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L’opera
Il romanzo è liberamente ispirato a Meister Eckhart, uno dei più alti mistici di tutti i
tempi. Narra la travagliata vicenda di Eccardus, teologo del medioevo, e del suo
pensiero attualissimo.
In un'epoca di contrapposizioni, l’esistenza di Eccardus si intreccia con gli eventi
accaduti tra i secoli XIII e XIV: una curia opulenta sopra cui transitano il papa
angelico Celestino V e lo scaltro successore Bonifacio VIII; la disputa tra Bonifacio e
Filippo il Bello, il quale spinge per la "cattività" Avignonese e distrugge l'ordine dei
Templari; la diatriba tra Giovanni XXII e l'imperatore scomunicato Ludovico, da cui si
rifugiano alti gerarchi francescani, accusati di eresia.
Il teologo ricopre crescenti ruoli nell'ordine domenicano e le più insigni cariche
dell'insegnamento all'Università di Parigi, dopo Tommaso d'Aquino, sempre in bilico
tra libertà e obbedienza, tra eresia e ortodossia.
Intorno a Eccardus si stagliano figure eminenti, fra le quali spicca una monaca che
possiede doni di visione profetica. Con la monaca, figlia di una eretica devota del
Libero Spirito morta per le torture del "braccio secolare" dell'Inquisizione, Eccardus
sviluppa una forte attrazione d’affetto e d'anima e trova conforto nei momenti più bui.
Eccardus si deve confrontare anche con gruppi ribelli, come i beghini, i flagellanti e i
fraticelli, che ribollono in tutta Europa alimentati dall'astio verso un clero additato
come rapace e simoniaco. Contro tali sette l’Inquisizione papale e quelle episcopali
lavorano a tempo pieno, spesso dominate da esponenti dei potenti ordini domenicano e
francescano. E domenicano, per ironia della sorte, è Eccardus che viene infine inquisito
prima dall'accanito arcivescovo Henric von Virneburg, attratto dal potere e da
morbosità inconfessate, e poi dalle commissioni papali, in cui figurano anche
domenicani, come l’eminente Frederich von Stuttgart.
Gli scritti del teologo vengono condannati, ma lui ha già cessato di respirare quando il
verdetto di eresia viene pronunciato. Tocca ai suoi discepoli Heinrich e Johannes
lottare per tramandarne i radicali messaggi che delineano un senso religioso universale.
Messaggi soprattutto contenuti in una misteriosa ultima e rivoluzionaria dottrina
sull’approccio al divino, che potrebbe scardinare le fondamenta su cui la gerarchia
ecclesiastica medioevale si basa, che il Maestro lascia loro in eredità sotto forma di
enigma. Ma sulle loro tracce è anche un segugio dell’Inquisizione, che vuole
impossessarsene a tutti i costi, per far morire sul nascere i calamitanti principi eretici
che in quella segreta dottrina sicuramente si annidano.
L’autore
Walter Gioia (Milano, 1960), psicoterapeuta, consulente e formatore aziendale.
Da anni ricerca la comune saggezza nei diversi sistemi filosofici e religiosi. Si è recato,
oltre che in luoghi sacri europei, nei templi giapponesi e coreani, nelle scuole sufi
mediorientali, negli ashram indiani e in vari centri religiosi e sciamanici del Centro e
del Sud America.
Ha pubblicato i romanzi Alle sorgenti dell’Essere – Viaggio interiore nella foresta
amazzonica (Meb, 1996) e La posada di Dona Carmen (OGE ed., 2009).
Ha partecipato a conferenze e a trasmissioni radiofoniche e televisive. Articoli e
interviste sono apparsi su diverse riviste. Ha curato il N.110 del mensile Riza Scienze
(1997) sulle culture sciamaniche e religiose del Brasile.
Ventenne, ha vinto premi di poesia.
2) Dopo la fine del romanzo sono inserite una scheda biografica su Meister
Eckhart, sui personaggi storici e una scheda del periodo storico.
*
Parte Prima
Cap 1 - Costanza, convento di San Nicola all’Isola, pomeriggio di inizio primavera 1329
Cap 5 - Regione di Eifel, residenza dei von Virneburg, alba d’estate 1262.
*
Parte Seconda
Cap 27- Renania meridionale, monastero benedettino, (seconda) sera di primavera 1329
*
Parte Terza
***
*****
Panorama storico-culturale
== == ==
Ludovico il Bavaro: imperatore
Marsilio da Padova: filosofo, alla corte di Ludovico
Giovanni XXII: papa ad Avignone
Celestino V: papa
Bonifacio VIII: papa
Michele da Cesena: Generale dei francescani
Regione di Eifel,
residenza dei von Virneburg,
notte d'inverno 1332.
"Andate viaaa! Via, ho detto. Lerci ruffiani di Satana! Non voglio nessuno tra i piedi,
nessu...".
L'anziano arcivescovo strozzò in gola la parola per la schiuma andata di traverso. Paonazzo,
tossì e sputò un grumo di muco e sangue sulle mattonelle di cotto pregiato. La veste porpora
di seta, appena cambiata, era già imbrattata. Rantolò per un'inspirazione forzata e il capo
cadde in avanti.
Il chierico attento lo risistemò sulla sedia di paglia. Due servette terminavano veloci di
accomodare la trapunta del soffice letto a baldacchino. La più giovane, quasi una bimba,
arricciando il naso raccolse le lenzuola sozze di piscio e cibi ributtati, e fece per
inginocchiarsi a pulire lo sputo, prima di uscire. Fulmineo, il vecchio le serrò un polso con la
pingue mano e la tirò a sé, stringendo gli occhi:
"Tu, piccola sgualdrina, non te la caverai così. Ricordatelo. I mostri non mi fanno paura."
Alla fanciulla si raggelò il sangue. Un violento colpo di tosse costrinse l'uomo a lasciare la
presa. La fanciulla indietreggiò, premette sul petto il maleodorante groviglio di biancheria e
si precipitò fuori dalla camera. L'altra serva, pallida, la seguì di corsa, girandosi sulla soglia
per un frettoloso inchino.
"Riportami a letto, svelto!" comandò l'arcivescovo appena si fu ripreso.
Il chierico lo aiutò ad alzarsi e a percorrere i passi che lo separavano dal giaciglio appena
fatto. Lo coricò e rimboccò delicatamente le morbide coltri.
"Ora vattene, e disponi che non entri nessuno, finché non lo ordinerò io. Vatte...".
La tosse convulsa. Un rantolo. L'inspirazione forzata.
Il giovane lanciò una languida occhiata al superiore e si congedò, con un tremore sulle
labbra.
Il prelato si aggrappò agli intarsi della testata e si issò a sedere, appoggiato ai guanciali. I
polmoni erano un incendio; le tempie, un tamburo battente. Da tre settimane faticava a
respirare e non si reggeva: mal di testa e conati continui, un calore infernale in tutto il corpo
e la tosse insistente. Negli ultimi giorni delle tumefazioni gli tormentavano l'inguine e le
ascelle. E sopra tutto, le apparizioni che non gli davano tregua.
Nessuno doveva vederlo in quelle condizioni. Dovevano tutti ricordarlo sicuro nei sermoni e
nelle litanie, coperto dai paramenti fini. A proprio agio sul suo trono mentre elargiva
benedizioni e gli venivano baciati i calzari dorati. Protagonista nelle ricorrenze religiose e
laiche della potente città renana che presiedeva da decenni con la sua tempra indiscussa:
Colonia.
Nel pomeriggio aveva fatto cacciare gli ultimi medici: boriosi cialtroni, che pretendevano di
farlo succhiare da vermi e di tenerlo a regime con insipide brodaglie. Si sarebbe curato da
solo, come le altre poche volte che si era ammalato. Sapeva lui come fare: la dieta a base di
vino e selvaggina, impacchi caldi e freddi, un paio di infusi carpiti da confessioni di streghe, e
i balsami da spalmarsi sulle parti intime, pagati carissimi a quel mezzano di Rufus, che li aveva
magnificati come l'elisir di lunga vita dei saggi d'oriente.
Doveva riprendersi al più presto. L'odiato Ludovico il Bavaro, che non aveva mai riconosciuto
imperatore e i cui soldati lo avevano persino assediato quindici anni prima, voleva convocare i
principi elettori, quattro principi laici e gli arcivescovi di Treviri, di Magonza e di Colonia, per
negare la necessità della sanzione papale per accedere al trono del Sacro Romano Impero.
Henric Von Virneburg giudicava gli altri due arcivescovi dei pusillanimi facili a farsi
sopraffare dallo scomunicato Ludovico o, peggio, a svendersi in cambio di privilegi alle loro
casate. Era una questione che non andava affatto sottovalutata. Il potere ecclesiastico
doveva ergersi sopra qualsiasi decisione temporale. Appena si fosse ristabilito, sarebbe
intervenuto con tutto il suo peso in difesa del primato di Santa Madre Chiesa.
Ansimante, guardò fuori dai vetri. La notte torbida stava preparando un temporale fuori
stagione.
Dalla finestra della sontuosa camera, in cima alla rocca di pietre brune che dominava l'ansa
del fiume a ridosso dei colli, spesso aveva rimirato gli sterminati campi arati e i vigneti. Da
quando, dieci anni prima, il figlio celibe di suo fratello Martin era morto per una caduta da
cavallo, il castello fortificato, con tutte le proprietà, era rimasto nelle sue mani. Un suo
antenato l’aveva fatto erigere, per testimoniare il carattere dei von Virneburg: indomito e
inespugnabile.
Una scarica di fulmini percorse a ragnatela i vetri, seguita da boati cavernosi. L'alto prelato
sbarrò gli occhi e si aggrappò alla trapunta:
"Chi sei, tu?".
La ragnatela di luci si era trasformata in un'adolescente terrea, emaciata, completamente
nuda. Una chioma di vipere vive in testa, lo squadrava con due pupille scarlatte dall'alto di una
puledra nera senza finimenti, che cavalcava come un maschio, a gambe divaricate. Dalle
cinque mammelle zampillava sangue. Nella mano destra teneva un cappio di corda e dal ventre
lacerato fuoriuscivano le interiora e una placenta rigonfia.
"Tu sai bene chi sono".
