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I GIOVANI OGGI: LETTURA DELLE PROBLEMATICHE EVIDENTI E NASCOSTE.

QUALI
LE RISORSE DA METTERE IN CAMPO.
Dott. Alberto Pellai
Trascrizione incontro del 5 marzo 2022

Buon pomeriggio a tutti, a tutte. Sono molto contento di essere con voi questo
pomeriggio. Sono anche un po’ in ansia, perché voi siete molto più esperti di educazione
di me, maneggiate tantissima vita, tantissima crescita: è proprio nel vostro mandato. Tra
l’altro suor Cinzia mi ha mandato il documento un po’ con tutto l'approccio pedagogico
e filosofico alla crescita che avete nel vostro carisma e nel vostro mandato, che ho letto
con molta attenzione. Quindi oggi con voi condivido qualche pensiero proprio in libertà ,
legato al fatto che davvero in questo momento noi che ci occupiamo di educazione
stiamo facendo un lavoro importantissimo per la crescita. Io sono molto appassionato di
questo tema, che è fortemente legato alla mia professione, al mio mestiere, ma lo sono
anche perché sono genitore di quattro figli e devo dire davvero che la vita per me è stata
nella negli ultimi 20-23 anni - il mio primo figlio ha 23 anni -, proprio una commistione
incredibile di privato e di pubblico, nel senso che tutto quello che mi accadeva un po’ di
seguire e ciò a cui mi dedicavo con la mia attività professionale aveva poi tantissimi
risvolti anche nella mia vita privata.
Mi rendo conto, crescendo quattro figli che adesso hanno un'età compresa tra i 13 e i 23
anni, di come avere un'idea profonda, complessa, non semplicistica dell'educazione oggi
rappresenti la sfida principale ed è per questo che trovo che nel documento che mi ha
mandato suor Cinzia ci sia davvero tanta bellezza ma anche tanta necessità , in un tempo
come quello che stanno attraversando oggi i nostri studenti e le nostre studentesse, i
nostri figli e le nostre figlie, i nostri ragazzi e le nostre ragazze; un tempo che mette sfida
perché, se ci pensate, ha proprio minato le dimensioni che sono quelle cruciali alla base
di un buon progetto educativo. Per fare davvero buona educazione (è descritto molto
bene nel vostro documento), noi dobbiamo prima di tutto avere cura della relazione.

Una relazione è l'elemento chiave nell'esperienza educativa ed è quella variabile che


rende insostituibile il nostro ruolo adulto. Ce ne siamo accorti con fatica anche nella
dimensione della didattica a distanza e della didattica digitale integrata dove, pur
mantenendo una relazione virtualizzata con i nostri studenti, c'erano tutta una serie di
variabili che non venivano incarnate nella dimensione della relazione educativa, nella
dimensione che solitamente è in presenza con i nostri studenti e che ha al centro
proprio quella parola bellissima che è la parola cura che ritorna tantissime volte nel
documento che mi avete inviato.
La parola cura credo che sia la parola forse che ci ispira di più nella prospettiva anche
della conversazione che facciamo oggi.
Lo dico proprio anche da medico, perché nella mia professione sono stato formato a
selezionare la giusta terapia per i miei pazienti, ma selezionare la giusta terapia non
significa in nessun modo fornire a volte la cura che serve a quel paziente in quella
condizione, in quel bisogno specifico. Posso trovare la terapia perfetta che mi permette
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di gestire il sintomo del mio paziente, ma quel paziente di cui gestisco il sintomo può
sentirsi completamente fuori dalla relazione di cura con me. Magari vi è capitato, a volte,
di confrontarvi con grandissimi luminari della medicina che sanno veramente tutto del
loro mestiere, ma ne uscite davvero con un'esperienza che è estraniante, dove le
prescrizioni mediche che vi sono state fornite, cioè la terapia, vi lasciano molto
disorientate perché vi sono state proposte da una persona che non ha avuto cura della
relazione nel momento in cui mettevate nelle sue mani una cosa così importante per voi
come il vostro benessere e il bisogno di ritornare in salute.
Ora questo è l'elemento chiave del percorso di crescita ed è bellissimo vedere che anche
le neuroscienze negli ultimi 25 anni ci hanno permesso di entrare dentro al cervello dei
soggetti in età evolutiva e di guardare come matura la mente dei soggetti in età
evolutiva, e ci hanno permesso di vedere come la qualità della relazione che viene messa
a disposizione di chi sta crescendo ha la capacità di cablare, costruire e dare forma alla
mente del bambino e della bambina prima, e del ragazzo e della ragazza poi.
Se qualcuno di voi ha familiarità con la teoria dell'attaccamento, dentro ci trova anche
un incredibile messaggio di amorevolezza, perché quello che ci dice Bowlby con la
teoria dell'attaccamento è la capacità dell'adulto di rimanere disponibile e sintonizzato
con i bisogni di un bambino che è piccolo e non riesce a dare parola ai suoi bisogni, non
riesce a spiegarceli. Ce li comunica spesso attraverso un agito, ma quello che fa per
comunicarci il suo bisogno spesso è poco chiaro anche a lui e ha davvero tanto bisogno
del lavoro chiarificatore che l'adulto gli mette a disposizione in una relazione che è
attenta, che sa guardarlo, che sa mettere lo sguardo dentro allo sguardo, proprio come
un po’ nel Piccolo Principe che afferma che l'invisibile può essere visto solo con lo
sguardo del cuore. Questo è quello che fa l'educatore, questo è bellissimo anche, per
esempio, nella pedagogia salesiana.

Fondamentalmente è proprio uno sguardo adulto, che sa guardare al di là di quello che


si vede, che permette al soggetto che incontra quello sguardo di sentirsi davvero visto e
quindi di sentirsi sentito. Che poi in ambito psicologico corrisponde anche alla
dimensione dell'empatia. Siamo entrati dentro questa lunga descrizione dicendo che
effettivamente usare la parola cura, avere cura della relazione all'interno del nostro
progetto educativo diventa un prerequisito che poi ci permette di sostenere tutti gli altri
bisogni che sono ben descritti anche nel vostro documento e che oggi, se ci pensate
bene, sono davvero bisogni negletti, trascurati per chi sta crescendo. L’educazione e il
percorso di crescita dei nostri bambini e bambine, ragazzi e ragazze, è stato
profondamente decorporeizzato, il corpo è stato davvero svuotato del suo significato,
non solo di contenitore ma anche di contenuto nel percorso educativo.
Se voi lavorate coi bambini della scuola dell'infanzia, ma anche coi bambini della scuola
primaria, sapete quanto apprendimento passa attraverso la dimensione corporea e
fondamentalmente - ce lo diceva bene anche Piaget - c'è un'intelligenza che è
profondamente sensomotoria e che è quell'intelligenza che ha bisogno di toccare il
mondo, di sentirlo con i cinque sensi, perché solo attraverso questo approccio poi ci
entra dentro il mondo, cioè lo possiamo mettere dentro di noi e quindi lo possiamo far

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diventare un mondo pensato, imparato, appreso anche dal punto di vista astratto. E
considerate quanto i bambini e le bambine stanno perdendo la dimensione proprio
della competenza sensomotoria, di quella praticità , concretezza che è presente anche
nei vostri assunti, laddove per esempio si parla di cura del quotidiano, di sodezza,
parola questa che rende proprio materico, concreto ciò che davvero conta.

