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CINDIA, LA SFIDA DEL SECOLO

VERSO
CINDIA di Federico RAMPINI
Cina e India si avviano a costruire il nuovo (vecchio)
baricentro del pianeta. Le mani sulla tecnologia.
Due mondi diversi, ma con forti complementarità. Per gli Usa
è imperativo evitare il matrimonio fra dragone ed elefante.

1. N EL 2001, RICORDA LO STUDIOSO IN-


diano Pankaj Mishra, quando George W. Bush cedette alle pressioni della destra
religiosa e tagliò i fondi alla ricerca sulla cellule staminali, la sua decisione fu ac-
colta con gioia in India. Il magazine India Today parlò di una «nuova manna» per
gli scienziati e le imprese indiane: «L’opportunità di guadagnare una lunghezza di
anticipo sugli americani». Quattro anni dopo quella scommessa è sul punto di es-
sere vinta. Secondo il Global Biotechnology Report della Ernst & Young, l’India è
già una potenza mondiale nelle biotecnologie con 10 mila scienziati al lavoro in
questo settore. Nei prossimi dieci anni la sua industria biogenetica è destinata a
decuplicare le sue dimensioni aggiungendo un milione di nuovi posti di lavoro
qualificati 1.
Il decollo economico con cui la Cina ha sollevato 300 milioni di persone dalla
povertà, è diventata una superpotenza e ha messo alle corde i vecchi paesi indu-
strializzati, domina l’attenzione mondiale. Non deve però fare trascurare il miraco-
lo dell’altro gigante asiatico. Motorola, Hewlett-Packard, Cisco Systems, Google e
tutti i giganti della tecnologia americana ormai si affidano alle loro squadre di ri-
cercatori indiani per creare le nuove generazioni di software. Boeing e General
Motors fanno disegnare da società di ingegneria indiane pezzi di aeroplani e mo-
delli di automobili. La città di Bangalore cominciò a essere considerata il centro di
una nuova Silicon Valley grazie al baco del millennio: quando le imprese america-
ne dovettero rinnovare i propri sistemi informatici per proteggersi dalla minaccia
di un gigantesco blackout il 31 dicembre 1999, per fare quel lavoro furono arruola-
te migliaia di società indiane. La delocalizzazione dei servizi in India non conosce
più limiti, anche grazie alla diffusa conoscenza dell’inglese: quando chiamate una

1. P. MISHRA, «How India Reconciles Hindu Values and Biotech», The New York Times, 21/8/2005. 53
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grande società di autonoleggio per affittare una vettura a Los Angeles, o una cate-
na di hotel internazionali per prenotare una camera, o il servizio di assistenza del
vostro computer, senza che voi lo sappiate spesso dall’altra parte del filo vi rispon-
de un impiegato/a indiano/a. «Ho conosciuto», racconta il columnist Thomas
Friedman, «imprenditori indiani che vogliono preparare la mia dichiarazione dei
redditi a Bangalore, esaminare le mie radiografie mediche a Bangalore, rintracciare
il mio bagaglio perduto da Bangalore» 2. L’outsourcing esplora frontiere sempre
più ardite: ormai perfino i chirurghi americani si vedono rubare pazienti dai loro
colleghi indiani, in grado di offrire operazioni di alto livello a una frazione del co-
sto occidentale.
Secondo le stime della Cia, l’agenzia di intelligence americana, a metà di que-
sto secolo la Cina avrà superato per ricchezza l’America, e l’India sarà la terza eco-
nomia più grande del pianeta davanti a Giappone e Germania. Il settimanale ame-
ricano Business Week ha osservato: «Mai prima d’ora nella storia l’ascesa di due na-
zioni dal sottosviluppo è stata osservata da tutto il resto del mondo con una tale
mescolanza di paura, opportunismo, ammirazione. Nel dopoguerra avevamo visto
i miracoli economici del Giappone e della Corea del Sud. Ma nessuno di quei pae-
si era abbastanza popoloso da poter trainare la crescita mondiale o da poter im-
porre nuove regole del gioco in tutti i mestieri industriali» 3.
Insieme, entro quattro decenni Cina e India avranno probabilmente la metà di
tutta la potenza produttiva del pianeta. Per certi versi sarà un ritorno al passato: nel
Settecento negli stessi due paesi si concentrava la metà della ricchezza mondiale (il
33% in Cina e il 16% in India). Presto il vero centro del globo tornerà a essere que-
sto immenso blocco asiatico che nel dibattito politico indiano è stato da tempo
battezzato Cindia (Chindia, nella grafìa inglese). Non solo l’Europa sarà ormai
un’appendice marginale e decadente del continente asiatico ma anche gli Stati
Uniti verranno eclissati dalle potenze orientali. «Il mix di ingredienti concentrato in
Cindia», secondo Business Week, «tra manodopera a buon mercato, mercati di con-
sumo sterminati e politiche economiche favorevoli al capitalismo privato, è di una
forza irresistibile».
Cindia oggi è sinonimo di una popolazione senza eguali – oltre due miliardi e
trecento milioni – pronta a competere nei lavori più umili e faticosi con salari mol-
to bassi. Ma anche l’esercito di forza lavoro qualificata e addestrata ai mestieri
scientifici è fuori dalla portata dell’Occidente: in Cindia si laureano ogni anno mez-
zo milione di ingegneri e informatici, contro i 60 mila che escono dalle università
americane (una parte dei quali sono neolaureati indiani e cinesi pronti a tornare a
casa loro); i ricercatori asiatici in medicina e biologia saranno più di un milione e
mezzo entro tre anni, cioè il doppio che in America. Il fondatore della Microsoft
Bill Gates parlando davanti ai governatori degli Stati Usa ha detto: «Sono terrificato
per la nostra forza lavoro di domani. Nella competizione internazionale per avere
2. TH.L. FRIEDMAN, The World Is Flat: A Brief History of the Twentieth Century, New York 2005, Farrar,
Straus and Giroux.
54 3. «China & India: What You Need to Know Now», Business Week, 29/8/2005.
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il maggior numero di lavoratori nelle industrie della conoscenza, l’America perde


