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1.

Alcaloidi: definizione e classificazione

1.1 Definizione

Gli alcaloidi sono composti chimici presenti in natura contenenti atomi


di azoto basico.1 Il nome deriva dal termine “alcalino”, cioè dotato di
proprietà basiche. Una prima definizione del 1817, infatti, ne specifica le
caratteristiche principali: composti contenenti atomi di azoto basico
capaci di formare sali in presenza di acidi, presenti nelle piante e
farmacologicamente attivi.

Gli alcaloidi, in realtà, sono prodotti da una grande varietà di organismi,


inclusi batteri, funghi, piante e animali e fanno parte di un gruppo di
sostanze naturali, detto dei metaboliti secondari: composti non essenziali
per la crescita, lo sviluppo o la riproduzione degli organismi ma
principalmente coinvolti nella difesa contro patogeni (grazie alla loro
azione antibatterica e antifungina) ed erbivori (grazie al loro sapore
estremamente amaro che funge da deterrente all’ingestione). 2

Gli alcaloidi in genere sono insolubili in acqua ma solubili in alcol, etere


o altri solventi organici; a temperatura ambiente sono solidi incolori, con
poche eccezioni, e il sapore è fortemente amaro. La distribuzione nei
tessuti è eterogenea ma aumenta con l'età e le dimensioni della pianta e
si concentra nelle parti superficiali, come foglie, radici e corteccia.

1
Nella storia dell’umanità, diversi alcaloidi da estratti di piante sono stati
utilizzati sia come ingredienti per medicamenti che come veleni. Oggi, in
tutto il mondo, alcaloidi isolati da piante e loro derivati sintetici sono
utilizzati come sostanze medicinali per il loro effetto analgesico,
antispastico e antimicrobico.3

Recenti studi sulle attività biologiche degli alcaloidi e sul loro potenziale
terapeutico hanno portato a definirne nuove proprietà, tra cui spiccano
quelle antineoplastiche4 e immunomodulanti5.

2
1.2 Classificazione

1.2.1 Alcaloidi veri, proto-alcaloidi, pseudo alcaloidi

Varie classificazioni sono state proposte per gli alcaloidi. Una delle più
popolari prevede la loro suddivisione in tre sottogruppi: alcaloidi veri,
proto-alcaloidi, pseudo alcaloidi.

Gli alcaloidi veri sono composti chimici contenenti uno o più atomi di
azoto all’interno di un anello eterociclico e derivati da amminoacidi,
soprattutto ciclici (fenilalanina, tirosina, triptofano, istidina). Ne è un
esempio la stricnina (fig.1), un alcaloide molto tossico derivato dal
triptofano ed estratto dai semi essiccati di Strycnos vux vomica (noce
vomica). I semi contengono l’1.2% di stricnina e 60 mg possono
uccidere un adulto. La stricnina agisce come potente eccitante del
sistema nervoso bloccando i recettori post-sinaptici per la glicina
(neurotrasmettitore inibitorio) e determinando convulsioni.

Fig.1 Struttura chimica della stricnina

3
I proto-alcaloidi sono composti chimici sempre derivati da amminoacidi
ma che non contengono atomi di azoto all’interno di anelli eterociclici.
Ne sono un esempio l’efedrina (fig.2, immagine a sinistra) e la
colchicina (fig2, immagine a destra). L’efedrina è un’amina
simpaticomimetica estratta da alcune piante appartenenti al genere
Ephedra, naturale precursore delle amfetamine; derivata
dall’amminoacido fenilalanina, è utilizzata come farmaco antiasmatico e
in oftalmologia come farmaco midriatico. La colchicina, estratta dal
Colchicum autumnale (detto anche falso zafferano), per la sua capacità
di inibire la formazione del fuso mitotico è utilizzata come farmaco
antinfiammatorio nel trattamento della gotta, della febbre mediterranea
familiare e delle pericarditi.

Fig.2 Struttura chimica dell’efedrina e della colchicina

Gli pseudo-alcaloidi comprendono i composti chimici non derivati da


amminoacidi. Ne sono un esempio la caffeina (fig.3) e la teobromina. La
caffeina è una sostanza psicoattiva dall’effetto stimolante naturalmente
presente in foglie, semi e frutti di caffè (Coffea arabica e Rubiaceae), tè

4
(Camellia Sinensis e Theaceae), yerba mate (Ilex paraguariensis e
Aquifoliaceae), guaranà (Paullinia cupana) e cola (Cola nitida).

La teobromina ha come fonte principale i semi di cacao (Theobroma


cacao e altri generi della famiglia delle Sterculiaceae).

Fig.3 Struttura chimica della caffeina

1.2.2 Alcaloidi e classificazione in base alla struttura


e al precursore di biosintesi

Una seconda classificazione, ideata da Manfred Hesse, prevede la


suddivisione degli alcaloidi in dieci sottogruppi in base alla struttura ad
anelli eterociclici e al precursore di biosintesi: tropanici, pirrolidinici,
purinici, isochinolinici, imidazolici, chinolizidinici, indolici, piperidinici,
piridinici, pirrolizidinici.6

5
Gli alcaloidi tropanici sono alcaloidi, derivati dall’ornitina, che
presentano un doppio anello azotato. Atropina, iosciamina, scopolamina
e cocaina sono i membri più noti di questo gruppo e possiedono
numerosi effetti farmacologici. L’atropina (fig.4), forma racemica della
iosciamina, si trova in diverse piante della famiglia delle Solenaceae:
Atropa belladonna, Datura stramonius, Hyoscyamus niger. Si tratta di
un’antagonista dell’acetilcolina per i recettori muscarinici (effetto
parasimpaticolitico) ed è utilizzata come farmaco midriatico in
oftalmologia, come spasmolitico in diverse patologie quali coliche,
asma, tosse canina e come antidoto in vari avvelenamenti, tra cui quello
da gas nervino. La scopolamina, sempre ottenuta da piante della famiglia
delle Solenaceae, trova particolare utilizzo nel trattamento delle cinetosi
(mal d’auto, mal di mare). La cocaina, stimolante del SNC e sostanza
d’abuso, si ottiene dalle foglie della coca (Erythroxylum coca).

Fig.4 Struttura chimica dell’atropina

Gli alcaloidi pirrolidinici, composti caratterizzati da una struttura a


cinque anelli con la presenza di atomi di azoto, derivano da ornitina e

6
lisina. Igrina, cuscoigrina e putrescina sono alcuni dei membri di questo
gruppo. L’igrina(fig.5), estratta dalle foglie della coca (Erythroxylum
coca), si presenta come un olio giallognolo e denso, dal sapore e odore
pungenti; rappresenta un importante precursore di iosciamina e
scopolamina.