Mentre riflettevo su cosa condividere con voi in questa breve conversazione, mi è


venuta in mente una scena molto bella di un film di David Lynch che si intitola “Una vita
vera” e che credo oggi ci possa davvero fornire qualche suggestione interessante. Una
vita vera è la storia di un uomo anziano che si accorge di essere vicino alla fase
terminale della sua vita e che da moltissimi anni non parla più con il proprio fratello che
vive in un altro paese non troppo distante da lui, ci sono però un bel po’ di chilometri da
fare, e con cui ha litigato per motivi non troppo nobili, ma neanche così troppo pesanti.
Ciò nonostante, quel litigio ha comportato per loro una lontananza mai risolta.
E allora questo uomo anziano decide che è arrivato il momento di fare pace. E per fare
pace decide di tirare fuori il suo trattore, che è l'unico mezzo di locomozione che lui
possiede, e di mettersi perciò per strada alla velocità di un trattore, quindi a una
velocità lentissima, facendosi condurre dal suo trattore nel percorso che gli permetterà
di andare a salutare il proprio fratello con cui farà pace.
Quindi il regista ci offre una metafora di un tempo lento che è un tempo di
rigenerazione e ricostruzione di qualcosa che è andato perso e che deve essere ritrovato
in questo percorso lento.
Il protagonista incontra varie persone e credo, per me almeno, la scena più bella è
l'incontro con un ragazza adolescente. Una quindici-sedicenne è sul ciglio della strada
sola e fa l'autostop, e le macchine passano veloci e non si fermano.
Lui invece passa con il suo trattore e si ferma, le propone di salire sul suo trattore, di
darle un passaggio, ma lei lo guarda in modo un po’ sprezzante e dice: “Ma dove vuoi
andare tu con quella roba lì, cosa salgo a fare io sul tuo trattore?”
Quindi lo lascia andare, lui la saluta e prosegue per il proprio cammino, arrivando verso
sera in un bosco dove si ferma e dove si metterà a preparare la cena accendendo il
fuoco.
Quello che scopriamo è che in realtà compare sulla scena anche la ragazza.
Quello che ci fa intuire il regista è che lei è rimasta lì a fare l'autostop lungo la strada per
tutto il giorno, ma le macchine sfrecciavano veloci o non la vedevano, oppure vedendola
non la aiutavano, e quindi lei, camminando, è arrivata esattamente nel luogo in cui
sarebbe arrivata viaggiando su un trattore di cui aveva rifiutato il passaggio.
In questo primo incontro il nostro anziano avrebbe potuto, per esempio, prenderla in
giro, dirle “Te l'avevo detto”, invece la prima cosa che fa (ed è una cosa bellissima), si
alza, va da lei, le offre una coperta per riscaldarsi e le dice “Avrai fame” e quindi la invita
a mangiare.
Entra in contatto proprio con i bisogni primari, poi genera un lungo tempo di silenzio in
cui stanno in vicinanza e si accorge che questa ragazza sta fuggendo da qualcosa, ma
non riesce a dare parola alla sua storia. Allora quest'uomo racconta la storia di sé:

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compagno e padre di una figlia che era portatrice di una disabilità , che aveva avuto
molti problemi nella vita, ma che lui ha amato profondamente. E racconta la storia,
quindi, di una sua paternità molto complessa, avendo intuito che la ragazza in realtà è
rimasta incinta ed è fuggita di casa perché non sa gestire in nessun modo questa
situazione e non la sa comunicare ai suoi genitori.
Con pochissime parole, scelte molto, molto bene, questo anziano invita la ragazza ad
affidarsi al potere benefico della famiglia. Le ha detto: “Qualsiasi cosa ti sia successa,
qualsiasi cosa tu tema nel condividere la tua storia con la tua famiglia, sappi che la
famiglia è proprio come un piccolo fascio di rami, se tu prendi un singolo ramo e cerchi di
spezzarlo si rompe subito, ma se tu prendi venti rami tutti insieme e cerchi di spezzarli
dopo averli legati, tu scoprirai che non si spezzano. Questa è la famiglia”. Poi vanno a
dormire e la mattina dopo la ragazza non c'è più . È ripartita e quello che ha lasciato lì sul
prato dove dormiva il signore anziano è proprio un fascio di rametti legati con un filo,
cioè fondamentalmente sta restituendo con questa immagine la comprensione profonda
di ciò che questo nonno voleva dirgli.
In questa scena io ho trovato tantissima bellezza, perché c'è una capacità del
protagonista di farci vedere molte delle cose che voi avete anche nel vostro documento,
nel vostro carisma educativo.
Prima cosa la cura della relazione che, se voi andate a guardare questa sequenza di
circa 10-15’, troverete in ogni sguardo e in ogni gesto che il nonno mette a disposizione
della ragazza. Poi avete nel vostro documento la cura del pensiero e qua trovo che il
lavoro magistrale, che viene fatto dentro a questa scena, è proprio il lavoro magistrale di
noi educatori, di noi maestre ovvero quello non di fornire i significati già pronti, ma
quello di essere dei grandi narratori di storie, dei grandi testimoni che offrono storie e
che portano nella vita di chi sta crescendo materiale che permette di entrare nella
dimensione del pensiero pensante.
Una frase che un ragazzo, Rosario, mi ha detto un giorno in Calabria, è una frase che per
me resta indimenticabile ed è forse la frase più bella con cui si può raccontare
l'adolescenza. Lui guardava, era ad un incontro con tutti gli studenti di quella scuola. In
un angolo c'erano i docenti, proprio tutti messi lì insieme; lui ha puntato il dito verso gli
adulti presenti nella stanza e ha detto: “Voi dovete davvero aiutarci a trasformarci da
pensiero pensato a pensiero pensante”, e quando io ho sentito questa frase ho detto:
pensa, con otto parole lui ha veramente raccontato cos'è il percorso di crescita.

Quando i nostri bambini e bambine, i nostri alunni della scuola dell'infanzia e primaria
entrano a scuola, sono pensieri pensati, noi abbiamo cura della loro crescita, perché
teniamo sotto il nostro sguardo, all'interno del nostro progetto, ogni singolo aspetto
relativo ai loro bisogni di crescita. Loro non sanno bene quali siano i loro bisogni di
crescita, e quindi ci sono proprio affidati in toto, e la cura con cui noi li sappiamo
pensare, quindi li sappiamo seguire, permette a loro davvero di fare un grandissimo
ingresso dentro al territorio del sapere, del saper fare e del saper essere. Ma
fondamentalmente loro sono pensieri pensati e obbediscono. Ai bambini piace

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tantissimo essere molto adeguati, molto compiacenti, molto aderenti alla proposta
educativa che l'adulto mette a loro disposizione.
“Maestro, maestra, guarda un po’ che cosa ho fatto”! E quando diciamo “Sei stato
davvero bravo, sei stata davvero brava” a un bambino e a una bambina, noi ci
accorgiamo di quanto questa cosa per loro abbia davvero un potere esplosivo, cioè li
faccia davvero sentire soddisfatti. Come se aderire all'aspettativa, all'impegno, allo
sforzo, al progetto educativo, che l'adulto mette a disposizione, e aderire in modo
adeguato e congruente produca una sintonia molto forte tra l'educatore l'educato.
In preadolescenza le cose cambiano drasticamente. Lo sanno bene i colleghi che
insegnano alla secondaria di primo e di secondo grado. Il copione che funziona
nell'educazione non è più quello in cui io mi aspetto da te obbedienza e basta. Ma il
copione che funziona tantissimo è quello in cui io promuovo il più possibile la tua
autonomia e il tuo protagonismo e questo significa che io divento capace di stare con te
anche nella differenza, nella divergenza, nella distanza, ma in un percorso, in un
cammino che è complesso, fatto di tantissimi elementi, di tantissime visioni differenti
sul mondo. Quante ce ne portano i ragazzi e le ragazze in questo tempo così complicato
e la sfida grandissima è sentire che non siamo più noi gli scultori della mente del
bambino e della bambina, ma siamo fondamentalmente gli artigiani di bottega che
permettono a quel ragazzo o quella ragazza, in preadolescenza in adolescenza, di
diventare, proprio con un sapiente lavoro di cesello e scalpello, scultori della propria
mente.

Avere questa cura del pensiero, fornire uno sguardo alto sulla vita, un pensiero
complesso con cui confrontarsi, comporta oggi avere cura anche dell'altro elemento che
voi avete inserito nel vostro documento, che è il codice materno e paterno, che è la cura
della volontà. Secondo me quello è un paragrafo davvero tanto bello, e oggi un
paragrafo infinitamente faticoso da gestire all'interno della rete educativa, perché
quello che succede a chi sta crescendo è che c'è un invito continuo a frequentare, per
dirla alla Collodi, il Paese dei Balocchi, cioè un luogo dove l'aspettativa che c'è su di te è
quella della gratificazione immediata, della ricerca del piacere istantaneo, di un
divertimento a basso costo.
Questo, però , allontana tantissimo dalla funzione che il progetto educativo ha nel
percorso di crescita che è diventare un progetto educativo che ti permette di sostenere
la tolleranza alla frustrazione, la dimensione dell'impegno, della fatica, della
concentrazione. La dimensione proprio della volontà , della motivazione a stare in un
territorio dove non vai a scegliere la strada più facile, quella più in discesa, ma vai a
conquistare le tue competenze sul campo, sapendo che l'allenamento prevederà di
sicuro dei momenti di fatica, dei momenti di sconforto, dei momenti di impegno. Direi
che questo forse rimane uno dei messaggi, delle dimensioni in questo momento più
controverse e più faticose, spesso anche faticose da far tollerare a noi genitori da parte
del mondo della scuola.
Noi genitori del terzo millennio veniamo raccontati come i genitori spazzaneve, genitori
elicottero, cioè i genitori che stanno sempre davanti ai loro figli per riconoscere