La voce metallica era provenuta indubbiamente dalla cavallerizza dai fianchi prominenti,
sebbene le labbra bluastre fossero rimaste serrate. Aveva parlato in dialetto boemo, eppure
l'uomo aveva compreso benissimo. Per un attimo la figura prese le sembianze dell'ultima
femmina che Rufus gli aveva portato da Praga, sei mesi prima. L'uomo negò a se stesso quella
somiglianza:
"Non ti conosco, vattene. Te lo ordino!".
"Ormai non puoi più ordinare nulla a me, né a tutte le altre innocenti di cui ti sei servito".
"Non so di che ciarli".
"E' giunta l'ora della giustizia".
"Io rappresento la giustizia. Come osi parlarmi così".
"Tutto ciò che hai compiuto ti ritorna: dentro, come fuori; in alto, come in basso...".
"Che farnetichi, femmina?".
"... prima, come dopo".
Il prelato le fissava con orrore il ventre squarciato. La ragazza aveva pronunciato le frasi in
lingue diverse e con un timbro differente. Eppure ciascuna di quelle voci gli suonava
conosciuta. Dallo stomaco gli salì un crampo convulso.
La ragazza sollevò le braccia; le mammelle e la placenta ondeggiarono. Dalle ascelle livide
pendevano abnormi bubboni. Le ghiandole accanto al pube, appena coperto di peluria, si
gonfiarono a dismisura:
"Questi sono i segni della giustizia. Della falce che ogni pianta pareggia. Del diamante che
frantuma tutti gli specchi".
"Vattene! Vattene, lurida cagna! Sei morta. Sei il demonio!".
Un boato coprì le ultime sillabe.
L'uomo sentì inzupparsi di sudore il grasso petto.
"Non mi fai paura, ripugnante baldracca".
Brandì il crocefisso di bronzo, lasciato sul lenzuolo, e con tutte le forze lo scagliò verso la
fanciulla. L'oggetto sacro trapassò la figura e sfregiò la parete affrescata con un tintinnio.
"Lo vedi. Non sei nulla, femmina, nul...".
La tosse convulsa. L'inspirazione forzata.
"Il Nulla è proprio ciò che incontrerai".
La giovinetta nuda dalle labbra bluastre serrate, coi talloni spronò la puledra verso i
guanciali, stringendo il cappio in una mano e soppesando la placenta nell'altra.
Il prelato gattonò sulla trapunta per fuggire:
"Vattene, diavolo! Aaagh!".
Cadde dal letto. Si trovò bocconi sul tappeto; riuscì a mettersi a quattro zampe. Ansava:
"Tu non sai chi sono io, io sono...".
Udì dietro a sé lo sbuffare sinistro della puledra e una fitta salì dalla mano destra: uno
zoccolo si era posato su di essa, inchiodandola al suolo.
La giovinetta scese dalla puledra e si avvicinò all'uomo costretto a terra, lenta, le labbra
bluastre serrate, stringendo il cappio:
"So chi sei, più di quanto tu stesso non lo sappia".
La giovinetta si chinò, lenta, le labbra bluastre serrate. La placenta pulsava, incontenibile. Il
prelato tese la gola e irrigidì le membra, ipnotizzato. La fanciulla dispiegò il cappio per
infilarglielo intorno al collo.
"Aaaahhh!".
L'uomo aveva urlato con quanto fiato aveva. L'apparizione scomparve.
"Dioooo, dove sei! Io ti ho servito. Tutta la vita. Ho servito la tua giustizia… il tuo potere
implacabile. E tu non mi hai mai ringraziatooo. Nemmeno ti sei degnato di. mostrart....".
La tosse convulsa. Lo sputo. L'inspirazione forzata.
"Non rispondi, eh? Fingi di non ricordarti di me? Eppure ti erano comodi i giochi sporchi per
coprire le schifezze dei tuoi preti. Era utile la mano impietosa che colpisse, vero? Ho
condannato nel tuo nome demoni di ogni tipo. E' così che mi ripag...?”.
La tosse violenta.
Raccolse le forze e si sollevò in ginocchio. Le costole dolenti, la fronte madida, una bava alla
bocca. Strinse i pugni tremanti:
"Ora non puoi rifiutarti di presentarti. Ora lo chiedo. Lo esigo!".
Un boato coprì le ultime sillabe.
Le candele e i lampi rimbalzavano ombre spettrali sulle pareti affrescate.
*
Parte Prima
Cap 1 - Costanza, convento domenicano di San Nicola all’Isola, pomeriggio di primavera
1329
Il sole era stato esiliato in quell’immaturo cambio di stagione. Nel cielo violaceo una
turgida coltre di nubi nascondeva parte del lago e dei monti dall'ora sesta.
Heinrich Suso, il volto scarno segnato da occhiaie, dal mattutino era seduto alla scrivania
nello scriptorium dal soffitto a volte, dove solitamente studiava per la sua funzione di
Lector principalis. Soprapensiero carezzò la copertina lavorata della Bibbia che Maestro
Eccardus gli aveva affidato, accompagnandola col soffio delle ultime parole: ‘Ciò che
molti hanno cercato è qui dentro’. Quanto avrebbero dato gli inquisitori, si disse, per
poterci mettere sopra gli artigli e annientarne per sempre il temuto contenuto. Eccardus,
quella stessa notte dell’inverno precedente, era spirato con un processo per eresia pendente
di fronte alla commissione papale. Il domenicano sospirò: il Maestro non aveva affatto
meritato quel calvario, iniziato tre anni prima, quando l’arcivescovo Henric von Virneburg
gli aveva intentato il primo processo di Colonia. Del Maestro gli mancava la voce, il
pensiero fine, il volto di pace.
Impugnò la penna d’oca e marcò una frase interrogativa su una pergamena brunita. Lo
scaffale sottostante rigurgitava già di uguali cartapecore vergate di appunti e di altrettante
ancora intatte, tutte donategli dal Maestro.
Nella Bibbia aveva trovato quattro pergamene vuote simili e altre sei scritte con la
tremante calligrafia dell’anziano Eccardus. Le riprese, per cercarvi per un’ultima volta la
dottrina rivoluzionaria ancora celata tra i disegni geometrici e le frasi sparse, spinto dalla
devozione per il Maestro e da un’inconfessata sete di sapere che da sempre lo attraversava.
Da mesi però si arrovellava senza risultati. Peggio, se gli inquisitori avessero saputo che
possedeva la chiave dell’ultima dottrina, la sua posizione si sarebbe aggravata. Proprio per
una pubblicazione in difesa del Maestro, stava già rischiando un’imputazione che poteva
mandare al rogo i suoi scritti e il suo sottile corpo insieme ad essi. Alle spalle, rossi ceppi
crepitarono dalla bocca di un camino, che spandeva un ineguale tepore nella sala. Un
brivido percorse il suo dorso.
Il domenicano si avvide del cielo tetro solo quando, nonostante l’alta finestra sulla
sinistra, dovette accendere un lume per proseguire nello studio. Nel posto accanto alla
vetrata, un giovane, con le maniche della veste rimboccate, intingeva una penna in un
inchiostro di cinabro, rapito dal dragone alato che andava formandosi, sul foglio finissimo
di vellum assicurato al piano inclinato. Due libri dalla costa rigida erano aperti, uno sopra il
leggio e uno sul piano della scrivania. Attorno altri monaci leggevano, copiavano o
miniavano testi, ciascuno occupando una scrivania in perfetto silenzio. Le sottili
pergamene frusciavano sotto i tocchi degli amanuensi, le cui dita erano protette dal freddo
da guanti di lana che lasciavano scoperti solo i polpastrelli. In fondo due antiquari
restauravano uno psalterio dalle pagine indebolite dal tempo e dai tarli.
Un tuono violento si levò e fece tremare i riquadri dei vetri, saldati fra loro dai piombi di
riunione.
Heinrich scosse la testa e strinse con le dita la radice del naso. Gli occhi gli dolevano.
Ebbe un moto di disgusto. Ripose le pergamene nella Bibbia e coprì il volto con le due
mani: avrebbe smesso di ostinarsi su segni decisi a rimanere muti.
Il custode della sala si chinò su di lui e gli sussurrò che Remy lo attendeva con urgenza
fuori dallo scriptorium. Il domenicano si illuminò, lasciò cadere la penna nel calamaio, si
levò i guanti e si diresse alla porta, fiancheggiando armadi carichi di libri. La paglia,
appositamente sparsa sul pavimento, attutiva il rumore dei suoi passi.
Heinrich allargò le braccia facendosi incontro all’uomo:
“Fratello, benvenuto. Notizie da Avignone?”
Remy abbozzò uno stanco sorriso, mentre ricambiava il bacio fraterno. Heinrich lo prese
sottobraccio e si diresse alla scala:
“Vieni nello studiolo, parleremo con più calma.”
Il domenicano, appena giunto dalla città papale, apparteneva al convento che aveva
ospitato Eccardus durante il processo e lo aveva vegliato nella malattia fino alla fine.
Indossava ancora la cappa nera da viaggio, fermata al collo da un bottone, sotto cui
appariva l’usata sopravveste foderata di pelliccia, per riparare dal gelo. Al fianco, cingeva
col braccio sinistro una sacca portata a tracolla.
Heinrich entrò nello studio e indicò la sedia di fronte a lui.
“Preferisco rimanere in piedi.”
Il basso e tarchiato frate aveva parlato con voce spenta. Guardò a terra, quasi volesse
nascondere i tratti del volto dietro la barba e le ispide sopracciglia. Con la mano libera
toccò la croce che pendeva, inerte e austera, sullo scapolare.
“Che succede, Remy?”
La contentezza sul viso di Heinrich si era dileguata. Il condiscepolo, scuro in volto,
estrasse un plico dalla sacca sgualcita:
“Ho galoppato a tappe forzate fin qui, per darti questo.”
Gettò il plico sul piano di noce:
“Sono esausto. Con il tuo permesso, mi ritiro.”
Il frate ondeggiò e uscì, chiudendo la spessa porta dietro di sé. Heinrich si sedette alla
scrivania e svolse nervosamente i fogli.
Il cielo cupo mandava bagliori seguiti da boati lontani. Grosse gocce iniziarono a cadere
con suoni sordi sulle fronde e nelle acque del lago. L’acqua limpida scendeva e scendeva.