Fig.5 Struttura chimica dell’igrina

Gli alcaloidi purinici sono composti chimici derivati da una base


purinica, la xantina, presente in natura in forma metilata: metilxantina.
Ne fanno parte teofillina, caffeina(fig.3), teobromina. Varie sono le
azioni farmacologiche di interesse terapeutico: azione stimolante del
SNC, azione antispastica sulla muscolatura liscia, in particolare su quella
bronchiale. La solubilità delle metilxantine è bassa ma aumenta a seguito
della formazione di complessi; il più importante è quello tra teofillina ed
etilendiamina (a formare l’aminofillina), utilizzato come farmaco
broncodilatatore nell’asma.

Gli alcaloidi chinolinici e isochinolinici, conosciuti come


benzopiridine, sono composti eterociclici, frutto della condensazione di
un anello benzenico con uno pirimidinico. Chinino, chinidina,
cinconina, camptotecina sono tra i principali alcaloidi chinolinici. Il

7
chinino(fig.6), estratto dalla corteccia dell’albero della china (Chincona
succirubra) e isolato per la prima volta nel 1817, è un alcaloide dalle
proprietà analgesiche, antipiretiche e antimalariche; efficace contro le
quattro specie del plsmodium, è stato il farmaco principalmente usato per
la cura della malaria fino alla scoperta della clorochina. La chinidina,
stereoisomero del chinino, è utilizzata come farmaco antiaritmico di
classe IA della classificazione di Vaughan Williams. La camptotecina,
estratta dalla corteccia di Camptotheca acuminata, è un importante
farmaco antineoplastico, attivo nella inibizione della topoisomerasi I ed
efficace nel carcinoma polmonare a piccole cellule, nel carcinoma
ovarico e nel carcinoma della cervice uterina.

Fig.6 Struttura chimica del chinino

Gli alcaloidi isochinolinici sono suddivisi in isochinolinici semplici,


benzilisochinolinici e fenetilisochinolinici. Tra i principali alcaloidi
benzilisochinolinici vi sono morfina, codeina, narcotina, protopina,
tebaina. Si tratta di composti estratti dal papavero dell’oppio (Papaver
somniferum), dalle proprietà analgesiche e narcotiche. La morfina(fig.7),
estratta dalla linfa essiccata fuoriuscita dal profondo taglio effettuato
sulle capsule immature prodotte dal papavero dell’oppio, è il più

8
abbondante dei cinquanta alcaloidi ivi presenti. La codeina è utilizzata,
invece, come farmaco antitussivo.

Fig.7 Struttura chimica della morfina

Altri composti chimici appartenenti agli alcaloidi benzilisochinolinici


sono tubocurarina, berberina, sanguinarina. La tubocurarina, alcaloide
naturale estratto dalle cortecce e dalle radici di diverse specie vegetali
tipiche della foresta amazzonica e dell'America del sud, viene utilizzata
in anestesia generale e in terapia intensiva per una migliore gestibilità del
malato; funge da bloccante neuromuscolare in quanto antagonista
competitivo del recettore nicotinico dell'acetilcolina, situato a livello
della placca neuromuscolare dei muscoli striati. La berberina, estratta da
radici, corteccia, rizomi del crespino comune (Berberis vulgaris), vanta
numerose proprietà: antidiarroiche, antimicrobiche, antiinfiammatorie,
antidiabetiche e antineoplastiche. La sanguinarina, ricavata dalla
sanguinaria (Sanguinaria canadensis), pianta erbacea appartenente alla
famiglia delle Papaveracee il cui nome deriva dal lattice rosso che
secerne, presenta anch’essa numerose proprietà farmacologiche.

9
Un esempio di alcaloide fenetilisochinolinico (al cui interno è presente
un anello tropanico) è dato dalla colchicina (fig.2).

Gli alcaloidi imidazolici sono composti contenenti un anello


imidazolico e derivati da L-istidina. Il più famoso membro di questo
gruppo è la pilocarpina(fig.8), estratta dalla pianta Pilocarpus jaborandi.
Potente colinergico sui recettori muscarinici, funge da farmaco
parasimpaticomimetico nel trattamento oftalmologico del glaucoma e
della xerostomia.

Fig.8 Struttura chimica della pilocarpina

Gli alcaloidi chinolizidinici sono composti caratterizzati da una struttura


con un doppio anello eterociclico a sei atomi con un atomo di azoto in
condivisione. Derivano dalle piante del lupino (Lupinus sp.),
appartenenti alla famiglia delle Fabacee. Ne fanno parte la lupanina, la
lupinina(fig.9) e la sparteina; si tratta di alcaloidi che conferiscono al
lupino il suo tipico gusto amaro e la cui tossicità è inattivata dalla cottura

10
e dalla prolungata immersione in acqua. Sono caratterizzati da una
spiccata azione antimicrobica.

Fig.9 Struttura chimica della lupinina

Gli alcaloidi indolici sono composti chimici, derivati dall’amminoacido


triptofano, contenenti un anello indolico, cioè un anello benzenico e uno
pirrolico condensati; l’anello indolico è presente anche nella struttura del
neurotrasmettitore serotonina, ciò spiega il perché questi composti
possano interferire o competere con l’azione dello stesso all’interno
dell’organismo umano. Si stima che circa duemila composti siano
classificati come alcalodi indolici. Ne fanno parte ergina, psilocibina,
reserpina, ajmalina, vincristina, vinblastina, vincamina, stricnina
(fig.1). L’ergina (conosciuta anche come LSD naturale; fig.10), è un
alcaloide indolico presente nel fungo ergot (Claviceps purpurea) che
infetta i cereali generando nelle piante degli speroni (da qui il termine
segale cornuta) ricchi di questo alcaloide, la cui ingestione provoca
l’ergotismo (detto fuoco di Sant’Antonio): convulsioni, turbe psichiche,
necrosi gangrenosa degli arti. L’ergina si trova anche in alcune varietà di
Bella di giorno (Ipomoea violacea), appartenenti alla famiglia delle
Convolvulaceae. Reserpina e Ajmalina sono entrambe estratte dalle
radici di Rauwolfia serpentina, una pianta angiosperma della famiglia
delle Apocynaceae; la prima presenta attività antiipertensiva e

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antipsicotica, la seconda è inscritta tra i farmaci antiaritmici di classe IA.
Vinblastina e vincristina, alcaloidi estratti dalle foglie della Vinca rosea
(Catharanthus roseus), appartenente alla famiglia delle Apocynaceae,
sono utilizzati come farmaci antineoplastici; chiamati veleni del fuso per
la loro capacità di causare la depolimerizzazione dei microtubuli del fuso
mitotico, sono molto efficaci nel trattamento di leucemia e linfoma di
Hodgkin.

