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2 Dalla “città ideale” alla città reale


La nascita dell’urbanistica moderna

L’ambiguo mito della “città ideale” costituisce uno dei temi più affascinanti
e suggestivi di tutto il Rinascimento, che si manifesta attraverso una molte-
plicità di astratte elaborazioni urbanistiche e solenni rappresentazioni pit-
toriche, nonché in pochi episodi concreti, assai diversi tra loro, ma tutti ac-
comunati dall’istanza di dover manifestare il prestigio del signore locale at-
traverso un’opera assolutamente moderna benché legittimata dall’autorità
dell’antico, in una parola: umanistica.
Nel corso di tutto il Quattrocento, infatti, gli architetti e i vari studiosi in-
traprendono una costante e quasi frenetica attività di confronto tra il De ar-
chitectura di Vitruvio e i superstiti edifici romani (o presunti tali), adottan-
do un rinnovato rigore filologico che si traduce in una vera e propria “rina-
scita” della classicità.
Allo stesso tempo, la scoperta delle regole scientifiche della prospettiva fa-
vorisce la presa di coscienza della strada come “veduta” e della piazza come
entità, sviluppando una nuova figuratività in cui i volumi architettonici so-
no pensati come elementi di misura dello spazio prospettico che contribui-
scono a definire.
Lo stesso sistema classico degli ordini architettonici è utilizzato per visua-
lizzare gli schemi matematici per il proporzionamento degli edifici che,
estendendosi a tutto il contesto circostante, definiscono un luogo urbano

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geometricamente ordinato e armonico, disegnato con riga e compasso.


L’avvento del Neoplatonismo, infine, accentua la tendenza a vedere dietro
ogni soluzione concreta il “tipo ideale”, a cercare attraverso la geometria la
verità assoluta.
Protagonista indiscusso di questo processo è Leon Battista Alberti, la cui au-
torità riemerge costantemente nei diversi tentativi di recuperare gli ele-
menti formali dell’architettura antica per riproporli nell’utopia estetico-so-
ciale della “città ideale”, siano essi costituiti dal mero “pro-memoria” visivo
delle Tavole urbinati, che dai tre concreti esperimenti di varia complessità in-
trapresi a Pienza, Urbino e Ferrara.

La città dei venti regolari


Il De architectura, paradossalmente, non era affatto chiaro sulle regole per la
fondazione delle città, concentrandosi principalmente sulla scelta di luoghi
salubri. Il problema della determinazione della forma urbis secondo il pre-
cetto vitruviano, infatti, è strettamente connesso alla difficile interpretazio-
ne di due brani inerenti rispettivamente il tracciamento del perimetro mu-
rario della città e la conseguente distribuzione planimetrica del tessuto stra-
dale al suo interno (De architectura), secondo uno schema razionale e geo-
metrico che potremmo definire inconsapevolmente “ideale”, o forse neces-
sariamente tale agli occhi dei suoi esegeti rinascimentali. Sulla base di una
presunta teoria sanitaria, infatti, Vitruvio raccomanda di ruotare il reticolo
stradale rispetto alle direzioni degli otto venti principali, in quanto ciascu-
no di essi (sia freddo e secco che umido e caldo), penetrando nel tessuto ur-
bano con tutta la propria forza senza incontrare alcuna resistenza da parte
di cortine edilizie, esalterebbe almeno una delle tante affezioni che malau-
guratamente affliggono gli abitanti.
La soluzione proposta dal trattatista, quindi, sembrerebbe alludere in prima
istanza a un tracciato radiocentrico, cinto da mura circolari o piuttosto ot-
tagonali (per analogia con le citate otto direzioni eoliche), ma che inevita-
bilmente offre il destro a una doppia contraddizione rispetto alla nota con-
suetudine cardodecumanica romana, che si sostanzia nella sostituzione del-
la scacchiera regolare con insulae trapezoidali e lo sfalsamento degli assi
principali rispetto al loro tradizionale orientamento nord-sud ed est-ovest.
Ma a complicare ulteriormente l’esegesi del testo interviene il brano suc-
cessivo secondo il quale il tracciamento delle strade deve essere realizzato
mediante uno strumento definito gnomon, ovvero di una “squadra”, che, per
il suo fatale angolo retto, ripropone l’utilizzo della maglia ortogonale, sep-
pur ruotata rispetto ai punti cardinali, verosimilmente di un quarto di an-
golo retto.