Alla tremolante luce di un cero, il domenicano leggeva e rileggeva quelle carte vergate a
mano e impresse col sigillo della massima autorità: i folia contenevano un estratto della
bolla pontificia In agro dominico.
Più volte percorse i pezzi salienti, come se in tal modo avesse potuto modificarne il
contenuto. Provava più amarezza che stupore. Quando sentì nausea a riprendere per
l’ennesima volta la lettura, posò i fogli. Emise un sospiro e chiuse gli occhi, coi gomiti
sulla scrivania e i pugni a reggere il mento. La pioggia che riecheggiava oltre la finestra
faceva risaltare il silenzio nel locale.
Nella parte finale, lo scritto asseriva che il predicatore Eccardus, prima di morire, aveva
sconfessato tutte le sue proposizioni, scritte e orali, che potessero avere un senso ereticale e
aveva sottomesso la sua persona alla decisione della Sede Apostolica. Heinrich dubitava
dell'autenticità delle ritrattazioni. Ne fu contento solo perché esse salvavano i poveri resti
del defunto dal venire riesumati e sparsi al vento. O magari bruciati post mortem.
Nemmeno la morte, infatti, era un rifugio sicuro per chi fosse stato ritenuto eretico: l’offesa
alla fede doveva comunque essere riparata e, se la sua gravità avesse previsto il rogo, le
ossa dovevano venire disseppellite ed arse con solenne cerimonia.
Strinse i pugni. Nonostante non possedessero la sua ultima dottrina, avevano trovato di
che condannarlo.
Le gocce sui vetri formavano mosaici indecifrabili, che avrebbero potuto contenere tutti i
segreti della vita. Le forme, lentamente e inesorabilmente, si arrendevano al buio crescente.
Allo stesso modo le sue energie più salde, lentamente e inesorabilmente, si arrendevano
alla rabbia e allo sgomento. In breve tempo la condanna avrebbe distrutto l’immagine del
Maestro e determinato la scomparsa dei suoi scritti mirabili, lordati dal marchio infame
dell’eresia. Si mise a camminare per la stanza, le mani dietro la schiena. Le sue viscere e il
suo cuore si ribellavano all’idea.
D’un tratto, nella mente si fece strada un solo pensiero. Si diresse deciso alla scrivania,
intinse la penna e scrisse all’amico Johannes, come lui fiero discepolo del Maestro e
profondo conoscitore delle filosofie antiche. Nella lettera lo invitava a un appuntamento
segreto nei pressi di un monastero benedettino della Renania. Sigillò la missiva e uscì con
passo risoluto. La consegnò a un chierico fidato, in procinto di partire per il convento di
Johannes, e lo pregò di recapitarlo personalmente e al più presto. Poi si diresse alla camera
del nuovo vice priore.
Non tutto era ancora perduto. Le idee del Maestro potevano ancora sopravvivergli e
proliferare, attraverso il loro seme rivoluzionario celato nella Bibbia e nei fogli a lui
affidati. Come aveva potuto, solo poco prima, pensare di abbandonare la ricerca? Piuttosto
urgeva unire le forze per decifrare e divulgare quel seme al più presto.
Bussò alla porta ed entrò. L’anziano stava leggendo seduto sul suo giaciglio, ricoperto di
lana e pelli, Heinrich gli porse i folia:
“Friederich… lo hanno condannato.”
Mentre Friederich von Stuttgart allungava la mano avvizzita, Heinrich pensò che forse
l’età avanzata e il cuore malato ne avevano oscurato le fiamme, ma che ancora c’era fuoco
sotto le ceneri. Talvolta un ruggente ardore gli balenava nello sguardo. Del resto, sulla
scrivania, pergamene sparse testimoniavano che la sua attività ferveva, seppure in un ruolo
molto più defilato di quello cui era uso fino a poco tempo prima.
I tratti incartapecoriti dell’uomo, che lo facevano ancora più magro, non si alterarono:
“Non avevo dubbi. Che intendi fare?”.
“Domani parto presto. Voglio incontrare Johannes per decidere con lui. Ora chiedo di
ritirarmi nella mia cella a meditare”.
“Va bene. Dio sia con te” disse laconico.
Heinrich s’inchinò e uscì. Era grato a quell’uomo di poche parole ma di grande energia;
l’unico alleato di Eccardus nella commisione papale che lo aveva inquisito. Poco dopo la
morte del Maestro, Friederich aveva accusato un colpo al cuore, forse proprio a causa della
perdita dell’amico. Così, mentre il processo proseguiva il suo corso, aveva chiesto di essere
sospeso dal gravoso incarico di inquisitore, e si era fatto assegnare il ruolo di vice priore in
quel convento tranquillo. Per stare vicino al discepolo prediletto di Eccardus, aveva
commentato sorridendo. Era l’unica persona nel convento con cui Heinrich si confidava sul
pensiero del Maestro. Gli avrebbe voluto dire anche dell’enigma, in quei mesi, ma si
ricordava che il Maestro gli aveva sussurrato, nel dargli la Bibbia, di non coinvolgere
Friederich. Comprensibile: l’età, e poi il cuore debole. Sarebbe stata una tortura inutile per
l’amico. Subito dopo l’accenno, il Maestro era entrato nel delirio della febbre, altrimenti,
Heinrich ne era certo, avrebbe aggiunto di non parlarne ad altri in senso lato, per la
pericolosità della questione. Quindi il discepolo aveva per mesi lavorato sodo, di nascosto e
da solo, fino a quel giorno. Così anche, sarebbe stato il primo a sapere. Con la testa
svuotata, Heinrich rientrò nella sua cella. Era venuto il momento, suo malgrado, di
coinvolgere almeno Johannes, così come il Maestro aveva dovuto coinvolgere lui.
Una volta solo, Friederich aveva stretto tra le mani l’estratto. La bolla, siglata
dall’anziano Giovanni XXII, portava la data del 27 marzo 1329. In forbito latino,
conteneva il giudizio finale sul processo al predicatore Eccardus. Numerate e isolate dal
testo apparivano diverse proposizioni estratte dai sermoni e dagli scritti del teologo
domenicano.
Dei ventotto punti delle liste di accusa, undici risultavano mal risuonanti, temerari e
sospetti di eresia. Gli altri diciassette venivano considerati pienamente eretici:
I. Interrogatus, quare deus mundum non prius produceret, respondit, quod deus non
potuit prius producere mundum, quia res non potest agere antequam sit; unde quam cito
deus fuit, tam cito mundum creavit.
II. Item concedi potest mundum fuisse ab aeterno.
III. Item simul et semel, quando deus fuit, quando filium sibi coaeternum per omnia
coaequalem deum genuit, etiam mundum creavit.
IV. Item in omni opere, etiam malo, malo inquam tam poenae quam culpae,
manifestatur et relucet aequaliter gloria dei.
V. Item vituperans quem piam vituperio ipso peccato vituperii laudat deum, et quo plus
vituperat et gravius peccat, amplius deum laudat.
VI. Item deum ipso quis blasphemando deum laudat.
VII. Item...
...
...
....
Cap 2 - Renania meridionale, pomeriggio di primavera 1329
La cavalla soffiò dalle narici, impaziente; un vapore si addensò all’aria gelida. Sul suo
dorso, Heinrich, con il cappuccio nero tirato sulla testa, stringeva al petto il mantello di
lana che a fatica contrastava il freddo. Un bosco di larici lo riparava dal vento che piegava
le cime più alte.
Il monaco respirò un velo di resine e alzò il glabro viso al cielo. Dalle conifere, cadevano
gocce sullo sfondo di un panno azzurro: la neve, al sole del pomeriggio, si scioglieva
forando il manto sul terreno. Un rumore di rami spezzati lo fece voltare: un asino avanzava
stanco fra i tronchi; sopra, un giovane fulvo levò la mano inguantata, si accostò e, nel
saluto dei monaci, baciò il confratello sulla bocca:
“Scusa il ritardo. Sia lodato Gesù Cristo.”
"E sempre sia lodato, Johannes.” Heinrich scoprì la chioma rasata. “Sono felice che tu sia
venuto; ho temuto avessi cambiato idea.”
“Per nulla al mondo. Se non mi avessi mandato a chiamare, t’avrei cercato io. Questa
infamante sentenza merita una risposta adeguata”.
Il tono roco e la struttura imponente di Johannes Tauler gli conferivano un piglio irruente,
in contrasto con il volto fanciullo, malcelato da una barba ricciuta.
Heinrich additò il sole che scendeva tra i rami e si guardò intorno furtivo:
"Ci aspetta ancora parecchia strada. Sbrighiamoci. Appena cala il buio, la foresta è
percorsa da disperati che non hanno reverenza né del potere terreno né di quello divino:
non risparmierebbero nemmeno dei monaci”.
La cavalla spronata tese la muscolatura e partì, schizzando una poltiglia lattiginosa lungo
il sentiero che aveva calcato un'ora prima, seguita a stento dal compagno.
Un terzo uomo sopra un cavallo pezzato era appena entrato nel bosco di larici, intento a
scrutare tracce nella neve. A una strettoia tra gli alberi, dove il cielo faticava a farsi spazio,
un fracasso improvviso: un fascio di legna cadde dall’alto bloccandogli il passo. L’uomo
imponente dovette usare tutta la forza per rimanere in sella e calmare l’animale
imbizzarrito. Due giovani corsero fuori dai cespugli, vestiti di stracci e armati di bastoni, e
si disposero ai lati del cavallo. Un terzo si materializzò davanti con un forcone puntato:
“Scendi, bastardo! Senza fare storie”.
Il più smilzo dei due giovani afferrò le briglia.
L’uomo a cavallo, sui trentacinque anni, portò indietro il cappuccio del mantello, lento,
scoprendo i lunghi capelli bruni, e strinse la mascella prominente; una cicatrice sulla
guancia destra gli tirava verso il basso la pelle intorno all'occhio vitreo e nel contempo lo
obbligava a un ghigno costante, così che al vederlo di profilo non si sapeva se fosse allegro
o triste. Squadrò l’assalitore dalla barba incolta; calcolò che era della sua taglia. Con la
mano sinistra carezzò l’orecchino.
“Mi hai sentito, brutto bastardo di una baldracc,” urlò il brizzolato nerboruto, agitando il
forcone vicino al collo dell’uomo. “Scendi subito o sarà peggio per t... Aaah! …”.