terreno mentre avanzano Cina e India». In parte questo squilibrio è una conse-
guenza diretta delle proporzioni demografiche: la selezione dei migliori in Cindia
si opera su un universo di candidati molto più ampio che da noi; inoltre nei paesi
emergenti il livello di motivazione, di disciplina e di accanimento è superiore al
nostro; per conquistare le migliori opportunità professionali nella nuova divisione
internazionale del lavoro i giovani cinesi e indiani sono disposti a fare sforzi e a
sopportare sacrifici insostenibili per i giovani europei e americani già nati nel be-
nessere. È semplicemente finita l’èra in cui l’uomo bianco – una piccola minoranza
sul pianeta – poteva vivere di rendita sulla sua superiorità scientifica e tecnologica,
industriale e militare.

2. Se la loro ascesa contemporanea è il grande fenomeno destinato a segnare


la nostra epoca, Cina e India sono separate tuttavia da differenze fondamentali tra
di loro, al punto da rappresentare per certi aspetti quasi due poli opposti e due
modelli alternativi. Negli ultimi decenni Pechino ha rapidamente surclassato Delhi
nello sviluppo economico: ancora negli anni Ottanta il reddito pro capite degli in-
diani era superiore, oggi invece è solo la metà di quello dei cinesi. Quasi tutti gli
indicatori economici vedono la Cina in netto vantaggio sull’altro colosso asiatico.
Dagli anni Ottanta l’India ha messo a segno in media un tasso di crescita del pil del
6% all’anno, un risultato ragguardevole che però non fa una gran figura rispetto al
+10% di media annua della Cina. La popolazione sotto la soglia della povertà è
scesa al 5% in Cina, resta del 26% in India. Il commercio estero è cresciuto in am-
bedue i paesi, ma ancora una volta a velocità diverse, visto che la Cina già nel 2003
rappresentava il 6% del commercio mondiale mentre l’India non arrivava all’1%.
Gli investimenti stranieri in India sono appena un decimo dei capitali affluiti in Ci-
na. Le riserve valutarie di Delhi sono un quinto di quelle accumulate da Pechino
(711 miliardi di dollari).
Secondo l’economista Arvind Panagariya, «il singolo fattore più importante per
spiegare queste differenze è la performance relativamente modesta dell’industria
indiana. Mentre la quota dell’industria nel pil cinese è salita da un livello (già ele-
vato) del 42% nel 1990 fino al 51% nel 2000, in India è rimasta stagnante. Per con-
tro in India è cresciuto rapidamente il settore dei servizi, passando dal 41 al 48%» 4.
Panagariya bolla come una illusione il sogno che l’India possa passare dall’agricol-
tura a un’economia fondata sui servizi, senza passare dall’industrializzazione, ov-
vero di «diventare l’America senza prima essere passata dalla Corea del Sud».
In effetti quel settore terziario avanzato verso cui affluiscono le nostre deloca-
lizzazioni dei servizi rappresenta ancora una quota troppo piccola per mantenere
una nazione di quelle dimensioni. Il software e i servizi informatici, per quanto
competitivi, ancora producono solo il 2% del pil indiano. Il grosso dei posti di la-
voro creati nei servizi si concentra invece nel piccolo commercio, nella burocrazia
4. A. PANAGARIYA, «A Passage to Prosperity», Far Eastern Economic Review, luglio 2005. 55
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statale, nei trasporti e nelle banche, settori in prevalenza arretrati e poco efficienti.
Il 60% della manodopera è ancora legata all’agricoltura. Mentre è possibile trasfor-
mare rapidamente i contadini in operai, come avviene in Cina, perché le mansioni
industriali si imparano in fabbrica, solo per i figli (quindi fra una generazione) si
può sperare che il futuro sia nei servizi avanzati che richiedono una formazione
universitaria.
Tra gli ingredienti del boom cinese c’è stato uno sforzo formidabile di moder-
nizzazione delle infrastrutture (autostrade, aeroporti, porti, telecomunicazioni, In-
ternet), che invece in molte zone dell’India rimangono sottosviluppate, talora a li-
velli quasi africani. L’aeroporto di Shanghai-Pudong e quello di Delhi sembrano
appartenere a due secoli diversi. Tra le zavorre che hanno causato questo divario e
hanno reso meno rapido il boom indiano, gli osservatori locali tendono a enfatiz-
zare la colpa della corruzione. Abraham George, imprenditore tecnologico e filan-
tropo nato in India, ha raccontato le traversie subite dopo aver finanziato la costru-
zione di una scuola per bambini della casta degli «intoccabili» nel Tamil Nadu. All’i-
naugurazione della scuola il governatore dello Stato si presentò con 250 poliziotti
pretendendo che venissero tutti invitati a un banchetto. Una nave con 40 tonnella-
te di cibo destinato alla scuola rimase bloccata alle dogane perché i funzionari por-
tuali pretendevano tangenti, finché George rinunciò e distrusse l’intero carico ali-
mentare 5. A Delhi perfino i miseri «tassisti» che trasportano passeggeri sui rickshaw
a pedali devono versare bustarelle ai burocrati pubblici.
La corruzione indiana è sicuramente a livelli spaventosi, tuttavia è impossibi-
le avere prove affidabili che quella cinese sia meno grave: sotto il regime politico
e la censura di Pechino l’informazione sulle tangenti circola meno liberamente.
Ci sono invece altre differenze oggettive, create proprio dalla differenza tra i due
sistemi politici. Il vincolo elettorale nella democrazia indiana ha spinto i governi
a usare la spesa pubblica come strumento di consenso popolare e questo ha sca-
vato un notevole deficit pubblico (10% del pil) che rallenta la crescita. Come
esempio di clientelismo che grava sulle finanze pubbliche, il governo attuale ha
varato di recente un faraonico programma di grandi opere che garantisce 100
giorni all’anno di impiego statale a un membro di ogni famiglia in 200 province
indiane, e ha l’intenzione di estenderlo a tutte le 600 province nell’arco di un
quinquennio.
Un altro prezzo pagato alla democrazia è una legislazione del lavoro molto
più favorevole ai lavoratori, rispetto alla «comunista» Cina: lo Industrial Disputes
Act del 1982 rese quasi impossibile il licenziamento dei dipendenti nelle imprese
indiane sotto i 100 addetti. Questa rigidità del mercato del lavoro, insieme con un
maggiore protezionismo indiano sul mercato interno – due ingredienti che non
hanno equivalenti nell’economia cinese – sembra spiegare anche il minore afflus-
so di investimenti stranieri. Non a caso i settori dove le multinazionali straniere de-

56 5. A. GEORGE, India Untouched: the Forgotten Face of Rural Poverty, New York 2005, Writers Collective.
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localizzano in India impiegano colletti bianchi e personale qualificato (dall’infor-


