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IL SUPER MANUALE DI COMUNICAZIONE EFFICACE

TRATTO DAL MEGLIO DEI CORSI E DEI TESTI


DI ROBERTO RE
Introduzione
La qualità della nostra vita dipende in buona misura
dalla qualità delle relazioni che abbiamo con gli altri.
Puoi avere una casa fantastica dotata di ogni comfort,
ma se hai un pessimo rapporto con il tuo partner e
nessun dialogo con i tuoi figli alla fine hai la sensazione
di vivere in una prigione dorata. Puoi avere un lavoro
importante e ben retribuito, ma se i conflitti con il capo
e i colleghi sono all’ordine del giorno e stai sempre
all’erta per timore che qualcuno ti pugnali alle spalle
allora quella che da fuori sembra un’isola felice in realtà
è una giungla che giorno dopo giorno ti fa perdere
energie e il piacere di lavorare.
C’è chi si accontenta di attribuire la colpa agli altri della scarsa qualità di certe relazioni:
è colpa del capo stronzo, del partner che non capisce, dei figli che sono ingrati… Ma
di certo questo atteggiamento può servire solo ad allontanare gli altri e a peggiorare
i rapporti con loro. Insomma può servire solo a costruire dei muri ma le persone di
vero successo, quelle che raggiungono i propri obiettivi in ogni settore sono quelle che
costruire dei ponti. Questo è il vero obiettivo della comunicazione.

“Costruite ponti, non muri”


Papa Francesco

E se lo dice lui. ;)
Ogni anno incontro centinaia e centinaia di persone nei miei corsi, con vissuti e obiettivi
diversi. Ho aiutato e aiuto professionisti di ogni genere (manager, imprenditori, venditori,
sportivi, personaggi dello spettacolo) a vincere le loro sfide.
Ho un team di collaboratori fatto di donne (in maggioranza) e uomini anche molto diversi
tra loro.
E non potrei ottenere dei risultati importanti se quando comunico con altri non costruissi
ponti che si sorreggono su basi solide come la fiducia, il rispetto e la comprensione.
Se la volontà di costruire ponti e non muri è sempre stata la stessa, negli anni è cresciuta
la mia abilità di costruttore grazie ad alcune tecniche che mi hanno permesso di entrare
più facilmente in relazione con gli altri.

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Sono tecniche che applico in modo automatico, senza quasi neanche pensarci. Sono
entrate a far parte del mio stile di comunicazione. È un po’ come quando impari a guidare.
All’inizio devi prestare attenzione ai dettagli e a quello che fai e magari ti senti anche un
po’ a disagio. Commetti qualche errore, ma con la pratica poi tutto avviene in modo
naturale e diventi sempre più abile.
Certo, è molto più facile ed immediato imparare a guidare che migliorare la capacità di
comunicare. Perché se con le macchine funzionano più o meno gli stessi meccanismi
e movimenti, salvo qualche lieve differenza, con le persone è tutto più complicato. La
stessa tecnica o lo stesso approccio possono funzionare con una persona e non con
un’altra.
Per questo, quanto più la tua cassetta degli attrezzi è ricca, tanto più avrai la possibilità
di comunicare in modo efficace con interlocutori diversi e costruire ponti diversi.
Grazie a questo manuale che ho realizzato raccogliendo il meglio di ciò che ho scritto
nei miei libri e detto nei miei corsi, potrai arricchire la tua cassetta degli attrezzi da
comunicatore.
Cosa significa comunicare?
Quali sono i principi fondamentali della comunicazione?
Quali sono le domande chiave per comunicare in modo efficace?
Quali sono i messaggi del corpo e perché è utile saperli decifrare?
Cosa significa ascoltare in attivo e in che modo possiamo esercitarlo per migliorare
l’efficacia della nostra comunicazione?
Quale effetto possono avere le nostre parole sui nostri interlocutori e possiamo influenzarli
in modo positivo?

Queste sono alcune delle domande a cui troverai risposta nelle prossime pagine.
Prima di entrare nel vivo del discorso ho un’avvertenza: questo manuale non è stato
pensato solo come un libro da leggere, ma un vero e proprio strumento di crescita.
Quindi leggilo, rileggilo ma soprattutto applica!
Quindi non ti auguro buona lettura, ma qualcosa di più!

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I fondamentali della comunicazione

Tratto da:
DIVENTA UN GRANDE COMUNICATORE
Coach di Te Stesso numero 10
Cap 1

I fondamentali della comunicazione

Tutto il problema della vita è questo:


come rompere la propria solitudine,
come comunicare con gli altri.
(Cesare Pavese)

COMUNICARE: dal significato alle domande chiave per essere efficaci


Sembra un paradosso: proprio nell’era in cui ci sono sempre più strumenti di comunicazione
le persone sembrano fare ancor più fatica a comunicare. E ciò vale in ogni contesto, da
quello privato a quello professionale.
Nelle aziende una buona parte delle risorse investite nella formazione è volta migliorare la
comunicazione interna. A livello personale molte persone si rivolgono magari a psicologi
e terapeuti perché hanno problemi di comunicazione. Ma l’esigenza di comunicare meglio
è sentita anche da chi non ha particolari problemi di comunicazione.
Nella mia esperienza di formatore e coach ho incontrato moltissime persone che, pur non
avendo particolari difficoltà di comunicazione, hanno deciso di frequentare corsi specifici
per aumentare la propria efficacia su quel fronte. Probabilmente anche tu appartieni a
questo gruppo di persone visto che hai deciso di partecipare a questo corso.
Il primo assioma della comunicazione dice che “non si può non comunicare”. Il che
significa che non serve parlare per comunicare qualcosa, il nostro comportamento
comunica sempre qualcosa. Ma se è vero che comunicare è un atto naturale, è anche
vero che non tutti, e non sempre, lo fanno in modo efficace.

