno come scopo primario la tutela
dell’interesse pubblico e il
soggetto privato può
trovare in esse una qualche protezione solo in via
riflessa e
indiretta.
L’interesse legittimo si distingue
dunque dal
diritto soggettivo proprio per il fatto che
l’acquisizione o la conservazione
di un
132 determinato bene della vita non è assicurata in
modo
immediato dalla norma, che tutela appunto
in modo diretto solo l’interesse pubblico,
bensì
passa attraverso l’esercizio del potere
amministrativo, senza che peraltro
sussista alcuna
garanzia in ordine alla sua acquisizione o
conservazione. La presenza di
un ambito di
discrezionalità esclude infatti che il soggetto
titolare sia in grado di
prevedere ex ante l’assetto
finale degli interessi posto dal
provvedimento
emanato. Quest’ultimo potrebbe, del tutto
legittimamente, negare o
sacrificare l’utilità (bene
della vita) collegata all’interesse legittimo.
Così ,
per esempio, chi ha partecipato a un
concorso pubblico Il bene della vita come
svoltosi in modo mero
«substrato
economico»
regolare e tuttavia
non si è collocato
nella graduatoria tra i vincitori vede comunque
soddisfatto il suo
interesse legittimo. Il bene della
vita (o l’interesse materiale), cioè nell’esempio
l’assunzione nei ruoli dell’amministrazione, è
dunque esterno all’interesse legittimo e
rileva
tutt’al più, come si è osservato [Travi 2010, 165],
alla stregua di un mero
presupposto di fatto o
come «substrato economico».
’interesse legittimo fonda,
dunque, in capo al suo
L
titolare soltanto la pretesa a che l’amministrazione
eserciti il
potere in modo legittimo, cioè in
conformità con la norma d’azione. Il titolare
dell’interesse legittimo può cercare di influenzare
l’esercizio del potere in senso a sé
più favorevole
attraverso la partecipazione al procedimento,
fornendo elementi che
possono orientare in tal
senso la valutazione discrezionale.
La norma attributiva La tutela strumentale
dell’interesse legittimo
del potere offre in
definitiva al titolare
dell’interesse legittimo
una tutela strumentale,
mediata attraverso l’esercizio del potere, anziché
finale, come
accade invece per il diritto soggettivo,
nel quale la norma attribuisce al suo titolare
in
modo diretto un certo bene della vita o utilità.
ve il potere sia stato esercitato
in modo non
O
conforme alla norma attributiva del potere, il
titolare dell’interesse
legittimo può proporre
ricorso al giudice amministrativo al fine di
ottenere
l’annullamento del provvedimento lesivo.
▶ Le
ricostruzioni più recenti dell’interesse
legittimo.
Le definizioni
tradizionali dell’interesse legittimo
sono state variamente criticate dalla dottrina.
Quest’ultima ha messo in luce la loro
connotazione ideologica, collegata a una visione
autoritaria dei rapporti tra Stato e cittadino e
fondata sul «postulato di generale
sovraordinazione della pubblica amministrazione»
[Orsi Battaglini 2005, 163]. Lo Stato,
preposto alla
cura dell’interesse pubblico, si colloca in una
posizione di
sovraordinazione rispetto al cittadino
e ciò esclude, come si è accennato, che tra essi
possa intercorrere un rapporto giuridico in senso
tecnico.
Si è anche criticata la tesi
secondo la quale la
norma d’azione (elaborata, come si è visto, da
Guicciardi [1937])
tutela il privato tutt’al più in via
indiretta e occasionale e si è iniziato ad
attribuire
all’interesse legittimo una connotazione
sostanziale, sottolineando che
l’interesse protetto
è comunque un interesse materiale.
L’impostazione tradizionale è entrata in crisi in
seguito all’emergere La connotazione
sostanziale
di una nuova dell’interesse legittimo
sensibilità, più in
linea con i valori
133 espressi dalla Costituzione, dall’ordinamento
europeo e dalla
l. n. 241/1990. L’interprete deve
muovere, sia dalla
prospettiva dei poteri attribuiti
allo Stato e agli apparati pubblici, sia da quella dei
diritti di libertà del cittadino e dall’esigenza di
offrire una protezione più completa
delle
situazioni giuridiche soggettive. Si è sottolineato,
per esempio, che la
Costituzione attribuisce ai
diritti soggettivi e agli interessi legittimi una pari
dignità e che pertanto a entrambi l’ordinamento
deve assicurare una tutela piena ed
effettiva (art.
24).
’interesse legittimo ha acquisito
una valenza
L
sostanziale una volta che è stata aperta la strada
della sua risarcibilità
ad opera della sentenza delle
Sezioni Unite della Corte di cassazione n.
500/1999.
La Corte, come si vedrà meglio nel
capitolo VII, ha
posto
cioè una linea di confine della risarcibilità
tutta all’interno dell’interesse legittimo
in ragione
della rilevabilità, nella situazione concreta, di una
lesione a un bene della
vita già ascrivibile in
qualche modo alla sfera giuridica del soggetto
privato titolare
dell’interesse legittimo.
La connotazione sostanziale
dell’interesse
legittimo emerge anche dal modo nel quale la
giurisprudenza ha inquadrato
la tutela risarcitoria
dell’interesse legittimo devoluta ora alla
giurisdizione del
giudice amministrativo (art. 7
Codice del processo amministrativo).
La giurisprudenza L’azione di
risarcimento come
infatti si è subito tecnica di tutela
posta la questione se dell’interesse legittimo
il risarcimento del
danno
costituisca un diritto soggettivo distinto
dall’interesse legittimo, ancorché a questo
collegato, nel senso che la lesione di quest’ultimo
ad opera del provvedimento
illegittimo fa sorgere
in capo al suo titolare un diritto al risarcimento del
danno. La
Corte costituzionale, nella citata
sentenza n. 204/2004, ha inteso l’azione
risarcitoria non già come volta a
tutelare un diritto
soggettivo autonomo, bensì in funzione
«rimediale» (dall’espressione
remedy), cioè come
tecnica di tutela dell’interesse legittimo
che si
affianca e integra la tecnica di tutela più
tradizionale costituita
dall’annullamento. Se
l’interesse legittimo incorpora anche una pretesa
risarcitoria,
esso ha necessariamente per oggetto
un bene della vita suscettibile di essere leso da un
provvedimento illegittimo.
I l bene della vita, correlato
all’interesse legittimo,
trova tutela anche attraverso l’azione di
adempimento, introdotta, come si vedrà nel
capitolo XIV, dal Codice del processo
amministrativo. Il giudice può infatti condannare
l’amministrazione, ove
la pretesa risulti fondata, a
emanare il provvedimento richiesto dal privato
attribuendogli così il bene della vita al quale egli
aspira (per esempio,
un’autorizzazione che
consente di intraprendere un’attività economica).
In definitiva, nella Il collegamento tra
interesse
legittimo e
ricostruzione «bene della vita»
dell’interesse
legittimo il
baricentro si sposta dal
collegamento con
l’interesse pubblico a quello con l’utilità finale o
«bene della vita»
che il soggetto titolare
dell’interesse legittimo mira a conservare o ad
acquisire.
’interesse legittimo ha dunque una
connotazione
L
sostanziale.
Così, per esempio, la Corte di
cassazione ha
sottolineato che l’interesse legittimo «va perdendo
la sua tradizionale
funzione meramente famulativa
o ancillare rispetto all’interesse pubblico, per
134 assumere
un più marcato connotato sostanziale,
coerentemente del resto
con l’evoluzione della
stessa nozione di interesse pubblico» (C. cass.,
Sez.Un.,
ordinanze 13 giugno 2006, nn. 13659,
13660 e 15 giugno 2006, n. 13911). Sulla stessa
lunghezza d’onda il Consiglio di Stato ha definito
l’interesse legittimo come «la posizione
di
vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad
un bene della vita interessato
dall’esercizio del
potere pubblicistico, che si compendia
nell’attribuzione a tale
soggetto di poteri idonei ad
influire sul corretto esercizio del potere, in modo
da
rendere possibile la realizzazione o la difesa
dell’interesse al bene», e ha
sottolineato che
«l’interesse effettivo che l’ordinamento intende
proteggere è quindi
sempre l’interesse ad un bene
della vita» (Cons. St., Ad. Plen., 23 marzo 2011, n.
3).
All’esito dell’evoluzione ora tratteggiata – ed è
questa la Tutela dell’interesse
pubblico e
tutela del
ricostruzione che si bene della vita
ritiene preferibile – si
può dunque
affermare che la norma di conferimento del potere
abbia lo scopo di tutelare sia l’interesse pubblico
curato dalla pubblica
amministrazione, sia
l’interesse del privato che mira a conservare o ad
acquisire una
utilità finale o bene della vita.
L’interesse pubblico non assorbe quello privato, né
quest’ultimo il primo.
ell’ambito di un rapporto di
sovra-
N
sottordinazione i vincoli posti dalla norma
attributiva del potere hanno una
doppia funzione:
per un verso, fungono da guida e vincolo per
l’amministrazione nella
realizzazione dell’interesse
pubblico, ponendo per esempio regole
procedimentali che
consentano un miglior
coordinamento tra amministrazioni che curano gli
interessi
rilevanti (parere, intesa, ecc.); per altro
verso, hanno una funzione di garanzia della
situazione giuridica soggettiva del privato.
Nella dinamica del rapporto
giuridico
amministrativo, da un lato, l’amministrazione
titolare del potere cura in via
primaria l’interesse
pubblico (pur dovendo tener conto anche degli
altri interessi
pubblici e privati rilevanti nella
fattispecie); dall’altro, il titolare dell’interesse
legittimo mira esclusivamente al proprio interesse
individuale, con libertà di scegliere
le forme di
tutela da attivare nel processo e prima ancora
nell’ambito del procedimento
amministrativo.
In conclusione, volendo proporre
una definizione
sintetica, l’interesse La definizione
dell’interesse
legittimo
legittimo è una
situazione giuridica
soggettiva, correlata al potere della pubblica
amministrazione e
tutelata in modo diretto dalla
norma di conferimento del potere, che attribuisce
al suo
titolare una serie di poteri e facoltà volti a
influire sull’esercizio del potere
medesimo allo
scopo di conservare o acquisire un bene della vita.
I poteri e le facoltà in questione
si esplicano
principalmente, come si è accennato e come si
vedrà nel capitolo V, all’interno del procedimento
attraverso l’istituto della partecipazione (artt. 7 ss.
l. n. 241/1990). Quest’ultima consente al privato
di
rappresentare il proprio punto di vista
presentando memorie e documenti e, prima
ancora, mediante l’accesso agli atti del
procedimento. Il privato può persino sottoporre
all’amministrazione proposte che possono
sfociare, ove accolte, in un accordo avente per
oggetto il contenuto discrezionale del
135 provvedimento (art. 11 l. n. 241/1990).
Siffatti poteri e facoltà tendono a
riequilibrare in
parte la posizione di La dimensione attiva
dell’interesse legittimo
soggezione nei
confronti del titolare
del potere. L’interesse legittimo – che pur
costituisce il
termine passivo del rapporto
giuridico che intercorre con l’amministrazione, se
ci si
pone dall’angolo di visuale della produzione
degli effetti giuridici – acquista così una
dimensione attiva.
d essa corrispondono in capo
all’amministrazione
A
una serie di doveri comportamentali nella fase
procedimentale e
nella fase decisionale (buona
fede, imparzialità, esatta rappresentazione dei
fatti,
acquisizione completa degli interessi
rilevanti, ecc.) che sono finalizzati anche alla
tutela
dell’interesse del soggetto privato.
In ogni caso il titolare
dell’interesse legittimo fa
valere nei confronti dell’amministrazione una
pretesa a che
il potere sia esercitato in modo
legittimo e, per quanto possibile, in senso
conforme
all’interesse sostanziale del privato alla
conservazione o all’acquisizione di un bene
della
vita. La «prestazione» che viene così richiesta
all’amministrazione ha natura
infungibile, in
quanto il titolare dell’interesse legittimo può
conservare o acquisire
una certa utilità
esclusivamente tramite l’esercizio o il mancato
esercizio del potere
da parte dell’unica autorità
competente in base alla norma attributiva del
potere.
Sulla base di queste La dissoluzione
dell’interesse
legittimo
considerazioni, è nel diritto soggettivo
emersa nella dottrina
una visione che
dissolve
l’interesse legittimo nella figura più
generale del diritto soggettivo [Ferrara 2003,
105
ss.]. Infatti, a ben riflettere, il diritto soggettivo,
lungi da essere una
categoria unitaria, include
anche figure di diritti diverse da quelle più tipiche
correlate in modo diretto e immediato a un bene
della vita (diritto di proprietà,
diritto di credito
avente per oggetto una somma di danaro). Si pensi,
per esempio, al
diritto a un comportamento
secondo buona fede nell’ambito delle trattative
finalizzate
alla stipula di un contratto; oppure al
diritto di credito cui corrisponda
un’obbligazione
di mezzi, come nel caso delle prestazioni mediche
(prestazione-comportamento), anziché
un’obbligazione di risultato
(prestazione-
risultato). Il titolare di questo genere di diritti fa
valere nei confronti
dell’obbligato una pretesa a un
comportamento conforme a certi standard, che si
sostanziano anche in quelli che la dottrina
civilistica definisce «doveri di
protezione», senza
che vi sia alcuna garanzia di un risultato
predeterminato (per
esempio, nel caso di
prestazioni mediche, la guarigione).
uesta categoria di diritti è
strutturalmente
Q
analoga all’interesse legittimo, il quale, dunque,
potrebbe essere
ricondotto a una figura particolare
di diritto (di credito) avente per oggetto una
prestazione-comportamento da parte
dell’amministrazione a favore del soggetto privato.
In definitiva, l’interesse
legittimo presenta sia una
dimensione passiva (soggezione rispetto al potere
esercitato), sia una dimensione attiva (pretesa a un
esercizio corretto del potere alla
quale
corrispondono una serie di poteri e facoltà nei
confronti dell’amministrazione da
far valere nel
procedimento o anche in sede giurisdizionale). A
questa duplice
dimensione corrisponde un’analoga
duplice dimensione del potere: attiva, se riferita
alla produzione unilaterale dell’effetto giuridico;
passiva, se correlata ai doveri di
comportamento
136 che gravano sull’amministrazione.
7. Gli
interessi legittimi
oppositivi e pretensivi
Sotto il profilo funzionale gli
interessi legittimi
possono essere suddivisi in due categorie: interessi
legittimi
oppositivi e pretensivi.
I primi sono correlati a poteri
amministrativi il cui
esercizio determina la produzione di un effetto
giuridico che
incide negativamente e che restringe
la sfera giuridica del destinatario, sacrificando
l’interesse di quest’ultimo. Si pensi, per esempio,
al potere di
espropriazione, di irrogare una
sanzione amministrativa, di imporre un vincolo di
inedificabilità.
I secondi, al contrario, sono
correlati a poteri
amministrativi il cui esercizio determina la
produzione di un effetto
giuridico che incide
positivamente e che amplia la sfera giuridica del
destinatario,
dando soddisfazione all’interesse di
quest’ultimo. Si pensi, per esempio, al potere di
rilasciare una concessione per l’uso di un bene
demaniale o un’autorizzazione per
l’avvio di
un’attività economica, oppure all’iscrizione a un
albo professionale. Come ha
chiarito la
giurisprudenza recente, gli interessi legittimi
pretensivi consistono in una
«pretesa a che
l’amministrazione provveda legittimamente in
vista di un provvedimento
positivo» (C. cass., Sez.
Un., 4 settembre 2015, n. 17586).
Per riprendere una distinzione
classica [Forsthoff
1938], gli interessi legittimi oppositivi si
riferiscono, di regola,
alla cosiddetta
Eingriffsverwaltung, cioè all’amministrazione che
sottrae o sacrifica altrimenti i beni o altre utilità
private. Gli interessi legittimi
pretensivi si
riferiscono, invece, alla cosiddetta
Leistungsverwaltung, cioè all’amministrazione per
prestazioni
che attribuisce beni o altre utilità ai
soggetti privati e che è emersa soprattutto in
seguito all’affermarsi nel corso del XX secolo dello
Stato interventista.
Negli interessi legittimi
oppositivi il rapporto
giuridico La diversa dinamica
del rapporto
giuridico
amministrativo che amministrativo
si sviluppa nel
procedimento ha una
dinamica di contrapposizione, nel senso che il suo
titolare cercherà di intraprendere tutte le iniziative
volte a contrastare l’esercizio
del potere che
sacrifica un bene della vita. Il suo interesse a
evitare che si determini
una compressione della
propria sfera giuridica è soddisfatto nel caso in cui
l’amministrazione, all’esito del procedimento, si
astenga dall’emanare il provvedimento
che
produce l’effetto negativo (pretesa a un non facere
da parte
dell’amministrazione). Non rileva,
peraltro, dal punto di vista del soggetto privato
(ma
non dell’interesse pubblico), se l’omessa
emanazione del provvedimento sia legittima o
illegittima. Al titolare dell’interesse legittimo
oppositivo infatti interessa
soltanto non veder
sacrificata o compressa la propria sfera giuridica,
cioè conservare
il proprio bene della vita.
egli interessi legittimi
pretensivi il rapporto
N
giuridico amministrativo ha una dinamica più
collaborativa, nel
senso che il titolare
dell’interesse legittimo pretensivo cercherà di
porre in
essere tutte le attività volte a stimolare
l’esercizio del potere e a orientare la
scelta
dell’amministrazione in modo tale da poter
conseguire il bene della vita. Il suo
interesse a far
sì che si determini un ampliamento della propria
sfera giuridica è
soddisfatto nel caso in cui
l’amministrazione, all’esito del procedimento,
emani il
provvedimento che produce l’effetto
137 positivo (pretesa a un facere
specifico da parte
dell’amministrazione). Anche
qui non rileva, dal
punto di vista del privato (ma non dell’interesse
pubblico), se
l’emanazione del provvedimento sia
legittima o illegittima. Al titolare dell’interesse
legittimo
pretensivo infatti interessa soltanto
poter veder ampliata la propria sfera giuridica,
cioè
acquisire un bene della vita.
I due tipi di dinamica si
riflettono sia sulla
struttura del procedimento, sia su quella del
processo
amministrativo.
Nel caso degli interessi legittimi oppositivi il
procedimento si apre
usualmente d’ufficio e la
comunicazione di avvio del procedimento
instaura il rapporto giuridico
amministrativo. Nel
caso degli interessi legittimi pretensivi il
procedimento si apre in
seguito alla presentazione
di un’istanza o domanda di parte che fa sorgere
l’obbligo di procedere
e di provvedere in capo
all’amministrazione titolare del potere (art. 2 l. n.
241/1990) e che instaura il rapporto giuridico
amministrativo.
Anche il processo I bisogni di tutela e gli
strumenti processuali
amministrativo e la per soddisfarli
tipologia di azioni in
esso esperibili
presentano
caratteri propri in funzione del diverso
bisogno di tutela.
el caso degli interessi legittimi
oppositivi il
N
bisogno di tutela è legato all’interesse alla
conservazione del bene della
vita. L’annullamento
dell’atto impugnato con efficacia ex tunc
soddisfa in
modo specifico tale bisogno (fatti salvi gli obblighi
restitutori
e gli eventuali profili risarcitori). Infatti
il ricorrente viene reintegrato nella
situazione in
cui esso si trovava prima dell’emanazione del
provvedimento. Se dalla
sentenza di annullamento
deriva poi un effetto preclusivo pieno, tale cioè da
impedire
l’emanazione, rebus sic stantibus, di un
nuovo provvedimento
sostitutivo di quello
annullato produttivo dei medesimi effetti,
l’interesse legittimo
oppositivo esce dalla vicenda
procedimentale e processuale addirittura
rafforzato.
Nel caso degli interessi legittimi
pretensivi il
bisogno di tutela è L’azione di
adempimento
legato invece
all’interesse
all’acquisizione del bene
della vita. Rispetto a tale
bisogno l’annullamento del provvedimento di
diniego o, nel
caso di silenzio-inadempimento,
l’accertamento dell’inadempimento dell’obbligo di
concludere il procedimento nel termine stabilito ex
art. 2 l. n. 241/1990 con un provvedimento espresso
si
rivelano insufficienti. Infatti non determinano in
via immediata l’acquisizione del bene
della vita in
capo al titolare dell’interesse legittimo che
richiede invece l’adozione
da parte
dell’amministrazione del provvedimento. Solo una
sentenza che accerti la
spettanza del bene della
vita e che condanni l’amministrazione a emanare il
provvedimento richiesto risulta pienamente
satisfattiva. L’azione che mira a un siffatto
risultato è la cosiddetta azione di adempimento
ammessa da decenni dall’ordinamento processuale
tedesco (Verpflichtungsklage) e ora prevista, come si
vedrà nel
capitolo XIV, dal
Codice del processo
amministrativo.
nche la tutela risarcitoria, che
può essere attivata
A
per soddisfare i La tutela risarcitoria
bisogni di tutela non
coperti dalla tutela specifica (di annullamento del
provvedimento illegittimo e di
adempimento), si
atteggia diversamente con riferimento agli
interessi legittimi
oppositivi e agli interessi
138 legittimi pretensivi.
on riferimento agli interessi
legittimi oppositivi
C
essa ha per oggetto i danni derivanti dalla
privazione o
limitazione nel godimento del bene
della vita nel caso in cui il provvedimento
illegittimo abbia trovato esecuzione. La sentenza
di annullamento con efficacia
retroattiva, infatti,
pur eliminando l’atto e i suoi effetti, non pone
rimedio per il
passato a questo particolare profilo
di danno. Per esempio, se dopo l’emanazione di un
decreto di esproprio si è avuta l’esecuzione con
l’apprensione materiale del terreno,
una volta
annullato il provvedimento, il proprietario deve
essere risarcito del danno
conseguente al mancato
godimento del bene nel periodo intercorrente tra
l’esecuzione del
provvedimento espropriativo e la
restituzione del bene medesimo.
Con riferimento agli interessi
legittimi pretensivi
la tutela risarcitoria ha per oggetto i danni
conseguenti alla
mancata o ritardata acquisizione
del bene della vita nel caso in cui sia stato emanato
un provvedimento di diniego o l’amministrazione
sia rimasta inerte (per esempio, il
mancato o
ritardato avvio di un’attività commerciale
sottoposta a un regime di
autorizzazione). La
sentenza che accoglie l’azione di adempimento,
condannando
l’amministrazione a emanare il
provvedimento richiesto, non riesce infatti a porre
rimedio per il passato a questo particolare profilo
di danno. Per esempio, se a causa di
un diniego
illegittimo di un’autorizzazione un’impresa non ha
intrapreso un’attività
economica deve essere
risarcito il mancato guadagno nel periodo
intercorrente tra il
diniego illegittimo e il rilascio
del provvedimento favorevole (Cons. St., Sez. VI, 6
marzo 2018, n. 1457).
Un cenno va dedicato ai cosiddetti
provvedimenti
«a doppio effetto» I provvedimenti a
doppio
effetto
(Doppelwirkung), che
producono cioè ad un
tempo un effetto
ampliativo e un effetto restrittivo
nella sfera giuridica di due soggetti distinti e che
danno origine a un rapporto giuridico trilaterale. Si
pensi per esempio al rilascio di
un permesso a
costruire un edificio che impedirebbe una vista
panoramica al proprietario
del terreno confinante,
oppure al rilascio di un’autorizzazione ad avviare
un’attività
commerciale in concorrenza con un
esercizio posto nelle immediate vicinanze che
subirebbe una contrazione del proprio giro d’affari.
In questi casi, la dinamica dei rapporti tra
l’amministrazione e i La dinamica
procedimentale e
soggetti privati processuale
coinvolti diventa più
articolata, sia
nell’ambito del procedimento, sia nell’ambito del
processo, proprio perché si instaura anche una
dialettica che vede contrapposti due
interessi
privati.
ella fase procedimentale le parti
private
N
tenderanno infatti a sottoporre
all’amministrazione gli elementi istruttori e
valutativi che inducano quest’ultima a provvedere
in senso conforme al proprio interesse
e contrario
all’interesse dell’altra parte privata.
Nella fase processuale successiva
all’emanazione
del provvedimento che determina contestualmente
un effetto ampliativo nei
confronti di un soggetto e
uno restrittivo nei confronti di un altro, invece,
accanto
alla parte
ricorrente che impugna il
provvedimento chiedendone l’annullamento e
all’amministrazione resistente, interviene come
parte processuale necessaria il
controinteressato.
Quest’ultimo, come si vedrà meglio nel capitolo
XIV, è appunto la parte
che ha tratto un’utilità
139 dall’emanazione del provvedimento e
che affianca
l’amministrazione nella difesa della legittimità del
provvedimento emanato.
8. I
criteri di distinzione tra
diritti soggettivi e interessi
legittimi
La distinzione tra diritti
soggettivi e interessi
legittimi, come si è già osservato, ha affaticato da
sempre gli
interpreti.
La dottrina e la giurisprudenza,
specie quella delle
Sezioni Unite della Corte di cassazione, investita
di questioni attinenti
al riparto di giurisdizione tra
giudice ordinario e giudice amministrativo, hanno
individuato alcuni criteri interpretativi.
1. Un
primo criterio si incentra sulla struttura
della norma attributiva del potere. Ricorre
ancora
nella giurisprudenza la distinzione tradizionale, già
esaminata in senso critico,
tra norma di relazione e
norma d’azione: la prima volta a regolare il
rapporto giuridico
tra pubblica amministrazione e
cittadino delimitando le rispettive sfere giuridiche
e
alla quale è correlato il diritto soggettivo; la
seconda, volta a disciplinare l’attività
dell’amministrazione ai fini di tutela dell’interesse
pubblico e alla quale è correlato
l’interesse
legittimo.
Nella prima la produzione
dell’effetto giuridico
avviene, come si è visto, in modo automatico sulla
base dello
schema norma-fatto-effetto.
L’eventuale atto dell’amministrazione che accerta
il prodursi dell’effetto giuridico e dei diritti e degli
obblighi posti in capo alle
parti ha un carattere
meramente ricognitivo.
Si pensi, per esempio, nell’ambito
dei rapporti di
impiego alle Gli atti paritetici
dipendenze della
pubblica
amministrazione esclusi dal regime della
privatizzazione, alla categoria dei cosiddetti
«atti
paritetici» costruita dalla giurisprudenza già negli
anni Trenta del secolo
scorso. Si tratta, come si
vedrà, di atti attraverso i quali l’amministrazione
riconosce
(o disconosce) al dipendente
un’indennità di carica o un altro beneficio
attribuito
direttamente da una norma di rango
legislativo. Gli atti in questione pertanto hanno
un’efficacia meramente ricognitiva, anziché
costitutiva, dei diritti e degli obblighi
del
dipendente pubblico. Si pensi ancora agli atti che
accertano il carattere demaniale
di un bene in base
ai criteri posti dal codice civile (art. 822 cod. civ.).
I l comportamento assunto in
violazione della
norma di relazione L’illiceità del
comportamento
va qualificato come
illecito e lesivo del
diritto soggettivo. L’accertamento della illiceità (e
l’eventuale condanna) spetta, di regola, al giudice
ordinario.
Nella norma di azione la produzione
dell’effetto
giuridico avviene secondo lo schema norma-fatto-
potere-effetto. Il provvedimento emanato
dall’amministrazione ha un carattere costitutivo
dell’effetto giuridico nella sfera
giuridica del
destinatario. Il provvedimento assunto in
violazione della norma di azione
va qualificato,
come si vedrà trattando dei vizi dell’atto
amministrativo,
come illegittimo e lesivo di un
interesse legittimo. L’annullamento del
provvedimento
illegittimo spetta di regola al
140 giudice amministrativo.
Come già osservato, la distinzione
tra norma di
relazione e norma di azione non regge una volta
che anche a quest’ultima si
attribuisce una valenza
relazionale, cioè di disciplina del rapporto
giuridico
amministrativo.
2. Un
secondo criterio consiste nella distinzione
tra potere discrezionale e vincolato. In
presenza di
un potere discrezionale la situazione giuridica di
cui è titolare il
soggetto privato è sempre ed
esclusivamente l’interesse legittimo. Ciò perché la
conservazione o l’acquisizione del bene della vita
in capo al soggetto privato, lungi da
essere
garantita in modo diretto dalla norma, è rimessa
alla valutazione
dell’amministrazione titolare del
potere. Di fronte al potere discrezionale il soggetto
privato non è in grado di prevedere con certezza se
la sua pretesa
verrà soddisfatta
dall’amministrazione all’esito del procedimento.
Manca, dunque, la
possibilità di ascrivere in modo
immediato e diretto il vantaggio o bene della vita
alla
sfera giuridica del soggetto privato, ciò che
caratterizza invece la struttura del
diritto
soggettivo.
Diversa è la situazione, invece,
nel caso in cui il
potere sia vincolato. Infatti, il soggetto privato,
valutando
autonomamente la situazione concreta
in cui egli si trova, è in grado di prevedere con
certezza se l’amministrazione, ove agisca in modo
conforme alle norme applicabili,
riconoscerà o
meno il vantaggio o il bene della vita. Il cosiddetto
«giudizio di
spettanza» ha cioè un carattere
univoco, ove la situazione di fatto e di diritto
venga
ricostruita in modo corretto
dall’amministrazione. La situazione in cui versa il
privato
è in questo senso assimilabile a quella in
cui si trova il titolare di un diritto
soggettivo.
In realtà, mentre una La correlazione
biunivoca tra
potere
parte della dottrina vincolato e diritto
già citata [Orsi soggettivo
3. Un
terzo criterio tradizionale introdotto dalla
Corte di cassazione (C. cass. 4 luglio
1949, n. 1657)
si fonda sulla diversa natura del vizio dedotto dal
soggetto privato nei
confronti dell’atto emanato.
Ove venga La carenza di potere in
astratto
contestata la
cosiddetta carenza di
potere, cioè l’assenza di un fondamento
legislativo
del potere (cosiddetta carenza di potere in
astratto) o una deviazione abnorme
dallo schema
normativo (cosiddetto straripamento di potere),
l’atto emanato è in realtà
una parvenza di
provvedimento, inidoneo a produrre l’effetto
tipico nella sfera
giuridica del destinatario
(provvedimento nullo o addirittura inesistente).
La
situazione giuridica soggettiva di cui
quest’ultimo è titolare, e in particolare il
diritto
soggettivo, resiste, per così dire, di fronte al potere
e non subisce alcun
«affievolimento» (o
«degradazione») tramutandosi in un interesse
legittimo.
a giurisprudenza
L I diritti soggettivi non
degradabili
della Corte di
cassazione ha
peraltro individuato alcuni
diritti soggettivi, che
ricevono una tutela rafforzata nella Costituzione
(in
particolare il diritto alla salute o all’integrità
dell’ambiente), che di regola non
possono essere
incisi dal potere amministrativo (i cosiddetti
diritti non comprimibili o non
degradabili) e la
cui tutela è rimessa di conseguenza in via esclusiva
al giudice ordinario.
Ove invece il soggetto privato
lamenti il cattivo
esercizio del potere, senza però contestarne in
radice l’esistenza,
deducendo un vizio di
legittimità del provvedimento (incompetenza,
eccesso di
potere, violazione di legge), la
situazione giuridica fatta valere nei
confronti
dell’amministrazione ha la consistenza di un
interesse legittimo.
La giurisprudenza ha La carenza di potere in
concreto
individuato anche la
cosiddetta carenza di
potere in
concreto. Essa si verifica nei casi in cui
la norma in astratto
attribuisce il potere
all’amministrazione, ma manca nella fattispecie
concreta un
presupposto essenziale per poterlo
esercitare (per esempio nel caso in cui
l’espropriazione non sia stata preceduta dalla
dichiarazione di pubblica utilità, oppure
un atto
amministrativo sia stato emanato quando è già
scaduto un termine perentorio
previsto a pena di
decadenza). La carenza di potere in concreto è
stata oggetto di
contrasti tra il giudice ordinario e
il giudice amministrativo anche in ragione delle
conseguenze che ne derivano in termini di
ampliamento o restrizione dei rispettivi
ambiti di
giurisdizione.
In epoca più recente è in corso un ripensamento
alla luce dell’art.
21-septies
l. n. 241/1990 che, come
si vedrà, ha disciplinato in termini
generali la
categoria della nullità. Esso elenca le ipotesi
tassative di nullità,
tra le quali figura anche il
difetto assoluto di attribuzione che coincide con la
carenza di potere in astratto. Di conseguenza, per
implicazione negativa, la carenza di
potere in
concreto sarebbe inquadrabile nella categoria
generale della violazione di
legge e determinerebbe
ormai, com’è già affermato da un indirizzo
giurisprudenziale e
dottrinale, soltanto
l’annullabilità del provvedimento emanato.
La nullità di un provvedimento
sembra atteggiarsi
in modo diverso a seconda che il potere miri a
restringere o ad
ampliare la sfera giuridica del
destinatario. Nel primo caso, la nullità priva il
provvedimento della sua forza imperativa e
pertanto della sua idoneità a incidere sulle
situazioni di diritto soggettivo di cui è titolare il
privato, le quali, dunque, non
subiscono alcun
affievolimento. Nel secondo caso, il
142 provvedimento di
diniego, affetto vuoi da un vizio
che comporti la nullità, vuoi
da un vizio che
comporti l’annullabilità, lascia comunque
insoddisfatta la pretesa del
soggetto privato e non
sembra influire sulla configurazione della
situazione giuridica
soggettiva di base di cui
quest’ultimo è titolare.
In molte fattispecie la distinzione tra le due
situazioni giuridiche
soggettive sulla base dei
criteri ora esaminati ha creato incertezze
interpretative,
tanto da indurre il legislatore, come
si vedrà meglio nel capitolo XIV, a risolverle
almeno in parte
devolvendo un numero elevato di
materie alla giurisdizione
esclusiva del giudice
amministrativo (art. 133 Codice del processo
amministrativo) nell’ambito
della quale il giudice
può conoscere delle situazioni giuridiche sia di
interesse
legittimo, sia di diritto soggettivo (art. 7,
comma 5).
9. Il
«diritto» di accesso ai
documenti amministrativi
Un caso paradigmatico di incertezza
nella
qualificazione della situazione giuridica soggettiva
è il diritto di accesso ai documenti
amministrativi
che costituisce uno degli strumenti principali volti
ad
accrescere la trasparenza dell’attività
amministrativa e promuovere l’imparzialità.
L’accesso ai documenti amministrativi consiste nel
«diritto degli
interessati di prendere visione e di
estrarre copia di documenti amministrativi» (art.
22, comma 1, lett. a), l. n. 241/1990). Esso è incluso
dalla l. n. 241/1990 (art. 29, comma 2-bis)
tra i livelli
essenziali delle prestazioni ai quali fa riferimento
l’art. 117, comma 2, lett. m), Cost. e rientra dunque
nella
competenza legislativa esclusiva dello Stato.
È inoltre definito come «principio
generale
dell’attività amministrativa al fine di favorire la
partecipazione e di
assicurare l’imparzialità e la
trasparenza» (art. 22, comma 2).
Si distingue anzitutto tra accesso
procedimentale e
non procedimentale.
Quanto al primo, il diritto di accesso rientra , come
si vedrà, tra quelli L’accesso
procedimentale e non
attribuiti ai soggetti procedimentale
che
partecipano a un
determinato
procedimento amministrativo in modo da
consentire ad essi
di tutelare meglio le loro ragioni
avendo cognizione di tutti gli atti e documenti
acquisiti al fascicolo (art. 10 l. n. 241/1990). Si
instaura così un legame
funzionale tra principio
di
trasparenza (accesso ai documenti) e diritto di
partecipazione, che
ne esce così rafforzato
(partecipazione informata).
Quanto al secondo, il diritto di
accesso può essere
esercitato in via autonoma da chi ha interesse a
esaminare documenti
detenuti stabilmente da una
pubblica amministrazione (accesso non
procedimentale). Ad
esso la l. n. 241/1990 dedica
l’intero Capo V (artt. 22 ss.).
In entrambe le fattispecie la l. n. 241/1990 sembra
costruire il diritto di accesso
secondo lo schema
del diritto soggettivo. In particolare con riguardo
all’accesso non
procedimentale, esso sorge quando
il soggetto che richiede l’accesso dimostri «un
interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è chiesto
143 l’accesso» (art. 22, lett. b)).
L’accesso non è dunque attribuito a
chiunque. Non
basta, come ha precisato la giurisprudenza, la
semplice curiosità. È
necessario invece che la
richiesta di accesso abbia alla base un interesse in
qualche
modo differenziato e la titolarità di una
posizione giuridicamente rilevante (non
necessariamente un diritto soggettivo o un
interesse legittimo in senso proprio, ma anche
una
situazione giuridica soggettiva ancora allo
stato potenziale).
Sotto il profilo I casi di esclusione del
diritto
di accesso
oggettivo, l’accesso
non
procedimentale è
escluso in una serie tassativa di casi e cioè in
relazione ai documenti
coperti dal segreto di Stato,
a quelli relativi a procedimenti tributari o a
procedimenti per l’adozione di atti amministrativi
generali, ai documenti contenenti
informazioni di
carattere psicoattitudinale di terzi (art. 24, comma
1, l. n. 241/1990). Altri casi di esclusione
possono
essere individuati tramite regolamento di
delegificazione là dove sussista il
rischio di una
lesione di interessi pubblici quali, per esempio, la
sicurezza e difesa
nazionale, la politica monetaria e
valutaria, la riservatezza di persone fisiche,
gruppi,
imprese e associazioni, ecc. (l’elenco completo è
previsto dall’art. 24, comma 6, l. n. 241/1990).
llorché siano presenti esigenze di tutela della
A
riservatezza Accesso e riservatezza
l’amministrazione
deve dunque compiere una
duplice operazione.
Deve anzitutto comparare l’interesse all’accesso e
il contrapposto
interesse alla riservatezza di terzi
(per esempio, l’interesse di un dipendente
pubblico
che vuol contestare la promozione di un
altro dipendente e che a questo fine ritiene
necessario acquisire copia del libretto di servizio di
quest’ultimo che però potrebbe
contenere dati
riservati). Deve inoltre valutare se l’accesso ha il
carattere della
«necessarietà» (da distinguersi
dalla semplice utilità), poiché la l. n. 241/1990
prescrive che deve essere comunque garantito
ai
richiedenti l’accesso ai documenti «la cui
conoscenza sia necessaria per curare e
difendere i
propri interessi giuridici» (cosiddetto accesso
difensivo di cui all’art. 24, comma 7 i cui limiti
sono stati chiariti dalla
sentenza del Consiglio di
Stato, Ad. Plen., 18 marzo 2021, n. 4). Il criterio
della necessarietà è
reso più stringente nel caso in
cui i documenti contengano dati definiti come
sensibili
dal Codice dei dati personali (soprattutto,
quelli relativi alla
salute e alla sfera sessuale) e per
quelli giudiziari perché l’accesso è consentito solo
«nei limiti in cui sia strettamente indispensabile»
(art. 24, comma 7).
’accoglimento dell’istanza di
accesso sembra
L
dunque subordinata, almeno nel caso in cui siano
presenti esigenze di
riservatezza, a valutazioni
dell’amministrazione che sembrano avere natura
in qualche
misura discrezionale.
Il bilanciamento tra esigenza di
pubblicità e tutela
della riservatezza riguarda anche le informazioni
che le pubbliche
amministrazioni sono tenute a
pubblicare sui siti istituzionali ai sensi del d.lgs. n.
33/2013 nei casi in cui si tratti di dati
cosiddetti
sensibili. A questo fine il Garante della protezione
dei dati personali ha
pubblicato alcune linee guida
(provvedimento 15 maggio 2014, n. 243).
Sotto il profilo processuale, il diritto di accesso ai
documenti
amministrativi, come si vedrà meglio
nel capitolo XIV, è incluso tra le materie devolute
alla
giurisdizione
esclusiva del giudice
144 amministrativo (art. 133, comma 1, lett. a), n. 6,
Codice del processo
amministrativo) e ciò
costituisce un sintomo che in questa materia
possono
porsi questioni di diritto soggettivo.
In presenza di questi dati
normativi contrastanti,
si comprende come mai la giurisprudenza sia stata
incerta nel
ricostruire la natura giuridica del diritto
di accesso. In dottrina è stata avanzata
persino
l’ipotesi che si tratti di una situazione giuridica
nuova (o di una nuova forma
di legittimazione
procedimentale e processuale legislativamente
prevista) non
inquadrabile in nessuno dei due
schemi tradizionali.
Più di recente sembra prevalere
l’interpretazione
che non si tratti di un L’accesso come
interesse
legittimo
diritto
soggettivo in
senso proprio, ma
che l’accesso vada inquadrato, al di là del
nomen
utilizzato dalla legge, nella categoria dell’interesse
legittimo. Da ciò è stata tratta la conseguenza che
il diniego di accesso costituisce un
provvedimento
in senso proprio impugnabile nel termine di
decadenza di 30 giorni,
piuttosto che nel termine
più lungo di prescrizione applicabile in via
ordinaria ai
diritti soggettivi (Cons. St., Ad. Plen.,
18 aprile 2006, n. 6 e 20 aprile 2006, n. 7).
ccanto a questa forma di accesso
introdotta dalla
A
l. n. 241/1990, sono state aggiunte via via altre
fattispecie di accesso qualificabili invece in termini
di diritto soggettivo in senso
proprio.
Anzitutto, in materia di tutela
dell’ambiente,
l’accesso alle informazioni è consentito a chiunque
ne faccia richiesta
senza necessità di dichiarare un
proprio interesse (art. 3 d.lgs. 19 agosto 2005, n.
195 di attuazione della
direttiva (CE) 2003/4.
Inoltre, a livello di
amministrazioni locali, i
consiglieri comunali e provinciali hanno diritto a
ottenere
dagli uffici tutte le informazioni utili
all’espletamento del mandato e sono tenuti al
segreto d’ufficio (art. 43, comma 2, d.lgs. 18 agosto
2000, n. 267).
È qualificabile come diritto soggettivo in senso
proprio anche il
cosiddetto accesso civico
introdotto L’accesso civico come
diritto
soggettivo
nell’ambito della
normativa
anticorruzione (art. 5 d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33,
come sostituito dal
d.lgs. 25 maggio 2016, n. 97).
La disposizione si ispira al
Freedom of Information
Act (FOIA), introdotto negli Stati Uniti
nel 1966,
secondo il quale il right to know del cittadino
persegue
tre obiettivi: il controllo diffuso sulle
pubbliche amministrazioni
(accountability); la
partecipazione consapevole dei cittadini
alle
decisioni pubbliche (participation); la
legittimazione delle
pubbliche amministrazioni
dovuta alla massima trasparenza
(legitimacy).
Nel nostro ordinamento, l’accesso civico trova un
appiglio negli artt.
1, 2 e 118 della Costituzione che
delinea un modello di
«cittadinanza attiva»
fondato sulla cooperazione spontanea dei cittadini
con le
istituzioni pubbliche mediante la
partecipazione alle decisioni e alle azioni che
riguardano la cura dei beni comuni (Cons. St., Sez.
III, 6 marzo 2019, n. 1546).
L’art. 5 del d.lgs. n. 33/2013 prevede due ipotesi.
La prima ipotesi (accesso
cosiddetto semplice)
riguarda le informazioni e i dati che le
amministrazioni hanno
l’obbligo di pubblicare sui
propri siti o con altre modalità. Se questo
adempimento non
è stato effettuato, chiunque può
145 richiedere l’accesso (comma 1).
La seconda ipotesi (accesso cosiddetto
generalizzato ) tende L’accesso
generalizzato
a «favorire forme
diffuse di controllo
sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di
promuovere la partecipazione al dibattito
pubblico» ed è stato definito dalla
giurisprudenza
come un «diritto fondamentale» strumentale
all’esercizio di altri diritti
fondamentali (Cons. St.,
Ad. Plen., 2 aprile 2020, n. 10). Pertanto la
disposizione
attribuisce a chiunque il diritto di
accedere ai dati e documenti detenuti dalle
pubbliche amministrazioni, anche di quelli per i
quali non sussiste un obbligo di
pubblicazione
(comma 2). In realtà, questa forma di accesso
generalizzato non riguarda,
sotto il profilo
oggettivo, tutti i documenti detenuti
dall’amministrazione, in quanto
l’art. 5-bis prevede
una serie tassativa di esclusioni in relazione
alla
necessità di tutelare interessi pubblici e privati
come per esempio la sicurezza
nazionale, la difesa,
le relazioni internazionali, la protezione dei dati
personali, la
libertà e segretezza della
corrispondenza e più in generale tutti i casi di
esclusione
di cui all’art. 24, comma 1 della l. n.
241/1990. Per chiarire meglio
la casistica delle
esclusioni e dei limiti è prevista l’adozione di linee
guida da parte
dell’Autorità
nazionale
anticorruzione, d’intesa con il
Garante della
protezione dei dati personali (comma 6).
I n ogni caso, sotto il profilo
soggettivo, l’esercizio
del diritto di accesso civico «non è sottoposto ad
alcuna
limitazione quanto alla legittimazione
soggettiva del richiedente» (art. 5, comma 3).
10. Interessi di fatto, diffusi e
collettivi
Le norme che disciplinano la
pubblica
amministrazione possono imporre ad essa doveri
di comportamento, finalizzati
alla tutela di
interessi pubblici. E ciò dunque in modo per così
dire irrelato, cioè
senza che a tali doveri
corrisponda alcuna situazione giuridica o altro tipo
di pretesa
giuridicamente tutelata in capo a
soggetti esterni all’amministrazione.
Ciò si verifica non soltanto nel
caso delle norme
interne, sulle quali ci si è già soffermati nel
capitolo precedente, ma anche nel caso di
norme
poste da fonti normative primarie o secondarie. Si
pensi, per esempio, alle norme
che impongono alle
amministrazioni di adottare atti di
pianificazione
(urbanistici, del traffico, in materia ambientale,
paesaggistica, ecc.), di realizzare determinate
opere infrastrutturali, di contenere i
livelli di
spesa, di raggiungere determinati standard
qualitativi nell’erogazione dei
servizi o di dotarsi di
modelli organizzativi e funzionali particolari. Così,
per
esempio, è stata qualificata come interesse di
mero fatto, anziché interesse legittimo,
la
posizione di chi vuol contestare gli atti con i quali
un’azienda sanitaria locale
organizza al proprio
interno l’attività di prevenzione e gestione dei
rischi sanitari
(risk management) (Cons. St., Sez. III,
21 maggio 2019, n.
3263).
La violazione di siffatti doveri
rileva, di regola,
soltanto all’interno dell’organizzazione degli
apparati pubblici e
può dar origine, a seconda dei
casi, a interventi di tipo propulsivo (diffide) o
146 sostitutivo da parte di organi dotati di
poteri di
vigilanza, all’irrogazione di sanzioni nei confronti
dei dirigenti e dei
funzionari responsabili della
violazione o ad altre forme di penalizzazione
(finanziaria, divieto di assunzione di personale,
ecc.).
I soggetti privati che possono
trarre un beneficio o
un pregiudizio indiretto da siffatte attività sono
portatori, di
regola, di un interesse di mero fatto (o
interesse semplice) a tutela del quale non è
attivabile alcun rimedio giurisdizionale.
Essi possono tutt’al più promuovere
l’osservanza
da parte delle amministrazioni dei doveri, per
esempio con segnalazioni,
petizioni o campagne di
sensibilizzazione dell’opinione pubblica o azioni di
tipo
politico.
Emerge così la necessità di
distinguere gli interessi
di fatto
dagli I criteri di distinzione
tra
interessi di fatto e
interessi legittimi. I interessi legittimi
criteri
giurisprudenziali
sono
essenzialmente due: la differenziazione e la
qualificazione (Consiglio di Stato,
Ad. Plen., 9
dicembre 2021, n. 22).
uanto al primo criterio, perché
possa configurarsi
Q
un interesse legittimo, occorre anzitutto che la
posizione in cui si
trova il soggetto privato rispetto
all’amministrazione gravata da un dovere di agire
sia
diversa da quella della generalità dei soggetti
dell’ordinamento.
Può essere rilevante a questo
riguardo l’elemento
fisico-spaziale della La differenziazione e
la
vicinitas
vicinanza (o
vicinitas),
che rende più
concreto il pregiudizio in capo a
taluni soggetti.
Così, per esempio, il proprietario
di un terreno che
confina con il terreno al cui proprietario è stato
rilasciato un
permesso a costruire un edificio che
impedirebbe una vista panoramica o
determinerebbe
un altro tipo di pregiudizio si
trova in una posizione differenziata rispetto al
proprietario di aree non contigue, poste magari a
grande distanza. Allo stesso modo,
rispetto a un
piano comunale del traffico che pone limiti
irragionevolmente restrittivi
all’accesso al centro
storico a veicoli privati, i residenti o i titolari di
esercizi
commerciali delle zone interessate si
trovano in una situazione differenziata, per
esempio, rispetto ai residenti dei comuni limitrofi.
Quello della
vicinitas è un criterio elastico e
flessibile che lascia al
giudice un notevole spazio di
valutazione.
Una volta appurato il La qualificazione
giuridica
dell’interesse
carattere
differenziato di un
interesse rispetto a quello
della generalità dei
soggetti, occorre accertare se tale interesse rientri
in qualche
modo nel perimetro della tutela offerta
dalle norme attributive del potere (criterio
della
qualificazione giuridica dell’interesse), che
peraltro, come si dirà, di rado
individuano in modo
esplicito i titolari di un interesse legittimo.
Nella casistica giurisprudenziale i
due criteri
appaiono collegati nel senso che quanto più
differenziato in base a criteri
materiali risulta un
interesse, tanto è più probabile che esso venga
ritenuto anche
oggetto di una tutela giuridica da
parte dell’ordinamento.
Gli interessi di mero fatto possono
avere una
dimensione individuale o superindividuale. È così
emersa in dottrina e in
giurisprudenza la nozione
di interesse diffuso. E ciò soprattutto a partire
dagli anni
Settanta del secolo scorso, con il
maturare di una nuova consapevolezza sociale e
con il
moltiplicarsi dei bisogni e delle aspettative
dei cittadini anche nei confronti di beni
riferibili
147 all’intera collettività.
Gli interessi diffusi
sono stati definiti variamente
come interessi non personalizzati (o adespoti),
senza
struttura, riferibili in modo indistinto alla
generalità della collettività o a
categorie più o
meno ampie di soggetti (consumatori, utenti,
risparmiatori, fruitori
dell’ambiente, ecc.).
Il carattere diffuso Gli interessi diffusi
come
interessi riferiti
dell’interesse deriva a beni «non rivali» e
dalla caratteristica «non escludibili»
1. Una
prima strada proposta in dottrina ma non
accolta dalla La partecipazione al
procedimento
giurisprudenza è
quella di individuare
nella partecipazione al procedimento ai sensi
della
l. n. 241/1990 un elemento di differenziazione e
qualificazione tale da consentire l’impugnazione
innanzi al giudice amministrativo del
148 provvedimento conclusivo del procedimento.
uttavia, a ben considerare, diritto di
T
partecipazione al procedimento e legittimazione
processuale hanno funzioni diverse. La
partecipazione al procedimento assolve, come si
vedrà, non soltanto alla funzione di
tutela
preventiva degli interessi dei soggetti suscettibili
di essere incisi dal
provvedimento, ma anche a
quella di fornire all’amministrazione una gamma
più ampia di
informazioni utili per esercitare
meglio il potere. Essa ha dunque un ambito più
ampio
della legittimazione processuale che può
essere riconosciuta soltanto al titolare di una
situazione giuridica soggettiva in senso proprio
che ha subito una lesione alla quale
occorre porre
rimedio.
2.
Un’altra via è stata quella di ampliare le maglie
dell’interesse legittimo fino a
includervi, anche a
costo di qualche forzatura, alcune situazioni nelle
quali il
ricorrente agisce in giudizio per tutelare in
realtà un interesse superindividuale.
È stata posta in proposito la distinzione tra
interessi Gli interessi
collettivi
propriamente diffusi
e interessi
collettivi, cioè interessi riferibili a
specifiche categorie o gruppi
organizzati
(associazioni sindacali dei lavoratori o
imprenditoriali, partiti politici,
ordini e collegi
professionali, ecc.). A questi organismi
rappresentativi della
categoria o del gruppo è stata
riconosciuta in giurisprudenza una legittimazione
processuale autonoma, collegata a una situazione
di interesse legittimo, allo scopo di
tutelare gli
interessi non già dei singoli appartenenti alla
categoria (legittimati ad
agire in giudizio solo nel
caso in cui subiscano una lesione diretta nella loro
sfera
giuridica individuale), bensì della categoria in
quanto tale. Così un ordine
professionale è
legittimato a impugnare i provvedimenti
amministrativi che consentono a
soggetti diversi
dai propri iscritti di svolgere un’attività ritenuta
rientrante nelle
prerogative riservate alla categoria.
Nel 2010, per esempio, gli organismi
rappresentativi degli avvocati impugnarono un
regolamento governativo in tema di
mediazione
delle controversie civili perché non prevedeva
l’obbligo delle parti di farsi
assistere da un
avvocato iscritto all’albo.
3. In
settori particolari il legislatore ha attribuito
a
determinati La legittimazione ex
lege
soggetti istituiti per
la cura di interessi
diffusi una legittimazione
speciale a ricorrere
(legittimazione ex lege). Così, per esempio,
in
materia ambientale, secondo l’art. 18 legge 8 luglio
1986, n. 349, le associazioni che
abbiano ottenuto
un riconoscimento dal ministero dell’Ambiente in
base a certe
caratteristiche minime (dimensione
nazionale o ultraregionale, finalità statutarie,
ordinamento interno democratico, continuità di
azione) possono ricorrere al giudice
amministrativo a tutela degli interessi ambientali.
Questa e altre analoghe previsioni
legislative non
trasformano gli interessi diffusi in situazioni
giuridiche soggettive di
interesse legittimo o di
diritto soggettivo in senso proprio, ma hanno una
rilevanza
prettamente processuale.
Occorre dedicare un cenno ai
cosiddetti interessi
individuali Gli interessi
individuali
«isomorfi»
«omogenei» o
«isomorfi». Essi
vanno distinti dagli interessi diffusi e collettivi, che
hanno una dimensione
superindividuale in senso
proprio. Essi infatti mantengono il carattere di
situazioni
giuridiche soggettive individuali, e
acquistano una dimensione collettiva solo per il
149 fatto di essere comuni a una pluralità di soggetti.
Si pensi,
per esempio, agli utenti del servizio
elettrico di una città nella quale si verifica una
situazione di interruzione della fornitura di
energia elettrica protratta nel tempo.
In questi casi l’interesse leso
resta un interesse
individuale e l’elemento di omogeneità e
comunanza consiste nel fatto
che la lesione deriva
da un’attività illecita o illegittima plurioffensiva.
Ciascuno dei soggetti potrebbe
dunque agire in
giudizio autonomamente. Peraltro, molto spesso,
come, per esempio, nel
settore dei rapporti di
utenza nei servizi pubblici, il danno individuale è
di entità
modesta, tale da scoraggiare, in base a
un’analisi costi-benefici, l’esperimento di
un’azione in sede giurisdizionale (cosiddetti small
claims).
Per questi interessi l’ordinamento
prevede forme
di tutela non giurisdizionale semplificate, meno
formalizzate e costose,
innanzi a organismi di
mediazione o conciliazione, oppure innanzi alle
stesse autorità
amministrative di regolazione
(cosiddette ADR, alternative dispute
resolutions, che
includono vari tipi di reclami, ricorsi, ormai
disciplinate da numerose disposizioni legislative
settoriali).
Di recente, il Le azioni di classe e il
ricorso
per l’efficienza
legislatore ha delle amministrazioni
introdotto per essi
rimedi processuali
particolari
definiti, forse impropriamente, «azioni
di classe» (class actions),
secondo i modelli adottati
specie negli Stati Uniti.
In particolare, l’art.
840-bis del codice di procedura
civile introdotto dalla legge 12 aprile 2019, n. 31,
«Disposizioni in materia di
azione di classe»
prevede che «i diritti individuali omogenei»
possono essere azionati
da organizzazioni e
associazioni senza scopo di lucro.
Inoltre, il d.lgs. 20 dicembre 2009, n. 198 ha
previsto un ricorso per
l’efficienza delle
amministrazioni e dei concessionari di servizi
pubblici da esperire
innanzi al giudice
amministrativo. Esso consente ai «titolari di
interessi
giuridicamente rilevanti e omogenei per
una pluralità di utenti e consumatori» di adire
il
giudice amministrativo in caso di accertata
violazione di livelli e standard di
qualità
predefiniti, per esempio, nelle carte dei servizi, o di
ritardo nell’adozione di
atti amministrativi
generali. Il ricorso mira a ottenere una pronuncia
del giudice che
ripristini il corretto svolgimento
della funzione o la corretta erogazione di un
servizio pubblico. Esso può essere proposto, oltre
che dai singoli interessati, anche da
associazioni o
comitati costituiti ad hoc. Si pensi per esempio
all’azione proposta da un’associazione dei
consumatori per far rispettare
all’organizzazione
scolastica lo standard normativo rappresentato dal
numero massimo di
alunni che possono comporre
una classe.
Entrambi i testi legislativi da
ultimo citati, in
realtà, introducono uno strumento per aggregare
azioni che i singoli
titolari delle situazioni
giuridiche omogenee sarebbero legittimati a
proporre
individualmente.
11. I
principi generali
▶ I
principi sulle funzioni. Il principio
fondamentale che presiede
all’allocazione delle
funzioni è il principio di sussidiarietà, menzionato
nei Trattati europei e, in seguito alla legge
costituzionale n. 3/2001, nella Costituzione.
In particolare, l’art. 5 I principi di
sussidiarietà e di
TUE enuncia il proporzionalità
principio di
sussidiarietà verticale
con riguardo ai rapporti tra Stati membri e
istituzioni dell’Unione al fine di contenere
le
spinte all’accentramento di funzioni in capo a
queste ultime. Dal principio di
sussidiarietà deriva
anzitutto che l’Unione europea agisce
esclusivamente nei limiti
delle competenze
assegnate (tassatività delle competenze) e che, per
contro, gli Stati
membri sono titolari della
generalità delle competenze residue. Inoltre, le
competenze
attribuite all’Unione europea non
devono eccedere quelle necessarie per conseguire
gli
scopi dell’Unione che non possono essere curati
meglio dagli Stati membri, né a livello
centrale né a
livello locale.
’art. 5 menziona anche il
principio di
L
proporzionalità in base al quale il contenuto e la
forma dell’azione
dell’Unione non devono
eccedere quanto necessario per il conseguimento
degli obiettivi
dei Trattati (comma 4).
I parlamenti nazionali, come si è
accennato,
vigilano sul rispetto del principio di
proporzionalità con le modalità
stabilite in un
151 Protocollo allegato al Trattato che prevede un
coinvolgimento preventivo degli Stati membri
nella fase preparatoria degli atti
normativi europei.
Nel diritto interno, l’art. 118 Cost. richiama i
principi di sussidiarietà,
differenziazione e
adeguatezza che vanno a integrare e a rafforzare il
principio
autonomistico posto dall’art. 5.
L’art. 118 prevede che La sussidiarietà
verticale
la generalità delle
funzioni sia attribuita
al
livello di governo più vicino al cittadino e cioè al
comune. Solo le funzioni delle
quali è necessario
assicurare un esercizio unitario che supera la
dimensione
territoriale dei comuni possono essere
attribuite ai livelli di governo via via più
elevati e
cioè alle province, alle città metropolitane, alle
regioni e allo
Stato. Le funzioni amministrative
vanno dunque allocate tra gli enti territoriali
secondo il criterio della dimensione degli interessi
(locale, regionale o nazionale). Da
qui
l’espressione sussidiarietà verticale.
I principi posti dall’art. 118 Cost. trovano
svolgimento con riferimento alle
singole materie di
legislazione amministrativa nel d.lgs. 31 marzo
1998, n. 112, già richiamato all’inizio di
questo
capitolo, che ha operato un riordino organico delle
funzioni amministrative. Il
decreto legislativo,
emanato sulla base della legge di delega 15 marzo
1997, n. 59 per il conferimento
delle funzioni ai vari
livelli di governo, specifica e sviluppa i principi
enunciati
nella disposizione costituzionale.
Oltre a richiamare il principio di
sussidiarietà, la l.
n. 59/1997 definisce il principio di adeguatezza, che
attiene
«all’idoneità organizzativa
dell’amministrazione ricevente [le funzioni,
N.d.A.]», e il
principio di differenziazione, che
mira a tener conto «delle diverse caratteristiche,
anche associative, demografiche, territoriali e
strutturali degli enti riceventi» (art. 4, comma 3,
lett. g) e h)). Questi due principi sono
volti in
particolare a salvaguardare le specificità di oltre
8.000 comuni e a
sollecitare l’attivazione di forme
di collaborazione tra enti territoriali per
l’esercizio
in forma associata di talune funzioni.
La l. n. 59/1997 menziona altresì i
principi di
efficienza e di economicità, di responsabilità e
unicità
dell’amministrazione (con l’attribuzione a
un unico soggetto delle funzioni e dei
compiti
connessi, strumentali e complementari), di
omogeneità, di copertura finanziaria
e
patrimoniale dei costi per l’esercizio delle
funzioni, di autonomia organizzativa e
regolamentare (art. 4, comma 3).
La Costituzione La sussidiarietà
orizzontale
richiama anche la
cosiddetta
sussidiarietà orizzontale, che serve invece a
definire i rapporti tra poteri
pubblici e società
civile. L’art. 118, comma 4, stabilisce, infatti, che lo
Stato e gli
enti territoriali «favoriscono l’autonoma
iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo
svolgimento di attività di interesse generale, sulla
base del principio di
sussidiarietà». Questa
disposizione ha il valore simbolico, da un lato, di
escludere che
i poteri pubblici detengano il
monopolio nella cura degli interessi della
collettività,
e, dall’altro, di valorizzare le forme di
autorganizzazione della società civile. Sul
piano
logico la dimensione orizzontale della sussidiarietà
precede quella verticale. Si
ispira al principio di
sussidiarietà orizzontale il recente Codice del
Terzo settore che
lo richiama sin dal primo
articolo (d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117). Come ha
chiarito la Corte
costituzionale, il Codice delinea il
152 Terzo settore come il «complesso dei
soggetti di
diritto privato che esercitano […] una o più
attività
di interesse generale per il perseguimento, senza
scopo di lucro, di finalità
civiche, solidaristiche e di
utilità sociale […] in attuazione del principio di
sussidiarietà» (sentenza n. 185 del 2018).
Anche il principio di
proporzionalità , posto come
si è accennato Il principio di
proporzionalità
dall’art. 5 TUE, è
enunciato in varie
disposizioni legislative
europee recepite nel diritto
nazionale come criterio per la disciplina delle
funzioni e
dei poteri.
sso è richiamato, per esempio, come si è
E
accennato, nella direttiva
(CE) 2006/123 relativa al
mercato interno dei servizi, recepita nel d.lgs. 26
marzo 2010, n. 59. Infatti, la scelta del
legislatore
se istituire o mantenere un regime di
autorizzazione
preventiva piuttosto che di
semplice comunicazione all’amministrazione
dell’avvio di
un’attività deve avvenire nel rispetto
del principio di proporzionalità (oltre che di
non
discriminazione) (art. 14 d.lgs. n. 59/2010),
valutando, come specifica la
direttiva, se
«l’obiettivo perseguito non può essere conseguito
tramite una misura meno
restrittiva» (art. 9,
comma 1, lett. c)).
I principi in questione, essendo
rivolti al
legislatore, sono soprattutto principi e criteri di
policy da far valere nelle sedi politiche, più che
principi
giuridici che fondano pretese azionabili in
sede giurisdizionale.
▶ I
principi sull’attività. Secondo l’art. 1 l. n.
241/1990 «l’attività amministrativa persegue i
fini
determinati dalla legge ed è retta da criteri di
economicità, di efficacia, di
imparzialità, di
pubblicità e di trasparenza […] nonché dai principi
dell’ordinamento
comunitario». Tali criteri o
principi, sebbene riferiti testualmente all’attività,
possono valere in realtà anche per l’atto e il
procedimento amministrativo.
Poiché, come si è accennato,
l’attività
amministrativa riguarda in modo unitario il
complesso delle operazioni, dei
comportamenti e
degli atti posti in essere da un apparato
amministrativo, anche
l’applicazione dei criteri
enunciati nell’art. 1 consente di formulare un
giudizio
globale sull’operato dell’amministrazione.
Un siffatto giudizio verte, da un lato, sulla
coerenza complessiva dell’attività rispetto alla
«missione» affidata dal legislatore e
sulla sua
conformità (al di là della legittimità dei singoli
atti) alle norme
giuridiche; dall’altro lato, sul buon
andamento, cioè sui risultati più o meno positivi
effettivamente conseguiti mediante l’uso efficiente
delle risorse disponibili.
A tal
proposito, è Il principio del buon
andamento e
stata di recente l’amministrazione di
elaborata, come si è risultato
accennato, la nozione
di
«amministrazione di risultato» che si aggancia al
principio più tradizionale di buon
andamento di
cui all’art. 97 Cost. Si tratta di una nozione dai
contorni sfumati
che, però, tende a mettere in luce
come nell’attuale fase evolutiva dell’ordinamento
sia
cresciuta l’attenzione nei confronti
dell’efficienza, efficacia ed economicità
dell’azione
amministrativa. Diventa invece recessiva
l’impostazione tradizionale che
considerava
l’azione amministrativa principalmente nel prisma
della legalità formale ed
era incline a ritenere che il
rispetto della legalità fosse di per sé garanzia del
buon
andamento della pubblica amministrazione.
Come si vedrà, la l. n. 241/1990 ha attenuato il
153 rigore della legalità formale
limitando la possibilità
di annullare atti affetti da vizi che
non inficiano la
sostanza della decisione (art. 21-octies).
L’amministrazione di risultato
richiama la nozione
di performance degli apparati amministrativi.
Nel contesto di una riforma tesa a
promuovere
l’efficienza della pubblica amministrazione, il
legislatore ha disciplinato
il cosiddetto «ciclo delle
performance» che si applica agli apparati
amministrativi nel
loro complesso (d.lgs. 27
ottobre 2009, n. 150). Le fasi del ciclo delle
performance sono principalmente le seguenti: la
definizione di obiettivi, l’allocazione
delle risorse,
il monitoraggio in corso di esercizio, la
misurazione e valutazione della
performance
organizzativa e dei singoli dipendenti, l’utilizzo di
sistemi premianti. La
performance organizzativa si
riferisce, in particolare, al grado di soddisfazione
dei
cittadini e degli utenti, all’efficienza
nell’impiego delle risorse, alla quantità e
qualità
dei servizi erogati (art. 8). Ad essa si collega poi la
performance individuale
dei dipendenti pubblici.
Più precisamente, I principi di efficienza,
efficacia ed
secondo le scienze economicità
aziendali, il principio
di efficienza,
richiamato dall’art. 1 l. n. 241/1990 attraverso il
riferimento
all’economicità, mette in rapporto la
quantità di risorse impiegate con il risultato
dell’azione amministrativa e focalizza l’attenzione
sull’uso ottimale dei fattori
produttivi. È efficiente
l’attività amministrativa che raggiunge un certo
livello di
performance utilizzando in maniera
oculata le risorse disponibili e scegliendo tra le
alternative possibili quella che produce il massimo
dei risultati con il minor impiego
di mezzi.
Il principio di
efficacia misura invece i risultati
effettivamente ottenuti rispetto
agli obiettivi
prefissati (livelli qualitativi di un servizio,
soddisfazione
dell’utenza, ecc.) in un piano o un
programma.
I due principi operano in modo
indipendente,
perché può darsi il caso di un livello elevato di
efficacia, raggiunto
però con un impiego
inefficiente delle risorse. Inversamente può anche
darsi il caso di
un’azione efficiente, perché non dà
luogo a sprechi, ma inefficace perché non
raggiunge
gli obiettivi prefissati.
L’economicità si riferisce alla
capacità di lungo
periodo di un’organizzazione di utilizzare in modo
efficiente le
proprie risorse raggiungendo in modo
efficace i propri obiettivi e, in qualche modo,
condensa gli altri due principi.
Il principio di Il principio di
pubblicità e
pubblicità e di trasparenza
trasparenza è
enunciato a
livello
europeo. Infatti, il Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea precisa che
«Al fine di
promuovere il buon governo e garantire la
partecipazione della
società civile, le istituzioni,
gli organi e gli organismi dell’Unione operano nel
modo più
trasparente possibile» (art. 15). Viene
altresì stabilito che le istituzioni, gli organi
e
organismi dell’Unione si basano su
«un’amministrazione europea aperta» (oltre che
«efficace e indipendente»: art. 298), ispirandosi
così al principio dell’open
government in base al
quale le determinazioni assunte devono essere rese
accessibili a chi vi ha interesse.
a Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione
L
europea attribuisce a ogni individuo il diritto «di
154 accedere al fascicolo
che lo riguarda, nel rispetto
dei legittimi interessi della
riservatezza e del
segreto professionale» (art. 41, comma 2).
Il principio di pubblicità e
trasparenza rileva
principalmente in due ambiti.
Il primo ambito si riferisce all’organizzazione e
all’attività della La trasparenza come
accessibilità
totale
pubblica delle informazioni
amministrazione che
è tenuta a
mettere a
disposizione della generalità degli interessati, con
modalità di pubblicazione
predeterminate da parte
dell’amministrazione (albi, bollettini, siti, ecc.),
un’ampia
serie di informazioni. La normativa
anticorruzione enuncia il principio generale di
trasparenza «intesa come accessibilità totale delle
informazioni concernenti
l’organizzazione e
l’attività delle pubbliche amministrazioni, allo
scopo di favorire
forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull’utilizzo delle risorse pubbliche» (art. 1 d.lgs. 14
marzo 2013, n. 33, che ha riordinato
l’intera
materia). Come specificazione del principio di
trasparenza, il d.lgs. n. 33/2013 prevede obblighi di
pubblicità per
un’amplissima serie di informazioni
relative ai dati patrimoniali di chi ricopre cariche
elettive e incarichi in enti pubblici e società
pubbliche, agli incarichi di consulenza
esterna, ai
contratti pubblici, ai bandi di concorso, ecc.