matica al farmaceutico) a cui non si applica il divieto di licenziamento.
In controtendenza però l’India batte la Cina nella performance della Borsa.
Mentre il depresso mercato azionario di Shanghai è ai minimi da cinque anni, l’in-
dice di Mumbai è salito del 50% nel 2005. Su questo terreno lo Stato di diritto in-
diano sembra offrire un quadro di garanzie più rassicurante: le regole societarie, la
trasparenza nella governance e la tutela degli azionisti minori in Cina sono ancora
più indietro.
Guardando ai risultati economici nel medio termine la dittatura cinese si è ri-
velata più efficiente della democrazia indiana. Nel lungo periodo il bilancio della
gara può cambiare. Il pluralismo di Delhi, insieme con un sistema istituzionale più
liberale e garantista, potrà rivelarsi flessibile nel gestire le crisi sociali che inevita-
bilmente accompagnano lo sviluppo. Amartya Sen, premio Nobel per l’economia,
esalta le radici antiche della tolleranza indiana e la tradizione democratica che ha
una storia indipendente dall’influenza occidentale 6. L’emergere di un fanatico na-
zionalismo indù e le tensioni con la grossa minoranza islamica non sono riuscite a
mettere in crisi la più grande democrazia del pianeta, che nel 1977 e nel 2004 ha
cambiato maggioranze di governo e ha dimostrato di saper praticare una pacifica
alternanza.
Perfino quello che oggi viene considerato un fallimento della classe dirigente
indiana – la mancanza di un controllo delle nascite – cambierà di segno con gli an-
ni. In Cina la politica del figlio unico è stata applicata con tale efficienza che entro
vent’anni Pechino dovrà già affrontare i problemi dell’invecchiamento che noi co-
nosciamo – l’esplosione della spesa previdenziale e sanitaria – su una scala gigan-
tesca. L’India invece potrà contare più a lungo su una popolazione giovane per ali-
mentare il suo mercato del lavoro.

3. La loro stessa diversità rende questi giganti complementari. Visto che la Ci-
na è concentrata nell’industria mentre l’India eccelle nel software, nella consulen-
za, nei servizi, molte multinazionali hanno imparato a esaltare le forze rispettive:
delocalizzano in India i laboratori, in Cina le fabbriche.
Tra Cina e India prevarranno le spinte all’integrazione sinergica e all’emulazio-
ne reciproca, favorite dalla complementarità? O invece i due modelli alternativi so-
no destinati a finire in rotta di collisione? Questo è un interrogativo cruciale non
solo per le due classi dirigenti e per il futuro dei rapporti fra le due nazioni più po-
polose del mondo, ma anche per l’America e per l’Europa. Via via che il primato
della ricchezza mondiale, della forza tecnologica, e presto anche della potenza mi-
litare, slitta verso l’Asia e tende a ritrovare il suo naturale baricentro demografico, il
nodo del rapporto tra Cina e India acquista una rilevanza sempre maggiore. Se ci-
nesi e indiani collaborano e imparano gli uni dai successi degli altri, l’ascesa di

6. A. SEN, The Argumentative Indian. Writings on Indian History, Culture and Identity, Londra 2005,
Allen Lane. 57
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Cindia sarà irresistibile: in particolare se Pechino dovesse accettare delle iniezioni


di democrazia e tolleranza indiane come ricette per la transizione verso una com-
