delle corti) e, per quel che riguarda l’architettura, Gotico flamboyant (fiammeggiante) – si è soliti indicare quella fase
relativamente tarda dell’arte gotica che va dagli ultimi decenni del XIV secolo alla metà del secolo successivo, con
propag- gini che, in alcuni Paesi, oltrepassano il XVI secolo. L’aggettivo «internazionale» assume un duplice significato. In
primo luogo allude al fatto che que- sta esperienza artistica non ha una radice unica, at- tribuibile a una sola area o a
una ben individuabile tradizione, ma che deriva piuttosto dalla somma di più esperienze, a volte anche molto diverse tra
loro, e da un continuo scambio di idee. In secondo luogo sta a sottolineare come la sua diffusione sia vasta, omogenea e
pervasiva in tutta Europa, una vera e propria koinè. Il Gotico internazionale nasce e si irradia nei raf- finati ambienti di
corte, influenzando ogni attività artistica, e dà luogo alla prima forma d’arte medie- vale laica, cioè non necessariamente
legata a temi o committenze di carattere religioso. Questo fenomeno artistico coinvolge soprattut- to la pittura – in cui
la natura è vista in forme incan- tate – e le cosiddette «arti minori», ma determina un diffuso mutamento del gusto che,
di fatto, ha significativi riflessi anche sulla scultura, sull’archi- tettura e, più in generale, sull’organizzazione stes- sa del
costume e della vita sociale. In Italia il Gotico Internazionale ha, soprattutto in campo pittorico, una diffusione
temporalmen- te più limitata che altrove. Questo è dovuto, come meglio si vedrà, allo svilupparsi – a partire dal XV
secolo – di nuove forme espressive che, ripartendo da Giotto, rinnegheranno l’astratto decorativismo in nome di una
ritrovata volontà di attenzione al reale.
La pittura La pittura è l’arte che, più di ogni altra, registra il nuovo gusto tardo-gotico. Ciò è comprensibile so- prattutto
se si considera la vasta diffusione che ave- vano ormai raggiunto le miniature, grazie alle quali le raffinate elaborazioni
dei vari artisti potevano fare in breve il giro delle corti d’Europa per essere ammi- rate, discusse, collezionate e, spesso,
anche copiate. Nel complesso il Gotico Internazionale tende a portare alle estreme conseguenze l’uso decorativo della
linea di contorno; anche il colore viene impie- gato con analoghi intenti e quindi finisce per non avere più alcun rapporto
con i soggetti rappresenta- ti. Questo spiega le sgargianti campiture piatte e, so- prattutto, la profusione dei
raffinatissimi fondi oro. 14.1 Personaggio (San Giovanni?) sotto un baldacchino, 1373- 1382. Lana, 4,53×2,42 m. Terzo
brano, scena 26 degli Arazzi dell’Apocalisse. Angers, Musée du Château, Galerie de l’Apocalypse. Oggetti d’arte Arazzi
dellÕApocalisse Gli Arazzi dell’Apocalisse di Angers (nell’antica provincia francese dell’Anjou), pur non rientrando ancora
pienamente nel Gotico Internazionale, sono già caratterizzati dal gusto per la linea, dal colore prezioso e dal fatto di
essere stati realizzati per una committenza laica. Non destinati a una chiesa, i centoquaranta metri di arazzo (oggi non
ne restano che circa cento), il più vasto mai tes- suto in Europa, furono commissionati nel 1373 da Luigi I d’Anjou (1339-
1384) – f ratello del re di Fran- cia Carlo V il Saggio (1364-1380) – e vennero conclu- si nel 1382. Tessuti in modo tale che
sia il dritto sia il rovescio si mostrassero finiti, il recente restauro ha rivelato come il rovescio abbia mantenuto i colori
freschi degli originali, mentre le tinte del dritto ab- biano subìto degli abbassamenti di tono e una certa perdita di
brillantezza. I sei grandi quadri sopravvissuti, dei sette in cui si sviluppava in origine l’arazzo, formati da più episo- di
alternativamente a fondo blu e rosso e introdotti da una grande edicola gotica all’interno della qua- le siede San
Giovanni Fig. 14.1 , raffigurano scene del libro dell’Apocalisse. In essi, realizzati a Parigi, nell’atelier dell’arazziere Robert
Poisson su cartoni di Jean Bondol (o Baudolf ) detto Hennequin de Bruges (ca 1340-ca 1400), il tema neotestamentario
della fine del mondo viene trattato in maniera del tutto inat- tesa. Grazie ai colori preziosi, alle figure delineate con
nitidezza e ai particolari realistici, infatti, le vi- sioni profetiche – anche terribili – degli ultimi tem- pi dell’umanità sono
descritte al pari di un racconto fantastico e come una sorta di trasognamento. Nell’episodio della Misurazione della
Nuova Ge- rusalemme Fig. 14.2 , invece, San Giovanni, in gi- nocchio, guarda stupito la Gerusalemme Celeste che gli
viene mostrata da un angelo, che si accinge a misurarla con una verga d’oro tenuta nella ma- no sinistra (Apocalisse, 21,
15). Le ali spiegate della creatura angelica, i colori cangianti delle sue vesti e di quelle del discepolo di Gesù, il lembo del
man- tello di Giovanni che svolazza, la città turrita, gli ar- busti: tutto campeggia su un fondo rosso percorso da girali
bianco-rosati seminati di fiori blu.
L’unicità del Duomo di Milano Ars et scientia Una riflessione a parte merita il Duomo di Mila- no Fig. 14.42 , la cui
costruzione inizia dal 1386 e si protrae, quasi senza interruzione, fino al 1858, quando viene finalmente ultimata la
grandiosa fac- ciata. Si tratta senza dubbio della più importante archi- tettura gotica italiana, alla cui realizzazione
parteci- pano, fra accese polemiche, vari architetti italiani, campionesi, francesi e tedeschi. In realtà un’opera di tali
dimensioni comportava gravi problemi stati- ci e di dimensionamento, offrendo facili pretesti al- le rivalità dei vari
consulenti stranieri, che finirono per delegittimarsi a vicenda. Il contrastante pensie- ro degli architetti nordeuropei e
italiani, inoltre, si può riassumere nelle parole proferite dall’architetto francese Jean Mignot , consultato dalla
fabbricerìa del Duomo circa nel 1399: «Ars sine scientia nihil est» (La pratica senza la teoria non è nulla), alla quale i
costruttori milanesi in certo qual modo obietta- rono, rovesciando i termini, che «Scientia sine arte nihil» (La teoria
senza la pratica è niente). Un disegno dell’architetto bolognese Antonio di Vincenzo (ca 1350-1401/1402), eseguito tra il
1390 e il 1391 (un appunto grafico a mano libera, copia di precedenti disegni conservati nel cantiere mila- nese), mostra
la cattedrale in uno stato intermedio dei lavori, prima che la forma fosse quella defini- tiva Fig. 14.43 . I bracci del
transetto, ad esempio, risultano di tre campate, mentre invece ne furono realizzate due. La rappresentazione è molto
sche- matica, quasi a “fil di ferro”, anche lì dove sembra più definita, come nei capitelli e nelle basi dei pila- stri. Il
disegno, in proiezione ortogonale, raffigura sia la pianta sia la sezione trasversale e quest’ultima è costruita sulla pianta
di riferimento, servendosi, cioè, delle stesse dimensioni. Si tratta, allora, di un disegno in doppia proiezione ortogonale,
cioè quello in cui la pianta e la sezione sono tracciate nello stesso rapporto di scala. Tuttavia l’architetto ha inteso anche
suggerire un effetto tridimensiona- le degli elementi dell’alzato (ad esempio le basi e i capitelli a edicola dei pilastri che
appaiono stonda- ti) mischiando, allora, proiezioni ortogonali e dise- gno approssimativamente prospettico. È nel 1391,
con la convocazione dell’architetto e matematico piacentino Gabriele Stornalòco (ma Scovalòca secondo recenti
ricerche), che la fabbrica inizia ad assumere una forma simile a quella defi- nitiva, partendo da uno schema basato sulla
com binazione di vari triangoli equilateri Fig. 14.45, b . L’organismo che ne risulta, pertanto, mostra ne- cessariamente il
segno delle varie fasi realizzati- ve e dei diversi indirizzi progettuali d . Il risultato complessivo è quello di una costruzione
estrema- mente eclèttica, che poco o nulla ha a che fare, per esempio, con la semplicità della pianta talentiana di Santa
Maria del Fiore o delle altre grandi fabbriche toscane. I riferimenti tipologici, se mai, sono da ri- cercare nella tradizione
del tardo Gotico dell’Euro- pa centro-settentrionale, alla quale Milano era più vicina sia geograficamente sia
culturalmente. La pianta Fig. 14.46 , a cinque ampie navate, è scompartita da una selva di poderosi pilastri polisti- li ai
quali corrisponde, all’esterno, un complicatis- simo gioco di archi rampanti, guglie e contrafforti. Le pareti della grande
abside poligonale sono quasi del tutto sostituite da immense vetrate policrome, secondo la tradizione transalpina Fig.