Il secondo ambito, più specifico, si riferisce al
diritto di
accesso ai documenti
amministrativi
che, come si è già visto, la l. n. 241/1990 definisce
«principio generale dell’attività
amministrativa al
fine di favorire partecipazione e di assicurarne
l’imparzialità e la
trasparenza» (art. 22, comma 2).
Il diritto di accesso è stato ampliato, come si è
visto, con
l’introduzione dell’accesso
civico. È
stata anche prevista, sotto il profilo organizzativo,
la
nomina all’interno di ogni pubblica
amministrazione di un responsabile per la
trasparenza (che di norma coincide con il
responsabile per la prevenzione della
corruzione).
Quest’ultimo deve monitorare il rispetto degli
obblighi di pubblicazione
segnalando le
inadempienze all’organo di indirizzo politico,
all’organismo indipendente
di valutazione e
all’Autorità nazionale anticorruzione (art. 43
d.lgs. n. 33/2013).
La pubblicità e la trasparenza così
intese si
ricollegano alla concezione dell’amministrazione
come «casa di vetro» [Turati
1908], e sono un
fattore volto a promuovere la verificabilità ex
post
dell’attività e dunque, in definitiva, l’imparzialità
anche in
funzione di prevenzione della corruzione.
Inoltre, poiché consentono un controllo
diffuso
dell’attività per così dire dal basso, esse fungono
anche da fattore di
legittimazione degli apparati
amministrativi.
▶ I
principi sull’esercizio del potere
discrezionale.
I principi che
presiedono all’esercizio del potere
discrezionale sono essenzialmente il principio di
imparzialità, di proporzionalità, di ragionevolezza,
di tutela del legittimo
affidamento, di precauzione.
Il principio di imparzialità è richiamato dall’art. 97
Cost. e dall’art. 41 Il principio di
imparzialità
della Carta dei diritti
fondamentali
dell’Unione
europea. Riferito all’esercizio della
discrezionalità, esso consiste
essenzialmente nel
155 «divieto di favoritismi» [Giannini 1988,
91]:
l’amministrazione non può essere influenzata nelle
sue decisioni da interessi
politici, da gruppi di
pressione privati (lobby) o da singoli individui o
imprese,
favoriti per ragioni di amicizia o di
parentela. Il principio di imparzialità (o di non
discriminazione, secondo il linguaggio europeo),
così inteso, è posto a garanzia della
parità di
trattamento (par condicio) e, in definitiva,
dell’uguaglianza dei cittadini di fronte
all’amministrazione.
I l principio di imparzialità impone
alle
amministrazioni un vincolo giuridico che è assente
nel caso dell’agire dei soggetti
privati. Questi ben
possono orientare le proprie scelte favorendo
alcuni e penalizzando
altri, purché non vengano
superati i limiti generali o speciali dell’autonomia
negoziale
(per esempio, in materia successoria,
con riguardo alla quota di legittima riservata ai
familiari più stretti). Il principio di imparzialità
permea invece l’attività e, come si
vedrà, anche
l’organizzazione della pubblica amministrazione.
Ad essa sono funzionali
altri principi e tra di essi,
in particolare la pubblicità e trasparenza, la
motivazione
e il principio di concorsualità nei
contratti pubblici o nell’accesso agli impieghi
nelle
pubbliche amministrazioni.
Il principio di imparzialità può entrare in tensione
con il principio
della responsabilità politica delle
amministrazioni volto a inserirle nel circuito
politico amministrativo (art. 95 Cost.). I vertici
delle pubbliche amministrazioni
(ministri,
presidenti di regioni, sindaci), che costituiscono il
punto di raccordo tra
politica e amministrazione,
sono portati a perseguire obiettivi coerenti con le
priorità
della propria base elettorale. E siccome gli
apparati amministrativi sono i principali
erogatori
di risorse e di altri benefici diretti o indiretti
(assunzioni di dipendenti,
contratti, atti
autorizzativi, ecc.) utili al fine dell’accrescimento
del consenso
elettorale, i vertici politici sono
tentati talora a ingerirsi nella gestione e, dunque,
a
condizionare a fini di parte le scelte
amministrative. Come si vedrà trattando della
dirigenza
pubblica, la riforma del pubblico
impiego degli anni Novanta del secolo scorso
ha
introdotto il principio della distinzione tra
indirizzo politico amministrativo e
gestione.
Un secondo Il principio di
proporzionalità
principio che
presiede all’esercizio
della discrezionalità è il principio di
proporzionalità. Esso trae origine dalla
giurisprudenza costituzionale e amministrativa
tedesca (Verhältnismässigkeit) ed è stato poi fatto
proprio dalla
Corte di giustizia dell’Unione
europea soprattutto in materia di sanzioni, di aiuti
di
Stato, di deroghe alle regole della concorrenza,
assurgendo così a principio generale
dell’ordinamento europeo. Il principio di
proporzionalità, che assume particolare
rilievo nel
caso di poteri che incidono negativamente nella
sfera giuridica del
destinatario, richiede
all’amministrazione di applicare in sequenza tre
criteri:
idoneità, necessarietà e adeguatezza della
misura prescelta.
L’idoneità
(Geeignetheit) mette in relazione il mezzo
adoperato con
l’obiettivo da perseguire. In base a
tale criterio vanno scartate tutte le misure che
non
sono in grado di raggiungere il fine. La
necessarietà
(Erforderlichkeit), detta anche la
«regola del mezzo più mite»
(Gebot des mildesten
Mittels), mette a confronto le misure
ritenute
idonee e orienta la scelta su quella che comporta il
156 minor sacrificio possibile
degli interessi incisi dal
provvedimento. L’adeguatezza
(Angemessenheit)
consiste nella valutazione
(Abwägung) della scelta
finale in termini di tollerabilità
della restrizione o
incisione nella sfera giuridica del destinatario del
provvedimento:
gli inconvenienti causati non
devono essere eccessivi rispetto agli scopi
perseguiti e
se essi superano un determinato
livello va rimessa in discussione la scelta
medesima.
In definitiva, per riprendere una
nota immagine
[Fleiner 1912], la proporzionalità consiste
«nell’accertare se per sparare
ai passeri si è
impiegato un cannone».
Il principio di Il principio di
ragionevolezza
proporzionalità
costituisce una
specificazione di un principio ancora più
generale,
di natura in realtà pregiuridica, costituito dal
principio di
ragionevolezza. In base alla teoria
delle scelte razionali, infatti,
anche la pubblica
amministrazione, al pari degli operatori economici
(il cosiddetto
homo oeconomicus), è un agente in
grado di perseguire
determinati obiettivi ponendo
in essere azioni logiche, coerenti e ad essi
funzionali.
Si può ritenere infatti illogico, prima
ancora che sproporzionato, l’impiego di un mezzo
che eccede per dimensione o intensità quello
strettamente necessario per raggiungere
l’obiettivo. Il principio di ragionevolezza ha però,
come si vedrà, un’estensione più
ampia rispetto a
quello di proporzionalità e assume rilievo generale
nell’ambito del
sindacato di legittimità dei
provvedimenti amministrativi come figura
sintomatica
dell’eccesso di
potere.
Il principio di proporzionalità,
oltre ad essere
criterio di esercizio della discrezionalità
amministrativa, è, come si è visto, un parametro
che deve guidare il
legislatore nel momento in cui
alloca e disciplina i poteri dei vari livelli di
governo.
Anche il principio di ragionevolezza
vincola la discrezionalità del legislatore, come
più
volte chiarito dalla Corte costituzionale.
Un altro principio che presiede all’esercizio della
discrezionalità, Il principio del
legittimo
affidamento
anch’esso di
derivazione europea
ed
elaborato prima ancora nella giurisprudenza
tedesca, è il principio del legittimo
affidamento
(Vertrauensschutz). Esso mira a
tutelare le
aspettative ingenerate dalla pubblica
amministrazione con un suo atto o
comportamento. Nel diritto europeo il principio ha
trovato applicazione, per esempio,
nella materia
degli aiuti di Stato. La giurisprudenza anche
nazionale ha chiarito che le
imprese che ne siano
state beneficiarie non possono contrastare l’azione
di recupero in
base al principio del legittimo
affidamento ove gli aiuti siano stati concessi senza
che
il regime sia stato notificato preventivamente
alla Commissione europea (Corte di
cassazione,
ordinanza 29 ottobre 2018, n. 27401).
Nel diritto interno il principio del legittimo
affidamento interviene,
per esempio, a proposito
del potere di annullamento d’ufficio del
provvedimento illegittimo,
per l’esercizio del quale
è richiesta all’amministrazione una valutazione
degli
interessi dei destinatari del provvedimento e
una considerazione del tempo ormai
trascorso
(art. 21-nonies
l. n. 241/1990).
Il principio della tutela del
legittimo affidamento si
ricollega al principio Il principio della
certezza del
diritto
ancor più
generale di
diritto europeo della
157 certezza del diritto,
enunciato anch’esso dalla
Corte di giustizia dell’Unione
europea, che mira a
garantire un quadro giuridico stabile e chiaro. Tale
principio ha
come destinatario anzitutto il
legislatore (non retroattività, stabilità e coerenza
delle norme), ma implica che anche l’agire
dell’amministrazione deve essere prevedibile
e
coerente nel suo svolgimento.
Va menzionato, da ultimo, il principio di
precauzione, Il principio di
precauzione
enunciato in materia
ambientale nel
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea
(art. 191, comma 2) ed elevato dalla giurisprudenza
comunitaria a principio di carattere generale
applicabile nei campi di azione che
involgono
interessi pubblici come la salute e la sicurezza dei
consumatori. Il principio
di precauzione comporta
che, quando sussistono incertezze in ordine
all’esistenza o al
livello di rischi per la salute delle
persone, le autorità competenti possono adottare
misure protettive senza dover attendere che sia
dimostrata in modo compiuto la realtà e
la gravità
di tali rischi. La giurisprudenza italiana ha iniziato
a utilizzarlo, per
esempio, in materia di
autorizzazione alla messa in coltura di sementi
geneticamente
modificate (OGM) o in materia di
inquinamento da elettromagnetismo.
ul principio di precauzione è intervenuta la
S
comunicazione della Commissione del 2 febbraio
2000 (COM(2000)
1) che illustra i fattori che
giustificano il ricorso al principio
(identificazione
degli effetti potenzialmente negativi, valutazione
scientifica,
incertezza scientifica) e le misure da
adottare (decisione di agire o di non agire,
adozione di misure proporzionate, non
discriminatorie, coerenti, che esaminano in modo
comparato vantaggi e oneri, ecc.).
Il principio di precauzione
costituisce soprattutto
un principio guida per il legislatore. Esso può
trovare
applicazione, entro certi limiti, anche come
regola di esercizio della discrezionalità.
▶ I
principi sul provvedimento. I principi che
si riferiscono specificamente
al provvedimento
amministrativo, in aggiunta al principio di
legalità già esaminato nel capitolo II, sono il
principio della motivazione e il
principio di
sindacabilità degli atti.
Il primo è desumibile dalla Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione
europea laddove
sancisce «l’obbligo per l’amministrazione di
motivare le proprie
decisioni» (art. 41, comma 2) e,
come si vedrà, dalla l. n. 241/1990 (art. 3). Secondo
la giurisprudenza
amministrativa e costituzionale,
l’obbligo di motivazione è «il presupposto, il
fondamento, il baricentro e l’essenza stessa del
legittimo esercizio del potere
amministrativo e,
per questo, un presidio di legalità sostanziale» (da
ultimo, Cons. St., Sez. III, 15 febbraio 2019, n.
1085).
Poiché attraverso la motivazione il
destinatario del
provvedimento e il giudice amministrativo sono
messi in grado di
ricostruire le ragioni poste a
fondamento della decisione, il principio della
motivazione può essere messo in relazione con il
principio di trasparenza e, in ultima
analisi, con
quello dell’imparzialità della decisione.
Il principio di sindacabilità degli atti
amministrativi (o anche di
azionabilità delle
situazioni giuridiche soggettive nei confronti della
158 pubblica
amministrazione) è sancito dagli artt. 24 e
113 Cost.: gli atti amministrativi che ledono i diritti
soggettivi e gli interessi legittimi sono sempre
sottoposti al controllo giurisdizionale
del giudice
ordinario o del giudice amministrativo.
▶ I
principi sul procedimento. I principi
relativi al procedimento
amministrativo sono il
principio del contraddittorio, il principio di
certezza dei tempi, il
principio di efficienza, il
principio di correttezza e buona fede.
Il principio del Il principio del
contraddittorio
contraddittorio non
trova un fondamento
diretto nella Costituzione, ma è
richiamato nella
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
secondo la quale
ogni individuo ha diritto «di
essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga
adottato un provvedimento individuale che gli
rechi pregiudizio» (art. 41, comma 2). Esso è stato
poi sviluppato, come si
vedrà, nella l. n. 241/1990,
che disciplina la partecipazione al
procedimento
amministrativo (artt. 7 ss.).
La Corte di giustizia dell’Unione europea lo ha
qualificato come
«principio di diritto
amministrativo ammesso in tutti gli Stati membri
della Comunità e che
risponde alle esigenze della
giustizia e della sana amministrazione» (C. giust. 4
luglio 1963, in causa C-32/62). Del resto anche
il
Consiglio di
Stato, nel silenzio della legge, fin
dalle sue prime decisioni lo
fece proprio in quanto
«principio di eterna giustizia» che trova un
fondamento ultimo
nella legge di natura (Cons. St.,
Sez. IV, 29 novembre 1895, n. 423).
Talora, il diritto dei Il principio del giusto
procedimento
privati di esporre
le
proprie ragioni prima
che venga emanato un provvedimento limitativo
dei loro diritti
viene assimilato al principio del
giusto processo (due process)
elaborato negli
ordinamenti anglosassoni e ora inserito nella
Costituzione (art. 111, comma 1). In realtà, come ha
chiarito più volte la
Corte costituzionale (da
ultimo sentenza n. 71/2015 in materia di
espropriazione), il principio del giusto
procedimento non ha fondamento costituzionale.
n altro principio è
U Il principio di certezza
del
tempo dell’agire
costituito dal amministrativo e di
principio di certezza celerità
del tempo dell’agire
amministrativo e di celerità. La Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea attribuisce a
ogni individuo anche il diritto a «che le
questioni
che lo riguardano siano trattate […] entro un
termine ragionevole» (art. 41, comma 1). La l. n.
241/1990 lo rende concreto nella disciplina volta a
individuare per ciascun tipo di procedimento un
termine massimo entro il quale
l’amministrazione
deve emanare il provvedimento finale che
conclude il procedimento
amministrativo (art. 2).
La durata ragionevole del
procedimento e il
rispetto dei termini massimi perseguono due
obiettivi. In primo luogo,
tutelano gli interessi dei
soggetti coinvolti, per i quali, in particolare, la
certezza
del tempo dell’agire dell’amministrazione
costituisce un fattore essenziale per poter
programmare le proprie attività. In secondo luogo,
tendono a promuovere l’efficienza e
l’efficacia
dell’azione amministrativa: l’ottimizzazione dei
tempi dei procedimenti
amministrativi costituisce
uno degli indicatori della performance
organizzativa (art. 8, lett. f ), d.lgs. n. 150/2009) e il
rispetto del
termine un elemento di valutazione
159 dell’operato dei responsabili degli
uffici.
La l. n. 241/1990 richiama anche il principio di
efficienza , Il principio di
efficienza
prevedendo, in
particolare, che
l’amministrazione «non può aggravare il
procedimento se non per straordinarie e motivate
esigenze imposte dallo svolgimento
dell’istruttoria» (art. 1, comma 2).
na modifica recente alla l. n. 241/1990 ha
U
aggiunto all’art. 1 il comma
2-bis secondo il quale i
rapporti tra il Il principio di
correttezza e
buona
cittadino e la fede
pubblica
amministrazione
sono improntati al principio di buona fede (oltre
che a quello
di collaborazione). Entrambe le parti
del rapporto giuridico amministrativo sono tenute
al rispetto del principio in questione: da un lato, la
pubblica amministrazione non deve
disattendere
gli affidamenti incolpevoli ingenerati nei privati;
dall’altro lato, questi
ultimi sono gravati da «oneri
di diligenza e leale collaborazione verso
l’amministrazione» (Cons. St., Ad. Plen., 4 aprile
2018, n. 5 e 30 novembre 2021, nn. 19
e 20). Per
esempio, il privato che partecipa al procedimento
non deve trarre in inganno
l’amministrazione, per
esempio omettendo informazioni rilevanti o
producendo
documentazione falsa. Il
procedimento amministrativo deve svolgersi in
definitiva
all’insegna della fiducia reciproca.
CAPITOLO 4
Il provvedimento
161
1. Premessa
stato
rinvenuto nella
cosiddetta presunzione di legittimità del
provvedimento
amministrativo.
La giustificazione teorica di
quest’ultima venne
variamente individuata nella provenienza dell’atto
da organi espressione
della sovranità; nell’esigenza
di assicurare un andamento regolare e sollecito
dell’attività dell’amministrazione; nelle garanzie
offerte dai metodi concorsuali di
selezione dei
funzionari pubblici (i quali non perseguono
interessi personali) e dal
sistema dei controlli
amministrativi. Questi e altri elementi portano a
ritenere che, di
norma, i provvedimenti siano
emanati in modo legittimo e dunque possano
essere portati a
esecuzione dall’amministrazione
immediatamente. In realtà, la presunzione di
legittimità
aveva una connotazione ideologica e si
ricollegava a una visione autoritaria dei
rapporti
tra Stato e cittadino. La dottrina [Giannini 1959,
160 ss.] ha dimostrato da
tempo l’inconsistenza
teorica di questo principio che però continua
talora a essere
richiamato dalla giurisprudenza.
L’art. 21-ter
l. n. 241/1990 pone una disciplina
embrionale
dell’esecuzione coattiva dei
provvedimenti, confermando anzitutto, come
ritiene la
dottrina prevalente, che l’esecutorietà
non è una caratteristica propria di tutti i
provvedimenti amministrativi, ma deve essere di
volta in volta prevista dalla legge.
Il comma 1 precisa infatti che il
potere di imporre
coattivamente l’adempimento degli obblighi è
attribuito
all’amministrazione solo «nei casi e con
le modalità stabiliti dalla legge» (espressione
che
viene ripresa, forse in modo ridondante, anche nel
secondo periodo del medesimo
comma).
Così, per fare un altro esempio,
l’amministrazione
ha la facoltà di procedere in via amministrativa alla
tutela dei beni
demaniali (art. 823 cod. civ.).
Questa disposizione peraltro ha dato
origine al
dubbio se essa fondi in via generale un siffatto
potere, oppure se essa si
limiti a operare un rinvio
alle norme che prevedono in modo più specifico
l’esecuzione
forzata amministrativa.
L’esecutorietà è riferibile non
soltanto agli obblighi
nascenti dal provvedimento, ma anche a quelli
aventi fonte
negoziale. Infatti, il comma 1 dell’art.
21-ter richiama in termini
generali l’adempimento
coattivo degli «obblighi nei loro confronti» (nei
confronti cioè
delle pubbliche amministrazioni),
includendo così implicitamente anche gli obblighi
che
sorgono nell’ambito dei rapporti paritari. In
proposito, il r.d. 14 aprile 1910, n. 639 sulla
riscossione delle entrate
patrimoniali dello Stato
attribuisce all’amministrazione il potere di
procedere
all’esecuzione forzata, previa
ingiunzione al pagamento delle somme dovute,
oltre che
per i crediti di fonte tributaria, anche per
i crediti di diritto privato.
In relazione agli obblighi nascenti
da un
provvedimento Gli aspetti procedurali
amministrativo,
quest’ultimo deve
indicare il termine e le modalità
dell’esecuzione da parte del soggetto obbligato.
Inoltre, l’esecuzione coattiva può avvenire solo
previa adozione di un atto di diffida
con il quale
167 l’amministrazione intima al privato di porre in
essere le attività esecutive già indicate nell’atto,
concedendo così al privato
un’ultima chance.
’esecutorietà dà dunque luogo a un
procedimento
L
d’ufficio in contraddittorio con il soggetto privato.
Il comma 2, infine, menziona l’esecuzione delle
obbligazioni aventi a
oggetto somme di danaro,
precisando che ad esse si applicano le disposizioni
per
l’esecuzione coattiva dei crediti dello Stato.
Anche questa disposizione opera più che
altro un
rinvio alla normativa vigente, cioè principalmente
alla disciplina della
riscossione esattoriale di cui al
d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46. Quest’ultimo,
peraltro,
precisa già che la riscossione mediante
ruolo riguarda non solo le entrate dello Stato
ma
anche quelle di enti
pubblici diversi dallo Stato
(art. 17).
L’esecutorietà presuppone che il provvedimento
emanato sia efficace L’efficacia e
l’esecutività
ed esecutivo. La l. n.
241/1990 dedica due
articoli all’efficacia e
all’esecutività (o forse, più
correttamente, eseguibilità) del
provvedimento.
econdo l’art. 21-bis il provvedimento limitativo
S
della sfera giuridica Gli atti recettizi
dei privati acquista
efficacia con la comunicazione al destinatario e ha
dunque natura di atto recettizio.
Prima della l. n.
241/1990 si riteneva invece che anche i
provvedimenti
di questo tipo (per esempio la
revoca di una concessione) fossero
in grado di
produrre immediatamente gli effetti.
Sono peraltro esclusi dall’obbligo
di
comunicazione i provvedimenti aventi carattere
«cautelare e urgente» che sono
immediatamente
efficaci. Inoltre, l’art. 21-bis stabilisce che i
provvedimenti limitativi non aventi carattere
sanzionatorio possono contenere una
clausola
motivata di immediata efficacia.
L’art. 21-bis
detta alcune disposizioni minute sulla
modalità da seguire per la comunicazione del
provvedimento.
L’esecutività è L’esecutività
disciplinata dall’art.
21-quater,
secondo il quale i provvedimenti
amministrativi efficaci sono eseguiti
immediatamente,
salvo che sia diversamente
stabilito dalla legge o dal provvedimento.
All’efficacia del
provvedimento consegue dunque
la necessità che esso, in linea di
principio, venga
portato subito a esecuzione, a seconda dei casi,
dalla stessa
amministrazione che ha emanato l’atto
o dal destinatario del medesimo, là dove il
provvedimento faccia sorgere in capo a
quest’ultimo un obbligo di dare o di fare. Si
pensi,
per esempio, all’abbattimento di una costruzione
abusiva, al pagamento di una
sanzione pecuniaria,
all’espulsione di uno straniero clandestino. La
tutela degli
interessi pubblici richiede
tempestività.
In realtà, non tutti i
provvedimenti pongono un
problema di esecutività (o eseguibilità). Spesso
infatti la
produzione dell’effetto giuridico realizza
di per sé l’interesse pubblico alla cui cura
è
finalizzato il provvedimento emanato, senza
bisogno di ulteriori attività di tipo
esecutivo
(provvedimenti autorizzatori o di attribuzione di
uno
status, ecc.).
In base all’art.
21-quater l’esecuzione del
provvedimento può essere differita o
sospesa
discrezionalmente dall’amministrazione.
Nel complesso, le disposizioni in
tema di
esecutorietà e di efficacia del provvedimento
contenute nella l. n. 241/1990 hanno accresciuto il
168 livello delle garanzie
per il privato.
5. d) L’inoppugnabilità
1. Il soggetto si individua
in base alle norme sulla
competenza. Di regola, si tratta di pubbliche
amministrazioni,
ma in casi particolari, come si è
accennato, anche soggetti privati sono titolari di
poteri amministrativi e i loro atti sono qualificabili
come amministrativi. Si pensi,
per esempio, al caso
di un’impresa privata concessionaria di un
pubblico servizio che,
in base al Codice dei
contratti pubblici, è tenuta a esperire procedure a
evidenza pubblica
per l’acquisto di beni e servizi
(art. 1, comma 1-ter, l. n. 241/1990).
2. Un secondo elemento è
costituito dalla
volontà. Il provvedimento è manifestazione della
volontà
dell’amministrazione. Essa va intesa non
già in senso psicologico (stato psichico del
dirigente o del titolare dell’organo che emana
l’atto), bensì in senso oggettivato
(volontà
procedimentale). I vizi della volontà non
determinano, come accade invece per
il negozio
privato (art. 1427 cod. civ.), in via diretta
l’annullabilità del
provvedimento, bensì rilevano
tutt’al più, come si vedrà, in via indiretta
(indiziaria)
come figura sintomatica dell’eccesso
di potere.
6. L’atto amministrativo
richiede di regola la
forma scritta (per gli atti degli organi collegiali è
prevista la verbalizzazione). In taluni casi l’atto
può essere esternato oralmente.
Accanto agli
ordini di polizia o impartiti dal superiore
gerarchico e alla proclamazione
del risultato di una
votazione, forma orale ha per esempio
l’ammonimento del questore a
tenere determinati
comportamenti rivolto a chi ha compiuto atti
molesti o persecutori
che potrebbero integrare il
reato di stalking di cui all’art.
612-bis del codice
penale (art. 8 d.l. 23 febbraio 2009, n.
11). In
seguito al processo di informatizzazione in corso
negli ultimi anni, l’atto può
essere sottoscritto con
la firma digitale e comunicato utilizzando le
tecnologie
informatiche, in base alle regole poste
dal Codice dell’amministrazione digitale (d.lgs. 7
marzo 2005, n. 82) che tendono a limitare al
minimo
la corrispondenza cartacea.
Il provvedimento può assumere, a determinate
condizioni, come si vedrà
nel capitolo V, la veste
formale di un accordo tra l’amministrazione
titolare del potere e il privato
destinatario degli
effetti volto a determinare il contenuto
discrezionale del
provvedimento. L’art. 11 l. n.
241/1990 prevede, a pena di nullità, la forma
scritta.
In giurisprudenza emerge talora
anche la nozione
di provvedimento Il provvedimento
implicito
implicito.
Quest’ultimo
si
configura allorché la volontà in esso espressa sia
desumibile da un comportamento
concludente
dell’organo o da un precedente atto del quale l’atto
implicito si imponga
«quale unica conseguenza
possibile» (Cons. St., 2 novembre 2020, n. 6734).
Così, per
esempio, può essere ritenuto implicito il
provvedimento di nomina di un dipendente
pubblico vincitore di un concorso che, senza
l’adozione di un atto formale, venga
inserito
nell’organizzazione, gli siano conferiti compiti
specifici e riceva in modo
regolare la retribuzione.
L’ art. 21-septies
l. n. Gli elementi essenziali
del
provvedimento
241/1990 contiene un
richiamo agli
«elementi
essenziali» del provvedimento, la
mancanza dei quali costituisce una delle cause di
nullità, analogamente a quanto prevede per il
contratto l’art. 1418, comma 2, cod. civ. Gli
elementi essenziali
dell’atto amministrativo non
sono elencati in modo puntuale dalla legge (come
173 fa invece
l’art. 1325 cod. civ. per i requisiti del
contratto). Essi
vanno dunque individuati in via di
interpretazione, tenendo presente, come si vedrà,
che
nel diritto
amministrativo le ipotesi di nullità
tendono a essere limitate al
minimo.
er i provvedimenti amministrativi
valgono le
P
regole Le regole
sull’interpretazione
sull’interpretazione
previste in via
generale dal codice civile per l’interpretazione dei
contratti (artt. 1362 ss. cod.
civ.). La
giurisprudenza ritiene peraltro che alcune di esse
non possano essere
applicate ai provvedimenti. È
questo il caso dell’art. 1370 sull’interpretazione
contro l’autore della
clausola, che finirebbe per
penalizzare sempre l’amministrazione che emana
in modo
unilaterale l’atto. Non può trovare
applicazione neppure l’art. 1371, secondo il quale
nel caso di oscurità l’atto deve
essere inteso nel
senso meno gravoso per l’obbligato, poiché prevale
l’esigenza di
garantire il perseguimento
dell’interesse pubblico.
u un piano della redazione
formale, l’atto
S
amministrativo Intestazione,
preambolo,
dispositivo
indica e altri elementi formali
nell’intestazione
l’autorità emanante,
contiene nel preambolo i riferimenti alle norme
legislative e
regolamentari che fondano il potere
esercitato («Visto l’art. x della legge n. …»),
richiama gli atti endoprocedimentali e altri atti
ritenuti rilevanti («Visto il
parere…») e sviluppa la
motivazione («Considerato che…» oppure
«Rilevato che…»), enuncia
nel dispositivo la
determinazione o statuizione finale. Reca anche la
data e la
sottoscrizione e menziona i destinatari e
l’organo giurisdizionale cui è possibile
ricorrere
contro l’atto e il termine entro il quale il ricorso va
proposto.
7. I
provvedimenti ablatori
reali, i provvedimenti
ordinatori e le sanzioni
amministrative
Conviene ora dar conto della
tipologia dei
provvedimenti, con l’avvertenza che le
classificazioni hanno più che altro
un valore
descrittivo di una realtà che nella legislazione si
presenta variegata.
Inoltre, i provvedimenti si
prestano a essere ordinati secondo una pluralità di
criteri
che possono essere usati anche in modo
concorrente (contenuto, oggetto, funzione,
destinatari, ecc.). Un’ulteriore avvertenza è che le
categorie di provvedimenti si
prestano a essere
riferite, con poche varianti, anche ai poteri (ove si
focalizzi
l’attenzione sulla norma attributiva del
potere) e ai procedimenti (ove si focalizzi
l’attenzione sulle sequenze degli atti e
adempimenti relative all’esercizio dei poteri).
Così,
per esempio, è frequente parlare, in modo
pressoché fungibile, di poteri,
procedimenti e
provvedimenti ablatori, concessori o autorizzatori.
La scelta espositiva
qui operata è di individuare le
principali categorie di provvedimenti, mettendone
in
luce i profili sostanziali, e di riprendere le
medesime classificazioni nel capitolo V, per i
profili
procedimentali.
È opportuno riprendere la
distinzione, posta nel
capitolo
III, da un lato, tra provvedimenti aventi
effetti limitativi della sfera
giuridica del
destinatario e, dall’altro lato, provvedimenti aventi
effetti ampliativi
della sfera giuridica del
destinatario.
Le principali subcategorie dei
primi sono i
provvedimenti ablatori reali e personali, gli ordini
174 e le diffide, i
provvedimenti sanzionatori.
▶ I provvedimenti ablatori
reali. Tra i
provvedimenti L’espropriazione per
pubblica
utilità
ablatori reali va
ricordata soprattutto
l’espropriazione per pubblica utilità, nella quale
si manifesta al
massimo grado il conflitto tra
l’interesse pubblico e gli interessi privati. Esso
trova
un punto di composizione, da un lato, nel
consentire alla pubblica amministrazione,
all’esito
di un procedimento in contraddittorio, di
trasferire coattivamente il diritto
di proprietà dal
privato all’amministrazione o al soggetto
beneficiario
dell’espropriazione; dall’altro,
attribuendo al privato il diritto a un indennizzo
(art. 42, comma 3, Cost.).
a disciplina sostanziale
(tipologia di beni,
L
indennizzo) e procedimentale in materia è
contenuta nel Testo unico
delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica
utilità (emanato con
d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327) che raccoglie tutte le
disposizioni legislative (in primo luogo la legge 25
giugno 1865, n. 2359) e regolamentari previgenti.
L’indennizzo non coincide
necessariamente con il
valore di mercato, L’ammontare
dell’indennizzo
ma non deve
essere
neppure irrisorio. Su
questo aspetto è intervenuta più volte la Corte
costituzionale che ha posto il principio del «serio
ristoro». In base ad esso, occorre
far riferimento
«al valore del bene in relazione alle sue
caratteristiche essenziali,
fatte palesi dalla
potenziale utilizzazione economica di esso,
secondo legge» (C. cost.
30 gennaio 1980, n. 5). La
stessa Corte europea dei diritti dell’uomo ha
censurato
alcuni parametri legislativi che
riducevano l’indennità a un ammontare
eccessivamente
basso rispetto al valore di mercato
(C. EDU,
Grande Camera, 29 marzo 2006, nel caso
Scordino c. Italia). Anche a
seguito di due pronunce
della Corte costituzionale (C. cost. 24 ottobre
2007, nn. 348 e
349), è stato previsto che
l’indennità di espropriazione di un’area edificabile
sia
determinata, di regola, nella misura pari al
valore venale del bene.
Tra i provvedimenti ablatori reali si annoverano
anche l’occupazione
temporanea preordinata
all’espropriazione di opere dichiarate indifferibili e
urgenti,
che consente così la presa in possesso e
l’avvio immediato dei lavori nelle more della
conclusione del procedimento espropriativo; la
requisizione in uso di beni mobili e
immobili per
periodi di tempo limitati, che può essere disposta
per gravi e urgenti
necessità pubbliche militari o
civili (per esempio, in occasione di un’inondazione
o di
un terremoto la requisizione di strutture
alberghiere per ospitare temporaneamente gli
sfollati) (art. 7 l. n. 2248/1865, All. E e art. 835 cod.
civ.); le servitù pubbliche (militari, di
elettrodotto,
di acquedotto, di attraversamento di fiumi, ecc.)
disciplinate da leggi
speciali e dal codice civile, che
annovera tra i modi di costituzione delle
servitù
coattive, oltre che la sentenza pronunciata a favore
del privato titolare del
diritto, un «atto
dell’autorità amministrativa nei casi specialmente
determinati dalla
legge» (art. 1032, comma 1, cod.
civ.).
▶ I
provvedimenti ordinatori. Tra i
provvedimenti ablatori personali
rientrano gli
ordini amministrativi e i provvedimenti che
impongono ai Gli ordini
amministrativi
destinatari obblighi
di fare o di non fare
(divieti) puntuali.
’ordine è un provvedimento che
prescrive un
L
comportamento specifico da adottare in una
situazione determinata. Nelle
organizzazioni
improntate al principio gerarchico (per esempio,
l’esercito e le forze di
polizia e, entro certi limiti, i
ministeri) esso è lo strumento con il quale il
175 titolare dell’organo o dell’ufficio sovraordinato
impone la
propria volontà e guida l’attività
dell’organo o dell’ufficio sottordinato. Esso
presuppone che l’ambito della competenza
attribuito a quest’ultimo sia incluso
nell’ambito
della competenza del primo.
Come precisa in termini generali
il Testo unico
degli impiegati civili L’ordine illegittimo
dello Stato (d.p.r. 10
gennaio 1957, n. 3), l’impiegato deve eseguire gli
ordini impartiti dal superiore gerarchico (art. 16).
Se l’ordine appare palesemente
illegittimo,
l’impiegato è tenuto a farne rimostranza motivata
al superiore, il quale ha
sempre il potere di
rinnovarlo per iscritto. In questo caso, l’impiegato
deve darvi
esecuzione, a meno che non si tratti di
un atto vietato dalla legge penale (art. 17).
Non si
può infatti imporre a qualcuno di commettere un
reato. La mancata osservanza
dell’ordine impartito
può comportare l’adozione di sanzioni disciplinari
in capo al
titolare dell’organo o dell’ufficio
sottordinato e può indurre il superiore gerarchico
ad avocare a sé la competenza.
Gli ordini amministrativi possono
riguardare i
rapporti non solo interorganici ma anche
intersoggettivi tra
l’amministrazione e soggetti
privati.
Gli ordini di polizia, Gli ordini di polizia
in particolare,
sono
emanati dalle autorità di pubblica sicurezza in base
al Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (r.d.
18 giugno 1931, n. 773). Tra di essi vi è l’invito a
comparire dinanzi all’autorità di pubblica
sicurezza entro un termine assegnato, la cui
inosservanza è sanzionata anche penalmente (art.
15), oppure l’ordine di sciogliere una
riunione o un
assembramento che metta in pericolo l’ordine
pubblico preceduto da un
invito e da tre
intimazioni formali (artt. 20-24). Esempi di ordini
aventi contenuto negativo
(divieti) sono il divieto
di svolgimento di riunioni per ragioni di ordine
pubblico, di
moralità o di sanità pubblica (art. 18) o
di detenzione di armi, munizioni ed esplosivi
impartito a persone ritenute capaci di abusarne
(art. 39). Gli ordini di polizia, al
pari degli altri
provvedimenti dell’autorità di pubblica sicurezza,
sono dotati di
esecutorietà, cioè possono essere
eseguiti in via amministrativa (art.
5).
L’effettività di questo genere di
provvedimenti è
rafforzata, sotto il profilo penale, da una figura di
reato che punisce
chiunque non osservi un
provvedimento legalmente dato da un’autorità
amministrativa per
ragioni di sicurezza pubblica o
di ordine pubblico (ma anche, con riferimento ad
altri
provvedimenti ordinatori, per ragioni di igiene
e di giustizia) (art. 650 cod. pen.).
Anche altri tipi di atti che,
al di là della
denominazione, Altri esempi di
provvedimenti
hanno contenuto ordinatori
prescrittivo
ordinatorio sono
previsti in numerose leggi, specie nell’ambito di
rapporti
con autorità preposte alla vigilanza di
categorie di imprese o a controlli su attività
private. Così, per esempio, in materia bancaria e
creditizia, la Banca d’Italia può
imporre alle
banche vigilate misure riguardanti l’adeguatezza
patrimoniale, il
contenimento dei rischi,
l’organizzazione aziendale, inclusi il divieto di
effettuare
determinate operazioni o di distribuire
utili (art. 53, comma 3, lett. d), d.lgs.
1 settembre
o
▶ Le
sanzioni amministrative. Le sanzioni
amministrative sono volte a reprimere
illeciti di
tipo amministrativo e hanno dunque una funzione
afflittiva e una valenza
dissuasiva. In base alla
teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici, le
sanzioni
amministrative garantiscono l’effettività e
l’autosufficienza degli ordinamenti speciali
rispetto all’ordinamento generale. Esse fungono
infatti, insieme agli strumenti di
giustizia
«domestica» (reclami e ricorsi amministrativi), da
elemento di chiusura
dell’ordinamento sezionale.
Le sanzioni Le sanzioni per
violazione di
leggi o di
amministrative sono provvedimenti
previste dalle leggi
amministrative sia
in
caso di violazione dei precetti in esse contenuti,
sia nel caso di violazione dei
provvedimenti
prescrittivi emanati sulla base di tali leggi.
olte sanzioni del primo tipo,
pecuniarie e non
M
pecuniarie, sono disciplinate, per esempio, nel
Codice della strada (per esempio, per il divieto di
sorpasso
in presenza di una linea continua) o nel
già citato Testo unico dell’edilizia (d.p.r. n.
380/2001). Di recente, anche le sanzioni previste
per violazione delle restrizioni e dei divieti
introdotti dalla normativa di contrasto
al Covid-19
rientrano in questa tipologia.
Sanzioni amministrative per la violazione di
provvedimenti
amministrativi sono invece previste
dal Testo unico degli enti locali (art.
7-bis d.lgs. 18
agosto 2000, n. 267) nel caso di violazione di
regolamenti degli enti locali o delle ordinanze
contingibili e urgenti emanate dal sindaco o
dal
presidente della provincia. Anche le autorità di
regolazione dei servizi di pubblica
utilità possono
irrogare sanzioni pecuniarie di importo assai
elevato (fino a 150
milioni di euro) nel caso di
inottemperanza ai provvedimenti regolatori e di
tipo
individuale da esse emanati (art. 2, comma 18,
lett. c), l. n. 481/1995 citata).
In molti casi, la deterrenza delle
sanzioni
amministrative, come si è accennato nel capitolo I,
è accresciuta dalla previsione in parallelo,
per gli
stessi comportamenti, di sanzioni di tipo penale.
Così, per esempio, nel settore
del mercato
mobiliare, l’abuso di informazioni privilegiate
costituisce, a seconda della
gravità dei
comportamenti tipizzati, un illecito penale o un
illecito amministrativo
(artt. 184 e 187-bis Testo
unico della finanza approvato con d.lgs.
24
febbraio 1998, n. 58).
In realtà, sussiste un certo grado
di fungibilità tra
sanzioni penali e La fungibilità tra
sanzioni
sanzioni amministrative e
amministrative e la penali
dottrina ha dibattuto
a lungo se e quale possa essere il criterio
sostanziale di distinzione. Entrambi i tipi di
sanzione hanno infatti l’analoga finalità
di
prevenzione generale e speciale di illeciti e ciò
spiega una certa affinità di
regime. Il legislatore
italiano, per tradizione, ha impostato la distinzione
sulla base
di criteri formali (qualificazioni
legislative dell’illecito come penale o
amministrativo) con piena libertà di scegliere il
tipo di sanzione da applicare a
seconda dei
mutevoli indirizzi della politica legislativa volti a
178 criminalizzare o a
depenalizzare gli illeciti.
I n ogni caso, la legge 24 novembre 1981, n. 689
(anch’essa una legge di
depenalizzazione) detta
una disciplina generale delle sanzioni
amministrative,
richiamando una serie di principi
tipicamente penalistici. Tra di essi vi è anzitutto il
principio di
legalità, in base al quale nessuno può
essere sottoposto a sanzioni
amministrative se non
in forza di una legge entrata in vigore prima della
commissione
della violazione e secondo il quale
leggi che prevedono sanzioni amministrative si
applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse
considerati (art. 1). Un altro
principio penalistico è
quello della personalità, che si manifesta nelle
regole relative
alla capacità di intendere e di volere
(art. 2), al concorso di persone (art. 5), alla
non
trasmissibilità agli eredi (art. 7), alla
quantificazione in base a criteri che
fanno
riferimento anche alla personalità del trasgressore
(art. 11).
Da qualche anno, come già
anticipato nel capitolo
I,
la distinzione tra sanzioni amministrative e
sanzioni penali è stata messa in dubbio
dalla Corte
europea dei diritti dell’uomo (sentenza sul caso
Grande Stevens e
altri pubblicata il 4 marzo 2014).
Secondo la Corte di Strasburgo,
infatti, ai sensi
dell’art. 6 della Carta europea dei diritti dell’uomo
(CEDU) sul
diritto a un equo processo e ai fini
dell’applicazione delle garanzie previste da tale
disposizione, le sanzioni amministrative possono
avere natura sostanzialmente penale.
Tale natura è riconosciuta in base
ai cosiddetti
criteri Engel , dal I criteri
Engel
nome
della sentenza
capostipite (sentenza 8 giugno 1976, ric. n. 5100/71
Engel e a.
c. Paesi Bassi, serie A, n. 22, par. 22):
qualificazione giuridica
formale attribuita dalla
legge alla sanzione; natura della sanzione
ricavabile
principalmente dallo scopo punitivo,
deterrente e repressivo; grado di severità della
sanzione (afflittività). Ove tali criteri vengano
riconosciuti, scattano garanzie come
per esempio
il principio secondo il quale nessuno può essere
obbligato ad affermare la
propria responsabilità
(autoincriminazione).
Anche la Corte di giustizia
dell’Unione europea
segue il medesimo approccio sostanzialistico in
applicazione
dell’art. 50 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione
europea che, in analogia
con la CEDU, pone il principio del ne bis
in idem. In
realtà, l’avvio in sequenza di due procedimenti
sanzionatori
qualificati dal diritto interno, l’uno
come penale l’altro come amministrativo, è stato
ritenuto compatibile con tale principio nel caso in
cui «la severità dell’insieme delle
sanzioni inflitte
non ecceda la gravità del reato accertato»
(sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione,
20 marzo 2018 in
causa C-537/16 pronunciata in
relazione a una domanda pregiudiziale
nell’ambito
di una controversia innanzi a un giudice civile
relativa a una sanzione
irrogata dalla CONSOB). In
attuazione di questo principio, il legislatore
italiano ha
modificato le norme in tema di
procedimenti sanzionatori della CONSOB
prevedendo che
«l’autorità giudiziaria o la
CONSOB tengono conto, al momento
dell’irrogazione delle
sanzioni di propria
competenza, delle misure punitive già irrogate»
(art. 6, comma 17,
d.lgs. 10 agosto 2018, n. 107).
La materia è comunque ancora in
evoluzione.
Le sanzioni Tipi di sanzioni
amministrative sono
riconducibili a più tipi: le sanzioni
pecuniarie,
consistenti nell’obbligo di pagare una somma di
danaro determinata entro un
minimo e un
179 massimo stabilito dalla norma; le sanzioni
interdittive, che incidono sull’attività posta in
essere dal
soggetto destinatario del provvedimento
(ritiro della patente, decadenza da una
concessione); le sanzioni disciplinari. Talora
l’irrogazione di una
sanzione può comportare
anche l’applicazione di sanzioni cosiddette
accessorie, come,
per esempio, la confisca
amministrativa di cose la cui fabbricazione, uso,
detenzione o
alienazione costituisce un illecito
amministrativo (art. 20).
Le sanzioni Le sanzioni pecuniarie
e
l’oblazione
pecuniarie
presentano alcune
specificità. Anzitutto, l’obbligazione
pecuniaria
grava a titolo di solidarietà in capo a soggetti
diversi da colui che pone in
essere il
comportamento illecito (per esempio l’ente del
quale è dipendente o
rappresentante l’autore
dell’illecito: art. 6). Inoltre l’obbligazione può
essere
estinta tramite il pagamento di una somma
in misura ridotta (oblazione) entro 60 giorni
dalla
contestazione della violazione, cioè prima che
abbia corso il procedimento in
contraddittorio per
l’accertamento dell’illecito (art. 16). L’oblazione
evita dunque che
si arrivi a un accertamento
definitivo dell’illecito, sgravando così gli uffici di
un’attività istruttoria talora onerosa.
Le sanzioni Le sanzioni
disciplinari
disciplinari si
applicano a soggetti
che intrattengono una relazione
particolare con le
pubbliche amministrazioni (dipendenti pubblici,
professionisti
iscritti ad albi, ecc.) e sono volte a
colpire comportamenti posti in violazione di
obblighi speciali collegati allo status particolare
(doveri di
servizio, codici deontologici, ecc.). Esse
consistono, a seconda della gravità
dell’illecito,
nell’ammonizione (o censura), nella sospensione
dal servizio o dall’albo
per un periodo di tempo
determinato, nella radiazione da un albo o nella
destituzione.
Le sanzioni disciplinari sono regolate
sotto il profilo sostanziale e procedimentale da
leggi speciali e sono dunque escluse dal campo di
applicazione della disciplina generale
delle
sanzioni amministrative posta dalla l. n. 689/1981
(art. 12). Si ritornerà sul
tema nel capitolo X a
proposito del regime giuridico dei dipendenti
pubblici.
ul piano funzionale, va posta
anche la distinzione
S
tra sanzioni in senso Le sanzioni
ripristinatorie
proprio, che
hanno
una valenza
essenzialmente repressiva e punitiva del colpevole,
e sanzioni
cosiddette ripristinatorie, che hanno
come scopo principale quello di reintegrare
l’interesse pubblico leso da un comportamento
illecito.
ueste ultime, secondo molte
ricostruzioni, non
Q
vanno considerate come sanzioni amministrative
in senso stretto. Per
esempio, in materia edilizia,
nel caso di esecuzione di interventi in assenza o in
totale difformità dal permesso a costruire,
l’amministrazione comunale ingiunge al
proprietario e al responsabile dell’abuso la
rimozione o la demolizione assegnando un
termine
decorso inutilmente il quale l’area è acquisita di
diritto al comune (art. 31 d.p.r. n. 380/2001).
Le sanzioni amministrative sono applicate, di
regola, soltanto nei
confronti del trasgressore e ciò
in coerenza con il carattere personale delle
responsabilità (art. 3 l. n. 689/1981). La persona
giuridica
può essere chiamata a rispondere solo a
titolo di responsabilità solidale e, in ogni
caso,
l’ente che paghi la sanzione può esercitare l’azione
di regresso nei confronti
dell’autore dell’illecito
(art. 6, comma 3). In materia bancaria, nel 2010
sono state
introdotte in attuazione di norme
europee sanzioni pecuniarie irrogabili
direttamente in
capo agli istituti di credito (art. 144
180 Testo unico bancario).
Una particolare forma di responsabilità
amministrativa è La responsabilità
amministrativa
degli
prevista a carico delle enti
imprese e degli enti
«per gli
illeciti
amministrativi dipendenti da reato» (art. 1, comma
1, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231). Questa
responsabilità sorge direttamente in capo all’ente
«per reati commessi nel suo interesse
o a suo
vantaggio» (art. 5) dagli amministratori e
dipendenti. Tra questi reati
figurano, per esempio,
la truffa in danno dello Stato, la concussione o il
riciclaggio
di danaro sporco (artt. 24 ss.).
La responsabilità amministrativa degli enti
(escluso lo Stato e gli
enti
pubblici non economici,
ex art. 1, comma 3)
comporta l’applicazione di
sanzioni pecuniarie e interdittive come, per
esempio, la
sospensione e la revoca di
autorizzazioni e licenze, l’esclusione da
agevolazioni e
finanziamenti pubblici, il divieto di
contrattare con la pubblica amministrazione (art.
9). All’applicazione di questo particolare tipo di
sanzione provvede il giudice penale
competente a
conoscere dei reati corrispondenti. L’ente può
sottrarsi alla
responsabilità amministrativa solo se
dimostra di aver adottato modelli di
organizzazione, gestione e controllo idonei a
prevenire la commissione da parte degli
amministratori e dipendenti dei reati,
introducendo regole e procedure interne adeguate
(obblighi informativi, protocolli per l’adozione e
attuazione delle decisioni e per la
gestione delle
risorse finanziarie, sanzioni interne, istituzione di
organi ai quali sia
affidata la funzione di vigilare
sull’osservanza di tali modelli) (artt. 6 e 7 d.lgs. n.
231/2001). In questo modo i vertici degli enti
sono
sollecitati a dotarsi di un’organizzazione atta a
minimizzare il rischio della
commissione di reati.
La responsabilità amministrativa
degli enti si
iscrive nella tendenza del diritto, in espansione
nella fase storica
attuale, a incidere più in
profondità nell’organizzazione interna degli enti
privati.
8. Le
attività libere sottoposte
a regime di comunicazione
preventiva. La segnalazione
certificata d’inizio di attività
I provvedimenti con effetti
ampliativi della sfera
giuridica del destinatario sono essenzialmente
quelli di tipo
autorizzativo.
Occorre muovere da una premessa
generale. Negli
ordinamenti giuridici di matrice liberal-
democratica (e tra questi
rientra l’ordinamento
europeo) l’attività dei privati, in linea di principio,
è libera,
nel senso che essa è sottoposta
esclusivamente al diritto comune. Vale cioè la
regola
che è permesso tutto ciò che non è
espressamente vietato, salvi i limiti generali posti
dall’ordinamento civile e dai principi come quello
del neminem
laedere.
Tuttavia, nei casi in cui
l’attività dei privati può
interferire o mettere a rischio un interesse della
collettività (nelle ipotesi esaminate nel capitolo I,
dei «fallimenti del mercato»), si giustificano
prescrizioni e vincoli particolari. Nel conformare le
attività dei privati all’interesse
pubblico le leggi
amministrative, come prevede anche il diritto
europeo e in particolare
la direttiva servizi (CE)
2006/123 richiamata più avanti, devono rispettare
il
principio di
proporzionalità. Quest’ultimo,
come si è visto, impone un onere di
giustificare la
misura introdotta che deve comportare il minor
181 sacrificio possibile
dell’interesse privato.
Così il rispetto delle Le attività libere
sottoposte a
vigilanza
leggi amministrative
è assicurato in un
primo
gruppo di casi da un semplice regime di
vigilanza, che può portare all’esercizio di
poteri
repressivi e sanzionatori nei casi in cui vengono
accertate violazioni. Si pensi,
per esempio, al
pedone o al ciclista che non rispettino il Codice
della strada, oppure a un cittadino che deposita i
rifiuti domestici in luoghi non consentiti, ai quali
può essere irrogata una sanzione
pecuniaria.
L’attività non richiede alcuna interlocuzione
preventiva con una pubblica
amministrazione e
può essere considerata ancora come libera, anche
se è condizionata e
conformata da norme di tipo
amministrativo.
er agevolare i
P L’obbligo di
comunicazione
controlli effettuati preventiva
dall’amministrazione,
in un secondo
gruppo
di casi di attività libere nel senso ora precisato, la
legge grava i privati di
un obbligo di comunicare a
una pubblica amministrazione l’intenzione di
intraprendere
un’attività. Talvolta la
comunicazione è contestuale all’avvio dell’attività;
altre
volte tra la comunicazione e l’avvio
dell’attività è previsto un termine minimo. Così,
per esempio, l’agricoltore che voglia vendere
direttamente al dettaglio i propri
prodotti deve
darne comunicazione preventiva al comune (art. 4
d.lgs. 18 maggio 2001, n. 228). Anche chi
intraprende
un’attività di affittacamere, in base
alle normative regionali, deve comunicarlo al
comune. I promotori di una riunione in luogo
pubblico o aperto al pubblico devono darne
avviso
al questore almeno tre giorni prima (art. 18 Testo
unico delle leggi di pubblica sicurezza).
Un regime generale La segnalazione
certificata
d’inizio di
di comunicazione attività
preventiva, cioè della
segnalazione
certificata d’inizio di attività (cosiddetta SCIA) è
posto dall’art. 19 l. n. 241/1990.
Le attività sottoposte al regime della SCIA, come
chiarito dalla
giurisprudenza (da ultimo Corte
costituzionale 6 febbraio 2019, n. 45), sono libere,
anche se conformate da un regime amministrativo.
Il decreto legislativo di recepimento
della direttiva
servizi (CE) 2006/123, nel porre una definizione di
autorizzazione,
specifica che la SCIA «non
costituisce regime autorizzatorio» (art. 8, comma
1, lett. f ), d.lgs. 26 marzo 2010, n. 59).
La SCIA riconduce una serie di attività, per le quali
in precedenza
era previsto un regime di controllo
preventivo (ex ante) sotto forma di
«autorizzazione, licenza, concessione non
costitutiva, permesso o nullaosta comunque
denominato»
(comma 1), a un regime meno
intrusivo di controllo successivo (ex
post),
effettuato cioè dall’amministrazione una volta
ricevuta la
comunicazione di avvio dell’attività. La
SCIA non è qualificabile come istanza
ex
art. 2 l. n.
241/1990 che dà avvio a un procedimento
amministrativo volto al rilascio di un titolo
abilitativo. Essa ha soltanto la funzione
di
consentire all’amministrazione di verificare se
l’attività in questione è conforme
alle norme
amministrative.
L’avvio dell’attività può essere contestuale alla
presentazione della
SCIA allo sportello
unico
indicato sul sito istituzionale di ciascuna
amministrazione (art.
19-bis). Il privato deve
corredare la segnalazione con
un’autocertificazione del possesso dei presupposti
e requisiti previsti dalla legge per
lo svolgimento
dell’attività (anche con il ricorso ad asseverazioni
e attestazioni di tecnici
abilitati). In caso di
dichiarazioni mendaci scattano sanzioni
amministrative e penali (art. 19, commi 3 e 6).
L’attività viene cioè intrapresa
sulla base di
un’autovalutazione della conformità dell’attività
182 alla legge.
In caso di «accertata carenza dei
requisiti e dei
presupposti» previsti Il divieto di
prosecuzione
dalla legge, nel dell’attività
termine di 60 giorni,
l’amministrazione
emana un provvedimento motivato di divieto di
prosecuzione dell’attività e di rimozione dei suoi
effetti. Se emanato dopo la scadenza
del termine,
l’atto è inefficace (art. 8, comma 2-bis, della l. n.
241/1990 aggiunto nel 2020). In alternativa, ove
possibile, può invitare il privato a conformare
l’attività alla normativa vigente entro
un termine
non inferiore a 30 giorni prescrivendo le misure
necessarie.
Nel caso della SCIA, dunque,
l’amministrazione
esercita un potere d’ufficio di verifica che può
sfociare in un
provvedimento di tipo ordinatorio. Il
rapporto giuridico amministrativo si struttura
così
secondo lo schema del potere e dell’interesse
legittimo oppositivo. Ciò a differenza del
regime
autorizzatorio tradizionale nel quale, come si è
visto, il rapporto giuridico
amministrativo segue lo
schema del potere e dell’interesse legittimo
pretensivo.
Peraltro anche dopo la scadenza del
termine di 60
giorni per l’attività di I poteri esercitabili
dopo la
scadenza del
controllo, termine di 60 giorni
l’amministrazione
può esercitare i
poteri di vigilanza, prevenzione e controllo previsti
da leggi vigenti (art. 21, comma 2-bis). Può persino
attivare
il potere interdittivo sopra esaminato ove
sussistano i presupposti previsti dalla l. n. 241/1990
per l’annullamento
d’ufficio dei provvedimenti
illegittimi (art. 19, comma 4) che, come si vedrà,
richiede una serie di
apprezzamenti discrezionali e
prevede un termine di 18 mesi nel caso di
provvedimenti
autorizzativi (termine ritenuto
applicabile anche al potere interdittivo). Il rinvio al
regime dell’annullamento d’ufficio introduce
peraltro un elemento di ambiguità perché
questo
potere (di autotutela) ha per oggetto
provvedimenti in senso proprio, mentre nel
modello della SCIA non vi è alcun atto di assenso
esplicito da parte
dell’amministrazione e l’attività
resta libera.
I l campo di Il campo di
applicazione della
applicazione della SCIA
SCIA è definito
dall’art. 19 della l. n.
241/1990. Essa sostituisce di diritto
ogni atto di
tipo autorizzativo «il cui rilascio dipenda
esclusivamente
dall’accertamento di requisiti e
presupposti richiesti dalla legge», cioè, come si è
accennato, ogni atto di tipo vincolato. In presenza
di discrezionalità, infatti, non è
concepibile che il
soggetto privato possa farsi carico, in luogo
dell’amministrazione,
di una valutazione e
ponderazione degli interessi in gioco. Deve
trattarsi inoltre di
atti autorizzativi per i quali non
sia previsto alcun limite o contingente complessivo
o
altri strumenti di programmazione di settore. In
questi casi occorre infatti individuare
qualche
parametro per selezionare gli aspiranti a svolgere
l’attività e attivare di
conseguenza un
procedimento comparativo incompatibile con
l’avvio della stessa sulla
base di una semplice
comunicazione.
’art. 19 prevede peraltro alcune
esclusioni
L
allorché entrino in gioco interessi pubblici
particolarmente rilevanti
(ambiente, difesa
nazionale, pubblica sicurezza, giustizia, finanze,
ecc.), oppure si
tratti di atti autorizzativi imposti
dalla normativa europea.
Per ridurre i margini di
incertezza il d.lgs. 25
novembre 2016, n. 222 ha individuato un elenco di
fattispecie sottoposte al regime della SCIA (e del
183 silenzio-assenso).
La SCIA ha dato origine a un
dibattito dottrinale
che si è incentrato soprattutto sulla questione se la
SCIA attui
una liberalizzazione effettiva delle
attività in precedenza soggette a un regime
autorizzatorio tradizionale, oppure se rientri
ancora in qualche modo all’interno di
tale schema
sia pur rivisitato.
Per esempio, secondo alcune
ricostruzioni ormai
superate, la SCIA La SCIA come
autoamministrazione
sarebbe una forma di
«autoamministrazion
e» dei privati, resa possibile proprio dal fatto che
lo svolgimento
dell’attività è subordinato dalle
leggi amministrative alla presenza di presupposti e
requisiti vincolati. La sussistenza di questi ultimi
in un caso concreto può essere
accertata in modo
agevole dal soggetto interessato che valuta
autonomamente la propria
situazione e, per così
dire, emana l’atto autorizzativo «in luogo»
dell’amministrazione.
Così ricostruita, la
dichiarazione presentata dal privato avrebbe
natura
provvedimentale. Come tale potrebbe
essere impugnata innanzi al giudice
amministrativo
da un soggetto terzo che abbia
interesse a contrastare l’avvio dell’attività (per
esempio, il titolare di un esercizio commerciale
contrario all’apertura nelle vicinanze
di un altro
esercizio in concorrenza).
e ricostruzioni più recenti, che
hanno avuto,
L
come si è accennato, anche l’avallo della
giurisprudenza costituzionale e
già da tempo di
quella amministrativa (Cons. St., Ad. Plen., 29
luglio 2011, n. 15),
riconducono la SCIA all’ambito
delle attività libere, anche se conformate dalle
leggi
amministrative, sottoposte a vigilanza da
parte delle autorità pubbliche.
Un problema delicato è quello
della tutela del
terzo che vuole La tutela del terzo
opporsi all’avvio
dell’attività. Infatti, mentre l’autorizzazione
espressa costituisce un atto impugnabile
da parte
del terzo, nel caso della SCIA manca un
provvedimento che gli consenta il
ricorso al
giudice amministrativo.
econdo una prima interpretazione,
il terzo
S
potrebbe proporre un’azione di accertamento
atipica volta a far dichiarare
che l’attività avviata
non è conforme alle norme amministrative e a
indurre, di
conseguenza, l’amministrazione ad
esercitare i poteri repressivi e interdittivi.
Il legislatore ha cercato di chiarire la questione
oggetto di
soluzioni giurisprudenziali oscillanti. Ha
precisato anzitutto che la SCIA, la denuncia
e la
dichiarazione di inizio di attività «non
costituiscono provvedimenti taciti
direttamente
impugnabili» (art. 19, comma
6-ter, l. n. 241/1990).
Ha stabilito poi che «gli interessati
possono
sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti
all’amministrazione e, in caso
di inerzia, esperire
esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2
e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n.
104»
(cioè, come si vedrà nel capitolo XIV, l’azione
contro il silenzio).
In pratica, il terzo che desideri contrastare l’avvio
dell’attività
deve invitare l’amministrazione a
emanare un provvedimento che vieti la
prosecuzione
dell’attività e se l’amministrazione
non provvede può rivolgersi al giudice
amministrativo per far accertare l’obbligo di
provvedere. Tuttavia, secondo la Corte
costituzionale L’interpretazione della
Corte
costituzionale
(sentenza 6 febbraio
2019, n. 45), anche in presenza di un siffatto invito,
vale per l’amministrazione il termine perentorio di
184 60 giorni e di 18 mesi prima
richiamati, termine
che tende a tutelare l’affidamento
ingenerato in chi
ha presentato la SCIA. Pertanto, dopo la scadenza
di questi termini,
secondo la Corte costituzionale,
il terzo può sollecitare solo i poteri di verifica di
eventuali dichiarazioni mendaci o false e i poteri
generali di vigilanza e repressivi,
nonché far valere
la responsabilità per i danni a carico dei funzionari
che non hanno
agito tempestivamente (art. 21 l. n.
241/1990). In realtà, la stessa Corte
costituzionale,
rendendosi conto che le norme vigenti sono
insoddisfacenti, ha invitato
il parlamento a
introdurre alcune modifiche specifiche. Il
problema della tutela del
terzo non è dunque
risolto.
9. Le
autorizzazioni e le
concessioni
Come si è visto, il regime della
SCIA resta ancora
all’interno del modello dell’amministrazione
titolare di poteri il cui
esercizio determina effetti
limitativi della sfera giuridica del destinatario.
Con i regimi autorizzatori, che
introducono un
controllo
ex ante, subordinando l’avvio dell’attività
a un provvedimento di
assenso, si passa invece al
modello dell’amministrazione titolare di poteri il
cui
esercizio determina effetti ampliativi della
sfera giuridica del privato. Secondo la
teoria della
regolazione amministrativa esso è considerato
come maggiormente intrusivo
nelle libertà dei
privati (Ogus [1994, 214], a proposito del modello
del prior
approval).
La scelta da parte del La scelta tra controllo
ex ante ed ex post
legislatore tra il
controllo ex post o ex
ante richiede una
valutazione caso per caso. In base
al d.lgs. n. 59/2010 di recepimento della direttiva
servizi
(CE) 2006/123, come già accennato, «i
regimi autorizzatori possono essere istituiti o
mantenuti solo se giustificati da motivi imperativi
di interesse generale» (art. 14)
indicati in un
elenco tassativo piuttosto esteso (art. 8, comma 1,
lett. h)). L’autorizzazione
preventiva è ammessa
quando l’obiettivo della tutela dell’interesse
pubblico «non può
essere conseguito tramite una
misura meno restrittiva, in particolare in quanto
un
controllo a posteriori interverrebbe troppo
tardi per avere reale efficacia» (art. 9, comma 1,
lett. c)).
Del resto, la Costituzione, per evitare limitazioni
arbitrarie
nell’esercizio di alcuni diritti
fondamentali, come accadde nel ventennio
autoritario,
pone, in particolare, il divieto di
introdurre regimi autorizzatori che condizionano il
diritto di associazione e di stampa (artt. 18, comma
1, e 21, comma 2) o prevede, nel caso delle riunioni
in luogo
pubblico, che possa essere imposto solo
un obbligo di preavviso (art. 17, comma 3).
Nell’ambito del modello del
controllo ex ante sulle
attività dei privati vanno considerate
principalmente le autorizzazioni e le concessioni.
Conviene anzitutto dar conto del
loro
inquadramento tradizionale, per poi introdurre
qualche elemento di critica.
L’autorizzazione come
rimozione
di un limite
1. Secondo una
all’esercizio di un
definizione classica diritto
[Ranelletti 1894, 7
ss.],
l’autorizzazione
è l’atto con il quale l’amministrazione rimuove un
limite all’esercizio
di un diritto
soggettivo del
185 quale è già titolare il soggetto
che presenta la
domanda. Il suo rilascio presuppone una
verifica
della conformità dell’attività ai parametri
normativi posti a tutela
dell’interesse pubblico
(funzione di controllo). Le autorizzazioni danno
dunque origine,
come si è accennato, al fenomeno
dei diritti soggettivi in attesa di espansione, il cui
esercizio è appunto subordinato a un controllo
preventivo da parte di una pubblica
amministrazione. Rispetto a un siffatto potere
«conformativo» dell’amministrazione, il
soggetto
privato vanta una posizione di interesse legittimo
(pretensivo) che fa coppia con il
diritto soggettivo
preesistente. Esempi possono essere
l’autorizzazione all’apertura di
un esercizio
commerciale, oppure le cosiddette autorizzazioni
di polizia di cui
all’art. 14 del Testo unico delle
leggi di pubblica sicurezza.
a concessione è
L La concessione come
atto
costitutivo o
invece l’atto con il
quale traslativo di un diritto
l’amministrazione
attribuisce
ex novo o trasferisce la titolarità di un
diritto soggettivo in capo a un soggetto privato.
Nel rapporto giuridico
amministrativo che si
instaura tra il soggetto privato che presenta
l’istanza di concessione e l’amministrazione, il
primo si presenta titolare di un
interesse legittimo
(pretensivo), per così dire, allo stato puro. Solo in
seguito
all’emanazione del provvedimento
concessorio sorge in capo al privato un diritto
soggettivo pieno (utilizzo di un bene demaniale,
esercizio in regime di monopolio di
un’impresa,
ecc.) che può essere fatto valere anche nei
confronti dei terzi.
ul piano funzionale
l’autorizzazione, come si è
S
visto, è uno strumento di controllo da parte
dell’amministrazione sullo svolgimento
dell’attività allo scopo di verificare
preventivamente che essa non si ponga in
contrasto con le norme che definiscono i
presupposti e i requisiti. L’autorizzazione spesso si
esaurisce uno
actu, senza cioè che si instauri una
relazione con l’amministrazione che
vada al di là di
una generica attività di vigilanza da parte di
quest’ultima sulla
permanenza in capo al soggetto
privato delle condizioni previste dalla legge. La
concessione instaura invece in molti casi un
rapporto di lunga durata con il
concessionario.
Tale rapporto è caratterizzato da diritti e obblighi
reciproci e da
poteri di vigilanza continuativi e
talora anche di indirizzo delle attività poste in
essere in base alla concessione (come nel caso dei
servizi pubblici o
della costruzione e gestione di
opere pubbliche). La concessione costituisce
spesso uno
strumento attraverso il quale
l’amministrazione, anziché provvedere con le
proprie
strutture alla gestione di beni e servizi,
l’affida a soggetti privati (realizzando così
una
esternalizzazione). La concessione può avere
dunque una valenza di tipo
organizzativo e
realizza, come si vedrà meglio nel capitolo XII sui
contratti, una forma di partenariato
pubblico-
privato. Il concessionario può essere tenuto, a
certe condizioni, a rispettare
regole pubblicistiche,
per esempio per l’acquisto di beni e servizi.
Le concessioni si Le concessioni
traslative e
costitutive
suddividono
descrittivamente in
due subcategorie:
concessioni traslative e
costitutive. Le prime trasferiscono in capo a un
soggetto
privato un diritto o un potere del quale è
titolare l’amministrazione. Un esempio è la
concessione dell’uso di un bene demaniale per
l’installazione di uno stabilimento
balneare o di un
186 pontile per l’attracco di imbarcazioni, oppure
la
concessione per l’esercizio dell’attività di
distribuzione dell’energia elettrica o
del gas a
livello comunale. Le seconde attribuiscono al
soggetto privato un nuovo
diritto (per esempio
un’onorificenza).
uanto all’oggetto, invece, le
concessioni sono di
Q
più specie.
Vi sono in primo luogo le
concessioni di beni
pubblici, come in La concessione di beni,
di
servizi pubblici, di
particolare i beni lavori o servizi
demaniali sui quali
possono essere
attribuiti diritti d’uso esclusivo. Esempi sono
l’installazione di un chiosco di giornali sulla
pubblica via, l’estrazione di cave,
l’assegnazione di
radiofrequenze, la derivazione di acque pubbliche
per alimentare una
centrale elettrica.
na seconda specie è data dalle concessioni di
U
servizi pubblici o di
attività ancor oggi sottoposte,
ai sensi dell’art. 43 Cost., a un regime di monopolio
legale o di riserva
di attività a favore dello Stato o
di enti pubblici, come, per esempio, la
trasmissione e
distribuzione dell’energia elettrica, i
giochi e le scommesse.