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Ortogonalità e radiocentrismo
Il conflitto tra le diverse interpretazioni del testo vitruviano accompagna il di-
battito teorico sulla città per tutto il Quattrocento e quando, nel secolo suc-
cessivo, si consolida l’involuzione autoritaria nella conduzione politica, gli ar-
chitetti tendono a interpretare il trattatista latino alla luce delle nuove esigen-
ze derivanti dai progressi nel campo della tecnologia militare, sviluppando nu-
merosi progetti in cui la “città ideale” tende paradossalmente a coincidere con
la città fortificata realmente costruita e ad assumere, quasi esclusivamente, la
tipologia stellare. Nei primi trattati, invece, si moltiplicano tutte le possibili
varianti planimetriche sempre in bilico tra esegesi rigorosa e il tentativo di
rettificare gli sgraditi angoli irregolari che, inevitabilmente, si formano a ri-
dosso delle mura (nel caso di una maglia stradale ortogonale), o addirittura
in tutto il tessuto urbano (nel caso di strade a raggiera), fino agli esiti più ma-
turi in cui i quartieri saturano solo la parte centrale del perimetro urbano,
lasciando un pomerio più o meno esteso a raccordare i contrapposti sistemi

Alla pagina 32:


Luciano Laurana,
Palazzo Ducale,
facciata con torricini,
seconda metà del
XV secolo, Urbino.
La facciata è costituita
da un sistema di logge
inquadrato da due agili
torri laterali, non più
fortificate come
nell’arco di Alfonso
d’Aragona a Napoli, ma
addirittura finestrate.

e Filarete, Pianta
di Sforzinda, in
Trattato di architettura,
1461-1464, Firenze,
Biblioteca Nazionale
Centrale, cod.
Magliabechiano,
f. 47r.

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radiale e graticolare. Esempio precoce ma peculiare di


questa contraddizione è la pianta tracciata da Antonio Ave-
rulino, detto il Filarete, nel suo Trattato di architettura, che
manifesta tutta l’incongruenza tra il carattere astratto e co-
smografico dello schema radiale (caratterizzato dalla con-
catenazione delle figure geometriche perfette: ottagono,
quadrato e cerchio), e la concezione realistica del centro
cittadino, con i principali edifici pubblici ordinariamente
disposti intorno a una piazza rettangolare porticata. La
Sforzinda filaretiana, prima città utopica progettata e illu-
strata del Rinascimento, ripropone tutti gli elementi vitru-
viani in una pianta stellare a otto punte, ottenuta dall’in-
tersezione di due quadrati ruotati di 45 gradi e inscritta in
un fossato circolare che collega otto torri alternate a otto
porte; da queste ultime si dipartono otto strade principali
che intersecano un ulteriore percorso circolare in altret-
tante piazze, fino a convergere nel quartiere centrale, for-
malmente influenzato dalla Milano sforzesca, ma assoluta-
mente privo di raccordo con gli assi stradali convergenti.