Basterebbe prestare più attenzione e riflettere sul vero significato di questa parola per
migliorare l’efficacia della propria comunicazione.
La parola “comunicazione” deriva dal latino communicare che significa mettere in
comune ed è una parola composta da cum (insieme) e munis (dovere).
Partiamo dal cum: insieme. Quando comunichiamo non siamo soli. C’è sempre un altro
che riceve il messaggio. Bella scoperta! Lo so, può sembrare un’osservazione banale, ma

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pensa a quante volte capita di ascoltare una persona e di avere l’impressione che non stia
parlando con noi bensì con se stessa. Oppure quante volte capita di avere l’impressione
che il nostro interlocutore non ci stia proprio ascoltando, ma stia solo ripassando nella
mente ciò che deve dirci.

Prestare attenzione al fatto che comunicare significa trasmettere un messaggio a


un’ALTRA persona già ci consente di evitare due errori tipici:
1. dare per scontato che ciò che appare chiaro a noi lo sia anche a chi riceve il
nostro messaggio;
2. pensare che chi riceve il nostro messaggio gli attribuisca lo stesso significato che
attribuiamo noi.
Uno dei presupposti della comunicazione definiti da Paul Watzlawick, studioso del Mental
Research Institute di Palo Alto, California, dice che: “Il significato della comunicazione
sta nel responso che se ne ottiene e non nelle intenzioni”.
Forse ti sarà successo di dire o fare qualcosa che pensavi sarebbe stata gradita da un tuo
famigliare, amico, collega, suscitando invece una reazione inaspettatamente negativa. Ti
sei domandato il motivo? Il motivo è che non tutti attribuiamo lo stesso significato agli
avvenimenti e quindi reagiamo a essi in modo diverso.

Quindi la prima domanda chiave per comunicare in modo efficace è:


Con chi comunico?
Ciò significa porsi altre domande come queste: “Qual è la sua mappa del mondo? (dopo
vedremo meglio il concetto di mappa) Quali sono i suoi bisogni? Le emozioni che sta
vivendo in questo momento o che vorrebbe vivere?”...

C’è poi un’altra domanda che è utile porsi se si vuole comunicare in modo efficace:
Qual è il mio obiettivo?

Questa è una domanda utile in ogni momento: al lavoro, in famiglia, con gli amici, quando
prepariamo una presentazione in pubblico, quando dobbiamo negoziare, quando
dobbiamo gestire un conflitto…
Quante volte capita di perdere di vista l’obiettivo principale della comunicazione!
Quando l’unico obiettivo del relatore è finire il prima possibile o strappare una risata o un
applauso allora la comunicazione in pubblico non è efficace. Quando in una discussione
con il partner o un collega l’unico obiettivo diventa “averla vinta” a tutti i costi allora la

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comunicazione non è efficace.
E potrei andare avanti con gli esempi, ma non voglio dilungarmi su questo aspetto che
approfondiremo più avanti.
Ora voglio passare all’altro termine latino che compone la parola comunicazione: munis
che significa dovere. Questo concetto si associa a quello di responsabilità.
Se è vero che tutti comunichiamo perché, come abbiamo visto, è un atto naturale, è
altrettanto vero che non tutti si assumono la responsabilità di ciò che comunicano.
Quante volte si dicono o sentono frasi come queste: «Tu non mi capisci», «Hai frainteso
quello volevo dire», oppure «Possibile che tu non capisca?», «Non mi ha prestato
ascolto»…
Se vogliamo comunicare efficacemente dobbiamo assumerci la responsabilità della
comunicazione.
Se ci fai caso, nella parola responsabilità sono contenute altre due parole: risposta e
abilità.
Ebbene, saper comunicare efficacemente significa anche questo: essere abili di fornire
una risposta. E invece spesso i problemi di comunicazione nascono proprio dal fatto che
non esercitiamo questa abilità, ma ci limitiamo a reagire.

In questo manuale approfondiremo anche questo aspetto e quanto le emozioni incidano


nella comunicazione.

Il primo assioma della comunicazione


Immagina di trovarti a una festa in cui non conosci nessuno, a parte il padrone di casa
che ti ha invitato con la promessa di un divertimento fuori dall’ordinario. Infatti non
scherzava: bella gente, cibo a volontà, ottimo vino italiano e un dj che suona una musica
che spacca. Rock, anni Settanta.
Ecco, forse il volume potrebbe essere un tantino più basso: la batteria e la chitarra ti
rimbombano nella testa e trema pure la cristalleria sul tavolo sotto alla cassa. La festa
è appena iniziata e le persone parlano tra di loro in piccoli gruppi di due o tre. Non hai
bisogno di parole per farti un’idea di chi hai intorno: c’è quel tipo che gesticola vicino alla
piscina, circondato da due ragazze niente male, e infatti gonfia il petto come un tacchino.
Poi c’è quello che fuma in un angolo, con lo sguardo cupo, e ogni tanto butta un occhio
al cellulare: è evidente che non si sta divertendo un granché… E quella ricciolina pochi
metri più in là? Che fa? Alza il bicchiere e ti sorride. Ok, forse è giunto il momento di
schiarirti la voce e di sfidare chitarra e batteria e farti avanti.