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qualsiasi asperità del terreno, qualsiasi inciampo che ci possa essere e tirare via tutto in
modo che poi, proprio come fa lo spazzaneve, chi si trova a muoversi su quel territorio
abbia di fronte a sé un terreno liscio, completamente confortevole. Il genitore elicottero,
invece, è raccontato come un genitore che guarda tutto dall'alto, supervisiona dall'alto il
territorio di crescita del proprio figlio, pronto a scendere in tempo reale lì sulla scena
della crescita, se qualcuno genera un passaggio faticoso, una dimensione di fatica,
frustrazione e lesa maestà .
Un'azione che in realtà è fortemente invalidante poi sulle capacità , sulle competenze,
sull’autostima dello stesso figlio, perché si trova a non uscire mai dal copione della
dipendenza. Se tu sei sempre pronto a fare un intervento in mia difesa, in realtà , nella
logica di togliermi qualsiasi sfida io mi trovi di fronte, perché me la gestisci tu e la vinci
tu per me, è chiaro che quello che succede al bambino e alla bambina, al ragazzo e alla
ragazza è un'acquisizione di fragilità e di vulnerabilità sempre maggiore, perché quello
che imparo è che io da solo, non so muovermi nel mio territorio, non so riconoscere
quelle zone di fatica, che è necessario che io attivi e, fondamentalmente ho sempre
bisogno di essere protetto.

Credo che questo aspetto sia uno degli aspetti più contemporanei dove noi siamo molto
sfidati nel nostro lavoro educativo, anche dalla offerta infinita di virtualità , eccitazione e
divertimento sempre disponibili con tre click nei luoghi in cui si trovano bambini e
bambine, ragazzi e ragazze. Il Covid ha fatto davvero un grande sgambetto al progetto
educativo di chi cresce perché, spostando tutto nel territorio della virtualità , ha
accelerato, intensificato, precocizzato i soggetti in età evolutiva a interagire con la
dimensione degli schermi e con quel circo infinito, proprio da Paese dei Balocchi, che
non si spegne mai.
E quindi quello che spesso poi succede, ahimè, nel mondo online dei nostri studenti e
studentesse - su questo ho scritto tanto -, è che il mondo online è davvero un mondo
dove l'educatore non c'è, è una persona difficile da trovare o da incontrare.
Il mondo online diventa uno strumento utile al progetto educativo laddove l'educatore
in presenza lo inserisce all'interno della propria didattica che diventa digitale integrata.
Non lo è più se io entro nel mondo online con il mio approccio di preadolescente, di
giovane adolescente, a volte anche di bambino, di bambina - non dobbiamo trascurare il
fatto che lo smartphone è il regalo più fatto in occasione della prima comunione -, se io
mi trovo in mano uno strumento che è sempre con me, che è sempre acceso, che non si
spegne mai e che in ogni momento mi dice, come Lucignolo, “Vieni nel mio territorio
perché il mio è molto più divertente, cioè molto più eccitante, molto più piacevole, molto
meno faticoso, invece che stare nel territorio di quelli là che ti fanno fare un sacco di
fatica. Cosa vai a scuola a fare? Se sali con me sul carretto del Paese dei Balocchi, noi ci
divertiamo”. Effettivamente Pinocchio non è che vuole rovinarsi il suo percorso di
crescita, ma non ha ancora le competenze per fare bene le scelte in autonomia, non è
ancora un pensiero pensante, lo deve diventare, ma purtroppo - ci dice Collodi - se entra
nel Paese dei Balocchi invece che entrare a scuola, ahimè, rischia di non diventarlo più
un pensiero pensante, ma di rimanere costantemente un pensiero pensato da chi su

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quella fragilità e su quella vulnerabilità costruisce poi tutto un mondo di ricavi, tutto un
mondo di guadagni.

Credo che una sfida enorme, per noi educatori oggi, sia legata al fatto che davvero i
nostri studenti e studentesse sono spesso visti da tutto un sistema che si rivolge ai
soggetti in età evolutiva non come soggetti in formazione, che quindi vanno nutriti,
sostenuti, protetti, accompagnati nella crescita, ma vengono proprio visti come soggetti
che hanno soldi in tasca: qua lo stile è quello del gatto e la volpe! Quindi, proprio perché
ancora inesperti, maldestri, più fragili, io li aggancio e li uncino e li tengo nel mio
territorio in cui il loro essere maldestro a me fornirà poi dei vantaggi, dei guadagni, dei
profitti che non potrei fare se loro invece stessero all'interno di un percorso che è il
percorso con l'adulto responsabile, l'adulto competente, l'adulto che ha cura della
crescita e che quindi vede la crescita proprio un po’ al pari di un giardino con ritmi,
tempi di semina e tempi di raccolto ben precisi che vanno previsti, vanno curati. Un
adulto che si occupa delle previsioni metereologiche, che sa proteggere il proprio
giardino dalla grandinata, laddove arrivi, etc…etc.

Tutta questa attenzione, cura, delicatezza nel sostenere la crescita è qualcosa che negli
ultimi 10-15 anni abbiamo visto infragilirsi proprio perché la corazzata delle proposte,
che vengono fatte ai soggetti in crescita, si sono fatte sempre più depersonalizzanti,
sempre più decorporeizzate e sempre più finalizzate, alla fine, a produrre un reddito e
un profitto verso persone che non vedono nei soggetti in età evolutiva soggetti da
formare alla vita, bensì li vedono come soggetti da formare al mercato, che è una cosa
completamente diversa.
Diventa quindi davvero necessario rendere prioritario il lavoro educativo e la
riflessione intorno all'educazione.
Credo che su questo Papa Francesco sia stato davvero un pioniere molto attento. E io
che sono uno che si occupa di questi temi, trovo che il mondo della scuola e il mondo
delle parrocchie, in questo momento, siano l'unico mondo in cui ci si occupa di
educazione con uno sguardo alto, con un profilo alto. È lì dentro che continua il dibattito
sul percorso educativo, sul processo educativo, è lì dentro che proviamo a coinvolgere i
genitori in una proposta per diventare comunità educante insieme alle altre agenzie
educative. E non è un compito facile, perché a volte gli stessi genitori si trovano in una
zona dislocata e dispersa, non hanno quella lucidità dell'anziano che con lentezza si
muove lungo una strada andando a cercare un traguardo, un obiettivo che è e darà
significato a tutto il suo percorso di vita, che cambierà radicalmente quello che è
successo negli ultimi 15-20 anni, quel tempo in cui non si è messo a curare le cose che
avevano bisogno di essere davvero curate.
Credo che a volte noi genitori siamo tanto accelerati e la velocità diventa una
dimensione che cancella la possibilità di muoverci con lentezza, guardando chi c'è lì,
lungo la strada del nostro percorso educativo. Credo che a volte noi genitori siamo
talmente immersi negli stessi ambienti un po’ tossici, un po’ depersonalizzanti in cui
sono persi i nostri figli, che non facciamo altro che diventare un sistema disfunzionale,

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dove quello che non funziona nella vita di chi sta crescendo non è altro che il riflesso di
qualcosa che non funziona nella vita di noi adulti.