Un guizzo della mano sinistra, e il cavaliere aveva afferrato il forcone, mentre la destra
lanciava lo stiletto che teneva in vita, centrando in pieno petto l’assalitore, che stramazzò
con un singulto soffocato.
In un attimo l’uomo girò verso sé il manico del forcone. Lo smilzo, lasciate le briglia, si
era voltato per fuggire. Ma i denti del forcone gli spezzarono le vertebre dorsali, con un
rumore secco; non ebbe il tempo di accorgersi che la morte gli era entrata dalla schiena e lo
aveva gettato nella poltiglia.
Il ragazzo con la prima peluria sul viso era rimasto paralizzato. Cadde in ginocchio.
“Non… non… mi uccidere!” guaì. “Io non.. non… volevo. E’ mio zio che aveva deciso
di…Noo!”
L’uomo dalla cicatrice era sceso da cavallo e gli si era avvicinato, stringendo in pugno il
forcone intriso di sangue, estratto dalla schiena dello smilzo. Guardò lo straccione
inginocchiato, sulle cui brache si allargava una macchia di piscio, come un agricoltore
guarderebbe una larva dannosa.
“Siamo poveri contadini… affamati. Ti pregooo!...”
Con un sibilo sordo, il forcone s’infilzò nel terreno, a un palmo dalle sue coscie. Il
ragazzo si afflosciò svenuto.
L’uomo dalla cicatrice sputò sul viso del capobanda riverso:
“Baldracca, a chi?”
Estrasse lo stiletto dal petto, lo ripulì dal sangue nella neve e lo ripose in vita. Spogliò
l’uomo della giubba, dei calzoni e della camiciola, risalì in groppa, e mise gli indumenti,
che per sorte facevano proprio al caso suo, in una sacca. Sbirciò i corpi sul manto nevoso
che si tingeva di scuro e scatarrò. Una banda improvvisata, che aveva scelto il bersaglio
sbagliato: un errore costato molto caro. Con un colpo deciso spronò il cavallo verso
l’interno del bosco.
I bassi cespugli erano già in ombra quando i due monaci svoltarono per una strada di
collina. L'asino arrancava sui tornanti, con i garretti nella neve. Alla sommità, il portone e
le mura di un monastero benedettino.
Heinrich, con un sospiro, tirò la catena della campanella. Oltre il muro, tutto era protetto e
sotto controllo da secoli. Un converso si affacciò allo spioncino, riconobbe l’uomo sul
purosangue e spalancò l’uscio. Clangori di ferri risuonarono dalle fucine dei lavoranti.
All’ingresso del convento, Heinrich affidò gli animali a uno stalliere, si mise a tracolla
una sacca e additò a Johannes l'edificio di fronte:
"Vieni. L'abate mi ha messo a disposizione una camera".
Alcuni famigli tagliarono loro la strada, trasportando botticelle e fascine di legna verso le
cucine. Dagli stabbi si levavano grugniti e un acre odore di letame. Le stie recintate erano
ricolme di animali da cortile ben pasciuti. Sulla loro destra dei carpentieri riparavano aratri
e pale. Più oltre, degli intagliatori e i loro garzoni rintuzzavano pietre in misura. Tre
falegnami segavano legni per farne porte. Johannes affiancò il compagno, sovrastandolo di
una spanna, e notò che le due ali dell'edificio a tre piani formavano una elle. Dall’ala più
lunga lucevano le vetrate dello scriptorium e della biblioteca. Sul suo prolungamento si
ergeva il transetto della chiesa, dominata da due torri a parallelepipedo con campane di
bronzo.
I due si diressero verso l’altra ala, che custodiva la sacrestia, il refettorio e le camere ai
piani superiori. S'infilarono in un portone e salirono a una stanza all'ultimo piano.
“Qui possiamo parlare tranquilli. L’abate Celestino è stato buon amico del Maestro"
Heinrich levò il mantello e si accomodò alla scrivania carica di carte, con le spalle alla
finestra.
A meà collina il cavaliere dalla cicatrice, che rispondeva al nome di Rufus, si era fermato
per esaminare le tracce dei due animali che lo avevano di poco preceduto. In quel punto
poteva dominare la carreggiata sottostante. Carezzò l’orecchino e annusò l’aria, che gli
entrò fredda nei polmoni. Sopra lui si ergevano mura imponenti. In basso un carro stava
sopraggiungendo, carico di giare. Capì che cosa doveva fare. Spronò l’animale e lo
condusse in fretta tra gli alberi a fianco della via. Lo coprì con il mantello e gli pose vicino
il sacco della biada. Poi indossò i vestiti presi al bandito e ripose i suoi nella sacca. Infine
cancellò le impronte del passaggio con dei rametti. Nemmeno la neve doveva testimoniare
della sua presenza: il suo mandante era tanto generoso quanto esigente e discreto. Si
accovacciò dietro a un cespuglio e appoggiò la mano destra sull’elsa dello stiletto appeso in
vita.
Stava facendosi buio quando il carro rallentò sulla salita. I buoi legati davanti, muggivano
ormai esausti, esalando fumo nell’aria. Sul carro, la frusta nelle mani, un uomo anziano
urlava con quanto fiato aveva. Vedendo vano il suo sforzo, scese imprecando e andò alla
testa dei buoi. Intento a sferzarli e tirarli, non si accorse della grossa ombra dagli occhi
corvini che, a un’ansa, saltò sul carro come una lince e si nascose tra le giare.
Varcate le mura del complesso del monastero, Rufus saltò giù dal carro, furtivo, e andò a
nascondersi nella legnaia, favorito dal primo buio. Al momento propizio, si caricò sulle
spalle tarchiate dei ciocchi di legna e iniziò ad aggirarsi tra gli edifici, con passo sicuro,
confondendosi con carpentieri, falegnami e inservienti di ogni specie, che stavano
terminando la giornata lavorativa.
Cap 3 - Regione di Lipsia, notte d'inizio estate 1261
I due volti, rischiarati dalla luna piena che inondava i campi, non cessavano di rimirarsi
dopo l'ultimo lunghissimo bacio, come se ciascuno scorgesse un essere supremo nell'altro.
Tutt'intorno, prati e covoni a perdita d'occhio, fino alle ombre dei boschi ai piedi dei primi
rilievi sassoni disposti ad arco all'orizzonte.
L'uomo, sulla trentina, indossava una camiciola dalle maniche arrotolate; stava disteso a
lato di una sottile ventenne dalla pelle bianchissima, coperta solo di lentiggini. Le scostò
dal viso i capelli ramati e le carezzò la guancia destra, come soprappensiero. La giovane si
abbandonò supina con le ginocchia piegate e chiuse gli occhi, senza fare caso al fieno che
le pungeva la schiena e le sode natiche.
La brezza e un fitto cicalare accompagnavano il rito che stava per essere celebrato.
L'uomo si tolse la camiciola e restò nudo come la sua compagna. Lei gli sfiorò i muscoli
delle braccia, delle spalle, del largo petto e del ventre che disegnavano un corpo modellato
dalla fatica quotidiana. La pelle brillava alla luna. Il volto scarno dalle mascelle
pronunciate le pareva piccolo in proporzione.
La giovane si sentiva un bocciolo rigurgitante di linfa. Lui era il sole della sua primavera;
in lei salì il desiderio di aprire i petali per essere trapassata dal suo tepore. Si girò sul lato
destro, avvolse i fianchi dell'amante con le lunghe gambe e iniziò a cullarli.
L'uomo avvertì il corpo della giovane chiamarlo irresistibilmente; indugiò con i
polpastrelli sulle curve dei fianchi e delle natiche come fossero lembi di un’ampolla di
unguenti preziosi. Gli occhi si inumidirono. La bocca fu calamitata dalla rotondità dei
capezzoli eretti, dall'ombelico, dai riccioli rame del pube, dall'interno vellutato delle cosce;
poi nuovamente tornò a unire le sue labbra a quelle che si erano dischiuse davanti a lui. E il
suo centro si dilatò.
Pelle a pelle, i due amanti si cinsero, respirando ogni centimetro del corpo dell'amato
come fosse essenza divina, specchio dell'anima finissima, porta verso profondità di
conoscenza e di amore.
A un tratto, l'uomo sentì le forme tenere sotto di lui divenire pura accoglienza. Un brivido
gli percorse la colonna vertebrale. Gli bastò spostare in avanti il bacino perché il suo sesso
turgido si facesse uno con l'umido sbocciare del fiore che si offriva a lui. Lei, ripiena del
suo amore, sentì il ventre palpitare di vita e odorò i suoi biondi capelli.
Rotolarono su un lato, in una posizione che permetteva a entrambi di muoversi
agevolmente. I loro sussulti, dal centro del pube e del petto, si espandevano verso le braccia
e le gambe, fino ai gemiti nella gola e ai tremiti impercettibili delle dita. I bacini giocavano
in una danza di cerchi accompagnata da sguardi e da carezze, i piedi di lei percorrevano le
gambe forti di lui, mentre la sua bocca respirava ai lobi della donna.
A salti e sorsi si lasciarono portare via da quella danza: gli stridii delle cicale diventarono
un madrigale; gli odori di erbe, una miscela di balsami.
D'improvviso, scosse piacevoli attraversarono il petto di lui, accompagnate da una forza
lucida che gli donava gioia. Temeva di perdere il controllo, ma anelava offrire all'amata e a
se stesso l'abbandono totale, sperimentato solo con lei e che lo aveva ammantato a lungo di
un'aura leggera.
Lei sentì il respiro ampliarsi e desiderò sopra ogni cosa di essere colmata da lui. Una
vibrazione si propagò alle gambe, al ventre e coinvolse presto il petto, il collo e la testa,
fino a rendere elettrica la punta dei capelli. Le guance infiammate, i sussulti accelerati, le
tenebre infrante ai guizzi dei lombi: carne nella carne, linfa nella linfa, carne nella carne,
linfa nella linfa. Percepì le sue membra sprofondare, e assaporò da dentro ogni sensazione.
Poi volò: i campi, il cielo, la pelle, il fieno come d'incanto sparirono. Un suono flautato e
una luce bianca si espandevano e contraevano in un ritmo incessante fuori e dentro di lei.