Una terza specie è data dalle concessioni di
lavori
(per costruire per esempio una tratta autostradale
o un
inceneritore) o di servizi assimilate dal
Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016) a
normali contratti. Infatti, la sola
differenza
rispetto ai contratti di appalto di lavori e di servizi,
aggiudicati
all’esito di una procedura ad evidenza
pubblica, come si vedrà meglio nel capitolo XII,
consiste nel
fatto che nelle concessioni di questo
tipo il corrispettivo non è a carico
dell’amministrazione appaltante. Esso è invece
costituito esclusivamente dal diritto a
gestire
l’opera o il servizio applicando un prezzo o una
tariffa agli utenti (pedaggi
autostradali, tariffe per
l’uso di un parcheggio comunale, ecc.) (art. 3,
comma 1, uu) e vv), d.lgs. n. 50/2016) che
consentono il recupero dei costi per la
realizzazione e la gestione dell’infrastruttura
e il
conseguimento di un utile d’impresa. Esse
perseguono l’obiettivo di evitare esborsi
diretti in
capo all’amministrazione committente.
Rientrano infine nel fenomeno
concessorio alcuni
tipi di sovvenzioni, sussidi e contributi di danaro
pubblico erogati,
spesso con criteri discrezionali,
per il perseguimento di interessi pubblici (sociali,
economici, culturali) alle quali fa riferimento l’art.
12 l. n. 241/1990.
e dall’art. 29 Codice
del processo amministrativo. Entrambe le
disposizioni riprendono la tripartizione
tradizionale dei vizi di legittimità, e cioè
l’incompetenza, l’eccesso di potere e la violazione
203 di legge. Rispetto al regime
precedente, il primo,
come si vedrà, riduce l’area
dell’annullabilità
operando la cosiddetta dequotazione dei vizi
formali. Il secondo
conferma l’impianto
tradizionale dell’azione di annullamento.
La nullità è disciplinata invece dall’art.
21-septies
l.
n. 241/1990, che individua quattro ipotesi tassative,
e
dall’art. 31, comma 4, del Codice che tipizza
l’azione di nullità.
A livello euro peo, Cenni al diritto
europeo
l’art. 263 TFUE, nel
disciplinare il ricorso
alla Corte di
giustizia dell’Unione europea, prevede
che ove esso sia fondato il giudice «dichiara
nullo e
non avvenuto l’atto impugnato». Questa
disposizione viene però interpretata nel
senso che
l’atto è annullabile e l’azione promossa ha natura
costitutiva e non meramente
dichiarativa. Del
resto, secondo la giurisprudenza europea, gli atti
dell’Unione europea
si presumono validi finché
non vengono annullati o revocati dall’istituzione
che li
emana o dal giudice. Quanto alla tipologia
dei vizi l’art. 263, comma 2, TFUE prevede quattro
ipotesi:
l’incompetenza, la violazione delle forme
sostanziali, la violazione dei trattati e di
qualsiasi
regola di diritto relativa alla loro applicazione, lo
sviamento di potere. In
definitiva, anche nel diritto
europeo il regime ordinario dell’invalidità è quello
dell’annullabilità.
13. L’annullabilità
L’incompetenza è un
vizio del provvedimento
adottato da un organo o da un soggetto diverso da
quello
indicato dalla norma attributiva del potere.
Si tratta dunque di un vizio che attiene
all’elemento soggettivo dell’atto. A ben
considerare, l’incompetenza è una sottospecie
della violazione di
legge, poiché la distribuzione
delle competenze tra i soggetti pubblici
e tra gli
organi interni è operata da leggi, regolamenti e
altre fonti normative
pubblicistiche (statuti). Il
rispetto di queste norme è funzionale allo
svolgimento
ordinato delle attività amministrative
e costituisce una garanzia per i destinatari dei
provvedimenti, specie nei casi in cui questi ultimi
producono effetti limitativi o
restrittivi della sfera
giuridica. Si spiega così perché l’incompetenza si
connota
tradizionalmente per un maggior
disvalore rispetto ad altri vizi formali o
procedurali.
Si distingue generalmente tra incompetenza
relativa e assoluta. La Incompetenza relativa
e
assoluta
prima si ha quando
l’atto è emanato da
un organo che
appartiene alla stessa branca,
settore o plesso organizzativo dell’organo titolare
del
potere; la seconda, che determina nullità o
carenza di potere (difetto di attribuzione),
si ha
invece allorché sussiste un’assoluta estraneità
sotto il profilo soggettivo e
funzionale tra l’organo
che ha emanato l’atto e quello competente.
Secondo la
giurisprudenza, l’incompetenza relativa
riguarda appunto «solo la ripartizione dei
compiti
e di funzioni nell’ambito di un unitario plesso
amministrativo (sia pure
spesso inteso, in senso
ampio, come organizzazione anche di più soggetti
o enti diversi,
preposti ad una unitaria funzione)»
(Cons. St., Sez. V, 11 dicembre 2007, n. 6408). Al di
là dei
casi di scuola, la linea di confine tra le due
figure è spesso incerta. Il problema si è
posto, per
esempio, nel caso del decreto di espropriazione
emanato dal presidente della
regione anziché dal
prefetto. Comunque sia, dalla casistica emerge che
il vizio viene
qualificato usualmente come
incompetenza relativa, mentre l’incompetenza
assoluta è un
fenomeno raro.
ul piano meramente
S L’incompetenza per
materia, per
grado, per
descrittivo il vizio di territorio
incompetenza può
essere per materia,
per
grado, per territorio.
’incompetenza per materia attiene
alla titolarità
L
della funzione (per esempio, le materie urbanistica
e commerciale hanno
ambiti di disciplina
contigui); quella per grado all’articolazione interna
degli organi
negli apparati organizzati secondo il
criterio gerarchico (organizzazioni militari o di
polizia); quella per territorio agli ambiti nei quali
gli enti territoriali o le
articolazioni periferiche
degli apparati statali possono operare (per
esempio le
prefetture di due province contigue).
Si fa riferimento talora anche
alla competenza per
valore, che assume rilievo per lo più all’interno di
apparati
pubblici con riguardo alla ripartizione tra
i vari organi del potere di emanare
provvedimenti
206 che comportino esborsi di spesa.
La specificità del Il regime giuridico
regime giuridico
dell’incompetenza rispetto a quello della
violazione di legge sta venendo meno
progressivamente. In primo luogo, la
giurisprudenza più recente ritiene applicabile
anche al vizio di incompetenza l’art. 21-octies,
comma 2, cioè il
principio della dequotazione dei
vizi formali volto a limitare l’annullabilità degli
atti vincolati. Inoltre, a differenza di quanto accade
per i vizi formali, si riteneva
ammessa la convalida
dell’atto da parte dell’organo competente anche in
corso di
giudizio. Tuttavia, l’art. 21-nonies, comma
2, l. n. 241/1990 prevede in via generale la
possibilità della
convalida del provvedimento
annullabile ed è dunque dubbio se sopravviva
ancora questa
specificità del regime
dell’incompetenza.
Peraltro, almeno sotto il profilo
logico, il vizio di
incompetenza assume una priorità rispetto ad altri
motivi formulati
nel ricorso,
nel senso che il
giudice deve prenderlo in esame per primo e, nel
caso in cui accerti il
vizio, deve annullare il
provvedimento, senza esaminare ulteriori motivi
di ricorso,
e rimettere l’affare all’autorità
competente (Cons. St., Ad. Plen., 27 aprile 2015, n.
5).
15. b) La violazione di legge
La violazione di legge
è considerata una categoria
generale residuale, perché in essa confluiscono i
vizi che
non sono qualificabili come incompetenza
o eccesso di potere.
Essa raggruppa tutte le ipotesi di
contrasto tra il
provvedimento e le disposizioni normative
contenute in fonti di rango
primario o secondario
(leggi, regolamenti, statuti, ecc.) che definiscono i
profili
vincolati, formali e sostanziali, del potere.
Si discute se la nozione di violazione di legge
includa anche la La violazione dei
principi
generali
violazione dei
principi generali
dell’azione
amministrativa ai quali fa
esplicitamente o implicitamente rinvio l’art. 1 l. n.
241/1990 (imparzialità, proporzionalità,
irretroattività del provvedimento) in passato
sussunti nella categoria dell’eccesso di
potere. Per
esempio, la disparità di trattamento può essere
qualificata come una violazione
degli artt. 3 e 97
Cost., oppure come una figura sintomatica
dell’eccesso
di potere. Allo stesso modo, il difetto
di motivazione può essere considerato come una
violazione dell’art. 3 l. n. 241/1990. In ogni caso, il
sindacato sulla
discrezionalità
amministrativa in
applicazione di un principio generale (per
esempio, la
proporzionalità, il legittimo
affidamento) comporta un’operazione
ermeneutica più
complessa rispetto
all’accertamento di una difformità tra l’atto e una
prescrizione
normativa che pone un vincolo
puntuale e dunque appare preferibile non operare
una
siffatta inclusione.
La principale distinzione interna alla violazione di
legge è quella, già vista, tra vizi formali (errores in
procedendo) e vizi La dequotazione dei
vizi
formali
sostanziali (errores in
judicando). L’art. 21-
octies, comma 2, l. n. 241/1990 enuclea tra le ipotesi
di violazione di
legge la «violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti», cioè una
subcategoria di vizi formali (errores in procedendo)
che, a certe
condizioni, come si è accennato più
volte, sono dequotati a vizi che non determinano
207 l’annullabilità del provvedimento.
La disposizione pone due
condizioni: che il
provvedimento abbia «natura vincolata»; che
pertanto «sia palese che
il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto
adottato».
La prima condizione rinvia alle
nozioni, già
esaminate, di discrezionalità o vincolatezza in
astratto.
Se si accerta che il potere è integralmente
vincolato, ne discende,
come conseguenza
automatica, anche l’altra condizione, e cioè che
risulta «palese» (cioè
evidente) che, anche in
assenza del vizio formale o procedurale rilevato
(per esempio,
la mancanza del preavviso di rigetto
di una istanza o un vizio nella convocazione di un
organo collegiale), il contenuto del provvedimento
sarebbe rimasto invariato. In questo
caso il
provvedimento non può essere annullato né dal
giudice amministrativo nell’ambito
di un giudizio
di impugnazione, né dalla stessa amministrazione
in sede di esercizio del
potere di autotutela. Infatti
l’art. 21-nonies
l. n. 241/1990 prevede che
l’amministrazione può annullare
il provvedimento
illegittimo ai sensi dell’art. 21-octies «esclusi
i casi
di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2».
Il secondo periodo L’omessa
comunicazione di
dell’art. 21-octies, avvio
del
procedimento
comma 2,
l. n.
241/1990 individua
una fattispecie particolare
costituita dall’omessa
comunicazione dell’avvio del procedimento
disciplinata dagli
artt. 7 ss. della stessa legge per la
quale è previsto un
regime in parte uguale e in
parte diverso da quello del primo periodo, già
esaminato.
Uguale è l’operazione richiesta
all’interprete e cioè la ricostruzione di quello che
sarebbe stato l’esito del procedimento ove tutte le
norme sul procedimento e sulla forma
fossero
state rispettate. Se la conclusione di questa sorta
di simulazione è che il
contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso
da quello in concreto
adottato, l’atto non può
essere annullato.
La disposizione presenta però due
specificità:
manca il riferimento alla natura vincolata del
potere; si richiede
all’amministrazione che ha
emanato l’atto di dimostrare «in giudizio» che il
vizio
procedurale o formale accertato non ha avuto
alcuna influenza sul contenuto del
provvedimento.
Quanto al primo aspetto, la
disposizione include
nel suo campo di applicazione anche i poteri
discrezionali (in
astratto). Solo qualora risulti ex
post, tenuto conto di tutte le
circostanze, che
l’amministrazione non aveva altra scelta legittima
se non quella di
emanare un atto con quel
contenuto (vincolatezza in concreto), può operare
il principio
della non annullabilità per violazione
delle norme formali e procedurali.
Quanto al secondo aspetto, l’onere
della prova
grava La prova in giudizio
sull’amministrazione
nei confronti della
quale sia stato proposto un
ricorso per l’annullamento del provvedimento. Ciò
comporta una deroga al principio che vieta
all’amministrazione di integrare la
motivazione nel
corso del giudizio. Infatti, in questa particolare
fattispecie si ha un
ampliamento dell’oggetto del
giudizio agli elementi forniti dall’amministrazione
per
dimostrare che il vizio formale non ha inciso
sul contenuto del provvedimento impugnato.
Poiché, tuttavia, la prova richiesta dalla
disposizione è una prova negativa (cioè una
probatio diabolica), la giurisprudenza addossa sul
ricorrente
l’onere di allegare in giudizio gli
208 elementi che sarebbero stati prodotti
nell’ambito
del procedimento ove la comunicazione di avvio
del
medesimo procedimento fosse stata effettuata.
’art. 21-octies, comma 2, si inserisce nella
tendenza
L
del nostro ordinamento a valorizzare il principio
di
efficienza ed efficacia dell’azione
amministrativa (amministrazione di
risultato) a
scapito, entro una certa misura, di quello del
rispetto della forma e
dunque della funzione di
garanzia assolta dalle norme relative al
procedimento e alla
forma. Il regime della
legittimità degli atti amministrativi si avvicina così
a quello
degli atti processuali per i quali vale il
principio che «la nullità non può mai
essere
pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è
destinato» (art. 156, comma 3, cod. proc. civ.).
L’art. 21-octies, L’esperienza di altri
ordinamenti
comma 2, si colloca
peraltro
nella scia di
altri ordinamenti. Così in quello tedesco la legge
sul procedimento
amministrativo non consente
l’annullamento di un atto assunto in violazione
delle
disposizioni sul procedimento, sulla forma e
sulla competenza territoriale «ove risulti
in
maniera palese che la violazione non abbia influito
sul contenuto della decisione»
(art. 46 del
Verwaltungsverfahrensgesetz dal quale ha tratto
ispirazione, come risulta dai lavori preparatori, la l.
n. 15/2005).
ell’ordinamento francese il Conseil d’État ha
N
operato una distinzione tra formalités substantielles e
formalités non substantielles, emersa anche nel diritto
europeo. Infatti, l’art. 263, comma 3, TFUE già
citato assegna alla Corte di
giustizia il potere di
pronunciarsi sui ricorsi per «violazione delle forme
sostanziali»
(oltre che per incompetenza,
sviamento di potere e per violazioni del trattato o
di
altra regola di diritto). Tra le forme sostanziali,
la giurisprudenza europea ha incluso
le procedure
di autenticazione di atti, l’assunzione di pareri
obbligatori,
la partecipazione al procedimento
degli interessati.
L’art.
21-octies, comma 2, ha dato origine a dispute
in dottrina e a
una cospicua giurisprudenza non
ancora consolidata. Per esempio, la giurisprudenza
ha
chiarito che la mancanza della motivazione in
un provvedimento integralmente vincolato
non
può giustificare l’annullamento di quest’ultimo, e
ciò vale anche per i
provvedimenti che presentano
margini di discrezionalità allorché dagli atti del
procedimento risultino già in qualche modo le
ragioni sottostanti. Sembra peraltro
prevalente
l’orientamento secondo il quale il difetto di
motivazione non può essere
assimilato alla
violazione di norme procedimentali o ai vizi di
forma e non può essere
dunque considerato un
vizio non invalidante (Consiglio di Stato, Sez. III, 7
aprile 2014, n. 1629).
La disposizione pone varie
questioni
interpretative.
È dubbio anzitutto se essa abbia
rilevanza
sostanziale , se Rilevanza sostanziale o
processuale
attenga cioè al regime
giuridico
del
provvedimento, o soltanto processuale.
In questa seconda visione, l’art. 21-octies,
comma 2,
rileva solo ai fini dell’accertamento della
sussistenza dell’interesse
processuale a ricorrere.
Quest’ultimo manca appunto nei casi in cui il
ricorrente, in
seguito all’annullamento e alla
rinnovazione del procedimento, non possa
attendersi una
decisione diversa da quella già
emanata. L’atto non può essere dunque annullato
dal
giudice, ma, sotto il profilo sostanziale,
continua a essere affetto da illegittimità
che
209 potrebbe portare l’amministrazione a esercitare il
potere
di annullamento
d’ufficio. Questa tesi
sembra oggi smentita dalla modifica dell’art.
21-
nonies
l. n. 241/1990 che, come si è accennato,
esclude
espressamente l’annullamento d’ufficio in
presenza di vizi formali ai sensi dell’art.
21-octies,
comma 2.
Secondo un’altra interpretazione,
la disposizione
avrebbe tipizzato una fattispecie di irregolarità
non invalidante del
provvedimento.
L’irregolarità del provvedimento,
ammessa da
sempre dalla L’irregolarità e la
rettifica
giurisprudenza, è
un’imperfezione
minore del provvedimento che non determina la
lesione di interessi tutelati dalla norma
d’azione.
Danno origine a irregolarità, per esempio, l’erronea
indicazione di un testo
di legge o di una data, un
errore nell’intestazione del provvedimento,
l’omessa
indicazione nell’atto dell’autorità alla
quale può essere proposto il ricorso e del
relativo
termine, la sottoscrizione illeggibile o anche la
mancanza di una firma, un
errore riconoscibile
nell’individuazione dell’oggetto del
provvedimento, ecc.
L’irregolarità non rende
invalido il provvedimento che è suscettibile di
regolarizzazione, attraverso la rettifica del
provvedimento.
I n realtà, il disvalore della
violazione delle norme
sulla forma dell’atto e sul procedimento previsto
dall’art.
21-octies, comma 2, sembra essere maggiore
rispetto a quello di
una mera irregolarità non
lesiva di alcun interesse pubblico apprezzabile,
proprio per
la funzione di garanzia che può essere
riconosciuta agli aspetti formali. Sembra dunque
preferibile una terza interpretazione che qualifica
come illegittimi anche i
provvedimenti non
annullabili ai sensi della disposizione (al riguardo
si è parlato di
«atto meramente illegittimo » per
differenziarlo da L’atto meramente
illegittimo
quello
anche
annullabile). Del
resto, potrebbe sembrare contraddittorio che la
dequotazione dei
vizi formali sia stata prevista
proprio da una legge (l. n. 15/2005) che, come si è
visto, per altri aspetti
introduce nuove garanzie
procedurali (come, in particolare, il cosiddetto
preavviso di
rigetto di un’istanza disciplinato
dall’art. 10-bis).
L’art.
21-octies, comma 2, in definitiva, seguendo
quest’ultima
interpretazione, ha stabilito soltanto
che per taluni atti illegittimi l’annullamento,
vuoi
da parte del giudice vuoi d’ufficio, costituisce una
reazione dell’ordinamento non
proporzionata,
visto che il provvedimento risulta sostanzialmente
legittimo.
Resta peraltro da Altre conseguenze dei
vizi
formali e
appurare quali altre procedurali
conseguenze possano
essere ricollegate ai
vizi
formali e procedurali. La tutela risarcitoria non
sembra percorribile poiché è difficile
configurare
un danno in capo al privato da un atto il cui
contenuto non sarebbe stato
comunque diverso.
Ipotizzabile è invece, a certe condizioni, una
responsabilità di tipo
disciplinare nei confronti del
funzionario al quale sia imputabile la violazione
formale
o procedurale riscontrata.
e jure
condendo, potrebbe essere valutata
D
l’opportunità di introdurre una
sanzione di tipo
pecuniario a carico dell’amministrazione,
analogamente a quanto già
dispone il Codice del
processo amministrativo in materia di contratti
pubblici. In quest’ultimo ambito, il giudice
amministrativo che accerta una violazione
procedurale definita grave dal diritto europeo (per
esempio, la mancata pubblicazione
del bando di
gara) non può disporre sempre e automaticamente
anche l’inefficacia del
contratto. Quest’ultima
possibilità gli è preclusa quando sussistono
210 esigenze
imperative connesse a un interesse
generale che rendono
preferibile mantenere in vita
il contratto aggiudicato illegittimamente. Il giudice
deve
però irrogare alla stazione appaltante una
sanzione pecuniaria (art. 123). Anche nel
caso dei
vizi formali non invalidanti, al giudice
amministrativo potrebbe essere
consentito di
applicare un’analoga sanzione in luogo
dell’annullamento.
16. c) L’eccesso di potere
L’eccesso di potere è
il vizio di legittimità tipico
dei provvedimenti discrezionali. Esso mette in
condizione
il giudice di operare un sindacato che
va oltre la verifica del rispetto dei vincoli
puntuali
posti in modo esplicito dalla norma attributiva del
potere (aspetti
vincolati del potere) e che può
spingersi invece fino alle soglie del merito
amministrativo.
Secondo la ricostruzione più
diffusa, l’eccesso di
potere riguarda l’aspetto funzionale del potere,
cioè il
perseguimento in concreto dell’interesse
pubblico affidato alla cura
dell’amministrazione. Si
spiega così perché si tratta di un vizio sconosciuto
nel
diritto privato. Salvi i casi marginali di abuso
del diritto, nei negozi privati i fini
e i motivi ad essi
sottostanti sono confinati alla sfera interna al
soggetto agente e
sono considerati giuridicamente
irrilevanti. Il regime civilistico dell’invalidità
ammette infatti solo un controllo di tipo
estrinseco sulla capacità del soggetto agente, sugli
aspetti formali e procedurali, sul rispetto delle
norme imperative.
L’eccesso di potere è L’eccesso di potere
come vizio
della
stato ricostruito in funzione
dottrina variamente
come
un vizio della
causa, della volontà, dei motivi, del contenuto del
provvedimento.
L’elaborazione oggi prevalente
[Benvenuti 1950, 3 ss.] lo definisce come vizio della
funzione, intesa come la dimensione dinamica del
potere che attualizza e concretizza la
norma
astratta attributiva del potere in un provvedimento
produttivo di effetti. In tale
passaggio, all’interno
cioè delle fasi del procedimento (istruttoria, fase
decisionale), possono emergere anomalie,
incongruenze e disfunzioni che danno origine
appunto all’eccesso di potere.
i è già ricordato come la figura
primigenia
S
dell’eccesso di potere è lo sviamento di potere
che
consiste nella Lo sviamento di potere
violazione del vincolo
del fine pubblico posto, come si è visto nel
capitolo
III, dalla norma
attributiva del potere. Una siffatta
violazione si ha allorché il provvedimento emanato
persegue un fine diverso (non importa se pubblico
o privato) da quello in relazione al
quale il potere è
conferito dalla legge all’amministrazione. Talvolta
il fine pubblico
non è posto in modo espresso dalla
legge, ma va ricavato in via interpretativa.
Esempi di sviamento di potere sono
il
trasferimento d’ufficio di un dipendente pubblico
non privatizzato, motivato da
esigenze di servizio
(riordino degli uffici), che in realtà ha una finalità
punitiva;
l’ordinanza di un sindaco che impone un
divieto di fermata degli autoveicoli in alcune
strade
motivato con l’esigenza di evitare intralci alla
circolazione, che persegue in
realtà il fine di
disincentivare la prostituzione; lo scioglimento
governativo di un
consiglio comunale per ripetute
violazioni di legge, che sottende però una finalità
211 politica; il provvedimento comunale che nega
l’installazione di
un’antenna di telefonia mobile
per ragioni di tipo urbanistico-edilizio, che in
realtà
persegue il fine sanitario di minimizzare
l’esposizione dei residenti all’inquinamento
elettromagnetico.
Lo sviamento di Le figure sintomatiche
dell’eccesso di potere
potere è peraltro
difficile da provare,
in quanto il
provvedimento, all’apparenza, si
presenta come perfettamente conforme alle
disposizioni
normative che regolano quel
particolare potere. Ciò ha indotto la
giurisprudenza, come
si è accennato, a rilevare il
vizio in via indiretta, attraverso elementi indiziari
del
cattivo esercizio del potere discrezionale
costituiti dalle cosiddette figure
sintomatiche. Con
una metafora, se l’eccesso di potere può essere
visto come una
malattia del provvedimento
discrezionale, la diagnosi va operata
essenzialmente
attraverso i sintomi, cioè le
manifestazioni caratteristiche dell’affezione
rilevabili
dall’osservatore.
e figure sintomatiche
dell’eccesso di potere
L
costituiscono una categoria aperta, non tipizzata
dal
legislatore. Alcune sono ormai consolidate in
dottrina e nella prassi applicativa e si
prestano a
essere classificate secondo vari criteri. Uno di essi
può essere di
riferirle, in ordine logico, alle fasi del
procedimento, distinguendo quelle che
riguardano
la fase istruttoria e quelle che riguardano la fase
decisionale. Un altro
criterio è quello di
distinguere tra figure sintomatiche intrinseche,
che emergono
direttamente dall’analisi del
provvedimento e degli atti procedimentali (per
esempio la
contraddittorietà della motivazione), e
figure sintomatiche
estrinseche, che invece
emergono dal confronto tra il provvedimento ed
elementi di
contesto esterno (direttive, circolari,
criteri fissati in sede di autovincolo
della
discrezionalità, ecc.). Prima di addentrarci nella
ricostruzione teorica delle
figure sintomatiche
conviene analizzarne più da vicino le principali
fattispecie.
c1)
Errore o travisamento dei
fatti. Se il
provvedimento è Le principali figure
sintomatiche
emanato sul
presupposto,
richiamato nell’atto medesimo, dell’esistenza di un
fatto o di una circostanza che
risulta invece
inesistente o, viceversa, della non esistenza di un
fatto o di una
circostanza che invece risulta
esistente emerge la figura dell’eccesso di potere
per
errore di fatto (o anche travisamento dei fatti
o falso supposto in fatto).
i pensi, per esempio,
all’imposizione di un
S
obbligo di bonifica ambientale di un terreno nel
quale invece si
dimostra che non sono presenti
sostanze inquinanti, o comunque che esse non
superano i
valori massimi consentiti dalle norme
vigenti; al diniego di un permesso di costruire a
causa di un vincolo paesaggistico giustificato dalla
natura boschiva del terreno che
invece, ormai da
molti anni, è in gran parte privo di alberi; a un
piano regolatore che
non indichi nelle planimetrie
un edificio del quale è certa la preesistenza.
L’errore di fatto, che spesso
consegue a un’altra
figura sintomatica costituita dal difetto di
istruttoria, può emergere in sede processuale sia
in seguito alla
produzione di prove da parte del
ricorrente, sia in seguito all’esercizio dei poteri
istruttori da parte del giudice amministrativo.
Quest’ultimo non incontra più , come si riteneva in
passato, alcun limite L’accertamento dei
fatti da
parte del
giuridico a un giudice amministrativo
accertamento pieno
dei fatti autonomo
rispetto a quello operato nel provvedimento
212 impugnato.
Non rileva se l’errore è
inconsapevole o volontario.
Inoltre, l’errore di fatto riguarda esclusivamente la
percezione oggettiva della realtà materiale e non
anche il momento, logicamente
successivo, della
valutazione dei fatti da parte dell’amministrazione
rimessa al suo
apprezzamento.
c2)
Difetto di istruttoria. Nella fase istruttoria del
procedimento
l’amministrazione è tenuta ad
accertare in modo completo i fatti, ad acquisire gli
interessi rilevanti e ogni altro elemento utile per
operare una scelta consapevole e
ponderata.
Ove questa attività svolta dal
responsabile del
procedimento manchi del tutto o sia effettuata in
modo frettoloso,
incompleto o poco approfondito,
il provvedimento è viziato sotto il profilo
dell’eccesso
di potere per difetto di istruttoria.
L’amministrazione, per esempio, non può prendere
per buona la ricostruzione di fatti operata dalla
parte privata intervenuta nel
procedimento, ma
deve condurre le opportune verifiche.
Così è illegittima la decadenza da
una concessione
di uso di un bene demaniale ove non risulti
appurato in
modo univoco che l’attività del
concessionario sia posta in essere in violazione
delle
condizioni e dei limiti apposti nel
provvedimento. Un piano urbano del traffico
comunale
non può porre limiti di accesso al centro
storico ove i flussi di traffico non
dimostrino una
situazione di congestione. Non può essere imposto
un vincolo
storico-artistico su un’area nella quale
non sono state condotte indagini sufficienti
che
provino l’esistenza di reperti archeologici
significativi.
A differenza dell’errore di fatto,
nel caso del
difetto di istruttoria non si può escludere che il
quadro fattuale posto
alla base del provvedimento
risulti in effetti esistente e che dunque la scelta
operata
sia corretta, ma l’analisi del
provvedimento e degli atti procedimentali lascia
dubbi in
proposito. Annullato l’atto e posta in
essere una nuova istruttoria, questa volta in
modo
corretto, l’amministrazione ben potrebbe adottare
un atto con il medesimo
contenuto.
c3)
Difetto di
motivazione. Nella motivazione del
provvedimento
l’amministrazione, come si è già
detto, deve dar conto, in sede di decisione, delle
ragioni che sono alla base della scelta operata. Per
quanto sintetica, essa deve
consentire una verifica
del corretto esercizio del potere, cioè dell’iter
logico seguito
per pervenire alla determinazione
contenuta nel provvedimento, traendo le fila degli
elementi istruttori rilevanti e operando la
ponderazione degli interessi.
Il difetto di motivazione ha varie
sfaccettature. La
motivazione può La motivazione
insufficiente
essere in primo luogo
insufficiente,
incompleta o generica, se da essa non traspare in
modo percepibile l’iter
logico seguito
dall’amministrazione e non emergono le ragioni
sottostanti la scelta
operata. Così, per esempio,
per poter imporre un vincolo paesaggistico su un
bene
l’amministrazione deve illustrare perché esso
abbia le caratteristiche che consentano
l’applicazione del regime protettivo e non può
limitarsi ad affermazioni generiche e
apodittiche.
L’insufficienza della motivazione non è solo un
fatto di quantità, ma anche
di qualità, come, per
esempio, nel caso di omessa considerazione
specifica di un
interesse acquisito al procedimento.
213
a l. n. 241/1990 contiene alcune disposizioni che
L
specificano
il contenuto minimo della
motivazione. Così, per esempio, come già visto,
l’amministrazione deve dar conto delle ragioni per
le quali non accoglie le osservazioni
presentate
dall’interessato al quale sia comunicato il
preavviso di
rigetto di un’istanza (art. 10-bis). Un
obbligo di
motivazione analitico è previsto, come
si vedrà nel capitolo VIII, per alcune delibere in
materia di società a partecipazione pubblica.
La motivazione può consistere
soltanto in «un
sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto
ritenuto
risolutivo» nel caso in cui
l’amministrazione ritenga un’istanza
manifestamente
inammissibile o infondata (art. 1,
comma 2, l. n. 241/1990 aggiunto dall’art. 1, comma
38, l. n. 190/2012).
In realtà, non esiste un criterio
univoco per
determinare se una motivazione sia sufficiente. Si
può peraltro ritenere che
quanto più ampia è la
discrezionalità dell’amministrazione e quanto più
gravosi sono gli
effetti del provvedimento nella
sfera soggettiva dei destinatari, tanto più elevato è
lo
standard quantitativo e qualitativo imposto alla
motivazione. Per prassi, per esempio, i
provvedimenti delle autorità amministrative
indipendenti, che spesso hanno un impatto
sui
mercati regolati assai rilevante, sono emanati con
una motivazione particolarmente
ampia, talora con
rinvio a documenti illustrativi degli aspetti tecnici
e di mercato.
Nel caso in cui la
motivazione espliciti una
pluralità di ragioni La prova di resistenza
autonome poste alla
base del provvedimento (per esempio, un
permesso a costruire viene
negato sia perché chi
ha presentato l’istanza non è legittimato, sia
perché il progetto
non è conforme al regolamento
edilizio), è sufficiente che una sola ragione sia
legittima per escludere l’annullabilità dell’atto
(cosiddetta prova di resistenza).
La motivazione può Illogicità,
contraddittorietà,
essere inoltre illogica perplessità della
e contraddittoria, motivazione
allorché essa
contenga
proposizioni o riferimenti a elementi
incompatibili tra loro. Può essere perplessa o
dubbiosa là dove non consenta di individuare con
precisione il potere che
l’amministrazione ha
inteso esercitare. Per esempio, allorché essa
enunci motivi
disparati, riconducibili a norme
attributive di poteri diversi da esercitare ciascuno
per un proprio fine. Può essere questo il caso di un
provvedimento che ordina di
abbattere una
costruzione ove non risulti chiaro se esso è
emanato nell’esercizio del
potere di sanzionare un
abuso edilizio o del potere di prevenire pericoli
all’incolumità
pubblica.
Anche nel caso del difetto di
motivazione, non è da
escludere che, una volta annullato il
provvedimento,
l’amministrazione possa emanarne
uno di contenuto identico, emendato dal vizio
rilevato.
Peraltro, come già accennato, non è
consentito all’amministrazione di integrare o
emendare la motivazione del provvedimento in
sede di giudizio.
Nel caso in cui la motivazione manchi del tutto, il
vizio può essere
qualificato come violazione di
legge, in quanto l’obbligo di
motivazione è ora
previsto espressamente dall’art. 3 l. n. 241/1990.
Una questione La motivazione in
forma
numerica
dibattuta è se nel
caso dei concorsi o
delle procedure di aggiudicazione di
contratti
pubblici l’attribuzione dei punteggi (per esempio,
quelli per la valutazione
delle pubblicazioni o dei
titoli di carriera nei concorsi o per i singoli
214 elementi
qualitativi dell’offerta presentata dalle
imprese che
partecipano alla gara) assolva di per sé
all’obbligo di motivazione oppure se essa debba
essere ulteriormente sviluppata in forma
discorsiva. La giurisprudenza tende a ritenere
legittima la motivazione in forma numerica
qualora siano stati definiti a monte
parametri per
l’attribuzione del punteggio molto analitici,
suddivisi magari anche in
subparametri, con
l’indicazione per ciascun parametro e
subparametro di un numero
massimo di punti
attribuibili.
c4)
Illogicità, irragionevolezza, contraddittorietà. Si
è
già osservato trattando dei principi che presiedono
all’esercizio della
discrezionalità, che il diritto
amministrativo assume, come principio logico
prima ancora che
giuridico, che la pubblica
amministrazione agisca come un soggetto
razionale. Pertanto,
emerge un vizio di eccesso di
potere tutte le volte che il contenuto del
provvedimento e
le statuizioni del medesimo
(enunciate nel dispositivo) fanno emergere profili
di
illogicità o irragionevolezza, apprezzabili in
modo oggettivo in base a canoni di
esperienza.
Per esempio, un provvedimento di
diffida
a
cessare e a porre rimedio a una violazione di una
norma amministrativa non può
assegnare al
diffidato un termine così breve da non poter essere
rispettato. Un bando di
concorso per l’assunzione
di dipendenti pubblici non può richiedere il
possesso di
titoli che non siano correlati alle
mansioni che i vincitori saranno poi chiamati a
svolgere.
Costituisce una sottospecie
dell’illogicità e
irragionevolezza la La contraddittorietà
interna ed
esterna
contraddittorietà
interna (intrinseca)
al provvedimento. Questa emerge, in particolare,
se non vi è
coerenza tra le premesse del
provvedimento e le conclusioni tratte nel
dispositivo. Si
pensi a un piano regolatore che
prevede la destinazione a servizi pubblici di
un’area in cui insistono attività industriali,
contraddicendo la relazione illustrativa
che
enuncia invece l’obiettivo di difendere e
incrementare le attività produttive. Più
in
generale, tutti i passaggi dell’iter argomentativo
seguito dall’amministrazione (ed
esplicitato nella
motivazione) devono essere legati da un rapporto
di consequenzialità
logica.
La contraddittorietà può essere
anche esterna
(estrinseca) al provvedimento, quando è rilevabile
dal raffronto tra
provvedimento impugnato e altri
provvedimenti precedenti dell’amministrazione
che
riguardano lo stesso soggetto. Si pensi per
esempio al provvedimento che esprime una
valutazione non positiva ai fini dell’avanzamento
di carriera di un militare di alto
grado che però ha
ottenuto una serie continua di giudizi encomiastici
in relazione ai
servizi prestati nel corso della
carriera. Se la contraddittorietà riguarda
provvedimenti emanati nei confronti di soggetti
diversi, si ha la figura sintomatica
della disparità
di
trattamento esaminata qui di seguito.
La contraddittorietà intrinseca o
estrinseca
costituisce una violazione del principio di
coerenza che deve presiedere
all’agire della
pubblica amministrazione.
c5)
Disparità di trattamento. I principi di coerenza e
di uguaglianza
impongono all’amministrazione di
trattare in modo uguale casi
uguali.
Il vizio può emergere sia allorché
casi uguali siano
trattati in modo disuguale, sia allorché casi
disuguali siano trattati
in modo uguale. Per
stabilire in concreto se le situazioni da confrontare
215 siano
identiche o differenziate va utilizzato il
criterio della
ragionevolezza. Il vizio in questione
emerge di frequente nei giudizi comparativi, nelle
progressioni di carriera o nel riconoscimento di
altri benefici ai dipendenti pubblici,
oppure nelle
classificazioni dei terreni contenute nei piani
regolatori ai fini di
individuarne le destinazioni
d’uso.
Perché possa essere censurata la
disparità di
trattamento è necessario che il provvedimento sia
discrezionale (il vizio
non è deducibile nel caso di
atti vincolati). Inoltre la comparazione deve
riferirsi a
provvedimenti legittimi. L’emanazione di
un atto illegittimo a favore di uno o più
soggetti
non può cioè fondare la pretesa di un altro
soggetto a vedersi riconoscere,
sempre
illegittimamente, la stessa utilità. Per esempio, il
fatto che una sanzione
amministrativa non venga
irrogata, per negligenza, lassismo o per altre
ragioni, nei
confronti di alcuni soggetti in
relazione a un divieto di sosta, a un abuso edilizio
o
all’occupazione non autorizzata del suolo
pubblico non può essere invocato a
giustificazione
da altri soggetti ai quali sia contestata un’analoga
violazione e
pertanto non è viziato da disparità di
trattamento il provvedimento sanzionatorio
emanato.
c6)
Violazione
delle circolari e delle norme interne,
della
prassi amministrativa. Come si è visto, l’attività della
pubblica
amministrazione deve essere posta in
essere non solo in conformità con le disposizioni
contenute in leggi, regolamenti e in altre fonti
normative (rispetto alle quali può
insorgere, come
si è visto, il vizio di violazione di legge). Essa deve
essere conforme
anche alle norme interne
contenute in circolari, direttive, atti di
pianificazione o altri atti contenenti criteri e
parametri di vario tipo
(anche posti in sede di
autovincolo alla discrezionalità) che hanno come
scopo quello di
orientare l’esercizio della
discrezionalità da parte dell’organo competente a
emanare il
provvedimento.
I principi di coerenza e di
rispetto dell’assetto
organizzativo dell’amministrazione (articolazione
in organi e uffici
sovraordinati e sottordinati)
richiedono che l’organo titolare di un potere
discrezionale, nel momento in cui emana un
provvedimento, tenga conto delle norme
interne.
Se ciò non accade emerge un sintomo dell’eccesso
di potere. Per evitare di
cadere in questo vizio il
titolare del potere deve esplicitare nella
motivazione le
ragioni per le quali ha ritenuto di
disattendere nel caso concreto le prescrizioni
poste
dalle norme interne.
Una particolare specie di norma
interna è
costituita dalla prassi amministrativa che, come si
è accennato, si forma
all’interno delle
amministrazioni attraverso una serie di
comportamenti e decisioni
assunte in situazioni
similari. Anch’essa crea un vincolo di coerenza e di
parità di
trattamento. Pertanto, se
l’amministrazione disattende in un caso
particolare la prassi seguita in precedenza senza
motivare le ragioni che giustificano
una siffatta
deviazione, l’atto è affetto da eccesso di potere.
c7)
Ingiustizia grave e manifesta. In qualche rara
occasione la
giurisprudenza, per ragioni
essenzialmente equitative, si spinge fino al punto
di
censurare provvedimenti discrezionali il cui
contenuto appaia manifestamente ingiusto.
Il caso dal quale trae origine
questa figura
sintomatica risale agli anni Venti del secolo scorso
216 e riguarda l’esonero
dal servizio per scarso
rendimento di un dipendente delle
ferrovie (Cons.
St., Sez. IV, 5 giugno 1925, n. 565). Quest’ultimo
aveva subito un
incidente sul lavoro con effetti
disabilitanti permanenti e ciò aveva indotto in un
primo momento l’amministrazione ad adibirlo a
mansioni meno impegnative, piuttosto che
collocarlo subito a riposo per inabilità dovuta a
causa di servizio. A breve distanza di
tempo il
dipendente veniva però esonerato per scarso
rendimento. Il vizio è stato
rilevato anche in casi di
richiesta di restituzione di emolumenti erogati a
un
dipendente pubblico dall’amministrazione sulla
base di un’interpretazione erronea delle
norme
vigenti, senza tener conto della sua situazione
patrimoniale di impossibilità di
soddisfare i
bisogni essenziali della vita.
L’ingiustizia
manifesta è una figura sintomatica
che si colloca al confine tra il
sindacato di
legittimità e il sindacato di merito. Perché non si
debordi nel merito il
carattere ingiusto del
provvedimento deve essere «manifesto», cioè di
immediata evidenza
per qualsiasi persona di
sensibilità media. Del resto, com’è stato osservato
[Capaccioli
1983, 289], anche nel diritto privato il
giudice può dichiarare nulla la determinazione
dell’oggetto del contratto rimessa dalle parti a un
terzo arbitratore ove essa sia
«manifestamente
iniqua o erronea» (art. 1349 cod. civ.).
Altre figure Altre figure
sintomatiche
sintomatiche hanno
una
configurazione
più dubbia. Talora in esse vengono infatti inclusi
anche i vizi della
volontà, la violazione dei principi
di proporzionalità e del legittimo affidamento. In
particolare, il principio di proporzionalità può
essere ricondotto, come si è
accennato, al
principio più generale di ragionevolezza. Pertanto
la violazione del
principio di proporzionalità si
presta a essere sussunta nella categoria
dell’eccesso di
potere. Anche il disconoscimento
del legittimo affidamento ingenerato
dall’amministrazione può essere visto come una
violazione del principio di coerenza
dell’azione
amministrativa, a sua volta riconducibile al canone
della logicità. Questi
principi generali peraltro,
come si è visto, hanno ormai un fondamento
legislativo
tramite il rinvio all’ordinamento
europeo contenuto nell’art. 1 l. n. 241/1990 e
pertanto la loro violazione può
essere qualificata
come violazione di legge.
In passato, veniva annoverata tra le figure
sintomatiche dell’eccesso
di potere anche la
violazione o elusione del giudicato amministrativo,
ora attratta
dalla l. n. 241/1990 nella categoria della
nullità. Non è da
escludere che possano emergere
anche nuove figure, come per esempio, sulla scia
dell’ordinamento francese, l’eccesso di potere in
relazione all’errata analisi
costi-benefici della
scelta operata nel provvedimento, cioè a una scelta
discrezionale
onerosa per l’amministrazione e i
destinatari del provvedimento senza che essa sia
suscettibile di portare a risultati significativi in
termini di conseguimento
dell’interesse pubblico.
La giustificazione teorica delle
figure sintomatiche
dell’eccesso di potere è controversa.
▶
L’annullamento
d’ufficio. Come si è più
volte sottolineato, la misura
specifica per reagire
all’illegittimità del provvedimento è costituita
dall’annullamento
con efficacia ex tunc dell’atto
emanato.
L’annullamento del provvedimento
illegittimo può
essere pronunciato, Le tipologie di
annullamento
sotto il profilo doveroso
soggettivo, dal
giudice
amministrativo, dalla stessa amministrazione in
sede di esame
dei ricorsi
amministrativi (in
particolare i ricorsi gerarchici), dagli organi
amministrativi preposti al controllo di legittimità
di alcune categorie di
provvedimenti. In queste
ipotesi l’annullamento è doveroso, nel senso che
deve essere
necessariamente pronunciato ove sia
accertato un vizio.
’annullamento d’ufficio ha invece
carattere
L
discrezionale e costituisce una delle
manifestazioni del potere di
autotutela della
pubblica amministrazione.
Il potere in questione può essere
esercitato dallo
stesso organo che ha emanato l’atto (cosiddetto
autoannullamento) o da
altro organo al quale sia
attribuito per legge (per esempio l’annullamento
gerarchico)
o, a livello statale, dal ministro nei
confronti degli atti adottati dai dirigenti
ex
art. 14,
comma 3, d.lgs. n. 165/2001.
Una specie particolare di annullamento d’ufficio è
quello attribuito
al Consiglio dei ministri nei
confronti di tutti gli atti degli apparati statali e
locali (art. 2, comma 3, lett. p), l. n. 400/1988 e art.
138 d.lgs. n. 267/2000). Si tratta del cosiddetto
annullamento straordinario del governo a «tutela
dell’unità dell’ordinamento» in
particolare contro
il rischio che gli enti locali assumano
determinazioni aberranti.
Proprio per la sua
particolare delicatezza, esso richiede l’acquisizione
preventiva di
un parere del Consiglio
di Stato.
Come esempi si possono ricordare l’annullamento
dello statuto
del Comune di Genova che attribuiva
l’elettorato attivo agli stranieri residenti,
oppure,
nella fase iniziale della pandemia da Covid-19,
l’annullamento di un’ordinanza
del sindaco di
Messina che subordinava a un nullaosta del
comune gli ingressi in Sicilia
attraverso il proprio
porto (recependo il parere del Cons. St., Sez. I, 7
221 aprile 2020,
n. 260).
Il potere di annullamento d’ufficio può essere
esercitato in quattro I presupposti
dell’annullamento
presupposti d’ufficio
esplicitati dall’art. 21-
nonies
l. n. 241/1990.
1. Il primo è che il provvedimento sia
«illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies», e
dunque,
come si è visto, sia affetto da un vizio
di violazione di
legge, di incompetenza o di
eccesso di
potere. Non si deve però ricadere
in una delle ipotesi di vizi
formali di cui al
comma 2 dell’articolo in questione.
2. Devono inoltre
sussistere «ragioni di interesse
pubblico», rimesse
alla valutazione
discrezionale dell’amministrazione, che
rendano preferibile la
rimozione dell’atto e
dei suoi effetti piuttosto che la loro
conservazione, pur
in presenza di
un’illegittimità accertata. L’interesse astratto
al ripristino
della legalità violata non è
sufficiente, ma l’amministrazione deve porre a
fondamento un altro interesse pubblico che
deve essere presente al momento in
cui è
disposto l’annullamento d’ufficio. Tale è, per
esempio, l’interesse alla
concorrenza nel caso
di affidamento di un contratto pubblico senza
esperire la
procedura di gara (cioè fuori dai
casi tassativi nei quali ciò è consentito),
oppure l’interesse dello Stato a evitare
l’irrogazione di sanzioni per
violazioni del
diritto europeo.
3. È richiesta in terzo luogo una
ponderazione di
tutti gli interessi in gioco da esplicitare nella
motivazione.
Devono essere valutati,
specificamente, oltre all’interesse pubblico
all’annullamento, da un lato, quello del
destinatario del provvedimento, che per
esempio ha ottenuto un provvedimento
favorevole (come un’autorizzazione o una
concessione)
tale da ingenerare una
situazione di affidamento; dall’altro quello
degli
eventuali controinteressati, come, per
esempio, i proprietari di terreni
confinanti
con quello in relazione al quale è stato
rilasciato un permesso a
costruire illegittimo.
4. Infine, la valutazione discrezionale
deve tener
conto del fattore temporale. L’annullamento
può essere disposto
«entro un termine
ragionevole», principio espresso dalla
giurisprudenza europea
e previsto anche in
altri ordinamenti. Se infatti è trascorso un
lungo lasso di
tempo dall’emanazione del
provvedimento illegittimo, prevale
tendenzialmente
l’interesse a mantenere
inalterato lo status quo e a
tutelare
l’affidamento creato. Se invece
l’amministrazione rileva immediatamente
l’illegittimità del provvedimento emanato,
magari prima ancora che esso sia
portato a
esecuzione, essa può procedere
all’annullamento d’ufficio senza dover
valutare in modo approfondito interessi
diversi dal mero ripristino della
legalità.
Rientra nella discrezionalità
dell’amministrazione stabilire se il
termine è
«ragionevole» e ciò introduce un elemento di
incertezza sulla
stabilità dei rapporti giuridici
amministrativi. Proprio per ovviare a ciò,
almeno per alcuni tipi di provvedimenti (di
autorizzazione e di attribuzione di
vantaggi
economici), il termine decorso il quale
l’amministrazione decade dal
potere è stato
ridotto a dodici mesi (art. 63, comma 1, della
legge 29 luglio
2021, n. 108).
▶
La conferma e
l’atto confermativo.
All’esito di un procedimento di
riesame aperto su
sollecitazione di un privato o anche d’ufficio e
dell’istruttoria,
l’amministrazione può convincersi
che il provvedimento non è affetto da alcun vizio.
In
questi casi l’amministrazione emana un
223 provvedimento di conferma.
In giurisprudenza si distingue tra
conferma, che
costituisce un provvedimento autonomo dal
contenuto identico rispetto a
quello oggetto del
riesame, e atto meramente confermativo. Con
quest’ultimo
l’amministrazione si limita a
comunicare al privato che chiede il riesame
(magari perché
non può più proporre un ricorso
giurisdizionale contro il medesimo atto a causa
dell’avvenuta
scadenza del termine perentorio di
60 giorni) che non vi sono motivi per riaprire il
procedimento e procedere a una nuova istruttoria.
L’atto meramente confermativo non ha
valenza
provvedimentale e dunque non è suscettibile di
impugnazione.
▶ La
conversione. Ai provvedimenti nulli e
annullabili si ritiene generalmente
applicabile,
anche in assenza di una disposizione legislativa
espressa, la conversione
(ma anche in questo caso
si tratta di un istituto controverso), sulla falsariga
del
modello civilistico (art. 1424 cod. civ.).
▶ La
revoca. Gli atti ai quali si è fatto sin qui
cenno sono
assunti all’esito di procedimenti di
secondo grado aventi per oggetto provvedimenti
affetti da invalidità. Ma anche i provvedimenti
validi sono passibili di un riesame che
ha invece
per oggetto il merito (opportunità), cioè la loro
conformità all’interesse
pubblico. Interviene qui
uno degli istituti più caratteristici del diritto
amministrativo, cioè la revoca del provvedimento.
Il diritto privato infatti non
ammette, di regola,
uno jus poenitendi relativo ad atti che abbiano
già
prodotto effetti nella sfera giuridica di terzi e ciò
in relazione al principio
della stabilità e della
certezza dei rapporti giuridici. Un caso eccezionale
è quello
della revoca della donazione per
ingratitudine o per sopravvenienza di figli (art. 800
cod. civ.). Diversa è invece la revoca del
testamento, che si riferisce a un atto che non ha
ancora prodotto effetti nella sfera
degli eredi e
degli altri beneficati (artt. 679 ss. cod. civ.), oppure
quella della proposta
contrattuale che è ammessa
fin tanto che il contratto non è concluso (art. 1328,
comma 2, cod. civ.).
Nel diritto amministrativo,
invece, la revoca è
considerata come La revoca come
espressione del
potere
una manifestazione di autotutela
del potere di
autotutela della
pubblica amministrazione ed è ammessa da
sempre dalla
giurisprudenza. Tra i casi più risalenti
può essere ricordato quello delle concessioni
di
illuminazione a gas rilasciate a livello comunale,
revocate in seguito alla
possibilità d’impiego di
lampade elettriche, oppure quello delle
concessioni per il
trasporto locale con carrozze a
cavallo revocate in seguito alla diffusione dei
mezzi
meccanici.
I l potere di revoca, che ha
carattere discrezionale,
è giustificato dall’esigenza di garantire nel tempo
la
conformità all’interesse pubblico dell’assetto
giuridico derivante da un provvedimento,
esigenza
che è ritenuta prevalente rispetto a quella di tutela
degli affidamenti creati.
Esso dà una connotazione
di precarietà e instabilità al rapporto giuridico
amministrativo.
L’art.
21-quinquies
l. n. 241/1990 pone una disciplina
generale della revoca
precisandone i presupposti e
gli effetti.
La disposizione distingue
anzitutto due fattispecie:
la revoca per La revoca per
sopravvenienza
sopravvenienza e
la
revoca espressione
224 dello jus
poenitendi.
a revoca per sopravvenienza si ha
in due ipotesi
L
tipizzate. La prima ipotesi è la revoca per
«sopravvenuti motivi di
pubblico interesse», che
interviene allorché l’amministrazione opera una
rivalutazione
dell’assetto degli interessi alla luce di
fattori ed esigenze sopravvenuti, cioè non
presenti
al momento in cui l’atto era stato emanato. Un
esempio può essere la
destinazione di un tratto di
spiaggia o di uno spazio acqueo non più a
balneazione o a
coltivazione di mitili, ma a riserva
naturale che giustifica la revoca delle concessioni
già rilasciate. È riconducibile alla revoca per
sopravvenuti motivi di interesse
pubblico il
recesso dagli accordi integrativi o sostitutivi del
provvedimento previsto
dall’art. 11, comma 4, l. n.
241/1990.
Una seconda ipotesi di revoca per
sopravvenienza
è quella per «mutamento della situazione di fatto»
non prevedibile al
momento dell’adozione del
provvedimento, ipotesi peraltro sovrapponibile
all’altra.
Infatti, l’esigenza di rivalutare l’interesse
pubblico dipende spesso da mutamenti della
situazione di fatto, quali, per esempio, l’emersione
di nuove tecnologie (come nel caso
già ricordato
della revoca della concessione di illuminazione a
gas), un incremento
demografico, una modifica
della situazione di mercato, ecc.
Passando a considerare la seconda fattispecie della
revoca jus poenitendi, La revoca jus
poenitendi
essa riguarda
l’ipotesi
di «nuova valutazione dell’interesse pubblico
originario», nei casi in cui
l’amministrazione si
rende conto di aver compiuto una ponderazione
errata degli
interessi nel momento in cui ha
emanato il provvedimento. Si tratta di un’ipotesi
controversa, che legifica quasi un «diritto
all’arbitrio o al capriccio» in contrasto
con il
principio del
legittimo affidamento [Corso 2010,
437], e di dubbia compatibilità con
il diritto
europeo. Nel 2014 l’art. 21-quinquies
l. n. 241/1990 è
stato modificato nel senso di vietare
questo tipo di
revoca in relazione ai provvedimenti di
autorizzazione o attribuzione di
vantaggi
economici e ciò al fine di attribuire almeno in
alcuni ambiti maggiore
stabilità e certezza al
rapporto giuridico amministrativo.
otto il profilo soggettivo la
revoca può essere
S
disposta «dallo stesso organo che ha emanato
l’atto ovvero da altro
organo previsto dalla legge».
Nell’equilibrio dei poteri spettanti al ministro e ai
dirigenti, che verrà esaminato nel capitolo X, il
d.lgs. n. 165/2001 esclude espressamente che il
primo possa
revocare gli atti emanati dai secondi,
mentre prevede, come già visto, che possa
annullarli d’ufficio (art. 14, comma 3).
A differenza L’efficacia ex
nunc della
revoca
dell’annullamento
d’ufficio, che ha
efficacia retroattiva (ex
tunc), la revoca «determina
l’inidoneità del provvedimento revocato a
produrre ulteriori effetti» (opera cioè ex nunc).
a revoca ha tipicamente per
oggetto
L
provvedimenti «a efficacia durevole», come per
esempio le concessioni di
servizi
pubblici. Ma il
comma 1-bis, nel disciplinare
l’indennizzo, fa
riferimento anche ad atti aventi «efficacia […]
istantanea» nei casi in
cui incidano su rapporti
negoziali. Peraltro, si ritiene generalmente che non
sono
suscettibili di revoca i provvedimenti che
hanno già esaurito gli effetti o siano stati
interamente eseguiti. Per esempio, per ragioni
logiche prima ancora che giuridiche non
può
essere revocato un ordine già interamente
225 eseguito. Del pari, non
sono suscettibili di revoca
gli atti vincolati (per i quali non
si può porre, per
definizione, un problema di valutazione
dell’interesse pubblico) e più
in generale le
certificazioni e le valutazioni tecniche. Non è
revocabile neppure il
permesso a costruire (art. 11,
comma 2, d.lgs. n. 380/2001).
L’art. 21-quinquies L’obbligo
dell’indennizzo
prevede un obbligo di
indennizzo nei casi in
cui la revoca «comporta pregiudizi in danno dei
soggetti direttamente interessati».
rima dell’introduzione di questo articolo nel
P
2005, l’indennizzo era
previsto dalla legge solo in
rare fattispecie. Per esempio, il r.d. 15 ottobre 1925,
n. 2578 in materia di servizi pubblici
locali già
imponeva l’obbligo di corrispondere al gestore un
equo
indennizzo e dettava alcuni criteri per la
quantificazione (art. 24) in caso di revoca
della
concessione. Anche in materia di accordi
integrativi e sostitutivi del provvedimento,
come
si è già accennato, l’art. 11 l. n. 241/1990 stabilisce
l’obbligo di indennizzo
in caso di recesso.
I commi 1-bis
e 1-ter dell’art. 21-quinquies pongono
alcuni
criteri per I criteri di
quantificazione
quantificare
l’indennizzo in caso
di
revoca di atti che incidono su rapporti negoziali.
L’indennizzo è limitato al danno
emergente,
escludendo così il lucro cessante. Inoltre è
suscettibile di una riduzione
anzitutto in relazione
alla «conoscenza o conoscibilità da parte dei
contraenti della
contrarietà dell’atto oggetto di
revoca all’interesse pubblico». Si tratta di una
disposizione di dubbia opportunità perché
presuppone che sia onere anche del soggetto
privato operare una valutazione dell’interesse
pubblico che invece, nella dinamica del
rapporto
giuridico amministrativo, spetta esclusivamente
alla pubblica amministrazione.
Una riduzione è
stabilita inoltre nel caso di «concorso dei
contraenti o di altri
soggetti all’erronea
valutazione della compatibilità di tale atto con
l’interesse
pubblico». Anche questa disposizione è
criticabile, perché non si vede per quale ragione
il
comportamento di soggetti terzi possa incidere
sulle vicende di un rapporto giuridico
amministrativo del quale non sono parte.
Sotto il profilo procedimentale,
la revoca è un
procedimento di secondo grado che si apre con la
comunicazione di avvio
ed è aperto alla
partecipazione dei soggetti interessati. Il
provvedimento deve essere
motivato.
La revoca di cui all’art.
21-quinquies va distinta
dalla
cosiddetta La revoca
sanzionatoria e il
mero
revoca sanzionatoria ritiro
(o anche decadenza)
e dal mero ritiro.
La prima può essere disposta
dall’amministrazione
nel caso in cui il privato, destinatario di un
provvedimento
favorevole, non rispetti le
condizioni e i limiti in esso previsti (come per
esempio il
ritiro di un porto d’armi in caso di
abuso), oppure non intraprenda l’attività oggetto
del provvedimento entro il termine previsto (come
nel caso dell’autorizzazione
commerciale o del
permesso a costruire). Usualmente nelle
concessioni-contratto la
convenzione definisce le
tipologie di violazioni che possono dar origine alla
revoca
sanzionatoria che in taluni casi costituisce
addirittura un atto vincolato.
Il mero ritiro ha per oggetto atti
amministrativi
non ancora efficaci. Può avvenire per ragioni di
legittimità o anche di
merito e non necessita di
una valutazione specifica dell’interesse pubblico e
226 degli
interessi dei destinatari del provvedimento, e
ciò proprio
perché non ha ancora inciso in modo
diretto su situazioni giuridiche soggettive di
soggetti terzi. In questo senso il mero ritiro è
assimilabile alla revoca del testamento
o della
proposta contrattuale.
▶ Il recesso dai
contratti. L’art. 21-sexies l. n.
241/1990 disciplina anche il recesso dai contratti
della pubblica amministrazione prevedendo che
esso sia ammesso solo «nei casi previsti
dalla legge
o dal contratto». Si tratta di una disposizione che
riguarda l’attività
negoziale di diritto privato della
pubblica amministrazione ed è impropria pertanto
la
sua collocazione nella l. n. 241/1990, atteso che il
recesso non ha di regola
natura provvedimentale.
Una fattispecie particolare di recesso dai contratti
è prevista dalla
normativa antimafia nei casi in cui
emergano, anche in seguito all’assunzione di
informazioni da parte della pubblica
amministrazione, tentativi di infiltrazione da
parte
della criminalità organizzata (art. 4 d.lgs. 8 agosto
1994, n. 490). Nel settore delle
opere pubbliche,
come si vedrà meglio nel capitolo XII, la stazione
appaltante ha il diritto di
recedere in qualsiasi
tempo dal contratto previo pagamento dei lavori
eseguiti, del
valore dei materiali utili esistenti in
cantiere e di un utile di impresa determinato in
modo forfettario nel 10% delle opere non più
eseguite (art. 109, comma 1, Codice dei contratti
pubblici che
riprende l’antica disposizione
contenuta nell’art. 345 l. n. 2248/1865, All. F sui
lavori pubblici).
Questa disposizione è richiamata
dalla giurisprudenza anche ai fini della
quantificazione forfettaria del danno subito dalle
imprese nell’ambito delle procedure
di
aggiudicazione dei contratti.
CAPITOLO 5
Il procedimento
227
1. Nozione e
funzioni del
procedimento
Come si è visto nel capitolo III, il procedimento
amministrativo
è dato dalla sequenza di atti e
operazioni posti in essere in vista dell’emanazione
di
un provvedimento produttivo di effetti nella
sfera giuridica di un soggetto privato.
Il procedimento è una nozione di teoria
generale
collegata alle Fatti semplici e fatti
complessi
modalità di
produzione di un
effetto giuridico. Nello schema già
esaminato
norma-fatto-effetto, l’effetto giuridico si produce
alcune volte al
verificarsi di un singolo
accadimento (fatto giuridico semplice); altre volte
al
verificarsi di una pluralità di accadimenti (fatti
complessi). Così la conclusione di un
contratto
richiede una duplice manifestazione di volontà
(proposta e accettazione,
secondo l’art. 1326 cod.
civ.). Il compimento di un atto negoziale da
parte
di chi è sottoposto a regime di tutela richiede, oltre
alla dichiarazione di
volontà del tutore, il parere
del giudice tutelare e l’autorizzazione del
tribunale (art. 375 cod. civ.).
Nel caso di fatti complessi
l’effetto giuridico deriva
dunque da una combinazione di eventi,
comportamenti o atti
che devono verificarsi o
essere posti in essere in parallelo o in sequenza
(fattispecie
a formazione successiva).
Nella fattispecie a La fattispecie
complessa a
formazione formazione successiva
successiva l’effetto
giuridico si produce
solo allorché la
sequenza si è integralmente
realizzata secondo l’ordine normativamente dato.
Prima di
tale momento possono sorgere tutt’al più
effetti prodromici. Così, per esempio, nel
contratto sottoposto a condizione (sospensiva o
risolutiva), già in pendenza di
quest’ultima sorge
in capo alle parti il dovere di comportarsi secondo
buona fede in
modo tale da conservare integre le
228 ragioni dell’altra parte (art. 1358 cod. civ.). Nella
vendita
di cosa futura, l’effetto traslativo si
realizza allorché la cosa viene ad esistenza
(art.
1472 cod. civ.), ma in capo al venditore sorge subito
l’obbligo di non impedire che la cosa venga in
essere.
estano invece esterni alla
fattispecie i cosiddetti
R
presupposti , cioè I presupposti
fatti che non
concorrono direttamente alla produzione
dell’effetto giuridico, ma che si collocano per
così
dire a monte della fattispecie e ne condizionano
l’operatività. Così, per esempio,
lo stato di
abbandono di una cosa mobile è il presupposto per
l’acquisto della proprietà
tramite occupazione (art.
923 cod. civ.); la morte di una persona è il
presupposto
per l’apertura della successione (artt.
456 ss. cod. civ.).
a fattispecie complessa a
formazione successiva,
L
secondo alcuni, costituisce la matrice unificante
del negozio
giuridico privato e dell’atto
amministrativo. In realtà, nel diritto privato il
procedimento ha
avuto uno sviluppo limitato. Nel
diritto pubblico, al contrario, come si è visto, il
procedimento è la modalità ordinaria di esercizio
dei poteri dello Stato (legislativo,
esecutivo,
giurisdizionale) proprio in relazione alle esigenze
di trasparenza e di
garanzia dei soggetti interessati.
Nel diritto La genesi storica della
nozione
amministrativo,
dopo una fase nella
quale la nozione di
procedimento fu ignorata, a
partire dalla seconda metà del secolo scorso
essa
assunse un rilievo crescente in dottrina e
giurisprudenza. Con la l. n. 241/1990 il
procedimento è assurto al rango di istituto
cardine
del sistema.
In origine, dopo la legge del 1889 istitutiva della IV
Sezione del Consiglio di
Stato, l’attenzione della
giurisprudenza e della dottrina si concentrò
esclusivamente sull’atto amministrativo. Il
problema più immediato, dovuto alla
necessità di
definire le caratteristiche del nuovo rimedio
processuale, fu infatti
quello di distinguere gli atti
impugnabili da quelli non impugnabili (come per
esempio
un semplice parere o una proposta).
Inoltre, i tempi non erano maturi
per far emergere
la rilevanza giuridica degli atti e delle operazioni
prodromici
all’emanazione del provvedimento. In
primo luogo, infatti, l’organizzazione delle
amministrazioni era ritenuta irrilevante per il
diritto, e pertanto tutto ciò che
accadeva a monte
del provvedimento (gli atti prodromici di
competenza dei vari uffici)
era relegato alla sfera
interna dell’amministrazione: il solo punto di
contatto tra gli
apparati pubblici e la sfera giuridica
dei soggetti privati era rappresentato dall’atto
produttivo di effetti autoritativi. In secondo luogo,
la procedimentalizzazione
dell’attività ai fini di
coordinamento tra apparati e organi non era
un’esigenza avvertita in un’epoca in cui la struttura
dell’amministrazione era compatta
e ruotava
intorno al modello ministeriale: il criterio
gerarchico garantiva di per sé il
coordinamento e
l’unitarietà dell’azione amministrativa. Infine, la
concezione
autoritaria dei rapporti tra Stato e
cittadino poneva in secondo piano le garanzie a
favore di quest’ultimo, sotto forma di
partecipazione alla formazione dell’atto
imperativo.
Il procedimento trovò ingresso nel
diritto
amministrativo negli L’atto complesso
anni Trenta del
secolo scorso
come sviluppo delle acquisizioni
della teoria generale in tema di fattispecie. Venne
così elaborata anzitutto la nozione di atto
complesso, cioè del provvedimento che è il
frutto
229 della confluenza di manifestazioni di volontà
provenienti da più soggetti, tutte necessarie ai fini
della produzione dell’effetto
giuridico. Si pensi per
esempio a un decreto reale assunto su proposta di
un ministro,
oppure all’atto emanato da un organo
collegiale. Emersero via via distinzioni più
sofisticate (atto composto, continuato, ecc.),
anche in relazione all’omogeneità o
disomogeneità
e al carattere servente o primario delle
manifestazioni di volontà
[Ranelletti 1894]. Fu
proposto anche il concetto ambiguo di atto-
procedimento.
el procedimento
D Le principali
ricostruzioni
amministrativo sono
state offerte in
dottrina varie
ricostruzioni.
1. La prima elaborazione organica, che risale al
1940 [Sandulli 1940],
operò un’analisi formale e
strutturale degli atti e delle operazioni della
sequenza
procedimentale e delle fasi in cui questa
è articolata (fase preparatoria, costitutiva,
integrativa dell’efficacia).
2. Un’altra ricostruzione collocò invece il
procedimento all’interno
della dinamica del potere
(considerato come funzione), cioè come
«momento della
concretizzazione del potere in un
atto» [Benvenuti 1950, 1 ss.; 1952, 112], ovvero della
trasformazione del potere (in astratto) in un atto
produttivo di effetti nella sfera
giuridica di un
determinato soggetto (potere in concreto). Se, per
usare un’immagine, il
potere è una fonte che
sprigiona energia giuridica, quest’ultima viene
incanalata in
sequenze procedimentali tipiche. Il
procedimento, cioè «la storia causale dell’atto»,
non è altro che la forma o «manifestazione
sensibile della funzione».
1. Una prima funzione, che emerge già nelle prime
due ricostruzioni del
procedimento sopra
esaminate, è consentire un controllo
sull’esercizio
del potere (soprattutto ad opera del giudice),
attraverso una verifica
del rispetto della sequenza
degli atti e operazioni normativamente predefinita.
La
legalità assume così una dimensione
procedurale, oltre che sostanziale.
procedimenti di
regolazione. Ad essi non si applicano di regola,
come si è
accennato, le disposizioni sulla
partecipazione previste dalla l. n. 241/1990 (art. 13,
comma 1), ma sempre più spesso la partecipazione
è
imposta dal diritto europeo specie con riguardo
agli atti di regolazione delle
autorità
indipendenti.
Per i procedimenti di regolazione di competenza
delle
autorità preposte ai mercati finanziari, per
esempio, la legge sul risparmio prevede che
esse
debbano consultare preventivamente gli organismi
rappresentativi dei soggetti
vigilati, dei prestatori
di servizi finanziari e dei consumatori (art. 23 l. n.
262/2005).
’amministrazione deve appurare che
tutti gli
L
interessi coinvolti siano adeguatamente
rappresentati e deve vagliare
criticamente gli
apporti partecipativi dei privati. Questi ultimi sono
necessariamente
di parte e vanno messi a
confronto con gli apporti partecipativi dei
portatori di
interessi di segno contrario. Spesso la
voce degli interessi più organizzati (le
cosiddette
lobby) tende a sovrastare quella degli altri
interessi, con il rischio di
condizionare e
influenzare le valutazioni dell’amministrazione (la
cosiddetta «cattura»
dei regolatori).
L’istruttoria del
procedimento ha lo scopo di
accertare i fatti e di acquisire gli interessi rilevanti
ai
fini della determinazione finale.