piuta modernità. Se viceversa dovesse essere la classe dirigente indiana a subire il
fascino muscoloso del boom economico cinese fondato sulla repressione, l’Asia
intera e forse altre parti del mondo scivolerebbero verso dosi crescenti di autorita-
rismo politico-sociale. Se infine la rivalità dovesse prevalere sulla complementarità
fino a sfociare in un conflitto armato tra i due paesi, come già nel 1962, gli scenari
sarebbero apocalittici.
Su questi temi una riflessione europea, per non dire dell’Italia, è latitante. Non
lo è invece negli Stati Uniti, che s’interrogano nervosamente sul da farsi. Nell’estate
del 2005 un episodio illuminante è stato il tentativo fallito da parte dell’ente petro-
lifero di Stato Cnooc di scalare una compagnia californiana, Unocal. Anche se
l’amministrazione Bush ha avuto varie oscillazioni nel suo atteggiamento verso la
Cina, la vicenda Cnooc-Unocal ha messo in scena un campione più vasto della
classe dirigente – Senato e Camera hanno lungamente dibattuto sull’opportunità di
lasciar fare i cinesi. Il verdetto è stato chiaro. Per l’America oggi la Cina è l’unico
paese da temere, l’unica potenza che in futuro può scalzare la leadership Usa, l’u-
nico che può sviluppare mire espansionistiche e «imperiali» su scala intercontinen-
tale. È anche il vorace e aggressivo concorrente nella corsa ad assicurarsi la più
scarsa e strategica delle risorse, il petrolio.
L’affondo su Unocal ha avuto un valore simbolico perché toccava l’America
nel punto più sensibile. Si è rivisto lo spettro di una potenza straniera capace di in-
filtrarsi in gangli vitali del sistema americano – come l’Unione Sovietica o, sul terre-
no finanziario, il Giappone dei primi anni Ottanta – con la regia monolitica di uno
Stato totalitario (come per l’Urss, ma a differenza del Giappone), con un peso de-
mografico e dunque una «quinta colonna» (l’emigrazione e la diaspora sino-ameri-
cana) che nessun altro rivale aveva mai avuto, e infine in una fase di indebolimen-
to politico, tecnologico e militare degli Stati Uniti (l’Iraq, il terrorismo, le incom-
prensioni con alcuni alleati). Ci sono gli ingredienti per alimentare previsioni pes-
simistiche sul confronto Usa-Cina. Di qui la scelta di organizzare una strategia di
contenimento della Cina, nella quale a fianco del Giappone un ruolo decisivo
spetta all’India.
Una svolta manifesta è stata la decisione dell’amministrazione Bush di abolire
le limitazioni nelle vendite di armi a Delhi, che erano state decise in seguito allo
«strappo» nucleare dell’India. Torna a riaffacciarsi quell’opzione indiana che era già
stata presente nella diplomazia americana. È interessante che proprio in questo
periodo siano trapelate per la prima volta le discussioni del 1963 fra il presidente
John Kennedy e i suoi collaboratori, sull’opportunità di un bombardamento nu-
cleare contro Pechino per difendere l’India (l’anno prima l’Esercito di liberazione
popolare aveva attraversato il confine per un’invasione lampo dell’India, nel 1964
la Cina avrebbe costruito la sua prima atomica). Sintomatico è anche l’aumento de-
gli investimenti nipponici in India, paese divenuto più appetibile per le multina-
58 zionali di Tōkyō dopo le manifestazioni antigiapponesi in Cina.
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Non è difficile per Washington trovare buoni argomenti presso i governanti