Prospettive ideali: le tavole di Urbino,


Baltimora e Berlino
La “città ideale” prima di diventare un luogo fisico reale è
un’espressione intellettuale, un’aspirazione astratta verso
la perfezione geometrica e armonica del mondo, cosicché
sono i pittori i primi mediatori tra la mente e il mondo
reale, i primi a dipingere la scena dove si svolgono le azio-
ni umane, anticipandone le fattezze in alcune visioni urba-
ne, note con il nome di “prospettive urbinati” per l’indi-
scussa provenienza geografica della più nota delle tre.
Le cosiddette Tavole di Urbino, di Baltimora e di Berlino, so-
no considerate appartenenti, se non alla stessa mano, di si-
curo allo stesso ambiente culturale, sia per le caratteristi-
che figurative sia per quelle materiali, prima tra tutte la
funzione originaria; si pensa, infatti, che tutti i tre pannel-
li in legno di pioppo (a due o tre assi orizzontali) siano sta-
ti in origine spalliere di arredi o inserti del rivestimento f Scuola italiana,
ligneo di una stanza.Tra gli altri elementi comuni, oltre al La città ideale
(Tavola di Berlino),
tema, si notano la composizione generale, l’assenza di fi- 1490-1500, Berlino,
gure umane (presumibilmente apocrife nell’esemplare di Gemäldegalerie.

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Baltimora), la posizione assai simile del punto di fuga, la pavimentazione geo-


metrica in opus sectile, a tacere dei fori del compasso e del tracciamento (a car-
boncino o per incisione) della griglia prospettica sul fondo di preparazione. In
tutte e tre le tavole, infine, i palazzi sembrano un campionario delle possibili
variazioni di un vocabolario architettonico albertiano, avvalorando ulterior-
mente l’audace ma seducente ipotesi di Gabriele Morolli, che ne attribuisce la
comune paternità allo stesso Leon Battista, in precedenza generalmente circo-
scritta a Piero della Francesca, Francesco di Giorgio e Luciano Laurana.

Mediante l’uso scientifico della prospettiva, frammenti


della città vitruviana conquistano la terza dimensione,
riproponendo in uno spazio umanistico le scansioni
e le caratteristiche formali dell’architettura classica.

La Tavola di Baltimora è un trionfo dell’antico che esibisce non un anfiteatro


qualsiasi, ma il Colosseo con i suoi quattro ordini sovrapposti e concatena-
ti (tranne l’ultimo, cieco), non un arco immaginario, bensì la meditata rein-
terpretazione dell’arco di Costantino, impreziosito con colonne binate e
terminazioni acroteriali, frontonate e centinate, ma depurato delle statue al
secondo ordine e della sconveniente duplicazione del cerchio (figura geo-
metrica perfetta) sopra ogni fornice laterale.

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E ancora, a rappresentare la categoria templare, il “bel San Giovanni” di


Dante, ovvero il battistero Fiorentino, uno dei tanti edifici che gli umanisti
annoveravano tra quelli “antichi” ritenendoli templi romani (nella fattispe-
cie quello di Marte) adattati a chiese cristiane.
Concettualmente simile a esso è l’imponente volume cilindrico che, nella Ta-
vola di Urbino (si veda Dentro il capolavoro alle pagine 40-41), ingombra la so-
lennità maestosa del vuoto urbano della Tavola di Baltimora, accompagnato, pe-
raltro, da altre due chiare cifre albertiane: la citazione dell’opus reticulatum di
palazzo Rucellai a Firenze, e la duplicazione simmetrica del pozzo di Pienza.

Pienza: la città monumento


La lunga e approfondita riflessione sul testo vitruviano e sul nuovo concetto
di spazio urbano razionale e prospettico, stenta a tradursi in realtà a causa dei
costi imponenti e dei lunghi tempi di realizzazione che solo poche eminenti
personalità possono in parte sostenere, limitando la concreta realizzazione di
una “città ideale” a pochi “frammenti” urbani.
Nel 1458, per una felice circostanza, è proprio un insigne umanista ad ascen-
dere al soglio pontificio: Enea Silvio Piccolomini diventa papa assumendo un
nome, quello di Pio II, apparentemente evocativo di una santità quasi contem-
plativa, ma che presto svelò tutto il suo insospettabile corrispettivo ideologi-
co. Con un singolare processo analogico, infatti, Enea diventa il pius Aeneas,