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In questa scenetta è ben rappresentato il senso del primo assioma della comunicazione
definito da Paul Watzlawick:
“Non si può non comunicare”.

Ciò significa che ogni individuo vivente comunica in molteplici modi e non potrebbe
esimersi dal farlo, neanche se lo volesse.
L’abbigliamento, la postura, i gesti, come ci muoviamo nello spazio... Tutto parla di noi.
Quanto alle parole, non sono sempre indispensabili, anzi: a volte è più eloquente il silenzio,
uno sguardo o un sorriso.
La comunicazione è quindi, più in generale, il nostro comportamento, che non si riferisce
solo alle parole che pronunciamo ma anche appunto al nostro linguaggio del corpo e ad
altri aspetti.
Lo psicologo americano Albert Mehrabian ha anche stimato e definito in termini di
percentuale l’impatto che le parole, il tono e il corpo hanno sulla comunicazione. Stando
alle sue ricerche la trasmissione di un messaggio dipenderebbe solo per il 7% dalle
parole (livello verbale), per il 38% dal tono della voce (livello paraverbale) e per il 55%
da ciò che comunica il nostro linguaggio del corpo (livello non verbale).
«Ma come? Non è possibile che le parole contino così poco!». Questa è la reazione tipica
delle persone quando apprendono la teoria di Merhabian. Questa reazione di stupore
e incredulità però deriva dal fatto che siamo soliti assimilare la comunicazione all’atto
del parlare e anche a quello dello scrivere, ma, come abbiamo visto, la comunicazione
è qualcosa di più ampio di cui il parlare e lo scrivere sono solo una parte e, per altro,
neppure quella preponderante.
Se ci pensiamo bene, nei primi mesi di vita il linguaggio verbale non assolve ad alcuna
funzione, eppure non si può dire che i neonati non comunichino con l’ambiente esterno.
Comunicano in un modo tutto loro con l’espressione del viso, i gesti, i gridolini, le
lallazioni…
E ancora, sempre a dimostrazione del fatto che oltre al linguaggio verbale c’è di più,
pensa a quando da bambino capivi che aria tirava in casa dal tono di voce con cui i tuoi
genitori pronunciavano il tuo nome. Tu eri in camera a giocare e improvvisamente sentivi
la mamma o il papà che ti chiamavano. Era sempre il tuo nome, ma dal modo con cui
veniva pronunciato potevi intuire le loro diverse intenzioni e ne ricevevi conferma quando
vedevi il loro viso sorridente o corrucciato.
In questo, come nella maggior parte dei casi, le differenze di significato di una parola
o un’intera frase sono date dal tono della voce, dall’espressione del viso e dal modo di

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gesticolare di chi le pronuncia.
Pertanto la stessa parola o frase possono essere pronunciati in modo diverso e ogni
volta il messaggio cambia.
Il linguaggio non verbale quindi è determinante per l’espressione del vero significato di
una parola o di un’intera frase.
Ma non è finita qui. In questa frase Mehrabian suggerisce un’altra interpretazione della
sua teoria: “I nostri messaggi silenziosi possono contraddire o rinforzare quello che
diciamo a parole. In entrambi i casi, nella comunicazione essi sono più potenti delle
parole che pronunciamo”. Infatti, “… nel regno delle sensazioni, quando le nostre
parole contraddicono i messaggi silenziosi contenuti nelle nostre espressioni del viso,
nelle posture che assumiamo, le persone non si fidano di ciò che stiamo dicendo:
fanno affidamento quasi completamente su quello che facciamo”.

La nostra comunicazione non verbale può essere quindi allineata a quella verbale,
rafforzandola, ma capita molto spesso che le parole vadano in una direzione e il
linguaggio del corpo in un’altra. Se infatti ci è più facile mentire servendoci delle parole,
salvando per così dire la “facciata”, con il linguaggio del corpo è più difficile: i grandi
comunicatori sanno bene che è possibile condizionare quest’ultimo volontariamente, ma
sono altrettanto coscienti dell’esistenza di una componente involontaria che sfugge al
nostro controllo.

«Quando gli occhi dicono una cosa e la bocca un’altra,


l’uomo avveduto si fida del linguaggio dei primi».
(Ralph Waldo Emerson)

La fiaba di Andersen “I vestiti nuovi dell’imperatore” è un esempio di quanto le parole


possano mentire anche di fronte a un’evidenza sfacciata.
La fiaba racconta di un imperatore vanitoso, particolarmente dedito alla cura della sua
esteriorità e del suo abbigliamento. Il re cade vittima di due imbroglioni giunti in città,
che vantano di avere a disposizione un nuovo straordinario tessuto talmente leggero e
impalpabile da risultare invisibile agli occhi degli stolti e degli indegni. Il re si fa confezionare
un abito con questo meraviglioso tessuto e quindi lo indossa con orgoglio, sebbene né
lui né i suoi cortigiani riescano a vederlo. Egli attribuisce questa impossibilità al suo
essere indegno, così mantiene il gioco di fronte a tutti, lodando il lavoro dei tessitori. Dal
canto loro i cortigiani, per non scontentare il re, magnificano fin da subito la meraviglia

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del tessuto e poi la bellezza dell’abito, sentendosi a loro volta colpevoli di chissà quale
indegnità. Il re sfila per le vie della città applaudito da una folla di cittadini, pure questi
imbrigliati nella loro stessa bugia e nel timore di essere stolti. Neppure l’innocenza di
un bambino che grida la verità – «Il re è nudo!» – sveglia i presenti dall’incantesimo nel
quale essi stessi si sono imbrigliati… E non sveglia neppure il re, che continua a sfilare
imperterrito.
Noi tutti siamo re, cortigiani, popolani e bambini: ci sono quindi situazioni in cui recitiamo
una parte, magari per convenienza o per rispetto nei confronti di qualcuno, ma il linguaggio
del nostro corpo ci tradisce.
Esiste quindi un “vocabolario universale”, una sorta di “linguaggio segreto” del corpo che
è bene conoscere per comprendere meglio noi stessi e le persone con cui ci relazioniamo
ogni giorno.
Apprendere questo linguaggio ti permette di stabilire una connessione più profonda
con chi ti sta intorno, migliorando l’efficacia della tua comunicazione e le risposte che
puoi ricevere. Nel prossimo capitolo vedremo come si possono interpretare alcuni dei
principali segnali del corpo.