14.44 . All’in- tersezione tra le navate e il corto transetto, infine, a opera di Gian Giacomo Dolcebuono (ca 1445-1510) e
di Giovanni Antonio Amadeo ❯ par. 16.6 , verrà costrui- to, tra il 1490 e il 1500, un ardito tiburio culminante con una
guglia alta 108 metri, ultimata nel XVIII secolo.
Il Rinascimento «Arti e scienze non udite e mai vedute» Con il termine «Rinascimento» si è soliti indicare quella
straordinaria stagione letteraria, artistica, filosofica e scientifica fiorita in Italia tra Quattro- cento e Cinquecento. Giorgio
Vasari è tra i primi a impiegare il vocabolo «rinascita» già per indica- re il rinnovamento della pittura introdotta da Ci-
mabue e Giotto. La diffusione moderna dell’e- spressione Rinascimento, invece, usata in Francia nella prima metà
dell’Ottocento dallo storico Jules Michelet (1798-1874), è connessa alla pubblicazio- ne, nel 1860, di un fondamentale
saggio di Jacob Burckhardt (1818-1897) – un grande studioso sviz- zero innamorato dell’arte e della cultura italiane – La
civiltà del Rinascimento in Italia . Gli uomini dotti italiani del XV e del XVI seco- lo si sentivano legati con un filo diretto
alla gran- de civiltà classica di cui si ritenevano eredi, mentre consideravano il Medioevo (o «Età di mezzo») un periodo
di barbarie e decadenza. Rinascimento è, quindi, anche il ritorno in vita del mondo classico e la riproposizione di molti
suoi modelli. È indubitabile che il Quattrocento e il Cinque- cento videro una prodigiosa produzione artistica e letteraria
come mai prima c’era stata. La parola «Rinascimento» può essere impiegata in accezione positiva solo se limitata alla
cultura e alle arti di quei due secoli: gli eventi storici, infatti, ebbero ri- svolti negativi per l’Italia e l’esistenza di numerosi
Stati costituì, politicamente, un grave danno e fu all’origine di molti problemi. Tuttavia, la loro dif- fusione sull’intero
territorio peninsulare fece sì che non uno, ma numerosi fossero i centri di cultura e di propagazione delle conquiste
rinascimentali. I caratteri distintivi del Rinascimento furono l’amore e l’interesse per ogni manifestazione cul- turale del
mondo antico e la consapevolezza del- la centralità e del valore dell’uomo, capace, con la propria intelligenza, di creare
e promuovere il pro- prio destino. È con il cosiddetto Umanésimo che incomincia il Rinascimento, cioè con lo studio dei
testi letterari (in latino humànae lìtterae ) ai qua- li si attribuiva la capacità di formare l’interiorità dell’essere umano. La
lingua latina riprende vigore, come pure lo studio di quella greca. Quest’ultimo, iniziato con l’insegnamento del dotto
bizantino Manuele Cri- solòra (ca 1350-1415), al quale il governo fiorentino affida la prima cattedra di greco in Europa,
viene facilitato anche dalla presenza in Italia di quei dot- ti greci che nel 1438-1439 parteciparono al Conci- lio di Ferrara-
Firenze. Un ulteriore apporto venne, successivamente, da quei Bizantini che nel 1453 si trasferirono nella Penisola dopo
la caduta di Co stantinopoli in mano ai Turchi Fig. 14.48 . Per le ar- ti figurative guardare al mondo classico («classici-
smo») non volle dire semplicemente “imitare”, ma rappresentò un modo per creare qualcosa del tutto nuovo e diverso.
E, anzi, gli artisti rinascimenta- li Fig. 14.49 si sentirono di dover competere con gli Antichi, di raggiungerli nella
grandezza e, se possi- bile, anche di superarli . È questa fiducia che viene espressa dall’architetto e trattatista Leon
Battista Alberti ❯ par. 15.1 nella lettera con cui, nel 1435, dedicava a Filippo Brunelleschi il suo trattato sulla pittura ❯
Ant. 107 . Egli scrive, infatti, che la fama dei suoi contemporanei dev’essere considerata supe- riore a quella degli
Antichi. I primi, infatti, senza maestri e senza esempi a cui guardare, erano riu- sciti a trovare «arti e scienze non udite e
mai vedu- te». La bella espressione dell’Alberti si riferisce alle novità artistiche e scientifiche dei primi anni del
Quattrocento, sconosciute sino ad allora e, quindi, ignote anche agli stessi Antichi Figg. 14.50 e 14.51 . Dallo studio della
civiltà classica si deduce che l’arte dei Greci e dei Romani era naturalistica; ne consegue che scopo dell’arte è
l’imitazione della natura o mìmesi (dal greco mimèisthai , imitare). Una natura che dev’essere (e verrà) indagata scien-
tificamente al fine di impossessarsi di ogni suo se- greto. Principale strumento per tale indagine sarà la prospettiva ❯ par.
14.3.1 . È Firenze la città in cui inizialmente la nuova arte rinascimentale si mani- festa e gli artisti fiorentini ne sono
considerati i fon datori Figg. 14.52 e 14.53 ❯ Ant. 105 e 106 . È di nuovo l’acutezza dell’Alberti a riconoscerlo. Questi, do-
po aver visitato la città toscana per la prima volta – grazie alla revoca del bando che nel 1401 aveva colpito tutti i
membri maschi di più di 16 anni della sua famiglia – avendola trovata come un grande, operosissimo cantiere, poté
scrivere: «Ma poi che io dal lungo essìlio 1 in quale siamo noi Alberti invecchiati 2 , qui fui in questa nostra sopra l’altre
ornatissima patria ridutto 3 presi in molti ma prima in te, Filippo 4 , e in quel nostro amicissimo Donato 5 scultore e in
quegli e Luca 7 e Masaccio, essere a ogni , com- altri Nencio 6 lodata cosa ingegno da non posporli a qual si sia stato
antiquo 8 e famoso in queste arti». Con queste parole Alberti individua immediata- mente anche coloro che furono gli
iniziatori del Rinascimento, uomini talmente capaci («ingegno») in ogni lodevole attività da non essere secondi a
nessuno dei famosi artisti dell’Antichità.
La prospettiva ÇBriglia e timone della pitturaÈ Più volte si è usato il termine «prospettiva» preci- sando sempre che,
almeno fino agli inizi del Quat- trocento, si trattava di una prospettiva intuitiva e, certamente, non scientifica, quindi non
basata su precise regole geometriche e matematiche. Con «prospettiva», termine che deriva dal latino perspìcere , cioè
«vedere distintamente», si indica co- munque un insieme di proiezioni di oggetti su un piano, tale che quanto è stato
disegnato corrisponda agli oggetti reali come noi li vediamo nello spazio. Il piano, però, ha due dimensioni (lunghezza e
lar- ghezza), mentre gli oggetti ne hanno tre (lunghez- za, larghezza e altezza). Questo vuol dire allora che, tramite un
procedimento grafico, è possibile rappre- sentare qualunque oggetto o insieme di oggetti (tri- dimensionali) su un foglio
(bidimensionale), ma in modo che l’immagine disegnata sia quanto più simi- le a ciò che noi vediamo realmente. Per far
questo è necessario che si verifichino le seguenti condizioni: ■ che esista un qualcosa da rappresentare (l’ oggetto ); ■
che qualcuno lo stia guardando (l’ osservatore ); ■ che si conosca la posizione esatta dell’osservatore rispetto all’oggetto
(ci si accorge, infatti, che cam- biando posizione quello che si guarda appare in modo diverso, per aspetto o per
dimensione); ■ che ci sia un supporto su cui disegnare. Tale sup- porto (un foglio di carta, una tavola, una tela, un muro)
deve essere immaginato come una pellicola trasparente posta fra l’oggetto da rap- presentare e chi guarda. Si suppone,
allora, che dall’occhio dell’osservatore partano dei raggi che vanno a circondare l’oggetto ( piramide visi- va ) Fig. 14.54 .