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chiara allusione umanistica a Virgilio (Eneide), che lega la c Scuola italiana,


carica di pontefice alla natura mitica del progenitore dei La città ideale
(Tavola di Baltimora),
romani, accreditando Pio alias Enea quale continuatore 1490-1500,
della tradizione degli imperatori fondatori di città. L’anno Baltimora,Walters
successivo, infatti, Pio II decide di trasformare l’antico Art Gallery.
Sullo sfondo della città
borgo di Corsignano in una residenza temporanea per sé ideale, costruzione
e per la corte papale, con il proposito candidamente di- geometrica e armonica
chiarato nella sua autobiografia (Commentarii rerum memo- del mondo, sono
allineati i monumenti
rabilium…) di lasciare un perenne ricordo della nascita del dell’antichità secondo
pontefice nella città che, da quel momento in poi, avreb- la classificazione di
be assunto il nome di Pienza. Flavio Biondo e degli
altri umanisti, ovvero
Ma se Pio anelava una città-memoriale del suo pontifica- teatri, archi e templi:
to, Enea non poteva accontentarsi di una città qualunque, il Colosseo, l’arco di
Costantino e il
e sognava un centro urbano che fosse una chiara testimo- battistero di Firenze.
nianza dei suoi ideali di raffinato umanista. Non a caso tra
le persone al seguito del papa colto e letterato, ritrovia-
mo l’Alberti, che con molta probabilità fu il consigliere
delle prime decisioni per la ristrutturazione di Pienza,
suggerendo, tra l’altro, come realizzatore del comune
programma edilizio il proprio discepolo Bernardo Gam-
bardelli da Settignano, detto il Rossellino.

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Dentro il capolavoro
Scuola italiana
La città ideale (Tavola di Urbino)
1480-1490, Urbino,
Galleria Nazionale
delle Marche.

La tavola della “città ideale” risulta tuttora di


dubbia paternità, ma limitata agli artisti della
corte di Federico da Montefeltro, quali
Francesco Laurana, Piero della Francesca o
Francesco di Giorgio, mentre la datazione è
ritenuta successiva al 1470. La nota veduta
prospettica è dipinta a olio su un supporto in
legno di pioppo delle dimensioni di
67,5 × 239,5 centimetri, che sul retro mostra
di essere stato strappato dalla spalliera di un
arredo o dal rivestimento di una stanza.

La pavimentazione bicromatica in La porta socchiusa


opus sectile è scandita da grandi presenta un foro
quadrati che contengono ottagoni inciso nel supporto
e rombi. La resa prospettica ligneo che
del dipinto risulta accentuata da tali corrisponde al
semplici geometrie, così come punto di fuga della
avviene nella piazza di Pienza. prospettiva.
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La composizione è
dominata dal grande Le facciate dei palazzi
edificio centrale a pianta sono movimentate da ordini
circolare con copertura architettonici sovrapposti,
conica, ornato da un mentre il primo a destra
doppio ordine di presenta anche una ortodossa
semicolonne corinzie concatenazione di semicolonne
e inquadrato trabeate che inquadrano
tra due ali di palazzi. pilastri centinati.

La fascia inferiore L’arredo dell’ampia


dell’intercolunnio principale piazza deserta è
richiama l’opus reticulatum limitato a due
romano, come avviene nella semplici pozzi
spalliera del sedile esterno simmetrici, dalla
dell’albertiano palazzo cristallina forma
Rucellai a Firenze. ottagonale.
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Alberti sviluppa la propria concezione urbanistica soprat- f Palazzo Comunale,