Fig.10 Struttura chimica dell’ergina

Gli alcaloidi piperidinici sono alcaloidi naturali, derivati dalla lisina,


contenenti un anello eterociclico saturo (nucleo piperidinico). Ne fanno
parte piperina (fig.11), coniina, lobelina. La piperina si estrae dai frutti
essiccati del pepe nero (Piper nigrum), pianta appartenente alla famiglia
delle Piperaceae e diffusa particolarmente in India e Indonesia. Le si
riconoscono numerose proprietà farmacologiche: antiossidante,
antidiarroica, antiinfiammatoria, antineoplastica, anticonvulsivante. La
coniina, estratta dalla cicuta maggiore (Conium maculatum) e dalle
foglie del sambuco (Sambucus nigra), è un alcaloide tossico che funge
da vera e propria neurotossina, bloccando i recettori colinergici post-

12
sinaptici a livello della giunzione neuromuscolare e determinando
paralisi muscolare e morte per asfissia. Celebre vittima ne è stato
Socrate. La lobelina, estratta dal Tabacco indiano (Lobelia inflata), è
utilizzata nel trattamento delle dipendenze da sostanze d’abuso per la sua
capacità di inibire il reuptake di dopamina e serotonina.

Fig.11 Struttura chimica della piperina

Gli alcaloidi piridinici presentano una struttura simile agli alcaloidi


piperidinici ma che si differenza per la sua aromaticità. Nicotina(fig.12),
anatabina, anabasina, arecolina sono alcuni membri di questo gruppo.
La nicotina, alcaloide tossico dagli effetti parasimpaticomimetici e
stupefacenti, è estratta dalle foglie della pianta del tabacco (Nicotiana
tabacum), appartenente alla famiglia delle Solanaceae. Agisce come
agonista dei recettori nicotinici per l’acetilcolina; a basse dosi esercita
un’azione stimolante del SNC, ad alte dosi determina un blocco dei
recettori nicotinici e conseguente paralisi dei muscoli, tra cui quelli
respiratori. Anatabina e anabasina, anch’esse estratte dalla pianta del
Tabacco, presentano caratteristiche sia strutturali che farmacologiche
simili alla nicotina. L’arecolina, alcaloide naturale estratto dalle noci di
Betel, frutto della pianta Areca Catechu, presenta un’attività

13
parasimpaticomimetica, agendo principalmente sui recettori muscarinici
per l’acetilcolina.

Fig.12 Struttura chimica della nicotina

Gli alcaloidi pirrolizidinici sono composti, contenenti una base necina


(anello eterociclico a cinque membri), presenti in piante come
Leguminosae, Convolvulaceae, Boraginaceae, Compositae, Poaceae e
Orchidaceae. Tra i più noti vi sono eliotrina, echinatina, senecionina
(estratta da Senecio vulgaris; fig 13.), clivorina, riddelliina. Si tratta di
alcaloidi epatotossici, capaci di causare malattia veno-occlusiva epatica e
cancro del fegato. Per la loro azione di inibizione delle glucosidasi, sono
utilizzati nel trattamento di diabete e cancro.

Fig.13 Struttura chimica della senecionina

14
2. Alcaloidi e funzione tiroidea

2.1 Sintesi degli ormoni tiroidei

Tra gli alcaloidi vi sono delle sostanze che possono interferire con la
funzione della tiroide, in particolare con la sintesi degli ormoni tiroidei,
il che comporta il rischio di sviluppare il gozzo o alterazioni della
funzionalità come l’ipotiroidismo; questo si evince da vari studi in vivo e
in vitro.

La sintesi degli ormoni tiroidei (fig.14) prevede diverse fasi.


L'assorbimento di iodio è un processo attivo eseguito dal trasportatore
simporto sodio/ioduro (NIS) situato nella membrana basolaterale delle
cellule follicolari. Lo ione ioduro è trasportato nel lume follicolare dove
viene ossidato e legato covalentemente alla tireoglobulina (TG)
dall'azione dell'enzima perossidasi tiroidea (TPO), situato sulla
membrana apicale. La iodinazione della tireoglobulina porta alla
formazione delle molecole di ormoni tiroidei ancora legate in modo
covalente alla proteina. La tireoglobulina iodinata viene riassorbita per
endocitosi e idrolizzata con conseguente rilascio nel citosol e quindi poi
ai capillari degli ormoni tiroidei, tetraiodiotirosina e triiodotirosina (T4 e

15
T3). Il processo idrolitico provoca anche il rilascio di moniodo- e
diiodotirosina (MIT e DIT) che sono ulteriormente metabolizzate dalle
iodotirosina dealogenasi (DHEAL) per consentire il riciclo dello ioduro.
Tutti questi passaggi sono sotto il controllo del TSH attraverso il
recettore del TSH (TSHR). 7

I composti antitiroidei causano una diminuzione della secrezione di T4 e


T3 che si traduce in una riduzione del meccanismo regolatorio di
feedback negativo con un conseguente aumento di secrezione di TRH e
TSH, il che stimola la crescita e la funzione della tiroide. In alcuni casi,
l'ingrossamento della ghiandola tiroidea può compensare la funzione
alterata e il paziente è eutiroideo, in altri casi il compenso non è
sufficiente e si svilupperà l’ipotiroidismo.

Un altro meccanismo esercitato da alcuni composti alcaloidi e che


contribuisce a ridurre la funzionalità tiroidea è l’inibizione dell’enzima
deiodinasi D1 a livello epatico; tale enzima è deputato alla conversione
dell’ormone T4 in T3 (quest’ultimo presenta un’attività da tre a cinque
volte maggiore).

16
Fig. 14 Illustrazione schematica della sintesi degli ormoni tiroidei

2.2 Principali alcaloidi interferenti con

la funzione tiroidea

I principali composti alcaloidi che interferiscono con la funzione tiroidea


sono: l’arecolina, l’armina, la piperina, la caffeina e la nicotina.

L'arecolina è un alcaloide psicoattivo naturale estratto dalla noce di


betel dell'Areca catechu, una pianta che cresce nelle coste del sud-est
asiatico, dell'Africa orientale e del Pacifico occidentale. Le noci vengono
masticate da milioni di persone per aumentare la capacità di lavorare e
ridurre lo stress. L'arecolina è un agonista parziale dei recettori nicotinici
e muscarinici dell'acetilcolina e mostra diverse attività farmacologiche,
inclusi effetti endocrini e metabolici.