Intersecando la pellicola traspa- rente ( quadro prospèttico ) i raggi vi individuano un’immagine simile all’oggetto, ma
più piccola, di cui essa costituisce, appunto, la rappresenta- zione prospettica. Per avere una prova concreta di quanto si
è detto basta mettersi davanti a una finestra muniti di un pennarello. Tenendo il collo ben rigido, si chiude un occhio e
non si muove quello aperto. Successi- vamente si ripassano sul vetro i contorni di quello che si vede attraverso la
finestra. Conclusa tale ope- razione, si riapre l’occhio che si era tenuto chiuso e si guarda il disegno realizzato: è una
prospettiva, in tutto e per tutto rappresentativa della realtà che c’è al di là del vetro. Non sempre è possibile disporre di
una super- ficie trasparente. Sono, infatti, le regole geometri- che della prospettiva che permettono di disegna- re su una
superficie opaca, consentendo inoltre di rappresentare anche figure create dalla fantasia. In questo modo città, palazzi,
piazze, interni di edi- fici, paesaggi che non esistono nella realtà (o che non esistono ancora) possono già essere
rappresen- tati e cominciare così a prendere vita. Per disegnare sul vetro dell’ipotetica finestra un occhio è stato tenuto
chiuso; questo suggerisce che la prospettiva si serve di un solo centro di proiezio- ne (l’occhio aperto, appunto). Per tale
motivo si dice che la visione è monoculàre . Se ne deduce che la prospettiva non consente di realizzare una visione
stereoscòpica , dovuta, cioè, all’esistenza di due occhi e, pertanto, a due centri di proiezione, la qual cosa, invece,
corrisponde al vero modo di vedere. Dise- gnando sul vetro la testa è stata tenuta rigida e si è evitato di ruotare l’occhio
aperto.
Filippo Brunelleschi (1377-1446) L’inventore della «grande macchina» «Molti sono creati dalla natura piccoli di persona
e di fattezze, che hanno l’animo pieno di tanta grandezza ed il cuore di sì smisurata terribilità, che se non cominciano
cose difficili e quasi im- possibili, e quelle non rendono finite con ma- raviglia 1 di chi le vede, mai non danno requie
nella perso- ; nella quale gli uomini di quel tempo alla vita loro […] come apertamente si vide in Filippo di ser
Brunellesco, sparuto 2 na […] ma d’ingegno tanto elevato, che ben si può dire ch’ei ci fu donato dal ciel per dar nuova
forma alla architettura, già per centinaia d’anni smarrita 3 in mala parte 4 molti tesori avevano spesi, facen- do
fabbriche senza ordine 5 , con mal modo, con tristo disegno, con stranissime invenzioni, con disgraziatissima grazia, e
con peggior ornamen- to» (Vasari, Vite ). Un dono del cielo era stato dunque Filippo Brunel- leschi (Firenze, 1377-1446),
secondo Giorgio Vasa- ri, per aver dato inizio alla nuova architettura del Rinascimento. Figlio del notaio ser Brunellesco
Lippi e di Giu- liana Spini, Filippo dovette avere una formazione che comprendeva anche lo studio della lingua lati- na.
Erano tuttavia le scienze esatte quelle che più lo appassionavano, come narra il suo biografo, Anto- nio di Tuccio Manetti
(1423-1497). Ma soprattutto egli prediligeva il disegno, la pittura, la scultura e l’architettura. Dopo aver iniziato la
propria attività artistica in qualità di orafo (come tale viene immatricolato all’Arte della Seta il 2 luglio 1404, avendone
fatto richiesta a 21 anni, nel 1398) ed essersi poi afferma- to pubblicamente nel 1401 al concorso per la Porta Nord del
battistero fiorentino ❯ par. 14.6 , Brunelle- schi dedicò tutta la vita all’architettura. Alcuni soggiorni di studio a Roma – i
primi da collocarsi, verosimilmente, attorno al 1404/1409, assieme al giovane amico Donatello ❯ par. 14.8 e Ant. 109 , e
un successivo nel 1417/1418 – permise- ro a Filippo di acquisire una profonda conoscenza dell’architettura degli Antichi:
«e veggendovi dentro molte maraviglie e belle cose (perché furono fatte in diversi tempi, e buo- na parte da maestri
ecellentissimi […]), fece pen- siero di ritrovare el modo de’ murari eccelenti e di grandi artificio degli antichi e le loro pro-
porzioni musicali […]» (Manetti, Vita di Filippo Brunelleschi )
Cupola di Santa Maria del Fiore Forte di queste conoscenze, Filippo, che già era stato consultato dall’Opera di Santa
Maria del Fiore per questioni inerenti al completamento delle tre tribune (1404) e alla sopraelevazione del tamburo
(1410) della cat- tedrale fiorentina, partecipò al concorso (bandito nel 1418 dalla potente Arte della Lana) per la re-
alizzazione della cupola, che ancora mancava per la conclusione della fabbrica avviata da Arnolfo di Cambio nel 1310. In
quegli anni, infatti, la cattedrale della città toscana era ancora senza copertura nella zona del coro e l’immane spazio
ottagonale su cui era stata prevista una cupola aveva il considerevole diame- tro di ben 78 braccia fiorentine (cioè circa
46 me- tri). Se al diametro dell’interno si aggiunge anche lo spessore del tamburo si arriva a 92 braccia (pari a circa 54
metri): dimensione che avrebbe impres- sionato qualunque architetto, per quanto corag- gioso. Brunelleschi propose di
costruire una cupola che noi oggi chiamiamo autoportante , cioè capace di sostenersi (reggersi) da sé durante la
costruzio- ne, senza richiedere l’aiuto di armature provvisorie di legno, la cui realizzazione, peraltro, sarebbe sta- ta
improponibile sia per l’altezza dell’imposta della cupola (circa 50 metri da terra), sia per la quantità di materiale
necessario, sia, infine, per l’incapacità di una qualunque armatura lignea di sostenere il gran- de peso della struttura in
muratura durante l’esecuzione, ammesso che l’intero castello di legname non fosse crollato prima a causa del peso
proprio. Nel 1420 Brunelleschi poté iniziare la costru- zione della «grande macchina», come Michelan- gelo ❯ par. 17.5
avrebbe chiamato la cupola fio- rentina Figg. 14.81-14.96 . Ma già il compositore fiammingo Guillaume Dufay (ca 1397-
1474) l’aveva definita «grandis machina» nel mottetto Nuper ro- sarum flores («Recentemente fiori di rosa») ❯ Ant. 110
– la cui struttura ritmica riprendeva le proporzio- ni dell’intera cattedrale – composto in occasione dell’ultimazione della
copertura (fino all’anello ze- nitale) e della riconsacrazione di Santa Maria del Fiore il 25 marzo 1436 (festività
dell’Annunciazio- ne) da parte di papa Eugenio IV. A Filippo venne dato per compagno nell’impre- sa Lorenzo Ghiberti ❯
par. 14.6 , che pure aveva pre- sentato un suo progetto; ma questi, già dal 1423, non ebbe più una parte di rilievo nella
costruzio- ne. Con Brunelleschi, d’altra parte, nasce la nuova figura del moderno architetto: un artefice geloso delle
proprie invenzioni e orgoglioso del proprio ruolo intellettuale, tanto da richiedere per sé solo il controllo dell’intera
opera, dall’ideazione all’ese- cuzione finale ❯ Ant. 112 . La cupola si erge su un tamburo ottagonale (non completamente
incrostato di marmi) forato da otto grandi finestre circolari ( òculi ) che danno luce all’in- terno. Vista dall’esterno essa
appare come una rossa collina percorsa da otto bianche nervature marmo- ree che convergono verso un ripiano
ottagonale in sommità Figg. 14.82 e 14.85 . Su di esso si imposta una leggera lanterna cuspidata stretta da otto contraf-
forti a volùte (le prime eseguite nel Quattrocento), simile a un isolato tempietto a pianta centrale. La cupola è talmente
alta e maestosa che, come scrisse il Vasari, «i monti intorno a Fiorenza paiono simili a lei» Fig. 14.83 . Alberti,
sottolineandone il valore tecnico e, per riflesso, la fama che essa dava a Fi- renze – che poteva, perciò, primeggiare sulle
altre città toscane –, la descrisse suggestivamente come «struttura sì grande, erta 1 sopra e’ cieli, ampla 2 da coprire con
sua ombra tutti e’ popoli toscani». La grande struttura è costituita da due calotte distinte, una interna (di grande
spessore) e l’altra esterna (più sottile) Fig. 14.85 . Fu Filippo Brunelle- schi a volerla così «per conservalla 3 dallo umido e
perché la torni 4 più magnifica e gonfiata». Tra l’u- na e l’altra calotta esiste, quindi, un’intercapèdine Fig. 14.86, 3 , cioè
uno spazio che rende possibile la presenza di scale e corridoi Fig. 14.87 , percorrendo i quali si giunge sino al piano su cui
si imposta la lanterna 1 . Le due calotte ogivali sono collegate da otto grandi costoloni d’angolo Fig. 14.86, 5 , i soli che si
vedono anche dall’esterno perché rivestiti di creste di marmo bianco 2 , e da sedici costole intermedie disposte lungo le
facce delle vele 4 . Costoloni d’an- golo e costole intermedie sono anch’essi uniti per mezzo di nove anelli in muratura.