tutto nel quarto e nel quinto libro del suo trattato (De re 1459-1462, Pienza,
piazza Pio II.
aedificatoria,1485), senza arrivare a formulazioni vinco-
lanti circa la forma della città. Manca, infatti, qualsiasi de-
scrizione del perimetro urbano e del tessuto stradale,
mentre le considerazioni sulla città antica, desunte dal De
architectura di Vitruvio e dalle dirette conoscenze archeo-
logiche, sono rielaborate alla luce delle esigenze pratiche
del proprio tempo. Per quanto riguarda le strade, per
esempio, Alberti auspica un andamento tortuoso sia per
esigenze estetiche, derivanti dal succedersi di prospettive
sempre diverse, sia per dare al visitatore occasionale la
sensazione di una città ben più grande di quella reale.
In sostanza, quindi, il borgo medievale di Corsignano, con
le sue stradine irregolari che si dipartono a pettine dal-
l’asse viario principale adagiato lungo il crinale del colle,
si adattava perfettamente a un intervento di chirurgia ur-
banistica che innestasse su un corpo medievale uno spazio
prospetticamente rinascimentale, costituito da una piazza
trapezoidale intorno alla quale erigere un gruppo di edifi-
ci monumentali. In luogo della chiesa romanica di Santa
Maria e delle case della famiglia Piccolomini, sorgono (si-
gnificativamente) il duomo e palazzo Piccolomini; sugli al-
tri due lati della piazza gli edifici esistenti sono ristruttu-
rati dando origine a palazzo Borgia (poi Vescovile) e, sulla
base minore del trapezio, il palazzo Comunale.
La pavimentazione dello spazio trapezoidale che ne risul-
ta è scandita da una griglia regolare realizzata con stango-
ni di nobile travertino bianco, che delimitano riquadri in
mattoni rossi disposti per coltello, con la funzione nean-
che tanto sottintesa di materializzare il reticolo prospetti-
co; lo stesso che, in altro modo, viene riproposto vertical-
mente nella facciata di palazzo Piccolomini. In questo ca-
so la maglia ortogonale è costituita dalle embrionali tra-
beazioni marcapiano coniugate ai tre ordini di lesene che
sorgono (così come quelle della facciata del duomo) dalle
linee pavimentali in travertino. L’effettiva corrispondenza
tra il disegno della piazza e la scansione dei prospetti sve-
la l’unitarietà della progettazione, facendo passare in se-
condo piano la fin troppo scoperta analogia con la faccia-

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ta albertiana di palazzo Rucellai, nonché l’oziosa controversia su quale dei due


edifici costituisca il prototipo dell’altro.
L’intera composizione rispetta semplici e limpidi criteri razionali. La facciata
del duomo, per esempio, se formalmente palesa la sua distinta derivazione
dall’arco di trionfo romano (così come il tempio Malatestiano o il Sant’An-
drea a Mantova), in pianta costituisce la corda di una circonferenza centrata
nel cerchio disegnato sulla pavimentazione e tangente ai due edifici divergen-
ti. Persino il pozzo, assai decentrato, in quanto collocato sullo spigolo del pa-
lazzo papale, invece che contraddire l’impianto armonico, sembra accentuar-
ne la geometria. In definitiva l’architetto pientino costruisce una “scatola spa-
ziale”, in cui i diversi elementi piani e volumetrici della piazza materializzano
nello spazio fisico la fondamentale scoperta che Brunelleschi aveva diffuso
nell’ambiente fiorentino circa trent’anni prima e che Alberti teorizza (De pic-
tura, 1435) contemporaneamente alle ricerche di pittori come Masaccio, Do-

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natello, Paolo Uccello, e a Piero della Francesca (a sua volta autore del De pro-
spectiva pingendi, 1490 circa): la prospettiva centrale. Come nelle tre Tavole ur-
binati, nella Flagellazione e nell’Annunciazione di Piero, o nei noti pannelli li-
gnei intarsiati, le case e le figure poggiano su di un saldo reticolo prospetti-
co, che scandisce la terza dimensione definendo una vera e propria “volume-
tria del vuoto” in cui l’aria stessa sembra assumere peso.
L’intervento sulla piazza è completato con l’invito a cardinali e maggiorenti a
edificare a Pienza le loro dimore, con la realizzazione di un ospedale, di un al-
bergo, di dodici nuove case a schiera (destinate agli sfrattati degli edifici de-
moliti, che recentemente sembrano essere state identificate nella periferia
nord-orientale), e infine la piazza del mercato, quasi un centro commerciale
alle spalle di quello direzionale costruito intorno alla piazza rosselliniana.