Tempo e spazio sparirono e lei divenne null'altro che quella luce e quel suono: oltre ogni
carne, oltre ogni linfa.
Anche l'uomo, innalzato e risucchiato dalle volute dei corpi, dal tamburo delle reni, dagli
umori che si mischiavano, era stato infine portato via da una luce chiara, seguita da una
dolcissima esplosione che aveva infranto i pensieri e li aveva sparsi, come polline al vento,
nelle quattro direzioni. Poi onde sempre più ampie, dal bordo dell'infinito, si fransero nel
suo corpo dilatandone i limiti, squarciando orizzonti su orizzonti. Si ritrovò a essere
soltanto un campo di gioia palpitante.
I due esseri navigarono in universi indefinibili. Le loro energie si univano in una danza
alchemica. Pulsavano in risonanza con gli elementi della natura intorno.
Poi, la brezza odorosa d'erba e il coro di cicale ritornarono quelli di sempre.
Erano entrati nell'abisso insieme e insieme ne erano usciti.
L'uomo stava supino; la mano destra dietro la nuca, l'altra attorno al collo della giovane
nuda rannicchiata al suo fianco. Ancora vibrava in tutto il corpo. Guardò la volta stellata e
la luna che stava ormai tramontando dietro un covone. Inspirò il profumo della terra:
"Martha, tutti i figli dovrebbero essere concepiti così. Così sarebbero veri figli
dell'amore."
La donna gli passò le dita tra i lunghi capelli biondi:
"Sì, tesoro. Questo cielo ci è testimone che tutto è puro agli occhi di un puro, di un
perfetto."
"Eppure, per la Chiesa siamo peccatori, bestie."
"Vivere il nostro cammino in pace è la risposta che possiamo dare."
"Ma il loro potere ci schiaccerà."
"Nessuno può farci del male senza la nostra complicità."
Markus deglutì:
"Ho saputo oggi, dal mugnaio mio amico, che il padrone del villaggio vuole arruolare tutti
noi servi per una guerra, non so nemmeno dove o perché. E tu sai che, chi si oppone, fa una
brutta fine".
Martha chiuse gli occhi. Ripercorse il primo incontro con Markus, avvenuto una decina di
mesi prima, durante una delle sue peregrinazioni con le sorelle di fede nel paese di lui. Al
tramonto di una fresca giornata autunnale, nella piccola piazza lei stava predicando la
ricerca della piena divinità e umanità dell'uomo, una ricerca mistica e insieme carnale che
si prefiggeva come traguardo non solo la liberazione spirituale ma anche quella dei corpi.
Lui, che tornava stravolto dalla dura giornata, si era avvicinato, vagamente incuriosito
dall’assembramento, l'aveva ascoltata, ed era finito per rimanere in prima fila, folgorato
dalla voce modulata, dai movimenti delicati e dalla forza delle convinzioni, anche se
faticava a seguire i contenuti. Lei aveva chiamato Abisso il divino inesprimibile e aveva
asserito che coloro che raggiungevano lo stato di perfetti erano liberi dal peccato,
qualunque atto compissero; quindi anche l’unione dei corpi poteva essere un cammino di
ascesa spirituale. Lo aveva adocchiato subito tra la folla. Lui le si era avvicinato al termine
del discorso per complimentarsi. Subito si erano sentiti attratti l'uno dall'altra e avevano
presto scoperto un anelito che andava oltre la possanza dell'artigiano che costruiva mobili
raffinati; oltre le curve soavi della giovane che si era votata alla dottrina del Libero Spirito.
La ragazza gli prese la mano e la pose sul proprio ventre:
"Il nostro viaggio proseguirà, magari sotto altre forme. Il frutto del nostro amore volerà
verso orizzonti che nemmeno immaginiamo".
"Vorrei essere certo che staremo insieme per sempre".
"La certezza è in ciò che viviamo. Abbi fede nell'Abisso che non si tocca e che pure ci ha
toccati".
"Hai una forza dentro che non ho mai incontrato prima".
"Nell’agire con coscienza ciò che per noi è importante sta la nostra forza interiore."
"Vorrei tanto sentirla anch’io, Martha, ma a volte non so nemmeno perché vivo."
"Il senso della vita è nelle scelte che facciamo, istante per istante. Lì possiamo agire la
potenza di essere uniti con l'Abisso o raccogliere i gesti spezzati dalla viltà, figlia della
paura."
Markus volse il capo alla sua destra, verso oriente. Una lacrima gli rigò le gote:
"Perché ciò che è meraviglioso non può durare in questo mondo?"
Martha carezzò il viso dell'uomo e indugiò sui contorni del suo corpo, come fosse l'ultima
volta. Infine lo attirò di nuovo a sé.
Sopra i due amanti abbracciati, il crepuscolo segnò il cielo con un alone d'opale. Venere
ammiccava in un tremore intenso.
Cap 4 - Regione di Lipsia, notte di fine inverno 1262
Martha si destò per una contrazione. Si girò per mettersi supina e iniziò a respirare
profondamente. Sulla destra, Anne russava nel suo giaciglio; sacchi le coprivano il corpo e
la testa era avvolta da un grezzo copricapo di lana calcato sulla fronte.
La catapecchia dalle pareti di rami impastati col fango e dal tetto di paglia ospitava la
giovane dall'autunno; da quando la sua gravidanza non aveva più potuto essere celata.
Nonostante professassero il libero spirito, anche le sorelle faticavano a vedere di buon
occhio i concepimenti fuori dal matrimonio. Del resto Martha non avrebbe certo potuto
predicare con la pancia sporgente. E poi le era piaciuta l'idea di dedicarsi completamente
alla creatura che le cresceva dentro.
Martha aveva gradito la spiccia ospitalità di Anne, anche lei devota del Libero Spirito.
L'imponente vedova senza figli, che col suo vocione dava del tu a chiunque, era una
levatrice e non si scandalizzava di nulla, ben sapendo, dopo vent’anni di mestiere, come
andava il mondo e come sarebbe sempre andato. Anne le aveva somministrato infusi e
impiastri di argille da spalmare sul ventre. Le aveva insegnato come favorire il momento
culmine e la aggiornava sui progressi del suo stato. L’aveva anche convinta che non era
buona cosa fasciare stretti stretti i neonati, contrariamente all’usanza dovuta al timore
infondato che le ossicine potessero rompersi. In cambio, la giovane la serviva, le curava gli
acciacchi alle gambe e alla schiena, e le insegnava i rudimenti della scrittura, che aveva
appreso nella sua famiglia di mercanti.
D'un tratto in Martha gonfiò uno stimolo, come di un bisogno corporale. Scostò le coperte
gelide. Il pagliericcio su cui era distesa, ricoperto da pezze di lana e da una pelle di daino
per riguardo alla sua condizione, crepitò al suo goffo sollevarsi.
La casupola sorgeva in un terreno incolto, accosta a un nucleo di altrettante fatiscenti
dimore a un'ora di cammino da Lipsia. Anne vi si era trasferita da Erfurt da un anno.
Nell'unico locale in terra battuta erano sistemati i due pagliericci su un lato; sull'altro,
vettovaglie dentro a paioli ruggini, una grossa cassapanca e un tavolaccio con due scranni
tarlati. Nei pressi, un boschetto di alberi da frutto, querce e faggi assicurava legna da ardere
e qualche cibaria.
Una seconda contrazione. Si sedette sul giaciglio e mise le due mani sul grembo.
Le prime contrazioni uterine, un paio di settimane prima, avevano messo Martha in
apprensione, ma la vecchia levatrice l'aveva rassicurata: per le primipare, contrazioni
irregolari non sono ancora indizi del parto.
La creatura si mosse. La donna si era abituata a quella presenza. Era passata in breve
tempo dalla sorpresa per il miracolo che si compiva dentro di lei, all'amore inspiegabile per
l'esserino che ancora non conosceva, alla gioia di farsi tramite per il suo viaggio nel
mondo, al timore di non essere in grado di crescerlo, alla consapevolezza di una
responsabilità che le avrebbe cambiato la vita. E quel groviglio di emozioni ancora abitava
in lei.
La giovane piegò la testa nell’alzarsi, per evitare la culla appesa per risparmiare spazio.
Sistemò la veste profumata di bucato fresco, si coprì con l'unico mantello che possedevano,
s'infilò gli zoccoli e uscì nella notte fredda di marzo. Una brina aveva incipriato i prati.
Orione stava discendendo sulla linea dell'orizzonte. Di lì a due ore avrebbe albeggiato.
Una terza contrazione, dolorosa.
Martha ondeggiò coi piedi a papera, sulla terra nuda e nera, e s'incamminò verso il
boschetto. Era impegnativo l'equilibrio in quel corpo che variava baricentro di giorno in
giorno.
Una quarta contrazione la obbligò a fermarsi a metà strada. Profondi respiri a bocca
aperta; un vapore si diffuse nell'aria.
Arrivata agli alberi, trovò la buca e, decisa a sbrigarsi a defecare, sollevò la veste
scoprendo cosce e natiche, e a gambe larghe piegò le ginocchia appoggiando la schiena alle
assi gelide che riparavano la buca.
Un'altra contrazione, dolorosa, dal basso dorso si propagò in avanti all'addome, sopra il
pube. Respiri a bocca aperta.
Chiuse gli occhi per concentrarsi nello sforzo. In quell'istante invece, con sorpresa, delle
gocce caddero dalla vagina. Un odore di sangue salì alle narici. Intuì. Il cuore accelerò. Un
brivido le percorse la colonna vertebrale. La fronte si imperlò.
Nel campo sulla collina, Markus si destò, col cuore accelerato, e aprì gli occhi. Un
brivido. La piana sottostante era avvolta dalle brume della notte. L’oscurità stava per essere
spezzata da una tenue luce rosata. Sarebbe stata una magnifica giornata di sole, anche se
l’aria pungente ricordava che era ancora inverno. Alcuni uccelli cantavano giulivi. I primi
rilievi sassoni, disposti ad arco, stavano di fronte a lui. Non distante da lì aveva amato, per
l’ultima volta, Martha. Strinse i denti: ciò che era meraviglioso non durava in questo
mondo.
Rattrappito dentro alla coperta raccattata all’ultimo villaggio, l’aveva di nuovo sognata.
