Fu Napoleone in persona a ordinare che venisse recensita positivamente
l'opera Genio del cristianesimo, pubblicata da François-René de Chateaubriand duecento anni fa, esattamente il 14 aprile 1802 o, come si diceva allora in ossequio ai dettami della moda rivoluzionaria, il 24 germinale dell'anno X. Per la verità l'autore, che era nato a Saint-Malo nel 1768 e che morirà a Parigi nel 1848, dopo un'iniziale adesione alle idee illuministiche, si era spostato su posizioni decisamente controrivoluzionarie, facendo coincidere tale spostamento con la conversione al cattolicesimo, di cui il Genio è la testimonianza più viva e interessante. Chateaubriand, che con Louis de Bonald e Joseph de Maistre è considerato uno dei maitre à penser della controrivoluzione filosofica francese, ritenne che i fatti del 1789 e tutti i mali che ne erano seguiti fossero la diretta conseguenza delle dottrine elaborate nel XVIII secolo dai Voltaire e dai Diderot, i quali non avevano esitato a porre al centro delle loro riflessioni e delle loro polemiche il rifiuto e la condanna della fede religiosa, in particolare di quella cristiana, di cui avevano criticato e persino ridicolizzato i dogmi e le verità principali. Dunque, per Chateaubriand la sconfessione delle tesi rivoluzionarie e la difesa del cristianesimo sono due facce della stessa medaglia, il compito che gli si impone è allora quello di dimostrare che il messaggio di Gesù Cristo non soltanto non ha prodotto gli effetti negativi denunciati dagli illuministi ma, al contrario, è stato il più potente alleato della cecità occidentale e del progresso della cultura: «Non si trattava - si legge a questo riguardo nel Genio del cristianesimo - di riconciliare con la religione i sofisti, bensì la gente da essi traviata. L'avevano ingannata col dire che il cristianesimo era un culto nato in seno alla barbarie, assurdo nei dogmi, ridicolo nelle sue cerimonie, nemico delle arti e delle lettere, della ragione e della bellezza; un culto che aveva continuamente versato il sangue, incatenato gli uomini e ritardato la felicità e i lumi del genere umano; si doveva dimostrare che, al contrario di tutte le religioni mai esistite, la religione cristiana è la più poetica, la più umana, la più favorevole alla libertà, alle arti, alle lettere; che il mondo moderno le deve tutto, dall'agricoltura alle scienze astratte; dagli ospizi per gli infelici fino ai templi costruiti da Michelangelo e decorati da Raffaello». Gettandosi in un dibattito antico e, come è noto, ancor oggi di grande attualità, Chateaubriand manifesta la certezza che la civiltà cristiana sia superiore a tutte le altre. E per suffragare questa tesi fa appello a motivi estetici e sentimentali piuttosto che ad argomentazioni strettamente razionali e logiche: egli - è stato detto - «non spiega, non ragiona, ma contempla e ammira». E ammirando, si convince che niente è più sublime della religione cristiana, a proposito della quale, sempre nel Genio, afferma: «Si doveva dimostrare come niente sia più divino della sua morale, niente più bello e solenne dei suoi dogmi, della sua dottrina e del suo culto; occorreva dire come essa favorisca il genio, purifichi il gusto, sviluppi le passioni virtuose, dia vigore al pensiero, offra nobili forme allo scrittore e perfetti stampi agli artisti; che non bisogna vergognarsi di credere con Newton e Bossuet, Pascal e Racine». A questo punto, agli occhi di Chateaubriand, è evidente che coloro che hanno pensato di poter fare a meno del cristianesimo avrebbero condotto l'uomo e la società allo sfacelo, perché esso rappresenta quella tradizione aurea fuori o contro la quale non è possibile edificare niente di buono: «E' qualcosa di generalmente riconosciuto - si legge ancora nel Genio del cristianesimo - che l'Europa deve alla Santa Sede la propria civiltà, una parte delle sue leggi migliori e quasi tutte le sue scienze e le sue arti». «Avvocato poetico» del cattolicesimo, come lo definì Sainte-Beuve, e fors'anche «cristiano dilettante», secondo il giudizio che ne dette Pierre Moreau, Chateaubriand non appare teologo e filosofo capace di speculazioni profonde; la sua stessa religiosità risulta a volte vaga e troppo legata alle emozioni e condizionata dai sentimenti. Tuttavia, questo intellettuale dalla vita inquieta - ebbe una carriera politico-diplomatica contrastata ancorché di buon successo, e celebre resta il suo fascino di grande amatore - fu capace di riattirare sulla Chiesa il favore e la simpatia della gente e degli stessi uomini di cultura, dopo l'ubriacatura anticristiana che aveva stordito per lungo tempo la Francia e che era figlia di quel materialismo rivoluzionario che egli definì «il patibolo sostituito alla legge e obbedito in nome dell'umanità».
Tratto da: Maurizio Schoepflin "Il genio perenne del cristianesimo", in Il Giornale
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