Una “città in forma di palazzo”: il palazzo Ducale di Urbino


A Urbino l’episodio di Pienza viene dilatato fino ad assumere la dimensio-
ne urbana. Il duca Federico da Montefeltro resta al potere per un periodo
di tempo particolarmente lungo (1444-1482) che gli consente di realizzare

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il suo vasto programma per successive approssimazioni,


avvalendosi della collaborazione dei numerosi architetti
e artisti che nel corso degli anni animarono la sua corte
umanistica, tra i quali ritroviamo l’Alberti, Piero della
Francesca e Paolo Uccello, insieme a Francesco di Gior-
gio Martini, al matematico Luca Pacioli, nonché lo
scrittore Baldassarre Castiglione che nel suo Cortigiano
definì la residenza urbinate come “città in forma di pa-
lazzo”; una felice intuizione che, pur riferendosi alla va-
stità dell’edificio più che alla sua natura ideale, sembra
alludere più o meno coscientemente al pensiero alber-
tiano secondo il quale la casa è da intendersi come una
piccola città e la città come una grande casa.
La trasformazione dell’organismo urbano trova il suo
momento più determinante nel ribaltamento del fronte
di interesse principale da oriente (verso la città medieva-
le e la strada per il mare) a mezzogiorno (sulla Val Bona,
e quindi verso Roma), con la realizzazione della nota fac-
ciata dei torricini, attribuita all’architetto Luciano Laura-
na, che viene ruotata di circa 25 gradi rispetto a tutti gli
assi dell’edificio preesistente. Pur evidenziando che l’e-
sposizione delle logge verso sud determina un maggiore
soleggiamento (migliorandone così la situazione climati-
ca), le ragioni di questa consapevole asimmetria planime-
trica sono da ricercarsi nella volontà di realizzare una so-
luzione scenografica che valorizzi il contesto paesaggisti-
co, svelando, con il suo orientamento, un riferimento più
e Duomo, o meno dichiarato ai mutati interessi politico-economici
1459 circa, Pienza, negli anni di maggior prestigio del duca, ovvero al nuovo
piazza Pio II.
La facciata del duomo
legame con la Roma papale, i cui emissari iniziano a scor-
risulta inquadrata tra gerne da lunga distanza la mole elegante e allo stesso
due suggestivi scorci tempo imponente del palazzo.
panoramici, per
appagare il desiderio La città segue con coerenza le trasformazioni della resi-
di valorizzare il denza ducale. Il nucleo medievale che fino a quel mo-
magnifico paesaggio mento si era sviluppato verso l’Adriatico, si apre verso
verso il monte Amiata,
espressamente l’Appennino e la strada che conduce ad Arezzo e Roma:
manifestato da Pio II nasce un nuovo quartiere sul versante meridionale in cui
nei Commentarii, in le numerose asimmetrie dovute alla ricucitura con il tes-
accordo con il nuovo
senso della natura che suto urbano esistente risultano compensate anche dalla
permeava l’Umanesimo. grande massa muraria che unifica le varie le parti del

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f Luciano Laurana e
Francesco di Giorgio
Martini, Palazzo
Ducale, cortile
d’Onore,
1465-1477, Urbino.

Alla pagina 49:


Palazzo dei Diamanti,
XV-XVI secolo,
Ferrara.

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complesso palazzo Ducale tra di loro e la città circostante. Un’ingegnosa e


ampia rampa elicoidale a gradoni, ideata da Francesco di Giorgio Martini,
raccorda il livello della piazza del Mercatale a quello del centro cittadino, po-
nendo direttamente in comunicazione la residenza montefeltresca con le stal-
le della Data e l’esterno delle mura.
Dall’analisi dei suoi principali elementi, quindi, appare evidente che l’arche-
tipo della dimora principesca rinascimentale italiana non viene concepito co-
me edificio di rappresentanza o un mero simbolo di autorità, ma nella sua
complessa articolazione, dialoga con ogni elemento dell’ambiente naturale e
urbano circostante come un’entità viva e aperta.

