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Sono uno studente del corso di laurea in Medicina e Chirurgia e quest’anno ho avuto la possibilità

di partecipare ad un corso ADE avente come tema centrale la psicologia applicata in ambito clinico.
Non posso nascondere quanto fossi scettico inizialmente, ma dopo un primo momento di remore ho
deciso di approfondire questo tema, anzi di scoprirlo completamente. Perché per quanto possa
sembrare assurdo, all’interno del mio corso di laurea, manca completamente un percorso di
formazione in ambito psicologico e non posso fare a meno di pensare come questo sia un grave
errore.
Sono arrivato a tale conclusione dopo aver terminato la prima lezione, svoltasi in data 19 novembre
2018 presso il polo universitario di Pistoia, dove l’argomento trattato riguardava “le relazioni di
cura nell’ambito della pediatria”. In tale momento mi sono reso conto di come ogni studente
dovrebbe poter entrare in contatto con queste realtà.
Il seminario cui abbiamo partecipato, si è svolto in due parti: nella prima, abbiamo avuto la
possibilità di seguire un’introduzione da parte della professoressa organizzatrice, mentre nella
seconda parte ci siamo addentrati nella lettura di alcune parti del testo “La nostra era una vita
normale”.
Siamo stati introdotti all’interno di un argomento a noi quasi sconosciuto, per quanto strano possa
sembrare (questo mio commento altro non è che una grossa critica a coloro che si occupano di
inserirci all’interno della professione, in quanto, non prevedono alcun tipo di approfondimento
dell’ambito psicologico).
Il testo potrei definirlo come un vero uragano, in quanto riesce a trasmettere parte di quello che gli
stessi genitori hanno dovuto passare, assieme ai figli. Ma non solo. All’interno ci sono anche le
storie degli stessi sanitari. E qui si capisce come la malattia non è mai a compartimenti stagni. Non
è mai relegata all’interno della famiglia. Certamente, essa viene colpita maggiormente e risente di
più degli effetti della malattia, spesso irrimediabili, ma con la lettura del testo ci si rende conto di
come le realtà che vengono colpite sono ben più ampie.
Medici ed infermieri vengono spesso asfaltati da queste realtà ed è qui allora che si capisce che non
è possibile vivere separatamente la malattia, sia che si tratti della famiglia, sia che si tratti
dell’operatore. Non è possibile. E di conseguenza diventa necessario creare un gruppo di supporto
che possa aiutare ad affrontare tali situazioni.
La malattia è come un uragano. Non importa cosa si trova davanti, qualsiasi cosa sia, la spazza via
senza accorgersene e anche se viene sconfitta, i segni rimarranno indelebili, scolpiti nelle anime di
chi è stato coinvolto.
La partecipazione a tale seminario credo sia stata fondamentale, perché ci ha fatto rendere conto di
come, dietro le pagine dei libri che faticosamente studiamo, ci sono e ci saranno storie di sofferenza
che dobbiamo essere in grado di affrontare senza cinismo né spregiudicatezza.
Ma come viene affrontato l’inizio di tutto ciò?
Il primo impatto con il reparto di onco-ematologia è scioccante. Le famiglie entrano in contatto con
ambienti moderni ed invitanti ma anche con la sofferenza di compagni. Perciò la disponibilità da
parte dell’equipe è fondamentale in quanto produce un’apertura delle famiglie.
Cruciale è il momento della diagnosi che rappresenta l’inizio di un percorso di fatica di un cammino
che nessuno di noi vorrebbe (e dovrebbe) affrontare.
Al seminario c’è stato fatto notare come sia fondamentale la procedura da seguire per rendere meno
dolorosa la comunicazione della diagnosi. Dopo averne parlato con i genitori, il medico lo
comunicherà direttamente al bambino con un set di slide nel quale si parla della storia di un
giardino. Il medico è rappresentato dal giardiniere e nelle erbacce si individuano le cellule tumorali
che devono essere estirpate. Dopo di che il bambino spiegherà ai genitori. Ricordiamoci che in
questo modello devono rientrare anche i fratelli, i quali potrebbero sentirsi come messi in secondo
piano e meno importarti, portandoli anche a credere di essere essi stessi i responsabili di tali
malattie con i loro pensieri negativi.