«Possiamo avere tutti i mezzi di comunicazione del mondo,


ma niente, assolutamente niente, sostituisce lo sguardo dell’essere umano».
(Paulo Coelho)

(Tratto da DIVENTA UN GRANDE COMUNICATORE, Coach di Te Stesso numero 10)

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Ciò che le parole non dicono:
il linguaggio del corpo

Tratto da:
I SEGRETI DEL LINGUAGGIO DEL CORPO
Coach di Te Stesso numero 16
Cap 2

Ciò che le parole non dicono:


il linguaggio del corpo
Chi ha occhi per vedere e orecchi per intendere si convince che ai mortali non è
possibile celare nessun segreto. Chi tace con le labbra chiacchiera con la punta
delle dita, si tradisce attraverso tutti i pori. Perciò il compito di render coscienti le
cose più nascoste dell’anima è perfettamente realizzabile.
Sigmund Freud

Una scienza non esatta ma molto utile


Sono stati compiuti parecchi studi sul linguaggio non verbale, soprattutto nella seconda
metà del secolo scorso, studi che hanno permesso di comprendere meglio da dove
nascono quei gesti che noi consideriamo per lo più istintivi e a cui spesso non diamo il
giusto peso come grattarsi la testa, accarezzarsi, allontanarsi o avvicinarsi a una persona.
Non possiamo dire che esista una scienza esatta del linguaggio del corpo perché questo
tipo di linguaggio è per lo più spontaneo e spesso sfugge al nostro completo controllo,
inoltre lo stesso segnale può avere significati diversi a seconda del contesto e della
persona che li emette, ma di certo le indicazioni che possiamo trarre da questi studi ci
consentono di migliorare l’efficacia della comunicazione come dimostrano le molteplici
applicazioni in vari ambiti, soprattutto quello commerciale e politico.
Vediamo ora i principali segnali del corpo che possiamo suddividere in tre grandi gruppi:
segnali di gradimenti, segnali di rifiuto, segnali di scarico tensione.

Segnali di gradimento
Alcuni tra questi sono chiari: avvicinarsi o protendersi verso il nostro interlocutore,
toccarlo mentre si parla, accarezzarsi il corpo, sporgere le labbra in avanti, lisciandosele o
mordicchiandole sono indici abbastanza palesi. Poi ci sono segnali tipicamente femminili,
come toccarsi i capelli (invece attorcigliarli è uno scarico di tensione), il lobo dell’orecchio
o giocare con anelli, braccialetti od orecchini. Per gli uomini gli indicatori per eccellenza
consistono nell’accarezzarsi il petto, giocherellare con la cravatta, mettere le mani sui

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fianchi o appoggiarle alla cintura, casi in cui, oltre a esprimere gradimento, si desidera
marcare la propria virilità. Ma vediamo meglio i principali segnali di gradimento espressi
dalle varie parti del corpo.
Bocca
Nel viso il centro del piacere è la bocca, e oserei dire che la bocca sia il centro del piacere
per eccellenza.
I bambini appena nati si attaccano al seno materno per mangiare, ma anche per provare
sensazioni piacevoli. Succhiare è un modo per confortarsi e calmarsi, ma non solo.
Attraverso la bocca i neonati iniziano a conoscere e a esplorare il mondo e l’ambiente
circostante. La bocca è quella parte del corpo che suggella le storie d’amore delle persone
di tutto il mondo attraverso il piacere del bacio. Da qui, puoi immaginare quanti messaggi
del corpo vengono inviati da una zona così ricca di significato. Quindi accarezzarsi le
labbra, mordicchiarsele o, meglio ancora, passarci sopra la lingua, indica un notevole
gradimento. Se mentre stai parlando noti che chi hai di fronte si tocca le labbra in
corrispondenza di una tua parola specifica, è probabile che quello sarà l’argomento di
maggiore interesse. Nel caso in cui, invece, il segnale di gradimento venga espresso di
continuo, per esempio giocherellando con le labbra, l’espressione di gradimento potrebbe
essere nei confronti della tua persona.
Altri segnali positivi sono mordicchiare o succhiare un oggetto (una penna per esempio),
protendere le labbra leggermente in fuori (il cosiddetto “bacio analogico”) come se
si mandasse un bacio, leccarsi le labbra, premere la lingua all’interno delle guance,
accarezzarsi mento e collo. La globalità dei messaggi inviati sarebbe indicatore che
l’argomento piace e che sei riuscito a spingere il tuo interlocutore a pensare a qualcosa
di gradevole.