Il palazzo Ducale di Urbino, pur assumendo


una connotazione vagamente organica, manifesta
in ogni suo elemento quella tensione umanistica
verso la razionalità e l’armonia costantemente
legittimate dall’autorità dell’antico.

Mentre all’interno del palazzo si discute sulla forma che deve assumere una
“città ideale”, sulla prospettiva, sull’eredità storica e morale degli “uomini il-
lustri”, l’edificio si sviluppa intorno al suo nucleo gotico in forme moderne
con il concorso di numerosi architetti, coordinati dallo stesso duca sulla scor-
ta delle istruzioni di Alberti. Gli edifici si articolano in una struttura archi-
tettonica, urbana e paesaggistica che costituisce una vera opera d’arte collet-
tiva, così complessa, unica e straordinaria che non sarebbe stata possibile se
non si fossero incontrati qui, per un periodo felicemente lungo, architetti, ar-
tisti, letterati e intellettuali umanisti.

L’addizione Erculea di Ferrara


Dopo l’innesto di un cuore umanistico nel borgo medievale di Pienza e la di-
latazione a scala urbana del palazzo urbinate, l’ampliamento della città di
Ferrara, sullo scorcio del XV secolo, può essere considerato il terzo livello
di complessità nel processo che porta alla nascita dell’urbanistica moderna,
la cui importanza non risiede esclusivamente nelle maggiori dimensioni del-
l’intervento, ma soprattutto nell’originalità della sua concezione, che riesce
ad armonizzare la volontà di autorappresentazione simbolica della corte nel-
l’alveo degli ideali umanistici, con le esigenze funzionali della città reale. La
più grande impresa urbanistica del Quattrocento italiano, infatti, trae origi-
ne non soltanto dall’ambizione del duca Ercole I d’Este di essere ricordato
quale grande mecenate delle arti e dell’architettura, ma anche da esigenze
concrete, quali il notevole sviluppo demografico conseguente alla prosperità

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economica, il suo personale progetto di speculazione fondiaria ante litteram, e


soprattutto i timori sull’assetto difensivo della città, messo a dura prova nel
corso della guerra contro Venezia e dell’assedio del 1484, in seguito al quale
il duca si rese conto della necessità di dotare la città di una più moderna cin-
ta di mura difensive. Fu l’architetto Biagio Rossetti a tradurre gli obiettivi del
duca in un preciso piano urbanistico che prevedeva il raddoppio, e oltre, del-
l’area della città racchiusa dalle mura e che, realizzato nelle sue linee princi-
pali negli anni dal 1492 al 1510, conferì alla capitale estense le dimensioni e
lo splendore delle maggiori città europee. Entro la nuova cinta, e al di là del
limite della città vecchia, costituito dal fosso della Giovecca (ovvero dall’at-
tuale asse di viale Cavour-corso della Giovecca), Rossetti struttura l’amplia-
mento urbano mediante una rete di strade a maglie assai ampie, incardinata
sui due assi principali della strada degli Angeli (oggi corso Ercole I d’Este) e
di quella dei Prioni (cioè “pietroni”, costituita dagli attuali corsi porta Po,
Rossetti e porta Mare), il cui incrocio quasi ortogonale è architettonicamen-
te qualificato da splendidi edifici.Tra questi si distingue il celebre palazzo dei
Diamanti che deve il suo nome al singolarissimo rivestimento marmoreo a
bugne sfaccettate che alludono all’emblema estense del diamante, così simili
ai lacunari della Tavola di Berlino.
Il risultato complessivo dell’intervento (che dal nome del suo ispiratore trae
l’appellativo di addizione Erculea) contrappone il carattere regolare, disteso
e solenne delle sue ampie strade rettilinee fiancheggiate da splendidi palazzi,

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a quello più intimo e organico della città vecchia, alla quale, però, appare ma-
gistralmente connesso mediante raccordi del tracciato stradale e accorgi-
menti planimetrici felicissimi, quasi come se la zona rinascimentale fosse un
naturale sviluppo di quella precedente senza soluzione di continuità, seppur
con una netta diversità di impostazione.
La concreta erezione degli edifici lungo la maglia stradale così definita, peral-
tro, è rinviata al momento in cui l’incremento demografico lo avesse richie-
sto, separando di fatto la realizzazione degli assi stradali da quella del tessuto
edilizio; un metodo molto simile, quindi, a quello degli attuali piani urbani-
stici, che ha fatto di Ferrara “la prima città moderna europea” secondo la de-
finizione di Bruno Zevi.