Guardavo alcune ricerche che sono uscite proprio in questi ultimi tempi e che
raccontano quello che si è verificato negli ultimi 3-4 anni. Sono ricerche molto
interessanti perché, per esempio, ci dicono che i bambini di 4-6 anni del tempo del
Covid sono bambini che hanno un ritardo del linguaggio, un apprendimento molto più
limitato del linguaggio, perché hanno interagito molto più con gli schermi che con le
persone. Guardavo alcuni dati relativi alla profondità di pensiero degli studenti
diciottenni e al vocabolario, alla complessità quali-quantitativa del vocabolario
posseduto dai diciottenni di oggi. Quello che ci dicono le ricerche è che è comparabile
alla complessità quali-quantitativa del linguaggio posseduto dai sedicenni di 10-15 anni
fa, ovvero è come se noi avessimo perso uno slot di crescita di due anni in termini di
profondità del pensiero e di complessità del linguaggio.
Se non hai le parole per dirlo, se non hai le parole per comprendere ciò che ti viene
detto, ecco, fai molta più fatica a diventare pensiero pensante, perché tu non hai la
comprensione. Anche dal punto di vista del funzionamento, del saper essere nella vita,
se non ho le parole per dirti quello che ho dentro, non potrò raccontartelo, non potrò
fartelo comprendere. Allora la psicologia dice: “Se non lo sai dire dovrai agirlo, dovrai
trasformare quella cosa che non capisci come va raccontata, perché non la sai spiegare
neanche a te stesso, in un'azione, in un agito”. Ed è chiaro che questo vuol dire rimanere
intrappolati nella pulsionalità , nell’impulsività , nell’estemporaneità di un gesto che
sostituisce parole che hanno compreso il pensiero, che cercano di spiegare, condividere
con chi hai a fianco. In qualche modo è come dire che noi perdiamo davvero il potenziale
relazionale, la cura della relazione, quel principio, quel concetto da cui siamo partiti nel
nostro breve dialogo di oggi.
C'è un libro interessantissimo, che è stato pubblicato in Italia proprio alla vigilia del
Covid, scritto da Jean Twenge intitolato “Iperconnessi”, mentre negli Stati Uniti è uscito
col titolo “I Gen” “generazione I” dove la “I” non sta per generazione io, ma generazione
iPhone, iPad. Ed è un libro che, comparando i dati di ricerca relativi agli adolescenti
degli ultimi quaranta e cinquant'anni, dice che quelli di oggi sono i più tristi, isolati,
depressi e infelici.
Non c'era ancora il Covid e lei diceva: “Uno dei fattori di rischio principali per loro è che
vivono in spazi reclusi dove non fanno esperienza del corpo, della relazione in presenza e
fondamentalmente non si buttano nella vita, nel mondo, nella natura, ma passa tutto
attraverso la dimensione virtuale”. A conclusione del suo studio a noi genitori dice: “Se
volete ridurre l'impatto che tutto questo ha sulla vita dei vostri figli, fate entrare nella loro
vita il più tardi possibile le tecnologie ad uso personale”.
Questo non significa non fategli usare le tecnologie. C’è proprio una differenza, lei dice.
“Tutte le volte che le tecnologie sono uno strumento che potenzia il lavoro educativo,
fatelo senza problemi, ma non fate in modo che le tecnologie siano una protesi
incorporata nella loro vita, sempre addosso, sempre trasportabile, che li accompagna
dappertutto. Perché quella roba lì non fa alzare lo sguardo, lo fa tenere basso”.

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Anche in questo senso è molto interessante vedere cosa ci dicono alcune ricerche,
condotte su bambini di tutto il mondo, che denunciano una pandemia di deficit della
vista. Bambini miopi che non riescono ad avere la competenza visiva da lontano già a 5,
6, 7 anni: mai vista prima una roba del genere nella storia dell'umanità . Ciò è legato al
fatto che i bambini sono così abituati ad avere un piccolo schermo davanti agli occhi che,
non esercitandosi nella visione da lontano, il loro cervello, che funziona un po’ come un
muscolo - se lo vuoi potenziare lo devi allenare - non è allenato nella funzione “guarda la
linea dell'orizzonte, guarda oltre, guarda avanti, guarda in fondo”, quindi non acquisisce,
non struttura le reti neuronali che sostengono la funzione della visione da lontano.

A conclusione un po’ delle cose che ci siamo detti, partendo dal concetto di cura, che non
è assolutamente terapia: la terapia arriva nel momento in cui qualcosa si è rotto, la cura
e invece quel lavoro attento, quotidiano, davvero amorevole del giardiniere che fa
nascere, fa crescere, sostiene e potenzia.
Ci sono queste parole bellissime, le parole del vostro carisma educativo: la bonarietà,
uno sguardo positivo raccontato come serenità del pensiero. E pensate a quanto diventi
terapeutica questa cosa coi bambini e le bambine di oggi.
Se guardate noi genitori, abbiamo sempre uno sguardo così ansioso, così impaurito, così
timoroso che comunichiamo ai nostri bambini e bambine che il mondo sembra un posto
pericolosissimo in cui nascere, crescere.
Lo sguardo dell'educatore è uno sguardo necessariamente speranzoso, perché non si
può preoccupare sempre solo di ciò che ci deve fare paura, ma è uno sguardo che, se
costruisce il domani, ha dentro automaticamente moto e movimento verso la
dimensione del futuro, e quindi è uno sguardo di speranza.
L'altra dimensione è “il vivere con”. Tantissimi educatori si vivono come adulti che
“vivono per” ed è importantissimo sia chiaro, ma “vivere per” non è l'equivalente di
“vivere con”. Mentre noi siamo educatori che vivono per il loro mandato educativo con
chi cresce, noi facciamo quella roba lì “vivendo con”, cioè condividendo nella relazione,
nella dimensione educativa la nostra esperienza di vita. Noi diventiamo testimoni.
Se ci pensate, l'educatore è colui che incarna il traguardo del percorso di crescita.
L'educatore dovrebbe essere un adulto risolto e competente che, prima ancora di
parlare della sua disciplina, degli apprendimenti che deve promuovere, fa capire quanto
è bello diventare un adulto, che sa, che fa, che è. Sapere, saper fare, saper essere.
Quanti di noi sono stati davvero travolti, nel loro percorso di crescita, dalla
testimonianza di adultità di un educatore che è diventato proprio un riferimento per il
nostro personale percorso di crescita.
Bellissimo il concetto di fare cuore, ovvero di dare coraggio: questo dobbiamo davvero
ricordarcelo tanto, perché di questo i bambini e bambine, ragazzi e ragazze sono
davvero affamati. Se noi siamo in un mondo assalito da mille paure, una cosa che non
può fare il minore da solo è darsi coraggio da solo; cioè la paura è quella emozione
primaria che può essere attraversata da un minore se a fianco a sé ha un adulto capace
di testimoniare il coraggio di poter affrontare una zona che ci intimorisce.

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Come dice anche Bowlby, la cosa peggiore e la maledizione peggiore per chi sta
crescendo è avere vicino a sé un adulto spaventato perché automaticamente
quell’adulto è un adulto spaventante. E se tu hai vicino un adulto che ti spaventa, rimani
bloccato e congelato. Quindi tutte le premesse che abbiamo condiviso prima non ci sono
più .
Poi c'è il tema della sodezza, declinata nel vostro documento anche come onestà
intellettuale, che io definirei proprio come qualcosa di profondamente limpido,
trasparente.
Se io sono un educatore potrò fare anche mille errori, ma dentro di me avevo chiaro che,
nel momento in cui mi muovevo nel territorio della tua crescita, è perché me ne stavo
prendendo cura, e la consideravo la cosa più importante da curare e preservare.
Credo che questo oggi sia incredibilmente importante, perché se noi non abbiamo
questa purezza, questa trasparenza nel nostro mandato educativo, quello che ne viene
fuori è che a volte tutto questo è poi sporcato dall'approccio ideologico, dall'approccio
del mercato, dall'approccio del potere e della prepotenza. Per cui può essere che essere
il tuo educatore mi dia un potere d'azione sulla tua vita, uno status di riconoscibilità che
non ha niente a che vedere col mio mandato educativo.
La parola seguente era uniformità, che vuol dire camminare insieme nella stessa
direzione. Questa la intravedo proprio come una priorità che ci diamo noi adulti come
comunità educante. Questo deve essere un tempo dove generiamo alleanze e dove
invece è presente la frattura, lo scontro tra agenzie educative. Nel lavoro anche di
psicoterapeuta, non c'è niente di peggio per un bambino che vedere la mamma e il papà
che litigano, perché non hanno un'alleanza educativa al loro interno.
Questo chiaramente si riflette anche in tutti gli ambienti educativi in cui si muove un
minore. È fondamentale per chi cresce vedere che gli adulti generano una mente adulta
comune, che le cose importanti della vita non sono frammentate e non sono relative,
non sono estemporanee, che le cose che contano hanno quella compattezza, hanno
quella visione che è chiara a tutti. Poi possiamo non riuscirci, possiamo non proporle in
modo adeguato, possiamo dire che magari l'asticella è stata messa troppo alta, ma è
fondamentale che il mondo adulto abbia una visione dei bisogni di crescita condivisa e
chiara al proprio interno.
E poi c'era quest'ultimo elemento tanto bello che è quello della gioia, dello stare allegri,
nella semplicità . Ossia generare un ambiente dove si cresce e che non ha dentro
l'attrattività da gratificazione immediata del Paese dei Balocchi, bensì la meraviglia che
deriva dalla cura con cui l'educatore ogni mattina sa attendere i bambini e i ragazzi per
un compito che è impegnativo e faticoso, ma che è un compito troppo importante e che
non può non esserci.
È sancito dalla legge, per cui a volte noi genitori diciamo ai nostri bambini che non
vogliono andare a scuola: “Ci devi andare, perché è obbligatorio, altrimenti viene
l'assistente sociale”, ma in realtà lo sa anche il bambino che ci si va a scuola, che si fa
quella fatica lì e che lì dentro c'è proprio un po’ tutto il mondo degli ingredienti, delle
dimensioni senza le quali mi sento perso e questo lo hanno più o meno sperimentato
tutti i nostri ragazzi, ragazze, bambini e bambine nel tempo dei primi lockdown. Perdere

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una scuola in presenza, con quella ricchezza, con quella complessità , con quelle
impegnatività , rendeva tutti tristi. Quindi è proprio come se si fosse persa una fiamma di
bellezza, una fiamma che dà senso, che orienta il nostro percorso di crescita.