Spesso poi ci troviamo a che fare con le fasi di shock, negazione, accettazione.
Nella prima fase, alcuni genitori tendono a svenire. Altri negano pensando alla possibile presenza di
un errore, perdendo tempo e attivando un percorso di ricerca diverso da quello proposto. Mentre
nella fase di accettazione si può arrivare ad un equilibro. Ed è qui che ritorna il concetto di
accoglienza che si deve trovare nei reparti: è fondamentale.
Ciò che è sorto dal testo è che spesso i genitori si sentono inadatti all’affronto della patologia
Credono di non essere in grado di proteggere i loro figli e quindi cominciano a relazionarsi con i
sanitari come se fossero onnipotenti. Diventa necessario cercare di entrare con delicatezza in queste
realtà. L’importate però è che non ci si atteggi come delegati dei genitori in quanto al primo errore
eseguito si cade da questa posizione.
È qui che vengono in aiuto le linee guida. Sono estremamente utili, però diventa essenziale non
considerarle come una via di scampo dalla scelta individuale. Questo perché la linea guida non
coglierà mai la singolarità della situazione nella quale ci si trova. La soluzione quindi è quella di
cercare di trovare uno spazio nel quale poter pensare e confrontarsi. Ed è quindi qui che torna in
gioco il concetto fondamentale di gruppo di lavoro entro il quale diventa possibile la condivisione
sia del lato professionale che emotivo.
Quello che è sorto da questo seminario è che nella dimensione del gruppo di lavoro diventa
possibile trovare delle opinioni completamente diverse. Perché uno vede una cosa e uno un'altra.
Tutto ciò deriva dalle emozioni che alterano la percezione della realtà. Tutti però sono dei gruppi
fiduciosi nella possibilità di arrivare ad una condizione comune.
Quando però manca il gruppo di lavoro, la sofferenza non trova una via di elaborazione, di
conseguenza ciò ricade in primis sulle relazioni con i genitori dei pazienti ma anche sui familiari dei
sanitari stessi. A questo punto ci si trova innanzi ad un bivio: o si va verso una mancata
elaborazione con conseguenze sia per i pazienti che per gli operatori; oppure possiamo elaborare
tutto ciò con cui veniamo a contatto.
Sulla base di tutto ciò che è emerso ritorna quindi fondamentale l’assunto iniziale, ovvero di come
sia essenziale e fondamentale il fronte psicologico nella medicina. Tutto ciò è ormai appurato in
quasi tutte le realtà cliniche ma come abbiamo poi constatato nel secondo seminario, nella realtà
viene sì riconosciuta la essenzialità della figura dello psicologo in ambito clinico ma non viene per
niente sviluppata oltre un certo livello.
Ciò viene anche riscontrato all’interno dei nostri stessi corsi di laurea.
Credevo sinceramente che si trattasse di una carenza riguardante unicamente il corso di medicina
ma, nel momento della condivisione, ho poi realizzato come questo riguardi anche il corso di
infermieristica. Spesso ci troviamo ad essere catapultati all’interno di reparti a noi sconosciuti,
veniamo a contatto con situazioni difficilmente gestibili all’inizio del nostro percorso di formazione
professionale. Tutto ciò non è frutto della mia fantasia ma delle esperienze che sono state condivise
dagli altri partecipanti.
Mentirei però se non esprimessi anche il punto di vista di coloro che hanno avuto la possibilità di
essere inseriti con la giusta calma all’interno di realtà delicate e che invece hanno espresso un
parere estremamente positivo.
Con tale seminario sono arrivato alla conclusione che è estremamente necessario riorganizzare il
nostro ingresso nel mondo del lavoro e di come sia necessario anche rivalutare la strutturazione
(almeno nell’ambito psicologico) dei vari reparti.
Concludo ringraziando coloro che hanno permesso la nostra partecipazione a tali seminari in quanto
mi hanno permesso di affrontare un tema a me molto caro e per il quale nutro molto interesse
permettendomi anche di consigliare a chi di dovere di non interrompere questo progetto.

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