I fatti da accertare riguardano i presupposti e i
requisiti richiesti
dalla norma di conferimento del
240 potere ovvero, secondo la l. n. 241/1990, «le
condizioni di
ammissibilità, i requisiti di
legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti
per
l’emanazione del provvedimento» valutati dal
responsabile del
procedimento (art. 6, comma 1,
lett. a)).
Gli interessi da acquisire entrano
in gioco
esclusivamente nei procedimenti relativi a poteri
propriamente discrezionali,
nei quali, come si è
visto, l’interesse pubblico cosiddetto primario,
desumibile dalla
norma di conferimento del
potere, deve essere valutato e ponderato
unitamente agli
interessi secondari, pubblici e
privati.
L’istruttoria è retta dal principio inquisitorio.
Infatti, secondo l’art. Il principio
inquisitorio
6, comma 1, lett. b), l.
n. 241/1990 il
responsabile
del procedimento «accerta d’ufficio i
fatti, disponendo il compimento degli atti
all’uopo
necessari». Quest’ultimo effettua dunque di
propria iniziativa le
indagini necessarie, senza
essere vincolato alle allegazioni dei soggetti privati
e ciò
perché l’esercizio dei poteri avviene per
curare interessi pubblici.
Al contrario di quanto accade nell’istruttoria
processuale,
caratterizzata da una tipizzazione per
legge dei mezzi istruttori,
nel procedimento
amministrativo l’amministrazione può compiere
tutti gli accertamenti
necessari con le modalità
ritenute più idonee. L’art. 6, comma 1, lett. b)
menziona tra gli atti istruttori
il rilascio di
dichiarazioni, l’esperimento di accertamenti
tecnici,
le ispezioni
e l’ordine di esibizioni
documentali. Il responsabile del procedimento
deve anche
compiere le verifiche della
documentazione prodotta dalle parti e, in
particolare, della
veridicità dei dati autocertificati
dall’interessato.
Nella scelta dei mezzi istruttori
l’amministrazione
deve attenersi ai principi di efficienza e di
economicità, evitando,
come si è accennato, di
aggravare il procedimento al di là di quanto
necessario (art. 1, comma 2, l. n. 241/1990).
Peraltro, alcuni atti istruttori sono richiesti
talvolta dalle leggi
che disciplinano i singoli
procedimenti. Questo è il caso dei pareri
obbligatori
(art. 16 l. n. 241/1990) e delle
valutazioni
tecniche (art. 17) di competenza di
amministrazioni diverse da quella
procedente.
I pareri, espressione I tipi di parere
della funzione
consultiva, possono essere obbligatori o
facoltativi.
I primi sono previsti dalla legge in relazione a
specifici procedimenti e
l’omessa acquisizione
rende illegittimo il provvedimento finale.
L’amministrazione
competente a esprimere il
parere deve rilasciarlo entro un termine di 20
giorni. In caso
di ritardo, l’amministrazione
titolare della competenza decisionale può
procedere
indipendentemente dall’espressione del
parere (art. 18, comma 2, ma il comma 3 prevede
una serie di eccezioni). I pareri facoltativi, invece,
sono richiesti ove
l’amministrazione procedente
ritenga possano essere utili ai fini della decisione.
In casi non frequenti, i pareri
possono essere, oltre
che obbligatori, anche vincolanti:
l’amministrazione che li riceve
non può assumere
una decisione difforme dal contenuto del parere,
neppure motivando le
ragioni in relazione alle
quali essa ritiene di discostarsi (come può avvenire
invece
nel caso di pareri soltanto obbligatori). Il
solo potere che residua talora in capo
all’amministrazione procedente è quello di
rinunciare a emanare l’atto finale.
Come già osservato, i pareri
obbligatori
costituiscono una modalità di coordinamento tra
amministrazioni che curano
interessi pubblici
distinti, ma con ambiti di interferenza. Le
241 valutazioni tecniche
richieste a organismi dotati di
particolari competenze non
giuridiche sono
soggette a un regime che ricalca in parte quello dei
pareri (art. 17).
L’art. 17-bis della
l. n. Il silenzio-assenso tra
amministrazioni
241/1990, introdotto
dall’art. 3 della l. n.
124/2015, allo scopo di accelerare i
tempi di
conclusione dei procedimenti, introduce un
meccanismo inedito di
silenzio-assenso tra
amministrazioni. Stabilisce termini stringenti per
il rilascio di
assensi, concerti e nullaosta di
amministrazioni statali (di regola 30 giorni),
decorsi
i quali l’atto «si intende acquisito» (comma
3) e in ogni caso se l’atto è emanato in
ritardo esso
è inefficace (art. 2, comma 8-bis). Il termine può
essere interrotto nel caso in cui l’amministrazione
che deve rendere l’assenso, il
concerto
o nullaosta
rappresenti esigenze istruttorie o richieste di
modifica motivate. Il
termine è di 90 giorni nel
caso in cui l’amministrazione sia preposta alla
tutela
ambientale, paesaggistico-territoriale, dei
beni culturali e della salute dei cittadini
(comma
3).
I noltre, in caso di mancato
accordo tra
amministrazioni statali la questione viene rimessa
al presidente del
Consiglio dei ministri «che decide
sulle modifiche da apportare allo schema di
provvedimento» (comma 2). Il silenzio-assenso tra
amministrazioni non vale nel caso in
cui il diritto
dell’Unione europea richieda l’adozione di
provvedimenti espressi (comma
4). L’art. 17-bis
non chiarisce peraltro se questo tipo di
silenzio-
assenso può essere annullato d’ufficio o revocato.
La tendenza più L’acquisizione d’ufficio
di atti
e documenti
recente in tema di
adempimenti
istruttori è di sgravare per quanto
possibile i
soggetti privati da oneri di documentazione,
imponendo all’amministrazione
di acquisire
d’ufficio i documenti attestanti atti, fatti, qualità e
stati soggettivi
necessari per l’istruttoria (art. 18,
comma 2, l. n. 241/1990). Ai privati può essere
richiesta soltanto l’autocertificazione, che, come si
è accennato, consiste nella
possibilità per i soggetti
privati di dichiarare sotto propria responsabilità il
possesso di determinati stati e qualità. Si è
addirittura stabilito per legge che i
certificati
rilasciati da un’amministrazione non hanno valore
se prodotti presso altre
amministrazioni e ciò al
fine di costringerle allo scambio reciproco delle
informazioni
necessarie.
’attività istruttoria può essere effettuata anche
L
con modalità
informali. L’art. 11 l. n. 241/1990
prevede, per esempio, che per
favorire la
conclusione di accordi integrativi o sostitutivi del
provvedimento può
essere predisposto un
calendario di incontri ai quali sono invitati,
separatamente o
contestualmente, il destinatario
del provvedimento ed eventuali controinteressati
(comma
1-bis). Inoltre, qualora sia opportuno un
esame contestuale dei
vari interessi pubblici
coinvolti in un procedimento, l’amministrazione
procedente può
indire una conferenza di
servizi
istruttoria (art. 14, comma 1) nella quale ciascuna
amministrazione
interessata può esprimere le
proprie valutazioni. Emerge da queste disposizioni
una
visione di un’amministrazione aperta a un
confronto informale anche orale con i privati
e con
altre amministrazioni.
Le attività istruttorie compiute e
le risultanze delle
medesime vengono verbalizzate. In quanto
provenienti da un’autorità
amministrativa i verbali
fanno piena prova fino a querela di falso dei fatti
242 che in essi
risultino menzionati.
L’istruttoria è aperta alla partecipazione dei
soggetti che abbiano La partecipazione
diritto di intervenire
e partecipare
al procedimento (art. 10 l. n.
241/1990). Ad essi l’amministrazione è tenuta
a
comunicare l’avvio del procedimento. Hanno
facoltà di intervenire anche i portatori di
interessi
pubblici o privati, nonché i portatori di interessi
diffusi
costituiti in associazioni o comitati, ai quali
possa derivare un pregiudizio dal
provvedimento
(art. 9).
La partecipazione si sostanzia in
due diritti. Il
primo è quello di prendere visione degli atti del
procedimento
(cosiddetto accesso
procedimentale) non esclusi dal diritto di accesso
ai sensi delle
norme generali che saranno
esaminate più avanti (art. 10, comma 1, lett. a)). Il
secondo consiste nella
possibilità di presentare
memorie scritte che illustrano il punto di vista del
soggetto
interessato e documenti (lett. b)). Nel
loro insieme essi concorrono a fondare il
diritto
alla partecipazione informata.
L’amministrazione ha l’obbligo di
valutare i
documenti e le memorie presentate, ove pertinenti
all’oggetto del
procedimento (lett. b)), facendone
menzione nella motivazione del provvedimento.
Quest’ultimo, come già visto, deve comunque dar
conto delle «risultanze
dell’istruttoria» (art. 3 l. n.
241/1990).
Sotto il profilo organizzativo
l’istruttoria è affidata
al responsabile del Il responsabile del
procedimento
procedimento,
assegnato di volta in
volta dal dirigente responsabile della struttura
subito dopo
l’apertura del procedimento. Il suo
nominativo viene comunicato o reso disponibile su
richiesta a tutti i soggetti interessati (art. 5 l. n.
241/1990).
Come già anticipato, il
responsabile del
procedimento consente al cittadino di avere un
interlocutore certo con
il quale confrontarsi e
rende meno spersonalizzato il rapporto con gli
uffici.
I compiti del responsabile del
procedimento sono
indicati nell’art. 6 l. n. 241/1990 e includono tutte
le attività
propedeutiche all’emanazione del
provvedimento finale e l’adozione «di ogni misura
per
l’adeguato e sollecito svolgimento
dell’istruttoria» (lett. b)).
Il responsabile del procedimento
ha anche il
potere di chiedere la rettifica di dichiarazioni o
istanze erronee o
incomplete (lett. b)). Emerge qui
una funzione di supporto nei confronti del
soggetto
privato che è spesso sfornito delle
conoscenze e dell’esperienza necessaria. Ciò in
linea con la visione collaborativa dei rapporti tra
amministrazione e cittadino.
Inoltre, allo scopo di prevenire
fenomeni di
corruzione, il responsabile del procedimento (così
come i titolari degli
uffici competenti ad adottare i
pareri, le valutazioni tecniche, gli atti
endoprocedimentali e il provvedimento finale)
deve astenersi quando si trovi in
«conflitto di
interessi», anche potenziale (art. 6-bis, introdotto
dalla l. n. 190/2012).
Nei procedimenti a Il preavviso di
rigetto
istanza di parte il
responsabile del procedimento (o l’autorità
competente a emanare il provvedimento) è tenuto
ad attivare una fase istruttoria
supplementare nei
casi in cui, come si è accennato, sulla base degli
elementi già
acquisiti sia orientato a proporre o ad
adottare un provvedimento di rigetto
dell’istanza
(art. 10-bis
l. n. 241/1990). Al soggetto che l’ha
proposta, e che dunque
ha dato avvio al
procedimento, deve essere data comunicazione dei
motivi ostativi
all’accoglimento della domanda.
Entro 10 giorni l’interessato può presentare
243 osservazioni scritte, eventualmente corredate da
altri
documenti, nel tentativo di superare le
obiezioni formulate dall’amministrazione.
L’eventuale provvedimento finale negativo che
rigetta l’istanza deve dar conto, come si
è
accennato, delle ragioni del mancato accoglimento
delle osservazioni eventualmente
presentate.
I n caso di annullamento del
provvedimento
negativo l’amministrazione in sede di emanazione
di un nuovo atto
sostitutivo di quello annullato
«non può addurre per la prima volta motivi
ostativi già
emergenti dall’istruttoria del
provvedimento annullato» (comma 1, come
modificato
dall’art. 12, comma 1, lett. e), della legge
11 settembre 2020, n. 120). Una siffatta
preclusione
dovrebbe costituire un incentivo a riversare nel
provvedimento tutte le
risultanze istruttorie e ciò
a garanzia del privato di fronte a rischio di dinieghi
ripetuti di provvedimenti favorevoli fondati su
ragioni ostative non esplicitate in
precedenza.
Il preavviso di
rigetto si iscrive nella tendenza del
legislatore a favorire l’avvio di
attività da parte dei
privati. Il diniego di un atto autorizzativo è infatti
concepito
per così dire come extrema ratio.
Di norma il Gli esiti
dell’istruttoria
res ponsabile del
procedimento non adotta il provvedimento
finale,
ma trasmette tutti gli atti, corredati da una
relazione istruttoria, all’organo
competente a
emanare il provvedimento finale. Quest’ultimo si
deve attenere alle
risultanze dell’istruttoria. Può
eccezionalmente discostarsene, ma, come si è
anticipato, deve indicarne le ragioni nel
provvedimento finale (art. 6, comma 1, lett. e)).
Queste regole tendono a
valorizzare la figura del
responsabile del procedimento. Il suo operato non
può essere
infatti sconfessato senza che la
dialettica interna all’amministrazione emerga in
modo
formale nella motivazione dell’atto.
6. c) La conclusione: il termine,
il
silenzio, gli accordi
Conclusa l’istruttoria,
l’organo competente a
emanare il provvedimento assume la decisione
sulla base del
materiale acquisito al procedimento
e, se il potere ha natura
discrezionale, della
ponderazione degli interessi.
L’art. 2 l. n. 241/1990, come si è detto, pone in capo
all’amministrazione l’obbligo di concludere il
procedimento mediante l’adozione di un
provvedimento espresso. Volendo ricorrere a
un’immagine, se il procedimento è una sorta
di
catena di montaggio, il provvedimento è il
prodotto finito. Né il procedimento può
essere
indebitamente sospeso, rallentato o deviato dalla
sua meta naturale, cioè il
provvedimento
amministrativo. Il cosiddetto arresto
procedimentale è legittimo solo in
casi eccezionali.
Il provvedimento può essere
emanato, a seconda
dei casi, dal titolare di un organo individuale
(come il sindaco o il
ministro), oppure da un
organo collegiale (giunta comunale o provinciale,
consiglio di
amministrazione di un ente pubblico,
ecc.).
Accanto agli atti semplici (o monostrutturati)
sono frequenti gli atti Gli atti
pluristrutturati: il
complessi (o concerto
pluristrutturati). Tale
è, per esempio, specie
nei rapporti tra ministeri, il
decreto
interministeriale nel quale converge la volontà
paritaria di una pluralità di
amministrazioni. Si
244 parla di concerto allorché il
ministero competente
a emanare il provvedimento (autorità
concertata)
deve prima inviare al ministero concertante lo
schema di provvedimento per
ottenerne l’assenso
o proposte di modifica. L’atto finale è sottoscritto
da entrambe le
autorità.
n’altra decisione
pluristrutturata è l’intesa che
U
interviene L’intesa «debole» e
«forte»
soprattutto nei
rapporti tra Stato e
regioni. Essa può essere di tipo debole, quando il
dissenso regionale
può essere motivatamente
superato dallo Stato all’esito del confronto e ciò al
fine di
evitare effetti paralizzanti, oppure in senso
forte, nei casi in cui sia indispensabile
il doppio
consenso. Anche in questo caso la mancata intesa
può essere talora superata
investendo il Consiglio
dei ministri. Ciò accade per esempio con riguardo
all’intesa
regionale in merito alla localizzazione
delle reti energetiche nazionali (art. 1, comma
8-
bis, della legge 23 agosto 2004, n. 239).
Il provvedimento unilaterale
costituisce l’esito
normale e più frequente del procedimento
amministrativo. Esiste
tuttavia una modalità
alternativa di conclusione del procedimento che la
l. n. 241/1990 tende a favorire e cioè l’accordo
integrativo o sostitutivo del provvedimento al
quale si è già fatto cenno nel capitolo I (art. 11).
Infatti,
là dove occorra valutare e ponderare più
interessi di regola «è preferibile la
composizione
negoziata a quella imposta» [Giannini 1970b, 867],
anche perché si riducono
i rischi di possibili
contenziosi.
Gli accordi erano emersi nella
prassi e
successivamente nella legislazione speciale in
contesti particolari. Si pensi
per esempio alle
convenzioni urbanistiche, nelle quali l’interesse
perseguito
dall’amministrazione all’ordinato
assetto del territorio e quello dei privati che
realizzano progetti di ampia portata (le cosiddette
lottizzazioni per l’edificazione di
parti significative
del territorio) hanno molti punti di convergenza e
sussistono dunque
ampi spazi per ricercare
soluzioni condivise. In materia espropriativa la
normativa
prevede, come si vedrà, in alternativa
all’emanazione del provvedimento unilaterale,
l’accordo di cessione volontaria del bene che
250 garantisce al proprietario
un corrispettivo di
importo superiore all’indennità di
esproprio (art.
45 d.p.r. n. 327/2001). In ogni caso, non è raro che
il
provvedimento unilaterale sia il frutto di un
qualche contatto o negoziazione
informale
preventiva.
In base alla l. n. 241/1990, l’accordo ha per oggetto
il contenuto L’oggetto dell’accordo
discrezionale del
provvedimento ed è finalizzato a
ricercare un
miglior contemperamento tra l’interesse pubblico
perseguito
dall’amministrazione procedente e
l’interesse del privato. I poteri vincolati, invece,
non si prestano a essere oggetto di accordi in
quanto in essi manca il presupposto per
una
negoziazione e cioè un ventaglio più o meno ampio
di scelte.
’accordo può essere promosso dal privato, il quale
L
può presentare a
questo fine osservazioni e
proposte in sede di partecipazione al
procedimento. L’accordo fa salvi i diritti dei terzi
che ben potrebbero contestarne i
contenuti
proponendo un’azione di annullamento innanzi al
giudice amministrativo (art. 11, comma 1). Come si
è accennato, il responsabile del
procedimento,
per favorire l’accordo, può organizzare anche
incontri
informali con i soggetti privati interessati
(comma 1-bis) avviando
veri e propri tavoli di
trattativa.
L’amministrazione non è tuttavia
obbligata a
concludere accordi integrativi o sostitutivi con i
privati e può sempre
optare per il provvedimento
unilaterale non negoziato. La possibilità di
stipulare
accordi dunque attenua ma non elide del
tutto il carattere asimmetrico del rapporto tra
pubblica amministrazione e soggetti privati.
Sotto il profilo formale, gli
accordi devono essere
stipulati per atto scritto, a pena di nullità, salvo
che
la legge disponga altrimenti e devono essere
motivati (comma 2). Quest’ultima
prescrizione,
come già osservato, rende il regime dell’accordo
più simile a quello del
provvedimento unilaterale.
Ad essi si applicano, come si è già sottolineato nel
capitolo I, i principi del codice civile
in materia di
obbligazioni e contratti in quanto compatibili.
Data la matrice
pubblicistica degli accordi, le
controversie relative alla loro conclusione ed
esecuzione rientrano nella giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo
(art. 133, comma 1, lett.
a), n. 2, Codice del processo
amministrativo).
Gli accordi possono essere
integrativi o sostitutivi
del provvedimento. I Gli accordi integrativi
e
sostitutivi
primi
servono solo a
concordare il
contenuto del provvedimento finale che viene
emanato in
attuazione dell’accordo. Sul piano
formale il provvedimento mantiene la sua
configurazione di atto unilaterale produttivo di
effetti (secondo la sequenza
accordo-
provvedimento-effetti). Gli accordi integrativi
pongono la questione se il
mancato o parziale
recepimento dei suoi contenuti nel provvedimento
finale renda
quest’ultimo illegittimo.
Negli accordi sostitutivi gli
effetti giuridici si
producono in via diretta con la conclusione
dell’accordo, senza
necessità di un atto formale di
recepimento. Tuttavia, a garanzia dell’imparzialità
e
del buon andamento dell’azione amministrativa,
gli accordi devono essere preceduti da
una
determinazione dell’organo competente per
l’adozione del provvedimento la quale
autorizza e
stabilisce i limiti della negoziazione. In questo
modo si recupera
indirettamente, a monte
dell’accordo, un momento di unilateralità (comma
4-bis) (secondo la sequenza determinazione
251 unilaterale,
accordo, effetti).
Un altro momento di
Il recesso
dell’accordo
unilateralità può
emergere anche dopo la conclusione dell’accordo.
Infatti, l’amministrazione, per
sopravvenuti motivi
di interesse pubblico, può recedere dall’accordo
(comma 4), e ciò
anche se il recesso non sia
espressamente previsto in quest’ultimo. Il recesso
ha cioè
fonte legale ed è dunque espressione di un
potere in senso proprio. Non va pertanto
confuso
con il recesso
dai contratti già esaminato (art. 21-
sexies
l. n. 241/1990).
Il potere di recesso è invece
riconducibile alla
revoca per sopravvenuti motivi di pubblico
interesse
ex art. 21-quinquies
l. n. 241/1990. Ad esso
si accompagna l’obbligo di
liquidare un indennizzo
per gli eventuali danni subiti dal privato (comma
4).
Si discute in dottrina se gli
accordi disciplinati
dalla l. n. 241/1990 possano essere qualificati, sulla
scia
dell’ordinamento tedesco, come contratti di
diritto pubblico, accentuando così la
peculiarità
del loro regime rispetto a quello dei contratti di
diritto comune. In
alternativa essi possono essere
considerati come contratti aventi un oggetto
pubblico,
nei quali cioè la specialità discende
soprattutto dal fatto che si riferiscono al potere
discrezionale, cioè a un oggetto di per sé
indisponibile. In realtà, soprattutto in
seguito alle
modifiche apportate all’art. 11 che, come si è visto,
prevede ora che gli
accordi siano motivati, il loro
regime è sempre più assimilabile a quello di un
normale
provvedimento amministrativo.
La disciplina degli accordi ha,
come si è già
osservato, il valore simbolico di proporre
l’immagine di
un’amministrazione più aperta al
dialogo e ai contributi propositivi dei privati. Nella
pratica, peraltro, gli accordi sono ancora poco
utilizzati.
7. Procedimenti semplici,
complessi, collegati. Il
subprocedimento
I procedimenti possono avere una
struttura
semplice o complessa a seconda del loro oggetto,
del numero e della natura
degli interessi pubblici e
privati incisi e dunque della necessità di
coinvolgere una
pluralità di amministrazioni.
Si spazia tra due estremi:
procedimenti
autorizzatori semplici nei quali la sequenza
procedimentale consiste
soltanto in una domanda
o istanza, in un’istruttoria limitata a poche
verifiche documentali e
in una decisione affidata a
un’unica autorità; procedimenti complessi che
richiedono
accertamenti fattuali, momenti
partecipativi, acquisizione di pareri o di
valutazioni
tecniche con il coinvolgimento anche
nella fase decisionale di una
molteplicità di
amministrazioni statali, regionali e locali (per
esempio la
localizzazione e l’approvazione di un
progetto di un’opera pubblica).
I procedimenti a Il subprocedimento
struttura complessa
sono spesso articolati al loro interno
in
subprocedimenti sequenziali, ciascuno avente una
unità funzionale autonoma. Talvolta
i
subprocedimenti si concludono con atti
suscettibili di incidere in via immediata su
situazioni giuridiche soggettive. Producono cioè
effetti esterni diversi e indipendenti
rispetto
all’effetto giuridico primario riferibile al
provvedimento assunto a
conclusione del
252 procedimento.
osì, per esempio, come si vedrà
nel capitolo XII,
C
il
procedimento per la conclusione di un contratto
pubblico prevede nelle procedure
cosiddette
ristrette, cioè su invito della stazione appaltante,
un subprocedimento,
detto di prequalifica. Questa
fase è volta a individuare, in applicazione di
requisiti
minimi di capacità tecnica e finanziaria
definiti dal bando di gara, le imprese ammesse
alle
fasi successive di presentazione e valutazione delle
offerte che si concludono con
l’aggiudicazione.
Inoltre, dopo la conclusione della fase di
valutazione
delle offerte vi è una fase di verifica
delle eventuali offerte anomale (per esempio
perché troppo basse) che dà origine a un
subprocedimento in contraddittorio che può
concludersi anche in questo caso con l’esclusione
dall’impresa. La non ammissione alla
presentazione di un’offerta al termine della fase di
prequalifica e l’esclusione
dell’impresa che ha
presentato un’offerta anomala a conclusione del
subprocedimento di
verifica sono ad un tempo atti
endoprocedimentali o provvedimenti autonomi:
endoprocedimentali, perché fanno parte della
sequenza che dal bando di gara si sviluppa
fino al
provvedimento finale di aggiudicazione; autonomi,
in quanto producono effetti
giuridici negativi nella
sfera giuridica del loro destinatario e sono dunque
suscettibili di impugnazione immediata.
Nei procedimenti Gli impegni nel diritto
antitrust
sanzionatori di
competenza
dell’Autorità garante della
concorrenza e del
mercato (art. 14-ter legge 10 ottobre 1990, n.
287)
l’impresa inquisita ha, come si è già accennato, la
possibilità di proporre
all’Autorità che ha avviato il
procedimento impegni formali atti a rimuovere
l’illecito
concorrenziale. Se l’Autorità approva gli
impegni, all’esito di un subprocedimento in
contraddittorio aperto anche ad altre imprese
concorrenti e ai terzi interessati
(cosiddetto market
test), il procedimento si conclude senza
ulteriori
accertamenti istruttori e senza l’assunzione di un
provvedimento
sanzionatorio. Se l’Autorità
conclude il subprocedimento rigettando gli
impegni, il
procedimento prosegue fino
all’emanazione di un provvedimento che accerta o
meno
l’esistenza dell’illecito e irroga, se del caso,
la sanzione. Il provvedimento di
rigetto degli
impegni ha una rilevanza meramente interna e non
è suscettibile di
impugnazione autonoma da parte
dell’impresa che li ha presentati. Essa potrà se mai
censurare innanzi al giudice amministrativo tale
provvedimento unitamente al
provvedimento
sanzionatorio eventualmente irrogato. Il
provvedimento di accoglimento
degli impegni è
invece impugnabile da parte di imprese
concorrenti che ritengano, per
esempio, che le
misure non siano in grado di rimuovere la
situazione anticoncorrenziale
che le danneggia. Il
meccanismo degli impegni è ora previsto anche per
altre autorità
indipendenti.
I n realtà, la distinzione tra
procedimento e
subprocedimento ha carattere relativo e non va
enfatizzata. Un punto
fermo è che l’unitarietà del
procedimento si ha solo nel caso in cui nessuno
degli atti
endoprocedimentali è suscettibile di
produrre effetti giuridici esterni. In caso
contrario
potrebbe essere più corretto ricorrere alla nozione
di procedimenti autonomi
ancorché collegati.
In termini generali, I procedimenti
collegati in
sequenza e
si parla di in parallelo
procedimenti
collegati (o connessi)
nelle ipotesi in cui
una pluralità di procedimenti,
da avviare in sequenza o in parallelo, sono
253 funzionali a
un risultato unitario.
n esempio di procedimenti collegati, avviati in
U
sequenza, è
l’espropriazione per
pubblica utilità
che si articola in una pluralità di procedimenti
connessi sotto il profilo teleologico: la conclusione
di quello antecedente con un
provvedimento
autonomo è condizione per l’avvio di quello
successivo in vista del
risultato finale consistente
nel trasferimento coattivo del diritto di proprietà
da un
soggetto privato all’amministrazione o a un
altro soggetto privato. Il Testo unico in
materia di
espropriazioni (d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327)
distingue nettamente, come si
vedrà, le fasi.
Un esempio di procedimenti
collegati, avviati in
parallelo, è la realizzazione e la messa in opera di
un impianto
industriale (come un impianto
chimico o una centrale elettrica) che presuppone il
rilascio di una molteplicità di atti autorizzativi
previsti per garantire la conformità
alle norme
urbanistiche, di sicurezza, sanitarie, ambientali,
paesaggistiche, ecc. Il
collegamento tra questo tipo
di procedimenti non è sequenziale ma funzionale,
nel senso
che la conclusione positiva di ciascuno di
essi è necessaria per l’avvio di una
determinata
attività o l’ottenimento di un certo risultato. Sotto
il profilo
organizzativo, è previsto a livello
comunale il cosiddetto sportello unico
delle
imprese, che fa da tramite con tutti gli uffici
coinvolti.
In aggiunta alle distinzioni sin
qui fatte che si
riferiscono ai profili strutturali, anche per i
procedimenti, così come
per i provvedimenti, sono
state elaborate varie classificazioni, aventi per lo
più
valore descrittivo.
Così, per esempio, si possono
distinguere, come si
è già accennato nel I procedimenti di
primo e di
secondo
capitolo IV, i grado
procedimenti di
primo
grado e di
secondo grado. Gli uni sono finalizzati
all’emanazione di provvedimenti
amministrativi
con effetti esterni e alla cura di un interesse
pubblico (come una
licenza, un’autorizzazione,
una sanzione). Gli altri hanno invece per oggetto
provvedimenti già emanati e per scopo la verifica
della loro legittimità e compatibilità
con l’interesse
pubblico.
ientrano tra questi ultimi i
procedimenti di
R
autotutela, come l’annullamento d’ufficio o la
revoca, e i
ricorsi
amministrativi (per esempio, il
ricorso
gerarchico).
Possono essere inclusi tra i
procedimenti di
secondo grado anche i controlli sugli atti
amministrativi (di
legittimità e di merito) affidati a
organi esterni all’amministrazione (in particolare
la
Corte dei
conti). In pochi casi, come si vedrà
nel capitolo VI, i controlli hanno carattere
preventivo, se il loro esito positivo è condizione di
efficacia del
provvedimento oggetto del
controllo. Con riferimento a questo tipo di
controlli
preventivi, in dottrina era frequente
enucleare nella sequenza del procedimento una
fase
eventuale, successiva a quella decisoria,
definita come fase di integrazione
dell’efficacia del
provvedimento adottato.
Un’altra distinzione è tra
procedimenti finali e
strumentali. Mentre i I procedimenti finali e
strumentali
primi sono
funzionali
alla cura immediata
di interessi pubblici nei rapporti esterni con i
soggetti
privati, i secondi hanno una funzione
prevalentemente organizzatoria e riguardano
principalmente la gestione del personale e delle
risorse finanziarie (per esempio, i
procedimenti di
254 programmazione o di pianificazione).
n’ulteriore distinzione è tra
procedimento in
U
senso proprio e La procedura interna
procedura interna
all’amministrazione. Il primo si riferisce agli atti
della sequenza procedimentale che
trovano
disciplina nella legge o in una fonte normativa in
senso proprio (regolamenti).
La procedura interna
riguarda invece gli atti e adempimenti interni
all’amministrazione
che sono previsti da regole di
tipo organizzativo. Così, per esempio, le istanze e
domande presentate dai privati vanno registrate in
un protocollo interno (tenuto in
genere dall’ufficio
corrispondenza) che dà certezza alla data di
ricezione. La pratica
viene poi smistata all’ufficio
competente che cura gli adempimenti istruttori. I
vari
uffici interessati, in base alle specifiche
mansioni e al livello gerarchico, danno il
proprio
apporto sotto forma di visto, benestare, o
annotazione interna, che sono
propedeutici
all’assunzione del provvedimento finale. Laddove
quest’ultimo comporta
oneri finanziari è previsto
in genere un visto da parte dell’ufficio di ragioneria
o di
bilancio.
8. La
conferenza di servizi e
altre forme di
coordinamento
I procedimenti esaminati nel paragrafo che
precede pongono
il problema del coordinamento
degli adempimenti e delle tempistiche relative
all’adozione dei vari atti da parte degli uffici o delle
amministrazioni competenti.
La l. n. 241/1990 individua come strumento
principale di
coordinamento e di accelerazione dei
tempi delle decisioni la conferenza di
servizi
(Capo IV rubricato Semplificazione
amministrativa
contenente disposizioni più volte modificate).
Alcune
fattispecie di conferenza di servizi sono
disciplinate da leggi speciali (specie in
materia di
opere pubbliche).
Da un punto di vista descrittivo,
la conferenza di
servizi consiste in una o più riunioni dei
rappresentanti degli uffici
o delle amministrazioni
di volta in volta interessate che sono chiamate a
confrontarsi e
a esprimere il proprio punto di vista
e, nel caso di conferenza decisoria, anche a
deliberare.
Con la conferenza di servizi viene
meno la
sequenzialità degli atti endoprocedimentali
attribuiti alla competenza di
ciascuna
amministrazione. I rappresentanti delle
amministrazioni sono chiamati a un
confronto e a
operare una valutazione dell’interesse pubblico
affidato alla cura di
ciascuna di esse, non più in
modo isolato, ma in connessione con gli altri
interessi
pubblici curati dalle altre
amministrazioni che partecipano alla conferenza.
La l. n. 241/1990 distingue tre tipi di conferenza di
servizi:
istruttoria, decisoria, preliminare.
La conferenza di
servizi
istruttoria
1. La conferenza di
servizi istruttoria è
sempre facoltativa e ha la funzione di promuovere
un esame contestuale dei vari
interessi pubblici
coinvolti in un procedimento singolo o in più
procedimenti
amministrativi connessi riguardanti
medesime attività o risultati (conferenza di servizi
interprocedimentale) (art. 14, comma 1).
Nel caso di procedimento
attribuito alla
competenza di una sola amministrazione, la
conferenza di servizi
istruttoria serve a raccogliere
in un unico contesto, e con il confronto di tutti gli
255 uffici interni interessati, gli elementi istruttori utili
che
saranno posti poi alla base della decisione
finale adottata dall’organo competente a
emanare
il provvedimento finale.
Nel caso di conferenza di servizi
interprocedimentale la convocazione è operata di
regola dall’amministrazione che cura
l’interesse
pubblico prevalente. Anche questa conferenza
funge da sede per un confronto
tra le
amministrazioni preliminare all’assunzione da
parte di queste ultime delle
proprie
determinazioni. È da ritenere peraltro che le
posizioni espresse in sede di
conferenza non
possano essere poi disattese, almeno di regola, in
base a un principio di
coerenza, in sede di
emanazione dei singoli atti.
art.
194-quater del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58).
La specialità di tali regimi si manifesta anche nel
fatto che in molti
casi i ricorsi avverso i
provvedimenti sanzionatori sono devoluti alla
giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo
(art. 133, comma 1, lett. l), Codice del processo
amministrativo) che può anche sindacare nel
merito (e dunque modificare)
l’entità della
sanzione pecuniaria irrogata (art. 134, comma 1,
lett. c)).
I controlli
273
1. Premessa
In qualsiasi organizzazione,
superato un certo
stadio di sviluppo, emerge la funzione di controllo
che consiste nel
monitoraggio dell’attività posta in
essere dalle strutture operative. Si tratta di una
funzione accessoria e strumentale rispetto alle
funzioni principali.
In termini generalissimi i sistemi
di controllo,
artificiali o naturali, volti a garantire la conformità
di un certo
elemento a uno standard prescritto,
sono presenti anzitutto nel mondo fisico. Si pensi
ai congegni per verificare che un processo di
produzione rispetti certi criteri
qualitativi o, negli
organismi viventi, ai sistemi di stabilizzazione
(temperatura,
pressione sanguigna, ecc.).
Il diritto, che è di per sé uno
strumento di
controllo della vita consociata, conosce numerosi
modelli di controllo.
Così, secondo il codice civile, la
società per azioni
annovera tra gli I controlli in ambito
privatistico
organi essenziali,
accanto all’assemblea
e al consiglio di amministrazione, un organo di
controllo interno,
cioè il collegio sindacale, che
vigila sull’osservanza della legge e dello statuto e
sul
rispetto dei principi di corretta
amministrazione (art. 2403 cod. civ.). Inoltre il
controllo contabile sulla
società è affidato a un
revisore contabile o a una società di revisione
esterna iscritta
nel registro presso il ministero
della Giustizia, con il compito di verificare la
regolare tenuta della contabilità sociale e la
corrispondenza tra bilancio di esercizio
e bilancio
consolidato alle risultanze delle scritture contabili
e di esprimere in una
relazione un giudizio sul
bilancio (art. 2409-bis cod. civ. e art. 155 d.lgs. 24
febbraio 1998, n. 58). Un organo di
controllo con
funzioni di vigilanza sul rispetto delle norme di
legge e di statuto
nonché dei principi di corretta
amministrazione è previsto anche per gli enti del
Terzo
settore (art. 30 d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117).
Leggi settoriali
impongono l’istituzione di organi
preposti a controlli specifici come, per esempio,
l’organismo per la prevenzione di reati compiuti da
amministratori e dipendenti che
possono far
sorgere una responsabilità amministrativa
dell’ente (art. 6 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231); il
responsabile della
protezione dei dati personali
274 (art. 37 ss. regolamento (UE)
2016/679); il
responsabile per la sicurezza sui luoghi di
lavoro
(d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626); da ultimo il
referente
unico Covid (o Covid manager) preposto
al rispetto delle norme in materia.
Nel settore del non profit,
l’amministrazione delle
fondazioni è sottoposta al controllo e alla vigilanza
dell’autorità governativa. Quest’ultima ha il potere
di annullare le delibere contrarie
a norme
imperative, all’atto di fondazione, all’ordine
pubblico o al buon costume e di
nominare un
commissario straordinario (art. 25 cod. civ.). Gli
enti del Terzo settore sono ora
sottoposti alla
vigilanza del ministero del Lavoro e delle Politiche
sociali (art. 95 d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117).
Anche le pubbliche amministrazioni
sono
sottoposte a un sistema articolato di controlli e
sono titolari esse stesse, in
base alle normative di
settore, anche di funzioni di vigilanza e di
controllo nei
confronti di soggetti privati. Si pensi,
per esempio, alle autorità di regolazione
preposte a
settori particolari di imprese, ai nuclei
antisofisticazione dell’arma dei
carabinieri,
oppure, a livello locale, alla polizia municipale.
Procedendo in modo La definizione di
controllo
più sistematico,
anzitutto, il
«controllo» nel
linguaggio comune ha molti
significati talvolta generici. In ambito giuridico il
controllo può essere definito come «verificazione
di regolarità di una funzione propria
o aliena» o
come «un giudizio di conformità a regole, che
comporta in caso di difformità
una misura
repressiva o preventiva o rettificativa» [Giannini
1974, 1264].
Questa accezione abbraccia vari
tipi di controlli:
costituzionali (per esempio nei rapporti tra Stato e
regioni aventi
per oggetto anzitutto l’attività
legislativa), parlamentari, giurisdizionali, i
controlli attribuiti ad autorità di vigilanza,
controlli amministrativi.
I principali criteri per inquadrare
le tipologie dei
controlli sono: il soggetto titolare del potere di
controllo; il
destinatario del controllo; l’oggetto
del controllo; il parametro o standard di
valutazione; le misure che possono venire adottate
all’esito del controllo.
1.
Quanto al soggetto titolare del potere di
controllo è principio generale che esso sia
posto in
una posizione di indipendenza e terzietà rispetto al
destinatario del
controllo. Spesso è richiesta anche
una particolare qualificazione tecnico-
professionale
in funzione dello standard del
controllo che in molti casi presuppone conoscenze
specialistiche.
Secondo la Costituzione , la Corte dei conti
«esercita il controllo La Corte dei conti
preventivo di
legittimità sugli atti del governo e anche quello
successivo sulla gestione del bilancio
dello Stato e
partecipa al controllo sulla gestione finanziaria
degli enti a cui lo
Stato contribuisce in via
ordinaria» (art. 100, comma 2, Cost.). La Corte dei
conti, che è
titolare, come si vedrà, anche di
funzioni giurisdizionali nelle materie di contabilità
pubblica (art. 103, comma 2), è inserita dalla
Costituzione tra gli
organi ausiliari del governo
(Parte II, Titolo III, Sezione III) ed è composta da
magistrati assunti in massima parte per concorso.
In anni recenti (come si vedrà nel
capitolo XIII) il
suo ruolo di controllore dei conti pubblici e del
rispetto dei vincoli
finanziari derivanti dal Patto di
stabilità anche da parte delle amministrazioni
locali
è stato rafforzato. La Corte riferisce
direttamente alle Camere sul risultato del
275 riscontro eseguito.
Talvolta il soggetto titolare del
potere di controllo
è posto in una posizione di sovraordinazione
rispetto al
destinatario del controllo. La funzione
di controllo rientra, per esempio, tra quelle
proprie
del superiore gerarchico. Di regola però l’organo
titolare della funzione di
controllo si colloca al di
fuori della catena di comando in senso proprio ed
è
considerato, per alcuni tipi di controllo interno,
titolare di una funzione di supporto
ausiliaria
all’organo decisionale.
2.
I destinatari del controllo possono far parte
della medesima organizzazione nella quale
è
incardinato l’organo di controllo e in questo caso
si parla di controllo interno (per
esempio, il
collegio dei revisori di un ente pubblico), oppure
possono appartenere a un
soggetto diverso e in
questo caso si parla di controllo esterno (la Corte
dei conti nei
confronti delle amministrazioni
statali, la CONSOB nei confronti delle società
quotate
in borsa).
Destinatari dei controlli esterni
di tipo
amministrativo possono essere sia soggetti
pubblici
sia soggetti La vigilanza
privati che svolgono
determinate attività. Si parla spesso in proposito in
senso più generico, come si è accennato, di
funzione di vigilanza che è attribuita a
organi e
apparati appositamente istituiti (aziende sanitarie
locali, vigili del fuoco,
Agenzia regionale per la
protezione dell’ambiente, Ispettorato del lavoro,
autorità
indipendenti, ecc.). La funzione di
vigilanza include una serie più o meno ampia di
poteri istruttori (accessi, ispezioni, richiesta di
documenti e informazioni) e decisori
(ordini,
sanzioni, commissariamento degli organi,
scioglimento e messa in liquidazione
dell’ente). In
qualche caso alla funzione di controllo può
cumularsi anche una funzione
di indirizzo e di
direzione.
3.
L’oggetto del controllo, come si vedrà meglio
nei paragrafi successivi, può essere
costituito da
singoli atti emanati dall’amministrazione
(controllo sugli atti), oppure
dal complesso
dell’attività posta in essere da un apparato e dai
risultati conseguiti
(controllo sull’attività o sulla
gestione).
4.
Il parametro o standard di valutazione può
avere natura tecnica (controlli tecnici) o
natura
giuridica (controlli di legittimità). Come esempi
del primo tipo possono essere
considerati il
controllo sulle scritture contabili di un ente che
deve essere effettuato
in conformità con regole,
spesso di livello internazionale, elaborate dalle
scienze
ragionieristiche e aziendali, oppure i
controlli sulla sicurezza di impianti produttivi.
Nel
diritto amministrativo la distinzione forse più
rilevante è quella già incontrata
fra controllo di
legittimità e controllo di merito: il primo ha come
riferimento norme e
principi giuridici che
presiedono all’attività delle amministrazioni
pubbliche; il
secondo, ormai recessivo, come si
dirà, involge un apprezzamento diretto del grado
di
soddisfazione dell’interesse pubblico.
5.
Le misure che possono essere emanate all’esito
del controllo sono di vario tipo: ordini
di
adeguamento o di ripristino dello standard violato,
annullamento o riforma di atti,
sanzioni, esercizio
del potere sostitutivo, scioglimento dell’organo,
ecc.
Il potere sostitutivo è previsto in
termini generali,
come si è visto, nel caso di mancato rispetto del
termine di
conclusione del procedimento che può
essere esercitato anche d’ufficio (art. 2, commi
9-
bis e 8-ter della l. n. 241/1990). Un
esempio di
276 scioglimento e sospensione di organi è il potere
attribuito al ministro dell’Interno di rimuovere e
sospendere
il sindaco, il presidente della provincia
e altri amministratori locali, nel caso in cui
compiano atti contrari alla Costituzione o per
gravi e persistenti violazioni di legge o
per gravi
motivi di ordine pubblico (art. 142 Testo unico
degli enti locali approvato con d.lgs. 18
agosto
2000, n. 267).
I controlli nei quali è presente
una funzione
collaborativa possono concludersi con
suggerimenti e indicazioni per
migliorare l’attività.
I controlli amministrativi danno
origine a un
sistema assai articolato del quale ci si limiterà a
trattare solo alcuni
aspetti essenziali.
2. I
controlli sugli atti e
sull’attività
Nel paragrafo precedente si è già
fatto cenno alla
distinzione tra controllo sugli atti e sull’attività.
Il controllo sugli atti rappresenta
una forma di
verifica che limita l’autonomia dell’ente o organo
competente.
Esso può essere preventivo o
successivo a seconda
che venga esercitato prima o dopo che l’atto abbia
prodotto i suoi
effetti. Può essere di legittimità o
di merito, a seconda che l’organo di controllo
faccia riferimento a parametri normativi e a
principi giuridici, oppure a canoni più
generali di
opportunità e convenienza.
In passato il controllo di merito
era previsto in
modo esteso a livello locale. Si pensi, per esempio,
al controllo del
prefetto, cioè del massimo
esponente del governo in sede locale, nei confronti
delle
cosiddette Opere pie (o Istituzioni pubbliche
di assistenza e beneficenza, IPAB), cioè
le
associazioni e fondazioni promosse da soggetti
privati, spesso di ispirazione
religiosa, sottoposte a
fine Ottocento, in epoca crispina, a una disciplina
pubblicistica. Le IPAB erano assoggettate a un
regime di «tutela», proprio per alludere
al ruolo
subalterno dell’ente controllato, e non di semplice
«vigilanza», il cui
parametro di riferimento è
esclusivamente la legittimità degli atti.
In caso di esito negativo il
controllo di legittimità
preclude all’atto di produrre i suoi effetti, se si
tratta di
controllo preventivo; determina
l’annullamento dell’atto con la rimozione degli
effetti
ex tunc, se si tratta di controllo successivo.
Se il controllo
è di merito l’autorità che lo esercita
può riformare direttamente l’atto oppure
indirizzare all’autorità emanante una richiesta di
riesame. Così, per esempio, gli
statuti approvati
dalle università sono soggetti a un controllo del
ministero competente
il quale può operare rilievi,
oltre che di legittimità, di merito. In quest’ultimo
caso
formula una richiesta di riesame, ma
l’università può confermare la norma statutaria
con
una maggioranza qualificata (maggioranza
assoluta) (art. 6, comma 10, legge 9 maggio 1989, n.
168).
Il controllo preventivo di
legittimità sugli atti delle
amministrazioni statali e locali è stato in auge fino
ad
anni relativamente recenti.
La stessa Costituzione prevedeva,
accanto ai
controlli sugli atti I controlli preventivi
di
legittimità
del governo affidati
alla
Corte dei conti
ai quali si è fatto cenno (art. 100, comma 2), un
controllo di legittimità sugli atti
delle regioni
277 esercitato in forma decentrata da un organo dello
Stato (art. 125 Cost.) e sugli atti delle province e
dei comuni
attribuito a un organo regionale (art.
130 Cost.).
n siffatto sistema era poco
compatibile con
U
un’impostazione autonomistica dell’ordinamento
che valorizza il
principio di autoresponsabilità.
Inoltre, la mole degli atti da scrutinare (milioni
solo
a livello statale) rallentava l’attività
amministrativa.
Ancora, il controllo sugli atti,
adottato nell’ambito
del modello tradizionale di «amministrazione per
atti», nel quale
ciò che conta è essenzialmente la
conformità alla legge piuttosto che la capacità di
erogare in modo efficiente prestazioni e servizi di
elevata qualità ai cittadini e
utenti, ha subito in
epoca recente un ripensamento. Si è infatti
affermata la cosiddetta
«amministrazione di
risultato», nella quale, come si è già accennato, è
più avvertita
l’esigenza di assicurare i valori
dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità.
In occasione della riforma del
Titolo V della
Costituzione attuata con la legge costituzionale n.
3/2001, il controllo preventivo di
legittimità degli
atti è stato in gran parte soppresso e ad esso sono
subentrate altre
forme di controllo di tipo
soprattutto finanziario e gestionale.
A livello statale, il controllo
preventivo di
legittimità attribuito alla Corte dei conti è ormai
limitato a un elenco
tassativo di atti (art. 3 legge 14
gennaio 1994, n. 20). Tra di essi figurano,
per
esemplificare, i provvedimenti emanati con
delibera del Consiglio dei ministri, le
piante
organiche, il conferimento degli incarichi
dirigenziali, gli atti normativi a
rilevanza esterna,
gli atti di disposizione del demanio e del
patrimonio immobiliare. Il
procedimento di
controllo deve concludersi entro 60 giorni dalla
ricezione dell’atto
(salvo sospensione nell’ipotesi
di richieste istruttorie). In caso di esito negativo
del
controllo, e dunque di diniego del visto e della
registrazione dell’atto, il ministro
può chiedere al
Consiglio dei ministri che l’atto abbia comunque
corso e che venga
ammesso alla registrazione con
riserva: l’atto acquista così efficacia nonostante
l’illegittimità rilevata dalla Corte dei conti che
però ne dà comunicazione al
parlamento.
Anche il controllo successivo su
singoli atti è
ormai quasi del tutto superato. A livello statale, la
Corte dei conti può
però deliberare motivatamente
che «singoli atti di notevole rilievo finanziario»
siano
sottoposti al suo esame per un determinato
periodo di tempo. La Corte può richiedere
all’amministrazione entro 15 giorni il riesame degli
atti adottati, richiesta che non
sospende però
l’esecutività dei medesimi (art. 3, comma 3, l. n.
20/1994).
Il controllo I controlli
sull’attività
sull’attività ha per
oggetto la gestione di un apparato considerata nel
suo
complesso e mira a valutarne i risultati globali.
Per sua natura si tratta di un
controllo di tipo
successivo (o ex post) che riguarda, in
particolare,
la regolarità contabile e finanziaria della gestione e
l’efficienza,
l’efficacia e l’economicità.
A livello centrale, in attuazione
dell’art. 100,
comma 2, Cost. già citato, la Corte dei conti
esercita il controllo La Corte dei conti
successivo sulla
gestione del
bilancio e del patrimonio delle
amministrazioni pubbliche. Verifica cioè la
legittimità
e la regolarità delle gestioni, accertando
la rispondenza dei risultati dell’attività
amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge e
valuta comparativamente costi,
modi e tempi dello
278 svolgimento dell’attività amministrativa
(art. 3,
comma 4, l. n. 20/1994). La Corte verifica anche il
funzionamento dei controlli interni a ciascuna
amministrazione, creando così un legame
tra
controlli interni e controlli esterni.
iù in particolare, come si vedrà
meglio nel
P
capitolo XIII, il controllo successivo sulla gestione
del bilancio dello
Stato ha per oggetto gli
andamenti generali della finanza pubblica e
consiste nell’esame
del rendiconto generale dello
Stato presentato dal governo alla Corte di conti
entro il
31 maggio successivo a quello di chiusura
dell’anno finanziario. Il rendiconto viene
messo a
raffronto con la legge di bilancio e, nel caso di
accertata concordanza, viene
emanato un «giudizio
di parificazione» inviato, insieme a una relazione,
al parlamento
entro il 30 giugno di ogni anno.
La Corte dei conti esercita anche
il cosiddetto
controllo concomitante che si svolge, cioè, nel
corso della gestione
dell’ente e ha per oggetto
l’intera gestione finanziaria e amministrativa allo
scopo di
verificare il rispetto dei parametri di
legittimità e dei criteri di efficacia ed
economicità
(art. 11 l. n. 15/2009). La Corte individua in
contraddittorio le cause e
comunica le proprie
valutazioni al ministro competente. Questo tipo di
controllo è stato
valorizzato in occasione delle
misure adottate in seguito alla pandemia da Covid-
19 al
fine di favorire l’attuazione dei piani e dei
progetti di rilancio dell’economia e di
ritardi
nell’erogazione di contributi finanziari (art. 22 l. n.
120/2020). Le
irregolarità segnalate dalla Corte
possono dar origine a una responsabilità
dirigenziale, analizzata nel capitolo X.
A livello decentrato, la Corte dei
conti, tramite le
sezioni regionali, esercita un controllo successivo
sul rispetto da
parte di regioni ed enti locali del
cosiddetto Patto di stabilità e dei vincoli
derivanti
dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea.
Verifica anche la sana
gestione finanziaria e il
funzionamento dei controlli interni. I revisori degli
enti
locali, che costituiscono il principale organo di
controllo interno, inviano alle
sezioni regionali
della Corte una relazione sul bilancio di previsione
e sul conto
consuntivo di ciascun ente, redatta
secondo criteri e linee guida predisposte a livello
nazionale dalla Corte stessa. All’esito del controllo
le sezioni regionali riferiscono
agli organi
rappresentativi dell’ente e vigilano sull’adozione
da parte dell’ente locale
delle misure correttive per
assicurare il rispetto dei vincoli e degli obiettivi.
Analoghi controlli sono previsti nei confronti delle
aziende sanitarie locali, che
gestiscono la maggior
parte delle risorse disponibili a livello regionale.
All’esito di
questo controllo le sezioni regionali
della Corte inviano una segnalazione alla regione
per l’assunzione di provvedimenti conseguenti. La
Corte esercita un controllo esterno,
mediante un
esame dei rendiconti, anche nei confronti di enti
pubblici e privati ai
quali lo Stato contribuisce in
via ordinaria, e in particolare, delle università.
Il controllo della Corte dei conti
ha una valenza
essenzialmente collaborativa nei confronti delle
amministrazioni
interessate. L’estensione del
controllo dalle amministrazioni statali in senso
stretto
alle amministrazioni regionali e locali ha
comportato un riposizionamento della Corte
dei
conti che è sempre più un apparato al servizio, non
279 solo del governo, bensì dello
Stato-comunità.
3. I
controlli gestionali
1.
Il controllo di regolarità amministrativa e
contabile è volto a «garantire la
legittimità,
regolarità e correttezza dell’azione
amministrativa» (art. 1, comma 1, lett. a)). Esso è
affidato, a seconda del
tipo di amministrazione,
agli uffici di ragioneria (ministeri), agli organi di
revisione
(enti locali), ai servizi ispettivi di
finanza.
Esso prevede verifiche condotte
sulla base dei
principi della revisione aziendale asseverati dagli
ordini e collegi
professionali.
2.
Il controllo di gestione è volto a «verificare
l’efficacia, efficienza ed economicità
dell’azione
amministrativa al fine di ottimizzare, anche
attraverso tempestivi
interventi di correzione, il
rapporto tra costi e risultati» (art. 1, comma 1, lett.
b)). Questo controllo è effettuato da
un organismo
istituito a supporto dei dirigenti che dall’esito delle
verifiche possono
trarre indicazioni per
organizzare meglio l’attività.
Ciascuna amministrazione deve
pertanto definire
le unità organizzative da sottoporre al tipo di
controllo menzionato;
stabilire le procedure per la
determinazione degli obiettivi gestionali con
l’individuazione dei soggetti responsabili;
individuare l’insieme dei prodotti e delle
finalità
dell’azione amministrativa riferiti all’intera
organizzazione o a singole unità
organizzative;
definire le modalità di rilevazione e ripartizione
dei costi tra le unità
organizzative e di
individuazione degli obiettivi per cui i costi sono
sostenuti;
elaborare gli indicatori specifici per
misurare efficacia, efficienza ed economicità;
stabilire la frequenza di rilevazione delle
informazioni (art. 4).
3.
La valutazione della dirigenza pubblica (art. 1,
comma 1, lett. c)) è operata con periodicità
annuale
e consiste nella valutazione delle
prestazioni dei dirigenti e delle competenze
organizzative, anche sulla base dei risultati del
controllo di gestione. Questo tipo di
controllo è
funzionale anche a far valere la responsabilità
dirigenziale, che verrà
analizzata nel capitolo X.
Essa può determinare, a seconda dei casi, il
mancato rinnovo
dell’incarico, la revoca del
medesimo collocando il dirigente a disposizione, il
recesso
dal rapporto di lavoro (art. 21 d.lgs. 30
marzo 2001, n. 165).
4.
La valutazione e il controllo strategico sono
preordinati a «valutare l’adeguatezza
delle scelte
compiute in sede di attuazione dei piani,
programmi e altri strumenti di
determinazione
dell’indirizzo politico, in termini di congruenza tra
risultati
conseguiti e obiettivi predefiniti» (art. 1,
comma 1, lett. d)). Il controllo mira a verificare
l’effettiva attuazione delle scelte indicate in questo
280
tipo di atti e si concretizza
nell’analisi della
congruenza o degli eventuali scostamenti tra
le
missioni affidate, le scelte operative effettuate, le
risorse umane, finanziarie e
materiali assegnate,
identificando gli eventuali fattori ostativi, le
responsabilità e i
possibili rimedi (art. 6).
Per gli enti locali, la disciplina
contenuta nel d.lgs.
18 agosto 2000, n. 267 ricalca quella generale di cui
al d.lgs. n. 286/1999 ma è più dettagliata e completa
(d.l. 10 ottobre 2012, n. 174 convertito in legge 7
dicembre 2012, n. 213 con l’introduzione dei nuovi
artt. 147, 147-bis,
147-ter, 147-quater,
147-quinquies). In
particolare, in relazione all’obbligo
costituzionale
del pareggio di bilancio previsto, come si vedrà nel
capitolo XIII,
dall’art. 81, comma 1, Cost., è stato
introdotto anche un
controllo sugli equilibri
finanziari finalizzato al rispetto degli obiettivi di
finanza
pubblica previsti per gli enti locali che
responsabilizza anche i loro organi di governo
(art.
147-quinquies).
I controlli interni, che operano in
modo integrato,
perseguono l’obiettivo di migliorare l’azione
amministrativa e hanno
prevalentemente una
funzione collaborativa. Introducono all’interno
delle pubbliche
amministrazioni una visione
aziendalistica della gestione. Stentano però talora
a
prendere piede in concreto perché prevale
ancora nelle pubbliche amministrazioni una
cultura che privilegia la legalità formale degli atti.
CAPITOLO 7
La responsabilità
281
1. Premessa
anticipato, è più
ampia di quella del dipendente. Infatti, la
responsabilità personale di quest’ultimo per
danni
provocati nell’esercizio delle funzioni alle quali è
preposto è limitata ai casi
di dolo e colpa grave
(art. 23 Testo unico). In caso di colpa lieve, l’azione
risarcitoria può essere proposta solo nei confronti
dell’amministrazione e viene dunque
meno il
principio del parallelismo. Inoltre, l’impossibilità
pratica di identificare il
dipendente pubblico che
ha posto in essere il comportamento dannoso non
esclude la
responsabilità della pubblica
amministrazione, purché sia accertato che la
condotta sia
riferibile a un dipendente di
quell’amministrazione. Anche questa ipotesi
spezza il
parallelismo delle responsabilità.
Quanto al rapporto interno,
l’amministrazione che
abbia risarcito il terzo del danno
cagionato dal
dipendente può L’azione di regresso
esercitare, come si
vedrà, un’azione di regresso contro
quest’ultimo
secondo i principi della responsabilità
amministrativa (art. 22 Testo unico).
Occorre ora prendere in
considerazione gli
elementi strutturali dell’illecito civile ex
art. 2043
cod. civ. Va posta anzitutto la distinzione tra
illecito causato da meri comportamenti degli
agenti della pubblica amministrazione e
illecito
conseguente all’emanazione di provvedimenti
amministrativi illegittimi ritenuto
risarcibile in
seguito alla svolta operata dalla sentenza della
Corte di cassazione
(Sez. Un., n. 500/1999).
Rientrano nel primo ambito , tipicamente, per
esempio, i danni La responsabilità da
meri
comportamenti
conseguenti a un
incidente
stradale
che coinvolge un automezzo militare; o subiti da
uno scolaro non sorvegliato
adeguatamente
dall’insegnante; o provocati a un autoveicolo a
causa della difettosa
manutenzione di una strada
(la cosiddetta insidia o trabocchetto).
In base all’art. 2043 cod. civ., per essere risarcibile,
il danno deve
essere riconducibile a una condotta
colposa o dolosa dell’agente; deve essere
qualificato come «ingiusto»; deve sussistere un
nesso di causalità tra condotta ed
evento
pregiudizievole.
Per quanto riguarda la condotta, la
responsabilità
del dipendente e della pubblica amministrazione
può sorgere sia quando
l’illecito consegua al
compimento di atti o operazioni, sia quando esso
consista
«nell’omissione o nel ritardo
ingiustificato di atti o operazioni al cui
compimento
l’impiegato è obbligato per legge o
per regolamento» (art. 23, comma 2, Testo unico).
La proposizione dell’azione
deve essere preceduta
in questo caso da un atto formale di diffida (art. 25
Testo unico).
Rientra nella fattispecie della
responsabilità da
meri comportamenti anche il caso della condotta
contraria al principio
di correttezza e buona fede
tenuta dall’amministrazione nel corso di un
procedimento
amministrativo o a valle
dell’adozione di un provvedimento. Così, per
esempio, essa
potrebbe essere chiamata a
rispondere dei danni provocati per aver ingenerato
in capo a
un soggetto privato l’aspettativa (per
esempio con rassicurazioni informali o
comunicazione da parte di qualche ufficio) circa
l’esito favorevole di un procedimento
autorizzatorio poi disattesa (C. cass., Sez. Un., 28
aprile 2020, n. 8236), oppure dal
rilascio di
un’autorizzazione risultata illegittima e annullata
286 in sede giurisdizionale
che abbia ingenerato nel
destinatario dell’atto «un’aspettativa
alla stabilità
del bene della vita con esso acquisito» (Cons. St.,
Ad. Plen., 29
novembre 2021, nn. 19 e 20).
Se la condotta consiste in atti o
operazioni
compiuti da un organo collegiale, i membri del
collegio sono responsabili in
solido. La
responsabilità è esclusa solo per coloro che
abbiano fatto verbalizzare il
proprio dissenso (art.
24 Testo unico).
Infine, la condotta illecita deve
essere
riconducibile all’agente in base all’art. 2046 cod.
civ., che esclude l’imputabilità in caso di
incapacità
di intendere e volere al momento in cui la
condotta è stata posta in essere.
Deve essere
inoltre riferibile all’amministrazione in base al
rapporto organico.
Quest’ultimo può spezzarsi
(cosiddetta frattura del rapporto organico) solo
nei casi in
cui il dipendente agisce per finalità
personali ed egoistiche al di fuori delle proprie
incombenze.
Affinché sorga la Il nesso di
«occasionalità
responsabilità necessaria»
occorre cioè un nesso
di «occasionalità
necessaria» tra
attività illecita e mansioni del
dipendente. La giurisprudenza ha chiarito che tale
nesso può sussistere anche quando il dipendente
«abbia approfittato delle sue
attribuzioni ed agito
per finalità esclusivamente personali ed
egoistiche» con condotta
anche penalmente
illecita, allorché essa non sarebbe stata possibile
senza l’esercizio
delle funzioni o poteri
attribuitigli. Deve trattarsi cioè di condotte in
qualche modo
«raffigurabili o prevenibili
oggettivamente» da parte dell’amministrazione
«rientrando
nella normalità statistica che il potere
possa essere impiegato per finalità diverse da
quelle istituzionali» (C. cass., Sez. Un., 16 maggio
2020, n. 13246 in un caso
riguardante un
cancelliere di tribunale appropriatosi di somme
giacenti su un libretto
di deposito giudiziario
affidato alla sua custodia e condannato per
peculato).
Passando a considerare il requisito
della colpa, un
aspetto particolare Colpa e discrezionalità
riguarda il rapporto
tra
colpa e discrezionalità. In passato la
giurisprudenza riteneva che fosse precluso al
giudice l’accertamento della colpa perché esso si
sarebbe risolto in un giudizio sulla
discrezionalità
della pubblica amministrazione precluso dalla
legge 20 marzo 1865, n.
2278, All. E che, come si è
accennato, individua l’ambito della giurisdizione
del
giudice ordinario. Progressivamente la
giurisprudenza ha superato questa chiusura
affermando invece il principio, oggi pacifico,
secondo il quale il potere discrezionale
incontra un
limite, non soltanto nelle disposizioni di legge e di
regolamento che
prescrivono determinate
modalità di comportamento, ma anche nelle
comuni regole di
diligenza e prudenza. In altre
parole, l’amministrazione nell’operare le scelte
discrezionali è tenuta al rispetto del principio
generale del neminem
laedere.
ileva a questo fine la distinzione
tra scelta
R
discrezionale dei mezzi più idonei per soddisfare
gli interessi pubblici (per
esempio, le modalità
organizzative di un servizio pubblico) e
realizzazione e messa in
opera dei mezzi prescelti.
Con riguardo a quest’ultima non sorge tanto un
problema di
sindacato sulla discrezionalità, quanto
un problema di valutazione di un comportamento
287 del dipendente che abbia attuato in modo
difettoso, con
negligenza, imperizia o imprudenza,
la scelta. Così, per esempio, il giudice non può
censurare la scelta organizzativa del proprietario e
del gestore di una strada pubblica
di non installare
un semaforo a un incrocio. Può invece sindacare se
l’incidente è
dovuto al malfunzionamento del
semaforo per difetto di manutenzione.
Quanto al requisito dell’ingiustizia
del danno,
come già più volte L’ingiustizia del danno
accennato, la
giurisprudenza
costante, prima della svolta operata
dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con
la
sentenza n. 500/1999, riteneva che potesse essere
definito
come ingiusto ai sensi dell’art. 2043 cod.
civ. il danno conseguente alla lesione di un
diritto
soggettivo e non anche di un interesse legittimo.
La responsabilità della
pubblica amministrazione
era dunque confinata all’area dei meri
comportamenti dei propri
agenti.
eraltro, già in precedenza la
giurisprudenza aveva
P
esteso l’ambito della responsabilità della pubblica
amministrazione
a fattispecie nelle quali emergeva
un collegamento almeno indiretto con l’esercizio
di
poteri amministrativi correlati agli interessi
legittimi oppositivi.
L’esempio più Il risarcimento
conseguente
significativo era all’annullamento di un
quello atto illegittimo
dell’occupazione di
un terreno in esecuzione di un
provvedimento di
espropriazione illegittimo. Infatti il proprietario
leso in un suo
interesse legittimo poteva proporre
un’azione di annullamento innanzi al giudice
amministrativo. In caso di accoglimento del
ricorso, la retroattività dell’annullamento
del
provvedimento ripristinava e faceva riespandere il
diritto soggettivo in capo al
proprietario privato.
Pertanto l’avvenuta occupazione del terreno,
valutata a
posteriori, diventava illecita, cioè priva
di titolo. La posizione dell’amministrazione
era
dunque assimilabile a quella di un privato che si
fosse impossessato di un terreno
altrui senza
averne titolo, commettendo un illecito ai sensi
dell’art. 2043 cod. civ.
nalogamente, la revoca illegittima
di una
A
concessione amministrativa attributiva a un
soggetto privato del diritto
soggettivo a svolgere
una determinata attività poteva costituire un
illecito
risarcibile. Una volta annullata la revoca
all’esito di un giudizio innanzi al giudice
amministrativo, il danno da risarcire era quello
conseguente alla lesione del diritto
soggettivo a
svolgere l’attività e all’interruzione della medesima
nell’intervallo
intercorrente dalla revoca
all’emanazione della sentenza di annullamento.
Questo meccanismo comportava
peraltro la
necessità di instaurare due giudizi, dapprima
innanzi al giudice
amministrativo per tutelare
l’interesse legittimo leso da un provvedimento
illegittimo,
successivamente innanzi al giudice
ordinario per tutelare il diritto soggettivo. In base
ad esso, però, l’area degli interessi legittimi
oppositivi (o con altra terminologia già
menzionata, dei diritti affievoliti) era in grado di
far sorgere una responsabilità a
carico
dell’amministrazione.
La giurisprudenza aveva invece
negato la
responsabilità nel caso di diniego illegittimo di un
provvedimento favorevole,
lesivo di un interesse
legittimo pretensivo. Ed è proprio su questo
versante che la
sentenza delle Sezioni Unite della
Corte di cassazione n.
500/1999 ha introdotto le
288 innovazioni maggiori.
3. La
responsabilità civile da
comportamento illecito
La responsabilità della pubblica
amministrazione
e dei suoi agenti riferita a meri comportamenti,
cioè a condotte non
ricollegabili all’esercizio di un
potere e all’emanazione di un provvedimento, va
analizzata tenendo distinti tre rapporti: il rapporto
tra il danneggiato e il dipendente
pubblico che ha
commesso l’illecito; il rapporto tra il danneggiato e
la pubblica
amministrazione nella quale è
incardinato il dipendente; il rapporto per così dire
interno tra dipendente e amministrazione di
appartenenza.
Quanto ai primi due rapporti , anzitutto la
responsabilità del Il carattere diretto e
solidale
della
funzionario e responsabilità del
dell’amministrazione dipendente
anticipato, è più
ampia di quella del dipendente. Infatti, la
responsabilità personale di quest’ultimo per
danni
provocati nell’esercizio delle funzioni alle quali è
preposto è limitata ai casi
di dolo e colpa grave
(art. 23 Testo unico). In caso di colpa lieve, l’azione
risarcitoria può essere proposta solo nei confronti
dell’amministrazione e viene dunque
meno il
principio del parallelismo. Inoltre, l’impossibilità
pratica di identificare il
dipendente pubblico che
ha posto in essere il comportamento dannoso non
esclude la
responsabilità della pubblica
amministrazione, purché sia accertato che la
condotta sia
riferibile a un dipendente di
quell’amministrazione. Anche questa ipotesi
spezza il
parallelismo delle responsabilità.
Quanto al rapporto interno,
l’amministrazione che
abbia risarcito il terzo del danno
cagionato dal
dipendente può L’azione di regresso
esercitare, come si
vedrà, un’azione di regresso contro
quest’ultimo
secondo i principi della responsabilità
amministrativa (art. 22 Testo unico).
Occorre ora prendere in
considerazione gli
elementi strutturali dell’illecito civile ex
art. 2043
cod. civ. Va posta anzitutto la distinzione tra
illecito causato da meri comportamenti degli
agenti della pubblica amministrazione e
illecito
conseguente all’emanazione di provvedimenti
amministrativi illegittimi ritenuto
risarcibile in
seguito alla svolta operata dalla sentenza della
Corte di cassazione
(Sez. Un., n. 500/1999).
Rientrano nel primo ambito , tipicamente, per
esempio, i danni La responsabilità da
meri
comportamenti
conseguenti a un
incidente
stradale
che coinvolge un automezzo militare; o subiti da
uno scolaro non sorvegliato
adeguatamente
dall’insegnante; o provocati a un autoveicolo a
causa della difettosa
manutenzione di una strada
(la cosiddetta insidia o trabocchetto).