Contrariamente a quanto avviene per le volte gotiche, che prevedo- no che i costoloni (struttura portante) siano
costruiti per primi e poi si proceda con le vele (elementi di semplice tamponamento, perciò portati), la cupola fiorentina
è costruita tirando su contemporaneamen- te e con omogeneità costruttiva tutte le parti, stret- tamente connesse le
une alle altre e tutte portanti. Come si è accennato, la cupola è autoportante e nessuna struttura lignea fu usata per
sostenerla durante la costruzione; solo delle centine mobili – da traslare via via verso l’alto, all’avanzare della
costruzione – dovettero essere impiegate in corri- spondenza degli angoli dell’edificio, per guidarne correttamente il
tracciato a quinto acuto. La possibilità di costruire l’immensa mole di mattoni è dovuta a due fattori: ■ all’impiego della
muratura a spinapesce; ■ all’aver costruito una cupola di rotazione e non una semplice volta a padiglione. 1. erta: rivolta
verso l’alto. 2. ampla: ampia. 3. conservalla: conservarla. 4. la torni: risulti La spinapesce è una tecnica, dedotta dall’opus
spica- tum romano, che consiste nel disporre dei ricorsi di mattoni verticalmente, di seguito ad altri collocati di piatto
Fig. 14.88 . In tal modo l’intera doppia cu- pola è attraversata, da parte a parte, da un insieme di «eliche murarie» che
stringono la muratura rac- cogliendosi alla base della lanterna Fig. 14.89 . Inoltre, Filippo Brunelleschi concepì e costruì
la cupola della cattedrale di Firenze – che ha l’aspetto di un padiglione a pianta ottagonale – come una cu- pola di
rotazione. Infatti i mattoni non sono disposti su piani orizzontali, ma risultano inclinati verso i lo- ro centri di curvatura e
giacciono su superfici coni- che. Che tale fosse la tecnica adottata da Filippo lo si può riscontrare anche salendo sulla
cupola stessa: i mattoni di ciascuna vela – filare per filare, da un costolone all’altro – risultano tutti inclinati secondo una
curva che ha il massimo della sua concavità pro- prio nel centro di ogni vela Fig. 14.90 . È noto come una semisfera sia
descritta dalla ro- tazione nello spazio di un raggio ( raggio di curvatu- ra ) Fig. 14.91, a . A una determinata altezza,
quindi, il raggio che ruota disegna la figura di un cono b , cono che, a sua volta, in una cupola reale, determi- na la
giacitura dei mattoni (o dei conci di pietra) c . Le tante possibili intersezioni tra i vari coni aventi lo stesso vertice e la
semisfera – che è possibile im- maginare come una cupola senza spessore – sono sempre delle circonferenze d . Nel
caso di una cupola di rotazione a pianta ot- tagonale – per di più a sesto acuto –, che implica l’esistenza di più coni, tutti
con il vertice sull’asse centrale della cupola Fig. 14.92, a , ciascuna interse- zione, livello per livello, si legge come un
insieme di otto curve b e Fig. 14.93 . Le cùspidi in corrispondenza di ogni spigolo non devono trarre in inganno: non c’è
discontinuità nel- la muratura della cupola, come non c’è interruzio- ne nella rotazione del raggio di curvatura, filare per
filare. Com’è stato felicemente suggerito, ciascuno può avere esperienza sia dell’assenza di soluzione di continuità tra
una vela e l’altra sia della confor- mazione delle curve di intersezione tra ogni cono e le vele se solo si sostituisce al
padiglione ottagonale il prisma sfaccettato di una matita e alla superficie conica generata dal raggio di curvatura il cono
di un temperamatite dotato di una lama. Facendo la punta alla matita si modella un cono che interseca le facce della
matita secondo linee curve: è facile, per analogia, trasferire la semplice esperienza sul piano più complesso della
geometria della grande architettura fiorentina. La costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore, con i problemi che
essa comportava – scelta delle tecniche costruttive, organizzazione del can- tiere, invenzione di macchine per sollevare i
pesi e per risparmiare fatica – tenne occupato Brunelle- schi per tutta la vita. Ci vollero, infatti, ben sedi- ci anni – dal
1420 al 1436 – per poter concludere la struttura con l’anello di chiusura (l’apertura – o occhio – sommitale a pianta
ottagonale) sul qua- le avrebbe dovuto essere edificata la lanterna. Per quest’ultima, inoltre, Filippo dovette affrontare
un nuovo concorso che pure vinse: alla sua morte (1446), però, la lanterna era ancora in costruzione. La cupola, pur
superando ampiamente in al- tezza tutte le altre costruzioni della città, non può essere percepita nella sua interezza, il
che ce la fa apparire ancora più gigantesca e incombente.
Spedale degli Innocenti Iniziato a partire dal 1419 nei pressi della Chiesa dei Servi di Maria, lo Speda- le degli Innocenti
Fig. 14.102 pose le premesse per la creazione della piazza porticata della Santissima Annunziata, forse l’esempio più
riuscito e noto di piazza rinascimentale. L’edificio, al quale Brunelleschi si dedicò con continuità fino al 1423 e che fu
concluso da altri, si articola attorno a un chiostro centrale Fig. 14.103, 1 che è affiancato da due grandi ambienti: la chie-
sa 2 e il dormitorio per gli orfani 3 . La fabbrica si innalza su un ripiano – quasi come sullo stilo- bate di un antico tempio
– a cui si sale per mezzo di nove gradini 4 . Nove sono anche le arcate del porticato 5 , nella porzione inferiore
dell’edificio, e altrettante sono le campate coperte da volte a ve- la Fig. 14.104 . E nove, infine, sono le finestre di for- ma
classica Fig. 14.105 che ricordano quelle del bat- tistero fiorentino di San Giovanni. Sormontate da un timpano, esse
poggiano direttamente sulla cor- nice dell’alta trabeazione, che, tangente al cervel- lo degli archi, è sostenuta da un
ordine maggiore di paraste situate alle estremità della fabbrica. Tali paraste sono a loro volta affiancate da colonne libe-
re, che ispireranno poi Masaccio nell’affresco della Trinità ❯ Fig. 14.266 . Nei timpani Filippo aveva progettato dei tondi
concavi, a scodella, tangenti a due archi contigui e al sovrastante architrave (dello stesso tipo di quelli presenti nella
Trinità). Solo nel 1487 essi furono so- stituiti da ceramiche invetriate di Andrea Della Rob- bia ❯ par. 14.11 . L’architrave
a tre fasce di uguale altezza – con- trariamente all’uso classico – gira alle estremità, piegandosi ad angolo retto e
volgendo verso il basso, affiancando una parasta Fig. 14.106 : secon- do il biografo Manetti si tratterebbe di un errore
dei continuatori di Brunelleschi ❯ Ant. 113 ; tuttavia è una derivazione diretta dall’architrave dell’atti- co del Battistero
fiorentino Fig. 14.107 , quindi da considerarsi «all’antica». Il f regio, inoltre, al pari di quello del trono della pala centrale
del Polittico di Pisa di Masaccio ❯ Fig. 14.237 , presenta un motivo strigilàto derivato da sarcofagi romani. Per quanto
tale motivo si riscontri solo in una piccola f razione di fregio all’estremità destra, occorre considerarlo esteso all’intero
elemento della trabeazione. La sintassi di ordine e archi, invece, dipende certamente dall’esempio romanico della
navata centrale della Basilica di San Miniato nella quale, visivamente, le fasce di marmo verde e bianco, all’altezza dei
capitelli delle alte semicolonne, si- mulano una trabeazione che corre ininterrotta- mente sia al di sopra degli archi
sostenuti dalle co- lonne che dividono le navate, sia al di sopra degli archi sostenuti dalle semicolonne dell’abside. Dai
capitelli di San Miniato, infine, Filippo ri- prende il pulvino modanato a gola dritta che pone al di sopra degli abachi dei
capitelli corinzi dalle grandi volute dello Spedale Fig. 14.108 . L’intercolumnio è pari all’altezza delle colonne e alla
profondità del porticato Fig. 14.109 . La cam- pata, allora, risulta di forma cubica. Lo spazio del loggiato, quindi, può
definirsi modulare. Ciò signifi- ca che nella sua realizzazione Brunelleschi utilizza ripetutamente la stessa misura
(mòdulo) al fine di meglio scandire lo spazio. Inoltre, la distanza fra il pavimento e l’estrados- so della cornice della
trabeazione equivale al dop- pio dell’altezza della colonna. A tale altezza è pari anche la distanza fra l’estradosso
dell’architrave e l’intradosso della cornice di sottogronda, mentre metà altezza della colonna costituisce la dimensio- ne
complessiva delle finestre, dal davanzale al ver- tice del timpano triangolare. Nel progetto brunelleschiano – modificato
dai continuatori di Filippo – il loggiato avrebbe dovu- to essere delimitato, alle estremità, da due campate chiuse. Esse si
sarebbero presentate come superfici rac- chiuse entro alte paraste 2 , sormontate dalla tra- beazione 3 . Altre paraste
più piccole 4 , in corri- spondenza di quelle maggiori, avrebbero segnalato il diverso valore assunto dal muro del secondo
ordi- ne: diverso perché muro pieno 5 su muro pieno 6 , al contrario della grande porzione centrale che si qualificava,
invece, come muro pieno 7 sul vuoto del loggiato sottostante 8 .