In diversi studi l'arecolina ha mostrato una duplice azione sulla tiroide


del ratto, stimolando inizialmente la funzione tiroidea per poi

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determinarne una successiva inibizione, probabilmente per l'effetto
citotossico di questo composto, come dimostrato dai cambiamenti
ultrastrutturali osservati nei tireociti (cellule follicolari disorganizzate
con nuclei ipercromici rimpiccioliti, dilatazione estesa delle cisterne del
reticolo endoplasmatico ruvido, riduzione in numero e dimensioni di
granuli secretori, vescicole secretorie e materiali colloidi; Fig.15)8 e dai
segni di degenerazione mostrati dalle cellule C parafollicolari.

Fig.15 (A) Fotografia al microscopio elettronico della ghiandola tiroidea dei ratti di
controllo che mostra numerosi follicoli sani di grandi dimensioni (HF), ognuno dei
quali è rivestito da un singolo strato di grandi cellule epiteliali cuboidali (CE) con
orientamento regolare del nucleo, rotondo, prominente e situato verso la membrana

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basale e contiene abbondanti materiali colloidali(CM); (B) Trattamento con
arecolina che mostra un aumento del numero di follicoli disorganizzati (DF), di
forma irregolare con dimensioni cellulari ridotte (CS) e nuclei picnotici distribuiti in
maniera random;

L'esposizione acuta all'arecolina (singola iniezione intraperitoneale)


causa nei ratti entro 40 minuti un aumento dei livelli sierici di T3 e T4
associato a una diminuzione delle concentrazioni sieriche di TSH. Il
trattamento a lungo termine (10 mg/kg di peso corporeo al giorno per 15
giorni), invece, induce la degenerazione ultrastrutturale delle cellule
follicolari tiroidee con riduzione dei livelli sierici di T3 e T4 seguita da
un aumento del TSH.

Si tratta comunque di dosi nettamente inferiori a quelle assunte da un


masticatore usuale di noci di betel. Difatti, una noce di betel contiene 7,5
mg di arecolina. Il peso medio di una singola noce è di 1 g. Un
masticatore di noci di betel consuma generalmente 2-3 noci al giorno
(cioè 7,5 mg × 1 g × 2-3 noci = 15-22,5 mg), il che porta a considerare le
dosi utilizzate nell’esperimento sui ratti come parafisiologiche e fa
pensare che gli effetti nell’uomo possano essere di gran lunga maggiori.

L'arecolina agisce attraverso il recettore colinergico muscarinico che si


trova in tutte le cellule effettrici, comprese le cellule tiroidee di ratto. I
recettori muscarinici sono coinvolti nell'aumento dei livelli di TSH e
nella sintesi degli ormoni tiroidei, con la regolazione cellulare che si
estrinseca tramite cascata cAMP che fa sì che la fosfolipasi C (PLC)
rilasci, dal fosfatidililinositolo 4,5-bifosfato, il diaceilglicerolo (DAG) e
l'inositolo 1,4,5-trifosfato (IP3) e a sua volta il Ca2+ dalle riserve
intracellulari.

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La doppia azione dell'arecolina sull'attività tiroidea dipende
dall’ampiezza dell’effetto tossico di questo composto, perché l'arecolina
in trattamento acuto (20-40 min) è meno tossica rispetto al trattamento
cronico (15 giorni). L’effetto tossico dell’arecolina nel primo trattamento
(cioè in singola dose di 10 mg / Kg e in brevissimo tempo: 40 min)
probabilmente non è forte abbastanza da causare degenerazione della
tiroide, osservata invece nel trattamento cronico (cioè in dosi elevate a
10 mg / Kg per 15 giorni).

Nei successivi studi, è stato dimostrato che il trattamento con arecolina


aggrava l'ipotiroidismo nei ratti sotto stress metabolico9 e migliora la
condizione ipertiroidea nei ratti stressati dal freddo10.

La riposta allo stress è un elemento che incide già singolarmente sulla


funzionalità tiroidea in quanto l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-
surrene causa aumenti dei livelli plasmatici di ACTH, cortisolo ed
endorfine; il cortisolo inibisce l'attività tiroidea sopprimendo la
produzione di TSH e degli ormoni tiroidei.

La privazione di acqua nei ratti mostra come effetto una degenerazione


ultrastrutturale simile a quella osservata dopo il trattamento con
arecolina; parimenti si ha l'esaurimento di T3, T4 e l'aumento dei livelli
di TSH. Il trattamento con arecolina in ratti privati di acqua determina un
ulteriore peggioramento. Tuttavia, nella restrizione idrica cronica si nota
un ridotto livello di TSH, che può essere dovuto alla concomitante
riduzione dell'assunzione di cibo.

La deprivazione alimentare, difatti, come la privazione dell'acqua causa


sì degenerazione ultrastrutturale delle cellule follicolari, accompagnata
da una caduta dei livelli sierici di T3 e T4, ma queste manifestazioni

20
sono meno intense. Ciò è dovuto al fatto che un'importante risposta
adattativa alla denutrizione è rappresentata dalla soppressione della
funzione tiroidea, che si estrinseca con l’abbassamento dei livelli di TSH
e che ha la finalità di ridurre il rate metabolico e offrire maggiori chances
di sopravvivenza. Così lo stress nutrizionale sembra agire sull'asse
ipofisi-tiroide attraverso meccanismi diversi da quelli dello stress
osmotico (stress nutrizionale = abbassamento dei livelli di TSH, stress
osmotico = aumento dei livelli di TSH; entrambi gli stress determinano
riduzione di T3 e T4, il primo però per soppressione dell’attività tiroidea,
il secondo per degenerazione strutturale; su entrambi gli stress
l’arecolina agisce aggravando l’ipotiroidismo). Ne consegue che in un
soggetto affetto da ipotiroidismo il consumo di noci di betel sia
assolutamente sconsigliato.

Lo stress da freddo (4 ° C) mostra invece segni di iperattività della


ghiandola tiroidea, con un ipertiroidismo funzionale caratterizzato da un
aumento dei livelli sierici di T3, ormone ritenuto il principale fattore
della produzione di calore durante la termogenesi non da brivido.
L'esposizione alla temperatura fredda si è visto aumentare l'espressione
dei geni TRH e la secrezione di TSH e ormoni tiroidei.

Il trattamento con arecolina nei ratti stressati dal freddo riduce


l'attività tiroidea per degenerazione ultrastrutturale della ghiandola,
abbassando i livelli di T3 e T4, e aumenta quelli di TSH
(consensualmente al freddo); può perciò avere un valore terapeutico
nel migliorare il quadro clinico di un soggetto ipertiroideo.