Naso
Quante metafore intorno al naso! “Quella persona ha naso” piuttosto che “Ha fiuto negli
affari” per dire che è in gamba, “Ha la puzza sotto il naso” per dire che è snob, “Non
prendermi per il naso” per significare che non si vuole essere presi in giro. Il naso è
la sede del fiuto e quindi in una conversazione lo tocchiamo spesso. Se la persona
che abbiamo di fronte si strofina la parte superiore del naso mentre affrontiamo un
particolare discorso, potrebbe essere indicatore di interesse. Ma perché proprio il naso?
Prova a pensare agli animali: molti fiutano il cibo attraverso il naso, usando più l’olfatto
rispetto alla vista. In pratica quando ci concentriamo e siamo interessati a qualcosa il
nostro olfatto si predispone all’ascolto. E allora noi lo tocchiamo, perché inconsciamente

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riconosciamo l’importanza dell’argomento che ci è stato sottoposto.
Ma siccome il linguaggio del corpo non è così unidirezionale, come ti ho già detto, fai
attenzione che la persona non si gratti troppo il naso, perché potrebbe voler scacciare un
prurito causato da una vasodilatazione dei capillari, che reagiscono a situazioni di stress.
E se la persona che si gratta è stressata ci sarà pure un motivo. Altri segnali potrebbero
rivelartelo.

Capelli
I capelli sono da sempre un forte elemento di seduzione, tanto che molte donne non
riescono a tagliarseli neanche in tarda età, perché si riterrebbero private di una parte
importante della loro femminilità. Le donne con i loro capelli giocano fin da bambine.
In generale toccarsi i capelli indica un interesse nei confronti dell’interlocutore o
dell’argomento espresso con connotazione affettiva. Se poi una donna si scosta i capelli
e in questo modo scopre il collo, zona simbolo di debolezza per antonomasia, potrebbe
essere un modo per comunicarti che si fida di te e che non si preoccupa di mostrare la
sua parte più debole.

Avvicinare oggetti
Prova a immaginare di essere a un colloquio di lavoro: sei seduto dall’altra parte del
tavolo rispetto all’interlocutore e questi, mentre ti guarda negli occhi, avvicina a sé una
penna, un block notes, un bicchiere. Se simbolicamente cerca di avvicinare qualcosa
a sé significa che l’argomento gli interessa. Se poi, mentre lo fa, il suo piede destro è
puntato direttamente verso di te allora hai un altro indizio che ti può far dedurre il suo
gradimento nei confronti di ciò che dici o, in generale, della tua persona.

Movimento del corpo


Se spostare il busto o il corpo in avanti indica un interesse rispetto all’argomento trattato
dal soggetto con cui si interagisce, tenere un atteggiamento aperto, con braccia e
gambe non conserte, denota cordialità e disponibilità. Ma per valutare se chi hai di fronte
esprime consenso verso di te o verso l’oggetto della tua discussione cerca di focalizzare
l’attenzione sulla frequenza o meno degli atti compiuti e anche sulle frasi in particolare
che accendono il linguaggio non verbale. Infatti, se il soggetto ti manda inconsciamente
segnali di gradimento è evidente che siano rivolti verso di te.

Se invece vengono espressi solo in seguito ad alcune frasi, i segnali positivi sono

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limitati all’argomento trattato. E, in ogni caso, se il tuo interlocutore esprime segnali di
gradimento significa che hai raggiunto un ottimo potenziale di persuasione per avanzare
le tue richieste e ottenere un consenso in merito

Segnali di rifiuto
Così come ci sono movimenti o espressioni del corpo che esprimono gradimento, ce
ne sono altri attraverso i quali l’interlocutore esprime il proprio rifiuto nei confronti della
persona o dell’argomento trattato. Come per i segnali di gradimento non puoi essere
sicuro al 100% che un segnale di rifiuto sia relativo a ciò che hai detto o fatto, ma
potrebbe essere legato a un pensiero o a un’esperienza sgradevole ricordata dal tuo
interlocutore. Resta il fatto che, in ogni caso, sono segnali da considerare. Alcuni sono
assolutamente evidenti come l’allontanare con le mani, chiudersi con braccia incrociate
e gambe accavallate, ruotare il busto di lato con un braccio che fa da scudo. Altri, invece,
sono meno palesi. Ma vediamoli insieme.

Allontanare oggetti
È la situazione opposta rispetto a quella che abbiamo visto prima. Chi è seduto dall’altra
parte della scrivania e allontana da sé qualcosa agisce come se volesse allontanare la
persona o rifiutare.
Si può allontanare da sé un cellulare, penne, quaderni, bottiglie, computer portatili,
cartelle o borsette sopra le ginocchia o poste al proprio fianco, sedie e anche oggetti a
terra, spostati coi piedi come a giocherellare. Per capire il livello di rifiuto, se è verso il tuo
argomento o verso la tua persona, puoi provare a cambiare argomento. Capirai allora se,
al variare del contenuto, proseguono i segnali di rifiuto.

Spolverare o spazzare via dagli abiti o dal tavolo polvere o briciole


Situazione simile a quella precedente: rappresenterebbe il volersi liberare dai problemi
attinenti all’argomento espresso e allontanarsi dai contenuti del discorso.