Mi piace tantissimo pensare al nostro ruolo di educatori come Giardinieri e al fatto che
una scuola alla fine è proprio un giardino che cresce, un bosco che cresce e che dentro a
quella bellezza, che anche la natura ci mostra, ci sono tutti i valori per cui, parlare di
educazione, significa poi parlare del significato profondo delle nostre vite. E quindi ecco
che concludo leggendo con voi un brano che si intitola “Siamo alberi”.
“Quando la vita diventa una tempesta, le nostre relazioni, se funzionano bene, sono
come un albero al quale aggrapparci per sentirci protetti e al sicuro. Quel tronco
sei tu per me, io per te. Abbiamo radici che ci fanno sentire ancorati al terreno.
Abbiamo braccia che diventano funi quando temiamo di essere strappati via dal
vento. Abbiamo mani che diventano rami innalzati verso il cielo per cercare la luce
oltre le nuvole del temporale, per invocare l'infinito nel nostro tempo finito.
Diventare tronco, radici, rami è così che si rimane radicati alla vita.”
Quindi la mia idea oggi era di condividere con voi una breve serie di riflessioni
sull'educazione, intendendo proprio l'educazione come lo strumento più nobile che
abbiamo per dare radici al nostro esistere.

DOMANDE

1. Essendo non completamente di lingua italiana, penso di non aver capito nella
storia di Pinocchio la storia dei Balocchi. Se può rapidamente chiarificare, grazie.

Nella storia di Pinocchio succede che Geppetto prepara Pinocchio e lo allena alla vita.
Arriva il grande giorno in cui gli dice: “È tempo di andare a scuola”. E per mandarlo a
scuola Geppetto fa un bel po’ di cose: deve vendere alcune cose che lui possiede,
comprargli libri per andare a scuola, dotarlo del grembiule e poi gli indica la strada, gli
dice: “Pinocchio vai”. Pinocchio esce di casa, è convinto di andare a scuola, ma per la
strada incontra Lucignolo. Lucignolo lo ferma e gli dice: “Ma tu dove stai andando?”. “A
scuola”. Ma Lucignolo risponde: “Ma va là , vieni con me e andiamo nel Paese dei
Balocchi, non è mica noioso come la scuola, ci si diverte tantissimo”. Pinocchio rilancia:
“Ma Geppetto mi ha detto che devo andare a scuola”. E Lucignolo subito dice a
Pinocchio: “Ma guarda che se vieni con me ti divertirai molto di più ”. E a quel punto
Pinocchio molla la scuola: vende i libri, compra il biglietto per salire sul carro che lo
porta nel Paese dei Balocchi e va là e si diverte tantissimo. Quello che succede è che,

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dopo un intero giorno nel paese dei Balocchi, dormono tutti i bambini che sono andati
là , e alla mattina si svegliano con le orecchie d’asino sopra la testa. Collodi ci sta facendo
intuire: guarda che se tu perdi lo slot di crescita, gli obiettivi specifici per il tuo tempo
della crescita, il rischio poi è che non riesci a recuperarli più .

Ecco… tante volte, in questi ultimi anni, parlando con i genitori dico che effettivamente il
Luna Park è virtuale, online: videogiochi, social… È un po’ quella roba che abbiamo
sperimentato anche durante la Didattica a Distanza, la lezione tradizionale o comunque
di Didattica Digitale: intanto i ragazzi che sotto hanno i loro social, i loro videogiochi, i
loro messaggi che arrivano… Un distrattore enorme che ci dice che il ragazzo a 11 o 12
anni non ha ancora quella capacità di stare e l’educatore è per lui una fonte anche di
contenimento, di sostegno alla crescita, sostiene quel pezzo di fatica che il ragazzo da
solo non è in grado di sostenere.

2. Volevo chiedere, proprio su questo tema del Paese dei Balocchi, come facciamo
con i ragazzi, penso soprattutto a quelli grandi, a parlare dell’impegno, della fatica,
della frustrazione… quando loro spesso dicono: “Ormai nella società attuale molte
persone dimostrano che l’impegno non serve più, che si può ottenere tutto e
subito…” Molte persone di successo sono arrivate al successo, ai soldi, senza
impegnarsi, senza far fatica e questa è una difficoltà che io riscontro molto nel
lavoro educativo. Non so se condivisa.

Direi sì, direi che su questo genere di riflessione, propongo sempre due tipologie di
percorso.

Il primo è quello della testimonianza, cioè confrontare i ragazzi con le storie di vita,
con le narrazioni di persone che sono arrivate poi ai loro traguardi importanti,
mettendocela tutta, cioè lavorando tantissimo sul loro sapere, sul loro saper fare, sul
loro saper essere. E confrontare questo genere di narrazione con le narrazioni, per
esempio, degli Influencer. Questo, secondo me, è anche molto interessante: andare
dentro ai profili social di una persona molto competente - che quindi usa il proprio
social come uno strumento con cui condivide le cose che sa, che fa e che lo hanno reso la
persona che è - e confrontare la gestione di un profilo social. Quindi di un soggetto
molto competente, ad esempio Samantha Cristoforetti, con quello di un Influencer che
fondamentalmente nei social ha solo spesso la preoccupazione estetica di proporre una
propria immagine o di proporre contenuti che promuovano poi tanto seguito, tanto
following, perché quella cosa lì aumenta poi il valore commerciale dei messaggi che
vengono inserzionati. Entrare in un sito di un soggetto competente, per esempio, e
vedere quanta roba pubblicitaria c’è e confrontarlo invece con un sito di un Influencer
in cui il valore fondamentalmente è puramente commerciale. Una via è ascoltare le
storie, entrare nelle narrazioni, leggere le biografie, guardare dei film biografici… Se
guardate il film “Il diritto di contare”, che ha dentro tanti temi differenti, noi ci rendiamo

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conto che anche dentro a mille difficoltà la strada dell’impegno è comunque quella che
produce poi le crescite più importanti sia sul piano personale che sul piano sociale.

Credo che l’altra via, l’altra prospettiva, sia quella di far toccare con mano la fatica e la
bellezza dell’impegno. Se ci pensate, gli allenatori sportivi, fondamentalmente, fanno
questo mestiere qua. Non è che dicono ai loro atleti, ai ragazzi e alle ragazze: “Venite
qua che oggi ci riposiamo. Facciamo rilassamento e la volta dopo facciamo
rilassamento”, no? Propongono un allenamento dove attraverso lo sforzo, la fatica e
l’impegno, il soggetto tocca con mano l’acquisizione del suo spazio di crescita; quindi,
tocca con mano che sta progredendo. E, secondo me, l’altra metafora è proprio questa:
fare immaginare ad un ragazzo che noi possiamo arrivare in cima alla montagna
prendendo la seggiovia o facendoci tutto il cammino. Fondamentalmente, in cima la
visione che conquistiamo è sempre quella, esattamente identica in tutte e due le
situazioni. Ecco, però , rimane fondamentale provare a riflettere su cosa rimane dentro
di me di quella esperienza. Credo che, in questo senso, non so, se noi pensiamo ai nostri
ragazzi degli oratori che fanno il Grest, gli oratori estivi, ecco quella è un’esperienza di
grande impegno, di grande fatica, di grande socializzazione, a cui però tantissimi ragazzi
non vogliono proprio rinunciare, perché dentro quella fatica, quell’impegno, quella
socializzazione, scoprono una bellezza, scoprono la dimensione della responsabilità di
avere un ruolo, di mettere in gioco delle competenze, che davvero altrimenti non gli dà
quasi nessuno oggi nella società .