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L'armina, alcaloide presente in diverse piante medicinali, si è
dimostrata11 un efficace inibitore dell'attività della perossidasi di rafano
con una IC50 (concentrazione inibente il 50% del bersaglio enzimatico)
di 141,4 μM. Ciò probabilmente è dovuto alla sua struttura chimica,
caratterizzata da un anello ciclico benzenico. La modellizzazione
molecolare, tramite programma AutoDock Vina, ha permesso di
analizzare le diverse interazioni e i meccanismi di inibizione della
perossidasi di rafano e la possibile applicazione sulla tireoperossidasi
umana.

La tireoperossidasi (TPO) è una proteina di membrana apicale


contenente eme che agisce come enzima principale per le fasi iniziali
della biosintesi degli ormoni tiroidei all'interno del lume follicolare dei
tireociti; la sua inibizione è un evento molecolare ampiamente accertato
come efficace nel blocco della loro sintesi (farmaci antitiroidei tra cui
metimazolo e 6-propiltiouracile ne sono un esempio).

Nelle simulazioni di docking sull’interazione tra armina e TPO, con e


senza eme, la modalità di legame adottata da questa molecola è
caratterizzata dal gruppo pirimidinico che si deposita all'interno di
un'apertura rivestita con residui di amminoacidi idrofobici nel sito
catalitico dell’enzima (tra cui Leu138, Ala140, Pro141 e His42; Fig.16).
Le simulazioni con il gruppo eme rivelano una conformazione di
attracco migliore, con più interazioni, compresa quella idrofobica tra il
metile del gruppo eme e il gruppo aromatico dell’armina. Questi studi
suggeriscono quindi un potenziale uso di questo composto come
farmaco antitiroideo.

22
Fig.16 Modellizzazione dell’interazione tra armina e TPO

La piperina, il principale alcaloide contenuto nel Piper nigrum (pepe


nero), sembra poter anch’essa rappresentare una sostanza dall’effetto
antitiroideo, al pari del propiltiouracile. Sui modelli murini, ad un
dosaggio di 2,5 mg/kg/die riduce significativamente le concentrazioni
sieriche di T3 e T4 e l'attività D1 del fegato; ad una dose più bassa, 0,25
mg/kg/die, riduce solo l'attività epatica D1 e le concentrazioni sieriche di
T3.12

Studi più recenti13 hanno però destato dubbi sulla possibilità dell’utilizzo
della piperina quale sostanza antitiroidea. La somministrazione di una
bevanda a base di pepe nero (con la scopo di valutare le possibili
variazioni sui valori di glicemia post-prandiale, ormoni tiroidei, sostanze
attive intestinali, senso di appetito), nella ricerca sulla prevenzione e sui
potenziali trattamenti di sovrappeso e obesità, ha portato alla conclusione
che sebbene vi sia un effetto di diminuzione del senso di appetito,
tuttavia, non vi sono altre significative modifiche dei parametri in
osservazione. Che questo effetto (o non effetto) sia imputabile, tra i vari

23
composti presenti nel pepe nero, anche alla piperina è altamente
probabile; però, a seguito delle metodiche utilizzate (tempi e temperatura
di estrazione), non è stato possibile estrarre e identificare tale sostanza
dalla bevanda, motivo per cui i risultati non possono considerarsi in tal
senso esaustivi.

La caffeina rappresenta il componente più studiato del caffè14. La


caffeina è stata utilizzata per più di 40 anni come farmaco nella medicina
neonatale, principalmente per il trattamento dell'apnea, ma l'effetto
complessivo dell'esposizione alla caffeina non è stato tutt’oggi compreso
appieno.

Nei ratti neonati, una singola somministrazione di caffeina induce una


risposta bifasica, con livelli plasmatici di T4 elevati dopo 4 ore e poi
ridotti 24 ore dopo la somministrazione, senza sostanziali alterazioni nei
livelli di TSH. Ciò fa pensare che la diminuzione della concentrazione di
T4 sia un effetto diretto della caffeina sulla ghiandola tiroidea. Tuttavia,
dopo 10 giorni di somministrazione di caffeina, le concentrazioni
sieriche basali di TSH e T4 sono aumentate, sebbene dopo stimolo con
TRH ciò non sia avvenuto (il che fa pensare che in cronico la caffeina
possa determinare un depauperamento della riserva ipofisaria). Un
successivo studio, sui neonati pretermine, ha dimostrato che la caffeina a
7 giorni è associata negativamente ai livelli di TSH, a 14 giorni
positivamente, a 28 giorni senza più alcuna correlazione. Quindi, nei
neonati, parrebbe plausibile un transitorio effetto della caffeina sulla
funzione tiroidea.

24
Nei ratti adulti, invece, l'iniezione acuta di caffeina determina a 6 ore una
diminuzione dei livelli di TSH e degli ormoni tiroidei (tale risultato
viene meno se preceduto da somministrazione di siero anti-
somatostatina, il che suggerisce che l'effetto della caffeina sul rilascio di
TSH sia mediato dalla somatostatina derivata dall'ipotalamo); a 7 giorni
non vi è più alcuna correlazione tra caffeina e livelli di TSH, per un
probabile meccanismo di tolleranza. L’evidenza di ciò nell’uomo appare
più complessa ma sembra comunque puntare sul medesimo risultato: la
somministrazione di dosi in acuto di caffeina in un soggetto che beve da
1 a 3 tazzine di caffè al giorno non determina nessun cambiamento nei
livelli di TSH e degli ormoni tiroidei.

Infine, anche la nicotina, secondo diversi studi, sembra possa


influenzare la funzione tiroidea, in particolare nelle prime fasi della vita.

In studi condotti su ratti in lattazione 15, il trattamento con nicotina


(infusioni di nicotina a 6 mg/kg per i primi 14 giorni di vita) ha causato
ipotiroidismo.

Misurando l’attività delle deiodinasi D1 e D2 e i livelli di TRH, TSH, T3


e T4, si è osservato che l'esposizione materna alla nicotina durante il
periodo di allattamento provoca nei lattanti ipofunzione tiroidea primaria
(livelli sierici più bassi di T4 e T3 con un livello più alto di TSH) e
produce sovrappeso e ipotiroidismo secondario (livelli più bassi di TSH,
T4 e T3) nella prole nella vita adulta. Nel dettaglio, si ha minore attività
della deiodinasi D1 nel muscolo e maggiore attività della D2 nel tessuto

25
adiposo bruno (BAT), nel cuore e nei testicoli, con livelli di TRH e TSH
più bassi.

Nonostante lo stato ipotiroideo dei tessuti periferici, questi animali


sembrano sviluppare un meccanismo adattivo per preservare la
conversione da tiroxina a triiodotironina nei tessuti centrali, un
meccanismo presente anche nell’obesità centrale che induce uno stato
ipometabolico atto a garantire un'adeguata fonte intracellulare di ormone
tiroideo in quei tessuti centrali: ciò è dato dai livelli immodificati di D2
a livello ipotalamo-ipofisario, grazie ad una resistenza alla leptina che si
sviluppa nei ratti obesi ( e in quelli trattati con nicotina).