In base all’art. 2043 cod. civ., per essere risarcibile,
il danno deve
essere riconducibile a una condotta
colposa o dolosa dell’agente; deve essere
qualificato come «ingiusto»; deve sussistere un
nesso di causalità tra condotta ed
evento
pregiudizievole.
Per quanto riguarda la condotta, la
responsabilità
del dipendente e della pubblica amministrazione
può sorgere sia quando
l’illecito consegua al
compimento di atti o operazioni, sia quando esso
consista
«nell’omissione o nel ritardo
ingiustificato di atti o operazioni al cui
compimento
l’impiegato è obbligato per legge o
per regolamento» (art. 23, comma 2, Testo unico).
La proposizione dell’azione
deve essere preceduta
in questo caso da un atto formale di diffida (art. 25
Testo unico).
Rientra nella fattispecie della
responsabilità da
meri comportamenti anche il caso della condotta
contraria al principio
di correttezza e buona fede
tenuta dall’amministrazione nel corso di un
procedimento
amministrativo o a valle
dell’adozione di un provvedimento. Così, per
esempio, essa
potrebbe essere chiamata a
rispondere dei danni provocati per aver ingenerato
in capo a
un soggetto privato l’aspettativa (per
esempio con rassicurazioni informali o
comunicazione da parte di qualche ufficio) circa
l’esito favorevole di un procedimento
autorizzatorio poi disattesa (C. cass., Sez. Un., 28
aprile 2020, n. 8236), oppure dal
rilascio di
un’autorizzazione risultata illegittima e annullata
286 in sede giurisdizionale
che abbia ingenerato nel
destinatario dell’atto «un’aspettativa
alla stabilità
del bene della vita con esso acquisito» (Cons. St.,
Ad. Plen., 29
novembre 2021, nn. 19 e 20).
Se la condotta consiste in atti o
operazioni
compiuti da un organo collegiale, i membri del
collegio sono responsabili in
solido. La
responsabilità è esclusa solo per coloro che
abbiano fatto verbalizzare il
proprio dissenso (art.
24 Testo unico).
Infine, la condotta illecita deve
essere
riconducibile all’agente in base all’art. 2046 cod.
civ., che esclude l’imputabilità in caso di
incapacità
di intendere e volere al momento in cui la
condotta è stata posta in essere.
Deve essere
inoltre riferibile all’amministrazione in base al
rapporto organico.
Quest’ultimo può spezzarsi
(cosiddetta frattura del rapporto organico) solo
nei casi in
cui il dipendente agisce per finalità
personali ed egoistiche al di fuori delle proprie
incombenze.
Affinché sorga la Il nesso di
«occasionalità
responsabilità necessaria»
occorre cioè un nesso
di «occasionalità
necessaria» tra
attività illecita e mansioni del
dipendente. La giurisprudenza ha chiarito che tale
nesso può sussistere anche quando il dipendente
«abbia approfittato delle sue
attribuzioni ed agito
per finalità esclusivamente personali ed
egoistiche» con condotta
anche penalmente
illecita, allorché essa non sarebbe stata possibile
senza l’esercizio
delle funzioni o poteri
attribuitigli. Deve trattarsi cioè di condotte in
qualche modo
«raffigurabili o prevenibili
oggettivamente» da parte dell’amministrazione
«rientrando
nella normalità statistica che il potere
possa essere impiegato per finalità diverse da
quelle istituzionali» (C. cass., Sez. Un., 16 maggio
2020, n. 13246 in un caso
riguardante un
cancelliere di tribunale appropriatosi di somme
giacenti su un libretto
di deposito giudiziario
affidato alla sua custodia e condannato per
peculato).
Passando a considerare il requisito
della colpa, un
aspetto particolare Colpa e discrezionalità
riguarda il rapporto
tra
colpa e discrezionalità. In passato la
giurisprudenza riteneva che fosse precluso al
giudice l’accertamento della colpa perché esso si
sarebbe risolto in un giudizio sulla
discrezionalità
della pubblica amministrazione precluso dalla
legge 20 marzo 1865, n.
2278, All. E che, come si è
accennato, individua l’ambito della giurisdizione
del
giudice ordinario. Progressivamente la
giurisprudenza ha superato questa chiusura
affermando invece il principio, oggi pacifico,
secondo il quale il potere discrezionale
incontra un
limite, non soltanto nelle disposizioni di legge e di
regolamento che
prescrivono determinate
modalità di comportamento, ma anche nelle
comuni regole di
diligenza e prudenza. In altre
parole, l’amministrazione nell’operare le scelte
discrezionali è tenuta al rispetto del principio
generale del neminem
laedere.
ileva a questo fine la distinzione
tra scelta
R
discrezionale dei mezzi più idonei per soddisfare
gli interessi pubblici (per
esempio, le modalità
organizzative di un servizio pubblico) e
realizzazione e messa in
opera dei mezzi prescelti.
Con riguardo a quest’ultima non sorge tanto un
problema di
sindacato sulla discrezionalità, quanto
un problema di valutazione di un comportamento
287 del dipendente che abbia attuato in modo
difettoso, con
negligenza, imperizia o imprudenza,
la scelta. Così, per esempio, il giudice non può
censurare la scelta organizzativa del proprietario e
del gestore di una strada pubblica
di non installare
un semaforo a un incrocio. Può invece sindacare se
l’incidente è
dovuto al malfunzionamento del
semaforo per difetto di manutenzione.
Quanto al requisito dell’ingiustizia
del danno,
come già più volte L’ingiustizia del danno
accennato, la
giurisprudenza
costante, prima della svolta operata
dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con
la
sentenza n. 500/1999, riteneva che potesse essere
definito
come ingiusto ai sensi dell’art. 2043 cod.
civ. il danno conseguente alla lesione di un
diritto
soggettivo e non anche di un interesse legittimo.
La responsabilità della
pubblica amministrazione
era dunque confinata all’area dei meri
comportamenti dei propri
agenti.
eraltro, già in precedenza la
giurisprudenza aveva
P
esteso l’ambito della responsabilità della pubblica
amministrazione
a fattispecie nelle quali emergeva
un collegamento almeno indiretto con l’esercizio
di
poteri amministrativi correlati agli interessi
legittimi oppositivi.
L’esempio più Il risarcimento
conseguente
significativo era all’annullamento di un
quello atto illegittimo
dell’occupazione di
un terreno in esecuzione di un
provvedimento di
espropriazione illegittimo. Infatti il proprietario
leso in un suo
interesse legittimo poteva proporre
un’azione di annullamento innanzi al giudice
amministrativo. In caso di accoglimento del
ricorso, la retroattività dell’annullamento
del
provvedimento ripristinava e faceva riespandere il
diritto soggettivo in capo al
proprietario privato.
Pertanto l’avvenuta occupazione del terreno,
valutata a
posteriori, diventava illecita, cioè priva
di titolo. La posizione dell’amministrazione
era
dunque assimilabile a quella di un privato che si
fosse impossessato di un terreno
altrui senza
averne titolo, commettendo un illecito ai sensi
dell’art. 2043 cod. civ.
nalogamente, la revoca illegittima
di una
A
concessione amministrativa attributiva a un
soggetto privato del diritto
soggettivo a svolgere
una determinata attività poteva costituire un
illecito
risarcibile. Una volta annullata la revoca
all’esito di un giudizio innanzi al giudice
amministrativo, il danno da risarcire era quello
conseguente alla lesione del diritto
soggettivo a
svolgere l’attività e all’interruzione della medesima
nell’intervallo
intercorrente dalla revoca
all’emanazione della sentenza di annullamento.
Questo meccanismo comportava
peraltro la
necessità di instaurare due giudizi, dapprima
innanzi al giudice
amministrativo per tutelare
l’interesse legittimo leso da un provvedimento
illegittimo,
successivamente innanzi al giudice
ordinario per tutelare il diritto soggettivo. In base
ad esso, però, l’area degli interessi legittimi
oppositivi (o con altra terminologia già
menzionata, dei diritti affievoliti) era in grado di
far sorgere una responsabilità a
carico
dell’amministrazione.
La giurisprudenza aveva invece
negato la
responsabilità nel caso di diniego illegittimo di un
provvedimento favorevole,
lesivo di un interesse
legittimo pretensivo. Ed è proprio su questo
versante che la
sentenza delle Sezioni Unite della
Corte di cassazione n.
500/1999 ha introdotto le
288 innovazioni maggiori.
4. La
risarcibilità del danno da
lesione di interessi legittimi
La sentenza n. 500/1999 ha abbattuto la barriera
della
irrisarcibilità del danno da provvedimento
illegittimo, dimostrandosi sensibile alle
critiche
della dottrina e cogliendo le indicazioni del diritto
europeo che non conosce
la distinzione tra diritti
soggettivi e interessi legittimi.
La Corte
ha operato La nuova
interpretazione
una nuova dell’art. 2043 cod. civ.
interpretazione della
nozione di «danno
ingiusto»
ex
art. 2043 cod. civ. A questo fine ha
anzitutto qualificato
questo articolo non più
«come norma (secondaria), volta a sanzionare una
condotta
vietata da altre norme (primarie), bensì
come norma (primaria) volta ad apportare una
riparazione del danno ingiustamente sofferto da
un soggetto per effetto dell’attività
altrui».
I n altre parole, per la sua
applicazione l’art. 2043
cod. civ. non richiede che si rinvengano altre
norme primarie recanti divieti o costitutive di
diritti, ma pone direttamente il
criterio giuridico
per stabilire se il danno possa essere qualificato
come «ingiusto».
Non ha più rilievo la
qualificazione formale della situazione giuridica
del danneggiato
in termini di diritto soggettivo,
ma è sufficiente che sia riscontrabile «la lesione di
un interesse giuridicamente rilevante». Ingiusto è
cioè il danno che lede un interesse
giuridicamente
rilevante e ciò a prescindere dalla qualificazione di
quest’ultimo in
termini di diritto soggettivo o di
interesse legittimo.
Diventa allora cruciale stabilire in
quali casi un
interesse è giuridicamente rilevante. A questo fine
secondo la Corte
occorre operare una valutazione
e comparazione tra interessi in conflitto alla
stregua
del diritto positivo, accertando con quale
consistenza e intensità l’ordinamento
assicura
tutela all’interesse del danneggiato.
In base a questo criterio non tutti
gli interessi
legittimi sono risarcibili. Bisogna infatti appurare
se per effetto del
provvedimento illegittimo risulti
leso «l’interesse al bene della vita al quale
l’interesse legittimo si correla». Nel caso degli
interessi legittimi oppositivi la
connessione con un
bene della vita, cioè la conservazione del bene o
della situazione di
vantaggio di fronte a un
provvedimento che mira a sacrificarlo o a limitarlo,
è per così
dire in re ipsa.
1.
Nel caso degli interessi legittimi pretensivi, la
cui
lesione può Interessi legittimi
pretensivi e
giudizio
derivare sia dal prognostico
diniego illegittimo
del provvedimento
favorevole richiesto,
sia dal ritardo ingiustificato
nell’adozione di quest’ultimo, il collegamento con
il
bene della vita richiede «un giudizio prognostico
da condurre in riferimento alla
normativa di
settore, sulla fondatezza o meno della istanza onde
stabilire se il
pretendente fosse titolare non già di
una mera aspettativa, come tale non tutelabile,
bensì di una situazione suscettiva di determinare
un oggettivo affidamento circa la sua
conclusione
positiva, e cioè di una situazione che, secondo la
disciplina applicabile,
era destinata, secondo un
criterio di normalità, ad un esito favorevole, e
risultava
quindi giuridicamente protetta».
Scomponendo questo passaggio
centrale della
sentenza n. 500/1999 nei suoi elementi logici, ne
deriva che:
a) il giudizio prognostico ha per
oggetto la fondatezza o meno
dell’istanza del
privato volta a ottenere il provvedimento
favorevole e dunque tende ad
appurare se all’esito
289 del procedimento il bene della vita o
l’utilità che il
privato mira a conseguire gli deve essere
riconosciuto;
b) il giudizio richiede un esame della
normativa di settore che
disciplina quel particolare
tipo di procedimento e ciò soprattutto per stabilire
se e
quali margini di discrezionalità sono
riconosciuti all’amministrazione, atteso che la
sussistenza della discrezionalità esclude la
spettanza del bene della vita;
c) il giudizio va
condotto secondo un criterio di normalità,
cioè
prefigurando, anche alla luce della situazione
concreta di fatto, l’esito del
procedimento; d) una
volta operato questo giudizio può risultare,
in caso
di prognosi negativa, che il privato è titolare di una
semplice aspettativa non
tutelata (la mera
speranza a ottenere il provvedimento favorevole)
oppure, in caso di
prognosi positiva, che egli si
trovi in una situazione di oggettivo affidamento,
giuridicamente protetto, a conseguire il bene della
vita ad opera di un provvedimento
favorevole.
Solo in quest’ultimo caso, che
coincide
tendenzialmente con i provvedimenti vincolati,
negli interessi legittimi
pretensivi sussiste un
collegamento diretto con il bene della vita tale da
renderli
risarcibili.
Il risarcimento è La perdita di
chance
commisurato
soltanto alla cosiddetta perdita di
chance nei casi in
cui non sia possibile accertare in termini
di
certezza assoluta, ma soltanto di probabilità,
l’acquisizione o la conservazione del
bene della
vita in capo al titolare dell’interesse legittimo ove
il potere fosse stato
esercitato in modo legittimo.
Così, per esempio, in materia di procedure di gara
per
l’aggiudicazione di un contratto, l’impresa
seconda classificata, che all’esito del
processo
ottiene una sentenza di annullamento
dell’ammissione alla procedura
dell’impresa prima
classificata, vede accertata in modo univoco la
pretesa a conseguire
il «bene della vita» (il
contratto oggetto della procedura) per effetto
dell’esclusione
dalla graduatoria dell’impresa
prima classificata. Se, invece, la medesima impresa
contesta l’erronea valutazione tecnico-
discrezionale della commissione giudicatrice
nell’attribuzione dei punteggi riferiti ad elementi
qualitativi dell’offerta e ottiene
una sentenza che
annulla la graduatoria finale, la pretesa a
conseguire il bene della
vita può essere apprezzata
solo in termini di chance, visto che non
è possibile
prefigurare in modo univoco l’esito di una nuova
valutazione delle offerte
da parte della
commissione giudicatrice. In ogni caso la chance
perduta, per poter essere risarcibile, pur non
richiedendo di
essere espressa in percentuali di
probabilità (per esempio, oltre il 50%), deve
presentare un carattere di «serietà» escludendo
chance «del tutto accidentali» o di «livello del tutto
infimo»
(Cons. St., Sez. VI, 13 settembre 2021, n.
6268).
I n definitiva, secondo la
giurisprudenza, la linea di
confine tra risarcibilità e irrisarcibilità non è più
tracciata dalla distinzione tra diritto soggettivo e
interesse legittimo, ma è
costituita dall’esistenza o
meno della lesione di un bene della vita accertata
attraverso il giudizio prognostico.
2.
La sentenza n. 500/1999 fornisce altri criteri
per stabilire se
un provvedimento illegittimo della
pubblica amministrazione sia o meno riconducibile
allo schema dell’art. 2043 cod. civ.
In primo
luogo, L’accertamento della
colpa
precisa che
l’accertamento
dell’illegittimità del provvedimento non integra in
modo automatico (in re ipsa) il requisito della
colpa. È richiesta
invece un’indagine ulteriore che
290 verifichi se l’illegittimità
riscontrata derivi dalla
violazione delle regole di imparzialità, di
correttezza e di
buona amministrazione alle quali
deve ispirarsi l’esercizio della funzione
amministrativa e che si pongono come limiti
esterni alla discrezionalità. Il giudice
deve cioè
valutare le ragioni che hanno determinato
l’illegittimità.
I n secondo luogo, la colpa va
riferita, non già al
funzionario agente, bensì all’apparato nel suo
complesso, andando a
sindacare se vi sia stata una
disfunzione che ha determinato l’illegittimità, per
esempio a causa di una cattiva organizzazione del
personale, dei mezzi e delle risorse
dell’ufficio.
Sul requisito della colpa, la
giurisprudenza ha
cercato di semplificare l’onere probatorio in capo
al danneggiato
utilizzando a favore di quest’ultimo
le presunzioni semplici di cui agli artt. 2727 e 2729
cod. civ., secondo i quali esse sono rimesse al
prudente
apprezzamento del giudice e devono
essere «gravi, precise e concordanti».
In pratica, per assolvere al proprio
onere
probatorio, il L’onere probatorio
danneggiato può
invocare la stessa
illegittimità come indice
presuntivo della colpa, allegando anche altre
circostanze
idonee a dimostrare che si è trattato di
un errore inescusabile. Tra queste rilevano,
per
esempio, la chiarezza e univocità della norma da
applicare, il carattere vincolato
del potere, la
mancata considerazione da parte
dell’amministrazione dell’apporto
partecipativo
del privato. A questo punto, per superare la
presunzione di colpa,
l’amministrazione deve
produrre elementi indiziari che viceversa
consentano di
qualificare l’errore come scusabile.
Tra questi rientrano la novità assoluta o la
formulazione incerta della norma applicata, i
contrasti giurisprudenziali in ordine alla
sua
interpretazione, il comportamento non corretto
del danneggiato che abbia tenuto
nascoste
circostanze rilevanti o abbia prodotto nel
procedimento dichiarazioni inesatte,
ecc. In
presenza di una illegittimità macroscopica il
danneggiato, per far scattare la
presunzione di
colpa, può limitarsi ad allegare l’illegittimità,
gravando poi
sull’amministrazione il compito di
fornire elementi volti a dimostrare l’assenza di
colpa.
i tratta di un tipo di verifica
molto simile, come si
S
vedrà, a quella operata dalla giurisprudenza
europea per valutare
la gravità della violazione
commessa dall’amministrazione.
Un caso a sé è il danno arrecato
dall’illegittima
aggiudicazione di un contratto di lavori, servizi o
forniture. Infatti,
la giurisprudenza nazionale, sulla
scorta di quella della Corte di giustizia dell’Unione
europea (Sez. II, 30 settembre 2010 in C-314/09),
ritiene che il
risarcimento sia dovuto a prescindere
dall’accertamento dell’elemento soggettivo e
dunque a titolo di responsabilità oggettiva.
3.
La giurisprudenza amministrativa prevalente
inquadra la La natura
extracontrattuale delle
responsabilità per responsabilità
danno da lesione di
interessi legittimi
all’interno degli schemi
della responsabilità
extracontrattuale ex
art. 2043 cod. civ. (Cons. St.,
Ad. Plen., 23 aprile 2021, n.
7).
uttavia sono emerse in dottrina e
in
T
giurisprudenza ricostruzioni che adottano gli
schemi della responsabilità
contrattuale o
precontrattuale.
Si è osservato infatti che nella
vicenda
procedimentale conclusasi con l’emanazione di un
291 provvedimento illegittimo, il
privato danneggiato
non può essere equiparato al «chiunque» o
al
semplice «passante» con il quale il danneggiante
non ha alcuna relazione
preesistente, che è il
contesto nel quale può sorgere tipicamente la
responsabilità
extracontrattuale. Viceversa il
contatto procedimentale tra il privato e la pubblica
amministrazione si presta a essere inquadrato più
propriamente nello schema del rapporto
obbligatorio (di fonte non contrattuale, ma da
«contatto sociale») al quale si applicano
i principi
della responsabilità contrattuale (C. cass., Sez.
Un., 28 aprile 2020, n.
8236). Ciò perché si tratta di
un rapporto che, lungi dall’essere sottratto a
qualsivoglia regolamentazione, impone alle parti
obblighi comportamentali di correttezza
e buona
fede.
Riconoscere natura contrattuale o
precontrattuale
alla responsabilità per danno da provvedimento
illegittimo ha come
conseguenza l’applicazione del
relativo regime (termini di prescrizione, onere
probatorio, danno risarcibile, ecc.).
In realtà, la questione rimane
aperta e in ogni caso
qualche adattamento rispetto agli schemi civilistici
puri sembra
reso più agevole dal fatto che, secondo
il Codice del processo amministrativo (art. 7,
comma 4), la giurisdizione in tema di azioni
risarcitorie per lesione di interessi legittimi è
affidata al giudice amministrativo.
Quest’ultimo è
in grado dunque di elaborare con maggior
autonomia il regime della
responsabilità perché la
Corte di cassazione non può esercitare la
funzione
nomofilattica sulla interpretazione delle
norme civilistiche. Ciò perché il sindacato
della
Corte sulle sentenze del Consiglio di Stato è
limitato alle questioni di
giurisdizione (art. 111,
comma 8, Cost.). Il rischio, segnalato in dottrina
[Travi 2010], è peraltro che giudice ordinario e
giudice amministrativo sviluppino i
principi in
materia di responsabilità in direzioni divergenti.
Così, per esempio, pur
attribuendo natura
extracontrattuale alla responsabilità da lesione di
interessi
legittimi, la giurisprudenza tende a
ritenere risarcibili solo i danni prevedibili,
limitazione che il codice civile applica invece solo
alla responsabilità contrattuale
(art. 1225 cod. civ.
non richiamato dall’art. 2056 cod. civ.).
Il danno da ritardo
4.
Un’ipotesi
particolare di
responsabilità si ha nei casi nei
quali
l’amministrazione non conclude il procedimento
entro il termine previsto (danno da
ritardo di cui
si è già parlato nel capitolo V).
’art. 2-bis
stabilisce che le pubbliche
L
amministrazioni sono tenute al risarcimento del
danno
ingiusto «in conseguenza dell’inosservanza
dolosa o colposa del termine di conclusione
del
procedimento» fissato ai sensi dell’art. 2 l. n.
241/1990. Questa disposizione rafforza il
principio
della certezza del tempo dell’agire amministrativo,
che costituisce, come si è
detto, un «bene della
vita» autonomo suscettibile di risarcimento a
prescindere dalla
legittimità o illegittimità del
provvedimento emanato (in senso contrario però
Cons.
St., Sez. IV, 27 febbraio 2020, n. 1437).
Possono infatti darsi in astratto
tre situazioni. La
prima è che l’amministrazione abbia emanato nel
termine un
provvedimento di diniego illegittimo
(per esempio, un diniego di autorizzazione)
annullato dal giudice amministrativo e che essa
abbia poi rilasciato il provvedimento
favorevole in
esecuzione della sentenza. In questo caso il ritardo
nell’avvio di
attività è causato in modo diretto dal
primo provvedimento di diniego e si tratta dunque
di responsabilità da provvedimento illegittimo. La
292 seconda è che
l’amministrazione abbia rilasciato il
provvedimento favorevole
in ritardo, mentre la
terza è che l’amministrazione abbia negato
legittimamente il
provvedimento richiesto, pur
sempre in ritardo. In queste due ipotesi il danno da
ritardo emerge per così dire allo stato puro (mero
ritardo) perché non è causato dal
provvedimento,
che anzi in entrambe risulta legittimo, ma dal
comportamento inerte (o
non solerte)
dell’amministrazione.
L’art. 2-bis,
comma 1-bis, pone, come si è già
accennato, il principio che il
ritardo nella
conclusione del procedimento ad istanza di parte
possa essere anche fonte
di indennizzo, il cui
importo va detratto da quello eventualmente
riconosciuto a titolo
di risarcimento.
5.
Sotto il profilo processuale, l’azione per il
risarcimento del L’azione risarcitoria
danno da lesione di
interesse legittimo, diversamente da
quanto aveva
statuito la sentenza n. 500/1999, rientra ormai,
come si è già detto,
nella giurisdizione del giudice
amministrativo (art. 7, comma 4, Codice del
processo amministrativo). Inoltre
essa può essere
proposta, come si vedrà nel capitolo XIV, insieme
all’azione di
annullamento o anche, diversamente
da quanto aveva ritenuto inizialmente la
giurisprudenza amministrativa, in modo autonomo
(art. 30 Codice). Il danno da ritardo rientra tra le
materie
attribuite alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo (art. 133, comma 1, lett. a),
n. 1).
6.
Un ultimo cenno va dedicato alla
responsabilità La responsabilità
contrattuale e
contrattuale
della precontrattuale
pubblica
amministrazione in base agli artt. 1218 ss. cod. civ.,
da sempre ammessa nei casi in cui
l’amministrazione agisce nella sua capacità di
diritto privato nei rapporti con i terzi.
In passato si
riteneva peraltro che essa fosse retta da alcuni
principi speciali. Per
esempio, si affermava che la
normativa sulla liquidazione delle somme dovute
dallo Stato
ai creditori contenuta nella legge sulla
contabilità prevalesse sul codice civile. Così,
fin
tanto che la stessa amministrazione non emetteva
il mandato di pagamento, il credito
non poteva
essere considerato liquido ed esigibile, non
decorrevano gli interessi di
mora e non poteva
essere intrapresa la procedura esecutiva. A partire
dalla fine degli
anni Settanta del secolo scorso è
prevalsa la tesi che le norme di contabilità hanno
un
carattere essenzialmente organizzativo interno
e che pertanto lo Stato è equiparato in
tutto e per
tutto a un debitore comune.
Anche i principi della
responsabilità
precontrattuale di cui all’art. 1337 cod. civ., come si
è già accennato, trovano ormai
applicazione nei
confronti delle amministrazioni pubbliche. Più in
generale, come si è
visto, il principio di correttezza
e buona fede ormai sancito dall’art. 1, comma
2-bis,
della l. n. 241/1990, deve informare il
comportamento
della pubblica amministrazione,
oltre che del soggetto privato, all’interno del
procedimento amministrativo. Per esempio, se
l’amministrazione rassicura informalmente o
con
scambi di informazioni un soggetto privato circa
l’esito positivo di un
procedimento, l’affidamento
ingenerato può essere fonte di responsabilità (C.
cass.,
Sez. Un., 28 aprile 2020, n. 8236). Anche
l’annullamento in autotutela di un
provvedimento
favorevole al privato può far sorgere una
responsabilità
dell’amministrazione ove l’atto
annullato abbia ingenerato nel soggetto privato un
affidamento incolpevole (C. cass., Sez. Un., 21
settembre 2020, n. 19677). L’azione va
proposta
293 innanzi al giudice ordinario perché finalizzata a
risarcire un diritto soggettivo, cioè il diritto
all’integrità del patrimonio
pregiudicata dalla
impossibilità di continuare a godere del beneficio
acquisito sulla
base del provvedimento annullato
(C. cass., Sez. Un., 4 settembre 2015, n. 17586).
5. La
responsabilità nel diritto
europeo
La responsabilità nel diritto
europeo può essere
analizzata sotto due profili principali: la
responsabilità degli
organi dell’Unione europea in
relazione all’attività giuridica posta in essere dai
propri agenti in contrasto con il diritto europeo; la
responsabilità degli Stati membri
per violazione
del diritto europeo.
Il primo profilo trova una
regolamentazione nel
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea; il
secondo ha
origine essenzialmente
giurisprudenziale.
La responsabilità degli
organi
dell’Unione
1.
Iniziando dal
europea
primo profilo, la
disposizione
rilevante è
l’art. 340 TFUE già citato. Il comma 1
disciplina la
responsabilità contrattuale della
Comunità e si limita a operare un rinvio alla legge
nazionale applicabile al contratto in causa. Il
comma 2 regola invece la responsabilità
extracontrattuale della Comunità e prevede, come
si è già accennato, che «l’Unione deve
risarcire,
conformemente ai principi generali comuni ai
diritti degli Stati membri, i
danni cagionati dalle
sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle
loro
funzioni». Questa disposizione ha avuto una
forza espansiva tale da costituire il
fondamento
della responsabilità degli Stati membri.
I l comma 4 stabilisce infine che la
responsabilità
personale dei dipendenti dell’Unione nei confronti
di quest’ultima è
regolata dalle disposizioni sul
loro stato giuridico.
Quanto ai profili processuali,
l’art. 268 TFUE
attribuisce alla Corte di giustizia dell’Unione
europea la competenza a conoscere le controversie
relative alla responsabilità
extracontrattuale della
Comunità di cui all’art. 340, comma 2, sopra citato.
In seguito all’istituzione
del Tribunale di primo
grado, quest’ultimo conosce le domande
risarcitorie proposte da
persone fisiche e
giuridiche.
I presupposti sostanziali della
responsabilità delle
istituzioni europee I presupposti della
responsabilità delle
sono essenzialmente istituzioni europee
tre: un
comportamento
contra jus; l’esistenza di un danno; il nesso
di
causalità. Ciascuno di essi richiede un
approfondimento.
In primo luogo, nella nozione di
comportamento
contra jus imputabile a un’istituzione europea
rientra sia quella di comportamento o fatto
materiale (omissivo o commissivo), sia
quella di
atto giuridico, normativo o amministrativo.
La violazione deve avere un
carattere grave e
manifesto. Questo presupposto non è facile da
provare nei settori nei
quali il potere esercitato
assume connotati di ampia discrezionalità
(sentenza 25 maggio
1978, in cause riunite C-83 e
94/76, C-4, 15 e 40/77,
Bayerische HNL e altri c.
Consiglio e Commissione e sentenza 19
maggio 1992,
in cause riunite C-104/89 e C-37/90, Mulder e altri c.
294 Consiglio
e Commissione).
Il carattere grave e manifesto
della violazione può
essere ricavato in via sintomatica da alcuni indici:
il grado di
chiarezza e di precisione della norma
violata; il carattere intenzionale o involontario
della trasgressione commessa o del danno causato;
la scusabilità di un eventuale errore
di diritto;
l’accertamento dell’inadempimento contestato da
parte di una pronuncia
giudiziale (cfr. sentenza 5
marzo 1996, in cause riunite C-46/93 e C-48/93,
punto 56,
Brasserie du pêcheur-Factortame).
Affinché sorga la responsabilità
extracontrattuale
non è richiesto invece che la violazione della
norma derivi da una
condotta dolosa o colposa,
elemento soggettivo invece richiesto in molti
ordinamenti
nazionali come quello italiano. Il
danno risarcibile deve essere effettivo, cioè certo e
attuale. Può trattarsi di danni presenti o futuri, ma
non meramente ipotetici. Il danno
risarcibile è non
solo il danno emergente, ma anche il lucro
cessante, peraltro
raramente riconosciuto in
concreto (sentenza 3 febbraio 1994, in causa C-
308/87,
Grifoni).
Ai fini della quantificazione del
danno, la
giurisprudenza applica il principio generale
comune agli ordinamenti giuridici
degli Stati
membri secondo il quale la persona lesa, per
evitare di doversi accollare il
pregiudizio, deve
dimostrare di aver agito con ragionevole diligenza
onde limitare
l’entità del danno (cfr. sentenza 19
maggio 1992, citata, punto 33, Mulder e
altri c.
Consiglio e Commissione).
2.
Passando ora a considerare la responsabilità
degli Stati membri, La responsabilità degli
Stati
membri
la sentenza
capostipite è la
sentenza Francovich (19
novembre 1991, in cause
riunite C-6 e 9/90).
I l caso riguardava il mancato
recepimento da parte
della Repubblica italiana di una direttiva europea
((CEE) 1980/987)
entro il termine prescritto. Due
giudici nazionali, richiesti di pronunciarsi sul
diritto di alcuni lavoratori a ottenere direttamente
dallo Stato italiano i benefici
previsti dalla
direttiva, sottoponevano alla Corte di giustizia
dell’Unione europea in
via pregiudiziale alcune
questioni interpretative. Chiedevano cioè a
quest’ultima di
chiarire se i singoli possano far
valere direttamente nei confronti dello Stato i
benefici previsti dalla direttiva risultanti da
disposizioni sufficientemente precise e
incondizionate e comunque richiedere allo Stato il
risarcimento del danno subito in
relazione alle
disposizioni della direttiva che non abbiano tali
caratteristiche.
Appurato che la direttiva in
questione non era
sufficientemente precisa e incondizionata e
dunque non consentiva agli
interessati di far valere
i diritti da essa attribuiti ai lavoratori direttamente
nei
confronti dello Stato membro, la Corte di
giustizia ha esaminato la questione della
responsabilità dello Stato per danni derivanti dalla
violazione degli obblighi sorti in
forza del diritto
comunitario.
La motivazione della sentenza
dapprima si
sofferma sul fondamento della responsabilità dello
Stato, passa poi a
definire le condizioni in presenza
delle quali può sorgere una siffatta responsabilità.
Sul primo punto, afferma che «il
principio della
responsabilità dello Stato per danni causati ai
singoli da violazioni
del diritto comunitario ad
esso imputabili è inerente al sistema del Trattato»
(punto
35). Un fondamento può essere ritrovato,
295 secondo la Corte, già nell’obbligo degli Stati
membri di adottare tutte le misure atte ad
assicurare
l’esecuzione degli obblighi comunitari
(oggi art. 4, comma 3, TUE), compreso quello di
eliminare le
conseguenze illecite di una violazione
del diritto europeo.
La sentenza enuncia I presupposti della
responsabilità degli
tre presupposti in Stati membri
presenza dei quali
può sorgere la
responsabilità:
che la direttiva attribuisca diritti a
favore dei singoli; che il contenuto di tali
diritti
possa essere individuato sulla base della direttiva
stessa; che esista un nesso
di causalità tra la
violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il
danno subito dai
soggetti lesi.
Secondo gran parte dei
commentatori, la sentenza
Francovich segna una tappa fondamentale
nella
costruzione del sistema europeo come
ordinamento autonomo, un ordinamento cioè che
costruisce al proprio interno i propri principi e che
è in grado di imporli anche agli
Stati membri. Nel
caso di specie, la responsabilità degli Stati membri
non è più retta
solo dal diritto nazionale, ma anche
dai principi autonomamente formatisi (anche in
via
giurisprudenziale) nel diritto europeo.
La giurisprudenza europea ha
ripreso e sviluppato i
principi enunciati nella sentenza
Francovich.
La sentenza Brasserie du
pêcheur-Factortame del 5
marzo 1996, già richiamata, stabilisce che gli
Stati
membri possono essere tenuti a risarcire i danni
cagionati da violazioni del
diritto europeo da parte
del legislatore nazionale. I casi sottoposti alla
Corte
riguardavano, per un verso, un divieto di
importazione in Germania di birra francese
prodotta in modo non conforme ai requisiti di
genuinità prescritti dalla legge fiscale
tedesca, in
violazione dell’art. 34 TFUE; per altro verso, la
previsione contenuta nella
legge inglese sulla
navigazione mercantile di taluni requisiti restrittivi
di
nazionalità, residenza e domicilio per i
proprietari e gli esercenti di pescherecci
prescritti
ai fini dell’iscrizione in un apposito registro e ciò
in violazione
dell’art. 49 TFUE. Le disposizioni
europee violate dal legislatore
nazionale in
entrambi i casi erano tali da conferire direttamente
ai singoli diritti in
senso proprio.
La sentenza Lomas
del 23 maggio 1996, in causa C-
5/94, sancisce il La responsabilità da
atto
amministrativo in
principio secondo il violazione del diritto
quale la europeo
responsabilità dello
Stato può sorgere non solo in
relazione a un atto
normativo, bensì anche a un atto amministrativo
adottato in
violazione del diritto europeo. Il caso
riguardava il diniego di una licenza di
esportazione
di animali da macello destinati alla Spagna da parte
del ministero
dell’Agricoltura, della Pesca e
dell’Alimentazione britannico, giustificato dal fatto
che i mattatoi spagnoli utilizzavano tecniche di
macellazione contrastanti con la
direttiva (CEE)
1974/577 relativa allo stordimento degli animali
prima della macellazione. La Corte ha sottolineato
che nel caso di diniego della licenza
di
esportazione, diversamente da quanto accade
normalmente nel caso di attività
normativa, il
ministero inglese non dispone di margini di
discrezionalità significativi
e pertanto «la semplice
trasgressione del diritto comunitario può essere
sufficiente per
accertare l’esistenza di una
violazione sufficientemente grave e manifesta»
(punto
28).
a Corte ha poi precisato che la
responsabilità
L
dello Stato membro per violazione del diritto
europeo sorge qualunque sia
l’organo di
quest’ultimo la cui azione o omissione ha dato
296 origine alla trasgressione.
I casi più rilevanti hanno
riguardato il Land del Tirolo
(sentenza 1 giugno
o
L’organizzazione
303
1. Nozione,
fonti normative e
principi generali
In termini generalissimi
l’organizzazione può
essere definita come una unità di persone,
strutturata e operante
su base continuativa al fine
di perseguire scopi comuni che i singoli non
sarebbero in
grado di raggiungere individualmente.
Ogni organizzazione ha una propria struttura
gestionale (di management) che stabilisce
funzioni e ruoli e attribuisce compiti e
responsabilità ai singoli appartenenti. Una
distinzione elementare è tra organizzazioni
informali o di fatto (clan, gruppo sportivo,
coordinamento di genitori di una scuola,
mafia,
ecc.) e organizzazioni formali o di diritto (partito
politico, fondazione,
società per azioni, ente
pubblico).
L’organizzazione è oggetto di studio
anzitutto da
parte della sociologia L’approccio
sociologico e
e delle scienze aziendalistico
aziendali. Risale,
come si è accennato
nel capitolo I, a Max Weber un’analisi
sistematica
dei tipi di organizzazione riguardanti sia le attività
dei privati, sia le
comunità di tipo statuale. Così,
quanto alle prime, nella fase nascente del
capitalismo
occidentale si passò dalla comunità
domestica all’impresa organizzata secondo criteri
razionali. In quest’ultima la figura dell’impiegato
professionale è distinta da quella
del servitore
personale del capofamiglia e i debiti dell’esercizio
commerciale si
separano da quelli domestici.
uanto alle comunità di tipo
statuale, il moderno
Q
Stato di diritto, conforme al modello del potere
legale-razionale,
come si è visto, presuppone
almeno due elementi: un sistema di regole
oggettive
precostituite e l’istituzione di apparati
burocratici stabili, ordinati in modo
gerarchico,
con un’attribuzione precisa di competenze ai
singoli uffici. A questi ultimi
sono assegnati
funzionari di carriera dotati di qualificazioni
specializzate.
Le teorie dell’organizzazione
elaborate dalle
scienze sociali e aziendali seguono una pluralità di
approcci
(razionalistico, organicistico,
organizzazione come sistema sociale, ecc.). Esse
costituiscono il retroterra dell’analisi più
304 propriamente
giuridica.
Il diritto pubblico, come si è
detto, per lungo
tempo ignorò i fatti organizzativi e in particolare le
articolazioni
interne dello Stato. Limitò invece la
propria attenzione ai provvedimenti formali e alla
loro incidenza nella sfera giuridica dei loro
destinatari. La stessa definizione dello
Stato come
persona giuridica servì più che altro a individuare
un centro di imputazione
unitario al quale riferire
sotto il profilo soggettivo i poteri, i provvedimenti
e i
rapporti giuridici con i cittadini. Da qui la
centralità della teoria della persona
giuridica e
dell’organo.
Tutto ciò che stava a monte dei
poteri dello Stato e
dei diritti dei singoli, e cioè sia il procedimento sia
l’organizzazione (articolazione degli uffici,
personale, ecc.), veniva considerato
irrilevante per
il diritto e relegato alla sfera interna
dell’amministrazione. Lo studio
dell’organizzazione rientrava invece tra i compiti
della scienza dell’amministrazione.
Il fenomeno organizzativo iniziò a destare
interesse nella fase in Le fonti normative
cui, per un verso,
si
ruppe la struttura monolitica dello Stato e si
affermò il pluralismo dei livelli di
governo e degli
apparati pubblici con la conseguente necessità di
inquadrare
giuridicamente le relazioni tra essi; per
altro verso, iniziarono a farsi sentire le
istanze di
una maggior democraticità, con l’esigenza
connessa di sottoporre almeno in
parte
l’organizzazione a un corpo di norme giuridiche
(anzitutto di fonte legislativa).
L’organizzazione pubblica è
disciplinata nel nostro
ordinamento da una pluralità di fonti che,
assommate, regolano
la struttura degli apparati
amministrativi in modo molto minuzioso.
Al livello più alto si colloca la
Costituzione . Essa
enuncia anzitutto i La Costituzione
principi generali
dell’imparzialità e del buon andamento (art. 97), ai
quali devono ispirarsi sia
l’attività sia
l’organizzazione degli apparati pubblici, e il
principio autonomistico
(art. 5).
I ndividua poi i livelli di governo
chiarendo che la
Repubblica è costituita dai comuni, dalle province,
dalle città
metropolitane, dalle regioni e dallo
Stato (art. 114). Prevede in particolare, come
articolazioni fondamentali dello Stato, i ministeri,
demandando alla legge statale il
compito di
determinarne il numero, le attribuzioni e
l’organizzazione e di disciplinare
gli enti pubblici
nazionali (artt. 95, comma 3, e 117, comma 2, lett.
g) e f )).
Dedica l’intero Titolo V
all’organizzazione e ai
poteri di regioni, province e comuni. Enumera in
particolare gli
organi delle regioni (consiglio,
giunta, presidente) precisandone le funzioni (art.
121). Demanda invece alla legge statale il compito
di individuare gli organi di governo
e le funzioni
fondamentali di comuni, province e città
metropolitane (art. 117, comma 2, lett. p)).
La Costituzione stabilisce ancora
che
nell’ordinamento degli uffici sono determinate le
sfere di competenza, le
attribuzioni e le
responsabilità proprie dei funzionari (art. 97,
comma 2).
A livello europeo, l’art. 298 del Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea
pone il
principio di un’amministrazione «aperta, efficace e
indipendente».
In attuazione della Costituzione,
numerose fonti
legislative primarie disciplinano l’organizzazione
305 dei ministeri e della
presidenza del Consiglio dei
ministri (d.lgs. 30 luglio 1999, nn. 300 e 303), degli
enti locali
(d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267) e degli
apparati ed enti
pubblici di più antica o recente
istituzione.
In attuazione delle La disciplina
sublegislativa
disposizioni di rango dell’organizzazione
legislativo,
l’organizzazione e il
funzionamento delle amministrazioni pubbliche è
rimessa sia a fonti normative
sublegislative, sia a
fonti aventi natura non normativa.
L’organizzazione statale è
disciplinata anzitutto
con regolamenti governativi (art. 17, comma 1, lett.
d), l. n. 400/1988). Inoltre, le
amministrazioni
pubbliche, mediante atti organizzativi emanati
secondo i rispettivi
ordinamenti (statuti,
regolamenti di organizzazione, ecc.), individuano
le linee
fondamentali dell’organizzazione degli
uffici, nonché gli uffici di maggiore rilevanza e
determinano le dotazioni organiche complessive
(art. 2 d.lgs. n. 165/2001). Gli atti organizzativi in
questione sono pubblicati, insieme alle direttive,
ai programmi, alle istruzioni e alle
circolari,
secondo le modalità previste dai singoli
ordinamenti. In attuazione delle
fonti normative
pubblicistiche che disciplinano la macro-
organizzazione, le
determinazioni per
l’organizzazione degli uffici, nonché le misure
inerenti alla
gestione dei rapporti di lavoro sono
assunte, come si è accennato nel capitolo I, dagli
organi preposti alla gestione con la capacità e i
poteri del privato datore di lavoro
(art. 5, comma 2,
d.lgs. n. 165/2001).
A livello statale, in particolare,
l’organizzazione dei
ministeri è disciplinata in parte dal d.lgs. n.
300/1999, che elenca i ministeri, individua le
strutture di primo livello (dipartimenti, direzioni
generali), disciplina le agenzie,
stabilisce le
attribuzioni dei singoli ministri; in parte da
regolamenti di
delegificazione che individuano gli
uffici di livello dirigenziale, centrali e
periferici e
definiscono la consistenza delle piante organiche
(art. 17, comma
4-bis, l. n. 400/1988); in parte da
decreti ministeriali di
natura non regolamentare
che definiscono i compiti delle unità dirigenziali
nell’ambito
degli uffici dirigenziali generali (lett. e)
del comma 4-bis). Una
fonte di disciplina
dell’organizzazione Il codice
dell’amministrazione
amministrativa,
da digitale
considerare anche
per gli sviluppi
sull’operatività delle pubbliche amministrazioni,
è
costituita dal Codice dell’amministrazione digitale
(CAD) approvato con il d.lgs. 7
marzo 2005, n. 82,
modificato più volte, da ultimo con il d.l. 16 luglio
2020, n. 76
(decreto semplificazioni). Il Codice si
compone di nove Capi, il primo dei quali è
dedicato ai principi generali, prevedendo in
particolare il diritto all’uso della
tecnologia nei
rapporti con le pubbliche amministrazioni, nonché
alla disciplina del
domicilio digitale dei privati e
delle amministrazioni. Gli altri Capi contengono,
tra
l’altro, la disciplina del documento informatico
e della firma elettronica (Capo II),
della
trasmissione informatica dei documenti e dei dati,
nonché le norme sull’identità
digitale e
sull’accesso ai servizi online delle pubbliche
amministrazioni (Capi IV e V).
Vanno richiamati
anche il Piano triennale per l’informatica nella
pubblica
amministrazione approvato dal
presidente del Consiglio dei ministri (art. 16 del
CAD),
nonché il Piano nazionale di ripresa e
resilienza che mira ad accelerare i processi di
digitalizzazione della pubblica amministrazione.
livello substatale
A Le fonti regionali e
degli enti
locali
gli statuti e le leggi
regionali contengono
una disciplina
dell’organizzazione delle regioni e
306 dei loro apparati.
uanto ai comuni e alle province,
in attuazione
Q
delle disposizioni legislative statali (soprattutto il
Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti
locali
approvato con d.lgs. n. 267/2000), spetta allo
statuto stabilire le norme
fondamentali
dell’organizzazione dell’ente specificando le
attribuzioni degli organi
(art. 6 d.lgs. n. 267/2000
citato). Le disposizioni
statutarie in materia di
organizzazione a loro volta trovano attuazione e
specificazione
in un regolamento che disciplina
l’ordinamento generale degli uffici e dei servizi e in
altri regolamenti dell’ente (artt. 7 e 89).
Per effetto di questo complesso di
fonti normative
l’organizzazione delle pubbliche amministrazioni è
disciplinata, come si
è anticipato, da una trama
molto fitta di norme giuridiche. Ciò a differenza di
quanto
accade, come si dirà, per le persone
giuridiche private, per le quali l’organizzazione
interna è rimessa in gran parte a determinazioni
assunte dagli organi amministrativi
(organigrammi) nel rispetto di una cornice minima
di norme contenute nel codice civile e
negli statuti.
Dalle fonti costituzionali e
legislative si possono
ricavare alcuni principi generali in materia di
organizzazione.
Il principio del buon
andamento
1.
Il principio del
buon andamento ha
risvolti non solo, come
si è accennato, in tema di
attività della pubblica amministrazione, ma anche
di
organizzazione. Questa seconda dimensione
emerge in disposizioni legislative come
quelle, per
esempio, che prevedono il reclutamento del
personale in base a concorso
(cioè in base al
merito) e secondo le esigenze effettive
rappresentate nelle piante
organiche; che
disciplinano la valutazione del personale; che
prevedono un sistema
completo di controllo di
gestione; che sottopongono le spese degli apparati
a controlli
rigorosi; che mirano all’accorpamento o
alla soppressione di enti pubblici e strutture
inefficienti o addirittura inutili.
Il principio di
imparzialità
2.
Il principio di
imparzialità,
anch’esso riferibile
all’organizzazione oltre che
all’attività, si esprime anzitutto nelle regole volte a
far
sì che la politica non si ingerisca
nell’amministrazione e in particolare, come si
vedrà
nel capitolo X, nel principio organizzativo
della distinzione tra funzioni di indirizzo
e di
controllo proprie dei vertici politici delle
amministrazioni e funzioni di gestione
riservate ai
dirigenti. Esso inoltre sta alla base dell’obbligo del
responsabile del
procedimento e dei titolari degli
uffici di dichiarare situazioni di conflitto di
interessi e pertanto di astenersi dall’esercizio dei
propri poteri (art.
6-bis
l. n. 241/1990). È sotteso
poi al principio della rotazione
degli incarichi
dirigenziali anche a fini di anticorruzione (art. 1,
comma 4, lett. e), l. 6 novembre 2012, n. 190).
Anche la regola del concorso per l’accesso agli
impieghi nelle pubbliche amministrazioni
(art. 97,
comma 3) mira a garantire l’imparzialità, oltre che
il buon andamento.
3.
Si è già fatto cenno al principio di pubblicità e
di
trasparenza riferito Il principio di
trasparenza
al procedimento
amministrativo. La
normativa anticorruzione (l. n. 190/2012 e il d.lgs.
n. 33/2013 emanato sulla base di una delega
contenuta
in tale legge) sviluppa anche una
dimensione organizzativa del principio di
trasparenza.
I l d.lgs. n. 33/2013 impone infatti alle pubbliche
amministrazioni di pubblicare sui propri siti e di
aggiornare le informazioni e i dati
concernenti la
propria organizzazione, come, per esempio,
307 l’articolazione degli
uffici, le competenze e le
risorse a disposizione di ciascuno
di essi; gli atti di
nomina o di conferimento degli incarichi dei
componenti degli
organi di indirizzo politico e dei
dirigenti, i curricula e i compensi da essi percepiti
(artt. 13 ss.); i documenti e gli allegati del bilancio
preventivo e del conto consuntivo (art. 29).
La dimensione organizzativa del
principio di
trasparenza si esprime poi nella già ricordata figura
del responsabile
della trasparenza, di norma
coincidente con il responsabile per la prevenzione
della
corruzione. Quest’organo deve vigilare sul
rispetto degli obblighi di pubblicazione
segnalando
all’organo di indirizzo politico, all’organismo
indipendente di valutazione e
all’Autorità
nazionale anticorruzione le inadempienze (art. 43
d.lgs. n. 33/2013). È stato introdotto inoltre il
programma triennale per la trasparenza e
l’integrità che definisce le misure, i modi e
le
iniziative volti all’attuazione dei molteplici
obblighi di pubblicazione introdotti
(art. 10).
Come misura organizzativa è stato anche reso
obbligatorio l’inserimento nei
siti istituzionali
delle pubbliche amministrazioni di una sezione
denominata
Amministrazione trasparente articolata in
sottosezioni
individuate in modo omogeneo così
da rendere più agevole la consultazione e la
comparazione (All. 1 d.lgs. n. 33/2013).
4.
La Costituzione enuncia il principio
autonomistico (art. Il principio
autonomistico
5)
che ispira i
rapporti tra Stato ed
enti territoriali. Esso supera la visione
tradizionale
del centralismo amministrativo e della preminenza
dello Stato su ogni altro
apparato amministrativo.
Come chiarisce meglio l’art. 114, la Repubblica è
composta,
oltre che dallo Stato, dai comuni, dalle
province, dalle città metropolitane, dalle
regioni,
definiti come «enti autonomi» (comma 2). Il
principio autonomistico ha
implicazioni su diversi
versanti: autonomia statutaria, titolarità di
funzioni proprie
distribuite in base al già
menzionato principio di sussidiarietà verticale
(art. 118),
autonomia finanziaria di entrata e di
spesa (art. 119), potestà legislativa e
regolamentare
(art. 117).
5.
Il principio autonomistico trova un
bilanciamento nel Il principio di leale
collaborazione
principio di leale
collaborazione tra i diversi livelli di governo, dal
quale derivano
obblighi di consultazione e
informazione reciproci, doveri di coordinamento,
ecc. Pur
non trovando un riferimento espresso
nella Costituzione, il principio di leale
collaborazione è ormai consolidato nella
giurisprudenza della Corte costituzionale
(sentenza 25 ottobre 2000, n. 437) la quale lo ha
estrapolato dall’art. 4, comma 3, TUE che lo
enuncia con riferimento ai
rapporti tra l’Unione e
gli Stati membri.
6.
In seguito alle modifiche all’art. 97 della
Costituzione introdotte nel 2012, come si
vedrà nel
capitolo XIII, le pubbliche amministrazioni devono
assicurare, in coerenza con
l’ordinamento europeo,
l’ equilibrio dei Il principio
dell’equilibrio di
bilanci e la bilancio
sostenibilità del
debito pubblico.
2. Persone
giuridiche, organi e
uffici
La teoria dell’organizzazione
pubblica si avvale in
gran parte della nomenclatura e dei concetti
elaborati per le
persone giuridiche private
308 disciplinate dal codice civile (Libro I, Titolo
II).
Il codice antepone alla disciplina
delle persone
giuridiche private una disposizione sulle persone
giuridiche pubbliche.
L’art. 11 stabilisce infatti che
le province, i comuni e gli enti pubblici
riconosciuti
come persone giuridiche godono dei
diritti secondo le leggi e gli usi osservati come
diritto pubblico. Le persone giuridiche pubbliche,
come già accennato nel capitolo I,
hanno dunque
la medesima capacità giuridica delle persone
giuridiche private, salvo il
regime derogatorio che
può derivare da norme speciali. Si pensi, per
esempio, ai divieti
imposti agli enti locali relativi
alla stipula di particolari tipi di contratti
finanziari,
come i cosiddetti derivati, ritenuti troppo
rischiosi. Lo Stato costituisce
poi, come è stato
detto, la persona giuridica per eccellenza o l’ente
pubblico per
antonomasia.
La teoria dell’organizzazione ruota
attorno a tre
concetti: persona giuridica, organo (e ufficio),
persona fisica titolare
dell’organo.
1.
Personalità significa attitudine riconosciuta
dall’ordinamento a diventare soggetto di
diritti,
cioè titolare di diritti e doveri giuridici. La
personalità giuridica viene
riconosciuta sia alle
persone fisiche, sia alle persone giuridiche. Una
soggettività
parziale e una qualche autonomia
patrimoniale sono garantite anche alle associazioni
non
riconosciute e ai comitati (artt. 36 ss.).
La persona giuridica è dunque
un’organizzazione
formale (nel senso prima visto) considerata
dall’ordinamento giuridico
come un soggetto di
diritto separato dalle persone fisiche che la
compongono e dotato di
una propria capacità
giuridica.
Le persone giuridiche private si
distinguono a
seconda che abbiano Gli enti a struttura
associativa
e
una struttura fondazionale
associativa, ove
prevale l’elemento
personale, o di fondazione, ove prevale l’elemento
patrimoniale. Anche tra le persone giuridiche
pubbliche alcune hanno struttura
prevalentemente
associativa (gli ordini e collegi professionali, le
federazioni
sportive, le camere di commercio,
industria e artigianato, ecc.), altre natura
patrimoniale (enti previdenziali, aziende sanitarie
locali).
a costituzione della persona
giuridica privata
L
avviene su base negoziale, cioè con un atto
costitutivo sotto forma di
accordo associativo
oppure, nel caso delle fondazioni, di atto
unilaterale.
L’attribuzione della personalità
giuridica consegue al riconoscimento determinato
dall’iscrizione nel registro delle persone giuridiche
istituito presso le prefetture,
una volta soddisfatte
le condizioni stabilite dalla legge. Da tempo essa
non dipende più
da un atto discrezionale
governativo, come prevedeva il codice civile in
un’epoca in cui
le espressioni della società civile
erano viste con sfavore e sottoposte a controlli
stringenti (art. 12 cod. civ. ora abrogato e sostituito
con la
disciplina contenuta nel d.p.r. 10 febbraio
2000, n. 361). Nel caso delle società per
azioni la
personalità giuridica si acquista automaticamente
con l’iscrizione nel
registro delle imprese (art. 2331
cod. civ.).
L’istituzione degli enti pubblici
invece avviene
direttamente per legge nel caso di enti a statuto
singolare (cioè
disciplinati da una legge ad hoc
come per esempio il CONI o l’ISTAT),
oppure
sulla base di delibere amministrative nel caso di
categorie di enti previste da
una legge generale
(università, camere di commercio, ecc.). L’art. 4
legge 20 marzo 1975, n. 70 stabilisce che nessun
309 nuovo ente pubblico può essere istituito o
riconosciuto se non
per legge. La legge istitutiva di
un singolo ente o di categorie di enti ne individua
le
finalità, l’assetto organizzativo, i poteri, la
vigilanza, ecc.
2.
Per poter instaurare rapporti giuridici con
soggetti
esterni le Il rapporto di
immedesimazione
persone giuridiche si organica e di
avvalgono di organi rappresentazione
3.
Gli organi e gli uffici agiscono per mezzo di
persone fisiche. Alcune di esse, poste in
posizione
apicale, ne assumono la titolarità; altre, con varietà
di qualifiche e di
funzioni, fanno parte del
personale addetto che svolge l’attività di supporto
al
titolare dell’organo o dell’ufficio.
Nel caso delle organizzazioni
pubbliche la
preposizione o L’atto di investitura o
di
assegnazione
l’assegnazione di una
persona
fisica a un
organo o a un ufficio richiede un atto formale: la
cosiddetta investitura
nel caso del titolare, o
l’assegnazione negli altri casi. L’atto in questione è
emanato
talora dai vertici dell’apparato (per
esempio il conferimento di un incarico
dirigenziale
generale o di direttore di dipartimento da parte del
ministro) o anche, a
livelli meno elevati, dal
dirigente dell’ufficio del personale. Per alcuni
organi, come
si vedrà nel capitolo X, la
preposizione avviene in seguito a un procedimento
elettivo
(per esempio il consiglio comunale o il
consiglio di un ordine professionale) o con un
atto
di nomina da parte di soggetti esterni all’apparato
(i componenti del consiglio di
amministrazione di
311 un ente pubblico designati dai ministeri vigilanti).
’atto formale di investitura o di
assegnazione
L
instaura il rapporto di immedesimazione organica
tra la persona fisica e
l’organo o ufficio. La persona
fisica viene così, per usare un’altra espressione
ricorrente, incardinata nell’organo o nell’ufficio e
la sua attività è imputabile
direttamente a questi
ultimi e di conseguenza alla persona giuridica.
Il r apporto di Il rapporto di servizio
o
d’impiego
immedesimazione
organica tra persona
fisica, organo o ufficio e persona
giuridica è un
rapporto interno di tipo organizzatorio. La persona
fisica è però legata
alla persona giuridica anche da
un rapporto per così dire esterno, cioè dal
cosiddetto
rapporto di servizio (o d’impiego).
Quest’ultimo è un rapporto giuridico bilaterale che
ha per contenuto il complesso dei diritti
(compenso, ferie, ecc.) e degli obblighi
assunti dal
dipendente nei confronti del datore di lavoro. Al
rapporto di servizio è
dedicato il capitolo X.
I l rapporto di servizio è il presupposto affinché il
dipendente possa Il funzionario di fatto
essere poi
assegnato
a un ufficio e possa così instaurarsi il rapporto di
immedesimazione organica.
Può darsi tuttavia che
il rapporto di servizio sia sorto in seguito a una
procedura o a
un atto di investitura annullati o
dichiarati nulli. In questi casi si pone per le
persone giuridiche pubbliche il problema di quale
sia la sorte degli atti posti in
essere dalla persona
fisica titolare dell’organo. Questi ultimi, infatti,
almeno in
astratto, dovrebbero essere ritenuti
anch’essi invalidi in quanto non riferibili, sia
pure
ex post, all’amministrazione. Per evitare gli
inconvenienti di
una siffatta eventualità è stata
elaborata la figura del funzionario di fatto, cioè di
colui che pur in assenza di un’investitura formale
esercita di fatto funzioni pubbliche
(per esempio,
nel caso di eventi bellici o rivoluzionari o in altre
situazioni
eccezionali). In base al principio di
effettività, unito a una qualche apparenza, agli
occhi della collettività, della legittimità del ruolo
assunto, si instaura un rapporto
organico di fatto
tale da rendere legittimi gli atti adottati. Talora
queste situazioni
eccezionali vengono poi
regolarizzate ex post con atto legislativo
(per
esempio, nel caso degli atti emanati dai funzionari
della Repubblica di Salò
nell’ultima fase della
seconda guerra mondiale).
Dato conto della teoria giuridica
dell’organizzazione, conviene ora analizzare la
struttura degli apparati pubblici e le
relazioni che
insorgono tra questi.
In primo luogo vanno richiamate
alcune
classificazioni, qualcuna a valenza solo descrittiva.
potrebbe
affermare
che l’insieme degli enti che sono inclusi in tutti i
regimi speciali in base
alle definizioni previste
dalle singole leggi amministrative di settore
costituiscono la
pubblica amministrazione in
senso stretto. In esso rientrano principalmente,
come si
vedrà, le amministrazioni statali
(ministeri, agenzie), le regioni, gli enti locali, gli
enti pubblici non economici (enti previdenziali,
università, enti portuali, ecc.), le
autorità
indipendenti.
’insieme degli enti che sono
inclusi in uno solo o
L
in pochi regimi speciali pubblicistici (in genere,
soggetti
privati titolari di funzioni amministrative
o che ricevono finanziamenti pubblici) vanno
considerati invece come casi eccezionali di
espansione del diritto amministrativo a
soggetti
privati o, tutt’al più, come pubbliche
amministrazioni in senso lato.
I principali regimi speciali da
considerare sono
principalmente quelli relativi al pubblico impiego,
al procedimento
amministrativo, ai contratti
pubblici, alla finanza pubblica (in particolare, al
Patto
di stabilità).
ministro
delegato per l’Innovazione tecnologica e
la Transizione digitale.
A livello di governo , I Comitati
interministeriali
sono istituiti con
funzioni di
coordinamento i Comitati
interministeriali, tra i
quali possono essere menzionati il CIPE
(Comitato
interministeriale per la
programmazione economica), il CICR (Comitato
interministeriale
per il credito e il risparmio), che
si occupa della vigilanza in materia di credito e di
tutela del risparmio, il CISR (Comitato
interministeriale per la sicurezza della
Repubblica), il CIAE (Comitato interministeriale
per gli affari europei). Da ultimo il
d.l. 1 marzo
o
periferiche, di regola
a livello provinciale (ma in alcuni casi anche
regionale, come le direzioni regionali delle entrate)
che realizzano il cosiddetto
decentramento
319 burocratico. Così, per esempio, i provveditorati
agli studi, la direzione provinciale del tesoro,
l’intendenza delle finanze sono
articolazioni
periferiche, il primo, del ministero dell’Istruzione,
le seconde, del
ministero dell’Economia e delle
Finanze.
a principale struttura periferica
è la Prefettura –
L
Ufficio territoriale del governo. Istituita sin
dall’epoca cavouriana,
e sull’esempio napoleonico,
la prefettura costituiva «l’occhio del governo» (e
per esso
del ministero dell’Interno) in sede locale.
A quest’ufficio, che ha il compito di
assicurare
l’esercizio coordinato dell’attività amministrativa
degli uffici periferici
dello Stato e la leale
collaborazione con gli enti locali, è preposto il
prefetto
sottoposto alle direttive del presidente
del Consiglio dei ministri e dei singoli
ministri
(art. 11 d.lgs. n. 300/1999).
A livello regionale, il raccordo
con lo Stato è
assicurato dal commissario del governo, con sede
in ciascun capoluogo
regionale, che dipende
funzionalmente dalla presidenza del Consiglio dei
ministri.
Tradizionalmente, su un piano
descrittivo, si
distinguono i ministeri con funzioni di ordine
(Interno, Difesa,
Giustizia, Esteri), con funzioni
economiche e finanziarie (Economia e Finanze,
Politiche
agricole, alimentari e forestali, ecc.), con
funzioni di servizio sociale e culturale
(Salute e
Istruzione, Università e Ricerca scientifica), con
funzioni relative alle
infrastrutture e ai servizi
collettivi (Infrastrutture e Mobilità sostenibile).
Rispetto allo Stato, dotato di
personalità giuridica,
i singoli ministeri possono essere definiti come
organi. Ciò
anche se ad essi è riconosciuta, per
consuetudine, una legittimazione sostanziale e
processuale autonoma (riferibilità degli atti
emanati, capacità negoziale, capacità di
stare in
giudizio sia pur tramite la rappresentanza legale
dell’avvocatura di Stato) che
assimila il loro regime
a quello degli enti in senso proprio. Inoltre,
ciascun ministero
ha una propria pianta organica, è
titolare di fondi propri nell’ambito del bilancio
dello Stato, gode di autonomia di spesa, è
assegnatario di una dotazione di beni mobili
e
immobili. In ciascun ministero opera un ufficio
particolare, la ragioneria centrale
che dipende
organizzativamente e funzionalmente dalla
ragioneria generale dello Stato,
collocata presso il
ministero dell’Economia e delle Finanze e che
funge da raccordo per
le questioni relative alla
regolarità della gestione dei fondi di bilancio.
Afferiscono Le agenzie
all’organizzazione
dei ministeri le agenzie, definite dal
d.lgs. n.
300/1999 come strutture preposte allo svolgimento
di attività a carattere tecnico-operativo di
interesse nazionale (art. 8). Esse godono
di
autonomia operativa, ma sono sottoposte ai poteri
di indirizzo e di vigilanza di un
ministro.
Dispongono di un organico e di un bilancio propri.
Sono disciplinate da uno
statuto approvato con
regolamento governativo che definisce, in
particolare, le
attribuzioni del direttore generale e
i poteri di vigilanza del ministro, prevede
l’istituzione di un collegio dei revisori e di un
organismo preposto al controllo di
gestione. I
rapporti tra direttore generale dell’agenzia e
ministro sono regolati da una
convenzione che
specifica gli obiettivi dell’agenzia, i risultati attesi,
stabilisce
l’entità dei finanziamenti, individua le
modalità di verifica dei risultati di gestione.
Tra gli
esempi di agenzia disciplinati dal d.lgs. n. 300/1999
possono essere ricordate l’Agenzia per la
protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici (art.
38) e l’Agenzia dei trasporti
terrestri e delle
320 infrastrutture (art. 44). Altri esempi di
agenzia
sono l’Agenzia per la coesione territoriale (art. 10 l.
n. 101/2013) e da ultimo
l’Agenzia per la
cybersicurezza nazionale (art. 4 d.l. n. 82/2021),
per la tutela degli
interessi nazionali in questo
campo.
Una specie particolare di agenzia
è costituita dalle
agenzie fiscali , cioè Le agenzie fiscali
l’Agenzia delle
Entrate, l’Agenzia del Demanio, l’Agenzia delle
Dogane e dei Monopoli, l’Agenzia delle
Entrate-
Riscossione. A differenza delle altre, le agenzie
fiscali hanno personalità
giuridica di diritto
pubblico autonoma. L’Agenzia del demanio ha
natura di ente pubblico
economico, atteso che ad
essa spetta la gestione e la valorizzazione di beni
immobili
suscettibili di essere fonte di ricavi. Alle
agenzie fiscali è preposto un comitato di
gestione
composto da quattro membri e dal direttore
generale (che ha la rappresentanza
legale
dell’ente).
Il modello dell’agenzia si ispira
alle esperienze dei
Paesi anglosassoni, e in particolare dell’Inghilterra.
In
applicazione dei principi del New Public
Management, già negli anni
Ottanta del secolo
scorso i principali ministeri furono scorporati in
una pluralità di
agencies, dotate di ampia
autonomia, affidate alla
responsabilità di un
singolo manager e legate all’amministrazione
centrale da rapporti
di tipo convenzionale volti a
definire obiettivi, risorse e strumenti.
Il modello dell’agenzia, con
deroghe più o meno
marcate rispetto a quello generale del d.lgs. n.
300/1999, è stato utilizzato negli ultimi anni per
organismi di natura e funzioni diverse, come, per
esempio, l’Agenzia spaziale italiana
(ASI),
l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle
pubbliche amministrazioni (ARAN),
controparte
delle organizzazioni sindacali in sede di
contrattazione collettiva,
l’Agenzia per i servizi
sanitari regionali (ASSR), l’Agenzia italiana per il
farmaco
(AIFA), quest’ultima istituita nel 2003
scorporando dal ministero della Salute la
Commissione unica del farmaco e alcune funzioni
della direzione generale di farmaci e
dei dispositivi
medici (art. 48 legge 24 novembre 2003, n. 326 di
conversione del
d.l. n. 269/2003), l’Agenzia
nazionale per le politiche del
lavoro istituita con
d.lgs. 14 settembre 2015, n. 150.
Le agenzie non costituiscono un modello inedito.
Infatti, come già Le aziende
accennato nel
capitolo I, alcuni ministeri già dall’inizio del secolo
scorso istituirono al proprio interno
strutture,
definite aziende, per l’erogazione di servizi
pubblici nazionali (per
esempio, l’Azienda di Stato
per i servizi telefonici, l’Azienda autonoma delle
ferrovie
dello Stato, ecc.). Anche i comuni
istituirono aziende municipalizzate per la gestione
dei servizi pubblici locali. Le aziende avevano
natura di aziende-organo, essendo prive
di
personalità giuridica piena. Quasi tutte furono
trasformate dapprima in enti pubblici
economici e
poi in società per azioni.
Le agenzie dell’ultima generazione
si differenziano
dalle aziende speciali perché sono titolari
soprattutto di funzioni di
regolazione e
amministrative in ambiti particolari, piuttosto che
di gestione di
attività di tipo economico.
Un cenno specifico va fatto alle
strutture afferenti
alla presidenza del La presidenza del
Consiglio dei
ministri
Consiglio dei
ministri, disciplinata
dal d.lgs. n. 303/1999, che può essere assimilata
solo in parte
alle strutture ministeriali in quanto
dotata di autonomia e flessibilità organizzative
più
321 accentuate. Ad essa afferiscono una serie di
dipartimenti
(il dipartimento per gli Affari giuridici
e legislativi, il dipartimento per gli Affari
regionali,
ecc.) e uffici posti alle dipendenze di un
segretariato generale preposto
alla gestione delle
risorse umane e strumentali (art. 7 d.lgs. n.
303/1999). Le strutture della presidenza
curano, in
particolare, i rapporti con il parlamento, con gli
organi costituzionali, con
le istituzioni europee e
con il sistema delle autonomie, il coordinamento
dell’attività
amministrativa del governo, la
promozione delle pari opportunità (art. 2 d.lgs. n.