Ma, a differenza dell’usuale piglio erotico e allegro, si era destato con l’immagine di
Martha sofferente, il volto madido. Nel petto crebbe l’agitazione che lo accompagnava da
quando era stato costretto a partire l’estate precedente. La campagna di guerra si stava
rivelando estenuante. La banale disputa per un confine conteso tra il suo signorotto e un
conte, si era rapidamente allargata in una girandola imprevedibile di alleati dei due
contendenti. L’unica sua certezza era che da mesi l’esercito raffazzonato, vestito di polvere
e sudore, alternava combattimenti a razzie nei villaggi sulle terre dei signori nemici del suo.
Aveva visto morire Jan il fattore, Matthias il carpentiere, e anche Jorg il mugnaio. Era
cresciuto con loro nel paese natale, aveva condiviso i giochi infantili, cacciato i lupi,
ingurgitato ributtanti brodaglie nelle stesse pentole. Eppure anche i suoi ingenui amici, in
pochi mesi, erano diventati belve, prima di finire pasto di altre belve. Toccare l’inferno
prima o poi trasformava in diavoli. Markus aveva deciso che doveva dannare l’inferno
prima che l’inferno dannasse lui. Così, nell’ultimo assalto aveva rischiato la pelle per
difendere, con la scure, una madre e le tre figlie piccole da quattro compagni d’arme, che
erano giunti alla loro casupola e le reclamavano come bottino. Aveva dovuto dire che le
aveva viste prima lui, che a lui solo dunque appartenevano. Il più grosso, ubriaco, stava per
infilzarlo con un forcone quando apparve il capetto della compagnia e intimò ai quattro,
sguainando la spada, di andarsi a cercare delle altre donnicciole. Poi Markus aveva chiuso
la porta e aveva chiesto alle tremanti femmine, per l’amore di Dio, di gridare e strapparsi le
vesti. La sua sola consolazione era pensare che Martha non fosse sottoposta a simili
sventure.
Markus tastò la benda sul braccio sinistro e serrò le mascelle: la ferita stava
rimarginandosi, ma ancora bruciava. Si girò su un lato e si rannicchiò: il gelo avvolgeva le
fibre dell’erba e delle ossa. Intorno erano iniziati i tramestii della truppa, fatta di contadini
e servi più o meno forzati come lui: scarpe battute sulle pietre, arnesi che venivano affilati
come armi, clangori di pentolame sul fuoco crepitante, in cui si scaldava, alla bell’e meglio,
una pappa di avanzi, un vociare indistinto di gente che si levava, rutti e sputi, ordini volgari
lanciati per incitare a sbrigarsi, le prime risse per supposti furti o privilegi. Un lezzo di
sudori, piscio e birra per tutto il bivacco. Quel giorno ci sarebbe stata la battaglia decisiva.
Sulla collina di fronte, si scorgevano i fuochi degli accampamenti nemici. Correva voce
che si sarebbero schierati, in aggiunta ai soliti, niente di meno che gli eserciti privati di quel
bastardo del conte Karl von Virneburg, decisosi infine a dare manforte alla coalizione
nemica, insieme ai suoi vassalli leccapiedi: Eckhart e Julich in testa.
Si alzò, per raggiungere la fila della colazione. Facce ruvide, volti rassegnati o
infiammati, piedi fasciati. I più fortunati cingevano spade, rubate ai cadaveri. Aveva
dormito con indosso gli stessi stracci che usava da settimane, impregnati di terra, di umori
e sangue di altri misto al suo. Soffiò fuori dal naso muco e sporcizia, e oltrepassò un
crocchio di uomini che urlavano e sghignazzavano, raccontandosi beceri aneddoti sulle loro
ultime imprese. Poco oltre altri, tra bestemmie e scoregge, giocavano ai dadi tutti i soldi e
le cianfrusaglie che erano riusciti ad arraffare negli scontri o negli assalti ai villaggi
indifesi. Sempre, prima di una battaglia, vedeva uomini perdersi così per non pensare che
quello poteva essere l’ultimo giorno che avrebbero visto il sole.
Dopo aver fatto la fila, Markus sbocconcellava in piedi un tozzo di pane nero. Inghiottì
una sorsata di acqua sporca, che sapeva di luppolo mal fermentato e fece un profondo
respiro a bocca aperta: era meglio non affrontare uno scontro pienamente lucidi, né con lo
stomaco vuoto. Nei vari spostamenti, quando avevano terminato i frutti delle razzie, gli
armati si contendevano bacche, ghiande, erbe e persino cortecce, in mancanza di altro, per
lenire i morsi della fame. Trangugiò l’ultimo boccone e tornò alla coperta a prendere
l’ascia e una lancia da lui fabbricata legando un pugnale rubato a un ramo lungo e diritto.
Passò davanti al corpo impalato di Jaan; stampato sul volto l’ultimo atroce singulto. La sera
prima, il contadino, ubriaco, si era lasciato sfuggire delle invettive contro quella merdosa
guerra fatta dalle carogne dei loro signori, che avrebbe finito per rendere carogne per
avvoltoi solo i poveri schiavi come lui. Markus si cinse l’ascia: mai profezia fu più
azzeccata.
Dalla collina di fronte salì un boato. La riga di macchie scure che ne copriva l’intero
crinale levava verso il cielo braccia e arnesi di lavoro divenuti strumenti di morte. In
risposta, dal suo campo si alzarono imprecazioni, gesti scurrili e sputi.
Lui avrebbe dovuto uccidere alcune di quelle macchie, altrimenti loro avrebbero ucciso
lui. Ma non si sarebbe mai rassegnato al puzzo dei cadaveri.
Il suo signore, con la cotta, la spada e un manipolo di cavalieri al seguito, galoppò verso
la sua compagnia abborracciata, e ordinò ai capetti di approntare tutti in fretta per l’attacco
frontale. Il premio per la vittoria sarebbe stato il solito: spoliazione dei cadaveri e liberi
assalti ai villaggi oltre la collina. Grida di giubilo e aliti di luppolo accompagnarono le
frasi. Markus ebbe un rigurgito.
La testa era uscita. Martha ebbe un rigurgito. Stravolta, prese tra le mani l'essere viscido
di tenera carne e con istinto primordiale spinse ancora; l'odore del sangue si era mischiato a
umori intensi. La vista si annebbiò. Non aveva fatto in tempo ad avvisare Anne. A quella
distanza, non l’avrebbe sentita nemmeno gridare. Un altro ululato. E forse non era bene
gridare troppo. Un sudore freddo le copriva la fronte e il petto. Se qualcosa fosse andato
storto nessuno poteva aiutarla, se non se stessa. Con una forza e una perizia che nemmeno
lei sospettava possedere, si accovacciò e, delicata e paziente, ad ogni contrazione liberava
le spalle e il resto del corpo. Il tempo le parve dilatarsi ben più del suo sesso. Quando tutto
il corpicino fu fuori, in un ultimo sforzo adagiò la creatura contratta sulle felci, a morsi ne
staccò il cordone ombelicale, poi la mise a testa in giù. La creatura coperta di liquido
viscoso si contorse, strinse i piccoli pugni, divenne rossa e proruppe in un acuto
dirompente. Martha non aveva forze per rallegrarsi. Si distese con la piccola, la depose sul
proprio ventre e la avvolse nelle sue braccia.
Rami secchi spezzati. Ululati. Vagiti. Martha era prostrata. Con la pelvi dolorante e
imbrattata, stava per svenire. Rumori sempre più forti. Pensò ad Anne e le vide il volto
allarmato. Pensò a sua madre e la vide curva che singhiozzava per la sua figlia blasfema.
Pensò a Markus, arruolato a forza prima che lei scoprisse di essere rimasta incinta; lo vide
in un campo pieno di fango e di corpi trafitti, il viso una maschera di sangue, il petto rosso
all'altezza dello sterno. Poteva essere l’ultimo giorno che lui, lei e la loro creatura che
aveva portato in grembo avrebbero visto il sole. Rumori vicini. Forse la nascita e la morte
erano molto più legate di quanto non potesse sembrare. Un altro ululato. Si affidò
all’Abisso e chiuse gli occhi.
Markus si era trovato nella mischia furibonda che vomitava gambe, braccia, zappe, asce,
martelli, teste, lance, bastoni. Le orecchie ferite dalle grida dei corpi. La ferita riaperta che
gridava nel braccio. La muscolatura tesa, falciava villani, come lui, solo nati e cresciuti
sotto altri padroni. In lontananza, il fragore di ferraglia e di zoccoli che si moltiplicavano.
Aveva appena sferrato un colpo d’ascia, d’istinto, verso l’ombra che aveva scorto con la
coda dell’occhio avanzare ruggendo alle sue spalle. Aveva avvertito il cozzo della lama
contro le costole. L’aveva ritirata, rapido, per affrontare il nemico successivo, mentre
l’energumeno crollava come uno spaventapasseri. Intorno, straccioni erano tutti presi in
corpo a corpo. Un grassone ripeteva "mamma", tenendosi il moncherino del braccio
sinistro. Due giovani, a terra, si torcevano in pozze di fango arrossato, tra masse riverse.
Altri avevano i visi stralunati mentre menavano colpi all’impazzata con mazze, pale, calci
verso sagome indefinite. Lui stesso non aveva il tempo di accorgersi dei suoi lunghi capelli
biondi e del volto incrostati di sangue e terra. Un tanfo di merda, umori e morte colpì le sue
narici. Sulla destra, un ragazzetto, gattoni, piagnucolava; un forcone gli trafisse la nuca e
uscì sul davanti, frantumandogli il pomo d’Adamo, con un rumore sinistro. Markus si
affidò all’Abisso e girò gli occhi.
Fu dietro un lampo del primo sole che Markus udì un rombo di zoccoli. Un uomo a
cavallo comparve, come sorto dal nulla. Puntava diritto verso di lui, scavalcando pietre e
carcasse. Enorme, il purosangue bardato: un cavaliere dell’Apocalisse, con la lancia
sollevata all’altezza del petto. Il frastuono delle urla e delle armi inghiottito da un silenzio
improvviso. Intorno un vuoto irreale. Solo un galoppo sordo, rallentato, uno scricchiolio
allo sterno e il bruciore di un attimo. L’ansimare caldo, veloce, morso da un buio
accecante, come il bacio di una tarantola. Poi il volto di Martha, circonfuso d’estasi, si
stagliò in un cielo d’opale. Il petto si colmò di leggerezza. E una brezza lo trasportò verso
prati di un verde mai visto.