di Delhi per metterli in guardia contro le mire di Pechino: dall’occupazione del
Tibet alle forniture di armi al Pakistan e al Bangladesh, i motivi di diffidenza non
mancano.
Pechino però non sta a guardare. Non è disposta ad abbandonare l’India agli
americani perché la usino per completare un cordone sanitario attorno ai confini
cinesi. Nell’aprile 2005 la leadership comunista ha mosso le sue pedine con la visi-
ta del premier Wen Jiabao per un vertice bilaterale con il suo collega Manmohan
Singh. L’abbraccio tra il dragone e l’elefante, come è stato enfatizzato dalla stampa
ufficiale di Pechino. Per rendere omaggio alla specializzazione hi-tech dei suoi vi-
cini, Wen Jiabao ha cominciato la visita non dalla capitale politica Delhi, ma dal
gioiello hi-tech di Bangalore. Da lì il premier cinese ha lanciato uno slogan che
non molto tempo fa sarebbe sembrato velleitario: «Insieme possiamo fare del XXI
secolo l’èra della leadership tecnologica asiatica». Nello stesso periodo i mass me-
dia indiani davano grande risalto all’esperimento di «zone franche» che il premier
Manmohan Singh vuole varare per liberare da lacci e lacciuoli le grandi imprese:
un riferimento alla prima apertura cinese al capitalismo, un quarto di secolo fa sot-
to Deng Xiaoping.
Il vertice a Delhi non è stato solo il potenziale preludio di una nuova èra per
l’economia globale ma anche una piccola svolta politica. La breve guerra del 1962,
combattuta per il controllo di zone dell’Himalaya, ha lasciato in eredità un conten-
zioso sul confine tra i due paesi, lungo 3.500 km che spaziano dal Kashmir a ovest
fino al Myanmar (Birmania) a est. In tempi molto più recenti, i test nucleari indiani
del maggio 1998 crearono una forte tensione quando Delhi fece sapere esplicita-
mente che il suo rafforzamento atomico non era diretto solo contro il Pakistan ma
anche contro una minaccia cinese. Nella lista dei dispetti incrociati figura natural-
mente il sostegno indiano al Dalai Lama, il leader religioso tibetano in esilio. Nel-
l’aprile 2005 Singh e Wen hanno firmato un accordo su una road map che traccia il
metodo per risolvere il contenzioso territoriale.
Un altro gesto che ha una portata economica concreta ma anche un significato
politico, è l’avvio da parte cinese dei lavori per ricostruire la celebre Stilwell Road
che dalla città di Kunming (Yunnan) arriva al confine indiano passando dalla Bir-
mania. È una strada importante per migliorare le infrastrutture che collegano i due
paesi. Ha una valenza particolare perché fu fatta costruire dal generale americano
Joseph Stilwell nel 1942 per collegare le forze alleate impegnate su due fronti con-
tro i giapponesi; cadde in rovina via via che le relazioni fra India e Cina si deterio-
ravano.
Su terreni chiave come i negoziati commerciali in seno alla Wto, India e Cina
hanno già formato un’alleanza efficace insieme con Brasile e Messico, un fronte
che ha sconfitto più volte gli interessi americani ed europei. È un saggio di quello
che l’intesa tra cinesi e indiani può significare per noi.

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