Spostare il corpo indietro


Quando un individuo è seduto di fronte a te e si allontana col busto simbolicamente
potrebbe voler allontanarsi dalla tua persona o dal tuo argomento, un po’ come avviene
quando allontana gli oggetti

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Gambe accavallate e braccia conserte
Incrociare braccia e gambe potrebbe rappresentare una chiusura nei confronti
dell’argomento trattato o dell’interlocutore. Quando incrocia le braccia la persona può
esprimere disinteresse o addirittura fastidio nei confronti dell’argomento. Talvolta può
esprimere anche chiusura rispetto all’interlocutore.
Se la controparte ha una tendenza ad assumere questa posizione significa che ha una
chiusura nei confronti dell’ambiente esterno e che preferirebbe restarsene da sola in quel
momento specifico. Per quanto riguarda le gambe accavallate, queste indicherebbero
chiusura quando la persona di fronte, assumendo quella posizione, mostra tutta la parte
esterna della coscia, quasi a simboleggiare una barriera nei nostri confronti. Tenere le
gambe accavallate può essere anche un segno di auto-protezione, tanto più elevato quanto
più stretto è il loro accavallamento. Ma anche qui bisogna sempre tenere presente gli altri
indici: l’inclinazione del busto, la rigidità della gamba accavallata e del piede sospeso
da terra e l’eventuale associazione di braccia e gambe incrociate. L’osservazione di altri
elementi e segnali ci consente di scambiare una posizione “comoda” con un segnale di
rifiuto.

Segnali di scarico di tensione


Oltre a segnali di gradimento e di rifiuto, il nostro corpo emette anche segnali di tensione
emotiva. I segnali di scarico di tensione sono quelli che utilizziamo per allontanare da noi
ansia, imbarazzo, stress, fatica. Ecco i segnali più tipici di questa categoria.

Grattamenti esercitati sul naso o in prossimità dello stesso


Indicano massimi scarichi tensionali vicini all’80%-100%. A breve, l’argomento trattato
starà per essere riconosciuto come positivo o negativo per l’inconscio.

Deglutizione salivare
Insieme allo schiarimento della gola la deglutizione è un inequivocabile segnale che indica
la tensione emotiva avvertita dal soggetto.

Irrigidimento mascellare
Altro segnale palese che esprime un alto coinvolgimento tensionale dell’interlocutore.

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Grattamenti vari in zone diverse del viso
Se una persona si gratta una parte del corpo come il naso, la guancia, la fronte, le
sopracciglia, la palpebra, la zona retroauricolare ti trovi di fronte a scarichi tensionali nella
norma, non necessariamente riferiti alle tue argomentazioni o rivolti a te in particolare.
Possono non avere nulla a che fare con te ma derivare dall’ambiente circostante o da
pensieri che in quel momento stanno occupando la mente della controparte. A questi
segnali si aggiungono anche le variazioni neuro-fisiologiche come il rossore, il pallore la
tachicardia, l’ipersudorazione, l’accapponamento della pelle, la respirazione affannosa, il
blocco della saliva, il tremore e l’irrigidimento dei muscoli della faccia. Tutti segnali che a
uno sguardo attento non possono sfuggire.

A cosa serve conoscere il linguaggio del corpo


Le espressioni del viso e i movimenti del corpo raccontano sempre qualcosa della
persona che ci sta di fronte rivelando fragilità o dominanza, apertura o chiusura. Tutti,
attraverso il corpo e i suoi movimenti, in ogni istante, continuano a parlare di se stessi e
del loro stato d’animo.
Ma a chi e a cosa può servire di preciso saper leggere il linguaggio del corpo? Non solo
ai detective che devono incastrare il colpevole come si vede in certi film. Può servire
anche al venditore per capire se il potenziale cliente è ben disposto all’acquisto e magari
è il momento di chiudere la trattativa oppure a un medico per entrare più in empatia con
il paziente e comprendere i suoi reali bisogni o paure. In generale può servire in ogni
ambito professionale dove ci sia un’interazione diretta con altre persone. Ma può servire
anche nella vita privata, per esempio per capire meglio il senso di certi silenzi del partner
o dei figli, cogliere certi segnali deboli per migliorare le relazioni in famiglia. Dopo aver
letto questo libro probabilmente presterai maggiore attenzione ai gesti e alle espressioni
del viso dei tuoi interlocutori. Il che è una buona cosa. Ma ho due avvertenze per te.
Prima avvertenza: non c’è niente di più fastidioso di una persona che ti scruta come se
avesse una grande lente di ingrandimento tra le mani. Allenati a leggere il linguaggio del
corpo quando non sei coinvolto nella comunicazione, guarda i dibattiti politici in tv senza
audio o le persone che incontri per strada o nei locali pubblici. Cerca di capire cosa
stanno comunicando con i loro corpi. E più ti allenerai, più svilupperai la tua acutezza
sensoriale e non dovrai chiederti: cosa mi sta dicendo il suo linguaggio del corpo?
Coglierai il messaggio quasi in automatico.
Seconda avvertenza: evita giudizi stile Sherlock Holmes perché l’obiettivo non è incastrare
i ladri o, fuor di metafora, i bugiardi, ma semmai migliorare le relazioni. Conoscere la

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comunicazione non verbale serve soprattutto a questo: a entrare in relazione più profonda
con gli altri per capirli meglio e, di conseguenza, comunicare in modo più efficace. Questo
è il giusto atteggiamento mentale con cui affrontare la lettura di un libro che si propone di
svelare i segreti del linguaggio del corpo.
Non solo: sapendo quali posture, gesti, e movimenti possano inviare messaggi positivi,
quali fiducia e rispetto, e di conseguenza influenza, è possibile produrre gli effetti
desiderati impegnandosi a trasmettere messaggi non verbali più consoni all’obiettivo. È
ciò che fanno molti politici o imprenditori di successo quando devono fare un discorso in
pubblico. Pare che Steve Jobs fosse solito preparare in modo maniacale le presentazioni
dei suoi prodotti. Studiava le slide, le parole, i movimenti del corpo o le espressioni
da fare in ogni istante. Durante la sfida tra Obama e Romney il New York Times online
ha pubblicato un interessante articolo dove venivano mostrati alcuni dei gesti usati più
spesso dai suoi candidati associati a determinati messaggi. Per esempio Obama usava
un gesto che simulava un taglio e a questo gesto associava messaggi come: “Problem
can be solved” (“I problemi possono essere risolti”). Uno dei gesti più usati da Romney,
invece, era l’apertura delle mani verso il pubblico con le braccia vicino al corpo, gesto
a cui associava espressioni come “The American people” (“Gli Americani”). Quei gesti
che nella maggior parte dei casi le persone fanno involontariamente sono stati studiati e
replicati proprio per dare maggior forza al messaggio verbale.
Nel prossimo capitolo vedremo l’altro elemento che concorre a rafforzare o smentire il
messaggio verbale: il paraverbale.