Lorenzo Ghiberti (1378-1455) L’artefice della porta «più ornata et più riccha» Lorenzo di Cione Ghiberti nasce a Firenze
nel 1378 e svolge la maggior parte della propria attività nella città natale dove muore, quasi ottantenne, nel 1455. La sua
formazione, maturata nel solco del Go- tico Internazionale, avviene inizialmente presso la bottega orafa del patrigno
Bartolo di Michele . Qui il giovane Lorenzo apprende sia l’arte del disegno sia, soprattutto, quelle della fusione, in stampi
e a cera persa ❯ Fig. 14.195 , e del cesello, specie su la- mine preziose d’oro e d’argento. Intorno al 1424- 1425 soggiorna
poi a Roma e nel 1429-1430 anche a Venezia, entrando in entrambi i casi in proficuo contatto con le maestranze
artistiche locali. Alla sua attività principale di orafo e scultore affianca in seguito anche quella di architetto, che condivide
in un rapporto di difficile convivenza con Brunel- leschi relativamente al cantiere della Cupola della Cattedrale di Firenze
(1418-1423).
Il concorso del 1401 La prima importante occa- sione che si offre al Ghiberti per verificare la pro- pria maturità artistica
risale al 1401, quando l’Arte di Calimàla (o dei Mercanti), una delle più ricche e potenti associazioni di categoria di
Firenze a cui faceva capo l’intera gestione dell’economia della città, decide di bandire un concorso per la realizza- zione
della seconda porta del Battistero di San Gio- vanni Fig. 14.167, 1 . Il fatto che per assegnare questo prestigioso incarico
(il Battistero è il monumento al quale i Fiorentini sono stati, da sempre, più legati) venga bandito un apposito concorso è
un sintomo significativo di come i tempi stiano cambiando. I mercanti, punta emergente della nuova borghesia cittadina,
comprendono subito che la concorrenza f ra più artisti è garanzia di risultati qualitativamen- te migliori. In tal modo,
infatti, si sarebbe accresciu- to il decoro della città che, a sua volta, avrebbe ulte- riormente consolidato l’immagine e il
prestigio dei suoi mercanti rispetto a quelli di tutte le altre città commercialmente concorrenti. Al concorso prendono
parte i migliori artisti del tempo, ma fra tutti spiccano in particolar modo i nomi, allora ancora poco conosciuti, di Jacopo
del- la Quercia ❯ par. 14.7 , Filippo Brunelleschi e, appun- to, Lorenzo Ghiberti. Il tema consiste nel realizzare una
formella in bronzo dorato raffigurante la scena biblica del Sacrificio di Isacco ❯ Ant. 114 . Le prescri zioni dell’Arte dei
Mercanti sono, a tale riguardo, quanto mai precise e restrittive. La cornice, infat- ti, deve essere mistilinea e quadriloba.
Questa par- ticolare sagomatura era imposta dalla necessità di uniformarsi alla preesistente Porta Sud, realizza- ta da
Andrea Pisano (ca 1290-ca 1348) tra il 1330 e il 1336 3 . Il tempo di esecuzione, infine, non poteva essere superiore a un
anno e la quantità dei materia- li da impiegare doveva limitarsi al minimo possibile. Solo le formelle realizzate da
Ghiberti e Brunel- 55 leschi (già allora giudicate le migliori) sono giunte fino a noi e sono oggi conservate al Museo
Nazio- nale del Bargello di Firenze. Dopo varie vicissitudi- ni e molte polemiche la vittoria definitiva (e quindi la
commissione per l’intera porta) viene comun- que affidata a Lorenzo Ghiberti. La formella del Ghiberti Nella
composizione del Ghiberti Fig. 14.168 , inscrivibile nella figura di un rettangolo Fig. 14.169 , il gruppo dei personaggi di
sinistra (disposto nella parte bassa della formella), controbilancia perfettamente quello di destra (rac- colto, al contrario,
nella parte alta), secondo una tradizione di equilibrio e compostezza di sicura ispirazione classica. Anche il Vasari, al
riguardo, nota che le figure erano «svelte 1 e fatte con grazia ed attitudini 2 bellissime» Fig. 14.170 . La roccia che divide
geometricamente la scena, secondo la diago- nale, sottolinea con efficacia i due diversi momenti della narrazione. A
sinistra gli ignari servitori, in atto di parlottare tranquillamente fra loro, e – sul lato opposto – Abramo e Isacco Fig.
14.171 . Le figu- re dei due protagonisti sono realizzate con grande perizia tecnica e abbondanza di particolari, sicura-
mente derivanti dall’esperienza di orafo alla bot- tega del patrigno. Dai loro gesti armoniosi e lenti, però, non traspare la
drammaticità del momento e il perfetto nudo di Isacco rimanda a un’ulteriore citazione classica, così come la
decorazione a gira- li dell’altare. È ancora il Vasari a precisare come la formella fosse «finita 3 reva fatta non di getto 4 e
rinettata 5 con ferri 6 con tanta diligenza, che pa- , ma col fiato». La peculiarità dell’opera, in effetti, sta anche nel suo
essere costituita da un unico blocco di fusione (eccezion fatta per il corpo di Isacco e il braccio destro di Abramo),
incavato sul retro, pri- vo di incastri o saldature successive, indice di una capacità tecnica estremamente raffinata con
conse- guente, notevole risparmio di materiale. L’angelo, infine, che si materializza dal nulla inarcandosi in senso inverso
rispetto a quello del lo- bo superiore destro che lo contiene, costituisce una presenza puramente simbolica. Egualmente
sim- bolico, del resto, è anche il gesto con il quale egli ingiunge al vecchio patriarca di fermare la mano omicida.
Significativa è l’arditezza prospettica con la quale l’angelo fuoriesce dal piano della formel- la, creando un forte effetto di
profondità spaziale. Alla figura angelica fanno riscontro, nel lobo dia- metralmente opposto, uno sperone roccioso e un
asino che bruca l’erba, quasi a sottolineare la con- trapposizione fra la dimensione terrena (la roccia e l’animale) e quella
divina (l’angelo e il cielo). L’at- tenzione naturalistica, del resto, raggiunge sempre livelli raffinatissimi, come nella
rappresentazione della piccola lucertola, sulla roccia in basso, ai pie- di di Abramo.
La formella del Brunelleschi Nella formella del Brunelleschi Fig. 14.172 la scena, concentrata nel perimetro di un
triangolo isoscele orientato verso l’alto Fig. 14.173 e costruita assemblando su una piastra di base sette diversi pezzi fusi
separata- mente e saldati, si anima di accenti più drammati- ci. Isacco, inginocchiato sull’altare, al centro della
composizione e ruotato su se stesso, cerca infatti di svincolarsi dalla presa del padre che gli si avventa contro con la
forza della disperazione. Questa volta l’intervento dell’angelo, le cui forme assecondano morbidamente quelle del lobo
superiore sinistro, è tutt’altro che simbolico. Egli, infatti, è rappresen- tato nell’atto di bloccare fisicamente il braccio di
Abramo, afferrandolo con una mano, al fine di im- pedire lo spargimento di sangue Fig. 14.175 . Divino e umano, in altre
parole, entrano drammaticamen- te in contatto, con un intervento assolutamente de- ciso e risolutore. Significative,
nella loro marginalità, appaiono infine le figure dei servi, nei due lobi inferiori, che risultano quasi simmetriche a quelle
della metà su- periore della formella Fig. 14.174 . Entrambi i personaggi, uno dei quali si ispira al modello classico del
cosiddetto Spinario , forse visto durante il soggiorno romano, sono intenti alle pro- prie faccende. La loro descrizione è
estremamente realistica, tanto che Brunelleschi, pur incurvando- li per assecondare la forma della cornice, li fa in parte
fuoriuscire da essa e la sensazione che se ne ricava è, nel suo complesso, di grande vivezza co- municativa. L’uomo si
mostra ormai insofferente agli schemi nei quali l’arte gotica l’aveva fino ad allora costret- to e cerca pertanto di eluderli,
allo stesso modo dei due servi che balzano fuori dall’angusto spazio nel quale la forma gotica della formella li costringe.
Alle novità brunelleschiane la giuria, composta da 34 mercanti, preferisce comprensibilmente le mag- giori garanzie di
equilibrio compositivo, di perizia tecnica e di affidabilità organizzativa offerte dal Ghiberti, anche in quanto figliastro del
già stima- tissimo orafo Bartolo di Michele. E per questo lo proclama vincitore.