3. Questo discorso per me dà molto entusiasmo, perché anch’io credo importanza


del curare con gli studenti, mi piace molto questa metafora dell’essere come il
giardiniere, questo per far crescere nello studente i valori, l’entusiasmo per la vita,
la capacità di pensare per se stesso e per crescere l’immaginazione, la creatività,
l’individualità e la capacità di essere sani sulla propria idea. Però nella vita reale
trovo un po’ difficile per trovare questo equilibrio fra quello che penso io che cosa
deve essere l’educazione e lo che si aspettano i genitori. Tante volte sono solo
interessati ai voti e per fare il Cambridge esame, come educare come un mercato e,
non so, per me è difficile seguire questa vocazione dentro il mondo della vita reale.

Non ho risposte. Cioè, credo che quello che il prof di Bolzano ha condiviso con noi, in
qualche modo racconta la fragilità di noi genitori del terzo millennio. Una delle fatiche
grandi di noi genitori contemporanei è che non tolleriamo l’esperienza dell’errore, della
caduta, della sconfitta dei nostri figli. Non tolleriamo che per diventare grandi si
apprenda anche dagli errori, perché se lo tollerassimo, non trasformeremmo anche
tutto il percorso scolastico di crescita dei nostri figli in una sorta di mercato dove stiamo
attenti al voto, alla certificazione… Tutte quelle robe lì arrivano comunque, ma non
dovrebbero essere la causa della nostra preoccupazione, dovrebbero essere
semplicemente il traguardo, cioè... poi quelle cose succedono. Nella cura con cui noi

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vediamo crescere i nostri figli, c’è invece tutto quell’insieme di acquisizione di
competenze, abilità , che sono descritte bene nel modello della Life Skills Base Education
che dall’anno prossimo, tra l’altro, il Miur rende mandatoria attraverso una
sperimentazione in tante scuole e quello dovrebbe starci molto a cuore, perché vuol dire
che noi sentiamo che davvero la scuola è una palestra di vita dove i figli si allenano alla
vita. Davvero ha ragione il professore, perché molti tra noi genitori sono davvero molto
disposti a far vincere i propri figli col sistema del Dopping. Una delle cose, che c’è
capitato di gestire più volte nel tempo della DAD, era che i genitori si mettevano lì,
nascosti dietro i computer per i figli che dovevano fare le prove e dico, non è che c’è
qualcosa di sbagliato o di giusto, dico che è una immaturità profonda del genitore, ma il
tema grosso è proprio questo: cioè, provate ad immaginare come si sente quel figlio che
ha bisogno di un genitore nascosto dentro un computer per sentirsi abile a superare la
prova. E come quel figlio lì non venga autorizzato, perciò , dal proprio genitore,
all’esperienza dell’autonomia anche nell’errore, cioè è solo facendo gli errori che un
figlio si accorgerà delle aree nelle quali deve rinforzarsi e se noi prendiamo 10 perché
nascondiamo il genitore dentro al computer, ecco… quel 10 lì è come una medaglia vinta
col Dopping: prima o poi ci sarà un Comitato Olimpico che si accorge che c’era il
Dopping e ti porterà via tutte le medaglie.

4. Volevo fare una domanda, nel senso che il 99% della nostra azione è ovviamente
sui ragazzi, però giustamente abbiamo citato tante volte i genitori in questo
intervento. Noi cosa possiamo fare coi genitori, o sui genitori se preferiamo, per
risolvere alcuni di queste problematiche? Almeno far capire cosa intendiamo per
educazione e far capire quali sono gli effetti di un certo Dopping che abbiamo visto
più e più volte in questo periodo.

Ciò che io faccio da tanti e tanti anni: io parlo con i genitori dentro contesti di vita dove
loro fanno rete e dove avvengono poi i percorsi di crescita dei loro figli, quindi, credo un
po’ un’esperienza simile a quella che abbiamo vissuto noi educatori oggi pomeriggio.
Ecco, proporla ai genitori che tante volte si attivano proprio in percorsi che per
qualcuno magari lasciano il tempo che trovano, ma in altri casi, davvero, trovo che l’idea
di parlare ai genitori con uno sguardo alto, proprio rispetto al progetto educativo,
permettendo a loro non di vedere come si fa - cioè l’educazione come una ricetta stile un
po’ le tate di “S.O.S. Tata” -, ma parlare di educazione attraverso un approccio che
accende pensieri, cioè che ti mette dentro tutta una serie di pensieri che non avevi
pensato e che invece è importante tenere dentro la propria mente quando sei mamma e
quando sei papà . Credo che questo sia un lavoro importante. L’esperienza che faccio io,
questo resta un po’ il mio mestiere, è che ci sono davvero tanti genitori in questo
momento interessati a riflettere profondamente sulla crescita dei loro figli non
semplicemente in funzione di un successo quantitativo, cioè avere un figlio numero uno.
È chiaro che questo vuol dire avere un approccio anche alla dimensione dei valori della

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vita, che è una parola amata pochissimo, sentire che l’educazione è anche una questione
di valore. Quali valori… nella logica di cosa serve l’adulto a chi sta crescendo, ecco, e qual
è l’eredità che noi passiamo alle generazioni successive. Se l’eredità è soltanto una serie
di beni materiali, ecco è un’eredità che probabilmente dura poco e non stimola. Cioè, se
io mi trovo tutto il cassone del tesoro già pieno per cui posso sguazzare liberamente
nella vita senza dover avere l’ansia di darle un senso, tanto tutto quello che voglio lo
posso avere… ecco, quella è probabilmente una vita vuota, perché ho ricevuto dei beni
materiali ma non ho ricevuto il senso del mio stare al mondo. Secondo me, questo
aspetto… lo stiamo facendo un po’ noi psicologi, ma mi piace molto anche il fatto che ci
siano tantissimi filosofi oggi…, cioè qual è il ruolo dell’intellettuale? Mi verrebbe da dire,
oggi nella comunità quanto è importante aiutare le persone a tenere alto lo sguardo, che
non vuol dire trovare le risposte, ma un po’ - come avevo anticipato prima - mettersi
dentro tante domande. Se io invece non ho dentro di me le domande, ecco in molti casi
tutto viene agito anche nella relazione genitori-figli in un qui ed ora. Cioè mio figlio dice
che vuole quella cosa lì e se non ce l’ha si mette a piangere allora gliela compriamo così
non piange più . Allora è chiaro, che qua dentro sono tutti agiti e non c’è nessuna
elaborazione. Mio figlio deve prendere un bel voto a scuola allora ci mettiamo dietro al
computer e gli suggeriamo le risposte: sono tutti agiti, non c’è dentro niente in termini
di significati. Credo che sia importante permettere ai genitori di approfondire questi
temi, di costruire una mente adulta comune, perché ne parlano fra di loro.
Personalmente trovo che siano tanto isolati i genitori su questi temi, parlino di tante
cose, ma alla fine non parlino di questi temi. Alla fine anche in un gruppo WhatsApp
della classe, noi come genitori ne abbiamo frequentati tanti, a volte è sconvolgente il
livello basso, cioè è un gruppo che sembra servire a fare delle rivendicazioni invece che
essere un gruppo o di servizio o un gruppo che aiuta a tenere alto lo sguardo sui bisogni
dei figli.

5. Io penso che una delle nostre funzioni, dei nostri ruoli principali in questo
periodo, sia proprio quello di riabituarci ad aprire dei luoghi di dialogo, cercando
di comunicare il più possibile tra genitori, scuola, ragazzi e quello che stiamo
facendo come scuola è proprio quello di avviare il più possibile dei gruppi di
confronto e di seminare il più possibile delle possibilità di imparare e insegnare
reciprocamente l’uno con l’altro. Cioè, cercare di lavorare sul dialogo, perché io
credo che anche noi come adulti abbiamo bisogno di risignificare il nostro ruolo
attraverso proprio il dialogo, e la fatica proprio del dialogo, e far vedere ai ragazzi
che anche noi ce la possiamo fare.

Concordo, mi sembra una affermazione che ci trova tutti d’accordo.

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6. La mia è più che altro una condivisione di una preoccupazione che sto vedendo a
scuola in questi giorni, in questi ultimi tempi, dopo la didattica a distanza. Una
sorta di carenza dal punto di vista delle conoscenze emotive dei ragazzi. Mi spiego:
fortemente proiettati, almeno noi docenti, per quello che può essere il programma,
le conoscenze, il sapere ecc…, però poi basta poco perché li vedi completamente
svuotati, completamente ignoranti del proprio sé emotivo e basta qualcosa, basta
un niente, perché loro a un certo punto dimostrino la loro fragilità e, mi domando, e
poi la domanda la faccio a lei - può essere un po’ provocatoria come domanda - ma:
io devo essere educatore o qualcuno che trasmette solo conoscenze? E la scuola, in
questo momento, deve guardare più a loro come persone o deve guardare a loro
come competitor?