(tratto da I SEGRETI DEL LINGUAGGIO DEL CORPO, Coach di Te Stesso n. 16)

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3 Conta come lo dici

Tratto da:
DIVENTA UN GRANDE COMUNICATORE
Coach di Te Stesso numero 10
Cap 3

Conta come lo dici


Talvolta ascolto le voci senza lasciarmi distrarre dalle parole che contengono.
In quei momenti sono le anime che sento.
Ciascuna ha la vibrazione che le è propria.
Certe emettono solo note stonate:
bisognerebbe che un Dio ne tendesse nuovamente le corde,
come un cieco che accorda un pianoforte.
(Christian Bobin)

Immagina di entrare in un ristorante e di trovare un cartello con questa scritta: “I clienti


che credono che i nostri camerieri siano scortesi dovrebbero vedere il direttore”.
Cosa pensi? Sorridi pensando che si tratti di uno scherzo o pensi: “Ma che razza di
ristorante è questo?!”. A seconda di come si legge il testo, infatti, può avere due significati
diversi. Potrebbe significare: “Per ogni reclamo relativo ai camerieri rivolgetevi al
direttore” oppure “Il direttore è più scortese dei camerieri”. In questo secondo caso il
tono sarebbe evidentemente ironico.

Questo esempio è citato dallo psicologo e filosofo Paul Watzlawick nel libro Pragmatica
della Comunicazione Umana (una delle edizioni di riferimento di tutti gli esperti di
comunicazione) a dimostrazione della possibile ambiguità del linguaggio verbale, che
spesso non basta per cogliere il vero senso di una frase.
Facciamo un altro esempio: «La riunione è domani alle 17».

In quanti modi si può pronunciare questa frase? Quante sfumature di significato può
avere? Potrebbe essere pronunciata con il tono scocciato di una persona che deve
annullare la partita al calcetto settimanale con gli amici o quello di una madre che deve
lasciare ancora una volta i figli dalla baby sitter fino a tardi. Potrebbe essere pronunciata
in tono preoccupato da una persona che non ha raccolto tutti i dati che dovranno essere
esaminati in riunione. Oppure potrebbe essere detta dal capo con un tono tra l’impositivo
e il minaccioso quasi a voler dire: “Guai a chi non c’è!”

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Eppure le parole sono le stesse, ma il messaggio di fondo è cambiato.

Cosa determina il vero senso del messaggio? Il paraverbale.


Tra le componenti paraverbali rientrano il tono della voce (arrabbiato, sereno, seduttivo,
sarcastico, dolce, duro…), il ritmo (ossia la velocità con cui parli: un ritmo veloce può
trasmettere tensione o motivazione, mentre un ritmo lento può suscitare calma e
tranquillità), il volume (parlare a voce alta o bassa) e il timbro (è il colore distintivo della
tua voce – calda, roca, stridula, ecc.).

Al variare di questi parametri variano anche le emozioni suscitate nell’interlocutore.

Prendiamo la parola “tesoro”. Che tipo di emozione possiamo veicolare o suscitare


con questa parola? Verrebbe da dire: positive. E invece, al variare del tono anche una
parola come tesoro può assumere connotazioni inaspettate. Può essere pronunciata
con affetto da un genitore o da un innamorato, ma anche con tono di compatimento, con
ironia, o addirittura con tono carico di rabbia come fa Jack Nicholson quando rincorre
la moglie Wendy in una delle scene più famose del film Shining. E infine la stessa parola
viene pronunciata con una carica emotiva pazzesca da uno dei personaggi più noti del
lungometraggio Il Signore degli anelli, ovvero Gollum quando dice: «Il mio tessssoro».
Insomma, al variare del tono spesso varia il significato di una frase. Una frase
apparentemente neutra può suonare come una critica oppure come un consiglio a
seconda del tono con cui viene detta.

Passando dal tono al ritmo, ti è mai capitato di ascoltare una persona che parla troppo
velocemente? Che sensazione hai avuto? Nella maggior parte dei casi le persone che
parlano troppo velocemente trasmettono ansia nell’interlocutore. Questo potrebbe
essere il loro stato emotivo in quel momento, ma potrebbero anche essere tranquillissimi.
È solo il loro modo di parlare. Pensa per esempio a personaggi dello spettacolo come
Paolo Bonolis, che quando parla in TV spara a raffica una quantità impressionante di
parole... Non lo fa certo per insicurezza, ma, al contrario, riesce a farlo proprio grazie a
un’assoluta tranquillità e un totale controllo della situazione.
Al di là di questo esempio, di solito le persone che parlano molto velocemente lo fanno
perché rincorrono le immagini che si susseguono nella propria mente. Sono i cosiddetti
“visivi” di cui parleremo più tardi. Il punto è che non importa tanto se queste persone siano
tranquille o meno. La cosa importante è ciò che arriva. Quindi se sei una persona che