Infine, nei ratti adulti16, nessun effetto della nicotina è stato osservato
sulla sintesi e sul metabolismo degli ormoni tiroidei; con un’infusione di
2 mg/Kg di nicotina per 7 giorni, non si è avuto alcun effetto sulle
concentrazioni sieriche di T4, T3, TSH e sull’attività della deiodinasi
epatica sia nei ratti eutiroidei che in quelli subclinicamente ipotiroidei o
tiroidectomizzati).

Anche in vitro, nei follicoli tiroidei suini coltivati17, alle dosi di 0-200
μmol/L di nicotina, non vi è stato alcun cambiamento nel trasporto dello
ioduro e nella sintesi degli ormoni tiroidei.

26
3. Alcaloidi e autoimmunità tiroidea

3.1 Malattie autoimmuni tiroidee (AITD)

Le malattie autoimmuni della tiroide (AITD - Autoimmune Thyroid


Deseases) sono le malattie autoimmuni organo-specifiche più diffuse con
una prevalenza nella popolazione del 5% (donne 5-15% e uomini 1-5%).

27
Sono causate da una disregolazione del sistema immunitario, perdita
della tolleranza immunologica e conseguente risposta immunitaria
(cellulare e umorale contro gli antigeni della ghiandola tiroidea) con
infiltrazione reattiva di cellule T e cellule B, produzione di autoanticorpi
e, successivamente, sviluppo di manifestazioni cliniche. L'infiltrazione
linfocitica provoca danni ai tessuti e altera la funzione della ghiandola
tiroidea. La lesione si provoca quando gli autoanticorpi e/o le cellule T
sensibilizzate reagiscono con le cellule tiroidee provocando la reazione
infiammatoria e, in alcuni casi, la lisi cellulare.

Come per altre malattie autoimmuni, l'eziologia è multifattoriale, con


una complessa interazione di fattori ambientali in individui
geneticamente suscettibili. I geni candidati includono immunoregolatori,
quali quelli per l‘antigene leucocitario umano (HLA) e per l’antigene
citotossico dei linfociti T (CTLA-4), e altri specifici per la tiroide, come
il recettore del TSH o la tireoglobulina (Tg). I principali fattori
ambientali sono fumo, stress, iodio, radiazioni, infezioni.

La popolazione dei linfociti Th1 (attivata dall’interazione con specifici


peptidi iodinati di tireoglobulina) è una delle prime a infiltrare la tiroide
ed è responsabile della risposta immune cellulo-mediata; la popolazione
Th17 ha anch’essa un ruolo nella genesi delle malattie autoimmuni, ma
si pensa solo nelle fasi iniziali; vi è poi quella dei linfociti Th2,
responsabile dell’immunità umorale.

Cellule T e cellule B follicolari (le quali, oltre alla sintesi anticorpale,


svolgono funzione APC e regolatoria di altre cellule linfocitiche)
producono diverse citochine pro-infiammatorie, tra cui IFN-γ e TNF-α;
quest’ultima, in particolare, costituisce uno dei principali fattori

28
attivatori della cascata pro-infiammatoria, oltre a stimolare la formazione
di centri germinali all’interno della tiroide.18

Le malattie autoimmuni tiroidee comprendono due principali


presentazioni cliniche: la tiroidite di Hashimoto (HT-Hashimoto
Thyroiditis) e la malattia di Graves (GD-Graves Desease).

La tiroidite di Hashimoto, principale causa di ipotiroidismo in aree non


carenti di iodio, è una forma caratterizzata da infiltrazione linfocitica
della ghiandola, vari livelli di disfunzione della stessa e presenza di
anticorpi circolanti contro specifici antigeni tiroidei: il TPOAb
(anticorpo anti-tireoperossidasi) e il TgAb (anticorpo anti-
tireoglobulina). Questi autoanticorpi, utilizzati principalmente nella
diagnosi di HT, possono essere anche presenti in individui senza
evidenza clinica o di laboratorio di disfunzione tiroidea; tuttavia, la loro
presenza è correlata a un maggiore rischio di sviluppare la patologia in
futuro.

La malattia di Graves, invece, è caratterizzata clinicamente da


ipertiroidismo e istopatologicamente dall'infiltrazione della tiroide da
parte di cellule T e B reattive al recettore del TSH( e alla TPO e alla Tg).
La stimolazione diretta delle cellule epiteliali tiroidee da parte di
anticorpi contro il TSHR, i TRAb (anticorpi anti-recettore della
tireotropina), innesca cascate di signaling all'interno dei tireociti, che
portano alla sovrapproduzione e alla secrezione di ormoni tiroidei con
conseguente ipertiroidismo clinico. I TRAb sono utili per la diagnosi di
GD in quanto sono presenti in >95% dei pazienti. Questi anticorpi sono
specifici ma non molto sensibili, quindi un risultato negativo non è
conclusivo.

29
Altre manifestazioni autoimmuni tiroidee sono rappresentate dalla
Tiroidite Linfocitica sub-acuta (tiroidite autoimmune associata a
eccessiva assunzione di iodio), dalla Tiroidite Post-partum (a esordio
entro un anno dal parto) e dalla Tiroidite sub-acuta di De Quervain
(tiroidite autoimmune secondaria a infezioni virali); tutte e tre, nella
maggior parte dei casi presentano un caratteristico decorso trifasico, con
una fase ipertiroidea cui ne segue una ipotiroidea e, infine, un recupero
della funzionalità con eutiroidismo.

Esistono, poi, associazioni tra malattie autoimmuni tiroidee e altri organi


specifici (sindromi autoimmuni polighiandolari) o disturbi autoimmuni
sistemici (sindrome di Sjögren, artrite reumatoide, lupus eritematoso
sistemico, sclerosi sistemica, crioglobulinemia, sarcoidosi, artrite
psoriasica). Inoltre, diversi studi hanno dimostrato un'associazione con il
cancro papillare della tiroide.

3.2 Principali alcaloidi e potenziali usi

Attualmente, non esiste una terapia soddisfacente nel trattamento delle


malattie autoimmuni tiroidee, ad eccezione della terapia ormonale
sostitutiva nella Tiroidite di Hashimoto o della soppressione della tiroide
o dell'ablazione nella malattia di Graves. Diversi studi, sia in vitro che in
vivo, suggeriscono però potenziali usi di alcuni composti alcaloidi nel

30
trattamento delle malattie autoimmuni tiroidee, il che potrebbe presto
portare al loro utilizzo nella pratica clinica.