303/1999).
resso la presidenza del Consiglio
dei ministri
P
operano anche la Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le
regioni e le province
autonome di Trento e Bolzano (Conferenza Stato-
regioni) e la
Conferenza Stato, città e autonomie
locali, che talora si riuniscono come Conferenza
unificata, presiedute dal presidente del Consiglio
dei ministri (o da un ministro
delegato). Le
Conferenze hanno ruoli prevalentemente di
coordinamento e consultivi.
Talora adottano atti
vincolanti (in particolare le intese tra lo Stato e le
regioni
previste da numerose leggi
amministrative).
Alla presidenza del L’avvocatura dello
Stato
Consiglio dei ministri
e, in particolare, al
segretariato generale,
afferisce, per gli aspetti
organizzativi, l’avvocatura dello Stato. Si tratta di
un
organo ausiliario di rango non costituzionale
che ha una duplice funzione: di consulenza
generale, in taluni casi obbligatoria (per esempio,
in relazione alle transazioni), e di
rappresentanza
legale in giudizio delle amministrazioni statali.
Essa è articolata
nell’avvocatura generale, situata a
Roma, e nelle avvocature distrettuali, situate nei
capoluoghi regionali ove hanno sede le Corti
d’appello. Anche le regioni e altri enti
pubblici
possono (e in alcuni casi devono) avvalersi del
patrocinio dell’avvocatura
dello Stato. Sul piano
funzionale l’avvocatura dello Stato opera in modo
indipendente e
a questo fine è istituito, come
organo di autogoverno, un consiglio.
’attuazione del Piano
nazionale di ripresa e
L
resilienza approvato Le strutture del Piano
nazionale
di ripresa e
nel 2021 ha
reso resilienza
necessaria
un’organizzazione
dedicata, destinata a operare fino al 2026. A questo
fine il d.l. n. 77/2021 prevede che ciascun ministero
istituisca una unità organizzativa
interna a livello
di direzione generale per il coordinamento, il
monitoraggio, la
rendicontazione e il controllo
delle attività di competenza. Il coordinamento è
affidato
a una cabina di regia, presieduta dal
presidente del Consiglio dei ministri, a
composizione variabile in relazione ai temi trattati.
A supporto della cabina di regia
operano una
segreteria tecnica e una unità di missione per la
razionalizzazione e il
miglioramento della
regolazione. All’interno della Ragioneria generale
dello Stato è
istituito un Servizio centrale per il
PNRR che rappresenta il punto di contatto unico
con l’Unione europea (che eroga i fondi) e ha la
gestione di tutti i flussi finanziari
con funzioni di
monitoraggio e di rendicontazione. Il d.l. n.
77/2021 istituisce una
Commissione tecnica
speciale interna al ministero della Transizione
ecologica per lo
svolgimento di tutte le procedure
di valutazione di impatto ambientale di
competenza
statale, nonché una Soprintendenza
speciale interna al ministero della Cultura al fine
di garantire una maggiore coerenza e speditezza
322 dell’azione
amministrativa. Il coordinamento con
le regioni è assicurato
dal Nucleo PNRR Stato-
regioni, istituito dall’art. 33 del d.l. 6 novembre
2021, n. 152.
5. Gli
enti territoriali: i comuni,
le province, le regioni
Secondo l’art. 114 Cost., riformulato dalla legge
costituzionale n. 3/2001 di modifica del Titolo V
come
sviluppo del principio autonomistico
enunciato dall’art. 5 Cost., la Repubblica è
costituita, oltre che dallo
Stato, dai comuni, dalle
province, dalle città metropolitane e dalle
regioni, definiti
come enti autonomi con propri
statuti, poteri e funzioni. La Costituzione
recepisce così
«un disegno di tendenziale pari
dignità istituzionale a tutti i livelli territoriali»
[Vandelli 2011].
Come si è accennato, lo Stato ha
potestà
legislativa esclusiva in tema di legislazione
elettorale, di organi di governo e
di funzioni
fondamentali di comuni, province e città
metropolitane (art. 117, comma 2, lett. p), Cost.).
La Costituzione
individua inoltre gli organi
fondamentali delle regioni (consiglio regionale,
giunta,
presidente), definendone le funzioni
principali (art. 121).
I principi fondamentali per
l’allocazione delle
funzioni tra i vari livelli di governo sono, come si è
già visto nel
capitolo III, la sussidiarietà
(verticale), la differenziazione e l’adeguatezza (art.
118 Cost.). È garantita inoltre autonomia
finanziaria
di entrata e di spesa, inclusa
l’applicazione di tributi propri (art. 119).
Lo studio dell’organizzazione
delle regioni e degli
enti locali appartiene anzitutto al diritto
costituzionale (e, in
modo più specialistico, al
diritto regionale e al diritto degli enti locali).
Infatti, l’equilibrio
istituzionale tra «centro» e
«periferia» delineato dalla Costituzione rileva ai
fini
della qualificazione della forma di Stato
(unitario, federale, o com’è stato detto,
Stato ad
autonomie regionali e locali).
Conviene sottolineare una
peculiarità di un
siffatto equilibrio I rapporti tra Stato,
regioni ed
enti locali
nell’ordinamento
italiano. L’assetto
ordinamentale dei rapporti tra Stato, regioni ed
enti locali non
segue, come potrebbe apparire più
razionale, il modello per così dire a cascata: lo
Stato si relaziona esclusivamente con le regioni e
queste ultime, a loro volta, con gli
enti locali.
Piuttosto, il modello recepito anche dalla
Costituzione è quello per così
dire triangolare,
visto che anche i comuni intrattengono rapporti
istituzionali diretti
con lo Stato, non mediati dalle
regioni. Così, per esempio, gli organi di governo e
le
funzioni fondamentali dei comuni (ma anche
delle province e delle città metropolitane)
sono
disciplinati con legge statale (art. 117, comma 2,
lett. p), Cost.). Ciò si spiega per il
fatto che i
comuni hanno un radicamento storico che risale
addirittura al Medioevo. Le
regioni, invece, sono
state introdotte nella Costituzione del 1948 e sono
state istituite solo negli anni
Settanta del secolo
scorso. I comuni, che hanno avuto fin dal XIX
secolo un legame
diretto con il ministero
dell’Interno, continuano in molti casi a privilegiare
un’interazione con lo Stato. A questo fine i comuni
hanno dato origine all’Associazione
nazionale dei
323 comuni italiani (ANCI).
I nvolgono profili prevalentemente
costituzionali,
da un lato, i metodi per la scelta dei componenti
del consiglio
comunale, provinciale e regionale e
per la scelta del sindaco e dei presidenti della
regione (elezione diretta); dall’altro, gli stessi
rapporti interni tra consiglio,
giunta e organo
monocratico che si prestano a essere analizzati più
correttamente nel
contesto dello studio dei sistemi
elettorali e della forma di governo. Così, in
particolare, l’elezione diretta del sindaco e del
presidente della provincia ad opera
della legge 25
marzo 1993, n. 81 ha segnato il passaggio da una
forma di governo di tipo parlamentare a una forma
di governo di tipo presidenziale,
temperata dal
fatto che l’organo consigliare può approvare a
maggioranza assoluta una
mozione di sfiducia nei
confronti del sindaco e della giunta (art. 52 d.lgs. n.
267/2000).
Dal punto di vista del diritto
amministrativo, gli
enti locali e le Caratteristiche
generali degli
enti
regioni costituiscono locali e delle regioni
una particolare
categoria di enti
pubblici.
Si tratta in primo luogo di enti
necessari, essendo
istituiti obbligatoriamente in tutto il territorio
nazionale. In
secondo luogo, sono enti ad
appartenenza necessaria, poiché ogni cittadino, in
base al
criterio della residenza, trova un
riferimento stabile in ciascuno di essi (per
esempio,
per l’esercizio del diritto di voto alle
elezioni amministrative o per il versamento dei
tributi locali). In terzo luogo, sono enti a
competenza generale, perché possono curare
gli
interessi della popolazione di riferimento con una
certa libertà, in base agli
indirizzi politici espressi
dal corpo elettorale locale e agli indirizzi
politico-
amministrativi dell’organo consiliare. Hanno cioè
il potere di individuare le
proprie priorità
nell’ambito delle funzioni ad essi assegnate e di
mettere in opera gli
strumenti necessari per il
raggiungimento dei propri fini.
In quarto luogo, si tratta di enti
inseriti
integralmente nell’ordinamento amministrativo
poiché tutti i loro atti
normativi (regolamenti) e
non normativi sono sempre e necessariamente atti
formalmente
amministrativi. La sola eccezione è
costituita dalle leggi regionali, nelle materie e
nei
limiti definiti dall’art. 117 Cost.
Conviene soffermarsi più da vicino
sull’ordinamento Gli enti locali
degli enti locali
disciplinato principalmente dal Testo unico
approvato con d.lgs. n. 267/2000.
I comuni, come si è già accennato,
sono oggi circa
8.000. Le 107 province sono un ente intermedio
tra i comuni e le
regioni. Esse si riallacciano
concettualmente alla riorganizzazione dello Stato
francese
in epoca rivoluzionaria ispirata al
centralismo e all’istituzione dei dipartimenti con a
capo i prefetti dipendenti direttamente dal
governo centrale. Le province costituiscono
un
livello di governo che sembrava destinato a essere
superato nell’ambito di una
riforma costituzionale
non validata nel 2016 da una consultazione
referendaria, essendo
ritenuto oneroso e poco
funzionale. Peraltro, nelle more della
soppressione, la legge 7 aprile 2014, n. 56 ha
modificato le regole di
elezione del consiglio
provinciale e del presidente della provincia
prevedendo che essi
siano nominati dai sindaci e
dai consiglieri comunali dei comuni della
provincia.
Sotto il profilo
storico-istituzionale, la disciplina
degli enti locali risale all’epoca
dell’unificazione
nazionale e in particolare alla legge comunale e
provinciale (All. A legge 20 marzo 1865, n. 2248,
324 che ricalcava
essenzialmente la legge Rattazzi del
Regno di Sardegna approvata nel 1859). I
comuni e
le province vennero disciplinati secondo il
principio, anch’esso di derivazione
francese,
dell’uniformità giuridica. Vennero sottoposti a
controlli di legittimità e di
merito penetranti da
parte dello Stato (e per esso del prefetto). Fu
scartato cioè il
modello alternativo di derivazione
austriaca ispirato al principio della
differenziazione, più rispettoso della loro
autonomia.
In epoca fascista i comuni e le
province vennero
privati di rappresentatività politica con la
soppressione dei consigli
elettivi e vennero
ricondotti a mere articolazioni dello Stato alle
quali furono
preposti organi monocratici di
nomina governativa (nei comuni il podestà). Ai
segretari
comunali e provinciali, organi di vertice
degli apparati amministrativi degli enti
locali,
venne attribuita la qualifica di funzionari dello
Stato.
La Costituzione definisce gli enti
locali come enti
autonomi, «nell’ambito dei principi fissati da leggi
generali della
Repubblica, che ne determinano le
funzioni» (come recitava l’art. 128 Cost. abrogato
nel 2001), cioè, in pratica, nei
limiti stabiliti dallo
Stato. Il disegno costituzionale autonomistico ha
trovato
attuazione solo a partire dagli anni
Novanta del secolo scorso con il riconoscimento in
particolare di un’autonomia statutaria (legge 8
giugno 1990, n. 142 poi confluita nel Testo unico
del 2001) e con l’attribuzione ad essi di un maggior
numero di funzioni in conformità al
principio di
sussidiarietà verticale (enunciato già dalle
cosiddette leggi Bassanini 15 marzo 1997, n. 59 e 15
maggio 1997, n. 127).
Le autorità amministrative
indipendenti (o anche
autorità indipendenti) costituiscono una tipologia
di enti
pubblici che, come si è accennato nel
capitolo I, ha avuto diffusione soprattutto a
partire
dagli anni Novanta del secolo scorso, con
l’affermarsi dello Stato regolatore.
Esse si ispirano
al modello anglosassone delle independent regulatory
agencies.
autorità. Le leggi
istitutive prevedono che esse operino «in piena
autonomia e con indipendenza di giudizio e di
valutazione» (così per esempio l’art. 10, comma 2,
legge 10 ottobre 1990, n. 287 in materia
antitrust).
Esse possono inoltre disciplinare le proprie
strutture interne con
regolamenti di
organizzazione. Possono dotarsi del personale di
cui necessitano, entro i
limiti numerici della pianta
organica stabilita dalle leggi, sulla base di concorsi
gestiti autonomamente. Alcune di esse sono
autosufficienti sotto il profilo finanziario,
in
quanto hanno il potere di richiedere alle imprese
regolate contributi per le spese di
funzionamento.
Un quarto presidio è, La rete europea delle
autorità
come si vedrà,
l’inserimento in un
circuito di autorità nazionali
che fa capo a un
regolatore europeo previsto nei Trattati o nel
diritto derivato. Se
l’attività di regolazione svolta
dalle autorità indipendenti è coordinata a livello
sovranazionale, essa è meno suscettibile di essere
influenzata dai governi nazionali.
La deroga al principio
della
separazione dei
3. Passando a
poteri
considerare i tratti
più
caratteristici del
regime delle autorità indipendenti, il primo è che
esse derogano,
entro certi limiti, al principio della
separazione dei poteri. Assommano infatti poteri
di regolazione, poteri amministrativi puntuali
esercitabili in applicazione delle regole
da esse
stesse poste (per esempio una sanzione irrogata
per violazione di un atto di
regolazione emanato
dall’autorità) e poteri di risoluzione in via
stragiudiziale di
controversie.
’attribuzione di poteri di
regolazione molto estesi
L
è resa necessaria in considerazione della già
segnalata crisi
della legge come strumento di
disciplina di attività soggette a rapidi mutamenti
tecnologici e di mercato e di complessità tecnica
elevata (si veda il capitolo II). Alla
delega di poteri
quasi «in bianco» da parte del parlamento, sia pur
in molti casi
all’interno di coordinate poste da
direttive europee, corrisponde un’amplissima
potestà
normativa secondaria (tramite
regolamenti o atti amministrativi generali). Per
esempio,
i regolamenti della CONSOB o le
338 istruzioni della Banca d’Italia
formano un corpo
normativo molto articolato al quale si devono
conformare le imprese
regolate.
Le autorità sono dotate inoltre di
poteri
amministrativi (prescrittivi, autorizzatori,
sanzionatori) che hanno per
destinatarie singole
imprese. Essi presuppongono valutazioni tecniche
(e talora anche
propriamente discrezionali)
effettuate in base a parametri elastici (per
esempio, il
criterio della «sana e prudente
gestione» per le autorità istituite nei settori
finanziari).
Infine, le autorità indipendenti
svolgono funzioni
di tipo giustiziale. I consumatori o gli utenti
possono infatti
proporre reclami e attivare altre
forme di risoluzione delle controversie alternative
alla giurisdizione (ADR, alternative dispute
resolutions) nei
confronti delle imprese regolate. In
alcuni casi le autorità intervengono a dirimere
anche le controversie insorte tra le stesse imprese
regolate (per esempio, in materia di
accesso e di
interconnessione delle reti nel settore della
telefonia mobile, quelle
attribuite alla competenza
dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni).
Un secondo tratto distintivo è che
esse esercitano i
loro ampi poteri in La cosiddetta
paragiurisdizionalità
forme
paragiurisdizionali,
espressione controversa che denota una certa
assimilazione con il
modo di operare degli organi
giurisdizionali. Le leggi istitutive prevedono
infatti,
come si è già accennato, garanzie del
contraddittorio rinforzate, cioè eccedenti la
soglia
minima posta dalla l. n. 241/1990. Ciò vale
anzitutto per i procedimenti di
tipo individuale,
per i quali sono previsti in molti casi la
verbalizzazione, il
contraddittorio orale, la
separazione tra funzioni istruttorie e funzioni
decisorie con
possibilità per le imprese di
contestare le conclusioni degli organi istruttori
prima
che l’organo decisionale emani il
provvedimento, il tutto a garanzia di una maggiore
terzietà del decisore. Anche per i procedimenti di
regolazione è ormai generalizzato il
modello
partecipativo, già menzionato, del notice and
comment, cioè
la pubblicazione della proposta di
atto di regolazione con la previsione di un termine
entro il quale gli interessati possono presentare le
proprie osservazioni.
Le garanzie del contraddittorio
costituiscono per
le autorità indipendenti un fattore di
legittimazione (la cosiddetta
democrazia
procedurale) atto a bilanciare, sia pur in modo
imperfetto, la mancanza di un
collegamento
diretto delle autorità al circuito politico-
rappresentativo (democrazia
rappresentativa). A
tali garanzie, si aggiungono quelle di un controllo
giurisdizionale
pieno (full jurisdiction) sui
provvedimenti da esse emanati.
La nozione di società
in-house è stata elaborata
dalla giurisprudenza della Corte di
giustizia
dell’Unione europea a proposito dell’applicazione
dei principi europei in
materia di affidamento di
contratti pubblici e di concessioni. In particolare,
la
questione è se queste società possono essere
affidatarie dirette di attività da parte
delle
amministrazioni di contratti pubblici remunerati
da queste ultime, oppure se
l’affidamento deve
avvenire all’esito di una gara a evidenza pubblica.
Per poter essere
destinatarie di affidamenti diretti,
in deroga al regime della concorsualità, secondo la
Corte di giustizia (a partire dalla sentenza Teckal
del 18 novembre
1995, causa C-107/98), le società
in-house devono possedere due
requisiti: il
«controllo analogo» e lo svolgimento della parte
più rilevante della loro
attività a favore delle
amministrazioni pubbliche.
Il primo requisito tende ad
assicurare che tra
amministrazione Il controllo analogo
pubblica titolare delle
partecipazioni nella società in-house e quest’ultima
intercorra un
rapporto così stretto da assimilarla a
un organo interno della prima. Questa
compenetrazione esclude che gli atti o i contratti
con i quali l’amministrazione affida
alla società il
compito di realizzare un’opera o di fornire un bene
o un servizio siano,
al di là del nomen, dei veri
contratti, almeno ai fini
dell’applicazione delle
norme europee.
Per ottemperare al requisito del
controllo analogo,
in primo luogo, la partecipazione deve essere
totalitaria, nel senso
che la presenza anche
minoritaria nel capitale sociale di soggetti privati
per così dire
«inquina» la partecipazione pubblica.
Sotto questo profilo, però, le direttive europee
in
materia di appalti e concessioni (art. 12 della
direttiva (UE) 2014/24 del 26
febbraio 2014; art. 28
348 della direttiva (UE) 2014/25 e art. 17 della
direttiva
(UE) 2014/23) pongono una disciplina meno rigida
che
consente partecipazioni private minoritarie,
senza controllo o potere di veto e che non
esercitano un’influenza determinante sulla società.
Anche il d.lgs. n. 175/2016 ammette la presenza di
capitali privati
nelle società in-house, ma solo nei
casi espressamente previsti
dalla legge e comunque
senza la possibilità di esercitare un’influenza
determinante
(art. 16, comma 1).
In secondo luogo, lo statuto della
società o i patti
parasociali devono garantire al socio pubblico un
potere di influire
sulle strategie e decisioni
fondamentali della società e di controllarne
l’attività.
Questo obiettivo può essere raggiunto,
per esempio, prevedendo che le delibere più
rilevanti del consiglio di amministrazione siano
sottoposte ad approvazione da parte del
socio
pubblico, oppure istituendo presso la società uffici
per il controllo analogo con
la presenza di
funzionari dell’amministrazione.
Il controllo analogo può essere
congiunto e
indiretto. È congiunto nel caso in cui più
amministrazioni affidino a
un’unica società
partecipata la gestione unitaria di un servizio
pubblico, ma anche in
questo caso esse sono in
grado di influire sulle
decisioni strategiche della
società. È indiretto nel caso in cui
un’amministrazione
detenga la partecipazione
totalitaria in una società che a sua volta detenga, a
cascata,
una partecipazione societaria totalitaria in
un’altra società.
Il secondo requisito L’attività svolta per
conto
tende a escludere che dell’amministrazione
la società in-house di riferimento
operi
sul mercato e
alteri la concorrenza sfruttando il vantaggio di aver
ricevuto un
affidamento diretto da parte di
un’amministrazione pubblica. La giurisprudenza
peraltro
non ha indicato una percentuale del
fatturato che deve essere conseguito per conto
dell’amministrazione pubblica, ma generalmente si
ritiene che esso debba essere
superiore all’80-90%.
Il d.lgs. n. 175/2016 (art. 16, comma 3) stabilisce il
limite
minimo dell’80%.
e società
in-house sono sottoposte a regole
L
pubblicistiche ulteriori
rispetto alle società a
controllo pubblico. In particolare, sono tenute
all’applicazione
integrale del Codice dei contratti
pubblici (art. 16, comma 7) e ricadono nel regime
della
responsabilità amministrativa per danno
erariale (art. 12). Questa forma di
responsabilità
non vale invece per gli altri tipi di società a
partecipazione pubblica.
Del danno erariale dovuto
alla loro cattiva gestione rispondono comunque le
pubbliche
amministrazioni titolari delle azioni
poiché su di esse grava un obbligo di monitorare
in
modo continuativo le proprie partecipazioni
azionarie (art. 12). Gli amministratori
possono
rivestire la qualifica penalistica di incaricati di
pubblico servizio (C. cass.,
Sez. VI penale, 30
giugno 2021 n. 37076).
Alle società
in-house si applica peraltro il diritto
comune per tutti gli
aspetti non espressamente
derogati dal d.lgs. n. 175/2016. Per esempio, sono
soggette alle
ordinarie procedure fallimentari (C.
cass., Sez. I civile, 7 febbraio 2017, n. 3196).
Merita un cenno specifico la
cosiddetta golden
share . Essa La golden
share
consisteva in un
complesso di poteri speciali riservati dalla legge
allo Stato e
inseriti negli statuti delle società in
occasione della privatizzazione formale delle
grandi imprese pubbliche statali operanti in settori
strategici (energia,
telecomunicazioni, difesa,
349 trasporti, ecc.), allo scopo di tutelare l’interesse
nazionale (d.l. 31 maggio 1994, n. 332 convertito in
legge 30 luglio 1994, n. 474). La finalità era di
impedire
che le imprese strategiche potessero
finire sotto il controllo per esempio di fondi
sovrani di Stati autoritari o di azionisti legati a
organizzazioni terroristiche.
In applicazione dei principi
europei in tema di
libertà di stabilimento e di libera circolazione dei
capitali (artt.
49 e 63 TFUE), strumentali
all’apertura dei mercati alla
concorrenza, la Corte
di giustizia dell’Unione europea (Sez. III, 26 marzo
2009, in causa C-326/07) ha tuttavia
censurato le
norme italiane perché accordavano al ministero
dell’Economia e delle
Finanze un ambito di
valutazione discrezionale eccessivo.
Una nuova disciplina è stata
introdotta dal d.l. 15
marzo 2012, n. 21 convertito in legge 11 maggio
2012, n. 56. Essa prevede che, in caso di
minaccia di
grave pregiudizio per gli interessi essenziali della
difesa e della
sicurezza nazionale, il governo possa
esercitare una serie di poteri speciali
(golden
power ) molto ampi, Il golden
power
non
più collegati solo
alla titolarità di azioni (come invece accadeva per
la
golden share). Tra di essi rientrano, per esempio,
l’imposizione di condizioni relative alla sicurezza
degli approvvigionamenti o ai
trasferimenti
tecnologici in caso di acquisto di partecipazioni in
società che svolgono
attività di rilevanza strategica
in tali settori; poteri di veto nei confronti di
delibere assembleari o degli organi di
amministrazione relativi al trasferimento
all’estero
della sede sociale, al mutamento dell’oggetto
sociale o ai trasferimenti di
azienda; poteri di
opposizione agli acquisti di partecipazioni da parte
di soggetti
diversi dallo Stato, da enti pubblici
italiani o da soggetti da essi controllati.
La legge pone alcune regole
procedimentali
(obbligo di notifica preventiva delle operazioni
societarie,
silenzio-assenso scaduto un termine di
15 giorni, ecc.) e commina la nullità delle
delibere
e degli atti adottati in violazione di queste
prescrizioni. Per tener conto dei
rilievi della Corte
di giustizia, la legge specifica i criteri per
l’esercizio dei
poteri speciali e stabilisce che
comunque devono essere rispettati i principi di
proporzionalità e di ragionevolezza.
Da ultimo, anche in seguito a
talune
preoccupazioni emerse in Europa e negli Stati
Uniti, la disciplina dei poteri
speciali è stata
rafforzata al fine di garantire anche la sicurezza
delle reti e dei
servizi di comunicazione elettronica
a banda larga basati sulla tecnologia 5G contro i
rischi di vulnerabilità derivanti dal coinvolgimento
in tali attività (anche come
semplici fornitori di
componenti) di imprese con sede in Stati non
facenti parte
dell’Unione europea (art. 1 d.l. 25
marzo 2019, n. 22). Gli artt. 15 ss. d.l. 8
aprile 2020,
n. 23 hanno ulteriormente esteso il campo di
applicazione (in particolare
al settore finanziario e
sanitario) e reso più stringente la disciplina.
Il riordino operato Tendenze recenti
con il d.lgs. n.
175/2015 ha arginato l’espansione delle
società in
mano pubblica, ma non ha conseguito gli obiettivi
originari di una riduzione
drastica.
Si registra anzi una tendenza
recente al ritorno
dello Stato imprenditore. Per esempio, la società
Autostrade per
l’Italia è stata riacquisita alla mano
pubblica nel 2021, come reazione politica al
crollo
del ponte Morandi di Genova nell’agosto del 2018.
350 Nel 2021 anche un nuovo vettore
aereo nazionale
(ITA, subentrato ad Alitalia in stato di
dissesto) è
stato istituito con capitali statali. Lo Stato è
entrato nel capitale della
più importante acciaieria
italiana (l’ILVA di Taranto). Più in generale la
Cassa
depositi e prestiti, società controllata
all’83% dal ministero dell’Economia e delle
Finanze, detiene pacchetti azionari rilevanti in
numerose società (ENEL, ENI, SNAM,
SACE,
Fintecna, ecc.). In realtà, il ritiro e la rinascita
dello Stato imprenditore
sembrano segnati quasi
da un moto pendolare.
9. Cenni
all’integrazione
europea
Come rilevato già nel L’amministrazione
indiretta e
composita
capitolo I, l’assetto
organizzativo e
funzionale delle pubbliche
amministrazioni
nazionali è condizionato in molti ambiti dal diritto
europeo. Il modello
originario di integrazione
europea era quello della cosiddetta
amministrazione indiretta
sperimentato
dall’Inghilterra per l’amministrazione dell’impero
coloniale. Questo
modello è fondato su una
scissione tra disciplina della funzione, attribuita
alla
competenza dell’Unione europea, e
organizzazione della medesima, rimessa in via
esclusiva ai singoli Stati membri. Progressivamente
esso è stato superato dal modello
della cosiddetta
amministrazione composita, caratterizzata da
strutture operative in
parte europee e in parte
nazionali. Queste ultime sono complementari e
integrate con le
prime e sono chiamate a gestire
procedimenti o fasi di essi anch’essi di natura
composita.
L’influenza del diritto europeo
sull’organizzazione
amministrativa nazionale si manifesta in varie
forme.
In primo luogo, poiché molte
politiche pubbliche
sono ormai decise a livello europeo, le
amministrazioni nazionali si
sono attrezzate per
svolgere un ruolo attivo nell’ambito dei processi di
emanazione
degli atti giuridici europei (specie i
regolamenti e le direttive).
Così alcuni ministeri si sono
dotati di uffici che
hanno come compito principale quello di curare i
rapporti con
l’Unione europea. Presso la
presidenza del Consiglio dei ministri è istituito il
dipartimento per le Politiche europee del quale si
avvale il presidente Il dipartimento per le
Politiche
europee
del Consiglio dei
ministri per
promuovere l’azione del governo
volta «ad
assicurare la piena partecipazione dell’Italia
all’Unione europea» e per
coordinare le
amministrazioni statali, regionali, i soggetti privati
«ai fini della
definizione della posizione italiana da
sostenere, di intesa con il ministero degli
Affari
esteri, in sede europea» (art. 3 d.lgs. n. 303/1999).
Come già ricordato nel capitolo
I, la legge 24
dicembre 2012, n. 234 ha istituito un Comitato
interministeriale per gli affari europei (CIAE), un
Comitato tecnico di valutazione
degli atti
dell’Unione europea e ha previsto presso le
amministrazioni statali nuclei di
valutazione degli
atti dell’Unione europea.
empre a livello centrale, il
Comitato
S
interministeriale per la programmazione
economica (CIPE) ha anche la responsabilità della
programmazione e dell’impulso
delle politiche
comunitarie (l. n. 86/1989 e l. n. 183/1987). A livello
periferico, le regioni,
soprattutto in seguito alle
modifiche all’art. 117 Cost. operate dalla legge
costituzionale n. 3/2001, sono coinvolte in modo
351 più
diretto nei rapporti con l’Unione europea. Ciò
sia nella fase
ascendente della formazione sia in
quella discendente dell’attuazione degli atti
normativi europei (art. 117, commi 2 e 4). Alcune di
esse si sono dotate di
sedi di rappresentanza a
Bruxelles.
Inoltre funzionari di
amministrazioni nazionali
contribuiscono alla preparazione degli atti
comunitari anche
attraverso la partecipazione a
comitati tecnici composti da rappresentanti di
amministrazioni nazionali e da esponenti della
Commissione UE (la cosiddetta
«comitologia»).
In secondo luogo, in base a
numerosi atti
normativi europei, le amministrazioni
nazionali
La coamministrazione e
regionali sono talora
coinvolte nello svolgimento di attività
amministrative
delle quali esse sono contitolari
con la Commissione europea (la cosiddetta
coamministrazione). A questo fine organismi
nazionali, la cui istituzione è prevista
come
obbligatoria dalle norme europee, sono incaricati
di svolgere attività che
costituiscono segmenti di
procedimenti comunitari (procedimenti composti,
in parte
europei in parte nazionali).
iò accade per esempio negli
interventi di
C
sostegno della produzione agricola da parte
dell’Unione europea. La
normativa prevede infatti
che i fondi europei vengano gestiti dagli Stati
membri per
mezzo di un «organismo di
coordinamento» e di «organismi pagatori» (art. 4
regolamento
(CEE) 1970/729 del 21 aprile 1970).
Lo Stato italiano ha istituito a questo fine
l’Agenzia per le L’Agenzia per le
erogazioni in
erogazioni in agricoltura
agricoltura (AGEA)
che
agisce come
unico rappresentante dello Stato italiano nei
confronti della Commissione
europea per tutte le
questioni relative a questo tipo di fondi; è
responsabile nei
confronti dell’Unione europea
degli adempimenti connessi alla gestione degli
aiuti
all’agricoltura; esercita funzioni di
coordinamento e di vigilanza sugli organismi
pagatori istituiti dalle regioni; promuove
l’applicazione armonizzata della normativa
comunitaria in materia; effettua un monitoraggio
sulle procedure istruttorie e di
controllo; provvede
alla rendicontazione dell’attività all’Unione
europea (d.lgs. 27 maggio 1999, n. 165).
Anche la gestione dei cosiddetti
Fondi strutturali
europei finalizzati a La gestione dei Fondi
ridurre il
divario tra strutturali europei
I servizi pubblici
359
1. Premessa
2.
La seconda direttrice è scolpita nel Trattato
che contiene una Servizi pubblici e
concorrenza
disposizione secondo
la quale «Le imprese
incaricate della gestione di servizi di
interesse
economico generale […] sono sottoposte alle
norme dei Trattati e in
particolare alle regole di
concorrenza nei limiti in cui l’applicazione di tali
norme
non osti all’adempimento, in linea di diritto
e di fatto, della specifica missione loro
affidata»
(art. 106, comma 2, TFUE). Questa disposizione,
ripresa
nell’art. 8, comma 2, legge 10 ottobre 1990,
n. 287, prevede
l’applicazione delle regole comuni
in materia di concorrenza. Essa consente peraltro
deroghe, in base al principio di proporzionalità,
cioè solo nei limiti dello stretto
necessario per il
conseguimento degli scopi di interesse pubblico
che gli Stati membri
si prefiggono.
osì, in particolare, le imprese
incaricate di
C
svolgere un servizio pubblico di interesse
economico generale possono
ricevere
finanziamenti pubblici, in deroga alla disciplina
degli aiuti di Stato, a
titolo di compensazione,
secondo criteri di stretta proporzionalità, in
relazione alla
necessità di coprire i costi correlati
all’adempimento degli obblighi di servizio
pubblico. Ciò nei casi in cui, in assenza del
finanziamento, verrebbe compromesso
l’equilibrio
economico dell’impresa (Corte di giustizia
dell’Unione europea 24 luglio
2003, C-280/00, caso
Altmark).
2.
Una volta che una determinata attività viene
assunta dai
pubblici La regolazione dei
servizi
pubblici
poteri come servizio
pubblico, si pone il
problema della regolazione.
ssa è funzionale al raggiungimento
degli obiettivi
E
di interesse pubblico e all’attuazione in concreto
dei principi
giuridici in materia di servizi pubblici.
Questi ultimi sono diversi e aggiuntivi
rispetto a
quelli propri delle attività private e si ricavano,
oltre che dalla
giurisprudenza europea, anche dalla
legge 14 novembre 1995, n. 481 che, come si vedrà,
pone
alcune norme generali riferite alle autorità di
settore.
3a) Si ha
gestione diretta allorché l’attività è
svolta da strutture dell’ente titolare del
servizio (le
aziende speciali e, a livello locale, anche i servizi di
modesta rilevanza
gestiti «in economia»).
3b) Si ha
gestione indiretta allorché essa è affidata
a un ente pubblico incaricato dello
svolgimento del
servizio. Gran parte dei servizi pubblici nazionali
(poste,
telecomunicazioni, energia,
radiotelevisione) per decenni, come si è detto,
vennero
gestiti da enti pubblici economici sulla
base di una concessione amministrativa (talora
attribuita ex lege). Si tratta di forme ormai
recessive.
3c) La terza
forma, che, come si è chiarito nel
capitolo precedente, è ancora sostanzialmente
interna
all’organizzazione della pubblica
amministrazione, è la cosiddetta società
in-house.
Quest’ultima, come si è visto, ove rispetti i
parametri già illustrati, può ricevere in
affidamento il servizio attraverso una
concessione
o convenzione senza il previo espletamento di una
gara.
3e) Un caso di
partenariato di tipo contrattuale è
la quinta forma di gestione dei servizi pubblici,
costituita dalla concessione del servizio a soggetti
terzi selezionati sulla base di
procedure
competitive nei casi in cui per ragioni tecniche o
economiche il servizio si
presta a essere erogato da
un solo gestore (concorrenza per il mercato). La
concessione
a terzi dà vita, anche in questo caso, a
una relazione di lunga durata tra concedente e
concessionario (spesso pluridecennale, in
relazione alla necessità di ammortamento degli
investimenti). A differenza della società mista, la
concessione a terzi non prevede
dunque un
coinvolgimento organizzativo diretto del soggetto
pubblico nella gestione del
servizio. Proprio per
questo è essenziale che il contratto di servizio, che
rappresenta
per così dire l’unico punto di contatto
tra l’ente affidante e il gestore, preveda
strumenti
efficaci di controllo sulla qualità del servizio.
3f) Un’ultima
forma di gestione del servizio è
costituita, come si è già accennato, da una
semplice
autorizzazione rilasciata a più gestori
che erogano il servizio in concorrenza tra loro
nel
rispetto degli obblighi di servizio pubblico stabiliti
dal regolatore (concorrenza
nel mercato).
Una volta scelta la forma di
gestione del servizio e
individuato il gestore, quest’ultimo provvede a
svolgere tutte
le attività giuridiche (contratti con i
fornitori, con i dipendenti, ecc.) e materiali
370 necessarie.
L’erogazione del servizio da parte
del
concessionario agli utenti deve avvenire nel
rispetto del contratto di servizio,
delle carte dei
servizi e dei contratti di utenza.
Il contratto di Il contratto di
servizio
servizio regola i
rapporti tra la pubblica amministrazione titolare
del
servizio e il gestore. Ove il gestore venga scelto
tramite gara, lo schema di contratto
di servizio
viene allegato al bando e agli altri atti della
procedura. Il contratto di
servizio disciplina
anzitutto i rapporti economici finanziari: talvolta il
gestore paga
un canone all’amministrazione; nel
caso di servizi in perdita, invece, è
l’amministrazione a erogare contributi finanziari.
Il contratto individua inoltre gli
investimenti da
effettuare per migliorare le infrastrutture, i
controlli esercitabili
dall’amministrazione e le
sanzioni in caso di inadempimento, le cause di
scioglimento
del rapporto e di decadenza nel caso
di gravi inadempienze (art. 2, comma 36, l. n.
481/1995 citata).
I livelli quantitativi e Le carte dei servizi
qualitativi di
erogazione del servizio sono stabiliti in
termini
generali con direttive dell’autorità di regolazione
di settore che poi vigila
sulla loro osservanza
effettiva (art. 2, comma 12, lett. h), l. n. 481/1995). I
gestori del
servizio devono dotarsi di carte dei
servizi che specificano i livelli qualitativi e
quantitativi dei servizi, prevedendo sistemi di
indennizzo a favore dell’utente in caso
di
inadempimenti da parte del gestore (art. 11 d.lgs.
30 luglio 1999, n. 286, d.p.c.m. 27 gennaio 1994, art.
2, comma 12, lett. p), e comma 37, l. n. 481/1995). Le
carte dei servizi fanno sorgere in capo al gestore
obblighi unilaterali nei confronti
dell’utente e
vanno a integrare dall’esterno i contratti di utenza.
Se adottati da un
gestore privato hanno natura
negoziale, se adottati da un gestore ente pubblico
hanno
natura provvedimentale o regolamentare.
I rapporti tra il I contratti di utenza
gestore e gli utenti
sono disciplinati su base privatistica per mezzo
di
contratti di utenza stipulati spesso in conformità a
contratti tipo stabiliti dal
regolatore. Le tariffe
applicate agli utenti (e i criteri di aggiornamento)
sono
stabilite nel contratto di servizio e sono
definite in base a parametri di base
stabiliti
dall’autorità di regolazione (art. 2, comma 12, lett.
e), l. n. 481/1995).
4. Le
autorità di regolazione
2.
Passando a considerare il secondo ambito, i
gestori del servizio in concorrenza sono
sottoposti
a una serie di obblighi reciproci, come per
esempio, nel settore della
telefonia mobile,
consentire l’interconnessione della propria rete
con quella di altri
operatori in modo tale che i
clienti di un gestore possano comunicare con i
clienti
degli altri gestori, oppure garantire la
portabilità del numero nel caso in cui il
cliente
voglia cambiare gestore, ecc. Le relazioni tra
gestori in concorrenza sono
rimesse in prima
battuta a strumenti negoziali e, in caso di
impossibilità di un
accordo, a provvedimenti
unilaterali delle autorità di settore.
3.
Quanto al terzo ambito, il rapporto tra gestore
e utenti del servizio è, come si è già
accennato,
disciplinato da un complesso di regole poste dalle
autorità di settore e
dalle carte dei servizi. In caso
372 di violazione, l’utente può
proporre un reclamo
anzitutto al gestore del servizio in base a
procedure da questo
stabilite e, in seconda battuta,
innanzi all’autorità di settore che risolve la
controversia in via stragiudiziale. L’utente ha
anche diritto a ottenere forme di
indennizzo a
carico del gestore in caso di disservizi.
Le principali autorità di
regolazione settoriali
istituite a livello nazionale sono l’Autorità di
regolazione per
energia, reti e ambiente (ARERA),
l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni
(AGCOM), l’Autorità di regolazione dei trasporti
(ART).
Un nucleo minimo di I principi della l. n.
481/1995
disposizioni comuni
alle autorità è
contenuto nella l. n. 481/1995, alle quali si
aggiungono per ciascuna
autorità altre disposizioni
contenute nelle singole leggi istitutive e nella
disciplina
di settore.
a l. n. 481/1995 individua anzitutto, come si è già
L
anticipato,
le finalità della regolazione (art. 1):
promozione della concorrenza e dell’efficienza
nei
settori dei servizi di pubblica utilità;
raggiungimento di livelli di qualità in
condizioni di
economicità e di redditività; fruibilità e diffusione
dei servizi in modo
omogeneo sull’intero territorio
nazionale; definizione di un sistema tariffario
certo,
trasparente e basato su criteri predefiniti,
armonizzando gli obiettivi
economico-finanziari
dei gestori con gli obiettivi generali di carattere
sociale, di
tutela ambientale e di uso efficiente
delle risorse; promozione della tutela degli
interessi degli utenti e dei consumatori.
La l. n. 481/1995 pone inoltre alcune regole volte a
garantire
l’indipendenza delle autorità in linea con
quelle proprie del modello delle autorità
indipendenti già esaminato nel capitolo
precedente: requisiti di competenza e
professionalità per i componenti dell’autorità,
durata dell’incarico di sette anni senza
possibilità
di rinnovo, composizione collegiale dell’organo,
ecc. (art. 2).
La l. n. 481/1995 delinea in termini generali le
funzioni e i
poteri delle autorità, specificati poi
nella disciplina di settore (art. 2, comma 12) quali
in particolare: formulare
osservazioni e proposte al
governo e al parlamento in modo da migliorare
l’assetto della
regolazione (funzione di advocacy);
predisporre e aggiornare gli
schemi delle
concessioni e delle autorizzazioni; controllare le
condizioni e le modalità
di accesso ai servizi resi
agli utenti in modo tale che siano rispettati i
principi
della concorrenza, della trasparenza,
dell’uguaglianza, garantendo anche il rispetto
dell’ambiente, la sicurezza degli impianti e la
salute degli addetti; stabilire e
aggiornare la tariffa
base e gli altri elementi di riferimento per
determinare le
tariffe del servizio applicate agli
utenti; controllare lo svolgimento dei servizi con
poteri di ispezione, di accesso, di acquisizione
della documentazione; emanare direttive
concernenti la produzione e l’erogazione dei
servizi definendo in particolare i livelli
generali e
specifici di qualità; emanare direttive ai gestori in
modo da consentire la
rilevazione nella loro
contabilità dei costi connessi alla fornitura del
servizio
universale; controllare il rispetto da parte
dei gestori della carta dei servizi e la
correttezza
dei loro comportamenti nei confronti degli utenti;
valutare reclami, istanze
e segnalazioni degli utenti
373 e dei consumatori.
1. L’Autorità di regolazione per energia, reti e
ambiente Le principali autorità
di
regolazione
(ARERA),
disciplinata
dalla
l. n. 481/1995 (art. 3), è preposta alla
regolazione
dei settori dell’energia elettrica,
del gas, del servizio idrico e dei rifiuti.
L’Autorità opera in modo integrato con le
corrispondenti autorità europee. In
particolare, per quanto riguarda l’energia, è
membro dell’Agenzia europea per la
cooperazione dei regolatori dell’energia
(ACER) e del Consiglio dei regolatori
europei
dell’energia (CEER).
2. L’Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni,
istituita nel 1997 (legge 31 luglio 1997, n. 249),
è preposta sia al
settore delle comunicazioni
elettroniche (telefonia fissa e mobile,
internet,
ecc.), sia al settore dei media (radio,
televisione, stampa), sia, da ultimo, al
settore
postale. Nel settore dei media l’Autorità opera
anche allo scopo di
garantire il pluralismo
dell’informazione, la tutela dei minori e la
par
condicio nelle campagne elettorali. Sul piano
organizzativo in aggiunta a un organo
collegiale (il consiglio), sono previsti
due
sotto organi (la commissione per le
infrastrutture e la commissione per i
servizi e
i prodotti) con competenze specializzate nei
due ambiti sopra
indicati. A livello europeo
essa agisce in modo coordinato con
l’Organismo dei
regolatori europei delle
comunicazioni elettroniche (BEREC) istituito
nel 2009
con lo scopo di assistere la
Commissione europea nello sviluppo di
questo
mercato e di creare un legame tra
quest’ultima e le autorità nazionali di
regolamentazione (regolamento (CE)
2009/1211).
3. L’Autorità di regolazione dei trasporti
istituita
nel 2012 (art. 36 legge 24 marzo 2012, n. 27) è
preposta ai
settori ferroviario, portuale,
aeroportuale e autostradale. L’Autorità ha in
particolare il potere di stabilire i criteri per la
fissazione delle tariffe,
dei pedaggi e dei
canoni applicati agli utenti, di regolare
l’accesso alle
infrastrutture di rete da parte
dei gestori del servizio in concorrenza, di
definire i diritti degli utenti, di definire gli
schemi dei bandi delle gare per
l’assegnazione
dei servizi di trasporto in esclusiva e delle
relative
convenzioni. Ha inoltre poteri di
intervento in materia di servizio taxi, che
ricade nella competenza primaria dei comuni
e delle regioni, allo scopo di
migliorare la
qualità del servizio anche attraverso la
promozione
dell’incremento del numero delle
licenze rilasciate e una maggior libertà
tariffaria. All’Autorità è attribuito il potere
eccezionale di impugnare innanzi
al giudice
amministrativo i provvedimenti dei comuni
relativi alla disciplina
del servizio taxi. I poteri
dell’Autorità sui concessionari autostradali
sono
stati rafforzati in seguito alla vicenda del
crollo del ponte Morandi di Genova
nel 2018
(d.l. 28 settembre 2018, n. 109, convertito in
legge 16 novembre 2018, n. 130).
5. I
servizi pubblici locali
▶ Il Servizio
sanitario nazionale. Uno dei più
importanti, com’è emerso in particolare
nelle fasi
più acute della pandemia da Covid-19, è il Servizio
sanitario nazionale
istituito in attuazione dell’art.
32 Cost., secondo il quale «la Repubblica tutela la
salute come diritto fondamentale dell’individuo e
interesse della collettività e
garantisce cure
gratuite agli indigenti». L’art. 117, comma 3, devolve
questa materia alla competenza
legislativa
concorrente dello Stato e delle regioni. A livello
europeo, il Trattato sul
funzionamento dell’Unione
europea attribuisce a quest’ultima la competenza a
svolgere
azioni intese a sostenere, coordinare o
completare l’azione degli Stati membri in vari
settori, tra i quali la «tutela e miglioramento della
salute umana» (art. 6, lett. a), TFUE). Prevede
inoltre che nell’attuazione
di tutte le politiche e
attività sia garantito «un livello elevato di
protezione della
salute umana» (art. 168 TFUE).
Almeno fino alla fine del XIX
secolo l’intervento
dei pubblici poteri a difesa della salute pubblica era
mirato
soprattutto a evitare il propagarsi di
malattie epidemiche nell’interesse della
collettività
(segregazione dei contagiati, quarantene, ecc.), più
che a tutelare un
diritto individuale. L’assistenza ai
malati, invece, era rimessa in gran parte a
iniziative
private, soprattutto a istituzioni
religiose. In epoca
crispina, come già accennato, lo Stato italiano
sottopose a
controlli penetranti gli istituti di tipo
ospedaliero e assistenziale trasformati in
Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza
(IPAB , di
cui alla Le IPAB e gli enti
ospedalieri
legge 17 luglio 1890,
n. 6972). Negli anni
Sessanta del
secolo scorso, in occasione di una
riorganizzazione del sistema, furono istituiti gli
enti ospedalieri aventi natura giuridica pubblica e
negli anni Settanta, anche in
seguito all’attuazione
delle regioni, vennero poste le basi del modello
attuale del
Servizio sanitario nazionale (legge 23
dicembre 1978, n. 833).
La legge istitutiva n. 833/1978
trae ispirazione da
una concezione universalistica, ugualitaria e
onnicomprensiva del
servizio sanitario. Il servizio
sanitario nazionale è definito come il «complesso
delle
funzioni, delle strutture, dei servizi e delle
attività destinati alla promozione, al
mantenimento e al recupero della salute fisica e
psichica di tutta la popolazione senza
distinzione
di condizioni individuali o sociali e secondo
modalità che assicurino
l’uguaglianza dei cittadini
nei confronti del servizio» (art. 1, comma 3). L’art.
1 d.lgs. n. 502/1992 lo definisce come il «complesso
delle funzioni e delle attività assistenziali dei
Servizi sanitari regionali».
Le prestazioni offerte dal Servizio
sanitario
nazionale includono sia servizi di tipo erogativo,
come l’assistenza
medico-generica (medicina di
base), l’assistenza specialistica, l’assistenza
376 ospedaliera, l’assistenza farmaceutica, l’assistenza
infermieristica; sia attività amministrative in
materia di igiene, sicurezza sul lavoro
e
ambientale.
Il finanziamento è posto a carico
della collettività
(obblighi contributivi) e della fiscalità generale.
Negli anni più
recenti sono state peraltro
introdotte forme di partecipazione della spesa da
parte dei
singoli utenti (tickets) e forme di
autofinanziamento regionale.
L’organizzazione del servizio dà
origine a
un’amministrazione Il servizio sanitario
come
amministrazione
nazionale composita. nazionale composita
Ad essa
concorrono
infatti lo Stato (in
particolare con il ministero della Salute), al quale
sono riservate competenze programmatorie; le
regioni, che hanno la responsabilità
primaria di
organizzazione del servizio e alle quali sono
attribuite «tutte le funzioni
e i compiti
amministrativi in tema di salute umana e sanità
veterinaria, salvo quelli
espressamente mantenuti
allo Stato» (art. 114, comma 1, d.lgs. n. 112/1998); gli
enti locali, che
hanno un ruolo più limitato. Allo
Stato compete in particolare la definizione dei
livelli essenziali di assistenza (cosiddetti LEA) in
attuazione dell’art. 117, comma 2, lett. m), Cost.
volti a garantire un
minimo di omogeneità su tutto
il territorio nazionale in tre aree fondamentali:
prevenzione collettiva (vaccini, sicurezza
alimentare, ecc.); assistenza distrettuale
tramite
presidi sanitari e sociosanitari diffusi sul territorio;
assistenza ospedaliera
(come definite nel d.p.c.m.
12 gennaio 2017). Le funzioni programmatorie si
concretizzano nell’adozione di un piano sanitario
nazionale, alla cui formazione
partecipano le
regioni, che fa da cornice ai piani sanitari regionali.
Allo Stato
compete anche l’elaborazione di uno
schema generale di riferimento per la redazione
della carta dei servizi sanitari adottata dalle
singole strutture sanitarie e che mira a
garantire i
diritti degli utenti (art. 14 d.lgs. n. 502/1992).
Alle regioni, per le quali il
servizio sanitario
costituisce la principale voce di spesa, spettano le
funzioni
legislative e amministrative in materia di
assistenza sanitaria e ospedaliera. In
particolare, le
regioni determinano l’articolazione del territorio
regionale in unità
sanitarie locali, che
costituiscono la «maglia» organizzativa di base del
sistema a rete
(art. 2 d.lgs. n. 502/1992), ed
esercitano poteri di indirizzo
e di vigilanza su
queste ultime e provvedono al loro finanziamento.
Le unità (o aziende) sanitarie
locali sono definite
come «aziende con Le aziende sanitarie
locali
personalità giuridica
pubblica e autonomia
imprenditoriale» (art. 3, comma
1-bis, d.lgs. n.
502/1992) i cui organi
sono il direttore generale e il
collegio sindacale. Il direttore generale è nominato
dalla regione con una procedura selettiva tra
candidati iscritti in un albo nazionale in
possesso
di requisiti di professionalità ed esperienza
specifici (d.lgs. 4 agosto 2016, n. 171). Il direttore
generale è Il direttore generale
responsabile della
gestione complessiva dell’azienda e, in
particolare,
nomina il direttore amministrativo, il direttore
sanitario e i responsabili
di tutte le strutture
operative. Rispetto al modello organizzativo
previsto in origine
dalla l. n. 833/1978, che affidava
la gestione a un’assemblea
generale (che poteva
coincidere con il consiglio comunale) e a un
comitato di gestione
eletto dall’assemblea generale
(con voto limitato, in modo tale da garantire una
presenza anche alle forze politiche di
opposizione), il modello attuale si ispira a
criteri
377 più prettamente aziendalistici e attenua il legame
con
gli enti locali. L’organizzazione è disciplinata
da un atto aziendale di diritto
privato, approvato
dal direttore generale, che individua le strutture
operative dotate
di autonomia gestionale o
tecnico-professionale.
e aziende sanitarie locali (ASL)
assicurano
L
«l’assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita
e di lavoro,
l’assistenza distrettuale e l’assistenza
ospedaliera» (art. 2, comma
2-sexies, lett. a)).
L’erogazione delle prestazioni
sanitarie,
corrispondenti ai livelli essenziali e uniformi
garantiti dalla regione, è
affidata, oltre che a
presidi gestiti direttamente dalle ASL, anche ad
altre strutture
quali le aziende ospedaliere di
rilievo nazionale e interregionale, le aziende
ospedaliere universitarie e gli istituti di ricovero e
cura a carattere scientifico
(IRCCS) (art. 8-bis).
Le strutture private Le strutture private
accreditate
possono concorrere a
erogare le prestazioni
sanitarie per conto del
servizio pubblico sulla base
di un sistema di autorizzazione, di accreditamento
e di
accordi contrattuali (le cosiddette «tre A»).
È necessaria anzitutto
un’autorizzazione alla
realizzazione delle strutture sanitarie e
sociosanitarie
(ambulatori, ospedali, ecc.) e
all’esercizio delle attività, che ha la funzione di
verifica del possesso di requisiti tecnici minimi. Le
strutture autorizzate interessate
a essere inserite
nel sistema pubblico devono poi ottenere un
accreditamento che la
regione può rilasciare sulla
base di valutazioni discrezionali correlate alla
«funzionalità rispetto agli indirizzi della
programmazione regionale», cioè al
fabbisogno dei
servizi definito in base al piano sanitario regionale
(art.
8-quater). Ove tale fabbisogno, definito dalla
regione sulla
base di criteri generali uniformi
definiti con atto di indirizzo e coordinamento
statale, risulti soddisfatto, la regione può rifiutare
ulteriori accreditamenti. Una
volta ottenuto
l’accreditamento, le strutture definiscono con la
regione accordi
contrattuali che individuano
programmi di attività (tipologie e quantità
massime delle
prestazioni) che esse si impegnano
a erogare per conto del servizio sanitario e che
sono
remunerate a carico di quest’ultimo (secondo
un sistema tariffario definito in base a
criteri
generali stabiliti dal ministero della Salute) (art.
8-
quinquies).
All’esito di questa sequenza
procedimentale
complessa, le strutture private sono inserite nel
Servizio sanitario
regionale e acquistano la
qualifica di gestori del servizio pubblico, sottoposti
alla
vigilanza regionale anche in ordine alla verifica
dell’attività svolta e dei risultati
conseguiti.
Un sistema di accordi con il
servizio sanitario
riguarda anche la rete dei medici di base e le
farmacie.
▶ Il servizio
scolastico. Il servizio scolastico
può essere definito come un servizio
pubblico
sociale a fruizione individuale coattiva e a
erogazione gratuita. Anch’esso dà
origine a
un’organizzazione a rete, alla quale concorrono il
livello amministrativo
statale, regionale e locale,
nonché, in base al principio di sussidiarietà
orizzontale,
istituzioni private.
I principi del servizio scolastico
sono fissati nella
Costituzione che I principi
costituzionali
tutela la libertà di
insegnamento (art.
33, comma 1) e garantisce il diritto all’istruzione
(art. 34, comma 1). Anche la Carta dei diritti
378 fondamentali
UE menziona il diritto all’istruzione
che comporta in
particolare la facoltà di accedere
gratuitamente all’istruzione obbligatoria (art. 14).
’obbligatorietà e la gratuità sono
enunciate, in
L
coerenza con una concezione universalistica del
servizio, dalla
Costituzione per l’istruzione
inferiore (scuola dell’obbligo) che non può avere
una
durata inferiore a otto anni (art. 34, comma 2).
L’istruzione è definita a livello
legislativo sia come
diritto soggettivo riconosciuto a tutti, anche ai
minori stranieri
presenti nel territorio dello Stato,
sia come dovere sociale ai sensi dell’art. 4, comma
2, Cost. (ne costituisce attuazione l’art. 1, comma
5, d.lgs. n. 76/2005). Inoltre, i capaci e
meritevoli,
anche se privi di mezzi, hanno diritto di
raggiungere i gradi più alti degli
studi e a questo
fine deve essere previsto un sistema di borse di
studio, di assegni
alle famiglie e altre provvidenze
(art. 34, commi 3 e 4).
Il servizio scolastico Il servizio scolastico
come
compito
costituisce, per un obbligatorio dello
verso, un compito Stato
obbligatorio per lo
Stato che deve organizzarlo e gestirlo con proprie
strutture istituendo scuole statali
per tutti gli
ordini e gradi (art. 33, comma 2, Cost.). Per altro
verso, il legislatore non
potrebbe, sempre per
vincolo costituzionale, creare un
regime di
monopolio pubblico. Infatti i privati hanno il
diritto di istituire scuole e
istituti di educazione
(senza oneri per lo Stato) e di ottenere un
riconoscimento
statale (art. 33, commi 3 e 4). È
richiesto inoltre un esame di Stato
per
l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole e per la
conclusione di essi, nonché
per l’abilitazione
all’esercizio professionale (art. 33, comma 5).
I n seguito alla legge costituzionale n. 3/2001,
l’istruzione è una materia
attribuita alla
competenza legislativa concorrente dello Stato e
delle regioni, le quali
invece hanno competenza
legislativa piena in materia di formazione
professionale (art. 117, comma 3, Cost.).
Lo Stato ha il compito di
determinare le norme
generali sull’istruzione e sui livelli essenziali delle
prestazioni, nonché di effettuare il monitoraggio e
la valutazione del servizio reso
(tramite il
ministero dell’Istruzione e l’Istituto nazionale di
valutazione). Il
ministero esercita le proprie
funzioni a livello periferico attraverso gli uffici
scolastici regionali. Spetta in particolare al
dirigente di questi ultimi nominare il
dirigente
scolastico della scuola (nel linguaggio corrente, il
preside). Alle regioni
spetta la programmazione
della rete scolastica, inclusa la distribuzione del
personale
tra le scuole, mentre gli enti locali
svolgono attività di supporto alle istituzioni
scolastiche.
Le istituzioni scolastiche
pubbliche, articolate in
cicli di istruzione (scuola primaria, scuola
secondaria di
primo grado e sistema dei licei e
dell’istruzione e formazione professionale), hanno
personalità giuridica e autonomia organizzativa,
didattica e finanziaria (art. 21 l. n. 59/1997).
Ciascuna scuola elabora un piano per
l’offerta
formativa, definito come «documento
fondamentale costitutivo dell’identità
culturale e
progettuale delle istituzioni scolastiche» (art. 3,
comma 1, d.p.r. n. 275/1999), che peraltro, in
pratica, è stato reso omogeneo da una serie di
circolari ministeriali.
Gli organi dell’istituzione
scolastica pubblica sono
il dirigente scolastico, responsabile della gestione
379 manageriale; il collegio dei docenti, composto dai
docenti
della scuola e responsabile del
funzionamento didattico; il consiglio di istituto,
presieduto dal dirigente scolastico e aperto alla
partecipazione di una rappresentanza
di genitori e
di studenti. La scuola, oltre che come ente di
servizi, può essere vista
come una comunità o
formazione sociale, nella quale sono coinvolti i
principali
stakeholders.
Per le scuole private è previsto
un sistema di
riconoscimento, cioè Le scuole private
parificate
di accertamento della
idoneità sulla base di
requisiti di qualità e di efficacia, nonché di
corrispondenza
agli ordinamenti generali
dell’istruzione e di coerenza con la domanda
formativa delle
famiglie (art. 1, comma 2, l. n.
62/2000). Esse sono sottoposte alla
vigilanza
statale allo scopo di verificare la permanenza del
possesso dei requisiti e il
rispetto degli obblighi di
servizio pubblico. Anche le scuole private
parificate possono
rilasciare titoli di studio aventi
valore legale.
La legge 13 luglio 2015, n. 107 ha operato una
riforma del
sistema scolastico nazionale, in
particolare allo scopo di aggiornare il curriculum
scolastico, accrescere l’autonomia delle istituzioni
scolastiche, rafforzare i poteri
del dirigente
scolastico (preside).
▶ I servizi
sociali. I servizi sociali riguardano
«tutte le attività relative alla
predisposizione e alla
erogazione di servizi, gratuiti e a pagamento, o di
prestazioni
economiche destinati a rimuovere e
superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che
la persona umana incontra nel corso della sua vita»
(art. 128 d.lgs. n. 112/1998 richiamato dall’art. 1,
comma 2, legge quadro in materia di servizi sociali
8
novembre 2000, n. 328).
Essi non includono Il sistema
previdenziale
però le prestazioni
garantite dal sistema
previdenziale per
il quale la disposizione
costituzionale di riferimento è l’art. 38, che
prevede il
diritto dei lavoratori a veder assicurati
mezzi adeguati in caso di infortunio,
malattia,
invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria.
Peraltro, l’evoluzione
legislativa ha esteso l’ambito
di applicazione delle provvidenze sociali, secondo
una
concezione universalistica del sistema
integrato di interventi sociali, anche a
categorie
diverse dai lavoratori fino a includere tutti i
cittadini italiani e anche,
sia pur entro certi limiti,
gli stranieri (art. 2 l. n. 328/2000). È peraltro
attribuita una priorità di
accesso ai servizi e alle
provvidenze alle persone in condizioni di povertà o
con
reddito limitato e ai soggetti affetti da inabilità
di ordine fisico e psichico (art. 2, comma 3). Il
sistema della previdenza si fonda su
contribuzioni
obbligatorie richieste ai lavoratori e fa capo
principalmente a enti
pubblici nazionali, come
l’Istituto nazionale della previdenza sociale
(INPS), e alle
casse di previdenza (in particolare,
per i professionisti).
Quanto ai servizi I servizi sociali
sociali, con la riforma
del Titolo V della Costituzione
operata dalla legge
costituzionale n. 3/2001, essi sono attribuiti alla
competenza residuale esclusiva delle regioni,
mentre alla legge statale compete soltanto
la
determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni (art. 117, comma 2, lett. m), Cost.).
Molte regioni si sono
dotate di leggi che
disciplinano la materia in coerenza con le linee
generali poste
dalla l. n. 328/2000, che ormai non
380 può fungere più da legge
quadro.
Il sistema integrato degli
interventi e dei servizi
sociali (assistenza Le funzioni delle
regioni, delle
province
agli anziani,
ai e dei comuni
portatori di handicap,
agli orfani, ai
tossicodipendenti, ecc.) coinvolge tutti i
livelli di
governo locale, in base al principio di sussidiarietà
verticale. In
particolare, le regioni esercitano
funzioni di programmazione, coordinamento e
indirizzo, anche attraverso la predisposizione di
piani, la determinazione degli ambiti
territoriali,
l’individuazione degli strumenti per la gestione dei
servizi, le forme di
integrazione tra servizi sociali e
altri interventi regionali in materia di sanità,
istruzione e lavoro; le province svolgono
principalmente attività di raccolta di dati e
di
analisi dell’offerta dei servizi; i comuni, che hanno
una posizione di centralità in
questa materia, sono
titolari delle funzioni amministrative in materia e
provvedono
all’erogazione dei servizi (artt. 6, 7 e 8
l. n. 328/2000) e su di essi grava anche l’onere
economico.
I servizi sociali sono un settore
nel quale trova
applicazione anche il principio di sussidiarietà
orizzontale. La l. n. 328/2000 lo enuncia
espressamente promuovendo e
valorizzando il più
possibile il cosiddetto Terzo settore con azioni di
sostegno e di
qualificazione da parte degli enti
locali, delle regioni e dello Stato (art. 5).
In concreto, spetta ai comuni
rilasciare
l’autorizzazione e I soggetti privati
accreditati
provvedere
all’accreditamento
dei soggetti privati (art. 11) in modo tale da
garantire che tali soggetti abbiano i
requisiti
strutturali necessari previsti dalla legislazione
regionale e che siano in
grado di erogare le
prestazioni richieste dalla programmazione
regionale (acquisendo
così il titolo a ottenere dai
comuni tariffe correlate alle prestazioni erogate).
Uno
dei requisiti per ottenere l’accreditamento è
l’adozione della carta dei servizi
sociali, sulla base
di uno schema generale di riferimento approvato a
livello statale
(art. 13, comma 3). I comuni
esercitano anche funzioni di
vigilanza sui soggetti
privati autorizzati e accreditati.
ra i soggetti privati che operano
nel settore dei
T
servizi sociali rientrano le Istituzioni pubbliche di
assistenza e
beneficenza (IPAB). Come già
accennato, esse vennero pubblicizzate in epoca
crispina
(legge 17 luglio 1890, n. 6972) in modo tale
da sottoporre a
controlli statali una serie di
istituzioni in origine private, in gran parte di
derivazione religiosa. La pubblicizzazione delle
IPAB è stata poi dichiarata
incostituzionale
(sentenza della Corte costituzionale n. 386/1988).
Le IPAB operanti nel
campo socioassistenziale
sono inserite nella programmazione regionale del
sistema
integrato di interventi e servizi sociali
(d.lgs. 4 maggio 2001, n. 207 emanato in base alla
delega
legislativa contenuta nell’art. 10 l. n.
328/2000).
Di recente il Terzo settore è stato oggetto di una
riforma organica Il Codice del Terzo
settore
accorpata in un
Codice (d.lgs. 3 luglio
2017, n. 117, modificato con d.lgs. 3 agosto 2018, n.
105). Rientrano nel Terzo settore
«le
organizzazioni di volontariato, le associazioni di
promozione sociale, gli enti
filantropici, le imprese
sociali (incluse le cooperative) le associazioni e le
fondazioni» (art. 4). Il Codice contiene un elenco
molto ampio di attività di interesse
generale che gli
enti del Terzo settore possono esercitare, in via
esclusiva o
principale, «per il perseguimento, senza
381 scopo di lucro, di finalità civiche,
solidaristiche e di
utilità sociale» (art. 5). È previsto un
sistema di
iscrizione in un registro unico nazionale presso il
ministero del Lavoro e
delle Politiche sociali
gestito su base territoriale in collaborazione con le
regioni
(artt. 11 e 45). Presso il ministero è istituito
un Consiglio nazionale per il Terzo
settore ad
ampia rappresentatività (art. 59). Per ottenere
l’iscrizione gli enti devono
rispettare una serie di
regole organizzative minime da inserire negli
statuti. Gli enti
del Terzo settore possono
collaborare con le pubbliche amministrazioni
attraverso
convenzioni, anche con un ruolo attivo
di coprogrammazione e coprogettazione (art. 55).
n assetto particolare è previsto per le
U
organizzazioni di volontariato (settore che
mobilita in Italia oltre sei milioni di persone) che
svolgono attività di supporto
tecnico, formativo e
informativo al fine di promuovere il volontariato
(artt. 61 ss.). Esse possono essere accreditate come
centri di
servizio per il volontariato (CSV) su base
territoriale e sono finanziate da un fondo
unico
nazionale (FUN). Esse fanno capo a un organismo
nazionale di controllo, cioè a una
fondazione di
diritto privato costituita dal ministero del Lavoro e
delle Politiche
sociali (artt. 64 ss.), articolata in
uffici territoriali (gli
organismi territoriali di
controllo, OTC) (art. 65). L’organismo nazionale di
controllo
amministra il fondo unico nazionale e
coordina l’intero sistema.
▶ La
protezione civile. Un cenno va dedicato al
Servizio nazionale della
protezione civile
disciplinato dal d.lgs. 2 gennaio 2018, n. 1. La
protezione civile è
costituita dalle «attività volte a
tutelare la vita, l’integrità fisica, i beni, gli
insediamenti, gli animali e l’ambiente dai danni o
dal pericolo di danni derivanti da
eventi calamitosi
di origine naturale o derivanti dall’attività
dell’uomo» (art. 1). A
livello nazionale è istituito il
dipartimento della protezione civile presso la
presidenza del Consiglio dei ministri e del sistema
fanno parte anche i presidenti delle
regioni e i
sindaci. Il dipartimento, che è affiancato da un
comitato operativo
nazionale della protezione
civile, è titolare in particolare di un potere di
emanare
ordinanze contingibili e urgenti per far
fronte alle emergenze. Spetta al Consiglio dei
ministri deliberare lo stato di emergenza di rilievo
nazionale (art. 24). Sono strutture
operative del
servizio, in particolare, il corpo nazionale dei vigili
del fuoco, le
forze armate e di polizia, le strutture
del servizio sanitario nazionale. Fanno parte
del
sistema anche le organizzazioni di volontariato
organizzato, costituite da enti del
Terzo Settore,
iscritte in un elenco nazionale. Quest’ultimo è
articolato in un elenco
nazionale e in elenchi
territoriali (art. 34) e alle organizzazioni di
volontariato
della protezione civile possono essere
erogati contributi finanziari (art.
37).
CAPITOLO 10
Il personale
383
1. Premessa
come si
è visto nel
capitolo VIII può essere definito come un rapporto
giuridico bilaterale
avente per contenuto il
complesso dei diritti e degli obblighi del
dipendente nei
confronti del datore di lavoro, ha
oscillato tra una concezione privatistica e una
pubblicistica.
ino alla fine del XIX secolo la
prima fu di gran
F
lunga prevalente. Il rapporto giuridico con
l’amministrazione di
appartenenza, secondo la
giurisprudenza dell’epoca, aveva «indole civile»,
cioè era
retto tendenzialmente dai principi del
diritto privato (relativi alla locatio
operis). Le
controversie rientravano nell’ambito della
giurisdizione del
giudice ordinario.
La concezione pubblicistica si fece
strada verso la
fine del XIX secolo per una pluralità di ragioni.
In primo luogo, emerse la
consapevolezza che ai
dipendenti pubblici dovessero essere riconosciute
alcune garanzie,
soprattutto allo scopo di arginare
le ingerenze della politica nell’amministrazione e
di
assicurare dunque una maggior imparzialità
dell’attività amministrativa. Inoltre, uno
statuto
speciale dei dipendenti pubblici poteva giustificare
limiti al diritto di
sciopero e alla sindacalizzazione
del settore, nel tentativo di isolare il pubblico
impiego dalle tendenze in atto, soprattutto a
partire dall’inizio del XX secolo, nel
lavoro privato.