Un'alba di rosa e aranci inondava il campo di battaglia.
Martha si sollevò a sedere. Un'alba di rosa e aranci saliva tra i tronchi ancora spogli. Anne
stava cullando la piccola, ricoperta di lana, dopo averla lavata e asciugata ben bene. Pensò
quanto fosse gratificante il suo mestiere, anche se più volte aveva aiutato donne in stato di
necessità a mettere fine alla vita che cresceva in loro, invece che a portarla a compimento;
ma sempre lo aveva fatto con rispetto e senza richiedere compensi. Ogni bimbo che
nasceva le rammentava anche che nel suo grembo, per ironia della sorte, nessuna vita
avrebbe mai potuto sbocciare.
"Come ti senti, mammina?"
"Spossata... felice e... leggera."
"Hai partorito un tesoro."
"La nascita di un bimbo... è un sorriso del cielo."
"Nulla è più naturale e misterioso allo stesso tempo."
Martha si alzò a fatica e andò a sciacquarsi:
"Sono in debito con te."
"L'amore non conosce aritmetica. Se qualcuno si mette a fare calcoli, non ama più."
Martha, accucciata sul greto, si volse alla levatrice determinata e sollecita che l'aveva
accolta quando altre sorelle le avevano voltato le spalle:
"Ti sono grata, comunque. Hai fatto molto per me."
"Chiunque viva la vita che ho vissuto, può fare le cose che ho fatto."
"E divenire una canna vuota per servire gli altri?"
Anne scrollò le spalle. Saggiò la bimba con mani sicure:
"Fisicamente non è forte come me, ma ha una potenza interiore e una sensibilità che
supera la mia e la tua messe insieme. "
"Come lo sai?"
"Certe cose le percepisco. Chi sa conoscere il seme, conosce la pianta. Tua figlia avrà un
destino speciale, ma non di azione nel mondo come noi. Ha una potenza pari solo a quella
di un maschietto che aiutai a nascere a Hochheim circa due anni fa."
Ricordava che dopo quel parto aveva dovuto lasciare la sontuosa dimora di cavalieri,
perché accusata di usare unguenti che sapevano di diavolerie. Dietro l’accusa si celava il
sospetto che lei nutrisse simpatie per le idee del Libero Spirito.
Martha avvertì una fitta per tutto il corpo e pensò alle orribili visioni su Markus:
“Forse non vedrà mai suo padre”.
"Non pensarci, ora. Non consumarti per ciò che non è in tuo potere. Ora, concentrati su
ciò che puoi” Anne, sorridente, porse la bimba alla madre. “A te il rituale".
Martha con un sospiro, si avvicinò e prese tra le braccia la figlia, che era insieme quieta e
vispa. Così ripulita, era il batuffolo più bello che avesse mai visto. Lacrime di gioia
parlavano dalle gote. La portò al ruscello, intinse la sua mano e le tracciò un segno di
croce:
"Ildebranda sia il tuo nome. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito madre che in
tutto aleggia."
Le immerse la nuca:
"Sia l'acqua cristallina segno dello scorrere purificatore delle sofferenze e delle gioie nella
tua vita."
La voce era rotta dall'emozione. Fece illuminare la bimba dai raggi:
"Sia il sole segno della Luce che inonda l'anima e ogni briciola della tua carne."
La posò sulle felci:
"Sia la terra segno della tua dimora e del tuo cammino di essenza e umiltà nel mondo."
La alzò verso l'alto:
"Siano la brezza e il cielo segni del tuo anelito verso Ciò che tutto permea e tutto
avvolge."
Infine percorse a baci quel grumo di fibre che si contorceva producendo pieghe nella pelle
lattea:
"Che tu sia il respiro dell'universo, Ildebranda, l'orma del divino, lo scricciolo minuto che
pure canta la melodia dell'eterno."
"Così sia."
Anne svolse un panno da cui emerse un cristallo grosso come il pollice. Con gesti precisi,
lo passò sul pube, sul ventre, sul petto, sulla gola, sulla fronte e sulle membra della bimba e
della madre, pronunciando antiche formule rituali a fior di labbra.
Acuti strilli si levarono dalla boccuccia rosa.
"Questa volta ha fame." - disse la levatrice, giuliva.
La giovane madre scoprì il petto. La piccina smise di urlare appena le labbra incontrarono
l'areola rigonfia del seno.
Impossibile per Martha indovinare chi stava nutrendo e chi era nutrita.
Cap 5 - Regione di Eifel, residenza dei von Virneburg, alba d’estate 1262.
Wilhelm Eckhart era fiero di essere cavaliere, a metà tra il sangue e Dio, tra la violenza e
la pace. Fiero di esibire l'impeto e la temerarietà nei tornei, per la gloria degli onori e per
compiacere la moglie amata, Marianne. All'ultima scaramuccia con parecchi morti, di cui
non si sarebbe riscontrata traccia sui libri di storia, aveva partecipato otto anni prima, in
una coalizione capeggiata dal conte von Virneburg contro un signorotto della regione di
Lipsia. Di essa, ancora aveva impresso lo sguardo trasognato del giovane muscoloso senza
scudo, dai lunghi capelli biondi, cui aveva trapassato il petto con la lancia, come a un
manichino delle giostre.
Quarant'anni, alto, robusto, brizzolato, dai lineamenti regolari, il cavaliere era un uomo
piacente, almeno a sentire le fantasie che si confessavano le domestiche di nascosto.
Signore tutto d'un pezzo e di scarne parole, abituato a comandare, intratteneva pochi e
formali rapporti con l'unico figlio. Lesinava i complimenti e giocare con lui avrebbe
incrinato l'autorità che sola poteva garantirgli rispetto e ubbidienza assoluta. Il suo dovere
paterno era assicurargli un buon avvenire e instillargli atteggiamenti e valori consoni
all'onore del casato.
Così quel mattino, Johan non si era stupito della convocazione ufficiale del padre. Si
presentò silenzioso sulla soglia dello studio. Il cavaliere, dietro la scrivania di ciliegio,
stava leggendo un plico.
Sua moglie Marianne, preoccupata, gli aveva chiesto di intervenire per spezzare la spirale
di chiusura in cui vedeva consumarsi il piccolo. E Wilhelm Eckhart aveva deciso. Da
tempo si era accorto che il figlio era inadatto a fare il cavaliere. Solo per ubbidienza l'aveva
seguito nei tornei o nella caccia: preferiva lo studio all'azione, i suoni della natura e del
rosario a quelli delle armi; e poi era timido con le serve.
Terminato di leggere, il cavaliere si rivolse al figlio:
"Ho deciso di inviarti al convento dei domenicani. Il priore di Erfurt, dopo uno scambio di
corrispondenza, non ha opposto questioni. Per accedervi, dovrai prima prepararti
intensamente. Ho già dato istruzioni al tuo tutore. Fra sei mesi dovrai essere pronto."
Johan sentì una fitta: quella decisione lo avrebbe separato dalla madre. Come d'abitudine,
chinò il capo:
"Sì, padre."
Era tutto. A un cenno del cavaliere, si volse e uscì. Forse sarebbe stata l'occasione per
espiare la colpa che lo lacerava dopo il terribile evento avvenuto sei mesi prima.
A memoria aveva imparato che era uno scolaro che apprendeva con sollecitudine la virtù
solo nei luoghi onesti. E quali erano i luoghi onesti? I luoghi onesti erano quattro: la chiesa,
la scuola, la casa dei genitori e il convito dei sapienti. Quali opere doveva compiere come
scolaro? Sei: alzarsi al mattino, subito vestirsi, poi pettinarsi, le mani lavare, andare
volentieri a imparare, e soprattutto ubbidire. E da dove veniva? Da Dio che l’aveva creato e
da sua madre che l’aveva generato. Come lo aveva generato? Nudo e nel peccato originale.
E perché era nato nel peccato originale? Perché i suoi primi progenitori, Adamo ed Eva,
avevano disobbedito a Dio. E perché Dio lo aveva permesso? Perché così Dio aveva
deciso.
Gli avevano detto che di notte non si poteva andare nei boschi, perché infestati da streghe
che rapivano i bambini e li mangiavano. Chi erano le streghe? Demoni. E i demoni? Gente
appartenente a mondi cattivi, che tormentava le persone per renderle loro schiave. Perché
erano cattivi? Perché si erano opposti a Dio con la loro superbia. Cos'era la superbia? E'
come quando i bambini vogliono avere ragione senza capire che gli adulti sanno molte più
cose. E perché Dio aveva permesso che esistessero esseri cattivi? Perché così Dio aveva
deciso.
Gli avevano detto che solo chi ubbidiva ai genitori e ai preti poteva entrare in paradiso.
Cos'era il paradiso? Un luogo bellissimo dove esseri meravigliosi, gli angeli, cantavano e
giocavano con i bambini buoni tutto il giorno; dove c'erano dolci e divertimenti di ogni
sorta; soprattutto dove c'era Dio. E la mamma? C'era la mamma, certo, e c'era anche la
mamma di tutte le mamme: la Vergine Maria. Com'era fatto Dio? Beh, un essere dalla
lunga barba, infinitamente misericordioso e giusto. Ma chi approfittava della sua bontà
doveva affrontarne l'ira tremenda. E cosa lo faceva arrabbiare? Glielo avevano già detto:
disobbedire a lui e ai suoi rappresentanti in terra: preti e genitori. E perché preti e genitori
erano i rappresentanti di Dio? Perché così Dio aveva deciso.
Gli avevano detto che il dovere dell'uomo era di restare dove Dio lo aveva collocato nella
società. Perché? Perché elevarsi era segno di orgoglio e abbassarsi peccato vergognoso. E
perché? Perché quella era l'organizzazione della società voluta da Dio. E perché? Perché
così aveva deciso Dio.
Johan aveva creduto a tutto questo e ad altro ancora. Almeno fino a quel giorno indelebile
della primavera precedente.