In tal senso i principali alcaloidi sono: cefarantina, anatabina, MYMD-1,


alofuginone, alcaloidi di Nigella Sativa.

La cefarantina, alcaloide naturale estratto dalla pianta Stephania


cepharantha Hayata, si è dimostrata, negli studi in vivo e in vitro, un
potenziale strumento terapeutico nelle AITD, in quanto capace di
bloccare l’attivazione dei linfociti T CD4+ contro gli antigeni tiroidei,
presentati dalle cellule APC.

Tra i fattori genetici correlati allo sviluppo delle AITD vi è ampiamente


riconosciuta una variante HLA classe II delle cellule APC, HLA-DRβ1-
Arg74 (arginina in posizione 74 della catena DRβ1), cui si legano
determinati antigeni tiroidei; l’interazione APC-linfocita T CD4+ avvia
una cascata di segnali e la risposta immunitaria sia umorale che cellulo-
mediata. Bloccando l’interazione tra antigeni tiroidei e HLA-DRβ1-
Arg74 si può evitare l’innesco della risposta autoimmune; la cefarantina,
legandosi a HLA-DRβ1-Arg74, ha dimostrato efficacia in tal senso.

Sono stati identificate ben 5 varianti di tireoglobulina capaci di legarsi a


HLA-DRβ1-Arg74 , dimostrando che Tg.2098 in particolare è il peptide
dominante che induce tiroidite autoimmune sperimentale in ratti che
esprimono DRβ1-Arg74 umano. La cefarantina ha dimostrato la capacità
di inibire tale legame. 19

Nel test in vitro con metodica ELISA si è quindi determinata la potenza


della cefarantina, testando l'inibizione del legame a concentrazioni
decrescenti. La cefarantina lo ha inibito in modo dose-dipendente, con

31
IC50 approssimativo di 0,08 mM. I test in vivo, iniettando cefarantina
nei ratti per via intraperitoneale e analizzando poi gli splenociti per
valutare la mancata riposta di attivazione delle cellule T a Tg.2098
umana, hanno confermato i risultati.

In un successivo studio sono stati identificati anche dei peptidi TSHR


capaci di legarsi a HLA-DRβ1-Arg74, in particolare TSHR.132 e
TSHR.197; solo TSHR.132 si è dimostrato capace di indurre la
proliferazione auto reattiva delle cellule T e le risposte delle citochine.

La cefarantina, anche in questo caso, si è rivelata efficace nell’inibire il


legame TSHR.132 - DRβ1-Arg74 e la risposta autoimmune, sia nei test
in vitro che in vivo.

L’anatabina è uno degli alcaloidi contenuti nelle piante della famiglia


delle Solenaceae, tra cui spiccano la pianta del tabacco.

Che il fumo di tabacco rappresenti un fattore protettivo nei confronti


delle malattie autoimmuni tiroidee è un elemento acclarato da diversi
studi, trasversali e prospettici, in cui si è visto che persone fumatrici,
anche con parenti di primo grado affetti da AITD, hanno minore
probabilità di sviluppare anticorpi contro TPO e/o Tg e conseguente
malattia autoimmune.

Si crede che tale effetto sia dovuto all’azione antinfiammatoria della


nicotina, la quale agisce attraverso il legame con il recettore nicotinico
(un canale ionico pentamerico principalmente per sodio e calcio),
recentemente descritto, oltre che in tutte le fibre pregangliari e le sinapsi

32
neuromuscolari, nelle cellule del sistema immunitario compresi i
linfociti T CD4, le cellule dendritiche e i macrofagi. La nicotina è stata
utilizzata con successo in ratti con encefalomielite autoimmune
sperimentale; tuttavia, non può essere utilizzata negli esseri umani,
perché crea dipendenza, è tossica e ha un’emivita plasmatica di sole tre
ore.

L' anatabina, invece, pur essendo strutturalmente simile alla nicotina,


non da dipendenza, non è tossica a dosi terapeutiche e ha un'emivita più
lunga, di circa otto ore. Per questo è stata utilizzata in uno studio, con
modelli murini con tiroidite autoimmune sperimentale20, che ha portato a
dimostrare la sua utilità nella malattia autoimmune tiroidea definendone
i meccanismi d'azione e la potenziale utilità clinica.

Attraverso dosi diverse di tireoglobulina, è stata prodotta nei ratti una


malattia di bassa, moderata o alta gravità, a cui è stata data acqua
integrata con anatabina. L’analisi ex vivo dell’istopatologia tiroidea,
degli anticorpi anti-Tg, del T4 e dell'espressione dell'RNA tiroideo di
diversi geni infiammatori ha portato ad osservare: ridotta incidenza di
tiroidite e ridotta estensione dell'infiltrato linfocitico tiroideo nei ratti che
la sviluppano, accompagnata da livelli più bassi di anticorpi tiroidei
circolanti (da notare che questo effetto non è stato osservato nei ratti con
tiroidite indotta di alta gravità, suggerendo che qualsiasi applicazione
clinica di anatabina nell'uomo possa essere efficace solo nel trattamento
di pazienti con malattia autoimmune della tiroide precoce e/o lieve);
ridotta trascrizione di NF-β e dell’espressione di IL-18.

Data la somiglianza della struttura con la nicotina, è stato ipotizzato che


l'anatabina determini i suoi effetti legandosi al recettore della nicotina,
presente sulle cellule immunitarie, modulando così il controllo

33
colinergico dell'infiammazione. L'attivazione del recettore nei linfociti,
nelle cellule dendritiche e nei macrofagi ha dimostrato di sopprimere la
traslocazione nucleare di NF-β, indotta dal TNFα, bloccando la cascata
pro-infiammatoria. La riduzione di IL-18 (membro della famiglia IL-1,
prodotto da macrofagi attivati e stimolante la produzione di interferone)
si traduce in una diminuzione della generazione di risposte patogene di
tipo Th1. La stimolazione in vitro, poi, di una linea cellulare di
macrofagi con interferone e anatabina ha portato ad osservare una ridotta
quantità di ossido nitrico-sintasi inducibile e della ciclo-ossigenasi tipo
2.

Il potenziale effetto dell’anatabina sull’uomo è stato indagato in uno


studio in doppio cieco con la metà dei pazienti affetti da HT trattati con
anatabina (9-24 mg/die) per via orale, 3 volte al giorno per 3 mesi. 21 I
risultati di questo studio, a 12 settimane, hanno mostrato una
diminuzione selettiva dei livelli di TgAb ma non di TPOAb nei pazienti
con tiroidite di Hashimoto in trattamento, avvalorando l’ipotesi che
l'anatabina possa ridurre i TgAbs proprio come il fumo ma senza
nicotina o esposizione a suoi costituenti tossici, il tutto sicuro e ben
tollerato, con eventi avversi lievi, quali vertigini, nausea, cefalea, corretti
con l’aggiustamento della dose. Restano perplessità circa alcuni aspetti
dello studio, quali la breve durata, la contemporanea assunzione di
vitamina D (dotata di effetto antinfiammatorio) e di levotiroxina;
pertanto, ulteriori studi sull’anatabina saranno necessari.