Ma, credo che la domanda abbia un po’ già dentro la risposta. È verissimo che ci sia
fragilità . In una prospettiva come un po’ quella che ci danno le neuroscienze, la nostra
mente si sviluppa al pari di un muscolo: se lo alleni e lo eserciti diventa più competente,
più trofico e quindi ha più forza e potenza. Ora, se gli ultimi due anni sono stati così
disabilitanti, è chiaro che i nostri ragazzi sono meno allenati alla vita. Non per niente
sono stati messi in un garage, cioè lì di fianco, a bordo campo, non hanno potuto fare la
loro partita e questo credo, ed è un po’ quello che dice il collega, resta una priorità
effettivamente in questo momento da presidiare. Credo che sia anche il motivo per cui il
MIUR chieda l’anno prossimo di lavorare sul saper essere e allenare alla vita nel
momento in cui anche offriamo il nostro progetto con obiettivi di apprendimento… ecco,
includere, integrare questi obiettivi che sono dentro al modello delle Life Skills e delle
competenze per la vita. Effettivamente ci sono delle competenze di base che servono per
non essere fragili, cioè per saper abitare bene la vita e che se non vengono allenate non
vengono acquisite. E allora viene richiesto al docente di lavorare, oltre ai propri obiettivi
specifici disciplinari, anche in modo specifico su questi obiettivi che effettivamente, se
nessuno ci ha mai pensato, non li ha mai perseguiti, sono una roba completamente
nuova. Ecco, io non occupandomi di storia, latino, greco e lingue straniere, ma
occupandomi di prevenzione, effettivamente devo dire che il modello Life Skills - e un
po’ tutte le competenze che vengono messe in gioco all’interno di questo modello - trovo
che sia un buon modo di pensare ai bisogni di crescita e al successo evolutivo che non
necessariamente risulta già soddisfatto dalla normale, quotidiana proposta scolastica
che viene fatta ai ragazzi e alle ragazze nel loro percorso di crescita e che, quindi,
potrebbe davvero essere curata e pensata con una serie poi anche di attività e di
proposte ad hoc che vengono fatte.

7. La mia, più che una domanda, è una condivisione, ma mi piacerebbe avere il suo
feed-back. Mentre lei parlava, mi si è accesa una lampadina e ho realizzato che i
nostri giovani, una volta chiamati, come dire, invitati nel Paese dei Balocchi, non
vengono chiamati solo a divertirsi ma a farsi anche, diciamo, pseudo portavoce di

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grandi battaglie per i diritti di cui loro sono delle armi caricate, non so se mi spiego.
Cioè, a suon di slogan vengono caricati a combattere battaglie che sono solo
esclusivamente online che però in qualche modo rispondono al loro desiderio di
grandi ideali e di grandi valori, non so come dire, non so se mi sto spiegando. Mi
chiedo se effettivamente le ritorna anche questa... se ha anche lei questa
impressione: non c’è solo l’intrattenimento, ma anche l’illusione di un grande
impegno globale per l’umanità che poi però è tutta un’altra cosa rispetto, appunto,
al vero impegno quotidiano per l’umanità nell’incontro con l’altro, nella conoscenza
dell’altro, nel dialogo, ecc… in un mondo fatto di slogan. E mi ha colpito molto
quello che lei diceva sulla perdita di capacità di verbalizzazione di questi nostri
giovani, giovani adulti ormai, anche se ormai la giovinezza si pretende che valga
fino ai 30-35 e passa anni.

8. Anche la mia è un po’ una considerazione, ma anche qui mi piacerebbe avere un


po’ il suo feed-back. In questo momento, se volessi ritradurre con il mio quotidiano
la parola sodezza del nostro Fondatore, la tradurrei con la capacità di diventare
adulti, di esercitare l’adultità, dico io. Ma questo lo penso sia negli educatori, noi
educatori, che nei ragazzi, perché tante volte ho come l’impressione che abbiamo
paura di stare in quel sano conflitto che ormai non è più soltanto dei preadolescenti
e degli adolescenti, ma anche dei bambini perché, perché di fatto accontentati un
po’ sempre, come dire messi sul trono, si sentono nella condizione di poter dettare
legge. Allora, in questa dimensione, ho sempre l’impressione che gli adulti non
facciano gli adulti, quindi i bambini sono sempre più disorientati e di conseguenza i
preadolescenti e gli adolescenti. E l’altra cosa, che così pensavo, è proprio il tema
della frustrazione, perché la frustrazione, se ben condotta e se ben riletta insieme
ai bambini, ai giovani, è anche quella molla che ti mette in sfida, ti fa cercare le
soluzioni, che ti mette nella condizione di agire e io ho invece l’impressione che
continuamente noi rimandiamo il tema della frustrazione anche nella valutazione,
anche nelle cose piccole, anche nelle gare, cioè evitiamo di metterli a confronto con
qualche cosa che in qualche modo possa fare male dentro la nostra testa. Allora mi
chiedo, se anche questo non è un diseducare, un togliere sodezza.

Allora, teniamo insieme le parole come slogan, conflitti e frustrazione. Rispetto ad aver
messo in mano ai ragazzi tanti slogan che sono sui social che sono anche molto molto
popolari e poi tutto un po’ si ferma lì, credo che per alcuni aspetti sia davvero così, e
quindi - quello che auspico - è poi che noi adulti sappiamo far vedere qual è il percorso
dallo slogan, invece, all’impegno reale. E in questo anche di nuovo credo che il lavoro
delle testimonianze sia molto importante. C’è davvero tantissima gente nei social che
usa uno slogan perché porta Followers, fine, non c’è niente di più . C’è invece gente che
dice uno slogan perché ha tutto un vissuto di lavoro, di impegno. Ecco, identificare le
differenze e chiedere ai ragazzi in concreto che cosa significa aderire a quello slogan,

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come quello slogan, se ci aderisci, deve essere poi incarnato nella tua vita, quindi capire
qual è il percorso tra il dire e il fare diventa qualcosa di importante.

Il tema dei genitori che non reggono la dimensione del no, del conflitto… Ecco io,
parlando tante volte con i genitori, uso la metafora del tiro alla fune. L’educazione sta in
piedi quando, dall’altra parte, i ragazzi trovano degli adulti che sanno tenere in mano
bene la fune, non con l’ansia di vincere il tiro alla fune, perché se io tiro forte sempre io,
vuol dire che gli altri smettono subito di giocare e quindi non sviluppano nessun genere
di muscolatura emotiva. Ma se invece io tengo in mano solida la fune e permetto a te
dall’altra parte di tirare, di fare tutte le tue operazioni di acquisizioni di potere d’azione,
ecco, quello che ne viene fuori è che io e te rimaniamo in contatto anche dentro il
conflitto e che la mia capacità di stare sulla scena educativa, anche in una posizione
conflittuale, permette a te poi di avere in qualche modo un vero avversario, cioè un
avversario che sa stare, non un avversario che fugge, che molla la fune o che dice sì,
perché è più facile dire sì che dire no. E quindi concordo col fatto che spesso l’adulto non
tollera la frustrazione di chi sta crescendo e la esaurisce in un tempo velocissimo,
perché da una parte è più comodo, dall’altra lo mantiene nella posizione dell’adulto
amabile, che è un’altra fragilità grande di noi genitori, perché essere un buon adulto a
volte significa proprio anche non essere necessariamente amabili, si deve anche essere
parecchio detestabili in modo sano. Quando vengo detestato, però , chi mi detesta
dovrebbe avere dentro di sé anche la memoria di una bellezza ampia, condivisa con me.
Quindi… mi sta detestando, mi sta dicendo che sono il peggiore papà del mondo, il
peggiore docente del mondo, avendo però dentro di sé tanti ricordi belli. Quindi, se io
come papà , che sostiene un no, definisco una frustrazione, che deve essere tollerata,
vengo attaccato da un figlio che mi dice: “Sei il peggiore papà del mondo”, ecco io resto
tranquillo, perché so che in quel momento sta parlando la rabbia prodotta dalla
frustrazione, non un figlio che non mi ama più o uno studente che non mi ama più , che
non mi considera più un docente di valore: è la rabbia che parla. E ho questa tranquillità ,
perché so che nella mia biografia di papà o di docente con quel figlio o studente, io ho
collezionato in realtà tanti ricordi bellissimi, tante esperienze che mi fanno stare
tranquillo sul fatto che in questo momento è molto arrabbiato con me, ma non lo pensa
davvero, poi… sarebbe davvero molto triste perdermi come genitore o come docente.
Quindi credo che un po’ tutto il sistema stia in piedi su questo.