Donatello (1386-1466) Lo spazio nella scultura e lÕideale nel quotidiano Donato di Niccolò di Betto Bardi, detto
Donatello, na- sce a Firenze nel 1386. Di modestissime origini, inizia il suo apprendistato artistico fra il 1404 e il 1407
presso la bottega del già affermato Lorenzo Ghiberti, dal quale acquisisce sia le tecniche del cesello e della fusione in
bronzo sia l’amore per l’arte classica. Sempre agli inizi del Quattrocento (forse intor- no al 1404/1409) compie con
l’amico Brunelleschi un primo viaggio a Roma, soggiorno che si rivela fondamentale per la sua formazione, in quanto ha
l’opportunità di ammirare direttamente dal vivo opere scultoree della tradizione classica (soprat- tutto ellenistica e
romana). In seguito tornerà a Roma almeno un’altra volta (ca 1432/1433), forse in compagnia dell’architetto Michelozzo
di Bar- tolomeo, avendo così modo di approfondire gli aspetti più decorativi e trionfali della scultura tar- do-antica.
Molta dell’attività di Donatello si svolge a Firen- ze, alla cui crescita artistica egli contribuisce forse più di ogni altro,
soprattutto per la realizzazione di cinque statue per il Campanile di Giotto e tre per i tabernacoli esterni della Chiesa di
Orsanmichele. Questo non toglie, naturalmente, anche numerosi spostamenti. Verso il 1416 è infatti a Pisa, dove in-
sieme a Masaccio ❯ par. 14.9 può ammirare le opere di Nicola e Giovanni Pisano. In seguito ha modo di esprimersi anche
a Prato, con il pulpito marmo- reo del Duomo (1434-1438) Fig. 14.194 , a Ferrara (1450) e a Siena. Qui egli lavora, in
tempi successi- vi, alla realizzazione del fonte battesimale del Bat- tistero ❯ oltre , finendo anche per soggiornare sta-
bilmente in città almeno dal 1457 al 1461. Straordinaria importanza, infine, assume il de- cennio padovano (1443-1454)
nel corso del quale, sulle orme di Giotto, lo scultore fiorentino si tra- sferisce nella città veneta, allora centro economico
e culturale tra i più vivaci, diffondendovi le novità rinascimentali. Nel 1466 muore, ottantenne, nella sua casa fiorentina
nei pressi del Duomo. Con Donatello la scultura giunge a risultati irri- petibili non solo perché, come scrive il Vasari, l’ar-
tista è stato il primo a sapersi riallacciare alla tradi- zione scultorea greco-romana ❯ Ant. 116 , ma anche perché per
primo ha saputo superarla, infondendo ai suoi personaggi un’umanità e un’introspezione psicologica che sarebbero
rimaste a lungo uniche nella storia dell’arte. Nel corso di oltre un sessan- tennio di intensa attività, Donatello sperimenta
tutte le possibili tecniche (tuttotondo, altorilievo, bassorilievo, stiacciato) e tutti i possibili materia- li (marmo, bronzo,
terracotta, stucco, legno), riu- scendo ogni volta a dare alle proprie opere un’im- pronta assolutamente riconoscibile e
innovativa.
I profeti Geremia e Abacuc L’importanza degli ef- fetti prodotti dal chiaroscuro emerge anche nelle statue marmoree del
Profeta Geremìa Fig. 14.211 e del Profeta Abacùc Fig. 14.212 , destinate a due nic- chioni esterni del terzo ordine della
facciata oc- cidentale del Campanile di Giotto. Luce e ombra sembrano impigliarsi tra le pesanti pieghe dei man- telli,
come se la stoffa avesse una rigidità innatura- le, quasi metallica. Questo contribuisce a dare alle figure un’imponenza e
una dignità che non si era- no più viste in una scultura almeno dal periodo el lenistico-romano. Per realizzare le statue,
del resto, Donatello si ispira a dei modelli vivi. Il volto di Ge- remia, infatti, è un vero e proprio ritratto e raffigu- ra un
uomo non più giovane, con una barba rada, le guance infossate, il labbro inferiore sporgente, gli occhi incavati e le
sopracciglia aggrottate. Ana- logamente anche il vecchio Abacuc è rappresen- tato completamente calvo, con un volto
scavato, quasi denutrito, e un corpo magro e allampanato, lontano sia dai canoni di perfezione dell’arte classi- ca sia da
quelli decorativi del Gotico Internaziona- le. In entrambi i casi si tratta di quello che è stato opportunamente definito
«naturalismo integrale», intendendo con ciò una piena e convinta adesione al «vero naturale», cioè come appare ai
nostri oc- chi, e non all’idea astratta che di esso ogni artista tende a farsi. Nella forte espressività di questi volti si
concentra tutta la grandezza della nuova conce- zione artistica di Donatello. I lineamenti contratti e quasi disarmonici,
infatti, non vogliono nascon- dere i segni del tempo, in quanto la bellezza nuova dell’uomo donatelliano non sta tanto
nell’aspetto esteriore, che può essere anche sgraziato e dimes- so, quanto, piuttosto, nella grandezza d’animo e nella
dignità morale. La grande stagione di rinno- vamento iniziata da Donatello prende le mosse proprio da questa sua
evidente avversione nei con- fronti della serena idealità del Gotico e delle sue raffinatezze formali, spostando la propria
atten- zione verso una verità specifica, individualizzata, e sempre riscontrabile nell’esperienza reale.
Il banchetto di Erode Tra il 1423 e il 1427 Dona- tello, artisticamente già affermato, è chiamato a collaborare, insieme a
Jacopo della Quercia, Lo- renzo Ghiberti e altri, alla realizzazione del fonte battesimale del Battistero di Siena Fig.
14.213 . In quest’occasione egli realizza una straordinaria for- mella in bronzo raffigurante Il banchetto di Erode ,
successivamente dorata dall’orafo e scultore Gio- vanni di Turino (Siena, ca 1384-1454) Fig. 14.214 . In essa l’artista
pone ogni cura sia nella rappresen- tazione prospettica, sia nell’organizzazione degli spazi, sia nella disposizione dei
personaggi. La sce- na mostra in primo piano, a sinistra, un servo ingi- nocchiato che offre a Erode un vassoio recante la
testa mozzata del Battista. Il vecchio sovrano, che pur ne aveva comandato la decapitazione per com- piacere la giovane
Salomè (figlia dell’empia mo- glie Erodiade e del fratello Erode Filippo, a cui il re l’aveva sottratta), è rappresentato da
Donatello nell’atto di ritrarsi, con le palme delle mani aper- te, in un gesto quasi di orrore di fronte a quella terribile
vista. Il racconto, così, assume aspetti di drammatico realismo e l’allegro banchetto sfocia in turpe delitto. Anche altri
partecipanti al banchetto si ritrag- gono (uno coprendosi il volto con la mano de- stra Fig. 14.217 ) agghiacciati dalla
crudele esecuzio- ne e solo Erodiade, a sinistra, si protende verso di lui, indicandogli il macabro trofeo. Donatello, dun-
que, rappresenta gli effetti dello spregevole delitto sui partecipanti al banchetto, giustificando così una soluzione
compositiva alla quale avrebbe più tardi guardato Leonardo per l’Ultima Cena ❯ par. 17.3 . In tal modo, viene a crearsi
un vuoto proprio al centro della scena Fig. 14.215 e questo artificio compositivo, insieme alla fuga prospettica del pa-
vimento e degli oggetti posti sulla tavola imban- dita Fig. 14.216, a , crea un senso di profondità e di realismo mai visti
prima in un bassorilievo. Il geo- metrico succedersi degli archi dello sfondo, grazie all’uso di un rilievo progressivamente
sempre più schiacciato e all’impiego, relativamente alle travi e ai soffitti, di un secondo e più elevato punto di fuga
prospettico b , contribuisce a dare ulteriore profon dità all’intera scena. Al di là degli archi, del resto, si stanno svolgendo
due altre fasi della narrazione. Al centro un suonatore di viola allude alla danza dei sette veli che Salomè, raffigurata a
destra, davanti al tavolo, sta ancora compiendo (o ha appena conclu- so), come si indovina dalle sue armoniose moven-
ze. In fondo a sinistra, invece, oltre la seconda serie di archi, ritorna la raffigurazione del servitore che, in un momento
precedente, mostra la testa del Bat- tista anche a Erodiade (o Salomè) e a due ancelle. Mediante tale invenzione,
Donatello definisce con la lontananza nello spazio quello che è anche lon- tano nel tempo (cioè avvenuto prima) e,
viceversa, vicino nello spazio (in primo piano) ciò che è vicino nel tempo (quindi avvenuto dopo). Questo nuovo modo di
scandire la narrazione, rappresentando tempi diversi all’interno della medesima scena, so- stituisce, di fatto, il ciclo
narrativo medievale, nel quale, al contrario, a ogni avvenimento successivo corrispondeva una nuova e diversa
raffigurazione.