Il ruolo degli alcaloidi del tabacco nella prevenzione e nel potenziale


trattamento delle AITD trova ulteriori conferme negli studi effettuati su
MYMD-1, un derivato sintetico di questi; un composto nuovo e

34
apparentemente non tossico capace di migliorare i quadri di tiroidite
autoimmune sperimentale riducendo la risposta Th1 e il rilascio di TNF-
α.18

Utilizzando un modello murino H-2h4 di tiroidite spontanea (indotta


dalla presenza dell'allele K suscettibile alla tiroidite nel locus MHC di
classe II A) e successive analisi in vitro di cellule T spleniche isolate,
dopo trattamento di 12 settimane con acqua contenente MYMD-1 (185
mg / l) e ioduro di sodio (500 mg / l), si è osservato: ridotta incidenza e
gravità della tiroidite (valutazione istopatologica), ridotto numero di
cellule Th1 CD3+/CD4+ e cellule B CD19 + (valutazione tramite
citometria a flusso), ridotti livelli di TNF-α e di AbTg. (Fig.17)

La produzione di IFN-, IL-17 e IL-4 non è stata, invece, influenzata da


MYMD-1, come anche la stimolazione di cellule Th17 (forse per un
effetto selezionale di MYMD-1 o per un ruolo minore di Th17 nelle fasi
successive della malattia).

35
Fig.17 . Alcuni dei risultati dello studio 18 su MYMD-1 . (A e B) Gravità e incidenza
della tiroidite valutate all'istopatologia, in trattamento con acqua non iodata. (C)
Una tiroide di ratto nel gruppo non trattato con NYMD-1, con punteggio di gravità
2. (D) Una tiroide di ratto nel gruppo trattato con MYMD-1, con conservazione dei
follicoli tiroidei e dimensione complessiva normale, punteggio di gravità 0. (E e F)
Incidenza e gravità della tiroidite valutate all'istopatologia, in trattamento con
acqua iodata. (G) Una tiroide di ratto nel gruppo non trattato con MYMD-1, con
severa infiltrazione linfocitica, ingrossamento follicolare e sovvertimento
dell'architettura, punteggio di gravità 4. (H) Una tiroide di ratto nel gruppo trattato
con MYMD-1, punteggio di gravità 2.

L’alofuginone, derivato sintetico della febrifugina (alcaloide


chinolizidinico naturale che può essere trovato nell'erba cinese Dichroa
febrifuga), è un altro composto alcaloide sottoposto a studi per
verificarne l’efficacia nelle AITD.

36
A modelli murini di GD (generati immunizzando ratti con adenovirus
che esprimono la subunità A del TSHR) e modelli murini di HT (NOD
H-2h4) è stato iniettato per via intraperitoneale alofuginone e ioduro di
sodio; attraverso, poi, citometria a flusso, sono state misurate le cellule
Th17, Treg e Breg e, attraverso real time-PCR, sono stati misurati i
livelli di mRNA di IL-17, forkhead box P3-Foxp3( fattore di
trascrizione  espresso dai linfociti Treg per il controllo della risposta
immunitaria e la tolleranza immunologica), RORγt (uno dei regolatori
principali dello sviluppo delle cellule Th17) e IL-10. 22

Nei modelli murini di GD trattati con alofuginone è stato riscontrato


l’aumento di linfociti T CD4+CD25+Foxp3+ e dei livelli mRNA di
Foxp3. Nessuna significativa differenza, invece, nel numero dei linfociti
T CD4+IL-17+ e nei livelli mRNA di RORγt. Nei modelli murini di HT
trattati con alofuginone si è avuta una riduzione dei livelli di TgAb e un
aumento di IL-17 e RORγt .

L’alofuginone, quindi, si è dimostrato potenzialmente efficace nel


trattamento delle AITD.

Infine, gli alcaloidi contenuti nel cumino nero (Nigella Sativa), pianta
originaria del Medio Oriente e appartenente alla famiglia delle
Ranunculaceae, sono stati indagati come possibili sostanze coadiuvanti
nel trattamento delle AITD, in particolare nel controllo dell’omeostasi
glucidica, lipidica e dei parametri antropometrici dei soggetti affetti da
TH.

37
La tiroidite di Hashimoto è, difatti, associata a ipercolesterolemia e a
marcato aumento delle lipoproteine a bassa densità (LDL), a causa della
ridotta clearance frazionaria delle LDL da parte di un numero ridotto di
recettori LDL nel fegato; questa dislipidemia rappresenta un potente
fattore di rischio di eventi cardiovascolari e infarto miocardico, oltre di
diabete mellito non insulino-dipendente ( ciò probabilmente per gli
effetti diretti delle citochine pro-infiammatorie nello sviluppo di
insulino-resistenza e nel deterioramento della funzione β-cellulare del
pancreas).

Lo studio23 è stato condotto su quaranta pazienti con tiroidite di


Hashimoto, di cui la metà ha ricevuto Nigella sativa in polvere per 8
settimane; i lipidi sierici, l'omeostasi del glucosio e le variabili
antropometriche sono stati valutati all’inizio e a fine trial.

Il trattamento con Nigella sativa ha ridotto significativamente il peso


corporeo e l'indice di massa corporea (BMI), le concentrazioni sieriche
di colesterolo lipoproteico a bassa densità (LDL) e dei trigliceridi (TG),
aumentando i livelli di colesterolo lipoproteico sierico ad alta densità
(HDL).

Tali effetti sono giustificati dal fatto che Nigella sativa è nota per la sua
capacità di rendere le cellule epatiche più efficienti nel rimuovere LDL
dal sangue, aumentando le densità dei recettori LDL nel fegato. Tuttavia,
nonostante non se ne siano registrate variazioni nella concentrazione
sierica (probabilmente per le ridotte dimensioni dello studio), si pensa
che ci sia una potenziale connessione tra Nigella sativa e Nesfatina-1,
ormone anoressigeno espresso da diverse regioni dell'ipotalamo e tessuti
periferici e correlato negativamente all'obesità e all'insulino-resistenza.

38
Ulteriori studi potranno essere utili per confermare tale associazione,
rendendo Nigella sativa un potenziale strumento terapeutico nelle AITD.

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