Avevamo detto slogan, frustrazione e la terza parola era…, non me la ricordo, non l’ho
segnata, la terza riflessione… niente, in questo momento…

No, ma mi ha risposto. Era la questione dell’essere adulti, cioè di essere adulti per
non rendere fragili, perché se non stai nel conflitto, quello che generi sono dei
ragazzi fragili perché, non so come dire, perché non formano il pensiero, appunto,

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restano dei pensieri pensati. Trovo che questa sia la fragilità degli adulti di oggi, di
non avere la forza di stare dentro in questa dinamica che poi è quella che, così mi
sembra di capire, genera la capacità di essere un pensiero che pensa, giustappunto
come diceva.

9. Volevo chiedere un suo consiglio per noi come docenti, soprattutto alle superiori,
ma credo potrà essere una questione che riguarda tutti gli ordini. In questi giorni i
ragazzi ci hanno continuamente interpellato sull’attualità, chiedendo un nostro
parere su una situazione estremamente complessa. La sollecitazione mi è venuta
sentendo il suo ragionamento sul tema della paura: un adulto spaventato, in effetti,
genera insicurezza. E effettivamente questa situazione contingente spaventa tutti,
chiaramente anche noi come docenti, non so. Siccome mi sembra di vedere anche un
po’ un crescendo di tensione, con i ragazzi in effetti è interessante fare dei brevi
confronti, chiaramente poi bisogna portare avanti anche tutto il resto, ci sono tutte
le varie considerazioni, però. Come mi sembra ci suggeriva anche prima, bisogna
anche mantenere una cura, una cura può essere stata anche questa: cedere magari
uno spazio della lezione di latino per dare loro la possibilità di seguire in diretta
qualche cosa che li teneva molto in ansia insomma. Al di là poi delle considerazioni
sul tema della guerra che sono emerse, secondo me è abbastanza impressionante,
perché non tutti - come invece poteva essere per la gente della mia generazione che
sono 1966 - subito nei primi giorni consideravano la guerra come negativa pur nel
nostro ambiente che, diciamo, è già abbastanza di nicchia, però la paura secondo
me c’è.

Credo che la paura associata alla parola “guerra” sia inevitabile, perché la paura è
l’emozione conseguente all’esperienza della perdita, quindi noi perdiamo vite in guerra,
noi perdiamo possibilità di vita, cioè la guerra arriva e distrugge e poi la guerra
interferisce in modo enorme sul destino dei civili, degli esseri umani, delle persone che
non decidono la guerra, la subiscono e spesso ne sono le vittime designate. Detto questo,
credo che sia molto importante generare uno spazio che accoglie questo genere di
paura, però l’unica via d’uscita che abbiamo noi è quella di un approccio un po’
psicologico al tema: se noi continuiamo a parlare di quanto ci spaventa la guerra, la
guerra diventa una sorta di Tsunami che ci tiene in balia e che ogni giorno diventerà
peggio. E questo vuol dire che parliamo della guerra nella sua dimensione di distruttrice
di tutto. Su quella parte lì, noi non abbiamo controllo, non dipende da noi. Quindi, un
altro modo per parlare della guerra è invece interrogarci su cosa significa essere
costruttori di pace in un tempo di guerra. Allora, qua c’è tutto un canale di riflessione:
mentre la guerra ti fa vedere la distruzione che avanza, il potere disfunzionale che
invade e distrugge, c’è un’altra narrazione parallela che mentre sta succedendo quella
roba lì, i costruttori di pace cosa stanno facendo? Credo che noi, alla fine, la visione che
ci portiamo a casa deve stare dentro a un equilibrio, perché poi è questo davvero il

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potere competente degli esseri umani. Cioè, noi fondamentalmente siamo arrivati al
terzo millennio in mezzo a tanti problemi, ma ogni volta – e questo ce lo fa vedere
l’evoluzione – che un evento tragico si abbatte su una popolazione e sembra travolgerci,
quello che succede – che è un po’ scritto nel DNA della specie degli esseri umani – è che
noi troviamo un canale dove la distruzione è contrapposta dalla costruzione. Allora è
molto interessante, per esempio, andare a vedere nelle cronache dei Media tutte le
narrazioni di costruzione di pace che, non sono a livello alto, politico, ma proprio a
livello basso, dove sta la gente, si stanno verificando. Direi che questa è una buona cosa
che possiamo condividere e proporre ai nostri studenti.

10. Non è una domanda, è un ringraziamento a lei. Io non sono un’educatrice anche
se come essere umano penso che tutti educhiamo sia in famiglia che nel mondo del
lavoro che nella civiltà. Io la ringrazio perché lei in quest’ora ci ha posto, mi ha
fatto porre, molte domande sull’essere genitore e sulla capacità comunque di
educare sia i figli ma anche sul mondo del lavoro con i colleghi, come comportarci,
come… Davvero molte domande, ma nello stesso tempo ci ha dato degli
insegnamenti, ci ha dato delle risposte a queste domande e penso che la figura
dell’albero che lei ha detto, con il tronco, le radici ben salde che sono la famiglia con
questi rami… penso che i due anni di Covid oppure tutti i Media, che fanno parte
ormai della famiglia, della vita dei nostri figli, non ci permettano, non ci diano la
possibilità di far cadere quel seme di quell’albero in modo da far crescere una
nuova piantina, un nuovo albero. Cosa che vedo che i nostri genitori comunque sono
stati capaci di farlo e che noi, con il nostro tran-tran lavorativo, abbiamo davvero
trasmesso ansie, paure e quelle paure non permettono a noi alberi familiari di far
cadere quel frutto per la crescita di un nuovo albero.

11. Io volevo fare una richiesta molto breve, se può servire anche ad altri: se magari
è possibile avere qualche riferimento di alcuni degli studi e delle analisi che lei ha
citato. Lo chiedo anche perché, io per prima come adulto, cedo alla tentazione di
informarmi su internet, ma rallentare un po’ il ritmo significa anche mettersi
davanti ad un testo e prendersi il tempo di leggerlo con cura. Quindi, se pensa che ci
sia qualcuna di queste fonti o testi che ha citato che potrebbero essere accessibili,
se magari può mandarli a sr Cinzia o condividerli con noi gentilmente, grazie.

Sì, magari velocemente vi dico che un testo potrebbe essere “Mentre la tempesta colpiva
forte” che è quello dove ho provato a elaborare i due anni di emergenza Covid. Il
sottotitolo è “Quello che abbiamo imparato noi genitori in un tempo di emergenza”. Per i
ragazzi, invece, il tema del saper essere l’ho affrontato in due libri che sono rivolti ai
ragazzi. Vengono tanto usati anche a scuola e sono “La bussola delle emozioni” e
“Destinazione vita”. E… un libro di narrativa che piace molto molto ai ragazzi si intitola
“Sono Francesco” ed è un romanzo che abbiamo scritto prendendo le biografie che

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abbiamo trovato di san Francesco di Assisi e riraccontando la storia di Francesco di
Assisi come se fosse un adolescente di oggi e quindi è una storia dove tutte le vicende
raccontate in “Sono Francesco” sono presenti: c’è una veridicità direi all’80%. E
Francesco era una cosa straordinaria, davvero, l’adolescente sui generis, perfetto
proprio, dentro un po’ a tutto il lavoro, la riflessione sull’educazione che abbiamo fatto
oggi: aveva grandissime tensioni, grandissimi conflitti, grandi problemi. Anche con il suo
papà , un problema mai risolto nella relazione col padre, un’attenzione all’ambiente, una
cura delle relazioni incredibili, tantissime domande… Ecco, nel romanzo “Sono
Francesco” abbiamo lasciato il personaggio non è credente: si sta interrogando
sull’incontro e sulla relazione con Dio. Poi, non so, un libro che viene tanto usato dai
genitori è “Vietato ai minori di 14 anni” che è quello dove abbiamo provato a
sensibilizzare il mondo adulto sul ritardare l’accesso alle tecnologie, in particolare il
possesso dello Smartphone personale.

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