David L’esatta datazione del Dàvid in bronzo che Donatello realizzò per Cosimo de’ Medici è a tutt’oggi molto dibattuta e
controversa ma, se si accetta – come è stato attendibilmente propo- sto – che fosse stata commissionata per il vecchio
palazzo di famiglia, potrebbe collocarsi intorno al 1435/1440 Fig. 14.225 . La scultura, una fusione a cera persa di
dimensioni pressoché naturali, per- fettamente tornita e rifinita al cesello, è stata evi- dentemente pensata, oltre che
per la vista frontale, anche per quella tergale Fig. 14.226 e – soprattutto – per quella dal basso, poiché in origine doveva
es- sere posta su di un alto piedistallo Fig. 14.227 . Es- sa presenta alcuni tratti singolari, come lo strano copricapo e i
calzari, tanto che è stato anche pro- posto di identificarla con il giovane Hermes della mitologia greca. In questo caso il
dio sarebbe colto nell’atto di osservare con pacato distacco la testa mozzata di Argo, il leggendario gigante dai cento
occhi da lui ucciso per ordine di Zeus. Partendo da uno spunto decisamente classico (questa è infatti la prima grande
statua a tuttotondo, dopo oltre un millennio, che raffiguri di nuovo un nudo virile), Donatello conferisce al suo
personaggio, chiunque esso rappresenti, un’espressione di naturale penso- sità, con la testa ruotata e lievemente
inclinata verso il basso, in vivace contrasto con l’innaturale postura del corpo Fig. 14.228 , sicuramente ispirata all’antica
statuaria di derivazione policletea. Tutto il peso del giovane corpo grava sulla gamba destra, imponen- do un
corrispondente abbassamento del bacino a si- nistra. In opposizione a questo la spalla sinistra è lie- vemente rialzata,
mentre la mano destra impugna una lunga spada e il piede sinistro poggia, in segno di vittoria, sulla testa del nemico
ucciso. La luce è impiegata da Donatello come stru- mento di modellazione delle masse e, scivolando dolcemente sulle
membra adolescenti del David/ Hermes, finisce poi per addensarsi ai suoi piedi, ove crea ombre profonde sulla testa di
Golia/Ar- go Fig. 14.229 , ancora racchiusa dall’elmo ornato di ali, una delle quali si distende lungo l’interno della gamba
destra del giovane. Il Vasari rimane profon- damente colpito da quest’opera, della quale scrive che «è tanto naturale
nella vivacità e nella morbi- dezza, che impossibile pare agli artefici che ella non sia formata sopra il vivo», vale a dire
che non sia stata realizzata con un modello vivente. Maddalena penitente Nell’ultimo decennio di vita Donatello ha
ormai maturato una concezione arti- stica che va al di là degli stessi ideali rinascimentali, diventando spesso
incomprensibile anche per i suoi contemporanei. A quest’ultimo periodo è ascrivi- bile la Maddalena penitente (ca
1453/1455), intaglia- ta in tenero legno di pioppo bianco, inizialmente collocata all’interno del battistero fiorentino di
San Giovanni e oggi conservata al Museo dell’Opera del Duomo Fig. 14.230 . Riallacciandosi ai concetti gio- vanili già
espressi nei Profeti Geremia e Abacuc , Do- natello abolisce ogni riferimento alla statuaria clas- sica e concentra le
proprie energie nella direzione di una profonda analisi psicologica del personaggio. La Maddalena penitente appare
pertanto non solo sfigurata nel fisico «essendo consumata dai digiu- ni e dall’astinenza», ma anche fortemente dilaniata
nell’animo. Il volto ossuto e sofferente, solcato da due profonde orbite oculari Fig. 14.231 , le mani dalle dita lunghe e
nodose, congiunte nella preghiera, il corpo mortificato da un’informe cascata di capelli che la ricopre come un lungo
saio (simbolo di vita eremitica), i piedi scheletrici modellati sul terreno come delle vecchie radici, esprimono tutta la
gran- dezza interiore della peccatrice convertita a una vita santificata dalla penitenza. Anche la scelta di utiliz- zare il
legno non appare casuale. Si tratta, infatti, di un materiale umile e al tempo stesso vivo, nel quale lo scalpello sembra
scavare ombre e luci, co- me drammatiche ferite di un corpo. I restauri han- no inoltre evidenziato tracce – ora quasi del
tutto scomparse – di policromia e, fra i capelli, plasmati con abbondante aggiunta di stucco, anche qualche suggestivo
filo di doratura. Il testamento artistico di Donatello sta, dunque, proprio qui, nella rivolu- zionaria volontà di trasgredire
ogni schema preco- stituito per arrivare a comprendere e a rappresenta- re, attraverso la scultura, i valori più profondi
della dignità umana.
Cappella Brancacci La costante ispirazione giotte- sca, con personaggi dai volumi decisi e paesaggi e architetture di
immediata riconoscibilità, è partico- larmente evidente nel grande ciclo di affreschi del- la Cappella Brancacci , nella
Chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze Figg. 14.246 e 14.247 . Voluto da Fe- lice di Michele Brancacci, ricco
mercante e potente uomo politico fiorentino, il ciclo del Carmine viene eseguito all’interno della cappella di famiglia a
partire dal 1424 in stretta collaborazione con Masolino, per essere poi modificato e in parte ultimato da Filippino Lippi
tra il 1481 e il 1483. I due maestri concordano preventivamente la distribuzione delle dodici scene, disposte su due
registri sovrapposti, in modo che i loro diversi interventi possano amalgamarsi con un certo equilibrio e non contrastarsi,
come era di fatto avvenuto nella Sant’Anna Metterza . Il tema narrativo prescelto, suggerito forse dallo stesso
committente e dalla sua cerchia di colti amici umanisti, è quello della vita di San Pietro Fig. 14.248, 2-8, 10-12 , al quale
si aggiungono anche due scene tratte dalla Genesi 1 e 9 . Nel ciclo di affreschi, suc cessivo all’ipotizzato viaggio a Roma
del 1423, la centralità della figura di Pietro allude a quella della Chiesa, prosecutrice dell’opera di salvezza dell’u- manità
iniziata da Cristo, ma rende nel contempo onore alla memoria di quel Pietro di Piuvichese che della famiglia Brancacci fu
uno dei capostipiti. La severa monumentalità con cui il santo è più volte raffigurato richiama quella della statua bronzea
di San Pietro in cattedra , ancora oggi nella Basilica Va- ticana, alla quale i pellegrini – e forse lo stesso Ma- saccio –
toccavano per devozione il piede destro.
Il tributo Nell’affresco del Tributo , il secondo in al- to della parete di sinistra Fig. 14.248, 2 , Masaccio il- lustra un
episodio del Vangelo di Matteo (17, 24-27) nel quale è descritto l’ingresso di Cristo e dei suoi Apostoli nella città di
Cafàrnao Fig. 14.249 . Come di consuetudine il gabelliere pretende da loro un tri- buto per il Tempio di Gerusalemme.
Gesù, pur iro- nizzando su quanto sia singolare che il Figlio debba pagare un tributo al Padre, non vuole trasgredire le
leggi e, a tal fine, incarica Pietro di pescare un pe sce nella cui bocca troverà una moneta d’argento per pagare la tassa
dovuta. L’artista concentra nello stesso dipinto quattro momenti temporalmente diversi. Il primo, al cen- tro,
corrisponde a quando il gabelliere, rappresen- tato di spalle, esige il tributo Fig. 14.250, a . Si trat- ta di una
rappresentazione di grande intensità in quanto in essa Masaccio mette bene in evidenza lo stupore nei volti degli
Apostoli che si guardano in- creduli f ra loro, incerti sul da farsi, poiché nessuno di essi possiede il denaro necessario. In
questa sce- na vi è già il preannuncio della successiva, posta in secondo piano. Cristo, infatti, comanda a Pietro di recarsi
a pescare b e questi indica a sua volta il La- go di Tiberìade («mare» nel Vangelo), quasi a chie- dere conferma di un
ordine che, in quel momento, gli sembra un po’ singolare. Sulla riva, a sinistra, è quindi raffigurato Pietro da solo,
intento alla pesca prodigiosa c . A destra, infine, nuovamente in pri- mo piano, Pietro ricompare nel momento in cui, con
un gesto estremamente deciso, consegna il de- naro all’esattore d
Beato Angelico (ca 1400-1455) L’uomo che sapeva dipingere i santi Fra Giovanni da Fiesole , al secolo Guido di Piero,
meglio noto come Beato Angelico , nasce a Vicchio di Mugello (Firenze) intorno al 1400. Attivo come miniaturista e
pittore fin dal 1417, il giovane Guido entra nel Convento di San Domenico di Fiesole nel 1420 prendendo il nome di Fra
Giovanni. Proba- bile allievo del pittore e miniatore Lorenzo Monaco (ca 1370-1423), nel 1437 inizia ad affrescare le celle
e alcuni locali comuni del nuovo convento fioren- tino di San Marco, che Michelozzo di Bartolomeo ultimerà intorno al
1452. Dal 1446 l’Angelico è a Roma, per volere di papa Eugenio IV, e vi rimane almeno fino al 1449 per af- f rescare la
Cappella Niccolina su commissione di papa Niccolò V. Dal 1449 al 1452 viene infine chiamato a ricoprire la carica di
priore al Convento di San Do- menico di Fiesole, dove si ritira sospendendo qual- siasi attività artistica. Sconosciuti sono i
motivi per cui, già gravemente malato, ritorna comunque a Roma, dove la morte lo coglie nel 1455. Fra Giovanni viene
definito per la prima vol- ta Angelicus pictor (pittore angelico) intorno al 1467/1469 dall’erudito domenicano Domenico
da Corèlla (1403-1483), mentre l’appellativo di Beato gli sarà successivamente attribuito (1481) dallo storico e umanista
fiorentino Cristoforo Landino (1428-1498). Entrambi i soprannomi fanno riferi- mento sia alla sua irreprensibile condotta
morale sia – soprattutto – alla straordinaria e quasi mira- colosa abilità con la quale il maestro ha sempre sa- puto far
coesistere la tecnica rinascimentale con l’ancora viva tradizione del Gotico Internazionale, dando origine a una pittura
originale e personalis- sima. Non a caso il Vasari gli dedica intere pagine di lodi ❯ Ant. 118 , definendolo, fra l’altro «[…]
sempli- ce uomo, e santissimo ne’ suoi costumi […] tanto che non avrebbe messo mano ai pennelli, se prima non avesse
fatto orazione 1 », e capace di dipingere santi che «[…] hanno più aria e somiglianza di San- ti, che quelli di qualunque
altro».