384
I nfine, la sottrazione La concezione
pubblicistica
del rapporto di lavoro
alle regole del diritto
comune era anche
coerente con la concezione
panpubblicistica non paritaria dei rapporti tra
Stato e
cittadino che, come si è accennato, si stava
affermando in quegli anni. Poiché i
dipendenti
pubblici sono titolari o partecipano all’esercizio di
funzioni pubbliche,
anche il rapporto di lavoro può
essere attratto nel regime pubblicistico
dell’organizzazione amministrativa. Attraverso il
provvedimento unilaterale di nomina,
il
dipendente pubblico acquista uno status che lo
differenzia da
quello del comune cittadino. L’atto
di accettazione della nomina non instaura però
una
relazione contrattuale con l’amministrazione,
ma vale come riconoscimento del dovere di
prestare il servizio richiesto. Il dipendente
pubblico è sottoposto a un rapporto di
supremazia
speciale rispetto Il rapporto di
supremazia
speciale
all’amministrazione
di
appartenenza
connotato da particolari doveri (fedeltà,
obbedienza, segreto d’ufficio) e
da limiti
all’esercizio di taluni diritti (appartenenza a
organizzazioni politiche e
sindacali, libertà di
espressione, ecc.). Lo stipendio non costituisce un
corrispettivo,
ma un credito di diritto pubblico
assimilabile a una prestazione alimentare (come
tale
anche impignorabile). Regole minuziose
disciplinano lo svolgimento del rapporto
(retribuzione, carriera, sanzioni disciplinari,
cessazione del rapporto, ecc.).
a prima legislazione organica,
improntata alla
L
concezione pubblicistica, risale all’epoca di Giolitti
(Testo unico 22 novembre 1908, n. 693) e fu via via
perfezionata (in particolare la riforma De Stefani
del 1923) fino a trovare una
disciplina più stabile
nel Testo unico approvato con d.p.r. 10 gennaio
1957, n. 3 (Statuto degli
impiegati civili dello Stato)
rimasto in vigore fino agli anni Novanta
del secolo
scorso.
La concezione pubblicistica esclude
che il rapporto
di impiego possa essere disciplinato con strumenti
contrattuali
(contratto collettivo, contratto
individuale). Esso è invece regolato da due tipi di
atti: per gli aspetti generali, da atti normativi (leggi
e regolamenti emanati dalle
singole
amministrazioni); per gli aspetti relativi alla
posizione del singolo
dipendente, da
provvedimenti amministrativi unilaterali incidenti
sia sulla costituzione
del rapporto (selezione
tramite concorso pubblico, atto di nomina), sia
sullo
svolgimento del medesimo (assegnazione a
un particolare ufficio, promozione,
aspettativa,
ecc.). Le controversie nascenti dal rapporto di
impiego sono attribuite
alla cognizione del giudice
amministrativo (a partire dal 1923 come materia di
giurisdizione esclusiva).
Peraltro già negli anni Trenta del
secolo scorso i
dipendenti degli enti pubblici economici vennero
sottratti al regime
pubblicistico in considerazione
della natura essenzialmente imprenditoriale
dell’attività (legge 16 giugno 1938, n. 1303).
La Costituzione riflette in parte
questa
concezione. Essa I principi
costituzionali
stabilisce anzitutto
che i pubblici
impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione
(art. 98, comma 1). Sono cioè investiti di una
funzione
neutrale e non possono essere asserviti
agli interessi della politica. Essi sono visti
come
garanti, oltre che del buon andamento,
385 dell’imparzialità dell’amministrazione (art.
97).
I n funzione di questo obiettivo,
l’accesso ai
pubblici impieghi avviene di regola mediante
concorso (art. 97, comma 3). La Corte
costituzionale ha così dichiarato
incostituzionali
leggi statali e regionali volte a stabilizzare il
personale precario
assunto senza concorso o a
privilegiare le selezioni riservate al personale in
servizio.
Del resto già la Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino del 1789 stabiliva che
il
concorso consente a tutti i cittadini di accedere ai
pubblici uffici «senza altra
distinzione che quella
delle loro virtù e dei propri talenti» e ciò in
contrasto con le
prassi precedenti che riservavano
invece questo tipo di incarichi alla nobiltà.
L’accesso agli uffici pubblici deve
essere garantito
a tutti i cittadini in condizione di uguaglianza (art.
51). I cittadini
titolari di funzioni pubbliche devono
adempierle con disciplina e onore, prestando
anche
giuramento (art. 54, comma 2).
Da queste disposizioni inserite nel
Titolo IV
dedicato ai Rapporti Status di
cittadino e
status di dipendente
politici
emerge anche pubblico
una connessione tra
status di cittadino e
status di dipendente pubblico. Infatti, quest’ultimo
status costituisce una proiezione del primo. Il
cittadino è
titolare di una pretesa a partecipare alla
vita pubblica, su base paritaria e cioè
soltanto in
base al merito, assumendo la veste di componente
di un apparato burocratico
[Giannini 1970a, 293 ss.;
Battini 2000, 350 ss.]. Ciò giustifica di per sé un
regime
giuridico speciale rispetto al rapporto di
lavoro privato.
nche il Trattato sul funzionamento
dell’Unione
A
europea esclude, come si è accennato, gli impieghi
nella pubblica
amministrazione dall’applicazione
del principio della libera circolazione dei lavoratori
all’interno dell’Unione (art. 45, comma 4, TFUE). E
questo proprio perché a coloro che
svolgono
funzioni pubbliche può essere richiesto uno spirito
di identificazione e di
appartenenza nei confronti
dello Stato che solo un cittadino può avere. Si
riconosce
pertanto che gli Stati membri possano
prevedere il requisito della nazionalità per
l’accesso agli impieghi pubblici che «implicano
esercizio diretto o indiretto di poteri
pubblici,
ovvero attengono alla tutela dell’interesse
nazionale» (art. 38 d.lgs. n. 165/2001 che si ispira
agli orientamenti
della Corte di giustizia).
La Costituzione pone peraltro
limiti al rapporto di
supremazia speciale in cui può essere posto il
dipendente
pubblico. Prevede in particolare che
restrizioni al diritto d’iscriversi ai partiti
politici
possano essere introdotte per legge solo per alcune
figure particolari
(magistrati, militari, personale
diplomatico, funzionari e agenti di polizia) (art. 98,
comma 3).
Nel complesso la Costituzione
prefigura un assetto
del pubblico impiego con caratteri di specialità
rispetto
all’impiego privato, ma non impone uno
statuto integralmente pubblicistico. Essa
consente,
cioè, come ha chiarito la Corte costituzionale, un
dosaggio equilibrato di
fonti regolatrici
pubblicistiche unilaterali e di fonti contrattuali (C.
cost. 25 luglio
1996, n. 313 e 16 ottobre 1997, n.
309).
In epoca successiva alla
Costituzione, la
concezione pubblicistica, recepita nel Testo unico
del 1957 già citato, entrò in crisi per almeno
due
ragioni: il riconoscimento pieno dei diritti
sindacali e l’introduzione di
meccanismi di
contrattazione collettiva; l’esigenza di promuovere
386 flessibilità
ed efficienza nella gestione degli
apparati amministrativi in
coerenza con una
visione aziendalistica della pubblica
amministrazione.
Già sul finire degli anni Sessanta
del secolo scorso
la contrattazione La contrattazione
collettiva
collettiva venne
ammessa
per gli enti
ospedalieri. La cosiddetta legge quadro sul
pubblico impiego (legge 29 marzo 1983, n. 93)
prefigurò poi il primo modello
generale di
contrattazione collettiva. Esso cercava di
conciliare il momento
privatistico della
negoziazione del contenuto dell’accordo tra le
rappresentanze
sindacali e le amministrazioni con
il momento pubblicistico del recepimento formale
dell’accordo in fonti normative unilaterali
(regolamenti). Si trattava dunque di un
modello
ibrido che coniugava la paritarietà e consensualità
sostanziale dell’accordo con
l’unilateralità e con
l’autoritarietà della sua trasposizione in norme e
atti
amministrativi vincolanti. Nel 1988, il
cosiddetto Rapporto Giannini sui principali
problemi dell’amministrazione pubblica
avanzava,
tra le altre, la proposta di ricondurre al regime
privatistico la disciplina
del rapporto di impiego
nelle pubbliche amministrazioni.
ll’inizio degli anni
A La privatizzazione
dell’impiego
pubblico
Novanta del secolo
scorso venne avviato
il processo
di riforma legislativa che portò
all’assetto normativo attuale recepito nel d.lgs. 30
marzo 2001, n. 165. La riforma si ispirava alla
concezione privatistica e si inseriva all’interno di
un disegno più ampio di riassetto
della pubblica
amministrazione volto ad accrescerne l’efficienza e
a contenere la spesa
pubblica.
Il processo in questione si è
articolato in due fasi.
La prima si aprì con il d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29
che operò una privatizzazione
del rapporto di
impiego dei dipendenti pubblici, escludendo però
alcune categorie di
essi tra le quali i dirigenti
generali. La fase successiva, definita di «seconda
privatizzazione» [D’Antona 1998, 35] incluse nel
regime privatistico anche questi ultimi
(d.lgs. 31
marzo 1998, n. 80). Le disposizioni legislative
vennero poi riordinate nel d.lgs. n. 165/2001.
Successivamente, il d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150,
come si dirà, introdusse
numerose modifiche al
d.lgs. n. 165/2001 nel tentativo di stimolare,
attraverso un
sistema di incentivi e di sanzioni,
una maggiore produttività ed efficienza nel
pubblico
impiego.
2. Le fonti
di disciplina del
rapporto di lavoro
Il campo di applicazione delle
norme generali
sull’impiego pubblico privatizzato, che valgono
oggi per la maggior parte
dei dipendenti delle
pubbliche amministrazioni, è definito nell’art. 1 del
d.lgs. n. 165/2001 che, come si è già visto,
individua
un elenco di amministrazioni pubbliche (Stato,
enti territoriali, camere di
commercio, industria,
artigianato e agricoltura, aziende ed enti del
Servizio sanitario
nazionale, enti pubblici non
economici, ecc.) i cui dipendenti ricadono nel
regime
privatistico (art. 2, comma 2).
In via di deroga, alcune categorie
di personale
restano sottoposte al Le categorie di
dipendenti non
regime di diritto privatizzati
pubblico (circa
630.000 dipendenti).
Esse sono il personale militare e delle forze di
polizia, i magistrati, gli avvocati dello Stato, il
personale della carriera
prefettizia, il personale
387 diplomatico, il personale delle
autorità
indipendenti, i professori universitari, i vigili del
fuoco, le guardie
penitenziarie (art. 3). Per queste
categorie continuano a essere applicate le regole
pubblicistiche stabilite nei rispettivi ordinamenti.
Per alcune di esse (per esempio i
magistrati che
godono di garanzie rafforzate di stabilità del
rapporto e di
inamovibilità) il regime è
integralmente pubblicistico; per altre alcuni
aspetti del
rapporto sono disciplinati da accordi
collettivi (per esempio il personale diplomatico e
prefettizio) o sono previste procedure di
concertazione con rappresentanze del personale
(personale militare). Per entrambe le categorie,
sotto il profilo formale, la disciplina
viene adottata
con provvedimenti unilaterali (decreti del
presidente della Repubblica).
In coerenza con la
natura pubblicistica del rapporto, tutte le
controversie, incluse
quelle meramente
patrimoniali, sono attribuite alla giurisdizione
esclusiva del giudice
amministrativo (art. 63,
comma 4).
Per il personale ricadente nel
regime privatistico il
sistema delle fonti dà La specialità del
regime
privatistico
origine, in
realtà, a un
«diritto privato
differenziato» [D’Auria 2010, 6]. Infatti, il rapporto
di
lavoro è disciplinato dalle disposizioni del
codice civile e dalla legge sui rapporti di
lavoro
subordinato dell’impresa, «fatte salve le
disposizioni contenute nel presente
decreto, che
costituiscono disposizioni a carattere imperativo»
(art. 2, comma 2). Poiché il d.lgs. n. 165/2001
contiene molte disposizioni derogatorie
rispetto a
quelle del diritto comune, il rapporto di lavoro dei
dipendenti pubblici si
connota per molteplici
profili di specialità che si è andata accentuando nel
corso degli
anni (in particolare con il d.lgs. n.
150/2009).
no degli esempi più
U Esempi di specialità
significativi di
specialità è costituito dalla regola secondo la
quale
l’esercizio di fatto di mansioni superiori alla
qualifica di appartenenza non dà
diritto, come
accade invece in ambito privatistico,
all’inquadramento del lavoratore
nella qualifica
superiore (art. 52, comma 1, che deroga
implicitamente all’art. 2103 cod. civ.). Si tratta di
una disposizione
giustificata dall’esigenza di
salvaguardare il principio del concorso pubblico
che vale
anche per la progressione nelle qualifiche.
Il medesimo principio giustifica anche
un’altra
deroga e cioè l’inapplicabilità del principio della
conversione automatica dei
rapporti di lavoro a
termine costituiti in modo illegittimo in rapporti a
tempo
indeterminato (art. 36, comma 5).
I l carattere imperativo delle
disposizioni speciali,
ribadito più volte dal d.lgs. n. 165/2001 (per
esempio dall’art. 55 in materia di
sanzioni
disciplinari, come sostituito dal d.lgs. n. 150/2009),
fa sì che esse non possano essere
derogate in sede
di contrattazione collettiva. Ove ciò si verifichi le
clausole
contrattuali sono sostituite di diritto da
quelle legislative (ex
art. 1339 cod. civ.) oppure
sono nulle
(ex
art. 1419, comma 2, cod. civ.,
richiamati in termini
generali dall’art. 2, comma 3-
bis, del d.lgs. n. 150/2009).
In aggiunta alle disposizioni
legislative generali e
speciali di rango primario, il rapporto di lavoro dei
dipendenti
pubblici è regolato dai contratti
collettivi e dai contratti individuali (art. 2, comma
3).
La contrattazione I contratti collettivi e
individuali
collettiva «determina
i diritti e gli obblighi
direttamente pertinenti
al rapporto di lavoro,
nonché le materie relative alle relazioni sindacali»
(art. 40, comma 1).
I contratti individuali, che
instaurano il rapporto
di lavoro tra dipendente e amministrazione di
388 regola all’esito di
un concorso pubblico, devono
garantire la parità di
trattamento, in particolare
per quanto riguarda gli aspetti retributivi previsti
nei
contratti collettivi (art. 2, comma 3, che
richiama l’art. 45, comma 2). In virtù di questa
previsione i contratti
collettivi assumono
un’efficacia sostanzialmente erga omnes, cioè
anche
nei confronti dei dipendenti non iscritti ai
sindacati che hanno sottoscritto il
contratto
collettivo.
In tema di contrattazione
collettiva occorre
approfondire due temi: l’ambito in cui essa opera;
le modalità
organizzative e procedurali.
L’ambito della
contrattazione
1.
Quanto al primo
collettiva
tema, la
contrattazione
collettiva è
ammessa entro uno spazio delimitato
in modo rigoroso dal d.lgs. n. 165/2001 il quale, in
seguito alle modifiche
introdotte con il d.lgs. n.
150/2009, ha operato una significativa
rilegificazione della materia (per esempio in
materia di sanzioni disciplinari). In
particolare,
sono escluse da essa le materie attinenti
all’organizzazione degli uffici
che sono disciplinate
da ciascuna amministrazione, secondo i principi
generali stabiliti
dalla legge, con atti organizzativi
di tipo pubblicistico (regolamenti, atti
amministrativi) (artt. 2, comma 1, e 40, comma 1).
Sono inoltre escluse le
materie afferenti alle
prerogative dei dirigenti degli uffici i quali sono
preposti
all’organizzazione dei medesimi e alla
gestione dei rapporti di lavoro «con la capacità
e i
poteri del privato datore di lavoro» (art. 5, comma
2, al quale rinvia l’art. 40, comma 1). In pratica, la
contrattazione collettiva
non può limitare il
potere manageriale della dirigenza, ma può
soltanto prevedere, come
accade anche nel settore
privato, che alcune decisioni siano assunte previa
informazione
o esame congiunto con le
organizzazioni sindacali (artt. 5, comma 2, e 9).
Sono escluse anche le materie
relative al
conferimento e alla revoca degli incarichi
dirigenziali, alla determinazione
dei ruoli e
dotazioni organiche, ai procedimenti di selezione
per l’accesso al lavoro,
alle incompatibilità, ecc.
(art. 40, comma 1, e disposizioni da esso
richiamate). Anche
in materia di sanzioni
disciplinari, la contrattazione collettiva incontra
limiti nelle
disposizioni analitiche contenute nel
d.lgs. n. 165/2001 come modificato dal d.lgs. n.
150/2009 (art. 40, comma 1).
omplessivamente, la tendenza
legislativa recente
C
è dunque nella direzione di ridurre gli spazi della
contrattazione
collettiva. Ciò in seguito a un
ripensamento dovuto anche all’esperienza non
positiva di
quest’ultima in relazione agli obiettivi
di garantire maggior efficienza, flessibilità e
valorizzazione del merito.
2.
Passando a considerare le modalità
organizzative e procedurali, rilevano soprattutto
due
aspetti: i livelli della contrattazione collettiva;
i soggetti della contrattazione.
2a) Quanto al
primo aspetto la legislazione
vigente delinea un sistema a cascata flessibile, in
quanto
spetta alla contrattazione collettiva
disciplinare, come accade nel settore privato, «la
struttura contrattuale, i rapporti tra i diversi livelli
e la durata dei contratti
collettivi nazionali e
integrativi» (art. 40, comma 3).
Più in particolare, il d.lgs. n. 165/2001 prevede tre
livelli di I livelli della
contrattazione
contrattazione. Il collettiva
primo livello serve a
individuare i
comparti (non più di quattro, ai quali
corrispondono anche non più di quattro aree
389 separate per la dirigenza) che includono categorie
di personale
dipendente da amministrazioni
tendenzialmente omogenee (per esempio, il
comparto degli
enti locali) (art. 40, comma 2).
All’interno di ciascun comparto possono
essere
costituite sezioni contrattuali per specifiche
professionalità.
valle degli accordi sui comparti
opera il secondo
A
livello costituito, per ciascun comparto, dai
contratti collettivi
nazionali. Essi, oltre a
disciplinare gli aspetti economici e giuridici
fondamentali del
rapporto di lavoro, determinano
le materie, i vincoli, i limiti finanziari e le
procedure relative ai contratti collettivi decentrati.
A valle dei contratti collettivi
nazionali si
collocano i contratti collettivi integrativi che
riguardano il personale di
una singola
amministrazione (art. 40, comma 3-bis). Essi
hanno lo
scopo di assicurare livelli adeguati di
efficienza e produttività e di valorizzazione,
sotto
il profilo del trattamento economico accessorio,
della performance individuale.
Nell’ipotesi in cui
non sia raggiunto l’accordo sul contratto collettivo
integrativo
l’amministrazione può provvedere
unilateralmente, in via provvisoria fino alla stipula
del medesimo, in ordine alle materie oggetto del
mancato accordo (art. 40, comma 3-ter, introdotto
dal
d.lgs. n. 150/2009). In questo modo viene
recuperato, in
ultima istanza, un momento di
unilateralità nella disciplina.
L’Agenzia per la
rappresentanza
2b) Quanto
ai
negoziale delle
soggetti della pubbliche
contrattazione amministrazioni
collettiva, per la
parte
pubblica, è stato istituito un organismo tecnico,
cioè l’Agenzia per la
rappresentanza negoziale
delle pubbliche amministrazioni (ARAN). Essa ha
la rappresentanza negoziale di queste ultime in
sede di
negoziazione dei contratti collettivi
nazionali (art. 46, comma 1) e può assistere le
singole amministrazioni
in sede di contrattazione
integrativa (comma 2). L’Agenzia ha personalità
giuridica di
diritto pubblico. Ha come organi un
presidente e un collegio di indirizzo e controllo
costituito da quattro esperti in materia di relazioni
sindacali designati in modo tale
che in esso siano
rappresentate le amministrazioni statali, le regioni
e gli enti locali
(commi 7 e 10). L’ARAN negozia
con le
rappresentanze sindacali nel rispetto degli
indirizzi impartiti da tre comitati di
settore. Questi
sono costituiti con riferimento al comparto del
personale regionale,
degli enti locali e delle
amministrazioni statali, rispettivamente
nell’ambito della
Conferenza delle regioni e delle
province autonome, delle associazioni degli enti
locali
(Associazione nazionale dei comuni italiani,
Unione delle province d’Italia,
Unioncamere),
delle amministrazioni statali (tramite il ministro
per la Pubblica
amministrazione di concerto con il
ministro dell’Economia e delle Finanze e, di volta
in
volta, con il parere di altri ministeri) (art. 41).
I n sede di contrattazione,
l’ARAN deve
rispettare
il vincolo delle L’ARAN
risorse finanziarie
stanziate per il rinnovo dei contratti
nell’ambito
dei procedimenti di programmazione della spesa
pubblica. I contratti
stipulati sono corredati da
prospetti contenenti la quantificazione degli oneri
e
l’indicazione della copertura complessiva per
l’intero periodo di validità contrattuale
(art. 48).
L’ARAN sottopone l’ipotesi di accordo
al parere dei
comitati di settore e al governo (art. 47, comma 4).
Una volta acquisito il parere,
l’ARAN trasmette la
390 quantificazione dei costi
contrattuali alla Corte
dei conti ai fini della certificazione
di
compatibilità con gli strumenti di programmazione
e di bilancio e procede alla
sottoscrizione
definitiva del contratto collettivo solo se la
certificazione è positiva
(comma 5). Un sistema di
controllo sulla compatibilità dei costi è previsto
anche per la
contrattazione integrativa (art. 40-
bis).
ella prassi l’ARAN non ha potuto svolgere un
N
ruolo di negoziatore
«forte» analogo a quello delle
rappresentanze dei datori di lavoro privati e ciò
per
almeno due ragioni: la contrattazione è in
qualche modo falsata dal fatto che le
controparti
sindacali sono a conoscenza dell’ammontare
massimo delle risorse finanziarie
messe a
disposizione; l’ARAN è stata talvolta
scavalcata da
accordi informali raggiunti in sede di
concertazione politico-sindacale a
livello
governativo che essa si è limitata poco più che a
ratificare.
La controparte Le controparti
sindacali
dell’ARAN in sede di
contrattazione
collettiva è costituita dalle organizzazioni sindacali
dei dipendenti pubblici.
uelle ammesse alla negoziazione
sono
Q
individuate in base a un criterio di
rappresentatività che per ciascuna
organizzazione
non deve essere inferiore al 5%. Questa
percentuale si computa in base
alla media tra il
dato associativo (cioè al numero delle deleghe dei
dipendenti per il
versamento dei contributi
sindacali) e il dato elettorale (cioè alle percentuali
ottenute nelle elezioni delle rappresentanze
sindacali) (art. 43). A fini di certezza e
obiettività, è
previsto un sistema di rilevazione e di
certificazione dei dati relativi
alle deleghe e ai voti
che fa capo all’ARAN e che
vede coinvolto un
comitato paritetico al quale partecipano le stesse
organizzazioni
sindacali (commi 7 ss.).
L’ARAN può sottoscrivere i contratti collettivi solo
se le organizzazioni
sindacali che aderiscono
all’ipotesi di accordo rappresentano nel loro
complesso almeno
il 51%, come media tra il dato
associativo e il dato elettorale nel comparto, o
almeno
il 60% del dato elettorale (comma 3).
Queste soglie si giustificano anche
per il fatto che,
come si è accennato, i contratti collettivi nel
pubblico impiego hanno
efficacia erga omnes
indiretta poiché le amministrazioni sono
tenute a
garantire ai propri dipendenti la parità di
trattamento contrattuale (art. 45, comma 2).
3. La
costituzione e lo
svolgimento del rapporto di
lavoro
I procedimenti di selezione e di
avviamento al
lavoro nelle pubbliche amministrazioni
propedeutici alla costituzione del
rapporto sono
regolati esclusivamente dalla legge o con altri atti
normativi o
amministrativi (art. 2, comma 1, lett.
c), n. 4, legge 23 ottobre 1992, n.
421).
In particolare, il concorso
pubblico costituisce,
come si è Il concorso pubblico
sottolineato più
volte,
la regola generale (art. 97, comma 3, Cost.)
volta a favorire il merito e a
contrastare il political
patronage, cioè il reclutamento secondo
criteri di
affiliazione politica e partitica.
Il reclutamento del personale
tramite procedure
selettive che rispettino i principi di pubblicità,
391 trasparenza,
oggettività, pari opportunità è
obbligatorio per tutte le
amministrazioni
pubbliche e per tutto il personale (art. 35, comma
1, lett. a), d.lgs. n. 165/2001). Le sole
eccezioni
riguardano il personale con le qualifiche più basse
(cioè quelle per le quali
è richiesto solo il requisito
della scuola dell’obbligo) che può essere acquisito
mediante l’avviamento degli iscritti nelle liste di
collocamento (art. 35, comma 1, lett. b)) e le
assunzioni obbligatorie
degli invalidi che avviene
per chiamata numerica degli iscritti nelle apposite
liste
(art. 35, comma 2).
Il concorso pubblico costituisce la
regola generale
anche per l’accesso Il corso-concorso per
l’accesso
alla dirigenza
alla qualifica di
dirigente di prima e
di seconda fascia (artt. 28 e 28-bis). Per la
selezione
dei dirigenti di seconda fascia (cioè di livello meno
elevato) in alternativa
al concorso è previsto il
corso-concorso selettivo di formazione bandito
dalla Scuola
superiore della pubblica
amministrazione. Quest’ultimo ha una durata di
dodici mesi, dà
diritto a una borsa di studio, si
conclude con un esame ed è seguito da un
semestre di
applicazione presso amministrazioni
pubbliche o private al termine del quale i candidati
sono sottoposti a un esame-concorso finale (art.
28, comma 4). Gli incarichi di dirigente di prima
fascia che richiedano una specifica esperienza e
una peculiare professionalità possono
essere
attribuiti per una quota non superiore alla metà
dei posti messi a concorso con
contratti a termine
di diritto privato di durata non superiore a tre
anni, sempre
all’esito di una procedura
concorsuale (art. 28-bis).
a legge anticorruzione annovera i
concorsi e le
L
prove selettive tra i settori a maggior rischio e
richiede misure
specifiche di monitoraggio.
Le fasi del Le fasi del
procedimento
procedimento concorsuale
concorsuale sono
quattro: l’avvio della
procedura; l’ammissione
delle domande di
partecipazione; la fase istruttoria-valutativa; la
fase decisionale. A
valle del procedimento vi è
l’assunzione in servizio.
1.
L’avvio della procedura è deliberato
dall’amministrazione che indice il concorso in base
a una programmazione triennale (art. 35, comma
4) di copertura dei posti previsti dalle
piante
organiche determinate da ciascuna
amministrazione in relazione ai fabbisogni
(art. 2,
comma 1, d.lgs. n. 165/2001).
Il bando di concorso contiene una
serie di
prescrizioni aventi per oggetto i requisiti per la
partecipazione, il termine e
le modalità di
presentazione delle domande, la tipologia delle
prove scritte, orali ed
eventualmente pratiche, il
calendario delle prove, il punteggio minimo per
l’ammissione
alle prove orali, i titoli di studio e
professionali che danno diritto a un punteggio o
alla precedenza o preferenza in caso di parità di
punteggio ove si tratti di un concorso
per titoli ed
esami (art. 3 d.p.r. n. 487/1994 citato). Il bando è
pubblicato di
regola nella Gazzetta Ufficiale e con
altre modalità atte a garantirne la massima
diffusione. Esso costituisce la lex specialis della
procedura, che
vincola l’amministrazione nelle fasi
di svolgimento delle prove e della valutazione e la
cui violazione rende illegittimi gli atti adottati.
2.
Le domande di partecipazione, redatte in carta
semplice, di frequente sulla base di
moduli allegati
392 al bando, devono essere inviate o presentate
entro
30 giorni dalla pubblicazione del bando (art. 4),
ormai anche in via
esclusivamente telematica. Le
domande vengono esaminate dall’amministrazione
che ha
indetto il concorso allo scopo di valutarne
l’ammissibilità in relazione ai requisiti
generali e
speciali richiesti dalla normativa e dal bando (per
esempio, i titoli di
studio, i requisiti di età, ecc.).
La mancata ammissione alla procedura
concorsuale
costituisce provvedimento
impugnabile innanzi al giudice amministrativo.
Ove venga
accolta la domanda cautelare, il
candidato escluso viene ammesso alle prove con
riserva.
3.
Allo scopo di garantire imparzialità e
competenza, La commissione
esaminatrice
l’amministrazione
affida la fase
istruttoria-valutativa a una commissione
esaminatrice
composta «da tecnici esperti nelle
materie oggetto del concorso, scelti fra funzionari
delle amministrazioni, docenti ed estranei alle
medesime». Non possono comunque farne
parte
gli organi di direzione politica
dell’amministrazione o chi ricopra cariche
politiche o sindacali (art. 9). La commissione può
essere suddivisa in più
sottocommissioni nel caso
di concorsi con numero elevato di candidati (oltre
i mille).
a commissione è preposta allo
svolgimento delle
L
prove scritte e orali e alla valutazione dei titoli (se
si tratta di
concorso per titoli ed esami). Prima
delle prove essa deve stabilire i criteri e le
modalità
di valutazione al fine di assegnare i punteggi (art.
12), ciò allo scopo di
autovincolare e rendere più
oggettivo possibile il giudizio valutativo. Le prove
si
svolgono con modalità volte a garantirne la
regolarità: segretezza delle tracce
stabilite dalla
commissione per la prova scritta, sorteggio tra le
buste chiuse
contenenti le tre tracce, divieto di
comunicazione tra i candidati, inserimento degli
elaborati in buste chiuse anonime, ecc. (artt. 11-14).
Talvolta, in presenza di un
numero di candidati
molto elevato, la procedura prevede una
preselezione sulla base di
prove a risposte multiple
a correzione automatica.
La commissione dà conto delle
operazioni
compiute in un verbale che riporta in particolare i
giudizi valutativi
(espressi in numeri o in forma
discorsiva). A conclusione delle attività valutative
la
commissione formula una graduatoria di merito
in base ai punteggi ottenuti nelle singole
prove
(art. 15).
aprile 2021, n.
44). Inoltre, per agevolare
l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e
resilienza, il
d.l. 9 giugno 2021, n. 80 ha previsto
modalità particolari di assunzione di personale
dedicato mediante contratti di lavoro a tempo
determinato e con il conferimento di
incarichi di
collaborazione autonoma e ha ampliato la
possibilità di affidare incarichi
dirigenziali a
soggetti esterni all’amministrazione.
Le regole relative allo
svolgimento del rapporto di
lavoro sono dettate in parte da fonti legislative, in
parte
dai contratti collettivi. Un’analisi completa
della disciplina non può essere operata
all’interno
di una trattazione manualistica. Interessa invece
soffermarsi su alcuni
aspetti caratteristici del
regime giuridico dei dipendenti pubblici che, da un
lato, li
sottopone a obblighi speciali, dall’altro,
prevede garanzie aggiuntive rispetto a quelle
dei
lavoratori privati.
Un primo profilo Lo stato giuridico
riguarda l’obbligo di
esclusività che impegna il dipendente pubblico a
dedicare tutte le energie lavorative
all’amministrazione di appartenenza. Secondo il
Testo unico n. 3/1957 l’impiegato «non può
esercitare il commercio, l’industria, né
alcuna
professione o assumere impieghi alle dipendenze
di privati» (art. 60 Testo unico, richiamato dall’art.
53 d.lgs. n. 165/2001). L’obbligo
di esclusività, la cui
inosservanza comporta l’applicazione di sanzioni
disciplinari e
può determinare anche la risoluzione
del rapporto di impiego, si ricollega idealmente al
dovere di fedeltà alla Nazione previsto, come si è
visto, dall’art. 98 Cost. e, più in generale, alla
natura professionale
della burocrazia, secondo la
concezione weberiana.
Il regime delle incompatibilità è
sottratto alla
contrattazione collettiva ed è minuziosamente
disciplinato per legge
(art. 53). La legge
anticorruzione ha previsto per i dipendenti
pubblici che hanno
esercitato poteri
amministrativi o negoziali per conto delle
pubbliche amministrazioni
anche il divieto di
svolgere attività lavorativa o professionale presso i
soggetti
privati destinatari della loro attività per
un periodo di tre anni successivi alla
cessazione
dal servizio (art. 53, comma
16-ter, l. n. 190/2012).
In via di deroga al Il part
time e gli
incarichi retribuiti
principio di
esclusività, per
alcune categorie di dipendenti è
ammesso, entro
certi limiti, il regime part time (docenti
universitari
e delle scuole, medici del Servizio sanitario
nazionale, ecc.). Non
rientrano nel regime
dell’incompatibilità alcune attività retribuite,
come, per esempio,
le collaborazioni a giornali e
394 riviste, la partecipazione a
convegni e seminari, gli
incarichi conferiti dalle
organizzazioni sindacali
(art. 53, comma 6). Ogni incarico retribuito deve
essere
autorizzato dall’amministrazione di
appartenenza anche se conferito da altra pubblica
amministrazione (comma 7). A fini di
monitoraggio, tutti gli incarichi conferiti o
autorizzati da un’amministrazione pubblica
devono essere comunicati annualmente al
ministro
per la Pubblica amministrazione che poi riferisce
al parlamento (commi 12 e 16). In base alla legge
anticorruzione essi
devono essere pubblicati sui
siti delle amministrazioni in tabelle riassuntive
secondo
un formato standard aperto tale da
agevolare la ricerca (art. 1, comma 42, lett. i), l. n.
190/2012).
n altro profilo già richiamato
riguarda le
U
mansioni . Il Le mansioni
prestatore di lavoro
deve essere
adibito alle mansioni per le quali è
stato assunto o a mansioni equivalenti (art. 52,
comma 1). Può essere adibito a mansioni proprie
della qualifica immediatamente superiore solo in
caso di vacanza di posto in organico
(per un
periodo non superiore di regola a sei mesi) e in
caso di sostituzione di altro
dipendente in
aspettativa (comma 2) e gli deve essere
riconosciuto il trattamento
economico
corrispondente (comma 4).
I dipendenti sono inquadrati in
almeno tre aree
funzionali e le progressioni all’interno della stessa
area avvengono
secondo principi di selettività e di
rispetto del principio del merito. La progressione
fra le aree avviene in base a concorsi pubblici e
l’amministrazione può riservare ai
dipendenti già
in servizio un numero di posti non superiori a
quelli messi a concorso
(art. 52, comma 1-bis).
Il trattamento economico è
definito nei contratti
collettivi. Esso si Il trattamento
economico
distingue in
trattamento
fondamentale e accessorio (art. 45, comma 1).
Quest’ultimo viene attribuito in modo non
automatico, ma in base a una valutazione della
performance individuale del dipendente,
alla
performance organizzativa relativa
all’amministrazione nel suo complesso e alle
singole unità organizzative, allo svolgimento di
attività particolarmente disagiate,
pericolose o
dannose per la salute (comma 3). Per premiare il
merito e il miglioramento
delle performance il
contratto collettivo nazionale di lavoro può
prevedere risorse
specifiche e spetta ai dirigenti la
responsabilità di stabilire a chi attribuirle (commi
3-bis e 4).
Sempre al fine di valorizzare il
criterio del merito,
il d.lgs. n. 150/2009 ha introdotto un sistema di
misurazione,
valutazione e trasparenza delle
performance che fa capo a un organismo
indipendente di
valutazione istituito presso
ciascuna pubblica amministrazione e nominato
dall’organo di
indirizzo politico-amministrativo
(art. 14). Inoltre, a livello nazionale, l’Autorità
nazionale anticorruzione (che in seguito al d.l. n.
90/2014 ha preso il posto della Commissione per la
valutazione, la trasparenza e l’integrità delle
amministrazioni pubbliche) esercita
funzioni di
indirizzo e di coordinamento degli organismi
indipendenti e delle altre
agenzie di valutazione
(art. 13).
Nel tentativo di superare la
prassi della
distribuzione «a pioggia» delle risorse economiche,
il d.lgs. n. 150/2009 pone il divieto di distribuire
incentivi
e premi in maniera indifferenziata o sulla
base di automatismi (art. 18, comma 2). Prevede
inoltre un sistema premiale
composto da vari
strumenti: bonus annuali delle eccellenze, il
395 premio annuale per
l’innovazione, progressioni
economiche e di carriera in base ai
risultati
individuali e collettivi rilevati dal sistema di
valutazione, attribuzione di
incarichi e di
responsabilità che favoriscono la crescita
professionale, l’accesso
privilegiato a percorsi di
alta formazione, premi di efficienza (artt. 17 ss.).
Un istituto sottoposto a regole
particolari è la
mobilità individuale La mobilità
e collettiva, che il
d.lgs. n. 150/2009 ha promosso superando le
rigidità che
tradizionalmente hanno reso poco
equilibrata la distribuzione del personale
all’interno
delle amministrazioni. In primo luogo,
per rendere più fluida la mobilità tra i diversi
comparti della contrattazione collettiva, è prevista
l’elaborazione di una tabella di
equiparazione tra i
livelli di inquadramento previsti dai diversi
contratti collettivi
(art. 29-bis
d.lgs. n. 165/2001). In
secondo luogo, le amministrazioni
prima di
procedere all’espletamento di procedure
concorsuali finalizzate alla copertura
di posti
vacanti in organico devono attivare la procedura di
mobilità (art. 30, comma
2-bis). Essa prevede che le
amministrazioni rendano pubbliche
le
disponibilità di posti in organico da ricoprire
fissando i criteri di scelta. I
dipendenti interessati
possono presentare domanda di trasferimento
senza che sia più
richiesto il consenso
dell’amministrazione di appartenenza che in
passato veniva
concesso di rado (art. 30, comma 1).
I contratti collettivi nazionali possono
definire
procedure e criteri attuativi (comma 2) e il
ministro per la Pubblica
amministrazione può
disporre misure per agevolare i processi di
mobilità (comma
1-bis).
La mobilità collettiva in caso di
eccedenze di
personale avviene attraverso un procedimento che
prevede un’informazione
preventiva alle
rappresentanze unitarie del personale e alle
organizzazioni sindacali e
favorisce il reimpiego
presso altre amministrazioni, il ricorso a forme
flessibili di
gestione del tempo di lavoro e ai
contratti di solidarietà (art. 33). Il personale in
eccedenza per il quale non sia possibile un diverso
impiego viene collocato in
disponibilità, cioè in
uno stato in cui resta sospeso il rapporto di lavoro
con
riconoscimento al lavoratore di un’indennità
pari all’80% della retribuzione per la
durata
massima di due anni (comma 8). Il personale in
disponibilità viene iscritto in
elenchi nazionali e
regionali ai fini, per quanto possibile, della
ricollocazione anche
presso altre amministrazioni
che abbiano necessità di altro personale (artt. 34 e
34-bis).
Un aspetto del Le sanzioni
disciplinari
rapporto di lavoro dei
dipendenti pubblici
nel quale emergono forti
profili di specialità è
quello delle sanzioni disciplinari. La disciplina,
come si è
accennato, è stata in gran parte
rilegificata dal d.lgs. n. 150/2009, riducendo gli
spazi della contrattazione
collettiva, nel tentativo
di rendere più effettivo il principio di
responsabilità.
’individuazione della tipologia
delle infrazioni e
L
delle relative sanzioni (censura verbale,
sospensione dal servizio,
licenziamento
disciplinare) è ancora rimessa in via di principio
alla contrattazione
collettiva (art. 55, comma 2).
Tuttavia la legge individua direttamente
molte
fattispecie che fanno sorgere la responsabilità
disciplinare. Così, per esempio,
il dipendente che
non fornisce le informazioni di cui è in possesso,
rilevanti
nell’ambito di un procedimento
disciplinare che riguarda un altro dipendente, può
essere
sospeso dal servizio e privato della
396 retribuzione fino a 15 giorni (art.
55-bis, comma 7).
Altre sanzioni disciplinari specifiche sono state
introdotte nella legge Le fattispecie previste
per
legge
anticorruzione
(l. n.
190/2012). Essa
prevede, in particolare, che la
violazione dei doveri
contenuti nel Codice di comportamento etico dei
dipendenti
pubblici, incluso il dovere di attuare il
piano di prevenzione della corruzione
approvato
dall’amministrazione di appartenenza, è fonte di
responsabilità disciplinare
(art. 54, comma 3, d.lgs.
n. 165/2001 come modificato dalla
l. n. 190/2012).
La medesima legge pone anche un divieto
espresso
di irrogazione di sanzioni disciplinari a carico del
dipendente che segnali al
proprio superiore
condotte illecite di altri dipendenti delle quali sia
venuto a
conoscenza in ragione del rapporto di
lavoro (art. 54-bis
d.lgs. n. 165/2001 che introduce
un sistema di
whistleblowing).
n’altra fattispecie è prevista
dall’art. 55-sexies,
U
secondo il quale è irrogata la sanzione
disciplinare
della sospensione dal servizio da tre giorni a tre
mesi nei confronti del
dipendente il cui
comportamento in violazione di obblighi di
servizio abbia cagionato
danni a terzi e sia stato
fonte di responsabilità civile a carico
dell’amministrazione
di appartenenza. Il
lavoratore che per inefficienza o incompetenza
professionale abbia
causato un danno al normale
funzionamento dell’ufficio è sanzionato
disciplinarmente con
il collocamento in
disponibilità (art. 55-sexies, comma 2).
Molte ipotesi di licenziamento
disciplinare sono
individuate direttamente per legge (art.
55-quater):
falsa attestazione della presenza in servizio o
assenza giustificata da una certificazione medica
falsa (per la quale è prevista la
sospensione
cautelare immediata dal servizio ai sensi del
comma
3-bis aggiunto dal d.lgs. 20 giugno 2016, n.
116); assenza ingiustificata dal
servizio per un
numero di giorni superiore a tre nell’arco di un
biennio o a sette negli
ultimi dieci anni; rifiuto
ingiustificato del trasferimento disposto per
motivate
esigenze di servizio; falsità documentali o
dichiarative commesse ai fini
dell’assunzione o
della progressione di carriera; reiterate condotte
aggressive,
moleste, minacciose, ingiuriose o
comunque lesive della dignità personale altrui;
condanna penale definitiva per la quale è prevista
l’interdizione perpetua dai pubblici
uffici;
valutazione negativa della performance per ciascun
anno dell’ultimo triennio.
Anche il procedimento per
l’irrogazione delle
sanzioni è regolato Il procedimento per
l’irrogazione delle
per legge (art.
55-bis sanzioni
d.lgs. n. 165/2001
inserito dal d.lgs. n.
150/2009). Per le sanzioni di minore gravità come
il rimprovero verbale, il procedimento è avviato dal
dirigente attraverso la
contestazione degli addebiti
formulata entro non oltre 20 giorni. Il
procedimento
prevede una fase di contraddittorio
orale o scritto e si conclude con l’archiviazione o
l’irrogazione della sanzione entro 60 giorni dalla
contestazione (commi 1 e 2). Per le
sanzioni più
gravi, il procedimento è promosso da un ufficio
competente per i
procedimenti disciplinari
istituito da ciascuna amministrazione e il
procedimento
prevede termini più lunghi (comma
4). In caso di avvio di un procedimento penale in
relazione alla stessa condotta è prevista per le
sanzioni più gravi, nei casi di
particolare
complessità degli accertamenti, la sospensione
facoltativa del procedimento
disciplinare fino al
termine di quello penale (art. 55-ter).
I n aggiunta alla responsabilità
disciplinare (e a
quella civile già La responsabilità
amministrativa
esaminata nel
capitolo
VII), i
dipendenti pubblici sono sottoposti anche a un
tipo di responsabilità
sconosciuta nell’ambito del
397 lavoro privato, cioè la
responsabilità per danno
erariale accertata dalla Corte dei
conti (esaminata
nel capitolo VII). Leggi recenti hanno individuato
numerose condotte
specifiche dei dipendenti
pubblici suscettibili di dar origine a questo tipo di
responsabilità. Così, per esempio, risponde per
danno erariale e all’immagine, in
aggiunta alla
responsabilità disciplinare, il responsabile del
piano di prevenzione
della corruzione che non
abbia vigilato sull’osservanza del piano (art. 1,
comma 12, l. n. 190/2012). Quest’ultima legge ha
anche precisato che l’entità del danno
all’immagine derivante dalla commissione di un
reato contro la pubblica amministrazione è
determinata dalla Corte dei conti nella
misura pari
al doppio della somma di danaro o di altra utilità
illecitamente percepita
dal dipendente (art. 1,
comma 1-sexies, legge 14 gennaio 1994, n.
20).
Anche la La responsabilità
penale
responsabilità penale
dei dipendenti
pubblici presenta profili di specialità
rispetto a
quella dei dipendenti privati. Il codice penale,
infatti, individua come si è
accennato nel capitolo
I, una serie di reati cosiddetti propri, riferiti cioè a
coloro
che abbiano la qualifica di pubblico ufficiale
(per esempio, la concussione di cui
all’art. 317 cod.
pen.) o di incaricato di pubblico servizio.
Le controversie La tutela
giurisdizionale
relative ai rapporti di
lavoro dei dipendenti
pubblici che ricadono nel
regime di privatizzazione
sono devolute, come si è accennato, al giudice
ordinario
(art. 63 d.lgs. n. 165/2001). Restano
tuttavia devolute al
giudice amministrativo le
controversie in materia di procedure concorsuali
per
l’assunzione dei dipendenti pubblici (comma
4) perché esse involgono esclusivamente
situazioni
giuridiche qualificabili come interessi legittimi. Il
giudice ordinario può
emanare tutti i tipi di
sentenze di accertamento, costitutive e di
condanna previste in
sede civile per la tutela dei
diritti soggettivi tutelati (comma 2). Emerge qui
un
profilo di specialità del regime poiché, in caso
di licenziamento illegittimo, il
giudice può
reintegrare il dipendente nel posto di lavoro: è la
cosiddetta tutela reale.
Quest’ultima è ora limitata
a pochi casi nel settore del lavoro privato nel
quale, in
seguito alla cosiddetta riforma Fornero
(legge 28 giugno 2012, n. 92) e al cosiddetto Jobs
Act
(d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23) prevale ormai il
modello della
tutela meramente risarcitoria.
4. La
dirigenza pubblica
I beni
405
1. La
disciplina pubblicistica
dei beni
Per svolgere le loro attività, le
organizzazioni
hanno necessità, oltre che di personale, di beni
strumentali. Del resto,
in ambito privatistico,
l’azienda è un «complesso di beni organizzati
dall’imprenditore
per l’esercizio dell’impresa» (art.
2555 cod. civ.). Anche le pubbliche
amministrazioni, per
realizzare i propri scopi,
devono procurarsi beni immobili (da adibire a
uffici) e beni
mobili (arredi, strumenti informatici,
ecc.). Si tratta di beni che esse possono
possedere
a titolo di proprietà privata o ad altro titolo
civilistico (per esempio, un
contratto di locazione
o di leasing) e che devono acquisire, in molti casi,
seguendo le
procedure a evidenza pubblica
analizzate nel capitolo XII.
In aggiunta le pubbliche
amministrazioni, a
differenza dei privati, sono titolari e gestiscono
alcuni tipi di beni, non già
per necessità funzionali
proprie, bensì per metterli a disposizione della
collettività.
Si pensi alle strade, ai musei, al lido del
mare, alle foreste.
In linea di principio, non sembra
sussistere una
ragione per così dire ontologica perché per i beni
della pubblica
amministrazione debba valere un
regime diverso da quello del diritto comune. In
effetti,
come si vedrà di seguito, alcuni beni ad essa
appartenenti sono pubblici solo in senso
soggettivo perché il regime del bene è
integralmente privatistico (i cosiddetti beni
patrimoniali disponibili).
Il regime speciale dei beni pubblici trova un
fondamento, più che nella
Costituzione, nel
codice civile (artt. 822 ss.). Peraltro, già il diritto
romano conosceva la
distinzione tra res in
commercio e res extra
commercio tra le quali si
annoveravano le res
publicae, destinate all’uso della
generalità dei cittadini.
La Costituzione stabilisce in primo luogo che «la
proprietà è pubblica Il regime speciale dei
beni
pubblici
o privata» (art. 42,
comma 1). Questa
disposizione viene usualmente
intesa nel
senso di
giustificare (o, secondo alcuni, addirittura
richiedere) un regime speciale per
la prima. In
secondo luogo, precisa che «i beni economici
appartengono allo Stato, ad
enti o a privati»
406 (comma 1, secondo periodo), con ciò
legittimando
lo Stato e le pubbliche amministrazioni ad
assumere la veste di proprietari
(e gestori) dei
medesimi, al pari dei privati, senza alcun limite
particolare.
A livello europeo, il Trattato sul
funzionamento
dell’Unione europea (art. 345), come si è visto,
mantiene un atteggiamento
di neutralità in tema di
proprietà privata.
Il codice civile dedica il Capo II del Titolo I del
Libro III ai beni
appartenenti allo Stato, agli enti
pubblici e agli enti ecclesiastici (artt. 822 ss.).
Esso, come si vedrà meglio più avanti, pone la
distinzione tra beni demaniali, disciplinati
esclusivamente da regole pubblicistiche, e
beni
patrimoniali (disponibili e indisponibili). Questi
ultimi in base al principio di
specialità sono
sottoposti «alle regole particolari che li
concernono e, in quanto non
diversamente
disposto, alle regole del presente codice» (art. 828,
comma 1). Nell’individuare i beni che ricadono
nelle
due categorie, il codice segue un criterio
formale (inclusione in elenchi), più che
sostanziale, legato cioè alle caratteristiche
intrinseche dei beni.
Anche i beni privati Il regime pubblicistico
dei beni
privati
peraltro possono
essere oggetto, per
profili particolari, di un regime pubblicistico. La
proprietà
privata, pur essendo «riconosciuta e
garantita dalla legge», può essere infatti
conformata dal potere pubblico «allo scopo di
assicurarne la funzione sociale e di
renderla
accessibile a tutti» (art. 42, comma 2). La Carta dei
diritti fondamentali
dell’Unione europea
garantisce il diritto di proprietà, ma prevede allo
stesso tempo che
«l’uso dei beni può essere
regolato dalla legge nei limiti imposti dall’interesse
generale» (art. 17).
I l codice civile contiene varie
disposizioni che
conformano la proprietà privata a scopi di
interesse pubblico. Così,
per esempio, la proprietà
fondiaria «è soggetta a regole particolari per il
conseguimento di scopi di pubblico interesse nei
casi previsti dalle leggi speciali e
dalle disposizioni
contenute nelle seguenti sezioni» (art. 845). Il
codice disciplina
anche i consorzi obbligatori che
raggruppano i terreni contigui inferiori alla minima
utilità colturale (art. 850) o i vincoli idrogeologici
che vengono apposti dall’autorità
amministrativa
al fine di evitare «che possano con danno pubblico
subire denudazioni,
perdere la stabilità o turbare il
regime delle acque» (art. 866). Le servitù coattive
includono anche quelle costituite «con atto
dell’autorità amministrativa nei casi
specialmente
determinati dalla legge» (art. 1032). Molte leggi
amministrative
settoriali, come si vedrà nel
prossimo
paragrafo, introducono limiti al diritto di
proprietà allo scopo di tutelare
interessi pubblici.
Dalle considerazioni s in qui svolte, emerge che
anche rispetto ai beni Stato proprietario e
Stato
regolatore dei
i pubblici
poteri beni
possono assumere
una duplice veste di
Stato proprietario (e gestore) e di
Stato
regolatore. La prima si riferisce ai beni dei quali le
amministrazioni
hanno la titolarità sulla base delle
norme di diritto pubblico (beni demaniali) e del
diritto privato (beni patrimoniali). La seconda si
riferisce invece ai poteri di
conformazione del
diritto di proprietà dei privati che sono attribuiti
dalla legge a
varie pubbliche amministrazioni al
fine di tutelare interessi pubblici.
La disciplina pubblicistica dei beni
si connota oggi,
come si vedrà, per due elementi: la varietà di
407 regimi, in parte
privatistici e in parte pubblicistici;
un maggior rilievo
attribuito, più che all’aspetto
soggettivo della proprietà pubblica o privata,
all’aspetto oggettivo della loro inerenza, più o
meno intensa, all’interesse pubblico.
Anche in questo campo, per effetto
dei processi di
privatizzazione e alienazione del patrimonio
pubblico avviati negli
ultimi anni, lo Stato ha
dismesso in parte la veste di Stato proprietario,
ancora in
primo piano nella disciplina codicistica, a
favore di quella di Stato regolatore. In
quest’ultima
veste lo Stato, nel porre una disciplina dei beni,
finisce talvolta per
regolare anche indirettamente
l’attività di chi li utilizza a fini privati (residenza in
un palazzo storico soggetto a diritti di visita a
favore della collettività) o per
l’esercizio di
un’attività di impresa (regimi tariffari dei pedaggi
autostradali o
dell’utilizzo delle reti da parte di
soggetti terzi).
In base al criterio della minore o
maggiore
specialità del regime, i beni di proprietà privata e
pubblica si prestano a La classificazione dei
beni in
funzione della
essere collocati lungo specialità del regime
una linea che, come si
vedrà, pone a un
estremo i beni privati sottoposti a un regime
essenzialmente di diritto comune e
all’estremo
opposto i beni pubblici sottoposti a un regime
essenzialmente pubblicistico
(il cosiddetto
demanio necessario). Tra i due estremi si
collocano i beni privati di
interesse pubblico e i
beni patrimoniali indisponibili.
’applicazione di un regime via via
più speciale si
L
giustifica, anche nel caso della disciplina
pubblicistica dei beni, in
relazione alla presenza di
«fallimenti del mercato» che richiedono un
intervento
pubblico di intensità crescente.
Il criterio che dovrebbe ispirare il
legislatore nel
dettare il regime pubblicistico dei beni dovrebbe
essere il principio di
proporzionalità che richiede,
come si è visto, che le deroghe al diritto
comune
siano limitate ai casi in cui esse siano
indispensabili per il conseguimento
delle finalità di
interesse pubblico. A tale principio si aggiunge
quello della
sussidiarietà verticale e orizzontale:
verticale attraverso il cosiddetto «federalismo
demaniale», cioè un processo avviato nel nostro
ordinamento di devoluzione della
titolarità di
molti beni dello Stato alle regioni e agli enti locali;
orizzontale, che si realizza
mediante il
coinvolgimento di soggetti privati, anche non
profit, soprattutto nella
gestione di taluni tipi di
beni (in particolare di quelli definiti come beni
comuni).
Conviene anteporre all’analisi
giuridica la
classificazione dei beni operata dalla scienza
economica, che li suddivide
in beni privati, beni
pubblici, beni di club e beni collettivi
(commons).
Una siffatta classificazione, che, si badi bene, non
coincide con quella meramente giuridico-formale
posta dal codice civile, si fonda su
alcune
caratteristiche sostanziali dei beni.
Le quattro categorie sono
individuate in base a due
criteri: l’«escludibilità» e la «rivalità». I beni sono
escludibili (un terreno recintabile) o non
escludibili (l’atmosfera, i fari), a seconda
che, una
volta prodotti, sia o non sia possibile escludere
alcuni soggetti dal loro uso
o consumo. I beni
possono essere rivali (una bibita) o non rivali (una
strada, una
piscina) a seconda che l’uso o il
consumo di essi da parte di un soggetto limiti o
escluda la possibilità di uso o consumo da parte di
408 altri.
2c) Una
specie di beni privati che ha acquistato il
carattere di
beni di La disciplina delle reti
interesse pubblico è
costituita dalle reti, cioè dalle infrastrutture fisiche
(reti di trasmissione e di distribuzione dell’energia
elettrica e del gas, reti di
telecomunicazioni, binari
ferroviari, ecc.) necessarie per l’erogazione di
alcuni
servizi
pubblici. Mentre questi ultimi si
prestano ormai a essere offerti sul
mercato da una
pluralità di operatori in concorrenza, le reti
costituiscono elementi di
monopolio naturale
(essential facilities), che, come si è già
accennato,
richiedono una regolazione pubblica ex ante
almeno sotto
due profili: il diritto di accesso alla
rete da parte di una pluralità di erogatori di
servizi
in base a criteri di uguaglianza (per esempio, i
produttori privati di energia
elettrica che hanno
necessità di immetterla nella rete nazionale di
trasmissione per
consegnarla agli acquirenti); la
definizione delle tariffe per l’uso della rete in
modo
tale da evitare che il monopolista possa
abusare del suo potere di mercato. La
regolazione
ex ante integra quella generale ex
post tramite
l’applicazione dei principi del diritto antitrust in
tema di
abuso di posizione dominante (art. 102
TFUE).
Peraltro, già il codice civile, come si è visto, pone il
principio
dell’obbligo di contrattare osservando la
parità di trattamento, ma solo nel caso di
monopolio
legale (art. 2597 cod. civ.). Numerose
leggi di settore prevedono
regole specifiche per le
reti. Per esempio, il Codice delle comunicazioni
elettroniche
attribuisce all’autorità di settore
poteri finalizzati a garantire che gli operatori di
reti pubbliche di comunicazione (specie con
riguardo alla telefonia mobile) consentano
l’accesso e l’interconnessione della propria rete e
l’interoperabilità dei servizi a
favore di altri
operatori concorrenti in modo tale che tutti gli
utenti siano in grado
di comunicare tra loro a
prescindere dal fornitore del servizio prescelto
(artt. 40 ss.
d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259).
o
I contratti
419
1. Premessa
particolare esse
possono stipulare contratti per l’acquisto di beni
e
servizi e per l’esecuzione di lavori strumentali alle
loro attività e necessari per il
perseguimento delle
finalità di interesse pubblico. I contratti pubblici
rappresentano
una delle voci principali della spesa
pubblica (oltre il 15% del prodotto interno lordo
degli Stati europei) e costituiscono per molte
imprese una fonte rilevante di fatturato.
Le amministrazioni esercitano
peraltro la loro
capacità generale di diritto privato non solo nel
public
procurement, cioè del settore delle commesse
pubbliche, ma anche in altri ambiti. Si pensi, per
esempio, a quelli, già esaminati, dei
contratti
collettivi e individuali disciplinanti i rapporti di
lavoro dei dipendenti
pubblici, delle convenzioni
tra il Servizio sanitario nazionale e le cliniche
private
accreditate, dei contratti di servizio
stipulati tra l’amministrazione titolare di un
servizio pubblico e gestori privati.
Allorché stipulano un contratto, le
amministrazioni, a differenza dei privati che sono
pienamente liberi di scegliere le
proprie
controparti contrattuali, sono soggette a regole di
natura pubblicistica volte a
tutelare gli interessi
delle stesse amministrazioni e a garantire la par
condicio tra i potenziali contraenti. Esse sono
contenute nel Codice dei
contratti pubblici
approvato con d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50.
La formazione della volontà
negoziale
dell’amministrazione e la scelta del contraente
avvengono cioè, come si è già
accennato nel
capitolo V, attraverso un procedimento
amministrativo a evidenza pubblica
di tipo
competitivo. Tale procedimento va a integrare le
regole del diritto privato
relative allo schema
proposta-accettazione di cui all’art. 1326 cod. civ.
Più precisamente, la Pubblico e privato nei
contratti
pubblici
fase di formazione
del vincolo
contrattuale è retta da regole di
diritto pubblico e
si sviluppa in una sequenza procedimentale che
culmina
nell’emanazione di un provvedimento di
420 aggiudicazione; la fase
di esecuzione del contratto
è invece retta essenzialmente dalle regole del
diritto
privato.
I l Codice dei contratti pubblici
riflette questa
impostazione ponendo due criteri di integrazione
della disciplina. Da un
lato, stabilisce che alle
procedure di affidamento dei contratti pubblici
(fase di
formazione del vincolo contrattuale) si
applicano, per quanto non espressamente previsto
dal Codice, le disposizioni sul procedimento
amministrativo di cui alla legge 7 agosto 1990, n.
241 (art. 30, comma 8); dall’altro, prevede che,
sempre per quanto
non espressamente previsto dal
Codice, «alla stipula del contratto e alla fase di
esecuzione si applicano le disposizioni del codice
civile» (art. 30, comma 8). Così, per esempio, da
tempo la
giurisprudenza ha affermato che alle
pubbliche amministrazioni si applica il principio
di
correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1337 cod. civ.)
che pertanto possono essere chiamate a
rispondere
a titolo di responsabilità precontrattuale.
In origine e per lungo tempo, la
disciplina dei
contratti della pubblica amministrazione è stata
contenuta nella
normativa sulla contabilità dello
Stato (r.d. 18 novembre 1923, n. 2440 e
regolamento approvato con
r.d. 23 maggio 1924, n.
824). Essa prevedeva procedure a evidenza
pubblica (il pubblico
incanto, nel linguaggio
dell’epoca) sia per i contratti attivi dello Stato, dai
quali
cioè deriva un’entrata (per esempio la
vendita di un immobile non più utilizzato per
finalità pubbliche), sia per i contratti passivi, che
comportano cioè un’uscita (per
esempio l’acquisto
di arredi).
La collocazione della La matrice
«contabilistica» della
disciplina del disciplina
procedimento a
evidenza pubblica tra
le norme sulla
contabilità trovava spiegazione nel
fatto che essa mirava a garantire una gestione
corretta ed efficiente del danaro pubblico. Essa era
diretta principalmente ad
assicurare le condizioni
economiche più favorevoli all’amministrazione
mettendo in
concorrenza le imprese e a proteggere
l’amministrazione dal rischio di collusione tra
queste ultime. Da qui anche l’inserimento nel
codice penale di figure di reato come la
turbativa
d’asta e l’astensione dagli incanti (artt. 353 e 354
cod. pen.). Solo di riflesso le norme di contabilità
garantivano la par condicio dei partecipanti ed era
persino dubbio
se esse avessero natura esterna e
non meramente interna.
uesti obiettivi venivano
perseguiti per mezzo di
Q
una serie minuta di regole formali e procedurali
relative alla
gara pubblica (per esempio, la
presentazione delle offerte in buste sigillate, la
tempistica dell’asta, le modalità di apertura delle
buste, ecc.) volte a escludere o
limitare il più
possibile la discrezionalità dell’amministrazione.
Una discrezionalità
eccessiva infatti poteva aprire
più facilmente la strada a fenomeni collusivi e
corruttivi tra imprese e funzionari infedeli. Non a
caso le due principali modalità di
selezione del
contraente erano l’asta pubblica aperta a tutti i
potenziali offerenti,
oppure la licitazione privata,
con la partecipazione delle imprese invitate dalla
stazione appaltante e la selezione dell’offerta
migliore sulla base di un solo parametro
vincolato,
e cioè il prezzo offerto.
A partire dagli anni Settanta e
Ottanta del secolo
scorso, soprattutto L’impostazione
proconcorrenziale
in seguito al della disciplina
recepimento di una
serie di direttive
europee (da ultimo con il Codice), cambia
l’impostazione della disciplina. Essa pone ora
l’accento soprattutto sull’esigenza di
aprire il
421 mercato degli appalti pubblici alla concorrenza a
livello europeo in attuazione del principio di libera
circolazione intracomunitaria
delle merci e dei
servizi. Pertanto vengono introdotte regole volte a
promuovere la
pubblicità dei bandi di gara, la
trasparenza della procedura e la par
condicio.
L’apertura del mercato degli appalti pubblici alla
concorrenza
è vista come funzionale anche alla
crescita dimensionale delle imprese europee, così
da
renderle più competitive a livello globale.
I noltre, le direttive europee
privilegiano un
approccio meno formalistico, flessibile e aperto a
momenti di confronto
tra l’amministrazione e le
imprese (in particolare, come si vedrà, con il
cosiddetto
dialogo competitivo e con altre forme
di partenariato pubblico-privato), che attribuisce
a
quest’ultima maggiori spazi di discrezionalità.
Nella visione europea un qualche
margine di
discrezionalità, lungi da essere considerato con
sospetto, consente
all’amministrazione di invitare
alla contrattazione le imprese ritenute più
affidabili e
di valutare meglio in concreto le offerte
valorizzando gli elementi qualitativi delle
medesime.
Il recepimento delle direttive
europee nel nostro
ordinamento si è scontrato con la difficoltà delle
stazioni
appaltanti (troppo numerose e poco
attrezzate sul piano tecnico e giuridico) e delle
imprese (spesso di piccole dimensioni) di gestire o
prendere parte a procedure più
flessibili, ma che
richiedono comunque la capacità di garantire la par
condicio e la trasparenza. Ciò spiega perché le
procedure più innovative
come il già richiamato
dialogo competitivo e le altre forme di
partenariato sono state
utilizzate di rado. Inoltre, il
settore degli appalti pubblici è particolarmente
esposto
in Italia a fenomeni corruttivi e di
infiltrazione mafiosa e ciò richiede norme speciali
volte a prevenirli.
Il nuovo Codice, come si vedrà,
cerca di
intervenire sulla struttura del mercato degli appalti
su più versanti:
rafforzando i poteri di vigilanza e
di regolazione dell’Autorità nazionale
anticorruzione; introducendo sia un sistema di
qualificazione delle stazioni appaltanti
volto a
valutare la loro capacità tecnica ad avviare e a
gestire le procedure di gara,
sia un sistema di rating
di impresa basato su requisiti
reputazionali e di
capacità strutturale ai fini della qualificazione
necessaria per la
partecipazione alle procedure;
istituendo un albo dei commissari per la
valutazione
delle offerte gestito dall’Autorità
nazionale anticorruzione. Si tratta di norme di tipo
organizzativo, che non sono di diretta applicazione
delle direttive europee le quali
disciplinano
soprattutto le procedure. Esse sono il frutto di una
scelta del legislatore
nazionale di voler tentare di
porre rimedio a una situazione non ottimale.
I contratti a evidenza
pubblica sono un settore
della legislazione Le fonti normative
amministrativa che,
come si è già accennato, ha subito maggiormente
l’influsso del
diritto europeo. Il Codice dei
contratti pubblici recepisce le direttive (UE)
2014/24
(appalti), (UE) 2014/25 (settori speciali) e
(UE) 2014/23 (che disciplina in modo
organico i
contratti di concessione di lavori e di servizi).
Il Codice del 2016 ha sostituito il
precedente
approvato con d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 che già
aveva riordinato la
materia unificando in un solo
corpo normativo la disciplina delle forniture, dei
servizi
e dei lavori pubblici, recependo due
direttive europee ((CE) 2004/17 e (CE) 2004/18). Il
nuovo Codice è stato più volte modificato negli
422 ultimi anni (d.l. n. 32/2019
convertito in l. n.
55/2019; d.l. n. 76/2020, convertito nella l. n.
120/2020, dettato dall’emergenza sanitaria causata
dalla pandemia da Covid-19; d.l. n.
77/2021
convertito con l. n. 108/2021). Il Piano nazionale di
ripresa e resilienza
prevede una riforma organica
del Codice, da avviare con una legge di delega, al
fine di
semplificare il sistema normativo.
Al Codice si aggiungeva un
ponderoso regolamento
di esecuzione e attuazione, ora abrogato, che
disciplinava
soprattutto la progettazione,
l’aggiudicazione e l’esecuzione dei lavori pubblici
(d.p.r. 5 ottobre 2010, n. 207). Il regolamento,
sostituito
dal Codice, da una disciplina più
flessibile sottoforma di linee guida approvate
dall’Autorità nazionale anticorruzione, è stato
reintrodotto dal d.l. n. 32/2019, vista la preferenza
delle stazioni
appaltanti e degli operatori nei
confronti di una fonte più tradizionale, ma non è
stato
ancora emanato.
La disciplina generale stabilita a
livello statale è
adottata nell’esercizio della competenza legislativa
esclusiva statale
in materia di tutela della
concorrenza, ordinamento civile, nonché nelle
altre materie
cui è riconducibile lo specifico
contratto (art. 2, comma 1). Essa può essere
integrata dalle leggi
regionali che però, come ha
chiarito la Corte costituzionale (sentenza n.
401/2007), hanno spazi molto limitati di
adattamento. Ciò allo
scopo di evitare che il
mercato dei contratti pubblici sia regolato da
norme troppo
differenziate a livello locale tali da
distorcere la concorrenza.
Tra le fonti di disciplina dei
contratti pubblici
rientrano anche i I capitolati generali e
speciali
cosiddetti capitolati
generali e speciali,
previsti già dalla normativa sulla contabilità dello
Stato, dei
quali è stata oggetto di discussione la
natura propriamente normativa (capitolati
generali) o contrattuale (capitolati speciali). Essi
possono contenere la disciplina di
dettaglio e
tecnica della generalità dei contratti o di specifici
contratti stipulati
dalle amministrazioni. Nei casi
in cui siano menzionati nel bando o in altri atti di
gara, i capitolati costituiscono parte integrante del
contratto. Per agevolare il
compito delle
amministrazioni l’Autorità nazionale
anticorruzione può predisporre
capitolati-tipo,
oltre che contratti-tipo (art. 213, comma 2).
I contratti pubblici Le fonti esterne al
Codice
sono disciplinati per
aspetti specifici
anche da fonti esterne al
Codice. Può essere
sufficiente richiamarne alcune.
1. In primo luogo, la legge anticorruzione
(legge 6
novembre 2012, n. 190) individua tra i settori più a
rischio le
modalità per l’affidamento dei contratti
pubblici (art. 1, comma 16, lett. b)). Obbliga
pertanto le
stazioni appaltanti a pubblicare anche
sui propri siti internet istituzionali
una serie di
informazioni relative ai bandi pubblicati, agli
operatori invitati
a presentare l’offerta,
all’aggiudicatario, all’importo dell’aggiudicazione e
a
trasmetterle in formato digitale all’Autorità
nazionale anticorruzione (comma
32). Obblighi di
trasparenza di questo tipo sono ritenuti utili per
combattere i
fenomeni corruttivi. Il Codice
richiama anche la disciplina generale della
trasparenza contenuta nel d.lgs. 14 marzo 2013, n.