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tende a parlare troppo velocemente, o almeno così dicono le persone che ti conoscono e
ti hanno sentito parlare, e non vuoi trasmettere ansia al tuo interlocutore, ma, al contrario,
farlo sentire a suo agio quando comunica con te, cerca di rallentare. Se, al contrario, sei
troppo lento, puoi cercare di velocizzare per evitare di annoiare le persone.
Lo stesso principio si può applicare al volume. Ci sono persone che normalmente parlano
ad alta voce e non si rendono conto che questo potrebbe infastidire gli altri. Parlare
ad alta voce potrebbe trasmettere sicurezza, ma anche arroganza, a seconda di chi
ascolta. Lo stesso vale per la voce bassa che potrebbe trasmettere sobrietà ma anche
insicurezza. Ancora una volta, dipende da chi ascolta.
Nel paraverbale rientrano anche le pause e i silenzi. Anche la giusta modulazione di
silenzi e parole può fare la differenza.

Nel libro L’arte del tacere Leon Woods1 racconta questo aneddoto.

Qualche anno fa ho assistito a un esempio folgorante di bilanciamento tra parola e


silenzio. Mi trovavo in un grande teatro dove si teneva un raduno di giovani sacerdoti.
La loro confusione, fatta di chiacchiere e risate riusciva a coprire tutto il silenzio che
quel luogo poteva contenere.
L’alto prelato che doveva parlare si trovava ormai da qualche minuto sul palco, ma
nessuno se n’era accorto. Vani i garbati richiami all’ordine mormorati al microfono dal
coordinatore. Compresa la situazione, l’alto prelato prese con calma il microfono e
con voce profonda e terrificante proferì le parole: «Dio non esiste». Seguì un silenzio
lunghissimo e palpabile. Quando il disagio stava per diventare intollerabile l’oratore
proseguì: «Questo ho letto su un muro mentre mi recavo in questo luogo: e mi sono
chiesto…».

Certo, un prelato che dice «Dio non esiste» a un convegno di giovani sacerdoti fa effetto.
Ma l’effetto non sarebbe stato lo stesso se dopo quella frase il relatore non avesse fatto
una lunga pausa che ha contribuito ad aumentare il livello di tensione e concentrazione
da parte degli ascoltatori.
Sempre restando nell’ambito della comunicazione in pubblico, ti è mai capitato di assistere
a un convegno, un corso o un seminario dove c’era un relatore che parlava sempre con

1
Laureato in psicologia e giurisprudenza, Leon Woods ha curato diversi progetti di consulenza e
formazione in grandi aziende, banche e scuole internazionali.

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un tono, per così dire, piatto per tutta la durata del discorso? Magari l’argomento era
anche di tuo interesse ma a un certo punto probabilmente è subentrato l’effetto “calo
della palpebra” o, quanto meno, la tua mente ha inevitabilmente iniziato a viaggiare su
altri pensieri.
Nella comunicazione in pubblico saper variare di tanto in tanto il tono della voce, così
come il volume, consente di mantenere viva l’attenzione della platea.
Ad esempio, nei miei corsi e negli eventi dove partecipo come speaker, quando voglio
attrarre l’attenzione delle persone e trasmettere energia alzo il volume della voce, se
invece voglio invitare le persone a riflettere su un determinato argomento abbasso il
volume, come se stessi sussurrando all’orecchio delle persone. E quando qualcuno ci
sussurra qualcosa nell’orecchio vuol dire che ci sta dicendo qualcosa che è rivolta solo
a noi.

Altrettanto importante è il ritmo. Nei convegni succede spesso che qualche relatore si
prenda un po’ di spazio in più del dovuto, con la conseguenza che l’ultimo ha meno
tempo a disposizione. In simili situazioni c’è gente che reagisce in questo modo: “Ho
preparato un intervento di 20 minuti. Ne ho solo 10 a disposizione. Che faccio? Parlo
velocemente per farci stare tutto”. L’effetto è davvero ridicolo, come quando da ragazzini
si ascoltavano i dischi a 45 giri impostando l’apparecchio sui 33 giri.
Quindi, come abbiamo visto dai vari esempi, il paraverbale è una componente importante
nella comunicazione in pubblico, ma lo è anche nella comunicazione uno a uno, soprattutto
se avviene al telefono.
Al telefono infatti le percentuali di Mehrabian cambiano a netto vantaggio del paraverbale.
Dal tono della voce, per esempio, spesso riusciamo a capire se dall’altra parte del capo
la persona sta sorridendo o sta assumendo una determinata postura. Possiamo capire il
suo umore senza neppure vedere l’espressione del suo viso. Al telefono facciamo ancor
più caso al tono, al volume, alla velocità, ai silenzi, in pratica al modo in cui le persone
parlano. Al telefono prestiamo ancor più attenzione al timbro della voce che può anche
esprimere la personalità di una persona.
Una voce stridula la associamo all’immagine di una persona rigida e dai tratti spigolosi,
mentre una persona dalla voce calda ci fa pensare ad una persona più accogliente e
magari dai tratti morbidi.

Insomma, se le parole corrispondono a COSA si dice, il paraverbale invece corrisponde


al COME si dice. E nella comunicazione spesso ciò che conta non è tanto cosa dici, ma
come lo dici!
«Col tono giusto si può dire tutto, col tono sbagliato nulla:
l’unica difficoltà consiste nel trovare il tono».
(George Bernard Shaw)

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