Annunciazione Il tema dell’Annunciazione, per la ricchezza dei suoi valori simbolici, è stato sempre particolarmente caro
all’Angelico, che lo ripropo- ne in varie opere, sia su tavola sia, successivamen- te, ad affresco. Il prototipo può essere
individuato nell’ Annunciazione dipinta intorno al 1425/1426 per il convento fiesolano di San Domenico, oggi con-
servata al Museo del Prado di Madrid Fig. 14.269 , composta da una tavola principale quadrata e da una sottostante
predella con cinque scene raffigu- ranti la Vita di Maria , nelle quali sono ancora evi- denti forti legami con i modi
espressivi del Gotico Internazionale. Il pannello superiore è occupato quasi per inte- ro da una porzione di edificio messa
in prospetti- va centrale, con la linea d’orizzonte Fig. 14.271, LO posta appena sopra la testa reclinata di Maria.
L’architettura rappresentata, di evidente gusto ri- nascimentale, è composta da un ambiente chiu- so (la camera della
Vergine) e da un’ampia loggia colonnata antistante, aperta su due lati contigui. La camera, spoglia e disadorna, è
arredata con una semplice panca, appoggiata alla parete di destra, e un cassone, appena visibile dietro l’esile colon-
netta centrale del loggiato. Il capitello composito nasconde in parte anche una finestra che si affaccia sul rigoglioso
giardino retrostante e dalla quale en- tra la luce che si proietta sulla parete di destra, ri- schiarandola, e generando
l’ombra della panca sul pavimento ammattonato. La loggia è coperta con un sistema di volte a crociera su cinque
capitelli e tre pedùcci di marmo. Le vele sono dipinte d’un azzurro intenso punteg- giato da stelline d’oro, a imitazione
della volta ce- leste, mentre il pavimento è lastricato con marmi dalle venature variopinte. Il fronte esterno appare
decorato con una fascia in pietra scolpita a girali, due patere laterali e una nicchia centrale con inse- rito un busto del
Redentore. L’angelo nunziante, dalle ali dorate e irradiate di luce, si inchina verso Maria con le mani conser- te sul petto
in segno di rispetto e devozione. La Vergine, a sua volta, si protende inchinandosi leg- germente verso di lui mentre un
fascio di luce do- rata, proveniente direttamente dalle mani di Dio (nell’angolo in alto a sinistra della tavola), accom-
pagna il volo della colomba dello Spirito Santo ver- so il seno di Maria. A sinistra del loggiato, in un’ambientazione fan-
tastica che si ricollega all’esperienza tardogotica di Gentile da Fabriano, si estende il Paradiso Terre- stre, ricolmo di
piante, fiori e frutti d’ogni gene- re, con Adamo ed Eva nell’atto di esserne cacciati dall’angelo di Dio. Nel complesso
simbolismo del dipinto i Progenitori rappresentano proprio quel peccato originale che, secondo la dottrina cristiana,
solo la venuta del Salvatore – di cui l’Annunciazio ne costituisce il primo atto – riuscirà a cancellare. La magnificenza
incorrotta del giardino, però, al- lude anche alla tipologia medievale dell’ hortus con- clusus (giardino recintato), a sua
volta simbolo della verginità di Maria. L’Angelico organizza lo spazio del loggiato se- condo le giuste regole della
prospettiva scientifica di derivazione brunelleschiana, inserendo anche particolari realistici quali la rondine (sulla catena
del primo arco di destra Fig. 14.270 ) o il prezioso drappo dorato (appeso dietro le spalle di Maria). Quando tratta le
figure rifiuta invece di accettare fino in fondo il realismo di Masaccio: i suoi perso- naggi, infatti, pur dotati di corpi solidi
e ben deli- neati, risultano sempre sospesi in un’atmosfera di astratta e dolce spiritualità. I colori, innaturalmen- te
vivaci, e la luce uniforme e perennemente mat- tutina rimandano, infine, a una visione simbolica della realtà, nella quale
fede e ragione riescono a coesistere nel modo più semplice e naturale. Tutti i personaggi hanno un rilievo quasi scul-
toreo. Masaccio definisce con il chiaroscuro i loro possenti volumi e i realistici panneggi, ricorrendo a pochi colori
essenziali, approfondendo e portando alle estreme conseguenze la lezione giottesca del- la cappella padovana degli
Scrovegni. Nonostante l’artificio di rappresentare contemporaneamente quattro azioni successive, la prospettiva
adottata da Masaccio è sempre la stessa. Essa fonde pertan- to sia lo spazio sia il tempo in una visione unitaria della
realtà. Il paesaggio appare brullo e desolato, con le montagne che – per accentuare il senso del- lo sfondamento
prospettico – sono disposte in suc- cessione cromatica: verdi quelle più vicine e gri- gio-azzurrognole quelle in
lontananza, con le vette imbiancate di neve all’orizzonte. Anche le architet- ture sulla destra, infine, ispirate all’edilizia
fioren- tina del tempo, con una loggia esterna e i battenti lignei alle finestre Fig. 14.251 , contribuiscono a una chiara
determinazione spaziale della scena, crean- do un insieme di volumi puri e geometricamente riconoscibili e ben definiti.
Poiché le ombre proiettate dai vari personaggi hanno tutte una stessa direzione, la fonte lumino- sa che Masaccio
utilizza è evidentemente unica e puntiforme (il sole). Essa viene immaginata prove- niente dal lato destro, in alto, fuori
dai limiti dell’af- f resco, come se entrasse dalla bifora archiacuta che illumina l’intera cappella Fig. 14.247 . In tal modo
la luce reale interagisce con quella dipinta, accrescen- do ulteriormente quella che Vasari definisce con grande proprietà
la «similitudine del vero». Cacciata dal Paradiso Terrestre Analoga per in- tensità e provenienza è anche la luce che
illumi- na la scena della Cacciata dal Paradiso Terrestre e Fig. 14.252 , dipinta da Masaccio nel secondo regi stro del
pilastro di sinistra dell’arco di accesso alla cappella, appena prima del Tributo ❯ Fig. 14.248, 1 . In questo affresco sono
rappresentati Adamo ed Eva nel momento in cui l’angelo di Dio li caccia dall’E- den. Le due figure sono nude e il
restauro, condot- to tra il 1984 e il 1990, ha correttamente eliminato le foglie che nella seconda metà del XVII secolo
erano state aggiunte a tempera per mascherare il sesso dei personaggi. Masaccio descrive i progenitori con volume
nella bocca, spalancata in un urlo straziante, e negli occhi, contratti nella smorfia del pianto. La dram- maticità della
scena non è mitigata da alcun altro elemento. Il paesaggio del mondo al di fuori dell’E- den, infatti, si riduce a una roccia
e, dietro a essa, a un cielo profondo e senza nuvole, quasi irreale nel suo azzurro troppo intenso. La terra, in altre paro-
le, è brulla per meglio esprimere la sua origine di non “dissodata”, ma anche in contrapposizione a ciò che i due
sventurati si sono lasciati dietro: un paradiso di bellezza privo di necessità.