Il padre era uscito all’alba per la battuta di caccia al cinghiale. Nella mattinata, Johan
aveva passeggiato con la madre nella tenuta di proprietà, tra le azalee in fiore, prima che lei
partisse per visitare gli zii. Marianne Eckhart, in carne come piaceva al marito, era elegante
e giuliva. Un’inserviente, premurosa, era venuta a chiederle se abbisognasse di lei e, al
diniego, si era allontanata con un inchino. La signora era attenta alla servitù. Soleva dire
che i ricchi erano i fratelli maggiori dei poveri. E che chiunque contribuisse al decoro della
proprietà faceva parte di una grande famiglia allargata, all’ombra della quale poteva trovare
cura e protezione. Il cavaliere chiudeva un occhio su quella che riteneva un insulsa mania,
frutto della debolezza femminile. Ma vegliava affinché ciascuno si mantenesse entro il suo
limite e rispettasse le regole. Lei sapeva che cosa lui pensava, sapeva anche che lui
l’amava, e l’ultima cosa che voleva era contrariare il cavaliere, suo signore. In quella
mattinata di sole, il suo abito di seta lungo fino ai piedi svolazzava, coperto da una
guarnacca di velluto foderata di martora, e le dava un'aria di particolare sensualità
sbarazzina, ben più giovane dei suoi ventisette anni. Una voglia sulla guancia destra
rendeva unico il viso ovale dagli occhi verdi, costellato di efelidi. Spesso Johan fissava
incantato quei lineamenti le sere in cui lei ricamava o gli raccontava storie accanto al
camino. Insieme, più tardi, avevano anche giocato a far ruzzolare il cerchio. All'arrivo del
cocchio, Marianne si era lasciata abbracciare e aveva colmato di baci il figlio, facendogli
promettere che avrebbe studiato con diligenza, promettendo a sua volta che sarebbe tornata
prima di sera.
Johan aveva poi seguito le lezioni di lingua, di matematica e di musica del gobbo tutore
fino a sera. Più di tutto lo affascinavano i simboli: numeri e colori. Tre, la Trinità; quattro,
gli evangelisti, i fiumi del paradiso, le virtù e i punti cardinali; sette, i doni di dio, i
sacramenti, i peccati mortali; nove, le figlie del diavolo; dieci, i comandamenti; dodici, i
mesi e gli apostoli. Rosso, l'impero; azzurro, la Vergine Maria; oro, il supremo; verde, la
gioventù seducente e pericolosa; giallo, il male e l'inganno.
Cenò e si coricò appena dopo le orazioni; la grassa fantesca gli aveva rimboccato le
coperte e spento le candele come sempre. La madre, stranamente, non era venuta a dargli il
bacio della buonanotte. Nemmeno a intercedere protezione ai santi patroni delle malattie. E
la fantesca se ne era dimenticata. Invocò sant’Agapito, contro il mal di denti, San Ciro
contro le coliche e cadde addormentato. Sognò una giovane splendida, più grande di lui.
Gli parlava e lui rideva ammaliato, pur non comprendendo nulla. Lei lo prese per mano e lo
condusse in giardino; lui la seguì, soggiogato e felice. L'abito di lei segnava gli ampi
fianchi e lasciava intravedere il solco tra i seni. Si disse che non era la prima volta che
vedeva una scollatura. La fantesca era solita, forse per provocarlo, chinarsi in sua presenza,
nel riassettare la camera. In genere questo atto gli produceva indifferenza o fastidio. Ma nel
sogno, Johan trasalì. La giovane lo invitò a sedere nell'erba. Rise e si mise a lottare con lui.
Giocando, si trovarono avvinghiati. Lei, per divincolarsi, aveva scoperto le gambe fino al
ginocchio. I piedi, i polpacci, la curva delle gambe bianchissime, i capelli fluenti, le dita
affusolate, il petto rigonfio furono un tutt'uno. Un'eccitazione inarrestabile gli salì dal
ventre. Affondò il viso nel seno ondeggiante, le cinse la vita e d'improvviso ebbe un
sussulto. E, mentre veniva travolto da un'ondata di piacere, la donna lo guardò seriamente
dolce: aveva i lineamenti, le labbra e gli occhi di sua madre.
Si svegliò di soprassalto, il fiato corto. Si toccò tra le cosce, alla radice della sensazione
che lo aveva sopraffatto, le dita si bagnarono. Arrossì, temendo di essersela fatta addosso,
come da piccolo. Ma il liquido viscoso non era pipì. Gli stava accadendo ciò di cui aveva
udito vantarsi, mesi prima, lo scapestrato cugino, maggiore di soli tre anni, ma che gli
parlava come un adulto a un fantolino. E quando aveva chiesto spiegazioni ai veri adulti,
gli avevano detto che quelle cose nemmeno si dovevano nominare. Perché? Perché erano
peccato grave, un'offesa a Dio. E perché? Perché così aveva deciso Dio.
Allora lui aveva peccato. Contro sua madre e contro Dio! Come avrebbe potuto essere
perdonato?
Si alzò, col cuore in gola. Doveva cancellare quelle macchie, intanto; giallastre, come il
male e l'inganno. Andò al catino vicino alla madia, sollevò la sottana da notte e si sciacquò
senza guardare quella parte del corpo che, con angoscia, aveva scoperto non essere più
sotto il suo controllo.
Ricoricatosi, stava per addormentarsi, quando la fantesca, fuori, proruppe in grida, seguite
dai pianti straziati delle domestiche. La voce di suo padre tuonò:
"Svelti, voi! Adagiatela sul letto. Piano. E tu, corri dal dottore e conducilo qui ad ogni
costo. Vaiii!"
Voci concitate dal corridoio e trambusto e urla e pianti e imprecazioni.
Silenzioso, Johan si sporse dall'uscio. Due uomini stavano uscendo con una barella vuota
dalla camera dei genitori, all'altra estremità del corridoio. Si avviò verso la camera. La
porta era aperta. La fantesca sullo sfondo era china a strizzare una benda tinta di rosso in un
catino. Johan si affacciò tremante. Sua madre giaceva svenuta sul letto, seminuda, i vestiti
strappati e macchiati di sangue, la bocca aperta.
“Bastardi, putridi schifosi, figli di puttana, vi scoverò, vi farò a pezzi… " in piedi accanto
a lei, il padre, i pugni chiusi e la voce strozzata. " Mia amata, tesoro…che ti hanno
fatto…”.
Poi ancora urlava vendetta e malediceva il cielo come mai aveva fatto, con gli occhi fissi
sulla consorte. Precisi dettagli marchiarono la memoria del ragazzo: il piede sinistro gonfio,
l'abito a brandelli sul seno rigoglioso e bianchissimo, la coscia sinistra con una macchia
bluastra vicino all'inguine, la mano destra insanguinata, l'adorato viso stravolto e con un
occhio pesto sotto i capelli scarmigliati.
Wilhelm si voltò di scatto e si accorse del figlio:
"Che ci fai qui?! Fila nella tua camera e non muoverti di là finché non te lo ordino. Filaa!
Per Dioo!"
Due mani lo afferrarono per le braccia, lo riportarono indietro e sbatterono la porta alle
sue spalle.
D'un lampo gli fu chiaro: i lineamenti dell'adorata madre erano proprio quelli della donna
del sogno.
Voci concitate e rumori e pianti e imprecazioni.
Il suo sogno peccaminoso era per certo collegato alla tragedia che si stava consumando.
Rumori e pianti e imprecazioni.
Gli parve che tutte le ingiurie fossero rivolte a lui.
Pianti e imprecazioni.
Cadde in ginocchio e singhiozzò disperato fino all'alba. Sfinito si addormentò, accucciato
ai piedi del letto.
Silenzio.
Il sole era alto quando il padre entrò: due occhiaie in una maschera di rabbia e dolore.
"Tua madre sta male. Quando si riprenderà, potrai visitarla. Ora va' nella cappella e prega
per lei insieme a Thérèse."
La voce suonò impassibile.
" Sì, padre."
Dai brusii delle serve, avrebbe in seguito carpito che contadini ribelli, diventati banditi,
avevano assalito con forconi il cocchio su cui la signora Eckhart e la dama che
l'accompagnava stavano tornando per una strada di campagna. E non si erano accontentati
dei vestiti e dei gioielli. Le frasi rimanevano a metà, ma il ragazzo intuì che mai avrebbe
potuto chiedere maggiori spiegazioni agli inservienti, né tanto meno ai suoi genitori:
l'episodio, su preciso ordine del cavaliere, doveva sparire dalla memoria di tutti al più
presto, come mai accaduto.
Marianne dopo tre settimane si era ripresa fisicamente. Passeggiava, ma senza il sorriso,
né gli occhi luminosi di prima. E precipitava in incupimenti improvvisi contro cui i dottori
si dimostravano impotenti. Una domestica l'aveva udita lamentarsi, durante un sonnellino
pomeridiano: lasciatemi, no questo no, risparmiatemi vi supplico, vi darò quello che volete,
no...
Dal canto suo, il cavaliere continuava a rodersi per non essere stato in grado né di
difendere la moglie prima, né di vendicarla poi: i soldati mandati da lui a setacciare la zona
non avevano trovato traccia della banda. Un servo l'aveva sorpreso in cantina ubriaco sotto
una botte, lui, uomo zelante, a bestemmiare contro Dio.
Le lame grezze del dolore avevano violato la dimora ovattata. I giardini curati, le feste
danzanti con i musici, i devoti inservienti e persino i severi tutori e il freddo padre avevano
rappresentato il baluardo che aveva impedito, fino allora, alla violenza del mondo di
arrivare agli occhi e al cuore di Johan. Marianne aveva subito sospettato che il piombare
del figlio in atteggiamenti solitari e taciturni fosse in relazione con quella notte, ma non
poteva indovinare fino a che punto.
Il ragazzo si arrovellava e pregava di nascosto Dio per essere perdonato, incapace di
confessare a chiunque l'abominevole peccato. Si chiudeva, per ore, nella biblioteca paterna:
iniziò a divorare i libri dei teologi e dei santi, come Agostino, alla ricerca di un lenimento
al suo patire. Il primo tutore lo aveva fatto riflettere su quanto nella sacra lingua latina le
parole libro e libero fossero simili. La fantesca per settimane lo aveva udito singhiozzare a
notte alta.
Il corpo che mutava era solo il riflesso del suo non riconoscersi più in esso e in tutte le
credenze di un mondo di orpelli e di dolci menzogne rassicuranti che era stato spazzato via
per sempre.