L’eccezione leonardesca
Mentre i suoi contemporanei si cimentano in un’organizzazione dello spa-
zio urbano secondo rigorosi schemi geometrici dal contenuto intellettuali-
stico, Leonardo da Vinci concepisce la sua “città ideale” in base a un’inequi-
vocabile istanza funzionalista, incentrata sulla separazione dei tipi di traffi-
co e su attente disposizioni igienico-sanitarie, la cui motivazione deriva ve-
rosimilmente dalla terribile pestilenza che, tra il 1484 e l’anno successivo,
ridusse di circa un terzo la popolazione milanese.

e Castello Estense,
XIV-XVI secolo,
Ferrara.

f Palazzo Schifanoia,
XIV-XV secolo,
Ferrara.

Alla pagina 53:


Leonardo da Vinci,
Progetto di città su più
livelli, in Codice B,
Parigi, Bibliothèque
de l’Institut de
France, ms. B, f. 16r.

Dalla “città ideale” alla città reale 51


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Gli appunti del Codice B conservato presso l’Institut de


France a Parigi, mostrano una città disposta su tre livel-
li che rispecchiano l’organizzazione sociale della popo-
lazione secondo una rigida distinzione tra attività pro-
duttivo-commerciali e occupazioni gentilizie.
Lo studio grafico di un sistema di scale a quattro rampe in-
dipendenti sottintende l’intenzione di tenere separati anche
i percorsi verticali di raccordo tra le diverse quote urbane.
I percorsi orizzontali, invece, sono distinti in strade de-
stinate al traffico veicolare e popolare, ampie strade
porticate per la circolazione dei “gentili omini”, e una
fitta rete di canali navigabili che soddisfa innanzitutto le
esigenze di pulizia urbana e del deflusso dei liquami (per
i quali Leonardo studia un vero e proprio sistema fo-
gnario), ma allo stesso tempo consente di scaricare le
merci direttamente ai piani inferiori dei singoli palazzi,
dotati di piccole darsene e magazzini seminterrati.
In altri fogli Leonardo scende ulteriormente nel detta-
glio, annotando precise indicazioni sulla costruzione di
una stalla per cavalli perfettamente efficiente e pulita.

La nascita dell’urbanistica moderna


Mentre l’istanza autocelebrativa è comune a tutti e tre gli
esempi considerati, l’intervento ferrarese si distingue per
un’evidente contaminazione dell’utopia da parte di nuove
esigenze difensive conseguenti all’evoluzione della tecno-
logia militare, rendendo così più ambigua la ricerca sulla
città nuova. Eppure proprio il lungo periodo di relativa
tregua e prosperità che ebbe luogo nella seconda metà del
XV secolo, consentì ai nuovi signori di assumere il ruolo
di mecenati evitando che i numerosi studi sulla “città idea-
le” rimanessero inesorabilmente sulla carta. Pienza, in
particolare, testimonia il passaggio dall’urbanistica spon-
tanea medievale a quella programmata, propria dell’età
moderna, seppur connotata da elementi formali desunti
dalla classicità. In poco più di tre anni l’umanista divenu-
to papa era riuscito a coronare il suo sogno di realizzare
una nuovissima città antica. Trent’anni dopo Colombo
avrebbe scoperto l’America portando con sé un volume:
l’Historia rerum ubique gestarum, scritto da Pio II.

52 Il Quattrocento
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Dalla “città ideale” alla città reale 53

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