33.
Altre misure sono i cosiddetti patti di
integrità e i
protocolli di legalità sottoscritti dalla stazione
appaltante con
le imprese, contenenti impegni
finalizzati a garantire l’integrità dell’appalto.
Il
mancato rispetto delle clausole contenute nei
protocolli di legalità o nei
patti di integrità
costituisce causa di esclusione dalla gara (art. 1,
423 comma 17, l. n. 190/2012). Sono state
previste,
inoltre, le cosiddette white
lists, ossia degli elenchi,
da istituire presso le prefetture, di
imprese non
soggette a tentativi di infiltrazione mafiosa,
operanti in settori
di attività particolarmente
esposti all’azione della malavita organizzata, da
sottoporre a controlli periodici (art. 1, commi 52,
52-bis,
53, 54, 55 e 56).
come
chiarito qui di
seguito, nei cosiddetti settori speciali), che sono
sottoposte però a
regole meno stringenti in quanto
si assume che esse, rispetto alle amministrazioni
aggiudicatrici, ispirino la loro azione a una logica
essenzialmente economica (art. 3, comma 1, lett.
t)). Le imprese pubbliche sono quelle
sulle quali le
amministrazioni aggiudicatrici «possono
esercitare, direttamente o
indirettamente,
un’influenza dominante». Quest’ultima si desume
induttivamente dal fatto
che le amministrazioni
aggiudicatrici siano proprietarie o abbiano una
partecipazione
finanziaria nell’impresa pubblica o
comunque dal regime giuridico di quest’ultima.
L’influenza dominante è comunque presunta se le
amministrazioni aggiudicatrici detengono
la
maggioranza del capitale, controllano la
maggioranza dei voti o hanno il diritto di
nominare
la maggioranza dei membri del consiglio di
amministrazione, di direzione o di
vigilanza
dell’impresa.
lcune disposizioni del Codice si
applicano infine
A
alle imprese private che «operano in virtù di diritti
speciali o
esclusivi» concessi per legge o sulla base
di un provvedimento di una pubblica
amministrazione e che sono incluse nella categoria
più generale di «enti aggiudicatori»
(art. 3, comma
1, lett. e)). Si pensi per esempio a una
società
petrolifera privata concessionaria del diritto di
effettuare ricerche e di
estrarre minerali o
idrocarburi. Proprio in virtù dei privilegi concessi,
che si
sostanziano nel fatto che l’esercizio di
un’attività è riservata a uno o pochi soggetti,
queste imprese sono meno sensibili alla pressione
concorrenziale.
Le imprese pubbliche e quelle
titolari di diritti
speciali o esclusivi I cosiddetti settori
speciali
rientrano nel
campo
di applicazione del
Codice solo ove operino nei cosiddetti «settori
speciali» che
sono principalmente i seguenti:
energia elettrica e gas, acqua, servizi postali, porti
e
aeroporti (artt. 114 ss.). Si tratta di settori non
ancora aperti a una
concorrenza piena, che
rientrano tradizionalmente nella nozione di
servizio pubblico e
nei quali gli operatori agiscono
secondo moduli imprenditoriali. Per essi appare
428 meno
giustificata l’applicazione integrale delle
regole procedurali
previste per i «settori ordinari».
Pertanto il Codice attenua la rigidità delle
procedure individuando come modalità ordinaria
di scelta del contraente la procedura
negoziata
previa pubblicazione di un bando (art. 123), più
flessibile rispetto alle
procedure aperte o ristrette,
che invece è ammessa nei «settori ordinari» solo in
pochi
casi tassativi (art. 62).
uttavia, una volta che in uno
Stato membro
T
l’attività posta in essere nell’ambito dei «settori
speciali», in seguito
ai processi di liberalizzazione,
«è direttamente esposta alla concorrenza su
mercati
liberamente accessibili» (art. 8), può
essere attivato un procedimento per esentarli
dall’applicazione del Codice. Il procedimento di
esenzione è promosso dal ministro delle
Politiche
comunitarie di concerto con il ministro
competente per il settore oppure da un
ente
aggiudicatore attraverso una notifica alla
Commissione europea la quale, accertate
le
condizioni di concorrenza effettiva, adotta una
decisione (per esempio, nel 2011
l’esenzione
disposta per l’estrazione di petrolio e gas
naturale).
2b) La
cosiddetta finanza di progetto (project
financing) (artt. 183 La finanza di progetto
ss. Codice) è una
tecnica particolare di
realizzazione dei lavori
pubblici, alternativa allo strumento della
concessione,
sperimentata con successo
soprattutto nei Paesi anglosassoni e che mira ad
430 azzerare o a
ridurre al minimo gli oneri economici
a carico dello Stato.
Essa prevede il
coinvolgimento di una pluralità di soggetti privati
e, in particolare,
di un promotore privato che
propone all’amministrazione il progetto da
realizzare e di
soggetti finanziatori (banche e altri
investitori). Al promotore è attribuito un diritto
di
prelazione nel caso in cui non risulti aggiudicatario
all’esito della procedura
competitiva per
l’affidamento della concessione. Al termine della
procedura di gara
l’aggiudicatario costituisce una
società di progetto per realizzare ed
eventualmente
gestire l’infrastruttura. La società
di progetto può finanziarsi sul mercato anche
emettendo obbligazioni.
ella finanza di progetto, così
come nelle altre
N
forme di partenariato pubblico-privato, emerge la
dimensione
collaborativa del rapporto tra pubblica
amministrazione e soggetti privati che
costituisce,
come già accennato, una delle tendenze più
significative degli ultimi anni.
Le proposte,
contenenti il progetto di fattibilità, la bozza di
convenzione e il piano
economico-finanziario, ove
valutate positivamente dall’amministrazione sotto
il profilo
della coerenza con l’interesse pubblico,
possono essere oggetto di una procedura
competitiva a evidenza pubblica per la scelta
dell’impresa che realizza l’opera.
L’amministrazione può chiedere al promotore le
modifiche progettuali ritenute
necessarie. Il
promotore che non viene scelto all’esito della
procedura ha comunque
diritto al rimborso delle
spese sostenute, entro un massimale
predeterminato, e ciò come
riconoscimento del
contributo fattivo dato all’amministrazione.
La finanza di progetto costituisce
una delle forme
di partenariato pubblico-privato alle quali fa
riferimento il Codice
(art. 3, comma 1, lett. eee) e
artt. 180 ss.). Come si è già anticipato, questa
forma di
collaborazione tra soggetti pubblici e
privati per la realizzazione e la gestione di
opere o
servizi prevede che l’operatore economico privato
prescelto all’esito della
procedura si assuma
l’intero rischio. Per garantire l’equilibrio
economico-finanziario
l’amministrazione in sede
di gara può prevedere un contributo finanziario
pubblico
diretto o indiretto (per esempio, la
cessione di un immobile) (art. 180, comma 6).
Altre specie di partenariato previste
dal Codice
sono per esempio la locazione finanziaria di opere
pubbliche (art. 187), il
contratto di disponibilità
(art. 188), il coinvolgimento di privati e
associazioni non
profit nella gestione di spazi verdi
urbani, piazze o strade o altri beni immobili
inutilizzati (interventi di sussidiarietà orizzontale
e baratto amministrativo di cui
agli artt. 189 e 190).
Per le infrastrutture di importo
superiore a cento
milioni di euro qualificate dal governo come
strategiche l’affidamento
può avvenire a favore del
cosiddetto contraente generale ( general
contractor), cioè di un Il general
contractor
soggetto dotato di
adeguate
capacità organizzative, di esperienza e di
qualificazione che si fa carico della
realizzazione
dell’intera opera, incluso lo sviluppo del progetto
definitivo e le
attività tecnico-amministrative
(espropriazione delle aree, valutazione di impatto
ambientale, ecc.) in luogo dell’amministrazione
(art. 194). Quest’ultima in pratica
commissiona
431 l’opera «chiavi in mano».
3. Le
procedure di affidamento
3b) In
secondo luogo, nel settore dei lavori
pubblici, nel caso in cui l’impresa abbia inserito
riserve nei documenti contabili che siano tali da
determinare una variazione del prezzo
superiore al
10% dell’importo contrattuale va attivato l’accordo
bonario. Si tratta di
una procedura di tipo arbitrale
promossa dal direttore dei lavori e dal
responsabile del
procedimento. Quest’ultimo
procede alla costituzione di una commissione di
tre
componenti, uno dei quali indicato
dall’impresa che ha iscritto le riserve (art. 205).
Le
parti possono attribuire alla commissione il potere
442 di
assumere una decisione vincolante, oppure
soltanto di formulare una proposta di accordo
che
può essere accettata o meno dalle parti.
3c) In terzo
luogo è ammesso, entro certi limiti e
con particolari garanzie, l’arbitrato, sempre
limitato a questioni che involgono diritti soggettivi
derivanti dall’esecuzione del
contratto. La stazione
appaltante deve però indicare già nel bando che il
contratto
conterrà la clausola compromissoria
(art. 209). Presso l’Autorità nazionale
anticorruzione è istituita a questo fine una camera
arbitrale per i contratti pubblici
per la quale sono
previste regole particolari (art. 210).
3d) Infine,
come già accennato, la stessa Autorità
svolge un’attività di «precontenzioso» sotto
forma
di emanazione di un parere sulle questioni insorte
durante lo svolgimento delle
procedure di gara
(art. 211, comma 1). Il procedimento può essere
attivato
dalla stazione appaltante o dalle imprese e
prevede un contraddittorio sia scritto sia
orale
sotto forma di audizione. Il parere ha natura
vincolante per le parti che abbiano
preventivamente acconsentito ad attenersi a
quanto in esso stabilito ed è impugnabile
innanzi
al giudice amministrativo. La casistica è ampia e si
riferisce principalmente a
contestazioni in ordine a
clausole dei bandi di gara che prevedono requisiti
di
partecipazione sproporzionati e dunque lesivi
della concorrenza e a provvedimenti di
esclusione
dalla procedura.
CAPITOLO 13
La finanza
443
1. Premessa
2.
Il disegno di legge del bilancio annuale di
previsione, in
base al La legge di bilancio
quale si svolge la
gestione finanziaria dello Stato, è redatto sia in
termini di
competenza (riferita alle obbligazioni
attive e passive giuridicamente assunte dalle
amministrazioni, cioè ai crediti derivanti dalle
entrate che si prevede di accertare e
ai debiti
correlati alle spese che si prevede di impegnare),
sia in termini di cassa
(cioè di somme
effettivamente incassate e pagate) (art. 20).
toricamente la legge di bilancio
aveva un
S
significato fondamentale nei rapporti tra
parlamento e sovrano, perché
costituiva uno
strumento di controllo politico che condizionava
la possibilità di
quest’ultimo di riscuotere le
entrate e di procedere alle spese.
Il disegno di legge di bilancio si
compone di due
sezioni (art. 21). Le sezioni del disegno
di legge
di bilancio
ottobre 2012,
n. 174, convertito in legge 7 dicembre
2012, n. 213). Ove la verifica si concluda
con un
accertamento da parte della Corte dei conti di
squilibri economico-finanziari,
della mancata
copertura di spese e più in generale di violazione
dei vincoli derivanti
dal Patto di stabilità interno,
gli organi di governo dell’ente locale sono obbligati
ad
adottare entro 60 giorni i provvedimenti idonei
a rimuovere le irregolarità e a
ripristinare gli
equilibri di bilancio.
La normativa contabile delle
regioni è contenuta
nel d.lgs. 12 aprile 2006, n. 170 che opera una
ricognizione dei
principi per l’armonizzazione dei
bilanci regionali, mentre quella degli enti locali è
contenuta nel Testo unico approvato con d.lgs. n.
267/2000.
La pandemia da Covid-19 , con la chiusura di molte
attività nella fase del La fase post pandemia
da
Covid-19
cosiddetto
lockdown,
ha provocato uno
shock economico di enorme impatto
sulle imprese
(con una caduta rilevante del prodotto interno
lordo) e sulla popolazione.
Con la comunicazione
del 20 marzo 2020 (COM(2020) 123 final) la
Commissione europea, con
l’avallo dei ministri
delle Finanze dell’Unione europea del 23 marzo
2020, ha ritenuto
necessario attivare la cosiddetta
clausola di salvaguardia prevista dalla normativa
per
le situazioni di grave recessione economica
(regolamenti (CE) 1997/1466 e 1997/1467). La
clausola consente agli Stati membri di allontanarsi
temporaneamente dagli obiettivi di
sostenibilità
del bilancio a medio termine. Ciò ha permesso agli
Stati membri e in
particolare all’Italia di
aumentare i livelli di spesa e del debito pubblico
allo scopo
di erogare finanziamenti e sussidi alle
imprese e di mettere in opera altri interventi a
sostegno della cittadinanza. In parallelo, il 19
marzo 2020 la Commissione europea ha
approvato
il Temporary Framework, modificato più volte, allo
scopo
di utilizzare la massima flessibilità nel
regime di aiuti di Stato alle imprese, in modo
da
consentire misure di sostegno d’emergenza. Il
regime di sostanziale sospensione delle
regole
europee è previsto fino alla fine del 2022. La
Commissione europea ha anche
avviato un
dibattito pubblico per la revisione dell’intero
457 sistema di
governance economica europea che
potrebbe preludere a modifiche
delle regole vigenti
ritenute da molti come eccessivamente rigide.
5. La
gestione delle risorse e il
procedimento di spesa
Occorre ora trattare la dimensione
«micro» della
finanza pubblica, cioè l’attività e le procedure di
spesa delle pubbliche
amministrazioni che
condizionano l’utilizzo delle risorse finanziarie
stanziate nel
bilancio di previsione.
In primo luogo, le risorse
assegnate a un
determinato apparato amministrativo (per
esempio un ministero) vengono
ripartite
dall’organo di indirizzo politico-amministrativo tra
gli uffici di livello
dirigenziale generale (art. 4,
comma 1, lett. c), d.lgs. n. 165/2001), i quali a
loro
volta le attribuiscono ai propri dirigenti (art. 16,
comma 1, lett. b)). I dirigenti di entrambi i
livelli,
nell’ambito delle rispettive competenze,
«esercitano i poteri di spesa» (artt. 16, comma 1,
lett. d), e 17, comma 1, lett. b)) in modo autonomo.
Le obbligazioni assunte dalle
pubbliche
amministrazioni che comportano spese a carico
del bilancio derivano talvolta
direttamente dalle
leggi o da sentenze (che, per esempio, condannano
un’amministrazione
a inquadrare a un livello più
elevato alcune categorie di personale), oppure, più
frequentemente, da provvedimenti amministrativi
(assunzione di dipendenti a conclusione
di un
procedimento concorsuale, erogazioni di
contributi finanziari, ecc.) e da
contratti stipulati
all’esito di una procedura a evidenza pubblica.
La decisione sostanziale relativa
alla spesa operata
da un Le fasi del
procedimento di
spesa
provvedimento
amministrativo va
tuttavia distinta dall’erogazione materiale delle
somme. Quest’ultima avviene in base a
un
procedimento di spesa articolato in quattro fasi:
l’impegno, la liquidazione,
l’ordinazione e il
pagamento. Esse coinvolgono una pluralità di uffici
interni (artt. 270 ss. r.d. 23 maggio 1924, n. 827 e,
per gli enti
locali, artt. 178 ss. d.lgs. n. 267/2000) e
mirano a garantire il
rispetto dei vincoli derivanti
dal bilancio di previsione e la regolarità dei
pagamenti.
1.
L’impegno di spesa è volto a imprimere alle
somme iscritte a bilancio una destinazione
specifica, cioè quella di soddisfare l’obbligazione
validamente assunta
dall’amministrazione nei
confronti di un creditore. L’atto di impegno
stabilisce
l’importo da pagare su un determinato
capitolo di bilancio, il soggetto creditore e la
ragione e costituisce un vincolo sulle previsioni di
bilancio nel senso che, alle somme
in questione,
non può essere data altra destinazione (art. 183
d.lgs. n. 267/2000). L’atto di impegno, che ha una
rilevanza essenzialmente interna
all’amministrazione, ha dunque come presupposto
l’atto
che fa sorgere l’obbligazione, anche se spesso
vi è contestualità tra i due atti. Ciò è
chiarito dalla
disposizione secondo la quale «formano impegni
sugli stanziamenti di
competenza le sole somme
dovute dallo Stato a seguito di obbligazioni
giuridicamente
perfezionate» (art. 20, comma 3,
legge 5 agosto 1978, n. 468 e art. 183, comma 1,
458 d.lgs. n.
267/2000).
Come regola generale gli impegni
«possono
riferirsi soltanto all’esercizio in corso» (art. 272
r.d. n. 827/1923 e art. 20, comma 4, l. n. 468/1978),
ma sono ammesse numerose
eccezioni, per
esempio per le spese in conto capitale, per le spese
correnti necessarie
per assicurare la continuità dei
servizi o per le spese relative agli affitti. Gli enti
locali possono assumere impegni di spesa sugli
esercizi successivi, compresi nel
bilancio
pluriennale, nel limite delle somme in questo
comprese (art. 183, comma 7, d.lgs. n. 267/2000).
2.
La liquidazione della spesa è un atto interno
che verifica i titoli e i documenti
comprovanti i
diritti dei creditori (per esempio le ricevute della
consegna dei beni
forniti all’amministrazione in
esecuzione di un contratto) e determina così la
somma
certa e liquida da pagare (art. 184 d.lgs. n.
267/2000).
3.
L’ordinazione della spesa, alla quale provvede
l’ufficio di ragioneria, è l’atto con il
quale
l’amministrazione impartisce al tesoriere la
disposizione di provvedere al
pagamento delle
somme liquidate mediante il mandato o
l’ordinativo di pagamento. Il
tesoriere o cassiere è
in molti casi un ufficio o un soggetto distinto
dall’ufficio
dell’amministrazione che ordina il
pagamento e ciò costituisce una garanzia in più per
il regolare maneggio del danaro pubblico.
4.
Il pagamento, cioè l’erogazione materiale della
somma, che può avvenire in varie forme
incluso
l’accreditamento su conti correnti bancari o
postali, è effettuato dal tesoriere
in seguito alla
ricezione del mandato di pagamento e previo
riscontro della regolarità
formale.
CAPITOLO 14
461
1. Nozione
tassativamente
individuate dal legislatore; aggiuntivo, in quanto
l’ambito di cognizione e i poteri
decisori vanno a
cumularsi e a integrare quelli caratteristici della
competenza generale
di legittimità; parallelo,
perché esse possono cumularsi (ipotesi di
competenza
esclusiva e di merito).
2.
La giurisdizione esclusiva, cui fa riferimento,
come si è visto, anche l’art. 103, comma 1, Cost.,
consente al giudice amministrativo
di conoscere
«anche delle controversie nelle quali si faccia
questione di diritti
soggettivi» (così l’art. 7, comma
5, Codice). L’elenco è contenuto nell’art. 133
Codice e in altre leggi speciali.
La cognizione dei diritti
soggettivi nell’ambito
della competenza esclusiva non è integrale. Sono
infatti
riservate all’autorità giudiziaria ordinaria le
questioni pregiudiziali concernenti lo
stato e la
capacità dei privati e la risoluzione dell’incidente
di falso (art. 8, comma 2, Codice).
Inoltre, poiché la cognizione dei
diritti soggettivi è
aggiuntiva (o per sommatoria) rispetto a quella
degli interessi
legittimi, la giurisdizione esclusiva
ha un carattere composito. Infatti, se il
ricorrente
fa valere nel ricorso solo un interesse legittimo, il
processo segue le
regole proprie della competenza
generale di legittimità. Se invece il ricorrente fa
valere un diritto soggettivo cambia, oltre che la
causa petendi, il
petitum (accertamento o condanna)
e viene meno la necessità di
impugnare entro il
termine decadenziale di 60 giorni gli atti cosiddetti
paritetici.
3.
La giurisdizione di merito, nella quale il
giudice può operare un sindacato diretto
sulle
scelte discrezionali dell’amministratore, è
richiamata dall’art. 7, comma 6, Codice che rinvia
all’art. 134 per
l’individuazione dei cinque casi
tassativi in cui essa è prevista. Nella giurisdizione
di merito, come si è anticipato nel capitolo III, «il
giudice amministrativo può
sostituirsi
all’amministrazione», riformando il
provvedimento impugnato. Il caso più
importante
è costituito dal giudizio di ottemperanza, cioè
dal
giudizio di Il giudizio di
ottemperanza come
esecuzione (art. 112 caso di giurisdizione di
Codice). Rilevante è merito
anche il caso delle
sanzioni
pecuniarie, che consente al giudice, oltre
che di annullare, anche di modificare
l’entità della
sanzione irrogata.
a giurisdizione di merito appare
recessiva perché
L
rischia di sovrapporre il ruolo del giudice a quello
dell’amministrazione.
8. Le
azioni nel processo di
cognizione, le azioni
cautelare ed esecutiva
Nel processo di cognizione possono
essere
proposte più tipi di azioni: di annullamento, di
condanna al risarcimento del
danno, di
adempimento, avverso il silenzio, di nullità, di
accertamento, per
l’efficienza della pubblica
amministrazione.
1.
L’azione di annullamento del provvedimento
illegittimo (art. 29) ha natura costitutiva e
storicamente, come si è detto più volte, è l’azione
principale per la tutela degli
interessi legittimi lesi
473 da un provvedimento amministrativo
illegittimo.
Essa va proposta entro 60 giorni e
ha lo scopo di
verificare se l’atto amministrativo impugnato sia
viziato per «violazione
di legge, incompetenza ed
eccesso di potere». Se l’azione viene accolta il
giudice
«annulla in tutto o in parte il
provvedimento impugnato» (art. 34, comma 1, lett.
a)).
La sentenza di annullamento,
nell’interpretazione
giurisprudenziale che ha recepito l’elaborazione
della dottrina
[Nigro 2002], produce tre tipi di
effetti: di annullamento, ripristinatorio e
conformativo.
L’effetto di L’effetto di
annullamento
annullamento
rimuove l’atto
impugnato e i suoi effetti
retroattivamente. Esso,
per così dire, ripristina la situazione di diritto
preesistente
all’emanazione dell’atto. Dal punto di
vista giuridico è come se l’atto non fosse mai
stato
emanato. L’effetto di annullamento esprime il
carattere propriamente costitutivo
della sentenza.
na deroga alla retroattività è
ammessa entro certi
U
limiti per le sentenze dell’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato
(Cons. St., Ad. Plen., 22
dicembre 2017, n. 13).
L’effetto L’effetto
ripristinatorio
ripristinatorio mira a
ricostruire per quanto possibile la
situazione di
fatto e di diritto nella quale si sarebbe trovato il
ricorrente al momento
dell’emanazione della
sentenza in assenza dell’atto amministrativo
illegittimo. Si
pensi, per esempio, alla restituzione
di un bene occupato illegittimamente o alla
ricostruzione della carriera di un dipendente
dichiarato decaduto. L’effetto
ripristinatorio va a
integrare quello di annullamento e tende a elidere
il pregiudizio
subito dal soggetto privato nel
periodo in cui l’atto ha prodotto i suoi effetti. Ove
non sia possibile raggiungere questo risultato in
presenza di situazioni irreversibili,
può trovare
spazio la tutela risarcitoria.
’effetto
L L’effetto conformativo
conformativo,
particolarmente rilevante nel caso degli
interessi
legittimi pretensivi, crea un vincolo in capo
all’amministrazione nel momento
in cui essa
emana un nuovo provvedimento in sostituzione di
quello annullato. In
ossequio al principio della
doverosità dell’esercizio dei poteri,
l’amministrazione è
tenuta, di regola, ove
permangano le esigenze di tutela dell’interesse
pubblico che
stavano alla base del provvedimento
impugnato, a emanare un nuovo provvedimento.
’ampiezza dell’effetto
conformativo si determina
L
in funzione dei motivi di ricorso dedotti in
giudizio e posti
alla base della sentenza di
annullamento. In generale, l’accertamento di un
vizio di
natura sostanziale (assenza di un
presupposto di legge necessario per l’emanazione
dell’atto, sviamento di potere) può determinare
una preclusione assoluta alla
reiterazione del
provvedimento emanato (effetto preclusivo). Per
esempio, se viene
annullata una sanzione
amministrativa perché il soggetto nei cui confronti
essa è stata
irrogata non ha commesso il fatto, la
sanzione non può essere reiterata. L’accertamento
di un vizio di natura formale o procedurale
(mancata acquisizione di un parere
obbligatorio,
incompletezza o carenza di motivazione) lascia
invece aperta la
possibilità per l’amministrazione
di emanare un nuovo atto avente il medesimo
contenuto
di quello annullato.
2.
L’azione di condanna al risarcimento del
danno provocato da L’azione di condanna
al
risarcimento del
un atto danno
amministrativo
illegittimo che lede
un interesse legittimo è proposta di regola
in
474 collegamento con l’azione di annullamento.
uò essere esperita anche in modo
autonomo. Il
P
Codice ha infatti superato il cosiddetto principio
della pregiudizialità
amministrativa secondo il
quale l’azione risarcitoria può essere proposta solo
se è
presentata e accolta l’azione di annullamento
del provvedimento illegittimo.
L’azione di risarcimento autonoma
va notificata
entro 120 giorni dal fatto o dalla conoscenza del
provvedimento che ha
provocato il danno (art. 30,
comma 3). Pur essendo un termine molto più
breve
rispetto al termine quinquennale di
prescrizione per l’azione risarcitoria innanzi al
giudice ordinario, la Corte costituzionale ha
ritenuto conforme alla Costituzione la
disposizione in questione (sentenza n. 94/2017).
Inoltre, il Codice disincentiva
l’azione di
risarcimento autonomo. Infatti, in sede di
determinazione dell’ammontare del
risarcimento,
il giudice amministrativo deve escludere i danni
«che si sarebbero potuti
evitare usando l’ordinaria
diligenza, anche attraverso l’esperimento dei
mezzi di tutela
previsti» (art. 30, comma 3, ultimo
periodo). Quest’ultima dizione, che
rinvia
implicitamente all’art. 1227, comma 2, cod. civ.,
secondo la giurisprudenza si
riferisce anche alla
mancata richiesta dell’annullamento dell’atto
illegittimo (Cons.
St., Ad. Plen., 23 marzo 2011, n.
3).
In definitiva, l’art. 30, comma 3, assegna una
preferenza all’azione di
annullamento, mentre
l’azione di risarcimento è vista come un’azione
complementare alla
prima, cioè riguardante solo i
danni ai quali, come si è visto, l’annullamento del
provvedimento non può porre rimedio.
3.
L’art. 34, comma 1, lett. c), del Codice tipizza la
cosiddetta azione di L’azione di
adempimento
adempimento, cioè
«l’azione
di condanna
al rilascio di un provvedimento richiesto». Essa
deve essere proposta
contestualmente all’azione di
annullamento del provvedimento di diniego o
all’azione
avverso il silenzio. Inoltre essa è
ammessa nei limiti posti dall’art. 31, comma 3,
Codice con riguardo all’azione avverso il
silenzio,
esaminati qui di seguito, cioè in presenza di poteri
vincolati.
L’azione avverso il
silenzio e
4.
L’azione contro il
l’accertamento della
silenzio può essere fondatezza della
esperita fintanto
che pretesa
perdura l’inerzia
dell’amministrazione e comunque entro il termine
di un anno dalla
scadenza del termine di
conclusione del procedimento. Se nel frattempo
l’amministrazione
emana un atto che nega la
richiesta, esso può essere impugnato con la
normale azione di
annullamento.
L’azione è volta anzitutto ad
accertare
l’inadempimento dell’obbligo di provvedere
enunciato dall’art. 2 l. n. 241/1990, un obbligo,
come si è visto, di natura
meramente formale
avente per oggetto l’emanazione entro il termine
di un provvedimento
espresso, di accoglimento o
di diniego dell’istanza del privato.
Ove richiesto il giudice può anche
pronunciare
«sulla fondatezza della pretesa dedotta in
giudizio» (art. 31, comma 3). Può cioè verificare se
il provvedimento
oggetto dell’istanza del privato
debba essere rilasciato dall’amministrazione, ma
ciò
«solo quando si tratti di attività vincolata o
quando risulta che non residuano
ulteriori margini
di discrezionalità». Il giudice non può conoscere la
fondatezza della
pretesa neppure nei casi in cui
siano necessari «adempimenti istruttori che
debbano
essere compiuti dall’amministrazione».
Se il giudice accerta che l’amministrazione non
ha
discrezionalità e che dunque l’emanazione
475 dell’atto richiesto è dovuta,
può, se richiesto con
l’azione di adempimento, condannare
l’amministrazione ad adottare l’atto in questione.
5.
L’azione per la declaratoria della nullità del
provvedimento
in L’azione di nullità
relazione ai vizi di cui
all’art. 21-septies
l. n. 241/1990 può essere proposta
entro 180 giorni. Scaduto
questo termine, il giudice
può comunque dichiarare la nullità dell’atto anche
ex officio, cioè, per esempio, nel corso di un giudizio
nel
quale la parte privata ponga alla base della sua
azione un atto amministrativo. Ciò
potrebbe
accadere, volendo fare un esempio quasi di scuola,
nel caso del concessionario
di un servizio pubblico
che si rivolga al giudice amministrativo per
ottenere un
aggiornamento del canone corrisposto
dagli utenti del servizio. Di fronte a questa
pretesa
fondata sul contratto di servizio accessivo alla
concessione, l’amministrazione
potrebbe eccepire
la nullità della concessione. In realtà i casi di
nullità dell’atto,
come si è detto, sono poco
frequenti nella prassi.
L’azione di
accertamento
6.
Il Codice non
contiene, al di là del
riferimento all’azione
di nullità, un articolo
dedicato all’azione di accertamento, incluso
invece nel progetto
di codice predisposto dalla
commissione istituita presso il Consiglio di Stato.
Stabilisce soltanto che «In nessun caso il giudice
può pronunciare con riferimento a
poteri
amministrativi non ancora esercitati» e che
neppure «può conoscere della
legittimità degli atti
che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con
l’azione di
annullamento» (art. 34, comma 2). È
così esclusa la possibilità di esperire
sia un’azione,
diversa da quella contro il silenzio, tesa ad
accertare in astratto come
un potere debba essere
esercitato, sia un’azione che accerti l’illegittimità
di un
provvedimento con finalità diverse da quelle
del suo annullamento.
Tuttavia, al di là di questa
esclusione, il principio
di atipicità delle azioni, affermato dalla
giurisprudenza,
consente di esperire un’azione di
accertamento ove essa corrisponda al bisogno di
tutela
correlato a una situazione giuridica
soggettiva. In ogni caso, ove sia proposta
un’azione
di annullamento, ma nel corso del giudizio
l’annullamento non risulti più
utile per il
ricorrente, «il giudice accerta l’illegittimità
dell’atto se sussiste
l’interesse a fini risarcitori»
(art. 34, comma 3).
L’azione per
7.
Un’azione particolare, peraltro non della
l’efficienza inclusa nel
Codice, è
l’azione per pubblica
amministrazione
l’efficienza della
pubblica
amministrazione, alla quale si è fatto cenno
nel
capitolo III, esperibile nel caso di violazione di
livelli e standard di qualità
previsti per le
prestazioni agli utenti (d.lgs. 20 dicembre 2009, n.
198). Essa mira a costringere
l’amministrazione a
raggiungere o a ripristinare i livelli delle
prestazioni stabiliti
in atti amministrativi
generali. La casistica è molto limitata.
ompletata l’analisi delle azioni
esperibili nel
C
processo amministrativo, occorre soffermarsi
brevemente sull’oggetto di
quest’ultimo.
Il tema è stato L’oggetto del processo
amministrativo
sempre dibattuto. In
origine e per lungo
tempo, il processo amministrativo è
stato
ricostruito come «processo sull’atto», visto che la
sola azione esperibile era
quella di annullamento.
L’oggetto del processo veniva variamente
individuato nel potere
di provocare l’annullamento
dell’atto, nella questione di legittimità dell’atto
impugnato, nell’interesse alla legittimità dell’atto,
476 ecc. In ogni caso, al centro del
processo si
collocavano l’atto impugnato e i motivi di ricorso.
Minoritaria era la ricostruzione del processo
amministrativo come «processo sul
rapporto»
[Piras 1962], cioè direttamente sul rapporto
giuridico amministrativo,
prescindendo dunque
dal provvedimento.
a concezione originaria del
processo
L
amministrativo è entrata in crisi per una pluralità
di ragioni. Il processo
amministrativo si è
anzitutto aperto a una gamma di azioni diverse
dall’azione di
annullamento necessarie per offrire
una risposta ai nuovi bisogni di tutela.
La giurisprudenza è giunta così ad
affermare che
nei casi di provvedimenti vincolati il giudizio ha
per oggetto
direttamente il rapporto
amministrativo controverso (Cons. St., Ad. Plen.,
n. 3/2011
citata).
Questa concezione sembra essere
fatta propria
anche dal Codice che contempla almeno due
azioni, cioè quella risarcitoria
pura e quella avverso
il silenzio, nelle quali il ricorrente non impugna e
non richiede
l’annullamento di alcun
provvedimento amministrativo. L’azione
risarcitoria pura ha come
oggetto l’accertamento di
un illecito ex
art. 2043 cod. civ., mentre l’azione
avverso il silenzio ha
come oggetto l’accertamento
dell’inadempimento dell’obbligo di provvedere ed
eventualmente l’accertamento della fondatezza
della pretesa. Anche l’azione di
adempimento ha
per oggetto l’accertamento della fondatezza della
pretesa come
presupposto logico per la pronuncia
di condanna dell’amministrazione al rilascio del
provvedimento richiesto.
Queste ultime due azioni sono anche
slegate dalla
deduzione specifica di vizi del provvedimento che
caratterizza invece
l’azione di annullamento e
hanno invece per oggetto direttamente la
spettanza o meno di
un determinato bene della
vita.
In definitiva, volendo proporre una
definizione
più aderente Definizione di oggetto
del
processo
all’attuale disciplina amministrativo
processuale, l’oggetto
del processo
amministrativo può essere individuato
nell’affermazione della titolarità di un interesse
legittimo, volto a conservare o ad
acquisire un
bene della vita che è stato leso da un atto o un
comportamento della
pubblica amministrazione
non conformi alla norma attributiva del potere.
L’annullamento del provvedimento
non si colloca
più necessariamente al centro del processo
amministrativo, ma esso è solo
strumentale, in
conformità alla concezione soggettiva della
giustizia amministrativa,
alla tutela di una
situazione giuridica e all’accertamento della
spettanza o meno di un
bene della vita. E ciò sia
nel caso in cui l’amministrazione abbia emanato
un
provvedimento di diniego su un’istanza, in
quanto, come si è detto, l’annullamento di
tale atto
costituisce il presupposto logico per poter
accertare la fondatezza della
pretesa; sia, più in
generale, in quanto anche nella sentenza di
annullamento rileva,
come si è accennato, più che
l’effetto demolitorio, il contenuto di accertamento
e
l’effetto conformativo o preclusivo.
L’art. 40 Codice prende atto di questa evoluzione
prevedendo
che il ricorso debba contenere
«l’indicazione dell’oggetto della domanda, ivi
compreso
l’atto o il provvedimento eventualmente
impugnato». L’avverbio «eventualmente» sta
proprio a indicare che ormai il processo non ruota
necessariamente attorno al
provvedimento
477 amministrativo.
Due altri tipi di azione (e di
processi) completano
le tutele sin qui esaminate relative al processo di
cognizione:
l’azione cautelare e l’azione
esecutiva.
L’azione cautelare
1.
L’azione
cautelare, che dà
origine a una fase autonoma del
processo di
cognizione, consente di richiedere al giudice
provvedimenti interinali nei casi in cui vi è la
necessità di evitare danni gravi e
irreparabili che
potrebbero prodursi nelle more della sentenza
definitiva. Questo tipo
di azione era già
contemplato dalla legge del 1889 e fu rafforzata in
via
giurisprudenziale e poi ad opera della l. n.
205/2000 e ora del Codice (artt. da 55 a 62).
nzitutto le misure cautelari
possono essere
A
richieste già nel ricorso principale o in qualsiasi
momento successivo
all’instaurazione del giudizio.
Esse spaziano, per esempio, dalla sospensione
degli
effetti dell’atto impugnato (per esempio, di
un ordine di demolizione di un edificio) al
pagamento in via provvisoria di una somma di
danaro. Il Codice attribuisce cioè ampia
discrezionalità al giudice nell’individuare il
rimedio più efficace per prevenire il
danno
(principio dell’atipicità delle misure cautelari).
Nella prassi sono emerse per
esempio fattispecie
di ordinanze cosiddette «propulsive» (che
ordinano
all’amministrazione il riesame di un
provvedimento di diniego) o che ammettono con
riserva a un concorso un candidato ritenuto privo
dei requisiti di partecipazione.
L’accoglimento della Il fumus boni
juris e il
periculum in mora
domanda cautelare è
legato
all’accertamento di due
presupposti: il fumus boni
juris, interpretato dalla giurisprudenza
in modo
non uniforme, talora come probabilità di
accoglimento del ricorso, talaltra, in
modo meno
rigoroso, come minimo di attendibilità o non
manifesta infondatezza del
ricorso; il periculum in
mora, cioè il pregiudizio grave e
irreparabile che
deriverebbe in capo al ricorrente nelle more della
conclusione del
grado di giudizio, danno che va
valutato, bilanciandolo anche con l’interesse
dell’amministrazione. L’ordinanza deve essere
motivata sia in ordine al pregiudizio
allegato, sia in
ordine ai profili che a un sommario esame
inducono a una ragionevole
previsione sull’esito
positivo del ricorso.
I n presenza di fatti sopravvenuti
la domanda
cautelare respinta può essere riproposta e può
essere presentata domanda di
revoca o
modificazione della misura concessa. La fase
cautelare può concludersi, se il
giudice ritenga di
avvalersi di questa possibilità, anziché con
un’ordinanza, con una
sentenza in forma
semplificata, nei casi in cui siano accertate la
completezza del
contraddittorio e dell’istruttoria
(art. 60).
In caso di inottemperanza da parte
dell’amministrazione alle misure cautelari
disposte, la parte interessata può chiedere
al
giudice, investito dei poteri previsti nell’ambito del
giudizio di ottemperanza, le
opportune
disposizioni attuative (art. 59). È ammesso il
ricorso in appello innanzi al
Consiglio di Stato
entro 30 giorni dalla notificazione dell’ordinanza
ovvero 60 giorni
dalla pubblicazione della
medesima (art. 62).
La richiesta di tali Il decreto cautelare
monocratico
misure viene rivolta
al collegio che poi
decide la
causa nel merito (art. 55). Nei casi di
estrema gravità e urgenza le misure cautelari
possono essere richieste al presidente del collegio
o a un suo delegato che provvede
immediatamente,
478 anche inaudita altera parte,
con una pronuncia
provvisoria (decreto cautelare). Questa deve
essere confermata (o non confermata) in
occasione della prima riunione del collegio
(art.
56). Le misure cautelari possono essere richieste,
in casi eccezionali di urgenza,
anche prima che sia
proposto il ricorso principale (tutela cautelare ante
causam) (art. 61). Quest’ultimo deve essere
proposto entro 15 giorni
dalla concessione delle
misure che altrimenti decadono automaticamente.
Dopo la
proposizione del ricorso le misure devono
essere confermate dal collegio.
2.
L’azione esecutiva, che dà origine al cosiddetto
giudizio di Il giudizio di
ottemperanza
ottemperanza, può
essere proposta a
valle del processo di cognizione nei casi in cui
l’amministrazione non esegua una sentenza del
giudice amministrativo (ma anche, in base
all’art.
112, una sentenza del giudice civile o un lodo
arbitrale emessi nei confronti
di una pubblica
amministrazione).
alvolta la sentenza di
annullamento è
T
autoesecutiva (per esempio, l’annullamento di un
ordine di demolizione di
un edificio). Altre volte,
specie se il provvedimento annullato è già stato
eseguito,
l’amministrazione è tenuta a compiere
un’attività materiale e giuridica tesa, per quanto
possibile, a ripristinare la situazione di fatto e di
diritto così come essa si
presentava al momento
dell’emanazione del provvedimento impugnato e
ad adeguarsi al
contenuto ordinatorio della
sentenza (si tratta dei più volte menzionati effetti
ripristinatorio e conformativo).
Nel caso di mancata esecuzione
della sentenza, il
ricorrente può esperire il cosiddetto giudizio di
ottemperanza.
Oggetto del giudizio è la verifica
se la pubblica
amministrazione abbia o meno adempiuto
all’obbligo nascente dal
giudicato.
L’inadempimento può consistere, oltre che
nell’inerzia totale o parziale,
nell’adozione di atti
amministrativi elusivi del giudicato che, come si è
visto, sono
affetti da nullità.
Il giudizio di ottemperanza, che
consente al
giudice di sostituirsi all’amministrazione rimasta
inadempiente, rientra nei
casi di giurisdizione di
merito. Così, per esempio, se in seguito alla
sentenza
l’amministrazione è tenuta a emanare
un’autorizzazione o a riconsegnare un terreno
espropriato, il giudice può prescrivere
all’amministrazione le modalità esecutive o
addirittura provvedere direttamente o tramite un
delegato (il cosiddetto commissario
ad acta) (art.
112). L’azione può Il commissario ad
acta
essere proposta entro
dieci anni dal giorno in cui si è formato il giudicato
(art. 114, comma 1). Il giudice può anche
condannare
l’amministrazione al risarcimento dei
danni derivanti dalla mancata esecuzione della
sentenza e al pagamento di una penalità di mora,
cioè di una ulteriore somma di danaro
per ogni
giorno di ritardo da parte dell’amministrazione (le
cosiddette
astreintes).
discussa la natura del giudizio
di ottemperanza,
È
cioè se esso sia un giudizio di pura esecuzione o se
esso abbia natura
mista di cognizione e di
esecuzione e cioè vada inteso come una
prosecuzione del
giudizio amministrativo, in
quanto solo all’esito del giudizio di ottemperanza
479 si
perviene a un assetto definitivo degli interessi.
9. Lo
svolgimento del processo
amministrativo. I principi
informatori
Come si è accennato, il Codice
accoglie la
concezione soggettiva della tutela giurisdizionale:
il processo serve ad
assicurare al ricorrente una
tutela piena ed effettiva delle situazioni giuridiche
soggettive (cosiddetta strumentalità del processo,
già teorizzata da Chiovenda [1960,
40]).
Il principio della
domanda
1.
In coerenza con
questa impostazione,
il processo
amministrativo è retto in primo luogo
dal principio della domanda formulato in termini
generali dall’art. 99 cod. proc. civ. e richiamato in
varie disposizioni
del Codice. In particolare, l’art.
34, comma 1, stabilisce che in caso di accoglimento
del
ricorso il giudice emana la sentenza, tra quelle
elencate nella disposizione
(annullamento,
condanna, ecc.), «nei limiti della domanda».
Rientra tra le prerogative del
ricorrente, non solo
l’impulso processuale (proposizione del ricorso),
ma anche
l’individuazione dell’oggetto della
domanda (art. 40, comma 1, lett. b)) attraverso
l’indicazione del
provvedimento eventualmente
impugnato, l’esposizione sommaria dei fatti, la
formulazione
dei motivi, l’indicazione dei mezzi di
prova e dei provvedimenti chiesti al giudice
(lett.
c), d) e f )).
I motivi sono i profili I motivi di ricorso
di illegittimità
dedotti nel ricorso e devono essere enunciati
in
modo specifico, cioè con il riferimento preciso alla
norma o al principio violato e
al tipo di vizio
(«motivi specifici», lett. d)). I motivi formulati in
modo generico
sono dichiarati inammissibili. In
base al principio della corrispondenza tra chiesto e
pronunciato (art. 112 cod. proc. civ.), il giudice, da
un lato, non può
pronunciarsi d’ufficio su motivi
non specificamente dedotti; dall’altro, ha il dovere
di
pronunciarsi, di regola, su tutti i motivi
formulati nel ricorso di modo che la sentenza
abbia un contenuto di accertamento il più ampio
possibile e vincoli in modo più puntuale
l’azione
amministrativa successiva al giudicato (in
relazione all’effetto conformativo
al quale si è fatto
cenno).
caduto il termine per la
presentazione del ricorso
S
(60 giorni per l’azione di annullamento), il
ricorrente può
proporre soltanto i cosiddetti
motivi aggiunti, cioè «nuove ragioni a sostegno
delle
domande già proposte, ovvero domande
nuove purché connesse a quelle già proposte» (art.
43). Per esempio, può dedurre vizi del
provvedimento impugnato che il ricorrente non
era
in grado di enucleare nel ricorso originario
perché rilevabili solo in seguito al
deposito di
documenti in giudizio da parte
dell’amministrazione. Oppure può dedurre vizi
legati all’emanazione da parte
dell’amministrazione di un ulteriore atto connesso
con
quello già impugnato. I motivi aggiunti
determinano un ampliamento dell’oggetto del
processo e della cognizione del giudice.
Il principio della parità
delle
parti
2.
Il processo
amministrativo si
ispira ai «principi della
parità delle parti, del
contraddittorio e del giusto processo» (art. 2
Codice).
uesti principi sono
particolarmente rilevanti se si
Q
considera che, sul versante sostanziale, cioè del
rapporto giuridico amministrativo, le parti non
sono poste su un piano di parità, e anzi
il rapporto
giuridico amministrativo colloca l’amministrazione
480 titolare del potere in
una posizione di
sovraordinazione rispetto al soggetto privato
titolare dell’interesse legittimo. Tuttavia,
all’interno del processo, alle parti sono
riconosciute le medesime garanzie.
Nel processo amministrativo trovano
ingresso le
parti necessarie e le parti eventuali.
2a) Le parti
necessarie, che devono essere evocate
in giudizio in modo La parte ricorrente
tale che la sentenza
sia emanata a contraddittorio integro, sono, in
aggiunta al
ricorrente, l’amministrazione resistente
e il controinteressato.
uovendo dal ricorrente, spetta a
questa parte,
M
come si è detto, proporre l’azione formulando le
domande e delimitando
l’oggetto del giudizio.
Per presentare ricorso il titolare
della situazione
giuridica soggettiva deve dimostrare la
legittimazione e l’interesse a
ricorrere. Si tratta di
due «filtri processuali», elaborati dalla dottrina
processualcivilista, che, a seconda delle varie
classificazioni, sono riconducibili ai
cosiddetti
presupposti processuali o alle condizioni generali
dell’azione, la cui
sussistenza è necessaria per
proporre l’azione. La loro assenza preclude al
giudice di
pronunciarsi sul merito del ricorso e il
processo si conclude con una sentenza di rito
(inammissibilità o improcedibilità secondo l’art.
35, comma 1, lett. b) e c)).
La legittimazione a ricorrere
(legitimatio ad causam
attiva) individua il La legittimazione a
ricorrere
soggetto legittimato a
far valere in giudizio
una determinata situazione
giuridica soggettiva.
Essa serve cioè a stabilire quale debba essere la
posizione di un
soggetto affinché questi possa
chiedere, in nome proprio, al giudice la tutela di
una
situazione giuridica soggettiva. Questa
posizione consiste nell’affermazione da parte
del
ricorrente della titolarità di un interesse legittimo
o di un diritto soggettivo del
quale si chiede
tutela. Essa sancisce la normale corrispondenza tra
titolarità di una
situazione giuridica soggettiva e
titolarità del diritto d’azione. Nessuno può agire in
giudizio per la tutela di situazioni giuridiche altrui.
In giurisprudenza, peraltro, la
legittimazione è
spesso ricondotta, non già all’affermazione, bensì
alla titolarità
effettiva di un interesse legittimo.
a questione della legittimazione a
ricorrere si è
L
posta nel processo amministrativo, soprattutto,
come si è già accennato,
per gli interessi
superindividuali (diffusi e collettivi). In relazione a
questi, in
ambiti particolari (ambiente, tutela del
consumatore, ecc.), è stata riconosciuta per
legge
la legittimazione a ricorrere a favore di
associazioni ed enti privati.
Da ultimo, essa è stata attribuita,
come si è
accennato, anche ad autorità indipendenti quali,
per esempio, l’Autorità
garante della concorrenza e
del mercato e l’Autorità nazionale anticorruzione
relativamente alle materie rientranti nella loro
competenza (rispettivamente art.
21-bis della l. n.
287/1990 e art. 211, commi da
1-bis a 1-quater d.lgs.
n. 50/2016). Si
tratta di azioni a tutela di un
interesse pubblico che sembrano essere sganciate
dalla
titolarità di una situazione giuridica
soggettiva e che fanno dunque riemergere una
colorazione oggettiva del processo.
L’interesse a L’interesse a ricorrere
ricorrere, che
corrisponde nel processo civile all’interesse
ad
agire (art. 100 cod. proc. civ.), ha nel processo
amministrativo
molta rilevanza. Esso consiste nel
beneficio o utilità effettiva che il ricorrente
potrebbe conseguire ove il ricorso fosse accolto.
481 L’interesse deve avere
i requisiti della personalità,
della concretezza e
dell’attualità (non basta, per
esempio, il mero pericolo di una lesione). Deve
inoltre
permanere per tutta la durata del processo:
se esso viene meno il processo si conclude
con una
sentenza che dichiara la carenza sopravvenuta di
interesse (art. 35, comma 1, lett. c)).
In base a questi criteri, manca
l’interesse a
ricorrere, per esempio, nel caso di un candidato a
un concorso pubblico
non incluso nella
graduatoria dei vincitori il quale lamenta
un’attribuzione errata dei
punteggi dovuta
all’omessa considerazione di un titolo di studio
che però, quand’anche
fosse stato correttamente
valutato, non avrebbe comportato un incremento
di punteggio
tale da modificare la graduatoria.
Nel caso dei regolamenti e degli
atti
amministrativi generali l’interesse al ricorso di
regola sorge (e acquista
attualità) solo nel
momento in cui vengono emanati gli atti
applicativi. Il ricorrente
può dunque rinviare
l’impugnazione dell’atto generale al momento in
cui propone ricorso
contro questi ultimi. Così, per
esempio, i criteri generali per l’erogazione di
contributi finanziari possono essere impugnati
insieme al provvedimento che respinge la
domanda di contributo: solo in questo caso diventa
attuale, di regola, l’interesse a
contestare la
legittimità dei criteri generali. Un altro esempio
può essere il bando di
gara per l’aggiudicazione di
un contratto pubblico che può essere impugnato
insieme al
provvedimento di esclusione di
un’impresa concorrente. Solo in pochi casi, come
per
esempio quello di un bando di gara che
prevede requisiti di ammissione arbitrari con
effetti escludenti immediati, l’atto generale, come
si è già accennato, può essere
impugnato senza
attendere l’emanazione degli atti applicativi.
Il ricorrente deve notificare il
ricorso, a pena di
inammissibilità, all’amministrazione resistente e
ad almeno uno dei
controinteressati (art. 41), e
deve depositare il ricorso notificato entro 30 giorni
presso la segreteria del giudice (art. 45). Il giudice
può ordinare l’integrazione del
contraddittorio nel
caso in cui individui ulteriori controinteressati
(art. 49).
L’amministrazione L’amministrazione
resistente e il
resistente e i controinteressato
controinteressati ai
quali è stato
notificato
il ricorso si possono costituire in
giudizio presentando memorie, formulando
istanze,
indicando i mezzi di prova e i documenti a
sostegno della loro posizione (art. 46). Il
processo
amministrativo, peraltro, non conosce l’istituto
della contumacia, cioè
quell’insieme di regole che
trovano applicazione nel giudizio civile nel caso in
cui la
parte intimata non si costituisca in giudizio.
arte resistente è
l’amministrazione che ha
P
emanato il provvedimento o nei cui confronti
viene avanzata la
pretesa. Controinteressato è il
soggetto la cui posizione giuridica soggettiva
sarebbe
intaccata dall’accoglimento del ricorso e si
individua in base a un’analisi degli
effetti del
provvedimento impugnato. Così, per esempio, se
viene impugnato un permesso a
costruire,
controinteressato è il soggetto che ha chiesto e
ottenuto il provvedimento
che lo abilita a
edificare; se viene impugnata l’aggiudicazione di
una procedura per
l’affidamento di un contratto
pubblico, controinteressata è l’impresa risultata
prima
nella graduatoria. Non sempre, peraltro, la
controversia involge controinteressati, ben
potendo il rapporto giuridico avere natura
squisitamente bilaterale (per esempio, in
materia
482 di espropriazione).
In definitiva, il controinteressato
interviene in
giudizio a fianco dell’amministrazione per
difendere la legittimità del
provvedimento e
l’infondatezza delle domande. A questo fine
l’amministrazione e il
controinteressato possono
esporre nelle proprie memorie e nell’udienza di
discussione le
ragioni per le quali il ricorso deve
essere respinto per ragioni di rito o ragioni di
merito.
Il controinteressato può proporre
anche un
ricorso incidentale Il ricorso incidentale
impugnando lo stesso
provvedimento (o anche altro provvedimento) e
proponendo motivi che, ove accolti,
farebbero
venir meno l’interesse del ricorrente a ottenere
una pronuncia sul ricorso
principale. Così, per
esempio, il primo classificato in un concorso
pubblico, di fronte
a un ricorso del secondo
classificato che lamenta il mancato riconoscimento
di un
punteggio aggiuntivo che gli consentirebbe di
scavalcarlo nella graduatoria, può
proporre ricorso
incidentale per far dichiarare illegittima
l’ammissione al concorso del
secondo classificato
per mancanza dei requisiti richiesti.
L’accoglimento del ricorso
incidentale rende
spesso superfluo l’esame di quello principale.
2b) In
aggiunta alle parti necessarie, nel processo
amministrativo Le parti eventuali
possono trovare
ingresso parti cosiddette eventuali, cioè gli
intervenienti volontari
ad adiuvandum e ad
opponendum (art. 50). I
primi affiancano il
ricorrente e possono integrare le difese di
quest’ultimo, ma non
proporre motivi di ricorso
ulteriori tali da ampliare l’oggetto del processo.
Per
esempio un’associazione di categoria può
intervenire a supporto del ricorso proposto da
uno
dei suoi iscritti. Non può peraltro proporre un
intervento ad
adiuvandum colui che avrebbe potuto
proporre ricorso autonomo in quanto
titolare di
una situazione giuridica identica. L’interventore ad
opponendum affianca l’amministrazione resistente.
Il principio
dispositivo
3.
L’istruzione
probatoria è retta dal
principio
dispositivo che però subisce nel
processo amministrativo alcune attenuazioni
(principio
dispositivo con metodo acquisitivo,
secondo la definizione di Benvenuti [1953]).
Infatti, da un lato, vige la regola
generale propria
del processo civile secondo la quale le parti devono
individuare e
allegare i fatti rilevanti e fornire la
prova dei medesimi (principio dell’onere della
prova di cui all’art. 2697 cod. civ. richiamato anche
dall’art. 63, comma 1, Codice). Secondo l’art. 64
Codice, infatti, «Spetta alle parti l’onere di
fornire
gli elementi di prova che siano nella loro
disponibilità riguardanti i fatti
posti a fondamento
delle domande e delle eccezioni». Dall’altro lato, il
giudice può
anche disporre d’ufficio i mezzi
istruttori ritenuti necessari (il cosiddetto metodo
acquisitivo). Occorre tuttavia che il ricorrente
fornisca almeno un «principio di
prova».
Quanto ai mezzi I mezzi istruttori
istruttori, il giudice
può anzitutto chiedere alle parti chiarimenti o
documenti, può ordinare anche a terzi di esibire in
giudizio documenti, può disporre
ispezioni, può
ammettere la prova testimoniale (solo in forma
scritta) e può assumere
tutti i mezzi di prova
previsti dal codice di procedura civile esclusi
l’interrogatorio
formale e il giuramento (art. 63).
Nel caso in cui l’accertamento dei fatti richieda
particolari La verificazione e la
consulenza
tecnica
competenze tecniche,
il
giudice può
ordinare l’esecuzione di una verificazione o, se
indispensabile, può
disporre una consulenza
483 tecnica (art. 63, comma 4). La
verificazione
(attraverso accessi, misurazioni, esperimenti,
accertamenti, ecc.) è
effettuata a cura di un
organismo verificatore individuato dal giudice (in
genere una
pubblica amministrazione dotata delle
necessarie competenze tecniche), il quale
definisce
i quesiti e fissa un termine per il deposito della
relazione conclusiva (art.
66). La consulenza
tecnica ha una funzione sostanzialmente analoga e
si connota
soprattutto per la previsione di
maggiori garanzie di contraddittorio. Infatti le
parti
possono nominare propri consulenti che
assistono a tutte le operazioni del consulente
tecnico d’ufficio (nominato dal giudice) e possono
formulare osservazioni allo schema di
relazione
predisposto da quest’ultimo (art. 67).
I l giudice amministrativo ha dunque
un accesso
autonomo e diretto al fatto e può sindacare se esso
sia stato ricostruito in
modo corretto nel
provvedimento. Inoltre, soprattutto attraverso la
consulenza tecnica
il controllo del giudice
amministrativo sulle valutazioni tecniche è
divenuto più
penetrante. Il giudice infatti può
verificare, come si è accennato nel capitolo III,
l’attendibilità delle valutazioni tecniche effettuate
dall’amministrazione.
Altri principi
4.
Altri principi del
processo
amministrativo sono quelli della
concentrazione,
della collegialità e dell’oralità.
L’articolazione del processo
amministrativo è più
semplice rispetto a quella del processo civile e
consiste
generalmente in una fase cautelare e in
una fase di merito. Quest’ultima è incentrata
sull’udienza collegiale pubblica di discussione
orale in vista della quale possono
essere depositate
memorie e repliche scritte. Essa può essere
preceduta da un’udienza in
camera di consiglio
(con la presenza soltanto dei difensori), nel caso in
cui il
ricorrente proponga anche l’istanza
cautelare. Non è prevista una fase istruttoria
necessaria, visto che in molti casi (in relazione
soprattutto all’azione di
annullamento) il deposito
del provvedimento impugnato unitamente agli atti
procedimentali a cura dell’amministrazione (art.
46, comma 2) è sufficiente per poter appurare
l’esistenza dei vizi dedotti nel ricorso. La massima
concentrazione si ha allorché il
giudice ritenga di
procedere alla definizione del giudizio con
sentenza in forma
semplificata assunta all’esito
della fase cautelare (art. 60). La collegialità vale sia
per la fase di merito, sia per la fase cautelare, visto
che qualora sia stata concessa
una misura
cautelare monocratica, il decreto cautelare perde
efficacia se non è
confermato dal collegio in
camera di consiglio (art. 56, comma 4).
5.
Un altro principio è quello del doppio grado di
giudizio enunciato Il doppio grado di
giudizio
già dall’art. 125,
comma 2, Cost.,
attuato compiutamente, come si è
detto, dalla
legge del 1971 istitutiva dei Tribunali
amministrativi regionali e previsto
ora dall’art.
100 Codice.
Si è discusso in dottrina e in
giurisprudenza se
l’appello nel processo amministrativo sia da
considerare un mezzo di
gravame in senso proprio
(rinnovatorio o sostitutivo della sentenza di primo
grado),
oppure un mezzo di impugnazione
meramente eliminatorio (cassatorio) della
sentenza di
primo grado.
Sembra preferibile la prima
concezione. Infatti
l’appello può essere proposto senza alcuna
484 limitazione di motivi e
il Consiglio di Stato, di
regola, se accoglie il ricorso decide
della
controversia nel merito senza rimettere la
questione al TAR competente (art. 105 Codice che
prevede la rimessione solo in casi
eccezionali
tassativi come nel caso in cui sia mancato il
contraddittorio).
La parte appellante (soccombente
nel giudizio di
primo grado) individua nel ricorso in appello i capi
di sentenza oggetto
di impugnazione e con
riferimento ad essi deve dedurre specifiche
censure (art. 101, comma 1, Codice). Deve inoltre
riproporre
espressamente le domande e le
eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate
nella
sentenza di primo grado che altrimenti si
intendono rinunciate (art. 101, comma 2). Un
onere analogo grava sulle altre
parti. La parte
vincitrice in primo grado può anche proporre
l’appello incidentale
contro i capi di sentenza
sfavorevoli.
Nel giudizio d’appello non possono
essere
proposte nuove domande, né nuove eccezioni non
rilevabili d’ufficio. Non sono
ammessi nuovi mezzi
di prova o nuovi documenti, salvo che il collegio li
ritenga
indispensabili o la parte dimostri di non
averli potuti proporre o produrre nel giudizio
di
primo grado per causa ad essa non imputabile (art.
104). Il cosiddetto effetto
devolutivo dell’appello
consiste nella riemersione in sede di appello del
materiale di
cognizione e probatorio del giudizio di
primo grado in modo tale che il giudice
d’appello
possa conoscere della controversia con la stessa
pienezza del giudice di primo
grado. Esso subisce
tuttavia molte limitazioni.
Anche nel giudizio d’appello è
prevista una fase
cautelare. L’appellante può chiedere infatti la
sospensione
dell’esecutività della sentenza ove
dalla sua esecuzione derivi un danno grave e
irreparabile (art. 98).
In virtù del cosiddetto rinvio
interno, il processo si
svolge, salvo deroghe espresse, secondo le regole
del giudizio
di primo grado (art. 38).
Oltre all’appello il Gli altri mezzi di
impugnazione
processo
amministrativo
prevede altri mezzi di impugnazione e cioè la
revocazione, l’opposizione di terzo e il ricorso per
Cassazione (artt. 106-111).
Per quest’ultimo il Codice riprende
il principio
costituzionale, già ricordato, per cui il ricorso è
ammesso, come si è
detto, «per soli motivi inerenti
alla giurisdizione» (art. 100). La sospensione
cautelare della sentenza oggetto del ricorso in
Cassazione può essere disposta, in caso
di
eccezionale gravità e urgenza, dallo stesso
Consiglio di Stato (art. 111).
Il Codice dedica Altri istituti
processuali
alcuni articoli alle
questioni di
giurisdizione, disciplinando in particolare
il
cosiddetto regolamento preventivo di
giurisdizione (art. 10); pone alcuni criteri per
individuare il Tribunale amministrativo regionale
fornito di competenza (artt. 13 ss.); regola
numerosi altri istituti processuali
(astensione,
ricusazione, patrocinio, ecc.). Prevede inoltre,
accanto al rito ordinario
(al quale è dedicato il
Libro II, Titolo I), una serie di riti speciali. Essi
sono
previsti, in particolare, in materia di accesso
ai documenti amministrativi (art. 116),
per alcune
controversie per le quali il legislatore ritiene che
sussistano esigenze
particolari di una definizione
più rapida dei giudizi (artt. 119 ss.), per le
procedure di affidamento di lavori
pubblici, servizi
e forniture (artt. 120 ss.), per il contenzioso
485 elettorale (artt. 126 ss.).
al 2017 è in vigore il cosiddetto
processo
D
amministrativo telematico: tutti gli atti e
documenti prodotti dalle parti sono
depositati con
modalità telematiche e con analoga modalità sono
sottoscritti tutti gli
atti del giudice, dei suoi
ausiliari e delle parti (art. 136, commi 2 e
2-bis,
Codice del processo amministrativo). Nella fase
iniziale
della pandemia da Covid-19 anche le
udienze si sono svolte in remoto su piattaforme
informatiche.
10. I
ricorsi amministrativi
1.
L’art. 100, comma 2, Cost. include la Corte dei
conti tra gli
organi ausiliari dello Stato e le
attribuisce funzioni di controllo preventivo di
legittimità sugli atti del governo, di controllo
successivo sulla gestione del bilancio
dello Stato e
di controllo sulla gestione finanziaria degli enti ai
quali lo Stato
contribuisce in via ordinaria.
Accanto alle funzioni di controllo,
la Corte dei
conti esercita funzioni propriamente
giurisdizionali «nelle materie di
contabilità
pubblica e nelle altre specificate dalla legge» (art.
103 Cost.).
La giurisdizione della Corte dei
conti riguarda i
seguenti settori: a) la responsabilità erariale e
contabile dei pubblici funzionari, che rappresenta
la funzione giurisdizionale più
rilevante sul piano
politico-istituzionale; b) il contenzioso in
materia
pensionistica; c) i giudizi di conto;
d) i giudizi a
istanza di parte in materia contabile
(essenzialmente ricorsi proposti da esattori,
tesorieri e agenti contabili). Le
disposizioni sul
processo innanzi alla Corte dei conti sono ora
contenute nel Codice
della giustizia contabile
487 approvato con d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174.
Merita qualche considerazione più
specifica il
giudizio in materia di Il giudizio di
responsabilità
responsabilità amministrativa
erariale
e contabile
che sorge, come si è
visto nel capitolo VII, a carico dei dipendenti
pubblici per i danni causati all’erario nell’esercizio
delle loro funzioni.
I l giudizio è promosso dalla
procura regionale nel
termine di prescrizione di cinque anni (art. 66,
comma 1, Codice) all’esito di un’istruttoria aperta
d’ufficio o in seguito a esposti e denunce
(obbligatorie per i dirigenti e i
responsabili delle
strutture di vertice delle amministrazioni) che
devono essere
circostanziate (artt. 51 ss. sulla
notizia di danno erariale). La procura è
titolare di
ampi poteri istruttori, potendo disporre
l’esibizione di documenti,
audizioni personali,
ispezioni e accertamenti, consulenze tecniche
(artt. 55 ss.).
Prima di emettere il decreto di
citazione in
giudizio, il procuratore notifica al presunto
responsabile un invito a
dedurre nel quale sono
esplicitati gli elementi essenziali del fatto illecito.
Deduzioni
scritte difensive e documenti possono
essere presentati entro un termine non inferiore a
45 giorni (art. 67). Il presunto responsabile può
chiedere di essere sentito
personalmente,
facendosi anche assistere da un avvocato. Il
procuratore è titolare di
poteri istruttori d’ufficio
molto estesi (esibizione e sequestro di documenti,
ispezioni, audizioni personali, accertamenti,
perizie, consulenze). Scaduto il termine
per le
deduzioni a difesa, il procuratore entro un termine
perentorio di 45 giorni
emette l’atto di citazione
oppure dispone l’archiviazione (artt. 86 e 69). Tra
invito a
dedurre e citazione deve sussistere, a pena
di nullità di quest’ultima, una piena
corrispondenza (art. 87). L’atto di citazione è
notificato al convenuto dopo che il
presidente ha
fissato l’udienza pubblica e assegnato il termine
per il deposito di
scritti difensivi. La fase
dibattimentale in udienza pubblica (art. 91)
avviene davanti
alla sezione regionale della Corte
dei conti, la quale può disporre l’acquisizione di
ulteriori elementi probatori (art. 94). Contro le
decisioni delle sezioni regionali è
ammesso
l’appello alle sezioni giurisdizionali centrali (art.
189). La proposizione
dell’appello sospende
l’esecuzione della sentenza impugnata (art. 190,
ultimo comma).
I mezzi di impugnazione contro le
sentenze sono,
oltre all’appello, l’opposizione di terzo, la
revocazione e il ricorso
per Cassazione per i soli
motivi inerenti alla giurisdizione (art. 117).
Alla riscossione dei crediti
relativi alle somme
liquidate a carico dei responsabili per danno
erariale con la
sentenza definitiva provvede, sotto
la vigilanza del pubblico ministero, la stessa
amministrazione che ha l’obbligo di avviare
immediatamente l’azione di recupero del
credito
(in via amministrativa, mediante esecuzione
forzata o iscrizione a ruolo) (artt. 214 ss.).
Il giudizio di responsabilità
innanzi alla Corte dei
conti costituisce una specificità del nostro
ordinamento.
Infatti, in altri ordinamenti sono le
stesse pubbliche amministrazioni danneggiate che
si attivano per la rifusione del danno subito da
parte dei propri dipendenti.
Le commissioni
tributarie
2.
Sono giudici
amministrativi
speciali le commissioni
tributarie provinciali e
regionali disciplinate dal d.lgs. 31 dicembre 1992, n.
545. Le commissioni in questione
sono composte
488 da magistrati e da altre figure professionali
(avvocati, dipendenti pubblici laureati, ufficiali
della guardia di finanza cessati dal
servizio,
ragionieri e periti con esperienza specifica, ecc.)
iscritti in appositi
elenchi (art. 9).
Le controversie devolute alla
cognizione delle
commissioni tributarie sono individuate in modo
tassativo dall’art. 2,
d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546
(imposta sui redditi, imposta sul valore aggiunto,
imposta comunale sull’incremento di valore degli
immobili, imposta di registro, ecc.).
Le
controversie non incluse nell’elenco rientrano
invece, in base ai criteri generali,
nell’ambito della
competenza del giudice amministrativo o del
giudice ordinario.
3.
Va qualificato come giudice amministrativo
speciale il
Tribunale Il Tribunale superiore
delle
acque pubbliche
superiore delle
acque pubbliche
composto da magistrati amministrativi e
ordinari e
da tecnici. Questo giudice è titolare di una
competenza generale sui ricorsi
giurisdizionali
contro i provvedimenti amministrativi in materia
di acque pubbliche e di
una competenza speciale di
merito in materia di contravvenzioni e di altri
provvedimenti
di polizia demaniale (art. 143 r.d. 11
dicembre 1933, n. 1775 contenente il Testo
unico
delle leggi sulle acque e sugli impianti elettrici).
I l Testo unico contiene un elenco
delle
controversie devolute in primo grado ai Tribunali
regionali (artt. 140 e 141):
demanialità delle acque,
limiti dei corsi d’acqua e bacini; diritti relativi alle
derivazioni e all’utilizzo delle acque pubbliche;
indennità e risarcimenti per
occupazioni ed
espropriazioni di fondi per l’esecuzione e
manutenzione di opere
idrauliche; risarcimento
dei danni derivanti da opere idrauliche eseguite
dalla pubblica
amministrazione; ricorsi in materia
di indennità di espropriazione dei diritti esclusivi
di pesca nelle acque demaniali; appello contro le
sentenze relative alle azioni
possessorie.